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Che le economie di mercato contemporanee siano in varia misura con- dizionate dall’operare di istituzioni politiche e sociali è osservazione lar- gamente condivisa. M a quali sono i confini e gli intrecci fra regolazione macro-politica e regolazione micro-sociale dell’economia? Nel secondo dopoguerra era emerso, in diversi paesi «suropei, un modello di «rego- lazione politica concertata e centralizzata» dell’economìa, basato su keynesismo, welfare state e concertazione. Contrariamente a quanto atteso da molti, la sua crisi negli anni ottanta non ha significato la fine di ogni capacità delle istituzioni sociali e politiche di strutturare i com- portamenti economici; queste hanno anzi largamente condizionato i modi in cui le economie occidentali si sono -ristrutturate in quegli anni. In generale, a un tipo di economia istituzionalmente regolata non ne è seguita una deregolata. Sono solo mutate; le istituzioni più rilevanti: da macro-politica, la regolazione delle attività eco .amiche è divenuta pre- valentemente micro-sociale. Difficilmente foerò la seconda potrà costi- tuire un’alternativa stabile alla prima. Come; sia possibile forzare i confini per trovare un’integrazione o nuovi punti dii equilibrio fra micro e macro, è la principale questione che rimane aperta. Indice del volume: Presentazione. - Introduzione. - Parte prima: Ascesa e declino della regolazione politica dell’economia. - I. Il welfare state keynesiano e la sua crisi. Il - La concertazione instabile. - III. Interessi organizzati e politiche pubbliche. - IV. Il casso italiano: stato, economia e interessi organizzati. - V. Il caso italiano: i tentativi di patto sociale. - Parte seconda: La regolazione micro-sociale del riaggiustamento eco- nomico. - VI. Crisi dello scambio politico e sviluppo della micro-concer- tazione. - VII. Il contesto: diversificazione <e ricerca di flessibilità. - Vili. Un caso emblematico: riaggiustamento industriale e micro-concertazio- ne in Italia. - IX. Le strategìe degli attori: i ssindacati europei dal conflitto alla partecipazione. - X Le strategie degli attori: gli imprenditori di fron- te al problema del consenso. - Riferimenti bibliografici. Marino Regini insegna Sociologia economiica nell’Università di Trento. Con II Mulino ha nià pubblicato: «I dilemrmi del sindacato» (1981), «Il conflitto industriale in Italia» (1985, con G. Cella), «Stato e regolazione sociale» (1987, con P. Lange) e «Strategie di riaggiustamento industria- le» (1989, cor C. Sabel)- ISBN 88-15-03296-7 *BBO000G7 19L* L. 30.000 (i.i.) 9 788815 032966

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economia e società

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Che le economie di m ercato contemporanee siano in varia misura con­dizionate dall’operare di istituzioni politiche e sociali è osservazione lar­gamente condivisa. M a quali sono i confini e gli intrecci fra regolazione macro-politica e regolazione micro-sociale dell’economia? Nel secondo dopoguerra era emerso, in diversi paesi «suropei, un modello di «rego­lazione politica concertata e centralizzata» dell’economìa, basato su keynesismo, welfare state e concertazione. Contrariamente a quanto atteso da molti, la sua crisi negli anni ottanta non ha significato la fine di ogni capacità delle istituzioni sociali e politiche di strutturare i com­portamenti economici; queste hanno anzi largamente condizionato i modi in cui le economie occidentali si sono -ristrutturate in quegli anni. In generale, a un tipo di economia istituzionalmente regolata non ne è seguita una deregolata. Sono solo mutate; le istituzioni più rilevanti: da macro-politica, la regolazione delle attività eco .amiche è divenuta pre­valentemente micro-sociale. Difficilmente foerò la seconda potrà costi­tuire un’alternativa stabile alla prima. Come; sia possibile forzare i confini per trovare un’integrazione o nuovi punti dii equilibrio fra micro e macro, è la principale questione che rimane aperta.

Indice del volume: Presentazione. - Introduzione. - Parte prima: Ascesa e declino della regolazione politica dell’economia. - I. Il welfare state keynesiano e la sua crisi. Il - La concertazione instabile. - III. Interessi organizzati e politiche pubbliche. - IV. Il casso italiano: stato, economia e interessi organizzati. - V. Il caso italiano: i tentativi di patto sociale. - Parte seconda: La regolazione micro-sociale del riaggiustamento eco­nomico. - VI. Crisi dello scambio politico e sviluppo della micro-concer­tazione. - VII. Il contesto: diversificazione <e ricerca di flessibilità. - Vili. Un caso emblematico: riaggiustamento industriale e micro-concertazio- ne in Italia. - IX. Le strategìe degli attori: i ssindacati europei dal conflitto alla partecipazione. - X Le strategie degli attori: gli imprenditori di fron­te al problema del consenso. - Riferimenti bibliografici.

Marino Regini insegna Sociologia economiica nell’Università di Trento. Con II Mulino ha nià pubblicato: «I dilemrmi del sindacato» (1981), «Il conflitto industriale in Italia» (1985, con G. Cella), «Stato e regolazione sociale» (1987, con P. Lange) e «Strategie di riaggiustamento industria­le» (1989, co r C. Sabel)-

ISBN 88-15-03296-7

* B B O 0 0 0 G 7 1 9 L *

L. 30.000 (i.i.) 9 7 8 8 8 1 5 0 3 2 9 6 6

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MARINO REGGINI

CONFINI MOBILILA COSTRUZIONE DELL'ECONOMIA

FRA POLITICA E SOCIETÀ

IL MULINO

RICERCA

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ISBN 88-15-03296-7

Copyright © 1991 by Società editrice il Mulino, Bologna. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

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INDICE

Presentazione

Introduzione

PARTE PRIMA: ASCESA E DECLINO DELLA REGOLAZIONE

POLITICA DELL’ECONOMIA

I. Il welfare state keynesiano e la sua crisi

1. Le funzioni econom iche tradizionali dello stato.- 2. Lo sviluppo del welfare state keynesiano. - 3. Effetti perversi e risposte alla crisi.

II. La concertazione instabile

1. Scambio politico e concertazione. - 2. Sviluppo e instabilità dello scambio politico: le mutevoli convenienze degli attori. - 3 . 1 contenuti e gli esiti dello scambio.

III. Interessi organizzati e politiche pubbliche

1. Interessi organizzati e «policy-making». - 2. In ­teressi organizzati e «policy-implementation».

IV. Il caso italiano: stato, economia e interessi organizzati

1. Si p u ò parlare di «welfare state keynesiano» in Italia? - 2. Stato, mercato e regolazione sociale dell’economia. - 3. Le dinamiche del m utam ento .

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V. Il caso italiano: i tentativi di patto sociale p. 119

1. Il periodo della «solidarietà nazionale». - 2. L ’accordo triangolare sul costo del lavoro del 1983. - 3. Il mancato accordo unitario del 1984. - 4. C ontenuti dello scambio e influenza dei partiti politici.

PARTE SECONDA: LA REGOLAZIONE MICRO-SOCIALE

DEL RIAGGIUSTAMENTO ECONOMICO 1 4 1

VI. Crisi dello scambio politico e sviluppo dellamicro-concertazione 1 4 3

1. Il declino della concertazione macro-nazionale.- 2. L’em ergere di nuove forme di concertazione.- 3. Una breve conclusione.

VII. Il contesto: diversificazione e ricerca diflessibilità 1 61

1. Flessibilità e diversificazione. - 2. Le conse­guenze della ricerca di flessibilità sui rapporti fra gli attori. - 3. Le conseguenze della diversificazione della forza lavoro sui rapporti fra gli attori.

VIII. Un caso emblematico: riaggiustamento in­dustriale e micro-concertazione in Italia 1 7 9

1. La r i s t r u t t u r a z i o n e de l le im p re se . - 2. L ’aziendalizzazione della forza lavoro e la m icro ­concertazione nascosta. - 3. Il ruolo delle is t i tu ­zioni nel riaggiustam ento industriale.

IX. Le strategie degli attori: i sindacati europeidal conflitto alla partecipazione 201

1. Sindacati e lavoratori: la fase della mobilitazione collettiva. - 2. Sindacati e stato: la fase della concertazione. - 3. Sindacati e imprese: la fase della flessibilità. - 4. Q uestioni aperte e scenari pe r gli anni novanta.

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X. Le strategie degli attori: gli imprenditori di fronte al problema del consenso

1. Politiche manageriali di regolazione del lavoro e ricerca del consenso: uno schema analitico. - 2. U n ’applicazione dello schema analitico: l ’in te r ­pretazione del caso italiano. - 3. Ipotesi e problemi aperti.

Riferimenti bibliografici

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PRESENTAZIONE

Questo volume non presenta i risultati di una singola ricerca, né d ’altro canto una teoria compiutamente elaborata. Deriva invece, per così dire, da una sedimentazione di spunti analitici che trovano la loro origine in ricerche diverse svolte negli ultimi anni da chi scrive e nelle riflessioni teoriche che le hanno accompagnate. Il quadro d ’insieme che il volume propone non era affatto chiaro al momento della conduzione di quelle ricerche e dell’elaborazione di quelle riflessioni. È sl ato infatti necessario rivederle profondamente, completarle con analisi nuove, cercare i collegamenti fra loro. L ’architet-1 ara del volume si è venuta precisando solo via via che venivano alla luce le implicazioni di ciascun «pezzo» di analisi per gli altri e le connessioni fra i diversi «pezzi».

La ragione principale per cui il quadro d ’insieme non era inizialmente chiaro, e per cui potrà forse sembrare, a prima vista, addirittura arbitrario a qualche lettore, merita qualche considerazione. Essa ha a che fare con la divisione sempre più spinta del lavoro scientifico - e con gli scarsi incentivi a disposizione degli studiosi che vogliano trascendere gli specialismi della propria disciplina - non solo per ciò che riguarda gli strumenti di analisi, ma anche i temi che tradizio­nalmente sono oggetto della disciplina stessa. Come apparirà subito chiaro a chiunque abbia familiarità con le scienze sociali contemporanee, i temi di cui si occupa la prima parte di questo volume sono comunemente trattati dalla sociologia politica e da quella economica, e più ancora, almeno in cam­po internazionale, dalla scienza politica; mentre i temi della seconda parte rientrano nel campo della sociologia del lavoro, dell’economia industriale, delle relazioni industriali. Per questo la letteratura, le teorie, gli schemi di analisi rilevanti per la

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prima parte del volume raramente riguardano anche i temi della seconda, e viceversa. Eppure, chi scrive ha lentamente maturato la convinzione che le due aree di fenomeni siano così strettamente legate fra loro, che il non tenere sistemati­camente conto delle interconnessioni (ovvero, per anticipare l ’espressione che userò più avanti, la mancata integrazione fra i livelli micro e macro ai quali avviene la regolazione delPeconomia) produce gravi distorsioni analitiche.

Nella prima parte del volume, discuterò le ragioni del­l’ascesa, i vantaggi e i limiti, e le cause del declino di quello che ho chiamato il modello di «regolazione politica concer­tata e centralizzata» delle economie di mercato. Si tratta di una forma di macro-regolazione nella quale lo stato e le grandi organizzazioni degli interessi svolgono compiti cruciali di allocazione delle risorse, per contrastare alcuni esiti so­cialmente indesiderati dell’operare del mercato, che pure rimane l ’istituzione economica dominante. Gli «ingredienti» di questo modello - le politiche keynesiane, il welfare state, la concertazione con gli interessi organizzati - sono stati ampiamente analizzati dalla letteratura, ma non sempre sono stati considerati appunto come parti di un tutto, e tanto meno nel loro rapporto con il sottostante livello «micro» a cui pure operano gli attori economici.

Dopo avere sostenuto lo straordinario sviluppo econo­mico che l ’O cciden te ha conosciuto pe r quasi un cinquantennio, negli anni ottanta questo modello è entrato in una fase di declino. Ma, contrariamente a quanto sostenuto da gran parte degli studiosi di questo primo gruppo di fe­nomeni, la crisi di quella forma storicamente specifica di regolazione dell’economia non ha comportato il venir meno della capacità delle istituzioni sociali e politiche di strutturare i comportamenti economici. Per anticipare quanto sosterrò nell’introduzione alla seconda parte del volume, il riag­giustamento economico che ha avuto luogo negli anni ottanta non si è affatto basato ovunque su un semplice ritorno al «libero operare del mercato». In diversi paesi europei, si è anzi giovato di situazioni «istituzionalmente dense», che hanno condizionato le strategie degli attori, e quindi le strade e i modi con cui le diverse economie si sono ristrutturate.

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A un ’economia istituzionalmente regolata non ne è succeduta una de-regolata: sono solo mutati i modi della regolazione e le istituzioni più rilevanti. Da macro-politica, la regolazione delle attività economiche è divenuta preva­lentemente micro-sociale. E la ricerca di consenso che aveva caratterizzato la prima ha costituito un ingrediente cruciale anche della seconda, sia pure, come vedremo, in forme dif­ferenti. Ma in che misura le forme di regolazione micro­sociale (che esaminerò nella seconda parte del volume) possano costituire un’alternativa stabile alla regolazione politica concertata e centralizzata dell’economia (che è l’oggetto della prima parte), e in che misura occorra invece trovare nuovi punti di equilibrio fra micro e macro, è la principale questione che rimane aperta. Una questione che questo volume si limita a porre, senza poter fornire risposte definitive.

Un volume come quello qui tratteggiato naturalmente riutilizza spunti diversi di ricerche e di analisi precedenti. Non è però in nessun modo una semplice raccolta di saggi dell’autore. Non solo, infatti, diversi capitoli o paragrafi sono completamente inediti. Anche quelli che non lo sono del tutto, sono comunque stati rivisti, rimaneggiati e so­prattutto ripensati in modo da trasformarli in tasselli di quel quadro d ’insieme di cui ho detto.

In secondo luogo, un volume come questo comprende necessariamente capitoli - come quelli della prima parte - il cui compito è soprattutto di sistematizzare e di mettere in relazione con le questioni centrali analisi che sono ormai consolidate e su cui la letteratura è abbondante, e capitoli che si muovono invece su terreni molto più inesplorati, per offrire spunti interpretativi che solo la ricerca futura potrà convalidare e arricchire.

Infine, un volume come questo ha numerosi debiti in­tellettuali p ro tra tti nel tem po, perché nasce dalla frequentazione prolungata di ambienti scientifici assai diversi fra loro. Si tratta quindi di debiti collettivi, prima ancora che individuali, che desidero qui ricordare.

Innanzitutto, le analisi contenute nella prima parte del volume devono molto all’intensa esperienza della rivista «Stato e Mercato». Non solo essa è stata uno strumento decisivo per

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sviluppare quell’approccio inter-disciplinare che va sotto il nome di politicai economy, ed entro il quale i temi del rap­porto fra economia, condizioni sociali e assetti politico-isti­tuzionali hanno ricevuto gli approfondimenti più rilevanti. Anche le discussioni periodiche all’interno della redazione - della quale ho avuto la fortuna di fare parte fin dalle origini- sono state spesso occasioni uniche di confronto e di crescita collettiva. Sui temi trattati in questo volume, non posso non ricordare in particolare il contributo di Michele Salvati, Massimo Paci e Carlo Trigilia, ma il ringraziamento si estende a tutti gli altri componenti del Comitato editoriale.

Per quanto riguarda i temi della seconda parte del volume, d ’altro canto, ho trovato le occasioni di confronto e di di­scussione più feconde all’interno delPlres Lombardia, un istituto di ricerca che da diversi anni opera come una vera piccola comunità scientifica, nella quale i rapporti personali sono inseparabili da quelli professionali e il contributo dato dai singoli è difficilmente distinguibile dal lavoro collettivo. Entro una tale comunità, vivacizzata dalla presenza di Rosalba Moroni, molte sono le persone con le quali i rapporti intel­lettuali sono intensi e di vecchia data: innanzitutto Ida Regalia, con la quale ho condiviso tante idee e progetti di lavoro, e poi Alessandro Arrighetti, Paolo Perulli, Emilio Reyneri, Antonio Chiesi, Paolo Santi; ma tutti gli altri collaboratori hanno in qualche misura contribuito al percorso intellettuale che si è tradotto in questo volume.

Chi insegna e svolge gran parte del proprio lavoro scien­tifico nell’università non può non avere un debito rilevante anche nei confronti di diversi colleghi. L ’arco di tempo du­rante il quale questo volume è sedimentato comprende non una, ma due esperienze universitarie: quella nella facoltà di Scienze Politiche dell’Università statale di Milano, e quella nella facoltà di Sociologia dell’Università di Trento. Per quanto riguarda la prima, voglio ringraziare quei colleghi con i quali le occasioni di collaborazione e di scambio sono state più frequenti, cioè Bianca Beccalli, Marco Maraffi, Alberto Martinelli, e soprattutto Gloria Regonini. Quanto alla secon­da, mi sia consentito di limitarmi al ricordo delle discussioni,

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talvolta accese ma sempre improntate a reciproca stima, con il collega e amico scomparso Guido Romagnoli.

Infine, vi è un quarto tipo di «ambiente scientifico» che non corrisponde ad alcuna istituzione formale, ma che non posso non ricordare perché è stato importante almeno quanto gli altri nella lenta gestazione di questo volume. Si tratta della comunità scientifica internazionale degli studiosi di politicai economy, che attraverso le iniziative congiunte, i colloqui informali, e in taluni casi la collaborazione diretta, hanno fornito apporti preziosi e consentito verifiche conti­nue sul percorso intellettuale racchiuso nelle pagine che seguono. Per primi, voglio ringraziare Peter Lange e Chuck Sabel, insieme ai quali ho coordinato due lavori collettanei che hanno lasciato tracce profonde su questo volume. Poi Wolfgang Streeck, Philippe Schmitter, John Goldthorpe, e tutti gli altri amici e colleghi che, attraverso comuni esperienze di lavoro e di discussione, hanno influenzato in qualche misura le idee contenute nel volume.

Anche se in questo caso non è del tutto vero, non mi discosterò dall’uso ormai invalso di aggiungere che, natu­ralmente, nessuna delle persone citate è in alcun modo re­sponsabile di quanto è scritto nelle pagine che seguono.

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INTRODUZIONE

La storia dello sviluppo del capitalismo in Occidente, e dell’organizzazione del sistema economico che ne è conse­guita, porta con sé l’idea del progressivo prevalere del mer­cato su altre istituzioni. Oltre che essere diventato il prin­cipale meccanismo di regolazione della vita economica, il mercato viene tradizionalmente visto come un’istituzione che è giunta a permeare delle sue leggi anche ampie sfere della vita sociale, sottraendo competenze e capacità regola- tiva alle norme prodotte dallo stato e dalla comunità. Quan­do si pensa all’espansione del capitalismo, insomma, spesso si pensa alla penetrazione del mercato - e dei principi della competizione e dello scambio sui quali esso si basa - in rapporti economici e sociali precedentemente regolati da altri principi, quali la solidarietà e la gerarchia o l’autorità.

Per i classici delle scienze sociali, ad esempio, questa visione è alla base di alcuni dei temi centrali nella loro rifles­sione. Basti ricordare l’importanza per Weber del «principio di razionalità», che altro non è che un effetto della necessità di calcolo e di prevedibilità imposta dal mercato, e che finisce con il dominare anche la vita sociale e il sistema politico, incorporandosi nella burocrazia. O la fine, per Durkheim, della «solidarietà meccanica» e l’emergere di una «solidarie­tà organica» basata sulla divisione del lavoro, quindi sullo scambio che è il criterio guida di allocazione delle risorse nel mercato. O ancora, per Marx, la riduzione che il capitalismo impone dei rapporti fra gli uomini a rapporti di mercato tout court; e in particolare la riduzione del lavoro a merce, a «forza-lavoro» che si domanda e si offre appunto su un mercato, il mercato del lavoro.

Una lettura tradizionale nelle scienze sociali del rappor­

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to fra economia, politica e società sottolinea dunque gli ef­fetti che l’organizzazione della vita economica, dominata dalle leggi del mercato, produce nei rapporti sociali più in generale. 0 , detto in altri termini, mette in luce gli spillovers (le ricadute) sulle sfere della vita sociale e politica di un modo di regolazione dell’economia basato principalmente sul mercato.

Vi è però un altro tipo di lettura quasi speculare, che ha avuto anch’essa un’ampia cittadinanza nelle scienze sociali e che è chiamata a rispondere a problemi teorici e politici oggi di maggiore rilevanza. In essa confluiscono filoni alquanto diversi, che hanno irv comune niente più che un’attenzione al ruolo che le istituzioni sociali e politiche possono svolgere nella regolazione di quel sistema economico in cui il mercato ha una funzione centrale ma non esclusiva. Che l’organizza­zione della vita economica, anche nel periodo del capitalismo trionfante, non si esaurisca mai esclusivamente nel mercato, e che comunque questo non sia in grado di produrre sempre esiti allocativi ottimali, è un’osservazione così ampiamente condivisa da apparire quasi scontata. Da questa osservazione possono però discendere, e sono in effetti nate, impostazioni molto diverse nelPindagare il ruolo svolto nell’economia dalle istituzioni non di mercato.

Un’impostazione assai riduttiva in termini sia analitici sia prescrittivi è quella che assegna alle diverse istituzioni sociali e politiche un ruolo residuale nella regolazione del sistema economico, cioè un ruolo di semplice intervento complementare o suppletivo nei casi di insufficiente svilup­po o di «fallimento» del mercato.

Il filone classico della politicai economy analizza invece (con giudizi di valore variabili) principalmente le esperienze di «regolazione politica» dell’economia, cioè quelle che af­fidano allo stato, spesso in accordo con le grandi organizzazioni degli interessi, compiti cruciali di allocazione delle risorse per contrastare gli esiti socialmente indesiderati dell’operare del mercato. Si tratta principalmente di compiti di riequilibrio di uno sviluppo economico distorto, e di compensazione delle disuguaglianze di reddito e di potere che il mercato produce.

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Vi è poi un terzo ruolo possibile che le istituzioni sociali e politiche talvolta svolgono nel sistema economico: un ruolo anch’esso di interferenza con il mercato, ma non già per riequilibrarne o compensarne gli esiti, bensì per condizionarne10 stesso funzionamento. Strutturando le opzioni dei parte­cipanti al mercato, infatti, le istituzioni sociali e politiche possono - talvolta in modo esplicito e consapevole, talaltra come effetto non previsto della propria azione - indurli a perseguire taluni interessi e comportamenti a scapito di altri. In tal modo «aiutano» il mercato a produrre esiti che i suoi partecipanti, in quanto attori razionalmente motivati a sod­disfare i propri interessi immediati, non sarebbero da soli in grado di determinare.

Questo volume adotta il tipo di lettura meno tradizionale del rapporto fra economia, politica e società, cioè si concentra sull’analisi del ruolo delle istituzioni sociali e politiche nel funzionamento (o nelle disfunzioni) del sistema economico, e non viceversa.

In questa prospettiva, i fenomeni studiati dal filone classico della politicai economy sono indubbiamente stati quelli cruciali per una buona metà di questo secolo (all’incirca dagli anni trenta agli anni ottanta). La loro crisi - o il venir meno della loro rilevanza - che si è verificata nel decennio trascorso ha indotto molti studiosi a proclamare un ritorno incondizionato del mercato, sempre più libero dalle interferenze e dai vin­coli posti dalle altre istituzioni regolative dell’economia. La fine di un modello di regolazione del sistema economico (quello che possiamo definire come «regolazione politica concertata e centralizzata» dell’economia, e che verrà ana­lizzato nella prima parte del volume) è stata spesso scambiata con la fine della politicai economy tout court.

Ma non è così. Contemporaneamente alla crisi di quel modello, è emersa infatti una maggiore consapevolezza del ruolo che svolgono le altre forme di regolazione sociale - dalle reti comunitarie in cui predominano valori condivisi alla contrattazione fra interessi organizzati - nel condizionare11 funzionamento del mercato. Soprattutto, è andata crescendo l’importanza dei fattori sociali e istituzionali che operano al livello «micro» (cioè al livello del luogo di produzione, o a

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quello dell’organizzazione economico-sociale territoriale) nel favorire o nell’ostacolare il mutamento del sistema economico, strutturando le convenienze degli attori. Da qui il titolo dato alla seconda parte del volume: «la regolazione micro-sociale del riaggiustamento economico». Si tratta di tendenze ancora incerte e non facili da decifrare, per analizzare le quali si potranno solo offrire spunti frammentari e non interpretazioni complessive. Ma la terza prospettiva sopra accennata sul ruolo delle istituzioni sociali e politiche - quella per la quale esse strutturano le opzioni dei partecipanti al mercato in­ducendoli a perseguire taluni interessi e comportamenti a scapito di altri - ne esce rafforzata. Per questo possiamo parlare di nuovi modi in cui la società condiziona l’economia, piuttosto che di un processo di ulteriore autonomizzazione del sotto-sistema economico dalla società stessa.

Cerchiamo ora di chiarire sinteticamente il senso di questo tragitto che il volume intende affrontare, attraverso la messa a punto di alcuni strumenti concettuali1.

Possiamo intanto notare che il dibattito sui rapporti fra stato e mercato nella regolazione delle attività economiche è un dibattito antico. Nelle scienze sociali del secondo dopo­guerra, questo dibattito ha conosciuto un periodo di grande fortuna nei tardi anni sessanta, dopo che un importante volume di Andrew Shonfield [1965] mostrò che in numerosi paesi europei lo stato aveva ormai assunto un ruolo di note­vole rilievo nell’economia. L ’espansione delle politiche keynesiane e del welfare state, e la crescita del settore pub­blico e di forme di economia mista, apparivano in quella fase fenomeni di lungo periodo, forse irreversibili, e venivano in genere guardati con un certo favore da economisti e scienziati sociali. E anche chi deprecava - particolarmente negli anni settanta - la spartizione delle risorse pubbliche fra gruppi

' Per i quali mi rifarò parzialmente a un articolo scritto insieme con Peter Lange (cfr. P. Lange e M. Regini, Regolazione sociale e politiche pubbliche: schemi analitici per lo studio del caso italiano, in «Stato e Mercato», 1987, n. 19, pp. 97-121), a cui va dunque parte del merito e un po ’ di responsabilità per alcune delle prossime pagine di questa In trodu ­zione. Brani di tale articolo verranno ripresi anche nel par. 1 del terzo cap. e nel par. 2 del quarto cap.

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sociali o addirittura la «colonizzazione dello stato» da parte di interessi privati, o ancora l’emergere di forme neo­corporative di produzione delle politiche pubbliche, non faceva di fatto che sottolineare l’altra faccia dello stesso fenomeno, che veniva accettato comunque come un dato di fatto: cioè la crescente importanza dello stato nella distri­buzione di risorse economiche.

Eppure, le osservazioni di Shonfield non furono in grado di smuovere le barriere disciplinari fra economisti, sociologi e politologi che con grande ritardo. Così che, quando final­mente diversi studiosi si decisero a «reinserire lo stato» nelle loro analisi [Skocpol 1985], il fenomeno era ormai in decli­no, e in molti paesi venivano addirittura indicate tendenze di segno opposto.

Negli anni ottanta, infatti, sembra emergere il fenomeno inverso, cioè - per riprendere il titolo di un volume curato da Charles Maier [1987] - sembra prevalere la tendenza a un restringimento dei «confini del politico». La de-regulation dell’economia acquista un posto centrale nel dibattito ideo­logico e in parte nell’agenda politica (soprattutto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna) in conseguenza di tre gruppi di fenomeni principali. Anzitutto, quelli che vengono considerati «effetti perversi» delle politiche keynesiane e dell’espansio­ne del welfare state (cioè la crisi fiscale, il sovraccarico di domande allo stato, la de-mercificazione della forza lavoro, ecc. (cfr. il par. 3 del primo cap.). Poi i nuovi vincoli derivanti dall’accresciuta competizione internazionale, che riducono la possibilità delle economie nazionali di operare entro margini «accettabili» di inefficienza e di performance subottimale (cfr. il settimo cap.). E infine il mutamento dei rapporti di forza nel mercato, e in diversi casi anche nell’arena politica, a sfavore del lavoro, o della sinistra più in generale.

Per questa ragione, molti studi di politicai economy che analizzano i mutamenti nelle forme di regolazione delle atti­vità economiche, ritengono di potersi porre una questione assai semplice: nella regolazione di queste attività si è o no verificato, negli ultimi dieci anni, un ridimensionamento del ruolo dello stato rispetto a quello del mercato? Vi è stata cioè una effettiva «ritirata» dello stato, come previsto (o auspicato)

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da molti, o si è complessivamente mantenuto quel sistema di diffuso intervento statale messo in luce quasi trentanni fa da Shonfield e in seguito da molti altri osservatori?

Occorre notare che, ponendo la questione in questo modo, alcune analisi - e ancor più gran parte del dibattito politico- finiscono con il considerare stato e mercato come istituzioni regolative nettamente distinte e in competizione fra loro. Tendono quindi ad analizzare (e più spesso a denunciare) le «interferenze nelle rispettive sfere di competenza» più che a capire come funzionano le loro combinazioni concrete. O concentrano l’attenzione su presunte tendenze generali quali la «ritirata» dello stato o la «ripresa» del mercato anziché sui mutamenti costanti e di segno incerto nel loro mix. In se­condo luogo, esse finiscono con il trascurare completamente il ruolo delle altre istituzioni regolative (comunità e asso­ciazioni).

Lo stesso significato di «regolazione del sistema econo­mico» viene spesso ridotto a quello di intervento statale, in contrapposizione al funzionamento del mercato. Attingendo alle tradizioni più ricche e meno riduttive della politicai economy e della sociologia economica, in questo volume si adotterà invece un’accezione più ampia. Per «regolazione dell’economia» intendiamo infatti i diversi modi in cui quel particolare insieme di attività e di rapporti fra attori che attiene alla sfera della produzione e della distribuzione di risorse economiche viene coordinato, le risorse che vi sono connesse vengono allocate, e i relativi conflitti, reali o po­tenziali, vengono strutturati - cioè prevenuti o composti. Riprendendo una lunga tradizione di studi [Polanyi 1944; Lindblom 1977; Ouchi 1977; Poggi 1978; Crouch 1978], possiamo dire che questi diversi «modi» o «forme di regolazione» sono: la regolazione statale che si basa sul principio dell’autorità, quella di mercato che si basa sullo scambio, quella comunitaria che si forda sulla solidarietà, e, secondo Streeck e Schmitter [1985], anche quella associativa che si basa sulla concertazione inter- e intra-organizzativa.

Riepilogando, stato e mercato non vanno analizzati come istituzioni regolative necessariamente contrapposte - tali che quando l’una aumenta di im p o r ta la l ’altra decisamente

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declina - , in quanto diverse aree di attività economica basano il loro funzionamento su un mix, ovvero su intrecci com­plessi, fra le due. In secondo luogo, esse non sono le uniche istituzioni regolative del sistema economico. Infine, «regolazione dell’economia» non è sinonimo di intervento statale né di regolazione politica centralizzata, come spesso si assume, ma comprende anche forme di coordinamento di attività e di rapporti, di allocazione di risorse e di strutturazione di conflitti, che hanno luogo a livello micro per effetto del- l’operare di altre istituzioni sociali. Esaminiamo ora breve­mente ciascuno di questi tre punti.

a) Anzitutto, gli studi condotti in diversi paesi su vari tipi di politiche economiche e sociali - cioè su aree di attività e di rapporti economici oggetto di un almeno potenziale intervento statale - mostrano combinazioni di stato e di mercato assai variabili fra un’area e l’altra. Poche sono co­munque le attività e i rapporti attinenti la produzione e distribuzione di risorse, in cui lo stato, o il mercato, o altre istituzioni regolative, dominano incontrastate. La loro compresenza costituisce non già un’eccezione che produce instabilità e contraddizioni, ma la situazione normale in molte aree di attività economica. Fra l’altro, in questa miscela sta una delle ragioni del carattere poco visibile e al tempo stesso costante che molti mutamenti nelle forme di regolazione assumono. Spesso questi si presentano come spostamenti marginali nel mix precedente, determinati non da grandi decisioni ma da piccoli continui aggiustamenti; così che in diversi paesi il mutamento assume prevalentemente un ca­rattere incrementale e di tipo adattivo.

b) Il secondo punto è che stato e mercato non sono le due sole forme di regolazione degne di attenzione nella sfera economica. Accanto ad esse, ha continuato a svolgere una funzione rilevante la regolazione di tipo comunitario, e ha progressivamente acquistato importanza quella di tipo as­sociativo. Laddove prevalgono istituzioni di tipo comunita­rio, il coordinamento delle attività e l’allocazione delle risorse hanno luogo principalmente attraverso forme di solidarietà spontanea. Questa può avere le proprie radici in norme, consuetudini, o valori condivisi dai membri della comunità

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(sia questa una famiglia, un clan, una subcultura, un movi­mento sociale) e basati su rispetto, fiducia e così via; oppure nella semplice identificazione con la comunità e quindi con le sue regole e gerarchie. L’appartenenza a una comunità dipende infatti da criteri ascrittivi, oppure da processi di creazione di «identità collettive» [Pizzorno 1977], Tuttavia, è noto che in molte comunità sia i rapporti di autorità sia quelli di scambio hanno una funzione importante di supporto dei legami normativi, tanto che questi ultimi sono difficili da comprendere se non si tiene conto dei primi.

Per quanto riguarda la regolazione associativa, si può osservare che un numero crescente di attività economiche vengono regolate attraverso «l’uso pubblico degli interessi privati organizzati» [Streeck e Schmitter 1985]; cioè mediante accordi fra poche grandi associazioni di interessi, che hanno il monopolio (o almeno l’oligopolio) della rappresentanza di interessi funzionalm ente definiti, un elevato «potere vulnerante» rispetto alle attività reciproche e al mantenimento dell’ordine sociale, e per conseguenza ottengono un ricono­scimento privilegiato da parte delle altre associazioni e dei poteri pubblici. A differenza dei contratti tipici dei rapporti di mercato, questi accordi «concertati» generalmente pre­suppongono una capacità strategica di lungo periodo, che consente agli attori la sotto-utilizzazione del proprio potere di mercato, e del proprio potere vulnerante più in generale. Tali accordi richiedono spesso l’esercizio dell’autorità legittima per imporsi, nonché la cooperazione, diretta o implicita, dello stato per avere successo. Ciò perché di solito comportano la delega di funzioni pubbliche alle organizzazioni private che partecipano alla concertazione, e la destinazione ad esse di risorse statali per compensarle dei costi o dei rischi della loro partecipazione. Questi accordi possono essere resi for­temente instabili dall’emergere di «crisi di rappresentanza» interne. Per questa ragione il loro successo dipende in larga misura dall’esercizio di un controllo gerarchico delle asso­ciazioni nei confronti dei loro membri, e dalla capacità delle prime di fornire «incentivi di identità» - quindi basati su valori condivisi - ai secondi [Lange 1977; Regini 1981],

c) Infine, va rilevata una oggettiva crescita di importanza

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di livelli diversi rispetto a quello - centralizzato o macro­nazionale - a cui si situano i fenomeni tradizionalmente studiati dalla politicai economy. La regolazione keynesiana dell’economia, la trasformazione degli interessi organizzati, i rapporti di concertazione, lo sviluppo del welfare state (cioè i fenomeni che discuterò nella prima parte del volume), sono appunto fenomeni «macro» che hanno nel livello centraliz­zato nazionale la loro arena privilegiata. Tuttavia, negli ultimi 10-15 anni, da un lato alcune funzioni regolative dell’econo­mia sono state assunte anche da istituzioni sia sub-nazionali sia sovra-nazionali. Dall’altro, ciò che avviene al livello «micro» dell’impresa, cioè nelle istituzioni e nei rapporti fra attori che gestiscono il riaggiustamento economico (che sarà l ’og­getto della seconda parte del volume), appare molto più strettamente legato ai trends che hanno luogo al livello «ma­cro», e spesso li condiziona fortemente.

La percezione di quest’ultimo fenomeno si riflette addi­rittura in un mutamento del lessico politico: ai concetti di welfare state, keynesismo, scambio politico e neo ­corporativismo, che hanno dominato il discorso politico nei tardi anni settanta e primi anni ottanta, si sono andati so­stituendo quelli di flessibilità, dualismo, de-regulation, micro­corporativismo. Ma non si tratta (soltanto) di un mutamento di vocabolario o di strumentazione concettuale dettato dalle mode. In realtà, il primo gruppo di concetti richiama appunto quei modelli di gestione politica concertata e centralizzata dell’economia capitalistica e delle sue crisi potenziali, che sembrano avere ormai perso di rilevanza. Mentre il secondo gruppo coglie tendenze a un riaggiustamento economico basato su meccanismi di regolazione micro-sociale, tendenze che negli anni più recenti emergono con forza, in qualche caso contrapponendosi alle prime, in altri condizionandone comunque la direzione di sviluppo.

Occorre dunque prestare attenzione anche a quello che possiamo definire il livello periferico o localistico dei mec­canismi di regolazione dell’economia. E occorre soprattutto analizzare quelle tendenze al livello «micro» dell’impresa e della produzione che hanno un impatto potenzialmente ri­levante sui trends a livello «macro». Queste analisi, a lungo

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considerate estranee al paradigma della politicai economy, solo di recente e in modo diseguale hanno cominciato a essere integrate in questo paradigma. Qualche passo avanti signi­ficativo è stato compiuto per quel che riguarda il primo aspetto, cioè le istituzioni sociali e polìtiche che regolano l ’economia al livello periferico o localistico [Bagnasco 1988; Trigilia 1986; Sabel 1988b]. Molto di più resta da fare per ciò che riguarda il secondo aspetto, vale a dire il rapporto micro/macro che ha orientato l’impostazione di questo vo­lume. Eppure non vi è alcun dubbio, per fare un solo esempio, che il destino dei meccanismi redistributivi quali il welfare state, o le possibilità di concertazione delle politiche eco­nomiche, dipendano strettamente dai - e a loro volta in­fluenzino i — mutamenti nei modelli organizzativi e istituzionali che avvengono nella produzione. Se questa integrazione fra micro e macro non verrà perseguita con convinzione, anche il paradigma della politicai economy, che è stato a lungo il più rilevante per lo studio dei rapporti fra economia e società, rischia di impoverirsi e di perdere ogni capacità di fornire letture articolate della realtà contemporanea.

Resta da dire qualcosa sulle opzioni di valore che stanno dietro molti degli studi sui rapporti fra economia e società. All’origine di diversi contributi nell’ottica della politicai economy, particolarmente di quelli più diffusi negli anni settanta e primi anni ottanta, non è difficile vedere una preferenza meta-scientifica, cioè l’attrazione per quel «welfare state keynesiano + concertazione» che è stato il modello egemone per molti anni nel dibattito della sinistra interna­zionale e nelPesperienza storica di diversi paesi europei. A chi, nei paesi industriali avanzati, si interrogava sulle con­dizioni di un programma di «grandi riforme», molti dei fe­nomeni studiati dalla politicai economy apparivano rilevanti perché costituivano gli ingredienti di quel compromesso di classe che si era tradotto, nella sua forma più avanzata, in quello che si è soliti chiamare il «modello svedese». Questi ingredienti erano appunto: il keynesismo come strumento di gestione politica dell’economia capitalistica; il welfare state e il pieno impiego come meccanismi redistributivi e di garanzia del consenso; il neo-corporativismo come assetto istituzionale

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dei rapporti consensuali fra governo e interessi organizzati; la socialdemocrazia come assetto politico e ideologico com­plessivo. Nello studio di questi temi, l’obiettivo implicito era in ultima analisi quello di capire le condizioni del loro affer­marsi in alcuni contesti nazionali e della loro riproducibilità in altri.

Oggi che quel modello egemone appare in crisi ed esercita comunque minore attrazione, e che l ’utopia delle grandi riforme ha ceduto il passo ad approcci più pragmatici, molti hanno perso interesse a studiare il mutevole sistema dei confini e delle interrelazioni fra stato, mercato e le altre forme di regolazione sociale. Non solo. Poiché il declino del modello egemone ha portato a una crescente divaricazione fra paesi e aree territoriali, il compito si è fatto più difficile: è diventato infatti necessario descrivere i fenomeni emergenti con sistematizzazioni parziali e caute, senza eccessive generalizzazioni.

Ma queste sistematizzazioni parziali sui sistemi emergenti di ridefinizione dei confini e delle interrelazioni rappresen­tano un compito forse ancora più urgente, una sfida intel­lettuale e conoscitiva che non si può lasciar cadere. Si tratta di capire aspetti non meno cruciali di quelli relativi alle condizioni del welfare state keynesiano. Come funziona un particolare mix fra istituzioni regolative diverse, e come av­viene il suo mutamento, che raramente assume una forma unilineare e dirompente e più spesso quella di spostamenti marginali ma costanti entro quel mix. Quali ruoli e «segni» di valore anche opposti fra loro possa oggi assumere la regolazione statale dell’economia, e se la ripresa del mercato e anche di elementi di società tradizionale possa implicare l’espandersi di dualismi e discontinuità più che rappresentare un semplice rovesciamento delle tendenze precedenti. Infi­ne, se le forme di regolazione micro-sociale che hanno con­sentito il riaggiustamento economico negli anni ottanta possano costituire un’alternativa stabile alla regolazione po­litica centralizzata dell’economia e se il sostanziale consenso che ha accompagnato le prime possa sostituire le funzioni della concertazione macro-nazionale, o se invece si debbano trovare nuovi punti di equilibrio fra micro e macro.

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Su questi e altri temi la ricerca è più che mai aperta, ed è all’interno di questa che il presente volume ambisce a dare un sia pur modesto contributo. ASCESA E DECLINO

DELLA REGOLAZIONE POLITICA DELL’ECONOMIA

PARTE PRIMA

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Nelle economie occidentali contemporanee, la principa­le istituzione che regola le attività economiche è il mercato. Secondo la visione tradizionale dello stato liberale, que­st’ultimo dovrebbe astenersi dalPintervenire nell’economia. Pertanto, dovrebbe esservi una netta distinzione di compiti e di sfere d ’azione fra il mercato, istituzione principe del siste­ma economico, e lo stato, istituzione sovrana di quello politico. Ma la realtà degli ultimi cinquantanni ha mostrato continui mutamenti di confini, invasioni di campo, oscuramenti di questa distinzione tradizionale, principalmente in conseguenza di due fenomeni di lunga durata.

Da un lato, la crescita dell’intervento dello stato nel­l’economia (che esamineremo nel primo capitolo) ha con­dotto a una forte espansione della regolazione politica a spese del mercato, espansione che si è arrestata solo negli ultimi anni e in misura diseguale nei diversi paesi. Dall’altro, si è manifestata una netta tendenza alla spartizione delle risorse prodotte o allocate dallo stato, con criteri di scambio e di appropriazione privata anziché di razionalità ammini­strativa tesa all’interesse pubblico. Lo sviluppo delle grandi organizzazioni degli interessi e del metodo dello scambio politico (che esamineremo nel secondo e terzo capitolo) si inserisce in queste tendenze.

Questa ridefinizione dei confini fra economia, politica e società è stata in parte l’esito non intenzionale di una pluralità di piccoli «slittamenti» nei ruoli tradizionalmente svolti da stato, mercato e interessi sociali organizzati. Ma in parte maggiore è stata il prodotto di un disegno istituzionale, che possiamo chiamare di regolazione politica concertata e cen­tralizzata delle economie di mercato. Si tratta di un modello

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di regolazione che affida allo stato e alle grandi organizzazio­ni degli interessi - o meglio a quelle articolazioni istituzionali e organizzative di questi attori che operano al livello centrale e non a quello periferico dell’economia - compiti cruciali di allocazione delle risorse, per contrastare alcuni esiti social­mente indesiderati dell’operare del mercato, che pure rimane l’istituzione economica dominante. Questi compiti consistono principalmente nel riequilibrio di uno sviluppo economico distorto e in una parziale compensazione delle diseguaglianze di reddito e di potere che il mercato produce.

Definito in questi termini il modello della «regolazione politica concertata e centralizzata», possiamo cominciare ad analizzarne a grandi linee il primo aspetto, quello del crescente intervento statale nelle economie industrializzate a partire dagli anni trenta - e in particolare dal secondo dopoguerra - e della sua crisi negli anni ottanta.

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IL WELFARE STATE KEYNESIANO E LA SUA CRISI

CAPÌTOLO PRIMO

1. Le funzioni economiche tradizionali dello stato

Il fatto che, come si è appena detto, la nostra attenzione in questo capitolo sia concentrata sul cinquantennio che va all’incirca dalla metà degli anni trenta agli inizi degli anni ottanta non significa che, prima di allora, lo stato non svol­gesse alcun ruolo nelle economie di mercato. Gli storici dell’economia hanno individuato tre importanti funzioni economiche «tradizionali» svolte dallo stato - anche nella fase del c.d. stato liberale che seguiva le dottrine del laissez- faire - nei sistemi,capitalistici.

La prima è la creazione e l’applicazione di un sistema legale che garantisce e riproduce i rapporti di produzione esistenti, e che consente lo scambio. Il diritto di proprietà privata, la garanzia dei contratti, i prerequisiti della libera concorrenza, sono istituti giuridici senza i quali il «libero mercato» che conosciamo non avrebbe potuto svilupparsi.

La seconda funzione è la gestione dei rapporti economici internazionali in modi tali da garantire la difesa e l’espansione del capitale nazionale sui mercati mondiali. Questa gestione può variare storicamente, da comportamenti «aggressivi» quali quelli connessi al colonialismo e all’imperialismo, fino ad altri di carattere più difensivo quali il protezionismo o la svalutazione della moneta per accrescere la competitività dei prodotti nazionali.

Infine, la terza funzione è quella di garantire le «condi­zioni materiali di produzione», ovvero la provvista di almeno alcuni degli inputs necessari al processo produttivo: dalla forza lavoro al capitale alla tecnologia alle infrastrutture. Ciascuno di questi inputs ha rivestito maggiore o minore

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importanza a seconda dei periodi storici, ma, in forme diver­se, il ruolo dello stato si è spesso rivelato decisivo nel garan­tirne la fornitura. Basti ricordare, per ciò che riguarda la forza lavoro, la funzione svolta dalla legislazione di assicurare un’offerta quantitativamente adeguata (dalle enclosures inglesi cui tanta importanza attribuisce Marx, alle leggi che regolano i flussi migratori) e con le caratteristiche qualitative richieste (cui mirano - o dovrebbero mirare - i sistemi pubblici di istruzione e di formazione professionale). Per quanto riguarda la provvista di capitale, lo stato ha svolto una funzione decisiva nel processo di decollo industriale di alcuni paesi late-comer [Gerschenkron 1962], e ha continuato a svolgere un ruolo importante in diversi paesi attraverso l ’estensione del settore pubblico dell’economia. Anche la tecnologia necessaria allo sviluppo economico è stata spesso fornita dallo stato, indi­rettamente (basti pensare al ruolo delle guerre o dei programmi spaziali) o direttamente (attraverso i programmi pubblici di ricerca). E molte infrastrutture altrettanto indispensabili a tale sviluppo (dalle ferrovie alle autostrade all’energia elettrica, e così via) difficilmente si sarebbero sviluppate, in molti paesi, senza l’intervento diretto dello stato.

Al di là di queste funzioni facilitative dello sviluppo, si può affermare, con Polanyi [1944], che la stessa organizza­zione del sistema economico basata sul mercato come il principale meccanismo di allocazione delle risorse ha richiesto storicamente di essere imposta dallo stato, per riuscire a superare le resistenze frapposte dagli interessi pre-esistenti al pieno funzionamento del mercato stesso.

Se poi rivolgiamo la nostra attenzione non tanto all’azione regolativa e a quella facilitativa dello sviluppo economico che storicamente lo stato ha svolto, bensì alla sua azione redistributiva - cioè alla funzione di allocazione di risorse economiche implicita nell’adozione di politiche sociali - , è altrettanto facile constatare che non si tratta affatto di una novità degli ultimi cinquant’anni. I numerosi studi comparati dello sviluppo del welfare state [ad es. Flora e Heidenheimer 1981; Alber 1982] mostrano anzi che la prima fase di crescita di questo fenomeno va dalla metà del secolo scorso fino alla seconda guerra mondiale. Inizialmente, alcuni governi europei

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erano mossi semplicemente dalla preoccupazione di contra­stare in qualche misura, con interventi ad hoc, l’eccessivo impoverimento delle masse proletarizzate e urbanizzate che l’industrializzazione estensiva aveva prodotto, nonché i gravi effetti delle guerre.

Con le assicurazioni sociali obbligatorie per i salariati industriali introdotte da Bismarck nel 1883-89, tuttavia, la funzione principale della politica sociale diventa quella di supporto al funzionamento del mercato del lavoro. Si tratta di una concezione dello stato assistenziale non certo come diritto di tutti i cittadini a certi standard minimi di vita, bensì come intervento di previdenza sociale rivolto esclusivamente a chi opera nel mercato del lavoro, per assisterlo quando non è temporaneamente in grado di svolgere il suo lavoro o quandolo lascia definitivamente. Mentre quando è dentro tale mercato, viene affidato al «libero gioco» del mercato stesso, con il quale non si intende certo interferire.

Coerentemente con la dottrina dello stato liberale, l’in­tervento dello stato è puramente residuale rispetto al fun­zionamento del mercato. È un intervento di emergenza per ripristinare il sistema di soddisfazione dei bisogni, che nor­malmente si fonda su altre istituzioni (mercato, famiglia, reti comunitarie), quando queste ultime non sono in grado di funzionare adeguatamente [Balbo 1984]. Si può dire che in tal modo, lungi dall’ostacolare il mercato, in questa fase lo stato assistenziale agisce da supporto ad esso, garantendo la «riproduzione sociale della forza lavoro» [Offe e Lenhardt 1979],

Dunque, se lo stato ha sempre svolto alcune funzioni di sostegno allo sviluppo economico e di politica sociale, per­ché a partire dagli anni trenta in Svezia e nell’America del New Deal, e dal secondo dopoguerra in diversi paesi europei, si individua un profondo mutamento - e non una semplice crescita - del ruolo dello stato nell’economia? Come mai, riferendosi appunto all’esperienza del New Deal o alle dot­trine di Keynes, diversi studiosi contrappongono al precedente stato liberale l’avvento di uno «stato interventista»? E come mai gli studiosi del welfare state identificano nel Rapporto Beveridge del 1942 un vero e proprio punto di svolta, dal

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quale inizia lo stato sociale come lo conosciamo oggi? Quali sono le funzioni nuove e cruciali per il funzionamento del­l’economia che lo stato ha svolto nel cinquantennio in que­stione? A quali mutamenti strutturali nel funzionamento del sistema economico e di quello politico sono connesse queste nuove funzioni, e quali conseguenze e nuove contraddizioni hanno prodotto?

Tali questioni hanno ormai ricevuto diverse risposte nella letteratura, alcune più precise perché formulate nel linguaggio tecnico della scienza delle finanze e della politica economica ma proprio per questo un po’ riduttive, altre, fornite dalla scienza politica e dalla politicai economy, più suggestive e dense di implicazioni - anche se spesso meno rigorose - in quanto assegnano un ruolo decisivo ai fattori politici e alle strategie degli attori. Nei successivi paragrafi di questo capitolo, mi propongo di sintetizzare nella maniera più chiara possibile le risposte del secondo tipo. Pur essendo ormai difficile ag­giungere qualcosa di nuovo alle molte analisi esistenti su questo punto, ciò che mi riprometto è di «rileggere» l’ado­zione di politiche keynesiane e lo sviluppo del welfare state non come due fenomeni separati e in larga misura ricondu­cibili a particolari tecniche di governo, ma come componenti fondamentali di un modello di regolazione dell’economia mirante a determinati obiettivi, basato su specifici strumenti, e denso di conseguenze più o meno attese - quel disegno, appunto, che ho sopra definito di regolazione politica con­certata e centralizzata.

Da questo punto di vista, possiamo dire che lo stato trasforma in modo decisivo il proprio ruolo nel sistema economico dal momento in cui, oltre alle funzioni tradizio­nali ricordate sopra, assume due nuove e cruciali funzioni rispetto ad esso. Possiamo chiamare la prima una funzione di «controllo del ciclo economico e delle crisi». L’obiettivo è quello di stabilizzare l ’andamento ciclico dello sviluppo ca­pitalistico determinato dalla mancanza di un coordinamento generale, e di evitare in tal modo il ripetersi delle disastrose crisi che hanno contrassegnato tale sviluppo, determinando la distruzione di ricchezza socialmente accumulata e rivolte sociali. Si tratta dell’obiettivo dichiarato delle dottrine

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keynesiane, e delle varie politiche pubbliche che ad esse si sono ispirate [Bordogna e Provasi 1984; Skidelsky 1979]. La seconda funzione, che come vedremo è strettamente legata alla prima, può essere definita di «controllo del consenso», cioè di garanzia di un consenso di massa al sistema economico e a quello politico propri delle democrazie capitalistiche avanzate, principalmente attraverso la diffusione dei servizi sociali, la garanzia del pieno impiego, il mantenimento della popolazione eccedente, cioè attraverso un pieno sviluppo del welfare state [O ’Connor 1973]. Naturalmente, quella di assicurare l’ordine sociale è la tradizionale funzione politica di ogni stato; ma da diversi punti di vista essa diventa, in questo periodo, anche una funzione economica, come vedremo più avanti.

2. Lo sviluppo del welfare state keynesiano

Perché l’obiettivo di stabilizzare l’andamento ciclico dello sviluppo capitalistico e di evitare in tal modo il ripetersi delle disastrose crisi che hanno contrassegnato tale sviluppo assume un ruolo centrale a partire dagli anni trenta? Si può rilevare che lo sviluppo capitalistico internazionale ha sempre proceduto attraverso fasi cicliche di espansione rapida seguite da fasi di stagnazione o recessione. Se i trends di lungo pe­riodo mettono in luce appunto lo sviluppo, le oscillazioni cicliche al loro interno hanno significato crisi profonde, che in taluni casi hanno messo in pericolo la stessa stabilità del sistema economico che le produceva.

Gli economisti hanno sempre attribuito a questo fenomeno un ruolo di primaria importanza nelle loro teorie. Per gli economisti neo-classici si tratta di un fenomeno fisiologico, in quanto ogni periodo di recessione ha la funzione di ricreare le basi per una più solida accumulazione nella fase successiva, eliminando dal mercato le imprese marginali e favorendo concentrazione industriale ed efficienza. Per gli economisti marxisti, proprio nelle crisi ricorrenti prodotte dall’andamento ciclico si manifestano le contraddizioni fondamentali del modo di produzione capitalistico, che non è capace di prò-

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durre sviluppo se non al prezzo di grandi distruzioni di ricchezza accumulata e di una conseguente disoccupazione e impoverimento delle masse. Per gli uni e per gli altri, co­munque, il presupposto delPandamento ciclico contrassegnato da crisi inevitabili è P«anarchia del mercato» - come usavano chiamarla i marxisti - o il «decentramento delle decisioni economiche al livello dei singoli partecipanti al mercato, senza alcun coordinamento complessivo» - per usare l’espressione di un economista e politologo liberale [Lindblom 1977]. La somma di tali decisioni individuali non coordinate può infatti produrre conseguenze aggregate che nessun soggetto è in grado di controllare e tanto meno di indirizzare. La stessa «mano invisibile» del mercato che è all’origine dello straordinario sviluppo conosciuto dall’Occidente negli ultimi due-tre secoli è quindi anche responsabile dei più gravi episodi di crisi, impoverimento e potenziale disordine sociale.

E proprio in conseguenza della più grave di queste crisi, il «grande crollo» del 1929 che colpisce non solo le certezze economiche dell’Occidente ma anche la sua stabilità sociale, che si affaccia l ’idea - sviluppata teoricamente da Keynes [1936], le cui dottrine si diffondono rapidamente nel mondo anglosassone [Weir 1987], e dimostrata politicamente pra­ticabile dal New Deal di Roosevelt - che lo stato potrebbe intervenire per contrastare questa anarchia del mercato, stabilizzare il ciclo, e impedire il ripetersi delle crisi. Con quali strumenti? La dottrina keynesiana indica soprattutto Strumenti di politica fiscale, mentre i neo-keynesiani hanno in seguito insistito anche su altri, in particolare sulle politi­che dei redditi (che sono al cuore delle esperienze di concertazione di cui parleremo nel prossimo capitolo). In questa sede, tuttavia, non interessa tanto descrivere le ricette tecniche per l’intervento statale, quanto individuare i pre­supposti e le conseguenze di tale intervento, che è stato definito un compromesso storico fra stato e mercato, ma che ha certamente rappresentato anche un compromesso di classe corrispondente a una particolare fase storica [Goldthorpe 1983; Bordogna e Provasi 1984; Korpi 1983].

Vi è però uno strumento - anzi lo strumento principe

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delle politiche keynesiane classiche — su cui occorre breve- mente soffermarsi, perché ad esso sono strettamente legati alcuni degli «effetti perversi» che si manifesteranno succes­sivamente: si tratta della spesa pubblica. In termini semplici e necessariamente riduttivi, l’idea di fondo è che lo stato può utilizzatela sua capacità di spesa, ed eventualmente spendere anche al di là di ciò che gli consentirebbero le sue entrate (deficit spending), per aumentare la domanda di beni al mercato in misura maggiore o minore a seconda della fase del ciclo in cui ci si trova, agendo in tal modo da regolatore complessivo della domanda aggregata. In teoria, può cosi «raffreddare» l’economia in periodi di boom per controllare le tendenze inflazionistiche, e può, soprattutto (perché questo era il problema che allora appariva cruciale), impedire le crisi «classiche» da sovrapproduzione o sottoconsumo, ga­rantendo un pieno impiego di tutti i fattori produttivi, tra cui principalmente il lavoro.

Per far ciò, le istituzioni statali possono seguire due strade principali. Possono innanzitutto utilizzare la spesa pubblica per acquistare beni nel settore privato delPeconomia. Ciò indurrà probabilmente una crescita dell’occupazione per far fronte a questo aumento della domanda, o si ricorrerà invece al lavoro straordinario, o ancora si cercherà di accrescere la produttività, compensandola con salari più elevati. In ogni caso, aumenterà la capacità aggregata di consumo di chi lavora nel settore privato, il che a sua volta si tradurrà in una maggiore domanda di beni al mercato. Oppure, anziché ac­quistare beni, i governi possono decidere di aumentare l’occupazione pubblica (o di estendere l’assistenza). Anche per questa via, oltre a una crescita dei livelli di occupazione, si avrà un aumento della capacità di consumo aggregata, e si produrranno così gli stessi effetti che nel caso precedente. In tutti i casi, la crescita sia della massa salariale sia della massa dei profitti dovrebbe produrre l ’ulteriore effetto di espandere la base fiscale e di consentire quindi al bilancio statale di tornare in pareggio, avendo però nel frattempo innescato un circolo virtuoso di sviluppo. Il primo rilevante esperimento storico di questo genere, il New Deal rooseveltiano, ci mo­stra infatti una compresenza di tre programmi pubblici

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principali: un aumento dei servizi sociali (in particolare del sistema educativo), un vasto programma di lavori pubblici, e una estensione dei programmi di assistenza [Skocpol e Ikenberry 1985; Piven e Cloward 1971],

Dopo la seconda guerra mondiale, questo particolare compromesso fra stato e mercato si diffonde, benché in misura variabile, in pressoché tutti i paesi occidentali, non soltanto perché si tratta di uno strumento per coordinare l’economia ed evitare le crisi cicliche, ma anche perché ap­pare alle élite di governo il modo più sicuro per garantirsi il consenso delle classi subalterne. Detto in altri termini, le esigenze di stabilizzazione del ciclo economico non bastano a spiegare l’enorme crescita dell’intervento pubblico nel­l ’economia che si verifica nel secondo dopoguerra [Rose 1984]. Le politiche keynesiane si rivelano anche uno strumento prezioso - giustificato sulla base di obiettivi e previsioni economiche - per soddisfare un’esigenza squisitamente po ­litica delle democrazie che rinascono o ricevono nuovo im­pulso dopo la seconda guerra mondiale: quella di conquistare un consenso di massa ai nuovi regimi.

La partecipazione popolare al processo politico richiede infatti strumenti di consenso nuovi. Si diffonde la convinzione che la stabilità dei nuovi regimi democratici dipenda dalla capacità dello stato di fornire ai propri cittadini servizi che soddisfino i loro principali bisogni sociali, e di redistribuire in qualche misura per via politica la ricchezza che viene allocata in modo diseguale dall’operare dei meccanismi di mercato. In gran parte delle élite politiche dominanti - cer­tamente in quelle socialdemocratiche ma anche in quelle cattoliche - è infatti radicata la percezione che il mercato si sia sì rivelato l’istituzione economica più efficiente nel pro­muovere lo sviluppo, ma che produca gravi diseguaglianze dal punto di vista distributivo, fino a mettere in pericolo la stessa capacità di sopravvivenza di chi non è attivo nel mercato del lavoro. Per questa ragione, la spesa pubblica viene spesso dilatata ben al di là delle esigenze «keynesiane» di gestione macro-economica, e viene comunque destinata prevalente­mente a obiettivi «sociali» (quasi ovunque la spesa sociale cresce fortemente anche in percentuale sulla spesa pubblica

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totale): il raggiungimento della piena occupazione, la co­struzione di un sistema di servizi sociali come diritto per tutti i cittadini e non solo per talune categorie, programmi di assistenza per chi rimane strutturalmente fuori dal mercato del lavoro.

Questa è la promessa della nuova fase di sviluppo del welfare state già adombrata nel Rapporto Beveridge del 1942 e poi realizzata in misura e con modalità variabili nei diversi paesi. La differenza fondamentale con la prima fase sta nella tendenziale universalizzazione delle prestazioni di welfare a tutti i cittadini. Nella nuova concezione del welfare state - o meglio, nella sua versione «istituzionale/redistributiva» [Titmuss 1974] (cfr. quarto cap., par. 1 più avanti) - non vi deve essere alcuna selettività nelFintervento pubblico. Lo stato sociale diventa diritto di ogni cittadino ad avere garantiti alcuni standard minimi di vita, cioè di salute, abitazione, istruzione, ecc. [Bendix 1964],

Questi obiettivi sociali hanno rappresentato storicamente una delle mete fondamentali dei movimenti operai (almeno di quelli europei) fin dal loro sorgere. La sicurezza dell’oc­cupazione e del reddito per tutti i lavoratori è sempre stata un bene prezioso tanto per una classe operaia sottoposta alle ferree leggi del mercato del lavoro, quanto per le organizza­zioni che la rappresentano e che dalla stabilità dell’occupa­zione e del reddito dei lavoratori traggono la lóro forza. Per la realizzazione di questi obiettivi il movimento operaiò si è, in una prima fase, dotato di istituti solidaristici, e ha in seguito esercitato una costante pressione sullo stato (talvolta sulle singole imprese).

Questi obiettivi hanno però assunto un’importanza cre­scente (almeno fino agli anni ottanta) anche nell’azione dei governi di quasi tutti i paesi industrializzati. La legislazione sociale sviluppatasi da tempo in diversi paesi si è incontrata, come abbiamo visto, con l’adozione di politiche economiche keynesiane nel produrre una dilatazione senza precedenti dei programmi di spesa relativi alla «sicurezza sociale». Se­condo la minuziosa elencazione di Wilensky [1975], in tutte le democrazie industriali avanzate questi comprendono: «pensioni, assicurazione contro le malattie, assegni familiari,

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tipicamente i più costosi; così come l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, i sussidi di disoccupazione e le connesse politiche del mercato del lavoro, vari tipi di aiuti ai poveri e agli handicappati... e benefici per reduci e vittime di guerra». La politica della sicurezza sociale è così diventata centrale non più soltanto nella strategia del movimento operaio, ma anche nell’intervento dello stato nel sistema economico. Assieme alla politica dei redditi e a quella industriale, negli anni settanta essa è stata anche al centro di quei rapporti fra governi e interessi organizzati che analizzeremo nel prossimo capitolo.

Dopo la seconda guerra mondiale, dunque, il welfare state si sviluppa a ritmi assai più accelerati che nel periodo precedente. Quali sono i fattori di questo sviluppo, al di là della generica esigenza di consenso a cui abbiamo già ac­cennato? Nella letteratura sociologica e politologica sono disponibili diverse teorie a questo riguardo.

Nelle analisi ormai classiche di Marshall [1964] e Bendix [1964], l’affermarsi dello stato sociale viene sostanzialmente interpretato come un naturale espandersi dei diritti univer­sali di cittadinanza dalla sfera dei diritti civili e politici a quella dei «diritti sociali». Con la loro enfasi sul ruolo delle idee e dei valori delle élite in questo processo, e con la loro visione evoluzionistica e unilineare di questa espansione, queste analisi possono essere considerate fortemente ideo­logiche. Soprattutto, esse appaiono incapaci di spiegare le numerose contraddizioni e rotture presenti in questo processo. Questi limiti rimangono anche in quelle analisi, pur storica­mente documentate, che legano l’evoluzione dello stato so­ciale ai processi di industrializzazione e di modernizzazione [Rimlinger 1971; Heclo 1974; Flora e Heidenheimer 1981],

Altri studiosi dello sviluppo del welfare state preferiscono un’analisi quantitativa basata su confronti di dati statistici nazionali, che consente di misurare l’influenza di diverse variabili, alle tradizionali analisi di tipo sto rico-comparativo. Wilensky [1975], ad es., esplora l’esistenza di nessi causali fra la percentuale di spesa sociale sul Pii di ciascun paese e variabili quali il suo tasso di sviluppo economico, l’età del suo sistema di sicurezza sociale, il grado di accentramento

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del suo sistema politico, la composizione della popolazione, ecc. A parte la rozzezza - quasi inevitabile - degli indicatori utilizzati per misurare alcune di queste variabili, questo tipo di analisi mostra soltanto come lo sviluppo del welfare state sia associato o meno ai fenomeni elencati. Ma non può offrirci un modello di spiegazione di questo sviluppo, né tanto meno dar conto delle forme diverse che esso assume nei vari paesio periodi storici, al di là del mero dato quantitativo dell’entità della spesa pubblica destinata a fini sociali.

Dal canto loro, sia le teorie neo-marxiste sul ruolo dello stato [O’Connor 1973; Offe 1977], sia alcuni studi di casi nazionali che più si avvicinano a questo filone (ad es. Piven e Cloward [1971] sul caso americano), offrono un modello di spiegazione basato sulla distinzione e sulla possibile con­traddittorietà fra due funzioni statali, quella di accumulazione e quella di legittimazione. Lo sviluppo dei servizi sociali e di gran parte dei programmi di sicurezza sociale sarebbe dovuto all’esigenza da parte dello stato di favorire l’accumulazione capitalistica. Questi programmi di spesa pubblica («consumi sociali» nella terminologia di O ’Connor) hanno infatti la funzione di «socializzare» i costi di riproduzione della forza lavoro, e sono quindi indirettamente produttivi. D’altronde, quei programmi di sicurezza sociale che non sono neppure indirettamente produttivi («spese sociali di produzione», sempre per O ’Connor: si pensi alle pensioni sociali o a quelle di invalidità nel caso italiano) dovrebbero il lorò^sviluppo all’esigenza di legittimazione dello stato. Q uest’ultimo redistribuisce parte delle risorse materiali che lo sviluppo capitalistico consente di produrre, a favore dei gruppi subalterni o esclusi da questo sviluppo, per garantirsi il consenso necessario. Il maggiore o minore sviluppo del welfare state sarebbe dunque dovuto al modo in cui si manifestano (e possono diventare tra loro contraddittorie) queste due esigenze.

Questo schema teorico, benché più elaborato dei prece­denti, presenta il tipico difetto funzionalista di spiegare lo sviluppo dello stato sociale in termini di sue funzioni o di­sfunzioni. Non è chiaro quali soggetti si facciano portatori delle «esigenze del sistema» (a cui la spesa sociale dovrebbe

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rispondere), attraverso quali azioni e processi, e con quali risultati. In questa concezione, un attore non sociologicamente determinato chiamato stato, appare spesso l’unico soggetto di un’azione consapevole che ha l’obiettivo di favorire ora l’accumulazione ora il consenso.

All’opposto, quello che è stato chiamato il «modello so­cialdemocratico del welfare state» [Shalev 1982] ritiene di poterne spiegare il livello e il tipo di sviluppo sulla base del grado di forza politica e di mercato dei diversi movimenti operai nazionali, dei rapporti fra il loro «braccio politico» e quello sindacale, e del ruolo che lo stato sociale assume nella loro strategia. Viene dunque ridimensionato il contributo dato allo sviluppo del welfare state dalla lungimiranza di élite illuminate miranti ad allargare le basi del consenso politico. Mentre tale sviluppo viene visto essenzialmente come il prodotto di una politica di classe portata avanti da movi­menti operai che hanno scelto storicamente di trasferire il conflitto distributivo dall’arena del mercato a quella politica [Korpi 1983; Esping-Andersen 1985].

Anche tale concezione appare fortemente parziale e non in grado di spiegare adeguatamente le differenze nei livelli di sviluppo del welfare state osservabili nei diversi paesi [per un approccio critico dall’interno di questa stessa teoria, cfr. Shalev 1982], Tuttavia, essa ha almeno il pregio di basarsi su attori concreti, con i propri interessi, il proprio grado di potere relativo e le proprie strategie. L ’esigenza di consenso sociale a cui abbiamo accennato precedentemente in termini generali, con le sue cause e con gli strumenti disponibili per soddisfarla, non costituisce che il contesto che rende prati­cabili e alla fine vincenti le strategie di quegli attori che a tale esigenza si prefiggono di rispondere. Ma attori, strategie, comportamenti non sono dati da quel contesto, bensì dal funzionamento di altri sistemi (quello economico, quello politico-istituzionale, quello di rappresentanza degli interessi). E solo guardando a questi, dunque, che si possono capire gli esiti in termini di diverse politiche sociali - come di altri tipi di polictes - che analoghe esigenze di consenso producono in paesi e in periodi diversi.

In termini generali e tipologici, questo tipo di analisi

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verrà svolto nel terzo capitolo più avanti, a cui pertanto si rinvia. Per ciò che riguarda specificamente lo stato sociale, si può ritenere che proprio dall’esistenza di attori - istituzioni pubbliche e interessi organizzati - con determinate caratte­ristiche, strategie e tipi di interazione fra loro dipendano i tratti distintivi del sistema di sicurezza sociale di un paese rispetto a quelli di un altro. Fra tali tratti distintivi, partico­larmente rilevanti appaiono i seguenti.

a) La struttura del sistema di welfare. Questa è definita dall’insieme delle posizioni relative (di centralità o di marginalità) di ciascun istituto o programma specifico - pensioni di vecchiaia, tutela contro la disoccupazione, assi­curazione contro le malattie, ecc. - nel sistema complessivo. Anche a un esame sommario, infatti, diversi sistemi di welfare appaiono caratterizzati dal diverso spazio occupato da istituti e programmi analoghi. Per fare un esempio, nel caso italiano l’assistenza pubblica ha uno sviluppo minore che in altri paesi, al contrario di ciò che avviene perla previdenza sociale;o, ancora, un peso molto maggiore viene dato alla tutela contro la disoccupazione nascosta dei già occupati (Cassa Integrazione Guadagni) rispetto a quella generale (indennità di disoccupazione).

b) L ’estensione della tutela fornita dai diversi istituti. I destinatari dei programmi di sicurezza sociale possono essere solo gli attivi nel mercato del lavoro (o solo alcune categorie fra questi), ovvero gruppi più ampi della popolazione! Anche da questo punto di vista, i diversi sistemi di welfare mostrano una forte variabilità.

c) Il grado di eguaglianza delle prestazioni e dei benefici offerti ai fruitori dei vari programmi di welfare. Non neces­sariamente infatti l’entità e la qualità delle prestazioni erogate dai diversi istituti sono uniformi per tutte le categorie di cittadini a cui esse si applicano. I criteri e i requisiti in base ai quali coloro che ne hanno diritto accedono ai livelli di prestazione più elevati variano fra un sistema e l’altro.

d) Le forme di gestione e di amministrazione dei diversi programmi di welfare. Diverso può essere in particolare il grado di coinvolgimento dei soggetti interessati allo svilup­po di una politica sociale nella sua gestione. Partiti, sindacati,

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associazioni imprenditoriali, spesso partecipano, con re­sponsabilità variabili, alla gestione amministrativa dei pro­grammi di welfare o dei rispettivi fondi per mezzo di propri rappresentanti; e sono in taluni casi affiancati anche da rappresentanti degli utenti.

L ’individuazione di questi diversi tratti caratteristici dei sistemi di welfare costituisce il presupposto per l’elaborazio­ne di tipologie. Benché non costruiti esplicitamente su tutte e quattro le caratteristiche indicate, diversi sono i «modelli» di welfare state che sono stati proposti alla indagine scienti­fica (per la tipologia-base, dalla quale si sono sviluppate le elaborazioni successive, cfr. Titmuss [1974]). Anziché discu­terne in questa sede i meriti e i limiti rispettivi, tuttavia, ci limitiamo a rinviare all’analisi del caso italiano di sviluppo del welfare state, quale esempio concreto di un ibrido fra modelli analiticamente distinti (cfr. il par. 1 del quarto cap. più avanti).

3. Effetti perversi e risposte alla crisi

L ’espansione del welfare state keynesiano ha portato con sé una serie di effetti non attesi e in certa misura «perversi», che sono all’origine della crisi che ha colpito questa forma di regolazione dell’economia e di allocazione delle risorse nello scorso decennio, e che hanno dato vita a diversi tentativi di superarla. Alcuni fattori esogeni - quali l’inflazione inter­nazionale seguita alla necessità americana di finanziare la guerra nel Vietnam, o gli shock petroliferi - che hanno peggiorato la performance delle economie occidentali hanno certamente contribuito a mettere in crisi le funzioni regolativa e distributiva dello stato. Ma non vi è dubbio che i problemi più gravi hanno riguardato fattori endogeni, cioè strettamente connessi alle modalità stesse con cui il welfare state keynesiano si è sviluppato.

I primi due effetti non previsti di tale sviluppo hanno a che fare con gli obiettivi espliciti del welfare state keynesiano, vale a dire il raggiungimento del pieno impiego e la dimi­nuzione della insicurezza sociale. E proprio il sostanziale

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conseguimento di questi due obiettivi a provocare quelle conseguenze inattese, o contraddizioni, che finiscono con il minare l’intero edificio dell’intervento pubblico. Come già aveva previsto Kalecki [1943], infatti, la situazione di quasi piena occupazione, che verso la metà degli anni sessanta viene raggiunta da pressoché tutte le democrazie industriali avanzate, provoca un forte aumento del potere di mercato dei lavoratori. Questo a sua volta si traduce in una crescita della capacità rivendicativa, che in taluni paesi - in presenza anche di altre condizioni, come in Italia - sfocia in una conflittualità generalizzata quando non in una vera e propria mobilitazione sociale, in altri in un aumento delle pressioni salariali che contribuiscono all’impennata dell’inflazione già sollecitata da altre cause [Soskice 1977]. La situazione di piena occupazione politicamente indotta - non determinata cioè dal «naturale» operare del mercato - diventerà perciò nei tardi anni settanta uno dei principali bersagli della critica di molte forze conservatrici, e un obiettivo che anche i governi europei di sinistra riusciranno più difficilmente a mantenere, con l ’eccezione della Svezia [Scharpf 1984].

La diminuzione della insicurezza sociale è, da parte sua, un obiettivo implicito nella stessa idea di welfare state come protezione dell’individuo e dei suoi bisogni sociali primari di fronte alle durezze del mercato. Già Polanyi [1944], tuttavia, ci ricorda - con lo storico episodio di Speenhamland - che ,/'qualunque tutela statale nei confronti dell’operare del mer­cato può tradursi in una diminuzione degli incentivi a lavo­rare. Ed è questa consapevolezza che Piven e Cloward [1971] assumono come una delle idee guida dello (scarso) sviluppo delle politiche sociali negli Stati Uniti. In un welfare state molto generoso e sviluppato come quello scandinavo, una minore insicurezza sociale può arrivare a significare un quasi completo sganciamento delle chance di vita dal mercato [Offe 1982], una vera e propria «de-mercificazione della forza lavoro» [Esping-Andersen 1986]. È abbastanza chiaro il perché anche questo aspetto sia entrato nel mirino delle coalizioni politiche che hanno condotto più a fondo la pro­pria critica al welfare state keynesiano.

Oltre che gli obiettivi dichiarati e sostanzialmente rag­

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giunti, anche gli strumenti utilizzati hanno a lungo andare manifestato effetti perversi. Si consideri uno degli strumenti principali delle politiche keynesiane, quello sul cui operare in modo «virtuoso» mi sono soffermato nel paragrafo prece­dente: la spesa pubblica in funzione anticiclica. Il modello keynesiano di intervento statale era per così dire astrattamen­te simmetrico. Prevedeva cioè che una maggiore quantità di spesa pubblica venisse immessa nel mercato per sostenere la domanda aggregata nelle fasi di recessione, mentre un com­portamento di spesa opposto andava seguito nelle fasi di boom, per evitare fenomeni inflazionistici. Questa immagine del policy-making probabilmente corrispondeva, in Keynes e nei suoi seguaci, all’utopia di un governo di tecnici, che si limitavano a influenzare le variabili macro-economiche senza dover rispondere a pressioni sociali e politiche [Skidelsky 1979]. Ma è facile rendersi conto che si trattava appunto di un’utopia. Infatti, mentre è facile per qualunque governo aggregare consenso intorno a programmi di spesa, è assai più difficile riuscire a costituire coalizioni sociali e politiche in­torno a programmi di riduzioni o di tagli sostanziali nel bilancio.

Le esperienze britannica (governo Thatcher) e america­na (amministrazione Reagan) mostrano che è estremamente difficile riuscire a implementare i tagli alla spesa pubblica perfino quando il governo li decide o è seriamente intenzionato a farlo [Hall 1986]. Sta di fatto che in tutti i paesi le spese sociali, se esaminate nell’arco di alcuni decenni, mostrano una straordinaria rigidità verso il basso. Ciò non ha, almeno fino ad ora, prodotto quella «crisi fiscale dello stato» che era stata pronosticata negli anni settanta [O ’Connor 1973], ma è un elemento che finisce con il vanificare l’uso della spesa pubblica come strumento anticiclico.

Questi effetti perversi dell’espansione del welfare state keynesiano sono innegabili, e hanno una parte decisiva nella crescente disaffezione - quando non nella ostilità esplicita - delle élite di governo e anche di varie organizzazioni di interessi verso questo modello di regolazione dell’economia e di allocazione di risorse per via politica. Ma, sia nel dibat­tito politico sia in quello scientifico, stentano a prender forma alternative attraenti e praticabili. Qualche studioso

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[Goldthorpe 1983] argomenta anzi che le due principali alternative sinora emerse - quella «neo-liberista» e quella definita «neo-interventista» — si scontrano contro ostacoli altrettanto insormontabili di quelli che il welfare state keynesiano ha incontrato lungo la sua strada. E possibile intravvedere, nello stato della discussione sulle risposte possibili alla crisi del welfare state keynesiano, qualche via di uscita soddisfacente?

Cominciamo con il dire che «crisi del welfare state» è ormai diventata una sorta di parola magica per gli adepti di una cultura della crisi e uno slogan entrato prepotentemente nel dibattito politico, come copertura rituale per le più diverse proposte. Ma che significato hanno in concreto lo stato so­ciale e la sua «crisi» per i cittadini? Per molti, l’accesso (quasi) gratuito a servizi (sanità, istruzione, ecc.) altrimenti accessibili solo ad alto prezzo, ma al tempo stesso l’esperienza di un progressivo deterioramento della loro qualità. Per al­cuni, un reddito sostitutivo di quello da lavoro (pensioni, sussidi di disoccupazione, ecc.), ma spesso inadeguato rispetto ai bisogni e anche ai costi pagati dai singoli e dalla colletti­vità. Per altri, infine, l’ingresso nell’economia sommersa - con i suoi vantaggi occupazionali e i suoi costi sociali - che è reso possibile dalla garanzia di un livello minimo di sussistenza offerta dal welfare state (pre-pensionamenti, assistenza sa­nitaria gratuita).

L’esperienza che del welfare state hanno i cittadini è dunque spesso deludente, ma di esso non possono fare a meno in mancanza di alternative credibili e praticabili. Da qui nascono molti dei problemi, delle ambiguità, delle in­certezze nel rispondere alla sua crisi. Certo, c’è consapevo­lezza che quello che è stato presentato come «stato del be­nessere» produce costi sociali notevoli: livelli di spesa pub ­blica e di inflazione spesso eccessivi, elevata pressione fiscale, insoddisfazione nei fruitori dei servizi, distorsioni nel fun­zionamento del mercato del lavoro. Ma come superare questi limiti senza rinnegare le promesse di pieno impiego e di garanzia contro i rischi sociali, che hanno pur costituito il merito storico del welfare state?

Le correnti neo-liberali ritengono di avere una ricetta

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semplice, perché semplice è l’analisi su cui si basa. Il raggiungimento del pieno impiego e di prestazioni sociali garantite - si sostiene riecheggiando alcuni degli argomenti discussi in precedenza - impedisce al mercato di funzionare in modo appropriato, in quanto riduce gli incentivi a lavorare. L ’espansione incontrollata del settore pubblico protetto sottrae spazio agli investimenti nel settore privato. Infine, la visione dello stato sociale come un diritto dei cittadini fa continuamente crescere le domande di servizi e prestazioni allo stato, provocando crisi fiscale e ingovernabilità. Come eliminare questi guai? La ricetta neo-liberale prescrive di tagliare la spesa pubblica, privatizzare i servizi sociali, lasciare il mercato libero di operare. Tuttavia, anche ammettendo che l’analisi su cui si basa colga aspetti importanti, questa ricetta incontra ostacoli, resistenze, limiti politici che la rendono non del tutto praticabile anche là dove vi è stata più determinazione ad attuarla, come nella Gran Bretagna di Margaret Thatcher o negli Usa di Ronald Reagan.

Che cosa hanno da proporre invece le correnti riformiste europee, per le quali lo stato sociale ha tradizionalmente costituito un cardine programmatico? Qui si avvertono in­certezze e differenze, dovute anche alle diverse storie nazionali.

Per le socialdemocrazie scandinave, e in minor misura per le altre socialdemocrazie europee, lo stato sociale con­temporaneo è un prodotto della propria strategia politica e della propria cultura. Le tensioni a cui esso è oggi sottoposto non derivano dal suo cattivo funzionamento, ma dalle fun­zioni improprie che l’economia e il mercato del lavoro lo costringono a svolgere. Sotto i governi socialdemocratici, la politica economica keynesiana ha infatti perseguito l’obietti­vo della piena occupazione, delPassorbimento dell’offerta di lavoro in impieghi produttivi. I programmi di sicurezza so­ciale vennero concepiti per quegli strati di popolazione che restavano fuori dal mercato del lavoro anche in un’economia di pieno impiego, perché anziani, malati, invalidi, o disoccu­pati occasionali.

Con la massa di contributi pagati dagli occupati, era inoltre possibile sviluppare anche servizi aperti a tutti i cit­tadini, quali un sistema sanitario pubblico e politiche del­

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l’istruzione destinate comunque a fornire un’offerta di lavo­ro più qualificata al sistema produttivo. Stato e mercato si dividevano così le sfere di azione e non interferivano fra loro; i diritti sociali o di «cittadinanza» facevano avanzare l’idea di eguaglianza, solidarietà e redistribuzione senza at­taccare i diritti di proprietà e l’iniziativa privata. Se, come è stato scritto da molti, si trattava di un compromesso di classe [Goldthorpe 1983; Korpi 1983; Bordogna e Provasi 1981], l’affidare allo stato il compito di garantire servizi sociali e protezione contro i rischi del mercato trasformandolo ap­punto in «stato sociale» costituiva - non c’è dubbio - l’aspetto del compromesso favorevole ai lavoratori.

È naturale che le correnti neo-liberali imputino proprio a questo compromesso fra politica e mercato le disfunzioni del sistema economico. Ed è altrettanto naturale che le cor­renti riformiste di questi paesi difendano il «loro» welfare state, imputandone la crisi al fatto che le sempre più gravi distorsioni del mercato del lavoro vengono scaricate sullo stato sociale, che non era stato concepito per rimediare ai limiti strutturali dello sviluppo capitalistico, ma solo come ammortizzatore di tensioni secondarie e contingenti. Come scrivono Hinrichs, Offe e Wiesenthal [1985, 416] «non sono i particolari accomodamenti del welfare state la causa di questa crisi, ma le istituzioni societarie del mercato del lavo­ro e dei contratti di lavoro, della cui dinamica la crisi del welfare state è solo un riflesso».

La capacità del mercato del lavoro di assorbire tutti co­loro che da esso dipendono perché non hanno chance di lavoro e di vita alternative sta chiaramente diminuendo. Ci si trova perciò di fronte a un dilemma: più gli interventi di welfare diventano necessari per compensare le minori pos­sibilità di occupazione offerte dal sistema economico, meno si può contare su tali interventi per risolvere il problema, dato che le loro risorse finanziarie dipendono appunto dal buon andamento dell’economia e del mercato del lavoro. Quindi, «la crisi [del welfare state], se deve essere risolta, può esserlo solo al di fuori del welfare state stesso, cioè al livello di quelle istituzioni societarie dalle quali esso è di­pendente» [ibidem, 416],

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In questa prospettiva, non si tratta quindi di modificare il sistema di welfare, ma piuttosto di contrastare la tendenza delle aziende ad aumentare la produttività eliminando forza lavoro e addossandone i costi allo stato. Questa tendenza, che già alcuni anni fa O ’Connor [1973] additava come causa al tempo stesso della «crisi fiscale» dello stato e dell’espan­sione di ciò che oggi chiamiamo economia informale, è for­temente aumentata come risposta alla maggiore competizione internazionale.

Infatti, mentre dal punto di vista delle finanze del welfare state l’ottimo sarebbe chiaramente un’economia in cui lavo­rano tutti coloro che possono, per l’azienda la situazione ottimale è quella in cui il minor numero di lavoratori produce il maggior numero possibile di beni [Esping-Andersen 1986]. Ma i programmi di welfare state sono stati concepiti per migliorare le condizioni dei lavoratori anziani, ammalati o in cerca di lavoro, non per garantire un reddito a tutti i lavoratori di cui le aziende vogliono sbarazzarsi; né per fornire uno zoccolo di servizi e prestazioni garantite, che permetta a questi lavoratori di uscire dal mercato del lavoro regolare per entrare nell’economia sommersa o nel lavoro autonomo; e neppure per consentire ai lavoratori regolarmente occupati di utilizzare l’assenteismo per svolgere un secondo lavoro.

Eppure, in assenza di piena occupazione, i programmi di welfare state finiscono ovunque con il produrre questi effetti perversi. Sappiamo ormai da diverse ricerche e dati che tali programmi vengono utilizzati ampiamente per gli scopi so­pra indicati, anche nei paesi dove il welfare state si è affermato alPinterno di un progetto riformista tutt’affatto diverso. Come interpretare, ad es., il dato che «in Germania il 23% di quanti normalmente vengono compresi nella forza lavoro, cioè di coloro che hanno meno di 65 anni, sono oggi fuori dal mercato del lavoro mentre usufruiscono dello stato sociale»? [ibidem, 22], Non certamente con un aumento del benessere fra la popolazione anziana, ma piuttosto con un uso «im­proprio» dei pre-pensionamenti per ridurre la forza lavoro. Quale che sia la bontà di questa soluzione rispetto ad altre,i costi per il welfare state sono enormi.

L’uso «improprio» del welfare state non è del resto

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addebitabile solo alle aziende, ma anche ai lavoratori. Sap­piamo che nei paesi in cui i diritti sociali sono andati più avanti, è cresciuto di molto il tempo di non-lavoro che grava sulle finanze pubbliche. Nei paesi scandinavi, «grazie ai di­ritti sociali, ogni giorno una media del 10% circa degli occupati si assenta dal lavoro, o per malattia o perché in congedo per maternità o per seguire corsi di aggiornamento o per altri motivi ancora» [ibidem , 21], Quale che sia il giudizio su questo processo di «de-mercificazione della forza lavoro», l’opinione oggi largamente condivisa è che non si può chie­dere al welfare state di pagarne i costi.

Per le correnti riformiste europee, quindi, a differenza che per quelle neo-liberali, la risposta principale non sta nel diminuire le prestazioni; ma non sta neppure nel migliorare in via prioritaria l’efficienza e la qualità dei servizi sociali forniti dallo stato, che invece appare il problema cruciale nel caso italiano (cfr. quarto cap. più avanti). Si tratta di agire invece sul mercato del lavoro e sul rapporto di lavoro: re­distribuire le occasioni lavorative fra una porzione maggiore della popolazione, ristabilire la piena occupazione, migliorare la qualità del rapporto di lavoro. Se queste correnti prevar­ranno, il futuro del welfare state può essere meno incerto di quello delle politiche keynesiane alle quali è stato tradizio­nalmente legato, e rispetto alle quali il ripensamento autocritico è stato portato più a fondo.

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CAPITOLO SECONDO

LA CONCERTAZIONE INSTABILE

1. Scambio politico e concertazione

Il crescente intervento statale nel sistema economico, cioè nella sfera di attività precedentemente dominata in modo quasi esclusivo dal mercato, ha attratto - come si è detto nell’Introduzione citando il volume di Shonfield [1965] - l’attenzione degli studiosi già negli anni sessanta. Ma è solo verso la metà del decennio successivo che si comincia invece a cogliere in tutta la sua importanza quello che costituisce in un certo senso il fenomeno inverso, l’altra faccia della meda­glia: cioè la riduzione dello stato e delle sue risorse economi­che (la spesa pubblica) a un mercato, a un sistema di scambi fra gruppi sociali organizzati. In altri termini, ci si rende conto che l’intervento pubblico nell’economia, e la parziale limitazione della sfera di dominio del mercato che questo comporta, non sono avvenuti tanto utilizzando le strutture autoritario-burocratiche dello stato tradizionale, quanto forme di scambio, di contrattazione istituzionalizzata fra i governi e le grandi organizzazioni degli interessi. Da un lato, come abbiamo visto nel capitolo precedente, lo stato ha così assunto un ruolo di istituzione fondamentale nella regolazione del­l’economia. Dall’altro, le sue scelte economiche sono diventate a loro volta oggetto di contrattazione, cioè di scambi con altri soggetti, come avviene su un mercato.

Questi soggetti sono le grandi organizzazioni degli inte­ressi, che proprio per attrezzarsi a questi rapporti hanno via via trasformato la loro struttura e le loro strategie.

Da questa presa d ’atto nascono elaborazioni concettuali quali quelle di «scambio politico» e di «mercato politico» [Pizzorno 1977] e quelle di «neo-corporativismo» e di

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«concertazione» [Schmitter 1974; Lehmbruch 1977], che, sia pure in modi differenti fra loro, cercano di incorporare analiticamente i fenomeni indicati in quel modello di regola­zione politica centralizzata che negli anni settanta appare nettamente dominante. Un «mercato politico» è quello in cui «un soggetto (generalmente il governo) il quale ha beni da distribuire è pronto a scambiarli con consenso sociale che un altro soggetto ha facoltà di dare o di ritirare (in quanto è capace di minacciare l’ordine)» [Pizzorno 1977, 410]. In questo peculiare mercato avviene dunque un tipo di scambio che si differenzia dalla contrattazione collettiva sia perché il potere di minaccia (delle organizzazioni dei lavoratori) ri­guarda il ritiro della collaborazione all’ordine sociale e non semplicemente un ritiro della collaborazione alla produzio­ne, sia perché la forza di mercato di chi esercita questa minaccia non dipende dalla domanda di lavoro ma dalle dimensioni del gruppo sociale. Come il mercato economico, inoltre, anche quello politico ha i suoi meccanismi di equilibrio e le sue fonti di disequilibrio.

Questi concetti di «mercato e scambio politico» costi­tuiscono un’eresia per i custodi dei tradizionali confini di­sciplinari fra scienza economica e scienza politica, una pro­vocazione per le certezze di chi confina l’azione del mercato e del principio dello scambio al sistema economico, e con­cepisce il sistema politico come strutturato unicamente dal­l’autorità dello stato che agisce sulla base di criteri gerarchico- burocratici. Purtuttavia, essi si sono affermati rapidamente nel dibattito scientifico e in quello politico perché servivano a cogliere un complesso di fenomeni che nelle democrazie industriali avanzate era divenuto sempre più rilevante, ma che, mancando di una concettualizzazione adeguata, non riceveva il giusto rilievo nelle immagini del rapporto fra società, politica ed economia.

Il primo di tali fenomeni, già in evidenza negli anni sessanta, era strettamente legato a quello sviluppo del welfare state keynesiano che abbiamo analizzato nel capitolo prece­dente. Il fatto stesso che, in conseguenza di quello sviluppo,lo stato fosse ormai diventato una fonte primaria di allocazione di risorse economiche, spingeva gli attori più forti, inizialmente

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organizzatisi nel sistema economico per partecipare alla di­stribuzione dei frutti dell’operare del mercato, a esercitare invece il proprio potere e a ridirigere sempre di più la pro­pria azione nei confronti dello stato, per condizionarne le politiche. Detto altrimenti, gli interessi organizzati, che si costituiscono nel mercato per contrattare la destinazione delle risorse allocate attraverso questa istituzione, trovano via via conveniente applicare questo metodo della contrat­tazione anche nei confronti delle istituzioni pubbliche, proprio perché è attraverso queste che l’economia viene ora regolata e un numero crescente di benefici viene distribuito.

Il secondo fenomeno, che si mostra in tutta la sua drammaticità verso la metà degli anni settanta, è invece la crisi economica, che viene, almeno in parte e sia pure con ritardo, letta dalle élite politiche anche come crisi proprio di quella capacità regolativa dell’economia su cui la crescita del welfare state keynesiano si fondava. Ciò costituisce una forte spinta per i governi a ricercare il sostegno dei grandi interessi organizzati, attraverso la loro partecipazione ad alcune scelte di politica economica, per un duplice ordine di motivi. Da un lato, per cercare di compensare la legittimità perduta come autorità responsabili della performance economica nazionale con una legittimazione offerta loro dalle organiz­zazioni dei principali interessi sociali. Dall’altro, perché uno strumento fondamentale per combattere la crisi economica veniva visto nella disponibilità di quelle organizzazioni a finalizzare le variabili sotto il loro controllo (la dinamica salariale, le scelte di investimento, ecc.) a questo imperativo comune o interesse generale.

Già questi brevi cenni ai fenomeni sottostanti la straor­dinaria diffusione del metodo dello scambio politico negli anni settanta indicano che tale diffusione, e il successivo declino, vanno visti come esito della convergenza fra gli interessi dei suoi attori. È soltanto in un quadro più artico­lato delle convenienze e dei costi di ciascun attore - che presenterò nel prossimo paragrafo - che sia lo sviluppo sia l’instabilità di questo aspetto della regolazione politica cen­tralizzata possono essere compresi. Questi cenni sono tuttavia sufficienti a chiarire che lo scambio politico è in realtà uno

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scambio sistematico di risorse fra stato e grandi organizzazioni degli interessi, e più precisamente un tipo di rapporto fra questi soggetti basato su una attribuzione reciproca di forme diverse di potere politico (per diverse varianti di questa definizione, tutte originate dal contributo di Pizzorno citato [1977], cfr. Mutti [1983], Baglioni [1983], Ceri [1981], Rusconi [1984]). Lo stato devolve parte della sua autorità decisionale in materia di politica economica agli interessi organizzati, consentendo loro di contribuire a determinare gli esiti dei processi di formazione e attuazione delle scelte politiche e, di conseguenza, di trarre vantaggio dalla distri­buzione di risorse pubbliche, materiali e simboliche. In cambio di ciò, le organizzazioni degli interessi offrono allo stato il loro potere politico indiretto, garantendogli consenso e adoperando le proprie risorse per assicurare legittimazione, efficienza ed efficacia all’azione statale.

Occorre sottolineare duepeculiarità di un simile tipo di scambio, che contribuiscono a spiegare sia le difficoltà a strutturare in questo modo i rapporti fra stato e interessi organizzati, sia la loro instabilità. In primo luogo, si tratta di uno scambio temporalmente diseguale. Infatti, mentre per le istituzioni statali i benefici offerti dagli interessi organizzati- che sono principalmente di legittimazione e di auto-mo­derazione dei propri comportamenti nel mercato - si fanno sentire subito, non è quasi mai vero l’inverso. Le risorse che lo stato può offrire alle organizzazioni degli interessi, che si tratti di scelte di politica sociale, fiscale, ecc., oppure di vantaggi organizzativi e di potere, sono invece per lo più benefici di lungo periodo, che possono essere goduti ed eventualmente apprezzati dai membri di tali organizzazioni solo nel futuro. Uno scambio temporalmente diseguale ri­chiede un elevato grado di fiducia fra le parti ed è, come vedremo più avanti, particolarmente esposto al verificarsi di possibili «crisi di rappresentanza», cioè di difficoltà nel rapporto fra le organizzazioni degli interessi e i loro rap­presentati.

In secondo luogo, i partecipanti allo scambio politico sono attori che hanno solo un parziale controllo sulla implementazione delle loro decisioni. Policies favorevoli a uno

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o a tutti gli interessi organizzati coinvolti nello scambio pos­sono essere predisposte dai governi, i quali hanno però poi solo una capacità di controllo limitata sulla loro effettiva implementazione da parte della pubblica amministrazione in modi pienamente rispondenti alle intenzioni. D ’altro canto, le organizzazioni degli interessi hanno, per le ragioni appena suggerite, una capacità variabile ma mai totale di garantire comportamenti dei propri rappresentati conformi alle deci­sioni concordate. Anche da questo punto di vista, dunque, i partecipanti allo scambio non possono essere sicuri di otte­nere effettivamente i benefìci in vista dei quali fanno con­cessioni. Al di là di ragioni di fallimento dello scambio po­litico storicamente specifiche, in queste due caratteristiche risiedono pertanto motivi strutturali di tensione propri di questo modello di rapporti, che danno conto della sua fragilità.

È in larga misura per contrastare questa precarietà, d ’altro canto, che negli anni settanta in Europa sono aumentati i tentativi dei governi di istituzionalizzare i rapporti di scam­bio politico, offrendo ad alcune organizzazioni di interessi riconoscimento, monopolio della rappresentanza, e un accesso privilegiato alle risorse statali, quando non addirittura delega di funzioni pubbliche [Schmitter 1974; Offe 1981], e strut­turando al tempo stesso i canali per la formazione delle politiche pubbliche in modi che prevedono la partecipazio­ne stabile di tali organizzazioni [Lehmbruch 1977]. In que­sto tipo di istituzionalizzazione dello scambio politico con­siste di fatto quell’assetto di rapporti e quel modo di policy- making che è stato chiamato «concertazione» o «neo- corporativismo»1.

L’offerta di riconoscimento istituzionale, di monopolio (o di oligopolio) della rappresentanza, di accesso privilegiato alle risorse statali, che costituisce il primo aspetto del pro ­

1 La letteratura su questi fenomeni è sterminata (i testi di riferimento sono alcuni volumi collattanei: Schmitter e Lehmbruch [1979]; Berger [1981]; Lehmbruch e Schmitter [1982]; Goldthorpe [1984]; in italiano, Ma raffi [1981]), e numerosissimi sono stati anche gli sforzi definito ri e di separazione fra i due concetti (tra gli altri, mi permetto di rinviare a Regini [1979]). Per gli scopi di questa discussione, tuttavia, mi limiterò a considerarli sinonimi e a risolvere nel modo indicato il rapporto con il fenomeno un po ’ diverso dello scambio politico.

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cesso di istituzionalizzazione, ha come effetto di trasformare l’input del policy-making, vale a dire i meccanismi di selezione e di trasmissione delle domande sociali all’autorità di politica economica competente. Porta infatti necessariamente a una concentrazione degli interessi sociali influenti, che in un sistema di pressione pluralistica rimangono invece dispersi (cfr. il capitolo seguente). Tale concentrazione può avvenireo per aggregazione di interessi in precedenza organizzati separatamente, dando vita a quelle organizzazioni che nel linguaggio polito logico anglosassone si definiscono encompassing, o per esclusione di alcuni di questi dal processo politico. In ogni caso, la concertazione è un «gioco con pochi giocatori», a cui sono ammesse cioè solo alcune grandi or­ganizzazioni di interessi.

La loro partecipazione alla formazione delle politiche pubbliche attraverso canali istituzionali di consultazione o cogestione può invece avere l’effetto di trasformare 1 ’output del policy-making, cioè il contenuto delle politiche stesse. Infatti, mentre dove prevalgono comportamenti negoziali e di pressione dall’esterno per l’ottenimento di benefici di parte gli esiti pressoché inevitabili sono politiche «distributive», la partecipazione stabile alle istituzioni di policy-making di grandi organizzazioni cui viene così assegnato uno status pubblico può fare invece prevalere politiche «regolative» [cfr. Lowi 1972 per tale terminologia], in quanto favorisce l’interiorizzazione di vincoli sistemici e una correspon- sabilizzazione rispetto al perseguimento di interessi generali (cfr. ancora il capitolo seguente, par. 1, per una discussione di questi meccanismi all’interno di un modello più ampio, che chiamerò di «contrattazione oligopolistica»).

Negli anni settanta, il metodo dello scambio politico sistematico e la sua istituzionalizzazione in assetti di concertazione conoscono una forte espansione in numerosi paesi europei, al punto da convincere molti osservatori che si tratta di un trend a cui tutte le democrazie industriali avan­zate cercheranno di adeguarsi, solo che esistano le condizioni istituzionali e organizzative per la sua affermazione. In altre parole, sia nella letteratura neo-corporativa sia fra un buon numero di policy-makers si diffonde un bias quasi mai

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esplicitato, una convinzione che possiamo riassumere in tre punti (naturalmente scontando una buona dose di semplifi­cazione). Primo, la concertazione si va affermando come il sistema di policy-making più adeguato ai particolari proble­mi che si presentano alle democrazie industriali, tanto è vero che i «paesi neo-corporativisti» sono quelli che mostrano le performances economiche e politiche migliori. Secondo, per questa ragione, anche negli altri paesi si manifesta, o si ma­nifesterà presto, una spinta a imboccare questa strada. Ter­zo, questa richiede tuttavia, per affermarsi in modo stabile, alcune condizioni istituzionali, organizzative e forse anche culturali, che non sono riproducibili a piacimento, e la cui mancanza è causa della instabilità di molte esperienze di concertazione.

La prima convinzione nasce forse da opzioni di valore «socialdemocratiche» - cioè favorevoli a una partecipazione ordinata delle organizzazioni del mondo del lavoro al policy- making - , ma sembra trovare sostegno empirico in numerosi studi comparati (basati su indicatori quantitativi) sulle conse­guenze che assetti di concertazione hanno sulla performance economica dei paesi industriali avanzati [Cameron 1984; Lange e Garrett 1985], Paesi a elevato tasso di neo-corporativismo quali Austria, Svezia, Norvegia, Svizzera e Germania appaio­no infatti, negli anni settanta, meglio attrezzati a fronteggiare la crisi economica nei suoi diversi aspetti (inflazione, recessione, disoccupazione, perdita di produttività industriaW, deficit nella bilancia dei pagamenti). In realtà, analisiqualttative più approfondite come quella di Scharpf [1984] mostrano che ciascuno di questi paesi ha una buona performance su alcuni di questi indicatori ma non su altri, a seconda delle scelte strategiche compiute dai rispettivi governi2. Ma, sull’altro piatto della bilancia, sta la brillante dimostrazione empirica condotta da Schmitter [1981] secondo la quale, se non necessariamente i più attrezzati a rispondere alla crisi economica, questi paesi sono comunque i più capaci di risolvere problemi di

2 Inoltre, la gerarchia delle economie di successo cambia negli anni ottanta, e la relazione fra buona performance e presenza di assetti neo­corporativi verrà quindi in seguito messa in dubbio anche dagli studiosi più favorevoli a questi ultimi [Soskice 1989],

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«governabilità». La convinzione che la concertazione sia la forma di governo dell’economia più adeguata alle democra­zie industriali avanzate, dunque, si rafforza, e sembra perciò esimere gli studiosi dall’interrogarsi sulle condizioni in pre­senza delle quali i suoi attori troveranno conveniente adottarla e renderla stabile.

La seconda convinzione si spiega facilmente con la pri­ma. Il relativo successo dei paesi indicati nell’affrontare i mali che in diversa misura affliggono tutte le democrazie occidentali spinge anche le élite politiche di altri paesi a cercare di riprodurre quelle soluzioni istituzionali. Anche qui, nei tardi anni settanta la storia sembra dare ragione a questa convinzione. Tre grandi paesi europei tradizionalmente assai lontani da modelli neo-corporativi imboccano infatti la strada di patti sociali in qualche misura assimilabili ai primi: la Gran Bretagna con il «contratto sociale» del 1974-1979 [Regini 1983], l’Italia con le «leggi contrattate» durante la «solidarietà nazionale» del 1977-1979 (cfr. quinto cap.), e la Spagna con una serie di accordi-quadro, in alcuni casi triangolari in altri bilaterali, che si ripetono quasi ogni anno dopo che i «patti della Moncloa» del 1977 hanno stabilizzato il regime democratico [Perez Diaz 1986; Ojeda Avilés 1990]. Bisogna attendere la caduta del governo laburista inglese e l’ascesa della signora Thatcher perché questa immagine venga posta in discussione.

Proprio questo esito, tuttavia, paradossalmente rafforza la terza convinzione: cioè che la mancanza di condizioni istituzionali e organizzative adeguate, non certo la volontà e i calcoli di convenienza degli attori, sia la causa della insta­bilità o dell’insuccesso delle esperienze concertative. I sistemi di rapporti fra stato e interessi organizzati diversi dalla concertazione vengono di fatto visti semplicemente in ne­gativo, come sistemi in cui i pre-requisiti perché tale concertazione si affermi sono assenti. Persino quegli autori che insistono sulla instabilità intrinseca degli assetti di concertazione [Panitch 1977; Sabel 1981; in parte anche Offe 1981] la riconducono prevalentemente al fatto che le organizzazioni degli interessi che partec ipano alla concertazione della politica economica sono sottoposte alle

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tensioni proprie di tutti i sistemi di rappresentanza. Potrem­mo dire che l ’instabilità deriva per loro dalla struttura «im­perfetta» di alcuni attori come partner di politiche concertate, non dal fatto che i loro interessi oggettivi li allontanino da queste. È insomma la struttura di questi attori a rendere la concertazione instabile, non la loro strategia.

2. Sviluppo e instabilità dello scambio politico: le mutevoliconvenienze degli attori

Ma perché dev’essere scontato un interesse di tutti gli attori a politiche economiche concertate, una preferenza per strategie consensuali? Solo in determinate situazioni queste possono apportare loro benefici tali da superare nettamente i costi sempre presenti. È quindi al loro sistema di convenienze variabili che occorre guardare per capire sia l ’espansione dello scambio politico e della concertazione sia la loro in­stabilità e il loro declino.

Una qualche attenzione è stata dedicata dalla letteratura neo-corporativa alle strategie dei governi. La tendenza a coinvolgere gli interessi organizzati nella produzione delle politiche pubbliche viene infatti vista come il tentativo di rispondere a due problemi principali, che nascono - potremmo dire richiamando la discussione del capitolo precedente - \dagli effetti non previsti del welfare state keynesiano. Il primo è la «eccessiva» capacità rivendicativa della forza lavoro o addirittura il diffondersi di comportamenti conflittuali con­seguenti al raggiungimento della piena occupazione, che accresce il potere di mercato dei lavoratori. Laddove è im­possibile controllare gli effetti di tale potere con strumenti di autorità, la strategia più adeguata appare a molti governi quella di trasferire l’arena del conflitto dal mercato al siste­ma politico, dove la disponibilità sindacale ad auto-moderarsi può essere compensata con benefici di natura diversa.

Il secondo problema è la proliferazione degli interessi sociali che si organizzano per esercitare pressioni sullo stato e appropriarsi delle risorse che questo distribuisce. Se i go­verni non dispongono di meccanismi di selezione ed esclu-

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sione efficaci, saranno sottoposti a un «sovraccarico di do­mande» [Rose 1976] e andranno incontro a una «crisi di governabilità» [Crozier et al. 1975; Offe 1982], Il fornire un accesso privilegiato alle grandi organizzazioni incorporandole nel policy-making può allora essere visto come un modo per gerarchizzare le domande, evitando al tempo stesso che tali organizzazioni esercitino i loro poteri di veto ex post.

Oltre a questi problemi derivanti dallo stesso operare del welfare state keynesiano, va ricordato che negli anni settanta la principale sfida alle autorità di politica economica di tutti i paesi occidentali appare quella di fronteggiare la crescita dell’inflazione. Per quei paesi che non seguono politiche monetariste, il principale strumento per il rientro dall’infla­zione è costituito dalle politiche dei redditi [Flanagan et al. 1983], che per essere efficaci richiedono tuttavia il consenso e la partecipazione dei soggetti direttamente interessati. Per tale ragione, i tentativi di concertazione in quel periodo si identificano in larga misura con l’adozione di politiche dei redditi.

Tuttavia, occorre rilevare che non tutti i governi dei paesi industriali avanzati hanno risposto a questi problemi comuni cercando di creare un assetto neo-corporativo [Sal­vati 1982], Altri hanno sperimentato soluzioni diverse, quali la ricerca di una governabilità basata su sistemi clientelari che garantiscono un consenso atomistico, non convogliato attraverso le organizzazioni degli interessi. O quali il controllo del conflitto distributivo mediante l’esclusione - anziché l ’incorporazione - del lavoro dal blocco sociale destinato a gestire lo sviluppo economico. O quali, infine, il ritorno al mercato e alla pressure politics di tipo pluralista anziché una maggiore regolazione pubblica dell’economia.

Al di là di questa osservazione generale, si può ritenere che il ruolo dello stato, la sua iniziativa autonoma nel dar vita ad assetti neocorporativi, siano stati largamente sopravvalutati. Da molti studiosi del neocorporativismo, questo ruolo viene non solo eccessivamente amplificato rispetto alla realtà sto­rica di diversi paesi, ma viene soprattutto costruito teorica­mente come disegno strategico di lungo periodo di un attore chiamato stato, che agisce come «architetto dell’ordine po­

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litico» (per usare l’espressione di Anderson [1977]). Sareb­be Io stato il soggetto che tende a costruire un «ordine corporativo», benché non per decreto e repressione come nei casi dei regimi autoritari, bensì con il consenso delle organizzazioni coinvolte, assegnando ad alcune organizza­zioni degli interessi determinati privilegi in cambio della loro rinuncia alla piena autonomia rivendicativa.

Tuttavia, una questione centrale rimane senza risposta, o perlomeno senza una risposta chiara e soddisfacente: in che misura e in presenza di quali condizioni le organizzazioni degli interessi considerano vantaggioso uno scambio che comporta tensioni con la loro base e limiti all’autonomia di azione? In realtà, quei fenomeni che nella letteratura neocorporativa vengono chiamati «regolamentazione delle organizzazioni degli interessi, delega ad esse di funzioni pubbliche, loro coinvolgimento nelle scelte politiche», non sono che l’esito di complessi rapporti di scambio fra una molteplicità di attori, pubblici e privati, ciascuno dei quali può prendere a seconda dei casi l’iniziativa di cercare di strutturarli in modo stabile e cooperativo. Ciascuno dei quali entra inoltre nel rapporto di scambio con una propria stra­tegia che già interiorizza alcuni vincoli o imperativi sistemici e ne esce con risultati proporzionali alla propria forza.

È dunque anche alla strategia e ai calcoli dei «partner» dei governi - cioè degli interessi organizzati - che occorre guardare per capire lo sviluppo e l ’instabilità della concertazione3. Affronteremo prima il problema di come la

* È chiaro che occorrerebbe analizzare separatamente le logiche di azione delle due principali organizzazioni di interessi normalmente coinvolte in politiche concertate, cioè sindacati e associazioni imprendi­toriali. La presente analisi considera però solo i primi, sia per economia della discussione, sia perché sulle seconde esistono troppo poche infor­mazioni e analisi per consentire qualche generalizzazione. Swenson [1989], che offre una delle pochissime analisi comparate delle strategie delle associazioni imprenditoriali (in Svezia, Danimarca e Italia), critica questa limitazione, senza però tenere conto che è velleitario discutere l’azione di soggetti su cui si conosce molto poco (anche l'ambiziosa ricerca compa­rata diretta da Schmitter e Streeck [Martinelli, Schmitter e Streeck 1981] non ha prodotto dal punto di vista che qui interessa risultati di grande rilievo).

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concertazione possa emergere, e successivamente quello del­le condizioni che la rendono più o meno stabile.

Possiamo cercare di comprendere in che modo un sinda­cato sia indotto o meno ad accettare (o a promuovere) un rapporto di scambio politico stabile e di concertazione, raf­figurandoci tale scelta come l’esito di un sia pur approssimativo calcolo «razionale» dei costi che può comportare e dei benefici che può produrre.

I vantaggi che a un sindacato possono derivare da un rapporto di scambio politico stabile non vanno ricercati sol­tanto nell’aumento di potere per i leader [su cui cfr. Pizzorno 1977; Keeler 1981] o nei benefici organizzativi, benché questi elementi giochino sicuramente un ruolo importante. Il van­taggio principale va visto piuttosto nella possibilità di mo- difi care a favore del lavoro i risultati dell’operare del mercato.

Tali risultati possono naturalmente venire modificati anche attraverso la strada più tradizionale della contrattazione collettiva, sui cui esiti incidono le risorse organizzative dei lavoratori. Ma il ricorso allo scambio politico, benché com­porti una certa sotto-utilizzazione del proprio potere nell’arena delle relazioni industriali, può essere visto come un’alternativa più attraente per il sindacato, in presenza delle seguenti condizioni.

In primo luogo, il grado di riconoscimento sindacale da parte delle (o di accesso alle) istituzioni pubbliche può esse­re comparativamente più elevato di quello da parte delle imprese. O, in altri termini, il sindacato può avere più potere nel sistema politico che nel sistema di relazioni industriali. Ciò può essere dovuto a diversi fattori: per esempio, alla presenza al governo di un partito pro-labor che gli offre so­stegno politico (come in tutte le socialdemocrazie europee). In questi casi, può apparire conveniente al sindacato spostare l’arena del conflitto distributivo dalle relazioni industriali al sistema politico.

In secondo luogo, lo stato può essere per i lavoratori una fonte di benefici potenzialmente più importante delle impre­se (almeno relativamente agli sforzi necessari per ottenerli). Ad esempio, una redistribuzione del reddito operata attra­verso riforme sociali e misure fiscali può offrire vantaggi

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maggiori di quelli ottenibili con aumenti salariali, in un peri­odo di elevata inflazione e di bassa capacità di pagare delle imprese. O, ancora, un sostegno dell’occupazione attraverso politiche industriali e del lavoro può essere in vari casi più efficace del tentativo di aumentare gli organici attraverso la contrattazione degli investimenti industriali o dell’orario del lavoro. La possibilità di influenzare le scelte politiche si rivelerà allora più cruciale dell’azione contrattuale, quale che sia la forza del sindacato nelle due arene, quella politica e quella industriale.

Infine, una situazione economica di crisi o di elevata esposizione alla concorrenza internazionale può rendere estremamente rischioso, anche per un sindacato forte nel sistema di relazioni industriali, il pieno uso del proprio pote­re contrattuale. Anzi, paradossalmente, in una tale situazio­ne, più un sindacato è forte, più si trova esposto a un dilem­ma che ne paralizza l’azione. Se utilizza in pieno la sua forza organizzativa per cercar di soddisfare, attraverso la contrat­tazione, le domande immediate dei lavoratori, rischia di dan­neggiare la propria economia in misura tale da minare le basi stesse del suo potere e la sua futura capacità di conquistare benefici per i lavoratori. Se, d ’altro canto, si limita a sotto­utilizzare la sua forza moderando la propria azione, rischia di suscitare un vasto dissenso interno e di indebolire la «le­altà» della base. Lo scambio politico può allora essere visto come una parziale soluzione a questo dilemma, in quanto la moderazione nell’arena industriale è (o dovrebbe essere) compensata dalla acquisizione di risorse che lo stato può offrire.

In sintesi, i vantaggi che a un sindacato possono derivare da un rapporto di scambio politico stanno principalmente nella possibilità di modificare in qualche misura i risultati dell'operare del mercato, in presenza di condizioni che rendono il ricorso alla strada più tradizionale della contrat­tazione collettiva meno fruttuoso o più rischioso.

Se questi possono essere i benefici, quali sono i costi potenziali per l’organizzazione sindacale? E chiaro che lo scambio politico comporta una certa limitazione dell’auto­nomia d ’azione nelle relazioni industriali. L’accettazione di

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tali vincoli rischia di sottoporre a tensioni i rapporti con la base, e di minacciare la capacità di agire «per conto» degli altri gruppi sociali indirettamente rappresentati. I costi che il sindacato sarebbe in tal caso costretto a pagare possono assumere diverse forme: da un indebolimento della «lealtà» della base a una diminuzione delle iscrizioni, alla perdita di monopolio della rappresentanza tacitamente concessagli da gruppi sociali diversi dalla propria base. Si tratta in tutti i casi di rischi gravi per un sindacato; talmente gravi da limi­tare necessariamente la sua disponibilità a un rapporto di scambio politico, per timore di innescare una vasta crisi di rappresentanza.

Tuttavia, come vedremo meglio più avanti, questi rischi presentano una gravità tanto minore quanto più il sindacato possiede strumenti per «controllare» la possibile esplosione di una tale crisi. Questi strumenti possono essere di diversa natura, ma hanno in comune l’effetto di abbassare i costi potenziali dello scambio politico per i sindacati, modifican­do così l’esito del loro - consapevole o meno - calcolo «ra­zionale». Ad esempio, il monopolio della rappresentanza e un elevato accentramento, che vengono normalmente con­siderati come condizioni organizzative per la stabilità della concertazione, possono essere visti in questa luce come ele­menti che entrano nel calcolo costi/benefici imputabile al sindacato. Infatti, essi consentono un relativo isolamento del processo decisionale interno all’organizzazione, diminuendo le possibilità che un eventuale conflitto sulla linea da seguire si manifesti apertamente, o che il potenziale dissenso trovi forme organizzative efficaci.

Dunque, abbiamo fin qui assunto che la disponibilità degli attori a dare vita a uno scambio politico sistematico e di lungo periodo, entro cui può avere luogo la concertazione, sia basata su una qualche forma (per quanto rozza e non esplicitata) di valutazione costi/benefici. Ma, per ciascuno di questi attori, tale valutazione può in seguito rivelarsi errata. Inoltre, il rapporto fra costi che sostiene e benefici che riceve può rapidamente cambiare a suo sfavore, per diverse ragioni. In questi casi, quell’attore sarà tentato di ritirarsi dal rappor­to di scambio politico, o di imporre un mutamento dei «ter­

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mini dello scambio» originari. In tal modo renderà lo scambio politico instabile, e i tentativi di concertazione avranno vita difficile o falliranno.

Il grado di stabilità della concertazione dipende quindi dall’interazione fra i calcoli e le strategie dei diversi attori coinvolti, non dalla semplice presenza o meno di condizioni organizzative e istituzionali che la letteratura neo-corporativa considera come pre-requisiti. Più precisamente, possiamo affermare che il grado di stabilità della concertazione dipende dalla misura in cui sia l’interesse degli attori a uno scambio politico sistematico e di lungo periodo, sia la loro capacità di seguire una tale logica d’azione, sono suscettibili di rapidi e profondi mutamenti.

In che cosa consiste, innanzitutto, la capacità degli attori di perseguire una simile logica d’azione in modo continuativo e coerente? Una strategia di scambio sistematico e di lungo periodo implica sempre che gli attori siano capaci di imporre dei limiti alla soddisfazione immediata della pluralità di domande che essi rappresentano, sia moderando tali domande, sia riuscendo a selezionarle e ad aggregarle. Implica inoltre, se devono essere partner attendibili di accordi durevoli, che essi siano capaci di tradurre in pratica tale strategia, cioè di controllare che questa produca gli effetti attesi e non venga invece bloccata dagli interessi penalizzati.

Per ciò che riguarda i sindacati, una prima variabile cruciale da questo punto di vista è la misura in cui possono contare su quelli che ho in precedenza definito strumenti per controllare una potenziale crisi di rappresentanza. Il porre il problema in questo modo ci consente di capire meglio il ruolo svolto dalle due condizioni organizzative cui ho ac­cennato sopra e su cui molto insiste la letteratura neo­corporativa - accentramento sindacale e monopolio della rappresentanza - nell’assicurare stabilità alla concertazione. Infatti, un processo decisionale intra-organizzativo altamente centralizzato implica un elevato grado di aggregazione e di modificazione delle domande di base, quindi rende difficile ai rappresentati valutare il grado di rispondenza delle scelte sindacali alle loro richieste. D ’altro canto, il monopolio della rappresentanza da parte di un’organizzazione sindacale ren­

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de difficile se non impossibile che un eventuale dissenso trovi canali organizzativi per esprimersi.

Tuttavia, è facile al tempo stesso vedere come accentra­mento e assenza di competizione non siano che due fra gli strumenti potenziali su cui un sindacato può contare per controllare l'esplodere di una crisi di rappresentanza. E probabile che si tratti degli strumenti più sicuri, benché anche la loro efficacia si sia dimostrata variabile. In ogni caso, essi possono essere rafforzati dalla disponibilità di altri strumenti. O possono essere addirittura sostituiti da «equi­valenti funzionali», cioè da condizioni che hanno il medesi­mo effetto di rendere un sindacato capace di controllare la potenziale crisi di rappresentanza [Lehmbruch 1982],

Un esempio di «equivalente funzionale» spesso assai ef­ficace è stato, per molti sindacati europei, l’uso dell’ideolo­gia della solidarietà di classe come «incentivo di identità» per rafforzare l’adesione dei lavoratori alla linea sindacale [Regini 1981]. Un altro esempio è il coordinamento centrale delle piattaforme rivendicative aziendali, e la costante presenza di leader nazionali a qualunque livello della contrattazione, che di fatto riducono l’autonomia delle rappresentanze dei lavoratori e quindi la possibilità di trasmettere richieste della base in contrasto con la linea nazionale. Infine, l’assenza o la precarietà delle procedure formali di democrazia sindacale,o dei meccanismi che rendono possibili le opzioni di exit e di voice ai dissenzienti [Hirschman 1970; Lange 1983], spesso consente di non effettuare verifiche certe dell’eventuale op ­posizione di una maggioranza dei lavoratori, e di impedire così che la potenziale crisi di rappresentanza si trasformi in minaccia aperta per l’organizzazione.

Una seconda variabile cruciale per ciò che riguarda la capacità di un sindacato di partecipare alla concertazione in modo stabile è la misura in cui dispone di una «posizione oligopolistica nella contrattazione politica con i governi». Mentre la variabile precedente riguardava l ’intensità del rap­porto di rappresentanza, questa seconda variabile ha a che vedere con la sua estensione: cioè con la quantità degli inte­ressi funzionali che hanno accesso alla contrattazione politica con i governi solo attraverso l’intermediazione del sindacato.

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Come ho già ricordato (e come vedremo meglio nel terzo cap., par. 1), diversamente dalla pressure politics pluralistica, il gioco della concertazione richiede pochi partecipanti. Questa è la ragione per cui una elevata «concentrazione orizzontale» delle organizzazioni degli interessi, quale si manifesta ad esempio nell’esistenza di poche e grandi federazioni sindacali di categoria [Streeck 1981; Lehmbruch 1982], nonché l’attribuzione ad esse di uno status pubblico [Offe 1981], vengono spesso considerate come condizioni necessarie per la stabilità della concertazione. Una concertazione stabile richiede infatti che pochi partecipanti di grandi dimensioni vengano simbolicamente ammessi, riconosciuti come legittimi, e incorporati nelle istituzioni che elaborano la politica eco­nomica; mentre gli altri interessi, organizzati o meno, non hanno accesso alla contrattazione politica. Le analisi sul caso austriaco, ad esempio, sottolineano proprio il ruolo di questi processi nel consentirne l’eccezionale stabilità [Lehmbruch 1977; Marin 1983].

Abbiamo sin qui discusso il grado di capacità dei sindacati di seguire coerentemente una logica d’azione basata su uno scambio politico di lungo periodo, come condizione essen­ziale per la stabilità della concertazione. Ma in che misura essi possono avere convenienza a mantenere nel tempo un tale tipo di scambio? In presenza di quali condizioni il lpro interesse a seguire una tale logica d ’azione sarà sufficiente- mente forte da garantire la continuità della loro partecipazionè alla concertazione, e quindi la sua stabilità? Sotto questo aspetto, il problema cruciale è probabilmente la capacità e la disponibilità dei governi a garantire che lo scambio produca effettivamente i risultati attesi dai sindacati, cioè politiche coerenti con i loro obiettivi così come vengono ridefiniti durante il processo negoziale.

E da questo punto di vista che la presenza di un partito pro-labor al governo viene spesso considerata un pre-requisito di una concertazione stabile. Tuttavia, come peri pre-requisiti precedentemente discussi, si tende in tal modo a corto­circuitare, per così dire, la risposta al problema. Ciò che più conta per rafforzare l’interesse sindacale a uno scambio po­litico stabile è infatti la probabilità di risultati favorevoli. E

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certamente vero che la possibilità di mantenere in vita, accet­tando lo scambio, un governo amico, può essere di per sé considerato un risultato favorevole. Ed è probabilmente vero che in un governo vicino alla classe operaia il sindacato normalmente vede la garanzia politica che, in cambio della rinuncia a vantaggi di breve periodo, otterrà effettivamente altri vantaggi che gli vengono promessi, ma che sono neces­sariamente futuri e incerti; vi vede cioè il modo per superare quella «carenza di fiducia» che ostacola la volontà di colla­borare [Crouch 1978]. Tuttavia, quali che siano le ragioni e l ’entità della preferenza per un governo pro-labor come partner nello scambio politico, questa condizione può di­ventare rapidamente insufficiente. Anche un governo pro- labor, infatti, può rivelarsi incapace o impossibilitato a ga­rantire l’output e 1 ’outcome della concertazione, cioè a tra­durre in atto le scelte concordate con i sindacati e a control­lare che queste producano i risultati attesi.

In primo luogo, il governo può trovarsi di fronte a una forte mobilitazione di quei gruppi sociali che verrebbero danneggiati dalle politiche e laborate attraverso la concertazione. Oppure a una sottile resistenza da parte di una pubblica amministrazione ostile a tali politiche e alle innovazioni necessarie per attuarle. In secondo luogo, anche un governo pro-labor può trovarsi di fronte a una situazione economica così deteriorata da rendere necessario un muta­mento dell’agenda politica precedentemente stabilita con il sindacato o un taglio delle risorse allocate attraverso la contrattazione politica. È stato questo, ad es., il caso del «contratto sociale» inglese. Dopo un periodo iniziale di misure favorevoli, i benefici per il sindacato si sono andati drasticamente riducendo, fino a indurlo a ritirarsi dalla si­tuazione di scambio politico [Regini 1983].

3. I contenuti e gli esiti dello scambio

Il diverso grado di stabilità delle esperienze di concertazione dipende dunque, in generale, dalle mutevoli convenienze degli attori - governi e interessi organizzati - a

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dare continuità e sistematicità allo scambio politico. Ma non soltanto il grado di stabilità si è dimostrato altamente variabile. Anche i contenuti e gli esiti dello scambio politico si sono rivelati così differenti nelle diverse esperienze storiche in cui questo si è sviluppato, da fare addirittura sorgere dubbi sulla legittimità di concettualizzazioni così astratte, se non sono almeno accompagnate da tipologie più articolate.

Nonostante la letteratura abbia sostanzialmente ignorato questo problema, non sembra esservi dubbio che, nei paesi dell’Europa occidentale che negli anni settanta hanno condotto qualche esperienza di concertazione, si sono in realtà affer­mati assetti istituzionali corrispondenti a rapporti di potere politico assai differenti. Sono le diversità nei rapporti di potere che spiegano le differenze nell’iter formativo, nei contenuti e negli esiti dello scambio politico. Per gli scopi limitati di questa discussione, è sufficiente tracciare una rozza e schematica distinzione fra tre tipi principali di esperienze storiche.

Nella prima, che potrem m o definire di «neo-cor­porativismo stabile a relativa egemonia del movimento ope­raio», un sindacato molto forte e inizialmente combattivo ha imposto uno scambio politico di tipo neo-corporativo come parte della propria strategia, ed è riuscito almeno in parte a plasmarne i contenuti. Il regime politico che corrisponde a questo assetto di rapporti fra sindacati e stato è quello delle socialdemocrazie più avanzate: cioè Svezia e Norvegia, e in una certa misura l’Austria.

La Svezia è un caso esemplare del modello di neo­corporativismo stabile basato su uno scambio sostanzialmente guidato e controllato dal movimento operaio. Dati i molti studi esistenti su questo caso [cfr. ad es. Korpi 1978; Martin 1981], è possibile rinviare ad essi per una descrizione det­tagliata, e limitarsi qui a cogliere alcuni elementi molto ge­nerali, che consentano di delineare le caratteristiche di questo modello.

Quando un accordo, che oggi definiremmo di tipo neo­corporativo, venne stipulato per la prima volta negli anni trenta, la classe operaia svedese era molto forte e combattiva. Secondo i calcoli di Korpi e Shalev [1980], se nel periodo

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1946-1976 la Svezia si colloca all’ultimo posto nelle statisti­che sugli scioperi in 18 paesi industriali, era invece al primo posto nel periodo 1900-1913, e ancora al nono nel periodo 1919-1938. La possibilità di plasmare la politica economica e sociale attraverso la presenza del partito socialdemocratico al governo convinse tuttavia il movimento operaio svedese a privilegiare il sistema politico come arena nella quale cercare il soddisfacimento dei propri obiettivi di pieno impiego e di eguaglianza. Data la lunghissima permanenza di questo partito al governo, gran parte di questi obiettivi sono stati raggiunti. Non soltanto, come in altri paesi europei, nel dopoguerra si è creata una situazione di pieno impiego e si è assistito a un notevole sviluppo del welfare state; ciò che è più importante è che in Svezia, più che in qualunque altro paese, l’azione del governo ha avuto effetti redistributivi [Korpi e Shalev 1980], Per conseguenza, lo «scambio politico» praticato dal sinda­cato - o, se si vuole, il compromesso di classe - non lo ha affatto indebolito. Sia in termini di iscrizioni al sindacato che di percentuale di voti ai partiti della sinistra, il movimento operaio svedese è rimasto nel dopoguerra il più forte fra tutti quelli che operano nei paesi occidentali. In questo contesto, il crollo della conflittualità industriale va interpretato non come sintomo di debolezza del sindacato, ma come effetto dello spostamento dell’arena del conflitto dalle relazioni in­dustriali al sistema politico.

Non soltanto il sindacato svedese non è stato indebolito dall’accettazione di un accordo istituzionalizzato. Diversa- mente da ciò che è avvenuto negli altri due tipi di assetto neo-corporativo che discuterò più avanti, esso è in larga misura riuscito a determinare i contenuti dello scambio. Nella contrattazione con le imprese, ha in gran parte imposto i suoi obiettivi egualitari, perseguendo una politica salariale solidaristica. Nei rapporti con il governo, è riuscito a spostare l’attenzione dalla semplice collaborazione a una politica dei redditi, alla formazione di una «politica attiva» del lavoro e della sicurezza sociale, che rispondeva ai suoi obiettivi stra­tegici e che è stata da questi in larga misura plasmata. Gli stessi limiti di questo accordo e le difficoltà della situazione internazionale hanno del resto spinto negli anni ottanta il

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movimento operaio svedese a imporre contenuti più radicali (controllo sugli investimenti e intervento diretto nei mecca­nismi di accumulazione) al compromesso di classe, anziché ad accettare una pratica di maggiore m oderazione [Goldthorpe 1984],

Il secondo tipo di esperienza storica può essere definito invece di «incorporazione stabile della classe operaia nella formazione della politica economica in posizione subalterna». Sono esempi di questo tipo paesi quali la Svizzera e l ’Olanda (e, per talune fasi e taluni aspetti, anche la Germania). Il movimento operaio di questi paesi è assai più debole sia nelle relazioni industriali sia nel sistema politico. Nonostante ciò, i partiti della sinistra sono entrati nel dopoguerra a far parte di coalizioni di governo per periodi più o meno lunghi, anziché esserne completamente esclusi come è avvenuto in Francia e in Italia dal 1948 fino almeno ai primi anni sessanta. La possibilità del movimento operaio di ottenere vantaggi sostanziali attraverso l’azione dello stato era assai più ridotta che nel caso precedente, vuoi per il limitato e saltuario controllo sul governo, vuoi per la debolezza che non gli consentiva di imporre i propri obiettivi nelle scelte di poli­tica economica e sociale. Tuttavia, questa stessa debolezza rendeva difficile al sindacato perseguire una strategia diversa, di fronte a un disegno che offriva coinvolgimento e collabo- razione anziché isolamento politico. Il compromesso di classe si è così verificato in una situazione dei rapporti di forza complessivamente sfavorevole per il movimento operaio, e non sotto la sua relativa egemonia come nel caso precedente.

Il basso livello di conflittualità in questi paesi è un ulte­riore aspetto della debolezza e della subalternità del sinda­cato, più che l’effetto di una scelta strategica come in Svezia. Non è un caso che siano questi i paesi a cui più frequentemente si riferiscono quei teorici del neo-corporativismo che ne ve­dono l’essenza nell’«incorporazione» dei sindacati in orga­nismi triangolari, nel loro inserimento subalterno in istituzioni pubbliche, nella limitazione della loro autonomia in cambio della concessione di un monopolio della rappresentanza e della delega di funzioni pubbliche da parte dello stato. Il sindacato è stato costretto non soltanto a praticare modera­

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zione rivendicativa, a conformarsi a «interessi generali», ad accettare di collaborare in mancanza di alternative praticabili, ma anche a istituzionalizzare la sua cooperazione. Il centro dell’accordo neo-corporativo è stata la politica dei redditi [Panitch 1977], che nella pratica ha comportato una politica salariale relativamente moderata e senza grandi contropartite in termini di politiche attive del lavoro e di politica sociale. Gli effetti redistributivi dell’intervento statale sono stati complessivamente meno rilevanti che nei paesi del primo tipo [Korpi e Shalev 1980],

Nonostante tutti questi aspetti lo rendessero indubbia­mente meno attraente per il sindacato che nel caso precedente, l’accordo neo-corporativo ha mostrato anche in questo caso una certa stabilità, per diversi motivi che sarebbe troppo lungo analizzare in questa sede. Basti ricordare che l’espan­sione economica del dopoguerra ha consentito indennizzi per tutti gli interessi penalizzati da questo accordo, mentre la centralizzazione e la burocratizzazione dei sindacati lo hanno relativamente isolato dalle pressioni di base, e la forte presenza di immigrati o le divisioni etnico-linguistiche han­no settori alizzato e isolato la protesta.

Il terzo tipo può essere definito di «neo-corporativismo instabile, come conseguenza di uno scambio politico bloc­cato». In esso rientrano paesi quali la Gran Bretagna e la Danimarca; e a questo tipo si è avvicinata anche l’esperienza dell’Italia nei tardi anni settanta e primi anni ottanta (cfr. il quinto cap.). Si tratta di paesi che, nel secondo dopoguerra, hanno avuto un movimento operaio forte e piuttosto combattivo. Le percentuali di sindacalizzazione e di forza elettorale della sinistra li avvicinano più ai paesi del primo tipo che a quelli del secondo [cfr. ancora Korpi e Shalev 1980],

Ma le possibilità del sindacato di ottenere per via politica vantaggi tali da indurlo alla cooperazione istituzionalizzata con i governi sono state di gran lunga inferiori. Nel caso della Gran Bretagna, l’alternanza al governo dei partiti labu­risti con quelli conservatori ha reso saltuaria e addirittura occasionale la capacità di controllo sulle scelte di politica economica e sociale. Nello stesso senso ha agito, in Danimar­

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ca, l’instabilità elettorale del partito socialdemocratico, che ha dovuto subire un’emorragia di voti sia alla sua sinistra sia, soprattutto, nei confronti del Partito del Progresso di tipo poujadista. In entrambi i casi è mancata la possibilità per il sindacato di vedere nei governi amici una forza sufficiente- mente stabile da garantire un esito non sfavorevole a patti sociali di lunga durata. Inoltre, nel caso inglese, la struttura decentrata delle relazioni industriali non ha consentito di vincolare l’azione sindacale agli accordi stipulati a livello di vertice.

Si può dunque dire che i tentativi di trovare un accordo neo-corporativo stabile sono stati continuamente all’ordine del giorno, ma non hanno mai avuto successo [Crouch 1977]. Questi paesi - a differenza di quelli dei primi due tipi - hanno conosciuto per un lungo periodo livelli piuttosto elevati di conflittualità industriale. Ciò indica, da un lato, la difficoltà dei sindacati di ottenere per via politica vantaggi sufficienti a indurli alla moderazione rivendicativa, a far nascere una «cultura della cooperazione» o del «non antagonismo»; dall’altro, la loro persistente capacità di mobilitazione, e l’instabilità degli accordi di vertice (quali il «contratto socia­le» inglese del 1974-1979). Gli effetti redistributivi delle politiche governative sono stati, del resto, assai meno marcati che negli altri paesi. I sindacati hanno quindi avuto meno motivi per ritenere che la loro partecipazione istituzionaliz­zata potesse effettivamente venire compensata in termini di maggiore eguaglianza sociale. Per queste ragioni ci si è tro­vati di fronte a uno «scambio bloccato», e quindi a un assetto neo-corporativo intrinsecamente instabile.

I diversi contenuti e i diversi esiti dello scambio costi­tuiscono dunque le principali categorie interpretative delle differenze nazionali nei rapporti fra stato e interessi orga­nizzati. Come vedremo più avanti (quinto cap.), esse lo sono anche per ciò che riguarda in particolare le vicende italiane.

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CAPITOLO TERZO

INTERESSI ORGANIZZATI E POLITICHE PUBBLICHE

Le esperienze di concertazione di cui abbiamo discusso vanno collocate nell’ambito dei tipi di rapporto fra stato e organizzazioni degli interessi che sono possibili nelle demo­crazie industriali avanzate. In questo capitolo analizzerò dunque i diversi modi in cui tali organizzazioni possono partecipare innanzitutto al policy-making, cioè ai processi di formazione delle politiche pubbliche, e poi al policy-imple- mentation, cioè all’attuazione di quelle politiche. In tal modo le esperienze di scambio politico e di concertazione, che hanno costituito uno dei fulcri del modello di regolazione politica centralizzata e che hanno perciò attirato l’attenzione degli studiosi del rapporto fra economia e società negli anni settanta e ottanta, appariranno come parte di una tipologia più vasta, entro la quale è più agevole apprezzarne le carat­teristiche e gli effetti specifici.

1. Interessi organizzati e «policy-making»

Gli interessi sociali organizzati possono condizionare in modi diversi e con peso diverso l’intervento regolativo dello stato. Che classi e gruppi sociali influenzino l’azione statale, in misura maggiore o minore a seconda delle risorse di cui dispongono, è certo un’osservazione largamente condivisa. Ma ciò che mi propongo di mostrare in questo paragrafo è che esiste anche un’altra relazione, forse meno scontata. Cioè che, a seconda del tipo di interazione fra interessi organizzati e istituzioni che si realizza nei processi di decisione delle politiche pubbliche, varia la capacità di tali interessi di condizionarne gli esiti. In altre parole: se il diverso «peso»

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che i gruppi sociali hanno nella società spiega, in parte, la loro diversa capacità di condizionare le politiche pubbliche, tale capacità è a sua volta mediata dalle «forme» che assume il loro rapporto con le istituzioni che hanno competenze decisionali. Di seguito proporrò perciò una tipologia del policy-making basata su una gamma di rapporti possibili fra interessi sociali e sedi decisionali1.

Nella letteratura esistono diverse immagini del policy- making, che in parte corrispondono a differenti filoni (quello della public policy, quello neo-corporativo) o tradizioni di­sciplinari (ad es. quello della scienza politica americana). Per fare un poco di ordine, conviene tuttavia partire dalle due principali dimensioni analitiche che sottostanno ai rapporti possibili fra organizzazioni degli interessi e istituzioni nel processo di produzione delle politiche pubbliche, ciascuna delle quali può essere pensata come un continuum.

1. La prima dimensione è il grado di «isolamento» o di «separatezza» del processo decisionale dalle pressioni degli interessi sociali. In un policy-making altamente isolato, Yinput costituito dalla domanda sociale arriva «schermato», quan­do non profondamente modificato dagli obiettivi e dalla cultura dei partecipanti al processo decisionale. Per conse­guenza, l’output non rispecchia semplicemente le domande provenienti dai diversi interessi sociali (o i rapporti di forza fra di loro), bensì il modo in cui i loro rappresentanti le ridefiniscono, subordinandole a quello che viene costruito come «interesse istituzionale» o almeno comune ai parteci­panti. Un elevato isolamento non significa necessariamente che i rappresentanti degli interessi sociali non partecipino al processo decisionale (anzi, la loro presenza è spesso stabile e istituzionalizzata), ma piuttosto che anche la loro azione tende a conformarsi alla logica che abbiamo appena illustrato. Una situazione di elevato isolamento è particolarmente fa­vorevole allo sviluppo di «giochi cooperativi» fra i parteci­

1 Questa tipologia è un p o ’ diversa da quella proposta nell’In trodu­zione a Lange e Regini [1987]. L ’ulteriore evidenza empirica raccolta nel frattempo mi ha convinto infatti a rivedere le caratteristiche assegnate a ciascuno dei tipi proposti.

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panti rispetto a «giochi di distinzione» basati sul tentativo di massimizzare gli interessi dei rappresentati (cfr. par. 2 più avanti), ma le due dimensioni non coincidono. Come vedremo, infatti, anche nelle situazioni di basso isolamento gli attori possono dare vita a forme di «collusione distributiva», basate su una logica di semplice «soddisfacimento» anziché di massimizzazione degli interessi [Simon 1947],

Ai due estremi del continuum isolamento/non-isola- mento, l’interazione fra interessi e istituzioni nel processo decisionale è quasi inesistente. Infatti, dove l’isolamento del processo decisionale è massimo, le istituzioni perseguono esclusivamente un obiettivo «pubblico», alla cui definizione non sono ammessi a concorrere sostanzialmente i rappresen­tanti di interessi privati. Una tale situazione si riscontra rara­mente nei sistemi politici democratici, essendo piuttosto propria di regimi autoritari; ma ciò che Salvati [1982] ha chiamato «governo per decreto», riferendosi in particolare al caso francese, vi si può avvicinare. D ’altro canto, il mini­mo di isolamento del processo decisionale dagli interessi sociali si ha quando ad alcuni di questi viene consentito di produrre direttamente politiche pubbliche. Questo è il caso, studiato in particolare nella letteratura neo-corporativa, del­la c.d. «delega di funzioni pubbliche a governi privati» [Streeck e Schmitter 1985]2.

Tuttavia, come si è già detto, in questi modelli estremi l ’interazione fra interessi e istituzioni nel processo decisionale è quasi inesistente. Essi sono quindi meno interessanti ai nostri fini, oltre che risultare spesso di scarsa utilità empirica. I tipi di policy-making che discuteremo si riferiscono invece a situazioni intermedie, benché tra loro differenziate lungo un continuum da un basso a un alto grado di isolamento: li chiameremo rispettivamente, perle ragioni che vedremo più avanti, pressione pluralistica e policy network.

2. La seconda dimensione è il grado di «comprensività» (o, al contrario, di «segmentazione») del processo decisiona­

2 Una tale delega viene però concessa solo a quegli interessi organiz­zati che hanno le risorse adeguate. Perciò, il minimo di isolamento rispetto a tali interessi coincide con il massimo di isolamento rispetto agli altri, cioè con la esclusione di questi ultimi.

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le. Un policy-making altamente «comprensivo» è quello che presenta un’elevata aggregazione degli interessi nell’input del processo decisionale, e soprattutto una forte inter­dipendenza fra gli outputs, nel senso che le politiche prodotte sono di tipo «globalistico e intersettoriale» [Regonini 1985b ] , oppure strettamente collegate fra loro.

E più difficile pensare a degli estremi sul continuum di questa dimensione che non siano puramente astratti e che abbiano invece qualche utilità per l’indagine empirica. Il massimo di comprensività nel policy-making è raggiunto nei casi di pianificazione complessiva dell’economia. Ma questo modello è largamente estraneo all’esperienza delle democrazie industriali. Al contrario, il massimo di segmentazione si ha quando le politiche pubbliche non hanno assolutamente al­cuna organicità e non seguono alcun disegno complessivo, ma rispondono semplicemente a una frantumazione micro­corporativa degli interessi pubblici o privati.

Anche su questa dimensione, comunque, esistono situa­zioni intermedie, che appaiono assai più rilevanti dal punto di vista empirico, e sulle quali concentreremo la nostra di­scussione più avanti. Una situazione di bassa comprensività si ha in generale nel policy-making distributivo [Dente e Regonini 1987], che diversi autori hanno descritto come l’oggetto di forme di «governo spartitorio» [Amato 1976], Mentre la comprensività è normalmente più elevata dove prevalgono forme di «contrattazione oligopolistica».

Nello spazio definito da queste due dimensioni, tre tipi di policy-making emergono come particolarmente rilevanti, dal punto di vista dei rapporti fra interessi sociali e sedi decisionali competenti a produrre politiche pubbliche (cfr. fig. 1).

a) Quello della «pressione pluralistica» / «governo spartitorio» è un modello ben noto alla scienza politica. Gli interessi sociali sono rappresentati da una pluralità di asso­ciazioni. Anche se la capacità aggregativa di queste ultime è variabile, il livello complessivo di aggregazione della doman­da che costituisce Vinput del processo decisionale è pertanto assai basso. Gli outputs sono relativamente segmentati pro­prio perché, essendo la rappresentanza degli interessi molto frammentata, ciascuna associazione cerca di soddisfare do-

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Comprensività

— — + ++Frantumaz. Governo Contratt. Pianific.micro-corp. spartit. oiigopol.

-Governi privati

Pressionepìura ì is t . ^ a

Isolamento

Policynetwork

++ Governo per decreto

c

F i g . 1. Tipi di interazione fra interessi organizzati e sedi deciionali nella produzione di politiche pubbliche.

mande limitate, senza curarsi dei legami con altie aree di policy.

D ’altro canto, le sedi decisionali (siano queste il Parla­mento e le commissioni parlamentari, il governo, o /ammini­strazione) sono molto permeabili alle pressioni. Teoricamen­te, ciascun gruppo di interesse riesce a plasmare le politiche pubbliche in misura proporzionale alla sua forza cioè alle risorse di cui dispone e che può immettere nel mercato politico. In alcuni casi nazionali fra cui quello italiano, i partti politici svolgono un ruolo cruciale di mediazione fra quelledomande che si presentano frammentate nell’arena politica c le istitu­zioni a cui compete la decisione [Pasquino 1986; D87], Ma, quando prevale la pressione pluralistica/governo sjiartitorio, essi non modificano sostanzialmente gli esiti «naturali» dei rapporti di forza fra gli interessi. «Gli interessi esprimono domande appropriative e le loro rappresentanze palitiche si limitano a erogare, attraverso le sedi istituzionali, risposte esattamente simmetriche a tali domande, ciascuno spingendo per gli interessi che ritiene lo sostengano» [Amato ^976, 170- 171]. I partiti funzionano come strumenti capaci d «pesare»

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le risorse dei contendenti e quindi di articolarne le domande al sistema politico in traodo realistico.

Fra i tre modelli di produzione delle politiche pubbliche qui discussi, questo è dunque quello nel quale la struttura del processo decisionalle, cioè il tipo di rapporto fra interessi organizzati e istituzioni, cambia di meno la probabilità che la domanda sociale si traduca direttamente in politiche. Le diverse domande devono sottostare a mediazioni che rispec­chiano i rapporti di forza, m a non ad alterazioni attribuibili al modo in cui sono processate. In questo modello normal­mente domina una «competizione occasionale» fra i gruppi di interesse, che si esprime in una pluralità di pressioni in conflitto per spartirsi l e risorse dello stato e per condiziona­re l’esercizio della su# autorità. Tuttavia, quando i costi possono essere esternaltzzati o diffusi, è possibile che prevalga invece una «collusione distributiva», in cui ogni attore riesce a soddisfare le proprie domande, e coll abora a questo scopo con gli altri.

b) Quella della policy community o policy network è

un’immagine del processo decisionale elaborata all’interno del filone di studi della publicpolicy*. Anche in questo modello è possibile che la produzione di politiche pubbliche sia piuttosto segmentata. Lo stesso termine di policy network implica che il processo decisionale è rinchiuso dentro un’area limitata, che è costituita dalla definizione di che cosa rientra in una determinata policy e per lo più non si estende al di fuori di questa. Tuttavia, l’area di policy può anche essere definita in modo piuttosto a.mpio (ad es., le questioni del lavoro, o della scuola, e così via), e in tal caso si dovrà presumibilmente tenere con to dei rapporti con altri networks. A questo livello intermedio di comprensività dell’o«/ptt/ corrisponde probabilmente un’elevata variabilità nel grado di aggregazione degli interessi che si presentano come input nell’arena decisionale. Non è dunque la posizione

5 Cfr. ad es. Rìchardson [1982] p e r il primo concetto (policy community)-, e Heclo [1978] per il secondo (issue network o policy network), che userò in questa discussione. Ringrazio G loria Regonini per avere attirato la mia attenzione sulle differenze fra i d u e concetti, differenze che mi hanno indotto a utilizzare il secondo in questa discussione.

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sulla dimensione comprcnsività/segmentazione a definire questo tipo.

La differenza fondamentale con la pressione pluralistica/ governo spartitorio sta invece nel fatto che in questo model­lo il processo decisionale è fortemente isolato dalla domanda esterna. Non che gli interessi organizzati siano esclusi dal policy-making e non possano influenzarlo. Ma i rappresen­tanti di questi interessi, quando diventano parte della rete di rapporti che si costruisce intorno a un’area di policy, modi­ficano la propria logica di azione. Ciò vale del resto anche per gli altri attori che fanno parte di questa rete di rapporti (rappresentanti di altri interessi, dei partiti politici, o buro­crati). In qualità di esperti o responsabili di un’area, essi sono detentori di risorse scarse, condividono l’interesse a che la policy di cui si occupano assuma rilievo nell’agenda politica, danno vita a giochi cooperativi, che possono sfocia­re nella ridefinizione degli obiettivi originari per avvicinarli a un obiettivo comune ai partecipanti. Il coinvolgimento nella costruzione di un obiettivo istituzionale proprio di quel network finisce insomma con il prevalere sul compito di rappresentanza delle domande.

In questo tipo di policy-making, dunque, la struttura del processo decisionale modifica fortemente la probabilità che la domanda sociale si traduca, per così dire, direttamente in politiche. Anziché competizione occasionale e pressioni, nei rapporti fra i rappresentanti degli interessi, e fra questi e le istituzioni, prevale una logica di cooperazione stabile nella formazione delle politiche pubbliche. Del resto, in quei casi in cui una logica differente riesce a imporsi, si ha una rottura del modello e il prevalere di modi diversi di policy-making [Regonini 1985b].

c) Infine, il modello della «contrattazione oligopolistica» deriva in parte dalla letteratura sul neo-corporativismo - ed è infatti quello che meglio cattura le esperienze di scambio politico discusse nel capitolo precedente - , ma non è a questa strettamente legato.

Ciò che lo distingue dai due tipi precedenti è, in primo luogo, il fatto che non tutti gli interessi si presentano fram­mentati nell’arena politica. Vi sono alcune grandi organizza­

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zioni encompassing che sono capaci di pre-mediare fra una molteplicità di interessi sociali, e di trasmetterli quindi in modo aggregato alle istituzioni di policy-making. Lo stesso può avvenire in presenza di grandi partiti di massa che siano ancora in grado di aggregare la domanda sociale, come sto­ricamente hanno saputo fare [Kircheimer 1966], anziché trasformarsi semplicemente in partiti «pigliatutto». Quando partecipano al processo decisionale, questi attori possono agire secondo una logica che tenga conto delle interdipendenze fra le scelte in un’area di policy e quelle da compiere in un’altra. A differenza dei gruppi di interesse frammentati o degli esperti di settore, essi possono avere convenienza a privilegiare la congruenza fra decisioni in aree diverse. Ciò è possibile se alla produzione di politiche pubbliche partecipano solo gli attori con queste caratteristiche, che sono necessa­riamente pochi e concordi nell’escludere gli altri: per questo si può parlare di contrattazione «oligopolistica» fra attori a cui viene consentito un accesso privilegiato4.

In secondo luogo, questi attori agiscono secondo una logica di rappresentanza di interessi, non di costruzione di un obiettivo istituzionale. Devono quindi trasmettere, alme­no in una certa misura, le domande dei loro membri o dei loro elettori. Tuttavia, come la letteratura neo-corporativista ha messo bene in luce, accanto alla funzione di rappresentanza, le grandi organizzazioni encompassing svolgono anche una funzione di controllo sulle domande dei loro membri. Ciò per due ragioni principali. Perché l ’elevato livello di aggregazione degli interessi richiede che i processi intra- organizzativi di decisione siano protetti da una «eccessiva» influenza dei rappresentati. E perché, per rimanere parteci­panti oligopolistici, cioè per mantenere un accesso privile­giato alle risorse statali, queste organizzazioni devono poter garantire che i rappresentati si conformeranno alle decisioni

4 Occorre notare che le pratiche di contrattazione oligopolistica gene­ralmente comportano una esternalizzazione dei costi del raggiungimento di un accordo a spese dì attori esclusi dal processo decisionale. Ciò può diventare una fonte di instabilità per questo tipo di policy-making, nei casi in cui i gruppi esclusi riescono a organizzarsi e a esercitare pressioni sul processo decisionale stesso.

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concordate al vertice. Il livello di isolamento dalla domanda sociale è dunque, in questo tipo di produzione delle politi­che pubbliche, intermedio rispetto ai livelli degli altri due tipi. L ’esigenza di rappresentanza e l’esigenza di controllo si controbilanciano. E, quando ciò non riesce, producono con­traddizioni che possono rendere instabile questo modo di policy-making.

In questo tipo di produzione delle politiche pubbliche, quindi, il processo decisionale modifica in parte la domanda sociale. I rapporti fra gli attori che rappresentano interessi, e fra questi e le istituzioni, sono improntati a un misto di competizione (o di conflitto) e di cooperazione, cioè a uno stile che è catturato abbastanza bene dal concetto di «con­certazione».

Occorre sottolineare ancora che la tipologia appena di­scussa cerca di cogliere i rapporti fra i diversi modi in cui gli interessi sociali si articolano e pesano nella formazione di politiche pubbliche da un lato, e le istituzioni o sedi decisionali che hanno competenza su queste politiche dall’altro. In altri termini, essa riguarda la struttura di quelle interazioni fra interessi e istituzioni che hanno come esito la produzione di policies. Perciò non dice nulla sui diversi attori che possono dominare l’uno o l’altro tipo di policy-making.

È ovvio che, nei tre tipi di produzione delle politiche pubbliche individuati, possono essere presenti altri attori, oltre ai rappresentanti degli interessi sociali e alle istituzioni. In particolare, in ciascuno dei tre tipi sono almeno poten­zialmente presenti, con propri interessi e con proprie risorse di mediazione, anche i partiti politici e le burocrazie tecniche. Teoricamente, ciascuno di questi attori può riuscire a dominare il processo decisionale, se per dominanza intendiamo la ca­pacità di controllare l’agenda e la disponibilità delle risorse cruciali per produrre il risultato. La tipologia discussa non mira tuttavia a prevedere l’influenza dei diversi attori sul policy-making, anche se il particolare modo in cui si struttura il rapporto fra interessi e istituzioni può rendere improbabi­le la dominanza di un determinato attore5. Quest’ultima os­

5 Ad es., è molto improbabile che burocrazie o gruppi di interesse

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servazione, inoltre, mostra che è anche assai improbabile che un attore riesca a dominare il processo di produzione di tutte le politiche pubbliche, a meno che uno o più dei tipi di policy-making sopra discussi siano del tutto estranei a un determinato sistema politico6.

Benché la discussione sin qui condotta abbia soprattutto l’obiettivo di completare analiticamente il quadro fornito dai due capitoli precedenti, ci si può ora interrogare sulla sua effettiva utilità nell’interpretare specifici casi nazionali. Per rispondere a tale questione in modo esemplificativo, proviamo a domandarci in che misura i tre modelli tratteggiati riescano a cogliere il processo di policy-making in Italia.

Per anni il sistema politico italiano è stato descritto come altamente conflittuale, polarizzato dal punto di vista ideolo­gico [Sartori 1966], ma caratterizzato da pratiche spartitorie che cementano il blocco sociale dominante e compensano gli esclusi [Amato 1976]. Il modo di produzione delle politiche pubbliche più adeguato a un tale sistema politico sembrerebbe quello della pressione pluralistica/governo spartitorio, che infatti molti studiosi (sia pure con diversa terminologia) considerano quello prevalente. Del resto, in Italia gli interessi si presentano relativamente frammentati e le istituzioni pubbliche molto permeabili. Anche il ruolo rilevante svolto dai partiti non contrasterebbe, come si è detto, con questo modello, in quanto essi possono costituire il principale agente di mediazione sociale e al tempo stesso condizionare in modo

frammentati dominino la contrattazione oligopolistica; o che grandi or­ganizzazioni encompassing dominino la pressione pluralistica / governo spartitorio.

6 Alcuni concetti diffusi nella letteratura politologica sembrano inve­ce suggerire il contrario. Il party government, il bureaucratic government, la «colonizzazione dello stato da parte di interessi privati», gli iron triangles o alleanze stabili fra alcuni degli attori precedenti, vengono per lo più proposti come raffigurazioni dell’intero processo decisionale, o almeno del suo funzionamento normale. Ad es., per Pasquino [1987] il party government sembra essere l ’immagine più appropriata per il sistema p o ­litico italiano. Tuttavia, a ben guardare, egli dimostra l’onnipresenza dei rappresentanti dei partiti in tutte le fasi del processo di produzione delle politiche, ma non necessariamente il costante prevalere di una «logica» di partisan politics, cioè di schede di preferenza definite dagli interessi del partito, nella loro azione.

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determinante il funzionamento delle istituzioni. Sia pure at­traverso la loro mediazione, la domanda sociale avrebbe dunque una elevata probabilità di tradursi direttamente in politiche pubbliche, che rispecchierebbero i rapporti di for­za nella società senza rilevanti filtri costituiti dalla struttura del processo decisionale.

Dagli studi più recenti sulla realtà italiana, questa imma­gine del policy-making appare abbastanza appropriata per alcune aree, ad es. per le politiche industriali [Ferrera 1987; Maraffi 1987 perii livello locale], ma non per altre. Anzitutto, a partire dalla metà degli anni settanta si sono verificati diversi tentativi di affiancare un modello di contrattazione oligopolistica a quello della pressione pluralistica/governo spartitorio, in diverse aree di policy (dalle politiche dei red­diti, a quelle industriali e del lavoro, a quelle pensionistiche). La storia di questi tentativi è stata raccontata da molti, e con diverse interpretazioni (e verrà ripresa più estesamente nel quinto cap.). In sintesi, si può comunque dire che questo modello non si è pienamente affermato perché gli interessi organizzati non erano sufficientemente forti per imporlo, né agli altri attori né ai propri rappresentati; e soprattutto perchélo stato ha manifestato difficoltà nello svolgere un ruolo di garante e di compensatore. Ma esso è tutt’altro che escluso dall’agenda politica. E anzi probabile che venga periodica­mente riproposto per alcunepolicies, con esiti variabili.

In secondo luogo, in molte aree di policy sembra preva­lere un modo di produzione delle politiche pubbliche che si avvicina a quello del policy network [Regonini 1985b; Addis 1987; cfr. inoltre Regalia 1987b e Regonini 1987 per il livello locale]. Come si è già detto, ciò non implica affatto che i partiti non siano anche in questo caso centrali nel processo decisionale. Ma la logica che i loro rappresentanti tendono ad adottare in molte scelte relative alla produzione di politi­che pubbliche sembra più di cooperazione relativamente stabile con gli altri attori, pubblici e privati, interessati a una determinata politica, che di competizione basata sull’appar­tenenza politica e volta al rafforzamento della propria orga­nizzazione.

Ciò appare in contrasto con la visione conflittuale e

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polarizzata della politica italiana. Ma si può avanzare l’ipote­si che i due aspetti siano invece strettamente legati fra loro. Un sistema politico fortemente conflittuale e polarizzato ri- schierebbe infatti lo stallo, se la produzione delle politiche pubbliche seguisse la stessa logica della partisan politics, basata sulla competizione dei partiti per il voto dell’elettorato. Invece, abbiamo visto che anche i rappresentanti dei partiti nelle singole aree di policy seguono spesso logiche diverse, improntate alla segmentazione e alla separatezza e caratte­rizzate da giochi di cooperazione. Ciò può forse essere dovuto a un fenomeno di goaldisplacement [Selznick 1957], cioè allo «spostamento degli scopi originari» di una parte dell’orga­nizzazione partitica. Oppure al fatto che, in molte policies, il politico non ha proprie schede di preferenza precise; e trova allora più razionale privilegiare la sua appartenenza al policy network - in cui è un esperto e in cui può influenzare le stesse posizioni del partito - che non gli obiettivi della sua orga­nizzazione, rispetto ai quali gli esiti della sua azione sono comunque difficilmente valutabili [Dente e Regonini 1987]. Ma può essere dovuto anche alla strategia di partiti e grandi organizzazioni degli interessi, che, mentre nella retorica politica privilegiano la competizione o lo scontro, nella pratica del policy-making consentono e incentivano i giochi coope­rativi proprio per evitare lo stallo decisionale, almeno fino al punto in cui ciò non comporti per loro costi superiori a quelli derivanti dallo stallo stesso.

2. Interessi organizzati e «policy-implementation»

Dopo avere analizzato la fase del policy-making, nella quale gli interessi organizzati interagiscono in modi diversi con le sedi decisionali, esaminiamo ora i rapporti che possono in­staurarsi fra questi interessi e l ’amministrazione nella implementazione delle politiche pubbliche7. Quali forme può

7 Questo paragrafo si basa su un gruppo di ricerche coordinate da chi scrive per conto dell’Isap. Cfr. M. Regini, L ‘amministrazione e il sinda­cato nell’attuazione delle politiche: Introduzione, in Le relazioni fra am­ministrazione e sindacati, a cura di G. Romagnoli, Isap Archivio (nuova serie 4), volume secondo, Milano, Giuffrè, 1987.

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assumere l'interazione fra interessi organizzati e pubblica amministrazione, cioè quali diversi stili di rapporti emergo­no nella implementazione di quelle politiche nelle quali tali interessi hanno un ruolo potenziale o effettivo, talvolta ad­dirittura previsto per legge? Quali effetti produce l ’adozione di una determinata forma di interazione sull’attuazione delle politiche stesse e sugli stili di funzionamento degli organismi amministrativi? E quali feedbacks comporta sugli obiettivi più generali perseguiti dalle organizzazioni degli interessi e sulla loro dinamica organizzativa?

Ci si può domandare, innanzitutto, se le diverse immagi­ni dei rapporti fra istituzioni e sistema degli interessi nella «produzione» di politiche pubbliche, che abbiamo esaminato nel paragrafo precedente, possano essere adeguate a cogliere la variabilità dei rapporti fra gli stessi attori anche nella fase di «implementazione» di tali politiche. Alcune fra le non molte ricerche disponibili su interessi organizzati e policy- implementation (per il caso italiano, cfr. le ricerche indicate nella nota 7 [Regalia 1987b; Regonini 1987; Maraffi 1987]) offrono risultati che inducono a dare una risposta negativa. Per comprendere il perché, occorre ricordare come i tre

La distinzione tra fase della formulazione e fase deH’implemenfazione delle politiche è in parte arbitraria, come gli analisti di politiche pubbli­che ci ricordano spesso. Dal punto di vista degli interessi organizzati, tuttavia - del loro ruolo, delle loro strategie e della carica simbolica della loro azione - è assai diverso stabilire rapporti con governi e parlamenti o invece con organi della pubblica amministrazione. Altrettanto arbitrario è il considerare gli apparati pubblici attori con una logica unitaria, costi­tuendo essi in realtà un terreno di incontro e di scontro fra molti gioca­tori. «L’organo [pubblico]... non è più un organo ma un mercato, o, meglio, un terreno di battaglie potenziali per armate, divisioni, compagnie, squadre e franchi tiratori - i gruppi, cioè... che minacciano le ostilità e le scatenano o invece negoziano e si coalizzano e si riseparano, ognuno agitando le sue particolari armi» [Pizzorno 1981]. Attori con una logica unitaria non sono in realtà neppure gli interessi organizzati [Romagnoli 1982], né tantomeno governi e parlamenti. Tuttavia, per i fini specifici che la nostra analisi si propone, è legittimo considerare amministrazione e interessi organizzati come attori collettivi, trascurando le differenze e le dinamiche interne. Infatti si tratta qui di individuare alcuni tipi ideali di rapporti - cioè le forme stilizzate dell’interazione - che consentano la comparazione fra casi empirici, e che consentano soprattutto di mostrare gli effetti specifici che tali rapporti hanno sul funzionamento sia dell’am- ministrazione sia degli interessi organizzati.

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modelli discussi nel paragrafo precedente ruotino intorno a due dimensioni analitiche, che sono sì significative nella fase del policy-making ma, probabilmente, non in quella della implementazione. La prima dimensione era - come si ricor­derà - il grado di «isolamento», o di separatezza del processo decisionale dalle pressioni degli interessi sociali. La seconda dimensione era il grado di «comprensività» o invece di segmentazione del processo decisionale. Ora, i risultati empirici derivanti dalle ricerche sui rapporti fra sindacati e amministrazione richiamate sopra mostrano un bassissimo grado di comprensività e di isolamento.

Questi risultati suggeriscono considerazioni interessanti, che qui possono essere solo accennate. In primo luogo, non sorprende che la implementazione sia per sua natura segmentata e poco «comprensiva» nel senso chiarito sopra. Mentre nella fase di formulazione si possono infatti produrre p olici es di tipo globalistico e intersettoriale (ad es., derivanti dai c.d. package deals), è assai probabile che la loro attuazione riguardi invece misure specifiche. Certo, non è detto che la implementazione di taluni provvedimenti non possa essere strettamente collegata - sia in senso temporale che qualitativo - c o n quella di altri, specialmente quando gli implementatori dispongono di un grado di discrezionalità elevato. Ma ciò è indubbiamente difficile e avviene raramente.

In secondo luogo, quale che sia lo spazio per una modificazione o re-interpretazione della domanda dei rap­presentati nella fase della produzione delle politiche pubbli­che, un tale «isolamento» dalle loro pressioni non sembra avvenire nella fase di implementazione. Anzi, le esigenze di massimizzazione degli interessi di tutte le parti sociali rap­presentate sono, a parere di molti osservatori, la ragione principale delle inefficienze nella erogazione del servizio pubblico o dei suoi costi elevati. Ciò suggerisce che la ri­definizione degli interessi di parte per renderli compatibili con obiettivi condivisi e con interessi istituzionali, che spes­so avviene nella fase di formulazione delle politiche pubbliche, ha soprattutto un valore simbolico di «dimostrazione di di­sponibilità», che più difficilmente riesce a prevalere nella fase della loro concreta attuazione.

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Dunque, gii schemi analitici elaborati per interpretare il policy-making consentono osservazioni interessanti anche sui rapporti fra interessi organizzati e pubblica amministrazione nella fase della implementazione. Ma si mostrano pur sem­pre inadeguati a cogliere le variazioni più significative nei modi in cui tali rapporti si presentano. Le dimensioni anali­tiche più rilevanti per analizzare questi rapporti sembrano invece altre.

a) La prima dimensione ha a che fare con il tipo di giochi che si instaurano fra i partecipanti alla implementazione, cioè fra i rappresentanti degli interessi sociali che vi hanno accesso, e fra questi e i rappresentanti delle istituzioni poli­tiche e amministrative competenti. I giochi fra attori con una pluralità di risorse e con strategie articolate sono spesso complessi, ma possiamo individuarne due tipi principali, che chiameremo rispettivamente «giochi di cooperazione» e «giochi di distinzione».

I giochi di cooperazione comprendono anzitutto quelle situazioni in cui le politiche pubbliche vengono attuate at­traverso decisioni unanimistiche e spartitorie, che segnalano pratiche collusive fra i partecipanti alla implementazione. Ma vi rientrano anche quei casi in cui la cooperazione segnala piuttosto il tentativo degli attori di rendere efficiente l ’implementazione attraverso regole del gioco condivise, o di perseguire comunque obiettivi che trascendono la semplice massimizzazione degli interessi di parte. Inoltre, vi rientrano le situazioni in cui lo scopo della cooperazione è quello di uno scambio di legittimazione e di sostegno politico fra i partecipanti alla implementazione.

I giochi di distinzione comprendono invece tutte quelle situazioni in cui le strategie degli attori si differenziano. Ciò può dare luogo a una competizione, o addirittura a un con­flitto aperto fra loro, sui modi in cui realizzare Pimplementa- zione. Oppure si può verificare la sostanziale estraneità rispetto a questa di uno o più dei potenziali attori, vuoi perché di fatto escluso dai rapporti privilegiati stabiliti fra gli altri, vuoi per scelta di astenersi volontariamente da una parteci­pazione effettiva. O, ancora, si può avere una contrapposizione piuttosto rituale, volta più a riaffermare principi che a ottenere risultati.

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b) La seconda dimensione analitica ha a che fare invece con il contenuto prevalente dei rapporti fra i partecipanti alla implementazione. L’interazione fra interessi sociali e pubblica amministrazione, infatti, può svolgere due funzioni diverse. La prima è quella di assolvere compiti specifici e circoscritti di attuazione delle politiche pubbliche. La seconda è di tipo politico-simbolico, cioè di consentire uno scambio di legittimazione, o invece di fornire un’arena pubblica dove si misurano strategie contrapposte.

Del resto, questa duplicità di funzioni corrisponde a una duplicità negli obiettivi degli attori. Gli interessi organizzati cercano o accettano di entrare in rapporto con l’ammini­strazione, da un lato per riuscire a influenzare l ’attuazione delle politiche pubbliche, e quindi la distribuzione delle risorse statali, a favore loro e dei loro rappresentati; ma, dall’altro, per accrescere il riconoscimento e il potere di cui godono. D ’altro canto, gli obiettivi che si danno le istituzioni amministrative - o che ad esse assegna il legislatore - nel coinvolgere gli interessi sociali sono, da un lato, quello di assicurarsi preventivamente la non opposizione di quei destinatari delle politiche che potrebbero altrimenti farle fallire, o di attivare direttamente le loro risorse di informa­zione. Dall’altro, quello di aumentare il proprio grado di legittimazione sociale, acquisendo consenso al loro operato. A seconda di quale dei due aspetti prevale negli obiettivi degli attori, anche il contenuto effettivo dei rapporti fra interessi organizzati e amministrazione è destinato a variare.

Se ora incrociamo le due dimensioni analitiche che ab­biamo individuato, otteniamo quattro tipi di interazione fra interessi sociali e amministrazione, che possiamo chiamare rispettivamente «differenziazione di identità», «consenso dimostrativo», «contrapposizione gestionale» e «collabora­zione attuativa» (cfr. fig. 2).

Sulla base di questa tipologia, possiamo cercare di af­frontare la questione cruciale di quali siano gli esiti del­l’interazione fra interessi organizzati e pubblica amministra­zione - naturalmente tenendo conto del fatto che la varietà di forme che l ’interazione assume corrisponde anche alla pluralità di obiettivi e di strategie di questi attori. Qual è il

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Giochi di distinzione

Giochi di cooperazione

Contenuti Differenziazione Consensopolitico­simbolici

di identità dimostrativo

Contenuti Contrapposizione Collaborazionespecifici di implementazione

gestionale attuativa

Fic. 2. Tipi di interazione fra interessi organizzati e pubblica amministrazione nell’implementazione delle politiche.

grado di successo nell’espletam ento dei compiti di implementazione previsti che si riscontra in quei casi in cui alla implementazione stessa partecipano gli interessi orga­nizzati? O, in modo più articolato (prendendo in prestito la terminologia degli studi di public policy): quali sono le modificazioni neM’output, neWoulcome e nell’impatto delle politiche pubbliche che possono essere considerate conse­guenza specifica della partecipazione di quegli interessi alla loro attuazione?

Sembra del tutto ovvio che, laddove i rapporti fra inte­ressi sociali e pubblica amministrazione assumono preva­lentemente contenuti politico-simbolici, i risultati attuativi concreti siano scarsi. O che i primi non riescano poi a con­dizionare efficacemente i modi in cui le politiche vengono messe in opera. La questione è più interessante per i due tipi di rapporto che ho definito «collaborazione attuativa» e «contrapposizione gestionale». Nei casi in cui gli attori confinano la propria interazione a contenuti circoscritti e limitati di attuazione di una politica, quali conseguenze produce l’adozione di strategie di cooperazione o invece di distinzione sullo stile di funzionamento della pubblica am­ministrazione? In particolare, quali sono gli effetti sulla sua efficienza e rapidità nello svolgimento dei compiti previsti? Ne risulta condizionata la capacità di soddisfare le domande particolari che all’amministrazione vengono indirizzate e al tempo stesso interessi «pubblici» e perciò generali della collettività?

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Uno degli assunti della letteratura sul neo-corporativismo è che la cooperazione istituzionalizzata in organismi pubbli­ci abbia l’effetto di trasformare le organizzazioni di rappre­sentanza in paladine dell'«interesse generale», consentendo così la internalizzazione del conflitto distributivo; ma che il costo da pagare sia un notevole appesantimento del processo decisionale. Per questo la concertazione sarebbe sempre una second- best solution, che ciascun attore accetta quando non può imporre la sua soluzione preferita, ma che è pronto a sacrificare in favore di una maggiore agilità decisionale quando i rapporti di forza si spostano nettamente a suo favore. I risultati delle ricerche già citate sul caso italiano (cfr. nota 7), tuttavia, sembrano suggerire il contrario. Quella che ho de­finito «collaborazione attuativa» è un tipo di rapporto che consente in generale una certa efficienza e rapidità nella implementazione delle politiche, ma che non pare favorire l’interiorizzazione di vincoli e di interessi condivisi da parte degli attori.

Si prenda l ’esempio delle Commissioni Provinciali per la Cassa Integrazione Guadagni (Cpcig) studiate da Ida Regalia [1987b], In tutti e tre i casi provinciali studiati, lo stile di funzionamento è improntato a una elevata efficienza: le riu­nioni sono frequenti e regolari, si raggiunge sempre il numero legale, non esistono praticamente carichi di lavoro arretrati, il tempo medio di evasione delle richieste è molto basso, vi è una grande cura di tutti i commissari nell’aggiornare il pro­prio archivio su precedenti, sentenze, informazioni varie. Che lo stile efficientistico non sia casuale ma determinato proprio dalla presenza delle parti sociali nell’organismo collegiale, è del resto dimostrato dal fatto che le domande di cassa integrazione giungono alla commissione solitamente già corredate di tutti gli elementi utili per la valutazione. Ciò perché le organizzazioni degli interessi si attivano a questo scopo presso i loro rapppresentati, contribuendo così in modo decisivo alla rapidità dell’istruttoria.

O si prenda il caso dell’Inps per l ’erogazione delle pen­sioni, studiato da Gloria Regonini [1987]. Anche qui, lo studio giunge alla conclusione che la gestione a maggioranza sindacale di questo istituto non determina affatto una minore

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rapidità dei processi decisionali (né costituisce peraltro la variabile centrale per spiegare la bassa capacità dell’ente di soddisfare le domande che gli vengono indirizzate). Per un verso, infatti, la dirigenza burocratica conserva il monopolio dei criteri di ciò che è legittimo e fattibile, così che anche i rappresentanti delle parti sociali nel Consiglio di ammini­strazione non modificano le prassi tradizionali. Per un altro verso, l’inserimento dei dirigenti dell’Inps nella rete dei sindacati confederali e dei partiti a cui questi sono legati porta semmai ad accorciare i tempi normali del percorso «legislazione-attuazione-correzione degli errori attraverso nuovi provvedimenti legislativi».

D ’altro canto, questa relativa rapidità del processo deci­sionale non comporta affatto una maggiore capacità di per­seguire gli obiettivi istituzionali. Inoltre, essa non è il risul­tato della interiorizzazione di un interesse «pubblico» da parte di tutti gli attori, bensì di un patto distributivo fra gli interessi rappresentati nel processo di implementazione. Si tratta dunque di una efficienza fondata sulla collusione fra interessi sociali e rappresentanti delle istituzioni politiche e amministrative. Ciò appare chiaro per quanto riguarda il normale funzionamento dell’Inps e dei suoi comitati pro­vinciali e regionali. La prova a contrario di ciò è che, quando per ragioni esterne la collusione si rompe e i rapporti diventano di «contrapposizione gestionale» - come è accaduto per le questioni del controllo delle evasioni contributive e della concessione di proroghe sui pagamenti - anche la rapidità del processo decisionale sembra diminuire8.

Non molto dissimile è il caso delle Cpcig. Qui sembra in realtà emergere un obiettivo condiviso da tutti i membri di questo organismo: la verifica della correttezza formale delle procedure delle richieste di cassa integrazione. Si potrebbe perciò ipotizzare che in questo caso venga interiorizzato un «interesse pubblico». Quale che sia la plausibilità di questa ipotesi, resta comunque il fatto che i risultati sono altamente

8 Questo avviene anche per ragioni inerenti il normale funzionamento della pubblica amministrazione. Sappiamo infatti che la rapidità del p ro ­cesso amministrativo tende comunque a diminuire quando qualcuno sol­leva eccezioni.

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distributivi. E che ciò è tanto più vero proprio quanto più la commissione appare efficiente. Così, a Milano, gli accerta­menti compiuti dalla commissione sulle richieste aziendali di cassa integrazione non superano i 20-30 all’anno, la percen­tuale di richieste aziendali respinte è solo del 2-3%, e i ricorsi al comitato speciale sono inferiori all’ 1% [Regalia 1987b]. Questi dati mostrano valori leggermente superiori a Bologna e in particolare a Bari, ma non modificano l’im­pressione che l’efficienza e la stessa mancanza di fondamentali dissensi siano l’effetto di un tipo di rapporto sostanzialmente basato sulla spartizione di risorse pubbliche.

Oltre agli effetti che la partecipazione degli interessi organizzati all’implementazione delle politiche produce su­gli stili di funzionamento della pubblica amministrazione, occorre considerare brevemente anche i feedbacks sugli in­teressi organizzati stessi. Ci si potrebbe attendere infatti che il diverso grado di responsabilità gestionale che essi assumo­no nell’implementazione finisca con il condizionare i loro comportamenti, li porti a ridefinire i loro obiettivi, influisca sulla loro dinamica organizzativa. Tuttavia, l’evidenza empirica disponibile non consente di giungere a tale conclusione.

Ciò è facilmente spiegabile per quanto riguarda i tipi di rapporto che ho chiamato «differenziazione di identità» e «consenso dimostrativo». Quando il coinvolgimento degli interessi organizzati nella implementazione è prevalentemente di tipo politico-simbolico, così che esso non comporta re­sponsabilità specifiche e consente la semplice riaffermazione di principi generali, non vi è motivo di attendersi ripercus­sioni al loro interno. In alcuni casi, l’apparente disinteresse delle organizzazioni degli interessi per un consolidamento e una istituzionalizzazione dei loro rapporti con la pubblica amministrazione può nascondere proprio la volontà di evitare effetti negativi sulla «tenuta» del loro rapporto di rappre­sentanza e del tradizionale metodo vertenziale.

Ad esempio, le politiche industriali sono un terreno minato sia per i sindacati sia per le associazioni imprenditoriali. Gli obiettivi che a queste politiche vengono normalmente asse­gnati dalle istituzioni pubbliche, cioè di favorire l’ammo­dernamento e la razionalizzazione del tessuto industriale,

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infatti, entrano spesso in contrasto con la concezione tradi­zionale che ne hanno sia le organizzazioni sindacali - per le quali il problema centrale resta quello dei salvataggi industriali, cioè della salvaguardia dell’occupazione in situazioni di crisi aziendale - sia gli imprenditori - che accettano volentieri gli aspetti erogatori di tali politiche ma osteggiano gli embrioni di programmazione che spesso vi sono connessi. È legittimo in questo caso ritenere che una interazione poco impegnativa, basata più su semplici consultazioni che su responsabilità gestionali, possa essere nell’interesse sia delle istituzioni pubbliche sia degli interessi sociali coinvolti. Si preferiscono quindi forme di pressione dall’esterno sulla pubblica am­ministrazione, che consentono benefici limitati ma senza vincoli e senza coinvolgimenti istituzionali [Maraffi 1987],

Più difficile è capire come mai i feedbacks siano tra­scurabili anche in quei casi in cui il coinvolgimento delle organizzazioni degli interessi nell’attuazione delle politiche pubbliche è rilevante e fortemente istituzionalizzato. In par­ticolare, la linea d ’azione che i loro rappresentanti negli organismi pubblici si trovano a seguire non sembra avere riflessi significativi sulla strategia esterna delle organizzazio­ni stesse. Una possibile interpretazione di questo fenomeno è che vi sia una specie di tacito accordo fra questi rappresen­tanti e le loro organizzazioni di appartenenza, per cui alla non interferenza delle seconde nelle funzioni dei primi deve corrispondere la rinuncia di questi a cercare di influire sulla elaborazione delle strategie.

Del resto, le grandi organizzazioni degli interessi sono attori complessi, il cui criterio di regolazione dei rapporti interni è più frequentemente quello della «divisione dei compiti» che quello del «coordinamento imperativo», anche se possono esservi ampie variazioni fra questi due poli. Ne risulta spesso un funzionamento a compartimenti stagni, in cui la possibilità di condizionamento reciproco è fortemente attenuata.

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CAPITOLO QUARTO

IL CASO ITALIANO:S TATO, ECONOMIA E INTERESSI ORGANIZZATI

I. Si può parlare di «welfare state keynesiano» in Italia?

Le dinamiche dei rapporti fra stato ed economia che ho esaminato nel primo capitolo riguardano in qualche misura lutte le democrazie industriali avanzate. Anche l ’Italia, dunque, ha conosciuto una fase di ascesa e una di declino del welfare state keynesiano. Sia nel dibattito scientifico che in quello politico è tuttavia avvertibile una certa reticenza, quasi un disagio, ad applicare questa categoria analitica alle vicende italiane; tant’è che essa viene poi spesso accompagnata dal­l’indicazione delle «peculiarità» di questo paese.

Ma, mentre VAmerican exceptionalism o il M odell Deutschland - per fare due esempi di categorie altrettanto diffuse nelle analisi dei rispettivi casi nazionali - assumono il rilievo di veri e propri strumenti concettuali più che di va­rianti nazionali di un modello generale, il «caso italiano» [Gavazza e Graubard 1974; Graziano e Tarrow 1979; Lange eTarrow 1980; LangeeRegini 1987] è venuto a simboleggiare piuttosto la difficoltà di applicare qualsivoglia categoria analitica elaborata a scopo comparativo. Infatti, rispetto ai modelli utilizzati nell’analisi comparativa, l’interpretazione del caso italiano e del suo mutamento consiste per lo più nel mettere in luce una serie di «scostamenti» che rinviano a una realtà che si considera, per motivi non del tutto chiari, più multiforme e complessa di quella degli altri paesi, e quindi non catturabile da concetti che appaiono per l’appunto troppo semplici.

In primo luogo, si rileva comunemente [Amato 1976; Cassese 1987] che l’intervento pubblico nell’economia è, in Italia, da un lato molto più esteso che in altri paesi occidentali,

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dall’altro altamente inefficiente, in quanto incapace di dare vita a una politica economica coerente e organica.

Non soltanto sono vastissimi, in termini comparativi, i confini dello «stato imprenditore» - cioè della proprietà pubblica sia di aziende che erogano servizi sia di impianti produttivi - e quindi la capacità potenziale di controllare lo sviluppo economico del paese. Straordinariamente ampi sono anche gli strumenti di regolazione diretta di tipo vincolistico che lo stato italiano ha a disposizione. E assai vasta è la sua capacità di allocare direttamente risorse economiche, dovuta a un abnorme debito pubblico e a uno stile di spesa che privilegia i trasferimenti monetari rispetto ai servizi pubbli­ci. Si prendano ad es. le politiche del lavoro [per un’analisi delle quali cfr. Reyneri 1987; 1990]. Considerando con­giuntamente gli strumenti legislativi e amministrativi che consentono la gestione pubblica del mercato del lavoro, l’erogazione di risorse statali legate agli istituti della Cassa integrazione guadagni, dei pre-pensionamenti, ecc., e la regolamentazione diretta che avviene nel settore pubblico e in quello delle partecipazioni statali, si deve concludere chelo stato italiano è, teoricamente, fra i più interventisti del mondo occidentale.

Tuttavia, nella formazione di queste, come di altre, po­litiche pubbliche, prevale quel sistema che è stato definito di «pressione pluralistica e governo spartitorio» (cfr. terzo cap.). Tale sistema ha l’effetto di rendere le autorità di politica economica italiane meno capaci di altre di elaborare e di perseguire un disegno complessivo coerente e di lungo pe­riodo. Esso comporta infatti una elevatissima permeabilità di queste sedi decisionali agli interessi privati, e spesso una vera e propria «collusione distributiva», contro la quale ogni tentativo di dare vita a un tale disegno sistematicamente si infrange.

In secondo luogo, per ciò che riguarda le politiche keynesiane, si può dire che è stata proprio l’assenza di un disegno organico di lungo periodo a renderle fragili e incerte. Non a caso, alcuni studiosi di tali politiche in chiave comparata hanno coniato la categoria di «versione debole del keynesismo» [Bordogna e Provasi 1984], che peraltro si applicherebbe

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non solo all’Italia ma anche ad altre grandi democrazie in­tinsi riali avanzate, quali gli Stati Uniti [cfr. però la critica di S tivati 1982]. Del resto, la debolezza delle politiche keynesiane in I lalia corrisponde al ruolo minoritario storicamente svolto iLille forze politiche riforniste, che in modo più deciso e t onsapevole se ne facevano promotrici. E va ricordato che lineile coalizioni di governo che incorporarono nel proprio programma alcuni significativi elementi di keynesismo ebbero vila breve e travagliata. Gli obiettivi keynesiani del centro- sinistra nei primi anni sessanta, in particolare, sfociarono nella scelta recessiva del 1963 [Salvati 1980], Questa scelta, poi ripetuta nel 1973, indica chel’obiettivo del pieno impiego non è mai stato assunto in Italia come realmente vincolante.

In terzo luogo, si può parlare di uno sviluppo dello stato sociale in Italia? Indubbiamente sì, se non altro se si guarda :ti dati sulla spesa sociale in rapporto al Pii, che pongono l’Italia in una situazione intermedia fra i paesi industriali avanzati. Ma quale tipo di welfare si è sviluppato? Anche in questo caso, il dibattito scientifico segnala le difficoltà e i dubbi nell’applicare le tipologie tradizionali. Per utilizzare le categorie di Titmuss [1974] - quelle più largamente uti­lizzate, sia pure con alcune varianti, nella letteratura inter­nazionale-, il sistema italiano di politica sociale non appare agevolmente collocabile in nessuno dei tre modelli proposti da questo autore: né quello residuale, né quello meritocratico- partico laris tico , né tantom eno quello istituzionale- redistributivo. Negli anni sessanta e settanta, questo sistema ha assunto alcuni tratti universalistico-egualitari (dall’esten­sione della scuola dell’obbligo alla istituzione, nel 1978, del servizio sanitario nazionale), che sono legati al modello isti­tuzionale-redistributivo. Ma ha complessivamente mantenuto un’impronta particolaristico-corporativa (bene evidente ad esempio nella progressiva estensione della copertu ra pensionistica ai più svariati gruppi sociali e professionali, effettuata in tempi diversi e con trattamenti diversi), mentre al tempo stesso si è spesso avuta una implementazione clientelare degli stessi aspetti universalistici. Anche in que­sto caso, è apparso pertanto necessario coniare nuove cate­gorie, quale quella di sistema «particolaristico-clientelare»,

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per poter ricomprendere il caso italiano in una tipologia più vasta [Ascoli 1984; Ferrera 1984; Paci 1989].

Infine, anche il dibattito sulle risposte possibili alla crisi del welfare state keynesiano ha assunto in Italia aspetti spe­cifici, particolarmente per quanto riguardale risposte suggerite dalle correnti politiche riformiste. Come si è visto al termine del primo capitolo, per gran parte della sinistra europea la risposta principale a tale crisi non sta nel diminuire le presta­zioni, ma non sta neppure nel migliorare l’efficienza e la qualità dei servizi sociali forniti dallo stato. Viene data inve­ce priorità a interventi sul mercato del lavoro e sul rapporto di lavoro, cioè ad azioni volte a re-distribuire le occasioni lavorative fra una parte maggiore della popolazione, a rista­bilire la piena occupazione, a migliorare la qualità del rapporto di lavoro.

Si tratta di obiettivi presenti anche nel dibattito italiano, che tuttavia ha preso prevalentemente altre strade. La ragione di ciò è che il sistema italiano di welfare non è figlio di un progetto egualitario-solidaristico-universalistico elaborato da un forte movimento operaio - come nei paesi a tradizione socialdemocratica-, e infatti non ne porta i tratti. Gli interventi di politica sociale in Italia hanno seguito piuttosto una logica di ricerca del consenso e di sostegno a diversi gruppi sociali. La ricetta italiana è stata quella di una intensa frammentazione dei benefici e intensa dipendenza assistenziale dei beneficiari da un lato, e larga sommersione-diffusione dei costi unita a larga evasione, dall’altro lato [Ferrera 1984], Se queste ca­ratteristiche hanno paradossalmente consentito un modello di espansione del welfare fra i più consensuali in Europa, esse impongono però alle correnti riformiste italiane di guardare ai limiti di questo modello con occhio più critico di quanto avviene nei paesi nord-europei. Non essendovi un patrimonio storico del movimento operaio da salvare, ci si può infatti chiedere con maggiore realismo quali aspetti del sistema di welfare esistente vadano salvaguardati ma anche quali vadano cambiati, e quali obiettivi si vogliono e si pos­sono effettivamente raggiungere nella situazione attuale.

Il dato di partenza è la fortissima crescita della spesa pubblica, e in particolare della spesa sociale, in rapporto al

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IMI, avvenuta negli ultimi quarantanni. Da questo punto di vista, l’Italia non si è peraltro discostata dai trends comuni agli •litri paesi europei, se non per un più forte rilievo dei tra­sferimenti monetari rispetto alla prestazione di servizi I Ferrera 1984; Artoni e Ranci Ortigosa 1989]. Tuttavia, a questa crescita non si sono accompagnati né un aumento di • liialità delle prestazioni, né una maggiore chiarezza sugli obiett iv i da raggiungere. Anzi, si continuano a varare prov­vedimenti legislativi che, come nel campo delle pensioni, finiscono con il produrre un sistema caotico ed «effetti perversi» [Regonini 1985a].

Il principale responsabile di questa situazione è il modo ili formazione e di attuazione di queste politiche. Il predominio assoluto del momento legislativo, che spesso nasconde il primato dei partiti e della loro rappresentanza di micro­interessi corporativi; la debolezza delle burocrazie tecniche rispetto ad altri paesi; la frammentazione del contesto isti­tuzionale e organizzativo: questi sarebbero gli ingredienti del welfare ìtalian style [Dente 1985], Se è così, la risposta alia crisi dello stato sociale non può prescindere dall’esigenza di rendere anzitutto più razionali ed efficienti le politiche pubbliche. E, di fronte a un welfare che non produce egua­glianza ma garantisce i privilegi delle più diverse clientele e categorie sociali, appare difficile esimersi dal compito di individuare criteri di equità a cui le politiche sociali do­vrebbero rispondere.

Ma la riforma dell’intervento pubblico può rivelarsi non sufficiente, di fronte alla diversificazione dei bisogni e al­l’esigenza di favorire la libertà di scelta degli individui. «Una volta recuperato a una effettiva gestione pubblica - generale e uniforme - l’insieme delle prestazioni e dei servizi sociali di base, si tratta anche di riaffermare, altrettanto nettamente, il principio della non interferenza dello stato nel settore vo­lontario previdenziale e assistenziale (salvo un’opera generale di controllo dei risultati)» [Paci 1984, 322], In questo qua­dro, il recupero di uno spazio per il mercato e per forme d’azione volontaria non a fini di lucro non ha necessariamente un segno conservatore, ma anzi profondamente innovatore.

Anche chi riconosce il valore che l’uso della spesa pub­

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blica per scopi redistributivi e per compensare le disu­guaglianze prodotte dal mercato ha storicamente avuto e continua ad avere, non può infatti chiudere gli occhi di fronte all’elefantiasi e alla strutturale inadeguatezza dell’ap­parato pubblico, che ha accentrato in sé tutte le funzioni di welfare, assorbendo risorse senza dare risposte di qualità adeguata. La difficoltà sta però nell’individuare un nuovo punto di equilibrio fra pubblico e privato, un nuovo mix fra stato, mercato e istituzioni basate sulla solidarietà, dalla cui combinazione è del resto sempre dipesa la capacità com­plessiva di garantire i cittadini di fronte ai «rischi sociali» [Balbo 1984]. E sta soprattutto nella capacità di controllare gli effetti complessivi, la corrispondenza dei risultati agli obiettivi che attraverso il sistema di welfare si intendono perseguire.

2. Stato, mercato e regolazione sociale dell’economia

Sin qui ci siamo limitati a descrivetegli aspetti di specificità del «caso italiano» dei rapporti fra stato ed economia. Da tali peculiarità, diversi studiosi traggono spesso, come si è detto, la conclusione affrettata che questo «caso» non è trattabile con categorie analitiche sviluppate a scopi comparativi. In questo paragrafo, proverò invece a mostrare che, assumendo altri punti di osservazione meno scontati, l’Italia si dimostra un paese in cui aspetti cruciali del rapporto fra stato, società ed economia, propri delle democrazie industriali avanzate in genere, si presentano con particolare evidenza. In ogni caso tali aspetti, siano essi ugualmente presenti negli altri paesi o particolarmente accentuati in Italia, vanno compresi entro un quadro analitico, e non semplicemente descritti o valutati come eccentrici.

Cominciamo con la questione generale della crescita o invece del ridimensionamento del ruolo dello stato nella regolazione dell’economia nelle democrazie industriali avanzate. Già nella introduzione a questo volume, ho sostenuto che tale questione è troppo semplicistica e fondamentalmente mal posta. Essa appare ancora più fuorviante quando si passi

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iH';malisi specifica del caso italiano. Infatti, le tendenze nei i .importi fra stato ed economia in Italia variano profondamente■ l.i un’area di attività economica all’altra, e nel corso del innpo. Negli ultimi venti anni, in particolare, vi sono stati< isi di aumento dell’intervento statale, casi di mutamento nel lipo di regolazione pubblica, e casi di declino del ruolo dello stato.

In un certo numero di aree - fra cui il sistema sanitario, l i politica industriale, e le relazioni industriali - i tardi anni •elianta e i primi anni ottanta sono stati caratterizzati da una legislazione e da una prassi che hanno segnato un forte au­mento dell’interventismo statale. Nel campo della salute, ad esempio, nel 1978 si è giunti - come ho già ricordato — alla creazione di un sistema sanitario pubblico. In modo analo­go, la legge n. 675 del 1977 sulla ristrutturazione e la riconversione industriale ha teso a rafforzare il già esteso ruolo pubblico nello sviluppo industriale e ad allargare gli strumenti di intervento a disposizione dello stato. Nel cam­po delle relazioni industriali, nel 1983 e nel 1984 il governo ha assunto più decisamente l’iniziativa per ciò che riguarda i t en tarivi di raggiungere accordi concertati fra capitale e lavoro.

D ’altro canto, nel campo della politica monetaria vi è stato invece un processo di mutamento incrementale che ha leso a fornire un più ampio spazio d ’azione alle forze del mercato nella determinazione dei tassi d ’interesse, nella crescita dell’offerta di moneta e in altri aspetti connessi [EpsteineSchor 1987; Addis 1987]. E certamente le tendenze a un declino del ruolo dello stato, e a una contemporanea crescita degli spazi del mercato, vanno oltre le politiche monetarie, anche se solo in alcuni casi esse sono il risultato di iniziative esplicite.

Nella sanità, ad esempio, proprio l’istituzione di un sistema pubblico nazionale ha finito con il creare di fatto molte opportunità anche per l’espansione di attività private com­plementari o sostitutive, e quindi per un aumento del ruolo del mercato e di istituzioni non pubbliche, nell’erogazione complessiva delle prestazioni sanitarie [Granaglia 1987], Nel campo dei servizi sociali più in generale, il già vasto ruolo svolto dalle forme non statali di regolazione - non soltanto il

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mercato, ma anche la famiglia e le istituzioni basate sul volontariato - ha continuato a crescere [Paci 1989]. Nel mercato del lavoro, gli anni ottanta sono caratterizzati dal­l ’introduzione di forme di flessibilità nelle assunzioni e negli orari di lavoro, che generalmente consentono maggiore spazio ai rapporti di mercato. Tuttavia, anche la regolazione attra­verso il mercato ha continuato, almeno in talune zone del paese, a essere temperata dal ruolo svolto dai legami di parentela e comunitari [Reyneri 1987]. Infine, anche nelle relazioni industriali gli anni ottanta mostrano la ripresa e una più ampia accettazione delle logiche del mercato [Cella 1987], benché questa tendenza non sia tanto il risultato degli orientamenti di policy, quanto delle nuove esigenze poste dalla competizione internazionale e del declino del potere contrattuale del sindacato.

Tuttavia, il caso italiano mostra con molta nettezza un punto che ho sostenuto nell’introduzione a questo volume: cioè che è sbagliato considerare lo stato e il mercato come le due uniche istituzioni regolative delle attività economiche, e per di più come necessariamente in contrapposizione fra di loro. Se in taluni paesi questa immagine può anche risultare abbastanza appropriata, essa non lo è in generale, per tre ragioni principali che il caso italiano mette bene in luce.

La prima ragione è che non esiste un unico tipo di in­tervento pubblico nell’economia. Lo stato può infatti inter­venire nel sistema economico in modi assai diversi fra loro, producendo effetti differenti. Se ciò è vero, una conseguenza importante è che si possono avere mutamenti profondi nel tipo di regolazione dell’economia anche se non cambia l’in­tensità dell’intervento pubblico, cioè il grado di presenza dello stato: è sufficiente che cambi la natura del suo intervento.

La seconda ragione è che stato e mercato non esauriscono i modi di regolazione possibili delle attività economiche. Accanto ad essi, sono cresciute di importanza le forme di auto-regolazione da parte delle grandi organizzazioni degli interessi, cioè le forme di concertazione fra governi privati. E un ruolo importante nella regolazione delle attività econo­miche continua a essere svolto anche dalle reti di solidarietà, quali parentela, famiglia, clan, relazioni di comunità. La

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■ oir i /Miciiza è che, anche in quei casi o in quei periodi in cui l.> i lio diminuisce effettivamente e in modo rilevante leI - « • *1 >i i c funzioni nell’economia, non si ha necessariamente un < on ispondente aumento dello spazio lasciato al mercato, l" i> In- può invece aumentare il ruolo delle altre forme di i< relazione sociale appena ricordate.

In li ne, la terza ragione è che, quando esaminiamo spe- . ilirlie aree di attività economica e sociale, quali ad es. il un r< aro del lavoro, il sistema sanitario, le relazioni industriali .. l<- politiche monetarie, ci accorgiamo che stato, mercato, (■> H'crni privati e reti di solidarietà non sempre si contrap- l'ungono fra loro, ma più spesso si mescolano e si intrecciano in modi complessi. Vediamo cioè che ciascuna di queste aree< a nitturata da un mix di istituzioni, da una commistione tra (orme di regolazione statale e forme di regolazione sociale,I*nittosto che da una sola di esse. Esaminiamo ora ciascuna .l< Ile tre ragioni indicate, con alcuni riferimenti al caso ita­liano.

a) Guardando alle esperienze delle democrazie indù- ai iali avanzate nel loro complesso, possiamo dire che lo iato dispone di una gamma potenziale di interventi nell’eco-

nomia molto articolata e differenziata.Anzitutto, può usare la sua autorità legislativa e ammi­

nistrativa per stabilire direttamente come un complesso di attività vadano coordinate e strutturate (in Italia, si può fare l’esempio dell’ingresso nel mercato del lavoro gestito attra­verso gli uffici pubblici del collocamento, o quello della disciplina dei licenziamenti).

Lo stato può invece usare la sua autorità per rafforzare gli esiti delle altre forme di regolazione. E questo un intex-vento che potremmo chiamare di «prestito di autorità», o di legittimazione dei modi in cui un insieme di attività e di rapporti viene coordinato da altre istituzioni regolative (un esempio sono le c.d. «leggi contrattate», assai diffuse in Italia nei tardi anni settanta, cioè il recepimento da parte della legge di accordi stipulati fra organizzazioni di interessi privati).

In terzo luogo, l’autorità statale può essere usata per stabilire le regole del gioco che consentono o che limitano

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l’operare degli altri modi di regolazione (si può qui fare l’esempio della legislazione anti-monopolistica). Si tratta in questo caso di un intervento indiretto, che si limita a con­dizionare il funzionamento delle altre istituzioni regolative, ma dal quale spesso dipende il grado di successo della regolazione.

Infine, lo stato può intervenire indirettamente, per con­dizionare le altre forme di regolazione, non già utilizzando la sua autorità, bensì le sue risorse economiche (in Italia, si pensi ad es. agli incentivi per l’industrializzazione del Mez­zogiorno). A differenza che nel caso precedente, si tratta qui di un intervento puramente erogatorio (il che naturalmente non significa che non possa essere cruciale), di supporto, di provvista di risorse aggiuntive rispetto a quelle allocate dalle altre istituzioni regolative.

In Italia, il primo e il quarto tipo di intervento sono stati tradizionalmente quelli più rilevanti. Il ruolo estesissimo della legislazione e la «panoplia di strumenti di cui lo stato è dotato» [Cassese 1987] hanno più che altrove ampliato lo spazio per interventi diretti nell’economia. Al tempo stesso, l’ampia permeabilità delle istituzioni pubbliche a una mol­teplicità di interessi ha dilatato l ’intervento puramente erogatorio e di sostegno. Al contrario, la regolazione indiretta «di tipo condizionale», tipica dei paesi anglosassoni, è de­cisamente carente nel caso italiano. Ciò ha ragioni storiche che sono state brillantemente messe in luce da Cassese [1969; 1987], alle cui analisi possiamo rifarci.

Esaminando la legislazione che ha accompagnato lo svi­luppo economico, ci si accorge che lo stato italiano è dotato di strumenti per influenzare l’economia come pochi altri stati moderni. Non vi è aspetto dell’attività imprenditoriale che non veda i poteri pubblici intervenire in qualche misura: dalla decisione di istituire l ’impresa, alla raccolta dei mezzi finanziari, alla provvista di personale, alla localizzazione degli investimenti, alla qualità e quantità dei prodotti, fino ai prezzi [Cassese 1987, 45-46]. Prima caratteristica dei rapporti fra stato ed economia sarebbe dunque il posto straordinario dello stato nell’economia lungo tutta la storia italiana. Accanto a questa, va segnalata però una seconda caratteristica, cioè

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. i . .tavza 1 i s t i t u t i _Pul, 1,1 ì t -j c h c s o n o in v e c e f r e q u e n t i a l t r o v e .

I i a t u n a m a g g io ^ . s t a ta q U e l l a d e l l a le e g is la z io n e

m i u n o n o p o is t ic a , c^(. s j j n q u a c [ra j n u n a g e n e ra r le a sse n za d i

i < | ,o a z io n i 1 c a ra t t^ 1( j , (.n e ra ] e e in d i r e t t o , d e l t i j p o d i q u e l le

1 I I U

. In e!

le d a g li I n s p e c t ^ ^ j ng j csj 0 j au e regUlatcory agencies ncane. u n q u e ,^ | la ] ja p reval e u n a d is c ip l in a d i t ip o tt iv o su una ,sCj|,|jna j jp o co nd iz iona le .

Le ragioni sare^|)(_ro j a ricercare nell’iniztio ritardato< o stato e e ^cdllt>nija e nella conseguente necessità di

uno svi uppo acce 47]. L’Italia è utn late-comernu„ solo nella f o r * ^ ^ deUo statQj ma mc[hc neUa for

inazione i un mere^|(| ^ nei|0 sviluppo economiico. Questo mai o spiega ac< |crazjone della spinta dei governi, pre­occupati 1 e ìm in^ jntralcj e garantire urn minimo di uudormita.

Con la eonsegueiv e|K. ; p0ter; pubblici si comfportano come un esercì o spm o aj|a jretta a jnvacjere terre nemuche lasciando n C- p n°n m erar”)et'tr controllate, o controllate, pper delega, da

'* 7 V ep U n n f S° ’ ^ q u e , si registrano rapidi e pesaanti interventi .la a i. er a ro, s i ^ ^ j>accetta2jonej j a parte cdello stato, di mipor an ì imperi Privalj con j qUaliesso viene a pattii [ibidem , 49].

L implicazione ^ qUCSta analisi è che un mmtamento neii apporti ra stato e<l(;(.oflomja può dunque ben savvenire non >o tanto con una cre^j^ Q una r]tirata dello stato (che sottraggao asci spazio a ma anc}ie con un cambiamento del! i •Llntj ^fvento el, ]Q stato esercita nel sistemaa economico, -u a c e debo e se^)ajc un taje cambiamentto si è potuto cogliere negli ultix j annj. ]a fatjcosa gestazione di una legi- s azione anti monQi>lljst jca) j] ritiro delle Partecippazioni statali da settori non s tra t^ .^ ja legjslazione SU1 mercaato del lavoroche elimina mo ti vL ^ amministrativi spesso ‘.sostituendoli con vincoli proceq^ |j

b) La seconda t(1j, jone non bisogno di lutinghe illustra­zioni. Ho già argor tnlato jn linea generale che sttato e mercato non esauriscono 1 regQla2ione possibili! delle diversearee di attività ecOt|(,mica. Il caso italiano offree ampi soste­gni empirici a tjue^ osservaz}one Anzitutto, diiverse grandi organizzazioni e^ jnteressjj nel regolare i rapporti con i

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loro membri e fra questi e i membri di altre associazioni, funzionano come veri e propri governi privati. In particola­re, la regolazione dell’attività industriale e del mercato del lavoro, in Italia è orma) spesso più il risultato di accordi fra grandi organizzazioni degli interessi che della legislazione statale o del semplice operare del mercato [Chiesi e Martinelli 1987],

In secondo luogo, i rapporti di solidarietà, specialmente attraverso le istituzioni della famiglia, della parentela e altri legami interpersonali, continuano a svolgere funzioni eco- nomico-sociali rilevanti. Ciò è vero non soltanto per il Mezzogiorno [Catanzaro 1983], ma anche per le aree di più antica industrializzazione, come mostra l’analisi di Reyneri [1987; 1988] sul ruolo svolto dalle reti di relazione nel fun­zionamento del mercato del lavoro. Inoltre, la vasta lettera­tura sulle aree a economia diffusa della «terza Italia» mette in luce il ruolo decisivo della fiducia e dei rapporti subculturali nella performance dell’economia [Bagnasco 1988; Trigilia1986],

c) Veniamo così al terzo e ultimo punto che il caso italia­no mette in particolare evidenza. Abbiamo detto che, quando esaminiamo i modi in cui in Italia vengono effettivamente regolate specifiche aree di attività economico-sociale, vediamo che stato, mercato, governi privati e reti di solidarietà - cioè le diverse istituzioni regolative dell’economia - non sempre si contrappongono fra loro; non sempre, cioè, dove una aumenta i propri spazi di azione, le altre cessano di svolgere un ruolo importante. Più spesso troviamo invece una commistione fra queste forme di regolazione, non solo nel senso che convivono fra loro, che sono semplicemente compresenti - osservazione che suona piuttosto ovvia - ma nel senso che spesso si sostengono reciprocamente anziché escludersi a vicenda. Per chiarire questo aspetto, farò alcuni esempi a partire dal ruolo svolto dallo stato in diverse aree di attività economico-sociale.

In primo luogo, in Italia vi sono numerosi casi di regolazione formalmente statale che, per i modi in cui avviene, consente tuttavia ai rapporti di mercato, ai legami di comunitào all’azione associativa di estendere il proprio ambito di

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,i, ione. Possiamo qui indicare due principali gruppi di esem­pi di questo intreccio. Il primo gruppo riguarda i casi di l< gislazione molto rigida, prevalentemente con obiettivi vincolistici e di tutela universalistica - qual è stata in Italia11 no a tempi recenti quella sul mercato del lavoro - legislazione< Ik- tuttavia consente (si potrebbe quasi dire che induce) numerosi «aggiramenti», cioè che lascia spazio all’operarei lei mercato o di legami comunitari. Si può citare a questo11 roposito l’aggiramento sistematico, da parte di molte imprese,i lei servizio pubblico di collocamento, e più in generale delle norme sul mercato del lavoro, soprattutto attraverso il ricorso :i reti di relazioni comunitarie. Il secondo gruppo di esempi riguarda invece quei provvedimenti legislativi o amministrativi die si limitano a recepire accordi intervenuti fra associazioni di interessi o norme prodotte da governi privati, «prestando» per così dire a questi accordi o a queste normative l’autorità dello stato. Rientrano in questa categoria le cosiddette «leggi contrattate» fra le parti sociali che ho già ricordato; o le disposizioni ministeriali che si limitano a sancire decisioni prese da organi di autogoverno, quali il Consiglio Universi­tario Nazionale o il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione, cui sono state delegate funzioni pubbliche.

In secondo luogo, osserviamo invece numerosi casi di regolazione apparentemente non statale, nei quali, tuttavia,lo stato svolge un intervento che si rivela essenziale nel consentire alle altre istituzioni regolative di operare. Qui si tratta, in altre parole, di un tipo di regolazione nella quale lo stato non svolge alcun ruolo diretto, ma che può svilupparsi proprio per effetto di interventi dello stato. Esempi ne sono tutte quelle situazioni in cui attività apparentemente regolate dal mercato (come la creazione o la chiusura di imprese), da rapporti di solidarietà (come i servizi forniti dall’azione vo­lontaria, cioè il c.d. «terzo settore»), o da accordi fra asso­ciazioni (come gli accordi per la modifica della scala mobile) sono in realtà, almeno in parte, l’effetto di un intervento di istituzioni pubbliche, che erogano risorse proprio al fine di consentire agli altri modi di regolazione di operare. Basti ricordare, per il primo esempio, il ruolo degli incentivi e dei trasferimenti alle imprese [Chiesi e Martinelli 1987; Ferrera

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1987]; per il secondo, il sostegno finanziario pubblico al volontariato; per il terzo, le compensazioni a carico della finanza statale che consentono alle «parti sociali» di rag­giungere l’accordo (cfr. il quinto cap.).

3. Le dinamiche del mutamento

Anche il mutamento nei rapporti fra economia e società appare in Italia di più difficile interpretazione che in altre democrazie industriali avanzate. Ma anche in questo caso si tratta, in larghissima parte, di una carenza di lenti analitiche adeguate, che ci fa spesso soffermare solo sugli aspetti più appariscenti e non ci consente di mettere a fuoco le dinamiche più profonde. In parte minore, si tratta invece di effettive differenze del caso italiano, che vanno però interpretate con strumenti non creati ad hoc, ma di applicabilità più generale. In questo paragrafo mi limiterò ad affrontare il problema del mutamento dei rapporti fra economia e società in Italia dal punto di vista del ruolo degli interessi organizzati. Mi limi­terò inoltre a suggerire linee di interpretazione possibili, senza peraltro poterle sviluppare in questo volume, che non riguarda specificamente il caso italiano.

Osservando i rapporti fra interessi organizzati, economia e società negli ultimi 20-25 anni, non possiamo che restare colpiti da un apparente paradosso. I punti di partenza e quelli di arrivo appaiono per molti aspetti lontanissimi, tanto che per certi versi costituiscono delle anomalie in direzioni opposte rispetto agli altri paesi europei. Eppure, analizzan­do diverse fasi di questo periodo più lungo prevale l’im­pressione dell’inerzia, della vischiosità e della difficoltà del mutamento.

Basterebbe l’esempio del sindacato italiano, senza dub­bio il più militante e intransigente a cavallo degli anni settanta fra tutti quelli dei paesi industriali avanzati, a lungo accusato in seguito di ostinata resistenza ai cambiamenti, e tuttavia, oggi, fra i più disponibili in Europa a soluzioni consensuali ai problemi di riaggiustamento delle imprese (cfr. l’ottavo cap.). Ma anche i dati della performance economica italiana

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■ .invogliano la stessa idea fra gli osservatori. È possibile che ... gli anni settanta l ’Italia fosse la cenerentola d ’Europa (se- ■. m. lo un ex ambasciatore americano in Italia, addirittura «il I-.mgladesh europeo») e negli anni ottanta una success story ....indiale, mentre le analisi di molti studiosi continuavano a ..iiolineare i fallimenti di ogni tentativo di innovazione?

Naturalmente, la prima e più facile risposta è quella diu.ldividere il periodo preso in esame in fasi diverse, cercando

!>. H di spiegare come si è potuti passare da una fase aH’altra1. I ’. t ciò che riguarda i rapporti fra interessi organizzati,.. onomia e società, diversi modelli sono stati elaborati (o 11111 iortati) per cogliere gli elementi caratterizzanti delle diverse1.1 .i. Si può però parlare di tre modelli principali per tre fasi. Ini atti, in ciascuna di queste fasi è emerso un modello mierpretativo che ha finito con il prevalere, oscurando forse1.1 permanenza, nei rapporti fra interessi organizzati, economia . società, di elementi non coerenti con il modello stesso.

Così, la fine degli anni sessanta e l’iniziò degli anni set- i anta sono ormai generalmente noti come la fase della mo­bilitazione sociale e della formazione di identità collettive | Pizzorno et al. 1978; Tarrow 1990]. La seconda metà degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta sono (quasi) gene­ralmente interpretati come la fase dello scambio politico e dei tentativi neo-corporativi [Regini 1979; Lange 1981; Bordogna 1985; Treu 1984], E, anche se l’accordo fra gli studiosi come sempre diminuisce via via che ci si avvicina alla situazione presente, appare ormai chiaro che nei tardi anni ottanta e nei primi anni novanta dominano i temi della llessibilità e della diversificazione [Regini 1988]. Mobilita­zione collettiva, scambio politico e flessibilità sono dunque tre concetti-simbolo di tre diverse fasi, che, nonostante le ambiguità non risolte ma anzi messe in luce dalle interminabili dispute terminologiche cheli hanno accompagnati, continuano a essere usati per richiamare in modo intuitivo le principali caratteristiche di ciascuna fase. Sono inoltre concetti utili

1 Questa operazione, tuttavia, se da un lato facilita l’analisi, dall’altro - come vedremo - può allontanare la soluzione di quello che ho definito «un apparente paradosso».

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anche nell’analisi comparativa, perché applicabili a diversi contesti nazionali (per questo motivo li riprenderò più avanti per discutere l’evoluzione dei movimenti operai in Europa - cfr. il nono cap.). Resta però il dubbio, come vedremo, che essi oscurino la compresenza di elementi diversi in ciascuna fase, e quindi la relativa continuità del mutamento.

In primo luogo, questi tre modelli rispecchiano la dominanza di attori diversi in ciascuna fase, e la loro suc­cessione viene spesso vista come conseguente a mutamenti nei rapporti di forza o nelle funzioni di ciascun attore. Da questo punto di vista, decisivi sarebbero il potere dei lavoratori e dei sindacati nella prima fase, l’accresciuto ruolo dello stato nella seconda, la ripresa di iniziativa e di egemonia imprenditoriale nella terza. Questi mutati rapporti di forza rispecchiano a loro volta mutamenti profondi nel contesto economico, politico e sociale italiano.

Tuttavia, in tal modo si è finito con il privilegiare nella spiegazione di ciascuna fase alcuni aspetti di contesto rispetto ad altri. Per ciò che riguarda la prima fase, si è posta atten­zione soprattutto ai mutamenti avvenuti nella composizione, nelle caratteristiche e nella cultura della forza lavoro [l’«operaio-massa>>: Accornero 1981], Per ciò che riguarda la seconda, sono stati privilegiati i mutamenti nella regolazione statale delle attività economiche [l’espansione e la crisi del «welfare state keynesiano»: Bordogna e Provasi 1984]. Quanto alla terza fase, si tende a spiegarla principalmente con i mutamenti nell’organizzazione della produzione e nel mer­cato del lavoro [la «fine del fordismo»: Regini e Sabel 1989], Ma ciascuno di questi fattori ha svolto un ruolo importante nel mutamento complessivo, non in una fase soltanto. Oc­correrebbe quindi riequilibrare fra loro i diversi fattori esplicativi e tenere conto di altri aspetti di contesto ugualmente importanti, per rispondere alla sfida di uno schema esplicativo più complesso e al tempo stesso più equilibrato.

In secondo luogo, i tre modelli sopra richiamati colgono tre momenti nel tempo in cui alcune caratteristiche appaio­no come dominanti e, generalizzando la presenza di tali caratteristiche a un intero periodo mentre ne trascurano altre come meno rilevanti, finiscono con l’amplificare le co-

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■ i1 n/c interne di ciascuna fase e le contrapposizioni fra una l .e., -e l’altra. Ma comesi spiega un mutamento da un modello ill’.iliio così drastico e dramatic, in un contesto come quello n -ili.mo in cui sappiamo invece che le modificazioni sono li me e incrementali [Regini e Lange 1987, 325]? Per ri- pn mlerc la questione posta in precedenza: come mai i poli■ li partenza e di arrivo dell’ultimo ventennio-venticinquennio pn sentano anomalie così spiccate in direzioni opposte, mentre .ill'interno di ciascuna fase prevale l’impressione di una so-• i .m/.iale inerzia?

Evidentemente, molte caratteristiche di quel modello analitico che a un certo punto viene proposto per descrivere una nuova fase erano già presenti nella fase precedente. Qui ■■i pone cioè il problema di comprendere meglio la lenta ('.(■stazione e la altrettanto lenta decomposizione di quei tratti■ lie si assumono come caratteristici delle diverse fasi, tanto> Ih: si costruiscono dei modelli analitici intorno ad essi. E l'osservatore del quotidiano a non accorgersi di ciò che lentamente cambia e mette semi nuovi, o è l’analista dei momenti di svolta, dei turning points, a deformare la visione del mutamento, introducendo categorie che amplificano ar­tificiosamente le differenze fra una fase e l’altra? O, come è più probabile, entrambi sono i villains della storia? Si tratta di un problema assai rilevante, che andrebbe tenuto mag­giormente presente da chi studia il caso italiano e il suo mutamento, prima di arrivare a conclusioni troppo affrettate su «anomalie» che in parte dipendono dagli occhiali usati dall’osservatore.

D ’altro canto, se, come abbiamo visto, le continuità della storia di fronte alla discontinuità dei modelli analitici pongono il problema di come effettuare i confronti nel tempo, è al­trettanto vero che vi sono diversità nella storia dei paesi industriali avanzati spesso trascurate da modelli analitici eccessivamente uniformi, e ciò pone invece il problema delle comparazioni internazionali. Da questo punto di vista, l’Italia ha attraversato negli ultimi venticinque anni le stesse fasi di altri paesi europei, ma con almeno due importanti differenze. La prima è che la mobilitazione sociale ha avuto particolare intensità e durata, e la rottura degli equilibri economici e

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sociali è stata quindi più profonda e densa di implicazioni. La seconda e più importante differenza è che i mutamenti nel contesto (cioè nella organizzazione della produzione, nella regolazione statale delle attività economiche, e nella composizione, caratteristiche e cultura della forza lavoro) altrove sono avvenuti in tempi più lunghi, e in modi più lenti e costanti. In Italia, invece, si sono avute accelerazioni im­provvise in questi processi, così che ciascuna fase dei rapporti fra interessi organizzati, economia e società non ha avuto la possibilità di assestarsi pienamente prima di lasciare il posto alla fase successiva.

Anche se rimane necessario, in chiave comparativa, stu­diare il caso italiano con modelli omogenei a quelli usati per l’analisi di altri paesi industriali avanzati, qui forse risiede una ragione importante del disagio che ho richiamato all’inizio di questo capitolo, il disagio che si prova nel constatare che la situazione italiana è sempre «un po’ diversa», che la realtà italiana è sempre più sfaccettata e multiforme, che appare cioè più «complicata» dei modelli utilizzati per interpretar­la. Ciascuna fase (tranne quella della mobilitazione) appare più instabile e provvisoria, così che i diversi modelli inter­pretativi sembrano possedere minore nettezza, pervasività e capacità di implicazioni univoche che in altri paesi con cui ci si confronta.

Un esempio può venire dai modelli costruiti su dimensioni analitiche quali conflitto-cooperazione e accentramento- decentramento, con cui spesso si analizza l ’evoluzione delle relazioni industriali. Sappiamo da diverse ricerche che, anche nella fase dello «scambio politico», relativamente cooperativa e accentrata, dei tardi anni settanta, hanno continuato a prodursi conflitti, nonché negoziati a livello periferico [Golden 1988]. D ’altro canto, sappiamo anche che, proprio nel periodo successivo caratterizzato da una ripresa delle tensioni al livello centrale, in molte aziende si è sviluppata invece una cogestione di fatto dei processi di ristrutturazione (cfr. l’ottavo cap.).

Ci si può allora domandare se non siano proprio le ac­celerazioni e le discontinuità a cui ho sopra accennato a imporre un «livello sottostante» quando non «sommerso» dei rapporti fra interessi organizzati, economia e società, in

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> 'a i pratica (anche) il contrario di ciò che indicherebbe il un.dello dominante. Forse sono proprio quelle accelerazioni■ «ideile discontinuità a determinare la non sincronia dei■ ««Diportamenti, i ritardi e le anticipazioni, le onde lunghe <lie si propagano anche quando «il vento è già girato». In■ (in-.io modo si potrebbero recuperare entro un quadro te- "i i« «> comparato, ancora in larga misura da sviluppare, anche I- . peculiarità» e le «anomalie» del caso italiano, che Tap­pi «sentano altrimenti categorie analitiche inaccettabili per l«. scienziato sociale.

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CAPITOLO QUINTO

IL CASO ITALIANO:I TENTATIVI DI PATTO SOCIALE

In Italia, l’esigenza che i governi adottino, nel regolare il i .icma economico, una politica del consenso con gli interessi

organizzati, viene avvertita con particolare chiarezza nel corso■ Irgli anni settanta. E in questo decennio, infatti, che nel< (intesto esterno e negli atteggiamenti degli attori interven­gono importanti mutamenti che spingono in questa direzione.

Il primo e più dirompente di tali mutamenti è quello provocato dall’ondata conflittuale che inizia con P«autunno ( aldo» [Pizzorno et al. 1978]. Questa mobilitazione sociale :il(era gli equilibri e le regole del precedente assetto dei rapporti nell’industria e nella società, senza riuscire per lungo icmpo a crearne di nuovi. E produce, nei diversi ruoli pro­li.ssionali e in svariate figure sociali, comportamenti riven­dicativi che appaiono sempre più sganciati dal ciclo econo­mico e resistenti ai tradizionali strumenti di stabilizzazione.I meccanismi di mercato, e la contrattazione collettiva che dovrebbe sanzionarli o modificarli ma producendo norme di comportamento, non appaiono più in grado di restituire da soli ordine e prevedibilità alle relazioni sociali e a quelle industriali. Un intervento più attivo dello stato, teso alla ricerca di consenso e alPimmissione di nuove risorse in un sistema di rapporti sociali in evidente situazione di stallo, comincia ad apparire a molti necessario e viene spesso auspicato, anche se tarda a manifestarsi.

Da questo punto di vista, il periodo della c.d. «lotta per le riforme» nei primi anni settanta può essere considerato come un’occasione mancata, per diversi motivi oggettivi che sono stati più volte discussi [Giugni 1973; Regalia, Regini e Reyneri 1977], ma anche per l ’impreparazione di tutti gli attori a coglierla. I governi e la pubblica amministrazione

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non sono pronti ad abbandonare le forme clientelari di me­diazione sociale e di spartizione delle risorse pubbliche per perseguire invece quelle politiche concertate, che nelle socialdemocrazie europee (come si è visto nel secondo cap.) avevano da tempo manifestato la loro capacità di stabilizzare il conflitto [Korpi e Shalev 1980], di assicurare migliori rendimenti economici [Cameron 1984], e di garantire una maggiore governabilità [Schmitter 1981], I sindacati e le associazioni imprenditoriali, dal canto loro, non sono in grado di costringere l ’interlocutore pubblico a una scelta di questo tipo, anche perché le loro stesse strategie li portano in quel periodo lontani da ogni ipotesi di patto sociale.

Non è certamente casuale che il primo passo importante nella direzione di una stabilizzazione del conflitto e di un riassestamento delle relazioni fra le parti - cioè l ’accordo del 1975 su contingenza, cassa integrazione e pensioni - venga compiuto da sindacati e Confindustria in assenza del partner pubblico, e anzi, come molti allora sostennero, «a spese dello stato». Tuttavia, proprio la portata e le conseguenze di questo accordo fanno maturare la consapevolezza che, in assenza di una seria contrattazione politica con le parti socia­li, il governo finisce con l’abdicare a gran parte delle sue funzioni di politica economica: una prospettiva che preoccupa non solo il governo, ma gli stessi sindacati [Bordogna 1985]. Infatti, anche se non appaiono ancora chiare le dimensioni del «patto inflazionistico» [Dal Co e Perulli 1986] che si va realizzando, ci si rende purtuttavia conto che il comporta­mento di attori sociali ormai così altamente organizzati e capaci di aggregare ampi interessi e di negoziarli a livello centralizzato, produce conseguenze macro-economiche troppo rilevanti perché i governi possano disinteressarsene e rinun­ciare a gestirle.

È soprattutto questa consapevolezza che, facendosi len­tamente strada sia fra le parti sociali che nei governi, porta allo sviluppo di una nuova fase dei rapporti fra sistema po­litico e interessi organizzati, nella quale si tende a introdurre anche in Italia quelle esperienze di macro-concertazione già sperimentate in altri paesi europei. Si tratta di una tendenza che incontra non pochi ostacoli, e che alterna momenti in cui

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l'.nc- nettamente affermarsi con altri in cui risulta sconfitta.I i- resistenze a percorrere questa strada si mostrano del resto tu Ila loro ampiezza e complessità fin dall’inizio1, e contri­buiscono alla instabilità delle esperienze di concertazione in Italia. Purtuttavia, sono queste esperienze a caratterizzare un intero periodo (all’incirca dalla metà degli anni settanta ai I>rimi anni ottanta), nel quale la risposta alla crisi economica appare inconcepibile senza interventi attivi da parte dello• iato e senza la disponibilità delle grandi organizzazioni degli interessi a cooperare, centralizzando le scelte per poter me­glio controllare - così si ritiene - i comportamenti dei propri rappresentati.

In questa fase, dunque, allo stato venne affidato un ruolo centrale nella ripresa dello sviluppo economico, perché i problemi considerati cruciali da questo punto di vista erano di natura tale da richiedere il suo coinvolgimento. O, meglio, perché settori influenti all’interno di tutte e tre le parti coinvolte (governi, associazioni imprenditoriali e sindacati) ritenevano che la soluzione di questi problemi stesse in larga misura nella elaborazione di politiche concertate.

E così che anche in Italia, come in altri paesi europei, si apre una fase in cui hanno ampio spazio tentativi di dare vita a patti sociali che guidino lo sviluppo o che almeno ne rego­lino le conseguenze più dirompenti. Vediamo ora le caratte­ristiche di quelle che possono essere considerate le tre espe­rienze più rilevanti.

1. Il periodo della «solidarietà nazionale»

Il primo tentativo di dare vita a una sorta di patto sociale centralizzato fra sindacati, imprenditori e governo risale al periodo della «solidarietà nazionale», cioè dei governi soste­nuti da una maggioranza parlamentare di cui faceva parte

1 Basti ricordare quali difficoltà incontrano i due documenti che, nel 1978, segnalano emblematicamente (anche se non del tutto esplicitamente) la disponibilità di sindacati e governi ad adottare comportamenti più consensuali e rivolti al lungo periodo: cioè, rispettivamente, il «documento dell'Eur» e il «Piano Pandolfi».

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anche il Partito comunista. In questo periodo, in parte per la presenza di un partito pro-labour (il Pei appunto) nell’area di governo, in parte per evoluzione autonoma della propria strategia (la cosidetta «svolta dell’Eur» del 1978), il sindacato accettò - e in un certo senso propose - uno scambio di ampio respiro, fra moderazione salariale da un lato, e obiettivi oc­cupazionali, di governo del mercato del lavoro e dei processi di ristrutturazione, di sviluppo del Mezzogiorno, e di rifor­me sociali, dall’altro.

Uno scambio quindi fra sotto-utilizzazione immediata del potere di mercato degli occupati nei settori protetti, e benefici futuri per i lavoratori colpiti dalle ristrutturazioni, per i non occupati, e più in generale per i cittadini-utenti di servizi, benefici che dovevano essere in gran parte garantiti dallo stato. Da questo punto di vista si trattava di uno scam­bio simile, per contenuti, ai «grandi accordi» europei del dopoguerra, in particolare al «contratto sociale» inglese, di poco anteriore [Regini 1983]. Esso diede vita a una fase di concertazione della politica economica e sociale, da cui sca­turirono importanti leggi contrattate. Ma l’esperienza ebbe vita breve, e nel 1979 ci si ritrovò in una situazione di stallo,o di «scambio politico bloccato» (cfr. il secondo cap., par. 3).

Probabilmente furono gli stessi contenuti del patto so­ciale a determinare la situazione di stallo. Per la verità, molti osservatori attribuiscono la breve durata di questa esperienza alla incapacità dei sindacati di controllare il comportamento rivendicativo dei propri membri. Ma i fatti sembrano smentire questa interpretazione. Nonostante varie difficoltà, infatti, essi riuscirono a praticare una certa moderazione salariale, a controllare le spinte divergenti al loro interno, e a contenere il conflitto industriale. La concertazione venne invece resa instabile dalla difficoltà di ottenere i vantaggi che essi si attendevano dalle politiche concertate.

Problemi di attuazione della linea di moderazione sala­riale decisa dalle confederazioni indubbiamente vi furono, ma essi non vanno esagerati. Intanto, al livello confederale, gli accordi del gennaio-marzo 1977 con la Confindustria prima e col governo poi, segnalano una chiara disponibilità del movimento sindacale all’auto-moderazione, ancor prima

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• Ih- questa venga teorizzata nel «documento dell’Eur». Le• onressioni alle controparti comprendono la modifica del■ .ilcolo della contingenza e nuove condizioni di utilizzazione■ I* 1 l.i forza lavoro (festività soppresse, ferie scaglionate, mobilità, controllo dell’assenteismo). Queste possono essere interpretate come concessioni rilevanti sul piano salariale e .Iella produttiv ità , effettuate in cambio di un fu turo■ oinvolgimento sindacale nelle scelte di impresa e in quelle di politica economica.

In secondo luogo, anche al livello categoriale e a quello aziendale, la moderazione rivendicativa è tutto sommato sensibile. Le richieste di diritti di informazione e di investi­menti prendono generalmente il posto di quelle salariali nel­le piattaforme aziendali. Del resto, anche il conflitto indu­striale subisce in quegli anni un calo rilevante [Cella 1985; Bordogna 1985].

Dunque, benché questa strategia di auto-moderazione incontri opposizioni, talvolta altamente visibili, e disparità di applicazione fra le varie categorie e zone del paese [Golden1988], la capacità dei sindacati di perseguire un’azione con­certata non ne viene fondamentalmente intaccata.

I benefici attesi in cambio della moderazione rivendicativa consistevano in una serie di importanti leggi e provvedimenti, apertamente o tacitamente contrattati con il governo. In effetti, da questa fase di concertazione della politica econo­mica nascono la legge sulla ristrutturazione e riconversione industriale (1977), quelle sull’occupazione giovanile (1977) e sulla formazione professionale (1978), e il disegno di legge di riforma delle pensioni (1978). I sindacati li considerano strumenti potenzialmente innovativi non solo per sostenere l’occupazione e per raggiungere obiettivi redistributivi, ma soprattutto per accrescere il controllo politico dell’economia.

Si consideri ad esempio la legge sulla ristrutturazione e riconversione industriale [Regalia 1984], Almeno nelle in­tenzioni, essa non si limita a erogare sussidi ai lavoratori e alle aziende in crisi, e a istituzionalizzare la partecipazione sindacale alle scelte mediante l ’obbligo della consultazione e la creazione di Commissioni per la mobilità. Oltre a questi aspetti più tradizionali, la legge richiede infatti a singoli

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ministri e al Cipi (un comitato di ministri) di elaborare «pia­ni di settore» che stabiliscano i criteri per accedere al «Fondo per la ristrutturazione e riconversione industriale». Impone alle imprese che intendano usufruire delle agevolazioni previste di «comunicare al Cipi i programmi complessivi delle proprie attività imprenditoriali». Le sottopone a una «certificazione dell’ispettorato provinciale del lavoro» rela­tiva al mantenimento dei livelli di occupazione precedenti. Queste e altre norme vengono viste dai sindacati come ele­menti di programmazione e di politica industriale in larga misura conformi ai propri obiettivi.

O si consideri ancora il disegno di legge governativo di riforma delle pensioni, che viene contrattato con i sindacati ma che non riesce poi a passare in Parlamento [Regini 1981].I suoi obiettivi generali rispecchiano ampiamente quelli dei sindacati: redistribuzione operata favorendo i pensionati con redditi bassi rispetto a quelli con redditi più elevati; maggiore eguaglianza fra lavoratori dipendenti e lavoratori autonomi nel rapporto prestazioni-contributi; più ampie responsabili­tà, cioè maggiori poteri, all’Inps, nel quale i sindacati deten­gono una posizione di maggioranza.

Tuttavia, quale che fosse l’ampiezza dei benefici che i sindacati si attendevano da queste politiche concertate, gli esiti si rivelano largamente deludenti. Nel caso del disegno di legge sulle pensioni, la trasformazione in legge viene im­pedita soprattutto dagli interessi che ne sarebbero penalizzati. Mobilitandosi ed esercitando pressioni sui partiti, questi riescono a bloccare il disegno di legge in Parlamento.

Negli altri casi, l’insuccesso delle politiche concertate dipende da diversi fattori. In primo luogo, la pubblica am­ministrazione non si mostra disponibile ad assumere quel ruolo attivo, né capace di adottare quei comportamenti in­novativi, che sarebbero necessari per attuare lo spirito di questi provvedimenti. Abituata a rispondere agli interessi più consolidati e a seguire codici di comportamento che premiano la continuità anziché l’innovazione, non le è difficile frapporre mille piccoli ostacoli e resistenze a un suo utilizzo per obiettivi di mutamento radicale [Cerase 1990],

In secondo luogo, il governo stesso non riesce a trovare

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I:i volontà politica o la capacità di prendere quelle ulteriori decisioni che sarebbero necessarie per attuare le politiche i oncertate (ad es., di elaborare i «piani di settore» previsti dalla legge sulla ristrutturazione industriale). I sindacati scoprono presto che il concordare la formulazione di una legge non è sufficiente. Anche dopo che è stata emanata, occorre infatti continuare a esercitare pressioni e a contrat­iare i modi della sua attuazione.

Infine, la «compartimentalizzazione» istituzionale delle aree decisionali operata dalle politiche concertate [Regini 1979] finisce spesso con l ’escludere i sindacati proprio dalle scelte cruciali, impedendo loro di esercitare un’influenza (e quindi di ottenere benefici) pari alle attese. Ad esempio, la legge sulla ristrutturazione industriale assegna a commissio­ni regionali e a una commissione centrale, nelle quali i sindacati sono ampiamente rappresentati, la gestione della mobilità e della cassa integrazione; ma riserva al Cipi, di stretta compo­sizione ministeriale, la distribuzione dei fondi e degli incen­tivi alle imprese.

Le iniziali aspettative di benefici importanti si trasforma­no dunque presto, per i sindacati italiani, in risultati deludenti. Anche un governo relativamente pro-labour si rivela non in grado di garantire che gli esiti della concertazione siano pari alle loro attese.

2. L'accordo triangolare sul costo del lavoro del 1983

Il 22 gennaio 1983 viene invece firmato, per la prima volta nell’Italia del dopoguerra, un accordo anche formal­mente triangolare (governo - sindacati - associazioni impren­ditoriali). Esso nasce però in un contesto assai diverso, e soprattutto assume caratteristiche profondamente differen­ti, dal tentativo di concertazione attuato nel periodo della «solidarietà nazionale».

In sintesi, il contesto è caratterizzato da un peggioramento della situazione economica, da un indebolimento dei sinda­cati, dall’esclusione del Pei dalla maggioranza di governo, e dalla minaccia di imprenditori e governo di ricorrere a deci­sioni unilaterali in assenza di risultati raggiunti in modo

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..... . i r.u.ile. Quanto ai contenuti, già le origini lontane del-l'accordo, che vanno ricercate nella proposta di un «patto anti-inflazione» lanciata dal governo Spadolini nel luglio 1981 e nel lungo e snervante negoziato che ne era seguito, indicano che al centro dello scambio si pone una politica concordata dei redditi, anziché un complesso eterogeneo ma più ambizioso di politiche economiche e sociali come nel periodo 1977-79.

I sindacati appaiono sostanzialmente convinti della ne­cessità di un accordo centralizzato per combattere l’inflazione, ma sono profondamente divisi sui suoi contenuti. Le divisioni interne portano alla elaborazione di richieste diverse, a una lunga e faticosa opera di mediazione fra queste, e quindi a numerosi rinvìi degli incontri con il governo. Per la prima volta dal 1969, la «bassa produttività» della contrattazione politica è determinata più dalle difficoltà dei sindacati di trovare una linea unitaria sui temi oggetto di trattativa, che da contrasti e lentezze, che pure permangono, interni al governo. Naturalmente, queste profonde divisioni interne indeboliscono notevolmente la posizione contrattuale dei sindacati, che già scontano il deterioramento del potere di mercato dei lavoratori causato dalla recessione, nonché pe­ricolosi segnali di una crisi di rappresentanza.

D ’altro canto, nonostante l’iniziale apprezzamento sin­dacale per il suo attivismo e per il suo rispetto dell’autono­mia delle parti, il governo non appare in grado di guidare una svolta verso politiche concertate, né di condurre rapi­damente a termine la trattativa sul costo del lavoro. La collocazione all’opposizione del principale partito pro-labour- il Pei - riduce grandemente la credibilità del governo stesso come interlocutore dei sindacati in una cooperazione di lungo periodo e di vasto respiro. Inoltre, la sua tattica di moltiplicare le sedi negoziali per sollecitare una rete complessa di incontri (fra governo e sindacati, fra sindacati e impren­ditori, fra governo e imprenditori, fra Presidenza del Consiglio e singole organizzazioni sindacali), se da un lato mira a far maturare atteggiamenti collaborativi nelle parti sociali senza usare incentivi e sanzioni a sua disposizione, dall’altro mani­festa presto gravi limiti. Il principale è quello di logorare il

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processo negoziale, rendendolo troppo lento rispetto all’ur- )>enza delle soluzioni, e non immettendovi le risorse aggiuntive tli cui le parti hanno bisogno per uscire dalla situazione di stallo con una soluzione consensuale.

Ad allontanare ulteriormente la prospettiva di un accor­do, giungono le minacce degli imprenditori e di alcuni mini­stri di ricorrere a soluzioni unilaterali. Le prime, più gravi e immediate, si concretizzano nella decisione della Confindu- stria di «denunciare» l ’accordo sulla scala mobile, cioè di non rinnovarlo alla sua scadenza del 1983. Tra le seconde, più vaghe ma pur sempre minacciose, va ricordata l’«ipotesi» del ministro del Tesoro di ricorrere a un blocco governativo di prezzi e salari nel caso di un mancato raggiungimento dell’accordo.

In un contesto come quello che ho sinteticamente rico­struito, si può dire che appaiano aperte due sole alternative. La prima è l’irrigidimento delle parti sulle proprie posizioni e la conseguente verifica dell’impossibilità di raggiungere un accordo. Questa sancirebbe la rottura di una fase dei rappor­ti fra governo e interessi organizzati caratterizzata dal tenta­tivo di mantenere un minimo di soluzioni consensuali, e ne aprirebbe una diversa, nella quale nuovi equilibri emerge­rebbero solo attraverso lo scontro e la verifica delle posizioni di forza di ciascun attore.

La seconda consiste in una drastica ridefinizione dei «termini dello scambio», cioè nell’accettazione da parte degli attori di una soluzione lontana da quella perseguita da ciascuno di loro, e che al più si può configurare come una second-best solution, basata sulla convinzione che i costi della soluzione preferita sarebbero troppo elevati o incerti. Ciò comporta che i sindacati - cioè il soggetto più debole e che rischierebbe di più nello scontro - accettino un ridimensionamento dei propri obiettivi e degli interessi da rappresentare. Che in cambio gli imprenditori rinuncino a soluzioni unilaterali tese alla verifica dei nuovi rapporti di forza. E che il governo abbandoni la sua posizione di semplice supporto esterno al negoziato fra le organizzazioni degli interessi, per influire invece sul loro processo decisionale con incentivi che le compensino almeno in parte per le rispettive rinunce.

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Se la prima soluzione appare a lungo inevitabile alla maggior parte degli osservatori, è invece la seconda ad af­fermarsi con l’accordo del gennaio 1983. Se esaminiamo le caratteristiche di questo accordo, vediamo infatti che sono profondamente diverse da quelle del tentativo di concertazione degli anni 1977-79, per almeno tre aspetti.

In primo luogo, si verifica una restrizione dell’area degli interessi rappresentati dai sindacati. Infatti, in cambio della revisione della scala mobile e delPuso più flessibile della forza lavoro, i sindacati ottengono vantaggi rilevanti per i soli lavoratori stabilmente occupati (aumento degli assegni familiari e riduzione del drenaggio fiscale). Mentre a favore dei lavoratori delle aziende in crisi e dei non occupati, da un lato, e degli interessi generali dei lavoratori in quanto cittadini e utenti di servizi, dall’altro, si prevedono solamente interventi generali, non vincolanti, o di scarso rilievo. Esempi di tali interventi sono, nel primo caso, le lievi riduzioni di orario stabilite per i rinnovi contrattuali, la possibilità (ma senza obblighi) di stipulare «contratti di solidarietà» a livello aziendale per favorire le assunzioni e disincentivare l’espul­sione di personale, e le indicazioni di principio su una gestione più attiva del mercato del lavoro. Nel secondo caso, gli impegni governativi in materia di prezzi e tariffe dei servizi pubblici, di politica sanitaria, e di sicurezza sociale.

Si ridimensiona così quella funzione di aggregazione e di pre-mediazione di un ampio arco di interessi, che i sindacati avevano svolto negli anni settanta. L’esercizio di questa funzione aveva consentito in quel periodo una certa «internalizzazione del conflitto distributivo» nell’organizzazione sindacale, che in cambio acquisiva una «posizione oligopolistica nella contrat­tazione politica» (cfr. il secondo cap.). Al tempo stesso, la restrizione dell’area di rappresentanza sindacale che è implicita nell’accordo comporta una ri-valorizzazione dei canali parti- tico-parlamentari come destinatari o sollecitatori di una pressure politics verso la quale vengono sempre di più attratti i lavoratori di aziende o settori in crisi, i pensionati, gli occupati precari delle zone meno sviluppate del paese. Da questo punto di vista, con l’accordo del gennaio 1983 vengono ridotti, e non ampliati, gli spazi per politiche concertate.

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In secondo luogo, vi è un sostanziale abbandono di que­gli obiettivi futuri o di lungo periodo - quali il controllo della ristrutturazione e lo sviluppo del Mezzogiorno - che erano stati centrali nel periodo della solidarietà nazionale, a lavore di obiettivi redistributivi immediati, certi, e contestuali ai costi pagati da ciascun partecipante allo scambio. Per i lavoratori, i vantaggi dell’accordo stanno infatti, come si è detto, principalmente nel mantenimento del salario reale attraverso la neutralizzazione del fiscal-drag e l ’aumento de­gli assegni familiari. A favore degli imprenditori, oltre alla de-sensibilizzazione della scala mobile, vi è la fiscalizzazione degli oneri sociali.

Dall’altro lato, gli obiettivi differiti che pure erano stati discussi durante il negoziato, quali quelli relativi all’occupa­zione e al governo del mercato del lavoro, alla sanità e alla sicurezza sociale (per ciò che riguarda i lavoratori), o quelli relativi al miglior utilizzo della forza lavoro e alla rego­lamentazione della contrattazione e del conflitto (per gli im­prenditori) vengono alla fine ridotti a pochi impegni generici.

Infine, si verifica un mutamento nel ruolo del governo e nel tipo di prestazione fornita dallo stato. Mentre il ruolo precedente era quello di garanzia dei benefici futuri che le parti si attendevano dallo scambio, con l’accordo del 1983 si afferma un ruolo del governo più attivo ma più oneroso, sostanzialmente di compensazione dei costi sostenuti dalle parti per aderire all’accordo, con benefici a carico della fi­nanza pubblica.

Non è difficile vedere come questi tre elementi siano strettamente intrecciati tra loro.

L ’intervento compensatore del governo attraverso l’of­ferta di un package deal diventa indispensabile, in un periodo in cui vi sono minori risorse da spartire sul mercato, per la fattibilità stessa di un patto, cioè per consentire alle parti di stipularlo. Ma al tempo stesso implica una sostanziale rinun­cia al suo ruolo di garante dei benefici futuri per le parti stesse. Un governo pro-labour diventa allora non solo non più sufficiente alla stabilità della concertazione - come già era apparso chiaro durante la «solidarietà nazionale» - ma anche non più necessario all’accordo. Concessioni immedia­

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te possono infatti essere fatte e accettate da governi di qua­lunque «colore», mentre il problema della loro credibilità futura, come pure quello della capacità attuativa di impegni di lungo periodo da parte della pubblica amministrazione, diventano meno rilevanti.

Questo rafforza però la tendenza, già presente nei sinda­cati in un periodo di debolezza contrattuale e di incertezza sul futuro delPeconomia, ad abbandonare di fatto gli obiettivi di lungo periodo a favore dei vantaggi certi e immediati che vengono loro offerti. Ciò comporta a sua volta la caduta della tensione progettuale e delle ambizioni oligopolistiche che li spingevano ad auto-concepirsi come portatori di interessi più generali di quelli dei soli lavoratori garantiti. Inoltre, dovendo accettare un qualche tipo di ridefinizione dei «termini dello scambio politico» a loro sfavore, come conseguenza dell’indebolimento sul mercato, i sindacati sono portati a sacrificare per primi gli interessi più periferici nella loro area di rappresentanza. Si riduce quindi non solo l’ambizione degli obiettivi, ma anche l’estensione degli interessi rappre­sentati effettivamente. Si tratta di una riduzione probabilmente realistica in un periodo di crisi, come certamente più realistico è il nuovo ruolo svolto dal governo, che lo esime da difficili prove di credibilità. Ma queste caratteristiche cambiano profondamente la natura del patto sociale rispetto al prece­dente periodo della «solidarietà nazionale».

Possiamo ora cercare di sintetizzare le principali differenze fra le due esperienze fin qui analizzate, per poi inserire in questo contesto la vicenda successiva.

La prima esperienza, quella del 1977-79, fu un tentativo ambizioso, benché velleitario, di creare un vero assetto di concertazione simile a quelli di altri paesi europei negli anni sessanta e settanta. Elementi di scambio politico in effetti vi furono, e non trascurabili. Ma perché diventassero stabili sarebbe stato necessario che tutti gli attori fossero capaci di mantenere nel tempo una logica di scambio generalizzato, che si creasse una base di consenso durevole delle parti sociali all'azione del governo, e che questo fosse capace di selezionare gli interessi che hanno accesso alle risorse pub ­bliche, e di razionalizzare e rendere coerenti i suoi interven­

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ti. Queste condizioni non si verificarono, e si entrò così in una fase di stallo.

Invece, per le caratteristiche indicate, l’accordo del gennaio 1983 non può essere considerato come il punto d ’arrivo di quel tentativo di concertazione effettuato durante la «solidarietà nazionale» - come alcuni studiosi hanno invece ritenuto [Carinci 1983] - , cioè semplicemente come uno «sblocco» della situazione di stallo che da allora si era creata. Anzi, l’accordo del 1983 non tenta neppure di creare un assetto di concertazione simile a quello del periodo 1977-79. Si tratta solo di un ’intesa basata su uno scambio ad hoc, che non vincola i comportamenti futuri delle parti, anche perché queste non si attendono benefici nel lungo periodo. Da questo punto di vista, l’accordo del 22 gennaio 1983 è stata una soluzione più realistica, ma certo più limitata, del tentativo di concertazione attuato nel periodo 1977-79.

Le differenze fra le due esperienze analizzate appaiono dunque notevoli, non appena si considerino il contesto in cui hanno avuto luogo e soprattutto i loro contenuti.

3. Il mancato accordo unitario del 1984

Diversità di contesto e di contenuti spiegano anche i diversi esiti del terzo tentativo di dare vita a un j/atto sociale, cioè a un accordo centralizzato fra governo^ interessi orga­nizzati: quello poi sfociato nel decreto sul costo del lavoro del 14 febbraio 1984, in mancanza di un accordo fra tutti i partecipanti (l’organizzazione sindacale maggioritaria - la Cgil - decise infatti di non firmare l ’accordo).

Le analisi di questa vicenda hanno quasi invariabilmente sottolineato il ruolo giocato dalle divisioni sindacali, in di­pendenza da diverse strategie dei partiti politici. In effetti, questo è stato l ’aspetto più appariscente di quella esperien­za, il codice interpretativo più utilizzato non soltanto dagli osservatori, ma dagli stessi protagonisti. Non vi è dubbio che la vicenda del mancato accordo unitario va innanzitutto vista in rapporto con la crescente divaricazione fra le strategie dei sindacati.

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Tuttavia, una chiave di lettura che si limiti alle divisioni fra i sindacati e all’influenza dei partiti non è sufficiente. Infatti, questa interpretazione non dà pienamente conto del perché questi fattori abbiano manifestato effetti dirompenti nel 1984 mentre erano stati neutralizzati nel gennaio 1983, pur essendo allora già presenti. Si è del resto già accennato come, per spiegare i diversi esiti di queste esperienze di negoziato, sia necessario tenere conto del contesto in cui hanno luogo, e soprattutto dei contenuti del negoziato che tale contesto rende possibile.

Il contesto in cui si svolge la vicenda del mancato accor­do unitario del 1984 è più deteriorato sotto diversi aspetti. I partiti, come si è detto, aumentano la loro interferenza nelle scelte sindacali. I sindacati, dal canto loro, si trovano esposti da un lato a una forte crisi di rappresentanza e a una crescen­te difficoltà ad aggregare gli interessi, dall’altro a una dimi­nuita capacità di ottenere contropartite per il loro eventuale consenso a una politica dei redditi. Infine, di fronte al per­manere della crisi economica (con i preoccupanti correlati del deficit pubblico e dell’inflazione elevata), risulta più difficile per i governi fornire risorse aggiuntive che compen­sino le parti per le «rinunce» a cui (particolarmente i sindacati) sono chiamate.

Questi fattori erano in parte già operanti nelle due esperienze precedenti (solidarietà nazionale e accordo del gennaio 1983), ma appaiono ora in tutta la loro gravità. Soprattutto, sono gli stessi fallimenti o quanto meno i limiti manifestati da quelle esperienze a non renderle facilmente ripercorribili. Che cosa può essere offerto ai sindacati in cambio di una riduzione della dinamica salariale, nel nuovo contesto che abbiamo tratteggiato? Non la garanzia di benefici futuri (maggiore occupazione, controllo delle scelte di politica economica, ecc.) come durante la solidarietà nazionale, perché l’apparato pubblico italiano si è dimostrato un partner non affidabile per accordi di lunga durata, e perché la crescente crisi di rappresentanza rende impraticabili accordi di questo tipo. Non la compensazione con benefici immediati, certi e contestuali, come nell’accordo del gennaio 1983, perché l’ul­teriore aggravio della finanza pubblica che ne risulterebbe è

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contraddittorio con l ’obiettivo prioritario di ridurre l’infla­zione; e inoltre perché questo tipo di accordi rappresenta una tutela dei soli settori forti del lavoro, e comporta quindi- come si è detto - una drastica riduzione della capacità di rappresentanza che un sindacato come quello italiano non può accettare a lungo senza rischi rilevanti.

Tuttavia, se la riduzione della dinamica salariale non può più essere richiesta in cambio della garanzia di benefici futuri né in cambio di compensazioni immediate, quali diventano i contenuti del negoziato, i termini dello scambio politico che viene proposto? Mentre le contropartite esplicite offerte ai sindacati per il loro consenso a un controllo della dinamica salariale erano piuttosto vaghe e incerte, la contropartita reale era considerata la loro partecipazione ai benefici che sarebbero derivati da un tale comportamento, cioè alla ri­duzione delPinflazione. Tuttavia, le implicazioni di questa convinzione non sono state adeguatamente analizzate. Se si accetta il presupposto - di per sé plausibile - che una ridu­zione dell’inflazione per vie consensuali e concertate possa essere effettivamente assunta dai sindacati come un «valore in sé» che non abbisogna di altre contropartite, la sua im­plicazione è che i contenuti del negoziato politico, i «termini dello scambio», si spostano necessariamente dalla distribu­zione dei benefici dell’accordo (le cosiddette «contropartite») alla redistribuzione fra i diversi gruppi sociali dei costi da pagare per il rientro dall’inflazione.

La riduzione del tasso di inflazione può essere considera­ta infatti un «bene pubblico» [Olson 1965] da cui tutti dovrebbero trarre vantaggio, che vi contribuiscano o meno. Come per tutti i beni pubblici, si pone però il problema di evitare il free-riding, cioè la possibilità che alcuni individui o gruppi sociali godano dei benefici senza contribuire a pro­durli. La questione cruciale di un negoziato in cui non si scambiano vantaggi per questo o per quel gruppo sociale ma si cerca di produrre un bene pubblico è allora la seguente: come si ripartiscono in modo equo i costi del suo raggiungimento, come si neutralizza il free-riding? Se è così, nella vicenda del 1984 il problema cruciale non era se quelle offerte dal governo agli interessi organizzati fossero conces­

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sioni sufficienti e credibili. Era piuttosto se lo stato fosse o no in grado di fare contribuire i gruppi sociali diversi dai lavoratori dipendenti all’obiettivo comune di ridurre l ’in­flazione. Ma una tale questione non è stata posta efficacemente al centro del negoziato, né da quei settori del sindacato che erano favorevoli al raggiungimento di un accordo, né da quelli che vi si opponevano2.

4. Contenuti dello scambio e influenza dei partiti politici

Questa scarsa attenzione che tutte le parti coinvolte de­dicano all’adeguatezza o meno dei contenuti dello scambio proposto contribuisce in modo rilevante a spiegare l ’instabi­lità degli episodi di concertazione in Italia.

Va detto tuttavia che di tale instabilità sono state fornite anche interpretazioni diverse da quella qui presentata, in­terpretazioni centrate sul prevalere di cause politiche ester­ne ai rapporti fra gli interessi organizzati, anziché sui contenuti del negoziato.

Anzitutto, si è sostenuto che sia l’accordo del 1983 sia il mancato accordo unitario del 1984 presentavano numerosi aspetti positivi per il sindacato [Cella 1986], e che il loro diverso esito non può dunque essere spiegato dal calcolo costi-benefici compiuto da questo attore. Più in generale, le ragioni del mancato accordo unitario del 1984 andrebbero riferite

...alla scarsa istituzionalizzazione delle relazioni industriali, alla non compiuta centralizzazione e integrazione verticale delle or­ganizzazioni di rappresentanza, all’assenza di monopolio della rappresentanza del lavoro, alla precaria autonomia di alcune confederazioni (Cgil in particolare) nei confronti dei partiti poli­tici, alla esclusione dalla maggioranza di governo del maggior partito di rappresentanza del lavoro [ibidem, 214].

2 Q uanto meno ciò non è avvenuto in modo cosi chiaro e tempestivo da favorire una mobilitazione dei lavoratori intorno a questa questione cruciale. I dirigenti sindacali hanno finito per considerarla un elemento fra i tanti che rientravano nello scambio, anche se in seguito si è cercato di farla diventare uno fra i più importanti.

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Si tratta, come si può facilmente vedere, di un elenco che corrisponde puntualmente a quelle caratteristiche politiche e organizzative che la letteratura neo-corporativa ha a lungo considerato come «pre-condizioni» di qualsiasi esperienza di concertazione [Lehmbruch 1977], Senonché, gli stessi più autorevoli esponenti di questa letteratura hanno in seguito riconosciuto che possono esistere numerosi «equivalenti funzionali» di tali caratteristiche, che consentono esperimenti di concertazione anche in assenza di quelle «pre-condizioni» [Lehmbruch 1982] (cfr. inoltre il secondo cap.). L ’implica­zione è che i motivi del sostanziale fallimento degli accordi tripartiti in Italia negli anni ottanta vanno almeno in parte ricercati nei contenuti di quegli accordi, e in particolare nei diversi calcoli di convenienza che essi hanno sollecitato nell’attore sindacale [Giugni 1985].

Le due interpretazioni non sono del resto, a ben vedere, antitetiche. Insistere sulla variabilità dei contenuti degli ac­cordi e dunque delle convenienze per i loro attori non impli­ca necessariamente il trascurare il predominio delle vicende partitiche (per una interpretazione basata su entrambi questi aspetti cfr. Lange [1987]; sul primato dei partiti e della politica più in generale in Italia cfr. Pasquino [1987]).

Certo, la moderazione rivendicativa mostrata dai sinda­cati nel periodo della solidarietà nazionale è in buona misura legata al loro «non disinteresse» per soluzioni politiche in cui i partiti pro-lahour abbiano un peso significativo e ren­dano quindi per loro più affidabile la controparte governa­tiva. Ma è almeno altrettanto legata all’analisi, autonomamente condotta, delle conseguenze dell’aggravarsi della crisi eco­nomica sul proprio potere di mercato. E la difficoltà di svolgere nelle nuove condizioni quel ruolo politico autono­mo che il sindacato si era auto-assegnato nel 1969-70 con il lancio della «lotta per le riforme», più che il mutamento del quadro politico per l’avvicinarsi del Pei all’area di governo, a ricondurre i rapporti fra partiti e sindacati a un primato dei primi sui secondi. L ’autonomia sindacale non viene conte­stata, ma la gerarchia di importanza fra gli attori politici, e la predominanza dei partiti, tornano così a caratterizzare la

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situazione italiana, sia pure in modo differente dagli anni precedenti l’autunno caldo.

Il ritorno del Pei all’opposizione dal 1979 in poi non muta, anzi per certi versi accentua, il predominio dei partiti. La rinnovata conflittualità e la divaricazione dei ruoli fra i maggiori partiti della sinistra (che si autopropongono ri­spettivamente come unici rappresentanti dell’opposizione e come garanti della governabilità) favorisce le spinte sempre latenti alla divisione fra confederazioni sindacali lungo linee più apertamente politiche e ideologiche. Questa divisione aumenta la debolezza sindacale - determinata dalla recessione e dal calo organizzativo - nei confronti dei governi, e con­tribuisce così a sua volta a una maggiore dipendenza dai partiti.

La situazione qui sinteticamente delineata raggiunge il suo apice nel mancato accordo unitario del 1984 e nel refe­rendum del giugno 1985 proposto dal Pei. Anche qui, conte­nuti dello scambio e rapporti politici si intrecciano. Sono in larga misura i limiti nell’attuazione del precedente accordo triangolare del gennaio 1983 a mettere in difficoltà quei leader che nei diversi sindacati meno tengono conto di logiche di schieramento partitico. In assenza di risultati chiari su cui valutare la convenienza o meno della concertazione, riacquistano infatti importanza, nella ridefinizione delle strategie, obiettivi strettamente politici.

E in questo senso che le differenti posizioni sindacali rispetto all’accordo del febbraio 1984 e al referendum del giugno 1985 promosso dal Pei possono essere spiegate come un riflesso delle divisioni fra i partiti. L’accordo proposto nell’84 ha infatti finito con il ridurre il proprio contenuto a quello puramente simbolico di scambio di legittimazione fra interessi organizzati e governo. Che alcune organizzazioni lo abbiano accettato e altre respinto non indica che l’interferenza dei partiti sia incontrastata, ma certamente che obiettivi squisitamente politici sono tornati a prevalere all’interno di culture sindacali che non si confrontano più principalmente sui contenuti della contrattazione.

In questa vicenda, come in quella successiva del referen­dum che ne è stata l’aspetto speculare, è sembrato spesso che

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la contrapposizione fosse fra una logica di partecipazione e di scambio a tutti i costi, e una logica di rifiuto dello scambio indipendemente dai suoi contenuti. Il che certamente segnala un’accentuata dipendenza delle relazioni industriali italiane dalle vicende politiche, che può essere letta come conseguenza e come fattore al tempo stesso dell’instabilità e dell’insuccesso della concertazione in Italia. A patto naturalmente che non si perdano di vista le ragioni più generali del declino dello scambio politico centralizzato in tutti i paesi europei negli anni ottanta.

È all’analisi di questi trends generali, rilevabili solo con osservazioni comparate, che è opportuno tornare nel capitolo che segue.

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PARTE SECONDA

LA REGOLAZIONE MICRO-SOCIALE DEL RIAGGIUSTAMENTO ECONOMICO

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Dunque, nella prima parte del volume abbiamo visto come il modello della «regolazione politica concertata e cen­tralizzata» delPeconomia, dopo avere funzionato egregiamente per quasi un cinquantennio, sia entrato in una fase di declino. Si tratta di un’osservazione di per sé certamente non nuova - anzi, addirittura scontata in quel filone delle scienze sociali che, parafrasando il titolo di un articolo di Panitch [1980], potremmo definire «l’industria della crisi» - , che può però essere vista sotto una nuova luce in rapporto alle tendenze che esamineremo in questa parte seconda.

L ’accento va posto, per incominciare, sui tre aggettivi - politica, concertata e centralizzata - con i quali ho caratteriz­zato il modello di regolazione economica descritto nei capitoli precedenti. Che ben tre aggettivi siano necessari per identi­ficare quel tipo di regolazione indica quantomento che non esiste un’unica istituzione, o un unico modo di funziona­mento delle istituzioni, alternativi al mercato, attraverso cui l’economia può essere regolata. Questo è stato il principale errore di prospettiva delle molte analisi condotte negli anni ottanta sulla de-regulation delle economie occidentali, analisi che spesso si limitavano a recepire semplicisticamente quello che, per imprenditori e politici neo-liberisti, altro non era che uno slogan confinato nel mondo dei desideri. Ma, a ben vedere, anche analisi assai più sofisticate sull’avvento di un «capitalismo disorganizzato» [Offe 1985; Lash e Urry 1987] in fondo si basavano su un assunto analogo: che la crisi di una forma storicamente specifica di regolazione segnalasse un declino tout court nella capacità delle istituzioni sociali e politiche di strutturare i comportamenti economici.

Invece, come si è già anticipato nella Presentazione e come vedremo meglio nei prossimi capitoli, il riaggiustamento

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economico che ha avuto luogo negli anni ottanta non si è affatto basato ovunque su un semplice ritorno al «libero operare del mercato». In diversi paesi europei, si è anzi giovato di situazioni «istituzionalmente dense», che hanno condizionato le strategie degli attori, e quindi le strade e i modi con cui le diverse economie si sono ristrutturate.

I mutamenti avvenuti in quel decennio hanno fatto si che la capacità delle imprese di flessibilizzarsi e di diversificarsi abbia acquisito un ruolo centrale per ciò che riguarda le performances delle rispettive economie nazionali (cfr. il set­timo cap.), oscurando il ruolo svolto dalle politiche pubbli­che. Per conseguenza, vi è stato uno spostamento del centro di gravità del sistema economico (oltre che dell’attenzione degli studiosi) dal livello della gestione macro-politica a quello micro dei comportamenti delPimpresa. Lo stato ha perso per così dire il ruolo di attore centrale dei processi economici a favore dell’imprenditore, che è l’indubbio protagonista del riaggiustamento negli anni ottanta. Da macro-politica, la regolazione delle attività economiche è divenuta prevalente­mente micro-sociale. Le reti di solidarietà hanno riacquistato un’importanza che sembrava perduta nell’orientare i com­portamenti economici [Reyneri 1988], mentre le istituzioni delle relazioni industriali hanno strutturato le strategie e le scelte concrete degli attori nell’impresa (cfr., per il caso italiano, l’ottavo cap.). A un’economia istituzionalmente re­golata non ne è dunque succeduta una de-regolata: sono solo mutati i modi della regolazione e le istituzioni più rilevanti.

Infine, anche l’ultima caratteristica della regolazione politica, quella di essere sostanzialmente «concertata» con gli interessi organizzati, non è stata drasticamente contrad­detta dall’emergere di una regolazione micro-sociale. N o­nostante diverse previsioni contrarie, forme di consenso piùo meno istituzionalizzato nell’impresa hanno in molti casi rappresen ta to un «sostitu to funzionale» di quella concertazione macro-nazionale il cui declino non si è ancora arrestato. Questo punto appare così cruciale per la possibi­lità o meno che le forme emergenti di regolazione micro­sociale acquistino la stabilità e il rilievo di un modello, che conviene anzi iniziare da qui la trattazione.

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CAPITOLO SESTO

CRISI DELLO SCAMBIO POLITICO E SVILUPPO DELLA MICRO-CONCERTAZIONE

In questo capitolo cercherò di mettere in luce la contemporaneità di due fenomeni che negli anni ottanta hanno caratterizzato il ruolo degli interessi organizzati nel­l ’economia di diversi paesi europei. Questi fenomeni vengo­no di solito analizzati disgiuntamente l’uno dall’altro, così che risulta difficile cogliere la complessità dei mutamenti avvenuti, e inevitabile arrivare a conclusioni nella migliore delle ipotesi parziali.

Da un lato, osserviamo che la forma tradizionale di concertazione sociale come è stata praticata in Europa negli anni settanta e primi anni ottanta, cioè una concertazione a livello macro-nazionale, è ovunque in declino. Le ragioni generali della instabilità strutturale di qualunque forma di scambio politico sistematico sono già state discusse nel se­condo capitolo, e ad esse pertanto si rinvia. Ma quali sono le caratteristiche specifiche del tipo di concertazione praticato in Europa in quel periodo, che oggi incontrano le maggiori difficoltà?

Innanzitutto, si trattava di una contrattazione a forte carattere politico, non tanto per la frequente presenza dei governi in negoziati formalmente triangolari, quanto per il suo contenuto simbolico di scambio di legittimazione fra i governi stessi e le parti sociali. In secondo luogo, questo scambio politico era altamente centralizzato, non solo nel senso che avveniva al livello centrale - cioè nazionale - , ma anche nel senso che rappresentava il centro del sistema di relazioni industriali, il perno intorno a cui ruotavano tutti i rapporti fra gli attori e a cui venivano di fatto subordinate la contrattazione aziendale e altre forme di rapporto decentrato.

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In terzo luogo, si trattava di una contrattazione tendenzial­mente istituzionalizzata, tanto che si cercava di tradurla in accordi formali periodici. Infine, in questo tipo di concertazione i problemi venivano individuati in modo onnicomprensivo e aggregato, e le soluzioni venivano ricer­cate nello stesso modo. Il problema centrale era considerato quello di contenere il costo del lavoro nel suo complesso, e in modo altrettanto aggregato erano concepite le compensazioni per le parti sociali: una legge per l’occupazione giovanile o per il controllo dei processi di ristrutturazione a favore dei sindacati, una fiscalizzazione generalizzata degli oneri sociali a favore delle imprese, e così via. In sintesi, potremmo dire che ciò che oggi si osserva è che nessuna di quelle quattro caratteristiche regge più, e che per questo quel tipo di con­certazione sociale è entrato ovunque in crisi nel corso degli anni ottanta.

Dall’altro lato, prima di discutere le cause di questo declino, dobbiamo tuttavia rilevare - per evitare una lettura troppo parziale della realtà - il contemporaneo emergere di nuove forme o di nuovi livelli di concertazione. In altre parole, possiamo osservare che il declino della concertazione a livello macro-nazionale non ha portato in generale a una crisi tout court della regolazione congiunta del lavoro, come si era invece sostenuto (o previsto) da più parti.

Un fenomeno a cui si è assistito in diversi paesi europei negli anni ottanta è stato piuttosto l’emergere di nuove for­me di micro-concertazione volte a consentire il riaggiu­stamento industriale. Si tratta di forme di concertazione a livello locale/aziendale, e talvolta a livello settoriale o regio­nale, che si traducono in una comune accettazione di obiet­tivi, vincoli e compatibilità, non totalmente spiegabile con il mutamento nei rapporti di forza a sfavore del lavoro. Rispet­to alla concertazione tradizionale, che era un tentativo di gestione congiunta dell’inflazione e della crisi, queste nuove forme si potrebbero chiamare appunto «concertazione del riaggiustamento industriale», cioè di quei processi che han­no consentito alle imprese di ristrutturarsi e di (ridiventare competitive.

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1. Il declino della concertazione macro-nazionale

Nella seconda metà degli anni settanta, come sappiamo, in diversi paesi europei la concertazione fra stato, sindacati e associazioni imprenditoriali assunse un ruolo centrale nella ripresa dello sviluppo economico, perché i problemi consi­derati cruciali da questo punto di vista erano di natura tale da richiedere il ricorso a questo strumento.

Dai governi, la concertazione di politiche dei redditi veniva vista come lo strumento indispensabile per porre sotto controllo l ’inflazione e per regolare il conflitto diffuso in diversi settori della società, soprattutto in quelle situazioni in cui i sindacati erano ancora uno strumento privilegiato di aggregazione del consenso. Gran parte degli imprenditori la considerava invece una second-best solution per ragioni analoghe: cioè perché, anche se .indeboliti dalla recessione, i sindacati erano ancora sufficientemente forti da potere con­trastare con successo un eventuale ritorno a un mercato non regolato. Infine, questi ultimi, benché spesso divisi al loro interno sul grado di centralità da attribuirle, vedevano la concertazione come uno strumento plausibile per cercare di controllare quelle conseguenze economiche - derivanti in parte dalla loro stessa azione precedente - più dannose per i lavoratori (recessione e crescente disoccupazione, ristrutturazione industriale e decentramento della produzione, costo della vita in aumento), oltre che per compensare con l’acquisizione di funzioni istituzionali e di riconoscimento politico il loro decrescente potere di mercato.

Fu così che in diversi paesi europei si aprì una fase in cui ebbero ampio spazio tentativi di dare vita a patti sociali che guidassero lo sviluppo, o che almeno ne regolassero le con­seguenze più dirompenti. Tuttavia, sul fatto che questo tipo di concertazione sia da tempo ovunque in declino, se non in una crisi profonda, non occorre spendere molte parole. E sufficiente guardare alla cronaca e al dibattito degli ultimi anni per accorgersi che, nei paesi europei, non solo non si stipulano più grandi accordi triangolari, mavì è una generale perdita di interesse persino per l’analisi di queste esperienze.

Paradossalmente, tentativi di costruire assetti di macro­

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concertazione sono stati portati avanti negli anni ottanta a livello sovra-nazionale, proprio mentre questi assetti appari­vano chiaramente in crisi in tutti i paesi membri. La Com­missione delle Comunità Europee, infatti, ha a lungo e tena­cemente perseguito il disegno di dare vita a un «Euro- corporativismo», modellato in parte sugli esempi nazionali che negli anni settanta avevano avuto maggiore successo. Per questa ragione ha incoraggiato il formarsi di associazioni degli interessi a livello sovra-nazionale stabilendo le proce­dure per riconoscerne lo status, e ciascuna delle direzioni generali si è circondata di un gran numero di comitati consultivi basati più sulla rappresentanza di interessi orga­nizzati che su quella territoriale. Nella stessa logica, sono state convocate diverse «conferenze triangolari» per discutere questioni di politica economica e sociale. E si è infine, a partire dal 1984, cercato di dare vita a un «dialogo sociale europeo», che ha però avuto subito vita difficile.

Anche il tentativo di creare una sorta di concertazione su scala europea, comunque, può dirsi ormai sostanzialmente fallito, principalmente per lo scarso interesse - spesso sconfinante nell’ostilità - manifestato dalle associazioni im­prenditoriali. Di esso resta traccia nelle discussioni sulla «dimensione sociale» del mercato unico, ma possiamo ben dire che le istituzioni della concertazione, che sono ovunque entrate in crisi al livello nazionale, non sono certo state ricostituite a quello sovra-nazionale.

Le cause immediate del declino della concertazione macro­nazionale vanno ricercate nelle mutate convenienze di ciascuno dei tre soggetti della concertazione, nel fatto cioè che per ognuno di loro è cambiato il calcolo costi-benefici. I governi hanno da tempo meno bisogno del consenso di sindacati che si sono indeboliti, e che costituiscono quindi dei partner meno importanti per loro perché meno in grado di aggregare consenso e di legittimare l’azione dei governi stessi [Carrieri e Donolo 1986]. Gli imprenditori, nella situazione di rapporti di forza più favorevoli e di dominio dell’ideologia del mer­cato creatasi negli anni ottanta, tendono a considerare le istituzioni della concertazione come inutili vincoli alla loro libertà d ’azione [Streeck 1984]. Inoltre, molte imprese

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sembrano attribuire minore importanza a un contenimento della dinamica salariale in termini aggregati - il tipico oggetto delle esperienze tradizionali di scambio politico - rispetto alla possibilità di utilizzare la propria forza lavoro interna in modi più flessibili. Infine, molti sindacati hanno ritenuto di individuare le cause della crisi di rappresentanza che ovunque li ha colpiti nel corso degli anni ottanta, proprio nell’ecces­sivo distacco dai luoghi di lavoro che le esperienze di concertazione centralizzata avevano comportato. Anche dove hanno mantenuto un certo potere, quindi, la loro attenzione tende a spostarsi al livello dell’impresa anziché a quello del negoziato politico, per recuperare un rapporto con la loro base che si è andato gravemente deteriorando.

Per ragioni diverse, dunque, tutti e tre gli attori della concertazione macro-nazionale sono indotti a non conside­rare più questo strumento di regolazione del lavoro e di formazione delle politiche pubbliche come il più auspicabile (o almeno come una second-best solution). In particolare, come si è detto, è stato l’indebolimento dei sindacati negli anni ottanta a cambiare il quadro delle convenienze strategiche per tutti gli attori. A questa perdita di influenza dei sindacati, d’altro canto, fa riscontro una relativamente maggiore capacità di pressione di altri gruppi di interesse e anche di taluni movimenti. Certo, in nessun paese europeo questi attori hanno raggiunto un’importanza politica complessiva paragonabile a quella delle «organizzazioni dei produttori». Ma, contra­riamente alle previsioni dei teorici neo-corporativi, oggi siamo di fronte a una maggiore pluralità di vecchi e nuovi mecca­nismi di intermediazione degli interessi. E in una tale situa­zione è più difficile per i sindacati reclamare uno status diverso e superiore, che nelle esperienze di concertazione era giustificato dalla loro capacità di rappresentare un ampio spettro di interessi e di gruppi sociali.

Per diverse ragioni, dunque, i sindacati europei hanno perduto non soltanto potere di mercato e organizzativo, ma anche quella «posizione oligopolistica nella contrattazione politica» con i governi [Regini 1983] che, nei tardi anni settanta, avevano assunto in diversi paesi. Al tempo stesso, la rappresentanza politica degli interessi dei lavoratori appare

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più difficile. In primo luogo, in molti paesi di essa si sono largamente riappropriati i partiti. In secondo luogo, spesso si è frammentata in diverse istituzioni che funzionano come policy communities [Richardson 1982] segmentate per mate­rie (organismi amministrativi a composizione tripartita o multipartita per l’occupazione, per la formazione, e così via). In esse i rappresentanti o gli «esperti» sindacali non godono necessariamente di uno status privilegiato, né si muovono sulla base di strategie generali. Agiscono piuttosto come un attore fra gli altri, cioè sottoposti agli stessi vincoli e alle stesse dinamiche organizzative.

L ’analisi dei fattori del declino della macro-concertazione fin qui condotta è però soggetta a una possibile obiezione. Le cause indicate - si può ragionevolmente sostenere - sono legate a un ciclo che negli ultimi anni si è andato esaurendo. E se non si tratta di fattori strutturali ma contingenti, il calcolo costi-benefici di ciascun attore potrebbe nuovamente mutare, e la concertazione macro-nazionale potrebbe tornare a ricoprire un ruolo centrale nell’agenda politica e ad assu­mere le caratteristiche che ho discusso in precedenza. Que­sta obiezione non è affatto da sottovalutare, e un ritorno a una qualche forma di concertazione e di politica dei redditi negli anni novanta è senza dubbio possibile. Ma è assai im­probabile che essa possa assumere quelle stesse caratteristi­che che - come ho argomentato all’inizio di questo capitolo- sono state all’origine del suo declino.

Al di là del mutevole calcolo di convenienza degli attori, infatti, vi sono due cause più strutturali (sulle quali mi soffermerò più estesamente nel settimo cap.), che hanno a che fare con mutamenti epocali nei modi di produzione e nella struttura sociale, e che minano - probabilmente in modo permanente - la centralità nella strategia delle parti sociali di una concertazione macro-nazionale che conservi le caratteristiche indicate.

Da un lato, vi è la crescente diversificazione delle strategie di relazioni industriali sia delle imprese sta dei sindacati, che a sua volta corrisponde a una crescente diversificazione del tessuto produttivo e del mercato del lavoro, e che rende sempre più inadeguata la produzione di regole uniformi a livello nazionale.

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Dall’altro, l’emergere dei temi della flessibilità e l’impor­tanza che sia le imprese sia i sindacati hanno via via ad essi assegnato rispetto a quelli tradizionali del salario e del costo del lavoro, ha fatto crescere l’importanza della regolazione del lavoro a livello di impresa e di area territoriale rispetto a quella a livello politico centralizzato.

1.1. La diversificazione delle relazioni industriali a livello di impresa

Che le strategie delle imprese e dei sindacati si diversi­fichino a seconda del contesto non è certo una novità. Ma oggi si assiste a due fenomeni relativamente nuovi.

a) Il primo fenomeno è che, dal predominio della cosid­detta impresa fordista, cioè di quell’impresa basata sulla produzione di massa di beni standard in grandi concentrazioni produttive, si è passati a una crescente diversificazione dei modi di organizzare la produzione e il lavoro. Accanto alle imprese fordiste hanno acquistato sempre maggiore rilevanza sistemi di produzione definiti, con alcune varianti anche significative, di «specializzazione flessibile» [Piore e Sabel 1984], o di «produzione di massa flessibile» [Boyer 1986], o ancora di «produzione diversificata di qualità» [Streeck 1989].

I fenomeni a cui si fa riferimento sono stati dapprima il decentramento della produzione, la diversificazione dei prodotti e l ’accorciamento dei tempi di sostituzione fra prodotti vecchi e prodotti nuovi, l’introduzione di macchi­nario flessibile più adeguato alla maggiore volatilità e segm entazione dei mercati. Più di recente, la divi- sionalizzazione delle grandi imprese e l ’organizzazione delle piccole in distretti industriali dotati di servizi collettivi, il mutamento dei rapporti con i subfornitori, e più in generale la reintegrazione flessibile del ciclo produttivo che questi fenomeni prefigurano.

Ora, l ’organizzazione della fabbrica fordista consisteva di fatto in un sistema di regole che erano relativamente uniformi per tutte le unità produttive e per tutti i rapporti di lavoro. E i sistemi di relazioni industriali chelecorrisponde-

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vano consistevano in pratica nella contrattazione di queste regole secondo criteri altrettanto uniformi e standardizzati,o nella determinazione del prezzo per la loro accettazione. Oggi, a seconda della strada che ciascuna impresa ha percorso nella direzione che ho sommariamente indicato, questa uni­formità vacilla in maggiore o minore misura, e le strategie aziendali si vanno differenziando.

Sottolineo «in maggiore o minore misura» perché, in primo luogo, non va dimenticato che non tutte le imprese che ristrutturano la produzione e riorganizzano il lavoro lo fanno secondo le linee sopra indicate. Molte imprese che pure sono fortem ente innovative dal punto di vista tecnologico reintroducono macchinario relativamente rigido. Altre, che reimpostano su basi nuove i rapporti con i subfornitori, che divisionalizzano la propria struttura e che diversificano la produzione, non escono però dal tradizionale modello fordista per ciò che riguarda l ’organizzazione del lavoro (per il caso italiano, si vedano gli esempi di Fiat e Olivetti nell’ottavo cap.).

In secondo luogo, l ’organizzazione del lavoro e ia gestio­ne del personale possono mutare profondamente per alcuni gruppi di lavoratori, ma restare immutati per altri. L’im­portante ricerca di Kern e Schumann [1984] su diversi set­tori industriali tedeschi ci mostra ad esempio come dalla ristrutturazione spesso emerga una élite di lavoratori con alto contenuto tecnico-professionale, per i quali l’azienda introduce circoli di qualità, incentivi, lavoro di squadra, rapporti diretti di cooperazione; ma anche come, accanto a questa élite, vi siano altre fasce di lavoratori che pagano i costi della ristrutturazione e per i quali l’organizzazione del lavoro resta quella tradizionale.

Dunque, le nuove tendenze che ho sopra sommariamente indicato non rappresentano un trend univoco per tutte le imprese, ma frammentano e diversificano il tessuto industriale, e le strategie seguite dai diversi imprenditori (sulle quali cfr. il decimo cap.). Inoltre, in ciascuna impresa non si riscontra­no politiche del personale coerenti e omogenee per tutti i gruppi della forza lavoro. La conseguenza è che la produzio­ne di regole uniformi al livello centrale-nazionale sul salario,

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sull’orario di lavoro, sulla mobilità o sull’ingresso nel merca­to del lavoro, viene considerata dalle imprese sempre meno adeguata ai loro problemi.

b) Il secondo fenomeno è che anche per i sindacati au­mentano i fattori che spingono a una diversificazione delle loro strategie. Bisogna ricordare che l’espansione e il con­solidamento del potere sindacale hanno avuto luogo in un periodo in cui le condizioni di lavoro e di vita della mag­gioranza dei salariati erano relativamente omogenee. Questa situazione, a sua volta, ha contribuito a creare anche una notevole omogeneità politica, e a mantenere in vita vere e proprie subculture con forti identità ideologiche. Era quindi abbastanza naturale e facile, per i sindacati europei almeno, rappresentare in modo aggregato interessi che erano già piuttosto omogenei, ed elaborare politiche rivendicative basate su obiettivi egualitari o solidaristici.

Ma oggi non vi è dubbio che assistiamo a una maggiore differenziazione del lavoro. E non si tratta solo della divaricazione tra figure ad alta professionalità e ruoli privi di ogni contenuto professionale che abbiamo già richiamato [Kern e Schumann 1984], né soltanto dell’eterogeneità di posizioni lavorative provocata dal declino del modello for­dista. Anche gli stili di vita e le esigenze personali dei lavora­tori si sono andati articolando. E il grado di centralità del lavoro nell’esperienza di vita di ciascuno ha subito, secondoi risultati di diversi sondaggi [Chiesi 1988; 1989; 1990], ampie variazioni. È naturale attendersi che, in conseguenza di questi processi, cambino e diventino più diversificate anche le fun­zioni che i lavoratori assegnano al sindacato. Quindi, anche per loro la produzione di regole uniformi a livello nazionale appare sempre più inadeguata alla nuova situazione.

1.2. La centralità dei temi della flessibilità

I processi di ristrutturazione industriale hanno fatto emergere i temi della flessibilità come cruciali per l’organiz­zazione della produzione [Regini 1988]; e, fra questi, una maggiore flessibilità del lavoro è diventata interesse vitale

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per le imprese. In diversi paesi, la loro ricerca si è dapprima indirizzata verso forme di flessibilità esterna o numerica, cioè in entrata e in uscita dal mercato del lavoro. Una volta sostanzialmente conclusa la fase della c.d. «liberazione dalle eccedenze occupazionali», è emerso il problema di forme di flessibilità interna o funzionale e, con esso, la centralità dei temi della qualità, di una dotazione di professionalità da distribuire efficacemente e flessibilmente in processi di produzione rinnovati, della tempestività degli interventi umani sulle macchine [Perulli 1988]. Questi temi hanno costituito un tipico oggetto di quella «cooperazione di fatto» a livello periferico che descriverò nel prossimo paragrafo, proprio perché si tratta di temi che non possono venire affrontati al livello macro-nazionale.

L ’interesse delle e^iende a porre i temi della flessibilità al centro delle relazioni industriali di impresa è largamente noto e, alla luce dei molti dibattiti sul tema, abbastanza scontato. Ma l’interesse a flessibilizzare il tempo e la pre­stazione lavorativa è fortemente cresciuto anche fra gruppi rilevanti di lavoratori [Accornero 1988], e non è raro che i sindacati si trovino sottoposti a una duplice pressione - da parte delle aziende e da parte dei loro rappresentati - ad allentare regole che vengono viste come troppo rigide, oltre che standardizzate e uniformi. I temi della flessibilità, dun­que, sono emersi come centrali nelle relazioni industriali di impresa non solo perché costituiscono una tipica richiesta aziendale, ma anche perché intorno a questi temi ruotano molte delle domande di una forza lavoro che, anche da questo punto di vista, si rivela più diversificata. E, come si è detto, la centralità di questi temi ha fatto crescere l ’importanza della regolazione del lavoro a livello di impresa e di area territoriale rispetto a quella a livello politico centralizzato.

2. L ‘emergere di nuove forme di concertazione

Dunque, la concertazione macro-nazionale è ovunque in declino a causa dei fattori che ho appena discusso. Ma l’altro lato della medaglia è che forme nuove di concertazione sono

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emerse in diversi paesi europei. La riacquisizione dell’inizia­tiva da parte degli imprenditori, il declino della concertazione al livello macro, e lo spostamento del centro di gravità delle relazioni fra gli attori al livello micro, solo in alcuni casi nazionali o settoriali hanno portato a una estesa de-regulation.

Certo, in taluni paesi e settori le imprese hanno appro­fittato dell’indebolimento dei sindacati per cercare di riaffermare una regolazione unilaterale della forza lavoro,o per dare vita a forme di «gestione delle risorse umane» (peraltro più sviluppate negli Usa che in Europa) che individualizzano il rapporto con i lavoratori, scavalcando la tutela collettiva del sindacato. In paesi come la Spagna, dove più estesa è ancora la presenza dell’industria fordista tradi­zionale e dove il sindacato è debole, la crisi della concertazione sociale, che tanta parte aveva giocato nel boom economico post-franchista, ha significato anche una notevole restrizio­ne del potere e del ruolo del sindacato. Ma in molti altri casi- particolarmente in Germania e in Italia, ma anche in diverse aziende inglesi - lo spostamento dell’iniziativa verso il livello dell’impresa ha fatto emergere forme di micro-concertazione, basate sul riconoscimento pragmatico, da parte dei sindacati, dell’esigenza aziendale di ristrutturarsi per competere su mercati internazionali più difficili e instabili, e sulla dispo­nibilità da parte del management a utilizzare per questo scopo le istituzioni di relazioni industriali esistenti anziché cercare di contrastarle.

In Italia, in particolare, diverse ricerche mostrano che negli anni ottanta i sindacati sono stati coinvolti in molte delle scelte compiute ai livelli micro-aziendale e meso-terri- toriale, relative cioè alle specificità dell’impresa o del territo­rio (cfr. l’ottavo cap.). In un gran numero di aziende, la ristrutturazione industriale dei primi anni ottanta è stata portata avanti non in aperto conflitto con il sindacato, ma in una sorta di confronto continuo sulle soluzioni possibili ai problemi che emergevano: se richiedere la cassa integrazione o ricorrere ai pre-pensionamenti o ad altri strumenti ancora per far fronte alle c.d. «eccedenze occupazionali», come tenere sotto con­trollo gli effetti dell’innovazione tecnologica, se retribuire gli straordinari o adottare forme di «riposo compensativo», ecc.

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Nel corso di questo lungo e costante processo di interazione, i sindacati sono via via passati dagli slogan tra­dizionali a modi più concreti di difendere gli interessi dei lavoratori. E diversi imprenditori sono giunti alla conclusio­ne che avere in azienda un sindacato forte che contratta può comportare costi e vincoli più elevati nel breve periodo, ma alla lunga dà il vantaggio di poter prevedere quale sarà la reazione dei lavoratori a questa o a quella decisione. Questo elemento di controllo dell’incertezza diventa tanto più im­portante in una situazione di profonda instabilità dei mercati come l’attuale, in una situazione cioè in cui la produzione dev’essere continuamente riorganizzata per rispondere alle sfide della competizione internazionale.

Questa micro-concertazione ha portato a una notevole flessibilizzazione delle work rules pur senza una loro formale ridefinizione, spesso a una vera e propria gestione congiunta dei processi di riaggiustamento industriale, anche se raramente alla esplicita condivisione di responsabilità. Per questo, nell’ottavo capitolo, si è qualificata come «locale» e «ap­partata», quasi nascosta, la micro-concertazione che si è diffusa in molte grandi imprese e che da sempre caratterizza gran parte delle aree di piccola impresa.

Non è facile trovare indicatori netti di questa tendenza, proprio perché spesso non si tratta di strategie esplicite di cooperazione. Tuttavia, un’indagine ripetuta nel tempo su quasi 200 imprese [Regalia e Ronchi 1988; 1989; 1990] ne fornisce alcuni piuttosto significativi. Ad esempio, le direzioni aziendali forniscono regolarmente ai sindacati informazioni sulla situazione economica e occupazionale dell’azienda in quasi la metà delle piccole imprese del campione, nei tre quarti delle medie e in circa l’80% delle grandi. E, ciò che è più importante dal punto di vista che qui ci interessa, quando deve decidere su una serie di questioni ricorrenti che vanno dallo straordinario alle ferie, alla mobilità interna, alla for­mazione professionale e a problemi tecnologico-organizzati- vi, una quota molto rilevante delle direzioni aziendali coin­volge le rappresentanze sindacali nel processo decisionale. Ma ciò che colpisce più in generale è la tendenza manifestata sia dalle imprese sia dai sindacati a definire congiuntamente

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i problemi, a ricercare soluzioni reciprocamente vantaggio­se, ad adattarsi p ragm aticam ente alle esigenze della controparte.

Per ciò che riguarda le imprese tedesche e britanniche, i lavori di Streeck [1984], Terry [1985] e altri studiosi hanno messo in luce l ’esistenza di processi analoghi. E altrettanto interessante è che, in situazioni di sindacalismo debole quale quella francese, diverse imprese mostrano di avvertire quella debolezza come un handicap per un tipo di produzione che punti maggiormente sulla qualità e sulla capacità di adatta­mento rapido alla volatilità dei mercati. Si sono rilevati, infatti, casi in cui le imprese stesse cercano di favorire la nascita o il rafforzamento di rappresentanze dei lavoratori che costituiscano una controparte affidabile ma realmente rappresentativa, ben diversa quindi dai vecchi sindacati gialli.

Perché propongo di definire questa realtà emergente in diversi paesi europei «micro-concertazione», anziché inter­pretarla nel quadro tradizionale della contrattazione, o ma­gari come una forma embrionale di cogestione? Anzitutto, perché non si tratta di semplice contrattazione, nella quale ciascun attore cerca di massimizzare i propri interessi, e arriva poi ad accettare un accordo che rappresenta un compromesso fra questi interessi di parte, ma che non tiene necessariamente conto di interessi più generali o di vincoli sistemici. Nelle realtà che ho descritto, al contrario, spesso nessun accordo formale viene siglato, ma ci si muove in uno stile di rapporti che, come nella concertazione tradizionale, presuppone l’esistenza di obiettivi o di vincoli condivisi.

In secondo luogo perché, diversamente che nella cogestione, le istituzioni pubbliche, anche se formalmente assenti, vi svolgono un ruolo di rilievo. È facile rilevare che a livello aziendale - e anche a quello territoriale - non si è certamente sviluppata una prassi di accordi triangolari, cioè con la presenza formale di pubbliche istituzioni. Purtuttavia, queste ultime svolgono spesso un ruolo indiretto decisivo nel consentire lo stile di rapporti che ho descritto.

Ad esempio, la partecipazione di fatto dei sindacati alla gestione della «flessibilità esterna», cioè della mobilità in uscita dal mercato del lavoro, sarebbe stata impensabile sen­

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za il ruolo svolto dai poteri pubblici in molti paesi nel conce­dere pre-pensionamenti o forme di sussidio all’occupazione per agevolare questi processi. Al livello periferico, le risorse fornite da istituzioni e governi locali sono state spesso anche più importanti nel consentire quella che ho prima definito «micro-concertazione del riaggiustamento industriale». Si possono citare alcuni esempi derivanti da una ricerca sul caso italiano [Regini e Sabel 1988]: l’uso, nell’area di Prato, di un «fondo sociale» in modi tali da consentire una elevatissima flessibilità degli orari di lavoro-, o la costituzio­ne, a Modena, di un «Centro Affari» che svolge funzioni di marketing e consulenza tecnica per le piccole imprese dell’area (cfr. l’ottavo cap.).

Del resto, occorre ricordare che anche nella tradizionale concertazione macro-nazionale non sempre i poteri pubblici erano formalmente presenti, ma in molti casi svolgevano appunto un ruolo indiretto di «incubatore» dell’accordo fra le parti sociali. Questa è stata ad esempio l’esperienza della Svezia - uno dei paesi dove la concertazione è stata più stabile e pervasiva - , o ciò che è avvenuto in Germania nel periodo della Konzertierte Aktion. Al di là degli aspetti terminologici, comunque, ciò che conta è che, in modo al­quanto inatteso, queste forme di micro-concertazione sono diventate il centro dei rapporti fra gli attori, e uno dei perni intorno a cui è ruotata la ripresa di competitività dell’indu­stria europea negli anni ottanta.

Ci si può chiedere come mai nei tardi anni settanta la scelta della concertazione sociale a livello macro-nazionale era apparsa a molti l’unica risposta possibile ai problemi che affliggevano i paesi in crisi economica acuta o con più elevata instabilità politica (Gran Bretagna, Italia, Spagna). Teorica­mente, erano aperte almeno tre possibilità istituzionali per cercare di affrontare questi problemi in modi consensuali. La prima era appunto la strada dello scambio politico isti­tuzionalizzato, o della concertazione triangolare delle politiche economiche. La seconda era quella di affrontare quei problemi attraverso accordi centralizzati bilaterali, in modo da sottrarre spazio alla contrattazione decentrata, ma senza farvi interve­nire il soggetto pubblico. La terza possibilità, infine, era

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quella di cercare di fare emergere e di istituzionalizzare una qualche forma di co-determinazione, o di gestione congiunta dei problemi più urgenti al livello aziendale. Nei tardi anni settanta e primi anni ottanta, come sappiamo, prevalse la prima alternativa, dopo una breve sperimentazione con la seconda in qualche paese. La terza strada non fu invece mai tentata, e neppure seriamente discussa. Come mai?

Le ragioni sono molte, e le principali hanno a che fare con la natura dei problemi (l’inflazione, quindi il costo del lavo­ro) che in tutti i paesi assumevano priorità nell’agenda poli­tica ed economica, e con il ruolo di garante dei patti e di compensatore dei costi che i governi erano in quel periodo disposti ad assumere e che le parti sociali erano disposte ad accordare. Ma, oltre a queste ragioni, ve n ’è una di carattere per così dire culturale, assai importante per spiegare la scelta che allora prevalse. Essa ha a che fare con la sfiducia genera­lizzata (cioè di tutti e tre gli attori) nella possibilità di un comportamento «responsabile» al livello locale-aziendale, poiché le rappresentanze dei lavoratori apparivano troppo esposte alle richieste presumibilmente radicali della base. Era allora opinione comune che i sindacati centrali, abituati a rappresentare «interessi generali» dando poco spazio a quelli settoriali, potessero venire coinvolti in una logica di scambio politico, mentre le rappresentanze periferiche sarebbero ri­maste preda di un’ottica marcatamente antagonistica.

Nei tardi anni settanta, questa opinione era forse fonda­ta, ma in seguito non venne più rimessa in discussione, nonostante nei luoghi di lavoro avvenissero nel frattempo trasformazioni assai profonde. Così, si dovette arrivare alla seconda metà degli anni ottanta per scoprire che le cose erano andate in modo abbastanza diverso da quello previsto. Cioè che, mentre i tentativi di concertazione macro-naziona­le avevano avuto ovunque vita difficile o erano falliti, nelle arene più appartate delle imprese e di alcune aree territoriali si era invece gradualmente e spontaneamente imposta quella micro-concertazione che ho descritto.

La storia appena raccontata riguarda gli anni ottanta, ma diversi indizi inducono a ritenere che anche il futuro dei rapporti fra i «gruppi dei produttori» stia più nella micro­

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concertazione che in quella macro. Ciò soprattutto perché quest’alternativa comincia ad apparire più attraente a molti imprenditori. Infatti, diverse imprese che avevano conside­rato la ristrutturazione come una fase transitoria cominciano a prefigurare scenari nei quali - in presenza di continue turbolenze nei mercati - la necessità di riaggiustamenti ap­pare costante. In questi scenari risulta complessivamente conveniente «concertare» le scelte con un sindacato che im­pone minori costi e vincoli di un tempo, e che in compenso legittima le scelte imprenditoriali di fronte ai poteri pubblici e ai lavoratori.

Infatti, mentre hanno riconquistato in pieno la propria capacità di iniziativa, molte imprese ritengono però necessa­rio mobilitare intorno ad essa tutte le risorse anche interne, compreso il consenso dei lavoratori. Se c’è una cosa che la lunga fase della ristrutturazione ha insegnato a diversi im­prenditori, questa è che un sistema di relazioni industriali può essere considerato spesso una risorsa, in quanto parte del repertorio di regole e procedure detenuto dall’impresa nel fronteggiare e assorbire l’incertezza, e non un semplice ostacolo al riaggiustamento [Perulli 1988].

D ’altro canto, occorre ricordare che un’altra ragione fondamentale per cui negli anni ottanta ha finito con il pre­valere una logica di micro-concertazione della flessibilità e di cogestione della ristrutturazione sta nella crescente perce­zione di molti lavoratori che la posizione delle imprese fosse una posizione dinamica, di fronte alla staticità e alla mancanza di soluzioni innovative da parte del sindacato. Una posizione cioè che, al di là delle sue frequenti durezze, in ogni caso prometteva l’uscita da una situazione di crisi. In altri termini, possiamo dire che la cultura manageriale ha lentamente riconquistato una certa egemonia sulla cultura della tutela collettiva spesso rigida e standardizzata, che comunque non si cura delle esigenze dell’impresa. E il fatto che anche nella percezione di diversi lavoratori la flessibilità cominci ad apparire sinonimo di dinamicità, mentre le posizioni sinda­cali più tradizionali appaiono perdenti o non più adeguate, probabilmente contribuirà a stabilizzare il ruolo della micro­concertazione, estendendolo al di là della semplice gestione delle fasi di crisi e di ristrutturazione.

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3 . Una breve conclusione

Le conclusioni di questo capitolo sono - ritengo - lar­gamente implicite nell’analisi fin qui condotta, tanto che po trebbero essere sintetizzate in una sola frase. La concertazione tradizionale di tipo macro-nazionale può avere ancora un futuro ed essere ritenuta non inutile o dannosa dalle parti sociali, a condizione che si modifichino le quattro caratteristiche che ho indicato all’inizio; ma l’attenzione degli studiosi dovrà comunque spostarsi di più sulle forme nuove di concertazione micro e meso (cioè a livello aziendale e territoriale), perché lì è il nuovo centro del sistema di relazioni industriali, e lì stanno le più importanti condizioni di vitalità del sistema delie imprese.

Delle quattro caratteristiche della concertazione tradi­zionale, due in particolare costituiscono tentazioni sempre presenti, e probabilmente più rischiose: quella di farne il livello dei rapporti al quale viene subordinata la contrattazione collettiva e in particolare la contrattazione aziendale; e quella di assegnarle esclusivamente contenuti di tipo aggregato, quali il contenimento del costo del lavoro o politiche del lavoro che non lascino spazio alle esigenze di flessibilità e di aggiustamenti locali.

Certo, ogni volta che l’economia internazionale manife­sta segni di ripresa, diversi governi e imprenditori tornano a considerare conveniente concertare alcune scelte con i rap­presentanti centrali del lavoro, più attenti alle compatibilità economiche delle loro rivendicazioni. E anche per i sindacati, d ’altro canto, la lezione da trarre dai fallimenti del recente passato non è necessariamente quella di rifiutare ogni nuova forma di scambio politico.

È probabile però che tutti gli attori che sono passati attraverso quel lungo learning process convengano che vi è una lezione da trarre, quella di sgravare lo strumento della concertazione dalle attese e dai compiti eccessivi che ad esso avevano affidato a cavallo degli anni ottanta. Che occorra cioè individuare alcune funzioni più «leggere» ma non per questo meno cruciali che la concertazione macro-nazionale può svolgere (cfr. il par. 2 del nono cap.), e al tempo stesso

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sostenere la dinamica di quella micro- e meso-concertazione che negli anni ottanta si è affermata in maniera spontanea, e che oggi necessita forse di qualche forma di istituzio­nalizzazione.

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CAPITOLO SETTIMO

IL CONTESTO: DIVERSIFICAZIONE E RICERCA DI FLESSIBILITÀ

1. Flessibilità e diversificazione

È ormai quasi un luogo comune1 osservare che imprese e sindacati si trovano oggi ad affrontare mercati che sono molto più instabili che in passato. E quasi altrettanto condivisa appare l ’affermazione che, per rispondere a questa maggiore volatilità, un numero crescente di imprese è indotto ad ab­bandonare, o almeno a modificare in modo sostanziale, le vecchie strategie produttive e organizzative (in particolare quella della produzione di massa di beni standard per mezzo di macchinari specializzati e rigidi fatti funzionare da operai comuni), che avevano come presupposto appunto la stabilità. Per queste imprese, il processo di riaggiustamento alle muta­te condizioni economiche ha significato innanzitutto un au­mento di flessibilità, cioè della capacità di utilizzare macchine e lavoratori in combinazioni differenti per far fronte ai mu­tamenti nel mercato. A loro volta, i sindacati hanno dovuto riaggiustare la propria azione nei confronti di questo processo, talvolta scoprendo lungo il percorso che la partecipazione alla gestione della flessibilità apriva nuove possibilità di re­cuperare quell’autorità istituzionale che avevano perduto agli occhi delle imprese e degli stessi lavoratori negli anni precedenti.

1 II primo paragrafo di questo capitolo e gran parte dell’ottavo devono molto alle idee di Charles Sabel, poiché si basano su una ricerca che abbiamo diretto insieme e sull’articolo che ne sintetizza i principali risul­tati (cfr. M. Regini e C. Sabel, Le strategie di riaggiustamento industriale in Italia: il ruolo degli assetti istituzionali, in «Stato e Mercato», n. 24, pp. 305-346).

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Tuttavia, il superamento dei vecchi modelli di organizza­zione non ha affatto condotto automaticamente al prevalere e al diffondersi di un’unica alternativa ad essi. Se un numero crescente di imprese sono consapevoli che la loro sopravvi­venza dipende da una maggiore flessibilità, non vi è però nessun accordo su un unico modello alternativo di flessibili­tà. Per ciò che riguarda l’organizzazione dei rapporti con i subfornitori, o la distribuzione dell’autorità e delle compe­tenze tra le direzioni generali e le unità operative, sembra esservi una certa convergenza di vedute sui nuovi e più flessibili modelli organizzativi da adottare. Ma la convergenza non è altrettanto netta per ciò che riguarda l’uso della tec­nologia, l’organizzazione del lavoro, la gestione del personale e le relazioni industriali.

In parte, la diversità delle risposte imprenditoriali al problema comune di adattarsi all’instabilità dei mercati riflette semplicemente l’incertezza e la confusione di tutti i periodi di transizione, o abbastanza turbolenti da apparire come periodi di transizione [Streeck 1986], Così, ad esempio, anche imprese che operano nello stesso settore possono trovarsi in disaccordo nelle loro valutazioni sul grado di variabilità dei mercati nel lungo periodo. E la percezione diffusa che qua­lunque previsione da questo punto di vista sia incerta, induce le imprese a essere caute e a mettersi al riparo nelle loro scelte. I modi per mettersi al riparo sono quelli di scegliere una strategia ma di perseguire al tempo stesso anche strate­gie differenti, di tenersi a metà strada tra quelle che appaiono come alternative troppo radicali, o di non pregiudicare la possibilità di ritornare ai vecchi modelli.

Ma, al di là di queste incertezze, la diversità delle strategie di flessibilità riflette in sostanza la molteplicità dei mezzi con cui il fine della flessibilità può essere perseguito. Del resto, anche i sistemi di produzione di massa, che utilizzavano tecnologie simili, differivano però ampiamente fra loro da altri punti di vista - ad esempio nei modi di organizzare le relazioni industriali. In modo analogo, un sistema produtti­vo può essere più flessibile di un altro sotto molti aspetti, senza esserlo necessari amente sotto tutti gli aspetti. Per fare un solo esempio, il disporre di un sistema di subfornitura

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molto flessibile può addirittura indurre una grande impresa a usare macchinari e un’organizzazione del lavoro relativa­mente poco flessibili. Ciò significa che elementi dei nuovi modelli di produzione flessibile coesistono in pratica con elementi di modelli precedenti basati sulla rigidità.

L ’incertezza nella risposta delle imprese alle nuove con­dizioni del mercato appare ancora più nettamente se si considerano anche le loro strategie rispetto alla gestione del personale e alle relazioni industriali (cfr. il decimo cap.). Il rapporto fra le loro scelte in questi campi e quelle nelle altre aree strategiche per l’impresa è ancora meno univoco e de­terminato. Il problema non è certo che le relazioni industriali non siano mutate dagli anni settanta a oggi. Né si può dire che i mutamenti avvenuti nelle relazioni industriali con­traddicano i principi che guidano la redistribuzione dei ruoli decisionali nell’impresa o la ridefinizione dei rapporti di subfornitura. In quasi tutti i paesi, si osserva infatti una tendenza a decentrare le competenze in modo da accrescere la capacità di aggiustamento locale al mutare delle condizioni esterne. Il problema è piuttosto che, sulla direzione di mu­tamento delle politiche del personale e delle relazioni indu­striali, influiscono altri fattori, attinenti alla tradizione sin­dacale e alle caratteristiche istituzionali e culturali di un’areao di un’azienda. In una certa misura questo è sempre avve­nuto. Ma il venir meno del modello egemone - quello fordista- di organizzazione della produzione e dei rapporti di lavo­ro, e la conseguente maggiore indeterminatezza delle scelte, hanno dato più spazio ai fattori «locali» [Locke 1987] — cioè alle specificità aziendali e territoriali - come variabili che condizionano la gestione delle risorse umane e i rapporti sindacali.

La frammentazione dei mercati di massa e le continue oscillazioni nel livello e nella composizione della domanda sono oggi fenomeni generali, quasi universali. Che le imprese debbano affrontare mercati più incerti è anzi, come si è detto, ormai un luogo comune, particolarmente caro alla letteratura manageriale. Si può addirittura dire che vi sia un largo consenso sul fatto che è diventato impossibile prevedere la domanda attraverso la ricerca di mercato. I successi o i

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fallimenti dei nuovi prodotti sono ormai quasi gli unici indi­catori possibili di ciò che il mercato assorbe.

Perché esattamente i mercati siano diventati così instabi­li è una questione oggetto di notevole dibattito [cfr. Piore e Sabel 1984], L ’aumento dei redditi ha certamente consentito ai consumatori di richiedere rifiniture dei prodotti o la pre­senza di accessori personalizzati che in precedenza conside­ravano desiderabili ma impossibili da ottenere. Al tempo stesso, la crescente competizione sui prezzi nei mercati di beni standard ha indubbiamente indotto molte imprese a puntare su miglioramenti e customizzazioni dei prodotti, sulla base dei quali poter giustificare differenziali di prezzo. A sua volta, la disponibilità di prodotti più accurati e customizzati ha contribuito ad affinare il gusto dei consumatori ampliando la gamma delle richieste che appare legittimo rivolgere al mercato, e questo maggiore discernimento nelle scelte mostrato dai consumatori ha creato una spinta a una ulteriore differenziazione dei prodotti. In ogni caso, i due fattori sono complementari tra loro, e le imprese debbono rispondere alla crescente differenziazione della domanda indipendentemente da quale ne sia la causa principale.

Questa accresciuta instabilità dei mercati costringe le grandi imprese a mettere quantomeno in discussione il principio-guida della produzione di massa: cioè la separazione fra progettazione ed esecuzione [ibidem]. L’efficienza della produzione di massa dipende dalle economie di scala. E per ottenere economie di scala, è necessario suddividere il lavoro in una serie di operazioni altamente parcellizzate, alcune delle quali possono venire meccanizzate, mentre le altre possono venire eseguite da lavoratori non specializzati. Per riorganizzare la produzione in questo modo, è per definizione necessario separare la progettazione della produzione dalla sua esecuzione. Questa divisione fra progettazione ed ese­cuzione aveva senso fintanto che gli enormi costi necessari per mantenere organizzazioni complesse con il compito di programmare e di controllare la divisione del lavoro, nonché gli investimenti in macchinari specializzati o monofunzionali che tali organizzazioni richiedevano, potevano venire am­mortizzati su grandi lotti di produzione.

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Ma più i mercati si andavano frammentando nel corso degli anni settanta, più ciò risultava difficile. Si imponeva dunque una profonda revisione nei criteri di organizzazione aziendale, basata su un qualche tipo di reintegrazione delle funzioni di progettazione e di esecuzione.

Per afferrare meglio il senso del riorientamento strategico delle grandi imprese, vediamo in sintesi qual era, per così dire, il «caso da manuale» dell’impresa a produzione di massa, come ce lo descrivono ancora Piore e Sabel [1984]. Negli anni sessanta, secondo questi autori, il «caso da manuale» era quello in cui, alPinterno della direzione centrale della grande impresa, un ristretto gruppo di pianificatori aziendali decideva sulla ripartizione degli investimenti fra le diverse attività, sulla ricerca e sviluppo di nuovi prodotti, e sull’acquisizione di altre aziende. Generalmente, il marketing consisteva nel convincere i consumatori ad acquistare ciò che l’impresa produceva, e nel valutare poi il grado di suc­cesso degli sforzi di persuasione. Ogni tanto, un laboratorio centrale di ricerca faceva scoperte altamente innovative. Una gerarchia di ingegneri applicava queste invenzioni alla progettazione di nuovi prodotti, mentre una seconda e su­bordinata gerarchia di tecnici traduceva i progetti in precise norme di fabbricazione. Infine, la forza lavoro non specia­lizzata dell’impresa, o lavoranti esterni in subappalto, ese­guivano le direttive.

Questa divisione del lavoro richiedeva un complesso si­stema di controlli. I capi controllavano che gli operai si attenessero alle norme. Una divisione incaricata del controllo di qualità verificava i risultati ottenuti dai capi. E un settore aggiustaggio a valle delle linee di montaggio riparava i difetti che erano sfuggiti ai continui controlli. Gli addetti agli acquisti controllavano i subfornitori attraverso complicati contratti che punivano severamente la non conformità alle norme. E, per rendere più efficace la minaccia di punizioni, mettevanoi subfornitori in competizione fra loro così da assicurarsi uno scrupoloso rispetto delle istruzioni impartite e del prezzo concordato.

Essendo le mansioni così parcellizzate, non vi era motivo di acquisire un’ampia qualificazione sul lavoro o vaste co­

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noscenze di base. La maggior parte degli operai e dei managers, perciò, imparava direttamente sul lavoro. Gli operai per­correvano una carriera di mansioni semi-qualificate, ciascu­na delle quali richiedeva una certa familiarità con la mansio­ne precedente. I sistemi di relazioni industriali si sono svi­luppati in questo contesto, intorno al problema del controllo del lavoro e della sua retribuzione. Per consentire quella stabilità e prevedibilità che era necessaria al sistema di pro­duzione di massa, le relazioni industriali hanno prodotto norme rigide, regole vincolanti su come trattare il problema del lavoro e della sua retribuzione [Accornero 1988].

Ma, via via che le imprese impararono a non potersi attendere nulla di sicuro dal mercato, cioè a dover affrontare mercati sempre più instabili, esse furono costrette a rivedere diverse parti di questo «manuale» [cfr. ancora Piore e Sabel 1984]. Anzitutto, di fronte alla frantumazione dei mercati, le grandi imprese hanno smembrato la loro struttura, scompo­nendosi in divisioni o unità operative e ampliando la rete dei subfornitori. Per ciò che riguarda il rapporto fra grande im­presa e le sue divisioni, si può dire che le unità operative delle grandi imprese assomigliano sempre di più a piccole o medie imprese. L’azienda madre spesso si trasforma in una holding, e tratta le sue sussidiarie come aziende semi-indipendenti i cui profitti e le cui perdite non possono più venire occultati da trasferimenti intra-aziendali. Idealmente, ciascuna unità operativa è l’unica rappresentante dell’impresa in uno specifico mercato o linea di prodotti. Per rispondere alle mutevoli esigenze di quel mercato o di quella linea, la produzione viene riorganizzata in modo tale da permettere, appunto, una riorganizzazione costante della produzione stessa. I prodotti devono venire progettati rapidamente, in collaborazione coni clienti o con la rete dei venditori. Le tecniche di progettazione e quelle di produzione vengono perciò combinate in un unico processo integrato, che consente di accelerare lo sviluppo dei prodotti e che richiede meno tecnici poiché i progettisti aiutano gli esperti di produzione e viceversa.

Inoltre, la trasformazione delle unità operative ha impli­cazioni anche sui loro rapporti con i subfornitori. Da un lato,i principali subfornitori devono stipulare contratti di lunga

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durata con i loro clienti, condividere la responsabilità di progettare parti e componenti del prodotto, e garantire la consegna di prodotti privi di difetti e nei tempi richiesti - il cosiddetto sistema just-in-time che riduce i costi di gestione delle scorte e facilita la rapida individuazione di parti difettose. Dall’altro, le grandi imprese obbligano i subfornitori a cer­care anche altri acquirenti e di fatto a dimostrare la loro capacità di sopravvivere anche senza il loro cliente principale.

Per ciò che riguarda la tecnologia e l’organizzazione del lavoro, al tipo di mutamenti che abbiamo osservato nelle strutture aziendali e nei rapporti di subfornitura dovrebbero corrispondere mutamenti analoghi, appunto nell’uso della tecnologia e della forza lavoro in fabbrica. Un macchinario flessibile dovrebbe sostituire il macchinario rigido tipico della produzione di massa. E poiché qualificazione significa in pratica capacità di utilizzare le potenzialità di flessibilità del macchinario, operai altamente qualificati dovrebbero sostituire gli operai a bassa o media qualificazione. I sociologi tedeschi Kern e Schumann [1984] hanno suscitato un vasto dibattito internazionale sostenendo appunto il tendenziale superamento del taylorismo come modo di organizzazione del lavoro umano. Ma, stando ai risultati contrastanti di diverse ricerche, questo effetto del mutamento dei modelli organizzativi appare per il momento meno chiaro e univoco.

Ciò che comunque la nuova organizzazione industriale richiede alla forza lavoro è, se non necessariamente una più elevata qualificazione, certamente una flessibilità molto maggiore, nel senso di adattabilità a compiti diversi, di mo­bilità da un posto all’altro, di disponibilità a lavorare di più quando si devono fare delle consegne e di meno quando la produzione ristagna, di capacità di rispondere agli imprevi­sti mantenendo costante la qualità del prodotto.

2. Le conseguenze della ricerca di flessibilità sui rapporti fragli attori

A partire dal volume di Piore e Sabel [1984] più volte citato, una letteratura crescente si è andata accumulando sul declino del «fordismo» come sistema basato sulla produzio­

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ne di massa e sul consumo di massa. Il «rapporto salariale fordista» è stato inoltre analizzato dagli economisti francesi del Cepremap [cfr. ad es. Boyer 1986] come «modo di regolazione» dominante nel sistema capitalistico fino agli anni settanta. In questa sede, tuttavia, interessano solo le conseguenze di un particolare modo di organizzazione della produzione sui rapporti fra i suoi attori. Da questo punto di vista, il fordismo ha significato principalmente il predominio della grande impresa con produzione di massa; l’espansione degli operai semi-qualificati, che diventano una figura egemone (il c.d. operaio-massa) rispetto al precedente dualismo fra lavoratori specializzati e manovali; e una mag­giore importanza attribuita dall’imprenditore all’organizza­zione del processo lavorativo complessivo nell’impresa, rispetto alla prestazione individuale fornita dal singolo lavoratore.

Gli effetti che tale «modello fordista» produce sui rapporti fra gli attori sono abbastanza chiari. Si sviluppano grandi concentrazioni operaie, con interessi simili e figure profes­sionali egemoni. I sindacati basano il loro potere sulle grandi fabbriche e costruiscono strategie rivendicative incentrate intorno alle domande degli operai semi-qualificati. La con­trattazione collettiva conosce un grande sviluppo, in quanto rappresenta non soltanto il modo più efficace per ripartire il reddito prodotto nell’impresa, ma soprattutto uno strumento per fondare un sistema di regole che garantisca quella stabilità che appare necessaria sia ai lavoratori sia alle direzioni aziendali [Accornero 1988].

Il declino di questo modello fordista e l’emergere accanto ad esso di un sistema di p roduzione basato sulla «specializzazione flessibile», che abbiamo analizzato nel paragrafo precedente (e che certamente non esaurisce le possibili «alternative al fordismo», ma rappresenta solo uno dei possibili sistemi di produzione post-fordista - cfr. Boyer [1989]), presenta diversi aspetti e ha molte cause. Al livello di maggiore generalità, come si è già visto, si può parlare di una crescente ricerca aziendale di flessibilità come risposta comune, benché articolata in vari modi, alla instabilità dei mercati e alla accresciuta competizione fra imprese; nonché

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di una maggiore diversificazione e complessità del sistema di produzione complessivo. Un effetto di queste tendenze sui rapporti fra gli attori del sistema industriale è stata, inizial­mente, una diffusa richiesta imprenditoriale di de-regulation, cioè di abbandono di quelle regole precedenti, stabilite dalla legge o dalla contrattazione, che vengono considerate come un fattore di rigidità. La de-regulation è stata talvolta intesa come assenza di regole, quindi come un tentativo di sostituire i sindacati e la contrattazione collettiva con una gestione imprenditoriale diretta dei rapporti con i lavoratori, cioè con il ritorno a una «libera» contrattazione individuale. Ma (come vedremo meglio più avanti) essa può anche significare, e spesso significa, volontà di creare nuove regole, basate su una contrattazione con il sindacato di alcune forme di fles­sibilità e di mobilità, nonché su un certo aziendalismo, cioè su una stretta identificazione dei lavoratori con la loro azienda.

Dopo avere sinteticamente contrapposto le tendenze recenti ai modi tradizionali di organizzazione della produzione, è opportuno indicare quegli aspetti specifici del mutamento che sembrano produrre le conseguenze più rilevanti sui rapporti fra gli attori. La ri-organizzazione della produzione che ha avuto luogo negli anni ottanta è stata infatti la risul­tante di processi assai diversi, ciascuno dei quali ha prodotto conseguenze specifiche.

Il primo, e più discusso, processo di mutamento che nasce dalla instabilità dei mercati e dalla esigenza di maggiore competitività aziendale consiste nella introduzione delle nuove tecnologie, e nelle profonde trasformazioni dell’organizza­zione del lavoro che vi sono connesse. Benché questo processo abbia interessato soprattutto le imprese esposte alla con­correnza internazionale, tutti i settori dell’economia sono stati in qualche misura coinvolti.

Il secondo processo è la diffusione di un tessuto di picco­le imprese e di aziende semi-artigianali strettamente connesse alle grandi. Questa crescita di una economia informale ha interessato sia settori in declino che aziende con elevata competitività sui mercati internazionali e con elevata tecno­logia [Brusco 1984; Bagnasco 1988]. Benché questo processo sia stato studiato particolarmente in Italia, vi sono ormai

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numerose indicazioni della sua importanza anche in altri paesi.Il terzo processo attraverso cui si è condotta una profon­

da ri-organizzazione della produzione è la ristrutturazione e la riconversione di aziende e di settori in declino, quali l’ac­ciaio, il tessile, la cantieristica, l’industria chimica in taluni paesi [Mény e Wright 1987; Pichierri 1989], In questo caso, la ri-organizzazione ha implicato soprattutto espulsione di personale, chiusura o riconversione di impianti, tentativi di gestione aziendale più efficiente.

Infine, il quarto processo che ha avuto un impatto im­portante sulle relazioni di lavoro è stata l ’espansione - e/o l’uscita dall’impresa madre - di molte funzioni non di pro­duzione, che si configurano come «servizi all’impresa» (e che vengono spesso definite di «terziario avanzato»): marketing, assistenza ai clienti, pubbliche relazioni, consu­lenza fiscale, pubblicità, ecc. [per l’impatto sulle relazioni di lavoro, cfr. Regalia 1990].

Come sostengono studi diversi fra loro quali quelli di Piore e Sabel [1984] in Usa, Kern e Schumann [1984] e Streeck [1986] in Germania, Boyer [1986] in Francia, l’af­fermarsi in molte imprese di questi fenomeni induce il ma­nagement a ripensare anche l’organizzazione del lavoro. Al­cune ricerche documentano che si sta invertendo la precedente tendenza a separare nettamente i compiti di esecuzione da quelli di concezione; che per molti lavoratori aumenta il contenuto professionale delle mansioni; che muta il controllo sul lavoro, e le funzioni della gerarchia e delle regole che intorno a questo problema erano state create. Per dirla con una sintesi efficace - anche se soggetta a critiche e dubbi, come si è detto al termine del paragrafo precedente - , l ’in­telligenza umana viene crescentemente vista come una risorsa da utilizzare al meglio nel luogo di lavoro anziché come un vincolo intorno al quale costruire un sistema di regole che la disciplini [Kern e Schumann 1984].

Questi processi di ri-organizzazione della produzione influenzano i rapporti fra gli attori del sistema industriale in due modi principali. Da un lato, incidendo sulla composizione della forza lavoro, essi cambiano i confini della rappresentanza sindacale nonché le caratteristiche e gli atteggiamenti dei

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rappresentati. Dall’altro, contribuiscono a mutare le priorità delle imprese e quindi le strategie imprenditoriali di relazioni industriali.

a) Possiamo sintetizzare nel modo seguente le principali trasformazioni nella composizione della forza lavoro e i loro effetti sui rapporti fra gli attori.

In primo luogo, il lavoro «si de-concentra e si de-massifica» [Accornero 1988], cioè diventa più eterogeneo. Aumenta quindi la segmentazione degli interessi e delle domande dei lavoratori. Per conseguenza, diventa più difficile per il sin­dacato aggregare le rivendicazioni intorno a figure profes­sionali egemoni qual era l’operaio-massa della fabbrica fordista. Tuttavia, era proprio questa possibilità che consentiva al sindacato il controllo della mobilitazione collettiva e che al tempo stesso gli dava una «posizione oligopolistica» nella contrattazione politica centralizzata [Regini 1983].

In secondo luogo, i settori emergenti della forza lavoro, che aumentano di numero e di importanza, sono collocati al di fuori della tradizionale base dei sindacati. Gli impiegati tecnici e i quadri, gli occupati nel settore terziario, i dipen­denti con tempi di lavoro atipici (a part-time, stagionali, ecc.), i lavoratori di aziende semi-artigianali o di cooperative che offrono servizi alle imprese: queste sono tutte figure sociali-professionali non tradizionali per l’azione sindacale. Sono cioè assai lontane dall’operaio «tipico», che ha una lunga tradizione di sindacalizzazione e che è abituato a uti­lizzare l’azione collettiva come il modo normale di difendere i propri interessi [Regalia 1990; Perulli 1990; Chiesi 1990]. Per conseguenza, diventa più difficile per il sindacato otte­nere l’adesione dei lavoratori sulla base di identità ideologiche. Aumenta invece il numero dei membri, attuali e potenziali, che vedono i sindacati come semplici agenzie che devono fornire servizi, consulenza e tutela in modo più efficace di altre forme alternative. Certamente, non si tratta di un fe­nomeno completamente nuovo. Oltre venti anni fa, una fa­mosa ricerca dimostrava già il prevalere di una visione «strum entale» del sindacato fra i lavoratori inglesi [Goldthorpe et al. 1968]. Ma nel complesso, almeno i sin­dacati di classe dell’Europa continentale, più saldamente

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basati su valori solidaristici e identità ideologiche, sembrava­no relativamente immuni da queste tendenze fino a non molto tempo fa.

b) Per ciò che riguarda le priorità delle imprese e le strategie imprenditoriali di relazioni industriali, l’imperativo comune della flessibilità del lavoro e della sua regolazione non riduce affatto la precedente pluralità delle strategie, ma anzi si traduce in una diversificazione ancora più accentuata, che rispecchia una contraddizione fra esigenze diverse [Streeck 1986], Non è questa la sede per discutere in modo analitico le diverse alternative e le tendenze effettivamente rilevabili (che sono invece l’oggetto specifico del decimo cap,). Qui è sufficiente osservare che, in tutti i paesi per i quali disponiamo di ricerche adeguate, sembra emergere una pluralità di opzioni, che si collocano variamente lungo un continuum fra due strategie polari.

A un estremo vi è una strategia neo-liberista, che mira a una de-regolazione del rapporto di lavoro e sostanzialmente a relazioni industriali senza sindacato, mentre riduce la ricerca di consenso da parte della forza lavoro a tecniche di «per­suasione» accompagnate da una contrattazione individuale. I casi più citati sono quelli di interi settori industriali americani (come quello high tech). Ma tentazioni imprenditoriali a fare a meno del tutto del sindacato e a sostituirlo con una gestione diretta del personale basata sulla contrattazione individuale con i lavoratori emergono talvolta anche in quei paesi in cui la contrattazione collettiva rimane la regola. Si tratta della tendenza che naturalmente fa più paura ai sindacati, e forse per questo se ne è discusso molto nel recente passato. Ma oggi appare chiaro che, in Europa, le sue prospettive reali sono piuttosto limitate. L’esperienza recente di diverse aziende europee, infatti, mostra che, anche laddove era stato portato avanti un drastico processo di ristrutturazione gestito in modo unilaterale, è lo stesso management, una volta concluso tale processo, a porsi il problema di ricostituire un qualche sistema di regole condivise dal sindacato.

All’altro estremo vi sono quelle aziende che hanno co­stantemente considerato inevitabile una «gestione concordata» con il sindacato dei processi di ri-organizzazione della pro­

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duzione. Per «gestione concordata» non intendo qui sempli­cemente la contrattazione delle conseguenze dei mutamenti organizzativi, ma una prassi imprenditoriale di consultazio­ne preventiva, informazione, ricerca di consenso sindacale sui processi di ri-organizzazione da attuare. E interessante notare che questo secondo tipo di risposta non è limitato a quei paesi tradizionalmente caratterizzati da relazioni indu­striali altamente consensuali e da una predominanza della concertazione della politica economica a livello centrale. Si tratta invece di una strategia che ha caratterizzato anche interi settori industriali di altri paesi. Anche se solo raramente il management la rende esplicita (come è avvenuto, in Italia, nel caso del «Protocollo Iri»), diverse ricerche hanno di­mostrato che essa viene spesso adottata in modo tacito nei processi di ristrutturazione di molte imprese. Persino in quei paesi come la Gran Bretagna, che negli anni ottanta hanno avuto governi neo-liberali e anti-sindacali - in cui ci si poteva quindi attendere che gli imprenditori cercassero con maggiori chance e convinzione di fare a meno del sindacato - , le relazioni industriali di azienda hanno continuato in realtà a funzionare con un discreto livello di cooperazione [Terry 1985; Batstone 1984].

Come risultato del combinarsi di risposte imprenditoriali così differenti, si è intravista la possibilità di una espansione del «dualismo» [Goldthorpe 1984]. Da un lato, flessibilità e de-regolazione verrebbero conseguite attraverso l ’espansio­ne dell’economia informale e di quei settori (quali il terzia­rio, in particolare quello «avanzato») nei quali il sindacato è pressoché assente; così che, nel complesso, l’area in cui predominano la contrattazione collettiva e le tradizionali istituzioni delle relazioni industriali si restringe. Dall’altro, le imprese in cui un certo grado di collaborazione attiva dei lavoratori resta necessario o addirittura cresce di importanza con i nuovi metodi produttivi, cercherebbero invece di svi­luppare forme di micro-corporativismo basate su incentivi che favoriscano l’identificazione dei dipendenti con l ’azienda anziché con il resto della classe operaia, e su prassi di coinvolgimento delle rappresentanze sindacali locali.

Si è parlato a questo proposito di una «giappone-

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sizzazione» delle relazioni industriali [Streeck 1984], che avrebbe l’effetto non solo di indebolire il ruolo politico del sindacato, ma di dividere i lavoratori anche all’interno di una stessa azienda. Una parte della forza lavoro potrebbe infatti essere gestita con criteri di mercato, mentre un’altra parte verrebbe «corteggiata» per ottenere la sua identificazione e lealtà all’azienda. La conseguenza sarebbe un’accentuata segmentazione del potere sindacale e delle relazioni industriali in generale. E forse crescerebbero le tentazioni a dare vita a forme di sindacalismo corporativo, nel senso tradizionale di privilegiare la sicurezza e gli interessi dei lavoratori interni e già protetti, a scapito di interessi più generali di classe.

Questo scenario appare abbastanza plausibile in quei paesi in cui il movimento sindacale ha conquistato posizioni di potere istituzionale notevoli, in fabbrica e nel sistema politico. Le istituzioni in cui si è tradotto questo potere non possono venire spazzate via del tutto. Ma gli imprenditori possono puntare a una erosione (favorita naturalmente anche dai fenomeni che abbiamo discusso in precedenza) delle capacità di aggregazione e di regolazione complessiva del movimento sindacale, per sostituirle con una maggiore segmentazione delle relazioni industriali, che corrisponda alla segmentazione del potere di mercato dei lavoratori nelle diverse aziende e settori.

3. Le conseguenze della diversificazione della forza lavoro sui rapporti fra gli attori

I mutamenti nella composizione della forza lavoro e quindi nelle caratteristiche dei rappresentati dal sindacato sono stati altrettanto rilevanti di quelli avvenuti nella organizzazione della produzione. In una certa misura, questi mutamenti sono conseguenza dei processi di ri-organizzazione che ab­biamo già discusso. In larga parte, invece, dipendono da processi socio-culturali più generali, non strettamente con­nessi al sistema produttivo.

Le trasformazioni che hanno luogo nella forza lavoro sono sia strutturali (relative cioè alla sua composizione) sia

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soggettive (relative agli atteggiamenti). Tre sono i processi principali che vanno qui richiamati.

Del primo si è già parlato, in quanto deriva dai mutamenti che abbiamo discusso nel paragrafo precedente, e non occorre quindi soffermarvisi ulteriormente. È sufficiente ricordare che la struttura della forza lavoro cambia in primo luogo perché, in conseguenza dei processi di ri-organizzazione della produzione, le figure professionali dei lavoratori diventano più diversificate, aumentano quelle in cui è assente una tra­dizione sindacale, mentre anche fra i lavoratori dell’industria vi è una maggiore eterogeneità di domande.

Il secondo processo è la crescita delle dimensioni e del peso dei lavoratori con uno status incerto nel mercato del lavoro. Gli esempi sono svariati: dai lavoratori dipendenti che svolgono anche un lavoro in proprio, talvolta preparandosi a diventare piccoli imprenditori, agli usciti dal mercato del lavoro regolare con un pensionamento anticipato, che poi lavorano nell’economia informale, ai c.d. free-lancers, che spesso hanno un rapporto di lavoro continuativo e di fatto stabile con un’impresa. Ciò che tutte queste figure «atipiche» (per alcune di queste cfr. Gallino [1984]; sul lavoro atipico in generale cfr. Pedrazzoli [1989] e Chiesi [1990]) hanno in comune è appunto uno status incerto nel mercato del lavoro.O cumulano un reddito di lavoro non garantito con qualche garanzia di sicurezza sociale, o sono a metà strada fra lavoro autonomo e lavoro dipendente. Si avvicinano così per certi aspetti alla condizione dei «normali» salariati, mentre ne restano lontani per altri.

Infine, si assiste ovunque a una maggiore offerta di fles­sibilità nelle regole della prestazione lavorativa e nel tempo di lavoro [Accornero 1988], che non necessariamente coin­cide con quella domanda di flessibilità che, come abbiamo visto, viene dalle imprese. Ad esempio, molti lavoratori con una professionalità più elevata e di tipo nuovo sono portati a concepire la loro prestazione come caratterizzata da maggiore polivalenza, mobilità, iniziativa e autonomia, di quanto normalmente sia «incorporato» nella definizione aziendale delle loro mansioni, o nella regolamentazione dei rapporti di lavoro imposta dai sindacati per contrastare la discrezionalità

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padronale. L’offerta di flessibilità è cioè, in questo caso, la tendenza di lavoratori con elevato potere contrattuale a im­primere alla propria prestazione alcuni caratteri tipici del lavoro autonomo o professionale. Spesso sono invece le im­prese a contrastare questi processi, riaffermando quindi nei fatti quella rigidità che in teoria è il loro nemico dichiarato.

Per fare un altro esempio, diversi gruppi di lavoratori (soprattutto giovani, donne, o lavoratori con una professio­nalità che può essere spesa anche fuori dell’impresa) si mo­strano non soltanto disponibili, ma spesso orientati positi­vamente a forme di orario elastico (part-time di vario tipo), a cicli di lavoro brevi, a un’alternanza fra periodi di lavoro e di non lavoro, e così via [Chiesi 1988; 1989; 1990]. Anche in questo caso le loro esigenze possono entrare in conflitto con la concezione che della flessibilità hanno gli imprenditori, ma talvolta il contrasto non è minore con la visione tradizionale dei sindacati su quali siano i «reali» interessi dei lavoratori e su come vadano difesi.

I mutamenti che ho descritto producono una serie di effetti sui rapporti fra gli attori del sistema industriale che sono in parte convergenti con quelli prodotti dalla ri-orga­nizzazione della produzione, in parte autonomi.

In primo luogo, vi sono le due conseguenze già individuate in precedenza: cioè che diventa più difficile per il sindacato aggregare le rivendicazioni e individuare «interessi generali di classe»; e che un numero sempre maggiore di lavoratori concepisce il rapporto con il sindacato come con un’agenzia di servizi, cioè come puramente strumentale e non basato su identità ideologiche.

In secondo luogo, diminuendo l’identificazione con la classe operaia nel suo complesso e con i progetti di trasfor­mazione economica e politica che storicamente il movimento operaio europeo ha prodotto, tende ad aumentare l’identi­ficazione dei lavoratori con l’impresa o con l’unità produttiva in cui lavorano. Naturalmente non si tratta di un fenomeno completamente nuovo, ma relativamente nuove sono le di­mensioni e le forme che assume. Per esempio, il successo che i «circoli della qualità» di origine giapponese hanno avuto non solo negli Usa, ma anche in vari paesi europei era

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impensabile quindici anni fa. Per questo si può parlare non tanto della rinascita di vecchie forme di micro-corporativismo fra gruppi di lavoratori relativamente privilegiati, quanto di una «aziendalizzazione» della forza lavoro, nei suoi orizzonti di riferimento e di valori.

Infine, alcune ricerche hanno constatato un certo sviluppo di forme di contrattazione individuale fra impresa e singoli lavoratori anche non in possesso di professionalità partico­larmente elevate o non cruciali nel processo produttivo. Naturalmente, questo fenomeno deriva in primo luogo dal­l ’interesse, già discusso in precedenza, di diversi imprendi­tori a individualizzare i rapporti di lavoro. Ma non vi è dubbio che indica al tempo stesso che molti lavoratori sono disposti ad accettare questa strada, spesso in polemica con un tipo di contrattazione collettiva gestita dal sindacato in maniera troppo rigida. Detto in altri termini, il tradizionale tentativo di qualunque organizzazione sindacale di imporre agli imprenditori standard uniformi di tutela viene ora con­siderato da molti dipendenti come un’indebita semplificazione delle loro esigenze e capacità.

Come abbiamo visto, dunque, una pluralità di fattori può motivare sia le imprese sia i lavoratori a cercare di flessibilizzare il rapporto di lavoro. La flessibilità, dunque, dovrebbe essere un obiettivo comune alle une e agli altri; e tuttavia, i modi per ottenere questa flessibilità, e il suo stesso significato, possono divergere largamente.

Per le imprese, infatti, flessibilità del lavoro significa un uso non eccessivamente vincolato della forza lavoro, il che non vuol dire necessariamente - come si è già notato - assenza di regole, ma accettazione solo di quelle regole (le­gislative o contrattuali) che non appaiano troppo rigide, uniformi, standardizzate. Poiché l’obiettivo delle imprese è naturalmente quello di accrescere la produttività e la piena utilizzazione dei fattori di produzione, la ricerca di flessibi­lità va in quelle direzioni che sembrano più adeguate a questo scopo: diminuzione dei vincoli all’entrata e all’uscita della forza lavoro dal mercato, alla sua mobilità interna, ai metodi per la sua remunerazione e utilizzazione.

Anche per i lavoratori, flessibilità può significare il con­

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cepire la propria prestazione lavorativa e il proprio tempo di lavoro come non soggetti a eccessiva standardizzazione, uniformità, rigidità. Ma l’obiettivo in questo caso non può che essere quello di favorire la propria professionalità, polivalenza, autonomia decisionale, e di far dipendere il rapporto fra tempo di lavoro e tempo di non lavoro dai propri progetti e stili di vita, sganciandolo dalle esigenze della produzione.

La ricerca di flessibilità si presenta quindi al tempo stesso come un interesse comune a imprese e lavoratori, e come una nuova manifestazione di un antagonismo di fondo. Via via che la flessibilità del lavoro acquista un’importanza centrale sia per le imprese sia per i lavoratori, dunque, è possibile che essa divenga il terreno privilegiato per nuovi rapporti fra gli attori industriali, basati di meno sullo scambio fra benefici diversi — come nella contrattazione tradizionale - e di più su un tentativo di regolazione congiunta del rapporto di lavoro. «Regolazione congiunta» non significa necessariamente cogestione, ma è certo qualcosa di diverso dall’autonomia e dall’estraneità che nei rapporti negoziali ciascuna parte assume verso i problemi dell’altra. I modi concreti di organizzazione della prestazione lavorativa possono allora diventare un terreno di convergenza e di conflitto al tempo stesso: convergenza sul principio della flessibilità, conflitto sulle diverse modalità che questa può assumere.

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CAPITOLO OTTAVO

UN CASO EMBLEMATICO: RIAGGIUSTAMENTO INDUSTRIALE

E MICRO-CONCERTAZIONE IN ITALIA

In Italia1, i mutamenti avvenuti negli anni ottanta nel­l’organizzazione delle imprese (in linea con i trends più ge­nerali descritti nel settimo capitolo) sono stati eccezional­mente vasti e rapidi. Nessuno avrebbe potuto prevederne la portata alla loro vigilia, cioè al termine del decennio prece­dente. In quel periodo, infatti, le grandi imprese e i sindacati sembravano intrappolati in una situazione di stallo disastrosa.I sindacati, benché molto indeboliti, conservavano ancora un potere sufficiente a far fallire, se lo avessero voluto, i processi di riaggiustamento delle imprese a un ambiente economico diventato sempre più incerto nel corso degli anni settanta. Ma le imprese, dal canto loro, avevano il potere di decentrare la produzione a piccole unità che agivano al di fuori del controllo dei consigli di fabbrica, di usare la cassa integrazione in modo selettivo per distruggere l’organizzazione sindacale sui luoghi di lavoro, e di introdurre le nuove tecno­logie un poco alla volta e in modi tali da far venire lentamente meno la capacità sindacale di esercitare un controllo effettivo sul lavoro.

Gli unici vincitori, in quel periodo, sembravano essere le piccole imprese, che traevano vantaggio dall’ondata di decentramento della produzione. La «terza Italia» che basa la sua economia sui «distretti industriali», vale a dire su sistemi integrati di piccole imprese altamente flessibili [Becattini 1987; Brusco 1986; Bagnasco 1988], sembrava insomma racchiudere in sé tutto il nuovo che l’industria italiana poteva offrire, e attraeva quindi l’attenzione degli

1 Cfr. nota 1, settimo cap.

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osservatori a scapito sia dell’area nord-occidentale di più antica industrializzazione, sia del Mezzogiorno.

Nel corso degli anni ottanta, tuttavia, la situazione è mutata assai velocemente [Barca e Magnani 1989; Antonelli1989], Spesso pressate da gravi problemi finanziari, molte grandi imprese sono infatti riuscite a superare la situazione di stallo attraverso un profondo processo di ristrutturazione, per lo più condotto, come vedremo, con la collaborazione di fatto dei sindacati, e solo in alcuni casi dopo averne invece vinto le resistenze. Anche i sistemi di piccola impresa si sono nel frattempo trasformati, dotandosi - attraverso consorzi, forme associative varie e in qualche caso servizi reali forniti dagli enti locali - di istituzioni e di strumenti simili a quelli posseduti dalle grandi imprese, e che li mettono in grado di resistere più efficacemente alla crescente concorrenza inter­nazionale. In quali direzioni è andato questo duplice processo di ristrutturazione (delle grandi imprese e delle piccole) e quali fattori lo hanno permesso?

1. La ristrutturazione delle imprese

Per ciò che riguarda le grandi imprese, abbiamo già detto come, in generale, il processo di riaggiustamento abbia comportato la ricerca di una flessibilità sempre maggiore, cioè di una capacità di adattamento rapido alla crescente instabilità dei mercati. In diversi casi, le imprese hanno creduto di poter recuperare competitività semplicemente diminuendo il costo del lavoro, e si sono allora limitate a cercare di ridurre gli organici ricorrendo alla Cassa integrazione gua- dagni, alle dimissioni incentivate, al decentramento della produzione a piccole imprese. Ma questo si è dimostrato per10 più insufficiente a rispondere all’esigenza di maggiore flessibilità sui mercati. La strada che molte grandi imprese hanno allora seguito è stata quella di una profonda revisione dei propri criteri organizzativi, in particolare di quello che è11 principio-guida della produzione di massa: cioè la separa- zione fra progettazione ed esecuzione.

Si potrebbero indicare molti casi di riaggiustamento

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portato a compimento da grandi imprese italiane, che arric­chirebbero il quadro stilizzato tratteggiato nel settimo capitolo. Per brevità, tuttavia, mi limiterò a un esempio emblematico, quello della Montedison di Ferrara [Bordogna 1989]. Qui il precedente complesso petrolchimico è stato suddiviso in quattro società operative monoprodotto fra loro autonome, più una quinta, Montedipe, che fornisce servizi alle altre instaurando con queste rapporti «quasi di mercato». Questi servizi vanno da quelli tecnici (manutenzione delle attrezza­ture, programmazione di nuovi impianti, controllo dei pro­dotti finali e dei semilavorati) a quelli amministrativi (con­tabilità, contrattazione collettiva con i sindacati, gestione delle eccedenze di manodopera, e così via). I top managers vengono addestrati a coordinare gli obiettivi delle unità operative con quelli del gruppo aziendale. La produzione è così flessibile che su alcuni impianti possono esservi più di cinquanta mutamenti di «campagne di produzione» all’anno. Molti prodotti vengono sviluppati in diretta collaborazione con i clienti. Il sistema nel suo complesso assomiglia ai distretti di piccole imprese che descriverò fra poco, con la differenza che qui è un’azienda di servizi, anziché il governo locale o le associazioni imprenditoriali, a fornire alle unità produttive tutto ciò che queste non sono in grado di procurarsi da sole.

Una situazione simile emerge da altri studi, rispettivamente su Falck [Regalia 1989], Italtel [Negrelli 1989], Fiat [Locke eNegrelli 1989] e Olivetti [Berta e Michelsons 1989]. Non si vuole con ciò sostenere che queste tendenze delle grandi imprese italiane siano peculiari. Tendenze simili sono state infatti ampiamente documentate altrove, ad esempio in Germania [Sabel 1988a]. Ciò che è peculiare è che esse abbiano avuto luogo così rapidamente in imprese che ancora all’inizio degli anni ottanta sembravano completamente pa­ralizzate, e in un paese in cui solo pochi anni fa era diventato quasi un luogo comune parlare di crisi economica e industriale «strutturale».

Vediamo ora le trasformazioni avvenute in quelle piccole imprese che usano macchinari sofisticati per produrre beni specializzati sia da sole sia (spesso) alleandosi con altre.

Gruppi di piccole imprese di questo tipo si sono formate

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con straordinaria rapidità nella terza Italia durante gli anni settanta. Oggi, nonostante la mancanza di dati sistematici sui modi di organizzazione delle piccole imprese in generale, appare ampiamente dimostrato che questi sistemi stanno giocando in complesso un ruolo più importante che nel passato nelle economie industriali avanzate. E vi sono prove a sostegno della tesi che i sistemi di piccola impresa si dimostrano straordinariamente adattivi, almeno in parte per la ragione che si dotano collettivamente di servizi in modo analogo a ciò che fanno le grandi imprese con le loro unità operative, o perché si integrano in sistemi coordinati dalle grandi imprese,o per entrambe le ragioni.

Una ricerca di Perulli [1989] sull’area di Modena mostra chiaramente che né gli aumenti salariali, né l’ingresso dell’Italia nel sistema monetario europeo (che riduce la possibilità di compensare gli elevati costi di produzione o il deprezzamento del dollaro con una svalutazione della lira), né l’introduzione delle nuove tecnologie basate sui microprocessori, hanno creato barriere insuperabili per le imprese meccaniche di quell’area. Anzi, contrariamente alle previsioni di molti os­servatori, le aziende più piccole si sono comportate meglio di quelle medie. Nell’area di Prato, d ’altro canto, una ricerca di Trigilia [1989] mostra che gli aumenti salariali, combinati con i mutamenti nel regime dei cambi e con le tendenze della moda verso prodotti diversi da quelli di lana tipici del distretto, hanno effettivamente avuto effetti dirompenti, ivi compresa l ’emarginazione del settore tecnicamente più arretrato delle imprese piccolissime. Ma lo stesso studio documenta anche la grande quantità di piccole innovazioni di prodotto e di processo (in particolare l’introduzione della microelettronica) che ha consentito a Prato di mantenere una certa superiorità rispetto ai suoi concorrenti.

Comunque, vi sono prove rilevanti di quella convergenza fra strutture delle grandi e delle piccole imprese che già abbiamo osservato dal versante delle grandi aziende. In primo luogo, i consorzi di piccole imprese - sia agendo per conto loro sia in collaborazione con istituzioni pubbliche e sinda­cati - mostrano una tendenza sempre più accentuata a istituire organismi di consulenza tecnica, programmi di formazione,

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e agenzie di marketing, che offrono lo stesso tipo di servizi che (come abbiamo visto) le grandi imprese forniscono alle proprie unità operative. Mentre fino a qualche tempo fa i governi locali in Italia limitavano la propria azione sostan­zialmente alla provvista di servizi sociali (mense, asili nido, edilizia pubblica) e di aree attrezzate, più di recente alcuni di loro sembrano porsi il problema di collaborare alla fornitura di quel tipo di «servizi reali» che la Montedipe, o gli uffici centrali della Falck o dellTtaltel, offrono ai loro rispettivi clienti appartenenti alla stessa società [Bianchi 1985].

Una buona illustrazione di queste tendenze è il Centro Affari progettato a Modena dal governo locale e dalla Camera di Commercio in risposta alla domanda di servizi avanzati proveniente dalle imprese locali. Questo centro dovrebbe aiutare le imprese ad adattare l’automazione flessibile alle loro esigenze, a esportare i loro prodotti, e a informatizzarsi. Anche Prato si sta muovendo in questa direzione, come mostra l’utilizzo del «fondo per interventi in campo sociale» (originariamente istituito da imprenditori e sindacati per finanziare servizi sociali) per sostenere i processi di riaggiustamento industriale attraverso corsi di formazione professionale e altri interventi, e come appare ancora più chiaramente dai tentativi dei sindacati e delle associazioni imprenditoriali di promuovere una legislazione regionale perlo stesso scopo.

Se la flessibilità costituisce una condizione del successo in una situazione di elevata competitività, e se la reintegrazione fra progettazione ed esecuzione è una pre-condizione della flessibilità, allora, a parità di altre circostanze, al tipo di mutamenti che abbiamo osservato nelle strutture aziendali e nei rapporti di subfornitura dovrebbero corrispondere mu­tamenti analoghi nell’uso della tecnologia e della forza lavoro in fabbrica. In Italia, una maggioranza di grandi imprese ha in effetti abbandonato l’applicazione rigorosa dei principi della produzione di massa anche per ciò che riguarda l’or­ganizzazione del lavoro e l’uso della tecnologia. Ma, mentre è chiaro che alcune hanno cercato di rovesciare completamente quei principi, è altrettanto chiaro che altre imprese hanno invece riorganizzato i propri stabilimenti in modi che possono

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essere più adeguatamente interpretati come una semplice modificazione dei principi della produzione di massa.

Un dato incontestabile ma di significato incerto è la diffusa sostituzione delle macchine mono-funzionali con macchinario programmabile, nonché il tentativo di addestrare i lavoratori per un’ampia gamma di mansioni, alle quali in precedenza corrispondevano diverse qualifiche. La diffusione del macchinario flessibile è stata rapida sia nelle piccole che nelle grandi imprese. Ma in alcuni casi (ad es. Fiat e Olivetti), una parte del macchinario più recente appare più rigido delle tecnologie in uso negli anni settanta. Anche i tentativi di allargamento e ricomposizione delle mansioni sono am­piamente diffusi ma ugualmente di incerto significato. Alla Montedison di Ferrara, vi è stata una generale diminuzione dei livelli gerarchici in fabbrica, sono state costituite le «aree di lavoro integrato», e i lavoratori vengono fatti ruotare in diversi posti di lavoro alPinterno dello stesso stabilimento in modo da far loro acquisire competenze più ampie e maggiori responsabilità. Alla Italtel l’obiettivo è stato quello di adde­strare i lavoratori per renderli capaci non solo di far funzionare diverse macchine e di farne la manutenzione, ma anche di controllare la qualità dei prodotti. Dove è possibile, inoltre, l’intenzione è quella di raggruppare i lavoratori in gruppi di lavoro semi-autonomi con una formazione tecnica sufficiente a consentire loro di prendere parte attiva nell'organizzare il flusso produttivo nella loro area.

Anche Fiat e Olivetti addestrano gli operatori delle mac­chine a svolgere alcuni compiti di manutenzione preventiva, di preparazione, e di controllo della qualità. Ma queste aziende sembrano più interessate a fornire agli operai quel minimo di abilità richieste per ridurre i tempi morti e di attesa a livelli accettabili, che non a dotarli delle competenze necessarie per contribuire a migliorare l’organizzazione della produzione via via che ne diventano esperti.

Casi quali quelli di Fiat e Olivetti possono essere facil­mente spiegati se si accetta la possibilità che alcune grandi imprese decidano di adottare una strategia mista, che combi­na deliberatamente elementi tipici della produzione di massa con altri propri della specializzazione flessibile, dando vita a

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un ibrido che può forse rivelarsi più adeguato di entrambe. Secondo questa spiegazione, queste imprese non sarebbero eccezioni in una economia che si sta muovendo verso la specializzazione flessibile, ma piuttosto dei pionieri di una nuova strategia che può essere definita come «neo-fordismo»,o «produzione di massa flessibile» [Boyer 1989; Arrighetti 1988].

Questa strategia mira ad aumentare le varianti di un prodotto senza abbandonare la distinzione fra progettazione ed esecuzione. La grande impresa ritiene ancora di poter prevedere la domanda. Anziché attrezzarsi a fare fronte a mutamenti imprevedibili e organizzarsi quindi in modo da rendere possibile una riorganizzazione permanente, essa cer­ca semplicemente di adattarsi a fluttuazioni del mercato più ampie che nel passato. Nella direzione centrale vengono eli­minate alcune funzioni di supervisione, ma le unità operative— anche se distinte per linea di prodotto e amministrativamente autonome - vengono ancora considerate come divisioni del- Pimpresa-madre e non come imprese indipendenti all’inter­no del gruppo. L’automazione programmabile rende possibile estendere alla fabbricazione di alcune varianti di un prodotto strettamente legate fra loro, gli stessi vantaggi che il macchi­nario dedicato presenta nella fabbricazione di un singolo prodotto. Ma, a parte alcuni aspetti quali ad esempio qualche mutamento di utensili controllato dal computer, un osservatore non specialista non noterebbe alcuna differenza fra gli spostamenti di un blocco motore lungo la linea delle macchine utensili programmabili e la sua progressione lungo una tra­dizionale linea transfer di macchine mono-funzionali collegate fra loro. I lavoratori vengono addestrati a far funzionare l’intera gamma del nuovo macchinario, in modo tale da poter cambiare con facilità posto di lavoro. Ma siccome la gamma dei prodotti è già ben definita e le macchine sono state pro­grammate di conseguenza, vi sono scarsi incentivi a insegnare loro i principi base delle nuove tecnologie. L’enfasi è invece sul fornire ai lavoratori le conoscenze e l’autonomia necessaria per far funzionare sistemi basati sulla consegna just-in-time, il che comprende insegnare loro a scoprire i difetti e contribuire alla loro individuazione ed eliminazione.

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Sostenere che sia una ulteriore tendenza alla specia­lizzazione flessibile sia quella verso il neo-fordismo sono prospettive plausibili, equivale a dire che, anche ipotizzando che non si verifichino mutamenti rilevanti nel sistema eco­nomico internazionale, il futuro dell’industria italiana appare indeterminato, e probabilmente rimarrà alquanto incerto per molto tempo a venire. E se ciò è vero per quel che riguarda l’uso della tecnologia e l’organizzazione del lavoro, ancora più vero sembra esserlo rispetto alle politiche del personale e alle relazioni industriali, aree alle quali volgiamo ora la nostra attenzione.

2. L’aziendalizzazione della forza lavoro e la micro-con­certazione nascosta

Sembra abbastanza ovvio prevedere che in imprese con tipi diversi di organizzazione aziendale e del lavoro tendano ad affermarsi anche modelli differenti di politica del perso­nale e di relazioni sindacali. Ci si potrebbe quindi attendere che nelle imprese «post-fordiste» e «post-tayloriste» si sia affermato anche un tipo di gestione delle risorse umane e di rapporti sindacali nettamente diverso da quello prevalente nelle imprese fordiste. In realtà, gli studi disponibili su varie realtà aziendali e territoriali mostrano che siamo di fronte a processi assai più complessi e contraddittori, che possiamo così sintetizzare. Da un lato, sono effettivamente emerse tendenze nuove, alcuni elementi delle quali si riscontrano peraltro in modo diffuso, non necessariamente limitato alle sole aziende «post-fordiste e post-tayloriste» o ai distretti di piccola impresa più dinamici e innovativi. Dall’altro, all’in­terno di questi trends generali, si rileva però una crescente diversificazione, che non consente più di individuare tipologie nette di politiche del personale e di relazioni industriali.

Vediamo innanzitutto le tendenze. In generale, le ricer­che disponibili - non soltanto in Italia - sembrano indicare che, negli anni ottanta, i trends prevalenti nella gestione del personale e nei rapporti sindacali sono stati quelli che si potrebbero definire rispettivamente di «aziendalizzazione della forza lavoro» e di «micro-concertazione nascosta».

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Per «aziendalizzazione della forza lavoro» intendo tutte quelle azioni manageriali che mirano a favorire una stretta identificazione fra i lavoratori e l’impresa in cui sono occu­pati. Fenomeni di questo tipo, e più in generale di valorizzazione dei mercati del lavoro interni rispetto a quello esterno, vengono messi in evidenza in sistemi industriali così diversi fra loro quali quello tedesco [Streeck 1984], quello giapponese [Dorè 1986] e quello americano [Kochan et al. 1986]. Quest’ultimo esempio, tuttavia, ci ricorda che i ten­tativi manageriali di stabilire rapporti diretti incentivanti con i lavoratori possono essere di tipo individuale e sostitutivo di un sistema di relazioni industriali. Quando assumono questa forma, in Italia essi non rappresentano affatto una novità, essendo tipici già dei sistemi pre-fordisti (o semi-artigianali) di produzione, e diffusi anche nelle imprese fordiste so­prattutto per gli strati «alti» della forza lavoro (impiegati, tecnici, operai specializzati). Ma non sembra essere questo il trend prevalente in Italia. I fenomeni che invece si riscontra­no con una certa frequenza sono i seguenti: diffusione di circoli della qualità; incentivi collettivi legati alla produttività aziendale o di reparto, o forme di compartecipazione alla performance dell’impresa; talvolta una vera e propria con­trattazione di gruppo intorno agli obiettivi produttivi «co­perta» dal sindacato; forme varie di welfare aziendale; l’individuazione di percorsi di riqualificazione e di carriera sulla base di regole collettive.

Nessuno di questi fenomeni è di per sé del tutto nuovo. Con la diffusione delle tecnologie di flusso continuo, già nei primi anni sessanta alcune imprese avevano sperimentato sistemi retributivi imperniati su premi di gruppo, e si era per conseguenza sviluppata anche una sorta di contrattazione della produttività del gruppo di lavoro nel suo complesso [Lutz 1975], Quella che appare nuova è piuttosto la diffusione relativamente generalizzata di un orientamento delle imprese ad accettare appunto la dimensione di gruppo, collettiva anziché individuale, della gestione e della incentivazione del personale, il che - nel caso italiano - significa quasi sempre ricercare una non-interferenza con l ’azione dei sindacati, se non il loro assenso. Come relativamente nuovo è anche l’at­

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teggiamento sindacale di copertura se non di sostanziale favore verso questi fenomeni.

Certo, sia alcuni studi del caso [Ponzellini 1987] sia recenti indagini quantitative [Regalia e Ronchi 1988; 1989; 1990] mostrano che rapporti diretti e informali fra managers e lavoratori si sviluppano anche in molte imprese italiane. Ma ciò non avviene tanto in contrapposizione esplicita con la contrattazione sindacale e con le relazioni industriali di stampo tradizionale. Piuttosto, sembra esservi una «sovrapposizione pacifica» con queste ultime, nel senso che non interferiscono pesantemente fra loro ma in qualche modo convivono.

Inoltre, più che dare vita a una vera e propria contrat­tazione individuale su questioni di salario, qualifica, ecc., come è sempre avvenuto per gli impiegati e come avviene nei settori non-union americani, i rapporti diretti fra management e lavoratori manuali in alcune imprese italiane sembrano oggi assumere piuttosto - come si è appena rilevato - la forma di rapporti di gruppo intorno a questioni di produt­tività, professionalità, ecc. In altre parole, sembrano relati­vamente meno diffusi i tentativi aziendali di acquisire consenso individuale, mentre appare senjmai più importante creare spazi di discussione per diversi gruppi di lavoratori (magari sfruttando i canali che il sindacato mette a disposizione), per avere non solo consenso ma anche inputs di tipo tecnico. In questa luce può inquadrarsi anche il frequente ricorso a incentivi legati alla produttività, che spesso sono di gruppo e «coperti» dal sindacato.

La seconda tendenza - a una «micro-concertazione apparta ta» , attraverso la quale si è perseguita una flessibilizzazione delle regole relative al rapporto di lavoro - è stata anch’essa rilevata e discussa in diversi paesi (ad es. negli Usa, dove casi noti sono quelli della General Motors [Katz 1985] e della Xerox [Cutcher-Gershenfeld 1987]; ma in particolar modo in Italia [Perulli 1988; Regalia 1990; Regini 1988]. Qui, negli anni ottanta si sono affermati rap­porti di cooperazione fra imprese e sindacati, e assai diffusa è stata la ricerca di una regolazione congiunta di qualche aspetto di flessibilità. A differenza che nel periodo della contrattazione politica centralizzata (1977-1984: cfr. il quinto

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eap.), nella seconda metà degli anni ottanta la «concertazione» «Ielle scelte è stata spesso intensa ma tutta a livello micro, legata alle specificità dell’impresa o del territorio e non a t i iteri generali (in ciò l’Italia ha seguito e addirittura accen­niate i trends più generali discussi nel sesto cap.).

Non è facile trovare indicatori chiari e univoci di questa tendenza, proprio perché spesso non si tratta di strategie esplicite. Ciò che si può rilevare è una realtà diffusa di ricerca «li soluzioni comunemente vantaggiose anziché unilaterali, o più semplicemente di mutuo adattamento pragmatico alle esigenze della controparte, magari indirizzando la contrat- i azione verso un ruolo compensativo. Gli studi esistenti sui processi di riaggiustamento di grandi imprese sottolineano in particolare fenomeni quali la discussione o la contrattazione informale delle innovazioni da introdurre, e l’interpretazio­ne flessibile delle regole esistenti o la creazione di nuove regole informali.

Sappiamo peraltro [Trigilia 1986; Piore e Sabel 1984] che la tendenza a definire congiuntamente i problemi, a ricercare soluzioni comunemente vantaggiose, ad adattarsi pragmaticamente alle esigenze della controparte, rappre­sentano caratteristiche tradizionali delle aree di piccola im­presa con forte caratterizzazione subculturale. I casi di Prato e di Modena studiati più di recente da Trigilia [1989] e da Perulli [1989] rispettivamente confermano che, in queste aree, la flessibilità e la cooperazione costituiscono caratteri­stiche così radicate nel tessuto sociale e sostenute da rapporti di fiducia, che spesso appaiono connaturate anche ai rapporti individuali di lavoro, e non sembrano richiedere mediazioni istituzionali da parte di organismi di rappresentanza. Il ruolo cruciale svolto dagli attori locali (camere di commercio, as­sociazioni territoriali degli interessi, governi locali) è quello di sostenere adeguatamente questo sistema imperniato sui rapporti fiduciari, contribuendo alla sua riproduzione sociale e alla provvista di risorse - quali i servizi sociali di area - che sono una condizione della sua tenuta e al tempo stesso un oggetto su cui frequentemente si può indirizzare la contrat­tazione. D ’altro canto, anche in questi casi vi sono segni di mutamento. A Prato, una maggiore formalizzazione dei rap­

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porti, con tendenze a riportare la flessibilità entro un quadro contrattato. A Modena, una differenziazione nei contenuti e nello stile delle relazioni industriali, che porta ad attribuire maggiore importanza alle specificità aziendali rispetto a una precedente uniformità territoriale, nonché un rafforzamento e un allargamento dei servizi sociali alle imprese.

Il risultato è anche in questo caso quello di una certa convergenza fra grandi imprese e aree di piccola impresa. E difficile valutare quanta parte di questa convergenza sia dovuta a comportamenti imitativi reciproci, o addirittura a ripen­samenti strategici di imprese e sindacati che consapevolmen­te cercano di incorporare nella loro azione gli aspetti dei diversi modelli che appaiono più positivi. L ’esito è comun­que quello di una maggiore omogeneità, o meglio, di una minore importanza della tradizionale contrapposizione fra grandi imprese e aree di piccola impresa nello spiegare la diversificazione delle relazioni industriali. Quest’ultimo ap­pare certamente l’aspetto dominante, come cercherò ora di argomentare, ma la variabile «dimensione aziendale» sembra tu tt’altro che decisiva rispetto ad esso.

Una volta messe nel dovuto risalto queste nuove tendenze, occorre però osservare un duplice processo di diversificazione. Innanzitutto, sia per ciò che riguarda la gestione del perso­nale sia per quanto attiene alle relazioni industriali, nella maggior parte delle imprese e delle aree su cui abbiamo informazioni, alcuni elementi del nuovo modello sembrano combinarsi con altri, tipici di modelli diversi. Gli indicatori delle nuove tendenze che abbiamo richiamato in precedenza sono sufficienti a delineare un trend complessivo. Ma in di­verse imprese sono presenti in modo ancora troppo debole, forse provvisorio, e con una pluralità di sfumature, per poter identificare un nuovo «tipo» di gestione del personale e di relazioni industriali accanto a quelli già noti. D ’altro canto, alcuni di questi indicatori si ritrovano comunque anche in situazioni aziendali per altro verso tradizionali. Gli anni o t­tanta hanno costituito una fase di transizione, per interpre­tare la quale non è di grande aiuto ragionare in termini di tipologie nette. Ciò che si rileva è piuttosto il diffondersi di un «eclettismo pragmatico» nelle scelte imprenditoriali di

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M colazione del lavoro, che analizzeremo in modo più siste - m.iiico nel decimo capitolo.

In secondo luogo, anche a volere ancora individuare dei i r|>i» di gestione del personale e di relazioni industriali, non

•.ni ebbe più legittimo, in base ai dati disponibili, identificare< i,iscuno di essi con tipi corrispondenti di organizzazione ,i u-ndale e del lavoro. Si assiste infatti, per così dire, a una■ |)luralizzazione delle coerenze possibili» fra queste aree

-.11 aicgiche, cioè a una notevole incertezza e indeterminatezza delle corrispondenze fra scelte compiute in un’area e scelte da compiere in un’altra.

Dai processi fin qui discussi discende una conseguenza importante. Gli assetti di relazioni industriali di impresa o di arca, lungi dal convergere verso un modello prevalente, si sono andati invece sfaccettando, si sono differenziati con una serie tale di sfumature che - come ho già rilevato - diventa difficile persino proporre tipologie. Certamente, per restare al caso italiano, si dimostra inadeguata la dicotomia semplicistica che ha a lungo dominato il dibattito: quella fra a/.ione manageriale unilaterale, tendenzialmente non-union, che si vorrebbe esemplificata dal «modello Federmeccanica», e sistema partecipativo, che sarebbe esemplificato dal «Protocollo Iri» (cfr. ancora il decimo cap. per un tentativo di sistemazione analitica di queste differenze).

Sia le più recenti analisi della contrattazione aziendale [Baglioni e Milani 1990], sia le indagini su campioni di im­prese [Mortillaro 1986; Regalia e Ronchi 1988; 1989; 1990], sia gli studi del caso esistenti mostrano dunque che, nella seconda metà degli anni ottanta, vi è stata una notevole intensità e pervasività, e spesso una sostanziale consensualità, della negoziazione formale e informale nelle imprese italia­ne. Come mai, dopo le «rigidità» imposte dal sindacato negli anni settanta e il suo indebolimento nei primi anni ottanta, la maggioranza degli imprenditori non ha perseguito fino in londo una strada di rottura delle regole precedenti? E come mai i sindacati dal canto loro hanno tenuto nei luoghi di lavoro comportamenti spesso diversi da quelli praticati, o almeno dichiarati, a livello nazionale?

Una prima risposta a queste domande sta nella natura

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del controllo sul lavoro imposto dai sindacati italiani all’api­ce della loro forza. Negli anni settanta, il c.d. «controllo della discrezionalità padronale» era stato realizzato attraverso una prassi di contrattazione permanente fra capi intermedi e delegati operai anziché creando - come nei paesi anglosassoni e segnatamente negli Usa - un sistema di regole successiva­mente incorporate nella stessa definizione delle mansioni. La conseguenza, probabilmente non prevista, è stata che né l’impresa né i lavoratori sono venuti a dipendere, nel rior­ganizzare il lavoro, dall’esistenza di regole dettagliate. Così che, una volta indebolitisi i delegati, gli imprenditori hanno potuto riorganizzare la produzione senza bisogno di rimet­tere in discussione i principi che strutturano la vita aziendale.

Ma vi è un’altra risposta, che dà conto del comportamento di entrambi gli attori e che consente di inquadrare le relazioni industriali - così come la logica di funzionamento del siste­ma politico italiano - in una interpretazione più generale del «caso italiano» (cfr. il quarto e quinto cap.). In sintesi, po­trebbe essere proprio il livello straordinariamente elevato e politicizzato assunto dal conflitto manifesto in Italia ciò che ha indotto gli attori a una routine quotidiana basata invece sulPaccomodamento e sulla cooperazione pragmatica, per evitare la paralisi. La centralizzazione delle relazioni industriali formali dalla fine degli anni settanta in poi ha fatto sì che il livello nazionale fosse costantemente «sotto i riflettori», cioè quello più altamente visibile e con un forte valore simbolico. E in questa arena ha prevalso l ’antagonismo, o almeno una netta distinzione dei ruoli, così che anche i tentativi di concertazione incontravano forti ostacoli. Ma al livello pe­riferico, proprio perché relativamente isolato e separato dal centro, e quindi scaricato da valenze simboliche, hanno po­tuto nella maggior parte dei casi imporsi prassi di collabo- razione, quando non di ricerca di interessi comuni a lavoratori e aziende. Nelle grandi imprese, si sono così ripresentate forme di «aziendalismo» che sembravano improponibili dopo le durezze degli anni settanta. Nelle aree di piccola impresa, la collaborazione si è potuta inquadrare in un modello già collaudato, che è stato efficacemente definito di «neo­localismo» [Trigilia 1986].

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Quale che sia la spiegazione più convincente, perI Icssibilizzare la produzione e il lavoro gli imprenditori non limino per lo più dovuto «scavalcare» il sindacato, ma hanno potuto utilizzarlo come agente di ri-regolazione. La dimo- .11 azione di ciò è che la contrattazione, formale e informale, a livello di azienda è stata negli ultimi anni rilevante su tutti /■li aspetti della flessibilità del lavoro [Baglioni e Milani 1990].

i. Il ruolo delle istituzioni nel riaggiustamento industriale

Fin qui si è cercato di individuare le tendenze più generali emerse nelle strategie di riaggiustamento industriale delle imprese italiane, ma al tempo stesso di mettere in luce le incertezze, le contraddizioni o la pluralità di coerenze possibili, che si traducono nella diversificazione di alcune scelte di impresa accanto a un nucleo di risposte largamente comuni. F possibile ora proporre qualche spiegazione di questa diversificazione dei processi di riaggiustamento industriale, in primo luogo fra imprese e poi, soprattutto, fra paesi ap­parentemente sottoposti alle stesse sfide.

Innanzitutto, va detto che la diversificazione delle stra­tegie di impresa viene vista da alcuni studiosi come un por­tato delle nuove tecnologie informatiche. Ad esempio, un esame di alcuni studi del caso porta a concludere che, all’in- lerno dei nuovi ambienti tecnologici e produttivi, si consta­tano modelli di organizzazione del lavoro anche opposti in termini di qualificazione professionale, di ripartizione dei compiti, di ruoli decisionali, e persino di aspetti ergonomici della qualità del lavoro [Butera 1987], Viene perciò ripresa «l’ipotesi secondo la quale la rivoluzione informatica costi­tuisce un potente fattore di destrutturazione delle organiz­zazioni e dei ruoli lavorativi, ma sulla ristrutturazione in nuovi assetti influiscono soprattutto fattori culturali, socio­politici, educativi, economici e istituzionali» [Reyneri 1988, 153]. Ma il richiamarsi all’impatto delle nuove tecnologie - alla loro capacità destrutturante ma non ristrutturante - non sembra sufficiente a spiegare l ’aprirsi del ventaglio di opzioni anche rispetto al problema di come regolare il lavoro (cioè

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dei sistemi di gestione del personale e di relazioni industriali), oltre che di come organizzarlo.

Esaminando la questione da questo punto di vista più generale, si può solo constatare che la diversificazione delle risposte fra un’impresa e l ’altra, e fra il sistema industriale di un paese e l’altro, rispecchia la percezione degli attori che oggi non esiste più la otte best way di organizzare la produ­zione, di gestire il mercato del lavoro, e di regolare il lavoro. In secondo luogo, essa rispecchia la crescente importanza che per conseguenza assumono, nel determinare le scelte strategiche degli attori, le variabili locali, cioè le specificità storiche e istituzionali, e le particolari costellazioni di risorse, di un’azienda o di un’area.

Naturalmente, anche l ’importanza delle variabili locali era già nota. Ma essa diventa cruciale con il declino dei modelli egemoni (il fordismo come idea-guida) e dei disegni di standardizzazione e di controllo a livello macro-nazionale (il keynesismo e le politiche dei redditi come controllo ag­gregato della domanda, del mercato del lavoro e delle rela­zioni industriali). La scomponibilità dei modelli post-fordisti e la loro non ridùcibilità a pochi tipi costituiscono proprio una caratteristica delle fasi di transizione, nelle quali non si è (ancora) affermato un nuovo modello egemone. In queste fasi gli attori sono addirittura incerti su che cosa costituisca un vincolo da eliminare o invece una risorsa da utilizzare [Streeck 1986]. Da qui deriva un comportamento pragmatico e adattivo, un learning process incrementale, che porta ap­punto a valorizzare la variabilità locale.

Se le osservazioni precedenti sono valide, ne discende che sottolineare i processi di diversificazione non significa affatto limitarsi a una constatazione di valore puramente descrittivo ed ex post, ma invece mettere in luce tendenze che hanno un significato anche teorico e implicazioni rile­vanti per la possibilità di prevedere i comportamenti degli attori (cfr. il decimo cap. per una interpretazione in questa chiave delle strategie imprenditoriali negli anni ottanta). Ma, al di là di queste considerazioni generali, rimane in particolare da spiegare come mai i processi di riaggiustamento industriale abbiano avuto luogo in Italia prima e spesso con maggiore

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u . . che in altri paesi le cui economie apparivano, negli uhii settanta, ben più solide e capaci di sviluppo.

11) periodi di forte turbolenza e instabilità dei mercati, un i u i’i'.iu.stamento tempestivo dell’economia quale quello che i < verificato in Italia è da attribuire in larga misura a una

l 'U n dose di «fortuna istituzionale». In tali periodi, gli im- l'iemlitori tendono a non rendere ancora più rischiosa una k nazione già densa di rischi. La loro prima reazione è quella

■ li non discostarsi dalle soluzioni già note, di ripercorrere 11aile già battute.

1 e imprese più fortunate - quasi sempre senza esserne11 msapevoli - sono quelle che operano in paesi le cui istituzioni funzionano in modi tali da indurle a cercare soluzioni che si dimostrano poi adeguate alla nuova situazione economicaI l’ioie e Sabel 1984], Il che non significa, beninteso, che tali imitazioni siano più «efficienti» rispetto a una serie di criteri i eonomici o di valore, ma solo che il loro funzionamento « ostituisce un vincolo che si rivela, spesso in modo non ai leso, decisivo nell’indurre comportamenti innovativi. Le meno fortunate sono quelle le cui istituzioni operano invece m modi che finiscono con l’impedire che il riaggiustamento abbia successo.

Per comprendere la relativa «buona sorte» dell'Italia da <1 cesto particolare punto di vista, può essere utile confrontare la sua situazione con quella di due paesi - Austria e Stari Uniti - nei quali, per ragioni opposte, il riaggiustamento è stato a lungo ostacolato proprio dal funzionamento delle loro istituzioni.

Guardando all’organizzazione e ai modi di regolazione del lavoro, è difficile comprendere le ragioni delle difficoltà ileU’economia austriaca. Al livello dei luoghi di lavoro, infat­ti, il sistema istituzionale austriaco sembra rispondere in modo soddisfacente alle esigenze imposte dai nuovi modelli di or­ganizzazione industriale. Una conferma viene dal fatto che il .sistema tedesco - assai simile da questo punto di vista a quello austriaco - ha in effetti favorito i processi di riaggiustamento [Streeck 1984]. Ma l ’economia austriaca, e le grandi imprese pubbliche che la dominano, hanno finito con il risentire negativamente degli effetti dei legami eccezio­

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nalmente stretti fra un movimento sindacale accentrato in senso verticale e orizzontale, da un lato, e un sistema politico simile a quelli consociativi dall’altro. Negli anni settanta, questo sistema era sembrato un piccolo gioiello del mondo occidentale. Il negoziato centralizzato sui salari, i prezzi, e le politiche monetarie e fiscali, aveva mantenuto basso il tasso di inflazione e aveva tenuto sotto controllo il costo unitario del lavoro. I sussidi alle imprese statali avevano consentito loro di evitare i licenziamenti e avevano ridotto così il tasso di disoccupazione [Marin 1983; Scharpf 1984; Katzenstein 1984],

La stessa rete complessa di alleanze che aveva reso pos­sibile una gestione macro-economica coordinata, tuttavia, finì con l’ostacolare una ristrutturazione delle imprese in unità operative più flessibili, anche quando la consapevolezza della necessità di una tale ristrutturazione si fece più diffusa. Poiché i lavoratori delle imprese pubbliche costituiscono il nucleo centrale del movimento sindacale austriaco, la difesa di quelle imprese assunse il valore simbolico di difesa delle stesse organizzazioni sindacali. E poiché i sindacati hanno legami strettissimi con i partiti a livello nazionale e locale - e i partiti agiscono di concerto fra di loro - si rivelò abbastanza agevole imporre politiche di sostegno pubblico allo status quo.

Da molti punti di vista, la situazione delle relazioni in­dustriali negli Stati Uniti nello stesso periodo può essere considerata opposta a quella austriaca [per una buona ras­segna, cfr. Kochan et al. 1986]. I sindacati sono politicamente isolati e sono spesso divisi fra di loro. Tuttavia, la debolezza sindacale non ha di per se stessa agevolato il riaggiustamento industriale. Anzi, ha spesso indotto il management ad adottare strategie subottimali per due ragioni diametralmente oppo­ste. Da un lato, le imprese che perseguivano strategie tradi­zionali di competizione sui prezzi mediante la produzione di massa a basso costo, percepirono la debolezza sindacale come un’opportunità di accrescere la propria competitività ridu­cendo i salari. Dall’altro iato, le imprese che invece erano consapevoli della necessità di mutare radicalmente le strategie produttive, e in particolare di utilizzare in modi più flessibili una forza lavoro più qualificata, furono tentate di approfitta­re della debolezza sindacale per accelerare questi processi

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p . lenitali in modo unilaterale. La tentazione era tanto mag­giore in quanto i sindacati dell’industria americani - al 1 oni l ario di quelli austriaci (o tedeschi, o italiani) - a partire <l.igli anni trenta avevano sviluppato forme di controllo del l . ivoio basate su sistemi complessi di promozione e tutela individuale del posto di lavoro, che definivano la carriera< <ime avanzamento basato sull’anzianità aziendale lungo un 1.1 i torso di mansioni delimitate in termini ristretti. Così, dal inulto di vista del management più innovativo, i sindacati non rappresentavano interlocutori validi, essendo votati a■ Mendere proprio uno degli elementi dell’assetto istituzionale ilrll’impresa - cioè la definizione in termini molto ristretti delle mansioni - che più richiedeva innovazioni radicali.

Il risultato fu che gli imprenditori spesso cercarono di imporre d’autorità rapporti di generica cooperazione, con l’esito largamente prevedibile che molti lavoratori fecero quadrato attorno alle pur indebolite organizzazioni sindacali e ai loro obiettivi più tradizionali di difesa dei posti di lavoro, intesi come insiemi di mansioni dai contorni ben delimitati. 1 .'effetto cumulativo di questi processi è stato un forte ritardo nell’avvio della ristrutturazione e della riorganizzazione del lavoro, e molti intoppi una volta che queste sono state avviate.

Messo a confronto con questi due casi polari di i (aggiustamento difficile, il successo di molte imprese italiane sembra, col senno di poi, quasi prevedibile. In primo luogo, infatti, se si eccettua il periodo seguito alla mobilitazione dell’autunno caldo, i sindacati italiani non hanno mai pos­seduto un grado di potere al tempo stesso economico e politico paragonabile a quello che in Austria ha ostacolato i processi di riaggiustamento. Ma, al contrario che negli Stati Uniti, essi non si sono poi indeboliti al punto tale da indurre in modo generalizzato le imprese a cercare di scavalcarli e di perseguire strategie unilaterali di riduzione dei costi (anche se vi è stato qualche tentativo rilevante in questo senso), con i utte le conseguenze di creare tensioni dall’esito imprevedibile elio tali strategie comportano.

In secondo luogo, il potere detenuto dai sindacati è stato esercitato in modi che, più o meno consapevolmente, spesso hanno agevolato la ristrutturazione delle imprese. Come ho

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j;iu argomentato in precedenza, i sindacati italiani non hanno cercato di imporre un controllo sul lavoro nel significato dato a questo obiettivo dal movimento operaio americano, di controllo cioè sulla definizione delle mansioni. Essi hanno invece, da un lato, tentato di usare il loro potere contrattuale per portare avanti obiettivi di politica economica e sociale - e talvolta anche strettamente attinenti al funzionamento del sistema politico e istituzionale - obiettivi che si sono dappri­ma tradotti nella «lotta per le riforme» e che sono poi culmi­nati negli esperimenti di concertazione dei tardi anni settanta e primi anni ottanta (cfr. il quinto cap.). Dall’altro, sui luoghi di lavoro essi hanno mirato non tanto a controllare le man­sioni quanto a cambiare l’organizzazione del lavoro - basti ricordare le rivendicazioni di rotazione, allargamento e ar­ricchimento delle mansioni, di creazione delle isole di lavo­ro, e così via, diffusesi negli anni settanta.

Naturalmente queste strategie hanno incontrato forti resistenze, hanno dovuto sottostare a diverse mediazioni con le posizioni degli imprenditori e dei governi, e sono state in tal modo ridefinite. Ma in questo processo hanno finito con l’assumere caratteristiche tali da spingere l’economia italiana sulla strada di un rapido riaggiustamento. Ad esempio, via via che gli obiettivi di una concertazione delle politiche economiche (e di uno spostamento a sinistra degli equilibri politici) sono apparsi sempre meno realistici, i sindacati hanno dovuto spostare il tiro sul livello settoriale e su quello locale- oltre che teorizzare quel «ritorno in azienda» che abbiamo già discusso. Ma nel fare ciò hanno trasferito a questi livelli quel miscuglio di ingredienti che aveva caratterizzato la loro linea dalla «svolta dell’Eur» in poi: una priorità data agli obiettivi di controllo dei processi economici, un’accettazio­ne implicita del cosiddetto «metodo dello scambio politico», una interiorizzazione dei vincoli posti dalla crisi.

Al livello settoriale, ciò ha portato a una diffusa dispo­n ibilità a gestire in modo consensuale i processi di ristrutturazione attraverso «piani di settore» quali quelli elaborati per la chimica, per l’automobile o per il tessile. In qualche caso, come quello dell’industria automobilistica, questi piani di settore non hanno prodotto effetti di rilievo.

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M i in altri hanno avuto notevole importanza nel coordinare l i. ioni- delle imprese, dei sindacati e dei governi a livello n i lonalc e talvolta anche a quello periferico.

IVr ciò che riguarda il livello locale, diversi fattori isti- iii iimali concorrono a farne un ambito di potenziale coo- l" 1.1/ ione. L’organizzazione territoriale dei sindacati ha in li ilia una lunga tradizione di iniziativa autonoma, in cui le I ’inic più radicali di alcune categorie vengono assorbite in

l'if.ii he di mediazione più complesse. E le istituzioni pubbliche ono spesso dotate di risorse economiche e di legittimità

i n . f o r i o almeno aggiuntive rispetto a quelle nazionali. Anclie se un livello regionale di mediazione degli interessi i » ii i si è sviluppato nella misura che ci si poteva forse attendere, il i nolo degli accordi e soprattutto delle interazioni informali i livello periferico è complessivamente cresciuto di importanza I Regalia 1987a; Cammelli 1990], e ha in generale favorito il■ lilfondersi di quella micro-concertazione orientata al i isanamento e allo sviluppo del tessuto produttivo locale che iMiiamo già discusso. I distretti industriali restano l’esempio pili chiaro e più sviluppato di una tale micro-concertazione loi ale, ma non costituiscono casi isolati nel panorama indu- si i iale italiano.

Anche la «lotta contro l’organizzazione tayloristica del lavoro» ha, in maniera altrettanto indiretta, contribuito ad h i eierare i processi di ristrutturazione. Al contrario di alcuni sindacati americani quali l’U.A.W. che pure hanno perseguito obicttivi analoghi, quelli italiani non sono stati frenati dal umore che il nuovo sistema più flessibile che sarebbe derivato «lall’affermazione di quegli obiettivi rendesse più incerti i mansionari e i sistemi di inquadramento, e in tal modo minasse Ir londamenta del loro rapporto contrattuale con le imprese. Anzi, va ricordato che per alcuni settori del movimento operaio il aliano, la lotta per una nuova organizzazione del lavoro ha addirittura assunto il valore simbolico di un primo passo nella costruzione di una società più umana. Ora, di per se ■lessi questi tentativi di cambiamento dell’organizzazione del lavoro nei tardi anni sessanta e primi anni settanta hanno sortito scarsi risultati - benché si debba indubbiamente an­che alla loro influenza se imprese quali Fiat, Olivetti, Alfa

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Romeo e altre hanno avviato sperimentazioni di automazio­ne flessibile e di relativa riorganizzazione del lavoro prima di molte loro concorrenti straniere. Ma un effetto indiretto non previsto di questo tipo di azione rivendicativa nei luoghi di lavoro è stato quello di sensibilizzare lavoratori e attivisti su questi temi, così che, quando negli anni ottanta un numero crescente di imprese sono state attratte dall'idea di riorga­nizzare il lavoro per recuperare efficienza, esse hanno trova­to in importanti settori del sindacato interlocutori disponibi­li e preparati a negoziare i mutamenti.

Con ciò non intendo certo sostenere che i lavoratori italiani approvino senza riserve queste tendenze. Del resto, la constatazione che il «superamento del taylorismo» è oggi uno slogan fatto proprio dagli imprenditori non meno che dai sindacati è sufficiente a far sorgere fra tutti gli interessati qualche perplessità sul suo significato effettivo. Ma resta comunque vero che il fatto che un tale obiettivo sia chiara­mente associabile alle lotte operaie di recente memoria im­plica che i sindacalisti italiani sono assai più disposti di quelli di altri paesi a concepire la riorganizzazione del lavoro come un mutamento dei termini dello «scontro con il capitale» non privo di potenzialità positive, e quindi a parteciparvi anziché opporvisi come se si trattasse di una semplice minaccia alle conquiste passate. ^

Questa spiegazione in termini comparativi del successo dell'industria italiana negli anni ottanta, quasi interamente fondata sulle differenze di contesto istituzionale, è certamente parziale e insufficiente. Ma serve almeno a rendere plausibile l’ipotesi che, dopo la crisi di una efficace regolazione politica centralizzata dell’economia, la performance economica na­zionale venga a dipendere in misura rilevante da fattori so­ciali e istituzionali che operano in modi più sotterranei e dispersi, prevalentemente al livello locale e a quello micro del sistema di impresa, che diventano i livelli di regolazione più importanti. Del resto è proprio a questi livelli che le strategie degli attori del riaggiustamento economico si sono andate riorientando. Ed è ai mutamenti strategici dei due principali attori (sindacati e imprenditori) che sono dedicati i due capitoli che seguono.

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CAPITOLO NONO

LE STRATEGIE DEGLI ATTORI:I SINDACATI EUROPEI

DAI, CONFLITTO ALLA PARTECIPAZIONE

l 'i n dal momento in cui i movimenti operai sono apparsi .ulla scena della storia, sono state proposte varie gene­rili//.azioni su questi attori collettivi e sulle loro strategie. Ma, nanne che per brevissimi periodi, essi hanno in larga n'i iii a seguito traiettorie differenti nei diversi paesi. Anche j •< i ciò che riguarda il momento della loro formazione, è

Passibile in realtà distinguere tipi diversi, spiegabili sulla I d e l l a presenza o dell’assenza di determinate risorse I.<>111ic:he e organizzative [Valenzuela 1981]. In ogni caso,< i.iscun movimento operaio ha finito con l’assumere in se- i'.i ino tratti e contorni particolari, plasmati dalle caratteristiche <!< I sistema economico e di quello politico in cui opera, umiche dalla sua stessa tradizione.

Tuttavia, le tendenze degli ultimi venti-venticinque anni appaiono abbastanza simili per tutti i movimenti operai■ li (l’Europa occidentale. Non a caso gli studi comparativi su .[in sto attore collettivo si sono fortemente sviluppati, affi­na mio la nostra capacità di cogliere sia gli aspetti comuni sia l<- variazioni nazionali. Ciò non significa che oggi esista una icuria generale condivisa sulle tendenze di sviluppo dei mo­vimenti operai nei paesi industriali avanzati. Anzi, dopo le violente critiche e le falsificazioni empiriche subite negli anni settanta dai numerosi tentativi compiuti nei due decenni precedenti di individuare tendenze universali - sia nella d i­rezione di una «scomparsa dello sciopero» [Ross e HartmanI % 0], di una «istituzionalizzazione del conflitto di classe»I Dahrendorf 1959] e di un «imborghesimento della classe operaia» [cfr. l ’analisi critica di Goldthorpe et al. 1969] quali fenomeni propri di una «logica interna della industria­lizzazione» [Kerr et al. 1960], sia nella direzione opposta

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dell'emergere di una «nuova classe operaia» portatrice di un nuovo e più profondo antagonismo sociale [Mallet 1963] - gli studiosi dei movimenti operai sembrano oggi restii ad avanzare qualunque generalizzazione troppo ampia. Ciononostante, si può dire che sia gradualmente emerso un certo consenso almeno sulle principali tendenze e sulle sfide che in maggiore o minore misura caratterizzano tutti i mo­vimenti operai europei.

In questo capitolo, passerò innanzitutto in rassegna le tendenze. L’idea di fondo è che, negli ultimi venti-venticinque anni, diversi sindacati europei hanno attraversato tre fasi di sviluppo principali. E poiché ciascuna fase è stata dominata da un aspetto o da un gruppo di problemi ben distinto da quelli delle altre, l’interesse degli scienziati sociali per i movimenti operai si è corrispondentemente spostato, dando vita via via a nuovi concetti, approcci e aree di studio che hanno preso il posto di quelli precedenti.

In secondo luogo, argomenterò che ciascuno degli aspetti che è stato dominante nell’una o nell’altra di queste fasi si ripresenta sotto forme diverse anche negli anni novanta. Per nessuno di essi si può dire che ormai «non faccia più pro­blema» in quanto definitivamente risolto. Ed è quindi im­possibile tracciare scenari equilibrati per l ’immediato futuro concentrando l’attenzione esclusivamente su uno di questi aspetti dell’azione dei movimenti operai, e trascurando le altre arene e gli altri rapporti in cui sono coinvolti.

1. Sindacati e lavoratori: la fase della mobilitazione collettiva

In diversi paesi dell’Europa occidentale, i tardi anni sessanta e i primi anni settanta sono stati caratterizzati da una esplosione - spesso improvvisa e imprevista - del conflitto industriale e della militanza di base, esplosione che in taluni casi è avvenuta al di fuori delle tradizionali istituzioni delle relazioni industriali. I casi più noti ed eclatanti di mobilita­zione collettiva sono stati quello francese [cfr. ad es. Touraine 1972] e quello italiano [Pizzorno et al. 1978; Regalia, Regini e Reyneri 1977]. Ma il conflitto industriale ha raggiunto

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l ' i n n o assai elevate anche nei paesi anglosassoni [Crouch e

l'i ■ 1977]; e improvvise esplosioni di militanza si sono• i ilii aie in molti altri paesi occidentali, compresi quelli con

* ■ I i ioni di lavoro tradizionalmente basate su una elevata■ ■ .operazione, quali la Svezia [Korpi 1970] e la Germania• " ■ i.Imtale [Albers et al. 1971; Miiller-Jentsch e Sperling l ■* / /1.

I dati statistici sul conflitto, pur segnalando in questo i" nodo una significativa tendenza all'aumento, non sono■ 1111< ic-nti a illustrare la portata di questa mobilitazione

■ "III 11iva. La militanza operaia non si esprime infatti sempre un iverso gli scioperi, ma anche mediante altre forme. Nel |m nodo indicato, in particolare, erano frequenti svariate "i.uiilestazioni di antagonismo nei luoghi di lavoro. E feno- lueni assai diffusi erano anche il dissenso e gli attacchi nei . .infioriti di leader sindacali [Hyman 1972].

II quadro appena tratteggiato indica che, in questa fase■ li sviluppo dei movimenti operai europei, l ’aspetto l>mltematico cruciale era costituito dal rapporto fra le or- f.mizzazioni sindacali e i lavoratori. Ciò che era in discussione « i.i infatti la variabile capacità delle prime di articolare e11 .isincttere le domande dei secondi, riconducendole però ili 'interno dei tradizionali canali di rappresentanza e unrnnediazione degli interessi. O, in altri termini, di tra­c im are le esigenze espresse dalla base in rivendicazioni

negoziabili [Pizzorno et al. 1978]. Le tensioni a cui era sot- i< «posto il rapporto di rappresentanza dipendevano dai mu-i.unenti avvenuti negli anni precedenti nella composizione< Iella forza lavoro, nonché dai vincoli organizzativi all’azione dei sindacati.

Ciascun movimento operaio rispose in modo diverso a i|uestc tensioni e trovò soluzioni più o meno soddisfacenti. l‘c11 tavia, nel breve-medio periodo (cioè negli anni settanta), l i maggior parte dei sindacati europei ricevette consistenti I>eiicfici dall’ondata di militanza, riuscendo in un modo o neH’altro a utilizzarla per rendersi indispensabili quali partner degli imprenditori e delle istituzioni pubbliche, e quindi ad u crescere il loro grado di riconoscimento. Anche come conseguenza di questo relativo successo, la preoccupazione

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principale divenne a poco a poco quella di mantenere il potere conquistato, e di evitare che tale potere producesse conseguenze macro-economiche dannose, tali comunque da provocare una reazione decisa da parte degli altri attori. Come vedremo, la risposta a questa preoccupazione domina la seconda fase di sviluppo, articolandosi in diversi tentativi che corrispondono a un’idea sostanzialmente comune: quella di moderare l’azione rivendicativa nel mercato in cambio di benefici da ottenere nell’arena politica.

Date le caratteristiche di questa prima fase, non è diffi­cile comprendere come l ’attenzione degli studiosi dei movi­menti operai si sia concentrata sulle cause economico-sociali e sulle conseguenze economico-istituzionali della mobilita­zione collettiva.

Lo stesso fenomeno della mobilitazione divenne l ’oggetto di studio privilegiato, sia sotto forma di analisi quantitative delle tendenze del conflitto industriale miranti a individuarne le determinanti di lungo periodo, sia sotto forma di studi del caso di particolari «cicli» di militanza, nei quali le tendenze del conflitto industriale costituiscono solo un aspetto di una traiettoria più ampia che riguarda tanto i movimenti sociali che le organizzazioni. Entrambi i tipi di studio divennero in quegli anni il terreno di uno dei più intensi e interessanti tentativi di sviluppare analisi comparative e interdisciplinari dei fenomeni sociali. La ricerca di variabili economiche, politiche e socio-culturali nella spiegazione dei trends di lungo periodo del conflitto coinvolse infatti non solo gli economisti, che già vantavano una lunga e ricca tradizione in questo campo, ma anche numerosi sociologi, quali ad es. Korpi e Shalev [1980] e Cella [1979], politologi [cfr. tra gli altri Hibbs 1976], e storici quali Shorter e Tilly [1974]. Lo stesso accadde per i numerosi tentativi di spiegare i «cicli di mobilitazione collettiva» o le «ondate conflittuali» [Pizzorno et al. 1978; Shorter e Tilly 1974; Tarantella 1978; Tarrow1990].

Fra le cause della mobilitazione collettiva dei tardi anni sessanta e primi anni settanta, alcune erano in larga misura comuni a tutte le democrazie industriali avanzate. Quasi ovunque, infatti, lo sviluppo economico-industriale aveva

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n,i rdiiio in modi tali da fare accumulare dei forti potenzia­ci protesta.

Al livello micro dell’impresa, vi era stata una profonda i 01 l'.mizzazione della produzione, che nella terminologia li .illuni veniva chiamata «razionalizzazione», e che oggi a nr comunemente reinterpretata come l ’espandersi o il ..m .olidarsi del «fordismo» [PioreeSabel 1984;Boyer 1986],■ me j'Jio di una organizzazione fordista-taylorista della

im. iilozione. Gli effetti della razionalizzazione, o del pieno .11 < i ni.irsi del fordismo, sono ben noti perché ampiamente n n li;it i dalla sociologia del lavoro - in particolare francese e...... icana - degli anni sessanta e settanta. Fra questi effettii n ano l’intensificazione dei ritmi, dei carichi di lavoro,

■ !■ H i fatica; la parcellizzazione delle mansioni e la perdita di i'li miià professionale dei lavoratori; e il venir meno dellei.pporiunità di carriera operaia. Non è solo per ragioni cul­li H.ili o ideologiche che in quel periodo si diffondono in tutti i [Mesi occidentali analisi basate sui concetti marxiani di /In nazione [Blauner 1964] e di sfruttamento [Braverman C’/'l |. È anche perché, effettivamente, questi concetti sem­inano cogliere una diffusa insoddisfazione dei lavoratori nei■ ■>! ili unti del loro lavoro e costituire una base importante■ li Ha protesta.

Al livello macro-nazionale, il forte sviluppo economico e I' ' (inseguenti tensioni sul mercato del lavoro avevano, già i>< i',li anni cinquanta e poi per tutti gli anni sessanta, portato i un massiccio ricorso all’immigrazione - interna o esterna a

■ umla dei paesi - come modo per soddisfare la domanda■ li lavoro meno qualificata, per i lavori più precari, meno "■Mislacenti, più pesanti, più parcellizzati.

< .osi, mentre il raggiungimento di una situazione di quasi- l >n na occupazione significava per i lavoratori una relativa a mezza del posto di lavoro e quindi una situazione di forza

■ Ih aumentava la loro capacità rivendicativa, in tutti i prin-> ipali paesi europei si erano andate formando grandi masse■ li lavoratori immigrati - per lo più giovani e non qualificati

i Ih- non erano socializzati né alla disciplina di fabbrica, né .ili.» vita urbana, né alle regole dell’azione collettiva attraverso li i',Minzioni di rappresentanza degli interessi. Sappiamo che

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questa mancata socializzazione, questa differenza rispetto ai lavoratori indigeni, può indubbiamente essere un fattore di divisione della classe operaia, e quindi indebolire l’azione sindacale [Touraine e Ragazzi 1961]. Al tempo stesso, però, dà luogo all'accumularsi di un enorme potenziale di protesta, che in seguito può esplodere o meno in dipendenza da altri fattori.

Infine, non va dimenticato il ruolo svolto dai movimenti studenteschi e da minoranze politiche costituite per lo più da intellettuali appartenenti alle classi medie [Tarrow 1990; Melucci 1976]. In diversi paesi europei, essi furono i produttori di quella ideologia necessaria a unificare le domande operaie e a dare significato politico e fini di lungo periodo al com­portamento antagonistico, e contribuirono in modo decisivo all’invenzione sociale di nuove forme di conflitto e di nuove rivendicazioni.

Nella maggior parte dei paesi, tuttavia, pur essendo presente questa combinazione di potenziali di protesta e di risorse per l’azione collettiva, la mobilitazione rimase limitata a specifici settori e gruppi sociali, mentre in altri (Francia e Italia in particolare) essa assunse dimensioni assai rilevanti e produsse profonde rotture nel sistema di rapporti sociali. Ciò perché, in questi paesi, altri fattori cruciali si aggiunsero a quella combinazione.

In primo luogo, il modello labour-exclusive, che dalla fine degli anni quaranta aveva guidato la gestione delle relazioni di lavoro e della politica economica in Francia e in Italia [Lange, Ross e Vannicelli 1982], aveva impedito quel «tra­sferimento del conflitto distributivo nell’arena politica» [Korpi e Shalev 1980] che nei paesi nord europei aveva prodotto un welfare state esteso ed efficiente. In Francia, e in particolare in Italia, le carenze nella provvista di servizi sociali e i limiti del sistema di sicurezza del reddito erano ben evidenti, e si aggiungevano ai potenziali di protesta esistenti anche altro­ve. In secondo luogo, la debolezza dei sindacati non soltanto nell’arena statale, ma anche in quella industriale, significava l’assenza di meccanismi istituzionali efficaci - quali sono le organizzazioni di rappresentanza degli interessi e la con­trattazione collettiva - entro i quali incanalare le nuove do-

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ii.inde e la protesta, che assumevano così la forma di com- iMutamenti espressivi e di domande non-negoziabili.

Sindacati e stato: la fase della concertazione

La mobilitazione collettiva conobbe ovunque un declino, improvviso o invece lento ma costante, nel corso degli anni ■ci tanta, ma le organizzazioni sindacali mantennero per• |ilaiche tempo il potere che avevano acquisito. In taluni casi, vennero rese ad d ir i t tu ra più forti dai processi di i ;i iruzionalizzazione a cui la mobilitazione finì per approdare IVisser 1991], Tuttavia, sindacati relativamente forti costi- i diva no un vincolo rilevante nella scelta fra diverse opzioni die imprenditori e governi si trovavano ad affrontare, per i ispondere alla duplice sfida della crescita inflazionistica e «Iella recessione e conseguente disoccupazione. Quasi ovunque, questi attori si trovarono ad accettare una qualche lorma di partecipazione dei sindacati nella gestione della politica economica come una second-best solution, nella convinzione cioè che alternative diverse fossero difficilmente praticabili. Per questa ragione gli anni settanta (e i primi anni ottanta) possono essere considerati come il decennio «Iella concertazione (cfr. il secondo cap.).

Dal punto di vista che qui ci interessa, quello dei muta­menti nell’azione del movimento operaio europeo, la prin­cipale implicazione di queste tendenze fu che la questione «entrale cessò di essere il rapporto con i lavoratori - benché la capacità di rappresentanza dei loro interessi sia spesso occasione di discussione e di scontro in un periodo di elevata centralizzazione - per diventare invece il tipo di rapporto con le istituzioni pubbliche. A seconda del potere relativo che si è propensi a riconoscere ai diversi attori, e dell’iniziativa che ad essi si imputa, tale questione viene tradizionalmente posta in modi assai differenti. Una prima formulazione è all’incirca la seguente: in che misura i diversi movimenti operai furono capaci di trasferire nell’arena politica il potere organizzativo acquisito nel mercato, e quali ne furono le conseguenze [Korpi 1983]? Una diversa e assai diffusa

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formulazione suona invece press ’a poco così: in quali modi i sindacati europei furono incorporati fra le istituzioni politiche del capitalismo, trasformando così la natura del loro rapporto di rappresentanza dei lavoratori fPanitch 1977]?

Entrambe queste formulazioni hanno il caratteristico sapore del decennio a cui si riferiscono, e appaiono oggi piuttosto obsolete. Ma sarebbe uin errore dimenticarle, per­ché è proprio da quel dibattito che sono scaturite importanti conoscenze comparate e che ha pireso le mosse il progressivo affinamento delle categorie di a ni alisi delle economie politi­che occidentali. Lo studio delle: tendenze neo-corporative presenti in alcuni paesi europei ha, innanzitutto, consentito di comprendere meglio, per differenza, le tendenze prevalenti in altri. Il modello pluralista basalto sulla pressure politics ha acquistato maggiore nettezza proprio quando è stato relativizzato perché messo a confronto con un modello diverso, quello neo-corporativo appunto [Schmitter 1974], E altre tendenze, quali quelle basate solila «esclusione del lavoro» come nella Francia e nell’Italia degli anni cinquanta [Lange, Ross e Vannicelli 1982], sono st ate ricondotte a categorie analitiche dai confini precisi per Ila stessa ragione.

In secondo luogo, i successivi e più accurati studi di diverse esperienze nazionali di concertazione, stabili e durature quali la svedese e la austriaca, o incerte e instabili come quella italiana e quella inglese, hanmo messo a fuoco importanti caratteristiche del sistema politico e istituzionale che con­sentono o che ostacolano la concertazione. In alcuni paesi sono state dettagliatamente descritte le pre-condizioni e le conseguenze politiche e istituzionali della concertazione [Streeck 1981; Crouch 1977], MenCre «equivalenti funzionali» di tali pre-condizioni [Lehmbruch 1982; Regini 1983] sono stati individuati in altri paesi, nei quali le potenziali «crisi di rappresentanza» determinate dalla partecipazione sindacale alla concertazione potevano in certie condizioni venire evitate mediante vari strumenti di controllo» organizzativo o ideologico della propria base.

Quali aspetti della concertazion<e possiamo oggi, a distanza di diversi anni, individuare come: particolarmente caratte­rizzanti quello stadio di sviluppo dei movimenti operai europei,

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<: al tempo stesso come responsabili del suo declino nella fase successiva? Come abbiamo visto nel sesto capitolo, la concertazione fu in quel periodo intesa e praticata dalla maggior parte dei movimenti operai come un tipo di con- i lattazione fortemente politicizzato. Ciò non solo perché coinvolgeva i governi, oltre che le associazioni imprenditoriali, quali partner degli accordi, ma perché spesso assumeva un forte contenuto simbolico di «scambio di legittimazione» fra i partner stessi. Inoltre, si trattava di una contrattazione politica altamente centralizzata, perché al livello nazionale confederale veniva assegnato il ruolo di motore e di perno dell’intero sistema delle relazioni industriali; un ruolo che veniva assunto di fatto, anche in quei casi in cui la contrat­tazione decentrata non era formalmente subordinata a quella centrale.

Furono proprio questi aspetti caratterizzanti della concertazione così com’era intesa in quel periodo a deter­minarne la palese inadeguatezza quale strategia del movimento operaio nel periodo successivo, al quale volgiamo ora la nostra attenzione.

3. Sindacati e imprese: la fase della flessibilità

Intorno alla metà degli anni ottanta, in tutte le democrazie industriali avanzate era ormai chiaro che la concertazione si trovava in una situazione di stallo, e che non costituiva più né l’obiettivo né il contesto principale dell’azione dei movi­menti operai europei. E ciò appariva vero non solo in quei paesi, quali la Gran Bretagna, nei quali le condizioni politi­che giocavano chiaramente a suo sfavore, ma anche in quelli (in particolare Francia e Spagna) nei quali governi di sinistra cercavano in modi diversi di coinvolgere politicamente il movimento operaio. Come si è appena detto, erano gli stessi aspetti che avevano caratterizzato la concertazione negli anni settanta quelli che, in un contesto mutato, potevano consi­derarsi responsabili della sua crisi. Erano quelle caratteristi­che a dimostrarsi chiaramente inadeguate alle sfide del nuovo decennio, in cui emergevano i problemi della ristruttura-

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'/.ioiìc delle imprese per far fronte alla accresciuta competizione internazionale, la ripresa di iniziativa da parte del management industriale, nonché le capacità di riaggiustamento al livello micro-sociale.

Come abbiamo visto nel settimo capitolo, i mutamenti nella organizzazione della produzione in direzione «post­fordista» — descritti con alcune varianti dalla letteratura come l’avvento della «specializzazione flessibile» [Piore e Sabel1984], di una «produzione di massa flessibile» [Boyer 1986], di «nuovi concetti di produzione» [Kern e Schumann 1984],o della «produzione diversificata di qualità» [Streeck 1989]- hanno prodotto una maggiore diversificazione della forza lavoro, cioè dei suoi interessi, domande, e crucialità per il processo produttivo. Ciò ha diminuito l’interesse delle imprese per modelli di regolazione del lavoro, quali quello concertativo, disegnati per trattare problemi e soluzioni in modo aggregato. La scoperta della crucialità della flessibilità (dell’impresa e del 1 avoro) nel determinare la performance economica nei mercati internazionali [Dorè 1986] ha avuto in larga misuralo stesso effetto: quello cioè di spingere le imprese a cercare risposte differenziate, anziché uniformi, alla variabilità delle condizioni produttive e alla molteplicità dei problemi connessi al rapporto di lavoro (cfr. il decimo cap.).

In conseguenza di questi e di altri fattori, come già si è detto, il «centro di gravità» della regolazione del sistema economico si è spostato dal livello della gestione macro­politica al livello micro-sociale deH’impresa. E gli imprenditori hanno preso il posto dello stato quali attori centrali del processo di riaggiustamento economico, riacquistando l’ini­ziativa e l’autorità che avevano perduto nel decennio prece­dente e dando vita a una profonda trasformazione del sistema produttivo e sociale delle imprese.

Se questi aspetti emergevano già abbastanza chiaramente agli inizi degli anni ottanta, non altrettanto può dirsi di quella caratteristica che ho discusso diffusamente nel sesto capitolo, e che ha richiesto più tempo per attirare l’attenzione degli studiosi. Si tratta delPemergere, particolarmente in alcuni settori e paesi, di forme di micro-concertazione del riaggiustamento industriale, che, in un certo senso, sono

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’.i :iic rese possibili dallo stesso spostamento del centro di l'.mvità della regolazione economica dallo stato all’impresa. ( .(ime sappiamo, esse sono in sostanza basate su un ricono-

i mento pragmatico, da parte sindacale, della esigenza delle imprese di ristrutturarsi per far fronte alla crescente instabilità . lei mercati, e dall’altro lato sulla convenienza del management ;i utilizzare le istituzioni di relazioni industriali esistenti an­ziché a eliminarle.

La questione centrale in questa fase, dunque, è diventata la costruzione di nuovi rapporti fra movimento operaio e imprese. A differenza che per le due precedenti fasi di svi­luppo, nella letteratura esiste però una notevole incertezza mi quale sia stato il fattore trainante dei mutamenti descritti. T. stato l’indebolimento del movimento operaio, dovuto alla mutata situazione del mercato e al nuovo contesto politico, il I attore decisivo? O è stato l’imperativo della flessibilità, che alcune imprese possono avere utilizzato per sostenere richie­d e di de-regulation, ma che rappresenta comunque un vin- colo oggettivo anche per quei sindacati che sono rimasti (orti? O, ancora, si è trattato di uno spostamento fisiologico

e fors’anche ciclico - dal predominio delle istituzioni che operano al livello macro-politico a quelle che operano al livello micro-industriale?

4. Questioni aperte e scenari per gli anni novanta

Dopo questo sguardo al recente passato, si può cercare di affrontare alcune questioni aperte relative alla strategia (utura dei movimenti operai europei. La discussione può prendere le mosse dall’osservazione che diversi elementi che hanno caratterizzato gli anni ottanta appaiono in mutamento quasi ovunque.

In primo luogo, l’imperativo delle imprese di ristrutturarsi, subordinando a questa esigenza calcoli di lungo periodo, sembra oggi meno pressante, per il semplice fatto che la ristrutturazione è stata in larga misura portata in porto. Fermane, come vedremo, l’esigenza di una riorganizzazione costante per fare fronte a mercati difficili e instabili, ma

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questa è ormai entrata a far parte delle nuove strategie ma­nageriali. Non costituisce più, cioè, un elemento drammati­co di discontinuità o addirittura di rottura delle regole pre­cedenti. Strettamente legato a questo aspetto, un secondo importante elemento si presenta oggi in maniera differente. Si tratta della crisi delle grandi imprese, a cui in alcuni paesi aveva corrisposto una crescita impressionante delle piccole e l’espansione dell’economia informale. Oggi quella crisi si è arrestata e in diversi casi appare stabilmente superata, mentre il ruolo delle piccole imprese è stato sostanzialmente ridi­mensionato. Infine - e si tratta dell’aspetto più importante ai fini di questa discussione - l’indebolimento dei sindacati sul mercato e dal punto di vista organizzativo, che era figlio in primo luogo della recessione e della disoccupazione, si è anch’esso arrestato. Come mostrano i dati di Visser [1991], in taluni paesi i sindacati hanno cessato di perdere iscritti o addirittura hanno ricominciato a crescere. Ma, più in gene­rale, non si avverte più quel senso di impotenza che paralizzava qualunque sforzo di mobilitazione e di contrattazione.

Dall’altro lato, altri elementi che hanno caratterizzato gli anni ottanta non appaiono in via di superamento nel nuovo decennio. L’esigenza di una ri-organizzazione costante della produzione, e l’importanza della flessibilità per la competitività delle imprese sui mercati internazionali, continuano a far sentire i loro effetti sull’azione dei movimenti operai, rispetto alla quale agiscono come vincolo ma anche come opportunità. Così pure, non si è affatto arrestata l ’espansione del settore dei servizi, dei lavori non manuali e di quelli atipici, con tutte le conseguenze per l ’azione sindacale che ho discusso nel settimo capitolo.

Per esaminare gli scenari che si aprono alle strategie dei movimenti operai negli anni novanta, possiamo riprendere la distinzione operata nei paragrafi precedenti fra i tre tipi di rapporti in cui essi sono inseriti e che hanno caratterizzato diverse fasi del loro sviluppo. Procedendo in ordine inverso rispetto alla discussione sin qui condotta, ci si può chiedere quali tipi di rapporto fra sindacati e imprese prevarranno negli anni novanta. In particolare, la diversificazione delle risposte date dai sindacati all’imperativo comune della fles-

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iliiln.i c stata un fenomeno congiunturale, o rispecchia I’esi- i' ii, i di alternative strutturali fra le quali non verrà stabil­

i i . i i i <- operata alcuna scelta?Naiuralmente, la risposta a questa domanda dipende

in. Ih- da come evolveranno le strategie dell’altro attore, que- iihiic che esaminerò nel prossimo capitolo. Come si dirà

in. cjio in quella sede, diversi segnali sembrano indicare che ■•l'incertezza del management» è diventata un aspetto strut- nn.ilc anche in quelle situazioni in cui le imprese hanno forse n|x-rato la fase del «management (o gestione) dell’incertez-I - [Streeck 1986], Il fatto che anche imprese simili appar­

ii n<-nti allo stesso settore, oltre che allo stesso paese, adottino lu sso strategie di regolazione del lavoro divergenti, non si l>iega altrimenti che con l’affermarsi di un «eclettismo

pi asmatico». La diversità delle risposte date a problemi analoghi è soltanto in parte riconducibile a fattori di tipo ( < unomico-tecnologico o al diverso grado di forza dei lavo-i aiori; mentre è probabile che la variabilità delle tradizioni e degli assetti istituzionali vi giochino un ruolo maggiore (cfr. il dccimo cap.). Ma tale diversità potrà sopravvivere allei elisioni indotte dall’approfondirsi della competizione in­ternazionale e della integrazione dei mercati, o è prevedibile una forte spinta verso una maggiore convergenza, anche se non necessariamente verso la ricerca della one best wayì

Per ciò che riguarda l’Europa, l’avvicinarsi della scaden­za del Mercato Unico nel 1993 ha indotto diversi studiosi non soltanto a prevedere una tale convergenza, ma a inter­pretarla come l ’avvento di un’economia non regolata, nella quale anche i movimenti operai più forti e più protetti istituzionalmente, come ad es. quello tedesco, saranno co­stretti ad «appiattirsi» in qualche misura sulle posizioni di quelli più deboli [Streeck 1990]. Un’osservazione attenta dell’attuale spazio di azione dei movimenti operai in diversi paesi europei induce però a formulare scenari più cauti. Se una maggiore convergenza si affermerà effettivamente, è probabile che essa riguardi l’emergere di rapporti di lavoro relativamente cooperativi di tipo più pragmatico e al tempo stesso più procedurale di quanto sia dato oggi riscontrare in molti paesi - una configurazione che si potrebbe definire «versione debole del modello tedesco».

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A una tale convergenza si può arrivare attraverso l’accet­tazione più o meno riluttante di «imperativi comuni» da parte di attori che hanno una tradizione antagonistico-con- trattuale, come in Italia e in Gran Bretagna, o attraverso la creazione di nuove forme di rappresentanza del lavoro, magari sotto l’impulso del management più innovativo, in situazioni di sindacalismo debole come in Francia. Oltre che le esigenze dell’economia, in Europa potrebbero poi essere gli sviluppi istituzionali - cioè il prevalere nell’arena politica di spinte a rafforzare la «dimensione sociale» del Mercato Unico - a indurre gli attori ad abbandonare relazioni ad hoc e informali e a impegnarsi nella negoziazione di nuove, e presumibilmente più uniformi, regole e istituzioni. In tal caso, una «versione debole del modello tedesco» potrebbe assumere, al livello micro dell’impresa, quel ruolo di second-best solution che la concertazione aveva assunto negli anni settanta al livello macro-nazionale.

Un altro aspetto dei rapporti fra movimento operaio e imprese che era già emerso negli anni ottanta potrebbe avere sviluppi assai diversi nel nuovo decennio. Come si è accen­nato nel sesto capitolo, per un numero crescente di imprese e di lavoratori il contenuto cruciale della contrattazione non può più essere la retribuzione o il costo del lavoro conside­rati in modo aggregato. Diversi aspetti delFutilizzo e della riproduzione della forza lavoro (daH’organizzazione del tem­po di lavoro, ai percorsi di mobilità e di carriera, agli incentivi e alla formazione) hanno via via assunto maggiore importanza. Tuttavia, ciò è più vero per alcune imprese (quelle post­fordiste) e per alcune categorie di lavoratori (quelle più coinvolte nei nuovi processi produttivi) che per altre [Kern e Schumann 1984]; ma non è del tutto chiaro come questo nuovo dualismo si svilupperà. Se gli imprenditori estende­ranno le innovazioni nelle politiche del personale richieste da tali mutamenti a tutta la loro forza lavoro, il dualismo si svilupperà fra settori e paesi diversi, perché ciascun settore e paese ha una differente struttura produttiva, con proporzioni assai variabili di imprese fordiste e post-fordiste. Per fornire solo un esempio piuttosto rozzo, è chiaro che, anche nel Mercato Unico europeo, crescerà il divario fra Germania e

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l ' i r 111 per ciò che riguarda i reali rapporti fra sindacati e <<.,(•<< .<■. Se invece ciascun imprenditore tenderà a differen­t i . li proprie politiche del personale sulla base dei gruppi

'.sionali a cui si rivolgono, allora, paradossalmente, si■ nlu hcrà una maggiore convergenza, anche fra questi pa-

■ i, m i senso di una segmentazione generalizzata dei mercati• I. I lavoro interni.

Volgendo ora la nostra attenzione ai rapporti fra movi­mi mi operai e stato, la principale questione aperta appare <11n Ila del tipo di ruolo politico che i movimenti operai vi liberanno negli anni novanta. Uno scenario abbastanza H i ud ì tato fra gli studiosi è quello che parte dall’osservazione> ti<-, nelle democrazie industriali avanzate, i movimenti operai• mbiano oggi meno deboli di qualche anno fa. Sappiamo

• In- negli anni settanta fu proprio l’accresciuta forza dei .111< lacati il principale fattore che convinse molti governi a■ mnvolgerli in diverse esperienze di politiche dei redditi, e in lai uni casi in veri e propri tentativi di concertazione delle politiche economiche. Ci si può dunque chiedere se assiste- ii-mo a nuove esperienze di quel tipo, o se emergerannoi omunque nuove offerte, magari diverse sotto il profilo istituzionale, di accesso privilegiato alle sedi decisionali.

Il problema in questo caso è però che gran parte dei tentativi compiuti negli anni settanta si sono dimostrati di difficile realizzazione o comunque instabili. È quindi legitti­mo domandarsi quali lezioni gli attori coinvolti in quei ten­tativi abbiano tratto da quegli - almeno parziali - insuccessi, c in quale misura cercheranno di evitare che i nuovi rapporti fra movimenti operai e stato assumano le stesse caratteristi­che che, come abbiamo mostrato in precedenza, sono state responsabili dei fallimenti. Più in generale, dobbiamo chie­derci se i movimenti operai europei considerino il rapporto con i governi come il prodotto di una fase irrimediabilmente conclusa, o se a tale rapporto continuino ad assegnare qual­che funzione.

Un primo e plausibile scenario è quello di una ripresa di qual che esperienza di concertazione, probabilmente poco formalizzata e ben attenta a controllare quegli aspetti che possono provocarne la crisi. Gli ambiti della concertazione

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porrebbero venire ridotti e delimitati, ma gli attori, e in particolare i movimenti operai, sarebbero forse per ciò stes­so indotti a esplorarne meglio le potenzialità, che appaiono sostanzialmente di tre tipi.

In primo luogo, la concertazione può ancora consentireil perseguimento di alcuni «interessi generali» dei lavoratori, come nelle classiche esperienze nord-europee: misure per creare occupazione o per favorire mobilità e riqualificazione, una maggiore giustizia distributiva, politiche economiche e sociali meno inquinate da interessi'settoriali. Questi obiettivi si avvicinano alla definizione di «beni pubblici» [Olson 1965], per ottenere i quali nessuno di coloro che sono potenzialmente interessati è motivato a pagare i costi, dato che ne godrà comunque i benefici. Per questo risultano così difficili da perseguire, sia attraverso la mediazione partitica degli inte­ressi, sia attraverso la contrattazione di categoria, dal momento che in entrambi questi processi tradizionali di trasmissione delle domande tende a prevalere una definizione settoriale degli interessi. Poiché gli attori della concertazione sono invece costretti a rappresentare interessi aggregati e godono di una posizione oligopolistica, cioè poco esposta alla con­correnza di altri gruppi di interesse (cfr. il secondo e terzo cap.), essi possono teoricamente mirare a quei risultati che in altri modi di formazione delle decisioni sono così difficili. E per ottenerli, possono anche sostenere il costo di una ridu­zione della dinamica salariale.

In secondo luogo, la concertazione può essere usata an­che a fini diversi da quelli più tradizionali, cioè per creare una base e un quadro di coordinamento all’interno del quale ridare vitalità alla contrattazione decentrata. Sappiamo che la diversificazione sia della domanda di lavoro sia delle esi­genze dell’offerta può portare allo sviluppo di forme di con­trattazione individuale che svuotano le funzioni del sin­dacato. Sappiamo inoltre che molte nuove figure sociali e professionali considerano l ’azione sindacale incapace di rappresentare le proprie domande (per entrambi i punti, cfr.il settimo cap.). Da questo punto di vista, non vi è dubbio che la via per un recupero di rappresentanza da parte del sindacato passa per lo sviluppo di forme di contrattazione

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decentrata flessibili e aderenti all’eterogeneità delle situazio­ni lavorative. E tuttavia, affinché la contrattazione decentrata risponda a criteri minimi di coerenza e di equità, affinché possa essere indirizzata verso obiettivi condivisi e non si limiti a riprodurre semplicemente i rapporti di mercato, deve probabilmente essere sostenuta da una contrattazione poli­tica centralizzata che fissi regole e indichi contenuti. Una contrattazione flessibile e capillare di situazioni di part-time, ad esempio, presuppone regole che vanno stabilite e con­trattate a livello centrale. E anche chi propone di aumentare le opportunità di lavoro non attraverso una riduzione gene­ralizzata dell’orario ma attraverso «opzioni individuali di ritiro temporaneo dal lavoro» [Hinrichs, Offe e Wiesenthal1985], vede ovviamente la necessità di garantire l ’effettiva temporaneità e libertà di tali scelte individuali attraverso regole stabilite al centro.

Infine, in uno scenario di possibile andata (o ritorno) al governo di partitipro-labour, la concertazione può mirare ad affermare la strada di una reale politica dei redditi - cioè di un controllo consensuale di tutti i redditi e non di una semplice moderazione salariale - come via di uscita «da sinistra» alle esigenze, che torneranno a farsi impellenti, di controllo dell’inflazione e di recupero di competitività sui mercati internazionali anche agendo sul costo del lavoro e non solo sulla flessibilità o sulla qualità dei prodotti.

Lo scenario di una qualche ripresa della concertazione non è però l’unico possibile per ciò che riguarda i rapporti fra movimenti operai e stato. Analizzando il contesto del futuro Mercato Unico europeo, Schmitter e Streeck [1990] hanno ipotizzato l’emergere di un «Euro-pluralismo» basato sulla pressure politics. Al di là delle ragioni che attengono specificamente al funzionamento del futuro sistema politico europeo, l’estensione di questo tipo di rapporti fra stato e interessi organizzati nel policy-making appare plausibile an­che al livello nazionale. Fra i molti motivi indicati, uno appare particolarmente importante e ripropone un punto già discusso in precedenza. Si tratta della frammentazione - non solo in termini professionali, ma anche politici e culturali - di quella che un tempo poteva essere definita come una classe operaia

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relativamente omogenea, e della conseguente difficoltà per qualunque organizzazione di rappresentanza di «parlare an­cora a suo nome» in un’arena politica che cercasse di rico­stituire le strutture istituzionali della concertazione.

L’ultimo punto riguarda il rapporto fra movimento operaio e lavoratori. Nel settimo capitolo si è già discusso delle im­plicazioni della crescente eterogeneità della forza lavoro, e specialmente dell'emergere di nuovi gruppi sociali e profes­sionali assai diversi dai salariati industriali che costituiscono la tradizionale base dei movimenti operai. Certamente, non si tratta di una novità assoluta nella storia del capitalismo, ma due aspetti nuovi meritano di essere attentamente con­siderati. In primo luogo, la proliferazione di figure profes­sionali con uno status atipico nel mercato del lavoro non viene, probabilmente per la prima volta, vista da molti dei soggetti interessati come un fatto necessariamente negativo, cioè come la semplice diffusione di contratti sub-standard o comunque ambigui [Chiesi 1990]. Al contrario, spesso cor­risponde ad atteggiamenti nei confronti del lavoro abbastanza diffusi, anche se piuttosto vaghi. Più in generale, assai più che nel recente passato, persino dove le mansioni mantengono caratteri di relativa uniformità e standardizzazione, i diversi gruppi di lavoratori appaiono spesso più preoccupati di differenziare le proprie posizioni che di individuare gli ele­menti comuni. In secondo luogo, al di là di come viene valutata dai lavoratori interessati, questa eterogeneità influenza negativamente e in modo più profondo che nel recente passato la capacità delle organizzazioni di rappresentanza di aggre­gare gli interessi e di unificare le domande intorno a figure professionali egemoniche (cfr. il settimo cap.).

La questione aperta è quella del nuovo significato e delle nuove dimensioni della solidarietà fra i lavoratori - un valore costitutivo dell’esperienza storica dei movimenti operai. E possibile, nelle nuove condizioni, per i movimenti operai continuare a perseguire quella costruzione sociale e politica della solidarietà su cui la loro azione si è tradizionalmente basata?

L ’unica risposta sicura, su questo punto, è che le vecchie ideologie socialiste-egualitarie non riescono più a svolgere il

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loro ruolo di «incentivi di identità» [Regini 1981], neppure in quei paesi nei quali lo hanno svolto meglio in passato. Ma è difficile prevedere in che misura nuovi incentivi di identità, basati su nuovi valori condivisi (forse su quello dell’equità?) si svilupperanno. In assenza di un tale sviluppo, le organiz­zazioni di rappresentanza dovrebbero fare a meno di una ideologia unificante, e cercare semplicemente di convincerei propri membri che la cooperazione fra individui che hanno alcuni interessi in comune può andare a vantaggio di tutti. Una tale situazione non sarebbe troppo diversa da quella in cui, nel secolo scorso, si è sviluppato il sindacalismo di me­stiere, e spingerebbe ad abbandonare la stessa nozione di «movimento operaio» come chiaramente obsoleta. Ma il fatto stesso che dopo periodi più o meno lunghi di predominio del sindacalismo di mestiere, o anche di un business unionism all’americana, sindacati di classe si siano spesso ricostituiti in luoghi diversi in passato - o , in altre parole, la consapevolezza che i movimenti operai hanno finora mostrato andamenti quasi-ciclici nella loro storia - dovrebbe metterci in guardia contro la tentazione di trarre conclusioni affrettate.

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