CON … O CONTRO? - GRIMeD · all’invasione di alieni che sanno tutto a memoria senza mai essere...

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CON … O CONTRO? Roberto IMPERIALE Presidente Nazionale GRIMeD Riassunto “Con” o “contro”? La domanda rimanda a tutta una serie di problemi specificatamente “politici”, da cui, per subordinazione, discendono “i problemi della scuola”; e sorge dal fatto che, al netto di comportamenti “grigi” dell’insieme che abita la zona di mezzo (ma che fa aumentare il numero degli “altri da me”) e nonostante l’aberrante contrumanesimo di oggi, sia possibile pensare a una riproposizione radicale di un conflitto (non solo) ideale tra due visioni politiche contrapposte, due storie dell’umano, due socioantropologie, due culture, due linguaggi, due sistemi di ricerca di senso, due sistemi delle emozioni e, per quel che più immediatamente ci interessa, due modi di concepire e di attuare la scuola. Tutto questo comporta una necessità, ormai ineludibile: scegliere, dichiarando senza ambiguità le proprie premesse politiche e ideali e il proprio “che fare”. In definitiva, questo obbliga a scegliere se stare “con …o contro”. Ossia: da che parte stare. 0. Epigrafe "I social media dànno diritto di parola a legioni di imbecilli". Prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l'invasione degli imbecilli" 1 . 1. Storia e realtà Il ”con” è la quinta di quell’insieme che imparammo a memoria quando la scuola elementare si chiamava ancora “elementare”. Nella media imparammo che grazie al “con” si costruisce il complemento di “compagnia” il cui nome viene da “compagno”, “colui che con-divide il pane”. Così, imparammo che con quella preposizione si costruiscono le parole delle più importanti azioni del vivere civile, o più compiutamente “politico”. “Commuoversi” e “cooperare” sono due di queste; un’altra è ”competere”, che vuol dire: “raggiungere qualcosa insieme con altri”, “cercarne insieme il senso”; o almeno, così era, fino a quando i signori del mondo non dettero a “competere” quest’altra estensione semantica: “cercare di ottenere qualcosa prima o invece degli altri”. Ci riuscirono modificando furbescamente il “con” in “con-tro”. Così si istituzionalizzò un’inesorabile (negativa) trasformazione dei modi del vivere; e, per quel che qui interessa, dei modi dell’essere “scuola”, che ebbe il suo culmine nel momento nel quale, attraverso la concessione di un’autonomia che non era quella che volevamo, fu privatizzata e messa sul mercato, assegnandole il compito di vivere secondo le regole della “competizione”, impropria ma diletta figlia della “competenza”. Così in ogni documento, i “lavoratori” divennero “capitale umano”. Così, i ragazzi diventarono prima “customers” e poi “competitors”, furono gravati di “debiti” (o dell’altrettanto volgare “crediti”), il 1 Umberto ECO, dalla Lectio Magistralis tenuta il 10/6/2015 in occasione del conferimento da parte all'Università di Torino della laurea honoris causa in “Comunicazione e Culture dei Media”. Ovviamente, non strumentalizzerò queste parole; Eco non fu né un apocalittico né un integrato. Queste sue parole sono la constatazione di un gigante riguardo all’invasione di alieni che sanno tutto a memoria senza mai essere andati a scuola: i computer et similia. Il richiamo che faccio alla memoria, della quale i computer sono fornitissimi, ma che perdono quando il loro hardware si logora, è alla famosa lettera che il filosofo scrisse al nipote, con la quale lo esortava a imparare a memoria “La Vispa Teresa” (si veda http://espresso.repubblica.it/visioni/2014/01/03/news/umberto-eco-caro-nipote-studia-a-memoria-1.147715).

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CON … O CONTRO?

Roberto IMPERIALE Presidente Nazionale GRIMeD

Riassunto

“Con” o “contro”? La domanda rimanda a tutta una serie di problemi specificatamente “politici”, da cui, per subordinazione, discendono “i problemi della scuola”; e sorge dal fatto che, al netto di comportamenti “grigi” dell’insieme che abita la zona di mezzo (ma che fa aumentare il numero degli “altri da me”) e nonostante l’aberrante contrumanesimo di oggi, sia possibile pensare a una riproposizione radicale di un conflitto (non solo) ideale tra due visioni politiche contrapposte, due storie dell’umano, due socioantropologie, due culture, due linguaggi, due sistemi di ricerca di senso, due sistemi delle emozioni e, per quel che più immediatamente ci interessa, due modi di concepire e di attuare la scuola. Tutto questo comporta una necessità, ormai ineludibile: scegliere, dichiarando senza ambiguità le proprie premesse politiche e ideali e il proprio “che fare”. In definitiva, questo obbliga a scegliere se stare “con …o contro”. Ossia: da che parte stare.

0. Epigrafe

"I social media dànno diritto di parola a legioni di imbecilli". Prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l'invasione degli imbecilli"1.

1. Storia e realtà Il ”con” è la quinta di quell’insieme che imparammo a memoria quando la scuola elementare si chiamava ancora “elementare”. Nella media imparammo che grazie al “con” si costruisce il complemento di “compagnia” il cui nome viene da “compagno”, “colui che con-divide il pane”. Così, imparammo che con quella preposizione si costruiscono le parole delle più importanti azioni del vivere civile, o più compiutamente “politico”. “Commuoversi” e “cooperare” sono due di queste; un’altra è ”competere”, che vuol dire: “raggiungere qualcosa insieme con altri”, “cercarne insieme il senso”; o almeno, così era, fino a quando i signori del mondo non dettero a “competere” quest’altra estensione semantica: “cercare di ottenere qualcosa prima o invece degli altri”. Ci riuscirono modificando furbescamente il “con” in “con-tro”. Così si istituzionalizzò un’inesorabile (negativa) trasformazione dei modi del vivere; e, per quel che qui interessa, dei modi dell’essere “scuola”, che ebbe il suo culmine nel momento nel quale, attraverso la concessione di un’autonomia che non era quella che volevamo, fu privatizzata e messa sul mercato, assegnandole il compito di vivere secondo le regole della “competizione”, impropria ma diletta figlia della “competenza”. Così in ogni documento, i “lavoratori” divennero “capitale umano”. Così, i ragazzi diventarono prima “customers” e poi “competitors”, furono gravati di “debiti” (o dell’altrettanto volgare “crediti”), il

1Umberto ECO, dalla Lectio Magistralis tenuta il 10/6/2015 in occasione del conferimento da parte all'Università di Torino della laurea honoris causa in “Comunicazione e Culture dei Media”. Ovviamente, non strumentalizzerò queste parole; Eco non fu né un apocalittico né un integrato. Queste sue parole sono la constatazione di un gigante riguardo all’invasione di alieni che sanno tutto a memoria senza mai essere andati a scuola: i computer et similia. Il richiamo che faccio alla memoria, della quale i computer sono fornitissimi, ma che perdono quando il loro hardware si logora, è alla famosa lettera che il filosofo scrisse al nipote, con la quale lo esortava a imparare a memoria “La Vispa Teresa” (si veda http://espresso.repubblica.it/visioni/2014/01/03/news/umberto-eco-caro-nipote-studia-a-memoria-1.147715).

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cui scopo era quello di farne “obbedienti passivi consumatori”, costretti a finalizzare la loro formazione, rendendola funzionale a un lavoro qualsivoglia e non sempre esistente. Fu così che s’introdusse la c.d. “alternanza scuola-lavoro”, grazie alla quale ritennero lecito passare dal “pensare” al “fare” e, quindi, dalla “valutazione del pensare” alla “valutazione del fare”, meglio detta: “certificazione delle competenze” (atto ontologicamente impossibile se non altro per assenza dell’oggetto valutabile). Così, infine, l’“homo cogitans”, che non è uno stato ma il fine (sperato!) dell’incessante sviluppo umano, si trasformò in “homo faber sine cogitatione”. Questi processi, che l’audacia ministeriale bipartisan chiamò “riforme”, si succedettero senza soluzione di continuità. Le loro tappe (cito senz’ordine) furono variamente declinate da chi le aveva volute e dai loro complici, volontari e involontari, come: “scuola delle lettere e del giardinaggio”, “scuola delle 3i”, “scuola dell’offerta formativa (o del c.d. ”open day”, cioè dei “tarallucci e vino”), “scuola del brutto passato remoto” (INVALSI …) , “scuola delle competenze”2, “scuola dell’”economic literacy3”, “scuola dei robottini, del coding e degli algoritmi”…e così via delirando, fino alla più celebre: “buona scuola”. Tutto ciò, essendo quanto di più deleterio possa esserci, ci obbliga a scegliere “da che parte stare”, innanzitutto condividendo l’assunto che “a scuola si va per imparare” (Scuola di Barbiana, 1975) e basta. Questo è il primo più importante “lavoro” dell’uomo. Al mestiere, si penserà dopo, a cittadinanza compiuta.

2. La scelta necessaria Espliciterò la scelta attraverso parole “politiche” nel senso più alto del termine (se ancora ne abbia uno). Derivano dalla consapevolezza che “stare con gli altri”, appartenersi, è condizione propria dell’umano, alla quale nessuno – quand’anche ne fosse inconsapevole - può sottrarsi. Infatti, l’uomo è per la sua stessa natura “animale politico” (“politikòn zôon”4); e che proprio per questo vive tra e con gli altri. “L’essere umano si autodetermina e si sviluppa attraverso un’attività rivolta verso l’esterno, in una dimensione collettiva. E anche la sua idea di libertà prende forma nella dialettica con gli altri esseri umani”.5. E se ancora non bastassero le considerazioni della filosofia e della sociologia, la tesi è suffragata dalle neuroscienze: “Il sistema dei neuroni specchio appare così decisivo per l’insorgere di quell’esperienza comune che è all’origine della nostra capacità di agire come soggetti non soltanto individuali ma anche e soprattutto sociali […].Al pari delle azioni, anche le emozioni risultano immediatamente condivise […].Ciò mostra quanto radicato e profondo sia il legame che ci unisce agli altri, ovvero quanto bizzarro sia concepire un io senza un noi”. (G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, 2006). Dunque, l’“io” e il “noi” rappresentano un binomio i cui termini sono inscindibilmente legati, dato che l’esistenza dell’uno è causa dall’esistenza dell’altro. L’io e il noi raccontano, anzi, sono essi stessi la “koinonia”, il legame tra gli uomini, dunque la solidarietà, la corresponsabilità e la partecipazione alle azioni comuni. Sono anche la dichiarazione che la diversità, ossia l’irripetibile unicità di ciascuno e la sua molteplice unitarietà6, sono un valore assoluto solo se è enfatizzati dentro il quadro delle “uguaglianze sostanziali”7. Questo è il “fare comunità”, lo schierarsi “con” chi sogni il progetto/utopia di rifondare un umanesimo totale; e “contro” chi si sta appropriando indebitamente della vita e della libertà dell’uomo.

2 “E Dio disse: “siano le competenze” e le competenze invasero le menti e i cuori di tutti gli uomini. non si trovò così più nulla che non avesse una competenza. anche il riposo, e Dio si chiese se il suo riposo fosse una competenza, se lui in realtà “sapesse riposare”. così subentrò un terribile dubbio”. (L. Guasti, 2006) 3 Si veda ad es, la Circolare del MIUR, avente per oggetto “Educazione economica - offerta formativa 2015/2016.” 4 Aristotele, Politica, Libro I 5 È il pensiero di Antonio Gramsci; (in: G. Benedetti, D. Coccoli, 2018) 6 La conferma di quest’assunto viene ancora dale neuroscienze 7 L’uguaglianza sostanziale, che la nostra Costituzione prevede “in entrata” (art.3), credo si debba considerare come valore assoluto soprattutto quando essa sia tale anche e soprattutto“in uscita”. Per la scuola dovrebbe esser legge.

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3. La nuova economia Non si capirebbero tuttavia, le ragioni della scelta se prima non si analizzassero le condizioni della c.d. “nuova economia” e le conseguenze che essa ha sulle condizioni di vita dell’intera umanità, e per conseguenza, sulla scuola. Dirò subito che ho difeso la scienza da ogni attacco dogmatico, non essendo iscritto alla classe degli apocalittici né a quella degli integrati. Cerco invece di praticare costantemente “il metodo della progettazione”, che, come mirabilmente scrive Lucio Lombardo Radice è “l’abitudine a dedurre, ad estrapolare, ad anticipare a partire da ciò che è, ciò che noi vogliamo sia nel futuro. Si tratta della dimensione che possiamo chiamare “filosofica”, “utopica” più correttamente e concretamente: politica, e che è caratteristica dell’uomo. L’uomo vive con le radici nel passato e la fantasia nel futuro” (L. Lombardo Radice, 1976). Questo dovrebbe fare ognuno di noi, in particolare se è uomo di scuola. Cercherò dunque di parlare del presente, per provare a immaginare ipotesi sul futuro. Nell’ormai lontano 1999 Umberto Galimberti scriveva: “Siamo tutti persuasi di abitare l’età della tecnica, di cui godiamo i benefici in termini di beni e spazi di libertà”. […]“Con il termine tecnica intendiamo sia l’universo dei mezzi (le tecnologie), sia la razionalità che preside al loro impiego in termini di funzionalità ed efficienza”.[…]“In questo senso è possibile dire che la tecnica è l’essenza dell’uomo”. […] “In questo inserimento rapido e ineluttabile portiamo ancora in noi i tratti dell’uomo pre-tecnologico che agiva in vista di scopi iscritti in un orizzonte di senso, con un bagaglio di idee proprie“ e un corredo di sentimenti in cui si riconosceva. L’età della tecnica ha abolito questo scenario “umanistico”, e le domande di senso che sorgono restano inevase, non perché la tecnica non sia ancora abbastanza perfezionata, ma perché non rientra nel suo programma trovar risposte a simili domande. La tecnica infatti non tende ad uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità: la tecnica funziona, e siccome il suo funzionamento diventa planetario” [occorre] “rivedere i concetti di individuo, identità, libertà, salvezza, verità, senso, scopo, ma anche quello di natura, etica, politica, religione, storia”. (U. Galimberti, 1999). Tuttavia, è impossibile non condividere l’idea che “la potenza manipolativa conseguita dalla scienza – o meglio, dalla sempre più rapida utilizzazione tecnologica delle sue scoperte – dà all’industria e in genere alle attività produttive delle società industriali una capacità senza precedenti di alterazione del mondo vivente” (P. Bevilacqua, 2011); e che, quindi (qualunque cosa pensi Galimberti) sia impossibile considerare neutra e priva di senso l’azione tecnologica sia progettuale che operativa. Sicuramente e sebbene lo facciano credere con tecniche di persuasione assai raffinate, lo sanno coloro che intendono dominare il mondo, non importandosene dei danni che scienza e tecnica non neutre provocano, per primo alla natura, e poi all’uomo e ai suoi piccoli. “Inquieti come genitori e come educatori vediamo [che] i nostri figli e i nostri alunni […] abbarbicati a internet, a Facebook, alla playstation […] indossano lo schermo del computer come uno scafandro per scendere in solitudine misterica verso una specie di grembo […] senza spazio e senza tempo [dove] la connessione incantata alla rete determina […] processi di impoverimento dell’esperienza e di semplificazione della mente”. (Marchetti, 2011). Sono gravissimi i pericoli connessi con l’uso incontrollato e sempre più precoce di queste tecnologie8, anche perché è impossibile controllarne “dal di dentro” il modo di funzionare o, men che mai, di intervenire sull’invisibile “algoritmo” secondo le “istruzioni del quale” queste diavolerie funzionano.

4. Che cos’è dunque un algoritmo? Anzitutto, l’algoritmo è un processo, una sequenza di operazioni che deve soddisfare almeno due requisiti: ad ogni passo della sequenza è già deciso, in modo deterministico, quale sarà il passo

8 Il 2/2/2019 si è tenuto a Foggia, organizzato dall’AIRIPA e dall’Ordine dei Medici della Provincia, un interessante convegno: “Bambini e tecnologie digitali”, che ha messo in evidenza come diventi sempre più precoce l’età dei consumatori di digitale e sempre maggiore il tempo che i bambini stessi, gli adolescenti, i giovani e gli adulti - quale che sia la loro età ma in proporzione diretta ad essa - passano “davanti ad uno schermo”. Il rischio più grave che si corre è quello di giocarsi la possibilità (non la competenza) di pensare e di parlare!

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successivo, e la sequenza deve essere effettiva, cioè tendere a un risultato concreto, reale e virtualmente utile”. (P. Zellini, 2018)9. “Gli algoritmi non fanno che estendere le funzioni rituali di controllo e di ripartizione dei numeri in modi che possono diventare inaccessibili, autoritari e categorici: uno strumento utile alla società ma anche un rischio di sbilanciamento nel delicato rapporto tra categoricità e spontaneità, fra l’estranea imperiosità del meccanismo e la libertà di coscienza”(ibidem), anche perché il processo algoritmico deve “svolgersi secondo le modalità previste da una macchina”. (P. Zellini, 2016). La chiarezza di queste parole è fuori discussione. Ma, oltre il rapporto tra categoricità e spontaneità10, è interessante mettere in evidenza il conflitto tra la natura dittatoriale dell’algoritmo e la “libertà di coscienza e di decisone”. “Anche in presenza dei più perfezionati algoritmi si è obbligati a rimandare a qualcosa di esterno al loro meccanismo, a una responsabilità e a una libertà radicale che forse non esiste neppure, e che coincide infine con quella essenziale incompletezza che la tradizione filosofica e sapienziale, come pure le ricerche sulla coscienza hanno ontologicamente identificato come l’essenza dell’uomo”(ibidem). Algortimo e macchina sono tutt’uno. Federico Faggin, il geniale inventore del “microprocessore”, grazie al quale funzionano gli strumenti elettronici moderni, ha recentemente dichiarato che, dopo che per venticinque anni ha cercato di creare “un computer consapevole” (ossia fornito di coscienza), è giunto alla conclusione che questo non sarà mai possibile; e ciò, perché al computer mancheranno nello stesso tempo e tra le altre cose, le emozioni e la creatività. Questo consentirà, bensì all’uomo, di poter usare gli strumenti tecnologici come protesi, avendo tuttavia consapevolezza che una macchina non potrà mai sostituire l’uomo. Accanto a ciò si pone un altro problema, che si è già delineato: la valenza etica delle scelte che noi facciamo degli strumenti tecnologici. La tecnologia e i suoi oggetti non sono né scientificamente né eticamente neutri: se così non fosse, la bomba atomica che uccide sarebbe eticamente assimilabile ad un robot che - magari a Torino ma manovrato da un chirurgo dell’Avana - operi un malato con tanta assoluta precisione ed efficacia da salvargli la vita.

5. E invece, cosa accade? Accade che oggi il robot stia per sostituire l’uomo senza alcun discernimento che riguardi le conseguenze di tale sostituzione. Così accade che per ogni robot che venga inserito in attività produttive si perdano otto lavoratori. Detto in altre parole, e considerato che un lavoro che rispetti la dignità dell’uomo è il primo (ma non il solo) redistributore della ricchezza, questa sostituzione opera “contro” l’uomo. Tragicamente semplice da comprendere. Allora, perché la scuola di oggi insegna a programmare il robottino, spacciandolo per “un gioco” bello e inclusivo? Perché, invece, non insegna a fornirsi di spirito critico e della capacità di controllo, ossia di quella forma di responsabilità culturale, sociale e ideale che consenta di assegnare alla tecnologia e alle sue creature la sola caratteristica di protesi, che serva l’uomo e non lo domini fino alla schiavitù? La riposta a questa domanda è altrettanto tragicamente semplice. Un’analisi condotta senza riserve mentali, dice chiaramente che il “coding” e il connesso “pensiero” computazionale”11 tutto sono tranne che creatività, essendo caratterizzati, come s’è visto, da un determinismo assai rigido. Perché, allora essi sono diventati uno dei luoghi centrali della didattica (almeno di quella in questo caso

9 Dunque, l’agoritmo ha natura strettamente deterministica e utilità virtuale. Per questo, chi accosta “algoritmo” e “creatività” dovrebbe porsi qualche domanda…Credo assai probabile che creare “un calcolo sequenziale” preveda “ex ante “un rigido determinismo. Faccio notare anche che “il programma” (che imperterrito resiste…) e “la programmazione computazionale” (il coding, in versione barbara) sono entrambi percorsi sequenziali, unidirezionali e finalizzati. Ossia, rigide gabbie. 10 “Spontaneità” che Gramsci criticava invitando tutti a studiare impegnando sempre e comunque l’intelligenza. 11 C’è chi pensa che il pensiero, così come l’intelligenza, sia aggettivabile, non rendendosi conto che sono invece i mille e più mille linguaggi di cui l’uomo può disporre a mettere in scena l’unico suo pensiero e l’unica sua intelligenza, in sostanza quella che chiamano mente, “un processo che dipende da disposizioni particolari della materia”; è perciò naturale ipotizzare che sia un particolare tipo di organizzazione biologica a dare origine ai processi mentali” (G.M. Edelman, 1993). Oggi si sa che l’intelligenza è “un’autostrada che collega i neuroni” (E. Dusi, 2018)

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prosaicamente detta “scientifica”?12). Perché in un futuro prossimo ci sarà bisogno di “nuovi manovali” del “determinismo tecnologico”, formati togliendo loro il “sapere” e sostituendolo al massimo col “fare” funzionalista; per cui, dopo aver vinto “una feroce competizione” con i loro compagni di banco, diventeranno gli esecutori degli ordini di una sempre più ristretta cerchia di padroni del mondo. Questi “neocompetenti” abiteranno, così, la “nuova zona grigia dell’umano”; si collocheranno, cioè, tra i pochissimi “ricchi” e i tantissimi “poveri” del mondo, quelli destinati, come già oggi accade, alla marginalità istituzionalizzata13. Contro questa drammatica realtà, noi “possiamo e dobbiamo rilanciare un movimento educativo che sappia sganciarsi da questo aziendalismo universale che forma non cittadini ma schiavi flessibili e acritici clienti. Tale movimento non può che riproporre l’umanesimo, ovvero ribadire che la destinazione della scuola non è nell’utile o nella fabbricazione del profitto ma nella riproduzione dell’umanità in quanto umanità. È un «umanesimo, che sancendo il primato dell’etica sull’economia, deve rivendicare […] un diritto all’infunzionalità, diritto […] che mira a conservare il valore intrinseco, il valore in sé della vita, della cultura, dell’umano”. (L. Marchetti, cit.). Tutto questo è perché la scuola è uno dei luoghi privilegiati che costoro hanno individuato per porre le basi della loro costruzione. Chiamano il loro pensiero “economia della conoscenza”; ma, nulla importandosi della conoscenza e del sapere, impiegano la valutazione come strumento “principe” di quella che può, senza ombra di dubbio, essere per l’appunto definita la “più imponente appropriazione indebita” della storia. Così, da luogo della libertà, gran parte della nostra scuola è diventata il posto dove si sceglie o si è obbligati ad esercitare un “potere che si finge conoscenza” 14 (Y. C. Zarka, 2009). Così costoro, ottengono senza colpo ferire la divisione delle persone tra chi dovrà comandare e chi dovrà ubbidire.

6. Cosa dovrebbe accadere? Ammesso e non concesso, invece, che la valutazione debba necessariamente “essere”, è banale osservare che tra questa fase e “l’insegnare-imparare” deve (dovrebbe), ovviamente, darsi almeno la subordinazione se non addirittura un meticciamento, che le renda indistinguibili. I ragazzi, infatti, vogliono “essere guidati senza interferenze” di modo che sia rispettata l’identità uniplurale15 di ciascuno. Essi amano negoziare le parole del mondo16, dunque il “dia-logos”, che dia significato ai diversi cammini che ciascuno intraprende, errando, ma sempre sedotto dai suoi maestri bravi, da quegli uomini disinteressati ad ogni altra cosa che non sia l’adesione al progetto che diciamo del “fare comunità”, e dunque “democrazia”; quelli che sanno quanto sia fondamentale contare sul mantenimento reciproco e asimmetrico dello spazio esistente tra sé e i propri ragazzi, che chiamo “distanza educativa”, e sul fatto che tale distanza sia paradossalmente e contemporaneamente prossima a zero e prossima ad infinito, senza mai raggiungere i due estremi. Prossima a zero perché un insegnante deve essere pronto a tendere la mano appena un ragazzo ne chieda la guida, all’inizio del suo viaggio; e prossima all’infinito affinché il ragazzo si innamori delle cose che il suo maestro sa e che lui non sa ancora. Così si giustifica quel che mirabilmente scrive Michel Sérres: “«Nessun apprendimento evita il viaggio. Imparare dà inizio all’erranza. Partire. Uscire. Lasciarsi un bel giorno sedurre». (M. Serrés, 1992). Cercherò di dimostrare che la valutazione di una scuola senza

12 C’è chi sostiene che perfino la matematica vada insegnata col coding…! 13 Com’è tristemente noto, il capitale impone che vi sia una quota fisiologica di disoccupati. Allo stesso modo, chi governa la scuola accetta (malgrado affermi il contrario) che vi sia una quota fisiologica di dispersione scolastica. 14 Non sempre è “colpa” della scuola: esistono obblighi che derivano da una burocrazia incolta e coercitiva. Mentre “a Barbiana non c’era registro” (Scuola di Barbiana, cit.) nella scuola italiana c’è perfino il registro elettronico, che ha tolto agli insegnanti il piacere (un po’ perverso, a dire il vero) di sommare oggetti inesistenti che chiamano “numeri” (7+…6- -… e così via celiando) e di farne poi “la media”. 15 Nel seguito userò il termine “unipluralità” e ogni suo derivato lessicale in modo ampio, chiarendone la plurisemantica. 16 É nota la posizione di Jerome Bruner (J. Bruner, 1992) a proposito della negoziazione e rinegoziazione dei significati mediata dalla narrazione.

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aggettivi17 non può più essere ciò che oggi è, ma debba intrecciare quel cammino. Il presupposto di ciò non può che essere quella che chiamo “dia-gnosis”, la “conoscenza in relazione”18.

7. La relazione “alla cieca” Se, come abbiamo detto, la dia-gnosis è “una necessità”, allora un maestro, formato gratuitamente e per tutta la vita dallo Stato, l’unico garante della straordinarietà della sua scuola (che non è un servizio ma al servizio dello Stato) avrà – meglio: sceglierà, come momento d’avvio del suo insegnamento, la relazione che – abbiamo detto - gli consenta di conoscere ogni suo ragazzo; e, per ovvia analogia, a ogni suo ragazzo, il “suo” maestro19. Come fare? Propongo che a nessun maestro vengano ex ante fornite notizie diagnostiche di alcun genere e che egli – per un congruo periodo di tempo - metta in campo quella che chiamo la relazione “alla cieca”. Durante questo tempo, la sua bravura consisterà nel riconoscere l’identità uniplurale di ciascun ragazzo, ovviamente senza che questo comporti nessuna conclusione e soprattutto che non generi “nessun giudizio”, derivato da imprinting20. Solo dopo che il maestro si sarà fatta “un’idea”, gli verrà fornita ogni notizia relativa a ciascuno dei suoi ragazzi. E da quel momento, comincerà per lui la ricerca, per trovare, in ogni momento “le parole per dirlo”. Accade già? Se sì, il più delle volte è inconsapevole!

8. Le parole per dirlo21 Quella che ritengo essere la modalità nucleare di ogni didattica, ossia trovare “le parole per dirlo” a ciascuno e a tutti, consiste nel saper innanzitutto riconoscere il dinamico sistema dei significati di ogni ragazzo, sistema che si costituisce, com’è noto, attraverso l’intreccio caotico ed errante dei processi “di conoscenza della propria vita e del mondo mentre se ne ricerca il senso”22; e, quindi, di metterlo in relazione col proprio, affinché si crei la comunità educante che insegna e impara.

9. Insegnare e imparare Chi insegna sa che “lascia segni in”. La definizione è semplice, il processo è complesso. “Imparare”, se possibile, è ancora più complesso, perché comporta almeno tre fasi – tra loro definitivamente dipendenti e in relazione circolare di causa-effetto, che sono

1. Comprendere – 2. Apprendere – 3. Condividere. Se ciò è vero, allora non si dovrà più citare questa complessità con “apprendimento”, che è solo una della fasi sopra descritte. “Capire, inserire il compreso nei propri apparati e condividerlo” ne è il resoconto e dice che lo sviluppo diacronico dell’imparare prevede tre fasi la cui natura è:

17 Costituzione della Repubblica, art. 34. 18 “Prima che una procedura [la dia-gnosis] è una necessità” (R. Imperiale, 2011). Infatti consente di conoscere ogni ragazzo, essendo di fatto “una conoscenza funzionale alla comprensione dei bisogni esistenziali ed essenziali, una conoscenza che orienta l’azione ma è essa stessa azione educativa o ‘progetto educativo’”. (C. Palmieri, 2005). È altra cosa dalla “diagnosi” medica, certamente necessaria, ma di cui forse si sta abusando col rischio che si diano improprie classificazioni delle persone in sottoclassi a valenza sociale e culturale “differenziata”. 19 La relazione diagnostica deve essere reciproca. Prima di lasciarsi guidare liberamente, il ragazzo deve scoprire se può fidarsi! Quando ciò accade, il maestro diventa il “suo” maestro. Mi piacerebbe che si riflettesse sulla rivoluzionaria portata dell’aggettivazione possessiva. 20 Accade spesso che la “prima impressione” condizioni poi ogni futuro passo didattico e (purtroppo) valutativo. 21 Prendo in prestito il titolo (e per alcuni versi il drammatico contenuto, quello che descrive i disturbi della relazione) di un bel libro di Marie Cardinal, “Le parole per dirlo”, appunto, che uso come indicatore del metodo – l’unico, oserei dire – che ogni maestro deve saper maneggiare affinché il suo lavoro diventi per tutti e con tutti, nessuno escluso il meraviglioso racconto della vita e della storia. 22 Primo e più importante dei quali è “l’emozionale-affettivo”.

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SOCIALE-INDIVIDUALE-SOCIALE23. Da qui la certezza che l’”imparare abbia natura sociale, ovvero “storico-culturale”. Com’è noto, questo è il pensiero di L.S. Vygotskji: “L’apprendimento umano presuppone una natura sociale specifica e un processo attraverso il quale i bambini si inseriscono gradualmente nella vita intellettuale di coloro che li circondano”: la competenza prima è sociale e poi diventa competenza individuale” (L.S. Vygotskji, 1976). Tutto ciò è strettamente connesso col concetto di “Zona di Sviluppo Prossimale”, che è il luogo dove “si impara qualcosa in più” grazie all’interazione con altri. Esattamente quello che accadeva a Barbiana dove ognuno poteva “insegnare” quell che sapeva. “L’anno dopo ero maestro. Cioè, lo ero tre mezze giornate la settimana. Insegnavo geografia matematica e francese a prima media.[…]Se sbagliavo qualcosa poco male. Era un sollievo per i ragazzi. Si cercava insieme. Le ore passavano liete e senza soggezione”. (Scuola di Barbiana, cit.). Si insegnava impiegando artefatti reali e socioculturali per primo il linguaggio , esattamente come accade nei nostri “laboratori”, dove, tuttavia, non si fa bricolage né si vende il sapere matematico su bancarelle. Il laboratorio è, per noi, “la ricerca”, il muoversi senza sosta saltellando tra concreto e astratto. “Sono convinta che questo continuo alternarsi di ragionamenti concreti ed astratti sia estremamente formativo; si eviterà in tal modo che il ragazzo si abbandoni alla facile formula che può condurlo alla pigrizia mentale e alla sfiducia nel concreto e nel valore dei propri sensi“.(E. Castenuovo, 1963) 24.

10. L’unipluralità Credo che tutto quanto abbiamo fino ad ora sostenuto possa sintetizzarsi in una parola italiana composta, sicuramente non nuova, l’unipluralità, che, a mio parere, è costrutto a semantica più ampia. Oltre al binomio “io-noi”, infatti, essa riferisce dell’ineludibile necessità di rendere cooperativa la scuola, non solo nella struttura (ad esempio, eliminando le “classi pollaio”) ma soprattutto nel suo farsi quotidiano. La sintesi linguistica, infatti, consente di pensare ad un’ineludibile sintesi fattuale: si insegna insieme, si impara insieme, si valuta e si è valutati insieme; cosa che, per parafrasare il già citato Jerome Bruner, costituirebbe “uno dei grandi risultati dello sviluppo umano in senso ontogenetico, culturale e filogenetico” (J. Bruner, cit.). In altre parole, l’unipluralità declina l’“evoluzione comune e condivisa”, una nuova socioantropologia ove ciascun uomo sia ovviamente inteso nella sua doppia identità, individuale e sociale25. Da questo punto di vista, l’unipluralità rappresenta, a mio avviso in modo straordinario, la tensione ideale di molti di noi al fare comunità. E, infine, credo che “uniplurale” superi per ampiezza non solo semantica l’aggettivo: ”inclusivo”, che è indicatore politico (pleonastico, in realtà, oltre che abusato) di ciò che si dovrebbe fare ma che non dice come.

11. La soluzione uniplurale dei problemi A tutt’oggi - e in italiano – “risolvere insieme i problemi” si chiama (ovviamente) “soluzione cooperativa dei problemi”26. Di questo costrutto complesso e (come al solito) non-deterministico, si

23 Cosa sia la fase sociale lo dicono le parole di un ragazzo, ai suoi tempi fascia debole, ma con grande acume metacognitivo: “Quando imparo qualcosa sento che quel qualcosa non è del tutto mio fino a quando non è ho parlato con altri. Solo allora diventa assolutamente e definitivamente mio”. È il sapere sociale, quello cui tutti possono accedere nell’agorà, ove si “ozia” perché si sta nella “scholè”. Appunto…! 24Si noti che la nostra grande Maestra parla di “ragionamenti”, non di “manipolazioni “ di oggetti che pure aveva costruito e che usava a piene mani. 25 Senza etichette o, peggio, medicalizzazioni esasperate. consapevoli della finitezza e della grandezza di ciascuno. Questo non vuol dire che la scuola non debba occuparsi dei bisogni di tutti i suoi ragazzi; dico “solo” che lo possa fare senza “differenziare”, così favorendo lo sviluppo uniplurale di ciascuno. In questo caso l’aggettivo declina due fatti assai importanti; da un lato, esso consente di chiarire che esiste una diversità tra il singolo ragazzo che farà parte “del gruppo” e il singolo ragazzo inserito “nel gruppo”; dall’altro declina un diritto, la cui realizzazione prevede che prevalga l’etica della responsabilità individuale e collettiva, a partire dale istituzioni. 26 Che non è un’invenzione dei neoliberisti, ma della scuola, in particolare italiana.

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sa tutto. O quasi. Nella descrizione dei suoi notissimi (per abbondanza di letteratura27) passi “cognitivi” e “metacognitivi”, sebbene presente e tutto sommato analiticamente ben decritta, credo che non venga totalmente enfatizzata la figura/funzione del maestro “narratore”28. E che quindi non si accerti il valore della narrazione sia di fatti “storicamente accertati” che – molto meglio – di fatti “fantasticati e fantasticanti”. Questo, pur sapendo che la narrazione si comporta da mediatrice nella più volte enfatizzata “negoziazione e rinegoziazione sui significati” di bruneriana memoria; ma soprattutto che, oltre a favorire la memoria ad essa strettamente legata, obbliga il maestro a trovare “le parole per dirlo”29 ad ognuno dei ragazzi che, “in gruppo”, stiano per esempio risolvendo problemi. È del tutto evidente che i significati di quelle parole non siano, almeno in partenza, gli stessi per ciascuno di quei ragazzi; e che il compito del metodo che stiamo proponendo sia proprio quello di consentire che la/le soluzione/i di ciascuno e quella/quelle30 di tutti siano tra loro equivalenti. In questo senso, dopo la tempesta del cervello che accade quando si cerchi di risolvere problemi e quella che accade quando se ne discuta insieme, cui il maestro partecipi in maniera attiva, “il resoconto del dibattito e delle interviste in esso inserite”31 risulti essere appunto, “uniplurale”; e che in esso si riconoscano/si con-fondano32 – contemporaneamente – la/le singola/e soluzione/i e la/le soluzione/i collettiva/e. Così, concedendomi un salto affettuoso, penso che il celeberrimo “fa quel che può, quel che non può non fa”, la straordinaria intuizione con cui il grande maestro Alberto Manzi risolse il problema33 della valutazione dei suoi ragazzi, si può – pur mantenendo il significato primo – trasformare in: “fa quel che fa il gruppo e il gruppo fa quel che fa lui”. Infine, mi sia consentito ripetermi per l’ennesima volta, con una sintesi a pleonasmi ripetuti ma credo necessari, questo vuol dire “fare comunità uniplurale”, luogo nel quale non l’etichetta ma il nome conti e i valori che in ogni nome di ogni creatura sono contenuti per nascita e per scelta.

12. Proposta fondamentale: la valutazione uniplurale Tutto quanto s’è detto – non foss’altro che per coerenza - implica una sola cosa: lavorare sodo per mettere a punto una cultura della valutazione radicalmente altra rispetto a quella neo-liberista oggi esistente, di modo che ogni (anche piccolissima) modalità valutativa che ricordi o scimiotti l’esistente (a partire da quella che ho sentito chiamare “realmente inclusiva”34), venga eliminata per sempre dallo scenario politico/culturale/didattico/educativo/formativo. Ovviamente, per fare questo occorrerebbe trasformare alle radici alcune realtà consolidate, con cui la valutazione è legata in rapporto di subordinazione, a partire dagli spazi/tempi e modi dell’odierno “far scuola”, e da tutto quello che attiene, in modo diretto o indiretto, a questo. Le ragioni per eliminare l’attuale modo di valutare, quale che sia la sua aggettivazione, sono quasi infinite. Ne citiamo per slogan solo alcune, analizzandole brevemente e rimandando all’ampia letteratura esistente. A. Influenza (in genere, negativa) della valutazione sulla sfera emozionale/affettiva dei ragazzi. B. Impossibilità ontologica della valutazione “oggettiva”. C. Impossibilità di valutare ciò che veramente “conta”. D.

27 Ad esempio (e solo per esempio), si può vedere A. Pesci, (2016); R. Imperiale, (2016) 28 Ad ogni problema “legittimo” (quello che contenga domande la cui risposta non sia nota a priori, secondo l’esortazione di Heinz Von Foerster (H. Von Foerster, 1987) si può associare una narrazione nella quale sia presente “un enigma”. Anche in questo campo, la letteratura è sterminata. Oltre al celebre: “Le fiabe servono alla matematica come la matematica alle fiabe.” (G.Rodari, 1973) consiglio di vedere il già citato: P. Zellini, 2016; in particolare il Cap. 2°. “La matematica degli dei”, pag. 29 e segg. 29 Andandole a cercare nel suo “vocabolario” che deve diventare ogni giorno più ampio fino ad approssimare la Biblioteca di Babele. Per altro, è noto il legame tra potere e numero di parole conosciute. 30”Non c’è mai un unico modo «giusto» di affrontare un problema […]; (perciò) è interessante seguire i diversi percorsi che menti diverse hanno intrapreso per giungere alle soluzioni”. (A. Bellos, 2011) 31 Su cosa intendo essere “il dibattito e le interviste in esso inserite” si può vedere il breve racconto di un mio incontro con una classe terza di scuola elementare e sul suo sviluppo, fino alla geniale invenzione di una bambina. (R. Imperiale, 2018, Il merimetro) 32 Nel senso proprio del termine: “fondersi insieme”. 33 Creatogli dal MPI e dai suoi inetti e rozzi burocrati. 34 Pietoso tentativo linguistico-gattopardesco di “cambiare tutto perché nulla cambi”.

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Impossibilità della valutazione sia individualizzata che standardizzata. E. Natura subordinativa della valutazione.

A. Abbiamo già citato il tagliente giudizio di Yves. Zarka sulla valutazione che di fatto rappresenta ed esercita un potere che si traveste da sapere. (Y. Zarka, cit.). Nello specifico, quali che siano lo strumento impiegato (esame, verifica, interrogatorio35, voto, giudizio o materno consiglio: “quattro, per il tuo bene”, ecc…) e l’esito che ne sia scaturito, l’essere “giudicato” è sempre comunque processo emozionale e affettivo asimmetrico, nel quale il giudicato è – appunto - in posizione di minorità rispetto al giudicante, che esercita – anche inconsapevolmente – un potere; e nella stragrande maggioranza dei casi (se non in tutti) tale condizione svia l’attenzione dall’essenzialità del processo (ammesso che ne abbia una…) a quelli che sarebbero epifenomeni (paura36, ansia, …) e che, invece, assumono importanza primaria, spessissimo negativa, fino a generare “impotenza appresa”; e conseguente drammatico abbandono.37

B. La valutazione oggettiva è oggettivamente impossibile, per carenza ontologica. È tale perché ogni valutazione mette in relazione, se non altro, apparati semantici diversi tra loro e per quanto vicini – né qualitativamente né quantitativamente del tutto sovrapponibili. Questa è una delle ragioni che esortano a praticare il negoziato sui significati e quindi, il dia-logos, invece che il più sgradito mono-logos. L’altro aspetto, ancora più grave, è ben messo in evidenza dal passo che segue, dove si afferma che è statisticamente e scientificamente provato che “non solo lo stesso compito (saggio, prova scritta di varie materie) viene valutato diversamente da diversi insegnanti, ma viene valutato diversamente perfino dallo stesso insegnante in un momento diverso”. (M. Lichtner, 2004). Per questo, dunque, “una valutazione risulta tanto più seria quanto più l’apporto della soggettività del valutatore è consapevole ed esplicito. L’esplicitazione, la discussione, la condivisione dei risultati si appoggeranno a criteri sempre negoziabili per i quali vale, più che l’oggettività della dimostrazione, l’intersoggettività della argomentazione”. (Armellini, 2008). Non c’è chi non possa o non voglia vederci “la fine del mito dell’oggettività”.

C. La famosa dichiarazione di Irving Thompson (I. Thompson, 1988) “quel veramente conta non può essere contato”38 rimanda immediatamente all’impossibilità di esplorazione valutativa del “profondo”, il «costrutto latente», che ordina le azioni dell’uomo e che l’“INVALSI, assumendo le indicazioni di certa psicometria dei commercianti, indica invece come l’oggetto da esplorare mediante le sue prove. Il bizzarro processo è all’incirca il seguente. Poiché il profondo, nella sua integrità, è inosservabile, lo si parcellizza in “variabili latenti”, che dovrebbero anch’esse essere qualitative e che come per incanto diventano invece quantitative, e, quindi, “misurabili” 39. Della tua identità, che è ben altra cosa da queste procedure strettamente deterministiche (e non è il solo loro difetto…!) ma è un caotico insieme di aspetti emozionali-affettivi e cognitivi (come un alveare in continua “disordinata” attività) non importa niente a nessuno!

D. C’è ancora un aspetto da mettere in evidenza. Le prove INVALSI (figlie della testizzazione

35 “Ma perché qualche volta, per controllare quello che i vostri allievi hanno imparato, non fate in classe un'ora di palestra di giochi intelligenti, invece di interrogare?“ (L. Lombardo Radice, 1979) 36 In particolare , sulla paura della matematica si può vedere ad esempio: R. Imperiale, 2013 37 La dispersione scolastica è ancora presente, soprattutto di questi tempi di povertà materiale e culturale, e soprattutto nel Sud, che l’autonomia differenziata abbandonerà definitivamente alla sua fine; con la quale si perderà tutta la cultura che il Sud ha creato mentre starà prevalendo la rozza e povera di storia e di leggende logica aziendale di quegli altri,. 38 Vedere quest’intervista – molto chiara ed esplicita, a Guido Armellini https://www.laletteraturaenoi.it/index.php/scuola_e_noi/257-%C2%ABsolo-ci%C3%B2-che-non-pu%C3%B2-essere-contato-conta-davvero%C2%BB-la-%C2%ABvalutazione-ermeneutica%C2%BB-intervista-a-guido-armellini.html 39 Esempio: devi risolvere un problema; siccome i tuoi processi mentali non possiamo misurarli, pesiamo le tue competenze (così le chiamano…!) parziali, ad esempio: sai fare le operazioni, sai leggere una tabella,…Tutti quei pesi “numerici” andranno inseriti in una matrice di correlazione, che “calcoliamo”. Il risultato di tale calcolo non dice (e come potrebbe fare?) qual è il tuo costrutto latente, quello per cui tu – mettiamo – risolvendo un problema sei di volta in volta divergente, creativo, convergente, riflessivo, induttivo, deduttivo, procedi per tentativi, sei collaborativo, sei indipendente, sfrutti la memoria narrativa, ecc…; dice solo che potresti saper risolvere un problema. Questa tecnica, usata dall’economia , è esattamente quello che, all’incirca (mi scuso per l’eventuale genericità), fa l’INVALSI.

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anglosassone da cui pure questi paesi hanno preso o stanno per prendere le distanze!), sono notoriamente standardizzate. Valutare mediante standardizzazione esclude ovviamente l’aspetto individualizzato che ogni valutazione deve avere; del resto, valutare individualmente esclude che la valutazione riguardi il lavoro cooperativo. Quale che sia dunque la forma di valutazione prescelta, si commette peccato di “omissione consapevole”, perché (come ormai è inutile ripetere) la scuola, sia quando insegna che quando impara che quando valuta, non può che essere uniplurale. Avendo, infine, parlato di “prove standardizzate” e a completamento di questo ragionamento, si deve necessariamente accennare al processo docimologico di standardizzazione dei punteggi grezzi che si ottengono in una prova individualizzata. Quando si assegnano “voti numerici” come esito di una prova si sa che esiste un notevole aspetto di incertezza soprattutto della loro funzione descrittiva dell’andamento di una e di tutte le classi di una scuola, che così facendo (o anche usando la semplice “media) non sono assolutamente tra loro confrontabili. La psicometria ripara questa parziale incompletezza, introducendo il concetto di standardizzazione dei punteggi grezzi, mediante calcolo della “deviazione standard” di ognuno di essi dalla media dei grezzi. In altre parole, si assume non la media dei voti ma la dispersione di essi intorno alla media. Questo procedimento consente anche di confrontare voti ottenuti in prove di materie diverse. È interessante far notare che questo procedimento può, infine, dimostrare in modo inequivoco e scientificamente corretto alcuni paradossi. Se si osserva la tabella sotto riportata (fig.1), che usiamo come esempio e che contiene punteggi grezzi di due classi parallele di una scuola e le loro trasformazioni in “punti z” (una delle standardizzazioni accettate)

ALUNNO CLASSE 1 CLASSE 2 Punti z cl.1 Punti z cl.2

1 5 5 -0,92 0,00

2 6 5 0,23 0,00

3 6 5 0,23 0,00

4 5 5 -0,92 0,00

5 4 4 -2,06 -1,58

6 7 6 1,38 1,58

7 7 5 1,38 0,00

8 6 6 0,23 1,58

9 6 5 0,23 0,00

10 6 4 0,23 -1,58

MEDIA 5,8 5,0

Fig. 1

e tralasciando altri aspetti pure presenti, notiamo che l’alunno 6 della classe 1 ha riportato il voto 7, mentre l’alunno 6 della classe 2 ha riportato il voto 6. Se si confrontassero semplicemente i grezzi, l’alunno 6 classe 1 sarebbe “più bravo” dell’alunno 6 classe 2. I “punti z” dicono però una cosa diversa: l’alunno 6 classe 1 si allontana dalla media di 1,38 “σ” (simbolo della c.d. “deviazione standard”), mentre l’alunno 6 classe 2 si allontana dalla media di 1,58 “σ” . Dunque, è più bravo lui! Questo metodo sarebbe uno strumento valido se non riguardasse, purtroppo, la “sola” valutazione individualizzata, con i limiti che abbiamo evidenziato.

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E. La natura subordinativa della valutazione si manifesta prepotentemente nell’interrogatorio di garanzia (ma senza difensore) cui di tanto in tanto vengono sottoposti i ragazzi, e nel quale, come in ogni interrogatorio che si rispetti: “uno domanda e un altro (malcapitato) risponde! E invece…”dopo che lo studente ha svolto un compito, si può chiedere di «raccontare» il proprio percorso o fargli una «intervista”. “Una valutazione che non si ferma al risultato […] ma prende in esame i processi, e lo fa in modo collaborativo, […] è certamente più rassicurante. […]Questo vale per tutti, ma per chi ha difficoltà […]la crescita di motivazione, il piacere di tentare, di mettersi alla prova […] è un passo fondamentale”. (Lichtner, 2011). Ecco: la valutazione uniplurale sta in questo: mediante dia-logos (intervista e racconto, nel testo) il maestro e i ragazzi analizzano (ovviamente, insieme, che altrimenti verrebbe meno la ragione dell’unipluralità stessa), positività e negatività del loro lavoro; per ricominciare ad errare nei campi della conoscenza, commossi e l’un l’altro sedotti, scoprendo che così facendo si sarà liberamente creata com-unità. Questo vale per tutti noi, maestri ora e maestri per sempre. Ma “con” noi non ci saranno i padroni del mondo: loro valutano per dividere, noi unipluralizziamo per unire; non possono esserci perché sanno che chi di noi ha scelto di stare dalla parte dell’uomo e in particolare dei suoi piccoli e della loro tenerissima voce è definitivamente “contro” di loro.

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