CONSEGNE ESTIVE DI ITALIANO

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Reggio Emilia, giugno 2021 CONSEGNE ESTIVE DI ITALIANO Carissimi ragazzi e carissime ragazze, innanzitutto i docenti di italiano del Blaise Pascal si complimentano con voi per l'avvenuta promozione e la positiva conclusione del vostro percorso alla scuola media inferiore! Sicuramente questo successo è frutto del grande impegno e del costante lavoro svolto insieme ai vostri insegnanti, che vi hanno condotto ad affacciarvi all'inizio di un nuovo percorso. Ecco, noi siamo qui per accogliervi con gioia e per sostenervi in questo nuovo inizio. Abbiamo scelto per voi alcune letture, corredate da esercizi di analisi, con lo scopo di fornirvi del materiale di accompagnamento nell'ingresso a scuola del prossimo settembre. Durante l'estate, vi chiediamo di leggere con attenzione e svolgere con cura le consegne indicate, poiché tutto questo materiale sarà ripreso insieme a voi in classe e sarà il nostro primo strumento di studio comune. Auguriamo a ciascuno di voi e alle vostre famiglie una serena estate! I docenti di italiano del Blaise Pascal L'unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché è cominciare, sempre, ad ogni istante (Cesare Pavese)

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Reggio Emilia, giugno 2021

CONSEGNE ESTIVE DI ITALIANO

Carissimi ragazzi e carissime ragazze,

innanzitutto i docenti di italiano del Blaise Pascal si complimentano con voi per l'avvenuta

promozione e la positiva conclusione del vostro percorso alla scuola media inferiore! Sicuramente

questo successo è frutto del grande impegno e del costante lavoro svolto insieme ai vostri

insegnanti, che vi hanno condotto ad affacciarvi all'inizio di un nuovo percorso. Ecco, noi siamo qui

per accogliervi con gioia e per sostenervi in questo nuovo inizio.

Abbiamo scelto per voi alcune letture, corredate da esercizi di analisi, con lo scopo di

fornirvi del materiale di accompagnamento nell'ingresso a scuola del prossimo settembre. Durante

l'estate, vi chiediamo di leggere con attenzione e svolgere con cura le consegne indicate, poiché

tutto questo materiale sarà ripreso insieme a voi in classe e sarà il nostro primo strumento di

studio comune.

Auguriamo a ciascuno di voi e alle vostre famiglie una serena estate!

I docenti di italiano del Blaise Pascal

L'unica gioia al mondo è cominciare. È

bello vivere perché è cominciare, sempre, ad

ogni istante (Cesare Pavese)

SEZIONE LETTURE

Leggi con attenzione i racconti e svolgi le attività indicate:

1. Massimo Bontempelli, Il ladro Luca

Attività di comprensione ad analisi della struttura narrativa: dividi in sequenze e dai un titolo nominale ad

ogni sequenza, scrivendo direttamente a fianco del testo.

2. Dino Buzzati, Il colombre

Attività di interpretazione: qual è secondo te il significato di questo racconto? Qual è il messaggio che

l'autore vuole comunicare? E tu cosa ne pensi? (documento Word, interlinea singola, Calibri 11, testo

giustificato)

3. Guy de Maupassant, L'orfano

Attività di scrittura argomentativ: in base alla lettura del brano, ritieni che l'orfano sia innocente o

colpevole? Esponi la tua opinione citando gli elementi del racconto che possono avvalorare il tuo pensiero

(documento Word, interlinea singola, Calibri 11, testo giustificato)

4. Italo Calvino, Furto in una pasticceria

Attività di scrittura: riassumi il racconto (documento Word, max una facciata, calibri 11, interlinea singola,

testo giustificato)

5. Stefano Benni, La chitarra magica

Simulazione test Invalsi: svolgi gli esercizi allegati al racconto

6. Dino Buzzati, Il mantello

Attività di manipolazione e riscrittura del testo: cambia il finale al racconto, iniziando la tua modifica dalla

frase seguente: "Poi la fissò con uno sguardo da cavare l'anima. Si avvicinò alla porta ..."

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Il ladro Luca di Massimo Bontempelli

Al ladro Luca, nella notte annuvolata, bastò la luce d'un quarto di luna e di poche stelle per

scendere in una casa dall'abbaìno e farvi un bottino di prim'ordine. Ora ne riusciva con piena

la sacca e l'animo contento. Alzò gli occhi un attimo al cielo che si stava sgombrando, poi

guardò il tetto lentamente in giro. Tutto il mondo era in silenzio e vuoto, non c'era nel mondo

altro che lui, Luca, su quel tetto vicino al cielo.

Sentiva stanche le reni e il cuore in pace. Non c'è più da aver paura di niente. Fermata bene la

sacca alle spalle, s'accomodò a sedere sopra le tegole, e appoggiato un braccio alla parete

dell'abbaìno si concesse cinque minuti di riposo.

Nessuno dei suoi compagni ha mai fatto un bottino tanto importante. L’abbaìno sorgeva al

mezzo del vasto pendio di tegole che sale dall'orlo del tetto alla cresta. Luca dall'abbaìno,

volgendosi verso l'alto, vedeva quella linea lunga del vertice tagliare il cielo; guardando avanti

e intorno a sé, l'immensa distesa del pendio fino all'altro lato del palazzo, interrotta solo da un

comignolo, in basso quasi addosso al cornicione.

La vista delle tegole lo riposava. Lui sa camminare sui tetti come un gatto. Pregustava la

meraviglia dei suoi compagni (biancheria ricamata, seta, argenteria) e forse un elogio del

Capo.

Il ladro Luca senza bisogno d'orologio misurava il tempo a perfezione. Quando i cinque minuti

furono passati, Luca staccò il braccio dalla parete, provò la resistenza delle cinghie della sacca,

poggiò una mano a terra per darsi la spinta a mettersi in piedi. Ma girando frattanto lo

sguardo verso la cresta del tetto, agghiacciò.

Da dietro quel vertice era spuntata una testa grossa e nera, due occhi lucidi attraverso l'ombra

lo saettarono, poi di colpo un uomo fu in piedi sulla sommità del tetto col braccio teso e la

rivoltella puntata verso Luca, e nel silenzio sonò il suo comando: «Mani in alto!» Il ladro Luca

alzò tremando le braccia. «E fermo!» aggiunse costui. Senza gridare, le sue parole ferivano

l'aria e arrivavano taglienti all'orecchio di Luca che sentiva il cuore battere in petto come se si

spezzasse: avrebbe voluto abbassare una mano per tenerselo fermo. Aveva riconosciuto

l'uomo, era uno dei poliziotti più abili e implacabili della città.

Si guardarono per forse dieci secondi. Lo sbirro fissava Luca negli occhi, Luca guardava l'altro

alle ginocchia, e le braccia ogni tanto stavano per ricadergli giù, ma lui con uno sforzo le

rimetteva subito in alto.

In quei dieci secondi passò per la fantasia di Luca una ventata rapida di immagini: il contatto

con le mani orride dello sbirro, il bottino nella sacca, le manette, poi lo sapranno i compagni e

il Capo: tutte mescolate e scompigliate nel soffio della paura.

Lo sbirro s'ergeva verso la parte estrema della cresta del tetto.

Ora avanzò di qualche passo; in mezzo alla paura il ladro Luca ebbe modo d’accorgersi che il

piede dell'altro non padroneggiava a fondo la tegola. Forse per questo l'altro ora stava fermo;

s'era piantato sui due piedi, con le corte gambe un po' aperte.

E parlò a Luca, sempre con quella rivoltella spianata: «Attenzione a quello che dico: Alzati,

vieni qua, mani in alto; al primo moto che fai per abbassarle o per cambiare direzione, sparo.

Forza, don Luca!»

Mentre quello parlava il ladro Luca aveva infatti rapidamente esaminato la possibilità di

buttarsi a destra verso il cornicione, ma il colpo dell'arma lo avrebbe raggiunto. Scomparire

nell'abbaìno era mettersi in trappola. Non poteva che ubbidire.

Riuscì a levarsi in piedi senza servirsi delle braccia. Poi, ma lentamente (per non rivelare

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all'altro la propria agilità, per allontanare il più possibile il momento in cui si sarebbe sentito

addosso quelle mani, per un istinto professionale di finzione), passo passo cominciò a salire

obliquamente il tetto in direzione di quella rivoltella. Le mani gli tremavano. «Più svelto»,

disse lo sbirro con un sogghigno «pesa tanto quella sacca? Più svelto». Il ladro Luca voleva

rispondere ma non poté che mandar fuori qualche sillaba fioca: si rese conto che non aveva

ancora detto una parola. Fece qualche altro passo incespicando ad arte nelle commessure

delle tegole.

«Avanti, don Luca, hai lavorato bene, è giusto che ti porti a dormire. Altrimenti...»

Il cuore di Luca balzò di sorpresa e di gioia, perché lo sbirro per un piccolo moto del piede

aveva barcollato un attimo ed era precipitato scivolando sulle tegole. Subito Luca vide il grosso

corpo rotolare giù per la china del tetto, egli allora si mise a correre su verso la cima. L’altro,

smarrito, s'afferrò con la sinistra a una tegola ma questa si staccò di netto e lui mandò un

gemito sentendosi straziare le unghie alla radice; tentò invano di afferrarsi con l'altra che

lasciò andare la rivoltella, rotolò ancora, batté la testa contro il comignolo ma non si fermò; e

il ladro Luca raggiunta la cima si voltò e vide lo sbirro arrivare all'orlo della discesa e il suo

corpo scomparire nel vuoto.

Lo invase una folgorante felicità. Fissò allucinato il punto laggiù dove il corpo del nemico era

scomparso.

E, così guardando, s’avvide che non era scomparso tutto: le due mani dello sbirro erano

rimaste afferrate all'orlo del cornicione e furiosamente si sforzavano di tenersi strette. Luca

sedette sulla cima del tetto a fissare quelle due mani grosse, sempre più nere e convulse.

Aspettava, prima d'andarsene, di vederle scomparire. Quella sua felicità, che per un minuto

aveva forse raggiunto il delirio, s'era calmata. Ora il ladro Luca era sicuro e tranquillo, stava

seduto col busto e il capo un poco protesi in avanti, come si sta a teatro nei momenti più

ansiosi del dramma. Si figurava il corpo pendente là sotto, il corpo del nemico che tra poco

precipiterà giù a sfracellarsi sul lastrico. Tese l'orecchio per essere pronto a sentire il tonfo.

Una di quelle due mani non resse più allo sforzo e si staccò dal cornicione, subito tutta la forza

e lo spasimo dell'uomo si raccolsero per un momento nell'altra, poi la prima tornò ad

afferrarsi e l'altra si staccò e s'agitava nell'aria.

D’improvviso qualche cosa d'ignoto brillò nell'animo del ladro Luca, ed era assai diverso dal

delirio di quella prima felicità. Chiuse e strinse gli occhi e subito li riaperse: di laggiù sentì un

rantolo, e pareva venisse da quelle mani. Il ladro Luca non capiva più niente, ma senza capire,

di colpo s'alzò, in un lampo sfilò dalle spalle la sacca e la posò sulle tegole; un'altra volta chiuse

e riaprì per un attimo gli occhi, si passò una mano sulla fronte, e senza sapere perché, senza

sentire quello che stava facendo, corse giù, diritto, fin là; arrivato là si gettò ventre a terra,

s'appese con una delle sue allo spigolo del comignolo, si tese in avanti, porse l'altra gridando:

«attaccati!», e prese la mano alzata dell'uomo che si dibatteva. La sentì stringere, la tirò a sé

con tutta la forza, come un pescatore tira la rete pesante: vide venir su la testa e le spalle, tirò

ancora: l'uomo aiutava il suo sforzo, arrivò tutto. Luca gli dette un ultimo strattone, poi aiutò

l'uomo a porsi a sedere sull'angolo del tetto.

Seguì un silenzio e la notte respirava intorno a loro. Lo sbirro fissava in giù verso l'abisso ma

certo non vedeva niente, il ladro Luca gli guardava la schiena ma non sapeva di guardarla. E

aveva voglia d'andarsene ormai, ma non si muoveva, come se aspettasse qualche cosa, e non

sapeva che cosa né perché.

Finalmente Io sbirro senza voltare la testa verso il compagno mormorò qualche parola, Luca

non capì e domandò: «Come?»; l'altro ripeté, sempre a capo chino: «Fa freddo». Luca si

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sentiva a disagio. L'altro si prese la testa tra le mani e cominciò a singhiozzare piano.

II ladro Luca si cercò in tasca un fiammifero e una sigaretta, la accese e la porse: «Prendi».

sbirro si voltò, e Luca vide che aveva il volto rigato di lacrime. Ripeté: «Prendi» e chinandosi gli

pose la sigaretta tra le labbra. La sigaretta tra le labbra dello sbirro tremava. Dopo un poco lo

sbirro balbettò: «Grazie» e la sigaretta gli cadde di bocca, sull'orlo del cornicione. Il ladro Luca

fu lesto a raccoglierla, scrollò le spalle, finì lui di fumarla. Fatto questo, come l'altro s'era di

nuovo girato in là con la faccia tra le mani, Luca s'alzò in piedi, si voltò senza più guardarlo,

risalì, in cima, dove aveva lasciato la sacca. Se la accomodò sulle spalle, scese piano l'altro

versante avviandosi verso un tubo dell'acqua per cui scivolando si scende a terra. La luna era

scomparsa e non c'era più una nuvola in cielo. Il ladro Luca pensò con orgoglio alla meraviglia

dei compagni, all'elogio che forse il Capo gli farà per il bottino. Prima di lasciare il tetto e

abbracciarsi al tubo, guardò una volta ancora il cielo. Aveva cento volte lavorato di notte, ma

non s'era mai accorro che ci fossero tante stelle.

1. Riassumi con le tue parole l’evento corrispondente ad ognuna delle parti indicate dal numero delle righe

e dal titolo. L’esercizio è avviato.

EVENTO ESSENZIALE IDEA CENTRALE

rr. 1-20 Il ladro Luca, su un tetto, si gode la rapina che ha

appena messo a segno, pensando agli onori presso

gli altri ladri e presso il capo.

Una rapina riuscita

rr. 21-39

Un arrivo inaspettato

rr. 40-51

Il ladro braccato

rr. 52-87

Un'insperata occasione di

fuga

rr. 88-102

Lieto fine per entrambi

DINO BUZZATI

da : Il colombre(Oscar Mondadori, Milano, 1992)

Il colombre

Quando Stefano Roí compí i dodici anni, chiese in regalo a suo padre, capitano di maree padrone di un bel veliero, che lo portasse con sé a bordo.«Quando sarò grande» disse «voglio andar per mare come te. E comanderò delle naviancora pi'u' belle e grandi della tua. »« Che Dio ti benedica, figliolo » rispose il padre. E siccome proprio quel giorno il suobastimento doveva partire, portò il ragazzo con sé.Era una giornata splendida di sole; e il mare tranquillo. Stefano, che non era mai statosulla nave, girava felice in coperta, ammirando le complicate manovre delle vele. Echiedeva di questo e di quello ai marinai che, sorridendo, gli davano tutte le spiegazioni.Come fu giunto a poppa, il ragazzo si fermò, incuriosito, a osservare una cosa chespuntava a intermittenza in superficie, a distanza di due-trecento metri, incorrispondenza della scia della nave.Benché il bastimento già volasse, portato da un magnifico vento al giardinetto, quellacosa manteneva sempre la distanza. E, sebbene egli non ne comprendesse la natura,aveva qualcosa di indefinibile, che lo attraeva intensamente.Il padre, non vedendo Stefano piú in giro, dopo averlo chiamato a gran voce invano,scese dalla plancia e andò a cercarlo.« Stefano, che cosa fai lí impalato? » gli chiese scorgendolo infine a poppa, in piedi,che fissava le onde.« Papà, vieni qui a vedere. »Il padre venne e guardò anche lui, nella direzione indicata dal ragazzo, ma non riuscí avedere niente.« C'è una cosa scura che spunta ogni tanto dalla scia » disse « e che ci viene dietro. »« Nonostante i miei quarant'anni » disse il padre « credo di avere ancora una vistabuona. Ma non vedo assolutamente niente. »Poiché il figlio insisteva, andò a prendere il cannocchiale e scrutò la superficie del mare,in corrispondenza della scia. Stefano lo vide impallidire.« Cos'è? Perché fai quella faccia? »« Oh, non ti avessi ascoltato » esclamò il capitano. « Io adesso temo per te. Quellacosa che tu vedi spuntare dalle acque e che ci segue, non è una cosa. Quello è uncolombre. E’ il pesce che i marinai sopra tutti temono, in ogni mare del mondo. E’ unosqualo tremendo e misterioso, piú astuto dell'uomo. Per motivi che forse nessunosaprà mai, sceglie la sua vittima, e quando l'ha scelta la insegue per anni e anni, peruna intera vita, finché è riuscito a divorarla. E lo strano è questo: che nessuno riesce ascorgerlo se non la vittima stessa e le persone del suo stesso sangue. »« Non è unafavola? »«No. Io non l'avevo mai visto. Ma dalle descrizioni che ho sentito fare tante volte, l'hosubito riconosciuto. Quel muso da bisonte, quella bocca che continuamente si apre echiude, quei denti terribili. Stefano, non c'è dubbio, purtroppo, il colombre ha scelto te efinché tu andrai per mare non ti darà pace. Ascoltami: ora noi torniamo subito a terra,tu sbarcherai e non ti staccherai mai piú dalla riva, per nessuna ragione al mondo. Melo devi promettere. Il mestiere del mare non è per te, figliolo. Devi rassegnarti. Delresto, anche a terra potrai fare fortuna.» Ciò detto, fece immediatamente invertire la

rotta, rientrò in porto e, coi pretesto di un improvviso malessere, sbarcò il figliolo.Quindi ripartí senza di lui.Profondamente turbato, il ragazzo restò sulla riva finché l'ultimo picco dell'alberaturasprofondò dietro l'orizzonte. Di là dal molo che chiudeva il porto, il mare restòcompletamente deserto. Ma, aguzzando gli sguardi, Stefano riuscí a scorgere unpuntino nero che affiorava a intermittenza dalle acque: il "suo" colombre, che incrociavalentamente su e giú, ostinato ad aspettarlo.Da allora il ragazzo con ogni espediente fu distolto dal desiderio del mare. Il padre lomandò a studiare in una città dell'interno, lontana centinaia di chilometri. E per qualchetempo, distratto dal nuovo ambiente, Stefano non pensò piú al mostro marino. Tuttavia,per le vacanze estive, tornò a casa e per prima cosa. appena ebbe un minuto libero, siaffrettò a raggiungere l'estremità del molo, per una specie di controllo, benché in fondolo ritenesse superfluo. Dopo tanto tempo, il colombre, ammesso anche che tutta lastoria narratagli dal padre fosse vera, aveva certo rinunciato all'assedio.Ma Stefano rimase là, attonito, col cuore che gli batteva. A distanza di due-trecentometri dal molo, nell'aperto mare, il sinistro pesce andava su e giú, lentamente, ognitanto sollevando il muso dall'acqua e volgendolo a terra, quasi con ansia guardasse seStefano Roi finalmente veniva.Cosí, l'idea di quella creatura nemica che lo aspettava giorno e notte divenne perStefano una segreta ossessione. E anche nella lontana città gli capitava di svegliarsi inpiena notte con inquietudine. Egli era al sicuro, sí, centinaia di chilometri lo separavanodal colombre. Eppure egli sapeva che, di là dalle montagne, di là dai boschi, di là dallepianure, lo squalo era ad aspettarlo. E, si fosse egli trasferito pure nel piú remotocontinente, ancora il colombre si sarebbe appostato nello specchio di mare piú vicino,con l'inesorabile ostinazione che hanno gli strumenti del fato.Stefano, ch'era un ragazzo serio e volonteroso, continuò con profitto gli studi e, appenafu uomo, trovò un impiego dignitoso e rimunerativo in un emporio di quella città. Intantoil padre venne a morire per malattia, il suo magnifico veliero fu dalla vedova venduto e ilfiglio si trovò ad essere erede di una discreta fortuna. Il lavoro, le amicizie, gli svaghi, iprimi amori: Stefano si era ormai fatto la sua vita, ciononostante il pensiero delcolombre lo assillava come un funesto e insieme affascinante miraggio; e, passando igiorni, anziché svanire, sembrava farsi piú insistente.Grandi sono le soddisfazioni di una vita laboriosa, agiata e tranquilla, ma ancora piúgrande è l'attrazione dell'abisso. Aveva appena ventidue anni Stefano, quando, salutatigli amici della città e licenziatosi dall'impiego, tornò alla città natale e comunicò allamamma la ferma intenzione di seguire il mestiere paterno. La donna, a cui Stefano nonaveva mai fatto parola del misterioso squalo, accolse con gioia la sua decisione.L'avere il figlio abbandonato il mare per la città le era sempre sembrato, in cuor suo, untradimento alle tradizioni di famiglia.E Stefano cominciò a navigare, dando prova di qualità marinare, di resistenza allefatiche, di animo intrepido. Navigava, navigava, e sulla scia del suo bastimento, digiorno e di notte, con la bonaccia e con la tempesta, arrancava il colombre. Egli sapevache quella era la sua maledizione e la sua condanna, ma proprio per questo, forse, nontrovava la forza di staccarsene. E nessuno a bordo scorgeva il mostro, tranne lui.« Non vedete niente da quella parte? » chiedeva di quando in quando ai compagni,indicando la scia. « No, noi non vediamo proprio niente. Perché? » « Non so. Mipareva... »« Non avrai mica visto per caso un colombre » facevano quelli, ridendo e toccandoferro.« Perché ridete? Perché toccate ferro? »

« Perché il colombre è una bestia che non perdona. E se si mettesse a seguire questanave, vorrebbe dire che uno di noi è perduto. »Ma Stefano non mollava. La ininterrotta minaccia che lo incalzava pareva anzimoltiplicare la sua volontà, la sua passione per il mare, il suo ardimento nelle ore di lottae di pericolo.Con la piccola sostanza lasciatagli dal padre, come egli si sentí padrone del mestiere,acquistò con un socio un piccolo piroscafo da carico, quindi ne divenne il soloproprietario e, grazie a una serie di fortunate spedizioni, poté in seguito acquistare unmercantile sul serio, avviandosi a traguardi sempre piú ambiziosi. Ma i successi, e imilioni, non servivano a togliergli dall'animo quel continuo assillo; né mai, d'altra parte,egli fu tentato di vendere la nave e di ritirarsi a terra per intraprendere diverse imprese.Navigare, navigare, era il suo unico pensiero. Non appena, dopo lunghi tragitti, mettevapiede a terra in qualche porto, subito lo pungeva l'impazienza di ripartire. Sapeva chefuori c'era il colombre ad aspettarlo, e che il colombre era sinonimo di rovina. Niente.Un indomabile impulso lo traeva senza requie, da un oceano all'altro.Finché, all'improvviso, Stefano un giorno si accorse di essere diventato vecchio,vecchissimo; e nessuno intorno a lui sapeva spiegarsi perché, ricco com’era, nonlasciasse finalmente la dannata vita del mare. Vecchio, e amaramente infelice, perchél’intera esistenza sua era stata spesa in quella specie di pazzesca fuga attraverso imari, per sfuggire al nemico. Ma piú grande che le gioie di una vita agiata e tranquillaera stata per lui sempre la tentazione dell'abisso.E una sera, mentre la sua magnifica nave era ancorata al largo dei porto dove era nato,si sentì prossimo a morire. Allora chiamò il secondo ufficiale, di cui aveva grandefiducia, e gli ingiunse di non opporsi a ciò che egli stava per fare. L'altro, sull'onore,promise.Avuta questa assicurazione, Stefano, al secondo ufficiale che lo ascoltava sgomento,rivelò la storia del colombre, che aveva continuato a inseguirlo per quasi cinquant'anni,inutilmente.« Mi ha scortato da un capo all'altro del mondo » disse « con una fedeltà che neppure ilpiú nobile amico avrebbe potuto dimostrare. Adesso io sto per morire. Anche lui,ormai, sarà terribilmente vecchio e stanco. Non posso tradirlo. »Ciò detto, prese commiato, fece calare in mare un barchino e vi sali, dopo essersi fattodare un arpione. « Ora gli vado incontro » annunciò. « E’ giusto che non lo deluda. Malotterò, con le mie ultime forze. » A stanchi colpi di remi, si allontanò da bordo. Ufficialie marinai lo videro scomparire laggiú, sul placido mare, avvolto dalle ombre della notte.C'era in cielo una falce di luna.Non dovette faticare molto. All'im'provviso il muso orribile del colombre emerse difianco alla barca.« Eccomi a te, finalmente » disse Stefano. « Adesso, a noi due! » E, raccogliendo lesuperstiti energie, alzò l'arpione per colpire.« Uh » mugolò con voce supplichevole il colombre « che lunga strada per trovarti.Anch'io sono distrutto dalla fatica. Quanto mi hai fatto nuotare. E tu fuggivi, fuggivi. Enon hai mai capito niente. » « Perché? » fece Stefano, punto sul vivo. « Perché non tiho inseguito attraverso il mondo per divorarti, come pensavi. Dal re del mare avevoavuto soltanto l'incarico di consegnarti questo. » E lo squalo trasse fuori la lingua,porgendo al vecchio capitano una piccola sfera fosforescente.Stefano la prese fra le dita e guardò. Era una perla di grandezza spropositata. E luiriconobbe la famosa Perla del Mare che dà, a chi la possiede, fortuna, potenza, amore,e pace dell'animo. Ma era ormai troppo tardi.« Ahimè! » disse scuotendo tristemente il capo.

«Come è tutto sbagliato. Io sono riuscito a dannare la mia esistenza: e ho rovinato latua.»« Addio, pover'uomo » rispose il colombre. E sprofondò nelle acque nere per sempre.

Due mesi dopo, spinto dalla risacca, un barchino approdò a una dirupata scogliera. Fuavvistato da alcuni pescatori che, incuriositi, si avvicinarono. Sul barchino, ancoraseduto, stava un bianco scheletro: e fra le ossicine delle dita stringeva un piccolo sassorotondo.Il colombre è un pesce di grandi dimensioni, spaventoso a vedersi, estremamente raro.A seconda dei mari, e delle genti che ne abitano le rive, viene anche chiamatokolomber, kahloubrha, kalonga, kalu-balu, chalung-gra. I naturalisti stranamente loignorano. Qualcuno perfino sostiene che non esiste.

L'ORFANO, di Guy De Maupassant Mademoiselle Source aveva adottato quel ragazzo molto tempo addietro, in circostanze assai tristi. Aveva allora trentasei anni, e a causa della sua deformità (da bambina era scivolata dalle ginocchia della domestica nel caminetto, e il viso, orrendamente ustionato, faceva paura a guardarlo) aveva deciso di non maritarsi, giacché non voleva essere sposata per il suo denaro. Una vicina, rimasta vedova mentre era incinta, morì di parto senza lasciare un soldo. Mademoiselle Source raccolse il neonato, lo diede a balia, l'allevò, lo mandò in collegio, poi lo riprese con sé all'età di quattordici anni, per avere nella casa vuota qualcuno che le volesse bene, che si prendesse cura di lei, che le addolcisse la vecchiaia. Abitava in una piccola proprietà di campagna a quattro leghe da Rennes, ed ora viveva senza domestica. Con l'arrivo dell'orfano le spese erano aumentate più del doppio, e i suoi tremila franchi di rendita non potevano più bastare per tre persone. Accudiva lei stessa alle faccende di casa e alla cucina, e delle commissioni incaricava il piccolo, che si occupava anche di coltivare l'orto. Il ragazzo era dolce, timido, silenzioso ed affettuoso. Ella provava una gioia profonda, una gioia nuova ad essere abbracciata da lui, senza vederlo sorpreso o spaventato della sua bruttezza. La chiamava zia e la trattava come una madre. La sera sedevano insieme accanto al fuoco, ed ella gli preparava qualche ghiottoneria. Faceva scaldare un po' di vino e abbrustolire una fetta di pane, insieme si gustavano un delizioso spuntino prima d'andare a letto. Spesso lo prendeva sulle ginocchia e lo ricopriva di carezze sussurrandogli parole teneramente appassionate. Lo chiamava :- Fiorellino mio, mio cherubino, angelo dorato, mio tesoro -. Egli la lasciava fare dolcemente, nascondendo la testa sulla spalla della zitella. Sebbene fosse ora vicino ai quindici anni, era rimasto gracile e mingherlino, con un'aria un po' malaticcia. Talvolta Mademoiselle Source lo conduceva con sé in città a trovare due sue lontane cugine, maritate in un sobborgo: le sole parenti che avesse. Le due donne le serbavano sempre rancore perché aveva adottato quel bimbo, per via dell'eredità: ma la ricevevano lo stesso con premura, sperando ancora nella loro parte, un terzo probabilmente, se la successione veniva divisa in parti uguali. Ella era felice, molto felice, continuamente assorbita dal suo ragazzo. Gli comprò dei libri per coltivargli la mente, ed egli cominciò a leggere con avidità. La sera, ora, non le saliva più sulle ginocchia per accarezzarla come faceva una volta: ma sedeva in fretta sulla sua seggiolina accanto al caminetto, e apriva un volume. La lampada che stava sulla mensola del caminetto, sopra la sua testa, gli illuminava i capelli ricciuti e una parte della fronte; non si muoveva più, non alzava gli occhi, non faceva un gesto: leggeva, immerso, interamente assorto nell'avventura del libro. Seduta di fronte a lui, la zitella lo contemplava con uno sguardo ardente e fisso, stupita della sua attenzione, gelosa, spesso sul punto di piangere. Ogni tanto gli diceva :- Ti stancherai, tesoro mio! - sperando ch'egli sollevasse la testa e andasse ad abbracciarla; ma egli non rispondeva neppure, non aveva udito, non aveva capito: non esisteva nulla per lui all'infuori di ciò che vedeva in quelle pagine. Per due anni divorò un numero incalcolabile di volumi. Il suo carattere cambiò. Da allora chiese più volte a Mademoiselle Source del denaro, ed ella glielo diede; ma siccome ne chiedeva sempre di più, finì per rifiutarglielo, perché era di natura ordinata ed energica, e sapeva essere ragionevole quand'era necessario. A forza di suppliche egli ottenne ancora, una sera, una forte somma; ma quando la implorò di nuovo, non cedette più. Lui parve rassegnarsi. Tornò tranquillo come un tempo, contento di stare seduto per ore intere senza fare un movimento, con gli occhi bassi, immerso nelle fantasticherie. Non parlava più nemmeno con Mademoiselle Source, rispondeva appena a ciò ch'ella gli diceva, con frasi brevi e precise. Era gentile con lei, tuttavia, e pieno di premure; ma non l'abbracciava più, mai. La sera, ora, quando sedevano di fronte ai due lati del caminetto, immobili e silenziosi, a volte le faceva paura. Voleva scuoterlo, dire qualcosa, qualunque cosa, pur di uscire da quel silenzio angoscioso come le tenebre d'un bosco. Ma il ragazzo non pareva più udirla, ed ella tremava col terrore d'una povera donna debole, quando gli rivolgeva la parola cinque o sei volte di seguito senza ottenere una risposta. Che aveva? Se le accadeva di esprimere un desiderio, egli lo eseguiva senza borbottare. Se aveva bisogno di qualcosa in città, vi si recava subito. Non poteva lamentarsi di lui, non davvero! Eppure... Un altro anno trascorso, e un nuovo mutamento parve compiersi nella mente misteriosa del giovane. Ella se ne accorse, lo sentì, lo indovinò. Come? Non importa! Era certa di non essersi ingannata; ma non avrebbe potuto dire in che cosa i pensieri sconosciuti di quello strano ragazzo fossero mutati. Le pareva che

egli fosse stato fino allora come un uomo esitante, e ad un tratto avesse preso una decisione. Quest'idea le venne una sera incontrando il suo sguardo fisso, singolare, ch'ella non conosceva. Da quel momento cominciò a osservarla continuamente, ed ella aveva voglia di nascondersi per evitare quell'occhio freddo, fisso su di lei. La fissava per serate intere, distogliendo lo sguardo solo quand'ella diceva, all'estremo delle forze :- Non guardarmi a quel modo, ragazzo mio! -. Allora chinava la testa. Ma non appena aveva voltato le spalle, ella si sentiva di nuovo l'occhio di lui addosso. Ovunque andasse, lo sguardo di lui la seguiva ostinato. A volte, mentre passeggiava nel giardinetto, ella lo scorgeva a un tratto accovacciato in un cespuglio come se stesse in agguato; oppure, quando sedeva davanti alla casa a rammendare le calze, e lui vangava un campicello di legumi, la spiava, pur continuando a lavorare, in modo sornione e continuo. Aveva un bel chiedergli: - Che hai, bambino mio? Da tre anni sei così cambiato. Non ti riconosco più. Dimmi che cos'hai, che cosa pensi, te ne supplico -. Con un tono calmo e infastidito, egli rispondeva invariabilmente: - Ma non ho niente, zia! -. E quand'ella insisteva, supplicando :- Figlio mio, rispondimi, rispondimi quando ti parlo. Se sapessi il dolore che mi dai, mi risponderesti sempre e non mi guarderesti a quel modo. Hai qualche dispiacere? Dimmelo, ti consolerò... -. Egli si allontanava con aria stanca mormorando: - Ma t'assicuro che non ho nulla -. Non era molto cresciuto, aveva l'aspetto d'un ragazzo, sebbene i tratti del viso fossero d'un uomo. Erano tratti duri e tuttavia non ancora formati. Sembrava incompleto, mal sviluppato, solo abbozzato, e inquietante come un mistero. Era un essere chiuso impenetrabile, in cui pareva svolgersi un incessante lavorio mentale, attivo e pericoloso. Tutto ciò non sfuggiva a Mademoiselle Source, che non dormiva più per l'angoscia. L'assalivano dei terrori orribili, degli incubi spaventosi. Si chiudeva in camera e barricava la porta, torturata dallo spavento! Di che aveva paura? Non lo sapeva. Paura di tutto, della notte, dei muri, delle forme che la luna proiettava attraverso le tende bianche della finestra, e paura di lui soprattutto! Perché? Che cosa temeva? Come saperlo!... Non poteva più vivere a quel modo! Era certa d'essere minacciata da una disgrazia, da una sciagura orribile. Una mattina partì di nascosto e si recò in città dalle sue parenti. Con voce ansante raccontò loro ogni cosa. Le due donne pensarono che stesse diventando matta, e cercarono di rassicurarla. La zitella diceva :- Se sapeste come mi guarda dalla mattina alla sera! Non mi leva mai gli occhi di dosso! In certi momenti mi viene voglia di gridare aiuto, di chiamare i vicini, tanta è la paura! Ma che cosa poter dire? Non fa altro che guardarmi -. Le due cugine chiedevano :- Forse qualche volta è brutale, vi risponde con durezza? -. Ella rispondeva :- No, mai; fa tutto quel che voglio; lavora bene, ha messo giudizio, ormai; ma io non resisto dalla paura. Ha qualcosa in mente, ne sono sicura, sicurissima. Non voglio più restare così sola con lui in mezzo alla campagna -. Le parenti, smarrite, osservarono che la gente si sarebbe meravigliata, non avrebbe capito; e le consigliarono di tacere i suoi timori e i suoi progetti, senza dissuaderla tuttavia dall'andare ad abitare in città, sperando in un ritorno dell'intera successione. Le promisero anche d'aiutarla a vendere la sua casa e a trovarne un'altra vicino a loro. Mademoidelle Source ritornò a casa. Ma la sua mente era così agitata che trasaliva al minimo rumore, e le sue mani si mettevano a tremare alla più piccola emozione. Due volte ancora tornò a consultarsi con le parenti, ben decisa ormai a non restare più in quella sua casa isolata. Infine trovò nel sobborgo una villetta adatta a lei e la comprò in segreto. La firma del contratto avvenne un Martedì mattina e Mademoiselle Source occupò il resto della giornata a fare i preparativi per il trasloco. Alle otto di sera riprese la diligenza, che passava a un chilometro da casa sua; e si fece lasciare nel punto in cui il conducente aveva l'abitudine di farla scendere. L'uomo frustò i cavalli e le gridò :- Buonasera. Mademoiselle Source, buonanotte! -. Ella rispose allontanandosi :- Buonasera, Joseph.-. L'indomani, alle sette e trenta del mattino, il postino che porta le lettere al villaggio notò sulla scorciatoia, non lontano dalla strada maestra, una grande pozza di sangue ancora fresco. Si disse :- Guarda un po'! Un ubriaco ha perduto sangue dal naso -. Ma dieci passi più aventi scorse un fazzoletto pure macchiato di sangue. Lo raccolse. Il tessuto era fine, e il postino, sorpreso, s'avvicinò al fosso dove credette di scorgere un oggetto strano. Mademoiselle Source era sdraiata sull'erba del fondo, con la gola squarciata da una coltellata. Un'ora dopo i gendarmi, il giudice istruttore e parecchie autorità facevano le loro

congetture attorno al cadavere. Le due parenti, chiamate a testimoniare, raccontarono i timori della zitella, e i suoi ultimi progetti. L'orfano fu arrestato. Dopo la morte di colei che l'aveva adottato, piangeva da mattina a sera, immerso, almeno in apparenza, nel più violento dolore. Provò che aveva passato la serata, fino alle undici, in un caffè. Dieci persone l'avevano visto, erano rimaste nel locale fino a che lui se n'era andato. Ora il vetturino della diligenza dichiarò di aver lasciato sulla strada l'assassinata fra le nove e mezzo e le dieci. Il delitto non poteva aver avuto luogo che durante il tragitto della strada maestra a casa, al più tardi verso le dieci. L'accusato fu assolto. Un testamento, di vecchia data, depositato presso un notaio di Rennes, lo nominava legatario universale; ereditò. Per molto tempo la gente del luogo lo tenne in quarantena, sospettandolo sempre. La sua casa, quella della morta, era considerata maledetta. Per la strada lo evitavano. Ma egli si dimostrò un così bravo ragazzo, così aperto, così alla mano, che a poco a poco tutti dimenticarono l'orribile dubbio. Era generoso, premuroso, si fermava a parlare di tutto con i più umili, quanto a loro piacesse. Il notaio Rameau fu uno dei primi a ricredersi sul suo conto, sedotto dalla sua sorridente loquacità. Una sera, durante un pranzo in casa dell'esattore, dichiarò :- Un uomo che parla con tanta facilità e che è sempre di buon umore non può avere un simile delitto sulla coscienza -. Colpiti da questo argomento, i presenti rifletterono, e ricordarono infatti le lunghe conversazioni di quell'uomo che li fermava, quasi per forza, all'angolo delle vie, per comunicare le proprie idee, che li costringeva a entrare in casa sua quando passavano davanti al suo giardino, che aveva battute più spiritose di quelle dello stesso tenente di polizia, e l'allegria così comunicativa che nonostante la ripugnanza che ispirava, in sua compagnia non si poteva fare a meno di ridere. Tutte le porte si aprirono per lui. Oggi è sindaco del comune.

 

Italo Calvino    Furto in una pasticceria    Il Dritto arrivò al posto convenuto e gli altri  lo  stavano aspettando già da un po’. C’erano  tutt’e due: Gesubambino e Uora‐uora. C’era  tanto silenzio che dalla via si sentivano  suonare  gli  orologi  nelle  case:  due  colpi,  bisognava  sbrigarsi  se  non  si voleva farsi cogliere dall’alba. ‐ Andiamo, ‐ disse il Dritto. ‐ Dov’è? ‐ chiesero. Il Dritto è uno che non spiega mai il colpo che ha intenzione di fare. ‐ Ora ci andiamo, ‐ rispose. E  camminava  in  silenzio  per  le  vie  vuote  come  fiumi  in  secca,  con  la  luna  che  li seguiva  lungo i  fili dei tram,  il Dritto avanti con quei suoi occhi gialli mai  fermi, e quel suo movimento alle narici che sembra che fiuti. Gesubambino lo chiamano così perché ha la testa grossa da neonato e il corpo tozzo; forse anche perché ha i capelli tagliati corti e un bel faccino coi baffetti neri. É tutto muscoli e si muove soffice che sembra un gatto; per arrampicarsi e raggomitolarsi non c’è nessuno come lui e quando il Dritto lo porta con sé c’è sempre una ragione. ‐ Sarà un buon colpo, Dritto? ‐ chiese Gesubambino. ‐ Se si fa, ‐ disse il Dritto, una risposta che non voleva dir niente. Ma intanto, per dei giri che sapeva solo lui, li aveva fatti scantonare in un cortile. I due  capirono  che  c’era  da  lavorare  in  un  retrobottega  e Uora‐uora  si  fece  avanti perché non voleva  fare  il palo.  Il destino di Uora‐uora è  fare  il palo;  il  suo  sogno sarebbe di entrare nelle case, frugare, riempirsi le tasche come gli altri, ma gli tocca sempre di  fare  il  palo  nelle  strade  fredde,  nel  pericolo  delle  pattuglie,  battendo  i denti  perché  non  gelino  e  fumando  per  darsi  un  contegno.  É  un  siciliano allampanato, Uora‐uora, con una faccia triste da mulatto e i polsi che gli sporgono dalle maniche. Quando c’è un colpo da fare si veste tutto elegante, non si sa perché: col  cappello,  la  cravatta  e  l’impermeabile,  e  se  c’è  da  scappare  si  prende  le  falde dell’impermeabile in mano che sembra voglia aprire le ali. ‐  A  fare  il  palo,  Uora‐uora,  ‐  disse  il  Dritto,  muovendo  le  narici.  Uora‐uora s’allontanò mogio: sapeva che il Dritto può continuare a muovere le narici sempre più svelto, ma a un certo punto smette e tira fuori la rivoltella. 

 

‐  Lì,  ‐  disse  il  Dritto  a  Gesubambino.  C’era  una  finestrella  alta  da  terra,  con  un cartone al posto del vetro sinistrato. ‐ Tu monti, entri e mi apri, ‐ disse. ‐ Bada a non accendere le luci che di fuori si vede. Gesubambino si tirò su come una scimmia per il muro liscio, sfondò il cartone senza rumore e mise la testa dentro. Fin allora non s’era accorto dell’odore: respirò e gli salì alle narici una nuvola di quel profumo caratteristico dei dolci. Più che un senso d’ingordigia provò una trepida commozione, un senso di remota tenerezza. «Ci devono essere dei dolci, qua dentro», pensò. Erano anni che non mangiava un po’ di dolci come si deve, forse da prima della guerra. Avrebbe frugato dappertutto finché non avesse trovato i dolci; sicuro. Si calò giù, nel buio; diede un calcio a un telefono,  una  scopa  gli  s’infilò  nei  pantaloni,  poi  fu  a  terra.  L’odore  di  dolci  era sempre più forte ma non si capiva da che parte venisse. «Ci devono essere molti dolci, qui» pensò Gesubambino. Allungò una mano, cercando d’ambientarsi nel buio per raggiungere la porticina e aprire  al  Dritto.  Subito  ritirò  la  mano,  con  schifo:  ci  doveva  essere  una  bestia davanti a lui, una bestia marina, forse, molle e vischiosa. Rimase con la mano in aria, una mano diventata appiccicaticcia, umida, come coperta di lebbra. Tra le dita sentì che gli era spuntato un corpo tondo, un’escrescenza, forse un bubbone. Sbarrava gli occhi nel buio ma non vedeva nulla, nemmeno a mettere la mano sotto il naso. Non vedeva nulla ma odorava: allora rise. Capì che aveva toccato una torta e sulla mano aveva crema e una ciliegia candita. Cominciò a  leccarsi  la mano, subito, e con l’altra continuava a brancolare  intorno. Toccò  un  qualcosa  di  solido  ma  soffice,  con  un  velo  granuloso  in  superficie:  un crafen! Sempre brancolando, se  lo  ficcò  in bocca  intero. Diede un piccolo grido di sorpresa,  scoprendo  che  aveva  la marmellata  dentro.  Era  un  posto  bellissimo:  in qualsiasi  direzione  s’allungasse  la  mano,  nel  buio,  si  trovavano  nuove  specie  di dolciumi. Si  sentì  bussare  a  una  porta,  poco  distante,  con  impazienza:  era  il  Dritto  che aspettava  gli  si  aprisse.  Gesubambino  si  diresse  verso  il  rumore  e  le  sue  mani urtarono  prima  in  meringhe,  poi  in  croccanti.  Aprì.  La  lampadina  tascabile  del Dritto gli illuminò la faccia coi baffetti già bianchi di crema. ‐ C’è pieno di dolci, qui! ‐ disse Gesubambino come se l’altro non lo sapesse. ‐ Non è tempo di dolci, ‐ fece il Dritto, scansandolo, ‐ non c’è tempo da perdere ‐. E andò  avanti  rimestando  nel  buio  col  bastone  di  luce  della  lampadina.  E  in  ogni punto che illuminava scopriva file di scaffali e sopra gli scaffali file di vassoi e sopra i vassoi  file di paste allineate di  tutte  le  forme e di  tutti  i colori e  torte cariche di 

 

creme che stillavano come cera da candele accese, e batterie schierate di panettoni e muniti castelli di torroni. Allora  uno  sgomento  terribile  s’impadronì  di  Gesubambino:  lo  sgomento  di  non avere il tempo di saziarsi, di dover scappare prima d’aver assaggiato tutte le qualità di dolci, d’avere sottomano tutta quella cuccagna solo per pochi minuti in vita sua. E  più  dolci  scopriva  più  il  suo  sgomento  aumentava,  e  ogni  nuovo  andito,  ogni nuova prospettiva  del  negozio  che  appariva  illuminata  dalla  pila  del Dritto,  gli  si parava dinanzi come per chiudergli ogni strada. Si buttò sugli scaffali ingozzandosi di paste, cacciandone in bocca due, tre per volta, senza nemmeno sentirne il sapore, sembrava lottasse con i dolci, minacciosi nemici, strani mostri che lo stringevano d’assedio, un assedio croccante e sciropposo in cui doveva  aprirsi  il  varco  a  forza  di mandibole.  I  panettoni mezzo  tagliati  aprivano fauci  gialle  e  occhiute  contro  di  lui,  strane  ciambelle  sbocciavano  come  fiori  di piante  carnivore;  Gesubambino  ebbe per un momento  la  sensazione  che  sarebbe stato lui a esser divorato dai dolci. Il Dritto lo tirava per un braccio. ‐ La cassa,  ‐ disse,  ‐ dobbiamo prendere  la cassa. Ma  intanto, passando, si  ficcò  in bocca un pezzo di pandispagna multicolore, e poi la ciliegina d’una torta, e poi una “brioche”,  sempre  con  fretta,  cercando  di  non  distrarsi  dal  suo  compito.  Aveva spento la pila. ‐ Di fuori ci vedono come vogliono, ‐ disse. Erano arrivati nel  locale della pasticceria,  con  le bacheche di  vetro e  i  tavolini  di marmo. C’era la luce notturna della strada, perché le saracinesche erano a griglia e fuori si vedevano le case e gli alberi, con uno strano gioco d’ombre. Ora bisognava forzare la cassa. ‐ Tieni qua, ‐ disse il Dritto a Gesubambino dandogli la pila da reggere verso il basso perché non si vedesse da fuori. Ma  Gesubambino  con  una  mano  teneva  la  pila  e  con  l’altra  annaspava  intorno. Afferrò  un  plum­cake  intero  e  mentre  il  Dritto  s’affannava  coi  suoi  ferri  alla serratura, cominciò a morsicarlo come fosse pane. Se ne stufò presto e lo lasciò sul marmo mezzo mangiato. ‐ Leva di lì! Guarda che porcaio fai! ‐ gli gridò a denti stretti il Dritto, che malgrado il suo mestiere aveva uno strano amore per il lavoro ordinato. Poi non resistette alla tentazione  e  si  mise  due  biscotti  in  bocca,  di  quelli  mezzo  savoiardi  mezzo  di cioccolato, sempre senza smettere di lavorare. Ma Gesubambino, per avere le mani libere, aveva costruito una specie di paralume con pezzi di torrone e tovagliette da vassoio. Aveva visto certe torte con la scritta 

 

“buon onomastico”. Ci si aggirò intorno, studiando il piano d’attacco: prima le passò in rassegna con il dito e leccò un po’ di crema al cioccolato, poi ci affondò la faccia dentro cominciando a morderle dal centro una per una. Ma gli restava una smania che non sapeva come soddisfare, non riusciva a trovare il modo per goderle del tutto. Ora era carponi sul tavolo, con le  torte sotto di sé: gli sarebbe piaciuto  spogliarsi  e  coricarsi  nudo  sopra quelle  torte,  rivoltarcisi  sopra, non doversene staccare mai. Di lì a cinque, dieci minuti, invece, tutto sarebbe finito: per tutta la vita  le pasticcerie sarebbero tornate proibite per lui, come quando da bambino  schiacciava  il  naso  contro  le  vetrine.  Almeno  ci  si  potesse  fermare  tre, quattro ore... ‐ Dritto! ‐ fece. ‐ Se ce ne stiamo qui nascosti fino all’alba, chi ci vede? ‐ Non  fare  lo  scemo,  ‐  disse  il Dritto  che  era  riuscito  a  forzare  il  cassetto  e  stava frugando tra i biglietti. ‐ Qui bisogna portare via i piedi prima che arrivi la Celere. Proprio  in  quel momento  si  sentì  picchiare  alla  vetrina.  Nella  mezzaluna  si  vide Uora‐uora che bussava attraverso  la griglia della saracinesca e  faceva gesti.  I due nella  bottega  ebbero  un  balzo  ma  Uora‐uora  faceva  segno  di  star  calmi,  e  a Gesubambino  di  venire  al  suo  posto,  che  lui  sarebbe  venuto  lì.  Gli  altri  gli mostrarono  i pugni  e  i denti,  e  fecero  segno di  togliersi da davanti  al negozio,  se non gli dava di volta il cervello. Intanto  il Dritto  aveva  scoperto  che  in  cassa  c’erano  solo poche migliaia di  lire  e sacramentava,  e  se  la  pigliava  con  Gesubambino  che  non  lo  voleva  aiutare. Gesubambino  sembrava  fuori  di  sé:  addentava  strudel,  piluccava  zibibbi,  leccava sciroppi,  imbrattandosi  e  lasciando  rimasugli  sui  vetri  delle  bacheche.  Aveva scoperto che non aveva più voglia di dolci, anzi sentiva la nausea salirgli su per le volute  dello  stomaco,  ma  non  voleva  cedere,  non  poteva  arrendersi  ancora.  E  i crafen diventarono pezzi di spugna, le omelette rotoli di carta moschicida, le torte colarono  vischio  e  bitume.  Egli  vedeva  solo  cadaveri  di  dolci,  che  putrefacevano stesi  sui  bianchi  loro  sudari,  o  che  si  disfacevano  in  torbida  colla  dentro  il  suo stomaco. Il  Dritto  prese  a  imbestialirsi  contro  la  serratura  d’un  altro  cassetto,  dimentico ormai  dei  dolci  e  della  fame.  Fu  allora  che  dal  retrobottega  entrò  Uora‐uora bestemmiando in siciliano che nessuno lo capiva. ‐ La Celere? ‐ chiesero gli altri due, già pallidi. ‐ Il cambio! Il cambio! ‐ gemeva Uora‐uora nel suo dialetto, e s’affaticava a spiegare a  furia  di  parole  in  “u”  l’ingiustizia  di  lui  digiuno  nel  freddo  mentre  loro s’ingozzavano di dolci. 

 

‐ Va’ a fare il palo! Va’ a fare il palo! ‐ gli gridava Gesubambino con rabbia; la rabbia d’essere già sazio che lo faceva ancor più egoista e cattivo. Il  Dritto  capiva  che  dare  il  cambio  a  Uora‐uora  sarebbe  stato  più  che  giusto, ma capiva anche che Gesubambino non si sarebbe lasciato convincere così facilmente, e  senza  palo  non  si  poteva  restare.  Perciò  tirò  fuori  la  rivoltella  e  la  puntò  su Uora‐uora. ‐ Subito al tuo posto, Uora‐uora, ‐ disse. Disperato, Uora‐uora pensò di far la sua provvista prima d’andarsene, e si radunò un mucchietto d’amaretti coi pinoli nelle grandi mani. ‐ E se ti pescano coi dolci in mano, scemo, cosa gli racconti, ‐ inveì ancora il Dritto. ‐ Lascia lì tutto e fila. Uora‐uora  piangeva.  Gesubambino  sentì  d’odiarlo.  Sollevò  una  torta  col  «buon compleanno» e gliela tirò in faccia. Uora‐uora avrebbe potuto benissimo schivarla, invece  sporse  la  faccia  in  avanti  per  pigliarla  in  pieno,  poi  rise,  con  la  faccia,  il cappello,  la  cravatta  impiastricciati  di  torta,  e  scappò via dandosi  linguate  fin  sul naso e sugli zigomi. Alla  fine  il  Dritto  era  riuscito  a  forzare  il  cassetto  buono  e  stava  intascando banconote, imprecando perché gli si appiccicavano alle dita sporche di marmellata. ‐ Dài, Gesubambino, è ora d’andarcene, ‐ disse. Ma  per  Gesubambino  tutto  non  poteva  finire  così:  quella  doveva  essere  una mangiata da raccontare per anni ai compagni e a Mary la Toscana. Mary la Toscana era l’amante di Gesubambino: aveva delle gambe lunghe e lisce e un corpo e un viso quasi equini. Gesubambino le piaceva perché si raggomitolava e s’arrampicava sul suo corpo come un grosso gatto. La seconda entrata di Uora‐uora interruppe il corso di questi pensieri. Il Dritto tirò fuori  la  rivoltella,  subito,  ma  Uora‐uora  disse:  ‐  La  Celere!  ‐  e  scappò  di  corsa, svolazzando  con  le  falde  dell’impermeabile  in  mano.  Il  Dritto,  raccolti  gli  ultimi biglietti, fu in due salti alla porta; e Gesubambino dietro. Gesubambino  stava  pensando  a  Mary:  solo  allora  s’era  ricordato  che  poteva portarle delle paste, che non  le  faceva mai regali, che  forse  lei ci avrebbe fatto su una  scena.  Tornò  indietro,  arraffò  dei  cannoli,  se  lì  ficcò  sotto  la  camicia,  poi rapidamente pensò che aveva scelto le paste più fragili, ne cercò delle più solide e se  ne  infarcì  il  seno.  In  quella  vide  le  ombre  dei  poliziotti  sulla  vetrina  che s’agitavano e indicavano qualcuno in fondo alla via; e uno puntò un’arma in quella direzione e sparò. Gesubambino s’acquattò dietro a un banco. Non dovevano aver colpito il bersaglio: ora  facevano gesti di dispetto e guardavano dentro. Poco dopo sentì che avevano 

 

scoperto  la  porticina  aperta,  e  che  entravano.  La  bottega  fu  piena  di  poliziotti armati. Gesubambino stava aggomitolato, ma intanto, scoperta della frutta candita a portata delle sue braccia, per tenersi calmo s’ingozzava di cedri e bergamotti. Quelli della Celere constatavano  il  furto e  le  tracce della mangiata sugli scaffali. E così, distrattamente, cominciarono a portarsi alla bocca qualche pasticcino rimasto sbandato,  badando  bene  a  non  confondere  le  tracce.  Dopo  qualche  minuto, infervorati alla ricerca dei corpi del reato, erano tutti lì che mangiavano a quattro palmenti. Gesubambino  masticava,  ma  gli  altri  masticavano  più  forte  di  lui  e  coprivano  il rumore. E sentiva un denso liquefarsi tra pelle e camicia, e la nausea salirgli per lo stomaco. S’era tanto stordito a furia di canditi che tardò un po’ ad accorgersi che la via della porta era  libera. Quelli della Celere dissero poi d’aver visto una scimmia col  muso  impiastricciato,  che  traversava  a  salti  la  bottega,  rovesciando  vassoi  e torte. E prima che si fossero riavuti dallo stupore e spiccicate le torte di sotto i piedi lui s’era già messo in salvo. Da  Mary  la  Toscana  quando  aprì  la  camicia  si  trovò  col  petto  ricoperto  da  uno strano  impasto. E  rimasero  fino al mattino,  lui  e  lei,  sdraiati  sul  letto  a  leccarsi  e piluccarsi fino all’ultima briciola e all’ultimo rimasuglio di crema.  Da: Italo Calvino, Ultimo viene il Corvo, Einaudi, Torino, 1994.   

Dino Buzzati, IL MANTELLO

Dopo un’interminabile attesa, quando la speranza già cominciava a morire, Giovanni ritornò alla sua casa. Non erano ancora suonate le due, sua mamma stava sparecchiando, era una giornata grigia di marzo e volavano cornacchie. Egli comparve improvvisamente sulla soglia e la mamma gridò: “Oh benedetto! ” correndo ad abbracciarlo. Anche Anna e Pietro, i due fratellini molto più giovani, si misero a gridare di gioia. Ecco il momento aspettato per mesi e mesi, così spesso balenato nei dolci sogni dell’alba, che doveva riportare la felicità. Egli non disse quasi parola, gli costava troppa fatica trattenere il pianto. Aveva subito deposto la pesante sciabola su una sedia, in testa portava ancora il berretto di pelo. “Lasciati vedere” diceva tra le lacrime la madre, tirandosi un po’ indietro, “Lasciati vedere quanto sei bello. Però sei pallido, sei. “. Era alquanto pallido, infatti, e come sfinito. Si tolse il berretto, avanzò in mezzo alla stanza e si sedette. Che stanco, che stanco, perfino a sorridere sembrava facesse fatica. “Ma togliti il mantello, creatura” disse la mamma, e lo guardava come un prodigio, sul punto di esserne intimidita; com’era diventato alto, bello fiero (anche se un po’ troppo pallido). “Togliti il mantello, dammelo qui, non senti che caldo? “. Lui ebbe un brusco movimento di difesa, istintivo, serrandosi addosso il mantello, per timore forse che glielo strappassero via. “No, no, lasciami” rispose evasivo, “preferisco di no, tanto tra poco devo uscire… “. “Devi uscire? Torni dopo due anni e vuoi subito uscire? ” fece lei desolata, vedendo subito ricominciare, dopo tanta gioia, l’eterna pena delle madri; “Devi uscire subito? E non mangi qualcosa? “. “Ho già mangiato, mamma. ” rispose il figlio con un sorriso buono, e si guardava attorno assaporando le amate penombre. “Ci siamo fermati ad un’osteria, qualche chilometro da qui… “. “Ah, non sei venuto solo? E chi c’è con te? Un compagno di reggimento? Il figlio della Mena, forse? “. “No, no, era uno che ho incontrato per via. È fuori che aspetta adesso. “. “È lì che aspetta? E non l’hai fatto entrare? L’hai lasciato in mezzo alla strada? “. Andò alla finestra e attraverso l’orto, di là del cancelletto di legno, scorse sulla via una figura che camminava su e giù lentamente; era tutta intabarrata e dava la sensazione di nero. Allora nell’animo di lei nacque, incomprensibile, in mezzo ai turbini della grandissima gioia, una pena misteriosa ed acuta. “È meglio di no. ” rispose lui, deciso. “Per lui sarebbe una seccatura, è un tipo così.” “Ma un bicchiere di vino? Glielo possiamo portare, no, un bicchiere di vino?” “Meglio di no, mamma. È un tipo curioso, capace di andar su tutte le furie.” “Ma chi è, allora? Perché ti ci sei messo assieme? Che cosa vuole da te?” “Bene non lo conosco” disse lui lentamente e assai grave, “L’ho incontrato durante il viaggio. È venuto con me, ecco. 2. Sembrava preferisse parlar d’altro, sembrava se ne vergognasse. E la mamma, per non contrariarlo, cambiò immediatamente discorso, ma già si spegneva nel suo volto amabile la luce di prima. “Senti” disse, “ti figuri la Marietta quando saprà che sei tornato? Te l’immagini che salti di gioia? È per lei che volevi uscire? “. Egli sorrise soltanto, sempre con quell’espressione di chi vorrebbe esser lieto eppure non può, per qualche segreto peso. La mamma non riusciva a capire: perché se ne stava seduto, quasi triste, come il giorno lontano della partenza? Ormai era tornato, una vita nuova davanti, un’infinità di giorni disponibili senza pensieri, tante belle serate insieme, una fila inesauribile che si perdeva di là delle montagne, nelle immensità degli anni futuri. Non più le notti d’angoscia quando all’orizzonte spuntavano i bagliori del fuoco e si poteva pensare che anche lui fosse là in mezzo, disteso immobile a terra, il petto trapassato, tra le sanguinose rovine. Era tornato, finalmente, più grande, più bello, e che gioia per la Marietta. Tra poco cominciava la primavera, si sarebbero sposati in chiesa, una domenica mattina, tra il suono di campane e fiori. Perché dunque se ne stava smorto e distratto, non rideva più, perché non raccontava le battaglie? E il mantello? Perché se lo teneva stretto addosso, col caldo che faceva in casa? Forse perché, sotto, l’uniforme era rotta e infangata? Ma con la mamma, come poteva vergognarsi di fronte alla mamma? Le pene sembravano finite, ecco invece subito una nuova inquietudine. Con il dolce viso piegato un po’ da una parte, lo fissavacon ansia, attenta a non contrariarlo, a capire subito

tutti i suoi desideri. O era forse ammalato? O semplicemente sfinito dai troppi strapazzi? Perché non parlava, perché non la guardava nemmeno? In realtà suo figlio non la guardava, egli pareva anzi evitasse di incontrare i suoi sguardi come se temesse qualcosa. E intanto i due piccoli fratelli lo contemplavano muti, con un curioso imbarazzo. “Giovanni” mormorò lei non trattenendosi più, “sei qui finalmente, sei qui finalmente! Aspetta adesso che ti faccio il caffé. “. Si affrettò in cucina. E Giovanni rimase coi due fratellini tanto più giovani di lui. Non si sarebbero neppure riconosciuti se si fossero incontrati per la strada, che cambiamento nello spazio di due anni! Ora si guardavano a vicenda in silenzio, senza trovare le parole, ma ogni tanto sorridevano assieme, tutti e tre, quasi per un antico patto non dimenticato. Ed ecco tornare la mamma, ecco il caffè fumante con una bella fetta di torta. Lui vuotò d’un fiato la tazza, masticò a torta con fatica. “Perché? Non ti piace più? Una volta era la tua passione! ” avrebbe voluto domandargli la mamma, ma tacque per non importunarlo. “Giovanni” gli propose invece, “e non vuoi rivedere la tua camera? C’è un letto nuovo, sai? Ho fatto imbiancare i muri, una lampada nuova, vieni a vedere… ma il mantello, non te lo levi dunque?… Non senti che caldo? “. Il soldato non le rispose ma si alzò dalla sedia dirigendosi verso la stanza vicina. I suoi gesti avevano una specie di pesante lentezza, come s’egli non avesse vent’anni. La mamma era corsa avanti a spalancare le imposte (ma entrò soltanto una luce grigia, priva di qualsiasi allegrezza). “Che bello! ” fece lui con fiacco entusiasmo, come fu sulla soglia, alla vista dei mobili nuovi, delle tendine immacolate, dei muri bianchi, tutto quanto fresco e pulito. Ma, chinandosi la mamma ad aggiustare la coperta del letto, anch’essa nuova fiammante, egli posò lo sguardo sulle sue gracili spalle, sguardo di inesprimibile tristezza e che nessuno poteva vedere. Anna e Pietro infatti stavano dietro di lui, i faccini raggianti, aspettandosi una grande scena di letizia e sorpresa. Invece niente. “Com’è bello! Grazie, sai? Mamma. ” ripeté lui, e fu tutto. Muoveva gli occhi con inquietudine, come chi ha desiderio di concludere un colloquio penoso. Ma soprattutto, ogni tanto, guardava, con evidente preoccupazione, attraverso la finestra, il cancelletto di legno verde dietro il quale una figura andava su e giù lentamente. “Sei contento, Giovanni? Sei contento? ” chiese lei impaziente di vederlo felice. “Oh, sì, è proprio bello. ” rispose il figlio (ma perché si ostinava a non levarsi il mantello? ) e continuava a sorridere con grandissimo sforzo. “Giovanni” supplicò lei “che cos’hai? Che cos’hai, Giovanni? Tu mi tieni nascosta una cosa perché non vuoi dire? “. Egli si morse un labbro, sembrava che qualcosa gli ingorgasse la gola. “Mamma” rispose dopo un po’ con voce opaca “mamma, adesso devo andare. “. “Devi andare? Ma torni subito, no? Vai dalla Marietta, vero? Dimmi la verità, vai dalla Marietta? ” e cercava di scherzare, pur sentendo la pena. “Non so, mamma” rispose lui sempre con quel tono contenuto ed amaro; si avviava intanto alla porta, aveva già ripreso il berretto di pelo, “non so, ma adesso devo andare, c’è quello là che mi aspetta. “. “Ma troni più tardi? Torni? Tra due ore sei qui, vero? Farò venire anche zio Giulio e la zia, figurati che festa anche per loro, cerca di arrivare un po’ prima di pranzo… “. “Mamma” ripeté il figlio, come se la scongiurasse di non dire più, di tacere, per carità, di non aumentare la pena, “devo andare, adesso, c’è quello là che mi aspetta, è stato fin troppo paziente. “. Poi la fissò con uno sguardo da cavare l’anima. Si avvicinò alla porta, i fratellini, ancora festosi, gli si strinsero addosso e Pietro sollevò il lembo del mantello per saper come il fratello fosse vestito sotto. “Pietro, Pietro! ……Su, che cosa fai? Lascia stare, Pietro! ” gridò la mamma, temendo che Giovanni si arrabbiasse. “No, no! ” esclamò pure il soldato, accortosi del gesto del ragazzo. Ma era troppo tardi. I due lembi di panno azzurro si erano dischiusi un istante. “Oh, Giovanni, creatura mia, che cosa ti han fatto? ” balbettò la madre, prendendosi il volto tra le mani. “Giovanni, ma questo è sangue! “.

“Devo andare, mamma” ripeté lui ancora una volta, con disperata fermezza. “L’ho già fatto aspettare abbastanza. Ciao Anna, ciao Pietro, addio mamma. “. Era già alla porta. Uscì come portato dal vento. Attraversò l’orto quasi di corsa, aprì il cancelletto, due cavalli partirono al galoppo, sotto il cielo grigio, non già verso il paese, no, ma attraverso le praterie, su verso il nord, in direzione delle montagne. Galoppavano, galoppavano. E allora la mamma finalmente capì, un vuoto immenso si aprì nel suo cuore. Capì la storia del mantello, la tristezza del figlio e soprattutto chi fosse il misterioso individuo che passeggiava su e giù per la strada, in attesa, chi fosse quel sinistro personaggio, fin troppo paziente. Così misericordioso e paziente da accompagnare Giovanni alla vecchia casa (prima di condurselo via per sempre), affinché potesse salutare la madre; da aspettare diversi minuti fuori del cancello, in piedi, lui signore del mondo, in mezzo alla polvere, come un pezzente affamato.

SEZIONE GRAMMATICA - LESSICO - SINTASSI

1. Evidenzia con colori diversi i nomi, gli articoli, gli aggettivi, i pronomi, i verbi. Avete presente quelle luci che talvolta si vedono brillare sul mare e che vengono chiamate fuochi fatui?

Naturalmente saprete che indicano la presenza dei morti viventi, marinai cristiani naufragati durante assalti

di pirati turchi. Non essendo riusciti a ottenere l’assoluzione dai peccati, le loro anime non trovano la via

per il purgatorio. Sono intrappolati fra i resti delle loro navi sul fondo del mare e non sanno di essere già

morti. Nelle notti come questa quelle anime in pena salgono in superficie. Se per sventura una nave si trova

nei paraggi, i morti viventi salgono a bordo e rubano tutto ciò che trovano: l’ancora, il timone, gli strumenti

del capitano, le cime e persino gli alberi. Ma c’è di peggio, perché hanno anche bisogno di marinai.

Trascinano sul fondo tutti quelli che riescono a catturare perché li aiutino a recuperare le navi e a spingersi

fino a spiagge cristiane.

(I. Allende, Zorro. L’inizio della leggenda, Milano, Feltrinelli, 2005) 2. In ogni frase sottolinea la forma verbale corretta, scegliendo fra quelle proposte tra parentesi. 1. Non avrei mai creduto che tu (eri / fossi) così ingenuo.

2. L’inchiesta ha chiarito che gli autori del furto non (sono / siano) studenti della scuola.

3. Fino a quel momento ho creduto in buona fede che Silvia (aveva / avesse) detto la verità.

4. Persino i bambini sanno che al tempo dei dinosauri l’uomo non (viveva / vivesse) ancora.

5. Anche se i pipistrelli (hanno / abbiano) le ali, sono mammiferi.

3. In ogni frase sottolinea la forma verbale corretta, scegliendo fra quelle proposte tra parentesi. 1. Se tu (avessi / avresti) tempo, ti mostrerei il video delle vacanze.

2. Se ci sbrighiamo, alle cinque (avremo / avremmo) finito.

3. Se ci sbrigassimo, alle cinque (avremo / avremmo) finito.

4. Se gli parlassi tu, forse lo (convincessi / convinceresti).

5. Se (avessi / avrei) frenato, forse avrei evitato l’incidente.

4. In ogni frase sottolinea la forma verbale corretta, scegliendo fra quelle proposte tra parentesi. 1. Mi imbattei in Ludovico proprio mentre (uscivo / uscii) dal cinema.

2. Quando (entravo / entrai), sentii un forte odore di gas.

3. La nonna (piangeva / pianse) sempre nel vedere quelle vecchie fotografie.

4. A sentire quelle frasi sciocche, (scoppiava / scoppiò) a ridere.

5. Indovina che cosa (ho trovato / trovai) riordinando la tua stanza?

5. Sottolinea una volta il predicato, due volte il soggetto. Indica il soggetto sottinteso con un asterisco. 1. In un angolo ombroso del giardino è rimasta della neve.

2. Qui non si vede niente: ci serve una torcia.

3. Nel giro di mezz’ora, la nave affondò.

4. A Pasqua andrò a Parigi con i miei genitori.

5. Il treno è partito in ritardo, ma poi ha recuperato ed è arrivato in orario.

6. Sottolinea una volta le proposizioni principali, due volte le coordinate alla principale. 1. Non solo ho ascoltato attentamente le istruzioni, ma ho anche disegnato una piantina; eppure mi

sono perso lo stesso.

2. Anche se mi piace cucinare, di solito mi accontento di riscaldare un piatto pronto, infatti vivo da solo.

3. Stiamo controllando il sito, perciò nelle prossime ore potranno avvenire interruzioni del servizio.

4. Dopo aver terminato il compito, lo rilesse, corresse qualche parola e lo consegnò.

7. Sottolinea una volta le proposizioni principali, due volte le subordinate. 1. Ripensando a quello che mi hai detto, ho capito di essere stato precipitoso.

2. Se non finiremo entro le sei, la riunione sarà aggiornata a domani.

3. Mentre entravo in cucina, ho sentito odore di gas.

4. Il nuoto è lo sport che ho sempre preferito fin da quando ero bambino.

8. Quale tra le seguenti parole significa “abilità, bravura, prontezza”? Sottolinea.

FAMA - LIZZA - GRANDEZZA - DESTREZZA 9. L’espressione del resto può essere sostituita da ... Sottolinea.

PERALTRO - COMUNQUE - IN REALTÀ - INVECE

10. Nella frase “Carlo se l’è proprio presa con me; infatti da ieri, quando m’incontra, non mi saluta più” il connettivo infatti serve a:

A. □ contraddire quanto detto prima

B. □ circoscrivere quanto detto prima

C. □ spiegare quanto detto prima

D. □ escludere quanto detto prima

11. Le seguenti frasi sono state scritte eliminando gli spazi fra le parole, gli accenti e gli apostrofi. Riscrivile separando le parole e introducendo gli accenti e gli apostrofi dove sono necessari.

1. Nonselelasciatascappare,percheeraunoccasioneunica ______________________________________________________________________________________

2. Ceneunpoancheperme?Ocesoloperte? _______________________________________________________________________________________ 12. In quale delle seguenti frasi la punteggiatura è sbagliata? A. □ L’intensità delle piogge sembra essersi ridotta; l’allarme però è ancora alto, tanto che la Protezione Civile raccomanda la massima attenzione. B. □ Dal corteo, che si snodava pacificamente per le strade della città, si staccarono improvvisamente frange di malintenzionati. C. □ Al concerto c’erano almeno ventimila persone: mai visto un entusiasmo simile! D. □ Ben quattro pianeti importanti, sono nel segno del Capricorno, questa settimana.