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UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE Facoltà di Scienze Politiche e Sociali Corso di Laurea Magistrale Politiche e servizi sociali per famiglie, minori e le comunità LA PARTECIPAZIONE DEGLI ESPERTI PER ESPERIENZA ALLA FORMAZIONE IN SERVIZIO DEGLI OPERATORI. Un’esperienza nella salute mentale Relatore: Chiar.ma Prof.ssa Raineri Maria Luisa 1

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UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE

Facoltà di Scienze Politiche e Sociali

Corso di Laurea Magistrale Politiche e servizi sociali per famiglie,

minori e le comunità

LA PARTECIPAZIONE DEGLI ESPERTI PER

ESPERIENZA ALLA FORMAZIONE IN

SERVIZIO DEGLI OPERATORI.

Un’esperienza nella salute mentale

Relatore:

Chiar.ma Prof.ssa Raineri Maria Luisa

Candidata:

Marta Castro Cambòn

Matricola N. 4503026

ANNO ACCADEMICO 2016/2017

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Indice Ringraziamenti

Presentazione 5

Capitolo primo

1. La PERSONA che ha una malattia mentale

1.1 Prima di tutto PERSONA 7

1.2 “La svolta” con la legge Basaglia 10

1.3 Proposta di Legge 2233/2014 15

1.4 Care e curing 20

1.5 Oltre il curing, c’è la care: La Recovery Star 25

Capitolo secondo

2. Partecipazione di utenti e famigliari nella salute mentale

2.1 Partecipazione 29

2.1.1 Le origini

2.1.2 Il valore aggiunto della partecipazione di utenti e famigliari nei servizi

2.2 La partecipazione di utenti e famigliari nella salute mentale 40

2.2.1 Le difficoltà da parte dei servizi nel coinvolgimento degli utenti

2.3 Modelli di partecipazione 49

2.3.1 Scala della relazionalità (Folgheraiter,2011)

2.3.2 Scala di Hart (1992) adattamendo da Arnstein 1969

2.3.3 Seconda scala intensità della partecipazione, Wilcox (1994)

2.3.4 Livelli di rilevanza nei contenuti della partecipazione

2.3.5 Il modello olistico (Warren, 2007, p.51)

2.3.6 La libertà di scegliere di non partecipare, è comunque partecipazione

2.4 Ostacoli alla partecipazione 61

2.4.1 Coinvolgimento solo “di facciata”

2.4.2 Limiti nei meccanismi di rappresentanza

2.4.3 Gli operatori non aiutano le persone a partecipare

2.4.4 Assenza di risultati a breve e medio termine

2.4.5 La cultura della relazione operatori e utenti non cambia

2.4.6 Gli utenti che partecipano non sono autonomi nei confronti del servizio

2.5 La partecipazione come empowerment 68

2.6 Favorire la partecipazione nei servizi e cultura organizzativa 72

2.7 Le figure degli Utenti e Famigliari Esperti 76

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Capitolo terzo

3. Il coinvolgimento di esperti per esperienza nella formazione 85

3.1 Il perché del coinvolgere gli esperti per esperienza nella formazione di base: uno sguardo

sulla letteratura nazionale e internazionale

3.2 Incrocio tra sapere tecnico e sapere esperienziale 95

Capitolo quarto

4. Una ricerca valutativa su un progetto di formazione in servizio di operatori con la

partecipazione di utenti e famigliari

4.1 Il contesto della ricerca 101

4.1.1 I protagonisti del progetto CO.PRO

4.1.2 Le quattro lezioni di formazione

4.1.3 Uno sguardo osservativo sul progetto

4.1.4 La prosecuzione di CO.PRO

4.2 Una ricerca valutativa su CO.PRO

114

4.2.1 Domande di ricerca

4.2.2 Strumenti

4.2.3 Campione

4.3 Analisi informazioni

117

4.4 Risultati

4.4.1 Le risposte degli operatori

4.4.2 Le risposte degli esperti per esperienza

4.5 Conclusioni 125

Conclusione 129

Bibliografia 131

Allegato n.1 – Questionario somministrato agli operatori 137

Allegato n.2 – Questionario somministrato agli esperti per esperienza 139

Allegato n. 3 – Documento formazione in servizio degli operatori, “Pillole di Recovery” 141

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Un grazie speciale

Questo mio lavoro di tesi lo dedico a tutti i famigliari, utenti e operatori che ho

incontrato lungo il mio percorso e che hanno reso possibile il progetto CO.PRO. In

modo particolare ringrazio Anna, Maria, Giancarlo, Stefano, Oscar, Tiziano, Fulvia,

Delfo, Baldo, Claudio, Giuliana, Grazia, Alessia e Nicoletta perché senza di loro

questo lavoro di tesi non sarebbe stato possibile.

Alle fondamenta della mia vita, Manuel e Mery che rappresentano il mio tutto e mi

hanno sempre accompagnata e sostenuta in ogni mia scelta.

A Nicolas, che in questo percorso chiamato vita mi accompagna come solo lui sa fare.

A tutti i miei amici, per avermi sopportata e supportata nei momenti difficili e faticosi

di questi cinque anni di Università, in particolare grazie a Giulia, mia sorella non di

sangue ma per scelta e David che mi ha sempre spronato a dare il meglio di me.

Alle mie compagne di corso, in particolare Martina, Giulia, Alice, Darika e Ingrid per

aver condiviso con me questo viaggio meraviglioso condividendo con me gioie e

difficoltà.

A tutti i miei docenti, per avermi trasmesso con passione e dedizione il loro sapere e

farne tesoro. Un grazie in particolare a Maria Luisa Raineri per avermi insegnato il

valore della parola “partecipazione”, a Nicoletta Pavesi per aver seguito fin dall’inizio

il mio piccolo lavoro di ricerca e Matteo Secchi per aver sopportato le mie paure e

perplessità durante il mio percorso di stage.

In ultimo, un ringraziamento a me stessa per la mia tenacia e testa dura che mi hanno

permesso di non mollare mai.

Marta

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Presentazione

La partecipazione di utenti e famigliari può avvenire in diversi modi all’interno dei

servizi e secondo diverse logiche. Può avvenire nella progettazione, nella gestione e

nella valutazione dei servizi, consentendo di migliorarli, coinvolgendo i veri esperti del

problema, coloro che conoscono sia la malattia mentale e i suoi effetti, sia cosa significa

rivolgersi ai servizi.

La partecipazione permette inoltre di far valere gli interessi e la prospettiva degli

stakeholders che spesso vengono messi in secondo piano nei processi decisionali perché

vengono riconosciuti dal servizio solo come ricettori e destinatari.

Questo lavoro di tesi nasce con l’intento di analizzare le diverse interpretazioni date al

termine partecipazione, valorizzandone il significato e comprendendone l’essenza delle

azioni che la promuovono.

Nel primo capitolo verrà affrontato quello che a mio parere è il punto di partenza per

favorire una buona partecipazione all’interno dei servizi di salute mentale. È

fondamentale considerare prima di tutto l’essere persona, prima di qualunque

problematicità o patologia.

Il secondo capitolo analizza in maniera dettagliata la partecipazione, secondo diversi

modelli riscontrati nella letteratura che ne approfondiscono il significato, i benefici e le

difficoltà. Il coinvolgimento di utenti e famigliari può essere ostacolato da diverse

azioni, che a volte inconsapevolmente gli operatori fanno e che possono diminuire lo

spazio, la capacità e la possibilità di partecipazione all’interno del servizio. È molto

importante identificare questi ostacoli, evitandoli e promuovendo delle pratiche

partecipative. Durante la mia formazione e nelle varie esperienze di stage mi sono

accorta che vengono attribuiti significati diversi al termine “partecipazione”,

scambiandolo a volte con una mera consultazione o informazione. Questo è stato uno

dei motivi principali che mi ha spinta a studiarne maggiormente il significato attraverso

le varie definizioni, scale e modelli.

La partecipazione di utenti e famigliari all’interno del servizio può avvenire in diversi

modi e può riguardare diversi ambiti. Il coinvolgimento può avvenire in primis nel

percorso di cura, nella programmazione e realizzazione di prestazioni e servizi o di

iniziative comunitarie (Warren,2007). Oltre a queste può esserci partecipazione nelle 5

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iniziative portate avanti autonomamente, nella ricerca (Bell, 2013), nella valutazione dei

servizi e nella formazione. Quest’ultimo punto ha rappresentato il fulcro del terzo

capitolo, nel quale ho raccontato varie esperienze nazionali e internazionali che

testimoniano la partecipazione di utenti e famigliari alla formazione di operatori o di

studenti.

In ultimo, nel quarto capitolo ho affrontato l’esperienza del mio progetto di stage svolto

in questi due anni di magistrale. Un progetto che vede la partecipazione di esperti per

esperienza alla formazione in servizio degli operatori attraverso delle lezioni

accreditate. Questo capitolo è composto da due parti, una prima parte che descrive il

contesto nel quale è avvenuto il progetto, una seconda parte invece che riporta una

ricerca qualitativa avente due domande di ricerca, una rivolta agli operatori e l’altra ai

formatori (in questo caso utenti e famigliari).

Concludendo, “la partecipazione riveste un valore importante per la crisi del welfare che

investe i servizi sociosanitari. In questo contesto di incertezza, carenza di risorse e

necessità di nuove politiche tutte da definire, la messa in valore delle energie e delle

competenze dei diretti interessati diventa la via principale per uscire dalla crisi, meglio,

per sfruttare l’occasione della crisi mettendo in campo energie umane prima schiacciate

da un sistema di welfare centrato sulla tecnicità.” (Stanchina, 2014, p.9).

Partendo dall’idea che la partecipazione di utenti e famigliari sia una possibilità per i

servizi di crescere e migliorare, riprendo una frase scritta da un operatore destinatario

della formazione nel mio progetto di stage, il quale in riferimento alla partecipazione

sostiene che questo è un “modo di poter attingere a risorse preziose sia nei momenti di

benessere che nelle acuzie. Credo fermamente che sia fondamentale lavorare insieme

nel perseguire un obbiettivo comune e che un buon risultato dipenda da condividere e

non dividere”. (Operatore DSM Como, 2017).

“La partecipazione è un’idea attorno alla quale è possibile rilanciare e potenziale

l’umanità e la razionalità dei malati mentali, contrastando le dinamiche disumanizzanti

che agiscono ancora dentro molte istituzioni socio-sanitarie convenzionali, anche se non

si tratta più di “istituzioni totali”. (Folgheraiter, 2007b, p. 185).

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CAPITOLO PRIMO

La persona che ha una malattia mentale

1.1 Prima di tutto persona

Questo lavoro ha l’obbiettivo di sottolineare l’importanza dell’essere, inteso come

persona prima di qualsiasi altro disturbo che questa persona possa avere.

Nelle fasi iniziali di una sofferenza come quella di una patologia psichiatrica, la

diagnosi assume una centralità assoluta, finendo per portare alle persone a identificarsi

quasi completamente con la definizione psichiatrica di sé. Questo appiattimento

dell’umore della persona provoca un abbassamento della stima di sé, il quale è marcato

maggiormente nelle istituzioni psichiatriche dove questa si mescola alla drammatica

perdita di potere (empowerment) decisionale nei confronti degli operatori.

Scoprire che la sofferenza è solo una parte della propria vita e non necessariamente il

fulcro centrale consente di ridimensionare l’importanza della diagnosi e di ciò che essa

si porta dietro.

Questo ridimensionamento del ruolo e della “parte malata” corrisponde -spesso- a una

accettazione e comprensione, come nucleo di vulnerabilità individuale; quando si

accetta quello che si può fare o non riusciamo a essere, è proprio in quel momento che

la persona comincia a scoprire chi è e quello che è in grado di fare. (Deegan, 1988).

È importante considerare ogni persona non come un disturbo psichiatrico da curare ma

persona con una vita da vivere, alcuni aspetti della quale possono richiedere assistenza.

L’obbiettivo principale dell’assistenza psichiatrica dovrebbe essere quella di permettere

alle persone con un disturbo mentale di vivere la vita nel modo in cui desiderano.

L’assistenza alla persona deve essere intesa come un mezzo per raggiungere un fine,

non un fine in sé. Il senso deve essere quello di costruire una vita attorno alla patologia,

e questo richiede coraggio, perseveranza e creatività.

Nelle fasi di isolamento sociale, e in quelle di istituzionalizzazione prolungata, la vita

scorre lenta come una sequenza informe di giorni e notti senza significato e il futuro

cessa di esistere (Mainetti, 2012). Lo stigma interiore e esteriore domina sovrano. Per

uscire da questa dimensione senza tempo è fondamentale tornare a contatto con le

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proprie capacità e punti di forza, far sì che si raggiunga una percezione di sé stessi che

va oltre a quella della patologia psichiatrica.

Per far questo è importante considerarsi persona prima di tutto, per dirla meglio

riprendo una frase di Maone e D’Avanzo (2015, p.28): “non sei il disturbo. Sei una

persona, un essere umano che per qualche ragione deve avere a che fare con

un’immensa sofferenza.”

Quando si viene a conoscenza di una patologia, soprattutto nel caso questa fosse

psichiatrica, capita che la persona perda la percezione di sé stessa in una forma più

olistica, vedendo la patologia al centro, come fulcro della sua vita diventando così non

una parte della propria vita ma bensì tutta. Questo processo lo si può considerare una

sorte di auto stigmatizzazione che avviene interiormente nelle persone che soffrono di

un disturbo mentale, al tempo stesso però anche i servizi possono favorire o meno

questa situazione, riconoscendo nelle persone non solo le difficoltà ma bensì le risorse

presenti, e soprattutto cercando di avere una visione della “la malattia come esperienza

del tutto umana” (a cura Maone e D’Avanzo, 2015, pp. 64-66).

Storicamente, il campo della salute mentale è stato in gran parte dominato dal modello

medico, incentrato sull’osservazione clinica, basata sulla diagnosi e trovando a questa

un trattamento. Per quanto questo sia stato essenziale per la comprensione di una serie

di condizioni difficili, non sempre esso si è tradotto in modo proficuo nell’ambito della

salute mentale (Maone e D’avanzo, 2015).

Lavorare con gli utenti rimanendo focalizzati primariamente sulla malattia, plasma il

modo di percepire le persone e il più delle volte ottiene il risultato di farle adattare alla

propria disabilità piuttosto che aiutarle nel loro percorso di cura. Le persone fanno

esperienza di sintomi disturbanti e disabilitanti e si confrontano continuamente con

ostacoli e difficoltà nella quotidianità. Allo stesso tempo però ogni persona possiede

delle risorse e una combinazione unica di punti di forza ambientali e personali che

devono essere riconosciuti ed essere messi in gioco per favorire i processi evolutivi.

“Il tipico processo di valutazione mina alla base la motivazione a causa dell’assillo dei

problemi, le fragilità, i deficit. È un effetto a cui le persone con disabilità psichiatrica

sono esposte ogni volta che interagiscono con i servizi di salute mentale. È all’interno di

questa interazione che esse vengono continuamente messe di fronte ai limiti insiti nella

loro vita ed è lì che spesso viene ribadito “il problema” che alberga dentro l’individuo.”

(Maone e D’Avanzo, 2015, p.106). Questo reprime la sensazione di speranza nelle

persone, crea demoralizzazione, sfiducia e rinuncia.

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Focalizzandosi invece sul punto di forza si tende a rinforzare la motivazione e

l’individualità delle persone. L’idea di poter essere di aiuto solo se abbiamo compreso la

persona nella sua unicità è da sempre un principio fondamentale in psicologia, nel

lavoro sociale, nel campo della salute mentale, a prescindere dalla specificità delle

teorie e tecniche. Considerare i punti di forza enfatizza il valore connesso al considerare

gli esseri umani “come organismi orientati ad uno scopo.” (Maone e D’Avanzo, 2015, p

116)

Quando le persone fanno esperienza dei sintomi e delle reazioni delle società nei loro

confronti, le vite di queste persone si segnano di dolore e delusioni. Un aiuto

professionale basato sulla valutazione e sulla definizione dei problemi dell’utente, può

portare a restringere ulteriormente la definizione degli obbiettivi.

“Quando nelle routine socio-sanitarie si arriva a considerare il soggetto umano come un

oggetto plasmabile, un essere che non sa badare alla propria sopravvivenza e alla

propria salute, si crea il paradosso estremo: l’uomo curato è ridotto a un non-uomo.”

(Folgheraiter, 2007b, p.192) Un intervento di terapia classica, ad esempio nella

medicina il senso comune dà per scontato che il è potere di sanare è del terapeuta,

attribuendo a lui totalmente il potere dato dalla sua mente esperta e qualificata. In

questo modo però, considerando l’utente solo come destinatario delle scelte del

professionista, enfatizzando i meriti dei terapeuti è un modo ovvio di pensare alla

terapia in un modo non umano e neanche sussidiario (Folgheraiter, 2009b).

“Il sistema istituzionale di protezione sociale si apre al sociale quando stende un ponte

verso le capacità degli umani in società di essere cittadini motivati nel fronteggiare

problemi comuni cui il sistema stesso è preposto.” (Folgheraiter, 2009b, p.19).

Una vera rete di welfare non si costituisce da ruoli, ma bensì da persone spinti dalla

speranza per cercare di fronteggiare i propri problemi. Una rete come questa ci permette

di vedere l’uomo anche sotto il ruolo, qualora i suoi membri siano professionisti. Ci

permette di vedere l’uomo dentro l’uomo perché riconosce alle persone il sapere dato

dalla loro sofferenza nell’affrontare il problema che si trovano a fronteggiare. Attraverso

questa visione l’umanità è allo stesso tempo elemento costitutivo della rete e allo stesso

tempo la finalità, perché permette alle persone di migliorare le capacità e al tempo

stesso superare i loro limiti attraverso il relazionarsi con l’altro. (Folgheraiter, 2009b)

Attribuendo il valore giusto all’uomo sofferente, dobbiamo considerare dapprima il suo

diritto umano e insopprimibile a dirigere la propria vita, anche nel caso in cui essa risulti

fallita, o quasi. “Per quanto grave sia la difficoltà oggettiva in cui una persona si trova,

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fuoriuscire da questa difficoltà è per definizione un processo umano ad alto tenore di

soggettività, non un fatto tecnico, perché il soggetto cambia mentre vive la sua vita, cioè

mentre esercita l’arte di essere l’uomo quale è pur volendo diventare altro.”

(Folgheraiter, 2009b, p. 19).

Il lavoro sociale ha a che fare, per definizione, con la persona, il particolare, se non con

il caso in senso stretto; ha infatti a che fare con i fatti sociali personalizzabili, con i fatti

riconducibili all’agire diretto delle persone interessate. “Le soluzioni dei problemi

sociali (intese come miglioramenti possibili di disagi, sofferenze, fragilità del vivere)

sono processi di azione congiunta che si sviluppano a partire dagli interessati diretti,

cioè da persone che li soffrono, le quali si trovano così ad essere soggetti a pieno titolo.

Per quanto possano essere, bisognose di aiuti, piene di limiti e disagi, le persone

coinvolte nelle soluzioni, ci appaiono come essere umani in quanto appunto agenti per

essenza.” (Folgheraiter, 2009b, p.29).

Concludendo, prima del ruolo che il servizio attribuisce alla persona (utente) oppure

quello che lei si attribuisce a sé stessa all’interno della sua vita, è importante ricordare

che prima di tutto è una persona che si trova a superare un periodo della sua vita

caratterizzato da una grande sofferenza ma al tempo stesso ricordare le risorse che

possiede, facendo di queste il punto di partenza sul quale lavorare.

Diciamo, quindi che il Lavoro sociale ha a che fare con una “sociologia delle persone”

(Folgheraiter, 2009b, p.31) perché non potrebbe concepirsi se non come stimolatore

dell’apporto delle persone a costruire una società sana e solidale che non appartiene solo

ed esclusivamente a coloro che detengono il sapere professionale. Senza il contribuito

che ogni singola persona può dare e il suo riconoscimento pieno dell’umano che

appartiene ad ogni persona, il Lavoro sociale decade in un tecnicismo che immiserisce e

disumanizza. (Folgheraiter, 2009b).

1.2 “La svolta” con la legge Basaglia

La legge n. 180 del 19781, di seguito “legge 180” ha introdotto in Italia una

“rivoluzione” nel campo della salute mentale perché ha permesso la chiusura dei

manicomi, ha sancito che di norma i trattamenti per malattia mentale fossero volontari,

limitandone la obbligatorietà a poche e definite situazioni. Ha inoltre istituito che gli

1 Legge 180 del 13 maggio 1978, "Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori"10

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interventi di prevenzione, cura e riabilitazione relative alle malattie mentali fossero

attuati di norma dai servizi e presidi extra ospedalieri.

La legge 180/1978 è la colei che sancisce la chiusura dei manicomi e regolamenta

l’assistenza psichiatrica in Italia. Con questa legge cambia la visione stessa del malato

mentale che fino ad allora era considerato come colui che doveva essere “normalizzato”

per conformarsi al resto della società.

Per raggiungere questa “normalità”, alle persone venivano somministrate delle cure

altamente invasive e lesive della dignità umana (elettroshock, docce fredde…). Queste

azioni rappresentavano un ulteriore violenza sulle persone che si trovavano in una

condizione di estrema fragilità.

È proprio su una condizione come questa che nasce la legge 180, finalizzata alla tutela

di queste persone e con l’obbiettivo di restituire a loro la dignità umana. Franco

Basaglia sosteneva infatti che la conquista della libertà del malato deve coincidere con

la conquista delle libertà dell’intera comunità. (Basaglia, 1968).

Sotto la spinta dei movimenti di contestazione e attraverso la riflessione della società

civile e scientifica, venne rivista la tesi della pericolosità che spesso rappresentava la

causa di stigma per i malati mentali. Tale innovazione legislativa si fondava sul

superamento di quella concezione secondo cui la malattia mentale rende l’individuo non

responsabile delle proprie azioni, con alterazioni della capacità morale e perversione

della volontà, secondo cui i disturbi mentali sono da considerarsi devianti, ovvero

socialmente indesiderabili.

Franco Basaglia riteneva che la psichiatria tradizionale fosse responsabile della

creazione dei manicomi, essendo concentrata soltanto su base organiche della malattia e

trascurando l’origine sociale dei disturbi psichiatrici. Lo scopo di tale norma infatti è da

una parte il superamento e la negazione del manicomio, ma nello stesso tempo la

costruzione di una rete di servizi sociali in grado di soddisfare le esigenze primarie dei

pazienti e delle loro famiglie e ricercare nuove e più avanzate modalità di cura basate

sulla relazione e sul rapporto umano, partendo dal presupposto anti-riduzionista che la

malattia mentale è il prodotto di un interazione tra vari fattori (relazionali, culturali,

sociali e ambientali) in sintonia con il modello bio-psico-sociale ormai affermato in

ambito scientifico. Si parte così da presupposto che l’integrazione sociale nella

comunità della persona con disagio psichico è di fatto, di per sé, un’azione terapeutica

che restituisce dignità alla persona avendo importanti conseguenze sul piano clinico.

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A partire da questo concetto la legge Basaglia si basa su due principi fondamentali: la

prevenzione e la riabilitazione.

Fino a quel momento in ambito psichiatrico non si era mai parlato di prevenzione e non

esistevano centri dove un paziente potesse rivolgersi alla comparsa dei primi sintomi.

Inoltre questa nuova legge andava oltre alla concezione di paziente come singolo, ma

coinvolgeva anche le famiglie del paziente, le condizioni ambientali e sociali.

Soprattutto per quanto riguarda le patologie croniche, comincia a farsi largo il concetto

di riabilitazione, cioè la messa in opera di una serie di accorgimenti che facciano sì che

il paziente, nonostante la gravità della sua malattia non peggiori.

L’approvazione della legge è stato un atto di umanizzazione, come risposta civile a uno

Stato democratico che ammette gli orrori di un’istituzione e che ha fretta di restituire il

diritto alla salute e alla dignità della persona.

La legge 180 nasce con l’intento di garantire un trattamento umano al disturbo

psichiatrico.

Fino al 1978 la legislazione italiana in tema di psichiatria rispecchiava una delle realtà

più arretrate in Europa. Antecedentemente, nel 1904 ci fu la legge 362, la quale

introdusse il ricovero volontario in ospedale psichiatrico, il mantenimento dei diritti

civili, l’abrogazione dell’inscrizione nel casellario giudiziario e soprattutto colui che

veniva definito “ come persona pericolosa per sé e per gli altri e di pubblico scandalo”

continuava a essere soggetto a un ricovero coatto, ordinato dal pretore ed effettuato

dalle forze di pubblica sicurezza, e in seguito veniva affidato in “cura” e custodia”

all’istituzione manicomiale (L.36/1904).

La legge 180 nasce principalmente dall’osservazione della realtà, una realtà di pena e

senza cura e dai tentativi di superarla. Una realtà che imprigiona la follia in una

questione di ordine pubblico. “I principi di questa legge, come ho già detto, hanno

origine da una pratica reale. Il lavoro di quindici anni ha dimostrato che si può vivere

senza manicomio, ed è a partire da esperienze pratiche che i legislatori hanno elaborato

la legge.” (Basaglia, 2000, p. 31).

Un altro elemento importante messo in rilievo con questa legge è quello inerente al

Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO); viene sottolineato quanto sia fondamentale

che questo si realizzi nel rispetto della dignità della persona e dei suoi diritti civili e

2 Legge n. 36 del 1904 “Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati”12

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politici garantiti dalla Costituzione. Inoltre che questo venga accompagnato da iniziative

volte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte dell’individuo obbligato.

La legge 180 si focalizza su vari punti essenziali e che rappresentano una chiave di

svolta all’interno dei servizi di salute mentale di quell’epoca. L’articolo uno sostiene

infatti che gli accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori sono volontari

sottolineando l’importanza che questi “devono essere accompagnati da iniziative rivolte

ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato.” (Art. 1

L.180/1978).

Inoltre viene introdotta la possibilità di revoca del provvedimento di trattamento

sanitario e obbligatorio sostenendo che “chiunque può rivolgere al sindaco richiesta di

revoca o modifica del provvedimento con il quale è stato disposto o prolungato il

trattamento sanitario obbligatorio.” (art. 4 L.180/1978).

Tra i vari cambiamenti che la legge 180 ha portato, uno dei più importanti è stata la

chiusura dei manicomi e ha vietato la costruzione di nuovi ospedali psichiatrici.

L’attuazione e la ricezione della 180 del 1978 già nella sua denominazione “Norme per

gli accertamenti ed i trattamenti sanitari e obbligatori” indica un radicale mutamento del

punto di vista, perché sposa l’attenzione dalla malattia alla risposta istituzionale messa

in atto, cioè al servizio, alle sue risorse, al modo con cui si identifica la malattia.

Un altro aspetto rivoluzionario è che l’accertamento e il trattamento delle malattie

mentali diventa volontario. “Soltanto in alcune situazioni particolari la persona può

essere sottoposta a una procedura obbligatoria, sempre nel rispetto della dignità della

persona e dei diritti civili e politici, compreso per quanto possibile il diritto di scelta del

medico e del luogo di cura.” (Art.33 L.833/78).

La procedura del trattamento sanitario obbligatorio mostra chiaramente i tre punti di

svolta su cui si basa la legge; questo infatti può essere adottato “solo se esistano

alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non

vengono accettati dall’infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che

consentano di adottare tempestivamente ed idonee misure sanitarie extra ospedaliere.”

(art.34 L.833/78).

Il primo punto affrontato dalla legge 180 riguarda la malattia, o meglio l’attenzione alla

malattia, sottolineando l’importanza del ruolo del medico nel farsi carico della salute

psichica della persona, invece che della difesa della società.

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Il secondo aspetto riguarda il consenso, ossia il dovere del medico di farsi carico della

libertà della persona, adottando tutte le iniziative opportune volte ad assicurare il suo

consenso nel caso di un trattamento sanitario obbligatorio. Attraverso questo aspetto la

legge si interroga sul punto centrale e delicato che concerne al rapporto tra libertà e

malattia mentale.

Il terzo punto riguarda la risposta del servizio psichiatrico. Non c’è solo la persona con

il disagio ma anche il servizio psichiatrico con la sua risposta, sottolineando che il

ricovero ci deve essere solo e unicamente quando non si è potuto rispondere

diversamente.

Deve essere garantita la strutturazione del territorio di una risposta adeguata ai bisogni

della persona e organizzata su una misura terapeutica efficace che eviti il ricorso a un

trattamento obbligatorio in regime di degenza ospedaliera.

La legge 180 ha permesso la nascita della psichiatria italiana di comunità, basata su tre

principi fondamentali: “l’inclusione sociale, l’integrazione di tutti gli interventi e la

continuità nella presa in carico” (De Stefani, 2012, p.11)

La prima, intesa che la cura e l’integrazione della persona con una patologia psichiatrica

deve avvenire quanto più possibile nel luogo dove vive e lavora. L’integrazione di tutti

gli interventi intesa come ad un unico sistema che eroga tutte le prestazioni di cura che

fa capo al Dipartimento di Salute Mentale ed infine l’utente e la sua famiglia

mantengono un riferimento costante nel tempo.

La psichiatria di comunità nasce da principi come la buona informazione, la rete con la

comunità, le azioni contro il pregiudizio e lo stigma, l’applicazione delle evidenze

scientifiche nell’erogazione delle cure, un’accoglienza “calda e in ogni luogo per tutti”

(De Stefani, 2012, p.11), maggiore collaborazione con le famiglie, condivisione del

percorso di cura insieme ad una forte attenzione all’abitare, lavoro e alla socialità. (De

Stefani, 2012).

Tuttavia, trent’anni dopo, le cose sono andate diversamente. L’anello debole

nell’applicazione della legge Basaglia sono stati quei servizi sul territorio che avrebbero

dovuto fare prevenzione, cura e riabilitazione e che invece non sono mai stati

adeguatamente potenziati. Questa legge non fu di facile ricezione. Uno dei primi quesiti

fu da parte dei famigliari che subito si domandarono cosa fare. Subito dopo

l’approvazione della legge, vi fu grande confusione per il fatto che i nuovi malati non

sarebbero più stati accolti in manicomio. Gli ospedali psichiatrici e gli ospedali generali

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non sapevano cosa fare. Ci furono vari attacchi da parte di diverse voci: primari,

psichiatri, famiglie e politici.

Si ebbe l’impressione che la legge 180 fosse una legge libertaria, che abbandonava a sé

stessi i malati o, al meglio, li affidava alle famiglie, impreparate, incapaci di affrontare

le imprevedibili mosse di quella malattia.

Anche Basaglia stesso che si interrogò sulla bontà della Legge e si rese conto di una

debolezza, Trieste restava un luogo di sperimentazione e la normativa non offrì modelli

sui quali costruire gli interventi successivi alla legge.

1.3 Proposta di Legge n. 2233/2014

13 maggio 2012

“Il desiderio si sta avverando. Ebbene sì: a 34 anni la Signora 180 aspetta un figlio. Vi

lascio alcune ecografie del pargolo, della sua storia. Ho la sensazione che abbia vissuto

sempre dentro di me. Come se fosse sempre stato lì e ora si senta pronto per uscire, per

guardare il mondo con i suoi occhi.” (De Stefani, 2012, p. 115)

L’unico atto legislativo dello Stato, dal 1978 ad oggi, che si è occupato di normare i

principi della legge 180 è stato il progetto “Tutela salute mentale 1998 - 2000”. Un testo

sicuramente condivisibile, ma privo per sua propria natura della “forza” giuridica

necessaria e ormai ampiamente datato.

La maggior parte delle regioni italiane hanno emanato leggi, ma spesso scollegate tra

loro.

L’Italia da ormai più di trent’anni discute sulla legge 180, tra chi la considera una legge

sbagliata e perciò da cambiare e soprattutto responsabile di tutto quanto non funziona

nella gestione della salute mentale italiana e chi la considera un’icona immodificabile.

La legge 180 è un atto di grande valore etico e politico a cui dobbiamo la chiusura di

luoghi dove centinaia di migliaia di cittadini italiani malati di mente hanno subito la

violenza della reclusione.

Negli ultimi venti anni sono stati presentati alle Camere numerosi progetti di legge volti

a modificare la legge 180, ma sono stati in larga misura, e in molti casi in via esclusiva,

concentrati sull’obbiettivo di prolungare nel tempo i TSO. La Proposta di Legge3 che

3 Proposta di Legge 27 marzo 2014, n. 2233 “Norme per la valorizzazione, in continuità con la legge 13 maggio 15

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presenterò in questo paragrafo ha l’intento di garantire equità e appropriatezza di

trattamenti a tutti avendo cinque obbiettivi principali: il primo è quello di essere in

continuità con lo spirito e con i principi che hanno animato la legge 180 e riprendere i

contenuti che stanno alla base del progetto “Tutela salute mentale 1998-2000” citato

sopra.

Il secondo punto è quello di definire alcuni principi generali che sono oggi ineludibili

per dare “gambe robuste ad una buona salute mentale di comunità, quale quella attesa

da più di trenta anni in tutto il Paese” (P.D.L n.2233/2014)

Il terzo aspetto è quello di garantire la declinazione di alcuni degli aspetti più importanti

dal principio “cosa, dove, come, quando e perché” per garantire uniformità di

prestazioni e di diritti ai cittadini italiani. (P.D.L n.2233/2014)

Il quarto è garantire il massimo coinvolgimento possibile degli utenti dei servizi di

salute mentale e dei loro familiari nei percorsi di cura, valorizzandone al meglio il

sapere esperienziale.

L’ultimo aspetto trattato è quello di garantire nelle prestazioni un’attenzione continua ai

processi di miglioramento della qualità.

Questa proposta di legge nasce dalla collaborazione con il movimento “Le Parole

Ritrovate” e dal suo motto “fare assieme” che vede il più possibile l’impegno condiviso

di utenti, familiari, operatori e cittadini.

“Ciascuno con le sue difficoltà ma ciascuno anche con le sue risorse e con il suo sapere.

Impegnati non tanto a combattere contro qualcosa o qualcuno, ma a costruire una casa

comune, aperta e colorata, dove ciascuno trova il suo posto e contribuisce a migliorare

quello del vicino. Menti e cuori che si intrecciano, si scambiano esperienze e saperi e

diventano reciprocamente compagni di strada, di scuola e di vita” (P.D.L

n.2233/2014,p.3) Questa proposta di legge parte dal presupposto che chi ha incontrato la

malattia e ne ha fatto esperienza impara che, da una parte c’è la speranza della

guarigione dall’altro c’è il ritorno della patologia che finisce prima o poi per ritornare,

per stravolgere il quotidiano lasciando spesso le persone senza fiato e speranza.

Quello che avveniva prima della Legge Basaglia era una risposta che andava verso la

cancellazione della persona e “consegnava ai parenti una sorta di oblio nebbioso, come

quello che accompagna il migrante in terre lontane da cui si intuisce non esserci

biglietto di ritorno.” ((P.D.L n.2233/2014,p.4).

1978, n.180, della partecipazione attiva di utenti, familiari, operatori e cittadini nei servizi di salute mentale e per promuovere equità di cure nel territorio nazionale”

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La legge 180 però ha lasciato un impegno e cioè di riuscire ad accompagnare la persona

e la sua famiglia attraverso la malattia mettendoci scienza, coscienza e passione. È

importante tenere presente questo aspetto soprattutto quando non è possibile guarire

dalla patologia. È giusto e doveroso poter garantire una qualità di vita almeno decorosa,

caratterizzato dal prendersi cura della persona ravvicinandola ai luoghi di vita, alla

gente e alla vita.

Questa nuova proposta di legge nasce dal bisogno di rendere equi i servizi dal Nord al

Sud dell’Italia e le loro offerte, ma comprendere l’importanza del prendersi cura,

prendersi a cuore la persona con la sua famiglia, e cioè la care.

Questo è stato possibile attraverso la raccolta di dieci azioni che secondo la legge sono

obbligatoriamente necessarie da offrire alle persone e alle loro famiglie. Il movimento

“Le Parole ritrovate” ha permesso di mischiare, conoscere e apprendere dalle buone

pratiche presenti in tutta Italia nei vari servizi di salute mentale ma è servito anche per

conoscere tante cattive pratiche raccontate da utenti e familiari troppo spesso angosciati

e disperati.

Partendo dal primo articolo si sottolinea l’importanza della fiducia e della speranza per

le persone e per la loro famiglia. Quando le persone e i loro famigliari intraprendono un

percorso nella malattia, si ritrovano spesso ad avere poca fiducia e speranza verso il

percorso che stanno intraprendendo. È sicuramente un aspetto essenziale, poco presente

oggi all’interno dei servizi di salute mentale ma che rappresenta un punto iniziale e

fondamentale per fare il modo che il percorso sia efficace. “Se chiediamo a 100 utenti

dell’Italia psichiatrica siamo fortunati se ne troviamo 50 che pensano di avere con chi li

cura un rapporto che cresce all’insegna della fiducia e della speranza. Che poi vuol dire

ovviamente capacità di accoglienza, sorriso, positività e tutto che fa dei rapporti umani

un’esperienza che merita di essere vissuta.” (P.D.L n.2233/2014, art.1).

Questa Proposta di legge ha l’intento di considerare fiducia e speranza al primo posto

per sottolineare l’importanza di prendersi cura della persona e della sua famiglia.

Un’attenzione particolare della proposta di legge n.2233/2014 è data ai luoghi, nel senso

fisico. L’importanza di fare in modo che i luoghi non vengano mortificati ulteriormente.

Attraverso l’articolo due c’è il desiderio che i luoghi che ospitano la sofferenza mentale

alleggeriscano il peso della sofferenza che tante persone devono già superare solo per

essere in quel luogo. “Perché colori pastello e belle piante fanno la vita un po’ migliore,

sempre” (P.D.L n.2233/2014 art.2).

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Uno dei punti salienti del testo è rappresentato dall’articolo 3, il quale sottolinea

l’importanza dell’incrocio tra il sapere tecnico e il sapere esperienziale. “Che un medico

sia esperto di malattie è cosa risaputa e condivisa, che lo sia il cosiddetto paziente lo è

molto meno e, a volte, per niente.”

È doveroso riconoscere questo sapere che è dato dall’esperienza data dal convivere con

una patologia, attraverso questo riconoscimento e valorizzandolo, il sapere di entrambe

aumenta attraverso l’incrocio. Per far sì che questo avvenga, la P.D.L n.2233/2014

mette dentro il sistema sanitario, dentro i servizi di salute mentale la figura degli utenti e

famigliari esperti, i quali hanno raggiunto una consapevolezza della loro patologia e del

valore che possono avere per gli altri utenti, famigliari che ancora si trovano nel disagio

e per gli operatori che lavorano nei servizi. Inoltre esplicitamente nel testo viene

sottolineata l’importanza di remunerazione degli Utenti e Famigliari Esperti (UFE).

Spesso però nelle persone affette da patologie psichiatriche con fatica si riconoscono le

risorse, piuttosto si tende a focalizzarsi su quali sono i punti deboli, avendo un

atteggiamento caratterizzato da stigma e pregiudizio. Per questo motivo la P.D.L

n.2233/2014 vuole che su questi due punti si lavori sul serio. È importante prendersi

cura della persona prima di tutto ma al tempo stesso bisogna raccontare la verità sulla

follia, nelle scuole e con la voce di coloro che vivono la patologia. Fare in modo che

anche i media non facciano passare l’idea che la follia sia solo cronaca nera.

Un altro aspetto importante è la capacità di fare squadra che sia composta sia da esperti

per esperienza che tecnici. Al tempo stesso però viene introdotta anche la figura del

garante (utente e famigliare esperto che rappresenta una garanzia del patto che avviene

tra le parti) il quale contribuisce a favorire un clima e una pratica di condivisione; la

contrattualizzazione di alcune aree di percorso di cura e naturalmente con la sua

presenza una garanzia di terziarietà. In questo articolo si sottolinea l’importanza di tre

aspetti chiave: avere strumenti chiari che tengono conto di quello che la squadra sta

facendo e farà; avere un diario di bordo condiviso da tutti i membri e non solo il

comandante; e infine la figura del garante, una persona esterna al gruppo che lo aiuta a

dare voce a tutte le persone presenti, a prendere accordi chiari e trascriverli e a

impegnarsi a fare in modo che tutta la squadra si ritrovi periodicamente.

L’articolo 7 tratta il tema del dramma della crisi, nel corso della malattia mentale, sia

all’esordio che nel decorso, possono manifestarsi episodi di criticità durante i quali

l’utente esprime il suo disagio in forme che possono portarlo a confliggere con il suo

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ambiente, reti sociali, secondo modalità che si possono rivelare problematiche. In questo

caso la P.D.L n.2233/2014 stabilisce che i servizi di salute mentale non possono

escludersi da questo problema, devono essere presenti garantendo all’utente e alla sua

famiglia una risposta in giornata, con strumenti che favoriscono l’accompagnamento e il

supporto.

Nel caso in cui la crisi non si risolve, nei servizi ci sono i reparti ospedalieri, i servizi

psichiatrici di diagnosi e cura, troppo spesso sono vissuti come luoghi di mero

contenimento murario dove l’unica soluzione è il farmaco.

La P.D.L n.2233/2014 sottolinea l’importanza di come questi posti debbano

rappresentare luoghi dove la persona viene accolta con calore e dove da subito si lavora

perché la crisi sia occasione di crescita e di ritorno il più possibile alla quotidianità.

La famiglia in tutte le storie di vita delle singole persone rappresentano un ruolo

centrale. È importante che questa venga considerata come risorsa oltre a trovare il modo

di come poterla aiutare, partendo dall’informazione. Per questo P.D.L

n.2233/2014sottolinea l’importanza dei cicli di informazione, psico-educazione, per far

in modo che le famiglie sappiano il più possibile della malattia, dei farmaci, delle cose

che il servizio di salute mentale può e deve offrire ai loro cari. Questi incontri sono

finalizzati allo scambio di saperi tra operatori e famigliari. Oltre a questo poi anche altri

momenti come i gruppi AMA dove i famigliari possono comprendere di non essere da

soli e poter condividere il loro vissuto e la loro storia. Questo ha come finalità il

comprendere che le famiglie che all’inizio del percorso nella malattia erano sole e

disperate ora sono diventate una straordinaria risorsa non solo per il loro famigliare, ma

anche per tanti altri che vivono una situazione simile.

Altri due aspetti sottolineati nella legge P.D.L n.2233/2014 sono i benefici di ricevere

un’accoglienza calda caratterizzata da un ascolto empatico e che permetta di alleggerire

il peso del dolore delle persone che giungono al servizio. Questa rappresenta una delle

criticità riscontrate maggiormente nei servizi di salute mentale, insieme alla difficoltà di

comprendere i ruoli e a chi rivolgersi. Per questo motivo questa nuova proposta di legge

sottolinea l’importanza della presa in carico nel tempo è tale come valore di qualità

nella misura in cui gli operatori che la esercitano rimangono il più possibile gli stessi,

inoltre è stata introdotta la psicocard finalizzata a favorire al meglio la conoscenza dei

propri referenti e di altre informazioni essenziali sul funzionamento del Dipartimento

viene fornito a ogni utente un tesserino plastificato, tipo bancomat, che le contiene tutte.

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L’articolo susseguente spiega la questione dell’abitare, del lavoro e della socialità

facendo emergere l’importanza del riuscire a comprendere meglio come poter aiutare le

persone su questi tre aspetti favorendo la loro partecipazione attiva sia all’interno dei

servizi ma soprattutto nei loro luoghi di vita, permettendo loro di riacquisire potere

(empowerment).

Gli articoli successivi trattano le varie funzioni del Dipartimento, i finanziamenti, la

formazione e la composizione delle consulte di salute mentale.

Questa Proposta di legge rappresenta sicuramente una chiave di svolta, dove

indirettamente vengono affrontati temi come quello del prendersi cura, l’importanza di

un lavoro incentrato nell’ottica della community care, dove l’obbiettivo è quello di far in

modo che la persona venga inserita di nuovo nella comunità di appartenenza e

quest’ultima sia pronta per riaccogliere la persona e la sua famiglia.

Altro tema ricorrente in molti articoli della presente Proposta di legge è l’incrocio di

saperi, di come la condivisione di storie di vita, esperienze legate al proprio vissuto con

la patologia insieme ad una conoscenza data dallo studio di diverse discipline possa

permettere un sapere superiore. L’importanza di saper riconoscere e valorizzare il

sapere dato dal convivere con la patologia nella propria quotidianità, che appartiene agli

utenti e ai famigliari.

Concludendo questi punti non possono esaurire quanto può essere fatto per migliorare la

qualità delle cure che i servizi di salute mentale italiani sono chiamati a fare. Sono però

un contributo consistente per garantire una base e cornice solida nei servizi di salute

mentale, al tempo stesso permettono di avere degli spunti positivi e innovativi su cui

costruire delle buone pratiche, sviluppando anche il fare assieme, dove la distinzione di

ruoli non è presente e dove gli attori in gioco sono considerati alla pari, grazie alle

conoscenze date sia dallo studio che dal proprio vissuto di vita.

L’intento è anche quello di prestare attenzione ad ogni elemento che può contribuire a

fare la differenza in positivo, cercando di rendere eque in tutta Italia le basi sulle quali

lavorare per avere dei servizi di salute mentale più attenti alla persona, seguendo la

concezione non solo della cura della patologia, ma anche del prendersi cura della

persona.

1.4 Care e curing

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Il quadro della psichiatria risulta complicato perché il malessere non si riduce solo alla

patologia e quindi all’aspetto terapeutico, ma bensì anche al prendersi cura intesa come

gestire il vivere (Folgheraiter, 2009b) la cosiddetta care.

È importante però tenere presente che i servizi psichiatrici sono i più complessi dentro

l’intero sistema sociosanitario nazionale; per loro natura essi debbono offrire

contemporaneamente prestazione di cure e di care, cioè inoltre che cercare di guarire

devono cercare di intervenire sul “vivere” delle persone.

Nonostante un modello con questa struttura sarebbe l’ideale per una buona integrazione

tra i diversi servizi e quindi un maggiore benessere della persona, non è sempre facile,

perché nonostante il passare degli anni, in ambito psichiatrico si tende a dare più

rilevanza a curare piuttosto che al prendersi cura. La capacità di guarire spesso è

percepita come la capacità del professionista di intercettare mentalmente un complicato

meccanismo psicofisico altrui e dominarlo a fin di bene. Il terapeuta deve riconoscere il

disfunzionamento e le cause (diagnosi), quindi saper porre gli standard ottimali che

presuppongono la guarigione e infine essere capace di raggiungerli.

“Ogni terapia efficace deve garantire un rapporto umano adeguato: il terapeuta si

atteggerà nei confronti del suo interlocutore malato secondo le comuni regole di

umanità e cortesia, addirittura forse mettendo in atto precise tecniche di human

relations.”(Folgheraiter, 2009, p. 14).

Care non vuol dire solo imparare a gestire il vivere, ma bensì “avere cuore, mettere

attenzione, impegno, coinvolgimento personale e diretto per raggiungere un qualche

scopo positivo e buono. Significa essere spinti da motivazione interiori e volere

fortissimamente che le cose riescano bene, senza accontentarsi del tanto per fare. Care

vuol dire desiderare il buono, e anche il bello senza tornaconti funzionali o altri secondi

fini, voler migliorare gratuitamente. È importante però sottolineare che la care non è

solo cuore ma bensì prendersi a cuore, cioè sforzarsi per fare la cosa più opportuna in

quella circostanza.” (Folgheraiter, 2009b, p.88)

In medicina, se consideriamo la cura di molte malattie complesse la partecipazione degli

interessati è indifferibile e sempre presente anche qualora, come avviene spesso il

terapeuta non la concettualizzi. Molto del benessere o malessere legato alla patologia è

legata allo stile di vita, vale a dire al modo con cui il destinatario delle cure e dei

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consigli sanitari organizza il proprio vivere. “Quando introduciamo il concetto di che

cosa faccia un essere umano malato nella sua vita, la logica sanitaria incontra quella

sociale. Vale anche il contrario: vivere meglio aiuta l’efficienza psico-fisica (vivere

bene è un farmaco, forse il migliore oggi esistente). In nessuna specialità medica come

in psichiatria questo intreccio di sociale e sanitario è così profondo e indissolubile. Tale

integrazione costitutiva è il bello (e anche l’estremamente difficile di questa

disciplina).” (Folgheraiter, 2007b pag.189)

La differenza tra il curing e caring nasce dagli anglosassoni i quali hanno identificato

questi due modi di curare. Da un lato il curing sanitario stretto, finalizzato a modificare

la struttura organica o psichica del corpo umano, la parte strettamente terapeutica.

Dall’altra parte invece caring sociale (Folgheraiter 2007b) il prendersi a cuore la

situazione di difficoltà di una persona, famiglia o di una collettività, entrando in

relazione con gli interessati. Questo sottolinea come la vita prevale sui trattamenti e

idealmente li finalizza. Una vita rispettata nella sua assenza può poi retroagire sui

trattamenti facendo in modo di rendersi sensati e favorire la loro efficacia.

Prendiamo ad esempio i casi di cronicità, per cercare di comprendere meglio la

superiorità del vivere rispetto alle terapie. Quando ad esempio i trattamenti non hanno

più alcun effetto e di conseguenza portano a diminuire la speranza, la persona vive

comunque. Il diritto umano di ogni persona a vivere la propria vita tale per come è

proviene dall’etica del sociale, la volontà invece di cambiare l’essere umano per

portarlo alla norma proviene dall’etica sanitaria (Folgheraiter, 2007b, p. 190).

Per le persone che giungono ai servizi di cura psichiatrica è importante poter trovare il

modo di aiutarli nel loro vivere. Ad oggi per il sistema psichiatrico sembra invece che

risulti più importante capire scientificamente il loro male e combatterlo affidandosi alla

scienza.

È fondamentale partire dal presupposto di quanto sia importante la partecipazione del

paziente all’interno del processo di cambiamento che riguarda la sua vita. “Se non c’è

partecipazione del vivente, la vita non cambia volontariamente (Folgheraiter, 2007b,

p.191). Guardando le cose psichiatriche dall’ottica sociale, dovremmo discutere non se

l’utente possa partecipare al processo di aiuto, essendo ovvio che alla vita sua non può

che partecipare, bensì quanto e in che modo e con quali accortezze possano partecipare i

professionisti estranei.” (Folgheraiter,2007b, p.191)

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Nell’aspetto sociale, il sistema psichiatrico deve cercare di compiere atti di cura che

permettano alla persona di riappropriarsi delle capacità decisioni e delle potenzialità

autorealizzative della persona. Un altro aspetto importante è che la territorializzazione

della cura deve contemplare una molteplicità di opportunità e di offerte da declinare nel

Piano di Trattamento Individuale come ad esempio la continuità di cura con

accompagnamento, assistenza e visite domiciliari per soggetti e per i loro famigliari, una

casa, l’inserimento lavorativo che incontri le possibilità del soggetto, il sostegno

psicologico, la continuità relazionale con i servizi e con il tessuto sociale, la

partecipazione di famigliari e utenti nei percorsi di cura e di controllo della qualità dei

Servizi, le attività di prevenzione e di superamento dello stigma nelle scuole e con la

cittadinanza.

“La dimensione relazionale in cui al cuore sta la capacità d’ascolto è centrale in un

qualsiasi rapporto di vita e lo è maggiormente nel campo della Salute Mentale.

L’ascolto non solo qualifica il valore della “prestazione”, ma è prerequisito affinché la

prestazione abbia efficacia riabilitativa per la persona. Senza l’elemento relazionale tra

curante e soggetto, o molteplicità di curanti che intervengono nella “assunzione in cura”

o nella “presa in carico”, e senza il necessario sostegno della famiglia, non vi può essere

il passaggio al “prendersi cura”. (a cura di Scorza e Kauffmann, 2015, p.108)

L’aspetto sociale della psichiatria e quindi la care permette alla persona di visualizzare

e progettare il proprio cambiamento possibile. Intraprendendo questo percorso la

persona incrocia la sanità, “egli diviene terapeuta di sé stesso, posto che, come abbiamo

detto, un cambiamento “buono” non solo migliora la vita…a volte fa persino sparire, la

malattia.” (Folgheraiter, 2007b, p.191)

Nella visione clinica, incentrata sull’aspetto del curing, si ritiene che la cura debba

avere come fine l’eliminazione dei sintomi della malattia, la normalizzazione dei

comportamenti, e che si debbano estirpare allucinazione e deliri. C’è una visione di

presa di consapevolezza verso la malattia non tanto per consentire alla persona di

partecipare al processo di guarigione, ma piuttosto come accettazione passiva delle

pratiche di somministrazione necessarie per affrontare la patologia.

Nella seconda visione invece, quella incentrata sulla care l’équipe mette al centro la

persona, dove non tutto è riconducibile agli aspetti medicali, bensì alla sua condizione

umana “normale”. Le parole citate da Basaglia “mettiamo tra parentesi la malattia”

hanno qui la loro valenza. L’équipe, pur consapevole della patologia e dell’aspetto

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terapeutico, accoglie la persona nella sua condizione di particolare difficoltà del

momento senza schematizzarla in categorie disfunzionali, o di deficit.

All’accoglienza della persona segue l’accompagnamento per il tempo necessario al

soggetto a recuperare il suo mondo, con l’ascolto anche nella fase delirante, consapevoli

che il delirio è una forma di pensiero normale all’interno di un’esperienza particolare.

L’importanza di coinvolgere l’interessato stesso è che lui più degli altri conosce ciò che

lo angustia, nonché la famiglia e la rete attorno. “Nel tentativo di restituire la

cittadinanza o di aiutarlo a costruire via via il suo modo di diventare cittadino nel e del

mondo.” (Scorza e Kauffmann, 2015, p.112).

Le relazioni sociali di welfare sono di “qualità” quando esprimono care. La qualità

emerge dalla sollecitudine a “a fare bene le cose” (Folgheraiter, 2009b) che i coinvolti

nei problemi sociali, pur nei loro limiti riescono di volta in volta a esprimere. Non si

tratta di una ingenua concezione volontaristica: la care costituisce il fondamento delle

politiche pubbliche in tutti i tempi, non solo in quelli di precarietà.

Nella bibliografia da me analizzata questo tema viene anche affrontato seguendo due

paradigmi: malattia e persona, sostenendo che questi rappresentano due modi diversi di

operare, e nei servizi di salute mentale oggi, il paradigma basato sulla malattia è quello

che prevale. Questo per evidenziare il cambio di prospettiva dalla cura al “prendersi

cura”. In un certo senso vi è una cultura da cambiare che vede e percepisce nella

persona con disturbo mentale una persona pericolosa, benché le statistiche lo

smentiscano, ma questo è nell’immaginario collettivo, per primi gli operatori, i cittadini

e la politica che corre dietro agli umori dei cittadini (a cura di Scorza e Kauffmann,

2015).

È importante sottolineare che è importante considerare l’aspetto relazionale dei servizi,

la qualità delle relazioni sulle quali le prestazioni, quando ci sono, impattano.

Importante davvero è la care, cioè la disposizione umana al reciproco bene, a inventare

il bene comune desiderando di prenderselo a cuore. (Folgheraiter, 2009b).

Concludendo l’obbiettivo è quello di cercare di realizzare il cambiamento tanto

desiderato e ricercato nella 180, che in questi anni non è avvenuto. È un passaggio

questo, che richiede non pochi cambiamenti da attuare; ci deve essere un organico

sufficiente, appropriatamente formato, motivazioni e sensibilità personali,

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sensibilizzazione del contesto, il coinvolgimento degli attori coinvolti disponibili a

lavorare alla pari, sanitari, sociali, comuni, cittadini e scuole.

1.5Oltre il curing, c’è la care: La Recovery Star

La Recovery Star (Burns & MacKeith, 2008), è uno strumento elaborato da Triangle

Consulting nel 2011 su mandato del Mental Health Providers Forum, è il risultato di una

ricerca condotta con la partecipazione di operatori ed utenti di diversi servizi psichiatrici

di area londinese utilizzando metodi di ricerca sia qualitativi che quantitativi.

L'obbiettivo è quello di sostenere l’utente ed il professionista di riferimento nella

definizione, monitoraggio e nella valutazione dei percorsi di cura e riabilitazione basati

sui principi delle pratiche orientate alla guaribilità.

Un altro obbiettivo sta nello stimolare la partecipazione attiva e maggiore responsabilità

degli utenti e della loro rete naturale nell’individuazione e nel raggiungimento degli

obbiettivi del piano di trattamento individuale.

Il quadro teorico della Recovery Star fa riferimento a vari aspetti come l'empowerment,

alla valorizzazione dell'esperienza degli utenti dei servizi e alla facilitazione degli

operatori rispetto ad un percorso di cambiamento personale.

A differenza di altri strumenti infatti la Recovery Star fa proprio un modello di

cambiamento che nasce da ricerche sulle esperienze di malattia e di guarigione descritte

da più persone soprattutto nei paesi anglosassoni (ma non solo) : la “scala di

cambiamento” che ne deriva costituisce il motore concettuale dello strumento e offre

all’utente e all’operatore indicazioni non solo per la valutazione del punto a cui un

percorso individuale è arrivato, ma anche un supporto nell’identificare gli interventi più

adatti nelle diverse fasi della scala del cambiamento. Si tratta di uno strumento che può

essere presentato sia dagli operatori ai propri utenti, che dagli stessi utenti formati ad

altri utenti.

La Recovery Star viene attualmente utilizzata con un'alta frequenza e in modo

sperimentale in più servizi sia pubblici che privati, sia della provincia di Brescia che di

altri luoghi in Lombardia, nei quali si sono tenuti dei corsi di formazione per il suo

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utilizzo.

Questo strumento prende in considerazione dieci aree della vita del paziente: la gestione

della propria salute, la cura di sé, l’abilità per la vita quotidiana, le reti sociali, il lavoro,

le relazioni personali, le dipendenze, la responsabilità, l’identità e l'autostima, la fiducia

e la speranza.

Per ciascuna di queste aree è disponibile una scala che aiuta ad individuare il punto in

cui la persona di colloca nel suo percorso di cambiamento.

Le scale hanno una struttura caratterizzata da cinque stadi (“blocco”, all’accettazione

dell’aiuto, crederci, apprendere, basarsi sulle proprie forze).

- Blocco: caratterizzato dalla sensazione di non sentirsi in grado di fare fronte al

problema e di non essere nelle condizioni di accettare un aiuto.

- L’accettazione dell’aiuto: in questa fase si sente la necessità di allontanarsi dal

problema e si spera che qualcuno possa intervenire e risolverlo al posto nostro.

- Crederci: in questa fase però a differenza di quella prima si inizia a credere che è la

persona stessa che sta attraversando il dolore possa fare la differenza all’interno della

propria vita; la persona cerca quindi di avvicinarsi a ciò che vuole allontanandosi da ciò

che non vuole, si inizia a fare qualcosa in autonomia per raggiungere gli obbiettivi

accettando però l’aiuto da parte degli altri.

- Apprendimento: in questa fase si impara a rendere concreto il percorso di recovery,

essendo consapevoli che è un percorso che si sviluppa con tentativi e errori. Alcune

delle cose che si compiono funzionano ed altre no, per questo motivo il sostegno è

importante.

- Una volta acquisite le competenze, le persone diventano capaci di basarsi sulle proprie

forze fino ad arrivare al loro obbiettivo senza l'aiuto di un servizio o di un progetto.

 

La Recovery Star, è suddivisa in più aree che fanno parte della vita e della cura del

singolo verso sé stesso e il suo miglioramento: 

- La gestione della salute mentale: questa area fa riferimento a come ogni persona

gestisce la sua salute mentale, non per forza comprende non avere più nessuna patologia

(anche se questo può avvenire), ma piuttosto l’apprendere come ci si prende cura di sé

stessi, come organizzare la propria vita in modo soddisfacente, senza che i sintomi la

condizionino o la limitino.

- Salute fisica e cura di sé: questa area fa riferimento a come prendersi cura di sé stesso,

con particolare riferimento alla propria salute fisica, a come si è in grado di gestire lo

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stress, a come la persona si presenta e come è in grado di mantenersi in uno stato di

benessere.

- Abilità per la vita quotidiana: comprende gli aspetti pratici dell’essere in grado di

vivere autonomamente e come si gestiscono le piccole faccende quotidiane.

- Reti sociali: riferito alle reti sociali e all’essere parte di una comunità, include la

capacità di partecipare ad attività organizzate da servizi e anche, nel momento in cui il

percorso di recovery va avanti, ad attività fuori dai servizi (fare volontariato, partecipare

a corsi, alla vita nel proprio quartiere, alle attività organizzare dalla Chiesa, dalla

scuola…).

- Lavoro: il rapporto tra la persona e il lavoro, se c’è il desiderio di lavorare, cercare di

capire cosa si vorrebbe fare, possedere le qualifiche per avere il titolo di lavoro che si

desidera, trovare e mantenere un lavoro.

- Relazioni personali: importanza alle relazioni significative che la persona ha,

solitamente si sceglie una relazione significativa che può essere familiare o meno e si

cerca di comprendere a che punto ci si colloca sulla scala rispetto a questo aspetto.

- Comportamento legato alle dipendenze e all’uso di sostanze: correlato a qualsiasi

comportamento legato all’uso di sostanze come alcool, droghe o altre forme di

dipendenza (gioco d’azzardo, cibo e shopping). Prende in considerazione la

consapevolezza che l’utente ha di sé stesso relativa a questo tipo di problema e al suo

eventuale impegno per ridurre i danni che possono causare a sé stessi e agli altri. Nel

caso in cui non ci sia una dipendenza non è necessario affrontare questo tema.

- Responsabilità: si riferisce alla responsabilità che una persona ha verso il posto in cui

vive. Come pagare l’affitto, andare d’accordo con i vicini ecc..; nel caso in cui si abita

da solo, assumersi le responsabilità nei confronti di chi ti viene a trovare;

- Identità e autostima: riguarda il senso di identità personale; le cose che piacciono e

quelle no, le cose che riescono bene o meno alla persona, compreso l’accettazione di sé

ed il piacere per come si è.

- Fiducia e aspettative positive: comprende il fidarsi degli altri, credere in sé stessi e

nella vita.

Questo strumento all'interno del processo di recovery è molto apprezzato dagli utenti, i

quali spesso, richiedono in prima persona di sottoporsi a questo chiamandola la stella

(intervista A.S Ivana Ferrazoli) data la sua forma e che riporta ad un rimando visivo

facile da ricordare.

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La particolarità è che ogni paziente ha un operatore di riferimento e viene compilata

assieme.

Nel momento che viene compilata per la prima volta, professionalmente parlando ci

troviamo al T0, i momenti successivi verranno indicati come T1, T2...

Il tempo dedicato alla compilazione è variabile in base al paziente, in alcuni casi può

avvenire in un'ora, in altri richiede più tempo; altre volte addirittura gli utenti partono

motivati per poi non riuscire a completare la stella, perché non la trovano interessante.

È importante sottolineare che la Recovery Star non è assolutamente uno strumento di

valutazione, ma bensì di riflessione su sé stessi e sulla percezione che si ha delle proprie

capacità e risorse.

Nonostante la compilazione avvenga con l'operatore, dalle varie Recovery Star emerge

che i pazienti spesso si vedono in modo più negativo e con meno risorse confronto a

quella che è la realtà. Hanno una percezione di sé stessi e delle proprie capacità inferiore

a quelle reali, spesso caratterizzata da una fase di auto stigmatizzazione personale (ESP

al Convegno “Supporto tra pari e salute mentale: il ruolo attivo degli utenti”, tenuto a

Milano il 6 novembre 2015). Esempio di una Recovery Star già compilata in due diversi momenti (TO, T1).

Gli operatori che hanno utilizzato questo strumento all'interno dei servizi, pensano che

sia uno strumento molto utile ed efficace, perché permette alla persona di riflettere

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davvero in modo profondo sulle proprie risorse, e di quanto a volte è diversa la

percezione che si ha di sé stessi confronto a quella che la realtà è. Questo strumento è

utile anche per definire un successivo progetto individualizzato attraverso però un

coinvolgimento diretto.

Infine permette quindi uno rinforzo maggiore su quelle che sono le risorse

dell'individuo ma che spesso sono latenti e poco condivise, attraverso un metodo che

permette di poterle vedere attraverso l'utilizzo di un'immagine e la successiva riflessione

su quest'ultima.

(Elementi emersi durante l'intervista fatta all'assistente sociale Ivana Ferrazzoli).

CAPITOLO SECONDO

Partecipazione di utenti e famigliari nella salute mentale

2.1Partecipazione

Il coinvolgimento di utenti e famigliari nei servizi di salute mentale è importante per

svariate ragioni, pratiche e etiche.

“La partecipazione intesa come inclusione di utenti e familiari nelle pratiche di lavoro

sociale. Gli utenti e i familiari non sono solo i destinatari delle pratiche ma sono anche

agenti delle pratiche stesse.” (Warren,2007, p.6)

Quando parliamo di partecipazione all’interno dei servizi non possiamo fare a meno di

parlare dei diversi approcci che stanno alla base. Un tipo di partecipazione che vede

l’inclusione di utenti e famigliari all’interno delle pratiche di lavoro sociale, è una

prospettiva che si basa sulle risorse, sui punti di forza.

Attraverso una serie di passaggi è possibile passare da un modo di vedere e di

considerare gli utenti e famigliari come persone che hanno prima di tutto dei problemi

ad un modo che ci permette di comprendere che è difficile poter aiutare le persone se

siamo in grado di vedere solo i problemi; dobbiamo essere in grado di vederli come

depositari di risorse e potenzialità. Considerarli anche come depositari di conoscenze

esperienziali. Questo permette a utenti e famigliari di qualificarsi come collaboratori

degli operatori sociali.

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Questo concetto di collaborazione attraversa come un filo rosso un passaggio tra gli

approcci che, in letteratura vengono indicati come service-led, need-led e users-led.

(Warren,2007)

Il primo di questi approcci vede i servizi che come finalità hanno l’erogazione di

prestazioni alle persone che hanno necessità. Le intenzioni dei servizi sono percepite in

termini di prestazioni da erogare. Non che questo sia sbagliato, assolutamente però

rimanda a un’idea di approccio di servizio centrato sulla prestazione. L’obbiettivo del

servizio è quello di erogare, vendere all’ente pubblico (se sono un soggetto privato di

Terzo Settore) o vendere all’utente direttamente se sono un servizio privato. Cioè far

arrivare a qualcuno un determinato servizio.

L’aspetto limitante di questo approccio è che preoccupandomi troppo della prestazione

si rischia che questa sia svincolata dal bisogno. Io policy maker, assistente sociale o

coordinatore prendo in considerazione il bisogno della persona o famiglia solo dal punto

di vista dell’accessibilità alla prestazione. I problemi di vita rimangono così in disparte,

prendo in considerazione quelli a cui io come servizio posso dare una risposta. Un altro

aspetto limitante di questo approccio è che quei bisogni ai quali non posso dare una

risposta, rimangono senza.

Il secondo approccio è quello centrato sui bisogni, needs-led è stato individuato nella

letteratura internazionale già a partire dagli anni ’90, con il Community Care Act. A

differenza di quello precedente dove la finalità era far arrivare le prestazioni alle

persone che sono esigibili per quella prestazione, in questo approccio la finalità è quella

di dare una risposta ai bisogni insoddisfatti delle persone e delle famiglie. Il servizio o

l’operatore non diventa un “distributore” di prestazioni, ma bensì queste rappresentano

alcuni dei possibili mezzi per rispondere ai bisogni. Se ci sono dei bisogni che non

corrispondono alle prestazioni, affrontarli rientra comunque mandato professionale

degli operatori o nel mio mandato istituzionale.

Dagli anni ’90 in poi, c’è uno spostamento abbastanza consistente dall’approccio

centrato sui servizi all’approccio centrato sui bisogni.

Il tema della partecipazione però ci sollecita a fare un passaggio ulteriore, un approccio

come quello sui bisogni, sicuramente tende a offrire una risposta più adeguata in

risposta alle necessità riportate dalle persone, con anche l’obbiettivo a differenza del

primo di crearla anche dove una risposta apparente non c’è; al tempo stesso però è un

approccio che si basa ancora una volta sui bisogni, le carenze, le problematicità

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piuttosto che sulle risorse e quello che la persona, famiglia ha da offrire al servizio. Gli

interlocutori dei servizi è vero che si rivolgono ai servizi perché hanno bisogno, ma il

loro contributo al lavoro che c’è da fare per risolvere questo bisogno non è solo un

contributo di qualcuno che porta la domanda, ma è di qualcuno che ha anche in sé

risorse e potenzialità per contribuire a costruire delle risposte.

È proprio da questo aspetto che nasce l’approccio users-led centrato sugli utenti, è un

approccio in cui si possono erogare prestazioni, ma avendo considerazione dei bisogni

della persona, anche quelli che non hanno una risposta immediata con le prestazioni che

io ho a disposizione, e considero la persona non solo come portatrice di bisogni, ma

anche come portatrice di risorse, come collaboratore degli operatori per risolvere i suoi

stessi problemi.

C’è poi un passaggio dal focus sui fallimenti e sui problemi al focus sui bisogni e sulle

risorse, quindi la relazione diventa collaborativa. Partecipazione vuol dire questo,

includere gli utenti e famigliari nel lavoro sociale.

La partecipazione degli utenti e dei famigliari sta divenendo la chiave di svolta per le

politiche del social work. La partecipazione sta prendendo piede in differenti forme:

nella pianificazione dell’assistenza individuale, nei servizi dedicati alla valutazione e in

quelli che erogano servizi. Inoltre l’inclusione degli esperti per esperienza può avvenire

nella progettazione e nello sviluppo di un servizio, nell’organizzazione e nel gestire il

lavoro sociale, nello sviluppo di iniziative da parte di utenti e famigliari e nella

formazione del personale e degli studenti in ambito sociale. (Warren, 2007)

Negli ultimi anni, la partecipazione degli utenti e dei famigliari è stato un tema centrale

nella formazione e nello sviluppo di servizi sanitari e di assistenza sociale in tutta

Inghilterra e Galles, è stato inserito nel programma di modernizzazione del Governo.

Questo è accaduto poiché fin dall’inizio si è pensato che introducendo la partecipazione,

si possa elevare gli standard di erogazioni dei servizi nel campo dell’assistenza sociale e

sanitaria. Infatti ora si può sentire lo spirito della partecipazione nei servizi per bambini

e famiglie, nei servizi per disabili, per persone anziane e con patologie psichiatriche.

Per partecipazione non ci si riferisce solo a lavorare insieme a diversi professionisti

provenienti da differenti campi di specializzazione e da altre realtà, si riferisce anche

alla necessità per gli operatori sociali di lavorare insieme a utenti e famigliari,

coinvolgendoli in qualità di partner per pianificare congiuntamente servizi e valutare

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insieme le situazioni, non dimenticando che questo comporta la condivisione del potere

e eguaglianza. (Warren, 2007).

Gli utenti e famigliari possono partecipare organizzando servizi per terzi, ma anche

organizzando servizi per sé stessi. Se alla parola “servizi” sostituiamo la dizione più

larga “modalità di aiuto”, anche i gruppi di supporto e i gruppi ama fanno parte della

categoria dei prosumer, e cioè utenti che sono anche provider/users di prestazioni, cioè

che producono e contemporaneamente usufruiscono di servizi e prestazioni. La dizione

prosumer ha un accento consumeristico perché fa riferimento alla produzione ed

erogazione di prestazioni. Se sostituiamo il termine “prestazione” con il termine “aiuto”,

i componenti di un gruppo ama sono sia destinatari che produttori/realizzatori di questo

aiuto.

Il coinvolgimento di utenti e famigliari può realizzarsi attraverso l’implementazione di

iniziative di auto/mutuo aiuto, di gruppi di supporto, questi rientrano nella categoria

partecipazione finalizzata per realizzare in proprio iniziative, servizi e prestazioni.

Altre due categorie di partecipazione sono la ricerca, in particolare le ricerche

finalizzate alla valutazione dei servizi. La valutazione può essere fatta semplicemente

consultando le persone oppure si possono impostare vere e proprie ricerche valutative.

Tradizionalmente, il punto di vista degli utenti e dei famigliari entra nelle ricerche come

oggetto di ricerca, il punto di vista loro viene rilevato dalla ricerca in vari modi, viene

considerato un dato da analizzare. C’è però un filone della ricerca, ormai ben

documentato dalla letteratura internazionale, che viene definito research users o anche

carers led intesa come ricerca guidata da utenti e famigliari.

Può esserci una ricerca co-costruita. Lavorano quindi con l’équipe di ricerca per dare

indicazioni, per ragionare insieme ai ricercatori su temi e su ad esempio le modalità di

rilevazione dei dati secondo loro più opportune. Da un lato ci sono le competenze

esperienziali degli utenti, dall’altro c’è la competenza tecnica del ricercatore. Questo

tipo di lavoro segue l’approccio partecipativo.

La ricerca può anche essere guidata interamente da utenti e famigliari. In questo caso

sono le persone direttamente interessate a diventare non oggetti, ma soggetti della

ricerca. Decidono l’ambito, le tematiche, la domanda di ricerca inizia sulla base del loro

interesse, delle loro preoccupazione di vita. I ricercatori fungono da consulenti tecnici,

aiutano a tradurre l’interesse delle persone in un disegno di ricerca che abbiamo

caratteristiche di scientificità.

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Il ruolo degli utenti in questi due approcci (soprattutto nel secondo) e di identificare i

temi di ricerca, dando un ordine di priorità. Ci sono esperienze in cui rappresentanti di

utenti e di famigliari vengono inclusi nei comitati che devono allocare i finanziamenti

della ricerca. Quando una fondazione decide di finanziare dei progetti di ricerca che

riguardano l’ambito socioassistenziale, nello stabilire quali progetti finanziare e come

distribuire i finanziamenti, nel comitato decisionale potrebbero essere inclusi anche

rappresentanti di utenti e famigliari.

Un altro versante della partecipazione può essere quella che vede coinvolti utenti e

famigliari partecipare attivamente alle riunioni di équipe in cui si parla di loro o alle

visite domiciliari in cui sono loro gli oggetti (diventando così soggetti) di osservazione.

Questo significa partecipare in maniera attiva all’assessment, alla scelta delle strategie

di intervento e alle verifiche.

La partecipazione di utenti e famigliari dà l’opportunità di capire il reale valore che il

loro contributo può dare, il reale beneficio della partecipazione. Oltre a questo permette

anche di conoscere la particolare competenza, idea e esperienza degli utenti e dei

famigliari.

Conoscere la partecipazione degli utenti e dei famigliari, come coinvolgerli nella

collaborazione e come sviluppare in loro la competenza della collaborazione è

fondamentale nello sviluppo come operatori sociali.

“Il linguaggio della partecipazione è complesso: lo stesso termine indica cose differenti

per diverse persone, e lo stesso concetto può essere espresso da differenti

termini.”(Warren,2007, p.6)

Il termine partecipazione, coinvolgimento, lavorare assieme, fare assieme: essi sono

spesso utilizzati per incapsulare una vasta gamme di idee e attività, possono essere usati

in modo interscambiabile o avere un significato diverso per persone diverse. Qualsiasi

termine si decida di usare, la sfida sta nell’individuare come mettere in pratica le idee in

base a queste parole, che sempre e comunque indicano l’inclusione di utenti e famigliari

nelle pratiche di lavoro sociale.

Il processo decisionale e di costruzione di assistenza e di supporto per i bambini, i

giovani e gli adulti deve comprendere il fatto che abbiano voce in capitolo rispetto ai

servizi in cui sono coinvolti, e che possano esercitare controllo su questi servizi. Il

trucco per implementare la partecipazione è quella di creare un ventaglio di opportunità,

facendoli partecipare anzitutto all’interno del proprio servizio, essendo attori della

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costruzione del proprio percorso di aiuto. Ad esempio nella fase di assessment permette

loro di partecipare alla progettazione del loro percorso di aiuto; nella fase di

programmazione e di acquisto delle prestazioni di aiuto, inseriti così nel contesto di

organizzazione di welfare pubblici o di Terzo Settore e infine nella revisione dei piani di

assistenza.

Gli utenti e i famigliari possono contribuire allo sviluppo a livello di pianificazione

strategica attraverso riunioni di pianificazione, gruppi consultivi, comitati di gestione,

gruppi di sviluppo strategico e riunioni tra le parti interessate. (Warren, 2007).

Ci sono molti esempi soprattutto nella realtà anglosassone che hanno dimostrato

l’ottima riuscita della partecipazione alle strategie di pianificazione e di sviluppo del

servizio da parte di utenti e famigliari. Molte autorità locali, hanno individuato una serie

di metodi che promuovono e consentono la partecipazione; favorire un regolare spazio

di incontro tra utenti e famigliari, invitare gli utenti dei servizi a incontrarsi in un forum

o in gruppi di lavoro per cercare di migliorare o sviluppare altre parti di un servizio,

stabilire focus group di utenti e famigliari, coinvolgere utenti e famigliari in comitati di

gestione e avviare conferenze.

La partecipazione però può avvenire anche attraverso lo sviluppo di servizi gestiti

proprio da coloro che rappresentano solitamente i fruitori e destinatari dei medesimi

sevizi. Dal 1960 si è registrata una crescita constante delle organizzazioni di servizi

gestiti dagli utenti a livello nazionale, regionale e locale. Le organizzazioni gestite dagli

utenti, che sono indipendenti dalle autorità locali, hanno spesso dato risposte più

soddisfacenti a utenti che ricevevano prestazioni da servizi di welfare tradizionali

(Warren,2007).

Inoltre la legislazione sulla Community Care prevede l’opportunità per gli utenti e

famigliari di essere coinvolti, sia individualmente sia collettivamente, all’erogazione e

alla valutazione dei servizi. Negli ultimi anni c’è stata una redistribuzione del potere tra

chi conduce la ricerca e chi invece ne è stato l’oggetto, questo ha portato ad un elevato

coinvolgimento degli utenti e ha iniziato a radicare un approccio della partecipazione.

Questi approcci partecipativi e di emancipazione hanno portato gli utenti del servizio e i

famigliari ad essere coinvolti in ogni fase del processo di ricerca, in particolare

nell’identificare e selezionare tematiche prioritarie di ricerca, nell’avviare le ricerche e

nell’influenzare i finanziamenti per la ricerca, nello sviluppo e nella scrittura del

progetto, nella sua gestione e nell’interpretazione dei risultati.

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Costruire e sostenere la partecipazione racchiude al suo interno delle variabili (Warren,

2007). Prima di tutto deve esserci la costruzione di una cultura organizzativa e di

un’infrastruttura che supporti la partecipazione. È importante sviluppare strutture che

forniscano il significato di supportare il cambiamento e di promuovere la

partecipazione; una volta che il principio della partecipazione è stato adottato dentro

un’organizzazione, è essenziale sviluppare le infrastrutture necessarie per coinvolgere

utenti e famigliari e per supportare il loro coinvolgimento nell’effettuare il cambiamento

dell’organizzazione.

Un altro aspetto molto importante riportato dalla Warren (2007) è lo sviluppo di una

forte e positiva relazione tra utenti, professionisti e famigliari; l’impegno dei

professionisti alla pratica di partecipazione è importante. La partecipazione è un modo

di lavorare che dipende dallo sviluppo di relazioni positive tra professionisti, utenti e

famigliari, mentre le caratteristiche professionali individuali e le qualità sono importanti

nell’influenzare sia la nature che la portata del coinvolgimento. Una genuina

partecipazione dipende dallo sviluppo del coinvolgimento supportivo basato sulla verità,

il mutuo rispetto, equità ed una buona comunicazione. Le ricerche inoltre dimostrano

l’importanza di lasciare tempo sufficiente e di supporto per un dialogo costruttivo e di

costruire fiducia per migliorare il lavoro in partnership. È importante dimostrare un

genuino interesse verso di loro come persone, evitare di applicare stereotipi ed etichette

e sospendere giudizi così che gli operatori possano ascoltare efficacemente priorità e

problemi di utenti e famigliari. Stabilire un dialogo costruttivo nel quale ascoltare gli

esperti per esperienza e imparare da loro, capire le loro prospettive e pensare a come

includere i loro diversi punti di vista, capire come preferiscono essere coinvolti e creare

modi di lavoro e di comunicazione alternativi. Oltre a questo anche dare chiarezza agli

utenti circa i limiti del loro coinvolgimento, aiutare utenti e famigliari a definire i loro

criteri di partecipazione e mostrare qualcosa di noi inclusi i nostri punti di vista

mantenendo i confini professionali, condividere le informazioni, fornire feedback su

come il coinvolgimento si ripercuote sui risultati.

La partecipazione richiede tempo per costruire una relazione rispettabile, propositiva e

per dare attenzione agli aspetti pratici. La partecipazione rappresenta un processo, non

un unico evento.

Un terzo aspetto importante è che la partecipazione può creare molta pressione e

domande alle persone coinvolte. Per questo motivo è necessario fornire da parte dei

servizi una pratica effettiva e un meccanismo di supporto emotivo. Il supporto è stato 35

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identificato come uno dei mezzi affinché funzioni la partecipazione di utenti e

famigliari.

Certamente, prima di essere coinvolti utenti e famigliari hanno bisogno di sapere che

ogni bisogno particolare che essi hanno sarà preso in considerazione. Una chiara

informazione, inoltre, è richiesta circa la portata del supporto che sarà loro dato, come

verrà fornito e da chi. Due componenti sono essenziali per assicurare un’effettiva

partecipazione: accesso e supporto. Quest’ultimo può avere forme diverse, può essere

inteso a livello pratico, il principio di pagare utenti e famigliari per il loro tempo e la

loro esperienza, il rimborso viaggi e altre spese; di garantire che il luogo di ritrovo sia

accessibile e unanimemente accettato.

Ad esempio quando le persone vengono invitate a partecipare ad un evento, invece di

provare ad immaginare basandoci su dati o tabelle che ci vengono date dall’esterno,

sarebbe bello e costruttivo chiederlo ai diretti interessati. La partecipazione richiede

tempo ed energia emotiva. Gli utenti possono richiedere l’aiuto di un assistente

personale, mentre i famigliari possono avere bisogno di trovare qualcuno che li

sostituisca nella cura quando sono impegnati.

La partecipazione è un modo di lavorare che necessita di diventare completamente

integrato nella pratica di tutti i giorni, di tutte le organizzazioni sanitarie e sociali. Non

esiste un approccio o un metodo migliore per garantire l’effettivo coinvolgimento di

utenti e famigliari; questi preferiscono impegnarsi nei processi ai quali hanno

partecipato con le loro idee e nei quali sono stati coinvolti con metodi inclusivi e che

vanno incontro ai loro bisogni e alle loro preferenze (Warren, 2007).

Oltre a questi punti, ha un ruolo importante l’inclusione di utenti e famigliari nel fornire

sostegno e formazione ai loro pari oppure agli operatori in servizio o studenti in

formazione. Questo aspetto verrà approfondito nel capitolo successivo in maniera più

specifica essendo il fulcro di questa tesi.

2.1.1 Le origini

Nella storia le conoscenze esperienziali degli utenti spesso sono state marginalizzate, in

particolare se ci si riferisce a persone anziane, con disabilità, con patologie

psichiatriche, persone con difficoltà di apprendimento e bambini.

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Il lavoro sociale in realtà ha molto da imparare dai movimenti di utenti e famigliari,

tanto che negli ultimi due decenni questi movimenti hanno introdotto innovazioni e

nuovi modi di vedere e rispondere ai problemi individuali.

Negli ultimi due decenni avvengono dei cambiamenti e la voce degli utenti e dei

famigliari sta iniziando a prendere piede nelle politiche sociali e nella pratica. In alcune

realtà come ad esempio l’Inghilterra è proprio lo stesso governo a richiedere il punto di

vista degli utenti e dei famigliari su questionari nazionali, gli erogatori dei servizi sono

interessati a consultare gli utenti e i famigliari a prendere decisioni attraverso processi di

tipo partecipativo (Warren, 2007).

La partecipazione ha preso piede grazie ai cambiamenti sociali e politici che si sono

verificati durante gli ultimi anni sessanta che hanno portato allo sviluppo di nuove

filosofie che sottolineano il diritto e la partecipazione dei cittadini, lo sviluppo dei

movimenti civili, del welfare e l’emergere di gruppi di auto-mutuo-aiuto basati sulla

centralità dell’esperienza personale.

L’inclusione di esperti per esperienza nei servizi è avvenuta anche come risposta alla

mancanza di responsabilità dei servizi tradizionali di welfare, insoddisfazione per la

scarsa qualità, la mancanza di reattività e responsabilità del welfare. Tutto questo ha

portato all’emergere di movimenti di utenti e famigliari che possano dare una risposta a

queste carenze. Questo ha permesso la creazione di nuovi modi di collaborare e di

lavorare, che esaltano l’uguaglianza e la condivisione.

È attraverso la storia che si sono sviluppati e fortificati i movimenti di utenti e famigliari

e i benefici sono notevoli; prima di tutto documentano uno sviluppo significativo dei

movimenti che hanno permesso anche una mappatura dei cambiamenti politici, sociali

ed economici dati dai movimenti, permettendo di cambiare l’opinione pubblica riguardo

i gruppi di utenti e famigliari. Questo ha dato modo anche di tracciare i diversi tipi di

problemi e conflitti dei quali i diversi movimenti hanno fatto esperienza. Le storie dei

movimenti evidenziano anche le forze trainanti e le preoccupazioni del governo sul

coinvolgimento e la partecipazione degli utenti, in particolare all’interno della pratica

del servizio sociale.

I principali movimenti riconosciuti e presenti sono quelli che vedono come protagonisti

le persone con disabilità, patologie psichiatriche oppure anziani.

C’è stato un riconoscimento ufficiale delle organizzazioni negli ultimi vent’anni che

sono nate da una spinta individuale trasformata poi in un’azione collettiva generando in

alcuni casi un forte impatto sul programma legislativo del governo (Warren, 2007).37

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Questi movimenti hanno vari ruoli e hanno permesso di creare varie attività come

consultazioni, consigli sul servizio e sulle pratiche, creazione dei servizi che

comprendano l’auto-aiuto, advocacy collettiva e individuale e altre realtà che abbiamo

visto precedentemente.

2.1.2 Il valore aggiunto della partecipazione di utenti e famigliari nei

servizi

Lo sviluppo della partecipazione degli utenti e dei famigliari nei servizi e di assistenza è

diventato un tema centrale nel programma di riforme del governo. Braye (1995) ha

identificato le tre forze guida che stanno alla base dello sviluppo della partecipazione.

Prima di tutto il mandato giuridico e politico, il quale sottolinea l’importanza del

principio della partecipazione che è alla base di gran parte della legislazione attuale e

degli orientamenti politici inglese che si occupano di salute e assistenza.

Secondo aspetto è il mandato professionale, Braye (1995) ha distinto due tipi di

mandato professionale che nascono all’interno del lavoro sociale e delle professioni

sociali. Il primo guidato dal principio “The code of Practice for Social Care Workers”

(General Social Care Council, 2002), il secondo è guidato dal senso di efficacia. In

primo luogo, il codice di condotta per i social care workers, pone un mandato per il

personale, di trattare ogni persona come individuo, per sostenere i diritti delle persone di

controllare la propria vita e di fare scelte informate sui servizi che ricevono.

Inoltre è richiesto che il personale promuova l’indipendenza degli utenti del servizio, ad

esempio, aiutandoli a fare reclami. Questo approccio si basa su valori tradizionali di

assistenza sociale, sulla base dei principi di accettazione, di rispetto per le persone e

autodeterminazione. Accanto a questo, c’è poi un mandato professionale per

promuovere le pari opportunità per gli utenti dei servizi e i famigliari, per quanto

riguarda la diversità, le diverse culture e valori.

Mentre vi è una generale mancanza di ricerca e di valutazione dell’impatto e dei risultati

della partecipazione degli utenti del servizio, alcuni studi hanno dimostrato che il

coinvolgimento degli utenti dei servizi non solo ha un influsso positivo sulle opinioni e

le esperienze dei servizi degli utenti di servizi, ma aiuta a promuovere la pratica di

opinioni e condivisione delle varie esperienze favorendo una pratica più efficace e

efficiente. Questo sottolinea la necessità di partecipazione per l’utente del servizio e dei

famigliari (Warren, 2007).

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Inoltre il mandato degli stessi utenti, i quali si sono sentiti marginalizzati rispetto ai

propri problemi e non minimamente coinvolti, è emersa proprio dagli stessi la richiesta

di essere coinvolti sulle decisioni che influiscono le proprie vite.

La partecipazione di utenti e famigliari ha vari vantaggi, in questo paragrafo cercherò di

far emergere gli aspetti positivi della partecipazione sia per chi partecipa che per il

servizio.

Prima di tutto bisogna partire dal presupposto che c’è un intrinseco ed importante valore

per le persone nel prendere decisioni che riguardano la propria vita. Questo permette di

accrescere la fiducia e l’autostima della persona, permette di creare un’occasione per

sperimentare qualcosa di terapeutico; infatti il progetto nel quale l’utente o famigliari è

coinvolto si riflette in modo positivo anche sulla vita personale di questa persona.

Questo è sicuramente positivo e perseguibile ma non deve essere l’unico obbiettivo

della partecipazione; questa non deve essere pensata solo sul valore terapeutico, perché

rischia di essere non più vera partecipazione ma un’esperienza animativa-educativa.

L’obbiettivo principale dovrebbe essere la percezione di essere un aiuto per gli altri e

per i professionisti oltre che per sé stessi.

Ma questo non l’unico beneficio che si può riscontrare dalla partecipazione. Questa

permette infatti di sviluppare capacità di auto-mutuo e reciprocità, gli utenti e i

famigliari sono molto più sensibili verso gli utenti che hanno vissuto esperienze

similari. Genera empowerment attraverso il reciproco aiuto in situazione condivise e

crea occasioni di apprendimento in quanto la partecipazione accresce la conoscenza e

migliora le competenze.

Partecipare per coloro che detengono il sapere esperienziale promuove la peer

advocacy, il loro coinvolgimento permette alle persone di assistere e sostenere gli altri

utenti della comunità nell’accesso ai servizi sanitari e sociali.

In questo modo si creano anche delle occasioni per sviluppare fra pari varie iniziative,

incoraggiando lo sviluppo di iniziative che sono user-centred, cioè incentrate sugli

utenti.

La partecipazione permette inoltre la messa in discussione delle proprie idee e dei propri

sentimenti, favorendo anche la possibilità di rielaborare la propria storia di vita e il

proprio percorso.

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Il coinvolgimento delle persone le porta ad aumentare la propria percezione di potere

(empowerment) nel prendere le scelte che riguardano la propria vita, contesto sociale e

ambientale ma al tempo stesso permette alle persone di autodeterminarsi

(Warren,2007).

La partecipazione di utenti e famigliari ha dei benefici anche per quanto riguarda gli

operatori. Questi hanno a disposizione conoscenze esperienziali che vanno oltre a quelle

acquisite negli anni di studio, permettendo ad utenti e famigliari di partecipare.

Apprendono dall’esperienza legata alla vita, al convivere con una patologia e

comprendere che effetto ha su ogni singola persona.

Gli operatori che favoriscono la partecipazione e ne traggono il bello,

contemporaneamente mettono in discussione assunti dati per scontati, perché utenti e

famigliari sono la vera fonte di conoscenza che può essere usata per istruire gli operatori

di lavoro sociale (Warren,2007).

Utenti e famigliari spesso hanno una modalità di comunicazione efficacemente e con

una sensibilità diversa rispetto agli operatori, perché “l’hanno vissuta”. Grazie a questo

il servizio può rendere più consolidato il rapporto tra utente e servizio.

Favorire l’inclusione all’interno dei servizi di esperti per esperienza favorisce inoltre la

collaborazione e permette al servizio di costruire prestazioni su misura che partono però

dall’incrocio tra diversi saperi, quello tecnico e quello esperienziale.

In ultimo, facilitare la riappropriazione condivisa di progetti di vita comune è un’arte

sopraffina sia in campo sanitario sia in campo sociale. Consentire alle persone immerse

in problemi percepiti di affrontarli assieme, ragionando e riflettendo dialogicamente,

facilitando lo stare assieme e l’intraprendere assieme, apre gli scenari di una tipica

“terapia sociale” che chiamiamo “lavoro di rete.” (Folgheraiter, 1998; 2007)

Le persone connettono in queste reti “il fare per sé con il fare per altri”, sia altri con cui

sono a diretto contatto, sia con conosciuti, arrivando al livello di un agire “politico” per

l’affermazione della giustizia sociale, della convivenza pacifica o di altri valori. La

partecipazione così intesa permette alle persone di fare esperienza del relazionarsi e

della efficacia sia funzionale, sia psicologica che civica.

Questo “agire” inteso in senso fiduciario nei confronti degli altri rappresenta capitale

sociale; questo termine è inteso per designare un indefinito “bene” incorporato nelle

relazioni sociali e sul quale i soggetti interessati possono investire in vista di un qualche

“ritorno” che può consistere sia in vantaggi diretti sia in una cumulazione di quel bene

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stesso. Pensare alle relazioni sociali in termini di un bene durevole e autocumulantesi,

da cui i soggetti possono attingere in vari modi, è da sempre nella cultura delle

professioni sociali. (Folgheraiter, 2004b, p.133)

2.2 La partecipazione di utenti e famigliari nella salute mentale

La partecipazione, valutazione e gestione dei servizi di salute mentale, consento il

primo luogo, di migliorare la qualità dei servizi coinvolgendo i veri esperti del

problema, che conoscono la malattia mentale, i suoi effetti e cosa significa essere utenti

del servizio.

In secondo luogo, permette di far valere gli interessi e la prospettiva dei testimoni

privilegiati (stakeholders) spesso messi in secondo piano durante i processi decisionali

perché sono ritenuti destinatari di prestazioni definite da altri dove loro ricevono e basta.

Il coinvolgimento di esperti per esperienza porta anche a effetti di indiretti: primo tra

tutti, il miglioramento della situazione di vita delle persone coinvolte attraverso

l’aumento della fiducia in sé e negli operatori, dell’autoefficacia, dell’empowerment e

dell’assunzione di responsabilità rispetto alla propria vita (Stanchina,2014).

Questo coinvolgimento oltre ad avere benefici a livello micro, può avere effetto sulla

comunità territoriale, mettendo in discussione i pregiudizi legati alla mattina mentale e

portando a un aumento del capitale sociale.

Ad oggi la partecipazione inoltre ricopre un ruolo molto importante sia per la crisi del

welfare che per i servizi sociosanitari. La messa in valore delle energie e delle

competenze dei diretti interessati diventa la via principale per uscire dalla crisi, o

meglio, per sfruttare l’occasione della crisi economica per mettere in campo energie

umane che fino a quel momento sono state schiacciate da un sistema di welfare centrato

sulla tecnicità.

Nonostante l’entrata in vigore della legge di riforma psichiatrica in Italia, la legge 180

citata nel capitolo precedente, le spinte sociali, scientifiche e culturali alla salute

mentale sono ancora piuttosto contrastanti e in continuo aumento. La legge 180 da una

parte ha permesso la chiusura dei manicomi dall’altra arte però esistono ancora realtà di

forte istituzionalizzazione che hanno preso nomi diversi ma che, di fatto, ricalcano le

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orme dei vecchi manicomi. Tuttavia, una situazione tanto pericolosa quanto

l’istituzionalizzazione vera e propria è rappresentata da un subdolo riprodursi della

logica istituzionale all’interno dei servizi territoriali, ad esempio seguendo un approccio

basato sul paternalismo, controllo sociale capillare e sull’assistenzialismo. Tuttavia però

già da qualche tempo nello stesso contesto sembra rinascere una psichiatria alternativa,

che trova spazio soprattutto all’interno di best practices che partono dalle iniziative

operative dei singoli servizi e gruppi di operatori. Queste pratiche si basano sul

coinvolgimento di utenti e famigliari ma non incentrata sul bisogno (che potrebbe

portare il servizio ad avere più potere) ma bensì si tratta di una collaborazione vera e

propria che riconosce le competenze di tutti ed è volta a una finalità comune, vale a dire

il benessere delle persone all’interno dei servizi di salute menale (Stanchina, 2014).

“Quando parliamo di partecipazione in psichiatria intendiamo di solito quelle prassi in

cui la società, vale a dire l’ambiente e il target delle strutture e dei presidi psichiatrici, è

chiamata a collaborare con quelle strutture stesse.” (Folgheraiter, 2007b, p. 186).

Prima di tutto è importante distinguere tra interessati a partecipare in quanto utilizzatori

diretti dei servizi (pazienti e famigliari) e invece quando parliamo di collaboratori civici

per una migliore realizzazione dei servizi. Una cosa non esclude l’altra, ed è proprio

tramite la partecipazione che avviene una importante intersezione. “Anche in

psichiatria, gli utilizzatori possono essere collaboratori per la realizzazione/gestione dei

servizi, o di certi servizi.” (Barnes,1999). Se pensiamo alla partecipazione di un utente o

famigliari nella sua funzione di utilizzatore può essere descritta come ancillare, preziosa

solo in due momenti, come prerequisito alle operazioni tecniche oppure nel dare un

feedback in itinere o alla fine.

Se invece si pensa alla persona come collaboratore, partner per la realizzazione

dell’intervento, si entra in una dimensione più profonda, dove non si è solo utenti ma

bensì produttori e co-produttori di ciò che ricevono dal sistema; questo doppio valore

prende il termine prosumer. Nel momento in cui la persona con una patologia

psichiatrica o la sua famiglia viene riconosciuta come partner, si consegna loro un

potere effettivo (empowerment).

La partecipazione del paziente o del familiare alla decisione riguardo all’assunzione di

un farmaco o comunque all’aspetto terapeutico un farmaco può essere minima, invece,

la loro partecipazione alla decisione di che cosa dare per riorganizzare la propria vita

può non essere che totale. (Folghetaiter, 2007b)

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Tra gli attori che si possono occupare del funzionamento dei servizi, oltre agli operatori,

ci sono anche gli utilizzatori dei servizi. In questo caso specifico sono utenti e famigliari

che indipendentemente da loro si trovano ad affrontare una condizione di vita segnata

dalla malattia mentale che li porta a relazionarsi con il contesto dei servizi di salute

mentale.

Secondo una prima tradizionale prospettiva, utenti e famigliari sono riconosciuti come

meri ricettori di prestazioni tecniche, diventando così i destinatari di un intervento

tecnico di esclusiva competenza dei professionisti. Come si può notare in questa

concezione, la partecipazione è molto limitata, si limita alla compliance al trattamento e

ha un rimando da parte della persona di come sta proseguendo la terapia. Questo spesso

avviene perché gli apporti degli esperti per esperienza possono essere visti come

“pericolosi” da parte dei servizi, l’organizzazione di questi infatti può perseguire come

principale obbiettivo l’auto- mantenimento, difendendosi da ciò che secondo loro può

minacciare la loro stabilità, dimenticando così gli scopi per cui è nata (Stanchina, 2014).

Un servizio che coinvolge gli esperti per esperienza solo perché ci sono delle direttive

che impongono di farlo, lo farà nei modi e rispetto alle aree che ritiene più opportune

(spesso le meno rilevanti) rappresenta una partecipazione più simbolica che effettiva.

Un’altra prospettiva può essere quella che vede gli utenti come produttori o co-

produttori di ciò che l’organizzazione fa. Questo permette di considerare utenti e

famigliari come interlocutori validi, importanti per migliorare il lavoro

dell’organizzazione.

C’è una visione che coloro che hanno affrontato in modo costruttivo la loro situazione

di vita caratterizzata da sofferenza e di un percorso all’interno dei servizi possano

aiutare questi a organizzarsi in modo più proficuo, ad abbandonare la tendenza

all’autorefenzialità, predisponendo interventi migliori con creatività e capacità di

innovazione (Folgheraiter, 2009b).

In merito a questo aspetto è importante però sottolineare la questione della motivazione

e della libertà del singolo a partecipare; questa deve rappresentare un’opportunità per la

persona, favorita da contesti in cui è presente fiducia. Per far sì che la partecipazione

diventi un processo positivo e costruttivo per chi è coinvolto, chi partecipa deve essere

il più possibile libero di decidere come e rispetto a cosa partecipare. L’azione si deve

rivolgere a una finalità che la persona propria, alla quale sente di appartenere e non

imposta dall’esterno (Folgheraiter, 2009b).

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La stessa azione partecipativa può rispondere a una finalità diversa, che si può definire

“democratica” (Barnes e Bowl, 2001) o “relazionale” (Folgheraiter, 2011). In

quest’ottica, la partecipazione è diretta a produrre azioni congiunte in vista di finalità

condivise. “Essa consente agli attori di incidere direttamente anche su quella piccola

porzione di mondo sociale che riguarda i servizi. L’empowerment, così inteso, permette

di elaborare anche cambiamenti sociali e politici, oltre a influenzare la realtà concreta

vissuta dalle singole persone.” (Stanchina 2014, p. 36)

Una forma di partecipazione può essere quella dei movimenti degli utenti. Questo è un

fenomeno emerso negli ultimi decenni del Novecento, soprattutto nel contesto

britannico, riguarda la nascita di organizzazioni autonome di utenti dei servizi di

welfare, compresi quelli nell’area della salute mentale. Questo tipo di esperienze fanno

parte dei movimenti degli utenti e sono legate dall’esperienza comune di aver

sperimentato il disturbo mentale e l’utilizzo dei servizi psichiatrici. Ogni esperienza

viene ritenuta preziosa perché rappresenta una manifestazione di un’expertise

insostituibile (Stanchina,2014). Uno degli scopi dei movimenti è proprio quello di

svolgere un’azione di pressione nei confronti di servizi, in modo tale che questo sapere

esperienziale venga tenuto in considerazione. Un altro scopo è svolgere una funzione di

advocacy, fare in modo che la voce degli utenti venga ascoltata principalmente da

coloro che detengono il potere della “cura”.

Altro scopo dei movimenti può essere quello di fornire sostegno, informazione e aiuto.

Qui la partecipazione da parte di utenti e famigliari è molto presente, al tempo stesso

però non vede l’interazione, la co-progettazione e co-produzione con il servizio, ma

nasce dal basso, da un bisogno comune di una collettività che si ritrova insieme e cerca

di dare una risposta autonomamente.

Come detto precedentemente il coinvolgimento degli utenti e dei famigliari nei servizi

di salute mentale è importante per diverse ragioni, pratiche e etiche.

Prima di tutto coinvolgere queste persone significa entrare in relazione con dei veri

esperti del problema, che hanno una conoscenza profonda sia della malattia mentale, dei

suoi effetti sia di cosa significa rivolgersi ai servizi. Queste persone sono esperti per

esperienza dalle quali gli operatori possono apprendere per lavorare in modo più

efficace.

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Un secondo motivo è rappresentato dalla ricchezza che si può ottenere dall’incrocio di

due saperi, quello esperienziale e quello tecnico. Perkins (2001) sottolinea come i

diversi stakeholders possano avere prospettive divergenti, che corrispondono ad

altrettante aspettative rispetto agli obbiettivi da ottenere. Ad esempio per gli operatori e

i medici può essere importante e prioritario ridurre i sintomi di una patologia, per la

persona invece trovare delle strategie per continuare a vivere una vita dignitosa

nonostante la presenza di questa.

Altro motivo importante del perché far partecipare gli utenti e i famigliari all’interno dei

servizi di salute mentale è che il loro coinvolgimento permette di riempire le lacune

rispetto alle conoscenze attuali della malattia mentale, che continua a essere un campo

da esplorare. “In particolare, deve essere riconosciuto appieno il valore della cosiddetta

“esperienza aneddotica” (o meglio,” testimonianza umana”), che deve entrate a tutti gli

effetti tra le evidenze che permettono di valutare l’efficacia delle pratiche nei servizi di

salute mentale.” (Stanchina, 2014, pag.24)

Partecipare di per sé crea già un beneficio nella persona, che si manifesta attraverso

l’accrescimento di empowerment, l’autostima, lo sviluppo di nuove abilità e capacità

relazionali.

Inoltre il coinvolgimento può avere effetto anche sulla promozione dell’inclusione

sociale (Tait e Lester, 2014). La partecipazione di utenti e famigliari facilita inoltre la

creatività, mettendo in discussione la prospettiva dei professionisti e obbligandoli a

pensare a nuovi approcci. Allo stesso tempo, questo aiuta loro a maturare fiducia nei

confronti degli operatori. (Stanchina, 2014).

Nonostante utenti e famigliari siano entrambi esperti per esperienza è importante

ricordare che i bisogni possono essere molto diversi tra loro, ognuno ha un proprio

“bagaglio esperienziale”, è però importante comprendere che nonostante entrambi

abbiano fatto esperienza di cosa significa vivere con una malattia mentale, è importante

comprendere i diversi bisogni e non darli per scontato.

Quando gli operatori fanno riferimento alla prospettiva dei caregiver sostenendo che

questo racchiude anche il punto di vista degli utenti, rischiano di commettere un errore:

utenti e caregiver sono stakeholders diversi, portatori di interessi particolari non

omogenei. Quello che gli operatori possono fare, invece, è aiutare utenti e familiari a

riconoscere ed esplicitare i diversi bisogni e, successivamente, a metterli in relazione

per costruire azioni condivise. (Folgheraiter,2011; Barnes e Cotterell,2012)

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Gli operatori sociali hanno un ruolo fondamentale per facilitare e supportare la

partecipazione degli utenti e famigliari fin dall’inizio. È necessario pensare attentamente

a chi e quanti utenti coinvolgere nella pianificazione e implementazione di un’iniziativa,

assicurando un equilibrio tra le persone. È importante anche fornire livelli appropriati di

supporto per consentire la partecipazione di utenti e famigliari attraverso delle sedi

accessibili, trasporti idonei, servizi di advocacy, l’uso di interpreti se necessario.

Inoltre è importante informare gli utenti e i famigliari circa i livelli di coinvolgimento ed

essere onesti riguardo i vincoli di tempo e risorse, che potrebbero rendere difficile il

percorso. Il punto fondamentale della partecipazione, tuttavia, è senz’altro lavorare con

loro per sviluppare un piano d’azione che possa affrontare il problema in un’ottica di

azione congiunta.

La partecipazione è anche un mezzo di insegnamento per il servizio: ascoltare e

“utilizzare” l’esperienza degli utenti o famigliari non li fa sentire solo considerati e

coinvolti, ma implementa la formazione e le capacità dei professionisti e

dell’organizzazione (Warren, 2007).

Per sviluppare la partecipazione, le organizzazioni necessariamente hanno bisogno di un

cambiamento, anzitutto creando dei momenti di ascolto per utenti e famigliari che

risultino davvero significativi e costruttivi.

È importante che i servizi adottino un “sistema integrato” per effettuare un

cambiamento e un miglioramento nei propri servizi; questo modello è composto da

elementi semplici ma indispensabili per favorire la cultura della partecipazione creata

non solo da operatori ma anche da utenti e famigliari.

I servizi inoltre devono supportare concretamente la partecipazione (ad esempio tramite

strategie di partecipazione e lavori di gruppo), devono stimolare la partecipazione ad

esempio attraverso un buon ambiente e utilizzando approcci creativi e creare un

effettivo sistema che permetta di rivedere e valutare la partecipazione, attraverso sistemi

di monitoraggio e valutazione dei risultati.

Un approccio come questo richiede che le organizzazioni si trasformino in servizi

incentrati sulle persone (users-need), dove gli operatori siano formati a favorire la

partecipazione e in grado di realizzarla e metterla in pratica concretamente. Non solo,

ma le organizzazioni dovrebbero mettere in discussione e cambiare le attitudini

esistenti, i modelli di comportamento, le norme, i processi tradizionali che

caratterizzano il lavoro sociale tradizionale. Sviluppare una cultura di partecipazione

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con un’organizzazione è un processo complesso ma dinamico e creativo, ma una delle

chiavi per realizzarla è l’ascolto attivo di utenti e famigliari.

Per potenziare la partecipazione di utenti e famigliari è necessario un cambiamento

nell’equilibrio di potere, per far sì di aumentare il controllo e nello stesso tempo ridurre

la dipendenza, aumentare l’autonomia e far crescere il potenziale degli utenti.

Storicamente il lavoro sociale era fondato su uno squilibrio di potere tra professionisti,

utenti e famigliari; i professionisti esercitano un potere considerevole in virtù della loro

formazione professionale e del loro ruolo come rappresentanti di enti con poteri statuari

e detenenti delle risorse. È importante riuscire a mettere in moto un radicale

cambiamento di prospettiva, coinvolgendo gli utenti e famigliari nella pianificazione dei

cambiamenti e nell’erogazione dei servizi e nella programmazione dei pacchetti di care.

Gli operatori sociali devono considerare le persone come pari e promuovere l’inclusione

sociale di tutti: l’empowerment non è un intervento o una strategia, ma piuttosto un

fondamentale modo di pensare. Per una buona pratica di lavoro sociale è essenziale

essere consapevoli di quanto le nostre sensazioni e la nostra sensibilità come operatori

possano influenzare la nostra pratica e modella le nostre azioni. Gli utenti e i famigliari

possono insegnare agli operatori molto ma sicuramente l’apprendimento di questi

dipenderà, in parte, da come e quanto questi ultimi accolgono queste nuove opportunità

di apprendimento. (Warren,2007)

Promuovere la partecipazione di utenti e famigliari richiede un impegno genuino da

parte dei professionisti, di riconoscerli come esperti delle proprie vite. È necessaria che

la decisione riguardo la cura sia presa con il paziente e non sul paziente. Il paternalismo

degli ultimi anni è aggravato dal credere che gli utenti non siano in grado di prendere

parte al processo di presa di decisione sulle proprie vite, nonché considerare l’infanzia

come un qualcosa che sta per accadere piuttosto che come qualcosa che esiste ora. È

importante che i professionisti non impongano il proprio punto di vista. Per creare

partecipazione occorre creare contesti e ambienti in cui gli utenti possano esercitare

controllo e potere nella presa di decisioni, per gli utenti, i quali si sentono esclusi ed

emarginati. Anche l’uso del linguaggio tecnico può rendere difficile l’ascolto della loro

voce.

Attenzione però, se in teoria ci si auspica la partecipazione degli utenti, spesso nella

realtà i professionisti continuano a mantenere il potere ed il controllo; per coinvolgere

gli utenti è necessario che gli operatori sociali siano disposti a spostare l’equilibrio del

potere verso utenti e famigliari. La sfida chiave per i professionisti è quella di creare un

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contesto di accettazione che permetta all’inclusione di diventare realtà. Molti utenti

basandosi su esperienza passate, sanno esattamente come vorrebbero che fossero i

professionisti e presentano speranze ed aspettative.

Il lavoro sociale si fonda sul rispetto della privacy e della riservatezza, sulla promozione

dell’indipendenza e la considerazione delle persone come individui. Tradizionalmente,

invece la base del lavoro sociale era fondata sull’assioma dei professionisti quali figure

esperte, i quali imponevano il proprio sistema di conoscenza e i propri modi di

intervento su utenti e famigliari. Si può ritenere che uno dei risultati maggiori raggiunti

nel lavoro sociale sia stato il modo in cui la professione ha rivisto i propri valori base

attingendo nuove idee provenienti da altri ambiti. (Warren,2007).

Concludendo, la partecipazione degli utenti e famigliari tuttavia deve andare al di là

della semplice espressione di un’opinione in merito ai servizi esistenti, che solitamente

viene raccolta tramite questionari di gradimento o indagini rispetto alla soddisfazione

degli utenti. Per fare in modo che utenti e familiari partecipino davvero alle decisioni

che riguardano loro e i servizi a cui si rivolgono, è necessario andare al di là di tali

modalità di raccolta della soddisfazione (Simpson e House, 1994).

2.2.1 Le difficoltà da parte dei servizi nel coinvolgimento degli utenti

Partendo dal presupposto che nonostante l’esperienza di vita accomuna utenti e

famigliari, ciò non significa che i bisogni siano gli stessi. Le iniziative di

coinvolgimento dei famigliari nelle decisioni riguardanti i servizi (a livello di policy e

management) o i tentativi da parte degli operatori di confrontarsi con i famigliari per

migliorare i servizi presenti sono evidentemente più numerosi delle azioni che vengono

fatte verso gli utenti sia per quanto riguarda i servizi di salute mentale, ma non solo.

Questa difficoltà a coinvolgere gli utenti rispetto ai famigliari può esserci in primo

luogo perché la partecipazione dei primi richiede anche agli operatori abilità particolari

rispetto alle modalità di contatto, comunicazione, incontro e progettazione. Per gli utenti

può rivelarsi complicato aderire a un linguaggio formale e inerenti ai tempi, luoghi e

modi tradizionali dei servizi. È importante infatti creare soluzioni creative e flessibili

per aiutare le persone a esprimere il loro punto di vista, a ragionare sulle situazioni che

vivono e sul rapporto con i servizi. 48

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Coinvolgere invece i famigliari, può rilevarsi molto più semplice su questo versante,

soprattutto se fanno già parte di associazioni all’interno delle quali sono già abituati ad

esprimere il loro pensiero (Stanchina,2014).

Un secondo motivo può essere dovuto al fatto che è più semplice che gli operatori si

immedesimino nei famigliari, perché hanno un ruolo per certi versi simili, assistono la

persona in difficoltà. La prospettiva di trovarsi, in un futuro, nel ruolo di chi aiuta un

familiare in difficoltà può essere molto meno minacciosa rispetto a quella di essere una

persona che si trova a soffrire di un disturbo mentale. Questa percezione da parte degli

operatori può aumentare la distanza tra loro e gli utenti, rispetto ai famigliari.

Una terza questione che può farci intuire il motivo per cui i famigliari vengono coinvolti

più facilmente riguarda l’autorità professionale degli operatori. Gli operatori non si

sentono minacciati il loro potere e sapere dai famigliari, mentre gli utenti possono

metterli in discussione non solo in merito ad aspetti particolari del trattamento ricevuto

ma anche a un livello più complessivo, rispetto al senso della loro professione e della

loro relazione di aiuto. In merito a questo aspetto Barnes e Wistow hanno riscontrato

che “gran parte di ciò che è stato detto dagli utenti coinvolti in questi comitati ha

attaccato alle fondamenta due aspetti della professione psichiatrica: l’efficacia degli

interventi medici e la responsabilità dei medici coinvolti.” (Barnes e Wistow 1994,

p.532).

Questo problema purtroppo è dovuto anche dal fatto che spesso coloro che si esprimono

(inteso gli utenti) sono gli stessi che solitamente vengono giudicate “incapaci” di

prendere decisioni in merito al loro percorso (Stanchina, 2014). L’operatore vive così

l’osservazione come una “minaccia” al suo ruolo professionale, ma non solo, anche

rispetto alla sua autorità che consente di diagnosticare il problema e trovare gli

interventi per risolverlo.

Concludendo, il fatto che l’utente da ruolo passivo, di semplice ricettore passi ad essere

un interlocutore in grado di esprimere insostituibili capacità esperienziale, di dire cosa

favorisce il suo benessere e cosa invece no, per evidenziare le criticità dei servizi e

rendersi responsabile per aiutare portando ad una sorta di “ribaltamento dei ruoli tra

“chi aiuta” e “chi è aiutato” obbliga gli operatori ad adottare un nuovo approccio nei

confronti dei loro interlocutori.” (Stanchina,2014, p.28).

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Per tutti questi aspetti è importante fare attenzione a trovare la modalità, linguaggio per

coinvolgere gli utenti, facendo in modo di creare contesti adeguati e che favoriscono la

loro partecipazione.

2.3 Modelli di partecipazione

Per comprendere completamente la partecipazione è bene andare a osservare i diversi

gradi di intensità e non solo in cui essa può manifestarsi. Per comprendere meglio

questo concetto sono state elaborate diverse “scale della partecipazione”. In questo

capitolo prenderò in considerazione diverse tipi di scale, analizzando i vari livelli di

intensità di relazionalità della partecipazione di utenti e famigliari nelle pratiche del

lavoro sociale.

Nelle scale che illustrerò in questo capitolo si farà riferimento non solo alla

partecipazione all’interno dei servizi, ma anche a livello di comunità.

Sono scale che analizzano aspetti diversi della partecipazione, sia a livello di intensità

che di relazionalità, cercando di comprendere le differenze tra i diversi livelli,

analizzando al meglio i diversi significati che la partecipazione può avere secondo i

diversi autori. Un altro aspetto interessante è capire che un livello alto di una scala non

per forza può risultare altrettanto alto in un'altra scala, questo è dovuto ai diversi

significati che vengono attribuiti alla partecipazione e cosa questa rappresenta per

l’autore.

Inoltre è importante considerare che partecipazione significa anche avere la libertà di

non partecipare (Warren,2007) nel momento in cui una persona sente il bisogno o la

volontà di non farlo, questo tema è affrontato in modo più dettagliato all’interno di un

paragrafo riportato successivamente.

2.3.1 Scala di Folgheraiter (2011)

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L’intento di questa scala formulata da Folgheraiter è comprendere e misurare i diversi

gradi di relazionalità presente nella partecipazione:

Possiamo collocare i diversi gradi di relazionalità su una sorta di gradiente (il tratteggio

sulla retta sta a significare che non c’è una distanza precisa). In questa scala l’obbiettivo

è quantificare la relazionalità presente nella partecipazione, intesa come quanto utenti,

famigliari e operatori collaborano e condividono nel pianificare e realizzare le varie

finalità stabilite insieme. Nel momento in cui questo avviene si ottiene la massima

relazionalità, nel caso in cui gli operatori decidono e utenti e famigliari usufruiscono o

erogano la relazionalità è bassa.

Analizziamo più nel dettaglio questa scala:

Parliamo di bassa relazionalità della partecipazione quando, da una parte, ci sono

esperti o providers (intesi come produttori di servizi, termine appartenente al linguaggio

consumerista), che decidono quali servizi realizzare e dall’altra parte ci sono utenti e

famigliari che possono usufruire o meno di questa possibilità. Nel welfare mix, nel

quasi-mercato, gli esperti hanno l’interesse a catturare la fiducia dei consumatori per

aumentare il proprio fatturato. Nel welfare state istituzionale, invece questo interesse

non c’è però la relazione non cambia, ci sono degli operatori dei servizi istituzionali

organizzati dallo Stato che, per mandato istituzionale, hanno il compito di predisporre

dei servizi da erogare alla popolazione; le persone hanno bisogno, possono decidere di

diventare utenti, cioè che usufruiscono di servizi o meno.51

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Nel welfare mix agli operatori dei servizi interessa coinvolgere gli utenti perché questi

utenti comprano i servizi da coloro che creano una maggiore soddisfazione al bisogno

che l’utente ha. Questo tipo di partecipazione è di stampo consumerista.

In questo primo livello della scala, c’è una bassa relazionalità.

Possiamo trovare questa bassa relazionalità sia nel welfare state che nel welfare mix:

non importa lo scenario di fondo, tutte le volte che sono gli esperti che decidono e

realizzano, utenti e famigliari usufruiscono o comprano, in entrambi i casi non c’è una

relazionalità, non c’è il lavoro fatto insieme, c’è infatti una parte che riceve e l’altra che

usufruisce.

Ad un livello superiore, rimanendo però ancora nella bassa relazionalità (intesa come

poco intreccio tra le competenze esperte e quelle esperienziali) possiamo collocare un

tipo di situazione come la seguente: gli esperti decidono e realizzano, gli utenti e i

famigliari vengono consultati rispetto al gradimento delle iniziative, dei servizi e delle

prestazioni.

Quest’ottica è una configurazione del complesso consumerista, dell’ottica

managerialista. Dato che l’interesse è quello di migliorare i servizi e i prodotti che si

vendono.

La maggior parte dei nostri servizi socioassistenziali ha un impianto fortemente da

welfare istituzionale; per questo motivo, il fatto di sentire cosa ne pensano gli utenti

viene percepito come abbastanza innovativo, anche in un’ottica meramente

consumerista. Una serie di iniziative, come ad esempio la carta dei servizi, i questionari

di gradimento, i fogli che indicano le segnalazioni su ciò che non funziona sono di

stampo consumerista/managerialista.

L’ottica consumerista è comunque qualcosa che favorisce la partecipazione, ma è

pensata nell’ottica di conquistare la fiducia del consumatore, non in un’ottica

relazionale. In certi contesti, può rivelarsi utile un questionario di gradimento rispetto ai

servizi però questo non aiuta a fare lavoro di rete. Le relazioni e opinioni dei

consumatori nell’ottica managerialista non è la strada migliore per costruire

partecipazione in senso democratico, inteso come promuovere l’empowerment delle

persone e fare lavoro di rete. Questo tipo di approccio si può rivelare utile quando si ha

a che fare con problemi che hanno una forte componente tecnica, quando non serve uno

spessore di competenze esperienziali particolarmente significativo, in questi casi i

questionari di gradimento, i sondaggi, funzionano bene. Quando invece ho bisogno di

raccogliere competenze e conoscenze esperienziali, i questionari e i sondaggi possono

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servire, ma non sono sufficienti per raccogliere le informazioni necessarie, possono

servire da stimolo per far nascere altre riflessioni, ma non sono sufficienti.

Si ha un livello intermedio di relazionalità quando incontriamo questi due gradienti: gli

esperti decidono, utenti e famigliari contribuiscono a realizzare oppure quando utenti e

famigliari vengono consultati per decidere cosa fare e gli esperti programmano e

realizzano.

In questo livello la relazionalità è maggiore rispetto ai due livelli precedenti, perché le

persone direttamente interessate non vengono sentite ex post e, nel primo dei due casi

riportati sopra, viene data loro la possibilità di costruire in maniera attiva alla

realizzazione delle prestazioni. In entrambe quelle ipotesi, chi ragiona sulla

programmazione e tiene in mano le redini del processo sono gli esperti. Nel primo caso,

sono comunque gli esperti a diagnosticare i problemi e a decidere cosa fare, utilizzando

poi gli utenti e famigliari per la messa in azione. Questo ad esempio avviene spesso con

i volontari, dove gli esperti danno le indicazioni e spiegano ai volontari che cosa devono

fare. Il volontariato ha una funzione di mera esecuzione di indicazioni fornite dagli

esperti. Quando la persona non contribuisce anche a livello direttivo, è difficile che la

sua motivazione si mantenga alta nel tempo. Il rischio di utilizzare le persone in maniera

meramente esecutiva fa calare la motivazione in tempi abbastanza brevi.

Utenti e famiglia devono apportare il loro sapere esperienziale per la costruzione fin

dall’inizio di iniziative e interventi, in questo livello invece il potere appartiene agli

operatori, i quali hanno l’iniziativa e grazie all’aiuto di utenti e famigliari mettono in

azione (nel primo caso), oppure questi, vengono consultati dagli operatori per

comprendere cosa fare e gli operatori mettono in atto.

Concepire la partecipazione in questi termini è pericoloso perché è difficile che utenti e

famigliari desiderino qualcosa che sarà poi fatto da operatori. In questa visione non c’è

relazionalità, non si lavora insieme. Quando si condivide il processo decisionali e il

processo realizzativo dell’aiuto, tutte le persone sono considerate alla pari, cioè sono

nelle condizioni di ragionare insieme all’operatore su quali sono i problemi, ostacoli,

criticità che si incontrano nel cercare di raggiungere un determinato obbiettivo. Questo

permette di ridimensionare le aspettative.

In questo livello c’è un minimo di interazione tra le due parti, ma le azioni non sono co-

costruite insieme. Avviene così una deresponsabilizzazione della persona e una

eccessiva responsabilizzazione dell’operatore, ottenendo così un fallimento della

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partecipazione e scarso empowerment, perché utenti e famigliari non hanno il controllo

della propria vita.

Infine abbiamo alta relazionalità quando utenti, famigliari ed esperti lavorano insieme

sia per definire le finalità, sia per realizzare la concezione relazionale della metodologia

di rete, applicabile sia a livello di caso (cioè sulle singole situazioni), sia a livello

comunitario che a livello di programmazione dei servizi. In questo ultimo livello la

collaborazione, il lavoro in partnership è ben visibile in quanto entrambe le parti

collaborano sia per definire le finalità sia per realizzare iniziative concrete atte a

perseguire le finalità. Vi è quindi l’aspetto del “fare assieme”.

Un servizio relazionale si pone intenzionalmente come obbiettivo quello di favorire il

libero relazionarsi di operatori, utenti, famigliari e altri cittadini all’interno e all’esterno

di esso. Inoltre sostiene progetti in rete, vale a dire quelli in cui sono coinvolte con piena

autonomia persone incardinate nel servizio (operatori) e persone della comunità (utenti,

famigliari e cittadini) (Folgheraiter, 2005).

Per far sì che questo avvenga ci sono delle azioni che favoriscono lo sviluppo della

relazionalità all’interno dei servizi.

In primo luogo, l’organizzazione può introdurre in modo direttivo procedure strutture

che favoriscono la relazionalità. Le procedure rispettano il fatto che l’organizzazione

debba darsi delle strutture. Ma in esse possono trovare una risposta anche le necessità

dei processi partecipativi.

In secondo luogo, l’organizzazione può costruire tavoli di concertazione in cui

prevedere la presenza di operatori, utenti e famigliari incoraggiandoli a confrontarsi

rispetto alle criticità del servizio e alle possibilità di miglioramento.

In terzo luogo, l’organizzazione può facilitare la realizzazione di contesti relazionali, in

cui le persone possano sperimentare una dinamica di aiuto/mutuo aiuto.

Sicuramente l’organizzazione può favorire la partecipazione e la relazionalità in modi

più o meno direttivi. In ogni caso, anche quando la partecipazione viene imposta

attraverso procedure formalizzate a cui gli operatori sono costretti ad attenersi, non si

può automaticamente assicurare che i processi siano caratterizzati necessariamente da

una piena partecipazione o da un alto grado di relazionalità. I diversi punti di vista

rendono più probabile l’emergere di nuovi circoli virtuosi, in cui la motivazione,

coinvolgimento, empowerment, fiducia nei processi condivisi si rigenerano in modo

incrementale. (Stanchina,2014)

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“Fornire alle persone (operatori, utenti, famigliari e dirigenti stessi) la possibilità di

trovarsi in contesti relazionali, le aiuta a maturare fiducia negli altri, a scorgere

l’efficacia del ragionare assieme su una medesima preoccupazione, a sviluppare

empowerment e capitale sociale. Inoltre l’apertura ai diretti interessati consente al

servizio di migliorare rispecchiando in modo più efficace i bisogni delle persone con

problemi di salute mentale.” (Stanchina,2014, p.230)

2.3.2 Scala di Hart (1992) adattamendo da Arnstein 1969

La prima scala che affronta il tema dell’intensità è quella creata da Hart nel 1992

(adattamento da Arnstein, 1969):

Quando parliamo di partecipazione è importante tenere in considerazione anche quello

che partecipazione non è. Nel primo livello abbiamo la manipolazione: gli operatori

ascoltano quello che utenti e famigliari hanno da dire, con l’intento però di sentirsi dire

quello che gli operatori ritengano sia meglio per loro o che avevano già intenzione di

fare.

Nel secondo punto della scala troviamo la retorica di facciata nella quale si hanno

intenti negativi fin dall’inizio, dove si creano dei meccanismi di rappresentanza dove

però chi ha effettivamente il potere decisionale non ha intenzione di metterlo in

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discussione. Si chiede il parere di utenti e famigliari non tenendolo però in

considerazione per le azioni future.

In terzo livello, non ancora partecipativo è il coinvolgimento formale (mero consenso);

in questo caso la partecipazione avviene solo perché ci sono delle linee guida

ministeriali che impongono l’ascolto degli esperti per esperienza, ma in realtà non c’è

una reale reciprocità, non c’è un reale interesse nel voler sapere cosa pensano, dicono e

vorrebbero fare gli interlocutori. Questi tre livelli non rappresentano la partecipazione,

ma bensì sono delle modalità con le quali si chiede il parere delle persone ma poi non se

ne tiene conto una volta che si entra in azione.

Se saliamo ai livelli superiori troviamo forme di intensità crescente di partecipazione

vera e propria. La prima che incontriamo, che corrisponde al livello quattro è il

consenso informato, nel caso della salute mentale, nello specifico gli operatori

informano in maniera dettagliata ed esaustiva utenti e famigliari rispetto a quello che

proporrebbero per lui e per la sua famiglia, o ad esempio che tipo di trattamento

sanitario secondo loro sarebbe più opportuno per la persona, spiegando quali sono i pro

e contro di una situazione, facendo anche chiarezza sulle criticità e i punti forti di quello

che ti sto proponendo. L’utente e i famigliari manifestano la loro approvazione o meno

verso ciò che gli è stato proposto. Nel consenso informato l’operatore spiega alla

persona la situazione e cosa farebbe, cercando di capire se dall’altra parte c’è un

consenso effettivo oppure no.

Il quinto punto vede la partecipazione come consultazione. Questo rappresenta un

tassello in più rispetto al livello precedente perché l’operatore chiede il punto di vista

della persona su quello che sta dicendo, cercando di comprendere anche il suo punto di

vista.

Il sesto livello vede come partecipazione le decisioni degli esperti che vengono

condivise con gli utenti; qui emerge un verbo importante che sottolinea che la

partecipazione non avviene sono da una parte, ma da entrambe: condividere infatti

sottolinea l’importanza di dividere con, in questo caso con utenti e famigliari che

rappresentano non solo i destinatari ma anche persone con le quali appunto costruire

un’idea di percorso che si è pensata, essendo loro i protagonisti di questo. È importante

sottolineare però che nonostante ci sia condivisione, le iniziative nascono dagli operatori

che inseguito le condividono con utenti e famigliari per avere anche un loro riscontro.

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In settimo livello sono le iniziative dirette dagli utenti, in questo livello c’è un alto

grado di partecipazione, gli utenti infatti si uniscono per riuscire a dare una risposta ai

propri bisogni. In questo caso il livello di partecipazione è alto perché le persone si

attivano per in autonomia; a livello di relazionalità (Folgheraiter,2011) tra utenti e

operatori però avviene poca interazione e collaborazione.

In questo modello rivisto da Hart (1992) si considera quanta partecipazione c’è da parte

di utenti e famigliari e quanto questi concretamente incidono nelle decisioni che

vengono prese, più c’è la possibilità di incidere, più avviene la partecipazione.

L’ultimo livello della scala è quella che vede la partecipazione come decisione degli

utenti condivise con gli esperti, in questo caso la decisione viene presa dagli utenti e

famigliari; è una decisione più influente del livello precedente perché qui le azioni

successive a questa decisioni vengono realizzate con l’aiuto anche dei professionisti. Il

grado di relazionalità rispetto al livello prima è molto più alto, perché le azioni vengono

portate avanti insieme, collaborando.

In questa scala di Hart l’innalzamento del livello di partecipazione corrisponde a quanto

utenti e famigliari partecipano e quanto riescono ad incidere grazie al loro contributo

sulle decisioni che riguardano la loro vita e il mondo intorno a loro.

2.3.3 Seconda scala intensità della partecipazione, Wilcox (1994)

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Wilcox usa una retta per indicare il livello di intensità nella partecipazione e

l’atteggiamento che gli operatori hanno della partecipazione.

Il primo livello è quello dell’informazione intenso come ad esempio volantini,

manifesti, dépliant, conferenze, siti web, sono tutti strumenti attraverso cui le pubbliche

amministrazione cercando di comunicare con i cittadini. I contenuti di questi flussi di

comunicazione riguardano le decisioni e iniziative già assunte da parte di un’istituzione

o di un servizio. In genere si tratta di informazione unidirezionale, non strutturata quindi

per ricevere un feedback dai destinatari. “Questo livello minimo di partecipazione è

funzionale laddove non esiste uno spazio d’azione per gli eventuali interlocutori o non

vi sono ricadute significative sugli attori sociali: in quel caso una comunicazione chiara

e tempestiva è la scelta più adatta. Inoltre l’informazione è il primo passo quando si

mira a livelli di partecipazione superiori.” (Stanchina, 2014 p. 37)

Il secondo livello è la “consultazione, vale a dire una forma di interazione su un tema

ben individuato che prevede la gestione di un processo di comunicazione bidirezionale

tra decision makers e cittadini.” (Stanchina, 2014, p. 37) È una modalità che viene

utilizzata quando si ha la necessita di un feedback dalla parte degli interlocutori. In

questo livello nonostante utenti e famigliari vengano ascoltati, spesso non possiedono

comunque il controllo sulla decisione finale, in questo livello il potere decisionale su

cosa fare e anche di come consultare le persone è in mano agli operatori.

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In terzo livello della scala di Wicox è decidere insieme, in cui utenti e famigliari sono

chiamati a dire la loro nella presa di decisione, cercando il più possibile di farla

condivisa. È importante sottolineare però che in questo livello la presa di decisione

viene presa insieme, ciò non comporta per forza che le azioni susseguenti alla fase di

decisione vengano portate avanti insieme. Il livello dopo nella scala è appunto agire

insieme, cioè non si esaurisce nella costruzione di consenso e in una presa di decisione

allargata, ma entra nel piano della realizzazione attraverso la costruzione di una

partnership dove i soggetti svolgono un ruolo di attori delle trasformazioni sociali in

collaborazione con le amministrazioni pubbliche. È importante che coloro che

partecipino possano rappresentare il vero punto di vista degli utenti e dei famigliari.

In ultimo il quinto livello individuato da Wilcox è sostenere l’azione altrui, dove

secondo questa scala è racchiusa la massima partecipazione, che corrisponde anche al

gradino più alto in grado di controllo da parte di utenti e famigliari nei confronti di un

programma di intervento, attraverso la piena responsabilità di ideazione, progettazione e

attuazione di un processo di cambiamento sociale. L’idea è che “capacitando” la

comunità di possa arrivare anche a una diminuzione del ricorso ai servizi.

(Stanchina,2014)

L’idea è che la risposta nasca da coloro che portano il bisogno, con la collaborazione

però degli operatori che sostengono l’azione di coloro che non rappresentano solo dei

destinatari delle prestazioni ma contribuiscono a crearle. È una risposta che viene

seguendo un pensiero sussidiario, cioè coloro che sono più vicini al bisogno sono coloro

che devono cercare di rispondere a questo, con l’aiuto però degli operatori. In questo

ultimo livello la partecipazione da parte di utenti e famigliari è molto alta sia a livello

dell’intensità che a livello di relazionalità perché esperti tecnici e esperienziali

collaborano nell’attuazione delle iniziative nate da coloro che percepiscono il bisogno.

2.3.4 Livelli di rilevanza nei contenuti della partecipazione

Un altro aspetto importante da rilevare è la rilevanza rispetto ai contenuti della

partecipazione. Oltre a dire “quanto incide la mia partecipazione” nelle decisioni che

poi vengono prese, andare a vedere quanto questa partecipazione è significativa, non

devo considerare solo quanto decido, ma anche a che livello della mia vita o di

comunità la mia partecipazione influisce.

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Cercherò di spiegare meglio questo aspetto con delle esemplificazioni: un gruppo di

utenti può avere un alto livello di partecipazione, quindi può avere un’incidenza molto

elevata sulle decisioni che riguardano che cosa fare la domenica, ma può avere un

livello di intensità di partecipazione pari a zero rispetto al decidere ad esempio qualcosa

che riguarda l’organizzazione del servizio oppure le prestazioni da erogare.

Per valutare la partecipazione, è utile misurare il livello di relazionalità e di livello

intensità, ma anche il livello di rilevanza nei contenuti della partecipazione.

Per valutare la partecipazione ci sono due tipi di contenuti, il primo quanto ciò a cui si

collabora e si partecipa è rilevante per la vita della singola persona o della famiglia. Se

la decisione di cui parliamo è molto rilevante per la vita della persona, il fatto di

partecipare o meno ha un peso maggiore. Se invece la decisione riguarda un aspetto

marginale della mia vita allora la partecipazione, avrà una rilevanza diversa nella sua

vita.

Diverso è quanto ciò a cui si collabora e partecipa è rilevante a livello di sistema, cioè

nell’organizzazione dei servizi, nella comunità locale, comunità e società.

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Ad esempio facendo riferimento al grafico sopra per l’utente poter partecipare alla

costruzione del suo percorso di aiuto sicuramente avrà un rilevanza notevole a livello

della sua persona e della sua famiglia, sarà meno rispetto al sistema (inteso come

servizi, istituzioni..).

Altro esempio è quando l’utente o famigliari appoggiano un’iniziativa di pressione,

questa può non avere particolarmente rilevanza in quel momento per la sua vita, rispetto

al caso prima però avrà rilevanza a livello di sistema.

Il terzo caso rappresentato nel grafico è il ruolo dell’UFE all’interno del servizio

psichiatrico di diagnosi e cura (SPDC) dove questa esperienza può avere rilevanza in

entrambe le parti. Sia a livello della vita della persona che appunto sostiene che il suo

ruolo di UFE ha cambiato la sua vita, sia a livello di sistema perché l’inserimento della

figura dell’UFE in reparto ha innescato un grande cambiamento nella mentalità degli

operatori, sia a livello dell’organizzazione dei servizi che nella percezione che questi

hanno della figura dell’utente e del famigliare. Infatti, la visione dei famigliari e utente

esperto inserito all’interno di un servizio permette di percepire la persona con problemi

di salute mentale come risorsa per gli operatori ma non solo, anche per il servizio e la

comunità di appartenenza. Questa funzione ha quindi una forte rilevanza per la singola

persona e famiglia ma anche un’incidenza forte a livello di comunità locale, culturale e

dei servizi (e quindi di sistema).

2.3.5 Il modello olistico (Warren, 2007, p.51)

Questo modello olistico di partecipazione e non a livelli, pone al centro del processo

decisionale utenti e famigliari. Poiché i diversi livelli di partecipazione sono posti sullo

stesso piano, la negoziazione dei livelli, il livello di partecipazione che l’utente o che i

famigliari scelgono di utilizzare dipende dai tempi differenti per ognuno, dalle diverse

circostanze in cui versano e dalla natura del compito.

Nel cerchio gli elementi essenziali della partecipazione, fuori dal cerchio le cose alle

quali si può partecipare. Secondo questo modello i quattro principali significati della

partecipazione sono:

- Informare: intenso come dare e ricevere informazioni;

- Consultazione: esprimere pareri che vengono tenuti in conto

- Partecipazione: decidere assieme, in una posizione alla pari rispetto agli altri

Empowerment: intenso come il controllo sui processi decisionali

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Di seguito la rappresentazione del modello:

Chiaramente è importante che ci sia un clima che incoraggi il coinvolgimento di utenti e

famigliari e contribuisca ad aumentare la loro percezione di potere sulle decisioni che

riguardano la propria vita, ma non solo. Gli operatori devono essere in grado di capire e

distinguere i diversi livelli di empowerment all’interno delle loro organizzazioni ed

essere in grado di supportare la partecipazione e il coinvolgimento di utenti e dei

famigliari.

Per fare in modo che la partecipazione sia effettiva e reale, è necessario quindi che il

livello di attività e di coinvolgimento vengano negoziati tra utenti e famigliari, in modo

tale che essi si sentano a proprio agio con il processo e che sentano di possederlo.

(Warren,2007).

2.3.6 La libertà di scegliere di non partecipare, è comunque partecipazione

Quanto detto finora può indurre a pensare che quanto più intensa è la partecipazione,

quanto più relazionale e quanto più rilevante sul piano dei contenuti, tanto meglio è. Il

fatto di partecipare a livello massimo non sempre è la cosa migliore per qualsiasi

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persona. Warren (2007) sottolinea che libertà di partecipazione può significare anche

dire di non voler partecipare. Partecipazione significa poter dire la propria, esporre il

proprio punto di vista può essere anche che la persona in un determinato momento non

sente la volontà di farlo. È bene dunque avere di fronte tante e diverse forme di

partecipazione senza necessariamente gerarchizzarle. Questi modelli servono per

ragionare sulle proposte che si possono fare in un servizio o in un progetto di aiuto, nel

lavoro sul caso, ma bisogna anche essere pronti ad accogliere la disponibilità di

partecipazione cosi come viene dalle persone interessate.

2.4 Ostacoli alla partecipazione

Negli ultimi anni è aumentata l’enfasi sui processi partecipativi in maniera

esponenziale.

Il coinvolgimento degli utenti e dei famigliari nelle politiche sanitaria e nella

pianificazione, erogazione e pianificazione è indicato come principio trasversale nel

Mental Health Action Plan del 2012 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Spesso però questa richiesta di partecipazione non è stata concretizzata in indicazioni

operative chiare e inequivocabili. Il coinvolgimento degli utenti è diventato una

condizione imprescindibile, condivisa a livello culturale, ma poco ragionata nella sua

trasmutazione pratica.

In molti casi la partecipazione è applicata secondo un approccio managerialista,

orientato a tenere informazioni dagli utenti, e non secondo una finalità democratica

legate più a prospettive emancipatorie e all’esercizio dei diritti di cittadinanza.

Esiste quindi una retorica della bontà legata alla partecipazione, che però la può mettere

in pericolo. La bontà “a prescindere” dalla situazione, non permette di riflettere sulle

pratiche partecipative rischiando così di nascondere la necessità di ragionare sul senso

del coinvolgimento, su quali utenti o famigliari vengono coinvolti e sui temi.

Spesso questa situazione fa sì che si arrivi alla conclusione che “la partecipazione non

funziona”, attribuendo la colpa a utenti e famigliari, ritenendoli non all’altezza o non in

grado.

La frustrazione colpisce anche gli utenti e i familiari stessi, che perdono la fiducia

nell’importanza del loro punto di vista, nelle loro punto di vista, nelle loro risorse e

nella possibilità di lavorare insieme per cambiare le cose.

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Inoltre è importante tenere presente che non è facile per manager e operatori dei servizi

sviluppare delle pratiche partecipative autentiche. Un prerequisito essenziale è

comprendere che il coinvolgimento di utenti e famigliari porterà ad un punto di vista

diverso che potrebbe condizionare in modo inaspettato i processi decisionali nei servizi.

(Stanchina, 2014).

La disponibilità dei manager e degli operatori a “perdere il controllo” e a lasciarsi

guardare da ciò che emergerà nel processo partecipativo è davvero importante per la

buona riuscita della partecipazione, ma anche estremamente faticosa per chi

tradizionalmente la vede pendere dalla sua parte la bilancia del potere. (Barnes,2006;

Folgheraiter, 2011)

Nei seguenti paragrafi illustrerò gli ostacoli alla partecipazione, che apparentemente

possono portare a considerare la partecipazione come impossibile quando in realtà è una

questione di facilitare questo processo evitando di compiere delle piccole azioni che

possono ostacolarla invece che favorirla. (Warren, 2007)

2.4.1 Coinvolgimento solo “di facciata”

Una prima trappola che può ostacolare la partecipazione consiste nel predisporre

iniziative volte al coinvolgimento degli utenti e famigliari con l’obiettivo di trasmettere

all’esterno la percezione che si sta lavorando favorendo la partecipazione, quando in

realtà non c’è una propensione verso l’ascolto verso quello che hanno da dire gli esperti

per esperienza.

Risulta così un coinvolgimento solo di facciata (Warren,2007), dove si propone di

ascoltare il punto di vista, idee e riflessioni di utenti e famigliari ma in realtà le persone

“coinvolte” vanno incontro a pesanti frustrazioni, perdendo la motivazione a partecipare

ulteriormente.

L’attuazione di questa trappola può avvenire ad esempio coinvolgendo utenti e

famigliari su aspetti poco rilevanti all’interno del servizio oppure su aspetti che si sono

già scelti a priori dove loro hanno poche possibilità di influenzare effettivamente sul

piano concreto. Un altro modo in cui si realizza un finto coinvolgimento è la selezione

da parte degli operatori, delle idee e prospettive che emergono da utenti e familiari, in

questo modo gli operatori prendono in considerazione le idee alle quali sono anche loro

d’accordo. Una sorta di relazione selettiva, cioè gli operatori considerano quello che va

bene anche a loro, il resto non lo tengo in considerazione. (Stanchina,2014)

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Attuando questa trappola, si fornisce a chi partecipa una parvenza di potere, anche se di

fatto resta intatto il potere degli operatori di decidere rispetto a tutte le “questioni

importanti” e di definire e mantenere l’assetto e la struttura dell’organizzazione (Bowl.

1996).

“Anche a essere consultati per dare il proprio parere in merito a iniziative, progetti o

cambiamenti già pensati e realizzati dagli operatori, può essere molto frustante per

utenti e famigliari che si sentono coinvolti solo a giochi fatti.” (Stanchina, 2014, p. 57).

2.4.2 Limiti nei meccanismi di rappresentanzaUn secondo ostacolo alla partecipazione è quello legato alla rappresentanza. Quando si

tratta di partecipare alla vita delle istituzioni (enti e servizi), può succedere che gli

operatori e i funzionari estendano le logiche istituzionali ai mondi della vita delle

persone. Le istituzioni e gli enti funzionano attraverso determinati organi, che sono

stabiliti dai regolamenti, dalle leggi ecc.. il funzionamento delle istituzioni è molto

diverso dalla vita quotidiana delle persone. Se voglio far incrociare il mondo delle

istituzioni e il mondo della vita delle persone devo fare attenzione a non estendere le

logiche istituzionali anche al di fuori delle istituzioni.

La trappola dei limiti di rappresentanza avviene quando ad esempio gli operatori

coinvolgono sempre le stesse persone o le stesse categorie, che spesso vengono visti

come i più esperti e i più capaci tralasciando così persone che possono rappresentare il

punto di vista della comunità in questione.

Se necessario, andrebbero predisposte modalità diverse per coinvolgere gruppi di utenti

diversi; si può anche pensare di lavorare con i familiari in un modo e di predisporre

iniziative di altro tipo per facilitare l’espressione del punto di vista degli utenti.

(Stanchina, 2014) Come riportato in un paragrafo precedente, il punto di vista degli

utenti e dei famigliari può essere diverso, per favorire la partecipazione è importante

dare la possibilità ad entrambi di esprimersi per poi metterli in relazione.

Un altro aspetto legato ai limiti di rappresentanza è quello di riuscire a coinvolgere

anche le categorie che possono rilevarsi svantaggiate, facendo attenzione alle modalità

con le quali ci si relaziona, facendo in modo che emerga il loro punto di vista (Barnes,

2012).

Un’ulteriore questione si riferisce al fatto che man mano che si maturano esperienze di

coinvolgimento, possono emergere obbiettivi specifici da parte di gruppi diversi di

utenti, operatori e manager dei servizi, che vanno esplicitati e negoziati (Barnes, 1997).

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In ultimo un aspetto critico relativo sempre a questo ostacolo può esserci quando gli

operatori coinvolgono un utente o un famigliare, aspettando quindi che agisca come un

rappresentante della sua categoria. Questa presunta rappresentatività può bloccare la

partecipazione in quanto il rappresentante non è stato scelto dai suoi pari e quindi non è

riconosciuto come tale da loro, e dall’altra non si sente in grado di rappresentare un

numero ampio di persone e non ha la percezione di conoscere il pensiero di tutti.

2.4.3 Gli operatori non aiutano le persone a partecipare

Nonostante la possibilità di partecipazione gli utenti e i famigliari possono essere in

difficoltà ad esprimere il loro punto di vista. Questo terzo ostacolo riguarda proprio il

fatto che gli operatori non aiutano le persone a partecipare, ponendo degli ostacoli che

compromettono a utenti e famigliari la possibilità di esprimere il proprio punto di vista.

Uno di questi è ad esempio legato agli aspetti logistici (luoghi, orari degli incontri e

delle occasioni di incontro). Spesso infatti gli incontri vengono fissati in base alle

possibilità e alle preferenze degli operatori. A questo si collega anche il fatto che

l’espressione del punto di vista può essere ostacolata dalla formalità degli incontri dove

utenti e famigliari possono ritrovarsi in un setting a loro sconosciuto o dove viene

utilizzato un linguaggio caratterizzato da tecnicismi.

Inoltre spesso, quando utenti e famigliari vengono chiamati a partecipare in un contesto

in cui ci sono solo operatori, si trovano di fronte a rapporti formali già in essere tra gli

operatori, dai quali sono esclusi; questo può rivelarsi molto faticoso per le persone.

Altro aspetto faticoso per le persone può essere imporre loro la continuità nella loro

partecipazione, a volte insostenibili. Le persone per motivi vari legati alla loro

situazione fanno fatica a partecipare con continuità. È importante organizzarsi per fare

in modo che ci sia partecipazione anche senza continuità, quest’ultima non deve essere

uno sbarramento alla partecipazione, se necessario dobbiamo pensare a forme di

partecipazione a bassa soglia.

Per favorire la partecipazione è importante che utenti e famigliari vengano formati e

accompagnati a partecipare. L’accompagnamento deve essere anche finalizzato a far

esprimere alle singole persone il proprio punto di vista. L’advocacy di caso, ad esempio,

è una modalità per accompagnare e aiutare la persona a esprimere il suo punto di vista, a

far sentire la voce della persona.

In ultimo per favorire la partecipazione è essenziale creare delle modalità che

permettano a tutti di esprimersi e dire la loro; ognuno ha le sue potenzialità, 66

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disponibilità, possibilità rispetto alla partecipazione. Quindi è opportuno offrire diverse

azioni e modalità di partecipazione. L’ideale sarebbe costruire una partecipazione su

misura per la persona.

2.4.4 Assenza di risultati a breve e medio termine

La partecipazione solleva aspettative di cambiamento nelle persone, per questo è

importante che i processi portino a un reale miglioramento sia nell’erogazione sei

servizi, sia nelle opportunità di coinvolgimento degli utenti.

In questo modo, infatti, gli utenti, oltre ad apprezzare il coinvolgimento in sé, possono

percepire l’utilità della loro partecipazione. (Stanchina, 2014)

Se la partecipazione non porta a nulla di concreto, restando fine a sé stessa, le persone

perdono la motivazione a partecipare.

Facendo riferimento alla concezione terapeutica dell’empowerment, le esperienze

partecipative, volte ad aumentare la percezione di potere, sono concepite come tecniche

(come metodo di cura) finalizzare a far sentire meglio, in maniera contingente l’utente o

il famigliare non avendo però dei riscontri sul servizio, non cambiando minimamente la

cultura del servizio. Quando la partecipazione e l’empowerment diventano semplici

tecniche di cura, il rapporto di potere tra l’operatore e le persone che si rivolgono a lui

non viene messo in discussione.

C’è una mancanza di risultati a medio e lungo termine quando i ragionamenti e le varie

proposte presentate da utenti e famigliari restano scritte senza nessuna attuazione in

seguito.

“Dato che la partecipazione solleva aspettative di cambiamento nelle persone, è

importante che i processi portino a un reale miglioramento sia nell’erogazione dei

servizi sia nelle opportunità di coinvolgimento degli utenti. In questo modo, infatti, gli

utenti, oltre ad apprezzare il coinvolgimento in sé, possono percepire l’utilità della loro

partecipazione. Purtroppo la partecipazione spesso viene vista come utile di per sé,

quasi come se l’empowerment fosse una tecnica di intervento fine a sé stessa.”

(Stanchina, 2014, p. 59)

Il rischio però è che gli utenti e i famigliari possano così sentirsi frustrati da esperienze

di consultazione che però in realtà non creano risultati. (Lewis,2014)

2.4.5 La cultura della relazione operatori e utenti non cambia

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Un altro aspetto importante da tenere in considerazione appartiene alla sfera relativa alla

cultura dei servizi.

“Per far sì che il punto di vista degli utenti venga tenuto davvero in considerazione e

porti a cambiamenti efficaci, è importante trasformare la relazione tra chi usufruisce

degli interventi e chi li eroga, in particolare i field workers (gli operatori che si trovano

in prima linea, a diretto contatto con l’utenza)”. (Stanchina,2014, p.60).

Il cambiamento culturale rispetto alla relazione tra operatori e utenti avviene su due

fronti (Stanchina,2014), il primo è quello che vede come protagonisti gli utenti che da

delegare il servizio, diventano i protagonisti del loro percorso di cura. L’altro è quello

che vede protagonisti gli operatori, che dovrebbero sapere riconoscere negli utenti dei

portatori di esperienze e riflessioni utili al miglioramento dei servizi.

Hitchen e al. (2011), nei risultati della loro ricerca hanno messo in evidenza che la

relazione “tradizionale” tra operatori e utenti può mettere in discussione la

partecipazione in particolare su tre elementi; il primo è l’utilizzo da parte degli operatori

di un linguaggio che esclude le persone, in questo modo gli utenti talvolta non

comprendono ciò che i professionisti dicono loro e non ricevono sufficienti

informazioni sentendosi quindi poco riconosciuti e non una risorsa dagli operatori.

Il secondo punto è quando gli operatori non tengono in considerazione le conseguenze

emotive del coinvolgimento; ad esempio non accolgono la difficoltà che gli utenti

possono provare trovandosi in situazioni di gruppo. Inoltre un atteggiamento

paternalistico da parte degli operatori, come ad esempio non condividere informazioni

per proteggere, oppure presumere di sapere cosa pensano gli utenti o i famigliari senza

chiedere il parere agli utenti e famigliari può non gioire alla promozione e lo sviluppo di

una partecipazione sostanziale.

A tutto questo, va aggiunto il fatto che gli operatori, anche su spinta dei servizi di

appartenenza, sono portati ad orientarsi più su ciò che il servizio può offrire anziché su

ciò di cui ha bisogno l’utente (Barnes,2012; Folgheraiter, 2011).

Gli operatori definiscono i bisogni sulla base delle prestazioni che possono erogare

(valutazione service-led) senza soffermarsi sul bisogno della persona, quanto piuttosto a

capire se le prestazioni che può erogare possono corrispondere a che la persona ha

bisogno.

“Come conseguenza, per gli utenti è difficile fare richieste, perché non sanno quale

aiuto possono aspettarsi. Inoltre, gli utenti si sentono frustrati perché non trovano un

contesto in cui esplorare in modo significativo i problemi. Possono anche avere la

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sensazione di dover sempre lottare per ottenere una risposta a un loro bisogno e che i

servizi non vogliano davvero aiutarli.” (Stanchina, 2014, p. 61).

2.4.6 Gli utenti che partecipano non sono autonomi nei confronti del servizio

È importante che utenti e famigliari quando iniziano ad avere un ruolo nel processo

decisionale, trovino l’appoggio di organizzazioni controllate e guidate da loro pari, in

modo che le iniziative possano collocarsi in un contesto più libero e articolarsi in una

prospettiva temporale più estesa. (Barnes,1997).

Il rischio si presenta quando il servizio può decidere di far partecipare le persone e

decidere di farlo dentro i canali e i binari che dal servizio sono stati previsti

precedentemente. I servizi in questo caso non accompagnano o facilitano la creazione di

organizzazioni controllate da utenti e familiari; la partecipazione è possibile solo negli

spazi, dentro strutture che gli operatori decidono.

Le strutture di per sé non sono errate, ma per un servizio che vuole autenticamente

sviluppare la partecipazione, la cosa migliore è cercare di accompagnare utenti e i

familiari affinché costruiscano delle organizzazioni autonome dal servizio. Tutto questo

rispettando la loro volontà e i loro tempi.

Un’organizzazione autonoma ha più forza come interlocutore di un servizio, può essere

più libera di far sentire la sua voce e può farlo in maniera più consistente.

Autonomizzare le forme di partecipazione, consente con più probabilità di farle durare

nel tempo, anche indipendentemente dall’orientamento degli operatori in servizio che

può anche cambiare.

Se gli operatori sono autenticamente interessati alla partecipazione, nel medio e lungo

periodo, dovrebbero cercare, nei limiti del possibile, di accompagnare le persone verso

l’autonomia dai servizi istituzionali, permettendo così alle persone di costruire e

aumentare il loro empowerment.

Diversamente, se la partecipazione rischia di essere incanalata in aree predefinite dagli

operatori, se l’orientamento del servizio cambia, rischia di venire meno ogni aspirazione

partecipativa.

La base fondamentale per promuovere la partecipazione, è modificare/lavorare sul

modo in cui gli operatori concepiscono il loro rapporto con le persone.

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2.5 Partecipazione come empowerment

È ormai assodato che la partecipazione di utenti e familiari sia un fattore desiderabile

all’interno dei servi di salute mentale, ma spesso questa convinzione viene riproposta in

modo acritico, generando così ambiguità rispetto al senso delle iniziative di

consultazione e partecipazione. (Forbes e Sashidharan,1997)

Come abbiamo visto precedentemente, la partecipazione crea empowerment nelle

persone, non essendo considerati più come meri ricettori ma come interlocutori. Lo

squilibro di potere (a favore degli operatori) può rendere difficile che venga dato il

giusto rilievo all’apporto di utenti e famigliari. Le organizzazioni che si occupano di

salute mentale, tendono, forse inconsapevolmente a rimarcare le differenze di potere

esistenti tra operatori e utenti. Questo può avvenire anche nel momento in cui

l’organizzazione si apre alla collaborazione di utenti e famigliari, creando degli ostacoli

alla partecipazione, attribuendo però la mancanza di presenza a utenti e famigliari. In

questo modo gli esperti per esperienza “anziché essere aiutati a esprimere il loro punto

di vista, si trovano automaticamente e oggettivamente svantaggiati, costretti a decifrare

codici di comportamento specifici del servizio e ad adattarvisi.” (Stanchina,2014, p.40).

Queste situazioni non permettono alle persone di acquisire potere rispetto alla loro

situazione di vita, in particolare per quel che riguarda il servizio, ma possono creare così

l’effetto contrario (disempowerment), proprio Folgheraiter in merito a questo dice:

“quando le cure sono dispensate in modo unilaterale e inibente una partecipazione

paritaria, non per questo in genere i pazienti se ne possono andare. […] Essi non

possono far altro che rimanere, ma si ritirano in sé stessi e deprimono la loro umanità.”

(Folgheraiter, 2009b, p.75).

Il concetto empowerment viene ormai usato da tempo in molti contesti con connotazione

un po’ diverse tra loro. Una delle definizioni conosciute maggiormente è quella di

Rapparport (1987) il quale sostiene che consiste nel processo attraverso cui le persone,

le organizzazioni e le comunità acquisiscono il controllo rispetto alle questioni che le

preoccupano. In particolare lui dice che “i processi di empowering sono quelli in cui le

persone (ma anche le organizzazioni e le comunità) creano o ricevono opportunità di

controllare il loro destino e di influenzare le decisioni che riguardano la loro vita”

(Rappaport, 1987, p.583).

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Nel campo delle politiche sociali e nel lavoro degli operatori sociali e sanitari,

l’empowerment è per lo più inteso come una trasformazione del tipo di rapporti tra chi

eroga e chi riceve i servizi (Barnes e Bowl,2001, trad.it.2003). Nella visione del potere,

l’empowerment di qualcuno che non aveva potere comporta, in una qualche misura il

disempowerment di qualcun altro, questo però non è un semplice scambio di ruoli tra

chi ha il potere e chi lo “subisce”, in questo modo non si andrebbe molto lontano.

Piuttosto che parlare di uno scambio di ruoli, è più utile ricorrere a concetti come

partnership, processi decisionali condivisi o negoziazione. Un modello incentrato sulla

collaborazione e che quindi valorizzi le conoscenze e le esperienze sia degli operatori

che degli utenti per l’elaborazione di strategie di problem solving, non solo darà vita a

risultati migliori a favore dei secondi, ma al tempo stesso offrirà anche preziose

opportunità di apprendimento per i primi (Marsh e Fisher, 1992); in questo modo

entrambe le parti ne potranno trarre un beneficio. In quest’ottica l’empowerment non

significa soltanto potere “su” qualcosa o qualcuno, ma anche potere “per” fare qualcosa

“con” qualcuno. Si tratta di manifestazioni di potere che non sono a somma zero; anzi

quanto più le si esercita, tanto più il potere aumenterà. (Rowmands, 1998).

L’empowerment affrontato in questo capitolo parte dal presupposto che nemmeno i

soggetti più deboli sono privi di potere, essi anche solo hanno il potere di non credere,

di aggregarsi come gruppo per agire in funzione di uno scopo comune, di organizzarsi

in vista di un’azione. Anche la resistenza verso strutture di tipo oppressivo può essere

vista come una forma di potere, comprata con il disempowerment che scaturisce dalla

mancanza di resistenza e iniziativa; il fatto cioè di arrendersi alla realtà così com’è.

Davey (1999) inoltre affronta la differenza tra empowerment reattivo e proattivo. Il

primo si riferisce alla classica situazione in cui gli utenti di un servizio decidono di

reagire al modo insoddisfacente in cui vengono erogate le prestazioni, il secondo invece

presuppone un’articolazione di bisogni e desideri degli utenti che indipendentemente dal

ruolo degli operatori. Da questi possono nascere forme di azione finalizzate a istituire

servizi innovativi o a sviluppare nuove forme organizzative che rispondo ad aspetti della

vita delle persone che per i servizi tradizionali rivestono scarso interesse (Barnes e

Bowl,2001, trad.it.2003).

Un altro aspetto importante riscontrato nella letteratura che ho analizzato è la

correlazione tra empowerment e salute. La percezione di acquisire maggior potere, in

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altri termini è considerato il requisito per mettere le persone nelle condizioni di

controllare e migliorar il proprio stato di salute (Barnes e Bowl,2001, trad.it.2003).

Quando associamo l’idea di partecipazione come promozione di un maggior

empowerment, questo avviene in quanto permette una maggiore crescita, l’acquisizione

di un più ampio controllo sulle proprie scelte di vita, maggiore influenza sulle

prestazioni che si ricevono come singoli utenti, una maggiore influenza nel determinare

gli aspetti dei Servizi insieme a far sentire la propria voce all’interno di quel sistema

politico da cui viene emarginato. La partecipazione inoltre rappresenta un processo di

sviluppo e di valorizzazione di conoscenze diverse, provenienti anche dall’esperienza

diretta delle persone interessate che siano strettamente collegate alla pratica.

Un ruolo importante in tutto questo ce l’hanno i servizi di salute mentale che rivestono

un ruolo assai significativo per le persone che soffrono di un disagio psichico. I servizi

condizionano il corso di vita delle persone, anzitutto per la considerazione e le risposte

che forniscono ai problemi di salute mentale, e in secondo luogo per l’orientamento che

danno all’opinione pubblica rispetto a questo tema e quindi per la possibilità di queste

persone di partecipare alla “sfera pubblica” (Barnes e Bowl,2001,trad.it 2003).

“Le potenzialità delle strategie di empowerment sul piano dello sviluppo individuale e

non solo consentono di guardare al futuro con un certo ottimismo. Un ruolo

fondamentale, come si è visto, lo esercitano gli operatori professionisti,

nell’incoraggiare e sostenere l’azione degli utenti che cercano di realizzare, nella

massima autonomia possibile, il proprio empowerment.” (Barnes e

Bowl,2001,trad.it.2003,p.147).

Perché queste strategie siano realmente efficaci è necessario che l’atteggiamento degli

operatori cambi, soprattutto di coloro che intervengono in “prima linea” a diretto

contatto con l’utenza. Occorre prima di tutto sottolineare come una questione delicata

come quella del coinvolgimento degli utenti venga riconosciuta per i benefici che può

portare a tutti, e non solo agli utenti. Questi ultimi si trovano talvolta a partecipare a

tavoli o a gruppi di discussione in cui non è chiaro né che cosa ci si aspetti da loro, né

quale utilità ne possano trarre. Molti di coloro che partecipano ai “forum degli utenti”

previsti nei servizi pubblici, in effetti, rivelano idee confuse circa lo scopo della loro

presenza e un atteggiamento di puro cinismo riguardo alla loro efficacia; questo crea

riluttanza a “esporsi” nuovamente alla partecipazione e scarsa fiducia nei servizi.

Per certi versi questo riflette la visione tradizionale della partecipazione come pratica

terapeutica, più che come strumento per mettere gli utenti nelle condizioni di “incidere” 72

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sulle prestazioni che dovrebbero alleviare il loro disagio psichico; per questo motivo è

importante che comprendano davvero il senso e lo scopo della partecipazione degli

utenti, e sappiano delegare ai comitati formati da questi ultimi una certa misura di poteri

e di responsabilità (Barnes e Bowl,2001 trad.it 2003).

L’empowerment si distingue in base al contesto storico, culturale e alle persone

coinvolte, per questo motivo, soluzioni specifiche sono maggiormente empowering

rispetto a soluzioni preconfezionate applicate con criteri generali. Questo porta con sé

una determinata concezione dell’uomo e della realtà. Nei servizi sociali e sociosanitari

l’empowerment è inteso come una trasformazione dei rapporti di potere tra chi eroga e

chi riceve i servizi (Stanchina,2014).

L’empowerment non significa per la persona aver una maggiore possibilità di scelta

della persona ma bensì ha ricadute più ampie. Barnes e Bowl sostengono che “i

cambiamenti perseguiti dalle strategie di empowerment hanno focus assai più ampi e

articolati, giacché interessano non meno di tre livelli complementari: la qualità della vita

delle persone con disagio psichico grave; la natura e l’organizzazione del sistema dei

servizi per la salute mentale che dovrebbe essere più confacente ai loro bisogni e infine

più in generale, la società di cui, come cittadini sono parte attiva.” (Barnes e Bowl,

2001, trad.it 2003, p.54).

Inoltre Rogers et al. (1997) hanno illustrato un lavoro di ricerca che ha portato un

gruppo di utenti con disturbi mentali a costruire una scala di misurazione

dell’empowerment, poi testata sul campo e validata. Ci sono degli elementi che possono

accrescere il senso di potere che la persona ha, ad esempio la possibilità di scegliere tra

un insieme di opzioni e apportare un cambiamento nella propria vita e nella comunità

rappresenta uno di questi; un aspetto interessante è la correlazione che gli utenti fanno

tra empowerment e la percezione che loro stessi possono fare la differenza, essere di

aiuto agli altri riuscendo anche a cambiare la percezione degli altri rispetto alla propria

competenza e capacità di agire. Un maggiore empowerment nella persona permette

anche di far crescere un’immagine di sé positiva e il superamento dello stigma, è la

persona prima di tutto ad avere questa percezione. Imparare a pensare in modo critico

permette anche di vedere le cose in modo diverso, ad esempio imparando a ridefinire sé

stessi, riflettere su quello che si può fare e ridefinire sé stessi, su quello che si può fare e

rivedere la propria relazione con i servizi. Tutti questi item individuati dagli utenti,

permette di comprendere come le persone con disturbi mentali possono dare delle

indicazioni importanti rispetto alla loro esperienza di empowerment, collaborando alla

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costruzione di strumenti efficaci e rispettosi di chi è coinvolto nei problemi (Stanchina,

2014).

2.6 Favorire la partecipazione nei servizi e cultura organizzativa

Quando si parla di partecipazione non si può fare a meno di guardare ai servizi come

culture, cioè osservare i modi in cui valori, assunti e schemi mentali intervengono nelle

rappresentazioni e interpretazione del compito organizzativo e nelle azioni intraprese

per effettuarlo. Queste componenti vengono riprese e introdotte nelle pratiche del

proprio lavoro sociale, ma non solo, anche nell’utilizzo del linguaggio e nelle procedure

di intervento per far fronte ai propri compiti.

La cultura può essere definita come “un sistema di significati accettati pubblicamente e

collettivamente che operano per un certo gruppo in un certo momento. Questo sistema

di termini, forme, categorie, immagini aiuta le persone a interpretare le situazioni in cui

si trovano a essere.” (Pettigrew, 1979, cit. in Hatch, 1997, trad.it. 1999, p.199)

All’interno dei servizi di salute mentale, le azioni degli operatori nella quotidianità e

nelle pratiche operative non possono fare a meno di quella che è la loro considerazione

verso gli utenti e famigliari. La percezione e la visione che loro hanno degli utenti e

famigliari condiziona il loro modo di lavorare e di agire.

Per fare in modo che la partecipazione ci sia, c’è bisogno anzitutto di un cambiamento

di prospettiva, questo richiede però un notevole sforzo da parte degli operatori e una

messa in discussione notevole. Weick (1995) sostiene ad esempio che alcune persone

dotate di potere possono aiutare ad attivare degli ambienti particolari, sollecitando i

membri dell’organizzazione ad accettarli e farli propri. Oppure può avvenire che il

coinvolgimento all’interno dei servizi di nuovi membri possa portare ad un processo di

adattamento della cultura organizzativa.

L’esito però di questo processo è anche come verranno interpretate le novità introdotte

nel servizio; nel far questo c’è anche il rischio che invece di portare un’apertura da parte

del servizio si creino delle sotto-culture. Per rispondere a questo possibile problema,

secondo l’approccio dialettico del cambiamento organizzativo del caos e della

complessità individuato da Morgan nel 1997, il quale sostiene che il ruolo fondamentale

dei dirigenti sarebbe creare e dar forma a contesti favorevoli allo sviluppo adeguate di

auto-organizzazione.

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Se proviamo a trasporre questo approccio nella dimensione culturale, possiamo vedere

come le indicazioni di Morgan suggeriscano precise strategie di azioni per i manager

che desiderano cambiare il servizio in cui operano. La prima impone di sfruttare piccoli

cambiamenti per dar luogo a cambiamenti di grande respiro, così da innescare un effetto

leva che sproni gli attori a dirigersi verso l’utilizzo di un nuovo approccio. La seconda

strategia implica la creazione di frontiere che proteggano le nuove pratiche (e il nuovo

approccio) dalla forza d’inerzia dello status quo, ad esempio facendo attenzione a

espandere le pratiche solo nel momento in cui i primi esperimenti si sono consolidati.

Un altro aspetto sul quale è importante riflettere è che ai servizi di salute mentale

arrivano persone che “manifestano problemi di vita, inteso come […] fatti primari (o

realtà di fatto) percepiti come irricevibili o sgraditi da una certa cerchia di persone in

quanto ostacolano o scardinano il loro vivere e ne richiedono un rilevante

riorganizzazione.”(Folgheraiter,2011, p.54) Questi problemi non ammettono soluzioni

predefinire perché riguardano la complessità del vivere, a differenza dei problemi

tecnici. I servizi di salute mentale si trovano così a lavorare con un intreccio complesso

di problemi di vita e di problemi tecnici; nonostante la presenza di trattamenti sanitari

che rappresenta un intervento tecnico, la malattia mentale non può essere solo quello.

Approfondendo questo ragionamento con Seedhouse (2009) importante studioso

dell’etica sanitaria, si potrebbe andare anche oltre. Secondo lui infatti l’elemento tecnico

dei problemi sanitari, che solitamente all’interno dei servizi sanitari rappresenta un

tassello primario, per lui assume una posizione assolutamente secondaria. Secondo lo

studioso infatti, l’assistenza sanitaria è prima di tutto una questione etica e morale, che

ha a che fare con problemi più complessi, che implicano il coinvolgimento di più

persone. Qualsiasi intervento ha implicazioni etiche e morali. Ogni problematica

riportata dall’individuo per quanto apparentemente possa sembrare un problema tecnico,

porta con sé tutto un aspetto legato alla vita, alla sua quotidianità, relazioni e aspetti

emotivi per il quali è importante una risposta che non sia standardizzata.

La valutazione della qualità di un servizio non può fare a meno di tenere in

considerazione questo passaggio importante, in quanto, ogni persona attribuisce un

significato e dei connotati diversi al termine qualità.

Ad esempio secondo l’Organizzazione Mondiali della Sanità la qualità è basata su

alcune dimensioni come la sicurezza clinica delle prestazioni, efficacia e efficienza,

equità e centralità dell’utente. “In particolare la valutazione e il miglioramento di tutti

gli elementi indicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità possono derivare da un

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intervento univoco da parte degli operatori, oppure un confronto tra utenti e famigliari.

Il fatto che tali fattori vengano affrontati in questo secondo modo costituisce esso stesso

un indicatore di qualità.” (Stanchina, 2014, p. 48).

Funk e al. (2009) sottolineano inoltre che la questione della qualità è un fattore

soggettivo in quanto ogni persona può avere un punto diverso. Per una persona con

problemi di salute mentale, la qualità si riconduce alla riduzione dei sintomi, alla

possibilità di condurre una vita “normale” e di essere trattata con rispetto e di essere

riconosciuta come capace di prendere decisioni sulla propria vita.

Per un familiare, la qualità può corrispondere ad esempio ricevere supporto per il

fronteggiamento di un aspetto emotivo dell’assistenza al proprio caro e ricevere

informazioni e formazione per riuscire ad affiancare il proprio famigliare nella

reintegrazione all’interno della comunità.

Dall’altra parte per un operatore, qualità significa assicurarsi che il paziente riceva il

miglior trattamento e la migliore assistenza possibile.

Sono tutte prospettive importanti, ma spesso quella degli utenti e dei famigliari sono

messe in secondo piano. Per questo motivo un concetto che può aiutare a fare chiarezza

in merito a tutte le precedenti considerazioni è quello di “qualità relazionale

(Folgheraiter,2005,p.137) inteso come la capacità dell’organizzazione di facilitare il

relazionarsi di utenti, famigliari e operatori, in modo che si incontrino, si sostengano e

riflettano assieme per decidere le azioni utili al loro bene, al bene comune. Il servizio

che agisce in questo modo, come un’organizzazione aperta alle relazioni societarie.”

È importante tenere presente che anche queste organizzazioni agiscono tramite

protocolli e regolamenti, che però non hanno una finalità di controllo ma di facilitare il

relazionarsi di tutte le parti coinvolte.

I servizi socio-sanitari condotti con spirito relazionale, quindi basati su una

partecipazione degli interessati alla costruzione del proprio destino, sollecitano la

produzione di capitale sociale (Donati e Colozzi, 2006). Essi perciò formano cittadini,

nello stesso tempo in cui li curano. “Formano persone che, dopo aver parlato e detto la

loro, con forza e con garbo, per riorientare la loro vita colpita dalla malattia, sanno

parlare e dire la loro con forza e con garbo anche nella società civile, fuori dai circuiti

della psichiatria.” (Folgheraiter, 2007b, p.194).

I servizi che agiscono in senso relazionale, restituiscono alla società non solo persone

forse risanate a livello medico, ma anche persone più consapevoli del bene comune e

motivate e farsene carico per quello che riescono e possono. (Folgheraiter, 2007b)

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L’incardinamento delle pratiche partecipative si legano ad una progettazione aperta,

libera, che catalizza la motivazione e la riflessione spontanea delle persone coinvolte e

non risponde a tempistiche predefinibili (Barnes, 2006; Folgheraiter, 2011).

L’incardinamento delle pratiche partecipative dei servizi di salute mentale permette di

condividere le pratiche all’interno del servizio portando così tutti coloro che vi operano

a conoscerle e utilizzarle. Un altro passaggio importante è definire cosa va fatto, da chi

deve essere fatto e in quali tempi. Per fare in modo che la partecipazione venga

incardinata all’interno dei servizi è importante inserire nelle routine operative le

pratiche che riguardano la partecipazione di utenti e famigliari, con la conseguenza che

il coinvolgimento degli interessati diventa una normalità. (Stanchina,2014)

La partecipazione deve essere continua, facendo in modo che non sia solamente un

desiderio o un’azione messa in atto da operatori particolarmente sensibili, ma che

diventi una procedura del servizio, indipendente dalla persona che in quel momento di

trova a ricoprire un certo ruolo operativo. La partecipazione per essere davvero

incardinata deve non essere messa in discussione ogni volta e deve essere comunicata

chiaramente all’interno e all’esterno del servizio l’approccio culturale e operativo

utilizzato.

Far diventare però la partecipazione una prassi del servizio, può avere a sua volta dei

rischi (Stanchina, 2014) come ad esempio ingabbiare le pratiche partecipative nelle

strutture del servizio, mettendo in discussione libertà e dinamicità. La partecipazione

richiede anche un monitoraggio perché c’è il rischio che creando una sorta di abitudine

a utilizzare determinate pratiche si rischia di perdere di vista in senso, forzando a volte

anche degli operatori senza che però questi ce l’abbiano come valore e come assunto di

fondo.

La prospettiva relazionale, presuppone l’intenzionalità della persona “assistita” per

rendere possibile l’assistenza, ha anche fare profondamente con il principio della

sussidiarietà e dell’empowerment. Con la sussidiarietà intesa come la capacità

dell’istanza esterna di osservare un’azione “altra” e di interagire con essa per un

reciproco rinforzo nella sinergia.

Quando il professionista cede potere di intervento alla persona e allo stesso tempo

rafforza la relazione, l’operatore accresce il potere reciproco, suo e delle persone agenti.

(Folgheraiter, 2009b)

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Per tutti questi motivi è importante fare in modo che la partecipazione sia un processo

graduale e crescente dove tutti gli attori coinvolti condividano i valori base,

l’importanza e il valore aggiunto che questa può portare all’interno dei servizi.

2.7 Le figure degli Utenti e Famigliari Esperti

In questo paragrafo affronterò una pratica particolare innovativa consolidata soprattutto

nel servizio di salute mentale di Trento dov’è avvenuto il coinvolgimento degli utenti e

dei famigliari esperti (cosiddetti UFE). Questi esperti per esperienza sono stati introdotti

su base regolare e retribuiti nel servizio trentino a partire dal 2006. L’idea alla base di

questa figura è che le persone con disturbi mentali possano essere meglio sostenute da

chi ha fatto esperienza diretta di malattia e di utilizzo dei servizi, attraverso un supporto

alla pari.

La capacità che possiede una persona che ha avuto esperienza diretta di disturbo

mentale di cogliere aspetti di sofferenza non esclusivamente legati ai sintomi, la

possibilità di mettere in campo delle strategie di autogestione della malattia e della

sofferenza non appartengono tanto al sapere tecnico, quanto piuttosto al sapere

esperienziale. Come riportato da Sherey Mead, utente e ricercatrice attiva nel supporto

tra pari, ha definito questo rapporto come un “sistema di dare e ricevere aiuto fondato

sui principi chiave del rispetto, della responsabilità condivisa e sull’accordo su ciò che

può essere di aiuto e di supporto, attraverso l’aiuto offerto da una persona con

esperienza diretta di problemi mentali”. (Citazione ripresa dalla ricerca D’Avanzo, De

Stefani e al. 2015).

L’esperienza degli UFE è nata nel contesto che dal 2000 caratterizza il Servizio di salute

mentale di Trento e che mette al centro le attività condotto congiuntamente da operatori,

famigliari e utenti. Questo movimento condiviso si chiama fareassieme, che non è da

intendersi come corpo unitario di attività che si aggiunge all’attività clinica, ma

piuttosto come ciò che vuole caratterizzare la modalità specifica di affrontare il disturbo

mentale nella psichiatria di comunità. Questo modello è centrato sulla valorizzazione

del sapere e dell’esperienza di utenti e famigliari e sul loro coinvolgimento quanto più

possibile alla pari nel percorso di cura e in tutte le attività, gruppi e aree di lavoro. Gli

UFE sono riconosciuti dall’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari di Trento e

vengono pagati mensilmente in base alle ore che lavorano.

Gli UFE sono coinvolti in diverse aree e tipologie di iniziative: (Stanchina,2014)

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- Nella prima accoglienza

- Nell’accompagnamento nelle situazioni di crisi

- Hanno ruolo di garante dei percorsi di cura condivisi

- Presenza amicale e di accompagnamento e notturna alla “Casa del Sole” una comunità

per persone con patologie psichiatriche al primo piano, mentre nei piani superiori ci

sono delle stanze che sono disponibili per turisti che decidono di alloggiarci.

- Nell’accompagnamento nelle situazioni di difficoltà domiciliare

- Nell’organizzazione e partecipazione con testimonianze personali in campagne contro

lo stigma e il pregiudizio nelle scuole e nelle comunità locali

- Hanno ruoli di facilitatori nei cicli di incontro con le famiglie

- Partecipano alle équipe territoriali per contribuire all’aggiornamento e alla riflessione

sui casi, in particolare per quanto riguarda situazioni complesse

- Presenza in reparto finalizzata al sostegno delle persone ricoverate (Servizio

Psichiatrico di Diagnosi e Cura – SPDC)

- Nelle attività legate alle procedure di valutazione del Servizio

- Nelle testimonianze nelle formazioni / sensibilizzazioni

Un elemento che emerge è l’evidente maggioranza di attività in cui la partecipazione è

finalizzata all’affiancamento degli operatori nell’erogazione dei servizi. Sono invece

meno occasionali le situazioni in cui utenti e famigliari esperti sono coinvolti nella

progettazione e nella valutazione dei servizi offerti.

Emerge chiaramente come il gruppo riconosciuto formalmente come quello degli UFE

sia in realtà coinvolto soprattutto in attività erogative. Sicuramente la modalità con la

quale queste persone erogano i servizi e permettono di renderli più a misura di utente, di

comunicare fin da subito che ognuno “può farcela”.

“Nell’ottica partecipativa, invece, gli UFE sono “esperti” proprio per aver vissuto una

determinata situazione sulla propria e non necessario di formazione aggiuntiva.

L’obiettivo del loro impiego, infatti, non “è coprire il servizio” o erogare più prestazioni

grazie al coinvolgimento di più persone, ma migliorare la qualità del Servizio

introducendo un punto di vista unico, insostituibile e non paragonabile con quello degli

operatori.” (Stanchina, 2014, p. 216).

La “portata relazionale” del coinvolgimento degli UFE dipende quindi da vari fattori: le

attività concretamente svolte dagli UFE; l’autonomia che utenti e famigliari hanno nel

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definire le loro azioni; la possibilità che viene data la loro di partecipare a riflessioni

libere e condivise; il tipo di motivazione che li spinge (Stanchina, 2014).

Questa esperienza degli UFE è nata da un gruppo di frequentatori delle prime attività de

Fareassieme, movimento trentino composto da utenti, famigliari e operatori che crea

iniziative insieme. In particolare queste utenti e famigliari che poi hanno preso il nome

di UFE, erano persone che avevano espresso una specifica voglia di coinvolgersi in

modo più sistematico all’interno del Servizio e che avevano già un dialogo aperto con

gli operatori. In seguito questa figura si è formalizzata e si è cercato di capire e definire

bene come e in che modo si potesse entrare a far parte del gruppo degli UFE. Infatti non

tutti coloro che aderivano alle iniziative del Fareassieme poteva poi diventare Utenti e

Famigliari Esperti.

Con il passare del tempo, vista la consistente richiesta da parte di alcuni aspiranti UFE,

il servizio ha definito un percorso preciso. La prima possibile strada da intraprendere è

quella che vede l’utente interessato a diventare UFE presentarsi agli operatori del

Fareassieme, la seconda invece è quella che parte da una segnalazione di un operatore il

quale propone alla persona di coinvolgersi in quel ruolo le sue caratteristiche e il suo

percorso di cura la rendono particolarmente adatta.

Il passaggio successivo è l’affiancamento di un UFE per comprendere meglio il proprio

ruolo futuro. Questa fase racchiude tre obbiettivi importanti; il primo è quello di aiutare

l’aspirante UFE a comprendere se l’attività è effettivamente di suo interesse; il secondo

aspetto è che attraverso la valutazione degli UFE e degli operatori che già operano

nell’area osservata, si comprende se l’aspirante UFE è in grado di svolgere l’attività

richiesta in modo sufficientemente efficace; il terzo obbiettivo è quello di consentire

all’aspirante UFE di conoscere il contesto in cui opererà e di allenarsi a svolgere le

attività richieste. Finito il periodo di prova, nel quale la persona si mette in gioco e

capisce se è quello che davvero vuole fare, o viene inserita a tutti gli effetti nell’area

prescelta oppure viene invitato a prolungare per qualche tempo il periodo di prova; nel

caso in cui gli operatori osservano che un’altra area potrebbe essere più consona alla

persona, possono valutare insieme all’aspirante UFE come procedere.

È importante sottolineare come il Servizio di Salute Mentale di Trento ha scelto di non

prevedere momenti di formazione strutturata a partire dal presupposto che l’UFE non

deve ricevere nessun tipo di formazione perché questa è già stata data dalla sua

esperienza. È stato invece previsto per loro dei momenti di confronto tra UFE e

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operatori di ciascuna area, in modo da offrire a tutti la possibilità di esplicitare eventuali

criticità e trovare delle soluzioni in merito.

Le motivazioni che spingono utenti e famigliari a coinvolgersi come UFE sono

molteplici. Prima di tutto c’è un desiderio da parte loro di contribuire al miglioramento

dei servizi mettendo a disposizione le loro conoscenza esperienziali. Accanto però a

questa motivazione altruistica che rimanda all’idea di aiutare chi si trova in difficoltà,

molti di loro hanno sottolineato il beneficio che ricevono nello svolgere questo ruolo.

Molti UFE sono perfettamente consapevoli e dichiarano di svolgere questo ruolo

soprattutto perché fa bene a loro, perché permette di contrastare la solitudine che spesso

caratterizza la malattia mentale. Questo tipo di aiuto non è quindi unidirezionale, ma

bensì mutualistico. Nel momento in cui l’UFE aiuta la persona, è quest’ultima ad aiutare

l’UFE. Questo permette di istaurare una relazione di fiducia caratterizzata anche da

reciprocità.

Il Servizio di salute mentale di Trento ha voluto fortemente e ottenuto che venisse

riconosciuto un contributo economico agli UFE. In questo modo, l’Azienda ha

formalizzato la condivisione dell’approccio del Fareassieme e ha attribuito un valore

monetario all’apporto degli UFE, nella stessa logica per cui viene retribuito il lavoro

degli operatori. (Stanchina, 2014).

Il riconoscimento di questa figura ha permesso di sottolineare l’importanza della

conoscenza che queste persone hanno, data dal convivere con la patologia e che ha

permesso loro di sviluppare delle strategie soggettive, che condivise con gli altri

possono rivelarsi un grande aiuto per l’utente che arriva al servizio.

Circa due anni fa ho avuto la possibilità di visitare il Centro di Salute di Trento, durante

la mia permanenza ho conosciuto fari UFE che hanno condiviso con me la loro

esperienza. Uno degli aspetti che mi ha colpito particolarmente è stata la loro felicità nel

raccontarmi come questa esperienza di aiuto verso gli altri abbia permesso loro di

“sentirsi utili” per qualcuno e di avere la percezione di fare la differenza per le altre

persone, detto nel gergo tecnico del lavoro sociale, la loro percezione di avere potere

(empowerment) è aumentata. Un altro elemento che era emerso dai racconti era come la

loro presenza durante i colloqui, oppure durante le visite domiciliari permetteva alla

persona di sperare ancora, di avere la percezione di riuscire a trasmettere positività e

voglia di “riscattarsi” nelle persone che gli UFE incontravano. Questo aspetto è stato

percepito anche da vari operatori con i quali avevo parlato, i quali sostenevano quanto

fosse importante la figura dell’UFE, soprattutto perché riesce ad entrare in empatia con

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una maggiore facilità con la persona che sta soffrendo e perché appunto trasmette quel

senso di speranza che in alcuni momenti sembra smarrita.

In merito a questo c’è un articolo che parla di una ricerca che ho analizzato fatta

Petronio e al (2014) i quali hanno voluto analizzare alcuni valori e sentimenti che gli

UFE riescono a trasmettere agli utenti che giungono al servizio.

L’articolo in questione è Il sapere esperienziale di Utenti e familiari, risorsa per la

promozione del benessere: l’esperienza del Servizio di salute mentale di Trento.

L’esperienza di intervento degli UFE ha caratteristiche peculiari che la caratterizzano e

la identificano rispetto agli interventi di altre figure canoniche che operano nei servizi di

salute mentale. Una delle caratteristiche teoricamente attribuite agli UFE viene definita

sapere esperienziale, quel tipo di competenza che deriva dall’aver sperimentato

direttamente una condizione di sofferenza e un percorso verso il miglioramento o

l’uscita da quella condizione. Il ruolo e la funzione degli UFE potrebbero essere duplici,

da un lato modelli e testimoni credibili di cambiamento positivo e desiderabile, da un

altro soggetti in grado di riconoscere profondamente i caratteri, sia espressi che non

espressi, dei vari momenti delle condizioni di sofferenza attraverso il confronto con la

propria personale esperienza. Questa ricerca ha avuto l’intento di analizzare alcuni

sentimenti e valori emergono nella relazione tra UFE e utenti. L’universo della

rilevazione è costituito da circa 800 utenti presenti nel database del DSM e il campione

selezionato con procedura totalmente casuale è di 208. La rilevazione è avvenuta

telefonicamente ed è stata condotta da un’operatrice istruita specificamente per

effettuare le interviste. Le prime rilevazioni di test sono avvenute direttamente con la

presenza fisica della persona, quindi sono state effettuate 18 interviste telefoniche di

prova, in seguito si è avviata la rilevazione effettiva. Tutte le interviste sono state

documentate in forma cartacea e registrare in modo identificabile, tranne che per i dati

personali della persona intervistata.

La prima parte dell’intervista conteneva domande riguardanti elementi di base e di

conoscenza sugli UFE come offerta di servizio, la seconda parte era invece orientata

direttamente alla raccolta di dati sulle dimensioni emotive e affettive come ad esempio

l’empatia, la fiducia, confidenza, parità (la percezione di essere considerati alla pari”),

compliance e speranza.

Il 74% degli intervistati è a conoscenza del fatto che nel Servizio di salute mentale di

Trento esistono gli UFE, il 51% degli intervistati ha avuto esperienze di contatto con gli

UFE e ben il 97% di coloro che ha avuto contatto con gli UFE accetta di rispondere al

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questionario; questo dato ha una connotazione positiva in termini di misura indiretta di

reputazione del Servizio agli occhi degli intervistati. Il fatto che 104 intervistati su 106

dimostrino di essere collaboranti è un indice sicuramente positivo.

In questa prima tabella riportata qui sotto vengono trascritte le percentuali di frequenza

di dove gli utenti hanno incontrato gli UFE, e hanno avuto un contatto con loro.

Tab. 1 In quali occasioni ha incontrato gli UFE nella sua esperienza (N. 208)

Cicli d’incontro con i familiari 0Percorsi di cura condivisi 20Servizio Diagnosi e Cura 54Domicilio 13Front-Office del Servizio 76Appartamenti protetti 3Casa del sole – residenza 11Momenti di crisi 34Guida all’interno del servizio, trasmissione di informazioni

16

Nel complesso i dati della prima sezione di questionario sono rilevanti per un fatto

specifico, la quasi totale adesione alla rilevazione (97%), che ha un valore in termini di

misura indiretta di soddisfazione percepita e di reputazione, che ha un altro valore

importante, consente di assumere informazioni dalla quasi totalità degli utenti che hanno

avuto contatti con gli UFE.

La seconda sezione del questionario telefonico conteneva le trappole verbali per

catturare tracce emotive lasciate dalle esperienze di contatto con gli UFE. Come già

visto in precedenza, la formula della domanda comprende l’invito a rievocare tutte le

esperienze di relazione con gli UFE e provare a individuare se si sono vissuti momenti

nei quali emergevano emozioni o sentimenti.

La tabella riportata qui sotto indica quanti degli intervistati, in percentuale, hanno

sperimentato le dimensioni emotive descritte precedentemente.

Tab.2 Percentuale di intervistati che hanno o non hanno vissuto le emozioni e i sentimenti Esplorati (N.102)

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Questa tabella rende

chiaramente idea del beneficio

che hanno gli utenti nel

relazionarsi con gli UFE.

Per quanto riguarda l’empatia

ricevuta intesa come la

sensazione di essere compresi

nei propri sentimenti è molto

alta (97%) dei casi, valore molto

alto anche nella sensazione di

essere trattati alla pari (89%).

Altri due elementi che ho ripreso da questo articolo, aventi un ruolo importante sono la

fiducia e speranza, frequenti in maniera consistente in quasi tutte le interviste.

Per ciò che invece riguarda l’immagine che gli UFE hanno generato, ovvero empatia

espressa (intesa come la sensazione da parte degli utenti di comprendere le emozioni

espresse degli UFE) e parità espressa (l’aver percepito negli UFE l’espressione di

caratteristiche simili a se stessi) hanno ottenuto rispettivamente il 76% e il 79% degli

intervistati, questo dato non è indifferente, perché in sostanza non esiste uno standard di

UFE e malgrado ciò la percezione da parte degli intervistati è simile in modo

consistente.

La compliance intesa come “adesione al trattamento” con l’aiuto dell’UFE ha una

percentuale che supera la metà mentre la confidenza (intesa come il raccontare eventi in

modo privilegiato agli UFE) è la dimensione comparsa in modo meno frequente (32%).

La maggior parte degli utenti intervistati non hanno dato informazioni confidenziali che

nemmeno agli operatori avevano detto.

Questa ricerca tende a sottolineare come il vissuto di una persona e il suo racconto

attraverso la manifestazione delle proprie emozioni può essere facilitato dalla relazione

significativa con un’altra persona che porta con sé le testimonianze riconoscibili del

sapere esperenziale, come fanno gli UFE. (Petronio e al., 2014) Questa figura

all’interno dei Servizi di Salute Mentale di Trento è riconosciuta ormai da diverso

tempo grazie anche ad una cultura del servizio che ormai da parecchi anni c’è e si è

sviluppata anche sul territorio. Nelle altre regioni si sta cercando di sviluppare delle

figure come ad esempio in Lombardia, l’Esperto in Supporto tra Pari (ESP), con

84

Si No

Empatia ricevuta 97 3

Empatia espressa 76 24

Fiducia 87 13

Confidenza 32 68

Parità espressa 79 21

Parità ricevuta 89 11

Speranza 86 14

Compliance 63 37

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l’intento di inserire queste persone poi all’interno dei servizi di salute mentale. È una

sfida ardua che richiede tempo, ma soprattutto un cambiamento della cultura dei servizi,

che devono essere disposti a mettersi in discussione e favorire lo scambio e la

collaborazione con coloro che detengono il sapere esperienziale.

85

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CAPITOLO TERZO

Il coinvolgimento di esperti per esperienza nella formazione

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In questo capitolo riporterò alcune riflessioni nate dalla letteratura analizzata che tratta

alcune esperienze di formazione di operatori in servizio dove utenti e famigliari esperti

hanno avuto un ruolo importante attraverso una partecipazione attiva. La letteratura

ricercata parla di realtà sia nazionali che internazionali. Spesso vengono descritte

esperienze di apprendimento durante la formazione di studenti, futuri operatori sociali

che entreranno in un futuro a lavorare all’interno dei servizi sociali.

Per quanto riguarda invece la formazione di operatori che già lavorano e che vengono

formati da utenti e famigliari, la bibliografia che descrive le varie esperienze non è

molta. Nonostante ciò però molti degli aspetti coincidono in entrambe le esperienze che

riporterò in seguito.

Nel paragrafo successivo, cercherò di analizzare i punti salienti del perché può rivelarsi

positivo il coinvolgimento di esperti per esperienza nella formazione degli operatori, o

di studenti in formazione.

3.1 Il perché del coinvolgere gli esperti per esperienza nella formazione di

base: uno sguardo sulla letteratura nazionale e internazionale

La partecipazione di utenti e famigliari nella formazione degli operatori rappresenta

sicuramente uno dei punti salienti che permette di vedere un ruolo ben diverso e che va

oltre a quello di un semplice destinatari di prestazioni.

La formazione degli operari può essere un elemento chiave sul quale intervenire per

promuovere un approccio partecipativo nei servizi. Questo permette di avere una

visione della persona prima di tutto come esperta e può insegnare agli operatori che si

prendono cura di lei o di un loro famigliare. Il coinvolgimento di utenti e famigliari

nella formazione permette al tempo stesso di riconoscere a questi un sapere che gli

appartiene dato dal loro convivere con la patologia, riguardanti sia l’effetto della terapia

su sé stessi che al tempo stesso anche per gestire il loro vivere.

Un esempio si trova all’interno del programma britannico Developing manager for

community care (Stanchina, 2014, p. 46) con l’obbiettivo di sviluppare delle iniziative

di formazione con in coinvolgimento di utenti e famigliari. In particolare, in questa

esperienza si agì su due versanti, uno relativo alle modalità di formazione dove utenti e

famigliari fecero da formatori; e l’altro relativo ai contenuti. La formazione riguardò

anche i modi in cui i manager potevano interagire efficacemente con gli utenti e i

famigliari per aiutarli a sviluppare servizi vicini ai loro bisogni. In merito a questo

uscirono da parte dei manager delle riflessioni che il coinvolgimento formale degli 87

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utenti nei corsi di formazione rappresentava per loro una sfida rispetto all’idea

tradizionale della relazione tra professionista e utenti molto più di quanto potevano fare

delle lezioni riguardanti la partecipazione di utenti e famigliari nei servizi di salute

mentale. Avviene inoltre un’inversione di ruoli, dove l’esperto è l’utente e il manager

l’allievo.

La formazione consentì inoltre ai dirigenti dei servizi di sperimentarsi nel lavoro a

diretto contatto con gli utenti, confrontandosi sulle modalità di realizzazione di servizi

più sensibili ai bisogni degli utenti, le esperienze che le persone avevano dei servizi e

l’impatto che questa partecipazione aveva sia sui dirigenti che sugli utenti.

Nella letteratura nazionale e internazionale da me rivisitata ho trovato alcune esperienze

riguardanti la formazione di operatori fatta da utenti e famigliari.

Una di queste esperienze è descritta da Jonathan Coles e Peter Connors (2009) i quali

descrivono un’esperienza avvenuta nell’ambito della disabilità, dove utenti sono stati

coinvolti nella creazione di un video partendo dall’esperienza di alcuni utenti. Il video

prodotto viene attualmente usato come strumento per la formazione di varie figure di

operatori sociali.

“È stato riscontrato che la voce dei partecipanti, che hanno il potere di mettere in

discussione, illuminare e anche dare fastidio, rappresentano il cuore del progetto.”

(Jones e Cooper,2009, p. 218). Questa esperienza nasce da un approccio aperto e

criticamente interlocutorio al coinvolgimento degli utenti nello sviluppo dei servizi e al

tempo stesso un approccio che si oppone attivamente all’identificazione della persona

con il servizio che essa riceve. I manager e i formatori interni erano particolarmente

interessati a far sì che gli utenti avessero voce in capitolo nel mese di tirocinio previsto

per i nuovi assunti. L’ideale sarebbe stato coinvolgere gli utenti in ogni ciclo di

formazione per i neo assunti; si è presentata però la difficolta di riuscire ad includere

persone che potesse rappresentare il bisogno di tutti gli utenti. Da questa riflessione è

infatti emersa l’idea di produrre un video composto da diverse esperienze.

Dalla descrizione di queste esperienza emerge la difficoltà degli operatori nel far fronte

alla tentazione “di guidare” i partecipanti e di “aggiustare” in fase di redazione il

messaggio che volevano trasmettere. (Jones e Cooper,2009)

Per far fronte a questa difficoltà era essenziale avere una visione come quella descritta

da Salleby (2006) in quale parlando da operatore dice “dobbiamo essere aperti alla

negoziazione e apprezzate l’autenticità delle opinioni e delle aspirazioni di coloro con

cui collaboriamo. Le nostre voci forse dovranno tacere, per lasciare spazio a quelle dei

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nostri utenti. Siccome stiamo comodi nel nostro ruolo di esperti, possiamo trovarci in

difficoltà nell’assumere un atteggiamento di collaborazione paritaria.” (Salleby, 2006,

pp. 14-15)

Questa riflessione fa intendere come spesso per gli operatori sia difficile cedere un po’

del loro potere in mano agli utenti e riuscire quindi a essere criticamente consapevoli del

loro potere come professionisti cercando di rimanere concentrati sulle competenze,

esperienze e risorse degli utenti. Un altro elemento emerso da questa esperienza è

l’importanza da parte degli operatori di riconoscersi come alleati, favorendo così un

lavoro in partnership. (Jones e Cooper,2009).

Questo lavoro ha inoltre permesso di modificare la percezione dell’indipendenza, della

libertà di scelta ma al tempo stesso anche dell’autonomia che gli utenti hanno e

acquisiscono oltre che la visione che gli operatori hanno di loro. In genere si pensa che

le persone con difficoltà di apprendimento siano estremamente dipendenti dagli altri,

questo tipo di formazione, con la creazione del video ha permesso di dare la possibilità a

molte persone di mettere l’accento sul fatto di sentirsi persone utili e capaci di dare

validi contributi.

Quando un servizio dichiara di lavorare bene, significa essere disposti ad ascoltare

attentamente le storie degli utenti e a mettere in dubbio i propri preconcetti personali e

professionale. Solo sulla base di questo impegno profondo e autentico l’intervento

professionale può agevolare l’empowerment, senza perdere autorevolezza.

Infine si sostiene che la possibilità di creare questo video abbia rappresentato uno sforzo

critico e una forma di empowerment, poiché esso racchiude messaggi fondamentali per

la pratica del lavoro sociale rivolto alle persone con difficoltà di apprendimento.

È un esempio di come lavorare sui punti di forza richiede agli operatori un interesse

rispettoso e impegno per sapere ascoltare la voce autentica dell’utente; “l’operatore

sociale deve essere sinceramente interessato e rispettoso delle narrazione degli utenti,

oltre che dell’interpretazione che essi forniscono delle proprie esperienze[… ] Gli utenti

riescono ad “essere visti” quando gli operatori partono dal presupposto che possiedano

un bagaglio di conoscenze che abbiano tratto insegnamenti dall’esperienza, che nutrano

speranze, che coltivino interessi e che possiedano specifiche competenze.” (Saleeby,

2006, p.16).

Un’altra esperienza interessante è quella avvenuta nei servizi di Hong Kong, descritta

nell’articolo The uncut jade: differing views of the potential of expert users on staff

training and rehabilitation programmes for service users in Hong Kong (Roger e

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al.,2013), dove si è cercato di seguire un elemento chiave della recovery e cioè

coinvolgere gli utenti esperti nella formazione del personale dei servizi di salute mentale

e nei programmi di riabilitazione degli utenti del servizio. Questo studio aveva come

obbiettivo quello di studiare e comprendere meglio il punto di vista degli utenti e dei

professionisti nel coinvolgimento degli utenti nella partecipazione al processo di

recovery. Vari studi dimostrano infatti che un servizio orientato alla recovery che è in

grado di riconoscere i benefici e le risorse che gli utenti hanno da offrire al servizio

permette un miglior rapporto tra i due. (Roger e al.,2013). Questo studio ha cercato

inoltre di individuare le diverse aspettative presenti tra gli operatori e gli utenti esperti,

attraverso le varie interviste fatte inizialmente alcuni operatori vedevano gli utenti in

grado di fare azioni molto semplici come ad esempio cucinare ecc.. altri invece

vedevano il loro la possibilità di poter aiutare, monitorare e guidare altri pari nel

percorso di cura.

Alcuni utenti invece avevano una percezione di loro stessi come esperti per la loro

esperienza e in grado di poter apportare un aiuto ad altri utenti in difficoltà. È emerso

infatti come gli utenti possano offrire una visione dall’interno dell’esperienza della

malattia e nell’utilizzo dei psicofarmaci. Un utente sostiene inoltre come gli operatori

siano sicuramente dei professionisti ma di come gli utenti esperti riescono a guardare le

cose da un punto di vista globale e di come possiedono un sapere esperienziale che li

contraddistingue.

All’inizio gli operatori si sono rivelati scettici rispetto all’abilità degli utenti di poter

dare un’effettiva formazione, erano preoccupati per la mancanza di formazione degli

utenti e di come potessero insegnare partendo dal caso singolo, dalla propria esperienza

che spesso non può rappresentare un valore assoluto e generale valido per tutti.

Entrambi i gruppi (operatori e utenti esperti) erano preoccupati riguardo alle possibili

fonti di stress degli utenti in merito alla formazione. Le fonti però erano diverse dal

punto di vista degli utenti e operatori. I primi ritenevano che uno dei motivi che creava

loro più paura era quello di “essere mandato a casa” in quanto ritenuti incompetenti da

parte degli operatori. I secondi invece erano preoccupati rispetto al fatto che una

responsabilità come quella della formazione potesse portare un carico di stress notevole

per gli utenti.

In merito a questo però nessuno dei pazienti ha menzionato che fosse stressato dalla

preparazione della lezione. Alcuni operatori si sono rivelati un po’ scettici in quanto

ritenevano che la partecipazione dei pazienti potesse destabilizzare l’equilibrio di potere

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e la saggezza legata al sapere tecnico. (Roger e al.,2013). Gli utenti hanno dimostrato

una maggiore apertura verso gli operatori, per quanto riguarda soprattutto l’abbattere le

barriere e superare le vecchie maniere.

Questo studio ha sottolineato inoltre l’importanza per gli utenti esperti di poter dare

qualcosa agli altri in risposta ad una situazione che loro capivano molto bene. In

generale però gli operatori avevano difficoltà ad andare oltre ai possibili rischi nel

coinvolgere utenti e famigliari, tendevano spesso a focalizzarsi sulla perdita di controllo

e autorità da parte del servizio.

Inoltre nello studio si è cercato di comprendere il vero senso del coinvolgimento e della

partecipazione nel servizio da parte degli utenti. È stato apprezzato il termine

condividere, da entrambi i gruppi, nonostante però da parte degli utenti è stato percepito

come una limitazione. Dal punto di vista degli operatori la condivisione permetteva di

salvaguardare l’equilibrio di potere importante per il servizio. Questa formazione infatti

ha permesso agli utenti di ritenersi esperti per il loro vissuto, ma al tempo stesso dalle

varie interviste emerge che non hanno ricevuto uno stesso riconoscimento da parte degli

operatori.

Questa possibilità ha pero favorito una maggiore tolleranza del servizio nei confronti

degli utenti esperti, avendo infatti vissuto un confronto, ha permesso anche una

possibilità di socializzare, andando oltre al ruolo.

Concludendo questo sottolinea come gli utenti esperti possano contribuire

positivamente nei servizi di salute mentale e nel supporto dell’altro, sia come formatori,

ricercatori sia nella promozione del proprio benessere e percorso di cura. Questo aspetto

è stato supportato da vari risultati ottenuti da studi coordinati e controllati (Livingston &

Cooper, 2004) che hanno confrontato i servizi che avevano al loro interno utenti esperti

in supporto tra pari e servizi che non li avevano (Chinman et al., 2008). Inoltre la

presenza di esperti in supporto tra pari nei servizi incoraggia la creazione di una

maggiore collaborazione tra utenti e operatori, garantendo così maggiori opportunità di

migliorare i servizi. La riluttanza degli operatori di accettare gli utenti esperti è data

soprattutto dalla difficoltà di cambiare, di acquisire nuove capacità e da una loro messa

in discussione. Questo può essere più facile se entrambe le parti non riconoscono le

risorse dell’altro.

Gli operatori piano piano avranno bisogno di utenti esperti che offrono un punto di vista

diverso rispetto a come vivono la loro patologia e della cura. Questa rappresenta una

visione complementare e non sostitutiva a quella dei professionisti. Per far sì che tutto

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questo sia possibile deve esserci un contesto che mantenga il delicato equilibrio di

potere, rispettando gli utenti esperti, considerandoli come propri partner, aumentando

così la loro percezione di potere e permettendogli di raggiugere le loro aspirazioni,

andando oltre alla patologia. Questo sicuramente rappresenta un obbiettivo difficile e

che richiede tempo, il cambiamento non si può ottenere unilateralmente ma bensì con un

lavoro in partnership che possa portare un cambio di atteggiamento da entrambe le parti.

La logica alla base è che gli operatori devono essere disposti a condividere il potere con

gli esperti per esperienza, dando un riconoscimento a questa nello stesso modo che

avviene con il sapere tecnico.

Un'altra esperienza riscontrata nella letteratura è quella descritta da Hayward e al.,

Service user involvement in traning. Case study (2005). In questo articolo vengono

affrontate diverse buone prassi rispetto al coinvolgimento di utenti e famigliari nella

ricerca e nella formazione. All’inizio l’articolo accenna anche ad una difficoltà di

considerare da parte di tutti il coinvolgimento di utenti e famigliari allo stesso modo.

Gli obbiettivi di questa ricerca sono due, il primo è quello di cercare di rendere evidenti

e dare delle prove riguardanti il beneficio dato dal coinvolgimento di utenti e famigliari

nella formazione, il secondo è quello di chiarificare, far sì che questo venga promosso e

sviluppato all’interno dei servizi.

I formatori che sono esperti per esperienza possono rappresentare un’esperienza molto

“potente” perché permette loro di poter dire cosa loro hanno vissuto, di comprendere la

patologia più da vicino.

Più volte viene riportata l’importanza del coinvolgimento di utenti nella formazione che

permette di acquisire maggiore potere (empowerment) e al tempo stesso una maggiore

autodeterminazione grazie ad una maggiore partecipazione all’interno dei servizi.

Gli operatori riportano che le loro aspettative erano diverse, in quanto si aspettavano di

giocare un ruolo che fosse di protezione nei confronti degli utenti. All’interno del testo

infatti, alcuni operatori riportano il loro sbaglio nel sottovalutare le loro risorse e

potenzialità, in quanto gli utenti non solo hanno dimostrato di potersi prendere cura di

sé stessi e al tempo stesso partecipare attivamente all’interno del servizio.

Il coinvolgimento degli utenti nel workshop ha enfatizzato quanta importanza può avere

la loro partecipazione sugli operatori della salute mentale, inoltre si è cercato di capire

come rendere il coinvolgimento di utenti sicuro e credibile nel percorso di formazione.

Un utente riporta inoltre di come la possibilità di partecipare abbia rappresentato per lui

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una sorta di “vincita” in termini di una maggiore confidenza e di maggiore influenza nei

servizi di salute mentale.

Un terzo articolo interessante da me analizzato e tradotto è quello di Spector e al. (2011)

Service- user involvement in a ward staff training project: Participants’ experiences of

making digital stories. Questo articolo fa una premessa nella quale spiega come il

coinvolgimento degli utenti nei servizi di salute mentale può avvenire a diversi livelli.

Ci può essere un coinvolgimento riguardante la cura della persona, ad esempio facendo

riferimento ai modelli collaborativi, fino ad arrivare al coinvolgimento degli utenti nella

progettazione dei servizi, nella loro attuazione e nella ricerca.

Coinvolgere gli utenti all’interno dei servizi possiede diversi benefici tra cui favorire lo

scambio tra i diversi punti di vista degli utenti, famigliari e operatori.

Il coinvolgimento degli utenti potrebbe inoltre accrescere quella che oggi è una limitata

comprensione dello stress mentale e inoltre la partecipazione di esperti per esperienza

potrebbe essere di per sé terapeutico.

Nello specifico questa esperienza descrive com’è avvenuto il coinvolgimento di utenti

nella formazione. Un’idea iniziale era quella di creare una presentazione di loro stessi e

della loro esperienza al personale del servizio; in seguito però a questa opzione si è

preferito la creazione di un DVD. Questo ha permesso a molti utenti di non usare la loro

figura all’interno del video ma altre immagini scelte da loro per la loro formazione. Gli

utenti hanno potuto scegliere come presentare la loro esperienza e con quali modalità

nei vari workshop, con anche la possibilità di non presentarla nel caso in cui le persone

non volessero.

Un elemento emerso dai partecipanti durante la maggior parte dei video come beneficio

del loro coinvolgimento è stata la possibilità di raccontare la loro sofferenza in seguito

alla malattia permettendo un maggior distacco da questa.

Nonostante le difficoltà riscontrate, c’era una visione comune riguardo all’impatto

terapeutico degli utenti che sono stati coinvolti nella formazione. Un utente sostiene

infatti che spesso ha ricevuto indicazioni degli altri rispetto a quello che doveva fare e

persino pensare arrivando a considerare sé stesso sbagliato; riporta infatti che in quel

momento a volte “non si osa minimamente pensare che ci si può prendere cura di sé

stessi.” Quando si ha la possibilità di ascoltare e vedere che per altri utenti è andata

diversamente, ci si rende con di essere in grado di avere un pensiero individuale;

sicuramente questo passaggio richiede tempo e rappresenta uno strumento terapeutico

molto utile. (utente C, Hayward e al., 2005). Un altro utente riporta che questa

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occasione di coinvolgimento ha migliorato notevolmente la sua salute a prescindere dal

video che aveva lui come protagonista venisse visto o meno.

Per quanto riguarda l’impatto che questa formazione ha avuto sugli operatori sono

emerse delle considerazioni che vale la pena di approfondire. Prima di tutto l’impatto

che hanno avuto i racconti in prima persona. Raccontare attraverso la propria voce, in

maniera individuale dimostra il potere dell’autenticità. Alcuni storie raccontate dalle

persone si sono rivelate utili e significative, sia per rinforzare l’importanza

dell’esperienza che al tempo stesso ha rappresentato una modalità più complessa e

completa di formazione per gli operatori. Ascoltando le diverse esperienze che le

persone riportano, al tempo stesso si crea un quadro più complesso e generale che sia

unico ma che contenga anche tutti gli elementi che sono emersi dai racconti. In ultimo si

descrive come questo tipo di formazione sia servita per permettere anche agli utenti di

riflettere sui vari scopi della loro partecipazione. Concludendo un aspetto importante è

stata che questa opportunità di partecipazione ha permesso agli operatori di riflettere

sull’esperienza fatta, tutto questo facilitato dal fatto che gli operatori non si sono sentiti

giudicati dagli utenti.

Un’altra esperienza è quelle descritta da Maria Luisa Raineri e Elena Cabiati

nell’articolo Learning from service users’ involvement: a research about changing

stigmatizing attitudes in social work students (2016). In questo articolo viene affrontato

il coinvolgimento di utenti nella formazione di studenti di servizio sociale; questo è

considerato un modo di collaborare nella società moderna, che permette di garantire

un’educazione bilanciata, capace di favorire un maggiore etica professionale negli

studenti, soprattutto quando gli esperti per esperienza vengono coinvolti dall’inizio.

L’idea alla base è quella che i futuri assistenti sociali debbano considerare utenti e

famigliari come partners nel trattamento delle difficoltà quotidiane. In questo modo gli

utenti non vengono considerati dagli operatori solo come figure passive e semplici

destinatari, ma come persone dalle quali si può imparare sia nell’educazione che anche

nella pratica professionale.

Le esperienze personali quotidiane sono fondamentali per equipaggiare i futuri assistenti

sociali con elementi chiave e le conoscenze per migliorare i loro servizi. Inoltre

l’esposizione al punto di vista degli utenti mira a far sì che gli studenti uniscano teoria e

pratica insieme.

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Un elemento importante emerso in questa ricerca svolta da Raineri e Cabiati (2016) è

l’importanza della condivisione del potere, il rischio di lavorare in un’ottica

tradizionalista può portare a vedere gli utenti come casi di studio al posto che partners,

incrementando l’enfasi sulla distanza tra operatori e utenti. Solo quando gli utenti si

sentono rispettati per quello che hanno da offrire possono condividere le loro

prospettive. Quando gruppi e organizzazioni di utenti sono coinvolti, si trovano in una

posizione che permette loro di combattere la visione convenzionale che si ha di loro

all’interno dei servizi.

Un passaggio essenziale nel coinvolgere utenti e famigliari nella formazione è il

reclutamento di questi. Questo lavoro di comunicazione necessita tempo e una

preparazione attenta, è essenziale spiegare lo scopo dell’iniziativa ai diversi individui e

soggetti coinvolti, capire cos’hanno da offrire e capire con chi altro sono coinvolti e le

loro condizioni di coinvolgimento.

Nella ricerca svolta da Raineri e Cabiati (2016), viene sottolineata l’importanza del

coinvolgimento di utenti e famigliari nell’educazione degli assistenti sociali sia

estremamente importante per tutti. Infatti, grazie alla loro testimonianza, la

consapevolezza e l’importanza dell’esperienza umana all’interno dei servizi di salute

mentale è cresciuta, questo è stato riportato da vari studenti come elemento

caratterizzante di una formazione condotta in questo modo. Inoltre sempre loro hanno

riconosciuto l’importanza di interagire in una forma diversa dal solito; in merito a

questo infatti, la distinzione e distanza tra le parti è andata sfuocando e insieme a questo

anche lo stigma.

Un’esperienza simile a questa è descritta da Greta Bonesi (2012), la quale descrive la

realtà e le riflessioni degli studenti di Servizio Sociale dell’Università Cattolica di

Milano, durante una formazione in collaborazione con esperti per esperienza.

In questo caso sono stati contattati individui che hanno avuto esperienze di malessere

esistenziale, di disagi familiari, di relazione con i Servizi sociali, ma che sono riusciti,

nel tempo, a gestire i loro problemi e a emanciparsi grazie a una forte spinta

motivazionale al cambiamento e a un percorso di elaborazione riflessiva che li hanno

portati ad agire attivamente per uscire dalla crisi-problema. Ogni utente esperto ha avuto

la possibilità di mettere in luce quali atteggiamenti naturali, di risorsa o eventuali

criticità sono emersi nella relazione di approccio dello studente. Attraverso la

restituzione di gruppo, gli studenti hanno avuto la possibilità di conoscere e/o

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riconoscere le proprie capacità naturali alla relazione, di scoprire con maggiore

consapevolezza i propri limiti e le proprie risorse.

Un familiare riporta un aspetto importante, “l’aiuto può avere luogo solo nella misura in

cui la persona che lo offre è dotata di sentimento, di cuore. Questo è molto più

importante di qualsiasi altra tecnica. L’atteggiamento di chi si pone come aiutante è

fondamentale. Esso passa non tanto tramite la comunicazione verbale, quanto attraverso

i gesti, i movimenti corporei, la mimica facciale… occorre mettere le persone nella

condizione di trovare autonomamente le risposte ai propri bisogni perché non è corretto

sostituirsi ad esse durante questo processo: nel momento in cui le soluzioni offerte

risultano inefficaci, le stesse persone hanno il diritto di ribattere sulla professionalità

dell’assistente sociale.” (A. familiare esperto, Bonesi, 2012, p.255).

Questa esperienza ha permesso agli studenti di avere la possibilità di offrire e di ricevere

reciprocamente “qualcosa in termini di saperi differenziati” che difficilmente i libri o le

lezioni riescono a garantire.

Durante questa esperienza gli utenti hanno indossato gli abiti del “docente”

contemporaneamente al loro e sono riusciti, meglio di chiunque altro, a capire

l’attenzione degli studenti e a catalizzare la loro riflessione sulle finalità del corso.

Una studentessa riporta che questa occasione ha rappresentato per lei la possibilità di

acquisire maggiori conoscenze rispetto alla realtà nella quale in un futuro andranno ad

operare, il confrontarsi a livello molto diretto con i bisogni e i problemi delle persone si

è rivelato d’aiuto sotto il profilo motivazionale. “Sia l’utente sia l’operatore sono

chiamati e si chiamano reciprocamente a incontrarsi come “persone”, come portatori di

una propria identità fatta di esperienze, sogni e delusioni. Utenti e operatori partono

dalla stessa identica base umana che è la storia che li caratterizza come individui con il

loro nome, la loro dignità, il loro vivere, per forza o per amore, la vita di tutti i giorni.”

(S.,studentessa, Bonesi, 2012, p. 257).

L’utente e operatore sono in primo luogo persone. È difficile che esista una relazionale

sociale se questa consapevolezza non c’è. Questo scambio e incrocio di saperi

rappresenta un arricchimento, continuo nel tempo e costante, che vede due persone

crescere insieme, migliorandosi reciprocamente nel rispetto di somiglianze e differenze

cercando di aumentare il benessere psicofisico degli utenti (L.studentessa, Bonesi,

2012).

Questa possibilità di scambio tra utenti esperti e studenti ha permesso di accrescere

l’empowerment di entrambi, i docenti sono scesi dalla cattedra cedendo loro parte del

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loro potere e riconoscendo un sapere che appartiene ad ogni singola persona, quello

legato alla propria esperienza di vita.

Le politiche e i servizi pubblici per la salute mentale rivestono un ruolo molto

significativo per le persone che soffrono di disagio psichico grave. I servizi

condizionano il corso di vita, anzitutto per la considerazione e le risposte che forniscono

ai problemi di salute mentale, e in secondo luogo per l’orientamento che danno

all’opinione pubblica rispetto a questo tema e quindi per le possibilità di queste persone

di partecipare alla “sfera pubblica”.

Tra i cambiamenti più significativi che il movimento degli utenti sta producendo, ci

sono anche quelli relativi all’area delle conoscenze. “L’inserimento degli utenti e dei

“sopravvissuti” alla psichiatria nella ricerca e nella formazione, in effetti, può generare

risultati migliori rispetto ad altre strategie più tradizionali come quella di cercare di

controllare direttamente l’erogazione di prestazioni. È nell’area delle conoscenze che

emergono con la massima chiarezza le tensioni e le ambiguità sottese alla

categorizzazione di una persona come utente: se qualcuno, già ricoverato in un ospedale

psichiatrico, viene invitato a tenere una lezione in un corso di specializzazione, il suo

ruolo sarà di insegnante o formatore e non certo di utente (né tanto meno di

consumatore)." (Barnes e Bowl,2001, trad.it.2003, p.53)

Concludendo da come si può dedurre dalla letteratura riportata, quando si parla di

malattia mentale c’è in gioco l’intero vivere delle persone e non solo la dimensione

della patologia psichiatrica, che rappresenta solo una parte dell’interezza di un

individuo. Per questo motivo non si può fare a meno del punto di vista delle persone

direttamente coinvolte se si vuole favorire un percorso di aiuto efficace indirizzato a un

miglioramento del benessere al di là della malattia mentale. (Davidson e al., 2009).

Un approccio che valorizzi il sapere esperienziale di utenti e famigliari, restituisce al

punto di vista dell’utente e del familiare la stessa dignità di quello dell’operatore.

3.2 Incrocio tra sapere tecnico e sapere esperienziale

Il percorso di cura complessivo presuppone che i due soggetti, il professionista che

incontra un altro essere umano impegnato nella sua stessa ricerca del bene. La persona

che chiede aiuto deve continuare a sentirsi prima di tutto essere umano alla quale

appartiene il potere di poter interloquire secondo propri codici e collaborare con il

terapeuta. In questo modo, istaurando questa relazione si entra nella dimensione

relazionale. Donati sostiene da tempo infatti che parlare del bene (inteso come recupero, 97

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l’aiuto nel percorso di cura) nasce dalla relazione, dall’incontrarsi per fare assieme.

“Responsabile del miglioramento e l’interazione affettiva e cognitiva tra le persone, in

cui entrambe le soggettività rimangono intatte e libere di esplicarsi.” (Folgheraiter,

2009b, p.14). In questo modo il professionista non solo interagisce alla pari, ma ha

anche una visione della cura in senso pieno, lavora affinché sia il paziente che lui

possano lavorare ad un progetto di terapia e cura che sia congiunto.

Durante il processo di aiuto è importante tenere presente che le persone sono esperte,

esperte di sé stesse, della loro patologia e di come convivere con questa. È compito

dell’operatore aiutarle affinché trovino loro stesse una soluzione convincente per loro; è

importante fare in modo di guardare in avanti. Questa visione della persona permette di

incentrarsi sul miglioramento e sulla valorizzazione del positivo. Gli utenti e i famigliari

sono esperti, esperti della propria vita, della propria patologia e di come convivere con

essa, delle sofferenze e delle difficoltà che questa comporta. Il sapere soggettivo è

fondamentale, riguarda la vita della singola persona e della vita, che ciascuno costituisce

vivendo la vita stessa, sperimentando azioni concrete ed emozioni, coinvolgendosi in

processi comunicativi e attribuzioni di significato in merito alle situazioni reali in cui la

persona è immersa.

Quando l’operatore si trova a contatto con utenti esperti è importante che i primi

cerchino di realizzare un reciproco potenziamento tra conoscenze esperienziali e

conoscenze esperte, l’operatore si fa quindi aiutare dagli interessati per capire come

meglio aiutarli e qual è la soluzione migliore per loro, gli interessanti vengono aiutati

dall’operatore a cercare di elaborare loro stessi, in prima persona soluzioni che

ritengano più adeguate.

L’unione e quindi la collaborazione paritetica tra i professionisti dentro i servizi di cura,

in particolare quelli di salute mentale è una possibilità straordinaria e di maggior

conoscenza e aiuto per entrambe le parti.

“Il “fare assieme” che ingloba ampie opportunità di relazione. Non si tratta solo di fare,

ma anche di ragionare assieme, decidere assieme, programmare insieme […] finalizzato

al recupero del benessere può essere messo in gioco innanzitutto per la propria salute e

poi anche per la salute generale della comunità.” (Folgheraiter, 2009b, p.66)

L’utente è un soggetto attivo, essendo lui il primo a comprendere quale sia la soluzione

migliore per sé stesso e non invece, un oggetto destinato soltanto “a ricevere”, inteso

come mero destinatario. Il quadro della salute mentale è in realtà ancora più complicato

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(Folgheraiter, 2009b) perché il problema o il malessere non si riduce alla patologia, ma

anche all’intero vivere delle persone.

Si necessita senz’altro di chi sa che cosa vuole dire la malattia per averne compreso

tutte le caratteristiche attraverso lo studio e alla ricerca, ma al tempo abbiamo bisogno

di chi sa cosa vuol dire la malattia mentale perché l’ha vissuta dall’interno, perché

questa ha mutato interamente la sua vita e il suo vissuto.

L’esperto conosce la patologia quale si presenta tipicamente e in modo astratto nella

vita di persone diverse, dove la specificità del singolo non è rilevante; il paziente invece

conosce la propria malattia per esserci stato dentro, con i suoi sintomi, i dolori che

comporta e per averla avuta nella sua quotidianità. In questo modo avviene un incrocio

di saperi caratterizzato da un lavoro che vede entrambi le parti in una relazione di aiuto

paritetica e con risultati molto produttivi. Entrambi i saperi hanno dei vantaggi,

(Folgheraiter, 2009b) uno senza l’altro sarebbe incompleto, pensiamo al sapere tecnico

e di come le varie patologie hanno delle somiglianze tra loro, quindi conoscere le

diverse caratteristiche diviene una fonte preziosa e permette di capire su quale malattia

ci stiamo concentrando. Un altro aspetto favorevole è la distanza, e di come l’esperto

rappresenti un punto di vista esterno confronto alla pura conoscenza esperienziale che

spesso genera malessere e disorientamento.

Dall’altra parte anche il sapere “per esperienza” offre precisi vantaggi, a lui appartiene

quella particolare soggettività che invece allo psichiatra non appartiene e non conosce.

Unire le due ignoranze relative, le due debolezze, quella di chi possiede parziale scienza

e quella di chi possiede la parziale esperienza diretta fa la forza; si ottiene attraverso un

incontro alla pari, cioè una relazione. Questo è il modo più sano di migliorare, da una

parte acquisire il sapere dell’altro, dall’altra offrire il proprio sapere, facendo emergere

un sapere “superiore”. Sicuramente può essere ben distinta la visione tra chi è malato e

chi non lo è, non si capisce che cosa consenta al secondo di capire il primo. La

possibilità di capire e quindi aiutare la persona che soffre di un disturbo mentale va

quindi ricondotta alla possibilità di comprendere e aiutare l’altro in generale. Come

dissero Davidson e al.: “gli abili direttori d’orchestra traggono il meglio da ogni

musicista e strumento in modo da creare un insieme più grande della somma delle

singole parti dell’orchestra.” (Davidson e al., 2012, p.36).

Nell’ambito della salute mentale questo è difficile e faticoso un riconoscimento da

parte dei servizi e lavorare in una prospettiva dove l’utente è visto come soggetto e

attore del proprio percorso di integrazione e di emancipazione, ma non impossibile. 99

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L’incontro con la malattia rappresenta una risorsa per poter comprendere in senso più

ampio le differenze, e successivamente poter lavorare con queste favorendo così

percorsi di integrazione e di elaborazione di una pluralità di prospettive che tengano

conto sia del punto di vista dell’utente che quello del professionista. Il lavoro di colui

che detiene il sapere tecnico dovrà essere caratterizzato più dall’apertura nei confronti

dei punti di forza e degli obbiettivi individuali, che dall’essere eccessivamente fedele ad

un manuale di interventi strutturati prestabiliti rispettando e onorando così i diritti delle

persone con disturbi mentali.

La collaborazione paritetica tra i professionisti che sono incardinati in ruoli specialistici

dentro i servizi di cura, in particolare quelli di salute mentale con utenti e famigliari che

usufruiscono di quelle strutture nella speranza di migliorare la loro vita rappresenta

ancora oggi una sfida all’interno dei servizi di salute mentale. La conoscenza dalla quale

si può trarre potere nella gestione delle cose psichiatriche è duplice (Folgheraiter,

2009b, p.59), da una parte la conoscenza oggettiva o tecnica e dall’altra la conoscenza

soggettiva o esperienziale. Per molti anni, e ancora oggi all’interno dell’ambito della

salute mentale si è data molta rilevanza all’aspetto terapeutico e clinico della persona. Il

punto debole di tale psichiatria è il fatto che ciò che si intende conoscere non è un puro

oggetto o un’entità fisica della natura. La persona che soffre di una patologia mentale è

un soggetto, quanto più la mente di quella persona è imprevedibile e originale, tanto più

si avrà a che fare con la soggettività della persona; possiamo dire che abbiamo di fronte

un soggetto, intendendo come tale colui che sa trarre da sé stesso delle azioni originali e

creative rispetto ai condizionamenti ambientali o alle cause esterne di vario tipo.

L’oggettività cui aspira la psichiatria medica tradizionale affonda nella soggettività. “La

condizione psichiatrica è un impasto di determinazione fisico-chimica e insieme di

indeterminazione, perché la malattia si radica in un soggetto che tale rimane sempre, se

non forse nello scompenso più estremo.” (Folgheraiter, 2009b, p.60)

È importante quando si parla di guarigione o comunque per far sì che la persona stia

meglio non si può prescindere dalla persona. Se il medico e gli operatori non hanno una

visione aperta e propensa allo scambio dei vari punti vista, sarà sicuramente difficile che

avvenga un riconoscimento del valore dell’altro. Un atteggiamento caratterizzato invece

da empatia, ascolto, curiosità verso quello che l’altra persona ha da dire, istaura con

questo una relazione. La relazione è il modo più sano per migliorare: ciò significa

attingere a saperi dell’altro e offrire all’altro i propri, affinché emerga un sapere

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superiore, maggiore, in quanto non si limita alla somma dei due saperi, ma bensì questi

si completano a vicenda.

Il sapere esperienziale non appartiene solo all’utente e ai famigliari ma anche l’esperto

ha “un proprio sapere che gli deriva dall’esperienza di esercitare il proprio mestiere, ma

tale sapere diviene tanto più profondo quanto più si origina dal contatto con il sapere

esperienziale degli interessati.” (Folgheraiter, 2009b). Se il professionista non ha una

visione distorta della patologia, cioè se non ritiene che l’unica risposta alla patologia sia

la terapia, comprenderà quanto la componente esperienziale dell’altro e la

partecipazione attiva di questo al percorso di cura sia importante. Riconosce la parzialità

del suo sapere e della sua conoscenza e potere, cercherà appunto di connettersi con la

conoscenza dell’altro. In questo modo verrà in contatto e potrà osservare i saperi a lui

esterni, di conseguenza migliorare la propria competenza esperta anche al di fuori di

quello che ha studiato sui libri, facendo così esperienza di un collegamento autentico

alla pari con le esperienze vissute. L’idea è quella che uno psichiatra non debba

impazzire per comprendere cosa significhi avere un disturbo mentale, ma bensì

conoscerla attraverso l’ascolto ed entrando in empatia con le persone che ne soffrono.

Un professionista che lavora in maniera chiusa, introietta progressivamente aridità e

distanza, non fa esperienza della conoscenza diretta dell’altro e resta sterile. Anteposto a

questo c’è il lavorare in maniera relazionale, incontrando le persone e stringendo con

loro alleanze costruttive e sinergiche, per appunto creare e fare assieme. Ogni

professionista nella sua formazione dovrebbe avere la possibilità di venire a contatto

con un apprendimento basato anche sull’ascolto delle esperienze dirette sia nella

informazione che quella in servizio.

Il “fare assieme” affrontato in questo paragrafo ingloba ampie opportunità di relazione.

Non si tratta infatti solo di fare, ma anche di ragionare insieme, programmare e decidere

insieme. Prima di tutto l’incrocio di saperi si ottiene istaurando una relazione di fiducia

e paritetica tra coloro che detengono le due diverse ma complementari conoscenze. Solo

mettendo il giorno e relazionando il proprio sapere, si può andare oltre ad una risposta

già predefinita e standard del problema.

Concludendo in questo senso si ha anche la possibilità di accrescere la fiducia che utenti

e famigliari acquisiscono negli operatori, il sapere esperienziale psichiatrico, rinforzato

da quello esperto dei servizi formali, si può tradurre in un bene comune di ampio

interesse civico, in un capitale sociale che può produrre risultati e restituire altri

interessi alle fatiche e alle sofferenze da cui è scaturito. (Folgheraiter, 2009b).101

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CAPITOLO QUARTO

Una ricerca valutativa su un progetto di formazione in servizio di

operatori con la partecipazione di utenti e famigliari

Nella prima parte di questo capitolo verrà presentato il contesto della ricerca, partendo

da i vari passaggi che hanno portato alla realizzazione del percorso di CO.PRO, i

protagonisti, le tematiche affrontate durante le lezioni di formazione fino ad oggi.

La seconda parte del capitolo si concentra sulla ricerca valutativa svolta da me tramite

questionario, avente duplice obbiettivo, da una parte capire l’impatto che questa

formazione ha avuto sugli operatori e dall’altra capire quanta effettiva partecipazione è

avvenuta e come questa è stata percepita dai protagonisti.

Questa piccola ricerca ha come obbiettivo quello di far emergere vari aspetti del

progetto CO.PRO dal punto di vista degli operatori e dei protagonisti della formazione.

In seguito sono state analizzate le informazioni emerse confrontandole con le varie

esperienze nazionali e internazionali riportate nel terzo capitolo.

4.1 Il contesto della ricerca: il progetto CO.PRO

Il contesto nel quale è avvenuto il progetto CO.PRO è stato principalmente il San

Martino di Como, ex ospedale psichiatrico nel quale oggi sono presenti varie realtà.

L’origine del nome CO.PRO è stato deciso e condiviso da tutti coloro vi hanno

partecipato. Il motivo principale di questo nome è perché questo progetto ha

rappresentato un inizio di co-produzione tra le parti e al tempo stesso ha fatto sì che

questo avvenisse sul territorio DI Como (CO) (ripreso anche nell’acronimo CO.PRO).

Oltre all’acronimo in seguito abbiamo identificato insieme un simbolo che potesse dare

un rimando diretto di quello che era l’obbiettivo di questo progetto, e cioè la co-

produzione tra le parti su una questione comune.

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Il simbolo rappresentato a sinistra del foglio, è il

logo del progetto, dove il centro rappresenta

l’oggetto della discussione tra le parti, che

rappresenta un interesse comune, intorno a questa

tutte le parti interessate a riflettere insieme, in modo

particolare, utenti, famigliari, operatori ed io che in

questo percorso ho avuto principalmente il ruolo di facilitatrice.

È stato creato insieme anche sito internet4 nel quale sono stati caricati tutti i materiali

utilizzati nei vari incontri di formazione.

Questo progetto è nato in collaborazione tra il Dipartimento di Salute Mentale di Como

e due associazioni, La Mongolfiera e Nessuno è Perfetto.

Gli operatori del Centro Psicosociale di Como sono stati i destinatari della formazione e

la caposala Alessia è stata il coordinatore scientifico di questo ciclo di incontri.

Il Dipartimento di Salute Mentale di Como ha rappresentato la parte istituzionale del

progetto, la quale inizialmente si è interfacciata con un bisogno riportato da persone che

appartenevano alle due diverse associazioni, una di famigliari e l’altra di utenti.

La Mongolfiera si occupa di sostegno, informazione e assistenza a tutti i famigliari di

persone che hanno problemi di salute mentale. Inizialmente ho utilizzato questo canale

per conoscere meglio la realtà del territorio, e ho seguito alcune attività organizzate da

realtà del terzo settore che mi ha permesso di allargare il mio gruppo guida fin da

subito.

L’altra associazione con la quale mi sono interfacciata è Nessuno è Perfetto che fin da

subito ha collaborato con me alla realizzazione di questo progetto, NèP si occupa di

creare delle attività, dei momenti di condivisione per persone con disturbo mentale.

La presidente dell’associazione è Maria, e la vicepresidente è Anna che insieme a me

hanno composto l’inizio del gruppo guida di questo progetto. Il gruppo guida nel mio

stage, sono state quelle persone che si sono rivelate interessate a riflettere, perché

riconoscevano la finalità come propria. In questo caso specifico, l’iniziativa è stata presa

direttamente da loro, che insieme a me sono state coloro che fin dall’inizio hanno

lavorato alla creazione di questo progetto.

Il contesto culturale nel quale mi sono inserita è stato da una parte accogliente nel creare

un progetto innovativo che vedesse tutte le parti presenti coinvolte.

4 https://coproespertiperesperienza.wordpress.com/104

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Nonostante questo però le difficoltà, soprattutto iniziali, sono state notevoli, spesso

l’indeterminazione del progetto ha suscitato varie perplessità anche negli operatori che

si sono rivelati fin da subito disponibili a riflettere e ragionare sul progetto. L’idea di

non poter avere un progetto ben definito e chiaro suscitava negli operatori delle

preoccupazioni legate alla mancanza di controllo sul progetto, dal momento che ben

poco era prestabilito, e tutto era ancora da definire.

Questa indeterminazione però era uno dei passaggi fondamentali che caratterizzava la

metodologia relazionale, che ha rappresentato la base solida di questo progetto, dove

niente era prestabilito e già deciso.

Questo progetto nasce da vari incontri, uno dei primi è avvenuto con Anna e Maria,

esperti per esperienza e rispettivamente presidente e vicepresidente dell’Associazione

Nessuno è Perfetto (NèP). I contatti con loro sono avvenuti tramite email; prima di tutti

ho contattato Paolo Macchia, vicepresidente della Rete Utenti Lombardia, il quale

dedicandosi principalmente del territorio di Milano, ha optato di rimandarmi ad Anna,

consigliera della RUL la quale appunto, si occupa in particolare della zona del comasco.

Durante il primo incontro con Anna e Maria, verso inizio luglio 2016, ci siamo

confrontate su cosa fosse un progetto di stage e quali erano le loro preoccupazioni,

bisogni e come poter unire questi due aspetti in un possibile progetto.

Anna esperta della Recovery, stava intraprendendo in quel periodo il corso per diventare

Esperto in Supporto tra Pari, e mi fece presente la difficoltà da parte di alcuni operatori

di comprendere l’esperienza che appartiene agli utenti, di saper valorizzare questa

conoscenza legata alla loro esperienza (sapere esperienziale).

Nel periodo successivo ci furono altri incontri tra Anna e me, a volte con la presenza di

Maria a volte senza.

In seguito, tramite Anna ho conosciuto Maria Grazia, un’operatrice, nello specifico

educatrice che fin da subito si è rivelata interessata a riflettere insieme a noi sul

progetto. In seguito si è organizzato un incontro dove erano presenti altri operatori.

In questo incontro ci furono Alessia, infermiera e caposala del Centro Psicosociale di

Como, Antonio Mastroeni, psichiatra in pensione del DSM di Como, sensibile ai vari

temi che coinvolgono Esperti in Supporto tra Pari, Recovery, associazionismo ecc,

Ornella Kauffmann che per molti anni insieme al dottore Mastroeni e altri medici di altri

servizi si dedicò a diffondere e studiare varie realtà che prevedevano il coinvolgimento

di utenti e famigliari nella salute mentale.

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Alfonso, anche lui come Anna, utente dei servizi di salute mentale di Como e Esperto in

Supporto tra Pari, Grazia e Anna.

Per ESP è una persona il cui sapere è basato sull’esperienza, impara a valorizzare e

riconoscere questa risorsa, grazie ad un percorso formativo riguardante la

consapevolezza di sé, l’autostima, le caratteristiche del disagio, la recovery e

l’empowerment.

Il valore di questo percorso è dato dal fatto che l’ESP è la prova che dal disagio si può

uscire e/o comunque, nonostante esso, si può avere una buona qualità di vita.

L’ESP si differenzia dall’operatore perché mette in campo il suo vissuto personale, le

sue emozioni, ha attraversato il medesimo percorso di chi affianca e ciò lo facilita nello

stabilire dei rapporti di fiducia.

Durante questo incontro sono emersi diversi punti di vista, Anna inizialmente ha

presentato un’idea di progetto nel quale chiedeva l’utilizzo del CO.RE; questo

strumento è finalizzato a comprendere quanto i servizi lavorino nell’ottica della

Recovery. Questo strumento è stato visto da alcuni operatori troppo avanzato per la

realtà del servizio, che raramente aveva sentito parlare di Recovery e ancora meno

favorita.

Così dopo circa due ore di incontro, da parte di tutto il tavolo è emerso il bisogno

costruire un progetto insieme, con l’aiuto di diversi punti di vista che permettesse di

favorire un linguaggio comune, riconosciuto e condiviso da tutte le parti.

Questo è stato il punto iniziale sul quale lavorare in maniera collaborativa.

L’idea di questo progetto, co progettato fu quella di creare per la prima volta, incontri di

formazione degli operatori nei quali fosse possibile una partecipazione attiva degli

esperti per esperienza, partendo da tematiche scelte da loro, ritenute importanti da

comunicare agli operatori.

Così nel mese di ottobre 2016 sono iniziati gli incontri (circa uno ogni due settimane)

finalizzati a come affrontare i futuri incontri di formazione che si sarebbero avuti in

seguito.

Un altro aspetto rilevante durante tutto il progetto e indicatore di una partecipazione da

parte di utenti e famigliari, è che fin dall’inizio, l’idea di come strutturare il progetto è

stato portato avanti da Anna, Maria e me con l’aiuto degli operatori che hanno

contribuito a renderla concreta. Così è avvenuto anche per ogni singolo incontro di

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formazione, è stato progettato e creato dai due gruppi con me, condiviso

successivamente con gli operatori appartenenti al gruppo guida che insieme a noi hanno

fatto in modo che questa formazione innovativa avvenisse.

Penso che la massima partecipazione sia stata proprio in questo, nel fare in modo che

utenti e famigliari del servizio prendessero la parola e abbiano avuto uno spazio di

azione, sentendosi anche loro esperti. Creare spazi di partecipazione per coloro che

hanno molto da insegnare, dato il loro vissuto, la loro esperienza e la loro resilienza

nell’aver fatto fronte alla patologia in un modo diverso, trovando un modo nel quale

“gestire il vivere” nonostante la presenza della malattia, che da un momento all’altro ha

mutato la loro vita.

Il progetto CO.PRO è nato principalmente con l’intento di garantire la partecipazione

ad utenti e famigliari all’interno di un servizio.

L’idea è nata da un bisogno riscontrato da esperti per esperienza e poi è stato condiviso

con gli operatori che hanno contribuito a renderla concreta, ritenuta il livello più altro

della intensità della partecipazione se teniamo in considerazione la scala di Hart (1992)

analizzata precedentemente.

Questo aspetto è ben visibile anche secondo un’altra scala analizzata per comprendere

meglio l’intensità della partecipazione. L’idea dell’intero progetto è nato da Anna e

Maria come esperti per esperienza e me, e poi condivisa con gli operatori, i quali hanno

contribuito con il loro aiuto a renderla concreta, proponendo come momento, gli

incontri di formazione sul campo, nel quale utenti e famigliari potessero avere un ruolo

attivo. (Wilcox, 1994)

La stessa identica modalità è stata utilizzata nella creazione delle singole lezioni di

formazione; le tematiche sono state pensate dal gruppo di utenti e dal gruppo dei

famigliari, in seguito queste sono state condivise con gli operatori.

Anche durante gli incontri di formazione, in particolare durante la seconda mattinata, i

famigliari hanno proposto anche un lavoro di gruppo agli operatori per riflettere su

alcune tematiche e su quali potevano essere le possibili proposte sulle quali collaborare

nell’ottica del Fareassieme.

Oltre a questo, garantire la partecipazione per me è stato dare un senso di continuità nel

percorso intrapreso nei gruppi scegliendo insieme un giorno in base alle loro possibilità.

In seguito ho cercato di applicare la metodologia studiata nel concreto, cercando di

analizzare anche i possibili ostacoli alla partecipazione. Dare una scadenza di una volta

ogni due settimane in un giorno scelto da loro, ha permesso anche ai due gruppi di

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parteciparvi con una maggiore costanza. Parlando con alcune persone che

appartenevano al gruppo degli utenti, è emersa l’importanza del senso di continuità di

un percorso, scegliendo un giorno fisso nel quale trovarci, favoriva la presenza delle

persone.

La metodologia relazionale è stata la base dell’intero percorso, gli esperti per esperienza

sono stati coloro che fin dall’inizio hanno presentato il progetto, hanno negoziato con

gli operatori nell’identificare gli obbiettivi e la finalità del progetto, ma non solo, anche

sulla scelta del contenuto di ogni singola lezione che poi hanno presentato al corso di

formazione.

Tutti questi passaggi, nel loro piccolo hanno fatto sì che utenti e i famigliari non si

sentissero più come tali, ma che venissero valorizzate come persone che hanno qualcosa

da dire, da raccontare e soprattutto da insegnare. È proprio in questo che io ho visto la

relazionalità, nella possibilità di creare una formazione, fatta da coloro che sono esperti

per esperienza, dove gli esperti tecnici sono stati i destinatari favorendo uno scambio di

punti di vista. Inoltre gli operatori hanno ricevuto crediti formativi per avervi

partecipato.

Questo percorso penso abbia permesso prima di tutto lo sviluppo di un maggiore

empowerment nelle persone, durante tutto questo percorso sono stati loro i protagonisti

della formazione e di come farla. La possibilità di essere per una volta gli esperti agli

occhi degli operatori, grazie alla loro esperienza ha permesso loro di sentirsi importanti

all’interno del servizio e soprattutto di ricoprire un ruolo di formatori ha stravolto la

logica del servizio.

Un altro aspetto importante è come questo progetto si inserisca dentro una logica di

lavoro anti-oppressivo perché partecipato, dove esperti per esperienza hanno ricoperto

un ruolo attivo, importante e riconosciuto.

Sicuramente questo non è stato un percorso facile, gli operatori si aspettavano da noi

un’idea più definita all’inizio, ma trovo che questo sia impossibile quando si lavora con

le persone e con il loro vivere. Il principio dell’indeterminazione all’inizio spaventa,

l’incertezza di “non poter prevedere” ha spaventato anche me all’inizio, ma forse

bisogna essere in grado di “stare dentro” a questa indeterminazione, perché solo così è

possibile a mio avviso creare progetti partecipati fin dall’inizio.

Nelle fasi iniziali però è capitato che anche gli esperti per esperienza non fossero

abituati a prendere decisioni, ad avere loro la prima parola; non perché questo alle

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persone non piaccia, anzi, solo che spesso questo non avviene e le persone perdono il

loro empowerment che li porta a volte a non prendere delle decisioni, soprattutto quando

vengono messe in risalto più le loro problematicità che per considerarle come risorse.

Questo aspetto l’ho osservato soprattutto all’inizio da parte di alcuni famigliari, che si

ponevano in una logica passiva e assistenzialistica verso di me, aspettando che fossi io a

fare qualcosa per loro, piuttosto che loro per sé stessi e per il gruppo. Per me è stato

invece importante spiegare che era importante che fossero loro a dire da dove volevano

iniziare, a scegliere come farlo e con che modalità affrontare la preparazione dei singoli

incontri.

4.1.1 I protagonisti del progetto CO.PRO

Il gruppo che ha collaborato con me ha subito delle variazioni, si è costruito piano

piano, grazie al passaparola, alla condivisione e grazie alle persone che mi hanno aiutata

a facilitare questo processo con la promozione del progetto.

I protagonisti e creatori degli incontri di formazioni sono stati utenti e famigliari, i

destinatari gli operatori del Dipartimento di salute mentale di Como.

Il gruppo utenti era composto all’inizio da Anna e Maria, in seguito si sono aggiunti

Oscar, Stefano, Giancarlo che hanno frequentato in maniera costante gli incontri, altri

utenti in maniera saltuaria.

Grazia, educatrice insieme ad Alessia sono state le prime due operatrici che hanno

partecipato al progetto, in seguito si sono aggiunti Alberto e Nicoletta. Questi operatori

partecipavano sia alle riunioni preparatorie che alla formazione vera e propria come

discenti della formazione.

Per quanto riguarda invece il gruppo famigliari, ci sono Tiziano e Fulvia, una coppia

che fin dall’inizio hanno contribuito attivamente, in maniera molto importante a

CO.PRO. Delfo, è così che vuole farsi chiamare, è stata un’altra risorsa importante nel

gruppo insieme a Claudio, Baldo e Giuliana, tutti e tre famigliari e appartenenti

all’associazione La Mongolfiera.

Il gruppo si è formato piano piano, il segreto penso sia stato il concordare con loro,

partendo dalla loro disponibilità, un giorno fisso nel quale trovarci, (martedì pomeriggio

per i famigliari e il giovedì per il gruppo utenti), questo veniva anticipato sempre da una

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mia email dove ricordavo l’appuntamento, rimarcando il luogo e la data, questo aspetto

vale per entrambi i gruppi.

L’aspetto caratteristico di questo gruppo è stato che il ruolo attribuito fino a quel

momento ad ogni componente è andato piano piano scemando grazie alla relazione alla

pari (partnership), che ha permesso di percepire gli altri come collaboratori e non più

come operatori, utenti o famigliari.

Questo è un elemento che è emerso in più occasioni, nato spontaneamente che però ha

permesso di migliorare la relazione tra esperti per esperienza e gli esperti tecnici.

I destinatari della formazione Pillole di Recovery, erano assistenti sociali, medici

psichiatri, educatori, infermieri e operatori socio sanitari (OSS), per un totale di 25

operatori.

La scelta del nome della formazione è stata decisa insieme, il termine “pillola”

nell’immaginario del gruppo era quello di poter dare dei piccoli spunti di riflessione

senza caricare di troppe nozioni tecniche la formazione, ma piuttosto di vissuti legati

all’esperienza. Di Recovery perché la modalità con la quale è avvenuta questa

formazione segue molto il paradigma della Recovery.

4.1.2 I quattro incontri di formazione

Il ciclo di formazione dal nome “Pillole di Recovery” è stato suddiviso in quattro

incontri.

Il primo incontro di formazione si è tenuto il 29 marzo 2017, dove è stato inizialmente

distribuito un questionario nel quale si chiedevano delle informazioni di carattere

generale sulla conoscenza di alcune temi che sarebbero poi stati affrontati nella lezione

e al tempo stesso sulla loro percezione rispetto al valore del coinvolgimento di utenti e

famigliari sia nel percorso di cura che all’interno del servizio.

In seguito la lezione è stata suddivisa in due parti: la prima parte focalizzata sul tema

della Recovery, partendo dalle origini, i paradigmi, cosa promuove e cosa significa per i

servizi lavorare nell’ottica della Recovery.

La seconda parte invece ha visto come argomento centrale la partecipazione di utenti e

famigliari all’interno dei servizi di salute mentale, attraverso l’analisi di alcuni modelli

(Hart, Wilcox, Folgheraiter) nella quale si sottolinea come la partecipazione non sia solo

una consultazione o un proporre qualcosa da parte dagli operatori, ma sono ben loro a

contribuire la realizzazione di qualcosa che parte da un’iniziativa proposta da esperti per

esperienza.110

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Il secondo incontro ha visto come formatori i famigliari in data 5 marzo 2017. All’inizio

è stato consegnato un questionario con alcune domande, a risposta chiusa, nel quale

venivano date 3 opzioni di risposta (si, no, a volte). I dati di questi questionari sono stati

poi presentati all’ultimo incontro.

La lezione è stata suddivisa in più parti, nella prima parte ci si è focalizzati

principalmente sulla conoscenza esperienziale dei famigliari, per poi chiedere agli

operatori di riflettere su alcune tematiche, cercando riportare brevemente le loro

considerazioni, e delle possibili proposte da fare, che vedano il coinvolgimento attivo

della figura del famigliare.

Le tematiche proposte sulle quali lavorare sono state: difficoltà nell’incontrare i

famigliari, collaborazione con i famigliari (criticità e aspetti positivi), accoglienza,

informazione, aiuto dei famigliari in difficoltà, inclusione sociale.

I gruppi si sono suddivisi in gruppi, cercando di avere al loro interno un rappresentante

di ogni professione (una sorta di equipe) in modo da avere anche punti di vista diversi e

per un confronto maggiore.

Avevano circa 20 minuti di tempo per lavorare e poi ogni gruppo ha presentato un

resoconto su ciò che è emerso nel gruppo e facendo delle proposte concrete su come si

potrebbe migliorare l’elemento analizzato. Anche questo lavorò è stato poi presentato in

maniera sintetica nell’ultimo incontro.

Il terzo incontro ha visto come protagonisti gli utenti, i quali hanno portato la Recovery

dal loro punto di vista, il lavoro svolto durante i 20 incontri fatti di preparazione, gli

elementi emersi dai brainstorming fatti, la figura dell’esperto per esperienza con aspetti

positivi e criticità legate anche al territorio comasco.

In questo incontro è stato inoltre presentato un video che racconta la vita di Patricia

Deegan attraverso un monologo fatto da un’attrice, Francesca Mainetti. Viene

raccontato il percorso di Recovery vissuto da Pat, un utente dei servizi di salute mentale,

molto attiva a livello internazionale per la promozione della Recovery e della

partecipazione attiva di utenti e famigliari nella salute mentale.

Questo video insieme ad una riflessione portata da Anna ha colpito alcuni operatori, che

a fine incontro si sono complimentati sia con lei per com’è stato affrontato questo

incontro di formazione.

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L’ultimo incontro di formazione si è tenuto in data 8 giugno 2017, ha visto protagonisti

sia gli utenti, famigliari e operatori. Il luogo rispetto agli altri incontri è stato diverso

perché abbiamo utilizzato la biblioteca - sala convegni dell’ospedale. Durante questo

ultimo incontro hanno partecipato sia la responsabile del DSM di Como, psichiatra che

anche il capo dei tre Dipartimenti nella zona del Comasco (Como, Cantù e Appiano).

All’inizio ho distribuito lo stesso questionario consegnato al primo incontro di

formazione, ho creato anche un questionario per i miei partner di lavoro, per

comprendere se davvero si sono sentiti partecipi del progetto, coinvolti e quanto poi il

loro punto di vista sia realmente emerso durante la preparazione delle lezioni. I risultati

ottenuti da questi questionari rappresentano per me un punto molto importante, in

quanto ho avuto la possibilità di avere per iscritto le loro sensazioni, consigli e pareri sul

lavoro svolto durante tutto questo periodo.

Ho pensato che il questionario anonimo potesse rappresentare un buon modo per la

raccolta dei dati, confronto ad altri strumenti, perché ci tenevo che riportassero anche le

criticità riscontrate, essendo il questionario anonimo, hanno avuto la possibilità di poter

esprimere in piena libertà il loro pensiero.

Una volta raccolto il questionario, è iniziata la lezione di formazione, che ha visto una

brevissima introduzione fatta da me per racchiudere tutto il lavoro svolto in questi mesi,

in seguito l’intervento di Maria, che si è fatta portavoce del gruppo utenti, riportando il

loro percorso, descrivendo anche quali sono stati i bisogni emersi, e cosa loro come

gruppo si sentivano di proporre al Dipartimento come possibile prosecuzione di questo

progetto.

Dopo circa mezz’ora Maria ha passato la parola a Tiziano che si è fatto portavoce del

gruppo famigliari, riportando i dati ottenuti dai questionari somministrati agli operatori

da parte dei famigliari ( all’incontro di marzo) dai quali sono emersi dei risultati curiosi,

che valeva la pena di riportare e ai quali dedicare anche uno spazio di scambio; inoltre

anche i famigliari hanno creato alcune slides dove hanno racchiuso i vari lavori di

gruppo fatti dagli operatori nell’incontro tenuto da loro nei mesi precedenti, e

successivamente le loro proposte, di come poter proseguire questo percorso di co-

produzione.

In seguito, il gruppo di utenti e famigliari hanno poi creato qualche slide comune dove

hanno riportato la volontà di costituire un tavolo tecnico composto da esperti per

esperienza e tecnici che si dedichi a lavorare nell’ottica della co-produzione. In seguito

abbiamo lasciato la possibilità di confronto tra tutti i presenti alla formazione. È stato un

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momento molto importante nel quale molti operatori hanno preso la parola e si è creato

un clima tale da permettere un dibattito molto costruttivo, per poi arrivare alla fine a

definire delle prime azioni dalle quali partire per andare avanti.

Vari utenti e famigliari sono intervenuti confrontandosi sia con la responsabile che con

il dirigente definendo insieme i passi da fare, e decidendo insieme le prossime azioni da

fare.

Questo spazio di confronto è durato circa un’ora e ha permesso a tutte le persone che

hanno preso parola di poter esprimere il proprio punti di vista e portare delle ipotesi

concrete d’azioni da fare, in vista dei prossimi mesi.

Sicuramente ha rappresentato una buona conclusione di questo percorso, permettendo a

mio avviso di sperimentare un forte empowerment, uno scambio alla pari e una grande

partecipazione attraverso il dialogo e il confronto

Durante tutti gli incontri di preparazione c’era un clima abbastanza tranquillo, che ha

favorito l’esposizione delle lezioni, al tempo stesso era evidente da una parte l’apertura

nel comprendere e conoscere meglio alcuni aspetti trattati, in altre occasioni invece c’è

una chiusura e irrigidimento verso alcuni pezzi di lezione.

Una sensazione percepita da alcuni dei formatori, è stata la sensazione alcuni operatori

non ascoltassero e non fossero interessati ad andare oltre alla visione tradizionalista del

lavoro sanitario, manifestando nei confronti dei formatori un atteggiamento di chiusura

come ad esempio le braccia incrociate, accenni negativi con la testa, ecc..

Al tempo stesso però, coloro che erano già sensibili ad alcune tematiche fin dall’inizio,

durante il corso si sono rivelati molto interessati e incuriositi dall’esposizione dei

famigliari e utenti.

In seguito si è sentito il bisogno di istituire un tavolo tecnico che si dedicasse a lavorare

insieme, progettare, agire, monitorare e valutare, dove non avviene una distinzione di

ruoli, ma bensì un lavoro in partnership.

4.1.3 Uno sguardo osservativo sul progetto

Durante l’intero percorso le persone si sono sentite coinvolte, anche se all’inizio

soprattutto i famigliari erano diffidenti e si aspettavano da parte mia un atteggiamento

più direttivo e organizzato, facevano fatica a capire il potere che loro avevano e la che la

presa di decisione spettava a loro.

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È stato proprio questo uno degli elementi più belli e utili del progetto, lasciare spazio a

loro e a quello che loro avevano da dire, senza programmare niente e cercando di non

dare niente per scontato.

Soprattutto all’inizio l’interfacciarsi con il personale sanitario non è risultato sempre

facile, soprattutto per una diffidenza iniziale data l’astrattezza del progetto, ritenuto

“sfumato” e poco concreto. Ho cercato così di spiegare che questa astrattezza faceva

parte dell’indeterminazione, e fa parte di una metodologia di lavoro relazionale. Il

cammino sarebbe stato tracciato da tutti coloro che andando avanti, insieme a me si

sarebbero rivelati interessati a riflettere insieme.

La costanza nella partecipazione da entrambi gruppi rappresenta a mio avviso un aspetto

importante sul quale riflettere, essendo questo un percorso lungo e fatto da circa venti

incontri, della durata minima di due ore, la presenza a tutti gli incontri sia degli utenti

che dei famigliari, è a mio avviso un elemento che non può non essere preso in

considerazione.

Le persone che hanno partecipato al progetto dicono di essersi sentirsi liberi di aver

espresso la loro idea, e soprattutto di aver colto che i loro pensieri e parola avevano un

potere nelle decisioni prese successivamente. Le persone ritengono che le riflessioni

fatte sono state prese in considerazione e trasformate in azioni finalizzate al

miglioramento del servizio.

Penso che questo progetto abbia permesso di dare uno spazio di partecipazione vera a

utenti e famigliari, partendo dal riconoscere le loro conoscenze esperienziali. Ha

permesso a tutti noi di sperimentarci e di apprendere, prima di tutto ascoltando il punto

di vista dell’altro e soprattutto favorendo lo scambio tra le parti, sviluppando un inizio

di collaborazione. È stato proprio su questo aspetto che tutto il gruppo guida si è reso

conto che vorrebbe andare oltre a quello che è stato fatto, facendo in modo che questo

percorso non si concluda con la fine della formazione. L’obbiettivo iniziale era quello di

costituire un tavolo tecnico composto sia da persone che detengono un sapere

esperienziale, sia da coloro che detengono il sapere tecnico, facendo in modo di

diminuire la distanza tra ciò di cui le persone hanno bisogno e ciò che il servizio può

offrire, nell’ottica della co-produzione.

Questo è l’obbiettivo espresso da tutti i componenti del gruppo che ha lavorato al

progetto CO.PRO, nonostante le difficoltà e le fatiche che questo comporta, sicuramente

la fusione di punti di vista è più ricco e ha un maggior senso di appartenenza, rispetto ad

un lavoro direttivo e calato dall’alto (top down).

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Il poter condividere la propria idea, e vedere che questa viene presa in considerazione

da un rinforzo positivo alla persona, sia di fiducia verso le persone del gruppo guida, sia

verso sé stessa e aumentando anche il capitale sociale di quel tavolo tecnico che è lì

perché crede di poter contare sugli altri, aumentando anche la fiducia verso i servizi.

Concludendo attraverso l’osservazione ho potuto constatare che questi incontri hanno

permesso la presa di parola di persone che inizialmente si erano mostrate più in

difficoltà nel farlo. La fiducia verso i servizi è aumentata in quanto gli utenti e

famigliari si sono sentiti ascoltati e hanno constatato che ciò che hanno detto è stato

tenuto in considerazione per il miglioramento dei servizi.

4.1.4 La prosecuzione del progetto Dopo un percorso che è durato un intero anno nel quale utenti, famigliari e operatori

hanno lavorato in partnership il gruppo insieme ad altri operatori, utenti e famigliari ha

sentito la necessità di proseguire con questo lavoro, dandosi delle finalità nuove e

creando dei progetti che seguano la metodologia relazionale, favorendo la

partecipazione di esperti per esperienza fin dall’inizio nel miglioramento dei servizi di

salute mentale di Como.

Il primo passo è stato quello di costituire un gruppo di lavoro composto da diversi

saperi, sia esperienziali che tecnici che si possa dedicare costantemente al

miglioramento dei servizi e alla creazione di nuovi progetti nell’ottica della co-

produzione.

Questa finalità è stata raggiunta, il gruppo si è costituito ed è composto da famigliari,

utenti un educatore, due infermiere, un medico psichiatra e responsabile della gestione

dei servizi psichiatrici territoriali e la sottoscritta.

In ogni incontro si parla e discute sui punti ritenuti importanti dalle parti partendo dalla

condivisione dell’esperienza di ognuno.

Questo è un lavoro che richiede tempo e fatica, legata principalmente ad una difficoltà

di linguaggio comune che spesso rende difficile la comprensione. È un aspetto sul quale

bisogna lavorare attraverso lo scambio partendo dalla propria realtà, forma di

comunicazione, cercando di arrivare ad un linguaggio “comune” riconosciuto dal

gruppo.

Nonostante queste difficoltà però, il gruppo ha già iniziato a lavorare su due aspetti

fondamentali che ritiene utile portare avanti: la formazione e l’accoglienza all’interno

dei servizi di salute mentale, nello specifico nel Centro Psicosociale.

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Il gruppo dopo vari incontri ha deciso di ipotizzare un progetto che veda come finalità

ultima l’inserimento nel Centro Psicosociale di utenti e famigliari esperti che possano

contribuire ad aiutare loro pari che giungono al servizio. Per fate in modo che questo

avvenga si è ritenuto importante che questi utenti e famigliari vengano formati su alcune

tematiche utili per il loro futuro ruolo, ma contemporaneamente creare una formazione

congiunta che veda utenti, famigliari e operatori formarsi reciprocamente partendo dalla

loro esperienza. Questo aspetto rappresenta per tutti una priorità in quanto ritengono

necessario una “contaminazione di saperi reciproca” che diminuisca la distanza tra

esperti per esperienza e esperti tecnici. Questo passaggio inoltre potrebbe favorire il

riconoscimento del valore aggiunto e del ruolo che utenti e famigliari possono dare al

servizio, partendo dalla loro esperienza.

Concludendo, questo è un lavoro che richiede tempo e spazi di riflessione e

rielaborazione. Ad oggi tutti lavorano intensamente, favorendo la vera partecipazione da

tutte e tre le parti. Ancora più di prima, la distinzione di ruoli sta scomparendo lasciando

spazio alle proposte, parole di ognuno. Questo aspetto comporta una fatica, riuscire a

scindere il contenuto di quello che viene riportato dal ruolo che la persona fuori da quel

tavolo ricopre e la capacità di riuscire a cogliere il punto di vista dell’altro nonostante a

volte questo sia diverso dal proprio, dando vita ad una nuova idea che tenga contro di

tutte le riflessioni portate dai diversi componenti del gruppo.

Per fare questo è importante l’ascolto, un ascolto che vada oltre alla fretta di dover dire

la propria quanto piuttosto a saper cogliere il contenuto di quello che l’altra persona sta

dicendo.

4.2 Una ricerca valutativa su CO.PROIn questo paragrafo verranno riportate le domande di ricerca che hanno rappresentato il

punto di partenza di questo lavoro, la descrizione dello strumento utilizzato, il campione

di riferimento, come sono stati analizzati i dati e le informazioni ottenute dalle risposte

di utenti, famigliari e operatori. In seguito questi sono stati confrontati con le altre

esperienze di coinvolgimento nella formazione di operatori o studenti presenti sia a

livello nazionale che internazionale.

4.2.1 Domande di ricerca

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Il progetto CO.PRO ha visto la formazione in servizio di operatori dove i formatori

erano esperti per esperienza. Questi partendo dalla loro esperienza hanno creato delle

lezioni rivolte agli operatori del servizio di salute mentale di Como. Gli operatori che

hanno partecipato a questa formazione ricevevano 8 crediti ECM. (Si veda allegato n.3).

Le domande di ricerca che mi hanno spinto poi alla stesura di un questionario sono state

due, per due diversi campioni.

La prima è quella che riguarda gli operatori, destinatari della formazione. Con il

questionario era importante valutare che impatto questa ciclo di incontri formativi ha

avuto sul linguaggio, sulla comprensione e l’acquisizione di nuovi concetti da parte

degli operatori avendo frequentato una formazione fatta da utenti e famigliari. È stato

per me importante capire quanto questa formazione ha “sensibilizzato” e promosso un

linguaggio più vicino a quello degli esperti per esperienza, e quanto efficace è stato il

contenuto delle lezioni per gli operatori. Per fare questo ho creato un questionario che

ho consegnato il giorno 29 marzo 2017 all’inizio della formazione e l’8 giugno 2017

durante l’ultimo incontro. Il questionario era il medesimo e anonimo.

La seconda domanda di ricerca per la stesura di un secondo questionario indirizzato

invece a utenti e famigliari era quella di comprendere se davvero c’è stato un livello alto

di partecipazione, facendo riferimento all’intensità (Hart 1992 e Wilcox 1994); come

questa è stata vissuta dagli esperti per esperienza. In questo caso il questionario è stato

somministrato solo alla fine, perché questa riflessione è nata in itinere durante la

formazione.

4.2.2 Strumenti

In entrambi i casi è stato utilizzato lo strumento del questionario, nel quale erano

presenti sia domande chiuse che domande aperte. (si veda allegati n.1 e 2) Spesso una

domanda chiusa era seguita da una domanda aperta che richiedeva di approfondire la

tematica della domanda precedente.

Ho scelto lo strumento del questionario in forma anonima perché ho ritenuto importante

dare prima di tutto del tempo per le risposte e le varie riflessioni e al tempo stesso ho

pensato potesse essere più efficace il questionario come strumento per rispondere a

questo problema. Soprattutto per utenti e famigliari avendo istaurato con me nell’arco di

un anno, un rapporto di fiducia consistente, temevo che una possibile intervista faccia a

faccia potesse condizionare le risposte, soprattutto per quanto riguarda la parte delle

criticità. 117

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Inoltre il questionario mi ha permesso di somministrarlo nello stesso momento a più

persone contemporaneamente. I questionari per gli operatori si concentrano di più sui

contenuti delle varie lezioni, su quello che è stato affrontato durante le lezioni e sul tipo

di linguaggio utilizzato.

I questionari destinati agli operatori sono stati somministrati all’inizio e alla fine della

formazione, il questionario era uguale in entrambi i momenti.

Il questionario destinato a utenti e famigliari invece, si focalizza su quanta

partecipazione effettiva c’è stata, ma soprattutto sulla loro percezione di partecipazione

(es. come ti sei sentito durante gli incontri di preparazione; pensi si sia tenuto conto del

tuo punto di vista nella creazione delle lezioni di formazione?...).

Nella stesura del questionario ho cercato di tenere in considerazione il linguaggio

utilizzato da utenti e famigliari duranti gli incontri di preparazione, chiedendo a volte di

esprimere con parole proprie aspetti del progetto (ad es. in una domanda ho chiesto di

provare ad utilizzare parole proprie per descrivere il progetto). I questionari sono stati

somministrati sia a utenti che famigliari che hanno preso parte al progetto della durata di

un intero anno di progettazione, attuazione e monitoraggio. Il questionario è stato

somministrato da me all’ultimo incontro di formazione, in data 8 giugno 2016 con

l’intento di verificare se davvero è avvenuta una vera partecipazione, come questa è

stata percepita dai protagonisti analizzando sia gli aspetti positivi e forti del progetto che

le criticità. Questo questionario nasce dal mio bisogno di comprendere nel profondo se

il mio intento di favorire partecipazione all’interno del Servizio di Salute Mentale di

Como nello spazio che riguarda la formazione sia davvero avvenuto e come questo è

stato vissuto dai protagonisti. Ho scelto la forma del questionario, perché ho ritenuto

fosse la modalità migliore in quanto è anonimo e ha permesso alle persone di poter

concedersi del tempo per rispondere liberamente e soprattutto poter scrivere i propri

pensieri nero su bianco, elemento molto importante e sottolineato più volte dagli utenti

aspetto a lor favore. Avendo istaurato con tutti i miei partner di lavoro un rapporto di

fiducia solido e duraturo nel tempo, avevo paura che utilizzando uno strumento come

l’intervista potesse portate le persone a non esprimere totalmente il proprio parere,

soprattutto rispetto alle criticità. Per questo motivo ho scelto la forma scritta tramite

questionario anonimo.

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In questo caso non avrò la possibilità di fare un confronto tra questionari somministrati

prima della formazione e dopo, ma bensì delle informazioni ottenute solo a fine

formazione.

4.2.3 Campione

Il campione al quale è stato somministrato il questionario degli operatori è composto da

diverse figure professionali sia sanitarie che sociali. Nello specifico il campione del

questionario iniziale è composto da 20 operatori: di cui 10 infermieri, 1 medico

psichiatra, 7 educatori e 2 operatori socio sanitari.

Il questionario finale ha avuto un campione di 14 operatori totali, di cui 5 educatori, un

assistente sociale, 6 infermieri e un operatore socio sanitario. Un operatore non ha

risposto alla domanda riguardo alla propria formazione.

I campioni iniziali e finali non coincidono per via delle alcune assenze. Questo corso di

formazione era strutturato su quattro lezioni con l’obbligo di frequentare almeno il 75%,

la maggior parte degli operatori ne hanno saltata una, in particolare l’ultima per questo

motivo i dati tra il primo e l’ultima incontro di formazione non coincidono.

Per quanto riguarda invece il secondo questionario destinato a utenti e famigliari il

campione era composto da 11 persone.

4.3 Analisi delle informazioni

Le risposte date nei questionari sono state analizzate nel seguente modo: per le domande

chiuse, alle quali si poteva dare solo una risposta affermativa o negativa sono state

analizzate le frequenze.

Per quanto riguarda le domande aperte, sono state riscritte all’interno di una tabella e in

seguito si è fatta un’analisi del contenuto delle risposte, cercando delle tematiche

comuni e ricorrenti nelle varie risposte.

4.4 Risultati

4.4.1 Le risposte degli operatori

I questionari destinati agli operatori comprendevano varie tematiche e aspetti della

formazione. In primis, l’utilizzo del linguaggio tra i questionari svolti prima e dopo è

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cambiato, gli operatori infatti hanno usato una terminologia più vicina e simile a quella

utilizzata da utenti e famigliari nei questionari post formazione rispetto all’inizio.

Alcune risposte invece sono simili in entrambi i questionari fin dall’inizio.

Per quanto riguarda la definizione di Recovery, “inteso come processo, profondamente

personale e unico, di cambiamento di atteggiamenti, valori, sentimenti, obbiettivi,

capacità e ruoli. È un modo di vivere una vita soddisfacente, piena di speranza e in

grado di dare un contributo agli altri, malgrado le limitazioni causate dalla malattia.

Significa sviluppare un senso e uno scopo nuovo nella propria vita, nel momento in cui

la persona riesce a evolvere al di là degli effetti catastrofici della malattia stessa.”

(Anthony, 1993, p.527)

Spesso nei questionari è stato usato il termine “recupero, processo e ripresa delle

funzionalità sociale del paziente.” Secondo i questionari iniziali la Recovery ha una

stretta correlazione con la ripresa e il miglioramento dell’aspetto funzionale della

persona.

Un altro termine spesso riportato è processo, intenso come processo di cambiamento, di

recupero e un modo di vivere in cui la persona si riappropria della fiducia in sé stessa.

Un modo di vivere in cui si sviluppano aspettative positive. Un altro aspetto importante

è il ruolo che l’utente ricopre nel percorso di Recovery. Un operatore infatti riporta che

il “paziente è partecipe e formulatore in primis del proprio progetto di cura/ di vita.

Paziente che possiede gli strumenti e strategie per essere protagonista della promozione

della propria salute, integrandosi con la rete costituita da operatori, famigliari e gruppo.

La persona intesa come risorsa.”

Nei questionari finali riguardo a questa domanda alcuni operatori hanno riportato che il

percorso di Recovery rappresenta un percorso di cura condiviso e concordato e inteso

anche come “recupero del funzionamento del paziente nella valorizzazione massima

delle sue potenzialità e risorse, favorendo il suo empowerment.”

Un elemento emerso in seguito alla formazione che è stato spesso oggetto di lezione

durante gli incontri di formazione è Recovery inteso come percorso di cura, di

guarigione come ricostruzione della propria vita nonostante la presenza della patologia;

questa descrizione la si può ricollegare al concetto di prendersi cura della persona che

vada oltre all’aspetto del curing, ma inteso come care.

L’importanza dell’aspetto sociale della persona sul percorso di cura e quanto questo

incida e un altro degli elementi emersi. Molti operatori hanno riportato la visione di 120

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utente inserito in un sistema di relazioni che devono essere tenute in considerazione in

quanto “la cura è un processo che mira alla guarigione e non può prescindere da un

soddisfacente funzionamento sociale.” (risposta emersa in un questionario) L’aspetto

sociale infatti secondo molti operatori è uno degli elementi che incide sul benessere o

meno psicologico della persona.

Nel questionario finali alcuni operatori hanno sottolineato come il creare una “rete

soddisfacente” attorno alla persona possa rappresentare una spinta positiva al recupero.

È importante infatti secondo alcuni lavorare in un’ottica di modello di salute bio-psico-

sociale, che rappresenta una visione olistica della persona e non vedere l’utente come un

soggetto composto da diversi aspetti slegati tra loro. Un altro operatore nello specifico

sostiene che “il percorso di cura deve essere legato all’ambiente di vita dell’utente,

cercando di rimanere nel sociale”, questo ci porta a riflettere su quanto sia importante

avere una visione della persona inserita nel sociale e non come parte distaccata,

sottolineando l’influenza che l’ambiente di vita, la comunità di appartenenza e la rete

presente ha sulla persona e sul suo benessere.

Riguardante la rete presente attorno alla persona, una domanda nello specifico cercava

di verificare la visione che gli operatori avevamo riguardo alla rete famigliare e se

questa veniva percepita più come fatica o come risorsa. Quasi tutti sia nel questionario

iniziale che in quello finale hanno una visione positiva e cioè di risorsa rispetto alla

figura dei famigliari. Alcuni operatori, nel questionario finale in maniera più marcata (8

persone su 14) sostengono che per loro rappresentano sia una fatica che una risorsa e

che questo varia dalla soggettività del caso. Una persona in entrambi i casi ha riportato

che per lei il famigliare rappresenta una fatica perché spesso pretende una guarigione

che spesso è difficile da raggiungere e questo può rappresentare una difficoltà nel

percorso di cura. La maggior parte degli operatori però hanno una visione positiva e

sostengono che l’utente bisognoso di cura ha necessariamente bisogno della sua rete

famigliare, che rappresenti un sostengo per la persona. Inoltre la famiglia viene vista

anche come colei che può favorire la conoscenza delle problematiche e la

comunicazione con il paziente e al tempo stesso concorrono alla sua riabilitazione. Un

operatore nello specifico dice che “i famigliari rappresentano una risorsa perché è

possibile che collaborino alla strategia di cura, rendendola più efficace e al tempo stesso

perché potrebbero portare ulteriori bisogni e difficoltà.” Questa visione di famigliare

come risorsa fa emergere anche un possibile punto di vista diverso che si può

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aggiungere a quello manifestato dall’utente e dagli operatori che rende più completo e

mirato il percorso di cura della persona. Il famigliare però per alcuni operatori non

rappresenta solo un sostegno all’utente ma anche a loro. In alcuni questionari finali

infatti un operatore sostiene che “la famiglia rappresenta una risorsa perché diventa un

sostegno sia per l’utente durante il suo percorso di cura, sia per l’operatore per

instaurare una relazione significativa con l’utente.” Da questa riflessione si può cogliere

quanto la famiglia intesa come risorsa può poi apportare dei benefici non solo all’utente

ma anche alla realtà dei servizi e quella che circonda la persona in difficoltà. Una buona

relazione tra la rete dell’utente e il servizio crea benessere a quest’ultimo ma al tempo

stesso aumenta la fiducia e collaborazione con il servizio. Un operatore nel questionario

finale riporta che i famigliari rappresentano per lui una risorsa perché li riconosce come

esperti per esperienza. Altri operatori hanno esposto la questione della soggettività, e

che a volte è difficile relazionarsi con loro, in “quanto non condividono progetti oppure

non accettano la malattia e pretendono che il percorso di cura riporti il loro famigliare

nella situazione antecedente alla malattia.”

Un’informazione interessante emersa tra il questionario iniziale e quello finale è alla

domanda “Ritieni che la lettura che il paziente dà della sua situazione possa

rappresentare un elemento importante per la definizione del percorso di cura?” ci sono

state dei cambiamenti per quanto riguarda le risposte. Mentre nel questionario iniziale la

maggior parte erano favorevoli dando risposte positive, ci sono stati due operatori che

hanno dichiarato che non sempre questo può essere considerato vero. Nel questionario

di uscita tutti gli operatori sostengono che la visione che l’utente dà di sé stesso è un

elemento importante e da tenere in considerazione nella definizione del percorso di

cura. Attraverso il punto di vista della persona si può capire meglio quali sono i suoi

bisogni e permette alla persona di sentirsi coinvolto e non vedersi solo come

destinatario di prestazioni, ma contribuire a realizzarle. Un operatore ha risposto a

questionario finale scrivendo che gli utenti sono “esperti della loro esperienza e artefici

della loro Recovery.”

Dai questionari analizzati, c’è stato un incremento per quanto riguarda la conoscenza di

servizi che lavorano nell’ottica della Recovery, della realtà del Fare Assieme nato nel

Centro di Salute Mentale di Trento, sulla figura degli Utenti e Familiari Esperti e del

loro ruolo. Nei questionari finali si evidenzia infatti una conoscenza maggiore, dove

alcuni operatori riportano delle riflessioni positive in merito. Un operatore riguardo alla

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realtà del Fare Assieme dice: “realtà come queste sono fondamentali e compartecipano

nel miglioramento della salute” un altro operatore sostiene che sarebbe utile incontrarli

da vicino per apprendere di più. Grazie alle lezioni di formazione si è cercato di fare

maggiore chiarezza su alcune realtà che lavorano nell’ottica della coproduzione, dove

utenti e famigliari hanno un ruolo fondamentale sia a livello di caso ma anche di sistema

(inteso come servizio). Facendo un confronto tra i questionari compilati prima della

formazione e dopo, ho potuto constatare che una maggiore conoscenza delle realtà, di

come funzionano e dei diversi ruoli che esperti per esperienza hanno all’interno dei

servizi, favorisce anche una maggior riconoscimento del ruolo. Spesso alcuni pregiudizi

sono dovuti da una non conoscenza piuttosto che da una visione vera e propria degli

operatori. Conoscere più da vicino realtà che lavorano in maniera partecipata ha

permesso ad alcuni operatori del Centro Psicosociale di Como di riconoscere agli utenti

un ruolo che va oltre a quello di semplice utente, ma bensì di collaboratore e risorsa. Un

operatore in merito al contributo che l’esperto per esperienza può dare all’interno del

servizio dice: “Penso che siano un valido supporto per il miglioramento delle condizioni

di salute” un altro operatore sostiene che gli esperti per esperienza sono fondamentali ed

è importante che compartecipino al miglioramento della salute. Da queste risposte si

può cogliere un’apertura del servizio verso realtà che lavorano nell’ottica partecipativa,

valorizzandone più le risorse rispetto alle criticità. Ho colto inoltre durante le lezioni di

formazione, una forte curiosità nel conoscere altre realtà che lavorano nell’ottica

partecipativa, spesso avere un modello di servizio che si presta a valorizzare utenti e

famigliari esperti, ottenendo risultati positivi permette ad altri servizi di trarne spunto

per iniziare a lavorare partendo da piccole azioni. Partendo da questa riflessione infatti,

a fine ottobre partiranno tre pulmini di operatori, utenti e famigliari diretto al Centro di

Salute Mentale di Trento per osservare la realtà del Fare Assieme e gli altri progetti

attivi sul territorio.

In ultimo il questionario destinato agli operatori concludeva con una domanda

incentrata sul significato per ogni operatore della partecipazione di utenti e famigliari

all’interno del servizio. In entrambi questionari (precedente e susseguente alla

formazione) la partecipazione viene intesa da alcuni operatori come collaborazione per

un migliore percorso di cura, ma non solo, anche nel comprendere meglio i bisogni e in

seguito “calibrare l’intervento del servizio migliorandone l’efficacia.” La partecipazione

di utenti e famigliari all’interno dei servizi spesso viene associata all’idea di

miglioramento di questi, grazie ad una risposta più mirata e adeguata.123

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In un questionario antecedente alla formazione un operatore riporta la partecipazione

come fatica, dovuta spesso dalla non consapevolezza da parte della famiglia della

patologia che l’utente ha, creando ostacoli al percorso di cura. La non consapevolezza

della patologia viene esplicitata più volte come una fatica da parte degli operatori nel

portare avanti un percorso di cura e nell’intraprendere un percorso partecipativo. Al

tempo stesso un altro operatore sostiene invece che la partecipazione viene intesa come

“poter attingere a risorse preziose sia nei momenti di benessere che nelle acuzie. Credo

fermamente che sia fondamentale lavorare insieme nel perseguire un obbiettivo comune

e che un buon risultato dipenda da condividere e non dividere”; questo aspetto del non

dividere, ma prima di tutto condividere fa emergere una non distinzione di ruoli ma

bensì un lavoro alla pari, una collaborazione e lavoro in partnership. La partecipazione

viene intesa anche come un lavoro di equipe più allargato, facendo in modo che il

percorso di cura e quello di vita non siano mondi separati. Questa riflessione di un

operatore sottolinea l’importanza della care nel percorso di cura della persona e di come

l’aspetto terapeutico non può scindere dall’aspetto sociale della persona e del prendersi

cura, inteso come gestire il vivere nonostante la presenza della patologia.

Nei questionari finali, riguardo a questa domanda alcuni operatori hanno sottolineato

l’importanza della collaborazione e condivisione per il raggiungimento di un benessere

maggiore dell’utente ma al tempo stesso è emerso un elemento importante; la

partecipazione non è visto solo come un beneficio per l’utente e famigliare, ma anche

per il servizio in quanto arricchisce il bagaglio formativo degli operatori; una risorsa

perché permette di conoscere vari punti di vista su cui poter lavorare insieme.

La partecipazione di utenti e famigliari può quindi incidere sia a livello di singolo caso

favorendo il percorso della singola persona e famiglia, sia livello di sistema quando la

partecipazione di esperti per esperienza all’interno del servizio apporta dei cambiamenti

positivi nella relazione operatori/esperti per esperienza. Comporta inoltre un

miglioramento di alcuni servizi, delle risposte più adeguate ai bisogni riportati dagli

utenti e i loro famigliari. Questo avviene attraverso l’ascolto del punto di vista della

persona e della sua rete e la creazione di un percorso di cura condiviso Un operatore in

merito a questo ha affermato che “la partecipazione di utenti e famigliari all’interno del

servizio è intesa come la formazione di “politiche diverse”, grazie a questa riflessione

possiamo cogliere come il coinvolgimento di quelli che solitamente sono considerati

destinatari delle prestazioni nella formazione di queste e nel loro miglioramento

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possano incidere a creare delle politiche diverse all’interno del servizio, che

promuovano prima di tutto la partecipazione.

Concludendo attraverso i questionari ho potuto verificare un’apertura degli operatori

verso la partecipazione attiva di utenti e famigliari all’interno dei servizi nonostante le

difficoltà e le criticità che alcuni di loro hanno esposto, c’è la volontà di mettersi in

gioco e andare oltre all’approccio tradizionale attuato già da diversi anni. Un elemento

sicuramente evidente nel questionario finale è che mentre inizialmente la partecipazione

era intesa positivamente e come beneficio per il benessere di utenti e famigliari, nei

questionari finali emerge quanto il coinvolgimento porti ad una maggiore

collaborazione all’interno dei servizi e un miglioramento dell’efficacia dei percorsi di

cura. Questo aspetto è fondamentale in quanto attribuisce alla partecipazione di utenti e

famigliari un valore aggiunto che si spinge oltre al beneficio terapeutico della

partecipazione, ma sottolinea quanto questa incida positivamente a livello di sistema.

4.4.2 Le risposte degli esperti per esperienza

Dai questionari emerge che quasi tutti si sono sentiti partecipi del progetto CO.PRO (10

persone hanno risposto positivamente, una persona non ha risposto). Le persone si sono

sentite partecipi perché vedono questo percorso come un momento nel quale fare

emergere i loro bisogni potendo contribuire tramite la loro partecipazione alla

costruzione del progetto. Alcuni hanno percepito come bello il poter pensare e agire

insieme, esperti per esperienza e operatori. Un elemento che spesso viene sottolineato è

“la possibilità di presa di parola, il poter esprimere le proprie opinioni e trovare un

interesse per quello che si dice.” (Affermazione di un esperto per esperienza). Questo ha

permesso di creare uno spazio di parola per le persone, facendo in modo però che non

rimanessero tali ma che fossero poi trasformate in azioni concrete, favorendo così un

maggiore empowerment nelle persone e aumentando la loro capacità d’azione. Una

persona sostiene che “fin dall’inizio si è sentita coinvolta nella creazione e svolgimento

prendendo decisioni, confrontandomi e collaborando.” Come abbiamo visto nei capitoli

precedenti è importante quando si parla di partecipazione, includere le persone fin

dall’inizio di un progetto, intervento o percorso, facendo sì che il loro contributo,

pensiero possa contribuire fin dalle riflessioni iniziali

Le lezioni di formazione ha avuto dei lunghi momenti di preparazione, alla domanda

“come ti sei sentito durante gli incontri di preparazione?” tutti i partecipanti hanno 125

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risposto positivamente aggiungendo di essersi sentiti molto partecipi, attivi, coinvolti e

presi in considerazione. Un aspetto sottolineato è stata l’importanza dell’ascolto che

hanno ricevuto da parte del gruppo, cercando di cogliere i bisogni riportati da ogni

singola persona.

Durante le lezioni di formazione, dove invece utenti e famigliari hanno avuto un ruolo

di formatori, dichiarano di essere sentiti presi in considerazione, coinvolti, interessati e

contenti perché hanno visto interesse e partecipazione. Una persona sottolinea il suo

carico legato alla responsabilità come rappresentante del gruppo utenti nella lezione di

formazione, come elemento di crescita ma al tempo stesso di fatica. Questo elemento è

emerso anche nella bibliografia internazionale da me ricercata, dove più volte il carico

emotivo e di responsabilità, in riferimento principalmente agli utenti si presenta come

una preoccupazione da parte degli operatori nel intraprendere percorsi di partecipazione

nella formazione. (Roger e al.,2013)

Secondo le risposte date ai questionari, il percorso di CO.PRO ha rappresentato per

utenti e famigliari una possibilità concreta di collaborazione, un’opportunità nella quale

sperimentarsi e poter accrescere il loro empowerment. Un esperto per esperienza in

merito a questo dice: “questo percorso ha rappresentato per me un’occasione importante

per far conoscere le mie idee di utente rispetto al funzionamento e alle politiche e del

Dipartimento di Salute Mentale”. Questa riflessione sottolinea l’importanza che questa

persona attribuisce alla possibilità di poter esprimere la propria idea agli operatori, e

quindi un riconoscimento rispetto al sapere esperienziale che appartiene alle persone.

Duranti gli incontri di preparazione alle lezioni di formazioni era importante far

emergere il punto di vista delle persone in modo da creare una presentazione che

racchiudesse le visioni e le riflessioni di tutto il gruppo. In merito a questo tutti hanno

risposto positivamente alla domanda “pensi sia emerso il tuo punto di vista durante gli

incontri?” tutte le persone che hanno ricevuto il questionario hanno risposto

positivamente, uguale anche alla domanda successiva che chiedeva se il proprio punto

di vista poi era stato tenuto in considerazione nella creazione delle lezioni di

formazione. In merito a questo, possiamo vedere come la partecipazione avviene tramite

piccole azioni che possono però rappresentare un punto di inizio importante; partecipare

non significa solo dare spazio di parola alle persone, ma bensì tenere in considerazione

quello che viene detto da loro; in caso contrario si rischia di cadere nella trappola della

retorica di facciata.

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Secondo i protagonisti di questa formazione i punti forti sono stati la coproduzione, la

partecipazione fin dalle fasi iniziali, la condivisione e la cooperazione. Tra i punti di

forza riportati emerge anche la possibilità di unire più punti di vista diversi, la

comprensione dell’altro e il creare assieme. Un elemento importante che è emerso nelle

riflessioni di utenti e famigliari è stato il fatto “che gli operatori hanno creduto possibile

un progetto così e che ne abbiano riconosciuto il valore. Per gli utenti questo momento

ha rappresentato un momento di confronto serio che ha dato un’opportunità per

esprimersi.” Nella descrizione fatta da un utente emerge l’aspetto del riconoscimento da

parte degli operatori del valore aggiunto che loro possono dare al servizio, e quindi

sentirsi una risorsa e di aiuto per i professionisti.

Tra le criticità riscontrate alcuni utenti e famigliari hanno riportato che alcuni operatori

durante le giornate formative si sono rivelati un po’ contrari e indispettiti, presentando

un atteggiamento di “chiusura” verso i formatori. Un elemento che ha rappresentato una

criticità fin dall’inizio e in parte è rimasta fino alla fine è la difficoltà di trovare un

linguaggio comune e comprensibile da tutti in modo da rendere più efficace i contenuti

del pensiero riportato. Questa è stata una criticità presente fin dall’inizio e ha

rappresentato il punto di inizio della riflessione del progetto CO.PRO, spesso si

attribuiva un significato diverso alla medesima parola, questo rappresentava un ostacolo

nella comunicazione rendendo difficile a volte trovare un punto di incontro. Nonostante

questo però alcuni utenti e famigliari sostengono che questo progetto sia servito per

trovare un linguaggio comprensibile da tutte le parti e al tempo stesso abbia permesso di

comunicare efficacemente i contenuti.

Dalle informazioni analizzate questo progetto ha rappresentato per le persone una

possibilità di coproduzione, di compartecipazione, con il desiderio di mettere la

persona al centro, di seguire i suoi bisogni. (Pensiero riportato da un esperto per

esperienza)

Un elemento sottolineato più volte all’interno del questionario è il desiderio che il

progetto continui, in altre forme, ma che questa metodologia di lavoro venga portata

avanti. Una persona in merito a questo dice: “sarebbe bello fare un secondo ciclo più

allargato anche ad altre realtà, un’altra persona dice: buon progetto, sicuramente da

portare avanti e magari con nuovi argomenti oppure pioneristico, all’avanguardia,

efficace, bello, da proseguire. “

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Da tutte queste riflessioni, si coglie che tutte le persone hanno potuto contribuire

attivamente e in maniera completa alla realizzazione di una formazione, portando il loro

vissuto e il loro punto di vista rispetto al vivere o convivere con una patologia

psichiatrica. Questo ha permesso loro di andare oltre al ruolo che normalmente veniva

attribuito loro, accrescendo il loro empowerment e il loro senso di autodeterminazione.

Gli operatori a loro volta hanno ricevuto dei crediti formativi ECM in questa

formazione. Uno degli obbiettivi principali di questo progetto è stato quello di favorire

una partecipazione vera, intensa e relazionale all’interno del Dipartimento di Salute

Mentale di Como e sembra dai questionari analizzati che questo sia avvenuto. Il bisogno

di trovare un linguaggio comune è emerso fin dall’inizio ed è stato il punto di partenza

sul quale lavorare. Le risposte date da utenti e famigliari sottolineano dei miglioramenti

ma manifestano ancora il bisogno di proseguire su questa linea di lavoro, in maniera

congiunta e condivisa nella speranza di migliorare ancora di più e rendere più proficua

la comunicazione tra operatori e esperti per esperienza.

4.5 ConclusioniIn conclusione, facendo un confronto tra la letteratura da me analizzata e l’esperienza di

CO.PRO trovo dei punti comuni sui quali vale la pena soffermarsi.

Sicuramente nel progetto come nella letteratura c’era una notevole diffidenza iniziale da

parte degli operatori nel percepire come formatori gli esperti per esperienza, data anche

dalla visione tradizionalista del lavoro socio-sanitario, dove la visione sanitaria

soprattutto nell’ambito psichiatrico ha sempre avuto potere. Il cambiamento culturale di

un servizio è un processo che richiede tempo per comprendere, consapevolizzare le

persone e maturare una visione che vada oltre a quella tradizionale. Un elemento che

può agevolare questo processo è sicuramente l’apertura e l’accoglienza da parte degli

operatori di proposte che favoriscano la partecipazione di utenti e famigliari nei servizi

di salute mentale, e al tempo stesso una messa in discussione su quella che è la propria

visione rispetto alla patologia e il ruolo che attribuiscono a utenti e famigliari.

Un denominatore comune a tutte le esperienze è che il coinvolgimento di utenti e

famigliari nella formazione, permette di sviluppare un maggiore empowerment grazia

alla possibilità di presa di parola e che quelle stesse parola incidano sulla costruzione di

progetti, politiche e interventi.

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A volte sono proprio gli operatori ha sottovalutare le capacità e le risorse che gli utenti e

famigliari possiedono, non creando così spazi e momenti che favoriscano il loro

coinvolgimento. Proprio in merito a questo all’interno del programma britannico

Developing manager for community care (Stanchina, 2014) vengono riportate delle

riflessioni da parte dei manager dove sostengono che il coinvolgimento formale degli

utenti nei corsi di formazione per manager rappresenta una sfida rispetto all’idea

tradizionale della relazione tra professionista e utenti molto di più di quanto possano

fare delle lezioni che parlano della partecipazione di utenti e famigliari nei servizi di

salute mentale.

La voce degli esperti per esperienza ha il potere di mettere in discussione gli operatori e

la loro visione a volte troppo clinica delle patologie psichiatriche.

Inizialmente nell’esperienza di CO.PRO gli operatori avevano la tentazione di “guidare”

e voler definire meglio il progetto, non capendo che l’aspetto caratteristico di una vera

partecipazione e del lavorare in maniera partecipata è che quando c’è coproduzione tutto

viene deciso congiuntamente e gradatamente, per questo motivo è impossibile definirlo

fin dall’inizio. L’aspetto dell’indeterminazione spaventa l’operatore, in particolare, nella

mia esperienza gli operatori sanitari in quanto fanno fatica a comprendere che spesso

questo è un lavoro basato su delle relazioni e momenti di condivisione che non possono

essere programmati fin dall’inizio perché è un percorso in divenire. Questa difficoltà è

emersa anche nella letteratura analizzata, in particolare (Jones e Cooper, 2009) che

sostengono quanto sia stato difficile per gli operatori cedere un po’ del loro potere come

professionisti cercando al tempo stesso però di rimanere concentrati sulle competenze,

racconti e risorse degli utenti. Coinvolgere esperti per esperienza nella formazione

permette anche di modificare la percezione dell’indipendenza e favorire l’autonomia

che gli stessi utenti acquisiscono ma al tempo stesso la visione che gli operatori hanno

di loro.

Sia nella letteratura che nel progetto CO.PRO si è potuto cogliere un’apertura da parte

degli utenti e famigliari verso gli operatori, soprattutto nell’abbattere le barriere e

superare le vecchie maniere. Alcuni operatori all’inizio si sono rivelati un po’ scettici

soprattutto per paura che una partecipazione nella formazione potesse destabilizzare

l’equilibrio di potere (Roger e al., 2013).

La condivisione del percorso di CO.PRO è stato visto da entrambi le parti positivo,

mentre nella letteratura analizzata non sempre la terminologia condividere è stata

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percepita positivamente per una mancanza di riconoscimento da parte del servizio,

utenti e famigliari sostengono che condividendo il potere rimane in mano agli operatori

che decidono gli ambiti sui quali favorire la partecipazione e su quali invece no (Roger

e al., 2013).

Il coinvolgimento di esperti per esperienza nella formazione ha rappresentato una

visione complementare e non sostitutiva a quella dei professionisti, riportata in varie

risposte ai questionari dove si sottolinea il lavorare insieme, la collaborazione e la

condivisione. Per far sì che questo avvenga c’è bisogno però anche di una propensione

da parte degli operatori ad “aprirsi” e concedere un po’ del loro potere a utenti e

famigliari; non sempre questo avviene, spesso questo è dovuto anche dalla soggettività

del singolo operatore; in merito a questo Hayward e al. (2005) sostengono che esiste

una difficoltà da parte di tutti gli operatori di attribuire lo stesso valore al

coinvolgimento di esperti per esperienza. Questo è avvenuto anche durante le lezioni di

formazione del progetto CO.PRO, dove alcuni operatori, principalmente gli appartenenti

all’ambito sanitario hanno avuto degli atteggiamenti di chiusura manifestati attraverso

dei comportamenti (come ad esempio braccia conserte, espressioni facciali di

negazione…) verso il contenuto delle lezioni degli esperti per esperienza.

Coinvolgere utenti e famigliari all’interno dei servizi possiede diversi benefici derivanti

da diversi punti di vista, che però vengono considerati ugualmente importanti a quello

dei professionisti. (Spector e al.,2011). Ascoltando diversi racconti e le esperienze delle

persone permette di avere una visione più complessa e olistica, racchiudendo al suo

interno tutti gli elementi emersi dai vari racconti.

In ultimo il progetto CO.PRO ha visto gli operatori che hanno fatto parte della co-

progettazione andare oltre ai ruoli attribuiti, valorizzando principalmente l’esperienza

rispetto a ruolo attribuito fino a quel momento. Questo elemento è emerso da tutti i

componenti del tavolo che ha partecipato alla realizzazione di CO.PRO, avendo di

conseguenza dei benefici notevoli sulla relazione, che in quell’occasione era paritetica.

L’aspetto della persona prima di tutto è emerso molto in questo percorso, perché la

condivisione di tempo, spazio e idee ha permesso l’accrescere della fiducia e della

reciprocità tra le diverse persone.

In coinvolgimento di esperti per esperienza nella formazione in servizio di operatori ha

richiesto un lavoro di preparazione notevole, non tanto per preoccupazioni legate alle

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capacità degli utenti e famigliari di tenere una formazione destinata agli operatori,

quanto nel trovare il modo più adeguato per sensibilizzare realmente gli operatori e

lasciare qualcosa a loro di davvero incisivo. Questa esperienza ha rappresentato per gli

operatori del Dipartimento di Salute Mentale di Como una grande sfida, caratterizzata

da una forte messa in discussione dei ruoli, avendo delle conseguenze positive sia sulle

relazioni che sulle singole persone. Una tra tutte in assoluto una collaborazione

paritetica che continua ancora oggi con l’obbiettivo di creare progetti futuri nell’ottica

della coproduzione. Ad oggi il gruppo si è allargato ad altri utenti, famigliari e operatori

avendo al suo interno un medico psichiatra. “Applicare il principio della co-produzione

in un servizio pubblico, comporta un cambiamento del bilanciamento dei poteri, delle

responsabilità, delle risorse, dai professionisti ai cittadini e richiede pratiche di

valutazione complessa.” (M.C, operatrice DSM di Como, protagonista del progetto

CO.PRO).

Questa esperienza ha sicuramente permesso agli operatori di avere la possibilità di

offrire e soprattutto di ricevere reciprocamente “qualcosa in termini di sapere

differenziati” che permettono di raggiungere un sapere superiore, più completo.

Conclusione

Questo lavoro di tesi ha l’intento offrire una visione da diversi punti di vista della

partecipazione, valorizzando l’aspetto dell’essere ed esserci come persona prima di 131

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tutto. È stato fondamentale per me partire dalla visione di persona, intesa come

valorizzazione prima di tutto della persona rispetto alla patologia. Il riconoscimento è

avvenuto anche attraverso l’analisi di diverse leggi nelle quali viene dato valore alla

persona, viene riconosciuta a questa un sapere legato al proprio vissuto di vita

fondamentale per il percorso di cura e per il miglioramento dei servizi.

In seguito è stato possibile ragionare sul termine partecipazione secondo i diversi

modelli che hanno permesso di approfondire le diverse dimensioni: l’intensità, la

relazionalità e la partecipazione intesa in senso olistico. Si sono affrontate le pratiche

che favoriscono il coinvolgimento di utenti e famigliari e i possibili ostacoli alla

partecipazione, favorendo così un quadro eterogeneo e critico rispetto al tema. Spesso le

trappole possono essere oggetto di una parziale partecipazione, dovuta a delle piccole

azioni che, se riconosciute e evitate possono favorire e promuovere il coinvolgimento di

esperti per esperienza.

La partecipazione porta con sé molti benefici sia su utenti e famigliari ma al tempo

stesso nei servizi migliorando la collaborazione tra le parti, la risposta ai bisogni da

parte dei servizi, aumentandone l’efficacia e l’efficienza oltre ad aumentare la fiducia

che utenti e famigliari ripongono verso questo.

Successivamente si è affrontato il tema del coinvolgimento di utenti e famigliari nella

formazione sia di operatori già in servizio ma anche di studenti in formazione. In questo

capitolo sono emersi sia i benefici nel coinvolgere esperti per esperienza ma al tempo

stesso anche le criticità e le difficoltà che si possono riscontrare. Questi aspetti sono

stati sostenuti tramite la raccolta di diverse esperienze nazionali e internazionali che

raccontano del coinvolgimento di utenti e famigliari nella formazione di operatori o di

studenti sia nell’ambito del lavoro sociale, che in alcuni casi più nello specifico nei

servizi di salute mentale. L’elemento centrale di questo percorso è l’incrocio del sapere

esperienziale con il sapere tecnico che nasce da queste esperienze, dove questi due

saperi non si sostituiscono diventando un sapere complementare, superiore.

(Folgheraiter, 2009b) Il riconoscimento di questo sapere da parte degli operatori del

servizio non sempre è immediato, soprattutto quando è presente ancora una visione

tradizionalista dove l’aspetto sanitario predomina e dove la persona che soffre di un

disturbo mentale viene percepita solo e unicamente come utente, paziente e

consumatore.

Favorire la partecipazione di utenti e famigliari nella formazione è un lavoro che

richiede tempo, pazienza e perseveranza, che molto ha a che vedere con la cultura del 132

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servizio. Avviene un cambiamento di approccio nella relazione tra operatori e utenti e

nel modo in cui gli operatori percepiscono il loro ruolo e il loro lavoro. Se gli operatori

sono coinvolti in situazioni in cui è specificamente previsto un ruolo paritario con utenti

e famigliari e in cui emerge il loro sapere esperienziale, è più probabile che il loro

approccio inizi a cambiare. Oltre a questo la partecipazione incrementa l’empowerment

delle persone rinforzando il proprio senso di autoefficacia e fiducia nei confronti degli

altri.

In ultimo viene descritta la mia esperienza di stage, il progetto CO.PRO, durante il

quale ho avuto la possibilità di collaborare con utenti, famigliari e operatori nella

progettazione e realizzazione di un progetto avente come obbiettivo il coinvolgimento

di esperti per esperienza nella formazione in servizio di operatori sociosanitari.

È stata fatta inoltre una ricerca valutativa sia sull’impatto che questa formazione ha

avuto sugli operatori rispetto ai contenuti presentati, sia sull’intensità della

partecipazione di utenti e famigliari al progetto.

I risultati ottenuti riportano delle riflessioni importanti e coerenti con le informazioni

date dall’analisi della letteratura internazionale e nazionale; sia i benefici che le criticità

coincidono nonostante a volte un utilizzo diverso della terminologia (guarda ad esempio

condivisione).

Il progetto CO.PRO ha permesso di sperimentare la partecipazione di utenti e famigliari

all’interno del Centro Psicosociale rispondendo al bisogno di trovare un linguaggio

comune, cercando di diminuire la distanza tra coloro che detengono il sapere tecnico e

gli esperti per esperienza, riconoscendone il valore reciproco.

Concludendo questo lavoro di tesi ha l’intento di evidenziare i benefici che si possono

ottenere dal coinvolgimento nella formazione di esperti per esperienza, mettendo in luce

i nessi metodologici riscontrati durante la mia esperienza. Sicuramente è un lavoro che

richiede tempo e una messa in discussione notevole da parte degli operatori, che però

permettere di creare servizi, risposte e interventi più adeguati ed efficienti partendo dal

punto di vista di coloro che ne usufruiscono. Questo richiede un cambio di prospettive,

richiede di lavorare in maniera anti oppressiva e per far questo la partecipazione è a mio

avviso in assoluto la modalità migliore. Da questa riflessione nasce il bisogno di

scrivere questa tesi, cercandone di andare a fondo al termine partecipazione,

analizzandolo da diversi punti di vista, non tralasciando le difficoltà e le fatiche che a

volte questo comporta per i servizi e per le persone.

Bibliografia133

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Allegato n. 1 – QUESTIONARIO

SOMMINISTRATO AGLI OPERATORI

140

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Esperti per esperienza, incrocio tra sapere esperienziale e sapere tecnico.5

Questo questionario è anonimo, serve a me per comprendere alcuni aspetti del progetto.

Il questionario verrà somministrato sia all’inizio del percorso che alla fine con le medesime domande.

1. Che tipo di formazione hai (medico, infermiere, educatore, assistente sociale,oss)?

2. Hai mai sentito parlare di Recovery?

3. Se sì, cosa intendi per Recovery?

4. Conosci realtà che lavorano nell’ottica della Recovery?

5. Se sì, quali?

6. Pensi che l’aspetto sociale incida sull’efficacia del percorso di cura?

7. Perché?

8. Per te operatore, la presenza dei famigliari nel percorso di cura rappresenta più una risorsa o

una fatica

9. Perché?

10. Ritieni che la lettura che il paziente dà della sua situazione possa rappresentare un elemento

importante per la definizione del percorso di cura?

11. Perché

12. In percentuale quanto pensi incida positivamente sul benessere della persona l’aspetto

farmacologico rispetto al resto?

___ % aspetto farmacologico

___ % il resto (l’aspetto più sociale/ ambientale: famiglia, interessi, lavoro)

13. Hai mai sentito parlare del “Fare Assieme”?

14. Se, sì cosa sai?

15. Cosa ne pensi?

16. Cosa significa per te la partecipazione di utenti e famigliari all’interno del servizio?

5

Progetto CO.PRO nasce con l’intento di valorizzare il sapere esperienziale delle persone che vivono con una patologia psichiatrica e dei loro famigliari, avendo come obbiettivo la sensibilizzazione su alcuni temi importanti affrontati nel corso degli incontri.Protagonisti: Esperti per esperienza, operatori Dipartimento salute mentale di Como e Marta Castro Cambòn.Email: [email protected] web: https://coproespertiperesperienza.wordpress.com/

141

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Allegato n. 2 – QUESTIONARIO SOMMINISTRATO AGLI ESPERTI PER

ESPERIENZA

142

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Esperti per esperienza, incrocio tra sapere esperienziale e sapere tecnico.6

Questo questionario è anonimo, serve a me per comprendere alcuni aspetti del progetto.

1. Ti sei sentito partecipe del progetto CO.PRO?

2. Perché?

3. Come ti sei sentito durante gli incontri di preparazione?

4. Come ti sei sentito durante la lezione di formazione degli operatori?

5. Cosa rappresenta per te questo percorso?

6. Pensi sia emerso il tuo punto di vista durante gli incontri?

7. Se sì, pensi se ne sia tenuto conto nella creazione della lezione di formazione?

8. Quali sono secondo te i punti forti di questo progetto?

9. Quali sono invece le criticità riscontrate?

10. Se dovessi descrivere il progetto con delle parole, quali useresti?

Altri suggerimenti

6

Progetto CO.PRO nasce con l’intento di valorizzare il sapere esperienziale delle persone che vivono con una patologia psichiatrica e dei loro famigliari, avendo come obbiettivo la sensibilizzazione su alcuni temi importanti affrontati nel corso degli incontri.Protagonisti: Esperti per esperienza, operatori Dipartimento salute mentale di Como e Marta Castro Cambòn.Email: [email protected] web: https://coproespertiperesperienza.wordpress.com/

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Allegato n. 3 – FORMAZIONE IN

SERVIZIO DEGLI OPERATORI,

PILLOLE DI RECOVERY

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