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Parte I Il diritto internazionale dell’economia

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Titolo del capitolo 1

Parte I Il diritto internazionale

dell’economia

2 Il diritto internazionale dell’economia

Il diritto internazionale dell’economia 3 

Il diritto internazionale dell’economia

SOMMARIO: Premessa. – 1. Le fonti. – 2. I soggetti: gli Stati e le organizzazioni internazionali. – 3. Le organizzazioni non governative e altre associazioni private. – 4. Le imprese multina-zionali.

Premessa

Il diritto internazionale dell’economia è costituito dall’insieme delle regole che disciplinano i rapporti economici internazionali. La relazione economica interna-zionale, nella sua accezione più ampia, è una relazione che si sviluppa in almeno due Stati diversi, non esaurendosi quindi nell’ambito di un unico ordinamento giuridico. In questa prospettiva, anche la vendita internazionale che intercorre tra due soggetti privati può rientrare nel diritto internazionale dell’economia. Vi è però un modo più restrittivo, che è probabilmente quello più appropriato, di in-tendere la materia ed è quello per cui il diritto internazionale dell’economia rego-la i rapporti macroeconomici, intercorrenti tra grandi gruppi economici: questa è la prospettiva qui adottata. Sotto questo punto di vista, rientrano nel diritto in-ternazionale dell’economia gli investimenti privati stranieri, effettuati da cittadini di uno Stato nel territorio di un altro Stato o gli scambi commerciali internazio-nali ma non le semplici vendite, né i rapporti economici tra privati che si situano in ambienti statali diversi; il diritto internazionale dell’economia, pertanto, si oc-cupa del diritto del commercio internazionale ma non del diritto commerciale in-ternazionale.

A causa dello sviluppo che hanno avuto alcuni settori della materia, soprattutto quello del commercio internazionale, si sono formate in alcuni ambiti regole speci-fiche che riguardano rapporti tra grandezze microeconomiche, quali, ad esempio, le regole dell’Accordo TRIPs 1 che disciplinano gli aspetti commerciali della pro-prietà intellettuale o le regole sulle piccole e medie imprese, elaborate nell’ambito del diritto dell’Organizzazione mondiale del commercio.

1 V. infra, Cap. XXI.

I

4 Il diritto internazionale dell’economia

Il diritto internazionale dell’economia presenta alcune peculiarità rispetto al diritto internazionale pubblico che ne giustificano una autonoma trattazione. Queste differenze sono percepibili nel diverso ruolo che giocano, nelle due disci-pline, alcuni principi fondamentali qual è, per esempio, quello dell’indipendenza sovrana degli Stati. Se il diritto internazionale pubblico rimane tuttora costruito intorno al dogma indiscusso della indipendenza (formale) di enti sovrani superio-rem non recognoscentes, il diritto internazionale dell’economia è, invece, sostan-zialmente incentrato sull’idea dell’interdipendenza degli Stati, intesa come scam-bio tra macrosistemi economici. Inoltre, la disuguaglianza sostanziale degli Stati, sotto il profilo della forza economica o del livello di sviluppo delle loro economie, trova spesso riconoscimento formale nella disciplina di interi settori della materia (v., per es., il trattamento differenziato riservato ai Paesi in via di sviluppo all’in-terno delle organizzazioni economico-finanziarie; il sistema delle preferenze ge-neralizzate nel commercio internazionale; la formalizzazione della categoria dei Paesi Meno Avanzati, PMA, all’interno dell’Organizzazione mondiale del commer-cio) e, anche, nel diverso peso attribuito agli Stati membri nel processo decisiona-le interno ad alcune organizzazioni internazionali (per esempio, nel Fondo mone-tario o nella Banca mondiale).

Quale ulteriore esempio può ricordarsi come il diritto internazionale c.d. clas-sico si basi su due concetti fondamentali, cui corrispondono altrettanti principi: quello della sovranità territoriale degli Stati e quello della nazionalità, che vale a collegare il privato, persona fisica o giuridica, allo Stato. Il principio della sovra-nità territoriale dello Stato, sia pure significativamente scalfito negli anni più re-centi dal movimento in favore del riconoscimento e della tutela dei diritti fonda-mentali, rimane sostanzialmente un dogma nel diritto internazionale. Nel diritto internazionale dell’economia, invece, il principio di territorialità non ha, come ve-dremo, un rilievo particolare: la frontiera, che nel diritto internazionale pubblico ha una sua funzione specifica nell’ottica della delimitazione dello spazio nel quale si esercita in modo esclusivo la sovranità dello Stato, tende invece ad essere supe-rata nell’ambito del diritto internazionale dell’economia volto a realizzare, in sen-so lato, la libera circolazione della ricchezza al di là delle frontiere nazionali. Per converso, la norma consuetudinaria sulla protezione dello straniero, che è tra le regole più antiche del diritto internazionale, riveste ancora per il diritto interna-zionale dell’economia una notevole importanza, soprattutto in settori qual è quel-lo degli investimenti privati stranieri.

Anche la sanzione svolge, nel d.i.e., una funzione affatto peculiare. Nel diritto, la sanzione accompagna la norma per rendere effettivo il precetto. Secondo parte della dottrina, una regola non accompagnata da una sanzione effettiva non sareb-be una regola giuridica: ogni norma primaria, che prescrive una data condotta, sarebbe completata dalla norma secondaria che pone la sanzione conseguente alla violazione della norma primaria. Nel diritto internazionale, le sanzioni, irrogate in

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modo anorganico, sono disciplinate dall’insieme delle regole consuetudinarie sul-la responsabilità internazionale (degli Stati e delle organizzazioni internazionali). Nel diritto internazionale dell’economia, la sanzione ha delle caratteristiche pro-prie: essa consiste prevalentemente in una contromisura specifica, costituita dalla violazione, in risposta ad un illecito altrui, della stessa norma violata in prima battu-ta dall’autore dell’illecito o, comunque, dalla violazione di un obbligo dovuto nei confronti dell’autore dell’illecito sulla base dello stesso accordo violato o di regole relative allo stesso settore. Ciò perché nel diritto internazionale dell’economia la sanzione non ha quasi mai uno scopo punitivo/afflittivo, servendo piuttosto a rico-stituire l’equilibrio degli interessi economici degli Stati, compromesso dalla viola-zione della regola. Assai significativo in tal senso è il sistema di risoluzione delle controversie disciplinato all’interno dell’Organizzazione mondiale del commercio 2. In tale sistema, l’organo deputato alla risoluzione delle controversie – il Dispute Settlement Body – interviene non solo per decidere il merito della controversia, ma anche al fine di autorizzare gli specifici provvedimenti restrittivi di natura discrimi-natoria, diretti a colpire lo Stato che non si sia uniformato alle regole dell’Organiz-zazione, controllando che la sanzione autorizzata in favore dello Stato che ha subito il pregiudizio non vada oltre quanto necessario per riequilibrare le posizioni dei due Stati, quali derivano da un’applicazione corretta delle regole OMC.

1. Le fonti

Le peculiarità della materia si registrano altresì relativamente al sistema delle fonti che, accanto a quelle classiche del diritto internazionale – la consuetudine e l’accordo – e ad altre fonti formali riconosciute ma meno usuali del diritto inter-nazionale, come gli atti unilaterali, include meccanismi di produzione normativa non rientranti stricto sensu nel diritto internazionale. Il riferimento è, per esem-pio, agli atti di diritto interno o ad atti indiretti di regolamentazione, come i codi-ci di condotta relativi agli investimenti privati stranieri, riconducibili a fonti c.d. anomale riguardanti l’attività di privati, quali le imprese multinazionali. Talora, poi, i rapporti economici internazionali risultano sostanzialmente disciplinati da meccanismi o procedure che, pur riflettendo una volontà comune o una intesa fra gli Stati, non rivestono il carattere formale della regolamentazione pattizia: il c.d. soft law svolge un ruolo comprimario assai significativo nella disciplina di interi settori della materia 3.

2 V. infra, Parte IV. 3 Per esempio, la fissazione dei margini di oscillazione dei tassi di cambio delle diverse monete

nazionali avviene sulla base di misure concordate e di intese (nell’ambito, per esempio, delle periodi-

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Nel diritto internazionale dell’economia, la consuetudine gioca un ruolo assai meno incisivo rispetto al diritto pattizio, che costituisce la parte preponderante della disciplina: tutte le organizzazioni economiche internazionali, che sono tra gli attori principali del d.i.e., nascono su base pattizia, cioè da un accordo inter-nazionale e regole internazionali di natura pattizia disciplinano l’attività interna ed esterna di tali enti. Accordi bi- e multi-laterali forniscono la regolamentazione di interi settori del d.i.e.

Il diritto pattizio come fonte di regole del diritto internazionale dell’economia è integrato da atti di diritto interno degli Stati, quali, per esempio, le misure stata-li riguardanti la modifica del tasso di cambio (ed il relativo strumento legislativo previsto dall’ordinamento nazionale) o la variazione del tasso di interesse; si tratta di atti che lo Stato compie all’interno del suo ordinamento, nell’esercizio della sua sovranità, ma che inevitabilmente si ripercuotono a livello internazionale.

Nell’ambito del sistema delle fonti risulta molto incisiva l’attività delle orga-nizzazioni internazionali, che si esprime sia attraverso la posizione di vere e pro-prie regole di condotta, prodotte da fonti c.d. di III grado, sia indirizzando l’azio-ne degli Stati membri con strumenti c.d. di soft law, come guidelines o codici di condotta. Questi strumenti concorrono, insieme alla prassi bilaterale, a formare standards uniformi applicabili dagli Stati, per esempio, al trattamento degli inve-stimenti privati stranieri.

Vi è, inoltre, una terza fonte, assolutamente tipica del diritto internazionale dell’economia: si tratta delle regole o degli usi prodotti da privati o da gruppi di privati. Le organizzazioni che rappresentano i lavoratori o i datori di lavoro ovve-ro le imprese multinazionali, per esempio, si danno talora proprie regole di con-dotta, allorché debbano agire all’interno di Paesi stranieri. Quale esempio, può ricordarsi come per vari anni i prezzi dei prodotti petroliferi e degli idrocarburi siano stati determinati dall’accordo fra grandi compagnie petrolifere statunitensi ed europee, le c.d. sette sorelle, che sono state in grado di imporre nel settore re-gole autoprodotte (una sorta di lex petrolia), soprattutto per quel che concerne la determinazione dei prezzi. Le fonti del diritto internazionale dell’economia si ca-ratterizzano, dunque, per la loro eterogeneità.

Una ulteriore caratteristica è data dal loro relativo “informalismo”. Molto spesso alcuni indirizzi, che solo successivamente si traducono in vere e proprie regole di condotta, nascono nell’ambito di fori multilaterali che non sono i siste-mi pattizi tradizionali. Si pensi al ruolo del G-7, una Conferenza intergovernativa che riunisce con cadenza annuale i Paesi più industrializzati, rappresentati a livel-lo di capi di Stato e di governo, trasformatasi, a partire dalla Conferenza di Napo-li del 1994, in G-8 a seguito dell’ingresso nel vertice della Federazione russa. che riunioni del G-8), che non sono certamente riconducibili ad accordi internazionali in senso pro-prio.

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Alla fine di ogni riunione del G-8, per esempio, i capi di Stato e di governo dei Paesi partecipanti emanano un comunicato che non può essere considerato fonte di vere e proprie regole di condotta internazionalmente garantite. Il comunicato congiunto non è, infatti, certamente inquadrabile nella categoria degli accordi in-ternazionali, sia pure conclusi in forma semplificata, né è riconducibile ad uno di quegli atti unilaterali, come la promessa, che il diritto internazionale riconosce a date condizioni come fonte di diritti ed obblighi internazionali. Si tratta, invece, di un comunicato di natura meramente politica, contenente indicazioni significa-tive sulle strategie che i Paesi partecipanti intendono perseguire relativamente al-le tematiche discusse (dalla lotta alla povertà, alla riduzione del debito dei PVS, agli aggiustamenti dei tassi di cambio ed altro ancora). Tali indicazioni sono de-stinate solo successivamente a trasformarsi in vere e proprie decisioni dei singoli Stati, adottate a livello interno o in regole internazionali di condotta, determinate attraverso un formale negoziato condotto all’interno dei fori istituzionali compe-tenti, quale il FMI, lungo le linee in precedenza tracciate dai comunicati conclusi-vi 4 dei Vertici.

2. I soggetti: gli Stati e le organizzazioni internazionali

I soggetti del diritto internazionale dell’economia sono, innanzitutto, i soggetti tradizionali del diritto internazionale: gli Stati e le organizzazioni internazionali. Soggetti materiali del diritto internazionale dell’economia sono altresì le organizza-zioni non governative e i privati, quali le imprese multinazionali o le associazioni di privati (per esempio, le confederazioni dei sindacati o degli industriali). Malgrado anche le regole economiche internazionali siano prodotte essenzialmente dagli Stati e per gli Stati, spesso nell’ambito di forme di cooperazione più o meno istituziona-lizzata, le forze dominanti e gli interessi prevalenti del d.i.e. non fanno capo neces-sariamente alla componente governativa della comunità internazionale.

Soggetti relativamente nuovi delle relazioni internazionali, le organizzazioni in-

4 Può ricordarsi, a titolo di esempio, il caso dell’aggiustamento della parità della moneta cinese. Su proposta statunitense, in uno degli ultimi G-8, era stata ribadita la necessità che la Cina interve-nisse, sia sul sistema dei cambi che su quello dei tassi di interesse, per favorire un apprezzamento del-la moneta nazionale, lo yuan, tradizionalmente ancorata al dollaro, la cui debolezza rispetto alla effet-tiva forza commerciale del Paese crea tuttora problemi negli scambi tra la Cina ed il resto del mondo. Il rappresentante cinese, che aveva partecipato a latere all’incontro del G-8, aveva formalizzato la protesta del suo governo affermando che la determinazione del tasso di cambio rientrava nella libera determinazione del governo cinese e che il G-8 non aveva alcuna autorità per imporre o anche solo chiedere alla Cina eventuali modifiche del tasso di cambio. Successivamente, però, il governo cinese, aderendo alla formale richiesta dei governi più industrializzati espressa nell’ambito del FMI, ha provveduto ad una parziale rivalutazione della moneta nazionale (v. infra, Cap. II).

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ternazionali cominciano a svilupparsi alla fine del XIX secolo, come forma pecu-liare della cooperazione tra Stati sovrani, inizialmente in settori “tecnici” (per es., l’Unione Postale Universale, l’Ufficio internazionale dei brevetti, ecc.), per poi espandersi in modo esponenziale nella seconda metà del secolo scorso. Si calcola che oggi il numero delle organizzazioni internazionali superi persino il numero degli Stati esistenti. Il ruolo che le organizzazioni internazionali giocano nel dirit-to internazionale dell’economia è probabilmente maggiore e comunque più signi-ficativo rispetto a quello degli Stati. Avuto riguardo alla partnership, le organizza-zioni internazionali possono essere classificate in (tendenzialmente) universali o regionali.

Tra le organizzazioni economiche universali vanno ricordate innanzitutto le istituzioni nate alla fine della seconda guerra mondiale con gli accordi di Bretton Woods, cioè il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, organizza-zioni collegate alle Nazioni Unite, con le quali condividono in larga parte la membership e gli obiettivi, oltre che la vocazione universale. Con il crollo del mu-ro di Berlino e il collasso dell’URSS, la partecipazione alle suddette organizzazio-ni, che era stata fortemente ostacolata in passato dalla concezione socialista dei rapporti, in particolare, economici, è diventata effettivamente universale.

L’Organizzazione mondiale del commercio è un’altra importante organizzazio-ne, composta oggi da 164 Stati membri, che realizza dunque una partecipazione effettivamente universale. Nata nel 1995, a partire da un accordo, il GATT ’47, che formalmente solo in via provvisoria aveva governato gli scambi di merci per circa cinquant’anni, l’Organizzazione mondiale del commercio realizza infine, dopo cir-ca mezzo secolo, quel terzo pilastro economico (accanto a quello monetario costi-tuito dal FMI e quello finanziario costituito dalla Banca mondiale) che avrebbe do-vuto completare l’architettura istituzionale dei rapporti internazionali prefigurata nel II dopoguerra.

Le organizzazioni economiche regionali

Le organizzazioni economiche regionali costituiscono peculiari forme di coor-dinamento e di cooperazione tra gli Stati membri caratterizzate, rispetto alle or-ganizzazioni universali, dalla presenza di un vincolo associativo più forte che si esprime spesso in modelli più o meno perfetti di integrazione economica. Avuto riguardo all’intensità del vincolo associativo, si possono individuare due differenti tipi di organizzazioni economiche che riproducono: a) il modello classico della cooperazione o b) quello dell’integrazione, che tende a realizzare forme varia-mente accentuate di federalismo economico.

Le organizzazioni economiche regionali che si ispirano al modello della coope-razione mettono insieme le energie degli Stati partecipanti per il conseguimento

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di obiettivi comuni, ma non richiedono ai membri alcun trasferimento di compe-tenze sovrane, dall’ordinamento interno all’ente internazionale, coordinando l’at-tività degli Stati membri in vista dell’obiettivo comune senza limitarne la sovrani-tà economica.

Le organizzazioni economiche che rispondono, invece, al modello dell’integra-zione richiedono agli Stati membri rinunce più o meno accentuate ad una parte della loro sovranità economica, a seconda della precipua forma di integrazione che si intende realizzare. Sono individuabili, a tal proposito, tre modelli principali di integrazione economica:

– le aree di libero scambio, nelle quali gli Stati partecipanti aboliscono le tariffe doganali interne, mantenendo però verso l’esterno tariffe doganali differenziate. Un esempio in tal senso è il NAFTA, che ha istituito nel 1994 un’area di libero scambio tra Nord e Centro America, raggruppando Stati Uniti, Messico e Cana-da. Nell’ambito del NAFTA non esistono ostacoli al libero commercio interno ai tre Paesi, ma ciascun Paese membro mantiene verso l’esterno una propria tariffa doganale;

– le unioni doganali. A questo tipo di integrazione regionale si ispirava il pro-getto originario della CEE, che nel 1968 introdurrà una tariffa esterna comune. In questo modello di integrazione economica, è prevista sia l’abolizione delle barrie-re tariffarie e doganali interne tra gli Stati partecipanti, sia la fissazione di una ta-riffa esterna comune;

– il mercato comune. Esso si è realizzato progressivamente tra i Paesi membri della Comunità europea e consiste non soltanto nell’abolizione delle barriere ta-riffarie e doganali interne e nella creazione di una tariffa esterna comune, ma an-che nell’abolizione degli ostacoli alla libera circolazione delle merci e di tutti gli altri fattori produttivi all’interno del mercato unico.

È soprattutto questa terza fattispecie di integrazione economica che richiede un trasferimento di competenze sovrane, in materia economica, dagli Stati mem-bri all’organizzazione regionale. Siffatto trasferimento di competenze fa sì, per esempio, che alcune materie vengano disciplinate esclusivamente ad opera del-l’organizzazione non solo nello spazio giuridico “interno”, costituito dagli ordi-namenti degli Stati membri, ma anche all’esterno, nei rapporti con Stati terzi e/o con organizzazioni internazionali (v. per es., la partecipazione della Unione euro-pea, accanto agli Stati membri, al sistema commerciale multilaterale).

Caratteristico nelle organizzazioni internazionali economiche è il sistema deci-sionale: malgrado in tutte le organizzazioni economiche viga la regola della mag-gioranza (semplice o assoluta o, più spesso, ponderata) per l’assunzione delle de-libere, in effetti poi, considerata la concretezza dei fattori in gioco, le organizza-zioni tendono a realizzare comunque, ove possibile, l’unanimità dei consensi de-gli Stati membri. Nell’ambito dell’Organizzazione mondiale del commercio, per

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esempio, vige anche formalmente la regola del consensus e solo in seconda istanza si ricorre alla votazione secondo maggioranza qualificata.

Peculiare è altresì, nelle organizzazioni economiche, il modo in cui viene irro-gata la sanzione che, come si è detto (ante), non riveste un carattere punitivo-retributivo, quanto riequilibratore degli interessi contrapposti, alterati dalla viola-zione della regola economica. Generalmente, poi, l’irrogazione della sanzione è “or-ganizzata”, gestita dagli Stati membri ma più spesso dagli organi dell’organizzazio-ne e graduata in modo da rispondere alla gravità della violazione e agli obiettivi dell’organizzazione (per esempio, nel FMI, la sanzione va dalla sospensione dello Stato membro dall’accesso ad un certo tipo di finanziamento del Fondo fino alla sospensione del diritto di voto e, nei casi di ripetute violazioni, all’espulsione). L’interesse al mantenimento dell’equilibrio definito ed al rispetto delle regole po-ste con gli accordi in materia economica è realizzato utilizzando anche strumenti diversi dalla sanzione, per es., disciplinando mezzi e procedure istituzionali di so-luzione pacifica delle controversie tra gli Stati membri, che fanno perno sui tradi-zionali mezzi pacifici, quali negoziato, conciliazione o arbitrato, ma anche su nuovi meccanismi, com’è quello dei panel, tipico dell’OMC come lo è stato del GATT ’47. In proposito, deve poi osservarsi come nel diritto internazionale dell’econo-mia le controversie non siano soltanto quelle classiche, tra soggetti dell’ordina-mento internazionale, ma possano interessare (per esempio, nel settore degli inve-stimenti esteri) soggetti di natura diversa, come Stati e privati che siano cittadini di altri Stati. Anche rispetto a queste fattispecie, vengono individuate soluzioni ad hoc (per es., in sede ICSID) che rivisitano, con le necessarie modifiche, meccanismi classici quali l’arbitrato e la conciliazione. Infine, per prevenire l’insorgere di con-troversie che compromettano la puntuale applicazione delle regole, le organizza-zioni internazionali economiche provvedono ad istituire procedure o organi di controllo sul rispetto degli obblighi degli Stati membri ovvero, nella medesima ot-tica, meccanismi atti a fornire una interpretazione autentica del trattato: tali mec-canismi sono prevalentemente basati sul consenso degli Stati membri. Ad esem-pio, in ambito OMC, se è vero che il panel è chiamato a risolvere le controversie tra Stati membri applicando il diritto dell’Organizzazione, l’interpretazione auten-tica di una regola degli accordi può essere richiesta, dallo Stato membro, solo alla Conferenza Ministeriale che dovrà pronunciarsi al riguardo per consensus. Nel Fondo e nella Banca mondiale, l’interpretazione degli atti istitutivi è affidata all’or-gano a composizione generale, la Conferenza dei Governatori (infra, Parte II).

3. Le organizzazioni non governative e altre associazioni private

Tra i soggetti in senso atecnico del diritto internazionale dell’economia, vanno menzionate le organizzazioni non governative e le imprese multinazionali. Un

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ruolo importante svolgono anche associazioni private, come la Camera di Com-mercio Internazionale, la cui creazione risale alla fine del 1° conflitto mondiale.

Le ONG sono associazioni costituite da privati, le quali si definiscono interna-zionali perché riuniscono persone fisiche o giuridiche che appartengono ad al-meno due Stati diversi. Tali associazioni sono costituite secondo le leggi di uno Stato (sono, quindi, soggetti del diritto statale e non del diritto internazionale) e non perseguono fini di lucro, sono cioè organizzazioni not for profit; possono porre in essere negozi giuridici, ovvero attività disciplinate dal diritto statale. Sul piano internazionale, la specifica funzione delle ONG si esplica, e va valutata, non tanto sul piano decisorio o della produzione normativa diretta, quanto piuttosto nella possibilità di interagire con i soggetti dell’ordinamento internazionale, for-nendo pareri, ausilio tecnico ed esperienze e stimolando, per questa via, l’assun-zione di decisioni o l’elaborazione di strategie nei fori istituzionali competenti. Si tratta spesso di associazioni con competenze tecniche specifiche, non politiche, le quali, proprio alla luce del loro carattere tecnico, vengono spesso utilizzate come supporto qualificato dalle organizzazioni intergovernative.

L’art. 71 della Carta delle Nazioni Unite contiene un riconoscimento esplicito della funzione delle ONG nella misura in cui autorizza il Consiglio economico e sociale ad avviare rapporti anche istituzionali con tali organizzazioni, per riceverne indicazioni, consigli e pareri su questioni rientranti nelle loro competenze, che siano all’ordine del giorno dell’agenda del Consiglio. Ai sensi dell’art. 71, appunto, il Consiglio economico e sociale può concludere opportuni accordi con le orga-nizzazioni non governative interessate alle questioni che rientrino nella sua compe-tenza. Anche in ambito OMC, le ONG svolgono un ruolo, per quanto non for-malmente riconosciuto (non hanno, infatti, lo status di osservatore): per esempio, in sede di risoluzione di controversie, i panel talora richiedono o consentono l’intervento, in qualità di amici curiae o come esperti esterni, di organizzazioni non governative quando siano in giuoco questioni non direttamente disciplinate dalle regole del commercio internazionale, come quelle ambientali, che abbiano non-dimeno un’incidenza sui rapporti commerciali (e sulla definizione della controver-sia in esame) e sulle quali le ONG coinvolte abbiano una specifica competenza.

Nel diritto internazionale dell’economia, le ONG possono dunque concorrere talvolta a produrre regole di condotta o ad indirizzare soluzioni e definire strate-gie di carattere multilaterale, integrando l’azione delle organizzazioni internazio-nali governative o supplendo ad esse. Significativo esempio in tal senso è il World Economic Forum di Davos.

Il World Economic Forum

Il World Economic Forum di Davos è un’associazione indipendente di imprese di vari Paesi, operante senza vincoli politici o d’interesse nazionale, costituito

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come fondazione nel 1971 a Ginevra, in Svizzera. È un ente not-for-profit che riu-nisce in principio circa 1.000 imprese leader nel loro settore e con un’attività a dimensione globale, il cui obiettivo ambizioso è dare una risposta concreta ai problemi e alle sfide di un mondo sempre più fragile e complesso, favorendo il dialogo tra governi, esponenti del mondo produttivo ed altre componenti della società civile in incontri informali.

Nel corso degli annuali Meetings che si tengono tradizionalmente a Davos, in Svizzera, vengono messe a punto strategie d’azione relative alle più significative questioni d’interesse comune, dal negoziato commerciale alla lotta alla povertà, alle campagne contro l’AIDS, alla sicurezza in Medio Oriente, che i governi per-seguono ed attualizzano, poi, nei fori istituzionali competenti. L’incontro tenutosi tra il 24 e il 28 gennaio 2007 a Davos è stato aperto, per esempio, dal Cancelliere tedesco Angela Merkel in qualità di Presidente di turno del G-8 e dell’Unione europea: in quella sede è stato rilanciato il negoziato commerciale del Doha Round, sospeso da alcuni mesi ed annunciato l’avvio di un rafforzamento dei rapporti economici USA-UE, oltre che del dialogo europeo con le “economie emergenti”, Brasile, India e Cina 5.

Un ruolo significativo è svolto, nel d.i.e., anche da altre associazioni di privati quali, per esempio, la Camera di Commercio Internazionale.

La Camera di Commercio Internazionale (ICC): origine e funzioni

La International Chamber of Commerce fu fondata a Parigi nel 1919 per iniziati-va di un gruppo di imprese operanti a livello internazionale, in collaborazione con varie associazioni di imprenditori nazionali, con l’obiettivo di promuovere e favori-re il commercio internazionale. Da allora, l’ICC ha svolto un’intensa attività di for-mazione, informazione e promozione del commercio internazionale attraverso la programmazione di conferenze annuali, congressi e seminari perlopiù rivolti all’ap-profondimento di temi legati ai contratti internazionali, a beneficio di operatori pubblici e/o privati impegnati in attività di scambio di beni e di servizi con l’estero.

L’ICC, attraverso Commissioni di studio e con la collaborazione dei Comitati nazionali, si occupa inoltre di predisporre strumenti normativi uniformi in relazio-ne a particolari operazioni del commercio internazionale: tra tali strumenti rivesto-no particolare significato le Norme e gli Usi Uniformi relativi ai Crediti documenta-ri, predisposti nel 1993 e revisionati nel 2007, e gli Incoterms, originariamente pre-disposti nel 1936 e rivisti da ultimo nel 2010. Le Norme e gli Usi Uniformi in mate-ria di crediti documentari (NUU o anche USP, Uniform Customs and Practice for Documentary Credits) costituiscono un importante corpus di norme di diritto uni-

5 Al Forum che si è tenuto a Davos dal 17 al 20 gennaio 2017 ha partecipato per la prima volta un leader cinese, il presidente Xi Jinping.

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forme, proposte a livello privato nelle operazioni commerciali, che utilizzano il cre-dito documentario. L’elaborazione di tali norme comuni si era resa necessaria in considerazione dell’altissimo volume di scambi internazionali operati sulla base di crediti documentari. Gli Incoterms, invece, sono regole che definiscono gli obblighi delle parti contrattuali relativamente ai termini di consegna delle merci e vengono ormai utilizzati diffusamente nella pratica del commercio internazionale.

Nella prospettiva della promozione del commercio internazionale, un essen-ziale settore di attività della ICC è rappresentato dall’assistenza alle imprese nella risoluzione delle controversie. A tal fine, la ICC ha predisposto un sistema com-plesso di metodi alternativi al ricorso alla giustizia ordinaria, tra cui si distingue, in primo luogo, l’arbitrato internazionale, amministrato e controllato dalla ICC Court of Arbitration. L’arbitrato ICC si svolge sulla base di un regolamento di cui la Court of Arbitration si è dotata, le ICC Rules of Arbitration, la cui ultima ver-sione è entrata in vigore il 1° gennaio 2012. La Corte non esplica in effetti una ve-ra e propria funzione di “tribunale” e quindi non ha potere decisionale nei singoli casi, limitandosi ad un’attività amministrativa e di supervisione sulle decisioni as-sunte dai tribunali arbitrali costituiti in base al Regolamento.

a) I caratteri generali dell’arbitrato ICC

Nelle ICC Rules of Arbitration è stata adottata una definizione piuttosto ampia della nozione di “controversia” che può essere sottoposta ad arbitrato. È previsto in-fatti che la funzione della Court of Arbitration è quella di “provide for the settlement by arbitration of business disputes of an international character in accordance with the Rules of Arbitration of the International Chamber of Commerce” (art. 1(1)). Nella prassi ICC, in effetti, il carattere internazionale della controversia è stato sempre valu-tato con estrema larghezza, giungendo a sottoporre all’arbitrato ICC anche casi sorti tra parti aventi la medesima nazionalità, sulla base della considerazione che il rappor-to contrattuale esplicava tuttavia degli effetti sul commercio internazionale.

In via generale, può dirsi che le controversie che vengono sottoposte all’arbi-trato ICC vertono su questioni relative perlopiù al commercio internazionale, al set-tore delle costruzioni, a joint ventures o a contratti di licenza. Le parti coinvolte so-no generalmente operatori commerciali privati, imprese private o pubbliche e, sep-pure non frequentemente, anche Stati. Com’è naturale, data la collocazione della sede dell’ICC a Parigi, si rivolgono alla ICC Court of Arbitration prevalentemente gli operatori europei, sebbene negli ultimi anni il ricorso all’arbitrato ICC risulti molto diffuso anche nei contratti stipulati con contraenti del Medio Oriente e dell’Asia.

b) La procedura arbitrale

La procedura arbitrale viene attivata sulla base di una clausola arbitrale ICC

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contenuta nel contratto che è alla base della controversia e dovrebbe conclu-dersi entro tempi piuttosto ristretti (sei mesi). È comunque ormai prassi che la Court accordi successive proroghe, specialmente in funzione della complessità del caso.

Le Rules of Arbitration stabiliscono le modalità di costituzione del tribunale arbitrale e fissano la procedura, i termini e le modalità generali per l’assunzione delle prove e l’escussione dei testimoni, nonché i criteri per la determinazione della legge applicabile dagli arbitri, qualora nel contratto tale scelta non sia già stata effettuata dalle parti. Al termine del procedimento, il tribunale arbitrale propone alla Court of Arbitration l’award affinché venga approvato. La Corte può suggerire – se necessario – delle mere modifiche di forma. Il riconoscimento e l’esecuzione del lodo avviene poi secondo le modalità previste dalle convenzioni internazionali in materia.

4. Le imprese multinazionali

Attori importanti del diritto internazionale dell’economia, ancorché non sog-getti in senso formale, sono le multinazionali. Considerato che non esiste una no-zione univocamente condivisa del termine, nel linguaggio comune si definiscono imprese multinazionali o transnazionali le società che operano sul territorio di Stati diversi.

Gli studi delle Nazioni Unite hanno preso in esame quali società multinazio-nali “le imprese che possiedono o controllano mezzi di produzione o servizi fuori dal Paese dove sono stabilite” 6.

Dal punto di vista del diritto privato interno, tuttavia, alla società multinazio-nale non viene attribuita una personalità giuridica distinta e unitaria: la veste è quella di un gruppo di società, di diversa nazionalità, legate da rapporti di pro-prietà azionaria o da altre forme di controllo che consentono la tipica unitarietà di gestione del complesso della società ad opera di quella che esercita il controllo (società madre) 7.

La dicotomia tra unicità dell’impresa in senso economico-aziendale e la plura-lità dei soggetti giuridici che la compongono e, conseguentemente, delle leggi ap-plicabili, determina un grave ostacolo ad una regolamentazione unitaria ed effica-ce del fenomeno.

Le imprese multinazionali sono astrattamente in grado, con la loro attività, di

6 U.N., The Impact of Multinational Corporations on Development and on International Rela-tions, New York, 1974.

7 Cfr. PICONE-SACERDOTI, Diritto internazionale dell’economia, Milano, 1982, p. 699 ss., in spe-cie, p. 706.

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generare notevoli benefici per l’economia degli Stati in cui si trovino ad operare (basti pensare al potenziale aumento dei posti di lavoro, all’incremento della pro-duzione di beni e di servizi, alla diffusione del know how tecnologico). Tuttavia, i Paesi ospiti delle loro attività hanno tradizionalmente avanzato rispetto al feno-meno in esame riserve sia di ordine economico che politico.

La prassi mostra infatti come le multinazionali tendano spesso a perpetuare rapporti di dipendenza economica del Paese ospite e non contribuiscano adegua-tamente all’avvio di un processo di sviluppo interno autonomo, fondato sulla dif-fusione ed il trasferimento di tecnologie. Le multinazionali vengono altresì accu-sate di rimpatriare gli utili e gli altri proventi dell’investimento, anziché reinvestir-li in loco e di utilizzare processi produttivi ormai obsoleti ed inquinanti, al solo fine di beneficiare di una riduzione dei costi di produzione 8. Sotto il profilo poli-tico, invece, è stato spesso sollevato il timore di indebite ingerenze, in ragione del fatto che risulta particolarmente difficile per i Paesi ospiti contrapporsi a grandi imprese straniere i cui centri decisionali si trovano all’estero.

Durante gli anni ’70, l’attività delle imprese multinazionali è stata particolar-mente osteggiata dai Paesi in via di sviluppo, preoccupati che l’attività di grandi gruppi esteri potesse compromettere la loro aspirazione a regolare gli investimen-ti privati stranieri in modo da privilegiare il perseguimento dei loro obiettivi di politica socio-economica e di sviluppo.

I mutamenti strutturali intervenuti successivamente al 1990, insieme con la dif-fusione delle tecnologie informatiche, hanno progressivamente determinato un processo di liberalizzazione e di integrazione su scala globale delle diverse econo-mie nazionali. Tale nuovo quadro economico ha indotto i Paesi in via di sviluppo ad abbandonare la tradizionale ostilità verso gli investimenti privati stranieri e ad adottare politiche di liberalizzazione volte a privatizzare interi settori della loro economia anziché nazionalizzare o espropriare beni o attività produttive private.

Nel nuovo contesto economico globale, l’esigenza di disciplinare l’azione delle multinazionali sorge per la necessità di evitare che queste ultime, perseguendo la finalità di massimizzare i profitti, possano violare, oltre che il diritto di un Paese a perseguire autonomamente le proprie finalità di sviluppo, anche i diritti fonda-mentali dell’uomo e in particolare dei lavoratori, nonché i principi posti dal diritto interno ed internazionale a salvaguardia dell’ambiente. Alcuni Paesi in via di svi-luppo, al fine di attirare capitali stranieri, si sono resi infatti disponibili ad adottare o conservare legislazioni fortemente limitative dei diritti e delle garanzie sindacali dei lavoratori o a tollerare pratiche aberranti come lo sfruttamento del lavoro mi-norile o la schiavitù, consentendo in tal modo alle imprese multinazionali di bene-ficiare di un notevole abbassamento dei costi dei fattori di produzione 9.

8 Cfr. PICONE-SACERDOTI, Diritto internazionale dell’economia, cit., p. 704. 9 Al riguardo, v. altresì infra, Cap. XVII.

16 Il diritto internazionale dell’economia

Va inoltre segnalato come la mancanza di soggettività internazionale delle so-cietà multinazionali non consenta di vincolarle direttamente – attraverso lo stru-mento del trattato internazionale – al rispetto dei principi di global governance. Al contempo, nemmeno un trattato concluso tra Stati può garantire in assoluto il raggiungimento dell’obiettivo voluto, in considerazione del fatto che le multina-zionali riescono spesso a sfuggire al controllo statale, in ragione della non uni-formità delle leggi applicabili alle diverse componenti del gruppo.

Tutto ciò spiega come il ricorso a strumenti non vincolanti, quali i codici di condotta e le Guidelines – elaborati, a partire dagli anni ’70, sia da organizzazioni internazionali che da gruppi appartenenti al settore privato – sia stato considera-to la via più realistica per ottenere la cooperazione delle imprese 10. Peraltro, il crescente interesse dell’opinione pubblica per la tematica in esame spinge spesso le imprese multinazionali a far propri i codici di condotta elaborati in sede multi-laterale da organizzazioni intergovernative o, anche, ad approvare autonomi co-dici di condotta al fine di tutelare la propria immagine sul mercato.

Il Progetto di codice di condotta per le imprese transnazionali elaborato nel quadro delle Nazioni Unite 11 rappresenta, insieme ai c.d. Sullivan Principles adot-tati da alcune imprese multinazionali operanti in Sud Africa durante il periodo dell’apartheid 12, il primo tentativo di codificare standards di condotta per le im-prese multinazionali.

10 Con l’espressione “codice” o “codice di condotta” ci si riferisce generalmente ad un insieme di principi o di regole adottate da Stati, organizzazioni internazionali o privati. La natura giuridica ed i destinatari di questi atti non sono omogenei: il termine codice di condotta è utilizzato sia in riferi-mento a testi diretti a regolare la condotta di Stati o di organizzazioni internazionali in relazione alle attività delle multinazionali, sia ad atti che disciplinano direttamente la condotta di soggetti privati, quali le imprese multinazionali (cfr. SACERDOTI, Les codes de conduite sur les entreprises multina-tionales entre droit international et droit interne: mise en œuvre et effets juridiques, in Il diritto inter-nazionale al tempo della sua codificazione. Studi in onore di Roberto Ago, 1987, p. 263 ss.). In questo volume, sui codici di condotta elaborati in seno alla Banca mondiale ed alla stessa OCSE v. amplius, Parte III.

11 Nel 1972 il Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC), su richiesta del Segretario generale, ha istituito una Commissione sulle società transnazionali ed un apposito Centro di ricerca con l’obiettivo di studiare l’impatto dell’attività delle società transnazionali sull’economia globale. La Commissione ha elaborato, nel corso di un lavoro durato 15 anni, una serie di Progetti di Codice di condotta delle società transnazionali l’ultimo dei quali risale al 1990. A seguito dei considerevoli mutamenti intervenuti nella vita di relazione internazionale, la questione della elabo-razione di un Codice di condotta per le imprese multinazionali ha cessato di essere prioritaria nell’a-genda delle Nazioni Unite.

12 Redatti dal Reverendo Leon H. Sullivan, pastore protestante e membro del Board of trustees della General Motors, i Sullivan’s Principles raccomandavano alle imprese multinazionali, operanti in Sud Africa al tempo del regime segregazionista, di non separare i neri dai bianchi durante il lavo-ro o durante gli orari di mensa. Tali principi vennero recepiti all’epoca da molte imprese.

Il diritto internazionale dell’economia 17 

Il Progetto si divide in 4 parti relative: 1) alla disciplina delle attività delle im-prese multinazionali; 2) al trattamento delle stesse; 3) alla cooperazione intergo-vernativa ed infine 4) ai mezzi di attuazione. Recependo le istanze dei Paesi in via di sviluppo, l’ultima versione del Progetto, risalente al 1990 e non ancora appro-vata dall’Assemblea generale delle N.U., afferma l’obbligo delle imprese multina-zionali: a) di tener conto degli obiettivi e delle priorità di sviluppo degli Stati ospiti e di contribuire al loro perseguimento (par. 10); b) di astenersi dall’interfe-rire negli affari politici interni e nelle relazioni internazionali dello Stato ospitante (parr. 16-18).

Agli Stati ospiti degli investimenti viene riconosciuto il diritto di regolamentarne l’ingresso e la permanenza nel territorio statale, avuto riguardo ai loro obiettivi di sviluppo economico-sociale (par. 50) ed imposto l’obbligo di garantire un tratta-mento equo alle imprese investitrici (par. 51) nonché il dovere, in caso di espro-priazione, di riconoscere all’impresa espropriata un risarcimento “adeguato”, in conformità con le regole ed i principi giuridici applicabili (par. 57).

I più recenti esempi di codici di condotta prevedono meccanismi volti altresì ad indurre le imprese multinazionali a recepire i principi in essi contenuti.

Nel settore privato, codici di condotta sono stati elaborati sia da alcuni gruppi appartenenti alla c.d. società civile – per esempio, gli Amnesty International’s Human Rights Principles for Companies o i Workers Rights Consortium’s Model Code of Conduct – sia dalle stesse associazioni di categoria.

Anche in considerazione della sempre maggiore attenzione dell’opinione pub-blica a queste tematiche, infatti, alcune imprese coinvolte in gravi violazioni dei diritti fondamentali dei lavoratori – specie nel settore della industria petrolifera – hanno adottato, come si è già ricordato, codici di autodisciplina 13.

13 Emblematica, al riguardo, è la vicenda che ha interessato il Gruppo Shell in Nigeria. Dopo che, negli anni ’90, la prolungata gestione delle attività estrattive da parte del Gruppo, in violazione dei ba-silari diritti umani della popolazione locale, era stata tra le cause scatenanti della guerra civile conclu-sasi con la caduta del regime militare nigeriano, i rappresentanti delle industrie estrattive inglesi e sta-tunitensi hanno adottato, nel dicembre 2000, i Voluntary Principles on Security and Human Rights. In tale documento viene affermato il principio secondo cui la corretta gestione delle attività d’impresa comporta il necessario rispetto dei diritti umani e dei diritti dei lavoratori. Su questa linea si collocano le “Norms on the responsibilities of transnational corporations and other business enterprises”, adottate nel 2003 dalla UN Sub Commission on the promotion and protection of human rights ed aventi natura non vincolante, che affermano la responsabilità primaria delle imprese multinazionali e degli Stati na-zionali dell’impresa, relativamente alla promozione ed al rispetto dei diritti umani. (Cfr. E/CN.4/Sub. 2/2003/12/REV2, Commission on Human Rights, Sub-Commission on the Protection of Human Rights, Draft Human Rights Principles and Responsibilities for Transnational Corporations and other Business Enterprises, del 26 agosto 2003). Al riguardo, amplius, v. infra, Cap. XVII.

18 Il diritto internazionale dell’economia

Titolo del capitolo 19

I Vertici economici

SOMMARIO: Premessa. – 1. La partnership del Gruppo G-7/G-8. – 2. Struttura organizzativa e processo decisionale dei Vertici G-7/G-8. – 3. Rapporti con altri gruppi di Stati e con le organizzazioni internazionali. Il G-20.

Premessa

I Vertici o Conferenze al vertice sono degli incontri informali tra i rappresen-tanti di due o più Stati, che si distinguono dalle altre forme di cooperazione in-ternazionale per le seguenti caratteristiche:

1. il massimo livello di rappresentanza dei partecipanti (capi di Stato o di go-verno, ministri delegati);

2. la condivisione tra i partecipanti di principi, finalità, interessi; 3. l’utilizzo del metodo della concertazione. Al fine di promuovere la realizza-

zione degli interessi dei partners, nell’ambito di un quadro di principi condivisi, viene espletata un’attività collettiva diretta ad armonizzare le singole posizioni statali.

Le riunioni sono generalmente caratterizzate dalla informalità e dalla flessibili-tà del metodo operativo, non risultando vincolate a forme procedurali fisse.

I Vertici possono essere istituiti nel quadro di una organizzazione internazio-nale (come, ad esempio, il Consiglio europeo in seno all’allora Comunità euro-pea) oppure possono interessare esclusivamente un club di Stati 1; in quest’ultimo caso, gli Stati partners determinano le materie oggetto dei colloqui (si distinguono così i vertici militari, i vertici ideologici, i vertici economici).

Vengono definite “Conferenze istituzionalizzate” quei vertici che, pur non ve-

1 Cfr. MALAGUTI, Crisi dei mercati finanziari e diritto internazionale, Milano, 2003; MUNARI, Il G-8 nel sistema delle relazioni tra Stati e nel diritto internazionale: uno strumento ancora attuale?, in La Comunità internazionale, 2001, pp. 413-434; PANEBIANCO-DI STASI, L’euro G-8, Torino, 2001; ROSANO, La cooperazione al Vertice, in TOSATO (a cura di), Contributi allo studio del diritto interna-zionale dell’economia, Rimini, 1993, p. 76 ss.

II

20 Il diritto internazionale dell’economia

nendo riuniti in base ad un accordo internazionale né disciplinati da uno stru-mento statutario, si contraddistinguono per la regolarità degli incontri ed il ri-spetto di specifiche procedure, precisate per prassi.

I Vertici, come le Conferenze istituzionalizzate, non sono dotati di una per-sonalità giuridica internazionale distinta da quella degli Stati che vi partecipano: ne consegue che gli atti emanati durante tali riunioni sono una manifestazione collettiva della volontà dei singoli Stati partners e sono imputabili a ciascuno di essi 2.

I Vertici G-7/G-8, riconducibili secondo alcuni autori alla categoria delle Con-ferenze istituzionalizzate, hanno assunto una innegabile importanza nel sistema delle relazioni internazionali.

1. La partnership del Gruppo G-7/G-8

Il Vertice G-7 trae la propria origine da esigenze storiche contingenti: negli anni ’70, nessuno Stato sembrava in grado di offrire risposte adeguate al crollo del sistema della parità aurea stabilito a Bretton Woods e alla collegata crisi pe-trolifera.

D’altra parte, gli interventi della BM e del FMI non avevano portato risultati migliori.

L’ideazione del G-7 viene fatta risalire all’aprile 1973, quando i ministri finan-ziari di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania 3 si riunirono per affron-tare la spinosa questione della riforma del sistema monetario internazionale; gli incontri, tenutisi presso la Biblioteca della Casa Bianca (da qui il nome di Library Group), vennero condotti in un clima di informalità, non essendo previsto né un ordine del giorno né documenti preparatori ufficiali a cui fare riferimento (“una chiacchierata di fronte al caminetto”).

Anche in una serie di successivi incontri segreti le potenze cercarono, in via preliminare, un coordinamento delle rispettive posizioni.

Il primo summit ufficiale venne tenuto a Rambouillet nel 1975 e vide la parte-cipazione di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Giappone e dell’Ita-lia, considerata un Paese dalla comprovata capacità di mediazione tra sistemi di-versi; da allora il G-7/G-8 ha una cadenza annuale.

La formula a sette venne raggiunta, con l’invito del Canada, nel successivo Vertice di Portorico.

2 PANEBIANCO-DI STASI, Il G-8 nel nuovo ordinamento di organizzazione internazionale contem-poranea: l’euro G-8, in PANEBIANCO-DI STASI, Il G-8, cit., p. 69 ss.; DI STASI, Il G-8 come sistema di au-tonomia, equilibrio ed interdipendenza tra Stati, Organizzazioni e raggruppamenti di Stati, ivi, p. 84 ss.

3 Rispettivamente Shultz, Barber, Giscard d’Estaing e Schmidt.

I Vertici economici 21 

A partire dal Vertice di Londra (1977), la Comunità europea è stata rappre-sentata in seno al G-7 dal Presidente della Commissione; inizialmente limitata alle sole materia di competenza esclusiva, la partecipazione della (allora) Comunità è stata estesa anche alle riunioni del Gruppo vertenti su materie che rientrano tra le c.d. competenze concorrenti (ovvero, le materie in cui le competenze vengono ripartite tra Comunità/Unione e Stati membri nel rispetto dei principi di sussidia-rietà e proporzionalità).

L’integrazione delle (allora) Comunità europee nel Gruppo dei 7 costituì una soluzione molto opportuna: venne data visibilità sul piano internazionale al sog-getto Comunità europee ma, soprattutto, venne data una legittimazione in chiave comunitaria alle iniziative promosse in occasione dei Vertici evitando, allo stesso tempo, fratture tra gli Stati comunitari 4.

Tenendo conto dell’esigenza di coordinamento tra gli Stati membri delle Co-munità, venne inaugurata la prassi di far precedere il summit G-7 da una riunione del Consiglio europeo, in modo da elaborare una posizione comune sui punti all’ordine del giorno del summit; il Presidente della Commissione, inoltre, assun-se il compito di riferire con regolarità al Consiglio dei ministri sia sull’andamento dei lavori preparatori che sui risultati del G-7 5.

Il confronto avviato nel 1991 con la Federazione russa, in forma di dialogo Post Summit, ha portato alla nascita del G-8.

Durante il Vertice di Napoli del 1994, infatti, la Federazione russa è stata invi-tata a partecipare ai Summit di carattere politico (i c.d. Political eight) come non full member.

Dopo essere stata ammessa alla trattazione delle questioni economico-finan-ziarie durante i Vertici di Denver (1997) e di Birmingham (1998), la Federazione russa ha acquisito la piena membership del G-8 in occasione del Vertice di Kana-naskis del 2002 e, a partire dal 2006, è stata inserita nella rotazione delle presi-denze di turno.

Il G-7 continua a funzionare parallelamente ai Vertici annuali G-8: la Federa-zione russa, anche in ragione della instabilità economica e democratica, non viene ancora ammessa a partecipare ai vertici ministeriali in materia finanziaria, vertenti su questioni prettamente tecniche 6.

4 In questo senso, ROSANO, La cooperazione al Vertice nell’attività dei c.d. Gruppi G-5 e G-7, cit., p. 119; MUNARI, Il G-8 nel sistema delle relazioni tra Stati e nel diritto internazionale, cit., p. 416.

5 Cfr. ROSANO, La cooperazione al Vertice nell’attività dei c.d. Gruppi G-5 e G-7, cit., p. 120. 6 Nel 2014, in conseguenza dell’intervento in Ucraina e dell’annessione della Crimea, la Russia è

stata sospesa dalla partecipazione ai Vertici annuali del G-8: la riunione che avrebbe dovuto essere ospitata dalla Russia a Sochi, si è tenuta infatti a Bruxelles il 4 e 5 giugno 2014, secondo la formula G-7.

22 Il diritto internazionale dell’economia

2. Struttura organizzativa e processo decisionale dei Vertici G-7/G-8

Il G-8 è un club di Stati – raggruppati in considerazione della leadership economi-ca e politica a livello mondiale – la cui struttura, secondo alcuni autori 7, rispecchia la volontà dei partners di assumere un ruolo guida nella c.d. governance mondiale.

Nei documenti ufficiali, i partners riaffermano la condivisione (sostanziale o di-chiarata) non soltanto degli indirizzi economici generali, ma anche di alcuni valori politici, come il rispetto dei diritti dell’uomo, la democrazia e lo stato di diritto.

In virtù del progressivo allargamento delle tematiche di interesse del Gruppo, l’originaria struttura ha subito un processo di revisione che si è concretizzato nel-la creazione di una rete di sottogruppi collegati al summit.

Sin dal 1982, al vertice annuale dei capi di Stato e di governo sono stati affian-cati dei vertici ministeriali a cui, a seconda della materia trattata, sono chiamati a partecipare i ministri delle finanze, della giustizia o dell’ambiente di ciascuno Sta-to del gruppo.

Tali incontri non hanno soltanto una funzione preparatoria dei vertici G-7/G-8, ma consentono altresì un raccordo informale periodico tra i competenti dicasteri degli Stati partecipanti.

Sempre a livello ministeriale, non è infrequente l’organizzazione di incontri ad hoc per discutere e trovare un coordinamento su questioni contingenti, in ordine alle quali sia opportuno individuare una posizione comune.

Sono stati, altresì, istituiti gruppi di lavoro (c.d. task forces) per discutere e dibat-tere dei problemi più complessi, prima di affrontarli in occasione dei vertici ufficiali: si ricordano, ad esempio, le task forces in materia di riciclaggio del denaro derivante dal traffico di stupefacenti, sicurezza nel settore nucleare, crimine organizzato.

Dalla prassi ultraventennale del Vertice risulta che il processo decisionale del G-8 consta di alcune fasi: la convocazione, i lavori preparatori, l’esecuzione dei de-liberati e la verifica dei risultati (follow up).

Al termine di ciascuna riunione, i capi di Stato o di governo dispongono la convocazione della riunione successiva e individuano lo Stato ospite, titolare di un limitato potere di iniziativa circa l’individuazione dei temi del futuro vertice.

I G-8 vengono generalmente preceduti da una intensa attività preparatoria condotta dai rappresentanti personali o sherpa, ciascuno dei quali agisce con l’au-silio di due vice-sherpa (rispettivamente, per gli affari esteri e le questioni finan-ziarie) e del rispettivo staff.

Gli sherpa non si limitano a individuare gli argomenti che saranno l’oggetto dei successivi incontri al vertice, ma il loro lavoro negoziale sfocia nella prepara-zione di una bozza dell’atto finale che verrà poi discusso nel corso del vertice.

7 PANEBIANCO-DI STASI, Il G8 tra autonomia collettiva e governance “istituzionale”, in PANEBIAN-

CO-DI STASI, L’euro G-8, cit., p. 84.

I Vertici economici 23 

I G-7/G-8 si concludono con l’adozione di atti finali, definiti Dichiarazioni fi-nali o “Communiqué”, i quali possono essere inquadrati nel novero delle dichia-razioni di principi non dissimili da quelle adottate al termine delle conferenze di-plomatiche.

Tali dichiarazioni, redatte in forma di best endeavours o best efforts, non im-pongono agli Stati che le hanno collettivamente formulate obblighi se non quello di ispirare la loro condotta al principio generale di buona fede.

I Communiqués, tuttavia, svolgono una importante funzione informativa: essi, cioè, rendono note le posizioni che gli Stati del Gruppo assumeranno all’interno dei diversi fori o contesti internazionali interessati, in un’ottica rivolta a condizio-narne l’agenda.

Esprimendo l’opinio iuris di Paesi molto influenti dal punto di vista economi-co e politico (c.d. top law), inoltre, le Dichiarazioni finali contribuiscono alla de-finizione di un nuovo sistema di valori condiviso e, anche per questa via, allo svi-luppo del diritto internazionale generale.

Va infine aggiunto che, aldilà del carattere vincolante o meno dei Communi-qués, gli Stati partecipanti, anche per non compromettere la loro credibilità sul piano internazionale, tendono a conformarsi, nelle concrete iniziative successiva-mente avviate, ai seppur generali impegni assunti.

Tale atteggiamento viene favorito dalla circostanza che, nelle riunioni succes-sive, viene svolto un monitoraggio sullo stato di attuazione delle precedenti Di-chiarazioni finali (c.d. meccanismo di follow up) 8.

3. Rapporti con altri gruppi di Stati e con le organizzazioni interna-zionali. Il G-20

Nel corso degli anni, sono state istituite anche altre forme di cooperazione in-ternazionale che hanno tratto spunto dalla esperienza del G-7/G-8.

Il G-15, per esempio, annovera tra i suoi componenti Algeria, Argentina Cile, Egitto, Giamaica, Kenia, India, Indonesia, Iran, Malesia, Nigeria, Perù, Senegal, Sri Lanka, Venezuela, Zimbabwe, Brasile e Messico, collocandosi in posizione antagonista rispetto al G-8: istituito nel 1989, è composto prevalentemente da Stati appartenenti al Movimento dei non allineati e persegue la finalità di rappre-sentare le istanze del più ampio gruppo dei Paesi meno sviluppati.

8 Va segnalata la proficua collaborazione, sviluppatasi negli anni, tra G-7/G-8 e FMI in partico-lare in materia di stabilizzazione dei tassi di cambio e di ristrutturazione del debito dei PVS. Il G-8 ha elaborato e pubblicato studi e pareri autorevoli nei vari settori della cooperazione internazionale, riprendendo e consolidando principi elaborati dalle organizzazioni internazionali o, viceversa, pro-muovendo esso stesso lo sviluppo di nuove regole internazionali.

24 Il diritto internazionale dell’economia

La volontà del G-8, di adottare una politica fondata sul dialogo più aperta alle esigenze del c.d. Sud del mondo, ha favorito l’istituzione, durante il Vertice di Colonia del 1999, di un foro dei ministri delle finanze e dei governatori delle Banche centrali allargato: il c.d. G-20, il cui Meeting inaugurale si è tenuto a Ber-lino, il 15 e 16 dicembre 1999.

Durante tali incontri, ai membri originari del G-8 si aggiungono i rappresen-tanti dell’Unione europea e di altri undici Stati, appartenenti a diverse aree geo-economiche: Argentina, Brasile e Messico per l’America; Cina, India, Indonesia, Corea del Sud, Arabia Saudita e Turchia per l’Asia; Sud Africa ed Australia.

L’azione dei 20 è una attività concertativa che cerca di superare la logica della contrapposizione tra G-8 e “non G-8 countries”, al fine di promuovere uno sviluppo equilibrato della economia mondiale, attraverso uno stretto dialogo con i rappresen-tanti del FMI, della Banca mondiale e della Unione europea. Alle riunioni del G-20 partecipano, infatti, il Direttore generale del Fondo, il Presidente della Banca mon-diale nonché i Presidenti di alcuni Comitati del Fondo e della Banca (il Development Committee e l’International Monetary and Financial Committee), il Presidente del-l’Unione europea e il Governatore della BCE. Il numero ed il peso economico com-plessivo dei Paesi partecipanti, che rappresentano i 2/3 del commercio mondiale e quasi il 90% del PIL mondiale, fanno del G-20 un foro altamente credibile e con un elevato livello di legittimazione in relazione all’attività di indirizzo del sistema finan-ziario internazionale e, in una direzione più ampia, dell’economia globale.

Come i Communiqués, anche gli Statements adottati al termine dei lavori del G-20 hanno un mero valore raccomandatorio.

La funzione del G-20 quale foro in cui mediare, attraverso la concertazione, interessi nazionali con interessi e valori universalmente condivisi, è complementa-re al ruolo svolto dalle organizzazioni internazionali.

Come già il G-8, anche il G-20 si fa carico del compito di stimolare e di indi-rizzare l’attività delle organizzazioni internazionali economiche: basti pensare alle iniziative assunte, nell’ambito dei vertici del 2009 e 2010, relativamente al poten-ziamento del ruolo del Fondo monetario internazionale 9.

9 In particolare, all’iniziativa del G-20 si deve infatti il recente aumento della c.d. lending capaci-ty del Fondo monetario internazionale, per prestiti non agevolati, oggetto del IV emendamento; la revisione delle quote di partecipazione al Fondo, attuata a partire dal 1° gennaio 2011 e l’istituzione di uno sportello finanziario agevolato per prestiti a meri fini precauzionali, la c.d. Flexible Credit Line (v. infra, Cap. V). Il programma dei lavori del G-20 è attualmente articolato lungo tre direzioni principali: a) il coordinamento di azioni macro-economiche per rivitalizzare l’economia globale e stimolare crescita ed occupazione; b) la riforma ed il miglioramento del settore finanziario; c) la ri-forma delle istituzioni finanziarie internazionali. Il Final Statement del G-20, ospitato a Hangzhou, in Cina, il 4 e il 5 settembre 2016, individua quali principali obiettivi comuni degli Stati partecipan-ti: a) la lotta all’evasione fiscale (con l’ausilio di una black-list fornita dall’OCSE); b) la promozione del commercio internazionale e degli investimenti, con una ferma opposizione ad ogni pratica pro-tezionistica; c) l’adozione di stimoli fiscali per promuovere la crescita economica; d) il rafforzamen-to delle misure di sostegno in favore dei rifugiati.

Titolo del capitolo 25

L’ordine economico internazionale

SOMMARIO: 1. L’istituzionalizzazione dell’ordine economico internazionale nel II dopoguerra. – 2. Le rivendicazioni dei Paesi in via di sviluppo. – 3. L’azione dei PVS nell’Assemblea ge-nerale delle Nazioni Unite: le risoluzioni concernenti l’instaurazione di un Nuovo Ordine Economico Internazionale. – 4. Lo sfruttamento delle risorse naturali nel NOEI: il princi-pio della sovranità permanente sulle risorse naturali. – 5. Segue: il principio del patrimonio comune dell’umanità.

1. L’istituzionalizzazione dell’ordine economico internazionale nel II dopoguerra

Le relazioni economiche tra gli Stati, dagli scambi commerciali ai rapporti di cambio, hanno sempre oscillato tra forme di protezionismo e forme di liberismo, ispirandosi ai principi vigenti nelle diverse epoche storiche. Il periodo tra la se-conda metà del XIX secolo e il 1914, data d’inizio del 1° conflitto mondiale, regi-stra una sostanziale astensione degli Stati dall’intervenire per regolamentare il commercio internazionale, lasciando libero spazio alle regole endogene del mer-cato secondo lo schema classico del liberismo. Gli anni successivi sono invece marcati da un forte protezionismo, realizzato attraverso un intervento mirato dei governi in economia, sia all’interno che nei rapporti esterni dello Stato.

Nel periodo successivo al secondo conflitto mondiale, fino ai giorni nostri, le relazioni economiche internazionali si sono ispirate a principi neoliberisti e, però, di un liberismo c.d. garantito nel quale il libero funzionamento del mercato viene controllato, nel suo sviluppo dinamico, da enti e/o organizzazioni internazionali chiamati a disciplinare l’attività degli Stati e degli altri operatori economici, attra-verso meccanismi istituzionalizzati di produzione di regole di condotta. Si passa, cioè, ad una fase strutturale dei rapporti di scambio che dà vita ad un ordine eco-nomico internazionale, definito proprio a partire dalla fine della seconda guerra mondiale.

Alla fine della seconda guerra mondiale, i Paesi economicamente più forti – ossia le due potenze anglosassoni, Stati Uniti e Gran Bretagna – cominciarono a

III

26 Il diritto internazionale dell’economia

pensare alla possibilità di costruire un nuovo sistema complessivo di rapporti in-ternazionali che spaziasse dalla sfera politica a quella economica, finanziaria e commerciale e fosse in grado di assicurare nel lungo periodo un equilibrio tra le varie potenze, evitando i rischi di nuovi conflitti militari su scala mondiale. La spina dorsale di questa architettura istituzionale di rapporti internazionali sareb-be stata un’organizzazione politica a vocazione universale la cui struttura era stata tracciata durante gli anni della guerra, in occasione di incontri bilaterali tra il Primo ministro inglese Churchill e il Presidente americano Roosevelt. A questo progetto furono successivamente aggregati, già durante gli ultimi anni del conflit-to, altri Paesi che si riunirono poi a San Francisco, nel 1945, per firmare la Carta delle Nazioni Unite in qualità di membri originari.

Tuttavia, l’ambizione di tali Paesi era quella di creare istituzioni che operasse-ro anche nella sfera economica e finanziaria: pertanto, ancor prima che nascesse-ro le Nazioni Unite e che la guerra fosse terminata, nel 1944, a conclusione di una conferenza convocata a Bretton Woods dagli Stati Uniti alla quale avevano parte-cipato 43 Stati, furono sottoscritti due accordi distinti, che diedero vita a due or-ganizzazioni economico-finanziarie internazionali, a vocazione tendenzialmente universale proprio come le Nazioni Unite: il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale.

Il FMI avrebbe dovuto indirizzare e controllare la condotta degli Stati membri relativamente al regime dei cambi, per evitare che l’eccessiva variabilità dei tassi di cambio potesse nuocere allo sviluppo equilibrato del commercio internaziona-le. Nello statuto del FMI, infatti, tra gli obiettivi principali dell’organizzazione fi-gura quello di favorire il libero sviluppo del commercio internazionale.

La BM aveva invece l’obiettivo di mettere fondi a disposizione dei Paesi più colpiti dal secondo conflitto mondiale, per aiutarne la ricostruzione. Tale funzio-ne originaria della Banca non fu però espletata, in quanto la ricostruzione dei Paesi europei, tra i quali l’Italia, fu sostenuta dagli Stati Uniti sul piano bilaterale, attraverso il Piano Marshall. Una funzione secondaria della Banca, divenuta poi l’attività principale dell’ente, era quella di aiutare lo sviluppo economico dei Pae-si membri, anche attraverso il sostegno agli investimenti privati, per consentire loro di accedere al sistema del commercio internazionale.

Già nel 1944 la delineata architettura di rapporti internazionali prefigurava l’esistenza di una organizzazione internazionale del commercio, che ponesse le regole per uno sviluppo in senso liberista degli scambi commerciali.

La nuova organizzazione internazionale avrebbe dovuto disciplinare gli scam-bi commerciali tra gli Stati nella prospettiva di un’abolizione progressiva ma irre-versibile delle barriere doganali, dei dazi e degli altri ostacoli tariffari alla libera circolazione delle merci. Il relativo progetto era stato fortemente voluto dagli Sta-ti Uniti, che avevano presentato in tal senso una proposta in seno alle Nazioni Unite. La proposta statunitense fu alla base delle discussioni che si svolsero nella

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Conferenza organizzata dalle Nazioni Unite a L’Avana, nel 1947, per dar vita ad una organizzazione intergovernativa che avrebbe operato nel settore del commer-cio internazionale e per lo sviluppo di condizioni di pieno impiego.

In occasione di tale Conferenza, gli allora 53 Stati membri delle Nazioni Unite sottoscrissero la Carta istitutiva della International Trade Organization (ITO), che può essere considerata l’antenata dell’attuale Organizzazione mondiale del com-mercio. L’Organizzazione internazionale del commercio, però, non vide mai la luce per la decisione dell’esecutivo statunitense di non sottoporre lo statuto al Senato per la ratifica. Entrò invece in vigore, peraltro solo in via provvisoria 1, quella parte di articoli che riguardava la liberalizzazione degli scambi di merci. Ancora una volta furono gli Stati Uniti, nelle more della ratifica della Carta del-l’ITO, a premere affinché quella parte dello statuto, che prevedeva la progressiva liberalizzazione degli scambi di merci, fosse estrapolata dal contesto generale e sottoposta all’approvazione degli Stati firmatari. Nel 1947, 23 Stati avevano già aderito a questo gruppo di norme che costituivano il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade), dando vita a quella regolamentazione internazionale del commercio di merci rimasta in vigore fino al 1994, quando il GATT è stato “sosti-tuito” dalla Organizzazione mondiale del commercio.

2. Le rivendicazioni dei Paesi in via di sviluppo

L’ordine economico tracciato nel secondo dopoguerra ed ispirato al neo-libe-rismo non è stato, per molto tempo, realmente universale. Per molti anni si è avu-ta una profonda divisione tra Paesi ad economia di mercato, che si riconoscevano nella leadership statunitense e i Paesi ad economia socialista, appartenenti al bloc-co sovietico. Negli anni ’90, con la dissoluzione dell’URSS, tale divisione è stata superata e i Paesi ex socialisti si sono progressivamente inseriti nel sistema capita-lista di produzione, realizzando una comunità internazionale relativamente omo-genea che si riconosce nei principi neo-liberisti. Nell’ambito della comunità inter-nazionale, che si riconosce in regole tendenzialmente uniformi all’interno del si-stema dei rapporti economici, una posizione particolare è tuttora mantenuta dai Paesi in via di sviluppo (PVS). Oggi tale categoria è al suo interno abbastanza ete-rogenea rispetto a quando si è costituita, riconoscendosi intorno ad un nucleo di rivendicazioni e di interessi comuni, negli anni ’60, a seguito al processo di deco-lonizzazione avviato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite con la risolu-zione n. 1514, del 14 dicembre 1960, contenente la Dichiarazione sulla conces-sione dell’indipendenza ai Paesi e popoli coloniali.

1 Sull’argomento, v. infra, Cap. XIX.

28 Il diritto internazionale dell’economia

Soprattutto nei primi anni di indipendenza, i Paesi in via di sviluppo erano in molti casi Stati afflitti da guerre intestine, talora finanziate da Stati stranieri. Uno dei principi della concezione sovietica del diritto internazionale era, per esempio, quello dell’intervento anche armato a favore dei movimenti di liberazione nazio-nale. Naturalmente scegliere quale movimento appoggiare significava creare poi, una volta che il conflitto interno si fosse risolto, un rapporto privilegiato anche nel settore economico con il governo del Paese. L’intervento nelle lotte intestine o nelle lotte per l’indipendenza sono state spesso lo strumento con il quale le po-tenze del primo mondo hanno cercato di attrarre nella propria sfera di influenza gli Stati di nuova indipendenza.

Conseguita l’indipendenza, questi Paesi dovevano provvedere a costruire il proprio tessuto economico, politico e istituzionale, necessitando perciò dell’aiuto esterno e, soprattutto, dell’aiuto della ex-madrepatria. Pur essendo talora ricchi in risorse naturali, i Paesi di nuova indipendenza non avevano né i mezzi econo-mici né gli strumenti tecnici per sfruttare tali eventuali ricchezze ed avviare un ciclo virtuoso di sviluppo. La richiesta di aiuto esterno si trasformava spesso in una subordinazione nei confronti della ex-madrepatria: si passava, così, da un ti-po di colonialismo politico ad una forma di colonialismo economico.

I Paesi di nuova indipendenza presero, tuttavia, progressivamente coscienza della peculiare diversità delle loro esigenze e di come i principi e le regole del di-ritto consuetudinario preesistenti non fossero in grado di tutelare adeguatamente tali loro esigenze e/o interessi specifici. Lungo tutto l’arco degli anni ’60 e per buona parte degli anni ’70 i PVS, con il sostegno significativo dei Paesi socialisti, hanno portato avanti rivendicazioni riguardanti la trasformazione di molte regole e istituti del diritto internazionale consuetudinario, prevalentemente nel settore economico.

Si trattava, nella sostanza, di formulare nuovi principi, che indirizzassero la condotta degli Stati nei rapporti economici, aggregando intorno ad essi un con-senso ed una prassi sufficientemente condivisi.

3. L’azione dei PVS nell’Assemblea generale delle Nazioni Unite: le risoluzioni concernenti l’instaurazione di un Nuovo Ordine Eco-nomico Internazionale

Lo sforzo dei PVS, finalizzato a modificare (almeno una parte del) il diritto in-ternazionale economico, si è naturalmente incanalato attraverso l’attività dell’As-semblea generale delle Nazioni Unite e ciò per due ordini di motivi. La prima ra-gione era costituita dal fatto che, all’interno dell’Assemblea generale, i PVS e i Paesi socialisti che tradizionalmente li sostenevano rappresentavano la maggioranza e potevano, dunque, far passare le loro proposte con una relativa facilità (all’in-

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terno dell’Assemblea generale, com’è noto, gli Stati sono rappresentati paritaria-mente, secondo il principio “uno Stato, un voto”). La seconda ragione era data dalla circostanza che, nel complessivo disegno istituzionale tracciato alla fine del-la seconda guerra mondiale, le varie istituzioni multilaterali finanziarie ed eco-nomiche erano destinate ad operare in sincronia con le Nazioni Unite. La Carta contiene com’è noto una parte sulla cooperazione economica e sociale, il Cap. IX, ed ha istituito al suo interno un organo con competenze specifiche, il Consiglio economico e sociale. L’idea di fondo era che l’elaborazione di principi e linee gui-da in materia avvenisse in sede ONU e la realizzazione della fase operativa fosse affidata alle istituzioni tecniche collegate, FMI e BM.

Si riteneva infatti che l’obiettivo prioritario dell’organizzazione universale po-litica, le Nazioni Unite, costituito dal mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, potesse essere realizzato, altresì, sviluppando la cooperazione in-ternazionale per la soluzione dei problemi di carattere economico e sociale, oltre che culturale ed umanitario, dei Paesi membri. Il Preambolo e l’art. 1 della Carta di San Francisco riaffermano l’idea che i fini dell’organizzazione si realizzano promuovendo la cultura del rispetto dei diritti umani e sviluppando l’autodeter-minazione dei popoli, ma anche assicurando lo sviluppo economico e sociale del-le diverse componenti della comunità internazionale. Tale obiettivo trova una espressione normativa più compiuta negli artt. 55 e 56 della Carta, inseriti nel Cap. IX concernente la cooperazione economica e sociale.

Gli obblighi assunti dagli Stati membri, sulla base della Carta, relativamente alla cooperazione in campo economico e sociale sono, tuttavia, piuttosto fluidi: l’art. 56 sancisce un generico impegno degli Stati membri a sviluppare azioni in-dividuali o concertate per raggiungere il fine, indicato dall’art. 55, di creare con-dizioni di stabilità e benessere generalizzate quale indispensabile presupposto per rapporti pacifici ed amichevoli tra le Nazioni. Si tratta di obblighi che potremmo definire di risultato (laddove il risultato rimane, peraltro, assai generico), non cer-to di obblighi a contenuto specifico, garantiti dalla stessa Organizzazione. Tali più puntuali obblighi di condotta avrebbero dovuto essere precisati nel quadro delle organizzazioni a carattere tecnico, quali il FMI, la BM o l’ITO e altri istituti specializzati quali l’OMS o la FAO, che avrebbero dovuto sostenere l’azione delle Nazioni Unite nel settore economico e sociale.

Per tali ragioni le Nazioni Unite, e in particolare l’Assemblea generale, rappre-sentavano il foro privilegiato nel quale eventuali proposte di modifica dei principi generali regolatori delle relazioni economiche tra gli Stati avrebbero potuto esse-re avanzate. I PVS hanno pertanto promosso l’adozione, da parte dell’Assemblea, di alcune solenni dichiarazioni di principi in materia. Tali Dichiarazioni sono sta-te predisposte dall’UNCTAD, un organo sussidiario creato dall’Assemblea nel 1964 (infra, Cap. XX) con il compito di valutare e proporre soluzioni normative, in particolare nel settore del commercio internazionale, che tenessero adeguata-

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mente conto degli interessi dei PVS e delle loro esigenze di sviluppo. Tra tali Di-chiarazioni, particolarmente significativa è quella relativa alla instaurazione del c.d. Nuovo Ordine Economico Internazionale 2, contenente una proposta formale di revisione delle regole che fino a quel momento avevano indirizzato la condotta degli Stati nel settore dei rapporti economici, con l’obiettivo di “rifondare” un ordine economico internazionale basato sull’equità, sull’uguaglianza sostanziale dei membri, sull’interdipendenza e sulla cooperazione fra gli Stati.

A questa prima Dichiarazione di principi fece seguito un’altra importante riso-luzione dell’Assemblea generale, contenente la Carta sui diritti e doveri economi-ci degli Stati 3, una sorta di costituzione del proposto nuovo ordine economico internazionale. La Carta rappresenta un ulteriore, più specifico tentativo di pro-porre nuove regole di condotta nel settore delle relazioni economiche fra gli Stati, basate tra l’altro, significativamente, sul principio per il quale la protezione e la valorizzazione dell’ambiente nell’interesse delle generazioni presenti e future è una responsabilità comune degli Stati, in conformità con la quale le politiche na-zionali di sviluppo devono essere formulate ed attuate. Tra i principi più signifi-cativi enunciati nella Carta, figurano quelli relativi allo sfruttamento delle risorse economiche del pianeta.

4. Lo sfruttamento delle risorse naturali nel NOEI: il principio della sovranità permanente sulle risorse naturali

La Carta dei diritti e doveri economici degli Stati si preoccupa di definire le modalità di accesso e di utilizzo delle risorse economiche globali, riproducibili e non riproducibili, distinguendo tra quelle che ricadono sotto la sovranità o la giu-risdizione esclusiva dei singoli Stati e risorse e spazi comuni, collocati al di là del-le giurisdizioni nazionali, quali i fondi marini internazionali e le relative risorse minerarie ma anche altre aree e risorse. Nella fase storica in cui si sviluppa il Nuovo Ordine Economico Internazionale, infatti, grazie allo sforzo tecnologico sovietico e statunitense, sembravano aprirsi nuovi spazi al di là di quelli terrestri: nel periodo della “conquista” della luna (è del 1967 l’impronta di un essere uma-no sul suolo lunare), si era convinti che le risorse del satellite avrebbero potuto essere sfruttate in breve tempo con significativi benefici per l’umanità intera.

2 Cfr. la risoluzione dell’Assemblea generale n. 3201, adottata per consensus il 1° maggio 1974, insieme con la risoluzione n. 3202 contenente il Programma d’azione concernente l’instaurazione di un Nuovo Ordine Economico Internazionale.

3 Adottata con la risoluzione del 12 dicembre 1974, n. 3281, la Carta dei diritti e doveri econo-mici degli Stati raccolse 120 voti favorevoli, 6 contrari (gli USA e altri Paesi industrializzati) e 10 astensioni (tra le quali, quella dell’Italia).

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Relativamente all’uso delle risorse collocate all’interno dello Stato o comun-que rientranti nella giurisdizione statale esclusiva, la Carta sottoscriveva il princi-pio della sovranità permanente e completa dello Stato sulle proprie ricchezze na-turali, implicante il diritto per lo Stato medesimo di utilizzarle e disporne in piena libertà. L’applicazione di tale principio, enunciato in una serie di risoluzioni del-l’Assemblea generale e del Consiglio economico e sociale già a partire dal 1962 4, comportava che lo Stato perseguisse in piena libertà la ricerca, la valorizzazione e l’utilizzazione delle risorse situate entro i confini nazionali, compresi il fondo ed il sottosuolo marini entro i limiti della giurisdizione statale, e che l’importazione dei capitali stranieri necessari a tali fini fosse soggetta alle leggi nazionali oltre che al diritto internazionale.

Il principio della sovranità permanente dello Stato sulle proprie risorse natu-rali ha giuocato un ruolo decisivo nella disciplina degli investimenti stranieri, con particolare riguardo alla questione del risarcimento dovuto allo straniero investi-tore a fronte di misure di nazionalizzazione, espropriazione o confisca adottate dallo Stato ospite dell’investimento 5. È noto come, in conformità con una conso-lidata regola consuetudinaria, lo Stato territoriale che adotti misure di confisca, requisizione e nazionalizzazione nei confronti di beni o proprietà di privati stra-nieri, debba corrispondere allo straniero un risarcimento che, secondo la formula coniata dall’allora Segretario di Stato Cordell Hull, dovrebbe essere “pronto, adeguato ed effettivo”. I PVS non mettevano in dubbio che la misura restrittiva della proprietà privata straniera dovesse fondarsi su motivi di pubblica utilità o di interesse nazionale né che, in questi casi, allo straniero fosse dovuto un indenniz-zo appropriato. Essi ritenevano però che l’adeguatezza dell’indennizzo dovesse essere calcolata tenendo presente non soltanto il valore di mercato del bene con-fiscato, ma anche altri fattori, quali ad esempio il fatto che lo straniero investitore avesse realizzato, negli anni dell’investimento, un indebito arricchimento a spese dello Stato territoriale. I PVS sostenevano altresì che nel computo dell’indennizzo fosse necessario tener conto delle esigenze specifiche dello Stato territoriale, so-prattutto quando la misura restrittiva fosse una nazionalizzazione. La nazionaliz-zazione si distingue infatti da altre misure di taking off, quali la confisca o l’espro-priazione, per il suo carattere generale, riguardando non singole proprietà, ma un intero settore o addirittura più settori dell’economia del Paese; si tratta quindi di una misura che, proprio per la sua generalità ed ampiezza, risulta indubbiamente

4 Cfr. le risoluzioni dell’Assemblea generale del 14 dicembre 1962, n. 1803 (adottata con 87 voti favorevoli, tra i quali quello italiano, 12 astensioni e 2 voti contrari) e del 17 dicembre 1973, n. 3171 (adottata con 108 voti favorevoli, 16 astensioni, tra cui quella dell’Italia e 1 voto contrario); nonché le risoluzioni dell’ECOSOC del 4 maggio 1973, n. 1737 (adottata con 20 voti favorevoli, 2 contrari e 4 astensioni) e del 25 luglio 1975, n. 1956 (adottata per consensus).

5 Al riguardo, v. infra, Cap. XV.

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collegata a impellenti necessità di natura sociale ed economica del Paese che la attua. Ebbene se, in applicazione della tradizionale regola sull’indennizzo, tale misura dovesse essere accompagnata da un esborso di denaro immediato e pro-porzionato al valore di mercato dei beni espropriati, la nazionalizzazione perde-rebbe ogni reale utilità per il Paese procedente.

I PVS, pur non mettendo in discussione il principio dell’indennizzo, propone-vano che la misura di quest’ultimo fosse commisurata, altresì, alle esigenze del Paese che operava le eventuali misure di nazionalizzazione, espropriazione o con-fisca, tenendo conto dell’indebito arricchimento eventualmente conseguito dallo straniero in danno del Paese. Peraltro, in applicazione del principio della sovrani-tà permanente dello Stato sulle sue risorse naturali, le eventuali controversie tra lo Stato e l’investitore privato straniero, relative all’indennizzo o ad altri aspetti dell’investimento, avrebbero dovuto essere regolate esclusivamente dai tribunali locali, in conformità con il diritto nazionale, escludendo al riguardo qualunque intervento unilaterale dello Stato nazionale dell’investitore 6: la prassi fino a quel momento seguita prevedeva invece che le eventuali controversie relative all’inve-stimento fossero risolte mediante arbitrato, a garanzia degli interessi dell’investi-tore privato straniero, oltre che dello Stato ospite.

Tale presa di posizione dei Paesi in via di sviluppo non è mai stata condivisa dagli Stati sviluppati, determinando una disaffezione del capitale privato stranie-ro nei confronti dei PVS e nuocendo agli stessi interessi di questi ultimi Paesi. Ta-le situazione si è protratta per tutti gli anni ’70 e la prima metà degli anni ’80 del secolo scorso. Successivamente, si sono verificate due circostanze che hanno con-dotto ad un sostanziale superamento della contrapposizione e ad una accettazio-ne, tendenzialmente generale, delle regole tradizionali in materia di trattamento degli investimenti privati stranieri, con particolare riguardo all’indennizzo dovuto in conseguenza di espropriazioni, confische o altre misure restrittive della pro-prietà privata straniera. Da un lato, il gruppo dei PVS ha cominciato a diversifi-carsi al suo interno, con il decollo di alcune economie (molte, asiatiche): si è ve-nuto così a costituire un nuovo raggruppamento di Paesi tendenzialmente omo-geneo, i c.d. Paesi di nuova industrializzazione (nell’Est asiatico, per esempio, Singapore, Taiwan, le due Coree, Hong Kong, la Cina e, nel continente america-no, Messico, Cile e Brasile). La differenziazione nello sviluppo economico dei di-versi Paesi ha comportato necessariamente una divaricazione di interessi e di stra-tegie per la realizzazione degli stessi. Dall’altro lato, i PVS hanno dovuto progres-sivamente prendere atto che le loro richieste non avevano avuto il seguito auspi-

6 Sul punto, v. specificamente la Dichiarazione del 1973 sulla Sovranità permanente sulle risorse naturali (articoli 3 e 4) e l’art. 2, lett. c) della Carta dei diritti e doveri economici degli Stati. L’art. 2 della Carta è stato sottoposto a votazione separata e 16 Paesi industrializzati, fra i quali l’Italia, han-no votato contro.

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cato e che le proposte di modifica di norme ed istituti relativi ai rapporti econo-mici internazionali non erano state in grado di aggregare il consenso della comu-nità internazionale nel suo insieme: sin dalla metà degli anni ’80 e soprattutto ne-gli anni ’90, si è registrato dunque un tendenziale, progressivo adeguamento dei PVS sulle posizioni tradizionali dei Paesi sviluppati, soprattutto per quello che riguarda il trattamento degli investimenti privati stranieri. Hanno ripreso vigore le regole classiche del diritto consuetudinario, che si erano per così dire “ritratte” negli anni della contrapposizione e, per quanto riguarda il risarcimento dovuto al privato straniero, si è realizzato un ritorno generalizzato alla “vecchia” formula di Cordell Hull, dell’indennizzo pronto, adeguato ed effettivo. Resta fuori da tale recupero dei criteri tradizionali la questione del computo dell’indennizzo dovuto in caso di nazionalizzazione 7.

5. Segue: il principio del patrimonio comune dell’umanità

Ancora più interessante risulta l’applicazione dei principi di equità, disugua-glianza compensatrice e cooperazione per la soluzione dei problemi economici mondiali che, nell’auspicato nuovo ordine economico globale, avrebbero dovuto presiedere all’uso delle risorse naturali comuni, collocate al di fuori della giurisdi-zione esclusiva di singoli Stati. Il principio vigente in materia fino a quel momen-to era stato quello della libertà di accesso e di sfruttamento delle risorse comuni, secondo il criterio “first came, first served”. Sennonché, tale regime di sfruttamen-to non garantiva gli interessi dei PVS soprattutto in relazione all’utilizzazione del-le risorse esauribili, potendosi tradurre piuttosto in una esclusione di fatto dei Paesi meno avanzati, che non avevano i mezzi finanziari e tecnici necessari per accedervi, dai benefici della risorsa comune.

Il nuovo principio, propugnato al riguardo dai Paesi in via di sviluppo e fatto proprio dall’Assemblea generale in una famosa risoluzione del 1970, è quello se-condo il quale, invece, le risorse comuni non riproducibili, quali sono per esem-pio le risorse minerarie dei fondi e del sottosuolo del mare internazionale (risorse quali i noduli polimetallici, le croste di ferro e manganese, i solfati polimetallici) costituiscono il patrimonio comune dell’umanità. La qualificazione della risorsa comune come parte del patrimonio comune dell’umanità è un indice significativo del cambiamento di prospettiva operato rispetto al regime di sfruttamento previ-gente. Nel nuovo regime, la risorsa comune non è considerata una res nullius, che ogni Stato possa liberamente utilizzare con l’unico limite costituito dal rispetto

7 Al riguardo, v. amplius la Parte III, anche per le “nuove” tendenze emerse negli anni più re-centi all’interno del c.d. diritto internazionale degli investimenti.

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della libertà altrui: si tratta, piuttosto, di un bene che, come il termine “patrimo-nio” suggerisce, è proprietà dell’intera umanità nella sua componente attuale ed in quella futura. Il regime di sfruttamento dovrà tener conto di tale caratteristica, considerando che la risorsa appartiene non soltanto alle generazioni presenti, ma anche a quelle future e va sfruttata salvaguardandone la possibilità di utilizzo, in favore dell’umanità intera, anche da parte delle generazioni future.

Rispetto ad una risorsa che appartenga al patrimonio comune dell’umanità, non potrà essere dunque consentito lo sfruttamento individuale, da parte di singoli Stati, ma sarà necessario procedere sulla base di un meccanismo internazionale disegnato all’interno di una organizzazione internazionale a vocazione universale, che assicuri uno sfruttamento esclusivamente pacifico della risorsa nell’interesse di tutti gli Stati e, in particolare, della componente più debole della comunità in-ternazionale, i PVS. Enunciato, come si è detto, per la prima volta dall’Assemblea generale in una solenne Dichiarazione di principi del 1970 8, il principio in ogget-to trova una prima, compiuta espressione normativa nella Convenzione di Mon-tego Bay sul diritto del mare del 1982. La Convenzione, negoziata nell’arco di un decennio che abbraccia tutti gli anni ’70 – periodo contrassegnato dalla forte con-trapposizione, nel settore dei rapporti economici, tra PVS e Paesi industrializzati –, riflette la nuova prospettiva dei PVS, soprattutto nelle disposizioni relative all’u-tilizzazione delle risorse marine comuni, riproducibili (le specie ittiche) e, ancor più, non riproducibili (le risorse minerarie dei fondi marini).

Nella Convenzione di Montego Bay, un insieme di norme, costituenti la Parte XI, definiscono lo status dei fondi marini internazionali e disciplinano il meccani-smo di sfruttamento delle loro risorse, basato proprio sul principio del patrimo-nio dell’umanità. Al riguardo, la Parte XI della Convenzione (articoli 150 ss.) prevede la costituzione di un’Autorità internazionale dei fondi marini, una orga-nizzazione a vocazione universale della quale fanno parte di diritto gli Stati parti della Convenzione, il cui organo principale è l’Impresa 9. Nel disegno originario, l’Impresa avrebbe dovuto presiedere allo sfruttamento diretto dei siti minerari individuati dai singoli Stati e registrati presso l’Autorità: l’Impresa avrebbe pro-ceduto, in via esclusiva, allo sfruttamento del sito, devolvendo una parte dei pro-venti allo Stato che l’aveva individuato e un’altra parte ad un fondo costituito in

8 Cfr. la risoluzione dell’Assemblea generale del 17 dicembre 1970, n. 2749, adottata con 108 voti favorevoli, nessuno contrario e 14 astensioni.

9 Come qualunque altra organizzazione internazionale, l’Autorità, che conta oggi 167 Stati membri (tanti quanti sono gli Stati parti della Convenzione), è costituita da un’Assemblea, organo plenario nel quale sono rappresentati tutti i membri; dal Consiglio, organo formato da 36 Stati membri, rappresen-tativi delle diverse categorie di Paesi aventi specifici interessi nelle attività condotte nell’area, per esse-re esportatori o produttori netti dei minerali estratti; l’Impresa, c.d. braccio operativo dell’Autorità (v. gli artt. 156-170 della Convenzione).

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favore dei PVS. La Convenzione prefigurava dunque, originariamente, uno sfrut-tamento esclusivo da parte dell’Impresa.

Questa soluzione non è stata condivisa dai Paesi industrializzati perché consi-derata troppo macchinosa e poco economica, ponendo di fatto ostacoli ad un eventuale sfruttamento delle risorse dei fondi marini internazionali fino alla costi-tuzione del meccanismo multilaterale di sfruttamento. Pertanto, in attesa dell’en-trata in vigore della Convenzione (avvenuta solo nel 1994), alcuni Paesi industria-lizzati, dietro l’impulso degli Stati Uniti, decisero di avviare uno sfruttamento uni-laterale dell’area internazionale, sulla base di provvedimenti normativi nazionali (la legge italiana in materia è la n. 41 del 20 febbraio 1985). Tali leggi nazionali non disconoscevano il principio dell’appartenenza dei fondi marini internazionali e delle loro risorse al patrimonio comune dell’umanità, prevedendo che una quo-ta dei proventi dell’attività di sfruttamento fosse devoluta dallo Stato al fondo in favore dei PVS, costituito presso l’Autorità. I Paesi in via di sviluppo, a loro volta, non condivisero l’iniziativa dei Paesi industrializzati e la spaccatura che venne a prodursi ritardò notevolmente l’entrata in vigore della Convenzione.

Trattandosi di un accordo di codificazione, si era infatti convenuto che la Convenzione di Montego Bay sarebbe entrata in vigore solo se avesse raggiunto un consistente numero di ratifiche, pari a 60: la spaccatura, realizzatasi tra i Paesi industrializzati, da un lato e i Paesi socialisti e in via di sviluppo dall’altro, relati-vamente al meccanismo di sfruttamento dei fondi marini internazionali, rischiava non solo di ritardare, ma di compromettere definitivamente l’entrata in vigore della Convenzione, la quale non prevedeva la possibilità di riserve alle disposizio-ni della Parte XI. Per superare l’impasse, venne esplorata la possibilità di modifi-care la Convenzione, andando incontro alle esigenze dei Paesi industrializzati, at-traverso la conclusione di un c.d. Accordo “applicativo”, adottato dall’Assemblea generale nel 1994, di fatto modificativo della Parte XI. L’Accordo del 1994 pre-vede che lo Stato “pioniere”, che ha individuato un’area per lo sfruttamento, ven-ga autorizzato, previa registrazione del sito presso l’Impresa, a procedere allo sfruttamento del 50% della zona mineraria individuata, lasciando che l’altro 50% del sito venga sfruttato direttamente dall’Impresa, in favore dei PVS. Questo ac-cordo, definito Intesa, è stato “accorpato” alla Convenzione di Montego Bay, mo-dificando la Parte XI della Convenzione sulla quale dichiara espressamente di prevalere in caso di incompatibilità (art. 2). La Convenzione di Montego Bay, co-sì modificata, è finalmente entrata in vigore nel novembre 1994 10.

10 È stata costituita altresì l’Autorità internazionale dei fondi marini con sede a Kingston (Gia-maica) e le leggi nazionali adottate nelle more dell’entrata in vigore della Convenzione sono state abrogate. La legge italiana del 1985 è stata formalmente abrogata dall’art. 2 della legge 2 dicembre 1994, n. 689 recante l’autorizzazione alla ratifica e l’ordine di esecuzione della Convenzione di Mon-tego Bay.

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Una ulteriore applicazione normativa del principio del patrimonio comune dell’umanità si trova nel Trattato relativo alle attività degli Stati sulla luna e gli altri corpi celesti, elaborato in seno alle Nazioni Unite nel 1979. L’accordo disci-plina due diversi regimi: l’uno, di libertà, relativo all’accesso ed alla esplorazione scientifica della luna e degli altri corpi celesti; l’altro, ispirato al principio del pa-trimonio comune dell’umanità, concernente lo sfruttamento delle risorse econo-miche della luna e dei corpi celesti che, secondo l’art.11 dell’Accordo, potrà esse-re effettuato solo nell’ambito di una organizzazione internazionale a vocazione universale e dovrà rispondere essenzialmente ai bisogni dei PVS 11.

Va sottolineato come il principio del patrimonio comune dell’umanità, facente parte ormai del diritto internazionale consuetudinario, sia tendenzialmente appli-cabile solo alle risorse comuni non riproducibili, laddove a quelle riproducibili continua ad applicarsi un regime che rispecchia assai da vicino il criterio tradizio-nale “first came, first served”. Per esempio, in relazione all’utilizzazione del mare internazionale e delle risorse biologiche riproducibili, la Convenzione di Monte-go Bay definisce un regime di libertà controllata: tutti gli Stati hanno lo stesso di-ritto di sfruttare la risorsa comune nel rispetto della libertà altrui, garantendo, al-tresì, il mantenimento della riproducibilità della risorsa. A tal fine, la Convenzio-ne prevede la conclusione, tra gli Stati interessati, di accordi “regionali”, relativi alle varie porzioni di mare internazionale, per disciplinarne la pesca in conformità con l’obiettivo di conservazione delle risorse comuni. Sono stati effettivamente conclusi una serie di accordi, riguardanti porzioni specifiche dell’alto mare, i qua-li istituiscono al loro interno commissioni di pesca con il compito di fissare per ogni specie ittica la quota annuale che potrà essere catturata, tenendo conto della interdipendenza delle diverse componenti ittiche di quella porzione di mare e del loro tasso di riproducibilità.

Relativamente alla partecipazione dei PVS al commercio internazionale ed al sistema finanziario internazionale, il Nuovo Ordine Economico Internazionale propugnava la realizzazione di una cooperazione internazionale, da perseguire

11 Il 25 novembre 2015 il Presidente degli Stati Uniti, Obama, ha promulgato una legge, lo “U.S. Commercial Space Launch Competitiveness Act” (cfr. Public Law No: 114-90 (11/25/2015)), per promuovere e proteggere i diritti di proprietà delle aziende statunitensi sulle risorse di asteroidi ed altri corpi celesti, ponendo le basi giuridiche per uno sfruttamento minerario unilaterale, sostan-zialmente in contrasto (nonostante quanto testualmente affermato nella sezione 402 della legge) con gli obblighi derivanti dall’Accordo del 1967 sui principi che regolano le attività degli Stati nell’utiliz-zazione dello spazio extra-atmosferico. Infatti, malgrado tale accordo non utilizzi formalmente la nozione di patrimonio comune dell’umanità in relazione alle risorse dello spazio (compresi la luna e gli altri corpi celesti), limitandosi ad affermare che le relative esplorazione e utilizzazione saranno a vantaggio di tutta l’umanità (art.11), esso precisa che lo spazio extra-atmosferico non può formare oggetto di appropriazione nazionale “mediante utilizzazione, occupazione o qualunque altro mez-zo”. Questi principi sono stati ribaditi dall’Assemblea generale in una serie di successive dichiara-zioni, adottate negli anni seguenti.

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preferibilmente nel quadro delle Nazioni Unite, basata su alcuni principi fonda-mentali: il principio di non reciprocità, per agevolare l’espansione e la diversifica-zione delle esportazioni dei PVS verso i Paesi sviluppati; la conclusione di accordi per la regolamentazione e la stabilizzazione dei mercati mondiali delle materie prime e dei beni di prima necessità, indispensabili per la sussistenza e lo sviluppo dei Paesi a più basso reddito; l’espansione del sistema di preferenze generalizzate che ha costituito il primo, seppur non particolarmente effettivo, riconoscimento delle diverse, specifiche esigenze dei PVS nel settore del commercio internaziona-le 12. Un primo passo verso il riconoscimento delle specifiche esigenze dei Paesi meno sviluppati era stato compiuto nel 1965, quando l’Accordo GATT è stato completato con l’aggiunta di tre articoli, costituenti la Parte IV formalmente de-dicata proprio ai problemi dello sviluppo. Una eco delle rivendicazioni portate avanti dai PVS negli anni ’70 è tuttora presente, come vedremo (infra, Parte IV), nei negoziati commerciali in ambito OMC.

Relativamente all’accesso al sistema finanziario internazionale per il finanzia-mento dello sviluppo, le richieste dei PVS per una maggiore integrazione nel si-stema internazionale di liquidità e per una più effettiva partecipazione al processo decisionale nei fori competenti, attraverso una revisione del meccanismo di voto, non ha prodotto fino ad oggi grandi modifiche nella struttura istituzionale del FMI, ma solo qualche ripensamento delle strategie generali del Fondo e delle condizioni di rimborso dei crediti 13.

12 L’adozione in favore dei PVS di un sistema di preferenze generalizzate, basato sulla non reci-procità e sulla non discriminazione, si deve ad una risoluzione dell’UNCTAD (Conferenza delle Na-zioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo), organo sussidiario dell’Assemblea generale. La risolu-zione n. 2 fu adottata nel corso della II UNCTAD, tenutasi a New Delhi nel 1968. In seguito, il si-stema di preferenze generalizzato fu adottato anche dagli Stati parti del GATT nel 1971, consenten-do, in deroga al principio della nazione più favorita sancito nell’art. 1 dell’Accordo, sia l’applicazione di trattamenti differenziati e più favorevoli nei confronti delle merci provenienti dai PVS, sia l’autorizzazione ad accordi preferenziali tra Paesi in via di sviluppo sulla base della c.d. enabling clau-se. Al riguardo v. infra, Parte IV.

13 Negli anni più recenti, come diretta conseguenza della crisi finanziaria che ha investito l’eco-nomia mondiale, alcune iniziative sono state assunte per migliorare gli equilibri interni alla gover-nance del Fondo e stimolarne una più incisiva azione. Al riguardo, v. il Cap. II, anche in relazione all’azione svolta dall’altra istituzione di Bretton Woods, la Banca mondiale, in favore dei PVS.

38 Il diritto internazionale dell’economia