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Corso di Laurea Magistrale in Scienze Storiche CORPI E NAZIONE ITALIANA. GLI ESORDI DELLANTROPOLOGIA E IL PROBLEMA DEGLI ANTENATI BARBARICI (1871 - 1919) Relatori: Ch.mo Prof. Maria Cristina La Rocca Ch.mo Prof. Carlotta Sorba Laureando: Fedra Alessandra Pizzato Matricola 588324 Anno Accademico 2011/2012

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Corso di Laurea Magistrale in Scienze Storiche�

CORPI E NAZIONE ITALIANA. GLI ESORDI DELL’ANTROPOLOGIA E IL PROBLEMA

DEGLI ANTENATI BARBARICI (1871 - 1919)

Relatori:

Ch.mo Prof. Maria Cristina La Rocca

Ch.mo Prof. Carlotta Sorba

Laureando: Fedra Alessandra Pizzato

Matricola 588324

Anno Accademico 2011/2012

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A mia nonna Elide che (giustamente) temeva i teschi

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INDICE

ABBREVIAZIONI p. 4

INTRODUZIONE p. 5

I Presupposti internazionali p. 9

La nascita di uno stereotipo p. 14

I. LA NASCITA DELL’ANTROPOLOGIA IN ITALIA: QUADRO STORICO CULTURALE

1. Positivismo e darwinismo p. 25

2. Poligenismo e monogenismo p. 33

3. L’Unità Nazionale p. 37

4. Un caso esemplare di multidisciplinarietà: il dialogo con la

produzione artistica p. 44

II. GIUSEPPE SERGI E LA PROPOSTA “MEDITERRANEA”

1. L’opera del Sergi: un monumento alla razza p. 51

2. La classificazione delle Razze p. 56

3. Arii e Mediterranei : I primi studi sulla stirpe celtica p. 61

4. Arii e Mediterranei : Il Mediterraneo p. 63

5. Arii e Mediterranei: Eurafricani e Eurasici in una prospettiva

extra europea. Il problema delle migrazioni p. 66

6. Arii e Mediterranei: Contro la teoria filo – ariana. L’analisi

linguistica ed antropologica p. 68

7. Arii e Mediterranei: tipi antropologici e diffusione territoriale

nell’Europa dopo l’invasione aria p. 72

8 L’antigermanesimo di Giuseppe Sergi p. 74

8.1 Gli anni del primo conflitto mondiale: gli articoli pubblicati

in «Nuovo Convito» e la psicologia dei popoli europei p. 78

III. GIUSEPPE SERGI E IL QUADRO POLITICO – CULTURALE NAZIONALE E INTERNAZIONALE

1. Identità etnica e futuro delle nazioni p. 87

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1.1 Un’opera patriottica: Italia p. 87

1.2 Roma e la funzione “provvidenziale” della stirpe

Mediterranea p. 89

1.3 L’Europa al di là delle nazioni: prove antropologiche a

sostegno dell’unità del continente (contro Gumplowicz) p. 93

2. Giuseppe Sergi nel contesto storico nazionale p. 97

2.1 Giuseppe Sergi e la Questione Meridionale p. 97

2.2 La strada verso il nazionalismo p. 99

3. L’ eredità di Giuseppe Sergi p. 104

3.1 Giuseppe Sergi e il fascismo italiano: un’eredità scomoda p. 104

IV. I GERMANI NELL’ANTROPOLOGIA ITALIANA

1. La nascita di un problema: la Questione Longobarda p. 111

2. Ricerche storiche e archeologiche e le speranze nella

“nuova scienza” p. 115

2.1 Le sfaccettature di un problema: i vari aspetti della

questione del sangue p. 115

2.2 Le speranze riposte negli “eminenti craniologi” p. 121

2.3 Storia e Antropologia a confronto: Carlo Cipolla critica

Giuseppe Sergi p. 124

3. Le risposte dell’antropologia p. 129

3.1 Antropologia e questione Longobarda: risposte a

Carlo Cipolla p. 129

3.2 Ricerche sul campo: l’antropometria di Rodolfo Livi e

la Psicologia Etnica p. 136

3.3 I Germani secondo Giuseppe Sergi: contro

il Reihengräbertypus p. 142

3.4 I Germani secondo Giuseppe Sergi: le invasioni

barbariche nell’alto – medioevo italiano p. 146

3.5 Castel Trosino: un fraintendimento? p. 150

3.6 Antropologia e Storia: le critiche alle “pretese” degli

Storici p. 154

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V. I GERMANI NELLE TERRE IRREDENTE

1. I Germani in Trentino p. 159

2. Le Popolazioni Allofone dell’Area Alpina. I Cimbri dei

Sette Comuni Veneti e le Genti Ladine p. 167

3. Germani o Mediterranei? I Goti nell’Illiricum p. 171

CONCLUSIONE p. 181

RINGRAZIAMENTI p. 189

APPENDICE ICONOGRAFICA p. 191

FONTI D’ARCHIVIO p. 199

FONTI A STAMPA p. 199

BIBLIOGRAFIA p. 205

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LISTA DELLE ABBREVIAZIONI:

Rivista Abbreviazione

«Archivio per l’Antropologia e

l’Etnografia»

(1871 – 1936)

AAE

«Atti della Società Romana di

Antropologia»1

(1893 – 1910)

RdA

«Rivista di Antropologia»

(1911 – 1937) RdA

«Rivista Italiana di Sociologia»

(1897 - 1923) RIdS

«Rivista di Filosofia Scientifica»

(1881 - 1891) RdFS

Luoghi di conservazione dei documenti Abbreviazione

Istituto di Antropologia dell’Università La

Sapienza di Roma / Museo G. Sergi IAR

1 A partire dal 1911 gli «Atti della Società Romana di Antropologia» cambiano nome in «Rivista di Antropologia», ma la veste tipografica e la linea editoriale vengono mantenute, pertanto l’abbreviazione utilizzata rimane la medesima (RdA) poiché costituiscono, di fatto, un’unica Rivista e un’unica fonte storica; Pertanto, per l’eventuale consultazione, basterà fare riferimento alla data e tenere conto che gli articoli anteriori al 1911 andranno ricercati negli «Atti della Società Romana di Antropologia».

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INTRODUZIONE

Questa tesi di laurea è il risultato di un percorso universitario incentrato sulla

costruzione culturale delle identità intesa come problematica storica. La constatazione

che la riuscita dei dispositivi di appartenenza presuppone l’istituzione di una (presunta)

continuità temporale di un gruppo attraverso le varie epoche storiche mi ha spinta a

superare le consuete periodizzazioni proprie della storiografia e a confrontarmi con età

diverse al fine di apprendere come il tema etnico fosse stato percepito e continuamente

reinventato secondo modalità differenti nel tempo e nello spazio. Seguendo quanto

sostenuto da Patrick J. Geary, a parere del quale l’avvio della modernizzazione della

storiografia è avvenuto grazie alla spinta degli studi nel campo della medievistica tra

XIX e XX secolo2, ho cercato di mettere a fuoco le problematiche affrontate in tale

periodo. Mi sono così interessata alla rinascita in Italia del problema relativo all’eredità

dei popoli Germanici, la cosiddetta Questione Longobarda. Grazie a ciò ho potuto

anche prendere coscienza del fatto che la discussione - allora fervente in Europa - sulle

eredità germaniche ha portato nel tempo alla produzione di stereotipi etnici, quali

l’ormai famoso paradigma della “sepoltura con armi” attribuita tradizionalmente ai

barbari invasori, che hanno resistito tenacemente nell’immaginario collettivo, come ha

dimostrato un recente articolo di Cristina La Rocca3.

Tenendo conto, inoltre, dei risultati della nuova storia culturale, sempre più

attenta a confrontarsi con i problemi storici da una prospettiva multidisciplinare, ho

tentato di ricostruire i rapporti tra i vari campi del sapere nell’epoca di formazione delle

cosiddette discipline ausiliarie. Esse furono, infatti, le prime a fornire al discorso storico

elementi utili a superare la sola lettura delle più tradizionali fonti scritte. Tale indagine

mi ha permesso di individuare nell’antropologia così come era intesa a cavallo dei due

secoli - e, dunque, nell’antropologia propriamente definita fisica - un campo ancora

poco esplorato dagli storici del nostro paese. I principali studi sulla materia, infatti, sono

stati finora condotti dagli antropologi culturali e dagli storici del fascismo intenti a

ricostruirne gli elementi di lungo periodo, ma non esiste una vera ricostruzione storica

dell’antropologia ottocentesca italiana. A una prima indagine delle varie fonti 2GEARY P. J., Il mito delle nazioni. Le origini medievali dell’Europa, Carocci, Roma, 2009 3 LA ROCCA C., Antenati, distruttori, semplicemente inetti. I Longobardi nella storiografia Locale tra Otto e Novecento, in «Annales de historia antigua y moderna» 40, 2008

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storiografiche e delle riviste dedicate alla disciplina emerge, però, chiaramente la

volontà di questa di farsi, in quel periodo fondativo, interlocutrice privilegiata della

storia. A ciò corrisposero una grande attenzione e molte speranze suscitate negli storici

dalla nascita della biologia umana sul finire dell’Ottocento4, complice un clima

culturale che riponeva enorme fiducia nella scienza creduta al di là del bene e del male.

Proprio in virtù di questa sua caratteristica, infatti, la nuova scienza dell’uomo venne

ritenuta capace di offrire le risposte allora tanto auspicate dalla storiografia. Essa

avrebbe, quindi, dovuto essere in grado di fornire la definitiva soluzione al grande

problema che l’emergere delle moderne compagini statali proponeva: quello costituito

dal rapporto tra etnicità e nazionalità. Era questo un quesito che assumeva allora una

particolare importanza poiché si saldava con la necessità di fornire legittimità agli stati –

nazione emergenti.

Lo studio dell’antropologia precedente la sua svolta culturale offriva, inoltre, la

possibilità di indagare da vicino il primo dei presupposti che Alberto Mario Banti5 ha

individuato come necessari alla definizione della nazione in senso moderno, il fatto cioè

che questa venisse intesa come una comunità di discendenza. Tale idea, infatti,

imponeva la necessità di istituire un legame che fosse in grado di proiettare

contemporaneamente nel passato e nel futuro quel sistema di parentela che si voleva

unisse tra loro anche le generazioni del presente. La nascita della biologia e la sua

applicazione all’uomo negli intenti di molti avrebbe dovuto, infatti, permettere di

stabilire scientificamente l’esistenza di tale legame e il fatto che esso potesse essere in

qualche modo radicato nella fisicità della persona. Un simile presupposto contribuì

evidentemente anche a superare l’ipotesi di una comunità unita da vincoli soprattutto

spirituali così come era nata con il Romanticismo. In altre parole sembrava possibile,

attraverso l’analisi anatomica/antropometrica, stabilire la forma stessa di quello che

Herder aveva definito Volksgeist: attraverso le procedure di misurazione lo spirito del

popolo sembrava, infatti, divenire un prodotto della materia. Lo sviluppo

dell’antropologia fisica, che da alcuni non per caso veniva anche chiamata “zoologia 4 BARBIERA I., The valorous Barbarian, the migrating Slav and the indigenous peoples of the mountains. Archaeological research and the changing faces of Italian identity in the 20th century, in Archaeology of identity, a cura di POHL W., OAW, Wien, 2010 pp. 183 - 202 5 BANTI A. M., CHIAVISTELLI A., MANNORI L., MERIGGI M. a cura di, Atlante culturale del Risorgimento, Laterza, Bari, 2011; BANTI A. M., BIZZOCCHI R. a cura di, Immagini della nazione nell’Italia del Risorgimento, Carocci editore, 2002; BANTI A., La nazione nel Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Einaudi, Torino, 2002

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umana”, rese dunque possibile nell’immaginario collettivo dell’epoca affermare con

decisione la trasmissione di un retaggio nazionale immanente. L’eredità che tale nuova

disciplina permetteva di indagare non era però più quella rappresentata dai monumenti

antichi6, ma quella incarnata nei corpi stessi dei nuovi popoli europei. Si affermava

sempre di più l’idea secondo cui nella carne, nelle ossa e nel sangue dei suoi

componenti la Nazione viveva. Tale considerazione, alla luce dei recenti studi storici

che affrontano i discorsi sulla fisicità7, rendeva ancor più affascinante le prospettive di

studio aperte dall’indagine poiché permetteva di aprire uno spiraglio sui modelli

tipologici elaborati per il corpo del cittadino.

A ciò si aggiunge il fatto che l’assunzione di tale prospettiva portò

l’antropologia a credere fermamente nella possibilità di determinare in maniera

oggettiva e definitiva l’appartenenza etnica degli individui e, di conseguenza, a

compilare vere e proprie classificazioni “scientifiche” – cioè redatte partendo da dati

quantitativi desunti tramite procedimenti di misura attuati con l’ausilio di una

strumentazione tecnica ed elaborate su base statistica - dei popoli e delle razze. Tali

creazioni influenzarono la stessa scienza naturale ben più a lungo di quanto sia

comunemente noto. Pochi infatti sono a conoscenza del fatto che le idee di fondo insite

in tali classificazioni sopravvissero anche dopo le prime scoperte della genetica

contemporanea. In tal senso prendere in esame le teorie elaborate dalla nascente

antropologia fisica significa anche confrontarsi con un periodo non sempre limpido

della storia della scienza. Prendere in considerazione l’evoluzione della biologia

moderna permetteva, però, anche di considerare almeno in via ipotetica i molteplici

temi sui quali scienze naturali e storia avrebbero potuto intessere ancora un dialogo

costruttivo8. Tenendo conto delle potenzialità offerte da una conoscenza sempre più

approfondita del genoma umano, un campo che sembra promettere buone possibilità di

sviluppare un dibattito costruttivo potrebbe essere quello relativo alle antiche

6 TROILO S., Sul patrimonio storico-artistico e la nazione nel XIX secolo, in «Storica» VIII, 23, 2002, pp. 147 - 178; TROILO S., La patria e la memoria. Tutela e patrimonio culturale nell’Italia unita, Mondadori, Milano, 20057 Ancora nel 2005 Le Goff definiva il corpo come “il grande assente della storia” [LE GOFF J., Il corpo nel medioevo, Laterza, Roma, 2005 p. XV]. Da allora esso è stato in vario modo preso in esame dal discorso storico. Si ricordano almeno: DE LUNA G., Il corpo del nemico ucciso, Einaudi, Torino, 2006; BANTI A. M., L’onore della nazione: identità sessuali e violenza nel nazionalismo europeo dal XVIII secolo alla grande guerra, Einaudi, Torino, 2005 8 BURKE P., La storia culturale, Il Mulino, Bologna, 2009 pp. 175 - 195

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migrazioni9. Risultava allora interessante analizzare il tentativo di confronto

multidisciplinare sul medesimo tema che pareva emergere dagli studi antropologici

condotti in passato.

Infine la scelta di indagare i discorsi proposti dall’antropologia fisica degli

esordi, la quale dedicò i suoi sforzi maggiori a costruire vere e proprie tassonomie

umane, ha il vantaggio di contribuire anche a fare luce sull’oscuro fenomeno del

razzismo italiano. Infatti, come ha messo chiaramente in luce Alberto Burgio, sebbene

esso rappresenti una realtà di lungo periodo le sue origini sono state scarsamente

indagate dagli storici che si sono a lungo dimostrati troppo restii ad abbandonare il mito

del “bravo italiano” per affrontare con efficacia tale problema così come veniva

formulato negli anni antecedenti l’esperienza fascista10.

Ancora oggi, a 150 anni dal raggiungimento dell’Unità nazionale, è vivo in Italia

il dibattito su cosa significhi davvero essere italiani. Si assiste, infatti, ad alcuni timidi

tentativi di ridefinizione e allargamento dell’accesso alla cittadinanza.

Contemporaneamente una parte del Paese è investita da una retorica secessionista che si

basa sulla presunta differenza etnica di una parte rilevante della popolazione italiana.

Ritornare ancora una volta a un periodo storico che va dalla proclamazione dello stato

unitario al suo compimento ideale avvenuto all’indomani della Prima Guerra Mondiale

significa, dunque, ritornare alle radici dell’Italia di oggi e mettere in luce alcuni dei

compromessi sui quali essa è stata costruita. Seguendo tale percorso è stato possibile

fornire un quadro di alcune delle difficoltà poste allora dalle differenze regionali e

mettere in luce le scelte che furono fatte per cercare di superarle. Allo stesso tempo si

sono potuti ricostruire alcuni dei discorsi sugli italiani che ebbero origine tra i due

secoli. Attraverso la loro analisi è stato possibile esporre il processo di formazione di un

armamentario ideologico che ancora oggi si ritrova talvolta riproposto nel discorso

politico e contribuire a evidenziarne gli aspetti di lunga durata.

9 BARBUJANI G., L’invenzione delle razze, Bompiani, 2006; BARBUJANI G., Europei senza se e senza ma, Bompiani, 2008 10 BURGIO A., Una ipotesi di lavoro per la storia del razzismo italiano, in BURGIO A., CASALI L. a cura di, Razzismo italiano, Clueb, Bologna, 1996 pp. 19 - 29

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I presupposti internazionali

Il clima culturale in cui cominciarono a germinare e successivamente si

svilupparono le ideologie razziali tradizionali11 è il medesimo dal quale sorsero gli stati

nazionali. Già con la Reconquista spagnola aveva cominciato a trovare legittimità un

criterio di inclusione/esclusione basato essenzialmente sul sangue, tuttavia è solo con

l’avvento dei progressi della scienza biologica che tale concetto trovò la sua piena

realizzazione, complice un humus sociale e politico favorevole. A partire dalla fine del

XVIII secolo, infatti, l’idea di una comunità nazionale legata da stretti vincoli parentali

cominciò a prendere piede in Europa12. Con la Rivoluzione Francese si cominciò a

istituire una corrispondenza stretta tra determinate classi sociali e alcuni popoli antichi

che presentava alcuni elementi di novità rispetto al passato13. Così l’abate Sieyès

sostenne, rovesciando una tradizione diffusa14, l’illegittimità della nobiltà francese a

guidare i destini di Francia a causa della sua presunta discendenza da un popolo

invasore, estraneo al vero popolo francese. Secondo l’Abbé i nobili, giudicati indegni di

governare dal Terzo Stato, avrebbero dovuto essere ricacciati nelle “foreste della

Franconia” dalle quali provenivano15. Acquisì maggior forza in tal modo una lettura

della Rivoluzione incentrata sulla contrapposizione di due elementi etnici: il popolo

discendente dei gallo – romani e l’aristocrazia erede dei Franchi. Tale immagine venne

resa famosa anche dall’opera storica di Augustin Thierry. Tuttavia è necessario

sottolineare per inciso che, nel tracciare il quadro di una contrapposizione etnica tra

invasori / invasi, tali letture della storia di Francia si mantenevano lontane dall’assumere

i caratteri di lotta sociale e biologica che vennero, invece, attribuiti alla fine del XIX

11 Con tale definizione si intendono le ideologie secondo le quali l’umanità sarebbe divisa in comparti rigidamente definiti sulla base di presunte differenze biologiche. FABIETTI U., L’identità etnica, Carocci, 1998 pp. 18 - 20 12 BANTI A. M., Nazione, in BANTI A. M., CHIAVISTELLI A., MANNORI L., MERIGGI M. a cura di, Atlante culturale del Risorgimento, Laterza, Bari, 2011 pp. 214 - 216 13 BANTI A. M., BIZZOCCHI R. a cura di, Immagini della nazione nell’Italia del Risorgimento, Carocci editore, 2002 14 Tradizionalmente, infatti, la nobiltà francese aveva tratto legittimità dalla presunta antichità dei proprio status fatto risalire comunemente alla élite guerriera franca. Secondo tale interpretazione, proposta con forza già agli Stati generali del 1574 da François Hotman, i guerrieri Franchi sarebbero stati i liberatori della Gallia dai Romani e avrebbero così meritato la propria costituzione in casta nobiliare. JOYE S., Les idées de germanité et de romanité dans l’historiographie francaise du XIX siècle, in «Mélanges de l’Ecole francais de Rome» 119 - 2, 2007 pp. 280 - 296 15 Abbé Sieyès, Qu’est-ce que li Tiers État?, s.n., Paris, 1820

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secolo dal sociologo ungherese Gumplowicz alla storia delle nazioni europee16 e che

ebbero molta influenza sulle teorie storiche e antropologiche proposte a cavallo tra i due

secoli17.

Tra la fine del XVIII e i primi decenni del XIX secolo, parallelamente alle nuove

narrazioni storiche post – rivoluzionarie, si andavano diffondendo nel continente alcune

teorie che volevano intimamente connesse una lingua e l’identità di chi la parlava. A

esse fece riferimento il filosofo tedesco Johann Gottfried Herder nel proporre il concetto

di Volksgeist per mezzo del quale egli intendeva promuovere un’idea di popolo basata

prevalentemente sull’appartenenza linguistica18. Tale ipotesi, così come i risultati delle

prime ricerche dei fratelli Grimm sul folklore, esaltava i sentimenti di appartenenza

culturale, ma senza implicare ancora chiari risvolti politici19. Herder, infatti, pur

constatando l’influenza delle lingue germaniche sui dialetti parlati in Alsazia e Lorena

non si spingeva a giustificare un’annessione delle due regioni al complesso degli stati

germanici. I tempi però erano ormai maturi per un cambiamento di rotta e le

conseguenze dei mutamenti politici avvenuti in Francia si fecero sentire anche in

Prussia. Qui le vittorie di Napoleone spinsero il segretario di stato barone vom Stein a

sostenere un revival culturale che dipingesse l’immagine di una grande nazione tedesca

unita. Ma “una nazione nuova non poggia quasi mai su una decisione del presente. Non

fa riferimento ad un mutamento dell’appartenenza, ma al contrario al fatto che essa sia

sempre esistita”20. Le radici nazionali andavano, dunque, ricostruite guardando al

passato. Per questo motivo la “riscoperta” e la conseguente ricostruzione della storia

delle nazioni che venne attuata in vario modo nel corso del XIX sec. non risulta una

mera laudatio temporis acti. Al contrario, le esperienze di ricerca del passato

acquisivano allora una funzione essenzialmente mitopoietica nel senso che esse

miravano a rifondare il presente dei popoli sulla base di una presunta continuità storica

16 GUMPLOWICZ L., Der Rassenkampf. Soziologische Untersuchungen, Innsbruck, 1893 [trad. francese La lutte des races. Recherches sociologiques, a cura di BAYE C., Paris, 1893]; a proposito delle differenze tra questa e l’interpretazione tradizionale del conflitto tra franchi e gallo – romani nelle opere della storiografia francese si veda anche FEHR H., Germanen und Romanen in Merowingerreich, De Gruyter, 2010 pp. 108 seg. 17 Un quadro dell’influenza dell’opera di Gumplowicz nella cultura europea tra XIX e XX secolo è stato delineato da Luisa Mangoni nel suo saggio: MANGONI L., Una crisi fine secolo. La cultura italiana e la Francia fra Otto e Novecento, Einaudi, Torino, 1985 18 THIESSE A. M., La creazione delle identità nazionali in Europa, Il Mulino, 2001 pp. 29 - 36 19 GEARY P. J., Il mito delle nazioni cit. pp. 37 - 38 20 POHL W., Le origini etniche dell'Europa. Barbari e Romani fra Antichità e Medioevo, Viella, Roma, 2000 p. 2

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della nazione stessa. Così già nei discorsi rivolti alla nazione tedesca di Johann G.

Fichte si diffuse il ritratto di un popolo erede diretto di quelli ritratti nella Germania di

Tacito. Secondo quanto si legge nelle orazioni del Fichte il popolo tedesco avrebbe

mantenuto intatta la propria purezza originaria grazie ai suoi alti valori. Tale

caratteristica, poi, avrebbe fatto sì che esso si mantenesse radicalmente distinto tanto dai

popoli Slavi quanto dagli altri popoli europei romanizzati21. Dal 1840 si diffuse così

l’idea di una rivalità di fondo tra tre ceppi razziali principali - quello germanico, quello

romano (o latino) e quello slavo – stanziati nel vecchio continente e in tale rivalità

venne identificato il meccanismo centrale di tutta la storia mondiale22.

Sull’esempio della Germania e sull’onda della riscoperta del medioevo attuata

dal movimento romantico fu, dunque, nelle età di mezzo che la maggior parte delle

nazioni che sarebbero progressivamente sorte sulle ceneri del vecchio ordine europeo

andò a ricercare le radici profonde del proprio passato. Per far luce sulla propria storia, i

“costruttori di nazioni”23 cercarono di ricostruire le migrazioni dei barbari. Inoltre nei

presunti costumi di questi ultimi vennero cercate le tracce delle consuetudini e delle

istituzioni proprie delle singole nazioni. Così, come trovarono nuova fortuna gli antichi

(e i nuovi) poemi e le iconografie pre – rinascimentali, furono progressivamente

riscoperte anche le Leges Barbarorum. Esse fornirono nuovo materiale anche alla

storiografia: secondo lo storico del diritto Karl von Savigny anche la legislazione,

infatti, sarebbe stata un riflesso del Volksgeist e pertanto non sarebbe potuta essere

imposta dall’esterno ma sarebbe stata il risultato della storia di ciascun popolo24.

Nonostante ciò egli, al contrario di quanto fece il suo discepolo Jacob Grimm, non negò

completamente l’influsso romano sulla legislazione tedesca, ma si sforzò di ricostruire

gli apporti delle due diverse componenti. Nel far ciò Savigny tracciò una linea di lavoro

che venne presa a modello anche da alcuni storici italiani25. In Francia, invece, Fustel de

Coulanges reagì alle conclusioni cui giunse la scuola giuridica tedesca negando

21 GEARY P. J., Il mito delle nazioni. Cit. pp. 39 seg.; THIESSE A. M., La creazione delle identità nazionali Cit. pp. 51 - 52 22 FEHR H., Germanen und Romanen cit. pp. 109 seg. 23 A. M. Thiesse definisce così gli attori (principalmente le élite culturali e le istituzioni) che, con la propria opera, contribuirono alla creazione delle identità nazionali in particolare nel corso del XIX secolo. 24 JOYE S., Les idées de germanité et de romanité cit. pp. 287 - 288 25 Si veda ad esempio ARTIFONI E., Medioevo delle antitesi. Da Villari alla “scuola economico - giuridica”, in «Nuova Rivista Storica», 1984 pp. 367 – 380; TABACCO G., Latinità e germanesimo nella tradizione medievistica italiana, in «Rivista Storica Italiana» 102, 1990 pp. 691 - 716

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decisamente che gli istituti germanici avessero avuto un legame con l’origine della

feudalità26.

Poiché “il processo di formazione identitario consiste nel determinare il

patrimonio di ogni nazione e nel diffonderne il culto”27 è evidente che gli attori che

maggiormente contribuirono alla riuscita del progetto nazionale fossero da un lato le

istituzioni statali e dall’altro il vasto mondo delle élite culturali. Queste ultime

divennero nel corso del XIX secolo più che mai nazionali, ma allo stesso tempo finirono

per essere assolutamente transnazionali: esse ubbidivano, infatti, a codici che agivano a

livello sovra-nazionale proprio in virtù dell’affinità dei processi in corso che

rispondevano ovunque a istanze molto simili.

A proposito del rapporto tra cultura e nazione nell’Ottocento Zygmunt Bauman

ha sostenuto che “quanto più determinato fu il Kulturkampf avviato e monitorato dallo

stato, tanto più pieno fu il successo dello Stato – nazione nel produrre una “comunità

naturale””28. Tale “battaglia”, come si è detto, venne combattuta essenzialmente sul

fronte dell’appropriazione del passato. Fu questo un processo che portò a una

progressiva immanentizzazione della “storia comune” nel patrimonio storico - artistico

della nazione attraverso la monumentalizzazione del patrimonio stesso29. Era naturale,

dunque, che i diversi specialismi che cominciarono ad assurgere a dignità scientifica nel

corso del XIX secolo venissero a loro volta chiamati a portare il proprio contributo

all’edificazione della nazione. La filologia comparata, nata da un’intuizione di sir

William Jones30, oltre a proporre all’attenzione generale la questione delle lingue

indoeuropee, della loro origine e della loro diffusione, traendo nuovo alimento dalle

ricerche dei fratelli Grimm condusse in quegli stessi anni alla formulazione di un

metodo scientifico che permise tra l’altro l’esame approfondito degli antichi manoscritti.

In Germania ciò portò alla compilazione dei Monumenta Germaniae Historica a opera

della Gesellschaft für ältere deutsche Geschichtskunde. La Società per lo studio della

storia dell’antica Germania, fondata dallo stesso barone vom Stein, come giustamente

26 A partire dal 1820 gli storici francesi prendono senza sosta posizione avversando la “storia scientifica” tedesca. JOYE S., Les idées de germanité et de romanité cit. p. 289 27 THIESSE A. – M., La creazione delle identità nazionali cit. p. 8 28 BAUMAN Z., Modernità Liquida, Laterza, 2011 pp. 202 - 203 29 A questo proposito si vedano TROILO S., Sul patrimonio storico-artistico e la nazione nel XIX secolo, in «Storica» VIII, 23, 2002, pp. 147-178; TROILO S., La patria e la memoria. Tutela e patrimonio culturale nell’Italia unita, Mondadori, Milano, 2005 30 Lo studioso inglese fu il primo a notare l’analogia tra le lingue classiche e il sanscrito

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ha osservato Patrick Geary con l’edizione dei Monumenta non si limitò a compiere

un’opera di recupero del passato tedesco, ma compì di fatto una delimitazione

ideologica di uno spazio germanico31. Non fu, dunque, un caso se essa godette del

sostegno dello stesso Bund tedesco. Anche un altro specialismo che cercò di affermarsi

nel XIX secolo e poi nel primo Novecento si occupò di fornire elementi utili a una

delimitazione dello spazio geografico nazionale. L’archeologia alto medievale arrivò,

infatti, a postulare che nei manufatti antichi si potessero rinvenire delle specificità

culturali tali da poter individuare l’appartenenza etnica dei loro proprietari. Attraverso

la mappatura dei reperti si credeva di poter stabilire con sicurezza i confini degli antichi

diritti di proprietà sulla terra. Inoltre l’archeologo Gustav Kossinna, il più acceso

sostenitore di tale principio, affermò l’esistenza di una corrispondenza immediata tra

cultura materiale, lingua e identità; egli arrivò così a credere che a ciascun popolo

menzionato nelle fonti alto medievali corrispondesse uno stile preciso32. Egli pertanto

riteneva possibile l’identificazione dei singoli popoli attraverso lo studio dei reperti

archeologici. Si andò così via via formando un paradigma che attribuiva

sistematicamente ad alcune tombe alto medievali una identità etnica piuttosto che

un’altra. In generale si riteneva che l’uomo germanico, pagano e guerriero, dovesse,

infatti, essere seppellito per forza con ricca suppellettile della quale erano una

componente essenziale le armi; l’uomo romano, invece, era pensato come

essenzialmente cristiano e, pertanto, incline alla sobrietà funeraria. Qualunque seria

riflessione in merito allo status sociale degli inumati era evidentemente esclusa. Al

contrario, secondo quanto sostenuto per lungo tempo dagli archeologi, attraverso

un’analisi tipologica eseguita su armi e fibule metalliche deposte nelle sepolture sarebbe

stato possibile ricostruire la precisa identità etnica degli inumati attribuendone le origini

a un popolo germanico piuttosto che ad un altro. L’inconsistenza di tale ipotesi è stata

ormai più volte ribadita, ma costituiva allora un paradigma utile a legittimare istanze

molto varie - tal volta anche contrapposte - che ha fatto sì che essa si radicasse e si

perpetuasse a lungo nell’immaginario degli studiosi33.

Nell’Ottocento, però, la speranza crescente nelle possibilità di riuscita delle

discipline ausiliarie nel fornire dati utili al processo di ricostruzione storica si accordava

31 GEARY P. J., Il mito delle nazioni cit. pp. 40 - 41 32 GEARY P. J., Il mito delle nazioni cit.; FEHR H., Germanen und Romanen cit. 33 LA ROCCA C., Antenati, distruttori, semplicemente inetti, cit.

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al clima di fiducia nella scienza imposta dal Positivismo. Anche le varie scienze

anatomiche - cui si aggiunse la neonata biologia evoluzionistica - non poterono, dunque,

essere a lungo lasciate ai margini del discorso nazionale. Proprio mentre si affermavano

in Europa gli stati nazionali si assistette, infatti, alla nascita dei una nuova disciplina,

l’antropologia fisica. Essa si andò a saldare con un patrimonio culturale ricco di

tradizioni di fisiognomica34, con un canone artistico riscoperto dalla storia dell’arte

classica del Wincklemann35 e con le caratterizzazioni presenti fin dall’antichità nelle

opere geografiche e fisiologiche. Intrecciandosi variamente con altri campi del sapere,

nel momento in cui affermò scientificamente l’esistenza di varie specie e/o razze umane,

l’antropologia finì per fornire un armamentario che venne ritenuto assai utile da parte

dei vari attori nazionali e internazionali alla propria legittimazione.

La nascita di uno stereotipo

Sono portato a credere gli stessi Germani siano autoctoni e minimamente mescolati per immigrazioni e rapporti di ospitalità di altre popolazioni (…). Personalmente convengo con le opinioni di quanti ritengono che i popoli della Germania, non contaminati da incroci con altre stirpi, si siano mantenuti puri e incontaminati (…). Da qui [deriva] anche il tipo fisico uguale in tutti nonostante un così grande numero di uomini: occhi azzurri e fieri, capelli rossicci, corpi massicci e solo adatti all’assalto. (…) abituati al gelo e alla fame dal clima e dal suolo [della loro terra]36

Così scriveva Cornelio Tacito alla fine del I sec. d. C. in quello che è stato recentemente

definito “a most dangerous book”37. Da questa antica indagine etnografica, condotta

dallo storico latino, con lo scopo niente affatto secondario di pungolare la coscienza

romana nel momento in cui sembravano definitivamente sfaldarsi i valori tradizionali, si

è ricavato un quadro degli antichi Germani che influenzò a lungo le varie discipline

34 CENTINI M., Fisiognomica, Red edizioni, Milano, 2004 35 MOSSE G. L., Il razzismo in Europa, dalle origine all’Olocausto, Laterza, Bari, 2009 pp. 22 – 35 36 “Ipsos Germanos indigenas crediderim minimeque aliarum gentium adventibus et hospitiis mixtos. (…) Ipse eorum opinionibus accedo, qui Germaniae populos nullis aliis aliarum nationum conubiis infectos propriam et sinceram et tantum sui similem gentem extitisse arbitrantur. Unde habitus quoque corporum, tamquam in tanto hominum numero, idem omnibus: truces et caerulei oculi, rutilae comae, magna corpora et tantum ad impetum valida. (…) frigora atque inediam caelo solove assueverunt” TACITO, Germania, 2, 4 (testo latino tratto da CORNELIO TACITO, Agricola, Germania, dialogo sull’oratoria, ed. Grazanti, traduzione mia) 37 KREBS C., A most dangerous book: Tacitus’ “Germania” from the roman empire to the Third Reich, Norton, 2011

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storiche. A essa si fece, infatti, riferimento per giustificare una contrapposizione quasi

ontologica istituita tra i popoli latini e quelli germanici, ma da essa vennero attinti anche

i caratteri antropologici fondamentali per la creazione di quella che forse è la più famosa

delle costruzioni antropologiche: la razza ariana. Tale stereotipo prese corpo grazie ai

contributi incrociati di molte discipline, ma determinanti furono gli apporti della scienza

naturale e della storia dell’arte. Dal punto di vista delle caratteristiche cromatologiche,

infatti, determinante fu l’analisi fisiognomica proposta dal tedesco Carl Gustav Carus

verso la metà del XIX secolo. Egli distingueva i popoli in “diurni”, gli europei,

“crepuscolari”, gli asiatici, e “notturni”, i popoli dalla pelle più scura. Sulla base di tale

classificazione egli individuava nei primi il “sole dell’umanità” e, di conseguenza,

istituiva una scala lungo la quale distribuiva le genti a partire dalle superiori fino a

giungere alle infime38. Il colore chiaro della pelle, considerato così un simbolo di

superiorità solare, trovava riscontro nella descrizione dei Germani di Tacito e divenne,

dunque, caratteristica stringente dei popoli germanici. Il “naso ariano” trovò la sua

canonizzazione già nel 1764, nelle descrizioni fornite dal Winckelmann delle statue

della Grecia antica, modello di perfezione armonica39.

L’arte classica entrò in gioco anche nella definizione dell’assetto facciale

“superiore”. Nel 1868 a Philadelphia due studiosi, J. C. Nott e R. G. Gliddon,

pubblicarono un’opera sulle razze della terra in cui compariva un’illustrazione divenuta

in seguito famosa. In essa comparivano affiancati tre disegni rappresentanti altrettante

teste: quella di un indigeno africano, quella di uno scimpanzé e quella dell’Apollo del

Belvedere40. Lo scopo di tale iconografia, peraltro resa più efficace dalla deformazione

operata nel rappresentare le mascelle dei primi due elementi citati, era evidente: stabilire

la maggior prossimità degli africani alle scimmie antropomorfe rispetto a quello che era,

invece, ritenuto l’uomo al termine della sua evoluzione naturale. Tale considerazione ci

porta a sottolineare un’altra funzione che ebbero le costruzioni razziali e cioè quella di

legittimare l’espansione coloniale dei bianchi civilizzatori negli altri continenti.

Sebbene quest’ultimo aspetto non costituisca l’argomento principale di questa tesi, esso

non può essere dimenticato: nell’età dell’imperialismo la legittimazione del potere

dell’Occidente sul resto del mondo era considerato un dato di fatto che trovava la sua

38 MOSSE G. L., Il razzismo in Europa cit. pp. 34 seg. 39 Ibid. p. 35 40 NOTT J. C., GLIDDON R. G., Indigenous races of the earth, Lippincott, Philadelphia, 1868

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spiegazione anche in termini puramente naturali. Da questo punto di vista l’opera di

Darwin, lungi dall’avvicinare tra loro i vari gruppi umani, contribuì a portare nuovo

materiale a sostegno della superiorità di una parte dell’umanità sull’altra.

Naturalisti, fisiologi e medici fecero la loro parte anche nella rifinitura del tipo

umano ritenuto superiore. Fondamentale in questo senso fu la definizione data nel 1842

a opera dello svedese Anders Adolf Retzius (1796 – 1860) dell’indice cefalico,

parametro che permetteva di distinguere in due grandi famiglie le teste umane sulla base

della misura della loro lunghezza. Da allora le teste allungate divennero distintive delle

razze più elevate41 e la classificazione introdotta da Retzius rimase alla base di tutti gli

studi posteriori; ciò determinò al contempo l’assoluto dominio delle misure

craniometriche in antropometria e, più in generale, della craniometria tra le scienze

dell’uomo42. Ma a suggellare la nascita vera e propria della razza ariana fu la diffusione

avvenuta in Germania prima ancora che in Francia di un libello, l’Essai sur l’inégalité

des races humaines43, opera del conte Joseph Arthur Gobineau. Tale saggio, composto

all’indomani del colpo di stato napoleonico del 1851, vene diffuso nei territori di lingua

tedesca a opera del Circolo di Bayreuth e, dopo la morte dell’autore avvenuta nel 1882,

dalla Gobineau Vereinigung di Friburgo44. Gobineau, orgoglioso del proprio titolo

aristocratico - sebbene ereditato dallo zio - desiderava trovare una spiegazione della

decadenza dell’antica nobiltà francese e, per far ciò, tracciava nella sua opera una storia

dell’uomo nella quale ogni avvenimento veniva spiegato in termini di razza. Per

spiegare il declino dell’aristocrazia egli introdusse un elemento nuovo rispetto alle

valutazioni allora in voga tra gli storici: la nobiltà, sebbene effettivamente avesse

rappresentato in passato una stirpe eletta, pareva condannata alla decadenza a causa

della mescolanza con altre razze. Comparvero così due idee fondamentali che

confluirono all’interno del discorso antropologico: degenerazione e ibridismo. A

completare il quadro nel quale si svilupparono le ansie razziali dell’Ottocento pensò

qualche anno più tardi Cesare Lombroso introducendo il concetto di atavismo. Una

volta acquisisti, questi postulati alimentavano, infatti, la paura di una decadenza del

41 MOSSE G. L., Il razzismo in Europa cit. 42 FEHR H., Germanen und Romanen, cit. pp. 110 seg. 43 L’opera venne edita per la prima volta in Francia nel 1853 44 Sull’influenza esercitata sulla destra nazionalista dal Circolo Wagneriano si veda MOSSE G. L., Il razzismo in Europa cit. pp. 111 – 112 e sul ruolo che esso ha ricoperto nella diffusione delle idee di Gobineau in Germania si veda DEL BOCA B., Storia della antropologia, Dr Francesco Villardi, Milano, 1961 p. 194

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continente da sempre esposto a continue mescolanze di popoli e spinsero a ricercare più

a fondo le prove scientifiche della persistenza dei caratteri antichi della razza europea

ritenuta superiore. Ciò passava attraverso la negazione di ogni possibile meticciato

anche all’interno delle singole nazioni qualora esse ritenessero di incarnare una razza

privilegiata, sebbene tale ipotesi non fu mai universalmente condivisa. Sulla scia di

simili valutazioni, però, l’autoctonia e purezza originale dei Germani di Tacito venne

usata per provare l’assenza di apporti degenerativi nel patrimonio biologico della

nazione tedesca e, di conseguenza, per legittimarne la superiorità sulle altre popolazioni.

In questi elementi si possono già intravedere i presupposti che porteranno alla nascita

dei Comitati nazionali di Eugenetica45 diffusi in tutto il continente nella seconda decade

del Novecento; essi vennero fondati, infatti, con lo scopo preciso studiare la cause di

ogni possibile carattere degenerativo che potesse provocare la decadenza delle razze e

delle nazioni europee e di evitarne la trasmissione da una generazione all’altra. Tuttavia

quest’ultimo sviluppo affondava le proprie radici in un clima culturale diverso da quello

della fondazione degli stati – nazione: quello che caratterizzò gli anni a cavallo tra i due

secoli. In un contesto da fine della civiltà,46 infatti, presero ulteriore slancio nei vari

paesi le correnti nazionaliste che contribuirono fortemente alla presa di coscienza di una

presunta necessità di preservare la nazione dalla degenerazione.

Stimolati anche dalle idee del conte Gobineau, in Germania storici, archeologi e

antropologi nella seconda metà dell’Ottocento si misero alla ricerca della

“testimonianze materiali” prodotte dall’antica razza germanica. Nel 1861 a Göttingen si

tenne il primo incontro degli antropologi tedeschi e pochi anni dopo, tra il 1863 e il

1865, Alexander Ecker – il quale fu anche il promotore della valorizzazione

dell’antropologia come scienza autonoma – propose la prima definizione del cosiddetto

“tipo dei cimiteri a fila” (Reihengräbertypus). Dai resti ossei rinvenuti nelle sepolture

alto medievali scoperte in Germania e attribuite agli antichi Germani, soprattutto quelli

ritrovati nella necropoli di Selzen, si vollero, infatti, desumere i caratteri tassonomici

della razza ariana47. Ciò venne fatto sotto l’influenza del paradigma culturale delineato

45 Fondatore dell’eugenetica fu sir Francis Galton (1822 - 1911) autore nel 1869 del saggio Hereditary Genius.46 MANGONI L., Una crisi fine secolo. La cultura italiana e la Francia fra Otto e Novecento, Einaudi, Torino, 1985 47 La necropoli di Selzen venne studiata dai fratelli Wilhelm e Ludwig Lindenschmit. FEHR H., Germanen und Romanen cit. pp. 194 - 201

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in precedenza e così da parte tedesca si stabilì ancora una volta che la dolicocefalia48

fosse il carattere fondamentale della stirpe. L’archeologia funeraria ristabiliva al

contempo gli antichi diritti sulla terra rafforzati dall’identificazione della nuova

tipologia cimiteriale; nei Reihengräber si voleva vedere, infatti, la testimonianza

inconfutabile dell’avvento tra antichità e medioevo di una nuova civiltà germanica che

avrebbe rappresentato una cesura culturale definitiva con il passato latino delle province

renane.

Ma il fascino della Germania di Tacito si fece sentire ben oltre i territori su cui

si stendeva l’influenza prussiana. In Inghilterra e Francia, infatti, Sassoni e Franchi

vennero inizialmente descritti come parte dell’originario ceppo germanico e ciò, una

volta affievolitisi i fermenti rivoluzionari, parve avvicinare tra loro per alcuni anni le

nazioni occidentali del centro e del nord Europa49. Similmente anche gli antropologi

tentarono a più riprese di superare le tradizionali barriere imposte dal nazionalismo.

Retzius, ad esempio, fece rientrare Galli, Celti, Britannici, Scozzesi e Scandinavi tra i

dolicocefali, uniti così in una grande famiglia, cui si contrapponevano i brachicefali

Slavi, Finni e Lapponi. Il risultato era ancora una volta quello di dipingere Francia,

Germania e Gran Bretagna come nazioni sorelle. Broca (1824 - 1880), il fondatore della

Società antropologica francese, studiando i cimiteri tardoantichi del nord della Francia

si disse, invece, convinto che Celti e Franchi, sebbene appartenenti a razze diverse, si

fossero mescolati tra loro già nei primi secoli della loro convivenza e il retaggio di

entrambi fosse così confluito nella popolazione francese contemporanea. In questo

senso egli mostrava di non condividere le letture di Thierry e Guizot della storia tardo

antica e alto medievale.

Nel 1870, tuttavia, la sconfitta subita dalla Francia a Sedan riportò ancora una

volta in auge il paradigma della contrapposizione tra Gallo – Romani e invasori

barbarici. Questo passaggio investì in pieno anche il mondo dell’antropologia nel quale

48 Dolicocefale vennero definite le conformazioni craniche allungate. 49 La “teutomania” inglese tocco l’apice con la Guerra di Crimea quando Prussia, Francia e Inghilterra si trovarono schierate contro la Russia. Tale conflitto vide, dunque, contrapposti un presunto schieramento “germanico” e un altrettanto presunto avversario “slavo”. Lo studioso inglese William Michael Wylie scrisse in proposito “quando la temibile lotta per il predominio tra le razze rivali di teutoni e slavi minaccia di squarciare il mondo tali ricerche che affiorano dal passato non sarebbero del tutto inutili e prive di interesse poiché rammentano il legame di parentela all’origine di Franchi, Tedeschi e Sassoni” [FEHR H., Germanen und Romanen cit.; citazione a p. 214]

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produsse allo stesso tempo un radicamento del sistema di Retzius50. È, infatti, il clima

degli anni Settanta dell’Ottocento che spiega come uno studioso del sud – ovest della

Francia fosse potuto giungere a cercare di dimostrare che i disturbi mentali di una parte

degli abitanti di Deux – Sèvres fossero da imputare all’eredità ricevuta dalla

popolazione locale dagli Alani; allo stesso modo si comprende come in tale periodo il

fisiologo e archeologo dilettante Auguste Baudon avesse potuto descrivere “the

Germanic inhabitants of Gaul as crétins”51. La sconfitta subita nel conflitto contro la

Prussia, tuttavia, non si manifestò solo tra studiosi di basso profilo, ma lasciò il segno

anche tra gli antropologi più illustri. Armand de Quatrefages de Bréau (1810 - 1892), “il

più autorevole esponente della Società antropologica dopo Broca”52, al pari di questo

sostenne in un primo tempo la valenza positiva del meticciato razziale: razze giovani e

antiche avrebbero concorso assieme al progresso dell’umanità. Nonostante ciò dopo il

bombardamento tedesco di Parigi nel quale fu colpito il celebre Jardin des Plantes che

ospitava anche alcune preziose collezioni antropologiche la sua posizione mutò

radicalmente. De Quatrefages, inorridito, a partire da quella data tracciò, infatti, il

ritratto di una razza tedesca degenere, barbara e violenta di discendenza finnica (e,

pertanto, non veramente germanica) il cui solo scopo sarebbe stato quello di sterminare

le razze realmente superiori. I tedeschi vennero così trasformati nei distruttori della

cultura e nei promotori della barbarie continentale53.

Alla visione tutta politica di Quatrefages rispose con grande moderazione il più

illustre esponente della scuola antropologica tedesca, Rudolf Virchow (1821 - 1902).

Questi si disse convinto che entrambe le nazioni che si erano confrontate a Sedan

fossero in realtà ben lontane dalla purezza razziale e che pertanto stabilire a priori la

superiorità di una sull’altra esulava dalle concerete possibilità dell’antropologia.

Virchow, però, merita di essere menzionato ben al di là della sterile disputa con il

collega francese. Infatti egli fu il promotore nel 1871 della prima indagine statistica

sulle caratteristiche antropologiche degli scolari tedeschi. Con la collaborazione della

Federazione Germanica la Società antropologica tedesca raccolse un’enorme mole di

50 FEHR H., Germanen und Romanen cit. pp. 110 seg. 51 EFFORS B., Anthropology and ancestry in nineteenth- century France: craniometric profiles of Merovingian- period populations, in Archaeology of identity, a cura di POHL Walter, OAW, Wien, 2010 p. 242 52 MOSSE G. L., Il razzismo in Europa cit. p. 99 53 DE QUATREFAGES J. L. A., The prussian race Ethnographically Considered, s.n., London, 1872

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dati. Tali dati furono ripartiti mediante l’uso di due diversi tipi di questionari in due

categorie: quella scolari cristiani e quella degli ebrei. Secondo George L. Mosse tale

indagine segnò un punto di accelerazione nella presa di coscienza da parte dei giovani

ebrei della propria diversità etnica rispetto al resto della popolazione all’interno della

Germania54. Nonostante ciò essa diede modo a Rudolf Virchow di dimostrare ancora

una volta la propria moderazione: egli, infatti, utilizzò i dati raccolti allo scopo di

dimostrare la non esistenza di differenze razziali significative tra i due gruppi religiosi

e, dunque, la naturale appartenenza degli ebrei tedeschi alla nazione germanica55.

In Germania vi erano, però, posizioni assai meno moderate di quella assunta da

Virchow e nei primi anni del Novecento si manifestarono anche i primi tentativi per

ascrivere al genio tedesco tutte le grandi produzioni culturali dell’umanità.

L’antropologo Ludwig Woltmann nel 1907 cercò, infatti, di dimostrare un sillogismo

singolare: poiché le intelligenze superiori si manifestano fisicamente nei crani

dolicocefali e poiché tali crani sono propri della razza germanica allora tutte le

principali opere di cultura devono essere state create da geni tedeschi. Attraverso analisi

antropologiche del tutto ipotetiche egli pretese così di far rientrare nella razza ariana

tutti i grandi del Rinascimento attirandosi così le feroci critiche dei colleghi italiani56.

L’Italia si trovò, però, a entrare nel dibattito sull’apporto degli ariani (anche chiamati

Arii, Indogermani o semplicemente Germani) allo sviluppo dell’Europa da una

posizione particolare. Essa, infatti, si considerava in fondo l’erede di Roma antica e,

dunque, non poteva condividere completamente le teorie razziali che vedevano nei

popoli latini una razza inferiore. Nel confrontarsi con il paradigma pangermanico gli

antropologi italiani dovettero allora elaborare delle nuove strategie.

54 MOSSE Gorge L., Il razzismo in Europa cit. 55 Le statistiche pubblicate da Virchow vennero utilizzate anche dall’antropologo italiano Giuseppe Sergi in SERGI Giuseppe, Origine e diffusione della stirpe mediterranea, Società Editrice Dante Alighieri, Roma, 1895 pp. 13 – 19. Inchieste che presero a modello quella condotta dalla Società antropologica tedesca vennero condotte anche in Olanda, Belgio e Austria. 56 Tuttavia nel 1868 uno di quelli che poi sarebbero diventati i maestri dell’antropologia in Italia, Giuseppe Sergi, aveva conseguito la laurea in filosofia con una tesi nella quale sosteneva che il grande rinnovamento attribuito alla filosofia tedesca non presentava alcuna traccia di novità poiché avrebbe rappresentato solo una ripresa di teorie espresse dai grandi del Rinascimento italiano. [SERGI Giuseppe, Usiologia, ovvero scienza dell’essenza. Rinnovamento dell’antichissima filosofia italiana, Tipografia Morello, Noto, 1868]. Proprio Sergi sarebbe stato, invece, il principale accusatore italiano di Woltamann. [SERGI Giuseppe, Gli italiani della rinascenza. Contro Woltmann, in «Rivista d’Italia» IX, 1, 4 pp. 11 seg.]

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Al fine di comprendere le modalità peculiari secondo le quali l’antropologia

italiana entrò in stretta relazione con il clima nazionale e internazionale ed evidenziare,

così, le strategie adottate per legittimare sé stessa e la nazione è, però, necessario

comprendere a fondo i codici statutari della disciplina. Tenendo conto della scarsità di

studi storici sull’argomento, nel primo capitolo di questo lavoro si è pertanto ricostruito

il quadro storico - culturale nel quale essa nacque e si sviluppò allo scopo di

evidenziarne le caratteristiche precipue, le linee principali e i termini del dibattito

interno alla disciplina, ma anche il ruolo che essa svolse nel contesto sociale italiano tra

Otto e Novecento. Non si poteva, dunque, mancare di sottolineare, oltre al background

positivista e all’influenza della nuova biologia evoluzionistica, anche il rapporto che le

Società antropologiche intrattennero con l’ambiente istituzionale. Si è ritenuto anche

utile mettere in luce tramite un caso specifico, quello dei rapporti intrecciati con la

storia dell’arte, le ambizioni onnicomprensive della nuova scienza e la sua capacità di

permeare ambiti di ricerca molto diversi. Grazie a tale digressione, seguendo una linea

di studi già individuata dallo storico George Mosse57, si è potuto anche mettere in luce il

legame fondamentale che intercorse tra la nuova disciplina e la produzione artistico -

archeologica, considerata come una vera e propria fonte per la ricerca tassonomica.

Nel secondo capitolo, attraverso l’analisi dettagliata di quella che fu, forse, la

teoria più complessa, organica e originale tra quelle esposte nei decenni a cavallo tra

XIX e XX secolo, quella proposta da Giuseppe Sergi, si è cercato, invece, di entrare nel

cuore dei molti problemi che influirono sulla questione della razza, da quelli linguistici

a quelli storico - archeologici. Attraverso l’analisi delle opere del fondatore della

Società Romana di Antropologia è stato anche possibile ricostruire un chiaro tentativo

di rifondare la nazione italiana su basi nuove da parte dell’antropologia italiana. Per

meglio capire la genesi e l’evoluzione delle teorie del Sergi si sono approfonditi nel

seguente capitolo i tempi e i modi in cui esse vennero influenzate tanto dalla vicenda

personale dello studioso quanto dalla più generale storia politica e sociale dell’Italia

dalla seconda metà dell’Ottocento ai primi decenni del Novecento. La lunga vita del

Sergi e l’influenza delle sue tesi si spinsero, però, oltre la fine del primo conflitto

mondiale prolungandosi fino al Ventennio fascista. Allo scopo di indagare meglio i

complessi meccanismi di interrelazione tra razzismo di matrice positivista e ideologia di

57 MOSSE G., Il razzismo in Europa cit.

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regime si è quindi ritenuto utile, guardando un po’ oltre i limiti cronologici scelti per

questo lavoro, sottolineare come proprio le teorie espresse dal fondatore della Società

Romana avessero finito per creare dei forti imbarazzi ai teorici della razza negli anni del

fascismo58. Pertanto si è cercato di mettere in luce anche quegli aspetti che presentavano

dei tratti di sostanziale difformità rispetto a quanto teorizzato negli anni del fascismo

tanto in Italia quanto nel contesto del Reich tedesco, sebbene non specificamente legati

al problema degli antenati barbarici. Ricostruendo le teorie del Sergi si è, però, al

contempo creato il presupposto indispensabile per affrontare il tema dei popoli

germanici dal punto di vista dell’antropologia fisica italiana. Al fine di comprendere

davvero la problematica dei barbari nella costruzione del “corpo della nazione”

affrontata specificamente nel capitolo quattro, si è dovuto innanzitutto tenere conto del

dibattito generale sull’alto medioevo allora in corso. Nel contesto più ampio degli studi

sull’alto medioevo tra i due secoli si assistette, infatti, ad alcuni significativi tentativi di

dialogo su questo tema tra le varie discipline storiche. Risultava pertanto

imprescindibile dare una ricostruzione almeno parziale del dialogo allora in corso e così

delineare le tappe principali lungo le quali si svolse e i suoi aspetti di lunga durata.

Alla luce della fruttuosa riflessione portata avanti sia nell’ambito della storia

medievale che in quello della storia contemporanea negli ultimi anni sui rapporti tra

contesto nazionale e locale si è, infine, cercato di evidenziare le differenze tra i discorsi

sulla nazione elaborati dagli antropologi a livello centrale e quanto avveniva negli

specifici scenari regionali. Nell’ultimo capitolo si è ritenuto utile, quindi, calare le

proposte elaborate dall’antropologia nel contesto allora evidentemente più critico,

quello delle terre ritenute italiane, ma soggette alla dominazione austriaca. Ciò ha

permesso di verificare la tenuta dei paradigmi proposti nel quadro di teorizzazioni

organiche (mediterraneismo e pangermanesimo) dinnanzi alla prova dei fatti. Nei

territori irredenti, infatti, il problema storico dell’appartenenza nazionale era vissuto -

tanto da parte austriaca quanto da parte italiana - letteralmente sulla pelle degli abitanti

58 Non fu infatti un caso se Giuseppe Sergi venne pesantemente attaccato dai teorici del nazismo (dai quali venne definito un “puro ebreo”, benché egli non fosse affatto di religione o di ascendenza ebraica). Sulle critiche rivolte a Sergi si veda PROCTOR Robert, From Antropologie to Rassenkunde in the German Anthropological tradition in STOKING George W., Bones, bodies, behavior. Essays on biological anthropology, s.n., Wisconsin, 1988 [citato anche in BARBIERA I., The valorous Barbarian, the migrating Slav and the indigenous peoples of the mountains. Archaeological research and the changing faces of Italian identity in the 20th century, in Archaeology of identity, a cura di POHL W., OAW, Wien, 2010 p. 193]

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e ciò chiaramente non poteva non riflettersi nei discorsi proposti dall’antropologia.

Riflettendo sulle dinamiche messe allora in moto nelle terre di confine si è così potuto

affrontare anche uno dei nodi più significativi della costruzione nazionale e identitaria

italiana.

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I. LA NASCITA DELL’ANTROPOLOGIA IN ITALIA:

QUADRO STORICO - CULTURALE

1. POSITIVISMO E DARWINISMO

L’antropologia italiana nasce sotto la triplice stella del positivismo,

dell’evoluzionismo e dell’Unità nazionale. Ciascuno di questi tre fattori ha contribuito a

fondare la disciplina e ne ha contemporaneamente segnato le vie di sviluppo per tutta

quella lunga fase che va dalla sua nascita al primo conflitto mondiale; quest’ultimo

contribuirà a radicalizzare alcuni aspetti e a superarne altri in una prospettiva che

scivola, però, pericolosamente verso la deriva degli anni Venti e, per questo motivo, può

essere considerato come un evento periodizzante che pone idealmente fine alla prima

parte dell’avventura antropologica in Italia. Tutti e tre i fattori sopra indicati appaiono

intrecciati nella vicenda storica italiana del secondo Ottocento: è, infatti, a seguito della

vicenda risorgimentale e della conseguente rottura temporanea tra elite nazionali e

Chiesa Cattolica che in Italia si va affermando una cultura laica, più aperta agli influssi

della modernità che si diffondevano da oltralpe, terreno di coltura della scienza

moderna59.

59 Gli studi condotti fino ad ora sulla nascita dell’antropologia italiana sono scarsi e spesso svolti in rapporto a tematiche specifiche e pertanto non mirano a ricostruire un quadro storico d’insieme. Meritano di essere segnalati in particolare le opere di Sandra Puccini che prestano attenzione particolare al versante metodologico della disciplina antropologica e alle raccolte di dati e materiali portate avanti dai primi cultori della materia tanto in Italia che all’estero: PUCCINI S., L’uomo e gli uomini, CISU, Roma 1991; PUCCINI S., L’Itala gente dalle molte vite, Metelmi editore, Roma 2005; PUCCINI S., Il corpo, la mente e le passioni, CISU, Roma 2006. Per quel che riguarda la Società Romana di Antropologia e la sua vicenda storica deve essere segnalato innanzi tutto il numero 71 della «Rivista di antropologia» del 1993 dedicato al centenario della fondazione della società. Un utile strumento per orientarsi nel quadro delle pubblicazioni promosse dalla Società Romana può essere il repertorio redatto dal messicano COMAS J.,La antropología italiana a través del Istituto Italiano di Antropologia, Universidad Nacional Autónoma de México – Instituto de Investigaciones Históricas, 1978. Un quadro d’insieme delle ricerche europee sulla razza in ambito scientifico / naturalistico e dei nuovi paradigmi interpretativi sul problema si trova ricostruito in BARBUJANI G., L’invenzione delle razze, Bompiani 2006. Una ricostruzione del movimento positivista in Italia si trova, invece, in DE LAURI A., La patria e la scimmia. Il dibattito sul darwinismo in Italia dopo l’Unità, Biblion edizioni 2010, mentre per il movimento eugenetico in cui sfociarono molte delle prime ricerche antropologiche sulla razza si vedano almeno: VOLPONE A., Giuseppe Sergi, “champion” of darwinism?, in «Journal of antropological sciences» 2010; CASSATA F., Molti, sani e forti. L’eugenetica in Italia, Bollati Boringhieri, 2006. L’eredità che il dibattito Ottocentesco lasciò al fascismo italiano è ricostruita in CASSATA F., La difesa della razza. Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista, Einaudi, 2008.

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Per l’avvento del darwinismo in Italia si può indicare una data di nascita precisa,

individuabile nell’11 gennaio 1864, giorno in cui il professor Filippo de Filippi, dal

1848 titolare della cattedra di zoologia dell’università di Torino, pronunciò durante una

lettura pubblica serale dedicata a temi di carattere scientifico una celebre lezione

intitolata L’uomo e le scimmie. L’intento di De Filippi era quello di dimostrare la

maggior affinità che intercorre tra uomo e primati antropomorfi rispetto a quella tra

questi ultimi e le altre scimmie non antropomorfe seguendo, a questo scopo, la

dimostrazione proposta da Huxley in Evidences of man’s place in nature pubblicato nel

1863, dunque solo un anno prima della lezione torinese. La lettura suscitò, come è facile

immaginare, un immediato dibattito, del quale sono indice le tre edizioni ottenute tra il

1864 e il 1865 dal testo a stampa della relazione; essa fece di Torino il centro di

diffusione dell’evoluzionismo in Italia, cui contribuì anche l’impegno di divulgazione

ad opera della casa editrice UTET e, dopo la morte di De Filippi (avvenuta ad Hong

Kong nel 1867, lo studioso vi era giunto a bordo della Magenta), dell’allievo Michele

Lessona che ne prese il posto alla cattedra di zoologia60.

Per quel che riguarda la diffusione degli scritti dei maestri anglosassoni vale la

pena ricordare anche la prima edizione italiana dell’opera di Darwin dal titolo

Sull’origine delle specie per elezione naturale ovvero conservazione delle razze

perfezionate nella lotta per l’esistenza (1865), che seguì di un solo anno la celebre

conferenza; traduzione e introduzione furono opera di Giovanni Canestrini61 e Leonardo

Salimbeni, il primo dei quali venne chiamato alla cattedra di antropologia istituita

presso l’università di Padova negli anni 1878- 1879. Proprio Giovanni Canestrini fu,

inoltre, tra i fondatori assieme a Enrico Morselli, Giuseppe Sergi, Roberto Ardigò62 e

Gerolamo Boccardo della «Rivista di filosofia scientifica»63, il cui primo numero uscì

nel 1881 (continuò ad uscire fino al 1890) e che divenne uno dei luoghi privilegiati di

60 DE FILIPPI F., L’uomo e le scimmie, lezione pubblica detta in Torino le sera dell’11 gennaio 1864, ed. Museo di Anatomia Umana dell’Università di Torino, 2009 61 Per un commento sul darwinismo di Canestrini e di Moreselli e la persistenza di alcuni postulati lamarckiani si veda VOLPONE A., Giuseppe Sergi, “champion” of darwinism?, cit. Landucci osserva come anche in seguito, verso la fine del XIX sec., in Italia Lamarck “tornasse di moda per completare Darwin”; si veda LANDUCCI G., Darwinismo e nazionalismo, in La cultura italiana tra ‘800 e ‘900 e le origini del nazionalismo, Leo S. Olschki editore, Firenze, 1981 cit pp. 174 – 175. 62 Ardigò è stato definito da A. Asor – Rosa “uno dei più autentitici positivisti”. ASOR ROSA A., La Cultura. Creazione e assestamento dello Stato Unitario (1860 – 1887), in Storia d’Italia dall’Unità a oggi, vol. 4, Einaudi, Torino 1975 p. 881 63 Sulla «Rivista di filosofia scientifica» come organo del positivismo si veda in particolare LANDUCCI

G., Darwinismo e nazionalismo cit.

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dibattito e di diffusione del positivismo e del darwinismo nel nostro paese

caratterizzandosi anche per una grande apertura multidisciplinare. Anche il darwinismo

sociale giunse in Italia attraverso la mediazione di un antropologo, Giuseppe Sergi, che

due anni dopo la pubblicazione originale del 1879, curò l’edizione di The data of ethics

di Spencer64 e divenne poi tra i fondatori della «Rivista italiana di sociologia»65 che,

come ricorda Giovanni Landucci, “dal 1897 ebbe una certa diffusione e ospitò

importanti contributi non solo di studiosi italiani (…) ma anche studiosi stranieri”66.

Nella rivista venne data attenzione al darwinismo sociale, ma fu lasciato spazio a tutte le

opinioni, sebbene in taluni casi, come successe ad esempio per De Lapuge che

presentava idee sull’antropologia in contrasto proprio con le teorie del Sergi, la

direzione si sentì in dovere di prendere le distanze attraverso una nota ai piedi

dell’articolo67. Da questo momento in poi positivismo e darwinismo procedettero

assieme nel definire metodo e prospettiva di osservazione che fecero propri gli

antropologi italiani, sebbene in molte delle loro opere si manifestasse un persistente

influsso della teoria dell’ereditarietà pre - darwinista proposta da Lamarck; tale

persistenza, però, non è da considerare come una contraddizione insanabile bensì è da

ascriversi anch’essa al clima culturale dell’epoca68.

Una volta accertata l’appartenenza dell’uomo al regno animale e venuto in tal

modo meno quel privilegio originale che voleva l’essere umano creatura a sé stante,

separata e innalzata sul resto della creazione, restava allo scienziato il compito di

precisare il posto dell’umanità nella grande catena dell’essere, come affermava Huxley:

“il problema (…) che ci interessa più profondamente di ogni altro è lo stabilire quale

posto l’uomo occupi nella natura”69. Ma, assieme al ritrovato posto dell’uomo nella

natura, anche grazie a un’osservazione dell’umanità che si voleva fondata sulle basi

64 SPENCER H. Le basi della morale, traduzione con introduzione di Giuseppe Sergi, Milano, 1881. Ad essa farà seguito nel 1886 una seconda edizione italiana sulla base di quella inglese riveduta uscita nel 1884 sempre a cura del Sergi. 65 Sulla «Rivista Italiana di Sociologia» si vedano RAVELLI M., Comunità politiche e scienza nella«Rivista Italiana di Sociologia» di Guido Cavaglieri, in La sociologia politica in Italia, a cura di LOSITO

M., Franco Angeli editore, Milano, 2000 pp. 76 - 97 e LANDUCCI G., cit.66 Ibd. p. 172. Tra gli altri la «Rivista Italiana di Sociologia» ospitò contributi di Pullé, Pareto, Loria, Labriola, Croce, Salvemini, Ciccotti, dello stesso Sergi; tra gli stranieri Gumplowicz, Ratzel, Durkheim, De Lapouge. 67 DE LAPOUGE, Le leggi fondamentali dell’antropologia, RIdS I, fasc. III, 1897 pp. 305 – 331 (la nota della direzione si trova a p. 305). 68 VOLPONE A., Giuseppe Sergi, “champion” of darwinism? Cit. 69 HUXLEY T., Evidences of man’s place in nature, s.n, London, 1863

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della zoologia e della biologia, dunque una visione naturalistica o perlomeno intesa

come tale, si andava formando la convinzione che anche le differenze tra i vari esseri

umani fossero naturali e che, dunque, determinassero il posto che i differenti gruppi

umani occupavano nella scala dell’evoluzione biologica e in quella culturale. È in

quest’ottica di fede nelle possibilità della scienza di indagare e descrivere in modo

efficace la realtà naturale e, dopo le prove offerte da Darwin e dagli altri evoluzionisti,

anche quella umana, che va inquadrata l’adesione degli antropologi di questo periodo,

non solo quelli italiani, a una sistematica di stampo razzista. Le apparentemente

ineliminabili differenze fisiologiche, culturali, linguistiche ecc. che intercorrono tra

popoli differenti facevano presupporre, infatti, per i vari gruppi un’evoluzione e,

secondo alcuni studiosi, anche una origine differenziata nel corso di secoli e di millenni.

Tale molteplicità veniva, però, interpretata in un’ottica di separazione anziché di

incontro e, perciò, risultava facile e, ancora una volta, naturale, istituire un parallelo tra

gruppi umani e gruppi animali. Così si finì per accettare come un dato di fatto

indiscutibile l’esistenza di insiemi di persone tra loro affini e dalle altre nettamente

distinte, le razze appunto.

Tu li hai veduti, – così scriverà nel 1876 Paolo Mantegazza in una lettera etnologica a Enrico Giglioli pubblicata come prefazione al Viaggio della Magenta attorno al globo di cui quest’ultimo era autore – quanto siano diversi gli uni dagli altri, come alcuni siano altissimi ed altri bassi; alcuni lanuti, altri come i capelli come le setole del porco; gli uni negri, gli altri bianchi, gli altri di tutte le tinte che stanno tra il guscio di una castagna e la buccia di una fava secca; gli uni fratelli di Byron, gli altri poco più che scimmie.70

Il positivismo scientifico ebbe nella ricerca antropologica un ruolo centrale

anche in relazione a quelle che furono le metodologie di indagine utilizzate, mentre il

darwinismo risultò, invece, fondamentale per stabilire l’oggetto (o gli oggetti: fossili

umani e popoli contemporanei ecc.) da indagare, entrambi contribuendo a definire lo

statuto della disciplina in Italia che, come nel resto d’Europa, veniva allora compresa

nell’insieme delle scienze naturali71:

70 MANTEGAZZA P., L’uomo e gli uomini, in AAE VI, 1876 p. 37 71 La prima cattedra di antropologia presso un facoltà di scienze venne istituita nel 1884 su insistenza di Giuseppe Sergi all’università di Roma La Sapienza.

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Il metodo che informa oggidì lo studio dell’uomo è essenzialmente sperimentale, giacché l’antropologia è considerata qual parte delle scienze naturali e biologiche. Così gli strumenti e i processi di indagine usati dall’antropologo non si differenziano da quelli dell’anatomico, del fisiologo e del naturalista.72

Così scrisse nel 1884 Enrico Morselli, già ricordato tra i fondatori della Rivista di

filosofia scientifica, incaricato di redigere le istruzioni utili per l’allestimento del

padiglione di antropologia all’Esposizione Universale di Torino del 1884.

Con tali presupposti la definizione dell’indagine antropologica risultava

immediata: essendo necessario procedere come un naturalista, dovevano essere indagate

le caratteristiche umane misurabili, definibili in modo puramente quantitativo e, perciò,

ci si concentrò sull’aspetto materiale piuttosto che sulla produzione culturale la quale, lo

si vedrà in seguito, trovò la propria legittimazione nella fisiologia umana. Continuando

la lettura del già citato articolo di Morselli leggiamo, infatti, che gli strumenti usati

dall’antropologo avevano lo scopo di “misurare, pesare e raffrontare i caratteri

morfologici umani” e, a tal fine, dovevano essere “strumenti esatti”73. Da ciò risulta

manifesto il motivo per cui l’antropologia dell’Ottocento si qualificò essenzialmente

come antropologia fisica nonostante in essa si possa rintracciare una curiosità che

andava oltre il semplice elemento fisico, si pensi alle raccolte di cultura materiale e agli

studi sulle superstizioni promossi in questi anni; il motivo che spinge a qualificare in tal

modo la disciplina è il fatto che ogni aspetto dell’umano veniva ricondotto a una

spiegazione di tipo biologico. Inutile chiedersi lo scopo finale delle misurazioni

antropometriche: esse miravano a individuare e definire i caratteri propri di ciascuna

razza e a creare delle “mappe” della diffusione di queste all’interno e fuori della

nazione.

Dunque il positivismo si manifestò in antropologia innanzitutto attraverso

l’adozione di un metodo scientifico – quantitativo. Restava da definire un problema: che

cosa andava misurato? L’uomo rimaneva pur sempre un animale particolare,

distinguibile dagli altri mammiferi per la sua capacità di creare oggetti, “perché l’uomo

incomincia là dove un cervello animale aggiunge agli organi datigli dalla natura un

72 MORSELLI E., Programma speciale delle scienze di antropologia, in AAE, XIV, 1884 p. 124 73 Ibid.

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organo nuovo, che è arme o strumento; che è scheggia di pietra o palo di palafitta”74.

Così l’attenzione degli studiosi si andò focalizzando sull’elemento che meglio

rappresenta tale caratteristica: l’organo del pensiero, il cervello. Tuttavia l’analisi

cerebrale, nonostante i molti tentativi di sezionare le singole parti della materia

neuronale, alcuni dei quali svolti proprio presso il dipartimento di anatomia

dell’università di Torino, risultava ancora complessa e nient’affatto utile allo scopo

anche per la notevole difficoltà di conservazione che caratterizza tutti gli organi molli.

Era nota, però, la correlazione esistente tra organi molli e i loro “involucri” ossei per

quel che riguarda forma, dimensione ecc., senza scordare un altro vantaggio innegabile

che presentava lo studio dello scheletro umano: quello di poter procedere a confronti su

scale temporali che raggiungono le centinaia di migliaia di anni!75 Dunque, il passo da

fare per trovare l’oggetto d’indagine che gettasse luce sull’umanità e la sua storia

risultava assai breve: la ricerca si andò concentrando, infatti, sull’analisi del cranio nelle

sue diverse forme e dimensioni. Ecco la spiegazione di tale scelta nelle parole di

Giuseppe Sergi:

Noi quindi posti nella necessità di scegliere il più importante e il più utile dei caratteri interni per la classificazione (…) troviamo i maggiori vantaggi nel cranio umano, intorno a cui raggruppiamo tutti gli altri caratteri interni ed esterni per avere il tipo etnico completo. Si aggiunga che, accettando il cranio come principale carattere interno, noi implicitamente accettiamo il cervello nelle sue varie forme: e il cervello è il più importante organo tra gli organi dell’uomo.76

Per rendere più rigorosa l’indagine della conformazione cranica vennero

introdotte nuove tecniche antropometriche e nuovi strumenti. Troviamo impegnati su

questo fronte, che diremmo quasi ingegneristico, anche alcuni tra gli antropologi italiani

i quali, seguendo le orme di Retzius e Broca, proposero nuovi parametri da rilevare e

nuove apparecchiature: Sera propose un orbitostato, Frasetto un “goniometro

autoproiettore per la misura del prognatismo facciale”, elemento questo che suscitava

molto interesse in una rappresentazione “a scala” che conduceva dalle scimmie

74 MANTEGAZZA P., L’uomo e gli uomini, in AAE VI, 1876 p. 37 75 Questo fatto si rivelerà di fondamentale importanza per la ricerca antropologica stabilendo anche la base per un dialogo con altre discipline di carattere storico: dalla linguistica, all’archeologia alla storia propriamente detta. 76 SERGI G., 1893 cit. in CRESTA M., DESTRO – BISOL G., MANZI G., Cent’anni di antrpologia a Roma, in «Rivista di antropologia» 71, 1993 p. 13

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all’uomo “bianco”77, oltre ad alcuni craniostati, ed altri ancora78. Anche Giuseppe Sergi

che, come si vedrà in seguito, si sarebbe pronunciato a favore di un metodo intuitivo –

morfologico che si emancipasse dalle cifre e dall’eccesso di misurazione matematica,

propose a sua volta l’introduzione di alcuni nuovi strumenti di misura79. Dunque le

pratiche antropometriche rimasero un fattore significativo della ricerca antropologica

italiana dalla sua fase germinale negli anni Settanta – Ottanta del XIX secolo fino

almeno alla metà del secolo successivo80 nonostante la tendenza degli antropologi del

nostro paese a criticare, anche aspramente, gli eccessi di misurazione cui facevano

ricorso molti antropologi europei.

Ma l’antropometria anche in Italia non si limitava alla misurazione delle ossa.

Secondo la maggioranza degli studiosi, infatti, al fine della determinazione della razza

oltre ai caratteri interni, essenzialmente quelli scheletrici, andavano quantificati,

misurati e confrontati tra loro secondo i dettami del positivismo scientifico anche quei

caratteri esterni sulla base dei quali da lungo tempo venivano costruite le principali

classificazioni umane: il colore della pelle, quello dei capelli e quello degli occhi. Per

dare veste scientifica alla determinazione di tali qualità era necessario ideare un metodo

quantitativo non più basato semplicemente sui simboli maggiore / minore. Se, infatti,

poteva risultare immediato stabilire chi tra due individui presentasse una pigmentazione

più scura ad esempio della pelle, riportare tali osservazioni in una forma che

permettesse un confronto rigoroso tra gruppi numerosi richiese l’invenzione di tavole

comparative universali. In questo modo lo scienziato era invitato a servirsi di modelli

standardizzati con cui paragonare la colorazione di pelle, occhi, capelli dei singoli

soggetti studiati e poteva, quindi, riportare in una tabella sotto forma di sigle o numeri la

tonalità più somigliante tra quella osservata e quelle rappresentate nelle tavole

77 A questo proposito si vedano i capitoli seguenti. 78 FACCHINI F., L’antropologia in Italia: nascita e sviluppo (fino alla metà del ‘900) in RdA 71 (1993) pp. 43 - 53 79 Si vedano: FRASETTO F., Antropometro a bilancere con movimenti multipli, RdA XXV, 1923, pp. 143 – 147; FRASETTO F. e FANESI F., Di un nuovo craniostato con movimento compensato, RdA XVI, 1911 pp. 133 – 136; SERA G. L., Un nuovo orbitostato, RdA XV, 1909 pp. 309 – 312; SERGI G., Uno strumento per misurare nel cranio l’altezza auricolo – bregmatica, RdA XVI, 1911, p. 143 80 Testimoniano come l’interesse per la strumentazione antrometrica fosse ancora desto negli anni ’40 e ‘50 del Novecento alcuni articoli pubblicati sulla RdA tra i quali ricordiamo almeno: FERRIO C., Proposta di un tavolo antropometrico di nuovo modello, RdA XXXII, 1939, pp. 181 – 188; CORRENTI V., Il malachistometro (nuovo apparecchio per la misura delle parti molli), RdA XXXV, 1947, pp. 439 –442; SERGI S., Modelli più recenti del mio diagrafo ad uso della cranio - osteografia, RdA XXXVIII, 1951, pp. 197 – 203.

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campione. Seguendo questo metodo anche le caratteristiche qualitative dell’essere

umano venivano registrate in forma quantitativa mediante un simbolismo matematico

puntuale il quale permetteva di operare confronti statistici attraverso il calcolo della

moda e della varianza e di stabilire con precisione il range di variazione all’interno del

campione studiato anche tra gruppi distanti geograficamente e, talvolta, anche

temporalmente. Grazie alla internazionalizzazione di tale metodologia si riuscì a mettere

a disposizione di tutta la comunità antropologica una mole gigantesca di dati facilmente

interpretabili e non altrettanto facilmente falsificabili. È chiaro, infatti, che se si fosse

avuto qualche interesse politico a stabilire la prevalenza di un carattere in una data

popolazione, allo scopo di definirne l’appartenenza o non appartenenza ad una certa

razza81, l’utilizzo di una dizione generica avrebbe permesso di far leva sulle sfumature

di colore. Una volta reso univoco il nome/significato antropologico da attribuire alle

singole tonalità tale attribuzione su base ideologica sarebbe risultata, invece,

difficilmente proponibile alla comunità scientifica nazionale ed internazionale [si

vedano le figure 1, 2, 3 nell’appendice iconografica].

Si nota, dunque, come lo sforzo di rendere misurabile ogni caratteristica del

corpo umano assorbisse una parte considerevole delle energie dei primi antropologi,

inclusi quelli italiani. Nonostante ciò, come accennato in precedenza, il metodo

quantitativo non venne del tutto accolto dai capiscuola dell’antropologia in Italia: sia

Mantegazza che Sergi finirono per criticare aspramente l’eccesso di misurazione, cui si

era giunti soprattutto in Francia. Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90

dell’Ottocento essi si pronunciarono, infatti, a favore di un approccio tipologico –

morfologico per lo studio del cranio umano, basato sulla forma apparente assai più che

sulle cifre. Il rifiuto della craniometria quale metodo unico per la determinazione del

tipo, espresso con decisione dal Mantegazza a partire dal 1880 e ripreso qualche anno

dopo dal Sergi, si spiega facilmente se si tiene conto delle proposte estreme cui giunsero

in quegli anni e nei successivi altri antropologi europei: nel 1890, solo dieci anni dopo

le critiche espresse dal Mantegazza, uno dei maggiori fautori di un’analisi basata

unicamente sulle cifre, A. von Torok, propose di portante a oltre settemila le

misurazioni antropometriche. In base a tali misurazioni von Torok stabilì l’esistenza di

81 Si pensi alla nota vulgata che finiva per identificare i biondi con la razza ariana.

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duecentoottantaduemiliardi di varietà umane classificabili. È chiaro che si tratta di cifre

che creerebbero imbarazzo anche nel più acceso sostenitore dell’antropometria!

La scuola italiana, forse sulla scorta di un maggiore idealismo, si mostrò nel

complesso più cauta, preferendo accostare alle misurazioni lineari e angolari, ritenute

insieme “eccessive e insufficienti”82, un’analisi descrittiva basata sull’idea che “la

forma sia assai più importante che le cifre (…) senza però dimenticare che le misure

non sono che elementi della forma”83.

Sulla stessa linea del Mantegazza si collocarono il Sergi e la sua scuola:

a me sembra che la craniometria, oggi divenuta cabalistica, specialmente in Francia, per abuso di misure e di cifre numeriche, non può servire a distinguere razze, gruppi umani, comunque si voglia denominarli. (…) A me sembra (…) e dopo che anch’io ho adoperato la craniometria in mancanza di meglio, che sarebbe tempo di stabilire pel nostro scopo, e per lo studio dell’uomo nelle sue variazioni, un metodo naturale, non diverso da quello in uso per la zoologia e la botanica.84 (corsivo mio)

Il metodo del Sergi fu, dunque, un metodo comparativo – morfologico, ma che non

ripudiò completamente la craniometria come vedremo approfonditamente nel prossimo

capitolo85.

2. POLIGENISMO E MONOGENISMO

Accettata l’applicabilità della legge dell’evoluzione all’uomo e stabilito che gli

uomini appartengono a gruppi tra loro distinti, risulta necessario guardare all’origine di

tali differenze e, in particolare, se essa sia unica, uguale per tutti, oppure se i diversi

82 MANTEGAZZA P., La riforma craniologica, AAE, X, pp.127 seg. 83 Ibid. 84 CRESTA M., DESTRO – BISOL G., MANZI G., Cent’anni di antrpologia cit. p. 13 85 È qui opportuno solo ricordare che il conflitto sorto tra Sergi e Mantegazza riguardo la classificazione da adottare (scoppiato a seguito della presentazione del nuovo metodo sergiano) porterà allo “scisma” interno all’antropologia italiana e alla fondazione di una seconda società antropologica, quella romana presieduta dallo stesso Sergi. A questo proposito si veda PUCCINI S., L’antropologia a Roma tra Giuseppe e Sergio Sergi, in «Rivista di antropologia» 71, 1993, pp. 230 - 231 e POGLIANO C., L’incerta identità dell’antropologia, in «Rivista di antropologia» 71, 1993 p. 37

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raggruppamenti abbiano avuto origini anch’esse distinte: bisognava cioè chiedersi se

fosse mai esistito sulla terra un antenato comune a tutta l’umanità oppure no.

Attorno alla metà dell’Ottocento James Cowels Prichard, laureato in medicina

all’università di Edimburgo nel 1808, venne elaborando la teoria che starà alla base

della cosiddetta “monogenesi”, non senza cedere ad echi veterotestamentari:

egli venne via via rielaborando la metafora dell’albero le cui terminazioni (le tribù) risultano collegate da una serie di più robusti rami (le razze) al tronco (l’unica specie umana) localizzabile nei pressi del luogo, asiatico, dove l’arca di Noè si sarebbe trovata al deflusso delle acque diluviane.86

Quest’accenno all’origine asiatica dell’umanità entrò quasi come un dogma nel dibattito

sulle origini (lo ritroveremo immutato nella querelle attorno alla primitiva sede degli

ariani) ed ebbe un’eco anche in Italia, dove tale teoria verrà respinta con forza proprio in

virtù della sua ascendenza biblica87 da Giuseppe Sergi.

La teoria delle origini multiple, denominata “poligenismo”, venne invece

sostenuta da Paul Broca e fu proprio questa convinzione che portò alla fondazione della

Société d’Antropologie di Parigi88. Chi sosteneva questa posizione riteneva che i diversi

gruppi umani avessero avuto origine in momenti e luoghi diversi tra loro e si fossero

evoluti lungo percorsi differenti restando in tal modo distinti per tutto il corso della loro

storia; questi gruppi, aventi ciascuno una storia evolutiva indipendente, risulterebbero

costituire vere e proprie specie la cui distanza delle une dalle altre risulta, dunque,

incolmabile. L’adesione all’una o all’altra teoria discendeva direttamente da quello della

definizione attribuita dai singoli studiosi alla parola specie, come mostra di avere chiaro

già Paolo Mantegazza nel 1876:

la questione mi sembra infatti ridotta a questi precisi termini: voi mi chiedete oggi, se vi siano molti Adami o uno solo ed io rispondo subito: secondo la definizione della specie che esigerete da me, io sarò monogenista o poligenista.89

86 POGLIANO C., L’incerta identità cit. p.32 87 Vale la pena ricordare che le certezze bibliche riguardo l’origine dell’uomo vengono scosse in quegli anni anche dal ritrovamento di fossili umani sul territorio europeo la cui datazione non risulta più compatibile con i seimila anni sanciti dalla Bibbia ponendo in crisi anche la teoria del catastrofismo. 88 POGLIANO C., L’incerta identità cit. 89 MANTEGAZZA P., L’uomo e gli uomini, cit.

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Il problema della definizione di specie presenta una complessità tale per cui risulta

ancora ampiamente dibattuto all’interno della comunità scientifica90. All’epoca di

Mantegazza la teoria darwiniana aveva contribuito a superare uno dei presupposti su cui

si basava la definizione essenzialista, cioè quello dell’immutabilità della specie,

ammettendo al contempo che questa non descrivesse un gruppo uniforme al proprio

interno; tuttavia neanche nell’opera di Darwin è presente una chiara definizione di che

cosa in concreto si dovesse intendere con questa categoria. Lo stesso Mantegazza, nella

lettera a Giglioli pubblicata nell’Archivio, pur ammettendo la difficoltà del problema,

ne riconosceva in fondo l’importanza non rinunciando a dare una propria definizione.

Vale la pena ricordarla:

la specie è quel gruppo de (sic!) individui formati per elezione naturale e per concorrenza vitale, che tende per eredità a trasmettere inalterato il proprio tipo. I mutamenti di forma che permettono la fecondazione indefinita fra i diversi individui sono varietà o razze, secondo che sono più o meno permanenti.91

E di seguito:

finchè dunque la scienza non mi provi con tutto il rigore della critica, che vi sono uomini fisiologicamente sterili fra loro, io credo che tutti quanti possiamo crederci individui di una sola specie, pur ammettendo che tra razza permanente e specie piccolissima o nessuna sia la differenza.92 (corsivo dell’autore)

È manifesta l’ambiguità della risposta del Mantegazza: le razze esistevano e

consisterebbero, concordemente al principio della variabilità intraspecifica proposto da

Darwin, nei “mutamenti di forma”; nonostante ciò tra quella che l’autore definisce

“razza permanente” – cioè temporalmente conservata – e la specie non esiste una

distinzione apprezzabile: dunque quello del Mantegazza appare un monogenismo più

desiderato che provato. Tale aspirazione muoveva, probabilmente, da un desiderio di

universalismo umanitario come traspare in modo evidente da un altro passo del

medesimo scritto:

90 CONSIGLIERE S., Il concetto di specie dall’essenzialismo ala teoria dell’evoluzione, in «Rivista di antropologia» 76, 1998 pp. 157 - 169 91 MANTEGAZZA P., L’uomo e gli uomini, cit. p.33 92 Ibid. p. 33

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Assai più importante che affermarsi mono o poligenista, affermare se siano tre, o cinque o cento le razze umane, (…) è dichiarare se si crede o no in una universale fratellanza umana, se si può o no affermare una grande famiglia umana. E questa famiglia esiste; esiste per la scienza come per la morale e la storia.93

A riprova di ciò il direttore dell’Archivio per l’antropologia e l’etnografia utilizzava un

argomento che ricalcava quello celebre di Huxley sull’uomo e le scimmie

antropomorfe; sostiene il Mantegazza:

Se l’uomo non ha caratteri anatomici importanti ben distinti da quelli delle scimmie antropomorfe, gli uomini si rassomigliano fra di loro assai più che non gli uomini alle scimmie.94

Questo fatto troverebbe conferma dal “moto di simpatia”95 (affetto o paura) del tutto

peculiare provato da ogni uomo al momento di incontrare un altro uomo, una simpatia

che nel Mantegazza andava assumendo i caratteri dell’antropofilia, benché egli non

fosse affatto estraneo a un’ideologia di stampo marcatamente razzista. Abbiamo dunque

visto come il Mantegazza fondasse la propria argomentazione a favore del

monogenismo sulla convenzione della validità di tale somiglianza / simpatia, ipotesi

ritenuta da lui sufficiente almeno fintanto che la scienza non avesse provato l’esistenza

di esseri umani tra loro sterili. Paradossalmente Giuseppe Sergi utilizzava un argomento

speculare per affermare la validità del proprio poligenismo: egli si diceva convinto che

non fosse affatto provata l’indefinita fertilità di individui appartenenti a gruppi umani

differenti, nonostante l’esempio delle comunità creole portato sovente contro di lui96.

Secondo Sergi non sarebbe, infatti, provato che i componenti di tali comunità o dei

gruppi originari da cui questi discenderebbero fossero effettivamente appartenenti a

specie diverse non essendo queste ultime definibili attraverso caratteri puramente etnici.

Sulla classificazione delle specie umane proposta dal Sergi torneremo

ampiamente in seguito, vediamo ora le altre prove che egli portava a sostegno di

un’origine multipla dell’umanità. Rispondendo alle critiche mosse da Giuffrida -

Ruggeri al suo ultimo lavoro (Europa, 1908), ne L’apologia del mio poligenismo

93 Ibid. p. 36 94 Ibid. p. 36 95 L’espressione è dello stesso Mantegazza 96 BOAS Franz, The cephalic index, in «American Anthropology» 1, 1899 pp. 448 - 461

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apparso nel volume XVI della «Rivista di Antropologia», Giuseppe Sergi applicava

all’uomo i principi della zoologia accusando gli antropologi di fare invece dell’uomo un

animale a sé stante. Egli cominciava la propria argomentazione ricordando come anche

Darwin avesse sostenuto l’identità tra specie e varietà qualora quest’ultima possedesse

una distribuzione geografica molto vasta. Tuttavia l’argomento fondamentale usato in

questo articolo era di tipo paleoantropologico: Sergi sottolineava, infatti, come l’uomo

di Neanderthal fosse da considerarsi inequivocabilmente appartenente a una specie

umana diversa da quella attuale. Nel corso della sua dimostrazione il Sergi dimostrava

di avere un’idea statica della specie, la quale risulterebbe essere il prodotto di un salto

evolutivo e non di un lento accumularsi di modifiche nei caratteri, un’idea questa che gli

avrebbe permesso in più occasioni di negare la ricerca dell’anello mancante nella catena

dell’evoluzione umana. Egli appariva, al contempo, estremamente perspicace nel non

disegnare una linea evolutiva che dall’uomo di Neanderthal scendesse verso l’umanità a

lui contemporanea, nel non fare di questo un nostro seppur lontano progenitore. Nella

prospettiva del Sergi quella del Neanderthal risultava essere una linea interrotta, un

tronco - e non un ramo! - reciso della famiglia umana poiché da esso non deriverebbe

alcuno dei caratteri dell’uomo attuale anticipando, seppure in maniera del tutto casuale,

alcuni risultati delle moderne scoperte fatte sulla base dell’analisi genica97.

Abbiamo messo in luce fino a ora alcuni punti nodali del dibattito che hanno

fatto seguito al recepimento del darwinismo, passiamo quindi ad analizzare un altro

aspetto del clima politico e culturale in cui si sono trovati ad operare gli antropologi nei

primi anni dello sviluppo della disciplina nel nostro paese.

3. L’UNITÀ NAZIONALE

Si è visto come le teorie di Huxley, Darwin e Spencer raggiunsero l’Italia negli

anni immediatamente successivi a quelli che conobbero le guerre combattute in nome

dell’Unità della Penisola. Risulta, dunque, evidente come il clima politico e sociale nel

quale si trovarono immersi i principali interpreti della stagione darwinista, tra i quali

possiamo annoverare i principali membri della scuola antropologica italiana, fosse

97 BARBUJANI G., Europei senza se e senza ma, Bompiani, 2008

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fortemente condizionato dagli eventi e dagli ideali del Risorgimento. È, quindi,

necessario cercare di capire come il quadro socio – politico abbia influito sugli studi

antropologici nel nostro Paese. A questo proposito si è già accennato alla possibilità,

aperta dal conflitto con la chiesa romana, di superare il dogmatismo cattolico, tuttavia

essa non meriterebbe di essere menzionata tra gli elementi che contribuirono alla

fondazione della disciplina in Italia se il suo ruolo si fosse limitato a questo.

Vi è senza dubbio anche un elemento biografico comune ai due maestri

indiscussi dell’antropologia italiana di questo periodo che contribuisce a rafforzare la

tesi secondo la quale l’ideologia unitaria giocò un ruolo importante, anche se non

sempre esplicitato, nella formulazione delle linee guida della ricerca e delle sintesi che a

essa fecero seguito nel primo periodo di sviluppo dell’antropologia nel nostro paese.

Infatti entrambi i fondatori delle scuole antropologiche in Italia, quella Fiorentina e

quella Romana, Paolo Mantegazza e Gioseppe Sergi, vissero in prima persona alcune

delle vicende sulle quali si fonda l’epica del Risorgimento: Mantegazza, ancora ragazzo,

nel marzo del 1848 si trovava sulle barricate, tra coloro che avevano spinto gli austriaci

a ripiegare verso il Quadrilatero, mentre il giovane messinese Giuseppe Sergi interruppe

gli studi per seguire Garibaldi combattendo al suo fianco a Milazzo98. Ma, oltre a

segnare l’orizzonte biografico e culturale di molti studiosi nel quadro della costruzione

dello stato unitario con tutto il suo portato paradigmatico, lo Stato ebbe anche un ruolo

attivo nella nascita della disciplina. Se è vero che alcune opere di antropologia

precedettero il 1871 - data che si suole indicare per designare la nascita

dell’antropologia italiana, si pensi a Le razze umane del 1858, opera del decano

dell’antropologia italiana Giustiniano Nicolucci, oppure a Del tipo brachicefalo degli

italiani moderni del 1868 di Luigi Calori, così come le prime cattedre universitarie

allora istituite nelle Facoltà di Lettere risalgono agli anni sessanta (al 1860 quella di

Pavia ricoperta da Giuseppe Vincenzo Giglioli, al 1862 quella di Torino ricoperta da

Cesare Lombroso e al 1869 quella di Firenze ricoperta da Paolo Mantegazza99), è senza

dubbio condivisibile l’opinione secondo la quale l’atto fondativo della disciplina sia

98 POGLIANO C., L’incerta identità dell’antropologia cit. 99 Per la cronologia relativa all’istituzione delle prime cattedre di antropologia nelle università italiane si veda FACCHINI F., L’antropologia in Italia: nascita e sviluppo (fino alla metà del ‘900), in «Rivista di antropologia» 71, 1993. Anche POGLIANO C., L’incerta identità dell’antropologia cit.

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avvenuto a Firenze nel 1871 e che si sia realizzato con l’appoggio istituzionale100. Dal

1869, infatti, su consiglio di Pasquale Villari101 il Ministro Bargoni aveva chiamato alla

cattedra fiorentina da Pavia, dove deteneva l’insegnamento di patologia, Paolo

Mantegazza il quale, seguendo l’esempio della Société d’Antropologie fondata nel 1858

a Parigi da Paul Broca, fondò proprio a Firenze la Società Italiana di Antropologia e di

Etnologia nell’anno 1871. Assieme alla fondazione della Società venne creata una

rivista, l’ «Archivio per l’antropologia e l’etnografia» (dove con etnologia si voleva

intendere lo studio dei gruppi etnici, cioè delle razze umane102). Si procedette anche ad

allestire un Museo antropologico. Fu grazie a queste istituzioni che l’antropologia

ottenne il riconoscimento di disciplina autonoma meritevole di attenzione da parte delle

istituzioni e della comunità scientifica. L’importanza dell’istituto fiorentino venne

riconosciuta anche da Giuseppe Sergi, il fondatore della rivale Società Romana, quando

nel necrologio composto nel 1910 per Paolo Mantegazza scrisse:

ma ancora dei meriti del Mantegazza bisogna ricordarne uno, (…), voglio dire il merito che gli si deve attribuire per la fondazione della cattedra di antropologia nell’istituto di studi superiori di Firenze. Al 1870 in nessuna università di Europa, esisteva un insegnamento di cotesta scienza nuova. Broca aveva già fondato a Parigi la Società di Antropologia, e quasi nello stesso tempo una società dello stesso tipo e con lo stesso scopo nasceva in Germania; in Italia nulla di questo esisteva. Mantegazza primo in Italia e in Europa fu professore ordinario di antropologia e di etnologia, e rimase unico in questo insegnamento per molti anni.103

Nell’attribuire al Mantegazza la prima cattedra europea di antropologia (attribuzione

peraltro non del tutto corretta) il Sergi sottolineava la svolta che tale avvenimento,

assieme alla nascita del museo e dell’«Archivio», aveva significato per lo sviluppo della

disciplina in Italia, riconoscimento che appare ancora maggiore poiché proveniva dal

fondatore della Società Romana, nata proprio dalla contrapposizione venutasi a creare

tra i due maestri104.

100 PUCCINI S., Il corpo, la mente e le passioni, Centro d’informazione per la stampa universitaria CISU, Roma, 2006 101 POGLIANO C., L’incerta identità dell’antropologia cit. 102 PUCCINI S., Il corpo, la mente cit. 103 SERGI G., Necrologio di Paolo Mantegazza, RdA, vol. XVI 1910, p. 425 104 PUCCINI S., L’antropologia a Roma tra Giuseppe e Sergio Sergi, in «Rivista di antropologia» 71, 1993

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Il collegamento tra la nascita e lo sviluppo delle discipline antropologiche in

Italia e l’Unità nazionale non si può, però, ridurre alla chiamata e all’appoggio ottenuto

da uno studioso illustre da parte di un ministro, tanto più visto il legame personale che

Mantegazza manteneva ininterrotto ormai da anni con i vertici della politica essendo

stato deputato dal 1865, senatore del Regno nel 1876, infine entrando nel Consiglio

Superiore di Sanità. Come ha messo in luce Sandra Puccini105, per riconoscerne

l’impronta nazionale è, però, sufficiente guardare al primo atto pubblico della Società

fiorentina il quale consistette nel lanciare un’inchiesta sui popoli italiani per mezzo

della quale si riconoscevano esplicitamente la storia e le origini differenziate delle

singole regioni che componevano il Regno. Superato ormai l’afflato romantico che

aveva spinto a ricercare gli elementi di unità a sfavore delle peculiarità locali, negli anni

Settanta diventava possibile guardare con maggior serenità alle differenze che

intercorrevano tra i vari popoli della penisola.

Come sostiene Puccini:

L’insistenza sulle “stirpi italiche”, il progetto di riconoscere e “misurare” le variegate e sparse origini, le molte radici etniche, dimostrano che dieci anni dopo l’unificazione – la ricerca di una identità nazionale è meno ardua e pressante e non richiede più di negare, tacere, omologare e livellare le differenze. Anzi. Esse possono - e devono - essere evocate come tema di indagine scientifica perché proprio la loro conoscenza consentirà alla vita sociale di svilupparsi armoniosamente e di prevenire i conflitti.106

Prevenire i conflitti: non erano stati infatti pochi i problemi e le tensioni cui la classe

dirigente italiana si era trovata davanti all’indomani dell’unificazione: criminalità,

brigantaggio, analfabetismo, industrializzazione e la conseguente nascita del movimento

operaio, diffidenza delle comunità locali ecc. Negli anni settanta dell’Ottocento lo stato,

attraverso l’appoggio diretto alla ricerca antropologica (che durerà, con alterne vicende,

fino alla fine degli anni ottanta107), contribuendo a sostenerne le iniziative e

considerando gli studiosi della nuova scienza come interlocutori privilegiati108 giocava

una nuova carta che partiva dalla presa di coscienza delle diversità tra nord e sud, tra

105 PUCCINI S., Il corpo, la mente cit. 106 Ibid. p. 26 107 Ibid. pp.71 seg. 108 Ibid.

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regione e regione. L’antropologia italiana, d’altra parte, si contraddistingueva per un

serrato dialogo con la psicologia in particolare, sulla scorta dell’attenzione ottenuta in

quegli anni dal problema della degenerazione, con la psicologia criminale la quale ebbe

in Cesare Lombroso il suo principale esponente. Lombroso, che fu un maestro celebrato

ben al di là dei confini nazionali, un “vero uomo di Genio” secondo la definizione che

ne dette Giuseppe Sergi nel necrologio apparso sul numero XV della «Rivista di

Antropologia»109, fu il padre dell’antropologia criminale, ramo degli studi antropologici

nel quale si manifestava più che negli altri campi di ricerca “la vocazione della scienza

“positiva” a farsi autorità sociale e consulente del potere politico”110. Allo stesso tempo

non mancò in Lombroso l’attenzione a problemi sociali non direttamente connessi con

l’ordine pubblico, ma inerenti lo stato di salute del popolo italiano: egli si occupò per

anni del problema della pellagra credendo infine di individuarne la causa nel mais

lasciato a marcire prima di essere macinato (e non nell’eccessivo peso che questo aveva

nella dieta di una parte della popolazione). L’attenzione allo stato di salute della

popolazione, ai problemi legati all’alimentazione111 e, in particolare, all’igiene, ma

anche all’educazione scolastica e alla lotta contro l’analfabetismo si riscontra facilmente

negli scritti comparsi sulle riviste di questo primo periodo post – unitario, ma senza mai

smettere di essere presente, anche se con maggiore o minore intensità a seconda dei

casi, nella produzione degli antropologi formatesi in questi anni alle scuole di Lombroso

e Mantegazza; il contributo portato da quest’ultimo in campo sanitario venne

riconosciuto anche dal Sergi nel 1910:

Contemporaneamente quasi [allo studio della fisiologia e della psicologia] il Mantegazza si dava allo studio dell’igiene, cui giustamente attribuì gran valore sociale e quando in Italia pochi erano i cultori e trascurata era l’igiene scientificamente e praticamente.112

Il Mantegazza igienista fu autore anche di un manuale e di alcuni almanacchi che

divennero il vade – mecum dei medici e anche di due testi dedicati all’educazione

109 SERGI G., Necrologio per Cesare Lombroso, RdA XV, 1909 110 CRESTA, DESTRO - BISOL, MANZI, Cent’anni di antropologia a Roma, cit. p. 11, 1993 111 Su questo punto si veda PUCCINI S., Il corpo, la mente cit., pp. 80 - 84 112 SERGI G., Necrologio di Paolo Mantegazza, in RdA XVI, p. 424, 1910

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sessuale (La fisiologia della donna e La fisiologia dell’amore), che all’epoca della loro

pubblicazione “sembrarono troppo arditi”113.

Da queste poche righe emerge già chiara la tendenza degli antropologi del

periodo, a cominciare dai maestri, a ricercare un ruolo attivo nei confronti di un ampio

strato della società cui l’igiene era sconosciuta o poco praticata e della quale non si

capiva l’importanza nella trasmissione delle malattie. In una società in cui la donna

restava ai margini, gli antropologi cercarono di valorizzarne il ruolo, sebbene non si

possa scordare quella corrente, che potremmo definire di razzismo di genere, cui

appartenevano gli stessi Lombroso e Sergi114, corrente decisamente avversa a

riconoscere al sesso femminile uguale status rispetto alla controparte maschile115.

Nonostante tutto, infatti, il genere femminile veniva considerato da tutti i grandi studiosi

di antropologia alla stregua di una parte degenerata della società, tanto che Giufrida –

Ruggeri, l’unico in quegli anni in Italia a contestare vivamente tali posizioni, arrivò ad

affermare polemicamente che, secondo i sostenitori del razzismo di genere, la donna si

sarebbe fermata a uno stadio evolutivo più basso rispetto all’uomo così che, al suo

stadio evolutivo completo, sarebbe dovuta essere un uomo116. Ricordiamo per inciso

come, però, l’impostazione fortemente ideologica e denigratoria con cui gli antropologi

guardavano al mondo femminile non impedì ad alcuni di loro di farsi anche osservatori

attenti del nascente movimento femminista117 e di esprimere parallelamente la necessità

di impartire un’educazione e una cultura alle donne118, seppur ammettendo che

dovessero essere limitate e conformi allo stato di inferiorità in cui si trovavano per

natura le destinatarie.

Particolare attenzione all’educazione, in linea con l’idea di progresso fisico,

sociale e morale tipica dell’utopia igienista della Belle Époque, venne dimostrata in

113 Ibid. p. 424 114 Giusepe Sergi è l’autore di un saggio dall’eloquente titolo Se possono esistere donne di genio apparso in RdA, I, 1894, p.16 115 ROSSI - DORIA A., Antisemitismo e antifemminismo nella cultura positivistica e BABINI V. P., Un altro genere. La costruzione scientifica della “natura femminile” entrambi in BURGIO A., Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870 - 1945, Il Mulino, Bologna, 1999 116 GIUFFRIDA – RUGGERI, Sulla pretesa inferiorità somatica della donna, in «Archivio di psichiatria, antropologia criminale e scienze penali per servire allo studio dell’uomo alienato e delinquente» XXI, pp.353 – 360, Torino, 1990. cit. in Puccini 1998 p. 84 117 Si veda per esempio il testo di G. Sergi apparso sul secondo numero della «Rivista politica e letteraria dedicato al movimento: SERGI G., Il movimento femminista, in «Rivista politica e letteraria» II, p. 10 118 SERGI G., Per l’educazione del carattere e per la cultura della donna, conferenza pubblicata in «Educazione nazionale» III, 1892, p. 22

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varie occasioni anche da Giuseppe Sergi119; questi fu sostenitore in particolare della

necessità di impartire un’educazione scientifica - che per l’antropologo messinese era

soprattutto legata allo studio della psicologia, dell’antropologia e, di conseguenza, della

biologia che egli considerava tra loro legate - a bambini e ragazzi in età scolare. Egli

motivava la necessità che la cultura dell’epoca dovesse essere scientifica “perché è la

più conforme al modo di apprendere secondo i metodi naturali e perché è la più adatta

alle condizioni sociali presenti”120. L’attenzione del Sergi al mondo dell’educazione si

manifesta anche nel notevole numero di scritti dedicati a questo argomento tra i quali

citiamo: la Memoria a S.E. il signor ministro della P.I. e agli illustri del Consiglio

Superiore. Sulla necessità di una cattedra speciale di psicologia nelle università e negli

istituti superiori, considerati i progressi della scienza ed i bisogni dell’insegnamento

del 1876, Le scuole classiche in Italia del 1880121, Per la scuola liceale comparso sul

numero del 1887 della «Rivista di psicologia italiana», Le basi dell’educazione

froebeliana, Il metodo di Froebel, Intermezzo froebeliano, I nostri giardini d’infanzia

tutti in «Educazione Nazionale» del 1889, Il latino educativo in «Educazione ed

istruzione: Rivista di pedagogia e scienze affini» del 1894 ecc.

Nonostante questo diffuso impegno sul fronte delle emergenze sociali, anche

l’antropologia fisica italiana, come avveniva negli altri paesi europei, impegnò grandi

energie nello studio dei tipi umani e nella definizione delle categorie in cui classificarli.

Per fare ciò, come abbiamo messo in risalto nel primo capitolo, l’antropologia si avvalse

del contributo di molte scienze, divenute per essa ausiliarie, allo scopo di determinare

efficacemente le tipologie etniche. Tuttavia non mancò anche da parte degli antropologi

la volontà di porsi a servizio delle altre discipline dalle quali seppero trarre strumenti

utili alla propria indagine e alle quali avrebbero voluto fornire a propria volta un

repertorio ermeneutico per ottenere una comprensione migliore dell’uomo.

119 VOLPONE A., Giuseppe Sergi, “champion” cit. 120 SERGI G., Educazione e istruzione, Trevisini, Milano, 1892 cit. in MUCCIARELLI G. (a cura di), Giuseppe Sergi nella storia della psicologia e dell’antropologia in Italia, Pitagora, Bologna 1987 p. 168 121 SERGI G., Le scuole classiche in Italia, Stanislao Sommella, Napoli, 1880

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4. UN CASO ESEMPLARE DI MULTIDISCIPLINARIETÀ: IL DIALOGO CON LA

PRODUZIONE ARTISTICA

Un caso esemplare del tentativo da parte dell’antropologia di farsi guida in un

ambito cui essa stessa doveva molto sia sul piano ideologico che su quello della tecnica,

caso che vale la pena analizzare poiché da esso emergono alcuni aspetti peculiari del

modo di procedere dell’antropologia del periodo considerato, è testimoniato dalla

volontà degli antropologi di penetrare il mondo della produzione artistica. Ciò avvenne

in vari modi: non solo attraverso la raccolta dei materiali per le Esposizioni dedicate

all’arte popolare122, fronte sul quale furono attivi molti degli esponenti di spicco delle

Società antropologiche tra i quali ricordiamo Aldobrandino Mochi e Lamberto Loria123,

ma anche attraverso proposte di intervento diretto nel mondo delle accademie. Tale

volontà di intervento si basava sulla convinzione professata da parte degli antropologi

(ma non solo da essi) dell’esistenza di un legame profondo tra caratteri antropologici e

psicologici, tra indole dei popoli e loro composizione su base etnico – razziale. Fu in

questa logica che al primo congresso della Società Italiana per il Progresso delle

Scienze nel settembre del 1907, Vincenzo Giuffrida – Ruggeri intervenne con una

relazione in cui esordiva affermando che: “la così detta anatomia artistica – che viene

insegnata nelle accademie e scuole di belle arti - dovrebbe piuttosto chiamarsi <<

Antropologia applicata alle arti belle>>”124 e questo perché l’arte si occupa di

proporzioni e “le proporzioni del corpo umano sono uno studio eminentemente

antropologico”. Quindi il Giuffrida – Ruggeri si soffermava a illustrare come i canoni

proposti dagli anatomisti siano eminentemente maschili e non si accordino, dunque, alla

rappresentazione dei personaggi femminili125. Ciò che qui interessa maggiormente è,

però, la sottolineatura che,in quella occasione,venne posta sulla necessità per l’artista di

122 Ivi compresa la produzione musicale: Mochi e Loria nei primi anni del Novecento (1906) auspicavano anche, pur ammettendone le difficoltà tecniche, che il patrimonio musicale tradizionale venisse registrato con cilindri fonografici. A questo proposito si veda PUCCINI S., Il corpo, la mente e le passioni, cit. p. 113 123 La raccolta di curiosità regionali (e delle produzioni artistiche dei popoli selvaggi) divenne per alcuni di questi studiosi una vera e propria passione, si vedano al riguardo PUCCINI S., Il corpo, la mente e le passioni, cit. pp. 113 e seg. e PUCCINI S., L’Itala gente dalle molte vite, Metelmi editore, Roma, 2005 124 GIUFFRIDA – RUGGERI V., Relazione sulla convenienza che l’insegnamento di anatomia artistica sia impartito dal professore di antropologia, in RdA XIII, 1907, p. 98 125 Abbiamo visto in precedenza l’attenzione per la specificità femminile che caratterizza il Giuffrida –Ruggeri e non vi è qui necessità di ulteriori commenti.

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conoscere come rappresentare correttamente la razza, conoscenza che egli può

apprendere solo dall’antropologo, il vero specialista nella descrizione delle specificità

dei gruppi umani:

Le leggi di accrescimento, le diversità dei tipi somatici e la loro riduzione fondamentale a due costituzioni fisiche (macroschelica e brachischelica), le molteplici correlazioni trovate, formano un vastissimo capitolo dell’antropologia odierna, il quale ha invece pochissime attinenze con l’anatomia. È l’antropologia che studia il corpo umano nel suo insieme, guarda alle armonie dei diversi segmenti, a quelle euritmie che le forniscono le razze superiori, e che non interessano affatto l’anatomico; è dessa (sic!) che dà il limite alle oscillazioni somatiche che può presentare una data razza, descrive le variazioni dalla norma e interpreta le aberrazioni individuali. Per tutte queste ragioni e per altre – ad es., la conoscenza, che può riuscire utile agli artisti, delle razze umane -, è da pensare che l’antropologo a preferenza dell’anatomico debba essere adito ad impartire l’insegnamento della così detta anatomia artistica o meglio, come abbiamo detto, antropologia applicata alle belle arti.126

Ecco che anche l’arte avrebbe dovuto adeguarsi alle nuove conoscenze emerse nello

studio delle razze seguendo gli insegnamenti della “magnanima” scienza antropologica.

Allo stesso tempo, poiché l’arte “si giova immensamente delle espressioni

fisionomiche; le riproduce, le fa perenni nei monumenti, e contribuisce con ciò alla più

fina analisi delle movenze del volto umano”127 era l’antropologia che guardava alle

opere d’arte del passato al fine di scoprire, con la mediazione dell’archeologia, quale

fosse l’appartenenza razziale dei popoli dell’antichità. Giuseppe Sergi fece uso delle

riproduzioni delle stele rinvenute nel Vicino Oriente per

dimostrare che il tipo dei Medii e dei Persiani non differisce, preso nei caratteri generali, da quello babilonese, come è stato rappresentato nei monumenti; e ciò è facile presentando le forma facciali degli uni e degli altri. Dalle quali si vede, senza preoccupazione della lingua e dei costumi, che una certa differenza a primo aspetto è riferibile a un certo modo di vestire e portare la barba ed i capelli; ma ciò anche molto limitatamente perché i Medii e i Persiani imitarono i Babilonesi in gran parte dei costumi se non interamente. Da figure che riproducono di Medii, di Persiani e di Babilonesi, si ha una chiara idea che nessuna differenza fondamentale esiste fra loro, per dar diritto a stabilire razze differenti. Tutti portano fronte alta, naso più o meno

126 GIUFFRIDA – RUGGERI V., Relazione sulla convenienza cit. p. 99 127 TEBALDI A., La fisionomia nella scienza e nell’arte dopo i recenti studi, in AAE VI, 1876, p. 192

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aquilino, barba e capelli abbondanti. La dimostrazione è intuitiva.128

(corsivo mio)

Dunque, attraverso la comparazione dei volti rappresentati nelle stele antiche, si

otterrebbe una chiara idea dell’appartenenza etnica e, sebbene si ammettesse che in gran

parte i costumi e la cultura dei Medi e dei Persiani fosse di derivazione Babilonese, la

stessa cosa pareva non valere per l’arte che non veniva ritenuta soggetta ai meccanismi

di contaminazione, imitazione e stereotipizzazione (qui chiaramente non inteso in senso

razziale). Vale la pena sottolineare ancora una volta che l’esempio portato non è un caso

isolato, ma che si trattava di materia ampiamente discussa all’epoca come si apprende al

seguito del capitolo e dalla nota posta a conclusione dello stesso riportata qui di seguito:

Le cinque figure (…) mostrano che sostanzialmente i Medi, i Persiani e i Babilonesi non differivano nell’aspetto facciale. La figura 41, persiano di Persepoli, da Rawlingson è considerata come rappresentante il tipo ario: si guardi la forma del naso, che si vorrebbe attribuire al tipo semitico: qui esso è più esagerato del tipo fig. 43che rappresenta un viso babilonese semitico. Né la fig. 42 è differente dalla 40 che è di Medo. Solo Dario Istaspe ha un naso dritto. Che che se ne dica, vero è che i Persiani copiarono dalla Babilonia e dall’Assiria, ma non potevano contraffare il loro proprio tipo per assumere quello babilonie o assiro.129

Questa nota è interessante anche per sottolineare come il problema dell’imitazione

venisse risolto ancora in chiave etnica: se è vero che i Persiani e i Medi copiarono dai

Babilonesi nel campo della produzione culturale, per i nostri studiosi essi dovevano,

però, essere stati in possesso di una precisa autocoscienza di appartenenza nazionale che

avrebbe dovuto evitare ogni imitazione di un tipo etnico straniero nei propri monumenti,

quasi che l’arte dell’epoca considerata fosse naturalistica e non utilizzasse un

metalinguaggio su base simbolica. Ma da queste affermazioni risulta soprattutto l’idea

che già all’epoca di Babilonia si fosse interessati alla corretta rappresentazione

fisiologica della razza piuttosto che desiderare di trasmettere un messaggio

autocelebrativo facilmente interpretabile anche su scala sovra – statale. In questo modo

il paradigma razziale trovava la sua più completa applicazione tanto nelle sue

potenzialità di decodificazione della storia umana quanto nella sua collocazione

128 SERGI G., Gli arii in Europa e in Asia, Fratelli Bocca editori, Torino 1903, pp. 200 - 201 129 Ibid., nota al capo VIII, p. 248

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temporale come dato di fatto presente fin dalle origini nella coscienza dell’uomo. Se

questa proposta del Sergi è una lettura chiaramente ingenua oltre e, forse, più che

ideologica dell’arte antica, interpretazione che rimuoveva, come si è visto, ogni

riflessione sui canoni artistici a favore di una lettura di stampo naturalistico della

produzione artistica delle grandi civiltà mediorientali, decisamente inappropriata e

fuorviante, essa ha avuto, purtroppo, una lunga vita, confluendo –con esiti assai

peggiori- nella propaganda nazi – fascista: basta pensare all’uso vastissimo che venne

fatto della figura ritratta in un bassorilievo del III sec. d. C. - apparsa anche sulla prima

copertina de «La difesa della Razza» – nella quale si volle universalmente vedere una

sorta di caricatura dell’ebreo sulla quale fondare la tesi di una separatezza originaria

della stirpe semita.

A spingere gli antropologi verso il mondo dell’arte non ci fu solo l’interesse per

l’archeologia. A fare da ponte tra tendenze scientifiche ed interessi artistici130 troviamo

anche le recensioni, apparse sulle riviste di antropologia ed etnografia, di opere dedicate

alla fisionomica ed è noto quanta parte tale campo d’indagine abbia avuto nel

tratteggiare caricature e avvalorare stereotipi. Da queste recensioni traspare un vivo

interesse per l’argomento, interesse motivato dal fatto che:

(…) ogni disciplina che abbia per oggetto gli studi della conoscenza dell’uomo, si giova dell’osservazione della fisionomia e ne trae maggior profitto. L’antropologia, la Psicologia, la Medicina, tutte leggono sopra questo libro rivelatore della vita interiore.131

E così la fisionomica dettava i canoni tanto dell’estetica quanto dell’intelletto: era,

infatti, una dato acquisito che “a cranio voluminoso le più volte corrisponde un cervello

voluminoso, e a questo un’intelligenza superiore al comune”132, ma si giungeva anche

ad affermare che:

le intelligenze superiori, i caratteri elevati, si rivelano per tratti della fisionomia tali che diminuiscono le distanze che vi ha per la volgarità; nelle differenze di tempo e di nazionalità gli artisti ed i letterati di nazionalità differenti rassomigliansi. La fisionomia di Beethoven non

130 Non dimentichiamo che anche in questo campo fu forte l’influsso delle teorie d Cesare Lombroso. 131 TEBALDI A., La fisionomia nella scienza e nell’arte cit. p. 195 132 Ibid. p. 194

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differisce da quella di Rossini, quanto un birraio di Germania da un nostro facchino.133

Non premerebbe qui mettere in luce il valore attribuito a caratteri come l’altezza

della fronte se non avessero anch’essi in parte contribuito ad avvalorare e aumentare il

potere di alcuni fortunati stereotipi: così la fronte alta, larga, né sfuggente né troppo

fuggevole, veniva considerata indice di intelligenza; gli occhi tendenti “al giallo detti

glauchi dal greco “γλαυξ”, civetta” sarebbero stati rivelatori di “costumi selvaggi e

ferini, crudeltà, inganno”, mentre gli occhi “azzurri, color del mare, (…) indicavano un

animo forte e prudente;(…) la statua di Pallade Atena aveva occhi celesti” e così via134.

Non sembrava creare problemi all’autore il fatto che proprio Pallade Atena, la “dea

dagli occhi cerulei”, fosse appellata in realtà “glaucopide” (γλαυκοπις): come appare

spesso negli scritti di questo periodo, a fronte di una cultura che si voleva enciclopedica

e a un continuamente professato rigore scientifico, le etimologie venivano utilizzate in

maniera decisamente arbitraria.

L’antropologia non si propose solo come guida per l’arte nazionale, essa seppe

anche trarre profitto dalle nuove metodologie che la tecnica aveva messo a disposizione

degli artisti in quegli anni. Così fu per la fotografia, la cui utilità scientifica nello studio

dell’uomo veniva sottolineata da Enrico Morselli in occasione dell’Esposizione

Universale di Torino (1884); egli stabiliva anche le caratteristiche necessarie affinché la

fotografia risultasse utile ai fini dell’indagine antropologica:

Qui ricorderemo l’utilità scientifica delle fotografie (ritratti) ed accenneremo come si debba procedere scientificamente nel fotografare un uomo. Dal punto di vista antropologico l’uomo si ritrae di faccia e di profilo, in formato abbastanza grande perché nessun particolare della fisionomia possa sfuggire all’attenzione della luce. (…) Tanto di faccia che di profilo, si dovrà cercare di mettere la testa secondo la linea orizzontale dello sguardo. Alle fotografie scientifichesarà utilissimo aggiungerne ancora delle artistiche, prese cioè con l’atteggiamento naturale e libero degli individui ritratti e possibilmente nei loro costumi o fra strumenti e utensili caratteristici della loro regione e della loro classe sociale.135 (corsivo mio)

133 Ibid. p. 195 Altrove l’autore ammette che a volte una “fisionomia volgare” può nascondere il genio, ma tale fisionomia deve possedere caratteristiche oltremodo peculiari. 134 Abbiamo qui riferito il valore attribuito dai fisionomici a fronte alta e occhi azzurri perché entrambi concorrono nella definizione del tipo ariano del quale ci occuperemo ancora nei prossimi capitoli. 135 MORSELLI E., Programma speciale delle scienze di antropologia, in AAE, XIV, 1884 p. 126

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Troviamo questi dettami quasi perfettamente attuati nelle opere che Giuseppe Sergi

dedicò all’esposizione della sua teoria relativa alle razze umane, anche se nelle

immagini proposte spicca una sorta di “dualismo di genere” per cui la fotografia

“scientifica” era per lo più riservata a personaggi di sesso maschile, di cui in genere è

ritratto solo il volto, sia di profilo che di faccia (si consideri ad es. il Persiano e l’Indù

che fanno parte dell’apparato iconografico di Gli Arii in Europa e in Asia 136). Le

fotografie artistiche erano, invece, per lo più quelle dedicate ai personaggi femminili il

cui atteggiamento spesso rilassato, gli abiti colmi di ornamenti e il contesto, ove

visibile, tradizionale, richiamano decisamente un marcato gusto per l’esotico più che la

volontà di riprodurre il reale. Prendiamo come esempi la Giovane singalese137 ritratta

su uno sfondo di colonne di marmo e palme, appena appoggiata a una roccia, un piede

sollevato a scoprire la caviglia ornata di bracciali, le mani giunte e lo guardo assorto in

un atteggiamento che appare assai più studiato che naturale quale, invece, sarebbe

dovuto essere lo scopo della fotografia artistica secondo il Morselli e come ribadiranno

le istruzioni fornite dalla Società Fotografica Italiana nel 1900138; sulla stessa linea la

Berberina di Tunisi139 e la Giovane donna del Lahore140. Attraverso la pubblicazione di

queste foto il Sergi avrebbe voluto portare un ulteriore elemento a favore della sua

teoria della classificazione dei gruppi umani, elemento basato su una comprensione

intuitiva dell’esistenza di una certa somiglianza intercorsa tra i tre tipi etnici (e molti

altri); tale pretesa a un osservatore attuale parrà come minimo curiosa se si tiene conto

che la maggior parte dei personaggi femminili è carica di ornamenti (veli, copricapi,

gioielli), mentre il volto di quelli maschili è in molti casi coperto da un folta barba e/o

da un ampio turbante così che risulta davvero difficile concentrarsi sulla fisionomia per

non parlare della forma cranica!, tuttavia ciò dimostra quanto valore venisse attribuito

alla fotografia (per di più di singoli individui) anche al fine di avvalorare le teorie

razziali di questo periodo.

136 SERGI G., Gli Arii in Europa e in Asia cit.; per il Persiano si veda pp. 115 – 116 e per l’Indù pp. 76 - 77 137 Ibid. p. 132 138 La Società Fotografica Italiana, nelle istruzioni per la documentazione di Tipi, usi e costumi del popolo italiano, si esprimeva a favore di “istantanee, ottenute per quanto possibile di sorpresa, perché nelle persone fotografate non abbiano a notarsi movimenti o atteggiamenti intenzionali” (cit. in PUCCINI S., Il corpo, la mente cit. p. 113) 139 SERGI G., Gli Arii in Europa e in Asia, cit. p. 140 140 Ibid. p. 81

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Si noti, infine, che questo atteggiamento di riscoperta di particolari anatomici

anche minuti, che traspare dalle note con cui venivano parzialmente commentate le

fotografie pubblicate nelle monografie di argomento antropologico, non fu confinato al

versante scientifico degli studi, ma apparteneva a un sentire assai diffuso tra gli

intellettuali italiani dell’epoca. Dopo la metà del secolo XIX, infatti, nel campo degli

studi artistici tradizionali attirò l’attenzione il metodo messo a punto dai veronesi

Giovanni Morelli141 e Giovanni Battista Cavalcaselle142. Essi, incaricati dal ministro De

Sanctis di censire le opere d’arte del Regno, percorsero l’Umbria e le Marche alla

ricerca di capolavori dimenticati basandosi sul nuovo metodo inventato da Morelli.

Questi, che aveva studiato a lungo il disegno anatomico, riteneva utile per riconoscere e

attribuire correttamente le opere dei grandi artisti basarsi soprattutto su particolari quali

occhi, bocca, naso, dita. Secondo il suo inventore tale metodo, che non poteva

prescindere da un’approfondita conoscenza della mano dei maestri e una lunga

consuetudine con i loro capolavori, doveva considerarsi scientifico al pari di quello

utilizzato in antropologia in quanto basato su confronti rigorosi di particolari fino ad

allora trascurati e non solo sull’impressione d’insieme suscitata dall’opera.

141 Morelli, nato a Verona nel 1816 da famiglia ugonotta, ebbe una formazione artistica di respiro europeo. Dopo aver partecipato alle rivolte antiaustriache del 1848 divenne deputato italiano nel 1861 e senatore nel 1873. Morì a Milano nel 1891. 142 Cavalcaselle è considerato tra i fondatori della moderna critica d’arte. Nato in provincia di Verona nel 1819, partecipò ai moti del 1948 e all’esperienza della Repubblica Romana. Nel 1867 divenne ispettore al Museo Nazionale del Bargello a Firenze e in seguito fu a Roma come consulente per l’organizzazione dei musei nazionali. Si veda LEVI D., Cavalcaselle. Il pioniere della conservazione dell’arte in Italia, Einaudi, Torino, 1988

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II. GIUSEPPE SERGI E LA SUA PROPOSTA

“MEDITERRANEA”

1. L’OPERA DEL SERGI: UN MONUMENTO ALLA RAZZA

I tre fattori, positivismo darwinismo e unità nazionale, che segnarono

indelebilmente la via da seguire dell’antropologia italiana ai suoi esordi rimasero

immutati nella produzione del più longevo tra i maestri fondatori della disciplina,

Giuseppe Sergi (1841 - 1937), la cui forte personalità segnò un’intera epoca nel campo

degli studi sull’uomo e la cui influenza si estese ben oltre i confini geografici della

Penisola. Egli fu anche l’antropologo italiano che dedicò maggiori energie nel campo

degli studi sulla razza, e al quale si deve la classificazione razziale forse più completa e

originale tra quelle proposte in quegli anni nel nostro Paese. Tale proposta si ricollegava

fortemente al clima culturale del Risorgimento, cui come si è già avuto modo di

accennare l’antropologo siciliano partecipò attivamente, in particolare a quel

leit – motiv della cultura risorgimentale, che aveva (…) assegnato al Sud un ruolo determinante nella specifica configurazione spirituale del popolo italiano: sin dal Platone in Italia di Vincenzo Cuoco (non a caso livre de chevet della generazione patriottica) aveva preso forza, anche se inizialmente solo per prendere le distanze dalla celtomania imperversante nella Francia napoleonica, l’immagine di un popolo mediterraneo autentico fondatore della civiltà greco – romana e quel tema aveva nutrito, per via di Gioberti (ma anche di Mazzini), tutte le classi dirigenti risorgimentali, maxime quelle meridionali, che ancora negli anni dell’Italia liberale avrebbero insistito sul mito pitagorico, sul primato dei popoli italici, sulla loro antica sapienza143 (corsivo nel testo)

Prima di addentraci in una dettagliata esposizione della classificazione proposta dal

fondatore della Società Romana è, però, bene soffermarsi qualche istante sulle modalità

con cui tale teoria venne elaborata ed esposta; sarà così possibile rilevare fin dal

principio il suo carattere di utopia socio – politica, ma anche la capacità fascinatoria che

143 DE FRANCESCO A., La diversità meridionale nell’antropologia italiana di fine secolo XIX, in «Storica» XIV, 2008 p. 75

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il Sergi desiderava evidentemente imprimere ai propri scritti allo scopo di sostenere e

divulgare le proprie convinzioni certamente non solo scientifiche. Tale percorso

permette anche di sottolineare la forza della personalità e dell’ego del fondatore della

Società Romana, elemento non del tutto trascurabile se messo in rapporto all’influenza

che un tale maestro doveva aver esercitato sui membri della società e, più in generale,

sull’antropologia italiana dell’epoca.

“La vita è breve, l’arte è lunga… il giudizio difficile”144: tale l’epigrafe con cui

si apre l’ultimo scritto di Giuseppe Sergi, pubblicato postumo nel 1937 sotto forma di

Autografo inedito con il testo stampato a fronte, apparso nella rivista da lui stesso

fondata. Si tratta di una sorta di testamento spirituale del Sergi, giunto ormai al “limitare

del 94° anno”145, nel quale traspaiono in controluce i molteplici aspetti del carattere

dell’antropologo messinese e della sua vastissima opera di studioso che non possono

essere tralasciati qualora si desideri darne una lettura critica. L’enorme mole degli scritti

lasciati dal Sergi dovevano costruire, infatti, nell’intenzione del loro autore una sorta di

grandioso monumento politico – culturale sul quale sventolava il vessillo della specie

umana superiore incarnata nella Stirpe Mediterranea. Lo stesso stile, che caratterizza in

particolare le monografie, è denso di metafore ardite e voli ben più che pindarici,

inseriti allo scopo di rendere una teoria dal sapore scientifico carica di suggestioni dal

potere fascinatorio in modo tale da farle acquisire, sempre nell’intento del Sergi, il

sapore del mito e il ritmo dell’epopea. Lo scopo finale di tutto questo dispiegamento di

energie era quello di fondare un’epica della stirpe, un racconto altrettanto grande, anzi

superiore, all’epos ariano cui la stirpe mediterranea è, fin dalla sua nascita nel mondo

delle idee sulla razza, antitesi e negazione insieme. Nel concepire questo disegno il

Sergi cercò di ideare un capolavoro d’artista da creare con la tecnica e il rigore dello

scienziato: dell’arte veniva assumendo la carica emozionale, della scienza - almeno

della scienza come era intesa nell’orizzonte culturale proprio dell’antropologia

ottocentesca nel quale il Sergi rimane profondamente radicato fino alla morte - l’abito

adorno di cifre, schemi e continue verifiche incrociate cui seguivano un paziente labor

limae.

144 L’epigrafe è tratta da Ippocrate. SERGI G., Schiarimenti, RdA XXXI, 1937 p. 2 145 “La vita è breve”: certo appare quasi un segno di arroganza intellettuale la scelta di questo aforisma da parte di un uomo giunto alla venerabile età di novantaquattro anni con il pieno possesso delle proprie facoltà, ed una certa aria di superiorità era certo parte della forte personalità del Sergi Ibid. p. 2

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La costruzione del Sergi, sia essa ispirazione proveniente dai risultati delle prime

ricerche o speranza già nata al momento di affacciarsi sul mondo dell’antropologia, si

strutturava su alcuni elementi cardine che, una volta intrecciati, dovevano sembrare una

giustificazione sufficiente per una lettura mistico – leggendaria del problema della

razza. Si comprende, dunque, come prima di procedere nell’analisi della classificazione

del Sergi, sia necessario soffermarsi ancora sull’ultimo scritto in quanto esso mette in

luce un aspetto non indifferente della personalità dell’antropologo messinese che può

farsi chiave di lettura nell’affrontarne l’opera. Negli Schiarimenti egli si fece vanto di

una instancabile attività di verifiche incrociate, portata avanti senza tralasciare alcun

nuovo dato, provenisse esso da analisi osteologiche o scoperte archeologiche, dalla

Polinesia come dai siti all’epoca appena scoperti nell’Egeo. In effetti, come ricorda

anche Mucciarelli nella prefazione agli Atti del convegno dedicato nel 1985

dall’università di Bologna all’antropologo siciliano, “al Sergi va riconosciuto un merito

indubitabile: aver posto la necessità di studiare il comportamento dell’uomo [e, più i

generale, il “fattore umano”] attraverso un’analisi incrociata”146. Tuttavia, nonostante il

continuo richiamarsi alla scienza naturale, tutti i dati raccolti vennero idealmente ridotti

dall’antropologo messinese a conferme di un’idea o di presagi i quali trovano senso

solo all’interno di una visione: “Questa è l’ultima visione attorno alla scienza

dell’Uomo”147, così recita la prima riga degli Schiarimenti. Si tratterebbe, quindi,

dell’ultima visione di una lunga serie delle quali il Sergi si sarebbe fatto vate davanti

all’umanità.

Le prime e antiche idee cadono, si sostituiscono nuove ed inaspettate visioni sui fatti che si presentano; i giudizi svaniscono come ombre nell’oscurità, i nuovi arrivano spontanei (…), la visione diventa telescopica ed ha un campo visivo più esteso e più profondo: tutto è spontaneo, non volontario, né pensato lungamente, viene improvviso e dal profondo incosciente di quella che chiamiamo mente, come una nuova visione del mondo umano148 (corsivo mio)

Sergi stesso si poneva davanti l’obiezione che questo parlare di visioni alla veneranda

età di 94 anni non fosse altro che una forma di senilità, ma un lettore attuale può

146 MUCCIARELLI, Prefazione, in MUCCIARELLI G. (a cura di), Giuseppe Sergi nella storia della psicologia e dell’antropologia in Italia, Pitagora, Bologna 1987 pp. 1 – 2 147 SERGI G., Schiarimenti, cit p. 2 (corsivo mio) 148 Ibid. p. 2

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facilmente ritrovare dei precedenti nell’opera del Sergi maturo, i quali ci confermano

come il ragionare per visioni fosse in parte connaturato al personaggio. Nel Prologo a

Gli Arii in Europa e in Asia, redatto più di trent’anni prima degli Schiarimenti, egli

scriveva:

E come un sogno, quasi separato dalla realtà presente, il mio pensiero ha viaggiato per lontanissime regioni e in epoche remotissime calcolate a millenni (…). Ora i miei sguardi si rivolgono verso la valle del Nilo e mi ispira un’idea come una visione (…). Come una visione dico: e la scienza è una visione intellettuale simile a quella artistica, benché non si lasci sempre illude dalle parvenze come l’arte, la quale è una pura visione delle forme che essa rappresenta nella materia di cui si serve. Da qualche tempo io ho la visione che descrivo, di popoli e delle loro manifestazioni; e se questo non è inganno o un’illusione, parmi che l’interpretazione storica dell’umanità debba essere differente da quella finora presentata.149 (corsivo mio)

A presentarsi come un sogno (o, forse, come un incubo, se la si indaga solo nei suoi

risvolti più neri correndo, però, il rischio di una lettura tutta incentrata sugli eventi del

Novecento) è, in realtà, tutto il procedere dell’antropologia ottocentesca con il suo

statuto di pseudoscienza delle razze attraverso la quale si voleva dimostrata una

superiorità che all’epoca pareva oggettiva. Ciò è vero ancor più nel caso del nostro

studioso: come negare alla sua proposta di classificazione, con tutti i corollari che ne

derivavano, il carattere di vera e propria utopia politico - culturale in cui collocare

idealmente sé stesso e il proprio paese cui verrebbe restituito il primo posto tra i fautori

della civiltà assieme al primato della produzione culturale? Come ricorda De Francesco

“il discorso razziale di Sergi fu, infatti, diretto discendente di quello risorgimentale”150

e, pertanto, intriso della volontà di giustificare l’avvenuta Unità della Penisola italiana.

Certamente a spingere l’antropologo siciliano in questa particolare direzione

contribuirono nel tempo molteplici fattori: dalla nascita mediterranea dello stesso Sergi,

all’avventura Garibaldina culminata nella battaglia di Milazzo, dall’avversione per il

mito ariano (reo, forse, più di non dare spazio sufficiente all’Italia e agli italiani che di

149 SERGI G., Gli Arii in Europa e in Asia, cit. pp.V – VI. Come si vede il parallelo tra scienza ed arte utilizzato in precedenza era già presente nell’opera dell’antropologo siciliano, sebbene tale paragone si adattasse assai più all’attività svolta del Sergi stesso che allo svolgersi della scienza in generale.150 DE FRANCESCO A., La diversità meridionale nell’antropologia italiana cit. p. 76

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essere scarsamente attendibile) cui era necessario contrapporre un antimito, al clima

internazionale che voleva la Nazione fondata su una inscindibile unità di sangue e di

suolo151 cioè realizzata in una comunità biologica che trovava riscontro in una razza e in

uno spazio geografico, senza dimenticare gli studi classici e la formazione umanistica…

tutto ricondotto sotto l’egida di un patriottismo fiero e convinto nonostante le scosse che

tale ideale subì anche sul terreno degli studi antropologici nei decenni a cavallo tra Otto

e Novecento152. Le riflessioni fino a ora svolte aiutano a capire, quindi, come le teorie

elaborate dal Sergi nascondessero, in realtà, una vera e propria mistica della razza.

Che il giudizio fosse difficile lo sapeva bene l’antropologo siciliano che, per

vedere riconosciute le proprie teorie a cominciare dal poligenismo, teoria più fortunata

all’estero di quanto lo fosse in Italia dove venne avversata in primis dal Mantegazza e

dalla sua scuola, provocò un vero e proprio scisma all’interno dell’antropologia italiana

(come, d’altra parte, aveva fatto per lo stesso motivo Broca in Francia) e che, per dare

alla sua classificazione una corazza capace di resistere agli urti della critica tal volta

anche feroce dei colleghi153, continuò per decenni a limarla in un sospendere e

riprendere il giudizio154, in una interminabile raccolta di dati durata oltre

cinquant’anni155.

Proprio per questo, esporre l’intero percorso intellettuale di Giuseppe Sergi è

impresa ardua e, ai fini della discussione che si desidera svolgere in questo scritto,

risulta poco utile; sarà invece necessario riflettere su quelle opere che presentano meglio

esposte le ultime tesi156 sui gruppi umani e la loro evoluzione storica e delle quali lo

151 A questo proposito si vedano ad esempio: BANTI A., La nazione del risorgimento, Einaudi, Torino 2000; BANTI, CHIAVISTELLI, MANNORI, MERIGGI a cura di, Atlante culturale del Risorgimento, Laterza, Bari 2011 152 Per i problemi che dovette affrontare l’idea di “unica patria italiana” tra la fine del XIX e l’inizio del XX sec. si veda ad esempio DE FRANCESCO A., La diversità meridionale nell’antropologia italiana cit. e PETRACCONE C., Le due civiltà. Settentrionali e meridionali nella storia d’Italia dal 1860 al 1914, Laterza, Bari 2000 153 Soprattutto da parte del Mantegazza, il quale definì la nomenclatura per la classificazione dei tipi umani proposta dal Sergi un “vocabolario barbarico”. Si veda: MANTEGAZZA P., Di alcune recenti proposte di riforma della craniologia, in AAE XXIII, 1893, pp. 45 – 55. Per una ricostruzione efficace del conflitto tra i due capiscuola si veda anche PUCCINI S., L’antropologia a Roma cit. 154 I ripensamenti del Sergi riguardarono soprattutto la teoria “culturale” sulla razza piuttosto che la classificazione e il metodo che rimasero fondamentalmente quelli proposti in Varietà umane. Principi e metodo di classificazione, in RdA I, 1893 155 Le opere del Sergi “occupano un’intera biblioteca per il loro numero e costituiscono una vera enciclopedia universale per la varietà degli argomenti” cifr. SERGI S., Necrologio per Giuseppe Sergi, in RdA, 1937, p. VIII 156 Tali tesi possono essere considerate già definitive in quanto l’impianto fondamentale e, soprattutto, l’aspetto ideologico che ne è alla base è presente fin dall’inizio degli studi antropologici del Sergi; le

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stesso Sergi ha voluto fare, fin dai titoli, una sorta di monumento definitivo157. Si avrà

cura di non tralasciare comunque gli altri scritti qualora essi possano gettare maggiore

luce su alcuni aspetti salienti del percorso intellettuale e sulla genesi dell’opera

dell’antropologo siciliano. È bene sottolineare fin d’ora che questa scelta è giustificata

anche dal fatto che la costruzione proposta dal Sergi si erge su alcuni pilastri che non

mutarono mai nel corso della vita e dell’opera dello studioso. Le colonne attorno alle

quali si articola la classificazione dei gruppi umani proposta dall’antropologo siciliano

sono, essenzialmente, tre: il desiderio – che, lo vedremo, si fa via via sempre più acceso

con il procedere della ricerca – di dare spazio e lustro alla nazione italiana nel contesto

internazionale; la profonda avversione per la teoria della superiorità ariana; legato a

questi primi due aspetti, un deciso anti – germanesimo il quale si fece sempre più forte

fino a toccare l’apice con il primo conflitto mondiale. Attorno a questi tre concetti

ruoterà l’analisi svolta qui di seguito.

2. LA CLASSIFICAZIONE DELLE RAZZE

Uno dei motivi che condussero allo scisma tra Sergi e la scuola fiorentina fu il

nuovo metodo di classificazione proposto dal fondatore della nuova scuola per il quale

l’indagine del cranio doveva risiedere, innanzi tutto, nella comparazione delle forme

piuttosto che nella frenesia delle misurazioni comune a tanti suoi contemporanei158.

(…) abbiamo dimostrato che il metodo in antropologia non deve essere diverso da quello adoperato in zoologia e abbiamo rivolto l’attenzione alla morfologia del cranio (…); abbiamo bandito le misure e i numeri accumulati, come incapaci di dare la benché minima idea delle forme e della struttura del cranio ed abbiamo classificato secondo i caratteri tipici che questo ci presenta.159

indagini successive non andranno ad intaccare la teoria generale che qui ci interessa ed in particolare il problema degli arii – germani. 157 Ci riferiamo in particolare a: SERGI Giuseppe, Europa. L’origine dei popoli europei e le loro relazioni con i popoli d’Africa, D’Asia e d’Oceania, Fratelli Bocca editori, Torino 1908 e a SERGI Giuseppe, Italia. Le origini, Fratelli Bocca editori, Torino 1919158 A questo proposito si veda il capitolo precedente.159 SERGI G., Discorso del presidente. Sull’origine e la diffusione dei popoli del mediterraneo, RdA III, 1895 p. 13

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Nell’esporre la classificazione proposta nelle sue opere fondamentali, basata abbiamo

visto, come era da attendersi per quanto detto nel capitolo precedente a proposito della

craniometria, soprattutto sullo studio del cranio, non bisogna però scordare che il rifiuto

dell’antropometria in Giuseppe Sergi non fu mai assoluto:

L’osservazione del cranio bisogna che cominci con la ben nota norma verticale del Blumenbach, quella norma da cui, in seguito, Retzius trasse l’indice della larghezza; anche per il metodo che propongo ha il primo posto, ed essa ci deve fornire, in massima parte, i tipi, la prima forma, o il primo carattere di classificazione.160

Il parametro cui si fa qui riferimento è il cosiddetto “indice cefalico” (Längen – Breiten

– Index), esprimibile attraverso la seguente formula matematica:

erioreanteropostdiametro

bilateralediametrocefalicoindice

.100.

=

Nella definizione data dal Livi si legge che:

l’indice cefalico è quel numero che rappresenta il rapporto aritmetico tra la lunghezza e la larghezza massima della testa, o più esattamente, che esprime a quante centesime parti della lunghezza corrisponde la larghezza della testa. (…) Si comprende che quanto più l’indice si avvicina a cento [cioè quando il rapporto tra larghezza e lunghezza del cranio tende ad 1] tanto più la testa è rotondeggiante o brachicefala, quanto più se ne allontana [cioè tanto più piccolo è il rapporto larghezza / lunghezza e, di conseguenza, tanto più piccolo è l’indice cefalico] tanto più è bislunga o dolicocefala. Mesocefale si dicono le teste a forma intermedia.161 (corsivo dell’autore)

Dunque per il Sergi restava fondamentale la dicotomia classica brachicefali –

160 SERGI G., 1893, cit. in CRESTA, DESTRO – BISOL, MANZI, Cent’anni di antropologia, cit. p. 13 161 LIVI R., La distribuzione dei caratteri antropologici in Italia, RIdS II fascicolo IV, 1898, p. 415; il Livi vi riportava in nota questa definizione poiché si aveva constatato che esistevano alcune errate descrizioni dell’indice anche nei dizionari enciclopedici più completi.

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dolicocefali proposta dal Retzius, mentre sui mesocefali162 dapprima si mostrò cauto per

poi assegnare a ciascun caso il posto più confacente a sostenere la teoria che egli andrà

via via costruendo; i crani dalle dimensioni intermedie vennero generalmente

accomunati al gruppo dei dolicocefali. Una convinzione risultava essenziale per

l’edificazione di tutta la teoria del Sergi, quella secondo cui i due tipi cefalici erano fra

loro irriducibili e conservati per via ereditaria lungo un “tempo profondo” e attraverso

distanze enormi163 che si dispiega lungo una scala di millenni. Tale convinzione

risultava universalmente condivisa dagli antropologi dell’Ottocento dalla pubblicazione

del lavoro di Retzius (1842) fino alla pubblicazione, tra il 1899 e il 1911, degli studi

condotti dall’antropologo americano F. Boas sui discendenti degli immigrati americani;

in tali studi veniva, infatti, dimostrato come l’indice cefalico fluttuasse nelle diverse

generazioni e non potesse, dunque, essere considerato un carattere ereditario164.

L’opera di Boas trovò consensi soprattutto tra gli antropologi tedeschi della così

detta “scuola popolare” come Karl Felix Wolff, che rifiutò di considerare l’indice

cefalico un carattere di razza, e Otto Ammon, che volle dimostrare come l’indice

differisse fortemente tra abitanti delle città e delle campagne circostanti (dunque non

facilmente considerabili come appartenenti a razze distinte, aprendo la strada ad una

spiegazione legata alle classi sociali e/o allo stile di vita nei due ambienti); infine il

russo Ivanovskij credette di individuare una correlazione tra nutrizione e indice di

Retzius165. Il Sergi, invece, intervenne polemicamente sulle affermazioni del Boas cui

nel 1912 dedicò un “contro articolo”166 nel quale si mostrava scettico rispetto ai risultati

ottenuti dal collega americano, rimanendo, invece, convinto dell’ereditarietà della forma

cranica. È bene sottolineare che, nel mantenersi saldo in tale convinzione, il presidente

della Società Romana non si mostrò affatto isolato poiché, per lungo tempo ancora,

162 Dopo la pubblicazione dell’opera del Retzius si cercò di introdurre ulteriori “gradi” intermedi che servissero allo scopo di distinguere meglio i vari gruppi etnici, tuttavia la distinzione fondamentale rimase quella del Retzius. Si veda FEHR H., Germanen und Romanen in Merowingerreich, De Gruyter, 2010 pp. 112 e seg. 163 Concetto che viene ribadito più volte dal Sergi; per es.: “(…) i caratteri interni delle stirpi umane, costanti e persistenti per epoche immemorabili e in luoghi fra loro lontanissimi”. SERGI G., Origine e diffusione della stirpe mediterranea, Società editrice Dante Alighieri, Roma, 1895 p. 47 164 BOAS F., The cephalic index, in American Anthropology 1, 1899 pp. 448 - 461 165 FEHR H., Germanen und Romanen cit. pp. 108 seg. 166 SERGI G., Il preteso mutamento delle forme fisiche nei discendenti degli immigrati in America, in RdA XVII, 1912 pp. 33 – 41; l’anno seguente Sergi ritornava sul problema con un altro scritto: SERGI G., Intorno all’origine degli Americani, in RdA XVIII, 1913

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l’antropologia europea si sarebbe basata sulla classificazione del Retzius167. Questo

negare l’evidenza non deve affatto stupire: accettare le posizioni del Boas voleva dire

gettare una mole di materiale documentario corrispondente a parecchie decine di anni di

sforzi condotti dall’antropologia su scala mondiale, e, per il Sergi in particolare,

rinunciare di fatto alla teoria che andava elaborando da una vita intera e che, proprio in

quegli anni, andava assumendo la sua forma definitiva, caratterizzata da una apparente

forte coerenza interna tra ipotesi e dati numerici, linguistici, archeologici ecc.

Così Giuseppe Sergi, e come lui molti altri, anche assai più giovani,

antropologi168, continuò ad affermare la validità della dicotomia brachicefali /

dolicocefali per la classificazione dei tipi umani. In base a questo assunto,

coerentemente con la propria adesione alla teoria della poligenesi, il Sergi poté

sostenere l’esistenza in Europa di due specie umane, ciascuna caratterizzata da un tipo

cranico, e respingere al contempo ogni ipotesi di ibridismo169, tra le quali va ricordata

anche quella, molto diffusa, secondo cui i crani mesocefali sarebbero originati da una

mescolanza di caratteri ereditati da antenati con crani dei due tipi (brachicefali e

dolicocefali). Quest’ultima teoria, è bene rammentarlo, fondata sull’idea che i gruppi

originari formassero due razze, non poteva reggere nell’ipotesi secondo cui tali gruppi

fossero in realtà due specie (e, dunque, gruppi non sommabili) come sostenuto nel

quadro della teoria poligenista.

Ciascuna delle due specie europee venne suddivisa poi in alcune sottovarietà

sulla base della particolare forma cranica (la quale risultava determinante, all’interno del

metodo proposto da Sergi, anche per stabilire se si trattasse realmente di crani lunghi o

corti: è evidente che la forma può influire sull’indice cefalico poiché bisogna stabilire

con precisione dove misurare il diametro bilaterale)170 e sulla base dei caratteri esterni

(colore dei capelli, statura ecc.). Soprattutto nei primi anni di vita della Società Romana

di Antropologia, forse per sottolineare la contrapposizione alla Società Fiorentina che 167 FEHR H., Germanen und Romanen cit. pp. 110 - 117 168 Tristemente famosi in Germania il Gunter e l’Eickstedt fautori delle classificazioni di cui si avvalse l’ideologia nazionalsocialista tedesca. 169 Anche questo argomento viene trattato spesso e in varie forme dal Sergi, si veda ad es.: SERGI G., Il preteso mutamento delle forme fisiche nei discendenti degli immigrati in America, in RdA XVII, 1912 pp. 33 – 41 170 Non risulta opportuno qui soffermarci a descrivere tutte le forme individuate dal Sergi. I tipi cranici e la loro influenza sul metodo e sulla classificazione proposta dal Sergi si trovano esposti in Varietà umane. Principi e metodo di classificazione, in RdA I, 1893; l’articolo è corredato da un ricco apparato iconografico che permette di comprendere appieno il carattere delle problematiche poste dalla craniometria e le soluzioni proposte dall’autore.

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aveva respinto la classificazione morfologica da lui proposta, il Sergi accentuava il peso

della forma nello stabilire le sottovarietà e questo anche nel definire il carattere etnico

delle diverse nazioni:

(…) tali varietà craniche sono variamente mescolate nella composizione delle nazioni. In alcune predominano le forme a pentagono, in altre le ovoidali e le ellissoidali, senza che manchino mai gli altri elementi; e (sic!) così che è sempre un composto ciascun popolo con predominio di alcune forme su altre. Ciò dà quindi una fisionomia particolare (…). Questo fatto potrà, in parte almeno, spiegare una certa differenza fra i vari popoli antichi e anche moderni, che hanno dato alla loro compagine un carattere nazionale distinto.171

È importante ricordare a questo punto che, contrariamente a quanto dichiarato in queste

prime opere su specie, varietà e la relativa classificazione172, l’elemento determinante

per il Sergi risultava essere, alla fine, quello che assegnerebbe l’appartenenza alla specie

giacché da essa deriverebbero i caratteri fondanti l’identità degli individui, caratteri non

solo fisici, ma anche psicologici173. Questi ultimi, legati inscindibilmente all’elemento

fisiologico, sarebbero tali da determinare l’indole e il carattere dei popoli, la loro cultura

e il grado di civiltà dei quali essi si farebbero portatori174.

È possibile, anzi assai probabile, che questo slittamento del problema dalle

sottovarietà alle specie sia da collegarsi alla definizione e all’approfondimento del

problema ario (o ariano) che, per Giuseppe Sergi, comportò uno spostamento di

attenzione dalle questioni che potremmo efficacemente definire di metodo a quelle di

merito.

171 SERGI G., Discorso del presidente, cit. p. 15 172 Con ciò ci si riferisce in particolare a SERGI G., Varietà umane. Principi e metodo di classificazione, in RdA I, 1893; SERGI G., My new principles of the Clasification of the human Race, in «Science» XXII 564; SERGI G., The varieties of thehuman species. Principles and method of classification, Smithsonian Miscellaneous Collection 969 vol. 38, Washington, 1894; accenni si trovano anche negli anni successivi ad es. nel già citato Discorso del presidente. Sull’origine e la diffusione dei popoli del mediterraneo, in RdA III, 1895 173 Abbiamo già avuto modo di segnalare in precedenza l’interesse del Sergi per la psicologia e vi ritorneremo in seguito per quel che riguarda la psicologia etnica. Sul Sergi psicologo si veda invece: MUCCIARELLI G. (a cura di), Giuseppe Sergi nella storia della psicologia e dell’antropologia cit. 174 Si veda più oltre.

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3. ARII E MEDITERRANEI : I PRIMI STUDI SULLA STIRPE CELTICA

Dando uno sguardo alle prime opere del Sergi riguardanti la definizione della stirpe

mediterranea175, si nota come egli non facesse menzione - se non incidentalmente -

degli “arii”, mentre utilizzasse ampiamente i temine “Celti” per indicare le invasioni

(che in quel momento egli attribuisce al VII sec a.C.) della stirpe da lui allora

denominata “europea”.

Nel descrivere i Celti, Sergi dichiarava di condividere il ritratto che ne aveva

dato in precedenza l’antropologo francese Broca:

statura relativamente bassa, corporatura robusta, cranio largo e corto [cioè brachicefalo], faccia piuttosto larga, pelle bruna, occhi e capelli scuri176

Dunque “Celti” era anche per l’antropologo italiano sinonimo di “bassi, robusti (dunque

“tarchiati”), scuri e brachicefali”, tutto l’opposto dello stereotipo secondo cui la razza

superiore tanto per bellezza quanto per intelligenza (che potremo definire secondo una

definizione classica “καλ� κα� αγαθ�” cioè “bella e buona”) i cui appartenenti

sarebbero “alti, slanciati (in genere si preferiva la perifrasi “ben proporzionati”), chiari

(biondi con gli occhi azzurro - grigio) e dolicocefali”.

Al nome di “Celti” Sergi assegnava un carattere “complessivo”, “indeterminato

nelle tradizioni e nella storia, nelle quali ha assunto varie forme”177, tuttavia la

preferenza espressa per tale nomenclatura non passa inosservata se si tiene conto del

seguito della presentazione che ne viene fatta in Le influenze celtiche e gli italici:

Nelle loro diverse emigrazioni e invasioni in vari tempi, i Celti non furono senza mescolanze; ma malgrado le mescolanze di altre genti probabilmente germaniche, nella maggior loro composizione conservarono, e conservano tuttora, i loro caratteri fondamentali fisici e psichici.178 (corsivo mio)

175 Esemplari in tal senso: SERGI G., Origine e diffusione della stirpe mediterranea, Società editrice Dante Alighieri, Roma 1895; SERGI G., Discorso del presidente, cit. 176 SERGI G., Le influenze celtiche e gli italici. Un problema antropologico, in RdA III, 1895, p. 159 177 Ibid. 178 Ibid.

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Ritroviamo qui presente una convinzione che rimase ferma nel Sergi: i popoli e le

nazioni appaiono assai difficilmente come popoli antropologicamente puri. Tuttavia

nell’ammettere la possibilità di una presenza di popoli germanici misti ai Celti, i quali

sarebbero responsabili delle invasioni che avrebbero rappresentato una frattura, l’unica,

sul piano della storia antropologica dell’Europa, egli contemporaneamente negava che

l’elemento germanico avesse in qualche modo contribuito efficacemente a definire il

carattere della nuova popolazione. Questa sarebbe stata, tra l’altro, l’antenata di quella

tuttora vivente nell’area del Po; essa avrebbe, dunque, contribuito anche a formare il

carattere di una parte degli Italiani per i quali Sergi escludeva, però, una eredità

germanica rilevante.

Si può forse scorgere già qui una prima spia di quell’anti - germanesimo che, nel

seguito del capitolo, individueremo essere fortemente presente nell’opera

dell’antropologo siciliano.

Fino a pochi anni addietro la civiltà classica dei Greci e dei Latini veniva spiegata esclusivamente per l’indogermanesimo, e prima come tutta intera importazione dall’Asia, poi come un fatto assolutamente indigeno, prodotto nell’Europa centrale secondo alcuni, orientale secondo altri, settentrionale per molti. I popoli dell’Europa meridionale avrebbero subito il dominio e la civiltà insieme con la lingua aria da un popolo di tipo antropologico biondo, alto di statura, con occhi cerulei e tasta allungata, i Germani, cioè, veri arii; e i Greci ed i Romani sarebbero stati solo arianizzati. Oggi questa ipotesi non si trova d’accordo con i fatti, come neppure l’altra ipotesi che vorrebbe sostituire ai Germani i Celti di tipo antropologico diferente, bruni, di statura mediana, con testa larga e corta, con capelli e occhi scuri. Oggi appare con molta evidenza che la civiltà più antica nel Mediterraneo, quella che comparve nelle isole egee, nella penisola greca, in Italia, nella penisola iberica, e altrove nel gran bacino, non è aria (…).179 (corsivo mio)

In questo passo, scritto nel 1895, vi è, in nuce, tutta la polemica anti-ariana che impegnò

il Sergi per tutto il corso della sua lunga vita e attività di studioso: la civiltà greco -

latina non avrebbe avuto un’origine continentale, ma sarebbe invece sorta nel bacino del

Mediterraneo e, fatto fondamentale, non avrebbe niente a che fare con la presunta

superiorità aria (o ariana), sia nel caso in cui gli arii risultassero essere

antropologicamente alti, biondi con gli occhi azzurri e la testa allungata sia nell’altro

179 SERGI G., Discorso del presidente, cit. p. 10

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caso in cui venivano presentati come di statura media, bruni con gli occhi scuri e la testa

corta. La prima delle due descrizioni è quella corrispondente al fortunato stereotipo ario

- germanico alla cui demolizione si dedicò alacremente l’antropologo siciliano che,

coerentemente con le posizioni illustrate poco sopra, non mostrerà mai uguale ostilità

per il tipo ario – celtico. Quest’ultimo, invece, venne, sulla base soprattutto delle

ricerche svolte dal Livi180, ma anche grazie ad indagini dirette, da lui riconosciuto essere

alla base di una parte della popolazione italiana a lui contemporanea.

4. ARII E MEDITERRANEI : IL MEDITERRANEO

Gli anni in cui si andava delineando con sempre maggior forza la teoria delle

razze / specie sostenuta da Giuseppe Sergi furono anni in cui il Mare Nostrum fu teatro

di grandi avvenimenti culturali e politici i quali attirano l’attenzione tanto degli studiosi

quanto degli statisti e degli esperti della scienza politica. Dal punto di vista culturale

determinanti anche per lo sviluppo del pensiero del Sergi furono gli scavi nella Penisola

Anatolica, nella Grecia continentale (soprattutto in Argolide), e a Creta: tra il 1868 e il

1886 Heinrich Schliemann, che nel corso delle sue ricerche ottenne anche il sostegno

del grande antichista e antropologo tedesco Rudolf Virchow181, scavò nei siti

archeologici di Hissarlik, Micene, Tirinto sbarcando anche a Creta (sebbene non

riuscisse a condurvi alcuno scavo a causa di una contesa relativa all’acquisto dei

terreni182), mentre a partire dal 1894 sir Arthur Evans cominciò ad indagare i resti della

civiltà cretese concentrandosi in particolare sulla raccolta di materiali recanti antiche

forme di scrittura183. A esse si accostano altre campagne di scavo condotte dalla

Mesopotamia alla Spagna.

L’importanza di tali scoperte per l’antropologia italiana ed europea venne

sottolineata con forza dal Sergi nel discorso pronunciato da presidente alla Società

180 LIVI R., Antropometria Militare, Stampato presso il Giornale Medico del Regio Esercito, Roma, 1896 181 GODART L., L’invenzione della scrittura. Dal Nilo alla Grecia, Einaudi, 2001. Virchow fu uno dei “colleghi stranieri” più citati ed apprezzati dagli antropologi italiani oltre che, come si è già avuto modo di notare, socio onorario della Società Romana di Antropologia. 182 Ibid. cap. 1 183 Ibid. cap. 1

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Romana di Antropologia, una sorta di “manifesto – guida” per la società stessa, nel

quale traspariva appieno la vocazione multidisciplinare della antropologia italiana:

senza l’aiuto della storia delle civiltà, delle tradizioni, della geografia, senza il soccorso delle scoperte archeologiche meravigliose dei monumenti antichissimi in Asia Minore, nella Mesopotamia, in Egitto, senza la larga e ricca suppellettile dissotterrata a Micene, a Tirinto, a Troja, a Creta, a Cipro, in Sicilia, in Sardegna, nella Spagna, molto maggiore oscurità vi sarebbe nell’antropologia del Mediterraneo; i dati antropologici sarebbero rimasti allo stato di problema soltanto, e una soluzione non avrebbe potuto tentarsi.184

In queste righe si nota già come nella concezione del primo presidente della Società

Romana l’antropologia, per giungere a risultati scientificamente accettabili e non

fantasiosi, non potesse prescindere da un dialogo serrato con le altre discipline, in

particolare con l’archeologia la quale aveva, secondo Sergi, non solo il compito

fondamentale di portare alla luce gli scheletri su cui in seguito l’antropologo avrebbe

lavorato, ma anche la capacità di rivelare gli aspetti della civiltà materiale e artistica

delle popolazioni antiche185.

Altro grande fatto, “destinato [tra l’altro] a modificare notevolmente la

collocazione internazionale” dell’Italia186, avvenuto nella seconda metà dell’800 che

contribuì a riportare l’attenzione e riaccendere l’interesse internazionale sul

Mediterraneo fu la costruzione del Canale di Suez (1859 - 1869) cosicché:

L’importanza della penisola italiana per il controllo del Mediterraneo fu notevolmente accresciuta (…). Per effetto di quest’opera [la costruzione del Canale] il Mediterraneo diventò ancora una volta ciò che era stato nel periodo classico e nel Mediterraneo: la grande via delle genti (…) l’arteria jugulare dell’intero sistema circolatorio. E l’Italia si stende proprio nel mezzo di quest’arteria iugulare.187

(corsivo mio)

184 SERGI G., Sull’origine e la diffusione dei popoli del Mediterraneo, in RdS III, 1895 p. 12 185 Giuseppe Sergi ebbe modo di studiare di persona i crani provenienti da alcune tombe micenee; si veda ad es. SERGI G., Crani di Creta dell’epoca di Micene, in RdA III, 1895 186 RAGIONIERI E., La storia politica e sociale. I problemi dell’unificazione, in Storia d’Italia dall’Unità a oggi, Einaudi, Torino, 1975 p. 1673 187 SALVEMINI G., La politica estera italiana dal 1871 al 1915, citato in RAGIONIERI E., La storia politica cit. p. 1673

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Il Mediterraneo, il Mare Nostrum dei Romani, che doveva aver rappresentato da sempre

l’orizzonte del giovane messinese Giuseppe Sergi, lettore appassionato dei classici greci

e latini e altrettanto acceso patriota italiano, riveste un’importanza enorme all’interno

della teoria razziale proposta dallo studioso siciliano. Egli lo descrisse con parole che

sembrano rievocare quelle degli antichi geografi, medici e storici188 che in esso

rintracciavano l’habitat ideale, ispiratore di moderazione nell’animo umano:

Il Mediterraneo ha presentato le condizioni più favorevoli per lo svolgimento della civiltà, e di una civiltà più cosmopolita che non fosse quella nata e sviluppata nelle valli dei grandi fiumi (…). A queste si aggiungono altre condizioni naturali che resero e rendono una delle più felici regioni abitabili del mondo il Mediterraneo, cioè il clima temperato, la fertilità del suolo, l’abbondanza di ogni produzione. Appena si esce da cotesto bacino felice, s’incontrano o i deserti (…) o regioni considerate inospitali nel mondo antico, quelle del centro d’Europa e della Scizia (…)189 (corsivo mio)

Questa digressione non deve sembrare inappropriata se si considera che alla base degli

studi sulla zoologia umana rimane l’eterno interrogativo legato all’influenza che

l’ambiente naturale avrebbe esercitato sui popoli e sulle razze.

A questo proposito lo storico George Mosse ci ricorda che:

Quando fu applicato alle razze e agli uomini il darwinismo subì un altro improvviso mutamento di grande rilevanza. Darwin da parte sua aveva creduto che la selezione naturale e la variazione della specie fossero dovute all’ambiente e ai mutamenti che avvenivano nel suo ambito. (…) Più tardi i darwinisti sostituirono questo ambientalismo con l’insistenza sui fattori ereditari.190

Nonostante ciò la querelle continuò a ripresentarsi ciclicamente, tanto nelle

ricerche dei linguisti quanto in quelle portate avanti dagli antropologi soprattutto nel

tentativo di identificare la patria originaria (Urheimat) degli indoeuropei – ariani

dapprima ricercata in Asia poi, sotto la spinta di un forte germanocentrismo, facendosi

forza anche della pretesa autoctonia dei Germani attestata da Tacito, fissata nelle foreste

dell’Europa centrale e della Scandinavia. Ispirandosi forse anche a questo modello, che

188 Si pensi ad Ecateo, Ippocrate, Erodoto 189 Ibid. p. 11 190 MOSSE G. L., Il razzismo in Europa cit. p. 81

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potremmo definire “delle foreste nordiche”, Sergi elaborò il proprio modello

“mediterraneo - temperato”.

Dunque la ricerca dell’antropologo messinese si svolse su una direttrice

Mediterraneo - centrica che venne portata negli ultimi scritti191 alle estreme

conseguenze; in essi, infatti, venne esposta quella che Cristiano Camporesi definisce

magnanimamente “un’ardita ipotesi” riassumibile nell’idea secondo la quale “l’uomo

ebbe origine nella fauna europea e afromediterranea”192. Poichè nello scritto di

Camporesi non è sufficientemente chiaro, è bene specificare che l’uomo, che come

concetto unitario chiaramente non esiste nell’immaginario del Sergi in quanto egli fu

sempre un convinto sostenitore dell’esistenza di una molteplicità delle specie umane,

ebbe origine nel bacino mediterraneo in quanto ivi sarebbero comparsi i mammiferi tutti

e, dunque, anche l’uomo.

5. ARII E MEDITERRANEI: EURAFRICANI E EURASICI IN UNA PROSPETTIVA

EXTRA EUROPEA. IL PROBLEMA DELLE MIGRAZIONI

Con il passare del tempo e il procedere della ricerca, il Sergi abbandonò nei suoi

studi quest’impronta così strettamente localistica per tracciare un quadro di una stirpe la

cui diffusione risultava ampia e vasta appariva anche la germinazione di cultura che

avrebbe fatto seguito alla migrazione della stirpe stessa.

Procedendo nell’indagine antropologica egli andava convincendosi sempre di più che

esistesse una contrapposizione fondamentale, potremmo quasi definirla ontologica, tra i

due tipi di forme craniche, le brachicefale e le dolicocefale, e si concentrò ancor più

sullo studio dei popoli antichi e moderni impostando tutta la propria ricerca su questa

antinomia.

Egli finì per assegnare alle forme brachicefale il carattere fondamentale sulla

base del quale identificare la specie da lui denominata “eurasica”193, mentre alle forme

191 Si veda a questo proposito in particolare SERGI G., I mammiferi. Origine ed evoluzione. Nuova interpretazione, Torino, 1923 192 CAMPORESI C., Genesi mediterranea: metodologia induttiva e mistica dell’antichità nell’opera di Giuseppe Sergi, Printer, Bologna 1991 p. 95 193 Questa denominazione sul finire del secolo XIX finì per sostituire e soppiantare definitivamente la definizione di “stirpe europea” che, l’abbiamo visto, veniva assegnata in precedenza dal Sergi anche ai

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dolicocefale fece corrispondere la specie denominata “eurafricana”. I nomi di entrambe

le specie furono coniati dal Sergi sulla base di ricerche vastissime tanto sul materiale

osteologico antico quanto sui dati raccolti da altri studiosi in merito alle popolazioni

moderne (termine col quale si intendevano le popolazioni altrimenti dette odierne, cioè

contemporanee agli studiosi stessi) che gli permisero di proporre una ricostruzione delle

migrazioni dei due gruppi umani attraverso i millenni.

La specie eurafricana (dolicocefala), cui apparterrebbe la varietà mediterranea,

avrebbe avuto origine in Africa, precisamente nelle zone corrispondenti all’odierna

Etiopia e alla Somalia194, e da lì sarebbe partita seguendo due direzioni: verso il

Mediterraneo, giungendo in Europa continentale e fino alla Scandinavia, e verso est,

attraverso l’Iran e l’antica Persia, spingendosi infine in Asia ed occupando la penisola

indiana. La specie eurasica (brachicefala) si sarebbe, invece, originata in Asia Centrale e

da lì si sarebbe mossa verso sud e verso nord – ovest con una migrazione che avrebbe

coinvolto gran parte dell’Europa continentale. Tuttavia gli spostamenti di genti

provenienti dall’Africa sarebbe avvenuta in un tempo di molto antecedente rispetto a

quella proveniente dall’Asia; gli autentici abitanti dell’Europa nell’ottica di Sergi

sarebbero stati, dunque, gli eurafricani, responsabili del primo popolamento del

continente, almeno se si esclude il vero homo europeus, quello di Neanderthal, specie

originatasi secondo l’antropologo siciliano in territorio europeo, ma estintasi senza

lasciare traccia come abbiamo già avuto modo di accennare in precedenza.

Dunque i primitivi abitanti dell’Europa sarebbero giunti dall’Africa, attraverso il

Medioriente, passando nell’Egeo, e dalla sponda sud del Mediterraneo, procedendo fino

nella penisola iberica; tra questi Sergi annoverava gli Italici, popoli dell’Italia antica tra

i quali diede grande risalto ai Liguri. La terminologia usata da Sergi in merito agli Italici

trovò fieri avversari poiché egli denominò in tal modo i popoli antropologicamente

iscritti nella specie eurafricana in quanto considerati responsabili del primo

popolamento della penisola; Sergi non volle recedere dall’uso di questa terminologia

sebbene essa rischiasse di creare confusione non aderendo (anzi, in molti casi rivestendo

il significato opposto) a quella utilizzata dai topografi antichi, dagli archeologi e dagli

Celti i quali, d’ora in avanti, verranno fatti rientrare nella specie “eurasica” in virtù della loro (presunta) brachicefalia. 194 Tale specie avrebbe avuto il suo “centro di origine e di dispersione nell’oriente d’Africa, dalla Somalia all’Etiopia; di là partendo le prime emigrazioni (…)” in SERGI G., Sull’origine e la diffusione dei popoli, cit. p. 19

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storici dell’antichità195. È utile esplicitare tale nomenclatura poiché si può intravedere

già in essa come il Sergi mirasse a identificare tali popoli eurafricani – dolicocefali con i

più autentici antenati del popolo italiano.

6. ARII E MEDITERRANEI: CONTRO LA TEORIA FILO – ARIANA. L’ANALISI

LINGUISTICA ED ANTROPOLOGICA

Di pari passo con la definizione delle due specie diffuse sul continente europeo,

egli si dedicò alla confutazione della teoria, all’epoca assolutamente dominante, che

attribuiva alla stirpe aria (o indoeuropea, o indogermanica) il primato biologico –

culturale.

Da alcuni anni avevo affermato, con molti argomenti di prova, che l’invasione aria in Europa aveva portato le (sic!) barbarie e che le due grandi civiltà mediterranee, la greca e la latina, non ebbero origine aria, malgrado che i linguaggi fossero arii196

Affermazione che aveva trovato alcuni sostenitori e molti increduli poiché:

Gli storiografi hanno seguito i linguisti e i filologi e scrivono (…) come se nessuna critica fosse passata (…) da Max Muller in poi; gli archeologi chiudono gli occhi a tutto ciò che avviene attorno a loro, e fissano le loro conclusioni sulla base di una civiltà detta aria o indoeuropea.197

Secondo Sergi “sono i linguaggi principalmente che hanno fatto la classificazione dei

popoli e delle razze, non i caratteri fisici che sono i veri mezzi di classificazione, come

sono i più costanti”198; infatti le lingue si potrebbero imparare, secondo l’antropologo

siciliano, da popoli invasori o da popoli invasi, mentre i caratteri fisici discenderebbero

dall’eredità biologica e risulterebbero, quindi, indicatori certi.

195 Di seguito utilizzerò il nome “Italici” per i primi “eurafricani” ove non esplicitamente dichiarato diversamente. 196 SERGI G., Gli Arii in Europa e in Asia, cit. – prologo 197 Ibid. p. 1 198 SERGI G., Sull’origine e la diffusione dei popoli del mediterraneo, cit. p. 16

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Dunque, secondo il Sergi, il problema risultava mal posto in quanto discendeva

da una errata interpretazione linguistica: “in Europa sono indicati come arii tutti i popoli

che parlano lingue slave, germaniche, celtiche, greche e romaniche, con tutti i dialetti

che sono derivati”199, ma quello linguistico non sarebbe un criterio di classificazione

esatto poiché confonderebbe due realtà, quella del linguaggio e quella antropologica200,

le quali sarebbero, invece, distinte, al punto che “noi neppure siamo sicuri che tutti gli

importatori delle lingue arie sino arii anch’essi, ovvero genti che hanno subito

l’influenza dei veri arii e siano, come dicesi, arianizzati”201

Secondo Sergi popolazioni certamente arianizzate nella lingua furono la Greca e

l’Italica; a sostegno di questa tesi, assieme al dato antropometrico ricavato dall’analisi

diacronica dei resti umani nelle tombe preistoriche e protostoriche, egli portava i vari

dialetti europei (in particolare il Ligure per l’Italia) che, assieme alla lingua basca,

mostrerebbero delle rimanenze pre - arie e sarebbero, quindi, testimoni del fatto che le

antiche popolazioni neolitiche non parlavano lingue cosiddette arie202.

In quest’ottica la lingua latina si sarebbe formata a seguito di due invasioni di

genti provenienti dall’Asia, antropologicamente differenti dalle precedenti in quanto

brachicefale della specie eurasica, che avrebbero interessato l’Europa alla fine dell’età

neolitica; la prima di tali invasioni, pacifica, avrebbe portato di fatto a una assimilazione

dei nuovi venuti (i quali non sarebbero stati numerosi203) con le genti locali, mentre la

seconda sarebbe stata un’invasione violenta che avrebbe portato la barbarie e un

regresso della civiltà in Europa.

Sergi rintracciava le presunte prove della venuta di nuove popolazioni,

antropologicamente diverse dalle precedenti e culturalmente più arretrate nelle

sopravvivenze dialettali, nei crani neolitici ed eneolitici nei quali comincerebbero a

199 Ibid. p. 4 200 “ario è un concetto linguistico, non antropologico” Ibid. p. 7 201 Ibid. p. 5 202 Questi concetti si trovano ancora utilizzati, nella medesima forma in cui vennero proposti dal Sergi (la cui opera, infatti, compare nella bibliografia utilizzata dall’autore per il capitolo sulla preistoria della civiltà mediterranea), da Silvio Accade nel 1966: “Mediterranee si chiamano le antiche lingue parlate nelle regioni di questo bacino indipendenti dalle lingue indoeuropee, semitiche e camitiche; esse continuano in una sola lingua vivente, il basco, ma sono documentate anche dall’iberico, dal ligure, dall’etrusco, dall’eteocretese, dal cario, dal licio, dal lidio ecc.”. ACCAME S., La formazione della civiltà mediterranea, La Scuola, 1966 p. 19 203 Sergi deduce che gli invasori fossero in numero scarso dai pochi reperti paleoantropologici da lui attribuiti al periodo di questa prima invasione in quanto presenterebbero cranio brachicefalo. A questo proposito si veda: SERGI G., Arii ed Italici, Gli arii in Europa e in Asia cit. Sergi torna spesso su questo argomento, ad es. in: SERGI G., Europa cit.

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comparire in maniera diacronica crani brachicefali prima praticamente assenti, ma

anche in cambiamenti culturali rilevanti come l’introduzione del rito dell’incinerazione

che avrebbe segnato un passo indietro, un regresso nel grado di civiltà delle popolazioni

europee: seppellire i propri morti anziché cremarli veniva visto dall’antropologo

siciliano come indice di avanzamento culturale.

Allo stesso tempo egli ammetteva che le invasioni arie fossero continuate ad

ondate successive, come dimostrerebbero i tre autentici ceppi linguistici ariani: il

celtico, il germanico e lo slavo.

Il ramo celtico, sempre per linguaggio non mai per caratteri fisici distinto dagli altri, sembra essere stato il primo ad entrare in Europa e si trova anche oggi sempre ad occidente. Nella Gran Bretagna, nella Francia, nella Spagna e nell’Italia occidentale sono i Celti che appariscono [si noti che qui si fa riferimento alle lingue, non ai caratteri fisiologici]. Il ramo germanico deve essere stato il secondo, (…), perché trovasi nel centro e nel settentrione d’Europa accanto al celtico, mentre ha gli Slavi ad oriente della regione che occupa. Gli Slavi sono venuti gli (sic!) ultimi, si sono spinti non solo verso il centro ma anche verso il sud (…).204

Dei tre rami delle lingue arie solo due avrebbero contribuito alla nascita delle lingue

italiche tra cui la latina che si sarebbero “formate sotto l’influenza di due rami della

[stirpe] Eurasica, dal celtico e dallo slavo”205. Ancora una volta ci troviamo davanti

all’eliminazione delle influenze germaniche per quel che riguarda l’Italia e, anche se

potrebbe essere ricondotto ad un’analisi puramente linguistica, è un altro affondo che

esclude il contributo propriamente germanico dal patrimonio culturale e biologico

italiano.

Notiamo anche come i Celti, per i quali Sergi aveva mostrato di condividere la

descrizione fisica proposta da Broca, risultino “non mai per caratteri fisici distinti dagli

altri” – dove per caratteri fisici si deve intendere cranici giacchè era attraverso la forma

cranica che Sergi procedeva nel distinguere tra arii e non arii, mentre egli manteneva

intatto il valore dei caratteri esterni come indicatori di varietà.

Dopo il problema linguistico doveva essere affrontato dal Sergi il problema dell’origine

della civiltà aria in Asia; egli si volse allo studio delle popolazioni asiatiche mantenendo

204 Ibid. p. 41 205 Ibid. p. 40

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come fine dichiarato, però, sempre l’Europa e arrivando a una conclusione per molti

versi originale.

Alla fine delle sue lunghe indagini multidisciplinari incrociate (dal sanscrito ai

poemi omerici, dalla craniometria alla morfologia fisica ecc.) l’antropologo messinese,

dopo aver ascritto gli Arii asiatici alla specie eurafricana e alla varietà mediterranea la

cui area di diffusione comprenderebbe, dunque, il subcontente indiano e l’antica Persia,

individua in questi gli inventori del linguaggio ario – indoeuropeo. Questi “veri arii”206

avrebbero poi trasmesso la propria lingua agli arii europei (della specie eurasiatica) un

tempo stanziati solo in Asia centrale, con i quali gli arii - eurafricani sarebbero venuti

territorialmente a contatto. I “falsi arii”207 (cioè gli arii eurasici) al termine della loro

migrazione verso nord – ovest sarebbero poi giunti in Europa. Tuttavia Sergi contestava

anche il fatto che il linguaggio indoeuropeo fosse giunto puro in Europa tramite la stirpe

eurasica – brachicefala; al suo arrivo nel nostro continente il linguaggio originario ario

da questi appreso dagli arii d’Asia sarebbe, infatti, già stato contaminato. Dunque

sarebbero stati questi arii eurasici a importare il linguaggio indoeuropeo in una sua

forma alterata e a trasmetterlo ai popoli non arii (cioè gli eurafricani europei)

precedentemente stanziatisi nel Vecchio Continente208, ma essi non ne sarebbero i veri

autori. Il linguaggio indoeuropeo, linguaggio superiore per complessità e capacità di

esprimere concetti e, quindi non facilmente attribuibile ai barbari eurasici, sarebbe stato

anch’esso opera di quella stirpe che, a parere del Sergi, fu la vera apportatrice di cultura

cioè l’eurafricana.

Così, nel 1909 Giuseppe Sergi riassumeva i risultati raggiunti:

Questa teoria conferma le mie induzioni antropologiche sugli arii in Europa che ho trovato così differenti da quelli asiatici. Io sostenni che gli Arii asiatici erano, antropologicamente, del tipo mediterraneo, bruni, con teste lunghe e facce ovali; Persiani e Indiani erano di questi caratteri fisici e sono ancora in gran parte (…). L’ario deve essersi formato nella regione che sta di mezzo fra la Persia e l’Indukush e il

206 Sergi definisce “veri arii” alcune popolazioni eurafricane poiché con esse identificava gli inventori della lingua aria. Vale la pena sottolineare che qui il termine “ario” fa riferimento a una realtà eminentemente linguistica che non trova corrispondenza in una realtà biologica. Gli “arii asiatici” sarebbero infatti eurafricani, mentre gli “arii europei” apparterrebbero alla specie eurasica e avrebbero in comune solo il fatto di parlare lingue appartenenti alla famiglia indoeuropea. 207 Anche questa è un’espressione usata dallo stesso Sergi. 208 Oltre ad Gli Arii in Europa e in Asia del 1903 la teoria del Sergi sull’origine e la diffusione del linguaggio indoeuropeo si trova chiaramente esposta in SERGI G., Intorno alla monogenesi del linguaggio, in RIdS XI fascicolo VI, 1909 pp. 733 - 742

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Pamir (…). Così io sostenni che i creatori dell’Indoeuropeo, ramo asiatico, fossero quelle popolazioni originarie dell’Africa, dello stesso tipo mediterraneo, che avevano emigrato in epoca antichissima (…). Queste popolazioni erano in contatto con quelle parlanti lingue di tipo uraloaltaico e ugrofinnico, ed erano da esse fisicamente differenti, tipi d’origina asiatica, e specialmente prossimi con quella varietà asiatica, che in seguito denominai eurasica per la grande distribuzione geografica in Europa. Questa varietà ha imparato e trasformato la propria lingua sotto l’influenza degli Arii legittimi, ed ha immigrato in Europa, importando il tipo linguistico ario (…).209 (corsivo mio)

Si noti allora come il Sergi proponesse un completo rovesciamento di prospettiva: non

solo gli arii europei, non sarebbero stati i dolicocefali biondi con gli occhi azzurri della

tradizione germanica, ma non risulterebbero essere stai neppure veri ariani non essendo

stati affatto gli inventori del linguaggio ario, linguaggio che avrebbero ricevuto, invece,

da popolazioni di tipo antropologico uguale a quelle che risiedevano sulle sponde del

Mediterraneo. Si capisce, dunque, come la teoria del Sergi apparisse un attacco feroce a

tutti i dogmi dell’arianesimo di matrice anglo – tedesca.

7. ARII E MEDITERRANEI: TIPI ANTROPOLOGICI E DIFFUSIONE

TERRITORIALE NELL’EUROPA DOPO L’INVASIONE ARIA

Assieme alla soluzione del problema ariano sul piano linguistico, il Sergi

proponeva ovviamente anche l’interpretazione antropologica completa dei due tipi

essendo partito nell’esplorazione della galassia ariana proprio dalla constatazione che

“gli arii [cioè parlanti linguaggi arii] d’Asia sono diversi da quelli d’Europa” e che

“(…) in Europa vi sono arii di lingua, ma non arii di razza, o almeno che dei popoli

parlanti lingue arie, alcuni non sono arii di razza” poiché “troviamo egualmente arii di

lingua con qualunque tipo di testa”210.

Secondo Sergi gli arii eurasiatici “sono brachicefali, con cranio a forma di

cuneo, sfenoide, a forma di sfera o sferoide, e platicefalo”211. Gli eurafricani della

varietà mediterranea (cui apparterrebbero a pieno titolo le popolazioni parlanti lingue

209 SERGI G., Intorno alla monogenesi del linguaggio cit. p. 741 210 SERGI G., Arii in Europa e in Asia, cit. pp. 12 - 13 211 Ibid. p. 124

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arie in Asia, dall’Iran all’India) nella descrizione dell’antropologo messinese, invece,

avrebbero:

cranio dolico e mesocefalo, con forme prevalenti ellissoidali ed ovoidali, con faccia ugualmente a forma d’ellissi più o meno allungata ed ovoidale, come forme predominanti; fronte verticale o poco inclinata, spesso bassa; naso dritto o curvilineo, spesso anche largo; occhi orizzontali e ben tagliati, qualche volta a mandorla; i (sic!) zigomi ripiegati all’indietro; nessun prognatismo o poco; proopia. La statura è media ma qualche volta supera la media; il corpo è slanciato, non incline alla grassezza esagerata; collo sottile e anche alto; arti ben proporzionati, mani e piedi vari, cioè grandi e piccoli. Il colore della pelle è bruno in varie gradazioni, olivastro qualche volta, avorio vecchio spesso; capelli e barba scuri, castagni (sic!) in prevalenza, qualche volta neri; l’iride scura, castagno scura e anche nera [con variazioni regionali].212

Le due specie si sarebbero mescolate in Europa cosicché non esisterebbe un popolo

antropologicamente omogeneo. Tale mescolanza non risultava affatto omogenea:

(…) dalle osservazioni che ho svolte (…) posso affermare (…) che le popolazioni più antiche (…), tipo eurafricano, si trovano oggi verso la periferia del continente, più o meno mescolate con degli elementi estranei, mentre quelle di tipo eurasico sopravvenute in epoca più tardiva hanno le loro sedi principali nelle regioni centrali.213

Quanto all’Italia, basandosi sulle osservazioni del Livi214, il Sergi rilevava che:

tutta la valle del Po è occupata interamente [dalla popolazione di tipo eurasico]; meno densa è l’infiltrazione nell’Italia centrale, e diminuisce effettivamente per diventare quasi nulla nella parte estrema e nelli isole.215

Lo stesso fenomeno si presenterebbe verso il settentrione d’Europa per cui la

Scandinavia e le isole britanniche sarebbero tuttora occupate quasi esclusivamente da

elementi di origine eurafricana; elementi eurafricani sarebbero abbondantemente

presenti anche in Danimarca, Olanda e nel nord della Germania sebbene quest’ultima

212 Ibid. p. 143 213 SERGI G., Europa, cit. p. 623 214 LIVI R., Antropometria militare cit. 215 SERGI G., Europa, cit. p. 624

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fosse essenzialmente popolata dal tipo eurasico216. Questa analisi geografica, pur

basandosi su osservazioni antropologiche, ricorda molto la teoria linguistica delle così

dette aree marginali, le quali sarebbero per loro natura più conservative non soltanto

linguisticamente, ma anche culturalmente in quanto meno esposte ai cambiamenti

provenienti dal centro. Tale assioma, enunciato proprio nell’ambito dei primi studi sul

lessico indoeuropeo e fatto proprio dalla filologia tedesca, seppur non esplicitato217

doveva essere ben noto al Sergi e potrebbe aver contribuito a rafforzare in lui la

convinzione della bontà della propria proposta armonizzandosi assai bene con i dati

antropologici raccolti.

Europa si conclude con una descrizione dettagliata della distribuzione

geografica delle due specie europee e delle rispettive sottovarietà e dei caratteri somatici

di queste. È bene prendere in considerazione entrambi gli aspetti poiché da essi si

potranno ricavare elementi utili ad affrontare il problema dei popoli germanici in

generale e dei longobardi in particolare.

Alla specie Homo eurafricus venivano fatte corrispondere due varietà europee:

l’Homo nordicus, e l’Homo mediterraneus, mentre la specie Homo eurasicus non

presenterebbe sottovarietà apprezzabili. Le rispettive caratteristiche sono riportate nella

tabella in fondo al capitolo e la distribuzione sul continente è segnata nella cartina

allegata..

8. L’ANTIGERMANESIMO DI GIUSEPPE SERGI

L’antigermanesimo costituiva un paradigma ideologico di cui si servirono

ampiamente i patrioti italiani prima, durante e dopo il processo di unificazione

territoriale dell’Italia. Come sostiene Luca Mannori “almeno dal 1796 l’Austria è

presente nell’immaginario patriottico italiano come una entità ostile; e ciò non soltanto

216 Ibid. p. 623 seg. 217 Chiaramente la teoria della distribuzione geografica delle due stirpi sul continente che il Sergi espose in Europa si basava sui dati antropologici avendo l’autore cura di attenersi ad essi per ragioni di natura scientifica.

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sotto il profilo politico, ma anche sotto quello antropologico”218. Tuttavia in un primo

tempo ciò avveniva sotto l’influsso del pensiero giacobino incline a vedere nei “barbari

del Nord” i fautori del tramonto delle libertà antiche219 e “prima della Restaurazione il

‘tedesco’ non compare come un personaggio di primo piano nel discorso

nazionalista”220.

Come rileva lo stesso Mannori, è a partire dal 1820221 che il sentimento

antiautriaco venne, invece, a saldarsi con gli ideali italianisti ed indipendentisti. Questo

processo avvenne di pari passo con il superamento del regionalismo fino ad allora

dominante a favore di una visione panitaliana che si qualificava per la volontà di

realizzare un soggetto unitario, la nazione in armi, capace di opporsi ad un avversario

formidabile: battere l’Austria allora non era “più questione di ordine empirico, bensì la

grande prova che l’Italia doveva a se stessa per dimostrare di essere risorta e per

guadagnarsi un posto tra le nazioni”222. Il successo del paradigma della lotta contro il

barbaro invasore per la liberazione del patrio suolo fu tale che già nel 1831 Giuseppe

Mazzini poteva scrivere nel Manifesto della Giovine Italia che “l’aborrimento del

Tedesco, la smania di scotere [sic!] il giogo, e il furore di Patria sono passioni

universalmente diffuse”223.

Alla metà del secolo XIX troviamo già la presa di coscienza da parte delle élite

politiche e culturali del ruolo decisivo svolto dal sentimento antiaustriaco nella

diffusione di una coscienza unitaria italiana; tale convincimento si trova enunciato

anche negli scritti di Carlo Cattaneo224 e nella Storia d’Italia dal 1815 al 1850 del

218 MANNORI L., Alla periferia dell’Impero. Egemonia austriaca e immagini dello spazio nazionale nell’Italia del primo Risorgimento (1814 - 1835), in BELLABARBA, MAZOHL, REIHNHARD, VERGA a cura di., 2008 p. 328 219 Ibid. p. 328 220 Ibid. p. 329 221 con la svolta nella politica italiana del Metternich a seguito della rivoluzione napoletana e la conseguente enunciazione della “teoria dell’intervento” il ruolo dell’Austria percepito nella penisola passa da un supposto patronato politico latore di una leadership morale a quello di “potenza rapace e repressiva”. 222 MANNORI L., Alla periferia dell’Impero. cit. p. 341 223 MAZZINI G., Manifesto della Giovine Italia (1831), in Edizione Nazionale. Scritti editi ed inediti di Giuseppe Mazzini, II, Imola 1906 p. 77 citato in MANNORI L., Alla periferia dell’Impero. cit. p. 309 224 “la coscienza esplicita e solenne d’una vita comune e nazionale (…) si svegliò in Germania tra le guerre francesi e si svegliò in Italia appunto sotto l’assidua doccia dell’Austriaca importunità”. CATTANEO C., Tutte le opere, a cura di Ambrosoli L., in Archivio triennale delle cose d’Italia, vol. 1, Milano 1974 p. 613 citato in MANNORI L., Alla periferia dell’Impero. cit. p. 311

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patriota siciliano Giuseppe La Farina225, personaggi e opere che dovevano essere ben

noti al giovane Sergi. Se è possibile affermare che le élite della penisola si scoprirono

italiane davanti all’Austria226, risulta più facile comprendere come la costruzione del

tipo antropologico italiano, che abbiamo visto andare di pari passo con il

consolidamento nazionale, finisse inevitabilmente per assorbire e tal volta esasperare

alcuni elementi di questa contrapposizione, tanto più se si tiene conto di quel complesso

legame che antropologi e antropologia intrattenevano in quegli anni con la sfera degli

ideali e della prassi politica.

Ancora più forza derivò al paradigma antigermanico dopo la stipula della

Triplice Alleanza dall’emergere del sentimento irredentista, “una delle principali matrici

del nazionalismo italiano”227; la diffusione di un tale orientamento ebbe conseguenze

anche nel campo degli studi contribuendo “a determinare l’emergere di un marcato

antigermanesimo e lo spostamento dell’attenzione verso il Mediterraneo”228. Pertanto

La tematica delle origini mediterranee – in contrapposizione esplicita all’arianesimo – aveva evidentemente costituito fin dalla fine dell’Ottocento una costante nel tentativo messo in opera dai nazionalisti italiani di riformulare su basi nuove il mito nazionale.229

Per tutti questi elementi che contribuirono a creare un particolare humus

culturale si può facilmente osservare, dunque, come il mediterraneismo abbia trovato

nel clima politico e sociale instauratosi nel Paese alla fine del XIX secolo un terreno

fertile in cui affondare le proprie radici, quello stesso clima che risultava, invece, ostile

a posizioni filo – indoeuropee. Tale quadro si adatta molto bene anche alla figura di

Giuseppe Sergi, il quale apparteneva a

quella cultura risorgimentale che si traduceva nel radicalismo repubblicano e che per quella via lo avrebbe sempre indotto alla

225 “Combattere l’Austria, vincere l’Austria (…) fu quindi il bisogno più generalmente e profondamente sentito: la nazionalità italiana era per così dire la logica conseguenza, imperciocchè in filosofia, in politica, in istoria l’affermazione segue necessariamente la negazione” LA FARINA G., Storia d’Italia dal 1815 al 1850, Torino 1851 – 1852, vol. II p. 329 cit. in MANNORI L., Alla periferia dell’Impero p. 309 226 MANNORI L., Alla periferia dell’Impero cit. 227 TARANTINI Massimo, Tra teoria pigoriniana e mediterraneismo. Orientamenti della ricerca preistorica e protistorica in Italia (1886 - 1913) , in La nascita della Paleontologia in Liguria. Atti del convegno, Bordighera, 2008 p. 56 228 TARANTINI Massimo, Tra teoria pigoriniana e mediterraneismo. cit. p. 56 229 TARANTINI Massimo, Tra teoria pigoriniana e mediterraneismo. cit. p. 58

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diffidenza nei confronti del mondo germanico spingendolo nel 1915 ad un interventismo di matrice democratica quale ritorno in forze ad un’Italia patriottica.230

Di seguito ci soffermeremo su alcuni aspetti della polemica antigermanica

presente nell’opera di Giuseppe Sergi cercando di mettere a fuoco come gli aspetti

negativi attribuiti al popolo tedesco venissero messi in relazione dall’antropologo

siciliano con alcuni caratteri atavici comuni alle popolazioni germaniche progenitrici

degli odierni tedeschi; potremo, dunque, ricavare di riflesso le caratteristiche

psicologiche attribuite agli antichi germani dal fondatore della Società Romana di

Antropologia giacché egli sostenne sempre, ribadendolo più volte nel corso della suo

lunga vita, che “gli uomini e i popoli rimangono sempre quelli che sono con le loro

qualità e i loro istinti, che non mutano”231. Da questo punto di vista - a quell’epoca

largamente condiviso nel mondo dell’antropologia europea - nel quadro della prima

antropologia fisica appare del tutto legittimo svolgere il procedimento all’inverso,

risalendo a ritroso lungo la catena delle generazioni per attribuire ai padri le

caratteristiche psicosomatiche dei figli. Nell’eseguire un procedimento simile siamo

autorizzati anche dalle parole dello stesso Sergi:

chi rimonta nella storia delle popolazioni, troverà i barbari germanici, entrati la prima volta nella storia con Cesare, con le stesse tendenze, con la stessa condotta, quali vediamo oggi nella guerra presente [il riferimento è ai Tedeschi e alla Prima Guerra Mondiale]. La cultura, e la scienza non modificano, non aboliscono i caratteri, anzi l’una e l’altra servono come mezzi a fare di più emergere nei tedeschi i caratteri selvaggi.232

230 DE FRANCESCO A., La diversità meridionale, cit. p. 79 231 SERGI G., La cultura germanica, in «Nuovo Convito» I, 1916 p. 9. Lo stesso concetto viene, ad esempio, ribadito in un altro breve articolo comparso sempre in «Nuovo Convito»: “(…) chi è convinto che i caratteri psicologici umani sono come i caratteri biologici, e non si perdono né si modificano; soltanto possono rimanere latenti per qualche tempo e per qualche causa”. SERGI G., Per la Società delle Nazioni, in «Nuovo Convito» III, 1918 p. 342 232 SERGI G., Per la Società delle Nazioni, cit. p. 342

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8.1 Gli anni del primo conflitto mondiale: gli articoli pubblicati in

«Nuovo Convito» e la psicologia dei popoli europei

La forte avversione per le posizioni scientifiche espresse da molti studiosi di

lingua tedesca manifestamente presente nelle opere di Giuseppe Sergi diviene nei primi

decenni del XX secolo giudizio di condanna che coinvolge un intero popolo. Negli anni

del primo conflitto mondiale Sergi scrisse, infatti, una serie di articoli nei quali,

complice il clima infuocato della guerra, la polemica antitedesca si fa particolarmente

accesa. Tali articoli di carattere fortemente politico vennero pubblicati in «Nuovo

Convito»; questa rivista, adornata con ricche illustrazioni che paiono rimandare

esplicitamente ad un simbolismo sacrale reso in uno stile artistico vicino all’art nouveau

- stile usato tra la fine dell’Ottocento e le prime decadi del Novecento per rappresentare

alcuni degli emblemi e delle epopee nazionali un po’ in tutta Europa (con un occhio di

riguardo alle narrazioni a soggetto medievale, basta pensare all’Epopea Slava di Mucha

o alle molte scene tratte dalla leggenda del Graal), già sul finire del primo anno d’uscita,

il 1916, venne rinnovata per adattarsi ad un’epoca definita dalla direzione “più che

d’immagini di parole” e “più di fatti (…) che di parole” nel fine dichiarato di

“contribuire al meraviglioso esempio di forza e di serenità di cui dà prova la nostra

patria proseguendo ed intensificando la sua opera intellettuale e civile pur nello

spaventoso turbine della guerra”; si voleva pertanto che essa fosse caratterizzata da un

“alto valore morale”233.

Gli articoli firmati da Giuseppe Sergi dovevano apparire perfettamente

rispondenti a tale scopo. In un articolo comparso sul numero di ottobre – dicembre di

«Nuovo Convito» del 1916 intitolato Di un carattere psicologico dei popoli il Sergi

riconosceva il proprio passato pacifista, motivato dalla convinzione profonda che la

grandezza di una Nazione consistesse nella sua produzione civile e culturale; tale

convinzione nel 1916 si scontrava, però, con l’amara constatazione che il parametro

reale sulla base del quale si sarebbe costruito il prestigio di una nazione234 fosse, invece,

la forza militare:

233 «Nuovo Convito» I, ottobre – dicembre 1916 pag. 370 234 di una nazione e non di uno stato! – pare che in questo particolare momento storico l’autore si scordi della cautela mostrata in passato nel separare nettamente le nozioni di “stato” e “nazione” : egli mette qui in parallelo la nazione serba alla nazione francese alla nazione belga ecc. (si veda il resto del capitolo)

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questo ideale [che la grandezza sia riposta nella cultura] è un’illusione: le nazioni e i popoli235 senza dubbio sono stimati per la loro cultura e la loro civiltà, ma non contano nel novero dei forti e dei potenti, se non si fanno valere con la forza delle armi (…) o non si fanno temere per le vittorie avute su altri popoli.236

La corrispondenza istituita tra capacità bellica e prestigio nazionale d’altra parte era da

sempre consustanziale alla logica nazionalista; tuttavia nell’analisi proposta dal Sergi

valore e forza fisica risultavano essere innanzitutto fattori d’origine biologica. Non solo:

anche la tendenza quasi universalmente condivisa ad utilizzare parametri di valutazione

basati sulla capacità di esercizio della forza (personale o collettivo) era secondo

l’antropologo di Messina da far risalire a una inclinazione biologica originaria, legata

alla physis, inclinazione che tanto i popoli quanto i singoli individui non avrebbero mai

perso nonostante i millenni di sforzi di incivilimento. In questo senso egli poteva

riaffermare che

ciò che è preponderante è di carattere fisico, ciò che domina e comanda è energia fisica, ciò che è impulso è di carattere biologico.237

È utile qui sottolineare per inciso come il continuo riferimento alla virilità,

espresso tramite la ripetizione quasi ossessiva di parole ed espressioni attinenti la sfera

della corporeità - qui evidente nella prima parte dell’articolo preso in esame (valore

fisico, resistenza fisica, energia fisica…), non sia solo funzionale alla contrapposizione

cultura/forza bruta su cui si basava parte della riflessione svolta dal Sergi, ma sia da

riferirsi anche alla retorica allora istituita attorno alla figura del soldato - non a caso

Sergi paragona gli uomini “colti, civili, intellettuali soltanto” a “donne belle e gentili

che hanno più bisogno di protezione e di carezze che di essere tenute in

considerazione”238; tale figura, qui evocata indirettamente tramite alcuni suoi attributi

caratteristici, apparteneva all’immaginario culturale che va saldandosi in particolare

durante il primo conflitto mondiale239. Un esempio esplicito a proposito compare nello

stesso numero di «Nuovo Convito», rivista come abbiamo già avuto modo di ricordare

235 qui ricompare in modo ambiguo la distinzione tra nazione e popolo 236 SERGI G., Di un carattere psicologico dei popoli, in «Nuovo Convito» I, ottobre-dicembre 1916 p. 374 237 Ibid. p. 375 238 Ibid. p. 374 239 Si veda anche BANTI A. M., L’onore della nazione. Identità sessuali e violenza nel nazionalismo europeo dal XVIII secolo alla grande guerra, Einaudi, Torino, 2005

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per propria vocazione immersa nel clima culturale del conflitto: in apertura del fascicolo

ottobre – dicembre del 1916 troviamo, infatti, un articolo intitolato O mutilati, o

ciechi… fin dall’inizio del quale appare evidente la volontà di esaltare il valore

altamente morale del corpo dei soldati mutilati durante il conflitto il cui “difetto fisico è

bellezza” e possibilità di trasmettere ai figli non la mutilazione240, ma “il tesoro d’anima

per cui lo [il “difetto” patito] provocaste”241. Chiaramente l’antropologo siciliano non fu

estraneo a tale clima culturale, ma ricordiamo che per Sergi il riferimento al corpo fu

doveroso soprattutto per il fatto che egli ritenne sempre che il fattore veramente

determinante per la comprensione dell’uomo fosse l’analisi della sua natura di essere

biologicamente inteso, della sua componente biologicamente determinata.

Il pensiero autentico e ricorrente, il fine del Sergi appare chiaro procedendo nella

lettura dell’articolo: egli vi sosteneva che, se è vero che l’uomo è feroce per natura, è

anche vero che non tutti gli uomini sono uguali e, tenendo conto di ciò, si può allora

scoprire che esistono “popoli che sono meno brutali in confronto ad altri”. Qual è la

causa di tale diversità?, si domandava l’antropologo, “forse la lunga vita storica,

istituzioni civili hanno reso umani” (ed è chiaro che, se la risposta fosse questa le

nazioni mediterranee otterrebbero, ancora una volta, un vantaggio decisivo su quelle

ariane) oppure “forse è l’indole originaria, come un carattere di razza che distingue le

razze miti e le belluine”?242 Coerentemente con la propria visione antropologica e col

proprio metodo zoologico – comparativo Sergi propendeva per la motivazione razziale

istituita sulla base di un parallelo tra specie animali addomesticabili (cani e gatti) e

ferine (lupi e tigri). A questo punto, se a dominare, specialmente quando ad agire è,

secondo le parole dello stesso Sergi, l’uomo in massa, sono pur sempre i caratteri

attinenti alla physis, tanto che ciò che è biologico finisce per prevalere su ogni prodotto

della civiltà, non bisognava secondo l’antropologo siciliano disperare guardando

all’avvenire dell’umanità:

per fortuna dell’umanità noi possiamo dividere questa in due categorie: una è quella che, antica nella storia delle nazioni, non

240 le nuove dottrine dell’ereditarietà di stampo darwiniano avevano lasciato il segno ed era ormai impossibile accettare discorsi come quelli proposti nel XIX sec. dal Canestrini sull’ereditarietà delle ferite di guerra. A questo proposito si veda il cap. 2 241 Maria del vasto Celano, O mutilata, o ciechi… in «Nuovo Convito» I, p. 371 (1916); si noti come la mutilazione appaia diretta conseguenza del “tesoro dell’anima” del soldato - patriota coraggioso. 242 SERGI G., Di un carattere psicologico dei popoli, in «Nuovo Convito» I, 1916 p. 376

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chiede la guerra che per la difesa contro l’aggressore e per conservare o conquistare l’indipendenza e la libertà [in questo modo vengono implicitamente riconosciuti i diritti dei popoli – e delle razze- “oppressi” tra i quali si collocano idealmente anche i territori irredenti]; l’altra vuole la guerra per aggredire e soggiogare i popoli e ridurre l’uomo al proprio servigio, e insieme per rapire i loro beni.243

In quest’ultima frase è impossibile non sentire l’eco delle teorie esposte in Rassenkumpf

dal sociologo Gumplowicz, professore all’università di Graz,244 con il quale il Sergi si

era già trovato in aperto conflitto (si veda il dibattito sul tema apparso nella «Rivista

italiana di sociologia»); importa qui ricordare che il professore dell’università di Graz

sosteneva l’ineluttabilità di una perpetua lotta tra le varie orde umane la quale

avverrebbe non per ottenere il possesso della terra, ma per godere dello sfruttamento del

lavoro dei vinti ridotti in servitù.

Tuttavia nel quadro dei caratteri psicologici dei due grandi gruppi umani

proposto dal Sergi si nasconde non solo un affresco per così dire naturalistico, ma anche

un esplicito, durissimo attacco alla nazione teutonica che non poteva mancare se si cala

l’antigermanismo rilevabile in tutta la produzione dell’antropologo siciliano nel clima

italiano di quegli anni:

Questa seconda categoria [quella delle nazioni che “vogliono la guerra”] è formidabile, perché non risparmia le vite umane pur di vincere e di sopraffare245, e più che primitiva negli istinti, è belluina nella sua aggressione: la Germania è un esempio che dimostra come la civiltà e la cultura è (sic!) passata invano su di essa.246

Nella visione qui proposta dal Sergi è la Germania che risulta trovarsi quasi ad uno stato

bestiale, un gradino indietro sulla strada dell’evoluzione, una nazione refrattaria alla

civiltà e ai valori che hanno permesso la civile convivenza in Europa. In tal modo

veniva dipinta la Germania. L’Austria, invece, non viene evocata in queste pagine se

non per ricordare l’eroismo della resistenza Serba seppure entrambi gli invasori siano

definiti barbari. È, invece, la Germania ad essere ampiamente evocata per l’invasione

del Belgio, per aver costretto la Francia a una difficile e sanguinosa resistenza a Verdun, 243 Ibid. p. 377 244 GUMPLOWICZ L., Der Rassenkampf. Soziologische Untersuchungen, Innsbruck, 1893 [trad. francese La lutte des races. Recherches sociologiques, a cura di BAYE C., Paris, 1893]245 Qui si vede come anche l’abilità guerriera considerata in principio necessaria per raggiungere il prestigio nazionale, nel momento in cui viene riferita ai tedeschi risulti più un vizio che una virtù.246 SERGI G., Di un carattere psicologico dei popoli, cit. p. 377

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per essere la potenza il cui esercito adoperava sempre secondo Sergi mezzi militari

“normali e anormali, barbarici, feroci”247, parole in cui si ravvisa evidentemente un’eco

del passato barbarico di cui tanto si gloriava la nazione teutonica.

Negli anni del conflitto Sergi mirava a delegittimare ogni pretesa superiorità

culturale al mondo tedesco sostenendo che la cultura giunse ai popoli del nord dal

mondo greco – latino; tali popoli non sarebbero stati, dunque, in possesso di “una

cultura da imporre agli altri popoli; (…) [in quanto] essi non hanno creato nulla di

nuovo per pretendere di essere superiori agli altri popoli”248.

In tal senso Sergi vedeva nell’incontro del mondo greco – romano con quello

barbaro il fattore determinante che avrebbe portato alla nascita del mondo moderno

sottolineando ancora una volta la parzialità del merito attribuibile ai germani: essi non

sarebbero i soli padri delle nazioni moderne, le quali non sarebbero nate nell’alto

medioevo a partire da una cesura più o meno netta con il mondo antico, poiché esse non

sarebbero altrettanto civili né altrettanto grandi e potenti se non affondassero le proprie

radici nel mondo classico - mediterraneo249.

Nello stesso articolo l’antropologo siciliano riconosceva, però, una qualità

peculiare e specifica ai popoli germanici:

I tedeschi, però, hanno una qualità mirabile, l’istinto organizzatore, le facoltà tecniche nella elaborazione scientifica. (…) Ma non posseggono le facoltà inventive quanto altri popoli europei, vorrei dire degli italiani, dei francesi e degli inglesi (…).250

Ai popoli mediterranei / eurafricani spetterebbe, perciò, la capacità speculativa di

invenzione, mentre le popolazioni germaniche - arie sarebbero caratterizzate da un

istinto razionalizzante. Tale concetto è meglio esplicitato, ma in tono assai negativo, in

un altro articolo della serie di «Nuovo Convito» dal titolo assi eloquente: Gl’istinti

gregari nell’uomo e il popolo tedesco. Ivi leggiamo:

i tedeschi veri e propri, gli eurasici, non i germanizzati, sono gregarinel pieno significato della parola, nel senso, cioè, brutale (…). Il

247 Ibid. p. 378 248 SERGI G., La cultura germanica, cit. p. 9 249 “La civiltà naque nei popoli mediterannei. (…) lo svolgimento di questa civiltà diffusa nei popoli già barbari ha creato le nazioni moderne e le ha innalzate al fastigio di grandezza e di potenza”. Ibid. p. 7 250 Ibid. p. 9

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tedesco è ligio nel modo più assoluto all’autorità, qualunque essa sia e in qualunque modo essa agisca, obbedisce ciecamente per istinto e serve ciecamente all’autorità (…). Ma dove si manifesta il massimo sviluppo del carattere gregario e della tendenza schiavistica dei popoli teutonici è nell’organizzazione dell’esercito, nella disciplina di ferro (…), nel sistema stesso di fare la guerra e condurre le battaglie. (…) per questo carattere nativo e sviluppato nei popoli teutonici (…) credo che si possa spiegare [il fatto di] essere brutali come sono per istinto i gragari: i peggiori degli uomini, (…), obbedienti e vili (…) [verso l’autorità], feroci e brutali (…), inabili a comprendere il valore della dignità di essere libero (…), di saper resistere all’abuso della forza e del potere .251 (corsivo mio)

Questo passo offre notevoli spunti di riflessione a partire da quell’ “inabili a

comprendere il valore della dignità di essere libero” che si ricollega al mito giacobino di

cui parlava Mannori ma che, invece, contrasta con il mito ottocentesco dei popoli

germanici liberi e fieri. Quest’ultimo fu un topos, come vedremo in seguito, che trovò

un’eco nel dibattito storico – giuridico italiano, soprattutto per quel che riguarda la

discussione attorno all’origine delle libertà comunali, un dibattito che certo non poteva

essere sfuggito al Sergi essendo stato condirettore della «Rivista italiana di sociologia»

nella quale erano apparsi numerosi articoli relativi a tale problematica.

A questo ritratto psicologico dei popoli eurasiatici si affiancava, come abbiamo

accennato, quello dei popoli eurafricani. Questi ultimi non sarebbero stati, a loro volta,

del tutto privi dell’istinto gregario, ma nei “popoli di alta cultura” (quali sarebbero,

appunto, gli eurafricani) esso “è limitato e apparisce soltanto in alcune occasioni”, ciò

per causa dell’educazione liberale, ma anche perchè in essi prevale “un’assenza di

organizzazione” la quale a sua volta “deriva da eccesso di individualismo”252. Possiamo

dunque sintetizzare le caratteristiche psicologiche dei due grandi gruppi umani:

1) i popoli eurasici (tra cui Sergi include i tedeschi moderni e i “barbari germani”)

sarebbero caratterizzati: da grande capacità organizzativa, la quale si esprimebbe

soprattutto in guerra; da una forte coesione interna, in altre parole da uno sviluppato

sentimento di appartenenza; da scarsa stima per le libertà individuali; da un carattere

belluino e aggressivo che si esprimerebbe soprattutto nella ferocia mostrata nei

confronti degli avversari. Tutti questi fattori non avrebbero favorito lo sviluppo di

251 SERGI G., Gli istinti gragari nell’uomo ed il popolo tedesco, in «Nuovo Convito» I, 1916 pp. 152 - 154 252 Ibid. p 154

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una vera cultura germanica né di una civiltà propria, ma cultura e civiltà sarebbero

state importate dal mondo classico.

2) I popoli eurafricani, invece, sarebbero dotati di un fortissimo individualismo che, in

qualche modo, “limiterebbe i danni” della componente gregaria dello spirito umano,

ma non favorirebbe, invece, la coesione sociale; tuttavia esso permetterebbe lo

sviluppo delle libertà individuali e darebbe impulso allo spirito creativo che si

sarebbe espresso nella formazione di una cultura e una civiltà originali le quali

sarebbero alla base dello sviluppo e del progresso dell’umanità intera.

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DISTRIBUZIONE DEI TIPI UMANI IN EUROPA. ELABORAZIONE RICAVATA DA QUANTO ESPOSPTO DA G. SERGI IN EUROPA (1908)

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SPECIE253 HOMO EURAFRICUS HOMO EURASICUS Forme craniche Forme craniche allungate

dolicomesocefale, ellissoidali, ovoidali, pentagonali

Forme craniche brachicefale, sfenoidi, platicefali, sferoidi

varietà Homo nordicus Homo mediterraneus

Nessuna

faccia Ellissoidale, ovoidale, leptoprosopa, proopica

Ellissoidale, ovoidale, leptoprosopa, proopica

Larga e relativamente bassa, cameprosopia nel tipo puro

naso Leptorrino Leptomesorrino Grosso e corto statura Ordinariamente

elevata Mediocre, qualche volta elevata, anche bassa

Varioa, mediana ed elevata in alcuni gruppi

Colorazione della pelle

Bianca Bruna Bianca e bruna

Colorazione dei capelli e della barba

Bionda con varie gradazioni

Scura, castano chiara e scura, nera

Bionda e scura

Colorazione delle iridi

Azzurra o grigia

Scura in varie gradazioni

Chiara, azzurra, grigia, castano (occhi raramente obliqui)

Sistema pilifero

Sviluppato, tipo chimotrico

Sviluppato, tipo chimotrico

Sviluppata, barba fornita, tipo chimotrico

Distribuzione principale

Nel settentrione D’Europa (principalmente i Paesi Scandinavi, il nord della Germania, le Isole Britaniche)

Al sud e al centro - sud d’Europa (principalmente Italia centro - meridionale, Grecia, Penisola Iberica, Sud della Francia)

Europa Centrale (dalla Russia all’Atlantico), poco estesa verso nord

CARATTERISTICHE FISICHE DEI TIPI UMANI PRESENTI SUL CONTINENENTE EUROPEO

253 A queste due specie principali si deve affiancare l’Homo articus che nella sua varietà Homo Fennicus è rappresentato principalmente dai Finni – tavasti, mentre i Finni – Careli sarebbero da far rientrare nella specue eurafricana, Homo nordicus.

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III. GIUSEPPE SERGI E IL QUADRO POLITICO –

CULTURALE NAZIONALE E INTERNAZIONALE

1. IDENTITÀ ETNICA E FUTURO DELLE NAZIONI

1.1 Un’opera patriottica: Italia

Dalle osservazioni fatte in precedenza si ricava facilmente come l’obbiettivo

dichiarato di molta parte dell’antropologia italiana tra Otto e Novecento fu quello di

ricostruire una “carta antropologica” dell’Italia254. I risultati raccolti in cinquant’anni di

indagini e inchieste sui caratteri fisici degli Italiani furono utilizzati nella seconda

decade del XX secolo da Giuseppe Sergi e costituirono la base dell’opera forse più

nazionalista dell’antropologo siciliano: lo scritto Italia, pubblicato nel 1919255. L’opera

mirava a

essere una rivendicazione alla stirpe mediterranea dell’origine e dell’evoluzione della civiltà più volte millenaria (…) per diventare, dopo varie fasi, europea; e questo anche contro erronee dottrine (…) comprese nella leggenda aria, la quale ha inquinato storia e scienza.

254 L’interesse per la costruzione di una vera e propria carta etno – geografica che sintetizzasse la mole di dati via via raccolti dagli studiosi, ma che allo stesso tempo aggiornasse e migliorasse con nuove osservazioni le notizie già a disposizione si espresse nel concorso bandito nel 1895 dalla Società di Antropologia. Tale competizione aveva lo scopo di “tracciare la carta etnografica dell’Italia moderna ed illustrarla” sulla scia del lavoro svolto da Virchow in Germania. Sebbene il concorso non abbia dato i risultati sperati, esso portò alla redazione di una Memoria (pubblicata in AAE, XXVII, 1898) opera del filologo Leopoldo Pullè a proposito della quale si veda PUCCINI S., Il corpo, la mente e le passioni, cit. pp. 84 seg. Negli anni seguenti Aldobrandino Mochi e Fabio Frasetto affermarono nuovamente la necessità di arrivare alla compilazione di un Atlante Antropologico d’Italia; FRASETTO F., Relazione intorno all’ «Atlante antropologico d’Italia». Questioni di metodo e di tecnica, in RdA XVI, 1909 pp. 85 - 107. Allo stesso fine mirava, di fatto, l’Antropometria militare di Rodolfo Livi, opera corredata da numerose cartine; LIVI R., Antropometria militare cit. 255 Stando alle parole dell’autore, “il volume col nome “Italia”, che ora vede la luce, era già terminato e pronto alle stampe nel 1917; furono le difficoltà insorte per lo stato di guerra che l’anno rinviato”; tuttavia l’opera è certamente stata “ritoccata” a seguito della vittoria italiana come risulta evidente anche dalle citazioni riportate nel seguito del capitolo.

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Dopo essersi meritato la critica di Napoleone Colajanni con La decadenza delle

nazioni latine256, in cui Sergi si mostrava propenso a credere che, ormai, le nazioni del

sud dell’Europa avessero terminato almeno nell’epoca a lui contemporanea la propria

funzione storica e fosse giunto per esse il tempo di passare il testimone alla giovane

nazione britannica257, alla fine del primo conflitto mondiale egli tornava, invece, a

delineare la possibilità di un’ascesa italiana:

L’antica stirpe (…) ora risorge ancora e alacremente nel rinnovamento d’Italia, riprendendo nuove forze sulla via del progresso: indizio indubbio d’immortalità della stirpe gloriosa.258

L’intento di pedagogia nazionale dell’opera si accendeva talvolta di punte colorite da

acceso nazionalismo. Quest’ultimo è riscontrabile anche nella scelta professata dal suo

autore nella Prefazione di utilizzare come fonti solo i lavori degli archeologi italiani

(pur ammettendo di non condividerne sempre le tesi259) “ripudiando [invece] gli

stranieri come non necessari”260. Oltre ad essere etichettati come “non necessari”, gli

studiosi stranieri venivano accusati, ad eccezione degli inglesi “strenui difensori” delle

civiltà dell’antico mediterraneo, di aver manipolato spesso i risultati delle ricerche:

Crediamo che la ricostruzione dell’antica civiltà italica dev’essere principalmente opera di Italiani come la ricostruzione della nostra nazionalità è stata ed è opera di Italiani. Dagli stranieri, specialmente

256 SERGI G., La decadenza delle nazioni latine, Fratelli Bocca editori, Torino, 1900; il Colajanni “risponderà” con l’opera del 1906 Latini e anglosassoni [COLAJANNI Napoleone, Latini e anglosassoni. Razze inferiori e razze superiori, Roma, Rivista Popolare, 1906]. 257 Si noti che la Gran Bretagna risultava, secondo Sergi, popolata principalmente da eurafricani, quindi al passaggio di testimone tra nazioni non ne sarebbe corrisposto uno uguale “tra razze”. 258 SERGI G., Italia, cit. p. V 259 In paricolare Sergi respingeva le tesi del Pigorini con il quale entrò più volte in polemica nel corso della propria attività accademica. Pigorini era stato il più autorevole esponente della scuola archeologica italiana tra Otto e Novecento; “la teoria pigoriniana era stata in stretta assonanza con quel «panindoeuropeismo» di matrice germanica che considerava il formarsi delle differenti etnie europee come il frutto di migrazioni successive dell’originario popolo indoeuropeo e che per buona parte del XIX secolo caratterizzò, a partire dalle ricerche di linguistica comparata, numerosi ambiti disciplinari” (TARANTINI M., Tra teoria pigoriniana e mediterraneismo. cit. p. 54). Nonostante l’antagonismo delle rispettive posizioni scientifiche al Pigorini il Sergi dedicò proprio in apertura della monografia in questione un’estesa attestazione di stima. Vicini alle posizioni del Sergi erano, invece, gli archeologi Giuseppe Angelo Colini (1857 - 1918) e Paolo Orsi (1859 - 1935), pronunciatesi più volte in favore di una diffusione della cultura proveniente dal mediterraneo orientale nella penisola italiana e nelle isole, a proposito dei quali si veda TARANTINI M., Tra teoria pigoriniana e mediterraneismo cit. 260 SERGI G., Italia, cit. p. VI

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tedeschi, non abbiamo avuto che deformazioni della nostra storia civile.261

In questo passo rinveniamo l’ennesima espressione dell’anti - germanesino del Sergi ed

insieme troviamo esplicitata la convinzione che la ricerca storica fosse un compito e

avesse un fine essenzialmente nazionale e che, perciò, coloro i quali si dedicavano a

essa compissero un’operazione fortemente patriottica. La dedica del lavoro, dunque,

non poteva non esplicitare ancor più il patriottismo del fondatore della Società Romana

di Antropologia il quale concluse la Prefazione dell’opera con le seguenti parole:

(…) vada ora questo mio lavoro come espressione del mio sentimento alla veterana della civiltà di Europa, all’Italia.262

1.2 Roma e la funzione “provvidenziale” della stirpe mediterranea

Si è già scritto di come l’antropologia italiana degli esordi si rivolgesse con

serenità ad indagare le differenze tra i vari popoli italiani allo scopo di promuovere una

maggior comprensione alle diversità regionali. Sergi, uomo del Risorgimento, pur

muovendo dal riconoscimento di tali differenze, preferì porre sempre un forte accento

sulle similitudini, su quanto unisse piuttosto che dividere, cercando di giungere a una

sintesi piuttosto che concentrarsi su singoli aspetti. Pertanto non appare errato attribuire

alle sue opere una caratteristica più generalmente valida per il periodo del

Risorgimento:

anche in questo caso si tratta della costruzione di trame discorsive che, nella stilizzazione del «popolo italiano» interpretato come somma e inveramento dei popoli italici, prendono la forma di una contro - identità che, così come sperimentato in altri processi etno – poetici europei, si esprime non più contro il caos o l’assenza di ordine (come accadeva nelle etno – genesi antiche), ma contro una cultura dominante o una cultura straniera percepita ora come una minaccia alle proprie possibilità di espressione.263

261 Ibid. p. XII 262 Ibid. p. VI 263 BONAIUTI G., Popolo, in BANTI, CHIAVISTELLI, MANNORI, MERIGGI a cura di, Atlante culturale del Risorgimento, Laterza, Bari 2011 pp. 238 - 239

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La contro identità in questione trova la sua realizzazione nell’invenzione della stirpe

mediterranea la quale, come si è avuto già modo di notare nel corso del capitolo

precedente, nasceva come negazione ed antitesi all’indogermanesimo. Questa volontà

risultava esplicitata nella negazione del fatto che la componente antropologica

minoritaria presente nella Penisola, l’eurasica, potesse nuocere in qualche modo

all’Unità italiana. Sergi infatti affermava che, come “nell’Italia umile di Dante264 la

maggioranza assoluta è di popolazione mediterranea”265, anche la valle Padana, l’area

che risulterebbe popolata principalmente dalla specie eurasica,

oggi (…) costituisce una delle meravigliose regioni della penisola, come se l’origine etnica della popolazione fosse latina, italica antropologicamente266: è italica, latina per cultura, per sentimenti, per effetto di fusione storica che è il fondamento della nazionalità; l’unione a Roma e alle sue vicende, alle sue fortune è due volte millenare, e se l’antropologia non facesse l’analisi, nessuno saprebbe dell’origine differente.267

Fu grazie a Roma, città “fondata dagli indigeni d’Italia, un ramo della grande e gloriosa

stirpe mediterranea, (…) non mai da Arii”268, che si realizzò per la seconda volta (dopo

l’unità antropologica caratteristica dell’età neolitica) l’unità della penisola:

[Roma] distrusse le piccole nazionalità e fuse in un unico popolo tutti i popoli di antica [gli eurafricani] e nuova [gli eurasici] età viventi sul suolo italico. Così la grande Città formò la nazione italiana, la quale doveva subire le più clamorose vicende per ritornare ad essere l’Italia romana, per la quale ora tutta la nazione ha combattuto e gloriosamente ha vinto.269

Per fondere assieme tutti gli elementi alieni della penisola, Roma

264 Con questa perifrasi Sergi indicava le regioni centrali della penisola; chiaramente il riferimento a Dante aggiunge una forte carica nazionale al discorso dell’antropologo. 265 SERGI G., Italia, cit. p. 189 266 Si ricorda che “Italiaci” per Giuseppe Sergi sono i popoli originari abitanti della penisola, antropologicamente parlando eurafricani della varietà mediterranea. Affermando che gli abitanti della val Padana, definiti eurasici per specie, sono “come italici antropologicamente” Sergi affermava un superamento della differenza biologica a favore di una uguaglianza culturale. 267 SERGI G., Italia, cit. p. 188 268 Ibid. p. 440; secondo Sergi non solo la popolazione, ma anche “(…) la civiltà latina è di origine mediterranea e le popolazioni che l’esplicarono erano gl’indigeni italici d’origine mediterranea ancor essi” in Sergi G., Italia, cit. p. VII 269 Ibid. p. 191. La Prima Guerra Mondiale viene vista anche dal Sergi come completamento del Risorgimento, combattuta per completare l’unità nazionale e tornare ad essere una nazione unita.

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sintetizzò nel suo nome tutta la penisola e le isole adiacenti, costituendo la nazionalità per mezzo anche della unificazione del linguaggio, che divenne da latino italiaco, e per mezzo della civiltà che equiparò le varie stirpi, le quali entrarono nella formazione nazionale.270

Anche il compito attribuito da molti in Europa all’antropologia, quello di stabilire i

confini della nazionalità e di accertare quale fosse l’autentico tipo nazionale, veniva

meno al termine del discorso del Sergi:

Roma fuse tutti in un unico stampo italico; non importa che l’antropologia analitica oggi possa trovare differenze fisiche nei vari gruppi italici: vi è una fusione spirituale completa, avvenuta durante i lunghi processi storici di secoli. Tutti parlano un linguaggio che ricorda Roma; tutti hanno forme sociali e politiche di origine romana; tutti hanno un’anima sola che è l’italica, essenzialmente contenuta in una parola sintetica, la latinità, caratteristica che separa questo popolo italiano da altri.271 (corsivo mio)

Tale affermazione risponde perfettamente alla definizione data da Gianluca Bonaiuti per

la parola “popolo”, in quanto essa mirava esplicitamente alla “rivendicazione di

autonomia di una collettività etnicamente e culturalmente caratterizzata”272. Questo

discorso appare inoltre paradossalmente vicino a quello espresso dal Colajanni in Latini

e Anglosassoni. Razze inferiori e razze superiori, testo in cui questi accusa Lombroso,

Niceforo, Ferri e lo stesso Sergi di tracciare un “romanzo antropologico” della nazione.

In quest’opera l’eminente professore di statistica affermava che “le nazioni sono il

risultato, se non della fusione vera, almeno della unione, della sovrapposizione e del

miscuglio di diverse razze, che non erano già pure prima che cominciasse il periodo

storico della loro vita”273. Impossibile non accorgersi che Giuseppe Sergi avrebbe

sottoscritto ogni parola della critica usata dal Colajanni contro i principali maestri

dell’antropologia italiana.

270 Ibid. pp. 442 - 443 271 Ibid. pp. 444 – 445. Certo l’idea di una “fusione spirituale completa” esulava, invece, dall’immaginario dell’antropologia italiana degli esordi. 272 BONAIUTI G., Popolo, cit. p. 237 273 COLAJANNI N., Latini e Anglosassoni. Razze inferiori e razze superiori, citato in GOUSSOT A., Alcune tappe della critica al razzismo: le riflessioni di G. Mazzini, N. Colajanni e A. Ghisleri, in BURGIO

Alberto, Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870 - 1945, Il Mulino, Bologna, 1999 pp. 139 - 139

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Tuttavia la funzione storica di Roma non si sarebbe esaurita, secondo il Sergi,

nell’imprimere quella forma peculiare alle popolazioni italiche, in quanto essa,

rappresentando la terza e ultima fase della civiltà mediterranea274, avrebbe anche

assunto su di sé la missione di estendere la civiltà al mondo; sebbene da questa ondata

civilizzatrice fossero stati fino ad allora solo parzialmente lambiti i popoli germanici a

causa dell’indole barbarica che li avrebbe contraddistinti275, nel futuro la civiltà latina si

sarebbe estesa all’Europa intera e l’intero continente sarebbe stato finalmente unito.

Nella rievocazione del passato glorioso della città eterna, è bene sottolinearlo,

l’antropologo siciliano si distingueva da molti contemporanei. Ricordiamo, infatti, che

l’auspicata unità europea non era vista dal fondatore della Società Romana in termini di

dominio politico, ma di assimilazione culturale, pertanto l’adagiarsi sul passato glorioso

di Roma in un’utopia retroattiva era stato visto (e continuava ad essere visto anche nel

1919) dal Sergi come sintomo di sterile ripiegamento; egli non riteneva, infatti, neppure

pensabile l’aspirare a ricreare il passato:

Questo falso ideale di rinnovamento del passato, di resurrezione di ciò che è morto, nasce quando è avvenuta la stasi, che produce immobilità nel pensiero e nel sentimento, quando è venuta meno l’energia collettiva; (…) così una nazione che ricordi le sue glorie passate e tenti di adagiarvisi nella speranza di rinnovarle, a passi retrogradi si avanza verso la decadenza finale.276

Dopo la vittoria nella Prima Guerra Mondiale la stasi poteva dirsi finalmente superata e

l’Italia pareva tornare a rivestire un ruolo attivo nella civilizzazione europea senza

essere per questo chiamata ad una leadership politica.

274 “già noi tracciammo il percorso e il movimento della civiltà mediterranea; troviamo una primissima fase (…) svoltasi nel mar Egeo (…) che ebbe per centro Creta; [poi ci fu il] trasferimento della civiltà insulare nel continente ellenico [con la civiltà micenea, cui fece seguito un periodo oscuro dovuto alla calata dei Dori e un rinascimento con la civiltà greca]. La terza fase della civiltà mediterranea si svolse nella secolare storia di Roma.” in SERGI G., Italia, Fratelli Bocca Editori, Roma, 1919 pp. 441 - 442 275 SERGI G., Italia, cit. p. 447. 276 SERGI G,. Il presente e l’avvenire delle nazioni, in RdS III,4, 1899 p. 421; a questo proposito si veda anche SERGI G., La decadenza delle nazioni latine, Fratelli Bocca editori, Roma, 1900, cui rispose polemicamente Napoleone Colajanni [COLAJANNI N., Latini e anglosassoni, cit.].

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1.3 L’Europa277 al di là delle nazioni: prove antropologiche a sostegno

dell’unità del continente (contro Gumplowicz)

Come si è visto in Giuseppe Sergi passione politica e mestiere di antropologo si

sovrappongono in quanto le ricerche scientifiche da lui svolte miravano a far luce su

precise caratteristiche della popolazione italiana, europea e mondiale allo scopo di

rendere manifesta l’identità biologica, civile e sociale dei popoli. È bene, dunque,

riflettere sul significato che rivestivano per lui alcune parole chiave e, soprattutto, su

quale futuro socio – politico egli preannunciasse per le nazioni. Contrariamente a

quanto sosteneva negli stessi anni il sociologo Gumplowicz secondo il quale le nazioni

europee sarebbero sorte da un’eterna lotta tra un incalcolabile numero di orde e, a causa

della necessità ontologica di tale lotta, sarebbero state destinate a una rapida

disgregazione, Giuseppe Sergi giunse a conclusioni nettamente differenti e assai più

ottimistiche. Anche in questo caso egli fondò le proprie deduzioni sui risultati raggiunti

nello studio della biologia umana. Come Gumplowicz, l’antropologo siciliano guardava

al risveglio delle nazionalità e alle spinte regionalistiche che interessavano ancora

l’Europa, ma in proposito egli affermava:

(…) tutti i Tedeschi si stimano d’una razza, perché parlano unica lingua, e si stimano, come gli Slavi fanno dalla loro parte, stranieri agli Slavi. La lotta che oggi si fanno, si vuol chiamare lotta di razza278; ma io dico che non è tale nel senso vero antropologico, benché vi sia l’apparenza.279

Infatti

curiosi fenomeni (di lotta interna) derivano dall’ignoranza dell’origine delle nazioni! (…) questi fenomeni si sono prodotti, e si producono, perché la lingua costituisce il carattere principale della nazionalità; e i

277 Europa è il titolo di una delle opere principali del Sergi, definita dai contemporanei “tra le più notevoli (…) [in cui] il sociologo, da una parte, e l’uomo politico, dall’altra, troveranno argomento di profonda meditazione”. Si veda GIANNELLI A., L’origine dell’uomo europeo e della civiltà mediterranea, in RIdS XIII, 3 – 4, 1909 278 Il riferimento è, ovviamente, al Rassenkampf di Gumplowicz 279 SERGI G,. I dati antropologici in sociologia, in RdS II,1, 1898 p. 74; in questo articolo Sergi rispondeva polemicamente a quello di Gumplowicz apparso l’anno prima sulla medesima rivista: GUMPLOWICZ, Le origini delle società umane, in RdS I,1 1897 pp. 55 - 70

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popoli che parlano una stessa lingua o una affine o derivata, si stimano della stessa razza; ciò antropologicamente non è esatto.280

Appariva dunque chiaro come nazionalità e caratteri biologici non fossero da lui ritenuti

sovrapponibili, ma al contrario descrivessero due entità ben distinte come già aveva

avuto modo di osservare Carlo Cattaneo nel 1841 affermando che “l’identità o la

similitudine delle lingue prova (…) la correlazione di qualche vicenda istorica tra due

popoli, non mai l’identità di stirpe”281.

Poiché è stata già approfondita la teoria biologico – razziale del Sergi e la

conseguente classificazione di specie e varietà umane, resta da chiedersi quale realtà o

quali aspetti della realtà determinassero per lo studioso siciliano il binomio nazione /

nazionalità.

(…) ma non è solo il linguaggio il carattere di nazionalità benché sia esso il più apparente; ve ne sono altri, il costume, la storia, la civiltà i quali velano, nascondono quasi i caratteri antropologici, o come oggi si dice, di razza, che poi sono la base delle prime associazioni umane, e rimangono latenti e ignorati.282

A fare la nazionalità, coerentemente con quanto detto in precedenza per l’Italia,

contribuirebbero dunque assai più lingua, costumi, storia e civiltà (che per Sergi faceva

sempre coppia con cultura) di quanto non facessero i caratteri biologici, cosicché egli

poteva coerentemente affermare:

non esistono, dunque, razze latine o germaniche o slave, ma nazioni con linguaggi d’origine latina, o germanica, o slava; i componenti di tali nazioni sono identici nella totalità, perché fatta eccezione dei Lapponi, dei Finni e degli Ungheresi forse, sono sempre quei due tipi umani predominanti che costituiscono le popolazioni delle nazioni europee. I componenti della nazione italiana si trovano anche nella penisola iberica e nella Francia, soltanto in proporzioni differenti; si può affermare ancora che la popolazione delle isole britanniche non differisce dall’italiana, se non perché in essa è più numerosa la varietà

280 SERGI G., Europa, cit. p. 632 281 Si veda CATTANEO C., Sul principio istorico delle lingue europee, p. 427 e p. 445 pubblicato in CATTANEO C., Scritti filosofici, letterari e vari, a cura di ALESSIO F., sansoni, Firenze, 1957. Sull’influenza di Cattaneo nell’antropologia italiana dell’Ottocento si veda PUCCINI S., L’uomo e gli uomini, CISU, Roma 1991 282 SERGI G., Europa, cit. p. 633

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nordica e meno la mediterranea. Anche la Germania in totalità ha i componenti delle altre nazioni, come anche l’Austria.283 (corsivo mio)

Restava però innegabile che la classificazione delle popolazioni nella maggior parte dei

casi fosse fatta sulla base della nazionalità benché anche entro i confini nazionali non vi

fosse necessariamente unità di lingua e di razza. Questa disomogeneità nazionale

sarebbe stata da imputare al fatto che “una grande miscela di varietà è avvenuta fin da

tempo immemorabile in ogni regione, e con incrociamento284 più o meno completo, con

effetti che è facile rilevare nella statistica dei caratteri fisici, sia scheletrici, sia esterni”.

Ma questa mescolanza avrebbe anche un effetto positivo poiché porterebbe a una

fusione di fatto della popolazione su scala continentale285. A questo processo di

integrazione europea avrebbero potuto contribuire anche gli studi antropologici grazie

allo specifico angolo visuale che contraddistinguerebbe lo sguardo dell’antropologo, il

quale, secondo Sergi, “se potrà trovare (…) un legame di sangue, o d’origine, ovvero per

antica mescolanza di stirpi, potrà concorrere a chiarire gli equivoci fra nemici nazionali

e influire alla pace universale, sarà soddisfatto”286. Così, contrariamente a quanto

sosteneva negli stessi anni il sociologo Gumplowicz per il quale le nazioni europee

sarebbero sorte da un’eterna lotta tra un incalcolabile numero di orde e, a causa della

necessità ontologica di tale lotta, sarebbero state destinate a una rapida disgregazione,

Giuseppe Sergi giunse sulla base delle sue ricerche nel campo della biologia umana a

conclusioni nettamente differenti e assai più ottimistiche. Proprio gli studi antropologici

dovevano porsi come scopo la pace universale, contribuendo con le proprie ricerche a

evidenziare come “le grandi nazioni siano formate con elementi eterogenei, non [però]

così numerosi come vorrebbe Gumplowic287 (sic!), né così estranei; come egli stesso

ammette per principio (…) l’assimilazione si produce per la civiltà e la lingua che

diventa comune.”288.

283 Ibid. p. 632 284 Si noti che si tratta di incrociamento geografico e non intraspecifico coerentemente con quanto affermato in precedenza nel corso del capitolo. 285 “oggi si ha una tendenza alla fusione generale non soltanto di sentimenti e d’idee, ma di civiltà in tutti i suoi prodotti utili e buoni: un sentimento che direi umanitario, vuol sorpassare i limiti che hanno le nazioni e vuol fondere finanche i linguaggi” (corsivo mio) SERGI G., Europa, cit. p. 622 286 SERGI G., Europa, Fratelli Bocca Editori, Roma, 1908 p. 622 287 Gumplowicz sosteneva che dalla lotta di “innumerevoli orde” fossero sorte le nazioni europee. Gumplowicz, Una legge sociologica della storia, in RIdS V,4, 1901 pp. 434 – 445 288 SERGI G,. L’evoluzioni in biologia e nell’uomo, in RIdS V,4, 1901 pp. 427 – 428 (corsivo mio)

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Come si è visto in precedenza, Sergi auspicava, infatti, un futuro in cui la cultura

e la civiltà mediterranee si estendessero all’intero continente proprio in virtù della

sostanziale uniformità antropologica dell’Europa dovuta dalla presenza di due specie

distribuite in percentuali diverse in tutti gli stati. Egli, contrapponendosi alla teoria

proposta dal Gumplowicz di una sostanziale anaciclosi che avrebbe visto le nazioni

formatesi dalla lotta delle orde primigenie disgregarsi proprio per causa del perenne

movimento/scontro delle orde stesse289, sosteneva che “non esiste un’evoluzione delle

società umane, ma un’evoluzione umana soltanto”290 e pertanto

La coalescenza delle unità elementari grandi e piccole che ha formato e forma le nazioni, non è l’ultima fase del loro processo formativo. L’unità nazionale come quella italiana e francese, non può essere l’ultimo termine di formazione, perché in quelle grandi masse di popolazione, che hanno perduto nella fusione la loro individualità, non è scomparso o abolito il carattere antropologico insieme con quello sociologico, che è stato ed è differente secondo le origini delle unità formative (…). Quindi l’ultimo termine del processo di formazione nazionale sarà rappresentato dalla federazione (…): non unità assoluta (…), ma coesione di unità libere (…). Nella federazione, (…) dovrà esservi indipendenza relativa, con libertà e mobilità di ciascuna unità (…) la quale operi e amministri secondo alcuni suoi caratteri e condizioni.291 (corsivo mio)

Questa convinzione avrebbe portato il Sergi a esprimersi a favore della Società delle

Nazioni; tuttavia è utile ricordare come il sostegno dato alla Società arrivasse solo alla

fine del primo conflitto mondiale, una volta passato il pericolo paventato

dall’antropologo che la Germania potesse esprimere una leadership tanto forte da

soffocare la libertà delle altre singole nazionalità292.

289 Si veda a questo proposito il “dialogo” tra i due studiosi comparso sulle pagine della «Rivista italiana di Sociologia»: GUMPLOWICZ, Le origini delle società umane, in RIdS I,1, 1897 pp.55 - 70; SERGI G,. I dati antropologici in sociologia, in RIdS II,1, 1898 pp. 66 – 76; Sergi G,. Il presente e l’avvenire delle nazioni, in RIdS III,4, 1899 pp. 409 - 421; GUMPLOWICZ, Una legge sociologica della storia, in RIdS V,4, 1901 pp. 434 – 445; SERGI G,. L’evoluzioni in biologia e nell’uomo come essere individuale e collettivo, in RIdS V,4, 1901 pp. 413 – 433. 290 SERGI G,. L’evoluzioni in biologia e nell’uomo, cit. pp. 427 - 428 291 Ibid. pp. 427 - 428 292 SERGI G., Per la Società delle Nazioni, in «Nuovo Convito» III, 1918

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2. GIUSEPPE SERGI NEL CONTESO STORICO NAZIONALE

2.1 Giuseppe Sergi e la Questione Meridionale

Si è visto come negli anni del primo conflitto mondiale gli interventi del Sergi

relativi ai caratteri psicologici dei popoli fossero scivolati sempre più verso posizioni

fortemente ideologiche e anti – ariane. È bene però ricordare che tali caratteristiche, la

socialità e l’organizzazione attribuite ai popoli arii e l’individualità e la creatività

attribuite ai popoli mediterranei, vennero descritte già molti anni prima dal Sergi, ma in

modo assai più conciliante. Sebbene la predilezione dell’antropologo messinese per la

stirpe mediterranea rappresenti una costante sul lungo periodo e non sia da mettere in

discussione, negli anni a cavallo tra i due secoli quando infuriava la polemica relativa

alla cosiddetta questione meridionale, egli si era mostrato assai più indulgente con le

popolazioni arie e aveva, invece, sottolineato impietosamente le caratteristiche deteriori

del temperamento mediterraneo. Nel 1898 egli sosteneva, infatti, che “i popoli con

sentimento sociale preponderante sono più conservatori, più facili all’ordine, alla

disciplina e all’educazione, in ogni fatto che serva all’interesse comune” mentre “i

popoli con sentimento individuale più spiccato sono facilmente ribelli, indisciplinati e

spesso ineducabili”; questi “vogliono la libertà solo per sé stessi (…) e spesso diventano

oppressori dei loro consocii”293. Queste parole vennero scritte in un momento storico in

cui ci si interrogava sulle profonde differenze esistenti nel paese e in cui “l’antropologia

sembrò a molti uomini di cultura poter fornire una spiegazione scientifica delle

differenze di sviluppo esistenti tra le due Italie e allo stato di «decadenza» in cui

sembrava stesse precipitando tutto il paese”294. E la risposta dell’antropologia, o almeno

di alcuni antropologi di chiara fama, non si fece attendere. Il testo che certamente fu più

discusso e che lasciò forse gli strascichi più duraturi fu senza dubbio L’Italia barbara

contemporanea295 pubblicato anch’esso nel 1898 da Alfredo Niceforo il quale suscitò

un vespaio di polemiche non solo nel mondo dell’antropologia, ma anche in quello della

293 Sergi G., Arii ed Italici, Fratelli Bocca, Roma, 1898 p. 190 - 192 294 PETRACCONE C., Le due civiltà. Settentrionali e meridionali cit. p. 166 295 NICEFORO A,, L’Italia barbara contemporanea. Studi e appunti, Sandron, Milano, 1898

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politica tradizionale. Secondo Niceforo Sicilia, Sardegna296 e il sud della Penisola

costituivano interamente una società a sé stante, resistente all’educazione, barbara,

incivile e primitiva, una razza maledetta297 causa della decadenza dell’intera nazione

contro la quale era pertanto necessario intervenire “col ferro e col fuoco”. Sulla stessa

linea si schierarono personalità illustri come Enrico Ferri e Cesare Lombroso298.

Sebbene per suffragare le proprie tesi Niceforo avesse realmente saccheggiato

gli scritti del Sergi alla ricerca di dati e percentuali e nonostante sul finire del XIX

secolo lo stesso Sergi, come si è detto, non si mostrasse affatto tenero nei confronti delle

popolazioni meridionali degenerate, incapaci di attuare quegli sforzi necessari a

costruire una società moderna ed organizzata che risultavano, invece, naturali alle

popolazioni arie, le differenze tra i due studiosi non sono trascurabili. Se Niceforo,

allineato alle posizioni dei socialisti del nord299 inclini ad abbandonare il Meridione al

proprio destino300, fu cantore di quei settentrionali appartenenti alla razza ariana, Sergi

non abbandonò mai il proprio mito mediterraneo e, pur stigmatizzandone duramente i

difetti, si mantenne vicino alle posizioni della sinistra repubblicana più radicale

cercando le cause dell’apparente inferiorità meridionale nella particolare vicenda storica

che le aveva contraddistinte301. Egli rintracciava un rimedio per tale decadenza in

un’appropriata educazione affiancata da una immigrazione di popolazioni provenienti

dal nord Italia; queste, lavorando fianco a fianco con quelle meridionali, secondo il

nostro antropologo avrebbero favorito il rapido diffondersi di un’omogeneità culturale

nazionale302. Sul piano della politica un simile discorso venne portato avanti dai

296 Niceforo fu invitato assieme al prof. Ardu Onnis a studiare approfonditamente l’antropologia della Sardegna proprio dal maestro Giuseppe Sergi; frutto delle osservazioni condotte nel corso del viaggio nell’isola fu il volume del 1897 La delinquenza in Sardegna. Note di sociologia criminale, edito da Sandron. A questo proposito si veda SERGI Giuseppe, Italia. Cit. p. 173 297 La definizione che ebbe molto successo nel dibattito sulla Questione Meridionale fu usata da Napoleone Colajanni come titolo della propria opera: Per la razza maledetta, Sandron, Palermo, 1898 ed è stato ripreso da TETI V., La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, Manifestolibri, Roma, 1993 298 DE FRANCESCO A., La diversità meridionale nell’antropologia italiana cit.; PETRACCONE C., Le due civiltà. Settentrionali e meridionali cit. 299 DE FRANCESCO A., La diversità meridionale nell’antropologia italiana cit. pp. 69 - 87 300 PETRACCONE C., Le due civiltà. Settentrionali e meridionali cit. pp. 181 - 207 301 In particolare, secondo Sergi, il colpo di grazia alle popolazioni meridionali “già decadute per le gravi avversità patite” sarebbe arrivato con il dominio spagnolo. Si veda SERGI G., La decadenza delle nazioni latine, cit.. Il passo citato si trova alle pp. 248 seg.302 Va sottolineato che nell’ottica del Sergi l’omogeneità da raggiungere doveva essere puramente culturale e civile in quanto egli sostenne sempre che arii del nord e mediterranei del sud costituirebbero due diverse specie non suscettibili di omogenizzazione biologica. Tenendo presente ciò si rileva quanto maggiore fosse la distanza tra il Sergi e il Niceforo: per il primo, infatti, la decadenza delle popolazioni

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democratici Ciccotti, Salvemini, Rossi e Colajanni303. Quest’ultimo, sebbene non si

fosse mai mostrato attratto da quelli che definiva nel migliore dei casi “romanzi

antropologici”, attaccò duramente il lavoro di Niceforo accusandolo, giustamente, di

aver rovesciato completamente la prospettiva del lavoro del Sergi304; tramite il proprio

intervento Colajanni dimostrava di aver compreso assai meglio di altri contemporanei le

tesi del fondatore della Società Romana305. Colajanni, come Salvemini, si opponeva

anche agli estremismi che non vedevano altra soluzione alla Questione Meridionale

oltre alla formazione di due stati separati, e proponeva una riforma in senso federale

dello stato la quale permettesse a nord e sud di essere governati secondo le

caratteristiche precipue delle diverse zone306. È possibile affermare, sulla scorta della

proposta formulata dal Sergi relativa al futuro dell’Europa307 e alle sue osservazioni di

psicologia etnica, che una tale proposta doveva essere apprezzata e condivisa anche

dall’antropologo messinese.

2.2 La strada verso il nazionalismo

Leggendo le pagine dell’antropologo siciliano riportate in precedenza, si nota

come egli scivolasse lentamente, ma inesorabilmente verso un nazionalismo sempre più

acceso e violento fino a giungere ai virulenti attacchi al mondo germanico degli anni

meridionali sarebbe puramente congiunturale e pertanto rimediabile tramite un riposizionamento dell’ambiente sociale, mentre per il secondo le cause dello stato di barbarie sarebbero razziali e, dunque, non modificabili. L’ipotesi di una “migrazione” interna doveva essere però discussa anche a livello nazionale; ad esempio Mario Pilo, rispondendo all’inchiesta voluta da Renda riguardo le possibili soluzioni alla questione meridionale, si diceva scettico sugli effetti di un “innesto etnico di nuove colonie nordiche nel mezzodì e nelle isole”, ma favorevole alla diffusione dell’educazione come mezzo per una significativa presa di coscienza da parte delle popolazioni meridionali. Si veda PETRACCONE C., Le due civiltà. Settentrionali e meridionali cit. p. 176. 303 DE FRANCESCO A., La diversità meridionale nell’antropologia italiana cit.; TETI V., La razza maledetta, cit.. 304 DE FRANCESCO A., La diversità meridionale nell’antropologia italiana cit. 305 Le differenze tra Niceforo e Sergi si riscontrano immediatamente raffrontando le pagine dedicate da quest’ultimo alla Sardegna in molte sue opere e il discorso presentato invece in La delinquenza in Sardegna di A. Niceforo edito da Sandron (Palermo 1897). Recentemente la posizione più morbida assunta dal Sergi nei confronti delle popolazioni meridionali in generale e sarde in particolare rispetto a quella di colleghi quali appunto Niceforo, Lombroso e Ferri è stata sottolineata da Gaetano RICCARDO in L’antropologi positivista italiana e il problema del banditismo in Sardegna. Qualche nota di riflessionein BURGIO Alberto a cura di, Nel nome della razza. cit. pp. 95 – 105. Riccardo rileva come il volume interamente dedicato da Sergi alla questione sarda (SERGI G., La Sardegna. Note e commenti di un antropologo, Fratelli Bocca, Torino, 1907) “meriterebbe in realtà una del tutto diversa e senz’altro più positiva considerazione”. Ibid. p. 96 306 PETRACCONE C., Le due civiltà. Settentrionali e meridionali cit. 307 Cfr. cap. corrente par 1.3

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della guerra. Viene spontaneo chiedersi in che modo l’antropologo pacifista308 sia

arrivato a esprimersi con accenti così forti a favore dell’ingresso dell’Italia nella Prima

Guerra Mondiale. Sebbene Giuseppe Sergi si sia avvicinato nel corso della sua lunga

vita al socialismo, nel quale vide uno dei segnali dell’approssimarsi dell’integrazione

europea, egli non fu mai davvero socialista come invece furono Lombroso e Ferri e

perciò si può escludere che egli abbia seguito un percorso analogo a quei socialisti che

si espressero a favore dell’intervento. A dividerlo dai socialisti, cui pure era accomunato

da una profonda avversione per Crispi309, contribuì probabilmente proprio la linea

seguita da Turati e da molti altri riguardo la questione meridionale310; a ciò va aggiunta

la “grande capacità di presa”311 che esercitava ancora su di lui la cultura politica

risorgimentale, quella cultura garibaldina che aveva in comune con Napoleone

Colajanni, anch’egli siciliano laico, anticlericale, radicale, repubblicano e garibaldino,

transitato attraverso il socialismo per approdare nelle file della sinistra radicale. Ci si

chiede, dunque, se l’ideale nazionale di matrice risorgimentale sicuramente presente nel

Sergi sia sufficiente a spiegare una simile parabola, oppure se su essa si sia innestato un

qualche fattore nuovo il quale abbia contribuito a caricare i toni del discorso sulla razza

in senso più fortemente nazionalista. Tra le possibili cause di tale deriva sembra

comunque possibile escludere l’adesione a una qualche linea politica precisa anche

diversa dal socialismo poiché, se è vero che il nazionalismo italiano di inizio XX secolo

nacque dal tardo positivismo312, bisogna anche ricordare che i maggiori positivisti si

mostrarono in genere decisamente riluttanti a scendere apertamente nell’arena politica.

Essi preferirono intervenire liberamente di volta in volta su singoli temi senza i vincoli

308 Il pacifismo conclamato e più volte ribadito del Sergi traspare in quasi tutte le opere antecedenti la Guerra. Sul pacifismo sergiano si veda anche LANDUCCI G., Darwinismo e nazionalismo, in La cultura italiana tra ‘800 e ‘900 cit. 309 Turati vide in Crispi l’incarnazione del brigante siciliano, mentre Sergi lo volle addirittura estromettere dalla stirpe mediterranea attribuendogli nazionalità albanese. Si vedano rispettivamente PETRACCONE

Claudia, Le due civiltà. Settentrionali e meridionali nella storia d’Italia dal 1860 al 1914, Laterza, Bari 2000 p. 185 e DE FRANCESCO A., La diversità meridionale nell’antropologia italiana cit. p. 79 310 PETRACCONE C., Le due civiltà. Settentrionali e meridionali cit. 311 DE FRANCESCO A., La diversità meridionale nell’antropologia italiana cit. p. 82 312 NANI M., introduzione a MOSSO A., La fatica, Giunti, Firenze, 2001, p. 98; sui contributi al pensiero di Corradini, Prezzolini, Sighele e altri protagonisti del nazionalismo italiano del primo novecento dato dagli esponenti del positivismo darwinista (compresi Sergi, Moreselli, Ardirò, Gumplowicz) si veda LANDUCCI Giovanni, Darwinismo e nazionalismo, in La cultura italiana tra ‘800 e ‘900, cit.

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imposti da una linea di partito313 e il fondatore della Società Romana non sembra

costituire un’eccezione.

Snodo fondamentale nel percorso dal patriottismo al nazionalismo (inteso, va

sottolineato, come inclinazione culturale e non come ideologia politica) certamente

furono per molti intellettuali gli anni a cavallo tra i due secoli. Nell’ambiente della

cultura europea di fine secolo XIX a nuovi campi di indagine come la psicologia

collettiva (delle folle, dei popoli, delle razze) si intrecciavano la coscienza della crisi

della scienza positiva e una lenta ma inesorabile ripresa dell’idealismo. Queste due

tendenze favorirono l’ascesa nel dibattito internazionale di tematiche quali la lotta delle

razze e il problema della decadenza delle nazioni. Il primo dei due temi appena citati

assurse a centro d’interesse internazionale soprattutto grazie all’ampia diffusione della

traduzione francese de Der Rassenkampf. Soziologische Untersuchungen, testo

principale del sociologo ungherese Gumplowicz314. In un contesto da “fine della civiltà”

trova la sua naturale collocazione anche un saggio come La decadenza delle nazioni

latine, destinato a restare una sorta di unicum nella produzione del Sergi, ma che

all’epoca della pubblicazione (1901) rientrava a pieno titolo nel dibattito nazionale315 e

internazionale rispecchiando preoccupazioni e disagi caratteristici del clima fine secolo.

Ma alla rilevanza del clima di questo periodo non corrispose solamente la nascita di un

dibattito comune attorno a tematiche nuove. A questa crisi europea percepita già

313 Sulla riluttanza dei maggiori esponenti del positivismo italiano ad aderire esplicitamente a precise correnti politiche si veda LANDUCCI G., Darwinismo e nazionalismo, in La cultura italiana tra ‘800 e ‘900 cit. 314 L’opera nel suo originale in lingua tedesca non aveva avuto ampia diffusione a livello europeo. In Francia e Italia venne resa nota al pubblico colto soprattutto grazie alla traduzione francese, sebbene una prima recensione fosse stata già redatta da Colajanni nel 1886 sulle pagine dell’organo ufficiale del positivismo italiano, la «Rivista di filosofia scientifica». Grazie alla recensione del Colajanni è possibile ipotizzare che le tesi di Gumplowicz fossero entrate nel bagaglio di alcuni studiosi italiani già nella seconda metà degli anni ’80, almeno in quello di quei positivisti maggiormente interessati al problema della razza e adusi a dialogare con il mondo accademico di lingua tedesca. Tra questi va annoverato anche Giuseppe Sergi che, tra l’altro, era tra i fondatori della rivista su cui comparve l’intervento di Colajanni. Nonostante ciò il saggio del Gumpowicz ottenne notorietà divenendo argomento d’attualità solo a partire dalla recensione fattane da Ferdinand Brunetière nel 1893 (quasi un decennio dopo quella del Colajanni!). Tale recensione francese, dal titolo La Lutte des races et la philosophie de l’histoire, comparva sulla celebre «Revue des deux mondes», luogo privilegiato del dibattito europeo tra i due secoli. A proposito della diffusione e dell’influenza della «Revue des deux mondes» nell’ambiente culturale italiano si veda MANGONI L., Una crisi fine secolo. La cultura italiana e la Francia fra Otto e Novecento, Einaudi, Torino, 1985 pp. 3 - 81 315 Il saggio venne recensito su alcune delle principali riviste italiane, dalla «Rivista di filosofia scientifica» alla «Rivista italiana di sociologia» alle riviste dedicate all’antropologia, l’«Archivio per l’antropologia e l’etnologia» e la «Rivista di Antropologia»; ottenne anche una replica diretta da parte di Napoleone Colajanni come si è già avuto modo di ricordare nel corso del capitolo.

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all’epoca come continentale fece seguito, infatti, una reazione fortemente localistica

caratterizzata da un ripiegamento della cultura su tematiche accentuatamente nazionali.

Tale risposta si basava sul convincimento che la sola medicina veramente efficace per

contrastare la diffusa sensazione di crisi fosse da ricercare in quell’idea di nazione che

l’ideale positivista di una scienza universale aveva almeno parzialmente contribuito a

mettere in ombra. Anche tenendo conto di questi pur rilevanti fattori, il clima di fine

secolo non pare costituire più che una tappa nel percorso seguito dal Sergi verso

posizioni sempre più accentuatamente nazionaliste, sebbene vada tenuto in

considerazione per la novità delle questioni portate in quegli anni al centro del dibattito

che abbiamo visto coinvolgere anche il nostro studioso.

Forse, più che tramite l’accostamento a una specifica corrente politico –

ideologica (al di fuori, ovviamente, del citato patriottismo risorgimentale), pur tenendo

in debito conto il rinnovato interesse nazionale delle élite a partire dall’inizio del nuovo

secolo, il percorso del Sergi potrebbe essere maggiormente compreso se posto in

relazione con quello speciale strumento interpretativo recentemente messo appunto

dalla storiografia qual è il concetto di idioma culturale. Con tale definizione si intende

“una modalità cognitiva identitaria diversa dall’ideologia. Rispetto alle ideologie

politiche gli idiomi culturali fungono da materiali concettuali di fondo introdotti nella

tessitura ideologica anche al di là della volontà dei gruppi e dei soggetti che li

alimentano”316.

Come ricorda ancora Mauro Raspanti nelle società complesse convivono

contemporaneamente più idiomi culturali tal volta anche in conflitto tra loro. Ora, verso

dalla metà del XIX sec., si erano diffusi in Italia due differenti idiomi culturali: quello

più antico di matrice extranazionale, incentrato sul mito indoeuropeo e accettato

soprattutto in campo linguistico - letterario317, e uno più recente, quello mediterraneo.

Questi due “fiumi carsici” che influenzavano le posizioni culturali dominanti tal volta

apparivano fusi nell’immagine di una civiltà romana insieme mediterranea e ariana,

mentre più spesso davano origine a due discorsi tra loro violentemente contrapposti. In

ambito archeologico, settore di ricerca nell’Ottocento per molti versi liminale e affine

all’antropologia, il primo dei due atteggiamenti fu incarnato efficacemente dal Pigorini,

316 RASPANTI M., Il mito ariano nella cultura italiana tra Otto e Novecento, in BURGIO Alberto, Nel nome della razza. cit. p. 77 317 Ricordiamo a titolo d’esempio Pullè per la linguistica e Carducci per la letteratura.

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la cui teoria filo – indoeuropea “era stata elaborata in un contesto storico e politico in

cui appare funzionale sia alla riduzione del ruolo simbolico di Roma che in seguito alle

scelte triplicaste del Governo”318. È chiaro come, dalla fine dell’Ottocento e nel primo

Novecento, particolarmente nel secondo decennio del XX secolo, tale posizione

perdesse rapidamente il proprio fascino a tutto vantaggio del paradigma opposto,

funzionale invece alla demonizzazione del mondo germanico e all’esaltazione della

Città Eterna come espressione dell’anima autoctona della Penisola. Tale concezione

cominciò a farsi sentire in maniera sempre più efficace e non c’è da stupirsi se, in un

clima in cui pulsava più vivo che mai l’ideale e l’orgoglio mediterraneo, Giuseppe

Sergi, da sempre determinato a sottolineare originalità e superiorità delle stirpi italiche

seguendo la linea tracciata dal Gioberti di Primato319, potesse affermare in occasione

del proprio giubileo accademico celebrato in piena guerra mondiale:

(…) permettete che io vi dica (…) come la prima guerra contro il germanesimo è partita da quell’oscuro andito del Collegio romano, dove è collocato il nostro istituto di antropologia, guerra scientifica, iniziata 20 anni addietro per dimostrare che la civiltà latina, creazione romana e quindi italiana, è l’ultimo svolgimento della grande civiltà mediterranea (…). [grazie a ciò] l’antropologia serve ancora a qualche cosa di utile alla nostra Italia320 (corsivo mio)

Sebbene il testo sopra riportato sia già del 1917, non vi è dubbio che la guerra al

germanesimo, visto sotto la forma della dottrina indoeuropea, fosse cominciata da ben

più di vent’anni almeno negli scritti del Sergi e da quasi tre decenni all’interno della

Società Romana. Tale guerra fu innanzi tutto guerra scientifica in quanto guerra tra idee,

tra posizioni accademiche, prima ancora che tra nazioni e pertanto l’adesione al

nazionalismo del nostro studioso è innanzitutto da inscriversi in un elemento culturale

di lunga durata che si caricò nel tempo di sempre più forti elementi identitari. Ne

rintracciamo un indizio nel fatto che, nel corso dei propri studi, l’antropologo siciliano

dette prova di serietà e rigore, non alterando mai i dati a sua disposizione, ma

limitandosi a darne un’interpretazione che a lui in fondo doveva apparire scientifica. In

questo senso si può dire che la posizione del Sergi come studioso, tralasciando 318 TARANTINI M., Tra teoria pigoriniana e mediterraneismo. cit. p. 56 319 LANDUCCI G., Darwinismo e nazionalismo, in La cultura italiana tra ‘800 e ‘900 cit. 320 Il testo del ringraziamento pronunciato dal prof. Giuseppe Sergi in occasione delle celebrazioni per la fine dell’attività accademica dovuta al raggiungimento dei 75 anni d’età si trova pubblicato all’interno delle Onoranze a Giuseppe Sergi in RdA XXI, 1916 - 1917 pp. 251 – 253.

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ovviamente gli scritti politici che esulano dalla produzione dello scienziato, non fu

ideologica in senso stretto, ma piuttosto culturalmente orientata. Non a caso in Italia

egli, pur affermando la propria stima per l’avversario Pigorini, si dilunga nel cantare le

lodi di Paolo Orsi (1859 - 1935) e di Giuseppe Angelo Colini (1857 - 1918),

rispettivamente incaricato presso il Museo di Siracusa e Ispettore presso il Museo

Preistorico Etnografico, prime personalità di rilievo dell’archeologia italiana a

contestare proprio la teoria pigoriniana e a collegare le antichità siciliane e meridionali

con le civiltà dell’Egeo e del Vicino Oriente antico. Proprio in relazione all’opera di

questi due insigni archeologi, seguaci del motto ex oriente lux, Massimo Tarantini ha

dimostrato per primo l’esistenza di un idioma culturale mediterraneo321; non stupisce,

quindi, il trovarli citati tra gli ideali compagni di ricerca dal fondatore della Società

Romana. Si può, dunque, riassumere affermando che l’elemento che condusse Giuseppe

Sergi a mettere temporaneamente da parte il proprio pacifismo e a cedere a posizioni

nazionaliste sempre più colorite fu un fattore di origine più culturale che politica.

L’adesione de facto all’idioma culturale del mediterraneismo, nutrito dall’esperienza

risorgimentale vissuta in prima persona e dal clima di propaganda incandescente che

caratterizzò gli anni precedenti l’entrata in guerra e quelli immediatamente successivi,

può spiegare la veste sempre più tinta di nazionalismo assunta dal patriottismo del Sergi

nei primi decenni del XX secolo.

3. L’ EREDITÀ DI GIUSEPPE SERGI

3.1 Giuseppe Sergi e il fascismo italiano: un’eredità scomoda

Dei due idiomi culturali descritti in precedenza il fascismo italiano si servì

abbondantemente adottando spesso quella posizione intermedia volta a conciliare

mediterraneismo e ideologia ariana. Il mediterraneismo venne adottato soprattutto in

quanto concerne il culto della romanità mediterranea, mentre l’arianesimo era volto a

ricondurre l’etnicità italiana nell’alveo della grande famiglia indoeuropea. È manifesto,

dunque, che un maestro riconosciuto e noto ben oltre i confini nazionali, le cui opere

321 TARANTINI M., Tra teoria pigoriniana e mediterraneismo. cit. pp. 54 seg.

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avevano avuto traduzioni in inglese, francese e tedesco, come fu Giuseppe Sergi, il

quale non aveva risparmiato durissimi attacchi all’arianesimo continuando ad affermare

una netta differenza tra famiglia biologica mediterranea e quella aria e che aveva

mantenuto dal ’22 al ’37 una decisa quanto evidentemente polemica neutralità nei

confronti del fascismo322, creasse quantomeno un po’ di imbarazzo nell’ambito

dell’antropologia di regime. Forse fu proprio questo imbarazzo a contribuire, in un

primo tempo, a una sorta di damnatio memoriae che nella storia della cultura italiana

investì l’antropologo messinese già all’indomani della morte (1937).

Tra i teorici della razza fascisti due furono gli atteggiamenti principali

nell’accostarsi all’opera di Sergi che meritano di essere segnalati: da una parte quello

più complesso, ma sempre critico che rintracciamo nell’opera di Giovanni Marro,

dall’altro quello incarnato dal tentativo di Giuseppe Genna di riappropriarsi delle teorie

del maestro riconducendole nell’alveo dell’ideologia fascista. Nel 1940, a tre anni dalla

morte di Giuseppe Sergi, Giovanni Marro pubblicava quello che Sandra Puccini non

esita a definire “uno dei più importantanti testi dottrinari del razzismo italiano”323. In

Primato della razza italiana Marro, nella cui bibliografia l’autore più presente è proprio

Giuseppe Sergi con cinque testi menzionati, riconosceva al fondatore della Società

Romana “un grande merito nell’aver individuato l’antica stirpe mediterranea”324, ma

parallelamente lo accusava di aver seguito la “triste corrente del tempo” poiché nelle

sue opere “addebita gravi deficienze all’antica Roma e ne afferma ingiusto il dominio su

tanti differenti popoli; non riconosce gli Italiani autoctoni della penisola325, ne esclude

l’originale unità razziale, imparenta quelli del sud con tribù africane (…)”326. Troviamo

qui menzionati alcuni delle tesi che dovevano essere particolarmente sgradite

all’ideologia fascista e che, invece, erano state sostenute con forza dal Sergi nelle sue

molte opere; tra esse merita un approfondimento l’idea, che Marro attribuisce

giustamente al fondatore della Società Romana327, di una origine africana della stirpe

322 Sui rapporti tra Giuseppe e Sergio Sergi e il regime fascista si veda PUCCINI Sandra, L’antropologia a Roma cit. 323 Ibid. p. 239 324 MARRO Giovanni, Primato della razza italiana, Casa editrice Giuseppe Principato, Milano, 1940 p. 157 325 Il motivo dell’autoctonia ricordiamo fu molto caro all’antropologia tedesca che si rifaceva alla Germania di Tacito. 326 Ibid. p. 157 327 Nel giugno del 1942 Marro attaccò la teoria dell’origine africana della stirpe proposta da Giuseppe Sergi anche dalle pagine de «La Difesa della Razza» ove stigmatizzò tale ipotesi come “una forma di

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mediterranea in quanto si inserisce appieno nel dibattito allora molto in voga sulla

cosiddetta ipotesi camitica328. Tale dibattito si trascinò ininterrotto dalle discussioni

medievali relative alla maledizione del figlio di Noè, Cam, cui era attribuita l’origine

del colore scuro della pelle degli africani, fino alle tesi originali esposte da Lidio

Cipriani tra il 1920 e la fine degli anni Trenta. Negli ultimi scritti del Cipriani sul

problema dei popoli africani restava ancora sensibile l’influenza dell’opera e del

pensiero del Sergi329, i cui postulati venivano condivisi dall’autore, sebbene

contemporaneamente questi non esitasse a giustificare l’inferiorità delle popolazioni

etiopiche tramite il consueto ricorso al concetto di degenerazione.

Il problema relativo alla collocazione da dare ai popoli dell’Africa venne

affrontato più volte da Giuseppe Sergi, segno che la questione camitica era sempre

all’ordine del giorno. In Origine e diffusione della stirpe mediterranea - testo, vale la

pena ricordarne la data, del 1895 quando cioè Sergi era impegnato ad affermare la

propria proposta di classificazione morfologica sul piano nazionale ed internazionale -

si definisce la stirpe mediterranea con le seguenti parole:

è la stirpe bruna più bella morfologicamente che sia apparsa in Europa, non deriva da stirpe negra né da stirpe bianca, ma stirpe autonoma nella famiglia umana.330

Questa descrizione alla luce del pensiero, perennemente in evoluzione, dello studioso

siciliano deve essere cautamente valutata: vi è, innanzi tutto, una orgogliosa

rivendicazione della bellezza fisica della stirpe da cui discenderebbe la maggior parte

della popolazione italiana; in ciò si ravvisa quella continua corrispondenza tra scienza e

arte che è fondamentale per la fissazione delle idee razziste e che, da Retzius in poi,

razzismo spurio influenzato dall’internazionalismo di marca ebraica”; cit. in CASSATA F., La difesa della razza. Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista, Einaudi, 2008 pp. 96 – 97 328 Sull’evoluzione della problematica legata all’ipotesi camitica si veda CASSATA F., La difesa della razza, cit. 329 Lidio Cipriani, allievo di Aldobrandino Mochi, dal 1926 libero docente di antropologia a Firenze, compì numerosi viaggi di ricerca sul campo in Africa (nello Yemen, in Rhodesia, nel Mozzambico, nella zona del Kalahari, in Sudafrica) e si dedicò a risolvere il dissidio venutosi a creare tra la dottrina antropologica che faceva capo alla teoria del Sergi e le esigenze della politica coloniale fascista. L’intero percorso ideologico del Cipriani si trova descritto in CASSATA F., La difesa della razza, cit. pp. 228 – 233. Si noti che, nonostante gli sforzi del Marro e del Cipriani, nel 1939 restavano nella comunità antropologica ancora voci favorevoli alla proposta del Sergi, una tra tutte quella di Giuseppe Lucidi [CASSATA F., La difesa della razza, cit. pp. 228 seg.]. 330 SERGI G., Origine e diffusione della stipe mediterranea. Società editrice Dante Alighieri, Roma, 1895 p. 45

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portava a considerare “le teste lunghe e strette particolarmente belle e tratto

caratteristico dell’europeo superiore”331. Nel definire la stirpe mediterranea come “la

più bella apparsa in Europa” il Sergi ne affermava, dunque, anche la superiorità

intellettuale che di seguito sarebbe andato a documentare attingendo alle scoperte

fornite da altre discipline, linguistica e archeologia in primis. Ma un altro aspetto della

definizione precedente deve far riflettere in merito alla questione qui trattata: egli

afferma che la mediterranea è una stirpe bruna, che “non deriva da stirpe negra né da

stirpe bianca”; certamente questo è un locus critico sul quale si può gettare luce solo se

si guarda in prospettiva al complesso dell’opera dello studioso. Bisogna innanzi tutto

sottolineare che, se si facesse riferimento alle classificazioni tradizionali, è indubbio che

la stirpe mediterranea andrebbe collocata nel quadro della razza bianca. Sergi, però,

rifiutava di adoperare distinzioni nette sulla base del color della pelle se non per la

divisione delle sottovarietà, dunque per lui affermare che la stirpe bruna non avrebbe

nulla a che vedere con quella negra né con quella bianca appariva più probabilmente

come un modo per qualificare la classificazione proposta come interamente nuova. In

una tale prospettiva bisognerebbe intendere l’affermazione presa in esame come riferita

alla classificazione piuttosto che alla stirpe: sarebbe la prima a non avere nulla a che

vedere con le precedenti proposte fondate in gran parte sul colore della pelle, piuttosto

che la razza mediterranea con le altre due stirpi332. Non è, inoltre, possibile affermare

che la stirpe bruna non abbia nulla a che spartire con le popolazioni odierne dell’Africa

giacché nelle opere successive il Sergi dichiara esplicitamente di aver trovato “questo

tipo di popolazione nel Mediterraneo (…). [con variazioni di colore] dagli Egiziani agli

Italiani del sud ed agli Spagnuoli, come fra Greci e Libii, Berberi, Marocchini.”333 Negli

anni del fascismo non poteva sfuggire il riferimento alla Libia e che questa assieme a

Egitto e Marocco si trovino effettivamente in Africa; ancor meno doveva passare

inosservato che la patria d’origine degli eurafricani veniva in seguito identificata in una

zona compresa tra Eritrea ed Etiopia. Non bastasse ciò, in altre opere Sergi sottolineava

331 MOSSE G. L., Il razzismo in Europa cit. p. 34 332 Tra l’altro bisogna notare che Giuseppe Sergi non descriverà mai i caratteri di queste fantomatiche stirpi negra e bianca avvalorando l’idea che esse siano qui citate solo per dare un’idea della novità della propria proposta. Quello che lo studioso sembra voler dire in questo passo sarebbe: “io vi parlo di una stirpe nuova che voi non conoscete, che non ha nulla a che fare con quelle che voi credete di conoscere, perciò non cercate di collocarla nelle vostre classificazioni errate; è questa è la stirpe veramente superiore ed è la mediterranea”.333 SERGI G., Gli Arii in Europa e in Asia cit. p. 145

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l’esistenza di una parentela tra alcuni popoli d’Africa e i Mediterranei, parentela che “si

estende naturalmente alle popolazioni che sono varietà della specie eurafricana, cioè

agli africani rosso – bruni e neri, e ai nordici europei.”334. Una volta lette le sue opere

non era possibile trovare alibi per smentire che il più prestigioso esponente vivente della

scuola antropologica italiana credesse in una parentela biologica tra italiani e africani.

Come osservato da Cassata quindi:

Con la svolta introdotta dal fascismo nella politica coloniale italiana, soprattutto a partire dalla conquista dell’Etiopia e dalla proclamazione dell’impero nell’Africa Orientale Italiana, la tesi sergiana viene a trovarsi al centro di un insanabile dissidio fra teorizzazione scientifica e pressione politica: come conciliare, infatti, l’ipotesi della superiorità dei Camiti e della comune appartenenza di Eritrei e Italiani ad un’unica tipologia razziale con il regime di netta separazione e sottomissione attuato con durezza dal fascismo?335

Un’altra idea esposta nelle opere dell’antropologo messinese, a non essere certo

gradita al regime e sulla quale Marro sembra, invece, sorvolare - forse perché ancora

più imbarazzante - doveva essere quella che riconduceva all’interno della specie

eurafricana anche i popoli semitici; a tale proposito Sergi non avrebbe potuto essere più

esplicito:

un tipo affine al mediterraneo, la nostra varietà della specie eurafricana, è quello denominato semitico; il quale non diferisce dal mediterraneo, che potrebbe con vecchio nome dirsi camitico, che di poco, e potrei dire che tale differenza è più fisionomica che reale. Nel tipo detto semitico trovasi prevalentemente l’occhio tagliato a mandorla, il naso curvilineo, il viso ellissoidale; ma il cranio con le sue forme, la statura, il colorito della pelle, dei capelli e dell’iride è egualmente bruno, come nei mediterranei; si noti però che io parlo dei semiti quali vivono nella loro patria e specialmente nell’Asia minore e di altri che conservano ancora questi caratteri, come gli ebrei della Galizia e della Spagna. Allora noi possiamo fare un passo avanti e dire che il tipo bruno mediterraneo, (…), che secondo i linguaggi dicesi camito – semitico, può considerarsi come unica specie divisa in due rami (…).336 (corsivo mio)

Chiaramente il tentativo di rivendicare l’intera opera di Giuseppe Sergi

all’ideologia fascista e all’antisemitismo di regime doveva essere piuttosto arduo. 334 Ibid. p. 258 (corsivo mio) 335 CASSATA F., La difesa della razza, cit. pp. 228 - 229 336 SERGI G., Gli Arii in Europa e in Asia, cit. p. 147

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Nonostante tutto Giuseppe Genna tentò l’impresa con almeno due articoli, L’idea

razzista nel pensiero di G. Sergi e Per la storia dell’idea razzista italiana, comparsi

negli anni 1940 - 1941 sulle pagine dei primi due numeri di «Razza e Civiltà»337. In

questi testi sono raccolte alcune citazioni tratte dagli ultimi scritti338 del fondatore della

Società Romana allo scopo di compendiarne le teorie e dimostrare come egli fosse stato

un “razzista vero e grandissimo”339 che “più di ogni altro ha posto in cima ai suoi

pensieri l’esaltazione del patrimonio umano della nazione (…) e nel cui nome si

riassume gran parte dell’antropologia italiana dell’ultimo cinquantennio”340. Ma questo

tentativo di portare l’antropologo siciliano nelle file degli ideologi di regime non

doveva destare critiche solo dai più intransigenti assertori del razzismo fascista, quali

Marro e Landra che accusavano Sergi tra l’altro (e a ragion veduta) di

“filoanglosassonismo”341: gli articoli di Genna crearono, infatti, aspri dissapori anche

tra lo stesso Genna e il cognato Sergio Sergi342, figlio di Giuseppe. Tali malumori

persistettero anche dopo la fine della guerra, quando Sergio si scontrò duramente con la

direzione della Società Romana proprio per la nomina del cognato a presidente della

società343.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale sull’intero percorso dell’antropologia

ottocentesca si stese una sorta di dimenticanza selettiva: mentre gli epigoni della scuola

antropologica positivista fino almeno agli anni ’70 continuarono a pubblicare opere in

cui si faceva riferimento al maestro Giuseppe Sergi, riconosciuto fondatore degli studi

di biologia umana in Italia344, nel panorama degli studi storici si finì per ignorare

deliberatamente scritti e personaggi legati all’idea di razza e alla sua lunga durata nel

periodo antecedente il Ventennio. In un clima culturale allora fortemente influenzato

337 GENNA G., L’idea razzista nel pensiero di G. Sergi, in «Razza e Civiltà» I, 1940 pp. 43 – 50 e GENNA

G., Per la storia dell’idea razzista Italiana, in «Razza e Civiltà» I, 1941 pp. 205 – 213 338 Molte delle citazioni utilizzate da Genna provengono tra l’altro dalle prefazioni degli ultimi testi del Sergi risalenti alla fine degli anni ’20 e agli anni ’30 ed è manifesto quanto la prefazione di un’opera risenta del momento storico e del quadro politico esistente al momento della pubblicazione…339 GENNA G., L’idea razzista nel pensiero di G. Sergi, cit. p. 43 340 GENNA G., Per la storia dell’idea razzista cit. p. 206 341 GENNA G., Per la storia dell’idea razzista cit. p. 207. Per la “britannofilia” di Sergi si veda per esempio questo capitolo, par. 1.1 in corrispondenza delle note 3 e 4. 342 Sergio Sergi aveva sposato la sorella di Giuseppe Genna. 343 Si veda PUCCINI S., L’antropologia a Roma cit. 344 Si veda ad esempio l’autorevole Storia della antropologia di Bernardino DEL BOCA edita dalla casa editrice Francesco Vallardi nel 1961 la quale riporta al suo interno una tavalo con le effigi dei fondatori dell’antropologia che si apre con Linneo e, passando da Buffon, Haller, Lamarch, Blumenbach, Cuvier, Darwin, Quatrefages, Mendel, Broca, Haeckel, si chiude con Giuseppe Sergi, l’unico italiano. DEL BOCA

B., Storia della antropologia, Dr Francesco Villardi, Milano, 1961 p. 24.

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dalla personalità di Benedetto Croce, lo scarso interesse che venne attribuito nel campo

degli studi umanistici agli esponenti del positivismo darwinista era collegato al giudizio

crociano sull’età della scienza positiva vista nel suo complesso come un tutto omogeneo

che si contrapponeva - in negativo - all’idealismo. Inoltre, come messo in luce dai

recenti seminari del «Centro studi sulla teoria e la storia del razzismo italiano»345,

questo atteggiamento da parte di molti storici si giustificava nella volontà a lungo

presente nella storiografia italiana di presentare il razzismo fascista come una sorta di

aporia, un episodio isolato di una storia in cui gli “italiani brava gente” in fondo non si

riconoscevano affatto. Probabilmente la damnatio memoriae subita fino ad anni recenti

da personaggi quali Giuseppe e Sergio Sergi nel campo degli studi di storia culturale è

da mettere in relazione anche con la lunga persistenza di questo tabù storiografico.

345 Si veda l’introduzione di Alberto Burgio a BURGIO A. a cura di, Nel nome della razza, cit.

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IV. I GERMANI NELL’ANTROPOLOGIA ITALIANA

1. LA NASCITA DI UN PROBLEMA: LA QUESTIONE LONGOBARDA

Esponendo la classificazione razziale elaborata da Giuseppe Sergi si è messo in

luce come le principali problematiche antropologiche e culturali dibattute tra la metà del

XIX secolo e i primi decenni del XX secolo venissero ricondotte alla dicotomia

fondamentale di arii e mediterranei. Essa, a sua volta, risultava essere l’espressione

della più generale tendenza a proporre una prima distinzione tra crani dolicocefali e

brachicefali. Una volta analizzate le linee guida seguite nel processo classificatorio

diventa possibile confrontarsi con un problema che da tempo ha destato l’interesse di

una parte degli storici: l’antropologia dei popoli germanici. Una simile ricerca trova, se

necessario, ancora maggior giustificazione qualora si tenga conto del contesto culturale

più generale in cui si svilupparono gli studi antropologici nel nostro paese. A partire dal

1822, data della prima edizione del Discorso sur alcuni punti della storia longobardica

in Italia di Alessandro Manzoni346, era rifiorito in Italia il dibattito attorno al ruolo degli

invasori germanici nell’alto medioevo generando la complessa discussione attorno al

problema noto come Questione Longobarda347. Esso traeva origine e giustificazione

nella Historia Langobardorum di Paolo Diacono, in due passi particolarmente

346 La seconda edizione dal titolo lievemente modificato in Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia uscì nel 1847, ma fu soprattutto l’edizione del 1822 a destare l’interesse generale per i temi ivi affrontati. 347 Una bibliografia di riferimento relativa alla Questione Longobarda è redatta da Enrico Artifoni in ARTIFONI E., Le questioni longobarde. Osservazioni su alcuni testi del primo Ottocento storiografico italiano, in «Mélanges de l’Ecole francaise de Rome» 119 - 2, 2007; qui vale la pena ricordare almeno: ARTIFONI E., Ideologia e memoria locale nella storiografia italiana sui Longobardi, in BERTELLI C. e BROGIOLO G. P. a cura di, Il futuro dei Longobardi. L’Italia e la costruzione dell’Europa di Carlo Magno, Saggi, Milano 2000, pp. 219 – 227; FALCO G., La questione longobarda e la moderna storiografia italiana, in Atti del I Congresso internazionale di studi longobardi, Spoleto 1952, pp. 153 - 166; GASPARRI S., Prima delle nazioni. Popoli, etnie e regni tra antichità e medioevo, Carocci, 2003; TABACCO G., Latinità e germanesimo nella tradizione medievistica italiana, in «Rivista Storica Italiana» 102, 1990 pp. 691 – 716. Per un’analisi del Discorso manzoniano nel contesto risorgimentale si veda BANTI A. M., Le invasioni barbariche e l’origine delle nazioni, in BANTI A. M., BIZZOCCHI R. a cura di, Immagini della nazione nell’Italia del Risorgimento, Carocci editore, 2002 pp. 11 - 38; per gli echi manzoniani nel più vasto panorama culturale ottocentesco si vedano almeno SORBA C., Il Risorgimento in musica: l’opera lirica nei teatri del 1848, in BANTI A. M., BIZZOCCHI R. a cura di, Immagini della nazione nell’Italia del Risorgimento, Carocci editore, 2002 pp. 133 – 157 e MAZZOCCA F., Tra la questione longobarda e il mito di Ermengarda, in BERTELLI C. e BROGIOLO G. P. a cura di, Il futuro dei Longobardi. L’Italia e la costruzione dell’Europa di Carlo Magno, Saggi, Milano 2000, pp. 211 – 218.

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controversi allora interpretati come prova di una segregazione etnica tra élite

longobarde e popolazione romana in Italia e della gravosa sottomissione di quest’ultima

agli invasori germanici348. La questione aveva origini antiche, ma nel corso dei secoli si

cristallizzò in due opposte posizioni, entro ciascuna delle quali era possibile riconoscere

molte e variegate sfumature. Tali convinzioni generali presupponevano due diversi

giudizi di valore sul ruolo del regno longobardo in Italia: a una valutazione positiva del

regno longobardo visto come prodromo al Regno d’Italia349, se ne contrapponeva una

negativa che individuava, invece, nella calata degli invasori germanici una frattura nella

storia della Penisola350.

Come ha efficacemente messo in luce Enrico Artifoni, sebbene nell’Ottocento il

giudizio negativo del Manzoni fosse alla base di ogni discussione in merito, tale

dibattito non assunse una forma omogenea, ma si sviluppò in tre fasi. Esse coincisero

pressappoco con i decenni Venti, Trenta e Quaranta del XIX secolo, ciascuna delle quali

caratterizzata da uno slittamento del focus su questioni particolari351. Mentre nel

Discorso manzoniano l’interesse per la condizione dei Romani soggetti all’invasore

germanico era motivato essenzialmente dalla volontà di esprimere un giudizio morale

sulla condotta tenuta da Adriano I - il quale aveva chiamato i Franchi di Carlo Magno in

proprio soccorso contro i Longobardi -, nelle fasi successive l’attenzione al ruolo svolto

dal papato nel crollo del regno longobardo venne scemando. Tra il 1830 e il 1839

Cesare Balbo e Carlo Troya, infatti, furono protagonisti di uno scambio epistolare

significativo ai fini di una prima riformulazione del tema longobardo che, accanto

all’istituzionalizzazione di un fil rouge storiografico tra i temi della vicenda longobarda

e della nascita dei Comuni, finì però per appiattire ogni problematica proposta in una

dimensione sempre più spiccatamente giuridica.

348 Il problema che riguarda da vicino la questione della razza trovava la sua origine in PAOLO DIACONO, Historia Langobardorum, II, 32, laddove si legge che dopo la morte di Clefi i Longobardi rimasti per dieci anni senza un re furono comandati dai duchi delle varie città e “His diebus multi nobilium Romanorum ob cupiditatem interfecti sunt. Reliqui vero per hospites divisi ut terciam partem suarum frugum Langobardis persolverent, tributarii efficiunt” (“in quei giorni molti dei nobili Romani a causa della brama di ricchezza vennero uccisi. I sopravvissuti, divisi come hospites, affinché versassero la terza parte del proprio raccolto, vennero resi tributari”). Il dibattito si incentrò sul significato di quel “per hospites” che venne comunemente letto come prova di segregazione etnica tra vincitori e vinti. 349 Tale giudizio positivo sul regno longobardo venne espresso già dal Machiavelli che attribuiva agli invasori il merito di aver unito per la prima volta la Penisola. A ciò si accompagnava una dura accusa al papato reo, invece, di aver impedito l’unificazione italiana invocando in proprio aiuto i Franchi di Carlo Magno. 350 Le posizioni più critiche vennero incarnate dagli storici in seguito definiti da Croce “neoguelfi”. 351 ARTIFONI E., Le questioni longobarde, cit. pp. 297 - 304

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È però solo a partire dalla terza fase della vexata quaestio che il tema della

presenza dell’invasore germanico nella Penisola cominciò a essere declinato da un

punto di vista razziale, sebbene per stirpe si intendesse allora “più che una stretta

accezione razziale, una specie di indole mentale dei popoli”352 che si può ritenere più

vicina all’idea di Volksgeist espressa quasi cinquant’anni prima dal filosofo Johann

Gottfried Herder353 che alle classificazioni proprie del periodo positivista. È questa una

differenziazione che va sottolineata al fine di non cadere nella tentazione di leggere

nelle affermazioni di un marchese Capponi (“credo molto alla potenza inestinguibile

della razza nelle qualità dei popoli, e credo all’etnologia come base della storia”354) una

anticipazione delle teorizzazioni post – darwiniane.

Tuttavia la discussione sull’età longobarda non può essere inscritta solamente

entro la prima metà del XIX secolo. Attraverso le articolazioni seguite in questi primi

tre decenni essa si sviluppò, infatti, in almeno tre filoni355 che avevano per oggetto

rispettivamente il ruolo dei romani vinti nel regnum Langobardorum, il giudizio

sull’intervento papale - tema fortemente discusso tra i cosiddetti neoguelfi - e il dibattito

sulle autonomie cittadine che includeva il problema dell’origine degli statuti comunali.

Quest’ultimo capitolo si rivelò forse il più ricco di sviluppi in una longue durée che

continuò a destare interesse anche nei primi decenni del secolo successivo grazie

soprattutto al valore nazionale che finì per rivestire. Infatti stabilire se gli ordinamenti

cittadini discendessero direttamente dalla legislazione romana o se derivassero in gran

parte da consuetudini germaniche finì per significare, in una prospettiva che individuava

nella civiltà comunale un prodotto squisitamente italico, ascrivere la nazione stessa in

un contesto latino piuttosto che barbarico356. Tuttavia se nei primi decenni i protagonisti

della discussione italiana furono tanto personaggi di orientamento cattolico – liberale

352 Ibid. p. 302 353 Tra le opere di Herder a questo riguardo vanno ricordate le Lettere per il progresso dell’umanità (1793 - 1797) e Idee per la filosofia della storia dell’umanità. Su Herder si veda il saggio di PÉNISSON P., Johann Gottfried Herder. La Raison dans les Peuples, Cerf, Parigi, 1992 e THISSE A., La creazione delle identità nazionali in Europa, Il Mulino, 2001 pp. 29 – 37.354 CAPPONI G., Sulla dominazione dei Longobardi in Italia. Lettere al Prof. Pietro Cappei cit. in ARTIFONI E., Le questioni longobarde, cit. p. 302 355 ARTIFONI E., Ideologia e memoria locale nella storiografia italiana, in BERTELLI C. e BROGIOLO G. P. a cura di, Il futuro dei Longobardi, cit. p. 220 356 Sulla discussione storiografica nata attorno al problema dei comuni si veda anche TABACCO G., La città italiana tra germanesimo e latinità nella medievistica ottocentesca, in ELZE R., SCHIERA P. a cura di, Italia e Germania. Immagini, modelli, miti fra due popoli nell’Ottocento: il Medioevo, Annali dell’istituto storico italo – germanico in Trento, Contributi, I, Bologna – Berlin 1988 pp. 691 - 716

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come Troya, Balbo, Capponi quanto storici del diritto (tra i quali merita di essere

menzionalo almeno lo Sclopis), nella seconda metà del secolo essa divenne materia di

sempre più stretta competenza della seconda categoria. Ciò avvenne grazie al contributo

di studiosi del calibro di Schupfer e Leicht e all’influenza sempre maggiore registrata

negli ambienti culturali della Penisola della scuola storico – giuridica tedesca357, ma finì

per dilatare enormemente il problema degli assetti legislativi comunali a discapito di

una ricerca che avrebbe potuto essere, invece, più articolata.

Nello stesso periodo in cui la questione diveniva materia dei giuristi, mentre

calava il livello dell’interesse che il problema longobardo aveva suscitato a livello

nazionale, si sviluppò una ricerca locale parallela che rimase però inscritta nella

dimensione ristretta delle “piccole patrie” senza creare le condizioni per un dialogo di

più ampio respiro358. Anche in questo caso, sebbene in un contesto limitato a

determinate aree urbane, si continuò a etnicizzare i risultati dell’indagine storico –

archeologica individuando negli invasori germanici gli antenati dei cittadini moderni

sull’onda degli umori ispirati dalla situazione politica locale del momento. La pretesa di

continuità tra alto medioevo e contemporaneità messa in atto dalle élite locali risultava

diametralmente opposta alla declinazione nazionale classica della Questione. Secondo

quest’ultima, infatti, la calata dei Longobardi si sarebbe dovuta interpretare come una

frattura nella storia della nazione italiana poiché avrebbe intaccato la (presunta) unità

etnica della popolazione della penisola. Da qualunque angolazione si decidesse di

affrontare il problema, agli occhi degli studiosi dell’epoca risultava sempre confermata

la necessità di disporre di un metodo capace di determinare se e (in caso di risposta

affermativa) quanto il retaggio longobardo avesse contribuito a plasmare la nazione che

357 Friedrich Carl von Savigny, autore della Geschichte des römischen Rechts im Mittelalter, fu un sostenitore della continuità tra mondo romano e medioevale dal punto di vista degli ordinamenti giuridici almeno per quel che riguarda il carattere di fondo della legislazione che, a suo parere, rimarrebbe sostanzialmente romana; al contrario Heinrich Leo (la cui opera dedicata all’Italia venne tradotta nel 1836 da Cesare Balbo con il titolo Vicende della costituione delle città lombarde fino alla discesa di Federico I imperatore) si dichiarava convinto della derivazione del consolato comunale dallo scabinato franco. Sull’influenza del Savigny e della storia del diritto tedesca negli ambienti piemontesi si veda oltre al già citato saggio, La città italiana tra germanesimo e latinità nella medievistica ottocentesca di Giovanni TABACCO, anche MOSCATI L., Le fonti giuridiche dell’altomedioevo tra Italia e Germania: due esperienze a confronto, entrambi editi in ELZE R., SCHIERA P. a cura di, Italia e Germania, cit. pp. 243 - 269 358 Un caso esemplare della rivendicazione del passato longobardo da parte di una realtà locale è quello di Cividale del Friuli indagato da Irene Barbiera. (BARBIERA I., “E ai di’ remoti grande pur egli il Forogiulio appare”. Longobardi, storiografia e miti delle origini a Cividale del Friuli, in «Archeologia medievale» XXV, 1998 pp. 345 - 357)

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si andava costruendo come Stato unitario. Sebbene gli storici di professione andassero

concentrando la propria indagine sulla persistenza di elementi culturali di matrice

germanica, è ormai manifesto che, in un’epoca in cui il concetto di razza veniva sempre

più spesso declinato nella sua accezione biologica, anche per la Questione Longobarda

si cercasse una risposta in termini di ereditarietà di sangue. Con tali presupposti il

dibattito sugli invasori germanici non poteva essere del tutto ignorato dagli antropologi

italiani, non solo per le sollecitazioni che ripetutamente arrivarono alla nuova “scienza

biologica” da parte di storici e archeologi. Infatti l’affermazione o il rifiuto della

supposta fusione359 tra barbari e romani rivestiva un ruolo centrale anche nella

determinazione di uno degli aspetti su cui l’antropologia era maggiormente sollecitata a

dare risposte alla nazione: la questione del sangue degli italiani.

2. RICERCHE STORICHE E ARCHEOLOGICHE E LA SPERANZA NELLA

“NUOVA SCIENZA”

2.1 Le sfaccettature di un problema

La “questione del sangue” presentava una triplice declinazione: quella

propriamente razziale, attinente la classificazione dei popoli, quella della distribuzione

geografica nella penisola (dell’esistenza di fatto di due Italie) e quella dell’entità

dell’apporto biologico da parte degli elementi creduti allogeni. All’ultimo dei quesiti

posti gli studiosi del periodo a cavallo tra i due secoli fornirono una risposta piuttosto

sbrigativa basandosi essenzialmente sulle fonti scritte in loro possesso, senza cioè

avvalersi realmente dei risultati delle cosiddette scienze ausiliarie. Troviamo un classico

esempio dell’atteggiamento tenuto in merito nell’allora popolare «Rivista di Sociologia

Italiana» - luogo principe dell’incontro tra nuove discipline e storici di professione. Nel

primo numero della Rivista compare un articolo dal titolo Le scorrerie barbariche e le

359 L’espressione appartiene a Carlo Cipolla che la utilizzò nel titolo di una relazione alla Regia Accademia dei Lincei (CIPOLLA C., La supposta fusione degli Italiani coi Germani nei primi secoli del medioevo, in «Rendiconti della Reale Accademia dei Lincei», V, IX, 1900) e in un intervento come socio della Regia Accademia delle Scienze (CIPOLLA C., La supposta fusione dei Longobardi colla popolazione italiana secondo Giovanni Villani e Gabrio de’ Zamorei, in «Atti della Reale Accademia delle Scienze di Torino», Vincenzo Bona, Torino, 1910).

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cause della caduta dell’Impero Romano che, contrariamente a quanto avvenne per molti

altri contributi editi sulle stesse pagine, non parve suscitare esplicite contestazioni né

critiche particolari. Il saggio firmato da Giacomo Novicow360 abbozzava una sorta di

storia delle migrazioni indagando, coerentemente con il taglio sociologico adottato, le

cause del movimento dei popoli germanici nel corso dell’età tardo antica e nel primo

medioevo. Oltre a individuare le cause dello spostamento verso sud - ovest dei Germani

nella cupidigia destata in loro dalle “ricchezze dei vicini”361, l’autore affrontava il

problema della loro entità in termini demografici. Novicow asseriva in proposito che

“Grandi invasioni non vi furono mai”362 e che, a fronte di una popolazione dell’impero

che avrebbe superato gli ottanta milioni (corrispondenti cioè a un esercito

ipoteticamente formato da circa otto milioni di soldati) “i Germani, tutti assieme, non

oltrepassavano certamente i quattro milioni”363. In quel “tutti assieme” risultavano

compresi donne, bambini, anziani. Tralasciando la querelle per molti versi ancora

attuale sul numero effettivo e sulla composizione dei nuclei migranti, pareva

matematicamente evidente che un solo gruppo/popolo germanico non fosse in grado di

alterare in modo significativo il retaggio etnico della popolazione già presente nei

territori occupati qualora si accettasse l’ipotesi di un rapporto invasori – invasi inferiore

a 0,05, situazione in cui i germani avrebbero costituito meno del 5% della popolazione

totale364.

360 Giacomo Novicow (Costantinopoli 1851 - Berlino 1912) fu un insigne sociologo di famiglia russa autore tra l’altro di due saggi subito tradotti in italiano: La missione d’Italia (Treves, Milano, 1902) e Critica del darwinismo sociale (Zanichelli, Bologna, 1910 - traduzione di V. Kessler). Nel primo dei due testi citati egli si opponeva alle diagnosi di decadenza proposte dal Ferrero in Europa Giovane e dal Sergi nel già citato La decadenza delle nazioni latine. Novicow al contrario di questi assegnava all’Italia un primato spirituale e il compito di guidare la nascita di una Federazione Europea (“l’Italia deve essere una vasta scuola di belle arti, un immenso laboratorio di scienze naturali, un focolaio ardente di scienze sociali. Ogni spirito alto, si dice, e giustamente, ha due patrie: la propria e l’Italia (…). l’Italia deve prendere l’iniziativa della federazione europea… ha già formato due volte l’unità dei popoli: la prima volta con la dominazione politica di Roma, la seconda con quella spirituale dei papi ”). Su Giacomo Novicow si veda NATALI G., Ricordi e profili di maestri e amici, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1965 pp. 105 - 109. Un necrologio firmato da B. Montanti fu pubblicato su «Vita Internazionale» di E. T. Moneta (20 giugno 1912), di cui il Novicow era stato collaboratore. 361 Novicow escludeva, invece, la possibilità che la migrazione fosse causata dalla pressione di popoli asiatici sulla base di una presunta scarsa densità di popolazione delle lande desolate dell’est Europa; tale bassa concentrazione demografica avrebbe permesso tanto a coloro che vi erano già stanziati quanto a nuovi venuti di stanziarsi nei territori in questione senza entrare per forza in conflitto gli uni con gli altri. 362 NOVICOW G., Le scorrerie barbariche e le cause della caduta dell’Impero Romano, in RdIS, 1, I, 1897 pp. 40 – 45 cit. p. 43 (corsivo nel testo) 363 Ibid. p. 43 (corsivo mio) 364 L’opinione che i Germani stanziatesi sul suolo italiano rappresentassero una percentuale assai poco rilevante della popolazione della Penisola nei primi secoli del medioevo era di fatto universalmente condivisa. Ricordiamo a riguardo quanto espresso da Giuseppe Salvioli, professore di statistica a

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Tale considerazione va, però, messa in relazione con il secondo aspetto del

problema germanico considerandolo dal punto di vista biologico – territoriale cioè sulla

base della distribuzione geografica di questo 5% “allogeno”. In quest’ottica si

giustificava, infatti, la posizione assunta dalle memorie locali che riconoscevano nei

Longobardi degli illustri antenati. L’antropologia italiana, infatti, ebbe cura di svolgere

numerose indagini a livello regionale e di evidenziare le differenze antropometriche

rilevate mettendole in relazione con le successive ondate migratorie che avevano

interessato la Penisola delle quali si avesse notizia storica, da quella Celtica a quella

Longobarda. L’esempio più rilevante di tali indagini è rappresentato dagli studi del Livi

di cui si avrà modo di parlare nel corso del capitolo; i suoi studi di antropometria

regionale fornirono gran parte del materiale utilizzato dai grandi teorici della razza.

Fin qui si sono esposte le linee principali sulle quali l’antropologia era chiamata

a relazionarsi con il problema dei popoli germanici. Si vedranno ora le reazioni e le

aspettative degli specialisti di antichità germaniche nei confronti di questa nuova

scienza. La storiografia europea aveva già porto l’orecchio da tempo alle sirene della

“stirpe”, basta pensare alla Francia e all’opera di Thierry; ancor maggiore impulso

venne dato al discorso storico – razziale dalle teorie sociologiche di Gumplowicz il

quale si soffermò a lungo sulla questione della genesi delle nazioni. Egli rinveniva il

presupposto necessario alla nascita degli stati moderni nella perenne lotta tra nuclei

umani appartenenti a razze differenti. Quello che preme qui segnalare è il fatto che

Gumplowicz fu non solo un sostenitore della ricerca antropologica – che utilizzò anche

al fine di fondare l’ipotesi che i singoli stati fossero composti di elementi

antropologicamente ed etnicamente molto diversi365 -, ma anche un convinto assertore

della necessità di avvalersi continuamente del contributo interpretativo che tale

Palermo, in Sullo stato e la popolazione d’Italia prima e dopo le invasioni barbariche, Palermo, 1900 e da Cesare Balbo nel secondo tomo della sua Storia d’Italia (Torino, 1830); una panoramica articolata sulla base dei vari gruppi di invasori (Goti, Unni, Sassoni, Longobardi, Arabi, Greci ecc.) si trova in CIPOLLA Carlo, Della supposta fusione degli Italiani coi Germani, cit. pp. 329 – 360, 369 – 422, 517 – 563, 567 – 603 e in CIPOLLA Carlo, Intorno alla costituzione etnografica della nazione italiana, Torino, 1900 365 GUMPLOWICZ, Le origini delle società umane, in RdIS I, I, 1897 pp. 55 – 70. É opportuno ricordare che l’intervento del sociologo ungherese provocò la decisa reazione del Sergi, indignato per l’ “uso improprio” fatto dal Gumplowicz dei risultati dell’antropologia: egli infatti sosteneva che grazie all’indagine antropometrica fosse emersa la grande varietà delle forme craniche a ciascuna delle quali egli avrebbe attribuito un’origine etnica diversa, teoria che metteva in luce una conoscenza alquanto superficiale dei principi della disciplina antropologica. La critica del Sergi è espressa sulle pagine della stessa rivista: SERGI G., I dati antropologici in sociologia, RdIS 2, II 1898 pp. 66 – 76.

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disciplina sembrava in grado di fornire anche e soprattutto nel campo della ricerca

storica366.

Come per Gimplowicz anche per Gaetano De Sanctis sembrava che “la storia

non fosse altro che una lotta di razza”367: la sua Storia dei Romani appariva, infatti,

come una grande epopea della lotta perenne tra ariani e semiti. L’opera in questione fu

proprio per questo motivo oggetto di una dura reprimenda da parte di Pietro Bonfante,

storico del diritto e professore presso l’università di Pavia, il quale ne attaccava

ferocemente l’autore proprio dalle pagine della «Rivista Italiana di Sociologia»368. È

interessante il fatto che gran parte della critica mossa dal Bonfante alla Storia dei

Romani fosse incentrata sugli aspetti antropologici delle questioni trattate. A questo

proposito leggiamo, infatti, che “le sue [del De Sanctis] relazioni con le altre dottrine

[antropologia e archeologia], con un’apparenza esatta, sono frantumate e rese oscure,

perché l’autore non le comprende né le presenta mai nel loro insieme”369 e che “spesso

egli [De Sanctis], se ha letto, sembra non abbia compreso”370. Il peccato originale

dell’opera veniva, dunque, individuato nella concezione filo – ariana del suo autore, il

quale si abbandonava a un lungo inno alla razza aria. Egli la voleva, infatti,

caratterizzata da grande vigoria fisica, adattabilità a climi diversi ed estremi, indomabile

energia morale, intelligenza ardita e pronta e capace di creare ex novo, ma anche di

perfezionare le invenzioni altrui, piena di equilibrio, di coraggio privo però di ferocia,

amore per la vita e profondo sentimento del bello371. L’opera del De Sanctis veniva

pubblicata tuttavia proprio nel momento storico in cui, secondo il Bonfante, “il mito

ariano si sfronda, il problema delle lingue si separa nettamente da quello delle razze”372.

È chiaro che il background culturale cui il professore di Pavia si riferiva andrebbe

individuato nelle - allora piuttosto recenti - osservazioni archeologiche di Orsi e

Colini373 e, sul fronte dell’antropologia, nelle teorie di Sergi. Quest’ultimo veniva

richiamato tanto più esplicitamente quando nell’articolo si affermava che “la diffusione 366 Si veda oltre ai saggi dello stesso autore citati in precedenza anche GUMPLOWICZ, Per la psicologia della storiografia, in RdIS VIII, III, 1903 pp. 201 – 223 367 La definizione all’idea di storia del Gumplowicz venne data da Mondani in MONDANI G., La filosofia della storia quale sociologia, in RdIS 2, III, 1898 p. 331 368 BONFANTE P., Tendenze e metodi recenti negli studi storici, RIdS 12, II, 1908 pp. 219 - 253 369 Ibid. p. 220 370 Ibid. p. 221 371 DE SANCTIS G., Storia dei Romani – la conquista del primato in Italia, 4 vol., Fratelli Bocca Editori, Torino, 1907 p. 79 372 BONFANTE P., Tendenze e metodi recenti negli studi storici, cit. p. 223 373 Cfr. cap. 4 par. 2.2 in corrispondenza della nota 65

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della stirpe mediterranea è completamente omessa dall’autore, e la scienza italiana, per

questo lato, trattata con ingiusto e mal celato disprezzo”374.

Come era logico attendersi, l’intervento in questione non rimase senza risposta

da parte di De Sanctis. Questi si difese375 affermando che il popolo ario da lui descritto

comprendeva “bruni e biondi, brachicefali e dolicocefali”. Pertanto sosteneva che si

sarebbe dovuto dedurre facilmente che egli non aveva inteso parlare degli ari “come

d’una razza in senso antropologico, ma come d’un popolo o di una nazione formata da

elementi disparati che poi s’è scissa in altre nazioni”376. Passando al contrattacco egli

sottolineava, invece, come i suoi contestatori risultassero del tutto ignoranti riguardo le

conclusioni cui era giunta la linguistica comparata e del fatto che le “lingue non sono

come un soprabito che si cambia a piacere”377. Tuttavia la replica del De Sanctis, in

quanto palesemente ancora legata alla vecchia teoria del panarismo, doveva apparire a

sua volta necessitare di aggiornamento essendo più vicina all’allora quasi obsoleto

paradigma pigoriniano che al nuovo sentimento mediterraneo che si andava diffondendo

nelle università italiane come attestava lo stesso Bonfante. Quest’ultimo rispose a

“stretto giro di posta” (il suo secondo intervento è pubblicato di seguito all’articolo del

De Sanctis nel fascicolo VI della «Rivista Italiana di Sociologia» del 1908)

esprimendosi con parole che potevano benissimo essere uscite dalla bocca del Sergi:

(…) io combatto la tesi «della diffusione della lingua mercè la progressiva espansione di un unico popolo». Io ritengo che gli Ari, nelle varie sedi, si siano mescolati fortemente alle popolazioni indigene, e non reputo escluso che nei popoli più remoti dal centro l’elemento ario preponderi (…) e la lingua sia stata propagata talora da popoli arianizzati, non Ari.378

La posizione del Bonfante appariva, dunque, più in linea con i tempi e più aperta

rispetto agli stimoli che provenivano in quegli anni da antropologia e archeologia, forse

proprio per l’attenzione che gli storici del diritto continuavano a rivolgere al problema

germanico attraverso il dibattito, a quell’epoca ancora vivace, sulle leges barbarorum e

374 BONFANTE P., Tendenze e metodi recenti negli studi storici, cit. p. 225 375 DE SANCTIS G., Questioni di storia e di critica, Torino, RIdS 12, VI, 1908 pp. 777 - 814 376 Ibid. p. 779 377 Ibid. p. 781 378 BONFANTE P., Questioni di storia e di critica, RIdS 12, VI, 1908

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sulle origini del comune379 - dibattito che sulle pagine della «Rivista Italiana di

Sociologia» aveva trovato vasta eco380. L’antichista De Sanctis, con la sua “coppia

provvidenziale”381 ari – semiti, si mostrava invece ancora attratto dalla mitologia

pangermanica ottocentesca, mitologia diametralmente opposta a quella mediterranea

che nel primo Novecento italiano doveva risultare, infine, vincente.

Riassumendo si può dire che, ancora alla fine degli anni Dieci, nel dibattito

sull’origine etnica della civiltà romana troviamo in campo storiografico due

schieramenti opposti incarnati rispettivamente da un Pietro Bonfante, conoscitore ed

estimatore dell’opera del Sergi, e da un Gaetano De Sanctis, ancora legato alle

speculazioni etnico – razziali del Pigorini.

Le diverse posizioni sull’etnicità dei latini dovevano avere per forza dei risvolti

anche sulla ricerca relativa al ruolo dei popoli germanici. Non a caso, quasi dieci anni

prima del dibattito sulla Storia dei Romani, uno storico come Carlo Cipolla nella sua

trattazione relativa proprio alla presunta fusione tra Germani e popolazione italiana se

da un lato affermava che “la composizione etnica dei Romani prima di Augusto non è

materia delle nostre indagini” (p. 348), dall’altro fu costretto ad ammettere che “il

problema delle origini italiche (…) getta i suoi lontani riflessi anche sull’argomento che

in proprio ci siamo proposti” (p. 347). Dal punto di vista dell’antropologia ciò diveniva

ancora più rilevante poiché le classificazioni antropologiche differivano da quelle

storiche in quanto non facevano necessariamente corrispondere una precisa tipologia

scheletrica a un singolo popolo, ma piuttosto a gruppi umani più ampi. Pertanto il fatto

che la popolazione italiana al tempo dei Romani fosse prevalentemente ascrivibile a una

forma piuttosto che a un’altra doveva risultare finanche determinante nella valutazione

del portato biologico dei popoli invasori. Proprio questa differenza di fondo tra

necessità degli storici e interpretazioni antropologiche ci pare al centro di un

fraintendimento che ha portato a una progressiva presa di distanza e a una maggior 379 Enrico Artifoni ha messo in luce come la scuola economico – giuridica costituì il caso più importante nel campo storiografico di applicazione del metodo positivista; allo stesso tempo la medievistica, in particolare, fu sempre un campo di studi particolarmente sensibile a nuovi stimoli tanto da divenire un utile indicatore per individuare le fasi di rinnovamento storiografico. ARTIFONI E., Salvemini e il Medioevo. Storici italiani tra Otto e Novecento, Liguori editore, Napoli, 1990 pp. 17 seg. 380 Numerosissimi gli interventi in proposito, tanto che Mariarosa Ravelli individua in esso un vero e proprio nucleo tematico. RAVELLI M., Comunità politiche e scienza nella “Rivista Italiana di Sociologia”di Guido Cavaglieri, in La sociologia politica in Italia, a cura di LOSITO M., Franco Angeli editore, Milano, 2000 pp. 76 - 97 381 OLENDER M., Le lingue del Paradiso. Ariani e semiti: una coppia provvidenziale, Mulino, Bologna, 1991

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diffidenza reciproca tra le due discipline. Ciò avrebbe provocato nei fatti la fine di un

vero dialogo multidisciplinare determinando una sorta di “multispecialismo mancato”.

2.2 Le speranze riposte negli “eminenti craniologi”

I motivi alla base di questa diffidenza sono molti e vari ma, come si cercherà di

mettere in luce nei prossimi paragrafi, procedono essenzialmente dal modo di operare

delle due discipline, dai rispettivi statuti disciplinari scarsamente inclini ad addentrarsi

in campi del sapere percepiti come fondamentalmente estranei. Per cominciare a capire

le ragioni di questo progressivo allontanamento tra le due discipline è, però, necessario

risalire alle attese che erano state riposte da più parti nella nuova scienza dell’uomo.

Tra il 1878 e il 1930 fiorì anche in Italia l’archeologia dell’età barbarica382; essa

prese l’avvio soprattutto grazie alla scoperta a Testona, presso Torino, di una necropoli

alto-medievale la cui nota di scavo, firmata da Claudio ed Edoardo Calandra, venne

pubblicata cinque anni più tardi negli «Atti della Società di Archeologia e Belle Arti

della Provincia di Torino»383. L’intera vicenda, che è stata efficacemente ricostruita da

Cristina La Rocca384, mostra come la catalogazione dei reperti rinvenuti venisse portata

avanti nella speranza di poter giungere a una sicura identificazione etnica degli inumati.

La relazione stesa dai Calandra si concludeva, però, con la presa di coscienza della

difficoltà di ascrivere la necropoli a un popolo particolare tra i molti che avevano invaso

la Penisola nel corso del primo medioevo:

dai fatti e dalle considerazioni che siamo venuti esponendo non possiamo dedurre una precisa conclusione. Ci limitiamo a dire che forse le maggiori probabilità sono per i Sarmati (Slavi - Polacchi), per i Franchi – Merovingi, e per i Longobardi. Ci riserviamo di far misurare e studiare da qualche abile craniologo i teschi esistenti, per il caso che un qualche lume possa risultare dai caratteri speciali di razza.385

382 LA ROCCA C., L’archeologia e i Longobardi in Italia. Orientamenti, metodi, linee di ricerca, in Il regno dei longobardi in Italia. Archeologia, società, istituzioni a cura di GASPARRI S., Fondazione studi italiani sull’alto medioevo, Spoleto. 383 CALANDRA C., CALANDRA C., Di una necropoli barbarica scoperta a Testona, in «Atti della società di archeologia e belle arti per la provincia di Torino» IV, 1883 384 LA ROCCA C., L’archeologia e i Longobardi in Italia, cit. 385 CALANDRA C., CALANDRA C., Di una necropoli barbarica, cit. p. 51

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Sebbene l’archeologia si mostrasse infine impotente restava, dunque, la speranza

nell’intervento dell’antropologia che, lo ricordiamo, godeva in quegli anni di grande

rinomanza e dell’appoggio istituzionale. Dunque, verso la fine dell’800 le speranze

nella capacità di riuscita da parte della nuova disciplina erano tutte orientate alla

possibilità che essa pareva suggerire di fornire delle identificazioni certe, nella capacità

cioè di attribuire a ciascuno scheletro una etichetta etnica che definisse chiaramente a

quale popolo fosse da ascrivere.

Tuttavia, come si è già messo in evidenza nei precedenti capitoli, l’antropologia

si muoveva su un terreno assai diverso, rifuggendo dalle classificazioni “per popoli” e

muovendosi, invece, sul più ampio terreno delle razze. Proprio a partire dal decennio

successivo alla scoperta della necropoli di Testona nel Paese cominciò a farsi sentire

sempre più forte l’influsso della personalità e delle teorie del Sergi. Queste, se da un

lato orientarono ancor più la ricerca in un orizzonte di paleontologia umana attribuendo

scarsa importanza agli eventi migratori posteriori l’evo antico, dall’altro polarizzarono il

dibattito attorno al problema ario – mediterraneo nel quale scarso rilievo finirono per

avere i Germani in generale. Minima importanza venne attribuita poi alle differenze tra

le varie popolazioni barbare.

Il caso di Testona non costituisce un unicum: nel 1885 un’altra importante

scoperta nel campo dell’archeologia alto – medievale venne fatta a Civezzano - presso

Trento - località in cui, nel corso degli anni, si susseguirono numerosi ritrovamenti. La

tomba barbarica localizzata nell’85 venne successivamente scavata da Luigi Campi, il

quale mise immediatamente in relazione la nuova sepoltura con quelle rinvenute a

Testona386. Sebbene lo scheletro di Civezzano fosse in buono stato, non possiamo

ricostruire la sua vicenda scientifica, né sapere se sia stato in qualche modo

conservato387, sappiamo però che alcuni crani provenienti dalla necropoli vennero in

seguito studiati e risultarono essere essenzialmente dolicocefali388. Interessante è, però,

il fatto che nelle pagine scritte nella relazione dello scavo venissero messi

386 Per una discussione approfondita del ritrovamento della sepoltura di Civezzano e delle pubblicazioni del Campi citate si rimanda a PAZIENZA A., Longobardi in Tuscia. Fonti archeologiche, ricerca erudita e la costruzione di un paesaggio altomedievale (secoli VII - XX), Tesi di dottorato conseguito presso l’università di Padova, supervisore Maria Cristima La Rocca pp. 57 seg. 387 PAZIENZA A., Longobardi in Tuscia. Fonti archeologiche, ricerca erudita e la costruzione di un paesaggio, cit. pp. 71 - 72 388 CAMPI L., I Campi Neri presso Cles, in «Atti della società degli Alpinisti Tridentini» XIII, Rovereto, 1886 – 1887 p. 155.

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apparentemente in discussione alcuni dei postulati chiave della visione pangermanica,

allora ancora dominante nel campo dell’archeologia, e che al contempo venisse messa

in dubbio anche la caratterizzazione strettamente militare dei popoli barbari. Due anni

dopo tale scoperta (nel 1887) Luigi Campi fu protagonista di un altro scavo trentino,

quello dei Campi Neri situati presso Cles. In tale occasione egli si mostrò più sollecito

nei confronti delle possibilità offerte dall’antropologia e fece sottoporre i crani dei tre

scheletri rinvenuti a una attenta analisi craniometrica - sempre nella speranza di ottenere

lumi sull’appartenenza etnica degli inumati. A questo proposito nella relazione, apparsa

l’anno seguente negli atti della «Società degli Alpinisti Trentini»,389 si legge:

Gli studi di craniologia comparata, accompagnati dai risultati archeologici, sono chiamati a pronunciare in avvenire giudizi assoluti sulla etnografia delle nostre valli.390

Gli scheletri o meglio i crani, risultati ancora una volta dolicocefali, vennero

immediatamente avvicinati al famoso tipo di Rehengräber; ciò fu fatto allo scopo di

confermarne la cronologia e attribuire con certezza i reperti all’ “età barbarica”391.

Queste procedure ci permettono di osservare che, per gli archeologi del periodo, la

coppia “dolicocefalia – germanismo” rappresentava un paradigma noto e ancora

autorevole sebbene l’antropologia avesse già cominciato a mettere in discussione tale

lettura. Il dibattito interno all’antropologia italiana, che si avvaleva dell’enorme mole di

dati resi noti a livello internazionale, già negli anni Ottanta cominciava, infatti, a

mettere in crisi le certezze monolitiche del paradigma pangermanico. L’archeologia si

mostrava, invece, ancora fortemente influenzata dal paradigma di Rehengräber392.

Nonostante ciò Campi, da parte del quale si registra la ricerca di una visione più

articolata e problematica su cui basare l’interpretazione delle sepolture altomedievali393,

deplorava “caldamente che la craniologia non [avesse] saputo determinare anche il tipo

389 Ibid. cit. pp. 132 - 158 390 Ibid. pp. 155 - 156 391 Le misurazioni sui crani dei Campi Neri vennero eseguite dal prof. Holl, antropologo e fisiologo austriaco, che ebbe a studiare anche i crani di Salorno. 392 Alla persistenza del paradigma pangermanico contribuì anche l’enorme prestigio assunto dalla figura del Pigorini come ricordato da Massimo Tarantini. Sul pangermanesimo in archeologia e il lento affermarsi del mediterraneismo nell’archeologia della Sicilia si veda TARANTINI M., Tra teoria pigoriniana e mediterraneismo, cit. pp. 53 - 61393 PAZIENZA A., Longobardi in Tuscia. Fonti archeologiche, ricerca erudita e la costruzione di un paesaggio altomedievale, cit.

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dei crani romani”. Al contempo l’archeologo si faceva promotore di un’ulteriore

sviluppo della ricerca antropologica dalla quale egli attendeva grandi risultati sul piano

della determinazione etnica degli inumati delle età barbariche:

Alla craniologia con vasti confronti viene aperto una campo floridissimo a ricerche etnografiche, che saranno di alto rilievo quanto più esteso sarà il materiale esaminato coscienziosamente senza prevenzioni e senza ire.394

Nonostante questo differenziarsi degli orientamenti culturali all’interno delle varie

discipline, nei primi anni del Novecento grandi speranze si intrecciarono con posizioni

più diffidenti nei confronti dell’antropologia e dei suoi paradigmi interpretativi. Ciò

avvenne anche nell’ambito degli studi storici: esemplare a riguardo è il caso dello

storico veronese Carlo Cipolla.

2.3 Storia e Antropologia a confronto: Carlo Cipolla critica Giuseppe

Sergi

All’inizio del nuovo secolo l’antropologia veniva ritenuta ancora utile a

sciogliere il nodo costituito dal ruolo dei Germani nella costituzione della nazione

italiana? Si è visto come Pietro Bonfante fosse convinto, ancora nel 1908, che i risultati

forniti da tale disciplina non potessero essere ignorati nell’affrontare la redazione di

un’opera storiografica. Tuttavia la posizione espressa dal professore di Pavia non

risultava condivisa appieno non solo da chi come il De Sanctis procedeva in un’ottica

palesemente influenzata dalla mitologia ariana - e pertanto, come riferiva il suo

accusatore, “se anche aveva letto le maggiori opere degli antropologi italiani, certo non

le aveva volute intendere” - ma anche da uno storico del medioevo come Carlo Cipolla

il quale, invece, ne aveva certamente lette alcune con indubbia attenzione. Nonostante

ciò questi finì per allontanare la possibilità di uno scambio proficuo tra le discipline.

Il 1900 rappresenta un anno nodale nella produzione del Cipolla in quanto vede

dati alle stampe ben due testi dedicati al ruolo dei Germani nella storia della nazione

italiana. Frutto della riflessione sul ruolo dei Longobardi nella storia d’Italia inaugurata

394 CAMPI L., I Campi Neri presso Cles, cit. p. 157

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a partire dall’assunzione dell’incarico di insegnamento alla Regia Università di Torino

avvenuta nel 1883395, i due interventi sono in realtà in gran parte speculari, redatti

facendo uso degli stessi accorgimenti retorici e seguendo il medesimo schema

dimostrativo, e si differenziano di fatto solo per l’ampiezza della trattazione. In

entrambe le circostanze lo storico veronese mostra di voler dare una risposta, ritenuta

evidentemente importante e urgente, al quesito se “esista veramente una nazione italiana

(…) conservatasi sostanzialmente integra e intatta nella sua natura e nella sua

fisionomia”396 oppure se “siamo dunque noi i discendenti dei Longobardi (…)”397. Il

Cipolla, approfittando della confusione che pareva regnare attorno alle origini della

popolazione romana antecedente il crollo dell’Impero d’Occidente398, scelse di

affrontare soltanto il tema delle invasioni germaniche sorvolando sugli avvenimenti dei

secoli antecedenti la tarda antichità. Come si è avuto modo di notare in precedenza non

era, tuttavia, irrilevante la questione relativa al ceppo etnico in cui far confluire la

popolazione romana tardo antica. Tale problema, infatti, portava con sé delle

conseguenze anche sull’interpretazione del ruolo avuto dagli invasori barbarici nella

configurazione della nazione moderna. Lo stesso Carlo Cipolla riferiva, ad esempio,

della teoria allora già da tempo diffusa tra gli studiosi secondo cui il “sangue giovane”

dei Germani avrebbe rinvigorito la nazione latina languente. Tale ipotesi in seguito

venne respinta dalla maggior parte degli studiosi, compreso lo storico veronese. Un tale

punto di vista poteva, infatti, essere condiviso solo da chi fosse stato influenzato dalla

mitologia ariana di matrice transalpina come il Pigorini. Esso risultava, invece, del tutto

inaccettabile da parte di chi, schierato su posizioni opposte, vedeva l’ipotesi di una

romanità ariana come fumo negli occhi.

Quello che preme qui affrontare è, però, il giudizio espresso dal Cipolla sulle

possibilità che le scienze cosiddette ausiliarie fossero in grado di fornire un contributo

importante alla discussione storica. A questo riguardo egli ammetteva in un primo

momento la necessità per gli storici di accostarsi ai nuovi saperi poiché: 395 LA ROCCA C., Antenati, distruttori, semplicemente inetti. I Longobardi nella storiografia Locale, cit. 40, 2008 396 CIPOLLA C., Della supposta fusione degli Italiani coi Germani nei primi secoli del medioevo, cit. p. 330 397 CIPOLLA C., Intorno alla costituzione etnografica della nazione, cit. p. 23 398 Egli infatti afferma: “gli Italici [furono] attribuiti agli ariani provenienti dal nord, come ai mediterranei del sud” riassumendo in poche parole le posizioni pan-germanica e mediterranea sostenute rispettivamente dal Pigorini e dal Sergi. Citazione tratta da CIPOLLA C., Della supposta fusione degli Italiani coi Germani nei primi secoli del medioevo, cit.

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l’età nostra differisce da quella [sic!] che l’hanno preceduta, poiché i meravigliosi progressi dell’archeologia e delle nuove scienze (…) allargarono i nostri orizzonti; aggiunsero agli antichi nuovi strumenti di studio.399

Tuttavia, nonostante questa dichiarazione d’intenti l’opinione che si delinea attraverso i

due scritti presi in esame riguardo la possibilità di un soccorso da parte

dell’antropologia rivela al contrario la delusione per l’incapacità di questa nuova

disciplina di fornire dati certi e, soprattutto, intelleggibili dai profani. È interessante che

a condurre lo studioso veronese su una tale posizione fosse stata la lettura delle opere di

Giuseppe Sergi cui lo storico medievista non risparmia - più o meno espliciti - aspri

richiami400.

Le critiche mosse dallo studioso veronese al fondatore della Società Romana

erano sia di carattere scientifico sia di matrice politica. Sul versante strettamente

tecnico, richiamando il famoso attacco mosso a suo tempo (1893) da Giuseppe Sergi

alla craniometria “divenuta cabalistica”, Cipolla accusava l’antropologo di aver

affievolito le speranze riposte “almeno per l’avvenire” nella nuova disciplina: Sergi

avrebbe a suo dire contribuito a demolire certezze che si credevano acquisite per offrire

in cambio null’altro che un metodo affetto da problemi altrettanto - se non più gravi.

Tale metodo risultava pericoloso in quanto

considera tante anomalie persistenti e non persistenti che il profano si confonde, e non sa come la nuova dottrina possa dirsi immune dall’accusa, che il Sergi muove alle precedenti teorie craniometriche, le quali, a furia di distinzioni, si riducevano a una matassa inestricabile.401

399 CIPOLLA C., Della supposta fusione degli Italiani coi Germani nei primi secoli del medioevo, cit. p. 339 400 Sergi viene espressamente citato nella relazione per l’Accademia dei Lincei; egli è anche l’unico antropologo italiano a venire menzionato nel testo nei due interventi: Cipolla riferisce anche delle posizioni di Lombroso e Canestrini, ma solo in due note a piè pagina. La citazione esplicita di Sergi può essere un indice della risonanza delle teorie e della diffusione delle opere dell’antropologo siciliano, tanto più se si considera che, nel Fondo Cipolla comprendente l’epistolario dello storico veronese conservato presso la Biblioteca Civica di Verona, compaiono solo 5 lettere riferibili ai grandi nomi dell’antropologia nazionale dell’epoca: 4 sono di Cesare Lombroso e una di Aldobrandino Mochi - nessun contatto diretto tra il Cipolla e la Società Romana vi è dunque documentato. Nel testo letto all’università Sergi non viene nominato esplicitamente, ma la polemica nei suoi confronti è la medesima. Forse la mancata menzione esplicita del nome di Giuseppe Sergi in questo scritto può essere ascritta al contesto in cui il discorso venne pronunciato e alla volontà di non trasferire la polemica in sede accademica. 401 CIPOLLA C., Della supposta fusione degli Italiani coi Germani nei primi secoli del medioevo, cit. p. 346 (corsivo mio)

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Il vero nodo sarebbe consistito, dunque, nella complessità della proposta con cui si

sarebbe inteso sostituire il vecchio sistema, difficoltà tanto elevata da rendere la nuova

classificazione impenetrabile alla comprensione di un lettore non aduso alla pratica

antropologica. Si è visto in precedenza che la presa di coscienza che non ci si potesse

basare esclusivamente sulle cifre fornite dalla craniometria pura e semplice e il

conseguente abbandono di questa rappresentò un passo auspicato dall’intero mondo

dell’antropologia italiana. Nonostante ciò furono espresse numerose riserve sul

cosiddetto “metodo Sergi” proprio a causa della sua eccessiva complessità anche da

alcuni eminenti antropologi che sostenavano la necessità di andare oltre l’antropometria

tradizionale. Tuttavia nella critica mossa alle teorizzazioni dell’antropologo siciliano

Cipolla appariva totalmente in errore almeno su un punto: quando affermava che “dove

pareva che la distinzione tra brachicefali e dolicocefali fornisse una base sicura alla

classificazione, egli [Sergi] ne riconosce scarso il valore”402. Non era, infatti, vero che la

dicotomia tra crani lunghi e corti fosse stata completamente disconosciuta dal Sergi,

tanto più che essa costituiva la base delle classificazioni da questi proposte,

classificazioni che nel seguito del suo scritto lo storico veronese mostrava di conoscere

abbastanza bene403.

Il discorso con il quale Cipolla attaccava Sergi continuava poi su un versante più

propriamente politico. Il professore dell’università di Torino rimproverava

all’occasionale avversario la scarsa coerenza nell’aver sostenuto la preservazione della

nazione italiana attraverso i secoli avendo contemporaneamente negato l’esistenza di

una stirpe italiana anche laddove affermasse l’esistenza della stirpe mediterranea:

[Sergi] parla sempre di stirpe euro – africana (mediterranea) e di stirpe euro – asiatica (ariana). Data questa opinione non vedo bene come egli insista troppo a negare l’esistenza di una stirpe italiana, mentre già le numerose denominazioni etniche che si incontrano presso gli scrittori sono da lui ricondotte a due stirpe (sic!), una delle quali, la mediterranea od euro – africana, avrebbe prevalso in tutta la penisola, tranne che nella sua parte settentrionale.404

402 Ibid. p. 346 403 Cipolla infatti citava espressamente la divisione in specie Eurafricana e Eurasica operata dal Sergi. Si veda CIPOLLA C., Della supposta fusione degli Italiani coi Germani nei primi secoli del medioevo, cit. p. 348 404 Ibid. p. 348

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Alla luce delle differenze tra nazione e stirpe chiaramente espresse in più occasioni dal

Sergi, si può rilevare che è la mancata comprensione della grande articolazione del

pensiero dell’antropologo siciliano a trarre in inganno lo storico veronese. Forse più

incoerente può apparirci, invece, il richiamo che quest’ultimo fa in una nota al

Canestrini, nota in cui riconosceva di condividere l’idea secondo cui le moderne nazioni

sarebbero un miscuglio di diverse schiatte405 avendo ammesso quindi di concordare

sull’esistenza di una distinzione tra stirpe e nazione.

Ancora sul versante politico, Cipolla si mostrava particolarmente infastidito

dall’idea di una incipiente decadenza delle nazioni latine espressa “recentemente da uno

scienziato che ci ha spaventato”406. Egli inoltre attaccava, considerandola un vero e

proprio affronto, l’opinione che Sergi aveva sull’utilità dell’insegnamento della storia

nazionale. L’affermazione “incriminata” era la seguente: “la storia è un disastro per le

nazioni che hanno avuto un passato glorioso; sarebbe opportuno, patriottico non

insegnarla”407. Tuttavia, come si è avuto modo di ricordare in precedenza, nel contesto

delle convinzioni espresse più volte da Giuseppe Sergi, una simile frase andava intesa

come un invito a non ripiegarsi sul passato, ma a guardare in maniera positiva al futuro

impegnandosi per lo sviluppo della nazione e non come una svalutazione aprioristica

della storiografia. Certamente a contribuire al fraintendimento delle teorie sostenute

dall’antropologo siciliano da parte di Carlo Cipolla fu lo statuto molto particolare delle

opere che quest’ultimo prese in esame. Si trattava, infatti, de La decadenza delle nazioni

latine, della quale si è già avuto modo di discutere ampiamente in precedenza, e di

Specie e varietà umane, opera centrale tanto per il percorso intellettuale quanto per

quello istituzionale dell’autore. È evidente da quanto messo in luce nei precedenti

capitoli che entrambi questi testi presentavano notevoli possibilità di essere fraintesi: il

primo perché frutto del sentimento di crisi fin du siècle, il secondo perché rappresentava

materialmente il distacco dalla scuola di Mantegazza e, al contempo, andava a realizzare

il manifesto della costituenda Società Romana. Non si può, quindi, sostenere che

l’antropologia fosse avversa a Clio, tanto più se si fa riferimento a uno studioso come il

405 Ibid. p. 598 nota 406 CIPOLLA C., Intorno alla costituzione etnografica della nazione, cit. 407 SERGI G., La decadenza delle nazioni latine, p. 86 cit. anche in CIPOLLA C., Della supposta fusione degli Italiani coi Germani nei primi secoli del medioevo, cit. p. 332 nota

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Sergi che mirò sempre a essere un vero storico della stirpe e che aveva intessuto di

storia, archeologia e paleontologia tutte le sue opere.

Dunque non ci fu una pregiudiziale da parte dell’antropologia nei confronti della

storia, né gli storici furono del tutto indifferenti alle “scoperte” della nuova scienza ma,

nonostante ciò, agli inizi del XX secolo si consumò una frattura tra le due discipline e la

sfiducia espressa dal Cipolla ne è un chiaro esempio. La spiegazione della divergenza

che andava maturando tra i due campi del sapere presi in esame può essere individuata

in un fraintendimento di fondo da parte degli storici delle possibilità (reali o presunte)

fornite dalle scienze ausiliarie in generale408, fraintendimento che appare forse ancora

maggiore nel caso dell’antropologia. Ad aggravare l’incomprensione fu, in questo caso,

la natura stessa della disciplina ancilla che, per il suo statuto di scienza positiva affine

alla biologia, era adusa a servirsi di una terminologia complessa, simile a quella

zoologica e a procedere con un metodo altrettanto difficile da digerire da parte dei

profani. Che le teorie antropologiche ottocentesche fossero in grandissima parte da

rivedere non serve sottolinearlo ma, come si vedrà nel seguito del capitolo, agli inizi del

nuovo secolo a costituire un problema per gli storici pareva forse essere più il fatto che

le risposte fornite ai quesiti posti non coincidessero con le aspettative degli storici stessi,

più che l’assenza di risposte vere e proprie.

3. LE RISPOSTE DELL’ANTROPOLOGIA

3.1 Antropologia e questione Longobarda: risposte a Carlo Cipolla

Gli intervanti del Cipolla sul problema del contributo germanico alla nazione

italiana, nei quali lo studioso veronese esprimeva seri dubbi relativi l’affidabilità dei

risultati conseguiti fino ad allora dalle scienza ausiliarie, suscitarono almeno due

risposte da parte degli antropologi nei mesi immediatamente successivi la pubblicazione

dei saggi in questione. Le repliche cui si fa riferimento – una delle quali raccoglie

direttamente la “sfida” lanciata dallo storico - trovarono spazio sulla «Rivista Italiana di

408 Caso esemplare di “specialismo mancato” fu quello dell’archeologia a proposito del quale si veda LA

ROCCA C., L’archeologia e i Longobardi in Italia. Orientamenti, metodi, linee di ricerca, cit.

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Sociologia» nel corso del 1901. Fu Giuffrida – Ruggeri il primo a riconoscere la

difficoltà che i dati antropologici presentavano per i non specialisti e, allo stesso tempo,

a mettere questi ultimi in guardia dagli errori di interpretazione che ciò poteva

provocare. Una delle principali fonti di problemi per chi non fosse stato versato nella

materia sarebbe stata da individuare già nella mancata conoscenza della terminologia

tecnica. Una superficiale infarinatura, infatti, non sarebbe bastata, ma al contrario

avrebbe potuto causare valutazioni errate anche nella lettura delle più elementari carte

antropometriche, uno strumento che, invece, voleva essere teso a facilitare l’accesso dei

profani a dati altrimenti oscuri. Bisognava, quindi, evitare fraintendimenti relativi anche

a nozioni elementari, primo tra tutti quello di ritenere immediatamente equivalenti le

misurazioni prese sul cranio di individui viventi e quelle derivanti, invece, dall’indagine

scheletrica ricordando che le prime venivano svolte con procedure specifiche le quali

portavano ad accentuare spesso la brachicefalia delle popolazioni studiate409. Proprio a

causa di questi tanti possibili fraintendimenti l’antropologo ammetteva che

Il grande sviluppo che ha in questi ultimi tempi l’antropologia, specialmente nella parte morfologica, unito allo scarso insegnamento che di questa nuova scienza si fa nella istruzione, diciamo, ufficiale, poiché l’insegnamento non esiste che in poche università italiane, fa si che molti i quali per i loro studi debbono tener conto dei risultati antropologici, non possono istruire se stessi, come desiderano, e cadono facilmente in errori.410

Dunque proprio uno dei più autorevoli esponenti della nuova scienza riconosceva come

proprio il progresso rapido dell’antropologia avesse contribuito a sbarrare la strada a chi

non fosse stato pienamente in possesso degli strumenti concettuali propri della

disciplina o non riuscisse a mantenersi sempre aggiornato. Il primo nodo da sciogliere

concordemente con quanto espresso pochi mesi prima dal Cipolla veniva individuato

nella terminologia estremamente complessa. Parallelamente l’intervento sulla «Rivista

Italiana di Sociologia» permise al Giuffrida – Ruggeri, intervenuto in realtà ancora una

volta sul tema a lui caro della questione meridionale411, di riaffermare la necessità di

409 GIUFFRIDA – RUGGERI V., Sulla distribuzione delle intelligenze superiori in Italia, in RIdS V, III, 1901 pp. 331 – 338 410 Ibid. p. 331 411 Troviamo qui il Giuffrida – Ruggeri schierato sullo stesso versante del Sergi nel ribadire la non esistenza di una “razza meridionale maledetta”, ma nell’affermare che il ritardo delle regioni del sud

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intrecciare tra loro i risultati dell’antropologia con quelli forniti dalla storia: solo così

avrebbero potuto trovare una vera soluzione i quesiti posti dall’esistenza delle diversità

sociali e culturali. Se davvero – egli affermava - si desiderava risalire alle cause

all’origine delle differenze “l’antropogeografia ha un valore notevole, ma minore dei

fatti storici, i quali sono realmente dominatori”412. Si vede come dal versante

dell’antropologia vi fossero timidi segnali di apertura nei confronti delle difficoltà

incontrate nell’accedere alla disciplina più recente da quanti erano assidui di altri, più

tradizionali, campi del sapere. Si nota anche come vi fosse da parte degli antropologi la

consapevolezza della necessità di instaurare un confronto continuo dal quale ci si

sarebbe potuti attendere esiti molto positivi per tutti.

Il secondo articolo pubblicato in risposta alle critiche mosse da Carlo Cipolla

all’antropologia affrontava, invece, proprio il tema dell’influenza dell’invasione

longobarda sul tipo nazionale italiano413. L’autore, naturalista appassionato di

antropologia Alberto Alberti414, ammetteva fin dall’inizio la fondatezza e l’importanza

del quesito posto l’anno precedente da Carlo Cipolla. Alberti esordiva proprio citando

l’intervento dello storico veronese comparso negli «Atti della Reale Accademia dei

Lincei» al fine di sottolineare come un’indagine riguardante la questione ancora una

volta riproposta all’attenzione generale fosse di primaria importanza e come essa non

avesse avuto fino ad allora risposte sufficientemente chiare da parte dell’antropologia.

In particolare restava sospesa la domanda fondamentale da un punto di vista

antropologico, se “i longobardi furono dolicocefali o brachicefali?”415.

trovava la sua spiegazione nella particolare vicenda storica che le aveva caratterizzate e progressivamente allontanate dall’esperienza settentrionale. 412 GIUFFRIDA – RUGGERI V., Sulla distribuzione delle intelligenze superiori, cit. p. 336 413 ALBERTI A., L’influenza dell’invasione longobarda sul tipo nazionale italiano, in RIdS V, IV, 1901 pp. 462 – 474. Per inciso si nota come la prospettiva antropologica metta in risalto l’aspetto propriamente fisico postulando l’esistenza di un tipo antropologico nazionale. 414 Alberti fu anche autore dei una biografia di Darwin apparsa nella collana Profili (“premiata dal ministro della Pubblica Istruzione e opera di autori di singolare competenza” secondo le parole di A. F. Fromiggini direttore della collana stessa – FROMIGGINI, Presentazione della collana, nella quarta di copertina del secondo volume) nella quale si annoverano anche una biografia di Leopardi opera di G. Pascoli e una di Hegel opera di G. Gentile. Il volume di Alberto Alberti rappresenta la seconda uscita dei Profili. Il successo iniziale della collana e dell’opera fu tale da ottenere tre edizioni in tre anni. ALBERTI

A., Carlo Darwin, Fromiggini, Modena, 1909. 415 ALBERTI A., L’influenza dell’invasione longobarda sul tipo nazionale, cit. p. 462. Tale citazione rappresenta l’incipit dell’articolo, il quale proseguiva: “il problema è di una certa importanza, perché si collega all’altro, già da lungo tempo agitato a (sic!) assai discusso anche in questi ultimi tempi [qui si colloca una nota che rimanda al citato articolo di Carlo Cipolla], se cioè i longobardi hanno contribuito, in maniera sensibile, a dare il carattere che ora ha al tipo nazionale italiano”

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Particolarmente interessante - perché piuttosto dissimili dall’atteggiamento tenuto

dagli altri antropologi che avevano incontrato nel corso delle proprie ricerche i

Longobardi o i loro presunti discendenti - sono i due presupposti da cui l’autore

muoveva nella propria trattazione:

1) non si conoscevano sepolcreti longobardi che avessero fornito crani in numero

sufficiente da poter fornire materiale su cui fondare un giudizio categorico;

2) all’epoca della loro immigrazione nella Penisola i Longobardi non erano più un

popolo antropologicamente omogeneo come invece i più mostravano di credere.

Il primo punto doveva apparire come un incitamento all’indagine archeologica affinché

intensificasse gli sforzi volti a identificare con certezza nuove necropoli e fornisse così

un numero maggiore di reperti ossei da sottoporre a misurazione. Pertanto si voleva

richiamare l’attenzione su di un problema statistico, relativo all’accumulo del numero di

crani necessario a rendere significativa la quantità delle misure effettuate. Dunque si

trattava di una difficoltà ritenuta superabile in prospettiva dal progredire

dell’archeologia barbarica nel nostro paese.

Colpisce, invece, l’affermazione, del tutto in contrasto con la tradizionale

visione che faceva uso dell’indissolubile binomio popolo – razza, secondo cui i

Longobardi rappresentavano al loro ingresso in Italia una popolazione composita416.

Alberti derivava questa convinzione da quanto riportato dallo storico Paolo Diacono a

proposito dei seguaci di Alboino: “multos ex diversis quas vel alii reges, vel ipse

ceperat gentibus” 417. Questo riferimento a un autore altomedievale non è isolato: al

contrario il confronto con le fonti tradizionalmente usate dal discorso storico costituiva

il metodo seguito dall’Alberti per provare a delineare meglio i contorni del problema

preso in esame. Nella lettura dell’articolo si assiste così a una sorta di ricostruzione

antropologica dei vari popoli incontrati nel corso della migrazione longobarda e dei

Longobardi stessi tutta svolta sulla base dei riferimenti rinvenuti nelle fonti storico -

letterarie. Infine l’autore, con metodo più o meno simile a quello adottato per anni

dall’archeologia, seguiva la migrazione nel suo percorso europeo per ricercare

416 Tra gli antropologi tale affermazione era stata fatta propria già da Giustiniano Nicolucci (NICOLUCCI

G., Antropologia d’Italia, in «Atti della Reale Accademia Pontaniana», Napoli) 417 Paolo Diacono, Historia Longobardorum, II, 26

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attraverso l’osservazione delle popolazioni viventi stanziate nei territori interessati i

possibili caratteri dei popoli antichi con i quali i Longobardi si sarebbero idealmente

mescolati così tanto da causare una trasformazione completa della loro fisionomia

razziale iniziale.

Questo metodo di lavoro permetteva all’antropologo di tentare una più puntuale

definizione del tipo antropologico di alcune nazioni barbariche: nel seguire il cammino

degli invasori sulla base degli scarsi dati forniti da Tacito, Strabone, Tolomeo,

Procopio, Paolo Diacono, Alberti prese in esame inizialmente l’incontro tra i

Longobardi (di nazione sveva) e i Marcomanni. Guardando alle regioni centrali e agli

altipiani che egli presumeva in antico essere stati occupati da questi ultimi sarebbe stato

possibile forse scoprirne i caratteri. Così egli arrivava a postulare per i Marcomanni una

probabile prevalenza della brachicefalia. A partire da questa scoperta egli metteva in

dubbio che, se anche i Longobardi fossero stati omogeneamente dolicocefali in origine,

ancora in tempi antichissimi della loro storia il carattere nazionale si fosse mantenuto

intatto. Alberti ricordava poi che nei secoli seguenti, dopo un lungo periodo di silenzio

da parte delle fonti antiche, i Longobardi, già mutati per l’incontro con i Marcomanni,

sarebbero entrati in contatto con Eruli e Gepidi. Nei primi egli identifica una nazione

errabonda di origine baltica, dissimile antropologicamente dai Dani che li avrebbero per

questo scacciati dalla loro sede originaria. Da ciò ricavava che, se i Dani erano descritti

nelle fonti antiche come alti, biondi e dolicocefali, un tipo ancora largamente diffuso in

Scandinavia, gli Eruli sarebbero dovuti essere affini ad “alcune chiazze [cioè regioni – è

evidente che l’autore scrive facendo riferimento a una carta antropologica dell’area] ben

evidenti di uomini dal tipo piccolo e brunetto” che ancora si distinguerebbero in quelle

regioni. Secondo l’autore non sarebbe stato “fuor di luogo il pensare che, ai tempi delle

grandi trasmigrazioni abbia avuto luogo un processo di selezione, con l’esodo del tipo

piccolo e forse meno biondo”418, un ragionamento questo che a una lettura attuale

sembra descrivere una sorta di pulizia etnica su base eugenica retrodatata all’età

barbarica.

La ricostruzione del viaggio attraverso l’Europa centrale, movimento

“paragonabile a una fiumana umana che tutto travolge”419, proseguiva fino all’incontro

con in Gepidi, all’alleanza con i Sassoni e all’incontro con le popolazione dell’Europa 418 ALBERTI A., L’influenza dell’invasione longobarda sul tipo nazionale, cit. pp. 467 - 468 419 Ibid. p. 468

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centro – orientale. Se i Sassoni vennero ritenuti certamente dolicocefali, opinione

confortata dalla dolicocefalia degli abitanti le regioni sassoni, l’autore, però, si

chiedeva: “Chi oserà invece affermare, senz’altro, dolicocefali i Bulgari, i Pannoni, i

Sarmati?”. Sempre a patto che tali nomi avessero davvero un significato etnico e non

fossero, invece, approssimazioni degli autori antichi, secondo l’Alberti si poteva

affermare con una certa sicurezza che tali gruppi fossero caratterizzati dalla

brachicefalia.

Attraverso questo lungo e intricato ragionamento su popolazioni distanti tra loro

centinaia (se non migliaia) di anni, distanza che si credeva però colmata dal principio

dell’immutabilità dei caratteri cranici sancito con forza dal Sergi e, invece, avversato in

quegli anni dal Boas, Alberti torna infine a occuparsi dei Longobardi quali dovevano

essere al momento dell’invasione della Penisola:

(…) dei Longobardi non ho punto inteso di dimostrare che essi furono brachicefali. Ho voluto solo mettere in evidenza la loro incessante trasformazione, la quale, nel corso di cinque secoli, fu di tal natura da rendere inevitabile la loro eterogeneità. (…) non dovrebbe restar dimenticata l’infiltrazione invisibile ma continua, degli elementi germanici.420

Questo richiamo agli “elementi germanici” percepiti come allogeni rispetto ai

Longobardi è però comprensibile solo se si fa il punto della discussione antropologica

dell’epoca. In particolare ancora una volta bisognerà evidenziare la posizione del Sergi

che sembra aver qui influenzato notevolmente l’autore e che verrà discussa nel seguito

del capitolo. Per quel che riguarda l’aspetto che qui interessa mettere in luce, cioè la

risposta vera e propria alla domanda sull’effettiva efficacia dell’antropologia

nell’identificazione del retaggio barbarico in Italia, si deve invece guardare alla

conclusione dell’articolo. Essa è, per molti aspetti, assai più problematica di quella

proposta da Carlo Cipolla e forse anche per questo ignorata dallo storico:

il problema del contributo dato dai Longobardi al plasma etnico nazionale non può essere risolto coi dati della presunta forma cranica degli invasori. Se, come io credo (…), i Longobardi furono (…) in gran parte brachicefali, la loro stirpe si è diffusa nell’Italia settentrionale, i loro cromosomi si sono associati a quelli (…)

420 Ibid. pp. 471 - 472

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preesistenti, senza che l’influenza loro si riveli nella forma del cranio, quale essa può essere caratterizzata dal semplice criterio dell’indice. Brachicefali gli indigeni, brachicefali gli invasori. Per scoprire le loro vestigia occorrono altri criteri.421

Tali criteri sarebbero potuti essere proprio quelli proposti dal Sergi, che comprendevano

l’intera morfologia cranica, oppure altri ancora da scoprire, o forse un’associazione tra

lo studio dei primi e quello dei caratteri psicologici dei popoli. Per l’Alberti, comunque,

il contributo dell’antropologia alla soluzione del problema era stato effettivamente

scarso, ma tale rimaneva solo in attesa di un ulteriore sviluppo della disciplina all’epoca

ancora giovane. Non a caso egli concludeva con un’esortazione alla ricerca: “quale

profondo lavoro ne attende ancora!”422.

Dunque in quest’articolo davvero si trova un’ammissione d’impotenza che

veniva, però, intesa come una situazione transitoria. Se l’antropologia, infatti, non era

ancora in grado di rispondere al Cipolla in modo secco e preciso, era al contempo in

grado di ricordare agli studiosi delle varie discipline la complessità del problema, una

complessità non facilmente superabile in termini puramente patriottici, ma punto di

partenza per approfondimenti e indagini ulteriori. Il saggio dell’Alberti si situava,

tuttavia, in una posizione piuttosto anomala rispetto a quella della maggior parte degli

antropologi, i quali non si mostravano molto interessati al tema longobardo e non

sembrarono cogliere affatto le sollecitazioni del collega a una riapertura della ricerca su

di esso. Nonostante ciò nel corso delle proprie indagini sulla composizione

antropologica nazionale essi si erano trovati tal volta a intervenire sul tema fornendone

un’interpretazione generale che divenne largamente dominante. Tale paradigma fu

tracciato per le prima volta in maniera più composita dal Nicolucci, ma trovò la propria

canonizzazione con le ricerche a tappeto svolte dal Livi. Anche lo stesso Sergi,

generalmente poco incline a misurarsi con il medioevo - poichè attribuiva la genesi

della nazione ai secoli a esso precedenti – finì per proporre una propria lettura del tema

barbarico la quale non fu così lineare come sembra averla intesa invece il Cipolla. Nel

seguito del capitolo si analizzeranno le ipotesi che, incontrando un largo consenso,

divennero canoniche.

421 Ibid. p. 474 422 Ibid. p. 474

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3.2 Ricerche sul campo: l’antropometria di Rodolfo Livi e la Psicologia

Etnica

La marginalità attribuita dagli antropologi ai dati relativi all’alto medioevo

trovava la propria giustificazione in due considerazioni:

1. l’antropologia, ragionando in termini di millenni più ancora che di secoli, aveva

individuato fin dal suo nascere la natura fortemente composita del Paese e aveva finito

per attribuire l’origine di tale disomogeneità alle età antiche, quando non addirittura

preistoriche. In quest’ottica l’ingresso di nuovi elementi nel corso del medioevo avrebbe

potuto determinare cambiamenti di rilievo solo se si fosse trattato di gruppi

estremamente numerosi diffusisi in tutto il territorio, fatto però smentito all’epoca da

tutto il mondo scientifico;

2. nel corso dell’Ottocento l’interesse per il medioevo finì per restringersi sempre più a

gruppi di specialisti, soprattutto agli storici del diritto, mentre andò calando la portata

del suo significato nazionale e il discorso sulle antichità barbariche finì circoscritto al

dibattito relativo alle origini delle comunità locali come sottolineato da Enrico

Artifoni423.

Nonostante ciò nel corso delle ricerche “sul campo”424 gli antropologi finirono

tal volta per convincersi di aver ritrovato le vestigia degli antichi invasori. Rodolfo Livi,

colui che raccolse forse il maggior numero di dati antropometrici sulla popolazione

italiana divisa in regioni e zone, si trovò davanti a una “vasta plaga a statura molto alta,

nella parte nord - ovest [della Lombardia] assai nettamente circoscritta; plaga questa che

presenta anche una maggiore proporzione di biondi” e nella quale egli rilevava essere

anche preponderanti i crani dolicocefali. Sulla base di queste osservazioni concludeva

che “in questa parte, più che in altra della Lombardia, si trovano meglio conservate le

vestigia dei Longobardi, che erano appunto alti, biondi e dolicocefali”425.

L’affermazione del Livi, antropologo tra i più autorevoli e conosciuti, riaffermava un

paradigma - quello dei Longobardi biondi, alti, dolicocefali quali li aveva descritti a suo

tempo anche dal Nicolucci - che rimase canonico, accettato dalla maggioranza assoluta 423 ARTIFONI E., Ideologia e memoria locale nella storiografia italiana, cit. p. 225 424 Questo termine viene qui inteso nell’accezione di studio e misurazione diretta delle caratteristiche antropometriche relative alla popolazione italiana contemporanea agli studiosi che svolsero tali indagini. 425 LIVI R., La distribuzione geografica dei caratteri antropologici in Italia, in RIdS II, IV, 1898 p. 418 (corsivo mio)

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degli studiosi come se fosse stato scientificamente provato, come in realtà non fu mai.

L’unico studioso che pose sotto la lente d’ingrandimento la mancanza di prove a

supporto di tale descrizione antropologica fu proprio l’Alberti nel già citato articolo del

1901. Anch’egli finiva, però, per ammettere che il proprio dubbio trovava origine più

nelle parole sibilline di Paolo Diacono, che riferiva della grande mescolanza dei popoli

barbarici, piuttosto che da una prova concreta e scientifica della fallacia del paradigma

stesso. Tuttavia si ricorda come anche gli stereotipi continuamente riproposti

dall’antropologia dei vari Paesi traessero origine più in ideali legati alla lettura degli

autori antichi e tardo antichi, che in una osservazione critica del materiale scheletrico a

disposizione.

Ma il Livi si spingeva oltre nella propria analisi alla ricerca delle vestigia dei

barbari. Muovendosi sul terreno della sociologia, egli rifiutava nettamente l’idea che la

dolicocefalia portasse gli uomini dotati di tale caratteristica a preferire forme di vita

“elevata” e, dunque, a insediarsi preferibilmente nei centri urbani426. Credeva, invece, di

individuare la causa della prevalenza di tale caratteristica nella popolazione cittadina,

nella preferenza accordata dagli invasori (di qualunque origine etnico – antropologica) a

stanziarsi nei centri di potere dai quali era possibile sfruttare a distanza la popolazione

agricola indigena427. Questo ragionamento risulta qui interessante poiché pone in rilievo

due punti fermi della classificazione seguita dal Livi. Da un lato, infatti, egli

riconosceva nella popolazione rurale autoctona francese gli eredi dei celti brachicefali,

dall’altro sulla base delle differenze antropologiche tra città e campagna Livi rinveniva

le tracce dei Normanni in Puglia e Basilicata, dei Longobardi nelle regioni del Nord e in

Calabria (in quest’ultimo caso ancora associati ai Normanni). Anche gli elementi

dolicocefali nelle aree rurali delle regioni a prevalenza brachicefala secondo

l’antropologo sarebbero state da imputare alle invasioni barbariche altomedievali. Da

ciò si ricava un fatto significativo: secondo Rodolfo Livi i Germani, e tra essi i

Longobardi, erano esattamente simili a quelli identificati secondo il “prototipo

Reihengräber”. Tuttavia egli non era completamente estraneo alla teoria di Giuseppe

Sergi (che, come si è visto, riteneva i Germani brachicefali) quando affermava che nella

426 Tale teoria era sostenuta dagli antropologi tedeschi Ammon (Die Geschichte einer Idee, in «Rundschau – Deutsche Zeitung», 1896) e De Lapouge (Le leggi fondamentali dell’antropologia, in RIdS, I, 3 – l’articolo in questione venne pubblicato accompagnato da una nota con la quale la direzione della rivista italiana prendeva le distanze dalle tesi ivi proposte dall’autore) 427 LIVI R., La distribuzione geografica dei caratteri antropologici, cit. p. 429

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pianura piemontese, dove la componente brachicefala della popolazione risultava più

bionda rispetto alla dolicocefala, quest’ultima “non si deve ad invasioni di razze

dolicocefale bionde di oltr’alpe, ma piuttosto a popolazioni italiane dolicocefale e

brune”428. Per Livi, abituato a confrontarsi con l’antropometria dei vivi, risultavano

determinanti il colore dei capelli e la statura nell’attribuzione di un’origine etnica agli

individui.

Tra Otto e Novecento, però, gli influssi degli invasori non venivano identificati

solamente sulla base delle caratteristiche fisiche, ma le eredità barbariche si ricercavano

anche nelle caratteristiche psicologiche della popolazione italiana. Ciò era ritenuto

possibile grazie al presupposto secondo il quale

la potenza del carattere e quella dell’intelletto sono in intima connessione con lo sviluppo cerebrale, e, poiché i dolicocefali hanno una maggiore capienza dei lobi frontali, la civiltà deve essere posta in relazione con l’indice cefalico.429

E così si giunse a credere che

Ogni popolo ha una forma predominante non solo, ma determinata, fissa, stabile di sensibilità e di intelligenza, che dà il tono, il temperamento al carattere nazionale [cui va aggiunta l’influenza dell’ambiente]. (…) La base fisico – psichica si trova sempre nella razza.430

Pertanto il carattere etnico degli italiani moderni venne comunemente assimilato a

quello che determinò la psiche romana, il tipo antropologico medio essendosi

presumibilmente formato sulla base comune di Iberi, Liguri, Illirici ed Etruschi

amalgamatesi poi grazie all’influsso di Roma antica così come sostenuto anche dal

Sergi. Tuttavia in alcune regioni insieme al substrato generale vennero tal volta rilevate

delle rimanenze del carattere di altre popolazioni. Infatti, sebbene il Fondatore della

Società Romana si ostinasse a negare l’influenza sensibile delle invasioni tarde, vi fu

per esempio chi, mostrando di condividere l’opinione espressa a riguardo dal Pullé,

rintracciava nell’estremo sud della penisola e in Sicilia una caratteristica mollezza di

428 Ibid. p. 417. Livi dunque concordava sulla presenza di un fondo dolico – bruno nella Penisola. 429 VITALI V., Elementi etnici e storici del carattere degli italiani, in RIdS II, VI, 1898 pp. 734 - 735 430 Ibid. p. 744

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carattere unita alla sensualità. Tali tratti venero poi interpretati come eredità della

conquista araba. Tra gli studiosi che mostrarono di condividere quest’idea ritroviamo il

Vitali, professore del Regio Liceo di Forlì. Nel costruire la propria sintesi sulla

psicologia etnica regionale questi da un lato seguiva Sergi individuando in Calabria e

Sicilia un substrato etnico caratteristico delle popolazioni più antiche rivelato da

caratteri anatomici specifici (statura bassa, dolicocefalia, naso corto e schiacciato) ed

elementi psicologici al pari caratteristici (sensibilità viva, intelligenza acuta e

penetrante), dall’altro si avvicinava al Pullé riscontrando nell’ “attività impetuosa

alternata a lunghi periodi di apatia” residui legati “al carattere violento, molle, ricordato

nelle leggende moresche e ispaniche”431. Tale carattere a suo dire avrebbe “tuttora un

substrato palese nelle regioni del sud” e pertanto “il temperamento sensitivo – attivo di

quei popoli persiste in parte nel carattere sensitivo - emozionale dei meridionali”432.

Proprio l’influsso saraceno, unito a quello Normanno, avrebbero contribuito anche a

diluire nei secoli il caratteristico amore per il sapere e per la vita sociale che i Greci

avevano anticamente diffuso nella Magna Grecia. A questo proposito è necessario

sottolineare la posizione fortemente classista espressa dal Vitali: secondo questi, infatti,

lo spirito greco si sarebbe mantenuto solo nei dotti “i quali ci mantennero nelle epoche

oscure la eredità romana”433. Vi sarebbe stata dunque, a suo dire, una continuità

psicologica della nazione preservatasi intatta assai più negli intellettuali che nella

popolazione italiana nel suo complesso.

Se la mollezza attribuita ai meridionali avvicinava una parte almeno degli

italiani agli arabi, l’eredità lasciata alla nazione dai Liguri – descritti come arditi,

indomiti, incuranti del pericolo e sempre portati all’espansione - avvicinava piuttosto il

tipo nazionale a quello francese434. Alle caratteristiche fisiche riconosciute come

celtiche (brachicefalia, faccia larga, mento rotondo, naso breve, scheletro sviluppato

nella parte toracica e arti robusti e muscolosi, capelli neri e lisci, occhi bruni, statura

mediocre) presenti in alcune regioni del nord, invece, veniva ricondotta a partire da

431 Ibid. p. 739 432 Proprio la persistenza di caratteristiche regionali peculiari, sulle quali si sarebbe nei secoli comunque esteso il collante nazionale latino, avrebbe fatto sí, secondo il Vitali, che “il moto unitario nazionale trovasse l’opera più efficace in Piemonte” ove il tipo celtico è “rappresentato meglio che in nessuna parte d’Italia”. VITALI V., Elementi etnici e storici del carattere degli italiani, in RIdS II, VI, 1898 pp. 739 - 750 433 VITALI V., Elementi etnici e storici del carattere degli italiani, cit. p. 751 434 Ibid. p. 739

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Galton e Fouillée, ma anche sulla base del tipo ario di Sergi, una psicologia

caratteristica consistente in elevata sociabilità, simpatia, forza espansiva, ingegnosità,

facilità d’istruzione, tendenza a ricercare forza nel gruppo e, dunque, uno spiccato

spirito gregario, ma anche solidi vincoli di fratellanza. Nelle zone d’Italia dove il sangue

celtico si sarebbe maggiormente conservato esso si sarebbe manifestato allora nello

scarso sviluppo dell’individualismo, nel debole rispetto delle gerarchie e dell’elevata

tenuta del tessuto sociale435. Anche il Vitali, facendo esplicito riferimento a quanto

sostenuto in precedenza da Sergi, sosteneva che su tutto il substrato pre – latino si

sarebbe estesa, dalle Alpi alla Sicilia, l’influenza romana. Tale influsso avrebbe

trasmesso alle varie popolazioni stanziate nella Penisola l’habitus nazionale; esso

sarebbe stato caratterizzato da uno spiccato sentimento estetico (manifestatosi nel gusto

classico), dall’amore per la speculazione astratta, dalla passione per le alte idee politiche

(palesatasi nel diritto romano).

Coerentemente con questa interpretazione etnica degli istituti giuridici, nel

campo degli studi di storia del diritto – principalmente in relazione alla genesi degli

statuti comunali - il problema dell’eredità germanica venne a lungo discusso. A questo

riguardo sembra probabile che chi si disse favorevole alla classificazione proposta dal

Sergi, secondo cui l’individualismo non sarebbe stata una componente rilevante

dell’indole germanica ma, al contrario, avrebbe costituito la caratteristica fondamentale

dei popoli mediterranei, non potesse certo riconoscere nei barbari gli inventori del

diritto individuale e della libertà politica. Tale idea, invece, era sostenuta dal Vitali che

pure aveva citato espressamente il Sergi per avvalorare molte delle affermazioni fatte

nel medesimo articolo. Al contrario proprio la necessità di lasciarsi alle spalle tale

paradigma di stampo pangermanico trovava ancora una volta espressione all’inizio del

XX sec. nelle parole di Romolo Bianchi:

Ricordiamo tutti lo strano abuso che s’è fatto fino a poco tempo fa del così detto individualismo germanico da coloro che studiavano il carattere peculiare a cui pare fosse improntata la vita sociale di quel popolo. Tale individualismo poi è stato opposto alla statolatria delle genti latine.436

435 Ibid. pp. 740 - 742 436 BIANCHI R., Il carattere di razza, in RIdS V, III, 1901 p. 317 (corsivo nel testo)

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L’affermazione del Bianchi segnala un cambio di rotta generalizzato avvenuto a soli tre

anni dalla pubblicazione del profilo della psicologia etnica italiana tracciato nel 1898

dal Vitali nel quale appariva ancora possibile ricordare con favore la teoria

dell’individualismo germanico. Tale mutamento interpretativo coincise pressappoco con

il cambio di secolo e con l’avvento di un sentire nazionale sempre più incline ad

ascoltare le sirene del mediterraneismo.

Nonostante ciò il caso del profilo psicologico dell’Italia proposto dal Vitali è

sintomatico della situazione peculiare del dibattito nazionale che ruotava attorno al

mondo dell’antropologia italiana tra i due secoli. Se da un lato, infatti, doveva essere

vastamente riconosciuta l’importanza delle proposte e delle sollecitazioni che

provenivano dalla nuova disciplina - tanto che l’apparato critico che correda gli articoli

comparsi su riviste quali la «Rivista italiana di Sociologia» e la «Rivista di filosofia

scientifica» è in larga parte composto da pubblicazioni specificamente antropologiche437

- dall’altro tali teorie spesso non venivano interpretate e riproposte all’interno di un

quadro storicamente coerente né erano sorrette da una logica limpida. Gli scritti degli

antropologi venivano saccheggiati quasi come si trattasse di raccolte di aforismi dalle

quali estrarre a proprio piacimento i passaggi ritenuti funzionali a un discorso nuovo

oppure al fine di trarne semplici suggestioni senza però la preoccupazione di integrare

ogni affermazione nel proprio specifico contesto. In tal modo veniva da molti ritenuto

privo di contraddizione concordare con il Sergi nella descrizione degli arii, ma poi

attribuire crani brachicefali ai Celti e dolicocefali ai Germani, senza curarsi del

particolare che, secondo la classificazione dell’antropologo messinese, entrambi questi

popoli sarebbero dovuti rientrare nello stesso gruppo. Spesso si faceva anche

riferimento alla Carta Etnografica del Pullé per tentare di avvalorare le ipotesi del Sergi,

senza tener conto dell’antagonismo esistente tra le idee desunte dalla linguistica che

erano alla base della Carta e le teorie del fondatore della Società Romana. Tenendo

presente questo modo di procedere piuttosto confuso da parte dei fruitori delle opere

antropologiche, è possibile comprendere meglio l’origine di affermazioni in merito

all’eredità psicologica dei barbari espresse prima del cambio di secolo, delle quali la

seguente è un tipico esempio:

437 Si nota, infatti, una larghissima diffusione di citazioni di saggi e articoli editi sulle pagine dell’«Archivio per l’antropologia e l’etnologia» e della «Rivista di Antropologia» accanto a citazioni di numerosi lavori di antropologi italiani e stranieri.

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In Lombardia, ove i Longobardi lasciarono intense vestigia troviamo alla energia celtica unita più forza di volontà; il dialetto rivela la fusione celto – longobardica delle qualità psichiche.438

Essa rivela come alla fine del XIX sec. un professore di liceo traesse spunto per le

proprie riflessioni da argomenti molto vari, la linguistica etnica di Pullè declinata in

senso herderiano, la psicologia etnica del Sergi, l’antropometria del Livi unita alla

toponomastica, la visione pangermanica che attribuiva ai Germani individualismo,

vitalismo e volontarismo. Tali sollecitazioni erano colte senza però porsi il problema

della compatibilità delle scelte effettuate. Allo stesso tempo attraverso il confronto tra il

saggio del Vitali e l’articolo scritto da Bianchi nel 1901 si nota come nel volgere di

pochi anni molte delle convinzioni esposte dal primo venissero definitivamente lasciate

alle spalle. La causa di questo fenomeno fu probabilmente l’avvento di un clima

culturale nuovo, un clima che tendeva a limitare con decisione ogni ricorso all’influenza

diretta dei popoli germanici nella descrizione del quadro etnico nazionale.

3.3 I Germani secondo Giuseppe Sergi: contro il Reihengräbertypus

Alla diffusione di questo nuovo sentimento anti – germanico e filo –

mediterraneo diede un sostanziale impulso Giuseppe Sergi le cui teorie si diffusero

presto tra gli intelletuali anche grazie all’opera di divulgazione che ne fece un

intellettuale di spicco dell’epoca quale fu il fisiologo Angelo Mosso439. È pertanto lecito

dedicare una particolare attenzione alle opere dell’antropologo siciliano nei passi in cui

viene affrontato in modo specifico il problema dei barbari.

Alla questione dell’indogermanesimo Sergi dedicò una breve nota apparsa sul

numero del 1914 della «Rivista di Antropologia» dal titolo Germani ed Indogermani440.

La brevità stessa di tale saggio è indicativa del fatto che l’argomento che vi era trattato

veniva ritenuto ormai chiuso e pertanto non meritevole di ulteriori lunghi

438 VITALI V., Elementi etnici e storici del carattere degli italiani, cit. p. 754 439 Su Angelo Mosso e l’influenza ottenuta da questi sulla scena della cultura italiana tra i due secoli si veda: NANI M., Fisiologia sociale e politica della razza latina. Note su alcuni dispositivi di naturalizzazione negli scritti di Angelo Mosso, in Razzismo italiano, a cura di BURGIO A. e CASALI L., Clueb, Bologna, 1996 pp. 29 – 61; e l’introduzione dello stesso autore a MOSSO Angelo, La fatica, Giunti, Firenze, 2001; sull’importanza del Mosso come divulgatore delle tesi del Sergi si veda TARANTINI M., Tra teoria pigoriniana e mediterraneismo, cit. pp. 53 - 61 440 SERGI G., Germani ed Indogermani, in RdA XIX, 1914 pp. 657 - 661

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approfondimenti. Con tale intervento l’autore si proponeva, quindi, di dare una risposta

effettivamente definitiva in merito alla questione germanica nel suo complesso,

fornendo un’esposizione chiara delle conclusioni cui era giunto nel corso di quasi

vent’anni di lavoro (dal 1895 al 1913) e dalle quali si sarebbero potuti ricavare, a suo

dire, alcuni punti fermi. Il fatto che una nota simile venisse ritenuta nonostante tutto

necessaria da Giuseppe Sergi è un sintomo del clima nel quale si trovava immersa la

società italiana alla vigilia della Prima Guerra Mondiale. Sergi, infatti, come si è avuto

modo di notare, non riteneva il germanesimo argomento degno di grande attenzione di

per sé, pertanto in precedenza lo aveva affrontato solo in relazione alla definizione della

Stirpe Mediterranea. Un tale atteggiamento nasceva dalla convinzione più volte espressa

dall’antropologo che le problematiche etnico – razziali andassero retrodatate di un

millennio almeno rispetto alle invasioni barbariche. Eppure nel 1914, sebbene con

chiara irritazione - come traspare dalle poche pagine di cui si compone l’articolo -, Sergi

a suo modo ricapitolava le proprie convinzioni. Com’era suo costume la trattazione

svolta risultava piuttosto secca (e seccata) e rinviava “per ulteriori chiarimenti” alle

opere nelle quali egli era convinto di aver già svolto il tema in maniera esauriente.

Particolarmente interessante risulta il fatto che, pur pubblicando questo intervento sulle

pagine di una rivista italiana, egli inserisse tra le proprie opere citate due titoli di scritti

in lingua tedesca441. Da ciò sembra trasparire una volontà di dialogo con il mondo

dell’antropologia tedesca che allora godeva di altissimo prestigio in ambito

internazionale, che può apparire strana visto il contesto storico – politico del momento,

ma al contempo mette in luce il desiderio, tutt’altro che estraneo al personaggio, di

colpire l’indogermanesimo nel suo cuore pulsante: la Germania del mito del

Reihengräbertypus. Sergi si riproponeva, infatti, di

mostrare che con le sue ricerche (…) da molti anni (…) aveva dimostrato che il tipo nordico detto germanico, alto di statura, dolicomesocefalo, bianco di pelle, con occhi cerulei o chiari e capelli biondi, non è germanico, come si sono affaticati ad affermare gli antropologi tedeschi, ma è un ramo della grande stirpe eurafricana, determinata come specie, e quindi come varietà della specie accanto all’altra varietà detta mediterranea. In altre parole è un residuo della popolazione neolitica, non indogermanica, non indoeuropea, non aria,

441 Si tratta di: SERGI G., Ursprung und Verbreitung des mittelländischen Stammes, Leipzig, 1897; e di SERGI G., Ueber den sogennanten Reihengräbertypus, «Centralblatt für Anthropologie, Ethnologie und Urgeschichte», 3 Jahr. 1898

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ma prearia o preindogermanica, germanizzata per la lingua, come fu italianizzata la popolazione prearia in Italia.442 (corsivo mio)

Nella nota in questione Sergi citava i risultati dell’autorevole linguista tedesco

Sigmund Feist443 che, sulla base di indizi linguistici e antropologici, pareva in fondo

concordare con l’antropologo italiano su di un fatto ritenuto centrale: il tipo scheletrico

rinvenuto nelle sepolture a file sarebbe stato da ascrivere agli abitanti più antichi

dell’Europa centrale. Essi vi si sarebbero stanziati almeno dall’età neolitica, mentre la

lingua tedesca sarebbe giunta in questi luoghi solo molto più tardi per il tramite di

invasioni di popoli brachicefali. Secondo Feist (così come per Sergi) i primi tra questi

invasori sarebbero stati i Celti, i quali avrebbero esteso la propria egemonia culturale

sulle popolazioni pre – arie e importato la lingua germanica. Accanto al Feist, anche

l’archeologo Mehlis aveva finito per cedere all’evidenza della presenza di scheletri

dolicocefali in età neolitica, cioè prima dell’avvento dei presunti Germani nei quali

l’archeologia tedesca tradizionale voleva identificare i diffusori dei metalli nel centro –

nord dell’Europa. Mehlis aveva così fatto propria la tesi proposta dal fondatore della

Società Romana. In realtà anche un autorevole antropologo come Ripley propose una

teoria sulle razze europee assai vicina a quella del Sergi dal quale derivò tra l’altro la

definizione di stirpe mediterranea.

Dunque le idee di Giuseppe Sergi finirono per fare breccia, anche se in maniera

evidentemente limitata, nel mondo della cultura tedesca intaccando quel paradigma indo

– germanico che si era andato, invece, dispiegando da quasi un secolo non solo tra gli

studiosi d’oltralpe, ma anche nella Penisola. Nonostante ciò si è visto come in Italia non

sempre le teorie proposte dall’antropologo siciliano venissero realmente comprese. Ciò

avvenne soprattutto in relazione al problema delle invasioni barbariche, questione

effettivamente ingarbugliata e mai definita con chiarezza dal Sergi, che preferì sempre

muoversi su lunghezze d’onda che investivano la storia pre - medievale. Si cercherà in

seguito di mettere in luce alcuni passaggi significativi attraverso i quali si può

intravedere una soluzione almeno parziale del problema.

442 SERGI G., Germani e Indogermani, cit. p. 657 443 L’opera cui Sergi fa probabilmente riferimento è FEIST S., Kultur, Ausbreitung und Herkunft der Indogermenen, Berlin, 1913

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La questione dei cimiteri a file (Reihengräber) così come furono utilizzati per

costruire il mito germanico fu al centro della polemica portata avanti dall’antropologo

italiano, il quale scrisse in proposito:

Prima che venissero fuori gli scheletri di Reihengräber, attribuiti ai Franche e agli Alemanni, non si aveva alcuna idea intorno al tipo scheletrico da attribuire all’elemento germanico in Europa. Ma frugate e studiate queste tombe, e determinate le forme craniche degli scheletri ivi contenuti, si attribuì alla razza germanica il cranio dolicocefalo con faccia anche lunga o leptoprosopa. Ma i Reihengräber non contengono soltanto dolicocefali, in essi trovasi anche brachicefali; perché denominare germanico il tipo con testa allungata e non l’altro o il brachicefalo?444

Per quel che riguardava la morfologia dei crani, criterio ritenuto spesse volte

determinante dal Sergi, egli ricordava come già l’Hölder445 avesse dimostrato che nelle

sepolture in questione le forme presenti fossero le più varie. Facendosi scudo

dell’autorevole parere del Virchow, il quale aveva dovuto ammettere che “nessuno ha

dato le prove che i Germani possedessero la stessa forma cranica, ovvero che i Germani

fossero all’origine un’identica nazione come il tipo più puro che abbiamo veduto tra gli

Svevi e i Franchi”446, l’antropologo siciliano accusava di vanità nazionale i tedeschi che

si erano voluti ammantare di una falsa superiorità razziale ottenuta a suo dire alterando i

dati reali. A questo proposito Sergi aggiungeva un curioso aneddoto relativo ai suoi

incontri con l’Hölder: questi gli aveva mostrato i crani del Reihengräbertypus

conservati al museo di Monaco e quando Sergi aveva preso in mano un cranio egiziano

antico anch’esso dolicocefalo chiedendo ironicamente se non vi fosse qualche

somiglianza con il tipo ritenuto germanico l’Hölder aveva risposto che la somiglianza

c’era, “ma non nella faccia”. Anni dopo Sergi gli avrebbe fatto notare le forme del

sepolcreto di epoca antica di Alfedena (VII – III sec. a.C.) ottenendo in risposta che

444 SERGI G., Europa, cit. p. 250. Il medesimo concetto venne ribadito ancora nel 1919: “Fino alle esplorazioni delle tombe renane, sepolture di Franchi e di Alemanni, del V secolo circa, gli antropologi tedeschi non sapevano dir nulla intorno al loro tipo di razza. Scoprirono i dolicocefali in quelle tombe; e siccome Franche e Alemanni del medio evo si chiamavano gente germanica, ecco che apparve rivelato il tipo germanico, alto, biondo, dolicocefalo” (SERGI G., Italia p. 109). In quest’ultima citazione viene posto l’accento sul nome collettivo (Germani) attribuito dagli storici alle stirpi medievali, nomi che, secondo il Sergi, non corrispondevano evidentemente a realtà biologiche. 445 Hölder studiò i crani rinvenuti nei cimiteri a file del Württemberg e fu l’editore di tali sepolture:HÖLDER., Zusammenstellung der im Württemberg vorkommenden Schädelform, Stuttgart, 1876 446 VIRCHOW, Berträge zur physischen Anthropologie der Deutschen, Berlin, 1877 p. 361 cit. in SERGI G., Europa, p. 254

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“quello era l’elemento germanico venuto in Italia!”447. Dall’intera vicenda l’antropologo

siciliano non poteva che trovare ulteriore conferma della propria convinzione riguardo

l’inattendibilità del paradigma proposto dall’antropologia tedesca.

Con questi presupposti il tentativo di dare una esauriente descrizione

antropologica degli invasori altomedievali doveva risultare un’impresa decisamente

ardua: se, infatti, tutto ciò che si era creduto fino ad allora era da ritenersi frutto solo

dell’ideologia pangermanica, una volta ammesso che nelle sepolture di V – VIII secolo

si rinvenivano tipologie craniche molto varie come si poteva ricostruire il tipo esatto

delle varie stirpi germaniche? Sulla base del presupposto che la razza germanica

rappresentasse una componente giunta nel continente in epoche più recenti, egli

attribuiva comunque tale gruppo al ceppo eurasico, ritenendolo dunque brachicefalo e

fratello carnale del ceppo Slavo448. Come Virchow, anche Sergi affermava che si era

verificata una continua mescolanza di genti e di stirpi in Europa nel corso dei secoli.

Egli tentava così di sanare l’apparente contraddizione sorta dalla presenza di tipologie

craniche varie nelle sepolture a file con l’ipotesi di una commistione almeno parziale

delle due specie avvenuta a suo dire precocemente in territorio tedesco.

3.4 I Germani secondo Giuseppe Sergi: le invasioni barbariche

nell’alto – medioevo italiano

Secondo Sergi nell’Europa centrale la mescolanza tra le due specie europee

sarebbe avvenuta a tutto svantaggio della specie più antica, l’eurafricana. Ciò sarebbe

stato provato, a suo dire, dal dominio - in termini assoluti - della brachicefalia

riscontrato in tutta la regione centro - europea osservato anche nella popolazione

contemporanea. Invece, allontanandosi dalle zone centrali, il rapporto brachicefali /

dolicocefali sarebbe progressivamente diminuito; ciò avrebbe determinato un dominio

della dolicocefalia nelle aree cosiddette marginali del Contenente: la regione del

Mediterraneo (in particolare l’Italia centro – meridionale e le isole, ma anche la

Penisola Iberica e la Grecia meridionale), la Scandinavia e le Isole Britanniche

sarebbero state quasi interamente occupate da “teste lunghe”. Tale geografia non doveva 447 SERGI G., Europa, cit. p. 252 448 Ibid. pp. 268 – 269; la definizione dei Germani “fratelli carnali” degli Slavi, che certamente doveva mandare su tutte le furie gli studiosi tedeschi, appartiene allo stesso Sergi.

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risultare del tutto ininfluente rispetto alla descrizione dell’impatto che le invasioni

altomedievali avrebbero avuto sulla popolazione della Penisola italiana. Secondo Sergi,

infatti, l’elemento propriamente germanico (eurasico) se mai aveva raggiunto il

territorio italiano, non si sarebbe spinto molto a sud, ma sarebbe penetrato solo nelle

regioni del nord dove fin dall’età antica doveva prevalere l’elemento celtico –

brachicefalo. In tal modo non avrebbe modificato sensibilmente le caratteristiche

craniche di quelle zone. Chiaramente una tale interpretazione pareva scontrarsi con le

notizie ricavabili dalle fonti storiche, tuttavia Giuseppe Sergi, e con lui gli altri studiosi

che mostrarono di condividerne le conclusioni, non trascurò questo problema come può

sembrare. Un esempio che pare particolarmente adatto a discutere la posizione assunta

dal Sergi è la discussione sulla popolazione della Sicilia. Essa, sia per la particolarità

della composizione razziale originaria della regione, che secondo l’antropologo

messinese ancora alla fine dell’età antica era quasi esclusivamente mediterranea, sia per

il numero delle invasioni storiche che la interessarono, permetteva all’antropologia di

entrare appieno nella discussione. Secondo Sergi:

Mediterranei dell’oriente con le colonie greche, Cartaginesi (..), dopo Berberi e Arabi, Goti, Vandali, Normanni, Aragonesi, Francesi, Spagnoli, Svevi e altri ancora, invasero e tennero per vario tempo l’isola; l’antropologo si aspetterà di trovarvi un mosaico di razze differenti più o meno facili da riconoscere. Nulla di ciò con lo studio di scheletri soltanto potrà sapersi, se ad un’analisi osteologia non si unisce quella dei caratteri esterni, colorazione cutanea, delle iridi, dei capelli. Ma l’analisi dello scheletro però ci fornisce un dato di grande valore, quello che si riferisce alla varietà umana cui si riducono varie razze frazionate e individuate. Lo studio dei crani moderni ci dirà quale sia la varietà dominante (…). Greci, Cartaginesi, Berberi, anche Normanni e Svevi puri di mescolanze, sarebbero indistinguibili per l’esame craniologico ammesso come abbiamo varie volte dimostrato [che la popolazione neolitica europea fosse tutta della stessa specie eurafricana].449 (corsivo mio)

Dunque egli ammetteva la possibilità che le invasioni non avessero lasciato totalmente

immutata l’isola, ma parallelamente affermava l’incapacità della craniometria di dare

risposte a riguardo. Si trattava davvero di una professione di impotenza da parte

dell’antropologia? Molti, e tra questi Carlo Cipolla, sembrarono interpretarla in questo

senso. Tuttavia in essa vi sono due elementi che, alla luce della classificazione razziale

449 SERGI G., Italia, cit. pp. 165 - 166

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proposta dall’antropologo siciliano, non devono essere trascurati. Il primo di tali aspetti

riguardava la composizione etnica dei gruppi di invasori, in particolare se essi fossero

stati razzialmente puri (o composti da una forte prevalenza di una stirpe precisa) al

momento dell’ingresso nell’isola, mentre il secondo riguardava la possibilità di

utilizzare i caratteri esterni per distinguere gli invasori dagli invasi. Alla luce di queste

due osservazioni si può dedurre, sulla base della teoria generale proposta dal Sergi, che

per non alterare la composizione etnica dell’isola gli invasori avrebbero dovuto far parte

del medesimo gruppo umano cui appartenevano gli indigeni. Secondo tale

ragionamento, poiché gli antichi Siculi erano già stati attribuiti al ceppo eurafricano, i

nuovi venuti sarebbero dovuti a loro volta essere eurafricani. Venendo poi

all’osservazione relativa ai caratteri esterni: essi vengono utilizzati dal Sergi per

dividere le specie in sottovarietà. Se essi avrebbero potuto segnalare una differenza tra

le popolazioni sopraggiunte e quelle stanziate in precedenza nell’isola poteva

significare, sempre seguendo la sua classificazione, che i due gruppi dovevano essere

appartenuti a due sottovarietà diverse della medesima specie. Si è mostrato come la

specie eurafricana venisse divisa in due sottovarietà europee: la mediterranea e la

nordica. È noto anche che Berberi, Greci, Arabi vennero fatti confluire nel ramo

mediterraneo. In relazione agli invasori generalmente noti come “germanici” qui

nominati dal Sergi, si può dunque dedurre quanto segue: Svevi e Normanni sarebbero

appartenuti alla specie eurafricana, ma alla sua varietà nordica e avrebbero, quindi,

avuto come caratteristiche antropologiche dolico o mesocefalia (forme craniche

pentagonali, ellissoidali, ovoidali), naso leptorrino, statura ordinariamente elevata, pelle

bianca, capelli e barba bionda (con sistema pelifero sviluppato), iridi azzurro – grigie450.

Nell’insieme la descrizione sopra riportata appare a un primo sguardo

pienamente compatibile con lo stereotipo germanico e con la tradizionale lettura delle

fonti storiche. In cosa differiva allora la lettura di Giuseppe Sergi? Si può rilevare che

essa si distingueva per un punto fondamentale: Normanni e Svevi non sarebbero stati in

realtà popoli germanici. Al contrario essi sarebbero stati popoli antropologicamente

affini ai più antichi abitanti del bacino del Mediterraneo (semiti compresi) e sarebbero

appartenuti a una stirpe nata nell’Africa orientale e immigrata “nella notte dei tempo”

nel continente europeo. Sul piano dell’interpretazione del fenomeno dell’immigrazione

450 Si veda la tabella inserita a pagina 86.

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alto medievale e della conservazione della nazione ciò avrebbe potuto rappresentare un

fatto decisamente significativo: non vi sarebbe potuta essere, infatti, alcuna alterazione

della stirpe italiana a opera di questi invasori erroneamente creduti germanici se non sul

piano di elementi secondari quali i caratteri esterni. Da ciò si deduce facilmente che,

ancora una volta, la nazione sarebbe giunta sostanzialmente inalterata fino all’età

contemporanea.

La scarsa valenza dei caratteri esterni, i quali non dovevano influire sulla

psicologia dei popoli e dunque sul carattere culturale – nazionale, né costituivano un

elemento discriminante rilevante nella classificazione etnica vera e propria, era stata

molte volte sottolineata dal Sergi. Egli attribuiva tali elementi più a cause accidentali

(quali l’ambiente e le condizioni di vita) che alla biologia strettamente intesa. Leggiamo

infatti che se “certamente la statura è un carattere che non si può trascurare nella

classificazione delle razze (…)” essa viene determinata da fattori sociologici cui “deve

concorrere, senza dubbio il fattore biologico con le condizioni esterne d’ogni sorta”451.

Per quel che riguarda la pigmentazione di pelle, capelli e iridi allora l’influenza

dell’ambiente diverrebbe determinante:

la colorazione della pelle con le sue appendici dipende principalmente dalle condizioni esterne, clima con la temperatura e probabilmente anche dalle condizioni del suolo e alle altitudini, come forse dal nutrimento.452 (corsivo mio)

Così veniva meno anche l’effettiva portata di uno dei postulati del canone artistico che

stava alla base del mito ariano. Allo stesso modo crollava il mito della Scandinavia

come “terra d’origine” degli indogremani. Non a caso, infatti, Sergi inaugurava il suo

discorso sulle razze d’Europa con la descrizione geografico – climatologia del

Continente nel corso dei millenni. L’intero capitolo iniziale di Europa, dedicato appunto

alla “Geografia”, si spiega solo alla luce di quanto affermato ben più oltre cioè che “la

popolazione primitiva della Scandinavia è immigrata dal continente nell’epoca neolitica

e non anteriormente per quel che si è detto riguardo (…) alle epoche glaciali. (…) La

451 SERGI G., Europa, cit. p. 258 (corsivo mio) 452 SERGI G., Europa, cit. p. 258; risulta interessante il riferimento all’influenza dell’ambiente sociale in relazione alla statura che Sergi deriva dal Ripley e dell’influenza possibile della nutrizione sulla pigmentazione. Quest’ultimo aspetto era allora largamente dibattuto in ambito antropologico e biologico.

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penisola scandinava non poteva, quindi, essere la culla di una razza”453. Per questo

motivo tornando all’apporto dei popoli venuti da nord alla popolazione italiana

Se vi sono insieme [a questi] elementi non mediterranei, ma affini, che vengono da settentrione nei tempi storici, né la craniometria né la morfologia possono distinguere nettamente.454

Soltanto attraverso la persistenza di caratteri esterni peculiari nella popolazione odierna

si potrebbero forse ritrovare “Residui di Normanni e Svevi o di altri simili (…) in alcuni

luoghi o nella massa degli abitanti” ma essi costituirebbero solamente una “minoranza assoluta

o di poco valore antropologico nella miscela”455.

I barbari venivano dunque intesi come minoranza assoluta e scarsamente

significativa, oppure come brachicefali scomparsi nella massa dei celti - brachicefali al

nord. Che dire però di quelle popolazioni che colonizzarono la Penisola “da nord a sud”,

che si innestarono, quindi, su un substrato già etnicamente diversificato, come Goti e

Longobardi? Sui primi Sergi, prudentemente, non si pronunciava; lo fece, invece, il suo

allievo Giuffrida – Riggeri e sulla questione si avrà modo di tornare nel capitolo

seguente. Il problema relativo ai Longobardi può, invece, essere affrontato alla luce di

quanto visto nel corso della trattazione appena svolta e grazie anche a un caso specifico:

gli scavi della necropoli di Castel Trosino, presso Ascoli Piceno.

3.5 Castel Trosino: un Fraintendimento?

La necropoli alto medievale di Castel Trosino, situata lungo la via Salaria presso

Ascoli Piceno, fu oggetto di uno scavo sistematico a partire dal 1893 che portò alla luce

un numero complessivo di 239 sepolture dislocate tra le località di S. Stefano, Fonte e

Campo456. Lo scavo fu allora oggetto di una lunga contesa tra eruditi e autorità locali da

un lato e autorità nazionali dall’altro a causa della destinazione finale dei reperti: la

453 Ibid. p. 257 (corsivo mio) 454 SERGI G., Italia, cit. p. 169 455 Ibid. p. 166 456 Il sito principale è costituito dai sepolcreti in contrada S. Stefano; nelle località Fonte e Campo vennero rinvenute in totale 19 sepolture. MENGARELLI R., La necropoli barbarica di Castel Trosino presso Ascoli Piceno, in «Monumenti Antichi della Reale Accademia dei Lincei», XII, 1902; PAROLI L. a cura di, La necropoli altomedievale di Castel Trosino: bizantini e longobardi nelle Marche, Cinisello Balsamo, Silvana, 1995

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volontà di trasferire gli oggetti rinvenuti a Roma allo scopo di inserirli in una

ricostruzione complessiva della storia nazionale espressa dal ministro Martini venne

percepita come un vero esproprio da parte degli ascolani, fatto che andò ad alimentare il

dibattito attorno alle identità e alla memoria locali e al rapporto tra ambiente e

significato dei reperti stessi457. Grazie anche all’interesse espresso dalle istituzioni

centrali lo scavo venne, però, condotto con criteri filologici che portarono alla redazione

da parte dell’ingegner Mengarelli, supervisore agli scavi, di una memoria edita nei

«Monumenti antichi dei Lincei» ancora oggi ritenuta utile ad aprire nuove prospettive

interpretative458. Allo stesso tempo durante le fasi di documentazione dello scavo

furono coinvolti numerosi specialisti. Non fu tralasciato neanche l’esame antropologico

dei resti scheletrici che venne affidato al fondatore dell’allora neonata Società Romana -

segno forse delle speranze che aveva destato il metodo da questi proposto ufficialmente

proprio nel 1893, anno d’apertura degli scavi.

Nonostante la mole di materiale scheletrico fosse tutt’altro che esigua, la scarna

nota redatta dal Sergi e pubblicata in appendice al resoconto del Mengarelli459 prendeva

in esame solamente 18 crani460. Accanto alla descrizione morfo – tipologica dettagliata

veniva inserita anche l’indicazione del sesso presunto del defunto in questione. Vennero

così identificati 10 resti maschili e 9 femminili. Al termine della propria indagine il

Sergi si disse certo, nonostante alcuni dei crani fossero danneggiati e uno persino

“involto nella terra”461, di aver individuato un gran numero di forme, la maggioranza

assoluta delle quali (17 su 18 crani) doveva però essere ricondotto al gruppo delle

457 L’intera vicenda è ricostruita in TROILO S., La patria e la memoria. Tutela e patrimonio culturale nell’Italia unita, Mondadori, Milano, 2005 pp. 89 - 95 458 PAZIENZA A., Longobardi in Tuscia. Fonti archeologiche, ricerca erudita e la costruzione di un paesaggio altomedievale, cit. p. 82459 SERGI G., Nota sui teschi di Castel Trosino in MENGARELLI R., La necropoli barbarica di Castel Trosino, cit. pp. 190 – 192. La nota si estende per due sole facciate, divise in due colonne ciascuna, nelle quali è compresa una tavola craniometria. La lunghezza della nota è probabilmente indicativa, ancora una volta, della scarsa attenzione che Giuseppe Sergi dedicava nel complesso della sua opera al periodo medievale. È probabile che il Sergi avesse accettato di eseguire l’esame su crani da lui ritenuti di scarso interesse proprio per l’interessamento istituzionale manifestatosi nel corso dello scavo. Nella maggior parte dei casi, infatti, l’esame su resti altomedievali non coinvolse antropologi di larga fama, ma fisiologi locali i quali non pubblicavano di norma le proprie conclusioni su periodici specializzati, ma le affidavano ai resoconti degli archeologi o degli eruditi che curarono l’edizione delle necropoli come avvenne nei casi di Testona (edita dai Calandra) e dei Campi Neri presso Cles (edita dal Campi). Nel primo dei due casi citati non risulta neppure accertato se un completo esame craniologico, pur sollecitato dai Calandra, venne effettivamente portato a buon fine. 460 I 18 crani provenienti da Castel Trosino esaminati dal Sergi sono tutt’ora conservati presso il Museo di Antropologia dell’Istituto di Antropologia dell’Università La Sapienza. 461 SERGI G., Nota sui teschi di Castel Trosino, cit. p. 190.

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dolicocefale. Tale constatazione gli permetteva, dunque, di inscrivere quasi tutti gli

inumati tra gli appartenenti alla specie Eurafricana. Pertanto Sergi concludeva:

Degli invasori barbari d’Italia alla caduta dell’imparo romano, molti devono avere avute le forme craniche come le descritte (…). I 18 crani possono essere barbarici e anche d’italiani mescolati coi barbari: noi non possiamo distinguerli, come non ci riuscirà di distinguere crani italiani d’origine mediterranea e crani dell’Europa centrale e settentrionale della stessa specie.462

Ci si trova davanti a una affermazione del tutto simile a quella già analizzata a proposito

delle invasioni subite dalla Sicilia. Ancora una volta com’era da aspettarsi la

craniometria appariva impotente a distinguere le sottovarietà. In questo caso Sergi non

si dilungava nemmeno nei dettagli del problema, ma si limitava a rimandare “per

ulteriori approfondimenti” alle proprie opere principali sull’argomento delle quali citava

una in lingua inglese463. Forse il movente di questo richiamo a un testo in lingua

straniera mirava a sottolineare il proprio prestigio internazionale - un saggio affine in

lingua italiana aveva, infatti, preceduto l’edizione londinese464 – ma un tale

atteggiamento certamente non facilitava la comunicazione tra i vari settori interessati

dalla ricerca storico – archeologica per quanto aperto alle sollecitazioni provenienti dal

contesto internazionale fosse il mondo accademico italiano.

In un contesto così scarno in cui mancava la benché minima forma di

comprensione per i non esperti del settore, non era facile rilevare pienamente il senso

dell’affermazione posta dall’antropologo all’inizio della conclusione, che doveva

apparire piuttosto estemporanea. A una lettura attenta non risulta chiaro sulla base di

quali presupposti Sergi avrebbe potuto affermare che molti degli invasori alto medievali

avrebbero dovuto possedere crani dolicocefali. Probabilmente un lettore dell’epoca

avrebbe immediatamente riferito una tale annotazione al famoso tipo germanico dei

Reihengräber, sebbene sia ormai chiaro che Sergi difficilmente avrebbe potuto fare

riferimento tanto tranquillamente proprio a quel modello. Egli rinviava, invece, alle 462 Ibid. p. 192 463 Si tratta di SERGI G., The Mediterranean Race. A study of the Origin of European People, Walter Scott ed., London, 1901 che ebbe anche un’edizione americana uscita nello stesso anno per la C. Scribner’s Sons di New York. 464 Si trattava di SERGI G., Origine e diffusione della stirpe mediterranea. Induzioni antropologiche,Società Dante Alighieri, Roma, 1895. Più vicina nel tempo alla pubblicazione della necropoli marchigiana era SERGI G., Specie e varietà umane. Saggio di una sistematica antropologica, Fratelli Bocca, Torino, 1900

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proprie opere sull’argomento e alla propria classificazione. Sappiamo che in esse era da

lungo tempo sostenuta la tesi della mescolanza delle stirpi europee, ma che vi era anche

sostenuta la tesi che nel corso del tempo si fossero mantenute, nelle diverse regioni,

delle differenze nelle proporzioni tra le tipologie razziali. Il perché gli invasori

Longobardi465 avessero dovuto essere per la maggior parte dolicocefali Sergi lo scrisse

esplicitamente in un’altra opera. In tale circostanza egli affermava, infatti, che Svevi e

Longobardi entrati in Italia con le invasioni barbariche appartenevano alla specie

Eurafricana (dolicocefala) e precisamente alla varietà settentrionale. Così, se sembrò

allora che gli scavi di Castel Trosino non dessero le tanto agognate risposte sull’apporto

della componente barbarica alla nazione italiana e se forse contribuirono, invece, ad

aumentare la sfiducia professata nell’antropologia, ciò non fu del tutto per assenza di

risposte. Dalla relazione e dal complesso della opere del Sergi si poteva ricavare una

conclusione più chiara in merito alla questione germanica. Secondo il fondatore della

Società Romana, infatti, i Longobardi, così come Svevi e Normanni, non poterono

modificare la composizione etnica della penisola per i seguenti motivi:

1. la popolazione italiana, così come quella europea, era già largamente mescolata e

composta di due specie con differenze relative alle percentuali di popolamento di

ciascun gruppo a seconda delle diverse regioni considerate;

2. gli invasori, essendo stati poco numerosi, vennero in qualche modo assorbiti dalla

“massa” dei romani/romanizzati abitanti della Penisola;

3. soprattutto, se l’autentica componente italica della penisola fu fin dall’inizio

l’eurafricana/dolicocefala, gli invasori essendo appartenenti alla medesima specie

(seppure a un’altra varietà) si sarebbero effettivamente fusi con la popolazione

italiana in modo tale da non alterarne minimamente (se non, forse, per caratteristiche

esteriori transitorie) la composizione etnica466.

465 Sergi mostra di aver composto la nota dopo il 1901 – cioè dopo la pubblicazione delle opere citate inbibliografia – quando l’attribuzione ai Longobardi della necropoli veniva in larga parte sostenuta sulla base della datazione (definita allora post quem sulla base delle monete ritrovate) e sulla base della riflessione relativa alla storia locale. 466 Oltre ai già citati passi sulla Sicilia si veda l’esplicito riferimento ai Longobardi in SERGI G., Italia, cit. p. 123

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A livello antropologico la supposta fusione non poteva essere determinata con certezza,

ma con altrettanta certezza essa sarebbe stata da ritenersi più probabile rispetto a una

commistione tra genti di origine celtica e di origine romana, brachicefale le prime e

dolico-mesocefale le seconde467. E, quel che contava davvero dal punto di visto

dell’etnografia nazionale, seguendo le ipotesi del Sergi si poteva (anzi, si doveva!)

tranquillamente sostenere la tesi della permanenza dei caratteri propriamente italici

anche attraverso tutto il medioevo. L’antropologia aveva, in altre parole, affermato la

persistenza della stirpe e la nazione poteva, dunque, dirsi salva.

3.6 Antropologia e Storia: le critiche alle “pretese” degli storici

La risposta che, invece, l’antropologia non aveva dato e che certamente

incuriosiva gli storici era quella relativa a come distinguere i differenti gruppi di

invasori. A questo proposito stupisce trovare negli antropologi un approccio forse più

problematico e differenziato al tema dell’etnicità degli invasori rispetto a quello

proposto da molti storici dello stesso periodo, sebbene tale differenza sia probabilmente

più frutto di circostanze fortuite quali la riflessione biologica sulla mescolanza dei

caratteri che di un vero approccio critico alle fonti. Un chiaro esempio del metodo con

cui gli antropologi si accostavano tal volta alle fonti letterarie per ricavarne notizie utili

allo studio dei popoli è dato dal già citato articolo di Alberto Alberti. L’autore, infatti,

metteva in guardia gli studiosi sul fatto fondamentale per cui “lo storico [antico] può

benissimo seguire il simbolo di un nome, e continuare a parlare della stessa nazione

longobarda”468, ma questo fatto non poteva e non doveva essere interpretato come

conferma del fatto che, nel corso della propria storia, la gens longobarda si fosse

mantenuta antropologicamente e anche culturalmente pura. Il riferimento agli storici

antichi, da Tacito in poi, che avrebbero seguito il simbolo di un nome per parlare,

invece, di popoli etnicamente diversi appare oggi, alla luce della riflessione portata

avanti negli ultimi anni sull’etnicità dei popoli altomedievali, incredibilmente moderna

seppure non ne vada sopravvalutata la portata. Secondo l’Alberti, infatti, un nucleo di

Longobardi doveva aver realmente attraversato i secoli, ma nel corso della sua storia si

467 Si ricorda che l’antropologia italiana - e Sergi in particolare - era restia ad accettare l’ipotesi di ibridismo tra dolico e brachicefali. 468 ALBERTI A., L’influenza dell’invasione longobarda sul tipo nazionale, cit.

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sarebbe dovuto per forza mescolare con i popoli via via sconfitti. Se la storia tal volta

sembrava descrivere delle estinzioni di massa di interi popoli, ciò era dovuto, secondo

Alberti, al fatto che essi venivano “assorbiti” dai vincitori dei quali finivano per

assumere il nome modificandone allo stesso tempo la composizione originale. Sulla

stessa linea, anche se in maniera più specificamente legata al tema del significato

biologico dei nomi etnici, si colloca la critica mossa da Giuseppe Sergi agli storici e agli

studiosi a lui contemporanei. Essi, collocandosi sulla scia del Gumplowicz, avevano

tracciato un profilo storico della storia delle nazioni medievali tutto incentrato sulla lotta

di razza. L’antropologo siciliano, invece, affermava in maniera radicale la tesi opposta

secondo cui: “(…) nomi etnici protostorici non indicano razze come nessun altro nome

etnico e storico e come erroneamente alcuni credono”469.

A questo punto viene da chiedersi da dove il Sergi derivasse, invece, la

convinzione che proprio i Longobardi (e i Normanni e gli Svevi…) avessero una

composizione razziale specifica. La risposta va cercata, probabilmente, nella descrizione

allora usuale di gran parte degli invasori altomedievali come “popoli del Nord”. A

Sergi, che della storia antica aveva fatto largo uso nel redigere le proprie monografie, e

agli altri antropologi che si occuparono in qualche modo del tema longobardo non

poteva essere sfuggito un famoso passo di Paolo Diacono che attesta:

Pari etniam modo et Winnilorum hoc est Langobardorum, gens, quae postea in Italia feliciter regnavit, (…) ab insula quae Scandinavia dicitur adventavit.470

I Longobardi dunque venivano ritenuti essere originari dalla Scandinavia, di una di

quelle aree che si sono definite in precedenza “marginali” in cui la specie eurafricana si

sarebbe preservata pura nella sua varietà nordica. Risulta ormai chiaro il motivo

dell’attribuzione degli invasori a tale categoria antropologica e il quadro tracciato dal

Sergi ritrova, almeno in parte, la propria coerenza risultando completo. Il ragionamento

dell’antropologo siciliano su tale tematica appare pertanto comporsi di una parte

costruita sulla base delle fonti storiche – i Longobardi verrebbero dalla Scandinavia e

proprio lì si sarebbe conservato quasi puro attraverso i millenni un preciso tipo razziale 469 SERGI G., Europa, cit. p. 289 (corsivo mio) 470 PAOLO DIACONO, Historia langobardorum, I, 1 (“nello stesso modo anche la gens dei Winnili, che è quella dei Longobardi, che in seguito regnò felicemente in Italia, (…) proveniva da un’isola che è denominata Scandinavia”)

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– e di una parte dedotta dai dati empirici - la constatazione che la popolazione moderna

residente nelle aree interessate dall’insediamento dei barbari non risultava alterata nella

sua composizione rispetto all’età antica (ad es. in Sicilia risultava mantenuta la

prevalenza di dolicocefali). A tutto ciò in un secondo momento si aggiunse la conferma

proveniente dall’analisi dei resti scheletrici da cui sembrava trasparire l’assoluta

minoranza di brachicefali tra gli invasori.

Nonostante a Nicolucci, Livi e Sergi471 il discorso potesse apparire in tal modo

concluso, esso come si è visto non trovava tutti d’accordo. Preme qui solo notare che

l’obbiezione relativa a un utilizzo troppo poco critico delle fonti nel costruire

l’immagine dei Longobardi “alti, biondi, con gli occhi azzurri, dolicocefali” era fatta

propria già dell’Alberti. Egli, infatti, accusava apertamente i colleghi di aver desunto il

tipo antropologico longobardo solo dal passo di Paolo Diacono riferito in precedenza472.

Accostando tale informazione al tipo etnico attualmente dominante nella penisola

scandinava si sarebbe accettato acriticamente uno stereotipo senza tenere alcun conto

della mescolanza intervenuta nel corso della storia delle migrazioni. Nonostante tutto,

però, si è visto come anche lo stesso Alberti arrivasse alla conclusione opposta, la

prevalente brachicefalia longobarda, utilizzando un metodo piuttosto simile. Tuttavia a

questi va dato atto di aver tentato in qualche modo di tenere maggiormente conto delle

notizie riportate nelle fonti.

Sulla base di tale molteplicità di sfumature si sarebbe forse potuto instaurare,

come auspicato dall’Alberti, un fecondo dialogo tra storiografi e antropologi. Gli storici

avrebbero forse potuto trovare stimoli utili ad ampliare la gamma delle possibilità di

indagine sulle fonti della ricerca medievale che allora vedeva il tema dell’eredità

barbarica quasi esclusivamente declinato sul piano della storia del diritto e dell’origine

del Comune. Ciò non avvenne, da un lato per l’impermeabilità di un campo allora solo

apparentemente iper – specializzato come l’antropologia, dall’altro forse anche per la

reticenza mostrata da parte degli storici a dialogare con le diverse discipline allora

ritenute semplicemente ancillae e, pertanto, capaci solo di fornire strumenti utili per

471 Ma anche l’antropologo tedesco Ripley sembrava concordare appieno con il discorso portato avanti da Livi e Sergi a questo proposito nella sua opera sulle razze d’Europa (RIPLEY Z. W., The races of Europe, s.n., New York, 1899). 472 “Ora s’è in me ingenerato il sospetto che la dolicocefalia dei Longobardi sia stata presunta semplicemente dal fatto che essi ebbero, secondo le tradizioni, le loro prime sedi nella Scandinavia”. Citazione tratta da ALBERTI A., L’influenza dell’invasione longobarda sul tipo nazionale, cit. p. 463 (corsivo mio)

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rispondere a domande già formulate. Forse se un tale dialogo ci fosse stato la

storiografia sull’altomedioevo avrebbe potuto beneficiarne arrivando prima a mettere in

discussione il valore biologico attribuito ancora per gran parte del XX secolo

all’elemento etnico.

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V. I GERMANI NELLE TERRE IRREDENTE

1. I GERMANI IN TRENTINO

Nell’età che vide la costruzione degli stati nazionali questione etnica e

patriottismo finirono, dunque, per coincidere. Dopo la stipula della Triplice Alleanza, in

Italia il nazionalismo contribuì a portare ancor più all’attenzione generale il problema

costituito dalle terre irredente ed ebbe una parte non irrilevante nell’accelerare la

progressiva presa di distanza da parte di molti intellettuali dal paradigma pangermanico.

Ciò trovò piena realizzazione nei territori dell’attuale Trentino – Alto Adige grazie

anche al contributo di associazioni quali la «Dante Alighieri», la «Trento e Trieste», la

«Pro Patria» e la «Lega Nazionale», che si proponevano come scopo principale quello

di salvaguardare il patrimonio culturale italiano473. Accanto a queste, per il ruolo che

ebbero nell’esaltare l’italianità nei territori considerati, vanno collocate anche le

associazioni vicine al mondo dell’alpinismo come la «Società degli Alpinisti

Tridentini». In un tale contesto non stupisce, quindi, ritrovare sulle pagine dei periodici

editi da questi gruppi articoli dedicati a temi legati al problema etnico quali

l’archeologia alto medievale simili a quello già preso in esame nel capitolo

precedente474.

Anche l’antropologia doveva venire chiamata a dare il proprio contributo alla

definizione dell’italianità o della germanicità delle regioni contese. In particolare il

Trentino, territorio soggetto alla duplice influenza dell’Austria e della Confederazione

Germanica, fu oggetto di grande interesse da parte di studiosi provenienti da entrambi i

versanti delle Alpi cosicché da ambo le parti si susseguirono studi approfonditi sui

caratteri delle popolazioni di confine. Tra gli studiosi di lingua tedesca il medico e

antropologo meranese Franz Tappeiner (1816 - 1902) si occupò più di ogni altro dello

studio dell’antropologia dei popoli dell’area trentino - tirolese. In un primo saggio edito

473 GARBARI M., L’irredentismo nel Trentino, in LILL R., VALSECCHI F. a cura di, Il nazionalismo in Italia e in Germania fino alla prima guerra mondiale, il Mulino, Bologna, 1983 pp. 307 - 346 474 Si tratta del citato articolo del Campi sulle sepolture rinvenute nei Campi Neri vicino a Cles. CAMPI L., I Campi Neri presso Cles, cit.

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nel 1883, dopo aver misurato una quantità impressionante di crani e teste475, egli

giungeva a proporre delle conclusioni che furono giudicate doppiamente “eccessive”

(per numero e per qualità) già dal Mantegazza che pure definì il collega “un uomo

serio” autore di “un libro serio”476. Il Tappeiner vi aveva tra l’altro affermato di poter

individuare con certezza i popoli che avevano dato origine alla popolazione moderna

del Tirolo. A suo dire si sarebbero, infatti, potute ritrovare le vestigia di Bavari e

Alemanni sul versante nord delle Alpi, mentre sul lato italiano egli avrebbe individuato

i discendenti di Longobardi, Alemanni, Franchi, Rugi ed Eruli. Ma tali identificazioni

vennero duramente respinte dal Mantegazza che bollava la fiducia nella craniometria

pura e semplice professata dall’autore come “fede ipercraniologica spinta fino al

fanatismo” e i risultati cui essa aveva portato come “romanzo scientifico” e

“chiromanzia, non antropologia”477. Tuttavia la parte maggiormente politica del

ragionamento del Tappeiner riguardava ben altre considerazioni sull’attuale

popolazione dei territori da lui studiati. Partendo dalla definizione dell’elemento etnico

originario come Reto - Romano (determinato cioè da Reti o Rezi autoctoni mescolatisi

con i Romani) egli arrivava, infatti, al paradosso di affermare una forte persistenza

dell’elemento romano nel Tirolo austriaco, mentre al contempo escludeva una forte

influenza latina nella parte cisalpina. In quest’ultima sarebbe prevalso, infatti,

l’elemento germanico. Quest’ultima affermazione suscitò il sarcasmo di Paolo

Mantegazza che scrisse a riguardo:

Se è vero quel che voi dite che fra i Tirolesi tedeschi l’elemento reto – romano è relativamente molto maggiore del germanico, in nome dell’etnografia, passeremo le Alpi e andremo a reclamare questo ramo romano della nostra stirpe.478

475 TAPPEINER F., Studien zur Anthropologie Tirols und der Sette Comni, Innsbruck, 1883. ivi l’autore affermava di aver misurato 4935 crani e 3185 teste di abitanti delle regioni in esame a lui contemporanei per un totale di 8120 elementi laddove attraverso la lettura delle riviste di antropologia si apprende che nella maggior parte dei casi gli studi effettuati a livello locale si basavano su un numero di elementi dell’ordine delle centinaia. Ad esempio Canestrini e Moschen per comporre il loro studio sul Trentino utilizzarono 712 crani e 776 teste per un totale di 1488 misurazioni, numero già al di sopra del consueto! [Lo studio cui ci si riferisce è il seguente: CANESTRINI G., MOSCHEN L., Sulla antropologia fisica del Trentino, in «Atti della società Veneto – Trentina di Scienze Naturali» XVI, 1890] 476 MANTEGAZZA P., Recensione a TAPPEINER F., Studien zur Anthropologie Tirols und der Sette Comni, in AAE, XIV, 1884 pp. 117 - 120 477 Ibid. p. 119 478 Ibid. p. 118

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La questione, in effetti, era tutta contenuta nel verbo usato: reclamare. Si trattava,

infatti, più che di venire a capo della complessa tassonomia dei cosiddetti “popoli

alpini” - i quali per le loro caratteristiche ritenute peculiari vennero da più parti

identificati con una razza speciale - l’Homo Alpinus479 - quanto di legittimare due

avverse politiche nazionali. Tappeiner, dunque, con le proprie teorie incarnava la

volontà austriaca di legittimare anche scientificamente – termine all’epoca equivalente a

oggettivamente - il confine allora esistente tra i due stati sovrani. Allo stesso tempo egli

portò avanti un’idea della superiorità della razza germanica che privilegiava la dinamica

dell’ibridazione: attraverso gli incroci con la razza superiore anche popoli inferiori

avrebbero potuto elevarsi nella scala delle razze480.

Da parte italiana i territori del Trentino e del Tirolo furono oggetto di

approfondite indagini da parte di Giovanni Canestrini e Lamberto Moschen481 prima e

da parte del solo Moschen poi482. Quest’ultimo fu, tra gli antropologi italiani più illustri,

quello che ebbe modo di occuparsi più a lungo delle regioni prese in esame dal

Tappeiner483. Com’era da aspettarsi, egli finì per trarre dall’indagine antropologica delle

popolazioni trentine conclusioni opposte rispetto a quelle cui era giunto il collega di

Merano. Nel suo saggio del 1892 Moschen tracciava un quadro apparentemente

rigoroso della distribuzione delle caratteristiche antropologiche di queste zone. Per la

compilazione egli si avvalse, oltre che delle proprie osservazioni, anche delle indagini

479 FEHR H., Germanen und Romanen, cit.; DEL BOCA B., Storia della antropologia, Dr Francesco Villardi, Milano, 1961 480 TAPPEINER F., Der europäische Mensch und die Tiroler, s.n., Meran, 1896 481 CANESTRINI G., MOSCHEN L., Anomalie dei crani trentini, in «Atti della società Veneto – Trentina di Scienze Naturali» VII, 1880; CANESTRINI G., MOSCHEN L., Sulla antropologia fisica del Trentino, in «Atti della società Veneto – Trentina di Scienze Naturali» XVI, 1890 482 Lamberto Moschen nacque a Levico (Trento) nel 1853. Studiò filosofia presso le università di Innsbruck, Vienna e Padova. Fu segretario della «Società Veneto – Trentina di Scienze Naturali». Insegnò scienze naturali al liceo e come libero docente prima a Padova con Canestrini e poi a Roma. Fu anche tra i soci fondatori della Società Romana di Antropologia della quale divenne in seguito segretario. Morì nel 1932. Tra i suoi studi notevoli furono quelli di antropologia trentina tra i quali: MOSCHEN L., Intorno all’indice nasale del cranio trentino, in «Atti del Regio Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», II, 1879; MOSCHEN L., Osservazioni morfologiche sui crani del veneto e del Trentino, in «Atti della società Veneto – Trentina di Scienze Naturali» VIII, 1882; MOSCHEN L., I caratteri fisici e le origini dei Trentini, in AAE, XXII, 1892; MOSCHEN L., La statura dei Trentini, in RdA, I, 1893; MOSCHEN L., Note di craniologia trentina, in RdA, V, 1897. Su Lamberto Moschen si veda: Österreichisches Biographisches Lexikon 1815-1950 Online-Edition und Österreichisches Biographisches Lexikon ab 1815 (2. überarbeitete Auflage – online) p. 383 483 Gli altri noti antropologi italiani che si occuparono delle valli trentine furono Calori, Nicolucci e il già citato Canestrini. Rodolfo Livi, invece, condusse le proprie indagini in gran parte come antropologo militare e pertanto non stupisce troppo l’assenza del Trentino nelle sue trattazioni: si tratta evidentemente più di un’assenza dovuta all’impossibilità di svolgere studi diretti su reparti di un esercito straniero che a una precisa volontà di esclusione.

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svolte sugli alunni delle scuole dell’infanzia che erano state condotte nei territori contesi

per iniziativa della Società Antropologica Tedesca484 ampliando così di molto il

campione esaminato. La prima conclusione rilevante cui giunse fu che in base ai

caratteri esterni “le diverse valli del Trentino costituiscono un gruppo somatologico

caratteristico”485 il cui confine verso il Tirolo sembrava ricalcare in massima parte il

confine linguistico. Ci sarebbe stata in tal modo una corrispondenza immediata tra

appartenenza biologica e linguistica, fatto in netta opposizione a quanto affermato dal

Tappeiner a sostegno della dominazione austriaca; questa nuova lettura avrebbe, al

contrario, legittimato appieno le aspirazioni irredentiste.

Riguardo alle origini della popolazione attuale Moschen sosteneva che ogni

questione andasse, invece, ridotta a un singolo problema: stabilire quale fosse stata

l’influenza dell’elemento germanico486. Ogni discussione relativa alla possibile

determinazione di differenziazioni etniche più specifiche e a una distribuzione delle

stesse sul territorio veniva in tal modo accantonata. Grazie al numero elevato di

osservazioni e misurazioni fatte dall’antropologia nel corso del XIX sec. il quesito più

generale poteva trovare invece una conclusione definitiva:

I germani, come non riuscirono ad imporre ai Trentini la loro lingua e i loro costumi, così non ebbero alcuna parte sensibile nella materiale costruzione della popolazione del Trentino.487

L’antropologo italiano giungeva a una simile sentenza dopo aver mostrato di

condividere il paradigma Reihengräber che molti suoi colleghi, invece, finirono per

contestare488. Tuttavia il ricorso allo stereotipo germanico risultava in questo caso

comunque funzionale allo scopo di avvicinare il Trentino all’Italia allontanandolo

parallelamente dall’Austria. Moschen, infatti, ricordava le difficoltà incontrate dal

484 Non a caso l’unica inchiesta capillare di questo tipo svoltasi in quegli anni in Italia fu voluta dal Club Alpino Italiano e riguardò la provincia di Bologna. Si veda RUBBIANI, Etnologia bolognese, in Guida all’Appennino Bolognese, Bologna, 1882 485 MOSCHEN L., I caratteri fisici e le origini dei Trentini, in AAE, XXII, 1892 p. 110 486 Ibid. p. 114 487 Ibid. p. 121 488 Moschen, vicino all’ambiente patavino di Pigorini e Canestrini, nel 1892 mostra ancora di condividere lo stereotipo dei Germani “dolicocefali, biondi, con gli occhi azzurri e la carnagione lattea” e non a caso il riferimento continuo presente nei suoi articoli è al mondo tedesco. Non si era, però, ancora consumata la rottura definitiva tra Mantegazza e Sergi, vero autore dell’attacco al “mito dei Reihengräber”. Allo stesso tempo Moschen attribuiva con certezza agli antichi abitanti della penisola crani dolicocefali così come fece Sergi e, infatti, l’anno seguente egli fu tra i soci fondatori della Società Romana di Antropologia.

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Virchow, dal Ranke e dagli altri studiosi tedeschi nell’affermare il mito degli uomini del

nord quando al contempo dovettero constatare che le popolazioni tedesca e austriaca

attuali non rispondevano affatto alle caratteristiche credute peculiari degli antichi

Germani. L’antropologo italiano pertanto si chiedeva con quale diritto, se anche gli

attuali tedeschi - che pure parlavano una lingua germanica - mostravano di condividere

ben poco con i presunti illustri progenitori, la popolazione trentina italiana per lingua e

cultura potesse essere considerata discendente di quegli stessi popoli. Infatti, dal

momento che essa si mostrava per gli 8/10 brachicefala e per quasi 3/4 appartenente al

tipo bruno puro (caratterizzato da occhi neri, capelli bruni, pelle sia bruna che chiara) o

bruno misto (caratterizzato da capelli bruni o neri e occhi chiari) sebbene con una

prevalenza anomala e peculiare del colore degli occhi grigio, non era possibile non

notare quanto essa risultasse dissimile dal tipo medio germanico. Sulla base di tali dati

egli liquidava la questione relativa alle immigrazioni altomedievali - cui pure aveva

dedicato nelle pagine immediatamente precedenti una lunga discussione – nel modo

seguente:

nel Trentino quindi il numero degli invasori di stirpe germanica dovette essere assai esiguo e l’elemento straniero importato fu interamente, o quasi, assorbito e soffocato dall’elemento indigeno.489

Se si fa riferimento a quanto precedentemente detto sulla classificazione del Sergi

potrebbe sembrare che, sulla base dei dati forniti dal Moschen, l’antropologo siciliano

sarebbe dovuto giungere alla conclusione opposta, a sostenere cioè la germanicità degli

abitanti del Trentino. Le riflessioni fatte dal fondatore della Società Romana in

proposito vennero esposte nella monografia Italia, pubblicata nel 1919 quindi a guerra

mondiale ormai conclusa. Ivi, riferendo anche del tentativo dello stesso Moschen di

applicare il metodo Sergi al caso in esame490, egli sosteneva l’esistenza di un’unica area

antropologica estesa dal Veneto al Trentino e a tutta la valle del Po, quella stessa “super

– regione” dove effettivamente sarebbe prevalsa la specie eurasica (brachicefala).

Tuttavia Giuseppe Sergi riteneva che gli antenati delle popolazioni odierne si fossero

stanziati nella zona già a partire dal neoltico recente ben prima, dunque,

dell’altomedioevo. Di fatto si sarebbe potuto far rientrare tali immigrati nel ramo celtico

489 MOSCHEN L., I caratteri fisici e le origini dei Trentini, cit. p. 132 490 SERGI G., Italia, cit. p. 122

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della specie, così come egli riteneva di aver già provato a riguardo della valle Padana,

tanto più che “anche secondo i caratteri esterni nulla unisce i Trentini ai Tedeschi di

qualsiasi tipo”491. Sebbene sia ormai noto che solo le sottovarietà venivano distinte

dall’antropologo sulla base dei caratteri cromatologici, tale affermazione appare

decisamente eccessiva. Tuttavia il fatto che i “nuovi italiani” differissero dai “tedeschi

di qualsiasi tipo” è, ancora una volta, indicativo del modo in cui nel 1919 la gran parte

degli intellettuali italiani – e ancor più dei patrioti italiani –guardava agli abitanti delle

regioni fino a poco prima irredente. In essi andavano infatti riconosciuti quei “fratelli

d’Italia” che più degli altri avevano sopportato il giogo imposto dallo straniero

germanico, pertanto essi dovevano necessariamente essere radicalmente distinti e

intrinsecamente diversi dagli invasori antichi e recenti. Ciò poteva essere facilmente

sostenuto proprio grazie ai dati raccolti ed elaborati dal Moschen in base ai quali non

risultava in fondo molto difficile assimilare quei trentini in prevalenza bruni (sebbene

con una anomala frequenza di occhi grigi) al tipo celtico già ben descritto da Broca e al

quale Sergi, sulla base di un sentire filo – francese e anti – tedesco, aveva accordato il

proprio favore già nel 1895492.

L’anno successivo la pubblicazione dell’articolo sulle pagine dell’«Archivio per

l’Antropologia e l’Etniografia» Tappeiner, che non poteva ignorare le implicazioni di

tale studio in merito alla classificazione razziale degli abitanti del Trentino e del Tirolo,

tornò sulla questione dei Rezi (o Reti)493. Tale ripensamento aveva lo scopo di attribuire

a questo fantomatico popolo – che egli identificò con le più antiche popolazioni

autoctone dell’arco alpino – la responsabilità della forte brachicefalia riscontrata dagli

antropologi italiani. Infatti, attraverso concetti quali atavismo e ibridazione (concetto

che si è detto fu caro al Tappeiner), egli sostenne che la forte brachicefalia dei primitivi

abitanti di queste aree avrebbe provocato l’attuale tipologia cranica delle “teste corte”

trentine e persino la mesocefalia riscontrata nei toscani. Nel primo caso i caratteri

atavici dei Rezi si sarebbero attenuati grazie all’immigrazione di vari popoli germanici

così come aveva già avuto modo di sostenere in precedenza. Nel secondo caso, invece,

la iper – brachicefalia originaria avrebbe determinato una prevalenza di crani mesocefali

491 Ibid. p. 122 492 SERGI G., Le influenze celtiche e gli italici. Un problema antropologico, in RdA III, 1895 cit. 493 TAPPEINER F., Die Abstammung der Tiroler und Raeter auf anthropologischer Grundlage, Innsbruck, 1893

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grazie al contributo di Etruschi, Romani, ma anche di Ostrogoti e Longobardi

mescolatisi nel corso dei secoli sul territorio in esame. Quello che l’antropologo

austriaco escludeva esplicitamente era l’influsso nelle aree contese di Etruschi, Illirici e

Celti proprio perché una tale ammissione avrebbe finito per ricondurle nell’ambito

antropologico italiano assimilando le popolazioni ivi residenti a quelle che occupavano

la Pianura Padana e la Toscana. Era giocoforza allora affermare che sarebbero stati i

Rezi e i Longobardi a colonizzare la Toscana e non gli Etruschi, i Romani e i Celti a

insediarsi nelle regioni subalpine.

Sul finire del XIX secolo il dibattito era, dunque, in pieno svolgimento. In

questo contesto la volontà di portare un numero sempre maggiori di prove per confutare

le tesi dei colleghi “tedeschi”494 fece sì che gli studi italiani di antropologia trentina non

si arrestassero alle valutazioni tipologiche su base cromatologica e craniometrica. Nel

1893, anno in cui venne data alle stampe la seconda opera del Tappeiner che è stata

presa in esame, comparve sulle pagine del primo numero degli «Atti della Società

Romana di Antropologia» un articolo interamente dedicato allo studio della statura dei

Trentini. In tale articolo, firmato sempre dal Moschen, si voleva dimostrare come anche

per statura le popolazioni delle zone contese appartenessero naturalmente all’Italia e si

inserissero in maniera armoniosa nella serie delle regioni del nord495. Tuttavia lo scopo

politico del saggio non può non essere rilevato se si tiene conto della nota che viene

fatta corrispondere nelle prime righe alla parola “Trentino”. La regione, “terra italiana

per la sua posizione geografica e per la lingua e per la coltura dei suoi abitanti”496, ci

viene qui presentato come segue:

494 Da parte italiana venivano chiamati “tedeschi” anche gli antropologi austriaci e quelli originari dei territori dell’attuale provincia autonoma di Bolzano come il Tappeiner. Dunque l’appellativo ha la doppia valenza di rimandare tanto alla Confederazione Germanica quanto a una appartenenza linguistica. I principali antropologi tedeschi che si occuparono di Tirolo e Trentino furono, oltre al già citato Tappeiner, Holl, Schimmer, Todt, Weiser. 495 Si legge infatti: “risulta che (…) le condizioni della statura del Trentino sono intermedie a quelle che si osservano nel Veneto da una parte e nella Lombardia e nel Piemonte dall’altra, e differiscono da quelle constatate nel Tirolo per una frequenza più che doppia delle basse stature e una assai minore delle stature alte”. MOSCHEN L., La statura dei Trentini, in RdA, I, 1893 p. 80. Per stature alte l’autore intendeva quelle inferiori al 160 cm, nel range delle intermedie erano comprese le stature tra i 160 e i 169 cm. La statistica del Moschen si basava sulle misurazioni svolte tra i coscritti nell’anno 1890 già precedentemente elaborate dal prof. Toldt. [TOLDT, Die Körpergrösse der Tiroler und Vorarlberger, Mittheilungen der Anthropologischen Gesellschaft in Wien, XXI] 496 MOSCHEN L., Note di craniologia Trentina, in RdA, V, 1897 p. 5

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Il Trentino formò uno stato distinto sotto il dominio dei Vescovi di Trento dal 1027 al 1801; secolarizzato passò nel 1802 all’Austria, che lo tenne per circa tre anni, poi alla Baviera; nel 1810 fu annesso col nome di Dipartimento dell’Alto Adige al napoleonico regno d’Italia, e soltanto il 24 marzo 1816 il Trentino fu unito col Tirolo in una sola provincia e perdette nel linguaggio ufficiale austriaco il suo nome. Il Trentino va però in questi studi tenuto separato dal Tirolo, per la nazionalità diversa dei due paesi confinanti.497 (corsivo mio)

Dunque, con la scusa di difendere la scelta del proprio oggetto di studio, si inserisce del

tutto gratuitamente (l’autore non aveva, infatti, ritenuto di dover fare lo stesso negli

articoli pubblicati in precedenza) un affresco storico che mirava a divulgare

l’insensatezza dell’annessione di territori di nazionalità italiana all’Austria.

La polemica si fece ancora più viva sul finire del secolo. Nel 1897, anno in cui

ricopriva anche la carica di segretario della Società Romana, Moschen tornò sul tema

con una nota sulla craniologia trentina ove accusava apertamente Tappeiner e gli altri

antropologi “tedeschi”, di aver utilizzato un procedimento di normalizzazione statistica

dei dati raccolti che avrebbe portato a una sovrastima del numero dei dolicocefali. Tale

espediente avrebbe così permesso di avvicinare maggiormente le caratteristiche

tassonomiche della popolazione trentina a quella tirolese e al tipo di Reihengräber.

Attraverso l’applicazione del metodo morfologico del Sergi, l’antropologo italiano

giungeva, invece, a dimostrare che anche le “teste lunghe” della regione, già

ridimensionate nel numero, altro non sarebbero dovute essere che le eredità di una stirpe

qui definita ancora “camitica”, ma che non era altra da quella mediterranea descritta

tanto dettagliatamente dal presidente della Società Romana ai cui studi Moschen

rimandava esplicitamente498 [si veda la carta antropometrica del Trentino e del Tirolo

compilata da Moschen nell’appendice iconografica pag. 196].

497 MOSCHEN L., La statura dei Trentini, in RdA, I, 1893 p. 77 498 MOSCHEN L., Note di craniologia Trentina, cit. p. 19

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2. LE POPOLAZIONI ALLOFONE DELL’AREA ALPINA. I CIMBRI DEI SETTE

COMUNI VENETI E LE GENTI LADINE.

I Sette Comuni vicentini e i Tredici Comuni del veronese che conservano tuttora

una lingua locale particolare per la quale vengono comunemente denominati Cimbri

destarono l’interesse di storici, eruditi e antropologi almeno fin dalla metà del

Settecento499. Nel corso dell’Ottocento, con il fiorire delle nuove scienze dell’uomo, la

peculiarità di queste aree incuneate in un contesto piuttosto omogeneo attirarono

l’attenzione anche di alcuni antropologi. Al contrario di quanto accadde per l’attuale

Trentino – Alto Adige, nel caso dei popoli cosiddetti “Germanofoni” non si giunse mai,

neppure da parte italiana, a un netto rifiuto del fatto che i popoli germanici giunti in

Italia nel corso dell’alto medioevo vi avessero esercitato una forte influenza (anche

antropologica). Ciò è indicativo di quanto, nonostante le avvertenze espressa per

esempio da Sergi sulla non opportunità di sovrapporre lingua e biologia, l’appartenenza

linguistica venisse ancora considerata fortemente significativa. Il Moschen stesso

ricordava le due interpretazioni comunemente date alla persistenza di queste sacche

allofone. La prima, sostenuta da molti glottologi, attribuiva l’origine delle aree tedesche

di Veneto e Trentino a residui di quella che doveva essere un’area più vastamente

occupata da genti germaniche. Al contrario gli storici parevano essere giunti alla

conclusione che:

la gran maggioranza della popolazione rimase nel Veneto e nel Trentino sempre latina, salvo alcune terre dove in parte ancora oggidì sono in uso gli idioni germanici, non vennero mai meno così nel Trentino come nel Veneto la lingua, le costumanze, l’indole e le tradizioni italiche.500 (corsivo mio)

Era, dunque, considerato lecito per tali micro – aree considerare una perdita dei caratteri

principali dell’italianità. Restava da determinare per opera di quali popoli ciò fosse stato

possibile.

Sull’altipiano dei Sette Comuni e sull’area della Valsugana a questo limitrofa si

concentrò così oltre a quella italiana anche l’attenzione degli studiosi austriaci. 499 PEZZO Marco, Dei Cimbri Veronesi e Vicentini, s.n. Verona, 1763 del quale esiste anche un’edizione recente. 500 MOSCHEN L., I caratteri fisici e le origini dei Trentini, cit. p. 115

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Tappeiner, che non a caso già nel titolo di una sua opera accostava Tirolo e Altipiano

vicentino, credette di identificare in tale zona un’unica macro – area antropologica

occupata anticamente da Reto – Romani e successivamente soggetta a una forte

influenza di Alemanni e Longobardi501. La questione per gli antropologi italiani pareva,

invece, essere stata chiusa già con una nota a riguardo502 comparsa sul terzo numero

dell’ «Archivio» del Mantegazza, in un periodo in cui la scuola fiorentina era intenta a

rilevare le diversità antropologiche ed etnografiche sparse sul territorio italiano. La nota

consisteva semplicemente in un estratto dal «Journal of the Anthropological Institute»

ed era opera di uno studioso inglese, il dott. R. S. Charnock. In essa l’autore riferiva le

varie teorie proposte sull’origine dei Sette Comuni e identificava in quella proposta nel

1826 dal conte Benedetto Giovannelli (1776 - 1846)503 la tesi definitiva sull’argomento.

Secondo questa opinione le popolazioni dei Sette Comuni dovevano essersi stanziate in

quei luoghi prima della calata dei Longobardi, durante il regno di Teoderico (quindi

anteriormente al 526 d.C.). Ne sarebbero prova due passi coevi al presunto

insediamento, il primo tratto dal Panegirico di Ennodio504, il secondo dalle Variae di

Cassiodoro505, nei quali si sarebbe fatto cenno ai Germani accolti dal re goto e destinati

a popolare la Rezia allora scarsamente abitata506. Charnock proseguiva descrivendo in

chiave etnografica gli abitanti dell’Altipiano di Asiago partendo dal loro numero fino

alla loro caratterizzazione essenzialmente pastorale. Dal punto di vista antropologico

egli riferiva la notizia che in passato si fossero avuti “numerosi matrimoni misti tra le

due nazioni”, la germanica e l’italiana. Il retaggio della prima si manifesterebbe nei

“capelli biondi e nelle fattezze germaniche” che egli riferiva di aver osservato in una

parte della popolazione e che, curiosamente, si sarebbero preservati principalmente nelle

501 TAPPEINER F., Studien zur Anthropologie Tirols und der Sette Comni, s.n., Innsbruck, 1883 502 I Sette Comuni del Dott. R. S. Charnock. Estratto dal «Journal of the Anthropological Institute» (Aprile 1872, pag. 108) , in AAE, III, 1873 pp. 104 – 109. 503 GIOVANNELLI B., Dell’origine dei Sette e dei Tredici Comuni e d’altre popolazioni Alemanne abitanti fra l’Adige e la Brenta nel Trentino, nel Veronese e nel Vicentino, Monauni, Trento, 1826 ivi si legge: “sarà vero che l’origine di questa gente non può rifarsi né a’ Longobardi né a’ goti né a’ que’ Tedeschi che discesero in Italia cogli Ottoni e vittoriosi piantarono in essa i loro vessilli” pp. 17 seg. 504 Ivi si legge: “Quid quod a te Alemanniae generalitas intra Italiae terminos sine detrimento Romanae possessionis inclusa est cui eventi habere regem postquam meruit perdidisse”. 505 Si tratta di una lettera scritta per conto di Teoderico a Clodoveo nella quale si fa forse riferimento all’accoglienza entro i confini del regno goto accordata da Teoderico alle popolazioni germaniche vinte a Colonia dal re franco. CASSIODORO, Variae, II. 41 506 I Sette Comuni del Dott. R. S. Charnock. Estratto dal «Journal of the Anthropological Institute» (Aprile 1872, pag. 108) , cit. p. 105

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donne507. Una simile affermazione sembrerebbe quasi suggerire le possibilità di una

trasmissione biologica legata al genere. Tuttavia, nonostante questo rilievo sulla

persistenza di alcuni tratti nordici e nonostante la lunga trattazione sulla lingua Cimbra -

che sembra essere il vero motore dell’interesse dello studioso e che a suo dire parrebbe

avvicinare la parlata locale all’antico alemanno del XIII sec. - la conclusione finale

relativa all’appartenenza nazionale dei Cimbri dei Sette Comuni non è affatto scontata.

Dall’osservazione sul campo (non condotta con tecniche antropometriche), infatti, egli

deduce che “i due terzi della popolazione dei Comuni non sembrano essere di

germanica né di mista origine, ma sono puri italiani”508. Così il giudizio di uno studioso

straniero - che poteva essere più facilmente ritenuto super partes - finiva per avvalorare

l’appartenenza alla nazione italiana anche di questa isola germanofona. Forse proprio in

questo modo si spiega la pubblicazione sulle pagine dell’allora ancora unica rivista di

antropologia italiana di questa breve nota priva di ogni commento da parte della

direzione del periodico.

In seguito si occupò di questi “isolotti perduti nell’oceano della lingua

italiana”509 anche Rodolfo Livi il quale appurò che alla “differenza linguistica non ne

corrisponde tuttavia alcuna veramente apprezzabile nell’antropologia fisica”510. Pertanto

egli affermava che o gli antichi progenitori dei Comuni non differivano di molto dal

resto della popolazione veneta, oppure per lenta infiltrazione questa aveva modificato

radicalmente le caratteristiche tassonomiche degli antichi invasori. Da ciò si poteva

facilmente desumere una piena e legittima appartenenza dei Cimbri alla nazione

italiana. Essi rimasero, dunque, materia di studio per gli appassionati di storia delle

tradizioni locali, ma non costituirono mai un grave dilemma per gli antropologi fisici

italiani.

Più lungo e complesso fu il percorso degli studi biologici che interessarono i

Ladini. Il dibattito scientifico sulle comunità che parlavano la lingua romanza come

quelle delle valli trentine proseguì infatti fino a tempi recentissimi, sebbene all’epoca

venisse racchiuso nei due discorsi contrapposti proposti dagli studiosi appartenenti ai

diversi “schieramenti” che si contendevano le regioni cisalpine. Ancora una volta Franz

507 Ibid. p. 106 508 I Sette Comuni del Dott. R. S. Charnock, cit. p. 106 509 LIVI R., La distribuzione geografica dei caratteri antropologici in Italia, in RIdS, II, IV, 1898 p. 419 510 Ibid. p. 419

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Tappeiner si sforzò di ricercare una logica spiegazione che avvalorasse l’influenza

austriaca, mentre Lamberto Moschen si premurò di esprimere il proprio dissenso.

L’antropologo tedesco sosteneva che i Ladini fossero Rezi scevri da ogni influenza

romana o con influenze infinitesimali, i quali avrebbero però adottato la lingua latina

che ancora oggi parlerebbero. L’inconsistenza dell’ipotesi del Tappeiner venne

sottolineata con ironia dal Moschen che la considera fantasiosa anche nella sua parte

puramente etnologica511. Come spiegare, infatti, l’assunzione di una lingua straniera da

parte di un’intera popolazione senza postulare contatti sistematici e continuativi durati

per un lasso di tempo abbastanza lungo? Secondo Moschen era da ritenersi impossibile

che i Rezi fossero stati esenti da forti legami con i territori circostanti non solo in età

romana, ma anche nel millennio precedente. Tale ipotesi era confortata dai reperti

neolitici che sembravano mettere in luce l’estensione della cultura materiale italica

diffusasi in tutto l’arco alpino già alla fine dell’età neolitica512.

Nonostante le accorte annotazioni che andavano a rilevare come l’idea che

l’isolamento di intere popolazioni fosse rimasto pressoché intatto lungo i secoli fino

all’età moderna avesse dell’incredibile, le teorie sull’esistenza di un’antichissima razza

europea conservatasi pura nelle valli alpine raccolsero nel tempo un ampio consenso tra

gli studiosi. Così l’idea che i Ladini fossero i rappresentanti più autentici dell’Homo

Alpinus circolò ancora a lungo come un discorso autonomo513. In particolare, ancora

ben oltre la metà del secolo scorso e l’avvento dei moderni studi di genetica, la supposta

inaccessibilità dei passi montuosi pareva dare ragione ai sostenitori dell’esistenza di un

patrimonio genetico specifico di tali popolazioni attraverso lo studio del quale si

sarebbero potute svelare le caratteristiche degli antichi popoli immigrati in Europa

dall’oriente. Solo uno studio condotto nel 2008 sul genoma delle popolazioni in

questione514 ha stabilito che l’isolamento geografico dei Ladini avrebbe sì contribuito ad

accentuare determinate caratteristiche senza però che ciò annullasse le differenze interne 511 MOSCHEN L., I caratteri fisici e le origini dei Trentini, cit. pp. 117 seg. 512 MOSCHEN L., I caratteri fisici e le origini dei Trentini, cit. pp. 117 seg. 513 Un esempio della naturalità attribuita all’ipotesi dell’esistenza di tale razza si ha in quanto scriveva nel 1908 Vincenzo Giuffrida – Ruggeri: “la forte brachicefalia è propria delle alte montagne (…): si può dire quasi che come vi è una flora alpina vi è un uomo alpino , ciò che del resto non è una novità”. GIUFFRIDA - RUGGERI V., Contributo all’antropologia fisica delle aree dinariche e danubiane e dell’Asia anteriore, in AAE, XXXVIII, 1908 cit. p. 156. Il ritratto del tipo alpino compare anche nel testo di Del Boca del 1961; si veda appendice iconografica pag. 197. 514 THOMAS M. G. et al., New genetic evidence supports isolation and drift in the Ladin communities of the South Tyrolean Alps but not an ancient origin in the Middle East, in «European Journal of Human Genetics», 16, 2008 pp. 124 - 134

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ai gruppi che rimarrebbero invece abbondanti. Alla luce delle nuove scoperte i caratteri

che si ritrovano tra i Ladini risultano, invece, del tutto in linea con quelli delle

popolazioni confinanti e con quella europea nel suo insieme cosicché qualunque

particolarità genetica riscontrabile qui e ritenuta tipica delle popolazioni mediorientali515

sarebbe da attribuire semplicemente a una mutazione avvenuta nel corso dei secoli in

entrambi i territori, ma senza legami biologici speciali tra i due gruppi.

3. GERMANI O MEDITERRANEI? I GOTI NELL’ILLIRICUM

L’Homo Alpinus era una razza accreditata anche presso alcuni antropologi

italiani. Nel 1908 Vincenzo Giuffrida – Ruggeri, allora direttore dell’istituto

antropologico della regia università di Napoli, vi fece ricorso per spiegare alcune

anomalie in un gruppo di 38 crani conservati al museo di Zagabria. Essi provenivano da

una necropoli scavata dal prof. Brunsmid nel 1902, situata a Jakovo presso Semlino e

datata al IV secolo d. C. Lo scopritore, pur dubitando dell’attribuzione etnica precisa,

non ebbe dubbi nel classificare l’area cimiteriale come “germanica”516. Alla fine

l’identità degli inumati venne ristretta “ai Gepidi o ai Goti”. Tuttavia il Giuffrida –

Ruggeri riconosceva in essi un gruppo antropologicamente misto, composto da ben 21

crani brachicefali e da 17 dolico - mesocefali. Per spiegare la varietà tipologica

riscontrata egli ricorreva all’ipotesi che i gruppi di “Germani avevano trascinato con

loro verso sud”517 dei gruppi allogeni, fatto che pareva confortato anche dal genere

prevalentemente maschile dei resti ritenuti estranei al ceppo germanico518. Queste

ultime affermazioni erano in linea con le teorizzazioni del tempo, più strano può

apparire, invece, il fatto che uno dei discepoli più illustri del Sergi si mostrasse, come

avveniva in queste pagine, tranquillamente risoluto nel tracciare una descrizione dei

Germani esplicitamente fondata sul Reihengräbertypus. Questa presa di posizione, così

515 Il riferimento alle popolazioni mediorientali è un richiamo esplicito alle ipotesi sulla supposta antichità del genoma ladino che, secondo alcuni, avrebbe dovuto mantenersi in qualche modo più affine a quelli dei primitivi luoghi di emigrazione. Secondo altri, invece, le popolazioni alpine sarebbero immigrate dal Medioriente in Europa in epoche relativamente tarde e avrebbero importato, quindi, una parte del genoma di quelle popolazioni. 516 GIUFFRIDA - RUGGERI V., Contributo all’antropologia fisica delle aree dinariche cit. pp. 127 - 180 517 Ibid. p. 129 518 L’idea inespressa doveva essere quella secondo cui ai gruppi germanici si sarebbero uniti prevalentemente guerrieri provenienti da altre etnie e magari anche i fuoriusciti di altri eserciti sconfitti.

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come la pubblicazione sulle pagine dell’«Archivio per l’Antropologia e l’Etnologia»,

porta però più semplicemente a ricondurre l’articolo in questione all’interno di un

periodo di forte dissidio tra maestro e allievo di cui riferisce anche Sandra Puccini519.

Non a caso in esso il Giuffrida – Ruggeri (che qui non citava mai esplicitamente il

capofila della Società Romana se non in una nota del tutto marginale) si diceva convinto

di aver provato che non tutti i gruppi di invasori che percorsero l’Europa in età storica

provenienti dall’Asia fossero stati brachicefali. Egli, al contrario, pur ammettendo che il

tipo emerso dalle sepolture a file non fosse altro se non il tipo mediterraneo trapiantato a

nord, si mostrava convinto che gli antichi Germani e anche alcuni popoli Slavi fossero

stati dolico – mesocefali. In un simile quadro i resti brachicefali rinvenuti nelle fosse di

Jakovo dovevano essere - a suo dire - appartenuti a popoli provenienti dalla Carnia ove

risiedevano i Celti o ad altri popoli alpini. Gli Alpini secondo lo studioso si sarebbero

contraddistinti per una faccia corta molto cameconca e molto leptorrina e per la capacità

cranica più elevata (con l’eccezione dei crani femminili) rispetto ai popoli nordici520.

Dopo quest’ultima affermazione l’autore si affrettava però a rilevare che il maggior

volume dei teschi alpini non doveva essere inteso come indizio di superiorità poiché

poteva essere semplicemente dovuta a una statura più elevata. In una sola frase

troviamo così quello che potrebbe sembrare un elemento di grande modernità, ossia

l’ammissione dell’esistenza di una correlazione tra altezza e capacità cranica, e una

difesa implicita della tradizionale idea della superiorità dei dolicocefali, idea

sviluppatasi soprattutto a partire dalla diffusione del paradigma pangermanico.

Sempre in polemica sotterranea con il Sergi521, Giuffrida – Ruggeri contesta che

le forme ellissoidali, ovoidali e pentagonali fossero proprie dei soli Mediterranei, e ne

attribuiva alcune anche agli elementi eurasici sulla base dell’occipite che negli alpini

cadrebbe a picco. Di fatto si può rilevare che per il direttore dell’istituto antropologico

napoletano i termini “alpino” ed “eurasico” risultavano equivalenti e interscambiabili.

Ciò chiaramente non avveniva nel caso del Sergi dal quale tuttavia è desunta la

nomenclatura antropologica di base che mantiene anche nel caso in esame il dualismo

eurasici – eurafricani, sebbene nel primo gruppo pare dovessero essere fatti rientrare

519 PUCCINI S., L’antropologia a Roma, cit. 520 GIUFFRIDA - RUGGERI V., Contributo all’antropologia fisica delle aree dinariche, cit. p. 129 521 Egli, a proposito della propria diversa interpretazione dei crani eurasici, affermava infatti: “Ciò sembrerà strano per le idee in corso in Italia (…)”. Ibid. p. 140

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solamente i Celti e l’Homo Alpinus, che l’autore vorrebbe ben più diffuso rispetto al

ristretto territorio montano che separa la Penisola italiana dal resto d’Europa.

Nella necropoli studiata i Germani, nel caso specifico i Goti / Gepidi, si sarebbero

distinti almeno parzialmente dagli inumati appartenenti ad altre etnie anche per un’altra

caratteristica; l’autore infatti avrebbe notato

un cranio incredibilmente deformato, a pan di zucchero, e poi gradi minori di deformazione sino ad aversi soltanto la fronte appiattita e l’occipite intatto (…). Mi è risultato sempre che si trattava del tipo di Reihengräber: onde si dedurrebbe che gli Alpini non praticassero la deformazione cranica.522 (corsivo mio)

Tali deformazioni sarebbero state determinate in circa un quarto dei crani dolico –

mesocefali.

Giuffrida – Ruggeri, dall’analisi di vari resti provenienti da necropoli dell’area

corrispondente all’antico Illuricum, giunse alla fine ad affermare che gli antichi Illiri e i

Veneti erano dolicocefali e anche gli Slavi del Sud dovevano essere anticamente dolico

– mesocefali “proprio come gran parte dei Germani, e una metà circa dei Gepidi o

Goti”523. Secondo quanto si può ricavare dall’insieme dell’articolo la mescolanza di

questi ultimi doveva essere causata dall’assimilazione all’interno di un unico popolo di

elementi allogeni, mentre la schiatta originaria doveva essere rappresentata dagli

elementi che mantenevano i caratteri germanici riconosciuti dall’antropologo in 17 dei

crani studiati. Quindi si ricava un quadro finale che tratteggia i Goti / Gepidi autentici

come dolicocefali, i quali però praticavano abbastanza frequentemente la deformazione

cranica. Essi non risultavano così troppo differenti antropologicamente dal fondo

mediterraneo che avrebbe caratterizzato fin dall’antichità le regioni balcaniche, ma

anche la Penisola italiana prima dell’avvento dell’immigrazione celtica neo territori del

nord. Allo stesso tempo le conclusioni a riguardo dei popoli Slavi avvicinavano il

Giuffrida – Ruggeri al Anatole Bogdanow il quale voleva tale gruppo dolicocefalo e

ariano524.

522 Ibid. p. 131 523 Ibid. p. 133. Giuffrida – Ruggeri definisce gli Slavi del Sud “mediterranei” per il tipo cranico e la posizione geografica in cui si insediarono, non per i caratteri esterni che ammette non possono essere rilevati attraverso la craniometria. 524 Qui l’aggettivo conserva evidentemente appieno la sua valenza elitaria e nulla ha a che spartire con la classificazione antropologica di Giuseppe Sergi. Nel 1906 il prof. Anatole Bogdanow nel corso di una

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Dall’indagine di materiale scheletrico proveniente dall’Ungheria l’antropologo

italiano giunse anche alla conclusione che altrettanto dolicocefali dovevano essere stati

Avari e Ungari. Tale conclusione gli permette di rispondere in maniera possibilista alle

sollecitazioni che gli giungevano da un pubblicista di Zagabria, Cherubino Segvic.

Questi riteneva che i Croati venissero erroneamente considerati di origine slava. Nella

sua lettera525, infatti, egli attingeva a svariate fonti antiche – dalla tavola Peutingeriana a

Procopio di Cesarea, da Paolo Diacono alle lettere di papa Giovanni X al re croato

Tamislao (X sec.) - al fine di dimostrare come i Croati fossero un popolo barbarico di

origine germanica assai simile per cultura a Longobardi e Avari. I Croati sarebbero a

suo dire appartenuti a un ceppo propriamente “avarico”526 che avrebbe costituito l’élite

guerriera che nel medioevo avrebbe dominato sugli Slavi dei Balcani527. L’idea della

migrazione di gruppi di guerrieri che, una volta stanziatisi in determinati territori, finiva

per costituire la classe dominante sulla popolazione precedentemente insediata nella

stessa area si accorda in tutto con quanto sostenuto dal Gumplowicz in un articolo del

1902 sulle origini di Serbi e Croati528.

L’ipotesi di un’origine germanica dei Croati poteva forse trovare conferma nella

predominanza dei crani lunghi riscontrata nei resti provenienti dai cimiteri croati

medievali. Essa avrebbe potuto rispecchiare la dolicocefalia riscontrata nei crani degli

Avari ritrovati in territorio ungherese, ma avrebbe anche potuto essere diretta

conseguenza della dolicocefalia slava che Giuffrida – Ruggeri avrebbe voluto altrettanto

confermata dalle proprie indagini. Ancora una volta, dunque, il ricorso al dualismo

antropologico non pareva essere in grado di fornire risposte esaurienti ai problemi delle

nazionalità emergenti.

La questione era qui però ulteriormente complicata dalla disomogeneità interna

ai gruppi etnici contemporanei della regione dei Balcani (ma, secondo la maggior parte

riunione del Comitato Internazionale di Antropologia e Archeologia Preistorica (cui presenziava lo stesso Giuffrida – Ruggeri) venne nominato presidente di una commissione internazionale della quale fece parte anche Giuseppe Sergi. Tale commissione aveva lo scopo di proporre una unificazione dei metodi in uso in antropometria per pervenire a una omologazione e un più vasto utilizzo dei dati raccolti dagli antropologi dei singoli paesi. Si veda a questo proposito la relazione sull’ Accordo Internazionale per l’unificazione delle misure craniometriche e cefalometriche riportata in RdA, XIII, 1907, pp. 373 - 387 525 La lettera in questione è pubblicata sulle pagine dell’«Archivio per l’Antropologia e l’Etnologia» in appendice al citato articolo del Giuffrida – Ruggeri. 526 L’aggettivo è dello stesso Segvic 527 SEGVIC C., Lettera a Giuffrida – Ruggeri, in AAE, XXXVIII, 1908 pp. 175 - 180 528 GUMPLOWICZ, Le origini dei Serbi e dei Croati, in RIdS, VI, IV, 1902 pp. 402 - 414

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degli antropologi anche di tutte le altre regioni del continente) rilevata anche dal

Gumplowicz il quale notava:

antropologicamente parlando ognuna di queste razze è un miscuglio di elementi eterogenei: lo sappiamo dalla storia, Traci, Il lirici, Scurdisci, Slavi, Avari, Rumeni, Goti contribuirono al formarsi di queste nazionalità [quella serba e quella croata]. (…) due “razze” stanno a fronte, eppure nelle loro vene scorre lo stesso sangue, quantunque variamente mescolato.529

Sebbene il sociologo dell’università di Graz cadesse nel consueto fraintendimento di

ritenere interscambiabili i termini “razza” e “nazione”, egli aveva il merito di esplicitare

che, almeno nel caso dei Balcani, a combattersi erano soprattutto interessi contrapposti.

Essi erano incarnati in due gruppi etnici i quali secondo Gumplowicz non erano tuttavia

biologicamente e culturalmente del tutto estranei tra loro.

La lettera inviata a Giuffrida – Ruggeri si inseriva in un contesto sociale e

politico in pieno fermento. Infatti la diffusione dell’istruzione, il potenziamento della

burocrazia e l’estensione del diritto di voto avevano prodotto nell’area balcanica grandi

aspirazioni e un nuovo protagonismo delle diverse componenti della società530. Allo

stesso tempo, però, “il risveglio slavo che indubbiamente metteva in discussione

l’egemonia istro – italiana, fu identificato dai liberal – nazionali come un ostacolo

alimentato artificialmente dal Governo di Vienna per “schiacciare l’elemento

italiano””531. In un simile clima le aspirazioni delle diverse componenti etniche a

diversificarsi tra loro e a essere ammesse tra le razze superiori dovevano manifestarsi

con forza crescente. Così la presunta scoperta della dolicocefalia croata se da un lato era

efficace a legittimare una presa di distanza dei Croati dai popoli slavi, dall’altra era utile

all’accreditamento presso l’Austria poiché li avvicinava al mondo ariano. Tale idea

poteva risultare allo stesso tempo anche funzionale alla volontà della componente

italiana di contenere le pretese di un panslavismo sempre più incalzante.

Così come accadeva in Trentino, anche nella zona di Trieste l’associazionismo

rivestì un ruolo importante nella promozione della ricerca antropologica. Le istanze

locali trovarono un referente privilegiato nell’assistente onorario del prof. Sergi, il dott.

529 Ibid. p. 414. 530 D’ALESSIO Giovanni, Elites nazionali e divisione etnica a Pisino, in «Quaderni storici» 94 fasc. 1, 1997 pp. 155 - 182 531 Ibid. pp. 155 - 182

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Ugo Vram. Questi eseguì numerose indagini su crani provenienti dai territori compresi

tra l’attuale Friuli e il Montenegro, alcune delle quali condotte su diretto incarico della

«Società Adriatica di Scienze naturali»532. Tuttavia se nei numerosi articoli che

seguirono egli non si sbilanciò mai riguardo l’attribuzione etnica dei popoli ivi

stanziatesi, ancor meno affrontò di petto la questione ariana – come invece accadeva per

i colleghi che si erano occupati del Trentino. Ciò tuttavia non significa affatto che nei

territori orientali non rivestisse alcuna importanza la ricerca di una risposta ai quesiti

relativi all’identità degli inumati. Come ci testimonia lo stesso Vram, infatti,

Chi viaggia nelle regioni che politicamente formano il litorale austriaco e paesi circonvicini sentirà a proposito di scavi molte volte menzionare cranii romani e mi è occorso spesso di sentirmi chiedere, mentre mi si presentava un cranio: è un romano questo? Quasi che i romani antichi avessero dei caratteri morfologici che li distinguessero dagli altri.533

L’antropologo, invece, metteva in guardia dalla tendenza in atto di voler attribuire per

forza nomi di popoli antichi ai resti ossei poiché, come sostenuto anche da Sergi, con

l’analisi craniometrica si poteva risalire solamente alla specie di appartenenza dei

defunti, non alla compagine socio – politica di cui questi avrebbero fatto parte da vivi.

Egli seguiva il maestro anche nelle proprie conclusioni ove riaffermava la

preponderanza mantenutasi fino all’età contemporanea degli invasori eurasici nelle

regioni del Centro – Europa534.

Le relazioni del Vram sono state giudicate ancora di recente utili a fornire

all’antropologia dati su cui riflettere per merito della ricchezza e della precisione dei

dati raccolti535. Esse però contengono generalmente solo scarsi commenti che esulino

dalla semplice interpretazione della morfologia ossea. Tuttavia in uno degli studi

dedicati ai popoli Slavi delle zone contese e di quelle limitrofe si trova un’affermazione

che certo avrebbe potuto tranquillizzare almeno in parte le élite italiane Triestine

rispetto alla fondatezza antropologica delle istanze panslaviste. Si legge infatti che:

532 VRAM U., Su alcuni caratteri antropologici dei Cicci, in « Bollettino della Società Adriatica di Scienze Naturali in Trieste », XXI, 1903, pp. 203 - 223 533 VRAM U., Crani antichi e medievali di Aquileia, in RdA, VI, 1899, pp. 15 – 37 cit. p. 32 534 Ibid., pp. 15 – 37 535 BRASILI P., VESCHI S., Osservazioni antropologiche su reperti scheletrici altomedievali rinvenuti a Bologna (San Petronio, X – XI sec.), in «Rivista di Antropologia» 76, 1998 pp. 183 - 197

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Premesso ciò [che la popolazione delle regioni in questione è antropologicamente molto varia] è facile a comprendere che il popolo slavo altro non è che un’unità storica caratterizzata dalla lingua slava e dai dialetti che concorrono a formarla, parlati da questo popolo. Antropologicamente ess’è composto di diversi elementi, e perciò questo popolo non rappresenta esclusivamente il ramo protoslavodella specie Euro-asiatica, ma contiene semplicemente numerosi elementi di questo ramo.536 (corsivo mio)

Dunque per la caratterizzazione degli Slavi autentici Vram seguiva ancora una volta il

maestro, mentre non pareva preoccuparsi affatto del ruolo che la colonizzazione

germanica avrebbe avuto nelle aree in questione. Ciò probabilmente perché tale

componente della specie contraddistinta dalla brachicefalia era ritenuta una parte

minoritaria dell’elemento eurasico presente nei Balcani rispetto a quella salva creduta,

invece, preponderante.

L’autorità del Sergi influenzò a fondo il Vram anche quando, spinto dalla

curiosità, chiese di esaminare un cranio fortemente deformato rinvenuto nella grotta di

Tomiz e conservato nel Museo Civico di storia Naturale di Trieste537. Nella relazione

che venne pubblicata negli «Atti della Società Romana di Antropologia»538 egli

concludeva che probabilmente tali crani dovevano essere appartenuti a invasori

provenienti dalle regioni del Caucaso (ove tale pratica era considerata diffusa) giunti in

Europa nel corso del medioevo. Ancora una volta egli non si sbilanciava e non tentava

neppure una attribuzione etnica generale - al ceppo germanico piuttosto che a quello

slavo - tuttavia è evidente come una tale affermazione risultasse almeno in parte affine a

quelle del Giuffrida – Ruggeri. Secondo quest’ultimo, infatti, i crani deformati

sarebbero appartenuti all’elemento germanico immigrato nell’area balcanica nel

medioevo. Il direttore dell’istituto napoletano sembrava, però, propendere per

un’originaria dolicocefalia dei crani artificialmente modellati, mentre ciò veniva escluso

dal Vram che li attribuì, invece, a invasori eurasici brachicefali. Nonostante questa

differenza fondamentale entrambi finivano per concordare sul carattere allogeno di tale

pratica e la attribuivano, secondo una credenza allora piuttosto diffusa, ai popoli barbari.

L’attenzione alle “province orientali” in Italia non cessò all’indomani del primo

conflitto mondiale - quando risultò chiaro che il tracciato del nuovo confine 536 VRAM U., Secondo contributo alla craniologia dei popoli slavi, in RdA, VI, 1899, pp. 111 – 116 cit. p. 112 537 SERGI G., Sopra un cranio deformato, in «Atti dell’Accademia Medica di Roma», V, 1890 538 VRAM U., Nota Sopra un cranio deformato, in RdA, III, 1896, pp. 173 – 175

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comprendeva, ad eccezione di Fiume, i principali centri a maggioranza italiana.

Sintomatico di un mutamento avvenuto nella percezione generale dei territori istriani è

un articolo pubblicato nel 1920 che proponeva un’indagine sulla composizione etnica

del territorio circostante la città di Pola539. In esso il dott. Bernardo Schiavuzzi cercava

di risalire all’origine delle principali famiglie ivi residenti con il fine più o meno

dichiarato di riaffermare la storica italianità della popolazione e, dunque, di sottolineare

la legittimità dei trattati e del principio di autodeterminazione contenuto nei Quattordici

Punti proposti dal presidente americano Wilson. Grazie alle ricerche da lui stesso svolte

negli archivi storici della città, questi giunse quindi a individuare una assoluta

preminenza delle famiglie italiane (1129) sulle germaniche (54), le slave (43), le

albanesi (2), le greche (1)540. Anche se non è ben chiaro come venne condotta l’indagine

è assai probabile che essa si fosse basata principalmente sulla tipologia dei nomi

famigliari, senza tenere in alcun conto evidentemente la possibilità che i documenti

conservati in archivio potessero non essere privi di effetti di selezione dovuti alla

rilevanza sociale dei gruppi parentali nominati. Bisogna evidenziare anche che l’arco

temporale scelto per svolgere l’indagine archivistica venne ristretto ai secoli IX – XV e

certamente ciò deve aver notevolmente influito sui risultati ottenuti. Questa opzione

mette in luce, però, anche un altro aspetto della questione etnica che si voleva dirimere:

infatti l’arco di tempo ritenuto in qualche modo “critico” per il popolamento della

Polesana veniva individuato nel periodo medioevale. In tale epoca si collocavano le

invasioni germaniche e slave che avrebbero interessato un territorio etichettato in

precedenza come originariamente “romano”. Antropologicamente ciò poneva, dunque,

il problema della persistenza o meno dell’elemento più antico, analogamente a quanto

già visto accadere negli studi sul Trentino e sull’invasione Longobarda dell’Italia. La

conclusione dell’autore a questo punto pare ricalcare quelle già discusse per i due casi

appena citati:

[dei 27 crani di epoca medievale esaminati] 12 hanno il tipo dolicocefalo, 9 il mesocefalo e 6 il brachicefalo. Ne viene quindi che

539 SCHIAVUZZI B., La popolazione della Polesana nel Medioevo, in RdA, XXV, 1920 pp. 429 - 433 540 Dalla tabella che accompagna l’articolo si ottengono dei dati lievemente diversi da quelli addottati nella sintesi; sembrerebbe, infatti, che in realtà le famiglie germaniche fossero 55, mentre le slave 63. Tale tabella aveva però solo lo scopo di mostrare come in tutti i centri della penisola di Pola fosse indiscussa la predominanza delle famiglie italiane.

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21, cioè il 77,4 %, appartengono alla stirpe mediterranea (SERGI)541 e 2, cioè il 22,6 %, alla stirpe aria od eurasica. [sebbene il materiale esaminato sia numericamente scarso] la grande proporzione dei dolicomorfi della stirpe mediterranea (…) indica di certo che gli elementi slavi o germanici furono in quelle epoche molto scarsi nell’agro, tanto più che i brachimorfi potrebbero benissimo derivare dagli Arii italiani.542 (corsivo mio)

L’italianità della Penisola di Pola, con la vistosa eccezione della città di Fiume che non

rientra tra le 17 località prese in esame da Schiavuzzi, pareva perciò conclamata tanto

da un punto di vista antropologico quanto da un punto di vista culturale. L’autore si

premurava di ricordare, infatti, come fosse a tutti noto che l’influenza del popolo

italiano avesse lì mantenuto sempre alto il prestigio della nazione.

Nonostante questa attenzione più o meno continua ai territori orientali risvegliata

ancora nel 1920 dall’impresa dannunziana, sembra che la tematica etnico – nazionale

fosse maggiormente sentita nel Trentino. Ivi si manifestava soprattutto nella ferma

ostilità al pangermanesimo divenuta la bandiera delle associazioni irredentiste locali543.

Nella zona di Trieste “il senso di appartenenza alla nazione italiana era stato

notevolmente stimolato dagli eventi risorgimentali” sebbene dopo l’annessione del

Veneto la politica italiana dell’equilibrio avesse frustrato gran parte delle attese.

L’Austria tuttavia non vi aveva condotto una politica di germanizzazione mentre l’uso

dell’italiano – rimasta lingua ufficiale – era considerato segno di prestigio sociale544.

Anche dopo l’allargamento del suffragio le élite italiane continuarono a godere di un

sotterraneo sostegno austriaco e, dunque, l’ideologia pangermanica non assumeva quel

carattere di aggressione etnica nei confronti della componente italiana che ricopriva

altrove. Tale ruolo di antagonista nella percezione italiana veniva semmai ricoperto dal

movimento panslavo e dalle altre nazionalità che risiedevano nelle città istriane e che

ricercavano spazi e modi per sostituire gli italiani i quali ricoprivano ruoli sociali

generalmente più eminenti. Il Trentino, invece, era sottoposto alla duplice influenza

dell’Austria e della Confederazione Germanica e si trovava quindi a subire

maggiormente un tentativo di acculturazione da parte tedesca. Non stupisce perciò che

anche nelle pagine scritte dagli antropologi italiani che si occuparono di queste zone la 541 In maiuscolo nel testo 542 SCHIAVUZZI B., La popolazione della Polesana, cit. p. 430 543 GARBARI M., L’irredentismo nel Trentino, in LILL R, VALSECCHI F. a cura di, Il nazionalismo in Italia e in Germania, cit. pp. 307 - 346 544 D’ALESSIO G., Elites nazionali e divisione etnica, cit. pp. 155 – 182 cit. p. 158

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polemica contro l’indogermanesimo apparisse particolarmente accesa e aggressiva. La

difesa dell’appartenenza anche razziale delle comunità in questione alla nazione italiana

veniva, dunque, difesa senza curarsi troppo di cadere in contraddizioni più o meno

sottili, ma restando sempre attenti a sottolineare le insensatezze insite negli attacchi che

giungevano da parte tedesca.

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CONCLUSIONE

Nel presente lavoro si è cercato di affrontare un problema centrale tanto per la

ricerca medievistica quanto per la storia culturale del XIX e dell’inizio del XX secolo:

la nascita dello stereotipo ariano e il suo consolidamento all’interno del discorso storico

– politico sulle identità nazionali. Si è però deciso di affrontare tale tema da una

angolazione precisa, scegliendo di utilizzare come lente di ingrandimento la prospettiva

antropologica al fine di evidenziare le meccaniche interne al discorso sulla razza

germanica. Questa scelta è stata motivata dalla convinzione che tali meccaniche

abbiano, in parte almeno, determinato la persistenza nell’immaginario storiografico di

alcuni stereotipi relativi ai popoli barbari. Infatti, la tragedia della Seconda Guerra

Mondiale ha in parte portato a un riposizionamento del discorso sulla razza, ma dal

punto di vista degli studi sull’alto medioevo ciò, invece, ha tardato ad avvenire. Se

discutere di “razza germanica” nel discorso contemporaneo ha assunto, già all’indomani

del ’45, le caratteristiche del “politicamente scorretto”, nel discorso sulle migrazioni del

periodo tardo antico / primo medievale l’idea che esistessero dei caratteri propriamente

germanici, riscontrabili tanto nella produzione materiale quanto nelle caratteristiche

tassonomiche dei barbari, ha mantenuto intatta la propria autorità fino a tempi

decisamente più recenti. Nel campo dell’archeologia tale paradigma venne riaffermato

ancora una volta grazie all’autorità di Volken Bierbrauer545, nei cui lavori si assiste al

tentativo di fornire una spiegazione ancora fortemente etnicizzata del corredo funebre

posto nelle sepolture dell’età barbarica. Come è stato recentemente sottolineato anche

da Cristina La Rocca, un tale approccio alle fonti archeologiche, sebbene abbia portato

alla costruzione di interpretazioni decisamente favolistiche della storia personale degli

inumati, è ancora lento a sparire dall’orizzonte degli studiosi del settore546. Allo stesso

modo, nonostante le classificazioni razziali ottocentesche costituiscano ormai una sorta

di “preistoria” nel campo degli studi antropologici, anche in quest’ultimo settore si

riscontra un ricorso non infrequente a stereotipi che proprio in quelle tassonomie hanno

avuto origine. Ancora nel 1982 Eva Burger, nelle relazioni sulla necropoli di

545 BIERBRAUER V., Aspetti archeologici di Goti, Alemanni e Longobardi, in Magistra barbaritas. I barbari in Italia, a cura di ARCAMONE M. G., Libri Scheiwiller, Milano, 1984 546 LA ROCCA C., Antenati, distruttori, semplicemente inetti. I Longobardi nella storiografia Locale tra otto e novecento, in «Annales de historia antigua y moderna» 40, 2008

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Altenerding, si dilungava in una descrizione etnica del materiale antropologico emerso

dagli scavi ove classificava gli scheletri secondo le due tipologie contrapposte

“mediterranei” (caratterizzati da corporatura più gracile) e “Reihengräbertypus”547. Per

quel che riguarda gli studi condotti in Italia, un lavoro significativo venne condotto

dall’antropologo ungherese Istvàn Kiszely548; ancora alla fine degli anni Settanta egli si

disse convinto di aver individuato nelle necropoli italiane, sulla base della

classificazione proposta dal tedesco Hans Günter nel 1927!549, i resti scheletrici di tre

razze: quella nordica, quella mediterranea e quella alpina.

Tali prese di posizione sono dovute in gran parte alla tendenza manifestata dalle

discipline tecniche o specialistiche a rimanere legate ad alcune problematiche che

segnarono i primissimi sviluppi delle discipline stesse. Il forte attaccamento dimostrato

da questi specialismi nei confronti di temi ritenuti fondativi della propria disciplina (e

pertanto profondamente appartenenti all’identità originaria dei gruppi disciplinari)

risulta in qualche modo legato al fatto che tali ambiti di studio trassero in passato la

propria legittimazione proprio dalla necessità di fornire risposte a quesiti definiti

dall’esterno. Così il perdurare di letture fortemente etniche delle fonti alto medievali,

siano esse costituite da corredi funebri sia da materiale osteologico, rappresenta una

sorta di lunga durata interna alle discipline dell’approccio tradizionalmente riservato

alle testimonianze relative al periodo altomedievale. Tale modalità di relazione trovava

la propria legittimità nel clima storico – culturale in cui le diverse discipline hanno visto

la luce. Poiché esse nacquero e si svilupparono in un contesto, quello della formazione e

del consolidamento degli stati nazionali, in cui la priorità assoluta veniva accordata alle

ricerche relative all’etnicità tanto dei viventi quanto dei loro presunti antenati,

l’atteggiamento che venne naturalmente assunto allora nel rapportarsi con i reperti alto

medievali fu quello che impose la ricerca di dati utili a stabilire un’appartenenza etnica.

Il quesito essenziale era, dunque, quello stesso che dominava la scena socio – politica e

che finì per dominare l’orizzonte culturale europeo, cioè quello della effettiva

persistenza di elementi germanici nella popolazione degli stati - nazione appena

affermatesi. Seppur con differenti letture nei singoli contesti nazionali e locali fu, infatti,

547 FEHR H., Germanen und Romanen in Merowingerreich, De Gruyter, 2010 pp. 122 seg. 548 KISZELY Isvan, The anthropology of the Lombards, Oxford archaeological report – international series 61, Oxford, 1979 549 GÜNTER H. F. K., The racial elements of european history, s.n., London, 1927

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sempre il problema della continuità nazionale e del suo rapporto con i barbari

interpretato in chiave di legittimità a tracciare le linee di sviluppo degli specilismi, così

come per lungo tempo avvenne anche per il discorso storico.

In questo contesto trova spiegazione il successo transnazionale ottenuto dal

modello cosiddetto dei “Reihengräber”. Allo stesso tempo l’affermazione di tale

paradigma sembra, ancora oggi, aver imposto una sorta di direzione obbligata da

seguire per le discipline cosiddette ausiliarie ostacolando, invece, la nascita di nuovi

approcci alla materia studiata. Nel campo della ricerca antropologica si spiega così, per

la mancanza di nuovi criteri di attribuzione delle identità e non per il perdurare di

antiche classificazioni su base razziale, la tendenza troppo a lungo dimostrata - e in

parte ancora esistente - a stabilire un legame tra “ossa lunghe” e una possibile origine

germanica degli inumati. Reali perplessità sulla funzionalità di tale paradigma mi sono

state, infatti, dimostrate dagli stessi antropologi fisici nel corso di alcune discussioni che

ho avuto il privilegio di avere durante le fasi di elaborazione preliminare di questa tesi

di laurea. In particolare il dott. Carrara, direttore del museo di antropologia

dell’Università di Padova, nel corso delle analisi antropologiche condotte sui resti

scheletrici della necropoli longobarda di Dueville (Vicenza) ha potuto riscontrare la non

significativa variazione della statura degli inumati in un arco di tempo sufficientemente

lungo da poter escludere ogni tradizionale ipotesi di “segregazione etnica” degli

invasori germanici rispetto alla popolazione locale. Tale constatazione di fatto sembra

postulare l’impossibilità di ogni attribuzione etnica su base antropometrica dei singoli

scheletri e, al contempo, postulare l’esistenza di una solo popolazione locale (senza

distinzioni tra invasori e invasi), antropologicamente piuttosto omogenea al proprio

interno550. Nonostante ciò le ambiguità nel discorso antropologico non sembrano essere

del tutto svanite se permane comunque l’idea di dover indagare la statura allo scopo di

affermare o respingere l’esistenza di differenze etniche.

Da quanto è emerso dall’indagine sulla nascita e gli sviluppi dell’antropologia

nel nostro paese si nota chiaramente, dunque, come a condizionare fortemente

550 Colgo l’occasione per ringraziare il dott. Carrara per la disponibilità dimostrata nel discutere con me i risultati di alcune indagini ancora in corso e per avermi fornito copia delle relazioni da lui stese sulla necropoli di Dueville tuttora non pubblicate. Ringrazio anche il prof. Manzi e il prof. Destro – Bissol per la gentilezza e la disponibilità che mi hanno dimostrato durante la mia visita all’Istituto di antropologia dell’università La Sapienza.

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l’approccio antropologico alle fonti siano state le istanze politiche contingenti551.

Attraverso l’analisi delle classificazioni proposte nel nostro Paese e la comparazione

con quelli che erano gli scenari proposti a livello europeo si sono potute riscontrare,

però, anche due opposte tendenze interpretative, nate entrambe dal confronto con gli

stereotipi razziali elaborati principalmente in ambito tedesco. Nei confronti del noto

paradigma dei Reihengräber la ricerca italiana si schierò, infatti, su due posizioni

precise. Mettendo in luce tali posizioni si è potuto così confermare l’esistenza di due

veri e propri idiomi culturali, uno filo – ariano e uno che potremmo ora definire per

contrasto “panmediterraneo” o “indomediterraneo”. Entrambi rivendicarono tra i due

secoli il predominio nella costruzione di un passato nobile per la nazione. Tuttavia,

sebbene la diffusione e l’affermazione di un sentimento mediterraneo sia già stata

evidenziata in passato, manca ancora oggi uno studio approfondito su tale tematica552.

Pertanto, mediante l’esposizione delle teorie di uno studioso del livello di Giuseppe

Sergi, si è cercato di delineare uno dei canali di trasmissione privilegiati di tale discorso.

Se è innegabile che esso rappresentasse un ulteriore elemento di lunga durata nel

dibattito nazionale italiano alla luce di quanto emerso è, però, anche possibile sostenere

che attraverso le ricerche della Scuola Antropologica Romana esso ricevette una spinta

nuova. La patina scientifica fornita dalla nuova scienza contribuì, infatti, a “svecchiare”

il mito mediterraneo ponendolo contemporaneamente allo stesso livello della ben più

diffusa mitologia ariana. Pertanto la lunga digressione dedicata a Giuseppe Sergi si

giustifica da un lato per la volontà - da lui più volte espressa - di stabilire una vera e

sistematica antropologia della nazione italiana; dall’altro essa trova la propria

motivazione nel ruolo di primo piano che le teorie del Sergi ebbero nella divulgazione

dell’idioma culturale mediterraneo553 contrapponendolo direttamente al

pangermanesimo.

551 Tale tendenza non pare del tutto sparita in tempi più recenti se è vero, come ha sostenuto Irene Barbiera, che il revival della ricerca archeologica sull’alto medioevo avvenuta in Italia a partire dagli anni Ottanta è da mettersi in stretta relazione con l’emergere di una nuova forza politica nel nord del Paese. BARBIERA I., The valorous Barbarian, the migrating Slav and the indigenous peoples of the mountains. Archaeological research and the changing faces of Italian identity in the 20th century, in Archaeology of identity, POHL W., cit. pp. 183 - 202 552NANI M., Fisiologia sociale e politica della razza latina. Note su alcuni dispositivi di naturalizzazione negli scritti di Angelo Mosso, in Razzismo italiano, a cura di BURGIO A. e CASALI L., Clueb, Bologna, 1996 p. 60; TARANTINI M., Tra teoria pigoriniana e mediterraneismo, cit. pp. 53 - 61 553 TARANTINI M., Tra teoria pigoriniana e mediterraneismo, cit.

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L’adesione ai due idiomi fu sempre influenzata dalle esigenze del momento, ma

quello che, tuttavia, preme ancora una volta sottolineare è che, sebbene le risposte

fornite differissero tra loro, le domande di fondo cui si cercava di fornire risposta

rimanevano le medesime. I quesiti fondamentali posti dall’età dei nascenti stati –

nazione e poi dall’avvento dei nazionalismi tardo ottocenteschi e primo novecenteschi

rimasero, infatti, sempre ancorati al problema della definizione etnica della nazione. In

tal senso si può parlare effettivamente di lunga durata del discorso biologico sulla

nazione inaugurato in Italia con il Discorso manzoniano e proseguito ben oltre la Prima

Guerra Mondiale. A tale proposito non si è potuto non notare come proprio dal mondo

dell’antropologia positiva fossero giunte le prime perplessità nel giustificare la nazione

su base puramente biologico – parentale come invece, secondo quanto sostenuto più

volte da A. M. Banti554, pareva necessario al consolidamento del discorso politico

nazionale. Questi presunti tentativi vennero, però, da un intellettuale come Giuseppe

Sergi: non a caso egli era un siciliano la cui esperienza personale affondava nel

Risorgimento e in una tradizione di respiro europeo e di stampo mazziniano. Si è avuto

modo di constatare che, infatti, quando tali teorie furono messe realmente alla prova,

come avvenne ad esempio nella definizione della nazionalità dei Trentini e degli

Istriani, il discorso biologico tornò a dispiegarsi nella sua forma più completa. Ancora

una volta nei territori irredenti si assistette, infatti, a due tentativi di legittimare interessi

nazionali contrapposti direttamente sul corpo delle popolazioni locali.

Sebbene il razzismo attuale non si basi generalmente più sul concetto biologico

di razza, ma sia il risultato di un relativismo culturale spinto ai limiti come ricordato da

Ugo Fabietti555, a partire dagli anni ’90 si è assistito a un riemergere di tendenze razziste

legate alle vecchie classificazioni positiviste556. Nel 1996, in Germania, Rainer

Knußmann ripropose addirittura la divisione del continente europeo in vari gruppi, tra i

quali quello nordico e quello mediterraneo557. Ciò sembra suggerire che la forza

evocativa dei vecchi paradigmi non si sia del tutto esaurita. La persistenza degli

stereotipi ottocenteschi nel campo della biologia umana risulta d’altra parte testimoniata

554 BANTI A. M., CHIAVISTELLI Antonio, MANNORI L., MERIGGI M. a cura di, Atlante culturale del Risorgimento, cit.; BANTI A. M., La nazione nel Risorgimento, cit. 555 FABIETTI Ugo, L’identità etnica, Carocci, 1998 556 KILANI M., La théorie des deux races: quand la science repéte le mythe, in HAINARD J., KAHER R., Dire les autres. Réflexions et pratiques ethnologiques, Payot, Lausanne, 1997 557 FEHR H., Germanen und Romanen, cit. pp. 98 - 120

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anche dalla difficoltà di abbandonare definitivamente ogni discorso sulla razza

dimostrata dalla disciplina anche all’indomani della nascita della genetica moderna.

Negli anni ’20 e ’30 del Novecento i nuovi studi sui geni, sebbene ponessero in

discussione le classificazioni su base tradizionale costruite da Günther558 e Eickstedt,

finirono per avere, se possibile, esiti ancora più aberranti559. Ma neppure dopo la

scoperta degli orrori del nazismo la biologia sembrava propensa ad attuare un serio

ripensamento riguardo l’esistenza di un certo numero di razze umane né dimostrarsi

davvero restia a utilizzare tale terminologia. L’unica - rilevante – modifica introdotta fu

il fatto che le classificazioni razziali andassero innovate tramite il ricorso all’analisi

genica. Queste posizioni vennero affermate sulla base del teorema secondo il quale una

certa sequenza genica si dovrebbe presentare costante solo in un determinato gruppo di

individui chiaramente identificabili560. Nonostante gli studi condotti sul DNA ormai

abbiano chiarito contro ogni ragionevole dubbio che non esistono razze umane –

risultato diffuso in Italia anche grazie all’impegno del genetista Luigi Luca Cavalli

Sforza561 e all’opera di divulgazione di altri scienziati di spessore come Guido

Barbujani562 -, ancora nel 2003 sul «New England Journa of Medicine» i membri di

558 Noto anche come “Güntherrasse” fu uno dei principali teorici del razzismo nazista. La sua classificazione razziale si basava in gran parte su quelle di Deniker e Ripley attingendo dal primo i caratteri propri della razza orientale (da lui denominata est - baltica) e di quella nordica, dal secondo le caratteristiche della razza alpina (da lui ribattezzata orientale) e di quella mediterranea. Vista la convergenza delle teorie del Ripley con quelle di Sergi si nota come una parte delle idee di quest’ultimo, seppur tramite la mediazione di un collega tedesco, avessero finito per ripresentarsi nel contesto del razzismo nazista. 559 Lentz, uno dei principali genetisti tedeschi del periodo, pur avversando le classificazioni morfologiche e sostenendo che il patrimonio genetico è in gran parte comune tra gli uomini, affermava che l’origine culturale degli individui è assai più rilevante della loro componente biologica. Da tale ragionamento egli traeva, però, la conclusione che “un ebreo biondo è sempre un ebreo” e, pertanto, egli sosteneva in pieno la legislazione nazionalsocialista. FEHR H., Germanen und Romanen, cit. pp. 117 seg. 560 L’antropologo Hulse nel 1963 definiva le razze come “popolazioni che possono essere facilmentedistinguibili una dall’altra solo sulla base genetica” citazione da tratta da SPEDINI G., Antropologia evoluzionistica, Piccin, Padova, 1997 p. 294 (corsivo mio). Oltre all’opera citata, ulteriori note sullo sviluppo dell’idea di razza applicata all’uomo nel campo degli studi biologici si possono trovare in BARBUJANI G., Europei senza se e senza ma, Bompiani, 2008 e in BARBUJANI G., L’invenzione delle razze, Bompiani, 2006 561 Luigi Luca Cavalli – Sforza è anche un fermo sostenitore dell’opportunità di indagare la storia dell’uomo attraverso una prospettiva sempre più multidisciplinare come ha dimostrato curando per l’editrice torinese Utet l’enciclopedia de La Cultura Italiana da lui presentata nel 2009 [CAVALLI -SFORZA Luigi Luca, La cultura italiana una storia multidisciplinare. Lectio Magistralis nell’ambito dell’annuncio dei premi Balzan 2009, Milano, 7 settembre 2009]. Si veda anche l’Introduzione del curatore a La Cultura Italiana, Torino, Utet, 2009. 562 Guido Barbujani ha vinto il premio letterario per la divulgazione scientifica Galileo nel 2006 con L’invenzione delle razze, cit.

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un’importante equipe medica hanno sostenuto fermamente il contrario563.

Parallelamente sono fioriti in campo antropologico studi sul QI (quoziente intellettivo)

che, sostenendo la trasmissione ereditaria della capacità di apprendimento, mirano di

fatto a mettere in discussione il modello del walfare state564. Tali riflessioni sembrano

suggerire che i tradizionali discorsi sul corpo dei cittadini siano stati semplicemente

riadattati ai tempi e siano stati trasferiti dall’esteriore all’interiore a uso delle diverse

ideologie. Si è così passati da una retorica incentrata sui caratteri visibili degli individui

a una imperniata sul patrimonio genetico; quest’ultima, forse, può rivelarsi in

prospettiva addirittura più insidiosa a causa del carattere assolutamente tecnico del

linguaggio genetico e risultare pertanto difficilmente smascherabile, sebbene le

dinamiche messe spesso in atto presentino numerose analogie con quelle del discorso

razziale tradizionale.

Da un punto di vista strettamente storico si sono potute mettere in luce alcune

delle modalità di funzionamento del razzismo biologico e delle diverse strategie che

furono poste in essere dai diversi attori nel quadro del difficile passaggio tra XIX e XX

secolo. Infatti, sebbene il razzismo classico abbia rappresentato un paradigma culturale

di grande successo nel periodo studiato, gli strumenti da esso elaborati per la

legittimazione degli stati nazionali vennero effettivamente piegati dai diversi attori

nazionali e internazionali per giustificare istanze anche molto diverse. Si è messo anche

in luce come, però, nel campo più ristretto delle materie tecniche chiamate a dialogare

con la storia medievale il perdurare di stereotipi di matrice ottocentesca abbia

pesantemente condizionato lo sviluppo della disciplina. Si è anche sottolineato come

tale ritardo mostrato dalle scienze cosiddette ausiliarie fosse legato alla loro tradizione

interna e alla mancanza di nuovi quesiti da porre al centro della ricerca. Negli ultimi

anni la storia dell’alto medioevo sembra avere imboccato un sentiero nuovo: si sono,

infatti, avviate utili riflessioni sulle peculiarità legate al genere e alla volontà di auto-

rappresentazione delle élite nella disposizione del corredo funebre. Tali ragionamenti

hanno portato a ridiscutere parallelamente il concetto di identità personale e collettiva

nel contesto tra la tarda antichità e l’affermazione dei regni romano – barbarici e a una

563 BARBUJANI G., L’invenzione delle razze, cit. p. 51 564 SPEDINI G., Antropologia evoluzionistica, cit. pp. 294 - 295

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revisione critica del rapporto con le fonti tradizionali565. Allo stesso tempo si sono

registrati notevoli progressi nel campo della paleopatologia566, della genetica delle

popolazioni e degli effetti della nutrizione sullo sviluppo dello scheletro567. Il

rinnovamento avvenuto in entrambe le discipline sembra, quindi, rendere possibile

rifondare i presupposti per un dialogo fruttuoso tra la storia, l’antropologia “fisica” e le

altre discipline. Spetta, forse, alla prima farsi avanti per porre nuovi problemi tenendo

conto, questa volta, delle possibilità reali offerte dalle varie scienze così come - lo si è

visto tramite l’esposizione del fraintendimento intervenuto tra il mondo

dell’antropologia e quello della storiografia nel caso dei Longobardi - non è accaduto in

passato. Un primo passo si è tentato sulla base dell’analisi isotopica degli scheletri. Non

è ancora chiaro se le più recenti indagini sulle percentuali degli isotopi dello stronzio

possano fornire elementi realmente sicuri nello studio delle migrazioni alto

medievali568, ma tali studi rappresentano, comunque, una nuova occasione per aprire un

più fruttuoso dialogo tra le discipline.

565 ARTIFONI E., TORRE A., Premessa, in ARTIFONI E., TORRE A. a cura di, Erudizione e fonti. Storiografie della rivendicazione, in «Quaderni storici» XXXI, 3, 1996 pp. 511 – 519; POHL W., Archaeology of identity. Introduction, in Archaeology of identity, a cura di POHL W., cit. pp. 9 - 25 566 FORNACCIARI G., MALENGHI F., Alimentazione e paleopatologia, in «Archeologia Medievale» VIII, 1981 567 KOEPKE N., BATEN J., Agricultural specialization and height in ancient and medieval Europe, in «Exploration in Economic History» 45 pp. 127 – 146, 2008 568 BRATHER S., Bestattungen und Identitäten – Gruppierungen innerhalb frühmittelalterlicher Gesellschaften, in Archaeology of identity, a cura di POHL Walter, cit. pp. 25 – 51; FEHR Hubert, Am Anfang war das Volk? Die Entstehung der bajuwarischen Identität als archäologisches und interdisziplinäres Problem, in Archaeology of identity, a cura di POHL Walter, cit. pp. 211 – 231

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RINGRAZIAMENTI UFFICIALI

Questa tesi è stata un’occasione preziosa per imparare molte cose. Per avermi seguita in questi mesi con impareggiabile competenza e gentilezza ringrazio le mie relatrici, la prof.ssa Cristina La Rocca e la prof.ssa Carlotta Sorba. Ringrazio anche la prof.ssa Maria Teresa Milicia per l’entusiasmo con cui mi ha aiutata a orientarmi nel contesto degli studi sull’antropologia fisica italiana. Per la cortesia e la disponibilità che mi ha dimostrato in occasione della mia visita all’ateneo di Torino e al Museo Lombroso, desidero ringraziare vivamente il prof. Enrico Artifoni dal colloquio con il quale ho potuto ricavare molti più spunti di riflessione di quanto non appaia in questo elaborato. Per l’accoglienza e l’attenzione che mi è stata offerta durante la mia indagine all’Istituto di Antropologia dell’Università La Sapienza di Roma ringrazio il prof. Giorgio Manzi, direttore del Museo G. Sergi, e il prof. Giovanni Destro – Bissol (al quale va un particolare ringraziamento per essersi ricordato della cartella contenente i diplomi onorifici di Giuseppe e Sergio Sergi). Un sentito ringraziamento va anche al dott. Nicola Carrara, conservatore del Museo di Antropologia dell’Università di Padova, che mi ha messo a disposizione le sue relazioni di scavo relative alla necropoli di Dueville (ancora inedite) e che ha condiviso con me le sue riflessioni sulla materia. Colgo l’occasione per ringraziare anche la prof.ssa Giulia Albanese e il prof. Enrico Francia per la disponibilità dimostrata nei confronti di tutti i laureandi alle prese con argomenti inerenti la storia contemporanea. Un ringraziamento particolare va alle Bibliotecarie del Dipartimento di Storia, della Biblioteca Tito Livio e della Biblioteca dell’Istituto di Biologia Vallisneri per la cortesia e la competenza con cui risolvono anche i problemi più strani e inaspettati degli studenti dell’ateneo patavino. Per il prezioso supporto linguistico devo ringraziare anche la prof.ssa Silva Zanin, il prof. Umberto Patuzzi, la prof.ssa Marta Mocellin, la dott.ssa Anna Bordignon, la dott.ssa Maria Chiara Selmo e la dott.ssa Rita Ferro. Vivissimi ringraziamenti vanno anche alla prof.ssa Bianca Anna Castellan e alla dott.ssa Ambra Zanghì per l’eccellente supporto tecnico che mi hanno fornito. Un sentito ringraziamento va al prof. Giovanni Ravenna che mi ha incoraggiata più volte nel corso della mia avventura alla Facoltà di Lettere.

Fedra A. Pizzato

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ALTRI RINGRAZIAMENTI

Desidero ringraziare almeno gli amici che mi hanno sostenuta in questo periodo e che hanno discusso con me gli argomenti esposti in questa tesi sia durante le ricerche preliminari la stesura di questo elaborato sia durante le successive fasi di elaborazione del medesimo. Ringrazio perciò Anna Busin, Giulia Chieregato, Rita Ferro, Chiara Grigolin, Elisa Perversi, Maria Chiara Selmo. E poi non posso dimenticare Maria Chiara Borsello, Roberta Campana e Fulvia Scarabel per aver ascoltato attonite l’esposizione del progetto di questa tesi una sera dello scorso inverno…. E anche la mia carissima amica Laura Mantesso. Un vivo ringraziamento va anche ai miei “vecchi” colleghi astronomi che mi sostengono da molto tempo - tra i quali devo ricordare Elena Zaninoni, Sergio Erculiani e Marco Fecchio - e a Valeria Zanandrea per le consulenze mediche e per molte altre cose. A loro, a tanti altri amici e parenti che mi sono stati vicini in questi mesi, così come ai miei amati Genitori e alla mia carissima nonna Elide (lei sa perchè) vanno i ringraziamenti del mio cuore. Grazie a tutti,

Fedra

… All things hang like a drop of dew Upon a blade of grass (William B. Yeats)

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APPENDICE ICONOGRAFICA

Figura 1 Tavole dei colori della pelle secondo F. von Luschan realizzata in vetro e zinco (conservata presso il Museo di Antropologia dell’Università di Padova - foto realizzata per gentile concessione del Conservatore).

Figura 2 Tavole dei colori dei capelli di E. Fischer. (conservata presso il Museo di Antropologia dell’Università di Padova - foto realizzata per gentile concessione del Conservatore)

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Figura 3 Tavole dei colori degli occhi di R. Martin e B. K. Shultz – iridi realizzate in vetro. (conservata presso il Museo di Antropologia dell’Università di Padova - foto realizzata per gentile concessione del Conservatore)

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Figura 4 Persiano e Indù: Ritratti maschili eseguiti secondo le regole per la fotografia scientifica esposte da Enrico morselli nel 1884. immagini tratte da Sergi G., Gli Arii in Europa e in Asia: per il Persiano si veda p. 115 – 116 e per l’Indù p. 76 – 77

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Figura 5 Ritratti femminili eseguiti secondo le regole per la fotografia artistica esposte da Enrico morselli nel 1884. In senso orario: Giovane Singalese, Berberina, Giovane donna del Laore. Immagini tratte da Sergi G., Gli Arii in Europa e in Asia pp. 132, 140, 81

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Figura 6 Schema delle forme craniche e delle forme del naso secondo Bernardino del Boca (i nasi leptorrino, leptomesorrino e mesorrino sono determinati nell’ordine dalle tre forme frontali in basso a destra). DEL BOCA B., Storia della antropologia, Dr Francesco Villardi, Milano, 1961 p. 121

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Figura 7 I fondatori della antropologia secondo Bernardino del Boca. DEL BOCA B., Storia della antropologia, Dr Francesco Villardi, Milano, 1961 p. 24

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197

Figura 8 Distribuzione del tipo bruno e del tipo biondo nel Trentino e nel Tirolo. Da MOSCHEN L., I caratteri fisici e le origini dei Trentini, AAE XXII, 1982 tav. III

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198

Figura 9 Italiano con caratteri della razza mediterranea e Giovane italiano con caratteri della razza alpina secondo Bernardino del Boca (1961). DEL BOCA B., Storia della antropologia, Dr Francesco Villardi, Milano, 1961 p.226 e p. 208

Figura 10 Cranio deformato. Immagine riportata in: VRAM U., Nota Sopra un cranio deformato, in RdA, III, 1896, p. 174

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«Atti della Società Romana di Antropologia»569 (1883 - 1910)

«Rivista di Antropologia» (1911 - 1937)

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569 A partire dal 1911 gli «Atti della Società Romana di Antropologia» cambiano nome in «Rivista di Antropologia», ma la veste tipografica e la linea editoriale vengono mantenute, pertanto l’abbreviazione utilizzata rimane la medesima (RdA) poiché costituiscono, di fatto, un’unica Rivista e un’unica fonte storica; Pertanto, per l’eventuale consultazione, basterà fare riferimento alla data e tenere conto che gli articoli anteriori al 1911 andranno ricercati negli «Atti della Società Romana di Antropologia».

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