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1 Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione Contratti integrativi e flessibilità nel lavoro pubblico &&&&&&&&& Rapporto conclusivo (Lauralba Bellardi, Umberto Carabelli, Antonio Viscomi) &&&&&&&&& Responsabile della Ricerca: Prof. Umberto Carabelli – Docente Stabile della SSPA Roma, Novembre 2005

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Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione

Contratti integrativi e flessibilità nel lavoro pubblico

&&&&&&&&&

Rapporto conclusivo

(Lauralba Bellardi, Umberto Carabelli, Antonio Viscomi)

&&&&&&&&&

Responsabile della Ricerca: Prof. Umberto Carabelli – Docente Stabile della SSPA Roma, Novembre 2005

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La ricerca è stata svolta sotto la direzione dei Proff. Lauralba Bellardi, Umberto Carabelli e Antonio Viscomi, che sono anche autori del presente Rapporto conclusivo. Più precisamente, quest’ultimo è frutto della discussione e del confronto dei tre autori, i quali hanno comunque provveduto ad elaborare le seguenti parti:

- Premessa metodologica: Prof. Umberto Carabelli - Sez. I : Prof. Antonio Viscomi - Sez. II : Prof. Umberto Carabelli - Sez. III: Prof.ssa Lauralba Bellardi.

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Premessa : il metodo seguito nella ricerca.

1. - Come delineato nel progetto originario, la ricerca in oggetto si è proposta il

raggiungimento di due principali obiettivi.

Il primo di essi era la verifica di quanto, dopo la seconda riforma del lavoro

pubblico operata con i decreti legislativi emanati in forza della Legge delega 15 marzo

1997, n.59, la contrattazione collettiva decentrata sia stata effettivamente in grado di

sviluppare tutte le potenzialità derivanti dall’affidamento ad essa, per mezzo delle

clausole di rinvio previste dai contratti collettivi di comparto della seconda tornata

contrattuale (1998-2001), di una funzione regolativa di tipo integrativo, secondo lo

schema configurato dall’attuale art. 40, co. 3, D. Lgs. n. 165/2001. Ciò sul presupposto

che siffatta funzione abbia di per sé un intrinseco valore di flessibilizzazione

dell’organizzazione delle pubbliche amministrazioni, posto che la contrattazione

collettiva che si effettua in sede decentrata ha per sua natura il compito di adattare e/o di

sviluppare (quantitativamente e qualitativamente) la regolazione di istituti di gestione

del rapporto di lavoro alle concrete situazioni ‘ambientali’ sulle quali essa è destinata ad

incidere direttamente.

Il secondo obiettivo, invece, definito in continuità logica con il primo, era la

verifica dell’adeguatezza e coerenza della contrattazione integrativa sviluppatasi nella

seconda tornata contrattuale rispetto ai vincoli derivanti dalle stesse clausole di rinvio

contenute nei contratti nazionali di comparto (la cui violazione da parte dei contratti

integrativi è colpita, com’è noto, dal medesimo articolo 40, co. 3, con la sanzione della

nullità). Ciò in quanto l’eventuale riscontro di uno scostamento più o meno ampio – sul

piano delle competenze o, se del caso, dei contenuti negoziali – della regolazione fissata

dai contratti integrativi rispetto ai predetti vincoli sarebbe indicativo di una tensione

interna al sistema contrattuale riformato, o più precisamente tra i livelli contrattuali

nazionale e decentrato. Una tensione, questa, evidentemente dovuta a scelte

confliggenti, o comunque non omogenee operate rispettivamente dai contratti nazionali,

interessati a contenere spinte espansive della contrattazione decentrata, e

reciprocamente dai contratti integrativi, che probabilmente aspirano a svilupparsi più

liberamente per governare i concreti processi di riorganizzazione delle pubbliche

amministrazioni indotti dalla riforma del lavoro pubblico. Proprio per questo,

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evidenziare le situazioni di ‘tensione’ può costituire un elemento di riflessione

fondamentale, anche in vista di eventuali modifiche dello stesso sistema contrattuale.

Così ideata, la ricerca stessa doveva necessariamente svilupparsi attraverso un

percorso articolato, così caratterizzato:

a) anzitutto la preliminare ricognizione di carattere generale della

disciplina legale in materia di contrattazione collettiva del lavoro

pubblico e, precisamente, della regolazione della struttura contrattuale di

tale settore, effettuata non solo sulla base del mero dato normativo, ma

anche, ed anzi soprattutto, sulla base dell’interpretazione che di esso è

stata data da dottrina e giurisprudenza. Una ricognizione resa necessaria

dal fatto che risultano tuttora controversi i limiti che la contrattazione

collettiva del settore pubblico incontra nei confronti dell’organizzazione

della pubblica amministrazione, a sua volta percorsa dall’incerto confine

tra macro- e micro- organizzazione, la prima affidata alla regolazione

pubblicistica, la seconda assoggettata al regime privatistico;

b) in secondo luogo la raccolta, la schedatura e lo studio dei

contratti collettivi nazionali di comparto della seconda tornata, al fine di

individuare e selezionare, all’interno di essi, tutte le clausole di rinvio

alla contrattazione integrativa, classificandole analiticamente a fini di

comparazione, con riferimento ai soggetti, ai tempi ed ai contenuti della

contrattazione decentrata (siffatta ricognizione ha tenuto conto, peraltro,

anche dei contratti collettivi nazionali quadro – ccnq - stipulati nello

stesso periodo di tempo, pur nella consapevolezza della minore rilevanza

quantitativa di tali rinvii);

c) in terzo luogo la raccolta, la schedatura e lo studio dei contratti

collettivi integrativi, con un’analisi puntuale dei soggetti, dei tempi e dei

contenuti dei medesimi, ai fini di una valutazione sia della loro

espansione sia della loro conformità alle clausole di rinvio contenute nel

relativo contratto nazionale di comparto (e nei ccnq).

Proprio l’articolazione e la complessità del percorso di indagine, nonché le

oggettivamente limitate risorse disponibili, hanno indotto l’estensore del progetto a

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fissare una rigorosa delimitazione non soltanto temporale – come si è detto, la ricerca

doveva riguardare soltanto la contrattazione collettiva nazionale e decentrata del

secondo rinnovo – ma soprattutto settoriale, nel senso che sono stati prescelti soltanto

tre comparti su cui centrare l’indagine, individuati in ragione delle loro peculiarità

strutturali. Anzitutto il comparto dei Ministeri, connotato da un’ampia estensione della

base contrattuale di riferimento, e soprattutto articolato al suo interno in

amministrazioni solo nominalmente omogenee, ma organizzate di fatto (nonché di

diritto) in modo estremamente diversificato (si è notoriamente parlato in dottrina, con

riferimento ai diversi Ministeri, di forme organizzative profondamente differenziate, a

geometria variabile, anche come risultato delle più recenti riforme strutturali che li

hanno interessati). Quindi il comparto degli Enti locali, anch’esso caratterizzato da

un’ampia estensione della base contrattuale di riferimento, ma al tempo stesso connotato

dall’elevatissimo numero delle entità amministrative che costituiscono luogo di

contrattazione decentrata e che godono, per fondamento costituzionale, di ampi spazi di

autonomia organizzativa e gestionale (Province e Comuni), ovvero di una vera e

propria competenza legislativa (regioni) (una differenza, quest’ultima, che, come si

preciserà nel seguito, ha inciso su un’ulteriore scelta metodologica, effettuata nel corso

della ricerca). Infine il comparto universitario, caratterizzato, invece, dalla presenza di

un numero relativamente contenuto di luoghi negoziali di secondo livello, ma anch’esso

connotato dagli ampi spazi di autonomia organizzativa e gestionale riconosciuti alle

singole Università, anch’essi di fondamento costituzionale.

2. – La prima fase della ricerca è stata svolta in termini relativamente brevi,

confidando in particolare nella guida e nell’apporto scientifico del Prof. Antonio

Viscomi. Traccia di tale riflessione è contenuta nella parte di questo Rapporto finale che

egli ha redatto a conclusione della ricerca (Sez. I).

Subito dopo, proprio sulla base della scelta dei tre comparti destinatari

dell’indagine, si è provveduto a costituire tre gruppi di lavoro, ciascuno composto da un

ricercatore senior e da due ricercatori junior (Comparto Ministeri: Proff. Vito Leccese,

Dott.ssa Carla Spinelli, Dott.ssa Angelica Riccardi; Comparto Enti locali: Prof. Marco

Esposito, Dott.ssa Paola Saracini, Dott.ssa Grazia Chirillo; Comparto Università: Prof.

Giovanni Roma, Dott.ssa Madia D’Onghia, Dott. Cosimo Angelo Filomeno), a ciascuno

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dei quali è stato assegnato il compito di studiare il sistema contrattuale del comparto

assegnatogli, secondo il percorso indicato nelle lettere a) e b) del precedente paragrafo.

Il coordinamento dell’attività di ricerca dei tre gruppi è stato svolto dal sottoscritto e dai

Proff. Lauralba Bellardi e Antonio Viscomi.

In alcune riunioni preliminari di discussione e di organizzazione del lavoro si è

proceduto alla determinazione collegiale delle principali scelte operative. Tra queste, in

particolare, la definizione delle schede tipo attraverso le quali dar conto dell’analisi dei

contratti collettivi nazionali dei tre comparti. Ed a questo riguardo va segnalata la

decisione che la rilevazione analitica dei contenuti contrattuali da parte dei tre gruppi di

lavoro fosse affrontata con riferimento non soltanto alle clausole di rinvio (generali e

specifiche) alla contrattazione integrativa, ma anche alle clausole dei contratti di

comparto che definiscono, per determinate materie, l’apertura, in sede decentrata, ai c.d.

istituti della partecipazione (informazione, consultazione, concertazione). Ciò sulla base

del fondato convincimento che eventuali superamenti dei limiti posti dal contratto

nazionale ai contratti decentrati possano più facilmente avvenire per ‘scorrimento’ da

una delle tre procedure indicate ad un’attività negoziale vera e propria, che si conclude

con accordi formali dai quali scaturiscono obbligazioni per le parti e, specialmente, per

quella ‘datoriale’. La struttura di tali schede è stata ‘saggiata’ in via sperimentale e poi

approvata in via definitiva.

3. - Dopo l’analisi dei contratti collettivi di comparto – attestata dalle schede che si

rinvengono nella prima sezione degli Allegati a ciascun Rapporto di comparto, con

relativa introduzione esplicativa – e dei contratti collettivi nazionali quadro – le cui

clausole di rinvio, per ragioni di semplificazione, sono state inserite nelle schede dei

contratti di comparto – l’intero gruppo di ricerca ha dedicato una serie di incontri alla

definizione, da un lato, della struttura della scheda di rilevazione in cui sintetizzare i

risultati dell’analisi puntuale di ciascun contratto integrativo, onde rendere possibile lo

studio comparativo (sia tra gli stessi contratti integrativi, sia tra essi ed il contratto

nazionale di comparto) e, dall’altro, dei luoghi e metodi di reperimento e di selezione

dei contratti integrativi di ciascun comparto.

Quanto al primo profilo, la scheda-tipo di analisi dei contratti integrativi è stata

predisposta tenendo conto della variegata tipologia dei rinvii reperiti nei tre contratti

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collettivi di comparto e nei ccnq; si è così individuata una lunga serie di aree tematiche

(in pratica, di istituti e materie contrattuali) oggetto di rinvio alla contrattazione

integrativa, in generale collegate a rilevanti profili della flessibilità gestionale delle

pubbliche amministrazioni, nonché un’area residuale in cui dar conto di eventuali

interventi regolativi del singolo contratto integrativo non riconducibili alle aree

tematiche predeterminate. Nella scheda è stata inoltre prevista una sezione dedicata alle

osservazioni relative ad aspetti peculiari del singolo contratto integrativo (con occhio

particolarmente rivolto ad eventuali specificità regolative eventualmente rilevate dal

gruppo di lavoro). Infine questa scheda-tipo è stata anch’essa ‘saggiata’ in relazione ad

alcuni contratti integrativi presi a campione.

Assai più complesse sono state le decisioni relative ai luoghi e modi di reperimento

del materiale contrattuale, nonché alla selezione dello stesso ai fini dell’indagine.

Riguardo a questo aspetto conviene distinguere le scelte effettuate in relazione a ciascun

comparto, precisando che la ricerca, per il limite convenzionale assunto nel progetto,

doveva svilupparsi solo in relazione ai contratti integrativi stipulati a seguito della

seconda tornata contrattuale (onde riferimenti a contratti integrativi stipulati nell’ambito

della prima tornata potevano essere effettuati solo qualora ad essi rinviassero quelli

della seconda).

a) Per quanto attiene al Comparto Ministeri, è ben nota una specificità che lo rende

particolarmente complesso ed interessante dal punto di vista della struttura negoziale.

La presenza, infatti, all’interno di questo comparto, di amministrazioni (i dicasteri e

altre) aventi, come si è già accennato, differente struttura organizzativa interna e, a loro

volta, articolati sul territorio nazionale in molteplici plessi ed unità amministrative, ha

condotto alla creazione di un livello nazionale di contrattazione integrativa, cui si

affianca un secondo livello di contrattazione per unità amministrativa in sede decentrata

territoriale.

L’originaria idea di sviluppare la ricerca dei contratti integrativi di questo comparto

su entrambi i livelli ha dovuto essere ridimensionata nel corso della ricerca non soltanto

per le esigue risorse umane impiegabili, ma anche per difficoltà insuperabili di

reperimento del materiale relativo al secondo livello decentrato nel limitato tempo a

disposizione.

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In relazione al primo aspetto, infatti, va detto che il rinvenimento, attraverso i

canali tradizionali (CNEL, ARAN e singoli Ministeri), di tutti i contratti integrativi

nazionali di cui si è avuta notizia certa, ha reso immediatamente evidente l’elevata

complessità ed articolazione del materiale contrattuale raccolto, e soprattutto la

ricchezza di esso dal punto di vista contenutistico; elementi, questi, che, oltre a sollevare

l’interrogativo circa l’ampiezza effettiva dei residui spazi negoziali in sede di secondo

livello decentrato, hanno reso già di per sé particolarmente gravosa ed impegnativa

l’analisi e schedatura dei medesimi contratti integrativi di primo livello, secondo i

canoni concordati.

Quanto al secondo profilo, il frequente mancato rispetto, da parte delle

amministrazioni ministeriali decentrate, del vincolo legale di inviare all’ARAN i

contratti integrativi conclusi in quelle sedi, e l’insufficienza della banca dati del CNEL

al riguardo hanno indotto i ricercatori ad effettuare un tentativo di reperire tale

materiale, grazie alla cortese collaborazione dello stesso ARAN, attraverso una richiesta

diretta rivolta alle direzioni centrali dei singoli ministeri. La risposta è stata tuttavia non

uniforme ed incompleta, di modo che, al momento della verifica del materiale raccolto –

entro il termine massimo concordato dal gruppo di ricerca per il rispetto dei tempi di

lavoro – ci si è resi conto che esso appariva estremamente disomogeneo, al punto da

renderne inopportuna la considerazione ai fini della ricerca stessa. Di tali perplessità ha

dato conferma un’esperta ricercatrice di statistica (Prof. Roberta Pace), all’uopo

consultata dal gruppo, la quale ha fornito un motivato giudizio (che è divenuto parte del

Rapporto del comparto Ministeri) circa l’inadeguatezza del materiale raccolto e

l’impossibilità di ricavarne, anche attraverso una sua considerazione quale campione,

elementi affidabili ai fini della ricerca.

Di qui la decisione di limitare la ricerca al solo livello nazionale di

amministrazione della contrattazione integrativa di questo comparto, tenuto oltretutto

conto della quantità di materiale raccolto, ma anche della sua specifica rilevanza sul

piano dei contenuti.

In conclusione, la seconda sezione degli allegati al Rapporto del comparto

Ministeri contiene le schede relative ai contratti integrativi di livello nazionale reperiti

attraverso i predetti affidabili canali; contratti che costituiscono assai verosimilmente,

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con un ridotto margine di errore, l’intera produzione contrattuale integrativa di primo

livello del comparto stesso.

b) Discorso in parte differente va effettuato in relazione al comparto degli Enti

locali. In questo caso non si è presentata nessuna difficoltà nel reperimento del materiale

contrattuale, dato che di esso è stato rivenuto un archivio assai fornito e ben organizzato

presso l’ARAN. Per questo comparto i problemi sono sorti, al contrario, proprio a causa

della gran massa di contratti integrativi a disposizione, la cui analisi integrale si è

rivelata materialmente impossibile, in quanto avrebbe richiesto risorse umane e di

tempo esorbitanti rispetto a quelle previste nel progetto di ricerca. Senza contare la

profonda disomogeneità, cui si è già accennato, tra i tre tipi di Enti locali raccolti nel

comparto.

Dopo intense discussioni svolte dall’intero gruppo di ricerca, si è alla fine deciso di

acquisire al riguardo il parere di un esperto ricercatore di statistica (anch’esso integrato

formalmente nel Rapporto del comparto Enti locali). Quest’ultimo, se da un lato ha

confermato l’inopportunità di procedere ad una trattazione generale di tutti gli Enti

locali, così fornendo conferma alla valutazione del gruppo circa la necessità di non

includere nell’indagine i contratti collettivi integrativi delle Regioni, dall’altro ha

definito i principi in base ai quali procedere ad una campionatura dei contratti collettivi

integrativi degli altri due tipi di Enti locali, fondata sui due criteri fondamentali del

numero di abitanti e del territorio. Ne è emersa una precisa selezione di Comuni e

Province i cui contratti integrativi erano a disposizione presso l’ARAN, con la

costituzione di un campione scientificamente determinato.

Sulla base del parere dell’esperto statistico il gruppo dei ricercatori responsabili del

comparto ha così proceduto alla schedatura dei contratti integrativi dei soli Comuni e

Province selezionati, utilizzando all’uopo la scheda-tipo di cui si è detto. Tali schede,

che costituiscono un’interessante ed originale documentazione relativa alla

contrattazione integrativa del comparto, sono state anch’esse raccolte nella sezione

seconda degli allegati al Rapporto.

c) Una soluzione ancora diversa è stata assunta in relazione al comparto delle

Università. In questo caso, infatti, dopo un primo riscontro della relativamente scarsa e

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discontinua raccolta dei contratti integrativi delle varie Università italiane disponibile

presso il CNEL e l’ARAN, il gruppo di ricerca ha deciso di chiedere, per vie formali, a

tutte le Università pubbliche, di mettere a disposizione i contratti integrativi dalle stesse

stipulati nel corso della seconda tornata contrattuale.

La risposta è stata estremamente soddisfacente. Quasi tutte le Università hanno

risposto con precisione e diligenza, così manifestando altresì particolare interesse al

lavoro di indagine in corso.

Data la completezza del materiale contrattuale raccolto ed il numero ragguardevole

ma non eccessivo dei contratti integrativi a disposizione, il gruppo di ricercatori

responsabile del comparto ha così proceduto alla loro integrale schedatura, dopo aver

acquisito da un ricercatore esperto di statistica un parere favorevole (anch’esso, per

quanto estremamente succinto, incluso nel Rapporto di comparto) circa la compatibilità

di tale opzione metodologica (evidentemente difforme da quelle effettuate per gli altri

due comparti, come già detto) con gli obiettivi della ricerca. Pure tali schede, la cui

completezza conferisce loro un particolare rilievo scientifico, sono rinvenibili nella

seconda sezione degli Allegati al Rapporto di comparto.

4. - La fase conclusiva si è svolta seguendo un metodo abbastanza tradizionale per

le ricerche in materia di contrattazione collettiva.

Ciascuno dei tre gruppi di ricercatori costituiti ab origine ha redatto, sulla base

delle schede predisposte in relazione ai contratti nazionali dei tre comparti e a quelli

integrativi raccolti (ed eventualmente selezionati), il Rapporto di comparto, la cui

struttura è stata concordata in via preliminare dall’ intero gruppo di ricerca. Ciò affinché

i tre rapporti fossero del tutto omogenei tra loro da un punto di vista strutturale, in modo

da facilitare una lettura comparativa dei contenuti.

Tali rapporti si strutturano in due parti. La prima è dedicata ad una breve analisi

delle caratteristiche del comparto di riferimento e, quindi, alla valutazione del contratto

nazionale di comparto dal punto di vista dei rinvii alla contrattazione integrativa e agli

istituti della partecipazione in esso rinvenibili, con riferimenti anche ai rinvii contenuti

nei ccnq. La seconda, invece, assai più articolata, sviluppa criticamente una lettura

analitica delle schede dei contratti integrativi, esaminando puntualmente gli sviluppi

riscontrati in relazione a ciascuna delle aree tematiche definite per la predisposizione

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della scheda-tipo dei contratti integrativi. Per ciascuna di queste aree viene effettuata

una valutazione delle soluzioni concordate dalle parti negoziali in sede di

contrattazione integrativa, effettuata in funzione dei due obiettivi della ricerca (in altre

parole, una valutazione, da un lato, del grado di articolazione della disciplina dettata

dalla contrattazione integrativa in relazione agli istituti di rilievo gestionale e, dall’altro,

del grado di scostamento della contrattazione collettiva integrativa dai vincoli fissati dal

contratto nazionale di comparto; ciò, peraltro, nei limiti in cui sia effettivamente

possibile, sulla base del dato contrattuale evidenziato nelle schede, operare una siffatta

valutazione). Vi è poi un parte finale, nella quale vengono formulate le valutazioni e le

osservazioni conclusive proprio alla luce dell’analisi sviluppata nelle due parti

precedenti.

Sulla base dei tre rapporti, infine, si è proceduto alla stesura del Rapporto

conclusivo (Proff. Lauralba Bellardi, Umberto Carabelli e Antonio Viscomi), il quale a

sua volta è stato strutturato, a seguito di una preliminare discussione svolta dall’intero

gruppo di ricerca, in tre parti di cui la prima, di taglio giuridico, ripercorre i problemi

generali posti dalla struttura della contrattazione collettiva del settore pubblico e dalla

relativa disciplina legale; la seconda è dedicata all’analisi comparativa delle risultanze

dell’indagine sviluppata nei tre comparti, quali emergono dai relativi rapporti; la terza,

infine, contiene alcune valutazioni conclusive, in relazione agli obiettivi delineati nel

progetto e ricordati in apertura di questa premessa di carattere metodologico (alla

stesura di quest’ultima ha proceduto il responsabile della ricerca per conto della SSPA,

Prof. Umberto Carabelli).

Concludendo queste considerazioni preliminari, sia consentito esprimere un

ringraziamento a tutti coloro che hanno fornito il loro aiuto nel difficile compito di

reperire i materiali contrattuali su cui si è svolta la ricerca; un ringraziamento speciale

va all’ARAN ed in particolare alla Dott.ssa Elvira Gentile e al Dott. Rosario Soloperto

per la preziosa collaborazione fornita nella raccolta del materiale contrattuale relativo ai

comparti dei Ministeri e degli Enti locali, nonché a tutti gli uffici delle Università

italiane che hanno risposto con puntualità ed entusiasmo alla richiesta di collaborazione

nella raccolta di contratti integrativi del comparto Università.

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Sezione I – I profili giuridico-istituzionali della contrattazione collettiva integrativa nelle amministrazioni pubbliche.

Sommario: 1. Premessa. – 2. Prima fase. – 3. Seconda fase. – 4. Criteri di

conformazione del sistema: autonomia, integrazione e coerenza. – 5. La nullità

delle clausole difformi. – 6. I soggetti della contrattazione collettiva. – 7. Livelli di

contrattazione. – 8. Tempi e procedure. – 9. Esperienze contrattuali. – 10.

Valutazione. – 11. Recenti tendenze evolutive. – 12. Controlli centrali e autonomia

periferica. – 13. Conclusione (provvisoria)

1. - Obiettivo specifico del rapporto che segue è la ricostruzione del sistema

giuridico che disciplina la contrattazione integrativa o di secondo livello nel settore

delle pubbliche amministrazioni. A tal fine, ed in considerazione del carattere evolutivo

del processo riformatore, il rapporto sarà articolato, almeno idealmente, in tre grandi

aree: nella prima si darà conto delle linee essenziali della c.d. prima fase della riforma,

avviata con il d.lg. 29; nella seconda sarà ricostruito il framework normativo proprio

della c.d. seconda fase, avviata nella seconda metà degli anni ’90; nella terza ed ultima

si proporranno alcune osservazioni in ordine alla coerenza del modello contrattuale con

le tendenze istituzionali di lungo periodo che interessano ormai diffusamente le

pubbliche amministrazioni.

2. - La disciplina dettata nell’ambito della prima fase della riforma delineava un

sistema contrattuale segnato da due elementi di fondo: (a) la conformazione necessaria e

strutturale del secondo livello alle scelte effettuate in sede di primo livello nazionale; (b)

la subordinazione della contrattazione decentrata alle direttive emanate dalla Presidenza

del Consiglio e, per essa, dall’Agenzia (per le relazioni sindacali, prima, e per la

rappresentanza negoziale poi). In ragione di ciò, si disse fin da subito che quella

decentrata era da considerare alla stregua di una contrattazione in libertà vigilata dal

momento che essa, per un verso, poteva svolgersi solo sulle materie e nei limiti previsti

dal contratto nazionale e che inoltre, per altro verso, era sancito il divieto di autorizzare

la sottoscrizione dei contratti decentrati comportanti impegni di spesa eccedenti le

disponibilità finanziarie definite dal contratto collettivo nazionale. In questo contesto

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era dunque ragionevole affermare che il sistema legale risultava impregnato da «spirito

centralistico» e «diffidenza» nei confronti del decentramento negoziale

(rispettivamente: Treu T. 1992, 353; Grandi M. 1993).

A ben vedere, siffatta conformazione del sistema contrattuale decentrato

nell’ambito delle amministrazioni pubbliche, più che una scelta originaria ed originale

originaria del legislatore riformista del 1993, rappresentava il riflesso di una tendenza di

lungo periodo, risultando del tutto in linea con l’esperienza del decennio precedente, dal

momento che già l’art. 14 della legge quadro del 1983 sanciva la «subordinazione

finanziaria» (Natullo G. 1990, 106) e la «filiazione controllata» (Grandi M. 1983, 290)

del livello decentrato rispetto a quello nazionale. Se dunque si considera l’esperienza

decennale della legge quadro che aveva preceduto la riforma ⎯ caratterizzata, essa

stessa, da una contrattazione decentrata rivolta più al soddisfacimento di

“microinteressi” che alla realizzazione dei “macrointeressi” della produttività ed

efficienza della pubblica amministrazione ⎯ non v’è dubbio che l’obiettivo del

legislatore riformatore fosse quello di «conciliare la contrattazione collettiva come

controllo sui centri di spesa pubblica con la contrattazione collettiva come risorsa

organizzativa» (Zoppoli L. 1998, 92), a tal fine realizzando le condizioni per un

adeguato contemperamento fra esigenze di stabilità giuridica del sistema contrattuale,

prevedibilità degli effetti economici della contrattazione e valorizzazione

dell’autonomia contrattuale. Ed è proprio in funzione di tale obiettivo ⎯ indubbiamente

ambizioso e di non facile realizzazione ⎯ che trovava ragione l’attribuzione al livello

nazionale di contrattazione di un ruolo decisivo nella regolamentazione dei soggetti

negoziali, nell’articolazione dei livelli ed infine nell’individuazione delle materie

negoziabili in sede decentrata (Viscomi A. – Zoppoli L. 1995, 793).

Tuttavia, proprio la ricognizione dei contratti collettivi nazionali della prima

tornata (1994-1997) consente di misurare la distanza tra intenzioni (del legislatore) e

realizzazioni (delle parti negoziali): in proposito si è parlato di «tecnica normativa rigida

e, in fin dei conti, parsimoniosa», intendendo così significare ⎯ in buona sostanza ⎯

che la contrattazione decentrata è stata realmente configurata dalla contrattazione

nazionale come continuazione ⎯ il più delle volte in funzione meramente applicativa

⎯ di un «processo normativo avviato al centro» (Zoppoli L. 1998, 100) e

sequenzialmente attuato in sede locale. Questa osservazione trova conferma in almeno

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due ulteriori circostanze. Anzitutto, nel fatto che la contrattazione di secondo livello è

stata incastonata (o, da altro punto di vista, ingabbiata) in un sistema di relazioni

sindacali decentrate che assegna «un ruolo preponderante all’informazione (ma non a

quella preventiva) e un ruolo tutto sommato circoscritto alla contrattazione decentrata»

(Zoppoli L. 1998, 101). In secondo luogo, nel fatto che la gran parte delle poche materie

affidate generalmente alla contrattazione decentrata «o è evanescente o ha poco a che

vedere con le materie realmente contrattate nella storia del pubblico impiego (che sono:

diritti sindacali, inquadramenti, salari accessori, orario ed organizzazione)» (Zoppoli L.

1998, 102). In effetti, l’unica materia veramente “importante” devoluta alla

contrattazione decentrata nella prima fase della riforma è stata quella relativa alla

definizione dei «criteri generali» di applicazione, in sede locale, degli istituti retributivi

accessori collegati alla produttività collettiva ed individuale (cioè di istituti regolati

nella struttura essenziale dal contratto nazionale).

In questo contesto, caratterizzato da un controllo centralizzato delle risorse

finanziarie, gli unici tentativi di ampliare gli spazi di contrattazione decentrata

risultavano segnati dall’art. 32 del contratto per il comparto degli enti locali e dall’art.

36, c. 6, del contratto per il personale degli enti pubblici non economici: il primo

consentiva la redistribuzione delle economie di gestione e delle risorse aggiuntive (ma a

condizioni tanto particolari da risultare di difficile implementazione: cfr. Viscomi A.

1996); il secondo attribuiva alla contrattazione decentrata a livello di ente la facoltà di

affidare «la gestione di una quota del fondo» per la produttività collettiva e per il

miglioramento dei servizi «a ciascuna unità funzionale per la realizzazione di obiettivi

definiti localmente sulla base di priorità, indirizzi e limiti stabiliti a livello nazionale»

(Natullo G. 1996). Naturalmente, non è casuale che le clausole contrattuali appena

indicate siano state previste dai contratti relativi a settori caratterizzati ⎯ più e prima di

altri ⎯ da alti livelli di autonomia (costituzionalmente fondata, per quanto attiene agli

enti locali; organizzativamente radicata, per quanto riguarda gli enti pubblici non

economici, nell’ambito dei quali, e in particolare dell’Inps, alcuni dei principi

caratterizzanti la riforma del lavoro pubblico erano già stati introdotti dalla legge 9

marzo 1989 n. 88 di riforma dell’Istituto).

In verità, questa circostanza consente di segnalare fin da subito come l’ambizione

del legislatore del 1993 ⎯ di racchiudere, cioè, la contrattazione decentrata in un ordine

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stabile governato dal centro ⎯ abbia dovuto misurarsi con le profonde modifiche del

contesto di riferimento. Nonostante incertezze e tentennamenti pure evidenti (sui quali

non è qui certo il caso di soffermarsi), si tratta di modifiche tutte orientate a riconoscere

il carattere plurale e policentrico del sistema amministrativo, a tal fine valorizzando

l’autonomia organizzativa e gestionale delle singole strutture. In qualche misura, può

anzi dirsi che nei primi due contratti materialmente stipulati nell’ambito della tornata

negoziale 1994-1997 ⎯ Autonomie locale, appunto, ed Enti pubblici non economici ⎯

sono racchiusi indirizzi ed orientamenti successivamente diffusi in tutti i settori delle

pubbliche amministrazioni. E si tratta di indirizzi che hanno trovato un primo e formale

riconoscimento in occasione del primo rinnovo biennale della parte economica (che può

darsi per avviato il 7 febbraio 1996 con la definizione della relativa direttiva di

indirizzo). E’ in questa occasione, infatti, che la disponibilità contrattuale

nell’utilizzazione delle risorse aggiuntive diventa patrimonio comune di tutte le

amministrazioni, sia pure a condizione che queste siano state riorganizzate per centri di

costo, che sia stato avviato il controllo di gestione e che infine siano stati istituiti i

nuclei di valutazione.

3. - L’evoluzione del sistema contrattuale, sommariamente ora accennata,

costituisce lo sfondo su cui deve essere collocata e letta la l. 15 marzo 1997 n. 59 che,

per la parte che qui interessa, anzitutto ha novellato l’originario art. 2, c. 1-i, della l.

421/1992 ⎯ cancellando il riferimento alla duplice articolazione dei livelli di

contrattazione e prevedendo al contempo che «la struttura della contrattazione, le aree di

contrattazione e il rapporto tra i diversi livelli siano definiti in coerenza con il settore

privato» ⎯ ed in secondo luogo ha imposto espressamente al Governo di garantire a

tutte le amministrazioni pubbliche «autonomi livelli di contrattazione collettiva

integrativa nel rispetto dei vincoli di bilancio di ciascuna amministrazione» (art. 11, c.

4-e) e di «semplificare e rendere più spedite le procedure di contrattazione collettiva»

(art. 11, c. 4-c). Ed è proprio sulla non chiara correlazione tra i due criteri di delega che

si è focalizzata l’attenzione dei primi commentatori. Si è così assistito, per un verso, ad

un forte apprezzamento della dislocazione di quote di potere contrattuale dal centro alla

periferia; e si è pure assistito al contempo, per altro verso, alla contestazione di ciò che

appare come la duplice contraddizione di una legge che configura la contrattazione di

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secondo livello come autonoma, ma al contempo integrativa, e che richiede una struttura

contrattuale coerente con quella del settore privato ma al contempo tale struttura

predetermina, sia pure parzialmente, in via legale. Si tratta di obiezioni e perplessità che

meritano di essere prese in considerazione ed adeguatamente valutate. Ma prima di

proporre alcune riflessioni in merito è doveroso procedere, come usuale, ad una

ricostruzione della disciplina dettata dalla legge delega, e, sulla base giuridica da essa

offerta, dai decreti di attuazione.

Commentando l’originaria disciplina della contrattazione decentrata alcuni autori

hanno formulato, a fini euristici, un «decalogo» normativo, tentando di dare

sistematicità ed ordine razionale ad un insieme di regole spesso frammentate e disperse

in articoli i più vari (Viscomi A. – Zoppoli L. 1995, 790). L’invenzione retorica

manifesta ancora oggi la sua validità, ed anzi la comparazione tra “vecchio” e “nuovo”

decalogo può risultare utile al fine di cogliere con immediatezza le innovazioni,

strutturali e funzionali, della disciplina in esame.

A tale stregua si ricorderà che nella prima fase della riforma: a) il sistema

contrattuale nel pubblico impiego risultava articolato in due livelli: nazionale e

decentrato; b) la contrattazione decentrata avrebbe dovuto svolgersi sulle materie e nei

limiti stabiliti dalla contrattazione nazionale; c) essa era finalizzata al contemperamento

tra esigenze organizzative, tutela dei dipendenti e interesse degli utenti; d) la sua

stipulazione era affidata, per la parte pubblica, ad una delegazione composta dal titolare

del potere di rappresentanza delle singole amministrazioni e dai rappresentanti dei

titolari degli uffici interessati; normalmente, infatti, la contrattazione decentrata non

risultava affidata all’Agenzia per la rappresentanza negoziale, alle cui direttive le

amministrazioni pubbliche avrebbero dovuto comunque attenersi; in ogni caso, su

richiesta delle stesse amministrazioni, l’Agenzia avrebbe però potuto svolgere funzioni

dirette di rappresentanza o di assistenza; e) per la parte sindacale, si affidava alla

contrattazione nazionale l’individuazione delle modalità di composizione della

rappresentanza abilitata alle trattative; f) la contrattazione decentrata vincolava le

amministrazioni, obbligate ad osservare gli obblighi assunti e ad adempiervi nelle forme

previste dai rispettivi ordinamenti; g) la sottoscrizione del contratto era autorizzata con

atto dell’organo di vertice previsto dai singoli ordinamenti; h) l’autorizzazione alla

sottoscrizione era, essa stessa, sottoposta al controllo preventivo degli organi

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competenti; i) l’autorizzazione (e dunque il contratto stesso) era condizionata alla

verifica del rispetto dei limiti di cui all’art. 45, c. 4, d.lg. 29/1993 nonché del limite di

spesa definito dai contratti collettivi e comunque alla congruità con le linee generali di

programmazione economica e finanziaria; l) infine, copia del contratto avrebbe dovuto

essere comunicata all’Agenzia, al Dipartimento della funzione pubblica ed al Ministero

del tesoro, allo scopo precipuo di consentire la verifica del costo e degli effetti della

medesima sulla efficacia dell’azione amministrativa.

Ora, invece, nel sistema delineato dalla seconda fase della riforma (e seguendo la

numerazione del d.lg. 165/2001):

(1) le pubbliche amministrazioni «attivano» autonomi livelli di contrattazione

collettiva integrativa; adempiono agli obblighi assunti con il contratto dalla data della

sottoscrizione definitiva e ne assicurano l’osservanza nelle forme previste dai rispettivi

ordinamenti (art. 40, c. 3, secondo periodo, e c. 4; ma di «sottoscrizione in sede

decentrata», di «livelli decentrati di contrattazione collettiva» ed addirittura di

«contrattazione decentrata» si parla ancora nello stesso art. 45, c. 3, quarto periodo,

nell’art. 42, c. 8 ed infine nell’art. 67, c. 2);

(2) la contrattazione nazionale disciplina la struttura contrattuale, «in coerenza con

il settore privato» (art. 40, c. 3, primo periodo) ed in particolare definisce: i soggetti e le

procedure della contrattazione integrativa (art. 40, c. 3, terzo periodo, fermo restando, ai

sensi dell’art. 43, c. 5, quanto previsto in relazione agli organismi unitari di

rappresentanza del personale dall’art. 42, c. 7); le materie oggetto di contrattazione

integrativa nonché i relativi limiti (art. 40, c. 3, terzo periodo); la durata dei contratti

collettivi integrativi nonché «i rapporti tra i diversi livelli» (art. 40, c. 4, primo periodo);

(3) la contrattazione integrativa può avere ambito territoriale e riguardare più

amministrazioni (art. 40, c. 3, terzo periodo);

(4) essa è «attivata» dalle amministrazioni nel rispetto dei vincoli di bilancio

risultanti dagli strumenti interni di programmazione annuale e pluriennali (art. 40, c. 3,

secondo periodo; cfr. pure art. 48, c. 1);

(5) consequenzialmente, le pubbliche amministrazioni non possono sottoscrivere

«in sede decentrata» contratti integrativi in contrasto con i vincoli risultanti dai contratti

nazionali o che comportino oneri non previsti negli strumenti di programmazione

annuale e pluriennale (art. 40, c. 3, quarto periodo);

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(6) le clausole dei contratti integrativi «difformi» sono nulle e non possono essere

applicate (art. 40, c. 3, quinto periodo);

(7) l’autorizzazione di spesa relativa al rinnovo dei contratti collettivi è disposta

«nelle forme con cui vengono approvati i bilanci, con distinta indicazione dei mezzi di

copertura» (art. 48, c. 4);

(8) il controllo sulla compatibilità dei costi della contrattazione integrativa è

effettuato dal collegio dei revisori dei conti ovvero, dove tale organo non sia previsto,

dai nuclei di valutazione o dai servizi di controllo interno (art. 48, c. 6);

(9) le pubbliche amministrazioni, anche collettivamente e su base convenzionale,

possono avvalersi dell’assistenza dell’Aran ai fini della contrattazione integrativa (art.

46, c. 2);

(10) le pubbliche amministrazioni trasmettono all’Aran entro cinque giorni dalla

sottoscrizione il testo del contratto e le indicazioni sulle modalità di copertura dei

relativi oneri con riferimento agli strumenti annuali e pluriennali di bilancio (art. 46, c.

5); a tal fine è istituto presso l’Aran un Osservatorio paritetico per il monitoraggio

sull’applicazione dei contratti collettivi anche integrativi (art. 46, c. 4); peraltro, in capo

al Ministero del Tesoro ed al Dipartimento della Funzione Pubblica permane il più

generale compito di verificare l’applicazione dei contratti collettivi «con riguardo,

rispettivamente, al rispetto dei costi prestabiliti ed agli effetti degli istituti contrattuali

sull’efficiente organizzazione delle amministrazioni pubbliche e sull’efficacia della loro

azione» (art. 67, c. 2).

Siffatta funzione di controllo e monitoraggio risulta ora rafforzata dall’art. 40-bis

del d.lg. 165 introdotto dall’art. 17 della l. 28 dicembre 2001 n. 448 che ha imposto ai

Comitati di settore ed al Governo di procedere a «verifiche congiunta in merito alle

implicazioni finanziarie complessive della contrattazione integrativa di comparto,

definendo metodologie e criteri di riscontro anche a campione sui contratti integrativi

delle singole amministrazioni». Peraltro, sempre la stessa norma ha disposto che gli

organi deputati alla verifica di compatibilità dei costi ai sensi dell’art. 48, c. 6, d.lg. 165

siano ora tenuti ad inviare annualmente «specifiche informazioni sui costi della

contrattazione integrativa» al Ministero dell’Economia e delle finanze. Naturalmente,

l’accertamento di «costi non compatibili con i vincoli di bilancio» determina la

conseguente applicazione della sanzione di nullità della clausola «difforme», già

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prevista — come sopra indicato — dall’art. 40, c. 3, quinto periodo, del d.lg. 165 ed ora

rafforzata — sul piano simbolico, più che su quello giuridico — dal comma 3 dell’art.

40-bis del d.lg. 165, introdotto dall’art. 17 della l. 448/2001. In questa prospettiva può

dirsi che la recente disciplina costituisce un affinamento di quanto già disposto dall’art.

20 della legge 23 dicembre 1999, n. 488 che — modificando l’art. 39 della legge 27

dicembre 1997, n. 449 — aveva assegnato al Dipartimento della funzione pubblica —

congiuntamente con il Ministero del Tesoro — il compito di effettuare un apposito

controllo sui contratti integrativi stipulati dalle amministrazioni statali anche ad

ordinamento autonomo e dagli Enti pubblici non economici con organico superiore alle

200 unità, con particolare riferimento agli oneri derivanti dall’attuazione della

classificazione professionale.

4. - Al fine di ricostruire il quadro delle regole legali deputato a governare la

contrattazione di secondo livello, l’interprete è chiamato a riflettere anzitutto sul senso e

sul valore da riconoscere alla norma che quella contrattazione qualifica non più come

decentrata bensì come «integrativa» e vuole al contempo «autonoma» ma strettamente

conformata e controllata dal contratto nazionale. L’impossibilità logica di considerare il

contratto di secondo livello come «integrativo» del contratto nazionale ed al contempo

«autonomo» ha indotto alcuni a lamentare una contraddizione ritenuta evidente.

Tuttavia, appare ragionevole ritenere che i predetti caratteri abbiano riguardo a tratti

differenti, in guisa tale che la contraddizione tra di essi possa essere considerata

meramente apparente. A tale stregua, mentre appare pertinente riferire il primo

elemento ⎯ e cioè il carattere «integrativo» ⎯ alla funzione assunta (o che dovrebbe

essere assunta) dal contratto di secondo livello all’interno del sistema contrattuale,

sembra altrettanto ragionevole intendere il secondo ⎯ «autonomia» ⎯ come riferito

all’inesistenza di vincoli esterni al sistema contrattuale idonei ad incidere sulla

conformazione e sulla stessa funzione del livello contrattuale in esame.

In effetti, il carattere autonomo dei livelli integrativi di contrattazione acquista

senso e significato se correlato non già con il ruolo ordinante della contrattazione

nazionale nella definizione della struttura contrattuale (sancito dall’art. 40, c. 3, primo

periodo), bensì e piuttosto in relazione al venir meno, nel nuovo sistema, sia delle

direttive c.d. di secondo grado attinenti ai criteri cui «conformare» la contrattazione

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decentrata, che l’impianto originario della riforma affidava all’Agenzia (ai sensi dell’art.

50, c. 7, d.lg. 29, testo previgente), sia della specifica «finalizzazione» del livello

decentrato di contrattazione al «contemperamento» tra esigenze organizzative, tutela dei

dipendenti e interesse degli utenti (art. 45, c. 4, d.lg. 29, testo previgente; su entrambi i

profili cfr. Viscomi A. – Zoppoli L. 1995, 811). In questa prospettiva, la prescrizione in

merito al carattere autonomo della contrattazione decentrata, avendo riguardo ai vincoli

esterni al sistema contrattuale ⎯ quei vincoli, cioè, prima derivanti dalle direttive

dell’Agenzia ovvero direttamente dalla fonte legale ⎯ non si pone in contraddizione né

con la funzione integrativa che il legislatore intende attribuire, all’interno del medesimo

sistema contrattuale, al livello decentrato di contrattazione né con la rigorosa

subordinazione del contratto di secondo livello al contratto di primo livello. Da questo

punto di vista, è indubbio, d’altronde, che anche nel settore privato la contrattazione

decentrata è “autonoma” da vincoli esterni ma pur sempre “integrativa” rispetto alla

conformazione interna del sistema contrattuale.

Definito il valore del carattere autonomo della contrattazione decentrata, occorre

individuare il senso della trasformazione semantica che il contratto di secondo livello

definisce come integrativo e non più decentrato. A tal proposito, si è proposto di

considerare tale carattere come rappresentativo della scelta del legislatore a favore di un

modello di contrattazione «più specializzata che delegata» (Barbieri M. 1997, 178),

ovvero, per converso, come equivalente di contrattazione «non indipendente, articolata

rispetto al contratto nazionale, al quale continua a rapportarsi in virtù della tecnica del

rinvio piuttosto che di quella della specializzazione» (Natullo 1999). Al fine di risolvere

il dilemma o di sciogliere la contraddizione, occorre considerare anzitutto che

nell’esplicita qualificazione come integrativa della contrattazione di secondo livello è

ragionevole riconoscere la presa d’atto del legislatore delegante delle tendenze evolutive

del sistema contrattuale nel settore pubblico. In questo, infatti, la contrattazione

decentrata appare da tempo orientata verso l’assunzione di una funzione non più

meramente applicativa delle clausole di livello superiore ma piuttosto di adeguamento

di quelle clausole al concreto contesto di riferimento. Nel caso di specie, tale funzione

può essere intesa in duplice modo: anzitutto, come regolazione di materie non trattate

dal contratto nazionale, ovviamente a condizione che non via un esplicito divieto in tal

senso (Barbieri M. 1997, 178) o che il contratto nazionale non individui esplicitamente

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le materie oggetto di contrattazione decentrata; in secondo luogo, come completamento

della disciplina dettata dal livello nazionale. Appunto perciò, integrativa è tanto la

contrattazione delegata quanto quella specializzata. E’ dunque impossibile trarre dal

dato letterale conferma per una delle due opzioni: sarà invece la contrattazione

nazionale a stabilire in concreto se la contrattazione di secondo livello avrà un carattere

delegato e/o specializzato e ciò farà sulla base di una scelta autonoma, non vincolata dal

termine utilizzato dal legislatore (e a leggere i contratti decentrati appare evidente

l’opzione negoziale per una contrattazione più delegata che specializzata).

Questione di più difficile soluzione è quella relativa al paradosso della

configurazione eteronoma di un sistema contrattuale pubblico che si vuole «coerente»

con il sistema privato: per un verso, il legislatore delegante della l. 59 ha imposto al

legislatore delegato di strutturare il sistema contrattuale pubblico in conformità al

sistema contrattuale privato; per altro verso, il legislatore delegato ha conferito (o

riconosciuto) autonomia ordinante alla contrattazione collettiva e in questa al contratto

nazionale (chiamato a disciplinare la struttura contrattuale ed in particolare: i soggetti, le

procedure, le materie, i limiti della contrattazione integrativa nonché i rapporti tra i

diversi livelli), ma ha al contempo stabilito che tale autonomia debba essere esercitata

entro limiti e con modalità rigidamente preordinati e talvolta del tutto differenti o

almeno apparentemente differenti da quelli propri del settore privato. Appunto perciò, si

è parlato di «fuor d’opera» nella riforma del 1997 (Natullo 1999) ed è stato segnalato il

paradosso di una riforma che invoca coerenza con il settore privato nel momento stesso

in cui detta una disciplina del sistema contrattuale «del tutto differente» da quel settore,

soprattutto in relazione al contratto decentrato (Barbieri M. 1997, 181).

Per tentare di individuare il senso di tale contraddizione, è opportuno verificare in

primo luogo se la «coerenza» con il settore privato, richiesta dal legislatore delegante,

sia da intendere in senso “mimetico” ovvero in senso “mite”; se cioè la norma in

questione sia da intendere nel senso che la struttura della contrattazione collettiva

relativa alle pubbliche amministrazioni debba essere definita non diversamente da come

questa è definita nel settore privato (in senso, appunto, mimetico) ovvero se, non

diversamente da ciò che avviene nel settore privato, il governo della struttura

contrattuale debba essere affidato alla libertà negoziale delle parti e non più, come nella

prima fase della riforma, all’intervento eteronomo del legislatore (un rinvio, dunque, in

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senso “mite” alla fonte autonoma ai fini della regolazione del sistema contrattuale). Al

fine di risolvere tale dilemma, il riferimento al dato testuale non è sufficiente: in effetti,

affermare che «la contrattazione collettiva disciplina, in coerenza con il settore privato»,

il sistema contrattuale può significare: (a) che la contrattazione nel settore pubblico è

vincolata ad adeguarsi al modello presente nel settore privato; (b) che la contrattazione

collettiva è abilitata ad autoregolarsi, non diversamente da quanto avviene, appunto, nel

settore privato. Per risolvere il dilemma occorre dunque soffermare l’attenzione su altri

dati significati.

A tale stregua, almeno due ragioni suggeriscono di valorizzare la seconda delle

interpretazione proposte. In primo luogo, assumendo un approccio argomentativo

orientato ai princìpi, si può ricordare che la ratio stessa della (seconda) riforma è

ricondurre la contrattazione medesima nell’alveo delle logiche e della prassi di tipo

privatistico, sciogliendo la contraddizione originaria della (prima) riforma che alla

delegificazione del rapporto individuale di lavoro aveva affiancato «una

iperlegificazione della contrattazione collettiva» (D’Antona M. 1998, 45). In secondo

luogo, assumendo un approccio argomentativo orientato agli effetti, si devono

considerare le conseguenze paradossali derivanti dall’adozione di una prospettiva

interpretativa di tipo mimetico e fra queste, in particolare, il “congelamento” in

determinate forme storiche di un sistema regolativo altrimenti caratterizzato da notevole

flessibilità e da intrinseca dinamicità, da ciò quasi necessariamente derivando un

affievolimento della capacità di adeguamento ed adattamento all’ambiente socio-

professionale in cui è quel sistema è destinato ad operare. Ciò considerando, sembra

ragionevole ritenere che il riferimento alla «coerenza» con il settore privato sia da

intendere come riferito alla libertà delle parti contraenti e dunque al potere sociale, ma

giuridicamente riconosciuto, della stessa contrattazione di disciplinare la struttura

contrattuale, onde non potrebbe ritenersi ammissibile una sua ridefinizione per via

legislativa.

Ammesso ciò, occorre verificare l’adeguatezza della ricostruzione proposta in

relazione alle disposizioni dettate dal decreto legislativo in materia di contrattazione

decentrata; occorre cioè accertare se queste ultime siano sufficienti a vulnerare la

ricostruzione proposta e più ancora se siano tali da alterare, fino ad annullare, lo stesso

potere di autoregolazione della contrattazione collettiva. In particolare, occorre stabilire

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se è vero che «il rapporto tra i diversi livelli contrattuali può ben essere regolato dalla

contrattazione collettiva stessa, salvo che si tratti dei rapporti tra i contratti nazionali e

quelli integrativi» (Barbieri M. 1997, 180). Se così fosse, l’art. 40, c. 3, terzo periodo,

costituirebbe un limite, e non dei meno pregnanti, all’esercizio dell’autonomia

contrattuale pure riconosciuta dal primo periodo del medesimo articolo. Tuttavia,

stabilendo che «la contrattazione collettiva integrativa si svolge sulle materie e nei limiti

stabiliti dai contratti nazionali, tra i soggetti e con le procedure negoziali che questi

ultimi prevedono»», il terzo periodo dell’art. 40, c. 3, più che costituire norma

«speciale» rispetto alla norma «generale» contenuta nel primo periodo del medesimo

comma, appare destinato a rafforzare le prerogative di autoregolamentazione della

contrattazione nazionale che così anzi si conferma a stregua di «fonte unica di

dislocazione verso il basso della potestà negoziale» (Carinci F. 1998, 53). Che poi la

contrattazione nazionale possa optare per una rigida delimitazione degli spazi di

negoziazione decentrata ovvero per l’attribuzione a quest’ultima della più ampia libertà

di azione è scelta riservata all’autonomia di governo dei soggetti negoziali, costituisce

un elemento di discrezionalità non imputabile al legislatore ma riconducibile al normale

svolgimento delle dinamiche politico-sindacali.

Semmai, se dubbio esiste, questo potrebbe riguardare la legittimità di un contratto

nazionale che fosse tale da escludere del tutto il contratto integrativo dal novero delle

fonti autonome. Tale questione, però, non nasce in virtù dell’art. 40, del decreto

delegato: in effetti, poiché la contrattazione integrativa si svolge sulle materie e nei

limiti fissati dalla contrattazione nazionale, nulla sembra vietare a questa di ridurre o

eliminare gli spazi contrattuali decentrati. La questione sollevata nasce, semmai, dalla

norma delegante contenuta nell’art. 11, c. 4-e, della l. 59, ai cui sensi gli autonomi

livelli di contrattazione integrativa devono essere «garantiti» a tutte le amministrazioni.

In effetti, l’attribuzione alla contrattazione collettiva nazionale di una autonomia

oltremodo ampia nella individuazione delle materie e nella definizione dei limiti della

contrattazione integrativa potrebbe non impedire un radicale svuotamento del ruolo e

della funzione di quest’ultima. Ond’è che ⎯ di fatto ⎯ particolari modalità di

attuazione della disciplina dettata dal legislatore delegato potrebbero determinare la

sostanziale ablazione della «garanzia» stabilita dal legislatore delegante in relazione agli

autonomi livelli di contrattazione integrativa. Anche questa lettura, però, manifesta

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alcuni punti deboli: la «garanzia» di cui parla il legislatore delegante sembra essere

riferita non tanto all’«attivazione» e dunque alla presenza dei livelli contrattuali

periferici ⎯ affidati, invero, alla scelta effettuata in sede di contrattazione nazionale ⎯

ma semmai e piuttosto all’«autonomia» di tali livelli e cioè, come già segnalato, alla

loro garanzia da interferenze esterne. Così intesa la «garanzia» di cui all’art. 11, c. 4-e,

l. 59 ne segue l’impossibilità di ipotizzare una sostanziale contraddizione tra legge

delega e legge delegata per aver questa congegnato il sistema contrattuale in modo tale

da rendere meramente eventuale e non necessaria la contrattazione integrativa.

Né in senso contrario può opporsi la norma secondo cui le pubbliche

amministrazioni «attivano» autonomi livelli di contrattazione decentrata. Il verbo usato

è tanto polisemico da rendere ardua qualunque deduzione che pretenda di porsi come

certa; il tempo verbale utilizzato, l’indicativo presente, pure da altri valorizzato per

dedurre l’esistenza in capo alle amministrazioni di un obbligo a trattare, non è indice

significativo, dal momento che esso non esprime né un comando né un invito o

auspicio. D’altronde, la circostanza che siano le amministrazioni ad «attivare» autonomi

livelli di contrattazione è indicazione del legislatore delegato, laddove invece il

legislatore delegante si era limitato a stabilire la garanzia di autonomia, nel senso

predetto, dei livelli di contrattazione integrativa. Probabilmente, l’uso di tale verbo

meglio si comprende se si considera che l’iniziativa per l’avvio della contrattazione

decentrata nel settore pubblico è stata tradizionalmente affidata alle amministrazioni: in

effetti, tanto nel vigore della legge quadro, quanto dopo la prima riforma, alle

amministrazioni è stato imposto di «costituire» la delegazione di parte pubblica e di

«convocare» la delegazione sindacale (cfr. infatti, l’art. 4 dei ccnl 1994-1997 relativi al

personale di tutti i comparti). Ma se così è, occorre riconoscere l’inutilità euristica del

verbo «attivare».

5. - Nella prospettiva di una riconduzione del sistema contrattuale pubblico

nell’ambito di un alveo coerente con la libertà di cui è impregnato il settore privato, una

sicura anomalia è segnata dall’art. 40, c. 3, quinto periodo, che sanziona con la nullità le

clausole dei contratti di secondo livello difformi dalle prescrizioni dettate dai contratti di

primo livello nonché dai vincoli derivanti dagli strumenti di programmazione

economico-finanziaria (per una esemplificazione giurisprudenziale, non conclusa

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tuttavia con la dichiarazione di nullità, cfr. Trib. Napoli, ord. 5 ottobre 2001 in LPA

2001, 343). Si tratta di prescrizione ora rafforzata dall’art. 40-bis del d.lg. 165

(introdotto dall’art. 17 della l. 448/2001 ed in parte modificato dall’art. 14 della l.

3/2003) ai cui sensi l’accertamento in sede di verifica e monitoraggio della

contrattazione integrativa di «costi non compatibili con i vincoli di bilancio» determina

la conseguente applicazione della sanzione di nullità della clausola «difforme», già

prevista — come indicato — dall’art. 40, c. 3, quinto periodo, del d.lg. 165.

Nel sistema delineato dalla prima riforma la conformità (o la coerenza) tra i livelli

contrattuali era assicurata dal divieto (gravante sugli organi di vertici e di controllo e

fonte di una loro eventuale responsabilità) di autorizzare la sottoscrizione di contratti

decentrati comportanti impegni di spesa eccedenti le disponibilità finanziarie definite

dal contratto nazionale. Nel sistema delineato dalla seconda riforma ⎯ anche a causa, in

generale, della ridefinizione del ruolo e delle funzioni degli organi di controllo esterno

nonché, in particolare, della modifica del procedimento di contrattazione integrativa ⎯

il legislatore ha inteso garantire la conformità e la coerenza del livello inferiore a quello

superiore, incidendo direttamente sull’atto difforme mediante il meccanismo

sanzionatorio (sostanziale, ma dai rilevanti effetti processuali: si pensi ai soggetti

interessati, al termine di prescrizione e così via) della nullità. In proposito, si è parlato,

fin da subito, di efficacia reale dei vincoli posti dalla contrattazione nazionale; efficacia

sancita e presidiata a garanzia dell’ordine contrattuale piuttosto che a beneficio

dell’interesse dei singoli (Carinci F. 1998, 53) e pertanto solo latamente assimilabile al

modello predisposto dall’art. 2077 cod. civ. per le relazioni tra clausole collettive e

clausole individuali difformi. E si è pure detto che la difformità causa di nullità è da

intendere in senso bilaterale, essendo proibita ogni variazione, peggiorativa o

migliorativa, rispetto alle clausole di primo livello con conseguente ed esplicito divieto

di applicazione. Quest’ultimo divieto appare, in verità, del tutto ultroneo sul piano

sistematico ma oltremodo importante se si considerano le prassi reali e la cultura diffusa

nell’ambito delle pubbliche amministrazioni. In effetti, richiamando l’attenzione dei

soggetti deputati a dare applicazione alla disciplina integrativa sulla responsabilità

derivante dall’applicazione di una clausola nulla, esso sembra sollecitare un controllo

diffuso all’interno della struttura amministrativa sul medesimo contratto; un controllo

complementare e certo non alternativo ai controlli previsti dall’art. 48, c. 6. Questi, in

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effetti, attengono soltanto alla compatibilità economica della contrattazione collettiva

con i vincoli di bilancio, laddove la «difformità» produttiva di nullità è da intendere

come riferita sicuramente ai vincoli derivanti dal contratto nazionale ed agli oneri non

previsti negli strumenti di programmazione economico-finanziaria.

La garanzia degli equilibri contrattuali definiti in sede nazionale, affidata al

meccanismo della nullità, oltre ad apparire una sicura anomalia rispetto al settore

privato pone alcuni problemi giuridici di portata più generale, sui quali è qui doveroso

proporre almeno un sintetico cenno.

In primo luogo, occorre interrogarsi su quale sia la norma imperativa dalla cui

violazione deriva la nullità sancita dal legislatore (che, in effetti, non sembra poter

derivare da una delle altre cause di cui al c. 2 dell’art. 1418 cod. civ.). La risposta a tale

domanda non è semplice, potendosi ipotizzare tre diverse soluzioni. Potrebbe dirsi,

anzitutto, che la nullità derivi dalla diretta violazione del contratto di primo livello, da

considerare a stregua di norma imperativa (circostanza, questa, che potrebbe trovare

sostegno nell’art. 63, c. 5, del decreto che la «violazione o falsa applicazione dei

contratti e accordi collettivi nazionali di cui all’art. 40» considera come motivo utile per

il ricorso in Cassazione). Potrebbe però anche affermarsi che la nullità sia connessa alla

violazione dell’art. 40, c. 3, terzo periodo, ai cui sensi la contrattazione decentrata può

aversi nei soli limiti fissati dalla contrattazione nazionale. Potrebbe, infine, riconoscersi

la norma imperativa fonte di nullità in quella (art. 40, c. 3, quarto periodo) che impone

in capo alle pubbliche amministrazioni l’obbligo di non sottoscrivere in sede decentrata

contratti integrativi «in contrasto con i vincoli» ⎯ sia di competenza che di regolazione

⎯ stabiliti in sede nazionale e derivanti dagli strumenti di programmazione finanziaria.

La differenza fra le varie soluzioni non è di poco conto, al di là ed oltre i profili

sistematici, se si considera che, adottando la terza ipotesi, la difformità rilevante ai fini

della nullità attiene non solo alla disciplina contrattuale ma anche ai vincoli derivanti

dagli strumenti di programmazione economico-finanzaria (il che trova ora esplicita

consacrazione proprio nel comma 3 dell’art. 40-bis).

In secondo luogo, a stare al tenore letterale della norma, la nullità colpisce la sola

clausola difforme. In proposito, può farsi tesoro della riflessione sull’art. 2077 per

evidenziare che la «clausola» costituisce l’unità precettiva minima in cui è possibile

scomporre un regolamento contrattuale: pertanto, essa non si identifica con l’«istituto»

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(del quale si parla, ad esempio, nell’art. 41, c. 6, a proposito dei contratti c.d. quadro).

Da questa circostanza derivano due effetti: anzitutto, la non applicazione dell’art. 1419

cod. civ. in relazione alla nullità parziale o di singole clausole essenziali, non derivando

dalla nullità di una di esse, quand’anche essenziale, la nullità dell’intero contratto

integrativo; in secondo luogo, la riduzione degli spazi reali di autogoverno delle parti

sociali in sede decentrata, attesa l’impossibilità legale di una difformità della singola

clausola che sia però funzionale, al contempo, ad una diversa disciplina dell’istituto

regolato. Peraltro, questa circostanza pone in evidenza come risulti difficile definire,

con margine di univoca certezza, il concetto stesso di difformità e dunque l’ambito reale

di incidenza della sanzione di nullità, tanto da potersi ragionevolmente interrogare sulla

effettiva utilità pratica di una norma così congegnata.

Il punto focale del sistema normativo che disciplina la struttura della contrattazione

collettiva nel pubblico impiego si annida proprio nell’art. 40, comma 3, del d.lg. 30

marzo 2001 n. 165 là dove si attribuisce al contratto collettivo di livello nazionale il

compito di definire la struttura complessiva del sistema contrattuale salvaguardando le

relative statuizioni mediante la sanzione di nullità delle «clausole difformi»

eventualmente contenute nei contratti stipulati ai livelli inferiori. Da questa norma

emerge, in modo emblematico, l’asimmetria regolativa presente nel settore pubblico in

ragione della quale ad un livello nazionale di contrattazione più o meno rigidamente

disciplinato dalla fonte legislativa esterna si contrappone un secondo livello che

viceversa trova la propria fonte di disciplina all’interno dello stesso sistema contrattuale

e precisamente nel contratto nazionale, sia pure assistito dalle peculiari garanzie di

stabilità eccezionalmente apprestate dal legislatore. In effetti, è la legge a stabilire i

soggetti che possono partecipare alla contrattazione nazionale, sia sul fronte sindacale

(art. 43, comma 1) sia su quello datoriale (art. 46), qui prevedendosi una specifica forma

di rappresentanza legale delle pubbliche amministrazioni in capo all’Aran; ed è la stessa

legge a stabilire i presupposti la cui presenza consente di stipulare legittimamente un

contratto nazionale (art. 3, comma 3) nonché a delimitare lo spazio oggetto di

negoziazione con il rinvio, per un verso, a «tutte le materie relative al rapporto di lavoro

ed alle relazioni sindacali» (art. 40, comma 1) e con la previsione, per altro verso, di un

potere di indirizzo (art. 41) e di controllo (art. 47) sull’operato dell’Aran ad opera del

comitato che raccoglie settorialmente le pubbliche amministrazioni interessate: l’una

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«agenzia dell’intero sistema pubblico» secondo la valutazione della Corte

Costituzionale nella sent. 309/1997; l’altro, invece, per usare le parole di Massimo

D’Antona, «centro di imputazione dei medesimi interessi collettivi che l’Aran

rappresenta legalmente nella negoziazione del contratto collettivo». Viceversa, è

l’autonomia negoziale dei soggetti sindacali a livello nazionale a dover stabilire i

comparti di contrattazione (art. 40, comma 2), a definire le vicende degli organismi di

rappresentanza del personale (art. 42) e soprattutto a stabilire soggetti, materie e

procedure negoziali a livello integrativo (art. 40, comma 3) con regole la cui osservanza

è assistita e garantita dalla sanzione di nullità delle «clausole difformi» (art. 40, comma

3, con previsione recentemente ribadita - sia pure in relazione ai soli vincoli di bilancio -

dall’art. 40-bis del d.lg. 165 introdotto dall’art. 17 della l. 28 dicembre 2001 n. 448). In

qualche misura, è dunque ragionevole affermare che il sistema contrattuale nel settore

pubblico - consacrato nella forma attuale soltanto con la seconda revisione dell’assetto

riformatore dopo l’eccesso di legificazione sperimentato nella prima fase - abbia

assunto nel tempo una conformazione binaria, da più parti ritenuta idonea a coniugare

contrapposte esigenze: per un verso, di adeguamento flessibile del sistema contrattuale

alla galassia organizzativa che caratterizza quel settore, per via del riconoscimento e

dell’attribuzione di autonomi poteri conformativi alla contrattazione collettiva

nazionale; per altro verso, di gestione controllata ed accorpata delle risorse normative e

finanziarie rimesse nella disponibilità della contrattazione collettiva (cfr. ad esempio gli

artt. 2, 48 e 69), mediante la definizione di una cornice legale coerente con un sistema

amministrativo fortemente centralizzato sotto il profilo legislativo e finanziario. Sulla

base dell’esperienza pratica, è difficile negare che questo modello contrattuale abbia

effettivamente consentito il massimo di flessibilità governata del sistema contrattuale

nella prospettiva di una forte valorizzazione, a costituzione invariata, delle istanze di

decentramento del sistema amministrativo. A ben vedere, la funzione ordinante del

contratto nazionale ha consentito una adeguata differenziazione strutturale dei modelli

negoziali in relazione ai singoli comparti e l’integrazione ordinata del contratto di

secondo livello non ha impedito l’attribuzione al medesimo di pregnanti funzioni

organizzative e gestionali (basti considerare a tal fine non solo, né tanto, la disciplina

relativa al nuovo ordinamento professionale o all’attribuzione degli incarichi

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dirigenziali ma anche, e direi soprattutto, quella relativa ai sistemi di gestione del fondo

unico di amministrazione).

Peraltro, la centralità della contrattazione nazionale è ribadita dall’art. 9 del d.lg.

165 che ad essa affida la disciplina dei «rapporti sindacali» e di non meglio precisati

«istituti della partecipazione», anche con riferimento agli atti interni di organizzazione

aventi riflessi sul rapporto di lavoro. Ad una prima lettura, l’esplicita attribuzione alla

fonte contrattuale della disciplina dei rapporti sindacali potrebbe apparire, in verità,

alquanto singolare. Essa, tuttavia, trova pregnante giustificazione nell’evidente obiettivo

di riportare nell’alveo dell’autonomia delle parti il governo delle rispettive «modalità

relazionali», sanando la profonda contraddizione di una riforma che alla

contrattualizzazione del rapporto individuale di lavoro ha affiancato, fin dalle origini,

una iperlegificazione della contrattazione collettiva e più in generale delle relazioni

sindacali. In questa prospettiva, la prescrizione dell’art. 9 deve essere correlata con l’art.

40, c. 1, del d.lg. 165 ai cui sensi la contrattazione collettiva ⎯ originariamente

competente a dettare regole «su tutte le materie del rapporto di lavoro, con esclusione di

quelle riservate» ⎯ trova ora svolgimento non solo, come già prima, sulle materie

relative al rapporto individuale, ma anche sulle «relazioni sindacali». Ond’è che la

reiterazione normativa in merito alla competenza contrattuale in materia di «relazioni»

(art. 40) o «rapporti sindacali» (art. 9) ⎯ del tutto ultronea e forse anche inutile sul

piano sistematico ⎯ può ragionevolmente essere intesa come rafforzativa della volontà

del legislatore di riportare un più chiaro ordine nel sistema delle fonti di disciplina del

lavoro pubblico e non più solo, e forse neppure tanto, di governare la conformazione dei

modelli relazionali (così li definiscono gli stessi contratti collettivi) tra i soggetti

negoziali (su ciò vedi, per tutti, Viscomi A., 2005b).

E’ stato detto che il sistema così congegnato appare incompatibile sia con la

richiesta «coerenza» con il settore privato, sia con la libertà della contrattazione di

stabilire il proprio ordinamento. In proposito, può dirsi che la disciplina della nullità

della clausola difforme conferma che la coerenza con il sistema privato non può e forse

neppure deve essere ricercata nei profili strutturali della contrattazione ma piuttosto in

quelli funzionali. In altri termini, la norma non impedisce alla contrattazione collettiva

di disporre liberamente della propria struttura così come nel settore privato; ma, a

differenza di ciò che avviene nel settore privato, ne riconosce e garantisce la stabilità ⎯

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nell’ordinamento statuale ⎯ per via della sanzione di nullità delle clausole difformi.

Semmai, in tale disciplina trova conferma che il livello nazionale di contrattazione è

considerato dal legislatore come il perno del sistema contrattuale nel settore pubblico ed

al contempo la cerniera che consente di mettere in relazione l’ordinamento

intersindacale con quello statuale. Ammesso ciò, problemi sorgono semmai su un

diverso duplice versante, potendosi ragionevolmente dubitare che la clausola di nullità

costituisca il miglior strumento per ottenere concretamente il risultato atteso e che la

stessa sia del tutto coerente – come si vedrà tra poco – con le più recenti tendenze di

evoluzione del sistema amministrativo.

6. - L’ampia latitudine assegnata alla competenza ordinante della contrattazione

nazionale trova espressione preclara, ma non priva di riserve, nel potere di individuare i

«soggetti» della contrattazione integrativa (art. 40, c. 3, terzo periodo; ribadito dall’art.

43, c. 5). Nel sistema precedente, invece, l’art. 45, c. 8, del d.lg. 29 stabiliva

direttamente che la delegazione di parte pubblica fosse presieduta dal titolare del potere

di rappresentanza delle singole amministrazioni ⎯ o da un suo delegato ⎯ e composta

dai rappresentanti dei titolari degli uffici interessati, affidando alla contrattazione

nazionale la definizione delle modalità di composizione della sola delegazione

sindacale. Nonostante l’apparente linearità, la norma previgente suggeriva, anch’essa,

alcune perplessità, relative sia al ruolo gestionale del titolare del potere di

rappresentanza (tendenzialmente identificabile nell’organo politico di vertice), sia alla

scarsa diffusione di figure dirigenziali in alcuni comparti (gli enti locali), sia infine alla

possibilità di una contrattazione decentrata relativa a più amministrazioni (su tutti questi

problemi cfr. Viscomi A. — Zoppoli L. 1995 nonché Viscomi A. 1996).

A riserve di non minore pregnanza si espone la norma vigente, soprattutto a

cagione dell’attribuzione alla contrattazione nazionale della competenza volta ad

individuare i «soggetti» della contrattazione integrativa senza che a tal fine sia posta una

netta distinzione e separazione tra parte pubblica e parte sindacale. Da qui il rischio,

subito evidenziato, di un contratto collettivo che interviene a «disciplinare materia di

organizzazione interna delle amministrazioni» (Barbieri M. 1997, 263) e la conseguente

proposta di ridefinire il nucleo precettivo della norma come se fosse riferito ai soli

soggetti negoziali di parte sindacale. Se però si considera tanto il carattere bilaterale e

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volontario della contrattazione collettiva nazionale (alla quale le amministrazioni non

possono certo essere considerate estranee anche in virtù del ruolo affidato ai comitati di

settore), quanto la differenza sussistente tra determinazione della “delegazione” e

individuazione dei “delegati” di parte pubblica, affidata ⎯ questa sì ⎯ agli ordinamenti

interni delle singole amministrazioni, la questione può essere agevolmente risolta.

Per connessione, è forse opportuno segnalare in questa sede la sostanziale

modificazione del ruolo che all’Agenzia può essere affidato in sede di contrattazione

decentrata. Infatti, mentre nel vigore della riforma originaria le amministrazioni

avrebbero potuto «avvalersi, nella contrattazione collettiva decentrata, dell’attività di

rappresentanza ed assistenza dell’Agenzia» (art. 50, c. 7, d.lg. 29), ora, invece, le stesse

amministrazioni possono beneficiare soltanto dell’«assistenza» di quella (art. 46, c. 2,

primo periodo). Evidente, a me pare, il tentativo di sollecitare un maggiore

coinvolgimento delle amministrazioni nella cura delle relazioni sindacali decentrate (in

coerenza con le ragioni che hanno condotto alla costituzione dei comitati di settore), cui

si accompagna il maggior ruolo ad esse assegnate nella gestione del contenzioso,

giudiziale e stragiudiziale, relativo alle controversie di lavoro.

Ritornando ai soggetti della contrattazione decentrata, il primo ostacolo che

incontra l’interprete è segnato dall’art. 43, c. 5, che, per un verso, ribadisce la

competenza della contrattazione nazionale nella definizione dei soggetti e delle

procedure della contrattazione integrativa e che però, per altro verso, mantiene fermo

«quanto previsto dall’art. 42, comma 7, per gli organismi di rappresentanza unitaria del

personale».

Per quanto attiene alla reiterazione nell’art. 43 della previsione sulla competenza

contrattuale nell’individuazione dei soggetti abilitati alla negoziazione integrativa può

dirsi che essa trova ragione e senso se si considera che il medesimo articolo detta,

invece, una puntuale disciplina in ordine all’individuazione della controparte sindacale

in fase di ammissione alle trattative e di stipulazione del contratto nazionale. E tale

reiterazione appare ancor più significativa se si considera che l’art. 8 del d.lg. 4

novembre 1997 n. 396 dettava una disciplina destinata a governare la transizione dal

sistema della contrattazione decentrata a quello della contrattazione integrativa,

prevedendo che nel primo anno di applicazione del decreto medesimo le pubbliche

amministrazioni potessero «ammettere» alla contrattazione in sede decentrata le

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organizzazioni sindacali firmatarie dei contratti collettivi vigenti, a condizione che

abbiano la rappresentatività richiesta per essere ammesse alle trattative per il rinnovo

dei medesimi contratti (cioè: non inferiore al 4% tenendo conto del solo dato

associativo) ovvero che, pur non avendo tale rappresentatività minima nel comparto,

contino nell’amministrazione o ente interessato, un numero di deleghe non inferiore al

10% del totale dei dipendenti. Peraltro occorre ricordare che il medesimo art. 8

consentiva forme sperimentali di contrattazione integrativa da realizzare d’intesa con il

Dipartimento della funzione pubblica anche in deroga alle disposizioni allora vigenti

sulla contrattazione decentrata (ma su ciò cfr. Viscomi 2001). Ciò considerando, può

dirsi che quella reiterazione, ultronea sul piano sistematico, è funzionale ad escludere

una pur minima incidenza della disciplina legale sulla rappresentatività sindacale in

sede di contrattazione decentrata (decorsa, naturalmente, la fase transitoria). Non è

dunque privo di significato che il Tribunale di Milano, con la sentenza 10 maggio 2000

(in RCDL 2000, 681) abbia ritenuto non in contrasto con l’art. 39 Cost. le norme che

demandono al contratto collettivo di comparto il compito di individuare i soggetti

abilitati al negoziato decentrato. Egualmente nulla ha obiettato la Cass. nella sentenza

17 gennaio 2001 n. 616, quando nel contratto collettivo nazionale ha radicato la fonte

del diritto dei soggetti sindacali a sedersi al tavolo delle trattative escludendo che il solo

crisma della maggiore rappresentatività fosse da solo idoneo a fondare una

legittimazione negoziale non altrimenti prevista dalla fonte contrattuale.

Per quanto attiene poi al richiamo dell’art. 42, c. 7, occorre anzitutto ricordare che

tale norma stabilisce che gli accordi o contratti collettivi che regolano l’elezione e il

funzionamento dell’organismo di rappresentanza unitaria del personale «possono

prevedere» ⎯ tra le altre cose ⎯ che la medesima rappresentanza unitaria sia integrata,

ai fini della contrattazione integrativa, «da rappresentanti delle organizzazioni sindacali

firmatarie del contratto collettivo nazionale di comparto». Dalla relazione tra le due

norme è dunque possibile dedurre che: a) l’integrazione con membri esterni delle

rappresentanze del personale non è necessaria (gli accordi, infatti, «possono

prevedere»); b) tuttavia, nel caso in cui i relativi accordi prevedano tale integrazione, la

contrattazione collettiva nazionale di comparto, nel definire i «soggetti» negoziali, ne

risulta vincolata (non soltanto dunque in virtù delle relazioni interne al sistema

sindacale ma anche) ex lege. L’art. 42 ha avuto «attuazione» mediante l’accordo

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collettivo quadro del 7 agosto 1998 relativo alla costituzione delle RSU per il personale

dei comparti delle pubbliche amministrazioni. L’art. 5 di tale accordo, al c. 3, in

relazione a quanto previsto dall’allora art. 47, c. 7, ora confluito nell’art. 42, c. 7,

stabilisce che «nella contrattazione collettiva integrativa, i poteri e le competenze

contrattuali vengono esercitati dalle RSU e dai rappresentanti delle organizzazioni

sindacali di categoria firmatarie del relativo ccnl di comparto».

7. - Come già nella prima riforma, il legislatore non ha stabilito un livello minimo

di decentramento (sulla scia di quanto era stato a suo tempo stabilito dall’art. 14 della

legge quadro del 1983). Anzi, l’esplicita previsione dell’art. 47, c. 8, secondo cui gli

organismi di rappresentanza del personale possono essere costituti presso «le sedi o

strutture periferiche che siano considerati livelli decentrati di contrattazione collettiva

dai contratti collettivi nazionali» suggerisce che, ferma restando la competenza

individuatrice del livello nazionale, possa aversi contrattazione decentrata (rectius, ora,

integrativa) sia presso «sedi» decentrate sia presso più generiche «strutture». Ed è

indubbio che la genericità di questo secondo termine ⎯ soprattutto se messo a

confronto con l’art. 14 della legge quadro del 1983 che legittimava la contrattazione

decentrata in relazione a «singole branche e per singoli enti» ⎯ sembra confermare

l’inesistenza di limiti legali nella individuazione del livello minimo di decentramento

contrattuale.

L’inesistenza di un limite minimo al decentramento si affianca alla recente

previsione secondo cui la contrattazione integrativa può «avere ambito territoriale e

riguardare più amministrazioni» (art. 40, c. 3, terzo periodo). Le due previsioni

rafforzano dunque la piena disponibilità della materia da parte della contrattazione

collettiva nazionale che nella individuazione dei livelli di decentramento non incontra

più neanche il limite (funzionale, più che strutturale) della finalizzazione al

«contemperamento» tra esigenze degli utenti, dei dipendenti e dell’organizzazione (cfr.

Viscomi A. – Zoppoli L. 1995, 804). D’altronde, occorre pure riconoscere che nella

prima tornata di contrattazione le parti hanno preferito mantenere la struttura

contrattuale usuale, contrassegnata: a) nei comparti caratterizzati dalla presenza di

amministrazioni disaggregate, dall’articolazione tra contrattazione decentrata di primo

livello (“nazionale”, “a livello centrale”) e contrattazione decentrata di secondo livello

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(per “sede centrale”, “sede distaccata di amministrazione centrale” o “ufficio periferico

di livello dirigenziale”); b) nei comparti caratterizzati da amministrazioni compatte,

dall’individuazione di un unico livello di contrattazione decentrata (“per

amministrazione”, “per azienda” o “per ente”).

Tuttavia, è indubbio che l’esigenza di una dimensione territoriale delle relazioni

sindacali era già presente anche nella contrattazione della prima tornata come

dimostrano le varie clausole relative all’istituzione di organismi paritetici privi, però, di

competenza negoziale: basti pensare, ad esempio, agli «Osservatori (regionali) sulla

mobilità» previsti dall’art. 11, c. 4, del ccnl per le Autonomie locali; ed ancora, alla

«Conferenza (regionale) permanente» istituita dall’art. 10 del comparto della Sanità ed

al correlato «sistema delle relazioni sindacali regionali»; ed infine, alle «Conferenze

(territoriali) di servizio» previste dall’art. 7, c. 3, del ccnl relativo alle Aziende

autonome. A questa esigenza risponde ora emblematicamente l’art. 40, c. 3, terzo

periodo, là dove riconosce che la contrattazione possa avere «ambito territoriale e

riguardare più amministrazioni». Allo stesso fine è orientato l’art. 46, c. 2, secondo cui

l’assistenza dell’Agenzia può essere assicurata anche «collettivamente ad

amministrazioni dello stesso tipo o ubicate nello stesso ambito territoriale», potendo

essa costituire anche delegazioni ⎯ stabili o temporanee, su base regionale o

interregionale ⎯ previa richiesta dei comitati di settore «in relazione all’articolazione

della contrattazione collettiva integrativa nel comparto ed alle specifiche esigenze delle

pubbliche amministrazioni interessate».

8. - Nel sistema originario, legge delega e decreto legislativo non disciplinavano, se

non in minima parte, tempi e procedure della contrattazione decentrata. Per quanto

riguarda i primi, assumeva un ruolo essenziale l’accordo quadro di cui all’art. 45, c. 5,

d.lg. 29. Un limite indiretto, ma penetrante, risultava poi dalla disciplina degli effetti

economici della contrattazione collettiva. Infatti, i c. 3 e 4 dell’art. 51 d.lg. 29

stabilivano, l’uno, la legittimità di impegni di spesa anche a carico degli esercizi

successivi e, l’altro, l’illegittimità della previsione di oneri aggiuntivi «oltre il periodo

di validità dei contratti». Sulla base di tale disciplina si era dedotta l’impossibilità di una

contrattazione decentrata collocata temporalmente a cavallo tra due successive tornate

contrattuali di comparto (Viscomi A. — Zoppoli L. 1995, 807). D’altronde, sarebbe

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difficile ipotizzare un tale arco temporale di efficacia, considerando che il contratto

nazionale si configura come un rigido punto di riferimento del contratto di secondo

livello. In verità, i “ritmi” contrattuali nel pubblico impiego risultano sostanzialmente

differenti da quelli propri del settore privato e manifestano chiaramente la diversa

funzione delle contrattazione nei due sistemi. La sequenzialità immediata fra

contrattazione nazionale e decentrata nel pubblico impiego evidenzia e rafforza infatti il

carattere attuativo (e non già distributivo) di questa rispetto a quella. Occorre però

riconoscere che tale correlazione, se vale sicuramente per le risorse che dal centro

vengono affidate alla periferia, non dovrebbe assumere pari pregnanza per le risorse

autonomamente spendibili dalle amministrazioni interessate in sede di contrattazione

integrativa.

Analogamente, non trovano disciplina alcuna le procedure per la stipulazione del

contratto. Ovviamente la materia è da sempre affidata all’autonomia collettiva, dalla

quale ancora si attende una maggiore coerenza fra atteggiamenti reali delle parti e

modelli di procedimentalizzazione esasperata ed in effettiva (anzi ineffettiva perché

esasperata) presenti negli accordi di comparto stipulati negli ultimi anni. In genere, i

contratti nazionali hanno previsto due fasi tra loro non ben collegate: da un lato, la

presentazione della piattaforma sindacale (almeno tre mesi prima della scadenza del

contratto decentrato da rinegoziare); dall’altro, la costituzione della delegazione di parte

pubblica e la successiva convocazione per le trattative (entro un periodo variabile tra

quindici e trenta giorni dalla conoscenza del contratto nazionale). Attesa la stretta

derivazione dell’uno all’altro contratto, è però del tutto evidente che la presentazione ed

ancor prima l’elaborazione delle piattaforme negoziali presuppongono proprio la

stipulazione del contratto nazionale (sia esso quello quadriennale, sia quello biennale).

Viceversa, nel sistema precedente trovava compiuta ed articolata disciplina la fase

finale della contrattazione, prevedendosi: a) l’autorizzazione alla sottoscrizione

dell’organo di vertice dell’amministrazione interessata; b) il controllo preventivo del

provvedimento di autorizzazione alla sottoscrizione; c) specifici obblighi di

comunicazione del contratto stipulato; d) la verifica successiva degli effetti derivanti

dall’applicazione dei contratti. In buona sostanza, si replicavano a livello decentrato le

procedure di autorizzazione già pensate per il livello nazionale, individuando

nell’organo di vertice previsto dall’ordinamento dell’amministrazione interessata alla

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stessa contrattazione il «vero dominus delle politiche contrattuali dell’ente» (Viscomi

A. — Zoppoli L. 1995, 810), entro i limiti segnati da: a) rispetto degli impegni di spesi

in relazione ai fondi stanziati dalla contrattazione nazionale; b) inesistenza di oneri

aggiuntivi oltre il periodo di validità dei contratti; c) osservanza di quanto stabilito dal

documento di programmazione economico-finanziaria e dalla legge finanziaria e di

bilancio. A sua volta, l’autorizzazione era sottoposta a controllo esterno da espletarsi in

un breve termine, secondo un modello governato dalla regola del silenzio-assenso.

Il sistema è notevolmente cambiato a seguito della seconda riforma ma non per

questo può essere considerato deregolato. Anzitutto, l’atto di autorizzazione alla

stipulazione del contratto decentrato da parte dell’organo di vertice ed il controllo

preventivo degli organi competenti risultano sostituiti dall’autorizzazione di spesa ⎯

disposta dalle amministrazioni nelle stesse forme con cui vengono approvati i bilanci e

con distinta indicazione dei mezzi di copertura ⎯ e dal «controllo sulla compatibilità

dei costi della contrattazione collettiva integrativo con i vincoli di bilancio» accertata

dal collegio dei revisori dei conti ovvero, dove tale organo non è previsto (si pensi a

piccoli comuni), dai nuclei di valutazione o dal servizio di controllo interno. Con

l’evidente conseguenza che non potrà darsi contrattazione integrativa là dove non sia

presente almeno uno di tali organismi. Nulla dice la legge sul ruolo degli organi di

vertice e dei titolari del potere di rappresentanza delle amministrazioni, ma in proposito

occorre ricordare che ai sensi dell’art. 45 del d.lg. 80 le «disposizioni previgenti» che

conferiscono agli organi di governo l’adozione di atti di gestione e di atti o

provvedimenti amministrativi di cui all’art. 3, c. 2, del (d.lg. 29), si intendono nel senso

che la relativa competenza spetta ai dirigenti».

Con la sottoscrizione dopo l’avvenuto controllo sui costi, il contratto acquista

immediatamente l’efficacia ad esso propria e l’amministrazione è obbligata a darne

comunicazione in copia all’Agenzia, al Dipartimento della funzione pubblica ed al

Ministro dell’Economia. Peraltro, quando il contratto decentrato riguarda comuni,

province, comunità montane (e loro consorzi) deve darsi comunicazione «degli estremi»

del contratto alla banca dati informatica gestita dall’Anci ai sensi dell’art. 16-ter della l.

19 marzo 1993 n. 68. Gli obblighi di comunicazione sono finalizzati a consentire la

verifica della relazione fra costi reali e previsioni di spesa e degli effetti degli istituti

contrattuali sulla efficacia delle amministrazioni pubbliche. La sottoscrizione

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“controllata” (e non più “autorizzata”) del contratto conclude l’iter negoziale. Le

amministrazioni pubbliche sono dunque tenute ad osservare gli obblighi assunti, la qual

cosa rinvia alle questioni più generali sull’efficacia del contratto collettivo trattate nel

relativo commento.

E’ però da segnalare che mentre l’art. 43, c.3, d.lg. 165 consente all’Agenzia di

sottoscrivere i contratti nazionali «verificando previamente (…) che le organizzazioni

sindacali che aderiscono all’ipotesi di accordo rappresentino nel loro complesso almeno

il 51 per cento (…)», analoga norma non è prevista dalla legge in relazione alla

contrattazione decentrata e la materia non è stata disciplinata dalla contrattazione

collettiva. Da ciò segue che la decisione ultima di stipulare o non stipulare un contratto

è interamente rimessa alle dinamiche negoziali e politico-sindacale, restando esclusa la

possibilità di invocare una specifica norma al riguardo soprattutto quando vi sia

conflitto o disaccordo nell’ambito della pluralistica composizione della delegazione

trattante di parte sindacale.

9. - Sulla base della disciplina fin qui esaminata, i contratti collettivi della seconda

tornata (1998-2001) hanno ridefinito il sistema della contrattazione di secondo livello.

In questa sede, può essere interessante verificare in che modo la contrattazione

collettiva della seconda tornata (e non soltanto dei comparti oggetto della ricerca) ha

risolto alcuni dei problemi indicati nella note che precedono.

Il primo dato sul quale conviene soffermare l’attenzione è dato dalla struttura

contrattuale e, in particolare, dai livelli di decentramento contrattuale. In proposito, può

notarsi: a) per quanto riguarda i comparti con amministrazioni disaggregate, la

sostanziale continuità del sistema precedente con il duplice livello di contrattazione

integrativa; b) per quanto riguarda i comparti con amministrazioni compatte, la

permanente individuazione di un unico livello di contrattazione integrativa. In proposito

si segnalano due elementi. Anzitutto, nei contratti del primo tipo, il secondo livello di

contrattazione integrativa è correlato all’«ufficio periferico individuato come sede di

contrattazione a seguito della elezione delle RSU» (cfr. art. 4-B ccnl Ministeri).

L’innovazione è però più apparente che reale, dal momento che l’art. 2 dell’accordo

quadro del 1998 per la costituzione delle RSU ne consentiva la costituzione «presso le

sedi individuate dai contratti o accordi collettivi nazionali come livelli di contrattazione

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collettiva integrativa». In secondo luogo, l’art. 6 del ccnl per il personale del comparto

delle Autonomie locali disciplina la «contrattazione collettiva decentrata integrativa di

livello territoriale». A tal fine, si prevede la definizione di «protocolli d’intesa» fre le

organizzazioni sindacali firmatarie del contratti e le associazioni rappresentative degli

enti (ma solo Anci ed Uncem). Tali protocolli possono avere ambito regionale,

provinciale o territoriale, riguardare comunità montane, consorzi o unioni di comuni,

ovvero anche direttamente una pluralità di enti locali. Essi devono necessariamente

disciplinare la composizione delle delegazioni trattanti e le procedure di contrattazione e

devono avere struttura aperta, al fine di consentire l’adesione degli enti che ne abbiano

interesse. A questi, infine, è affidato il compito di definire, previa reciproca intesa, «le

modalità per la formulazione degli atti di indirizzo», a beneficio, ovviamente, della

delegazione trattante di parte pubblica.

Il secondo dato sul quale conviene soffermare l’attenzione è dato dalla

composizione della delegazione trattante. Per quanto riguarda la parte sindacale, è

possibile constatare una assoluta omogeneità nei contratti della seconda tornata. Tutti,

anche in relazione all’art. 47-bis, c. 5, del d.lg. 29, affiancano alle RSU le

organizzazioni sindacali di categoria firmatarie del contratto nazionale: ciò vale sia per

la contrattazione integrativa di secondo livello dei comparti con amministrazioni

disaggregate, sia per l’unico livello della contrattazione integrativa delle

amministrazioni compatte. Naturalmente, alla contrattazione integrativa di primo livello

dei comparti con amministrazioni disaggregate partecipano solo le organizzazioni

sindacali firmatarie dell’accordo nazionale. Per quanto attiene alla delegazione di parte

pubblica, le soluzioni appaiono relativamente più differenziate. Il contratto Ministeri

individua la delegazione trattante di parte pubblica in modo non diverso dal recente

passato, facendo riferimento: a) per la contrattazione integrativa di primo livello, al

titolare del potere di rappresentanza o ad un suo delegato e ad «una rappresentanza dei

dirigenti degli uffici direttamente interessati alla trattativa; b) per la contrattazione

integrativa di secondo livello, al «titolare del potere di rappresentanza

dell’amministrazione nell’ambito dell’ufficio o suo delegato» (ma nel contratto

precedente si parlava di «dirigente titolare del potere») e ad una rappresentanza dei

titolari dei servizi o uffici destinatari e tenuti all’applicazione del contratto. Non diversa

disciplina è contenuta nel contratto relativo – a mero titolo di esempio – al comparto

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della Sanità che individua nel titolare del potere di rappresentanza e nei rappresentanti

dei titolari degli uffici interessati la composizione della delegazione trattante. Infine, il

contratto relativo alle autonomie locali (art. 10) rimette ai singoli enti

l’«individuazione» dei dirigenti ovvero, nel caso di enti privi di dirigenti, dei funzionari

che compongono la delegazione trattante di parte pubblica, ond’è che ⎯ in conformità

agli indirizzi riformatori rappresentati dal citato art. 45 del d.lg. 80 ⎯ risulta

drasticamente e doverosamente ridotto il ruolo gestionale degli organi di governo

politico. Al riguardo è da segnalare l’ordinanza 20 gennaio 2000 con cui il tribunale di

Lamezia ha ordinato l’estromissione del sindaco dalla delegazione trattante nella

contrattazione integrativa presso il comune di Curinga (sulla questione cfr. Talamo

2000, 779; in generale Viscomi 1997).

Il terzo elemento da considerare è dato dai tempi e dalle procedure per la

stipulazione o il rinnovo dei contrattazione integrativa. In proposito, i contratti non

presentano notevoli differenze tra loro ma tutti appaiono notevolmente diversi dalla

prima tornata. In generale, la durata dei contratti integrativa è stabilita in quattro anni.

Tuttavia, il ciclo negoziale può essere articolato diversamente: in via eventuale, in

relazione a materie che «per loro natura, richiedono tempi di negoziazione diversi; in

via necessaria, per quanto attiene all’individuazione ed utilizzazione delle risorse

economiche. In tal caso, infatti, la contrattazione integrativa ha cadenza annuale, a

motivo della diversa articolazione della disciplina relativa al finanziamento del fondo

unico per la parte accessoria della retribuzione. E’ da segnalare che tutti i contratti

contengono una clausola specifica sulla ultrattività del contratto decentrato (art. 5, c. 1)

e quello relativo al personale delle Autonomie locali prevede anche (art. 5, c. 6)

l’ultrattività dei precedenti contratti decentrati fino alla stipulazione del contratto

integrativo. I tempi ed i modi della negoziazione risultano definiti in modo più coerente

rispetto alla prima tornata (di cui si è detto), risultando così cadenzati: costituzione della

delegazione di parte pubblica (entro il termine comune di trenta giorni dalla conoscenza

del contratto nazionale); presentazione delle piattaforme contrattuali; convocazione

della delegazione di parte sindacale per l’avvio del negoziato entro i successivi trenta

giorni. I contratti specificano poi che, raggiunta l’intesa, questa deve essere inviata

all’organismo di controllo entro cinque giorni corredata dall’apposita illustrazione

tecnico-finanziaria. L’organo di controllo è diversamente individuato nei vari comparti:

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per i Ministeri è identificato nei nuclei di valutazione o nei servizi di controllo interno;

per gli Enti non economici è individuato nel collegio dei sindaci o dei revisori (e, in

mancanza, nei nuclei di valutazione o nei servizi di controllo interno); nella Sanità è

individuato nel collegio dei revisori; nel comparto degli Enti locali si ripete

testualmente la norma legale di riferimento prevedendo che il controllo sulla

compatibilità dei costi sia effettuato dal collegio dei revisori o, in mancanza, dal nucleo

di valutazione o dal servizi di controllo interno. In caso di esito positivo del controllo o

di decorso del termine senza rilievi, il presidente della delegazione trattante sottoscrive

il contratto integrativo. Nel comparto della Sanità, la sottoscrizione del contratto è

affidata al «titolare del potere di rappresentanza dell’ente ovvero da un suo delegato»,

ma si tratta di specificazione più apparente che reale, dal momento che il medesimo

soggetto, o suo delegato, è anche il presidente della delegazione trattante.

10. - Sulla base della ricostruzione fin qui effettuata è possibile trarre ora un primo

bilancio in merito alla effettiva portata delle innovazioni legislative in materia di

contrattazione collettiva integrativa.

Il primo elemento da segnalare è la riduzione dei vincoli eteronomi nella

configurazione strutturale della contrattazione integrativa cui si accompagna

l’esaltazione del ruolo ordinante del contratto nazionale. L’intera configurazione del

sistema è riportata nell’alveo del potere contrattuale e dunque affidata alla libertà

negoziale delle parti. In altri termini, gli spazi attribuiti alla competenza ed alla

regolazione della contrattazione integrativa non sono stabiliti dal legislatore ma ordinati

dal contratto collettivo nazionale di lavoro. Siffatta libertà interna al sistema

contrattuale, è amplificata dal venir meno dei vincoli esterni al sistema e in particolare

delle direttive dell’Agenzia e della stessa funzionalizzazione della contrattazione

decentrata ai sensi del testo previgente dell’art. 45, c. 4, d.lg. 29. In questo senso, si può

dire che la contrattazione integrativa è caratterizzata più di prima da reale «autonomia».

Enfatizzare, dunque, più del dovuto la dipendenza gerarchica del contratto integrativo

da quello nazionale, non è corretto né sul piano propriamente tecnico-giuridico né sul

piano più generale della politica del diritto: sul primo, perché l’autonomia della

contrattazione collettiva è impropriamente letta come assenza di vincoli interni al

sistema contrattuale; sul secondo, perché è indubbio che nessun sistema ordinato,

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nessun ordinamento, può tollerare elementi di destrutturazione interna, quale potrebbe

essere una contrattazione disarticolata. Ciò è tanto vero che neppure può lamentarsi una

incoerenza, da questo specifico punto di vista, tra contrattazione nel settore pubblico e

contrattazione nel settore privato: anche in questo, infatti, non sembra che la

contrattazione decentrata possa operare in modo tale da disarticolare il sistema

medesimo.

In verità, ed è questa la seconda osservazione, la coerenza con il settore privato del

nuovo modello di contrattazione integrativa, non va ricercata sul piano di un

isomorfismo strutturale ma nella riconduzione della contrattazione pubblica nell’alveo

delle logiche e delle prassi negoziali proprie del settore privato. In effetti, rivendicare

una coerenza mimetica tra settori rischia di determinare effetti perversi e, in fin dei

conti, di depotenziare gli spazi di innovazione della regolamentazione contrattuale. Se

coerenza con il settore privato non esiste, questa è semmai da individuare nella sanzione

di nullità che colpisce le clausole di secondo livello difformi da quelle dettate in sede

nazionale. In tal caso, infatti, l’ordinamento statuale supporta l’ordinamento sindacale

del settore pubblico con un peculiare meccanismo sanzionatorio al fine di inibire

atteggiamenti e prassi interni al secondo considerate idonee a pregiudicare un interesse

rilevante del primo, e in particolare l’interesse alla stabilità e soprattutto alla

prevedibilità dei costi della contrattazione decentrata. Questa circostanza, anomala,

come pure si è già riconosciuto, non è però sufficiente a revocare in dubbio la

«coerenza» tra sistema contrattuale pubblico e privato: essa, infatti, non intacca la

libertà negoziale né per quanto riguarda la determinazione della struttura contrattuale né

per quanto attiene le concrete determinazioni delle parti contraenti, ma incide soltanto,

immunizzandoli, sui comportamenti per così dire “devianti” interni al sistema

contrattuale. Da questo punto di vista, la sanzione della nullità, più che limitare, rafforza

il potere ordinante della contrattazione collettiva. Peraltro, la riconduzione della

contrattazione decentrata alla disponibilità delle parti negoziali trova ancora

manifestazione evidente nella ridefinizione del sistema dei controlli che ora si svolgono:

preventivamente, per via dell’autorizzazione alla spesa, che deve essere rilasciata nelle

stesse forme previste per l’approvazione dei bilanci; successivamente, per via del

controllo sulla compatibilità dei costi operata da strutture interne agli enti ma pure

legalmente operanti con forti margini di autonomia decisionale ed operativa. Ciò

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considerando, ne segue che le potenzialità della contrattazione collettiva integrativa

risultano ora notevolmente più estese rispetto a quanto previsto dalla prima riforma (la

qual cosa non sta certo a significare che poi che tali potenzialità siano adeguatamente

implementate).

11. - Ciò premesso, appare però del tutto evidente la necessità di verificare la

coerenza del modello negoziale introdotto nella seconda fase dell’intervento riformatore

con le recenti tendenze evolutive del più ampio sistema giuridico-istituzionale chiamato

a governare le pubbliche amministrazioni e destinate ad ampliare e rafforzare,

innervandole nel tessuto costituzionale, i relativi spazi di autonomia normativa ed

organizzativa. Questa verifica, per motivi intuibili, può ben essere condotta assumendo

a metro di comparazione particolare il comparto delle autonomie locali. A tale stregua,

le riflessioni minime su contrattazione integrativa e relazioni sindacali nel comparto

degli enti locali, che qui si intendono proporre, e che pure consentiranno un veloce

riepilogo di alcune delle più significative questioni trattate, nascono dalla

consapevolezza che ogni discorso intorno ai sistemi negoziali – sia in sede di riflessione

analitica, sia in fase di costruzione operativa – deve ormai essere intimamente connesso

con le tendenze evolutive che sul piano giuridico-istituzionale caratterizzano il sistema

amministrativo, nell’ambito di un modello costituzionale in cui poteri e competenze

risultano distribuiti ed organizzati su base fortemente “federale”. In tale contesto, infatti,

segnato dall’intreccio tra paradigma costituzionale, sistema amministrativo e modelli

negoziali, la tensione strutturale che tradizionalmente segna l’architettura dei sistemi di

negoziazione collettiva, quella cioè tra vincoli centrali e istanze periferiche, già

fortemente sollecitata in un comparto caratterizzato da incredibile frammentazione

come quello delle autonomie locali, sembra trasformarsi radicalmente, diventando parte

di un più ampio gioco fatto di riparto e di rimandi tra governo centrale e governi ed

amministrazioni territoriali, ognuno dei quali gelosamente rivendica una compiuta sfera

di autonome prerogative, come dimostra il già ampio e continuo contenzioso in sede

costituzionale. Ond’è che l’intero modello di relazioni sindacali di comparto, costruito

negli ultimi dieci anni in faticosa ma chiara funzione di contrasto dei rischi di

frantumazione propri di una caotica galassia organizzativa, richiede ora di essere

originalmente ripensato, non diversamente da come – almeno per alcuni versi – la

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centralità competitiva dei territori sembra suggerire ed imporre un parallelo

ripensamento della struttura contrattuale innervata, per il settore privato, sul Protocollo

del 1993 (cfr. Bordogna 2003).

Appunto perciò, appare in qualche misura sfuocata la giurisprudenza costituzionale

che tenta di salvaguardare l’assetto unitario del sistema rivendicando, in modo

esasperato, in capo allo Stato, l’esercizio del potere di coordinamento della finanza

pubblica, fino a salvare, per questa via, addirittura la norma che impone a tutti i

Comitati di settore di deliberare gli indirizzi negoziali attenendosi ai criteri indicati dal

Governo per il personale delle amministrazioni statali. La Corte, infatti, giustificando

pregnanti limitazioni agli organismi di rappresentanza degli enti non statali, sembra

ritenere che l’interesse generale al controllo della spesa – affidato, nel nuovo modello

costituzionale, alla cura dello Stato centrale – possa legittimare l’introduzione di

sostanziali limitazioni alla loro autonomia organizzativa, altrimenti riconosciuta e

fondata dalle stesse norme costituzionali. Ma è vincolo di conformazione, questo

consacrato dalla Corte, che, per un verso, mal si concilia con il senso originario e la

ragione stessa della istituzione dei Comitati di settore e che, per altro verso, suscita pure

significative perplessità ove solo si consideri che la stessa legge pone «gli oneri per la

corresponsione dei miglioramenti economici (…) a carico delle amministrazioni di

competenza nell’ambito delle disponibilità dei rispettivi bilanci» (art. 16, comma 7,

legge 28 dicembre 2001, n. 448; Corte Cost. 13 gennaio 2004 n. 4). Decidendo in senso

contrario, la Corte sembra invece portare ad un livello più alto – proprio perché diverso

è ora il contesto costituzionale – la tensione tra controllo dei costi e autonomia

organizzativa che tradizionalmente ha accompagnato un sistema finanziario pubblico a

carattere derivato, segnato cioè dai trasferimenti dal centro alla periferia (e nel quale si

radicava, per chi ancora ne ricorda l’esistenza, la commissione centrale di controllo

sugli organici degli enti locali).

12. - In effetti, credo si possa ragionevolmente affermare che il modello

contrattuale, maturato nel corso degli ultimi dieci anni nel settore pubblico, abbia

realmente rappresentato un plausibile tentativo di risolvere la tensione tra istanze di

controllo centrale e rivendicazione di autonomia periferica: come si è già visto, esso

risulta essenzialmente caratterizzato dall’articolazione binaria tra livello nazionale di

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contrattazione e contratto decentrato o integrativo. Tuttavia, mentre presupposti e

condizioni del contratto di primo livello sono rigidamente determinati dalla legge stessa,

la conformazione strutturale e l’identità funzionale del contratto di secondo livello

risultano invece affidate all’autonomia regolativa del contratto di primo livello, tanto da

poter ragionevolmente affermare che quello è filiazione derivata e controllata di questo.

Il fulcro del sistema, dunque, così compiutamente congegnato al tempo della seconda

riforma, si innerva nel contratto nazionale, fondamento e limite, al contempo,

dell’autonomia regolativa del contratto di secondo livello. Conseguentemente,

quest’ultimo non può giuridicamente darsi se non nelle materie, con le procedure, tra i

soggetti e con le risorse definite dallo stesso contratto nazionale. Pertanto, in questa

specifica prospettiva, il contratto nazionale assume la funzione di garante della

razionalità complessiva del sistema contrattuale e ne assicura, o dovrebbe assicurarne, il

controllo dei costi, organizzativi ed economici. Ciò considerando, può dunque dirsi che

il dinamismo negoziale del settore pubblico assume carattere unidirezionale,

procedendo dal contratto nazionale e conformando per questa via i livelli inferiori, in

stretta aderenza con il modello di distribuzione derivata delle risorse finanziarie previsto

dall’art. 48 del d.lg. 165.

Naturalmente, si può dubitare tanto dell’opportunità quanto della legittimità di

questo sistema. Così, ad esempio, si può lamentare, come pure è avvenuto, il rischio di

una sorta di colonizzazione della dimensione autonoma da parte della fonte eteronoma;

o si può ancora segnalare una indebita inibizione, in sede decentrata, dell’autonomia

collettiva (che è potere sociale, prima che giuridico), poco coerente, forse, sia con

analoghe prassi del settore privato, sia con l’evoluzione delle amministrazioni verso

modelli organizzativi e gestionali dinamici, affidati all’iniziativa responsabile della

dirigenza, e per questo caratterizzati dall’assegnazione di obiettivi da raggiungere

anziché dallo svolgimento di procedure standardizzate. E’ però vero che la legge non

plasma, in via diretta ed immediata, il secondo livello di contrattazione ma ne affida

l’effettiva conformazione, strutturale e funzionale, all’autonoma disponibilità del

contratto di primo livello. Non a caso, i modelli di contrattazione sono notevolmente

differenti nei comparti, segnalandosi, da un lato, l’unico livello decentrato nel comparto

delle autonomie, e imponendosi, dall’altro lato, ben tre livelli di contrattazione

integrativa nel comparto scuola. Peraltro, la centralità del contratto nazionale trova

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ulteriore conferma nell’art. 9 del d.lg. 165, ai cui sensi sono sempre i contratti nazionali

che «disciplinano i rapporti sindacali e gli istituti della partecipazione»: è in questa

norma, come è ben noto, che trovano fondamento e base figure ben note, quali

l’informazione, la consultazione e la concertazione. Veramente, dunque, sulla base

giuridica offerta dalle norme del decreto 165, il contratto nazionale costituisce il fulcro

del sistema di relazioni sindacali nel settore pubblico.

A presidio e garanzia dell’ordine di tale sistema, il legislatore della riforma ha

sanzionato con il vizio di nullità le clausole del contratto di secondo livello difformi da

quanto previsto dalle clausole di primo livello. Si tratta di sanzione ignota al settore

privato: qui, infatti, eventuali conflitti regolativi tra contratti di diverso livello trovano

soluzione in virtù dell’applicazione, pure non semplice né agevole, di tradizionali

strumenti di interpretazione e ricostruzione della volontà negoziale delle parti agenti.

Ma si tratta anche di sanzione estremamente severa, potendo il vizio della nullità essere

fatto valere, senza termine, da chiunque vi abbia interesse. E gli interessati potrebbero

alla fine essere tanti, se solo si considera che il Tribunale di Roma, con l’ordinanza resa

in data 20 luglio 2004, ha annullato una procedura di progressione professionale indetta

dalla Corte dei Conti, proprio perché disciplinata dal contratto integrativo in modo

difforme da quanto previsto dal contratto nazionale.

Forse proprio nell’effetto potenzialmente devastante derivante dall’applicazione

della clausola di nullità, è da individuare il motivo cha ha indotto il legislatore nazionale

ad innervare in essa i più recenti interventi orientati a ricentralizzare il sistema. Mi

riferisco, in particolare, all’art. 17 della l. n. 448/2001. Per un verso, tale norma esclude

la possibilità stessa di un concorso statale nella copertura delle spese derivanti da

disposizioni contrattuali sulle quali il governo abbia preventivamente formulato

osservazioni, così rafforzando l’effettività dei poteri di controllo sulle implicazioni

finanziarie della contrattazione. Per altro verso, lo stesso art. 17, rafforzandone

l’originaria disciplina, consacra l’applicazione della sanzione di nullità a tutte le ipotesi

in cui dai contratti integrativi siano derivati costi non compatibili con i vincoli di

bilancio delle amministrazioni. Se si considera che ai sensi dell’art. 16 della stessa

legge, i Comitati di settore sono tenuti a deliberare gli indirizzi negoziali attenendosi ai

criteri indicati dal Governo per il personale delle amministrazioni statali, appare del

tutto evidente come il controllo finanziario possa facilmente tradursi (o degenerare) in

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controllo sull’autonomia organizzativa degli enti. Al riguardo, sia pure pronunciate ad

altri fini, sono illuminati le osservazioni di una recente pronuncia della Corte

Costituzionale che ha dichiarato non conforme a Costituzione una norma statale

disciplinante l’erogazione di finanziamenti per attività connesse a materie di

competenza regionale (art. 4, commi 209, 210 e 211, legge 24 dicembre 2003, n. 350;

Corte Cost. 77/2005). A giudizio della Corte, infatti, «la legge statale non può – in tali

materie – prevedere nuovi finanziamenti a destinazione vincolata, che possono divenire

strumenti indiretti, ma pervasivi, di ingerenza dello Stato nell'esercizio delle funzioni

delle Regioni e degli enti locali, nonché di sovrapposizione di politiche e di indirizzi

governati centralmente a quelli legittimamente decisi dalle Regioni negli ambiti

materiali di propria competenza».

Il discorso porterebbe naturalmente lontano; qui basti evidenziare come, così

disponendo il legislatore nazionale, il sistema di contrattazione collettiva si trovi a

subire gli effetti di due diverse linee di tensione, egualmente intercorrenti tra centro e

periferia: una di carattere tipicamente organizzativo e l’altra, invece, di ordine

propriamente finanziario. L’originaria tensione verso un sistema contrattuale articolato,

ma ordinato, ha dunque incontrato, più recentemente, e con un effetto di reciproco

rafforzamento, la diversa esigenza di controllo dei flussi di spesa decentrati; ond’è che

una clausola pensata a tutela dell’ordine contrattuale è ora utilizzata, in modo pervasivo,

a presidio dell’ordine economico, assicurando alle autorità centrali e governative un

intenso controllo non solo sui flussi finanziari derivati, ma anche, e per gli stessi fini,

sull’organizzazione e sulle risorse proprie delle amministrazioni diverse da quelle

statali. Quanto tale circostanza sia compatibile, per un verso, con l’autonomia delle

relazioni sindacali e, per altro verso, con il rafforzamento costituzionale del sistema

delle autonomie locali è questione sulla quale vale la pena spendere qualche parola (con

riflessioni che in qualche misura possono essere riferite anche e più generalmente ai

comparti caratterizzati dalla presenza di enti ad alta intensità di autonome prerogative

organizzative e regolative).

In relazione al primo profilo, mi pare indubbio che l’attribuzione legislativa di una

centralità negoziale del livello nazionale di contrattazione, quando riferita a comparti

con enti segnati da forte autonomia, costituisca veramente una pietra di inciampo: da un

lato, perché l’autonomia che il nuovo sistema costituzionale riconosce ad alcuni di

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questi enti (ad esempio alle regioni) potrebbe essere tale da rendere non più

giustificabile il vincolo legale di rappresentanza necessaria ad opera dell’Aran, posto da

una legge dello Stato (cfr. Viscomi 2002); dall’altro lato, perché la frammentazione

amministrativa di tali comparti, i cui effetti negativi sono esaltati dalla condizione di

scarsa maturità organizzativa della gran parte degli enti di ridotte dimensioni, è tale da

rendere necessaria la ricerca di più efficienti strumenti al fine di coordinamento e

controllo del sistema medesimo.

In verità, riguardata in questa prospettiva, la funzione ordinante attribuita dalla

legge al contratto nazionale svela definitivamente l’impossibile omogeneità degli enti di

comparti ad alta frammentazione, tanto da indurre a sollecitare una definitiva revisione

del modello negoziale, assicurando più ampi margini all’autonomia negoziale,

differenziando la stessa configurazione del contratto nazionale in relazione alle

dimensione organizzative degli enti ed introducendo, infine, più innovativi modelli di

contrattazione integrativa, in grado non solo di contenere i rischi propri della

frammentazione amministrativa, ma anche, e soprattutto, di anticipare o ad aiutare

l’evoluzione del sistema delle autonomie locali verso più diffusi, radicati e modulari

sistemi di integrazione funzionale delle attività e dei servizi erogati. Da questo punto di

vista, rappresenta un sicuro indice di novità la possibilità, prevista nel 1999 ma poi

ancora ribadita e riformulata nel 2004, di sperimentare, nel comparto delle autonomie

locali, forme di contrattazione integrativa territoriale. E si tratta di possibilità che può

essere apprezzata soltanto se e quando analizzata alla luce delle perverse conseguenze –

anche e soprattutto in una prospettiva di federalismo istituzionale e quindi fiscale – di

una frammentazione amministrativa che presuppone e impone, allo stesso tempo, una

stretta identificazione tra comunità locali e amministrazioni locali, laddove una cosa

sono le comunità, altra invece, e diversa, i comuni: le prime tutte – a mio avviso – da

rispettare e tutelare; i secondi, invece, da riorganizzare (più esattamente: da ripensare),

in funzione del perseguimento di obiettivi di efficienza ed efficacia amministrativa e,

per alcuni versi, o in alcune zone, anche di legalità democratica.

Questione diversa è quella relativa agli strumenti giuridico-istituzionali necessari

per garantire la stabilità del sistema. In proposito, mi pare sia opportuno segnalare

conclusivamente che l’indiscriminato allargamento della sfera di operatività della

clausola di nullità, dal legislatore nazionale intesa ormai a stregua di improprio

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strumento di controllo della spesa pubblica, non sembra tenere nella dovuta

considerazione e distinguere adeguatamente la diversa fonte delle risorse utilizzate in

sede contrattuale, risultando poco credibile, già sul piano logico, ma anche su quello

giuridico e costituzionale, che una legge dello Stato possa disporre anche delle modalità

di utilizzazione delle risorse proprie degli enti, non altrimenti derivanti da trasferimenti

centrali. Da questo punto di vista, dunque, appare chiaramente contraddittorio esaltare

l’autonomia degli enti e poi negare loro la possibilità stessa di una libera utilizzazione

delle risorse proprie.

In verità, credo di non errare se affermo che l’esaltazione legislativa della clausola

di nullità sembra configurarsi come una sorta di surrogato funzionale delle diverse

forme di controllo degli enti da parte di autorità indipendenti, di fatto ormai abolite o

rese oltremodo lasche. Ma credo anche di non errare se affermo che è proprio l’assenza

di organismi stabili di controllo a rendere la clausola di nullità non effettiva ovvero, se

si vuole, applicata in modo tanto discrezionale da risultare arbitrario o addirittura, in

taluni casi, addirittura esemplarmente punitivo. E’ indubbio, però, a ben vedere, che da

questa circostanza deriva un effetto negativo sulla tenuta stessa del sistema contrattuale,

costantemente stressato dai rischi di un controllo ex post, ma di un controllo incerto

tanto nell’an, che nel quando.

13. - Alla luce di queste considerazioni, il problema della coerenza del sistema

contrattuale con il nuovo assetto costituzionale, appare dunque ancora di difficile

decifrazione, tanto da sollevare la domanda sul senso e la ragione giustificativa di un

sistema di contrattazione collettiva fondato sulla inderogabile funzione ordinante del

contratto nazionale; in effetti, occorre riconoscere che la funzione di governo centrale

del contratto nazionale sembra in qualche misura asimmetrica rispetto al policentrismo

(anzi, come pure si è detto: alla perdita del centro) suggerito dall’assetto costituzionale.

Appunto perciò credo che anche nel comparto pubblico, come già nel settore privato,

occorra prendere sul serio e porre a tema di riflessione e discussione la grande questione

della struttura contrattuale e, in essa, del rapporto tra i diversi livelli di regolazione.

Naturalmente, non è problema che possa essere affrontato in questa sede. Credo, però,

che su almeno due punti sia necessario focalizzare conclusivamente l’attenzione. Il

primo è rappresentato – a mio avviso – dalla perdurante esigenza di un sistema

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contrattuale in grado di accompagnare e non di congelare il processo di trasformazione

delle amministrazioni pubbliche, anche mediante un ripensamento dei livelli contrattuali

(o del loro peso specifico): questa, in effetti, era l’ambizione del legislatore della

seconda riforma che nel contratto collettivo nazionale aveva intravisto uno strumento di

indirizzo politico e di governo organizzativo, laddove in tempi più recenti in esso si è

visto un indiretto strumento di controllo finanziario delle autonomie. Il secondo ed

ultimo punto è rappresentato dall’esigenza che, in sede decentrata, la contrattazione non

sia più affidata all’estemporanea improvvisazione creativa, ma sia affiancata e sostenuta

– soprattutto in regioni deboli e ad alto tasso di frammentazione – da strutture di

supporto tecnico e professionale in grado di delineare modelli di gestione del personale

in un contesto di sviluppo strategico dell’organizzazione in grado di rispondere in modo

efficace ed efficiente, ma anche competente e attento, ai bisogni dei cittadini ed alla

qualità della loro vita. Questa, in definitiva, è la vocazione costituzionale del servizio

pubblico e la ragione stessa del suo stesso esistere e persistere contro ogni tentazione di

affidamento a soggetti privati, portatori di interessi privati, della cura degli interessi

generali.

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Sezione II – I sistemi contrattuali dei comparti Ministeri, Enti locali e Università a confronto

1. Dopo l’analisi della regolamentazione legale del sistema di contrattazione

collettiva del settore pubblico condotta nella Sezione prima di questo Rapporto, occorre

ora passare all’analisi generale dei sistemi di contrattazione collettiva dei tre comparti

oggetto dell’indagine, segnalando preliminarmente che l’omogeneità strutturale dei

Rapporti di comparto, decisa in sede di progettazione dal gruppo di ricerca, consente di

procedere abbastanza agevolmente ad un raffronto tra le soluzioni che in ciascuno di

essi la contrattazione nazionale ha adottato per fronteggiare le proprie esigenze interne

di organizzazione delle dinamiche negoziali, così rispondendo alle sollecitazioni

derivanti dalla vigente normativa legale ora contenuta, in particolare, nell’art. 40 del D.

Lgs. n. 165 del 2001.

Questa normativa, è bene precisarlo ancora, è stata in buona misura riformulata in

occasione della seconda fase della riforma del lavoro pubblico e da essa è derivata, a sua

volta, una seconda tornata contrattuale che ha ampiamente risentito di tali innovazioni

legali sia dal generale punto di vista delle relazioni sindacali, sia da quello delle scelte

contrattuali effettuate nella definizione delle regole di procedura e di contenuto relative

al rapporto tra contratti nazionali di comparto (CCNL) e contratti integrativi decentrati

(CCI).

Sulla portata di quella regolamentazione legale ci si è, appunto, soffermati nella

prima Sezione di questo Rapporto generale, dove si sono segnalate altresì le

implicazioni derivanti dall’adozione di una diversa denominazione della contrattazione

di secondo livello (ci si riferisce, evidentemente, all’adozione della formula ‘contratti

integrativi’ per definire i contratti stipulati in sede decentrata).

In questa seconda Sezione del Rapporto ci si intratterrà più specificamente, invece,

sui contenuti dei contratti collettivi di comparto in relazione alla determinazione delle

regole che disciplinano non solo il sistema di contrattazione collettiva integrativa, ma

anche i c.d. istituti di partecipazione.

A quest’ultimo riguardo si deve ricordare che, ai sensi dell’art. 9 del D. Lgs. n. 165

del 2001, “i contratti collettivi nazionali disciplinano i rapporti sindacali e gli istituti

della partecipazione anche con riferimento agli atti interni di organizzazione aventi

riflessi sul rapporto di lavoro”. Una norma dalla quale – al di là del valore interpretativo

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di sistema che, come si è accennato nella prima parte di questo Rapporto generale,

alcuni autori hanno attribuito ad essa – deriva la possibilità per la contrattazione

collettiva di regolamentare, oltre che procedure e contenuti della contrattazione

integrativa ex art. 40, co. 3, D. Lgs. n. 165, l’ambito di operatività degli istituti della

partecipazione.

Se ciò è vero, si comprende la ragione per cui i rapporti di comparto, in coerenza

con le finalità della ricerca (ricordate nella Premessa di questo Rapporto), si sono spinti

fino a rilevare anche le regole fissate dai contratti nazionali, appunto, in tema di istituti

della partecipazione, al fine di poter accertare sia la presenza di eventuali ‘espansioni’

dei processi negoziali nazionali e decentrati rispetto ad aree di micro-organizzazione

con incidenza sui rapporti di lavoro (che, ai sensi del citato art. 9, parrebbero riservate

dalla legge alla procedimentalizzazione tramite gli istituti di partecipazione), sia, più

specificamente, eventuali ‘travalicamenti’ della contrattazione integrativa su materie per

le quali i contratti nazionali di comparto hanno contemplato solo l’attivazione dei già

citati istituti di partecipazione.

Un secondo aspetto da tener presente è che gli stessi contratti di comparto

riconducono nell’ambito di questi istituti non soltanto quelli, più familiari

nell’esperienza delle relazioni sindacali del settore privato, della informazione, della

consultazione e della concertazione, nonché l’istituzione di organismi paritetici per la

trattazione di talune materie, ma anche l’interpretazione autentica dei contratti collettivi,

la quale, pur conosciuta nel settore privato, trova in quello pubblico la propria radice in

una specifica previsione di legge (anche se va notato come essa si configuri come un

istituto di fondamento negoziale e non ‘partecipativo’) .

Infine, ma non certo da ultimo, occorre tener presente che, stando alle congiunte

dichiarazioni delle parti sociali riportate nelle parti introduttive dei contratti di

comparto, l’obiettivo comune del loro sforzo negoziale è quello di dar vita ad un

sistema di relazioni sindacali in grado di “realizzare un adeguato contemperamento tra

l’interesse dei dipendenti al miglioramento delle condizioni di lavoro e alla crescita

professionale e l'esigenza delle amministrazioni di incrementare e mantenere elevate

l'efficacia e l'efficienza dei servizi erogati alla collettività” (CCNL Ministeri 1999, ma

analoghe espressioni si rinvengono negli altri due contratti). Affermazioni in cui

potrebbe leggersi il desiderio delle stesse parti di “instaurare un clima di relazioni

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basato non sulla contrapposizione, ma sulla collaborazione e sulla rispettiva

responsabilizzazione” (così il Rapporto del comparto Università), ovvero, in altre

parole, di dar vita ad un sistema relazionale (non fondato sulla, ma) aperto alla

cooperazione, pur nel rispetto dei ruoli contrapposti. Il che, peraltro, non significa certo

che, nella determinazione delle regole di sistema e nella attuazione delle medesime

abbia poi trovato attuazione la predetta aspirazione ad un equilibrio finalizzato a

favorire una prospettiva di cooperazione tra gli interessi contrapposti: un giudizio,

questo, che sarà possibile tentare solo a conclusione della nostra indagine, alla luce di

una compiuta riflessione sull’effettivo atteggiarsi della normativa contrattuale; pur se

non ci si può nascondere la particolare difficoltà dello stesso giudizio (come avverte il

Rapporto del comparto Enti locali), anche in ragione delle molte ambiguità del dettato

contrattuale.

2. Da questo punto di vista, particolarmente significative sono anzitutto le scelte

effettuate dalle parti sociali in merito a tre aspetti del sistema contrattuale definito per

ciascun comparto in forza di quanto fissato dal D. Lgs. n. 165 del 2001: in primo luogo,

quelle attinenti alla determinazione dei livelli contrattuali; in secondo luogo, quelle

relative alla definizione dei soggetti negoziali relativi a ciascun livello; in terzo luogo,

quelle riguardanti gli aspetti procedurali della contrattazione integrativa, spesso

differenziati in ragione delle specifiche materie oggetto di trattativa decentrata. Di essi

sarà opportuno trattare in via preliminare, prima di passare a considerare le materie

indicate nelle c.d. clausole di rinvio. Successivamente si passerà, invece, a considerare

le previsioni dei CCNL relative agli istituti di partecipazione.

a) Quanto al primo profilo, una netta differenza si può anzitutto riscontrare tra la

contrattazione collettiva del comparto Ministeri e quella degli altri due comparti

indagati. Nel primo, infatti, in continuità con l’assetto definito nella prima tornata per i

comparti connotati dalla presenza di amministrazioni disaggregate, la contrattazione

collettiva integrativa è stata articolata su due livelli: uno, in un certo senso ancora di

carattere centralizzato, di singola amministrazione (intendendosi per tale non soltanto il

singolo Ministero, ma anche altre strutture amministrative come la Corte dei Conti, il

Consiglio di Stato e l’Avvocatura di Stato); il secondo, relativo ad “ogni sede centrale o

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sede distaccata di amministrazione centrale e ufficio periferico individuato come sede di

contrattazione a seguito della elezione delle RSU”. Negli altri due, invece, viene

previsto un solo livello di contrattazione integrativa in sede decentrata, pur se va notato

che questa uniformità – in cui si rispecchiano le forti autonomie, di fondamento

costituzionale, degli enti territoriali e universitari – è meramente apparente. Mentre,

infatti, nel comparto dell’Università il luogo naturale della contrattazione integrativa è

rappresentato dai singoli Atenei, la cui diversificazione non è certo di tipo funzionale

ma solo legata al territorio di insediamento ed alle tradizioni scientifiche, e più in

generale culturali, di ciascuno di essi, nel comparto Enti locali si è in presenza di una

pluralità di tipi di enti territoriali (Comuni, Province, Regioni), aventi caratteristiche

funzionali assai diverse tra loro.

Queste differenze sono, ovviamente, di estrema importanza nella definizione del

sistema contrattuale interno ad ogni comparto ed esse, come accennato nella Premessa,

hanno avuto anche una forte incidenza nelle scelte metodologiche effettuate nell’ambito

della ricerca.

In effetti, la presenza di un doppio livello di contrattazione integrativa nel comparto

Ministeri ha implicato inevitabilmente la decisione delle parti sociali di diversificare le

competenze assegnate a ciascuno di essi; pur se, ad attenta analisi, gli autori del

Rapporto di comparto hanno rilevato la tendenza ad attribuire al secondo di essi una

funzione prevalentemente applicativa degli istituti o materie la cui regolazione è

riconosciuta di competenza del primo (il che rende in qualche misura meno

preoccupante la rilevata assenza, nel CCNL, di clausole in cui si stabilisca

espressamente se i rapporti tra questi due livelli siano fondati sul principio gerarchico –

come vale per i contratti integrativi di entrambi i livelli rispetto al contratto nazionale –

ovvero su quello di competenza). E come si è accennato nella Premessa, la grande

complessità rinvenuta negli sviluppi della contrattazione integrativa di primo livello e la

obiettiva difficoltà di reperimento dei CCI del secondo livello, hanno alla fine indotto a

limitare l’indagine solo ai contratti integrativi del primo livello, ai quali – se ne possono

comprendere le ragioni proprio sulla base di quanto appena detto – è stata riconosciuta

una funzione regolativa di tipo ‘centralistico’ (con qualche conseguenza negativa in

termini di efficienza e di efficacia).

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Analoga scelta metodologica di riduzione del campo di indagine, ma di segno e

fondamento diversi, ha dovuto essere effettuata anche in relazione al comparto Enti

locali, rispetto al quale, nonostante la definizione da parte della contrattazione nazionale

di comparto di un unico livello di contrattazione integrativa, si è dovuto prendere atto

che la presenza in esso di Enti dalle caratteristiche estremamente diversificate e

disomogenee (da un lato Comuni e Province, quali enti locali dotati di autonomia

amministrativa nell’ambito dei territori di riferimento, dall’altro le Regioni, dotate

altresì di competenza legislativa propria esclusiva o concorrente con quella dello Stato

nelle materie indicate dall’art. 117, Cost.) sollevava profondi dubbi circa la piena

comparabilità tra le rispettive esperienze negoziali. Di qui la scelta di ridurre l’indagine

ai primi due tipi di enti, la cui contrattazione integrativa, peraltro, si è rivelata a sua

volta di tale entità da richiedere un campionamento secondo criteri rigorosamente

statistici. Ed infatti, anche nell’ambito di queste due categorie di enti il Rapporto di

comparto registra una grande varietà tipologica: da una maggioranza di piccolissime

sedi, rispetto alle quali alcuni compiti di contrattazione decentrata affidati dalla

contrattazione nazionale appaiono ‘esorbitanti’ (significativo appare, a questo riguardo,

che il contratto di comparto preveda anche un livello di contrattazione territoriale

aggregante più enti di piccole dimensioni), ad altri enti (si pensi alle grandissime “aree

metropolitane“) rispetto ai quali le competenze riconosciute appaiono eccessivamente

anguste.

b) In relazione ai soggetti delegati dai CCNL alla contrattazione integrativa, il

confronto tra i tre comparti ci mostra egualmente delle differenze, a loro volta derivanti

dalla struttura contrattuale descritta sub a).

Ciò è verificabile anzitutto in relazione alle delegazioni sindacali, rispetto alle

quali, mentre il CCNL del comparto Università e quello del comparto Enti locali, in

conformità con quanto previsto dalla normativa legale, individuano il soggetto

negoziale nelle Rsu e nei rappresentanti delle organizzazioni sindacali territoriali di

comparto firmatarie degli stessi CCNL, quello del comparto Ministeri distingue tra

primo e secondo livello di contrattazione integrativa. Così, a livello di amministrazione

la delegazione sindacale legittimata allo svolgimento delle trattative è composta

direttamente dalle organizzazione di categoria firmatarie del CCNL, laddove a livello di

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singola sede centrale o distaccata o ufficio periferico, la delegazione trattante si

compone delle RSU e delle organizzazioni sindacali di categoria territoriali firmatarie

del CCNL. Ed al riguardo non si può che rilevare – con riferimento al CCNL Ministeri

– come alla peculiare istituzione di un livello di contrattazione integrativa di

amministrazione in sede nazionale non possa che fare riscontro la specificità della

titolarità del potere negoziale, il quale viene riconfermato in capo agli stessi soggetti che

hanno firmato il CCNL. Il che costituisce una sorta di ‘anomalia’ di sistema, dato che il

primo livello di contrattazione integrativa, proprio per la coincidenza dei soggetti

trattanti, rischia di configurarsi come un livello di specificazione ed approfondimento

negoziale di profili che non sono stati trattati nel CCNL perché attinenti a materie

rispetto alle quali risulta necessario un adattamento regolativo alle peculiarità di

ciascuna delle grandi amministrazioni ministeriali.

Va comunque sottolineato che la presenza in ogni caso delle oo.ss. di categoria

nelle delegazioni sindacali trattanti, una scelta conforme al dato legale, è destinata a

creare uno stretto collegamento soggettivo nel processo negoziale, consentendo un

raccordo tra livello centrale e livello decentrato di contrattazione e, dunque, un

sostanziale controllo che a questo secondo livello le scelte negoziali siano coerenti con

quelle effettuate al primo: : che è poi la logica dell’analoga previsione inserita nel

Protocollo del ’93, che definì un modello di sistema contrattuale valido – non a caso –

per il settore privato e per quello delle pubbliche amministrazioni.

Poche differenze sono riscontrabili, invece e significativamente, tra i tre CCNL di

comparto in relazione alla individuazione dell’agente negoziale di parte pubblica. In

tutti e tre i contratti, infatti, questo è individuato, per il livello di amministrazione, nel

titolare del potere di rappresentanza o in un suo delegato e in una rappresentanza dei

dirigenti titolari degli uffici direttamente interessati alla trattativa. Nel caso

dell’Università, tali soggetti sono esplicitamente individuati nel Rettore o in un suo

delegato e nel Direttore Amministrativo dell’Ateneo o in un suo delegato (si prevede

altresì l’eventualità di integrare la delegazione con ulteriori soggetti, ove previsto dai

singoli ordinamenti). In relazione al secondo livello di contrattazione integrativa del

comparto Ministeri, la legittimazione negoziale è, invece, attribuita al titolare del potere

di rappresentanza dell’amministrazione nell’ambito dell’ufficio o ad un suo delegato e

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ad una rappresentanza dei titolari dei servizi o uffici destinatari e tenuti all’applicazione

del contratto.

Vanno segnalate, al riguardo, le perplessità – puntualmente rilevate nei Rapporti

dei comparti Ministeri ed Enti locali – indotte dalla perdurante attribuzione della

legittimazione negoziale al titolare del potere di rappresentanza dell’amministrazione,

sostanzialmente identificabile nell’organo politico di vertice. Una scelta, questa, che

solleva preoccupazioni circa il rischio che tale presenza possa inquinare quella faticosa

separazione tra politica e amministrazione perseguita con la riforma del lavoro pubblico

e che ha rappresentato una delle strategie ‘forti’ messe in campo per promuovere una

moderna riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni. E’ vero, al riguardo, che la

formulazione delle disposizioni contrattuali dovrebbe, come ben evidenziato nel

Rapporto del comparto Enti locali, “portare ad escludere che la delegazione di parte

pubblica possa essere composta esclusivamente da soggetti politici”; ma a ben vedere

questa considerazione può lasciare un po’ di amaro in bocca a chi ritiene che di per sé la

presenza dei soggetti politici al tavolo della contrattazione possa rivelarsi un fattore di

possibile ‘alterazione’ del processo negoziale (comportando il rischio che allo scambio

‘puramente’ negoziale, si sostituisca un improprio scambio politico).

c) Con riferimento, infine, agli aspetti procedurali della contrattazione integrativa

va subito segnalata, in via preliminare, la particolare situazione creatasi nel comparto

Università, nel quale il forte ritardo con il quale si è giunti alla stipulazione del CCNL

della seconda tornata, oltre a comprimere i tempi per il rinnovo del contratto biennale

(relativo alla parte economica), ha inciso poi negativamente anche sulla contrattazione

integrativa del comparto, la quale è risultata schiacciata dall’avvio delle procedure per

il contratto biennale dapprima e, poi, per il rinnovo della terza tornata. Il problema – che

evidentemente non riguarda solo lo specifico caso di cui si discute, ma ha portata

generale – non è di poco momento e non va assolutamente trascurato, in quanto il

collegamento negoziale, imperativamente imposto dalla legge tra CCNL e CCI, sia,

come si preciserà tra breve, in merito ai contenuti della contrattazione integrativa , sia in

relazione alla tempistica di quest’ultima, fa sì che tali ritardi siano forieri di una sorta di

‘corto circuito’ del sistema negoziale, rendendo, in particolare, praticamente impossibile

che la contrattazione integrativa si svolga nei suoi tempi naturali (si noti che la durata

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dei contratti integrativi dovrebbe essere normalmente quadriennale) e rischiando, così,

di vanificare le aspettative funzionali ad essa assegnate nell’ambito dello stesso sistema.

In effetti, ove si considerino le procedure negoziali definite in tutti e tre i contratti

di comparto (ma in verità la situazione non sembra differire molto anche negli altri

comparti del settore pubblico) si noterà che, in modo assai similare, vengono predisposti

iter procedurali lineari ed ordinati, ma sempre con la fissazione della regola generale –

che funge da norma comportamentale basilare per l’attività contrattuale decentrata –

secondo cui le trattative in sede decentrata devono svolgersi in un’unica sessione

negoziale per tutti gli istituti contrattuali, fatta eccezione per le materie previste dal

contratto collettivo nazionale che, per loro natura, richiedano tempi di negoziazione

diversi. E’ il caso, ad esempio, nel comparto Ministeri, della contrattazione in tema di

riflessi delle innovazioni tecnologiche e organizzative e di mobilità (che “avviene al

momento del verificarsi delle circostanze che la rendono necessaria”), o, nel comparto

Enti locali, della disciplina negoziale sull’utilizzo delle risorse (che è determinata in

sede di contrattazione decentrata integrativa con cadenza annuale), ovvero ancora, nel

comparto Università, della determinazione per via contrattuale dei criteri per la

ripartizione delle risorse economiche tra le diverse finalità del fondo per le progressioni

economiche e per la produttività collettiva ed individuale (che deve avvenire con

cadenza annuale).

Le considerazioni critiche appena svolte in merito ai rischi indotti dai ritardi nella

stipulazione dei CCNL risultano, tra l’altro, ancora più evidenti qualora si prendano in

esame più analiticamente le regole che governano l’avvio della contrattazione

decentrata. Basti pensare che in tutti e tre i comparti la costituzione della delegazione di

parte pubblica non avviene che 30 giorni dopo la stipulazione del CCNL e che le

trattative deve essere avviate, a loro volta, entro 30 giorni dalla presentazione delle

piattaforme sindacali (tra l’altro, nel comparto Ministeri queste modalità di avvio delle

trattative sembrano dover essere riferite alla sola contrattazione di amministrazione dato

che, come accennato più sopra, la contrattazione di singola sede presuppone a sua volta

la stipula di un contratto di amministrazione).

Ciò detto, e passando alle previsioni dei CCNL riguardanti lo sviluppo delle

trattative, balza in evidenza, in primo luogo, che in tutti e tre i casi è stato stabilito che

nel corso del primo mese di negoziato (30 gg.) le parti contraenti, salvo interruzione

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delle trattative, non possono assumere iniziative unilaterali né procedere ad azioni

dirette (clausola di raffreddamento). Decorso tale periodo – che nel comparto Enti locali

è prorogabile di ulteriori 30 giorni, mentre nel comparto Università è più ampio (60

gg.), ed ugualmente prorogabile di ulteriori 30 giorni, in materia di orario di lavoro e in

relazione alle materie non direttamente implicanti l’erogazione di risorse destinate al

trattamento economico – le parti riassumono le rispettive prerogative e la libertà di

iniziativa e decisione, salvo che per quelle materie che non implichino direttamente

l’erogazione di risorse destinate al trattamento economico accessorio (la cui

determinazione è rimessa in via esclusiva alla contrattazione collettiva: artt. 2, co. 3, e

45, co. 1, d.lgs. n. 165/2001). Dato questo assetto, dunque, è possibile, come rilevato

nel Rapporto del comparto Enti locali, che “proprio su alcuni degli istituti che

potrebbero risaltare in una prospettiva di gestione e regolazione più flessibile del

rapporto di lavoro … la sottoscrizione di contratti integrativi è un fatto meramente

eventuale”.

Una volta concluso il contratto integrativo, esso è soggetto – si tratta di previsioni

che i CCNL di comparto traggono direttamente dalla legge – all’esame da parte dal

collegio dei revisori dei conti, ovvero dei nuclei di valutazione o dei servizi di controllo

interno (l’organo muta a seconda del comparto), e quindi, passato questo vaglio, esso

può essere stipulato, conservando poi la propria efficacia fino alla stipulazione di un

successivo contratto integrativo (vale, infatti anche per i CCI la regola dell’ultrattività);

nel caso, invece, in cui siano rinvenute violazioni dei vincoli di bilancio, va ripresa la

trattativa entro termini relativamente brevi. Sul punto non si riscontrano profili di

grande differenziazione, anche perché, in fin dei conti, si tratta in ogni caso di regole

contrattuali attuative di vincoli legali.

Infine, un aspetto che merita di essere sottolineato – perché costituisce una scelta

contrattuale non imposta dalla legge, ma che attesta l’interesse delle parti sociali di

livello centrale che gli impegni assunti in sede decentrata siano effettivamente rispettati,

in una logica di corretto funzionamento del sistema negoziale – è la presenza in tutti e

tre i CCNL di comparto di apposite clausole che, imponendo un vincolodi contenuto ai

contratti integrativi, dispongono che essi disciplinino tempi, modalità e procedure di

verifica della loro corretta attuazione. Si tratta di previsioni, dunque, che intendono

affidare alle stesse parti sociali il controllo sull’effettivo rispetto delle regole

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concordate, ma che, a ben vedere, svolgono una vera e propria funzione ‘educativa’ in

merito alle dinamiche negoziali, imponendo di per sé una continuità relazionale volta ad

alimentare un clima di collaborazione tra amministrazione e organizzazioni sindacali in

sede di singola amministrazione. Il che, evidentemente, non può che avere effetti

positivi anche nella quotidiana gestione degli uffici e dei rapporti di lavoro.

3. Assai più complessi e, al tempo stesso, particolarmente significativi, sono i

risultati dell’analisi compiuta nei tre Rapporti sulle materie di competenza della

contrattazione collettiva integrativa in base alle clausole di rinvio dei CCNL.

In effetti, “è proprio sugli ambiti oggettivi di intervento contrattuale [che] si

concentra il margine più rilevante di azione degli enti e delle rappresentanze sindacali

nella prospettiva di una regolazione concretamente più duttile e flessibile del rapporto di

lavoro” (così si esprime il Rapporto del comparto Enti locali). Ed è in relazione ad essi

– si potrebbe aggiungere – che si possono individuare le più tipiche esigenze

organizzative delle articolazioni amministrative di ciascuno dei tre comparti indagati. E’

infatti presumibile che proprio la determinazione, da parte dei CCNL, delle materie

demandate alla competenza della contrattazione collettiva integrativa costituisca un

indice significativo per rilevare quali aspetti della gestione del personale siano stati

valutati, dalle parti sociali a livello nazionale, centrali nelle strategie organizzative delle

amministrazioni ed in quelle delle organizzazioni sindacali, aprendo, di conseguenza, la

strada ad una regolazione negoziata di essa. Ciò pur nella consapevolezza che ben

diverso è il problema della effettiva capacità della contrattazione collettiva integrativa di

dare risposta a siffatte ‘aperture di credito’: problema al quale, ancora una volta, si potrà

tentare di dare risposta solo alla fine del percorso di indagine.

Queste brevi considerazioni trovano in buona misura conferma dall’analisi delle

sezioni dei tre Rapporti dedicate alla rilevazione delle materie oggetto di rinvio alla

contrattazione decentrata. Nonostante, infatti, l’ampia corrispondenza di queste ultime

nei CCNL dei tre comparti, è indubbio che affiorino alcune specificità che, con tutta

evidenza, sembrano poter essere ricollegate, per l’appunto, a dinamiche negoziali

ispirate da tipiche esigenze organizzative delle strutture amministrative di riferimento.

Ciò traspare ad esempio nei comparti Enti locali ed Università.

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In effetti, nell’uno e nell’altro è agevole rilevare l’importanza assunta, tra le

materie di competenza della contrattazione integrativa, da quelle riguardanti il

finanziamento e la composizione dei fondi economici destinati alla spesa per il

personale.

In particolare, nel Rapporto del comparto Enti locali si riconosce esplicitamente

che questa è un’area ‘strategica’ per la contrattazione integrativa del comparto, sia

perché i “concreti contenuti applicativi hanno segnato l’evoluzione della contrattazione

integrativa ed alcuni rilevanti approdi del vigente contratto di comparto (2002-2005)

sulla materia”, sia perché “quantitativamente preponderante” nella relativa dinamica

contrattuale. E ciò, d’altronde, può essere messo in relazione anche con il fatto che

nell’accordo sul biennio economico 2001-2002 “si prevede, in attuazione della clausola

del contratto del 1999 sugli incrementi finanziari, che gli enti possono avvalersi della

facoltà di integrare le risorse finanziarie destinate alla contrattazione decentrata

integrativa, con oneri a carico dei rispettivi bilanci”, purché siano rispettate rigorose

condizioni di compatibilità interna (le amministrazioni, infatti, devono aver stipulato il

contratto collettivo decentrato integrativo per il quadriennio 1998-2001, devono aver

istituito e attivato i servizi di controllo interno, devono essere in possesso di condizioni

economico-finanziarie adeguate, devono aver conseguito una percentuale minima degli

obiettivi annuali stabiliti negli strumenti di programmazione adottati)1.

In ogni caso, parrebbe di poter rilevare che – a parte le considerazioni circa la

delicata dinamica centro/periferia, nella quale si traducono le tensioni tra esigenze di

controllo della spesa pubblica e riconoscimento di maggiori spazi di autonomia degli

enti –, nell’ambito delle scelte che concretamente vengono effettuate dal CCNL del

comparto Enti locali in relazione a quest’area, una maggiore enfasi venga riposta ai

profili della valutazione del personale, in relazione all’attribuzione delle posizioni

organizzative (p.o.) e delle prestazioni retributive di risultato.

Orbene, anche nel comparto Università, come accennato, l’aspetto delle risorse

destinate alla spesa del personale appare centrale negli interessi delle parti sociali,

essendo stata dedicata ad esso particolare attenzione, con riferimento a tutti gli istituti

1 Laddove alle esigenze di controllare la lievitazione della spesa per il personale è invece riconducibile l’originale regola contrattuale (non applicabile agli enti “virtuosi”), secondo la quale “il costo medio ponderato del personale collocato in ciascun percorso economico di sviluppo non può superare il valore medio del percorso dello stesso”

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connessi a quest’area. E tuttavia, in tale comparto parrebbe di poter rilevare che una

maggiore attenzione delle parti sociali viene rivolta dal CCNL al problema della

gestione a livello decentrato degli inquadramenti, conseguenti all’introduzione del

nuovo sistema di classificazione professionale.

Ancora diversa appare, in buona misura, la situazione nel comparto Ministeri, dove

l’attenzione delle parti sociali appare distribuita in modo uniforme su tutta una serie di

materie attinenti alla gestione del personale; anche se, per il vero, ciò sembrerebbe a

prima vista contraddetto dalla presenza di un dato formale, dal quale sembrerebbe

doversi dedurre che alcune tematiche risultano in qualche misura privilegiate rispetto

altre.

In effetti, a questo riguardo va ricordata la presenza, nel CCNL del comparto in

questione, di una clausola generale di rinvio alla contrattazione collettiva di primo e

secondo livello nella quale si rinviene l’utilizzo dell’avverbio ‘prioritariamente’ con

riferimento al decentramento contrattuale di alcune materie lì elencate. Utilizzando la

chiara analisi degli estensori del Rapporto, la norma in questione, letta in connessione

con altre previsioni del contratto, non può significare che l’attribuzione alle predette

materie di una collocazione prioritaria rispetto ad altre materie per le quali nel CCNL

stesso si rinvengono ulteriori clausole di rinvio (che potremmo definire ‘speciali’

rispetto a quella generale di cui si discute). Va detto, tuttavia, che, guardando l’elenco

analitico di tali materie – in particolare, per il primo livello: organizzazione degli uffici,

dei servizi e del lavoro e gestione delle risorse umane; ordinamento, inquadramento e

sviluppo professionale; utilizzo delle risorse finanziarie e delle risorse per lo sviluppo e

la produttività; articolazione dell’orario di lavoro, ambiente di lavoro salute e sicurezza;

formazione professionale; mobilità; pari opportunità – e, più specificamente, gli aspetti

di esse destinati alla negoziazione decentrata integrativa, si può agevolmente dedurre

che essi costituiscono il cuore pulsante della gestione del personale nelle pubbliche

amministrazioni. Di modo che risulta in buona misura confermato il rilievo

dell’osservazione da cui si è partiti.

Se ciò è vero, a noi sembra che possa essere messo in relazione proprio con la già

rilevata particolare struttura del sistema contrattuale del comparto Ministeri. Come si è

accennato in precedenza, la presenza di un primo livello ‘centralizzato’ di contrattazione

integrativa, quello di amministrazione, può essere collegata proprio all’esigenza di

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consentire una diversificazione regolativa, prima ancora che in sede di singole unità

decentrate, in sede di grandi strutture amministrative (appunto i Ministeri, la Corte dei

Conti, il Consiglio di Stato etc.); e questo potrebbe a sua volta giustificare, a ben

guardare, la scelta del CCNL in favore di una sorta di ‘pari dignità’ delle materie

oggetto di rinvio. Né, da questo punto di vista, alcuna ulteriore riflessione utile può

trarsi dalla istituzione di un secondo livello di contrattazione integrativa, e dai rinvii ad

esso contenuti nel CCNL, essendosi già in precedenza messo in evidenza come la

contrattazione integrativa di secondo livello sia stata concepita dal CCNL soprattutto

come applicativa di regole e principi definiti nell’ambito dei contratti collettivi

integrativi del primo livello.

Le considerazioni che precedono meritano ancora alcune precisazioni.

Anzitutto, anche per quanto attiene ai comparti Enti locali e Università, accanto

alle materie cui, secondo i Rapporti di comparto, i relativi CCNL paiono aver dato un

maggior rilievo, sono comunque oggetto di rinvio anche ulteriori materie che, tra l’altro,

come si avrà modo di rilevare nella seconda parte di questo Rapporto, hanno poi di fatto

trovato spazio nei contratti integrativi esaminati, sia pure in misura meno rilevante. A

parte le materie che sono rinviate alla contrattazione integrativa di tutti i comparti

direttamente dagli accordi quadro (CCNQ) (lavoro temporaneo o interinale, telelavoro,

prerogative sindacali, sciopero e prestazioni indispensabili) si possono ricordare, per

quanto riguarda sia gli Enti locali che le Università, la formazione professionale,

l’ambiente di lavoro, le implicazioni in ordine alla qualità del lavoro e alla

professionalità dei dipendenti in conseguenza delle innovazioni organizzative e

tecnologiche, l’orario di lavoro, la mobilità professionale, le eccedenze di personale.

In secondo luogo, i problemi interpretativi del dettato contrattuale riscontrati in

relazione alla clausola generale del CCNL Ministeri si rinvengono anche in altre

clausole di rinvio dello stesso CCNL (che non precisano, ad es., il livello di

contrattazione integrativa competente), nonché, sia pure con minore ampiezza e

frequenza, anche nei comparti Università ed Enti locali. Il che solleva obiettivamente

alcune preoccupazioni legate alla rigorosa previsione contenuta nell’art. 40, co. 3, del D.

Lgs. n. 165, la quale, com’è noto, sanziona con la nullità le clausole non rispettose dei

vincoli fissati dai contratti collettivi nazionali. Delle difficoltà interpretative derivanti

anche da questa disposizione legale si è già detto nella prima parte di questo Rapporto

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generale. Qui val solo la pena di segnalare come clausole dei CCNL ambigue in

relazione alle competenze rinviate alla contrattazione integrativa possono risultare

foriere di rischi per la stessa regolarità del sistema contrattuale e, più in generale, delle

relazioni sindacali decentrate, in quanto espongono alla sanzione di nullità le norme dei

contratti integrativi – sulle quali possono, tra l’altro, essersi consumati contrasti tra le

parti di non poco momento in sede decentrata – che disciplinano materie, o aspetti di

esse, su cui sussistano dubbi di competenza in ragione dell’incertezza derivante dalla

clausola di rinvio del CCNL.

Va detto, peraltro, che le clausole di rinvio possono talvolta essere ‘volutamente’

generiche, sia perché una formulazione inequivoca della singola competenza può non

consentire alle parti di arrivare all’accordo, sia perché una formulazione viceversa più

‘aperta’ può favorire sia un’applicazione ‘evolutiva’ del rinvio, sia un adattamento agli

specifici interessi delle parti a livello decentrato, costituendo così, piuttosto, una

‘opportunità’, una ‘risorsa negoziale’. Del resto, non è nemmeno pensabile che il rinvio

possa essere – oltre che tassativo – del tutto preciso, specifico e dettagliato.

4. – Un ultimo aspetto da esaminare, in questa prima sezione del Rapporto dedicata

all’analisi dei contratti di comparto, è quello relativo alla rilevazione dei richiami in essi

contenuti ai c.d. istituti della partecipazione.

Si è già accennato in precedenza che i CCNL habbo ricondotto a questa categoria

gli istituti dell’informazione, della consultazione e della concertazione nonché

l’istituzione di organismi paritetici e l’interpretazione autentica dei contratti collettivi.

Occorre ora sottolineare – concentrando l’attenzione sui primi tre istituti – che

dall’analisi svolta nei tre Rapporti di comparto emerge una intensissima rete di

procedimentalizzazione che avvolge i poteri delle amministrazioni pubbliche nella

gestione dei rapporti di lavoro, la quale se, in buona misura, appare creata in funzione,

per così dire, ‘sostitutiva’ della possibilità per i contratti integrativi di regolamentare

direttamente istituti gestionali, per altro verso si rivela fortemente indicativa di una

concezione fortemente ‘partecipativa’ del governo del personale e degli stessi uffici.

Essa, dunque, ci sembra confermare in pieno la ‘filosofia’ di fondo che – come rilevato

in apertura di questa sezione del Rapporto generale – ha ispirato le parti sociali nella

definizione dei rispettivi sistemi di relazioni sindacali: quella di costruire un ‘clima’ di

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tipo fortemente cooperativo attraverso la quotidiana sperimentazione di contatti

relazionali sui singoli aspetti del processo decisionale del management pubblico.

I CCNL abbondano dunque di questo tipo di clausole procedimentali, rendendo

obbligatoria l’attivazione di momenti di informazione, consultazione e di concertazione

rispetto a moltissime materie, differenziando opportunamente il ricorso alle tre forme in

ragione della specificità dell’istituto interessato. E, d’altro canto, appare con evidenza

che si è in presenza di forme di partecipazione ad intensità differenziata, e che hanno, in

fin dei conti, diversi valori funzionali.

In effetti, all’informazione può essere ricondotta, come ben esplicitato nel CCNL

del comparto Università, la funzione di dar vita ad un sistema relazionale incentrato

“sulla trasparenza decisionale e sulla prevenzione dei conflitti, pur nella distinzione dei

ruoli”. Si spiega, così, ampiamente come quella che si potrebbe ritenere la ‘forma più

debole’ di partecipazione (nelle versioni sia preventiva, sia successiva), sia prevista in

generale, in tutti e tre i CCNL, per un ampio ventaglio di materie attinenti, nella

generalità, a gran parte delle misure di gestione dei rapporti di lavoro. Non si deve,

inoltre, trascurare che essa è frequentemente prevista in relazione a materie per le quali

è aperta alle parti sociali la via della contrattazione integrativa, così contribuendo a

costruire un tavolo negoziale in cui la conoscenza di dati, situazioni e problemi renda

più agevole una negoziazione più consapevole e, perciò stesso, più agevole la via

dell’accordo.

Frequentemente, poi, l’informazione è strettamente connessa alla consultazione, nel

senso che dal processo informativo, a richiesta della parte sindacale, può derivare un

vincolo per le amministrazioni ad attivare una fase di confronto, volta a consentire

l’acquisizione di un parere, più o meno formale, a latere delle organizzazioni sindacali.

Al riguardo va precisato che, in realtà, i CCNL dei comparti Università e Ministeri

individuano la consultazione come fattispecie autonoma – e, dunque, non

necessariamente collegata all’informazione – distinguendo casi in cui essa è

obbligatoria (nel senso che l’Amministrazione è sempre tenuta ad avviare la procedura)

ed altri in cui essa viene definita come facoltativa. Appare peraltro evidente che, nei casi

in cui essa viene definita come facoltativa, ci si trova di fronte a situazioni nelle quali è

affidata alle organizzazioni sindacali la facoltà di sollecitarne l’effettuazione, la quale,

peraltro, da questo momento diviene obbligatoria per l’amministrazione stessa. Una

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situazione solo in parte difforme traspare dal CCNL Enti locali, nel quale la

consultazione, pur se ridimensionata rispetto alle altre due forme partecipative, affiora

soprattutto con riferimento ad ipotesi in cui all’adempimento dell’obbligo di

informazione fa seguito, quasi come effetto naturale, un vincolo di consultazione,

destinato ad operare in stretta connessione con il primo. Quanto detto, evidentemente,

riguarda le fattispecie consultive costruite dallo stesso CCNL, restando poi intatte quelle

che derivano direttamente dai vincoli di legge.

Per quanto riguarda poi la concertazione, va segnalata anzitutto la non felice

adozione di questo termine da parte dei CCNL del settore pubblico, al fine di designare

una forma partecipativa più forte, in cui si sostanzia la ricerca di un vero e proprio

consenso della controparte sindacale nell’adozione di provvedimenti da parte

dell’amministrazione pubblica. Con questo termine, infatti, nel linguaggio delle

relazioni industriali, si suole far riferimento ad un metodo relazionale di tipo trilaterale,

in cui gli interessi delle parti sociali si confrontano e cercano composizione con

l’interesse di cui sono normalmente portatori i pubblici poteri, nell’adozione delle scelte

politiche. Ciò detto, va comunque rilevato come in tutti e tre i CCNL la concertazione –

per quanto riguardante un numero ancora limitato di materie (e più specificamente

alcuni specifici aspetti di esse) attinenti alla gestione delle risorse umane, ivi compresi

aspetti economici di essa (come nel contratto del comparto Enti locali) – tenda ad essere

intesa come vera e propria forma relazionale di tipo ‘paranegoziale’, cui sono affidate

funzioni di composizione dei potenziali conflitti che possono derivare nell’assunzione

di importanti decisioni attinenti alla gestione del personale. Da questo punto di vista, se

non deve destare particolari preoccupazioni la possibilità, enunciata nei CCNL del

comparto Università e Ministeri, che i risultati della concertazione siano formalizzati in

un verbale, solleva qualche incertezza il fatto che nel primo si giunga a sostenere che

“gli impegni concertati hanno per le parti carattere vincolante” e, nel secondo, si faccia

riferimento alla “possibilità di un accordo”: viene così reso infinitamente sottile il

confine tra concertazione e contrattazione integrativa, creandosi problemi di rilievo

giuridico, stante il vincolo legale, più volte ricordato, posto dall’art. 40, co. 3, del Dl.

Lgs. n. 165 del 2001.

Passando ai soggetti sindacali destinatari delle tre forme di partecipazione in

questione, va notato che, nel CCNL dei comparti Università e d Enti locali, in cui esiste

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un solo livello di contrattazione integrativa, i destinatari dei vincoli di informazione,

consultazione e concertazione fissati dai CCNL a carico delle amministrazioni

coincidono con i soggetti sindacali titolari del potere di negoziazione in sede decentrata

(r.s.u. e oo.ss. territoriali di categoria, firmatarie del CCNL). Diversa è la situazione,

invece, nel comparto Ministeri, dove, anche con riferimento agli istituti della

partecipazione, l’interlocuzione sindacale si svolge su due livelli, di modo che i soggetti

sindacali interessati sono, di volta in volta, o le sole oo.ss. di categoria firmatarie del

contratto collettivo nazionale di comparto, oppure, oltre a queste, le r.s.u.; ed al riguardo

può dirsi che la selezione dei soggetti destinatari dei diversi modelli relazionali di

partecipazione risulta essere stata per lo più ragionevolmente effettuata dalle parti o in

connessione con le relative competenze contrattuali ovvero ratione materiae, con

riferimento cioè alle specifiche questioni su cui verte l’interlocuzione stessa.

Un cenno conclusivo meritano, infine, gli aspetti procedurali dei tre istituti di

partecipazione di cui si è sin qui trattato. Traspare dalle clausole dei CCNL di comparto

la tendenza ad una formalizzazione delle regole procedurali da seguire nell’esercizio

delle tre forme partecipative, anche se non mancano casi in cui la normativa contrattuale

è silente o non chiara. Sul punto non può che rilevarsi che la fissazione di regole

procedurali costituisce elemento fondamentale per consolidare tali istituti e, di

conseguenza, per conferire loro l’effettività necessaria a garantire l’assolvimento delle

funzioni ad essi assegnate, quali sopra evidenziate. Di tale tendenza è dunque

auspicabile un ulteriore rafforzamento, anche al fine di predisporre regole

comportamentali certe per le parti sociali direttamente coinvolte nelle attività ad essi

correlate.

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Sezione III. La contrattazione integrativa nei comparti Ministeri, Enti locali e

Università

Premessa. Conclusa l’analisi della regolamentazione legale del sistema di

contrattazione collettiva del settore pubblico, nonché quella sugli assetti contrattuali

definiti dal contratto nazionale nei tre comparti oggetto della ricerca, è necessario ora

passare ad esaminare, sulla base dei Rapporti di comparto, gli aspetti peculiari della

seconda tornata della contrattazione integrativa, avendo di mira i due obiettivi

fondamentali della ricerca e cioè: verificare, in primo luogo, se e come essa abbia

contribuito a favorire una gestione più flessibile dell’organizzazione delle pubbliche

amministrazioni adattando, specificando e sviluppando – in relazione agli interessi ed

alle concrete esigenze delle parti a livello locale - la disciplina delle materie e degli

istituti di gestione del rapporto di lavoro rinviati alla sua competenza dalle fonti

negoziali di livello superiore; e, in secondo luogo, se l’applicazione a livello decentrato

del sistema negoziale disegnato dal contratto di comparto sia stata sostanzialmente

coerente con i vincoli derivanti da quest’ultimo ovvero vi siano stati scostamenti, sul

piano delle competenze negoziali o di quelle soggette agli altri metodi relazionali, per

specifiche materie o particolari profili di esse, ovvero sui tempi e sulle procedure

negoziali.

1. Per affrontare il primo profilo, è necessario partire da una ricognizione delle

materie e degli istituti – tra quelli rinviati dai contratti di livello superiore (nazionali di

comparto e quadro, fondamentalmente) alla competenza del livello decentrato – che

sono stati negoziati con maggiore frequenza (cioè sono presenti in misura diffusa) e/o

incisività.

Naturalmente, l’aspetto quantitativo da solo non è decisivo, perché la ‘frequenza’

di un contenuto negoziale non si coniuga necessariamente con la ‘qualità’ della

disciplina e, d’altra parte, ricorrente è anche l’ipotesi opposta. Nel settore pubblico

(come in quello privato) esiste un fenomeno di mimesi, o di imitazione, tra contratti

collettivi, per effetto del quale si ritrovano discipline integrative di un certo istituto che

ripropongono la regolamentazione del contratto nazionale ovvero di altri contratti

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integrativi; e, contemporaneamente, nello stesso comparto vi possono essere discipline

fortemente disomogenee, per profondità e contenuti della regolazione.

A determinare la varietà degli esiti contrattuali, soprattutto in termini di qualità

delle singole discipline, concorrono diverse variabili, che possono incidere con modalità

o intensità diverse anche all’interno dello stesso comparto o di contesti organizzativi

simili: il mercato del lavoro interno ed esterno, le dimensioni e la collocazione

territoriale delle singole strutture, la ‘cultura’ delle parti ed i relativi rapporti di forza

(condizionati da quelle variabili). Possono influire, poi, le caratteristiche proprie di un

singolo comparto: si pensi, per rifarsi al Rapporto sugli Enti Locali, alle specificità

organizzative connesse alle dimensioni dei singoli enti e, soprattutto, alle differenze – in

termini di varietà e di complessità delle funzioni - tra enti provinciali e comunali.

La frequenza di alcune delle materie contrattate, peraltro, è sicuramente il riflesso

dell’ampliamento, rispetto alla prima tornata, delle competenze della contrattazione

decentrata determinato dagli interventi, legislativi e contrattual collettivi, già richiamati

nei tre Rapporti.

Le novità più rilevanti nel comparto Enti locali riguardano le posizioni

organizzative, la disciplina della mobilità professionale (in particolare, il

completamento e l’integrazione dei criteri per le c.d. progressioni orizzontali) e quella

connessa della valutazione del personale e della gestione delle eccedenze di personale,

nonché le competenze in ordine all'incremento delle risorse finanziarie. Nel comparto

Università, le novità riguardano soprattutto la gestione a livello decentrato degli

inquadramenti, a seguito dell’introduzione del nuovo sistema di classificazione

professionale, e una maggiore autonomia nella gestione delle risorse. Nel comparto

Ministeri, infine, l’ampliamento riguarda le mutate competenze in materie di risorse

economiche (FUA) e di inquadramento del personale; l’articolazione delle tipologie

dell’orario di lavoro; i congedi per la formazione e le tipologie contrattuali flessibili, sia

pure per profili non particolarmente significativi (proprio dal punto di vista della

flessibilità organizzativa).

Per quanto riguarda quest’ultimo comparto, poi, nel verificare se la contrattazione

integrativa abbia favorito una gestione più flessibile dell’organizzazione del lavoro, si

deve tener conto non solo della quantità e della qualità delle materie contrattate a livello

decentrato, ma anche della ripartizione delle competenze effettuata dal contratto

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nazionale tra i due livelli decentrati – che costituiscono una caratteristica di questo

comparto - e, in particolare, di come il primo livello di contrattazione decentrata, quello

di amministrazione, abbia gestito tale ripartizione nei confronti del secondo livello,

quello di sede centrale o distaccata di amministrazione centrale e ufficio periferico

(contrattazione definita, in alcuni contratti, “decentrata” o “locale” o “periferica” o “di

posto di lavoro”, ecc.).

Tra le materie o aree tematiche (nella prospettiva metodologica adottata in questa

ricerca) ampiamente e/o diffusamente regolate in sede decentrata nel comparto Enti

locali ritroviamo: l’organizzazione degli uffici, dei servizi e del lavoro e la gestione

delle risorse umane; le risorse finanziarie e per lo sviluppo e la produttività;

l’ordinamento, inquadramento e sviluppo professionale; il trattamento economico;

l’orario di lavoro; la formazione professionale e l’ambiente di lavoro.

Nel comparto Università sono state il trattamento accessorio, con la relativa

ripartizione delle risorse; gli istituti legati al nuovo sistema di inquadramento

professionale e alla mobilità interna, con particolare riferimento alle forme di

progressione economica orizzontale e verticale; la formazione e l’aggiornamento

professionale; gli istituti legati all’organizzazione degli uffici, dei servizi e del lavoro;

l’orario di lavoro.

Non dissimile è la situazione del comparto Ministeri nel quale, tra le materie più

contrattate, anche se con un grado di approfondimento della disciplina fortemente

diversificato, vi sono l’inquadramento professionale; la distribuzione delle risorse

finanziarie per lo sviluppo professionale e la produttività ed il connesso trattamento

economico; l’articolazione delle tipologie di orario di lavoro, divenuta oggetto di

contrattazione integrativa sia a livello di amministrazione, sia a livello di singola sede o

ufficio; la formazione professionale.

L’alta percentuale di contrattazione di tali istituti assume una particolare rilevanza

laddove si rifletta - nella prospettiva di una crescente flessibilizzazione

dell’organizzazione del lavoro - sul fatto che si tratta di materie che hanno un forte

impatto, appunto, sulla organizzazione e sulla gestione delle diverse amministrazioni.

La relativa disciplina, infatti, è rivolta non solo a riconoscere migliori condizioni

economiche e di lavoro ai dipendenti ma, soprattutto, ad accrescere la produttività ed a

migliorare l’attività della pubblica amministrazione in termini di efficienza/efficacia e di

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qualità nell’erogazione dei servizi istituzionali. Peraltro, come opportunamente osserva

il rapporto sul comparto Università, occorre tener conto del diverso significato che il

concetto stesso di produttività può avere nelle diverse pubbliche amministrazioni.

Infatti, il continuo riferimento, contenuto nei contratti dei diversi livelli, al

miglioramento dei servizi da erogare sembra mutare in alcuni casi lo stesso significato

di produttività (cui sono finalizzati, per esempio, i premi individuali e collettivi ed i

fondi destinati a finanziarli, ovvero l’inquadramento, ecc.): ciò almeno laddove “si

intravede un passaggio dalla produttività-efficienza, intesa come rapporto tra mezzi o

risorse impiegate e beni o servizi prodotti al fine di una riduzione della quantità di

mezzi necessari per ottenere un certo risultato, alla produttività-efficacia, intesa come

rapporto tra i risultati conseguiti con un’attività e l’obiettivo di minimizzare la

differenza tra servizi resi e servizi attesi dall’utenza”.

Nella stessa prospettiva, volta a far emergere dalle discipline contrattuali i profili

orientati ad accrescere la flessibilità organizzativa, è evidente - e giustamente lo rileva il

Rapporto sui Ministeri - che un giudizio ponderato sulla rilevanza attribuita dalla

contrattazione integrativa a talune materie non può essere formulato valutando

separatamente, e comparando per singoli comparti, la disciplina di una singola materia o

area tematica, a prescindere dall’analisi di altre materie ed istituti – pure connessi alla

gestione dei rapporti di lavoro - che sono stati negoziati, perché altrimenti si corre il

rischio di non cogliere il senso complessivo delle scelte selettive compiute dalle parti e

di formulare valutazioni che possono risultare, per questo, falsate. Questa impostazione,

d’altra parte, risulta più soddisfacente se si tiene conto anche del fatto che le

competenze rinviate alla contrattazione integrativa in ciascun comparto – sia che si tratti

di materie e/o istituti in senso lato, sia che si tratti di specifici profili di essi – spesso non

sono del tutto coincidenti. Per questi motivi l’analisi che segue sarà condotta,

sostanzialmente, privilegiando l’analisi integrata - per singolo comparto - degli istituti

più significativi ai fini dell’oggetto della ricerca.

1.1. La necessità di comparare i contenuti della contrattazione decentrata seguendo

questa impostazione risulta, peraltro, immediatamente confermata se, avviando l’analisi

dal Comparto Ministeri, si prende in considerazione l’area tematica relativa alla

organizzazione degli uffici, dei servizi e del lavoro e alla gestione delle risorse umane.

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Ebbene, pur tenendo nella dovuta considerazione il fatto che in tale ambito risulta

preponderante la sfera di competenza riservata all’esercizio del potere organizzativo

dell’amministrazione, potrebbe essere interpretabile negativamente il fatto che essa

risulti trattata come tale solo in quattro accordi, in due dei quali con clausole che si

limitano a riportare la competenza affidata dal contratto nazionale. Il fatto è che in

questo comparto i mutamenti organizzativi sono presi in considerazione, invece, in sede

di disciplina degli inquadramenti e di strumenti di valutazione del personale: così, la

revisione dei profili professionali e dei percorsi di carriera, oltre che dei processi

formativi, viene collegata alla riorganizzazione dei Ministeri stessi (ex d.lgs. n. 300/99 e

successive modifiche) e/o alla revisione dei processi di lavoro; e, talora, anche in sede di

accordi sui sistemi di incentivazione del personale, ancorati ad obiettivi e programmi di

incremento della produttività e di miglioramento della qualità del servizio, nonché in

sede di accordi sulla mobilità.

E infatti l’inquadramento è la materia sulla quale tutte le amministrazioni hanno

contrattato e, per di più, con una frequenza infraquadriennale, a conferma della sua

rilevanza strategica sia rispetto agli obiettivi di flessibilità organizzativa

dell’amministrazione, sia rispetto alle aspirazioni di crescita professionale dei

lavoratori.

In conseguenza della ridefinizione dei sistemi di classificazione, i contratti

integrativi di amministrazione, sulla base di competenze rinviate dal CCNL, hanno così

rivisto, accorpato, ricollocato i profili professionali esistenti nelle aree, hanno eliminato

quelli obsoleti e – dato più significativo - hanno individuato, in relazione alle esigenze

organizzative dell’Amministrazione, i nuovi profili, con riferimento a settori di attività

e/o aree professionali che non sono riconducibili soltanto ai tradizionali ambiti

amministrativo-contabile e tecnico, ma che sono stati definiti in funzione della

valorizzazione di nuove competenze professionali (i settori più ricorrenti sono:

economico-finanziario, linguistico, della comunicazione, sociale, statistico-informatico,

ecc.) (ma su questo aspetto e sulla mobilità professionale v. pure, infra, i parr. 3.1. e

3.3.).

I contratti integrativi, sottolineando la necessità di operare una revisione dei

percorsi professionali per valorizzare la professionalità dei dipendenti – e garantire,

implicitamente, la connessa progressione economica - hanno poi individuato i criteri

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generali delle metodologie di valutazione in relazione a: anzianità, titoli di studio e

culturali, percorsi formativi e corsi con esame finale, esperienza e capacità

professionale: l’anzianità di servizio, dunque, tende a diventare solo uno dei criteri di

valutazione ai fini delle progressioni, e non più l’unico o quello determinante (purché

l’esperienza professionale non venga intesa quale mera variante semantica della

anzianità). Sono state definite, infine, le procedure per i passaggi all’interno dell’area,

attraverso percorsi di riqualificazione e di aggiornamento professionale, e per i passaggi

tra le aree, prevalentemente nella forma del corso-concorso con esame finale.

L’istituto della mobilità ha assunto e continua ad avere un’importanza crescente per

le amministrazioni quale strumento di migliore allocazione del personale, in relazione

alle varie riorganizzazioni che hanno interessato i Ministeri a partire dal 1999 (d.lgs. n.

300) - anche quale conseguenza della cessione o redistribuzione delle loro attività -

nonché quale metodo di acquisizione di risorse nuove, a fronte del blocco delle

assunzioni ripetutamente introdotto dalle leggi finanziarie. Il Rapporto di comparto

segnala, tuttavia, che, nonostante la rilevanza di questi obiettivi e l’ampiezza del rinvio

da parte del contratto nazionale - che rimette ai contratti di amministrazione la

regolazione della mobilità, senza altra specificazione - gli accordi decentrati in materia

si limitano prevalentemente a disciplinare le procedure dei trasferimenti a richiesta dei

dipendenti nell’ambito della stessa amministrazione, cioè la mobilità individuale

volontaria interna all’amministrazione, al fine di garantire una gestione trasparente

dell’istituto.

Minore attenzione è rivolta, invece, alla mobilità nell’ambito del comparto o tra

comparti, che è disciplinata o come ulteriore possibilità di trasferimento, o come

strumento di gestione degli esuberi di personale rivenienti da riorganizzazioni delle

amministrazioni e/o da trasferimenti di attività.

L’accenno appena fatto ai profili retributivi connessi alla modifica

dell’inquadramento induce ad affrontare immediatamente l’area tematica delle risorse

finanziarie e per lo sviluppo e la produttività, ambito di intervento fondamentale della

contrattazione integrativa, in quanto in essa rientra la distribuzione delle risorse

finanziarie utilizzabili per sottoscrivere il contratto collettivo integrativo per quanto

attiene sia alla loro generale allocazione – cioè alla scelta tra le diverse possibili

utilizzazioni delle risorse sulla base delle finalità selezionate (da realizzare mediante

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piani e progetti finalizzati)-, sia alla quantificazione di quelle da assegnare alle singole

destinazioni.

I contratti di amministrazione - confermando, complessivamente, le destinazioni

prioritarie individuate dal CCNL - fanno frequente riferimento al finanziamento dei

processi di riqualificazione del personale e, quindi, alle progressioni interne alle aree,

ma anche tra le aree; alle progressioni meramente economiche (cioè agli sviluppi

economici super) e alle varie indennità; ai sistemi incentivanti e alle posizioni

organizzative.

Alcuni contratti opportunamente prevedono, poi, la destinazione di risorse alla

costituzione di fondi di sede centrale e distaccata e ufficio periferico, determinandone la

consistenza in relazione, per esempio, alla dotazione organica. Alla contrattazione

integrativa periferica (di sede o ufficio) spetta, infatti, in base allo stesso ccnl - che lo

prevede nell’ottica di una adeguata e corretta flessibilizzazione dei trattamenti –, la

successiva distribuzione di queste risorse: invece, a volte, i contratti di amministrazione

indicano addirittura quali istituti retributivi devono essere trattati in sede locale e

individuano i criteri da seguire (ponendo, in tal modo, ulteriori – e poco opportuni,

almeno in teoria - limiti a tale contrattazione). Non mancano, però, casi in cui ai criteri

fissati dal contratto di amministrazione viene attribuita, invece, valenza solo residuale,

poiché si fanno espressamente salvi i diversi criteri stabiliti in sede di contrattazione

locale (a proposito di premi individuali e collettivi), ampliando in tal modo gli spazi

lasciati a quest’ultima e consentendo, quindi, una maggiore adattabilità e flessibilità

nella gestione delle risorse finanziarie e del personale.

Un altro elemento interessante dal punto di vista della flessibilità collegata agli

assetti contrattuali è quello, opportunamente sottolineato dal rapporto di comparto, che

riguarda l’espressa qualificazione delle utilizzazioni del FUA indicate nel contratto

nazionale di comparto come meramente prioritarie (e non esclusive). Ciò induce gli

Autori del rapporto a ritenere che il contratto di comparto abbia così lasciato aperti degli

spazi di flessibilità per la contrattazione di amministrazione, la quale potrebbe

individuare altre destinazioni possibili, purché non in contrasto con le finalità indicate

nella disciplina nazionale e fermo restando il rispetto sia della pertinente previsione

legale (art. 45, d.lgs. n. 165/2001), sia dei vincoli di spesa.

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Tornando ai contenuti in materia dei contratti integrativi, va sottolineato il fatto che

le parti, invece di esplicitare i criteri di distribuzione e, quindi, di individuare scelte ed

obiettivi organizzativi, provvedono generalmente ad operare direttamente la

distribuzione delle risorse tra i diversi utilizzi possibili. Nella maggior parte dei contratti

di amministrazione ciò avviene addirittura attraverso la quantificazione degli importi e,

più raramente, con la definizione di percentuali sul totale del Fondo.

I contenuti contrattuali in materia di inquadramento e di risorse finanziarie sono a

loro volta strettamente connessi con la disciplina dettata dai contratti integrativi sugli

istituti rientranti nell’area del trattamento economico. La contrattazione in materia ha

riguardato più frequentemente le posizioni economiche super, le posizioni

organizzative, le indennità e i premi di produttività, individuali e collettivi.

Con specifico riguardo alle posizioni economiche super, i contratti di

amministrazione hanno dettato i criteri per la loro attribuzione e, talora, previsto

l’erogazione una tantum (in assenza di specifico rinvio: v., infra, il par. 3.2.) di un

differenziale economico in favore del personale inquadrato nelle posizioni economiche

per cui non è previsto lo sviluppo economico super: un indice evidente della priorità

riconosciuta al miglioramento tout court del trattamento retributivo, indipendentemente

da criteri oggettivi di qualunque natura.

Per quanto attiene, poi, alle posizioni organizzative, va innanzitutto segnalato che

la loro introduzione - alternativa all’ampliamento dei sistemi di inquadramento con

l’introduzione di nuove categorie e/o aree professionali collocate in posizione apicale –

è motivata dalla volontà di sperimentare nuovi e flessibili modelli organizzativi e di

governo delle risorse umane, ma anche di rivalutare e di riqualificare adeguatamente le

c.d. funzioni direttive. Come sottolinea il rapporto dei Ministeri – ma la riflessione può

essere ovviamente estesa anche agli altri comparti - l’istituzione di posizioni

organizzative consente alle amministrazioni di disporre di strutture flessibili in grado di

raggiungere obiettivi complessi e, quindi, di modulare e trasformare il proprio assetto

organizzativo in funzione delle effettive esigenze connesse all’attività amministrativa da

svolgere e ai servizi pubblici da erogare. Contemporaneamente, il conferimento di

incarichi di posizioni organizzative permette alle stesse amministrazioni di valorizzare

le funzioni direttive e le professionalità interne, senza dover necessariamente ricorrere

ad un incremento delle dotazioni dirigenziali.

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I contratti di amministrazione, oltre ad individuare, nell’ambito del FUA, le risorse

da destinare al finanziamento delle posizioni organizzative, come previsto dal CCNE,

hanno determinato la misura minima dell’indennità da corrispondere a fronte

dell’attribuzione dell’incarico e, sovente, hanno stabilito anche il numero delle posizioni

organizzative che possono essere costituite per ogni unità organizzativa. Ma, in genere, i

contratti hanno pure individuato, da un lato, i criteri sulla base dei quali graduare le

varie posizioni organizzative e correlare la relativa retribuzione (livello di responsabilità

e collocazione organizzativa; complessità delle competenze attribuite; specializzazione

richiesta dai compiti affidati; caratteristiche innovative della professionalità richiesta;

complessità del contesto operativo; complessità dei procedimenti o dei processi gestiti),

così sottraendo spazi alla libera determinazione dell’amministrazione alla quale, ai sensi

dell’art. 62, co.2, del ccnl, spetterebbe “la graduazione della retribuzione di posizione in

rapporto a ciascuna tipologia di incarico previamente individuata”; dall’altro, hanno

individuato le funzioni cui si collega l’istituzione delle posizioni, definito i criteri

generali per l’affidamento e la revoca degli incarichi, previsto le modalità per la

valutazione periodica dell’attività svolta, oggetto di informazione e di concertazione

(cfr. pure, infra, il par. 3.3.).

Altre voci retributive disciplinate dai contratti collettivi di amministrazione sono

state le indennità, la cui funzione, come è noto, è quella di remunerare il lavoratore per

un maggiore sforzo o impegno nell’esecuzione della prestazione richiesto dalle

condizioni di lavoro. In particolare, si è prevista la corresponsione di indennità di turno

e di reperibilità (in relazione all’articolazione dell’orario di lavoro); per disagiate

condizioni lavorative (maneggio valori, servizi ausiliari e di anticamera,

fotoriproduzione, conduzione di automezzi, attività di sportello ad utenza diffusa e in

generale di rapporto diretto con il pubblico; indennità di servizio all’estero); di rischio

(ad es. da radiazioni ionizzanti; per manipolazione di sostanze tossiche e nocive;

sanitario), ecc.

Infine, una tipologia di erogazioni economiche interessante - perché coniuga

esplicitamente la flessibilità professionale con quella della gestione organizzativa - è

costituita da quelle voci che, pur essendo anch’esse qualificate dai contratti come

“indennità”, sono invece corrisposte per remunerare l’apporto del lavoratore (o, a

seconda dei casi, di tutti i lavoratori) alla realizzazione dei processi di riforma di taluni

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ministeri, oppure particolari ‘qualità’ della prestazione, mirando – in definitiva – a

compensare le capacità di adattamento del personale alle modifiche organizzative che

hanno interessato, a partire dalle riforme degli anni ‘90, la pubblica amministrazione. Si

tratta, per esempio, dell’indennità di professionalità, che talora è espressamente

destinata a compensare l’impegno nei nuovi compiti istituzionali che integrano le

attività tradizionali del Ministero, e dell’indennità per utilizzo flessibile della

professionalità, che remunera la disponibilità del personale a svolgere funzioni anche

non esattamente corrispondenti al proprio profilo professionale.

Per quanto riguarda il premio di produttività - la cui erogazione avviene sulla base

della definizione di progetti per la realizzazione degli obiettivi individuati dalle parti e

sulla relativa valutazione dei risultati ottenuti - si procede, in primo luogo,

all’individuazione degli obiettivi da perseguire (che sono, prevalentemente,

l’incremento della produttività e il miglioramento della qualità dei servizi, la revisione

dei modelli organizzativi, la semplificazione e lo snellimento delle attività, la

contrazione dei tempi medi di prestazione, ecc.), con indicazioni, talvolta, anche alle

sedi decentrate. In secondo luogo, vengono definiti i criteri per la loro erogazione, che

possono essere integrati a livello di sede: questi attengono, ad esempio, all’assidua

partecipazione alla gestione dei “processi ordinamentali”; all’utilizzo di risorse

strumentali innovative rispetto alle normali procedure; alle responsabilità assunte nei

procedimenti amministrativi; ai rapporti con l’utenza; all’apporto individuale, da

definire secondo criteri – alquanto elementari - quali la presenza e la valutazione da

parte del dirigente. Ma il premio è talora riconosciuto anche per lo svolgimento di

compiti che comportino rischi per maneggio denaro: una voce che non solo dovrebbe

più propriamente essere ricondotta ai trattamenti indennitari, ma che, come si è appena

visto, è in realtà già prevista tra questi da altri contratti dello stesso comparto.

Di importanza strategica per le pubbliche amministrazioni ai fini della gestione dei

processi di riorganizzazione conseguenti, in particolare, alla riforma dei Ministeri, al

decentramento e al rafforzamento dei livelli locali di governo, è poi la formazione,

destinata a garantire la valorizzazione e la crescita professionale delle risorse umane ed

a rendere più efficace ed efficiente l’organizzazione.

I contratti di amministrazione si distribuiscono in parti uguali tra quelli che danno

attuazione in modo del tutto generico o, per converso, analitico al CCNL il quale, con

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una formula ampia e altrettanto generica, rinvia ad essi la definizione delle “linee di

indirizzo generale, per adeguare l’attività formativa ai processi di innovazione”.

Sembra, insomma, che nei contratti del primo tipo la formazione sia utilizzata per

‘giustificare’ una progressione sostanzialmente economica e, in quelli del secondo,

come strumento effettivo di crescita professionale e, dunque, come leva organizzativa.

I contratti più interessanti – che sono pure in numero significativo – sono quelli che

utilizzano il rinvio stesso in modo ‘flessibile’, cioè in una logica di

procedimentalizzazione. Questi, infatti, prevedono una contrattazione della materia a

cadenza annuale; definiscono le tipologie di attività formative (addestramento,

aggiornamento, qualificazione e riqualificazione), specificandone e diversificando gli

obiettivi (tra i quali, in particolare, viene indicato quello di favorire le progressioni

professionali) e i contenuti formativi; determinano i criteri generali per la

partecipazione del personale alle attività formative; individuano le risorse per

finanziarla, prevedendone il progressivo incremento.

L’articolazione delle diverse tipologie di orario di lavoro è un’altra materia

nevralgica della contrattazione integrativa nella prospettiva di garantire, attraverso la

specificazione e l’adattamento degli orari, una organizzazione del lavoro più flessibile e,

in particolare, più adeguata alle esigenze dell’utenza e dei lavoratori. Tale materia, che è

oggetto di contrattazione integrativa sia a livello di amministrazione, sia a livello di

singola sede o ufficio, risulta in effetti molto contrattata dalle amministrazioni del

comparto Ministeri, anche se il grado di approfondimento della disciplina risulta, come

quasi sempre, fortemente diversificato.

Ad un primo gruppo possono essere ricondotti sia i contratti di amministrazione

che si limitano a rinviare l’articolazione delle tipologie di orario al secondo livello

contrattuale decentrato, sia quelli che riproducono schematicamente ed in modo

sintetico talune delle previsioni dettate dal CCNL e dall’Accordo di comparto del 1996

procedendo, se mai, a fornire indicazioni relative alle specifiche finalità che devono

guidare la scelta tra le stesse.

Ad un secondo gruppo di contratti, numericamente molto più significativo, possono

essere invece ricondotti quegli accordi di amministrazione che, pur non occupandosi di

tutti gli aspetti oggetto di rinvio dal livello nazionale, contengono comunque (oltre alla

frequente, anche se non generalizzata, riproposizione delle diverse tipologie d’orario

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ammesse dai contratti di comparto, anche) una regolamentazione di alcuni profili (talora

di un singolo aspetto) e rinviano, per la definizione di altri, alla contrattazione della

singola sede o ufficio (spesso con l’indicazione, come già rilevato con riferimento ai

contratti del primo gruppo, di specifiche finalità che devono guidare il ricorso alle

diverse tipologie di orario).

Tra le soluzioni negoziate (mediante una disciplina non meramente ripetitiva di

quella dei contratti di comparto) meritano di essere rammentate, ad esempio,

l’articolazione dell’orario di lavoro su 6 giorni per taluni particolari uffici o servizi

individuati dal contratto.

Di particolare interesse, nella prospettiva di valutare le importanti funzioni di

specificazione e di adattamento regolativo svolte dalla contrattazione integrativa, in

vista di una maggiore flessibilizzazione dell’orario di lavoro nel contesto delle

amministrazioni pubbliche, risulta un particolare modulo d’orario - peraltro previsto in

un solo contratto di amministrazione - in base al quale, in caso di regimi articolati su 5

giorni, l’inizio della prestazione può essere collocato nelle ore pomeridiane.

La disciplina di questo modulo d’orario risulta estremamente interessante

soprattutto perché tende a garantire una copertura più ampia degli orari di servizio e, al

contempo, a consentire un adattamento del suo utilizzo alle diverse esigenze

organizzative (salvaguardando, comunque, le possibili diverse esigenze dei lavoratori

interessati). Infatti, il contratto - pur elencando i servizi che devono essere privilegiati

nell’adozione del modulo - rinvia ai singoli uffici il compito di determinare, in relazione

alle loro peculiari necessità e secondo quanto previsto in sede di contrattazione

decentrata, le funzioni per le quali è previsto il modulo stesso e i criteri di massima per

l’individuazione del personale interessato.

L’orario plurisettimanale è, invece, piuttosto trascurato e, per di più, le previsioni

in materia sono di basso profilo, probabilmente perché, come rilevano gli autori del

Rapporto, “l’articolazione plurisettimanale dell’orario può essere oggetto di una più

adeguata valutazione nella singola sede” che, d’altronde, è competente in materia al pari

del livello di amministrazione.

Insomma, anche per i contratti del secondo gruppo possono valere le osservazioni

compiute con riferimento al primo gruppo: una parte comunque rilevante della

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regolazione della materia - soprattutto in tema di lavoro plurisettimanale – resta, infatti,

affidata alla sede periferica, che appare in linea di massima anche la più adeguata.

In proposito, se mai, è necessario richiamare un’ulteriore riflessione, proprio con

riferimento ai casi in cui (molte o talune) scelte regolative sono già state operate nei

contratti di amministrazione, magari accompagnate da formule generali alla cui stregua

le disposizioni in materia di orario costituiscono “norme-cornice”, “al fine di pervenire

ad un sistema di regole uniformi tra l’amministrazione centrale e periferica”. Certo,

queste specifiche previsioni dei contratti di amministrazione costituiscono, talvolta, la

mera riproposizione di prescrizioni già contenute nei contratti di comparto (e, quindi,

comunque vincolanti per entrambi i livelli decentrati) e, talaltra, ammettono comunque

una diversa determinazione nelle sedi locali. E tuttavia, laddove siano effettivamente

riscontrabili specifici limiti alla contrattazione svolta in tali sedi, si pongono ancora una

volta – come giustamente sottolineano gli autori del Rapporto - sia il problema relativo

al rapporto sussistente tra i due livelli decentrati sulle materie per le quali il CCNL

abbia operato un contestuale rinvio ad entrambi, senza però stabilire espressamente che

quello periferico deve rispettare i vincoli (eventualmente) fissati da quello di

amministrazione; sia il problema dell’efficacia (reale o meramente obbligatoria), per la

contrattazione di singola sede, dei vincoli eventualmente derivanti dalla disciplina di

amministrazione. Il rischio, infatti, è quello di limitare le capacità di specificazione e di

adattamento regolativo della disciplina nazionale che la contrattazione di sede può

svolgere nella prospettiva di una maggiore flessibilizzazione dell’organizzazione del

lavoro.

Tale rischio, del resto, come quello opposto della possibile inerzia delle parti a

livello di sede, sembra essere stato adeguatamente considerato dai sottoscrittori di

quegli accordi di amministrazione che, in sostanza, predispongono una

regolamentazione provvisoriamente sostitutiva di quella decentrata, cioè da valere “fino

alla stipulazione degli accordi decentrati ovvero in assenza di essi”: una clausola che è

idonea a limitare immediatamente le scelte unilaterali dei dirigenti nelle singole sedi sui

profili disciplinati dal contratto di amministrazione e, contemporaneamente, lascia

impregiudicata, anche sul piano dei contenuti, l’azione negoziale condotta in tali sedi.

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1.2. Passando a considerare la contrattazione integrativa del comparto Enti locali,

va premesso che le differenze, talora considerevoli, tra l’ampiezza e/o la profondità

della disciplina dei diversi istituti sono fortemente legate alle specificità organizzative,

connesse alle dimensioni, dei singoli enti e, soprattutto, alle differenze – in termini di

varietà e di complessità delle funzioni - tra enti provinciali e comunali. Non a caso,

come osservano gli autori del Rapporto, “nelle province osservate, ad esempio, - che

svolgono un ruolo importante, ma effettivamente più “arretrato” rispetto ai comuni, se si

pensa, per dire, alle relazioni con l’utenza - si è registrata una tendenza maggioritaria a

concentrare in prima battuta la sessione contrattuale sulle materie economiche, con

qualche squilibrio, quindi, sul versante squisitamente organizzativo e funzionale”.

La maggioranza dei contratti, specie quelli dei comuni di medie e grandi

dimensioni, tratta la materia dell’organizzazione degli uffici, dei servizi e del lavoro e

della gestione delle risorse umane definendo i criteri generali delle metodologie di

valutazione e le posizioni organizzative.

Come sottolinea il Rapporto di comparto, il sistema di valutazione delle prestazioni

collettive e individuali e dei risultati dei dipendenti viene considerato uno strumento di

fondamentale importanza perché, pur essendo unico, esplica i suoi effetti su diversi

istituti contrattuali ed in particolare: sulla valutazione dei risultati di attività realizzati

dalla struttura di appartenenza, ai fini della incentivazione collettiva; sulla valutazione

delle prestazioni ai fini della incentivazione individuale e della progressione orizzontale.

Il sistema, dunque, ha grande rilievo sotto il profilo sia organizzativo, sia

retributivo, anche se il rapporto tra i due non è sempre positivamente univoco. Se è

vero, infatti, che spesso esso viene costruito in modo da valorizzare quanto più possibile

la qualità della prestazione, misurata sui risultati realmente ottenuti dai dipendenti e non

semplicemente desunta dall’anzianità di servizio, gli autori rilevano anche che la

valorizzazione della professionalità rischia di essere sminuita quando si prevede che la

valutazione venga fatta sulla base di piani di lavoro, o di progetti obiettivo, nei quali i

risultati da perseguire sono sfumati e quando – piuttosto spesso - le attività individuate

per il loro conseguimento rischiano di sovrapporsi o, quantomeno, di “avvicinarsi”

sensibilmente alle prestazioni che rientrerebbero nell’ordinaria attività dei dipendenti. In

questo modo, un elemento del salario che potrebbe significativamente incidere sulla

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produttività dei dipendenti e, di conseguenza, sull’efficienza delle amministrazioni

rischia di trasformarsi in un classico incentivo ‘a pioggia’.

Ad esempio, molto diffusa è la contrattazione sulle posizioni organizzative, la cui

istituzione consente alle amministrazioni di modulare il proprio assetto organizzativo in

funzione delle effettive esigenze connesse all’attività amministrativa da svolgere e ai

servizi pubblici da erogare: in questa materia, tra l’altro, è da notare la precisione e

l’articolazione della relativa regolazione. Un altro istituto frequentemente regolato in

sede decentrata, in maniera particolarmente articolata e dettagliata, è poi quello della

formazione del personale, sul quale i contratti investono risorse finanziarie al fine di

conservare e, soprattutto, di migliorare la professionalità dei dipendenti. La formazione

si conferma, così, come uno degli strumenti essenziali da utilizzare per accrescere la

flessibilità organizzativa, dal momento che l’arricchimento delle capacità professionali

del personale può tradursi nella maggiore disponibilità e capacità dei lavoratori stessi di

adattarsi, in tempi rapidi e con competenza, alle innovazioni organizzative, tecnologiche

e funzionali dei diversi enti.

Il ruolo più rilevante – per certi versi comprensibilmente - ai fini della gestione

organizzativa sembra essere assunto, peraltro, in questo comparto, dalla contrattazione

in materia di risorse finanziarie per lo sviluppo e la produttività. Tutti i contratti del

campione (province e comuni di qualsiasi dimensione) prevedono, ovviamente, la

costituzione di diversi fondi e regolano le modalità con le quali distribuire le risorse

stanziate. Ma qualche valutazione sul rapporto tra gestione delle risorse e flessibilità

organizzativa può essere fatta esaminando le diverse voci tra le quali vengono ripartite

le risorse economiche.

Il Rapporto di comparto mette in luce che spesso tra queste vi sono le posizioni

organizzative, con importi tendenzialmente crescenti in proporzione alle dimensioni

dell’ente. L’accurato profilo regolativo e (di riconoscimento) economico delle posizioni

organizzative sembrerebbe dimostrare che le parti hanno compreso il carattere

strategico, di razionalizzazione organizzativa, dell’istituto. Qualche ulteriore

considerazione può, poi, essere fatta osservando quei contratti, quasi tutti per la verità,

che destinano una quota considerevole delle proprie risorse al lavoro disagiato, cioè al

lavoro svolto su più turni, al lavoro ordinario notturno, a quello festivo e

festivo/notturno e, soprattutto, all’istituto della reperibilità. Situazioni che,

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generalmente, sono strettamente connesse ad un modello organizzativo che vuole

avvicinarsi ad una gestione quanto più flessibile del rapporto di lavoro, al fine di

migliorare l’efficienza e l’efficacia dell’azione amministrativa. Questa gestione

flessibile, però, sembra essere ancorata a tecniche regolative alquanto tradizionali.

Come sottolinea il rapporto di comparto, la maggior parte dei contratti campionati si è,

infatti, limitata a specificare gli importi delle voci di lavoro disagiato già indicate dal

livello nazionale e non ha tentato di individuarne altre, realmente calibrate sulle

specifiche esigenze organizzative e territoriali e, per questo, utili strumenti per rendere

più efficace ed efficiente un servizio dell’ente: questo tentativo, invece, è stato fatto solo

da pochissimi comuni, per lo più di medie dimensioni, e da qualche provincia.

Vi sono poi contratti che ampliano, talvolta eccessivamente, l’ambito delle attività

che comportano rischi, il che implica – come rilevano gli autori del rapporto - non solo

e non tanto il rischio che venga così assorbita una parte significativa delle risorse

destinate al salario accessorio, ma soprattutto che si finisca per trasformare un’indennità

funzionale in una sorta di incentivo “a pioggia”.

Significative risultano le risorse destinate alla produttività individuale e collettiva

dei dipendenti, definite sulla base dei sistemi di valutazione, così come avviene per le

progressioni orizzontali, altro istituto disciplinato diffusamente dai contratti integrativi.

Infatti, quasi tutti quelli campionati, dopo avere individuato in maniera analitica e

puntuale i criteri da adottare, diversificano il peso da attribuire loro a seconda del tipo di

progressione che intendono regolare. E, come richiesto dal contratto nazionale, con

l’avanzamento nei livelli retributivi aumenta anche il livello di selettività richiesto, nel

senso che si attribuisce minore rilevanza al criterio dell’esperienza acquisita - collegato

alla mera anzianità di servizio - rispetto ad altri criteri diretti, invece, a misurare

concretamente i risultati delle attività svolte e a valutare concretamnte la professionalità

dei dipendenti.

Altra materia frequentemente contrattata è l’orario di lavoro. Nonostante sia

materia di concertazione (cfr., infra, par. 3.3.), nei contratti integrativi è stata regolata

l’articolazione dell’orario di lavoro e di servizio, solitamente attraverso la suddivisione

dell’orario settimanale in cinque giorni lavorativi, (ma anche su sei giorni, per garantire

un servizio più efficiente all’utenza).Va osservato, peraltro, che le parti,

indipendentemente dalle dimensioni dell’ente, hanno mostrato una certa attenzione

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verso la ricerca di flessibilità organizzativa, pur utilizzando, anche in questo caso,

tecniche ormai abbastanza diffuse e non particolarmente innovative: si prevedono,

infatti, limiti di “tolleranza” sull’inizio e la fine della prestazione lavorativa giornaliera

oppure si istituisce la banca delle ore. Tecniche di flessibilità oraria che dovrebbero

comunque favorire la scelta, ampiamente diffusa nei contratti esaminati ed in linea con

quella operata dal livello nazionale, di limitare il lavoro straordinario, anche se in

qualche accordo, in realtà, le parti non si sono limitatate a fissarne i criteri generali,

come previsto dal contratto nazionale, ma hanno regolato anche il monte ore massimo

individuale. Per quanto scarsa sia la flessibilità oraria riconosciuta ai dipendenti, i

contratti ribadiscono anche che essa non deve compromettere i servizi resi dall’ente,

soprattutto quelli svolti a favore dell’utenza. In questa prospettiva vanno lette le

disposizioni contrattuali tese a ridurre, ulteriormente, gli spazi di flessibilità oraria del

dipendente che svolga mansioni a diretto rapporto con l’utenza.

1.3. Nel comparto Università, infine, l’area tematica della organizzazione degli

uffici, dei servizi e del lavoro e della gestione delle risorse umane è una di quelle che

assume una particolare rilevanza, perché direttamente interessata dal riassetto

organizzativo indotto dall’applicazione del nuovo sistema di inquadramento

professionale, al quale si farà riferimento tra breve.

Oggetto di contrattazione sono stati innanzitutto i criteri generali per la definizione,

l’approvazione e l’attribuzione di risorse ai progetti finalizzati a perseguire obiettivi

gestionali dell’amministrazione, cioè a promuovere il miglioramento della produttività e

della qualità dei servizi erogati. Dal punto di vista della gestione del personale, tali

progetti sono stati utilizzati da diverse amministrazioni come strumento per

corrispondere al personale i compensi incentivanti relativi alle risorse finanziare

stanziate per remunerare la produttività collettiva e individuale, nonché come occasione

di crescita individuale e collettiva del personale, per il valore formativo connesso a

questa modalità di lavoro.

Sono stati poi previsti criteri e procedure di valutazione dei progetti, destinati a

rilevare il grado di raggiungimento degli obiettivi – rilevante ai fini di una eventuale

rideterminazione del budget di risorse finanziarie disponibili - e l’apporto del singolo

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lavoratore, in termini di prestazione e di risultato, ai fini della determinazione e della

corresponsione dei compensi incentivanti e della progressione economica.

Tali criteri sono individuati in alcuni casi in maniera generica, facendo riferimento

all’effettiva partecipazione, all’impegno temporale dedicato e al grado di apporto

individuale al raggiungimento degli obiettivi del progetto; in altri casi si procede ad una

dettagliata elencazione nell’ambito della quale possono segnalarsi la capacità di

relazionarsi nello svolgimento del lavoro con i colleghi e con l’utenza; l’efficienza

organizzativa, la continuità e l’affidabilità; la capacità di lavorare in gruppo e di gestire

il ruolo di competenza; la tensione motivazionale al miglioramento del livello di

professionalità; il grado di responsabilizzazione verso i risultati e il livello di

autonomia; la capacità di proporre soluzioni innovative; l’impegno profuso e i risultati

ottenuti.

L’ultimo profilo da segnalare è quello della valutazione e della classificazione delle

posizioni organizzative e delle funzioni specialistiche e di responsabilità, che

rappresenta un elemento di rilievo del processo di riorganizzazione che ha interessato le

amministrazioni universitarie in questi anni, in quanto – come rilevano gli autori del

Rapporto - consente di perseguire obiettivi di miglioramento della produttività e della

qualità nell’erogazione dei servizi e, nel contempo, di valorizzare il personale che

occupa posizioni di peculiare rilevanza organizzativa attraverso trattamenti incentivanti

e riconoscimento di responsabilità. Rientrando l’individuazione delle posizioni

organizzative e delle funzioni specialistiche e di responsabilità tra gli atti

dell’amministrazione aventi chiara natura organizzativa, oggetto di contrattazione

collettiva a livello decentrato sono stati fondamentalmente i criteri generali sulla base

dei quali correlare alle posizioni e funzioni individuate la misura delle relative indennità

accessorie e determinare la quota variabile di tali compensi legata al conseguimento dei

risultati programmati (poi disciplinata nella parte relativa al trattamento economico). Si

è così contrattato un articolato sistema di valutazione, fondato su indicatori quali il

livello di responsabilità, la complessità delle competenze attribuite, la specializzazione e

le caratteristiche innovative della professionalità richiesta, la collocazione nella

struttura, la complessità organizzativa della struttura.

In realtà, dall’analisi degli accordi condotta nel Rapporto di comparto emerge che

l’ambito di operatività della contrattazione decentrata in tale area tematica si è rivelato

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molto più ampio, essendosi estesa ad una molteplicità di aspetti, quali l’individuazione e

l’attribuzione di posizioni organizzative e di incarichi di responsabilità; la

programmazione del fabbisogno di personale; le procedure di reclutamento del

personale; i profili relativi alla riorganizzazione delle strutture e del relativo personale

(sul punto v. pure, infra, il par. 3.3.).

Passando al sistema di inquadramento professionale, l’importanza della materia

emerge già dalla percentuale decisamente elevata di amministrazioni che hanno

provveduto a negoziare gli istituti legati all’attuazione del nuovo sistema, le

progressioni economiche interne alla categoria (c.d. orizzontali), le progressioni

verticali e i sistemi di valutazione.

Si tratta, anzi, di istituti che costituiscono la materia principale della contrattazione

integrativa nel quadriennio in esame, anche perché ad essi è strettamente collegato il

tema, ancor più rilevante, dell’utilizzo dei fondi per il salario accessorio (produttività

individuale e collettiva, straordinari, lavoro disagiato e rischioso, ecc.).

L’impostazione seguita in fase di prima applicazione dell’inquadramento emerge

chiaramente dalla scelta negoziale di consentire l’applicazione della progressione

economica a prescindere da ogni criterio di selezione collegato alle reali capacità del

personale. I passaggi generalizzati, infatti, vengono molto frequentemente ed

esplicitamente motivati con l’esigenza di risolvere situazioni pregresse, come il

sottoinquadramento del personale, o considerati un ‘premio’ per i maggiori carichi di

lavoro derivanti dal sottodimensionamento dell’organico rispetto al reale fabbisogno.

Tuttavia, nella disciplina a regime, va segnalato uno sforzo di individuare precisi

obiettivi cui ricollegare il riconoscimento di trattamenti economici accessori, anche

attraverso sistemi di valutazione delle prestazioni individuali e collettive. In altri

termini, si cominciano a valorizzare altri criteri (le capacità individuali, il merito e

l’impegno individuale e collettivo), al fine di collegare il riconoscimento di indennità o

di progressioni economiche alla realizzazione di effettivi risultati. Mancano ancora,

però, efficaci e reali sistemi di valutazioni.

Nel suo complesso, dunque, questa disciplina – orientata a determinare

progressioni di “carriera” diffuse e generalizzate – segnala i rischi di tipo degenerativo

che può comportare la competenza della contrattazione decentrata in materia. Rischi che

non possono, ovviamente, essere evitati accentrando queste competenze a livello di

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comparto, con l’effetto di annullare qualunque prospettiva di corretta flessibilizzazione

dell’organizzazione amministrativa, ma che impongono – quanto meno - l’urgenza di

una riflessione sulla ‘cultura’ della gestione dei rapporti di lavoro nella pubblica

amministrazione.

In controtendenza – e, quindi, positivo almeno come ‘dichiarazione di principio’ - è

il segnale che emerge dalla notevole attenzione riservata dai contratti decentrati alla

formazione professionale, oggetto nella maggior parte dei casi di accordi monotematici

(c.d. Protocolli di intesa). Tutti gli accordi, infatti, hanno riconosciuto il ruolo strategico

della formazione, quale strumento fondamentale per la crescita del personale tecnico

amministrativo e per l’innalzamento del livello qualitativo dei servizi dell’Ateneo e, in

coerenza con quanto previsto dal ccnl, ne hanno individuato le linee di indirizzo

generale, pur non collegando poi in modo stringente la relativa disciplina con quella

della mobilità professionale e della progressione economica dei lavoratori.

Del tutto diffusa, e molto articolata, risulta la contrattazione in materia di risorse

finanziarie per lo sviluppo e la produttività, destinate a remunerare gli istituti del

trattamento economico accessorio. La determinazione delle risorse disponibili e la

relativa ripartizione di esse tra le diverse destinazioni sulla base dei criteri e delle

priorità definite dalle parti (progressioni economiche e produttività collettiva e

individuale; retribuzione di posizione e di risultato del personale di categoria EP;

indennità collegate allo svolgimento di compiti che comportano oneri, rischi e disagi,

ecc.) è stata oggetto di accordi a cadenza annuale in pressoché tutte le amministrazioni.

In coerenza con le scelte in materia di inquadramento, i contratti integrativi

destinano tali risorse innanzitutto al finanziamento delle procedure di progressione

orizzontale e verticale; poi all’indennità di responsabilità (un istituto che, in ragione del

conferimento di particolari incarichi, consente di riconoscere maggiorazioni retributive,

contingenti e revocabili, anche a personale delle categorie meno elevate); poi ancora al

finanziamento delle indennità collegate allo svolgimento di compiti che comportano

oneri, rischi e disagi. In genere, poi, i contratti hanno individuato i criteri sulla base dei

quali procedere al riparto fra le varie Strutture delle risorse disponibili (per esempio, le

unità di personale in servizio in ciascuna categoria, criterio al quale si affianca, talora,

quello di assegnare una quota minore di risorse in misura uguale a tutte le strutture),

nonché le specifiche risorse da destinare al finanziamento dei progetti di gruppo,

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finalizzati all’aumento della produttività e al miglioramento dell’efficacia e

dell’efficienza dei servizi.

Tutti i contratti esaminati si occupano, infine, anche delle risorse per il lavoro

straordinario, che sono in progressiva diminuzione essendo veicolate verso altre forme

di riconoscimento economico (in particolare, la progressione verticale), delle risorse per

la formazione e del Fondo in cui confluiscono le risorse destinate a remunerare la

retribuzione di posizione e di risultato.

In definitiva, l’elevata percentuale di negoziazione della materia a livello

decentrato conferma – ove ve ne fosse bisogno – che le parti sono consapevoli

dell’importanza del ruolo riservato in questa area alla contrattazione integrativa. Meno

chiaro è se abbiano esercitato la propria competenza con altrettanta consapevolezza del

vincolo di destinare prioritariamente le risorse (in particolare, quelle del Fondo ex art.

67 ccnl) alla promozione di effettivi e significativi miglioramenti dell'efficacia e

dell’efficienza dei servizi istituzionali (oltre che alla progressione economica). La

sensazione, in definitiva, è che tale vincolo abbia ridotto in qualche misura gli spazi per

erogazioni economiche ‘a pioggia’, ma non sia stato sufficiente ad orientare le scelte

delle parti, né la concreta disciplina negoziale, per cui il decentramento risulta più

ampio con riferimento alla destinazione delle grandezze economiche disponibili per il

trattamento economico accessorio delle singole amministrazioni, ma anche non

sufficientemente orientato a soddisfare le le esigenze organizzative, tanto che,

giustamente, gli autori del Rapporto ribadiscono che le Università “dovranno ora dotarsi

di un’effettiva politica del personale”.

Ancora con notevole coerenza interna, gli istituti del trattamento economico

accessorio sono stati oggetto di negoziazione sostanzialmente nella totalità delle

Università. In particolare, gli istituti contrattati sono stati le indennità per rischi, oneri e

disagi, l’indennità di responsabilità, la retribuzione di posizione e di risultato, i

compensi collegati alla produttività collettiva e individuale.

Significativa è proprio la contrattazione in materia di trattamento individuale di

produttività. I contratti in genere prevedono che – per svolgere la sua funzione

incentivante - deve essere corrisposta in modo non generalizzato, ma selettivo, sulla

base della valutazione operata dal responsabile della struttura utilizzando gli specifici

indicatori definiti dai contratti integrativi. A questo compito i contratti hanno

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provveduto in modo più o meno incisivo e orientato. Così, in alcuni si fa riferimento a

continuità e affidabilità, precisione e accuratezza, flessibilità, adeguatezza al contesto

lavorativo, miglioramento professionale, disponibilità alla collaborazione e all’aiuto; in

altri, gli indicatori sono meno numerosi, ma più specifici: precisione e qualità delle

prestazioni, capacità di iniziativa e di organizzazione del lavoro, orientamento

all’utenza.

Così pure i contratti definiscono metodi diversi al fine di determinare l’incentivo

spettante a ciascun dipendente, ma solo in alcuni casi garantiscono che l’ammontare

della corresponsione sia predeterminato non in misura fissa, ma variabile, a seconda

delle situazioni derivanti dagli obiettivi assegnati e dalle disponibilità di finanziamento.

Non mancano, peraltro, contratti che contraddicono entrambe le scelte, prevedendo

che l’indennità sia corrisposta, invece, a tutti i dipendenti in misura fissa e graduata in

ragione della categoria di appartenenza.

In controtendenza (positiva) si collocano i contratti che hanno cercato di adeguare

le voci retributive alle esigenze ed alle peculiarità delle Università, prevedendo

indennità di formazione e di aggiornamento (destinata al personale tecnico-

amministrativo che frequenta i corsi obbligatori di aggiornamento), indennità per

attività scientifica del personale (riservata a coloro che partecipano alla ricerca

scientifica, con pubblicazioni su riviste nazionali ed internazionali, e alla redazione di

opere monografiche), indennità correlate all’attività di supporto alla didattica (riservate

al personale interno che, in qualità di cultore della materia, collabora all’attività di

supporto alla didattica); ovvero indennità legate a specifiche attività, come

l’organizzazione dei concorsi e delle selezioni; l’attività delle commissioni di selezione

per il conferimento degli assegni di ricerca; l’attività di supporto tecnico; l’attività di

docenza nei corsi di formazione.

Passando alla contrattazione integrativa in materia di orario di lavoro, che ha

ricevuto una notevole attenzione in sede integrativa ed è quasi sempre stata oggetto di

accordi monotematici, va rilevato che le parti non si sono limitate, conformemente alla

previsione del ccnl, a contrattare i criteri generali per le politiche dell’orario di lavoro,

ma hanno definito anche una dettagliata regolamentazione dell’articolazione dell’orario

di lavoro (oggetto, secondo il ccnl, di informazione preventiva e di concertazione: cfr.,

infra, il par. 3.3.).

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Un aspetto di rilievo è che, per garantire l’efficacia dei servizi, le parti hanno

utilizzato ampiamente gli spazi negoziali offerti dal ccnl, consentendo così l’utilizzo di

tutti gli istituti contrattuali che favoriscono la flessibilità dell’orario di lavoro (settimana

corta, turni, programmazione plurisettimanale, flessibilità in entrata e uscita, presenza

giornaliera con orari inferiori o superiori alle sei ore, recupero periodico delle ore

eccedenti), ed hanno anche previsto che, quando sia ritenuto necessario e previo accordo

tra le parti, sia possibile omettere i rientri pomeridiani e recuperarli durante i periodi di

maggiore affluenza dell’utenza.

Si può ricordare, infine, che nel comparto dell’Università – a differenza degli altri

due analizzati - sono abbastanza ricorrenti negli accordi integrativi anche altre materie.

Innanzitutto, quella delle relazioni sindacali, con riferimento alla regolamentazione sia

di alcuni aspetti dei contratti decentrati (durata, decorrenza, ambito di applicazione,

procedure di verifica), sia degli altri modelli relazionali. Più che questa presenza, ciò

che si vuole segnalare è, viceversa, l’assenza di discipline analoghe negli altri comparti,

considerato che - come si segnala nella Sezione II di questo Rapporto - tutti e tre i

CCNL di comparto, “imponendo un vincolo di contenuto ai contratti integrativi”,

dispongono che essi disciplinino tempi, modalità e procedure di verifica della loro

corretta attuazione, sia perché le stesse parti sociali a livello decentrato possano

svolgere un controllo sull’effettivo rispetto delle regole concordate, sia per favorire “una

continuità relazionale volta ad alimentare un clima di collaborazione tra

amministrazione e organizzazioni sindacali in sede di singola amministrazione”.

Infine, abbastanza ricorrente negli accordi integrativi di questo comparto, ancora a

differenza degli altri due, è la materia relativa alle attività socio–assistenziali,

relativamente all’individuazione dei criteri generali per l’istituzione e la gestione di tali

attività, e, soprattutto, quella relativa all’area ambiente di lavoro, salute e sicurezza,

nell’ambito della quale i contratti integrativi hanno dettato in particolare la disciplina

del Rappresentante per la Sicurezza.

2. Questi ultimi riferimenti richiamano l’opportunità di qualche considerazione

sulle materie e gli istituti che, pur essendo oggetto di rinvio (perché è questo, lo si

ricorda, il criterio con il quale è stata condotta finora l’analisi), risultano poco o nulla

contrattati – da un punto di vista qualitativo, ancor più che quantitativo - ovvero sono

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destinatari di discipline meramente ripetitive di quelle già definite dal contratto di

livello superiore.

L’assenza di disciplina o lo scarso interesse dimostrato dalle parti potrebbe essere,

in queste ipotesi, l’effetto “della scomoda egemonia del livello centrale di

negoziazione” (o, più in generale, di regolazione, comprendendovi la fonte legislativa),

come sostengono gli autori del Rapporto sugli Enti Locali. La spiegazione potrebbe,

però, apparire convincente per materie quali i permessi e le aspettative, le attività socio-

assistenziali, i diritti e le prerogative sindacali, lo sciopero e le prestazioni

indispensabili. Ma è molto meno convincente per altre. Si pensi alle pari opportunità,

che appaiono – come sottolinea lo stesso Rapporto – “un’occasione mancata per il

livello decentrato che, dando una lettura davvero elementare del concetto di pari

opportunità, si è limitato ad evitare l’innesto di meccanismi di discriminazione tra i

sessi e a intervenire solo per proteggere le donne da possibili molestie sui luoghi di

lavoro. Aspetti indubbiamente importanti, ma limitati, dal momento che uno sviluppo

ben calibrato delle politiche in materia di pari opportunità avrebbe potuto tradursi anche

in benefici per la flessibilità organizzativa”.

La medesima spiegazione, poi, potrebbe apparire convincente anche per la

decisamente scarsa contrattazione nei tre comparti in materia di tipologie contrattuali

flessibili, mettendo così in discussione proprio la scelta centralistica compiuta a livello

di comparto su una materia cruciale in termini di flessibilità organizzativa. In effetti,

diverse tipologie contrattuali sono compiutamente ed analiticamente regolate a livello

nazionale, tanto che o non vi sono rinvii alla contrattazione decentrata, o questi sono

limitati - con la parziale eccezione del part time - a profili abbastanza marginali.

Potrebbe essere, però, valida – anche se connotata da un piccolo eccesso di

ottimismo – la diversa interpretazione di questa assenza proposta dagli autori del

Rapporto sul comparto Università, che la considerano “un segnale di piena coerenza

(…) tra modello di competenze attribuite e prassi contrattuali” e, con specifico

riferimento al contratto a tempo determinato (istituto ampiamente utilizzato nelle

Università), anche “indice di una regolamentazione nazionale (…) completa e che

consente un ampio e condiviso ricorso ad esso”.

Probabilmente c’è della verità in entrambe, né va sottovalutato che un ulteriore

elemento disincentivante – della cessione alla periferia di più ampie quote di

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competenza in materia, ma della stessa contrattazione integrativa già svolta – è stato

costituito dalla continua sovrapposizione e modifica delle discipline legislative e

contrattuali sui rapporti di lavoro flessibili di quest’ultimo decennio, nonché dalla

sempre maggiore difficoltà, che ne è conseguita, di gestire razionalmente risorse umane

e rapporti di lavoro.

In ogni caso, non si può negare l’esigenza di definire un equilibrio funzionale tra

centro e periferia, nella regolazione di questa materia, diverso rispetto alla netta scelta di

accentramento compiuta a livello nazionale. In questo senso si dovrà tenere conto, però,

della legittima preoccupazione (del sindacato in particolare, ma non solo) che un

sistema non controllato dal centro possa generare una flessibilità regolativa condizionata

da particolarismi localistici, se non addirittura da fenomeni di clientelismo, e che

l’importazione nelle pubbliche amministrazioni di strumenti di reclutamento e di

impiego flessibili possa avvenire esclusivamente all’insegna di una politica di riduzione

della spesa pubblica e tradursi, di fatto, soltanto nella sostituzione di lavoro stabile con

lavoro precario. D’altra parte, se è forse vero – come sostiene ancora il Rapporto sugli

Enti locali – che la situazione attuale si traduce in “una vera e propria ingessatura di un

sistema che, proprio per le diverse funzioni e i diversi territori nei quali le Autonomie

locali si trovano ad operare, dovrebbe essere, invece, maggiormente duttile”, è

altrettanto vero che una ulteriore articolazione, che sfiori la territorializzazione, della

disciplina contrattuale dei lavori flessibili, non sarebbe certo un contributo alla

chiarezza sistematica ed alla gestione razionale di questi rapporti.

3. Si può ora affrontare il secondo obiettivo connesso all’analisi della

contrattazione integrativa nei tre comparti oggetto della ricerca, verificando – come si è

già indicato in Premessa - se l’applicazione a livello decentrato del sistema negoziale

disegnato dal contratto di comparto sia stata sostanzialmente coerente con i vincoli

derivanti da quest’ultimo ovvero vi siano stati scostamenti, sul piano delle competenze

negoziali o di quelle soggette agli altri metodi relazionali, per specifiche materie o

particolari profili di esse, ovvero sui tempi e sulle procedure negoziali.

In effetti, già sui tempi negoziali i Rapporti registrano notevoli scostamenti.

Anziché trattare in un’unica sessione, eventualmente articolata in più incontri, le

materie e gli istituti contrattuali rimessi alla contrattazione decentrata - salvo quelli che,

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per loro natura, richiedono tempi diversificati o verifiche periodiche, essendo legati a

fattori organizzativi contingenti - spesso le parti frammentano il processo negoziale o in

fasi successive, ovvero per materia. Così, invece che accordi onnicomprensivi, sono

frequenti gli accordi monotematici, spesso denominati ‘Protocolli’. Nei diversi

comparti, come evidenziano i singoli Rapporti, questo è accaduto specialmente per la

disciplina della formazione, delle relazioni sindacali, dei trattamenti economici,

dell’organizzazione degli uffici e dell’inquadramento, dei permessi studio e dello

sciopero, oltre che dell’orario di lavoro. Si tratta, come sottolinea il Rapporto Enti

Locali, di una prassi alquanto rischiosa, in quanto potrebbe favorire un superamento dei

limiti di spesa consentiti dalle riserve finanziarie dell’Ente ed, anche, “inficiare i

risultati di una contrattazione di più ampio respiro”, dal momento che “la

concentrazione delle sessioni negoziali favorisce “partite” più equilibrate, scongiurando

facili tatticismi basati su rinvii strumentali e richiedendo una preparazione lucida e

completa su tutti gli aspetti del contratto e sulle relative interrelazioni”.

Sullo stesso tema, ma per un profilo diverso, vanno menzionate le clausole dei

contratti di amministrazione del comparto Ministeri che dettano i tempi di svolgimento

e di conclusione della trattativa a livello di singola sede o ufficio in materia di orario di

lavoro. Premesso che il contratto di comparto non rinvia al contratto di amministrazione

la determinazione dei tempi e delle procedure dell’altro livello decentrato e, più in

particolare, che in materia di orario esso non prevede alcun rapporto gerarchico tra i due

livelli, è condivisibile l’opinione espressa dagli autori del Rapporto secondo i quali

questa previsione non pare idonea a limitare, con effetti reali, lo svolgimento della

contrattazione nelle singole sedi – che, dunque, può essere condotta secondo la

tempistica ritenuta più opportuna alla luce delle concrete e, soprattutto, mutevoli

esigenze organizzative proprie di ciascuna di esse –, ma può essere valutata come una

sollecitazione, rivolta ai soggetti negoziali di sede, a procedere quanto prima a

negoziare l’utilizzo delle diverse tipologie di orario, onde assicurare il perseguimento

delle finalità indicate dai contratti di comparto (consistenti nella maggiore efficienza del

servizio, nel soddisfacimento delle esigenze dei lavoratori che si trovino in particolari

situazioni personali, sociali e familiari, nella riduzione degli straordinari).

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3.1. Gli scostamenti più significativi (e più frequenti) rispetto alla disciplina del

contratto nazionale riguardano le competenze della contrattazione decentrata. Per

cominciare si può far riferimento alle ipotesi nelle quali la materia trattata è oggetto di

rinvio, ma le parti estendono la negoziazione a specifici profili non espressamente

rinviati. Questa ipotesi pare si riscontri prevalentemente nel comparto Università, al

quale si riferiscono i casi che seguono.

Per quanto riguarda il trattamento economico e, in particolare, come si è già

ricordato (cfr., supra, il par. 1.3.), la retribuzione di posizione e di risultato, in alcuni

contratti le parti hanno proceduto, in ragione degli incarichi di responsabilità e delle

posizioni organizzative attribuite, anche ad individuare i criteri sulla base dei quali

graduare le varie posizioni e correlare la relativa retribuzione sottraendo spazi, si

direbbe, alla libera determinazione dell’amministrazione, alla quale il CCNL riconosce

questa prerogativa.

La stessa espansione si è verificata nella disciplina dei permessi studio (le c.d. 150

ore), sulla quale le parti non si sono limitate a definire i criteri di priorità nella

concessione dei permessi e le modalità di certificazione degli impegni scolastici o

universitari, ma hanno contrattato una disciplina molto più ampia e dettagliata, relativa

al monte ore complessivo, ai termini e alle modalità di presentazione delle domande, ai

criteri di valutazione, all’ambito di applicazione soggettivo, alle modalità di fruizione,

all’attività di controllo e alle relative sanzioni.

E ancora in molti integrativi di Ateneo, in modo non dissimile da quanto è

avvenuto nel comparto dei Ministeri in materia di formazione professionale, oltre ai

criteri generali, sono stati dettagliatamente negoziati i contenuti delle diverse attività

formative, nonché gli aspetti organizzativi, di metodo e procedurali.

In materia di tipologie flessibili e, in particolare, di tempo parziale, alcuni accordi –

oltre ad individuare i criteri generali per la determinazione delle priorità nei casi di

trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, e viceversa, e le

ipotesi di ricorso al lavoro supplementare – definiscono anche un tetto minimo per la

dotazione organica a tempo parziale; specificano ulteriormente la durata della

prestazione e disciplinano il trattamento in caso di malattia. In tale prospettiva, di

particolare interesse è anche la disposizione di favorire, compatibilmente con le

esigenze organizzative dell’amministrazione, l’individuazione di modalità alternative

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alla scelta del part-time per i lavoratori e le lavoratrici che optino per il tempo parziale

in conseguenza del carico di lavoro di cura o di handicap psico-fisico e, più in generale,

per i dipendenti in particolari condizioni di svantaggio personale, sociale e familiare.

In alcuni casi, infine, le parti provvedono a individuare anche le attività e gli

incarichi in relazione ai quali non è possibile costituire il rapporto part-time, compito

che ancora una volta, secondo il CCNL, è demandato alle amministrazioni.

Sui diritti e le prerogative sindacali, poi, alcuni accordi hanno dettato una

disciplina ben più ampia dei permessi sindacali (soggetti titolari, modalità di richiesta e

di utilizzo, procedura di verifica) e dei diritti sindacali c.d. strumentali, introducendo

una serie di oneri a carico dell’amministrazione (disponibilità di locali per lo

svolgimento dell’attività sindacale e delle consultazioni; spazi per l’affissione di

materiale di interesse sindacale; utilizzo della posta interna e del sito web, ecc.).

3.2. In una serie di contratti ricorre, invece, l’ipotesi per la quale in sede integrativa

vengono negoziate materie e/o istituti che non sono affatto oggetto di rinvio. Passiamo a

considerarli, citando i casi più interessanti ed escludendo del tutto riferimenti ai casi in

cui tali scostamenti sono solo apparenti, in quanto gli accordi riproducono

sostanzialmente il contenuto delle relative disposizioni del ccnl.

Nel comparto Università, le parti hanno negoziato in sede decentrata in materia di

permessi c.d. brevi e di mobilità. Nel comparto Enti locali, e in materia di trattamento

economico, i contratti di qualche comune (prevalentemente di medio–grandi

dimensioni) propongono nuovi tipi di indennità, che ampliano ulteriormente la nozione

di lavoro disagiato e che appaiono meglio calibrate sulle esigenze che caratterizzano

specifiche realtà territoriali e/o organizzative (ad esempio, la cd. indennità neve, oppure

l’indennità di pronto intervento). Si tratta di un aspetto significativo, perché una

allocazione delle risorse che, senza determinare alcun superamento dei vincoli di spesa,

rifletta specificità ed esigenze locali, può riflettersi positivamente sulla gestione

flessibile delle risorse umane. E, tuttavia, si deve ricordare, con gli autori del Rapporto

di comparto, che alla contrattazione collettiva non sembra riconosciuta autonomia

nell’individuazione delle voci economiche accessorie, considerato che l’art. 49, c. 3, del

d.lgs. 29/93 (ora, art. 45, c. 3, d.lgs. 165/01) sembrerebbe ipotizzarne un elenco

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tassativo. E’ evidente, però, che questa interpretazione riduce le potenzialità adattive –

nell’innovazione – della stessa contrattazione.

Nel comparto Ministeri, come si è già detto (cfr., supra, il par.1.1.), i contratti di

amministrazione talora prevedono l’erogazione una tantum di un differenziale

economico in favore del personale inquadrato nelle posizioni economiche per cui non è

previsto lo sviluppo economico super e, in genere, individuano anche i criteri sulla base

dei quali graduare la retribuzione di posizione, limitando i poteri dell’amministrazione

alla quale, ai sensi del CCNL, spetterebbe “la graduazione in rapporto a ciascuna

tipologia di incarico previamente individuata”. Particolare attenzione - quale ulteriore

esempio di introduzione, in sede di contrattazione decentrata, di limiti al potere del

dirigente (in assenza di rinvio da parte del contratto di comparto) - merita poi la

previsione, in materia di congedi per la formazione, con la quale le parti concordano che

l’eventuale differimento del congedo debba essere debitamente motivato dal dirigente

responsabile, sia in relazione alle esigenze di servizio, sia al pregiudizio eventualmente

arrecato al dipendente, e che di esso debba essere data comunicazione tempestiva al

dipendente interessato.

Da segnalare poi, in materia di tipologie flessibili, sono le previsioni (contenute,

peraltro, solo in due accordi) relative all’ambito di applicazione della percentuale

massima di lavoratori part-time definito del contratto di comparto, perché incidono su

un profilo che, oltre a non essere oggetto di rinvio, può anche determinare un conflitto

regolativo con la disciplina nazionale.

Interessanti – perché funzionali a tutelare l’interesse degli utenti dei servizi erogati

- sono, inoltre, le previsioni in materia di assemblea, per il vero contenute in pochi

accordi, tese a garantire l’erogazione delle prestazioni indispensabili e l’informazione

all’utenza qualora l'astensione dal lavoro del personale che partecipa all’assemblea

possa comportare (…) effetti analoghi a quelli dello sciopero”; ovvero la clausola

(contenuta in un altro accordo) la quale affida all’amministrazione l’individuazione, di

concerto con le oo.ss., dei contingenti minimi di personale che non può partecipare

all’assemblea per assicurare il servizio.

Tra gli aspetti contrattati in questo comparto al livello di amministrazione in

assenza di rinvio particolare menzione merita, infine, quello degli Organismi paritetici.

In alcuni contratti, infatti, si istituiscono (o si prevede che debbano essere istituti)

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organismi paritetici diversi da quelli contemplati del CCNL, quali: Commissione con

compiti di verifica dell’applicazione del contratto collettivo di amministrazione, con

specifico riferimento ad alcuni istituti; Commissioni interregionali con il compito di

dirimere eventuali contenziosi a seguito di mancati accordi a livello locale; un

organismo di raffreddamento di livello nazionale, da attivarsi su richiesta di una delle

parti in caso di elevati momenti di conflittualità che si verifichino a livello territoriale,

previa valutazione dei firmatari del CCA; Commissione per il riesame dei punteggi

riconosciuti ai fini dell’attribuzione delle posizioni economiche super; Comitato per

l’analisi della coerenza tra il sistema di incentivazione del personale ed il sistema di

programmazione e di controllo gestionale; Commissione sul mobbing; Commissione

per regolamentare i servizi pubblici essenziali ex l. n. 146/1990; Commissione per i

servizi sociali.

3.3. E’ già stato ricordato nella Sezione II di questo Rapporto che, ai sensi dell’art.

9 del D. Lgs. n. 165/2001, i contratti collettivi nazionali possono disciplinare, oltre che

procedure e contenuti della contrattazione integrativa, l’ambito di operatività degli

istituti della partecipazione, “anche con riferimento agli atti interni di organizzazione

aventi riflessi sul rapporto di lavoro”.

E’, dunque, il momento di esaminare i casi più rilevanti nei quali i contratti

integrativi hanno regolato istituti che – in base ai contratti nazionali di comparto – sono

oggetto di informazione, consultazione e concertazione.

Da quest’ultimo punto di vista, però, si può subito notare che il contratto del

comparto Ministeri formula in modo ambiguo la norma sulla concertazione prevedendo,

nell’ambito degli aspetti procedurali, che nella concertazione le parti verificano la

possibilità di un accordo mediante un confronto (che deve, comunque, concludersi entro

il termine massimo di trenta giorni dalla sua attivazione) e che dell’esito della

concertazione è redatto verbale, dal quale risultino le posizioni delle parti nelle materie

oggetto della stessa. Come notano gli autori del Rapporto di comparto, il riferimento

alla “possibilità di un accordo”, è foriero di dubbi interpretativi, ai quali si possono

ricondurre i casi altrettanto ambigui – verificatisi a livello di amministrazione - nei quali

le parti, all’interno del verbale, definiscono consensualmente alcune delle questioni

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affrontate durante la fase concertativa. Nel comparto Università, peraltro, in alcuni casi i

verbali di concertazione sono stati trasformati in veri e propri contratti collettivi.

Ancora più interessanti, perché sembrano formalizzare la ricerca di maggiore

autonomia dal centro della contrattazione di secondo livello, sono alcuni contratti del

comparto Ministeri i quali, nell’elencare le materie di competenza della contrattazione

di amministrazione e di sede centrale o decentrata e ufficio periferico, dichiarano

espressamente che alcune di esse sono aggiuntive rispetto al CCNL (ad es. servizi

sociali o modalità e criteri di adesione al Fondo di previdenza integrativa) e/o che si

tratta di profili – aggiuntivi rispetto alle materie di contrattazione – previsti dal contratto

di comparto solo come oggetto di informazione, consultazione o concertazione, oppure

del tutto esclusi da ogni forma di interlocuzione sindacale. Si menzionano ad esempio,

per il livello di amministrazione: politiche occupazionali, criteri generali per il

conferimento di mansioni superiori, criteri generali per il conferimento di posizioni

organizzative, metodologie di costituzione del FUA; per il livello di sede:

organizzazione del lavoro, individuazione delle posizioni di responsabilità e, in

generale, competenze di attuazione dei criteri definiti a livello di amministrazione.

E’ evidente – e lo sottolinea il Rapporto di comparto – che già queste previsioni

sollevano i problemi interpretativi relativi alla competenza della contrattazione

integrativa ed ai vincoli che, al riguardo, discendono dalla disciplina legale e da quella

del CCNL. E’ altrettanto evidente, però, che tali problemi si pongono soprattutto con

riferimento alla concreta disciplina dettata dalle singole norme dei contratti integrativi,

piuttosto che a queste previsioni generali.

Avviando l’analisi del c.d. slittamento di caselle dal comparto Università, risulta

evidente che in diversi casi a livello decentrato le parti hanno stipulato accordi su

materie e profili rientranti nella sfera di competenza riservata all’esercizio del potere

organizzativo (da parte) dell’amministrazione.

Cominciando dall’area tematica della organizzazione degli uffici, dei servizi e del

lavoro e della gestione delle risorse umane, come si è già accennato, il primo

riferimento è alla individuazione delle posizioni organizzative e delle relative funzioni

di responsabilità, su cui c’è solo obbligo di informazione e concertazione. In alcuni casi,

invece, le parti hanno concordato in sede negoziale l’individuazione di tali posizioni o

hanno determinato alcuni criteri cui l’amministrazione deve attenersi nell’individuarle.

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Lo stesso è avvenuto in materia di programmazione del fabbisogno di personale e

di procedure di reclutamento. Come illustra il Rapporto di comparto, l’elaborazione del

piano triennale per la programmazione del fabbisogno di personale – che rientra tra gli

atti dell’amministrazione aventi chiara natura organizzativa – è l’attività propedeutica

che ogni amministrazione è tenuta a compiere al fine di contemperare le esigenze

derivanti dalla necessità di dimensionare correttamente la propria dotazione organica

con le disponibilità finanziarie e i vincoli di bilancio. Nell’ambito di tale

programmazione, l’amministrazione deve determinare il piano annuale delle assunzioni,

individuare le relative risorse finanziarie, predisporre i regolamenti destinati a

disciplinare la copertura dei posti vacanti mediante accesso di personale esterno o

utilizzo dell’istituto della progressione verticale. Il CCNL prevede che tale piano, così

come la determinazione dei fabbisogni quantitativi e/o qualitativi derivanti dalla

costituzione di nuove strutture, sia oggetto di consultazione con i soggetti sindacali,

mentre sono oggetto di informazione preventiva i regolamenti di Ateneo che,

nell’ambito delle dotazioni organiche, disciplinano le procedure selettive per l’accesso

dall’esterno o per la progressione verticale.

A livello decentrato, però, sono state talora negoziate le modalità di copertura dei

posti e le modalità e i termini di svolgimento delle procedure selettive, ovvero i criteri

sulla base dei quali determinare le modalità di copertura dei posti, al fine di effettuare

una scelta ponderata fra accesso dall’esterno o progressione verticale, e i criteri per la

redazione dei regolamenti che disciplinano le procedure selettive.

Quanto alle procedure di progressione verticale, il CCNL riconduce la disciplina

dell’istituto ai Regolamenti di Ateneo, sui quali è previsto un obbligo di informazione ai

soggetti sindacali, mentre i criteri generali per lo svolgimento delle procedure selettive

sono oggetto di informazione preventiva e concertazione. L’analisi della contrattazione

decentrata ha consentito di rilevare che la disciplina di tali procedure ed, in particolare,

la definizione dei criteri sulla base dei quali operare le selezioni, spesso è stata oggetto

di attenzione al tavolo contrattuale, se non di negoziazione: in molti casi, infatti, essa è

contenuta in veri e propri accordi; in altri, il Regolamento che contiene la disciplina è

sottoposto all’approvazione delle parti o, comunque, allegato ad accordi integrativi.

Infine, in materia di riorganizzazione degli uffici e dei servizi - che è oggetto, a

seconda dei profili, di consultazione e di informazione preventiva - va segnalato il caso

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di un accordo di Ateneo nel quale si determinano i criteri per l’individuazione di

specifiche strutture e servizi e per la nomina dei responsabili.

Casi analoghi si riscontrano nel comparto degli Enti locali, nel quale

sull’introduzione e la concreta individuazione delle posizioni organizzative è previsto

solo l’obbligo di informazione. Alcuni contratti disciplinano, invece, i criteri sulla base

dei quali l’amministrazione può provvedere a istituire alcune posizioni organizzative.

Quanto alle progressioni verticali, la relativa regolamentazione è demandata

pressocchè integralmente agli atti regolamentari dell’amministrazione. Ciò nonostante,

soprattutto nei comuni di dimensioni medio–grandi, essa è stata posta sul tavolo della

negoziazione, pur non trasformandosi in oggetto di contrattazione. In vari contratti,

infatti, sono presenti norme che riportano indicazioni sulle regole da seguire per le

progressioni verticali o veri e propri regolamenti sul tema, che vengono allegati al

contratto.

Come si è già detto, nel comparto Ministeri molti di questi profili sono trattati in

relazione agli istituti rientranti nell’area tematica Ordinamento, inquadramento e

sviluppo professionale, poiché i riassetti organizzativi delle amministrazioni impongono

interventi modificativi sull’inquadramento dei lavoratori. Per questo nei contratti si fa

riferimento alla necessità di addivenire ad una revisione delle dotazioni organiche.

Peraltro, questi riferimenti appaiono talvolta connotati da ambiguità. Infatti, benché si

riconosca che si tratta di materia di competenza dell’amministrazione (in quanto area di

macro-organizzazione) e ci si limiti a richiamare quest’ultima al rispetto delle procedure

di consultazione sindacale previste dall’art. 6, d.lgs. n. 165/2001, spesso le si forniscono

indicazioni, quanto meno in termini di obiettivi da perseguire.

In materia di posizioni organizzative, come si è già accennato (cfr., supra, par.

1.1.), diversi contratti di amministrazione hanno individuato le funzioni cui si collega

l’istituzione delle posizioni, definito i criteri generali per l’affidamento e la revoca degli

incarichi, previsto le modalità per la valutazione periodica dell’attività svolta: profili

oggetto, invece, di informazione e di concertazione.

In taluni casi, poi, le parti hanno contrattato in materia di conferimento di mansioni

superiori, oggetto di mera consultazione, talora anche con riferimento a profili che non

sembrano nemmeno rientrare in questa definizione. Invero, alcuni contratti si limitano a

fissare un termine, a decorrere dalla stipula del CCA, entro il quale l’amministrazione

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deve provvedere, previa consultazione, alla definizione dei criteri di assegnazione; altri

prevedono i criteri da utilizzare nell’ipotesi in cui vi siano più dipendenti che risultino

possibili destinatari del conferimento di mansioni superiori; in altri casi ancora i

contratti intervengono sulla rilevanza dell’esercizio di mansioni superiori a fini di

progressione professionale. Prevalentemente, però, si disciplinano le modalità di

attribuzione delle mansioni superiori e la composizione e le modalità di attribuzione del

trattamento economico corrispondente.

Oggetto di contrattazione – anziché di informazione e di concertazione – sono stati

anche i passaggi all’interno dell’area e tra le aree. Per questi ultimi si disciplinano le

procedure selettive, prevalentemente nella forma del corso-concorso con esame finale, i

requisiti di accesso e i contingenti di personale, le fasi e le modalità di svolgimento, le

modalità di selezione e di valutazione.

Come giustamente sottolineano gli autori del Rapporto, nel complesso “questa

contrattazione costituisce un tipico esempio di come, non di rado, le parti, anziché

limitarsi a svolgere le procedure di consultazione, come previsto dal CCNL, si spingono

a contrattare su di una specifica materia, senza peraltro che si determinino conflitti

‘formali’ di regolazione con le previsioni del medesimo CCNL. Con riferimento a

materie quali quella ora trattata, infatti, la disciplina di comparto non esaurisce tutti gli

aspetti delle medesime materie, sì da lasciare degli “spazi vuoti” (cioè privi di

regolazione negoziale), che sarebbero destinati ad essere colmati dal dirigente,

nell’esercizio dei suoi poteri “datoriali” (talora previo esperimento, appunto, delle

procedure di consultazione). In questi casi, quindi, la contrattazione di amministrazione,

nel riempire tali spazi, interviene generalmente a limitare il potere del dirigente”.

Quanto all’orario di lavoro, nel comparto Università, come si è già ricordato, le

parti hanno negoziato non solo le politiche dell’orario di lavoro e i criteri e le linee

generali cui improntare la sua organizzazione, rinviate dal CCNL alla sede decentrata,

ma anche l’articolazione dell’orario di lavoro, oggetto – sempre secondo il CCNL – di

informazione preventiva e di concertazione.

Nel comparto Enti Locali, oltre a quella dell’orario di lavoro, viene negoziata

anche l’articolazione dell’orario di servizio – entrambe oggetto di concertazione – con

la motivazione, estremamente rilevante per la nostra Ricerca, di garantire un servizio

più efficiente all’utenza.

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Quanto al comparto Ministeri, infine, va premesso che – a differenza degli altri due

– l’articolazione dell’orario di lavoro è oggetto di specifico rinvio alle sedi decentrate da

parte del CCNL, laddove la disciplina (dell’articolazione) degli orari di servizio e/o di

quelli di apertura al pubblico, è oggetto di esame. E tuttavia, almeno in taluni casi, la

disciplina dei CCA si occupa contestualmente degli orari di apertura al pubblico e di

una serie di aspetti relativi all’orario di lavoro (in particolare le modalità delle

turnazioni, ovvero la previsione di peculiari forme di articolazione dell’orario) e alla

retribuzione (ripartizione FUA, indennità di turnazione, produttività e posizione), che

sono invece oggetto di rinvio.

Al di la’ della diversa – e già in sé significativa - determinazione delle competenze

in materia di orario nei tre comparti, la contrattazione decentrata e, in particolare, quella

del comparto Ministeri, sembra dimostrare, come sottolineano gli autori del relativo

Rapporto, “come, talora, l’astratta ripartizione tra materie oggetto di contrattazione e

materie che ne sono escluse non sia affatto funzionale alla concreta gestione dei servizi

e del lavoro”; ma essa sembra anche contraddire, in concreto, le tesi secondo le quali la

disciplina degli orari di servizio e/o di quelli di apertura al pubblico non potrebbe

neppure essere oggetto di contrattazione, in quanto relativa ad elementi esterni al

rapporto obbligatorio.

Passando alla mobilità e ai trasferimenti, va ricordato che nel comparto Università

queste materie, pur essendo oggetto di informazione preventiva e successiva, sono

comunque presenti in alcuni accordi decentrati. L’istituto maggiormente contrattato è la

mobilità interna, ovvero la mobilità tra le varie strutture in cui si articola ciascun

Ateneo, che rappresenta – come talora si specifica - lo strumento di organizzazione

degli uffici e di gestione dei rapporti e dei processi di lavoro dell'amministrazione

universitaria, in quanto serve a razionalizzare l’uso delle risorse attraverso la flessibilità

ed a contemperare l’interesse dei dipendenti al miglioramento delle condizioni di lavoro

e allo sviluppo professionale con l’esigenza di promuovere l’innalzamento del livello

qualitativo dei servizi istituzionali. Sulla base di queste premesse, le parti non si sono

limitate a fornire indicazioni di principio, ma hanno concordato nello specifico le

condizioni e la procedura della mobilità, che alcuni Atenei hanno recepito in un

apposito regolamento (o hanno assunto l’impegno di farlo). Va notato, peraltro, che tutti

gli accordi contengono una norma di chiusura – o, si potrebbe dire, di salvaguardia –

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secondo la quale le determinazioni in materia di mobilità interna formano oggetto di

informazione sindacale, così come previsto nel CCNL.

Sullo stesso tema, nel comparto Enti locali, oggetto di contrattazione integrativa

non è, come previsto dal CCNL, la determinazione delle modalità di gestione delle

eccedenze di personale, ma taluni profili connessi al passaggio dei dipendenti per effetto

di trasferimento di attività (oggetto di consultazione/concertazione) ovvero i criteri

generali per la mobilità cd. interna (oggetto di concertazione).

Per quanto concerne il primo aspetto, in particolare, le parti individuano e

definiscono i criteri per il passaggio dei dipendenti per effetto di trasferimento di

attività. Talvolta, al fine di incrementare i processi di mobilità, per trasferimento di

funzioni a seguito del decentramento, particolare attenzione è rivolta, inoltre, agli aspetti

economici e si prevede, ad esempio, la possibilità di erogare compensi una tantum, con

le modalità dell’indennità sostitutiva del preavviso.

4. E’ possibile, a questo punto, tentare di trarre dall’analisi condotta nei paragrafi

precedenti alcune indicazioni sui due temi principali che la ricerca si è proposta: il

primo, relativo alla capacità della contrattazione integrativa di favorire una gestione più

flessibile dell’organizzazione delle pubbliche amministrazioni, utilizzando le

competenze rinviate dalle fonti negoziali di livello superiore; il secondo, attinente alla

coerenza tra i contenuti e le politiche contrattuali di primo e di secondo livello, ovvero

alla ‘tenuta’ del sistema negoziale di comparto nel suo complesso.

Cominciando dal primo tema, è stato già detto - nel Rapporto del comparto Enti

Locali - che “sugli ambiti oggettivi di intervento contrattuale si concentra il margine più

rilevante di azione degli enti e delle rappresentanze sindacali, nella prospettiva di una

regolazione concretamente più duttile e flessibile del rapporto di lavoro”. Da questo

punto di vista, e tenendo conto del concomitante operare dei vincoli legali gravanti sul

sistema di contrattazione collettiva nelle pubbliche amministrazioni, si può concordare

con la valutazione espressa nello stesso Rapporto – e implicita negli altri due – che la

capacità della contrattazione integrativa di introdurre regole flessibili è stata

condizionata dall’originaria impostazione dirigistica dei contratti di comparto, che

tendono ad enfatizzare la propria funzione perequatrice e “paritaria” al fine di evitare

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ogni sorta di disparità di trattamento lesiva della dignità individuale dei lavoratori oltre

che, nel caso degli Enti Locali, di attenuare gli squilibri territoriali.

Un’impronta che si è certamente alleggerita – ma non dissolta – con la seconda

tornata contrattuale nazionale, essendo state riconosciute per la prima volta al livello

decentrato competenze su materie assolutamente significative proprio in relazione alla

flessibilità organizzativa e della gestione del personale: posizioni organizzative,

mobilità professionale, valutazione del personale, inquadramento, incremento e gestione

delle risorse economiche, tipologie contrattuali flessibili, formazione (cfr., supra, il par.

1). E, infatti, l’ampliamento delle materie rinviate è indicativo della tendenza a

ridimensionare il ruolo del contratto nazionale a vantaggio del contratto integrativo; o

meglio, a riconoscere al livello decentrato spazi di regolazione e di confronto più ampi

proprio per favorire l’innovazione organizzativa e il miglioramento gestionale.

La valutazione complessiva sull’operato negoziale delle amministrazioni non può

che essere, però, articolata. La contrattazione di certi istituti, e soprattutto di quelli

retributivi con funzione indennitaria e di incentivazione della produttività, conferma le

difficoltà storiche che le amministrazioni incontrano nella gestione di queste voci, nel

tentativo di conciliare l’inconciliabile: limiti e controlli di tipo tradizionalmente

contabile sulla spesa per il personale, riconoscimento della professionalità e della

responsabilità, criteri distributivi livellanti, ovvero miglioramenti retributivi ‘a pioggia’

– sia pure minimi nell’importo e disfunzionali.

E’ pure vero, d’altra parte, che il tasso di contrattazione degli istituti legati

all’inquadramento, alle posizioni organizzative e alla mobilità professionale è rilevante,

anche se non si può ancora affermare con certezza che il guado tra tradizione e

rinnovamento sia stato attraversato, perché criteri di carriera nei quali ‘pesano’

l’anzianità e l’esperienza sopravvivono ancora all’avvento – sempre dichiarato in via di

principio, non sempre concretamente praticato – di criteri e regole trasparenti basate

sulla professionalità, sulla formazione, sull’impegno individuale e collettivo. E in

proposito si deve riconoscere, come sottolinea il Rapporto sugli Enti Locali, che

“quando la disciplina generale - come quella sulle posizioni organizzative, diversamente

da quella in tema di produttività – definisce con chiarezza e coerenza, pur se

sinteticamente, gli obiettivi selettivi, organizzativi e professionali da perseguire, la

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dirigenza locale e le organizzazioni sindacali tendenzialmente rispondono

consapevolmente: cioè con scelte efficienti e ragionevoli”.

Per altro verso, non si deve sottovalutare il fatto che vi sono istituti quasi del tutto

trascurati dai contratti integrativi, per i quali le parti hanno utilizzato molto poco lo

spazio negoziale concesso dal contratto nazionale, spesso limitandosi a riprodurne il

contenuto: si pensi al tema dei congedi e delle azioni positive per le pari opportunità,

che pure possono rivestire un ruolo assai rilevante dal punto di vista della flessibilità

nell’interesse sia dei lavoratori, sia delle amministrazioni e dell’utenza.

Eppure, come sottolinea il Rapporto sull’Università, se si considera l’ampiezza

delle materie negoziate, la contrattazione integrativa non appare più semplicemente

applicativa del contratto nazionale – come è accaduto nella prima tornata contrattuale -,

ma si presenta discretamente specializzata rispetto al primo livello di contrattazione,

avendo comunque accresciuto il rilievo delle proprie funzioni di specificazione e di

adattamento regolativo.

Questo risultato, però, può apparire in parte prodotto dalla espansione della

contrattazione decentrata su materie o profili non rinviati dai contratti di livello

superiore, ovvero – che è l’ipotesi decisamente più rilevante per frequenza e contenuti

negoziali – oggetto di informazione, consultazione e concertazione.

Si tratta di un aspetto assai problematico e che, per questo, è suscettibile di

interpretazioni diverse. Commentandolo – in relazione alle materie ed agli istituti che ne

sono stati maggiormente interessati (come si è detto, le posizioni organizzative, l’orario

di lavoro, le progressioni verticali e la mobilità) – il Rapporto sugli Enti Locali

sottolinea l’ambivalenza di questo processo di ‘appropriazione’ di competenze da parte

del livello negoziale decentrato: da un lato, conferma dei timori di una gestione

particolaristica ed eccessivamente politica delle carriere dei dipendenti degli enti locali;

dall’altro, dimostrazione della evidente relazione organizzativa – proprio in termini di

flessibilità – tra politiche di incentivazione economica e gestione della crescita

professionale dei lavoratori, penalizzata dai limiti regolativi – in sede decentrata –

relativi ai percorsi di carriera dei dipendenti.

Probabilmente, come rileva il Rapporto sul comparto Ministeri, questa espansione

è indicativa del “gap che sussiste (…) tra la valutazione compiuta in sede di CCNL in

merito alla riconducibilità alla macro-organizzazione o, comunque, alle determinazioni

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unilaterali dell’amministrazione di alcuni profili interni a talune materie (…) e le

concrete esigenze regolative e/o organizzative che emergono meglio in sede negoziale

decentrata (…), dove, ad esempio, se si contratta un profilo (oggetto di rinvio alla

contrattazione), spesso è inevitabile contrattare anche quelli connessi, presupposti,

consequenziali, ecc., che il CCNL, appunto, ha relegato in sede di partecipazione

sindacale o sui quali ha taciuto”.

Ai fini della valutazione di questa tendenza non va, peraltro, trascurato il fatto –

rilevato ancora dal Rapporto sui Ministeri – che nella gran parte dei casi “ciò non ha

prodotto conflitti regolativi (intesi qui come sovrapposizione tra due precetti antinomici

contenuti in contratti di diverso livello), ma semmai una limitazione dei poteri

dirigenziali” (ad esempio, nella disciplina di comparto in materia di mansioni e di

articolazione degli orari). E qui resta aperta un’alternativa interpretativa: se, cioè, questa

propensione a limitare, a procedimentalizzare le prerogative datoriali della pubblica

amministrazione, sia, come alcuni sostengono, una via per la deresponsabilizzazione

della dirigenza pubblica, che quest’ultima può voler agevolare; ovvero la naturale

evoluzione, dal punto di vista delle relazioni industriali, della tendenziale assimilazione

delle logiche contrattuali del settore pubblico a quelle del settore privato.

Come la teoria, oltre che la pratica, delle relazioni industriali insegna,

l’informazione, la consultazione, la contrattazione e la concertazione sono processi che

si pongono lungo un continuum nel quale, però, né la progressione dall’uno all’altro, né

l’approdo finale sono necessari e necessitati. La prevalenza dell’una o dell’altra forma

può fotografare la situazione delle relazioni industriali ovvero far emergere l’impronta

prevalente – di tipo conflittuale o cooperativo, con l’infinita gamma di varianti

intermedie – che le caratterizza in un determinato contesto territoriale o produttivo.

L’esperienza del settore privato, poi, dimostra che l’informazione e la consultazione

favoriscono – e preludono a – una contrattazione collettiva basata sulla condivisione di

dati e informazioni e, dunque, più razionale e meno conflittuale, a beneficio di una

riduzione dei costi economici e sociali della negoziazione e di una applicazione non

controversa delle relative discipline.

In ogni caso, simili osservazioni inducono a sostenere che – sebbene sia innegabile

riscontrare su diversi profili la mancata tenuta del sistema delineato a livello di

comparto (almeno alla luce dei profili di scostamento evidenziati) – essa non può essere

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semplicisticamente addebitata solo a comportamenti dei soggetti negoziali decentrati

non rispettosi dei vincoli imposti dal CCNL, né può essere letta quale mero

svuotamento o sacrificio degli altri istituti di partecipazione, ma può essere utilizzata

come indicative della necessità che a quel sistema siano introdotti adeguati correttivi, in

vista di un migliore adattamento delle dinamiche negoziali (ai diversi livelli) alle

mutevoli esigenze organizzative e/o regolative delle PA.

La discreta diffusione – quantitativa e qualitativa – dei casi nei quali la

contrattazione decentrata ha superato le competenze ad essa assegnate, nonostante la

prevalente interpretazione rigida dei vincoli discendenti dalle clausole di rinvio e la

sanzione legale della nullità delle clausole difformi, dovrebbe indurre a prendere atto, da

un lato, della concreta ineffettività di tali vincoli e della opportunità di riesaminare la

materia, anche al fine di introdurre adeguamenti e correttivi al sistema di ripartizione

delle competenze tra i livelli negoziali sulla base di criteri di specializzazione – e

dunque di tipo funzionale, e non più solo gerarchico –, onde favorire una disciplina dei

rapporti individuali e collettivi di lavoro più flessibile, nel senso specifico di più

adeguata alle esigenze ed agli interessi delle parti a livello locale, e comunque rispettosa

dei vincoli di spesa e di quelli derivanti dalla necessità di evitare conflitti regolativi. Ciò

implica, appunto, maggiore ‘autonomia’ della contrattazione decentrata rispetto al

contratto nazionale – e non più solo rispetto a fonti di disciplina eteronome - senza che

sia messo in discussione il ruolo fondamentale dello stesso contratto nazionale quale

sede di definizione di una base minima ed omogenea di regole e di trattamenti.

Si tratterebbe, insomma, di contemperare l’esigenza di garantire al contratto di

livello più alto un ruolo di guida, di coordinamento e di controllo delle politiche

negoziali decentrate, con quella di favorire, tramite la contrattazione di secondo livello,

una gestione adeguata dei concreti processi di riorganizzazione delle pubbliche

amministrazioni indotti dalla riforma del lavoro pubblico.

Nel ‘riassetto’ del sistema negoziale potrebbero rientrare, infine, interventi più

specifici, come la ridefinizione delle competenze e dei rapporti tra i due livelli

decentrati del comparto Ministeri ed una incentivazione allo sviluppo di una

contrattazione decentrata di tipo territoriale nei comparti, come quello degli Enti locali,

caratterizzati dalla presenza diffusa di enti di piccole dimensioni.

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