Cool Club Italia 2011-04

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anno VIII numero 73/74 aprile/maggio 2011

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Cool Club Italia 2011-04

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Qualche anno fa a carnevale mi vestii da Frank–n–Furter, lo scienziato bisex e travestito di Rocky horror picture show, il mitico film del 1975 pieno di musica, trasgressione e travestimenti. Un’opera che esce mentre intorno incalza il glam, sintonizzata alle rivoluzioni sessuali in corso, precorritrice di tempi e modi che avrebbero animato gli anni a venire. Potenza del cinema capace di congelare il senso del tempo e di renderlo immortale. Non dimenticherò mai, ad esempio, uno di quei mitici film con i cantanti famosi, genere lanciato da Elvis, che arrivò anche in Italia con il nome di musicarello. Beh, in un film con Little Tony c’è lui che va a Londra in pieno periodo swinging, tra le varie vicissitudini ad un certo punto finisce nel pieno di una festa psichedelica, e lì dove tutto stava succedendo ti accorgi che l’Italia viveva ancora nel suo mesozoico musicale. Oppure basta vedere i film documentario su Woodstock e Gimme Shelter sul concerto ad Altamont dei Rolling Stones. In un anno, il ‘69, una generazione, un movimento nasce e muore, l’amore celebrato da Woodstock viene spazzato via dalla violenza degli Hells Angels documentata in Gimme Shelter. Due pellicole

meglio di ogni articolo o libro sono capaci di sintetizzare una rivoluzione e un cambio epocale.E pur non essendo un appassionato, potrei continuare a lungo elencando cose che ho visto e che mi hanno fatto capire molto della musica, della sua storia e di come siamo adesso.Un rapporto, quello tra rock e cinema, capace di raccontare il secolo scorso, di restituircelo oggi con gli occhi dei suoi protagonisti, di travalicare la musica e farsi simbolo dei cambiamenti o semplicemente specchio della vitalità di quegli anni. Ed è per questo che abbiamo voluto dedicargli questo numero cercando di esaminarne le varie forme e raccontarvi qualche storia. L’argomento è vastissimo e pieno di sfaccettature e definizioni di genere, noi ve ne regaliamo solo un’introduzione, un assaggio, una sorta di aperitivo per stuzzicare la vostra fame di conoscenza musicale.E poi ce n’è per tutti i gusti. Abbiamo le interviste ad artisti internazionali (Sara Lov) e di casa nostra (Mannarino, Paolo Benvegnù, Musica Nuda) le recensioni di dischi, libri e gli eventi.Buona lettura

Osvaldo Piliego

EditorialE

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CoolClub.itVia Vecchia Frigole 34c/o Manifatture Knos73100 LecceTelefono: 0832303707e-mail: [email protected]: www.coolclub.itAnno 8 Numero 73-74aprile - maggio 2011Iscritto al registro della stampa del tribunale di Lecce il 15.01.2004 al n.844

Direttore responsabileOsvaldo Piliego

Collettivo redazionaleCesare Liaci, Antonietta Rosato, Dario Goffredo, Pierpaolo Lala, Tobia D’Onofrio

Hanno collaborato a questo numero: Giancarlo Susanna, Lori Albanese, Alfonso Fanizza, Roberta Cesari, Lucio Lussi, Giuseppe Arnesano, Nino G. D’Attis, Pierpaolo Rizzo, Daniele Coluzzi, Marco Chiffi, Al Miglietta, Ofelia Colaci, Dino Amenduni, Laura Casciotti, Rossano Astremo.

In copertina: Leningrad Cowboys

Ringraziamo Manifatture Knos, Officine Cantelmo, Cooperativa Paz di Lecce, Laura Casciotti e le redazioni di Blackmailmag.com, Radio Popolare Salento, Controradio di Bari, Mondoradio di Tricase (Le), Ciccio Riccio di Brindisi, L’impaziente di Lecce, quiSalento, Lecceprima, Salento WebTv, Radiodelcapo, Musicaround.net, Salentoconcerti.com, Radio Venere e Radio Peter Pan.

Progetto graficoerik chilly

Impaginazionedario

StampaMartano Editrice - Lecce

Chiuso in redazione con il benestare del Professore

Per inserzioni pubblicitarie e abbonamenti: [email protected]

E il cinema diventò musica 6the Beatles in the movies 10 Quando la musica brucia lo schermo 12Jesus Christ Superstar 16

Sara lov 18Mannarino 20recensioni 27Salto nell’indie - White Zoo 42

alessandro Bertante 44dado Minervini 46recensioni 48

Emilio Solfrizzi 56Festival del Cinema Europeo 58

Calendario 60

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E il CiNEMa divENtÒ MuSiCa Intervista a Roberto Curti, autore di Rock-o-Rama

In questo nostro viaggio alla scoperta della lia-ison amoureuse tra cinema, immagini e musica non potevamo non parlare con Roberto Curti giornalista che collabora con il dizionario Me-reghetti, Blow Up e Nocturno Cinema. Ha pub-blicato diversi libri tra cui Rock-o-rama (Tuttle edizioni) volume che percorre le varie contami-nazioni tra rock e cinema. Una guida utile non solo per capire e approfondire alcune delle pelli-cole più vivide nel nostro immaginario ma anche per scoprirne di nuove e inedite.

In quanti modi e in quali forme il rock di-venta film o interviene nell’universo cine-matografico? Quanti “generi” riconosci?Per inquadrarli meglio, permettimi un breve (spero) excursus storico. Inizialmente il cine-ma si appropria del rock’n’roll come attrazione, utilizzata ancora ambiguamente in film degli anni ’50 come Il seme della violenza, dove Rock Around the Clock è la colonna sonora di una vi-cenda di violenza giovanile. I primi divi del r’n’r come Elvis vanno a Hollywood e un po’ si am-morbidiscono. Ma la prima vera rivoluzione arri-va con i film di Richard Lester sui Beatles, Tutti per uno e Aiuto!: è il cinema che si piega alle ico-ne pop e non viceversa. Un altro passo importan-te è il documentario, che poi diventerà film con-certo. Ancora i Beatles protagonisti con lo sto-rico documentario girato da Albert Maysles, poi tocca a Bob Dylan (Dont Look Back), ai Rolling Stones, l’evento Woodstock eccetera. I Settanta sono l’era delle opere rock, come Tommy, dei film concerto un po’ pretenziosi come quelli dei Pink Floyd a Pompei e The Song Remains the Same, di ibridi folli come Il fantasma del palcoscenico di De Palma, che è un misto tra horror e musical rock… Con il punk va tutto di nuovo all’aria, con pellicole permeate di spirito ribellista e anar-chico (Jubilee, il discusso The Great Rock’n’Roll Swindle, le pellicole legate alla no wave newyor-chese) tanto nei contenuti quanto nella forma. E col punk nasce una generazione di cineasti molto

interessanti (alcuni nomi: Julien Temple, Alex Cox, Amos Poe, Jim Jarmusch…) che nei loro film, anche non strettamente musicali, intrec-ceranno un rapporto strettissimo con la musica. Con gli ’80 e il crescente business degli lp con le colonne sonore e la nascita di MTV assistiamo a un uso del rock come mezzo di marketing po-tentissimo (penso ai videoclip con immagini del film, es. il successo di The Breakfast Club anche grazie al popolarissimo pezzo dei Simple Minds, Don’t You), e come presenza abituale nei film al punto da sorreggere la narrazione o reinventar-la. C’è poi il biopic, genere vecchio come il cine-ma, che negli ultimi anni si è dedicato spesso a icone rock (Darby Crash, Ian Curtis, la scena di Manchester, Dylan, Lennon ecc.ecc.). E oltre a ciò, vi sono registi come Jarmusch, Jonathan Demme, lo stesso Martin Scorsese che si divido-no tra cinema narrativo e documentari rock, ar-tisti che diventano registi di se stessi come Neil Young o Prince, film d’animazione, documentari celebrativi o commemorativi, finti documentari, addirittura ibridi come 9 songs di Winterbottom, che è in sostanza un film concerto intervallato da scene hard non simulate… Insomma, il rock al cinema è ormai un universo nell’universo.

La musica è parte integrante di tutti i film ma a volte è come se oltrepassasse un confi-ne diventando protagonista della pellicola e più potente forse delle immagini. Cosa ne pensi? Certo, penso ai brani di Morricone per Leone, o all’uso straordinario che Kubrick fa di composi-zioni classiche come il valzer di Strauss che ac-compagna le evoluzioni delle astronavi in 2001. La musica dona alle immagini un che di tra-scendente, fa sì che esse si imprimano a fondo nella memoria, e talvolta le carica di ulteriori significati. Non è un discorso che vale solo per le colonne sonore di grandi compositori. Con un regista in grado di valorizzarlo, anche un pez-zo rock diventa quel qualcosa in più che rende

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una buona scena un momento indimenticabile. Tre esempi sparsi: Won’t Get Fooled Again degli Who utilizzata da Spike Lee in S.O.S.-Summer of Sam, Needle in the Hay di Elliott Smith nella scena del tentato suicidio di Luke Wilson nei Tenenbaum di Wes Anderson e il drone degli Earth nell’ultimo film di Jarmusch The Limits of Control.

A volte invece alcune rock star entrano nel cinema con dei piccoli cammei in cui maga-ri suonano un brano. Quali ricordi come i più significativi?Un cammeo che amo molto è quello di Joe Strummer, che in Ho affittato un killer di Aki Kaurismaki suona Burning Lights in un bar, accompagnandosi con la chitarra. È molto sim-patica l’apparizione di Bruce Springsteen in Alta fedeltà, come spirito guida del protagonista John Cusack: peccato che nella versione italiana ab-biano doppiato il Boss. Una bestemmia! E poi c’è quel capolavoro di The Blues Brothers, che è un fuoco di fila di apparizioni di grandi bluesmen e artisti soul…

Il cinema diventa molto spesso documenta-rio che racconta il rock. Un modo per con-segnare alla storia figure, momenti, grandi concerti. Quali sono i tuoi preferiti e per-ché?Amo molto Dont Look Back (1967) di Penneba-ker, che segue la tournee londinese di Dylan nel suo periodo di maggior fulgore. È un documenta-rio non certo celebrativo, all’insegna del realismo più assoluto: Dylan è scostante, antipatico, cir-condato dal caos e da loschi figuri. Però Penneba-ker ne coglie la genialità: c’è una scena da brividi in cui Dylan e Donovan strimpellano insieme in una stanza d’albergo. Donovan, all’epoca famo-sissimo in Uk, fa sentire a Dylan una delle sue canzoni, Dylan lo ascolta, gli dice “bravo”. Poi prende la chitarra e suona un pezzo nuovo, It’s All Over Now, Baby Blue. E negli occhi di Do-novan vedi la consapevolezza di essere di fronte a un genio e al tempo stesso la coscienza della propria mediocrità.Un altro documentario eccezionale è Gimme Shelter, del 1970, che doveva essere una celebra-zione dei Rolling Stones impegnati in un mega concerto ad Altamont, la loro risposta a Wood-stock. Solo che l’organizzazione è un disastro, e come servizio d’ordine vengono ingaggiati gli Hell’s Angels, che cercano la rissa col pubblico. E alla terza canzone, mentre Jagger canta Under My Thumb, ci scappa il morto. Un tizio viene ac-coltellato proprio davanti al palco, e la cinepresa

coglie quell’attimo. È la fine di un’era, il mito del peace & love si dissolve, e il cinema lo registra implacabile.

Ci sono poi i film con le canzoni che vedono rock o pop star improvvisarsi attori. Film in cui le storie sono la cornice in cui inseri-re i brani degli artisti come videoclip. Come nasce il fenomeno e come si sviluppa?Uno dei primissimi esempi è Gangster cerca moglie (1956), una divertente commedia dove le esibizioni di Gene Vincent, Little Richard e altri punteggiano la vicenda. Anche i film con Elvis (come Il delinquente del rock and roll) seguono uno schema simile, e la sequenza in cui il Re canta Jailhouse Rock è già un video clip ante litteram. Poi, come detto, arrivarono i Beatles… ma ci sono anche esempi bizzarri come Sadismo (1970) di Donald Cammell e Nicolas Roeg, che è la storia di un gangster che si rifugia in casa di una rockstar (Mick Jagger), dando vita a uno strano rapporto: un film sperimentale e ostico, che contiene una sequenza allucinatoria in cui Mick Jagger canta Memo from Turner, che è un vero e proprio videoclip. E gli esempi potrebbero continuare…

A proposito di videoclip. Alcuni sono veri e propri minifilm, altri vedono alla regia nomi importanti, altri grandi attori…Qui entriamo in un altro universo, che comun-que è permeabile con il cinema. Registi celebri si sono misurati con i video (anche se non sem-pre con successo: penso a Dancing in the Dark di Springsteen diretto da Brian De Palma, Fotoro-manza della Nannini, di Michelangelo Antonio-ni) e viceversa nomi importanti si sono fatti le ossa con i video, da David Fincher a Mark Roma-nek a Michel Gondry, che ha diretto alcuni dei più bei video di sempre…

E poi ci sono i musical in cui oltre al can-to e alla musica interviene la danza. Alcu-ni hanno segnato il costume e la società in modo dirompente. Cosa ne pensi?Molto prima del rock, i musical hollywoodiani erano fenomeni di costume e straordinari esempi di invenzione formale (penso alle coreografie di Busby Berkeley). In più, molti musical teatrali sono stati portati sullo schermo: Jesus Christ Su-perstar, Hair, The Rocky Horror Picture Show... quest’ultimo un vero fenomeno di culto, con le proiezioni nei cinema trasformate in happening dove gli spettatori rifacevano quanto accadeva sullo schermo.

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Da dove nasce l’idea del tuo libro?Dall’amicizia con Stefano Isidoro Bianchi, diret-tore del mensile “Blow Up – rock e altre conta-minazioni” a cui collaboro, e a sua volta grande appassionato di cinema. Una volta deciso di scrivere Rock-o-rama abbiamo capito che l’idea poteva funzionare anche per una rubrica fissa su cinema e rock all’interno della rivista, intito-lata Blow Out, e caratterizzata da un approccio un po’ anomalo. In quel preciso momento abbia-mo capito che c’era anche parecchio materiale per un libro.

Oltre ad alcuni titoli celebri poni l’accento su pellicole quasi sconosciute. Ce ne citi qualcuno e ci spieghi il perché della tua scelta?Mi divertiva l’idea di spiazzare e incuriosire il lettore, e al tempo stesso avevo voglia di par-lare di film poco conosciuti eppure degni di in-teresse, e comunque significativi nell’ambito dell’analisi del rock in rapporto al cinema. E per fare tutto ciò, ho utilizzato una struttura a schede non più lunghe di due o tre pagine l’una, più agili e facili da leggere, con spazio all’aned-dotica e ad annotazioni storiche e di costume. Un manuale da consultare con il sorriso sulle labbra piuttosto che una ponderosa trattazione saggistica. Dovevano essere 100 titoli, ne abbia-mo lasciato uno in più. Come il macellaio che fa porzioni abbondanti e poi ti dice “Che faccio, lascio?”. Con un’avvertenza: non è un libro sui “migliori” 101 film rock di ogni tempo. Tutt’al-tro. Ho voluto scrivere un libro che rispecchias-se i miei gusti (per cui, ad esempio, no a Jesus Christ Superstar, sì ai documentari sulla scena punk di L.A.), evitando però di mettere assie-me solo “bei” film ma lasciando spazio anche a prodotti magari brutti ma comunque interes-santi per i motivi di cui sopra. Alcuni titoli: The

World’s Greatest Sinner (1962), unica regia del caratterista Timothy Carey, storia di un pre-dicatore-rockstar adorato come un Messia, che punta alla Casa Bianca; Orfeo 9 (1973) di Tito Schipa jr., prima opera rock italiana (e non solo) con Loredana Berté e Renato Zero; Kiss Phan-toms (1978), il demenziale film con protagonisti i Kiss; Superstar: The Karen Carpenter Story (1987) di Todd Haynes, la storia della cantan-te pop morta per anoressia realizzata esclusi-vamente con bambole di Barbie e Ken, un film straordinario e sconvolgente; il giapponese Electric Dragon 80.000V (2001) di Sogo Ishii, la storia di un supereroe cyberpunk che si nutre di elettricità suonando la chitarra elettrica.

Mi segnali un titolo dagli anni 50 ad oggi?Scelgo un titolo inusuale. Il finlandese Lenin-grad Cowboys Go America di Aki Kaurismaki, la storia di un improbabile, scalcagnato gruppo rock russo che, appunto, va in America a cerca-re fortuna. Divertentissimo e amarissimo, è un road movie surreale zeppo di musica, e anche una visione disincantata del Sogno americano visto dall’esterno.

Quale futuro immagini per il rock nel ci-nema?Vorrei darti una risposta positiva, ma credo che il cinema stesso sia in forte crisi di idee, alme-no quello di largo consumo. Gli spunti più inte-ressanti oggi vengono da progetti indipendenti come Stingray Sam (2009) di Cory McAbee, che è un bizzarro serial musicale in sei puntate di dieci minuti l’una, pensato per essere visionato su schermi di ogni tipo. Nell’era di YouTube e della fruizione del cinema a spizzichi e bocconi, magari in viaggio, su un dispositivo tascabile, mi sembra un’idea geniale.

Osvaldo Piliego

tHE BEatlESiN tHE MoviESQuando diciamo che l’esperienza dei Beatles è ancor oggi valida e interessante da molti punti di vista non è per partito preso o per un’acritica adesione al loro “fan club” planetario. I Beatles hanno lasciato un segno in ogni settore della comunicazione ed è chiaro che il cinema non poteva mancare e costituire quindi un’eccezione. Quella dei film musicali – perché di questo si trattò, almeno all’inizio – era inoltre per loro un’eredità un po’ scomoda, un lascito degli anni ’50, e di Elvis Presley in modo particolare. I quattro “boys”, che stavano attraversando l’incredibile tornado mediatico che la stampa inglese definì con un termine felice “Beatlemania”, facevano gola a molti uomini d’affari e accettarono di sottoscrivere la proposta di contratto che la United Artists aveva fatto a Brian Epstein. Non posero condizioni che non riguardassero la qualità dei film cui avrebbero

dovuto prender parte, ma forse in quel momento non si rendevano neppure conto che erano già arrivati (e che ci sarebbero rimasti per sempre) al “toppermost of the poppermost”, come diceva sempre John. Nessuno avrebbe opposto un rifiuto alle loro richieste, ma neppure Epstein aveva l’esatta percezione di quello che stava succedendo e chiese, come si scoprì parecchi anni dopo, una cifra nettamente inferiore a quella che la United Artists era pronta a concedere senza battere ciglio.

A HARD DAY’S NIGHT La travolgente sequenza dei titoli di testa di A Hard Day’s Night, affidati all’amico fotografo Robert Freeman, con un’orda di fans scatenate a caccia dei quattro “ragazzi” nella stazione londinese di Marylebone, rende perfettamente quello che stava accadendo in Inghilterra (e

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negli USA) nei primi mesi del 1964 ed è anche il biglietto da visita del regista americano Richard Lester. L’idea di fondo dello sceneggiatore Alun Owen – nonostante l’apparente spontaneità delle battute e delle situazioni lo script era costruito con grande abilità - era quella di costruire una fiction aderente alla realtà. Basta rivedere i documenti filmati durante le vere conferenze stampa o i veri spostanenti dei Beatles e confrontarli con A Hard Day’s Night per constatarne la riuscita. Girato in un bel bianco e nero nell’arco di due mesi negli studi di Twickenham, nel Middlesex (per gli interni), e in varie location intorno a Londra (per gli esterni), il film resta il migliore nella frenetica storia del quartetto. Sorprende tuttora la freschezza noncurante dei “boys”: non erano attori professionisti, ma non sembravano imbarazzati di fronte alle cineprese e a una troupe che comprendeva veterani come Wilfrid Brambell (il pestifero nonno di Paul) o Victor Spinetti (il nevrotico regista tv). Della musica è quasi inutile parlare: è semplicemente superlativa e comunica una gioia di vivere e un’energia incontenibili. P.S. Il titolo – “La sera di una giornata difficile” – pare fosse farina del sacco di Ringo, anche se nel primo libro di John, pubblicato il 23 marzo del 1964, c’è un racconto, Sad Micheal, in cui il protagonista “quel giorno aveva avuto una sera di una giornata difficile”.

HELP! Visto il successo di Tutti per uno (questo il titolo italiano del loro primo film), la macchina della United Artists si rimise in moto con un investimento molto più consistente: si passò dai 500.000 dollari di A Hard Day’s Night al milione e mezzo di Help!. La storia è più debole della “docufiction” di A Hard Day’s Night, ma tutto sommato è abbastanza divertente. Grosso modo come può esserlo una storia a fumetti, con i “thugs” cattivi di salgariana memoria e un Ringo ancora più buffo, impacciato (e bravo). I Beatles sono sempre di corsa e sempre in fuga – dall’Austria alle Barbados – ma in questa bizzarra disavventura in technicolor in un primo momento non capiscono neppure perché rischiano di essere fatti fuori dai seguaci di Kaili. Forse la sequenza più riuscita è quella della casa in cui i quattro vivono insieme. Sugli scaffali di una libreria ci sono soltanto delle copie di In His Own Write, il già citato libro di John! Un’altra curiosità riguarda lo stereotipo indiano, non grave ma comunque bizzarro per una persona come George Harrison, che avrebbe dato un contributo decisivo al dialogo tra India e Occidente anglosassone. Richard Lester e i

Beatles se la cavano anche con un soggetto e una sceneggiatura non proprio brillantissimi. Quella che funziona alla grande è – come sempre – la musica, che diventa più sofisticata senza perdere un filo di impatto e irruenza. YELLOW SUBMARINEBrian Epstein diede il via al progetto di un cartoon di lunga durata convinto che potesse servire a chiudere il contratto con la United Artists. Non era così, ma non abbiamo certo lo spazio per ricostruire tutta la complessa vicenda di Yellow Submarine. Ci basterà dire, senza tema di smentite, che questo film è un capolavoro e che ha segnato una svolta storica nell’evoluzione dei cartoni animati. I Beatles non se ne occuparono molto, ma alla fine dovettero prendere atto della sua straordinaria bellezza. Si tratta di una fiaba – così come la canzone del sottomarino giallo da cui prende spunto è un gioco per i più piccoli – ma anche di una mirabolante esplosione di invenzioni grafiche e pittoriche. Onore al merito di tutta la squadra dei realizzatori, a partire dal disegnatore di origine ceca Heinz Edelmann e dall’autore di quasi tutta la storia, il poeta di Liverpool Roger McGough. La visione di Yellow Submarine è ancora oggi uno dei modi migliori per entrare nel mondo dei Beatles e comprendere la portata del loro lavoro.

LET IT BENelle intenzioni di Paul tutto il progetto di Let It Be avrebbe dovuto ridare slancio a un gruppo che ai suoi occhi aveva perso forza e spontaneità. Il fatto che lui stesso abbia voluto rimettere mano all’album tirando, fuori dal suo cilindro un Let It Be Naked abbastanza discutibile, ci sembra emblematico di una frattura ormai insanabile. Girato da Michael Lindsay-Hogg con la tecnica del “cinema verità”, Let It Be contiene anche la celeberrima performance dei Beatles sul tetto della Apple. “Speriamo di aver superato l’audizione”, dice John con il suo abituale sense of humour. Il film lascia un po’ di amaro in bocca, ma va comunque visto, sperando che Paul, Ringo e le vedove di John e George si decidano finalmente a farlo uscire in DVD.P.S. Rimandiamo a una “seconda puntata” un’analisi di Magical Mystery Tour, realizzato soprattutto da Paul per essere mandato in onda dalla televisione alla fine del 1967, dei proto-videoclip beatlesiani e del divertentissimo All You Need Is Cash dei Rutles, felice parodia della storia della band più amata del mondo.

Giancarlo Susanna

QuaNdo la MuSiCa BruCia lo SCHErMoControl e i biopic che ci fanno sognareQuando l’amore brucia l’anima, così recitava il titolo italiano di Walk The Line, il film di James Mangold del 2005 tratto dall’autobiografia del cantautore americano Johnny Cash. Una delle solite italiche trovate per aiutare il pubblico e spingerlo in sala, perché certamente in pochissimi avrebbero riconosciuto il titolo della celebre canzone di uno dei musicisti country più importanti di sempre. Quello su Cash non è che uno dei tantissimi biopic che hanno popolato il grande schermo negli ultimi anni. A volersi addentrare in quel pianeta multistrato, labirintico, con lo sguardo dell’appassionato, dell’eccentrico che consuma film e musica in dosi da sociopatico ci si avventura in un viaggio impavido e schizofrenico, senza logica temporale, tra film che documentano, romanzano, o semplicemente s’ispirano alle incredibili vite di grandi personaggi della musica. Dal Charlie Parker raccontato da Clint Eastwood alla Billie

Holiday interpretata da Diana Ross, dal Ray Charles col volto di Jamie Foxx al Jim Morrison di Oliver Stone; a volerne tenere il conto non se ne esce, sono troppi, e di tutti ci sarebbe di che parlare. Solo nell’ultimo anno sono arrivate in sala (non in Italia, purtroppo) due pellicole che ci fanno fremere d’attesa. Una è Serge Gainsbourg (vie héroïque), il film tratto da una graphic novel di Joann Sfar, e da lui diretto, per il quale il protagonista Eric Elmosnino ha vinto un Cesar come miglior attore. L’altra è Louis, il silent movie a metà tra documentario e musical - diretto da Dan Pritzker e musicato da Wynton Marsalis - sull’infanzia di Louis Armstrong a New Orleans. Un’esperienza che deve aver molto appassionato il musicista e regista Pritzker, che ora sta lavorando a un film su Buddy Bolden, passato alla storia come l’inventore del jazz. E poi ci sono biopic già annunciati da qualche anno, ma ancora in fase di preproduzione, come The Prince

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of Cool, il film su Chet Baker per il cui ruolo Josh Hertnett pare abbia scalzato Leonardo Di Caprio; quello su Miles Davis, che avrà il volto di Don Chadle e le musiche orchestrate da Herbie Hancock; e ancora quelli su Marvin Gaye, Janis Joplin, Freddy Mercury e John Lennon, alla cui realizzazione pare che Yoko Ono abbia dato il suo consenso nei mesi scorsi, convinta dall’entusiasmo di Brad Pitt, che interpreterà il ruolo del cantante. Tra vecchi e nuovi, nella maggior parte dei casi i biopic raccontano storie e vite piene di blues, in senso musicale, ma anche inteso come quell’inquietudine atavica, quella specie di tristezza, l’inestirpabile scheggia piantata nel cranio o vicino al cuore. Il pensiero puro della musica, o la sua degenerazione in loop. Il demone con cui hanno vissuto creature speciali che la musica ha reso immortali. Su due di loro vale la pena soffermarsi un po’ più a lungo, non tanto - o non solo - per il modo in cui hanno influenzato il corso musicale della storia, quanto per l’approccio con cui gli autori ne hanno trasposto la vita sulla schermo. Su Kurt Cobain, leader dei Nirvana, hanno lavorato in molti, e adesso anche il regista premio Oscar David Fincher si prepara a girare un nuovo film sulla sua storia. Agli ultimi giorni della vita di Cobain si è ispirato anche Gus Van Sant per chiudere, nel 2005, la trilogia della morte iniziata con Gerry e continuata con Elephant. Nient’altro che un’ispirazione, perché in Last Days l’associazione tra il protagonista Blake e il frontman dei Nirvana sta tutta nella somiglianza del soggetto con l’attore Michael Pitt - capello biondo lungo e unto, abiti molli e sdruciti - e in quel senso di disorientamento e solitudine che precede un gesto folle come quello compiuto dal leader della band di Seattle nel ’94. Un film ossessivo, scarno, silenzioso, con pochissimi dialoghi perlopiù surreali e sconnessi; un film in cui a parlare sono solo le immagini e la musica, ma dove non c’è nemmeno una nota dei Nirvana. Attraverso un montaggio atemporale, una ricerca maniacale della fissità, della ripetizione, e l’esaltazione del piano sequenza di cui è maestro, Van Sant consegna la sua personale visione delle ultime ore di un essere disperato e fragile, senza indagarne l’emotività, riportando una dietro l’altra azioni meccaniche e senza senso. Quello che viene fuori dal film è quasi sempre un insopportabile freddo, mitigato da una colonna sonora bellissima, in gran parte eseguita da Micheal Pitt, che nella vita è anche leader della band post-grunge Pagoda, e in cui compaiono anche Venus in Furs dei Velvet Underground e A Pointless Ride degli Hermitt.

Due brani valgono tutto il film: quello in cui Blake, chitarra e voce, esegue Death to Birth, e la jam elettrica in solitudine di That Day. Da Seattle a Manchester, un salto all’indietro di quindici anni per raccontare un’altra storia, quella del leader dei Joy Division Ian Curtis, nel film di Anton Corbijn Control. Il nome di Corbijn è strettamente legato a celebri videoclip di Depeche Mode, Nirvana, U2; ma suo è anche l’occhio dietro l’obbiettivo di scatti memorabili come quello che ha immortalato Miles Davis in una stanza d’albergo di Montreal nell’85, con lo sguardo fisso, la pupilla dilatata e le mani sulla faccia; quello della copertina di The Joshua Tree degli U2, e soprattutto quello che ritraeva i Joy Division di spalle nel tunnel della metropolitana di Londra nel ‘79. Uno scatto in cui molti hanno visto sintetizzata tutta la poetica del gruppo, e un bianco e nero che Corbijn ha voluto riportare anche sullo schermo. Alla band di Manchester e a Ian Curtis, morto suicida a ventitré anni, il fotografo e regista olandese è sempre stato legato da qualcosa che andava molto oltre la pura ammirazione. Quando, nel 2006, ha cominciato a girare Control, Corbijn ha dichiarato di averlo fatto per chiudere quel cerchio apertosi trent’anni prima, quando proprio la musica dei Joy Division gli fece decidere di lasciare l’Olanda per l’Inghilterra. E forse è per quel legame così speciale che il regista è riuscito a cucire un film così delicato e a descrivere in maniera così semplice i contorni di una personalità drammatica e romantica, senza cadere in esasperazioni, e senza alcun desiderio di mitizzarla. Forse per questo ha messo tanta attenzione nella scelta del protagonista, riuscendo a trovare un attore perfetto come Sam Riley, così somigliante a Curtis da disorientare. E non solo per l’incredibile vicinanza dei lineamenti del viso, ma per quella naturalezza nel restituire i gesti, il modo di fumare, stringersi nella giacca, tenere il microfono; per il suo modo di riprodurre i balletti spastici con cui Curtis metteva in scena sul palco l’epilessia di cui soffriva. Ma, soprattutto, Riley (che ha militato a lungo nella band 10,000 Things) ha cantato con la sua voce i brani dei Joy Division che fanno parte della colonna sonora del film, da Dead Souls a Transmission, da Digital a She Lost Control. E lo ha fatto terribilmente bene. Tanto da farci sentire una volta di più che la musica di Ian, la sua insicurezza, il suo sguardo, ci mancano sempre. Molto.

Lori Albanese

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L’importanza di un film cult come The Wall è sicuramente da riscontrare nella sua essenza propriamente musicale. Infatti, mai prima di al-lora, musica e immaginazione, cartone animato e azione viva erano stati fusi tra loro in modo così magistrale. Nonostante la quasi totale assenza di dialoghi, The Wall non è un musical, ma è un ope-ra-rock di pregevole fattura, un capolavoro filmico partorito dal quel genio di Roger Waters e reso possibile dalla regia di Alan Parker e dall’anima-zione geniale di Gerald Scarfe.Il film è la degna trasposizione cinematografica dell’omonimo disco, pubblicato nel 1979 dalla sto-rica band londinese dei Pink Floyd, un film che trova ancora oggi un significativo riscontro socio-politico all’interno delle società moderne, nono-stante siano trascorsi quasi trent’anni dal suo debutto cinematografico nelle sale inglesi.

Il film racconta la storia di Pink, interpretato da un allora sconosciuto Bob Geldof. Cresciuto senza un padre, scomparso durante la Seconda Guerra Mondiale, Pink viene tirato su dalla sola madre che l’opprime con il solito amore edipico materno, ed educato da crudeli insegnanti che riversano negli alunni tutta la loro frustrazione. In seguito, Pink sposa la tranquilla amica d’infanzia e dive-nuto adulto diventa una famosa rockstar. Sedotto dalla fama, il protagonista ha sempre più voglia di attenzione e applausi, un atteggiamento che lo porterà a isolarsi da tutti anche dalla moglie che finirà per tradirlo.Il film inizia con la scena significativa di Pink se-duto nella sua stanza d’albergo, fermo a fissare la tv, la visione di un vecchio film di guerra scatena in lui i ricordi del passato, avvenimenti rappre-sentativi della sua vita che daranno il via al suo

tHE WallAbbattete quel muro

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lento e inesorabile logorio mentale.Per il protagonista queste alienanti esperienze passate rappresentano i “mattoni” essenziali per la costruzione finale di quel “muro” interiore di-fensivo attorno ai suoi sentimenti, innalzato per ripararsi da altre sofferenze. L’accostamento tra musica e immagini è un fattore essenziale che ri-troviamo nelle singole sequenze con sorprendente simbologia, infatti, le singole immagini avrebbero poco senso se non accostate a determinate can-zoni. Nella prima parte questo è molto evidente: l’essere cresciuto senza un padre (Another brick in the wall part. I), una madre morbosa (Mother), insegnati inappagati e crudeli (The happiest days of our lives e Another brick in the wall part II), la fama e le assillanti groupies (Empty spaces e Young lust) porteranno a quel fatidico ultimo “mattone” (Another brick in the wall part III) e alla sua completa estraneazione dal mondo (Goo-dbye cruel world). Il “muro” è finalmente costrui-to. Nella seconda parte, cambia tutto. Si scatena l’immaginifico vagabondare di Pink verso gli ul-teriori approdi della sua mente, delle sue paure e delle sue nevrosi, che lo porteranno ad immagi-nare di essere un neonazista che parla alla folla plagiata dal suo carisma. Man mano che le alluci-nazioni aumentano il distacco dalla realtà diven-ta sempre più profondo fino a svanire del tutto. Alla fine, stanco di quest’allucinante situazione Pink si ribella. Il film termina con una sorta di processo giudiziario interiore, dove sfilano i te-stimoni della sua vita passata, coloro che hanno contribuito a costruire il “muro”. Sentenza finale: demolire il “muro” prima che lo conduca al totale degrado mentale. The Wall è un film epocale che ha fatto la storia del cinema, già all’epoca della sua uscita ottenne riscontri positivi sia di critica sia di pubblico, ma venne tacciato di eccessiva crudezza per la visione di alcune immagini. È un film dalle diverse sfaccettature e interpretabile secondo diversi punti di vista. Nel risvolto visivo: memorabili le figure create da Scarfe, su tutte il processo di The trial. Nel risvolto autobiografico: la morte in guerra del padre di Waters, i problemi dell’educazione scolastica nel periodo delle rivolte studentesche, la madre iperprotettiva di Syd Bar-rett. Nel risvolto di osservazione e critica sociale: l’incomunicabilità nei rapporti di coppia, la rock-star onnipotente e i chiari ed evidenti riferimenti alla società inglese d’impronta thatchteriana. In-fine, il risvolto che rappresenta l’evoluzione della follia del protagonista, nel quale si intravede un riferimento a Syd Barrett.La crisi di Pink è un percorso simbolico, una sorta di minaccia che incombe su ognuno di noi.

Alfonso Fanizza

Gli anni ottanta, così come gli anni novan-ta sono sempre stati considerati un periodo quasi vuoto dal punto di vista prettamente culturale e sociale, perché compresi tra due fasce storiche che hanno segnato delle rivo-luzioni nei costumi molto forti. Da una parte gli anni settanta contraddistinti dall’impe-gno sociopolitico e da una forte lotta contro i dogmi, e dall’altra il secolo della tecnologia, dell’alienazione e degli avatar. E nel mezzo? Appunto gli anni ottanta nel loro senso più esteso. Né carne né pesce? Forse no, quan-to meno possiamo con certezza affermare che convenzionalmente indicano gli anni dei cartoni animati. Quelli veri. Quelli sportivi, ma anche quelli derivanti dallo shojo man-ga, pensati per le ragazzine ma che non di-spiacevano neanche ai ragazzini. Questi nuovi cartoon sono fortemente connotati da un’esplosione dei corpi e della sensualità che lentamente si riperderà negli anni ’90 quan-do tutti ritorneranno a fare i buoni e anziché combatterlo, il perbenismo lo imporranno. La dedizione e la compostezza di Mimì e la sua nazionale di pallavolo faranno spazio alle stravaganze di Jem e le Holograms, il cando-re di Heidi, sarà esorcizzato da una Lycia che nonostante le buone intenzioni non disdegna di disobbedire a M’arrabbio per inseguire Mirko ciuffo bicolore, ma pur sempre bello e maledetto. Ed è proprio accanto a queste fi-

CartooN aNNi ’80Dal Giappone arrivano sesso e rock and roll

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Non chiamatelo musical, Jesus Christ Superstar è una rock opera. La differenza c’è e si vede, anzi si sente. La creatura della premiata ditta Andrew Lloyd Webber & Tim Rice (rispettivamente com-positore delle musiche e autore dei testi) nasce innanzitutto come long playing nel 1970 e solo successivamente approda a teatro (1971) e al ci-nema (1973) diventando fenomeno cult.È un’evoluzione del concept-album, una rock ope-ra appunto, proprio come lo sono Hair, Evita, The Wall e tutti i prodotti di questo tipo dove non esi-

stono, o quasi, parti recitate ma c’è invece una sequenza di canzoni con una struttura dramma-tica ben precisa, con personaggi, ambientazioni e così via. Da questo punto di vista il Rocky Horror Picture Show cos’è? Un musical, bravi.Fatta questa doverosa precisazione, a più di qua-ranta anni dalla sua prima uscita discografica, molte polemiche, numerosi premi e innumerevoli rifacimenti, JCS non manca di conquistare anco-ra oggi fan e appassionati in tutto il mondo. Il film, diretto da Norman Jewison, è considerato,

JESuS CHriSt SuPErStarPassione rock

CiNEMa roCK

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gure talvolta molto trasgressive, soprattutto per il panorama dei cartoni italiani, che si delineano anche dei personaggi musicali. Il processo di emancipazione è stato graduale, da una ancora molto sofisticata Creamy, che chiedeva di essere amata teneramente, si è arrivati alla già citata Jem icona animata di questi anni fatti di fiocchi e colori sgargianti. Con una notevole capigliatura e un sex appe-al che inevitabilmente ricorda Miss Rettore, e che nonostante i nefasti avvenimenti della sua vita, riesce a sfondare nel mondo della musica, e soprattutto del rock, con canzoni molto meno banali del genere cartoon, grazie ad un super potere che la trasforma in una star, alla grinta che si attribuisce esclusiva-mente a questo nuovo ruolo di donna “bella e stravagante”, supportato da una band per la prima volta nella storia dei cartoni composta da sole donne che tengono alta l’attenzione del pubblico grazie ad abiti e make up, che nonostante siano più anni ottanta degli stessi anni ottanta rivendicano molta più persona-lità delle tutine\pigiama in cui sono costretti gli sventurati alunni della scuola di Maria de Filippi. Forse un’interpretazione troppo forzata la mia, ma attenendosi al testo della sigla (tra l’altro è la sigla che in poco più di un minuto riesce a raccogliere più rime in –ante), l’eccesso del personaggio è quello che più traspare (Il mio nome è Jem sono una cantante bella e stravagante e ballo il rock’n roll, sono un tipo esuberante, etc… e il resto è storia). Così sul fronte maschile a tenere alta la competizione troviamo i Bee Hive, con tut-te le credenziali dei veri rocker: parrucconi imbarazzanti (e non solo quella di Mirko, ma anche il lungo crine viola di Satomi, il tastie-rista), canzoni rock melodiche, l’uso molesto del soprannome baby (che fa molto macho poco micio), evidente propensione all’alcol post concerto, l’immancabile triangolo amo-roso, un passato turbolento che incrementa l’alone di mistero, e le groupies. Perché anche se malcelate, con delle relazioni semistabili, come quella di Satomi e Manuela, queste bra-ve ragazze benvestite non esitavano ad asse-condare la vita sregolata del gruppo. Non a caso Licia, tipica ragazza della porta accanto, più volte ha sofferto d’amore per l’infedeltà del longilineo frontman che si divideva tra donne e vino. Ma se nel bel mezzo di una per-formance, lui ti guarda e ti dice che “vorrebbe essere tu e lui già sull’autostrada, freeway”, è chiaro che ti passa la fantasia... E quasi quasi nonostante il piglio della donna che non deve chiedere mai e disobbediente, a casa ci resti a crescere fratellino e gatto. Ma cosa ci face-vano guardare?

Roberta Cesari

insieme ad Hair il capostipite di un genere che avrà lunga vita e un grandissimo succes-so. JCS è il racconto in chiave hippie della favola pop più famosa di tutti i tempi, gli ulti-mi giorni di Cristo prima della crocifissione; i protagonisti ci sono quasi tutti: c’è Gesù (Ted Neely) in tunica bianca e già hippie di suo, c’è Giuda Iscariota (Carl Anderson) in pantalo-ni a zampa di elefante, c’è Maria Maddalena (Yvonne Elliman) in casacchina sgargiante, cerchioni alle orecchie e collanine freak, c’è Erode, Ponzio Pilato, Pietro (l’attore Paul Thomas che successivamente si darà al porno) e naturalmente ci sono gli apostoli. Per la prima volta Cristo si fa uomo tra gli uo-mini anzi, rockstar, ma è un essere umano qua-si sconfitto che cede la parte del protagonista a Giuda, vera figura cardine dell’opera, traditore suo malgrado che nel finale, mentre la folla si accinge a crocifiggere Gesù, gli chiede: “secon-do te Buddha sapeva il fatto suo? E Maometto muoveva la montagna o era tutta pubblicità? Hai voluto morire in quel modo o è stato un er-rore? Sapevi che quella tua morte sarebbe stata insuperabile?”, una sorta di intervista al Cristo morente che lascia sulla terra una Maddalena perdutamente innamorata di lui. Nonostante le prevedibili polemiche che accompagnarono in tutto il mondo l’uscita dell’opera, incredi-bilmente le canzoni di JCS (censurate in tutta Italia) furono invece trasmesse da Radio Vati-cana; pare infatti che un indefinito monsignore inviato dall’Osservatore Romano a Londra per assistere alla proiezione dell’opera presso i Pi-newood Studios, fosse rimasto positivamente colpito dalla carica emotiva del film e lo avesse riferito a Roma. Misteri della fede. Riff memorabili (What’s the buzz?, Heaven on their minds, Everything’s all right), inter-pretazioni straordinarie (Ted Neely e Carl Anderson sono candidati al Golden Globe nel 1974) e una indimenticabile sound-track rock-progressive, ecco spiegato l’enorme successo di quest’opera.JCS è quel genere di fenomeno che attrae veri e propri estimatori, fini conoscitori di aneddo-ti e curiosità, frequentatori assidui di forum a tema, insomma quel tipo di ammiratori che rientrano piuttosto nella categoria del fan “sfegatato”, quelli - per intenderci - che apro-no una pagina facebook dedicata anche se ne esistono già migliaia e che, da Heaven On Their Minds a King Herod’s Song, conoscono nei minimi particolari gli ultimi giorni di vita di Cristo. La loro catechista non avrebbe sa-puto fare di meglio.

Antonietta Rosato

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Sara lovCanzoni che amavamo e che ameremo di più

Molti la ricorderanno al fianco di Dustin’ O’Hal-loran nel sognante duo Devics, un’esperienza musicale che ha segnato con una manciata di album la fine degli anni ‘90 e l’inizio del nuovo millennio. Da qualche anno i due hanno preso strade differenti, la voce di Sara ha trovato un suo carattere e la sua musica un suono acusti-co, delicato ed esotico. Dopo Seasoned Eyes were Beaming del 2009 arriva I already love you, un disco di cover, il modo più bello forse che ha una cantante per raccontarsi. Abbiamo intervistato Sara in occasione del suo tour italiano.

Sono un amante delle cover, quindi mi sono avvicinato a questo album con la convin-zione di vivere un’esperienza piacevole. Come hai scelto le canzoni di questo disco?Grazie. Avevo una lunga lista di canzoni che amavo in modo particolare e pensavo sarebbe stato divertente rifarle. Io e il mio produttore Zac Rae abbiamo deciso che dovevamo entrambi amare i brani. Ha controllato la lista e ha tira-to fuori i pezzi che non gli piacevano o che non riteneva di voler registrare. Alla fine ne sono ri-maste circa venti. A partire da questa selezione abbiamo poi scelto quelle che si adattavano me-glio alla mia voce e sembravano più interessanti da un punto di vista musicale.

Scoprire gli ascolti di una persona è un po’ svelarne l’intimo, una dimensione domesti-ca e personale. Cosa ne pensi?Sono completamente d’accordo. Credo che amia-mo certa musica perché in qualche modo sembra che venga fuori da noi stessi e non dalla persona che l’ha scritta. La musica che amo è una mappa di chi sono.

Al margine dei Devics hai trovato una strada musicale fortemente caratterizzata dalla tua particolarità vocale e da un certo minimalismo musicale. Come hai scoperto la tua musica?Credo che il processo di scoperta non sia ancora terminato. Il miglior modo per trovare la pro-

pria musica è continuare a esplorare la propria espressività e alla fine viene fuori la vera voce e un po’ meno le influenze.

Tra i brani anche un omaggio all’Italia, ci parli de La Bambola di Patty Pravo e del tuo rapporto con il nostro paese?Certo. Il mio rapporto con questa canzone deve essere completamente diverso dal vostro. Non sono cresciuta ascoltando questa canzone oppu-re Patty Pravo. L’ho ascoltata per la prima volta una decina di anni fa, quando vivevo in Italia e alcuni amici l’hanno suonata a una festa… poi mi hanno registrato una compilation. Me ne sono subito innamorata. All’epoca non capivo le paro-le, quindi mi piaceva la sua profonda voce soul, gli strumenti e gli arrangiamenti. Quando ho de-ciso di fare un disco di cover volevo cantare un pezzo in italiano. Ho vissuto in Italia per circa sei anni ed è un posto molto vicino al mio cuore. La gente ha sempre apprezzato la mia musica, quindi volevo cantare in italiano. È stata la pri-ma canzone che ho scelto. L’ho suonata a Zac e gli è piaciuta subito. Aveva un sacco di idee per i suoni da utilizzare, con una bella cassa anni ’60 e tutto ciò che si sente nel risultato finale.

Cosa possono fare le canzoni? Come ci aiu-tano? Cosa è per te la musica?Possono portarti via e farti vivere in un altro tempo in cui tutto il resto non importa. La musi-ca mi fa emozionare e mi rende felice, non potrei vivere senza le mie orecchie.

Hai appena concluso il tuo tour in Italia. Com’è stato?Il tour che si è appena concluso era con Scott Mercado, un musicista con cui avevo già suona-to. Lui suona chitarra e piano, io suono la chi-tarra e utilizziamo anche delle basi. Le canzoni sono prese dall’album vecchio e dal nuovo, circa metà e metà.

Osvaldo Piliego

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Dopo due anni di concerti, Alessandro Mannarino è tornato con il secondo album, Supersantos, una perla musicale sorprendente ed esplosiva. E le vendite lo confermano. Lo abbiamo intervistato e abbiamo scoperto che, da buon erede di Trilussa, ce l’ha a morte con la mediocrità dei potenti.

Cosa è successo tra il Bar della Rabbia e Su-persantos?Ho fatto tanti concerti e poi sono stato impegnato nella registrazione del nuovo album. Ho preferito fare un lavoro diverso rispetto al Bar della Rab-bia, che era una specie di best of con pezzi orec-chiabili e diretti.

In che modo sono nate le tracce di Super-santos? Prima i testi o prima la musica?A volte prima i testi, a volte prima la musica, a volte insieme. In questo album ho fatto molta at-tenzione ai testi e questo mi ha concesso tante opportunità. A volte può essere debilitante per i testi partire dalla melodia.

Quello che ho notato ascoltando Supersantos è una maggiore maturità rispetto al primo album e una certa evoluzione della scrittura.

Grazie! Delle canzoni del genere c’erano anche nel Bar della Rabbia, come Le cose perdute. In questo disco sono stato più libero e la libertà ha fatto molto bene alla scrittura. Bar della Rabbia era il mio primo disco e ho cercato di metterci dentro tutte le cose che erano più forti e in gra-do di “arrivare” facilmente, ma ho scritto i testi dell’album tra i 20 e i 29 anni. Supersantos, inve-ce, è stato scritto a 30 anni ed è inevitabile che i pezzi siano più maturi.

Almeno in due canzoni c’è il termine paura. Cosa ti fa davvero paura?La morte, anche quella da vivi, e l’assentarsi. Mi fanno paura quelle mattine in cui ti svegli e cam-mini come uno zombie e senti un vuoto dentro. E poi mi fa paura il cielo nero della sovrastruttura che ci schiaccia e ci mette in fila, uccidendoci o rendendoci meno vitali.

Hai scritto un pezzo che si chiama Sveglia-tevi italiani, secondo te gli italiani si sono svegliati?Se prima eravamo in un sonno profondo adesso ci stiamo per svegliare. Durante il sonno i sensi vanno in stand by e non si sente alcun dolore. En-

MaNNariNoLa libertà che fa bene alla scrittura

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triamo in un sistema che ci impedisce di essere ricettivi o di farci del male. Adesso, invece, siamo in quel momento in cui il corpo si risveglia, co-mincia a muoversi e a sentire nuovamente il dolo-re. Il torpore di qualche anno fa è solo un ricordo, anche perché viviamo una situazione ancora più triste.

In questo album quali generi hai mischiato?Sono stato molto libero. Mi viene in mente l’im-magine del cuoco che cucina e annusa contem-poraneamente vari odori e a intuito dice “queste spezie vanno bene, ora aggiungo un po’ di olio, e poi due pomodorini”. La preparazione dell’al-bum è stato un navigare a vista, non sono par-tito dall’idea di mischiare vari generi. Sono stato influenzato anche dagli ultimi ascolti che ho fat-to: suoni composti con la musette (la cornamusa francese), o la musica da balera francese e la ma-nouche. Intanto continuo ad ascoltare chitarre e ritmi boliviani.

Come mai nell’album ci sono due serenate?Una è lacrimosa e una è silenziosa. Sono due se-renate tristi e in realtà non sono nemmeno sere-nate. I titoli di solito vengono da soli, e poi met-terli è una cosa molto strana. Serenata lacrimosa è cantata sui gradini della chiesa ed è condivisa, infatti c’è un coro. Serenata silenziosa, invece, è cantata sottovoce in totale solitudine a casa. Le ho chiamate nello stesso modo perché la differen-za tra questi due brani coglie un po’ l’anima del disco: l’intimità e la condivisione. Si passa dalla sofferenza ad una ricerca del senso della propria vita, a volte intimo e a volte collettivo.

Come mai hai scelto proprio Scordia in pro-vincia di Catania per registrare Supersan-tos?Perché c’è una buona sala di registrazione, e poi perché quasi tutti i musicisti con cui suono sono di Scordia (il batterista, il trombonista…), il con-trabbassista, invece, è di Catania e Tony Canto, il mio produttore, è di Messina.

A chi dedichi il tuo successo?Lo dedico a tutte le persone che mi hanno detto no.

Quanto ci avevi creduto?Tantissimo, forse anche troppo, ma sin dall’inizio sono stato convinto di quello che facevo.

Oltre a Roma quale città senti tua?Bella domanda. Qualche tempo fa sono stato a Marrakech, ma non posso dire che si tratti della mia città ideale. Anche Lecce è un posto fantasti-

co e in Salento ci vengo ogni estate in vacanza. Ma da qui ad affermare che si tratti di un posto che sento mio ce ne vuole. Forse l’unica città che sento mia è la città che sogno a volte di notte, non so dove sia né come si chiami, ma c’è una luce bellissima.

In che modo vivi la capitale?A testa bassa.

Con paura?Si, con paura. Ho un carattere in parte schivo, ma divento aperto e spontaneo con gli estranei, con chi non mi conosce e non sa che faccio questo la-voro. Poi quando mi capita di essere fermato per strada, o mi sento guardato, mi intimidisco e ab-basso la testa. La paura è quella dell’esposizione.

Qualcuno “si allarga”, vero?Non è proprio questo il punto, cominciando an-che dalla gente che mi vuole bene e da chi lavora con me, cominciano tutti a dirmi sempre di si o a idealizzarmi.

E pensi che tutto questo sia poco sincero?Si, a volte si, ma anche una risata dopo una bat-tuta, sembra quasi che si debba ridere per for-za perché la battuta l’ho fatta io. Vorrei essere trattato come una persona normale da chi lavora con me, da chi mi sta vicino, da chi conosco. Ecco perché preferisco frequentare estranei e persone che non mi conoscono, perché secondo me si tende ad avere un determinato comportamento per con-venienza o per idealizzazione. Io sono una perso-na semplice, mi piace guardare le persone negli occhi, e mi piace essere guardato negli occhi per quello che sono nel profondo. Ci tengo alla mia umanità e non mi va di impazzire e diventare un pallone gonfiato o un pavone.

Apprezzi qualcuno dei politici attuali?Nessuno. Nemmeno Vendola, perché non ha il co-raggio di andare in fondo. Ad esempio, è possibile che oggi per candidarsi alla presidenza del Consi-glio con il centrosinistra sia indispensabile il voto dei cattolici? Se Vendola si professa cattolico pur non essendolo, perché altrimenti la nonnina non lo vota, a me non piace. Credo di essere materia-lista, comunista e laico. Secondo me il Vaticano e la Chiesa sono delle ingerenze moleste e delle metastasi nella politica, nell’informazione, nella Pubblica Amministrazione. È un potere sporco che va combattuto. Se un uomo politico di sini-stra si assumerà la responsabilità di affermare questi concetti avrà la mia stima.

Lucio Lussi

A quasi un mese dall’uscita del nuovo ed ipnoti-co album Hermann, I Paolo Benvegnù scalano la classifica dei dischi più venduti. Il nuovo proget-to artistico, pubblicato con la propria etichet-ta La Pioggia di Dischi/Venus, comprende tredici brani che si avviluppano sull’eter-no “mito” dell’uomo e “degli archetipi del pensiero occidentale”. Hermann è un capo-lavoro “narrativo” e poeticamente brillan-te carico di sonorità sempre vive, oniriche e magicamente affascinanti.Dopo la tappa romana goduta sul palco del

Circolo degli artisti l’Hermann Tour 2011 prosegue alla volta di altre città italiane.

Il tuo ultimo lavoro prende il nome di Her-mann, come è nata l’idea del tuo terzo LP?Hermann è un disco sull’umano. E l’idea era di musicare un disco di letteratura, come ad esem-pio musicare L’Orlando furioso. Ovviamente ba-dando alle nostre intuizioni, usando il mito e gli archetipi del pensiero occidentale come partenza per sviluppare prospettive diverse. Così abbia-mo scritto una sceneggiatura, come in un film,

Paolo BENvEGNÙUn capolavoro narrativo brillante

Ph: Mauro Talamonti

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ne abbiamo colto gli aspetti che più ci interessa-vano, ne abbiamo fatto una colonna sonora.

In questo disco ti confronti con personaggi del passato, del presente e del futuro dialo-ganti con personalità come Sartre, Ulisse, Perseo e Narciso, che cosa ti ha colpito di questi eterni personaggi?In realtà, i racconti riguardanti l’umanità anti-ca o moderna, inventata o no che hai citato, mi colpiscono esattamente come il taxista davanti alla stazione, il fruttivendolo, il falegname. I problemi, una volta esaurita l’ansia da cibo, sono sempre gli stessi dalla notte dei tempi. Piccole diversità socio-politiche spazio-temporali, ma gli uomini sono sempre gli stessi. Ed io sono inte-ressato a tutta l’umanità, me compreso. Il meno capibile.

Nel brano Avanzate, Ascoltate metti in mu-sica “le pazzie degli uomini”, secondo te esiste un rimedio?Il rimedio alle pazzie è sempre lo stesso. Legge-rezza, comprensione, Amore, Giustezza. Difficile è arrivarci. Ma non impossibile.

Il brano Andromeda Maria mi ha partico-larmente emozionato, cosa ti ha ispirato nella composizione?Il brano è sgorgato fluidamente dalla lettura de Le mille e una notte. Sherazade è come An-dromeda, imprigionata al destino di narratrice per sopravvivenza, ma anche come Maria, che attende nel Figlio il Padre, l’Assassino ed anche se stessa.

Quale è il messaggio dell’uomo raffigurato in copertina?I Paolo Benvegnù hanno i loro occhi che sono Mauro Talamonti, Francesco Prosperi e lo staff visuale di Capicoia. Abbiamo insieme e contem-poraneamente lavorato al disco. La copertina che hanno ideato è simmetrica alla musica. Pos-siede diverse chiavi di lettura. Ed il gesto delle mani adolescenti femminili che coprono o gioca-no con il viso di un uomo adulto è sintomo, a mio parere, di un’eterna metempsicosi del Sentire, tramandata da Madre in figlio. È un messaggio potente, quanto ovvio, e per questo spesso col-pevolmente dimenticato. La Saggezza è Figlia e Madre. Sempre.

Le tredici tracce del nuovo disco narrano la “storia dell’uomo”, quest’ultimo conti-nua la sua evoluzione oppure è in una fase drammaticamente involutiva?

Non è un’ascesa. Nemmeno un’involuzione. Per effettuare questo, l’uomo dovrebbe poter com-prendere per poi Sentire. Ma non è così. Pro-cede per avamposti. Poi dimentica. Io sorrido.

Come ti rapporti con la scrittura?Ne fruisco. La rispetto. La cerco con tutte le Forze. La manco e la ricerco. Come la Vita.

Quali sono stati i frutti del live Dissolution?Dissolution è un margine personale e collettivo contro il Vuoto. È una piccola e mossa fotogra-fia delle settimane precedenti. E non di frutti si tratta. Ma di fiori. Glicini, per l’esattezza.

Quest’anno l’Italia Wave si farà a Lecce, come vedi la realtà musicale pugliese?La realtà culturale pugliese è l’unica ricca di sorriso in Italia, attualmente. Per questo sono felice che Italia Wave sia approdata da voi. Ma davvero felice e convinto. Per quanto riguarda la musica, conosco ovviamente le realtà più concla-mate che non hanno bisogno di commenti, visti i risultati ottenuti.

Puoi farci qualche nome?Se mi devo sbilanciare, penso che La fame di Ca-milla sia un progetto bellissimo che ha già scritto pagine importanti e dense e che Amerigo Verar-di sia un Poeta di Bellezza.

Come è lo stato della musica Indie in Italia?In Italia ci sono progetti musicali meravigliosi. Molto meglio che nel mondo anglosassone. Ma non ce ne rendiamo conto e ci facciamo coloniz-zare. Poi c’è l’intrattenimento. Bieco. Terribile. E abbiamo un leghista come Ministro della Cul-tura.

Nel 2010 Mina nel cd Caramelle ha reinter-pretato un tuo brano Io e te, che reazione hai avuto?Stupore, ammirazione, incredulità. Ed una pro-messa. Se dovessi un giorno riuscire ad andare in Svizzera, Mina mi invita a pranzo e fa le pol-pette.

Quale è l’eredita degli Scisma?L’eredità degli Scisma sono i Paolo Benvegnù.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?Vivere. Contemplare. Essere. Sparire.Grazie per lo spazio donatoci, anche a nome dei miei compagni. Siate felici.

Giuseppe Arnesano

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Lo scorso 17 Marzo dal palco dell’Auditorium Parco della Musica di Roma è iniziato il tour eu-ropeo dell’equilibrato e vivace duo Musica Nuda composto da Petra Magoni (voce) e Ferruccio Spinetti (contrabbasso). Petra e Ferruccio hanno presentato Complici il nuovo album pubblicato dall’etichetta Blue Note/Emi Music Italy. Il disco è una brillante opera di “ampio respiro” che met-te in risalto la bellezza di quell’incontaminata armonia ritmica ed espressiva alchemicamente estrinsecata da due acuti complici. Di seguito vi proponiamo le interviste ai componenti del duo.

PETRA MAGONI

Come nasce l’idea di Complici?Già negli album precedenti erano presenti brani inediti, nuovi, scritti da noi e da altri artisti e già da qualche anno pensavamo ad un intero disco con pochissime cover, adesso è il momento per farlo, con la giusta maturità artistica ed umana. Questa nuova sfida ha tirato fuori una bellissi-ma energia.

Qual è il significato della copertina del di-sco?L’idea è di Luca Quaia, cerca di rappresentare la nostra complicità percorrendo su e già le dune del contrabbasso! Lo sfasamento di dimensioni è un gioco grafico per accentuare il senso di questa complicità e raccontare in una semplice posa chi sono Petra e Ferruccio. E poi non ne possiamo più di facce in copertina!

Alcuni dei brani del disco portano la fir-ma di autori come Pacifico, Max Casacci (Subsonica), Pasquale Ziccari Carlo Mar-rale, Alessio Bonomo, Alfonso De Pietro, Al Jarreau, Sylvie Lewis e Luigi Salerno, ci racconti come si è sviluppata questa corale collaborazione?Sono tutte persone con cui abbiamo un rappor-to di amicizia, o quantomeno di conoscenza e senz’altro di stima. Non abbiamo la presunzione di saper fare tutto, amiamo molto collaborare con gli altri, cosi si cresce musicalmente ed uma-namente e come in passato abbiamo collaborato con musicisti e cantanti adesso è stata la volta di coinvolgere autori e compositori!

Sulla pagina ufficiale di Facebook avete realizzato geniali “spot” sui singoli brani, che cosa rappresentano?Queste “pillole” volevano essere un conto alla ro-vescia dall’1 al 14 marzo (vigilia dell’uscita dell’al-bum), un brano al giorno da cui estrarre qualche

breve frase del testo; li abbiamo girati quasi tutti in Spagna, fra la sera del 19 febbraio dopo il con-certo a Valladolid e la mattina del 20 all’aeroporto di Madrid. Sono stati fatti in modo molto veloce, improvvisato, “jazz” da me e Ferruccio e dal no-stro fonico (ed in questo caso anche molto di più) Alessio Lotti che ha poi curato anche gli effetti ed i montaggi. Sicuramente mostrano il nostro “gio-care” anche al di fuori della musica!

Pregi e difetti di Ferruccio.È affidabile. Su tutto: dall’intonazione (che in un contrabbassista non è una cosa scontata!) al tenere i contratti e i nostri archivi in perfetto ordine. Da quando è diventato papà ha anche più energia di prima, perché si è finalmente reso conto che stare a casa con dei bambini piccoli è più faticoso di stare in giro in tour!

Cosa “rimandi” a domani?Mmm… quello che non riesco a fare oggi! (ad esempio mettere ordine)

MuSiCa NudaMagoni e Spinetti “complici” di un grande disco

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MuSiCa NudaMagoni e Spinetti “complici” di un grande disco

FERRUCCIO SPINETTI

Il nuovo album contiene tre cover, Mirza di Nino, Mon amour di H. Salvador e Feli-cità di Lucio Dalla perché la scelta è rica-duta proprio su questi brani?Da cinque anni frequentiamo la Francia in ma-niera assidua, per questo motivo abbiamo deci-so di fare un omaggio a due grandi artisti fran-cesi, come del resto era già successo in passato con Brel e Nougaro. Felicità invece, è un pezzo che suoniamo dal vivo da un po’ di tempo e ci piaceva chiudere il cd con un pezzo che è per noi come una finestra aperta sul futuro.

Come è stata la fase della scrittura e com-posizione “a quattro mani” durante la la-vorazione dei brani Cinema e Professiona-lità?Avevo scritto Cinema al pianoforte per gli Avion Travel ma all’epoca non siamo riusciti a dargli una forma di canzone. Petra ha avuto questa intuizione sul testo e cosi ho cercato di

tradurre gli accordi dal pianoforte al contrab-basso. Professionalità è nata perché due anni dopo aver acquistato casa (mutuo a venti anni) pensavo d’aver risolto tanti problemi ed invece incominciavano per via della poca professiona-lità di idraulici, muratori, antennisti. Poi con-frontandomi con Petra è stato facile chiudere il testo dato che la mancanza di professionalità regna sovrana nel nostro paese.

Carina l’idea di produrre anche il disco in vinile, come mai questa scelta “vintage”?L’avevamo già fatto con 55/21. È un altro modo per far capire come ci piace fare musica ispi-randoci a periodi in cui fare un disco era una cosa seria e per chi lo acquistava, il momento di aprirlo ed ascoltarlo era una sorta di rito. Oggi la musica è “uso e getta” e a noi non piace cosi.

Quali sono i punti di contatto e le evolu-zioni stilistiche tra il primo album Musica Nuda e Complici?Prima di tutto il contatto è che non a caso siamo tornati ad essere solo io e Petra su un cd. In passato spesso avevamo avuto ospiti strumen-tisti. Evoluzioni tante siamo cresciuti grazie a otto anni di duro lavoro. Più di cento concerti ogni anno ci hanno fatto mettere a fuoco meglio quello che siamo oggi.

Cosa è cambiato dalla prima volta che avete affrontato Roxanne dei Police?Maggiore forza e consapevolezza dei nostri mezzi e riconoscibilità del marchio Musica Nuda tra gli addetti ai lavori e nel pubblico. Oramai esistiamo come gruppo cosi come i Dik Dik o la PFM.

Che cosa ti ha lasciato l’esperienza vissuta con gli Avion Travel?Tanto. Quindici anni indimenticabili. Con loro ho imparato a stare su un palco e soprattutto anche l’approccio alla composizione e alla scrit-tura di una canzone.

Pregi e difetti di Petra.Energia, forza, testardaggine. Quest’ultima for-se a volte può essere anche un difetto.

Cosa “rimandi” a domani?Curarmi da un’influenza. Ieri ho dovuto suona-re con trentanove di febbre.

Giuseppe Arnesano

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PRIMAL SCREAMScreamadelica-20th Anniversary Deluxe Edition Sony

Nella mia personale lista dei dischi da isola deserta, Screa-madelica si incastra perfetta-mente tra Bitches Brew di Mi-les Davis e Metal Box dei P.I.L. È un album che quando uscì per la prima volta, nel settem-bre del 1991, cambiò radical-mente l’opinione di molti verso la band fondata da Bobby Gil-lespie all’indomani della breve militanza come batterista nei Jesus & Mary Chain. Il lavoro di un team di cervelli in stato di grazia coordinato dal pro-duttore-Dj Andrew Weatherall, all’epoca non ancora trentenne. Una squadra con una visione della musica aperta a 360°: il rock’n’roll e i suoni della rave culture, i Velvet Underground in versione elettronica per la generazione che cominciava ad apprezzare gli Orb e guardava a Manchester come alla terra promessa dello sballo acid hou-se. A riascoltarlo oggi, si scopre che non è invecchiato per nien-te (ecco l’arcana alchimia delle opere immortali: apparterran-no sempre al presente e so-prattutto al futuro!). L’edizione del ventesimo anniversario è doppia nella versione standard (packaging in deluxe vinyl re-plica, il Dixie Narco EP come bonus), quadrupla in quella per feticisti impuniti (box rotondo formato 12” con l’inedito Live in L.A., un disco di remix, Dvd, doppio vinile, booklet di 50 pa-gine, t-shirt, cartoline, etc.). In-

teramente curata da Gillespie e dal suo socio storico Andrew Innes insieme a Kevin Shields (My Bloody Valentine) è pura gioia per le orecchie: “I was blind, now I can see / You made a believer, out of me…” Il viag-gio per il paese delle meraviglie comincia con Movin’ on up ed è davvero come tornare a vedere dopo un lungo periodo di cecità. Una pietra miliare scagliata in faccia a chi ieri sbavava per i New Kids on the Block e oggi si fa le pugnette per i divi di poli-stirolo di X Factor.

Nino G.D’Attis

ANNA CALVI Anna Calvi Domino

Fedele alla tradizione blues che nacque dal patto col diavolo di Robert Johnson, l’italo-inglese Anna Calvi scrive un folgoran-te esordio che pare esorcizzare i demoni del suo inferno perso-nale. Nonostante i pertinenti paragoni con Patty Smith, Siouxie, PJ Harvey o Beth Gib-bons, per una volta possiamo tranquillamente sbilanciarci: è nata una star che ha classe da vendere. L’intensità dei brani e la singolare personal-ità dell’autrice superano ogni citazione. La voce della Calvi e il suo twang di chitarra vibrano di sensuali movenze blues, co-noscono Edith Piaf, il fuoco del tango, incrociano i toni epici dei western morriconiani con le atmosfere noir di Badalamenti (First We Kiss, The Devil). Si alternano sonorità spettrali ad esplosioni spectoriane con

poche concessioni all’odierno pop da classifica, tranne forse Blackout, la splendida Desire, o la conturbante Suzanne And I, un numero da pelle d’oca che potrebbe essere la sigla di un immaginario film di James Bond. In un album dove ogni sospiro o rintocco è calibrato alla perfezione, Love Won’t Be Leaving porta i titoli di coda chiudendo il viaggio in una sintesi magistrale dei diversi moods. Altamente consigliato l’utilizzo del tasto repeat del lettore (tdo).

AUTECHREEPS 1991 - 2002 Warp

Cinque ore, trentanove minuti e cinquantanove secondi di pa-esaggio urbano contemporaneo che diventano il tempo di un lungo sogno di scenari alieni, silhouettes compresse dal mo-vimento, immagini mosse con-tro la nitidezza teutonica dei padri (Kraftwerk, Tangerine Dream). Il marchio Autechre, creato da Sean Booth e Rob Brown, rispolvera il catalogo degli EP in un cofanetto nero che comincia cronologicamen-te con Cavity Job (finora mai pubblicato su cd) e arriva fino a Gantz Graf del 2002. Cinque ore e passa di tensioni e in-crespature ombrose, di tempi dispari che da soli fondano la soundtrack di un film imma-ginario tutto intrighi, luci not-turne, dialoghi asincroni che non coincidono con il labiale. Musica di macchine che cen-trifugano in una alterazione/

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dispersione di effetti le scorie del passato (synth-pop, hip-hop, Clock DVA, Eno e Ligeti) per distillare partiture adatte al nuovo millennio. Gli Autech-re affrontano la materia musi-cale così come dovrebbe essere più spesso affrontata: raddop-piamenti, decalcomanie alla Oscar Domìnguez, lame di ra-soio che spaccano pupille (pas-sando attraverso l’orecchio), cupezze techno-industrial in occasionale rapporto simbiotico con melodie abissali. L’arco di tempo preso in considerazione da questa raccolta della Warp è sicuramente il migliore nel-la produzione del duo inglese: dopo verranno i momenti di calma piatta (in particolare Quaristice, uscito nel 2008) e bisognerà attendere Oversteps (2010) per ritrovare almeno in parte lo stesso fervore creativo.

Nino G. D’Attis

REM Collapse Into Now Warner

Ogni volta che esce un album dei Rem incrocio le dita aspet-tando una svolta epocale tipo Automatic For The People o magari Monster. Poi, invece, è sempre la stessa storia: ti sembra di ascoltare un frul-lato di brani già noti con le strofe di questa vecchia can-zone appiccicate al ritornello di quell’altra. Non fa eccezione questo Collapse Into Now che però non può essere liquidato in due righe, infarcito com’è di grandi canzoni (Uberlin, Dis-coverer, Oh My Heart, Me Mar-

lon Brando e Blue, il sugges-tivo duetto con Patty Smith). Diciamo quindi che il lavoro aggiunge un pugno di canzoni nuove alla nutrita discografia della band di Athens, senza preoccuparsi però di ricercare atmosfere inedite o di innovare uno stile che è ormai un mar-chio di fabbrica. Dopo una brillante carriera trentennale, amiamo questa band al punto da potergli perdonare qualche uscita “minore”. Ed è per ques-to che l’attesa per il prossimo album è appena cominciata (tdo).

PJ HARVEYLet England Shake Island

Dopo l’abrasività degli esordi, una serie di camaleontiche mutazioni e l’abisso introspet-tivo di White Chalk, PJ Harvey ritrova nuova luce e dedica un ciclo di canzoni al significato di esser British. Non era facile immaginare in che direzione avrebbe sterzato Polly, che ha sempre arricchito il guardaro-ba con i colori della sua anima, spesso anticipando tendenze musicali o spiazzando ogni previsione. Stavolta si tratta dei colori della campagna, di vecchi villaggi e campi di battaglia. Let England Shake parla di guerra, ma la narra-zione, spesso sorniona, procede con leggerezza e freschezza di modi. Le melodie rimandano alla tradizione folk, alcune potrebbero ricordare Bjork o Kate Bush (On Battleship Hill), altre sembrerebbero us-

cite dal disco maturo che le Cocorosie non hanno ancora inciso (Written On The Fore-head). Polly Jean strimpella l’autoharp e canta le sue evoca-tive storie in musica, senza mai dimenticare come si incolla una melodia all’orecchio. The Glori-ous Land è un ipnotico viaggio su una locomotiva dall’incedere krauto (con la tromba che suo-na l’adunata nordista), Hang-ing In The Wire non è troppo distante dalla malinconia Yo La Tengo, mentre Colour of The Earth recupera tamburelli e cori da falò fricchettone, rical-cando il mood di bands come Akron Family e Bowerbirds. Un’inedita PJ che ci sorprende con l’ennesimo grande disco. Una vera fuoriclasse (tdo).

JAMES BLAKEJames BlakeAtlas/A&M

L’era post del dubstep è comin-ciata. Se il singolo Limit To Your Love, la cover di Feist, era stata la sorpresa del 2010, James Blake, il primo LP, può essere facilmente definito uno dei più importanti di questo 2011. In un solo anno e mezzo, James Blake, classe 1989, pro-veniente dalla zona South-East di Londra, ha attirato su di sé l’attenzione del mondo. Merito del suo modo tutto nuovo ed intrigante di coniugare i suoni duri della dubstep, corrente musicale della sottocultura inglese dub, dove il raggae in-contra l’elettronica e ormai di moda in tutto il panorama mu-sicale (pare che anche il nuovo

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album di Britney Spears sia influenzato dalla dub) con uno strumento classico per eccel-lenza, il pianoforte. Tutto dalla stanza di casa grazie ad un lap-top. Il risultato è un insieme di undici canzoni in cui il suono del pianoforte viene destruttu-rato e ricomposto in un nuovo sound. La ciliegina sulla torta è la sua voce a tratti soul che viene spezzata dal sound elec-tro, senza perdere di incisività, Lindesfarne è l’esempio più riuscito. Insomma quest’opera prima sembra mantenere tutte le aspettative che si avevano sul giovane talento. Con lui il dubstep sembra essere defini-tivamente sdoganato per un pubblico meno black. Post ap-punto.

Pierpaolo Rizzo

SUBSONICAEdenEmi

Eden. Mica tanto. Tra i fan dei Subsonica è già partito lo scon-tro. Chi suggerisce un ascolto più attento, chi lo cestina au-tomaticamente, chi vuole tro-vargli una bellezza particolare, chi arriva a piangere la fine di una grande band. Eden è con-troverso, è irrisolto, è ciò che, dopo sei album, non ci aspetta-vamo dai Subsonica. L’eclissi, del 2007, correva nella direzio-ne contraria: atmosfere cupe, testi intensi, melodie riuscite. Eden cerca invece la luce, la melodia pop e di buon gusto, ma fallisce. Cade giù negli in-feri, o più semplicemente nel dimenticatoio. Non è un album

che si riascolta con piacere, e, attenzione, non perché sia più pop degli altri. È che il pop va fatto bene, è che pop non è si-nonimo di vuoto e di anonimo.

Anticipato da diversi brani disponibili per il download da Itunes, l’album ha, già dal primo singolo, l’omonimo Eden, deluso tantissimi fan.

In modo un po’ silenzioso e inaspettato, ma con nostra grande gioia, Michele Salvemini, in arte Caparezza, torna dopo tre anni con un nuovo album (e tornerà a Lecce il 23 aprile al Palafiere), Il Sogno Eretico, composto da sedici tracce bril-lanti e pungenti. Il tema dell’eresia, presente da sempre nella produzione dell’artista, diventa ora centrale e viene analizzato in tutte le sue manifestazioni: religiosa, politica, culturale, musicale. Una carrellata di personaggi storici, da Galileo a Giovanna d’Arco, ci guida, infatti, in un percorso di convinzioni e libertà negate, di impossibilità di espres-sione e progresso. I testi sorreggono come sempre l’intera struttura del disco, risultandone la vera forza trainante; un sapiente uso dell’ironia genera una satira intelligente e salva da luoghi comuni; gli arrangiamenti sono caratter-izzati da varie contaminazioni, passando dall’elettronica al rock al reggae. Tutto come sempre insomma, e il problema è proprio questo. Nonostante i pezzi scorrano in modo pi-acevole, tutto è un po’ troppo prevedibile, tutto è come nei precedenti album. Niente di nuovo viene aggiunto, nessuno dei particolari e divertenti spunti di Le Dimensioni del mio caos viene ripreso, e la sensazione è un po’ quella di tornare indietro, a Verità Supposte, del 2003. Tra le tracce spiccano comunque Chi se ne frega della musica, la medie-valeggi-ante Sono il tuo sogno eretico, Cose che non capisco, forse la migliore, e Goodbye Malinconia, il singolo di lancio, con la curiosa collaborazione di Tony Hadley degli Spandau Bal-let. L’altra collaborazione è poi con Alborosie, nella più che mai esplicita Legalize the premier. L’album insomma non deluderà nessun vecchio fan dell’eretico rapper pugliese; c’è da dubitare però che ne porti di nuovi.

Daniele Coluzzi

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CAPAREZZA Il sogno ereticoUniversal

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È un pezzo difficile, poiché è difficile trovargli la bellezza che, per fiducia, vorremmo tro-vargli. In realtà non è un gran pezzo. Se lo si ascolta più volte lo si apprezza un po’ di più, ma la storia finisce lì. Non rimane, scivola via. La stessa cosa per Istrice, il secondo singolo, con vuoti d’arrangiamento così evidenti da somigliare ad una versione demo, o Prodotto in-terno lurido, invettiva sociale poco convincente. Apprezzabili grazie a qualche ascolto in più, noiosi subito dopo. Buone invece Il diluvio, più vicina ai vecchi lavori, e Serpente. Il pez-zo migliore, che vale davvero la pena ascoltare, è però Ben-zina Ogoshi, scritta con l’aiuto dei fan attraverso lo scambio di mail e consigli. Come recita il pezzo stesso, i Subsonica “non sono riusciti a bissare Microchip Emozionale”. De-cisamente. In questo pezzo l’ironia, benché riuscita, non aiuta; mettere le mani avanti nemmeno. L’album riceve delle critiche, il gruppo lo sa, cerca di scherzarci su, ci riesce an-che. Ma il risultato finale è pur sempre quello. Eden rispecchia il problema della musica ita-liana di oggi: avvicinarsi ad un sound più pop non significa scendere a compromessi, scen-dere di qualità. Cercare una certa orecchiabilità non signifi-ca automaticamente perdere di intensità. Non è un discorso così facile, e chi se ne frega se si è meno o più commerciali. L’importante è realizzare qual-cosa di bello, e questo album non è bello. È un Eden insi-curo, un Eden mal riuscito, che scivola via molto, molto presto.

Daniele Coluzzi

LOVE INKS E.S.P. Hell Yes!/City SlangOttimo esordio per questo trio texano capitanato dalla can-

tante Sherry LeBlanc. Qui si gioca con la drum-machine per stendere un tappeto pulsante su cui poggiano melodie dream-pop. Il basso sempre in primo piano, la struttura minimale dei brani e le voci riverberate ricordano un po’ i celebrati The XX, ma qui gli strumenti hanno la meglio sulle parti sin-tetiche e le melodie pescano nei Sixties più che negli Eighties. I brani hanno un potenziale “radiofonico” lievemente infe-riore rispetto alle hits dei su citati inglesi. E in effetti ciò che manca per rendere per-fetto questo E.S.P. è proprio una manciata di singoli che lo rendano memorabile, magari un ritornello o due da portarsi dietro per giorni. Proprio per questo, mentre ascoltiamo con piacere, attendiamo fiduciosi il prossimo giro di boa (tdo).

CASA DEL MIRTO 1979 Mashhh!

Marco Ricci è un musicista di Trento e la sua creatura Casa Del Mirto è già stata notata dal prestigioso quotidiano in-glese The Guardian che lo ha inserito tra i migliori dischi di marzo. Tra momenti più dila-tati e rarefatti (The Haste), ballate acustiche (Pain in my hands), brani più aggressivi (I Know), evocative stratifica-zioni di suono (Life Is A Mess) e tanto pop venato di psichede-lia, quest’album di chillwave va giù fresco come un bicchier d’acqua conquistando un posto di rilievo al fianco di artisti

come Neon Indian o Ariel Pink (tdo).

L’ALTRATelepathic Aquarela Records

Il duo di Chicago formato da Lindsay Anderson e Joseph Desler Costa ci regala una buona raccolta di ballate che alternano musica da camera, sonorità intimiste e arrangia-menti più complessi e barocchi. Le canzoni sono segnate da at-mosfere vagamente psichedeli-che e da un umore crepuscolare che affonda le radici dentro gothic rock, synth-pop (Noth-ing Can Tear It Apart, When The Ship Sinks) e folk (This Bruise, Telepathic), ma le me-lodie e la doppia voce eviden-ziano un’anima profondamente pop. Tra gli ospiti dell’album, membri di Telefon Tel Aviv e Bonnie Prince Billy (tdo).

ERLAND AND THE CARNIVALNightingaleFull Time Hobby

Gli Erland and The Carnival non sono una band emergente. Dietro a questo progetto infatti ci sono personaggi che vivono nel panorama musicale inglese

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da anni, primo fra tutti Simon Tong, cofondatore dei Verve e collaboratore di Blur e The Good, The Bad & The Queen. Il primo disco omonimo della band (datato 2010) era una ma-nipolazione in chiave moderna di classiche melodie folk inglesi e scozzesi, con un risultato fi-nale degno di ascolto. Questo secondo Nightingale invece, pur partendo da quelle stesse basi, si arricchisce di elettroni-ca elegante creando un perfetto mix tra folk tradizionale, atti-tudine brit e ricerca sonora. In-oltre l’intero disco è stato reg-istrato nella stiva di una nave ancorata sul Tamigi. Roba da bucanieri del terzo millennio.

Marco Chiffi

THE VACCINESWhat did you expect from The Vaccines?Columbia Records

La band nasce lo scorso anno a Londra da quattro poco più che ventenni. Il chitarrista è il fratello di uno dei The Hor-rors. I riferimenti ammiccano a Strokes ed Editors ma si svi-luppano più sulla scia diretta di Ramones e tutto quel garage rock 50/60. Sembrano i fratelli ubriachi dei Glasvegas. Con questi ingredienti un po’ di pre-giudizi ci sono, ammettiamolo, non verrebbe di scommettere su un secondo o terzo disco dei Vaccines. Eppure ascoltando quest’esordio non sembrano gli ultimi arrivati. Pezzi come If You Wanna, Norgaard o l’open track Wreckin’ Bar (Ra Ra Ra) non possono lasciarti seduto

sul divano, i ritmi travolgono e le melodie restano. Insomma, se vi piace il genere, ne sen-tirete parlare presto e a lungo.

Marco Chiffi

KIPPLEThe Magical tree & the land of plentyI Dischi del MinolloUno di quei dischi che non im-porta sapere da dove viene e come è stato fatto. Roba da feti-cisti quella o che ha a che fare con altri mondi musicali. Kip-

ple è un progetto con davvero qualcosa di serio, vivo e fluente alle spalle, uno sguardo inte-riore e lento a cui è stato dato il nome di Baby kisser baby killer, On Cloud nine e Missing children day. Rievocare nomi di valore indiscusso come Cocteau Twins non può che essere un grande complimento, visto che poi il disco è così ricco di sfuma-ture e di buone idee (Fisting, Ex-boyfriend) che non vale la pena sprecare così tanto fiato e ascoltare, ascoltare con cura.

MuSiCa

Il nuovo album dei Radiohead abbandona la fisicità dell’ultimo lavoro In Rainbows, per rivisitare le sonorità di Kid A e Amnesiac (Codex) in una forma canzone circolare sempre più inconsistente. La prima metà dell’album esplora una percussività frenetica basata su stratificazioni ritmico/melodiche che fanno da tappeto alla voce di Yorke, qui più eterea che mai. La lezione è la stessa di Remain In Light dei Talking Heads (e Brian Eno) rivisitata con sonorità con-temporanee. Niente di nuovo, dunque, in casa Radiohead, a parte qualche percussione che aggiunge un sapore latino alla materia sonora (Bloom). Tom non canta motivi memo-rabili neanche quando il tono si fa pastorale in Give Up The Ghosts. Il singolo Lotus Flower è forse l’unica eccezione che ricalca il sound “pieno” di In Rainbows, mentre Separator riserva un’inattesa apertura melodica, ed è di nuovo luce. Il “pregio” del disco sembra essere la sua assoluta impalpabil-ità. Dura 37 minuti, necessita ascolti ripetuti, ma non resta impressa neanche una canzone. Come se fosse un album di musica ambient cantata, è destinato a risuonare come sot-tofondo, si presta ad ascolti distratti, è musica sfuggente. Se questo era l’intento di Yorke e soci, l’esperimento può dirsi riuscito, ma personalmente considero questo lavoro un passo indietro nel percorso discografico di una grande band.

Tobia D’Onofrio

RADIOHEAD The King Of Limbs XL Recordings

Tra i nomi da tenere d’occhio per i mesi a venire, l’esordio dei Kipple è un disco bello e finito, altro che demo. Complimenti e alla prossima.

Al Miglietta

ROBERTO GIORDI Con il mio nomeOdd Times Records/ Egea

Con il mio nome non è solo il titolo del disco di esordio del “giramondo” Roberto Giordi, ma è anche quello del primo brano che inaugura il raffinato album. Il preludio alle succes-sive dieci tracce, si apre con un’incalzante e coinvolgente “sonorità” jazz. Anche attra-verso una ritmica swing, che ben sostiene la ferma voce di questo introverso cantautore napoletano, approdiamo deli-catamente su romantici ed a tratti malinconici fraseggi mu-sicali pop. Questo variopinto viaggio d’esordio, nel cuore della cultura musicale euro-pea e d’oltreoceano, continua e Roberto colora i suoi brani con altrettante sfumature latino-americane; più frizzanti e cor-ali risultano, invece, le compo-sizione ed i duetti con deliziose voci femminili cadenzate in un’allegra bossa nova. Il disco contiene una “chicca”, ossia una calda e passionale reinter-pretazione in lingua originale di un brano di Astor Piazzolla. Quella di Michelangelo Gior-dano in arte Roberto Giordi è una discreta e melodica “prova del fuoco” sentimentalmente vissuta e professionalmente musicata.

Giuseppe Arnesano

MAFALDA ARNAUTHFadasEgea distribution

È la tipica artista che per us-cire dai confini della sua terra è ritornata all’origine di questa terra, alle radici, alle note ma-linconiche del fado, ai suoni dolci che hanno l’odore del Por-to. Lei nasce a Lisbona e comin-cia la sua carriera come can-tante quasi per caso. Ora il suo talento è apprezzato non solo in Portogallo, ma anche in Euro-pa. Questo nuovo album, com-posto da dodici tracce, è dedi-cato alle donne, e all’universo femminile. Affiancata da uno straordinario cast di musicisti internazionali - Luís Guer-reiro (chitarra portoghese), Luís Pontes e Ramón Maschio (chitarra classica), Fernando Júdice (basso acustico), Pedro Santos (fisarmonica), Daniel Salomé (fiati) e Davide Zacca-ria (violoncello) - reinterpreta in maniera personale canzoni, delle personalità femminili fa-diste che l’hanno ispirata nel suo percorso. “In Fadas – spie-ga Mafalda – ho deciso di can-tare alcune di quelle voci, don-ne uniche, magiche, che in al-cuni casi ho avuto il privilegio di conoscere e altre che non ho conosciuto, ma che sono state allo stesso modo cruciali per la mia crescita ed evoluzione come fadista”. Una creazione per orecchie decisamente sen-sibili e viaggiatori dell’anima.

Roberta Cesari

MASCARIMIRÌGitanistanDilinò/Anima Mundi

Non sono un grande intenditore di musica popolare e di quella salentina in particolare. Cre-do che molti gruppi e musicisti abbiamo “cavalcato l’onda” sen-za apportare nulla di nuovo (e neanche di vecchio) allo studio, alla riscoperta e alla ripropo-sizione della pizzica e della ta-ranta. Premessa indispensabile per apprezzare, invece, il lavoro svolto da Claudio Cavallo Gia-gnotti e dai Mascarimirì. Oltre dieci anni di carriera e di mu-sica che amano definire punk dub tarantolato. Cavallo è un nomade, ha origini rom, e dalla sua Muro Leccese propone mu-sica che parte dal Salento ma viaggia lontano. La sua nuova creatura è Gitanistan, che non è solo un cd ma un progetto molto ampio che va avanti da un paio di anni e che ci consegna un af-fascinante cammino tra le musi-che da danza del Mediterraneo che hanno subito influenze Rom. “Gitanistan è un disco “tradizio-nale”, precisano i Mascarimirì, “nel senso che noi diamo al ter-mine, capace, cioè, di parlare con gli strumenti tradizionali di oggi, come il computer, i distor-sori e le effettistiche, perché qui la Tradizione è viva e ci permet-te ogni giorno di assaporare i suoni e i colori di una terra forte ed unica come il Salento”. Di-ciassette brani tra pizzica, suo-ni andalusi, strumenti occitani, tammurriate, falmenco, fanfare balcaniche che vedono l’incontro tra i Mascarimirì e numerosi ar-tisti come Nux Vomica, Dje Ba-

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leti “Gigi D Nissa” Spina, Manu Theron, Arnaud Fromont dei “D’aqui Dub”, Sam Karpienia, Jagdish Kinnoo, Anna Cinzia Villani e molti altri. Un disco da ascoltare per entrare in que-sto paese, Gitanistan, che vuole “più razze, più colori”. C’è un Salento che ha paura e fa la cac-cia al diverso, c’è un Salento che accoglie e si mescola, almeno in musica (pila).

PLAY ON TAPEA place to hideRivolta records

Da tempo non si sentiva, da queste parti, una band con l’at-titudine di un gruppo. Mi spie-go, mi riferisco a quella strana sensazione che si ha quando si ascolta un disco, sempre più rara, in cui sembra che tutti i musicisti si muovano nella stessa direzione, siano immersi nella stessa materia sonora. E non è poco. Poi c’è la musica. I Play on tape sono la via di uscita dalla melma anni ‘90 in cui sembra essersi intrappola-to molto del nuovo rock. Sfac-ciatamente connotabili in un’ “onda nuova”, hanno il pregio di avere il suono del momento, di suonare quello che in Europa e nel mondo ragazzi della loro età amano ascoltare. Mi riferi-sco al sound di band come Whi-te lies o Interpol senza perdere di vista una certa spinta alla Placebo e l’eredità dei Joy Di-vision. Tra le maglie dei sinth si sente una certa influenza Kraut, e in alcune inflessioni vocali l’amore per i Cure.

Osvaldo Piliego

LENULA LenulaPelagonia MusicLa musica dei Lenula è impa-stata di fumo e alcol, crepuscoli blues, progressioni lisergiche, cabaret decadente. La band di Villa Castelli ha un colore pia-cevolmente retrò capace di con-ciliare tinte più forti e claustro-fobiche ad ariose aperture. A questo si accosta una tendenza verso un cantautorato insolito contraddistinto da una voce matura che delinea il carattere dell’intera band, un trio in stile

Doors capace di scrivere canzo-ni che già convincono. (O.P.)

AA.VV.Quisalento CompilescionGuitarNel panorama editoriale salenti-no da dieci anni a questa parte c’è una certezza e si chiama qui-Salento, un mensile (quindicina-le nel periodo estivo) che si occu-pa di eventi (una specie di bibbia per i turisti) ma non solo. Nelle sue rubriche il giornale presenta e accoglie riti, sagre, percorsi tu-ristici, personaggi da conoscere,

Se gli chiedi quale musica preferisce ascoltare, ti risponderà quella americana, “perché quella occidentale e inglese è paranoica”. Il suo sogno nel cassetto? Dirigere la tetralogia di Wagner. I suoi fan dice che si chiamano Branduardians e La fiera dell’est l’ha reso immortale perché cantata negli asili, dove la gente neanche sa chi è Angelo Branduardi. In-somma noi abbiamo ben capito di chi si parla. Branduardi, in ordine con questo suo mondo diversamente ordinario, e con la genialità dei suoi capelli, torna a proporre un nuovo lavoro. Così è se vi pare. Pirandelliano e sarcastico esprime il suo vo-ler remare contro ad un mondo che sa sempre ben raccontare. E riesce a farlo in sole sei tracce, perché come lui stesso dichiara: “Col passare del tempo sono diventato sem-pre più esigente con me stesso. Monto e smonto il giocattolo, come i bambini finché non mi piace. Meno c’è, più c’è!”. In pieno stile Branduardi, il cd costerà solo 9,99 perché il suo intento è quello di rendere accessibile la musica per avvici-narne sempre più gente. In pieno stile Branduardi non fa una piega. Così è, se vi pare.

Roberta Cesari

ANGELO BRANDUARDICosì è se vi pareEmi

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musica, cinema, arte. In molti sono (e siamo) passati da quelle colonne, palestra di giornalismo culturale e “territoriale”. In mol-ti in questi anni hanno deciso di allegare il proprio cd, libro, do-cumentario al giornale. Così per i dieci anni di vita del giornale, nato dall’esperienza e dalla fol-lia di Roberto Guido e Marcello Tarricone, quiSalento propone in allegato un cd con venti pez-zi che ospitano il meglio della produzione “etnica” di questi anni. Dai Kaus Meridionalis (con La quistione meridionale, pezzo scritto da Rina Duran-te per il Canzoniere Grecanico Salentino), ai Ghetonia, dagli Zoè ai Menamenamò passando per il reggae di Sud Sound Sy-stem e Treble, il balcan degli Opa Cupa, il mediterraneo di Bandadriatica e Mascarimirì, l’elettronica degli Insintesi, sino a giungere al cantastorie Mino De Santis, solo per citarne al-cuni. Per festeggiare i dieci anni quiSalento ha organizzato una festa per venerdì 15 aprile ai Cantieri Koreja per discutere di quello che è stato e di quello che sarà (pila)

PELUCHERIA HERNANDEZHamaresqueAudiar/Radiocoop

I Calibro 35 hanno sicuramente riacceso i riflettori sulla musi-ca cinematica e strumentale made in Italy e l’interesse nel pubblico di indie chic del nuo-vo millennio. Una scuola che ha conquistato il mondo intero e che ancora oggi continua ad

affascinare ascoltatori e registi. Ed è così che la fantasia di un disegnatore come Mauro Mar-chesi mette su una band per co-lonne sonore di film immagina-ri. Pelucheria Hernandez è un gioco musicale fatto di rimandi dove le balere accennano al surf, giogioneggiano con assola-te ambientazioni mariachi per poi sorprendere con sferzate più post alla Morphine. Un gran di-sco, buon divertimento. (O.P.)

EXPLOSION IN THE SKYTake care, take care, take careTamporary Residence LtdRitornano gli Explosion In The Sky con Take care, take care, take care album che conserva lo stes-so spirito dei precedenti. I brani sono autentiche esplosioni in un’innata calma, passano dalla solitaria e logorante malinconia alla violenza più totale, ognuno sembra un’attenta riflessione

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Roma, una sorridente balena gonfiabile si aggira indisturbata nelle rumorose acque di fontana di Trevi. Qualche giorno fa la giovane Valentina Gravili ha presentato il suo quarto album intitolato La Balena nel Tamigi. Sonorità affascinanti e com-posizioni “rockettare” sostengono ritmicamente la scrittura fresca e contemporanea abilmente enfatizzata dalla fluida ed accattivante voce della cantautrice brindisina.

Sei al tuo quarto lavoro discografico cosa ci racconta La Balena nel Tamigi?La Balena racconta di bimbe brillanti che hanno rinunciato ai propri sogni, di città spietate, di amori che lasciano il vuoto e di necessità a cui l’amore da solo non può provvedere, come l’affit-to da pagare o l’inarrestabile esigenza di riconoscere la malafe-de che si nasconde dietro le cose che ogni giorno ci raccontano e ci propongono. Ma parla anche della fiducia nella gente, della follia che ti aiuta a sopravvivere e che ti fa vedere la bellezza anche lì dove non c’è, delle piccole e magiche gioie quotidiane, delle grandi imprese che l’arte può compiere.

Titolo vagamente “surrealista” ci spieghi come nasce

valENtiNa Gravili

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su un’opaca realtà. Last Known Surroundings e Trembling Han-ds sfoggiano una più completa maturità. Ascoltando si fantasti-ca su sensazioni intime, cullati da un suono spontaneo che si ripete costante e, usando un loro vecchio brano, sembra di trarre il “primo respiro dopo il coma”. La malinconia si insinua nella pla-cida calma con chitarre distorte che sostituiscono un effluvio di parole. Be Comfortable, Creatu-

re e Human Qualities hanno un più alto impatto emotivo in cui la melodia sognante è interrotta da sprazzi di lucidità. Let Me Back In e Postcard from 1952 rinnova-no l’invito del titolo a prendersi cura di sensazioni fuori controllo che spesso emergono solo con la musica.

Ofelia Colaci

SEAHOUSET.e.dLa casetta produzioniSeahouse è un luogo, una casa fatta di musica dove amici vi-vono da anni il loro personale viaggio alla ricerca di un lin-guaggio nuovo capace uscire dagli schemi in cui la musica è abituata. Forse anche a questo allude ironicamente il titolo di questo nuovo T.e.d. (The emo-tional discount), un disco senza

l’idea del nome?Se bene quasi “onirico” in realtà una balena nel Tamigi è davvero esistita. Giunse nel 2006 nelle acque londinesi dopo aver perso il senso dell’orientamento. Così ho deciso di fare del po-vero cetaceo la metafora del senso di smarrimen-to che ci attanaglia in questo momento di crisi economica e di valori, in cui i punti fermi tipici di una società sana, come la scuola, la cultura, il lavoro o la stessa classe dirigente, vengono a mancare. Si brancola nel buio e ci si sente persi, appunto smarriti come una balena nel Tamigi.

A che punto è la tua “metamorfosi” artisti-ca?La metamorfosi non arriva mai a compimento, si passa semplicemente da uno stadio all’altro, oggi sono una balena ma dentro di me è già in atto una nuova trasformazione. Anche rispondere alle tue domande in questo momento mi sta cambiando.

In che modo vivi la scrittura durante la composizioni dei tuoi brani?Il momento della composizione è sempre molto stimolante, mi piace cimentarmi con la nostra bella lingua che offre soluzioni sempre nuove, con effetti inaspettati e originali. È per me fon-damentale comporre musica e testo contempora-neamente. Odio il finto inglese, perché ti conduce verso melodie già trite e ritrite mentre mettere in musica un testo già finito può dar vita a un “ef-fetto menestrello” piuttosto stantio e noioso. Solo quando parole e musica viaggiano di pari passo riesco ad essere soddisfatta del mio lavoro.

Cos’è cambiato dall’album Alle ragazze nul-la accade a caso a quest’ultimo?In comune c’è ancora uno staff di lavoro già col-laudato nel quale credo molto. Mi riferisco ad Amerigo Verardi, Max Baldassarre e Silvio Tri-sciuzzi, i miei produttori artistici. Questo nuovo

disco ha in se una vena psichedelica molto più accentuata, anche grazie all’utilizzo di strumen-ti insoliti come lo zither o il bouzouki. Nei testi della Balena ho rivolto lo sguardo verso l’esterno, mentre Alle ragazze era decisamente molto più introspettivo. Ora non amo più molto quello scri-versi “addosso”

Brindisina di origine ma romana di adozio-ne, com’è il tuo rapporto con la città eterna?La capitale offre tante possibilità, specie per il mio lavoro, ti sembra di avere tutto a portata di mano ma poi ti accorgi che il traffico ti blocca, gli spostamenti richiedono tempi esagerati, i rappor-ti con la gente restano superficiali e soprattutto mi manca il mio mare “come lui non c’è nessuno”!

L’iniziativa delle “balene nelle fontane italiane” ha coinvolto città come Roma, Milano, Torino e Lecce, ci dici com’è nata quest’idea e come è andata?Sta andando molto bene. L’idea è di un gruppo di ragazzi che dopo aver sentito il mio disco in ante-prima si è rivisto nella metafora della Balena nel Tamigi e mi ha proposto di creare un movimen-to che prende in prestito il titolo del mio album. Nella pagina facebook raccogliamo i pensieri di chi sente quel senso di smarrimento che abbiamo definito “sindrome da balena nel Tamigi”. Il grup-po si sta espandendo, spesso esce dalla virtualità di internet per prendere parte ad eventi come la manifestazione delle donne del 13 febbraio ed operazioni “simboliche” come quella delle Balene nelle fontane italiane, durante la quale misterio-se balene gonfiabili hanno perso la strada per il mare e si sono ritrovate a sguazzare nella Fonta-na di Trevi o in quella di Piazza Navona(potete guardare il video su you tube). Il 26 Marzo le ba-lene arriveranno a Milano, il 9 Aprile a Torino e il 23 Aprile a Lecce.

Giuseppe Arnesano

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tempo in cui caratteri musicali diversi riescono a condensare retaggi punk, psichedelia, tinte dark, rimembranze progressi-ve, tutto in chiave strumenta-le. (O.P.)

JOGGERThis Great PressureMagical Properties

Qui da noi nessuno se li è filati più di tanto, può succedere per carità. I Jogger spuntano fuori pescati da Daedalus e la sua etichetta, arrivano da Los Angeles e hanno le carte giu-ste per diventare un piccolo fenomeno nei mesi a venire. Il disco è del 2010, il titolo dà già un’idea precisa di sé prima an-cora dell’ascolto, oltreché molto attuale: una valanga di spunti, suoni, influenze accorpati con lo scopo preciso di dare ogni volta un sapore diverso. Le voci di Amir (chitarre, violino) e Jonathan (laptop, controller) non sono mai banali (Napping Captain, In America), e il taglia e cuci del duo ci regala canzoni come Gorilla Meat e Champing at the bit, fino al singolo davvero geniale Nephicide: un viaggio al-lucinato tra metal, Aphex Twin e Club 8, con tanto di video da ri-vedere per giorni. Dove li posiz-iamo sullo scaffale? Non ho idea, i ragazzi dimostrano un gusto fuori dal comune per fare un disco del genere, li aspettiamo a braccia aperte anche in Italia.

Al Miglietta

Succede, qualche volta, di far girare un disco e di doverlo ascoltare più volte prima di trovare la chiave per goderselo fino in fondo. E non perché sia difficile, ma perché l’iniziale resistenza deve avere il tempo di cedere a ogni brano, così da poter cogliere il tassello nascosto che ne riveli il senso e la bellezza. In The Dreamer, secondo disco da leader di Marco Bardoscia prodotto dalla My Favorite Records di Patrizio Romano, di quei tasselli ce ne sono parecchi. Intanto perché il contrabbassista salentino, ovvero il sognatore del titolo, lo ha permeato di quella sensibilità aperta e curiosa di cui era carico anche Opening, il suo bell’esordio discografico del 2007 su etichetta Jazz Engine. Poi perché ha confermato di possedere una vena compositiva ricca e matura che gli ha permesso di sviluppare il concept del sogno senza lasciarsi intrappolare nelle atmosfere rarefatte che il tema evocherebbe, ma dando al tutto un respiro vario, con cambi di velocità e di registro, passando da melodie dolci e tranquillizzanti ad altre più inquiete e rabbiose, come fosse lo stesso sogno che attraversa varie fasi nel corso di un’unica notte. Accompagnato da un organico di livello (che comprende anche Luca Aquino, Giorgio Distante, Gianluca Ria e gli amici con cui lavora ormai da anni e che con lui sono tra quei musicisti che stanno dando lustro e visibilità al jazz pugliese), Bardoscia mette insieme sette brani originali, più un’improvvisazione collettiva con effetti elettronici e un’audace rivisitazione del celebre standard Stella by Starlight, realizzando cinquanta minuti di musica ben scritta e molto ben suonata, e dimostrando di essere un abile solista, ma anche un leader capace di valorizzare il talento dei suoi compagni. Così, in Reve au petit sablon e 31-12-2009, si fa notare il giovane e brillante pianista William Greco; nelle fasi più malinconiche e inquiete di Chica y nano e Jet spicca il suono lirico e irrequieto di Raffaele Casarano; e poi c’è la gioiosa esplosione di Hallelujah per il mondo; ci sono i raffinati innesti della chitarra di Alberto Parmegiani, e il sempre ottimo sostegno ritmico di Fabio Accardi. Insomma, una seconda prova convincente, molto ben riuscita.

Lori Albanese

MARCO BARDOSCIAThe DreamerMy Favorite Records

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avaNti PoP Cinque brani di successo che piacciono anche a Coolclub

Radiohead - Lotus FlowerQualcuno dirà: e che c’azzeccano i Radiohe-ad con la parola pop? Bè, la risposta è che Thom Yorke e compa-gnia hanno contribuito alla costruzione della cultura popolare mu-sicale contemporanea e che, continuo a dirlo,

il loro contributo è a mio avviso ancora sottosti-mato. Perché i Radiohead sono artisti, più che musicisti; hanno scelto la musica ma avrebbero potuto dipingere, o fare i creativi. Lotus Flower, il suo video tarantolato, la strategia di promozio-ne di King of the Limbs dice tutto questo. E se fossero il gruppo pop per eccellenza?

Carmen Consoli - AAA cercasiIn molti aspettavano che questo brano diventasse singolo. E così è stato: il secondo estratto dal suo best of, Per niente stan-ca, inciso ben prima che scoppiassero scandali arcorini e dimore orget-tine, è apparso da subito

profetico, irriverente, impietoso. Non è un caso che Carmen Consoli sia diventata una delle eroine di Se non ora quando, la manifestazione corale con cui le donne (ancora troppo poche, e troppo di sinistra, purtroppo), hanno deciso di invertire la tendenza e provare a riprendersi la dignità.

Adele - Someone like youLa canzone dell’anno. Almeno per me. Pri-ma in Inghilterra da un mese nella clas-sifica dei singoli più venduti, è destinata a diventare un classico.

Adele è l’unica Diva dei nostri tempi. Provate a cercare la sua esibizione ai Brit Awards 2011 per una controprova. Le pubblicità fanno la fila per le sue canzoni, il suo nuovo album, 21 è sui livelli del primo (che, per inciso, è l’unico a cui ho messo un dieci in pagella nella mia carriera di mediocre recensore). No, non sono il suo ad-detto stampa.

Yasmin - On my ownPer una Diva che cre-sce, una mini-fenome-na fa il suo pezzo di strada. Con un singolo molto grintoso e un paio di campionamen-ti fatti bene, ognuno può avere diritto ai suoi quindici minuti di celebrità. E allora,

suvvia, concedetevi un ballo in compagnia di Yasmin, dj nata il 21 dicembre del 1988 a Gla-sgow, mandata in pista dall’etichetta del Mini-stry of Sound e adorata da Pete Tong ed Annie Mac. Poi tornate su Adele, ovviamente.

Robyn - Call your girlfriendUna sorprendente e co-stante crescita. Questo è il vero dato su Robyn. In fondo, è esplosa a 30 anni, dopo 10 di carrie-ra. Non è che aggiunges-se novità inaudite alla scena musicale. Scan-dinava tra scandinavi,

bionda tra bionde, electro-popper tra (troppo) electro-pop. Eppure, causa dipendenza. Da quando si è messa a battere la cassa in quattro sembra inarrestabile. E piace in mercati a mio avviso assolutamente sorprendenti: sono gli Stati Uniti, infatti, a galvanizzarla più di ogni altro paese del mondo, cara Svezia permetten-do, ovviamente.

Dino Amenduni

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James Blake - CMYK21 anni e già tutti ne parlano. Al liceo, men-tre si divertiva con se-quencer, drum machi-ne, pianoforti e com-puter, manda in giro un brano che è subito rilanciato da Gilles Pe-terson, un ponte sicuro

tra l’anonimato e il successo. La carriera è fulmi-nante almeno quanto la sua ascesa: pubblica tre EP nel 2011 e nei primi mesi dell’anno è già nei negozi di dischi. Ad aprile arriva in Italia, con un set che fa già registrare il tutto esaurito. Questo brano, tra l’altro, è veramente fortissimo.

Agoria - HeartbeatingSo che avere undici minuti liberi, di que-sti tempi, può essere un’impresa. Ma forse è il caso di ammortizzare il tempo di questa pic-cola suite post moder-na di Agoria (da Lione, Francia) e utilizzarla mentre vi preparate a

uscire, mentre cucinate, mentre vi lavate i denti, durante un tragitto a piedi prima di un colloquio di lavoro, dopo aver litigato fino alle lacrime con la vostra fidanzata. O in loop durante un viaggio in auto verso l’infinito.

Gil Scott-Heron e Jamie XX - I’ll take care of you

Prendi un poeta im-pertinente di 62 anni. Fagli fare amicizia con un arrangiatore im-pertinente. Prendi un album del 2010, I’m new here. Fai fare com-pagnia ai due creatori, fai trasformare l’Io in

Noi. Ne emergerà un album fresco come una rosa (“We’ll here now, appunto), pieno di spunti e di

scorci inediti come questa “I’ll take care of you”. Fossi nel poeta, mi farei arrangiare dall’arran-giatore vita natural durante. Cassa in quattro e pedalare.

Black Rose - AnthemIl progetto Black Rose tiene insieme due dj di fama internazionale: Jesse Rose e Henrik Schwarz. Da Berlino hanno fatto partire un anthem (inno) che sembra fatto apposta per i club che ospite-

ranno masse informi di informe umanità du-rante l’estate 2011. Questo pezzo, almeno per il momento, non sembra essere ancora stato conta-minato dal piacere di un brano e pur essendo a tutti gli effetti un potenziale tormentone dance, è così elegante e ben fatto da farsi apprezzare anche da orecchie un po’ pregiudizievoli.

Royksopp - The drugDifficile scegliere un solo brano del loro ul-timo album, Senior, uscito a brevissima distanza da Junior. Dopo un po’ di ascol-ti dell’uno e dell’altro non si fatica a preferi-re il “grande” al picco-lo”. The drug vince per-

ché è l’unico singolo pubblicato sinora e anche perché rappresenta il meglio della capacità dei Royksopp, decisamente più bravi quando si va sotto ritmo rispetto a quando tentano di fare i “divertenti” a tutti i costi. In ogni caso, se un duo fa due album così in un anno, merita rispetto e ammirazione a tempo indeterminato.

Dino Amenduni

daMMi uNa SPiNtaCinque artisti che ascolteremo in radio. Forse...

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Salto NEll’iNdiE

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WHitE Zoo

MuSiCa

Piccoli punk crescono. Quando andavo alle scuole elementari a carnevale mi vestii da punk. Insie-me a me c’era Sergio Chiari. Oggi lui ha aperto un’etichetta discografica, produce punk in vinile, di quello fatto bene, e io non posso fare altro che intervistarlo.

Mettere su un’etichetta discografica nel 2011 è una follia, figuriamoci poi se produce vini-li. Oppure questa incredibilmente è l’unica cosa che ha senso, l’unico modo di opporre resistenza alla scomparsa del genere disco dalla faccia della terra. Cosa ne pensi?È una follia sì, viviamo in un mondo abbastanza folle del resto. Per me è stato un processo piutto-sto naturale, da piccolo sognavo di comprare tutti i numeri del catalogo Earache o Alternative Ten-tacles. Comunque non sono un feticista del vinile, le differenze nella riproduzione della musica fra cd e vinile sono enormi e io spesso ho comprato en-trambi i supporti per lo stesso titolo. Da un pun-to di vista meramente commerciale oggi ha più senso produrre vinile che cd, se di punk si tratta. Ad ogni modo il vinile non scomparirà mai, l’indu-stria discografica se ne è accorta, mi pare.

Produci punk e affini, come ti giustifichi? Cosa pensi sia il punk in Italia oggi?Non credo di dovermi giustificare, sono figlio dell’elettricità e dei Ramones. Il punk mi ha segna-to nel modo di pensare. Da Kurt Cobain a Dj Hell sono in buona compagnia. Chiunque è stato conta-giato dal punk, anche senza saperlo. Con questa label volevo pagare un tributo alla mia formazione. Il punk rock in Italia oggi è più eccitante di quanto non fosse in passato, più band, più etichette indi-pendenti, meno politica e spocchia.

Le tue scelte pongono White Zoo fuori dal mercato ordinario, esiste evidentemente un altro mondo fatto di ascoltatori, collezioni-sti, gente che ancora va ai concerti. A chi si rivolge la tua etichetta?Mi piacerebbe tanto rientrare nel mercato ordina-rio e fare il salto commerciale. A parte gli scherzi, quel mondo al quale ti riferisci esiste da sempre ed esisterà sempre, è il classico zoccolo duro, ogni genere musicale ha il suo. D’altro canto mi pia-cerebbe che questa etichetta facesse scoprire un mondo a chi ancora non ne fa parte, come è suc-cesso a me in passato.

Avete scelto di stampare in vinile e di pre-stare molta attenzione alla grafica. Come nascono i vostri dischi?Siamo in tre “in ufficio”, affianco a me ci sono Cri-stina Diez e Stefano Materazzi, entrambi talen-tuosi grafici. Un ottimo disco con una pessima co-pertina equivale a un fumetto con una bella storia e dei disegni di merda. Cristina poi ha curato in-teramente la parte grafica del disco dei Transex, dove sulla cover potete ammirare dei loschi per-sonaggi leccesi, ha inventato il logo dell’etichetta ecc. Le altre band possono confermarti la nostra natura di grandissimi rompicoglioni in questo senso. Silver Cocks e Steaknives si sono affidati alle cure dei ragazzi del Daltonico Vision Studio, i Giuda a un eccellente grafico francese, Tony Cra-zeekid, che gestisce un meraviglioso blog sul glam rock, Crazee Kids Sound.

Ci parli brevemente delle vostre prime uscite?Absolutely! The Heart of the State dei Transex è un omaggio al punk rock primigenio e agli anni di piombo, pura provocazione, il loro cantante è il mio cattivo maestro Pierpaolo de Iulis e per questo tutte le copie sono state stampate chia-ramente in vinile rosa. Il disco dei Silver Cocks si ispira pesantemente al punk minore di oscure band dell’est Europa con un approccio più mo-derno, un disco punk e basta. Devil Inside degli Steaknives è una rasoiata che piacerà a tutti gli amanti dell’early hc californiano come ai fan del puro punk rock. Il disco dei Giuda, che dire, ho amato morbosamente i Taxi, gli avrei stampato anche una mazurka. Fortunatamente hanno sfor-nato il miglior disco di glam rock ballabile da qua-rant’anni a questa parte.

Cosa significa creare un’etichetta a Lecce?È la domanda più difficile. Amo e alle volte odio questa città, ma non la abbandonerei a se stessa per niente al mondo. Scoprire il punk rock e cer-care di viverselo a Lecce piuttosto che a Milano, a Londra, a New York, come potrebbe non inse-gnarti qualcosa? Creare un’etichetta qui equiva-le a non arrendersi e ad avere ancora voglia di provocare e di far riflettere. Mi alzo la mattina e spedisco un pacco in Svezia, uno in Giappone, ma alla fine dei conti sto sempre aspettando il giorno che mi si presenti qualche marmocchio alla porta di casa e con inequivocabile accentaccio mi faccia sapere che esiste.

Osvaldo Piliego

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È uscito da poco ed è già un caso editoriale, di quelli nati dal basso, dove i social network gio-cano un ruolo centrale. Su Facebook è nato un gruppo per proporre Nina dei lupi al Premio Strega. Il suo autore, Alessandro Bertante, ha la consapevolezza di aver scritto un libro pregno di sensi e di significati che come dice Giuseppe Genna scava “pozzi artesiani letterari”. Abbia-mo rivolto ad Alessandro alcune domande. Sul sito www.coolclub.it potrete leggere l’intervista integrale.

Nina dei lupi è un libro potente, visionario

e profetico. Lo scenario post-apocalittico, il rapporto tra un adulto e un bambino, le scene di violenza dissennata e selvaggia mi hanno fatto pensare immediatamente a The road di Cormac McCarthy, dal quale però il tuo romanzo si discosta notevolmen-te per una serie di tematiche. Quanto sei stato influenzato dal romanzo di McCarthy, e quali in generale sono le opere e gli autori a cui ti ispiri?Certo The road di Cormac McCarthy è stato un punto di riferimento importante ma più che per le tematiche per il modello di scrittura scarna ed

alESSaNdroBErtaNtENina dei lupi è la vera nuova epica italiana

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essenziale che qui raggiunge il suo apice. Il suo è un viaggio nella catastrofe, in un mondo deserti-ficato post disastro nucleare. Io non volevo dare vita a un immaginario del genere, secondo me abusato. Sono europeo e credo il nostro retaggio culturale sia più profondo e diversificato. Quello che mi interessava era pensare a uno scenario post apocalittico nel quella la natura fosse ege-mone e rigogliosa. E in questo contesto primitivo vedere mutare l’idea stessa di realtà da parte protagonisti che per affrontare i pericoli e le pri-vazioni sono costretti a sviluppare una sensibili-tà e un linguaggio magico. E poi Nina dei lupi è un romanzo di attese, non di percorsi.

I personaggi femminili hanno quasi tutti un ruolo molto importante, anche quelli apparentemente secondari come la nonna di Nina (che però con il suo estremo sacri-ficio permette al mito di sopravvivere e crescere). E poi Diana, che mi sembra sia la vera portatrice di senso in un mondo che va alla deriva (in fondo è lei che co-struisce il futuro della rinata comunità di Piedimulo). Nina, ovviamente, il mito. Ma anche Giovanna, Maria, perfino la zoppa, tutte le donne presenti nella storia in qual-che modo influenzano gli eventi e costitui-scono, coscientemente o incoscientemente una chiave di volta. Mi parli del ruolo della donna nella tua narrazione?Fino a Nina dei lupi il ruolo dei personaggi fem-minili nei miei romanzi è stato secondario, anche in modo colpevole. In questo lavoro diventa inve-ce centrale. La figura chiave di questo cambia-mento è Diana, e il suo antichissimo e simbolico nome lo testimonia. Lei è madre e protettrice ma come tutte le divinità dualistiche precedenti al cristianesimo incarna sia la funzione della fer-tilità che quella della distruzione. E sempre suo è il compito di elaborare il linguaggio magico, base dell’edificazione di una nuova società ma-triarcale. Il lavoro sulla religione antica dell’arco alpino in questo senso è stato fondamentale. Do-cumentandomi sulle leggende e su ciò che resta delle ritualità pagane ho cercato di raggiungere il nocciolo mitico della nostra identità di occiden-tali, scoprendo figure fondamentali, si pensi ad esempio a Santa Brigida che vediamo arrivare a noi quasi invariata del neolitico, quando era una delle tante emanazioni della Grande Madre mediterranea, passando per la religione celtica, quella romana e infine quella cristiana.

Il tuo è un romanzo fortemente archetipi-co, ma c’è un personaggio, secondo te, che

incarna pienamente il ruolo dell’eroe?L’eroe è Alessio, l’uomo dei lupi. L’ultimo rappre-sentate del vecchio mondo. Con lui finisce un’era. Lui incarna la forza e la tenacia. Ma anche la metropoli e il razionalismo. I predoni, la sua ne-mesi, fanno parte dello stesso mondo e la loro è una lotta, certo feroce e implacabili, ma fra crea-ture tutto sommato simili.

Il sacrificio mi sembra uno dei sottotemi più presenti nel tuo romanzo…Il sacrificio è la premessa obbligata della rigene-razione. Sta alla base di ogni nuova fondazione umana.

Un altro sottotema è sicuramente la critica alla nostra società attuale, l’invito a pen-sare in modo ecologico. Ma quello che mi colpisce di più nel tuo romanzo è la presen-za di un messaggio di speranza. Dove sta andando secondo te il mondo occidentale? Ci dirigiamo davvero verso la catastrofe (e quello che succede in Giappone in questi giorni ci dovrebbe fare riflettere)?Il mondo occidentale sta vivendo un momento di crisi molto grave. E questa è soprattutto una cri-si identitaria. Non sappiamo più cosa significhi essere occidentali, quale proposta etica e cultu-rale possiamo ancora da fare al mondo. Il nostro ciclo virtuoso ed espansivo sembra essere termi-nato, di conseguenza abbiamo perso o perderemo la centralità anche in tutti gli altri campi: econo-mico, scientifico e in ultima istanza militare. Noi come italiani siamo all’avanguardia in questo processo di disgregazione, credo che questi anni saranno ricordati come i più volgari, insensati e decadenti della storia contemporanea. Ciò detto, non possiamo rinunciare alla speranza.

Un’ultima domanda sulla narrativa italia-na contemporanea. Che cosa salveresti e che cosa sommergeresti?Credo che la letteratura italiana sia messa piut-tosto bene e l’editoria sia messa molto male. Nel-le dirigenze delle case editrici non c’è stato il ne-cessario cambio generazionale. E si vede. Troppo spesso si cerca con ottusità il successo commer-ciale inseguendo di volta in volta il caso specifico di un autore che ha sfondato con il grande pub-blico (che non a caso era peculiare) mettendo in moto dei processi mimetici talvolta demenziali. A livello contenutistico io credo che sia finita una stagione ben precisa: quella d’ironia come unico linguaggio, e quella del disimpegno.

Dario Goffredo

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“Raccontare i sentimenti e le reazioni dell’uomo medio degli anni zero attraverso la band più po-polare del decennio”. Corrado Minervini presen-ta così Life is for living. Testi Commentati il suo ultimo libro appena uscito per Arcana. L’autore è un giornalista e critico musicale, già presente in libreria con Sulla strada. In viaggio con Lu-ciano Ligabue (2007) e Volere è Volare. Domenico

Modugno: cantante, poeta, rivoluzionario (2008). Questa volta interpreta i testi delle canzoni dei Coldplay consegnando al pubblico un piccolo ma-nuale di storia degli ultimi dieci anni, imprezio-sito dalla prefazione di Giuliano Sangiorgi.

Cosa ti ha “guidato” nell’interpretazione dei testi?

Corrado MiNErviNiFra le righe dei Coldplay

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Scrivere un disco, una poesia, la sceneggiatura di un film rende quell’opera soggetta a interpre-tazioni che potrebbero non riflettere le intenzio-ni dei loro fautori. È un rischio che si corre ed è uno degli elementi che trasforma l’espressione di un sentimento o di un’ispirazione individua-le in un’opera condivisibile, talvolta, da milioni di persone. Paradossalmente, anche il mio libro potrebbe diventare, a sua volta, fonte di nuove interpretazioni. La mia scrittura è stata guidata dal tentativo, spero riuscito, di contestualizzare quelle opere, di individuare l’origine della scelta di un termine specifico o di un’immagine, di com-prendere la fonte di uno stato emotivo espresso in forma di canzone. Ad esempio: Yellow è ogget-to, da oltre dieci anni, di tentativi d’interpreta-zione e contestualizzazione e la band stessa ha spesso giocato con i riferimenti, lasciando sug-gerimenti fuorvianti e dando risposte contrad-dittorie, proprio in relazione alla scelta di quel colore giallo. In innumerevoli circostanze sono andato alla ricerca di possibili fonti d’ispirazio-ne letterarie e musicali, passando naturalmente per Shakespeare e la Bibbia, per i Beatles e Ge-orge Byron e individuando centinaia d’influenze insospettabili.

Qual è secondo te il ruolo dei Coldplay nel panorama musicale, e non solo, dell’ultimo decennio? Qual è la loro forza?Partiamo da un dato di fatto: da quasi vent’anni, diciamo dall’esplosione del grunge, il rock non è più in grado di agire sulle masse; le rivoluzioni di costume avvenute, ad esempio, negli anni 60 o nei ’70, sono un fenomeno irripetibile. Il ruo-lo “sociale” delle popstar è stato ridimensionato molto e, detto tra noi, lo stesso Bono rischia spes-so di trasformarsi in una figura caricaturale. Esi-stono, invero, artisti che potrebbero raccogliere una sorta di leadership intellettuale e porsi a capo di un movimento di opinione: penso ai Ra-diohead, ad esempio, i quali però, non hanno mai cercato quella popolarità universale preferendo rivolgersi a una cerchia ristretta; non esatta-mente un’élite ma, sicuramente, un sottoinsieme all’interno di un pubblico di milioni di potenzia-li ascoltatori/consumatori. Quello che il rock ha smarrito è il potere di aggregare un ampio con-senso attorno a una band, a un disco, talvolta a un personaggio. La forza dei Coldplay è esat-tamente quella di aver raccontato i sentimenti di smarrimento e impotenza della maggioranza silenziosa dinanzi alle grandi trasformazioni so-ciali e politiche, al cospetto della tensione d’inizio millennio oppure di fronte ad eventi catastrofici provocati dall’uomo o dalla natura. Chris Martin

ha raramente atteggiamenti da predicatore in stile Bono (pur avendo, da sempre, il leader degli U2 come punto di riferimento), nonostante il suo ruolo di testimonial per numerose organizzazio-ni non governative: il suo obiettivo principale è quello di sollevare domande, di dare voce innan-zitutto alle sue perplessità, ad esempio, dinanzi alla follia della guerra. Va letta in quest’ottica la domanda cardine di Violet Hill, un inno pacifista che non si limita a un generico “no” alla guerra ma descrive, in 49 versi, la condizione di preca-rietà di un genere umano che pone ai suoi leader una domanda tutt’altro che retorica: “If you love me won’t you let me know”.

Perché hai scelto la farfalla dell’album dei Coldplay Leftrightleftrightleft per la coper-tina?L’idea era legata a un concetto di apparente leggerezza che caratterizza la scrittura di Chris Martin, lo stesso che caratterizza le ali delle far-falle che sono, a mio parere, una delle più incre-dibili manifestazioni della bellezza della natura: un prodigio autentico, fatto di grazia ed equili-brio. Toccare quelle ali significherebbe disinte-grarle. Osservando la farfalla stilizzata (usata dai Coldplay per la copertina del minialbum live Leftrightleftrightleft) si possono intuire, nei suoi profili, i lineamenti di due volti che si incontra-no, uno di fronte all’altro. Una rappresentazione grafica di una delle esigenze artistiche dei Col-dplay e della poetica di Chris Martin è la ricerca costante del dialogo, dell’interrelazione con l’al-tro. Usando un verso di uno dei loro brani più celebri, direi Let’s talk.

Quanto troviamo del fan e quanto del gior-nalista nel libro?In realtà non mi sono mai considerato fan dei Coldplay. Sono troppo vecchio per questo tipo di rapporto con la musica e con gli artisti... Al di là della grande ammirazione che provo nei confron-ti di Chris Martin, credo che in Life is for living ci sia, soprattutto, il lavoro di un giornalista che ha mosso i primi passi nel mondo della carta stampata esattamente negli stessi giorni in cui il mondo scopriva il debutto della band britannica. E che ha seguito da vicino, “per motivi di lavoro”, l’incredibile ascesa al successo di un gruppo di ragazzi agli antipodi rispetto agli stereotipi del rock che sono diventati – loro malgrado – i più credibili narratori del primo decennio di questo terzo millennio.

Laura Casciotti

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VICTOR GISCHLERNotte di sangue a Coyote CrossingMeridiano Zero

Il western con camion Peter-bilt e automobili Nova e Ford Mustang Mach 1 che filano su strade polverose mentre gli Abba cantano Dancing Queen. Roba di bettole dell’Oklaho-ma, regolamenti di conti, notti calde e stagnanti annebbiate dall’alcool, cappelli di paglia, pacchetti di Winston, sudore e naturalmente raffiche di piom-bo. Pulp (metabolizzato da un pezzo) che da noi appartiene unicamente a due scrittori come Ammaniti e Di Monopoli e negli States vanta invece una lunga tradizione e maestri in-discussi (Elmore Leonard e Joe R. Lansdale in testa al branco). Qui c’è un giovane aiuto sce-riffo, Toby Sawyer (in aperto omaggio a Mark Twain) a cac-cia di un cadavere scomparso nel tempo di una notte lunga e pericolosa e nello spazio di un posto da coglioni senza futuro. È lui a raccontarci la storiaccia, fin da quel colpo di tosse simu-lato nell’incipit per mascherare il riso davanti al corpo morto di Luke Jordan. Gischler viene dalle sceneggiature per fumetti Marvel, in Italia la casa editri-ce Meridiano Zero ha pubbli-cato La gabbia delle scimmie e Anche i poeti uccidono e in di-verse interviste ha dichiarato una grande influenza cinema-tografica nella sua scrittura. Confeziona un romanzo veloce

(tempo di lettura stimato: due ore scarse) tutto muscoli e in-seguimenti coreografati; una commedia action lodevole per la cura artigianale della mani-fattura e il sale dell’irriveren-za (modello Kurt Vonnegut) versato sui sacri testi dell’hard boiled firmati da Chandler, Hammett e Spillane. Frase per i posteri: “Mi era venuta l’idea di mettere su una band, ma in città c’erano solo dei liceali del cazzo che continuavano a in-ciamparsi sull’uccello, oppure dei vecchietti con il banjo.”

Nino G. D’Attis

GIUSEPPE MERICOIo non sono esterno Castelvecchi Editore

Il suo nome è Giuseppe Merico, ha 37 anni, è nato e cresciuto a San Pietro Vernotico, in pro-vincia di Brindisi, ma vive da molti anni a Bologna. Dopo il suo esordio del 2007 con una raccolta di racconti dal titolo “Dita amputate con fedi nun-ziali” (Giraldi), ad inizio 2011 ha pubblicato per Castelvecchi Editore il suo primo romanzo, “Io non sono esterno”, una sto-ria ambientata in un Salento fantasma. Un ragazzino viene segregato dal padre nella canti-na di casa. Nei sotterranei del-la sua anima impara ad amare l’uomo che lo tiene prigioniero e a perdonarlo. In un continuo alternarsi di flashback si riper-corre il periodo che lo ha por-tato alla prigionia in un succe-dersi di fatti che si svolgono in una periferia desolata tra un

deposito di uno sfasciacarrozze, una tangenziale e i binari dove corrono i treni. È una storia di abusi sessuali, violenza genito-riale e sentimenti ambivalenti che tagliano le figure dei prota-gonisti. L’autore alterna scrit-tura pulp ed intimista, con una particolare attenzione rivolta agli aspetti immaginifici della mente del giovane prigioniero. Merico si presenta come una sorta di Ammaniti del Salento offrendo un esordio sulla di-stanza lunga del romanzo dav-vero convincente.

Rossano Astremo

SERGE QUADRUPPANILa rivoluzione delle apiEdizioni Ambiente

Nei romanzi di Quadruppani c’è, sempre, qualcosa che ti sor-prende, ti lascia interdetto, per quella capacità che ha di rac-contare cose agghiancianti con uno stile lineare, semplice, mai ampolloso. Per quella capaci-tà che ha di costruire trame e intrecci perfetti, senza sba-vature, creando cortocircuiti mentali nel lettore che, inutile provarci, non riesce a staccare le mani dalle pagine del libro e gli occhi dalle parole che lo compongono. La rivoluzione delle api, uscito per le Edizioni Ambiente, nella collana Verde-nero (che conferma così di es-sere una delle case editrici ita-liane dove la qualità dei testi proposti è sempre altissima), è un romanzo ambientato nella pacifica Val Pellice, in Piemon-te, tra apicoltori, dolcissimo

liBriliBri

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Quando ho letto la notizia che Manni stava per pubblicare questo libro, quando ho letto i nomi de-gli autori che ne avrebbero fatto parte, ho pensato che forse presto avrei avuto tra le mani un gran bel volume di racconti. E ho iniziato ad aspettare. Poi finalmente ho avuto l’antologia tra le mani e ho iniziato a leggerla. Si parte col botto. Racconto di Cosimo Argenti-na dai risvolti più che pulp, condito con del sano dialetto tarantino e un sorriso da folle che spesso arriva leggendo Argentina. Si chiude con un senso di leggera amarezza dato dal testo di Enzo Ver-rengia (già amato dal sottoscritto per il suo La notte degli stramurti viventi), dove sembra che di buono nella nostra terra e nel nostro tempo sia rimasto ben poco, e che tolti gli interessi personali lo spazio per ilr esto sia piuttosto ristretto. I racconti sono in ordine alfabetico per autore, scelta saggia da parte dell’editore che si è trovato ad affrontare dieci cavalli di razza, dieci nomi tra i più interessanti del panorama narrativo contem-poraneo e non solo pugliese.Come al solito cercare una linea comune tra que-sti autori è impossibile, si passa dal delirio puro di Argentina, Livio Romano che ci regala una sua inaspettata versione cattiva e dissacratoria e Piero Calò che ci racconta una storia dai risvol-ti paradossali e imprevedibili alle pregiatissime sperimentazioni linguistiche di Carlo D’Amicis che inventa una lingua che è una miscela di al-banese, italiano e dialetti pugliesi, e a quelle di Piero Manni, che per restituirci l’atmosfera di ini-zio novecento in cui è ambientato il suo racconto trova una lingua che sembra congelata e che ci arriva con tutta la sua forza espressiva. Abbiamo

i racconti ispirati a fatti di cronaca di Rossano Astremo ed Elisabetta Liguori (i due, reduci da un libro a quattro mani, mostrano ancora una volta di avere in comune background e ispirazione) o co-munque alla cronaca vicini, come quello di Donpa-sta dove le vicende di clandestini e neocaporalato fanno da sfondo a una storia di amore e dolore.Su questo vorrei spendere due parole. Sulla bel-lezza della narrativa sia quando è capace di farti volare lontano dalla realtà che ti circonda, anche quando prende spunto da essa per poi allontanar-sene, sia quando parte da lontano, da quello che dici non potrebbe mai accadere, e poi invece ti ri-trovi a pensare che però, forse, in effetti, chissà potrebbe anche accadere. È questo che cerco nel-la narrativa cosiddetta di genere: la capacità di sorprendermi, di farmi volare con la fantasia, di staccarmi per qualche ora dalle cronache barbare e prive di slancio dei telegiornali.Chiudo il discorso spendendo due parole su Omar Di Monopoli, quello tra gli scrittori presenti nell’antologia che più si avvicina nel suo quotidia-no mestiere di scrivere al genere noir.Il suo racconto è una conferma delle sue capacità narrative, della sua grandissima abilità nel ma-neggiare e plasmare la materia e la lingua di cui compone le sue storie. Un racconto, il suo, dove magia, antiche paure e superstizioni, favole e leg-gende si fondono per restituirci un mondo turpe, dove il male non è solo una cosa lontana e stra-ordinaria ma permea di sé ogni momento e ogni molecola del nostro mondo e della nostra vita. La ciliegina sulla torta di un libro che assolutamente merita di essere letto. (dg)

SaNGuLa Puglia maledetta si racconta

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miele, ecologisti arrabbiati e una fabbrica che non sappiamo bene che cosa produce, ma che non piace agli ambientalisti del luogo. Intorno a queste tracce si muovono, come al solito nei romanzi del maestro del noir francese, personaggi incredibili ma estremamente verosimili, personaggi ordinari ma estre-mamente imprevedibili, situa-zioni limite in cui la resistenza e le convinzioni dei personaggi vengono messe a dura prova e al lettore non resta che dispia-cersi che il romanzo alla fine, debba finire. (dg)

WU MINGAnatra all’arancia meccanicaEinaudi

L’anima punk dei Wu Ming riaffiora in superficie. Acida, surreale, spudorata, espressa attraverso 16 racconti scritti nell’ultimo decennio e sparsi in precedenza sul web e su car-ta. “Con la Nona del “Ludovico Van” in sottofondo, il libro va gustato freddo come la peggio-re vendetta, così da esaltare i sapori di una comicità grassa, a tratti greve, sovente manesca e facinorosa.” scrive Tommaso De Lorenzis nella prefazio-ne. Beethoven o i Residents, o magari i Dread Zeppelin di Tortelvis, perché no? Nell’in-sieme, il sound è lontano dal rigore epico-rutilante che ca-ratterizza gran parte dei ro-manzi fin qui pubblicati dal collettivo; prevale piuttosto l’urgenza di raccontare (quasi)

senza filtri il presente in tanti lapsus cortocircuitanti e molte sue sfaccettature: dal grottesco verosimile di Benvenuti a ‘sti frocioni 3 (nato dai primi con-tatti del collettivo con il folle universo del cinema) a Gap99, incursione nei temi familiari a Irvine Welsh (discoteca/but-tafuori/spacciatori neri), pas-sando per testi come Bologna Social Enclave, scritto poco pri-ma del tragico vespaio del G8 a Genova nell’estate del 2001 e I Trecento boscaioli dell’Impe-ratore, donato alla campagna

di Greenpeace “Scrittori per le foreste”. Dal reale, i Wu Ming prelevano mostri, maschere, pagliacci e li mettono in pista. Mutano e deformano i corpi da cartoon disneyani, ne storpia-no i nomi, i tratti caratteriali, in aperta beffa al potere retri-vo delle holding ma anche per ricordare come la coscienza di lavorare su storie di storie sia da sempre patrimonio di tutti. L’anatra è un’autobiografia in pezzi narrativi (atto secondo, dopo la sistemazione teorico-critica di articoli e saggi in

THOMAS PYNCHONVizio di formaEinaudi

Puro effetto illusorio la caccia all’unico Grande Romanzo Americano. Esercizio sterile e ricorrente, meno simpatico di una gag fissata sulla carta dal signor Pynchon in questo romanzo-monstre camuffato da commediola noir (e invece è un kolossal quanto Mason & Dixon, Contro il giorno o il famigerato Arcobaleno della Gravità). Doc Sportello, oc-chio privato fuori asse nella California dell’era Nixon, fa l’hippie rintronato modello Lebowski muovendosi tra bel-lezze abbronzatissime, bykers nerboruti, reduci dal ‘Nam e morti viventi. Deambula, più che muoversi: si pone di sbieco davanti alle situazioni più improbabili sapendo di

essere una gocciolina d’acqua nell’oceano di tutti i Grandi Romanzi Americani già scritti da Pynchon come da Hunter S. Thompson, da Mailer a DeLil-lo. Ma ogni goccia è importan-te (Doc lo è per la sua ex, per gli sbirri che gli stanno alle costole, per il Grande Scrittore che sceglie l’anonimato me-diatico e alla lunga risulta più amabile del fu psicoparanoico Salinger). Goccia che può dis-setare chiunque abbia finora girato alla larga dai labirinti creati dal geniaccio onnivoro di Glen Cove, oppure man-dare in orbita lisergicamente il pubblico dei fedelissimi. Finto noir, finta commedia (di psichedelia, speculazione edilizia, surf-music, Federali sguinzagliati da Hoover e ca-raffe di Margarita): forme solo apparentemente negate alla sperimentazione. In questo senso, il suo essere scanzo-nata/trasandata parodia bla-keedwardsiana dei territori artificiosi di Raymond Chan-dler è esemplare: qualcosa che disegna scie caleidoscopiche e proietta la letteratura al di là dell’intrattenimento senza perdere di vista la leggerezza.

Nino G. D’Attis

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Giap! nel 2003). Una selezione di dissolvenze/sovrimpressioni/cazzeggi a rilascio differenzia-to. Se ne consiglia l’uso (smoda-to) per combattere l’ignoranza meccanica del XXI secolo.

Nino G.D’Attis

RICHARD KERNAction - DVD EditionTaschen

A memoria, non ricordo di aver mai visto uno scorcio di Manhat-

tan nei lavori di Richard Kern, negli sguardi delle sue modelle, degli attori apparsi in qualche suo Super 8. Ancora oggi, per questo straordinario artista nato nel 1958, la Mela è, essen-zialmente, la visione eccentrica, (gin)ecologica di un reale, di una piena materialità spazio-tempo-rale pre-11 settembre: ragazze di Coney Island meravigliosa-mente angeliche/infernali come quelle cantate da Lou Reed; bel-lezze dei bassifondi lontane anni luce dai set vischiosi dei photo-graphers più blasonati, forse parte di quell’esercito in guerra contro la Società dello Spettaco-lo invocato da Debord. Con Kern siamo sicuri di avere a che fare con un artista che (similmen-te a Terry Richardson, ad Abel Ferrara) si diverte ad occultare nello sporco, nel politicamente

scorretto, lo splendore della sua arte. È un erotismo tutto di car-ne e incidentalmente di carta quello che si sprigiona sfoglian-do le pagine del bel volume tar-gato Taschen (e annessa appen-dice in Dvd). Seduzione espressa (non pensata: la seduzione non ammette qualsiasi lavoro prepa-ratorio) allo scopo di scongiurare la smaterializzazione dell’indivi-duo e della sua ombra nel caos contemporaneo. Estremizzata, anche, alla maniera dei cari vec-chi corpi rock oggi soppiantati dall’ologramma Lady Gaga: fuo-ri dalla virtualità, verso il limite più impensabile (e decretando la morte per procurata noia ai fau-tori della posa plastico-perfetta), ci sono ancora le non professioni-ste “Barely Legal” di Kern.

Nino G. D’Attis

Arena Live MusicZ.I. Carpignano Salentino (Le)

Info 3388558873 - www.arenalivemusic.com

CitoFoNarE iNtErNo 7Era il maggio del 2008 quando, dopo aver orga-nizzato, per anni, eventi letterari in librerie, as-sociazioni culturali, biblioteche, bar, pub, gallerie d’arte, enoteche, ristoranti, decisi che, in questa proliferazione di libri nei contesti più vari, alcu-ni consueti altri meno, era giunto il momento di sparigliare le carte e di osare l’insolito. L’idea fu quella di invitare tre giovani scrittori italiani, Francesco Pacifico, Veronica Raimo e Nino D’At-tis nel salotto di casa mia a leggere estratti dei loro romanzi ancora inediti. Era un tardo pome-riggio di fine maggio e da lì, da quell’aperitivo fortemente alcolico consumatosi a Roma, a Tor-pignattara, dopo aver organizzato e partecipato a un numero spropositato di presentazione di libri svilenti e noiose, che nacque il nucleo originario dell’evento Citofonare Interno 7. Da quel giorno Citofonare Interno 7 porta, nel clima conviviale di un salotto, la lettura di alcuni passi di libri ine-diti e uno spettacolo musicale live. È una sorta di reading-mob che mobilita la cultura e la offre a domicilio. Il format è stato ripreso diverse volte a Roma e dal marzo 2011, oltre ai lidi capitolini, sbarca nei contesti delle principali città italiane. Fino ad ora hanno partecipato alcuni tra i giovani scrittori italiani più importanti, e l’elenco sareb-be davvero lungo. L’obiettivo è quello di svicolare l’idea di letteratura dal concetto dell’imperante marketing editoriale, secondo il quale ogni evento è legato all’idea di vendere l’oggetto libro e, ine-vitabilmente, per ammaliare un numero crescen-te di potenziali lettori e acquirenti, l’idea dello scrittore sempre meno intellettuale e sempre più personaggio. Ci è sembrato giusto, fin dall’inizio, in un momento politico e sociale difficile, con il crescente numero di disoccupati, che non sono più soltanto giovani, ma anche uomini e donne di 40, 50 anni, per i quali inserirsi in un mercato del lavoro sempre più in crisi diventa una missione che sfiora l’impossibile, con l’aumento di famiglie

che non riescono più ad arrivare a fine mese, con la tragica situazione di chi non è più in grado di pagare le rate del mutuo, legare l’evento lettera-rio domestico ad azioni di sostegno per chi non possiede più una casa. Da qui la collaborazione con l’associazione di promozione sociale La casa di cartone, costituita da ragazzi che da anni lavo-rano per migliorare le condizioni di vita dei senza fissa dimora. È da questo legame tra letteratura e promozione sociale che nasce l’idea di dare alle stampe un volume, il primo del neonato marchio editoriale Citofonare Interno 7, dal titolo La let-teratura non conta niente che accoglie dieci rac-conti aventi come tema quello delle presentazioni di libri dall’esito disastroso (gli autori presenti sono: Saverio Fattori, Marco Montanaro, Roberto Mandracchia, Giuseppe Braga, Angela Scarparo, Omar Di Monopoli, Ilaria Mazzeo, Marco Candi-da, Livio Romano ed Elisabetta Liguori), i cui ri-cavati andranno a sostenere proprio un progetto promosso da La casa di cartone dal titolo B.I.P. (beni immateriali primari), che prevede l’utilizzo di performance artistiche nei luoghi del disagio per l’integrazione tra fasce emarginate di popo-lazione e il territorio. Come afferma Girolamo Grammatico, presidente dell’associazione: «Sulla scia della Notte dei senza dimora, appuntamento del 17 ottobre di ogni anno, La casa di cartone chiamerà artisti di ogni risma per offrire uno spettacolo di arte performativa a persone che vi-vono in uno stato temporaneo di disagio. La sera-ta sarà, inoltre, aperta ad un pubblico interessa-to: entrare in luoghi solitamente rimossi significa anche erodere un po’ del silenzio che circonda questi spazi». È solo un piccolo sasso nello stagno dell’indifferenza nei confronti dei senza fissa di-mora. La letteratura deve smuovere simili acque: è la nostra piccola missione.

Rossano Astremo

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EMilio SolFriZZiL’attore barese mattatore del piccolo e del grande schermo

Tutti pazzi per… Emilio. Continua senza sosta l’ascesa dell’attore barese Emilio Sol-frizzi tra tv (a novembre ritorna sugli scher-mi con Tutti pazzi per amore 3) e cinema. Dal successo di Femmine contro maschi alla nuova opera di Eugenio Cappuccio Se sei così ti dico di sì, che uscirà nelle sale il 15 aprile, la carriera di Solfrizzi vive un momento particolar-mente felice. Intanto la scena del bacio tra Emi-lio e Belen Rodriguez stuzzica la curiosità dei fan e non solo. Ne abbiamo parlato con l’attore.

Emilio, cosa hai provato durante la scena del bacio?

È stato un bacio professionale e poi Belen era molto tesa non avendo esperienze cinematogra-fiche alle spalle. È stato un bacio bello e facile proprio perché si trattava di Belen, l’emblema del terzo millennio. Se al suo posto ci fosse sta-to Nino Frassica non sarebbe stato così facile...

Com’è stata l’esperienza con Eugenio Cap-puccio?Eugenio è un regista di grande talento e avevo voglia di lavorare con lui. Sono entusiasta di es-sere stato diretto da un regista innamorato della Puglia. Quando mi ha detto che avremmo gira-to a Savelletri mi ha aperto le porte del cuore.

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Ancora una volta è la Puglia la location di lungometraggi “nazionali”.In effetti c’è una fotografia eccezionale, merito an-che di Gian Filippo Corticelli, poi c’è la forza del mare, le luci e i colori tipici della nostra regione.

Raccontaci in breve la trama del film.È la storia di un cantante di successo, Piero Cica-la, che ama molto poco la sua unica hit estiva che lo ha reso famoso negli anni Ottanta. Nel corso degli anni, però, non è riuscito a riannodare i fili con il suo pubblico ed è caduto nell’oblio. Lo ritroviamo a lavorare come cuoco nel ristorante della ex moglie. È un ex marito, un ex cantan-te, insomma un fallito a tutti gli effetti. Come

un fulmine a ciel sereno viene invitato ad una trasmissione dedicata alle meteore della musi-ca, a Roma. Qui sfiora per caso Talìta Cortes (Belen), una stella mondiale del mondo dello spettacolo molto chiacchierata nel gossip. Ta-lìta è un’icona del momento e del nuovo modo di fare fortuna tramite bugie e sotterfugi. Im-provvisamente la vita di Piero cambia, parte per l’America e riesce a riscattarsi, eseguendo una sua canzone che era stata scartata a Sanremo.

Sei uno tra i protagonisti di Femmine con-tro Maschi di Fausto Brizzi. Cosa ne pensi della guerra dei sessi?Ma quale guerra? Io mi auguro che si arrivi pre-sto alla parità dei diritti. L’8 marzo ho parteci-pato con onore ad una manifestazione dedicata alla festa della donna e vorrei dare concreta-mente il mio contributo a rendere il nostro paese più adatto alle donne. Se le donne si emancipas-sero e fossero davvero a loro agio, vivremmo in un paese più evoluto.

Guardando il film di Brizzi si capisce che vi siete divertiti a girarlo…Infatti con Luciana Littizzetto, Claudio Bisio, Fabio de Luigi e gli altri si è trattato di tanto divertimento e poco lavoro! Con Luciana, poi, è stata un’esperienza di lavoro memorabile.

Domanda banale: come mai Toti e Tata non hanno sfondato a livello nazionale?Era un’epoca diversa e le distanze per girare l’Italia sembravano incolmabili. Noi ce la met-temmo tutta, ma forse il paese non era ancora pronto per accogliere benevolmente un duo co-mico con la parlata barese. I comici attuali han-no la fortuna di vivere in condizioni nettamente migliori. Ci rincuora il fatto che Toti e Tata sia-no rimasti nel cuore di tanti meridionali. È evi-dente, inoltre, che i comici pugliesi venuti dopo hanno saccheggiato molto spesso il nostro reper-torio e farebbero bene a ringraziarci ogni tanto.

Segui ancora la scena culturale pugliese?Vivo a Roma però continuo a seguire la scena culturale pugliese e devo dire che mi piace tan-to. La cultura ha permesso alla nostra regione di fare uno scatto in avanti nella considerazione nazionale e internazionale. È molto importante, ad esempio, il contributo dell’Apulia Film Com-mission, che ha permesso di attrarre in Puglia risorse economiche ingenti e attraverso la crea-zione di nuove professionalità è stato reso acces-sibile ciò che prima non lo era.

Lucio Lussi

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FEStival dEl CiNEMa EuroPEoDal 12 al 16 aprile a Lecce

Gli attori Toni Servillo e Riccardo Scamarcio, il produttore portoghese Paulo Branco, il regista Emidio Greco saranno alcuni degli ospiti della dodicesima edizione del Festival del Cinema Eu-ropeo, che si terrà dal 12 al 16 aprile presso il Multisala Massimo di Lecce. Diretto da Cristina Soldano e Alberto La Monica il Festival, come ogni anno, offre al pubblico e agli addetti ai lavo-ri film, eventi speciali, mostre fotografiche. Oltre ai film in concorso - che saranno valutati dalla giuria composta da Paulo Branco, Alberto Bar-bera (direttore del Museo Nazionale del Cinema di Torino), Giuseppe Battiston (attore), Marina Sanna (caporedattore de La Rivista del Cinema-tografo), Elizabeth Missland (direttore Artistico e Presidente Onorario dei Globi d’Oro) saranno numerose, infatti, le proiezioni tra retrospetti-ve, anteprime, premio Mario Verdone (che torna per il secondo anno consecutivo) e Puglia Show

(concorso di cortometraggi di giovani registi pu-gliesi). Il Festival si consolida di anno in anno diventando una prestigiosa vetrina per registi esordienti e affermati. Tra le anteprime ospitate a Lecce segnaliamo Henry, nuovo film del regi-sta barese Alessandro Piva, Cocapop di Pasquale Pozzessere, Il sesso aggiunto di Francesco Anto-nio Castaldo, Via Appia di Paolo De Falco. Il 13 aprile prima assoluta per W Zappatore di Mas-similiano Verdesca, una commedia con Marcello Zappatore, un ragazzo di trentatré anni che, per guadagnarsi da vivere, suona la chitarra elettri-ca in una band metal satanista nota nella pro-vincia di Lecce. La vita di Marcello viene presto sconvolta da uno straordinario avvenimento: un fastidioso prurito al costato si rivela, in seguito, essere una Stigmate. Nel cast anche una diverti-ta e divertente Sandra Milo.Info festivaldelcinemaeuropeo.it

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Dopo il grande successo delle mostre di Joan Mirò e Pablo Picasso, il Castello Aragonese di Otranto questa estate ospiterà Il genio di Salvador Dalì. La mostra, a cura di Alice Devecchi, accoglie sei sculture originali in bronzo, tra le quali Elefante cosmico (di grandi dimensioni - h 120 x 90 x 350 cm), e una selezione di cinquantaquattro

litografie originali, che spaziano nel mondo del surreale per illustrare temi e testi letterari e che ancora una volta testimoniano la grande capacità grafica del maestro spagnolo. Dal clima gotico travasato in surrealismo bianco/nero del Castello di Otranto, ai colori pallidi delle Fiabe Giapponesi, al vuoto di colore della carta lasciata nuda in Tristano e Isotta, al nero e oro glitterato degli Amours Jaunes. Personalità complessa e ricca di fantasia, Salvador Dalì (Figueras, Catalogna, 1904-1989) ha operato con vivace sensibilità e singolare estro creativo in vari campi dell’arte: pittore, scultore, scrittore, illustratore, scenografo, disegnatore di gioielli e di mobili. Le sue molteplici manifestazioni artistiche hanno suscitato da parte della critica giudizi contrastanti che coinvolgono assieme all’opera anche l’uomo, anzi, il personaggio, per taluni atteggiamenti di vistoso gusto eccentrico. L’inaugurazione è prevista il 27 maggio mentre la mostra sarà aperta sino al 25 settembre (ingresso 6/4 euro).Tutte le info sul sito www.daliotranto.it

il GENio di dalÌ a otraNto

APRILE

GIOVEDÌ 7Rocking finger al Jack’n Jill di Cu-trofiano (Le)Max Gazzè per Officine della musi-ca alle Officine Cantelmo di LecceBebo Ferra al Vite di Nardò (Le)Marco Baliani in Kohlhaas ai Cantieri Koreja di Lecce

VENERDÌ 8Noisture, Shotgun Babies e Hate Inc all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le)Live al Coffeandcigarettes di LecceMarcello Nisi e Dino Plasmati al Vite di Nardò (Le)Marco Baliani in Tracce ai Cantie-ri Koreja di LecceBebo Ferra al Club84 di Maglie (Le)

SABATO 9Non voglio che Clara alle Officine Cantelmo di LecceColle der Fomento all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le)The Return of Kingshiloh Sound all’Arena Live di Carpignano Sa-lentino (Le)Glitterball all’Arci Lebowsky di Gioia del Colle (Ba)Marco Baliani in Frollo ai Cantie-ri Koreja di Lecce

DOMENICA 10Cesko in “Ricordi di una vita” al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le)Radicanto al Kismet di BariSounday Women al Coffeandciga-rettes di LecceGlitterball all’Ass. Culturale Muj-munè di Leverano (Le)Marta sui tubi a Bisceglie (Ba)Dalla-De Gregori al Politeama Greco di Lecce

MARTEDÌ 12Io sono un alieno in tre metri per due (rassegna teatrale) al Coffean-dcigarettes di Lecce

MERCOLEDÌ 13Jam Session al Coffeandcigarettes di Lecce

DA GIOVEDÌ 14 A SABATO 16Raccontare il territorio a Patù (Le)

GIOVEDÌ 14Tobia Lamare and the Sellers al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le)Kocani Orkestar incontra Munici-pale Balcanica e Roberto Ottavia-no al Teatro Tatà di TarantoMafalda Arnauth al Teatro Gari-baldi di LuceraIcone Award Music Wine al Vite di Nardò (Le) Marta sui tubi al Livello 11/8 di Trepuzzi (Le)

VENERDÌ 15Mafalda Arnauth al Teatro Roma di Ostuni (Br)Live al Coffeandcigarettes di LecceNew Orleans Dixieband al Vite di Nardò (Le)Massimo Altomare alla Saletta della Cultura di Novoli (Le)Carla Casarano e William Greco al Club84 di Maglie (Le)Dieci anni di quiSalento ai Can-tieri Koreja di Lecce

SABATO 16Raw Power all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le)Heavy Hammer/Irie Crew all’Are-na Live di Carpignano Salentino (Le)Esperanto. Note di speranza con Niccolò Fabi, Radiodervish, Pa-ola Turci, Simone Cristicchi e Yo Yo Mundi al Politeama Greco di LecceLa fame di Camilla al Demodè di Modugno (Ba)Anansi alle Officine Cantelmo di Lecce

DOMENICA 17Michele Cortese e il teatro dei bu-rattini al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le)Sounday Women al Coffeandciga-rettes di Lecce

MARTEDÌ 19Manitou Project al Teatro Kismet di BariIo sono un alieno in tre metri per due (rassegna teatrale) al Coffeandciga-rettes di LecceBob Corn e Stranded Horse ai Sot-terranei di Copertino (Le)

MERCOLEDÌ 20Memorie di Adriano. Le canzoni del Clan di Celentano al Teatro Curci di BarlettaLezioni di Rock a cura di Ernesto Assante e Gino Castaldo al Cine-ma Armenise di BariJam Session al Coffeandcigarettes di Lecce

GIOVEDÌ 21Papa Chango al Jack’n Jill di Cu-trofiano (Le)Backjumper + Meet my maker all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le)Icone Award Music Wine al Vite di Nardò (Le)Andrea Baccassino al Club84 di Maglie (Le)

VENERDÌ 22Mezza Testa & Soci all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le)Rock in the Arena all’Arena Live di Carpignano Salentino (Le)Live al Coffeandcigarettes di LecceMonroe Duo al Vite di Nardò (Le)Dj Tayone e Tarantavirus al Livel-lo 11/8 di Trepuzzi (Le)

SABATO 23The party – Rock’n’Roll Disco all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le)Kalibandulu & Bleizone all’Arena Live di Carpignano Salentino (Le)Caparezza al Palafiere di Lecce

DOMENICA 24Rock in the Arena all’Arena Live di Carpignano Salentino (Le)Sounday Women al Coffeandciga-rettes di LecceBusta Rhymes al Livello 11/8 di Trepuzzi (Le)LUNEDÌ 25Pasquetta rock alla Masseria Ospitale di Torre Chianca (Le)Apres La Classe, Verdena e altri gruppi al Parco Gondar di Galli-poli (Le)Roy Paci & Aretuska a San Vito dei Normanni (Br)

MARTEDÌ 26Io sono un alieno in tre metri per due (rassegna teatrale) al Coffean-dcigarettes di Lecce

EvENti

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MERCOLEDÌ 27Jam Session al Coffeandcigarettes di Lecce

GIOVEDÌ 28Etnia Supersantos al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le)Icone Award Music Wine al Vite di Nardò (Le)Rookie e Howie Lee ai Cantieri Ko-reja di Lecce

VENERDÌ 29 Casino Royale alle Officine Can-telmo di LecceSpread Your Legs all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le)Live al Coffeandcigarettes di LecceNudo al cubo al Vite di Nardò (Le)Francesca Romana alla Saletta della Cultura di Novoli (Le)Filosofia nel boudoir ai Cantieri Koreja di LecceWestern & Country acoustic trio al Club84 di Maglie (Le)

SABATO 30Special night- electro-dub-d’n’b-break beat all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le)Arena inna Dancehall all’Arena Live di Carpignano Salentino (Le)Western & Country acoustic trio al Vite di Nardò (Le)Ministri alle Officine Cantelmo di LecceLuna ai Cantieri Koreja di Lecce

MAGGIO

DOMENICA 1Republika Mod al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le)Sounday Women al Coffeandciga-rettes di Lecce

MARTEDÌ 3Io sono un alieno in tre metri per due (rassegna teatrale) al Coffean-dcigarettes di Lecce

MERCOLEDÌ 4Jam Session al Coffeandcigarettes di Lecce

GIOVEDÌ 5Bundamove al Jack’n Jill di Cutro-fiano (Le)Icone Award Music Wine al Vite di

Nardò (Le)

VENERDÌ 6Anthony Johnson all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le)Live al Coffeandcigarettes di LecceLuigi Mariano alla Saletta della Cultura di Novoli (Le)

SABATO 7Numero 6 all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le)Riccardo III ai Cantieri Koreja di Lecce

DOMENICA 8Mauvaise Reputation al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le)Sounday Women al Coffeandciga-rettes di LecceRiccardo III ai Cantieri Koreja di Lecce

MARTEDÌ 10Io sono un alieno in tre metri per due (rassegna teatrale) al Coffean-dcigarettes di Lecce

MERCOLEDÌ 11Jam Session al Coffeandcigarettes di Lecce

GIOVEDÌ 12The Crickets al Jack’n Jill di Cu-trofiano (Le)Icone Award Music Wine al Vite di Nardò (Le)

VENERDÌ 13Red Bull Tourbus all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le)Live al Coffeandcigarettes di LecceGlitterball al Prime di Castrigna-no dei Greci (Le)

SABATO 14Rino’s Garden all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le)Giancarlo Onorato alla Saletta della Cultura di Novoli (Le)Glitterball all’Arci Rubik di Gua-gnano (Le)24 grana al Parco Gondar di Gal-lipoli (Le)

DOMENICA 15Shok in town al Jack’n Jill di Cu-trofiano (Le)Sounday Women al Coffeandciga-rettes di Lecce

Marco Bardoscia alle Officine Cantelmo di LecceElisa al Teatro Petruzzelli di Bari

MARTEDÌ 17Io sono un alieno in tre metri per due (rassegna teatrale) al Coffean-dcigarettes di Lecce

MERCOLEDÌ 18Jam Session al Coffeandcigarettes di Lecce

GIOVEDÌ 19The Selecter alle Officine Cantel-mo di LeccePuccia “Io, te e Puccia” al Jack’n Jill di Cutrofiano (Le)Icone Award Music Wine al Vite di Nardò (Le)

VENERDÌ 20Live al Coffeandcigarettes di LecceNaif Herin alla Saletta della Cul-tura di Novoli (Le)

SABATO 21I Mostri all’Istanbul Cafè di Squinzano (Le)

DOMENICA 22Gardenia al Jack’n Jill di Cutro-fiano (Le)Sounday Women al Coffeandciga-rettes di Lecce

MARTEDÌ 24Io sono un alieno in tre metri per due (rassegna teatrale) al Coffean-dcigarettes di Lecce

MERCOLEDÌ 25Jam Session al Coffeandcigarettes di Lecce

GIOVEDÌ 26Blackout al Jack’n Jill di Cutrofia-no (Le)Icone Award Music Wine al Vite di Nardò (Le)

VENERDÌ 27Live al Coffeandcigarettes di LecceEdoardo De Angelis alla Saletta della Cultura di Novoli (Le)

EvENti

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Lecce (Manifatture Knos, Officine Cantelmo, Caffè Letterario, Shuluq, Svolta, Cagliostro, Coffee and Cigarettes, Arci Zei, Libreria Palmieri, Liberrima, Ergot, Youm, Libreria Icaro, Fondo Verri, Road 66, Mamma Perdono Tattoo, Shui bar, Cantieri Teatrali Koreja, Santa Cruz, Molly Malone, Biblioteca Provinciale N. Bernardini, Museo Provinciale Sigismondo Castromediano, Edicola Bla bla, Urp Lecce, Castello Carlo V, Torre di Merlino, Trumpet, Orient Express, Euro bar, Cts, Ateneo - Palazzo Codacci Pisanelli, Sperimentale Tabacchi, Palazzo Parlangeli, Buon Pastore, Ecotekne, La Stecca, Bar Rosso e Nero, Pizzeria il Quadrifoglio, Associazione Tha Piaza Don Chisciotte), Calimera (Cinema Elio), Cutrofiano (Jack’n Jill), Maglie (Libreria Europa, Music Empire, Suite 66, Club 84), Melpignano (Mediateca, Kalì), Otranto (Anima Mundi),

Alessano (Libreria Idrusa), Galatina (Palazzo della Cultura, Gamestore), Nardò (Libreria i volatori, Vite, Aioresis Lab), Novoli (Saletta della Cultura Gregorio Vetrugno), Squinzano (Istanbul Cafè), Ugento (Sinatra Hole), Gagliano Del Capo (Enoteca Torromeo, Tabacchino Ricchiuto), Presicce (Jungle pub, Arci Nova), Salve (Chat Noir, Le Beccherie), Ruffano (Soap), Casarano (Caffè Cortes), Castrignano del Capo (Extrems), Brindisi (Libreria Camera a Sud, Goldoni, Birdy Shop), Ceglie (Royal Oak), Erchie (Bar Fellini), Torre Colimena (Pokame pub), Oria (Talee), Bari (Taverna del Maltese, Caffè Nero, Feltrinelli, Kismet teatro, New Demodè, TimeZones, Teatro Forma, H25, Casa della musica Puglia Sounds), Giovinazzo (Arci 37), Trani (Spazio Off), Taranto (Associazione Start, Trax vinyl shop, Gabba Gabba, Biblioteca Comunale P. Acclavio, Alì Phone’s Center, Artesia, Radiopopolaresalento), Manduria (Libreria Caforio), Roma (Circolo Degli Artisti) e molti altri ancora...

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KEEP COOL

Rock, punk, ska, musica d’autore, folk sono al-cuni degli ingredienti della settima edizione di “Keep Cool. La musica del Sud est indipenden-te”, a cura di Coolclub con la direzione artistica di Cesare Liaci, che va in scena tra le Officine Cantelmo di Lecce e l’Istanbul Cafè di Squin-zano. Keep Cool (che in italiano significa Stai Calmo) è un invito a fermarsi a guardare le cose nascoste - quelle che da alcuni sono chiamate di nicchia - ma che rappresentano il folto substrato (inteso come essenza base) della cultura urbana. Sei appuntamenti per tentare, con una program-mazione interessante ma non eclatante, di met-tere al centro dell’attenzione suoni lontani dalle frequenze a cui questa terra è abituata. Dopo l’apertura affidata ad Erica Mou, sabato 9 aprile

alle Cantelmo, spazio ai Non voglio che Clara (ore 22.30 - ingresso 5 euro) con i brani del cd Dei cani, un concept album, una storia d’amore che diventa ossessione, follia e tragedia. Sabato 16 aprile (ore 23.00 - ingresso 5 euro) all’Istanbul Cafè di Squinzano con il punk hardcore dei Raw Power. Venerdì 29 aprile (ore 22.30 – ingresso 10 euro) alle Officine Cantelmo appuntamento con i Casino Royale, nella prima data del nuo-vo tour prodotto in Puglia da Puglia Sounds. A metà maggio uscirà, infatti, il nuovo disco Io e la mia Ombra. Sabato 7 maggio all’Istanbul Cafè di Squinzano (ore 23.00 - ingresso 3 euro) Keep Cool porta sul palco i Numero6 che propongo-no un pop-rock frizzante, talvolta ironico e naif, in cui trovano spazio armonie e progressioni di accordi insolite, strutture di brani spiazzanti e sonoritaà elettroniche, senza che per questo si rinunci a lavorare su melodie innegabilmente imbevute di certa tradizione italiana. La ras-segna chiude i battenti alle Officine Cantelmo giovedì 19 maggio con The Selecter (ore 22.00 - ingresso 10 euro). Too Much Pressure è il disco più famoso pubblicato dalla band ed uno degli album più importanti della stagione ska inglese dei primi anni ’80 e insieme agli esordi discogra-fici di Specials e Madness è uno dei dischi fonda-mentali del movimento ska.Info 0832303707 – www.coolclub.it

Casino RoyalePh: Lorenzo Barassi

“Le ambulanze strillano più forte quando portano i morti ammazzati”

GOTHAM POLAROID

FRANCESCO CORTONESI

Come tutte le grandi città, Gotham è ricca di storie e leggende, alcune reali, altre meno. Tra le sue strade si consumano ogni giorno grandi e piccole tragedie.

Francesco Cortonesi ha lavorato come speaker radiofonico notturno ed è cofondatore della Filmhorror.com, portale di cinema horror. Suoi racconti sono stati pubblicati da Ferrara, Alacran e Dagon Press. Con il suo nick name Deadtoday ha pubblicato “Storie di Gente Morta”, racconti illustrati dalla Muzakiller Foundation. Vive ad Arezzo. Ogni notte sogna Bela Lugosi. E ci parla!

A MAGGIO IN LIBRERIA IL NUOVO TITOLO DELLA COLLANA COOLIBRÌ

LIBRO SUI LIBRI9 RACCONTI SULL’ESPERIENZA DELLA LETTURA

AA. VV. www.lupoeditore.com