Conflittualita Politica in Un Comune Ad Autonomia Limitata-libre

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CONFLITTUALITÀ POLITICA IN UN COMUNE AD ‘AUTONOMIA LIMITATA’. L’ESEMPIO DELLA TORINO SABAUDA ALLA FINE DEL SECOLO XIV Introduzione. - 1. Rapporti di potere fra principe e città. - 2. Elementi di ten- sione tra nobili e popolari. - 3. Le tensioni con le autorità sabaude e i legami di solidarietà tra nobili e Popolo. - 4. Conclusioni. Introduzione Negli ultimi anni, sulla storia della Torino medievale si è scritto mol- to, raggiungendo risultati davvero soddisfacenti. In precedenza, i primi la- vori degli storici piemontesi si sono concentrati – a partire dalle prime trat- tazioni di Luigi Cibrario, Ferdinando Gabotto e Francesco Cognasso – sulla ricostruzione degli avvenimenti che hanno segnato la storia della città in un prospettiva evoluzionista e celebrativa che mirava essenzialmente a leggere la storia di Torino in relazione al ruolo che la città avrebbe assun- to nei secoli successivi. Più rigorosi sono stati i risultati delle ricerche compiute a partire da- gli anni Settanta del Novecento dagli allievi di Giovanni Tabacco. Si tratta di contributi che hanno ricostruito i meccanismi di formazione delle strut- ture del potere nel territorio piemontese 1 ; di studi che hanno posto l’ac- cento sugli equilibri istituzionali che hanno portato Torino ad essere già alla vigilia della dedizione ai Savoia, un « comune ad autonomia limitata » 2 . Lo sviluppo ulteriore di queste ricerche ha trovato una sistemazione defi- 1 Si tratta di studi poi confluiti in ampie rassegne editoriali. A proposito delle struttu- re del potere in Piemonte, si veda Piemonte medievale. Forme del potere e della società. Stu- di per Giovanni Tabacco, Torino 1985. 2 Secondo la felice definizione di G. SERGI, Interazioni politiche verso un equilibrio isti- tuzionale. Torino nel Trecento, in Torino e i suoi statuti nella seconda metà del Trecento, To- rino 1981, p. 13.

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CONFLITTUALITÀ POLITICA IN UN COMUNE AD

‘AUTONOMIA LIMITATA’. L’ESEMPIO DELLA TORINO SABAUDA

ALLA FINE DEL SECOLO XIV

Introduzione. - 1. Rapporti di potere fra principe e città. - 2. Elementi di ten-sione tra nobili e popolari. - 3. Le tensioni con le autorità sabaude e i legami disolidarietà tra nobili e Popolo. - 4. Conclusioni.

Introduzione

Negli ultimi anni, sulla storia della Torino medievale si è scritto mol-to, raggiungendo risultati davvero soddisfacenti. In precedenza, i primi la-vori degli storici piemontesi si sono concentrati – a partire dalle prime trat-tazioni di Luigi Cibrario, Ferdinando Gabotto e Francesco Cognasso –sulla ricostruzione degli avvenimenti che hanno segnato la storia della cittàin un prospettiva evoluzionista e celebrativa che mirava essenzialmente aleggere la storia di Torino in relazione al ruolo che la città avrebbe assun-to nei secoli successivi.

Più rigorosi sono stati i risultati delle ricerche compiute a partire da-gli anni Settanta del Novecento dagli allievi di Giovanni Tabacco. Si trattadi contributi che hanno ricostruito i meccanismi di formazione delle strut-ture del potere nel territorio piemontese 1; di studi che hanno posto l’ac-cento sugli equilibri istituzionali che hanno portato Torino ad essere giàalla vigilia della dedizione ai Savoia, un « comune ad autonomia limitata » 2.Lo sviluppo ulteriore di queste ricerche ha trovato una sistemazione defi-

1 Si tratta di studi poi confluiti in ampie rassegne editoriali. A proposito delle struttu-re del potere in Piemonte, si veda Piemonte medievale. Forme del potere e della società. Stu-di per Giovanni Tabacco, Torino 1985.

2 Secondo la felice definizione di G. SERGI, Interazioni politiche verso un equilibrio isti-tuzionale. Torino nel Trecento, in Torino e i suoi statuti nella seconda metà del Trecento, To-rino 1981, p. 13.

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nitiva nella Storia di Torino edita nel 1997 dall’Editore Einaudi e nelle rac-colte di saggi presenti nelle collane di ricerca promosse dall’Archivio Sto-rico della città di Torino (come i due volumi de Il Palazzo di Città, Tori-no fra Medioevo e rinascimento e gli importanti saggi presenti nel volumegià ricordato, Torino e i suoi statuti nella seconda metà del Trecento). Inqueste raccolte rientrano principalmente anche i contributi di storia eco-nomica della città, quelli relativi alle analisi di demografia condotte da Ri-naldo Comba 3 e gli svariati interventi sulla ricostruzione del tessuto urba-no del comune di Torino, tra cui spiccano i lavori di Aldo Settia, Maria Te-resa Bonardi e Rosanna Roccia, autrice tra l’altro di un lavoro sugli ordi-namenti militari torinesi alla fine Trecento 4. Correlati ai temi di storia eco-nomica – già oggetto delle prime trattazioni a riguardo da parte di MarioChiaudano negli anni Quaranta 5 – troviamo gli studi di Anna Maria Pa-scale e Stefano Benedetto relativi alla storia agraria di Torino e del suo con-tado 6. In merito ai contributi di storia sociale si ricordano – soprattuttoper la loro utilità nell’ambito della nostra ricerca – gli studi di Enrico Ar-tifoni 7 e Alessandro Barbero 8.

3 Tra i numerosi studi dell’autore sull’argomento, è obbligatorio il rimando a R. COM-BA, La popolazione in Piemonte sul finire del Medioevo, Torino 1977 (Biblioteca storica su-balpina, 199).

4 R. ROCCIA, L’organizzazione militare nella Torino del XIV secolo, in Torino e i suoistatuti cit., pp. 39-48.

5 M. CHIAUDANO, La finanza del comune di Torino nel secolo XV, in « Bollettino sto-rico-bibliografico subalpino », XLIII (1941), pp. 1-38.

6 Cfr. ad esempio S. BENEDETTO, Forme e dinamiche del paesaggio rurale, in Torino fraMedioevo e Rinascimento. Dai catasti al paesaggio urbano e rurale, a cura di R. COMBA, To-rino 1993, pp. 241-264, e A. M. PASCALE, Fisionomia territoriale e popolazione nel comunedi Torino sulla base del catasto del 1349, in « Bollettino storico-bibliografico subalpino »,LXXII (1974), pp. 199-258.

7 Soprattutto E. ARTIFONI, I ribaldi. Immagini e istituzioni della marginalità nel Tar-do Medioevo piemontese, in Piemonte Medievale cit., pp. 226-251.

8 A. BARBERO, Un oligarchia urbana. Politica ed economia a Torino fra Tre e Quattro-cento, Roma 1995. Oltre alla monografia, sono risultati di grande importanza anche i con-tributi dell’autore sulla composizione sociale della città di Torino. A tal proposito si vedanoA. BARBERO, G. S. PENE VIDARI, Torino sabauda. Dalle lotte di parte e dalle congiure anti-sabaude a un nuovo equilibrio sociale e istituzionale, in Storia di Torino, II: il basso medioe-vo e la prima età moderna (1280-1536), a cura di R. COMBA, Torino 1997, pp. 213-257; A.BARBERO, Gruppi e rapporti sociali, e Il mutamento dei rapporti fra Torino e le altre comu-nità del Piemonte nel nuovo assetto del ducato sabaudo, in op. cit., pp. 161-213 e pp. 373-422; ID., Una fonte per la demografia torinese del basso Medioevo: l’elenco dei membri del

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L’aspetto relativo alla conflittualità urbana è rimasto – per certi ver-si – in una posizione di secondo piano rispetto alle ricostruzioni di storiaistituzionale e sociale. Gli studi sulla giustizia in ambito torinese – e piùin generale in ambito sabaudo – sono scarsi e hanno insistito soprattuttonello studio dei banna 9; privilegiando l’analisi quantitativa dei reati con-tenuti nei conti della castellania per la ricostruzione della storia della cri-minalità 10. Poca attenzione è stata posta, almeno sino agli anni Novanta,

consiglio di credenza, in « Bollettino storico-bibliografico subalpino », LXXXVII (1989), pp.221-233; ID., La violenza organizzata. L’Abbazia degli Stolti a Torino fra Quattro e Cin-quecento, in « Bollettino storico-bibliografico subalpino », LXXXVIII(1990), pp. 387-453.;ID., Reclutamento dei funzionari e venalità degli uffici nel ducato sabaudo: l’esempio del vi-cariato di Torino (1360-1536), in Amministrazione e giustizia nell’Italia del nord fra Trecen-to e Settecento: casi di studio, a cura di L. MARINI, Bologna 1994, pp. 11-40; A. BARBERO,G. CASTELNUOVO, Governare un ducato. L’amministrazione sabauda nel tardo Medioevo,in « Società e Storia », 57 (1992), pp. 465-511.

9 Il contenuto dei banna riguarda i proventi della giustizia; in modo particolare, si trat-ta di un gruppo specifico di rubriche contenute nei rotoli dei conti della castellania, che ognianno ciascuna castellania sabauda era tenuta a redigere e spedire alla Camera dei Conti diChambéry. I conti della castellania sono conservati presso l’Archivio di Stato di Torino, Ca-merale, e sono conservati in unità archivistiche dette « articoli », delle quali i nostri rappre-sentano l’art. 75, paragrafo 1. I mazzi nei quali sono suddivisi vanno dal 7 al 9; e i rotoli dal44 al 55. A tal proposito riportiamo tutte le segnature archivistiche, al fine di rendere piùchiara l’articolazione delle singole fonti e la loro rilevanza quantitativa e cronologica: art. 75,p. 1, m. 7, rotolo 44 (1378-1380), rotolo 46 (1383-1384), rotolo 47 (1384-1386); m. 8, rotolo50 (1385-1390), rotolo 52 (1392-1394); m. 9, rotolo 54 (1398-1401). I conti della castellaniaverranno citati sempre con l’indicazione del mazzo, del rotolo e dell’anno di riferimento.

10 M. CONSTANT, La justice dans une châtellenie savoyarde au Moyen Âge: Allinges-Thonon, in « Revue historique de droit française et étranger », 50 (1972), pp. 374-397; N.CARRIER, Une justice pour rétablir la « concorde »: la justice de composition dans la Savoie dela fin du Moyen Âge (fin XIIIe - début XVIe siècle, in Le règlement des conflits au MoyenÂge (Atti del XXXI convegno della S.H.M.E.S. - société des Historiens Médiévistes de l’En-seignement Supérieur Public, Angers 2000), Paris 2001, pp. 237-259; ID., Les communautésmontagnardes et la justice dans les Alpes nord occidentales à la fin du Moyen Âge. Chamo-nix, Abondance et les régions voisines, XIVe-XVe siècles, in « Cahiers de Recherches Médié-vales », 10 (2003), pp. 89-118; P. LEHMANN, La répression des délits sexuels dans les États sa-voyards. Châtellenies des diocèses d’Aoste, Sion et Turin, fin XIIIe-XVe siècle, Lausanne 2006(Cahiers Lausannois d’Histoire Médiévale, 39), p. 11; V. BUFFLIER, Justice et criminalité dansla Châtellenie de Chambéry ou Moyen Âge (1353-1364), dattiloscritto presso l’Université deSavoie-Chambéry, a.a. 1998-1999 (relatore: prof. C. GUILLERÉ). Per l’ambito piemontese, siricordino R. COMBA, « Apetitus Libidinis Coherceatur ». Strutture demografiche, reati ses-suali e disciplina dei comportamenti nel Piemonte Tardo Medievale, in « Studi Storici », 3(1986), pp. 529–576; P. DUBUIS, Sulla criminalità e sui bandi del comune di Ivrea, in « Bol-lettino storico-bibliografico subalpino », LXVIII (1970), pp. 157–211; G. S. PENE VIDARI,Sulla criminalità e sui bandi del comune di Ivrea, in « Bollettino storico-bibliografico subal-

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ai sistemi di ricomposizione delle dispute, pur attestate dai rotoli dei ban-na. L’indagine che ci proponiamo di affrontare in questa sede prende lemosse dallo studio di due registri giudiziari inediti conservati presso l’Ar-chivio Storico della città di Torino 11. Si tratta di due Libri Malleficiorumche ci riportano alla dimensione del processo pubblico e testimoniano l’at-tività della curia vicariale della città per un periodo compreso tra il 1379 eil 1383.

Attraverso lo studio di questi documenti, abbiamo potuto ricostruireil funzionamento del sistema giudiziario del comune di Torino alla fine delMedioevo e in modo particolare, il nostro contributo ha cercato di coglie-re l’aspetto relativo alla conflittualità di ambito urbano 12. Il criterio prin-cipale che ha guidato la nostra ricerca sulla natura delle dispute a Torino,ha preso le mosse dalla natura delle persone che sono implicate a diversotitolo negli atti dei processi; in altre parole dei diversi gruppi sociali in cuisi articolava la società torinese a fine Trecento. Tale classificazione indivi-

pino », LXVIII (1970), pp. 157-211; C. BURZIO, Il principe, il giudice e il condannato. L’am-ministrazione della giustizia a Fossano all’inizio del Trecento, Cuneo 1990. Taluni aspetti del-la criminalità di ambito torinese di fine Trecento si possono trovare anche in BARBERO,Gruppi e rapporti sociali cit., pp. 161-213.

11 Archivio storico della città di Torino, Carte Sciolte 3212, I, Liber Malleficiorum1379-1380, e II, Liber Malleficiorum 1381-1383.

12 L’analisi della conflittualità condotta per tutti i gruppi sociali, ha permesso altresì diidentificare una serie di categorie di disputa attestate con maggior frequenza nel contesto so-ciale della città. Tali tipologie si riconducono a conflitti di proprietà, a liti insorte per debi-ti insoluti, a scontri intra-familiari e a semplici dissidi nati dalla rottura delle relazioni di vi-cinato, senza grosse differenze tra ceti. La caratteristica più importante della conflittualitàemergente dallo spoglio delle fonti giudiziarie si riferisce proprio a questa uniformità di fon-do. In modo particolare, si è potuto osservare come i metodi di conduzione delle liti intra-familiari si riconducano sempre ai meccanismi della faida, intesa come una pratica di gestio-ne del conflitto che sfruttava l’arena processuale come uno dei tanti strumenti di mediazio-ne offerti dal sistema giudiziario. A tal proposito, mi permetto di rimandare alla mia tesi didottorato: M. MAGNANI, L’amministrazione della giustizia a Torino alla fine del Trecento.Reati, conflitti e risoluzione delle dispute in un comune principesco, dattiloscritto presso il di-partimento di Storia dell’Università, a.a. 2007-2009, pp. 80-144. Anche a Torino, dunque, « lerelazioni di inimicizia e i conflitti attraversavano tutto il corpo sociale come una relazionedi tipo ordinario, così per il magnate o per il mercante, come per l’artigiano o per il popo-lino » (A. ZORZI, Pluralismo giudiziario e documentazione: il caso di Firenze in età comuna-le, in Pratique sociale set politiques judiciaires dans le ville de l’Occident à la fin du MoyenÂge in Pratiques sociales et politiques judiciaires dans les villes de l’Occident à la fin duMoyen Âge, a cura di J. CHIFFOLEAU, C. GAUVARD e A. ZORZI, Roma 2007, p. 147).

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dua una tripartizione fra i membri dell’oligarchia cittadina (nobili e popo-lari) e una terza e più ampia categoria costituita dal resto della popolazio-ne civile. Una cospicua percentuale di processi – infatti – vede protagoni-sta la classe dirigente della città. Per il biennio 1379-1380, la percentualedelle presenze degli appartenenti alle famiglie dell’oligarchia urbana (sianobili che popolari) è del 18% sul numero totale di 246 rei; mentre per il1382-1383, tale cifra sale sino al 24% su un totale di 218 imputati.

Partendo da questi dati numerici, la nostra analisi intende incentrarsiproprio sui conflitti dell’oligarchia cittadina, concentrandosi in modo par-ticolare su di un aspetto specifico di tali dispute, vale a dire le liti tra no-biltà e Popolo. Il tema dei conflitti di fazione è rimasto ai margini della sto-ria torinese, a lungo interpretata come un comune che non presentavaquelle fratture che si possono cogliere per il resto dell’Italia centro-setten-trionale, soprattutto alla fine del secolo XIII 13. In realtà, non sono affattomancati – nella storia della Torino basso medievale – momenti di forte at-trito tra le due forze politiche. Un aspetto ancora più interessante riguar-da poi quelle dispute che testimoniano delle tensioni molto forti tra la clas-

13 Riguardo al tema delle lotte di fazione tra magnati e popolari e del ruolo giocato dalPopolo nella politica dei comuni basso medievali – tema classico della storiografia italianacomunalistica a partire dai dibattiti tra Gaetano Salvemini e Nicola Ottokar – ci limiteremoa segnalare in questa sede i lavori più recenti e gli aggiornamenti storiografici sulla questio-ne. A tal proposito si vedano E. ARTIFONI, Tensioni sociali e istituzioni nel mondo comuna-le, in La Storia, a cura di N. TRANFAGLIA e M. FIRPO, I, Torino 1986, pp. 461-491; ID., Cor-porazioni e società di « Popolo »: un problema della politica comunale del secolo XIII, in« Quaderni Storici », 74 (1990), pp. 387-404. Una tappa importate per la riflessione storio-grafica sulle lotte di fazione nei comuni italiani si veda l’importante raccolta degli atti delconvegno di Pistoia del 1997, Magnati e Popolani nell’Italia comunale (Atti del quindicesi-mo convegno di studi del Centro Italiano di Studi di Storia e d’Arte di Pistoia), Pistoia 1997.Recentemente alcune monografie si sono incentrate sul rapporto tra nobili e Popolo fra XIIIe XV secolo. Si vedano ad esempio G. MILANI, L’esclusione dal comune. Conflitti e bandipolitici a Bologna e in altre città italiane tra XII e XIII secolo, Roma 2003; A. GAMBERINI,La città assediata. Poteri e identità politiche a Reggio in età viscontea, Roma 2003; M. GEN-TILE, Terra e poteri. Terra e poteri: Parma e il parmense nel ducato visconteo all’inizio delQuattrocento, Milano 2001; Guelfi e ghibellini nell’Italia del Rinascimento, a cura di M.GENTILE, Roma 2005. Per l’ambito strettamente piemontese si vedano R. BORDONE, Ma-gnati e popolani in area piemontese con particolare riguardo al caso di Asti, in Magnati e Po-polani nell’Italia comunale, soprattutto alle pp. 399-415; S. BANI, Funzionamento della so-cietà di S. Giovanni Battista e suo inserimento nelle istituzioni e nel quadro sociale del co-mune di Torino, Torino 1975, dattiloscritto presso il Dipartimento di Storia dell’Universitàdi Torino, sezione medievistica.

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se dirigente – questa volta unita e compatta – e gli ufficiali principeschi po-sti al vertice del governo cittadino.

Prima di entrare nel merito della conflittualità politica torinese di fi-ne Trecento, occorre tuttavia, riassumere quali fossero i rapporti di poteretra la città e il principe sabaudo. Al fine di cogliere, in prospettiva diacro-nica, tali rapporti nella loro complessità, abbiamo preso in esame gli Or-dinati comunali che coprono – senza interruzioni – il ventennio che va dal1372 al 1392 14, i quali testimoniano con precisione il dinamismo della so-cietà politica della città.

1. Rapporti di potere fra principe e città

Gli statuti e le franchigie emanate nel 1360 dal conte Amedeo VI infavore della città rappresentano un momento importante nella ridefinizio-ne dei rapporti di potere tra il principe sabaudo e il comune di Torino.Tuttavia, la spinta all’autonomia derivante dalla concessione degli statutinon va enfatizzata o letta in direzione di una riduzione della sovranità delconte sul territorio. Se è vero infatti che il consiglio di credenza poteva ri-tagliarsi uno spazio di gestione autonomo verso cui convogliare aspettati-ve e interessi della popolazione urbana, è significativo tuttavia che da unalettura più attenta dei meccanismi di controllo esercitati sull’organo consi-liare della città, emerga pur sempre la forte egemonia principesca sul co-mune e la sua classe dirigente. Ad esempio, il consiglio cittadino poteva

14 La scelta dei volumi degli Ordinati – che registrano le sedute del consiglio comuna-le a partire dal 1325 – è caduta sui volumi inerenti gli anni 1365-1392 e trascritti negli ulti-mi dieci anni a cura dell’Archivio storico della città di Torino: Libri Consiliorum del comu-ne di Torino del 1365–1369. Trascrizione e regesto degli Ordinati comunali, a cura di M. BAI-MA, Torino 2002; Libri Consiliorum del comune di Torino del 1372-1375. Trascrizione e re-gesto degli Ordinati comunali, a cura di M. BAIMA, Torino 2002; Libri Consiliorum del co-mune di Torino del 1376-1379. Trascrizione e regesto degli Ordinati comunali, a cura di M.BAIMA, M. T. BONARDI, Torino 2002; Libri Consiliorum del comune di Torino del 1380-1383. Trascrizione e regesto degli Ordinati comunali, a cura di M. BAIMA, M. T. BONARDI,Torino 2003; Libri Consiliorum del comune di Torino del 1384-1386. Trascrizione e regestodegli Ordinati comunali, a cura di M. BAIMA, A. ONESTI, Torino 2005; Libri Consiliorumdel comune di Torino del 1387-1389. Trascrizione e regesto degli Ordinati comunali, a curadi M. BAIMA, A. ONESTI, Torino 2006; Libri Consiliorum del comune di Torino del 1390-1392. Trascrizione e regesto degli Ordinati comunali, a cura di L. BARALE e F. GAMALERO,Torino 2008.

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riunirsi unicamente in presenza del vicario, del giudice o di un loro colla-boratore, i quali come vedremo, fungevano da veri e propri « elementi dicontrollo sull’amministrazione del comune » 15 in quanto rappresentantidiretti del principe e espressione tangibile dell’interesse di quest’ultimo al-la razionalizzazione politica dei propri domini.

Da una rapida rassegna dei compiti amministrativi del consiglio dicredenza 16 emerge, con sufficiente chiarezza, come le prerogative del con-siglio si limitassero a un ruolo di interfaccia tra la comunità e il principe,nonostante un’indubbia autonomia inerente la gestione delle questioni in-terne alla città. Proprio queste prerogative rappresentarono per il consigliodi credenza l’arena in cui si misurava la competizione politica tra le com-ponenti sociali torinesi, il campo d’azione riservato agli interessi di partedell’oligarchia. Tali interessi si convogliavano però verso il mantenimentoo l’accrescimento degli spazi concessi dal principe. Com’è stato dimostra-to dalla recente storiografia incentrata sul rapporto fra Stati regionali e ciòche restava degli organismi municipali nelle città del Trecento e del Quat-trocento, le autonomie e le prerogative in cui si muovevano i collegi citta-dini, rappresentavano un vero e proprio momento di espressione della co-munità 17.

15 SERGI, Interazioni politiche cit., p. 14.16 Al consiglio di credenza competevano le più disparate funzioni amministrative e di

governo delle attività economiche. Innanzitutto l’elezione del massaro (funzionario dallecompetenze fiscali), dei racionatores, degli extimatores incaricati della redazione del catastoe delle pratiche fiscali, dei sindaci del comune e di due dei notai della curia. Inoltre, la cre-denza deliberava a proposito dei prezzi della carne, del pesce e del grano in tempi di crisi; siassumeva la difesa dei propri cittadini nei conflitti con le comunità circostanti, si preoccu-pava di regolamentare l’incanto delle gabelle e provvedeva ai tagli del tasso; imponeva la ta-glia e stabiliva i tempi per la mietitura, decideva sull’ammissione di un nuovo cittadino neltessuto sociale torinese e procurava mercenari per l’esercito del principe. Provvedeva al man-tenimento degli edifici pubblici e concedeva i protocolli dei notai defunti agli individui cheriteneva più idonei a ricoprirne il ruolo scegliendoli tra le fila delle principali famiglie nobi-li e popolari che formavano l’oligarchia cittadina. Su di un maggior approfondimento suicompiti del consiglio di credenza torinese e sull’articolazione della classe dirigente del co-mune, si vedano BARBERO, Torino sabauda cit., pp. 221-238 e Un’Oligarchia urbana cit.,capp. I e II.

17 G. M. VARANINI, Aristocrazie e poteri nell’Italia centro-settentrionale dalla crisi co-munale alle guerre d’Italia, in R. BORDONE, G. CASTELNUOVO, G. M. VARANINI, Le aristo-crazie dai signori rurali al patriziato, Roma - Bari 2005, p. 166. Sul tema dei rapporti fra prin-cipi e comunità cittadine fra XIV e XV secolo si rimanda agli studi di G. CHITTOLINI, Città,

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Nel consiglio di credenza di Torino, come in molti centri dell’Italiacentro-settentrionale, era « viva e vitale, insomma, una prospettiva politicae una dimensione civica circoscritta, ma tutt’altro che irrilevante o spen-ta » 18. La permanenza di questa vitalità delle istituzioni municipali creavadei problemi al principe, che con un sapiente sistema di mediazione, riu-sciva a assorbire nella propria ottica di riordino politico le tendenze piùautonomistiche dell’oligarchia in un sistema regolato di rapporti bilateraliche stemperavano la tensione e mantenevano intatto il potere del princi-pe 19. Questa dialettica, tuttavia, non è priva di ricadute sul piano della con-flittualità. Come vedremo nelle pagine che seguono, non mancano a Tori-no episodi di intolleranza verso le autorità principesche e di aperta ostilità,che pure il principe riesce far rientrare attraverso alcuni strumenti politicie giudiziari.

Uno dei principali aspetti del rapporto tra principe e oligarchia a To-rino traspare dalla divisione fra nobili e populares nella quale la città è arti-colata alla fine del Trecento. Le fonti comunali sono molto precise nell’in-dividuare con precisione le famiglie e i membri di entrambe le parti. La lo-ro esistenza appare « predeterminata » 20 da una scelta del principe che pur

comunità e feudi negli stati dell’Italia centro settentrionale (XIV-XVI secolo), Milano 1996;ID., Organizzazione territoriale e distretti urbani nell’Italia del tardo Medioevo, Bologna1994, pp. 7-26; G. M. VARANINI, Governi principeschi e modello cittadino di organizzazio-ne del territorio nell’Italia del Quattrocento, in Principi e città alla fine del Medioevo, a cu-ra di S. GENSINI (Atti del convegno del Centro di Studi sulla Civiltà del Tardo Medioevo,San Miniato 1996,) Pisa 1997, pp. 95-124; GAMBERINI, La città assediata cit., pp. 25-90; GEN-TILE, Terra e poteri cit., pp. 123-150. Per l’area sabauda, si vedano ancora BARBERO, CA-STELNUOVO, Governare un ducato cit., pp. 465-511.

18 VARANINI, Aristocrazie e poteri nell’Italia centro-settentrionale cit., p. 167.19 A proposito della mediazione politica tra XIV e XV secolo, Renato Bordone ha re-

centemente osservato come « lo Stato regionale che si va affermando appare – negli studi re-centi che stanno aggiornando un’inveterata tradizione storiografica – sempre più configura-to su basi contrattuali o pattizie, frutto di articolate relazioni fra pluralità di poteri. In que-sto panorama anche i ceti dirigenti cittadini, patteggiando, mantengono, pur ridimensionan-done politicamente, le loro prerogative municipali, e individuano nelle vecchie istituzioni cit-tadine (consigli, statuti, magistrature amministrative) il loro punto di riferimento » (R. BOR-DONE, Introduzione, in Le aristocrazie cit., p. XI).

20 Il caso di Torino e della « ripartizione predeterminata per classi sociali » è stata rias-sunta da Gian Maria Varanini nel suo contributo sui ceti patrizi del secolo XIV. Si veda a talproposito, VARANINI, Aristocrazie e poteri nell’Italia centro-settentrionale cit., p. 166. Comeutile confronto per comprendere la composizione della società di un comune soggetto all’e-gemonia sabauda, si veda il caso di Susa in G. SERGI, Concretezza di un’astrazione; gli « or-

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certificando di fatto una situazione esistente 21, tese a semplificare la societàtorinese al fine di un inquadramento più deciso nell’alveo del principato.

In conclusione, lo statuto del 1360 rispondeva all’esigenza del princi-pe di razionalizzare le forze sociali presenti in città, fornendo tuttavia aimembri dell’oligarchia uno spazio entro il quale muoversi con una certadisinvoltura. Amedeo VI – pur liberando la cittadinanza da taluni oneri eobbligazioni imposte a Torino dai principi d’Acaia 22 definisce i termini diun’indipendenza limitata che poggiava su una concessione che di fatto nonintaccava il potere esecutivo del principe. La comunità poteva procederealla formazione dei capitula dello statuto e ritagliarsi alcuni alvei di auto-nomia il cui orizzonte era però rappresentato dalla città stessa.

Rispetto alle comunità soggette ai Savoia, le città piemontesi detene-vano prerogative proprie del loro carattere prettamente comunale. Sotto ilprofilo politico, il maggiore di questi poteri era rappresentato dal control-lo degli ufficiali di nomina principesca.

L’operato del giudice e del vicario, veniva infatti sottoposto per leg-ge a verifica da parte dei rappresentanti del consiglio comunale di Torino,il quale annualmente doveva eleggere quattro sapienti tenuti sotto giura-mento a indagare sugli eccessi e le eventuali inadempienze dei due ufficia-li, denunciandone le azioni ritenute ingiuste 23. Della pratica del sindacato

dines » di un comune alpino del Duecento, in Città e territori nell’Italia del Medioevo. Stu-di in onore di Gabriella Rossetti, a cura di G. CHITTOLINI, G. PETTI BALBI, G. VITOLO, Pi-sa - Napoli 2007, pp. 41-52.

21 « Nel periodo da noi considerato, la contrapposizione fra nobiltà e popolo non fos-se ancora il relitto di un clima politico superato; e che lo sforzo di osservare una rigorosaparità nella spartizione degli uffici fosse il frutto di una persistente diffidenza reciproca piut-tosto che di una tendenziale omologazione fra nobili e popolari [...] il profilo sociale, eco-nomico, demografico e culturale di una famiglia di popolo era ancora, a questa data, media-mente piuttosto distante da quello di una famiglia nobile; ma anche sul piano più propria-mente politico esistono indizi importanti di un persistente contrasto d’ interessi » (BARBE-RO, Un oligarchia urbana cit., p. 25).

22 Come riportato nelle franchigie concesse a Torino poco prima degli statuti dallo stes-so Amedeo VI. A tal proposito si veda F. SCLOPIS, Statuta et privilegia civitatis Taurinensis,Augustae Taurinorum 1835, p. 212.

23 « Quatuor sapientes qui teneantur denuntiare seu significare domino comiti, expen-sas comunis, excessus et iniusticias et defectus suorum vicariorum, iudicum, castellanorum,officialium et nuntiorum domini comitis existentium in Taurino, et qui plena credencia iu-rent »:Gli statuti del comune di Torino del 1360, a cura di D. BIZZARRI, Torino 1933 (Bi-blioteca della Società storica subalpina, 138/1), rubrica 289, p. 121.

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se ne ha menzione – per il periodo preso in esame dal nostro lavoro – unasola volta all’interno di una seduta del consiglio del marzo del 1382, nellaquale si delibera l’elezione dei quattro sapienti scelti per « notifficare illu-stri domino nostro principi iniurias et inusticias si que fierent per dominosvicarium et iudicem et alios officales » 24. La traduzione pratica di tale nor-ma testimonia uno degli alvei di quell’autonomia controllata che il conteaveva accordato al consiglio cittadino in seguito alla concessione degli sta-tuti nel 1360. Contestualmente però tale concessione nasconde una volontàdi controllo indirizzata nei confronti di quegli stessi ufficiali incaricati dalprincipe di governare il distretto urbano.

Ancora da un punto di vista politico, tra quei poteri che lo statuto ac-cordava ai rappresentanti del comune di Torino, va sottolineata la conces-sione del diritto di rappresaglia nei confronti dei singoli individui che nefacevano esplicita richiesta 25.

2. Elementi di tensione tra nobili e popolari

Come abbiamo avuto già modo di ricordare, non mancarono nellaTorino tardo trecentesca momenti di attrito tra le forze politiche. Nellefonti di matrice processuale le tracce di conflitti a sfondo politico sono de-cisamente scarse. Il caso più significativo risale al 14 dicembre del 1380. Sitratta di un’inquisizione purtroppo priva dell’intestazione nella quale ve-nivano identificati i colpevoli e il reato che si intendeva perseguire. Dalcontenuto delle deposizioni dei testimoni, si evince tuttavia che si tratta diun processo nel quale lo scontro riguardava più membri del consiglio dicredenza, sia nobili sia popolari.

24 Libri Consiliorum del comune di Torino del 1380-1383 cit., p. 203.25 Gli statuti del 1360 si esprimono a riguardo in questo modo: « item quod nullum

cambium vel aliquam represalia concedatur alicui super aliquibus rebus vel personis vel con-tra personas aliquas, nisi placuerit maiori parti credentie, que volutas et arbitrium exquira-tur hoc modo » (Gli statuti del comune di Torino del 1360 cit., rubrica 46, p. 37). Negli Or-dinati torinesi del 1380 si registra un caso di conferimento di tale diritto; Giovannino Cra-vino cittadino torinese, ottenne il permesso alla rappresaglia dalla curia contro Lionello eMatteo Provana di Leinì « iuxta formam capituli civitatis Taurini positi in libro capitulorumfoleo XV et hoc usque in quantitatem librarum LVIII solidorum XII iuxta formam apendi-ce facte per Matheum Provana predictum » (Libri Consiliorum del comune di Torino 1380-1383 cit., p. 295).

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La prima delle testimonianze è quella del nobile Nicola Aynardi, ilquale introduce la propria deposizione fornendo subito elementi impor-tanti: il rumor al centro dell’inquisizione si sarebbe originato duranteun’importante seduta del consiglio di credenza – risalente con ogni proba-bilità al 29 novembre 26 – incentrata sulle modalità del prelievo fiscale.

Il testo della deposizione ci informa che durante il dibattimento ac-ceso, Bartolomeo Sacco – membro del Popolo – « de loco suo surexit et ve-nit [...] inter alios contendentes, dicentem plura verba qui bene non intel-lexit, propter rumorem qui ibi erat; tamen audivit dictum Bartholomeumqui dicebat incidere per pecias » 27. Già da questa testimonianza viene cir-costanziandosi il contenuto della lite, dal carattere spiccatamente politico enella quale un credendario avrebbe minacciato la controparte di farla let-teralmente « a pezzi » 28. Gli atti del processo proseguono con altre 4 testi-monianze, seguite dagli interrogatori dei presunti imputati: un certo Gia-como Granerio, sul quale torneremo a breve, e Bartolomeo Sacco. A fian-co della sua deposizione troviamo la formula con cui si registrava l’emis-sione della sentenza, in questo caso una condanna a 20 soldi propter rixamin credencia.

Siamo dunque di fronte a un confronto politico denunciato come unarissa, climax della tensione sviluppatasi durante la riunione del consiglio. Ilcarattere di scontro fra le diverse componenti sociali della classe dirigenteemerge con ulteriore chiarezza nelle deposizioni degli altri testimoni. Co-minciamo da quella di un anonimo credendario (presumibilmente un no-

26 La data è stata ricavata da un confronto tra il Liber Malleficiorum e gli Ordinati del1380. I registri ci informano che l’oggetto della riunione aveva un contenuto finanziario.Scorrendo i regesti di ogni singola seduta si incontrano solo due date anteriori al 14 dicem-bre che potrebbero essere state il teatro dei disordini. Si tratta della riunione del 29 novem-bre nella quale si discuteva a proposito dei debiti maturati dal comune verso il principe equella dello stesso 14 dicembre nella quale si fissano i prezzi di carne e pesce. Visto il con-tenuto della lite dal carattere politico-finanziario, si è indotti a ritenere più pertinente la riu-nione del 29 novembre. Cfr. Libri Consiliorum del comune di Torino 1380-1383 cit., pp. 91e 98. Sugli scontri di carattere politico cfr. M. GRAVELA, Processo politico e lotta di fazionea Torino nel secolo XIV: la congiura del 1334 contro Filippo d’Acaia, in « Bollettino storico-bibliografico subalpino », CVIII/2 (2011), pp. 483-552.

27 Liber Malefficiorum cit., I, ff. 169r.28 Nicola Aynardi infatti riferisce di trovarsi assieme a Franceschino Borgesio, membri

di spicco della nobiltà torinese, il quale avrebbe per primo avvertito le minacce del Sacco.

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bile a giudicare dal contenuto della deposizione) il quale riferendosi nonalle ingiurie minacciose del Sacco, bensì alle agitazioni in consiglio, riferi-sce di accuse pesanti mosse da Francesco Gastaldi, popolare di spicco, aldominus Tomaino Borgesio: « pater vester et aliud de domo vestra fecerunttale instrumentum de Iacobus de Granerio » 29. Il testo della testimonianzaprosegue e indica come proprio Giacomo Granerio – popolare, ma non ap-partenente al consiglio – « dixit quod veniret cum quinqaginta sociis », mi-nacciando quindi una ripercussione armata da parte del popolo. L’anda-mento della deposizione è confuso, ma è dichiaratamente di parte, indi-cando il Popolo come motore del tumulto e precisando come il nobile Do-menico de Gorzano avrebbe visto « plures populares qui non sunt de cre-dencia congregatos ad domum comunis hora dicte credencie » 30.

Da queste prime battute, si viene delineando un quadro nel quale lanatura degli scontri tra nobili e Popolo riguarda la distribuzione dei cari-chi fiscali. Tale impressione si rafforza nelle successive deposizioni. Fran-ceschino Borgesio, interrogato assieme agli altri testimoni il 1 gennaio, tor-na a indicare il Sacco come principale responsabile assieme a FrancescoGastaldi e Bertolino Malcavalerio.

A riguardo però, la testimonianza chiave risulta quella del secondoimputato, Giacomo Granerio. La deposizione è molto interessante perchéinnanzitutto sposta l’accento dei fatti sull’origine stessa delle agitazioni,confermando il sospetto di una responsabilità attiva dei membri del Popo-lo. Secondo quanto riporta Giacomo Granerio, Enrico Cornaglia e Ric-ciardello de Broxulo, populares influenti, si erano recati presso il suo ban-co in beccheria e gli avevano riferito dell’ordine del giorno previsto per lariunione del consiglio: « quod credencia debebat fieri de presenti pro recu-perando pecuniam et quod credendarii erant discordes, quia aliqui vole-bant imponere dictam pecuniam per taxum et aliqui per taleam ad regi-strum » 31. Successivamente avevano chiarito le loro intenzioni, dimostran-do di voler creare disordine al fine di ottenere una vittoria sulla contro-parte. Infatti i due avrebbero detto a Giacomo che se la credenza avesse

29 Liber Malefficiorum cit., I, f. 169v.30 L. cit.31 L. cit.

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scelto di imporre la taglia « per registrum, quod ipse qui loquitur et alii po-pulares minus gravarentur quam per taxum et imo cum essent in creden-cia, ipse qui loquitur venire deberet cum aliis popularibus ad dictam cre-denciam causa dicendi quod nolebat ullo modo taxum sed solum modo ta-leam » 32. Ecco quindi il punto focale della disputa: la questione fiscale. Lalite originava dalla crisi finanziaria nella quale versava il comune in queglianni; soprattutto a causa delle ripetute richieste di contribuzione e sussidioda parte del principe, dovute principalmente alla guerra. Il processo mo-stra che non era messa in discussione la tassazione come rimedio necessa-rio al fine di fronteggiare la crisi. Se mai, la polemica riguardava il metodoche si sarebbe dovuto impiegare per calcolare l’ammontare dell’imposta.Secondo i populares, il modo migliore per raccogliere il danaro consistevanell’esazione della taglia, cioè l’imposta diretta che rappresentava – nel se-colo XIV a Torino – il principio cardine dell’esazione fiscale. La taglia eracalcolata proporzionalmente alle ricchezze di ognuno dei contribuenti cheavevano registrato i propri beni a catasto 33. Ai nobili tale principio di esa-zione non conveniva; e si capisce bene perché essi portino avanti con for-za il principio di una divisione per quote diverse, rappresentato dal taxum.

Come hanno dimostrato numerosi studi, più o meno recenti, « le que-stioni fiscali, in primo luogo quella cruciale relativa alla valutazione del-l’imponibile, erano in questi contesti sociali [...] connesse immediatamentea problemi di equilibrio politico generale e alle dialettiche fra gruppi do-minanti e gruppi che rivendicavano una partecipazione al potere » 34. Nel

32 L. cit.33 Sulla natura dell’esazione fiscale a Torino nel Trecento, si veda G. BRACCO, Le fi-

nanze del comune di Torino nel secolo XIV, in Torino e i suoi statuti cit., pp. 49-55.34 P. CAMMAROSANO, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte, Roma

1991, p. 184. Sulla questione relativa agli scontri tra nobili e populares nelle città comunaliitaliane, spiccano i lavori di John P. Grundmann e Jean-Claude Maire Vigueur sul caso diPerugia nel Duecento. A tal proposito si veda J. P. GRUNDMANN, The Popolo at Perugia.1139-1309, Roma 1985, pp. 35-80; J. C. MAIRE VIGUEUR, Comuni e signorie in Umbria,Marche e Lazio, Torino 1987, pp. 134-138, pp. 204-207; ID., Cavalieri e cittadini. Guerra,conflitti e società nell’Italia comunale, Bologna 2004, pp. 209-267. Secondo lo storico fran-cese, « il problema dell’imposta diretta è dovunque al centro dei conflitti che oppongono lanobiltà e il Popolo e che la maggior parte degli accordi che segnano l’evoluzione dei rapportifra le due classi comprendono clausole di natura fiscale » (op. cit., p. 266). Alla stessa con-clusione giunge anche Giuliano Milani nella sua sintesi di storia comunale quando affrontail tema degli strumenti messi in campo dalle forze politiche per fare fronte al problema fi-

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nostro caso, le fonti processuali ci mostrano un’oligarchia cittadina tutt’al-tro che compatta, in cui nobili e Popolo sono implicati in conflitti reali in-centrati proprio sui problemi derivanti dalla scelta delle modalità di calco-lo dell’imposizione fiscale.

Come dimostra anche solo una lettura superficiale degli Ordinati, ilconsiglio di credenza si trova in più occasioni a fronteggiare problemi dinatura fiscale. A titolo esemplificativo si prenda in considerazione la riu-nione che il consiglio aveva tenuto solo un anno prima rispetto al « rumo-re » del 1380, ossia il 7 gennaio del 1379. Qui si legge: « Et primo super sa-tisfacendo illustri domino nostro principi de taxo sibi per comunitatemTaurini debito videlicet pro termino finito in festo nativitatis Dominiproximo preterito et hoc infra sex dies proximos iusta litteras ipsius do-mini nostri principis tenoris infrascriptis » 35. In questa rubrica si manife-sta soprattutto la pressione del principe sulla città, ma era soprattutto ilPopolo a risultarne sfavorito tanto che a un anno di distanza alcuni suoimembri avevano deciso di intervenire con la forza, in virtù soprattutto delproprio carattere socialmente eterogeneo, capace di dialogare anche con leforze del popolo minuto. In un documento del 1382, il principe chiedechiarimenti in relazione alla riscossione della taglia in seguito a una mo-zione sollevata « quamplurium hominium popularium civitatis Taurini »che supplicano in gruppo il principe di porre alla questione un rimedio op-

scale: « tra questi strumenti, il movimento « popolare », com’era avvenuto in precedenza,cercò di favorire quelli che prevedessero una ripartizione delle spese più larga e ispirata a cri-teri di equità, cioè quelli fondati sull’estimo » (G. MILANI, I comuni italiani, Roma - Bari2005, p. 124 sg.). Come si vede, il criterio dell’estimo è proprio quello che – ancora nel se-colo XIV – viene propugnato dal Popolo torinese. Sulle incidenze delle problematiche fisca-li sulla politica e sulla società dei comuni nel periodo signorile, si vedano i lavori di PatriziaMainoni sulla realtà bergamasca sotto il dominio visconteo. Come dimostrano i suoi studi,la contingenza bellica che attraversava il delicato passaggio fra Tre e Quattrocento, influì no-tevolmente sugli equilibri delle città soggette a un signore. A tal proposito si veda, P. MAI-NONI, Le radici della discordia. Ricerche sulla fiscalità a Bergamo tra XIII e XV secolo, Mi-lano 1997, pp. 7-19, pp. 110-144. La stessa autrice è intervenuta sui medesimi temi in Politi-che finanziarie e fiscali nell’Italia settentrionale (secoli XIII-XV), a cura di P. MAINONI, Mi-lano 2001.

35 Libri Consiliorum del comune di Torino 1376-1379 cit., p. 241. Il problema della ta-glia tornò a occupare una posizione di preminenza in seno alle decisioni del consiglio anco-ra nel 1382. A tal proposito si vedano i Libri Consiliorum del comune di Torino 1380-1383cit., pp. 192-193.

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portuno 36. Si tratta del segno che anche l’imposizione della sola taglia pro-vocava problemi e lacerazioni in seno al gruppo popolare. Non è un casoche tra i popolari che si recarono a Pinerolo troviamo proprio BartolomeoSacco.

È possibile trovare ulteriori tracce di scontri tra nobili e popolari perragioni fiscali in altre sedute del consiglio di credenza. Una delle più inte-ressanti si trova all’interno degli Ordinati ed è tanto più significativa per-ché vede accendersi la controversia tra il gruppo nobiliare e la Società diSan Giovanni Battista. L’episodio riguarda una disputa esplosa nel 1392 inoccasione dell’assegnazione dell’imposta sui mulini, momento in cui lamaggioranza dei nobili – abituati ad essere i principali appaltatori delle ga-belle – si vedono costretti a reagire con forza alla richiesta avanzata da for-ze popolari di assegnare l’imposta direttamente alla Società popolare di SanGiovanni Battista 37. La schermaglia è persa dai nobili, in modo particola-re dai membri delle famiglie Beccuti, Borgesio e da Gorzano che si eranoopposte alla richiesta 38. I della Rovere, gli Ainardi e gli Alpino presenti inconsiglio votano invece a favore della Società, che ottenne l’assegnazionedell’imposta 39.

Tornando al processo del 1380, le autorità vicariali – consce della ri-caduta sociale che il rumore poteva generare – cercano di comprendere me-glio la posizione del Granerio che si sarebbe portato sino in comune, mi-nacciando addirittura una rappresaglia con cinquanta uomini armati. Il reo,tuttavia, nega di essersi recato in consiglio e di aver spinto altri a dirigersiverso il palazzo del comune. La negazione di ogni coinvolgimento direttoviene accettata dal giudice, visto che non è specificata alcuna sentenza emes-sa nei confronti del Granerio. Inoltre, nessun teste fece ulteriori riferimen-ti al coinvolgimento del Granerio nei fatti, agevolandone l’assoluzione.

La successiva testimonianza di Domenico de Gorzano aiuta a coglie-re un altro aspetto del processo, cioè la partecipazione illegale alla seduta

36 Op. cit., p. 308.37 Libri Consiliorum del comune di Torino del 1390-1392 cit., pp. 255-257.38 « Tresdecim de Burgenssis, de Becutis et de Gorzano recussaverunt ponere in buxo-

lis eorum tabulas albas et nigras ymo ipsas possuerunt dicentes tale partitum fieri non de-bere super super bancham sive dischum existentes ante sedimina et conspectum ubi dominivicarius et iudex sedebant et sedere soliti sunt » (L. cit.).

39 Op. cit., p. 300 sg.

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di altri membri del Popolo che non ne avevano diritto. Probabilmentespinto dai colleghi nobili, Domenico si reca nell’archivio del comune (si-tuato nei sotterranei) per consultare i registri che segnalavano il nome deicredendari al fine di verificare alcune presenze sospette. Mentre si trovavapresso i gradini del palazzo, « vidit [...] quamplures homines et inmediatein via ante domum comunis erat eciam magna quantitem hominum popo-larium et omnes murmurabant de talea vel taxu » 40. Interrogato a propo-sito dei principali uomini del popolo che avrebbe visto, il nobile Domeni-co indica Mazardino Cravino e Maynardo Raviola, populares ricchi, anchese non ancora rappresentati in credenza. Stefano de Vulveria, esponente delPopolo si affretta invece a minimizzare il ruolo dei colleghi nell’accaduto,negando con forza la propria responsabilità nell’aver mosso i popolari ver-so il comune.

Il processo si chiude con l’interrogatorio di Bartolomeo Sacco, l’uni-co che a giudicare dalla sentenza , risulta colpevole del rumor. Il docu-mento è rilevante perché permette di cogliere la difesa dell’imputato in-centrata sull’uso strumentale del reato che ridefinisce il ruolo giocato dal-l’imputato. Nel ridimensionare le accuse di minaccia che gli vengono mos-se, il Sacco prende le distanze dal sollevamento popolare, spostando l’assedel discorso verso una posizione quasi passiva nei confronti di quanto sta-va accadendo. Secondo quanto riferì nella propria deposizione, nell’udireil clamore proveniente dall’esterno del palazzo civico, egli si mostra mol-to preoccupato per le conseguenze che il tumulto avrebbe potuto provo-care. « Iste esse turpis rumor », con queste parole l’imputato definì i taffe-rugli scatenatisi in consiglio, aggiungendo che la minaccia che avrebbe pro-nunciato sarebbe in realtà, un commento al clima che regnava dentro e fuo-ri il palazzo 41. Interrogato dal giudice sui fatti 42, nega ogni coinvolgimen-

40 Liber Malefficiorum cit., I, f. 170r.41 Il turpe rumor sarebbe stato deleterio e metteva il comune in grande pericolo « si po-

pulus se rumoraret ne nos incideret per pecias » (L. cit.).42 « Interrogatus si ipse dixit quod faceret incidere aliquem per pecias vel quod incide-

retur per pecias, respondit quod non. Interrogatus si ipse dixit alicui persone populari quodnon esset de credencia, quod veniret ad domum comunis, hora dicte crdencie, responditquod non. Interrogatus si audivit dicere quod aliquis diceret aliquibus popularibus quod ve-niret ad domum comunis ut supra, respondit quod non. Interrogatus si vidit die et hora ali-quos populares ad domum comunis, qui non essent de credencia, respondit sic: Mazardinum

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to, non riuscendo a convincere le autorità che lo puniscono con l’ammen-da di 20 soldi registrata dal notaio.

Quel che bisogna sottolineare è il modo in cui i membri di ambo glischieramenti esposero la loro versione dei fatti di fronte al giudice e al vi-cario. I nobili scelgono una posizione più marcatamente accusatoria neiconfronti della controparte, i popolari optarono invece per una versionepiù vaga dei fatti principali. Più dettagliate le versioni dei due imputati, so-prattutto quella del Granerio che – forse conscio della propria posizionemeno sicura di fronte al tribunale vicariale – riferisce gli aspetti più im-portanti del conflitto, puntando su un’argomentazione che illustri dellacondizione di disagio politico esistente fra i membri del consiglio di cre-denza, fornendo una versione dettagliata e convincente. Bartolomeo Sacco,invece sceglie la via della mediazione. Conscio di essere al centro di unapolemica estesa, confessa di aver pronunciato le parole di minaccia, ma inun contesto differente da quello configurato dagli altri testimoni, offrendouna versione dei fatti che lo allontanasse dalla sollevazione popolare. Lastrategia di ‘rendersi parzialmente estraneo ai fatti’ riesce a evitare penemaggiori.

Nonostante quindi Torino non conosca quella lacerazione che coin-volge e oppone i membri della nobiltà e del Popolo nelle città dell’Italiacentro-settentrionale, è evidente che nella realtà del comune piemonteseesisteva una separazione a livello sociale che affondava le radici nelle pro-blematiche economico-finanziarie del comune. Inoltre, il favore che ilprincipe dimostrò in quel torno di anni verso il Popolo è una prova del-l’esistenza di momenti di forte tensione istituzionale che potevano mette-re in seria crisi gli ordinamenti comunali. La Società di san Giovanni Bat-tista – rifondata con nuovi statuti nel 1389 – rappresentava un’associazio-ne dalle caratteristiche nettamente antiaristocratiche 43 e che – nonostante

Cravinum in medio gladaris, cui dominus vicevicarius precepit quod descenderet et statimdescendit. De aliis interrogatus, respondit se nichil scire » (L. cit).

43 Sulle caratteristiche della società, si veda Gli statuti della Società di San GiovanniBattista del 1389, a cura di M. CHIAUDANO, Torino 1933 (Biblioteca della Società storica su-balpina 138/2), p. 10. Sulla società di san Giovanni Battista si veda anche SERGI, Interazionipolitiche cit., pp. 15-17; BARBERO, Un’oligarchia urbana cit., pp. 23-59; ID., Gruppi e rap-porti sociali cit., pp. 162-168 e 184-190; BANI, Funzionamento della società di S. GiovanniBattista cit., pp. 20-102.

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il controllo che gli ufficiali del principe avevano sull’organismo – signifi-cava per i nobili uno smacco politico. Questi avvenimenti non vanno en-fatizzati, ma servono a definire un gruppo sociale certamente non inerte ecapace – se guardato nel suo complesso – di rendersi compatto al fine diottenere i propri interessi.

Tensioni ulteriori sono ravvisabili all’interno dei conti della tesoreriasabauda dello stesso anno. Purtroppo il testo scarno dei conti non per-mette di circostanziare con precisione la dinamica degli eventi; cionono-stante la fonte attesta il pagamento di una composizione di una lite piut-tosto accesa tra le parti che aveva reso necessario l’intervento del principe,chiamato a dirimere la controversia 44. Tre anni prima, nel 1389, alcuni to-rinesi exceptis illis de albergo, avevano proposto al principe una sommapiuttosto considerevole « pro licencia eis data faciendi in dicta civitateunam societatem duraturam per tempus XXV annorum » 45. Al di la delcontenuto laconico del documento, proprio nel 1389 Amedeo d’Acaiariforma gli statuti della Società di San Giovanni Battista, convogliando lerichieste del Popolo all’interno di una struttura che – nonostante fosseespressione del gruppo popolare – rientrava nei disegni del principe, in-tenzionato a fare ricorso a « strumenti aggregativi ormai consolidati in al-tre realtà cittadine, per esercitare un controllo sociale sulla popolazione eper emarginare eventuali tentazioni eversive dei magnati torinesi » 46.

Oltre a disordini così manifesti, nei Libri Malleficiorum si trovanopochissimi altri accenni a liti tra nobili e populares. Si tratta di casi decisa-mente meno rilevanti e meno palesemente connotati dal punto di vista po-litico. Ad esempio la fonte riporta un’inquisizione del 14 gennaio 1379 chevide imputato per ingiurie verbali, Pietro della Rovere – esponente di spic-co della nobiltà torinese più vicina alla cattedra vescovile – pronunciate nei

44 Nella fonte, parzialmente trascritta da Filippo Saraceno a fine Ottocento, si legge:« Manu Ardicionis Alpini de Taurino, pro sigillo composicionis [...] facti inter illos de so-cietate de Taurino, et illos de albergis de dicto loco non existentibus de societate » (Regestodei principi d’Acaia, 1215-1418, a cura di F. SARACENO, in « Miscellanea di Storia Italiana »,XX, 1882, p. 220). Lo stesso episodio viene connesso da Alessandro Barbero al clima di ten-sione legato all’assegnazione dell’imposta sviluppatosi in credenza nel maggio di quell’anno.Cfr. BARBERO, Un’oligarchia urbana cit., pp. 26-27.

45 Regesto dei principi d’Acaia, 1215-1418 cit., p. 221.46 BORDONE, Magnati e popolani in area piemontese cit., p. 415.

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confronti Ursino Cavaglià, membro di grande prestigio del Popolo. Da unpunto di vista procedurale, l’episodio non si discosta da quello di qualsia-si altro processo per ingiurie testimoniato dai documenti torinesi, soprat-tutto per quanto riguarda la rapidità nello svolgimento dell’inchiesta con-dotta in brevissimo tempo e terminata con una sentenza di condanna a 10soldi per ingiurie pronunciate in presenza del vice vicario 47. Come per tut-ti i casi di reato d’ingiuria, il testo dell’inquisizione riporta il tipo di insul-to (Pietro della Rovere aveva detto: « tu mentisci per gulam! » all’avversa-rio) e sottolinea la condizione psicologica del reo che avrebbe pronuncia-to le parole « iniuriosse et irato animo ». Tale attributo indica un contestodi disagio e tensione fra le due persone che fa pensare a un conflitto piùradicato che aveva trovato pubblicamente una valvola di sfogo (il fatto èavvenuto « in via publica ante apotecham Antonii Voyroni »). La deposi-zione di Pietro della Rovere, come la stragrande maggioranza dei casi ri-portati nelle fonti torinesi, si incentra sull’ammissione di colpa: « predictusPetrus de Ruvore, principalis in facto suo e testis in alieno, iuratus et in-terrogatus super predictis, respondit verum esse quod ipse dixit dicto Hu-risno, presente domino vice vicario, tu mentisci per gulam » 48. Tale am-missione, nel contesto di uno scontro verbale tra due personaggi così in vi-sta del consiglio cittadino e rispettivamente di nobiltà e Popolo, induce apensare a un’inimicizia anche politica.

Episodi di questo genere sono sanzionati anche dai banna, nei qualiad esempio troviamo multato Francesco Corvexio, membro del Popolo ecredendario, « quia evaginavit gladium contra Francequinum Bor-gexium » 49, o Filippo Beccuti per ingiurie dirette al popolare IohaninusCagna 50 o ancora Stefano de Colleto verso un membro dell’illustre fami-glia dei Borgesio 51. All’interno dei conti della castellania, si incontrano an-che casi interessanti in cui membri del Popolo pagano delle ammende perrisse, aggressioni o ingiurie dirette nei confronti di dipendenti di famiglie

47 Liber Malefficiorum cit., I, f. 29v.48 L. cit.49 Art. 75 cit., p. 1, m. 7, rot. 44 (1378-1380).50 Art. 75 cit., p. 1, m. 7, rot. 47 (1384-1386).51 Per quanto riguarda la biografia del « rosso » Borgesio, si veda BARBERO, Un’oligar-

chia urbana cit., pp. 205 e 322.

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nobili, come ad esempio il bovaro di Giovanni Beccuti, vittima di ingiurieda parte di un membro della famiglia Daerio, popolare e di Domenico deBurgo, fratello del credendario Giovanni de Burgo 52.

3. Le tensioni con le autorità sabaude e i legami di solidarietà fra nobili ePopolo

Le alleanze tra i due schieramenti politici emergono – nelle fonti giu-diziarie (sia dai registri che dai banna) – dal contenuto dei conflitti e dalruolo rivestito dai nobili o dai populares come testimoni o fideiussori inprocessi che vedevano imputati membri dell’altro schieramento. Le fontiindividuano un’area della conflittualità particolare nella quale è possibilescorgere la solidarietà o la costruzione di alleanze tra nobili e Popolo: sitratta delle tensioni con le autorità vicariali.

Nella nostra analisi, cominceremo proprio da quest’ultimo punto perconcentrarci in un secondo momento sul ruolo strategico rivestito dalleparti nei processi. Prima di tutto, però, occorre delineare il quadro politi-co-sociale in cui si inserivano i casi di insofferenza o di aperta ostilità ver-so gli ufficiali del principe. Per far ciò, cominceremo dalla lettura degli Or-dinati dell’ultimo trentennio del Trecento, dai quali traspare una chiara econtinua frustrazione della città dei confronti dei principi sabaudi. Glioneri fiscali pretesi per saldare vecchi e nuovi debiti e i continui appelli al-l’invio di contingenti armati, spingono infatti il comune a cercare un com-promesso che non nasconde troppo una certa insofferenza, testimoniandouna condizione di disagio.

Per limitarci al solo arco cronologico interessato dal nostro lavoro, trail febbraio del 1379 e il maggio del 1383, si assiste a un impegno costantedella città a far fronte alle richieste finanziarie del principe. In modo par-ticolare tra l’aprile e il maggio del 1380, il consiglio di credenza deliberal’invio di ambasciatori a Pinerolo « ad exponendum et referendum ex par-te comunis, predicta et gravissima honera comunis » 53. Nel giugno dellostesso anno, il comune chiede al principe l’esenzione dal pagamento dello

52 Art. 75 cit., p. 1, m. 7, rot. 46 (1383-1384).53 Libri Consiliorum del comune di Torino 1380-1383 cit., p. 34.

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stipendio dei mercenari impiegati in guerra, ottenendo di fatto un mo-mento di respiro, ma già in ottobre il consiglio deve provvedere all’accen-sione di un prestito forzoso per pagare i mercenari. Durante i mesi inver-nali i problemi finanziari dovuti all’intensificarsi delle richieste, spingonoil consiglio a esporre nuovamente la difficoltà al principe 54. Nel dicembredel 1382, il consiglio invia un ambasciatore per chiedere una proroga al pa-gamento del taxum, ma la risposta del principe è negativa e il comune de-ve eleggere una commissione di sapienti per occuparsi della riscossione.Nel 1388 la guerra col signore di Milano rappresentava un problema enor-me, tanto è vero che il consiglio cittadino invia un ambasciatore in Savoiaper chiedere la pace con il Visconti 55. Negli anni successivi, per far frontea questi problemi alcuni esponenti tra i più ricchi del Popolo e della no-biltà sono costretti a indebitarsi, come dimostrano i casi di Rainerio Bec-cuti, Antonio Necchi e Antonio Malcavalerio che tra l’aprile del 1387 e ilgiugno del 1389 si indebitano con il vicario per far fronte alle spese del co-mune 56.

I numerosi tentativi di ottenere dal principe dilazioni di pagamento,sgravi fiscali o risposte istituzionali a situazioni politiche contingenti van-no interpretate come un fattore di consapevolezza che la città aveva di sé,del proprio ruolo e delle proprie forze. In altre parole, il comune si rivol-geva al principe per lamentare una situazione difficile, spesso ben cono-scendo la risposta che questi avrebbe dato loro. Nonostante questo ele-mento, rendersi uniti e compatti di fronte alle pretese e alle resistenze delprincipe, era un modo per farsi sentire e dimostrare la propria insoddisfa-zione. Talvolta l’insoddisfazione diventava frustrazione e conduceva a mo-menti di forte tensione e di aperto conflitto. Questi episodi di scontro trala classe dirigente e gli ufficiali del principe si ritrovano nelle fonti giudi-ziarie, sia nei registri sia nei conti di castellania. In modo particolare, nel

54 Il consiglio delibera l’invio di ambasciatori a Pinerolo « pro ponendo remedium of-fensionibus que cotidie per patriam inferentur [...] et ad exponendum consilio illustri domi-ni nostri principis quod comunitas Taurini est taliter honerata pro subsidio debendo [...]quod nullo modo non possent contribuire aliquibus sumptibus faciendis occaxione gentiumarmigerorum ». (Libri Consiliorum del comune di Torino 1380-1383 cit., pp. 101-103).

55 A tal proposito si vedano i Libri Consiliorum del comune di Torino 1387-1389 cit.,p. 129.

56 Cfr. Op. cit., p. 31; p. 256; pp. 294-295.

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registro del 1383 troviamo due processi inquisitori istruiti contro due no-bili torinesi, Martino Borgesio 57 e Filippo Beccuti e nei conti della castel-lania dello stesso anno viene registrato il caso più grave di ostilità verso iSavoia e i suoi ufficiali. Nella nostra analisi, comincieremo proprio da que-st’ultimo caso per prendere successivamente in esame i due processi inqui-sitori contro Martino Borgesio e Filippo Beccuti. I tre episodi ci offronoinoltre la migliore attestazione della solidarietà sociale e dell’aggregazionepolitica tra le forze nobiliari e popolari che si innescavano ogniqualvolta lacittà entrava in conflitto col principe e isuoi ufficiali.

Nel 1383, nella chiesa di San Francesco, il nobile Antonietto Borge-sio propose proprio a taluni membri del Popolo di costituirsi in una legagiurata (le fonti la chiamano espressamente liga popularium) dai connotatianti-sabaudi e dai tratti eversivi. I conti della castellania passano in rasse-gna con molta precisione i vari individui implicati a cominciare da Anto-nietto Borgesio, colpevole di aver personalmente aggredito il vicario. Suc-cessivamente vengono elencati uno per uno i populares coinvolti (Tomma-so Delfino, Giorgio de Pertuxio, Bartolomeo de Pertuxio, BartolomeoCornaglia, Nicolino Daerio e Stefano de Montagna di Reano) e i cives to-rinesi che vi avevano preso parte. Si tratta in prevalenza di individui dedi-ti ai più svariati mestieri, anche se non mancarono casi di coinvolgimentodi artigiani specializzati come Martino e Ardizzone de Fronte che aveva-no una posizione di notevole prestigio in città, figurando tra i principali

57 Il primo caso riguarda un’inquisizione istruita contro Martino Borgesio, in seguitoalla denuncia di Giovanni di Pinerolo famulo del vicario sporta al giudice di Torino, affin-ché procedesse ex officio nei confronti di Martino. Il reato che viene denunciato è di ag-gressione con e senza sangue avvenuta a Torino, sulla via pubblica di fronte all’abitazione diNicola Beccuti et fratres. Martino avrebbe dapprima avuto una colluttazione con il quere-lante per motivi non specificati, ma successivamente avrebbe aggredito Giovanni con la spa-da. Martino ammette di aver colpito Giovanni, anche se afferma di non sapere della fuoriu-scita di sangue. Un primo teste, Nicola figlio di Guglielmo Tapai, dichiara di aver visto Gio-vanni sanguinare, pur ignorando le modalità dell’aggressione che però – sottolinea con for-za – sapeva essere stata compiuta dal Borgesio. Il secondo teste, Guglielmo Beccuti, confer-ma l’accaduto e Martino è condannato per aggressione senza sangue a 40 soldi e a 60 soldiper aver provocato con la spada lo spargimento di sangue. Anche in questo caso le testimo-nianze, seppur confuse riguardo alla dinamica dei fatti, provenivano da persone di buona re-putazione e fama. Soprattutto quella del nobile Guglielmo Beccuti, che a dispetto di quantosi sarebbe potuto immaginare non testimonia a favore di Martino. Il processo si trova in Li-ber Malefficiorum cit., II, ff. 85r-86r.

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carpentieri cui il comune affidava la costruzione o il ripristino delle mag-giori opere pubbliche.

L’aspetto sovversivo della lega emerge con chiarezza dalla definizio-ne della posizione che i suoi membri avevano assunto nel contesto conflit-tuale. Ad esempio, di grande rilievo è l’atteggiamento di Tommaso Delfi-no, il quale aveva partecipato alla lega, « se faciendo quodammodo capita-neum popolarium » 58. O ancora quello di Giacomino Fea, il quale « dixitincitando populum bonum esset capere vicarium domini »e che avrebbetentato di far rilasciare con la forza Antonietto Borgesio, nel frattempo ar-restato e detentus in castro. La lega era stata prontamente soppressa dagliufficiali del vicario, ma non aveva portato ad esiti paragonabili a quelli se-guiti alla congiura del 1334. Infatti, il principe aveva concesso a tutti imembri della lega la remissione di colpa, condonando la metà o i tre quar-ti della pena. Secondo Alessandro Barbero, l’apporto popolare sarebbe sta-to piuttosto scarso per determinare una seria rottura in seno all’oligarchiae proprio la mancanza di una recrudescenza da parte del principe, indicache la gravità dell’accaduto « non debba essere esagerata » 59.

A prescindere da una valutazione qualitativa dell’accaduto – difficiledalla sola lettura dei conti della castellania – credo sia importante sottoli-neare comunque, il carattere di aperta ostilità nei confronti del principe edei suoi collaboratori più stretti testimoniato da questa lega. Non essendoin possesso degli atti del processo, è pressoché impossibile ricostruire le fa-si del conflitto dando ad ognuna di esse il peso che meriterebbe. Soprat-tutto per quanto riguarda l’emanazione della sentenza e la sua successivanegoziazione con il principe. Quello che bisogna rilevare è il carattere tra-sversale dell’insofferenza nutrita dal corpo sociale torinese verso perso-naggi estranei al mondo cittadino, in modo particolare nei confronti diquegli ufficiali forestieri incaricati dal principe sabaudo di reggere il co-mune di Torino.

Se si legge il giuramento della lega e i disordini che ne erano derivatisu scala urbana – non in un’ottica di lotta di fazione tra magnati e popo-lari, ma come espressione di un sentimento condiviso – la considerazione

58 Art. 75 cit., p. 1, m. 7, rot. 46 (1383-1384).59 BARBERO, Torino sabauda cit., p. 241.

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che si impone rimanda a una tensione, tra le comunità urbane del Piemontesottomesse al dominio dei Savoia.

In questa chiave di lettura, la remissione della pena deve essere lettacome un tentativo di mediazione da parte del principe; come un mezzo diricomposizione della stabilità sociale. A fronte di un intervento coercitivoche avrebbe inasprito i rapporti – visto anche il particolare momento con-tingente di crisi e tensione istituzionale – il principe sceglie la via del com-promesso che non faccia venir meno la propria autorità sul comune, mache – ponendo il principe all’interno di una cornice ‘graziosa’ – attenui ilsignificato dello scontro rappresentato dalla lega stessa.

Oltre alla ‘Lega Popolare’ di Antonietto Borgesio, i conti della ca-stellania registrano numerosi altri banna sulla tensione fra nobili, Popoloe le autorità sabaude. Tra questi, ci limiteremo a ricordare l’attentato com-piuto ai danni degli ufficiali del vicario da parte di Ulfredo Beccuti nel1386, che « quadem nocte per transitum becharie, quasdam cordas tendiditcum certis aliis pro familia vicarii cadere facienda » 60.

Passiamo ora al secondo caso di scontro con le autorità vicariali te-stimoniato dai Libri Malleficiorum. L’inquisizione contro Filippo Beccutidel 1383 viene istruita per uno scontro aperto che Filippo aveva avuto conil vice vicario di Torino, Iuvenino de Drua. Il reato denunciato nell’inqui-sizione è l’inosservanza alle norme dello statuto che regolamentavano ilporto d’armi in città 61. In modo particolare, Filippo portava con sé un gla-dius più lungo della misura consentita 62. Lo stesso capo d’accusa sarà im-putato l’anno successivo al fratello di Filippo, Giovanni 63. In occasione

60 Art. 75 cit., p. 1, m. 7, rot. 50 (1385-1390).61 Liber Malefficiorum cit., II, f. 57r.62 Riguardo le misure dell’arma non sappiamo molto. Il testo dell’inquisizione è laco-

nico e si limita a dire che il gladius portato da Filippo Beccuti risulta « contra formam capi-tulorum civitatis Taurini » e che eccede di « unam maiorem mensuram ». L’accostamento conil testo dello statuto tuttavia, ci offre maggiori informazioni. La rubrica 320 – nel definire learmi offensibilia probite – recita che « non intelligatur arma offensibilia cutellus qui non ex-cederet mensuram ordinatam, videlicet uno rasso minus uno octeno cum manubrio » (Glistatuti di Torino del 1360 cit., p. 133). L’arma portata da Filippo Beccuti è quindi un gros-so pugnale, che eccede di una misura il massimo consentito. Desidero ringraziare MarcoMerlo per la consulenza tecnica relativa alle tipologie di armamento in uso nel periodo in-teressato dal mio studio.

63 Art. 75 cit., p. 1, m. 7, rot. 46 (1383-1384). Anche in questo caso non si specifica lalunghezza dell’arma.

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dell’inquisizione del 1383, Filippo viene arrestato dal luogotenente dopouna colluttazione nata dal rifiuto del Beccuti di seguire l’ufficiale al castel-lo per rispondere dell’accusa di porto d’armi non autorizzato. Secondo latestimonianza del luogotenente del vicario, Filippo ha insultato con pesantiminacce l’ufficiale, in seguito alla richiesta perentoria di consegnargli l’ar-ma 64. Filippo si rifiuta di depositare la daga e viene pertanto avvicinato da-gli uomini di Iuvenino de Drua per essere condotto al castello. In quel mo-mento Filippo, tentando di divincolarsi, aggredisce un certo Lazzaro daFossano, uno degli uomini dell’ufficiale. La seconda testimonianza di cuidisponiamo è proprio di Lazzaro che naturalmente conferma la denunciadel suo superiore, così come testimonia anche un certo Oppezzo di Villa-nova d’Asti, famulo di Iuvenino, il quale aveva tentato di sequestrare l’ar-ma a Filippo.

L’imputato imposta una difesa tecnica: ammise di aver ingiuriato ilmiles Iuvenino, ma in propria discolpa afferma di aver portato con sé l’ar-ma per affrontare un viaggio a Rivoli, che poi non avrebbe compiuto, nonavendo avuto a disposizione il cavallo per effettuare lo spostamento. Am-mette inoltre di aver rifiutato di seguire Iuvenino al castello e che avrebbecolpito Lazzaro per errore. « Interrogatus si dixit aliud verbum iniurios-sum dicto militi, respondit se non recordaret » 65. Se la seconda ammissio-ne mira a ridefinire il ruolo giocato dall’imputato nella vicenda, la primaaffermazione fa riferimento direttamente alla normativa statutaria che pre-vedeva l’eccezione di portare con sé arma offensibilia nel caso si stesse perlasciare la città per affari 66.

Il processo contro Filippo Beccuti è quello in cui la solidarietà tra no-bili e Popolo si manifesta più apertamente. Come testimoni a difesa del no-bile Filippo, infatti, vengono interrogati i populares Antonio e Francesco

64 « Dictus Philippus, animo iniuriosso, dixit dicto Iuvenino vivevicario quod faciebatiniusticiam in eo, quod sibi auferri faciebat gladium predictum et quod non esset simper inofficio vicevicarie (et) plura alia verba minatoria contra honorem curie et contra dictum do-minium vicevicarium proferendo » (Liber Malefficiorum cit., II, f. 57r).

65 Op. cit., f. 59r.66 Si tratta dell rubrica 132 sul porto d’armi che vieta di portare con sè arma offensibi-

lia pena una multa di 10 soldi « nec eciam intelligantur dictam penam incurrere cives vel ha-bitatores Taurini euntes per civitatem extra civitatem ad eorum negotia, arma defferentesprout appareat verisimile » (Gli statuti di Torino del 1360 cit., p. 133).

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Malcavalerio e Ricciardello de Broxulo. Entrambi ammisero di aver vistoil Beccuti porre resistenza e ingiuriare il luogotenente del vicario, ma dinon averlo visto colpire Lazzaro. Rovesciando la posizione dell’ufficiale, ilMalcavalerio afferma tuttavia di aver visto invece Lazzaro colpire il Bec-cuti. Ricciardello de Broxulo, fideiussore per l’imputato, conferma la testi-monianza di Filippo e di Antonio, « tamen non vidit eum (Lazzaro) per-cutere ». Successivamente convince Filippo a recarsi in comune insieme conil vice vicario. Francesco Malcavalerio segue il buon esempio di Ricciar-dello, esortando il Beccuti a seguire il vice vicario, ma contestualmente evi-ta che Lazzaro scagli a sua volta una freccia contro Filippo. Come ultimoteste compare un certo Ludovico di Pinerolo che invece « vidit quod dic-tus Philippus de manu percuxit dictum Lazerum » 67. La sentenza è di con-danna, ma solamente a 5 soldi per le ingiurie e non per il reato denuncia-to. I tre esponenti di riguardo del Popolo – che pure abbiamo visto in di-saccordo con la nobiltà per questioni interne al comune – fanno muro at-torno al Beccuti, capovolgendo lentamente la situazione a scapito degli uf-ficiali che si fregiavano del diritto di essere creduti sulla parola in sede pro-cessuale. Tutte e tre le deposizioni dei Malcavalerio e di Ricciardello, cir-coscrivono l’atteggiamento del Beccuti come legittimo, in quanto vittimadi sopruso da parte dell’ufficiale. La sentenza che condanna unicamente leingiurie rende conto del valore assunto in sede di giudizio della testimo-nianza di personaggi influenti del comune, creduti sulla parola ancor pri-ma delle guardie, in quanto indubbi uomini di buona fama. La somma del-le deposizioni di tutti i testimoni pende a favore dei tre membri del Popo-lo, rispetto ai quali quattro testimonianze a favore degli ufficiali, perdonoconsistenza e credibilità.

Le tre testimonianze sono molto simili sotto il profilo dei contenuti.Tutte e tre confermano la deposizione di Filippo, corroborando la tesi dilegittima difesa e limitando il reato alle sole ingiurie. Successivamente peròvengono aggiunti elementi che mirano a screditare l’operato di Lazzaroche non si sarebbe limitato a ingiungere a Filippo di seguirlo, ma lo avreb-be dapprima colpito a mani nude per poi cercare di lanciargli una freccia atradimento. In un quadro rispettoso delle figure istituzionali (tutti e tre

67 Liber Malefficiorum cit., II, f. 60r.

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hanno convinto Filippo Beccuti a seguire il luogotenente del vicario al ca-stello), i tre suggeriscono un comportamento scorretto degli ufficiali, cor-roborando la teoria della legittima difesa.

Il ruolo degli individui che in tali occasioni prestano fideiussione o te-stimonianza a favore, ci dimostra la ramificazione dei rapporti di solida-rietà sociale intrecciata fra le forze politiche di nobiltà e Popolo. In un epi-sodio di faida tra Giovanni e Filippo Beccuti, ad esempio, ritroviamo cita-to Antonio Malcavalerio come fideiussore per Filippo. Il rapporto tra i duerinvia a un contesto di solidarietà politica. Infatti – anche se tra loro inter-corresse un’amicizia anche solo personale – il fatto che legasse due perso-naggi di spicco della nobiltà e del Popolo, credo sia sufficiente a determi-nare il carattere schiettamente politico del legame. Lo stesso discorso valeper Giovanni Beccuti che presenta come fideiussori, in occasione del pro-cesso contro suo fratello, i populares Giovanni e Francesco Gastaldi. Neiprocessi celebrati a Torino tra il 1379 e il 1383, sono tuttavia scarse le se-gnalazioni di fideiussioni (31 nel primo biennio, 49 nel secondo); risultapertanto difficile approfondire maggiormente la questione dello scambiosociale sotteso a tali pratiche. Qualche altra attestazione, comunque, è pre-sente nei registri giudiziari. Nel giugno del 1380, ad esempio, viene istrui-ta un’inquisizione per ingiurie e rissa senza sangue contro due membri digrande rilievo della pars populi, Francesco de Corvexio credendario del co-mune e Francesco de Pertuxio 68. Da alcuni elementi (luogo, tempo e con-tenuto dell’ingiuria) si intuisce chiaramente che tra i due esisteva una for-te inimicizia palesata da una serie di ingiurie dal contenuto infamante cheFrancesco de Pertuxio avrebbe pronunciato contro Francesco de Corvexio,scatenandone l’ira. Il processo è molto breve ed è privo della trascrizionedelle testimonianze. La fonte segnala, tuttavia, il nome dei fideiussori: ilnobile Alberto Borgesio per Francesco de Corvexio e Bartolomeo Saccoper Francesco de Pertuxio.

68 Liber Malefficiorum cit., I, ff. 75r-75v. Del processo, terminato con una doppia com-positio con il vicario, si ha menzione anche nei banna concordata, presenti all’interno deiconti della castellania del 1383. A tal proposito si veda Art. 75 cit., p. 1, m. 7, rot. 46 (1383-1384).

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4. Conclusioni

Attraverso la scelta di analizzare la conflittualità a partire proprio dal-le persone implicate, si è riusciti a dimostrare l’esistenza di tensioni inter-ne alla classe dirigente. Le frizioni rimandano alla complessa gestione del-le risorse fiscali. In modo particolare, la rivendicazione all’imposizione del-la taglia (calcolata proporzionalmente alle ricchezze dei singoli contri-buenti secondo i criteri dell’estimo) è un segno inequivocabile di parte po-litica. Il caso della protesta avanzata nel 1382 dal Popolo di Torino al con-siglio del principe per risolvere nuovamente la questione dell’imposizionedella taglia non va letto come una semplice lamentela, ma come il segno dicoinvolgimento attivo del Popolo nella cornice politica del comune. Con-trariamente a quanto sostenuto dalla storiografia, a Torino nobili e Popo-lo litigano ancora alla fine del Trecento e gli scontri politici rappresentanoconflitti che incidono realmente sugli equilibri tra le parti; così come inci-dono sulla natura stessa dei singoli gruppi di potere. L’oligarchia torinesedi fine Trecento non è un’oligarchia compatta, ma un insieme eterogeneodi individui pronto a scontrarsi sulle questioni che segnavano in profon-dità la vita della città. Le modalità di imposizione delle imposte dirette, iproblemi derivanti dal reperimento e dall’invio di contingenti armati a ser-vizio del principe e la ripartizione degli oneri per la contribuzione ai sus-sidi richiesti dai Savoia sono i principali terreni di scontro tra nobili e po-pulares. L’analisi delle fonti giudiziarie ci porta a ravvisare nel Popolo diTorino un gruppo in cerca di un’autorappresentazione, che non sfuggìneanche al principe. Nella lettera di risposta alle richieste del 1382 69, ilcontinuo e iterato uso del termine populares da parte del principe, sottoli-nea la presa di coscienza dell’esistenza di un Populus inteso come un in-sieme coordinato di individui capace di autorappresentarsi al fine di otte-nere il riconoscimento di alcuni diritti.

Ma lo studio dei registri giudiziari e dei banna contenuti nei rotoli deiconti della castellania ha permesso di ravvisare non solo frizioni e spacca-ture nei rapporti interni alla classe dirigente. Gli scontri con gli ufficialiprincipeschi rivelano una coesione sociale tra nobiltà e Popolo. Un’insof-ferenza capace di diventare aperta ostilità e coagulare le parti politiche ver-

69 Libri Consiliorum del comune di Torino 1380-1383 cit., p. 308.

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so azioni di forza volte a far sentire la propria voce. In quest’ottica va let-to il giuramento della « Lega Popolare » promossa da Antonietto Borgesioe sostenuta da un certo numero di popolari. Questi fatti, che abbiamo de-finito come « azioni di forza » sono da interpretare, tuttavia, all’interno delcontesto politico sabaudo. Un contesto nel quale l’elemento di mediazio-ne offerto dai principi giocava un ruolo chiave nella definizione di un equi-librio di potere tra il principe e la città. I dissidi tra autorità vicariali e laclasse dirigente si traducevano sul piano della politica interna della città, inun difficile rapporto che si instaurava tra gli ufficiali del comune e i sem-plici cittadini. Soprattutto per ragioni legate alla riscossione pratica delleimposizioni straordinarie.

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