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Convegno nazionale AISRI Concertazione e contrattazione territoriale Trento, 3-4 ottobre 2014 Intervento del prof. Lorenzo Zoppoli, Università di Napoli Federico II Valori e regole nelle negoziazioni territoriali Sommario: 1. Ordinamento giuridico e (de)regolazione territoriale del lavoro: la sussi- diarietà ai tempi della globalizzazione (ovvero: la inevitabile aziendalizzazione?). - 2. La marginalizzazione del territorio nell'ordinamento intersindacale in declino: dalle clausole di congelamento (1993) alle intese modificative (2009). - 3. L' assenza del terri- torio nel testo unico su rappresentanza e contrattazione del 2014; tracce di territorialità nell’accordo interconfederale (separato) del novembre 2012 sulla produttività. - 4. La valorizzazione (debole e contraddittoria) del territorio nell'ordinamento statuale: dai contratti di riallineamento agli accordi territoriali sulla defiscalizzazione del salario di produttività (passando per i contratti di prossimità).- 5. La contrattazione territoriale nel lavoro pubblico. - 6. Le potenzialità delle negoziazioni territoriali (Patto per il lavo- ro 2013 della CGIL, protocollo Expo Milano 2015, tentato accordo di Pordenone 2014, protocollo Provincia di Trento 12 aprile 2014): sviluppo e occupazione, formazione, partecipazione, welfare locale. 7. Segue: la codatorialità. - 8. Le debolezze politico- istituzionale delle negoziazioni territoriali. - 9. Quali regole per governare meglio la dialettica universalità/particolarismi e sostenere le negoziazioni (contrattazioni) territo- riali? La questioni dei diritti fondamentali da garantire a tutti. - 10. Regole chiare per la rappresentatività degli attori. 1. La scelta di dedicare oggi una specifica riflessione a concertazione e contrattazione territoriale - che da ora accomunerò nel sintetico, ancorché ellittico, termine di “nego- ziazioni territoriali” - merita alcune considerazioni di scenario. La prima attiene all’attualità del tema. Fino ad alcuni anni addietro poteva apparire persino naturale discutere di relazioni industriali nella dimensione territoriale, salvo poi a fare le debite differenziazione sulla dubbia rilevanza di tale dimensione e sulla sua articolata fenomenologia/tipologia (Lassandari 2001, Bellardi 2008; Cataudella 2014; Tosi 2014). Infatti poteva immaginarsi che un metodo ancora solido di regolazio- ne collettiva del lavoro giungesse, almeno in Italia, ad abbracciare, oltre la dimensione nazionale ed aziendale, anche quella territoriale (intesa come coincidente sia con deli- mitazioni note – regionale, provinciale – sia con delimitazioni più innovative – distret- to, filiera, sito, ecc.), pure tradizionalmente relegata in un ruolo di quasi-comparsa. Oggi il vento è assai mutato, sia per la regolazione multiemployer sia per la ascesa della

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Convegno nazionale AISRI

Concertazione e contrattazione territoriale

Trento, 3-4 ottobre 2014

Intervento del prof. Lorenzo Zoppoli, Università di Napoli Federico II

Valori e regole nelle negoziazioni territoriali

Sommario: 1. Ordinamento giuridico e (de)regolazione territoriale del lavoro: la sussi-

diarietà ai tempi della globalizzazione (ovvero: la inevitabile aziendalizzazione?). - 2.

La marginalizzazione del territorio nell'ordinamento intersindacale in declino: dalle

clausole di congelamento (1993) alle intese modificative (2009). - 3. L' assenza del terri-

torio nel testo unico su rappresentanza e contrattazione del 2014; tracce di territorialità

nell’accordo interconfederale (separato) del novembre 2012 sulla produttività. - 4. La

valorizzazione (debole e contraddittoria) del territorio nell'ordinamento statuale: dai

contratti di riallineamento agli accordi territoriali sulla defiscalizzazione del salario di

produttività (passando per i contratti di prossimità).- 5. La contrattazione territoriale

nel lavoro pubblico. - 6. Le potenzialità delle negoziazioni territoriali (Patto per il lavo-

ro 2013 della CGIL, protocollo Expo Milano 2015, tentato accordo di Pordenone 2014,

protocollo Provincia di Trento 12 aprile 2014): sviluppo e occupazione, formazione,

partecipazione, welfare locale. 7. Segue: la codatorialità. - 8. Le debolezze politico-

istituzionale delle negoziazioni territoriali. - 9. Quali regole per governare meglio la

dialettica universalità/particolarismi e sostenere le negoziazioni (contrattazioni) territo-

riali? La questioni dei diritti fondamentali da garantire a tutti. - 10. Regole chiare per la

rappresentatività degli attori.

1. La scelta di dedicare oggi una specifica riflessione a concertazione e contrattazione

territoriale - che da ora accomunerò nel sintetico, ancorché ellittico, termine di “nego-

ziazioni territoriali” - merita alcune considerazioni di scenario.

La prima attiene all’attualità del tema. Fino ad alcuni anni addietro poteva apparire

persino naturale discutere di relazioni industriali nella dimensione territoriale, salvo

poi a fare le debite differenziazione sulla dubbia rilevanza di tale dimensione e sulla

sua articolata fenomenologia/tipologia (Lassandari 2001, Bellardi 2008; Cataudella

2014; Tosi 2014). Infatti poteva immaginarsi che un metodo ancora solido di regolazio-

ne collettiva del lavoro giungesse, almeno in Italia, ad abbracciare, oltre la dimensione

nazionale ed aziendale, anche quella territoriale (intesa come coincidente sia con deli-

mitazioni note – regionale, provinciale – sia con delimitazioni più innovative – distret-

to, filiera, sito, ecc.), pure tradizionalmente relegata in un ruolo di quasi-comparsa.

Oggi il vento è assai mutato, sia per la regolazione multiemployer sia per la ascesa della

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dimensione territoriale. Pertanto occorre a mio parere chiedersi se ha un senso pro-

muovere un nuovo dibattito su una modalità di regolazione collettiva del lavoro che,

come le altre, appare in difficoltà laddove c’è, e, più delle altre, non ha percorsi chiari

da imboccare per garantirsi un futuro.

La risposta sarebbe subito e integralmente negativa se si accettassero quelle letture so-

cio-istituzionali secondo cui lo stato delle relazioni industriali in Occidente – strette in

una morsa fatta da globalizzazione finanziarizzata, inarrestabile evoluzione tecnologi-

ca, pressanti spinte alla flessibilità da parte sia delle imprese sia dei lavoratori con più

elevate professionalità (Bordogna 2014) - ci costringe ad affrontare al più un sistema

declinante, in cui soggetti e sedi della regolazione collettiva del lavoro non possono

certo pensare ad espandersi. In questa prospettiva realistico sarebbe concentrare le ri-

sorse regolative e intellettuali intorno alla dimensione che appare più gettonata, quella

cioè aziendale o di impresa, ovviamente rilevabile o immaginabile, nella prassi come

nella teoria, solo laddove si sia in presenza di significative aggregazioni di lavoratori

con una particolare attenzione alle imprese multinazionali, transnazionali, metanazio-

nali. Senonchè la situazione, almeno dall’angolazione visuale del giurista, appare un

po’ più complessa.

Primo: nell’ordinamento giuridico italiano ed europeo non siamo ancora ad un livello

tale di declino della regolazione del lavoro in genere e della regolazione collettiva in

specie da rendere irrilevante la graduazione multilivello delle sedi regolative. E in que-

sta graduazione occorre chiedersi quale rilievo abbia il territorio, inteso, genericamen-

te, come livello che non si identifica con entità politiche dotate di una sovranità norma-

tiva almeno coincidente con i confini nazionali.

Secondo: ammesso pure che siano in ascesa le spinte alla deregolazione del lavoro e, in

particolare, alla “decollettivizzazione della contrattazione” (Bordogna 2014, p. 74), ap-

pare importante focalizzare l’attenzione su spazio e, soprattutto, funzione che assume

il territorio in questo processo di profonda trasformazione ordinamentale. E’ infatti cer-

to che in Italia la dimensione territoriale ha giocato e giocherà ancora un ruolo nel do-

sare tempi e ampiezza degli interventi sugli assetti normativi, che si tratti di flessibiliz-

zare, semplificare o specificare regole generali o comunque più ampie.

Quindi promuovere un dibattito sul tema di oggi ha senso e come, a patto che anche il

giurista, oltre a ripercorrere problematiche note, si ponga qualche nuova domanda.

Sotto il profilo dell’analisi giuridica appare senz’altro da conservare un approccio plu-

riordinamentale, sempre praticato, e oggi assai utile in materia, proprio per verificare

quanto modelli normativi e prassi convergano nel ponderare la dimensione territoriale

delle relazioni industriali.

Prima però di ripercorrere le dinamiche che hanno intrecciato le traiettorie

dell’ordinamento statuale con quelle dell’ordinamento intersindacale, val la pena di

chiarirsi su un profilo che , sotto l’aspetto giuridico, attiene al sistema delle fonti, ma

connotandolo nel senso di assegnare un particolare contenuto valoriale alla regolazio-

ne che si collochi in una posizione di maggiore vicinanza ai destinatari della regolazio-

ne stessa. Mi riferisco al principio di sussidiarietà orizzontale (più che verticale), che

com’è noto risulta codificato tanto nell’ordinamento unionale quanto in quello statale:

in relazione ad esso appare proficuo chiedersi quanto porti ancora a valorizzare la di-

mensione propriamente territoriale.

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Nella Ue occorre dire che la funzione normativa delle parti sociali (sussidiarietà oriz-

zontale) in materia di politica sociale risulta chiaramente prevista dai Trattati (art. 152-

155 TFUE), ma senza che assuma una qualche specifica rilevanza una dimensione terri-

toriale diversa da quella europea o nazionale. Ciò non toglie però che gli accordi ai

quali fa riferimento l’art. 155.1 del Trattato TFUE possano avere un loro specifico ambi-

to di applicazione territoriale. Da qui nasce infatti la interessante esperienza della con-

trattazione transfrontaliera, che altro non è se non una contrattazione territoriale trans-

nazionale che finisce per abbracciare aree territoriali delimitate in funzione di una re-

golazione collettiva talora inedita per gli istituti e i rapporti che giunge a lambire (basti

dire che con tali accordi si è riusciti persino ad infrangere il tabù di una regolazione

sopranazionale dei salari). Si tratta dunque di un’esperienza assai innovativa di con-

trattazione territoriale, che però appare un frutto abbastanza episodico di alcuni “mo-

menti magici” vissuti dalle asfittiche relazioni industriali di livello unionale1. Può dun-

que dirsi che l’ordinamento giuridico europeo non ostacola ma neanche sostiene la re-

golazione collettiva a livello territoriale.

In Italia, com’è noto, il principio di sussidiarietà, pur essendo approdato in Costituzio-

ne da quasi quindici anni nella duplice versione verticale e orizzontale, è ben lungi

dall’assestarsi e, soprattutto, dal costituire un solido puntello per le regolazioni collet-

tive negoziate a livello territoriale. Il vigente art. 118 , che lo afferma esplicitamente,

non riguarda infatti il circuito della normazione bensì quello della gestione ammini-

strativa: che può dunque al massimo condurre a valorizzare “quelle attività poste in

essere dalle organizzazioni sindacali e datoriali, riconducibili allo svolgimento di fun-

zioni o all’erogazione di servizi pubblici, ovvero di interesse generale” (Trojsi 2013, p.

241).

Si è per la verità tentato di recuperare una valenza costituzionale della concertazione

territoriale attraverso il principio della leale collaborazione tra soggetti e istituzioni con

funzioni normative così come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale (Trojsi

p. 220 ss.). Difficile però appare affermare che dall’ordinamento costituzionale la con-

certazione con le parti sociali venga considerata un vincolo da rispettare sempre e co-

munque. Un possibile percorso per accrescere la coesione sociale sì, ma non molto di

più. Fermo restando che rientra invece nell’autonomia normativa e organizzativa re-

gionale la valorizzazione della dimensione concertativa a livello locale per le più varie

finalità (al riguardo v. l’attenta analisi di Trojsi), ivi compresa la partecipazione ad or-

ganismi pubblici con funzioni varie (es. Crel regionali) e un più stretto intreccio tra

prassi concertative e contrattazione vera e propria, di livello territoriale o anche azien-

dale (emblematica al riguardo l’esperienza trentina: v. Mattei 2014). Tutto da verificare

è invece che questa potestà normativa sia riuscita ad abbracciare i nodi regolativi posti

dai nuovi problemi della rappresentatività dei soggetti sempre più chiamati a ruoli

concertativi dalle istituzioni locali (Trojsi, p. 231).

L’art. 39 Cost. c. 1 ha poi, nella sua sinteticità, un’innegabile valenza protettiva della li-

bertà delle parti sociali di sviluppare la propria azione sindacale ad ogni livello. Anche

se occorre essere ben avvertiti che la possibilità di introdurre una contrattazione collet-

1 Anche queste in fondo più prolifiche in una dimensione aziendale.

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tiva con particolare efficacia giuridica, consentita dalla medesima norma nei commi

successivi mediante una apposita legge, non può non riflettersi anche

sull’organizzazione e sulla configurazione giuridica dei diversi livelli contrattuali. Su

questo occorrerà tornare successivamente.

Pur con questa articolata piattaforma di lancio, è innegabile che finché il nostro ordi-

namento costituzionale è parso nell’ultimo ventennio orientato a valorizzare la dimen-

sione regionalista addirittura in una chiave federale, potevano registrarsi notevoli in-

fluenze sulla valorizzazione del territorio come potenziale baricentro regolativo anche

delle negoziazioni collettive (sempre però meno forti man mano che avanzava l’ombra

lunga dell’aziendalizzazione: Trojsi, p. 241). Oggi l’attrazione verso il policentrismo

normativo in materia di lavoro sembra in vertiginosa caduta, preferendosi, forse, una

ricentralizzazione del potere normativo con finalità essenzialmente deregolative e

semplificatorie (v. nuovo testo2 art. 117 Cost. specie: comma 2 lett. g, m, o, u; comma 4).

Ma, come poc’anzi si diceva, il territorio ha ancora un ruolo da giocare: fino

all’approvazione definitiva della riforma costituzionale senz’altro e, comunque, anche

dopo (v. art. 117 comma 3 su sviluppo locale e organizzazione servizi alle imprese;

istruzione e formazione professionale; art. 118). Si tratta allora di capire, dal punto di

vista del diritto del lavoro in trasformazione, se esistono chiarezza e convergenza su

questo ruolo e sulle regole ad esso più congrue.

2. A questo punto – specie in assenza di indicazioni assestate e univoche sul piano della

normatività costituzionale – non può che tornare in primo piano l’assetto che per la

dimensione territoriale emerge da quello che – da Giugni in poi - siamo abituati a de-

nominare ordinamento intersindacale3. Al riguardo non si deve trascurare neanche nel

terzo millennio che fino a un paio di decenni addietro il nostro sistema sindacale era

essenzialmente mono-livello, con una incontestata dominanza del livello nazionale di

contrattazione. E questo, alla fin fine, non è altro che la conseguenza del forte nesso si-

stema politico-sistema sindacale che ha caratterizzato il nostro Paese anche dopo la fine

dell’esperienza corporativa.

Il deciso avvio della contrattazione centralizzata alla fine della seconda guerra mondia-

le ha infatti innanzitutto sacrificato l’azione sindacale in azienda che in quel periodo si

andava incardinando sui consigli di gestione e sui germi di una partecipazione dei la-

voratori alle gestione delle imprese. Allora il fronte datoriale non capì che quella parte-

cipazione – opportunamente rivisitata anche alla luce delle suggestive idee balenate in-

torno all’art. 46 Cost. (v., anche per ulteriori indicazioni bibliografiche, Zoppoli L.

2011a)– avrebbe potuto essere la base per un’azione sindacale meno politicizzata e, for-

se, più adatta ad un paese che aveva bisogno di sviluppare non solo un’industria mo-

2 Ci si riferisce ad AS 1429 approvato dal Senato l’ 8 agosto 2014.

3 Senza peraltro qui riproporre una di recente ravvivata disputa teorica sulla natura ontologica o mera-

mente metodologica – e comunque sull’ attualità – dell’ordinamento intersindacale stesso (v. A. Zoppoli

2010; Gragnoli 2013; Scarponi 2013; Pessi 2014; L. Zoppoli 2014)). In fondo quel che interessa ai fini

dell’analisi condotta è solo il valore del territorio a fini regolativi come emerge dalle autonome determi-

nazioni delle parti sociali.

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derna ma anche una cultura del lavoro nuova e condivisa. Ci fu invece una convergen-

za tra la chiusura datoriale e il neo-centralismo classista della Cgil (su questo da ultimo

Ichino 2014), che valse a rimettere al centro la contrattazione nazionale ed ancor più in-

terconfederale, sotto il profilo politico-economico meno preoccupante sul momento,

anche se in fondo caratterizzata da una marcata continuità con l’esperienza corporati-

va.

Toccò alla Cisl andare a rimuovere le acque già dalla metà degli anni ’50, per rilanciare

su nuove basi soggettive ed oggettive la questione della contrattazione aziendale, vista

anche come uno strumento per premiare chi più contribuiva allo sviluppo nazionale,

senza ancorare i trattamenti dei lavoratori alle imprese marginali. Era una prospettiva

pericolosa: ma era nuova e interessante proprio perché rispondeva ad una diversa cul-

tura economica basata su un minore tasso di dirigismo rigido, in virtù del quale lo svi-

luppo socio-economico o era comune a tutte le imprese e a tutti i lavoratori oppure non

faceva parte della ricchezza nazionale. Tuttavia quella scelta Cisl – pur mettendo alle

corde l’impostazione primigenia della Cgil, costretta a rivedere gli eccessi di centrali-

smo organizzativo e contrattuale - non fu un successo. La spinta verso la contrattazione

aziendale si affermò contro le imprese, solo negli anni della conflittualità permanente

(1968-1975) e sulla base di soggettività e culture che poco avevano in comune con il

produttivismo cislino di derivazione statunitense (Treu 1973). Tanto che gli approdi

successivi della stessa Cisl oscillarono tra un pan-sindacalismo onnipotente, ma astrat-

to, e un movimentismo generoso, ma confinato in una categoria (la FIM).

Fu così che sul piano squisitamente sindacale il maggior contributo autonomo fornito

dalla contrattazione collettiva alla regolazione territoriale del lavoro in Italia lo si può

vedere negli accordi interconfederali del 1969 che, rivedendo scelte fatte dagli stessi

sindacati nel dopoguerra (v. Merli Brandini), abolirono le sette zone salariali in cui era

divisa l’Italia, zone famose, denominate “gabbie salariali” (in virtù delle quali nelle

provincie più povere i salari erano più bassi, fino ad un differenziale del 30%). Così la

contrattazione dava il suo robusto e, all’epoca, sacrosanto contributo all’egualitarismo.

Ma quel contributo avrebbe di lì a poco risentito del fatto che sull’altro versante – quel-

lo delle relazioni con la produttività aziendale - la contrattazione non era riuscita a su-

perare la vecchia impostazione centralistica. Si aprirà così un decennio di forti tensioni,

dove si alternano negoziazioni di ogni livello volte ad acquisire tutto l’acquisibile senza

troppi riguardi ai conti economici (il salario variabile indipendente) a fasi di forte ac-

centramento improntate ad austerità quasi sempre egualitaria. Agli inizi degli anni ’80

si fa poi strada a livello di impresa un altro tipo di contrattazione collettiva, c.d. con-

cessiva o difensiva, attraverso la quale i sindacati vengono coinvolti nella gestione del-

le crisi aziendali al fine di negoziare quantità e scelta del personale eccedente e/o ridur-

re i livelli delle tutele contrattuali in cambio del mantenimento, totale o parziale,

dell’occupazione.

Se si esclude un timido spiraglio innovativo che si profila verso la fine degli anni ’70

(quando si tenta di spostare sul territorio il baricentro organizzativo delle organizza-

zioni sindacali), bisogna arrivare agli anni ’90 per ritrovare un barlume di strategia di

diversificazione contrattuale che non sia un mero specchio dei rapporti di forza politici

contingenti. E che riproponga così un approccio anche sindacale che affronti il proble-

ma di garantire omogeneizzazioni equilibrate in un’Italia che appare sempre più inca-

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pace di superare o almeno attenuare le diversificazioni socio-territoriali. Oltre tutto

quelle diversificazioni vanno accentuandosi a causa, innanzitutto, dei processi di rior-

ganizzazione e riallocazione delle imprese, caratterizzati da diffuse scelte di downsi-

zing, esternalizzazioni, delocalizzazioni e finanziarizzazione che penalizzano proprio il

Sud meno industrializzato; e, in secondo luogo, per l’emergere a livello politico-

culturale di visioni localistiche e veri e propri egoismi territoriali, destinati inevitabil-

mente a ripercuotersi sulle scelte sindacali e contrattuali.

La riforma della contrattazione collettiva maturata nel ’92-’93 può essere considerata

una prima risposta, specie laddove amplia gli spazi di contrattazione salariale connessa

alla produttività aziendale e fissa regole dirette a dare certezza agli operatori.

L’essenza del protocollo del 1993 è però politica, in quanto finalizzata soprattutto a

consentire di porre sotto stretto controllo la spesa pubblica e rientrare nei parametri di

Maastricht (1992) (per una tempestiva segnalazione dei limiti di quell’accordo v.

D’Antona 1993).

Più interessante ed innovativa è la stagione della c.d. programmazione negoziata, cioè

di una nuova strategia di promozione dello sviluppo economico basata, almeno teori-

camente, su percorsi negoziati di livello locale diretti a individuare condizioni di favo-

re per promuovere sviluppo e occupazione. In questo scenario, che emerge compiuta-

mente con il Patto per il lavoro del 24 settembre 1996 (Romagnoli 1997; Santucci 1996),

l’azione sindacale si arricchisce di nuovi strumenti, denominati patti territoriali e con-

tratti d’area (v. Zoppoli 1999; Viscomi 1999; Salomone 2005; Quaranta 2013;

D’Arcangelo 2013), con i quali, d’intesa con le imprese interessate e con le amministra-

zioni pubbliche competenti, è possibile porre alcune peculiari regole all’utilizzo del la-

voro in iniziative dirette a favorire investimenti con significative prospettive occupa-

zionali. Tale contrattazione territoriale non appare tipologicamente riconducibile alla

precedente esperienza della contrattazione decentrata integrativa (introdotta, pur con

alterne vicende, sin dai primi anni ’60, soprattutto nelle partecipazioni statali), in quan-

to la funzione propulsiva dello sviluppo economico-occupazionale tende a prendere il

sopravvento su quella più “classica” di tipo regolativo/distributiva. Con essa le parti –

che, come s’è detto, sono molte ed eterogenee - mirano a individuare un punto di equi-

librio dinamico tra esigenza di tutela dei lavoratori e condizioni che favoriscano inve-

stimenti labour intensive, senza i quali o non vi sarà ricchezza aggiuntiva o tale ricchez-

za non riguarderà i lavoratori che vivono in un determinato territorio, ma non riescono

a trovare lavoro presso imprese o amministrazioni in esso localizzate. Per non tarpare

le ali a questa nuova funzione della contrattazione collettiva sarebbe stato necessario

non inserirla in modo troppo rigido e strutturato nel sistema contrattuale esistente,

provando piuttosto a potenziarla e a darle credito (per qualche proposta de iure conden-

do valida in quel momento, v. L. Zoppoli 1999, p. 1374). Purtroppo non andò affatto co-

sì.

Di quell’esperienza restano alcune idee rilevanti e alcuni nodi ancora irrisolti. Le prime

sono sintetizzabili in questo modo: a) la contrattazione collettiva può servire a riattiva-

re una società civile priva di una valida guida politica; b) essa può utilmente intrecciar-

si con procedure programmatorie più duttili e specifiche rispetto a quelle di uno Stato

nazionale sempre meno in grado di regolare i mercati divenuti o troppo ampi (globa-

lizzazione) o più reattivi alle politiche virtuosamente tarate sulle realtà locali; c) è coe-

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rente con un riassestamento degli apparati pubblici che va potenziando i livelli di go-

verno decentrato dei territori e valorizzando moduli consensuali nel cuore dell’azione

amministrativa; d) e può consentire una flessibilizzazione consensuale delle regole del

lavoro quando queste siano imprescindibili per lo sviluppo economico delle aree arre-

trate o in declino industriale (v. già Zoppoli 1999, 1362). I nodi irrisolti che hanno ap-

pannato o azzerato l’utilità della programmazione negoziata sono più difficili da sinte-

tizzare. Riprendendo analisi già proposte (id., 1365) per quanto qui può servire, basti

dire che la programmazione negoziata a livello locale avrebbe richiesto: amministra-

zioni pubbliche efficienti e capaci di programmare, soprattutto in ambito regionale;

imprese dinamiche e disposte a rischiare in proprio; organizzazioni sindacali compe-

tenti e disposte a mettere la sordina a pregiudizi e diffidenze ideologiche; una contrat-

tazione collettiva sostenuta da una legislazione più chiara e più adeguata alla morfolo-

gia e alle funzioni via via assunte nella concreta esperienza . Proprio al Sud – ancora

una volta terreno privilegiato di prova - queste condizioni non c’erano o c’erano in mi-

sura assai limitata. Per cui non meraviglia che anche la contrattazione territoriale si sia

progressivamente spenta, stretta nella tenaglia di un rigore economico-finanziario delle

amministrazioni centrali, da un lato, e dell’incapacità delle reti locali di esprimere un

dinamismo dai risultati concretamente misurabili, dall’altro. Né è da escludere che a

raffreddare la spinta iniziale abbia contribuito l’attesa di riforme istituzionali che po-

tenziassero a tutti i livelli l’efficacia delle politiche territoriali capaci di avvicinare

quantità e qualità di sviluppo di un’Italia ancora “troppo lunga” (Ruffolo 2009) per es-

sere socialmente più coesa4.

La sintonia tra direzione politica ed azione contrattuale dei sindacati fu dunque marca-

ta e pressoché indolore per circa vent’anni, alimentata dal boom economico dei primi

anni ’60 e poi favorita dalla crescente forza e compattezza del fronte sindacale degli

anni ‘70. Ma l’attrazione dei soggetti sindacali e dell’attività contrattuale nel sistema

politico è una costante del modello italiano e si riscontra, seppure con varianti rilevan-

tissime, anche nelle fasi successive. Ovviamente c’è grande differenza tra gli approcci

programmatori del primo centro-sinistra, la strategia delle riforme strutturali degli an-

ni ’70, il primo regionalismo essenzialmente declamatorio, le politiche di solidarietà

nazionali e la riedizione della politica dei redditi di fine anni ’70 (stagione del diritto

del lavoro dell’emergenza e poi della crisi), la concertazione degli anni ’80 sfociata, nel

gennaio 1983, nel primo grande “accordo separato” (che divide di nuovo Cgil, da un

lato, e Cisl e Uil dall’altro, ma sempre simmetricamente alle dinamiche del sistema po-

litico), i grandi protocolli, di nuovo unitari, degli anni ’90, che hanno consentito

l’ingresso dell’Italia nella zona dell’euro nel 2001 (in particolare il Protocollo del 23 lu-

glio 1993, considerato da un grande studioso come Gino Giugni la nuova “carta costi-

tuzionale” delle relazioni industriali italiane: Giugni, p. 162), e, infine, la riforma della

struttura della contrattazione realizzata con gran fatica a partire dal 2009. Ma tutta

questa fenomenologia, riepilogata con un fulmineo ed imperdonabile flashback, ha al

centro un attore sindacale che si nutre di strategie politiche e che funzionalizza la con-

trattazione collettiva al progetto politico che il sindacalismo – unito o drammaticamen-

4 V., anche per indicazioni bibliografiche, il mio Contrattazione collettiva e unità d’Italia

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te diviso – ritiene di appoggiare nell’interesse nazionale dei lavoratori. Ne scaturisce

un’azione sindacale imponente ed importante, sia per la complementarità tra diritti co-

stituzionali e omogeneità a livello nazionale tra tutele legislative e contrattuali sia per i

concreti riflessi sui contenuti dei singoli contratti di lavoro. Essa però finisce per arric-

chire più le soggettività ed il pluralismo del sistema politico che l’autonomo contributo

che la contrattazione collettiva in sè e per sè avrebbe potuto e potrebbe ancora dare

all’effettiva unità d’Italia, un’Italia che continua ad essere per molti (troppi) anni un

paese con profonde differenze territoriali senza strategie di sviluppo socio-economico

opportunamente diversificate. In questo scenario socio-economico una contrattazione

collettiva che si configura come una regolazione generale ed astratta (assai simile alla

“legge”: v. Ferraro; Rusciano; Vardaro) corre un doppio rischio: di non “coprire” lar-

ghe zone del Paese, caratterizzate da iniziative economiche di corto respiro e da un lar-

go utilizzo di lavoro nero, e di non garantire ai lavoratori delle imprese più produttive

e moderne retribuzioni proporzionate alla “qualità” del lavoro prestato (o di lasciare

questa funzione ai superminimi concessi ad personam, talvolta con la prassi deprecabile

dei “fuori busta” sottratti alla contribuzione previdenziale e alla tassazione generale).

Per di più molti dei grandi accordi interconfederali stipulati all’insegna dell’emergenza

o della crisi vengono spesso “pagati” con drammatiche divisioni sindacali, che rallen-

tano e rendono tortuosi i percorsi evolutivi della contrattazione collettiva, privandola

di quella qualità dinamica che ne fa una fonte particolarmente adatta a bilanciare tutela

del lavoro ed efficienza organizzativa, anche differenziando con equilibrio diritti e do-

veri delle parti dei contratti individuali.

La riforma della contrattazione collettiva maturata nel ’92-’93, mentre, non si dimenti-

chi, tramonta la Prima Repubblica, può essere considerata, come si è detto, un primo

tentativo di dare autonomia al sistema sindacale, specie laddove amplia gli spazi di

contrattazione salariale connessa alla produttività aziendale e fissa regole dirette a dare

più certezza alla legittimazione rappresentativa a livello decentrato. L’essenza del pro-

tocollo del 1993, per le ragioni dette, è però politica, serve soprattutto al governo con-

certato del sistema economico in vista dell’aggancio all’Europa in movimento. In essa

l’innovazione del sistema contrattuale è minima; infatti il “territorio” viene sì nomina-

to, ma solo per ribadire che in alcuni settori tradizionali5 la contrattazione territoriale

terrà sostanzialmente luogo di quella aziendale: proprio questo è il senso delle c.d.

“clausole di congelamento” (v. Cataudella 2014; Tosi 2014).

La nuova “carta costituzionale” del nostro sistema sindacale, cioè il Protocollo del 23

luglio 1993, ha poi assai stentato ad adeguarsi ai mutamenti in atto sul piano istituzio-

nale e socio-economico. Infatti quella “storica” riforma dopo un decennio è diventata

essa stessa una sorta di “camicia di Nesso”, contro la quale sempre più si sono scagliati

politici e parti sociali, indebolendo quella autorità morale che alle confederazioni era

venuta proprio dall’aver saputo compiere nel 1993 l’importante scelta di moderazione

5 Agricoltura, edilizia, servizi e artigianato, settori nei quali gli accordi desumibili dall’archivio CNEL ri-

sultano così ripartiti: 65% agricoltura e edilizia, 13% servizi (di cui 11% commercio e turismo), 22% ar-

tigianato (Cataudella 2014, p. 695).

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salariale e cauta modernizzazione della struttura contrattuale che consentì all’Italia di

entrare in area Euro.

Dopo molte occasioni perdute in 15 anni6, in un tribolatissimo 2009, è arrivata una

prima riforma, ma nelle condizioni peggiori, cioè con un’intesa siglata solo con alcune

delle principali Confederazioni sindacali (assente, ancora una volta, la Cgil) che non

contiene soluzioni organiche e durature e ripropone una dinamica emergenziale desti-

nata ad accentuare la politicizzazione e le divisioni degli schieramenti sindacali (v., per

tutti, Bellardi 2009). In questo quadro il dato più visibile nella riforma del sistema con-

trattuale del 2009 è stata la spinta verso una nuova aziendalizzazione, assai rischiosa

per una equilibrata tutela del lavoro, soprattutto perché sganciata da un bilanciamento

di poteri interni all’azienda. Tutto ciò è stato aggravato dalle ben note vertenze Fiat di

Pomigliano d’Arco e di Mirafiori, esplose nel corso del 2010 con un tale fragore da ri-

mettere in discussione anche gli assetti raggiunti con la recentissima riforma generale

della struttura della contrattazione (su cui v. per tutti Carinci F. 2011a; Zoppoli L.

2011b).

Vi è però da dire, ai fini dell’analisi qui condotta, che nell’accordo del gennaio 2009, il

livello territoriale viene non solo menzionato, ma anche regolato con una connotazione

significativamente innovativa (Lassandari 2013; Bavaro 2013; Bolego 2014). Proprio in

quell’accordo emergono infatti per la prima volta le intese derogatorie per il governo

delle situazioni di crisi e per lo sviluppo economico od occupazionale del territorio, in-

tese che possono essere consentite dal ccnl anche per modificare istituti regolati a livel-

lo nazionale sulla base di parametri oggettivi previsti dallo stesso ccnl e sempreché

l’intesa territoriale venga approvata dalle parti del ccnl. L’innovazione è importante,

perché, sulla falsariga di qualche contratto di categoria (chimici del 2006: v. Viscomi

2013), prevede, seppure a condizioni molto restrittive, uno spazio di autonomia nego-

ziale per il livello territoriale non solo in melius e soprattutto senza che necessariamente

gli accordi modificativi vedano l’intervento di un soggetto pubblico o, comunque,

l’accesso a risorse pubbliche. Insomma si tratterebbe di una prima ipotesi di contratta-

zione territoriale non rigidamente inserita nel sistema dei rinnovi periodici delle nor-

mative di rango più ampio “pagata” con risorse delle stesse parti sociali.

Sempre nell’intesa del gennaio 2009 si prefigura una struttura della contrattazione che

può genericamente articolarsi su un secondo livello oltre a quello nazionale, senza par-

ticolari vincoli sulla dislocazione di tale livello. Anche qui si potrebbe leggere

un’apertura nuova alla contrattazione territoriale, seppure fisiologicamente inserita nel

sistema generale di contrattazione (Carinci 2009, p. 10, cit. da Tosi 2014, p. 388; Ferraro

2011). L’illusione dura pochi mesi, perché l’accordo attuativo dell’aprile 2009 reintro-

duce le clausole di congelamento della prassi esistente in una versione assai simile a

quella adottata nel 1993.

6 V., per tutte, il documento unitario Cgil, Cisl e Uil del 1 maggio 2008 sulla riforma della struttura della

contrattazione.

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3. L’accordo del 2009 è però solo uno dei testi da prendere oggi in considerazione per

ricostruire le dinamiche dell’ordinamento intersindacale. Di maggiore rilevanza è il

nuovo processo regolativo che, prende, un po’ a sorpresa, le mosse con l’accordo inter-

confederale del 28 giugno 2011 per culminare nel testo unico del gennaio 2014. In effet-

ti con questo percorso regolativo si è evitato in extremis un pericoloso avvitamento del-

le dinamiche sindacali nazionali, raggiungendo una nuova intesa sindacale (quella ap-

punto del 28 giugno 2011), che ridefinisce in modo generalmente condiviso la struttura

della contrattazione collettiva, individuando anche criteri oggettivi per la misurazione

della rappresentatività sindacale nel settore privato e prevedendo, in un quadro più

equilibrato, un ruolo maggiore, rispetto al Protocollo del 1993, per la contrattazione

aziendale legata alla promozione dello sviluppo o alla gestione delle crisi. Si riprendo-

no così discorsi di qualche anno prima, seppure con molta cautela, più divisione ideo-

logica e senza superare tutti i nodi irrisolti che avrebbero richiesto un adeguamento

della legislazione alle nuove funzioni che la contrattazione collettiva dovrebbe svolgere

nell’interesse nazionale (per le diverse opinioni v. Romagnoli 2011; Bellardi 2011; Spe-

ziale; Ichino; Scarpelli; Carinci 2011b; A. Zoppoli 2013; Carinci 2014; L. Zoppoli, A.

Zoppoli, Delfino 2014).

Comunque l’accordo del 28 giugno 2011, tenendo ai margini un legislatore fino ad allo-

ra non troppo desideroso di intervenire, sembrava essere riuscito a tamponare una

grave emergenza del sistema di relazioni sindacali, che rischiava di produrre un ecces-

so di frammentazione negoziale a livello aziendale e un eccesso di conflitto sociale e di

contenzioso giudiziario. In quell’accordo “scompare il riferimento al livello negoziale

territoriale” (Tosi 2014, p. 389; meno tranchant Bolego, p. 9); e si può ben capire, dal

momento che la carne al fuoco è sin troppa e la territorialità non pare certo un “fronte”

caldo per relazioni sindacali allora impegnate su ben altri scenari di guerra.

La scelta non si rivela però lungimirante, dal momento che, come tra poco si vedrà me-

glio, la nuova crisi borsistico-finanziaria dell’agosto 2011 ha all’improvviso scosso il le-

gislatore italiano dal suo letargo, fornendo l’occasione per introdurre, con decretazione

d’urgenza, una fantasiosa “contrattazione di prossimità”, anche territoriale, diretta a

favorire la ripresa della produttività del sistema paese (art. 8 del d.l. 13 agosto 2011 n.

138 convertito con l. 14 settembre 2011 n. 148). La scelta delle parti sociali ha comun-

que carattere duraturo, dal momento che in tutta la disciplina unitaria che seguirà

all’accordo del 28 gennaio 2011 (e che sfocerà nell’importante testo unico del 2014), pur

registrandosi sensibili correzioni di rotta rispetto all’iniziale attenzione rivolta soprat-

tutto alla contrattazione aziendale (o forse proprio per questo: si rivitalizza infatti, o ci

si illude di farlo, la contrattazione nazionale), la contrattazione territoriale non ricom-

parirà in alcun modo.

Non si deve però giungere a conclusioni affrettate sulla sorte delle precedenti “appari-

zioni”. Infatti la contrattazione territoriale ricompare implicitamente in un accordo in-

terconfederale del novembre 2012 – accordo separato, che interrompe la sequenza di

regole prodotte con il consenso della Cgil – tutto incentrato sulle problematiche della

produttività, con il quale si conviene che: a) una quota degli aumenti retributivi deri-

vanti dai ccnl possa essere destinata ad incrementi di produttività e redditività definiti

dalla contrattazione di secondo livello genericamente intesa (quindi anche territoriale);

b) la contrattazione di secondo livello, sempre genericamente intesa, deve disciplinare,

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valorizzando demandi specifici della legge o della contrattazione collettiva di livello

superiore, gli istituti che hanno come obiettivo quello di favorire la crescita della pro-

duttività aziendale (v. Campanella 2013; Zoppoli L. 2013; Bavaro 2013; Lassandari

2013; Bolego 2014) . Può sembrare un innocuo rilancio, anche con riferimento al territo-

rio, di precedenti linee di sviluppo della regolazione collettiva della produttività dirette

a rendere più competitive le imprese italiane migliorando l’utilizzo del lavoro e la sua

incidenza sul Clup (costo del lavoro per unità di prodotto). In effetti non si tratta solo

di questo; come tra breve si vedrà, lo scopo, dichiarato dalle parti in premessa, è quello

di massimizzare la possibilità di ricorrere alle misure di “decontribuzione” e “detassa-

zione” del salario di produttività, secondo una legislazione emersa a partire dal 2007 (l.

n. 247). Questa finalità, assai concreta, determinerà un vero e proprio decollo di accordi

territoriali, spesso settoriali e firmati anche dalla Cgil (sulla falsariga di ulteriori accor-

di interconfederali dell’aprile 2013 con Confindustria e Confimi firmati anche da Cgil:

v. Campanella 2013; Bolego, p. 12, secondo cui è questo accordo a ridurre la selettività

della normativa in materia, almeno a livello aziendale), volti a consentire alle imprese

più piccole, in cui non c’è contrattazione aziendale, di alleggerire il costo del lavoro a

carico del bilancio pubblico.

4. Come si è visto, dunque l’emersione della dimensione territoriale nell’ordinamento

intersindacale, al di là dei settori tradizionali o di sporadiche occasioni, è tardiva e in-

certa, molto riconducibile ad una sorta di “vorrei ma non posso”, emblematico di una

debolezza dei soggetti o delle politiche che avrebbero dovuto o potuto sostenerla real-

mente. La situazione cambia abbastanza se si assume il punto di vista

dell’ordinamento giuridico statuale dal momento che , come pure già si è visto, il legi-

slatore non perde occasione per valorizzare la regolazione collettiva negoziata a livello

territoriale (concertativa o contrattuale, ora poco importa) facendo anche emergere po-

tenzialità e funzioni in qualche misura inedite.

Questo può essere il punto di osservazione del fenomeno in esame per proporre uno

schema di analisi della legislazione adatto a far emergere tutti i profili di tali negozia-

zioni pur nella diversità di ispirazioni e politiche che si sono succedute nel corso degli

anni. Procedendo per grandi sintesi, si possono rilevare:

A) i contratti di riallineamento (v., da ultimo, Cataudella 2014, p. 683) che hanno la fun-

zione di consentire una graduale emersione del lavoro sommerso con costi a carico dei

bilanci pubblici (oneri sociali o fiscali) al fine di garantire l'applicazione dei minimi di

trattamento previsti dai contratti collettivi nazionali (funzione di differenziare i tempi

di applicazione di regole territorialmente omogenee);

B) La concertazione riguardante la programmazione negoziata, che aveva in parte la

funzione di differenziare in determinati ambiti territoriali le regole sul lavoro in consi-

derazione di obiettivi di sviluppo garantiti da una molteplicità di soggetti pubblici e

privati che investivano risorse a vario titolo (funzione di differenziare le regole sul la-

voro in ragione di specifici progetti di sviluppo ben calibrati sulle esigenze del territo-

rio);

C) I contratti di prossimità anche territoriali con efficacia erga omnes la cui unica funzione

e' di garantire, in (molte) materie tassativamente elencate, deroghe anche peggiorative

ai trattamenti legali o contrattuali allo scopo di realizzare vari obiettivi, ancorché gene-

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rici, indicati dal legislatore: maggiore occupazione, qualità dei contratti di lavoro , ado-

zione di forme di partecipazione dei lavoratori, emersione del lavoro irregolare, incre-

menti di competitività e di salario, gestione delle crisi aziendali e occupazionali, inve-

stimenti e avvio di nuove attività (v. art. 8 c. 1 del d.l. 138).

D) Accordi territoriali volti a consentire che una quota del salario, anche in alternativa ad

aumenti fissati dai CCNL, venga destinata ad incrementi di produttività e così sgravata

in una determinata misura di oneri fiscali e/o previdenziali.

E) Rinvii da parte del legislatore ad intese concertative di livello regionale o contratti

collettivi territoriali, in genere connesse a materie di competenza anche regionale (ap-

prendistato, formazione professionale) o all'utilizzazione di risorse finanziarie sulla cui

destinazione le Regioni hanno un importante ruolo politico istituzionale (ammortizza-

tori sociali in deroga; politiche sociali)7.

Al di la' delle (enormi) differenze tra queste tipologie di negoziazioni collettive territo-

riali, quel che si può notare e' che nella legislazione statale il territorio diviene un po-

tenziale livello di regolazioni del lavoro incentivate con risorse normative o economi-

che di carattere pubblico. Si potrebbe persino parlare di aiuti di Stato (ma non e' questo

ora il punto8 ). Qui interessa invece evidenziarne le ricadute sulle relazioni industriali.

Gli incentivi sembrano in una prima fase e per una certa tipologia di accordi di deriva-

zione essenzialmente endosindacale e può apparire del tutto normale e coerente che se

ne affidi regolazione e gestione alle parti collettive. Successivamente le negoziazioni

territoriali diventano strumento per convogliare risorse pubbliche e private verso de-

terminati obiettivi di sviluppo particolarmente proficui per il territorio interessato: ne

consegue che quegli accordi o concerti entrano in una dimensione regolativa più speci-

fica che arricchisce lo scambio negoziale di soggetti e controlli, idonei a ponderare e

garantire il corretto uso di risorse in buona parte da finalizzare ad obiettivi di interesse

generale da verificare.

In questo secondo tipo di negoziazioni le parti sociali sono chiamate in qualche modo a

cogestire risorse pubbliche. Ne sarebbe dovuta derivare un adeguamento del regime

giuridico degli accordi in questione, che non c'è stato o almeno non c'è stato nella ne-

cessaria misura.

Con i contratti di prossimità si apre una fase nuova, in cui si torna a una dimensione

negoziale bilaterale pure funzionalizzata ad obiettivi di interesse generale, ma dove la

realizzazione di tali obiettivi appare affidata essenzialmente alle parti sociali, con un

eventuale controllo giudiziario. Il soggetto pubblico non ne è parte ne' mette a disposi-

zione particolari risorse economico-istituzionali; piuttosto incentiva tali negoziazioni

abbattendo vincoli normativi, sia legislativi (e fin qui dispone del “suo”) sia contrattua-

li (e qui invade invece una sfera generalmente affidata alle stesse parti sociali). Il circui-

to de-regolativo può funzionare a livello territoriale come a livello aziendale ed e' affi-

dato ad un generico criterio maggioritario dei soggetti sindacali che stipulano gli ac-

cordi all'unica condizione che si tratti di associazioni dei lavoratori comparativamente

più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero delle loro rappresentanze

7 Su questi aspetti v. Ciucciovino, Loffredo, Barbieri, Garofalo.

8 V. però Mattei, p. 52.

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sindacali operanti in azienda. Sono ignorati problemi fondamentali: chi contratta a li-

vello territoriale per le imprese? E per i lavoratori: che vuol dire criterio maggioritario?

Sindacati che rappresentino la maggioranza dei lavoratori del territorio o la maggio-

ranza dei sindacati comparativamente più rappresentativi a livello nazionale o territo-

riale? E quali regole prevalgono in caso di conflitto/concorso tra contratti di prossimità

territoriali e aziendali?

Sono tutti appunto aspetti fondamentali (che, sia detto qui per inciso, inficiano anche la

costituzionalità del suddetto art. 8), specie nel momento in cui le parti sociali sono l'u-

nico filtro non giudiziario per garantire la coerenza funzionale dei contratti di prossi-

mità alla legge. E si potrebbe forse anche dire unico filtro e basta, dal momento che,

pur ammettendo un controllo giudiziario su profili tanto delicati, e' davvero difficile in

un'aula di tribunale verificare seriamente se un contratto derogatorio, in primis territo-

riale, serva o no ad incrementare la produttività o ad avviare davvero nuove attività9 .

Quel che più rileva e' però che il legislatore con i contratti di prossimità pare indicare

una politica legislativa nella quale si vuole che le negoziazioni (anche territoriali) es-

senzialmente abbiano un effetto deregolativo, affidandosi soprattutto alla valutazione

datoriale (vero motore e arbitro della stipulazione del contratto) la bontà di un deter-

minato contenuto negoziale.

In tale contesto la valorizzazione della dimensione territoriale ha il significato preva-

lente di incentivare comunque un processo di de-standardizzazione della regolazione

del lavoro, con una rilevanza del tutto secondaria delle finalità perseguite.

Dalle materie indicate dall'art. 8 restava però fuori la retribuzione, almeno secondo

un’interpretazione ragionevolmente restrittiva10. Con la normativa a supporto della

produttività (art. 1 co. 67 e 68 della l. 247/2007, modificato dall’art. 4 c. 28 l. 92/2012; d.l.

93/2008, conv. l. 126/2008; art. 1 c. 481 l. l. 228/2012; d.P.C.M. 22 gennaio 2013 conferma-

to da dPCM 19 febbraio 2014; circolare Minlavoro n. 15/2013), che, istituendo nel bilan-

cio pubblico fondi ad hoc per gli anni 2013/14/15, negli ultimi sviluppi amplia note-

volmente gli istituti all’uopo utilizzabili, si ovvia anche a questo, connotando in senso

evanescente e burocratico la contrattazione territoriale in materia. Infatti, soprattutto la

normativa sub primaria, consente una significativa decontribuzione e detassazione dei

trattamenti retributivi alla sola condizione che un accordo sindacale (anche territoriale)

stipulato da soggetti con generici requisiti di rappresentatività li colleghi ad un incre-

mento di produttività, anche potenziale e non verificato in alcun modo (senza neanche

la intrinseca incertezza dell’erogazione retributiva: v. Vitaletti 2013, p. 11311). Cosicchè

basta che la piccola impresa sia “coperta” quanto ad ambito rappresentativo dalla as-

9 Qui qualcosa forse verrebbe fuori incrociando la funzione dei contratti di prossimità con la disciplina

delle c.d. start-up innovative.

10 L’incremento dei salari è prevista come finalità non come oggetto dei contratti di prossimità: v. art. 1

c. 1 del d.l. 138/2011.

11 Particolarmente significativo è un passo della circolare Minlavoro- Direzione generale per le attività

ispettive n. 14/2014: “si ricorda…che la rispondenza delle voci retributive introdotte alle finalità volute

dal legislatore rappresenta un elemento di esclusiva valutazione da parte della contrattazione collettiva,

cosicchè l’agevolazione non può ritenersi condizionata ai risultati effettivamente conseguiti”.

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sociazione stipulante l’accordo territoriale12 perché possa fruire delle agevolazioni con-

tributive e fiscali su una nutrita gamma di elementi retributivi13 (ad esempio maggio-

razioni per straordinario e lavoro supplementare, indennità forfetaria per lavoro

straordinario, compensi per clausole elastiche e flessibili, lavoro a turno, lavoro dome-

nicale e festivo, lavoro notturno: v., simile a tanti altri, accordo sindacale territoriale del

febbraio 2012 tra Confcommercio e Filcams-Cgil, Fisascat-Cisl e Uiltucs-Uil per la Pro-

vincia di Salerno; analoghi contenuti nell’accordo Unione Commercio Servizi Turismo

e PMI della Provincia di Venezia del gennaio 2012; e per le province lombarde14).

Prassi di contrattazione di questo genere sono presenti anche in zone in cui le relazioni

industriali appaiono in generale pervase da uno spirito diverso, caratterizzato da

grande attenzione del soggetto pubblico a coniugare agevolazioni e indirizzi di politica

del lavoro o industriale (v. accordo Confindustria Trento con Cgil, Cisl e Uil del Tren-

tino del 6 maggio 2013,che non sembra discostarsi molto dal clichet appena indicato).

Anche se è dato riscontrare qualche formulazione più cauta, con una primaria valoriz-

zazione della contrattazione aziendale – ritenuta la sede più idonea a valorizzare le

modifiche dell’orario di lavoro come “indicatore quantitativo di riferimento

dell’incremento di produttività” – e un esplicito condizionamento del godimento

dell’agevolazione in virtù del solo accordo territoriale alla effettuazione di “prestazioni

lavorative diverse da quelle rese in osservanza degli orari di lavoro applicati in azien-

da” e al rispetto degli obblighi di contrattazione previsti dal CCNL applicato in azien-

da (punto 2 dell’accordo citato).

In ogni caso la normativa in materia di produttività spinge le negoziazioni territoriali

verso la funzione di mero presupposto per la riduzione del costo del lavoro, finanziata

dal bilancio pubblico e realizzata “a macchia di leopardo” (Mattei 2014 37; e già 2013),

senza che vi sia alcun riscontro specifico della effettiva utilità per le collettività locali

dei vantaggi cui le parti sociali consentono l’accesso, salvo un generico “monitoraggio

dello sviluppo delle misure …e la verifica di conformità degli accordi alle disposizioni

del …decreto” da condurre, sulla scorta dei dati raccolti dal Ministero del lavoro (age-

volata dall’obbligo per i datori di lavoro di depositare gli accordi presso la Direzione

del lavoro territorialmente competente15), in un confronto annuale con le parti sociali

(art. 3 dPCM 2013 citato). Si dirà che il controllo sociale in tal caso può essere sufficien-

te e che prevedere interventi o controlli puntuali ad opera di altri soggetti servirebbe

12 Con l’unico limite riguardante i soggetti stipulanti, che, stando all’art. 1 c. 1 del dPCM 22 gennaio 2013

sulla defiscalizzazione, possono solo essere “associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresen-

tative sul piano nazionale, ovvero …loro rappresentanze in azienda” (con esclusione dunque delle asso-

ciazioni rappresentative al solo livello territoriale, abilitate invece a stipulare contratti di prossimità: v.

Vitaletti 2013, p. 107-108). 13 Seppure sotto il profilo fiscale con un limite complessivo pro-capite di 40.000 euro di reddito annuo e

di 2.500 euro mensili (portate a 3000 nel 2014).

14 Vedine testi in Confcommercio imprese per l’Italia, La detassazione delle retribuzioni di produttività

2014, Milano, 2/2014.

15 Obbligo però successivamente limitato agli accordi istitutivi, anche se siglati in anni precedenti, e non

esteso agli accordi successivi meramente ripetitivi (v. circolare 14/2014 cit.).

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solo ad appesantire inutilmente la (de)regolazione collettiva. Elevato però è il rischio

che senza verifiche puntuali ex post a fronte di defiscalizzazioni e detassazioni non vi

siano benefici di alcun genere né per i territori in questione né per l’insieme di inoccu-

pati, disoccupati e lavoratori (salvo i diretti destinatari che dovrebbero godere degli in-

crementi retribuivi in misura pari alle agevolazioni) in quanto gli accordi in parola

non instaurano alcun nesso specifico tra riduzione di oneri a carico dell’impresa con

minori introiti per i bilanci di Stato ed enti pubblici e miglioramento

nell’organizzazione e nella redditività dell’impresa stessa; inoltre l’impresa, di qualun-

que dimensione sia, resta assolutamente libera di disporre dell’eventuale surplus con-

sentito dalle suddette (de)regolazioni collettive. Né gli accordi territoriali (come quelli

di impresa) possono essere condizionati da specifiche politiche industriali o di svilup-

po perché defiscalizzazione e detassazione operano automaticamente, secondo una lo-

gica incentivante che ha sempre più la configurazione di un attrattore di puro mercato

che non eleva in alcun modo la responsabilità sociale dell’impresa interessata16.

Guardando al complessivo sviluppo dell’ordinamento, non v’è dubbio che, mentre la

contrattazione collettiva viene sfidata ad abbandonare i consueti “pascoli” centralistici,

sempre più le riforme recenti del diritto del lavoro potenziano percorsi di regolazione

dei rapporti di lavoro incentrati su un rilancio della contrattazione individuale (o, con

Bordogna prima citato, “decollettivizzazione della contrattazione”), in chiave più o

meno genuina (io, per la verità, direi proprio “meno”: v. Zoppoli 2011c). C’è dunque

anche da chiedersi con quali nuove tecniche la contrattazione collettiva nell’epoca del

decentramento e dell’individualizzazione possa assolvere al difficile compito di con-

temperare i particolarismi, un compito di certo minore rispetto a quello, anche più con-

sueto, di mantenere aperta la strada dell’universalità delle tutele, ma un compito da

non sottovalutare in una materia in cui né i lavoratori né i mercati possono permettersi

di rinunciare alla tutela degli interessi collettivi.

5. Il discorso non sarebbe completo se non si segnalasse che anche nel lavoro pubblico

la legge consente e valorizza contrattazioni territoriali, che però non hanno quasi mai

visto la luce (salvo casi assai limitati o molto finalizzati, come quelli in materia di dero-

ghe per i contratti a termine17). La previsione di legge è contenuta nell’art. 40 c. 3 del

d.lgs. 165/2001, secondo cui la contrattazione collettiva nelle amministrazioni pubbli-

che “può avere anche ambito territoriale e riguardare più amministrazioni”. Una sua

attivazione, oltre a sottrarre la contrattazione in questo settore alle secche della contrat-

tazione nazionale determinate dal recente congelamento dei rinnovi pluriennali, po-

trebbe essere assai utile per favorire la razionalizzazione funzionale ed organizzativa

delle autonomie locali, assumendo “servizio” e “territorio” come i punti di riferimento

della riorganizzazione della spesa resa selettiva e del riassetto istituzionale delle am-

ministrazioni (di recente Russo 2014; in un recente passato L. Zoppoli 2006), favorendo

anche una migliore allocazione del personale attraverso mobilità e percorsi formativi

16 In termini analoghi Bavaro 2013 e Bolego, p. 14. 17 V. Scarponi 2014; Mattei 2014.

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ben finalizzati. Ora come ora però lo spazio negoziale per contrattazioni

sull’allocazione ottimale del personale pubblico sembra restringersi, preferendosi raf-

forzare la strumentazione regolativa o amministrativa di tipo unilaterale (v. art. 4 del

d.l. 90/2014, conv. con modif. da l. 114/2014).

6. Alla luce di quel che si è detto molto apprezzabili paiono alcuni sviluppi e idee emerse

dal 2013 in poi. Mi riferisco al Patto per il lavoro 2013 della CGIL (di cui v. una appli-

cazione nella Regione Lazio); al tentato accordo di Pordenone del 201418; al patto per

l’Expo Milano 2015; all’esperienza delle negoziazioni territoriali in trentino, che conti-

nuano e si rafforzano addirittura. Anche qui si tratta di idee ed esperienze molto diver-

se, che andrebbero analizzate partitamente. Esse però sembrano discostarsi dalle linee

semplicistiche e minimaliste che abbiamo visto ispirare gli sviluppi sia

dell’ordinamento intersindacale sia di quello statuale, anche magari per riprendere e

riproporre alcuni spunti presenti nella prima stagione delle negoziazioni territoriali,

quelle degli anni ’90.

Così il Patto per il lavoro della Cgil sembra rilanciare una logica di concertazione pub-

blico-privato con una forte funzione di indirizzo di politiche industriali (o generica-

mente conomiche) all’interno delle quali può riprendere piede anche una regolazione

collettiva del lavoro. Naturalmente molto più difficile appare oggi recuperare anche la

flessibilità in funzione di un progetto di specifico sviluppo locale dal momento che

l’ordinamento appresta strumenti giuridici per accedere a forme di flessibilità e conte-

nimento dei costi del lavoro prive di qualsiasi contropartita. Tutto appare affidato ad

una capacità di iniziativa politica o sociale che solo con molto ottimismo si può presu-

mere esistente. E il pallino di questo gioco sembra tornato in mano alla politica, vista la

condizione di debolezza delle parti sociali e le ristrettezze in cui versano le imprese ra-

dicate sul territorio. A tal riguardo urgente sarebbe rivisitare quei circuiti lasciati in-

completi o svuotati di senso nell’esperienza della programmazione negoziata.

Di tutt’altro tenore i protocolli/accordi per l’Expo Milano e di Pordenone, che, molto

più concretamente, fanno leva sulla massimizzazione della flessibilità o della riduzione

del costo del lavoro perseguita da imprese messe alle strette da crisi territoriali o, al

contrario, da straordinarie occasioni di sviluppo economico. Qui è chiaro che le nego-

ziazioni territoriali possono apparire più coerenti con la strumentazione legislativa

prima illustrata riguardo ai contratti di prossimità o agli accordi di produttività. E’ in-

teressante invece che, specie nel tentato accordo di Pordenone (riconducibile tra l’altro

ad una corposa tradizione friulana in tema di contrattazione territoriale), si facesse

chiaramente ricorso allo sfrondamento di istituti contrattuali che possono apparire re-

golati in modo incongruo in fasi di crisi occupazionali acute, sfrondamento che consen-

te ulteriori abbattimenti del costo del lavoro, fino a un 20% in meno, che si traduce in

riduzioni salariali pari alla metà (Castro 2014). Siamo sul terreno di una nuova conces-

18 Faccio riferimento ad una nota proposta dell’Unione industriale di Pordenone del gennaio 2014, di cui

molto si è parlato anche se poi il contratto territoriale non è stato siglato ma ha solo fornito spunti e con-

tenuti per un importante accordo aziendale che ha scongiurato una grave crisi occupazionale alla Electro-

lux.

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sion bargaining e c’è poco da stupirsi, visti i tempi che corrono; anzi apprezzabile sem-

bra che nei contenuti quegli accordi riprendessero - a fini chiaramente compensativi

delle perdite salariali, ma anche con l’obiettivo di promuovere uno sviluppo sociale e

civile oltre che economico - istituti partecipativi o prefigurassero interventi di nuovo

Welfare locale. O che facessero leva su percorsi formativi fortemente raccordati con

esigenze produttive ed occupazionali; o che dischiudessero la strada a strumenti giuri-

dici innovativi per la ricollocazione dei lavoratori; o anche al rilancio di strumenti ben

noti come i contratti di solidarietà, ma non sempre adeguatamente valorizzati (qui per

la verità con l’ausilio di un intervento legislativo d’urgenza, volto ad esorcizzare il ri-

dimensionamento degli impianti della Electrolux: v. art. 5 d.l. 34/2014 conv. da l.

78/2014).

Per il “protocollo sito espositivo Expo 2015” del 23 luglio 2013 le misure di flessibilità

previste si basano molto su tipologie contrattuali e sistemi di inquadramento. Quanto a

queste ultime è ad esempio molto interessante che, in relazione ad un settore di cre-

scente rilievo come il terziario, il protocollo – con una vis normativa propria di un vero

e proprio contratto – modifica il sistema di inquadramento previsto dal CCNL, intro-

ducendo figure professionali necessarie per le attività previste da Expo 2015 ma non

contemplate a livello nazionale. Pure interessante è la specifica disciplina dell’ appren-

distato su misura, anche se nell’immediato appare funzionale all’utilizzo di apprendisti

(con costo del lavoro ridotto) nei livelli di inquadramento introdotti dal medesimo ac-

cordo. Appaiono invece discutibili le regole su causali e tetti organici (ammessi nella

misura enorme dell’80% dell’organico di Expo 2015 spa) per il ricorso a contratti a ter-

mine e somministrazione quelle per gli stage. Le prime comunque oggi appaiono, al-

meno in parte, decisamente superate alla luce del d.l. 34/201419; sui secondi problemati-

co è il tentativo di isolarli rispetto a vere e proprie prestazioni lavorative, con tutto

quanto ne consegue sul piano dei trattamenti contrattuali. Tuttavia il protocollo è per-

vaso da una valorizzazione del ruolo delle parti sociali nel cogliere l’opportunità eco-

nomico-produttiva ma anche nel predisporre procedure e cautele per evitare che un

auspicabile boom di iniziative imprenditoriali avvenga a discapito delle tutele dei la-

voratori.

Nell’ambito della negoziazione collettiva in territorio trentino – molto ricca e ben mo-

nitorata20 - si staglia poi il protocollo per la Provincia di Trento del 12 aprile 2014, tipi-

co accordo di concertazione trilaterale21, finalizzato alla attivazione “di strumenti di

sviluppo di tipo strutturale rivolti alla qualità: qualità dell’impresa, qualità del lavoro e

delle competenze disponibili, qualità dei servizi che il sistema pubblico deve garanti-

19 Sulle causali non v’è dubbio; sui tetti c’è un complesso incastro di discipline succedutesi in pochi anni

da valutare con attenzione : v. art. 10 c. 7 e 8 (la seconda norma consente anche alla contrattazione collet-

tiva di introdurre limitazioni quantitative per aree geografiche) del d.lgs. 368/01 e novella dell’art. 1 dello

stesso d.lgs. ad opera del d.l. 34/2014; in ogni caso v. anche art. 2 c. 2-ter del d.l. 34/2014 che esclude

dall’applicazione del nuovo sistema sanzionatorio per lo sforamento dei tetti organici le assunzioni effet-

tuate prima dell’entrata in vigore della novella. 20 V. Osservatorio trentino. Diritti sociali del lavoro, in www.dirittisocialitrentino.it 21 Peraltro ultimo di una serie: v. Mattei 2014 e Vergari 2014.

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re”22. Al riguardo ognuna delle parti assume precisi impegni. La provincia si impegna:

a ridurre l’IRAP sia per le imprese, sia per i cittadini con meno di 28.000 euro annui;

bloccare l’IMU e esentare dalla Tasi gli immobili destinati ad attività di tipo produttivo

e imprenditoriale; a rivedere tutto il sistema degli incentivi alle imprese riarticolandoli

intorno a finalità di tipo selettivo (ricadute occupazionali non solo quantitative ma an-

che qualitative; aziende economicamente virtuose ; sostegno ad aziende che fanno ri-

cerca e innovazione di prodotto); sostenere i canali di accesso al credito di impresa al-

ternativi al sistema bancario; rivedere governance e indirizzi di Trentino sviluppo s.p.a.;

potenziare notevolmente l’intervento pubblico sul mercato del lavoro, con sostegni al

reddito dei lavoratori disoccupati aggiuntivi rispetto all’Aspi (accompagnati dal raf-

forzamento della condizionalità) e particolare attenzione ad apprendistato (specie di

tipo 1 e 3) e tirocini (menzionati anche i contratti a staffetta, abbastanza ricorrenti

nell’esperienza trentina), al lavoro delle donne (con sostegni al welfare sussidiario

aziendale); realizzare il piano di miglioramento 2012-2016 per l’intero sistema pubbli-

co.

I sindacati dei datori di lavoro e dei lavoratori si impegnano a: pieno riconoscimento

responsabilità sociale di impresa; sistema innovativo di relazioni industriali diretto a

qualificare il secondo livello di contrattazione con coinvolgimento (e formazione) dei

lavoratori; miglioramento tempi e qualità della transizione scuola-lavoro, con uso di

apprendistato, staffetta generazionale, contratti di solidarietà espansivi; favorire la sa-

nità integrativa territoriale; garantire attuazione reddito di continuità con fondi di soli-

darietà bilaterale ex art. 3 co. 4 l. 92/2012; convergenza soggetto unitario per gli enti bi-

laterali.

I sindacati dei lavoratori prendono poi particolari impegni verso la Provincia come da-

tore di lavoro al fine di favorire: mobilità e ricollocazione dei lavoratori nell’ambito del

servizio pubblico allargato; valorizzazione competenze nell’attribuzione salario varia-

bile e sistema valutativo; flessibilizzazione orario anche per conciliazione vita-lavoro;

razionalizzazione risorse pubbliche e rafforzamento/miglioramento servizi.

Se si guarda allo scenario nazionale non si può che avere l’impressione di essere di-

nanzi ad un “frutto fuori stagione”. Si sbaglierebbe però a mio parere a liquidare con

troppa superficialità l’esperienza trentina come un residuo di tempi superati. Concor-

do di più con la valutazione che ne ha dato Stefania Scarponi: “il modello sociale tren-

tino costituisce un punto di riferimento interessante e positivo, essendo fondato …sulla

concertazione sociale…a livello provinciale (ma si potrebbe dire “territoriale”: n.d.a.)

che consente un governo efficace del mercato del lavoro”23. Il problema è proprio che il

nostro paese appare oggi ancora molto indietro e titubante nell’individuare soggetti,

strumenti e regole per far funzionare al meglio i diversi mercati del lavoro. E si sbaglie-

rebbe davvero a pensare che laddove si registrano risultati interessanti seguendo mo-

22 L’insistenza su interventi pubblici diretti ad elevare la qualità dei sistemi economici territoriali non è

una novità né per il trentino né per altre zone del Paese. Mi sia consentito al riguardo di ricordare una

legge sul mercato del lavoro tutta con questa impronta approvata dalla Regione Campania alla fine del

2010 (v. Zoppoli 2011d). 23 Scarponi 2014b, p. 5.

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delli che appaiono fuori dalle “mode” imperanti ( e per di più solo in parte, come si è

visto) si tratti di “residui” del passato o addirittura “resistenze” anacronistiche.

La mia impressione complessiva è che, pur riemergendo indubbiamente “pezzi” di

esperienze del recente passato, in questa nuova generazione di negoziazioni territoriali

ci sia molto altro. E che, soprattutto se si vuole ragionare in prospettiva, occorra anche

qui ben individuare la funzione delle negoziazioni territoriali che è utile o opportuno

potenziare.

La domanda cruciale è perché si negoziano o si devono negoziare collettivamente nuo-

ve condizioni di efficacia/efficienza dei sistemi economico-produttivi territoriali. Bru-

talmente: a chi e a cosa servono tali negoziazioni? Si tratta di vincere resistenze e/o osti-

lità comunque forti e potenti in certi ambiti locali? Oppure di modalità più utili a trat-

tenere risorse “volatili” sul territorio? O sono reali occasioni per cogliere nuove oppor-

tunità di sviluppo sociale ed economico, di costruire nuovi percorsi consensuali o evi-

tare/rafforzare la disgregazione di quelli preesistenti?

Naturalmente c’è un po’ di tutto e ancora altro. E forse - pur avendo chiaro come giuri-

sta la possibilità di proporre distinzioni, regole e procedure per ciascuna delle espe-

rienze descritte24 - occorre ancora provare a capire le novità.

Una chiave può essere non nascondersi che un certo interesse per concertazione e con-

trattazione territoriale possa nascere dalla perdurante efficacia destrutturante di nego-

ziazioni che non sembrano certo corrispondere a modelli forti, ma sono utili per as-

semblare tutto quello che sui territori appare ancora vitale (sotto il profilo socio-

economico-istituzionale) e convogliarlo verso un obiettivo più o meno concreto. Fatta

eccezione per il protocollo trentino (ed anche per talune caratteristiche delle negozia-

zioni aziendali visibili nel medesimo territorio25), nelle recenti negoziazioni territoriali

(compresi gli accordi territoriali sulla detassazione/defiscalizzazione) sembra esserci

un allontanamento dai modelli di relazioni sindacali e contrattuali tradizionali e un

pragmatismo nel miscelare deregolazione e potenziali innovazioni. L’approccio sembra

rispondere ad una strategia dell’efficacia molto contestualizzata, fatta prevalentemente

24 Occorrerebbe tornare ad utilizzare le tradizionali distinzioni nell’ambito dei negozi collettivi, differen-

ziando gli accordi in base alle parti, all’oggetto, al fondamento del potere normativo, all’efficacia oggetti-

va e soggettiva. E’, ad esempio, del tutto evidente che un protocollo come quello per Expo Milano ha dei

contenuti che sono immediatamente contrattuali e va ad incidere sul CCNL, ponendo un problema di rac-

cordo giuridico con discipline di rango superiore (e infatti viene riprodotto in un protocollo nazionale

dell'ottobre 2013, almeno per le modifiche al sistema di inquadramento). Agli antipodi i protocolli di con-

certazione trentini, che, salvo specifiche norme di leggi provinciali (v. Mattei 2014; Vergari 2014), non

sembrano avere una specifica valenza giuridica, configurando classicamente impegni politici, pure rile-

vantissimi, a carico di tutte le parti firmatarie. Peculiare l’accordo di Pordenone, che si sarebbe posto co-

me un contratto territoriale con incidenza immediata sulla contrattazione aziendale, riducendo i trattamen-

ti retributivi da questa previsti, ma non imponendo alcuna diretta contropartita a vantaggio dei lavoratori

(solo possibili integrazioni del Welfare aziendale, rimessi alla decisione della singola azienda). Per quasi

tutti questi accordi è facile prevedere vita grama (nel senso di “difficile”) nel diritto sindacale ad oggi vi-

gente.

25 Da parte della Provincia di Trento sembra molto orientato l’uso di incentivi pubblici di vario genere

connesso alla stipulazione di specifici accordi aziendali.

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da non-azioni piuttosto che dal perseguimento di modelli relazionali forti. Risponde ai

canoni del pensiero liberista, ma insieme sembra corrispondere anche alle ricostruzioni

di Francois Jullien sulla trasformazione come processo invisibile in quanto perseguito

“a tutto campo”26. Nel nostro caso la territorialità riemerge laddove più serve ad allar-

gare il “campo” delle regolazioni destrutturanti dei rigidi modelli tradizionali.

Tuttavia , come lo stesso filosofo citato avverte, questa strategia è molto incisiva quan-

do si tratta di destrutturare, dissolvere, far emergere il flusso della mutazione e

l’attenzione al momento in cui “si abbozza la tendenza favorevole” (id., p. 67). Quando

invece si ripresenta “la necessità di organizzare il dibattito democratico e di mettere in

rapporto prospettive di valore e posizioni critiche” (Mandolini, recensione in REF,

2008) torna più utile la “modellizzazione” delle relazioni riconducibile alla cultura e

all’esperienza del modello sociale europeo.

Naturalmente appare difficile a questo punto tornare a modelli compatti e monolitici,

ignorando importanza ed incidenza delle contestualizzazioni al fine di perseguire effi-

cacemente obiettivi concreti. Perciò appare legittimo chiedersi oggi, specie se invitati

ad una nuova osservazione/valorizzazione del territorio, se le negoziazioni territoriali

siano destinate ad essere solo una marginale tappa della deregolazione collettiva del

lavoro oppure possano costituire un credibile argine ai processi di mera aziendalizza-

zione/individualizzazione del diritto del lavoro e sindacale.

7. Nel quadro descritto appare un’occasione perduta per il legislatore nazionale non aver

disciplinato i contratti di rete - strumenti della c.d. codatorialità: cioè contratti grazie ai

quali posso esserci più datori di lavoro per un medesimo rapporto di lavoro - ponen-

doli in relazione con un potenziamento della contrattazione territoriale. Il tema – molto

nuovo - merita una digressione. Sulla codatorialità vi e' nel 2013 un tempestivo inter-

vento del legislatore italiano anche con riguardo al profilo giuslavoristico, intervento

modificativo degli artt. 30 e 31 del d.lgs. 276/03, che vale in qualche modo a configurare

il contratto commerciale di rete come occasione di impiego flessibile del lavoro da par-

te di una pluralità di imprese (in genere medio-piccole). L’intervento e' sintetico e ap-

prossimativo, ma denso e incisivo, aprendo terreni alquanto inesplorati. E, come e' giu-

sto che accada, in relazione ad esso si confrontano letture ed interpretazioni diverse e,

per certi versi, anche antitetiche.

A fini di chiarezza tengo subito a dire che non mi pare che la codatorialità abbinata al

contratto di rete – interpretata come perno di una sorta di regolazione unilaterale dei

rapporti di lavoro sganciata dalla disciplina generale dei contratti di lavoro e ricalcata

sulle regole di mercato temperate solo dal rispetto di alcuni diritti fondamentali indi-

viduati dalla giurisprudenza in relazione al caso concreto - incorpori la rinuncia ad un

modello eterogolativo da parte del diritto del lavoro (o del diritto in genere) volto a

orientare o indirizzare la realtà socio-economica. Ora, è senz’altro vero che il nostro di-

ritto del lavoro ha attraversato e subito o condizionato molte modifiche ordinamentali:

26 F. Jullien, Pensare l’efficacia in Cina e in Occidente, Laterza, 2008, p. 44 ss.

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la fase promozionale, procedurale, debole, costituzionale, post-costituzionale, neo-

costituzionale, del costituzionalismo multilivello (e tante altre se ne potrebbero ag-

giungere). Non credo però possa dubitarsi del fatto che esso tuttora mantenga un forte

ancoraggio a modelli relazionali , magari sempre più onnicomprensivi, che vengono

definiti anche attraverso tecniche giuridiche antiche, come i Bill of Rights, di matrice po-

litica accentratrice e non riducibili alla normatività post-fattuale, almeno se intesa uni-

camente come regolazione diretta alla migliore (o più efficiente) decisione del caso

concreto, seppure illuminata dal rispetto dei diritti fondamentali. Questi ultimi costi-

tuiscono un'ultima preziosa risorsa per la regolazione attraverso il metodo del bilan-

ciamento, ma non se ne può lasciare in ombra la genericita' , talora finanche l'evane-

scenza. Né si può dimenticare – da giuristi moderni appunto - la loro appartenenza a

sistemi normativi a loro volta comprensivi di rigorose tecniche interpretative e perciò

soggetti a complesse operazioni esegetiche che ne riducono o ampliano l'impatto in

funzione anche di modelli politico/economici spesso assai generali e astratti27. Già si è

detto, in apertura, della nostra tradizione giuridico-sindacale e della rilevanza che, ai

fini giuslavoristici (ma non solo), in essa ancora assumono garanzie universalistiche dei

diritti fondamentali, incidendo anche sulla configurazione della soggettività giuridica

dell’impresa.

A parte la complessa ed ampia tematica dei diritti fondamentali come limite alla pro-

duzione sociale di norme incentrate sulla convenienza economica degli “attori” più di-

rettamente coinvolti, l’analisi comparata ed europea, comunque, conferma che la coda-

torialità di ultimo conio rientra negli strumenti che l’ordinamento giuridico in evolu-

zione predispone per perseguire precise finalità rispondenti a modelli ritenuti ancor

più necessari sullo scenario della globalizzazione e della concorrenza a tutto tondo: le

imprese devono essere solide e innovative. Quindi siamo ad un livello di regolazione

prescrittiva, seppure poggiata su tecniche promozionali, che sono le uniche utilizzabili

laddove si tratta di far leva sull’iniziativa libera dei privati (cioè su un facere davvero

infungibile).

Su questa premessa di fondo, si possono più agevolmente analizzare i riflessi anche

sulle relazioni industriali dell’emergere della nozione di codatorialità in chiave di ag-

gregazione di microimprese e in particolare con riferimento alla rete di imprese (o an-

che al distretto o alla filiera).

A tal riguardo molto interessanti sono le questioni ricostruttive connesse soprattutto al

nuovo art. 30 c. 4ter del d.lgs. 276/0328. Molte mi paiono le pregevoli analisi esegetico-

27

Da ultimo v. Perulli, Fundamental Social Rights, Market Regulation and EU external action, Int. Jour.

Comp.Lab.Law Ind. Rel., 2014, p. 27 ss. Al riguardo anche io ho provato a valorizzare tali diritti come

fondamento istituzionale del diritto del lavoro (v. Il lavoro e i diritti fondamentali, in Esposito, Gaeta,

Santucci, Viscomi, A. Zoppoli, L. Zoppoli, Istituzioni di diritto del lavoro e sindacale. Introduzione,

Giappichelli, 2013, I, p. 91 ss.), senza però nascondermi le grandi difficoltà sul piano dell’effettività che

tali diritti incontrano, in parte accentuate dalle incertezze politiche che accompagnano il superamento dei

confini nazionali degli ordinamenti giuridici europei. 28

Secondo cui per le imprese che abbiano sottoscritto un contratto di rete (previsto dal d.l. 5/09 converti-

to dalla l. 33/09) “è ammessa la codatorialità dei dipendenti ingaggiati con regole stabilite attraverso il

contratto di rete stesso”.

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sistematiche già proposte (Alessi 2014) che affrontano un nodo cruciale: il necessario

consenso del lavoratore ai fini dell’”ingaggio” ad opera della rete di imprese, dove as-

sai opportuna mi pare la attenta demarcazione tra legittimo esercizio di un preesistente

potere direttivo e definizione ex novo del contratto di lavoro con una delle soggettività

della rete. Sul punto si insiste però forse troppo sulla necessità di nuovi approcci e ca-

tegorie al fine di consentire alla rete di gestire in modo flessibile i dipendenti e poco sul

canale di raccordo tra il “frammento” legislativo e il sistema giuslavoristico. Non è in-

fatti pensabile che il legislatore – pur perseguendo l’encomiabile intento di favorire lo

sviluppo delle piccole imprese – possa saltare a piè pari il fondamento del sistema re-

golativo dei rapporti di lavoro nel nostro diritto civile, cioè il contratto individuale. So-

lo l’azzeramento della dimensione contrattuale in tutta la ricca tipologia dei rapporti di

lavoro (ed oltre) potrebbe consegnare al contratto di rete un’immediata forza regolativa

ultra partes. Finchè il contratto di rete resta definito dalla legge – con sufficiente preci-

sione – come un contratto di cui sono parti unicamente le imprese è chiaro che esso non

può avere riflessi diretti sui contenuti dei contratti di lavoro, a qualunque tipologia ap-

partengano, salvo l’apertura di un vero e proprio baratro verso la legittimazione del

lavoro coatto o servile, che è appunto individuato dall’azzeramento della volontà ne-

goziale del lavoratore e che credo nessuno possa assumere a vessillo di modernizza-

zione29. Esclusa questa ipotesi estrema, non va però sottovalutato l’acuto suggerimento

che accosta il contratto di rete ad una proposta negoziale o addirittura ad un contratto

normativo o tipo (ne accenna la Alessi) o alla problematica del c.d. terzo contratto30;

come pure mi sembra riacquistare peso e rilevanza la teorica del “collegamento nego-

ziale”31. In questa diversa prospettazione naturalmente occorrerebbe l’accettazione del

lavoratore o la stipulazione del contratto definitivo o, comunque, un coinvolgimento

diretto o indiretto dell’altra parte nella definizione dei contenuti del contratto di rete:

ma questa configurazione vale a mettere in risalto come la codatorialità operi sul ver-

sante del rafforzamento e del raccordo della parte datoriale che , rispetto alla singola

piccola media impresa, viene fatta emergere con caratteristiche di formalizzazione e

sintesi dei vari interessi che convergono nella impresa-rete. Questo, da un canto, è mol-

to interessante per la strutturazione della volontà negoziale dal lato datoriale e, per al-

tro verso, induce però a rilevare come nelle PMI venga ad accentuarsi la debolezza (in-

feriorità) contrattuale del lavoratore, che è in genere esposto a più libero esercizio dei

poteri datoriali, a trattamenti economici più ridotti, a minori tutele sociali (si pensi al

campo di applicazione della cassa integrazione guadagni), nonché ad una pressochè

nulla forza collettiva.

Al riguardo mi pare un po’ riduttivo confinare la problematica della contrattazione col-

lettiva nelle imprese a rete nell’ambito dell’adeguamento del recente testo unico sulla

rappresentanza sindacale del gennaio 2014, pure utilmente affrontata in chiave esege-

29

Al riguardo è interessante l’ampia ricostruzione di Biasi, Dal divieto di interposizione alla codatoriali-

tà: le trasformazioni dell’impresa e le risposte dell’ordinamento, WP C.S.D.L.E. “Massimo

D’Antona”,IT- 218/2014. 30

Su cui spunti interessanti in Alvino, cit. p. 23 ss. 31

V. gli scritti di Speziale citati in bibliografia .

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tico-ricostruttiva (Bavaro-Laforgia 2014). Qui c’è, credo, da interrogarsi innanzitutto

sull’esistenza del soggetto sindacale e/o sulla effettiva agibilità dell’azione sindacale in

queste realtà32. Al riguardo il rilancio della nozione di “prossimità” delle imprese a

proposito della cornice concettuale alla quale ricondurre i “prodotti” della contratta-

zione collettiva a questo livello (proposto con forza nel citato contributo di Bava-

ro/Laforgia) non mi convince molto né mi pare condurre lontano sul piano delle tecni-

che di regolazione effettiva. O almeno non mi pare tarato sulle principali peculiarità

italiana della rete di imprese. Utile al fine di inquadrare meglio il fenomeno mi pare la

distinzione tra interconfederalità – cioè un contratto collettivo di rete stipulato da or-

ganizzazioni aziendali di diverse confederazioni – ed intercategorialità – cioè di un

contratto di rete stipulato da associazioni territoriali33. Nel secondo caso il contratto di

rete assomiglierebbe ad un contratto territoriale e ne mutuerebbe il regime giuridico

(peraltro, come si è visto, tra i più lacunosi). Non mi pare però che così si facciano i

conti con la vincolatività in quanto tale del contratto commerciale di rete. Al riguardo

mi pare da approfondire , e molto, il rapporto tra codatorialità dei lavoratori “ingag-

giati” con il contratto commerciale di rete e un eventuale contratto collettivo di rete.

Quest’ultimo – stipulato prima o dopo del contratto tra le imprese, in fondo poco im-

porta - potrebbe essere lo snodo e il contenuto del contratto commerciale di rete per

quanto attiene ai rapporti di lavoro (e qui si possono riprendere spunti già forniti dalla

dottrina prima delle modifiche del 2013, che non li ha tenuti in conto34). Si tratterebbe

di una definizione per relationem del contratto commerciale di rete, che acquisirebbe per

riflesso la medesima efficacia giuridica del contratto collettivo cui si rinvia. Senza però

una mediazione collettiva – che in qualche modo varrebbe anche a recuperare la tesi

del collegamento negoziale – non riesco a vedere un’efficacia giuridica diretta del con-

tratto commerciale di rete sui singoli rapporti di lavoro (a delimitare diritti ed obblighi

varrebbe sempre il contratto di lavoro stipulato con l’originario contraente: anche la re-

te, nel caso previsto esplicitamente dall’art. 31 d.lgs. 276/03).

Invece mi pare importante il rilievo secondo cui per dare effettiva rilevanza contenuti-

stica al contratto collettivo di rete occorrerebbe autonomizzarlo rispetto ai livelli supe-

riori ed inferiori (così anche Pilati35). Qui però non esistono percorsi predeterminati e ci

si muove su un terreno infido, specie ove esistessero altri contratti collettivi applicabili

alle singole imprese-nodo. Proprio per questo alto tasso di innovazione e dinamismo al

riguardo aspettarsi già l’emersione di una compiuta legislazione sarebbe forse eccessi-

32

Interessante al riguardo la casistica citata da Terzi 2014, specie perché fa riferimento ad un territorio

come quello trentino ad alta coesione sociale.

33 Ma v. già Alvino 2013, p. 298 ss.

34 Treu, Trasformazione delle imprese: reti di imprese e regolazione del lavoro, in Merc.conc.reg., 2012,

7 ss.; Perulli, Gruppi di imprese, reti di imprese e codatorialità: una prospettiva comparata , RGL,

2013, I, p. 83; id., Contratto di rete, distacco, codatorialità, assunzioni in agricoltura , in Perulli, Fiorillo

(a cura di) , La riforma del mercato del lavoro, Giappichelli, 2014, p. 503; Alvino, op. cit., p. 302 ss. 35

Ma v. già M.T. Carinci, Utilizzazione e acquisizione indiretta del lavoro: somministrazione e distacco,

appalto e subappalto, trasferimento d’azienda e di ramo, Giappichelli, 2013, p. 105.

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vo e persino prematuro; ma, con il progredire rapido delle esperienze, una precisazio-

ne del legislatore diventa sempre più necessaria

8. Insomma, a fianco a linee deludenti nella politica del diritto del legislatore statale,

emergono non solo percorsi di una più interessante valorizzazione delle negoziazioni

collettive territoriali ma anche necessità di nuovi interventi regolativi con approcci non

tradizionali. Difficile dire se si possono accendere luci che eliminino le ombre che fino-

ra hanno pesato sulle diverse esperienze; emerge però abbastanza chiaramente

l’urgenza di un nuovo lavoro istituzionale e regolativo che tenga massimamente pre-

senti le (poche) best practices osservabili nei nostri territori.

Nel riflettere su nuove linee di intervento non si possono tralasciare i fattori di debo-

lezza generale del nostro Paese, dei vecchi come dei nuovi. Tutt’altro che risolta è la

aspra dialettica tra l’universalità dei valori e i particolarismi dei territori, che si riflette

sulle tecniche regolative anche negoziali, laddove ci si prova a superare antiche rigidi-

tà. In una lunga fase di difficoltà economico-finanziarie crescono poi anche mentalità e

comportamenti opportunistici, che erodono le già carenti risorse di capitale sociale.

Mentre non accennano a calare né la tirannia dei tempi per le riforme, più o meno im-

posta dall’esterno al nostro paese, né le urgenze sociali e occupazionali, tutte aggravate

dalla lunghezza dell’ultima crisi economica. Non si può dunque far spallucce a chi si

chiede se c’è ancora tempo per negoziazioni collettive virtuose anche a livello territo-

riale. Non c’è risposta drastica, naturalmente, sul piano dei fatti. Però, se si passa dal

piano dei risultati “politici” immediati da sbandierare in varie sedi a quello dei proces-

si reali, non vedo una vera alternativa ad un governo efficace dei mercati del lavoro lo-

cali per il quale mi pare necessaria una migliore regolazione delle negoziazioni territo-

riali volta a favorire i comportamenti socialmente più virtuosi. Sicuramente non serve

alimentare furbizie e opportunismi o conservare le posizioni di rendita che non porta-

no alcuna innovazione collettiva duratura. Si potrebbe pensare di lasciare campo libero

ai meri rapporti di forza, fidando in una selezione del mercato che faccia venire fuori

dappertutto i veri talenti (specie imprenditoriali), grazie ai quali ogni territorio do-

vrebbe conoscere nuove dinamiche di sviluppo economico, sociale e civile. Ma una si-

mile prospettiva vetero-liberista non mi pare appartenga a nessun programma politico

e sociale, anche se fa capolino tra i sogni o gli incubi di molti. Il problema è che , come è

ben noto, portare nei territori l’astrazione di un mercato perfetto richiederebbe più fati-

ca e regole di favorire una governance territoriale e non garantisce affatto i risultati spe-

rati in termini di equità e coesione sociale.

Comunque nel nostro sistema non si può certo impedire nessun tipo di negoziazione

territoriale, laddove c’è la volontà politico-istituzionale di promuoverla. A livello di

ordinamento giuridico statuale si deve però sostenerne la corretta legittimazione tanto

politica quanto sociale, apprestando gli strumenti per verifiche del consenso reale –

nonché di conformità alla legalità costituzionale (secondo gli irrinunciabili valori della

democraticità e della coesione sociale) - e per favorire le negoziazioni più virtuose e so-

cialmente efficaci. In fondo è la solita vecchia storia: va attentamente vagliata la meri-

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tevolezza giuridica delle negoziazioni territoriali in funzione di principi, valori e regole

ad hoc.

9. Il compito del giurista a questo punto mi pare quello di cercare, come un rabdomante,

l’emergere di tecniche inedite che consentano di rintracciare dei percorsi di nuovo bi-

lanciamento tra universalità e particolarismi o se, si preferisce un’espressione più cru-

da, di contemperare i particolarismi, impedendo che il nostro sistema di regolazione (o

de regolazione) del lavoro diventi una vera e propria inestricabile giungla.

E’ un compito indubbiamente difficile, perché, come spesso accade, impone di cercare

ricostruzioni sistematiche all’interno di uno ius novum in cui sempre meno spazio han-

no logiche di tipo sistematico. Tuttavia è un compito ineludibile per chi ha sulle spalle

la responsabilità di proporre e riproporre le linee lungo le quali si muove il nostro or-

dinamento giuridico. Fondamentale è partire dalla premessa che sistema non vuole di-

re né staticità né immobilismo; piuttosto si tratta di verificare se nasce, o si assesta, un

sistema magari con forti tratti di novità ma comunque in grado di esprimere dinami-

smi equilibrati e non effimeri.

Anche una rassegna sintetica e parziale ci induce, dunque, ad osservare negli ultimi

10/15 anni l’emersione di una pluralità di tecniche più o meno sofisticate ed appropria-

te, ma tutte caratterizzate da una difficilissima gestione applicativa. Nel senso che

l’emergere di queste tecniche – per ragioni varie: il contesto istituzionale complessivo,

il modo in cui sono formulate le nuove norme, la carenza di raccordo sistematico, una

precisa scelta del legislatore - lascia grandissimi spazi all’ermeneutica, ponendo tali

problemi semantici, politico-istituzionali e culturali da alimentare l’incertezza giuridica

e rendere il quadro normativo poco adatto al governo dei particolarismi.

Eppure il minimo comun denominatore del nuovo sistema di regolazione del lavoro è

proprio la maggiore facilità con cui possono prodursi discipline particolaristiche, ri-

spetto alle quali è importantissimo e urgente definire il nucleo essenziale dei diritti del-

la persona/lavoratore/cittadino che non tollera tutele differenziate. Molti sono i tentati-

vi in tal senso, ma ancora è necessario molto lavoro di riflessione teorica e di regolazio-

ne (anche il c.d. Job Acts contiene istituti importanti e, per l’Italia, nuovi, come il salario

minimo legale). Tuttavia a mio parere non si devono alimentare soverchie illusioni:

comunque un’armonica composizione di universalità e particolarismi nella disciplina

del lavoro è raggiungibile solo sfrondando, a volte con radicalità, canali e forme attra-

verso cui si esprime la richiesta di tutela dei diritti essenziali della persona e dei lavora-

tori. E spesso la delimitazione dell’”essenziale” – per quanto possa apparire agevole –

non lo è affatto.

Al riguardo pare che anche i più recenti accordi territoriali si muovano con grande cau-

tela. Per Pordenone (con l’accordo ancora in fieri) si è scritto che “si è rimodellato e ri-

modulato molti istituti contrattuali, dai premi di produzione alle festività infrasettima-

nali, dagli orari di lavoro agli scatti di anzianità, dagli automatismi di inquadramento

ai fondi sanitari integrativi, dalla partecipazione agli utili o al capitale alla formazione e

all’outplacemente, ottenendo il risultato di una riduzione del clup del 20%”, senza

“nessuna mutilazione, nessuna amputazione di questo o quell’istituto; ma una revisio-

ne dinamica, una precisa limatura e levigatura di molte voci e capitoli dell’impianto

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normativo e remunerativo del rapporto di lavoro” (Castro 2014). Forse nel caso del

protocollo per Expo 2015 si è andato ad incidere su qualche garanzia costituzionale,

come la retribuzione ex art. 36 Cost. in caso di vera e propria attività lavorativa svolta

dagli stagisti. In ogni caso è evidente che contrattazioni differenziate in funzione di una

molteplicità di interessi possono porre la questione di individuare il confine

dell’intangibilità dei diritti fondamentali in modo più delicato che in passato. La que-

stione va analizzata con molta attenzione e cautela, rifuggendo però da facili tentazioni

retoriche. Pensiamo, ad esempio, al diritto alla salute del lavoratore. E’ sicuramente un

diritto che fa parte del nucleo essenziale dei diritti della persona. Ma lo è in tutti i suoi

aspetti di dettaglio? La questione si è posta, ad esempio, nella vicenda Fiat, almeno in

un primo momento, allorchè si è regolato a livello anche formalmente aziendale, quin-

di differenziato dal CCNL o di primo livello, il periodo di carenza, cioè la retribuzione

per i primi tre giorni di malattia. Si tratta certamente di un “dettaglio”, rispetto alla ga-

ranzia complessiva della salute del lavoratore che comprende il diritto alle cure e alla

sospensione del rapporto con garanzia di “mezzi adeguati alle esigenze di vita” (artt.

32 e 38 Cost.). Anche questo “dettaglio” fa parte del nucleo essenziale dei diritti intan-

gibili? Se la risposta è positiva, occorre riservarne la disciplina a fonti universalistiche,

escludendo quelle potenzialmente differenziatrici (ma siamo sicuri che la contrattazio-

ne collettiva nazionale, che normalmente disciplina il periodo di carenza, sia sufficien-

temente universalistica?). Non si può però nettamente escludere una risposta negativa,

ritenendosi che ad un certo punto la tutela della salute possa essere bilanciata con

l’interesse dell’imprenditore a contenere il costo del lavoro, seppure sottoponendo a

stretto controllo giudiziario o sociale il corretto esercizio dei poteri datoriali. D’altronde

la conservazione del posto di lavoro in presenza di una malattia è sempre riconosciuta

entro variabili limiti temporali (periodo di comporto), senza che ciò si ritenga lesivo del

diritto fondamentale alla salute; perché non dovrebbe valere lo stesso ragionamento

per il costo della sospensione in termini retributivi? Un problema analogo si pone in

tanti altri casi in cui sono in gioco diritti essenziali della persona. Si pensi agli artt. 4 e 6

Stat. Lav., che, pur tutelando dignità del lavoratore e diritto alla riservatezza, prevedo-

no in concreto procedure negoziali che, a determinate condizioni, legittimano interven-

ti restrittivi a tutela di interessi datoriali. Per converso in altri casi il diritto tende ad

espandersi: si pensi alla tutela della maternità, che tende a coprire profili sempre più

ampi per garantire non solo la salute della madre ma anche quella del bambino (v., per

un esempio, Corte Cost. 7 aprile 2011 n. 116, con nota di Tebano).

Insomma è probabile che nel diritto del lavoro attuale anche la delimitazione di

un’area di diritti intangibili lasci ampio spazio ad ulteriori bilanciamenti/equilibri ri-

guardanti normative di dettaglio. Perciò la via maestra può ancora condurre ad affida-

re ad autorevoli valutazioni sociali, che possono essere uniformi ma anche differenzia-

te. Se da un lato è bene aver chiari quali sono i contenuti dei diritti davvero intangibi-

li36, diventa però essenziale la legittimazione negoziale e l’effettiva capacità contrattua-

le delle parti sociali alle quali l’ordinamento affida crescenti margini di valutazione.

36 Senza alcuna pretesa di esaustività, sembrano da guardare con estrema attenzione gli sviluppi

applicativi di quattro nuove importanti disposizioni, tra loro diverse, ma comunque utili nella pro-

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spettiva di tracciare nuovi bilanciamenti tra universalità e particolarismi. La prima è l’art. 117

Cost. nella versione del 2001 e già filtrata da una copiosa giurisprudenza costituzionale. In questa

norma, pure segnata da una tecnica legislativa foriera di grandi incertezze, si può leggere una pre-

cisa riserva a favore di una legislazione statale che si pone come fattore di discipline tendenzial-

mente omogenee sul territorio nazionale in quanto sottrae materie e finalità di intervento alla pote-

stà legislativa regionale, per sua natura differenziata: siamo cioè in presenza di un argine ai parti-

colarismi territoriali. In materia di lavoro, anche con riguardo alla contrattazione collettiva che

tendesse a differenziare in ragione di criteri territoriali, questa norma ci dice che vanno mantenuti

omogenei i principi fondamentali fissati dal legislatore statale (art. 117 c. III); e che lo stesso legi-

slatore nazionale ha competenza esclusiva in materia di immigrazione, concorrenza, ordinamento

civile, livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire su tutto il

territorio nazionale, previdenza sociale (art. 117 c. II, lett. b, e, l, m, o). C’è poi l’art. 31 c. 5 della l.

4 novembre 2010 n. 183 che, nel modificare l’art. 412 cpc sulla risoluzione arbitrale delle contro-

versie di lavoro e consentendo anche l’arbitrato secondo equità, precisa che ciò può avvenire nel

rispetto dei principi generali dell’ordinamento (v. già Corte Cost. 204/96) e dei principi regolatori

della materia, anche derivanti da obblighi comunitari. In ogni caso l’art. 31 c. 9 della l. 183/2010

esclude che la clausola compromissoria possa avere ad oggetto “controversie relative alla risolu-

zione del contratto di lavoro”. Tali limiti riguardano anche “gli accordi interconfederali o i contratti

collettivi stipulati dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più

rappresentative sul piano nazionale” abilitati a consentire la stipulazione di clausole compromisso-

rie equitative (v. ancora l’art. 31 c. 9 cit.). Anche il più volte citato art. 8 del d.l. 138/2011, intro-

ducendo i contratti collettivi di prossimità e abilitandoli a derogare anche alla legge, con una nor-

ma eccezionale da interpretare restrittivamente, pone, come si è visto, una serie di limiti soggetti-

vi, oggettivi e ordinamentali alla possibilità di deroghe aziendali o territoriali. Tali limiti dovreb-

bero essere esaminati molto in dettaglio, proprio al fine di delimitare gli ambiti di discipline parti-

colaristiche che posso essere introdotte dalla nuova tipologia di contratti collettivi. C’è infine un

ambito più settoriale, cioè il lavoro con le pubbliche amministrazioni, che presenta molti aspetti di

interesse quanto a tecniche per bilanciare universalità e particolarismi, specie dopo la riforma dei

primi anni ’90, che pur non eliminando regole specifiche, ha cercato di unificare il più possibile in-

torno a principi privatistici il sistema di regolazione del lavoro dipendente. Questo ambizioso

obiettivo ha però richiesto una complessa disciplina delle fonti e delle relazioni sindacali: si va da

un argine alla microlegislazione, ad una minuziosa disciplina procedimentale e sostanziale della

contrattazione collettiva, con una rigorosa individuazione di soggetti, oggetto, efficacia, procedure,

rapporti tra livelli contrattuali, ecc. Tutto da valutare è l’impatto effettivo di questa normativa. Es-

sa però è assai interessante perché, anche nei suoi ultimi controversi sviluppi (il d.lgs. 150/09), si

è cimentata con il compito improbo di dar vita ad un sistema di regolazione in grado di evitare che

tanto la legge quanto la contrattazione collettiva siano risucchiate dalla, tentazione, assai radicata

nel pubblico impiego, di dar vita a tutele particolaristiche contrastanti con i valori dell’equità nelle

condizioni di lavoro e del buon andamento delle amministrazioni. L’individuazione dei quattro

ambiti appena citati in cui si registrano innovazioni delle tecniche normative di bilanciamento tra

universalità e particolarismi pecca sicuramente per difetto. Altri se ne potrebbero rintracciare, an-

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10. Al riguardo discorsi ben diversi vanno fatti se si tratta di soggetti pubblici, soggetti

collettivi o, addirittura, individui. Limitandosi alle parti sociali37 – protagonisti delle

negoziazioni collettive – è evidente che per lasciar spazio alla varietà di apprezzamenti

occorre non preselezionare i soggetti in funzione del gradimento della controparte.

Non si possono escludere aprioristicamente dalle contrattazioni – specie da quelle più

periferiche – soggetti animati da visioni antagoniste o, rectius, profondamente differen-

ti da quelle “padronali”, anche sotto il profilo valoriale. Tutt’al più si tratta di ricono-

scere loro il peso che effettivamente hanno nel gioco negoziale, verificandone la rap-

presentanza/rappresentatività.

Insomma l’aspetto irrinunciabile è che l’ordinamento contemperi la necessità di fissare

una regola certa con quella di far esprimere davvero, e con l’adeguata forza contrattua-

le, la pluralità degli interessi e delle convinzioni.

E’ poi evidente che la variabilità delle tutele deve essere chiaramente e rigidamente de-

limitata quando si tratta di valori, principi e diritti irrinunciabili della persona. Ma – si

è detto – non è realistico pensare che l’area delle tutele statiche, granitiche e uguali per

tutti possa essere molto estesa. Ci sarà sempre un problema di dettagli regolativi. E

proprio sul confine “tutele valoriali/dettagli regolativi” che si gioca spesso nel diritto

del lavoro la partita universalità versus particolarismi. La prima viene inevitabilmente

fuori da un confronto/scontro con il frenetico dinamismo dei particolarismi: e sta qui la

ragione profonda della necessità di dotare l’ordinamento giuridico di una solida e ge-

neralmente condivisa regolazione della contrattazione collettiva.

Per l’esperienza marginale ma non trascurabile della contrattazione territoriale, come si

è visto, si è ancora più indietro rispetto ad altri ambiti della regolazione collettiva. Per-

ciò è inutile sviluppare troppo l’analisi sul versante costruttivo. Chi vi parla però si è

cimentato anche concretamente con il tentativo di regolare, nell’ambito delle negozia-

zioni territoriali, almeno la contrattazione collettiva vera e propria, affrontando innan-

zitutto la questione della rappresentatività degli agenti contrattuali. Qui tale questione

assume una rilevanza giuridica se possibile anche maggiore rispetto al livello azienda-

le, sia perché va affrontata con riguardo ad entrambe le parti sia perché il contratto ter-

ritoriale è molto più facilmente riconducibile alla nozione lata di “categoria” di cui

all’art. 39 Cost. (da intendersi come “categoria aperta” cioè come riferibile ad una plu-

ralità di rapporti di lavoro non predeterminati al momento della stipula del contratto)

e quindi deve essere regolata cercando di rispettare al massimo almeno i principi “atti-

che precedenti (si pensi alla l. 146/90, con il ruolo cruciale attribuito alla Commissione di garanzia

per l’osservanza dei limiti al diritto di sciopero nei servizi essenziali) o con carattere più marcata-

mente processuale (si pensi alle modifiche agli artt. 360, c. 3, e 420 bis cpc). Tuttavia gli ambiti

citati – che pure andrebbero indagati assai più in profondità - sono comunque emblematici di

un’evoluzione ordinamentale ancora pienamente in atto e ben lontana da un assestamento. 37 Se si affronta la tematica delle regole riguardanti il ruolo dei soggetti pubblici occorre partire dalle legi-

slazioni e dalle prassi autonomistiche, scomponendo innanzitutto l’analisi a livello delle singole Regioni e

Provincie. Per una analisi della legislazione regionale in materia v. Trojsi 2013. Per una presa di posizio-

ne scientifica di carattere generale sulla concertazione v. invece Mazzotta 2014.

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vi” della disciplina costituzionale38. Oggi, attingendo ai materiali normativi emersi per

altri ambiti negoziali, è anche possibile immaginare qualche regola innovativa (v. art. 4

della proposta di legge sindacale elaborata dalla rivista Diritti Lavori Mercati39), tentan-

38 Per una più analitica argomentazione v. Zoppoli 2014. 39 Si tratta di una proposta elaborata ad inizio 2014 da un gruppo di giuslavoristi coordinati da Mario Ru-

sciano e da me e pubblicata nella nuova rubrica Laboratorio normativo, DLM, 2014, p. 155 ss. (nonché

nel volume citato in nota ..). L’art. 4 così recita: “1. I contratti collettivi aziendali o territoriali stipulati

secondo le modalità del presente articolo obbligano le imprese individuate nei medesimi contratti a ga-

rantire ai propri dipendenti trattamenti non inferiori a quelli da essi previsti. 2. Il contratto collettivo

aziendale è stipulato, dal lato dei lavoratori, dalla rappresentanza sindacale unitaria di cui all’art. 1, com-

ma 1, lett. b), ove costituita. In assenza di tale rappresentanza, qualora siano costituite rappresentanze

sindacali aziendali di cui all’art. 1, comma 1, lett. a), il contratto aziendale può essere stipulato con un or-

ganismo unitario sindacale aziendale, formato dai delegati delle rappresentanze sindacali aziendali pre-

senti, ripartiti sulla base del numero degli iscritti al sindacato di riferimento, quale risulta dalle dichiara-

zioni aziendali in ordine alle deleghe o cessioni di credito. In ogni caso il soggetto rappresentativo dei la-

voratori assume le proprie decisioni a maggioranza ed il contratto collettivo aziendale deve essere sotto-

posto al voto dei lavoratori qualora venga fatta richiesta, entro 10 giorni dalla conclusione del contratto,

da almeno una organizzazione sindacale aderente ad una delle confederazioni di cui all’art. 1, comma 6, o

dal 30% dei lavoratori dell’impresa. Per la validità della consultazione è necessaria la partecipazione del

50% più uno degli aventi diritto al voto. L’intesa è respinta con il voto negativo della maggioranza sem-

plice dei votanti. 3. Il contratto collettivo territoriale è stipulato: a) dal lato dei lavoratori, da un soggetto

collettivo costituito da rappresentanti, nel limite massimo di trenta unità, di tutte le associazioni sindacali

aventi i requisiti per partecipare alle trattative per i contratti nazionali applicati nelle imprese che rientra-

no nel campo di applicazione del contratto territoriale da stipulare; b) dal lato dei datori di lavoro, da un

soggetto collettivo costituito da rappresentanti formalmente designati, anche congiuntamente, nel limite

massimo di trenta unità, da tutte le imprese che manifestino interesse all’applicazione del contratto terri-

toriale. Entrambi gli organismi di rappresentanza vengono costituiti con provvedimento della Direzione

territoriale del Ministero del lavoro. 4. Nell’ambito del soggetto collettivo di cui alla lett. a) del comma 3,

ciascuna associazione sindacale è rappresentata in proporzione ai propri iscritti. Le imprese interessate

designano un numero di rappresentanti proporzionale al peso di ciascuna impresa, calcolato tenendo con-

to, in egual misura, del numero di dipendenti e della media del fatturato degli ultimi tre anni. Al fine di

precisare gli indicatori di rappresentatività delle imprese e i criteri di designazione dei relativi rappresen-

tanti, il Ministro del lavoro adotta un apposito decreto entro tre mesi dall’entrata in vigore della presente

legge. 5. Le imprese interessate all’applicazione del contratto territoriale da stipulare possono delegare le

associazioni sindacali cui aderiscono, che potranno designare un numero di rappresentanti rapportato al

peso delle imprese deleganti, calcolato nel modo indicato al comma 4. 6. Il contratto territoriale produce

gli effetti di cui al comma 1 se la relativa ipotesi di accordo è sottoscritta dagli organismi di rappresen-

tanza di cui al comma 3, salvo il ricorso al referendum di cui al comma 7. 7. L’ipotesi di accordo territo-

riale è sottoposta a referendum: a) tra i lavoratori delle imprese alle quali è applicabile, qualora la deci-

sione di sottoscriverla sia stata assunta dall'organismo di rappresentanza con una maggioranza inferiore a

due terzi dei suoi componenti; b) tra le imprese alle quali è applicabile, qualora il 20% delle imprese che

non hanno sottoscritto l’ipotesi di accordo e che occupino almeno il 30% dei lavoratori interessati faccia-

no richiesta entro sessanta giorni dalla notizia dell’ipotesi di accordo comunicata a cura delle competenti

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do di interferire il meno possibile con la libertà delle parti di individuare la precisa de-

limitazione dell’ambito territoriale40 in relazione al quale verificarne poi la rappresenta-

tività. Anzi può anche dirsi che è necessario farlo se si vuole consolidare quel che di

utile è emerso nella legislazione degli ultimi anni, a cominciare dai c.d. contratti di

prossimità e dagli accordi di produttività territoriali per finire alle contrattazioni collet-

tive vere e proprie maturate all’interno di modelli sociali fortemente sviluppati come

quello trentino.

Direzioni territoriali del lavoro. Il referendum ha esito positivo se l’ipotesi di accordo è approvata dalla

maggioranza semplice dei votanti. Le modalità di svolgimento dei referendum sono definite con Decreto

Ministeriale entro 60 giorni dall'entrata in vigore della presente legge. 8. In mancanza di diversa espressa

previsione dei contratti nazionali di cui all’art. 3, applicati nell’impresa, i contratti aziendali o territoriali

prevalgono su qualsiasi altra pattuizione esistente nel medesimo ambito di applicazione. In presenza di

discipline difformi, i contratti territoriali prevalgono su quelli aziendali, salvo diversa previsione del con-

tratto nazionale. 9. I contratti aziendali o territoriali possono derogare a norme di legge solo qualora sia

espressamente previsto dalla legge stessa o, sulla base della legge, dai contratti di cui all’art.3”. Importan-

te, anche ai fini di interpretazione della norma riportata, è che la proposta prevede l’abrogazione dell’art.

8 del d.lgs. 138/11. 40 Da identificare attraverso l’individuazione delle imprese che ricadono nell’ambito di applicazione di un

determinato contratto territoriale. Esempio: imprese manifatturiere della provincia di Trento. Più difficile

può essere individuare i soggetti di un contratto di sito (esempio Expo Milano): ma in quel caso si può

pensare a procedure di progressiva estensione dell’efficacia soggettiva del contratto.

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