Contratti integrativi e flessibilità nel lavoro pubblicosna.gov.it/ · Umberto Carabelli e Antonio...
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Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione
Contratti integrativi e flessibilità nel lavoro pubblico
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Rapporto conclusivo
(Lauralba Bellardi, Umberto Carabelli, Antonio Viscomi)
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Responsabile della Ricerca: Prof. Umberto Carabelli – Docente Stabile della SSPA Roma, Novembre 2005
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La ricerca è stata svolta sotto la direzione dei Proff. Lauralba Bellardi, Umberto Carabelli e Antonio Viscomi, che sono anche autori del presente Rapporto conclusivo. Più precisamente, quest’ultimo è frutto della discussione e del confronto dei tre autori, i quali hanno comunque provveduto ad elaborare le seguenti parti:
- Premessa metodologica: Prof. Umberto Carabelli - Sez. I : Prof. Antonio Viscomi - Sez. II : Prof. Umberto Carabelli - Sez. III: Prof.ssa Lauralba Bellardi.
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Premessa : il metodo seguito nella ricerca.
1. - Come delineato nel progetto originario, la ricerca in oggetto si è proposta il
raggiungimento di due principali obiettivi.
Il primo di essi era la verifica di quanto, dopo la seconda riforma del lavoro
pubblico operata con i decreti legislativi emanati in forza della Legge delega 15 marzo
1997, n.59, la contrattazione collettiva decentrata sia stata effettivamente in grado di
sviluppare tutte le potenzialità derivanti dall’affidamento ad essa, per mezzo delle
clausole di rinvio previste dai contratti collettivi di comparto della seconda tornata
contrattuale (1998-2001), di una funzione regolativa di tipo integrativo, secondo lo
schema configurato dall’attuale art. 40, co. 3, D. Lgs. n. 165/2001. Ciò sul presupposto
che siffatta funzione abbia di per sé un intrinseco valore di flessibilizzazione
dell’organizzazione delle pubbliche amministrazioni, posto che la contrattazione
collettiva che si effettua in sede decentrata ha per sua natura il compito di adattare e/o di
sviluppare (quantitativamente e qualitativamente) la regolazione di istituti di gestione
del rapporto di lavoro alle concrete situazioni ‘ambientali’ sulle quali essa è destinata ad
incidere direttamente.
Il secondo obiettivo, invece, definito in continuità logica con il primo, era la
verifica dell’adeguatezza e coerenza della contrattazione integrativa sviluppatasi nella
seconda tornata contrattuale rispetto ai vincoli derivanti dalle stesse clausole di rinvio
contenute nei contratti nazionali di comparto (la cui violazione da parte dei contratti
integrativi è colpita, com’è noto, dal medesimo articolo 40, co. 3, con la sanzione della
nullità). Ciò in quanto l’eventuale riscontro di uno scostamento più o meno ampio – sul
piano delle competenze o, se del caso, dei contenuti negoziali – della regolazione fissata
dai contratti integrativi rispetto ai predetti vincoli sarebbe indicativo di una tensione
interna al sistema contrattuale riformato, o più precisamente tra i livelli contrattuali
nazionale e decentrato. Una tensione, questa, evidentemente dovuta a scelte
confliggenti, o comunque non omogenee operate rispettivamente dai contratti nazionali,
interessati a contenere spinte espansive della contrattazione decentrata, e
reciprocamente dai contratti integrativi, che probabilmente aspirano a svilupparsi più
liberamente per governare i concreti processi di riorganizzazione delle pubbliche
amministrazioni indotti dalla riforma del lavoro pubblico. Proprio per questo,
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evidenziare le situazioni di ‘tensione’ può costituire un elemento di riflessione
fondamentale, anche in vista di eventuali modifiche dello stesso sistema contrattuale.
Così ideata, la ricerca stessa doveva necessariamente svilupparsi attraverso un
percorso articolato, così caratterizzato:
a) anzitutto la preliminare ricognizione di carattere generale della
disciplina legale in materia di contrattazione collettiva del lavoro
pubblico e, precisamente, della regolazione della struttura contrattuale di
tale settore, effettuata non solo sulla base del mero dato normativo, ma
anche, ed anzi soprattutto, sulla base dell’interpretazione che di esso è
stata data da dottrina e giurisprudenza. Una ricognizione resa necessaria
dal fatto che risultano tuttora controversi i limiti che la contrattazione
collettiva del settore pubblico incontra nei confronti dell’organizzazione
della pubblica amministrazione, a sua volta percorsa dall’incerto confine
tra macro- e micro- organizzazione, la prima affidata alla regolazione
pubblicistica, la seconda assoggettata al regime privatistico;
b) in secondo luogo la raccolta, la schedatura e lo studio dei
contratti collettivi nazionali di comparto della seconda tornata, al fine di
individuare e selezionare, all’interno di essi, tutte le clausole di rinvio
alla contrattazione integrativa, classificandole analiticamente a fini di
comparazione, con riferimento ai soggetti, ai tempi ed ai contenuti della
contrattazione decentrata (siffatta ricognizione ha tenuto conto, peraltro,
anche dei contratti collettivi nazionali quadro – ccnq - stipulati nello
stesso periodo di tempo, pur nella consapevolezza della minore rilevanza
quantitativa di tali rinvii);
c) in terzo luogo la raccolta, la schedatura e lo studio dei contratti
collettivi integrativi, con un’analisi puntuale dei soggetti, dei tempi e dei
contenuti dei medesimi, ai fini di una valutazione sia della loro
espansione sia della loro conformità alle clausole di rinvio contenute nel
relativo contratto nazionale di comparto (e nei ccnq).
Proprio l’articolazione e la complessità del percorso di indagine, nonché le
oggettivamente limitate risorse disponibili, hanno indotto l’estensore del progetto a
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fissare una rigorosa delimitazione non soltanto temporale – come si è detto, la ricerca
doveva riguardare soltanto la contrattazione collettiva nazionale e decentrata del
secondo rinnovo – ma soprattutto settoriale, nel senso che sono stati prescelti soltanto
tre comparti su cui centrare l’indagine, individuati in ragione delle loro peculiarità
strutturali. Anzitutto il comparto dei Ministeri, connotato da un’ampia estensione della
base contrattuale di riferimento, e soprattutto articolato al suo interno in
amministrazioni solo nominalmente omogenee, ma organizzate di fatto (nonché di
diritto) in modo estremamente diversificato (si è notoriamente parlato in dottrina, con
riferimento ai diversi Ministeri, di forme organizzative profondamente differenziate, a
geometria variabile, anche come risultato delle più recenti riforme strutturali che li
hanno interessati). Quindi il comparto degli Enti locali, anch’esso caratterizzato da
un’ampia estensione della base contrattuale di riferimento, ma al tempo stesso connotato
dall’elevatissimo numero delle entità amministrative che costituiscono luogo di
contrattazione decentrata e che godono, per fondamento costituzionale, di ampi spazi di
autonomia organizzativa e gestionale (Province e Comuni), ovvero di una vera e
propria competenza legislativa (regioni) (una differenza, quest’ultima, che, come si
preciserà nel seguito, ha inciso su un’ulteriore scelta metodologica, effettuata nel corso
della ricerca). Infine il comparto universitario, caratterizzato, invece, dalla presenza di
un numero relativamente contenuto di luoghi negoziali di secondo livello, ma anch’esso
connotato dagli ampi spazi di autonomia organizzativa e gestionale riconosciuti alle
singole Università, anch’essi di fondamento costituzionale.
2. – La prima fase della ricerca è stata svolta in termini relativamente brevi,
confidando in particolare nella guida e nell’apporto scientifico del Prof. Antonio
Viscomi. Traccia di tale riflessione è contenuta nella parte di questo Rapporto finale che
egli ha redatto a conclusione della ricerca (Sez. I).
Subito dopo, proprio sulla base della scelta dei tre comparti destinatari
dell’indagine, si è provveduto a costituire tre gruppi di lavoro, ciascuno composto da un
ricercatore senior e da due ricercatori junior (Comparto Ministeri: Proff. Vito Leccese,
Dott.ssa Carla Spinelli, Dott.ssa Angelica Riccardi; Comparto Enti locali: Prof. Marco
Esposito, Dott.ssa Paola Saracini, Dott.ssa Grazia Chirillo; Comparto Università: Prof.
Giovanni Roma, Dott.ssa Madia D’Onghia, Dott. Cosimo Angelo Filomeno), a ciascuno
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dei quali è stato assegnato il compito di studiare il sistema contrattuale del comparto
assegnatogli, secondo il percorso indicato nelle lettere a) e b) del precedente paragrafo.
Il coordinamento dell’attività di ricerca dei tre gruppi è stato svolto dal sottoscritto e dai
Proff. Lauralba Bellardi e Antonio Viscomi.
In alcune riunioni preliminari di discussione e di organizzazione del lavoro si è
proceduto alla determinazione collegiale delle principali scelte operative. Tra queste, in
particolare, la definizione delle schede tipo attraverso le quali dar conto dell’analisi dei
contratti collettivi nazionali dei tre comparti. Ed a questo riguardo va segnalata la
decisione che la rilevazione analitica dei contenuti contrattuali da parte dei tre gruppi di
lavoro fosse affrontata con riferimento non soltanto alle clausole di rinvio (generali e
specifiche) alla contrattazione integrativa, ma anche alle clausole dei contratti di
comparto che definiscono, per determinate materie, l’apertura, in sede decentrata, ai c.d.
istituti della partecipazione (informazione, consultazione, concertazione). Ciò sulla base
del fondato convincimento che eventuali superamenti dei limiti posti dal contratto
nazionale ai contratti decentrati possano più facilmente avvenire per ‘scorrimento’ da
una delle tre procedure indicate ad un’attività negoziale vera e propria, che si conclude
con accordi formali dai quali scaturiscono obbligazioni per le parti e, specialmente, per
quella ‘datoriale’. La struttura di tali schede è stata ‘saggiata’ in via sperimentale e poi
approvata in via definitiva.
3. - Dopo l’analisi dei contratti collettivi di comparto – attestata dalle schede che si
rinvengono nella prima sezione degli Allegati a ciascun Rapporto di comparto, con
relativa introduzione esplicativa – e dei contratti collettivi nazionali quadro – le cui
clausole di rinvio, per ragioni di semplificazione, sono state inserite nelle schede dei
contratti di comparto – l’intero gruppo di ricerca ha dedicato una serie di incontri alla
definizione, da un lato, della struttura della scheda di rilevazione in cui sintetizzare i
risultati dell’analisi puntuale di ciascun contratto integrativo, onde rendere possibile lo
studio comparativo (sia tra gli stessi contratti integrativi, sia tra essi ed il contratto
nazionale di comparto) e, dall’altro, dei luoghi e metodi di reperimento e di selezione
dei contratti integrativi di ciascun comparto.
Quanto al primo profilo, la scheda-tipo di analisi dei contratti integrativi è stata
predisposta tenendo conto della variegata tipologia dei rinvii reperiti nei tre contratti
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collettivi di comparto e nei ccnq; si è così individuata una lunga serie di aree tematiche
(in pratica, di istituti e materie contrattuali) oggetto di rinvio alla contrattazione
integrativa, in generale collegate a rilevanti profili della flessibilità gestionale delle
pubbliche amministrazioni, nonché un’area residuale in cui dar conto di eventuali
interventi regolativi del singolo contratto integrativo non riconducibili alle aree
tematiche predeterminate. Nella scheda è stata inoltre prevista una sezione dedicata alle
osservazioni relative ad aspetti peculiari del singolo contratto integrativo (con occhio
particolarmente rivolto ad eventuali specificità regolative eventualmente rilevate dal
gruppo di lavoro). Infine questa scheda-tipo è stata anch’essa ‘saggiata’ in relazione ad
alcuni contratti integrativi presi a campione.
Assai più complesse sono state le decisioni relative ai luoghi e modi di reperimento
del materiale contrattuale, nonché alla selezione dello stesso ai fini dell’indagine.
Riguardo a questo aspetto conviene distinguere le scelte effettuate in relazione a ciascun
comparto, precisando che la ricerca, per il limite convenzionale assunto nel progetto,
doveva svilupparsi solo in relazione ai contratti integrativi stipulati a seguito della
seconda tornata contrattuale (onde riferimenti a contratti integrativi stipulati nell’ambito
della prima tornata potevano essere effettuati solo qualora ad essi rinviassero quelli
della seconda).
a) Per quanto attiene al Comparto Ministeri, è ben nota una specificità che lo rende
particolarmente complesso ed interessante dal punto di vista della struttura negoziale.
La presenza, infatti, all’interno di questo comparto, di amministrazioni (i dicasteri e
altre) aventi, come si è già accennato, differente struttura organizzativa interna e, a loro
volta, articolati sul territorio nazionale in molteplici plessi ed unità amministrative, ha
condotto alla creazione di un livello nazionale di contrattazione integrativa, cui si
affianca un secondo livello di contrattazione per unità amministrativa in sede decentrata
territoriale.
L’originaria idea di sviluppare la ricerca dei contratti integrativi di questo comparto
su entrambi i livelli ha dovuto essere ridimensionata nel corso della ricerca non soltanto
per le esigue risorse umane impiegabili, ma anche per difficoltà insuperabili di
reperimento del materiale relativo al secondo livello decentrato nel limitato tempo a
disposizione.
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In relazione al primo aspetto, infatti, va detto che il rinvenimento, attraverso i
canali tradizionali (CNEL, ARAN e singoli Ministeri), di tutti i contratti integrativi
nazionali di cui si è avuta notizia certa, ha reso immediatamente evidente l’elevata
complessità ed articolazione del materiale contrattuale raccolto, e soprattutto la
ricchezza di esso dal punto di vista contenutistico; elementi, questi, che, oltre a sollevare
l’interrogativo circa l’ampiezza effettiva dei residui spazi negoziali in sede di secondo
livello decentrato, hanno reso già di per sé particolarmente gravosa ed impegnativa
l’analisi e schedatura dei medesimi contratti integrativi di primo livello, secondo i
canoni concordati.
Quanto al secondo profilo, il frequente mancato rispetto, da parte delle
amministrazioni ministeriali decentrate, del vincolo legale di inviare all’ARAN i
contratti integrativi conclusi in quelle sedi, e l’insufficienza della banca dati del CNEL
al riguardo hanno indotto i ricercatori ad effettuare un tentativo di reperire tale
materiale, grazie alla cortese collaborazione dello stesso ARAN, attraverso una richiesta
diretta rivolta alle direzioni centrali dei singoli ministeri. La risposta è stata tuttavia non
uniforme ed incompleta, di modo che, al momento della verifica del materiale raccolto –
entro il termine massimo concordato dal gruppo di ricerca per il rispetto dei tempi di
lavoro – ci si è resi conto che esso appariva estremamente disomogeneo, al punto da
renderne inopportuna la considerazione ai fini della ricerca stessa. Di tali perplessità ha
dato conferma un’esperta ricercatrice di statistica (Prof. Roberta Pace), all’uopo
consultata dal gruppo, la quale ha fornito un motivato giudizio (che è divenuto parte del
Rapporto del comparto Ministeri) circa l’inadeguatezza del materiale raccolto e
l’impossibilità di ricavarne, anche attraverso una sua considerazione quale campione,
elementi affidabili ai fini della ricerca.
Di qui la decisione di limitare la ricerca al solo livello nazionale di
amministrazione della contrattazione integrativa di questo comparto, tenuto oltretutto
conto della quantità di materiale raccolto, ma anche della sua specifica rilevanza sul
piano dei contenuti.
In conclusione, la seconda sezione degli allegati al Rapporto del comparto
Ministeri contiene le schede relative ai contratti integrativi di livello nazionale reperiti
attraverso i predetti affidabili canali; contratti che costituiscono assai verosimilmente,
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con un ridotto margine di errore, l’intera produzione contrattuale integrativa di primo
livello del comparto stesso.
b) Discorso in parte differente va effettuato in relazione al comparto degli Enti
locali. In questo caso non si è presentata nessuna difficoltà nel reperimento del materiale
contrattuale, dato che di esso è stato rivenuto un archivio assai fornito e ben organizzato
presso l’ARAN. Per questo comparto i problemi sono sorti, al contrario, proprio a causa
della gran massa di contratti integrativi a disposizione, la cui analisi integrale si è
rivelata materialmente impossibile, in quanto avrebbe richiesto risorse umane e di
tempo esorbitanti rispetto a quelle previste nel progetto di ricerca. Senza contare la
profonda disomogeneità, cui si è già accennato, tra i tre tipi di Enti locali raccolti nel
comparto.
Dopo intense discussioni svolte dall’intero gruppo di ricerca, si è alla fine deciso di
acquisire al riguardo il parere di un esperto ricercatore di statistica (anch’esso integrato
formalmente nel Rapporto del comparto Enti locali). Quest’ultimo, se da un lato ha
confermato l’inopportunità di procedere ad una trattazione generale di tutti gli Enti
locali, così fornendo conferma alla valutazione del gruppo circa la necessità di non
includere nell’indagine i contratti collettivi integrativi delle Regioni, dall’altro ha
definito i principi in base ai quali procedere ad una campionatura dei contratti collettivi
integrativi degli altri due tipi di Enti locali, fondata sui due criteri fondamentali del
numero di abitanti e del territorio. Ne è emersa una precisa selezione di Comuni e
Province i cui contratti integrativi erano a disposizione presso l’ARAN, con la
costituzione di un campione scientificamente determinato.
Sulla base del parere dell’esperto statistico il gruppo dei ricercatori responsabili del
comparto ha così proceduto alla schedatura dei contratti integrativi dei soli Comuni e
Province selezionati, utilizzando all’uopo la scheda-tipo di cui si è detto. Tali schede,
che costituiscono un’interessante ed originale documentazione relativa alla
contrattazione integrativa del comparto, sono state anch’esse raccolte nella sezione
seconda degli allegati al Rapporto.
c) Una soluzione ancora diversa è stata assunta in relazione al comparto delle
Università. In questo caso, infatti, dopo un primo riscontro della relativamente scarsa e
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discontinua raccolta dei contratti integrativi delle varie Università italiane disponibile
presso il CNEL e l’ARAN, il gruppo di ricerca ha deciso di chiedere, per vie formali, a
tutte le Università pubbliche, di mettere a disposizione i contratti integrativi dalle stesse
stipulati nel corso della seconda tornata contrattuale.
La risposta è stata estremamente soddisfacente. Quasi tutte le Università hanno
risposto con precisione e diligenza, così manifestando altresì particolare interesse al
lavoro di indagine in corso.
Data la completezza del materiale contrattuale raccolto ed il numero ragguardevole
ma non eccessivo dei contratti integrativi a disposizione, il gruppo di ricercatori
responsabile del comparto ha così proceduto alla loro integrale schedatura, dopo aver
acquisito da un ricercatore esperto di statistica un parere favorevole (anch’esso, per
quanto estremamente succinto, incluso nel Rapporto di comparto) circa la compatibilità
di tale opzione metodologica (evidentemente difforme da quelle effettuate per gli altri
due comparti, come già detto) con gli obiettivi della ricerca. Pure tali schede, la cui
completezza conferisce loro un particolare rilievo scientifico, sono rinvenibili nella
seconda sezione degli Allegati al Rapporto di comparto.
4. - La fase conclusiva si è svolta seguendo un metodo abbastanza tradizionale per
le ricerche in materia di contrattazione collettiva.
Ciascuno dei tre gruppi di ricercatori costituiti ab origine ha redatto, sulla base
delle schede predisposte in relazione ai contratti nazionali dei tre comparti e a quelli
integrativi raccolti (ed eventualmente selezionati), il Rapporto di comparto, la cui
struttura è stata concordata in via preliminare dall’ intero gruppo di ricerca. Ciò affinché
i tre rapporti fossero del tutto omogenei tra loro da un punto di vista strutturale, in modo
da facilitare una lettura comparativa dei contenuti.
Tali rapporti si strutturano in due parti. La prima è dedicata ad una breve analisi
delle caratteristiche del comparto di riferimento e, quindi, alla valutazione del contratto
nazionale di comparto dal punto di vista dei rinvii alla contrattazione integrativa e agli
istituti della partecipazione in esso rinvenibili, con riferimenti anche ai rinvii contenuti
nei ccnq. La seconda, invece, assai più articolata, sviluppa criticamente una lettura
analitica delle schede dei contratti integrativi, esaminando puntualmente gli sviluppi
riscontrati in relazione a ciascuna delle aree tematiche definite per la predisposizione
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della scheda-tipo dei contratti integrativi. Per ciascuna di queste aree viene effettuata
una valutazione delle soluzioni concordate dalle parti negoziali in sede di
contrattazione integrativa, effettuata in funzione dei due obiettivi della ricerca (in altre
parole, una valutazione, da un lato, del grado di articolazione della disciplina dettata
dalla contrattazione integrativa in relazione agli istituti di rilievo gestionale e, dall’altro,
del grado di scostamento della contrattazione collettiva integrativa dai vincoli fissati dal
contratto nazionale di comparto; ciò, peraltro, nei limiti in cui sia effettivamente
possibile, sulla base del dato contrattuale evidenziato nelle schede, operare una siffatta
valutazione). Vi è poi un parte finale, nella quale vengono formulate le valutazioni e le
osservazioni conclusive proprio alla luce dell’analisi sviluppata nelle due parti
precedenti.
Sulla base dei tre rapporti, infine, si è proceduto alla stesura del Rapporto
conclusivo (Proff. Lauralba Bellardi, Umberto Carabelli e Antonio Viscomi), il quale a
sua volta è stato strutturato, a seguito di una preliminare discussione svolta dall’intero
gruppo di ricerca, in tre parti di cui la prima, di taglio giuridico, ripercorre i problemi
generali posti dalla struttura della contrattazione collettiva del settore pubblico e dalla
relativa disciplina legale; la seconda è dedicata all’analisi comparativa delle risultanze
dell’indagine sviluppata nei tre comparti, quali emergono dai relativi rapporti; la terza,
infine, contiene alcune valutazioni conclusive, in relazione agli obiettivi delineati nel
progetto e ricordati in apertura di questa premessa di carattere metodologico (alla
stesura di quest’ultima ha proceduto il responsabile della ricerca per conto della SSPA,
Prof. Umberto Carabelli).
Concludendo queste considerazioni preliminari, sia consentito esprimere un
ringraziamento a tutti coloro che hanno fornito il loro aiuto nel difficile compito di
reperire i materiali contrattuali su cui si è svolta la ricerca; un ringraziamento speciale
va all’ARAN ed in particolare alla Dott.ssa Elvira Gentile e al Dott. Rosario Soloperto
per la preziosa collaborazione fornita nella raccolta del materiale contrattuale relativo ai
comparti dei Ministeri e degli Enti locali, nonché a tutti gli uffici delle Università
italiane che hanno risposto con puntualità ed entusiasmo alla richiesta di collaborazione
nella raccolta di contratti integrativi del comparto Università.
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Sezione I – I profili giuridico-istituzionali della contrattazione collettiva integrativa nelle amministrazioni pubbliche.
Sommario: 1. Premessa. – 2. Prima fase. – 3. Seconda fase. – 4. Criteri di
conformazione del sistema: autonomia, integrazione e coerenza. – 5. La nullità
delle clausole difformi. – 6. I soggetti della contrattazione collettiva. – 7. Livelli di
contrattazione. – 8. Tempi e procedure. – 9. Esperienze contrattuali. – 10.
Valutazione. – 11. Recenti tendenze evolutive. – 12. Controlli centrali e autonomia
periferica. – 13. Conclusione (provvisoria)
1. - Obiettivo specifico del rapporto che segue è la ricostruzione del sistema
giuridico che disciplina la contrattazione integrativa o di secondo livello nel settore
delle pubbliche amministrazioni. A tal fine, ed in considerazione del carattere evolutivo
del processo riformatore, il rapporto sarà articolato, almeno idealmente, in tre grandi
aree: nella prima si darà conto delle linee essenziali della c.d. prima fase della riforma,
avviata con il d.lg. 29; nella seconda sarà ricostruito il framework normativo proprio
della c.d. seconda fase, avviata nella seconda metà degli anni ’90; nella terza ed ultima
si proporranno alcune osservazioni in ordine alla coerenza del modello contrattuale con
le tendenze istituzionali di lungo periodo che interessano ormai diffusamente le
pubbliche amministrazioni.
2. - La disciplina dettata nell’ambito della prima fase della riforma delineava un
sistema contrattuale segnato da due elementi di fondo: (a) la conformazione necessaria e
strutturale del secondo livello alle scelte effettuate in sede di primo livello nazionale; (b)
la subordinazione della contrattazione decentrata alle direttive emanate dalla Presidenza
del Consiglio e, per essa, dall’Agenzia (per le relazioni sindacali, prima, e per la
rappresentanza negoziale poi). In ragione di ciò, si disse fin da subito che quella
decentrata era da considerare alla stregua di una contrattazione in libertà vigilata dal
momento che essa, per un verso, poteva svolgersi solo sulle materie e nei limiti previsti
dal contratto nazionale e che inoltre, per altro verso, era sancito il divieto di autorizzare
la sottoscrizione dei contratti decentrati comportanti impegni di spesa eccedenti le
disponibilità finanziarie definite dal contratto collettivo nazionale. In questo contesto
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era dunque ragionevole affermare che il sistema legale risultava impregnato da «spirito
centralistico» e «diffidenza» nei confronti del decentramento negoziale
(rispettivamente: Treu T. 1992, 353; Grandi M. 1993).
A ben vedere, siffatta conformazione del sistema contrattuale decentrato
nell’ambito delle amministrazioni pubbliche, più che una scelta originaria ed originale
originaria del legislatore riformista del 1993, rappresentava il riflesso di una tendenza di
lungo periodo, risultando del tutto in linea con l’esperienza del decennio precedente, dal
momento che già l’art. 14 della legge quadro del 1983 sanciva la «subordinazione
finanziaria» (Natullo G. 1990, 106) e la «filiazione controllata» (Grandi M. 1983, 290)
del livello decentrato rispetto a quello nazionale. Se dunque si considera l’esperienza
decennale della legge quadro che aveva preceduto la riforma ⎯ caratterizzata, essa
stessa, da una contrattazione decentrata rivolta più al soddisfacimento di
“microinteressi” che alla realizzazione dei “macrointeressi” della produttività ed
efficienza della pubblica amministrazione ⎯ non v’è dubbio che l’obiettivo del
legislatore riformatore fosse quello di «conciliare la contrattazione collettiva come
controllo sui centri di spesa pubblica con la contrattazione collettiva come risorsa
organizzativa» (Zoppoli L. 1998, 92), a tal fine realizzando le condizioni per un
adeguato contemperamento fra esigenze di stabilità giuridica del sistema contrattuale,
prevedibilità degli effetti economici della contrattazione e valorizzazione
dell’autonomia contrattuale. Ed è proprio in funzione di tale obiettivo ⎯ indubbiamente
ambizioso e di non facile realizzazione ⎯ che trovava ragione l’attribuzione al livello
nazionale di contrattazione di un ruolo decisivo nella regolamentazione dei soggetti
negoziali, nell’articolazione dei livelli ed infine nell’individuazione delle materie
negoziabili in sede decentrata (Viscomi A. – Zoppoli L. 1995, 793).
Tuttavia, proprio la ricognizione dei contratti collettivi nazionali della prima
tornata (1994-1997) consente di misurare la distanza tra intenzioni (del legislatore) e
realizzazioni (delle parti negoziali): in proposito si è parlato di «tecnica normativa rigida
e, in fin dei conti, parsimoniosa», intendendo così significare ⎯ in buona sostanza ⎯
che la contrattazione decentrata è stata realmente configurata dalla contrattazione
nazionale come continuazione ⎯ il più delle volte in funzione meramente applicativa
⎯ di un «processo normativo avviato al centro» (Zoppoli L. 1998, 100) e
sequenzialmente attuato in sede locale. Questa osservazione trova conferma in almeno
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due ulteriori circostanze. Anzitutto, nel fatto che la contrattazione di secondo livello è
stata incastonata (o, da altro punto di vista, ingabbiata) in un sistema di relazioni
sindacali decentrate che assegna «un ruolo preponderante all’informazione (ma non a
quella preventiva) e un ruolo tutto sommato circoscritto alla contrattazione decentrata»
(Zoppoli L. 1998, 101). In secondo luogo, nel fatto che la gran parte delle poche materie
affidate generalmente alla contrattazione decentrata «o è evanescente o ha poco a che
vedere con le materie realmente contrattate nella storia del pubblico impiego (che sono:
diritti sindacali, inquadramenti, salari accessori, orario ed organizzazione)» (Zoppoli L.
1998, 102). In effetti, l’unica materia veramente “importante” devoluta alla
contrattazione decentrata nella prima fase della riforma è stata quella relativa alla
definizione dei «criteri generali» di applicazione, in sede locale, degli istituti retributivi
accessori collegati alla produttività collettiva ed individuale (cioè di istituti regolati
nella struttura essenziale dal contratto nazionale).
In questo contesto, caratterizzato da un controllo centralizzato delle risorse
finanziarie, gli unici tentativi di ampliare gli spazi di contrattazione decentrata
risultavano segnati dall’art. 32 del contratto per il comparto degli enti locali e dall’art.
36, c. 6, del contratto per il personale degli enti pubblici non economici: il primo
consentiva la redistribuzione delle economie di gestione e delle risorse aggiuntive (ma a
condizioni tanto particolari da risultare di difficile implementazione: cfr. Viscomi A.
1996); il secondo attribuiva alla contrattazione decentrata a livello di ente la facoltà di
affidare «la gestione di una quota del fondo» per la produttività collettiva e per il
miglioramento dei servizi «a ciascuna unità funzionale per la realizzazione di obiettivi
definiti localmente sulla base di priorità, indirizzi e limiti stabiliti a livello nazionale»
(Natullo G. 1996). Naturalmente, non è casuale che le clausole contrattuali appena
indicate siano state previste dai contratti relativi a settori caratterizzati ⎯ più e prima di
altri ⎯ da alti livelli di autonomia (costituzionalmente fondata, per quanto attiene agli
enti locali; organizzativamente radicata, per quanto riguarda gli enti pubblici non
economici, nell’ambito dei quali, e in particolare dell’Inps, alcuni dei principi
caratterizzanti la riforma del lavoro pubblico erano già stati introdotti dalla legge 9
marzo 1989 n. 88 di riforma dell’Istituto).
In verità, questa circostanza consente di segnalare fin da subito come l’ambizione
del legislatore del 1993 ⎯ di racchiudere, cioè, la contrattazione decentrata in un ordine
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stabile governato dal centro ⎯ abbia dovuto misurarsi con le profonde modifiche del
contesto di riferimento. Nonostante incertezze e tentennamenti pure evidenti (sui quali
non è qui certo il caso di soffermarsi), si tratta di modifiche tutte orientate a riconoscere
il carattere plurale e policentrico del sistema amministrativo, a tal fine valorizzando
l’autonomia organizzativa e gestionale delle singole strutture. In qualche misura, può
anzi dirsi che nei primi due contratti materialmente stipulati nell’ambito della tornata
negoziale 1994-1997 ⎯ Autonomie locale, appunto, ed Enti pubblici non economici ⎯
sono racchiusi indirizzi ed orientamenti successivamente diffusi in tutti i settori delle
pubbliche amministrazioni. E si tratta di indirizzi che hanno trovato un primo e formale
riconoscimento in occasione del primo rinnovo biennale della parte economica (che può
darsi per avviato il 7 febbraio 1996 con la definizione della relativa direttiva di
indirizzo). E’ in questa occasione, infatti, che la disponibilità contrattuale
nell’utilizzazione delle risorse aggiuntive diventa patrimonio comune di tutte le
amministrazioni, sia pure a condizione che queste siano state riorganizzate per centri di
costo, che sia stato avviato il controllo di gestione e che infine siano stati istituiti i
nuclei di valutazione.
3. - L’evoluzione del sistema contrattuale, sommariamente ora accennata,
costituisce lo sfondo su cui deve essere collocata e letta la l. 15 marzo 1997 n. 59 che,
per la parte che qui interessa, anzitutto ha novellato l’originario art. 2, c. 1-i, della l.
421/1992 ⎯ cancellando il riferimento alla duplice articolazione dei livelli di
contrattazione e prevedendo al contempo che «la struttura della contrattazione, le aree di
contrattazione e il rapporto tra i diversi livelli siano definiti in coerenza con il settore
privato» ⎯ ed in secondo luogo ha imposto espressamente al Governo di garantire a
tutte le amministrazioni pubbliche «autonomi livelli di contrattazione collettiva
integrativa nel rispetto dei vincoli di bilancio di ciascuna amministrazione» (art. 11, c.
4-e) e di «semplificare e rendere più spedite le procedure di contrattazione collettiva»
(art. 11, c. 4-c). Ed è proprio sulla non chiara correlazione tra i due criteri di delega che
si è focalizzata l’attenzione dei primi commentatori. Si è così assistito, per un verso, ad
un forte apprezzamento della dislocazione di quote di potere contrattuale dal centro alla
periferia; e si è pure assistito al contempo, per altro verso, alla contestazione di ciò che
appare come la duplice contraddizione di una legge che configura la contrattazione di
16
secondo livello come autonoma, ma al contempo integrativa, e che richiede una struttura
contrattuale coerente con quella del settore privato ma al contempo tale struttura
predetermina, sia pure parzialmente, in via legale. Si tratta di obiezioni e perplessità che
meritano di essere prese in considerazione ed adeguatamente valutate. Ma prima di
proporre alcune riflessioni in merito è doveroso procedere, come usuale, ad una
ricostruzione della disciplina dettata dalla legge delega, e, sulla base giuridica da essa
offerta, dai decreti di attuazione.
Commentando l’originaria disciplina della contrattazione decentrata alcuni autori
hanno formulato, a fini euristici, un «decalogo» normativo, tentando di dare
sistematicità ed ordine razionale ad un insieme di regole spesso frammentate e disperse
in articoli i più vari (Viscomi A. – Zoppoli L. 1995, 790). L’invenzione retorica
manifesta ancora oggi la sua validità, ed anzi la comparazione tra “vecchio” e “nuovo”
decalogo può risultare utile al fine di cogliere con immediatezza le innovazioni,
strutturali e funzionali, della disciplina in esame.
A tale stregua si ricorderà che nella prima fase della riforma: a) il sistema
contrattuale nel pubblico impiego risultava articolato in due livelli: nazionale e
decentrato; b) la contrattazione decentrata avrebbe dovuto svolgersi sulle materie e nei
limiti stabiliti dalla contrattazione nazionale; c) essa era finalizzata al contemperamento
tra esigenze organizzative, tutela dei dipendenti e interesse degli utenti; d) la sua
stipulazione era affidata, per la parte pubblica, ad una delegazione composta dal titolare
del potere di rappresentanza delle singole amministrazioni e dai rappresentanti dei
titolari degli uffici interessati; normalmente, infatti, la contrattazione decentrata non
risultava affidata all’Agenzia per la rappresentanza negoziale, alle cui direttive le
amministrazioni pubbliche avrebbero dovuto comunque attenersi; in ogni caso, su
richiesta delle stesse amministrazioni, l’Agenzia avrebbe però potuto svolgere funzioni
dirette di rappresentanza o di assistenza; e) per la parte sindacale, si affidava alla
contrattazione nazionale l’individuazione delle modalità di composizione della
rappresentanza abilitata alle trattative; f) la contrattazione decentrata vincolava le
amministrazioni, obbligate ad osservare gli obblighi assunti e ad adempiervi nelle forme
previste dai rispettivi ordinamenti; g) la sottoscrizione del contratto era autorizzata con
atto dell’organo di vertice previsto dai singoli ordinamenti; h) l’autorizzazione alla
sottoscrizione era, essa stessa, sottoposta al controllo preventivo degli organi
17
competenti; i) l’autorizzazione (e dunque il contratto stesso) era condizionata alla
verifica del rispetto dei limiti di cui all’art. 45, c. 4, d.lg. 29/1993 nonché del limite di
spesa definito dai contratti collettivi e comunque alla congruità con le linee generali di
programmazione economica e finanziaria; l) infine, copia del contratto avrebbe dovuto
essere comunicata all’Agenzia, al Dipartimento della funzione pubblica ed al Ministero
del tesoro, allo scopo precipuo di consentire la verifica del costo e degli effetti della
medesima sulla efficacia dell’azione amministrativa.
Ora, invece, nel sistema delineato dalla seconda fase della riforma (e seguendo la
numerazione del d.lg. 165/2001):
(1) le pubbliche amministrazioni «attivano» autonomi livelli di contrattazione
collettiva integrativa; adempiono agli obblighi assunti con il contratto dalla data della
sottoscrizione definitiva e ne assicurano l’osservanza nelle forme previste dai rispettivi
ordinamenti (art. 40, c. 3, secondo periodo, e c. 4; ma di «sottoscrizione in sede
decentrata», di «livelli decentrati di contrattazione collettiva» ed addirittura di
«contrattazione decentrata» si parla ancora nello stesso art. 45, c. 3, quarto periodo,
nell’art. 42, c. 8 ed infine nell’art. 67, c. 2);
(2) la contrattazione nazionale disciplina la struttura contrattuale, «in coerenza con
il settore privato» (art. 40, c. 3, primo periodo) ed in particolare definisce: i soggetti e le
procedure della contrattazione integrativa (art. 40, c. 3, terzo periodo, fermo restando, ai
sensi dell’art. 43, c. 5, quanto previsto in relazione agli organismi unitari di
rappresentanza del personale dall’art. 42, c. 7); le materie oggetto di contrattazione
integrativa nonché i relativi limiti (art. 40, c. 3, terzo periodo); la durata dei contratti
collettivi integrativi nonché «i rapporti tra i diversi livelli» (art. 40, c. 4, primo periodo);
(3) la contrattazione integrativa può avere ambito territoriale e riguardare più
amministrazioni (art. 40, c. 3, terzo periodo);
(4) essa è «attivata» dalle amministrazioni nel rispetto dei vincoli di bilancio
risultanti dagli strumenti interni di programmazione annuale e pluriennali (art. 40, c. 3,
secondo periodo; cfr. pure art. 48, c. 1);
(5) consequenzialmente, le pubbliche amministrazioni non possono sottoscrivere
«in sede decentrata» contratti integrativi in contrasto con i vincoli risultanti dai contratti
nazionali o che comportino oneri non previsti negli strumenti di programmazione
annuale e pluriennale (art. 40, c. 3, quarto periodo);
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(6) le clausole dei contratti integrativi «difformi» sono nulle e non possono essere
applicate (art. 40, c. 3, quinto periodo);
(7) l’autorizzazione di spesa relativa al rinnovo dei contratti collettivi è disposta
«nelle forme con cui vengono approvati i bilanci, con distinta indicazione dei mezzi di
copertura» (art. 48, c. 4);
(8) il controllo sulla compatibilità dei costi della contrattazione integrativa è
effettuato dal collegio dei revisori dei conti ovvero, dove tale organo non sia previsto,
dai nuclei di valutazione o dai servizi di controllo interno (art. 48, c. 6);
(9) le pubbliche amministrazioni, anche collettivamente e su base convenzionale,
possono avvalersi dell’assistenza dell’Aran ai fini della contrattazione integrativa (art.
46, c. 2);
(10) le pubbliche amministrazioni trasmettono all’Aran entro cinque giorni dalla
sottoscrizione il testo del contratto e le indicazioni sulle modalità di copertura dei
relativi oneri con riferimento agli strumenti annuali e pluriennali di bilancio (art. 46, c.
5); a tal fine è istituto presso l’Aran un Osservatorio paritetico per il monitoraggio
sull’applicazione dei contratti collettivi anche integrativi (art. 46, c. 4); peraltro, in capo
al Ministero del Tesoro ed al Dipartimento della Funzione Pubblica permane il più
generale compito di verificare l’applicazione dei contratti collettivi «con riguardo,
rispettivamente, al rispetto dei costi prestabiliti ed agli effetti degli istituti contrattuali
sull’efficiente organizzazione delle amministrazioni pubbliche e sull’efficacia della loro
azione» (art. 67, c. 2).
Siffatta funzione di controllo e monitoraggio risulta ora rafforzata dall’art. 40-bis
del d.lg. 165 introdotto dall’art. 17 della l. 28 dicembre 2001 n. 448 che ha imposto ai
Comitati di settore ed al Governo di procedere a «verifiche congiunta in merito alle
implicazioni finanziarie complessive della contrattazione integrativa di comparto,
definendo metodologie e criteri di riscontro anche a campione sui contratti integrativi
delle singole amministrazioni». Peraltro, sempre la stessa norma ha disposto che gli
organi deputati alla verifica di compatibilità dei costi ai sensi dell’art. 48, c. 6, d.lg. 165
siano ora tenuti ad inviare annualmente «specifiche informazioni sui costi della
contrattazione integrativa» al Ministero dell’Economia e delle finanze. Naturalmente,
l’accertamento di «costi non compatibili con i vincoli di bilancio» determina la
conseguente applicazione della sanzione di nullità della clausola «difforme», già
19
prevista — come sopra indicato — dall’art. 40, c. 3, quinto periodo, del d.lg. 165 ed ora
rafforzata — sul piano simbolico, più che su quello giuridico — dal comma 3 dell’art.
40-bis del d.lg. 165, introdotto dall’art. 17 della l. 448/2001. In questa prospettiva può
dirsi che la recente disciplina costituisce un affinamento di quanto già disposto dall’art.
20 della legge 23 dicembre 1999, n. 488 che — modificando l’art. 39 della legge 27
dicembre 1997, n. 449 — aveva assegnato al Dipartimento della funzione pubblica —
congiuntamente con il Ministero del Tesoro — il compito di effettuare un apposito
controllo sui contratti integrativi stipulati dalle amministrazioni statali anche ad
ordinamento autonomo e dagli Enti pubblici non economici con organico superiore alle
200 unità, con particolare riferimento agli oneri derivanti dall’attuazione della
classificazione professionale.
4. - Al fine di ricostruire il quadro delle regole legali deputato a governare la
contrattazione di secondo livello, l’interprete è chiamato a riflettere anzitutto sul senso e
sul valore da riconoscere alla norma che quella contrattazione qualifica non più come
decentrata bensì come «integrativa» e vuole al contempo «autonoma» ma strettamente
conformata e controllata dal contratto nazionale. L’impossibilità logica di considerare il
contratto di secondo livello come «integrativo» del contratto nazionale ed al contempo
«autonomo» ha indotto alcuni a lamentare una contraddizione ritenuta evidente.
Tuttavia, appare ragionevole ritenere che i predetti caratteri abbiano riguardo a tratti
differenti, in guisa tale che la contraddizione tra di essi possa essere considerata
meramente apparente. A tale stregua, mentre appare pertinente riferire il primo
elemento ⎯ e cioè il carattere «integrativo» ⎯ alla funzione assunta (o che dovrebbe
essere assunta) dal contratto di secondo livello all’interno del sistema contrattuale,
sembra altrettanto ragionevole intendere il secondo ⎯ «autonomia» ⎯ come riferito
all’inesistenza di vincoli esterni al sistema contrattuale idonei ad incidere sulla
conformazione e sulla stessa funzione del livello contrattuale in esame.
In effetti, il carattere autonomo dei livelli integrativi di contrattazione acquista
senso e significato se correlato non già con il ruolo ordinante della contrattazione
nazionale nella definizione della struttura contrattuale (sancito dall’art. 40, c. 3, primo
periodo), bensì e piuttosto in relazione al venir meno, nel nuovo sistema, sia delle
direttive c.d. di secondo grado attinenti ai criteri cui «conformare» la contrattazione
20
decentrata, che l’impianto originario della riforma affidava all’Agenzia (ai sensi dell’art.
50, c. 7, d.lg. 29, testo previgente), sia della specifica «finalizzazione» del livello
decentrato di contrattazione al «contemperamento» tra esigenze organizzative, tutela dei
dipendenti e interesse degli utenti (art. 45, c. 4, d.lg. 29, testo previgente; su entrambi i
profili cfr. Viscomi A. – Zoppoli L. 1995, 811). In questa prospettiva, la prescrizione in
merito al carattere autonomo della contrattazione decentrata, avendo riguardo ai vincoli
esterni al sistema contrattuale ⎯ quei vincoli, cioè, prima derivanti dalle direttive
dell’Agenzia ovvero direttamente dalla fonte legale ⎯ non si pone in contraddizione né
con la funzione integrativa che il legislatore intende attribuire, all’interno del medesimo
sistema contrattuale, al livello decentrato di contrattazione né con la rigorosa
subordinazione del contratto di secondo livello al contratto di primo livello. Da questo
punto di vista, è indubbio, d’altronde, che anche nel settore privato la contrattazione
decentrata è “autonoma” da vincoli esterni ma pur sempre “integrativa” rispetto alla
conformazione interna del sistema contrattuale.
Definito il valore del carattere autonomo della contrattazione decentrata, occorre
individuare il senso della trasformazione semantica che il contratto di secondo livello
definisce come integrativo e non più decentrato. A tal proposito, si è proposto di
considerare tale carattere come rappresentativo della scelta del legislatore a favore di un
modello di contrattazione «più specializzata che delegata» (Barbieri M. 1997, 178),
ovvero, per converso, come equivalente di contrattazione «non indipendente, articolata
rispetto al contratto nazionale, al quale continua a rapportarsi in virtù della tecnica del
rinvio piuttosto che di quella della specializzazione» (Natullo 1999). Al fine di risolvere
il dilemma o di sciogliere la contraddizione, occorre considerare anzitutto che
nell’esplicita qualificazione come integrativa della contrattazione di secondo livello è
ragionevole riconoscere la presa d’atto del legislatore delegante delle tendenze evolutive
del sistema contrattuale nel settore pubblico. In questo, infatti, la contrattazione
decentrata appare da tempo orientata verso l’assunzione di una funzione non più
meramente applicativa delle clausole di livello superiore ma piuttosto di adeguamento
di quelle clausole al concreto contesto di riferimento. Nel caso di specie, tale funzione
può essere intesa in duplice modo: anzitutto, come regolazione di materie non trattate
dal contratto nazionale, ovviamente a condizione che non via un esplicito divieto in tal
senso (Barbieri M. 1997, 178) o che il contratto nazionale non individui esplicitamente
21
le materie oggetto di contrattazione decentrata; in secondo luogo, come completamento
della disciplina dettata dal livello nazionale. Appunto perciò, integrativa è tanto la
contrattazione delegata quanto quella specializzata. E’ dunque impossibile trarre dal
dato letterale conferma per una delle due opzioni: sarà invece la contrattazione
nazionale a stabilire in concreto se la contrattazione di secondo livello avrà un carattere
delegato e/o specializzato e ciò farà sulla base di una scelta autonoma, non vincolata dal
termine utilizzato dal legislatore (e a leggere i contratti decentrati appare evidente
l’opzione negoziale per una contrattazione più delegata che specializzata).
Questione di più difficile soluzione è quella relativa al paradosso della
configurazione eteronoma di un sistema contrattuale pubblico che si vuole «coerente»
con il sistema privato: per un verso, il legislatore delegante della l. 59 ha imposto al
legislatore delegato di strutturare il sistema contrattuale pubblico in conformità al
sistema contrattuale privato; per altro verso, il legislatore delegato ha conferito (o
riconosciuto) autonomia ordinante alla contrattazione collettiva e in questa al contratto
nazionale (chiamato a disciplinare la struttura contrattuale ed in particolare: i soggetti, le
procedure, le materie, i limiti della contrattazione integrativa nonché i rapporti tra i
diversi livelli), ma ha al contempo stabilito che tale autonomia debba essere esercitata
entro limiti e con modalità rigidamente preordinati e talvolta del tutto differenti o
almeno apparentemente differenti da quelli propri del settore privato. Appunto perciò, si
è parlato di «fuor d’opera» nella riforma del 1997 (Natullo 1999) ed è stato segnalato il
paradosso di una riforma che invoca coerenza con il settore privato nel momento stesso
in cui detta una disciplina del sistema contrattuale «del tutto differente» da quel settore,
soprattutto in relazione al contratto decentrato (Barbieri M. 1997, 181).
Per tentare di individuare il senso di tale contraddizione, è opportuno verificare in
primo luogo se la «coerenza» con il settore privato, richiesta dal legislatore delegante,
sia da intendere in senso “mimetico” ovvero in senso “mite”; se cioè la norma in
questione sia da intendere nel senso che la struttura della contrattazione collettiva
relativa alle pubbliche amministrazioni debba essere definita non diversamente da come
questa è definita nel settore privato (in senso, appunto, mimetico) ovvero se, non
diversamente da ciò che avviene nel settore privato, il governo della struttura
contrattuale debba essere affidato alla libertà negoziale delle parti e non più, come nella
prima fase della riforma, all’intervento eteronomo del legislatore (un rinvio, dunque, in
22
senso “mite” alla fonte autonoma ai fini della regolazione del sistema contrattuale). Al
fine di risolvere tale dilemma, il riferimento al dato testuale non è sufficiente: in effetti,
affermare che «la contrattazione collettiva disciplina, in coerenza con il settore privato»,
il sistema contrattuale può significare: (a) che la contrattazione nel settore pubblico è
vincolata ad adeguarsi al modello presente nel settore privato; (b) che la contrattazione
collettiva è abilitata ad autoregolarsi, non diversamente da quanto avviene, appunto, nel
settore privato. Per risolvere il dilemma occorre dunque soffermare l’attenzione su altri
dati significati.
A tale stregua, almeno due ragioni suggeriscono di valorizzare la seconda delle
interpretazione proposte. In primo luogo, assumendo un approccio argomentativo
orientato ai princìpi, si può ricordare che la ratio stessa della (seconda) riforma è
ricondurre la contrattazione medesima nell’alveo delle logiche e della prassi di tipo
privatistico, sciogliendo la contraddizione originaria della (prima) riforma che alla
delegificazione del rapporto individuale di lavoro aveva affiancato «una
iperlegificazione della contrattazione collettiva» (D’Antona M. 1998, 45). In secondo
luogo, assumendo un approccio argomentativo orientato agli effetti, si devono
considerare le conseguenze paradossali derivanti dall’adozione di una prospettiva
interpretativa di tipo mimetico e fra queste, in particolare, il “congelamento” in
determinate forme storiche di un sistema regolativo altrimenti caratterizzato da notevole
flessibilità e da intrinseca dinamicità, da ciò quasi necessariamente derivando un
affievolimento della capacità di adeguamento ed adattamento all’ambiente socio-
professionale in cui è quel sistema è destinato ad operare. Ciò considerando, sembra
ragionevole ritenere che il riferimento alla «coerenza» con il settore privato sia da
intendere come riferito alla libertà delle parti contraenti e dunque al potere sociale, ma
giuridicamente riconosciuto, della stessa contrattazione di disciplinare la struttura
contrattuale, onde non potrebbe ritenersi ammissibile una sua ridefinizione per via
legislativa.
Ammesso ciò, occorre verificare l’adeguatezza della ricostruzione proposta in
relazione alle disposizioni dettate dal decreto legislativo in materia di contrattazione
decentrata; occorre cioè accertare se queste ultime siano sufficienti a vulnerare la
ricostruzione proposta e più ancora se siano tali da alterare, fino ad annullare, lo stesso
potere di autoregolazione della contrattazione collettiva. In particolare, occorre stabilire
23
se è vero che «il rapporto tra i diversi livelli contrattuali può ben essere regolato dalla
contrattazione collettiva stessa, salvo che si tratti dei rapporti tra i contratti nazionali e
quelli integrativi» (Barbieri M. 1997, 180). Se così fosse, l’art. 40, c. 3, terzo periodo,
costituirebbe un limite, e non dei meno pregnanti, all’esercizio dell’autonomia
contrattuale pure riconosciuta dal primo periodo del medesimo articolo. Tuttavia,
stabilendo che «la contrattazione collettiva integrativa si svolge sulle materie e nei limiti
stabiliti dai contratti nazionali, tra i soggetti e con le procedure negoziali che questi
ultimi prevedono»», il terzo periodo dell’art. 40, c. 3, più che costituire norma
«speciale» rispetto alla norma «generale» contenuta nel primo periodo del medesimo
comma, appare destinato a rafforzare le prerogative di autoregolamentazione della
contrattazione nazionale che così anzi si conferma a stregua di «fonte unica di
dislocazione verso il basso della potestà negoziale» (Carinci F. 1998, 53). Che poi la
contrattazione nazionale possa optare per una rigida delimitazione degli spazi di
negoziazione decentrata ovvero per l’attribuzione a quest’ultima della più ampia libertà
di azione è scelta riservata all’autonomia di governo dei soggetti negoziali, costituisce
un elemento di discrezionalità non imputabile al legislatore ma riconducibile al normale
svolgimento delle dinamiche politico-sindacali.
Semmai, se dubbio esiste, questo potrebbe riguardare la legittimità di un contratto
nazionale che fosse tale da escludere del tutto il contratto integrativo dal novero delle
fonti autonome. Tale questione, però, non nasce in virtù dell’art. 40, del decreto
delegato: in effetti, poiché la contrattazione integrativa si svolge sulle materie e nei
limiti fissati dalla contrattazione nazionale, nulla sembra vietare a questa di ridurre o
eliminare gli spazi contrattuali decentrati. La questione sollevata nasce, semmai, dalla
norma delegante contenuta nell’art. 11, c. 4-e, della l. 59, ai cui sensi gli autonomi
livelli di contrattazione integrativa devono essere «garantiti» a tutte le amministrazioni.
In effetti, l’attribuzione alla contrattazione collettiva nazionale di una autonomia
oltremodo ampia nella individuazione delle materie e nella definizione dei limiti della
contrattazione integrativa potrebbe non impedire un radicale svuotamento del ruolo e
della funzione di quest’ultima. Ond’è che ⎯ di fatto ⎯ particolari modalità di
attuazione della disciplina dettata dal legislatore delegato potrebbero determinare la
sostanziale ablazione della «garanzia» stabilita dal legislatore delegante in relazione agli
autonomi livelli di contrattazione integrativa. Anche questa lettura, però, manifesta
24
alcuni punti deboli: la «garanzia» di cui parla il legislatore delegante sembra essere
riferita non tanto all’«attivazione» e dunque alla presenza dei livelli contrattuali
periferici ⎯ affidati, invero, alla scelta effettuata in sede di contrattazione nazionale ⎯
ma semmai e piuttosto all’«autonomia» di tali livelli e cioè, come già segnalato, alla
loro garanzia da interferenze esterne. Così intesa la «garanzia» di cui all’art. 11, c. 4-e,
l. 59 ne segue l’impossibilità di ipotizzare una sostanziale contraddizione tra legge
delega e legge delegata per aver questa congegnato il sistema contrattuale in modo tale
da rendere meramente eventuale e non necessaria la contrattazione integrativa.
Né in senso contrario può opporsi la norma secondo cui le pubbliche
amministrazioni «attivano» autonomi livelli di contrattazione decentrata. Il verbo usato
è tanto polisemico da rendere ardua qualunque deduzione che pretenda di porsi come
certa; il tempo verbale utilizzato, l’indicativo presente, pure da altri valorizzato per
dedurre l’esistenza in capo alle amministrazioni di un obbligo a trattare, non è indice
significativo, dal momento che esso non esprime né un comando né un invito o
auspicio. D’altronde, la circostanza che siano le amministrazioni ad «attivare» autonomi
livelli di contrattazione è indicazione del legislatore delegato, laddove invece il
legislatore delegante si era limitato a stabilire la garanzia di autonomia, nel senso
predetto, dei livelli di contrattazione integrativa. Probabilmente, l’uso di tale verbo
meglio si comprende se si considera che l’iniziativa per l’avvio della contrattazione
decentrata nel settore pubblico è stata tradizionalmente affidata alle amministrazioni: in
effetti, tanto nel vigore della legge quadro, quanto dopo la prima riforma, alle
amministrazioni è stato imposto di «costituire» la delegazione di parte pubblica e di
«convocare» la delegazione sindacale (cfr. infatti, l’art. 4 dei ccnl 1994-1997 relativi al
personale di tutti i comparti). Ma se così è, occorre riconoscere l’inutilità euristica del
verbo «attivare».
5. - Nella prospettiva di una riconduzione del sistema contrattuale pubblico
nell’ambito di un alveo coerente con la libertà di cui è impregnato il settore privato, una
sicura anomalia è segnata dall’art. 40, c. 3, quinto periodo, che sanziona con la nullità le
clausole dei contratti di secondo livello difformi dalle prescrizioni dettate dai contratti di
primo livello nonché dai vincoli derivanti dagli strumenti di programmazione
economico-finanziaria (per una esemplificazione giurisprudenziale, non conclusa
25
tuttavia con la dichiarazione di nullità, cfr. Trib. Napoli, ord. 5 ottobre 2001 in LPA
2001, 343). Si tratta di prescrizione ora rafforzata dall’art. 40-bis del d.lg. 165
(introdotto dall’art. 17 della l. 448/2001 ed in parte modificato dall’art. 14 della l.
3/2003) ai cui sensi l’accertamento in sede di verifica e monitoraggio della
contrattazione integrativa di «costi non compatibili con i vincoli di bilancio» determina
la conseguente applicazione della sanzione di nullità della clausola «difforme», già
prevista — come indicato — dall’art. 40, c. 3, quinto periodo, del d.lg. 165.
Nel sistema delineato dalla prima riforma la conformità (o la coerenza) tra i livelli
contrattuali era assicurata dal divieto (gravante sugli organi di vertici e di controllo e
fonte di una loro eventuale responsabilità) di autorizzare la sottoscrizione di contratti
decentrati comportanti impegni di spesa eccedenti le disponibilità finanziarie definite
dal contratto nazionale. Nel sistema delineato dalla seconda riforma ⎯ anche a causa, in
generale, della ridefinizione del ruolo e delle funzioni degli organi di controllo esterno
nonché, in particolare, della modifica del procedimento di contrattazione integrativa ⎯
il legislatore ha inteso garantire la conformità e la coerenza del livello inferiore a quello
superiore, incidendo direttamente sull’atto difforme mediante il meccanismo
sanzionatorio (sostanziale, ma dai rilevanti effetti processuali: si pensi ai soggetti
interessati, al termine di prescrizione e così via) della nullità. In proposito, si è parlato,
fin da subito, di efficacia reale dei vincoli posti dalla contrattazione nazionale; efficacia
sancita e presidiata a garanzia dell’ordine contrattuale piuttosto che a beneficio
dell’interesse dei singoli (Carinci F. 1998, 53) e pertanto solo latamente assimilabile al
modello predisposto dall’art. 2077 cod. civ. per le relazioni tra clausole collettive e
clausole individuali difformi. E si è pure detto che la difformità causa di nullità è da
intendere in senso bilaterale, essendo proibita ogni variazione, peggiorativa o
migliorativa, rispetto alle clausole di primo livello con conseguente ed esplicito divieto
di applicazione. Quest’ultimo divieto appare, in verità, del tutto ultroneo sul piano
sistematico ma oltremodo importante se si considerano le prassi reali e la cultura diffusa
nell’ambito delle pubbliche amministrazioni. In effetti, richiamando l’attenzione dei
soggetti deputati a dare applicazione alla disciplina integrativa sulla responsabilità
derivante dall’applicazione di una clausola nulla, esso sembra sollecitare un controllo
diffuso all’interno della struttura amministrativa sul medesimo contratto; un controllo
complementare e certo non alternativo ai controlli previsti dall’art. 48, c. 6. Questi, in
26
effetti, attengono soltanto alla compatibilità economica della contrattazione collettiva
con i vincoli di bilancio, laddove la «difformità» produttiva di nullità è da intendere
come riferita sicuramente ai vincoli derivanti dal contratto nazionale ed agli oneri non
previsti negli strumenti di programmazione economico-finanziaria.
La garanzia degli equilibri contrattuali definiti in sede nazionale, affidata al
meccanismo della nullità, oltre ad apparire una sicura anomalia rispetto al settore
privato pone alcuni problemi giuridici di portata più generale, sui quali è qui doveroso
proporre almeno un sintetico cenno.
In primo luogo, occorre interrogarsi su quale sia la norma imperativa dalla cui
violazione deriva la nullità sancita dal legislatore (che, in effetti, non sembra poter
derivare da una delle altre cause di cui al c. 2 dell’art. 1418 cod. civ.). La risposta a tale
domanda non è semplice, potendosi ipotizzare tre diverse soluzioni. Potrebbe dirsi,
anzitutto, che la nullità derivi dalla diretta violazione del contratto di primo livello, da
considerare a stregua di norma imperativa (circostanza, questa, che potrebbe trovare
sostegno nell’art. 63, c. 5, del decreto che la «violazione o falsa applicazione dei
contratti e accordi collettivi nazionali di cui all’art. 40» considera come motivo utile per
il ricorso in Cassazione). Potrebbe però anche affermarsi che la nullità sia connessa alla
violazione dell’art. 40, c. 3, terzo periodo, ai cui sensi la contrattazione decentrata può
aversi nei soli limiti fissati dalla contrattazione nazionale. Potrebbe, infine, riconoscersi
la norma imperativa fonte di nullità in quella (art. 40, c. 3, quarto periodo) che impone
in capo alle pubbliche amministrazioni l’obbligo di non sottoscrivere in sede decentrata
contratti integrativi «in contrasto con i vincoli» ⎯ sia di competenza che di regolazione
⎯ stabiliti in sede nazionale e derivanti dagli strumenti di programmazione finanziaria.
La differenza fra le varie soluzioni non è di poco conto, al di là ed oltre i profili
sistematici, se si considera che, adottando la terza ipotesi, la difformità rilevante ai fini
della nullità attiene non solo alla disciplina contrattuale ma anche ai vincoli derivanti
dagli strumenti di programmazione economico-finanzaria (il che trova ora esplicita
consacrazione proprio nel comma 3 dell’art. 40-bis).
In secondo luogo, a stare al tenore letterale della norma, la nullità colpisce la sola
clausola difforme. In proposito, può farsi tesoro della riflessione sull’art. 2077 per
evidenziare che la «clausola» costituisce l’unità precettiva minima in cui è possibile
scomporre un regolamento contrattuale: pertanto, essa non si identifica con l’«istituto»
27
(del quale si parla, ad esempio, nell’art. 41, c. 6, a proposito dei contratti c.d. quadro).
Da questa circostanza derivano due effetti: anzitutto, la non applicazione dell’art. 1419
cod. civ. in relazione alla nullità parziale o di singole clausole essenziali, non derivando
dalla nullità di una di esse, quand’anche essenziale, la nullità dell’intero contratto
integrativo; in secondo luogo, la riduzione degli spazi reali di autogoverno delle parti
sociali in sede decentrata, attesa l’impossibilità legale di una difformità della singola
clausola che sia però funzionale, al contempo, ad una diversa disciplina dell’istituto
regolato. Peraltro, questa circostanza pone in evidenza come risulti difficile definire,
con margine di univoca certezza, il concetto stesso di difformità e dunque l’ambito reale
di incidenza della sanzione di nullità, tanto da potersi ragionevolmente interrogare sulla
effettiva utilità pratica di una norma così congegnata.
Il punto focale del sistema normativo che disciplina la struttura della contrattazione
collettiva nel pubblico impiego si annida proprio nell’art. 40, comma 3, del d.lg. 30
marzo 2001 n. 165 là dove si attribuisce al contratto collettivo di livello nazionale il
compito di definire la struttura complessiva del sistema contrattuale salvaguardando le
relative statuizioni mediante la sanzione di nullità delle «clausole difformi»
eventualmente contenute nei contratti stipulati ai livelli inferiori. Da questa norma
emerge, in modo emblematico, l’asimmetria regolativa presente nel settore pubblico in
ragione della quale ad un livello nazionale di contrattazione più o meno rigidamente
disciplinato dalla fonte legislativa esterna si contrappone un secondo livello che
viceversa trova la propria fonte di disciplina all’interno dello stesso sistema contrattuale
e precisamente nel contratto nazionale, sia pure assistito dalle peculiari garanzie di
stabilità eccezionalmente apprestate dal legislatore. In effetti, è la legge a stabilire i
soggetti che possono partecipare alla contrattazione nazionale, sia sul fronte sindacale
(art. 43, comma 1) sia su quello datoriale (art. 46), qui prevedendosi una specifica forma
di rappresentanza legale delle pubbliche amministrazioni in capo all’Aran; ed è la stessa
legge a stabilire i presupposti la cui presenza consente di stipulare legittimamente un
contratto nazionale (art. 3, comma 3) nonché a delimitare lo spazio oggetto di
negoziazione con il rinvio, per un verso, a «tutte le materie relative al rapporto di lavoro
ed alle relazioni sindacali» (art. 40, comma 1) e con la previsione, per altro verso, di un
potere di indirizzo (art. 41) e di controllo (art. 47) sull’operato dell’Aran ad opera del
comitato che raccoglie settorialmente le pubbliche amministrazioni interessate: l’una
28
«agenzia dell’intero sistema pubblico» secondo la valutazione della Corte
Costituzionale nella sent. 309/1997; l’altro, invece, per usare le parole di Massimo
D’Antona, «centro di imputazione dei medesimi interessi collettivi che l’Aran
rappresenta legalmente nella negoziazione del contratto collettivo». Viceversa, è
l’autonomia negoziale dei soggetti sindacali a livello nazionale a dover stabilire i
comparti di contrattazione (art. 40, comma 2), a definire le vicende degli organismi di
rappresentanza del personale (art. 42) e soprattutto a stabilire soggetti, materie e
procedure negoziali a livello integrativo (art. 40, comma 3) con regole la cui osservanza
è assistita e garantita dalla sanzione di nullità delle «clausole difformi» (art. 40, comma
3, con previsione recentemente ribadita - sia pure in relazione ai soli vincoli di bilancio -
dall’art. 40-bis del d.lg. 165 introdotto dall’art. 17 della l. 28 dicembre 2001 n. 448). In
qualche misura, è dunque ragionevole affermare che il sistema contrattuale nel settore
pubblico - consacrato nella forma attuale soltanto con la seconda revisione dell’assetto
riformatore dopo l’eccesso di legificazione sperimentato nella prima fase - abbia
assunto nel tempo una conformazione binaria, da più parti ritenuta idonea a coniugare
contrapposte esigenze: per un verso, di adeguamento flessibile del sistema contrattuale
alla galassia organizzativa che caratterizza quel settore, per via del riconoscimento e
dell’attribuzione di autonomi poteri conformativi alla contrattazione collettiva
nazionale; per altro verso, di gestione controllata ed accorpata delle risorse normative e
finanziarie rimesse nella disponibilità della contrattazione collettiva (cfr. ad esempio gli
artt. 2, 48 e 69), mediante la definizione di una cornice legale coerente con un sistema
amministrativo fortemente centralizzato sotto il profilo legislativo e finanziario. Sulla
base dell’esperienza pratica, è difficile negare che questo modello contrattuale abbia
effettivamente consentito il massimo di flessibilità governata del sistema contrattuale
nella prospettiva di una forte valorizzazione, a costituzione invariata, delle istanze di
decentramento del sistema amministrativo. A ben vedere, la funzione ordinante del
contratto nazionale ha consentito una adeguata differenziazione strutturale dei modelli
negoziali in relazione ai singoli comparti e l’integrazione ordinata del contratto di
secondo livello non ha impedito l’attribuzione al medesimo di pregnanti funzioni
organizzative e gestionali (basti considerare a tal fine non solo, né tanto, la disciplina
relativa al nuovo ordinamento professionale o all’attribuzione degli incarichi
29
dirigenziali ma anche, e direi soprattutto, quella relativa ai sistemi di gestione del fondo
unico di amministrazione).
Peraltro, la centralità della contrattazione nazionale è ribadita dall’art. 9 del d.lg.
165 che ad essa affida la disciplina dei «rapporti sindacali» e di non meglio precisati
«istituti della partecipazione», anche con riferimento agli atti interni di organizzazione
aventi riflessi sul rapporto di lavoro. Ad una prima lettura, l’esplicita attribuzione alla
fonte contrattuale della disciplina dei rapporti sindacali potrebbe apparire, in verità,
alquanto singolare. Essa, tuttavia, trova pregnante giustificazione nell’evidente obiettivo
di riportare nell’alveo dell’autonomia delle parti il governo delle rispettive «modalità
relazionali», sanando la profonda contraddizione di una riforma che alla
contrattualizzazione del rapporto individuale di lavoro ha affiancato, fin dalle origini,
una iperlegificazione della contrattazione collettiva e più in generale delle relazioni
sindacali. In questa prospettiva, la prescrizione dell’art. 9 deve essere correlata con l’art.
40, c. 1, del d.lg. 165 ai cui sensi la contrattazione collettiva ⎯ originariamente
competente a dettare regole «su tutte le materie del rapporto di lavoro, con esclusione di
quelle riservate» ⎯ trova ora svolgimento non solo, come già prima, sulle materie
relative al rapporto individuale, ma anche sulle «relazioni sindacali». Ond’è che la
reiterazione normativa in merito alla competenza contrattuale in materia di «relazioni»
(art. 40) o «rapporti sindacali» (art. 9) ⎯ del tutto ultronea e forse anche inutile sul
piano sistematico ⎯ può ragionevolmente essere intesa come rafforzativa della volontà
del legislatore di riportare un più chiaro ordine nel sistema delle fonti di disciplina del
lavoro pubblico e non più solo, e forse neppure tanto, di governare la conformazione dei
modelli relazionali (così li definiscono gli stessi contratti collettivi) tra i soggetti
negoziali (su ciò vedi, per tutti, Viscomi A., 2005b).
E’ stato detto che il sistema così congegnato appare incompatibile sia con la
richiesta «coerenza» con il settore privato, sia con la libertà della contrattazione di
stabilire il proprio ordinamento. In proposito, può dirsi che la disciplina della nullità
della clausola difforme conferma che la coerenza con il sistema privato non può e forse
neppure deve essere ricercata nei profili strutturali della contrattazione ma piuttosto in
quelli funzionali. In altri termini, la norma non impedisce alla contrattazione collettiva
di disporre liberamente della propria struttura così come nel settore privato; ma, a
differenza di ciò che avviene nel settore privato, ne riconosce e garantisce la stabilità ⎯
30
nell’ordinamento statuale ⎯ per via della sanzione di nullità delle clausole difformi.
Semmai, in tale disciplina trova conferma che il livello nazionale di contrattazione è
considerato dal legislatore come il perno del sistema contrattuale nel settore pubblico ed
al contempo la cerniera che consente di mettere in relazione l’ordinamento
intersindacale con quello statuale. Ammesso ciò, problemi sorgono semmai su un
diverso duplice versante, potendosi ragionevolmente dubitare che la clausola di nullità
costituisca il miglior strumento per ottenere concretamente il risultato atteso e che la
stessa sia del tutto coerente – come si vedrà tra poco – con le più recenti tendenze di
evoluzione del sistema amministrativo.
6. - L’ampia latitudine assegnata alla competenza ordinante della contrattazione
nazionale trova espressione preclara, ma non priva di riserve, nel potere di individuare i
«soggetti» della contrattazione integrativa (art. 40, c. 3, terzo periodo; ribadito dall’art.
43, c. 5). Nel sistema precedente, invece, l’art. 45, c. 8, del d.lg. 29 stabiliva
direttamente che la delegazione di parte pubblica fosse presieduta dal titolare del potere
di rappresentanza delle singole amministrazioni ⎯ o da un suo delegato ⎯ e composta
dai rappresentanti dei titolari degli uffici interessati, affidando alla contrattazione
nazionale la definizione delle modalità di composizione della sola delegazione
sindacale. Nonostante l’apparente linearità, la norma previgente suggeriva, anch’essa,
alcune perplessità, relative sia al ruolo gestionale del titolare del potere di
rappresentanza (tendenzialmente identificabile nell’organo politico di vertice), sia alla
scarsa diffusione di figure dirigenziali in alcuni comparti (gli enti locali), sia infine alla
possibilità di una contrattazione decentrata relativa a più amministrazioni (su tutti questi
problemi cfr. Viscomi A. — Zoppoli L. 1995 nonché Viscomi A. 1996).
A riserve di non minore pregnanza si espone la norma vigente, soprattutto a
cagione dell’attribuzione alla contrattazione nazionale della competenza volta ad
individuare i «soggetti» della contrattazione integrativa senza che a tal fine sia posta una
netta distinzione e separazione tra parte pubblica e parte sindacale. Da qui il rischio,
subito evidenziato, di un contratto collettivo che interviene a «disciplinare materia di
organizzazione interna delle amministrazioni» (Barbieri M. 1997, 263) e la conseguente
proposta di ridefinire il nucleo precettivo della norma come se fosse riferito ai soli
soggetti negoziali di parte sindacale. Se però si considera tanto il carattere bilaterale e
31
volontario della contrattazione collettiva nazionale (alla quale le amministrazioni non
possono certo essere considerate estranee anche in virtù del ruolo affidato ai comitati di
settore), quanto la differenza sussistente tra determinazione della “delegazione” e
individuazione dei “delegati” di parte pubblica, affidata ⎯ questa sì ⎯ agli ordinamenti
interni delle singole amministrazioni, la questione può essere agevolmente risolta.
Per connessione, è forse opportuno segnalare in questa sede la sostanziale
modificazione del ruolo che all’Agenzia può essere affidato in sede di contrattazione
decentrata. Infatti, mentre nel vigore della riforma originaria le amministrazioni
avrebbero potuto «avvalersi, nella contrattazione collettiva decentrata, dell’attività di
rappresentanza ed assistenza dell’Agenzia» (art. 50, c. 7, d.lg. 29), ora, invece, le stesse
amministrazioni possono beneficiare soltanto dell’«assistenza» di quella (art. 46, c. 2,
primo periodo). Evidente, a me pare, il tentativo di sollecitare un maggiore
coinvolgimento delle amministrazioni nella cura delle relazioni sindacali decentrate (in
coerenza con le ragioni che hanno condotto alla costituzione dei comitati di settore), cui
si accompagna il maggior ruolo ad esse assegnate nella gestione del contenzioso,
giudiziale e stragiudiziale, relativo alle controversie di lavoro.
Ritornando ai soggetti della contrattazione decentrata, il primo ostacolo che
incontra l’interprete è segnato dall’art. 43, c. 5, che, per un verso, ribadisce la
competenza della contrattazione nazionale nella definizione dei soggetti e delle
procedure della contrattazione integrativa e che però, per altro verso, mantiene fermo
«quanto previsto dall’art. 42, comma 7, per gli organismi di rappresentanza unitaria del
personale».
Per quanto attiene alla reiterazione nell’art. 43 della previsione sulla competenza
contrattuale nell’individuazione dei soggetti abilitati alla negoziazione integrativa può
dirsi che essa trova ragione e senso se si considera che il medesimo articolo detta,
invece, una puntuale disciplina in ordine all’individuazione della controparte sindacale
in fase di ammissione alle trattative e di stipulazione del contratto nazionale. E tale
reiterazione appare ancor più significativa se si considera che l’art. 8 del d.lg. 4
novembre 1997 n. 396 dettava una disciplina destinata a governare la transizione dal
sistema della contrattazione decentrata a quello della contrattazione integrativa,
prevedendo che nel primo anno di applicazione del decreto medesimo le pubbliche
amministrazioni potessero «ammettere» alla contrattazione in sede decentrata le
32
organizzazioni sindacali firmatarie dei contratti collettivi vigenti, a condizione che
abbiano la rappresentatività richiesta per essere ammesse alle trattative per il rinnovo
dei medesimi contratti (cioè: non inferiore al 4% tenendo conto del solo dato
associativo) ovvero che, pur non avendo tale rappresentatività minima nel comparto,
contino nell’amministrazione o ente interessato, un numero di deleghe non inferiore al
10% del totale dei dipendenti. Peraltro occorre ricordare che il medesimo art. 8
consentiva forme sperimentali di contrattazione integrativa da realizzare d’intesa con il
Dipartimento della funzione pubblica anche in deroga alle disposizioni allora vigenti
sulla contrattazione decentrata (ma su ciò cfr. Viscomi 2001). Ciò considerando, può
dirsi che quella reiterazione, ultronea sul piano sistematico, è funzionale ad escludere
una pur minima incidenza della disciplina legale sulla rappresentatività sindacale in
sede di contrattazione decentrata (decorsa, naturalmente, la fase transitoria). Non è
dunque privo di significato che il Tribunale di Milano, con la sentenza 10 maggio 2000
(in RCDL 2000, 681) abbia ritenuto non in contrasto con l’art. 39 Cost. le norme che
demandono al contratto collettivo di comparto il compito di individuare i soggetti
abilitati al negoziato decentrato. Egualmente nulla ha obiettato la Cass. nella sentenza
17 gennaio 2001 n. 616, quando nel contratto collettivo nazionale ha radicato la fonte
del diritto dei soggetti sindacali a sedersi al tavolo delle trattative escludendo che il solo
crisma della maggiore rappresentatività fosse da solo idoneo a fondare una
legittimazione negoziale non altrimenti prevista dalla fonte contrattuale.
Per quanto attiene poi al richiamo dell’art. 42, c. 7, occorre anzitutto ricordare che
tale norma stabilisce che gli accordi o contratti collettivi che regolano l’elezione e il
funzionamento dell’organismo di rappresentanza unitaria del personale «possono
prevedere» ⎯ tra le altre cose ⎯ che la medesima rappresentanza unitaria sia integrata,
ai fini della contrattazione integrativa, «da rappresentanti delle organizzazioni sindacali
firmatarie del contratto collettivo nazionale di comparto». Dalla relazione tra le due
norme è dunque possibile dedurre che: a) l’integrazione con membri esterni delle
rappresentanze del personale non è necessaria (gli accordi, infatti, «possono
prevedere»); b) tuttavia, nel caso in cui i relativi accordi prevedano tale integrazione, la
contrattazione collettiva nazionale di comparto, nel definire i «soggetti» negoziali, ne
risulta vincolata (non soltanto dunque in virtù delle relazioni interne al sistema
sindacale ma anche) ex lege. L’art. 42 ha avuto «attuazione» mediante l’accordo
33
collettivo quadro del 7 agosto 1998 relativo alla costituzione delle RSU per il personale
dei comparti delle pubbliche amministrazioni. L’art. 5 di tale accordo, al c. 3, in
relazione a quanto previsto dall’allora art. 47, c. 7, ora confluito nell’art. 42, c. 7,
stabilisce che «nella contrattazione collettiva integrativa, i poteri e le competenze
contrattuali vengono esercitati dalle RSU e dai rappresentanti delle organizzazioni
sindacali di categoria firmatarie del relativo ccnl di comparto».
7. - Come già nella prima riforma, il legislatore non ha stabilito un livello minimo
di decentramento (sulla scia di quanto era stato a suo tempo stabilito dall’art. 14 della
legge quadro del 1983). Anzi, l’esplicita previsione dell’art. 47, c. 8, secondo cui gli
organismi di rappresentanza del personale possono essere costituti presso «le sedi o
strutture periferiche che siano considerati livelli decentrati di contrattazione collettiva
dai contratti collettivi nazionali» suggerisce che, ferma restando la competenza
individuatrice del livello nazionale, possa aversi contrattazione decentrata (rectius, ora,
integrativa) sia presso «sedi» decentrate sia presso più generiche «strutture». Ed è
indubbio che la genericità di questo secondo termine ⎯ soprattutto se messo a
confronto con l’art. 14 della legge quadro del 1983 che legittimava la contrattazione
decentrata in relazione a «singole branche e per singoli enti» ⎯ sembra confermare
l’inesistenza di limiti legali nella individuazione del livello minimo di decentramento
contrattuale.
L’inesistenza di un limite minimo al decentramento si affianca alla recente
previsione secondo cui la contrattazione integrativa può «avere ambito territoriale e
riguardare più amministrazioni» (art. 40, c. 3, terzo periodo). Le due previsioni
rafforzano dunque la piena disponibilità della materia da parte della contrattazione
collettiva nazionale che nella individuazione dei livelli di decentramento non incontra
più neanche il limite (funzionale, più che strutturale) della finalizzazione al
«contemperamento» tra esigenze degli utenti, dei dipendenti e dell’organizzazione (cfr.
Viscomi A. – Zoppoli L. 1995, 804). D’altronde, occorre pure riconoscere che nella
prima tornata di contrattazione le parti hanno preferito mantenere la struttura
contrattuale usuale, contrassegnata: a) nei comparti caratterizzati dalla presenza di
amministrazioni disaggregate, dall’articolazione tra contrattazione decentrata di primo
livello (“nazionale”, “a livello centrale”) e contrattazione decentrata di secondo livello
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(per “sede centrale”, “sede distaccata di amministrazione centrale” o “ufficio periferico
di livello dirigenziale”); b) nei comparti caratterizzati da amministrazioni compatte,
dall’individuazione di un unico livello di contrattazione decentrata (“per
amministrazione”, “per azienda” o “per ente”).
Tuttavia, è indubbio che l’esigenza di una dimensione territoriale delle relazioni
sindacali era già presente anche nella contrattazione della prima tornata come
dimostrano le varie clausole relative all’istituzione di organismi paritetici privi, però, di
competenza negoziale: basti pensare, ad esempio, agli «Osservatori (regionali) sulla
mobilità» previsti dall’art. 11, c. 4, del ccnl per le Autonomie locali; ed ancora, alla
«Conferenza (regionale) permanente» istituita dall’art. 10 del comparto della Sanità ed
al correlato «sistema delle relazioni sindacali regionali»; ed infine, alle «Conferenze
(territoriali) di servizio» previste dall’art. 7, c. 3, del ccnl relativo alle Aziende
autonome. A questa esigenza risponde ora emblematicamente l’art. 40, c. 3, terzo
periodo, là dove riconosce che la contrattazione possa avere «ambito territoriale e
riguardare più amministrazioni». Allo stesso fine è orientato l’art. 46, c. 2, secondo cui
l’assistenza dell’Agenzia può essere assicurata anche «collettivamente ad
amministrazioni dello stesso tipo o ubicate nello stesso ambito territoriale», potendo
essa costituire anche delegazioni ⎯ stabili o temporanee, su base regionale o
interregionale ⎯ previa richiesta dei comitati di settore «in relazione all’articolazione
della contrattazione collettiva integrativa nel comparto ed alle specifiche esigenze delle
pubbliche amministrazioni interessate».
8. - Nel sistema originario, legge delega e decreto legislativo non disciplinavano, se
non in minima parte, tempi e procedure della contrattazione decentrata. Per quanto
riguarda i primi, assumeva un ruolo essenziale l’accordo quadro di cui all’art. 45, c. 5,
d.lg. 29. Un limite indiretto, ma penetrante, risultava poi dalla disciplina degli effetti
economici della contrattazione collettiva. Infatti, i c. 3 e 4 dell’art. 51 d.lg. 29
stabilivano, l’uno, la legittimità di impegni di spesa anche a carico degli esercizi
successivi e, l’altro, l’illegittimità della previsione di oneri aggiuntivi «oltre il periodo
di validità dei contratti». Sulla base di tale disciplina si era dedotta l’impossibilità di una
contrattazione decentrata collocata temporalmente a cavallo tra due successive tornate
contrattuali di comparto (Viscomi A. — Zoppoli L. 1995, 807). D’altronde, sarebbe
35
difficile ipotizzare un tale arco temporale di efficacia, considerando che il contratto
nazionale si configura come un rigido punto di riferimento del contratto di secondo
livello. In verità, i “ritmi” contrattuali nel pubblico impiego risultano sostanzialmente
differenti da quelli propri del settore privato e manifestano chiaramente la diversa
funzione delle contrattazione nei due sistemi. La sequenzialità immediata fra
contrattazione nazionale e decentrata nel pubblico impiego evidenzia e rafforza infatti il
carattere attuativo (e non già distributivo) di questa rispetto a quella. Occorre però
riconoscere che tale correlazione, se vale sicuramente per le risorse che dal centro
vengono affidate alla periferia, non dovrebbe assumere pari pregnanza per le risorse
autonomamente spendibili dalle amministrazioni interessate in sede di contrattazione
integrativa.
Analogamente, non trovano disciplina alcuna le procedure per la stipulazione del
contratto. Ovviamente la materia è da sempre affidata all’autonomia collettiva, dalla
quale ancora si attende una maggiore coerenza fra atteggiamenti reali delle parti e
modelli di procedimentalizzazione esasperata ed in effettiva (anzi ineffettiva perché
esasperata) presenti negli accordi di comparto stipulati negli ultimi anni. In genere, i
contratti nazionali hanno previsto due fasi tra loro non ben collegate: da un lato, la
presentazione della piattaforma sindacale (almeno tre mesi prima della scadenza del
contratto decentrato da rinegoziare); dall’altro, la costituzione della delegazione di parte
pubblica e la successiva convocazione per le trattative (entro un periodo variabile tra
quindici e trenta giorni dalla conoscenza del contratto nazionale). Attesa la stretta
derivazione dell’uno all’altro contratto, è però del tutto evidente che la presentazione ed
ancor prima l’elaborazione delle piattaforme negoziali presuppongono proprio la
stipulazione del contratto nazionale (sia esso quello quadriennale, sia quello biennale).
Viceversa, nel sistema precedente trovava compiuta ed articolata disciplina la fase
finale della contrattazione, prevedendosi: a) l’autorizzazione alla sottoscrizione
dell’organo di vertice dell’amministrazione interessata; b) il controllo preventivo del
provvedimento di autorizzazione alla sottoscrizione; c) specifici obblighi di
comunicazione del contratto stipulato; d) la verifica successiva degli effetti derivanti
dall’applicazione dei contratti. In buona sostanza, si replicavano a livello decentrato le
procedure di autorizzazione già pensate per il livello nazionale, individuando
nell’organo di vertice previsto dall’ordinamento dell’amministrazione interessata alla
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stessa contrattazione il «vero dominus delle politiche contrattuali dell’ente» (Viscomi
A. — Zoppoli L. 1995, 810), entro i limiti segnati da: a) rispetto degli impegni di spesi
in relazione ai fondi stanziati dalla contrattazione nazionale; b) inesistenza di oneri
aggiuntivi oltre il periodo di validità dei contratti; c) osservanza di quanto stabilito dal
documento di programmazione economico-finanziaria e dalla legge finanziaria e di
bilancio. A sua volta, l’autorizzazione era sottoposta a controllo esterno da espletarsi in
un breve termine, secondo un modello governato dalla regola del silenzio-assenso.
Il sistema è notevolmente cambiato a seguito della seconda riforma ma non per
questo può essere considerato deregolato. Anzitutto, l’atto di autorizzazione alla
stipulazione del contratto decentrato da parte dell’organo di vertice ed il controllo
preventivo degli organi competenti risultano sostituiti dall’autorizzazione di spesa ⎯
disposta dalle amministrazioni nelle stesse forme con cui vengono approvati i bilanci e
con distinta indicazione dei mezzi di copertura ⎯ e dal «controllo sulla compatibilità
dei costi della contrattazione collettiva integrativo con i vincoli di bilancio» accertata
dal collegio dei revisori dei conti ovvero, dove tale organo non è previsto (si pensi a
piccoli comuni), dai nuclei di valutazione o dal servizio di controllo interno. Con
l’evidente conseguenza che non potrà darsi contrattazione integrativa là dove non sia
presente almeno uno di tali organismi. Nulla dice la legge sul ruolo degli organi di
vertice e dei titolari del potere di rappresentanza delle amministrazioni, ma in proposito
occorre ricordare che ai sensi dell’art. 45 del d.lg. 80 le «disposizioni previgenti» che
conferiscono agli organi di governo l’adozione di atti di gestione e di atti o
provvedimenti amministrativi di cui all’art. 3, c. 2, del (d.lg. 29), si intendono nel senso
che la relativa competenza spetta ai dirigenti».
Con la sottoscrizione dopo l’avvenuto controllo sui costi, il contratto acquista
immediatamente l’efficacia ad esso propria e l’amministrazione è obbligata a darne
comunicazione in copia all’Agenzia, al Dipartimento della funzione pubblica ed al
Ministro dell’Economia. Peraltro, quando il contratto decentrato riguarda comuni,
province, comunità montane (e loro consorzi) deve darsi comunicazione «degli estremi»
del contratto alla banca dati informatica gestita dall’Anci ai sensi dell’art. 16-ter della l.
19 marzo 1993 n. 68. Gli obblighi di comunicazione sono finalizzati a consentire la
verifica della relazione fra costi reali e previsioni di spesa e degli effetti degli istituti
contrattuali sulla efficacia delle amministrazioni pubbliche. La sottoscrizione
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“controllata” (e non più “autorizzata”) del contratto conclude l’iter negoziale. Le
amministrazioni pubbliche sono dunque tenute ad osservare gli obblighi assunti, la qual
cosa rinvia alle questioni più generali sull’efficacia del contratto collettivo trattate nel
relativo commento.
E’ però da segnalare che mentre l’art. 43, c.3, d.lg. 165 consente all’Agenzia di
sottoscrivere i contratti nazionali «verificando previamente (…) che le organizzazioni
sindacali che aderiscono all’ipotesi di accordo rappresentino nel loro complesso almeno
il 51 per cento (…)», analoga norma non è prevista dalla legge in relazione alla
contrattazione decentrata e la materia non è stata disciplinata dalla contrattazione
collettiva. Da ciò segue che la decisione ultima di stipulare o non stipulare un contratto
è interamente rimessa alle dinamiche negoziali e politico-sindacale, restando esclusa la
possibilità di invocare una specifica norma al riguardo soprattutto quando vi sia
conflitto o disaccordo nell’ambito della pluralistica composizione della delegazione
trattante di parte sindacale.
9. - Sulla base della disciplina fin qui esaminata, i contratti collettivi della seconda
tornata (1998-2001) hanno ridefinito il sistema della contrattazione di secondo livello.
In questa sede, può essere interessante verificare in che modo la contrattazione
collettiva della seconda tornata (e non soltanto dei comparti oggetto della ricerca) ha
risolto alcuni dei problemi indicati nella note che precedono.
Il primo dato sul quale conviene soffermare l’attenzione è dato dalla struttura
contrattuale e, in particolare, dai livelli di decentramento contrattuale. In proposito, può
notarsi: a) per quanto riguarda i comparti con amministrazioni disaggregate, la
sostanziale continuità del sistema precedente con il duplice livello di contrattazione
integrativa; b) per quanto riguarda i comparti con amministrazioni compatte, la
permanente individuazione di un unico livello di contrattazione integrativa. In proposito
si segnalano due elementi. Anzitutto, nei contratti del primo tipo, il secondo livello di
contrattazione integrativa è correlato all’«ufficio periferico individuato come sede di
contrattazione a seguito della elezione delle RSU» (cfr. art. 4-B ccnl Ministeri).
L’innovazione è però più apparente che reale, dal momento che l’art. 2 dell’accordo
quadro del 1998 per la costituzione delle RSU ne consentiva la costituzione «presso le
sedi individuate dai contratti o accordi collettivi nazionali come livelli di contrattazione
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collettiva integrativa». In secondo luogo, l’art. 6 del ccnl per il personale del comparto
delle Autonomie locali disciplina la «contrattazione collettiva decentrata integrativa di
livello territoriale». A tal fine, si prevede la definizione di «protocolli d’intesa» fre le
organizzazioni sindacali firmatarie del contratti e le associazioni rappresentative degli
enti (ma solo Anci ed Uncem). Tali protocolli possono avere ambito regionale,
provinciale o territoriale, riguardare comunità montane, consorzi o unioni di comuni,
ovvero anche direttamente una pluralità di enti locali. Essi devono necessariamente
disciplinare la composizione delle delegazioni trattanti e le procedure di contrattazione e
devono avere struttura aperta, al fine di consentire l’adesione degli enti che ne abbiano
interesse. A questi, infine, è affidato il compito di definire, previa reciproca intesa, «le
modalità per la formulazione degli atti di indirizzo», a beneficio, ovviamente, della
delegazione trattante di parte pubblica.
Il secondo dato sul quale conviene soffermare l’attenzione è dato dalla
composizione della delegazione trattante. Per quanto riguarda la parte sindacale, è
possibile constatare una assoluta omogeneità nei contratti della seconda tornata. Tutti,
anche in relazione all’art. 47-bis, c. 5, del d.lg. 29, affiancano alle RSU le
organizzazioni sindacali di categoria firmatarie del contratto nazionale: ciò vale sia per
la contrattazione integrativa di secondo livello dei comparti con amministrazioni
disaggregate, sia per l’unico livello della contrattazione integrativa delle
amministrazioni compatte. Naturalmente, alla contrattazione integrativa di primo livello
dei comparti con amministrazioni disaggregate partecipano solo le organizzazioni
sindacali firmatarie dell’accordo nazionale. Per quanto attiene alla delegazione di parte
pubblica, le soluzioni appaiono relativamente più differenziate. Il contratto Ministeri
individua la delegazione trattante di parte pubblica in modo non diverso dal recente
passato, facendo riferimento: a) per la contrattazione integrativa di primo livello, al
titolare del potere di rappresentanza o ad un suo delegato e ad «una rappresentanza dei
dirigenti degli uffici direttamente interessati alla trattativa; b) per la contrattazione
integrativa di secondo livello, al «titolare del potere di rappresentanza
dell’amministrazione nell’ambito dell’ufficio o suo delegato» (ma nel contratto
precedente si parlava di «dirigente titolare del potere») e ad una rappresentanza dei
titolari dei servizi o uffici destinatari e tenuti all’applicazione del contratto. Non diversa
disciplina è contenuta nel contratto relativo – a mero titolo di esempio – al comparto
39
della Sanità che individua nel titolare del potere di rappresentanza e nei rappresentanti
dei titolari degli uffici interessati la composizione della delegazione trattante. Infine, il
contratto relativo alle autonomie locali (art. 10) rimette ai singoli enti
l’«individuazione» dei dirigenti ovvero, nel caso di enti privi di dirigenti, dei funzionari
che compongono la delegazione trattante di parte pubblica, ond’è che ⎯ in conformità
agli indirizzi riformatori rappresentati dal citato art. 45 del d.lg. 80 ⎯ risulta
drasticamente e doverosamente ridotto il ruolo gestionale degli organi di governo
politico. Al riguardo è da segnalare l’ordinanza 20 gennaio 2000 con cui il tribunale di
Lamezia ha ordinato l’estromissione del sindaco dalla delegazione trattante nella
contrattazione integrativa presso il comune di Curinga (sulla questione cfr. Talamo
2000, 779; in generale Viscomi 1997).
Il terzo elemento da considerare è dato dai tempi e dalle procedure per la
stipulazione o il rinnovo dei contrattazione integrativa. In proposito, i contratti non
presentano notevoli differenze tra loro ma tutti appaiono notevolmente diversi dalla
prima tornata. In generale, la durata dei contratti integrativa è stabilita in quattro anni.
Tuttavia, il ciclo negoziale può essere articolato diversamente: in via eventuale, in
relazione a materie che «per loro natura, richiedono tempi di negoziazione diversi; in
via necessaria, per quanto attiene all’individuazione ed utilizzazione delle risorse
economiche. In tal caso, infatti, la contrattazione integrativa ha cadenza annuale, a
motivo della diversa articolazione della disciplina relativa al finanziamento del fondo
unico per la parte accessoria della retribuzione. E’ da segnalare che tutti i contratti
contengono una clausola specifica sulla ultrattività del contratto decentrato (art. 5, c. 1)
e quello relativo al personale delle Autonomie locali prevede anche (art. 5, c. 6)
l’ultrattività dei precedenti contratti decentrati fino alla stipulazione del contratto
integrativo. I tempi ed i modi della negoziazione risultano definiti in modo più coerente
rispetto alla prima tornata (di cui si è detto), risultando così cadenzati: costituzione della
delegazione di parte pubblica (entro il termine comune di trenta giorni dalla conoscenza
del contratto nazionale); presentazione delle piattaforme contrattuali; convocazione
della delegazione di parte sindacale per l’avvio del negoziato entro i successivi trenta
giorni. I contratti specificano poi che, raggiunta l’intesa, questa deve essere inviata
all’organismo di controllo entro cinque giorni corredata dall’apposita illustrazione
tecnico-finanziaria. L’organo di controllo è diversamente individuato nei vari comparti:
40
per i Ministeri è identificato nei nuclei di valutazione o nei servizi di controllo interno;
per gli Enti non economici è individuato nel collegio dei sindaci o dei revisori (e, in
mancanza, nei nuclei di valutazione o nei servizi di controllo interno); nella Sanità è
individuato nel collegio dei revisori; nel comparto degli Enti locali si ripete
testualmente la norma legale di riferimento prevedendo che il controllo sulla
compatibilità dei costi sia effettuato dal collegio dei revisori o, in mancanza, dal nucleo
di valutazione o dal servizi di controllo interno. In caso di esito positivo del controllo o
di decorso del termine senza rilievi, il presidente della delegazione trattante sottoscrive
il contratto integrativo. Nel comparto della Sanità, la sottoscrizione del contratto è
affidata al «titolare del potere di rappresentanza dell’ente ovvero da un suo delegato»,
ma si tratta di specificazione più apparente che reale, dal momento che il medesimo
soggetto, o suo delegato, è anche il presidente della delegazione trattante.
10. - Sulla base della ricostruzione fin qui effettuata è possibile trarre ora un primo
bilancio in merito alla effettiva portata delle innovazioni legislative in materia di
contrattazione collettiva integrativa.
Il primo elemento da segnalare è la riduzione dei vincoli eteronomi nella
configurazione strutturale della contrattazione integrativa cui si accompagna
l’esaltazione del ruolo ordinante del contratto nazionale. L’intera configurazione del
sistema è riportata nell’alveo del potere contrattuale e dunque affidata alla libertà
negoziale delle parti. In altri termini, gli spazi attribuiti alla competenza ed alla
regolazione della contrattazione integrativa non sono stabiliti dal legislatore ma ordinati
dal contratto collettivo nazionale di lavoro. Siffatta libertà interna al sistema
contrattuale, è amplificata dal venir meno dei vincoli esterni al sistema e in particolare
delle direttive dell’Agenzia e della stessa funzionalizzazione della contrattazione
decentrata ai sensi del testo previgente dell’art. 45, c. 4, d.lg. 29. In questo senso, si può
dire che la contrattazione integrativa è caratterizzata più di prima da reale «autonomia».
Enfatizzare, dunque, più del dovuto la dipendenza gerarchica del contratto integrativo
da quello nazionale, non è corretto né sul piano propriamente tecnico-giuridico né sul
piano più generale della politica del diritto: sul primo, perché l’autonomia della
contrattazione collettiva è impropriamente letta come assenza di vincoli interni al
sistema contrattuale; sul secondo, perché è indubbio che nessun sistema ordinato,
41
nessun ordinamento, può tollerare elementi di destrutturazione interna, quale potrebbe
essere una contrattazione disarticolata. Ciò è tanto vero che neppure può lamentarsi una
incoerenza, da questo specifico punto di vista, tra contrattazione nel settore pubblico e
contrattazione nel settore privato: anche in questo, infatti, non sembra che la
contrattazione decentrata possa operare in modo tale da disarticolare il sistema
medesimo.
In verità, ed è questa la seconda osservazione, la coerenza con il settore privato del
nuovo modello di contrattazione integrativa, non va ricercata sul piano di un
isomorfismo strutturale ma nella riconduzione della contrattazione pubblica nell’alveo
delle logiche e delle prassi negoziali proprie del settore privato. In effetti, rivendicare
una coerenza mimetica tra settori rischia di determinare effetti perversi e, in fin dei
conti, di depotenziare gli spazi di innovazione della regolamentazione contrattuale. Se
coerenza con il settore privato non esiste, questa è semmai da individuare nella sanzione
di nullità che colpisce le clausole di secondo livello difformi da quelle dettate in sede
nazionale. In tal caso, infatti, l’ordinamento statuale supporta l’ordinamento sindacale
del settore pubblico con un peculiare meccanismo sanzionatorio al fine di inibire
atteggiamenti e prassi interni al secondo considerate idonee a pregiudicare un interesse
rilevante del primo, e in particolare l’interesse alla stabilità e soprattutto alla
prevedibilità dei costi della contrattazione decentrata. Questa circostanza, anomala,
come pure si è già riconosciuto, non è però sufficiente a revocare in dubbio la
«coerenza» tra sistema contrattuale pubblico e privato: essa, infatti, non intacca la
libertà negoziale né per quanto riguarda la determinazione della struttura contrattuale né
per quanto attiene le concrete determinazioni delle parti contraenti, ma incide soltanto,
immunizzandoli, sui comportamenti per così dire “devianti” interni al sistema
contrattuale. Da questo punto di vista, la sanzione della nullità, più che limitare, rafforza
il potere ordinante della contrattazione collettiva. Peraltro, la riconduzione della
contrattazione decentrata alla disponibilità delle parti negoziali trova ancora
manifestazione evidente nella ridefinizione del sistema dei controlli che ora si svolgono:
preventivamente, per via dell’autorizzazione alla spesa, che deve essere rilasciata nelle
stesse forme previste per l’approvazione dei bilanci; successivamente, per via del
controllo sulla compatibilità dei costi operata da strutture interne agli enti ma pure
legalmente operanti con forti margini di autonomia decisionale ed operativa. Ciò
42
considerando, ne segue che le potenzialità della contrattazione collettiva integrativa
risultano ora notevolmente più estese rispetto a quanto previsto dalla prima riforma (la
qual cosa non sta certo a significare che poi che tali potenzialità siano adeguatamente
implementate).
11. - Ciò premesso, appare però del tutto evidente la necessità di verificare la
coerenza del modello negoziale introdotto nella seconda fase dell’intervento riformatore
con le recenti tendenze evolutive del più ampio sistema giuridico-istituzionale chiamato
a governare le pubbliche amministrazioni e destinate ad ampliare e rafforzare,
innervandole nel tessuto costituzionale, i relativi spazi di autonomia normativa ed
organizzativa. Questa verifica, per motivi intuibili, può ben essere condotta assumendo
a metro di comparazione particolare il comparto delle autonomie locali. A tale stregua,
le riflessioni minime su contrattazione integrativa e relazioni sindacali nel comparto
degli enti locali, che qui si intendono proporre, e che pure consentiranno un veloce
riepilogo di alcune delle più significative questioni trattate, nascono dalla
consapevolezza che ogni discorso intorno ai sistemi negoziali – sia in sede di riflessione
analitica, sia in fase di costruzione operativa – deve ormai essere intimamente connesso
con le tendenze evolutive che sul piano giuridico-istituzionale caratterizzano il sistema
amministrativo, nell’ambito di un modello costituzionale in cui poteri e competenze
risultano distribuiti ed organizzati su base fortemente “federale”. In tale contesto, infatti,
segnato dall’intreccio tra paradigma costituzionale, sistema amministrativo e modelli
negoziali, la tensione strutturale che tradizionalmente segna l’architettura dei sistemi di
negoziazione collettiva, quella cioè tra vincoli centrali e istanze periferiche, già
fortemente sollecitata in un comparto caratterizzato da incredibile frammentazione
come quello delle autonomie locali, sembra trasformarsi radicalmente, diventando parte
di un più ampio gioco fatto di riparto e di rimandi tra governo centrale e governi ed
amministrazioni territoriali, ognuno dei quali gelosamente rivendica una compiuta sfera
di autonome prerogative, come dimostra il già ampio e continuo contenzioso in sede
costituzionale. Ond’è che l’intero modello di relazioni sindacali di comparto, costruito
negli ultimi dieci anni in faticosa ma chiara funzione di contrasto dei rischi di
frantumazione propri di una caotica galassia organizzativa, richiede ora di essere
originalmente ripensato, non diversamente da come – almeno per alcuni versi – la
43
centralità competitiva dei territori sembra suggerire ed imporre un parallelo
ripensamento della struttura contrattuale innervata, per il settore privato, sul Protocollo
del 1993 (cfr. Bordogna 2003).
Appunto perciò, appare in qualche misura sfuocata la giurisprudenza costituzionale
che tenta di salvaguardare l’assetto unitario del sistema rivendicando, in modo
esasperato, in capo allo Stato, l’esercizio del potere di coordinamento della finanza
pubblica, fino a salvare, per questa via, addirittura la norma che impone a tutti i
Comitati di settore di deliberare gli indirizzi negoziali attenendosi ai criteri indicati dal
Governo per il personale delle amministrazioni statali. La Corte, infatti, giustificando
pregnanti limitazioni agli organismi di rappresentanza degli enti non statali, sembra
ritenere che l’interesse generale al controllo della spesa – affidato, nel nuovo modello
costituzionale, alla cura dello Stato centrale – possa legittimare l’introduzione di
sostanziali limitazioni alla loro autonomia organizzativa, altrimenti riconosciuta e
fondata dalle stesse norme costituzionali. Ma è vincolo di conformazione, questo
consacrato dalla Corte, che, per un verso, mal si concilia con il senso originario e la
ragione stessa della istituzione dei Comitati di settore e che, per altro verso, suscita pure
significative perplessità ove solo si consideri che la stessa legge pone «gli oneri per la
corresponsione dei miglioramenti economici (…) a carico delle amministrazioni di
competenza nell’ambito delle disponibilità dei rispettivi bilanci» (art. 16, comma 7,
legge 28 dicembre 2001, n. 448; Corte Cost. 13 gennaio 2004 n. 4). Decidendo in senso
contrario, la Corte sembra invece portare ad un livello più alto – proprio perché diverso
è ora il contesto costituzionale – la tensione tra controllo dei costi e autonomia
organizzativa che tradizionalmente ha accompagnato un sistema finanziario pubblico a
carattere derivato, segnato cioè dai trasferimenti dal centro alla periferia (e nel quale si
radicava, per chi ancora ne ricorda l’esistenza, la commissione centrale di controllo
sugli organici degli enti locali).
12. - In effetti, credo si possa ragionevolmente affermare che il modello
contrattuale, maturato nel corso degli ultimi dieci anni nel settore pubblico, abbia
realmente rappresentato un plausibile tentativo di risolvere la tensione tra istanze di
controllo centrale e rivendicazione di autonomia periferica: come si è già visto, esso
risulta essenzialmente caratterizzato dall’articolazione binaria tra livello nazionale di
44
contrattazione e contratto decentrato o integrativo. Tuttavia, mentre presupposti e
condizioni del contratto di primo livello sono rigidamente determinati dalla legge stessa,
la conformazione strutturale e l’identità funzionale del contratto di secondo livello
risultano invece affidate all’autonomia regolativa del contratto di primo livello, tanto da
poter ragionevolmente affermare che quello è filiazione derivata e controllata di questo.
Il fulcro del sistema, dunque, così compiutamente congegnato al tempo della seconda
riforma, si innerva nel contratto nazionale, fondamento e limite, al contempo,
dell’autonomia regolativa del contratto di secondo livello. Conseguentemente,
quest’ultimo non può giuridicamente darsi se non nelle materie, con le procedure, tra i
soggetti e con le risorse definite dallo stesso contratto nazionale. Pertanto, in questa
specifica prospettiva, il contratto nazionale assume la funzione di garante della
razionalità complessiva del sistema contrattuale e ne assicura, o dovrebbe assicurarne, il
controllo dei costi, organizzativi ed economici. Ciò considerando, può dunque dirsi che
il dinamismo negoziale del settore pubblico assume carattere unidirezionale,
procedendo dal contratto nazionale e conformando per questa via i livelli inferiori, in
stretta aderenza con il modello di distribuzione derivata delle risorse finanziarie previsto
dall’art. 48 del d.lg. 165.
Naturalmente, si può dubitare tanto dell’opportunità quanto della legittimità di
questo sistema. Così, ad esempio, si può lamentare, come pure è avvenuto, il rischio di
una sorta di colonizzazione della dimensione autonoma da parte della fonte eteronoma;
o si può ancora segnalare una indebita inibizione, in sede decentrata, dell’autonomia
collettiva (che è potere sociale, prima che giuridico), poco coerente, forse, sia con
analoghe prassi del settore privato, sia con l’evoluzione delle amministrazioni verso
modelli organizzativi e gestionali dinamici, affidati all’iniziativa responsabile della
dirigenza, e per questo caratterizzati dall’assegnazione di obiettivi da raggiungere
anziché dallo svolgimento di procedure standardizzate. E’ però vero che la legge non
plasma, in via diretta ed immediata, il secondo livello di contrattazione ma ne affida
l’effettiva conformazione, strutturale e funzionale, all’autonoma disponibilità del
contratto di primo livello. Non a caso, i modelli di contrattazione sono notevolmente
differenti nei comparti, segnalandosi, da un lato, l’unico livello decentrato nel comparto
delle autonomie, e imponendosi, dall’altro lato, ben tre livelli di contrattazione
integrativa nel comparto scuola. Peraltro, la centralità del contratto nazionale trova
45
ulteriore conferma nell’art. 9 del d.lg. 165, ai cui sensi sono sempre i contratti nazionali
che «disciplinano i rapporti sindacali e gli istituti della partecipazione»: è in questa
norma, come è ben noto, che trovano fondamento e base figure ben note, quali
l’informazione, la consultazione e la concertazione. Veramente, dunque, sulla base
giuridica offerta dalle norme del decreto 165, il contratto nazionale costituisce il fulcro
del sistema di relazioni sindacali nel settore pubblico.
A presidio e garanzia dell’ordine di tale sistema, il legislatore della riforma ha
sanzionato con il vizio di nullità le clausole del contratto di secondo livello difformi da
quanto previsto dalle clausole di primo livello. Si tratta di sanzione ignota al settore
privato: qui, infatti, eventuali conflitti regolativi tra contratti di diverso livello trovano
soluzione in virtù dell’applicazione, pure non semplice né agevole, di tradizionali
strumenti di interpretazione e ricostruzione della volontà negoziale delle parti agenti.
Ma si tratta anche di sanzione estremamente severa, potendo il vizio della nullità essere
fatto valere, senza termine, da chiunque vi abbia interesse. E gli interessati potrebbero
alla fine essere tanti, se solo si considera che il Tribunale di Roma, con l’ordinanza resa
in data 20 luglio 2004, ha annullato una procedura di progressione professionale indetta
dalla Corte dei Conti, proprio perché disciplinata dal contratto integrativo in modo
difforme da quanto previsto dal contratto nazionale.
Forse proprio nell’effetto potenzialmente devastante derivante dall’applicazione
della clausola di nullità, è da individuare il motivo cha ha indotto il legislatore nazionale
ad innervare in essa i più recenti interventi orientati a ricentralizzare il sistema. Mi
riferisco, in particolare, all’art. 17 della l. n. 448/2001. Per un verso, tale norma esclude
la possibilità stessa di un concorso statale nella copertura delle spese derivanti da
disposizioni contrattuali sulle quali il governo abbia preventivamente formulato
osservazioni, così rafforzando l’effettività dei poteri di controllo sulle implicazioni
finanziarie della contrattazione. Per altro verso, lo stesso art. 17, rafforzandone
l’originaria disciplina, consacra l’applicazione della sanzione di nullità a tutte le ipotesi
in cui dai contratti integrativi siano derivati costi non compatibili con i vincoli di
bilancio delle amministrazioni. Se si considera che ai sensi dell’art. 16 della stessa
legge, i Comitati di settore sono tenuti a deliberare gli indirizzi negoziali attenendosi ai
criteri indicati dal Governo per il personale delle amministrazioni statali, appare del
tutto evidente come il controllo finanziario possa facilmente tradursi (o degenerare) in
46
controllo sull’autonomia organizzativa degli enti. Al riguardo, sia pure pronunciate ad
altri fini, sono illuminati le osservazioni di una recente pronuncia della Corte
Costituzionale che ha dichiarato non conforme a Costituzione una norma statale
disciplinante l’erogazione di finanziamenti per attività connesse a materie di
competenza regionale (art. 4, commi 209, 210 e 211, legge 24 dicembre 2003, n. 350;
Corte Cost. 77/2005). A giudizio della Corte, infatti, «la legge statale non può – in tali
materie – prevedere nuovi finanziamenti a destinazione vincolata, che possono divenire
strumenti indiretti, ma pervasivi, di ingerenza dello Stato nell'esercizio delle funzioni
delle Regioni e degli enti locali, nonché di sovrapposizione di politiche e di indirizzi
governati centralmente a quelli legittimamente decisi dalle Regioni negli ambiti
materiali di propria competenza».
Il discorso porterebbe naturalmente lontano; qui basti evidenziare come, così
disponendo il legislatore nazionale, il sistema di contrattazione collettiva si trovi a
subire gli effetti di due diverse linee di tensione, egualmente intercorrenti tra centro e
periferia: una di carattere tipicamente organizzativo e l’altra, invece, di ordine
propriamente finanziario. L’originaria tensione verso un sistema contrattuale articolato,
ma ordinato, ha dunque incontrato, più recentemente, e con un effetto di reciproco
rafforzamento, la diversa esigenza di controllo dei flussi di spesa decentrati; ond’è che
una clausola pensata a tutela dell’ordine contrattuale è ora utilizzata, in modo pervasivo,
a presidio dell’ordine economico, assicurando alle autorità centrali e governative un
intenso controllo non solo sui flussi finanziari derivati, ma anche, e per gli stessi fini,
sull’organizzazione e sulle risorse proprie delle amministrazioni diverse da quelle
statali. Quanto tale circostanza sia compatibile, per un verso, con l’autonomia delle
relazioni sindacali e, per altro verso, con il rafforzamento costituzionale del sistema
delle autonomie locali è questione sulla quale vale la pena spendere qualche parola (con
riflessioni che in qualche misura possono essere riferite anche e più generalmente ai
comparti caratterizzati dalla presenza di enti ad alta intensità di autonome prerogative
organizzative e regolative).
In relazione al primo profilo, mi pare indubbio che l’attribuzione legislativa di una
centralità negoziale del livello nazionale di contrattazione, quando riferita a comparti
con enti segnati da forte autonomia, costituisca veramente una pietra di inciampo: da un
lato, perché l’autonomia che il nuovo sistema costituzionale riconosce ad alcuni di
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questi enti (ad esempio alle regioni) potrebbe essere tale da rendere non più
giustificabile il vincolo legale di rappresentanza necessaria ad opera dell’Aran, posto da
una legge dello Stato (cfr. Viscomi 2002); dall’altro lato, perché la frammentazione
amministrativa di tali comparti, i cui effetti negativi sono esaltati dalla condizione di
scarsa maturità organizzativa della gran parte degli enti di ridotte dimensioni, è tale da
rendere necessaria la ricerca di più efficienti strumenti al fine di coordinamento e
controllo del sistema medesimo.
In verità, riguardata in questa prospettiva, la funzione ordinante attribuita dalla
legge al contratto nazionale svela definitivamente l’impossibile omogeneità degli enti di
comparti ad alta frammentazione, tanto da indurre a sollecitare una definitiva revisione
del modello negoziale, assicurando più ampi margini all’autonomia negoziale,
differenziando la stessa configurazione del contratto nazionale in relazione alle
dimensione organizzative degli enti ed introducendo, infine, più innovativi modelli di
contrattazione integrativa, in grado non solo di contenere i rischi propri della
frammentazione amministrativa, ma anche, e soprattutto, di anticipare o ad aiutare
l’evoluzione del sistema delle autonomie locali verso più diffusi, radicati e modulari
sistemi di integrazione funzionale delle attività e dei servizi erogati. Da questo punto di
vista, rappresenta un sicuro indice di novità la possibilità, prevista nel 1999 ma poi
ancora ribadita e riformulata nel 2004, di sperimentare, nel comparto delle autonomie
locali, forme di contrattazione integrativa territoriale. E si tratta di possibilità che può
essere apprezzata soltanto se e quando analizzata alla luce delle perverse conseguenze –
anche e soprattutto in una prospettiva di federalismo istituzionale e quindi fiscale – di
una frammentazione amministrativa che presuppone e impone, allo stesso tempo, una
stretta identificazione tra comunità locali e amministrazioni locali, laddove una cosa
sono le comunità, altra invece, e diversa, i comuni: le prime tutte – a mio avviso – da
rispettare e tutelare; i secondi, invece, da riorganizzare (più esattamente: da ripensare),
in funzione del perseguimento di obiettivi di efficienza ed efficacia amministrativa e,
per alcuni versi, o in alcune zone, anche di legalità democratica.
Questione diversa è quella relativa agli strumenti giuridico-istituzionali necessari
per garantire la stabilità del sistema. In proposito, mi pare sia opportuno segnalare
conclusivamente che l’indiscriminato allargamento della sfera di operatività della
clausola di nullità, dal legislatore nazionale intesa ormai a stregua di improprio
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strumento di controllo della spesa pubblica, non sembra tenere nella dovuta
considerazione e distinguere adeguatamente la diversa fonte delle risorse utilizzate in
sede contrattuale, risultando poco credibile, già sul piano logico, ma anche su quello
giuridico e costituzionale, che una legge dello Stato possa disporre anche delle modalità
di utilizzazione delle risorse proprie degli enti, non altrimenti derivanti da trasferimenti
centrali. Da questo punto di vista, dunque, appare chiaramente contraddittorio esaltare
l’autonomia degli enti e poi negare loro la possibilità stessa di una libera utilizzazione
delle risorse proprie.
In verità, credo di non errare se affermo che l’esaltazione legislativa della clausola
di nullità sembra configurarsi come una sorta di surrogato funzionale delle diverse
forme di controllo degli enti da parte di autorità indipendenti, di fatto ormai abolite o
rese oltremodo lasche. Ma credo anche di non errare se affermo che è proprio l’assenza
di organismi stabili di controllo a rendere la clausola di nullità non effettiva ovvero, se
si vuole, applicata in modo tanto discrezionale da risultare arbitrario o addirittura, in
taluni casi, addirittura esemplarmente punitivo. E’ indubbio, però, a ben vedere, che da
questa circostanza deriva un effetto negativo sulla tenuta stessa del sistema contrattuale,
costantemente stressato dai rischi di un controllo ex post, ma di un controllo incerto
tanto nell’an, che nel quando.
13. - Alla luce di queste considerazioni, il problema della coerenza del sistema
contrattuale con il nuovo assetto costituzionale, appare dunque ancora di difficile
decifrazione, tanto da sollevare la domanda sul senso e la ragione giustificativa di un
sistema di contrattazione collettiva fondato sulla inderogabile funzione ordinante del
contratto nazionale; in effetti, occorre riconoscere che la funzione di governo centrale
del contratto nazionale sembra in qualche misura asimmetrica rispetto al policentrismo
(anzi, come pure si è detto: alla perdita del centro) suggerito dall’assetto costituzionale.
Appunto perciò credo che anche nel comparto pubblico, come già nel settore privato,
occorra prendere sul serio e porre a tema di riflessione e discussione la grande questione
della struttura contrattuale e, in essa, del rapporto tra i diversi livelli di regolazione.
Naturalmente, non è problema che possa essere affrontato in questa sede. Credo, però,
che su almeno due punti sia necessario focalizzare conclusivamente l’attenzione. Il
primo è rappresentato – a mio avviso – dalla perdurante esigenza di un sistema
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contrattuale in grado di accompagnare e non di congelare il processo di trasformazione
delle amministrazioni pubbliche, anche mediante un ripensamento dei livelli contrattuali
(o del loro peso specifico): questa, in effetti, era l’ambizione del legislatore della
seconda riforma che nel contratto collettivo nazionale aveva intravisto uno strumento di
indirizzo politico e di governo organizzativo, laddove in tempi più recenti in esso si è
visto un indiretto strumento di controllo finanziario delle autonomie. Il secondo ed
ultimo punto è rappresentato dall’esigenza che, in sede decentrata, la contrattazione non
sia più affidata all’estemporanea improvvisazione creativa, ma sia affiancata e sostenuta
– soprattutto in regioni deboli e ad alto tasso di frammentazione – da strutture di
supporto tecnico e professionale in grado di delineare modelli di gestione del personale
in un contesto di sviluppo strategico dell’organizzazione in grado di rispondere in modo
efficace ed efficiente, ma anche competente e attento, ai bisogni dei cittadini ed alla
qualità della loro vita. Questa, in definitiva, è la vocazione costituzionale del servizio
pubblico e la ragione stessa del suo stesso esistere e persistere contro ogni tentazione di
affidamento a soggetti privati, portatori di interessi privati, della cura degli interessi
generali.
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Sezione II – I sistemi contrattuali dei comparti Ministeri, Enti locali e Università a confronto
1. Dopo l’analisi della regolamentazione legale del sistema di contrattazione
collettiva del settore pubblico condotta nella Sezione prima di questo Rapporto, occorre
ora passare all’analisi generale dei sistemi di contrattazione collettiva dei tre comparti
oggetto dell’indagine, segnalando preliminarmente che l’omogeneità strutturale dei
Rapporti di comparto, decisa in sede di progettazione dal gruppo di ricerca, consente di
procedere abbastanza agevolmente ad un raffronto tra le soluzioni che in ciascuno di
essi la contrattazione nazionale ha adottato per fronteggiare le proprie esigenze interne
di organizzazione delle dinamiche negoziali, così rispondendo alle sollecitazioni
derivanti dalla vigente normativa legale ora contenuta, in particolare, nell’art. 40 del D.
Lgs. n. 165 del 2001.
Questa normativa, è bene precisarlo ancora, è stata in buona misura riformulata in
occasione della seconda fase della riforma del lavoro pubblico e da essa è derivata, a sua
volta, una seconda tornata contrattuale che ha ampiamente risentito di tali innovazioni
legali sia dal generale punto di vista delle relazioni sindacali, sia da quello delle scelte
contrattuali effettuate nella definizione delle regole di procedura e di contenuto relative
al rapporto tra contratti nazionali di comparto (CCNL) e contratti integrativi decentrati
(CCI).
Sulla portata di quella regolamentazione legale ci si è, appunto, soffermati nella
prima Sezione di questo Rapporto generale, dove si sono segnalate altresì le
implicazioni derivanti dall’adozione di una diversa denominazione della contrattazione
di secondo livello (ci si riferisce, evidentemente, all’adozione della formula ‘contratti
integrativi’ per definire i contratti stipulati in sede decentrata).
In questa seconda Sezione del Rapporto ci si intratterrà più specificamente, invece,
sui contenuti dei contratti collettivi di comparto in relazione alla determinazione delle
regole che disciplinano non solo il sistema di contrattazione collettiva integrativa, ma
anche i c.d. istituti di partecipazione.
A quest’ultimo riguardo si deve ricordare che, ai sensi dell’art. 9 del D. Lgs. n. 165
del 2001, “i contratti collettivi nazionali disciplinano i rapporti sindacali e gli istituti
della partecipazione anche con riferimento agli atti interni di organizzazione aventi
riflessi sul rapporto di lavoro”. Una norma dalla quale – al di là del valore interpretativo
51
di sistema che, come si è accennato nella prima parte di questo Rapporto generale,
alcuni autori hanno attribuito ad essa – deriva la possibilità per la contrattazione
collettiva di regolamentare, oltre che procedure e contenuti della contrattazione
integrativa ex art. 40, co. 3, D. Lgs. n. 165, l’ambito di operatività degli istituti della
partecipazione.
Se ciò è vero, si comprende la ragione per cui i rapporti di comparto, in coerenza
con le finalità della ricerca (ricordate nella Premessa di questo Rapporto), si sono spinti
fino a rilevare anche le regole fissate dai contratti nazionali, appunto, in tema di istituti
della partecipazione, al fine di poter accertare sia la presenza di eventuali ‘espansioni’
dei processi negoziali nazionali e decentrati rispetto ad aree di micro-organizzazione
con incidenza sui rapporti di lavoro (che, ai sensi del citato art. 9, parrebbero riservate
dalla legge alla procedimentalizzazione tramite gli istituti di partecipazione), sia, più
specificamente, eventuali ‘travalicamenti’ della contrattazione integrativa su materie per
le quali i contratti nazionali di comparto hanno contemplato solo l’attivazione dei già
citati istituti di partecipazione.
Un secondo aspetto da tener presente è che gli stessi contratti di comparto
riconducono nell’ambito di questi istituti non soltanto quelli, più familiari
nell’esperienza delle relazioni sindacali del settore privato, della informazione, della
consultazione e della concertazione, nonché l’istituzione di organismi paritetici per la
trattazione di talune materie, ma anche l’interpretazione autentica dei contratti collettivi,
la quale, pur conosciuta nel settore privato, trova in quello pubblico la propria radice in
una specifica previsione di legge (anche se va notato come essa si configuri come un
istituto di fondamento negoziale e non ‘partecipativo’) .
Infine, ma non certo da ultimo, occorre tener presente che, stando alle congiunte
dichiarazioni delle parti sociali riportate nelle parti introduttive dei contratti di
comparto, l’obiettivo comune del loro sforzo negoziale è quello di dar vita ad un
sistema di relazioni sindacali in grado di “realizzare un adeguato contemperamento tra
l’interesse dei dipendenti al miglioramento delle condizioni di lavoro e alla crescita
professionale e l'esigenza delle amministrazioni di incrementare e mantenere elevate
l'efficacia e l'efficienza dei servizi erogati alla collettività” (CCNL Ministeri 1999, ma
analoghe espressioni si rinvengono negli altri due contratti). Affermazioni in cui
potrebbe leggersi il desiderio delle stesse parti di “instaurare un clima di relazioni
52
basato non sulla contrapposizione, ma sulla collaborazione e sulla rispettiva
responsabilizzazione” (così il Rapporto del comparto Università), ovvero, in altre
parole, di dar vita ad un sistema relazionale (non fondato sulla, ma) aperto alla
cooperazione, pur nel rispetto dei ruoli contrapposti. Il che, peraltro, non significa certo
che, nella determinazione delle regole di sistema e nella attuazione delle medesime
abbia poi trovato attuazione la predetta aspirazione ad un equilibrio finalizzato a
favorire una prospettiva di cooperazione tra gli interessi contrapposti: un giudizio,
questo, che sarà possibile tentare solo a conclusione della nostra indagine, alla luce di
una compiuta riflessione sull’effettivo atteggiarsi della normativa contrattuale; pur se
non ci si può nascondere la particolare difficoltà dello stesso giudizio (come avverte il
Rapporto del comparto Enti locali), anche in ragione delle molte ambiguità del dettato
contrattuale.
2. Da questo punto di vista, particolarmente significative sono anzitutto le scelte
effettuate dalle parti sociali in merito a tre aspetti del sistema contrattuale definito per
ciascun comparto in forza di quanto fissato dal D. Lgs. n. 165 del 2001: in primo luogo,
quelle attinenti alla determinazione dei livelli contrattuali; in secondo luogo, quelle
relative alla definizione dei soggetti negoziali relativi a ciascun livello; in terzo luogo,
quelle riguardanti gli aspetti procedurali della contrattazione integrativa, spesso
differenziati in ragione delle specifiche materie oggetto di trattativa decentrata. Di essi
sarà opportuno trattare in via preliminare, prima di passare a considerare le materie
indicate nelle c.d. clausole di rinvio. Successivamente si passerà, invece, a considerare
le previsioni dei CCNL relative agli istituti di partecipazione.
a) Quanto al primo profilo, una netta differenza si può anzitutto riscontrare tra la
contrattazione collettiva del comparto Ministeri e quella degli altri due comparti
indagati. Nel primo, infatti, in continuità con l’assetto definito nella prima tornata per i
comparti connotati dalla presenza di amministrazioni disaggregate, la contrattazione
collettiva integrativa è stata articolata su due livelli: uno, in un certo senso ancora di
carattere centralizzato, di singola amministrazione (intendendosi per tale non soltanto il
singolo Ministero, ma anche altre strutture amministrative come la Corte dei Conti, il
Consiglio di Stato e l’Avvocatura di Stato); il secondo, relativo ad “ogni sede centrale o
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sede distaccata di amministrazione centrale e ufficio periferico individuato come sede di
contrattazione a seguito della elezione delle RSU”. Negli altri due, invece, viene
previsto un solo livello di contrattazione integrativa in sede decentrata, pur se va notato
che questa uniformità – in cui si rispecchiano le forti autonomie, di fondamento
costituzionale, degli enti territoriali e universitari – è meramente apparente. Mentre,
infatti, nel comparto dell’Università il luogo naturale della contrattazione integrativa è
rappresentato dai singoli Atenei, la cui diversificazione non è certo di tipo funzionale
ma solo legata al territorio di insediamento ed alle tradizioni scientifiche, e più in
generale culturali, di ciascuno di essi, nel comparto Enti locali si è in presenza di una
pluralità di tipi di enti territoriali (Comuni, Province, Regioni), aventi caratteristiche
funzionali assai diverse tra loro.
Queste differenze sono, ovviamente, di estrema importanza nella definizione del
sistema contrattuale interno ad ogni comparto ed esse, come accennato nella Premessa,
hanno avuto anche una forte incidenza nelle scelte metodologiche effettuate nell’ambito
della ricerca.
In effetti, la presenza di un doppio livello di contrattazione integrativa nel comparto
Ministeri ha implicato inevitabilmente la decisione delle parti sociali di diversificare le
competenze assegnate a ciascuno di essi; pur se, ad attenta analisi, gli autori del
Rapporto di comparto hanno rilevato la tendenza ad attribuire al secondo di essi una
funzione prevalentemente applicativa degli istituti o materie la cui regolazione è
riconosciuta di competenza del primo (il che rende in qualche misura meno
preoccupante la rilevata assenza, nel CCNL, di clausole in cui si stabilisca
espressamente se i rapporti tra questi due livelli siano fondati sul principio gerarchico –
come vale per i contratti integrativi di entrambi i livelli rispetto al contratto nazionale –
ovvero su quello di competenza). E come si è accennato nella Premessa, la grande
complessità rinvenuta negli sviluppi della contrattazione integrativa di primo livello e la
obiettiva difficoltà di reperimento dei CCI del secondo livello, hanno alla fine indotto a
limitare l’indagine solo ai contratti integrativi del primo livello, ai quali – se ne possono
comprendere le ragioni proprio sulla base di quanto appena detto – è stata riconosciuta
una funzione regolativa di tipo ‘centralistico’ (con qualche conseguenza negativa in
termini di efficienza e di efficacia).
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Analoga scelta metodologica di riduzione del campo di indagine, ma di segno e
fondamento diversi, ha dovuto essere effettuata anche in relazione al comparto Enti
locali, rispetto al quale, nonostante la definizione da parte della contrattazione nazionale
di comparto di un unico livello di contrattazione integrativa, si è dovuto prendere atto
che la presenza in esso di Enti dalle caratteristiche estremamente diversificate e
disomogenee (da un lato Comuni e Province, quali enti locali dotati di autonomia
amministrativa nell’ambito dei territori di riferimento, dall’altro le Regioni, dotate
altresì di competenza legislativa propria esclusiva o concorrente con quella dello Stato
nelle materie indicate dall’art. 117, Cost.) sollevava profondi dubbi circa la piena
comparabilità tra le rispettive esperienze negoziali. Di qui la scelta di ridurre l’indagine
ai primi due tipi di enti, la cui contrattazione integrativa, peraltro, si è rivelata a sua
volta di tale entità da richiedere un campionamento secondo criteri rigorosamente
statistici. Ed infatti, anche nell’ambito di queste due categorie di enti il Rapporto di
comparto registra una grande varietà tipologica: da una maggioranza di piccolissime
sedi, rispetto alle quali alcuni compiti di contrattazione decentrata affidati dalla
contrattazione nazionale appaiono ‘esorbitanti’ (significativo appare, a questo riguardo,
che il contratto di comparto preveda anche un livello di contrattazione territoriale
aggregante più enti di piccole dimensioni), ad altri enti (si pensi alle grandissime “aree
metropolitane“) rispetto ai quali le competenze riconosciute appaiono eccessivamente
anguste.
b) In relazione ai soggetti delegati dai CCNL alla contrattazione integrativa, il
confronto tra i tre comparti ci mostra egualmente delle differenze, a loro volta derivanti
dalla struttura contrattuale descritta sub a).
Ciò è verificabile anzitutto in relazione alle delegazioni sindacali, rispetto alle
quali, mentre il CCNL del comparto Università e quello del comparto Enti locali, in
conformità con quanto previsto dalla normativa legale, individuano il soggetto
negoziale nelle Rsu e nei rappresentanti delle organizzazioni sindacali territoriali di
comparto firmatarie degli stessi CCNL, quello del comparto Ministeri distingue tra
primo e secondo livello di contrattazione integrativa. Così, a livello di amministrazione
la delegazione sindacale legittimata allo svolgimento delle trattative è composta
direttamente dalle organizzazione di categoria firmatarie del CCNL, laddove a livello di
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singola sede centrale o distaccata o ufficio periferico, la delegazione trattante si
compone delle RSU e delle organizzazioni sindacali di categoria territoriali firmatarie
del CCNL. Ed al riguardo non si può che rilevare – con riferimento al CCNL Ministeri
– come alla peculiare istituzione di un livello di contrattazione integrativa di
amministrazione in sede nazionale non possa che fare riscontro la specificità della
titolarità del potere negoziale, il quale viene riconfermato in capo agli stessi soggetti che
hanno firmato il CCNL. Il che costituisce una sorta di ‘anomalia’ di sistema, dato che il
primo livello di contrattazione integrativa, proprio per la coincidenza dei soggetti
trattanti, rischia di configurarsi come un livello di specificazione ed approfondimento
negoziale di profili che non sono stati trattati nel CCNL perché attinenti a materie
rispetto alle quali risulta necessario un adattamento regolativo alle peculiarità di
ciascuna delle grandi amministrazioni ministeriali.
Va comunque sottolineato che la presenza in ogni caso delle oo.ss. di categoria
nelle delegazioni sindacali trattanti, una scelta conforme al dato legale, è destinata a
creare uno stretto collegamento soggettivo nel processo negoziale, consentendo un
raccordo tra livello centrale e livello decentrato di contrattazione e, dunque, un
sostanziale controllo che a questo secondo livello le scelte negoziali siano coerenti con
quelle effettuate al primo: : che è poi la logica dell’analoga previsione inserita nel
Protocollo del ’93, che definì un modello di sistema contrattuale valido – non a caso –
per il settore privato e per quello delle pubbliche amministrazioni.
Poche differenze sono riscontrabili, invece e significativamente, tra i tre CCNL di
comparto in relazione alla individuazione dell’agente negoziale di parte pubblica. In
tutti e tre i contratti, infatti, questo è individuato, per il livello di amministrazione, nel
titolare del potere di rappresentanza o in un suo delegato e in una rappresentanza dei
dirigenti titolari degli uffici direttamente interessati alla trattativa. Nel caso
dell’Università, tali soggetti sono esplicitamente individuati nel Rettore o in un suo
delegato e nel Direttore Amministrativo dell’Ateneo o in un suo delegato (si prevede
altresì l’eventualità di integrare la delegazione con ulteriori soggetti, ove previsto dai
singoli ordinamenti). In relazione al secondo livello di contrattazione integrativa del
comparto Ministeri, la legittimazione negoziale è, invece, attribuita al titolare del potere
di rappresentanza dell’amministrazione nell’ambito dell’ufficio o ad un suo delegato e
56
ad una rappresentanza dei titolari dei servizi o uffici destinatari e tenuti all’applicazione
del contratto.
Vanno segnalate, al riguardo, le perplessità – puntualmente rilevate nei Rapporti
dei comparti Ministeri ed Enti locali – indotte dalla perdurante attribuzione della
legittimazione negoziale al titolare del potere di rappresentanza dell’amministrazione,
sostanzialmente identificabile nell’organo politico di vertice. Una scelta, questa, che
solleva preoccupazioni circa il rischio che tale presenza possa inquinare quella faticosa
separazione tra politica e amministrazione perseguita con la riforma del lavoro pubblico
e che ha rappresentato una delle strategie ‘forti’ messe in campo per promuovere una
moderna riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni. E’ vero, al riguardo, che la
formulazione delle disposizioni contrattuali dovrebbe, come ben evidenziato nel
Rapporto del comparto Enti locali, “portare ad escludere che la delegazione di parte
pubblica possa essere composta esclusivamente da soggetti politici”; ma a ben vedere
questa considerazione può lasciare un po’ di amaro in bocca a chi ritiene che di per sé la
presenza dei soggetti politici al tavolo della contrattazione possa rivelarsi un fattore di
possibile ‘alterazione’ del processo negoziale (comportando il rischio che allo scambio
‘puramente’ negoziale, si sostituisca un improprio scambio politico).
c) Con riferimento, infine, agli aspetti procedurali della contrattazione integrativa
va subito segnalata, in via preliminare, la particolare situazione creatasi nel comparto
Università, nel quale il forte ritardo con il quale si è giunti alla stipulazione del CCNL
della seconda tornata, oltre a comprimere i tempi per il rinnovo del contratto biennale
(relativo alla parte economica), ha inciso poi negativamente anche sulla contrattazione
integrativa del comparto, la quale è risultata schiacciata dall’avvio delle procedure per
il contratto biennale dapprima e, poi, per il rinnovo della terza tornata. Il problema – che
evidentemente non riguarda solo lo specifico caso di cui si discute, ma ha portata
generale – non è di poco momento e non va assolutamente trascurato, in quanto il
collegamento negoziale, imperativamente imposto dalla legge tra CCNL e CCI, sia,
come si preciserà tra breve, in merito ai contenuti della contrattazione integrativa , sia in
relazione alla tempistica di quest’ultima, fa sì che tali ritardi siano forieri di una sorta di
‘corto circuito’ del sistema negoziale, rendendo, in particolare, praticamente impossibile
che la contrattazione integrativa si svolga nei suoi tempi naturali (si noti che la durata
57
dei contratti integrativi dovrebbe essere normalmente quadriennale) e rischiando, così,
di vanificare le aspettative funzionali ad essa assegnate nell’ambito dello stesso sistema.
In effetti, ove si considerino le procedure negoziali definite in tutti e tre i contratti
di comparto (ma in verità la situazione non sembra differire molto anche negli altri
comparti del settore pubblico) si noterà che, in modo assai similare, vengono predisposti
iter procedurali lineari ed ordinati, ma sempre con la fissazione della regola generale –
che funge da norma comportamentale basilare per l’attività contrattuale decentrata –
secondo cui le trattative in sede decentrata devono svolgersi in un’unica sessione
negoziale per tutti gli istituti contrattuali, fatta eccezione per le materie previste dal
contratto collettivo nazionale che, per loro natura, richiedano tempi di negoziazione
diversi. E’ il caso, ad esempio, nel comparto Ministeri, della contrattazione in tema di
riflessi delle innovazioni tecnologiche e organizzative e di mobilità (che “avviene al
momento del verificarsi delle circostanze che la rendono necessaria”), o, nel comparto
Enti locali, della disciplina negoziale sull’utilizzo delle risorse (che è determinata in
sede di contrattazione decentrata integrativa con cadenza annuale), ovvero ancora, nel
comparto Università, della determinazione per via contrattuale dei criteri per la
ripartizione delle risorse economiche tra le diverse finalità del fondo per le progressioni
economiche e per la produttività collettiva ed individuale (che deve avvenire con
cadenza annuale).
Le considerazioni critiche appena svolte in merito ai rischi indotti dai ritardi nella
stipulazione dei CCNL risultano, tra l’altro, ancora più evidenti qualora si prendano in
esame più analiticamente le regole che governano l’avvio della contrattazione
decentrata. Basti pensare che in tutti e tre i comparti la costituzione della delegazione di
parte pubblica non avviene che 30 giorni dopo la stipulazione del CCNL e che le
trattative deve essere avviate, a loro volta, entro 30 giorni dalla presentazione delle
piattaforme sindacali (tra l’altro, nel comparto Ministeri queste modalità di avvio delle
trattative sembrano dover essere riferite alla sola contrattazione di amministrazione dato
che, come accennato più sopra, la contrattazione di singola sede presuppone a sua volta
la stipula di un contratto di amministrazione).
Ciò detto, e passando alle previsioni dei CCNL riguardanti lo sviluppo delle
trattative, balza in evidenza, in primo luogo, che in tutti e tre i casi è stato stabilito che
nel corso del primo mese di negoziato (30 gg.) le parti contraenti, salvo interruzione
58
delle trattative, non possono assumere iniziative unilaterali né procedere ad azioni
dirette (clausola di raffreddamento). Decorso tale periodo – che nel comparto Enti locali
è prorogabile di ulteriori 30 giorni, mentre nel comparto Università è più ampio (60
gg.), ed ugualmente prorogabile di ulteriori 30 giorni, in materia di orario di lavoro e in
relazione alle materie non direttamente implicanti l’erogazione di risorse destinate al
trattamento economico – le parti riassumono le rispettive prerogative e la libertà di
iniziativa e decisione, salvo che per quelle materie che non implichino direttamente
l’erogazione di risorse destinate al trattamento economico accessorio (la cui
determinazione è rimessa in via esclusiva alla contrattazione collettiva: artt. 2, co. 3, e
45, co. 1, d.lgs. n. 165/2001). Dato questo assetto, dunque, è possibile, come rilevato
nel Rapporto del comparto Enti locali, che “proprio su alcuni degli istituti che
potrebbero risaltare in una prospettiva di gestione e regolazione più flessibile del
rapporto di lavoro … la sottoscrizione di contratti integrativi è un fatto meramente
eventuale”.
Una volta concluso il contratto integrativo, esso è soggetto – si tratta di previsioni
che i CCNL di comparto traggono direttamente dalla legge – all’esame da parte dal
collegio dei revisori dei conti, ovvero dei nuclei di valutazione o dei servizi di controllo
interno (l’organo muta a seconda del comparto), e quindi, passato questo vaglio, esso
può essere stipulato, conservando poi la propria efficacia fino alla stipulazione di un
successivo contratto integrativo (vale, infatti anche per i CCI la regola dell’ultrattività);
nel caso, invece, in cui siano rinvenute violazioni dei vincoli di bilancio, va ripresa la
trattativa entro termini relativamente brevi. Sul punto non si riscontrano profili di
grande differenziazione, anche perché, in fin dei conti, si tratta in ogni caso di regole
contrattuali attuative di vincoli legali.
Infine, un aspetto che merita di essere sottolineato – perché costituisce una scelta
contrattuale non imposta dalla legge, ma che attesta l’interesse delle parti sociali di
livello centrale che gli impegni assunti in sede decentrata siano effettivamente rispettati,
in una logica di corretto funzionamento del sistema negoziale – è la presenza in tutti e
tre i CCNL di comparto di apposite clausole che, imponendo un vincolodi contenuto ai
contratti integrativi, dispongono che essi disciplinino tempi, modalità e procedure di
verifica della loro corretta attuazione. Si tratta di previsioni, dunque, che intendono
affidare alle stesse parti sociali il controllo sull’effettivo rispetto delle regole
59
concordate, ma che, a ben vedere, svolgono una vera e propria funzione ‘educativa’ in
merito alle dinamiche negoziali, imponendo di per sé una continuità relazionale volta ad
alimentare un clima di collaborazione tra amministrazione e organizzazioni sindacali in
sede di singola amministrazione. Il che, evidentemente, non può che avere effetti
positivi anche nella quotidiana gestione degli uffici e dei rapporti di lavoro.
3. Assai più complessi e, al tempo stesso, particolarmente significativi, sono i
risultati dell’analisi compiuta nei tre Rapporti sulle materie di competenza della
contrattazione collettiva integrativa in base alle clausole di rinvio dei CCNL.
In effetti, “è proprio sugli ambiti oggettivi di intervento contrattuale [che] si
concentra il margine più rilevante di azione degli enti e delle rappresentanze sindacali
nella prospettiva di una regolazione concretamente più duttile e flessibile del rapporto di
lavoro” (così si esprime il Rapporto del comparto Enti locali). Ed è in relazione ad essi
– si potrebbe aggiungere – che si possono individuare le più tipiche esigenze
organizzative delle articolazioni amministrative di ciascuno dei tre comparti indagati. E’
infatti presumibile che proprio la determinazione, da parte dei CCNL, delle materie
demandate alla competenza della contrattazione collettiva integrativa costituisca un
indice significativo per rilevare quali aspetti della gestione del personale siano stati
valutati, dalle parti sociali a livello nazionale, centrali nelle strategie organizzative delle
amministrazioni ed in quelle delle organizzazioni sindacali, aprendo, di conseguenza, la
strada ad una regolazione negoziata di essa. Ciò pur nella consapevolezza che ben
diverso è il problema della effettiva capacità della contrattazione collettiva integrativa di
dare risposta a siffatte ‘aperture di credito’: problema al quale, ancora una volta, si potrà
tentare di dare risposta solo alla fine del percorso di indagine.
Queste brevi considerazioni trovano in buona misura conferma dall’analisi delle
sezioni dei tre Rapporti dedicate alla rilevazione delle materie oggetto di rinvio alla
contrattazione decentrata. Nonostante, infatti, l’ampia corrispondenza di queste ultime
nei CCNL dei tre comparti, è indubbio che affiorino alcune specificità che, con tutta
evidenza, sembrano poter essere ricollegate, per l’appunto, a dinamiche negoziali
ispirate da tipiche esigenze organizzative delle strutture amministrative di riferimento.
Ciò traspare ad esempio nei comparti Enti locali ed Università.
60
In effetti, nell’uno e nell’altro è agevole rilevare l’importanza assunta, tra le
materie di competenza della contrattazione integrativa, da quelle riguardanti il
finanziamento e la composizione dei fondi economici destinati alla spesa per il
personale.
In particolare, nel Rapporto del comparto Enti locali si riconosce esplicitamente
che questa è un’area ‘strategica’ per la contrattazione integrativa del comparto, sia
perché i “concreti contenuti applicativi hanno segnato l’evoluzione della contrattazione
integrativa ed alcuni rilevanti approdi del vigente contratto di comparto (2002-2005)
sulla materia”, sia perché “quantitativamente preponderante” nella relativa dinamica
contrattuale. E ciò, d’altronde, può essere messo in relazione anche con il fatto che
nell’accordo sul biennio economico 2001-2002 “si prevede, in attuazione della clausola
del contratto del 1999 sugli incrementi finanziari, che gli enti possono avvalersi della
facoltà di integrare le risorse finanziarie destinate alla contrattazione decentrata
integrativa, con oneri a carico dei rispettivi bilanci”, purché siano rispettate rigorose
condizioni di compatibilità interna (le amministrazioni, infatti, devono aver stipulato il
contratto collettivo decentrato integrativo per il quadriennio 1998-2001, devono aver
istituito e attivato i servizi di controllo interno, devono essere in possesso di condizioni
economico-finanziarie adeguate, devono aver conseguito una percentuale minima degli
obiettivi annuali stabiliti negli strumenti di programmazione adottati)1.
In ogni caso, parrebbe di poter rilevare che – a parte le considerazioni circa la
delicata dinamica centro/periferia, nella quale si traducono le tensioni tra esigenze di
controllo della spesa pubblica e riconoscimento di maggiori spazi di autonomia degli
enti –, nell’ambito delle scelte che concretamente vengono effettuate dal CCNL del
comparto Enti locali in relazione a quest’area, una maggiore enfasi venga riposta ai
profili della valutazione del personale, in relazione all’attribuzione delle posizioni
organizzative (p.o.) e delle prestazioni retributive di risultato.
Orbene, anche nel comparto Università, come accennato, l’aspetto delle risorse
destinate alla spesa del personale appare centrale negli interessi delle parti sociali,
essendo stata dedicata ad esso particolare attenzione, con riferimento a tutti gli istituti
1 Laddove alle esigenze di controllare la lievitazione della spesa per il personale è invece riconducibile l’originale regola contrattuale (non applicabile agli enti “virtuosi”), secondo la quale “il costo medio ponderato del personale collocato in ciascun percorso economico di sviluppo non può superare il valore medio del percorso dello stesso”
61
connessi a quest’area. E tuttavia, in tale comparto parrebbe di poter rilevare che una
maggiore attenzione delle parti sociali viene rivolta dal CCNL al problema della
gestione a livello decentrato degli inquadramenti, conseguenti all’introduzione del
nuovo sistema di classificazione professionale.
Ancora diversa appare, in buona misura, la situazione nel comparto Ministeri, dove
l’attenzione delle parti sociali appare distribuita in modo uniforme su tutta una serie di
materie attinenti alla gestione del personale; anche se, per il vero, ciò sembrerebbe a
prima vista contraddetto dalla presenza di un dato formale, dal quale sembrerebbe
doversi dedurre che alcune tematiche risultano in qualche misura privilegiate rispetto
altre.
In effetti, a questo riguardo va ricordata la presenza, nel CCNL del comparto in
questione, di una clausola generale di rinvio alla contrattazione collettiva di primo e
secondo livello nella quale si rinviene l’utilizzo dell’avverbio ‘prioritariamente’ con
riferimento al decentramento contrattuale di alcune materie lì elencate. Utilizzando la
chiara analisi degli estensori del Rapporto, la norma in questione, letta in connessione
con altre previsioni del contratto, non può significare che l’attribuzione alle predette
materie di una collocazione prioritaria rispetto ad altre materie per le quali nel CCNL
stesso si rinvengono ulteriori clausole di rinvio (che potremmo definire ‘speciali’
rispetto a quella generale di cui si discute). Va detto, tuttavia, che, guardando l’elenco
analitico di tali materie – in particolare, per il primo livello: organizzazione degli uffici,
dei servizi e del lavoro e gestione delle risorse umane; ordinamento, inquadramento e
sviluppo professionale; utilizzo delle risorse finanziarie e delle risorse per lo sviluppo e
la produttività; articolazione dell’orario di lavoro, ambiente di lavoro salute e sicurezza;
formazione professionale; mobilità; pari opportunità – e, più specificamente, gli aspetti
di esse destinati alla negoziazione decentrata integrativa, si può agevolmente dedurre
che essi costituiscono il cuore pulsante della gestione del personale nelle pubbliche
amministrazioni. Di modo che risulta in buona misura confermato il rilievo
dell’osservazione da cui si è partiti.
Se ciò è vero, a noi sembra che possa essere messo in relazione proprio con la già
rilevata particolare struttura del sistema contrattuale del comparto Ministeri. Come si è
accennato in precedenza, la presenza di un primo livello ‘centralizzato’ di contrattazione
integrativa, quello di amministrazione, può essere collegata proprio all’esigenza di
62
consentire una diversificazione regolativa, prima ancora che in sede di singole unità
decentrate, in sede di grandi strutture amministrative (appunto i Ministeri, la Corte dei
Conti, il Consiglio di Stato etc.); e questo potrebbe a sua volta giustificare, a ben
guardare, la scelta del CCNL in favore di una sorta di ‘pari dignità’ delle materie
oggetto di rinvio. Né, da questo punto di vista, alcuna ulteriore riflessione utile può
trarsi dalla istituzione di un secondo livello di contrattazione integrativa, e dai rinvii ad
esso contenuti nel CCNL, essendosi già in precedenza messo in evidenza come la
contrattazione integrativa di secondo livello sia stata concepita dal CCNL soprattutto
come applicativa di regole e principi definiti nell’ambito dei contratti collettivi
integrativi del primo livello.
Le considerazioni che precedono meritano ancora alcune precisazioni.
Anzitutto, anche per quanto attiene ai comparti Enti locali e Università, accanto
alle materie cui, secondo i Rapporti di comparto, i relativi CCNL paiono aver dato un
maggior rilievo, sono comunque oggetto di rinvio anche ulteriori materie che, tra l’altro,
come si avrà modo di rilevare nella seconda parte di questo Rapporto, hanno poi di fatto
trovato spazio nei contratti integrativi esaminati, sia pure in misura meno rilevante. A
parte le materie che sono rinviate alla contrattazione integrativa di tutti i comparti
direttamente dagli accordi quadro (CCNQ) (lavoro temporaneo o interinale, telelavoro,
prerogative sindacali, sciopero e prestazioni indispensabili) si possono ricordare, per
quanto riguarda sia gli Enti locali che le Università, la formazione professionale,
l’ambiente di lavoro, le implicazioni in ordine alla qualità del lavoro e alla
professionalità dei dipendenti in conseguenza delle innovazioni organizzative e
tecnologiche, l’orario di lavoro, la mobilità professionale, le eccedenze di personale.
In secondo luogo, i problemi interpretativi del dettato contrattuale riscontrati in
relazione alla clausola generale del CCNL Ministeri si rinvengono anche in altre
clausole di rinvio dello stesso CCNL (che non precisano, ad es., il livello di
contrattazione integrativa competente), nonché, sia pure con minore ampiezza e
frequenza, anche nei comparti Università ed Enti locali. Il che solleva obiettivamente
alcune preoccupazioni legate alla rigorosa previsione contenuta nell’art. 40, co. 3, del D.
Lgs. n. 165, la quale, com’è noto, sanziona con la nullità le clausole non rispettose dei
vincoli fissati dai contratti collettivi nazionali. Delle difficoltà interpretative derivanti
anche da questa disposizione legale si è già detto nella prima parte di questo Rapporto
63
generale. Qui val solo la pena di segnalare come clausole dei CCNL ambigue in
relazione alle competenze rinviate alla contrattazione integrativa possono risultare
foriere di rischi per la stessa regolarità del sistema contrattuale e, più in generale, delle
relazioni sindacali decentrate, in quanto espongono alla sanzione di nullità le norme dei
contratti integrativi – sulle quali possono, tra l’altro, essersi consumati contrasti tra le
parti di non poco momento in sede decentrata – che disciplinano materie, o aspetti di
esse, su cui sussistano dubbi di competenza in ragione dell’incertezza derivante dalla
clausola di rinvio del CCNL.
Va detto, peraltro, che le clausole di rinvio possono talvolta essere ‘volutamente’
generiche, sia perché una formulazione inequivoca della singola competenza può non
consentire alle parti di arrivare all’accordo, sia perché una formulazione viceversa più
‘aperta’ può favorire sia un’applicazione ‘evolutiva’ del rinvio, sia un adattamento agli
specifici interessi delle parti a livello decentrato, costituendo così, piuttosto, una
‘opportunità’, una ‘risorsa negoziale’. Del resto, non è nemmeno pensabile che il rinvio
possa essere – oltre che tassativo – del tutto preciso, specifico e dettagliato.
4. – Un ultimo aspetto da esaminare, in questa prima sezione del Rapporto dedicata
all’analisi dei contratti di comparto, è quello relativo alla rilevazione dei richiami in essi
contenuti ai c.d. istituti della partecipazione.
Si è già accennato in precedenza che i CCNL habbo ricondotto a questa categoria
gli istituti dell’informazione, della consultazione e della concertazione nonché
l’istituzione di organismi paritetici e l’interpretazione autentica dei contratti collettivi.
Occorre ora sottolineare – concentrando l’attenzione sui primi tre istituti – che
dall’analisi svolta nei tre Rapporti di comparto emerge una intensissima rete di
procedimentalizzazione che avvolge i poteri delle amministrazioni pubbliche nella
gestione dei rapporti di lavoro, la quale se, in buona misura, appare creata in funzione,
per così dire, ‘sostitutiva’ della possibilità per i contratti integrativi di regolamentare
direttamente istituti gestionali, per altro verso si rivela fortemente indicativa di una
concezione fortemente ‘partecipativa’ del governo del personale e degli stessi uffici.
Essa, dunque, ci sembra confermare in pieno la ‘filosofia’ di fondo che – come rilevato
in apertura di questa sezione del Rapporto generale – ha ispirato le parti sociali nella
definizione dei rispettivi sistemi di relazioni sindacali: quella di costruire un ‘clima’ di
64
tipo fortemente cooperativo attraverso la quotidiana sperimentazione di contatti
relazionali sui singoli aspetti del processo decisionale del management pubblico.
I CCNL abbondano dunque di questo tipo di clausole procedimentali, rendendo
obbligatoria l’attivazione di momenti di informazione, consultazione e di concertazione
rispetto a moltissime materie, differenziando opportunamente il ricorso alle tre forme in
ragione della specificità dell’istituto interessato. E, d’altro canto, appare con evidenza
che si è in presenza di forme di partecipazione ad intensità differenziata, e che hanno, in
fin dei conti, diversi valori funzionali.
In effetti, all’informazione può essere ricondotta, come ben esplicitato nel CCNL
del comparto Università, la funzione di dar vita ad un sistema relazionale incentrato
“sulla trasparenza decisionale e sulla prevenzione dei conflitti, pur nella distinzione dei
ruoli”. Si spiega, così, ampiamente come quella che si potrebbe ritenere la ‘forma più
debole’ di partecipazione (nelle versioni sia preventiva, sia successiva), sia prevista in
generale, in tutti e tre i CCNL, per un ampio ventaglio di materie attinenti, nella
generalità, a gran parte delle misure di gestione dei rapporti di lavoro. Non si deve,
inoltre, trascurare che essa è frequentemente prevista in relazione a materie per le quali
è aperta alle parti sociali la via della contrattazione integrativa, così contribuendo a
costruire un tavolo negoziale in cui la conoscenza di dati, situazioni e problemi renda
più agevole una negoziazione più consapevole e, perciò stesso, più agevole la via
dell’accordo.
Frequentemente, poi, l’informazione è strettamente connessa alla consultazione, nel
senso che dal processo informativo, a richiesta della parte sindacale, può derivare un
vincolo per le amministrazioni ad attivare una fase di confronto, volta a consentire
l’acquisizione di un parere, più o meno formale, a latere delle organizzazioni sindacali.
Al riguardo va precisato che, in realtà, i CCNL dei comparti Università e Ministeri
individuano la consultazione come fattispecie autonoma – e, dunque, non
necessariamente collegata all’informazione – distinguendo casi in cui essa è
obbligatoria (nel senso che l’Amministrazione è sempre tenuta ad avviare la procedura)
ed altri in cui essa viene definita come facoltativa. Appare peraltro evidente che, nei casi
in cui essa viene definita come facoltativa, ci si trova di fronte a situazioni nelle quali è
affidata alle organizzazioni sindacali la facoltà di sollecitarne l’effettuazione, la quale,
peraltro, da questo momento diviene obbligatoria per l’amministrazione stessa. Una
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situazione solo in parte difforme traspare dal CCNL Enti locali, nel quale la
consultazione, pur se ridimensionata rispetto alle altre due forme partecipative, affiora
soprattutto con riferimento ad ipotesi in cui all’adempimento dell’obbligo di
informazione fa seguito, quasi come effetto naturale, un vincolo di consultazione,
destinato ad operare in stretta connessione con il primo. Quanto detto, evidentemente,
riguarda le fattispecie consultive costruite dallo stesso CCNL, restando poi intatte quelle
che derivano direttamente dai vincoli di legge.
Per quanto riguarda poi la concertazione, va segnalata anzitutto la non felice
adozione di questo termine da parte dei CCNL del settore pubblico, al fine di designare
una forma partecipativa più forte, in cui si sostanzia la ricerca di un vero e proprio
consenso della controparte sindacale nell’adozione di provvedimenti da parte
dell’amministrazione pubblica. Con questo termine, infatti, nel linguaggio delle
relazioni industriali, si suole far riferimento ad un metodo relazionale di tipo trilaterale,
in cui gli interessi delle parti sociali si confrontano e cercano composizione con
l’interesse di cui sono normalmente portatori i pubblici poteri, nell’adozione delle scelte
politiche. Ciò detto, va comunque rilevato come in tutti e tre i CCNL la concertazione –
per quanto riguardante un numero ancora limitato di materie (e più specificamente
alcuni specifici aspetti di esse) attinenti alla gestione delle risorse umane, ivi compresi
aspetti economici di essa (come nel contratto del comparto Enti locali) – tenda ad essere
intesa come vera e propria forma relazionale di tipo ‘paranegoziale’, cui sono affidate
funzioni di composizione dei potenziali conflitti che possono derivare nell’assunzione
di importanti decisioni attinenti alla gestione del personale. Da questo punto di vista, se
non deve destare particolari preoccupazioni la possibilità, enunciata nei CCNL del
comparto Università e Ministeri, che i risultati della concertazione siano formalizzati in
un verbale, solleva qualche incertezza il fatto che nel primo si giunga a sostenere che
“gli impegni concertati hanno per le parti carattere vincolante” e, nel secondo, si faccia
riferimento alla “possibilità di un accordo”: viene così reso infinitamente sottile il
confine tra concertazione e contrattazione integrativa, creandosi problemi di rilievo
giuridico, stante il vincolo legale, più volte ricordato, posto dall’art. 40, co. 3, del Dl.
Lgs. n. 165 del 2001.
Passando ai soggetti sindacali destinatari delle tre forme di partecipazione in
questione, va notato che, nel CCNL dei comparti Università e d Enti locali, in cui esiste
66
un solo livello di contrattazione integrativa, i destinatari dei vincoli di informazione,
consultazione e concertazione fissati dai CCNL a carico delle amministrazioni
coincidono con i soggetti sindacali titolari del potere di negoziazione in sede decentrata
(r.s.u. e oo.ss. territoriali di categoria, firmatarie del CCNL). Diversa è la situazione,
invece, nel comparto Ministeri, dove, anche con riferimento agli istituti della
partecipazione, l’interlocuzione sindacale si svolge su due livelli, di modo che i soggetti
sindacali interessati sono, di volta in volta, o le sole oo.ss. di categoria firmatarie del
contratto collettivo nazionale di comparto, oppure, oltre a queste, le r.s.u.; ed al riguardo
può dirsi che la selezione dei soggetti destinatari dei diversi modelli relazionali di
partecipazione risulta essere stata per lo più ragionevolmente effettuata dalle parti o in
connessione con le relative competenze contrattuali ovvero ratione materiae, con
riferimento cioè alle specifiche questioni su cui verte l’interlocuzione stessa.
Un cenno conclusivo meritano, infine, gli aspetti procedurali dei tre istituti di
partecipazione di cui si è sin qui trattato. Traspare dalle clausole dei CCNL di comparto
la tendenza ad una formalizzazione delle regole procedurali da seguire nell’esercizio
delle tre forme partecipative, anche se non mancano casi in cui la normativa contrattuale
è silente o non chiara. Sul punto non può che rilevarsi che la fissazione di regole
procedurali costituisce elemento fondamentale per consolidare tali istituti e, di
conseguenza, per conferire loro l’effettività necessaria a garantire l’assolvimento delle
funzioni ad essi assegnate, quali sopra evidenziate. Di tale tendenza è dunque
auspicabile un ulteriore rafforzamento, anche al fine di predisporre regole
comportamentali certe per le parti sociali direttamente coinvolte nelle attività ad essi
correlate.
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Sezione III. La contrattazione integrativa nei comparti Ministeri, Enti locali e
Università
Premessa. Conclusa l’analisi della regolamentazione legale del sistema di
contrattazione collettiva del settore pubblico, nonché quella sugli assetti contrattuali
definiti dal contratto nazionale nei tre comparti oggetto della ricerca, è necessario ora
passare ad esaminare, sulla base dei Rapporti di comparto, gli aspetti peculiari della
seconda tornata della contrattazione integrativa, avendo di mira i due obiettivi
fondamentali della ricerca e cioè: verificare, in primo luogo, se e come essa abbia
contribuito a favorire una gestione più flessibile dell’organizzazione delle pubbliche
amministrazioni adattando, specificando e sviluppando – in relazione agli interessi ed
alle concrete esigenze delle parti a livello locale - la disciplina delle materie e degli
istituti di gestione del rapporto di lavoro rinviati alla sua competenza dalle fonti
negoziali di livello superiore; e, in secondo luogo, se l’applicazione a livello decentrato
del sistema negoziale disegnato dal contratto di comparto sia stata sostanzialmente
coerente con i vincoli derivanti da quest’ultimo ovvero vi siano stati scostamenti, sul
piano delle competenze negoziali o di quelle soggette agli altri metodi relazionali, per
specifiche materie o particolari profili di esse, ovvero sui tempi e sulle procedure
negoziali.
1. Per affrontare il primo profilo, è necessario partire da una ricognizione delle
materie e degli istituti – tra quelli rinviati dai contratti di livello superiore (nazionali di
comparto e quadro, fondamentalmente) alla competenza del livello decentrato – che
sono stati negoziati con maggiore frequenza (cioè sono presenti in misura diffusa) e/o
incisività.
Naturalmente, l’aspetto quantitativo da solo non è decisivo, perché la ‘frequenza’
di un contenuto negoziale non si coniuga necessariamente con la ‘qualità’ della
disciplina e, d’altra parte, ricorrente è anche l’ipotesi opposta. Nel settore pubblico
(come in quello privato) esiste un fenomeno di mimesi, o di imitazione, tra contratti
collettivi, per effetto del quale si ritrovano discipline integrative di un certo istituto che
ripropongono la regolamentazione del contratto nazionale ovvero di altri contratti
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integrativi; e, contemporaneamente, nello stesso comparto vi possono essere discipline
fortemente disomogenee, per profondità e contenuti della regolazione.
A determinare la varietà degli esiti contrattuali, soprattutto in termini di qualità
delle singole discipline, concorrono diverse variabili, che possono incidere con modalità
o intensità diverse anche all’interno dello stesso comparto o di contesti organizzativi
simili: il mercato del lavoro interno ed esterno, le dimensioni e la collocazione
territoriale delle singole strutture, la ‘cultura’ delle parti ed i relativi rapporti di forza
(condizionati da quelle variabili). Possono influire, poi, le caratteristiche proprie di un
singolo comparto: si pensi, per rifarsi al Rapporto sugli Enti Locali, alle specificità
organizzative connesse alle dimensioni dei singoli enti e, soprattutto, alle differenze – in
termini di varietà e di complessità delle funzioni - tra enti provinciali e comunali.
La frequenza di alcune delle materie contrattate, peraltro, è sicuramente il riflesso
dell’ampliamento, rispetto alla prima tornata, delle competenze della contrattazione
decentrata determinato dagli interventi, legislativi e contrattual collettivi, già richiamati
nei tre Rapporti.
Le novità più rilevanti nel comparto Enti locali riguardano le posizioni
organizzative, la disciplina della mobilità professionale (in particolare, il
completamento e l’integrazione dei criteri per le c.d. progressioni orizzontali) e quella
connessa della valutazione del personale e della gestione delle eccedenze di personale,
nonché le competenze in ordine all'incremento delle risorse finanziarie. Nel comparto
Università, le novità riguardano soprattutto la gestione a livello decentrato degli
inquadramenti, a seguito dell’introduzione del nuovo sistema di classificazione
professionale, e una maggiore autonomia nella gestione delle risorse. Nel comparto
Ministeri, infine, l’ampliamento riguarda le mutate competenze in materie di risorse
economiche (FUA) e di inquadramento del personale; l’articolazione delle tipologie
dell’orario di lavoro; i congedi per la formazione e le tipologie contrattuali flessibili, sia
pure per profili non particolarmente significativi (proprio dal punto di vista della
flessibilità organizzativa).
Per quanto riguarda quest’ultimo comparto, poi, nel verificare se la contrattazione
integrativa abbia favorito una gestione più flessibile dell’organizzazione del lavoro, si
deve tener conto non solo della quantità e della qualità delle materie contrattate a livello
decentrato, ma anche della ripartizione delle competenze effettuata dal contratto
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nazionale tra i due livelli decentrati – che costituiscono una caratteristica di questo
comparto - e, in particolare, di come il primo livello di contrattazione decentrata, quello
di amministrazione, abbia gestito tale ripartizione nei confronti del secondo livello,
quello di sede centrale o distaccata di amministrazione centrale e ufficio periferico
(contrattazione definita, in alcuni contratti, “decentrata” o “locale” o “periferica” o “di
posto di lavoro”, ecc.).
Tra le materie o aree tematiche (nella prospettiva metodologica adottata in questa
ricerca) ampiamente e/o diffusamente regolate in sede decentrata nel comparto Enti
locali ritroviamo: l’organizzazione degli uffici, dei servizi e del lavoro e la gestione
delle risorse umane; le risorse finanziarie e per lo sviluppo e la produttività;
l’ordinamento, inquadramento e sviluppo professionale; il trattamento economico;
l’orario di lavoro; la formazione professionale e l’ambiente di lavoro.
Nel comparto Università sono state il trattamento accessorio, con la relativa
ripartizione delle risorse; gli istituti legati al nuovo sistema di inquadramento
professionale e alla mobilità interna, con particolare riferimento alle forme di
progressione economica orizzontale e verticale; la formazione e l’aggiornamento
professionale; gli istituti legati all’organizzazione degli uffici, dei servizi e del lavoro;
l’orario di lavoro.
Non dissimile è la situazione del comparto Ministeri nel quale, tra le materie più
contrattate, anche se con un grado di approfondimento della disciplina fortemente
diversificato, vi sono l’inquadramento professionale; la distribuzione delle risorse
finanziarie per lo sviluppo professionale e la produttività ed il connesso trattamento
economico; l’articolazione delle tipologie di orario di lavoro, divenuta oggetto di
contrattazione integrativa sia a livello di amministrazione, sia a livello di singola sede o
ufficio; la formazione professionale.
L’alta percentuale di contrattazione di tali istituti assume una particolare rilevanza
laddove si rifletta - nella prospettiva di una crescente flessibilizzazione
dell’organizzazione del lavoro - sul fatto che si tratta di materie che hanno un forte
impatto, appunto, sulla organizzazione e sulla gestione delle diverse amministrazioni.
La relativa disciplina, infatti, è rivolta non solo a riconoscere migliori condizioni
economiche e di lavoro ai dipendenti ma, soprattutto, ad accrescere la produttività ed a
migliorare l’attività della pubblica amministrazione in termini di efficienza/efficacia e di
70
qualità nell’erogazione dei servizi istituzionali. Peraltro, come opportunamente osserva
il rapporto sul comparto Università, occorre tener conto del diverso significato che il
concetto stesso di produttività può avere nelle diverse pubbliche amministrazioni.
Infatti, il continuo riferimento, contenuto nei contratti dei diversi livelli, al
miglioramento dei servizi da erogare sembra mutare in alcuni casi lo stesso significato
di produttività (cui sono finalizzati, per esempio, i premi individuali e collettivi ed i
fondi destinati a finanziarli, ovvero l’inquadramento, ecc.): ciò almeno laddove “si
intravede un passaggio dalla produttività-efficienza, intesa come rapporto tra mezzi o
risorse impiegate e beni o servizi prodotti al fine di una riduzione della quantità di
mezzi necessari per ottenere un certo risultato, alla produttività-efficacia, intesa come
rapporto tra i risultati conseguiti con un’attività e l’obiettivo di minimizzare la
differenza tra servizi resi e servizi attesi dall’utenza”.
Nella stessa prospettiva, volta a far emergere dalle discipline contrattuali i profili
orientati ad accrescere la flessibilità organizzativa, è evidente - e giustamente lo rileva il
Rapporto sui Ministeri - che un giudizio ponderato sulla rilevanza attribuita dalla
contrattazione integrativa a talune materie non può essere formulato valutando
separatamente, e comparando per singoli comparti, la disciplina di una singola materia o
area tematica, a prescindere dall’analisi di altre materie ed istituti – pure connessi alla
gestione dei rapporti di lavoro - che sono stati negoziati, perché altrimenti si corre il
rischio di non cogliere il senso complessivo delle scelte selettive compiute dalle parti e
di formulare valutazioni che possono risultare, per questo, falsate. Questa impostazione,
d’altra parte, risulta più soddisfacente se si tiene conto anche del fatto che le
competenze rinviate alla contrattazione integrativa in ciascun comparto – sia che si tratti
di materie e/o istituti in senso lato, sia che si tratti di specifici profili di essi – spesso non
sono del tutto coincidenti. Per questi motivi l’analisi che segue sarà condotta,
sostanzialmente, privilegiando l’analisi integrata - per singolo comparto - degli istituti
più significativi ai fini dell’oggetto della ricerca.
1.1. La necessità di comparare i contenuti della contrattazione decentrata seguendo
questa impostazione risulta, peraltro, immediatamente confermata se, avviando l’analisi
dal Comparto Ministeri, si prende in considerazione l’area tematica relativa alla
organizzazione degli uffici, dei servizi e del lavoro e alla gestione delle risorse umane.
71
Ebbene, pur tenendo nella dovuta considerazione il fatto che in tale ambito risulta
preponderante la sfera di competenza riservata all’esercizio del potere organizzativo
dell’amministrazione, potrebbe essere interpretabile negativamente il fatto che essa
risulti trattata come tale solo in quattro accordi, in due dei quali con clausole che si
limitano a riportare la competenza affidata dal contratto nazionale. Il fatto è che in
questo comparto i mutamenti organizzativi sono presi in considerazione, invece, in sede
di disciplina degli inquadramenti e di strumenti di valutazione del personale: così, la
revisione dei profili professionali e dei percorsi di carriera, oltre che dei processi
formativi, viene collegata alla riorganizzazione dei Ministeri stessi (ex d.lgs. n. 300/99 e
successive modifiche) e/o alla revisione dei processi di lavoro; e, talora, anche in sede di
accordi sui sistemi di incentivazione del personale, ancorati ad obiettivi e programmi di
incremento della produttività e di miglioramento della qualità del servizio, nonché in
sede di accordi sulla mobilità.
E infatti l’inquadramento è la materia sulla quale tutte le amministrazioni hanno
contrattato e, per di più, con una frequenza infraquadriennale, a conferma della sua
rilevanza strategica sia rispetto agli obiettivi di flessibilità organizzativa
dell’amministrazione, sia rispetto alle aspirazioni di crescita professionale dei
lavoratori.
In conseguenza della ridefinizione dei sistemi di classificazione, i contratti
integrativi di amministrazione, sulla base di competenze rinviate dal CCNL, hanno così
rivisto, accorpato, ricollocato i profili professionali esistenti nelle aree, hanno eliminato
quelli obsoleti e – dato più significativo - hanno individuato, in relazione alle esigenze
organizzative dell’Amministrazione, i nuovi profili, con riferimento a settori di attività
e/o aree professionali che non sono riconducibili soltanto ai tradizionali ambiti
amministrativo-contabile e tecnico, ma che sono stati definiti in funzione della
valorizzazione di nuove competenze professionali (i settori più ricorrenti sono:
economico-finanziario, linguistico, della comunicazione, sociale, statistico-informatico,
ecc.) (ma su questo aspetto e sulla mobilità professionale v. pure, infra, i parr. 3.1. e
3.3.).
I contratti integrativi, sottolineando la necessità di operare una revisione dei
percorsi professionali per valorizzare la professionalità dei dipendenti – e garantire,
implicitamente, la connessa progressione economica - hanno poi individuato i criteri
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generali delle metodologie di valutazione in relazione a: anzianità, titoli di studio e
culturali, percorsi formativi e corsi con esame finale, esperienza e capacità
professionale: l’anzianità di servizio, dunque, tende a diventare solo uno dei criteri di
valutazione ai fini delle progressioni, e non più l’unico o quello determinante (purché
l’esperienza professionale non venga intesa quale mera variante semantica della
anzianità). Sono state definite, infine, le procedure per i passaggi all’interno dell’area,
attraverso percorsi di riqualificazione e di aggiornamento professionale, e per i passaggi
tra le aree, prevalentemente nella forma del corso-concorso con esame finale.
L’istituto della mobilità ha assunto e continua ad avere un’importanza crescente per
le amministrazioni quale strumento di migliore allocazione del personale, in relazione
alle varie riorganizzazioni che hanno interessato i Ministeri a partire dal 1999 (d.lgs. n.
300) - anche quale conseguenza della cessione o redistribuzione delle loro attività -
nonché quale metodo di acquisizione di risorse nuove, a fronte del blocco delle
assunzioni ripetutamente introdotto dalle leggi finanziarie. Il Rapporto di comparto
segnala, tuttavia, che, nonostante la rilevanza di questi obiettivi e l’ampiezza del rinvio
da parte del contratto nazionale - che rimette ai contratti di amministrazione la
regolazione della mobilità, senza altra specificazione - gli accordi decentrati in materia
si limitano prevalentemente a disciplinare le procedure dei trasferimenti a richiesta dei
dipendenti nell’ambito della stessa amministrazione, cioè la mobilità individuale
volontaria interna all’amministrazione, al fine di garantire una gestione trasparente
dell’istituto.
Minore attenzione è rivolta, invece, alla mobilità nell’ambito del comparto o tra
comparti, che è disciplinata o come ulteriore possibilità di trasferimento, o come
strumento di gestione degli esuberi di personale rivenienti da riorganizzazioni delle
amministrazioni e/o da trasferimenti di attività.
L’accenno appena fatto ai profili retributivi connessi alla modifica
dell’inquadramento induce ad affrontare immediatamente l’area tematica delle risorse
finanziarie e per lo sviluppo e la produttività, ambito di intervento fondamentale della
contrattazione integrativa, in quanto in essa rientra la distribuzione delle risorse
finanziarie utilizzabili per sottoscrivere il contratto collettivo integrativo per quanto
attiene sia alla loro generale allocazione – cioè alla scelta tra le diverse possibili
utilizzazioni delle risorse sulla base delle finalità selezionate (da realizzare mediante
73
piani e progetti finalizzati)-, sia alla quantificazione di quelle da assegnare alle singole
destinazioni.
I contratti di amministrazione - confermando, complessivamente, le destinazioni
prioritarie individuate dal CCNL - fanno frequente riferimento al finanziamento dei
processi di riqualificazione del personale e, quindi, alle progressioni interne alle aree,
ma anche tra le aree; alle progressioni meramente economiche (cioè agli sviluppi
economici super) e alle varie indennità; ai sistemi incentivanti e alle posizioni
organizzative.
Alcuni contratti opportunamente prevedono, poi, la destinazione di risorse alla
costituzione di fondi di sede centrale e distaccata e ufficio periferico, determinandone la
consistenza in relazione, per esempio, alla dotazione organica. Alla contrattazione
integrativa periferica (di sede o ufficio) spetta, infatti, in base allo stesso ccnl - che lo
prevede nell’ottica di una adeguata e corretta flessibilizzazione dei trattamenti –, la
successiva distribuzione di queste risorse: invece, a volte, i contratti di amministrazione
indicano addirittura quali istituti retributivi devono essere trattati in sede locale e
individuano i criteri da seguire (ponendo, in tal modo, ulteriori – e poco opportuni,
almeno in teoria - limiti a tale contrattazione). Non mancano, però, casi in cui ai criteri
fissati dal contratto di amministrazione viene attribuita, invece, valenza solo residuale,
poiché si fanno espressamente salvi i diversi criteri stabiliti in sede di contrattazione
locale (a proposito di premi individuali e collettivi), ampliando in tal modo gli spazi
lasciati a quest’ultima e consentendo, quindi, una maggiore adattabilità e flessibilità
nella gestione delle risorse finanziarie e del personale.
Un altro elemento interessante dal punto di vista della flessibilità collegata agli
assetti contrattuali è quello, opportunamente sottolineato dal rapporto di comparto, che
riguarda l’espressa qualificazione delle utilizzazioni del FUA indicate nel contratto
nazionale di comparto come meramente prioritarie (e non esclusive). Ciò induce gli
Autori del rapporto a ritenere che il contratto di comparto abbia così lasciato aperti degli
spazi di flessibilità per la contrattazione di amministrazione, la quale potrebbe
individuare altre destinazioni possibili, purché non in contrasto con le finalità indicate
nella disciplina nazionale e fermo restando il rispetto sia della pertinente previsione
legale (art. 45, d.lgs. n. 165/2001), sia dei vincoli di spesa.
74
Tornando ai contenuti in materia dei contratti integrativi, va sottolineato il fatto che
le parti, invece di esplicitare i criteri di distribuzione e, quindi, di individuare scelte ed
obiettivi organizzativi, provvedono generalmente ad operare direttamente la
distribuzione delle risorse tra i diversi utilizzi possibili. Nella maggior parte dei contratti
di amministrazione ciò avviene addirittura attraverso la quantificazione degli importi e,
più raramente, con la definizione di percentuali sul totale del Fondo.
I contenuti contrattuali in materia di inquadramento e di risorse finanziarie sono a
loro volta strettamente connessi con la disciplina dettata dai contratti integrativi sugli
istituti rientranti nell’area del trattamento economico. La contrattazione in materia ha
riguardato più frequentemente le posizioni economiche super, le posizioni
organizzative, le indennità e i premi di produttività, individuali e collettivi.
Con specifico riguardo alle posizioni economiche super, i contratti di
amministrazione hanno dettato i criteri per la loro attribuzione e, talora, previsto
l’erogazione una tantum (in assenza di specifico rinvio: v., infra, il par. 3.2.) di un
differenziale economico in favore del personale inquadrato nelle posizioni economiche
per cui non è previsto lo sviluppo economico super: un indice evidente della priorità
riconosciuta al miglioramento tout court del trattamento retributivo, indipendentemente
da criteri oggettivi di qualunque natura.
Per quanto attiene, poi, alle posizioni organizzative, va innanzitutto segnalato che
la loro introduzione - alternativa all’ampliamento dei sistemi di inquadramento con
l’introduzione di nuove categorie e/o aree professionali collocate in posizione apicale –
è motivata dalla volontà di sperimentare nuovi e flessibili modelli organizzativi e di
governo delle risorse umane, ma anche di rivalutare e di riqualificare adeguatamente le
c.d. funzioni direttive. Come sottolinea il rapporto dei Ministeri – ma la riflessione può
essere ovviamente estesa anche agli altri comparti - l’istituzione di posizioni
organizzative consente alle amministrazioni di disporre di strutture flessibili in grado di
raggiungere obiettivi complessi e, quindi, di modulare e trasformare il proprio assetto
organizzativo in funzione delle effettive esigenze connesse all’attività amministrativa da
svolgere e ai servizi pubblici da erogare. Contemporaneamente, il conferimento di
incarichi di posizioni organizzative permette alle stesse amministrazioni di valorizzare
le funzioni direttive e le professionalità interne, senza dover necessariamente ricorrere
ad un incremento delle dotazioni dirigenziali.
75
I contratti di amministrazione, oltre ad individuare, nell’ambito del FUA, le risorse
da destinare al finanziamento delle posizioni organizzative, come previsto dal CCNE,
hanno determinato la misura minima dell’indennità da corrispondere a fronte
dell’attribuzione dell’incarico e, sovente, hanno stabilito anche il numero delle posizioni
organizzative che possono essere costituite per ogni unità organizzativa. Ma, in genere, i
contratti hanno pure individuato, da un lato, i criteri sulla base dei quali graduare le
varie posizioni organizzative e correlare la relativa retribuzione (livello di responsabilità
e collocazione organizzativa; complessità delle competenze attribuite; specializzazione
richiesta dai compiti affidati; caratteristiche innovative della professionalità richiesta;
complessità del contesto operativo; complessità dei procedimenti o dei processi gestiti),
così sottraendo spazi alla libera determinazione dell’amministrazione alla quale, ai sensi
dell’art. 62, co.2, del ccnl, spetterebbe “la graduazione della retribuzione di posizione in
rapporto a ciascuna tipologia di incarico previamente individuata”; dall’altro, hanno
individuato le funzioni cui si collega l’istituzione delle posizioni, definito i criteri
generali per l’affidamento e la revoca degli incarichi, previsto le modalità per la
valutazione periodica dell’attività svolta, oggetto di informazione e di concertazione
(cfr. pure, infra, il par. 3.3.).
Altre voci retributive disciplinate dai contratti collettivi di amministrazione sono
state le indennità, la cui funzione, come è noto, è quella di remunerare il lavoratore per
un maggiore sforzo o impegno nell’esecuzione della prestazione richiesto dalle
condizioni di lavoro. In particolare, si è prevista la corresponsione di indennità di turno
e di reperibilità (in relazione all’articolazione dell’orario di lavoro); per disagiate
condizioni lavorative (maneggio valori, servizi ausiliari e di anticamera,
fotoriproduzione, conduzione di automezzi, attività di sportello ad utenza diffusa e in
generale di rapporto diretto con il pubblico; indennità di servizio all’estero); di rischio
(ad es. da radiazioni ionizzanti; per manipolazione di sostanze tossiche e nocive;
sanitario), ecc.
Infine, una tipologia di erogazioni economiche interessante - perché coniuga
esplicitamente la flessibilità professionale con quella della gestione organizzativa - è
costituita da quelle voci che, pur essendo anch’esse qualificate dai contratti come
“indennità”, sono invece corrisposte per remunerare l’apporto del lavoratore (o, a
seconda dei casi, di tutti i lavoratori) alla realizzazione dei processi di riforma di taluni
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ministeri, oppure particolari ‘qualità’ della prestazione, mirando – in definitiva – a
compensare le capacità di adattamento del personale alle modifiche organizzative che
hanno interessato, a partire dalle riforme degli anni ‘90, la pubblica amministrazione. Si
tratta, per esempio, dell’indennità di professionalità, che talora è espressamente
destinata a compensare l’impegno nei nuovi compiti istituzionali che integrano le
attività tradizionali del Ministero, e dell’indennità per utilizzo flessibile della
professionalità, che remunera la disponibilità del personale a svolgere funzioni anche
non esattamente corrispondenti al proprio profilo professionale.
Per quanto riguarda il premio di produttività - la cui erogazione avviene sulla base
della definizione di progetti per la realizzazione degli obiettivi individuati dalle parti e
sulla relativa valutazione dei risultati ottenuti - si procede, in primo luogo,
all’individuazione degli obiettivi da perseguire (che sono, prevalentemente,
l’incremento della produttività e il miglioramento della qualità dei servizi, la revisione
dei modelli organizzativi, la semplificazione e lo snellimento delle attività, la
contrazione dei tempi medi di prestazione, ecc.), con indicazioni, talvolta, anche alle
sedi decentrate. In secondo luogo, vengono definiti i criteri per la loro erogazione, che
possono essere integrati a livello di sede: questi attengono, ad esempio, all’assidua
partecipazione alla gestione dei “processi ordinamentali”; all’utilizzo di risorse
strumentali innovative rispetto alle normali procedure; alle responsabilità assunte nei
procedimenti amministrativi; ai rapporti con l’utenza; all’apporto individuale, da
definire secondo criteri – alquanto elementari - quali la presenza e la valutazione da
parte del dirigente. Ma il premio è talora riconosciuto anche per lo svolgimento di
compiti che comportino rischi per maneggio denaro: una voce che non solo dovrebbe
più propriamente essere ricondotta ai trattamenti indennitari, ma che, come si è appena
visto, è in realtà già prevista tra questi da altri contratti dello stesso comparto.
Di importanza strategica per le pubbliche amministrazioni ai fini della gestione dei
processi di riorganizzazione conseguenti, in particolare, alla riforma dei Ministeri, al
decentramento e al rafforzamento dei livelli locali di governo, è poi la formazione,
destinata a garantire la valorizzazione e la crescita professionale delle risorse umane ed
a rendere più efficace ed efficiente l’organizzazione.
I contratti di amministrazione si distribuiscono in parti uguali tra quelli che danno
attuazione in modo del tutto generico o, per converso, analitico al CCNL il quale, con
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una formula ampia e altrettanto generica, rinvia ad essi la definizione delle “linee di
indirizzo generale, per adeguare l’attività formativa ai processi di innovazione”.
Sembra, insomma, che nei contratti del primo tipo la formazione sia utilizzata per
‘giustificare’ una progressione sostanzialmente economica e, in quelli del secondo,
come strumento effettivo di crescita professionale e, dunque, come leva organizzativa.
I contratti più interessanti – che sono pure in numero significativo – sono quelli che
utilizzano il rinvio stesso in modo ‘flessibile’, cioè in una logica di
procedimentalizzazione. Questi, infatti, prevedono una contrattazione della materia a
cadenza annuale; definiscono le tipologie di attività formative (addestramento,
aggiornamento, qualificazione e riqualificazione), specificandone e diversificando gli
obiettivi (tra i quali, in particolare, viene indicato quello di favorire le progressioni
professionali) e i contenuti formativi; determinano i criteri generali per la
partecipazione del personale alle attività formative; individuano le risorse per
finanziarla, prevedendone il progressivo incremento.
L’articolazione delle diverse tipologie di orario di lavoro è un’altra materia
nevralgica della contrattazione integrativa nella prospettiva di garantire, attraverso la
specificazione e l’adattamento degli orari, una organizzazione del lavoro più flessibile e,
in particolare, più adeguata alle esigenze dell’utenza e dei lavoratori. Tale materia, che è
oggetto di contrattazione integrativa sia a livello di amministrazione, sia a livello di
singola sede o ufficio, risulta in effetti molto contrattata dalle amministrazioni del
comparto Ministeri, anche se il grado di approfondimento della disciplina risulta, come
quasi sempre, fortemente diversificato.
Ad un primo gruppo possono essere ricondotti sia i contratti di amministrazione
che si limitano a rinviare l’articolazione delle tipologie di orario al secondo livello
contrattuale decentrato, sia quelli che riproducono schematicamente ed in modo
sintetico talune delle previsioni dettate dal CCNL e dall’Accordo di comparto del 1996
procedendo, se mai, a fornire indicazioni relative alle specifiche finalità che devono
guidare la scelta tra le stesse.
Ad un secondo gruppo di contratti, numericamente molto più significativo, possono
essere invece ricondotti quegli accordi di amministrazione che, pur non occupandosi di
tutti gli aspetti oggetto di rinvio dal livello nazionale, contengono comunque (oltre alla
frequente, anche se non generalizzata, riproposizione delle diverse tipologie d’orario
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ammesse dai contratti di comparto, anche) una regolamentazione di alcuni profili (talora
di un singolo aspetto) e rinviano, per la definizione di altri, alla contrattazione della
singola sede o ufficio (spesso con l’indicazione, come già rilevato con riferimento ai
contratti del primo gruppo, di specifiche finalità che devono guidare il ricorso alle
diverse tipologie di orario).
Tra le soluzioni negoziate (mediante una disciplina non meramente ripetitiva di
quella dei contratti di comparto) meritano di essere rammentate, ad esempio,
l’articolazione dell’orario di lavoro su 6 giorni per taluni particolari uffici o servizi
individuati dal contratto.
Di particolare interesse, nella prospettiva di valutare le importanti funzioni di
specificazione e di adattamento regolativo svolte dalla contrattazione integrativa, in
vista di una maggiore flessibilizzazione dell’orario di lavoro nel contesto delle
amministrazioni pubbliche, risulta un particolare modulo d’orario - peraltro previsto in
un solo contratto di amministrazione - in base al quale, in caso di regimi articolati su 5
giorni, l’inizio della prestazione può essere collocato nelle ore pomeridiane.
La disciplina di questo modulo d’orario risulta estremamente interessante
soprattutto perché tende a garantire una copertura più ampia degli orari di servizio e, al
contempo, a consentire un adattamento del suo utilizzo alle diverse esigenze
organizzative (salvaguardando, comunque, le possibili diverse esigenze dei lavoratori
interessati). Infatti, il contratto - pur elencando i servizi che devono essere privilegiati
nell’adozione del modulo - rinvia ai singoli uffici il compito di determinare, in relazione
alle loro peculiari necessità e secondo quanto previsto in sede di contrattazione
decentrata, le funzioni per le quali è previsto il modulo stesso e i criteri di massima per
l’individuazione del personale interessato.
L’orario plurisettimanale è, invece, piuttosto trascurato e, per di più, le previsioni
in materia sono di basso profilo, probabilmente perché, come rilevano gli autori del
Rapporto, “l’articolazione plurisettimanale dell’orario può essere oggetto di una più
adeguata valutazione nella singola sede” che, d’altronde, è competente in materia al pari
del livello di amministrazione.
Insomma, anche per i contratti del secondo gruppo possono valere le osservazioni
compiute con riferimento al primo gruppo: una parte comunque rilevante della
79
regolazione della materia - soprattutto in tema di lavoro plurisettimanale – resta, infatti,
affidata alla sede periferica, che appare in linea di massima anche la più adeguata.
In proposito, se mai, è necessario richiamare un’ulteriore riflessione, proprio con
riferimento ai casi in cui (molte o talune) scelte regolative sono già state operate nei
contratti di amministrazione, magari accompagnate da formule generali alla cui stregua
le disposizioni in materia di orario costituiscono “norme-cornice”, “al fine di pervenire
ad un sistema di regole uniformi tra l’amministrazione centrale e periferica”. Certo,
queste specifiche previsioni dei contratti di amministrazione costituiscono, talvolta, la
mera riproposizione di prescrizioni già contenute nei contratti di comparto (e, quindi,
comunque vincolanti per entrambi i livelli decentrati) e, talaltra, ammettono comunque
una diversa determinazione nelle sedi locali. E tuttavia, laddove siano effettivamente
riscontrabili specifici limiti alla contrattazione svolta in tali sedi, si pongono ancora una
volta – come giustamente sottolineano gli autori del Rapporto - sia il problema relativo
al rapporto sussistente tra i due livelli decentrati sulle materie per le quali il CCNL
abbia operato un contestuale rinvio ad entrambi, senza però stabilire espressamente che
quello periferico deve rispettare i vincoli (eventualmente) fissati da quello di
amministrazione; sia il problema dell’efficacia (reale o meramente obbligatoria), per la
contrattazione di singola sede, dei vincoli eventualmente derivanti dalla disciplina di
amministrazione. Il rischio, infatti, è quello di limitare le capacità di specificazione e di
adattamento regolativo della disciplina nazionale che la contrattazione di sede può
svolgere nella prospettiva di una maggiore flessibilizzazione dell’organizzazione del
lavoro.
Tale rischio, del resto, come quello opposto della possibile inerzia delle parti a
livello di sede, sembra essere stato adeguatamente considerato dai sottoscrittori di
quegli accordi di amministrazione che, in sostanza, predispongono una
regolamentazione provvisoriamente sostitutiva di quella decentrata, cioè da valere “fino
alla stipulazione degli accordi decentrati ovvero in assenza di essi”: una clausola che è
idonea a limitare immediatamente le scelte unilaterali dei dirigenti nelle singole sedi sui
profili disciplinati dal contratto di amministrazione e, contemporaneamente, lascia
impregiudicata, anche sul piano dei contenuti, l’azione negoziale condotta in tali sedi.
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1.2. Passando a considerare la contrattazione integrativa del comparto Enti locali,
va premesso che le differenze, talora considerevoli, tra l’ampiezza e/o la profondità
della disciplina dei diversi istituti sono fortemente legate alle specificità organizzative,
connesse alle dimensioni, dei singoli enti e, soprattutto, alle differenze – in termini di
varietà e di complessità delle funzioni - tra enti provinciali e comunali. Non a caso,
come osservano gli autori del Rapporto, “nelle province osservate, ad esempio, - che
svolgono un ruolo importante, ma effettivamente più “arretrato” rispetto ai comuni, se si
pensa, per dire, alle relazioni con l’utenza - si è registrata una tendenza maggioritaria a
concentrare in prima battuta la sessione contrattuale sulle materie economiche, con
qualche squilibrio, quindi, sul versante squisitamente organizzativo e funzionale”.
La maggioranza dei contratti, specie quelli dei comuni di medie e grandi
dimensioni, tratta la materia dell’organizzazione degli uffici, dei servizi e del lavoro e
della gestione delle risorse umane definendo i criteri generali delle metodologie di
valutazione e le posizioni organizzative.
Come sottolinea il Rapporto di comparto, il sistema di valutazione delle prestazioni
collettive e individuali e dei risultati dei dipendenti viene considerato uno strumento di
fondamentale importanza perché, pur essendo unico, esplica i suoi effetti su diversi
istituti contrattuali ed in particolare: sulla valutazione dei risultati di attività realizzati
dalla struttura di appartenenza, ai fini della incentivazione collettiva; sulla valutazione
delle prestazioni ai fini della incentivazione individuale e della progressione orizzontale.
Il sistema, dunque, ha grande rilievo sotto il profilo sia organizzativo, sia
retributivo, anche se il rapporto tra i due non è sempre positivamente univoco. Se è
vero, infatti, che spesso esso viene costruito in modo da valorizzare quanto più possibile
la qualità della prestazione, misurata sui risultati realmente ottenuti dai dipendenti e non
semplicemente desunta dall’anzianità di servizio, gli autori rilevano anche che la
valorizzazione della professionalità rischia di essere sminuita quando si prevede che la
valutazione venga fatta sulla base di piani di lavoro, o di progetti obiettivo, nei quali i
risultati da perseguire sono sfumati e quando – piuttosto spesso - le attività individuate
per il loro conseguimento rischiano di sovrapporsi o, quantomeno, di “avvicinarsi”
sensibilmente alle prestazioni che rientrerebbero nell’ordinaria attività dei dipendenti. In
questo modo, un elemento del salario che potrebbe significativamente incidere sulla
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produttività dei dipendenti e, di conseguenza, sull’efficienza delle amministrazioni
rischia di trasformarsi in un classico incentivo ‘a pioggia’.
Ad esempio, molto diffusa è la contrattazione sulle posizioni organizzative, la cui
istituzione consente alle amministrazioni di modulare il proprio assetto organizzativo in
funzione delle effettive esigenze connesse all’attività amministrativa da svolgere e ai
servizi pubblici da erogare: in questa materia, tra l’altro, è da notare la precisione e
l’articolazione della relativa regolazione. Un altro istituto frequentemente regolato in
sede decentrata, in maniera particolarmente articolata e dettagliata, è poi quello della
formazione del personale, sul quale i contratti investono risorse finanziarie al fine di
conservare e, soprattutto, di migliorare la professionalità dei dipendenti. La formazione
si conferma, così, come uno degli strumenti essenziali da utilizzare per accrescere la
flessibilità organizzativa, dal momento che l’arricchimento delle capacità professionali
del personale può tradursi nella maggiore disponibilità e capacità dei lavoratori stessi di
adattarsi, in tempi rapidi e con competenza, alle innovazioni organizzative, tecnologiche
e funzionali dei diversi enti.
Il ruolo più rilevante – per certi versi comprensibilmente - ai fini della gestione
organizzativa sembra essere assunto, peraltro, in questo comparto, dalla contrattazione
in materia di risorse finanziarie per lo sviluppo e la produttività. Tutti i contratti del
campione (province e comuni di qualsiasi dimensione) prevedono, ovviamente, la
costituzione di diversi fondi e regolano le modalità con le quali distribuire le risorse
stanziate. Ma qualche valutazione sul rapporto tra gestione delle risorse e flessibilità
organizzativa può essere fatta esaminando le diverse voci tra le quali vengono ripartite
le risorse economiche.
Il Rapporto di comparto mette in luce che spesso tra queste vi sono le posizioni
organizzative, con importi tendenzialmente crescenti in proporzione alle dimensioni
dell’ente. L’accurato profilo regolativo e (di riconoscimento) economico delle posizioni
organizzative sembrerebbe dimostrare che le parti hanno compreso il carattere
strategico, di razionalizzazione organizzativa, dell’istituto. Qualche ulteriore
considerazione può, poi, essere fatta osservando quei contratti, quasi tutti per la verità,
che destinano una quota considerevole delle proprie risorse al lavoro disagiato, cioè al
lavoro svolto su più turni, al lavoro ordinario notturno, a quello festivo e
festivo/notturno e, soprattutto, all’istituto della reperibilità. Situazioni che,
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generalmente, sono strettamente connesse ad un modello organizzativo che vuole
avvicinarsi ad una gestione quanto più flessibile del rapporto di lavoro, al fine di
migliorare l’efficienza e l’efficacia dell’azione amministrativa. Questa gestione
flessibile, però, sembra essere ancorata a tecniche regolative alquanto tradizionali.
Come sottolinea il rapporto di comparto, la maggior parte dei contratti campionati si è,
infatti, limitata a specificare gli importi delle voci di lavoro disagiato già indicate dal
livello nazionale e non ha tentato di individuarne altre, realmente calibrate sulle
specifiche esigenze organizzative e territoriali e, per questo, utili strumenti per rendere
più efficace ed efficiente un servizio dell’ente: questo tentativo, invece, è stato fatto solo
da pochissimi comuni, per lo più di medie dimensioni, e da qualche provincia.
Vi sono poi contratti che ampliano, talvolta eccessivamente, l’ambito delle attività
che comportano rischi, il che implica – come rilevano gli autori del rapporto - non solo
e non tanto il rischio che venga così assorbita una parte significativa delle risorse
destinate al salario accessorio, ma soprattutto che si finisca per trasformare un’indennità
funzionale in una sorta di incentivo “a pioggia”.
Significative risultano le risorse destinate alla produttività individuale e collettiva
dei dipendenti, definite sulla base dei sistemi di valutazione, così come avviene per le
progressioni orizzontali, altro istituto disciplinato diffusamente dai contratti integrativi.
Infatti, quasi tutti quelli campionati, dopo avere individuato in maniera analitica e
puntuale i criteri da adottare, diversificano il peso da attribuire loro a seconda del tipo di
progressione che intendono regolare. E, come richiesto dal contratto nazionale, con
l’avanzamento nei livelli retributivi aumenta anche il livello di selettività richiesto, nel
senso che si attribuisce minore rilevanza al criterio dell’esperienza acquisita - collegato
alla mera anzianità di servizio - rispetto ad altri criteri diretti, invece, a misurare
concretamente i risultati delle attività svolte e a valutare concretamnte la professionalità
dei dipendenti.
Altra materia frequentemente contrattata è l’orario di lavoro. Nonostante sia
materia di concertazione (cfr., infra, par. 3.3.), nei contratti integrativi è stata regolata
l’articolazione dell’orario di lavoro e di servizio, solitamente attraverso la suddivisione
dell’orario settimanale in cinque giorni lavorativi, (ma anche su sei giorni, per garantire
un servizio più efficiente all’utenza).Va osservato, peraltro, che le parti,
indipendentemente dalle dimensioni dell’ente, hanno mostrato una certa attenzione
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verso la ricerca di flessibilità organizzativa, pur utilizzando, anche in questo caso,
tecniche ormai abbastanza diffuse e non particolarmente innovative: si prevedono,
infatti, limiti di “tolleranza” sull’inizio e la fine della prestazione lavorativa giornaliera
oppure si istituisce la banca delle ore. Tecniche di flessibilità oraria che dovrebbero
comunque favorire la scelta, ampiamente diffusa nei contratti esaminati ed in linea con
quella operata dal livello nazionale, di limitare il lavoro straordinario, anche se in
qualche accordo, in realtà, le parti non si sono limitatate a fissarne i criteri generali,
come previsto dal contratto nazionale, ma hanno regolato anche il monte ore massimo
individuale. Per quanto scarsa sia la flessibilità oraria riconosciuta ai dipendenti, i
contratti ribadiscono anche che essa non deve compromettere i servizi resi dall’ente,
soprattutto quelli svolti a favore dell’utenza. In questa prospettiva vanno lette le
disposizioni contrattuali tese a ridurre, ulteriormente, gli spazi di flessibilità oraria del
dipendente che svolga mansioni a diretto rapporto con l’utenza.
1.3. Nel comparto Università, infine, l’area tematica della organizzazione degli
uffici, dei servizi e del lavoro e della gestione delle risorse umane è una di quelle che
assume una particolare rilevanza, perché direttamente interessata dal riassetto
organizzativo indotto dall’applicazione del nuovo sistema di inquadramento
professionale, al quale si farà riferimento tra breve.
Oggetto di contrattazione sono stati innanzitutto i criteri generali per la definizione,
l’approvazione e l’attribuzione di risorse ai progetti finalizzati a perseguire obiettivi
gestionali dell’amministrazione, cioè a promuovere il miglioramento della produttività e
della qualità dei servizi erogati. Dal punto di vista della gestione del personale, tali
progetti sono stati utilizzati da diverse amministrazioni come strumento per
corrispondere al personale i compensi incentivanti relativi alle risorse finanziare
stanziate per remunerare la produttività collettiva e individuale, nonché come occasione
di crescita individuale e collettiva del personale, per il valore formativo connesso a
questa modalità di lavoro.
Sono stati poi previsti criteri e procedure di valutazione dei progetti, destinati a
rilevare il grado di raggiungimento degli obiettivi – rilevante ai fini di una eventuale
rideterminazione del budget di risorse finanziarie disponibili - e l’apporto del singolo
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lavoratore, in termini di prestazione e di risultato, ai fini della determinazione e della
corresponsione dei compensi incentivanti e della progressione economica.
Tali criteri sono individuati in alcuni casi in maniera generica, facendo riferimento
all’effettiva partecipazione, all’impegno temporale dedicato e al grado di apporto
individuale al raggiungimento degli obiettivi del progetto; in altri casi si procede ad una
dettagliata elencazione nell’ambito della quale possono segnalarsi la capacità di
relazionarsi nello svolgimento del lavoro con i colleghi e con l’utenza; l’efficienza
organizzativa, la continuità e l’affidabilità; la capacità di lavorare in gruppo e di gestire
il ruolo di competenza; la tensione motivazionale al miglioramento del livello di
professionalità; il grado di responsabilizzazione verso i risultati e il livello di
autonomia; la capacità di proporre soluzioni innovative; l’impegno profuso e i risultati
ottenuti.
L’ultimo profilo da segnalare è quello della valutazione e della classificazione delle
posizioni organizzative e delle funzioni specialistiche e di responsabilità, che
rappresenta un elemento di rilievo del processo di riorganizzazione che ha interessato le
amministrazioni universitarie in questi anni, in quanto – come rilevano gli autori del
Rapporto - consente di perseguire obiettivi di miglioramento della produttività e della
qualità nell’erogazione dei servizi e, nel contempo, di valorizzare il personale che
occupa posizioni di peculiare rilevanza organizzativa attraverso trattamenti incentivanti
e riconoscimento di responsabilità. Rientrando l’individuazione delle posizioni
organizzative e delle funzioni specialistiche e di responsabilità tra gli atti
dell’amministrazione aventi chiara natura organizzativa, oggetto di contrattazione
collettiva a livello decentrato sono stati fondamentalmente i criteri generali sulla base
dei quali correlare alle posizioni e funzioni individuate la misura delle relative indennità
accessorie e determinare la quota variabile di tali compensi legata al conseguimento dei
risultati programmati (poi disciplinata nella parte relativa al trattamento economico). Si
è così contrattato un articolato sistema di valutazione, fondato su indicatori quali il
livello di responsabilità, la complessità delle competenze attribuite, la specializzazione e
le caratteristiche innovative della professionalità richiesta, la collocazione nella
struttura, la complessità organizzativa della struttura.
In realtà, dall’analisi degli accordi condotta nel Rapporto di comparto emerge che
l’ambito di operatività della contrattazione decentrata in tale area tematica si è rivelato
85
molto più ampio, essendosi estesa ad una molteplicità di aspetti, quali l’individuazione e
l’attribuzione di posizioni organizzative e di incarichi di responsabilità; la
programmazione del fabbisogno di personale; le procedure di reclutamento del
personale; i profili relativi alla riorganizzazione delle strutture e del relativo personale
(sul punto v. pure, infra, il par. 3.3.).
Passando al sistema di inquadramento professionale, l’importanza della materia
emerge già dalla percentuale decisamente elevata di amministrazioni che hanno
provveduto a negoziare gli istituti legati all’attuazione del nuovo sistema, le
progressioni economiche interne alla categoria (c.d. orizzontali), le progressioni
verticali e i sistemi di valutazione.
Si tratta, anzi, di istituti che costituiscono la materia principale della contrattazione
integrativa nel quadriennio in esame, anche perché ad essi è strettamente collegato il
tema, ancor più rilevante, dell’utilizzo dei fondi per il salario accessorio (produttività
individuale e collettiva, straordinari, lavoro disagiato e rischioso, ecc.).
L’impostazione seguita in fase di prima applicazione dell’inquadramento emerge
chiaramente dalla scelta negoziale di consentire l’applicazione della progressione
economica a prescindere da ogni criterio di selezione collegato alle reali capacità del
personale. I passaggi generalizzati, infatti, vengono molto frequentemente ed
esplicitamente motivati con l’esigenza di risolvere situazioni pregresse, come il
sottoinquadramento del personale, o considerati un ‘premio’ per i maggiori carichi di
lavoro derivanti dal sottodimensionamento dell’organico rispetto al reale fabbisogno.
Tuttavia, nella disciplina a regime, va segnalato uno sforzo di individuare precisi
obiettivi cui ricollegare il riconoscimento di trattamenti economici accessori, anche
attraverso sistemi di valutazione delle prestazioni individuali e collettive. In altri
termini, si cominciano a valorizzare altri criteri (le capacità individuali, il merito e
l’impegno individuale e collettivo), al fine di collegare il riconoscimento di indennità o
di progressioni economiche alla realizzazione di effettivi risultati. Mancano ancora,
però, efficaci e reali sistemi di valutazioni.
Nel suo complesso, dunque, questa disciplina – orientata a determinare
progressioni di “carriera” diffuse e generalizzate – segnala i rischi di tipo degenerativo
che può comportare la competenza della contrattazione decentrata in materia. Rischi che
non possono, ovviamente, essere evitati accentrando queste competenze a livello di
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comparto, con l’effetto di annullare qualunque prospettiva di corretta flessibilizzazione
dell’organizzazione amministrativa, ma che impongono – quanto meno - l’urgenza di
una riflessione sulla ‘cultura’ della gestione dei rapporti di lavoro nella pubblica
amministrazione.
In controtendenza – e, quindi, positivo almeno come ‘dichiarazione di principio’ - è
il segnale che emerge dalla notevole attenzione riservata dai contratti decentrati alla
formazione professionale, oggetto nella maggior parte dei casi di accordi monotematici
(c.d. Protocolli di intesa). Tutti gli accordi, infatti, hanno riconosciuto il ruolo strategico
della formazione, quale strumento fondamentale per la crescita del personale tecnico
amministrativo e per l’innalzamento del livello qualitativo dei servizi dell’Ateneo e, in
coerenza con quanto previsto dal ccnl, ne hanno individuato le linee di indirizzo
generale, pur non collegando poi in modo stringente la relativa disciplina con quella
della mobilità professionale e della progressione economica dei lavoratori.
Del tutto diffusa, e molto articolata, risulta la contrattazione in materia di risorse
finanziarie per lo sviluppo e la produttività, destinate a remunerare gli istituti del
trattamento economico accessorio. La determinazione delle risorse disponibili e la
relativa ripartizione di esse tra le diverse destinazioni sulla base dei criteri e delle
priorità definite dalle parti (progressioni economiche e produttività collettiva e
individuale; retribuzione di posizione e di risultato del personale di categoria EP;
indennità collegate allo svolgimento di compiti che comportano oneri, rischi e disagi,
ecc.) è stata oggetto di accordi a cadenza annuale in pressoché tutte le amministrazioni.
In coerenza con le scelte in materia di inquadramento, i contratti integrativi
destinano tali risorse innanzitutto al finanziamento delle procedure di progressione
orizzontale e verticale; poi all’indennità di responsabilità (un istituto che, in ragione del
conferimento di particolari incarichi, consente di riconoscere maggiorazioni retributive,
contingenti e revocabili, anche a personale delle categorie meno elevate); poi ancora al
finanziamento delle indennità collegate allo svolgimento di compiti che comportano
oneri, rischi e disagi. In genere, poi, i contratti hanno individuato i criteri sulla base dei
quali procedere al riparto fra le varie Strutture delle risorse disponibili (per esempio, le
unità di personale in servizio in ciascuna categoria, criterio al quale si affianca, talora,
quello di assegnare una quota minore di risorse in misura uguale a tutte le strutture),
nonché le specifiche risorse da destinare al finanziamento dei progetti di gruppo,
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finalizzati all’aumento della produttività e al miglioramento dell’efficacia e
dell’efficienza dei servizi.
Tutti i contratti esaminati si occupano, infine, anche delle risorse per il lavoro
straordinario, che sono in progressiva diminuzione essendo veicolate verso altre forme
di riconoscimento economico (in particolare, la progressione verticale), delle risorse per
la formazione e del Fondo in cui confluiscono le risorse destinate a remunerare la
retribuzione di posizione e di risultato.
In definitiva, l’elevata percentuale di negoziazione della materia a livello
decentrato conferma – ove ve ne fosse bisogno – che le parti sono consapevoli
dell’importanza del ruolo riservato in questa area alla contrattazione integrativa. Meno
chiaro è se abbiano esercitato la propria competenza con altrettanta consapevolezza del
vincolo di destinare prioritariamente le risorse (in particolare, quelle del Fondo ex art.
67 ccnl) alla promozione di effettivi e significativi miglioramenti dell'efficacia e
dell’efficienza dei servizi istituzionali (oltre che alla progressione economica). La
sensazione, in definitiva, è che tale vincolo abbia ridotto in qualche misura gli spazi per
erogazioni economiche ‘a pioggia’, ma non sia stato sufficiente ad orientare le scelte
delle parti, né la concreta disciplina negoziale, per cui il decentramento risulta più
ampio con riferimento alla destinazione delle grandezze economiche disponibili per il
trattamento economico accessorio delle singole amministrazioni, ma anche non
sufficientemente orientato a soddisfare le le esigenze organizzative, tanto che,
giustamente, gli autori del Rapporto ribadiscono che le Università “dovranno ora dotarsi
di un’effettiva politica del personale”.
Ancora con notevole coerenza interna, gli istituti del trattamento economico
accessorio sono stati oggetto di negoziazione sostanzialmente nella totalità delle
Università. In particolare, gli istituti contrattati sono stati le indennità per rischi, oneri e
disagi, l’indennità di responsabilità, la retribuzione di posizione e di risultato, i
compensi collegati alla produttività collettiva e individuale.
Significativa è proprio la contrattazione in materia di trattamento individuale di
produttività. I contratti in genere prevedono che – per svolgere la sua funzione
incentivante - deve essere corrisposta in modo non generalizzato, ma selettivo, sulla
base della valutazione operata dal responsabile della struttura utilizzando gli specifici
indicatori definiti dai contratti integrativi. A questo compito i contratti hanno
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provveduto in modo più o meno incisivo e orientato. Così, in alcuni si fa riferimento a
continuità e affidabilità, precisione e accuratezza, flessibilità, adeguatezza al contesto
lavorativo, miglioramento professionale, disponibilità alla collaborazione e all’aiuto; in
altri, gli indicatori sono meno numerosi, ma più specifici: precisione e qualità delle
prestazioni, capacità di iniziativa e di organizzazione del lavoro, orientamento
all’utenza.
Così pure i contratti definiscono metodi diversi al fine di determinare l’incentivo
spettante a ciascun dipendente, ma solo in alcuni casi garantiscono che l’ammontare
della corresponsione sia predeterminato non in misura fissa, ma variabile, a seconda
delle situazioni derivanti dagli obiettivi assegnati e dalle disponibilità di finanziamento.
Non mancano, peraltro, contratti che contraddicono entrambe le scelte, prevedendo
che l’indennità sia corrisposta, invece, a tutti i dipendenti in misura fissa e graduata in
ragione della categoria di appartenenza.
In controtendenza (positiva) si collocano i contratti che hanno cercato di adeguare
le voci retributive alle esigenze ed alle peculiarità delle Università, prevedendo
indennità di formazione e di aggiornamento (destinata al personale tecnico-
amministrativo che frequenta i corsi obbligatori di aggiornamento), indennità per
attività scientifica del personale (riservata a coloro che partecipano alla ricerca
scientifica, con pubblicazioni su riviste nazionali ed internazionali, e alla redazione di
opere monografiche), indennità correlate all’attività di supporto alla didattica (riservate
al personale interno che, in qualità di cultore della materia, collabora all’attività di
supporto alla didattica); ovvero indennità legate a specifiche attività, come
l’organizzazione dei concorsi e delle selezioni; l’attività delle commissioni di selezione
per il conferimento degli assegni di ricerca; l’attività di supporto tecnico; l’attività di
docenza nei corsi di formazione.
Passando alla contrattazione integrativa in materia di orario di lavoro, che ha
ricevuto una notevole attenzione in sede integrativa ed è quasi sempre stata oggetto di
accordi monotematici, va rilevato che le parti non si sono limitate, conformemente alla
previsione del ccnl, a contrattare i criteri generali per le politiche dell’orario di lavoro,
ma hanno definito anche una dettagliata regolamentazione dell’articolazione dell’orario
di lavoro (oggetto, secondo il ccnl, di informazione preventiva e di concertazione: cfr.,
infra, il par. 3.3.).
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Un aspetto di rilievo è che, per garantire l’efficacia dei servizi, le parti hanno
utilizzato ampiamente gli spazi negoziali offerti dal ccnl, consentendo così l’utilizzo di
tutti gli istituti contrattuali che favoriscono la flessibilità dell’orario di lavoro (settimana
corta, turni, programmazione plurisettimanale, flessibilità in entrata e uscita, presenza
giornaliera con orari inferiori o superiori alle sei ore, recupero periodico delle ore
eccedenti), ed hanno anche previsto che, quando sia ritenuto necessario e previo accordo
tra le parti, sia possibile omettere i rientri pomeridiani e recuperarli durante i periodi di
maggiore affluenza dell’utenza.
Si può ricordare, infine, che nel comparto dell’Università – a differenza degli altri
due analizzati - sono abbastanza ricorrenti negli accordi integrativi anche altre materie.
Innanzitutto, quella delle relazioni sindacali, con riferimento alla regolamentazione sia
di alcuni aspetti dei contratti decentrati (durata, decorrenza, ambito di applicazione,
procedure di verifica), sia degli altri modelli relazionali. Più che questa presenza, ciò
che si vuole segnalare è, viceversa, l’assenza di discipline analoghe negli altri comparti,
considerato che - come si segnala nella Sezione II di questo Rapporto - tutti e tre i
CCNL di comparto, “imponendo un vincolo di contenuto ai contratti integrativi”,
dispongono che essi disciplinino tempi, modalità e procedure di verifica della loro
corretta attuazione, sia perché le stesse parti sociali a livello decentrato possano
svolgere un controllo sull’effettivo rispetto delle regole concordate, sia per favorire “una
continuità relazionale volta ad alimentare un clima di collaborazione tra
amministrazione e organizzazioni sindacali in sede di singola amministrazione”.
Infine, abbastanza ricorrente negli accordi integrativi di questo comparto, ancora a
differenza degli altri due, è la materia relativa alle attività socio–assistenziali,
relativamente all’individuazione dei criteri generali per l’istituzione e la gestione di tali
attività, e, soprattutto, quella relativa all’area ambiente di lavoro, salute e sicurezza,
nell’ambito della quale i contratti integrativi hanno dettato in particolare la disciplina
del Rappresentante per la Sicurezza.
2. Questi ultimi riferimenti richiamano l’opportunità di qualche considerazione
sulle materie e gli istituti che, pur essendo oggetto di rinvio (perché è questo, lo si
ricorda, il criterio con il quale è stata condotta finora l’analisi), risultano poco o nulla
contrattati – da un punto di vista qualitativo, ancor più che quantitativo - ovvero sono
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destinatari di discipline meramente ripetitive di quelle già definite dal contratto di
livello superiore.
L’assenza di disciplina o lo scarso interesse dimostrato dalle parti potrebbe essere,
in queste ipotesi, l’effetto “della scomoda egemonia del livello centrale di
negoziazione” (o, più in generale, di regolazione, comprendendovi la fonte legislativa),
come sostengono gli autori del Rapporto sugli Enti Locali. La spiegazione potrebbe,
però, apparire convincente per materie quali i permessi e le aspettative, le attività socio-
assistenziali, i diritti e le prerogative sindacali, lo sciopero e le prestazioni
indispensabili. Ma è molto meno convincente per altre. Si pensi alle pari opportunità,
che appaiono – come sottolinea lo stesso Rapporto – “un’occasione mancata per il
livello decentrato che, dando una lettura davvero elementare del concetto di pari
opportunità, si è limitato ad evitare l’innesto di meccanismi di discriminazione tra i
sessi e a intervenire solo per proteggere le donne da possibili molestie sui luoghi di
lavoro. Aspetti indubbiamente importanti, ma limitati, dal momento che uno sviluppo
ben calibrato delle politiche in materia di pari opportunità avrebbe potuto tradursi anche
in benefici per la flessibilità organizzativa”.
La medesima spiegazione, poi, potrebbe apparire convincente anche per la
decisamente scarsa contrattazione nei tre comparti in materia di tipologie contrattuali
flessibili, mettendo così in discussione proprio la scelta centralistica compiuta a livello
di comparto su una materia cruciale in termini di flessibilità organizzativa. In effetti,
diverse tipologie contrattuali sono compiutamente ed analiticamente regolate a livello
nazionale, tanto che o non vi sono rinvii alla contrattazione decentrata, o questi sono
limitati - con la parziale eccezione del part time - a profili abbastanza marginali.
Potrebbe essere, però, valida – anche se connotata da un piccolo eccesso di
ottimismo – la diversa interpretazione di questa assenza proposta dagli autori del
Rapporto sul comparto Università, che la considerano “un segnale di piena coerenza
(…) tra modello di competenze attribuite e prassi contrattuali” e, con specifico
riferimento al contratto a tempo determinato (istituto ampiamente utilizzato nelle
Università), anche “indice di una regolamentazione nazionale (…) completa e che
consente un ampio e condiviso ricorso ad esso”.
Probabilmente c’è della verità in entrambe, né va sottovalutato che un ulteriore
elemento disincentivante – della cessione alla periferia di più ampie quote di
91
competenza in materia, ma della stessa contrattazione integrativa già svolta – è stato
costituito dalla continua sovrapposizione e modifica delle discipline legislative e
contrattuali sui rapporti di lavoro flessibili di quest’ultimo decennio, nonché dalla
sempre maggiore difficoltà, che ne è conseguita, di gestire razionalmente risorse umane
e rapporti di lavoro.
In ogni caso, non si può negare l’esigenza di definire un equilibrio funzionale tra
centro e periferia, nella regolazione di questa materia, diverso rispetto alla netta scelta di
accentramento compiuta a livello nazionale. In questo senso si dovrà tenere conto, però,
della legittima preoccupazione (del sindacato in particolare, ma non solo) che un
sistema non controllato dal centro possa generare una flessibilità regolativa condizionata
da particolarismi localistici, se non addirittura da fenomeni di clientelismo, e che
l’importazione nelle pubbliche amministrazioni di strumenti di reclutamento e di
impiego flessibili possa avvenire esclusivamente all’insegna di una politica di riduzione
della spesa pubblica e tradursi, di fatto, soltanto nella sostituzione di lavoro stabile con
lavoro precario. D’altra parte, se è forse vero – come sostiene ancora il Rapporto sugli
Enti locali – che la situazione attuale si traduce in “una vera e propria ingessatura di un
sistema che, proprio per le diverse funzioni e i diversi territori nei quali le Autonomie
locali si trovano ad operare, dovrebbe essere, invece, maggiormente duttile”, è
altrettanto vero che una ulteriore articolazione, che sfiori la territorializzazione, della
disciplina contrattuale dei lavori flessibili, non sarebbe certo un contributo alla
chiarezza sistematica ed alla gestione razionale di questi rapporti.
3. Si può ora affrontare il secondo obiettivo connesso all’analisi della
contrattazione integrativa nei tre comparti oggetto della ricerca, verificando – come si è
già indicato in Premessa - se l’applicazione a livello decentrato del sistema negoziale
disegnato dal contratto di comparto sia stata sostanzialmente coerente con i vincoli
derivanti da quest’ultimo ovvero vi siano stati scostamenti, sul piano delle competenze
negoziali o di quelle soggette agli altri metodi relazionali, per specifiche materie o
particolari profili di esse, ovvero sui tempi e sulle procedure negoziali.
In effetti, già sui tempi negoziali i Rapporti registrano notevoli scostamenti.
Anziché trattare in un’unica sessione, eventualmente articolata in più incontri, le
materie e gli istituti contrattuali rimessi alla contrattazione decentrata - salvo quelli che,
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per loro natura, richiedono tempi diversificati o verifiche periodiche, essendo legati a
fattori organizzativi contingenti - spesso le parti frammentano il processo negoziale o in
fasi successive, ovvero per materia. Così, invece che accordi onnicomprensivi, sono
frequenti gli accordi monotematici, spesso denominati ‘Protocolli’. Nei diversi
comparti, come evidenziano i singoli Rapporti, questo è accaduto specialmente per la
disciplina della formazione, delle relazioni sindacali, dei trattamenti economici,
dell’organizzazione degli uffici e dell’inquadramento, dei permessi studio e dello
sciopero, oltre che dell’orario di lavoro. Si tratta, come sottolinea il Rapporto Enti
Locali, di una prassi alquanto rischiosa, in quanto potrebbe favorire un superamento dei
limiti di spesa consentiti dalle riserve finanziarie dell’Ente ed, anche, “inficiare i
risultati di una contrattazione di più ampio respiro”, dal momento che “la
concentrazione delle sessioni negoziali favorisce “partite” più equilibrate, scongiurando
facili tatticismi basati su rinvii strumentali e richiedendo una preparazione lucida e
completa su tutti gli aspetti del contratto e sulle relative interrelazioni”.
Sullo stesso tema, ma per un profilo diverso, vanno menzionate le clausole dei
contratti di amministrazione del comparto Ministeri che dettano i tempi di svolgimento
e di conclusione della trattativa a livello di singola sede o ufficio in materia di orario di
lavoro. Premesso che il contratto di comparto non rinvia al contratto di amministrazione
la determinazione dei tempi e delle procedure dell’altro livello decentrato e, più in
particolare, che in materia di orario esso non prevede alcun rapporto gerarchico tra i due
livelli, è condivisibile l’opinione espressa dagli autori del Rapporto secondo i quali
questa previsione non pare idonea a limitare, con effetti reali, lo svolgimento della
contrattazione nelle singole sedi – che, dunque, può essere condotta secondo la
tempistica ritenuta più opportuna alla luce delle concrete e, soprattutto, mutevoli
esigenze organizzative proprie di ciascuna di esse –, ma può essere valutata come una
sollecitazione, rivolta ai soggetti negoziali di sede, a procedere quanto prima a
negoziare l’utilizzo delle diverse tipologie di orario, onde assicurare il perseguimento
delle finalità indicate dai contratti di comparto (consistenti nella maggiore efficienza del
servizio, nel soddisfacimento delle esigenze dei lavoratori che si trovino in particolari
situazioni personali, sociali e familiari, nella riduzione degli straordinari).
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3.1. Gli scostamenti più significativi (e più frequenti) rispetto alla disciplina del
contratto nazionale riguardano le competenze della contrattazione decentrata. Per
cominciare si può far riferimento alle ipotesi nelle quali la materia trattata è oggetto di
rinvio, ma le parti estendono la negoziazione a specifici profili non espressamente
rinviati. Questa ipotesi pare si riscontri prevalentemente nel comparto Università, al
quale si riferiscono i casi che seguono.
Per quanto riguarda il trattamento economico e, in particolare, come si è già
ricordato (cfr., supra, il par. 1.3.), la retribuzione di posizione e di risultato, in alcuni
contratti le parti hanno proceduto, in ragione degli incarichi di responsabilità e delle
posizioni organizzative attribuite, anche ad individuare i criteri sulla base dei quali
graduare le varie posizioni e correlare la relativa retribuzione sottraendo spazi, si
direbbe, alla libera determinazione dell’amministrazione, alla quale il CCNL riconosce
questa prerogativa.
La stessa espansione si è verificata nella disciplina dei permessi studio (le c.d. 150
ore), sulla quale le parti non si sono limitate a definire i criteri di priorità nella
concessione dei permessi e le modalità di certificazione degli impegni scolastici o
universitari, ma hanno contrattato una disciplina molto più ampia e dettagliata, relativa
al monte ore complessivo, ai termini e alle modalità di presentazione delle domande, ai
criteri di valutazione, all’ambito di applicazione soggettivo, alle modalità di fruizione,
all’attività di controllo e alle relative sanzioni.
E ancora in molti integrativi di Ateneo, in modo non dissimile da quanto è
avvenuto nel comparto dei Ministeri in materia di formazione professionale, oltre ai
criteri generali, sono stati dettagliatamente negoziati i contenuti delle diverse attività
formative, nonché gli aspetti organizzativi, di metodo e procedurali.
In materia di tipologie flessibili e, in particolare, di tempo parziale, alcuni accordi –
oltre ad individuare i criteri generali per la determinazione delle priorità nei casi di
trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, e viceversa, e le
ipotesi di ricorso al lavoro supplementare – definiscono anche un tetto minimo per la
dotazione organica a tempo parziale; specificano ulteriormente la durata della
prestazione e disciplinano il trattamento in caso di malattia. In tale prospettiva, di
particolare interesse è anche la disposizione di favorire, compatibilmente con le
esigenze organizzative dell’amministrazione, l’individuazione di modalità alternative
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alla scelta del part-time per i lavoratori e le lavoratrici che optino per il tempo parziale
in conseguenza del carico di lavoro di cura o di handicap psico-fisico e, più in generale,
per i dipendenti in particolari condizioni di svantaggio personale, sociale e familiare.
In alcuni casi, infine, le parti provvedono a individuare anche le attività e gli
incarichi in relazione ai quali non è possibile costituire il rapporto part-time, compito
che ancora una volta, secondo il CCNL, è demandato alle amministrazioni.
Sui diritti e le prerogative sindacali, poi, alcuni accordi hanno dettato una
disciplina ben più ampia dei permessi sindacali (soggetti titolari, modalità di richiesta e
di utilizzo, procedura di verifica) e dei diritti sindacali c.d. strumentali, introducendo
una serie di oneri a carico dell’amministrazione (disponibilità di locali per lo
svolgimento dell’attività sindacale e delle consultazioni; spazi per l’affissione di
materiale di interesse sindacale; utilizzo della posta interna e del sito web, ecc.).
3.2. In una serie di contratti ricorre, invece, l’ipotesi per la quale in sede integrativa
vengono negoziate materie e/o istituti che non sono affatto oggetto di rinvio. Passiamo a
considerarli, citando i casi più interessanti ed escludendo del tutto riferimenti ai casi in
cui tali scostamenti sono solo apparenti, in quanto gli accordi riproducono
sostanzialmente il contenuto delle relative disposizioni del ccnl.
Nel comparto Università, le parti hanno negoziato in sede decentrata in materia di
permessi c.d. brevi e di mobilità. Nel comparto Enti locali, e in materia di trattamento
economico, i contratti di qualche comune (prevalentemente di medio–grandi
dimensioni) propongono nuovi tipi di indennità, che ampliano ulteriormente la nozione
di lavoro disagiato e che appaiono meglio calibrate sulle esigenze che caratterizzano
specifiche realtà territoriali e/o organizzative (ad esempio, la cd. indennità neve, oppure
l’indennità di pronto intervento). Si tratta di un aspetto significativo, perché una
allocazione delle risorse che, senza determinare alcun superamento dei vincoli di spesa,
rifletta specificità ed esigenze locali, può riflettersi positivamente sulla gestione
flessibile delle risorse umane. E, tuttavia, si deve ricordare, con gli autori del Rapporto
di comparto, che alla contrattazione collettiva non sembra riconosciuta autonomia
nell’individuazione delle voci economiche accessorie, considerato che l’art. 49, c. 3, del
d.lgs. 29/93 (ora, art. 45, c. 3, d.lgs. 165/01) sembrerebbe ipotizzarne un elenco
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tassativo. E’ evidente, però, che questa interpretazione riduce le potenzialità adattive –
nell’innovazione – della stessa contrattazione.
Nel comparto Ministeri, come si è già detto (cfr., supra, il par.1.1.), i contratti di
amministrazione talora prevedono l’erogazione una tantum di un differenziale
economico in favore del personale inquadrato nelle posizioni economiche per cui non è
previsto lo sviluppo economico super e, in genere, individuano anche i criteri sulla base
dei quali graduare la retribuzione di posizione, limitando i poteri dell’amministrazione
alla quale, ai sensi del CCNL, spetterebbe “la graduazione in rapporto a ciascuna
tipologia di incarico previamente individuata”. Particolare attenzione - quale ulteriore
esempio di introduzione, in sede di contrattazione decentrata, di limiti al potere del
dirigente (in assenza di rinvio da parte del contratto di comparto) - merita poi la
previsione, in materia di congedi per la formazione, con la quale le parti concordano che
l’eventuale differimento del congedo debba essere debitamente motivato dal dirigente
responsabile, sia in relazione alle esigenze di servizio, sia al pregiudizio eventualmente
arrecato al dipendente, e che di esso debba essere data comunicazione tempestiva al
dipendente interessato.
Da segnalare poi, in materia di tipologie flessibili, sono le previsioni (contenute,
peraltro, solo in due accordi) relative all’ambito di applicazione della percentuale
massima di lavoratori part-time definito del contratto di comparto, perché incidono su
un profilo che, oltre a non essere oggetto di rinvio, può anche determinare un conflitto
regolativo con la disciplina nazionale.
Interessanti – perché funzionali a tutelare l’interesse degli utenti dei servizi erogati
- sono, inoltre, le previsioni in materia di assemblea, per il vero contenute in pochi
accordi, tese a garantire l’erogazione delle prestazioni indispensabili e l’informazione
all’utenza qualora l'astensione dal lavoro del personale che partecipa all’assemblea
possa comportare (…) effetti analoghi a quelli dello sciopero”; ovvero la clausola
(contenuta in un altro accordo) la quale affida all’amministrazione l’individuazione, di
concerto con le oo.ss., dei contingenti minimi di personale che non può partecipare
all’assemblea per assicurare il servizio.
Tra gli aspetti contrattati in questo comparto al livello di amministrazione in
assenza di rinvio particolare menzione merita, infine, quello degli Organismi paritetici.
In alcuni contratti, infatti, si istituiscono (o si prevede che debbano essere istituti)
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organismi paritetici diversi da quelli contemplati del CCNL, quali: Commissione con
compiti di verifica dell’applicazione del contratto collettivo di amministrazione, con
specifico riferimento ad alcuni istituti; Commissioni interregionali con il compito di
dirimere eventuali contenziosi a seguito di mancati accordi a livello locale; un
organismo di raffreddamento di livello nazionale, da attivarsi su richiesta di una delle
parti in caso di elevati momenti di conflittualità che si verifichino a livello territoriale,
previa valutazione dei firmatari del CCA; Commissione per il riesame dei punteggi
riconosciuti ai fini dell’attribuzione delle posizioni economiche super; Comitato per
l’analisi della coerenza tra il sistema di incentivazione del personale ed il sistema di
programmazione e di controllo gestionale; Commissione sul mobbing; Commissione
per regolamentare i servizi pubblici essenziali ex l. n. 146/1990; Commissione per i
servizi sociali.
3.3. E’ già stato ricordato nella Sezione II di questo Rapporto che, ai sensi dell’art.
9 del D. Lgs. n. 165/2001, i contratti collettivi nazionali possono disciplinare, oltre che
procedure e contenuti della contrattazione integrativa, l’ambito di operatività degli
istituti della partecipazione, “anche con riferimento agli atti interni di organizzazione
aventi riflessi sul rapporto di lavoro”.
E’, dunque, il momento di esaminare i casi più rilevanti nei quali i contratti
integrativi hanno regolato istituti che – in base ai contratti nazionali di comparto – sono
oggetto di informazione, consultazione e concertazione.
Da quest’ultimo punto di vista, però, si può subito notare che il contratto del
comparto Ministeri formula in modo ambiguo la norma sulla concertazione prevedendo,
nell’ambito degli aspetti procedurali, che nella concertazione le parti verificano la
possibilità di un accordo mediante un confronto (che deve, comunque, concludersi entro
il termine massimo di trenta giorni dalla sua attivazione) e che dell’esito della
concertazione è redatto verbale, dal quale risultino le posizioni delle parti nelle materie
oggetto della stessa. Come notano gli autori del Rapporto di comparto, il riferimento
alla “possibilità di un accordo”, è foriero di dubbi interpretativi, ai quali si possono
ricondurre i casi altrettanto ambigui – verificatisi a livello di amministrazione - nei quali
le parti, all’interno del verbale, definiscono consensualmente alcune delle questioni
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affrontate durante la fase concertativa. Nel comparto Università, peraltro, in alcuni casi i
verbali di concertazione sono stati trasformati in veri e propri contratti collettivi.
Ancora più interessanti, perché sembrano formalizzare la ricerca di maggiore
autonomia dal centro della contrattazione di secondo livello, sono alcuni contratti del
comparto Ministeri i quali, nell’elencare le materie di competenza della contrattazione
di amministrazione e di sede centrale o decentrata e ufficio periferico, dichiarano
espressamente che alcune di esse sono aggiuntive rispetto al CCNL (ad es. servizi
sociali o modalità e criteri di adesione al Fondo di previdenza integrativa) e/o che si
tratta di profili – aggiuntivi rispetto alle materie di contrattazione – previsti dal contratto
di comparto solo come oggetto di informazione, consultazione o concertazione, oppure
del tutto esclusi da ogni forma di interlocuzione sindacale. Si menzionano ad esempio,
per il livello di amministrazione: politiche occupazionali, criteri generali per il
conferimento di mansioni superiori, criteri generali per il conferimento di posizioni
organizzative, metodologie di costituzione del FUA; per il livello di sede:
organizzazione del lavoro, individuazione delle posizioni di responsabilità e, in
generale, competenze di attuazione dei criteri definiti a livello di amministrazione.
E’ evidente – e lo sottolinea il Rapporto di comparto – che già queste previsioni
sollevano i problemi interpretativi relativi alla competenza della contrattazione
integrativa ed ai vincoli che, al riguardo, discendono dalla disciplina legale e da quella
del CCNL. E’ altrettanto evidente, però, che tali problemi si pongono soprattutto con
riferimento alla concreta disciplina dettata dalle singole norme dei contratti integrativi,
piuttosto che a queste previsioni generali.
Avviando l’analisi del c.d. slittamento di caselle dal comparto Università, risulta
evidente che in diversi casi a livello decentrato le parti hanno stipulato accordi su
materie e profili rientranti nella sfera di competenza riservata all’esercizio del potere
organizzativo (da parte) dell’amministrazione.
Cominciando dall’area tematica della organizzazione degli uffici, dei servizi e del
lavoro e della gestione delle risorse umane, come si è già accennato, il primo
riferimento è alla individuazione delle posizioni organizzative e delle relative funzioni
di responsabilità, su cui c’è solo obbligo di informazione e concertazione. In alcuni casi,
invece, le parti hanno concordato in sede negoziale l’individuazione di tali posizioni o
hanno determinato alcuni criteri cui l’amministrazione deve attenersi nell’individuarle.
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Lo stesso è avvenuto in materia di programmazione del fabbisogno di personale e
di procedure di reclutamento. Come illustra il Rapporto di comparto, l’elaborazione del
piano triennale per la programmazione del fabbisogno di personale – che rientra tra gli
atti dell’amministrazione aventi chiara natura organizzativa – è l’attività propedeutica
che ogni amministrazione è tenuta a compiere al fine di contemperare le esigenze
derivanti dalla necessità di dimensionare correttamente la propria dotazione organica
con le disponibilità finanziarie e i vincoli di bilancio. Nell’ambito di tale
programmazione, l’amministrazione deve determinare il piano annuale delle assunzioni,
individuare le relative risorse finanziarie, predisporre i regolamenti destinati a
disciplinare la copertura dei posti vacanti mediante accesso di personale esterno o
utilizzo dell’istituto della progressione verticale. Il CCNL prevede che tale piano, così
come la determinazione dei fabbisogni quantitativi e/o qualitativi derivanti dalla
costituzione di nuove strutture, sia oggetto di consultazione con i soggetti sindacali,
mentre sono oggetto di informazione preventiva i regolamenti di Ateneo che,
nell’ambito delle dotazioni organiche, disciplinano le procedure selettive per l’accesso
dall’esterno o per la progressione verticale.
A livello decentrato, però, sono state talora negoziate le modalità di copertura dei
posti e le modalità e i termini di svolgimento delle procedure selettive, ovvero i criteri
sulla base dei quali determinare le modalità di copertura dei posti, al fine di effettuare
una scelta ponderata fra accesso dall’esterno o progressione verticale, e i criteri per la
redazione dei regolamenti che disciplinano le procedure selettive.
Quanto alle procedure di progressione verticale, il CCNL riconduce la disciplina
dell’istituto ai Regolamenti di Ateneo, sui quali è previsto un obbligo di informazione ai
soggetti sindacali, mentre i criteri generali per lo svolgimento delle procedure selettive
sono oggetto di informazione preventiva e concertazione. L’analisi della contrattazione
decentrata ha consentito di rilevare che la disciplina di tali procedure ed, in particolare,
la definizione dei criteri sulla base dei quali operare le selezioni, spesso è stata oggetto
di attenzione al tavolo contrattuale, se non di negoziazione: in molti casi, infatti, essa è
contenuta in veri e propri accordi; in altri, il Regolamento che contiene la disciplina è
sottoposto all’approvazione delle parti o, comunque, allegato ad accordi integrativi.
Infine, in materia di riorganizzazione degli uffici e dei servizi - che è oggetto, a
seconda dei profili, di consultazione e di informazione preventiva - va segnalato il caso
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di un accordo di Ateneo nel quale si determinano i criteri per l’individuazione di
specifiche strutture e servizi e per la nomina dei responsabili.
Casi analoghi si riscontrano nel comparto degli Enti locali, nel quale
sull’introduzione e la concreta individuazione delle posizioni organizzative è previsto
solo l’obbligo di informazione. Alcuni contratti disciplinano, invece, i criteri sulla base
dei quali l’amministrazione può provvedere a istituire alcune posizioni organizzative.
Quanto alle progressioni verticali, la relativa regolamentazione è demandata
pressocchè integralmente agli atti regolamentari dell’amministrazione. Ciò nonostante,
soprattutto nei comuni di dimensioni medio–grandi, essa è stata posta sul tavolo della
negoziazione, pur non trasformandosi in oggetto di contrattazione. In vari contratti,
infatti, sono presenti norme che riportano indicazioni sulle regole da seguire per le
progressioni verticali o veri e propri regolamenti sul tema, che vengono allegati al
contratto.
Come si è già detto, nel comparto Ministeri molti di questi profili sono trattati in
relazione agli istituti rientranti nell’area tematica Ordinamento, inquadramento e
sviluppo professionale, poiché i riassetti organizzativi delle amministrazioni impongono
interventi modificativi sull’inquadramento dei lavoratori. Per questo nei contratti si fa
riferimento alla necessità di addivenire ad una revisione delle dotazioni organiche.
Peraltro, questi riferimenti appaiono talvolta connotati da ambiguità. Infatti, benché si
riconosca che si tratta di materia di competenza dell’amministrazione (in quanto area di
macro-organizzazione) e ci si limiti a richiamare quest’ultima al rispetto delle procedure
di consultazione sindacale previste dall’art. 6, d.lgs. n. 165/2001, spesso le si forniscono
indicazioni, quanto meno in termini di obiettivi da perseguire.
In materia di posizioni organizzative, come si è già accennato (cfr., supra, par.
1.1.), diversi contratti di amministrazione hanno individuato le funzioni cui si collega
l’istituzione delle posizioni, definito i criteri generali per l’affidamento e la revoca degli
incarichi, previsto le modalità per la valutazione periodica dell’attività svolta: profili
oggetto, invece, di informazione e di concertazione.
In taluni casi, poi, le parti hanno contrattato in materia di conferimento di mansioni
superiori, oggetto di mera consultazione, talora anche con riferimento a profili che non
sembrano nemmeno rientrare in questa definizione. Invero, alcuni contratti si limitano a
fissare un termine, a decorrere dalla stipula del CCA, entro il quale l’amministrazione
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deve provvedere, previa consultazione, alla definizione dei criteri di assegnazione; altri
prevedono i criteri da utilizzare nell’ipotesi in cui vi siano più dipendenti che risultino
possibili destinatari del conferimento di mansioni superiori; in altri casi ancora i
contratti intervengono sulla rilevanza dell’esercizio di mansioni superiori a fini di
progressione professionale. Prevalentemente, però, si disciplinano le modalità di
attribuzione delle mansioni superiori e la composizione e le modalità di attribuzione del
trattamento economico corrispondente.
Oggetto di contrattazione – anziché di informazione e di concertazione – sono stati
anche i passaggi all’interno dell’area e tra le aree. Per questi ultimi si disciplinano le
procedure selettive, prevalentemente nella forma del corso-concorso con esame finale, i
requisiti di accesso e i contingenti di personale, le fasi e le modalità di svolgimento, le
modalità di selezione e di valutazione.
Come giustamente sottolineano gli autori del Rapporto, nel complesso “questa
contrattazione costituisce un tipico esempio di come, non di rado, le parti, anziché
limitarsi a svolgere le procedure di consultazione, come previsto dal CCNL, si spingono
a contrattare su di una specifica materia, senza peraltro che si determinino conflitti
‘formali’ di regolazione con le previsioni del medesimo CCNL. Con riferimento a
materie quali quella ora trattata, infatti, la disciplina di comparto non esaurisce tutti gli
aspetti delle medesime materie, sì da lasciare degli “spazi vuoti” (cioè privi di
regolazione negoziale), che sarebbero destinati ad essere colmati dal dirigente,
nell’esercizio dei suoi poteri “datoriali” (talora previo esperimento, appunto, delle
procedure di consultazione). In questi casi, quindi, la contrattazione di amministrazione,
nel riempire tali spazi, interviene generalmente a limitare il potere del dirigente”.
Quanto all’orario di lavoro, nel comparto Università, come si è già ricordato, le
parti hanno negoziato non solo le politiche dell’orario di lavoro e i criteri e le linee
generali cui improntare la sua organizzazione, rinviate dal CCNL alla sede decentrata,
ma anche l’articolazione dell’orario di lavoro, oggetto – sempre secondo il CCNL – di
informazione preventiva e di concertazione.
Nel comparto Enti Locali, oltre a quella dell’orario di lavoro, viene negoziata
anche l’articolazione dell’orario di servizio – entrambe oggetto di concertazione – con
la motivazione, estremamente rilevante per la nostra Ricerca, di garantire un servizio
più efficiente all’utenza.
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Quanto al comparto Ministeri, infine, va premesso che – a differenza degli altri due
– l’articolazione dell’orario di lavoro è oggetto di specifico rinvio alle sedi decentrate da
parte del CCNL, laddove la disciplina (dell’articolazione) degli orari di servizio e/o di
quelli di apertura al pubblico, è oggetto di esame. E tuttavia, almeno in taluni casi, la
disciplina dei CCA si occupa contestualmente degli orari di apertura al pubblico e di
una serie di aspetti relativi all’orario di lavoro (in particolare le modalità delle
turnazioni, ovvero la previsione di peculiari forme di articolazione dell’orario) e alla
retribuzione (ripartizione FUA, indennità di turnazione, produttività e posizione), che
sono invece oggetto di rinvio.
Al di la’ della diversa – e già in sé significativa - determinazione delle competenze
in materia di orario nei tre comparti, la contrattazione decentrata e, in particolare, quella
del comparto Ministeri, sembra dimostrare, come sottolineano gli autori del relativo
Rapporto, “come, talora, l’astratta ripartizione tra materie oggetto di contrattazione e
materie che ne sono escluse non sia affatto funzionale alla concreta gestione dei servizi
e del lavoro”; ma essa sembra anche contraddire, in concreto, le tesi secondo le quali la
disciplina degli orari di servizio e/o di quelli di apertura al pubblico non potrebbe
neppure essere oggetto di contrattazione, in quanto relativa ad elementi esterni al
rapporto obbligatorio.
Passando alla mobilità e ai trasferimenti, va ricordato che nel comparto Università
queste materie, pur essendo oggetto di informazione preventiva e successiva, sono
comunque presenti in alcuni accordi decentrati. L’istituto maggiormente contrattato è la
mobilità interna, ovvero la mobilità tra le varie strutture in cui si articola ciascun
Ateneo, che rappresenta – come talora si specifica - lo strumento di organizzazione
degli uffici e di gestione dei rapporti e dei processi di lavoro dell'amministrazione
universitaria, in quanto serve a razionalizzare l’uso delle risorse attraverso la flessibilità
ed a contemperare l’interesse dei dipendenti al miglioramento delle condizioni di lavoro
e allo sviluppo professionale con l’esigenza di promuovere l’innalzamento del livello
qualitativo dei servizi istituzionali. Sulla base di queste premesse, le parti non si sono
limitate a fornire indicazioni di principio, ma hanno concordato nello specifico le
condizioni e la procedura della mobilità, che alcuni Atenei hanno recepito in un
apposito regolamento (o hanno assunto l’impegno di farlo). Va notato, peraltro, che tutti
gli accordi contengono una norma di chiusura – o, si potrebbe dire, di salvaguardia –
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secondo la quale le determinazioni in materia di mobilità interna formano oggetto di
informazione sindacale, così come previsto nel CCNL.
Sullo stesso tema, nel comparto Enti locali, oggetto di contrattazione integrativa
non è, come previsto dal CCNL, la determinazione delle modalità di gestione delle
eccedenze di personale, ma taluni profili connessi al passaggio dei dipendenti per effetto
di trasferimento di attività (oggetto di consultazione/concertazione) ovvero i criteri
generali per la mobilità cd. interna (oggetto di concertazione).
Per quanto concerne il primo aspetto, in particolare, le parti individuano e
definiscono i criteri per il passaggio dei dipendenti per effetto di trasferimento di
attività. Talvolta, al fine di incrementare i processi di mobilità, per trasferimento di
funzioni a seguito del decentramento, particolare attenzione è rivolta, inoltre, agli aspetti
economici e si prevede, ad esempio, la possibilità di erogare compensi una tantum, con
le modalità dell’indennità sostitutiva del preavviso.
4. E’ possibile, a questo punto, tentare di trarre dall’analisi condotta nei paragrafi
precedenti alcune indicazioni sui due temi principali che la ricerca si è proposta: il
primo, relativo alla capacità della contrattazione integrativa di favorire una gestione più
flessibile dell’organizzazione delle pubbliche amministrazioni, utilizzando le
competenze rinviate dalle fonti negoziali di livello superiore; il secondo, attinente alla
coerenza tra i contenuti e le politiche contrattuali di primo e di secondo livello, ovvero
alla ‘tenuta’ del sistema negoziale di comparto nel suo complesso.
Cominciando dal primo tema, è stato già detto - nel Rapporto del comparto Enti
Locali - che “sugli ambiti oggettivi di intervento contrattuale si concentra il margine più
rilevante di azione degli enti e delle rappresentanze sindacali, nella prospettiva di una
regolazione concretamente più duttile e flessibile del rapporto di lavoro”. Da questo
punto di vista, e tenendo conto del concomitante operare dei vincoli legali gravanti sul
sistema di contrattazione collettiva nelle pubbliche amministrazioni, si può concordare
con la valutazione espressa nello stesso Rapporto – e implicita negli altri due – che la
capacità della contrattazione integrativa di introdurre regole flessibili è stata
condizionata dall’originaria impostazione dirigistica dei contratti di comparto, che
tendono ad enfatizzare la propria funzione perequatrice e “paritaria” al fine di evitare
103
ogni sorta di disparità di trattamento lesiva della dignità individuale dei lavoratori oltre
che, nel caso degli Enti Locali, di attenuare gli squilibri territoriali.
Un’impronta che si è certamente alleggerita – ma non dissolta – con la seconda
tornata contrattuale nazionale, essendo state riconosciute per la prima volta al livello
decentrato competenze su materie assolutamente significative proprio in relazione alla
flessibilità organizzativa e della gestione del personale: posizioni organizzative,
mobilità professionale, valutazione del personale, inquadramento, incremento e gestione
delle risorse economiche, tipologie contrattuali flessibili, formazione (cfr., supra, il par.
1). E, infatti, l’ampliamento delle materie rinviate è indicativo della tendenza a
ridimensionare il ruolo del contratto nazionale a vantaggio del contratto integrativo; o
meglio, a riconoscere al livello decentrato spazi di regolazione e di confronto più ampi
proprio per favorire l’innovazione organizzativa e il miglioramento gestionale.
La valutazione complessiva sull’operato negoziale delle amministrazioni non può
che essere, però, articolata. La contrattazione di certi istituti, e soprattutto di quelli
retributivi con funzione indennitaria e di incentivazione della produttività, conferma le
difficoltà storiche che le amministrazioni incontrano nella gestione di queste voci, nel
tentativo di conciliare l’inconciliabile: limiti e controlli di tipo tradizionalmente
contabile sulla spesa per il personale, riconoscimento della professionalità e della
responsabilità, criteri distributivi livellanti, ovvero miglioramenti retributivi ‘a pioggia’
– sia pure minimi nell’importo e disfunzionali.
E’ pure vero, d’altra parte, che il tasso di contrattazione degli istituti legati
all’inquadramento, alle posizioni organizzative e alla mobilità professionale è rilevante,
anche se non si può ancora affermare con certezza che il guado tra tradizione e
rinnovamento sia stato attraversato, perché criteri di carriera nei quali ‘pesano’
l’anzianità e l’esperienza sopravvivono ancora all’avvento – sempre dichiarato in via di
principio, non sempre concretamente praticato – di criteri e regole trasparenti basate
sulla professionalità, sulla formazione, sull’impegno individuale e collettivo. E in
proposito si deve riconoscere, come sottolinea il Rapporto sugli Enti Locali, che
“quando la disciplina generale - come quella sulle posizioni organizzative, diversamente
da quella in tema di produttività – definisce con chiarezza e coerenza, pur se
sinteticamente, gli obiettivi selettivi, organizzativi e professionali da perseguire, la
104
dirigenza locale e le organizzazioni sindacali tendenzialmente rispondono
consapevolmente: cioè con scelte efficienti e ragionevoli”.
Per altro verso, non si deve sottovalutare il fatto che vi sono istituti quasi del tutto
trascurati dai contratti integrativi, per i quali le parti hanno utilizzato molto poco lo
spazio negoziale concesso dal contratto nazionale, spesso limitandosi a riprodurne il
contenuto: si pensi al tema dei congedi e delle azioni positive per le pari opportunità,
che pure possono rivestire un ruolo assai rilevante dal punto di vista della flessibilità
nell’interesse sia dei lavoratori, sia delle amministrazioni e dell’utenza.
Eppure, come sottolinea il Rapporto sull’Università, se si considera l’ampiezza
delle materie negoziate, la contrattazione integrativa non appare più semplicemente
applicativa del contratto nazionale – come è accaduto nella prima tornata contrattuale -,
ma si presenta discretamente specializzata rispetto al primo livello di contrattazione,
avendo comunque accresciuto il rilievo delle proprie funzioni di specificazione e di
adattamento regolativo.
Questo risultato, però, può apparire in parte prodotto dalla espansione della
contrattazione decentrata su materie o profili non rinviati dai contratti di livello
superiore, ovvero – che è l’ipotesi decisamente più rilevante per frequenza e contenuti
negoziali – oggetto di informazione, consultazione e concertazione.
Si tratta di un aspetto assai problematico e che, per questo, è suscettibile di
interpretazioni diverse. Commentandolo – in relazione alle materie ed agli istituti che ne
sono stati maggiormente interessati (come si è detto, le posizioni organizzative, l’orario
di lavoro, le progressioni verticali e la mobilità) – il Rapporto sugli Enti Locali
sottolinea l’ambivalenza di questo processo di ‘appropriazione’ di competenze da parte
del livello negoziale decentrato: da un lato, conferma dei timori di una gestione
particolaristica ed eccessivamente politica delle carriere dei dipendenti degli enti locali;
dall’altro, dimostrazione della evidente relazione organizzativa – proprio in termini di
flessibilità – tra politiche di incentivazione economica e gestione della crescita
professionale dei lavoratori, penalizzata dai limiti regolativi – in sede decentrata –
relativi ai percorsi di carriera dei dipendenti.
Probabilmente, come rileva il Rapporto sul comparto Ministeri, questa espansione
è indicativa del “gap che sussiste (…) tra la valutazione compiuta in sede di CCNL in
merito alla riconducibilità alla macro-organizzazione o, comunque, alle determinazioni
105
unilaterali dell’amministrazione di alcuni profili interni a talune materie (…) e le
concrete esigenze regolative e/o organizzative che emergono meglio in sede negoziale
decentrata (…), dove, ad esempio, se si contratta un profilo (oggetto di rinvio alla
contrattazione), spesso è inevitabile contrattare anche quelli connessi, presupposti,
consequenziali, ecc., che il CCNL, appunto, ha relegato in sede di partecipazione
sindacale o sui quali ha taciuto”.
Ai fini della valutazione di questa tendenza non va, peraltro, trascurato il fatto –
rilevato ancora dal Rapporto sui Ministeri – che nella gran parte dei casi “ciò non ha
prodotto conflitti regolativi (intesi qui come sovrapposizione tra due precetti antinomici
contenuti in contratti di diverso livello), ma semmai una limitazione dei poteri
dirigenziali” (ad esempio, nella disciplina di comparto in materia di mansioni e di
articolazione degli orari). E qui resta aperta un’alternativa interpretativa: se, cioè, questa
propensione a limitare, a procedimentalizzare le prerogative datoriali della pubblica
amministrazione, sia, come alcuni sostengono, una via per la deresponsabilizzazione
della dirigenza pubblica, che quest’ultima può voler agevolare; ovvero la naturale
evoluzione, dal punto di vista delle relazioni industriali, della tendenziale assimilazione
delle logiche contrattuali del settore pubblico a quelle del settore privato.
Come la teoria, oltre che la pratica, delle relazioni industriali insegna,
l’informazione, la consultazione, la contrattazione e la concertazione sono processi che
si pongono lungo un continuum nel quale, però, né la progressione dall’uno all’altro, né
l’approdo finale sono necessari e necessitati. La prevalenza dell’una o dell’altra forma
può fotografare la situazione delle relazioni industriali ovvero far emergere l’impronta
prevalente – di tipo conflittuale o cooperativo, con l’infinita gamma di varianti
intermedie – che le caratterizza in un determinato contesto territoriale o produttivo.
L’esperienza del settore privato, poi, dimostra che l’informazione e la consultazione
favoriscono – e preludono a – una contrattazione collettiva basata sulla condivisione di
dati e informazioni e, dunque, più razionale e meno conflittuale, a beneficio di una
riduzione dei costi economici e sociali della negoziazione e di una applicazione non
controversa delle relative discipline.
In ogni caso, simili osservazioni inducono a sostenere che – sebbene sia innegabile
riscontrare su diversi profili la mancata tenuta del sistema delineato a livello di
comparto (almeno alla luce dei profili di scostamento evidenziati) – essa non può essere
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semplicisticamente addebitata solo a comportamenti dei soggetti negoziali decentrati
non rispettosi dei vincoli imposti dal CCNL, né può essere letta quale mero
svuotamento o sacrificio degli altri istituti di partecipazione, ma può essere utilizzata
come indicative della necessità che a quel sistema siano introdotti adeguati correttivi, in
vista di un migliore adattamento delle dinamiche negoziali (ai diversi livelli) alle
mutevoli esigenze organizzative e/o regolative delle PA.
La discreta diffusione – quantitativa e qualitativa – dei casi nei quali la
contrattazione decentrata ha superato le competenze ad essa assegnate, nonostante la
prevalente interpretazione rigida dei vincoli discendenti dalle clausole di rinvio e la
sanzione legale della nullità delle clausole difformi, dovrebbe indurre a prendere atto, da
un lato, della concreta ineffettività di tali vincoli e della opportunità di riesaminare la
materia, anche al fine di introdurre adeguamenti e correttivi al sistema di ripartizione
delle competenze tra i livelli negoziali sulla base di criteri di specializzazione – e
dunque di tipo funzionale, e non più solo gerarchico –, onde favorire una disciplina dei
rapporti individuali e collettivi di lavoro più flessibile, nel senso specifico di più
adeguata alle esigenze ed agli interessi delle parti a livello locale, e comunque rispettosa
dei vincoli di spesa e di quelli derivanti dalla necessità di evitare conflitti regolativi. Ciò
implica, appunto, maggiore ‘autonomia’ della contrattazione decentrata rispetto al
contratto nazionale – e non più solo rispetto a fonti di disciplina eteronome - senza che
sia messo in discussione il ruolo fondamentale dello stesso contratto nazionale quale
sede di definizione di una base minima ed omogenea di regole e di trattamenti.
Si tratterebbe, insomma, di contemperare l’esigenza di garantire al contratto di
livello più alto un ruolo di guida, di coordinamento e di controllo delle politiche
negoziali decentrate, con quella di favorire, tramite la contrattazione di secondo livello,
una gestione adeguata dei concreti processi di riorganizzazione delle pubbliche
amministrazioni indotti dalla riforma del lavoro pubblico.
Nel ‘riassetto’ del sistema negoziale potrebbero rientrare, infine, interventi più
specifici, come la ridefinizione delle competenze e dei rapporti tra i due livelli
decentrati del comparto Ministeri ed una incentivazione allo sviluppo di una
contrattazione decentrata di tipo territoriale nei comparti, come quello degli Enti locali,
caratterizzati dalla presenza diffusa di enti di piccole dimensioni.
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