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1 1 PROF. BENIAMINO ANDREA PICCONE (CON LA SUPERVISIONE DEL PROF. ARCUCCI) I A DISPENSA DI ECONOMIA E TECNICA DEGLI SCAMBI INTERNAZIONALI L’ATTIVITÀ ECONOMICA INTERNAZIONALE A.A. 2010- 2011

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PROF. BENIAMINO ANDREA PICCONE (CON LA SUPERVISIONE DEL PROF. ARCUCCI)

IA DISPENSA DI ECONOMIA E TECNICA DEGLI

SCAMBI INTERNAZIONALI

L’ATTIVITÀ ECONOMICA INTERNAZIONALE

A.A. 2010- 2011

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INDICE L’ATTIVITA’ ECONOMICA INTERNAZIONALE

1. Conoscenze di base dell’economia internazionale:

- introduzione; i giudizi di valore; variabili fondo, variabili flusso;

- variabili macroeconomiche e microeconomiche;

- variabili reali e variabili finanziarie; variabili strutturali e variabili

congiunturali.

2. Le tendenze evolutive dell’economia mondiale e del commercio

internazionale:

- dimensioni e struttura dell’economia mondiale; la crescita dell’economia

mondiale, della popolazione e del commercio internazionale;

- struttura della produzione dei vari Paesi e del commercio internazionale;

- i principali parametri del commercio internazionale dei vari Paesi (peso

specifico, grado di apertura, grado di attrazione degli IDE, rapporto M/X,

ragioni di scambio);

- le caratteristiche della prima e della seconda rivoluzione industriale e i loro

effetti sul modello del commercio internazionale;

- evoluzione del commercio internazionale dopo la seconda Guerra Mondiale;

- gli accordi di Bretton Woods, il sistema multilaterale di libero scambio;

- l’integrazione economica su base regionale;

- l’attuale struttura del commercio internazionale per macroaree regionali;

- i grandi problemi irrisolti dell’economica mondiale: squilibri del Pil pro-

capite, squilibrio nella bilancia dei pagamenti, disoccupazione, immigrazione;

- cenni sulle tipologie di globalizzazione dei mercati;

- il ruolo della Cina, dell’India e dei Paesi Emergenti nell’economia

internazionale. Le speranze dell’Africa.

3. La cooperazione internazionale in campo economico-finanziario:

- i livelli di integrazione regionale;

- organizzazioni mondiali e regionali.

APPENDICE: Relazione di M. Fortis, L’Italia nella nuova economia del G20

Ringrazio la dott.ssa Chiara Galletta che ha contribuito a questa nuova edizione.

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“Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una

volta sola”, Paolo Borsellino1

“Ho incontrato molti ragazzi, studenti, giovani impegnati nello studio e nel lavoro.

Spesso non sono soddisfatti dela loro precaria condizione ma ho osservato che non

cadono nel disincanto o peggio nel cinismo. Affrontano la realtà per quello che è e si

preparano a cambiarla. Questo è per me il punto, il ricambio generazionale, quando

questi giovani chiederanno con vigore ai loro padri: “Ora fatevi da parte”. E’ ciò che

fece la mia generazione all’indomani della guerra. Tra molte difficoltà e incertezze

dicemmo: “Ora tocca a noi”. Ce la facemmo. Anche loro ce la faranno”, Carlo Azeglio

Ciampi2

“Al conservatorio di Pechino dove sono entrato a nove anni, ho

trovato un ambiente molto competitivo, ma anche stimolante. E’

stata una grande sfida. Dovevo emergere su 10 milioni di bambini

che suonavano il pianoforte. Adesso sarebbe peggio: sono in 40

milioni.” Lang Lang3

1 Paolo Borsellino (Palermo, 1940 – Palermo, 19 luglio 1992) è stato un magistrato italiano, vittima della mafia. È considerato un eroe italiano, come Giovanni Falcone, di cui fu amico e collega.

2 Carlo Azeglio Ciampi (Livorno, 1920) è un economista e politico italiano, decimo presidente della Repubblica dal 18 maggio 1999 al 10 maggio 2006. È stato governatore della Banca d'Italia dal 1979 al 1993, presidente del Consiglio dei ministri e ministro del tesoro (1996-1999). Con la fine del suo mandato presidenziale è diventato senatore a vita. Ciampi fu anche il secondo presidente eletto dopo essere stato governatore della Banca d'Italia preceduto da Luigi Einaudi nel 1948. Il passo è tratto dal libro “Da Livorno al Quirinale”, Il Mulino, 2010

3 Lang Lang (1982) è un pianista cinese. Il passo è tratto da un’intervista a Il Sole 24 Ore del 22 giugno 2010

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“Se hai trovato una risposta a tutte le tue domande, vuol

dire che le domande che ti sei posto non erano quelle

giuste”, Oscar Wilde4

“The real secret of success is enthusiasm. You can do

anything if you have enthusiasm. With it there is

accomplishment. Without it there are only alibis”, Luca

Cordero di Montezemolo5

4 Oscar Wilde (Dublino, 1854 – Parigi, 1900) fu uno scrittore, poeta e drammaturgo irlandese. Autore dalla scrittura apparentemente semplice e spontanea, ma sostanzialmente molto ricercata ed incline alla ricerca del bon mot, con uno stile talora sferzante e impertinente egli voleva risvegliare l'attenzione dei suoi lettori e invitarli alla riflessione. È noto soprattutto per l'uso frequente di aforismi e paradossi, per i quali è tuttora spesso citato. L'episodio più notevole della sua vita, di cui si trova ampia traccia nelle cronache del tempo, fu il processo e la condanna a due anni di prigione per avere violato la legge penale che codificava le regole morali in materia sessuale della sua stessa classe sociale. Molti i libri scritti sulle sue vicende e sulle sue opere, tra le quali, in particolare, i suoi testi teatrali sono stati considerati dai critici dei capolavori del teatro dell'800.

5 Luca Cordero di Montezemolo (Bologna, 1947) è un dirigente d'azienda italiano. Presidente della Ferrari S.p.A. (dal 1991) di cui è stato anche Amministratore Delegato (fino a settembre 2006), presidente della FIAT S.p.A. (dal 2004 al 2010). Ha fondato Charme, fondo finanziario imprenditoriale, con cui nel 2003 ha acquisito Poltrona Frau SpA, azienda di arredamento di cui è anche Consigliere di Amministrazione. È stato presidente di Confindustria dal 25 maggio 2004 al 13 marzo del 2008. Il passo è tratto da un’intervista al Financial Times del 3.7.2010

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1° CAPITOLO Conoscenze di base dell’economia

internazionale

I. CONOSCENZE DI BASE DELL’ECONOMIA

INTERNAZIONALE “Il principio in gioco è la trasparenza del potere.

Un potere avvolto nel segreto è un potere totalmente anti-

democratico. Solo Dio nasconde il suo volto: ma non direi

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che Dio possa essere assunto come esempio di

democrazia”, Gustavo Zagrebelsky6

“Un giornalista deve

essera una persona perbene, con la schiena dritta, non

avere soggezione, e non avere paura della solitudine”,

Enzo Biagi7

INTRODUZIONE

I giudizi di valore

Economia e Tecnica degli Scambi Internazionali è una disciplina composita e

assai discrezionale nei contenuti. Si tratta di una materia che comprende vari aspetti

di natura economica, commerciale, finanziaria, valutaria, doganale e di politica

commerciale dei vari Paesi. In un certo senso si può parlare di economia

6 Gustavo Zagrebelsky (1943) è un giurista italiano, Giudice della Corte costituzionale dal 1995 al 2004. Il passo è tratto da un’intervista a L’Espresso, n. 25, anno LVI, 24 giugno 2010 7 Enzo Biagi (Pianaccio di Lizzano in Belvedere, 1920 – Milano, 2007) è stato un giornalista, scrittore e conduttore televisivo italiano. È considerato uno dei giornalisti italiani più popolari del XX secolo.”

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internazionale applicata, intesa come lo studio dell’effettivo svolgersi dei fatti e dei

rapporti commerciali e finanziari internazionali.

Il corso presenta pertanto collegamenti con filoni culturali diversi della

Facoltà di Economia: macroeconomico, microeconomico e aziendale, giuridico e

normativo, matematico e statistico.

Gli argomenti verranno analizzati spesso in una triplice ottica: in prospettiva

storica, nella situazione attuale e nella possibile evoluzione futura. Il corso, inoltre,

sarà svolto tenendo conto di alcuni giudizi di valore, ossia di postulati angolati sulla

nostra materia. Tali giudizi di valore vengono esplicitati nei termini seguenti.

Il primo giudizio di valore è che abbiamo una preferenza per lo sviluppo

economico rispetto al sottosviluppo. Il concetto di sviluppo economico appartiene ad

una porzione relativamente breve e recente della storia delle civiltà. Esso è infatti

figlio della rivoluzione industriale che ha avuto inizio in Inghilterra nella seconda

metà del sec. XVIII; fino ad allora le generazioni si erano susseguite in condizioni di

sostanziale stabilità economica e demografica in quanto non vi erano i mezzi

necessari a sostenere un aumento significativo della popolazione. Inoltre,

nell’ideologia dominante l’accumulo di ricchezza era visto con sospetto. La riforma

protestante, prima, l’illuminismo, poi, e la rivoluzione industriale cambiarono

radicalmente il carattere dell’economia e del sistema sociale nonché le condizioni

demografiche e ambientali (formazione di un’etica del lavoro; divisione del lavoro;

separazione fra proprietà dei mezzi di produzione e produttori diretti; manodopera

salariata accentrata in un unico luogo di lavoro, la fabbrica; produzione di massa per

il mercato; utilizzo sistematico e intensivo di macchine utensili azionate da motori;

massicce migrazioni della popolazione dalla campagna verso le aree industriali

urbane). Da quel momento si iniziò dunque a parlare di sviluppo economico, di

crescita economica di un Paese e di tutte le grandezze che a questi concetti si

collegano.

Il grado di sviluppo economico di un Paese si misura generalmente con la

grandezza “Prodotto Interno Lordo” rapportata alla popolazione

(PIL pro-capite) e con il PIL in termini assoluti (che corrisponde al valore monetario

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dei beni e servizi prodotti in un certo periodo di tempo entro i confini di un Paese). Il

PIL in termini assoluti fornisce un’idea della grandezza dell’economia cui si

riferisce, non necessariamente del grado di sviluppo (sotto tabella di Repubblica,

28.7.10).

Ad esempio, l’Italia ha un PIL assoluto tale che la colloca senza problemi nel

gruppo degli otto maggiori Paesi industrializzati - il cosiddetto G88 - mentre come PIL pro-capite viene declassata attorno alla ventesima posizione. A

8 Recentemente il G7 è diventato G8 con l'aggiunta della Russia. Tuttavia la Russia non è un Paese industrializzato per cui, sotto il profilo economico, si potrebbe continuare a parlare di G7. Il G8 è un forum dei governi di otto tra i principali paesi industrializzati del mondo: membri del G8 sono:

• Stati Uniti

• Giappone

• Germania

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livello europeo siamo 13esimi, secondo Eurostat (sotto tabella de Il Sole 24 Ore del

22 giugno 2010).

Ecco una lista dei primi dieci paesi per PIL pro capite espressi in valore nominale e

in valori aggiustati tenendo conto della parità dei poteri di acquisto per l'anno 2007:

PIL (nominale) pro capite PIL (PPA) pro capite

1. Lussemburgo 104.673 Qatar 80.8702. Norvegia 83.922 Lussemburgo 80.4573. Qatar 72.849 Malta 53.3594. Svizzera 63.830 Norvegia 53.0375. Irlanda 59.924 Brunei 51.0056. Islanda 58.084 Singapore 49.7147. Danimarca 57.261 Cipro 46.8658. Svezia 49.655 Stati Uniti 45.8459. Finlandia 46.602 Irlanda 43.14410. Paesi Bassi 46.261 Hong Kong 41.994

• Regno Unito

• Francia

• Italia

• Canada

• Russia

Il suo predecessore G7 (G8 senza la Russia), in vigore dal 1976, riunisce ancora oggi i ministri dell'economia dei primi sette Paesi. Inizialmente esistevano il G6 e , con l'ingresso del Canada, il G7, il quale è poi stato a sua volta allargato alla Russia in virtù della sua potenza militare e della sua importanza politica, grazie alle quali può influire sugli equilibri mondiali. Durante i summit, i rappresentanti dei Paesi membri discutono di importanti questioni di politica internazionale, per definire i futuri assetti del mondo. Secondo le stime del PIL 2008, gli otto Paesi del forum figurano ai primi 12 posti per ricchezza prodotta.

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Fonte: Fondo Monetario Internazionale, World Economic Outlook Database,

Segue la lista dei primi 50 Paesi del mondo a livello di PIL (nominale e PPA)

Pos. nom.

Pos. PPA Paese

PIL nominale PIL (PPA)

- - Mondo 60.689.812 68.996.849

- - Unione europea 18.394.115 15.247.163

1 1 Stati Uniti 14.264.600 14.264.600

2 3 Giappone 4.923.761 4.354.368

3 2 Cina 4.401.614 7.916.429

4 5 Germania 3.667.513 2.910.490

5 8 Francia 2.865.737 2.130.383

6 7 Regno Unito 2.674.085 2.230.549

7 10 Italia 2.313.893 1.814.557

8 6 Russia 1.676.586 2.260.907

9 12 Spagna 1.611.767 1.396.881

10 9 Brasile 1.572.839 1.981.207

11 14 Canada 1.510.957 1.303.234

12 4 India 1.209.686 3.288.345

13 11 Messico 1.088.128 1.548.007

14 18 Australia 1.010.699 795.305

15 13 Corea del Sud 947.010 1.342.338

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16 20 Paesi Bassi 868.940 675.375

17 15 Turchia 729.443 915.184

18 21 Polonia 525.735 666.052

19 16 Indonesia 511.765 908.242

20 29 Belgio 506.392 389.518

21 38 Svizzera 492.595 312.753

22 32 Svezia 484.550 341.869

23 22 Arabia Saudita 481.631 593.385

24 42 Norvegia 456.226 256.523

25 35 Austria 415.321 328.571

26 19 Taiwan 392.552 711.418

27 33 Grecia 357.549 341.127

28 17 Iran 344.820 819.799

29 50 Danimarca 342.925 204.060

30 23 Argentina 326.474 572.860

31 31 Venezuela 319.443 358.623

32 25 Sudafrica 277.188 492.684

33 53 Finlandia 273.980 190.862

34 54 Irlanda 273.328 188.112

35 24 Thailandia 273.248 546.095

36 55 Emirati Arabi Uniti 260.141 184.984

37 47 Portogallo 244.492 235.904

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38 28 Colombia 240.654 396.579

39 30 Malesia 222.219 384.119

40 41 Repubblica Ceca 217.077 262.169

41 39 Hong Kong 215.559 307.065

42 37 Nigeria 214.403 315.401

43 51 Israele 201.761 200.630

44 40 Romania 199.673 270.330

45 46 Singapore 181.939 238.755

46 34 Ucraina 179.725 336.851

47 44 Cile 169.573 243.044

48 36 Filippine 168.580 320.384

49 27 Pakistan 167.640 439.558

50 26 Egitto 162.164 442.640

Il mondo sta cambiando a una velocità impressionante. Pricewater House

(PWC) – una delle più importanti società di consulenza al mondo - ha pubblicato un

paper dove si ipotizzano i livelli di PIL nel 2050.

Secondo PWC Nel 2050 il G7 sarà composta da, in ordine di importanza:

Cina, India, Stati Uniti, Brasile, Giappone, Russia, Messico.

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Secondo il rapporto, per avere un termine di paragone, l’economia britannica

crescerà mediamente solo del 2,3% l’anno tra il 2011 e il 2050, mentre quella della

Cina crescerà nello stesso periodo del 5,9% annuo e quella dell’India dell’8,1%.

I sorpassi: l’economia dell’India supererà quella del Giappone nel 2011, il

Brasile supererà la Gran Bretagna nel 2013, nel 2018 la Cina supererà gli Stati Uniti.

Nel 2031 l’economia del Messico supererà quella del Regno Unito. Nel 2047

l’Indonesia avrà un’economia più grande della Germania.

Ancora, ci atterremo al giudizio di valore in base al quale si dà la preferenza

ai meccanismi dell’economia di mercato rispetto a quelli dell’economia centralizzata

(anche detta economia di piano). Con l’espressione “mercato” si intende far

riferimento al complesso delle decisioni (negoziazioni) decentrate sull’uso delle

risorse (produzione, consumo, risparmio, investimento, esportazioni, importazioni) e

quindi sullo scambio delle stesse in funzione delle informazioni disponibili. Si tratta

di uno strumento di allocazione delle risorse attraverso il prezzo. Nell’economia

centralizzata, invece, le decisioni di consumo e di investimento sono

prevalentemente stabilite da un piano centrale. Proprio tali decisioni accentrate hanno

il grave inconveniente di provocare uno scollamento tra domanda e offerta: si assiste

cioè ad uno spreco di risorse dovuto al miss-matching tra ciò che la domanda chiede

e ciò che l’offerta produce. Questo fatto, fra l’altro, porta come conseguenza lo

sviluppo del “mercato nero” dei prodotti che il consumatore cerca ma che il piano

non ha previsto di produrre. L’impostazione dell’economia “a decisioni accentrate”,

tipica dei Paesi socialisti facenti parte del blocco dell’ex Unione Sovietica, ha di fatto

dimostrato di non riuscire a reggere la “concorrenza” con l’economia di mercato. Il

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vantaggio principale di quest’ultima è la flessibilità (è un’economia “a decisioni

decentrate”, cioè affidate alle unità economiche che compongono la domanda e

l’offerta), al quale però si accompagna il grosso difetto dell’instabilità. L’economia

di mercato è risultata comunque di gran lunga la migliore soluzione in quanto è stata

capace di produrre sviluppo economico più velocemente e meglio della prima9,

specie nel contesto della seconda rivoluzione industriale: quella dell’informazione.

Infine, dei circa 220 Paesi del mondo, si tratterà principalmente di quelli

industrializzati (circa 40), tipicamente produttori ed esportatori di manufatti,

privilegiando l’analisi delle strutture economiche, commerciali, finanziarie e

monetarie dei medesimi. Solo più raramente il riferimento sarà fatto ai Paesi in

economia di transizione (quelli che hanno in corso un processo di trasformazione da

economia pianificata in economia di mercato) e ai Paesi in via di sviluppo in genere

produttori ed esportatori di materie prime.

9 A questo proposito, W. Churchill – Primo Ministro Inglese degli Anni ’40 - ebbe modo di dire: “L’economia di mercato è la forma peggiore di gestione dell’economia … salvo tutte le altre”.

Sir Winston Leonard Spencer Churchill (Blenheim Palace, 30 novembre 1874 – Londra, 24 gennaio 1965) è stato un politico, storico e giornalista britannico. Conosciuto principalmente per aver guidato la Gran Bretagna durante la seconda guerra mondiale, è stato primo ministro del Regno Unito dal 1940 al 1945 e successivamente dal 1951 al 1955. Noto statista, oratore e stratega, Churchill fu inoltre un ufficiale dell'esercito britannico. Autore prolifico, vinse il Premio Nobel per la Letteratura nel 1953 per i suoi scritti storici. Durante la sua carriera nell'esercito, Churchill combatté con il corpo di spedizione chiamato Malakand Field Force nella battaglia di Omdurman in Sudan e durante la seconda guerra Boera in Sud Africa. In questo periodo riuscì inoltre a raggiungere la fama come corrispondente di guerra. Sulla scena politica per quasi sessant'anni, ricoprì numerose cariche politiche e di governo. Nei primi anni del Novecento, durante i governi liberali, fu a capo del Ministero per il commercio e l'industria (Board of Trade) e Segretario di Stato [1] per gli Affari interni (Home Secretary). Durante la prima guerra mondiale fu, tra l'altro, Primo Lord dell'Ammiragliato, Ministro delle Munizioni, Segretario di Stato per la Guerra e Segretario di Stato per l'Aviazione. Combatté anche con l'esercito sul fronte occidentale e comandò il 6th Battalion of the Royal Scots Fusiliers. Nel periodo tra le due guerre fu Cancelliere dello Scacchiere (il Ministro delle Finanze britannico). Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, Churchill fu nominato Primo Lord dell'Ammiragliato. Successivamente in seguito alle dimissioni di Neville Chamberlain il 10 maggio 1940, diventò Primo Ministro del Regno Unito e guidò la Gran Bretagna alla vittoria contro le Potenze dell'Asse. I suoi discorsi furono di grande ispirazione alle forze alleate impegnate in combattimento. Dopo la sconfitta alle elezioni del 1945, Churchill diventò leader dell'opposizione. Nel 1951 diventò nuovamente Primo Ministro fino al ritiro definitivo dalla scena politica nel 1955. Alla sua morte la Regina gli concesse gli onori del funerale di stato, al quale parteciparono un gran numero di statisti.

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1. Domanda, Offerta e Prezzo

I concetti economici di base che qui illustriamo hanno la finalità di aiutare a

mettere a punto la rete concettuale di base che ci sarà utile per i successivi

ragionamenti. La prima nozione fondamentale che si deve avere in economia è quella

di domanda, di offerta e di prezzo. La domanda corrisponde all’impiego di risorse,

l’offerta alla disponibilità delle stesse. Per effetto della scarsità di risorse (concetto

insito nella definizione stessa di bene economico), la domanda tendenzialmente

supera l’offerta e solo attraverso il prezzo si ricostituisce l’equilibrio tra le due

grandezze. Vista da un’altra angolatura, un fatto può definirsi economicamente

rilevante allorché si abbia tendenzialmente la seguente disequazione:

Impiego di risorse (Domanda) > Disponibilità di risorse (Offerta)

(c.d. principio di scarsità)

Se un bene non identifica una disequazione del genere allora tale bene non potrà

definirsi economico (l’aria è il classico esempio di bene non economico, in tal caso

infatti l’offerta supera abbondantemente la domanda). La trasformazione del segno di

disuguaglianza in identità avviene grazie alla componente prezzo, come si evince

dalle classiche curve di domanda e offerta.

(situazione “statica”) (situazione “dinamica”)

Offerta

q*

p*

Domanda

p*

q* quantità

prezzo

quantità

prezzo Offerta Domanda

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I due grafici mostrano situazioni di mercato esattamente opposte in quanto a curve di

domanda e offerta. Il grafico di sinistra può rappresentare l’andamento classico delle

variabili prezzo/quantità per la maggior parte dei beni in un contesto “statico”; il

grafico di destra, invece, descrive ciò che avviene talvolta in un contesto “dinamico”,

ossia che al crescere dei prezzi la domanda tende ad aumentare e viceversa (in queste

condizioni si dice anche che il mercato si “avvita”). Quest’ultima situazione si

riscontra in particolare per alcuni beni di investimento (immobili, obbligazioni e

soprattutto azioni) in certe fasi di mercato. In tal caso, la classica legge della

domanda e dell’offerta viene temporaneamente “congelata” (si può dire allora che si

è in presenza di bolle speculative10). Alla fine, anche in quest’ultimo caso, il prezzo

ritorna comunque ad essere l’elemento equilibratore.

L’instabilità caratteristica dell’economia di mercato, citata più sopra fra i

giudizi di valore, deriva proprio dal fatto che molto spesso, nella realtà, il mercato

oscilla, con ampiezze più o meno elevate, fra le due situazioni estreme tratteggiate

dai grafici sopra esposti. Il mercato cioè passa da una situazione “statica” che

risponde alla normale legge della domanda e dell’offerta (ossia, all’aumentare del

prezzo la domanda si riduce e l’offerta aumenta, e viceversa) ad una situazione

“dinamica”, in cui all’aumentare del prezzo la domanda cresce, mentre l’offerta

diminuisce (si riscontra cioè un comportamento “irrazionale” negli operatori).

Quest’ultima situazione di “avvitamento” del mercato, continuerà fino al punto in cui

il livello raggiunto dal prezzo non avrà convinto molti operatori a prendere beneficio

dei guadagni realizzati, incominciando a vendere parte delle attività acquistate nella

fase “rialzista” (in tal caso il mercato tornerà quindi momentaneamente in situazione

10 Per approfondimenti si consiglia la lettura di: Robert J. Shiller , Euforia irrazionale, Il Mulino, 2000; Carmen M. Reinhart, Kenneth S. Rogoff, This time is different, Princeton

University Press, 2009; Niall Ferguson , Ascesa e declino del denaro: una storia finanziaria del mondo, Mondadori, 2009.

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17 17

“statica”, nella quale il comportamento degli operatori si riscontra essere

“razionale”). Lo stesso discorso vale nel caso opposto, in cui cioè il prezzo avrà

raggiunto livelli così bassi da innescare l’inversione del trend (“qualcuno” inizierà ad

acquistare, ritenendo i prezzi appetibili per una nuova fase di accumulazione di

attività, con la conseguenza di riportare temporaneamente il mercato nella situazione

“statica”).

Il prezzo è la variabile più complessa dell’economia. Infatti, teoricamente si

forma sul mercato solo per effetto dell’incontro tra domanda e offerta; di fatto, visto

che la libera concorrenza esiste solo in situazioni ideali, si può dire che nella realtà

sono operanti altre determinanti del prezzo, esogene rispetto al mercato, quali:

− la Pubblica Amministrazione;

− le corporations (intese come grandi aziende);

− i sindacati;

− l’estero.

La Pubblica Amministrazione tende ad orientare il prezzo di determinati beni

e servizi (ad esempio medicinali, trasporti pubblici, affitti, ecc.), in funzione di certi

obiettivi che si è posta, normalmente nel segno di un interesse pubblico prevalente.

Anche le imprese di maggiori dimensioni sono portate a controllare il flusso

dei loro ricavi esercitando un’influenza, talvolta anche dominante, sul prezzo. In certi

casi tali aziende sono effettivamente in grado di realizzare questa politica (si parla

infatti di monopoli globali o regionali); in molti altri casi si tratta semplicemente di

uno sforzo in tal senso, ma con risultati limitati. Questo tipo di comportamento si

giustifica, almeno in parte, con gli ingenti investimenti produttivi necessari in

determinati settori i quali richiedono, come contropartita, una certa stabilità dei flussi

finanziari in entrata sotto forma di ricavi di vendita e ciò al fine di ammortizzare

opportunamente i costi pluriennali sostenuti inizialmente. L’evoluzione dei prezzi dei

beni prodotti da queste aziende non potrà essere legata esclusivamente alle

condizioni di mercato, ma verrà controllata almeno in parte dall’impresa stessa.

Per quanto riguarda i sindacati, è noto che se il mercato del lavoro fosse

abbandonato a se stesso, darebbe luogo a grandissime oscillazioni del salario (prezzo

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del lavoro) anche in senso negativo per i loro percettori (lavoratori). Di conseguenza

le organizzazioni sindacali, da quando si sono costituite alcuni decenni fa, hanno

sempre cercato di irrigidire il più possibile il prezzo del lavoro attraverso tutti gli

strumenti che la legislazione metteva loro a disposizione.

Infine, anche l’estero rappresenta un vincolo alla libera determinazione del

prezzo, poiché occorre fare i conti con la struttura dei prezzi che si determina

all’estero. Il mercato interno, nelle sue componenti di domanda e offerta, sarà infatti

influenzato anche da fattori provenienti dall’estero, intendendo con ciò sia il mercato

estero (nelle sue determinanti di domanda e offerta), che altri elementi esterni al

Paese considerato (quali le autorità pubbliche, i sindacati, le corporations estere).

Riassumendo, può dirsi che il motivo principale per cui altri fattori, oltre al

mercato, influiscono sulla determinazione del prezzo, è da ricercarsi nella esigenza di

stabilità e di minori fluttuazioni dello stesso rispetto a quelle condizioni che sono

tipiche del mercato in situazione di concorrenza perfetta.

Partendo da queste premesse di carattere generale e facendo riferimento ad un

sistema economico aperto all’estero, è facile individuare la domanda nelle

esportazioni, in quanto impiego di risorse, e l’offerta nelle importazioni, viste come

disponibilità di risorse, come si ricava dall’equazione del reddito che ricordiamo

essere:

PIL + M = C + ∆AR + X

OFFERTA (risorse disponibili)=DOMANDA (risorse impiegate)

La grandezza PIL è una disponibilità di risorse quindi fa parte, assieme alle

importazioni (M), dell’offerta; consumi (C) e investimenti in attività reali (presi

come variazione, ∆AR) costituiscono invece impiego di risorse e, con le esportazioni

(X), compongono la domanda. Inoltre, in un sistema economico chiuso si ha:

PIL = C + I (dove I = ∆AR) e PIL = C + S

da cui si trae che:

S = I (S = ∆AR)

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2. Variabili Economiche

2.1 Variabili fondo e variabili flusso

Le variabili flusso riguardano la misurazione di un fenomeno economico con

riferimento ad un periodo di tempo. Ad esempio, in un anno si è guadagnato un

reddito di Y euro, oppure in un anno si sono effettuate spese per consumi per C euro;

ciò significa che in quell’anno il flusso di risparmio (S) è stato di (Y – C) euro. Altri

esempi di quantità flusso sono dati dalle spese effettuate in un certo periodo di tempo

per l’acquisto di attività reali (∆AR) oppure di attività finanziarie (∆AF)11. Lo stesso

vale per le emissioni di passività finanziarie effettuate durante un certo periodo di

tempo (∆PF).

Poiché nel tempo si assiste ad una stratificazione o accumulazione dei flussi

(al netto di eventuali flussi di segno contrario) è possibile prendere in considerazione

una quantità che è appunto la somma algebrica di tali flussi, misurata ad un certo

istante di tempo: tale grandezza viene definita variabile fondo. Ad esempio, ad una

certa data, si può calcolare la somma netta dei flussi di investimento (I = ∆AR)

effettuati durante i periodi precedenti, arrivando in questo modo a misurare la

consistenza delle attività reali in essere, cioè:

n AR1 + Σ ∆ARi = ARn

i=1

dove: ∆AR1 = AR2 – AR1 n

Σ ∆ARi = ∆AR1 + ∆AR2 + … + ∆ARn i=1

Analogamente, la sommatoria dei flussi di risparmio, calcolata ad una certa data,

costituisce il netto patrimoniale che è un concetto fondo e che può essere definito

come il complesso di risorse non derivanti da emissioni di passività finanziarie.

11 Quando una variabile viene presentata come flusso e non come fondo viene preceduta dal segno di variazione “∆”.

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Quanto detto vale anche per attività e passività finanziarie, per cui si avrà: n AF1 + Σ ∆AFi = AFn (es. accumulazione di un portafoglio titoli) i=1 n PF1 + Σ ∆PFi = PFn (es. consistenza dei depositi nel bilancio di una banca) i=1

Si può pertanto associare la quantità flusso al concetto di variazione e quindi

riferita ad un arco di tempo e la quantità fondo al concetto di consistenza e pertanto

connessa ad un istante di tempo.

FLUSSO VARIAZIONE PERIODO

FONDO CONSISTENZA ISTANTE

In quest’ottica, ad esempio, il patrimonio (o ricchezza) risulta essere una

consistenza e la sua variazione è rappresentata dal reddito. Oppure, il livello generale

dei prezzi è una consistenza mentre la sua variazione è misurata dall’inflazione.

Ancora, lo stock di capitale esistente ad un dato istante è una consistenza, la sua

variazione è l’investimento.

In generale, in campo economico si da più importanza allo studio delle

variazioni piuttosto che a quello delle consistenze. Anzi, addirittura si considerano

come rilevanti le “variazioni delle variazioni” (variazioni delle variabili flusso).

Spesso, infatti, nell’interpretazione di molti fenomeni economici, l’aumento del PIL,

la riduzione del deficit, l’inflazione tendenziale (tutti esempi di variazioni delle

variabili flusso) hanno un peso maggiore rispettivamente del livello del PIL,

dell’ammontare del disavanzo e dell’inflazione media (tutte variabili flusso).

2.2 Variabili macroeconomiche e variabili

microeconomiche

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«Secondo una definizione classica, l’economia si interessa del modo in cui

vengono impiegate le risorse tra usi alternativi al fine di soddisfare i bisogni umani.

Generalmente viene suddivisa in due parti: microeconomia e macroeconomia. La

prima studia il comportamento economico delle unità individuali quali i consumatori,

le imprese e i proprietari di risorse. Uno degli scopi più importanti di essa consiste

nel facilitare la comprensione del funzionamento e degli effetti del sistema dei

prezzi»12. La seconda «si occupa invece dell’andamento del sistema economico nel

suo insieme: delle fasi di espansione e recessione, della produzione globale dei beni e

servizi e della crescita della produzione, dei tassi d’inflazione e di disoccupazione,

della bilancia dei pagamenti e dei tassi di cambio»13.

Se ne conclude che le quantità macroeconomiche sono quelle che attengono

all’intero sistema economico (quale può essere, ad esempio, l’azienda

Italia ). Ci si riferisce invece alla microeconomia allorché si

studiano i settori o le singole aziende di un sistema economico.

Questa distinzione è molto agevole quando, ad esempio, si parla, da una

parte, di un’impresa e, dall’altra, di una nazione. E’ invece meno agevole quando si

considera un grande settore dell’economia quale la Pubblica Amministrazione

centrale di un Paese. Ci si può porre quindi il quesito se i conti e le quantità che vi

fanno capo sono di tipo macroeconomico o microeconomico. La risposta è che siamo

di fronte a variabili microeconomiche, per quanto grandi esse siano nell’ambito del

sistema economico nazionale. La Pubblica Amministrazione, infatti, non è altro che

un’azienda di grandissime dimensioni che ha delle entrate (prelievo fiscale) e delle

uscite (spese correnti e di investimento). E’ però un’azienda che, rispetto al settore

privato, gode di due importanti privilegi: può aumentare “d’ufficio” il proprio

fatturato attraverso la leva fiscale (impoverendo in tal modo i settori privati da cui

12 E. Mansfield, Microeconomia, Il Mulino, Bologna, 1975, p. 24. 4 R. Dornbusch – S. Fischer, Macroeconomia, Il Mulino, Bologna, 1981, p. 13.

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proviene il gettito); può utilizzare come strumento per finanziare le proprie attività la

moneta emessa dalla Banca Centrale nazionale. E’ quindi un’azienda che ha il potere

di influenzare alcune variabili macroeconomiche (imposizione fiscale, moneta). Il

debito della Pubblica Amministrazione è dunque una variabile microeconomica, ma

con forti connotazioni macroeconomiche; prova ne è il Trattato di

Maastricht 14 (firmato il 7 febbraio

1992 dagli Stati aderenti all’Unione Europea, con l’obiettivo primario di creare una

completa unione economica e monetaria) nel quale la grandezza “debito pubblico” è

stata inserita fra le condizioni di stabilità macroeconomica di un Paese.

Le variabili macroeconomiche sono tenute particolarmente in considerazione

dagli osservatori internazionali per giudicare lo stato di salute dell’economia di un

Paese. A questo proposito, esistono condizioni fondamentali di equilibrio

macroeconomico con le quali un Paese deve confrontarsi se aspira ad ottenere

credibilità e rispetto nel panorama economico mondiale. Fra le principali condizioni

di stabilità macroeconomica – i cosiddetti fondamentali o fundamentals

14 Il Trattato di Maastricht (noto anche come Trattato sull'Unione europea, TUE) venne firmato il 7 febbraio 1992, sulle rive della Mosa, nella cittadina olandese di Maastricht, dai 12 paesi membri dell'allora Comunità Europea, oggi Unione Europea ed è entrato in vigore il 1º novembre 1993. Il Trattato di Maastricht comprendeva 252 articoli nuovi, 17 protocolli e 31 dichiarazioni. L'Unione europea così creata veniva edificata sui tre pilastri del progetto Santer, il cui principale sarebbe stato quello noto come “Comunità europea” (CE, in sostituzione della CEE), l'unico a carattere federale rispetto agli altri due – sulla PESC e sugli affari interni – di carattere intergovernativo. L'Unione dispone di un quadro istituzionale unico in quanto le sue istituzioni sono comuni a tutti e tre i pilastri; oltre a quelle canoniche, viene ufficialmente riconosciuto il Consiglio europeo come organo di sviluppo politico. L'Unione europea restava tuttavia una struttura anomala in quanto priva di personalità giuridica e di risorse proprie, a parte quelle della CEE di cui tuttavia non avrebbe potuto disporre. Fonte: Wikipedia

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23 23

- si

possono annoverare:

a) lo sviluppo economico come tendenza di fondo (la dinamica del PIL non deve

cioè essere autolimitata in modo artificioso da un Paese attraverso misure

restrittive su consumi, investimenti ed esportazioni);

b) l’occupazione (il mercato del lavoro, per favorire il più possibile l’assorbimento

della popolazione attiva, deve essere flessibile e non di esclusivo dominio del

potere sindacale);

c) la bilancia dei pagamenti (la dinamica dell’import/export di un Paese deve essere

possibilmente equilibrata, deve cioè evitare di mantenere saldi dello stesso segno

per lunghi periodi di tempo che porterebbero l’economia nazionale ad

accumulare eccessivo debito o credito verso l’esterno: in entrambe i casi, infatti,

gli altri Paesi ne verrebbero danneggiati);

d) l’inflazione (deve essere allineata con quella dei Paesi confrontabili ed è bene

che, anche in termini assoluti, sia mantenuta bassa);

e) il tasso di interesse (mutatis mutandis, vale il medesimo discorso di cui al punto

precedente riguardo la variabile inflazione);

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f) il tasso di cambio (la buona gestione dell’economia di un Paese la si misura

anche con la stabilità del cambio o, comunque, con un cambio che semmai ha la

tendenza ad apprezzarsi);

g) il rapporto deficit pubblico/PIL (quando questo rapporto è elevato si verificano

tre fenomeni negativi: a) lo spiazzamento della domanda di credito per

investimenti privati; b) una pressione al rialzo sui tassi di interesse; c) la caduta

nella trappola del debito attraverso il moltiplicatore dell’accumulazione degli

interessi, il debito assume cioè una sua vita propria e si ingigantisce anche

quando si evita l’accensione di nuovi debiti);

h) il rapporto debito pubblico/PIL (questa variabile è collegata con quella di cui al

punto precedente e con il verificarsi della trappola del debito).

Al fine di realizzare l’euro , la moneta unica europea, il

Trattato di Maastricht ha previsto che vi fosse il rispetto da parte dei Paesi membri di

cinque degli otto punti sopra elencati (stabilità dei prezzi, stabilità dei cambi,

convergenza dei tassi di interesse e rapporti deficit e debito pubblico su PIL)15.

Sviluppo economico, occupazione e bilancia dei pagamenti non siano stati inclusi,

nonostante rappresentino elementi fondamentali per poter esprimere in maniera

esauriente un giudizio sulla stabilità macroeconomica di un Paese.

2.3 Variabili strutturali e variabili

congiunturali

Le variabili economiche possono essere ancora distinte in variabili strutturali

e variabili congiunturali. Le prime riguardano la tendenza di fondo dell’economia

15 I contenuti del Trattato di Maastricht verranno analizzati in dettaglio nella Parte Seconda dedicata all’Unione Europea, con dispensa ad hoc.

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(trend). Variabili strutturali sono innanzi tutto lo stock di risorse umane e di beni

capitali disponibili a livello del sistema produttivo, suddivisi tra settore agricolo,

industriale e dei servizi, oltre alle tendenze di fondo di quell’economia.

Le variabili congiunturali riguardano invece l’andamento ciclico della vita

economica di un Paese. Congiuntura significa, infatti, situazione pro-

tempore dell’economia: essa individua cioè la posizione dell’economia nell’ambito

di un ciclo economico.

A questo proposito bisogna ricordare che il ciclo economico si sovrappone

alla tendenza economica di fondo di un Paese. Quest’ultima, ad esempio, potrebbe

avere la tendenza a svilupparsi ad un ritmo del 2,5%, mentre ci potranno essere fasi

di sviluppo al 6% e fasi di contrazione fino a valori negativi dell’1% e oltre. La

situazione dei rapporti con l’estero cambierà a seconda che un Paese si trovi nell’una

o nell’altra fase.

Tale discorso sulla differenza fra struttura e congiuntura può essere riferito a

produzione, consumo, investimento, risparmio, importazioni ed esportazioni, cioè

può darsi che ci sia, ad esempio, una fase di espansione del consumo all’interno del

Paese, ma una contrazione delle esportazioni così forte da determinare una

diminuzione del Prodotto Interno Lordo. Da ciò l’importanza di individuare le

componenti del PIL in quanto ciascuna di esse può attraversare una fase di

espansione o di contrazione. Nel complesso, infatti, solo la risultante delle

componenti in espansione o in contrazione che concorrono a formare il PIL, ne

determina la contrazione o la espansione complessiva rispetto al trend di fondo

dell’economia che, invece, può considerarsi una variabile strutturale.

La figura successiva mostra graficamente quanto detto in precedenza. Trend

di fondo e ciclicità sono due “misure” dello stesso fenomeno (nell’esempio,

l’andamento del PIL).

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Il trend di fondo viene normalmente raffigurato da una retta (trendline), che

può essere di regressione piuttosto che congiungente due punti di minimo o massimo

relativi (la pendenza della retta rappresenta sostanzialmente la “media” dello

sviluppo economico); la ciclicità ha di norma un andamento sinusoidale e un ciclo

completo viene convenzionalmente suddiviso in quattro fasi, mediamente della

durata di un anno ciascuna: espansione, espansione incontrollata (boom), recessione,

depressione (bust).

La ciclicità di cui si è detto (4/5 anni in media per compiere un ciclo

completo) riguarda principalmente l’industria e i servizi. Per il settore

dell’agricoltura si ha invece una ciclicità più semplice, scandita dal tempo

“astronomico”, ed è quella che viene definita “stagionalità”. Poiché ormai

l’agricoltura incide per una minima parte sull’attività produttiva dei Paesi

industrializzati, gli economisti studiosi delle fluttuazioni cicliche s’interessano

principalmente della congiuntura dei settori secondario e terziario (sono i c.d.

“congiunturalisti”). Esistono anche alcuni economisti (i c.d. “strutturalisti”) che si

occupano dello studio delle variabili strutturali, che attengono come si è detto al

espansione incontrollata

(esempio di posizione congiunturale)

recessione

trendline

durata media di un ciclo completo:circa 4 anni

depressione(bust )

espansione

tempo

PIL

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trend di fondo (approssimativamente su dieci studiosi dei cicli economici, solo uno è

strutturalista, mentre i rimanenti nove sono congiunturalisti16).

Gli studiosi congiunturalisti si sono divisi storicamente in due grandi scuole

di pensiero: la scuola “monetarista” (M. Friedman ) e la scuola

“interventista” (J. M. Keynes ). I monetaristi considerano il ciclo

economico come un fatto inevitabile, fisiologico, al quale non contrapporre “forze”

eccessive per attenuarne le oscillazioni naturali. Secondo questi economisti le

pubbliche autorità di un Paese dovrebbero solo impostare le grandi linee della

politica economica e monetaria (in particolare, per quest’ultima la banca centrale

dovrebbe promuovere l’espansione fissa della massa monetaria), lasciando fare, per

il resto, al mercato. Posizioni di questo tipo sono condivise, in genere, dagli

schieramenti c.d. “di destra” che governano i vari Paesi del mondo industrializzato

(negli Stati Uniti sono i repubblicani). I monetaristi sostengono che l’intervento

esterno al mercato operato dalla “mano” pubblica per attenuare o eliminare la

ciclicità abbia come risultato addirittura l’amplificazione delle oscillazioni. Questo

anche perché non è possibile sapere con assoluta certezza in che punto ci si trova del

ciclo economico: si possono fare studi più o meno dettagliati, ma mai il fenomeno

potrà essere “fotografato” con precisione. In base alla teoria monetarista, quindi, per

attenuare le fluttuazioni dell’economia è opportuno che le autorità pubbliche

favoriscano la creazione di condizioni di stabilità di fondo (es. espansione fissa della

16 Per approfondimenti sul tema della congiuntura si consiglia: Innocenzo Cipolletta ,

Congiuntura economica e previsione. Teoria e pratica dell'analisi congiunturale, Il Mulino

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base monetaria) e lì si fermino, poiché saranno poi le libere forze del mercato a

compiere l’importante azione stabilizzatrice.

Gli economisti interventisti (keynesiani), invece, vedono nell’intervento dello

Stato, attraverso la spesa pubblica, la via ottimale per stabilizzare il ciclo economico.

Secondo la teoria keynesiana, i pubblici poteri debbono operare sulle fluttuazioni

cicliche con una politica economica espansiva nelle fasi di recessione/depressione, in

modo da contrastare con la spesa pubblica (c.d. deficit spending) la flessione che si

verifica nel settore privato. Così facendo, la somma delle voci costituenti il PIL di un

Paese rimane pressoché invariata e l’obiettivo della stabilizzazione del ciclo è

raggiunto.

PIL = Consumi + Investimenti in attività reali + Spesa pubblica

Queste posizioni interventiste, sebbene siano teoricamente ineccepibili, hanno molto

spesso dimostrato, nella realtà, di esasperare piuttosto che di smorzare le fasi del

ciclo. E’ molto difficile, infatti, che l’intervento pubblico risulti “sincronizzato” con

l’inizio della recessione per la quale esso è stato deciso. In tal modo, oltre a mancare

l’obiettivo della stabilizzazione, si provocano sgradevoli “guai” aggiuntivi (tensioni

inflattive, spiazzamento dei consumi privati, ecc.). Nelle teorie keynesiane si

identificano perlopiù i programmi dei governi c.d. “di sinistra” (negli Stati Uniti, le

posizioni interventiste sono proprie dello schieramento democratico).

Oltre agli economisti di cui si è discusso finora (strutturalisti, congiunturalisti

a loro volta suddivisi in monetaristi e interventisti) vi è una categoria di studiosi che

analizza l’andamento dei cicli lunghi (o cicli generazionali). Il primo a proporre

l’affascinante teoria dei cicli lunghi fu l’economista sovietico

Kondratieff , il quale sostenne che la grave crisi che colpì il sistema

capitalistico occidentale nel 1929 non era altro che la fine di una fase di crescita

dell’economia che durava ormai da molti anni, non certo la fine e il fallimento del

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capitalismo come aveva preconizzato invece il “collega” Karl Marx

. E la storia, almeno in linea di principio, diede ragione a Kondratieff. Quest’ultimo

sosteneva che lo sviluppo economico seguiva andamenti ciclici lunghi (di 36 anni di

durata complessiva), composti da fasi di espansione/crescita e da fasi di

recessione/depressione di durata quasi eguale. La crisi del ’29 segnò l’inizio di una

lunga discesa che sarebbe terminata solo 18-20 anni più tardi, con la ripresa

economica del secondo dopoguerra (gli anni Cinquanta).

Interpretare in modo coerente i cicli lunghi dell’ultimo secolo è certamente

un’impresa velleitaria, ma questo non ha impedito ad alcuni studiosi di dare delle

letture soddisfacenti e accattivanti delle epoche trascorse. La più convincente pare

essere quella proposta recentemente dallo studioso americano Christopher

Carolan , il quale è pervenuto alla conclusione che nell’arco temporale

degli ultimi cent’anni di storia sono individuabili due andamenti ciclici, sfasati ed

interconnessi l’uno all’altro (il grafico di seguito riportato cerca di schematizzarne

l’andamento). Questo spiegherebbe molte delle contraddizioni che si riscontrano

normalmente quando si confrontano fra loro le diverse conclusioni cui sono giunti gli

studiosi dei cicli lunghi.

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Come appare subito evidente dall’analisi del grafico, sia la curva in grassetto

(ciclo principale) che la curva sottile (ciclo secondario) hanno medesima durata in

quanto a ciclo completo (36 anni, che corrisponde alla tipica durata del ciclo

kondrateviano) e a fasi ascendente (20 anni) e discendente (16 anni). Le fasi

sfavorevoli del ciclo principale sono tre (1930-1946; 1966-1982; 2002-2018) così

come quelle del ciclo secondario (1901-1917; 1937-1953; 1973-1989). L’azione

combinata dei due cicli kondrateviani interconnessi fa si che nei periodi 1937-1946,

1973-1982 e (in previsione) 2009-2018 si registrino mediamente andamenti pessimi

dell’economia mondiale. All’opposto, i periodi di maggiore positività si individuano

negli anni 1917-1930, 1953-1966 e 1989-2002.

Sulla scorta degli andamenti ciclici lunghi testé delineati, il periodo che

stiamo vivendo si colloca quindi in prossimità del punto di svolta del ciclo principale

(2002), analogo in questo al 1930 (anno di svolta che segnò l’inizio della grande

depressione) e al 1966 (anno in cui si preparò il periodo di grave disagio sociale che

va sotto il nome di Sessantotto). In base al modello presentato, dunque, gli anni

successivi al 2002 dovrebbero portare una situazione di iniziale discesa che verrà

però in parte attutita dal trend ancora positivo del ciclo secondario; il quadro si

aggraverà in modo pesante dopo il 2009, anno in cui i due cicli lunghi sommeranno

le loro forze entrambe di segno negativo. La grande incognita sarà se questa fase

20091901

ciclo secondario

ciclo principale

1910 1917 1946 1953

1930 1937 1966 1973 2002

1989 20181982

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31 31

molto negativa avrà le sembianze della grande depressione degli anni Trenta o

della “rivoluzione sociale” del Sessantotto. Oppure sarà invece qualche cosa di

completamente nuovo.

Lo studio dei cicli lunghi, come è facile intuire, non ha un’utilità immediata e

diretta per fare previsioni accurate in termini di giorni, settimane o mesi. A questo

scopo sono preposte altre metodologie d’analisi. L’obiettivo perseguibile attraverso i

cicli lunghi è soprattutto quello di evidenziare i grandi punti di svolta (top e bottom)

secolari dell’economia nel suo complesso. Il crash del 1987 che apparve ai più come

un grande punto di svolta, in realtà non lo era poiché risultava inserito in un periodo

che da favorevole stava diventando favorevolissimo (il ciclo principale era in piena

fase di ascesa). Perciò, l’analisi dei cicli lunghi dev’essere vista come uno strumento

d’indagine che affianca e completa il quadro relativo allo studio dell’andamento delle

variabili economiche strutturali e congiunturali, di cui si è detto in precedenza.

2.4 Variabili reali e variabili finanziarie

Per trattare in modo esaustivo l’argomento concernente le variabili reali

(economia reale) e le variabili finanziarie (finanza), e comprenderne al meglio le

differenze è utile far riferimento al metodo dei flussi di fondi. Poiché tale metodo di

analisi è atto ad introdurre l’approfondimento sul tema della finanza internazionale, è

stato opportunamente inserito in apertura della Parte Terza (Finanza Internazionale),

come primo paragrafo del Capitolo I, dedicato allo studio della struttura finanziaria

dei Paesi industrializzati e dei Paesi in via di sviluppo. Pertanto, ad esso si fa rinvio.

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2° CAPITOLO Le tendenze evolutive

dell'economia

mondiale e del commercio

internazionale

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“La luce del sole è il miglior disinfettante, la luce elettrica è il miglior poliziotto”, Louis

Brandeis17

“L’India ha duecento milioni di giovani tra i 15

e i 24 anni di età, cioè più dell’interea popolazione del Brasile e il 70% dei suoi abitanti ha meno di 35 anni”

David Bloom18 “Patria di quasi la metà della popolazione della

Terra, e di sei tra le nazioni più popolose del pianeta, L’Asia ha fornito al mondo più di un quinto del suo prodotto interno lordo, quasi il 30% del totale delle sue esportazioni e un terzo dei flussi di capitali sio mercati

globali”, Bill Emmott19

“The lazier the cat, the happier is he is”, Carlo

Bastasin20

17 Louis Brandeis (Louisville, 1856 –1941) è stato un avvocato e giurista statunitense, membro della Corte Suprema degli Stati Uniti dal 1916 al 1939. È ricordato per aver perseguito gratuitamente tematiche di grande rilevanza sociale, promuovendo l'avanzamento del diritto in vari campi e la tutela delle libertà civili. 18 David Bloom, Demografo di Harvard University, Chair, Department of Global Health and Population. La citazione è tratta da F. Rampini, La speranza Indiana, Mondadori, 2007 19 Bill Emmott (1956) è un giornalista e saggista britannico. Corrispondente da Tokyo nel 1980, dal 1999 al 2006 è stato direttore della prestigiosa rivista britannica The Economist e durante il suo periodo di controllo la rivista ha più volte criticato Silvio Berlusconi definendolo "inadatto a governare" 20 Carlo Bastasin, giornalista italiano, tratto da “Italy: Fat PIIG or Lazy Cat?”, April 15th, Peterson Institute

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II. LE TENDENZE EVOLUTIVE DELL’ECONOMIA

MONDIALE E DEL COMMERCIO

INTERNAZIONALE

1. La mappa e la crescita dell’economia

mondiale e del commercio internazionale

a) La mappa

L’attuale quadro dell’economia mondiale si compone di Paesi industrializzati,

di Paesi produttori ed esportatori di materie prime e di Paesi ad economia di

transizione.

Paesi industrializzati: si possono a loro volta suddividere in tre categorie. La

prima è costituita dai Paesi che dispongono di un sistema economico di ampie

dimensioni, derivante sia da un elevato reddito pro-capite che da un numero di

abitanti cospicuo ed in generale superiore ai 50 milioni di persone (con l’eccezione

del Canada). Volendo individuare brevemente le caratteristiche dei Paesi

appartenenti a questa categoria, bisogna osservare che Germania ,

Francia , Gran Bretagna e Italia

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sono molto simili, sia in termini di sistema economico, che di entità

della popolazione. Il Canada si discosta invece da questi ultimi,

risultando infatti più affine agli Stati Uniti : lo si può quasi

considerare una loro “appendice”. Il Giappone , che pur avendo

iniziato a costruire le basi del suo attuale sviluppo solo dopo il secondo conflitto

mondiale, pur soffrendo della carenza di materie prime e dovendo affrontare il

problema della ricostruzione postbellica, è riuscito a raggiungere la posizione di terza

potenza industriale del mondo.

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Una menzione particolare per i nuovi protagonisti della crescita mondiale:

India 21 e Cina 22, che rappresentano il nuovo

baricentro economico del mondo. Nel 2010 la Cina rappresenta il 12% del PIL

mondiale. Nel 2009 la Cina è leader della produzione mondiale industriale con la sua

quota del 21,5%. Gli Stati Uniti dal 24,8% del 2001 sono scesi al 15%. Il Giappone

si è quasi dimezzato dal 15,1% all’8,5%. Questo il commento di L. Summers e T.

Geithner23 – principali collaboratori di Obama sul fronte economico-

in occasione del G20 di Toronto (27.6.10): “In this new era, when emerging markets

21 Si consiglia la lettura di F. Rampini, La Speranza Indiana, Mondadori, 2007

22 F. Rampini , inviato di Repubblica in Cina, ha coniato il termine CINDIA. Si

consiglia la lettura di F. Rampini, L’impero di Cindia, Mondadori, 2004 23 Timothy Geithner (New York, 1961) è un politico statunitense. È dal 26 gennaio 2009 Segretario al Tesoro degli Stati Uniti nell'Amministrazione Obama. Precedentemente aveva ricoperto il ruolo di presidente della sezione di New York della Federal Reserve e di vice-presidente del Federal Open Market Committee (FOMC).

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account for two-thirds of global growth, concerted action by the G-20 is the only

effective way to confront the challenges that lie ahead. As world leaders arrive in

Toronto, we must renew the sense of common purpose and collective urgency that

has served the world so well over the past year and a half”.

Sia Cina che India fanno parte dei BRIC24, i Paesi a forte crescita individuati

anni fa dal capoeconomista di Goldman Sachs Jim O’Neill. Lo sviluppo e la crescita

economica sono in Asia. E così – ce ne siamo dimenticati – è stato nel passato. Nel

1820, secondo lo storico economico Angus Maddison25, nel 1829 Cina e India, da

sole, coprivano oltre la metà della produzione mondiale globale. Si sta avverando la

previsione di Napoleone due secoli fa, che disse: “Lasciate dormire la Cina, perchè

quando si sveglia farà tremare il mondo”.

24 BRIC è un acronimo utilizzato in economia internazionale per riferirsi congiuntamente a:

• Brasile Russia India Cina

Questi paesi condividono una grande popolazione (Russia e Brasile oltre il centinaio di milioni di abitanti, Cina e India oltre il miliardo di abitanti), un immenso territorio, abbondanti risorse naturali strategiche e, cosa più importante, sono stati caratterizzati da una forte crescita del PIL e della quota nel commercio mondiale, soprattutto nella fase iniziale del XXI secolo.

25 Angus Maddison (1926 –2010) è stato un economista britannico, professore emerito presso la facoltà di Economia dell'Università di Groningen. Membro della Organisation for Economic Co-operation and Development, è stato a capo della Divisione Economia dal 1953 al 1962. Autore di numerosi lavori di analisi economica.

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QUADRO DI APPROFONDIMENTO NEW LESSONS FOR RESILIENT ASIA

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Nella seconda categoria sono da ricomprendersi Paesi che in taluni casi hanno

un reddito pro-capite spesso più elevato di quello dei Paesi del primo gruppo (si

pensi ad esempio alla Svizzera ), ma che hanno una popolazione

inferiore ai 10-15 milioni di abitanti. Quindi il fatto che siano stati collocati al

secondo posto nella nostra graduatoria non è dovuto al minor grado di sviluppo che li

caratterizza, bensì al minor numero di abitanti che li popola. Considerando infatti il

loro grado di sviluppo, si può rilevare che spesso sono ai primi posti per quanto

concerne il livello di industrializzazione. A tale proposito, è utile ricordare quali sono

i due indici più comunemente utilizzati per stabilire il grado di industrializzazione e

di sviluppo di un Paese (quest’ultimo, tra l’altro, è già stato evidenziato in

precedenza quando si è parlato del primo giudizio di valore):

capitale totale impiegato nell’industria grado di industrializzazione = _____________________________________ numero totale degli addetti

Prodotto Interno Lordo grado di sviluppo = _____________________ popolazione

Crediamo interessante far notare che l’Italia si colloca – a livello di

produzione industriale pro-capite - come la seconda nazione più industrializzata del

mondo26: “Davanti all’Italia, con un notevole vantaggio c’è la Germania. Al terzo

26 Marco Vitale in Responsabilità dell’imprenditore, all’interno di Responsabilità nell’impresa, Piccola Biblioteca INAZ, 2010

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posto c’è il Giappone e al quarto gli USA. Molto staccate Francia, Gran Bretagna,

Spagna”.

La prima potenza industriale del mondo è saldamente insediata la Cina con il

21,5%(dati 2009), a fronte del 9% di nove anni fa. USA secondi con il 24,8%.

Giappone terzo con il 15,8%. Quarta la Germania con il 6,5%. Quinta l’Italia con il

3,9% della produzione industriale mondiale.

Per alcuni Paesi rientranti nella seconda categoria, questi due indici sono più

elevati di quelli corrispondenti alla maggior parte dei Paesi industrializzati maggiori.

Come vedremo, i Paesi industrializzati minori hanno inoltre generalmente un

elevatissimo grado di apertura dell’economia al resto del mondo, caratteristica questa

che è difficile invece riscontrare in modo così marcato nelle economie dei Paesi

maggiori.

La terza categoria di Paesi industrializzati è molto particolare. Si tratta di un

certo numero di Paesi (in passato soprannominati “NIC”, acronimo di Newly

Industrialized Countries ), soprattutto del sud-est asiatico, che

fino a 20 anni fa non poteva certamente essere ricompreso nel gruppo in parola (sono

le c.d. “Piccole e Grandi Tigri Asiatiche”, ovvero Thailandia ,

Filippine , Malesia , Indonesia ,

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Hong Kong , Taiwan , Corea del

Sud e Singapore ). Tali Paesi si distinguono da

quelli degli altri due gruppi non solo per la recente industrializzazione, ma anche per

le peculiarità del loro sviluppo legato ad una cultura non occidentale e quindi assai

diversa dalla nostra e, poiché l’industrializzazione è sempre stata figlia direttamente

o indirettamente dell’Occidente europeo, i caratteri di questa nuova forma di

industrializzazione sono per noi più difficili da interpretare. Ciò che caratterizza i

NIC non è un elevato reddito pro-capite, ma sono le straordinarie capacità di

risparmio, la disponibilità ad un lavoro particolarmente intenso da parte delle

maestranze, il basso costo del lavoro, la formidabile capacità di esportazione

soprattutto di prodotti che incorporano alta tecnologia e nella cui produzione i NIC

hanno raggiunto una posizione che spesso è di assoluto primato.

Paesi produttori ed esportatori di materie prime: si tratta di un gruppo molto

meno omogeneo e dai caratteri molto meno definiti rispetto al gruppo sinora visto.

Per l’analisi che seguirà, si ritiene opportuno operare una suddivisione dei Paesi in

quattro categorie:

1 Paesi produttori ed esportatori di materie prime aventi un tenore di vita

molto simile ai Paesi industrializzati e che, in molti casi, si potrebbero

confondere con essi. Si tratta in particolare di nazioni come

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l’Australia , la Finlandia , la

Grecia , la Nuova Zelanda , il Sud

Africa e la Spagna . Tali Paesi

sono percepiti, dalla comunità internazionale come Paesi industrializzati

senza che essi lo siano. Infatti si tratta di Paesi caratterizzati da un reddito

talora molto elevato, ma non sorretto da un adeguato sviluppo industriale

e di conseguenza non rientranti a pieno titolo nella categoria dei Paesi

produttori ed esportatori di manufatti.

2 Si tratta in generale di nazioni che sono riuscite a sviluppare una limitata

industrializzazione o che hanno beneficiato di particolari situazioni di

ricchezza del sottosuolo (escludendo le risorse energetiche suscettibili di

creare il raggruppamento dei Paesi dell’OPEC di cui parleremo

successivamente). Ci si riferisce, fra gli altri, all’Argentina, Cile, Turchia,

Portogallo.

2. Paesi africani ricchi di materie prime: Sud Africa (risorse minerarie: oro,

diamanti, platino, ferro, uranio, carbone, cromo, carbone),

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Nigeria (Paese inserito da Goldman Sachs nella lista

dei Next 11 tra i più promettenti del mondo, ricco di petrolio) e Sudan

(dove a gennaio 2011 si è tenuto un referendum per

l’eventuale divisione di nord e sud), grande produttore di petrolio e prodotti

petroliferi, cotone, sesamo, arachidi, gomma arabica, zucchero e bestiame. Paesi

asiatici come il Kazakistan27 . L’ENI è

uno dei più importanti partner privati del Kazakistan. Le relazioni con la compagnia

italiana risalgono al 1992, quando venne firmato il primo accordo di ripartizione

27 Il Kazakistan, è uno stato transcontinentale, a cavallo tra Europa ed Asia, ed è un'ex repubblica dell'Unione Sovietica. Confina con la Russia, la Cina, e alcuni paesi dell'Asia centrale, quali il Kirghizistan, l'Uzbekistan e il Turkmenistan ed è delimitato per un tratto dalle coste del Mar Caspio. In termini di risorse naturali il Kazakistan è probabilmente il paese con la maggiore ricchezza pro capite al mondo. Il problema è condurre serie politiche di sviluppo e distribuire la ricchezza tra la popolazione, il che non è assolutamente facile in un paese dove la corruzione e il regionalismo sono profondamente radicati. Il paese possiede circa il 60% delle risorse minerarie dell'ex Unione Sovietica; vengono estratte grandi quantità di ferro nel bacino di Kustanaj nel nord-ovest, notevoli quantità di carbone nei dintorni di Karaganda e Ekibastuz, e inoltre petrolio, metano e diversi metalli usati nell'elettronica, nell'ingegneria nucleare e nella missilistica. Fonte: wikipedia

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della produzione del campo di Karachaganak, nel nord del paese, di cui dal 1997

l’Agip è operatore e da cui già estrae il petrolio con una licenza per quaranta anni.

Scoperto nel 1979 questo campo copre un'area di 450 km² e le compagnie si sono

organizzate nel consorzio Karachaganak Integrated Organization (KIO) che vede la

partecipazione di: ENI/Agip e British Gas (co-operatori al 32.5%), ChevronTexaco

(20%) e la compagnia russa Lukoil (15%). Il progetto mira ad espandere la

produzione del campo, attiva dal 1984, dagli attuali 100,000 barili al giorno a più di

220,000 e ad aumentare la produzione di gas parallelamente. Dall’Azerbajan – ricco

di gas, in particolare dal Shan Deniz II field dovrebbe partire il gasdotto Nabucco28

che attraverserà Turchia, Bulgaria,

Romania, Ungheria e Austria.

4. Sono Paesi molto eterogenei fra loro. Si tratta dei Paesi dell’OPEC (Organization

of Petroleum Exporting Countries ), organizzazione che

racchiude i Paesi arabi petroliferi e alcuni Paesi petroliferi non arabi. L’OPEC venne

fondata a Baghdad nel 1960 da Arabia Saudita ,

28 Il gasdotto Nabucco è un progetto volto alla realizzazione di una nuova via di importazione del gas naturale proveniente dalla zona del Caucaso, del Mar Caspio e, potenzialmente, del Medio Oriente. Collegherà la Turchia con l'Austria. Fra gli obiettivi dichiarati del nuovo gasdotto c'è il rafforzamento della sicurezza dell'approvvigionamento per i Paesi componenti il consorzio e per l'Unione Europea nel suo complesso. A gasdotto ultimato, infatti, il gas che affluirà sul mercato comunitario proverrà da nuovi fornitori attraverso un nuovo corridoio di approvvigionamento. Fonte Wikipedia.

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Iraq , Iran , Kuwait e

Venezuela con l’intento di difendere le rispettive economie dalla

flessione del prezzo del petrolio imposta dalle grandi compagnie petrolifere

internazionali. All’organizzazione aderirono in seguito altri Paesi, fra cui la Libia, la

Nigeria, il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti, l’Algeria, l’Ecuador, il Gabon, l’Indonesia.

Per completare il disegno della mappa dell’economia mondiale, è utile

sottolineare che gli Stati Uniti hanno caratteristiche tali che li rendono classificabili

sia come Paese produttore ed esportatore di manufatti che come produttore ed

esportatore di materie prime. Solo in tal modo si spiega il particolare e a volte

ambiguo atteggiamento degli Stati Uniti in campo economico e commerciale. Infatti

essi si schierano talvolta con i Paesi industrializzati, talaltra con i Paesi OPEC oppure

con i Paesi meno sviluppati che producono e commerciano materie prime, avendo

interessi contemporaneamente analoghi a quelli di ognuno dei tre raggruppamenti.

b) La crescita

Limitando l’analisi della crescita economica e degli scambi mondiali

all’ultimo secolo, è agevole notare come il grado di interdipendenza economica fra i

vari Paesi sia cresciuto enormemente dopo la seconda guerra mondiale. L’impennata

dell’interscambio mondiale di questo periodo veniva dopo la battuta d’arresto

determinata dalla grande crisi e dalle strategie autarchiche degli anni Venti e Trenta.

Il processo di liberalizzazione degli scambi e l’adozione delle regole che

costituiscono il sistema monetario internazionale di Bretton

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Woods , hanno favorito una crescita del commercio internazionale

che è stata pari in media a circa il 7-8% annuo. Poiché la produzione interna dei

singoli Paesi è cresciuta intorno al 3-4% annuo, l’importanza degli scambi è

aumentata enormemente in relazione alla produzione nazionale (il tasso di crescita

del commercio internazionale è risultato essere mediamente il doppio rispetto a

quello della crescita interna dei Paesi nel mondo). Inoltre, aumentando in media del

7-8% ogni anno, significa che il commercio internazionale in dieci anni raddoppia le

proprie consistenze, contro un ben più modesto incremento (circa 1,4 volte), nello

stesso lasso di tempo, della produzione mondiale (per raddoppiare ci vogliono circa

vent’anni).

Per avere una misura delle dimensioni raggiunte negli ultimi anni dal sistema

economico mondiale nel suo insieme, va innanzitutto detto che lo stesso può essere

considerato come la somma dei sistemi economici nazionali. Di conseguenza, il

prodotto lordo mondiale è ottenibile come somma dei prodotti interni lordi dei

singoli Paesi (circa 220) che compongono il sistema economico mondiale. Il risultato

che ne deriva è un reddito mondiale annuo che si aggira attorno ai 61.000 miliardi di

dollari29. In termini reali, le dimensioni dell’economia mondiale si sono quintuplicate

negli ultimi quarant’anni: questo significa che il tasso di sviluppo medio è stato di

circa il 3,5% all’anno, malgrado tre fasi di rallentamento: quella del 1973/75 (crisi

petrolifera), quella del 1980/82 (stretta creditizia), la fase di recessione all'inizio degli

anni Novanta (Crisi del Golfo, 1990; crisi dello SME, 1992), la crisi della New

Economy (2000; 2001, Attacco alle Torri Gemelle); la crisi finanziaria (2007-8).

Per commercio internazionale s’intende l’insieme degli scambi di beni e

servizi tra paesi diversi. Per quanto riguarda le importazioni e le esportazioni di un

paese, esse sono registrate nella bilancia commerciale (in cui i beni e i servizi

scambiati con l’estero, insieme ai movimenti di capitale finanziario, formano la

bilancia dei pagamenti, ovvero il conto nazionale in cui sono registrate tutte le

transazioni economiche avvenute con l’estero; la bilancia dei pagamenti si compone

di alcune sezione: la prima registra le importazioni e le esportazioni di merci ed è

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denominata bilancia commerciale; allo stesso modo gli scambi di servizi e di capitali

sono registrati rispettivamente nella bilancia dei servizi e nella bilancia in conto

capitale). Quindi è un importante indicatore della salute dell’economia nel suo

complesso, fornisce indicazioni sull’andamento dell’interscambio di merci e sulla

competitività internazionale dei settori produttivi di un paese.

Segue una tabella sul commercio intenazionale la cui fonte è: Il mondo in cifre, Economist, 2010

29 Fonte: The Economist, Il mondo in cifre, 2010

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In passato si parlava di Occidente industrializzato e di Oriente come insieme di Paesi

in via di sviluppo. Questi ormai sono concetti sbagliati! Vediamo a tal fine in

dettaglio alcuni numeri sulla crescita

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cinese (foto di Pudong, Shanghai):

1. Cresce a livello di PIL di un 10% l'anno da più di un decennio;

2. è il più grande esportatore del mondo;

3. è il più grande importatore del mondo;

4. è il primo mercato di auto (Volkswagen e BMW fanno sfracelli in Cina), dei treni

ad alta velocità del mondo;

5. ha il numero di laureati maggiore al mondo;

Il supercomputer Tianhe-1A 6. l’Università nazionale di Pechino per la tecnologia della difesa – un centro

direttamente legato alle forze armate – ha di recente sviluppato un nuovo

supercomputer made in China – denominato Tianhe-1A - che ha il 40% di potenza in

più rispetto al precedente numero uno, un computer americano nato nei laboratori

dell’University of Tennessee. Riportiamo un’agenzia di stampa: “The fully

operational Tianhe-1A, located at the National Supercomputer Center in Tianjin,

scored 2.507 petaflops as measured by the LINPACK benchmark. That moves it past

Cray's 2.3 petaflops Jaguar located at Oak Ridge National Lab in Tennessee.

Tianhe-1A achieved the record using 7,168 NVIDIA Tesla M2050 GPUs and 14,336

Intel Xeon CPUs consuming 4.04 megawatts”.

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C’è ancora qualcuno che pensa che la Cina sia forte solo nei settori a basso valore

aggiunto?

Fonte: Il mondo in cifre, Economist, 2010

Il commercio internazionale è il pilastro fondamentale del globalizzazione

dell’economia; l’intensificazione delle relazioni internazionali dopo la 2° guerra

mondiale ha portato (tra 1950 - 90) ad un incremento degli scambi mondiali di circa

9 volte in volume e 30 volte in valore. Oggi il grado d’interdipendenza delle

economie dei vari paesi è tale che nessun Stato o nessuna impresa prende iniziative

commerciali importanti senza tenere conto della situazione geoeconomica e

geopolitica internazionale. Quasi tutti i paesi del mondo negli ultimi decenni hanno

aumentato il loro grado di apertura commerciale incrementando la % di prodotto

interno esportata e ricorrendo a importazioni per esigenze interne non soddisfatte da

produzioni nazionali. Questa progressiva liberazione del commercio non è

generalizzata e totale. In alcune aree e per dei prodotti, ci sono dazi e barriere

doganali per proteggere la produzione nazionale dalla concorrenza esterna.

L’interdipendenza economica tra Stati è aumentata ed è dimostrazione di come uno

Stato più rimanere isolato.

Esempio d’interdipendenza. L’Italia importa il metano dall’Algeria e dalla Russia,

quindi dipende da questi stati, deve avere rapporti diplomatici con ambedue e

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avvengono anche scambi, ma è anche dipendente. Ma può accadere anche che la

Russia o l’Algeria importino dall’Italia e per questo si parla d’interdipendenza.

2. Volume e dinamica del commercio internazionale, peso specifico, grado di apertura, grado di copertura delle

importazioni, ragioni di scambio

Prima di addentrarci in ulteriori considerazioni più circoscritte sull’argomento

commercio internazionale, è opportuno introdurre da subito una serie di concetti che

renderanno più agevole il prosieguo dell’analisi.

1 volume del commercio internazionale: esprime l’entità degli scambi

internazionali denominati in dollari USA e in volumi.

2 dinamica del commercio internazionale: individua le variazioni nel tempo di

importazioni ed esportazioni.

Da questi primi semplici dati si evince immediatamente che, dal punto di

vista del commercio internazionale, la distinzione fondamentale fra i Paesi non

riguarda tanto se essi siano industrializzati o in via di sviluppo, quanto se essi siano

produttori ed esportatori di manufatti o produttori ed esportatori di materie prime

(compresi i prodotti energetici). Il commercio internazionale, infatti, è ancora

dominato dalla dicotomia fra le merci manufatte (provenienti dal settore secondario)

e le materie prime (derivate dal settore primario) suddivise in prodotti agricoli,

coloniali, minerali ferrosi e non ferrosi, metalli preziosi, prodotti energetici, ecc.

Il valore dei servizi scambiati internazionalmente, anche se in rapida crescita,

è pari ancora a circa il 30% di quello delle merci. Questa distribuzione 70%-30% è

stridente rispetto a quella esistente su scala nazionale dove, specie con riferimento ai

Paesi industrializzati, la distribuzione in parola è mediamente pari a circa 35%

(merci) e 65% (servizi). I servizi sono infatti dominanti negli Stati Uniti (75% del

PIL e dell’occupazione), in Francia (66%), in Italia (59%), in Germania (58%), in

Giappone (55%). Questo dimostra due cose: la prima è che i servizi sono oggetto di

negoziazioni internazionali in misura assai minore, per loro natura, di quanto lo siano

le merci; la seconda è che nel campo dei servizi permane una “cultura”

protezionistica assai dura a morire, nonostante gli sforzi effettuati in epoca recente

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per consentirne l’esportazione. E’ probabile comunque che, malgrado le difficoltà in

parola, il commercio internazionale nei prossimi anni registri una crescita dei servizi

(telecomunicazioni, servizi IT, trasporti, servizi finanziari, turismo) più accentuata di

quella dei manufatti. Ciò significa che i dati forniti dagli uffici doganali saranno

sempre meno in grado di esprimere il valore effettivo dell’interscambio mondiale.

E’ importante, a questo punto, individuare alcuni parametri fondamentali

dell’economia mondiale che sono basilari ai nostri scopi conoscitivi:

1 peso specifico di un Paese nell’ambito dell’economia mondiale:

esso si ottiene dal rapporto tra il Prodotto Interno Lordo (PIL) nazionale e il

PIL mondiale:

PIL nazionale peso specifico = __________________

PIL mondiale

Il peso specifico di un Paese, quindi, risulta essere tanto maggiore quanto

maggiore è il risultato numerico del rapporto sopra indicato.

Gli Stati Uniti rappresentano la prima economia del mondo (23%)con un Pil

con circa 14.000 miliardi $ (dati 2009) di Pil.

La zona Euro (16 Paesi) rappresenta – con 13.000 miliardi $ su 60.690 di Pil

mondiale - quindi il 20%.

Segue la Cina – seconda economia del mondo (se non aggreghiamo

l’Eurozona) e primo esportatore del mondo - e poi il Giappone, superato dalla Cina

nel corso del 2010. Poi la Germania (come Paese singolo).

2 grado di apertura di un Paese (o “grado di interdipendenza”) nei confronti

del resto del mondo: dato dal rapporto fra la media aritmetica dei flussi in entrata

(importazioni = M) ed in uscita (esportazioni = X) di un Paese ed il suo PIL

nazionale:

(X + M)/2 grado di apertura = ___________

PIL

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Il grado di apertura del mondo (commercio internazionale : produzione interna)

nel suo insieme è pari a circa il 22%, suddiviso in 15% di merci e 7% di servizi. In

base all’entità del grado di apertura (g. di a.), è possibile classificare i Paesi in tre

grandi categorie:

a) g. di a. > 30%: Paesi apertissimi;

b) 15% < g. di a. < 30%: Paesi aperti;

c) g. di a. < 15%: Paesi chiusi.

I Paesi maggiormente aperti sono in genere i Paesi territorialmente poco estesi

che, per loro natura, non possono che essere più dipendenti dal commercio

internazionale. In questa categoria rientrano, fra gli altri, Svizzera, Olanda, Malesia,

Singapore, Irlanda, Malta, Belgio, Lussemburgo.

Fra i Paesi aperti sono da ricomprendere Germania, Italia e Gran Bretagna che hanno

valori del grado di apertura più o meno analoghi; la Francia, pur essendo considerata

un Paese aperto, mostra una più limitata propensione agli scambi e ciò dipende dalla

relativa autonomia economica di cui dispone, legata al fatto che è un Paese sia

agricolo che industriale. Volendo fare un paragone, si può affermare che essa

riproduce a livello europeo ciò che gli Stati Uniti rappresentano a livello mondiale e

cioè la funzione di produttore ed esportatore sia di manufatti che di materie prime.

Paesi chiusi sono tendenzialmente i Paesi di grandi dimensioni. Primo fra tutti

gli Stati Uniti, con un grado di apertura pari al 7%. Si tratta infatti di un Paese che

dipende limitatamente dal commercio internazionale, vista la varietà di materie prime

e di manufatti di cui dispone, favorita anche dalla sua estensione territoriale. Per le

medesime ragioni, anche l’Unione Europea si può considerare Paese chiuso, con un

grado di apertura che dovrebbe aggirarsi attorno al 10% (il processo d’integrazione

europea, inoltre, ha ridotto i volumi del commercio internazionale di circa il 20%,

pari a circa 1.500 miliardi di dollari annui di scambi che da internazionali divengono

nazionali). Il Canada, che abbiamo detto essere per molti aspetti un’“appendice”

degli Stati Uniti, presenta un’apertura agli scambi un po’ superiore al valore

riscontrato per gli Stati Uniti.

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55 55

Il basso grado di apertura non è comunque sempre e solo collegato alla

dimensione geografica di un Paese. Vi sono infatti altri fattori che possono

influenzare la scarsa propensione a scambiare con il resto del mondo. Il Giappone, ad

esempio, con un valore pari all’8% è classificato come Paese chiuso (esporta molto,

ma importa poco) e questo può a prima vista sorprendere: trattandosi infatti di

un’isola, per definizione dovrebbe essere molto dipendente dal commercio

internazionale. Di fatto, essendo molto popolato (circa 130 milioni di abitanti) e

presentando una diversa struttura di prezzi e costi di produzione (struttura che è figlia

di un modus vivendi tipicamente giapponese), si può spiegare perché presenti un

valore così basso. Esiste infatti una stretta relazione tra popolazione, produzione e

scambi internazionali: tanto più la prima è grande, tanto più alta è la domanda interna

la quale assorbe la produzione nazionale e non necessita di importazioni se non in

misura limitata (nel caso del Giappone le importazioni saranno essenzialmente di

materie prime). A questo si deve inoltre aggiungere l’“avversione” che i giapponesi

manifestano normalmente nelle loro scelte di consumo verso i prodotti che non siano

di origine nazionale: questo atteggiamento deriva dalla radicata “cultura

nazionalistica” che da sempre contraddistingue il popolo giapponese.

Altri fattori che ostacolano l’apertura di un Paese agli scambi con l’estero

sono ravvisabili nella mancanza di fondi e di finanziamenti (questo avviene

tipicamente per i Paesi poveri, fra cui la Somalia, il Sudan, il Ruanda, il Perù,

l’Etiopia, per i quali la volontà di scambiare con il resto del mondo rimane tale per

mancanza di mezzi finanziari) o anche nella presenza di una religione che cresce i

propri adepti instillando loro una cultura fondamentalmente xenofoba.

Come già si è avuto modo di accennare nel paragrafo precedente, il grado di

apertura della maggior parte dei Paesi industrializzati ha subito una notevole

impennata nel secondo dopoguerra (anni Cinquanta e Sessanta). Spostando l’analisi

del fenomeno più in là nel tempo, è agevole verificare come l’interdipendenza

internazionale sia fenomeno non solo del Ventesimo secolo, ma presente in modo

significativo in larga parte delle economie oggi sviluppate a partire dal

Diciannovesimo secolo (vedi tabella).

Incidenza percentuale dell’interscambio di merci (export + import) sul reddito

nazionale, 1800-1971.

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Secolo XIX Periodo fra le due guerre mondiali

Secondo dopoguerra

Inizio Fine Anni Venti

Anni Trenta

1955 1963 1971

Stati Uniti 15 14 11 8 8 7 9 Regno Unito

20 56 42 34 44 33 37

Giappone _ 16 37 36 25 20 22 Francia 16 33 51 24 24 22 28 Germania 28 35 34 20 37 32 38 Italia _ 22 26 28 26 28 33 Danimarca _ 55 57 49 60 55 52 Norvegia _ 44 43 36 63 58 59 Svezia _ 35 32 25 46 41 44 Argentina _ _ _ 36 30 18 14 Australia _ 40 35 _ 38 29 26 Canada _ 28 36 26 28 34 41 Nota: data la crescente importanza dei servizi sui consumi finali aggregati, una misura corretta dell’interdipendenza nei periodi recenti va espressa in termini di beni e servizi. Per confronti di lungo periodo si è tuttavia generalmente costretti a misurare l’interdipendenza come rapporto fra interscambio di sole merci e flusso di reddito nazionale (che include i servizi), data la carenza di statistiche storiche sugli scambi internazionali di servizi: in tal modo il grado di interdipendenza viene sistematicamente sottovalutato.

Schematizzando, anche sulla scorta dei dati riportati nella tabella, si può

affermare che:

a) già agli inizi del Diciannovesimo secolo, l’incidenza percentuale

dell’interscambio di merci (export + import) sul reddito nazionale segnava valori

significativi per Paesi come gli Stati Uniti (15%), il Regno Unito (20%), la

Francia (16%) e la Germania (28%);

b) la riduzione delle tariffe doganali seguita alle guerre napoleoniche alimentò la

crescita degli scambi fino al 1870-1880, mentre nel periodo successivo e fino alla

seconda guerra mondiale si avvertì il peso di politiche protezionistiche, in

particolare durante la difficile transizione fra le due guerre mondiali;

c) se è vero che nel lungo periodo l’interdipendenza tende a crescere, il processo si

arresta, oltre che nei periodi di conflitto politico-commerciale generalizzato, in

quelle particolari fasi di ogni Paese in cui il decollo dell’industrializzazione viene

perseguito mediante protezione delle industrie nascenti (ad esempio, Stati Uniti e

Australia nel periodo precedente la prima guerra mondiale);

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d) la crescita dell’interdipendenza produttiva e finanziaria fra Paesi ha registrato

tassi eccezionalmente elevati nel secondo dopoguerra, sotto la spinta della

progressiva liberalizzazione alle dogane, nonché dell’effetto diffusivo delle

imprese multinazionali.

La spinta all’interdipendenza non è stata indebolita dalle difficili condizioni

dell’economia internazionale venutesi a creare dopo gli shock petroliferi degli anni

Settanta. L’effetto della “tassa petrolifera” è stato una forte decelerazione nel tasso di

crescita della produzione e della domanda dei Paesi importatori di petrolio e dal 1982

un effetto negativo di rimbalzo sugli stessi Paesi esportatori di petrolio (caduta della

domanda e del prezzo reale del petrolio). La crescita nel volume degli scambi di

prodotti primari non agricoli degli anni Sessanta si è trasformata in netto calo dopo il

1973, riflettendo il risparmio energetico e il drastico ridimensionamento delle

industrie di base consumatrici di prodotti dell’industria estrattiva (a causa

dell’eccesso di capacità accumulato all’inizio degli anni Settanta). Ma l’interscambio

mondiale di prodotti agricoli è addirittura cresciuto negli anni Settanta, a causa dei

cattivi raccolti asiatici che hanno alimentato le esportazioni dei Paesi a vocazione

cerealicola (Stati Uniti, Argentina, Australia). La produzione manifatturiera ha

decelerato, mostrando i segni evidenti della recessione, e il volume delle esportazioni

mondiali di manufatti ha decelerato di conseguenza, ma senza manifestare alcuna

riduzione nel rapporto (elasticità) fra i due tassi di crescita. Negli anni Ottanta,

nonostante l’indiscutibile riemergere di pressioni neo-protezionistiche e di barriere

doganali (tariffarie e non), le esportazioni mondiali manifatturiere hanno continuato a

crescere ad un tasso più di una volta e mezza superiore a quello della produzione

manifatturiera, con una elasticità superiore a quella di lungo periodo.

Gli shock petroliferi, del resto, hanno agito da motore più che da freno degli

scambi mondiali. I Paesi petroliferi, dotati di nuovo potere d’acquisto, hanno

accresciuto le proprie importazioni di manufatti e di servizi a ritmi superiori ad ogni

previsione. D’altra parte, i Paesi colpiti dal maggiore disavanzo petrolifero nella

bilancia commerciale hanno cercato nuovi sbocchi per le loro esportazioni e, nel caso

di Paesi avanzati, una maggiore complementarità fra importazioni di semilavorati a

basso costo ed esportazioni di prodotti finiti. Il risultato di tutto ciò è che l’elasticità

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rispetto alla produzione industriale dell’import-export di merci a prezzi costanti è

sensibilmente cresciuta dopo il 1973, salvo il menzionato abbassa-mento della

propensione a importare petrolio e prodotti primari, e che il grado di apertura

misurato a prezzi correnti è cresciuto negli anni Settanta a velocità ancora superiore a

quella dei due decenni precedenti.

In un confronto a cross section di più Paesi emerge la conferma econometrica

che il grado di apertura tende ad essere tanto maggiore quanto più piccole sono le

dimensioni geografiche, demografiche ed economiche dei Paesi. Infatti, al crescere

della dimensione geografica cresce la probabilità che i flussi commerciali tra

famiglie e imprese avvengano entro i confini nazionali, secondo l’indicazione dei

modelli di attività economica nel territorio. Inoltre, al crescere del reddito pro capite

tende a crescere la quota sul PIL dei servizi non traded. Tuttavia, vi sono tendenze di

segno esattamente opposto, per cui al crescere del reddito pro capite aumenta la

domanda di “varietà di prodotti”, si diversifica la capacità di specializzazione per

prodotti, aumenta la mobilità internazionale del capitale e del lavoro.

Infatti, un’attenta verifica econometrica delle “leggi dell’interdipendenza”

deve accuratamente tenere conto delle differenze strutturali fra Paesi, e stimare tali

relazioni entro gruppi (clusters) di Paesi variamente selezionati.

Vi è un aspetto importante su cui merita di soffermare l’attenzione per

valutare nella giusta prospettiva i problemi del vincolo esterno allo sviluppo dei

Paesi attualmente emergenti, in particolare di quelli oggi maggiormente indebitati a

seguito delle circostanze eccezionalmente a loro sfavorevoli che si sono verificate a

partire dagli anni Ottanta. Rapportato alla dimensione del rispettivo reddito

nazionale, il commercio estero rappresenta di regola una percentuale assai più

elevata per i Paesi in via di sviluppo nel nostro secolo, di quanto non fosse per i Paesi

oggi avanzati nell’epoca immediatamente precedente il proprio decollo. Il rapporto

export/PIL si aggira oggi sul 20%, per la media dei Paesi emergenti ed era intorno al

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15% all’inizio del Ventesimo secolo. Secondo stime di Paul Bairoch30 , tale

rapporto era meno del 5% per i Paesi di prima industrializzazione a cavallo fra la fine

del Diciottesimo e l’inizio del Diciannovesimo secolo.

Diversi sono i motivi che possono spiegare tale differenza di estrema

importanza sotto il profilo della storia dello sviluppo:

a) l’abbassamento dei costi del trasporto, registrato nel Diciannovesimo secolo

e favorito dalle nuove tecnologie di trasporto a vapore per mare e per terra,

provocò un rapido abbassamento delle “barriere naturali” agli scambi. Tra il

1820 e il 1910 il costo dei noli in termini reali diminuì di sette volte. Fu tale

caduta dei costi di trasporto a stimolare lo scambio internazionale di derrate

pesanti, come il grano e altri prodotti alimentari, favorendo il decollo di Paesi

a vocazione agricola (Stati Uniti, Canada, Australia, Argentina) e

corrispettivamente la specializzazione industriale del Regno Unito prima, e

dell’Europa continentale in seguito;

b) il minore ruolo della rivoluzione agricola nei Paesi emergenti del nostro

secolo e, pertanto, gli assai frequenti problemi di disavanzo alimentare non

appena il reddito pro capite e dei consumi iniziano a salire;

c) la minor pressione demografica a cui furono soggetti gli attuali Paesi

avanzati nella loro fase di decollo e che oggi caratterizza i Paesi emergenti

del Ventesimo secolo;

d) gli effetti distruttivi del fenomeno della colonizzazione. Se, infatti, i massacri

delle popolazioni indigene compiuti dai conquistadores ed il traffico degli

schiavi furono un tragico antidoto alla sovrappopolazione di molte colonie, il

30 Nato nel 1930 ad Antwerpen (Belgio), Paul Bairoch è attualmente cittadino svizzero. Dopo avere svolto ricerche all’École pratique des hautes études di Parigi e al Budget and Research Department dell’American Joint Distribution Committee di Ginevra, è stato ricercatore – dal 1959 al 1966 – all’Istituto di Sociologia dell’Université libre di Bruxelles, e dal 1966 è professore associato presso la stessa università. Dal 1967 al 1969 è stato consigliere economico al GATT, a Ginevra. Dal l969 al l971 ha insegnato al Dipartimento di Economia dell’Università Sir George Williams di Montreal. Nel 1972 è diventato professore al Dipartimento di Storia Economica dell’Università di Ginevra, che ha diretto in due occasioni dal 1976 al 1983 e dal 1989 al 1991. Dal l995 è professore emerito. Dal 1991 dirige il Centre d’histoire économique internationale di Ginevra.

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decollo economico di queste aree fu gravemente ritardato dagli effetti

distruttivi che la colonizzazione generalmente produsse sul loro tessuto

agricolo e artigianale. Il potenziamento delle piantagioni di cotone e di

prodotti tropicali non producibili nelle zone temperate (zucchero, caffè,

spezie) nonché delle attività estrattive (metalli preziosi) causò in molte aree il

declino dell’artigianato locale, senza stimolare miglioramenti di produttività

nei comparti agro-alimentari. Le conseguenze di questo “modello di

sviluppo” sono ancora avvertibili nel nostro secolo (il Ventesimo).

Fra i (pochi) segni positivi lasciati dai regimi coloniali vi sono certamente le

infrastrutture di trasporto, funzionali al movimento delle merci e degli stessi

coloni;

e) la differenza di costo degli investimenti fra l’antica e la nuova

industrializzazione. Le moderne tecnologie, per quanto adatte alle esigenze

dei Paesi riceventi, richiedono unità produttive incomparabilmente più

elevate, rispetto al basso livello di produttività e di reddito del settore

agricolo e artigiano, che non le tecnologie della prima rivoluzione industriale;

f) il basso costo dell’investimento, all’epoca della prima rivoluzione

industriale, dipendeva principalmente dalla semplicità tecnica delle macchine

di allora. Questa, a sua volta, rendeva relativamente facile l’imitazione e

comportava costi ridotti per l’istruzione della manodopera.

La rapida diffusione del progresso tecnico comporta sia una minore

dipendenza dalle importazioni, sia una maggiore specializzazione produttiva

basata su costi del lavoro e della materia prima, che in ultima analisi conduce

a maggiori esportazioni e importazioni;

g) Le maggiori complicazioni di carattere economico ed istituzionale a cui

vanno in contro gli attuali Paesi emergenti rispetto a due secoli fa. A titolo di

esempio si pensi agli elevati fabbisogni di importazione legati all’emergere di

modelli di consumo “occidentali” nella misura in cui il decollo industriale si

accompagna a crescita delle aree urbane, la rigidità di alcune strutture sociali

(come le caste indiane), l’esodo di cervelli e capitale umano attratto da

impieghi all’estero, gli ostacoli nascenti dall’ipertrofia di molti apparati della

pubblica amministrazione ed, infine, la legislazione (fortunatamente!) meno

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permissiva verso lo sfruttamento del lavoro minorile e

femminile .

Proseguendo nell’individuazione dei parametri fondamentali dell’economia

mondiale dal rapporto testé analizzato, che esprime il grado di apertura, se ne ricava

poi un altro particolarmente utile:

3 interscambio nazionale rispetto a quello mondiale = X + M 2 commercio internazionale mondiale

E’ interessante notare che il motivo per cui al numeratore troviamo la media

aritmetica fra esportazioni ed importazioni e non la loro semplice somma algebrica,

risiede nel fatto che è facile rintracciare le importazioni (uscite) ma non le

esportazioni (entrate), anche a causa delle fughe clandestine di capitali che si

annidano in quest’ultima voce. Infatti, a livello mondiale, teoricamente, le

esportazioni eguagliano le importazioni (X = M) ma, di fatto, a causa delle

menzionate fuoriuscite di capitale e dei diversi criteri di imputazione delle due voci

in uso nei vari Paesi si verifica che, in termini di valore, i due ammontari siano

divergenti (X ≠ M).

4 grado di copertura delle importazioni con le esportazioni:

X

____ M

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Tale parametro indica, quando è uguale all’unità, la capacità di un Paese di

finanziare le sue importazioni con le esportazioni. Quando invece tale valore è

inferiore all’unità, si può dire che il finanziamento delle importazioni deve essere

assicurato con altre forme e, quindi, si sta manifestando uno squilibrio nella

competitività del Paese.

5 ragioni di scambio o terms of trade: rappresenta l’ultimo parametro della serie

indicata nel titolo del presente paragrafo, ed è dato dal rapporto fra le variazioni

dei prezzi medi all’esportazione (PX) e le variazioni dei prezzi medi

all’importazione (PM):

∆PX PX

__________________ ∆PM PM Un altro modo per definire le ragioni di scambio è quello di riferirsi alla

differenza fra il valore medio unitario delle esportazioni e quello delle importazioni.

Le ragioni di scambio di un Paese migliorano se i prezzi delle esportazioni

aumentano più dei prezzi delle importazioni, e peggiorano se i prezzi delle

esportazioni aumentano meno dei prezzi delle importazioni. L’altra faccia del

miglioramento delle ragioni di scambio è evidentemente la perdita di competitività.

Prescindendo da quest’ultima, se un Paese con un certo volume di

importazioni e esportazioni si trova ad avere in un anno dei prezzi all’esportazione

che crescono un po’ più rapidamente di quelli all’importazione, si troverà nella

condizione di poter importare più beni a parità di beni esportati e conseguentemente

si avvarrà di maggiori merci e servizi; il contrario avverrà nel caso in cui fossero i

prezzi all’importazione a crescere più rapidamente di quelli all’esportazione. Perciò,

quando un Paese migliora le proprie ragioni di scambio e, nonostante ciò, riesce a

fare in modo che tale miglioramento non influenzi negativamente le esportazioni, lo

stesso ne trarrà ampi benefici in termini di aumento di ricchezza. Si può anche dire

che un Paese che migliora sistematicamente le proprie ragioni di scambio è un Paese

in cui il commercio internazionale ha un effetto positivo; viceversa, un Paese che

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peggiora sistematicamente le proprie ragioni di scambio, è un Paese in cui il

commercio internazionale ha un effetto negativo.

I Paesi che puntano sulla svalutazione della propria moneta per guadagnare in

competitività vedono, per contro, peggiorare le proprie ragioni di scambio. Alla

lunga, questa situazione finisce per essere meno pagante di quella della moneta forte:

si è potuto constatare, infatti, che i Paesi creditori (quelli con esportazioni > delle

importazioni) sono stati quelli che sono riusciti a restare competitivi pur in presenza

di un cambio forte, mentre i Paesi debitori hanno avuto la tendenza a non diventare

competitivi nemmeno in presenza di un cambio debole ed hanno visto peggiorare le

loro ragioni di scambio e quindi si sono impoveriti.

L’Italia, dal canto suo, negli ultimi vent’anni (a parte la parentesi ’92-’96) ha

avuto tendenzialmente ragioni di scambio discrete nonostante non abbia avuto una

moneta forte: questo grazie al fatto che, da un lato, i prezzi delle materie prime, dei

prodotti agricoli e del petrolio (che costituiscono la maggior parte delle sue

importazioni) non hanno subito aumenti considerevoli e, dall’altro, il dollaro non si è

apprezzato di molto (questa è infatti la moneta che viene utilizzata per regolare la

maggior parte delle transazioni internazionali di merci). Gli anni dal ’92 al ’96,

invece, sono stati anni “poveri” per l’Italia: in questo periodo la

lira uscì dal Sistema Monetario Europeo31

31 Il Sistema monetario europeo era un progetto stabilito nel 1979 in cui la maggior parte delle nazioni della Comunità economica europea vincolavano le loro monete onde prevenire troppo ampie fluttuazioni reciproche. Dopo il collasso del Sistema di Bretton Woods nel 1971, i Paesi della CEE si accordarono nel 1972 per mantenere stabili i tassi di cambio attraverso operazioni, dando vita al cosiddetto «Serpente Monetario». Nel marzo del 1979, questo sistema fu rimpiazzato dal Sistema Monetario Europeo. L’elemento centrale era l'ECU o Unità di conto europea: un paniere di monete, che fluttuavano entro il 2.25% (6% per la lira, a causa dell'elevato tasso di inflazione) attorno alla parità nei tassi di cambio bilaterali con altri paesi membri.

Il Sistema Monetario Europeo non fu sempre funzionale finché nel maggio del 1998 i paesi membri fissarono irrevocabilmente e definitivamente i loro tassi di cambio reciproci (prendendo come riferimento la griglia di parità centrali negoziate all’Ecofin del novembre 1996) in vista della partecipazione all'Euro. Il suo successore comunque, lo SME 2, veniva inaugurato nel 1999. In esso il paniere ECU è stato abbandonato e la nuova moneta unica, l'Euro, è diventata un'ancora per le altre monete che partecipavano allo SME 2.

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(SME o Exchange Rate Mechanism, ERM)) e si svalutò notevolmente, peggiorando

di molto le ragioni di scambio. La lira rientrò nello SME nel novembre 1996 dopo

una serrata negoziazione con la Germania guidata dal Governatore della Bundesbank

Tietmeyer. Grazia alla credibilità e all’incredibile abilità di Carlo Azeglio Ciampi,

l’Italia rientrò con una parità – 990 lire contro 1 marco - non eccessivamente

penalizzante per l’export italiano (sopra l’articolo del Financial Times del

26.11.1996, dove si elogia l’allora Ministro del Tesoro Ciampi tra l’altro venne

riportata l’affermazione di un diplomatico presente all’Ecofin: “Ciampi gave the

performance of his life”).

Dall’1° gennaio 1999 – data di introduzione della moneta unica - l’euro

ha mosso i primi passi come moneta strutturalmente forte che può

attraversare periodi di debolezza – il giorno dell’introduzione dell’euro, il cambio

contro dollaro era intorno a 1,16, nel gennaio 2011 quota intorno a 1,30. Una moneta

forte migliora per sua natura le ragioni di scambio.

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Per quanto riguarda i Paesi in via di sviluppo, è assai controverso il ruolo

delle ragioni di scambio come vincolo al loro sviluppo nell’ultimo secolo. Sotto il

profilo strettamente statistico, vi sono calcoli che giungono a risultati assai diversi,

talora opposti, unicamente per la diversa scelta dei particolari indici di prezzo e dei

periodi di riferimento. I Paesi in via di sviluppo esportano soprattutto prodotti

primari (75-80% del loro export) ed importano soprattutto manufatti (70% del loro

import), per cui l’andamento delle loro ragioni di scambio è strettamente legato

all’andamento dei prezzi relativi “materie prime/manufatti”.

Complessivamente, i prezzi relativi “manufatti/materie prime” mostrano un

tendenziale declino almeno fino alla seconda guerra mondiale. Tale tendenza si

accompagna specularmente ad una progressiva incidenza dei manufatti sulla

produzione e sulle esportazioni mondiali. L’unico periodo in cui le ragioni di

scambio dei Paesi in via di sviluppo appaiono progressivamente cadute va dagli inizi

degli anni Cinquanta (ciclo coreano) alla fine degli anni Sessanta. Durante gli anni

Settanta il doppio shock petrolifero, l’impennata dei prezzi delle materie prime non

energetiche nel 1972-1973 e l’accentuata sensibilità del ciclo delle scorte nei Paesi

industrializzati hanno complessivamente causato un aumento di intensità senza

precedenti nei prezzi relativi dei prodotti primari, anche se già a partire dal 1978 le

ragioni di scambio dei Paesi in via di sviluppo non esportatori di petrolio hanno

iniziato una flessione prolungatasi fino agli anni Novanta.

Nell’insieme, dunque, la tesi del deterioramento secolare delle ragioni di

scambio dei Paesi in via di sviluppo appare abbastanza infondata. Del resto, molte

delle argomentazioni addotte a supporto della tesi stessa, pur valide in teoria (bassa

elasticità-reddito della domanda mondiale di materie prime, sostituzione di prodotti

naturali con manufatti sintetici, minor potere di mercato dei Paesi in via di sviluppo

rispetto ai Paesi industriali, sostegno politico dei prezzi agricoli dei Paesi industriali

accoppiato con misure restrittive nei confronti delle esportazioni dei Paesi in via di

sviluppo), tendono a dimenticare le tendenze di lungo periodo. Molti di questi

fenomeni richiamati dalla teoria esistono già dagli inizi della rivoluzione industriale.

Prodotti agricoli privi di diretti sostituti (come caffè, tè, cacao) hanno

registrato flessioni di prezzo simili o anche maggiori rispetto ai prodotti primari

soggetti alla concorrenza dei manufatti sintetici. D’altra parte la produttività agricola

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è cresciuta assai più nei Paesi industriali che nei Paesi in via di sviluppo, per note

cause strutturali, e gli eccezionali incrementi nella produttività dell’industria

manifatturiera non sono andati tutti a vantaggio dei profitti, della rendita e dei salari

dei Paesi industriali, data la concorrenza che si è venuta a creare fra i principali

esportatori.

Uno dei fenomeni dominanti le tendenze di lungo periodo degli scambi

internazionali è il crescente peso dei manufatti. Il fenomeno assume una rapidità

impressionante nel secondo dopoguerra e trova ben note spiegazioni:

1 il veloce ritmo del progresso tecnologico e la sua diffusione orizzontale

fra settori diversi,

2 il ricorrente circolo virtuoso produzione-produttività (legge di

Kaldor -Verdoorn), generato dai continui spostamenti nella

composizione dell’offerta verso settori a più elevata crescita potenziale

della produttività,

3 l’abbattimento degli ostacoli doganali fra i Paesi,

4 l’elevata elasticità-reddito della domanda.

Il crescente peso delle esportazioni manifatturiere esprime la quota crescente

del prodotto lordo manifatturiero sul PIL dei vari Paesi, fenomeno ben noto nei

patterns of growth, almeno fino ad elevati livelli di reddito pro-capite oltre i quali

cresce solo la quota delle attività terziarie. La quota manifatturiera sul totale delle

importazioni non appare invece significativamente sensibile alla variazione della

composizione del PIL poiché, almeno nelle fasi di decollo economico, i Paesi

tendono a sostituire con produzioni nazionali parte delle importazioni manifatturiere.

Il crescente peso dei manufatti negli scambi mondiali del recente dopoguerra,

almeno fino allo shock dei prezzi del petrolio nel 1973-1974, trova corrispondenza

nella tendenza alla polarizzazione degli scambi mondiali attorno ai Paesi industriali.

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Mentre nella prima metà del Ventesimo secolo il peso dei Paesi in via di

sviluppo sulle esportazioni mondiali si era pressoché raddoppiato, nel ventennio

precedente il 1973 la tendenza si è invertita. Gli scambi intra-area dei Paesi in via di

sviluppo sono calati a meno di un quinto degli scambi mondiali, mentre gli scambi

intra-area dei Paesi industriali sono saliti al 50%. I Paesi in via di sviluppo

rappresentano, agli inizi degli anni Settanta, circa un quinto delle esportazioni dei

Paesi industriali (l’incidenza è ovviamente più alta per le esportazioni degli Stati

Uniti e del Giappone che per quella delle esportazioni europee, data l’elevata

integrazione intra-europea), ma meno del 2% del loro PIL. Per contro, più di due

terzi dell’interscambio dei Paesi in via di sviluppo avviene con i Paesi industriali.

Gli shock petroliferi e la conseguente ridistribuzione della domanda mondiale

hanno capovolto per un certo tempo la tendenza, provocando nel 1973-1982 un

accresciuto peso degli scambi Nord-Sud e Sud-Sud. Tuttavia il commercio

internazionale, di manufatti in particolare, resta dominato dai Paesi industriali come

motore dell’economia mondiale.

Negli ultimi anni, il commercio internazionale è divenuto invece sempre

meno un interscambio Nord-Sud e sempre più un interscambio tra Paesi aventi un

simile grado di sviluppo economico (Nord-Nord). Il peso dei prodotti agricoli nel

commercio internazionale è sceso nettamente (dal 45% al 14%) e lo stesso dicasi,

pure fra alti e bassi di prezzo, del peso delle materie prime e dei prodotti energetici.

Il commercio internazionale da inter-settoriale è diventato prevalentemente

intra-settoriale.

Anche nel campo dei servizi, la rivoluzione dell’informazione sta

modificando le cose, sia a livello interno, che a livello del commercio internazionale.

I servizi oggetto di interscambio a livello mondiale si sono evoluti: da quelli del

turismo, dei noli, dei trasporti in genere si è passati a quelli assicurativi, finanziari,

bancari, servizi informatici e telematici, di ingegneria, di assistenza tecnica, di

management che contengono in modo intensivo informazioni e competenze

sofisticate.

Poiché è inevitabile che la quota dei servizi nell’interscambio mondiale

cresca sensibilmente, quale effetto della maggiore importanza che i servizi rivestono

nell’economia delle nazioni più avanzate, è certo che i Paesi che godono di un

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vantaggio competitivo nella produzione e nella vendita di questi servizi avanzati, si

affermeranno a livello internazionale a scapito di quei Paesi (fra cui l’Italia) che in

tali settori hanno invece accumulato un grande ritardo.

Da quanto si è detto nel presente paragrafo, si può concludere che il

commercio internazionale è di fatto uno straordinario strumento di sviluppo

economico poiché si inserisce nella crescita del PIL con il ruolo di fattore trainante

(dal momento che cresce a tassi doppi rispetto a quelli del PIL stesso), oltre che agire

da diffusore delle tecnologie, delle innovazioni, dei modelli di consumi e di

omogeneizzazione delle diverse culture. Per questi motivi, e visto che fra i nostri

giudizi di valore abbiamo la preferenza per lo sviluppo economico rispetto al

sottosviluppo, esso è sicuramente un valore da preservare e da potenziare sempre più,

nonostante alcune riserve che verranno presentate più avanti.

3. I caratteri della prima e della seconda rivoluzione

industriale e i vantaggi competitivi nel commercio

internazionale connessi a quest’ultima.

3.1 La prima e la seconda rivoluzione industriale.

Il contesto economico internazionale, nella parte finale del xx secolo, è stato

caratterizzato dal passaggio dalla prima alla seconda rivoluzione industriale.

La prima rivoluzione industriale, originatasi in Inghilterra nella seconda metà

del secolo XVIII, aveva come elemento caratteristico l’importanza dell’acciaio, del

cemento, della chimica di base, della trasformazione di grandi quantità di materie

prime e dell’impiego di fonti energetiche “sporche”. Era una industrializzazione

pesante e realizzata attraverso processi produttivi rigidi. Inoltre, in merito ad altre sue

particolarità, si può dire che:

• la sua matrice è sempre stata l’Occidente industrializzato così come il suo centro

è sempre stato la cultura anglosassone;

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• il suo modello di commercio internazionale, teorizzato dagli economisti classici

(D. Ricardo ) e neoclassici (E. Heckscher, B. Ohlin, P.

Samuelson ), è stato quello dello scambio fra Paesi produttori di

manufatti e Paesi produttori di materie prime in condizioni di concorrenza

perfetta, assenza di economie di scala, pieno impiego;

• i vantaggi competitivi sono stati generati, da un lato, dalla disponibilità di

materie prime e di lavoro a basso costo e, dall’altro, dalla disponibilità di

manodopera specializzata e di capitali.

Per quanto riguarda il finanziamento degli investimenti nella prima rivolu-

zione industriale, l’Europa continentale seguì una strada assai diversa (per necessità,

più che per scelta) rispetto a quella seguita dal mondo anglosassone. Quest’ultimo

poté contare sulle grosse capacità di autofinanziamento delle sue imprese. Le

imprese anglosassoni, infatti, ebbero l’opportunità di instaurare di fatto grandi

monopoli a livello mondiale soprattutto grazie al considerevole vantaggio temporale

di cui le stesse poterono godere per molti decenni su tutti i potenziali concorrenti del

resto del mondo. Le imprese dell’Europa continentale entrarono sul mercato con

notevole ritardo rispetto a quelle anglosassoni (dando loro tutto il tempo per

consolidare la propria forza sui mercati) per cui si trovarono costrette, visti i ridotti

margini d’autofinanziamento, ad attingere ad altre fonti di finanziamento. In

particolare, i finanziamenti maggiori alle imprese continentali furono assicurati dal

risparmio delle famiglie intermediato dalla c.d. banca universale (modello di sistema

bancario tipico dei Paesi europei continentali, in cui la banca svolge sia la funzione

di banca di deposito che di banca di investimento); ad essi si aggiunsero spesso

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anche finanziamenti dallo Stato nei quali lo stesso ravvisava l’interesse pubblico alla

creazione di nuova occupazione.

Inoltre, l’Europa continentale, pur professando nell’Ottocento e nella prima

metà del Novecento l’adesione a teorie liberoscambiste, cercò spesso di favorire le

proprie imprese attraverso un accentuato protezionismo doganale, agendo talora sul

versante prezzi (dazi doganali) talaltra sulle quantità (contingenti, quote) con il

medesimo fine di limitare le importazioni.

A questa prima rivoluzione industriale è succeduta negli ultimi decenni una

seconda rivoluzione, che viene normalmente denominata “rivoluzione

dell’informazione”, nella quale ciò che conta è produrre, gestire, diffondere

l’informazione, mentre il supporto reale diventa sempre più sottile e flessibile cioè

capace di processi produttivi senza inerzia. In questa seconda rivoluzione industriale

conta meno il bene del servizio con le sue mille possibili applicazioni, e il bene conta

soprattutto per la quantità di informazioni che esso contiene.

Mentre nella prima rivoluzione industriale si poteva anche concepire la

superiorità di un sistema economico a decisioni accentrate (tipicamente quello dei

Paesi dell’ex blocco sovietico) rispetto ad uno a decisioni decentrate, perché si

trattava di primeggiare nella produzione di tonnellate di acciaio, di cemento, di

prodotti chimici, di milioni di automobili e di elettrodomestici, ecc., nella seconda

rivoluzione l’economia di mercato non ha rivali poiché capace di organizzare

l’attività econo-mica adattandola incessantemente all’informazione.

La domanda si diversifica: non è più importante l’automobile, intesa come

semplice mezzo di trasporto («di quale colore non importa, purché sia

nera », diceva Henry Ford ), quanto la

quantità di informazioni in materia di sicurezza, eleganza, maneggevolezza in ogni

condizione di strada, adattabilità alle manutenzioni, ecc., che essa contiene.

Nella seconda rivoluzione industriale contano sempre meno la materia prima,

il capitale, la tecnologia, in quanto sono ormai risorse abbondanti e reperibili

ovunque. Contano, invece, di più le competenze acquisite dalla classe dirigente e

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dalla classe lavoratrice e la capacità di farle rendere in termini economici

(ricavi/costi), principale compito dei managers.

Se è vero che la figura dell’imprenditore individuale o istituzionale (quello

delle public companies32) non è molto cambiata nella prima e nella seconda

rivoluzione industriale - imprenditore è colui che basandosi sul proprio patrimonio, o

anche a debito, produce ricchezza - si è modificato profondamente, sia il rapporto tra

imprenditore e manager, sia il contenuto dell’attività del manager.

Questa seconda rivoluzione industriale, inoltre, non è appannaggio

dell’Occidente e del mondo anglosassone, ma dei Paesi che sanno primeggiare nei

settori avanzati nei quali maggiore è il contenuto di informazione: microelettronica,

biotecnologie, nuovi materiali, aviazione civile, telecomunicazioni, robotica e

macchine utensili, informatica.

Si tratta di settori industriali nei quali ciò che conta è la ricerca e

l’applicazione della ricerca. I Paesi capaci di sviluppare all’interno e attirare

dall’esterno questo brainpower godono di un vantaggio competitivo rispetto agli altri

Paesi che li fa primeggiare nella concorrenza internazionale.

Va precisato comunque che la seconda rivoluzione industriale non è sorta

sulle “ceneri” della prima, ma anzi su questa si è “incastrata”: gli effetti della prima

rivoluzione industriale sono infatti ancora oggi presenti in molti Paesi e in molti

settori dell’economia, per cui la stessa non può certamente dirsi conclusa. Vi sono

tuttavia Paesi (in particolare i Paesi arabi) che non hanno partecipato alla prima

rivoluzione industriale e nemmeno sembrano propensi a far parte della seconda e

Paesi (i c.d. NIC dell’Estremo Oriente) che, invece, sono fra i principali attori della

seconda rivoluzione industriale pur non avendo partecipato alla prima.

Per prendere parte alla seconda rivoluzione non è infatti indispensabile essere

passati attraverso la prima; anzi molte volte l’aver partecipato alla prima è risultato

essere più un handicap che un vantaggio in quanto le vecchie strutture produttive non 32 Public company è un termine inglese che si utilizza per indicare le aziende che consentono la vendita al pubblico dei loro titoli mobiliari (azioni, obbligazioni, ecc). Di solito ciò avviene attraverso una borsa valori, oppure attraverso l'Over The Counter (OTC). Nonostante l'aggettivo "pubblico" la public company è società di diritto privato e di proprietà privata: per indicare una società pubblica (di proprietà dello Stato o di un altro ente statale) in inglese non viene utilizzato il termine public company ma government-owned corporation. In Italia, a volte, il termine public company viene utilizzato per designare la società ad azionariato diffuso. Fonte: Wikipedia

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più redditizie, e quindi da smantellare, hanno spesso impiegato - e, in alcune realtà,

ancora oggi impiegano - importanti risorse che invece potrebbero essere utilmente

indirizzate verso gli investimenti nei nuovi settori produttivi. I NIC sono appunto

l’esempio evidente di Paesi che hanno iniziato il loro cammino di sviluppo

economico direttamente con la seconda rivoluzione industriale, con il conseguente -

e non indifferente - vantaggio di non doversi liberare dagli ingombranti “ceppi”

(materiali e culturali) della prima rivoluzione, sempre molto difficili da sradicare.

Con la nuova industrializzazione, inoltre, sono state introdotte nuove forme di

protezionismo certamente meno evidenti rispetto a quelle utilizzate in passato, ma

molto spesso più efficaci. Il protezionismo doganale “vecchio stile”, come si è detto

più sopra per l’Europa continentale, veniva attuato attraverso strumenti di facile

evidenza, quali dazi sui prezzi e/o contingenti sulle quantità importate. Oggi,

nonostante la generalità dei Paesi abbia abbracciato il liberoscambismo, il

protezionismo esiste ancora ed è messo in pratica attraverso le c.d. “barriere non

tariffarie” (c.d. managed trade), che assumono la forma, ad esempio, di particolari

certificazioni sul prodotto o di specifiche richieste di omologazione o collaudo

eseguiti da determinati istituti nazionali preposti a questo scopo, ovvero di

limitazioni all’accesso a gare di appalto per la realizzazione di lavori pubblici, e così

via.

Nel sottoparagrafo che segue vengono analizzati un po’ più in dettaglio i

vantaggi competitivi connessi alla seconda rivoluzione industriale che già sono stati a

grandi linee identificati precedentemente.

3.2 I nuovi vantaggi competitivi

Il contesto economico internazionale è caratterizzato dall’emergere di una

triade di potenze economiche che si battono per la supremazia nell’economia

mondiale (Stati Uniti o NAFTA33, Unione Europea e Cina). A decidere il risultato di 33 Il North American Free Trade Agreement (Accordo nordamericano per il libero scambio), conosciuto anche con l'acronimo NAFTA e, nei paesi di lingua spagnola, come TLCAN (Tratado de Libre Comercio de América del Norte o più semplicemente TLC), è un trattato di libero scambio commerciale stipulato tra Stati Uniti, Canada e Messico e modellato sul già esistente accordo di libero

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questa competizione, come in parte si è già detto più sopra, non saranno più i

vantaggi competitivi del passato come le risorse naturali, la disponibilità di capitale e

la tecnologia. Le risorse naturali per unità di PIL sono, infatti, sempre meno usate:

l’America usa meno acciaio adesso di quanto ne abbia usato nel 1960, allorché il PIL

era pari al 40% rispetto ad oggi ed è probabile che con la rivoluzione prodotta dalla

scienza dei materiali ci si debba attendere ulteriori riduzioni nell’uso delle materie

prime per unità di PIL. Anzi, nel secolo Ventunesimo la mancanza di risorse naturali

per ogni Paese potrebbe essere un vantaggio perché si potranno acquistare altrove

nella qualità migliore ed al prezzo più competitivo.

Anche la disponibilità di capitale non sarà più un vantaggio decisivo. Mentre

fino a poco tempo fa tale abbondanza significava anche un maggior capitale investito

per lavoratore e ciò comportava una più alta produttività e più alti salari, oggi la

disponibilità di capitale all’interno del Paese, pur importante, non costituisce più un

netto vantaggio competitivo per due motivi:

1. il mercato dei capitali è diventato globale con la progressiva

scomparsa delle barriere nazionali che segmentavano lo stesso

mercato dei capitali.

Le principali cause di questa globalizzazione sono tre:

o la liberalizzazione, o deregulation, ossia la riduzione della

presenza dello Stato nella vita economica, specie nella finanza

e nei rapporti con l’estero;

o l’evoluzione tecnologica che consente di trasferire

rapidamente capitali da una parte all’altra del globo e rende

possibile la diffusione delle informazioni finanziarie a livello

mondiale;

commercio tra Canada e Stati Uniti (FTA), a sua volta ispirato al modello dell'Unione Europea. L'Accordo venne firmato dai Capi di Stato dei tre paesi (il Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, il Presidente Messicano Carlos Salinas de Gortari e il Primo Ministro Canadese Brian Mulroney) il 17 dicembre 1992 ed entrò in vigore il 1º gennaio 1994. Il giorno stesso della firma, simbolicamente iniziava nello stato messicano del Chiapas la rivolta zapatista da parte delle popolazioni indigene che vedevano nell'accordo (anche sulla base di precedenti esperienze simili) un ulteriore mezzo volto a trasferire la ricchezza dalle zone povere del Messico verso il Canada e, soprattutto, verso gli Stati Uniti. L’aspetto che maggiormente caratterizza il NAFTA è sicuramente legato alla progressiva eliminazione di tutte le barriere tariffarie fra i paesi che aderiscono all’accordo. Fonte: Wikipedia

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o le innovazioni finanziarie che hanno consentito lo sviluppo di

prodotti finanziari sempre meno adatti ad essere negoziati a

livello nazionale e sempre più adatti ad essere utilizzati su

scala internazionale;

2. la disponibilità di capitale non è più così importante come in passato,

perché le società multinazionali sono in grado nel loro interno di

costruire strutture produttive avanzatissime anche in Paesi con bassa

intensità di capitale.

I miglioramenti nelle telecomunicazioni, la diffusione dei computer, dei

trasporti aerei, hanno provocato una rivoluzione nella logistica che rende possibile

rifornirsi da qualunque Paese e anche conveniente farlo. Le fabbriche dove si

produce elettronica di consumo in Corea non sono molto diverse da quelle esistenti

in Giappone nonostante il fatto che il Giappone abbia sei volte il PIL pro-capite della

Corea. L’unica eccezione riguarda quei Paesi che sono altamente indebitati e che

l’elevato rischio Paese esclude dai circuiti del mercato dei capitali. Vi è poi da

considerare che il mercato dei capitali è globale quasi solo per le grandi società,

mentre le piccole e medie imprese sono ancora soggette, di fatto, alle limitazioni del

mercato del credito nazionale. Comunque sia, può dirsi che le differenze nell’accesso

al capitale fra Paesi ricchi in capitale e altri Paesi si sono sensibilmente ridotte.

Anche la tecnologia costituisce un vantaggio competitivo meno determinante

che in passato, quando ogni attività produttiva aveva la sua localizzazione naturale. Il

cotone era coltivato nel Sud degli Stati Uniti perché il clima, il terreno e

l’abbondanza della forza lavoro rendeva questa attività produttiva meglio localizzata

in quella regione, mentre veniva filato nel New England perché vi erano i capitali e

le risorse energetiche sufficienti.

I sette settori industriali del futuro (microelettronica, biotecnologia, industria

dei nuovi materiali, aviazione civile, telecomunicazioni, robotica e macchine utensili,

computers e software) non hanno una localizzazione naturale. Non è più tanto

importante la tecnologia in se stessa, quanto la capacità di organizzare le risorse di

capitali e di lavoro per produrre tecnologia. Ricerca e sviluppo sono importantissimi

soprattut-to se applicati non ai nuovi prodotti, ma ai processi tecnologici per giungere

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ai pro-dotti (i giapponesi hanno dimostrato l’importanza di essere non inventori, ma

miglio-ratori). La cosa più importante non è inventare la tecnologia, ma essere i più

compe-titivi nella tecnologia inventata. Ciò è dimostrato dal fatto che la paga degli

ingegneri produttori, che un tempo era la più alta, è oggi decaduta di importanza

rispetto a quella di esperti di altri settori. Dei direttori generali delle prime 500

società del mondo circa il 35% viene dal marketing, il 25% dalla finanza, il 25%

dall’organizza-zione e solo il 5% dalla produzione.

Il vantaggio competitivo decisivo su cui si baseranno i risultati di questa

competizione fra le tre potenze della triade sta quindi nelle competenze (skills) per

impadronirsi della tecnologia di processo dei managers, delle maestranze e della

classe lavoratrice. Non bastano cioè la ricerca e la tecnologia, occorre anche il lavoro

specializzato capace di impiegarla ai più bassi costi possibili per trasformarla in

produzione di classe mondiale. Ecco il vero vantaggio competitivo. Le aziende

devono trovare una classe lavoratrice capace di impiegare nuove tecnologie CAD-

CAM (Computer Aided Design - Computer Aided Manufacturing), adottare controlli

di qualità in base a metodologie statistiche, gestire magazzini di scorte secondo il

principio del just-in-time (che si basa sulla minimizzazione del magazzino in ogni

stadio del processo di produzione in quanto le eccedenze di magazzino vengono

considerate capitale non utilizzato), far funzionare sistemi di produzione flessibili e

fornire efficienti servizi di manutenzione.

Il lavoratore medio deve disporre di un livello di istruzione ben più alto che in

passato. In un’economia globale, dove i beni possono essere prodotti anche nei Paesi

poveri, l’offerta di lavoro si è espansa enormemente ed il lavoratore, dovunque egli si

trovi, può offrire solo due cose: o le competenze giuste, o la sua disponibilità a

lavorare per un salario così basso da fare la concorrenza ai lavoratori dei Paesi

poveri.

Diversamente, i posti di lavoro che non richiedono competenze emigrano

verso i Paesi poveri. Ecco come nasce la disoccupazione che affligge in maniera

drammatica soprattutto quei Paesi che non si stanno adeguando alle nuove richieste

del mercato o che comunque lo stanno facendo molto lentamente e fra mille

renitenze.

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Prima ancora delle risorse naturali, dei capitali e della tecnologia, un Paese

che voglia essere competitivo a livello globale deve, dunque, prevedere elevati

investimenti in un’appropriata qualificazione della propria forza lavoro. Inoltre,

mentre i primi tre fattori (materie prime, capitali, tecnologie) si possono spostare

rapidamente per il mondo senza particolari problemi, le persone in genere

acconsentono a trasferirsi in altri Paesi con maggiore resistenza e comunque a un

prezzo elevato: per questo la formazione del personale è d’importanza fondamentale

sia per la singola azienda che per l’intero Paese.

La tabella alla pagina successiva, infine, riassume schematicamente

(attraverso sezioni contrapposte) le caratteristiche principali delle due rivoluzioni

industriali che abbiamo descritto nel presente paragrafo.

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Principali caratteristiche della prima e della seconda rivoluzione industriale

Prima rivoluzione industriale Seconda rivoluzione industriale • Nasce in Inghilterra verso la metà del 1700 (si diffonde nell’Europa continentale verso il 1850 e verso il 1900 in Italia)

• Inizia attorno alla metà del 1900 e in pochi decenni si diffonde in molti Paesi

• Egemonia occidentale a matrice anglosassone, a scapito del mondo orientale e turco-musulmano

• Competizione fra tre macro-aree (c.d. “Triade”): Stati Uniti (+ Canada), Unione Europea, Giappone (+ NIC)

• E’ una rivoluzione “pesante” (produzione di grandi quantità di acciaio, cemento, prodotti della chimica di base, materie prime in generale)

• E’ una rivoluzione “leggera” (produzione, ricerca, gestione, diffusione delle informazioni)

• E’ rigida nei processi produttivi • E’ molto flessibile nei processi produttivi

• Lenta • Veloce • Imprecisa e “sporca” (impiego di grandi quantità di fonti energetiche altamente inquinanti e produzione di molti materiali di scarto nocivi per l’ambiente)

• Precisa e “pulita” (non necessita di molta energia per funzionare e non produce “scarti” inquinanti da smaltire, per cui è rispettosa della causa ecologica sollevata negli ultimi decenni)

• Settori produttivi: − Settori industriali tradizionali (chimica, meccanica, metallurgia, cemento, tessile, automobilistico, farmaceutico, ecc.); − servizi tradizionali (trasporti, turismo, ecc.).

• Principali settori produttivi: − Microelettronica; − Biotecnologie; − Nuovi materiali; − Aviazione civile; − Telecomunicazioni; − Robotica e macchine utensili; − Informatica (hardware e software).

• Modello di commercio internazionale: scambio intersettoriale (materie prime contro manufatti, che presuppone tipicamente un interscambio Nord-Sud). E’ perciò un modello improntato alla “specializzazione”.

• Modello di commercio internazionale: scambio intrasettoriale (manufatti contro manufatti, che presuppone tipicamente un interscambio fra Paesi simili, Nord-Nord). E’ perciò un modello improntato alla “despecializzazione”.

• Principali teorie che ispirano i modelli di commercio internazionale: − teoria classica (Ricardo); − teoria neoclassica (Heckscher, Ohlin, Samuelson).

• Nuove teorie che ispirano i modelli di commercio internazionale: − teoria dell’innovazione; − teoria del ciclo di vita del prodotto; − teoria delle multinazionali.

4. Cenni sulle teorie del commercio internazionale

Ha scritto una famosa economista che non vi è branca dell’economia in cui il

distacco fra dottrina ortodossa e realtà sia più ampio che nella teoria del commercio

internazionale. Nel tentativo di spiegare il perché di tale dicotomia, essa ha rilevato

che la menzionata teoria è ancora oggi svolta in termini di confronti fra posizioni di

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equilibrio nelle quali le risorse di capitale e di lavoro sono predeterminate e sempre

completamente utilizzate.

Se non si considerano, per mancanza di spazio, gli apporti dei filosofi antichi

o le riflessioni degli studiosi cosiddetti mercantilisti34 o dei fisiocratici35, occorre

riconoscere che il primo a formulare una teoria generale del commercio

internazionale fu l’economista inglese David Ricardo (1772-1823).

34 Il Mercantilismo fu una politica economica che prevalse in Europa dal XVI al XVIII secolo, basata sul concetto che la potenza di una nazione sia accresciuta dalla prevalenza delle esportazioni sulle importazioni. Nelle società europee di quei secoli, dietro gli aspetti di uniformità del mercantilismo, furono attuate differenti politiche a seconda della specializzazione economica naturale (agricola, manifatturiera, commerciale) e all'idea di ricchezza (oro, popolazione, bilancia commerciale). Benché la battaglia intellettuale sia stata vinta dal liberismo già nella prima metà del XIX secolo, il mercantilismo si è dimostrato una forza persistente nel campo della politica economica, anche sotto il nome di protezionismo. Alcuni sostengono che anche oggi, mentre le dichiarazioni ufficiali si ispirano al liberismo, i comportamenti concreti dei paesi economicamente più sviluppati siano piuttosto mercantilisti. Specularmente, alcune critiche no-global (o più precisamente new-global) sono di fatto più anti-mercantiliste che anti-liberiste

35 La fisiocrazia è una dottrina economica che si affermò in Francia verso la metà del XVIII secolo (principalmente nel triennio 1756 - 1758), in chiara opposizione al mercantilismo e con lo scopo di risollevare le sorti delle scarse finanze francesi. Secondo la dottrina fisiocratica (diffusa in Francia dalle opere del medico ed economista François Quesnay, che scrisse nell'Encyclopédie le due voci "Fittavolo" e "Grani", il cui Tableau économique (1758) costituì la base della dottrina), l'agricoltura è la vera base di ogni altra attività economica: solo l'agricoltura è infatti in grado di produrre beni, mentre l'industria si limita a trasformare e il commercio a distribuire. La fisiocrazia assume quindi il momento della produzione dei beni e non il momento dello scambio come situazione in cui viene creata ricchezza. Tutto il ciclo economico della fisiocrazia ha come fine ultimo quello di creare un surplus (o prodotto netto), che poi verrà investito nuovamente nell'agricoltura (per aumentare la produttività di un terreno, avere a disposizione più manodopera, compiere ricerche nel campo delle macchine agricole), attraverso una condizione di libero mercato. Le classi sociali vanno anch'esse viste in rapporto alla funzione che svolgono all'interno del ciclo produttivo: chi investe il capitale iniziale e vive del prodotto netto fa parte della classe proprietaria o oziosa; i contadini, la classe che coltiva la terra e crea attivamente ricchezza, costituiscono la classe produttiva; chi trasforma i beni in prodotti finiti o si limita a consumarli fa parte infine della classe sterile. La fisiocrazia ebbe una notevole influenza durante gli anni Settanta del Settecento e quest'idea di libero mercato ispirò Adam Smith. Tuttavia, la visione fisiocratica dell'agricoltura venne rifiutata proprio da Smith e da David Ricardo: la teoria del valore basato sul lavoro, contrapposta a quella fisiocratica, ha appunto origine dalle opere di questi due economisti. I fisiocratici furono i primi a teorizzare la nascita di un buon governo basato sul dispotismo. I pensatori classici che si erano susseguiti fino ad allora, avevano sempre inserito, nella classificazione delle forme di governo, il dispotismo tra quelle corrotte. I seguaci di Quesnay, tuttavia ritennero che la migliore tipologia di governo era quella basata sull'essenza naturale dell'uomo. Un unico individuo, illuminato, che avrebbe guidato i suoi sudditi verso il bene. Il dispotismo diventa in questo caso un "dispotismo illuminato"

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Partendo dall’idea che il lavoro è l’unica causa della ricchezza e della

produzione, nei suoi scritti egli dimostra che la divisione internazionale del lavoro e

lo scambio fra i Paesi che si sono divisi le produzioni, nasce dalle differenze delle

produttività relative del lavoro medesimo in diversi Paesi.

Ricardo però dava per scontata la distinzione fra un Paese (il suo), che già nel

Settecento era uscito dall’arretratezza dell’economia agricola ed era passato

attraverso la rivoluzione industriale, e tutti gli altri Paesi che non avevano seguito

questo iter. Sulla base di ciò affermava che vi è convenienza per ogni Paese a

specializzarsi nei beni nei quali ciascuno sopporta costi comparati minori.

Se ad esempio in Inghilterra:

• una unità di lavoro produce due unità di materie prime (2MP) oppure quattro

unità di manufatti (4MA), il valore di scambio sarà 1MP = 2MA.

Se, invece, in un altro Paese:

• una unità di lavoro produce due unità di materie prime (2MP) oppure una unità

di manufatti (1MA), il valore di scambio sarà 1MP = ½MA.

Ebbene, si può dimostrare che, ad un qualsiasi valore di scambio di

½MA < 1MP < 2MA, entrambi i Paesi traggono vantaggio dal commercio

internazionale.

Si supponga, ad esempio, che 1MP = 1,5MA. In tal caso l’Inghilterra avrà

convenienza a produrre con 1 unità di lavoro 4MA e scambierà, ad esempio, 3MA

ottenendo in contropartita 2MP, effettuato lo scambio avrà 2MP + 1MA. Tenendo

conto che in assenza di scambio internazionale la struttura dei prezzi era tale che

1MP = 2MA, ci si troverà ad avere un valore di 2MP = 4MA e, quindi, disporrà di

1MA in più. In pratica, una unità di lavoro (in condizioni di divisione internazionale

del lavoro) avrà prodotto in un certo senso 5MA invece di 4MA.

Nell’altro Paese, dove si sono prodotti 2MP, dopo lo scambio si avrà

1,5MA + 1MP. Tenendo conto che in assenza di scambio i vecchi prezzi erano

½MA = 1MP, ci si troverà con 2MA in più che possono essere visti, in un certo

senso, come 4MP e, quindi, si disporrà di 2MP in più rispetto a quelli che l’unità di

lavoro avrebbe prodotto senza la divisione del lavoro e lo scambio internazionale.

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E’ possibile dimostrare che questa migliore allocazione di risorse, si ottiene

non solo nel caso in cui ogni Paese si specializzi nella produzione nella quale

sostiene un costo comparato minore, ma anche nel caso in cui uno dei due Paesi sia

meno efficiente in entrambe le produzioni.

In quest'ipotesi, ogni Paese ottiene egualmente un vantaggio purché quello

sfavorito si specializzi nella produzione del bene in cui lo svantaggio sia

comparativamente minore e purché quello favorito si specializzi nella produzione in

cui il suo vantaggio è maggiore.

Il modello ricardiano classico, tuttavia, non ricercava le origini di queste

differenze di produttività del lavoro e, per tale carenza, fu rivisto e sottoposto a

critica dalla teoria neoclassica che produsse un nuovo modello detto Heckscher-

Ohlin (H-O).

Il modello H-O può sintetizzarsi nella proposizione secondo la quale ogni

Paese gode di un vantaggio comparato nella produzione di quei beni per ottenere i

quali si richiedono quantità relativamente più elevate del fattore di produzione di cui

esso dispone in misura relativamente più abbondante e a costi minori; saranno questi

i beni che esso venderà agli altri Paesi. Alla base del commercio internazionale vi è

quindi la differenza nella dotazione fattoriale dei Paesi e nella intensità fattoriale

della produzione. A sua volta, però, il modello H-O si presta a molte critiche.

In primo luogo, vi sono critiche alla validità di molte delle condizioni di

concorrenza perfetta e di piena occupazione dei fattori produttivi che sono poste alla

base della teoria H-O (così come di quella ricardiana).

In secondo luogo, il modello H-O è contraddetto dal paradosso di

Leontief . Questo studioso (in due saggi pubblicati nel 1954 e nel 1956)

dimostrò che, contrariamente alle aspettative, gli Stati Uniti mostrano una tendenza

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alla specializzazione nella vendita all’estero dei beni che impiegano più lavoro e

meno capitale.

In terzo luogo, l’evidenza statistica dimostra che il commercio internazionale

solo per circa un terzo (e non per la quasi totalità come previsto nelle teorie

ricardiana e H-O) si svolge fra Paesi produttori ed esportatori di manufatti e Paesi

produttori ed esportatori di materie prime. I restanti due terzi riguardano lo scambio

di manufatti all’interno del gruppo dei Paesi industrializzati.

In quarto luogo, le teorie classica e neoclassica ipotizzano un primato

indiscusso del liberoscambismo sul protezionismo quasi che il libero scambio

conducesse automaticamente, sia all’equilibrio delle bilance commerciali di tutti i

Paesi ricchi e poveri, sia al loro massimo benessere. Tale assunto non è sempre

verificato nella realtà. Questa neutralità delle teorie economiche classica e

neoclassica del commercio internazionale, per cui sarebbe stato indifferente trovarsi

nello scambio dalla parte dei Paesi industrializzati o da quella dei Paesi in via di

sviluppo, contrastano con la realtà storica dei diversi vantaggi o svantaggi insiti

nell’assunzione da parte di un Paese di una posizione oppure dell’altra.

Essere nel gruppo dei Paesi industrializzati oppure in quello dei Paesi in via

di sviluppo è molto diverso e tale diversità è così grande che c’è addirittura da porsi

il problema se il commercio internazionale sia sempre uno strumento di migliore

allocazione delle risorse e di sviluppo economico, come sostiene la teoria

tradizionale, o invece, in certi casi, uno strumento di conservazione dei divari di

sviluppo economico.

Le teorie economiche classiche e neoclassiche, cioè avrebbero il difetto di

essere troppo “inglesi” e di trascurare soprattutto due circostanze:

A. Non rilevano alcuni danni del commercio internazionale in quanto

elemento di conservazione dei divari economici fra le nazioni;

B. Non spiegano la realtà storica che ha visto da un lato, l’Inghilterra

effettuare grandi sforzi per conservare la sua posizione di unico Paese

produttore di manufatti e, dall’altro, alcuni Paesi intraprendere molte

iniziative per opporsi a questo disegno della Gran Bretagna.

In altre parole, il processo di inserimento di altri Paesi nell’area dei Paesi

industrializzati (inizialmente occupata dalla sola Inghilterra) incontrò sempre

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l’opposizione inglese, ma si svolse egualmente contraddicendo, sia pure

paradossalmente, i principi del liberoscambismo che si insegnavano nelle aule

universitarie dei Paesi che avevano avanzato la loro candidatura ad occupare

quell’area.

Per accelerare il proprio sviluppo economico cioè, i Paesi mano a mano

emergenti dal 1700 alla seconda guerra mondiale (in un ordine non tassativo: Stati

Uniti, Francia, Germania, Belgio, Svizzera, Austria, Italia, Russia e Spagna per

limitarci all’Occidente) dovettero seguire pratiche economiche e di commercio

internazionale completamente diverse da quelle postulate dalle teorie classica e

neoclassica e dal liberoscambismo che esse propugnavano.

All’Inghilterra, che si imponeva nel campo dei manufatti secondo una logica

monopolistica e che si era sviluppata utilizzando l’autofinanziamento delle imprese

per effettuare i propri investimenti, altri Paesi del continente europeo contrapposero

un modello di sviluppo che utilizzava tre strumenti: il risparmio familiare come base

dell’accumulazione capitalistica e, quindi, degli investimenti necessari

all’industrializzazione, l’intermediazione finanziaria, imperniata sulle aziende di

credito anche nella forma di banche miste, ed il protezionismo doganale (concetti già

in parte espressi nel paragrafo precedente quando si è parlato del finanziamento della

prima rivoluzione industriale).

In questo modo, e non seguendo la logica dei “gains from trade” impliciti

nelle teorie classiche e neoclassiche del commercio internazionale e nelle loro

varianti più o meno ingegnose (staple theory, vent for surplus theory), si sono

industrializzati di mano in mano i principali Paesi dell’Europa occidentale. Alcuni

Paesi, ancora più arretrati ed in particolare la Russia, non riuscendo a decollare

nemmeno usando questo secondo tipo di motore a tre stadi (risparmio familiare,

banche e protezionismo) si sono rivolti ad un terzo tipo di motore dello sviluppo e

cioè al risparmio della pubblica amministrazione (che aveva imposto le sue regole

ferree di accumulazione alle famiglie e alle imprese) ed al protezionismo.

Questo gruppo di Paesi non è però riuscito a cooptarsi nell’area dei Paesi

industrializzati in contrapposizione al vasto numero di Paesi produttori ed esportatori

di materie prime, ma ha costituito un raggruppamento a parte che veniva chiamato

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per semplicità quello dei Paesi del Comecon (dal nome dell’accordo

che li legava).

Al di là delle differenze ideologiche, politiche e sociali che distinguevano i

Paesi del Comecon dagli altri Paesi del mondo (suddivisi in Paesi

industrializzati e Paesi in via di sviluppo) e sulle quali non ci si vuole pronunciare, è

certo che in questi Paesi si riscontrano ancora oggi ostacoli e difficoltà nell’accettare

la possibilità di svilupparsi in base alla logica del liberoscambismo e della divisione

internazionale del lavoro postulata dalle teorie classica e neoclassica.

Al di là della critica radicale sul commercio internazionale, in quanto

strumento di conservazione dei divari di sviluppo, che è stata qui brevemente

tratteggiata, può dirsi che è si è dovuto integrare le due teorie (classica e neoclassica)

con altre nuove e parziali teorie del commercio internazionale (quindi non aventi

carattere generale) che fossero in grado di spiegare meglio la realtà concreta

dell’interscambio mondiale.

Pur restando nella logica del liberoscambismo e nel filone di pensiero

classico e neoclassico, l’attenzione degli economisti si è rivolta ad un fatto nuovo e

cioè che la produzione in molti casi avveniva in condizioni di rendimenti crescenti (e

non decrescenti). Le economie di scala hanno cominciato a diventare, quindi, il

secondo fattore esplicativo degli scambi internazionali subito dopo quello

rappresentato dalle diverse dotazioni di fattori produttivi.

La diminuzione cioè dei costi unitari di produzione, connessa al maggior

volume di prodotto ottenuto con una determinata tecnologia, spinge le imprese ad

esportare per accrescere il volume del prodotto medesimo. Il commercio

internazionale cioè, si spiega sempre meno in termini di libera concorrenza e sempre

più in termini di monopolio per i seguenti motivi:

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1. le aziende che operano sul mercato internazionale sono quelle in grado di

effettuare considerevoli investimenti iniziali che limitano di fatto le

possibilità di entrata sul mercato;

2. a livello internazionale, data la più ampia gamma di varietà nei gusti dei

consumatori, esistono maggiori possibilità di differenziazione dei prodotti e

di discriminazione dei prezzi;

3. la limitata mobilità internazionale dei fattori produttivi rappresenta un’altra

circostanza che favorisce forme di mercato non concorrenziali.

Partendo da questo assunto, sono nate alcune teorie non più generali (di stampo

walrasiano), ma parziali (di stampo marshalliano) con obiettivi più limitati, ma

capaci di spiegare più in concreto le caratteristiche effettive del commercio

internazionale moderno.

Numerose sono queste teorie particolari ed i contributi degli autori sono stati

molteplici. Ci si limita in questa sede a ricordare i più importanti.

A. Linder36 in particolare, ha proposto l’importanza del mercato interno

come vincolo alla crescita della capacità di esportazione. Quest’ultima

cioè, per essere ancora più espliciti, presuppone l’efficienza dell’industria

nazionale rispetto ai concorrenti esteri sui mercati internazionali ed è

largamente determinata dalla domanda interna. Non si possono, ad

esempio, esportare elettrodomestici se non si ha un ampio mercato interno

di elettrodomestici. Se, seguendo una logica anticonsumistica, si limitano

certi consumi interni “opulenti” e si adottano quelli di Paesi più poveri,

non ci si potrà lamentare se non si riuscirà ad esportare nei Paesi più

ricchi. Ne consegue che più la struttura della domanda aggregata di due

Paesi è simile, più intenso sarà il loro interscambio. Poiché la struttura

della domanda dipende essenzialmente dal livello di reddito pro capite e

dalla distribuzione del reddito fra le diverse categorie sociali, due Paesi

36 Hans Martin Staffan Burenstam Linder (born H. M. S. Linder, (1931-2000 in Djursholm) was a Swedish economist and conservative politician. He was Swedish Minister for Trade from 1976–78 and from 1979-81. As an adult, Staffan Linder began to use the name Burenstam to preserve this old name of nobility, whose last male bearer, his grandfather Friedrich Burenstam, had died without a male heir in 1949. In the scholarly world, Burenstam Linder is known under the name Linder (e.g. Linder's Hypothesis). It wasn't till the 1980s that his family legally changed their name to Burenstam Linder.

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omogenei per reddito nazionale e distribuzione saranno i reciproci

partners commerciali più importanti (un esempio sono Italia, Francia e

Germania).

Il contributo di Linder, in particolare, spiega perché tanta parte del

commercio internazionale è “Nord-Nord” invece che “Nord-Sud”. Egli va

contro l’idea che il commercio internazionale derivi solo dalla

specializzazione. Il commercio internazionale viene visto invece come

una estensione al di là delle frontiere nazionali della rete di attività

economiche del proprio Paese, naturalmente in un’ottica in cui le

economie di scala sono molto importanti.

Questa teoria spiega la crescente interdipendenza fra Paesi industrializzati

ed il fatto che, dopo la seconda guerra mondiale, si sia manifestata

un’elasticità (M/PIL) > 1 e (X/PIL) > 1 e, quindi, un grado di apertura

crescente dei vari Paesi industrializzati al crescere del loro PIL, ma non

spiega quali “gains from trade” possano venire dal commercio

internazionale e quali modelli di specializzazione settoriale si

accompagnino alla crescita economica dei vari Paesi.

I tentativi effettuati per risolvere questo secondo quesito, riformulando in

vari modi la teoria H-O, non hanno prodotto risultati definitivi.

B. Posner, con la sua teoria del gap tecnologico, offre un interessante

contributo teorico. A suo parere, infatti, i vantaggi comparati non

dipendono da dotazioni e costi fattoriali, ma dall’innovazione che procura

un vantaggio temporaneo di monopolio. Successivamente, attraverso

l’inseguimento tecnologico, si ha una inversione delle correnti del

commercio internazionale.

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C. Il contributo di Posner trova una sua più completa applicazione nel

modello del ciclo di vita del prodotto del Vernon. Tale studioso, in

sintesi, sostiene che le fasi della vita di un prodotto sono sostanzialmente

tre.

1. Fase iniziale o innovativa.

Vi è una particolare tendenza dell’imprenditore a sviluppare prodotti

nuovi, o per soddisfare i bisogni di consumatori ricchi, oppure per

aumentare il rapporto fra il numero dei beni prodotti e le unità di lavoro

impiegate. Tale fase infatti si manifesta soprattutto nei Paesi dove i

consumatori sono ad alto reddito e i costi di lavoro sono elevati rispetto al

costo del capitale (tipicamente negli Stati Uniti, in Giappone o

nell’Unione Europea). Tale sviluppo di prodotti nuovi (innovazione)

avverrà di solito sulla base di principi scientifici disponibili a tutti, ma

investendo capitali ingenti. In questa fase iniziale la funzione di

produzione è ancora instabile e la domanda è anch’essa instabile, ma non

elastica rispetto al prezzo, mentre è elastica rispetto al reddito. I fattori di

competitività sono diversi dal prezzo; in particolare si basano sulla novità,

qualità delle prestazioni, affidabilità e marketing. La produzione è

realizzata interamente dove ha sede l’impresa innovatrice e tutto ciò che si

consuma nel resto del mondo è frutto di esportazioni.

2. Fase di sviluppo.

La produzione si stabilizza, si formano standards internazionali ben

definiti, aumentano le economie di scala e l’industria tende a concentrarsi

per sfruttarle.

La produzione si diffonde anche in altri Paesi e i produttori dei Paesi

originari incominciano ad investire anche all’estero. La domanda

comincia a presentare un’elevata elasticità rispetto al prezzo.

3. Fase di maturità e standardizzazione.

Si accentuano i caratteri della seconda fase fino a che la produzione si

trasferisce nei Paesi meno sviluppati che, con salari relativamente più

bassi, potranno occupare quote crescenti di mercato dei prodotti giunti a

maturità.

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D. In base ad un’altra teoria del commercio internazionale, si sottolinea non

tanto la specializzazione dei Paesi per settori (interindustriale o

intersettoriale), quanto la specializzazione dei Paesi per prodotti entro i

settori (intraindustriale o intrasettoriale), e si vede in ciò un modo per

superare la contraddizione fra la concezione del commercio

internazionale basata sulla specializzazione (teorie classica e neoclassica)

e quella basata sulla despecializzazione e sulla omogeneità della domanda

aggregata (teoria di Linder).

In questo senso, si riuscirebbero anche a superare i problemi insiti nella

contrapposizione fra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo ed

infine si porrebbero le basi per spiegare la funzione dei NIC nel

commercio internazionale.

In base a questa teoria si afferma che, con il venire meno degli ostacoli

doganali, si assiste ad una crescita intrasettoriale più accentuata di quella

intersettoriale. La teoria del commercio internazionale diviene così

sempre meno teoria della specializzazione e della despecializzazione in

senso tradizionale, mentre diventa sempre più importante la

specializzazione per tipo di prodotti all’interno dei diversi settori

produttivi. Alla luce di ciò, il commercio internazionale intrasettoriale

viene sempre più visto sia come fenomeno di “border trade” quando vi

sono fattori di somiglianza etnico-linguistico-culturale, sia come scambio

di prodotti sostituibili nell’uso (vermouth italiano/champagne francese;

cognac francese/whisky scozzese; formaggi francesi/ formaggi tedeschi;

ecc.), sia in rapporto a clausole di reciprocità, sia come frutto della

distinzione all’interno di un settore fra parti, componenti e prodotti finiti,

sia come scambi interaziendali.

Questi ultimi rappresentano un caso ancora più lontano rispetto allo

schema classico della specializzazione tradizionale (vino contro tessuti) e

costituiscono un esempio di specializzazione del tutto nuova condizionata

dalla politica dell’azienda.

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In particolare con riferimento agli Stati Uniti si può dire che circa il 40%

delle esportazioni manifatturiere è diretto verso filiali estere di case madri

USA e circa la stessa percentuale di importazioni deriva da flussi

interaziendali.

In conclusione di quanto detto finora, si può affermare che la divisione

internazionale del lavoro è un fenomeno le cui determinanti prossime (differenze nei

prezzi relativi delle merci e dei fattori produttivi) rinviano alle determinanti remote

di tali differenze e cioè alla teoria dello sviluppo economico e delle trasformazioni

strutturali intervenute nel processo di sviluppo medesimo. La divisione

internazionale del lavoro origina una interazione fra diverse scarsità dei fattori

produttivi, rendimenti crescenti al crescere delle dimensioni, mercati non

perfettamente concorrenziali, modelli di domanda e costi di trasporto.

Vi è quindi più la coesistenza di teorie diverse che l’elaborazione di una

teoria generale del tipo di quella di Ricardo o di quella H-O.

Il mondo che osserviamo è intessuto di fenomeni di specializzazione (alla

Ricardo) e despecializzazione (alla Linder). Molto utili sono anche le analisi

microeconomiche miranti a stabilire i comportamenti delle imprese e le strutture

concrete dei mercati.

Anche l’esame degli investimenti diretti all’estero (IDE) e lo studio dei

comportamenti delle imprese multinazionali sono molto proficui.

Non si può cioè disporre di un quadro completo delle variabili che spiegano

la specializzazione internazionale e il commercio internazionale senza conoscere

almeno alcuni elementi della tipologia, delle determinanti e degli effetti dei

movimenti internazionali del capitale.

I movimenti internazionali (non bancari) di capitale si distinguono in: prestiti

obbligazionari, investimenti di portafoglio e investimenti diretti.

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5. Protezionismo e strumenti del protezionismo,

liberoscambismo e managed trade: l’evoluzione del

commercio internazionale dal secondo dopoguerra

Il commercio internazionale dopo la seconda guerra mondiale, sulla spinta

degli accordi di Bretton Woods, si è giovato della riduzione delle barriere tariffarie

per dar luogo ad una espansione senza precedenti. Gli anni Trenta, anni della Grande

Depressione, che da poco erano passati, avevano segnato una drastica contrazione

degli scambi internazionali (ridottisi di circa l’80%) a causa delle politiche

protezionistiche che un po’ ovunque vennero attuate.

In certi casi, il protezionismo venne addirittura visto non come una necessità,

ma come elemento di una ideologia (ciò che è avvenuto in quegli anni con

l’autarchia) che arrivava al punto di teorizzare l’importanza del protezionismo stesso

nel commercio internazionale.

Alle barriere commerciali si affiancarono stretti controlli sui tassi di cambio.

Il modo di regolare gli scambi commerciali fra i diversi Paesi era, per lo più,

individuato nel cosiddetto “sistema di compensazioni” (clearing system) che poteva

essere bilaterale o multilaterale. Questo sistema di regolazione degli scambi tra due o

più Paesi, consisteva nell’uguagliare i valori delle importazioni e delle esportazioni

al fine di evitare lo scambio di valuta. Dopo Bretton Woods gli accordi di clearing

(che creavano, fra l’altro, grosse complicazioni a livello di tassi di cambio i quali

dovevano essere stabiliti diversamente a seconda del settore per cui vigeva l’accordo)

furono via via sempre meno utilizzati e gli scambi internazionali vennero regolati

QUADRO DI APPROFONDIMENTO Il protezionismo ed i suoi strumenti Il protezionismo è una linea di condotta governativa tendente, con vari mezzi, a proteggere settori economici nazionali dalla concorrenza estera. Gli strumenti principali del protezionismo hanno lo scopo di rendere più costose, limitare o vietare le importazioni di beni dall'estero, e sono: * tariffe doganali, di modo che il prezzo di vendita di un bene importato è aumentato da una imposta fiscale; * quote doganali, di modo che la quantità totale che può essere importata di un bene estero è limitata.

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attraverso la logica del sistema monetario internazionale, ossia tramite valuta

liberamente acquistata sul mercato dei cambi (come accade ancora oggi).

Con Bretton Woods venne, infatti, reintrodotto quel sistema monetario

internazionale che si era di fatto interrotto negli anni Trenta e che certamente

favoriva la multilateralità degli scambi mondiali.

La straordinaria espansione del commercio internazionale che si è avuta dopo

Bretton Woods ha seguito tendenzialmente due vie.

La prima è stata quella del sistema multilaterale di libero scambio promosso

dal GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) attraverso una serie ininterrotta

QUADRO DI APPROFONDIMENTO Gli accordi di Bretton Woods

La conferenza di Bretton Woods, che si tenne dal 1º al 22 luglio 1944 nell'omonima cittadina appartenente alla giurisdizione della città di Carroll (New Hampshire, USA), stabilì regole per le relazioni commerciali e finanziarie tra i principali paesi industrializzati del mondo. Gli accordi di Bretton Woods furono il primo esempio nella storia del mondo di un ordine monetario totalmente concordato,

pensato per governare i rapporti monetari fra stati nazionali indipendenti. Dopo un acceso dibattito, durato tre settimane, i delegati firmarono gli Accordi di Bretton Woods. Gli accordi erano un sistema di regole e procedure per regolare la politica monetaria internazionale. Le caratteristiche principali di Bretton Woods erano due; la prima, l'obbligo per ogni paese di adottare una politica monetaria tesa a stabilizzare il tasso di cambio ad un valore fisso rispetto al dollaro, che veniva così eletto a valuta principale, consentendo solo delle lievi oscillazioni delle altre valute; la seconda, il compito di equilibrare gli squilibri causati dai pagamenti internazionali, assegnato al Fondo Monetario Internazionale (o FMI). Il piano istituì sia il FMI che la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (detta anche Banca mondiale o World Bank). Queste istituzioni sarebbero diventate operative solo quando un numero sufficiente di paesi avesse ratificato l'accordo. Ciò avvenne nel 1946. Nel 1947 fu poi firmato il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade - Accordo Generale sulle Tariffe ed il Commercio) che si affiancava all'FMI ed alla Banca mondiale con il compito di liberalizzare il commercio internazionale. In pratica il sistema progettato a Bretton Woods era un gold exchange standard, basato su rapporti di cambio fissi tra le valute, tutte agganciate al dollaro, il quale a sua volta era agganciato all'oro.

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di “Rounds” (otto). Gli ultimi due Round, rispettivamente il Tokyo Round (1973-

’79) e soprattutto l’Uruguay Round concluso il 15 dicembre 1993, hanno affrontato

anche il nodo delle barriere non tariffarie, dell’inserimento dei servizi nell’ambito dei

negoziati, dei prodotti agricoli, dei tessili e dell’abbigliamento. Come si vedrà meglio

in seguito, la fine dei Rounds non segnò il declino di accordi che regolassero il

commercio internazionale, bensì con l’ultimodei Round, l’Uruguay Round appunto,

si aprirono le porte sull’istituzione di una vera propria organizzazione mondiale che

si occupasse di tali problematiche: nasce così, con accordo siglato nel 1994, la World

Trade Organization (WTO), nota anche come Organizzazione Mondiale del

Commercio (OMC).

La seconda è stata quella di fare crescente ricorso ad accordi preferenziali a

livello regionale con la creazione di zone di libero scambio, unioni doganali, mercati

comuni o addirittura, come nel caso dei Paesi dell’Unione Europea, di processi di

integrazione commerciali completi (mercati interni) e successivamente di unioni

economiche e monetarie.

Secondo taluni questa seconda via rappresenta una minaccia al principio del

multilateralismo, in base al quale il sistema di libero scambio deve procedere a

riduzioni del grado di protezionismo in modo simultaneo e multilaterale. Si

sottolinea al riguardo il potenziale di discriminazione dei concorrenti esterni all’area

interessata dall’accordo in parola.

Questa conclusione sarebbe valida solo se a livello del “contenitore” globale

(GATT e successivamente WTO) dominasse un atteggiamento conflittuale: in questo

caso un ridotto numero di partecipanti agli scambi internazionali, connesso con la

formazione di unioni doganali, aumenterebbe la propensione alle rappresaglie

commerciali e favorirebbe le spinte all’isolamento delle economie regionali,

divenute, per così dire, più “autosufficienti”.

Se invece permane un clima di cooperazione generale, la formazione di aree

commerciali integrate consente di realizzare a livello di partners maggiormente

omogenei, ciò che difficilmente sarebbe realizzabile su scala planetaria e gli effetti di

creazione di commercio all’interno dell’unione doganale, superano quelli di

diversione connessi con le barriere tariffarie e soprattutto non tariffarie che vengono

opposte alle merci e ai servizi provenienti da Paesi terzi.

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La regionalizzazione perciò deve essere considerata come una soluzione (e

sia pure di second best, ossia la migliore ma non l’ideale) per il potenziamento

dell’assetto liberoscambista del mondo.

La tendenza alla regionalizzazione del commercio internazionale prese

inizialmente forma della creazione di tre grandi aree (che compongono la cosiddetta

“Triade”): l’Unione Europea (formata inizialmente da 15 Stati ma composta ad oggi

da ben 27 Stati), cui si aggiungono alcuni Paesi dell’EFTA (European Free Trade

Association, costituita nel 1960 a Stoccolma principalmente su iniziativa inglese in

risposta alla creazione della CEE, oggi composta da Norvegia, Svizzera, Islanda e

Liechtenstein) con la creazione dello Spazio Economico Europeo (SEE), poi evoltosi

in un unione economica e monetaria; il NAFTA (North American Free Trade

Agreement), costituito nel 1993 fra Stati Uniti, Canada e Messico; il Giappone con le

sue, grandi e piccole, otto “tigri”

Dati pil e densità delle 3 aree

In queste aree, e specialmente nelle prime due, il grado di integrazione

commerciale interna (GICI) tende ad aumentare. L’interscambio all’interno del Nord

America per i tre Paesi del NAFTA tende a crescere rispetto al commercio totale dei

tre Paesi e soprattutto rispetto al commercio che ha luogo tra i Paesi del continente

americano. L’interscambio fra i Paesi dell’Unione Europea (EU27) è elevato (circa

65%) e ancora in crescita rispetto all’interscambio con Paesi terzi.

Merchandise trade of the United States by origin and destination, 2008

(Billion dollars and percentage)

Exports Imports

Destination Value Share Share

Annual percentage

change

Origin Value Share

Annual percentage

change 2008 2000 2008 2007 2008 2008 2000 2008 2007 2008 Region Region

World 1287,4 100,0 100,0 12 12 World 2169,5 100,0 100,0 5 7 North America 413,2 37,0 32,1 6 7 Asia 762,4 37,8 35,1 5 1 Asia 329,4 27,6 25,6 11 8 North America 559,0 29,4 25,8 5 5 Europe 311,1 23,6 24,2 16 14 Europe 409,6 20,3 18,9 6 4 South and

Central America 135,0 7,5 10,5 21 28 South and Central

America 167,4 6,2 7,7 1 18 Middle East 55,0 2,4 4,3 21 22 Africa 117,3 2,3 5,4 14 23 Africa 28,8 1,4 2,2 28 20 Middle East 115,3 3,2 5,3 8 44

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93 93

CIS 13,8 0,4 1,1 49 32 CIS 38,5 0,8 1,8 5 45 Economy Economy

European Union (27) 271,8 21,6 21,1 15 11 European Union (27) 377,9 18,7 17,4 7 4

Canada 260,9 22,6 20,3 8 5 China 356,6 8,5 16,4 11 5 Mexico 151,2 14,3 11,7 2 11 Canada 339,1 18,5 15,6 3 7 China 69,7 2,1 5,4 17 11 Mexico 218,6 10,9 10,1 6 3 Japan 65,1 8,4 5,1 5 7 Japan 143,6 12,0 6,6 -2 -4

Above 5 818,8 68,9 63,6 - - Above 5 1435,8 68,6 66,2 - - Korea,

Republic of 34,8 3,6 2,7 7 0 Saudi Arabia 57,0 1,2 2,6 12 53

Brazil 32,3 2,0 2,5 28 34 Bolivarian Rep. of

Venezuela 52,6 1,6 2,4 7 28 Singapore 28,8 2,3 2,2 6 10 Korea, Republic of 49,8 3,3 2,3 4 1 Taipei, Chinese 25,3 3,1 2,0 14 -4 Nigeria 39,2 0,9 1,8 17 16 Australia 22,4 1,6 1,7 8 17 Taipei, Chinese 37,7 3,4 1,7 0 -5 Switzerland 22,0 1,3 1,7 18 29 Brazil 32,1 1,2 1,5 -3 18 Hong Kong,

China 21,6 1,9 1,7 13 8 Malaysia 31,6 2,1 1,5 -10 -6 India 17,7 0,5 1,4 55 18 Russian Federation 27,9 0,6 1,3 -2 38 United Arab

Emirates 15,7 0,3 1,2 -3 36 India 27,0 0,9 1,2 9 7 Israel 14,5 1,0 1,1 19 11 Thailand 24,6 1,4 1,1 0 3 Malaysia 13,0 1,4 1,0 -7 11 Iraq 23,1 0,5 1,1 -3 94 Bolivarian Rep.

of Venezuela 12,6 0,7 1,0 13 24 Israel 22,6 1,0 1,0 9 7 Saudi Arabia 12,5 0,8 1,0 33 20 Algeria 20,0 0,2 0,9 15 9 Chile 12,1 0,4 0,9 22 46 Angola 19,5 0,3 0,9 6 51 Colombia 11,4 0,5 0,9 28 34 Switzerland 18,2 0,8 0,8 3 20 Turkey 10,4 0,5 0,8 15 59 Indonesia 16,7 0,9 0,8 6 10 Russian

Federation 9,3 0,3 0,7 55 28 Singapore 16,2 1,6 0,7 3 -14 Thailand 9,1 0,9 0,7 4 7 Viet Nam 13,9 0,1 0,6 23 21 Philippines 8,3 1,1 0,6 1 8 Colombia 13,8 0,6 0,6 2 38 Argentina 7,5 0,6 0,6 23 29 Australia 10,9 0,5 0,5 5 22 Dominican

Republic 6,6 0,6 0,5 14 8 South Africa 10,1 0,3 0,5 20 9 South Africa 6,5 0,4 0,5 24 18 Ecuador 9,5 0,2 0,4 -14 46 Peru 6,2 0,2 0,5 41 50 Trinidad and Tobago 9,5 0,2 0,4 6 1 Egypt 6,0 0,4 0,5 30 13 Philippines 9,1 1,1 0,4 -3 -7 Indonesia 5,9 0,3 0,5 38 40 Chile 9,0 0,3 0,4 -5 -8 Costa Rica 5,7 0,3 0,4 11 24 Norway 7,6 0,5 0,4 3 0 Panama 4,9 0,2 0,4 38 32 Kuwait 7,4 0,2 0,3 3 72 Honduras 4,8 0,3 0,4 21 9 Hong Kong, China 6,7 1,0 0,3 -12 -8 Guatemala 4,7 0,2 0,4 16 16 Argentina 6,2 0,3 0,3 13 28 Nigeria 4,1 0,1 0,3 25 47 Peru 6,1 0,2 0,3 -11 12 Ecuador 3,4 0,1 0,3 8 18 Congo 5,2 0,0 0,2 0 63 Norway 3,4 0,2 0,3 27 11 Turkey 5,0 0,3 0,2 -15 1 Qatar 3,1 0,0 0,2 108 11 Azerbaijan 4,5 0,0 0,2 162 131 Netherlands

Antilles 3,0 0,1 0,2 40 42 Libyan Arab

Jamahiriya 4,4 ... 0,2 35 23 Viet Nam 2,8 0,0 0,2 73 47 Honduras 4,2 0,3 0,2 5 3

Above 40 1231,3 97,1 95,6 - - Above 40 2094,8 96,5 96,6 - -

Fonte: WTO Statistics

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94 94

I Paesi dell’Estremo Oriente tendono ad accrescere, seppure in misura

relativamente più modesta, il grado di integrazione interna. Il GICI è cresciuto da

circa il 33% all’inizio degli anni Settanta al 38% all’inizio degli anni Novanta.

L’assenza di una struttura di integrazione paragonabile all’Unione Europea o al

NAFTA e il peso dell’interscambio fra ogni singolo Paese e gli Stati Uniti hanno

ostacolato la creazione di una vera e propria area commerciale regionale, per cui non

a caso quando si parla di grandi potenze economiche si citano l’Unione Europea, il

NAFTA e il Giappone.

A onor del vero è giusto ricordare come, se si fa riferimento ai poli di

maggior peso, Nord America, Estremo Oriente e Unione Europea, si nota che

quest’ultima tende a rimanere relativamente esclusa dal processo di integrazione

(non a caso si parla di “fortezza Europa”) che avviene soprattutto nelle aree Nord

America - Estremo Oriente. Si ricorda a tal proposito l’accordo APEC, siglato nel

1989 fra i Paesi NAFTA e i Paesi dell’Estremo Oriente, fra cui il Giappone, stipulato

proprio per promuovere questo processo di integrazione.

Merchandise trade of Japan by origin and destination, 2008

(Billion dollars and percentage)

Exports Imports

Destination Value Share

Annual percenta

ge change

Origin Value Share Annual

percentage change

2008 2000 2008 2007

2008 2008 2000 2008 2007 2008

Region Region

World 782,0 100,0 100,0 10 9 World 762,6 100,0 100,0 7 23 Asia 406,2 43,3 51,9 12 13 Asia 361,1 46,4 47,4 7 19 North America 158,1 32,7 20,2 0 -4 Middle East 166,7 13,0 21,9 5 46 Europe 119,3 17,8 15,3 12 6 North America 94,3 22,0 12,4 5 12 Middle East 34,0 2,0 4,4 37 30 Europe 79,6 13,9 10,4 9 10

CIS 19,3 0,2 2,5 51 54 South and

Central America 22,2 2,2 2,9 21 13 South and Central America 19,2 1,7 2,5 25 28 Africa 21,4 1,3 2,8 14 40 Africa 12,5 0,9 1,6 22 19 CIS 14,8 1,3 1,9 57 28

Economy Economy China 146,2 8,9 18,7 16 13 China 143,3 14,5 18,8 8 12 United States 137,4 30,0 17,6 -1 -4 United States 77,7 19,1 10,2 4 9

European Union (27) 110,2 16,8 14,1 12 5 European

Union (27) 70,3 12,6 9,2 9 8

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95 95

Korea, Republic of 59,5 6,4 7,6 8 9 Saudi Arabia 51,1 3,7 6,7 -5 45 Taipei, Chinese 46,1 7,5 5,9 2 3 Australia 47,5 3,9 6,2 12 52

Above 5 499,4 69,6 63,9 - - Above 5 389,9 53,8 51,1 - -

Hong Kong, China a 40,3 - - 7 4 United Arab

Emirates 47,1 3,9 6,2 2 45 Thailand 29,4 2,8 3,8 12 15 Indonesia 32,6 4,3 4,3 10 23

Singapore 26,6 4,3 3,4 13 22 Korea,

Republic of 29,5 5,4 3,9 0 8 Australia 17,3 1,8 2,2 14 22 Qatar 26,6 1,5 3,5 14 57 Russian Federation 16,5 0,1 2,1 53 53 Malaysia 23,2 3,8 3,0 12 33

Malaysia 16,4 2,9 2,1 14 9 Taipei,

Chinese 21,8 4,7 2,9 -2 10 Indonesia 12,6 1,6 1,6 23 39 Thailand 20,8 2,8 2,7 9 13

Panama 10,9 1,3 1,4 7 26 Iran, Islamic

Rep. of 18,3 1,4 2,4 14 45 United Arab Emirates 10,8 0,5 1,4 33 35 Kuwait 15,3 1,3 2,0 9 54

Canada 10,8 1,6 1,4 6 2 Russian

Federation 13,3 1,2 1,7 59 26 Philippines 10,0 2,1 1,3 5 5 Canada 12,8 2,3 1,7 4 28 Mexico 9,9 1,1 1,3 11 -3 Viet Nam 9,1 0,7 1,2 16 49 India 7,9 0,5 1,0 39 28 South Africa 9,0 0,8 1,2 17 16 Saudi Arabia 7,9 0,6 1,0 45 17 Brazil 8,7 0,8 1,1 18 45 Viet Nam 7,8 0,4 1,0 37 38 Philippines 8,4 1,9 1,1 10 -3 Brazil 5,9 0,5 0,8 31 48 Chile 7,9 0,7 1,0 12 -3 South Africa 4,6 0,4 0,6 14 1 Singapore 7,9 1,7 1,0 -6 12 Switzerland 4,3 0,4 0,6 25 44 Switzerland 6,4 0,9 0,8 2 23 Oman 3,9 0,2 0,5 46 56 Oman 5,6 0,5 0,7 34 56 Turkey 3,1 0,3 0,4 15 13 India 5,2 0,7 0,7 3 26

Chile 2,7 0,1 0,4 45 74 Brunei

Darussalam 4,5 0,4 0,6 7 81 New Zealand 2,5 0,3 0,3 19 1 Sudan 4,3 0,1 0,6 -11 59 Israel 2,2 0,3 0,3 58 15 Mexico 3,8 0,6 0,5 12 21 Kuwait 2,1 0,1 0,3 40 26 New Zealand 2,9 0,6 0,4 6 8 Ukraine 2,0 0,0 0,3 61 87 Peru 2,1 0,1 0,3 69 -5 Qatar 2,0 0,1 0,3 26 9 Norway 2,1 0,3 0,3 37 24 Iran, Islamic Rep. of 1,9 0,1 0,2 14 42 Nigeria 1,8 0,1 0,2 -18 168 Egypt 1,9 0,2 0,2 13 44 Egypt 1,6 0,0 0,2 111 91

Bahamas 1,8 0,1 0,2 2 45 Hong Kong,

China 1,6 0,4 0,2 -5 7 Pakistan 1,5 0,1 0,2 -11 -7 Iraq 1,5 0,2 0,2 12 49

Norway 1,3 0,2 0,2 -31 18 Equatorial

Guinea 1,1 0,0 0,1 82 94 Colombia 1,1 0,1 0,1 29 -15 Algeria 1,0 0,0 0,1 200 160 Algeria 1,1 0,0 0,1 96 24 Israel 0,9 0,2 0,1 8 2

Argentina 1,0 0,2 0,1 27 18 Papua New

Guinea 0,9 0,1 0,1 27 8 Peru 1,0 0,1 0,1 44 79 Kazakhstan 0,8 0,0 0,1 20 111

Above 40 a 782,5 - - - - Above 40 750,3 98,5 98,4 - -

a Includes significant shipments recorded as exports to Hong Kong, China with China as final destination.

Fonte: WTO Statistics

Stati Uniti e Giappone, pure nell’enorme diversità delle due culture,

presentano caratteristiche economiche complementari e quindi i due poli si vanno

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96 96

rafforzando al loro interno anche mediante accordi bilaterali miranti ad accentuare la

reciproca integrazione commerciale ed economica. In questo senso si è parlato del

rischio che l’Unione Europea si trasformi in una “fortezza Europa”.

Merchandise trade of the European Union (27) by origin and destination, 2008

(Billion dollars and percentage)

Exports Imports

Destination Value Share Share

Annual percentage

change

Origin Value Share

Annual percentage

change 2008 2000 2008 2007 2008 2008 2000 2008 2007 2008 Region Region

World 5898,4 100,0 100,0 16 10 World 6255,8 100,0 100,0 16 12 Europe 4313,5 73,5 73,1 16 9 Europe 4298,9 69,2 68,7 16 10 Asia 440,5 7,5 7,5 17 11 Asia 784,5 12,0 12,5 19 9 North America 434,7 10,3 7,4 7 4 CIS 329,5 2,7 5,3 12 31 CIS 218,3 1,3 3,7 33 25 North America 323,7 8,3 5,2 15 9 Africa 171,8 2,4 2,9 22 24 Africa 214,2 2,9 3,4 12 30

Middle East 156,1 2,2 2,6 17 18 South and Central

America 128,6 1,7 2,1 17 17 South and Central

America 89,0 1,7 1,5 21 20 Middle East 111,0 1,9 1,8 7 19 Economy Economy

European Union (27) 3973,5 68,0 67,4 16 9

European Union (27) 3973,5 64,5 63,5 16 9

United States 362,7 8,9 6,1 6 2 China 363,7 2,7 5,8 30 15 Russian Federation 153,2 0,8 2,6 34 27 United States 268,3 7,3 4,3 13 8

Switzerland 143,7 2,7 2,4 15 13 Russian

Federation 254,0 2,2 4,1 11 28 China 113,7 1,0 1,9 23 17 Norway 135,3 1,7 2,2 6 29

Above 5 4746,7 81,4 80,5 - - Above 5 4994,7 78,4 79,8 - - Turkey 79,8 1,2 1,4 15 11 Switzerland 117,8 2,2 1,9 17 12 Norway 64,3 1,0 1,1 24 8 Japan 109,9 3,3 1,8 11 2 Japan 60,4 1,7 1,0 6 3 Turkey 67,5 0,7 1,1 23 5 United Arab

Emirates 46,6 0,5 0,8 16 27 Korea, Republic of 57,9 1,0 0,9 11 2 India 45,6 0,5 0,8 32 15 Brazil 52,1 0,7 0,8 31 16

Canada 38,4 0,8 0,7 6 8 Libyan Arab

Jamahiriya 50,3 0,5 0,8 15 34 Korea, Republic of 37,7 0,6 0,6 18 11 India 43,2 0,5 0,7 28 19 Brazil 37,6 0,6 0,6 30 32 Algeria 41,7 0,6 0,7 -7 48 Australia 37,0 0,6 0,6 17 19 Taipei, Chinese 35,4 1,0 0,6 6 -1 Ukraine 37,0 0,2 0,6 34 21 Canada 35,0 0,7 0,6 29 10 Singapore 32,3 0,6 0,5 14 15 South Africa 32,3 0,5 0,5 23 14 Mexico 32,0 0,5 0,5 20 13 Saudi Arabia 31,1 0,6 0,5 -14 23 Saudi Arabia 31,3 0,5 0,5 25 14 Malaysia 25,8 0,7 0,4 11 4 Hong Kong, China 31,0 0,8 0,5 6 8 Kazakhstan 25,6 0,1 0,4 5 39

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97 97

South Africa 28,9 0,4 0,5 12 5 Thailand 25,2 0,5 0,4 23 11 Algeria 22,5 0,2 0,4 23 46 Singapore 23,8 0,6 0,4 4 -6 Morocco 21,2 0,3 0,4 29 25 Nigeria 22,6 0,2 0,4 3 62 Croatia 21,1 0,2 0,4 17 16 Ukraine 21,1 0,2 0,3 37 24

Israel 20,7 0,6 0,4 12 6 Iran, Islamic Rep.

of 21,1 0,3 0,3 5 11 Egypt 18,7 0,3 0,3 25 31 Mexico 20,2 0,3 0,3 25 22 Taipei, Chinese 17,1 0,6 0,3 10 -6 Indonesia 19,9 0,4 0,3 14 13 Malaysia 17,0 0,3 0,3 21 9 Hong Kong, China 16,9 0,4 0,3 -2 12 Iran, Islamic Rep.

of 16,7 0,2 0,3 -2 21 Chile 16,6 0,2 0,3 10 -4 Nigeria 16,5 0,2 0,3 32 42 Australia 16,5 0,3 0,3 15 2 Tunisia 14,6 0,3 0,2 19 12 Israel 16,5 0,4 0,3 24 6 Serbia 13,3 ... 0,2 51 21 Azerbaijan 15,5 0,0 0,2 47 54 Thailand 12,5 0,3 0,2 18 15 Argentina 15,5 0,2 0,2 26 32 Qatar 9,7 0,1 0,2 34 13 Tunisia 14,0 0,2 0,2 29 13 Belarus 9,4 0,1 0,2 20 41 Iraq 13,4 0,2 0,2 48 44 Argentina 8,9 0,2 0,2 34 9 Viet Nam 12,6 0,2 0,2 25 17 Indonesia 8,8 0,2 0,1 19 18 Morocco 12,3 0,2 0,2 22 11 Libyan Arab

Jamahiriya 8,4 0,1 0,1 23 48 Egypt 11,9 0,1 0,2 0 23 Kazakhstan 8,3 0,1 0,1 32 1 Angola 11,4 0,1 0,2 111 99

Angola 7,8 0,0 0,1 44 41 Bolivarian Rep. of

Venezuela 9,3 0,1 0,1 -3 25 Chile 7,5 0,1 0,1 22 15 Belarus 8,9 0,0 0,1 7 49

Above 40 5667,5 96,2 96,1 - - Above 40 6065,5 96,5 97,0 - -

The figures are affected by the "INTRASTAT" system of recording trade between EU member States. Intra-EU (27) imports are underrecorded. To compensate for this under-recording, intra-EU (27) exports have been used to obtain total (World) imports.

Fonte: WTO statistics

Oltre all’Unione Europea e al NAFTA, esistono nel mondo altri accordi

preferenziali a livello regionale, fra i quali spiccano, nel continente sudamericano, il

Mercosur (mercato comune tra Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay) e, nel Sud-

Est asiatico, l’ASEAN (a cui aderiscono Thailandia, Filippine, Malesia, Indonesia,

Brunei, Singapore, Vietnam, Laos e Birmania).

Fino ad oggi, la forma di integrazione regionale più compiuta e avanzata

rimane comunque l’Unione Europea, con quasi cinquant’anni di vita e un processo di

unificazione che ha seguito in modo coerente e graduale i diversi passaggi

indispensabili per una corretta integrazione: area di libero scambio, unione doganale,

mercato comune e unione economica e monetaria (il passo finale sarà l’unione poli-

tica, con la costituzione di un’unione federale tra i sui membri). Il NAFTA è un

accordo di integrazione meno definito e strutturato rispetto all’Unione Europea e,

inoltre, in esso vi sono gli Stati Uniti che hanno un peso assolutamente predominante

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98 98

(80%) sugli altri due Paesi (contro il 30% della Germania quale Paese più importante

nell’Unione Europea).

Sulla scia delle positive esperienze americana e soprattutto europea sembra,

dunque, che la via del regionalismo sia quella che anche per il futuro caratterizzerà

sempre più il sistema dell’interscambio mondiale: il risultato sarà una sorta di

“mosaico” composto da pochi “pezzi” di grosse dimensioni che, più o meno

lentamente, tenderanno a mutare i propri confini nel tempo fino ad inglobare ogni

angolo del pianeta.

La stessa Unione Europea ha messo ai primi posti dei propri programmi futuri

l’allargamento dei confini sia verso Est che verso Sud: fra cinquant’anni o forse più

si avrà molto probabilmente un Europa a 30-40 Stati che si estenderà da Capo Nord

ai Paesi del Nord Africa e, ad Est, in molte parti dell’ex blocco sovietico. Sono molti

infatti i Paesi che hanno percepito l’importanza di far parte di questo processo

d’integrazione ed hanno avanzato le loro richieste di adesione (anche se per alcuni di

essi - specialmente i Paesi arabi - vi sono non poche perplessità a causa

dell’eccessiva “non omogeneità” con i Paesi già integrati).

Essere membro di grandi mercati unificati significa acquisire maggiore forza

e rispetto in fase di negoziazione delle regole del commercio internazionale e,

all’opposto, non esserne partecipe porta invece ad una inevitabile emarginazione dal

tavolo delle trattative.

World merchandise exports by region and selected economy, 1948, 1953, 1963, 1973, 1983, 1993, 2003 and 2008

(Billion dollars and percentage)

1948 1953 1963 1973 1983 1993 2003 2008

Value

World 59 84 157 579 1838 3676 7377 15717

Share

World 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 North America 28,1 24,8 19,9 17,3 16,8 18,0 15,8 13,0

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99 99

United States 21,7 18,8 14,9 12,3 11,2 12,6 9,8 8,2 Canada 5,5 5,2 4,3 4,6 4,2 4,0 3,7 2,9 Mexico 0,9 0,7 0,6 0,4 1,4 1,4 2,2 1,9

South and Central America 11,3 9,7 6,4 4,3 4,4 3,0 3,0 3,8 Brazil 2,0 1,8 0,9 1,1 1,2 1,0 1,0 1,3 Argentina 2,8 1,3 0,9 0,6 0,4 0,4 0,4 0,4

Europe 35,1 39,4 47,8 50,9 43,5 45,4 45,9 41,0 Germany a 1,4 5,3 9,3 11,6 9,2 10,3 10,2 9,3 France 3,4 4,8 5,2 6,3 5,2 6,0 5,3 3,9 Italy 11,3 9,0 7,8 5,1 4,0 4,6 4,1 3,4 United Kingdom 1,8 1,8 3,2 3,8 5,0 4,9 4,1 2,9

Commonwealth of Independent States (CIS) b - - - - - - 2,6 4,5 Africa 7,3 6,5 5,7 4,8 4,5 2,5 2,4 3,5

South Africa c 2,0 1,6 1,5 1,0 1,0 0,7 0,5 0,5 Middle East 2,0 2,7 3,2 4,1 6,8 3,5 4,1 6,5 Asia 14,0 13,4 12,5 14,9 19,1 26,1 26,2 27,7

China 0,9 1,2 1,3 1,0 1,2 2,5 5,9 9,1 Japan 0,4 1,5 3,5 6,4 8,0 9,9 6,4 5,0 India 2,2 1,3 1,0 0,5 0,5 0,6 0,8 1,1 Australia and New Zealand 3,7 3,2 2,4 2,1 1,4 1,4 1,2 1,4 Six East Asian traders 3,4 3,0 2,4 3,4 5,8 9,7 9,6 9,0

Memorandum item: EU d - - 27,5 38,6 31,3 37,4 42,4 37,5 USSR, former 2,2 3,5 4,6 3,7 5,0 - - - GATT/WTO Members e 62,8 69,6 75,0 84,1 77,0 89,4 94,3 93,4

a Figures refer to the Fed. Rep. of Germany from 1948 through 1983.

b Figures are significantly affected by i) changes in the country composition of the region and major adjustment in trade conversion factors between 1983 and 1993; and ii) including the mutual trade flows of the Baltic States and the CIS between 1993 and 2003.

c Beginning with 1998, figures refer to South Africa only and no longer to the Southern African Customs Union.

d Figures refer to the EEC(6) in 1963, EC(9) in 1973, EC(10) in 1983, EU(12) in 1993, EU(25) in 2003 and EU(27) in 2008.

e Membership as of the year stated.

Note: Between 1973 and 1983 and between 1993 and 2003 export shares were significantly influenced by oil price developments.

Fonte: WTO Statistics

World merchandise imports by region and selected economy, 1948, 1953, 1963, 1973, 1983, 1993, 2003 and 2008

(Billion dollars and percentage)

1948 1953 1963 1973 1983 1993 2003 2008

Value World 62 85 164 595 1882 3787 7692 16127

Share

World 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0

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100 100

North America 18,5 20,5 16,1 17,2 18,5 21,4 22,5 18,1 United States 13,0 13,9 11,4 12,3 14,3 15,9 16,9 13,5 Canada 4,4 5,5 3,9 4,2 3,4 3,7 3,2 2,6 Mexico 1,0 0,9 0,8 0,6 0,7 1,8 2,3 2,0

South and Central America 10,4 8,3 6,0 4,4 3,8 3,3 2,5 3,7 Brazil 1,8 1,6 0,9 1,2 0,9 0,7 0,7 1,1 Argentina 2,5 0,9 0,6 0,4 0,2 0,4 0,2 0,4

Europe 45,3 43,7 52,0 53,3 44,2 44,6 45,0 42,3 Germany a 2,2 4,5 8,0 9,2 8,1 9,0 7,9 7,5 France 13,4 11,0 8,5 6,5 5,6 5,7 5,2 4,4 United Kingdom 5,5 4,9 5,3 6,3 5,3 5,5 5,2 3,9 Italy 2,5 2,8 4,6 4,7 4,2 3,9 3,9 3,4

Commonwealth of Independent States (CIS) b - - - - - - 1,7 3,1 Africa 8,1 7,0 5,2 3,9 4,6 2,6 2,1 2,9

South Africa c 2,5 1,5 1,1 0,9 0,8 0,5 0,5 0,6 Middle East 1,8 2,1 2,3 2,7 6,2 3,3 2,7 3,6 Asia 13,9 15,1 14,1 14,9 18,5 23,6 23,5 26,4

China 0,6 1,6 0,9 0,9 1,1 2,7 5,4 7,0 Japan 1,1 2,8 4,1 6,5 6,7 6,4 5,0 4,7 India 2,3 1,4 1,5 0,5 0,7 0,6 0,9 1,8 Australia and New Zealand 2,9 2,3 2,2 1,6 1,4 1,5 1,4 1,5 Six East Asian traders 3,5 3,7 3,1 3,7 6,1 10,3 8,6 8,9

Memorandum item: EU d - - 29,0 39,2 31,4 36,1 41,8 38,8 USSR, former 1,9 3,3 4,3 3,5 4,3 - - - GATT/WTO Members e 52,9 66,0 74,2 89,1 79,8 89,5 96,1 95,8

a Figures refer to the Fed. Rep. of Germany from 1948 through 1983.

b Figures are significantly affected by i) changes in the country composition of the region and major adjustment in trade conversion factors between 1983 and 1993; and ii) including the mutual trade flows of the Baltic States and the CIS between 1993 and 2003.

c Beginning with 1998, figures refer to South Africa only and no longer to the Southern African Customs Union.

d Figures refer to the EEC(6) in 1963, EC(9) in 1973, EC(10) in 1983, EU(12) in 1993, EU(25) in 2003 and EU(27) in 2008.

e Membership as of the year stated.

Note: Between 1973 and 1983 and between 1993 and 2003 export shares were significantly influenced by oil price developments.

8. Lo sviluppo dell’economia mondiale verso una

configurazione tripolare costituita dai blocchi Nord

America, Europa, Asia

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101 101

A contendersi oggi la supremazia economica planetaria si schierano tre grandi

blocchi continentali: i Paesi NAFTA (Stati Uniti, Canada e Messico), l’Unione

Europea (costituita ad oggi, a seguito dell’inglobamento progressivo dei paesi

dell’Est, da 27 paesi: Germania , Francia, Italia, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo,

Danimarca, Irlanda, Regno Unito, Grecia, Portogallo, Spagna, Austria, Finlandia,

Svezia, Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca,

Slovacchia, Slovenia, Ungheria, Bulgaria e Romania) e il blocco asiatico, dominato

da Cina e Giappone, affiancate dalle grandi e piccole “tigri” asiatiche

(rispettivamente Hong Kong, Taiwan, Corea del Sud, Singapore e Thailandia,

Filippine, Malesia, Indonesia).

Questo assetto tripolare dell’economia mondiale (e sta avanzando

prepotentemente il Sud America con il Brasile in testa) ha mutato profondamente gli

equilibri che si erano formati e consolidati sulla base della prima rivoluzione

industriale. Esso scaturisce sostanzialmente dai profondi cambiamenti che la seconda

rivoluzione industriale (cfr. paragrafo 3) ha generato nello scenario competitivo

internazionale.

Gli Stati Uniti erano abituati fino al recente passato a godere di enormi

vantaggi competitivi. In primo luogo, fra i Paesi industrializzati essi disponevano del

mercato di gran lunga più grande, delle più grandi società del mondo, delle banche

più grandi del mondo. Non è più cosi. Il mondo è cambiato profondamente. Dal 2000

al 2010 è cambiato radicalmente. Il mondo è diventato piatto, senza barriere, come

dice un grandissimo analista e columnist del New York Times Thomas L. Friedman37

37Thomas L. Friedman (1953) is an American journalist, columnist and author. He writes a twice-weekly column for The New York Times. He has written extensively on foreign affairs including global trade, the Middle East and environmental issues and has won the Pulitzer Prize three times. Fonte: wikipedia http://www.thomaslfriedman.com/

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nel suo magnifico “Il mondo è piatto. Breve storia del

ventunesimo secolo” (Mondadori, 2006).

La globalizzazione è descritta da Friedman come un fenomeno di

appiattimento del mondo (da cui il titolo del libro) dal punto di vista dei rapporti

sociali ed economici. La globalizzazione secondo Friedman ha permesso di livellare

il divario esistente tra i paesi industrializzati e quelli definiti emergenti come India e

Cina. Il libro mette in luce il ruolo che Internet e le innovazioni tecnologiche ad esso

legate stanno avendo nel rompere le barriere culturali, temporali e logistiche tra paesi

diversi. Seppur non citato nel libro, che l'autore ha in parte integrato dopo l'edizione

originale del 2005, il tema del Web 2.0 può essere facilmente riconosciuto in molti

degli esempi citati.

Friedman individua 10 forze principali che avrebbero contribuito a questo

appiattimento globale:

1. La caduta del muro di Berlino con la conseguente fine della contrapposizione

del blocco sovietico con quello occidentale che ha dato la possibilità ai vari

paesi di intrecciare nuovi rapporti. Il mondo ora è un unico mercato, un

singolo ecosistema, una singola comunità.

2. La quotazione di Netscape. La data di questo avvenimento viene presa come

l'inizio dell'era di internet che ha portato alla comunicazione globale di cui

vediamo quotidianamente gli effetti. È il browser commerciale che ha

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103 103

determinato la grande diffusione di internet e del web come strumenti di

comunicazione e di lavoro.

3. La creazione di software per il workflow in quanto incoraggiano lo sviluppo

di procedure standardizzate per certi tipi di lavoro e transazioni commerciali

permettendo ad un numero di individui sempre maggiore di collaborare sui

reciproci contenuti digitali con una facilità senza precedenti.

4. L'avvento dell'uploading per mezzo del quale le persone mettono in

condivisione con il resto del mondo le proprie conoscenze senza essere

costretti a passare attraverso le tradizionali gerarchie organizzative o

istituzionali.

5. L'outsourcing dall'America all'India.

6. L'offshoring. La delocalizzazione in Cina.

7. Il supply chaining. Ossia la collaborazione orizzontale tra fornitori, venditori

e clienti.

8. L'insourcing. Il piccolo può agire come se fosse grande e le grandi imprese

possono agire come se fossero piccole. Far gestire da terzi la propria filiera.

9. L'in-forming. È l'analogo, a livello individuale, dell'uploading,

dell'outsourcing, dell'insourcing, del supply-chaining e dell'offshoring. È la

capacità di dispiegare la propria supply-chain individuale.

10. Gli steroidi, intese come le ulteriori possibilità, date dalle nuove tecnologie

come il wireless, di connettersi a internet e quindi di scambiare dati anche

quando si è in movimento e non solo da casa o dall'ufficio, potenziando così

le altre 9 forze appiattitrici.

Oltre al mercato più grande e al vantaggio tecnologico, gli Stati Uniti

disponevano di grandi risorse naturali e si è visto (cfr. paragrafo iii.) come oggi

questo fattore sia meno importante che in passato e costituisca anzi un elemento di

freno piuttosto che un vantaggio competitivo. Inoltre, l’America disponeva delle

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104 104

scuole di management americane (business schools of administration) dove si

formava la migliore classe di dirigenti del mondo e la classe lavoratrice era anche

mediamente meglio istruita e più attiva.

Questi vantaggi competitivi non esistono più perché Europa, Cina e Giappone

hanno fatto passi da gigante in tutti i settori menzionati (salvo quello delle risorse

naturali) anche perché sono stati capaci di diventare nazioni con elevati tassi di

risparmio e quindi di investimenti cosa che gli Stati Uniti non sono mai riusciti a

diventare a causa della bassa propensione al consumo e dell’endemica posizione

deficitaria della loro bilancia dei pagamenti (si è parlato per anni dei twin deficits, dei

deficit gemelli, ossia del decifit commerciale e del deficit pubblico).

Ma è soprattutto nei livelli di istruzione intermedi che gli Stati Uniti non sono

riusciti a tenere il passo delle altre due potenze della Triade: scarso livello di

istruzione elementare e media, scarsa propensione all’educazione scientifica (molti

avvocati, ma pochi ingegneri e scienziati), scarso training sul posto di lavoro, hanno

determinato un grado di istruzione medio della classe lavoratrice americana più basso

di quello dei Paesi concorrenti. Solo i migliori college americani sono su standard

d’istruzione elevati e sfornano annualmente un buon numero di laureati di prima

qualità.

Passando ora a considerare l’Unione Europea di 27 Paesi, ci limitiamo a dire che

stiamo parlando della seconda economia del mondo dopo gli Stati Uniti. Per

approfondimenti rimandiamo alla dispensa ad hoc.

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Unione europea[1]

Bandiera dell'Unione europea

Motto: Unita nella diversità[2]

Paesi membri

27: Austria, Belgio, Bulgaria, Cipro, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Ungheria

Paesi candidati[3] 4:

Croazia, Islanda, Macedonia, Turchia

Lingue ufficiali

23[4]: bulgaro, ceco, danese, estone, finlandese, francese, greco, inglese, irlandese, italiano, lettone, lituano, maltese, olandese, polacco, portoghese, romeno, slovacco, sloveno, svedese, spagnolo, tedesco, ungherese.

Sedi istituzionali

Bruxelles

Commissione europea

Consiglio dell'Unione europea

Parlamento europeo (solo poche sedute)

Lussemburgo

Corte di giustizia dell'Unione europea

Tribunale dell'Unione europea

Segretariato Generale del Parlamento europeo

Strasburgo

Parlamento europeo (sede)

Presidente della Commissione José Manuel Durão Barroso (fino al 30 ottobre 2014)

Presidente del Parlamento Jerzy Buzek (fino al 14 gennaio 2012)

Presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy (fino al 31 maggio 2012)

Presidenza del Consiglio dell'Unione Europea[5]

Primo ministro Ungherese - Ungheria- (fino al 30 giugno 2011)

Superficie 4 326 253 km² (7ª nel mondo*)

Popolazione (2009) - Densità

499 723 520 (3ª nel mondo*) 114 ab./km²

Euro (€) (EUR) in 16 Paesi Altre valute:

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106 106

In relazione al Giappone, possiamo dire che è la terza economia del mondo

dopo Stati Uniti e Cina (a livello di Pil), il terzo esportatore del mondo (dopo Cina e

Germania).

A livello culturale, esiste la pratica di basare i salari sull’anzianità e non sul

merito. Il fatto di avere una moneta nazionale che si apprezza fortemente, dovrebbe

costituire un fattore negativo per le esportazioni e invece sembra avere l’effetto

contrario sulla bilancia commerciale giapponese.

E’ certo comunque che la propensione del Giappone ad importare è pari a 1/4

di quella degli Stati Uniti ed è pari ad 1/12 di quella della Germania per cui, ceteris

paribus, le importazioni giapponesi sono circa il 35% in meno di quello che

sarebbero se il Giappone fosse un Paese occidentale. I prezzi dei prodotti non

commerciabili internazionalmente sono circa il 90% più alti in Giappone che negli

Stati Uniti, ma chi ha cercato di trarre profitto da questa enorme potenziale

sopravvalutazione del cambio dello yen ha sempre fallito.

Il modello di capitalismo occidentale si basa sull’individualismo, sulla

convenienza a consumare i prodotti più a buon mercato, sull’interesse individuale,

sulla massimizzazione del profitto. Lo spirito del Giappone è tipicamente

collettivista.

QUADRO DI APPROFONDIMENTO Individualismo vs collettivismo L’individualismo è radicato nelle culture occidentali, nelle società più ricche e urbanizzate. I suoi valori di riferimento sono: unicità, edonismo, successo personale, competizione sociale, attenzione all’immagine di sé. Nelle culture individualiste i rapporti reciproci fra gli individui non sono stretti: tutti s’occupano soltanto di se stessi e dei loro parenti stretti. Il collettivismo è radicato nelle culture orientali, nelle società agricole e nelle classi socio-economiche più modeste. Sono considerati valori tipici del collettivismo: armonia sociale, cooperazione, integrità della famiglia, ricerca di consenso, atteggiamento di modestia e umiltà. Nelle società collettiviste gli individui sono, dalla nascita, accolti in gruppi forti e stabili che gli offrono protezione in cambio di lealtà incondizionata. Il collettivismo enfatizza l'interdipendenza di ogni essere umano all'interno di un gruppo collettivo e la priorità delle finalità di gruppo sulle finalità individuali. I collettivisti si focalizzano sui concetti di comunità e società. Le basi filosofiche del collettivismo sono infatti collegate all'olismo o all'organicismo, la visione secondo la quale l'intero è maggiore della somma delle sue parti. Specificatamente, una società nel suo intero può essere vista come portatrice di un maggior significato o valore rispetto agli individui separati che la compongono.

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I giapponesi sono mossi dal desiderio di appartenere ad una potenza

economica vincente: il loro obiettivo è la massimizzazione della quota di mercato e

del valore aggiunto (profitti + salari). In essi prevale il senso di “animale da branco”,

invece che di “animale individuale”: anche per questo le aziende tendono a

conservare lo stesso personale per tutta la vita.

Il sistema economico nipponico è basato sul binomio “alto risparmio/elevato

investimento”. Il Giappone ha investito negli ultimi anni circa il 35% del suo PIL,

mentre negli Stati Uniti il rapporto in parola è pari a circa il 15%, (e di questo 15%

gran parte va all’edilizia piuttosto che alle infrastrut-ture e agli impianti e

macchinari). Inoltre, solo il 16% dei giapponesi sostiene che “è meglio consumare

prodotti importati se essi costano meno”.

Normalmente, la propensione ad allungare l’orizzonte temporale e ad

accettare un basso rendimento richiede che gli azionisti impazienti siano tenuti a

freno. I gruppi aziendali (Keiretsu) mirano proprio a questo: essi controllano il 78%

delle azioni quotate alla borsa di Tokyo attraverso una selva di partecipazioni

incrociate in modo che gli outsiders non riescono ad esercitare nessun controllo. I

membri del Keiretsu hanno i vantaggi (la dimensione e il coordinamento) di società

conglo-merate senza averne gli svantaggi (troppa centralizzazione e mancanza di

focalizzazione).

Per i giapponesi, l’obiettivo principale di una società non è quello di dare un

rendimento sul capitale investito dagli azionisti (richiamo alla teoria degli

shareholders, formalmente ritenuta ormai superata ma più che radicata nel

capitalismo di tipo occidentale). Al primo posto sono i dipendenti, poi i clienti e gli

azionisti vengono al terzo posto. Quest’obiettivo richiama alla memoria la teoria, di

stampo manageriale, degli stakeholders, secondo la quale obiettivo dell’impresa è

creare valore per tutti i portatori di interesse, coinvolti in un modo o nell’altro nella

vita dell’impresa.

A metà degli anni Novanta tuttavia il Giappone è entrato in una crisi

profonda, connessa con le molte inefficienze del sistema e con lo scoppio di una

bolla speculativa dei prezzi delle azioni e del mercato immobiliare, che non sembra

solo congiunturale, ma anche strutturale. E’ un Paese in letargo (2011), che non

cresce più, il cui debito pubblico è pari a oltre il 200% del Pil.

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108 108

VANTAGGI E SVANTAGGI COMPETITIVI

Unemployment rates

Fonte: Eurostat

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109 109

Fonte: Eurostat

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110 110

Balance of payments

Fonte: Eurostat

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111 111

Fonte: Eurostat

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112 112

9. Il ruolo della Cina come attore di primo piano sulla

scena dell’economia internazionale

“La pazienza è potere: con il tempo e la pazienza, il gelso si tramuta in seta.”

(proverbio cinese)

La Cina è diventato nel 2010 il secondo Paese al mondo a livello di Prodotto

Interno Lordo, superando il Giappone, passato terzo in classifica. Gli Stati Uniti

permangono in testa.

Per far capire a quale velocità va oggi il mondo e come le cose cambino in

fretta, riporto un passo di Visetti – corrispondente di Repubblica in Cina38:

“Quarant’anni dopo l’avvio delle relazioni diplomatiche tra Cina e Stati Uniti, il

presidente Hu Jintao atterra domani a Washington con un’agenda inimmaginabile,

rispetto a quella che Mao Zedong presentò a Richard Nixon. Nel 1972 il leader di

una nazione fallita chiese esplicitamente all’America un piano di aiuti per salvare

820 milioni di contadini dalla fame. Domani il capo di un Paese dei record, che si

appresta a salvare e guirdare il mondo in questo secolo, baderà invece a rassicurare

la Casa Bianca su una ragionevole lentezza del tramonto USA. I ruoli non sono

ancora invertiti, ma oggi è Barack Obama a dover chiedere alla Cina un programma

di salvataggio per gli Stati Uniti e per l’Occidente, cercando di capire non se, ma

quando Pechino supererà anche Waghington iniziando a controllare il mondo che

gli USA rappresentano”. Lo stesso 17.1.11, su Repubblica Rampini39 scrive: “Il 47%

degli americani è convinto che il sorpasso tra Cina e Stati Uniti sia già avvenuto. In

38 G. Visetti, I padroni del mondo, La Repubblica, 17 gennaio 2011 39 Federico Rampini (1956) è un giornalista e scrittore italiano. Come corrispondente ha raccontato dapprima le vicende della Silicon Valley; ha lasciato poi gli Stati Uniti per aprire l'ufficio di corrispondenza di Pechino. Ha insegnato alla Berkeley University in California e alla Shanghai University of Finance and Economics. Nel 2009 torna a fare l'inviato de La Repubblica negli Stati Uniti. Si consiglia la lettura di : Il secolo cinese. Storie di uomini, città e denaro dalla fabbrica del mondo, Mondadori, 2005; L'impero di Cindia. Cina, India e dintorni: la superpotenza asiatica da tre miliardi e mezzo di persone, Mondadori, 2006; L'ombra di Mao. Sulle tracce del grande timoniere per capire il presente di Cina, Tibet, Corea del Nord e il futuro del mondo, Mondadori, 2006; La speranza indiana. Storie di uomini, città e denaro dalla più grande democrazia del mondo, Mondadori 2007; Centomila punture di spillo. Come l'Italia può tornare a correre, con Carlo De Benedetti e Francesco Daveri, Mondadori 2008; Con gli occhi dell'Oriente, Mondadori, 2009; Occidente estremo; Il nostro futuro tra l'ascesa dell'impero cinese e il declino della potenza americana, Mondadori 2010.

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realtà nelle proiezioni più ottimiste l’economia cinese non raggiungerà le dimensioni

americane prima del 2018 (altri rinviano lo storico aggancio verso il 2030). Ma le

percezioni contano, e di percezioni è fatto questo G2, il vertice sino-americano che si

apre domani sera a Waghington...Hu rappresenta un Paese che ha sfondato i 250

miliardi di dollari di attivo commerciale annuo con gli Stati Uniti nel dicembre

2010. Il 21% di tutti i debiti esteri del Tesoro USA sono detenuti da Pechino, per un

totale di 850 miliardi. E la banca centrale cinese con 2.850 miliardi nelle sue casse

(la massima parte in dollari) ha il 25% delle riserve valutarie mondiali”. Seguono

alcune tabelle de “Il Sole 24 Ore del 15 e 16.1.11.

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QUADRO DI APPROFONDIMENTO La Cina non è Oriente, è Occidente avanzato, tratto dal blog Faust e il

Governatore, 29.10.10

Shanghai

La Cina è diventato il secondo Paese al mondo a livello di Prodotto Interno Lordo,

superando il Giappone, passato terzo in classifica. Gli Stati Uniti permangono in

testa.

Peraltro il PIL pro-capite cinese – dati dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) e

della Banca Mondiale – è nell’intorno di 6.800 dollari, ben al di sotto delle potenze

industriali occidentali, ma in forte crescita.

L’economista Raghuram Rajan – ex capo economista del FMI – ci ha spiegato nel

suo ultimo libro – Fault lines. How hidden fractures still threaten the world

economy (Princeton University Press, 2010) - che molte nazioni oggi sono ricche

perchè hanno avuto una crescita stabile nel tempo, non perchè sono cresciuti

particolarmente veloce.

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116 116

Gli Stati Uniti dal 1820 al 1870 sono cresciuti in media dell’1,3%. Il Giappone - che

nel 1850 aveva un PIL pro-capite inferiore a quello del Messico – tra il 1950 e il

1973 ha vissuto una crescita del PIL pro-capite di circa l’8% medio annuo: “No

country has grown as fast as Japan did between 1950 and 1973".

Bene. La Cina sta superando le performance del Giappone. E' l'unico caso di Paese

che cresce in modo stabile con alti tassi di crescita.

Se facciamo una proiezione dei dati del 2009 a dieci anni – con una crescita media

dell’8% - vediamo che nel 2020 il PIL pro-capite cinese sarà pari a 15.855$ (2,3

volte quello del 2009), livello attuale del Portogallo.

Statene certi! Se la Cina si fissa degli obiettivi, li rispetta. Un esempio? Nel lontano

2001 la Cina dichiarò che all’EXPO di Shanghai del 2010 avrebbe superato i 70

milioni di visitatori. Così il Sole 24 Ore

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-10-25/lexpo-shanghai-supera-tutti-

113635.shtml?uuid=AYD7TzdC del 25 ottobre: “Il biglietto con il numero 70

seguito da sei zeri è stato staccato alle 10.17 di ieri mattina. Il target di 70 milioni di

visitatori per il Shanghai World Expo 2010 è stato raggiunto nell'ultima settimana,

quella precedente ai sei mesi dall'apertura. Nella sola giornata di domenica i

vistiatori sono stati 727.600. La maggior parte di nazionalità cinese”.

Juan ed Evita Peròn

Non è sempre così. Un esempio negativo? L’Argentina. Così l'economista d'impresa

Marco Vitale nel 1991

http://www.marcovitale.it/articoli/1991/clubISTUD_29011991.pdf : “E se vogliamo

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stare sul leggero il colonnello Juan Peròn quando nel 1943 fu nominato ministro del

lavoro era giovane, bello, aveva una bellissima voce, una grande abilità oratoria,

era campione di sci e di scherma, era uno pseudointellettuale, era forte e impetuoso,

aveva, insomma, un enorme carisma personale. Ma allora l’Argentina era uno dei

paesi più ricchi del mondo, con 1500 milioni di dollari e sterline di riserve. Era la

grande speranza, il Canada dell’America Latina. In poco più di dieci anni il

peronismo ridusse l’Argenitna a pezzi, condannandola, sembra definitivamente

all’arretratezza economica, sociale e politica”. Aggiungiamo a titolo ironico che

vista l'inefficienza cronica di Telecom Argentina, alcune imprese assumevano

persone "whose sole job was to hold a telephone handset for hours on end until thay

heard a dial tone" (Rajan, p. 54).

Confrontandomi durante il mio viaggio a Shanghai con alcuni esponenti della

business comunity, tutti mi hanno confermato che la classe dirigente cinese è di

primissimo ordine. Il nepotismo? Se esiste è solo per i ruoli inferiori e non

determinanti. Niente impedisce a un governo statale di distribuire favori ad amici o

parenti incompetenti, ma in Cina siamo su un altro pianeta. La meritocrazia impera.

Zhou Xiaochuan, banchiere centrale cinese

Prendiamo il Governatore della Banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan. "He is one

of the most influential economic figures in the world and was ranked 9th by Foreign

Policy in the Top 100 Global Thinkers report. He is generally considered the most

academically capable of the current Chinese leadership, being praised for his

intellect and diplomacy. He has been called "China's most able technocrat" and is

the only highly-ranked Chinese politician to have been published in a Western

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academic journal. Although he has yet to reach the highest rungs of decisionmaking

within the State Council, he is considered a strong and vocal advocate of further

liberalization in the financial sector. He has increasingly displayed an openness to

the press - rare for a senior Chinese official - and is most famous for the motto: "If

the market can solve the problem, let the market do it. I am just a referee. I am

neither a sportsman nor a coach."(Wikipedia)

Shanghai non è Oriente. E’ Occidente avanzato. Arrivati a Shanghai non si vive

alcuno shock culturale. Solo la sensazione di una macchina oliata e perfetta in forte

avanzamento.

Senofonte

Sempre Vitale puntualizza che nell’Economico di Senofonte, Socrate attribuiva grande importanza alla capacità di comando: “Comandare a gente che obbedisca volentieri è cosa che pare divina”. Ecco, in Cina la gente obbedisce volentieri. Senza nessun dubbio. Non siamo certo all’anarchia italica. Tutti vanno nella stessa direzione. E se lo fanno 1 miliardo e quattrocento milioni di persone, i risultati sono sotto i nostri occhi.

QUADRO DI APPROFONDIMENTO

Il Nobel a una sedia vuota. Ma la Cina non è una dittatura, tratto dal

blog Faust e il Governatore, 14.12.10

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Quando venerdì scorso è stato consegnato il Nobel per la pace, la sedia di Liu

Xiaobo, dissidente, promotore di “Charta 08”, è rimasta vuota. Xiaobo è stato

condannato a undici anni per “istigazione alla sovversione” e rinchiuso nel carcere

della Manciuria.

E’ stato un brutto spettacolo. E’ brutto che i primi ministri europei si siano fatti

intimidire dalla Cina e non abbiamo osato chiedere la liberazione di Xiaobo.

L'architetto Ai Weiwei

L’archistar e artista dissidente Ai Weiwei – arrestato perchè voleva festeggiare con

un party la demolizione forzata del suo studio a Shanghai, liberato dopo tre giorni ai

domiciliari - ha dichiarato: “Humour is a necessary ingredient when you are living

under an authoritarian society. I’m in a battle against any system that tries to limit

our imagination. Only with humour and art do we have a superior advantage, and

we sill win every time....La Cina è un luogo dove non esiste libertà di espressione,

dove l’accesso alle informazioni è limitato dalla censura, dove non si svolgono

elezioni e dove la giustizia dipende dalla violenza del potere. Il mondo deve capire

cosa significa trasformare un luogo simile nella prima potenza del pianeta”. E

prosegue – decisamente incazzato: “L’atteggiamento internazionale fa pietà.

Arrivano in Cina capi di Stato e di governo e nessuno osa pronunciare in pubblico le

parole “diritti umani”. Come possono essere così miopi? I grandi leader, dopo il

Nobel per la pace, non si arrischiano nemmeno a dire il nome di Liu Xiaobo. I figli

dell’Occidente malediranno questo errore”.

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A fronte della sedia vuota di Xiaobo e delle affermazioni di Weiwei, la reazione

sarebbe di considerare la Cina una dittatura. Non è così.

Il nostro sempiterno riferimento Marco Vitale in un recente commento scrive: “In

primo luogo la Cina è un paese governato da una classe dirigente che coltiva una

cultura del fare vera e non parolaia, come da noi. In secondo luogo la peculiare

democrazia cinese, così diversa dalla nostra, con il ruolo centrale del partito,

facilita il processo decisionale anche se in Cina vi sono talora divergenze forti fra

autorità locali e centrali e se la presenza di un’opinione pubblica attenta è in

crescita. Immagino che molti si risentano del fatto che ho usato la parola

democrazia cinese, ma penso che sia un grande errore continuare a classificare la

Cina come un Paese totalitario. Nell’interno del partito esiste una forte dialettica e

forme di competizione democratica. L’opinione pubblica incomincia a contare. Gran

parte della strada verso un Paese di diritto è stata percorsa. Molti meccanismi di

bilanciamento di poteri sono in atto, che rendono possibile parlare di democrazia sia

pure controllata e fortemente guidata dalle oligarchie del partito che resta tetragono

ad ogni democratizzazione. Forse, provocatoriamente, si potrebbe parlare di

autoritarismo democratico”.

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Slavoj Zizek

Interessanti anche alcune considerazioni del filosofo sloveno – gran provocatore,

visiting professor in numerose università dal mondo - Slavoj Zizek: “Dovendo

immaginare in onore di chi si costruiranno statue tra un secolo, penso a Lee Kwan

Yew, per oltre trent’anni primo ministro di Singapore. E’ stato lui a inventare quella

pratica di grande successo che poeticamente potremmo chiamare “capitalismo

asiatico”: un modello economico ancora più dinamico e produttivo del nostro, ma

che può fare a meno della democrazia, e anzi funziona meglio senza democrazia.

Deng Xiaoping visitò Singapore quando Lee stava introducendo le sue riforme, e si

convinse che quel modello andava applicato alla Cina”.

Poi Zizek tocca un punto importante, la fine della connessione tra democrazia e

capitalismo: “Credo che i meccanismi democratici non siano più sufficienti ad

affrontare il tipo di conflitti che si prospettano all’orizzonte. Sembrano richiedere un

“governo di esperti” molto decisionista, che si esprima su quel che occorre fare, e lo

metta rapidamente in atto senza tanti salamelecchi. Ma il punto non è criticare la

democrazia in sè; bisogna comprendere come la democrazia si stia

autodistruggendo, ed è importante sottolinearne l’aspetto strutturale: non si tratta

delle decisioni di singoli pessimi leader, della loro brama di potere o simili: è il

sistema stesso che non può più riprodursi in modo autenticamente democratico”.

Io sono indotto a pensare che non bisogna prendere scorciatoie. Noi europei ci

abbiamo messo circa duemila anni per approdare alla democrazia, non possiamo

pretendere che questo salto storico altri lo facciano in un solo giorno. Abbiamo visto

come esportare la democrazia sia assai complicato e nefasto. Ogni popolo deve

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trovare dentro di sè le energie per liberarsi dei propri tiranni, altrimenti diventerà

schiavo del suo liberatore.

Si sbaglia di grosso chi pensa che la guerra sia la via più veloce per risolvere un

problema. Dopo una guerra il problema è ancora intatto. E la guerra per esportare la

democrazia è stata un fallimento clamoroso. Dopo l’invasione dell’Afghanistan

nell’ottobre 2001, la situazione è migliorata?

Consiglio a tutti la visione del film Bhutto sulla storia della famiglia Bhutto e in

particolare di Benazir, gran donna, con un coraggio ammirevole, primo ministro due

volte del Pakistan, assassinata il 27 dicembre 2007.

QUADRO DI APPROFONDIMENTO

Comandano in nove e lavorano in un miliardo e quattro, tratto dal blog Faust e

il Governatore, 12.11.10

Shanghai

Nel mio recente viaggio a Shanghai ho conosciuto Alessandro Asperti, un giovane

manager, 31 anni, con le strapalle, rappresentante in Cina della famiglia bresciana dei

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Lonati.

Alessandro è partito per l’avventura cinese alcuni anni or sono, a 25 anni e tanta

voglia di imparare. Mentre eravamo a cena in uno splendido ristorante cinese vicino

alla zona più trendy di Shanghai – il Bund – Alessandro ha preso la parola e ha detto

con grande lucidità (dimostra molto più dei suoi anni): “Decidono in tre e lavorano

in un miliardo e quattro”. Fulminante. Da qui il titolo del post di oggi.

Nel suo recente "The Party. The secret world of China’s Communist rulers" (Harper

Collins, 2010), il giornalista statunitense Richard McGregor racconta il mondo

segreto del vertice politico cinese. E conferma l’incipit di Asperti: “Comandano in

nove. Nove sono i membri del Comitato permanente dell’Ufficio Politico del

Comitato Centrale del Partito comunista cinese. Hu Jintao fra questi nove è un

primus inter pares, un primo tra pari. Io li descriverei seduti interno ad un tavolo

rotondo del quale il presidente occupa il posto principale, ma in cerchio con gli

altri”.

Giovedì scorso la nota rivista americana Forbes ha incoronato Hu Jintao come

l’uomo più potente del mondo. Si chiude così un 2010 eccezionale per la Cina, che

ha frantumato tutti i record ed è tornata dopo alcuni secoli ad essere l’epicentro del

mondo. L’anno della Tigre si è aperto con il sorpasso sul Giappone a livello di PIL,

poi la continua crescita delle esportazioni cinesi, la forza del renmimbi, la crescita

delle riserve ufficiali di valuta estera, il successo dell’EXPO di Shanghai hanno fatto

il resto.

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Questa la motivazione di Forbes nell’attribuire il premio al presidente del partito

comunista cinese: “Hu Jintao è il leader politico fondamentale più di qualunque

altro per il maggior numero di persone, in quanto esercita un controllo dittatoriale

su un quinto della popolazione mondiale, è alla guida del più grande esercito della

Terra. E’ in grado di spostare fiumi, costruire e trasferire metropoli, mettere in

carcere dissidenti, censurare internet senza ingerenze burocratiche”.

A tarda sera l’Agenzia di Stato ufficiale cinese ha risposto seccamente con il

seguente comunicato: “All’imperialismo occidentale non restano che premi simbolici

per tentare di fermare la crescita dell’Oriente”.

La reazione piccata di Pechino all’attribuzione del premio Nobel al dissidente cinese

Liu Xiaobo ha mostrato al mondo la fragilità del sistema politico cinese, che dovrà

dimostrare in futuro – specialmente il successore di Hu Jintao, Xi Jinping, che non

appartiene alla classe di “tecnocrati riformisti”, ma a quella avversaria, formata dai

“principi rossi conservatori” – di saper coniugare crescita economica e richieste della

società civile.

Ma la Cina è lontana? No, vicinissima. Nel loro splendido articolo sul Corriere della

Sera, Stella e Rizzo, link

http://archiviostorico.corriere.it/2010/novembre/06/Arte_banchieri_capitale_che_per

duta_co_9_101106011.shtml , ci raccontano come a Prato “Incalzano i cinesi (che

non vivono di passato)”: “Prato ha 186mila abitanti. Un boom demografico senza

precedenti: tra il 1951 e il 2010 la popolazione è cresciuta del 165%. Prima

arrivarono i meridionali. Poi, ancora più numerosi i cinesi. Tutti o quasi dalla

provincia contadina del Wenzhou. Quanti sono? Quelli legali, 12 mila. Quelli

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illegali, almeno 25 mila. Ma nessuno davvero lo sa. La più grande di clandestini

sotto la luce del sole. Aumentano a dismisura prima con il tacito ammiccamento

degli italiani, poi contro.

Capoluogo dal 1992 dell’omonima e inutile provincia italiana, Prato offre il 27% di

tutta la produzione tessile italiana. Un giro di affari di quattro miliardi di euro,

come il Pil della Somalia. Più altri due miliardi, però dei cinesi. Chiariamo: sono

stime. Perchè qui il colore preferito è quello delle automobili - nella Chinatown

pratese sfila ininterrotta la processione di Porsche Carrera, Suv Mercedes, e Audi

R8, tutte rigorosamente nere".

Chiudiamo segnalandovi Silvia Pieraccini e il suo “L’assedio cinese” (Il Sole 24 Ore,

2010), dove si legge che un ufficio Money tranfer di Prato “Gestito da un immigrato,

in 18 mesi di attività, ha trasferito in Cina 550 milioni di euro attraverso 60.000

operazioni di importo inferiore a 12.500 euro” (limite per la segnalazione all’Ufficio

di Informazione Finanziaria UIF, di Banca d’Italia). Come vedete, i cinesi – che

siano in Cina o in Italia – risparmiano oltre il 50% del reddito disponibile, con il

quale aprono nuovi centri massaggi - "falegnamerie" per gli addetti ai lavori - nel

centro di Milano, assai redditizi.

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QUADRO DI APPROFONDIMENTO

La determinazione cinese, Terzani e l’operazione Yao Ming, tratto dal blog

Faust e il Governatore, 4.11.10

Ripensando al post precedente sulla Cina - La Cina non è Oriente, è Occidente

avanzato - corre l’obbligo riportare la view di Gideon Rachman (ben più quotato del

sottoscritto), editorialista del Financial Times – China can no longer pread poverty,

October 26 2010: “Anybody who talks regularly to Chinese officials will be familiar

with the mantra that “China is a developing country”. But Shanghai, which I visited

last week, mocks this modest description. With its eight-lane highways, its modern

and efficient subway, its forest of neon-lit skyscrapers, giant new airport and chic

hotels, China’s commercial capital is defiantly developed…China’s insistence that it

is a poor, developing nation is beginning to wear a little thin”.

Il drago cinese – di cui Napoleone si era preoccupato che si svegliasse – si è

svegliato alla morte di Mao - 1976. Le forze interne sono finalmente emerse. Il

carattere cinese ha potuto finalmente esprimersi, a partire dal 1980 con l’inizio delle

riforme portate avanti da Deng Xiaoping.

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Tiziano Terzani

In relazione alla forza interiore cinese, ho trovato calzante un racconto tratto da

Tiziano Terzani nel suo magistrale Un indovino mi disse (Tea, 1995), dove riporta il

pensiero di un prete cattolico olandese, padre Willem: “Un indonesiano va a pescare

e prende tantissimi pesci. E’ felice, torna a casa e si doge per giorni quel che ha

guadagnato, pensando che può riposarsi. Un cinese va a pescare e prende tanti

pesci; pensa che quella è una buona stagione, che ha trovato un punto ottimo;

scarica la barca, ritorna a pescare e prende tantissimi altri pesci”.

Ho ripensato alla determinazione del popolo cinese. E mi è tornato alla mente un

libro letto anni fa: Operation Yao Ming (Brook Larmer, Gotham Books, 2005), che

descrive come Yao Ming – campione di basket cinese ingaggiato dagli Houston

Rockets – sia stato progettato in laboratorio, programmato a tavolino.

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Yao Ming

Il Governo cinese ha indotto i genitori (lei giocatrice di basket, altissima) a sposarsi

poiché ritenuti “adatti” in seguito ad un complicato e ovviamente segretissimo

processo di selezione “naturale” per talento, struttura fisica e atteggiamento mentale.

Una sorta di Frankenstein del parquet dell’NBA (National Basket Association).

Insomma, è stata pianificata con grande commitment una gigantesca operazione

commerciale su scala globale, per rendere più friendly la Cina da parte degli

americani, che erano alla ricerca di un erede di Michael Jordan. Il giornalista Larmer,

ex corrispondente di Newsweek, scrive: “Their mission was simple: to bring honor to

the largest nation on earth, a country that passed centuries of insecurity”.

Penso che abbia ragione Terzani: “La cultura cinese, umiliata dal confronto con

l’Occidente, è moribonda almeno da un secolo e Mao, non a caso cercando di

fondare una “Nuova Cina”, ha finito per ammazzare quel poco della vecchia che

restava. Senza più niente a cui rifarsi, i cinesi ora non sognano che di diventare

americani”.

Napoleone Bonaparte

E la libertà di stampa? Non esiste. In Cina è vietato agli investitori esteri fondare

società editoriali. E’ stato seguito l’insegnamento di Napoleone: “La stampa è un

arsenale che occorre non mettere a disposizione di tutti”. Io leggendo il China Daily

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– che pubblicava un articolo di un senatore statunitense – ho pensato che avessero

modificato il contenuto perchè è impossibile vedere un parlamentare statunitense

plaudire all’assenza di libertà di stampa.

Nel mio viaggio a Shanghai sono rimasto colpito anche dalle piccole innovazioni,

semplici, che potrebbero far comodo anche a noi italiani.

Sappiamo che l’evasione fiscale in Italia è un fenomeno diffuso, legittimato a livello

sociale, inestirpabile (fino ad oggi), perchè ampiamente tollerato. Anche l’inflazione

in Italia sembrava invincibile, poi a partire dal decreto di San Valentino del Governo

Craxi (1984) che abolì il punto unico di contingenza (i.e. l’indicizzazione al 100%

dei salari alla crescita dell’inflazione), grazie alle lucide analisi di Ezio Tarantelli –

vedi post http://fausteilgovernatore.blogspot.com/2010/10/modigliani-baffi-e-

tarantelli.html – applicate con l’accordo Trentin-Amato del 1992, poi formalizzato da

Ciampi del 1993, l'inflazione è stata sconfitta.

E sorridiamo nel 2010 a leggere titoli assurdi sui giornali “E l’inflazione vola”, e

parliamo dell’1,6% (non del 19% dei primi Anni ’80!).

I cinesi danno la possibilità ai cittadini di scaricare dall’imponibile numerose spese

correnti, tra le quali le ricevute dei ristoranti. E quindi tutti porgono i loro dati al

momento del pagamento per avere la ricevuta fiscale. E – sorpresa delle sorprese –

nella ricevuta c’è una lotteria “Gratta e vinci” che dà la possibilità di vincere un

montepremi significativo di renminbi cash.

Luigi Zingales

Sono gli incentivi che governano l’economia. Bisogna solo avere la volontà politica

di farne buon uso. Ah, se Berlusconi avesse tempo di leggere Zingales e Rajan! Ma

ha altro da fare. Bunga bunga.

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In primo luogo è fondamentale comprendere quali siano i fattori che hanno

permesso il decollo dell’economia cinese. La più grande risorsa di cui dipone la Cina

è certamente la popolazione. La Cina è da sempre contraddistinta per l’elevatissima

popolazione e si posiziona al primo posto nella lista dei paesi più popolati, vantando,

nel 2008, una popolazione di 1 miliardo e 300 milioni di abitanti. Il fattore trainante

dello sviluppo economico Cinese è la possibilità di usufruire di una grande

manodopera, numerosa, preparata e spesso sfruttata. Il mondo globalizzato ha

permesso al resto del mondo di accedere ad una manodopera a basso costo da un

lato, e ha fatto sì che la più grande industria manifatturiera venisse esportata in tutto

il mondo. Oggi è tutto made in China, dagli abiti low cost a quelli dei grandi nomi

della moda internazionale, dall’oggettistica generale a qualunque tipo di prodotto per

la persona.

Oltre che sull’industria manifatturiera, l’economia cinese si basa su

l’industria in genere, risorse forestali e minerarie, allevamento e agricoltura. In

particolare l’agricoltura, nonostante lo sviluppo industriale dell’epoca moderna,

mantiene percentuali interessanti, grazie anche ad una sua riorganizzazione

territoriale e aziendale. La Cina è la prima esportatrice mondiale di riso ed una delle

maggiori esportatrici di mais, frumento, avena, soia, tè, zucchero. Anche per quanto

riguarda la pesca si presenta come uno dei maggiori esportatori del mondo.

La Cina è un Paese con tradizioni secolari, con dei valori forti, con un passato pieno

denso di storia e filosofia.

Qualche dato:

1. il PIL della Cina ha raggiunto i 1.337 miliardi di dollari, superando il PIL

giapponese e diventando la seconda economia del mondo;

2. il PIL nel secondo trimestre 2010 è cresciuto del 10,3% (e noi italiani siamo qui a

trastullarci sullo zero virgola);

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3. l’indice dei prezzi al consumo è al 3,5% in crescita dal 3,3% (e le minute

pubblicate del meeting di settembre del Federal Open Market Committee della Banca

centrale americana indicano la chiara volontà della FED di creare inflazione perchè i

prezzi non crescono: “Participants noted a number of possible strategies for

affecting short-term inflation expectations, including providing more detailed

information about the rates of inflation the Committee considered consistent with its

dual mandate, targeting a path for the price level rather than the rate of inflation,

and targeting a path for the level of nominal GDP”;

Shanghai

4. la Cina ha due porti – Shanghai e Shenzhen – tra i quattro maggiori del mondo

quanto al numero di container movimentati al giorno;

5. la cinese Suntech Power è la seconda società “solar power” al mondo;

6. in Cina sono presenti più di 900.000 milionari (in dollari), e il numero cresce ogni

anno (come private banker, mi dovrei spostare immediatamente là!);

7. è il primo Paese al mondo dove il produttore di vino Chateau Margaux ha aperto i

suoi uffici;

8. i turisti cinesi nel 2010 spenderanno in Giappone circa 6 miliardi di dollari, e si

stima 60 miliardi entro 10 anni;

9. l’import di orologi svizzeri nel 2010 cresce del 49%;

10. la società quotate trattano a 13 volte gli utili del 2010, sotto la media storica a

livello di p/e (price earning ratio);

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11. le tre donne self-made più ricche del mondo sono cinesi e 11 delle 20 donne

miliardarie nel mondo vengono dalla Cina

http://www.economist.com/node/17248052?fsrc=scn%2Ffb%2Fwl%2Far%2Fselfma

dewomen

Come sottolinea Jim O’Neill di Goldman Sachs, “China is at the core of a broader

BRIC and N11 group which is going to create between them , between $ 10 -15

trillion Dollars worth of additional consumption this decade. As this happens, there

will be plenty for all producers to benefit from, almost irrelevant of currency values”.

In Italia sembra sia scomparso il lungo termine. Tutti dico tutti stanno dando retta a

Lord Keynes – in the long term we are all dead; siamo affetti da short-termismo

acuto e siamo focalizzati sull’oggi, neanche sul domani o sul dopodomani. Siamo

malati di presentismo.

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Io (Piccone, ndr) credo che la Cina invece abbia un grande vantaggio competitivo e

culturale. Ha in sè la cultura dei tempi lunghi e riesce a progettare su archi

ventennali. E la dirigenza cinese è di alto livello. E’ intrisa di cultura millenaria.

Segue diligentemente i precetti del Tao del filosofo Lao-Tze, V° secolo a.C.: “Il capo

eccellente ottiene i risultati con pochissimo movimento, insegna non attraverso molte

parole ma attraverso l’esempio. Si tiene informato di tutto. Ma non interferisce quasi

per niente. La sua presenza assicura che le cose siano fatte meglio che se lui non ci

fosse ma quando i suoi uomini hanno successo egli non se ne prende il merito e

poichè non se ne prende il merito, il merito non lo abbandona mai”.

Henry Kissinger e Mao Zedong

E’ utile e divertente ricordare che quando Kissinger – Consigliere per la

sicurezza nazionale dell’Amministrazione Nixon - visitò la Cina ai tempi di Mao nel

1972, il premier cinese Zhou Enlai diede proprio l’idea del lunghissimo termine.

Quando Kissinger gli chiese la sua opinione sull’impatto della Rivoluzione Francese

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del 1789, Zhou ci pensò intensamente prima di dire: “La Rivoluzione Francese? E’

troppo presto per giudicare”.

Gross domestic product 2009 Ranking Economy (millions of US dollars) 1 United States 14,256,300 2 Japan 5,067,526 3 China 4,909,280 4 Germany 3,346,702 5 France 2,649,390 6 United Kingdom 2,174,530 7 Italy 2,112,780 8 Brazil 1,571,979 9 Spain 1,460,250 10 Canada 1,336,067 11 India 1,296,085 12 Russian Federation 1,230,726 13 Australia 924,843 14 Mexico 874,902 15 Korea, Rep. 832,512 16 Netherlands 792,128 17 Turkey 617,099 18 Indonesia 540,277 19 Switzerland 500,260 20 Belgium 468,552 21 Poland 430,076 22 Sweden 406,072 23 Austria 384,908 24 Norway 381,766 25 Saudi Arabia 369,179 26 Iran, Islamic Rep. 331,015 27 Greece 329,924 28 Venezuela, RB 326,498 29 Denmark 309,596 30 Argentina 308,741 31 South Africa 285,983 32 Thailand 263,856 33 United Arab Emirates 261,348 34 Finland 237,512 35 Colombia 230,844 36 Portugal 227,676 37 Ireland 227,193 38 Hong Kong SAR, China 215,355 39 Israel 194,790 40 Malaysia 191,601

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Il ruolo dell’India, la più grande democrazia del mondo

L'India, ufficialmente Repubblica dell'India,

è uno stato dell'Asia meridionale, con capitale Nuova Delhi (o New Delhi). È il

settimo paese per estensione geografica al mondo (3.287.590 km²) e il secondo più

popolato con 1.173.108.018 abitanti (stima effettuata nel 2010).

Questo paese vanta, tra gli altri, un primato non

indifferente: è la più grande democrazia al mondo. Resasi indipendente nel 15 agosto

del 1947, si presenta come una federazione di stati con parlamenti e governi

autonomi (28 stati federati e 7 territori). A partire dal 1991 importanti riforme

economiche hanno trasformato l'India in uno dei paesi con tassi di crescita

economica fra i più alti del mondo, che hanno contribuito, tanto a livello regionale

che globale, ad aumentare il peso specifico.

È considerata uno dei maggiori paesi emergenti, anche se in realtà verrebbe da dire

che, come gli altri Brics, è già emersa da tempo. Da anni, infatti, gioca un ruolo

deicisivo nell’economia globale; in particolare si parla dell’India come l’ufficio del

mondo (così come la Cina veniva considerata la fabbrica del mondo, almeno fino a

pochi anni fa). Questo paese, che ancora verso la metà del secolo scorso viveva

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essenzialmente di agricoltura, ha conosciuto uno sviluppo straordinario del settore

dei servizi (call center, centri di ricerca; soprattutto nelle grandi città come

Bangalore): nel 2007 essi contavano per il 60% nella formazione del PIL nazionale.

Molto di questo cambiamento è dovuto agli investimenti esteri (l’India si posizionava

al quindicesimo posto nella classifica delle destinazioni degli IDE); in realtà il valore

assoluto degli investimenti in India non è elevatissimo (nel 2010 il valore dello stock

di IDE è pari a 165 miliardi $, contro i 680 della Cina), ma questo è dovuto al fatto

che gli investimenti in servizi richiedono pochi capitali rispetto a quelli richiesti, ad

esempio, per l’apertura di una fabbrica.

2008a 2009b 2010c 2011c PIL PIL nominale in (US$ bn) 1,260.0 1,296.3 1,594.8 1,832.1 PIL nominale (Rs bn) 55,745 62,312 73,582 84,001 Crescita reale del PIL (%) 5.1 7.7 8.0 8.2 Spesa sul PIL (% reale) Consumi privati 6.8 4.3 6.4 6.5 Consumi del Governo 16.7 10.5 9.3 9.0 Investimenti lordi fissi 4.0 7.2 9.6 12.2 Export di beni e servizi 19.3 -6.7 13.9 12.2 Import di beni e servizi 23.0 -7.3 11.6 12.4 Origine del PIL (% reale) Agricultura 1.6 0.2 1.1 2.3 Industria 3.9 9.3 9.5 9.7 Servizi 9.8 8.5 9.4 9.4

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Demografia e reddito Popolazione (m) 1,148.0 1,166.1 1,184.1 1,202.1 PIL pro-capite (US$ a PPA) 3,011 3,230 3,470 3,751 Tasso di disoccupazione (media %) - - - - Indicatori fiscali (% del PIL) Reddito del Governa centrale 9.8 10.3 10.8 10.6 Spesa del Governo centrale 15.9 16.9 16.3 15.8 Bilancio di Governo -6.0 -6.5 -5.5 -5.2 Debito netto pubblico 54.9 57.3 55.4 54.9 Prezzi e indicatori finanziari Tasso di cambio Rs-US$ (media) 43.51 48.41 46.16 46.00 Prezzi al consumo (media; %) 8.3 10.9 11.0 5.8 Prezzi alla produzione (media; %) 9.1 2.1 9.7 5.3 Tasso di interesse di prestito (media; %) 13.3 12.2 12.4 13.2 Conto corrente (US$ m) Bilancia commerciale -124,452 -106,040 -126,370 -150,009

Merci: export fob 203,069 168,244 200,900 224,000

Merci: import fob -323,862 -269,998 -327,270 -374,009

Bilancia dei servizi 48,044 36,824 54,768 65,508 Bilancia dei redditi -3,542 -6,504 -11,636 -17,348 Bilancia dei trasferimenti di conto 48,751 49,102 56,451 62,654 Bilancia in conto corrente -30,955 -26,626 -26,788 -39,195 Riserve internazionali (US$ m) Totale delle Riserve internazionali 254,024 274,668 285,763 304,338 a Attuale. b Stime Economist Intelligence Unit. c Previsioni Economist Intelligence Unit . Fonte: IMF, International Financial Statistics.

Se consideriamo il PIL corretto per la parità del potere di acquisto (PPP), l’India

aveva, nel 2008, il quarto PIL più grande al mondo (pari a 3300 miliardi di dollari), e

le previsioni la vedono salire di una posizione entro il 2020 (con un valore stimato di

13300 miliardi di dollari). Per renderci conto delle dimensioni di questo dato, l’Italia

ha prodotto, nel 2008, un PIL di 1800 miliardi, e si prevede per il 2020 un valore di

2800 miliardi.

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Le cose cambiano se consideriamo il PIL calcolato al cambio di mercato corrente

(dollaro/rupia): l’India si posiziona in questo caso al 12° posto nel 2008 (1200

miliardi), e si prevede salirà al 7° entro il 2020 (3200 miliardi).

Parlando di crescita, mentre i paesi industrializzati hanno visto nel periodo della crisi

finanziaria tassi di crescita prossimi allo zero, se non addirittura negativi), l’India è

cresciuta dal 2006 al 2010 ad un tasso medio del 6,6%, e si prevede che continuerà a

crescere ad un tasso del 6,5% fino al 2020.

L’India è destinata ad assumere un ruolo sempre maggiore nell’economia globale: si

stima che in essa verranno creati il 30% dei nuovi posti di lavoro da qui al 2020

(132,4 milioni di nuovi posti), con gli USA che conteranno per il 2,6% e l’unione

europea per solo il 1,8%. Anche se guardiamo al tasso di disoccupazione l’India si

trova in un’ottima posizione, con il più basso valore (insieme alla Cina) nelle

maggiori economie: 4,7% nel 2007 (quando l’Italia si attestava intorno all’8%).

Poiché tutti questi posti di lavoro sono sempre maggiormente legati al settore dei

servizi, c’è una forte tendenza a spostarsi dalle aree rurali verso le aree urbane: il

tasso di urbanizzazione, infatti, pari al 29% nel 2005, è previsto crescere fino al 47%

entro il 2025. Questo dato si riflette anche in un altro indicatore dello sviluppo di un

paese, a volte sottovalutato: la crescita nella domanda di energia, che in India

presenta un tasso pari 3,3% annuo, superata solo dalla Cina. Questo perché la

crescita, la costruzione di infrastrutture, di industrie e la richiesta di benessere da

parte di una fetta sempre maggiore della popolazione, richiedono uno straordinario

utilizzo di energia. (informazioni tratte dal libro "Eurasia's Emerging Megamarkets"

di Paul Fisher, edizioni BookSurge 2010).

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Diamo un’occhiata alla borsa indiana, qui rappresentata dall’Indice Sensex (30 titoli

a maggiore capitalizzazione della borsa di

Mumbai).

Il passaggio decisivo per la crescita indiana è stato il Primo Ministro Mr Shri

Narasimha Rao40 (al potere dal 21.6.1991 al 16.5.1996) che – con un grandioso

programma di liberalizzazioni e apertura delle frontiere, che gli valse il soprannone

di Padre delle riforme economiche indiane – trasformò l’India da Paese autarchico a

Paese aperto ai mercati internazionali.

40 Pamulaparti Venkata "Narasimha Rao" (1921–2004) was the 10th Prime Minister of India, serving from 1991 to 1996. He led one of the most important administrations in India's modern history, overseeing a major economic transformation. Rao accelerated the dismantling of the Licence Raj. Rao, also called the "Father of Indian Economic Reforms," is best remembered for launching India's free market reforms that rescued the almost bankrupt nation from economic collapse. He was also commonly referred to as the Chanakya of modern India for his ability to steer tough economic and political legislation through the parliament at a time when he headed a minority government.

Rao's term as Prime Minister was an eventful one in India's history. Besides marking a paradigm shift from the industrializing, mixed economic model of Jawaharlal Nehru to a market driven one, his years as Prime Minister also saw the emergence of the Bharatiya Janata Party (BJP), a major right-wing party, as an alternative to the Indian National Congress which had been governing India for most of its post-independence history. Rao's term also saw the destruction of the Babri Mosque in Ayodhya which triggered one of the worst Hindu-Muslim riots in the country since its independence.

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10. I Paesi Emergenti (tratto dal blog Faust e il

Governatore, 15.10.10)

In un suo speech, Stephen Cecchetti - Economic Adviser and Head of Monetary and

Economic Department della Banca dei Regolamenti Internazionali -

http://www.bis.org/speeches/sp100903.pdf ha messo in rilievo come nei Paesi

Emergenti la crisi non è mai esistita o quasi. Nelle sue parole: “Indeed, the patient

efforts of many emerging countries, especially in this part of the world, to reform and

strengthen their regulatory frameworks over the past decade are an important

reason why the spillovers from the recent financial crisis in the US and Europe to

these economies have been relatively mild. This is why my BIS colleagues in the

Office for Asia and the Pacific have, from the beginning, corrected my terminology,

insisting that I speak not about the global financial crisis, but about the international

financial crisis. As they have said repeatedly, “There is no financial crisis out here”.

Se ci mettiamo ad analizzare la tabella qui a fianco – tratta dal Financial Times, “A

case not so much of agreeing to differ as just differing”, Martin Wolf, Special Report

World Economy, FT, October 8 2010 – vediamo quale drammatico differenziale di

Rao's later life was marked by political isolation due to his association with corruption charges. Rao was acquitted on all charges prior to his death in 2004 of a heart attack in New Delhi.

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crescita ci sia tra i Paesi Sviluppati e i Paesi Emergenti.

Mentre le economie dei Paesi Emergenti pesano oggi per il 30% del PIL mondiale,

gli investitori di Stati Uniti, Europa e Giappone detengono solo tra il 2% e il 7% dei

loro asset – 50.000 miliardi di dollari – nei Paesi Emergenti.

Attualmente le azioni presenti nel MSCI emerging markets scambiano a circa 13

volte gli utili previsti nel 2010 e 11 volte gli utili del 2011 (le azioni americane

trattano a 14 volte gli earnings del 2010). In linea con la media a 5 anni. Non

crediamo si possa parlare di una bolla.

In un intervento a Denver presso la National Association for Business Economics,

l’economista Michael Spence, Premio Nobel per l’economia nel 2001, ha sostenuto

che Brasile, Cina e India (i cosiddetti BRICs, acronimo che comprende anche la

Russia) crescono di più degli Stati Uniti per i seguenti motivi:

1) Queste economie hanno imparato l’amara lezione della crisi 1997-98 che colpì più

i paesi asiatici che le economie avanzate;

2) Sono in “a good initial position” con una leva finanziaria estremamente bassa, e

quindi non stanno assistendo al deleveraging (riduzione della leva) statunitense;

3) Non hanno vissuto la diffusione e la proliferazione dei prodotti finanziari

collateralizzati (Collateral Debt Obligation, alias CDO, mutui subprime

cartolarizzati...);

4) Hanno costituito riserve di valuta estera ingenti.

Mercoledì sono stati pubblicati i dati del III° trimestre 2010 per la sola Cina, che ha

aumentato le sue foreign exchange reserves di 194 miliardi di dollari (in tre mesi!),

portandole a un totale di 2.650 miliardi di dollari.

5) Le loro banche centrali hanno risposto con velocità e agilità al credit tightening

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(razionamento del credito alle imprese);

6) Gli economic managers hanno dimostrato un livello elevato di competenza.

Alla domanda se si tratti di una crescita sostenibile, Spence ha risposto in modo

affermativo, “I wouldn’t have said that 10 years ago”

Ma quali Paesi Emergenti! Sono già belli che emersi! 11. Le speranze dell’Africa

Mobutu, i Next Eleven e le speranze dell’Africa, tratto dal Blog Faust e il

Governatore, 30.11.10

Mobutu Sese Seko

Quarantacinque anni fa, il 30 novembre 1965, il generale Mobutu si autoproclamava

presidente della Repubblica del Congo.

Nel 1959, quando re Baldovino del Belgio concede l’indipendenza al Congo,

Mobutu - Mobutu Sese Seko, nome completo Mobutu Sese Seko Kuku Ngbendu

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Wa Zabanga (letteralmente, "Mobutu il guerriero che va di vittoria in vittoria senza

che nessuno possa fermarlo") - è segretario del leader del movimento indipendentista

Lumumba. Una volta che Lumumba diventa primo ministro e nomina Mobutu

comandante dell’esercito, il gioco è quasi fatto. Mobutu fa fuori Lumumba in un

bagno di acido solforico. In breve diventa presidente dittatore.

Visto che il Congo è dotato di miniere di uranio e visto che le potenze mondiali

hanno bisogno dell’uranio per le bombe atomiche, Mobutu è accolto in tutto il

mondo a braccia aperte. Lo si vedrà in televisione alla Casa Bianca con il presidente

Nixon. Lo accoglieranno sia il Generale De Gaulle che la regina d’Inghilterra, sia

Indira Ghandi che Mao Zedong.

Mobutu con Ronald Reagan

Nel 1997 Mobutu muore per un cancro alla prostata, lasciando agli eredi un bel po’

di conti cifrati nelle banche svizzere.

Questa è una delle tante storie dell’Africa, dove i Mobutu di turno purtroppo di

alternano con eccessiva facilità. Ma quando potremo vedere l’Africa protagonista

dello sviluppo economico mondiale?

In una ricerca di Jim O’Neill di Goldman Sachs – How exciting is Africa’s potential

– si fa notare come nella lista stilata dei prossimi 11 Paesi top nella crescita – definita

da GS “Next Eleven”, sono due i paesi africani presenti: Egitto e Nigeria.

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Per capire dai livelli da cui partiamo, oggi il PIL combinato degli 11 paesi più

popolati dell’Africa – Congo, Egitto, Etiopia, Kenya, Marocco, Nigeria, Sud Africa,

Sudan, Tanzania, Uganda e Zimbabwe – è pari a un decimo del PIL dei Paesi BRIC

– Brasile, Russia, India e Cina. Gli stessi 11 paesi hanno complessivamente

un’economia un po’ più grande del Messico o della Corea del Sud.

Nelle stime di GS, nel 2050 il PIL combinato degli 11 paesi potrebbe raggiungere più

di 13 miliardi di dollari, quindi non maggiore del PIL di Cina o India.

La metà del PIL del 2050 sarebbe originato da Egitto e Nigeria, quindi è dal

progresso di questi due paesi che dipende il potenziale del continente africano. La

Nigeria potrebbe diventare come la Germania di oggi.

Sempre entro il 2050 la classe media degli 11 African countries potrebbe raggiungere

i 400 milioni di persone, contro i 50 milioni di oggi.

Jim O'Neill di Goldman Sachs

O’Neill scrive: “Eradicating chronic corruption might be the most important step on

the path towards higher productivity and sustanable growth. Improving human

capital, including the most basic level of education and life expectancy, also remains

critical, particularly in Nigeria, Congo and Uganda…Transparency and an

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environment conducive to business are what African leaders should be concentrating

on. Otherwise, the dream of an African BRIC will remain just that – a dream”.

Visto che:

1. la crescita economica dell’Egitto è molto importante per il futuro del continente

africano,

2. viste le prossime elezioni in Egitto, dove non l’unico che può succedere a Hosni

Mubarak è suo figlio

le speranze di uscire dal torpore sono limitate.

Se si riuscisse a far svegliare l'Egitto, l'Africa potrà dare seguito al sogno di Martin

Luther King.

12. La globalizzazione dei mercati (commerciali,

finanziari e dell’informazione) e gli effetti della

medesima sull’economia internazionale

Abbiamo già avuto modo di vedere in precedenza, quando si è parlato della

mobilità internazionale dei fattori produttivi (capitale e lavoro), come la

globalizzazione (o internazionalizzazione che dir si voglia) sia un fenomeno che

tocchi molti aspetti della vita economica e sociale di un Paese, influenzando temi

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importanti come la distribuzione del reddito sia a livello nazionale che

internazionale, la disoccupa-zione, l’immigrazione.

Globalizzazione è un termine alla moda, anche impegnativo, ma molto

elastico, dai mille usi, soprattutto dalle mille interpretazioni possibili. Per

cominciare, conviene leggere la definizione che, in termini ufficiali, ne dà

l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE):

«Un processo attraverso il quale mercati e produzione nei diversi paesi diventano

sempre più interdipendenti, in virtù dello scambio di beni e servizi e del movimento

di capitale e tecnologia». Volendo dare una definizione concreta e immediata, anche

se molto semplicistica, della globalizzazione si può dire che con questo termine

s’intende l’eliminazione della segmentazione territoriale dei sistemi economici e

quindi la possibilità di produrre, consumare, risparmiare, investire e lavorare un po’

allo stesso modo in tutti i Paesi che rientrano in questo processo. È una progressiva

abolizione di tutti i confini nazionali, un’abbattimento di barriere, fisiche e non, dal

quale deriva una dilatazione dei confini dei singoli paesi, che progressivamente,

stanno inglobando il mondo intero (globo, per l’appunto). Ciò non deve però essere

inteso come se si prefigurasse l’emergere di una armoniosa società mondiale, o di un

processo universale di integrazione globale all’interno del quale si realizzerebbe una

crescente convergenza di culture e civiltà. L’idea che vi sta alle spalle infatti è quella

di un “mercato globale” e non quella di una “società (o cultura) globale”. Da questa

definizione si evince che il contrario della globalizzazione è la segmentazione

nazionale: oggi parlare di mercato-Germania, mercato-Italia, mercato-Francia ha

sempre meno importanza in quanto i fattori, sia dal lato della domanda, che

dell’offerta sono inseriti in un contesto di mercato globale. Le esigenze e gli stili di

vita dei consumatori si stanno sempre più uniformando da Paese a Paese per cui dal

lato dell’offerta non è più così importante produrre diversamente in base al mercato

nazionale in cui si vuole vendere. Le multinazionali, hanno intuito da subito questa

tendenza in atto a livello mondiale e si sono prontamente adeguate fabbricando e

vendendo prodotti con eguali caratteristiche e ad un prezzo simile nei diversi Paesi.

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Questo accade pur mantenendo ogni nazione la propria identità culturale, che

le deriva dai suoi secoli di storia. Per questo motivo la globalizzazione rimane un

fenomeno che non in tutti i Paesi e non in tutti i settori dell’economia ha esercitato la

propria forza di cambiamento. E’ chiaro che tutt’oggi rimane molto più difficile per

un Paese europeo, esportare merci in Cina piuttosto che in un altro Paese europeo

oppure che trasferire denaro in Svizzera è molto più agevole che non emigrare in

questo Paese per lavoro. La globalizzazione è infatti un processo di trasformazione

della situazione economica, politica e sociale mondiale che ancora oggi non ha

compiutamente portato a termine ovunque la sua azione uniformante. Inoltre essa

non agisce in modo esclusivo, dal momento che combina inevitabilmente i propri

effetti con quelli della cultura e identità nazionale, ma anche con quelli dell’altro

fenomeno che ha caratterizzato l’evoluzione del commercio internazionale dal

secondo dopoguerra (periodo a cui può essere fatta risalire la nascita dello stesso

processo di globalizzazione) ossia il regionalismo.

QUADRO DI APPROFONDIMENTO

REGIONALISMO E MULTILATERALISMO: fenomeni paralleli o contrastanti? di Bernadetta Marini

I tentativi da parte di un certo numero di paesi di liberalizzare parzialmente o

totalmente il loro commercio, ma su base discriminatoria, ossia escludendo il resto

del mondo (i paesi non membri), hanno una lunga tradizione.

L'integrazione regionale dell'Europa occidentale nel dopoguerra, è il tentativo più

ambizioso finora realizzato. Il regionalismo commerciale ha continuato ad espandersi

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nel periodo susseguente alla seconda guerra mondiale, nonostante l'emergere di un

sistema di relazioni commerciali ordinato su base multilaterale e basato sull'Accordo

Generale sulle Tariffe e il Commercio (GATT), entrato in vigore nel 1947, che

cercava di limitarne l'utilizzo da parte dei suoi membri. Nella sua prima fase di

espansione, che va pressappoco fino alla metà degli anni settanta, il regionalismo

commerciale si è diffuso prima in America Latina e successivamente in Africa, con

un'espansione del tipo nord-nord (in Europa) o sud-sud (nei paesi in via di sviluppo).

Nonostante questa sua ampia diffusione in termini sia geografici che temporali, il

regionalismo ha sempre coesistito con difficoltà con il multilateralismo commerciale.

Da una parte gli accordi regionali di commercio, pur premessi dal GATT a certe

condizioni (art. XXIV), sono stati sempre considerati come deroghe al principio della

non discriminazione, cardine del nuove ordine commerciale post-bellico; dall'altro, le

motivazioni che stanno alla base degli accordi regionali di commercio, soprattutto

quelli contratti da nazioni aventi un certo peso nel commercio mondiale, sono sempre

state considerate dai non membri almeno in parte come volte ad aumentare il potere

contrattuale del gruppo, o "strategiche", come si usa dire, e quindi viste con sospetto.

Come accennato più sopra non vi è una definizione univoca della

globalizzazione; questo deriva in gran parte dal fatto che il significato stesso del

termine si è modificato nel tempo, in linea con l’evoluzione e la sofisticazione del

mezzi di comunicazione, in particolare modo delle reti informatizzate. In linea con

questa evoluzione è possibile dunque suddividere la “storia della globalizzazione” in

tre periodi, con la premessa che questa “storia”, non si è ancora conclusa.

L’evoluzione storica della globalizzazione può essere suddivisa, in tre fasi

fondamentali:

1. la globalizzazione del commercio

2. la globalizzazione dei movimenti di capitale

3. la globalizzazione dei flussi informativi.

La prima ebbe inizio dopo gli accordi di Bretton Woods che segnarono l’avvio

del processo di liberalizzazione dei mercati attraverso l’abbattimento delle

barriere commerciali. I numerosi accordi GATT, dal secondo dopoguerra in poi,

ridus-sero drasticamente tali barriere dal 40-50% com’erano in media negli anni

Trenta fino all’esiguo 4% degli anni più recenti; come logica conseguenza, si

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assistette ad un continuo aumento del grado di apertura del mondo. Inoltre,

sempre dal secondo dopoguerra in poi, fiorirono i diversi accordi di libero

scambio a livello regionale (Unione Europea, NAFTA, ASEAN, ecc.) che

diedero un contributo fondamentale all’internazionalizzazione del commercio.

La globalizzazione dei movimenti di capitale e dei mercati finanziari ha invece

una storia più recente. E’ infatti negli anni Ottanta che si registra la forte

accelerazione del fenomeno in parola che porterà, a metà degli anni Novanta, ad

avere per ogni dollaro usato nelle transazioni internazionali di merci, sette-otto

dollari impiegati nelle transazioni finanziarie. Fino ad allora, vi era stato un

sostanziale divieto di muovere capitali senza vincoli fra i vari Paesi che derivava dal

divieto vigente un po’ ovunque di vendere liberamente moneta nazionale per

acquistare mo-neta estera. Con l’eliminazione di questo ostacolo di fatto ha avuto

inizio l’era della globalizzazione dei flussi di capitale.

A dare un forte impulso alla globalizzazione dei movimenti di capitale, hanno

contribuito anche le numerose reti di investimenti diretti all’estero (IDE) che si sono

enormemente sviluppate negli ultimi dieci-quindici anni). Dal momento che

un’impresa decide di effettuare degli IDE laddove ritiene che le condizioni

dell’ambiente produttivo non siano molto dissimili da quelle del Paese di origine, i

Paesi che non vogliono trovarsi ai margini della globalizzazione debbono cercare di

offrire regole il più possibile uniformi fra loro: si arriva in tal modo al punto che

produrre, consumare e investire diventano concetti universali, non più identificabili

in base ai confini geografici.

La terza fase dell’evoluzione della globalizzazione riguarda i flussi di

informazione. Questo fenomeno deve la propria esistenza agli enormi passi avanti

che sono stati compiuti recentemente nel campo della tecnologia delle

comunicazioni. Sistemi sempre più veloci e sofisticati, a prezzi accessibili, hanno

rivoluzionato radicalmente il modo di interagire delle persone a livello mondiale. La

rete informati-ca che avvolge l’intero pianeta ha annullato per molti aspetti le

distanze fisiche, per cui ora non è più così importante il luogo dove si lavora o dove

si consuma. Nella nuova civiltà “digitale” il trasferimento fisico è divenuto ormai per

molti settori (in primis la finanza) un aspetto del tutto secondario. Anche in questo

caso, quindi, il fenomeno contribuisce all’omogeneizzazione dei gusti, delle

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150 150

preferenze, dei modelli di consumo e la visione geografica segmentata dei mercati di

qualche tempo fa, oggi ha perso dunque ogni ragion d’essere.

13. I grandi problemi irrisolti dell’economia mondiale:

la persistenza degli squilibri nelle bilance dei

pagamenti e nella distribuzione del reddito, la

disoccupazione e l’immigrazione

Uno dei caratteri distintivi attuali dell’ambiente economico internazionale,

consiste nella presenza di squilibri nelle bilance dei pagamenti alle partite correnti

che paiono “intrattabili” con gli strumenti tradizionali e cioè, con i processi di

rivalutazione delle monete dei Paesi in avanzo e di svalutazione delle monete dei

Paesi in deficit di bilancia dei pagamenti.

Fino a qualche decennio fa, gli squilibri fra import ed export dei Paesi

industrializzati erano trattati secondo quanto previsto dai testi di economia

internazionale e il riaggiustamento era raggiunto in un lasso di tempo ragionevole. Il

Paese in deficit esercitava una politica monetaria, ed eventualmente fiscale,

restrittiva scoraggiando le importazioni di beni di consumo e di materie prime

attraverso il rallentamento congiunturale indotto dalla manovra economica e, nei casi

più gravi, svalutava la propria moneta per ripristinare condizioni di maggiore

competitività per i propri prodotti e di minore appetibilità per quelli provenienti

dall’estero. Il processo era accompagnato da eventuali restrizioni commerciali sulle

importazioni e sussidi alle esportazioni e da una complessa panoplia di interventi.

Spesso era più lungo di quanto era nei desideri delle banche centrali e soprattutto si

determinava l’insidioso effetto “J” per cui, dopo la svalutazione, per un breve tempo,

i costi delle importazioni (più rigidi) subivano un aumento per effetto

dell’accresciuta domanda di valuta estera, mentre i ricavi delle esportazioni non

beneficiavano, sempre per qualche tempo, di un aumento di volume della domanda

estera.

Spesso, le attese inflazionistiche nel Paese che svalutava erano suscettibili di

ostacolare il riaggiustamento con una rincorsa costi/prezzi che rendeva più difficile

aumentare la penetrazione delle esportazioni sui mercati esteri. Ma, pur con tutte le

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riserve del caso, gli squilibri di bilancia dei pagamenti fra Paesi industrializzati

dell’Occidente sono rimasti sempre gestibili e riaggiustabili.

Questa situazione è cambiata con l’irrompere sulla scena del commercio

internazionale di Paesi come la Cina e l’Asia in generale che hanno manifestato una

elevata propensione ad esportare prodotti, peraltro di ottima qualità e a basso prezzo,

e una bassissima propensione ad importare beni specie di consumo,

indipendentemente dal prezzo e dalla qualità del prodotto estero rispetto a quello

nazionale.

In questo caso, ci si è trovati in presenza di due diverse culture. Si ricorda

infatti la dicotomia tra individualismo e collettivismo, vista già in precedenza. Da

una parte vi è il consumatore occidentale che persegue finalità di convenienza

individuale e che cerca sul mercato il prodotto più conveniente a parità di qualità,

senza pregiudizi in merito alla provenienza nazionale o estera dello stesso e del

lavoratore occidentale che persegue sue finalità di benessere individuale (libertà

sindacali, vacanze più lunghe, buste paga più pesanti, diritto ad orari di lavoro più

corti, diritto a soste e permessi, diritto di sciopero, diritto all’assistenza sanitaria

gratuita, diritto alla pensione, ecc.), dall’altra il consumatore orientale in genere che

predilige beni di consumo nazionali e del lavoratore giapponese che si è inserito in

un assetto di fedeltà all’azienda con la quale si identifica, per cui non persegue le

finalità di benessere individuale se non nella misura in cui esse coincidono con quelle

aziendali. In particolare, la cura tutta giapponese per la qualità, per realizzare

miglioramenti continui di processo e di prodotto, per aumentare la quota di mercato

ha fatto sì che le esportazioni cinesi e giapponesi si imponessero su innumerevoli

mercati distruggendo la concorrenza straniera anche in presenza di un costante

apprezzamento delle loro rispettive monete (yen e yuan).

Per chiarire meglio, riporto un passo di Tommaso Padoa

Schioppa41 – La veduta corta, Il Mulino, 2009 (p.

41 http://www.tommasopadoaschioppa.eu/

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33) : “Ritengo che senza la globalizzazione la spinta a correggere

gli squilibri americani (elevato disavanzo delle partite correnti, ndr) sarebbe

intervenuta molto prima. Invece il male non è stato avvertito per tempo. La

globalizzazione ha consentito agli Stati Uniti di sopperire alla mancanza di

risparmio con gli attivi commerciali dai paesi da cui importava: la Cina in primo

luogo ma anche l’India e altri mercati emergenti.

E’ il concetto degli squilibri globali, le global imbalances: un eccesso di

debito in alcuni paesi che si riflette in un eccesso di risparmio in altri. Da un lato gli

Stati Uniti, dall’altro la Cina. La storia ha giocato uno scherzo impensabile

vent’anni fa, quando cadde il Muro di Berlino: il debitore è capitalista, il creditore è

comunista.

L’avanzo delle partite correnti cinese è molto diverso da quello delle

cosiddette tigri asiatiche. L’evoluzione economica della Cina non riflette il classico

modello della crescita trainata dalle esportazioni, come quello di Taiwan e della

Corea del Sud negli anni Novanta, dell’Italia e del Giappone negli anni Sessanta, un

modello nel quale i salari sono bassi e il paese importa tecnologia ed esporta beni di

conumo o d’investimento. La quota dell’export cinese rispetto al pil non è

anormalmente elevata. La peculiarità cinese (e indiana) sta nell’enorme

popolazione: oltre un miliardo e trecentomilioni di persone.one, la Cina rappresenta

settanta Taiwan, cinque Stati Uniti, venti Italie: è la dimensione del paese la

discriminante rispetto ad altre esperienze storiche. Nell’ultimo seconolo mai

avevamo visto un cambiamento simile”.

Padoa-Schioppa sottolinea un altro punto, per noi molto interessante: non

solo i manufatti, ma anche molti servizi sono ormai commerciabili. La classica

distinzone tra beni commerciabili (tradable) e beni non commerciabili non coincide

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più con quella tra manufatti e servizi. Molti servizi possono essere offerti a migliaia

di chilometri di distanza e la differenza significativa è tra servizi personali e servizi

impersonali. Solo i primi richiedono la vicinanza fisica; gli altri possono essere

offerti a migliaia di chilometri di distanza. Il call center mondiale di

HSBC (la banca più grande

del mondo) è a Bangalore42 – centro IT non solo indiano ma mondiale, dove riside

anche l’Indian Space Research Organisation.

Si tratta di un problema molto complesso che ha le sue radici nella messa a

contatto su larga scala di due civiltà, quella del grano (Occidente) e quella del riso

(Oriente) che sono rimaste separate per circa diecimila anni e che sono così diverse

nelle loro culture da poter generare pericolosi conflitti commerciali. La civiltà

occidentale in particolare, che è stata vincente ed egemone nel mondo dagli albori

della rivoluzione industriale, pare ora in difficoltà: le sue strutture, i sui valori, i costi

del suo funzionamento non appaiono più competitivi, rispetto a quelli dell’Oriente.

Ne risulta una terribile disoccupazione che sta colpendo, come una moderna peste, il

tessuto sociale in particolare del Vecchio Continente, con decine di milioni di

persone disoccupate (dati recenti parlano di un livello di disoccupazione medio in

Europa di poco inferiore al 10% della forza lavoro), specie giovani e donne, a cui il

posto di lavoro è sottratto da persone che vivono nell’area orientale del pianeta. Più

che di disoccupazione che nasce dalla distruzione in assoluto di posti di lavoro si può

quindi parlare di disoccupazione che viene creata soprattutto dalla “migrazione” dei

posti di lavoro oltre confine verso aree produttive più “ospitali” (quelle orientali

appunto).

42 Bangalore è una città dell'India di 4.292.223 abitanti, nel Karnataka di cui è la capitale e la città più grande. Con l'indipendenza dell'India nel 1947 Bangalore divenne un grande centro industriale con industrie quali l'Hindustan Aeronautics Limited e l'Indian Space Research Organisation. Negli ultimi decenni il successo delle aziende ad alta tecnologia di Bangalore ha visto la crescita del settore dell'Information Technology (IT) in India. Le sole aziende di information technology di Bangalore impiegano il 30% del milione di dipendenti che l'IT vanta nell'Unione Indiana.

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Alla diversità culturale delle due civiltà si aggiunge poi il ruolo di “Paese

spenditore” o “Paese impresa” che gli Stati Uniti sono andati assumendo nel tempo a

livello mondiale con i numerosi e ingenti programmi di spesa cui sono impegnati su

tutti i fronti (militare, spaziale, della ricerca scientifica, medica, ecc.): per quanto gli

Stati Uniti risparmino, non riescono comunque a far fronte con le proprie risorse a

tali costosissimi investimenti, per cui è inevitabile che la loro bilancia dei pagamenti

sia costantemente in disavanzo. Gli Stati Uniti sono così diventati il più grande Paese

debitore del mondo ed è in continua crescita. All’opposto, vi sono la Cina e il

Giappone che sono i maggiori creditori al mondo (insieme alla Germania) per

eccellenza, con un credito positivo derivante da oltre due decenni di avanzo nella

bilancia dei pagamenti alle partite correnti.

Al contrario di quanto avveniva precedentemente, la semplice svalutazione

della moneta si dimostra incapace di far ritornare la competitività delle produzioni

dei Paesi occidentali e l’equilibrio nelle loro bilance dei pagamenti. E questo sarà

senz’altro, insieme con quello dello squilibrio delle risorse prodotte e consumate fra

Paesi ricchi e Paesi poveri, il problema dei problemi dei prossimi anni.

La cristallizzazione della situazione di squilibrio nel commercio

internazionale significa, a conti fatti, che nel mondo ogni anno vi sono Paesi che

accumulano continui surplus nelle proprie bilance dei pagamenti (come si è visto,

Cina, Germania e Giappone su tutti) e altri che, all’opposto, accumulano continui

deficit (gli Stati Uniti su tutti).

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Questo deficit/surplus corrisponde in sostanza alla finanza internazionale

netta che si forma ogni anno, ovvero ogni anno, se si vuole che il commercio

internazionale esista e funzioni continuamente, occorre che ne venga finanziato il

relativo squilibrio. In altre parole, se un Paese importa molto più di quanto esporta

(Paese debitore) ed ha risorse interne insufficienti a coprire lo squilibrio, occorre

evidentemente che qualche altro Paese gli conceda dei finanziamenti a sostegno del

suo disavanzo verso l’estero. Nel commercio internazionale, finanziamento e

squilibrio si può dire che siano le due facce di una stessa medaglia.

E’ bene che lo squilibrio del commercio internazionale non si elevi troppo e

dunque che attraverso processi di riaggiustamento, i Paesi creditori tendano ad essere

meno in surplus (e magari in certi periodi anche in deficit) e i Paesi debitori meno in

deficit (e magari in certi periodi anche in surplus). Il cambio è lo strumento che viene

normalmente utilizzato per controllare e ridurre, ove possibile, gli squilibri nel

commercio internazionale, anche se non sempre però sortisce gli effetti desiderati,

risultando in talune circostanze un rimedio scarsamente efficace (come si è visto più

sopra a proposito dell’irrompere sulla scena internazionale delle economie orientali

negli ultimi decenni, che ha reso gli squilibri “intrattabili” con i metodi tradizionali

del ciclo economico e della svalutazione del cambio).

Un altro gravissimo problema irrisolto dell’economia mondiale, riguarda la

persistenza di squilibri nella distribuzione internazionale del reddito. Fino ad un

ventennio fa, il 15% della popolazione mondiale (circa 1 miliardo di persone)

produceva e consumava il 75% del PIL mondiale, per cui alla maggioranza della

popolazione (l’85%) rimaneva un esiguo 25% del PIL. Negli ultimi anni, la

situazione è andata progressivamente migliorando per effetto della globalizzazione

dei mercati che ha modificato profondamente le economie di diverse zone povere del

pianeta (fra cui America Latina, Cina, India, Europa Orientale), attraendole

nell’orbita dell’economia di mercato dei Paesi ricchi. Così, pur con tutte le

distinzioni del caso, oggi sono circa 3 miliardi le persone nel mondo che si può dire

vivano a livelli di benessere accettabili. Il problema serio della povertà permane

comunque ancora per altrettanti miliardi di persone che vivono ai margini del mondo

globalizzato, in una situazione di estremo disagio economico con consumi ai limiti

della sussistenza (redditi pro-capite abbondantemente al di sotto di 1.000 dollari

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annui). In fondo al paragrafo viene riportata una tabella dei redditi pro-capite per

singolo paese, dato riassuntivo, anche se non esaustivo (in quanto non considera

fattori quali il grado di istruzione, il grado di mortalità, le condizioni igienico-

sanitarie, la sperequazione sociale all’interno dello stesso paese ecc), del benessere

della popolazione nei singoli paesi.

La globalizzazione, oltre ad aver favorito l’ingresso nell’economia di mercato di

nuove aree del pianeta, ha allo stesso tempo messo a stretto contatto sistemi econo-

mici molto diversi fra loro, caratterizzati dalla presenza di livelli salariali medi

fortemente disallineati. Il risultato è stato un progressivo ed inevitabile livellamento

mondiale dei prezzi dei fattori produttivi (capitale e lavoro, inteso come lavoro

esecutivo). Un tempo, un lavoratore di un Paese ricco (per esempio Stati Uniti o altri

Paesi del G8) che faceva un lavoro analogo a quello di un lavoratore di un Paese in

via di sviluppo, poteva godere di un salario nettamente superiore a quest’ultimo

perché: 1) o lavorava con più risorse naturali; 2) o con un maggiore stock di capitale

per addetto; 3) o si integrava con altri lavoratori più qualificati; 4) o disponeva di

tecnologie migliori. Attualmente egli deve accontentarsi di un salario che non può

non essere in progressivo adeguamento a quello dei lavoratori dei Paesi poveri

perché in un sistema globalizzato:

1. il mercato internazionale delle materie prime dà a tutti un uguale accesso;

2. il mercato internazionale dei capitali consente di finanziare gli investimenti dotati

di buone prospettive di produttività;

3. le sinergie con lavoratori più qualificati possono essere ottenute anche nei Paesi

poveri via Internet e altri mezzi di comunicazione;

4. le tecnologie di produzione si spostano in tutto il mondo molto rapidamente.

Questo fatto ha portato non poche conseguenze sulle economie di molti dei

Paesi industrializzati, in particolare in campo occupazionale. In tali Paesi i lavoratori

sono sostanzialmente suddivisi in 20% che occupano posti direttivi e il rimanente

80% in ruoli meramente esecutivi. La globalizzazione ha agito in maniera diversa

sulle due categorie di lavoratori: il salario orario medio dei lavoratori con compiti

esecutivi negli ultimi due decenni è diminuito di oltre il 20% in termini reali, mentre

coloro che esercitano funzioni direttive hanno visto migliorare nettamente le loro

condizioni economiche (le remunerazioni degli alti dirigenti statunitensi sono salite

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negli ultimi vent’anni di 70 volte). L’economia globalizzata, dunque, allarga il

divario fra i lavoratori privilegiati e i lavoratori generici all’interno dei Paesi ricchi e

riduce il divario fra i lavoratori generici dei Paesi ricchi e quelli dei Paesi poveri

(sono solo quelli generici infatti i lavoratori che la globalizzazione mette in

concorrenza fra loro).

Il prezzo che si paga per non accettare le riduzioni dei salari reali nei lavori

generici si chiama disoccupazione. Alcuni fra i Paesi industrializzati (in particolare

Stati Uniti e Regno Unito) hanno capito questa esigenza ed hanno accettato le

necessarie riduzioni a fronte del mantenimento di elevati livelli occupazionali, altri

(Italia, Francia e in parte Germania) hanno invece optato per il rifiuto ad adeguarsi a

questa nuova realtà e infatti scontano alti tassi di disoccupazione (vedi tabella

sottostante). Questi ultimi Paesi sono caratterizzati dalla presenza di un mercato del

lavoro fortemente sindacalizzato e quindi molto rigido, che tutela principalmente i

diritti di quelle persone che già possiedono un posto di lavoro a scapito di coloro che

invece sono in cerca di una prima occupazione.

Tassi di disoccupazione nei diversi Paesi.

2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009Time

Country

Australia 6.3 6.8 6.4 5.9 5.4 5.0 4.8 4.4 4.2 5.6

Austria 3.5 3.6 4.0 4.3 5.0 5.2 4.8 4.4 3.8 4.8

Belgium 7.0 6.6 7.5 8.2 8.4 8.5 8.3 7.5 7.0 7.9

Canada 6.8 7.2 7.7 7.6 7.2 6.8 6.3 6.0 6.1 8.3

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Chile 9.7 9.9 9.8 9.5 10.0 9.2 7.8 7.1 7.8 10.8

Czech Republic 8.9 8.2 7.3 7.8 8.3 7.9 7.2 5.3 4.4 6.7

Denmark 4.6 4.6 4.6 5.4 5.5 4.8 3.9 3.8 3.3 6.0

Finland 9.8 9.1 9.1 9.0 8.8 8.4 7.7 (B) 6.9 6.4 8.2

France .. .. .. 8.5 8.9 8.9 8.8 8.0 7.4 9.1

Germany 7.8 7.8 8.7 9.6 (B) 9.8 11.1 10.3 8.7 7.5 7.7

Greece 11.4 10.8 10.3 9.8 10.5 9.9 8.9 8.3 7.7 9.5

Hungary 6.4 5.7 5.8 5.9 6.1 7.2 7.5 7.4 7.8 10.0

Iceland 2.3 2.3 (B) 3.3 3.4 3.1 2.6 2.9 2.3 3.0 7.2

Ireland 4.4 3.9 4.5 4.8 4.5 4.4 4.4 4.6 6.1 11.8

Israel .. 9.3 10.3 10.7 10.4 9.0 8.4 7.3 6.1 7.6

Italy 10.2 9.1 8.6 8.5 8.1 7.7 6.8 5.9 6.7 7.8

Japan 4.7 5.0 5.4 5.3 4.7 4.4 4.1 3.9 4.0 5.1

Korea 4.4 4.0 3.3 3.6 3.7 3.7 3.5 3.3 3.2 3.7

Luxembourg 3.3 3.2 3.7 3.7 5.1 4.5 4.7 4.1 5.1 5.2

Mexico (B) 2.5 2.8 3.0 3.4 3.9 3.6 3.6 3.7 4.0 5.5

Netherlands 3.0 2.3 2.8 3.7 4.6 4.7 3.9 3.2 2.8 3.5

New Zealand 6.2 5.5 5.3 4.8 4.1 3.8 3.9 3.7 4.2 6.1

Norway 3.5 3.6 3.9 4.5 4.5 (B) 4.6 3.5 2.5 2.6 3.2

Poland 16.1 18.3 19.9 19.7 19.0 17.8 13.9 9.6 7.1 8.2

Portugal 3.9 4.0 5.0 6.3 6.6 7.6 7.7 8.0 7.6 9.5

Slovak Republic 18.8 19.3 18.7 17.6 18.3 16.3 13.4 11.2 9.5 12.0

Slovenia 6.8 6.2 6.4 6.7 6.3 6.5 6.0 4.9 4.4 5.9

Spain (B) 13.9 10.6 11.5 11.5 11.0 9.2 8.5 8.3 11.3 18.0

Sweden 4.7 4.0 4.0 4.9 5.5 (B) 7.1 7.1 (B) 6.0 6.2 8.3

Switzerland 2.5 2.5 3.1 4.1 4.2 4.3 3.8 3.5 3.4 4.2

Turkey 6.5 8.4 10.3 (B) 10.5 (B) 9.9 10.6 10.3 10.3 11.0 14.1

United Kingdom 5.4 5.1 5.2 5.0 4.8 4.8 5.4 5.3 5.7 7.6

United States 4.0 4.7 5.8 6.0 5.5 5.1 4.6 4.6 5.8 9.3

Euro area (16 countries) 8.5 8.0 8.4 8.8 9.0 9.0 8.4 7.5 7.5 9.4

European Union (27 countries) 9.2 8.6 8.9 9.0 (B) 9.2 8.9 8.2 7.1 7.0 8.9

Brazil 12.7 11.2 11.7 12.3 11.5 9.8 10.0 9.3 7.9 8.1

Estonia 13.6 12.6 10.3 10.0 9.7 7.9 5.9 4.7 5.5 13.8

Indonesia 6.1 8.1 9.1 9.7 (B) 9.9 10.8 10.4 9.4 8.4 8.0 Non-OECD Member Economies

Russian Federation 10.5 9.0 8.0 8.6 8.2 7.6 7.2 6.1 6.4 8.4

Data extracted from OECD.Stat

Per combattere efficacemente il problema della disoccupazione è

indispensabile che il mercato del lavoro possieda due importanti prerogative:

moderazione salariale (di cui si è appena parlato) ed elevata flessibilità. Quest’ultima

concerne diversi aspetti del mercato del lavoro, fra cui la determinazione dei salari

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159 159

(con un sistema di contrattazione meno rigido e più decentralizzato), la descrizione

delle mansioni dei lavoratori (nel limite del possibile, mansioni modificabili per

tenere conto delle diverse necessità), la determinazione della durata dei contratti di

lavoro (consentire più contratti a tempo determinato e parziale), la mobilità della

forza lavoro (facilitazioni nella mobilità da una regione all’altra e da un’impresa

all’altra secondo le esigenze). Un mercato del lavoro governato dal sindacato, in

genere, è lungi dal possedere tali qualità e pure in prospettiva difficilmente tende ad

accettare modifiche in tal senso.

Dai due grandi problemi irrisolti che si sono appena analizzati, ossia la

disoccupazione e soprattutto la povertà di vaste aree del pianeta, ne deriva un altro di

portata altrettanto consistente: l’immigrazione. Non è certamente questo un

fenomeno solo dei nostri tempi, ma con la globalizzazione esso è andato assumendo

proporzioni sempre più imponenti. Abbiamo già visto come in un sistema

globalizzato i fattori produttivi (capitale e lavoro) siano molto mobili per cui

accettare di far parte di questo sistema significa fatalmente aprirsi ad un certo flusso

immigratorio, proveniente perlopiù dai Paesi poveri. I lavoratori di questi Paesi,

infatti, tenderanno a spostarsi e stabilirsi in quei luoghi del globo (aree

industrializzate) ove sono meglio remunerati (è ciò che avviene anche per il fattore

capitale).

Oltre alla mobilità dei fattori tipica dell’economia globalizzata, l’altra causa

che ha contribuito ad intensificare i movimenti migratori è senz’altro identificabile

nel problema demografico che interessa più o meno tutti i Paesi ricchi. Nell’Unione

Europea la dinamica della popolazione non solo tende a zero, ma addirittura nei

prossimi cinquant’anni è stimato che la popolazione si ridurrà di circa il 30%. Nei

Paesi poveri (circa 4 miliardi di persone), dove l’economia è ancora prevalentemente

agricola (a bassi salari) e quindi tanti figli significano tanta forza in più a sostegno

della famiglia, il tasso di crescita della popolazione è positivo e mediamente

nell’ordine del 2% all’anno (a questo tasso in 30-35 anni la popolazione raddoppia).

E’ facile intuire come una situazione di questo tipo, con un problema di denatalità da

un lato e uno di sovrappopolazione dall’altro, porti ineluttabilmente ad un aumento

dei flussi migratori dai Paesi poveri ai Paesi ricchi.

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160 160

Rispetto al problema dell’immigrazione, i Paesi dei diversi blocchi si trovano

su posizioni alquanto diverse fra loro. Gli Stati Uniti erano e sono tradizionalmente

un Paese predisposto ad accogliere flussi migratori dall’esterno. La loro popolazione

si può suddividere in tre tipologie: a) il nucleo storico; b) gli etnici; c) le minoranze.

Il nucleo storico è sostanzialmente rappresentato da due gruppi: il gruppo inglese

(discendenti dei vecchi colonizzatori) e il gruppo germanico. Del nucleo storico

fanno parte cioè tutti coloro che si sentono bianchi, anglosassoni e protestanti

(WASP, White, Anglo-Saxon and Protestant). Gli etnici sono invece tutte quelle

persone non inglesi e non germaniche che hanno origine europea, fra cui: italiani,

greci, polacchi, irlandesi, olandesi, ebrei, russi, scandinavi, ucraini, francesi (molto

pochi). In realtà, questa divisione netta, fra nucleo storico e etnici, valeva forse molto

più 40-50 anni fa, dal momento che negli ultimi anni molti di questi gruppi etnici

hanno raggiunto un livello di integrazione tale che li fa sentire a pieno titolo parte del

nucleo storico. Vi sono infine le minoranze, suddivisibili in quattro raggruppamenti:

ispanici, neri, orientali, indiani d’America. Le minoranze hanno culture molto

diverse fra loro e molto lontane dalle prime due tipologie viste sopra, per cui sembra

difficile pensare che in futuro si possa assistere ad una loro integrazione come si è

avuta negli ultimi decenni per gli etnici di origine europea.

I fenomeni migratori negli Stati Uniti stanno modificando progressivamente

la composizione della loro popolazione: negli anni Cinquanta si aveva l’89% di

bianchi, il 10% di neri, l’1% di altri; nel Duemila i bianchi sono scesi al 73%, i neri

sono il 12%, i latino-americani pure il 12%, gli "altri" il 3%; le previsioni per il 2050

vedono i bianchi ridursi drasticamente al 50%, i neri salire al 15%, i latino-americani

in netta crescita al 30%, altri al 5%. L’immigrazione che si registra oggi negli Stati

Uniti è diversa rispetto a quella di un secolo fa: allora le popolazioni immigranti

erano tendenzialmente mono-culturali e per molti aspetti affini al nucleo storico,

quindi erano facilmente integrabili nel contesto sociale americano; oggi gli immigrati

provengono da molte culture diverse e in essi il popolo dei latino-americani sta

assumendo un peso sempre più importante con il conseguente rischio di creare una

“nazione nella nazione” (i latino-americani parlano una stessa lingua e tendono ad

imporla). Quest’ultimo aspetto potrà in futuro generare non pochi problemi anche ad

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161 161

un Paese come gli Stati Uniti che sono da sempre un “crogiolo” di razze e culture

(c.d. melting pot) che ben si presta all’accoglienza.

Un Paese che invece non è certamente melting pot è l’Europa (è sempre stato

un Paese di emigranti e solo da poco si trova nel ruolo opposto di Paese ricevente). In

rapporto al problema dell’immigrazione essa si trova nella situazione peggiore: da un

lato il calo demografico che richiede importazione della forza lavoro mancante,

dall’altro una società e delle strutture non adeguate ad accogliere i nuovi ingressi.

Nei prossimi anni, la situazione rischia di sfuggire di mano se le autorità non

adotteranno presto dei provvedimenti che regolamentino in modo chiaro e

ragionevole l’afflusso degli immigrati extra-comunitari e la loro integrazione. Le

reazioni xenofobe sono la punta estrema di un atteggiamento diffuso di diffidenza

che nasce, fra l’altro, dalla consapevolezza che l’immigrazione non regolamentata

porta spesso con sé nuova criminalità. Per questo è bene che la politica europea metta

ai primi posti l’impegno per risolvere questo delicato problema, magari traendo

spunto anche dalla realtà già ben collaudata degli Stati Uniti. Le decisioni delle

istituzioni saranno veramente efficaci, quando riusciranno a trasmettere ai cittadini

l’idea che l’immigrazione ben organizzata rappresenta una risorsa da preservare e

non un cancro da estirpare.

Infine, a differenza di Stati Uniti (tradizionalmente aperti e culturalmente

preparati) ed Europa (aperti per necessità, ma strutturalmente impreparati), il

Giappone – la Cina con oltre un miliardo e 300 milioni di persone deve pensare a

come gestire l’urbanizzazione - presenta come Paese estremamente chiuso

all’immigrazione. Più che da un fatto culturale, tale chiusura deriva soprattutto

dall’elevata densità di popolazione che caratterizza da sempre questo Paese: su un

territorio poco più esteso di quello dell’Italia (372 mila km2 contro 301 mila km2)

vive un numero più del doppio di abitanti (circa 125 milioni contro 57 milioni). In

particolare, l’agglomerato urbano di Tokyo registra una densità di popolazione fra le

più alte al mondo con i suoi circa 13 mila abitanti per chilometro quadrato. In queste

condizioni, è assai improbabile che il Paese abbia spazi non coperti tali da richiedere

significativi flussi dall’esterno: per il momento cioè, il popolo giapponese riesce da

solo a far fronte al fabbisogno di risorse umane di cui il Paese necessita per il suo

funzionamento. Sembra comunque che per il futuro anche il Giappone dovrà fare i

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162 162

conti con il problema del calo demografico associato al continuo invecchiamento

della popolazione (due fenomeni tipici dei Paesi industrializzati), e allora

l’immigrazione diverrà anche per questo Paese uno strumento indispensabile e

prezioso.

Classifica dei redditi pro-capite per Paese (World Bank)

Rank Country US$ 1 Luxembourg 105,350 64 South Africa 5,7982 Norway 79,089 65 Saint Lucia 5,4963 Denmark 55,992 66 Jamaica 5,438

4 Ireland 51,049 67 Saint Vincent and the Grenadines 5,335

5 Netherlands 47,917 68 Dominica 5,1326 United States 46,436 69 Belarus 5,0697 Austria 46,019 70 Colombia 5,056

— Faroe Islands 45,188 71 Azerbaijan 4,8998 Finland 44,491 72 Dominican Republic 4,6189 Sweden 43,654 73 Bosnia and Herzegovina 4,546

10 Belgium 43,430 74 Iran 4,54011 Australia 42,279 75 Macedonia,Republic of 4,51512 France 41,051 76 Maldives 4,38413 Germany 40,873 77 Peru 4,34514 Japan 39,727 78 Namibia 4,33815 Canada 39,599 79 Ecuador 4,20216 Iceland 38,029 80 Algeria 4,02917 Singapore 36,537 81 Turkmenistan 3,90418 United Kingdom 35,165 82 Thailand 3,89419 Italy 35,084 83 Jordan 3,82920 Spain 31,774 84 Tunisia 3,79221 Greece 29,240 85 Albania 3,750

22 New Zealand 29,000 86 China, People's Republic of 3,744

23 Israel 26,175 87 Angola 3,73424 Slovenia 23,726 88 El Salvador 3,59825 Portugal 21,414 89 Fiji 3,573

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163 163

26 Czech Republic 18,139 90 Cape Verde 3,06427 Korea, South 17,078 91 Tonga 2,99128 Slovakia 16,176 92 Kosovo 2,965

29 Trinidad and Tobago 15,753 93 Armenia 2,826

30 Equatorial Guinea 15,397 94 Morocco[10] 2,795

31 Saudi Arabia 14,540 95 Samoa 2,77632 Estonia 14,238 96 Vanuatu 2,71333 Croatia 14,222 97 Guatemala 2,623

34 Antigua and Barbuda 12,920 98 Marshall Islands 2,504

35 Hungary 12,868 99 Swaziland 2,47836 Latvia 11,616 100 Syria 2,47437 Venezuela 11,503 101 Ukraine 2,46838 Poland 11,273 102 Georgia[11] 2,44739 Lithuania 11,141 103 Paraguay 2,365

40 Saint Kitts and Nevis 10,988 104 Congo,Republic of the 2,361

41 Uruguay 10,790 105 Indonesia 2,34942 Libya 9,714 106 Micronesia 2,31943 Chile 9,645 107 Egypt 2,26944 Palau 9,345 108 Iraq 2,09045 Seychelles 8,688 109 Sri Lanka 2,06846 Russia 8,676 110 Honduras 1,960— World 8,594 111 Bhutan 1,83147 Turkey 8,248 112 Bolivia 1,75848 Lebanon 8,157 113 Philippines 1,74549 Mexico 8,144 114 Mongolia 1,57350 Brazil 8,114 115 Moldova[12] 1,51651 Argentina 7,666 116 Kiribati 1,32552 Gabon 7,502 117 Sudan 1,29353 Romania 7,500 118 Solomon Islands 1,25754 Panama 7,155 119 Djibouti 1,21455 Malaysia 6,975 120 São Tomé and Príncipe 1,18456 Kazakhstan 6,870 121 Uzbekistan 1,18257 Mauritius 6,742 122 Papua New Guinea 1,17258 Montenegro 6,546 123 India 1,134

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164 164

59 Costa Rica 6,382 124 Cameroon 1,119 60 Bulgaria 6,210 125 Yemen 1,118 61 Grenada 6,029 126 Nicaragua 1,097 62 Botswana 5,965 127 Côte d'Ivoire 1,09363 Serbia 5,819 128 Nigeria 1,092

129 Vietnam 1,052

130 Senegal 1,042131 Zambia 985132 Pakistan 981133 Laos 940134 Mauritania 921135 Kyrgyzstan 860136 Lesotho 851137 Comoros 833138 Kenya 759139 Benin 745140 Tajikistan 716141 Mali 691142 Cambodia 677143 Haiti 667144 Ghana 655145 Chad 596146 Bangladesh 551147 Burkina Faso 517148 Tanzania[13] 509149 Rwanda 506150 Timor-Leste 492151 Uganda 481152 Madagascar 461153 Central African Republic 454154 Togo 431155 Gambia, The 430156 Mozambique 428

157 Nepal 427

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165 165

158 Niger 352159 Ethiopia 345160 Sierra Leone 341161 Malawi 326162 Liberia 222163 Congo, Democratic Republic of the 163164 Burundi 160

14. L’evoluzione della struttura del commercio

internazionale

a) Il processo di globalizzazione per macro aree

Il commercio internazionale, dopo aver sperimentato, durante la seconda

parte del XX secolo, una fase di globalizzazione per così dire “a tutto tondo”, ossia di

spinta verso un flusso crescente di investimenti e scambi commerciali e finanziari

transfrontalieri diretti in tutto il mondo, si sta ora orientando verso una

globalizzazione per macro aree. Una possibile spiegazione, dell’evoluzione di tale

struttura del commercio internazionale, è rinvenibile nelle ragioni di carattere

economico e politico messe in campo da quasi tutti i paesi che erano danneggiati, o

temevano di esserlo, da tale situazione caratterizzata da uno sviluppo generalizzato.

L’assetto del commercio internazionale che sembra assumere maggiore rilevanza, in

questo periodo, è quello di una serie di aggregazioni “regionali”, organizzate non

solo sulla base della vicinanza geografica e della complementarietà economica, ma

anche secondo le linee di una comune cultura.

Intra- and inter-regional merchandise trade, 2008 (Billion dollars and percentage)

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166 166

Destination

Origin North

America

South and

Central America Europe CIS Africa

Middle East Asia World

Value World 2708 583 6736 517 458 618 3903 15717 North America 1014,5 164,9 369,1 16,0 33,6 60,2 375,5 2035,7 South and Central America 169,2 158,6 121,3 9,0 16,8 11,9 100,6 599,7 Europe 475,4 96,4 4695,0 240,0 185,5 188,6 486,5 6446,6 Commonwealth of Independent States (CIS) 36,1 10,1 405,6 134,7 10,5 25,0 76,8 702,8 Africa 121,6 18,5 218,1 1,5 53,4 14,0 113,9 557,8 Middle East 116,5 6,9 125,5 7,2 36,6 122,1 568,9 1021,2 Asia 775,0 127,3 801,0 108,4 121,3 196,4 2181,4 4353,0 Share of regional trade flows in each region's total merchandise exports World 17,2 3,7 42,9 3,3 2,9 3,9 24,8 100,0 North America 49,8 8,1 18,1 0,8 1,7 3,0 18,4 100,0 South and Central America 28,2 26,5 20,2 1,5 2,8 2,0 16,8 100,0 Europe 7,4 1,5 72,8 3,7 2,9 2,9 7,5 100,0 Commonwealth of Independent States (CIS) 5,1 1,4 57,7 19,2 1,5 3,6 10,9 100,0 Africa 21,8 3,3 39,1 0,3 9,6 2,5 20,4 100,0 Middle East 11,4 0,7 12,3 0,7 3,6 12,0 55,7 100,0 Asia 17,8 2,9 18,4 2,5 2,8 4,5 50,1 100,0 Share of regional trade flows in world merchandise exports World 17,2 3,7 42,9 3,3 2,9 3,9 24,8 100,0 North America 6,5 1,0 2,3 0,1 0,2 0,4 2,4 13,0 South and Central America 1,1 1,0 0,8 0,1 0,1 0,1 0,6 3,8 Europe 3,0 0,6 29,9 1,5 1,2 1,2 3,1 41,0 Commonwealth of Independent States (CIS) 0,2 0,1 2,6 0,9 0,1 0,2 0,5 4,5 Africa 0,8 0,1 1,4 0,0 0,3 0,1 0,7 3,5 Middle East 0,7 0,0 0,8 0,0 0,2 0,8 3,6 6,5 Asia 4,9 0,8 5,1 0,7 0,8 1,2 13,9 27,7

Fonte: WTO statistics

Sulla base dei dati WTO 2008 sul commercio internazionale delle merci e dei

servizi (ricavati dalla sezione Statistics del sito www.wto.org ), si possono

individuare quattro macro aree regionali:

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167 167

1) Europa con Russia: tale regione rappresenta il 41% delle esportazioni mondiali

(ma il peso produttivo di quest’area è circa la metà di questa cifra) di cui il 72,8%

circa rimane all’interno dell’area, il 7,4% è diretto verso gli Stati Uniti, il 7,5%

verso l’Asia ed il restante 2% circa verso altri Paesi (quarta area);

2) Asia (comprendendo Cina, Giappone, India, Australia, Nuova Zelanda e i dieci

paesi dell’Asean): in quest’area il 27,7% delle esportazioni mondiali di cui il

50,1% rimane al suo interno, il 17,8% si dirige verso il Nord America, il 18,4%

verso l’Europa e la Russia e il 13% circa si dirige verso altri Paesi;

3) Paesi del Nafta: rappresenta il 13% delle esportazioni globali (il peso di questa

regione sul Pil mondiale è però pari a circa il doppio e quindi le dimensioni

economiche dell’area sono spropositate rispetto al suo grado di

commercializzazione verso l’esterno). Il 49,8% circa rimane all’interno dell’area,

il 18,4% si dirige verso l’Asia, il 18,1% verso l’Europa ed infine il 13% verso

altri Paesi;

4) Altri Paesi: è un’area eterogenea che rappresenta l’18,3% delle esportazioni

mondiali, di cui il 22,8% circa rimane nell’area, il 16,6% si dirige verso il Nafta,

il 26% verso l’Asia, il 32,5% verso l’Europa e la Russia.

Da quanto sopra riportato si può notare che oltre il 55% del commercio

internazionale globale rimane all’interno della stessa macro area: di conseguenza la

percentuale dello scambio internazionale che si può definire veramente “globale” è

ridotta al di sotto della soglia del 45%.

Al primo livello di commercializzazione, ossia quello che rimane all’interno della

stessa area, appartengono ampie categorie di beni e servizi i cui scambi internazionali

si esauriscono nella prossimità geografica; al secondo livello, quello globale,

appartengono settori ed attività, quali il settore finanziario, le grandi reti di trasporto

e comunicazione, la ricerca scientifica, l’industria petrolifera, che non possono essere

attuati se non su di un piano mondiale.

Dai dati precedentemente riportati riguardo alle tre aree commerciali (trascurando

la quarta, ossia gli altri Paesi, per l’estrema eterogeneità e per il peso limitato rispetto

al totale del commercio mondiale di ciascun paese che costituisce questo gruppo) si

può certamente sostenere che si tratti di “macro aree” poco dipendenti le une dalle

altre. Per l’area nordamericana si può affermare che tale processo di “isolamento” sia

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iniziato con la creazione del Nafta sottoscritto ed entrato in vigore il 1 gennaio 1994

tra Stati Uniti, Messico e Canada. Infatti, fin dagli anni novanta, quest’area si è

dotata di istituzioni e regole comuni grazie alla volontà, sempre un po’ isolazionista

degli Stati Uniti (paese di riferimento dell’area), di favorire e di stimolare un

sostenuto commercio interno a scapito del commercio internazionale. Tale accordo

ha determinato la graduale eliminazione di dazi doganali sulle merci che attraversano

i confini dei tre Paesi; obiettivo pienamente realizzato per i prodotti industriali e che

sta più faticosamente progredendo per quelli agricoli. L’accordo stabilisce una

parziale protezione dell’industria petrolifera messicana, ma non sancisce la libertà di

circolazione delle persone. Lo sviluppo del commercio “regionale” nell’America del

Nord viene attribuito ad una varietà di cause sottolineate e rafforzate dalla decisione

degli USA di concludere accordi bilaterali di libero commercio con numerosi paesi

di modeste dimensioni, dalla decisione di aprire selettivamente all’Africa (riduzioni

doganali solo per cinque paesi), dalla tendenza di imporre crescenti tariffe doganali

per settori strategici, dalla scelta di accordare sussidi alla produzione interna e

dall’instaurarsi di attriti con l’Unione Europea.

L’area nordamericana è caratterizzata da un’organizzazione gerarchica che si

sviluppa attorno all’economia dominante (USA). Infatti sia il Canada che il Messico

continuano ad integrarsi sempre più fortemente con l’economia degli Stati Uniti,

chiudendosi al resto del mondo. Se si analizzano i dati della Tavola 1 ci si rende

conto che nel periodo 1990-2005 il commercio verso l’esterno dell’area

nordamericana è continuamente e rapidamente diminuito, mentre sono parimenti

aumentati gli scambi all’interno dell’area.

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Tavola 1: Esportazioni di merci tra i paesi aderenti al Nafta

Fonte: Elaborazione su dati Wto, Statistical Yearbook 2005.

Anche l’area europea aveva iniziato un processo di intensificazione dei rapporti

interni dalla metà degli anni Novanta. Negli ultimi anni, l’integrazione commerciale

tra l’Europa Occidentale e Europa Orientale – grazie anche all’ingresso nell’euro di

diversi Paesi - è aumentata in modo esponenziale, e sta cominciando a determinare

una chiusura nei confronti del resto del mondo.

La terza area è quella asiatica che, in realtà, non può essere considerata appieno

come realtà unitaria, ma come un complesso di aree differenti, caratterizzate da molti

tratti (culturali, economici, politici, istituzionali, ecc.) comuni. In questo contesto

appare interessante soffermarsi soprattutto su quattro zone di tale area: Cina, India,

Giappone e paesi dell’Asean (considerati in modo unitario). In queste aree, e

marcatamente negli ultimi anni, si sta assistendo ad un’integrazione economica, al

ridimensionamento del commercio verso il resto del mondo e ad un suo passaggio da

una scala planetaria ad una più regionale. Esempio emblematico dell’inizio della

chiusura dell’area asiatica è rappresentato dallo spostamento della direzione delle

esportazioni giapponesi dall’America alla Cina, imputabile in parte al rallentamento

dell’economia americana ed in parte alla dinamica espansione verificatasi nei paesi

asiatici. Nel 2005 il 51,2% delle esportazioni giapponesi è stato diretto verso paesi

asiatici, contro il 39% del 1999.

Stati Uniti Canada Messico Tot. Nafta 1990 … 21,0% 7,2% 28,3%

Stati Uniti 2000 … 22,6% 14,3% 36,8%2005 … 23,4% 15,3% 36,7%1990 74,6% … 0,4% 75,0%

Canada 2000 87,3% … 0,5% 87,9%2005 84,1% … 0,8% 84,8%1990 79,4% 0,5% … 80,1%

Messico 2000 85,5% 2,0% … 90,4%2005 85,8% 2,0% … 87,8%1990 22,6% 14,8% 5,1% 42,6%

Tot. Nafta 2000 31,7% 14,6% 9,2% 55,64% 2005 32,8% 14,6% 8,3% 55,8%

Paese di destinazioneANNI

Paese di origine

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La Cina, da sempre caratterizzata da un’economia chiusa, soprattutto alle

influenze dell'Occidente, avendo fatto il suo ingresso formale nel Wto a dicembre del

2001, sembrava avviata ad un’apertura verso il mercato internazionale, favorita

anche dalla ripresa economica che si stava vivendo all’indomani della crisi del 1997-

1998. Tuttavia, ci si è resi conto che le dimensioni geografiche (Cina ed India

insieme hanno più di un terzo della popolazione mondiale), ma soprattutto le

esperienze culturali e le tradizioni del paese, non rendevano possibile applicare, a

quest’area, le regole di liberalizzazione basate su un’apertura incondizionata del

mercato. La Cina si caratterizza per una serie di continue contraddizioni, osservabili

anche sul piano degli scambi internazionali: all’apertura formale, determinata

dall’ingresso nella Wto, e all’ampio programma di liberalizzazioni relative

soprattutto al commercio con l’estero, fa da contrappunto un irrigidimento di fatto

delle barriere ufficiali e non.

Infine l’Asean: questo gruppo di paesi legati da un accordo commerciale, ha

vissuto la crisi asiatica come un insegnamento che lo ha portato a non dipendere

dall’economia americana in particolare ed occidentale in generale. Tale aggregazione

ha deciso di accentuare la già abbastanza stretta reciproca collaborazione finanziaria

e di promuovere forme crescenti di integrazione (riduzione dei dazi doganali, sistema

di preferenze commerciali, ecc.). Gli scambi all’interno dell’area sono cresciuti dal

16,2% del 1990 al 22,8% del 2001, per arrivare al 23,2% nel 2005 con conseguente

declino dei rapporti con gli altri paesi.

In conclusione quello che emerge da questa trattazione è che il processo di

globalizzazione sta attraversando una fase di trasformazione innescata da diverse

variabili di natura economica e politica il cui punto di arrivo è di difficile

individuazione.

L’unica osservazione che si può fare non è altro che una speranza; quella di una

crescita del commercio internazionale che continui a contribuire allo sviluppo

economico, superando le tensioni protezionistiche che si presentano periodicamente

e soprattutto nelle fasi di necessità o rallentamento economico e allorché

intervengono distorsioni nei tassi di cambio delle principali monete che favoriscono

alcuni Paesi rispetto ad altri.

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La vera sfida del commercio internazionale non è la regionalizzazione, cioè

globalizzazione per macro-aree, ma sono gli squilibri nei cambi e nelle bilance dei

pagamenti alle partite correnti.

Ad esempio se il dollaro si rafforza in presenza di un rilevante deficit della

bilancia dei pagamenti, ben difficilmente il Congresso americano potrà astenersi

dall’assumere misure protezionistiche. Da ciò discende che : 1) alla base del

commercio internazionale ci deve essere un sistema monetario internazionale con

delle regole rispettate da tutti, 2) ci deve essere un sistema di scambi commerciali e

finanziari efficiente a livello mondiale, 3) è lecito che si manifesti un processo di

integrazione per macro-aree come quello che oramai si sta delineando nell’economia

internazionale di questi ultimi decenni.