CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI...

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1 CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI SALERNO RELAZIONE AL TERMINE DEL PRIMO ANNO DI PRATICA ex art. 7 D.P.R. 101/90 Dr.ssa Anna Pia Esposito Libretto di pratica n. 11493 2010-2011

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CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI SALERNO

RELAZIONE AL TERMINE DEL PRIMO ANNO DI PRATICA ex art. 7 D.P.R. 101/90

Dr.ssa Anna Pia Esposito Libretto di pratica n. 11493 2010-2011

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All’Onorevole Consiglio

dell’ordine degli Avvocati di Salerno

La sottoscritta Dr.ssa Esposito Anna Pia, nata a Salerno il 23/06/1983 e residente in

Nocera Inferiore (SA) alla via Papa Giovanni XXIII n. 47, iscritta nel Registro dei

Praticanti Avvocati tenuto da codesto Ordine a partire dal 02/07/2010 con libretto di

pratica n. 11493, rassegna la seguente relazione annuale attestante l’effettivo esercizio

della pratica forense presso lo studio professionale dell’Avv. D’Emma Rosaria.

Lo studio presso il quale svolgo la pratica forense tratta principalmente, ma non

esclusivamente, questioni attinenti al diritto del lavoro e previdenziale.

La mia attività consiste, nelle ore mattutine, nell’assistenza alle udienze presso il

Tribunale e l’Ufficio del Giudice di Pace, alle quali partecipo insieme all’Avvocato

stendendo, talvolta, anche il relativo verbale e nello svolgimento dei vari adempimenti

presso gli Uffici Giudiziari. Nelle ore pomeridiane, invece, mi dedico alla redazione di

atti giudiziari e stragiudiziari, previa consultazione con l’Avvocato e con revisione

successiva di quest’ultimo, nonché allo studio delle questioni giuridiche e ricerche

giurisprudenziali attraverso la consultazione di manuali di diritto, riviste giuridiche e

con l’utilizzo del computer e di internet.

In questo primo anno di pratica ho avuto modo, così, di approfondire varie tematiche

civili, dagli aspetti tecnici a quelli puri di diritto sostanziale, approfondendo numerose

questioni giuridiche e allo stesso tempo di apprendere una corretta formazione

professionale, intesa nel duplice senso, del rapporto con i colleghi, improntato ai

principi di lealtà ed onestà, e con i clienti fondato sugli imprescindibili criteri di stima e

fiducia reciproca.

La relazione, così come prescritto dall’art. 7 del D.P.R. 101/90, verte sulle attività

indicate nel libretto e consta della descrizione dell’attività svolta in un minimo di 10

udienze, dell’approfondimento di almeno 5 questioni giuridiche e di 5 atti, nonché di

una questione di deontologia forense.

Con ossequi

Salerno, lì 02-07-2011

Dr.ssa Anna Pia Esposito

Avv. Rosaria D’Emma

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QUESTIONI GIURIDICHE:

1. Sul licenziamento disciplinare: nullità per violazione dell’art. 7 L. 300/70

L’inosservanza delle disposizioni impartite dal datore di lavoro può essere

sanzionata, secondo quanto previsto dall’art. 2106 c.c., mediante l’irrogazione di

speciali pene private, dette sanzioni disciplinari, che il datore di lavoro può applicare

in proporzione alla gravità della infrazione e in conformità delle norme dei contratti

collettivi. In particolare, le sanzioni previste dai contratti in relazione alle inadempienze

(c.d. mancanze) elencate dagli stessi sono: il rimprovero verbale oppure scritto, la

multa, la sospensione dal lavoro e della retribuzione, ed il licenziamento extrema ratio.

L’art. 7 della L. n. 300/70 (Statuto dei lavoratori) subordina l’esercizio del potere

disciplinare alla pubblicazione di un vero e proprio regolamento (c.d. codice)

disciplinare da portare a conoscenza dei lavoratori mediante l’affissione in luogo

accessibile a tutti. Tale regolamento deve indicare ( in analogia con il principio nulla

poena sine lege vigente in materia penale) le sanzioni e le infrazioni applicabili, nonché

le procedure di contestazione. La pubblicità è, dunque, elemento costitutivo del potere

disciplinare in capo al datore di lavoro, in assenza della quale il potere non può essere

esercitato: l’unico mezzo di assolvimento dell’onere della pubblicità è costituito

dall’affissione. Alla rilevata rigidità circa la configurazione dell’onere di pubblicità

sono collegati gli effetti della scorretta o mancata affissione, di dirompenza tale da

determinare la paralisi ex tunc del potere disciplinare, al punto che vien comminata la

nullità della sanzione.

Nella fattispecie che ha dato l’opportunità di approfondire la questione sub indice, nel

momento in cui era stato comminato il licenziamento alla ricorrente, senza che il datore

di lavoro avesse previamente sollevato alla stessa le contestazioni, il codice disciplinare

non risultava affisso nei locali nei quali dove la ricorrente esercitava l’attività e quindi il

procedimento può ritenersi nullo e il licenziamento illegittimo.

Lo stesso art. 7 dello Statuto dei lavoratori prevede che nessun provvedimento

disciplinare può essere adottato nei confronti del lavoratore senza che gli sia stato

preventivamente contestato l’addebito e senza che sia stato sentito a sua difesa. La

procedura di contestazione, perciò, deve essere tale da consentire al lavoratore

un’effettiva difesa. I provvedimenti più gravi del rimprovero verbale non possono

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essere applicati prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione scritta del

fatto che ne ha costituito la causa. Il lavoratore al quale sia stata comminata la sanzione

ha poi la facoltà di impugnarla entro i venti giorni successivi. La contestazione deve

contenere i dati e gli aspetti essenziali del fatto nella sua materialità, in guisa tale che,

pur senza una precisa menzione delle norme legali o contrattuali che si assumono

violate, sia consentita l’esatta individuazione delle norme legali o contrattuali che si

assumono violate, sia consentita l’esatta individuazione della infrazione contestata e del

comportamento nel quale il datore di lavoro ravvisa l’addebito disciplinare sanzionato.

La Cassazione, in diverse pronunce (Cass. Civ., sez. lav. sentenza n. 16249 del

19/08/2004; Cass. Civ., sez. lav. sentenza n. 11933 del 07/08/2003) ha sancito la nullità

e la illegittimità di procedimenti disciplinari ove risultavano omessi o esposti in modo

insufficiente i dati e gli aspetti essenziali del fatto in guisa tale che potesse essere

consentita l’esatta individuazione della infrazione e del comportamento nel quale veniva

ravvisato dal datore di lavoro l’indebito sanzionabile.

Una successiva pronuncia della Suprema Corte ( Cass. Civ. sez. lav. sentenza n.

13998 del 30/06/05) ha ribadito che nell’esercizio del potere disciplinare, la

contestazione dell’addebito deve avere per oggetto fatti specifici, attesa la funzione di

garanzia a tutela del diritto di difesa del lavoratore e anche al fine di porre a base del

licenziamento fatti specifici e non più modificabili nel corso ulteriore del procedimento

disciplinare o del processo cui da corso l’impugnativa di licenziamento.

Inoltre, la contestazione, sempre per agevolare lo “ius defensionis”, deve essere

ragionevolmente immediata, ossia deve avvenire in stretta connessione temporale con la

condotta posta in essere dal lavoratore (da ultimo ex plurimis Cass. sez. lav. 6/10/05 n.

19424; Cass. Civile sez. lav. sentenza n. 5527 del 18/03/04;Cass. Civ. sez. lav. sen.

17/12/03 n. 30050).

L’ art. 7 della L. 300/70 va letto in combinato disposto con l’art. 2119 cod. civ. e con

l’art. 3 L. n. 604/66. Per quanto attiene la giusta causa o il giustificato motivo che

devono essere prodromici al licenziamento. La Cassazione dà rilievo all’esistenza di

una mancanza del dipendente ed impone che detta mancanza debba valutarsi assumendo

a parametri: la sua portata oggettiva e soggettiva, il grado di colpa o dolo, le circostanze

in cui è stata realizzata, i presupposti e, segnatamente, gli effetti nella prospettiva di far

venir meno la fiducia del datore. E’ importante sottolineare che, per esserci giusta

causa, il comportamento del lavoratore deve essergli imputabile ed il giudice deve

verificare l’intensità del dolo o della colpa; tale valutazione deve avere carattere

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oggettivo dovendo prescindere dalla soggettiva rappresentazione che ne abbia avuto il

datore di lavoro. Peraltro, per il licenziamento per giusta causa, vale anche il principio

di proporzionalità della reazione datoriale al fatto addebitato al lavoratore. La formula

utilizzata costantemente dalla Cassazione, chiamata a pronunciarsi circa la sussistenza

della giusta causa, può sintetizzarsi come segue: il licenziamento è legittimo soltanto se,

sulla base di un accertamento condotto con riferimento non già al fatto astrattamente in

sè considerato, bensì agli aspetti concreti di esso, risulti che la specifica mancanza

commessa dal dipendente, considerata e valutata non solo nel suo comportamento

oggettivo ma anche nella sua portata soggettiva, specie con riferimento alle particolari

circostanze e condizioni in cui essa è stata posta in essere, ai suoi modi, ai suoi effetti ed

all’intensità dell’elemento intenzionale dell’agente, risulti idonea a ledere, in modo

grave da farla venire meno, la fiducia che il datore di lavoro ripone nel proprio

dipendente e tale quindi da esigere sanzioni non minori di quella massima,

definitivamente espulsiva.

Come si è già avuto modo di accennare, al licenziamento, come ogni altra sanzione

disciplinare, deve essere applicato il principio di proporzionalità contenuto nell’art.

2106 c.c. a norma del quale l’infrazione può essere punita, sussistendone gli estremi,

con una sanzione proporzionata in rapporto sia alla gravità in sé del comportamento

ritenuto scorretto, sia ad altri elementi da considerare soggettivi ed oggettivi, aggravanti

ed esimenti. Peraltro, per consolidata giurisprudenza, proprio in base al principio di

proporzionalità, va valutato se i fatti sono destinati ragionevolmente a ripetersi ed in

caso di risposta negativa la sanzione deve essere meno grave ed escludersi il

licenziamento che è extrema ratio.

Il potere disciplinare trovo quindi un limite sostanziale che investe essenzialmente la

congruità del provvedimento disciplinare irrogato. Quello della proporzionalità è,

dunque, un requisito di legittimità dell’atto datoriale che viene direttamente tipizzato

dalla legge con una norma da considerarsi imperativa, inderogabile sul piano

individuale e collettivo ed assistita, in caso di violazione, secondo una costante del

sistema disciplinare, dalla sanzione “forte” della nullità dell’atto ex. 1418 c.c..

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2. Sulle preclusioni e decadenze derivanti dalla non osservanza dei

termini ex art. 416 c.p.c., 3°comma e art. 437 c.p.c.

Ai sensi dell’art. 414 c.p.c., che disciplina la forma della domanda nelle controversie

soggette al rito del lavoro, <<la domanda si propone con ricorso, il quale deve

contenere>>, fra l’altro, <<l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si

fonda la domanda con le relative conclusioni>> (n. 4) e <<l’indicazione specifica dei

mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e in particolare dei documenti che si

offrono in comunicazione>>.

L’art. 416 c.p.c., che disciplina la costituzione del convenuto nelle medesime

controversie, dispone, al terzo comma, che il convenuto deve, fra l’altro, <<proporre

tutte le sue difese in fatto e in diritto ed indicare specificamente, a pena di decadenza, i

mezzi di prova dei quali intende avvalersi ed in particolare i documenti che deve

contestualmente depositare>>.

Le riportate disposizioni (unitamente a quelle che disciplinano singole eccezioni alla

regola generale, quali possono definirsi le disposizioni contenute nei commi quinto e

settimo dell’art. 420 c.p.c.) compongono il sistema delle preclusioni riguardo all’onere,

che la legge attribuisce alle parti, di allegazione di fatti e deduzione di prove.

Il quadro rigoroso così delineato, che potrebbe dirsi improntato ad un generale onere

delle parti di allegazione e contestazione , com’è noto ammette un contemperamento,

attribuendo al giudice di primo grado il potere di disporre d’ufficio in qualsiasi

momento l’ammissione di ogni mezzo di prova (art. 421, secondo comma, c.p.c.).

Un tale sistema, così contemperato, condiziona la struttura del giudizio d’appello

delle controversie in esame, il quale – in coerenza con l’intento del legislatore del 1973

di attuare nel modo più rigoroso il principio del doppio grado di giurisdizione – è

caratterizzato dal divieto di estendere la cognizione del giudice del gravame oltre i limiti

oggettivamente fissati nella fase di primo grado, con il conseguente vincolo ad un

giudizio <<sulle carte>>, cioè sul materiale probatorio raccolto dal primo giudice, che

pure il giudice dell’appello dovrà riesaminare e rivalutare.

Tutto ciò si compendia nel divieto di nova, che esclude anzitutto l’ammissibilità di

nuove domande ed eccezioni (art. 437, secondo comma, prima parte, c.p.c.), a pena di

nullità della sentenza, rilevabile in ogni stato e grado del processo pur in presenza di

accettazione del contraddittorio, ma colpisce, di regola, anche le deduzioni probatorie

(art. 437, secondo comma, seconda parte, c.p.c.).

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Testualmente, per la parte che qui interessa, il dettato normativo dispone che <<non

sono ammesse nuove domande ed eccezioni. Non sono ammessi nuovi mezzi di prova,

tranne il giuramento estimatorio, salvo che il collegio, anche d’ufficio, li ritenga

indispensabili ai fini della decisione della causa…>> (art. 437, secondo comma);

<<qualora ammetta le nuove prove, il collegio fissa, entro venti giorni, l’udienza nella

quale esse debbono essere assunte e deve essere pronunciata la sentenza…>> (art. 437,

terzo comma).

La regula juris è quindi: i nuovi mezzi di prova sono preclusi in appello.

L’eccezione alla regola riguarda – oltre al giuramento estimatorio – la ammissibilità di

nuovi mezzi di prova che il collegio anche d’ufficio ritenga indispensabili, sicché –

tenuto conto che il rilievo d’ufficio, formalmente riferito alla valutazione di

indispensabilità, è comunque riferibile alla ammissione della prova nel suo complesso –

risulta valida l’enunciazione per cui: sono eccezionalmente ammissibili, anche d’ufficio,

nuovi mezzi di prova ritenuti dal giudice indispensabili.

L’applicazione della regola e dell’eccezione così enunciate implica tuttavia la

necessità di alcune definizioni, poiché occorre chiarire:

a) cosa si intende per novità;

b) quali sono i mezzi di prova di regola inammissibili, se nuovi, ed

eccezionalmente ammissibili, se nuovi ma ritenuti indispensabili;

c) cosa si intende per indispensabilità.

tali principi sono massimati dalla sentenza delle Sezioni Unite 20 aprile 2005 n. 8202 :

<<Nel rito del lavoro, in base al combinato disposto degli artt. 416, terzo comma,

cod. proc. civ., che stabilisce che il convenuto deve indicare a pena di decadenza i

mezzi di prova dei quali intende avvalersi, ed in particolar modo i documenti, che deve

contestualmente depositare – onere probatorio gravante anche sull’attore per il principio

di reciprocità fissato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 13 del 1977 – e 437,

secondo comma, cod. proc. civ., che, a sua volta, pone il divieto di ammissione in grado

di appello di nuovi mezzi di prova – fra i quali devono annoverarsi anche i documenti -,

l’omessa indicazione, nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, dei documenti,

e l’omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto, determinano la decadenza

del diritto alla produzione dei documenti stessi, salvo che la produzione non sia

giustificata dal tempo della loro formazione o dall’evolversi della vicenda processuale

successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione (ad esempio, a seguito di

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riconvenzionale o di intervento o chiamata in causa del terzo); e la irreversibilità della

estinzione del diritto di produrre i documenti, dovuta al mancato rispetto di termini

perentori e decadenziali, rende il diritto stesso insuscettibile di reviviscenza in grado di

appello. Tale rigoroso sistema di preclusioni trova un contemperamento – ispirato alla

esigenza della ricerca della “verità materiale”, cui è doverosamente funzionalizzato il

rito del lavoro, teso a garantire una tutela differenziata in ragione della natura dei diritti

che nel giudizio devono trovare riconoscimento – nei poteri d’ufficio del giudice in

materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi del citato art. 437, secondo

comma, cod. proc. civ., ove essi siano indispensabili ai fini della decisione della causa,

poteri, peraltro, da esercitare pur sempre con riferimento a fatti allegati dalle parti ed

emersi nel processo a seguito del contraddittorio delle parti stesse>>.

Per la nozione di novum soccorre la definizione usata dalla S.C.(Sezioni Unite) nella

citata sentenza n. 8203, relativa al processo ordinario, secondo cui, semplicemente: i

mezzi di prova nuovi sono quelli non proposti in primo grado.

Mette conto rilevare che l’utilizzazione di una nozione riferita al rito ordinario

discende dalla sostanziale sovrapponibilità, in parte qua, dell’art. 437, secondo comma,

e dell’art. 345, terzo comma, c.p.c. (salvo che nel primo l’ammissione dei nuovi mezzi

di prova può avvenire per l’iniziativa del giudice e l’unico mezzo comunque

ammissibile è il giuramento estimatorio, mentre nel secondo l’ammissione può scaturire

solo dalla deduzione delle parti e il giuramento comunque deferibile è quello decisorio).

E, peraltro, il fatto che la seconda disposizione, come modificata dalla novella del 1990,

sia essenzialmente modellata sulla prima, ne consente una utilizzazione a fini puramente

interpretativi: per esempio, la precisazione – contenuta nell’art. 345 – che sono

ammissibili, oltre a quelli ritenuti indispensabili, nuovi mezzi di prova ove <<la parte

dimostri di non aver potuto proporli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non

imputabile>> consente di argomentare che evidentemente anche nel rito speciale i

mezzi di prova non deducibili in precedenza siano ammissibili in appello, a prescindere

dalla indispensabilità di essi; e se ne può inferire che la nozione di nuovi mezzi di

prova, eccezionalmente ammissibili, è evidentemente più ampia di quella che

comprende le sole prove sopravvenute o comunque non deducibili in primo grado.

Dalla definizione di novum discende, poi, che non possono considerarsi nuovi i

mezzi di prova richiesti in primo grado ma esclusi dal giudice con un provvedimento

che ne abbia sancito la inammissibilità. In tal caso, è evidente l’estraneità rispetto alla

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disciplina dell’art. 437, secondo comma, c.p.c., poiché il mezzo di prova dedotto in

primo grado ed escluso dal giudice non è, evidentemente, nuovo (secondo l’accezione

di <<non proposto in primo grado>>); la sua eventuale introduzione in appello non può

realizzarsi attraverso il meccanismo dell’ammissione come nuovo mezzo di prova, ma

può conseguirsi mediante l’impugnazione della decisione di primo grado nella parte in

cui il mezzo di prova è stato escluso.

Così precisato, quindi, il carattere della novità, è ora di valutare quali siano i mezzi di

prova cui l’art. 437, secondo comma, c.p.c. riconnette la regola della inammissibilità in

appello e, particolarmente, se vi siano compresi i documenti.

Occorre subito rilevare che la lettera della legge (art. 437, secondo e terzo comma,

c.p.c.) non ammette distinzioni fra <<mezzi di prova>> e <<prova>> (la quale

distinzione potrebbe autorizzare teoriche differenziazioni tra prova-mezzo istruttorio e

prova-contenuto, nel senso che la preclusione possa eventualmente riguardare solo la

prima e non la seconda): il secondo comma dell’art. 437 si riferisce ai <<mezzi di

prova>>, il terzo comma prevede che il collegio fissi entro venti giorni l’udienza per

l’assunzione delle eventuali <<nuove prove>>.

Non su questo, dunque, potrebbe fondarsi l’esclusione dei documenti dal novero dei

mezzi di prova inammissibili.

Ma mette conto osservare, al riguardo, proprio sotto il profilo teorico, che la prova, in

sé, è un fatto che dimostra un altro fatto, giuridicamente rilevante, costitutivo o

impeditivo del diritto azionato (contenuto); il mezzo di prova è lo strumento che,

secondo determinate modalità di acquisizione (assunzione, esibizione, produzione),

serve a rivelare quel fatto nel processo (forma).

Quanto al contenuto e al mezzo processuale, può porsi l’equazione tra fatto riferito da

testimonianza (o confessato ecc.) e fatto attestato da documento; quanto alle modalità di

acquisizione, la prova testimoniale, orale, è assunta, la prova documentale, scritta, è

prodotta o esibita. Pertanto, il documento è il mezzo di prova che, acquisito al processo

mediante produzione o esibizione, dimostra un fatto costitutivo o impeditivo del diritto

azionato. Né muta, tale natura, per il fatto che il documento, quando viene prodotto nel

giudizio, sia già formato, senza necessità di alcuna attività ulteriore (c.d. prova

costituita): la differenza attiene al tempo di formazione della prova, posto che in un caso

la prova è attestata in uno scritto (o in una riproduzione fotografica ecc.), mentre

nell’altro essa è riferita oralmente (c.d. prova costituenda).

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Sotto l’aspetto sistematico, la <<prova documentale>> è contemplata nel capo

secondo, titolo secondo (<<delle prove>>), libro sesto del codice civile (<<della tutela

dei diritti>>), e comprende: l’atto pubblico, la scrittura privata, le scritture contabili

delle imprese soggette a registrazione, le riproduzioni meccaniche, le taglie o tacche di

contrassegno, le copie degli atti, gli atti di ricognizione o di rinnovazione; la <<prova

testimoniale>> è contemplata nel successivo capo terzo, mentre ai capi successivi

seguono le <<presunzioni>>, la <<confessione>>, il <<giuramento>>.

La definizione trova riscontro nello stesso codice di rito: l’art. 414, n. 5, c.p.c., sopra

ricordato, prevede che il ricorso indichi specificamente <<i mezzi di prova di cui il

ricorrente intende avvalersi e in particolare dei documenti che si offrono in

comunicazione>>; l’art. 416, terzo comma, c.p.c. prevede che il convenuto nella

memoria costitutiva indichi specificamente <<i mezzi di prova dei quali intende

avvalersi ed in particolare i documenti che deve contestualmente depositare>>.

Con le premesse sistematiche di cui sopra, tali formulazioni indicano in modo chiaro

i documenti come species del genus <<mezzi di prova>>; e anche testualmente,

peraltro, questo rapporto di specialità, all’interno di un genere comune, è esplicitato

dall’espressione <<e in particolare>>.

Non pare significativo, infine, che il citato terzo comma dell’art. 437 preveda che le

nuove prove eventualmente ammesse vengano <<assunte>> entro un certo termine,

tenuto conto, peraltro, che anche il paragrafo secondo della sezione terza, capo secondo,

libro secondo del codice di rito (intitolata <<dell’istruzione probatoria>>) è intitolato

<<dell’assunzione dei mezzi di prova in generale>>, mentre i successivi paragrafi

prevedono le modalità di acquisizione di altri <<mezzi di prova>>, diverse dalla

assunzione: stante la indicata, sistematica differenza delle modalità di acquisizione dei

diversi, eterogenei mezzi di prova al processo, è ben coerente che, se la nuova prova

ammessa in appello è una prova orale, cioè da assumere, la norma (applicativa) indichi

le modalità di assunzione; ugualmente, non pare determinante la distinzione lessicale,

che si fa derivare dalla ricordata diversità del tempo di formazione della prova e trova

qualche riscontro letterale (cfr. art. 184, primo comma, c.p.c.), secondo cui il mezzo di

prova <<si ammette>> mentre il documento <<si produce>> (salvo il potere del giudice

di valutarne successivamente la rilevanza), atteso che, in definitiva, anche per il

documento è comunque necessaria un’attività valutativa del giudice in ordine alla sua

introduzione nella realtà del processo.

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Così definiti gli elementi della regola (cioè individuati i mezzi di prova nuovi che

sono di norma inammissibili in appello), occorre ora definire gli elementi dell’eccezione

(cioè individuare quali mezzi di prova, di regola inammissibili perché nuovi, possano

essere ammessi eccezionalmente nel medesimo giudizio d’appello).

Si discute, in primo luogo, se possano essere ammessi, se indispensabili, mezzi di

prova preclusi, perché non dedotti rite et recte, ai sensi degli art. 414, 416 e 420 c.p.c., o

dai quali la parte sia decaduta per esplicito provvedimento giudiziale.

Per coerenza con il sistema sopra delineato, non pare che tali mezzi di prova possano

trovare ingresso nel giudizio d’appello, ai sensi dell’art. 437, secondo comma, cit.,

ancorché indispensabili: il contrario significherebbe ampliare lo jus novorum, e lo

stesso potere officioso, senza alcuna limitazione, poiché ogni prova, purché

indispensabile, diverrebbe ammissibile sebbene proposta per la prima volta in appello

(persino dalla parte rimasta contumace in primo grado), sì che il rapporto fra regola

(inammissibilità) ed eccezione (ammissibilità) sarebbe rovesciato e la stessa disciplina

in esame avrebbe, in definitiva, una scarsa giustificazione sistematica (essendo

equiparabile alla vecchia disciplina del rito ordinario ante novella del 1990) .

Appare invece corretto, sotto il profilo sistematico, richiamare al riguardo i limiti del

potere d’ufficio del giudice di primo grado, ex art. 421 c.p.c., per inferirne un’analoga

delimitazione per il potere officioso del giudice d’appello ex art. 437 c.p.c., nel senso

della inammissibilità, comunque, di prove ormai precluse, sebbene considerate

indispensabili. In realtà, infatti, il potere d’ufficio del giudice del lavoro è un unicum,

che può espletarsi in diversi modi, a seconda della funzione che esso è destinato ad

assolvere nell’àmbito del processo, ma con il medesimo limite costituito dalla

impossibilità di supplire integralmente all’inerzia della parte: ebbene, i poteri d’ufficio

previsti dall’art. 421 c.p.c. sono propriamente poteri istruttori, che intervengono, cioè,

ad integrare l’istruttoria nell’àmbito di una fase del giudizio, allorché le risultanze di

causa offrono significativi dati di indagine che il giudice, per sua iniziativa, può

approfondire; ed è coerente con il sistema che tale potere non comprenda l’ammissione

di mezzi di prova ormai preclusi per le parti in causa. Analogamente, il potere

riconosciuto dall’art. 437 al giudice d’appello - di ammettere anche d’ufficio nuovi

mezzi di prova che egli riconosca indispensabili – è un potere che riguarda direttamente

la decisione di secondo grado ma interviene sul materiale probatorio dedotto e acquisito

in primo grado, già valutato dal primo giudice, rispetto al quale esso si pone come

eccezionale.

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Rispetto a tale potere, che dunque è funzionalmente analogo, rilevano – quanto a

deduzioni probatorie - non soltanto le preclusioni, che si pongano rispetto al giudizio

d’appello, ex art. 434 e 436 c.p.c., ma anche quelle già verificatesi nel primo grado, ex

art. 414, 416 e 420 c.p.c., atteso che, come s’è visto, il thema decidendum atque

probandum deve essere identico nei due gradi di merito.

Al di fuori del collegamento con le deduzioni probatorie di primo grado, sussiste, poi,

una limitazione esterna, anch’essa di tipo sistematico (dovuta, cioè, a tale necessaria

identità), sancita dall’art. 437, secondo comma, prima parte, c.p.c. con il divieto di

proporre nuove domande ed eccezioni (cui adde, in base a quanto ricordato riguardo

all’onere di contestazione: <<nuove contestazioni>>).

Se tale limitazione viene coordinata con l’eccezionale ammissibilità di nuovi mezzi di

prova, e si tiene anche conto che le prove sopravvenute sono comunque ammissibili

anche se non indispensabili (poiché non deducibili in primo grado), ne deriva che:

i nuovi mezzi di prova eccezionalmente ammissibili in appello sono mezzi sopravvenuti

ovvero ulteriori rispetto a quelli già ritualmente dedotti in primo grado e devono

riguardare fatti allegati e contestati dalle parti nella precedente fase di giudizio.

Ciò posto, si deve precisare, quanto alla relazione che deve intercorrere fra il mezzo

di prova dedotto in primo grado e quello ulteriore dedotto (o ammesso d’ufficio dal

giudice) in grado d’appello, che i diversi mezzi possono essere indifferentemente

omogenei od eterogenei.

Nel primo caso si avrà la sequenza:

deduzione in primo grado di prova scritta → deduzione in appello di diversa prova

scritta

ovvero:

deduzione in primo grado di prova orale → deduzione in appello di diversa prova orale.

Nel secondo caso, invece, la sequenza sarà del tipo:

deduzione in primo grado di prova scritta → deduzione in appello di prova orale

ovvero:

deduzione in primo grado di prova orale → deduzione in appello di prova scritta.

Infine, occorre definire il requisito della indispensabilità.

Poiché il nuovo mezzo di prova, per divenire ammissibile, deve essere indispensabile ai

fini della decisione della causa, si ritiene generalmente che debba trattarsi di mezzi non

soltanto rilevanti, ma anche necessari per la cognizione di un fatto decisivo: nel senso

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che il fatto, una volta dimostrato, sia idoneo a fondare l’accoglimento o il rigetto della

domanda .

Acquisito tale ulteriore segmento, si può pervenire alla seguente definizione riguardo

alla ammissibilità di mezzi di prova nuovi in appello:

Nel giudizio d’appello delle controversie soggette al rito del lavoro, non sono

ammessi, di regola, nuovi mezzi di prova (compresi i documenti), diversi, cioè, da

quelli dedotti in primo grado; tuttavia, eccezionalmente, il giudice può ammettere,

anche d’ufficio, ove li ritenga decisivi per la definizione della controversia, nuovi mezzi

di prova, ulteriori, cioè, ed anche eterogenei, rispetto a quelli dedotti in primo grado a

dimostrazione di fatti ritualmente allegati dalle parti.

Il primo grand arrêt nella materia in esame, volto a dirimere divergenze

giurisprudenziali soprattutto riguardo alle modalità e ai limiti temporali per la

produzione di nuovi documenti nel grado d’appello del processo lavoristico, è

costituito dalla sentenza delle Sezioni unite 6 settembre 1990 n. 9199, così massimata

dall’Ufficio del Massimario della S.C.: <<Nel rito del lavoro, la produzione in appello

di nuovi documenti ( che si sottrae al divieto sancito dal secondo comma dell’art. 437

cod. proc. civ.) esige, a pena di decadenza, che essi siano specificamente indicati dalle

parti nel ricorso dell’appellante o nella memoria difensiva dell’appellato e depositati

contestualmente a questi, a norma degli art. 414 e 416 cod. proc. civ., richiamati dagli

art. 434 e 436 dello stesso codice, restando in tal caso i documenti sottratti ad una

preventiva valutazione d’indispensabilità e soggetti solo al normale giudizio di

rilevanza in sede di decisione della causa. L’operatività della detta decadenza – che dà

luogo ad una preclusione rilevabile d’ufficio dal giudice – è esclusa, in base al criterio

ricavabile dall’art. 420, quinto comma, cod. proc. civ., con riguardo a documenti

sopravvenuti (od anche anteriori la cui produzione sia giustificata dallo sviluppo assunto

dalla vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria predetti), ferma,

peraltro, in tale ipotesi, la necessità che la produzione dei documenti sia autorizzata dal

giudice ed effettuata prima dell’inizio della discussione orale>>.

Come risulta dalla massima, la decisione non ha riguardato il tema della

ammissibilità, sia pure in via di eccezione e previa la valutazione di indispensabilità, di

prove precluse in primo grado. Né alcuna valutazione al riguardo può inferirsi dalla

soluzione adottata nel caso concreto (si trattava, nella specie, di documenti - modelli

“101” e “740” - prodotti in appello – ma solo all’udienza di discussione - da un datore

di lavoro, al fine di provare gli importi retributivi erogati al proprio dipendente, che

14

aveva agito nei suoi confronti deducendo l’inadeguatezza della retribuzione; il giudice

d’appello aveva ammesso la produzione in ragione della decisività dei documenti; la

S.C. ha cassato con rinvio la decisione – impugnata dal lavoratore – sul presupposto che

i documenti non erano stati prodotti tempestivamente, cioè con l’atto introduttivo del

giudizio di appello): non giova, in particolare, che la valutazione di indispensabilità del

giudice d’appello fosse fondata – a quanto riferisce la narrativa della sentenza delle

Sezioni unite – sulla ritenuta idoneità probatoria dei documenti prodotti <<valutati

unitamente alle già prodotte buste paga>>, poiché non è stato specificato nella predetta

narrativa (e la circostanza, evidentemente, non è stata valorizzata dalle Sezioni unite) se

queste ultime fossero state <<già>> prodotte nel giudizio di primo grado o nel ricorso in

appello (nel primo caso, i nuovi documenti sarebbero stati ulteriori rispetto a mezzi di

prova dedotti in primo grado; nel secondo, si sarebbe trattato di mezzi di prova del tutto

svincolati da precedenti deduzioni probatorie).

Riguardo alla estensione del divieto di nuove prove, di cui all’art. 437 c.p.c., alla

prova documentale, la pronuncia ha invece esplicitamente rimarcato- in linea con

l’indirizzo prevalente nella giurisprudenza di legittimità – che il divieto si riferisce solo

alle prove costituende, e ciò in base alla considerazione che unicamente per queste

ultime è previsto, in generale, un giudizio di ammissibilità e un procedimento di

assunzione (cui fa riferimento, in particolare, il terzo comma dell’art. 437 cit.).

La sentenza, però, ha inteso precisare che la produzione dei documenti non può

essere indiscriminata, ma è soggetta a determinati limiti, nell’àmbito del sistema di

preclusioni proprio del giudizio d’appello.

Le regole poste sono le seguenti:

a) i nuovi documenti di cui le parti intendono avvalersi devono, a pena di decadenza,

essere indicati specificamente nei rispettivi atti introduttivi di quel grado di giudizio e

depositati contestualmente al deposito di tali atti, rimanendo sottratti ad una preventiva

necessitata valutazione di indispensabilità e soggetti soltanto al normale giudizio di

rilevanza in sede di decisone della causa;

b) la preclusione, che discende dalla prevista decadenza, è rilevabile dal giudice

d’ufficio;

c) il principio di preclusione può non operare, oltre che in relazione alle nuove esigenze

difensive che insorgano a seguito del particolare sviluppo delle vicende processuali

(proposizione di appello incidentale, intervento di terzi, esercizio di poteri istruttori

d’ufficio), soltanto per la sopravvenienza dei nuovi documenti, che ne giustifichi la

15

produzione dopo il limite temporale in base al criterio ricavabile dall’art. 420, quinto

comma, c.p.c.; in tal caso la produzione deve essere autorizzata dal giudice ed eseguita

prima dell’inizio della discussione orale, a garanzia della regola del contraddittorio,

rimanendo pur sempre riservato in sede di decisione della causa il giudizio circa la loro

rilevanza.

Le precisazioni contenute nella sentenza delle Sezioni unite del 1990, pur avendo

successivamente trovato una generale conferma, quanto alla esclusione dei documenti

dal divieto posto dall’art. 437 c.p.c., a volte anche con interpretazioni più permissive in

relazione ai termini di deposito nel grado d’appello, non hanno tuttavia evitato la

formazione di un indirizzo più restrittivo, nel senso che, per esempio, non può essere

prodotto in appello il documento che poteva essere indicato nel ricorso introduttivo di

primo grado ovvero che il giudice di primo grado abbia già dichiarato inammissibili per

decadenza.

Più in generale, alcune pronunce hanno criticato la differenziazione tra prova

documentale e altri mezzi di prova, fondata sulla diversità fra prove costituite e prove

costituende e tesa al fine di superare le rigide preclusioni del codice di rito in materia di

lavoro; altre, che si segnalano per la tendenza, sottolineata nelle premesse di questa

trattazione, a ricercare un punto di equilibrio, hanno ritenuto ammissibili i nuovi

documenti solo in quanto idonei a valorizzare prove già dedotte in primo grado.

Tra le prime, particolare interesse – per la profondità dell’analisi esegetica delle

norme e per la ricostruzione sistematica degli istituti - assume la sentenza della

Cassazione Civile, Sezione lavoro 20 gennaio 2003 n. 775. La pronuncia, premessa

un’ampia ricognizione normativa e giurisprudenziale, anche con specifico riferimento

alla sentenza delle Sezioni unite n. 9199 del 1990, valorizza i seguenti dati:

a) letteralmente, la locuzione dell’art. 416, terzo comma, c.p.c. <<in particolare>>

qualifica i documenti come species del genere costituito dai mezzi di prova; la distinta

enunciazione è determinata dal meccanismo della produzione dell’atto, come fatto

materialmente precedente rispetto alla richiesta di prova; coerentemente, nella

formulazione dell’art. 437, secondo comma, c.p.c. i mezzi di prova, essendo menzionati

non come oggetto di una “richiesta di ammissione” bensì come “ammissione”,

assorbono e comprendono nel lor spazio anche i documenti;

b)sotto il profilo sistematico, l’estinzione – per intervenuta decadenza – del diritto di

produrre il documento, derivante dal mancato assolvimento dell’onere previsto dagli art.

414 e 416 c.p.c., è irreversibile e vale ad escludere che il diritto stesso possa poi

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risorgere in un successivo grado del giudizio: la novità indicata dall’art. 437 cit. è da

interpretare nel quadro delle preclusioni e delle deroghe previste dagli art. 416 e 420,

per cui, da un lato, la sanzione espressamente prevista in primo grado – quando anche

non pronunciata espressamente dal giudice - non si dissolve nel grado successivo e,

dall’altro, la eccezionale ammissibilità prevista dall’art. 437 non è dissimile da quella di

cui all’art. 421, che è anzi proiezione della prima, nel senso che, come l’art. 421 non

consente di ammettere prove in relazione alle quali si sia verificata una decadenza, in

egual modo non lo consente la parallela norma dell’art. 437: coerentemente al sistema,

la parte che per preclusione o decadenza non poteva dedurre prove, anche documentali,

nel corso del giudizio di primo grado non può produrli in appello, neanche se relativi ad

eccezioni rilevabili d’ufficio, né il giudice – il cui potere incontra il limite esistente nel

primo giudizio ed ininterrottamente protrattosi – può ammetterli d’ufficio.

Nel risolvere la controversia al suo esame, la S.C. ha riformato la sentenza d’appello

che aveva ammesso la produzione di documenti mai dedotti in primo grado, ritenendoli

esclusi dal divieto dell’art. 437 c.p.c. in quanto <<prova costituita>>.

Alla cassazione della decisione impugnata è conseguita l’enunciazione del seguente

principio:

<<L’omessa indicazione nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado (ricorso o

comparsa di risposta) dei documenti (anche eventualmente attinenti ad eccezioni

rilevabili d’ufficio) o l’omesso deposito degli stessi contestualmente a questo atto

(anche ove quivi indicati) determinano la decadenza del processuale diritto di produrre i

documenti stessi, ove non si tratti di documenti formatisi dopo l’inizio del predetto

giudizio ovvero di documenti la produzione dei quali sia giustificata dallo sviluppo

assunto dal giudizio stesso (per l’art. 420 quinto e settimo comma c.p.c.). Poiché questa

decadenza esclude la possibilità che i documenti stessi possano dalla parte essere

prodotti in appello, e poiché i documenti sono compresi nei nuovi mezzi di prova

indicati dall’art. 437, secondo comma, c.p.c., la parte può produrre in secondo grado i

documenti solo ove (attraverso la stessa logica dell’art. 420, quinto e settimo comma,

c.p.c.) la produzione sia giustificata dal tempo della formazione dei documenti stessi o

dallo sviluppo assunto dal processo, e sia dal collegio ritenuta indispensabile per la

decisione>>.

Una funzione di contrappeso di questa tendenza restrittiva, intesa a riportare il

giudizio d’appello nel sistema di preclusioni delineato dal legislatore del 1973, può

invece essere assegnato alle pronunce indicate nel primo gruppo come equilibratrici.

17

In realtà, si tratta di decisioni che presuppongono l’esattezza di alcune delimitazioni,

e in particolare l’inammissibilità, anche in via eccezionale, di mezzi di prova preclusi,

ma, nel contempo, avvertono l’esigenza di un qualche rimedio idoneo all’accertamento

della verità materiale, nell’àmbito di un processo in cui sono coinvolti interessi

meritevoli di particolare tutela. Questo rimedio riequilibratore è stato individuato nella

possibilità, per il giudice d’appello, di esercitare i poteri officiosi di cui all’art. 437 in

tutti i casi in cui questi siano diretti al definitivo accertamento di fatti costitutivi (o

impeditivi, estintivi ecc.) allegati nel giudizio di primo grado e, se pure in modo

incompleto, risultanti da mezzi di prova già dedotti ritualmente in quel giudizio (c.d.

piste probatorie o di indagine).

Si segnala, per la particolarità della fattispecie, la sentenza 23 maggio 2003 n. 8220

(Cass. Civ. sez. lav.), che ha ritenuto ammissibile la prova testimoniale dedotta per la

prima volta in appello in quanto finalizzata ad approfondire le risultanze istruttorie di

primo grado, costituite da documenti ritualmente acquisiti agli atti del giudizio di primo

grado .

Si trattava, nella specie, di accertare il requisito della esposizione a rischio (polveri di

cemento) in relazione a domanda di rendita INAIL per malattia professionale

(broncopneumopatia) avanzata da un lavoratore: in primo grado la domanda era stata

respinta per carenza di prova in ordine a tale requisito; il giudice d’appello, sul

presupposto della preesistenza di altri elementi valutativi (fra cui un certificato

dell’INAIL attestante l’avvenuta prestazione di attività lavorativa come <<impiantista

betonaggio>>), ha ammesso una prova per testi – dedotta per la prima volta in quel

grado – relativa alle mansioni espletate dal lavoratore e, sulla base delle relative

risultanze (essendo emerso che questi aveva lavorato per sei anni nell’insaccamento e

travaso di cemento fuso), aveva accolto la domanda; la S.C. ha respinto il ricorso

dell’Istituto, basato sulla violazione dell’art. 437, secondo comma, c.p.c., fondando la

propria decisione su queste osservazioni:

a) in generale, anche al giudice di appello è riconosciuto il potere di disporre

d’ufficio nuovi mezzi di prova, purché questi siano considerati come indispensabili ai

fini della decisione della causa e la parte interessata non sia incorsa in decadenza;

b) l’operatività di tale ultimo limite, rappresentato dall’avvenuta decadenza della

parte, va ulteriormente precisata, nell’ambito di una evidenziata esigenza di

contemperamento del principio dispositivo con il principio di ricerca della verità

materiale, in particolare nel rito del lavoro e nella materia della previdenza e assistenza,

18

nel senso che, allorché le risultanze di causa offrono significativi dati di indagine,

occorre che il giudice, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, eserciti il potere–

dovere di provvedere di ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale probatorio

e idonei a superare l’incertezza sui fatti costitutivi dei diritti in contestazione, sempre

che tali fatti siano stati puntualmente allegati nell’atto introduttivo, senza che a ciò sia di

ostacolo il verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti interessate;

c) il potere d’ufficio è diretto a vincere, in relazione alla verifica dei fatti costitutivi

del diritto fatto valere, i dubbi residuati dalle risultanze istruttorie, intese come

complessivo materiale probatorio (anche documentale) correttamente acquisito agli atti

del giudizio di primo grado, e non può invece supplire ad una totale carenza di elementi

di prova, con la conseguenza che, ove tali elementi siano invece presenti, non si pone,

propriamente, alcuna questione di preclusione o decadenza processuale a carico della

parte, dato che la prova nuova, disposta d’ufficio, altro non è se non l’approfondimento,

ritenuto indispensabile, di elementi probatori che siano già ritualmente acquisiti, e

quindi obiettivamente presenti nella realtà del processo.

La sentenza n. 8202 del 2005, premessa un’ampia ricostruzione dei variegati

orientamenti della giurisprudenza e della dottrina, si ricollega alle esigenze da ultimo

sottolineate, quanto alla necessità di rendere compatibili tutela sostanziale e coerenza

del sistema processuale.

In particolare, la ratio decidendi è fondata essenzialmente sulla circolarità esistente

fra gli oneri di prova e l’onere di allegazione e contestazione, siccome delineato,

quest’ultimo, dalla nota sentenza delle Sezioni unite n. 761 del 2002 e divenuto ormai

cardine del sistema processuale, e cioè, da un lato, riferito sia all’attore che al convenuto

e, dall’altro, caratterizzato da una tendenziale irreversibilità (dovendosi fare salvi i casi

di contestazione di atti successivi a quelli introduttivi) <<in piena coerenza con la

struttura del processo che, nel rito del lavoro, è finalizzata a far sì che all’udienza di

discussione la causa giunga delineata in modo compiuto, quanto ad oggetto e ad

esigenze istruttorie>>: circolarità che – nell’àmbito di una esigenza di concentrazione e

celerità che è espressione della garanzia della ragionevole durata del processo - significa

reciproco condizionamento e necessaria correlazione che lega l’attività di deduzione

delle prove (attività istruttoria) e quella di introduzione dei relativi fatti da provare

(attività assertiva).

Con queste premesse sistematiche, la sentenza esclude, coerentemente, un regime

diversificato fra prove costituite e prove costituende, considerato peraltro ingiustificato

19

alla stregua della lettera della norma e dello stesso sistema codicistico (che invece

configura, secondo le Sezioni unite, un rapporto – fra documenti e mezzi di prova – di

species a genus, così come sopra ricordato: cfr. par. n. 3, specie nota n. 9), tanto più in

considerazione del fatto che la produzione tardiva di documenti può determinare la

protrazione del processo in dipendenza della proposizione di querele di falso e istanze di

verificazione e della deduzione di mezzi di prova ulteriori connessi alla documentazione

prodotta ex novo.

In conclusione, secondo la pronuncia delle Sezioni unite, l’omessa indicazione

nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado dei documenti e l’omesso deposito

degli stessi contestualmente a tale atto determinano la decadenza del diritto alla

produzione dei documenti stessi, salvo che la produzione non sia giustificata dal tempo

della loro formazione o dall’evolversi della vicenda processuale successivamente al

ricorso ed alla memoria di costituzione. E ciò vale anche per la successiva fase di

giudizio, posto che l’inosservanza degli oneri correlati al rispetto di termini perentori

comporta una preclusione definitiva e irreversibile.

Nel contempo, il sistema così delineato non impedisce – per le Sezioni unite – la

possibilità di un esercizio dei poteri officiosi del giudice del lavoro, anche d’appello,

che funzioni da ammortizzatore per l’eventualità che la predetta verità materiale si

allontani da quella emersa nel processo rebus sic stantibus, sempre che le nuove prove,

ritenute indispensabili, attengano a fatti allegati dalle parti ed emersi nel processo a

seguito del contraddittorio delle parti. Per il perseguimento del quale risultato la

sentenza si richiama alla soluzione adottata dalle pronunce – sopra ricordate – aderenti

alla teoria delle piste probatorie: <<allorquando le risultanze di causa offrano

significativi dati di indagine, il giudice, ove reputi insufficienti le prove già acquisite,

non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata

sull’onere della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori

sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei

diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o decadenze in

danno delle parti>>.

La condizione, quindi, per la ammissibilità eccezionale, anche d’ufficio, di prove

indispensabili per la dimostrazione (o la negazione) di fatti costitutivi allegati (o

contestati) è pur sempre la preesistenza di altri mezzi istruttori, ritualmente dedotti e

acquisiti, meritevoli di approfondimento: con esclusione, quindi, dell’ammissibilità dei

medesimi mezzi di prova, orale o scritta, che per le parti siano definitivamente preclusi.

20

3. Sulla reintegrazione e il diritto di opzione del lavoratore illegittimamente licenziato (art. 18, 5°co.,L.300/70)

Nella sostanza, l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori fa divieto al datore di lavoro,

che abbia alle dipendenze della propria azienda più di 15 persone, di licenziare il

lavoratore con provvedimento individuale, in mancanza di giusta causa o giustificato

motivo: la lettera della legge prevede che, se il datore di lavoro ha intimato il

licenziamento, il giudice si pronunci per la reintegrazione nel posto di lavoro del

dipendente, e per il pagamento a questi di un indennizzo pari alle retribuzioni relative al

periodo nel quale egli sia rimasto inoccupato, non inferiore comunque al valore di

cinque mensilità.

E’ ormai pacifico che la revoca di un licenziamento illegittimo da parte del datore di

lavoro debba intendersi quale mera offerta la quale, in mancanza di accettazione del

lavoratore, non è idonea a rimuovere l’effetto estintivo del rapporto. In particolare la

Cassazione,sez.lav, con la sentenza n. 8493 del 13/06/2002, ha così argomentato: “Il

diritto del lavoratore illegittimamente licenziato di ottenere, in luogo della

reintegrazione nel posto di lavoro, l’indennità sostitutiva prevista dal comma quinto

dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che configura un’obbligazione con facoltà

alternativa dal lato del creditore- deriva dalla illegittimità del licenziamento e sorge

contemporaneamente al diritto alla reintegrazione; non è pertanto necessario un ordine

giudiziale di reintegrazione per l’esercizio di tale opzione, sicchè il lavoratore può

anche inizialmente limitarsi a chiedere in giudizio tale indennità in sostituzione della

domanda di reintegrazione, anche nelle ipotesi in cui il licenziamento sia stato revocato

dal datore di lavoro e alla revoca non abbia fatto seguito il ripristino del rapporto di

lavoro...”. Ne deriva che, poiché la revoca del licenziamento da parte del datore di

lavoro si concreta in una proposta contrattuale avente ad oggetto la ricostruzione del

rapporto di lavoro, essa non impedisce al prestatore di richiedere, in luogo della

reintegrazione nel posto di lavoro, l’indennità sostitutiva prevista dall’art. 18, comma

quinto, della legge 300/70.

Per la giurisprudenza della Cassazione e quella Costituzionale (Corte Cost. Sent. 30

marzo 1992 n. 141) la richiesta del lavoratore illegittimamente licenziato di ottenere, in

luogo della reintegrazione nel posto di lavoro, l’indennità prevista dall’art. 18, 5°

comma, l. n. 300 del 1970, nel testo modificato dall’articolo 1 della legge 11 maggio

21

1990 n. 108, costituisce esercizio di un diritto derivante dall’illegittimità del

licenziamento, riconosciuto al lavoratore secondo lo schema dell’obbligazione con

facoltà alternativa ex parte creditoris; pertanto, l’obbligo di reintegrazione nel posto di

lavoro facente carico al datore di lavoro si estingue soltanto con il pagamento

dell’indennità sostitutiva della reintegrazione, per la quale abbia optato il lavoratore,

non già con la semplice dichiarazione da questi resa di scegliere detta indennità in luogo

della reintegrazione e, conseguentemente, il risarcimento del danno, il cui diritto è dalla

legge fatto salvo anche nel caso di opzione per la succitata indennità, va commisurato

alla retribuzione che sarebbero maturate fino al giorno del pagamento dell’indennità

sostitutiva e non fino alla data in cui il lavoratore ha già operato la scelta. (Cass. civ.

sez. lav. 16/3/2009 n. 6342).

Con la disposizione in esame, ha affermato la Corte, il legislatore ha inteso

innegabilmente attribuire all’elemento fiduciario che connota il rapporto, una valenza

bidirezionale, nel senso che, la rottura di quel vincolo può essere posta a fondamento

per un verso del licenziamento per giusta causa e, per altro verso, del diritto del

lavoratore, in luogo del ripristino del rapporto che sia da questo valutato negativamente

(per la perdita della reciproca stima, per ostilità ambientale, etc.) all’attribuzione

dell’indennità sostitutiva, in conseguenza di un recesso di cui sia accertata

l’illegittimità. La revoca del licenziamento e l’invito a riprendere il servizio non

possono sottrarre al prestatore il diritto all’indennità sostitutiva il cui esercizio verrebbe

altrimenti ad essere rimesso, di fatto, al datore di lavoro.

In caso di reintegra nel posto di lavoro, il termine di trenta giorni per la ripresa del

servizio (ovvero per la richiesta dell'indennità sostitutiva) da parte del lavoratore

decorre, ai sensi dell'art. 18, quinto comma, legge n. 300 del 1970, dal ricevimento

dell'invito del datore di lavoro o dalla comunicazione del deposito della sentenza

contenente l'ordine di reintegra. Ne consegue che, ove il datore di lavoro abbia

formalmente comunicato l'invito a riprendere il servizio, l'inutile decorso del termine

comporta la risoluzione del rapporto, dovendosi considerare insufficiente una generica

adesione all'invito da parte del lavoratore non seguita dall'effettiva ripresa dell'attività

lavorativa, salvo che ciò non sia stato possibile a causa di forza maggiore o di legittimo

impedimento, nel qual caso le circostanze giustificative addotte dal lavoratore

medesimo ineriscono non al termine, sospendendolo, ma unicamente all'obbligo del

lavoratore subordinato di prestare la sua opera in costanza di rapporto. (Cass. civ. sez.

lav. 6/6/2008 n. 15075).

22

Una volta comunicata l'opzione per l'indennità sostitutiva della reintegrazione il

rapporto di lavoro si estingue e il lavoratore non può più pretendere di essere reintegrato

nel caso di mancato pagamento delle quindici mensilità, con conseguente cessazione

della maturazione delle retribuzioni a titolo di danno. (Corte App. Roma, sez. III,

29/3/2007).

In caso di opzione per l'indennità sostitutiva della reintegrazione ex art. 18, 5°

comma, SL, il momento di effettiva cessazione del rapporto coincide non già con la

semplice dichiarazione di scelta, ma soltanto con il pagamento dell'indennità, sicchè il

risarcimento del danno complessivamente dovuto al lavoratore va commisurato alle

retribuzioni che sarebbero maturate fino al giorno dell'adempimento dell'obbligazione

alternativa alla reintegrazione. L'art. 18 della L. n. 300 del 1970, nel testo risultante

dalla novellazione introdotta con L. n. 108 del 1990, fa riferimento, nei commi 4 e 5, al

medesimo parametro - la "retribuzione globale di fatto" - sia per il risarcimento del

danno che per la determinazione dell'indennità sostitutiva della reintegrazione, ancorchè

nel primo caso si risarcisca un danno provocato dal comportamento illegittimo del

lavoratore, mentre nel secondo si quantifica un'indennità legata a una scelta del

lavoratore. Tanto nell'uno che nell'altro caso per retribuzione globale di fatto deve

intendersi quella che il lavoratore avrebbe percepito se avesse lavorato, a eccezione di

quei compensi legati non già all'effettiva presenza in servizio ma solo eventuali e dei

quali non vi è prova della certa percezione, nonchè quelli legati a particolari modalità di

svolgimento della prestazione e aventi normalmente carattere indennitario. Nell'ipotesi

in cui il lavoratore, licenziato e successivamente reintegrato con provvedimento

d'urgenza, non riprende il lavoro nel termine di trenta giorni dal ricevimento dell'invito

in tal senso rivoltogli dal datore di lavoro (ovvero nel diverso termine indicato nel

suddetto provvedimento), il rapporto deve ritenersi risolto, con preclusione

dell'esercizio di opzione per l'indennità sostitutiva, dovendo la disposizione dell'art. 18,

L. n. 300/1970, stabilita per le sentenze che dispongono la reintegrazione, intendendosi

analogicamente estesa anche ai provvedimenti cautelari di eguale contenuto, non

rilevando in senso contrario, la circostanza che ad essi non sia seguito il giudizio di

merito. (L'opzione sostitutiva della reintegrazione formulata dal lavoratore a seguito

dell'ordine di reintegrazione emesso dal giudice di primo grado, essendo

indissolubilmente legata alla statuizione ex art. 18 SL, non esprime l'indisponibilità del

dipendente alla prestazione; conseguentemente il giudice di secondo grado, ove decida

di fare applicazione non dell'art. 18 SL ma dei principi di diritto comune, deve

23

comunque disporre la riattivazione del rapporto ed il pagamento delle retribuzioni

maturate dalla cessazione del rapporto.

Nell’ipotesi in cui non dovesse sussistere in capo all’azienda il requisito dimensionale

(più di 15 dipendenti) per il quale trova applicazione l’articolo 18 dello Statuto,. e che

consente di richiedere la tutela reale, trova applicazione l’indennità risarcitoria prevista

dall’art. 8, legge n. 604/66, come modificato dall’art. 2, legge n. 108/90, che contempla

fino ad un massimo di 6,5 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

4. Sull’accessione invertita (o occupazione acquisitiva) ex art. 938

c.c. Nella fattispecie concreta, il Sig. Caio, nel conseguire lavori di costruzione sul

proprio suolo di un immobile (un albergo), era sconfinato in buona fede sul fondo

attiguo del Sig. Tizio. Quest’ultimo, a lavori ormai ultimati, lamentava occupazione

abusiva di suolo e addiveniva alle vie legali per chiedere il risarcimento dei danni, pari

ad un danno valutato dal convenuto come non “obiettivo”.

La questione giuridica, che mi ha visto interessata, ha avuto ad oggetto l’istituto

dell’accessione (occupazione di fondo attiguo) ex art. 938 c.c..

Ai sensi dell’art. 934 c.c. l’accessione viene definita come un modo di acquisto a

titolo originario , in base al quale appartiene al proprietario del fondo qualunque

piantagione, costruzione od opera esistente sotto o sopra di esso. Ciò avviene

automaticamente e senza la necessità di una manifestazione di volontà del soggetto

acquirente. Requisito necessario per l’acquisto della proprietà è la definitiva

incorporazione dell’opera al suolo così che il materiale adoperato venga a perdere la

propria individualità. Tale acquisto si verifica, in omaggio al principio della prevalenza,

sempre a favore del proprietario della cosa principale (accessorium sequitur principale).

Nella fattispecie sub indice si configura la cd. accessione invertita che è un modo di

acquisto della proprietà a titolo originario che opera in modo “inverso” a quello

dell’accessione ex. art. 934 c.c., e dunque, in deroga alla regola generale secondo cui

qualunque costruzione esistente sopra o sotto il suolo appartiene al proprietario di

questo (quod inaedificatur solo cedit).

L’art. 938 c.c., infatti, dispone che, qualora si realizzi un edificio occupando

parzialmente il fondo confinante altrui, in linea di massima il proprietario del terreno

24

occupato acquista altresì la proprietà di quella parte di costruzione che insiste sul

proprio fondo. Tuttavia, in presenza delle condizioni richieste dalla legge, detta regola

viene ad essere capovolta: in particolare, a tal fine, occorre che l'occupazione del suolo

sia avvenuta in buona fede, che il proprietario del suolo non richieda l'abbattimento

dell'edificio entro tre mesi dall'inizio della costruzione e che il giudice, nell'esercizio del

suo potere discrezionale, tenuto anche conto delle circostanze, attribuisca la proprietà

del suolo occupato al proprietario della costruzione, con efficacia costitutiva. Ciò detto,

residuerà comunque,a carico di chi abbia acquisito la proprietà della porzione del fondo

altrui, l'obbligo di corrispondere al precedente proprietario un'indennità pari al doppio

del valore del terreno stesso. Detta regola, da ultimo, si riferisce esclusivamente alla

costruzione di un edificio, cioè di una struttura muraria complessa, e pertanto non può

essere invocata con riguardo ad opere diverse, quali un muro di cinta (Cass. Seconda

Sez. civ., 10 febbraio 1984, n. 1018).

Il legislatore ha, quindi, previsto la possibilità di invertire la direzione in cui

solitamente opera l’acquisto per accessione; la finalità principale sottesa a detta norma

sarebbe garantire l’interesse generale allo sviluppo delle costruzioni, nonché la tutela

della buona fede del costruttore contro l’eventuale comportamento del proprietario del

fondo il quale, a costruzione inoltrata o addirittura compiuta, potrebbe agire per

reclamarne la demolizione.

I presupposti dell’azione ex art. 938 c.c. sono: la costruzione di un edificio –

compreso il caso di una scala esterna di accesso all’edificio medesimo –; lo

sconfinamento in senso orizzontale; il limite dello sconfinamento ad una ‘porzione’ del

fondo attiguo; la mancata opposizione da parte del proprietario del suolo vicino entro tre

mesi dall’inizio della costruzione; la buona fede del costruttore.

L’accertamento dello stato soggettivo in questione è richiesto per evitare che il

vicino-costruttore tragga profitto dalla sua condotta disonesta.

La buona fede contemplata dalla disposizione in esame non coincide con quella

richiesta per la qualificazione del possesso di buona fede, poiché deve essere provata da

chi invoca l’acquisto ex art. 938 c.c.: questa buona fede deve consistere nella

ragionevole convinzione – fondata su circostanze univoche ed obiettive – di costruire su

suolo proprio o sul quale si abbia comunque diritto di costruire. Tale convinzione può

anche discendere dall’ignoranza di sorpassare la linea di confine.

25

Tuttavia, il punto fondamentale della buona fede deve consistere nella convinzione di

esercitare una facoltà inerente al diritto di proprietà, cioè nell’opinione di non invadere

illegittimamente il suolo del vicino e, di conseguenza, di non ledere il diritto altrui.

Numerose sono anche le pronunce giurisprudenziali riscontrate sul requisito della

buona fede.

A tale proposito, e con riferimento al momento in cui è necessario riscontrare il

predetto requisito, si è notato come la Suprema Corte abbia recentemente sovvertito un

orientamento sino a quel momento maggioritario. Con questa pronuncia, il Supremo

Collegio ha affermato che: “il requisito della buona fede del costruttore, ai fini della

declaratoria dell’accessione invertita ex art. 938 c.c., deve sussistere solo nel momento

iniziale, in cui nell’effettuare la costruzione di un edificio il costruttore operi

inconsapevolmente lo sconfinamento sul fondo altrui, laddove non è richiesto che

persista oltre tale momento, né tanto meno fino al completamento dell’opera”

(Cass.Civ. 19 agosto 2002, n. 12230).

Al contrario, secondo la teoria fatta propria dal precedente orientamento

giurisprudenziale, lo stato soggettivo connesso alla buona fede deve sussistere fino al

completamento della costruzione non operando l’art. 938 c.c., nel richiedere tale

requisito, alcuna distinzione tra l’inizio ed il termine della costruzione.

Avuto, poi, riguardo alla mancata opposizione entro tre mesi da parte del confinante,

è stato da più parti affermato che la surriferita mancata opposizione non può essere

validamente utilizzata per dimostrare lo stato soggettivo di buona fede del soggetto che

ha eseguito la costruzione,onerato della relativa positiva dimostrazione.

Si è già rilevato che, ai fini probatori, è necessario che il costruttore provi la

sussistenza della buona fede e in simili ipotesi si dovrà avere riguardo alla

ragionevolezza dell’uomo medio e al convincimento che questi poteva legittimamente

formarsi in merito all’esecuzione della costruzione sul proprio suolo e non su quello

altrui, in base alle cognizioni possedute effettivamente o che tali debbano

presuntivamente ritenersi. Pertanto, la buona fede dovrà essere esclusa allorquando, in

relazione alle particolari circostanze del caso concreto, il costruttore avrebbe fin

dall’inizio anche solo dubitare della legittimità dell’occupazione del suolo del vicino

(Cass. Civ., sez. II, 29 novembre 1993, n. 11836).

Da ultimo, ma sempre con riferimento al requisito della buona fede, è opportuno

soffermarsi ad analizzare una pronuncia della Corte di Cassazione in virtù della quale la

26

dimostrazione della sussistenza del predetto requisito ha avuto esito negativo a fronte

della ex adverso dedotta eccezione di usucapione del bene conteso.

Sostanzialmente, nel corso del giudizio di primo grado i giudici avevano escluso la

buona fede dei convenuti nell’occupare, con la relativa costruzione, parte del terreno

dell’attrice poiché, incombendo a chi invoca l’acquisto della proprietà provare la

propria ignoranza dell’altrui titolarità del terreno occupato, tale prova non poteva

risultare dal semplice silenzio mantenuto dal proprietario né, soprattutto, dall’aver

addirittura dimostrato, avendo dedotto l’usucapione, che sapevano essere l’immobile di

pertinenza di parte attrice.

Infatti, hanno giustamente osservato i giudici della Suprema Corte, l’usucapione si

fonda sul possesso continuato per il tempo legale, esercitato contro il proprietario che

trascura l’esercizio dei suoi poteri dominicali.

Pertanto, il Supremo Collegio ha riconosciuto non solo che – se si assume di aver

posseduto – inevitabilmente si riconosce che colui contro il quale si è esercitato il potere

di fatto era il proprietario, ma addirittura che – se si assume di aver posseduto per il

tempo necessario ad usucapire – si riconosce altresì che, fin dall’origine, il possesso è

stato esercitato contro il proprietario.

In conclusione, la Suprema Corte ha statuito che il sostenere, ad un certo momento

dell’iter processuale, che si sarebbe venuti a conoscenza della qualità di proprietario di

colui contro il quale si è esercitato il possesso solo dopo che si erano verificate le

condizioni per l’acquisto di proprietà per accessione invertita, è affermazione

contraddittoria con il precedente comportamento processuale.

Per completezza si precisa che:

1) secondo la giurisprudenza consolidata della Corte di Cassazione, il diritto del

costruttore ex art. 938 c.c., così come l'applicazione del generale principio di accessione

incontra, tra i vari limiti imposti dalla legge (oltreché dal titolo) anche quelli sanciti

dalle disposizioni normative in materia di edilizia. Se l'eventuale costruzione, posta in

essere sul suolo occupato "abusivamente", è stata edificata in violazione delle leggi in

materia di edilizia e degli strumenti urbanistici, in vigore nel territorio ove è ubicato

l'immobile, oggetto della vendita, il giudice non applicherà l'articolo 938 c.c., anche in

considerazione della facoltà discrezionale che la norma riserva all'organo giudicante

(l'autorità giudiziaria, tenuto conto delle circostanze, può attribuire al costruttore la

proprietà dell'edificio e del suolo occupato). In materia di limiti al generale principio di

accessione e di osservanza delle norme edilizie, posso citare la sentenza n.24679,

27

emessa in data 21 novembre 2006 dalla Corte di Cassazione - II sezione civile, oltre alle

sentenze n.21585 del 7 novembre 2005, n.4623 del 27 marzo 2003 e n.7583 del 17

luglio 1999 (anche se non riguardano in particolare, l'istituto dell'accessione invertita, i

principi espressi hanno valenza generale e sono applicabili anche alla fattispecie "de

quo").

2) secondo la Corte di Cassazione, seconda sezione civile, sentenza 20 dicembre

2007 – 27 febbraio 2008, n. 5133, "la buona fede rilevante ai fini dell'accessione

invertita (art. 938 c.c.), comunque, consiste nel ragionevole convincimento del

costruttore di edificare sul proprio suolo e di non commettere alcuna usurpazione in

danno del vicino, sicché la mancata opposizione di costui non vale a dimostrare lo stato

soggettivo di buona fede dell'occupante, che deve, invece, riguardare le condizioni in

cui il costruttore si è trovato ad operare, sì da generare il convincimento di esercitare un

suo preteso diritto".

E’opportuno ribadire nuovamente che il trasferimento della proprietà del suolo al

costruttore non si compie esclusivamente per il fatto della costruzione, ma solo in virtù

di una sentenza, mediante la quale il giudice competente deve tenere conto della

opportunità di operare il predetto trasferimento.

Quando il giudice dichiara il compimento dell’accessione invertita, sorge in capo al

proprietario sia un diritto al risarcimento dei danni subiti, sia un diritto al pagamento di

una indennità pari al doppio del valore del suolo occupato al momento della

liquidazione. Il fatto che sorga un diritto al risarcimento dei danni verificatisi è logica

conseguenza dell’occupazione e non una condizione dell’acquisto; al contrario deve

dirsi per quanto riguarda il pagamento dell’indennità, la

quale si configura come una vera condizione del trasferimento coattivo.

L’indennità costituisce debito di valore e non di valuta. Il corrispettivo

dell’accessione invertita ex articolo 938 c.c., deve essere determinato con criterio

obiettivo, tenendo conto soltanto del valore che il suolo occupato ha di per sé, in virtù

della sua natura, della sua conformazione e delle sue caratteristiche in genere,

indipendentemente dalla diversa e maggiore utilità che, per destinazione ad essa data,

possa averne tratto il costruttore rispetto a quella che avrebbe potuto trarne il

proprietario ( Cass. Civ., sez. II, 6/6/89 n. 2748).

L’azione per ottenere l’indennità ed il risarcimento dei danni è di carattere personale

e deve essere proposta contro il costruttore e non eventualmente anche contro i

successivi acquirenti dell’immobile. La domanda per il risarcimento del danno è

28

domanda autonoma rispetto al pagamento del doppio del valore del suolo; ai fini della

competenza per valore le due domande si sommano secondo il disposto dell’art. 10

c.p.c..

5. Sulla responsabilità contrattuale del mandatario.

La questione giuridica sulla quale mi sono attardata trova origine nel caso che ha

riguardato la Sig.ra Caia, beneficiaria dei contributi per la ristrutturazione dei fabbricati

post terremoto ex legge 219/81, la quale, in concomitanza con la presentazione

dell’istanza e della documentazione all’Ente preposto, nominava l’Ing. Tizio “delegato

alla riscossione”. Costui illegittimamente tratteneva il contributo governativo dovuto

alla Sig. Caia la quale adiva le vie legali. La fattispecie rientra nella figura giuridica del

mandato. Il mandato, così come definito dall’art. 1703 c.c., è il contratto con il quale un

soggetto si obbliga a compiere uno o più atti giuridici per conto di altri. Il contenuto

dell’attività a cui il mandatario si obbliga, che è il compimento di atti giuridici, può

essere il più vario.

Il mandato è con rappresentanza o senza rappresentanza, secondo che il mandatario

abbia o no il potere di impegnare il mandante spendendo il suo nome. Il potere di

rappresentanza però non ha la sua fonte nel mandato, che, essendo un contratto, ha

effetti diretti limitati alle parti, e dal quale deriva appunto l’obbligo del mandatario

verso il mandante. La rappresentanza presuppone una procura esplicita o anche soltanto

implicita.

Il mandatario deve agire secondo l’incarico accettato: se questo è con rappresentanza

il mandatario agirà in nome del dominus (contemplatio domini), altrimenti agirà in

nome proprio. Se il mandato è senza rappresentanza si stabiliscono rapporti diretti tra il

mandatario e il terzo, e non ttra il mandante e il terzo. Il mandante è in rapporto con il

mandatario, il mandatario nei confronti del terzo assume in proprio gli obblighi ed

acquista in proprio i diritti che derivano dall’affare trattato per conto del mandante. Al

mandante devono pio essere devoluti i risultati del negozio compiuto per suo conto dal

mandatario.

29

Il mandante, anche se i terzi non hanno conosciuto l’esistenza del mandato, ha diritto

di far valere in via diretta verso di loro i diritti di credito sorti in virtù del negozio di

gestione, cioè nell’esecuzione del mandato.

Il mandato è speciale o generale, secondo che sia conferito per il compimento di

singoli atti o per tutti gli atti di ordinaria amministrazione. Esso è un contratto

consensuale che si perfeziona con il semplice accordo delle parti. Ed è obbligatorio

perché dà origine soltanto a rapporti personali.

Il mandato si estingue, oltre che per cause generali, come la scadenza del termine o il

compimento dell’affare per cui fu concepito, anche per la revoca del mandante o per

rinunzia del mandatario.

Grava sul mandatario l’obbligo di compiere gli atti giuridici previsti dal contratto con

la diligenza del buon padre di famiglia (art. 1710 cod. civ.), con quella diligenza, cioè,

che è lecito attendersi da qualunque soggetto di media avvedutezza e accortezza,

memore dei propri impegni, cosciente delle relative responsabilità (Cass. Civ., sez. III,

n. 19778 del 2003). La relativa responsabilità è, quindi, contrattuale e l’azione si

prescrive in dieci anni.

In sostanza quindi, è sulla scorta di tale criterio, di generale applicazione in tema di

adempimento delle obbligazioni (art. 1176 cod. civ.), che deve valutarsi la condotta del

mandatario, onde stabilire se egli sia venuto meno alle sue obbligazioni nei confronti

del mandante (Cass. ult cit.).

Nei confronti di eventuali terzi, estranei al rapporto, tra cui anche l’altra parte coinvolta

nell’affare che tuttavia non ha dato alcun incarico, il mandatario risponderà a titolo

extracontrattuale, secondo il principio generale del naeminem laedere di cui all’art.

2043 del c.c.. Secondo la Relazione al codice civile la diligenza consiste in “quel

complesso di cure e di cautele che il debitore deve impiegare per soddisfare la propria

obbligazione”. Il criterio della diligenza esprime un modello ideale di comportamento a

cui il debitore deve uniformarsi nell'adempiere l'obbligazione.

Tale modello viene ricostruito avendo riguardo all'uomo medio (bonus pater

familias): la diligenza del buon padre di famiglia, precisa la dottrina, non è un criterio

statistico, bensì deontologico. In realtà, non si tratta di un'unica figura indifferenziata,

bensì di una serie di diversi modelli ideali che vengono determinati in riferimento, per

lo più, all'attività svolta dai singoli soggetti coinvolti: il buon banchiere, il buon

costruttore, il buon professionista, il buon automobilista, etc. Ogni modello impone il

proprio standard; attraverso tale modello, la regola della diligenza trova la sua

30

concretizzazione. Dicendo che il debitore “nell'adempiere l'obbligazione deve usare la

diligenza del buon padre di famiglia”, si intende che il debitore è obbligato ad osservare

una condotta conforme allo standard di riferimento. Pena l'inadempimento e, al tempo

stesso, la colpa. La diligenza svolge, infatti, più di un ruolo nell'area della responsabilità

contrattuale: essa è criterio di determinazione delle modalità della prestazione, criterio

di imputazione dell'inadempimento e criterio di imputazione dell'impossibilità della

prestazione. La regola della diligenza riguarda, anzitutto, il giudizio sull'adempimento

del debitore.

L'adempimento è l'esatta esecuzione della prestazione: “l'esattezza della prestazione

deve essere valutata rispetto a diversi criteri, che sono (a) le modalità della esecuzione,

(b) il tempo dell'esecuzione, (c) il luogo dell'esecuzione, (d) la persona che esegue la

prestazione, (e) la persona destinataria della prestazione, (f) l'identità della prestazione”.

Per valutare se la prestazione del debitore sia stata esattamente eseguita (in specie, sotto

il profilo qualitativo), è necessario fare riferimento al criterio della diligenza:

l'esecuzione non diligente di una prestazione equivale ad inadempimento.

Ciò vale, in particolare, con riguardo alle obbligazioni di mezzi, ove “il giudizio

sull'inadempimento per definizione fa corpo con l'agire negligente, essendo per

contrapposto l'agire diligente la materia dell'obbligazione”: l'adempimento presuppone

l'osservanza della diligenza prescritta dall'art. 1176 c.c.; così come, per contro,

l'inosservanza della diligenza prescritta dall'art. 1176 c.c. determina l'inadempimento.

Ciò è confermato dalla giurisprudenza di legittimità in tema di responsabilità del

medico, del notaio, dell'avvocato, del mandatario professionista, dell'agente di

assicurazione, della banca, etc.: “in queste obbligazioni [si intende, di mezzi] in cui

l'oggetto è l'attività, l'inadempimento coincide con il difetto di diligenza nell'esecuzione

della prestazione” (Cass. civ., Sez. III, 09/11/2006, n.23918); “la diligenza assume nella

fattispecie un duplice significato: parametro di imputazione del mancato adempimento e

criterio di determinazione del contenuto dell'obbligazione” (Cass. civ., Sez. III,

13/01/2005, n.583).

La diligenza è criterio di determinazione della prestazione anche in relazione alle

obbligazioni di risultato: “con riguardo all'obbligazione dell'appaltatore, ad es., (...)

l'esattezza della prestazione deve infatti essere pur sempre verificata alla stregua

dell'adeguato sforzo tecnico e dei risultati che normalmente si realizzino con l'impiego

di tale sforzo: si giudicherà allora, tra l'altro, se l'opera sia stata eseguita a regola d'arte”.

Poniamo ad esempio che l'attore-creditore lamenti un'inesatta esecuzione della

31

prestazione per mancato rispetto delle regole c.d. dell'arte; se il debitore-convenuto

fornisce la prova in giudizio della sua diligenza, ovviamente, egli non sarà tenuto a

risarcire danno alcuno, poichè ha provato l'adempimento, fatto estintivo

dell'obbligazione.

La diligenza rappresenta altresì criterio di imputazione dell'inadempimento al

debitore. L'inosservanza della diligenza, infatti, costituisce colpa: se il debitore tiene

una condotta difforme da quella imposta dall'ordinamento attraverso la regola della

diligenza, egli versa in colpa. Il giudizio di colpevolezza consiste nella difformità della

condotta da un modello ideale di riferimento.

Il primo comma dell'art. 1176 c.c. prende in considerazione le prestazioni non

tecniche, prevedendo che il criterio normale della colpevolezza è quello della

negligenza; il secondo prende in considerazione le prestazioni tecniche, stabilendo che,

in questo caso, la misura della colpa deve essere desunta dalle regole dell'arte: il

riferimento è pertanto all'imperizia.

In base all'art. 1218 c.c., il debitore “è tenuto al risarcimento del danno, se non prova

che l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione

derivante da causa a lui non imputabile”. Sulla nozione di causa non imputabile non

esiste una definizione legislativa, nè identità di vedute negli interpreti. La

giurisprudenza utilizza il criterio della diligenza per valutare se la causa che ha

determinato l'impossibilità della prestazione debba essere imputata al debitore, oppure

no: la causa non è imputabile quando è imprevedibile o, quantomeno, inevitabile da

parte del debitore; in quest'ottica, l'imprevedibilità e l'inevitabilità sono intesi come

endiadi designanti complessivamente la mancanza di colpa. La diligenza, quindi,

rappresenta il criterio per la valutazione del comportamento del debitore in relazione

alla sopravvenuta impossibilità della prestazione (cioè, in ultima analisi, per la decisione

in ordine alla sussistenza della responsabilità dell'obbligato oppure no).

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N. 10 Udienze:

1) e 2) Udienze del 5/10/2010 e del 27/01/2011;Tribunale ordinario di Salerno sez.

Lavoro Dott.ssa Sabbato

Con ricorso ex art. 414 c.p.c. ritualmente notificato, la ricorrente conveniva in

giudizio la società Alfa srl presso la quale aveva prestato lavoro subordinato. Per un

periodo la ricorrente aveva lavorato in nero, senza cioè che il datore regolarizzasse la

sua posizione contributiva. Solo successivamente veniva assunta formalmente con le

mansioni di operai e con inquadramento nel V livello del C.C.N.L. per gli addetti al

settore alimentari. La ricorrente, invero, dall’assunzione e fino alla data del

licenziamento, pur essendo stata formalmente inquadrata nel V livello, ha espletato

mansioni superiori, riconducibili al III livello del CCNL richiamato. La ricorrente adiva

dunque le vie legali per ottenere accertamento e dichiarazione che la stessa aveva

prestato lavoro subordinato alle dipendenze dalla società resistente, senza soluzione di

continuità fino all’avvenuto licenziamento; che fosse accertato e dichiarato che la stessa

aveva svolto mansioni superiori a quelle previste dal livello nel quale era formalmente

inquadrata. Chiedeva dunque la condanna della resistente al pagamento di tutte le

differenze retributive maturate dall’assunzione e fino al licenziamento.

Nel corso dell’udienza del 5/10/2010, la ricorrente in veste del suo avvocato chiedeva

escutersi i testi presenti e già indicati nelle richieste istruttorie. Al termine della prova

testimoniale, si chiedeva al Giudice un rinvio per la nomina del CTU. Nella successiva

33

udienza del 27/01/2011 gli Avvocati della ricorrente chiedono si proceda alla nomina

del CTU. La resistente riportandosi ai propri scritti difensivi faceva notare che la

resistente con lettera del 14/03/2008, inviata alla CONFLAVORATORI, richiedeva una

somma diversa e minore rispetto a quelle in corso di causa per le differenze retributive.

La ricorrente impugnava e contestava quanto dedotto, perché fatto, per altro,

tardivamente. Il Giudice rinviava per esame ed eventuale nomina CTU.

3) Udienza del 9/02/2011 Tribunale Ordinario Salerno Sez. Lavoro Dott. Cavaliero

Con ricorso ex art. 414 c.p.c. ritualmente notificato alle parti, la ricorrente conveniva

in giudizio la dott.ssa Tizia socia della società Gamma srl (restata poi inattiva dal 2005)

alle dipendenze della quale aveva lavorato dal 2001 al 2008,e la società Beta s.r.l (di cui

la dott.ssa Tizia ne diventava socia) alle dipendenze della quale era stata formalmente

assunta con contratto di apprendistato dal 2005 al 2008, espletando per l’intera durata

del rapporto le mansioni di estetista professionista. Nell’anno 2008 la ricorrente subiva

licenziamento illegittimo. La resistente società Beta srl affermava che la ricorrente

sarebbe stata assunta nel marzo 2005 con la qualifica di apprendista estetista e per il

conseguimento della qualifica di estetista. Nella comunicazione inoltrata dalla società

alla Regione Campania all’esito del licenziamento della ricorrente, quale motivo della

cessazione del rapporto di apprendistato, la società adduce licenziamento per giusta

causa. In realtà, a differenza di quanto dichiarato agli Enti preposti, nella memoria

difensiva sostiene altro e cioè che il rapporto di apprendistato è stato anticipatamente

risolto perché la ricorrente aveva conseguito le capacità per diventare lavoratore

qualificato. Il CCNL di riferimento, all’art. 46, comma 8, definisce la durata “normale”

e non “massima”dell’apprendistato in 60 mesi (5 anni).

Nell’udienza i legali della ricorrente chiedono escutersi i testi comparsi. Essendo

emersa, nel corso della prova testimoniale, la necessità di citare come teste, ai fini di

giustizia, la Sig.ra Sempronia, ne fanno formale richiesta al Giudice, sollecitandone i

poteri istruttori anche in considerazione delle risultanze istruttorie. L’ Avvocato della

resistente impugnava quanto dedotto .

34

Il Giudice, rilevava che detta richiesta poteva trovare una sua proposizione solo ai sensi

dell’art. 421 c.p.c. e previa indicazione dei capi di prova su cui dovrebbe vertere la

prova testimoniale. Per questi motivi si riservava e rinviava in prosieguo di prova.

4) e 5) Udienze del 01/02/2011 e del 22/04/2011 Ufficio del Giudice di Pace di

Salerno: Dott. Torre

Con atto di citazione ritualmente notificato, il Sig. Tizio conveniva in giudizio Caio

Mevio srl in persona del legale rappresentante e l’ AXA Assicurazioni Spa.

Il giorno 31.01.2007 l’automezzo targato XXXXXX, di proprietà del Sig. Caio Mevio

srl, nel percorrere ad alta velocità la strada statale 163 per Amalfi, andava violentemente

ad incastrarsi sotto il balcone prospiciente l’abitazione del ricorrente. A seguito del forte

urto, il balcone dell’abitazione di proprietà del Sig. Tizio riportava ingenti danni per il

cui risanamento si renderà necessario l’esborso di euro 3.000,00 come da preventivo

che viene allegato all’atto di citazione. Si chiedeva quindi al Giudice la condanna dei

convenuti al pagamento di tale somma in qualità di risarcimento del danno.

Nel corso dell’udienza del 01/02/2011 comparivano gli avvocati dell’attore, mentre le

parti convenute, come dall’inizio del giudizio, rimanevano contumaciali. Come da

richiesta fatta in precedente udienza, era presente anche il CTU nominato dal Giudice, il

quale presentava dichiarazione di accettazione dell’incarico e prestava giuramento. Il

Giudice procedeva ad elencare i quesiti. Il CTU fissava l’inizio delle operazioni peritali

per il giorno 07/02/2011, ore 15,00 sul luogo teatro del sinistro. A questo punto il

Giudice concedeva giorni 60 per il deposito della CTU. Disponeva inoltre la cifra di

euro 350,00 da intendersi quale acconto e saldo da versare all’inizio dei lavori peritali e

rinviava la causa.

Nella successiva udienza del 22/05/2011 compariva l’attore mentre i convenuti

rimanevano contumaciali. L’attore si riportava alle conclusioni già rassegante e

impugnava la CTU in quanto stimava un danno inferiore a quello che risultava da

preventivo allegato all’atto di citazione. Si chiedeva poi che la causa fosse decisa con

vittoria di spese. Il Giudice, valutata la contumacia dei convenuti,riteneva opportuno

rinviare ad udienza successiva per conclusioni e discussione.

35

6) Udienza del 31/03/2011 Tribunale Ordinario di Salerno Sez. Lavoro Dott.ssa

Viva

Con ricorso ex art. 414 c.p.c , ritualmente notificato, la ricorrente Sig. Sempronia

chiamava in causa la Sig. Caia, sua datrice di lavoro.

La ricorrente aveva prestato lavoro subordinato alle dipendenze della ricorrente,

presso l’abitazione di quest’ultima. Il rapporto di lavoro subordinato, iniziato nel

settembre del 2003 si era risolto nel novembre del 2007. Lo stesso intercorso rapporto di

lavoro non era mai stato denunciato ai fini della regolarizzazione contributiva ed

assicurativa e la datrice non rilasciava buste o prospetti paga. La ricorrente aveva svolto

mansioni di baby-sitter e quindi la stessa risultava inquadrabile nella seconda categoria

del CCNL per i collaboratori familiari (lavoro domestico). Durante tutto l’intercorso

lavoro, la ricorrente percepiva la somma di euro 3,84 all’ora, anziché quella

contrattualmente stabilità e pari ad euro 4,46. Non percepiva la tredicesima mensilità,

non godeva di giorni di ferie e non ha percepito la dovuta indennità sostitutiva né TFR.

L’udienza sub indice vedeva il Giudice Unico in funzione di Giudice del lavoro

dott.ssa Viva procedere all’escussione dei testi sia di parte ricorrente sia di parte

resistente. La prova testimoniale, come da richieste istruttorie di parte ricorrente, mirava

ad accertare, ai fini di legge, l’esistenza del rapporto di lavoro tra parte le parti in causa

e la non sufficiente e proporzionata retribuzione.

Durante la prova testimoniale il Giudice, nonostante la prodromica lettura della

formula di impegno di uno dei testi di parte ricorrente, è costretto ad ammonire

nuovamente il teste sulle conseguenze penali delle dichiarazioni falese e reticenti.

Conclusa la prova testimoniale, il Giudice chiede e suggerisce alle parti, personalmente

presenti in udienza, assistite dai rispettivi avvocati, di considerare l’ipotesi di un

accordo. Il giudice concedeva quindi alle parti alcuni minuti perché le stesse,

congiuntamente, potessero valutare la proposta. Le stesse, nell’intercorsa udienza,

accogliendo la sollecitazione del magistrato, raggiungono un accordo includente anche

la somma retributiva spettante alla Sig.ra Sempronia. Viene così compilato verbale di

conciliazione e il Giudice autorizza il ritiro di produzione di parte.

7) e 8) Udienza del 25/11/2010 e Udienza del 18/02/2011 Tribunale Ordinario di

Nocera Inferiore Dott. Ruggiero

36

La causa, instauratasi innanzi al Giudice Unico in funzione di Giudice del lavoro,

aveva inizio con rituale ricorso ex. art. 414 c.p.c, notificato alla resistente ed avente ad

oggetto impugnativa di licenziamento e differenze retributive. Il ricorrente Sig. Tizio

lamenta, nel ricorso, l’illegittimità del recesso, revocato poi dalla Società Beta, datrice

di lavoro, e il mancato adempimento, da parte di quest’ultima, dell’obbligazione

alternativa (risarcimento del danno ex. art. 18, comma 5°, legge 300/70) richiesta dal

ricorrente, in sostituzione della reintegra nel posto di lavoro.

Nel corso dell’udienza del 25/11/2010 le parti chiedono al Giudice un rinvio per

discussione con note difensive. Il Giudice, essendoci contestazione del quantum,

sollecita le parti ad un’eventuale nomina di CTU per l’indagine peritale. Il Giudice

concede poi termine fino a 10 gg. prima per il deposito di note difensive ed autorizza il

ritiro delle rispettive produzioni, rinviando l’udienza al 18/02/2011. Nel corso di tale

udienza le parti si riportano integralmente alle rispettive note difensive depositate nei

termini di legge. La parte ricorrente, assistita dal mio dominus, chiede altresì la nomina

del CTU. La parte resistente invece chiede che la causa venga rimessa in decisione. Il

Giudice del lavoro, rilevato che si appalesa la necessità di procedere ad un’indagine

peritale, nomina CTU Dott. XXXX e rinvia la causa.

9) Udienza del 17/11/2010 Tribunale Ordinario di Salerno Sez. Civile Dott.ssa Di

Stasi

Nel 2007 la Sig.ra Caia citava in giudizio, con atto ritualmente notificato, l’Ing. Sig.

Sempronio. L’attrice, proprietaria di un immobile, partecipava alla ricostruzione del

fabbricato ex legge 219/81, in uno con i signori Tizio, Mevia e Orazio. In concomitanza

con la presentazione dell’istanza e della documentazione all’Ente preposto per

l’attribuzione del contributo spettante ai fabbricati terremotati, veniva conferito, dai

condomini dello stabile, all’Ing la funzione di delegato alla riscossione dei contributi. Il

contributo totale stanziato per l’attrice ammonta a euro 5.076,06. Il perceptum ammonta

ad euro 2.436,00 liquidato dall’Ente tramite il delegato Ing. Sempronio. Ai fatti l’attrice

risulta essere creditrice della restante somma pari ad euro 2.640,06 che l’Ing. Sempronio

illegittimamente trattiene. Si rendeva in seguito necessario chiamare in causa il Comune

di Baronissi (Ente debitore del contributo ex. legge 219/81) e la Sig.ra Mevia,

comproprietaria dell’immobile, aveva revocato formalmente, a suo tempo, e per sé

37

soltanto, all’Ing. Sempronio la delega a riscuotere il contributo. L’Ente, aveva poi

disposto con delibera nel 2004 la riscossione a firma congiunta della Sig.ra Mevia e

dell’Ing. Sempronio, quest’ultimo in qualità di delegato delle restanti proprietà tra cui

l’erede Sig.ra Caia. Ma della somma riscossa all’attrice nulla è stato riconosciuto

dell’Ingegnere.

Nel corso dell’odierna udienza di trattazione della causa ex art. 183 c.p.c. , alla quale

la sottoscritta ha preso parte, l’Avvocato di parte attrice, ovverosia il mio dominus,

esibiva e contestava note alla Ctu della quale era stata fatta richiesta nella precedente

udienza per valutare l’effettivo valore a cui ammonta il contributo. Di tali note ne dava

copia alla controparte Sig.ra Mevia rappresentata dal suo Avvocato. Quest’ultimo

depositava foglio di deduzione contenente osservazioni alla CTU Mentre il convenuto

Comune di Baronissi e l’Ingegnere restavano contumaciali. Il Giudice fissava rinvio

dell’udienza per l’assunzione dei mezzi di prova ex. art. 184 c.p.c.

10) Udienza del 16/11/ 2010 Corte di Appello di Salerno Dott.ssa Giancaspro

In primo grado erano state emesse due sentenze: l’una dichiarativa del diritto in base

alla quale veniva attribuita la proprietà dell’edificio e del suolo occupato al costruttore

Sig. Caio, che nel conseguire lavori di costruzione sul proprio suolo di un immobile (un

albergo), era sconfinato in buona fede sul fondo attiguo del Sig. Tizio; l’altra sentenza

stabiliva la quantificazione del doppio del valore della superficie occupata e il

risarcimento del danno che il costruttore era tenuto a pagare al proprietario del suolo. Il

Sig. Ciao promuoveva appello per contestare la sentenza di quantificazione di primo

grado.

Nel corso dell’udienza del 16/11/2010 l’appellante, riportandosi alla valutazione del

CTU, in precedente udienza nominato, ribadiva che il corrispettivo dell’accessione

invertita ex articolo 938 c.c., deve essere determinato con criterio obiettivo, tenendo

conto soltanto del valore che il suolo occupato ha di per sé, in virtù della sua natura,

della sua conformazione e delle sue caratteristiche in genere, indipendentemente dalla

diversa e maggiore utilità che, per destinazione ad essa data, possa averne tratto il

costruttore rispetto a quella che avrebbe potuto trarne il proprietario. Chiedeva dunque

che la causa fosse rimessa in decisione. Parte appellata, invece, si opponeva alla CTU

ritenendo che non si trattasse di accessione invertita ex. art. 938 c.c. bensì di

occupazione abusiva di suolo, con carenza di buona fede (che pure, invece, era già stata

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confermata dalla sentenza di primo grado), e pertanto chiedeva risarcimento danni ex.

art. 2043 (cioè per fatto illecito).

Il Giudice, dopo il contraddittorio tra le parti, rimette la causa in decisione.

Questione di Deontologia Forense:

Il dovere di diligenza per il professionista forense.

Il Codice deontologico forense, e precisamente con l' articolo 8 (Dovere di diligenza-

L'avvocato deve adempiere i propri doveri professionali con diligenza) , impone agli

avvocati di adempiere i propri doveri professionali con diligenza. Pertanto, in questa

prospettiva la diligenza che l'avvocato deve utilizzare per lo svolgimento della propria

attività professionale coincide con quella ordinaria ovvero con quel grado di attenzione

medio nei confronti del cliente.

L'avvocato deve considerarsi responsabile nei confronti del proprio cliente, ai sensi

degli artt. 2236 e 1176 codice civile, in caso di incuria o di ignoranza di disposizioni di

legge ed, in genere, nei casi in cui, per negligenza o imperizia, compromette il buon

esito del giudizio, mentre nelle ipotesi di interpretazione di leggi o di risoluzione di

questioni opinabili, deve ritenersi esclusa la sua responsabilità, a meno che non risulti

che abbia agito con dolo o colpa grave. Pertanto, l'inadempimento del suddetto

professionista non può essere desunto dal mancato raggiungimento del risultato utile cui

mira il cliente, ma soltanto dalla violazione del dovere di diligenza adeguato alla natura

dell'attività esercitata, ragion per cui l'affermazione della sua responsabilità implica

l'indagine – positivamente svolta sulla scorta degli elementi di prova che il cliente ha

l'onere di fornire – circa il sicuro e chiaro fondamento dell'azione che avrebbe dovuto

essere proposta e diligentemente coltivata e, in definitiva, la certezza morale che gli

effetti di una diversa sua attività sarebbero stati più vantaggiosi per il cliente medesimo.

Cassazione civile, sezione II, 11 agosto 2005, n. 16846. La responsabilità professionale

dell'avvocato, la cui obbligazione è di mezzi e non di risultato, presuppone la violazione

del dovere di diligenza media esigibile ai sensi dell'articolo 1176, comma 2, codice

civile; tale violazione, ove consista nell'adozione di mezzi difensivi pregiudizievoli al

cliente, non è esclusa né ridotta per la circostanza che l'adozione di tali mezzi sia stata

sollecitata dal cliente stesso, essendo compito esclusivo del legale la scelta della linea

tecnica da seguire nella prestazione dell'attività professionale. (Enunciando il principio

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di cui in massima, la Suprema Corte ha confermato la sentenza impugnata, la quale

aveva accertato la responsabilità professionale dell'avvocato per avere questi proposto

una domanda di risarcimento dei danni per responsabilità processuale aggravata, ai

sensi dell'art. 96 c.p.c., dinanzi ad un giudice diverso da quello che aveva deciso la

causa di merito, così esponendo il cliente alla soccombenza nelle spese). Cassazione

civile, sezione II , 28 ottobre 2004, n. 20869 .

Si può ritenere di individuare nella norma contenuta nell' articolo 1176 codice civile

una specificazione del principio generale espresso nell'articolo 8 del Codice

deontologico forense. Di conseguenza, quest'ultimo va interpretato proprio sulla base

della formula generale contenuta nel codice civile (art. 1176). Solo per fare degli

esempi, l'omessa iscrizione a ruolo di una causa civile oppure l'omessa redazione di una

comparsa di costituzione e risposta costituiscono delle chiare applicazioni pratiche di

violazioni al dovere di diligenza prescritto dall'articolo 8 del C.D.F. Tuttavia, mio

modesto parere, il giudizio di diligenza per l'attività giudiziale deve tener conto che, di

norma, l'obbligazione del professionista forense è soltanto di mezzi e non di risultato.

La responsabilità professionale dell'avvocato, la cui obbligazione è di mezzi e non di

risultato, presuppone la violazione del dovere di diligenza, per il quale trova

applicazione, in luogo del criterio generale della diligenza del buon padre di famiglia,

quello della diligenza professionale media esigibile, ai sensi dell'art. 1176, secondo

comma, c.c., da commisurare alla natura dell'attività esercitata. Inoltre, non potendo il

professionista garantire l'esito comunque favorevole auspicato dal cliente (nella specie,

del giudizio di appello), il danno derivante da eventuali sue omissioni (nella specie,

redazione e notifica di un atto d'appello privo dell'indispensabile indicazione della data

di udienza di comparizione) in tanto è ravvisabile, in quanto, sulla base di criteri

necessariamente probabilistici, si accerti che, senza quell'omissione, il risultato sarebbe

stato conseguito, secondo un'indagine istituzionalmente riservata al giudice di merito,

non censurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata ed immune da vizi

logici e giuridici.

Infatti, proprio sulla base di questa importante premessa, non si può desumerne la

violazione per il mancato raggiungimento del risultato, qualora l'avvocato abbia

adempiuto alla propria obbligazione professionale con la diligenza media esigibile .

Non c'è alcun dubbio che l'avvocato, per le prestazioni giudiziali, assuma

un'obbligazione di mezzi, poiché si impegna a mettere a disposizione del proprio cliente

le sue conoscenze. Di conseguenza, il professionista forense si impegna ad essere

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presente con puntualità alle udienze etc.., ovvero a compiere tutte quelle attività

professionale che rendono possibile vincere la lite, ma non si impegna a vincere la lite.

Invece, un discorso ben diverso deve necessariamente essere fatto per l'attività

stragiudiziale dove, secondo la giurisprudenza di legittimità l'avvocato si trova di fronte

un'obbligazione di risultato. Infatti, al contrario dell'obbligazione di mezzi, in questo

caso l'oggetto dell'obbligazione non è costituita dalla semplice attività professionale,

quanto piuttosto dal raggiungimento del risultato.

In estremi sintesi, nell'attività stragiudiziale il dovere deontologico di diligenza

assume un diverso spessore ovvero una diversa connotazione.

Si pensi, ad esempio, all'avvocato che ometta di scrivere, nei termini stabiliti dalla

legge, una lettera interruttiva di prescrizione ad una compagnia di assicurazione

facendo, così, prescrivere il risarcimento pecuniario al proprio cliente. Quindi,

l'avvocato in questa ipotesi è pienamente responsabile per avere violato anche il dovere

deontologico della diligenza ex art. 8 del Codice deontologico forense. In conclusione, a

sostegno della mia sopraesposta tesi, riporto in allegato la massima della Cassazione che

sul punto ha stabilito un nuovo ed importante principio di diritto.

Di regola, le obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale

costituiscono obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista si

impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato, non per

conseguirlo. Tuttavia, avuto riguardo all'attività professionale dell'avvocato, nel caso in

cui questi accetti l'incarico di svolgere un'attività stragiudiziale consistente nella

formulazione di un parere in ordine all'utile esperibilità di un'azione giudiziale, la

prestazione oggetto del contratto non costituisce un'obbligazione di mezzi, in quanto

egli si obbliga ad offrire tutti gli elementi di valutazione necessari ed i suggerimenti

opportuni allo scopo di permettere al cliente di adottare una consapevole decisione, a

seguito di un ponderato apprezzamento dei rischi e dei vantaggi insiti nella proposizione

dell'azione. Pertanto, in applicazione del parametro della diligenza professionale (art.

1176, secondo comma, c.c.), sussiste la responsabilità dell'avvocato che, nell'adempiere

siffatta obbligazione, abbia omesso di prospettare al cliente tutte le questioni di diritto e

di fatto atte ad impedire l'utile esperimento dell'azione, rinvenendo fondamento detta

responsabilità anche nella colpa lieve, qualora la mancata prospettazione di tali

questioni sia stata frutto dell'ignoranza di istituti giuridici elementari e fondamentali,

ovvero di incuria ed imperizia insuscettibili di giustificazione. (Nella specie, la S.C. ha

cassato la sentenza impugnata, decidendo nel merito ed affermando la responsabilità

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dell'avvocato il quale, nella formulazione di un parere stragiudiziale, aveva omesso di

indicare al cliente che il diritto che questi intendeva far valere in giudizio era prescritto,

omettendo altresì di approfondire l'eventuale sussistenza di elementi e circostanze in

grado di contrastare l'eventuale eccezione di prescrizione) (Cassazione civile, sezione II,

14 novembre 2002, n. 16023).