Come si risponde alla fiat che va in serbia
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COME SI RISPONDE ALLA FIAT CHE VA IN SERBIAI CRITERI CHE MARCHIONNE SEGUE NELLA DISLOCAZIONE DEGLI INVESTIMENTI
SONO GLI STESSI SEGUITI DALLE ALTRE MULTINAZIONALI - URGE CHE CI
CHIEDIAMO CHE COSA IMPEDISCE ALL’ITALIA DI ATTIRARE IL MEGLIO
DELL’IMPRENDITORIA MONDIALE E INCOMINCIARE A CURARE IL NOSTRO “MALE
OSCURO” ALLA RADICE
Editoriale per la Newsletter n. 113, del 26 luglio 2010 - Per i dati sulla chiusura dell’Italia agli
investimenti stranieri v, la tabella pubblicata con il mio articolo su lavoce.info del 18 giugno 2010
Prendersela con Marchionne non ha molto senso. Non è solo la Fiat
ad “andare in Serbia”: dobbiamo chiederci perché anche le grandi
multinazionali, quando devono decidere i loro nuovi insediamenti, oggi tendano
per lo più a stare alla larga dal nostro Paese.
Quando chiede di poter trattare con “sindacati seri”, Marchionne
intende dire che ha bisogno di poter negoziare con la certezza dell’effettività
del contratto stipulato. Oggi il nostro sistema di relazioni industriali non la
garantisce: lo dimostra in modo immediato la situazione di Pomigliano, dove lo
sciopero dello straordinario proclamato dai Cobas fino al 2014
consente a qualsiasi dipendente, anche iscritto ai sindacati stipulanti,
di disapplicare in qualsiasi momento una delle clausole-chiave
dell’accordo per il nuovo piano industriale. A questo si aggiunge l’incertezza
sulla applicabilità effettiva di tutte le clausole dell’accordo aziendale
che derogano rispetto a clausole del contratto nazionale. Lo riconosce
anche il sindaco di Torino Sergio Chiamparino nell’intervista sul Sole 24 Ore di
ieri, quando dice che “il sindacato [ovvero: il nostro sistema delle relazioni
industriali] deve garantire una maggiore affidabilità per accompagnare un
grande progetto come quello di ‘Fabbrica Italia’. Perché senza affidabilità,
senza certezze, è difficile attrarre investimenti” (sul punto, più in generale,
rinvio al terzo e quarto capitolo del mio libro A che cosa serve il sindacato e al saggio
Che cosa impedisce ai lavoratori di scegliersi l’imprenditore).
Non si difendono gli interessi dei lavoratori conservando un sistema
di relazioni industriali mal congegnato, incapace di garantire l’effettività degli
accordi sui piani industriali innovativi, permeabile alle prassi di conflittualità
permanente. Se davvero vogliamo rafforzare la posizione dei lavoratori,
pensiamo piuttosto a ridurre l’enorme e ingiusto carico fiscale che grava anche
sulle retribuzioni più basse.
Alla vistosa incapacità dell’Italia di intercettare gli investimenti nel
mercato globale dei capitali (in Europa solo la Grecia fa peggio di noi su questo
terreno: v. la tabella che ho pubblicato su lavoce.info ) contribuiscono, certo, il
difetto di efficienza delle sue amministrazioni pubbliche, l’insufficienza delle
sue infrastrutture e del suo sistema della formazione professionale, il costo
troppo alto dei servizi alle imprese per difetto di concorrenza. Ma una delle
cause principali di questa incapacità sono certamente anche l’inefficienza del
sistema nazionale delle relazioni industriali e l’illeggibilità del suo diritto del
lavoro.
Se oggi Marchionne si propone, con la “strategia della newco“, di far
uscire lo stabilimento di Pomigliano dal sistema attuale fondato sul vecchio
contratto nazionale dei metalmeccanici, non possiamo liquidare questa
manovra come se si trattasse di un protervo disegno di “ritorno al vallettismo
degli anni ‘50″: questa è soltanto la prova drammatica della
inadeguatezza delle regole che governano oggi il nostro sistema delle
relazioni industriali. Ma questo esito potrebbe essere evitato, se il sistema
stesso sapesse dare il colpo di reni necessario per raggiungere in tempo utile
un accordo interconfederale sulle nuove regole in materia di rappresentanza,
contrattazione e clausola di tregua; oppure se, in via sussidiaria e provvisoria,
le nuove regole fossero poste dal legislatore (v. in proposito un’ipotesi di nuova
norma leggera su cui potrebbe realizzarsi anche in tempi brevissimi una convergenza bi-
partisan).
Per concludere, è urgente una iniziativa politica, amministrativa e
culturale volta:
- in linea generale a porre il Paese nella condizione di poter attirare il meglio
dell’imprenditoria mondiale, eliminando i fattori che oggi scoraggiano
l’insediamento sul nostro territorio di imprese straniere d’avanguardia;
- a stimolare il sistema stesso delle relazioni industriali a darsi urgentemente
le regole in materia di rappresentanza e di rapporti tra contrattazione
collettiva nazionale e aziendale, nonché di efficacia delle clausole di
tregua, indispensabili per garantire – con l’efficacia ed effettività della
contrattazione sui piani industriali innovativi – l’apertura del tessuto produttivo
nazionale all’innovazione di processo e di prodotto;
- se il sistema delle relazioni industriali non è in grado di darsi
spontaneamente le regole necessarie in tempo utile, ad attivare un intervento
del legislatore in via sussidiaria, con l’emanazione urgente di una disciplina
semplice e snella, destinata fin dall’inizio a essere automaticamente sostituita
dalla disciplina che le parti sociali riescano a produrre nel prossimo futuro sul
piano contrattuale;
- a rendere più semplice, leggibile e traducibile in inglese la nostra
legislazione del lavoro;
- ad attivare una negoziazione del Governo con la Fiat e con gli altri potenziali
investitori stranieri su tutte le misure in materia di infrastrutture, di ricerca
applicata, di formazione e riqualificazione professionale, di assistenza
e sostegno ai processi di ristrutturazione industriale, idonee a
incentivare la dislocazione in Italia degli insediamenti produttivi più avanzati
sul piano tecnologico ed organizzativo;
- a ridurre drasticamente l’Irpef sui primi 1000 euro di retribuzione
mensile: i 110 euro di prelievo che subiscono oggi le buste-paga di 1000 euro
sono un vero scandalo.
Pietro Ichino