Conversazione sulla luce e sull'ombra. - Antonio De Leo · L'ausilio dell'arte medica, lenimento,...

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Conversazione sulla luce e sull'ombra. di Antonio De Leo e Ludovica Pirelli Antonio: Cara Ludovica vorrei iniziare la discussione sulla luce e sull'ombra proponendoti un testo tratto dal libro La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda. Gadda era un ingegnere ed il suo modo di scrivere era perfetto, di una precisione meccanica, sembra quasi che gli sia piaciuto adottare qualche legge, qualche formula che si adattasse al linguaggio per riuscire ad essere esatto nelle descrizioni tanto che sembrassero il risultato di equazioni ben impostate. Il libro finisce con un delitto, la scena riguarda una donna che non si sa se morirà o meno, Gadda non ce lo dirà mai, è la madre di Gonzalo che viene trovata moribonda nel suo letto sfigurata dalle ecchimosi e colpita alla testa. Il medico tenta invano di salvarla ma l'unica cosà che può fare, mosso da pietà, è detergerle il capo pieno di sangue per cercare di dare a quel volto tumefatto un aspetto dignitoso. "Inturpito" non è un errore, Gadda usa questo termine per rafforzare l'immagine di quel viso ora divenuto osceno, turpe, "ingiuriato" "da una cagione malvagia." Ti riporto qui il testo, è la chiusura del libro, finisce qui senza una fine, questo libro Gadda lo scrisse tra il '38 e il '41 dopo la morte della madre avvenuta nel '37, ed è forse a causa dello scoppio della guerra che rimase incompiuto, la prima pubblicazione è del '63 per Einaudi: "Terribile fu e permaneva a tutti l’aspetto di quel volto ingiuriato, ch’essi conoscevano così nobile e buono pur nel disfacimento della vecchiezza. Ora tumefatto, ferito. Inturpito da una cagione malvagia operante nella assurdità della notte; e complice la fiducia o la bontà stessa della signora. Questa catena di cause riconduceva il sistema dolce e alto della vita all’orrore dei sistemi subordinati, natura, sangue, materia: solitudine di visceri e di volti senza pensiero. Abbandono. "Lasciamola tranquilla", disse il dottore, "andate, uscite". Nella stanchezza senza soccorso in cui il povero volto si dovette raccogliere tumefatto, come in un estremo ricupero della sua dignità, parve a tutti di leggere la parola terribile della morte e la sovrana coscienza della impossibilità di dire: Io. L'ausilio dell'arte medica, lenimento, pezzuole, dissimulò in parte l'orrore. Si udiva il residuo d'acqua e alcool delle pezzuole strizzate ricadere gocciolando in una bacinella. E alle stecche delle persiane già l'alba. Il gallo, improvvisamente la suscitò dai monti lontani, perentorio ed ignaro, come ogni volta. La invitava ad accedere e ad elencare i gelsi nella solitudine della campagna apparita." E' un linguaggio difficile al quale occorre abituarsi, cominciamo a scomporre le scene, "E alle stecche delle persiane già l'alba. Il gallo, improvvisamente la suscitò dai monti lontani, perentorio ed ignaro, come ogni volta. La invitava ad accedere e ad elencare i gelsi nella solitudine della campagna apparita." La frase "E alle stecche delle persiane già l'alba." è strutturata in una forma molto precisa, esatta, Gadda non usa alcun verbo così da restituircela secca e chiara, è quasi un messaggio subliminale che ci dà la sensazione di uno sguardo distratto che dura un attimo, la mancanza del verbo è come se ci impedisse di sostare troppo a lungo sulla frase e la ragione non fa in tempo ad elaborare ciò che vede ma ne prende atto, la coscienza sa che fuori è già l'alba, è una scena che viene percepita con la coda dell'occhio, sai che sta accadendo ma quella visione non riesce a caricarsi della forza che gli occorrerebbe per sostare nella mente e prenderne possesso. E' proprio per questa indipendenza dalla mente dell'unico personaggio presente nella stanza, il medico, che quella luce accresce la propria autonomia divenendo la sola protagonista della scena, penetra dalle stecche e scaccia il buio del sanguinoso incubo notturno, è come se la realtà del giorno si riappropriasse del mondo oscuro della morte "... da una cagione malvagia operante nella

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Conversazione sulla luce e sull'ombra.

di Antonio De Leo

e Ludovica Pirelli

Antonio:

Cara Ludovica vorrei iniziare la discussione sulla luce e sull'ombra proponendoti un testo tratto

dal libro La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda. Gadda era un ingegnere ed il suo

modo di scrivere era perfetto, di una precisione meccanica, sembra quasi che gli sia piaciuto

adottare qualche legge, qualche formula che si adattasse al linguaggio per riuscire ad essere

esatto nelle descrizioni tanto che sembrassero il risultato di equazioni ben impostate. Il libro

finisce con un delitto, la scena riguarda una donna che non si sa se morirà o meno, Gadda non ce

lo dirà mai, è la madre di Gonzalo che viene trovata moribonda nel suo letto sfigurata dalle

ecchimosi e colpita alla testa. Il medico tenta invano di salvarla ma l'unica cosà che può fare,

mosso da pietà, è detergerle il capo pieno di sangue per cercare di dare a quel volto tumefatto un

aspetto dignitoso. "Inturpito" non è un errore, Gadda usa questo termine per rafforzare

l'immagine di quel viso ora divenuto osceno, turpe, "ingiuriato" "da una cagione malvagia."

Ti riporto qui il testo, è la chiusura del libro, finisce qui senza una fine, questo libro Gadda lo

scrisse tra il '38 e il '41 dopo la morte della madre avvenuta nel '37, ed è forse a causa dello

scoppio della guerra che rimase incompiuto, la prima pubblicazione è del '63 per Einaudi:

"Terribile fu e permaneva a tutti l’aspetto di quel volto ingiuriato, ch’essi conoscevano così

nobile e buono pur nel disfacimento della vecchiezza.

Ora tumefatto, ferito. Inturpito da una cagione malvagia operante nella assurdità della notte; e

complice la fiducia o la bontà stessa della signora. Questa catena di cause riconduceva il

sistema dolce e alto della vita all’orrore dei sistemi subordinati, natura, sangue, materia:

solitudine di visceri e di volti senza pensiero. Abbandono.

"Lasciamola tranquilla", disse il dottore, "andate, uscite".

Nella stanchezza senza soccorso in cui il povero volto si dovette raccogliere tumefatto, come in

un estremo ricupero della sua dignità, parve a tutti di leggere la parola terribile della morte e la

sovrana coscienza della impossibilità di dire: Io.

L'ausilio dell'arte medica, lenimento, pezzuole, dissimulò in parte l'orrore. Si udiva il residuo

d'acqua e alcool delle pezzuole strizzate ricadere gocciolando in una bacinella. E alle stecche

delle persiane già l'alba. Il gallo, improvvisamente la suscitò dai monti lontani, perentorio ed

ignaro, come ogni volta. La invitava ad accedere e ad elencare i gelsi nella solitudine della

campagna apparita."

E' un linguaggio difficile al quale occorre abituarsi, cominciamo a scomporre le scene,

"E alle stecche delle persiane già l'alba. Il gallo, improvvisamente la suscitò dai monti lontani,

perentorio ed ignaro, come ogni volta. La invitava ad accedere e ad elencare i gelsi nella

solitudine della campagna apparita."

La frase "E alle stecche delle persiane già l'alba." è strutturata in una forma molto precisa,

esatta, Gadda non usa alcun verbo così da restituircela secca e chiara, è quasi un messaggio

subliminale che ci dà la sensazione di uno sguardo distratto che dura un attimo, la mancanza del

verbo è come se ci impedisse di sostare troppo a lungo sulla frase e la ragione non fa in tempo ad

elaborare ciò che vede ma ne prende atto, la coscienza sa che fuori è già l'alba, è una scena che

viene percepita con la coda dell'occhio, sai che sta accadendo ma quella visione non riesce a

caricarsi della forza che gli occorrerebbe per sostare nella mente e prenderne possesso. E' proprio

per questa indipendenza dalla mente dell'unico personaggio presente nella stanza, il medico, che

quella luce accresce la propria autonomia divenendo la sola protagonista della scena, penetra

dalle stecche e scaccia il buio del sanguinoso incubo notturno, è come se la realtà del giorno si

riappropriasse del mondo oscuro della morte "... da una cagione malvagia operante nella

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assurdità della notte" annullandone ogni terribile effetto. Più che una descrizione è un'immagine,

vedo le stecche da cui penetra la luce e sento che il mondo si schiarisce e che la ragione

finalmente riesce a leggere con distacco l'irrazionale violenza notturna.

"Il gallo, improvvisamente la suscitò dai monti lontani, perentorio ed ignaro, come ogni volta."

Qui è bellissimo, il fatto che sia il gallo a suscitare l'alba, come se fosse il motore del mondo,

l'ignaro movente che genera ogni volta l'avanzare della luce, perentorio col suo canto penetrante

e deciso che si staglia nel silenzio della notte che volge al termine. Insomma la luce è spinta da

un gallo che la richiama, non la genera, semplicemente la suscita, e pronta sopraggiunge

rispondendo a quel richiamo.

"La invitava ad accedere e ad elencare i gelsi nella solitudine della campagna apparita."

La chiave di volta di questa frase è quell'apparita che qui assume un significato diverso da

apparsa che invece a noi sembrerebbe più consono. Il gallo invitava l'alba, la luce, ad accedere e

ad elencare, questa sequenza è davvero seducente, la luce non illumina il mondo all'improvviso

ma elenca i gelsi, è quasi un'entità, una divinità che ha la funzione di svelare, e che come un

lenzuolo si posa progressivamente sulla realtà rendendocela evidente, è la luce della ragione, è

l'epifania, è una sostanza che ricopre il mondo per poi penetrarlo quasi per capillarità arrivando

così a ridimensionare ciò che aveva perduto ogni misura, ci mostra la verità nella sua evidenza

più chiara, quasi enumerandone gli elementi, elenca i gelsi per renderceli più reali, per toglierci il

terrore che poco prima ci attanagliava perché quella verità, ora ridimensionata ed elencabile, era

occultata dal buio, percepita da noi come sotterranea e terrificante perché carica di sgomento, era

"la parola terribile della morte e la sovrana coscienza della impossibilità di dire: Io."

L'immagine è quella di un mondo degli inferi che si liquefa davanti alla marea di luce del sole

che avanza, in cui scompaiono tutti i fantasmi che l'avevano costretta in una morsa di gelo,

facendo tornare tutto alla normalità, la realtà quotidiana si riaffaccia finalmente nella serenità di

quella "solitudine della campagna apparita." Apparita ci dà veramente il senso del magico e del

religioso, ci fa pensare ad un'apparizione inattesa sopraggiunta per quietare l'anima affannata e

timorosa, è come se Gadda con questa immagine avesse ripescato quell'anima naufraga nel mare

nel momento stesso in cui cominciavano a mancarle le forze, riportandola finalmente alla quiete,

alla misura e alla ragione.

L'immagine che nasce da questa descrizione, letta nella sua interezza, è quasi impressionista, gli

elementi si elencano, il gallo richiama l'alba col suo canto mentre la luce che penetra dalle

persiane ci racconta ciò che lì fuori sta accadendo, è grazie a questi pochi elementi che noi,

seguendo la descrizione seguiamo l'immaginazione di Gadda e riusciamo a vedere ogni cosa

dimenticando che tutto ciò, il canto del gallo, i gelsi che si illuminano e la campagna solitaria, sta

oltre la finestra di quella stanza. E' quell'energico comando del medico "Lasciamola tranquilla",

"andate, uscite", che ci fa allontanare dai personaggi che animano la scena, ora li guardiamo

dall'esterno separandocene, lasciamo quella storia al suo destino privo di conclusione,

abbandoniamo il medico in paziente attesa che si determini la sorte di quell'anima infelice, non

sapremo mai cosa in seguito accadrà lì dentro. Qui Gadda non solo ci fa fare un salto spaziale ma

ci offre anche un preciso ritmo temporale con cui compiere quel salto, "...si udiva il residuo

d'acqua e alcool delle pezzuole strizzate ricadere gocciolando in una bacinella." Dall'interno

dell'ambiente angusto, che finalmente comincia ad illuminarsi grazie alla luce che penetra dalla

persiana, noi, portandoci dietro la cadenza ritmica del gocciolìo delle pezzuole che nel chiuso

della camera scandiscono il tempo d'attesa del medico, veniamo trasportati come per magia verso

la campagna esterna, ed è con la cadenza di quel gocciolìo che ci accompagna come fosse il

suono di un metronomo, una colonna sonora che rimane fissa nella mente, che vediamo elencare

quei gelsi. E' quasi una carrellata cinematografica, la luce che penetra dentro la stanza ci rapisce

e ci richiama all'esterno, questo salto Gadda ce lo fa fare per tramite del gallo che diviene il

veicolo che ci traghetta, come un ignaro Caronte, dal dentro della morte al fuori della vita del

giorno che nasce, "E alle stecche delle persiane già l'alba. ", qui stiamo ancora dentro la stanza

ed è quel "gallo," che "improvvisamente la suscitò dai monti lontani,... " che ci conduce

all'esterno. E' questa una sequenza quasi commovente, il dualismo che viene a crearsi tra interno

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ed esterno ci pone davanti ad un'evidenza tragica che risveglia in noi il terrore atavico della

natura indifferente al destino degli uomini, il gallo "...perentorio ed ignaro, come ogni volta. ",

quell'ignaro, rafforzato dalla ripetizione del rito che si compie "...come ogni volta" è annientante,

ciò che avviene quotidianamente nella natura continua a ripetersi nonostante la tragedia della

morte brutale, nonostante "...quel volto ingiuriato", nonostante in quella stanza si sia compiuto

con violenza inaudita un dramma intollerabile e Gadda, spietatamente, rafforza l'immagine della

fragilità umana con questo passaggio che ci racconta il salto dal prima della vita al dopo della

morte, "Questa catena di cause riconduceva il sistema dolce e alto della vita all’orrore dei

sistemi subordinati, natura, sangue, materia: solitudine di visceri e di volti senza pensiero.

Abbandono."

E' il sodalizio ormai infranto tra uomo e natura dopo il peccato originale che ci lascia orfani di

quella Madre natura, ora distante da noi, indifferente ai nostri patimenti ed estranea, che non

manca occasione per mostrare con brutale chiarezza alle coscienze la condizione di naufraghi

dispersi nell'oceano capriccioso dei nostri destini.

Ludovica:

La luce che arriva a portare chiarezza e a scacciare i demoni della notte è un concetto diffuso. Mi

hai fatto ripensare a un altro gallo che suscita l’alba, non si sa se l’alba del mondo o quella che si

rinnova ogni mattino, Il cantico del gallo silvestre di Leopardi, in cui l’arrivo della luce è il

passaggio dal falso al vero: "Su, mortali, destatevi. Il dì rinasce: torna la verità in sulla terra e

partonsene le immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falso

nel vero." Caccia l’oscurità delle apparenze, segna il momento in cui dall’oblio e dall’immobilità

bisogna rialzarsi e riprendersi il carico della vita, pur dolorosa, perché si deve affrontare l’amaro

dell’esistenza con consapevolezza. La luce dà la forza di affrontare il buio, i dolori, gli incubi

che ci tormentano, ti cito questi bei versi del poeta arabo Imru’ L-Qays, che ricordano un

pochino L’incubo di Fussli : "C’era una notte che, come onde del mare, distendeva le sue mille

ansie e i suoi mille dolori su di me, per mettermi alla prova. Quando la situazione si è aggravata

e ha cominciato a essere minacciosa, le ho detto: "O notte lunga, illuminati, fai venire un

mattino, anche se il mattino non sarà meglio di te".

L'incubo, Johann Heinrich Füssli, 1790-1791, Museo Goethe - Francoforte sul Meno

Notte e morte sono correlate e associate al sonno, in cui la ragione dorme e non può fare luce sul

mondo, l’uomo è immobile e non è cosciente, non può dire “io”, non può realizzarsi

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consapevolmente. E’ solo nel giorno che si possono riprendere sulle spalle i pesi della vita e

avere la speranza, pur se un po’ amara, di affrontare le tenebrosità dell’esistenza con chiarezza.

Nelle nostre menti il buio è quasi inevitabilmente legato all’incomprensibilità, all’irrazionalità,

agli istinti, riassumiamo tutto questo con la parola “oscuro” e dicendola sembra quasi di fare già

una classifica, buio/male e luce/bene, non solo la luce del Sole. Leopardi ha scritto tante belle

parole sulla Luna, mi viene in mente La vita solitaria, dove la luce lunare scaccia i demoni della

vita serena, impaurisce il truce ladro che tenta di approfittare del buio per aggredire il povero

passante e l’adultero che nell’oscurità dà sfogo ai suoi istinti, se la nostra specie fosse vissuta in

un buio mondo sotterraneo si sarebbe adattata a percepire meglio con poca luce che con molta,

avremmo odiato l’illuminazione intensa perché ci avrebbe accecato e impedito di capire il

mondo. Visto che invece è stato il contrario, amiamo la luce perché è in quella condizione che

abbiamo imparato a percepire meglio. Su questo primitivo stato di cose abbiamo edificato

sovrastrutture mentali che ormai sono molto radicate in noi: luce- chiarezza- comprensione-

ragione- purezza- spirito, buio- sgomento- ignoto- istinto- bassezza- non comprensione del

mondo.

La realtà dei fatti, alla fine, è che conosciamo in un misto di luce e ombra. Sappiamo bene che

vediamo gli oggetti grazie alla luce, ma dimentichiamo che se per qualche magia sparissero tutte

le ombre la nostra percezione del mondo sarebbe molto confusa. Quello che cerca di fare

Roberto Casati ne La scoperta dell’ombra è minare il dualismo luce-ombra riabilitando le

ombre, mostrando che anche loro sono strumenti di conoscenza e che la nostra diffidenza nasce

solo dalla confusione con cui le analizziamo.

Luce e ombra sono sorelle, l’ombra è la memoria della luce, la traccia dell’incontro dei fotoni

con gli oggetti su cui rimbalzano, è un modello degli oggetti che rappresenta, come se fosse un

tipo di prospettiva: ci sono l’oggetto da proiettare, la luce al posto dell’occhio e l’ombra al posto

dell’immagine.

Disegno di Leonardo sull’analogia tra ombra e proiezione prospettica.

Skia, ombra, in greco vuol dire anche traccia. "Non ho una storia da raccontare perché non

porto su di me l’ombra del passato. Ma osserva: questo è il mio privilegio. A ogni momento sono

diversa, ma in quel momento sono costretta a essere un’immagine fedele di ciò di cui sono

l’ombra. Proprio per questo i geometri, gli astronomi e i pittori si sono fidati di me. Non avendo

memoria, non posso ingannare nessuno quando consegno il messaggio che mi è stato affidato.

Quello che dico è al di sopra di ogni sospetto." (da uno dei dialoghi immaginari de La scoperta

dell’ombra tra Platone e la sua ombra, che cerca di dissuaderlo dai suoi pregiudizi).

Le ombre ci aiutano nella percezione, ci hanno guidato in molte scoperte astronomiche, possono

svelare aspetti nascosti della realtà che non avevamo mai notato. Casati racconta di quando ha

assistito per la prima volta a un’eclissi totale di Luna: già conosceva bene le leggi del moto della

Luna e le sue caratteristiche, ma il non vedere l’astro avvolto nella sua luce diafana, che gli dà un

senso di purezza, leggerezza e tutti gli attributi che associamo alla luce, gli ha fatto veramente

sentire che la Luna non è altro che un grosso sasso che sta in cielo. L’ombra della Terra gli aveva

ricordato la natura della Luna, al di là di romanticismi e sovrastrutture mentali.

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Le ombre possono rivelare invece di nascondere, troppa luce può

nascondere invece di rivelare. Ricordo un brano da Le nozze di

Cadmo e Armonia di Roberto Calasso che ci avevi letto in classe

qualche anno fa: "La perfezione, qualsiasi specie di perfezione, esige

sempre qualche nascondimento. Senza qualcosa che si occulta, o che

rimane occulto, il perfetto non è. Ma come potrà lo scrittore

nascondere l’evidenza della parola e delle sue figure? Con la luce.

Scrive l’Anonimo: "E come ha fatto il retore a nascondere la figura

che usava? E’ chiaro che l’ha nascosta con la luce stessa."

Nascondere con la luce: peculiarità greca. Zeus non cessava di

nascondere con la luce. Per questo la luce ulteriore a quella greca è

di altra specie, e assai meno intensa. Quella luce vuole stanare il

nascosto. Mentre la luce greca protegge il nascosto. Lascia che si

mostri come tale anche nell’evidenza diurna. Anzi, riesce anche a

rendere occulta l’evidenza, nera per la luce, come la figura retorica

diventa irriconoscibile quando il fulgore la invade e viene sommersa

da una "grandezza che si effonde da ogni parte." L’evidenza delle

linee dritte del Partenone nasconde il lavoro delle correzioni ottiche

che adattano le Idee geometriche alla coscienza umana. La luce sulla

veste dell’Hera di Samo indugia sulle scanalature, si ferma dando

così un senso di tempo eternizzato, scorre sulle linee evidenziando la

perfetta geometria delle rette. Avvolge la dea in un velo d’eternità, di

perfezione immutabile come le Idee platoniche; cela il corpo della

donna, nasconde nella perfezione geometrica la struttura interna, le

passioni umane, ma i sentimenti non possono fare a meno di rivelarsi nell’ombra della sinusoide

che solca il limite tra le due metà, quella sottostante della divina geometria e quella soprastante

delle morbide fattezze umane.

Per finire, chiudo con delle parole "quantistiche", ambigue, che parlano di complementarità tra

mondo della luce e mondo del buio, parole di cui non potremo mai sapere con esattezza il

significato perché il loro oratore è morto: "Vedo la luce nera", pronunciate da Victor Hugo nel

momento di passaggio dalla vita alla morte.

Antonio:

Cara Ludovica hai messo molta carne al fuoco, forse a questo punto occorre fare un po' di

chiarezza e sistematizzare il discorso. E' chiaro che la luce assume non soltanto la caratteristica

dell'insieme dei fotoni che colpendo una superficie la illumina generandone così anche l'ombra.

Questa è un'acquisizione recente, certo gli antichi non sapevano cosa fossero i fotoni e non

potevano immaginare neanche lontanamente cosa fosse il dualismo onda particella. Nel mondo

atavico che ancora ci abita associamo per forza di cose tutte le nostre paure al buio, allo spazio

incontrollabile della notte, al terrore dell'ignoto che compare a minacciarci spuntando dalle

tenebre, all'arrivo dell'inatteso incombente che vigliaccamente si nasconde nello spazio del non

percepibile e che è costantemente vivo, anche se solamente nella sua probabile presenza. Credo

sia questo a dare la forza che la notte ha come spazio degli incubi. C'è anche che nel nostro

passato della luce sapevamo molto poco, all'inizio dei processi di conoscenza e di

razionalizzazione del mondo alcuni elementi naturali, come la luce appunto, vedono ampliare i

loro significati fino ad assumere molteplici e a volte contraddittorie accezioni. La luce quindi

diventa sia divina che della ragione, sacro e laico quando emergono affermandosi si riconoscono

entrambi tramite un processo di illuminazione, una chiarificazione, ancor più come trionfanti sul

buio dei loro opposti. E' con questo significato che designiamo i secoli bui, il buio della mente, il

sonno della ragione, il buio asseconda quindi il mimetismo delle oscurità umane favorendole in

quanto si riconoscono nello stato in cui la mancanza di luce sostiene e protegge il loro trionfo. E'

chiaro che stiamo trattando il significato simbolico che la luce assume quando vogliamo indicare

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ciò che è limpido, chiaro e leggibile senza fraintendimenti, insomma ci serviamo della luce ma è

vero anche che questo atteggiamento non è privo di conseguenze, ciò che dice Calasso a

proposito della luce greca, della luce che nasconde, ce lo portiamo ancora dietro come una sorta

di bagaglio dal quale è difficile liberarsi. La chiara, razionale, rivelante ragione non

contraddittoria nata in Grecia, dove ogni processo prevede una spiegazione delle cose, ognuna

provoca la conseguente ed è generata da quella che la precede, in un principio di causalità che

esclude il caso, il fato, l'ignoto movente, procedendo nella ricerca della chiarificazione, dello

svelamento, e con le scienze estreme di oggi perpetrando l'assassinio sistematico

dell'inconoscibile a favore dello spiegabile ad oltranza, nella speranza di supplire alle umane

fragilità con il consolatorio "prima o poi scopriremo e comprenderemo tutto", guarendo ogni

male e lenendo ogni sofferenza umana. Questo ci ha lasciato come prodotto di scarto, non

previsto e non voluto, una zona inesplorata nelle cose del mondo, ed è lì che si annida tutto ciò

che la luce troppo chiara relega nell'indeterminabile. Voler spiegare tutto con la ragione è come

una sorta di atto di vigliaccheria, è il non voler prendere in considerazione ciò che può essere

scomodo per l'uomo e per i suoi equilibri. Prima o poi un tentativo di svelamento di questo lato

oscuro lasciato come scoria dalla luce violenta del pensiero positivo doveva essere fatto e ci

hanno provato, anche se in parte, Freud prima e Jung dopo, cercando da un lato di razionalizzare

ciò che non può essere razionalizzato e dall'altro di ampliare il concetto di indeterminabile

donandogli una consistenza quasi solida ed una presenza costante. Ormai sappiamo che l'oscuro

alberga in noi, è una seconda presenza che ci abita e sulla quale non abbiamo dominio. E' questo

un dato che diamo per acquisito seppur sia molto recente, nasce nella Vienna ricca di idee della

secessione, dove si incontrano menti come Mahler, Schönberg, Wittegenstein, Freud, Klimt,

Zweig e Musil, ce ne siamo appropriati per mera curiosità, quasi per gioco, ed ora dobbiamo

farci i conti quotidianamente. Jung tra gli Archetipi dell'inconscio collettivo indica, con il

termine Ombra, la parte irrazionale e istintiva comune a tutti noi, includendoci anche i pensieri

che la nostra coscienza reprime. Consideriamo pure, per cercare una lontana origine di questi

concetti, che la nostra cultura ha i suoi fondamentali nelle civiltà che ci hanno preceduto, le

conquiste di Alessandro hanno trascinato nel mondo greco i patrimoni religiosi degli Egizi, dei

Babilonesi e dei Persiani, l'Impero romano ha unificato l'occidente imponendo la propria cultura

ma ha anche attinto conoscenze dalle terre sottomesse, tanto per fare un esempio un po' al limite

ma esplicativo di ciò che intendo dire, pensiamo all'atteggiamento culturale dell'Imperatore

Eliogabalo, che in qualità di sacerdote siriaco volle introdurre a Roma molte pratiche religiose

orientali, nella sua cappella privata fece erigere le statue di Abramo, Orfeo, Apollonio di Tiana e

Cristo, in una sorta di miscuglio contraddittorio che passa dal pitagorismo alle ritualità

misteriche dell'antica Grecia per arrivare al cristianesimo, ricercando forse elementi comuni a

varie culture in una ingenua volontà unificatrice. Il risultato fu l'introduzione a Roma della

religione di Mitra di origine persiana zoroastriana, un dio che si muoveva all'interno dell'eterna

lotta tra bene e male e che entrò in forte competizione col cristianesimo del III secolo e che

sotterraneamente durò molto a lungo. Il pensiero di Eliogabalo mi ricorda un po', senza voler

naturalmente fare accostamenti che gli storici giudicherebbero blasfemi, quello che Giovanotti

esprime in una canzone, dove unifica in un calderone personaggi famosi che in realtà

comunicano, sia come credo politico, religioso che come esempio con le loro azioni, ognuno il

contrario dell'altro. Passiamo dall'Islamismo ortodosso di Malcom X al cristianesimo caritatevole

di Madre Teresa, dalla guerriglia armata di Che Guevara al pacifismo della disobbedienza civile

di Gandhi e così via, ti cito il brano "...Io credo che a questo mondo / esista solo una grande

chiesa / che passa da Che Guevara / e arriva fino a Madre Teresa / passando da Malcom X

attraverso / Gandhi e San Patrignano..." Testo oscuro destinato ad una ristretta élite di iniziati,

direi addirittura incomprensibile, almeno per quanto riguarda la presenza nell'elenco di San

Paterniano o Patrignano, vescovo di Fano fino al 360 d.C., oppure l'autore intende riferirsi ad

una discussa comunità di recupero? Forse, ma temo che l'enigma non verrà mai risolto.

Naturalmente sto scherzando, credo che Giovanotti però, nonostante il pasticcio, voglia parlare

dell'eterna lotta tra bene e male, che in definitiva noi riconosciamo simbolicamente nel dualismo

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luce ed ombra di cui abbiamo sin qui parlato e che ancora, come vedi, continuiamo a leggere,

seppur a volte confusamente, con lo stesso significato da millenni. Questi dualismi, bene-male,

notte-giorno, sonno-veglia in realtà nei loro significati simbolici si equivalgono e comprendono

tutto il resto, il sonno della ragione, se lo intendiamo in senso politico-sociale, come

nell'acquaforte di Goya, genera i mostri che ben sono rappresentati nel disegno come incubi

notturni che popolano il sonno.

Francisco Goya, Los caprichos, 1797, El sueño de la razón produce monstruos,

Biblioteca Nazionale di Spagna, Madrid

E' quindi questa un'allegoria che possiamo affiancare alla dicotomia giorno-notte, all'oscurità che

si contrappone alla luce, quella della ragione, appunto, il buio della mente Goya ce lo

rappresenta con un uomo dormiente le cui fantasie si dipanano in una serie di figure ghignanti

che l'attorniano.

Dando voce alla coscienza questo ci ricorda che da sempre nel buio alberga tutto ciò che si

contrappone alla razionalità, dagli antichi riti orfici fino ai Sabba notturni nei boschi delle

streghe medievali, e ancora quel lato tenebroso della mente, l'inconscio, che da sempre è stato

visto, almeno da quando se ne parla, come il lato oscuro dell'uomo, quello che nessuno di noi da

solo riesce a portare alla luce. Quindi la notte è terrore, è l'universo dei mostri e dell'occulto, è il

mondo dell'oblio e del sonno in cui la mente perde il possesso di se stessa. Nel libro C'era una

volta Ulisse Di Jean-Pierre Vernant, lo stesso che ha scritto Le Origini del pensiero greco, Ulisse

è mandato in un mondo alle porte della notte. "Questo mondo della notte, dell'oblio, questo

mondo dello spaesamento, questo mondo dell'incubo in cui ora si trova Ulisse e in cui ciascuno

di noi piomba quando fa brutti sogni, è un mondo da cannibali". Questa contrapposizione

giorno-ragione e notte-regno dell'irrazionale mi fa pensare ancora una volta a Nietzsche che

separa il mondo greco in dionisiaco e apollineo, da Socrate in poi la razionalità relega il mondo

del non razionale in un angolo, quasi non fosse più degno di essere preso in considerazione, forse

troppo scomodo per l'uomo o forse troppo antico per essere ancora accettato nel mondo che

ricerca il bello. Marguerite Yourcenar nel bel libro Il tempo grande scultore ci dice che "Le cose

perfettamente belle sono solitarie come il dolore dell'uomo." Questa solitudine della bellezza,

che ormai vive separata nel mondo perché non può confondersi col tutto, con il consueto, con la

banalità, è straniante, quasi penosa, ed allontana da sé tutto ciò che la mente non accetta perché

disarmonico e imperfetto, cioè non razionale.

Forse è per tutto questo che vediamo nella luce il simbolo della ragione, non per niente

identifichiamo il secolo del suo trionfo con l'Età dei lumi, quindi l'associazione che facciamo

luce-ragione è divenuta per noi automatica, scontata e non più discutibile.

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Nell'arte non è tutto così assodato e semplice, nell'Impressionismo la luce è ciò che rende palese

la realtà, In Caravaggio il messaggio viene trasmesso nella luce mentre nel buio rimane il non

detto, tutto ciò che non è palese e che non ci resta che immaginare. La luce, che come in Gadda

enumera, nell'architettura crea il ritmo, scandisce gli spazi e ci mostra il tempo della nostra

percezione mentre nella vita agisce sulla coscienza nel momento stesso in cui ci rende palese la

realtà e quindi decide per noi lo stato della psiche con cui ci appropriamo del mondo.

Immagine tratta da Verso un'architettura, Le Corbusier

In questa immagine del Partenone le colonne doriche illuminate dal sole proiettano le loro ombre

sullo Stilobate segnando una sequenza, un ritmo che si trasmette a chi sta percependo quello

spazio, a quel ritmo si affianca il gioco di luci e di ombre che vanno alternandosi su ogni singola

colonna grazie alle scanalature a spigolo vivo con cui sono intagliate. E' un gioco tra piccolo e

grande, un gioco di proporzioni, è armonia, bellezza, equilibrio, chi si muove in quell'ambiente

quel ritmo lo vive nell'intimo e ne è assoggettato. Qui le ombre sono generate dalla luce che

colpisce le colonne, è il contraltare della chiarezza della luce, è il lato oscuro, e più la luce è

violenta più quel lato oscuro si avvicina al nero della notte.

Sagrestia nuova S. Lorenzo, Firenze, La cupola, 1519-1531 circa

Nelle tombe medicee michelangiolesche la luce che viene dall'alto è spirituale e si riflette sulle

pareti bianche sostenute dalle nervature in pietra serena della sagrestia, è una luce intellettuale, di

quell'intelletto che nella visione plotiniana con la liberazione del corpo perderà il ricordo delle

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cose terrene e della personalità passata, dissipando così ogni contatto con l'io precedente nel

processo di ascesa dell'anima verso l'eternità.

Sagrestia nuova S. Lorenzo, Firenze, Le nervature, 1519-1531 circa

Sagrestia nuova S. Lorenzo, Firenze, la Notte, 1519-1531 circa

La notte michelangiolesca non ha incubi, è una notte serena col volto rilassato, in cui il corpo

disteso e privo di forze si abbandona, nella perdita di memoria delle angosce terrene, ad un

sonno riparatore in cui si libera, posata a fianco del giaciglio, persino della maschera che il

giorno la obbliga ad indossare. Michelangelo la sua notte ce la racconta così: "Caro m'è il sonno,

e più l'esser di sasso / infin che il danno e la vergogna dura. / Non veder, non sentir m'è gran

ventura, / però non mi svegliar, deh, parla basso".

Sagrestia nuova S. Lorenzo, Firenze, il Giorno, 1519-1531 circa

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Tutt'altro carattere ha invece il Giorno, il volto incerto lasciato non finito ed il braccio piegato

sul corpo quasi in gesto di difesa ci racconta i tormenti dell'artista, le sue incertezze, la continua

lotta interiore, le paure e le angosce che lo inseguivano costantemente. Michelangelo era un

uomo complesso oltre ogni dire, raggiungeva vette immense nell'arte ma nella vita era ricco di

contraddizioni, dubbi e a volte meschinità, si sentiva inseguito, perseguitato, minacciato,

arrivando a temere tutto e tutti, spesso faceva scelte difficili e coraggiose ma ancor più spesso la

fuga era l'unica strada che sentiva di poter percorrere.

E' questa una visione personale ma che ci mostra le rappresentazioni contrastanti con cui può

esserci narrato il racconto del giorno e della notte, del mondo della luce e quello dell'oscurità.

Claude Monet, Cattedrale di Rouen, da sinistra a destra, effetti di luce mattutina, al primo sole, in pieno

sole, a mezzogiorno e alla sera

E per finire non dimentichiamo la luce degli impressionisti, solamente per fare un esempio tra i

molti per semplicità ti cito Claude Monet e la sua molteplice raffigurazione della Cattedrale di

Rouen. La luce diviene il soggetto del dipinto, la Cattedrale è come se fosse la sua proposizione

subordinata, la vediamo quindi rappresentata al primo mattino, a mezzogiorno, in pieno sole e

alla sera, in stagioni diverse e sotto diverse condizioni atmosferiche, in una realtà mutevole non

per sostanza, la cattedrale è sempre quella ed è sempre lì, ma come percezione e forma, come

sensazione che trasmette e quindi come condizione mutevole dell'anima che la raccoglie.

Ludovica:

Cercherò di farmi perdonare non scrivendo veramente troppo.

L’ombra apre lo spazio alla scoperta.

Una realtà di pura luce è la perfezione già compiuta. Non si può andare oltre. Tendiamo sempre

verso la luce ma non la raggiungiamo pienamente, non possiamo, nell’istante dell’illuminazione

completa si raggiunge un limite tale che la vita è compiuta e quindi chiusa.

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Giorno

A proposito della Sagrestia Nuova di Michelangelo. La statua del Giorno è ben definita e lucida,

è immersa nella luce della cappella, è finita, lo scultore non può aggiungervi nulla di più…

tranne che sul viso, non-finito, scabroso, che trattiene la luce e fa delle ombre tra le imperfezioni

della superficie ruvida. C’è la possibilità di andare avanti e completare i lineamenti, si apre

all’osservatore la possibilità di immaginare.

Da sinistra verso destra: schiavo detto Atlante, schiavo barbuto, schiavo giovane , schiavo che si ridesta

La vita degli uomini non è finita, non è tutta luce. C’è una parte indeterminata data dall’ombra,

in cui si nascondono le infinite strade da scegliere ancora da percorrere: il futuro, non

conosciuto, aperto alla definizione. L’uomo avanza pian piano verso la luce lavorando

sull’ombra, a scapito dell’ombra. Adesso non so cosa mi aspetta negli anni futuri. C’è un ignoto

davanti a me e questo mi lascia la possibilità di non considerare la mia esistenza già definita e

quindi conclusa, ma di continuare la mia realizzazione, in cui lavoro su di me per liberarmi dalle

mie ombre, dalle contraddizioni, dagli istinti oscuri, in modo da tendere alla spiritualità; lavoro

sui miei dubbi e sulle mie lacune nella conoscenza del mondo e cerco di rendermi il mondo più

chiaro. Il Giorno è la fase centrale della vita in cui l’uomo si realizza, non è appena nato come

nell’Aurora e non sta declinando nel Crepuscolo; qui la realizzazione suprema è quella

intellettuale, un avanzare della luce sull’ombra. Il Giorno ci racconta che l’intelletto

progressivamente definisce le forme dell’animo e libera sempre più luce pulendo le scabrosità

che fanno l’ombra; il corpo del Giorno è quasi libero, ma stiamo ancora nella fase centrale

dell’esistenza, quella della realizzazione, e l’uomo non si è ancora liberato tutto nella luce, c’è il

viso da definire. La luce sta avanzando sulla figura, ma non ha ancora finito il suo percorso, c’è

l’ombra, nel viso. In questa fase l’uomo è un misto di luce e di ombra. E’ come se l’intelletto

fosse avvolto in un involucro di materia inerte che gli impedisce di vedere la conoscenza, e

allora deve scalpellare via il marmo che copre la forma definita e liberarla nella luce. Lo

vediamo anche nei Prigioni, che stanno ancora lottando per liberarsi dalla materia inerte che fa

ombra, scoprendo la parte spirituale che riflette la luce.

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A sinistra troviamo la tomba di Giuliano, verso destra la Madonna con il Bambino

L’uomo riesce in questo processo ispirandosi a una luce: i Duchi guardano la Madonna con il

Bambino come loro faro spirituale, luce a cui guardare per condurre una vita giusta.

Quando il processo si compie, l’intelletto si libera nella luce pura e spirituale della Sagrestia, è

tutto luce, tutta chiarezza, tutta attività spirituale, non c’è più il peso della carne con le sue ombre

e contraddizioni.

Quando si raggiunge questo limite? Quando la vita è perfettamente compiuta e non può andare

oltre in se stessa: si va nella morte. E’ nella notte che abbiamo la realizzazione suprema. La

statua della Notte è lucida, l’interprete del mondo dell’ombra rifulge di luce, è nera di luce. I

mondi della luce e dell’ombra si riuniscono perfettamente.

Notte

Luce e ombra possono rappresentare due fasi diverse della conoscenza, come nella basilica

paleocristiana.

La navata centrale, inondata di luce che viene dall’alto, è il momento della scoperta collettiva

della presenza di Dio, dell’ascolto delle parole del suo intermediario, della partecipazione alla

vita della comunità. Le navate laterali, in ombra, sono per il momento di raccoglimento

individuale, di riflessione, di ascolto della parola divina nei propri pensieri.

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Basilica di Santa Sabina, Roma, 422-432 d.C.

In genere, come dici tu, è solo la luce che è conoscenza e lo è in quanto chiarezza, ragione. Il

paradosso è che questa nostra filosofia nata dalla luce ci ha portato a non capire proprio… la

luce.

Se c’è qualcosa di contraddittorio e non leggibile facilmente questa è proprio la luce.

Dividendo il mondo in particelle e onde, si sono chiesti gli scienziati da secoli, a quale categoria

appartiene la luce?

Il problema è che ci sono esperimenti che si spiegano solo con una teoria e altri solo con

l’opposta.

Ne citerò due.

Da parte corpuscolare, l’effetto fotoelettrico. Una piastra metallica illuminata può emettere

elettroni. Aumentando l’intensità della luce, si immaginava secondo la teoria ondulatoria,

aumenta l’energia degli elettroni. Invece gli scienziati si accorsero che gli elettroni tengono in

minor conto l’intensità, ma tengono in gran considerazione la frequenza della luce incidente. E’

dalla frequenza che dipende la loro energia, e se la frequenza non supera un valore minimo non

c’è emissione di fotoni, se lo supera i fotoni vengono emessi, tutto indipendentemente

dall’intensità. Einstein lo spiegò supponendo che la luce fosse composta da quanti, i fotoni.

L’energia di ogni particella di luce dipende dalla sua frequenza; l’intensità è il numero di

particelle. Gli elettroni non escono dal metallo a meno che il singolo “sasso” che li colpisce non

possieda una sufficiente quantità di energia, ed ecco spiegata la frequenza di soglia. Tanti fotoni

possono aumentare il numero di elettroni che escono, non la loro energia.

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Da parte ondulatoria, l’esperimento della doppia fenditura. Si manda la luce su una piastra con

due fenditure vicine e si osserva cosa accade su uno schermo al di là della piastra. Se la luce

fosse composta da particelle, ci aspetteremmo due bande luminose in corrispondenza delle

fenditure. Invece osserviamo varie bande chiare e scure che si alternano. Con le onde è facile

spiegarlo: i punti di ombra sono quelli in cui è avvenuta interferenza distruttiva, cioè le onde si

sono annullate a vicenda; i punti di luce sono quelli in cui c’è stata interferenza costruttiva, cioè

le onde si sono sommate.

Allora, onda o corpuscolo?

La conclusione della fisica quantistica è: tutte e due e nessuna delle due. Non è solo onda né solo

particella e può comportarsi come entrambe, a seconda dell’esperimento.

E’ qualcosa di contrario al nostro desiderio di non contraddizione e non ambiguità. Tutta la fisica

quantistica lo è.

Questo ha sconvolto gli scienziati. Per molti non può essere che la natura funzioni così perché è

troppo assurdo, è come se ci si aspettasse che la natura debba funzionare in accordo con la

ragione, perciò hanno cercato strade che permettessero di ricondursi alla chiarezza della fisica

classica. Ad esempio, immaginando variabili nascoste: esiste una realtà che non vediamo, ma

considerandola tutto torna alla normalità.

Non sappiamo se questi scienziati abbiano ragione o no. Ciò che possiamo supporre con meno

dubbi è che la spinta a queste teorie nasca dal concetto di luce-chiarezza-ragione.

Il dualismo luce-ombra può trasformarsi in un pregiudizio. Forse dovremmo imparare a accettare

la luce e l’ombra senza sovrapporvi preconcetti, a capire che non c’è luce senza ombra e

viceversa, e non solo in fisica. Anche l’uomo è un misto di luce e ombra, ognuno di noi ha una

parte più evidente e una più oscura, entrambe fanno parte della nostra esistenza e perderemmo in

comprensione e capacità di realizzazione di sé se cancellassimo una metà.

Vorrei aggiungere ancora qualcosa sull’impressionismo per completare il discorso.

L’impressionismo rappresenta la realtà in quanto colpita dalla luce: non racconta ciò che non è

illuminato e ciò che è illuminato lo racconta in base a come la luce lo rende, non in base ad una

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eventuale essenza dell’oggetto a priori dalla luce. Non si racconta quindi una realtà assoluta, vera

ed esistente indipendentemente dal fatto che la luce dia la possibilità di vederla; è la luce che è

predominante, quindi l’informazione che abbiamo sulla realtà, quella inviataci dai fotoni. Si

vuole rappresentare la realtà più vera e oggettiva possibile, e qual è questa verità? E’

l’informazione che i nostri occhi elaborano sulla realtà. E’ questo il massimo grado di verità.

Una realtà assoluta a priori non è verità, è preconcetto, una vecchia abitudine mentale, qualcosa

che non ha senso.

Allora, senza voler forzare troppo il paragone, solo guardando a una certa affinità di spirito, mi

viene da pensare a Il velo di Einstein di Anton Zeilinger. L’idea che Zeilinger ha della realtà è

proprio questa.

Zeilinger nello scrivere cerca precisione e oggettività maggiori possibili. E’ tagliente come un

coltello. Se l’esperimento dice che la particella sembra passare da due fenditure e quindi il

concetto di traiettoria sembra non avere senso, non importa che l’uomo sia così abituato al

concetto di traiettoria che per lui è fondamentale, seccamente e con il minor numero di parole lo

scienziato dice che non esiste traiettoria, punto, senza molti riguardi per chi sente queste idee per

la prima volta, un po’ come per Monet i preconcetti sul fatto che una casa deve essere più

importante di una vela non hanno senso ed entrambi vengono raccontati semplicemente in base a

come la luce li racconta, né più né meno.

Monet, Regate ad Argenteuil, 1872, Parigi Musée d'Orsay

Perciò, se gli indizi che abbiamo ci fanno fortemente supporre che esista una realtà indipendente

da noi ma non ci danno certezze, questa è la verità, non ha senso mettersi a fantasticare. Non

solo, è anche inutile cercarla, visto che né la sua esistenza né la sua non esistenza possono

davvero essere dimostrate, e soprattutto, noi non distinguiamo realtà e informazione.

E’ un problema kantiano. Possiamo vedere il mondo unicamente attraverso noi stessi (attraverso

la luce che colpisce i nostri occhi, dal punto di vista impressionista) e non possiamo eliminarci

per vedere la realtà in sé. Gli impressionisti ci provano, ma possono togliere solo l’interfaccia del

pensiero cosciente, non quella della percezione.

Non solo, gli esperimenti di fisica quantistica ci suggeriscono che pensare ciò che abbiamo

osservato in termini di una sottostante realtà a priori (es. una traiettoria) ci porta in

contraddizione. Ciò che realmente abbiamo è: sappiamo quale rivelatore è scattato, sappiamo se

si è formata o no una figura d’interferenza, ecc. Tutto il resto (es. la famosa traiettoria) è una

costruzione della mente.

Allora Zeilinger propone di analizzare la realtà in termini della conoscenza che ne abbiamo,

delle informazioni che ne riceviamo (es. quelle portate dai fotoni).

Non è un’approssimazione per zittire i dubbi, non è un mero “zitto e calcola” senza domandarsi

altro. Zeilinger dice proprio che la realtà è informazione. E’ quello il più preciso, oggettivo grado

di realtà.

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"Secondo la fisica classica, e anche secondo il senso comune, la realtà viene per prima e

l’informazione su questa realtà è invece qualcosa di derivato e secondario. Ma forse anche il

contrario è vero. Tutto ciò che abbiamo sono le informazioni, le nostre impressioni sensoriali, le

risposte a domande che facciamo noi. La realtà viene dopo: è derivata e dipendente dalle

informazioni che riceviamo."

Non c’è una realtà a priori che io analizzo con gli esperimenti, come non c’è un valore a priori

delle cose che il pittore deve ricercare nella rappresentazione.

Zeilinger propone di considerare l’informazione come una proprietà fisica al pari della massa o

della temperatura. Non è una proposta strana, solo che non ci siamo abituati. In fin dei conti,

nessuno ha mai visto la Temperatura platonica, ma ne vediamo gli effetti: il fuoco è caldo e

quindi mi scotto.

In questo modo si spiegano alcune idee, ad esempio il principio di complementarità. La particella

può mostrare una traiettoria (proprietà corpuscolare) o una figura d’interferenza (proprietà

ondulatoria) ma mai entrambe contemporaneamente, perché possiede solo un bit di

informazione, non può proprio portare più "peso" d’informazione perché è un sistema

elementare.

Antonio:

Cara Ludovica, quando dici che anche l’uomo è un misto di luce e ombra hai ragione, ma in

fondo tutto lo è, anche la realtà che ci circonda, come sarebbe mai possibile immaginare un

paesaggio privo di ombre? Noi occidentali incontriamo i nostri limiti e a volte ce ne stupiamo,

non riusciamo a comprendere come sia possibile che la nostra cultura abbia edificato barriere che

ci impediscono di vedere la realtà per quello che è e per questo la troviamo quindi complessa,

difficile da decodificare, contraddittoria, oscura. L'occidente ha vissuto più volte nella storia

l'illusione di inseguire la luce come miraggio, ricordiamo La Repubblica di Platone e poi ispirata

a questa la Città del Sole di Campanella, gli utopisti ottocenteschi come Owen con New

Harmony, Fourier col suo Falansterio e Godin col Familisterio, esperimenti di convivenza

armonica e ideale non realizzabili e quando realizzati falliti, come non ricordare le Città ideali

rinascimentali e l'illusione umanistica e rinascimentale di poter rappresentare il mondo reale in

chiave geometrico - matematica con la prospettiva. Insomma l'uomo occidentale ha vissuto la

sua grande illusione di trovare la luce e continua a volerla vivere ancor oggi caricando la scienza

della responsabilità di trovare la soluzione a tutti i suoi fallimenti. Alla base di tutta questa

discussione penso ci sia però il medesimo problema in cui cade Sant'Agostino quando nell'XI°

capitolo delle Confessioni, parlando della Creazione, si chiede cosa sia il tempo e cercando di

darsi una risposta dice che il passato è memoria, il futuro è attesa ed il presente è solo un attimo

che raccoglie tutto, quindi sia il passato che il futuro sono presenti, facendo diventare il presente

un tempo in tre forme distinte, il presente delle cose presenti, il presente delle cose passate ed il

presente delle cose future. Agostino ha perfettamente ragione e ciò che dice non solo è molto

affascinante ma è anche bello, c'è però un piccolo problema, lui parla del tempo psicologico

sicuro invece di parlare oggettivamente dell'essenza del tempo. Penso che dovremmo prendere

atto di questa distinzione e farne tesoro anche per quanto riguarda la luce, la luce di Gadda è una

luce psicologica, è una luce apparita e che conta i gelsi, ma non apparita in assoluto, apparita sul

mondo per noi che in quell'istante lo osserviamo e solo per noi che eravamo immersi fino a poco

tempo prima nella luce notturna delle lampade. La luce impressionista di Monet ad Argenteuil,

per quanto possa riferirsi alla luce che colpisce la realtà senza giudicarla e senza categorizzarla,

così come fa l'artista nel restituircela, non può prescindere dalla percezione psicologica del

mondo nel momento stesso in cui quella luce ci viene raccontata in acqua, vele, alberi e case,

quella luce subisce una trasformazione che ne modifica completamente l'essenza, non è più

semplicemente un insieme di fotoni, è vita, arte e bellezza, è l'anima dell'artista, è il suo carico

interiore a restituircela e non una macchina d'acciaio, la scelta stessa del soggetto e della forma

di narrazione non possono prescindere da questo. Questa differente descrizione della realtà è

dirompente per noi che osserviamo il dipinto e gli interrogativi sul mondo che ci sta attorno

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cominciano a farsi strada, è un gioco di rimbalzi e quindi di appropriazione del racconto che ne

fa Monet e del nostro di riflesso dal suo, è questo il congegno meraviglioso dell'arte. Ti avevo

parlato sempre di Claude Monet a proposito dei dipinti riguardanti la Cattedrale di Rouen,

cos'altro sono quella serie di dipinti se non la volontà di cogliere la realtà in diverse forme

emotive? Non è ricerca oggettiva della percezione ed in questo senso non ne è la sua

rappresentazione, penso proprio il contrario, è quanto di più soggettivo possa esistere

nell'appropriazione personale della realtà, diversa in ogni istante, sotto ogni illuminazione e

quindi sotto ogni stato d'animo che quel mondo così variamente percepito ci trasmette.

Yin e Yang, antico simbolo del Taoismo cinese

In Oriente l'ambiguità con cui ci si presenta il mondo è data per scontata e quindi hanno meno

problemi di noi ad accettare l'enigmaticità della luce che si presenta come particella, onda,

generatrice d'ombre, narratrice del mondo e cornucopia di realtà psichiche, pensa solamente alla

simbologia dello Yin e Yang nel Taoismo, l'uomo non può avere una cognizione del Tao, che è

eterno, ma solo delle cose che il Tao produce tramite il principio positivo Yang e quello negativo

Yin, che insieme danno origine, nella loro doppia azione, al cielo, alla terra e all'uomo, ed

assieme stanno ad indicare l'armonia ma anche le contrapposizioni, tenebre-luce, luna-sole,

notte-giorno, scuro-chiaro, femminile-maschile, passivo-attivo, freddo-caldo, negativo-positivo,

nord-sud, ovest-est, terra-cielo, acqua-fuoco, ma in ogni metà è presente un po' del suo opposto,

nello yin un pò di yang e nello yang un pò di yin. Noi questa doppiezza non l'abbiamo mai

accettata come propria della natura delle cose, abbiamo cercato sempre di vedere razionalmente

solo l'aspetto che più ci piaceva eliminando l'altro come inaccettabile. Schopenhauer e Jung non

solo l'accettano ma rielaborano questa visione propria delle filosofie orientali, tanto per farti un

esempio pensa all'Anima e all'Animus, un po' di donna nell'uomo e un po' di uomo nella donna

dell'Archetipo Junghiano.

Insomma, per concludere possiamo dire con sicurezza che l'esperienza dell'uomo non si risolve e

non potrà mai risolversi cercando solamente la luce, bisogna imparare ad accettare l'ambiguità

come dato di fatto, la fisica quantistica ce lo insegna ma ce lo insegna ancor più l'esperienza,

d'altronde come potremmo apprezzare il bene se non conoscessimo il male, come il bello senza il

brutto per confrontarli, come l'armonia senza la disarmonia, come la luce del giorno senza il buio

della notte ed infine come noi stessi senza il nostro represso ed oscuro mondo interiore, che

quando emerge può anche spaventarci e provocarci dolore ma ci aiuta anche a costruire cose

meravigliose come l'arte figurativa, la scultura, la poesia, la musica, insomma la bellezza, a volte

solitaria come il dolore degli uomini altre splendente anche se di quella luce nera di cui tu parli,

ma sempre e comunque illuminante per l'anima.

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