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Rassegna bibliografica Classi sociali e rappresentanza degli interessi L’ipotesi di Sylos Labini di Paolo Pezzino Quale la chiave di lettura più appropriata per l’ultimo lavoro di Paolo Sylos Labini, Le classi sociali negli anni ’80 (Bari, Later- za, 1986)? Il libro richiama, nel titolo, il no- to Saggio sulle classi sociali, pubblicato nel 1974, ma se ne distacca fondamentalmente per il carattere: mentre il Saggio forniva un’analisi concentrata su un solo caso, quel- lo italiano, ruotante attorno al problema di una ricostruzione della stratificazione socia- le dall’Unità in poi, qui ci troviamo di fron- te ad un’ampia sintesi relativa alle grandi li- nee evolutive della società contemporanea nella sua dimensione planetaria. Se così la prospettiva viene ampliata ri- spetto al Saggio, e lo sforzo richiama caso- mai altri più recenti lavori dell’autore, ne- cessariamente ne risulta un certo appiatti- mento dell’indagine in termini di profondità della visione: nonostante le ampie compe- tenze e le “buone letture” di Sylos Labini, non sempre i materiali utilizzati presentano quei caratteri di omogeneità e novità propri di una ricerca di prima mano, né quella cari- ca polemica che rappresentava uno degli aspetti più stimolanti del Saggio sulle classi sociali (del quale, anche rileggendolo a di- stanza di più di dieci anni, non si può non apprezzare il vigore della polemica, sostenu- ta da una rigorosa argomentazione critica). Qui Sylos Labini utilizza fonti diverse, da annuari statistici di vari paesi, a studi del- l’International Labour Office di Ginevra e della Banca Mondiale, nel tentativo di deli- neare linee evolutive delle società contempo- ranee, raggruppate secondo quattro fonda- mentali tipi di struttura socio-economica: paesi capitalistici avanzati (Europa occiden- tale, Nord-america, Australia e Nuova Ze- landa, Giappone); paesi capitalistici relati- vamente arretrati (paesi latinoamericani, al- tri paesi capitalistici relativamente arretrati); paesi del socialismo reale (Unione Sovietica, Europa orientale, Cina); paesi a struttura sociale composita (in pratica tutti i rimanen- ti). Le osservazioni dell’autore si concentra- no, tuttavia, soprattutto sui primi tre gruppi. Secondo l’autore il problema delle classi sociali si presenta con particolare vigore so- prattutto là dove esiste un’eredità dell’epoca feudale, cioè in Europa o in quei paesi dove sono state importate varianti del feudalesi- mo, come quelli latinoamericani (qui “conti- nuò a valere come norma l’attribuzione di tutte le terre al sovrano, o a coloro che, nel processo di colonizzazione, venivano a pren- dere il posto dei vassalli e dei valvassori”, p. 120): unica eccezione il Giappone, dove lo sviluppo capitalistico è stato caratterizzato da una sottolineatura della grandezza nazio- nale e della potenza militare che, nonostante una radicata tradizione feudale, hanno ce- mentato classi alte e basse. Nelle società europee si è dispiegato, negli ultimi tre secoli, un processo di democratiz- zazione, definito come ricerca di libertà e tendenza all’eguaglianza, che, dopo aver Italia contemporanea”, settembre 1986, n. 164

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Rassegna bibliografica

Classi sociali e rappresentanza degli interessiL’ipotesi di Sylos Labini

di Paolo Pezzino

Quale la chiave di lettura più appropriata per l’ultimo lavoro di Paolo Sylos Labini, Le classi sociali negli anni ’80 (Bari, Later­za, 1986)? Il libro richiama, nel titolo, il no­to Saggio sulle classi sociali, pubblicato nel 1974, ma se ne distacca fondamentalmente per il carattere: mentre il Saggio forniva un’analisi concentrata su un solo caso, quel­lo italiano, ruotante attorno al problema di una ricostruzione della stratificazione socia­le dall’Unità in poi, qui ci troviamo di fron­te ad un’ampia sintesi relativa alle grandi li­nee evolutive della società contemporanea nella sua dimensione planetaria.

Se così la prospettiva viene ampliata ri­spetto al Saggio, e lo sforzo richiama caso­mai altri più recenti lavori dell’autore, ne­cessariamente ne risulta un certo appiatti­mento dell’indagine in termini di profondità della visione: nonostante le ampie compe­tenze e le “buone letture” di Sylos Labini, non sempre i materiali utilizzati presentano quei caratteri di omogeneità e novità propri di una ricerca di prima mano, né quella cari­ca polemica che rappresentava uno degli aspetti più stimolanti del Saggio sulle classi sociali (del quale, anche rileggendolo a di­stanza di più di dieci anni, non si può non apprezzare il vigore della polemica, sostenu­ta da una rigorosa argomentazione critica).

Qui Sylos Labini utilizza fonti diverse, da annuari statistici di vari paesi, a studi del- l’International Labour Office di Ginevra e della Banca Mondiale, nel tentativo di deli­

neare linee evolutive delle società contempo­ranee, raggruppate secondo quattro fonda- mentali tipi di struttura socio-economica: paesi capitalistici avanzati (Europa occiden­tale, Nord-america, Australia e Nuova Ze­landa, Giappone); paesi capitalistici relati­vamente arretrati (paesi latinoamericani, al­tri paesi capitalistici relativamente arretrati); paesi del socialismo reale (Unione Sovietica, Europa orientale, Cina); paesi a struttura sociale composita (in pratica tutti i rimanen­ti). Le osservazioni dell’autore si concentra­no, tuttavia, soprattutto sui primi tre gruppi.

Secondo l’autore il problema delle classi sociali si presenta con particolare vigore so­prattutto là dove esiste un’eredità dell’epoca feudale, cioè in Europa o in quei paesi dove sono state importate varianti del feudalesi­mo, come quelli latinoamericani (qui “conti­nuò a valere come norma l’attribuzione di tutte le terre al sovrano, o a coloro che, nel processo di colonizzazione, venivano a pren­dere il posto dei vassalli e dei valvassori” , p. 120): unica eccezione il Giappone, dove lo sviluppo capitalistico è stato caratterizzato da una sottolineatura della grandezza nazio­nale e della potenza militare che, nonostante una radicata tradizione feudale, hanno ce­mentato classi alte e basse.

Nelle società europee si è dispiegato, negli ultimi tre secoli, un processo di democratiz­zazione, definito come ricerca di libertà e tendenza all’eguaglianza, che, dopo aver

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trovato nella rivoluzione francesce un mo­mento fondamentale di realizzazione, è con­tinuato collegandosi allo sviluppo economi­co ed alla ascesa di nuove classi sociali, la borghesia, la classe operaia, le classi medie (mentre declina la consistenza e il peso poli­tico dei proprietari fondiari). È una tenden­za che viene interrotta dal fascismo, del qua­le Sylos Labini sottolinea il carattere di rea­zione violenta dei ceti medi davanti agli sconvolgimenti della guerra ed alla paura della rivoluzione bolscevica, giudicando cro­nologicamente successivo il sostegno di agrari ed industriali, e negando che tra que­sti ultimi e fascismo vi fosse un’alleanza or­ganica.

Dopo la guerra il processo di democratiz­zazione riprende, sostenuto dalle tendenze strutturali delle società a capitalismo avan­zato, così riassumibili: i contadini proprieta­ri ed i salariati agricoli sono in netta flessio­ne e in alcuni paesi stanno scomparendo; avanzano le classi medie urbane, e tra queste soprattutto aumentano impiegati privati e pubblici; tende a diminuire, in termini asso­luti o relativi, la classe operaia. Su queste tendenze, che rappresentano una definitiva smentita delle previsioni di Marx (non solo per quel che riguarda il bipolarismo, ma per il catastrofismo caratterizzante la sua analisi del capitalismo: si veda a tal proposito tutto il capitolo 13), si innescano conflitti che sempre meno hanno la caratteristica di con­flitti di classe: nei paesi dell’Europa occiden­tale essi diventano prevalentemente econo­mici, mentre negli Stati Uniti hanno sempre avuto carattere di conflitto etnico (ma la so­cietà americana, secondo l’autore, ha sem­pre rivelato grandi capacità di assimilazione, che le hanno consentito di preservare l’origi­nario stampo liberaldemocratico di origine anglosassone e di avanzare sulla strada della democratizzazione), ed in Giappone ha pre­valso una linea di sviluppo industriale fon­data sul paternalismo e la tendenziale con­cordia tra lavoratori e datori di lavoro che,

ripristinata dopo la guerra la libertà sindaca­le ed estirpati i tratti militaristici e reazionari dello sviluppo giapponese, ha assicurato a quel paese un livello di conflittualità molto basso.

Alcune delle tendenze sopra menzionate sono riscontrabili anche nei paesi a sociali­smo reale, dove è possibile individuare feno­meni di incremento degli impiegati, di esodo agrario e progressiva terziarizzazione dell’e­conomia; ma il sistema socialista, nella ver­sione sovietica, soffre di un limite insito nel­la sua stessa costituzione, la rigidità del si­stema produttivo (oltre ovviamente alla nota mancanza di libertà). Non che questo limite sia di per sé insuperabile: da un punto di vi­sta teorico il socialismo è caratterizzato, se­condo Sylos Labini, dall’abolizione del mer­cato del lavoro, ma non necessariamente di quello dei prodotti (e infatti in Urss la do­manda è relativamente libera, l’offerta con­trollata, ma non esclusivamente monopoli­stica): perciò un ampio decentramento pro­duttivo, che permetta l’ingresso-uscita delle imprese dal mercato dei prodotti sarebbe compatibile con il sistema e non determine­rebbe automaticamente il ripristino della proprietà privata dei mezzi di produzione. Ma sull’effettiva capacità dei dirigenti sovie­tici di affrontare la sfida che proviene dalle esigenze dello sviluppo economico Sylos La­bini nutre seri dubbi, anche se temperati dal­le speranze dell’avvento al potere di Gorba- ciov (si veda la nota 16).

Più aperta la situazione cinese, per il mi­nor peso assegnato dai dirigenti di quel pae­se alPindustria pesante e di base, anche negli anni in cui fu adottato un modello di tipo sovietico (1949-1952). Dopo la parentesi egualitaria della rivoluzione culturale, che ha avuto conseguenze negative anche sull’e­conomia, con la riforma dell’ottobre 1984 la Cina sembra avviarsi verso una più decisa decentralizzazione dell’economia e, non do­vendo affrontare, a differenza dell’Unione Sovietica, il problema della molteplicità di

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nazionalità presenti nella compagine statale, è verosimile un suo avvio più deciso, rispet­to a quest’ultima, anche sul terreno delle li­bertà civili.

Sylos Labini passa quindi ad analizzare il così detto Terzo Mondo: solo qualche cenno sui paesi africani a struttura tribale, per rile­vare come essi, con un mercato dei prodotti molto limitato e un mercato del lavoro pres­soché inesistente, se non in limitate aree di piantagioni o nelle miniere, non possano es­sere considerati capitalistici, ed i conflitti vi si svolgono secondo linee di divisione etnica o tribale (un’ulteriore riprova, secondo l’au­tore della scarsa validità interpretativa della tesi di Marx ed Engels secondo cui la storia dell’umanità è una storia di lotta di classi). Struttura sociale relativamente simile ai pae­si capitalistici hanno invece i paesi latinoa­mericani: tuttavia le condizioni storiche del­lo sviluppo di quei paesi (colonizzazione, scomparsa di terre libere, estendersi del si­stema dei latifondi e delle piantagioni, scar­sa presenza di un ceto di contadini-proprie­tari e debole sviluppo dell’industrializzazio­ne), hanno prodotto un’espansione abnorme del settore dei servizi e dei ceti medi (qui Sy­los Labini riprende alcune analisi già esposte nel suo libro su II sottosviluppo e l ’econo­mia contemporanea, Bari, Laterza, 1983): la crisi economica, dovuta all’eccessiva vulne­rabilità di una produzione di materie prime o prodotti agricoli scarsamente differenziata e orientata verso l’esportazione, ha coinvol­to pesantemente le classi medie, una parte delle quali (composta soprattutto da intellet­tuali) ha abbracciato ideologie marxiste leni­niste o intrapreso la via del terrorismo di de­stra, provocando per reazione una richiesta di sicurezza e di protezione che ha trovato sbocco nel sostegno concesso da buona par­te delle classi medie a governi militari e dit­tatoriali, i quali si sono però rivelati incapa­ci di affrontare le ragioni strutturali della crisi. Sylos Labini rileva che “il subconti­nente latinoamericano è diventato un grande

e drammatico laboratorio, dove sono stati tentati tutti gli esperimenti di politica gene­rale e di politica economica — marxismo-le­ninismo, liberismo, statalismo di tipo pro­tezionistico e staliniano di tipo keynesiano — con risultati ... negativi se non addirittu­ra catastrofici” (p. 136). L’auspicio è che ci si stia avviando, sull’esempio di paesi co­me l’Argentina, verso la strada delle rifor­me e di un patto tra il governo e le parti so­ciali.

Quest’ultima considerazione ci riporta al­la domanda iniziale: quale la chiave di lettu­ra più corretta per quest’ultimo lavoro del­l’economista romano? Dovrebbe apparire evidente, dall’esposizione che ho fatto dei contenuti del volume, che esso mal si presta ad esercitazioni interdisciplinari fra storici ed economisti. L’analisi resta su terreni troppo generali per consentire agli storici in­terventi di merito: tutt’al più questi potreb­bero notare che l’utilizzazione di categorie come feudalesimo e capitalismo sempre me­no garantisca il riferimento ad un quadro sufficientemente omogeneo e uniforme che rappresenti un contesto generale euristica- mente significativo entro il quale collocare l’analisi dei singoli casi. Non è casuale che definizioni come “borghesia”, “aristocra­zia”, “classe operaia”, lascino il campo, nel­le più recenti tendenze storiografiche, ad analisi più sfumate, che rivelano una tal va­rietà di casi, una così consistente presenza di ceti di frontiera scarsamente delimitabili in una di quelle grandi classificazioni, un in­treccio tra “vecchio” e “nuovo” in combina­zioni sempre varie ed originali così fitto, che serio è l’imbarazzo degli studiosi quando de­vono cercare di ricondurre ad una trama unitaria la varietà dei dati socio-culturali che emerge dalle ricerche “sul campo”.

Potrebbero inoltre ricordare, gli storici, come la considerazione del fascismo come reazione di ceti medi alla paura bolscevica riprende interpretazioni già in passato avan­zate e recentemente ripresentate, ad esempio

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dalla storiografia tedesca, che tendevano ad enfatizzare il ruolo della piccola borghesia nell’ascesa dei regimi fascisti, sulle quali si è sviluppata un’ampia discussione che dovreb­be forse indurre ad una maggiore prudenza nel presentare interpretazioni globali eccessi­vamente unilaterali di fenomeni complessi come quelli in questione.

Ma credo che questo non sia il terreno più adatto per giudicare il libro di Sylos Labini, il cui limite, l’eccessiva genericità e disper­sione degli argomenti, rappresenta anche, da un altro punto di vista, l’aspetto forse più stimolante: nel senso che l’autore si sforza di discutere, con tono piano e didascalico (non attribuisco al termine alcun connotato negativo) i grandi problemi che stanno da­vanti all’uomo contemporaneo: sviluppo e sottosviluppo, democrazia ed eguaglianza, libertà e dittatura (fino ad accennare, in al­cuni spunti, alla prospettiva dell’estinzione delPumanità per un conflitto nucleare), cer­cando di dar loro una risposta nella quale sono rintracciabili contemporaneamente il buon senso dello studioso esperto e la fe­de dell’economista in un socialismo riformi­sta che sappia resistere contemporaneamen­te alle velleità dell’ideologia marxista (la cui condanna non potrebbe essere più netta) ed alle facili conversioni ad una deregulation selvaggia che, in nome di un’astratta supe­riorità del mercato sullo Stato, smantelli le conquiste dello Stato sociale.

Se si cerchi un collegamento tra il Saggio ed il libro attuale, lo possiamo forse indivi­duare proprio nella passione civile che attra­versa entrambi i libri: là l’onesto riformista, come lui stesso si definiva, discuteva di una tematica che aveva grande rilevanza anche sulle prospettive strategiche dei partiti di si­nistra (la consistenza, la natura, la colloca­zione politica dei ceti medi), qui l’economi­sta di razza si impegna in una difesa di quei principi di armonizzazione tra intervento statale e sviluppo del mercato che rappresen­tano la natura stessa del socialismo rifor­

mista (e il rifiuto, netto e motivato allo stes­so tempo, di uno smantellamento dello Sta­to sociale rappresenta una lezione di serietà e coerenza rispetto a tante improvvise, quanto vacue, “scoperte del mercato” che caratterizzano il mondo politico italiano), senza preoccuparsi di proclamare che l’o­biettivo finale di un socialismo riformista “consiste nella tendenziale realizzazione del binomio essenziale proclamato dalla rivolu­zione francese, ossia nella progressiva elimi­nazione — salvaguardando la libertà — de­gli ostacoli legali, sociali ed economici alla tendenza all’eguaglianza” (p. 147), un’affer­mazione coraggiosa in periodi di riflusso e di esaltazione del pensiero debole.

È proprio su questo terreno che, fra l’al­tro, si collocano gli spunti più interessanti del libro, non a caso quelli dove maggior­mente traspare lo spessore delle specifiche competenze economiche dell’autore: ricor­derò così l’analisi dei processi di innovazio­ne tecnologica, che hanno indebolito le ten­denze alla concentrazione in atto nell’econo­mia mondiale, allentando in qualche misura il legame tra innovazione tecnologica, accen­tramento produttivo, economie di scala. Se­condo Sylos Labini la rivoluzione elettronica amplia gli spazi delle “economie della diffe­renziazione e della specializzazione... non più applicabili alla condizione di ampliare la produzione di ciascuna unità” (p. 107), il che, fra l’altro, rende il processo di innova­zione scarsamente controllabile dal centro, rendendolo sempre più incompatibile con strutture rigidamente pianificate come quel­la sovietica.

Come ho già accennato, Sylos Labini non crede che questo processo richieda un sem­plice ritorno alla libertà del mercato: pur prendendo atto della crisi di quelle politiche di intervento statale collegate alla teoria key- nesiana (si veda la nota 8), molto opportu­namente egli rileva come l’appoggio dello Stato allo sviluppo del mercato (sia diretta- mente, sia attraverso il finanziamento alla

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ricerca ed il sostegno al processo di innova­zione tecnologica) sia sempre stato una co­stante delle politiche economiche del dopo­guerra. In questo senso la stessa politica economica dell’amministrazione reaganiana non può dirsi liberistica, sia per il ricorso al deficit pubblico (che ha avuto l’effetto key- nesiano di espandere la domanda e sostenere lo sviluppo produttivo), sia_per il sostegno pubblico alle innovazioni (tramite agenzie pubbliche come la Nasa o commesse a istitu­ti di ricerca privati), sia infine per l’appog­gio dato a spinte protezionistiche.

Sylos Labini ritiene che, davanti alla crisi delle politiche di stampo keynesiano e alla improponibilità di un ritorno al liberismo, vada praticata la “linea della ricerca siste­matica del consenso consistente] nell’inces­sante tentativo di raggiungere, fra Stato è mercato, una combinazione ottimale, che non è fissa nel tempo né eguale fra tutti i paesi e che si fonda sul riconoscimento del potere economico che oggi hanno i tre gran­di attori della vita sociale” (p. 171). Quello che l’autore propone è un patto sociale a tre (governo, imprenditori, sindacati dei lavora­tori) per il quale rifiuta la definizione di neo­corporativismo, in quanto la proposta di po­litica economica concertata si colloca in si­stemi che garantiscono le libertà sindacali e perché, mentre di corporativismo si parla per indicare la forza di gruppi di interessi li­mitati, “la politica concertata di cui si è det­to riguarda lo Stato e le due grandi parti so­ciali, che se mai tendono a comporre nel proprio ambito gli interessi e le spinte di gruppi molto diversi fra loro” (p. 185).

Come si vede la proposta di Sylos si inseri­sce nel più scottante ed attuale dibattito poli­tico, investendo problemi sui quali si è molto discusso e offrendo soluzioni opinabili, co­me è ovvio in simili dibattiti. Caso mai lo storico rileverà che quando si passi da una politica di collaborazione attuata pragmati- camente (come Sylos sottolinea avvenire ne­gli Usa) a proposte di codificazione istitu­

zionale della rappresentanza degli interessi, si rievoca un quadro di esperienze passate che forniscono alla riflessione esempi tutt’al- tro che incoraggianti e giustificano ampia­mente le riserve che da molte parti vengono avanzate a simili proposte. Personalmente vorrei aggiungere che trovo di difficile solu­zione (e a tutt’oggi non ancora risolto, se non altro su un piano teorico) il problema di definire i criteri della rappresentanza: in altre parole, in base a quali considerazioni deter­minate organizzazioni si vedrebbero affidata la rappresentanza di interessi di carattere ge­nerale, vuoi dei lavoratori, vuoi degli im­prenditori? Usciamo da un periodo in cui le tre grandi confederazioni sindacali hanno preteso di rappresentare in qualche modo in­teressi di carattere generale: senza entrare nel merito di tale pretesa, mi chiedo se veramen­te le tendenze evolutive delle società capitali­stiche avanzate possano giustificare una sua riproposizione, ed addirittura una sua codifi­cazione istituzionale. È lo stesso Sylos Labini a ricordarci che le prospettive generali delle società capitalistiche vanno in quattro dire­zioni: progressiva riduzione del divario stipendi-salari, accelerazione della crescita di piccole imprese, riduzione dell’orario di la­voro, comparsa di varie forme di partecipa­zione dei lavoratori alla gestione dell’impre­sa (cap. 16). Sono tutte le tendenze che por­tano alla frantumazione delle vecchie classi sociali, alla comparsa di figure sociali di tipo nuovo, scarsamente definibili secondo quegli schemi bipolaristici sui quali si è sviluppata la forza delle tre confederazioni sindacali (classe operaia-padronato, operai-impiegati, lavoratori autonomi-lavoratori dipendenti, ecc.) E non è un caso che proprio tra quei ceti medi di cui tanto efficacemente Sylos Labini ci ha descritto l’emergere, il peso e l’influenza delle confederazioni sindacali siano molto scarsi: né mi sentirei di garantire che quel­le imprese di dimensioni medio-piccole, tec­nologicamente all’avanguardia e pronte ad oc­cupare gli spazi connettivi della produzione

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industriale sempre più ampi a seguito della rivoluzione elettronica, siano adeguatamen­te rappresentate dalla Confindustria.

In altre parole mi sembra che l’evoluzione stessa della società contemporanea renda sempre meno proponibile uno schema tutto sommato semplificato come quello trinitario (governo, rappresentanti degli imprenditori, sindacati dei lavoratori) proposto da Sylos Labini. Trovo sorprendente, poi, il silenzio dell’autore sul ruolo dei partiti politici nel processo di ricomposizione degli interessi particolari in un quadro generale di progresso e di democratizzazione: ad essi nel libro si ac­cenna solo di sfuggita e per deplorare, giusta­mente, il crescere spropositato dei loro appa­rati tramite l’appropriazione, diretta od indi­retta, di denaro pubblico. Posso concordare che la loro azione abbia presentato parecchie zone d’ombra (anche se ritengo, poi, che esse siano in parte conseguenza di caratteristiche strutturali della società italiana); mi pare tut­tavia che un’analisi delle prospettive della so­cietà contemporanea dovrebbe dedicare un

qualche spazio alla loro funzione e collocazio­ne (se non altro per negarne qualsiasi utilità).

Come si vede, il libro di Sylos Labini por­ta necessariamente a trattare di tematiche at­tuali, sulle quali tutte le proposte, così come le considerazioni di chi stende questa nota, sono discutibili, ma questo mi sembra l’a­spetto più stimolante di un saggio, che come dice l’autore nell’Introduzione, si propone di “presentare non analisi sistematiche, ma soltanto temi di riflessione, fonda(ti), oltre che su letture, su osservazioni... compiute durante i viaggi e su conversazioni con eco­nomisti e sociologi del nostro e di altri pae­si” . E il tono, spesso così perentorio e un po’ provocatorio, con cui Sylos Labini avanza le sue proposte mi sembra finalizzato proprio all’intento lodevole di invitare ad una discussione franca ed aperta: invito che mi è sembrato giusto non lasciar cadere nemmeno in una recensione per una rivista di storia, quale è “Italia Contemporanea” .

Paolo Pezzino

Il fascismo tra storia e ideologiadi Pietro Albonetti

“La foresta è alle nostre spalle, ora” . Con queste parole Zunino inizia la Conclusione (p. 369) del suo lavoro sull’ideologia del fa­scismo (Pier Giorgio Zunino, L ’ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del regime, Bologna, Il Muli­no, 1985, pp. 430, lire 30.000): una fatica in­solita anche per lo stile, aspetto non secon­dario nella resa dell’opera. L’impostazione è ambiziosa e si muove verso una sorta di stra­ripamento storiografico, che il tono della scrittura asseconda. Il lavoro è di qualità, nuovo, forse una tappa negli studi del fa­

scismo, ma è anche così soggettivo che il re­censore preferisce tenere le distanze più che lasciarsi affascinare. La lettura non mi è parsa facile; i riferimenti teorici sono densi, affollati, eterogenei: non sono da escludere fraintendimenti da parte mia. Occorrerebbe raffreddare questo lavoro con parole sempli­ci e disadorne. Neanche questo sarà facile e anch’io finirò per spiegarmi come posso.

Zunino sostiene: 1) che nel fascismo circo­lano idee povere, ma che penetrano nelle fi­bre della società e, in qualche modo, riesco­no a toccare le masse popolari (p. 11); 2) che

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solo la valorizzazione del ruolo dell’ideolo­gia risolve le incoerenze di interpretazione del fascismo (p. 12).

Pregiudizialmente non c’è nulla da eccepi­re a queste due tesi.

Una volta che il corpo dell’ideologia, rie­sumato dalle ricerche, imponga il suo peso storico e abbia somiglianza con la mentalità di fondo degli italiani la tesi 1) sarebbe per­fetta e sarebbe lecito attaccare le posizioni di quelli che nella spiegazione del fascismo hanno minimizzato la presa ideologica. Non solo, ma a quel punto nuovi interrogativi di fondo potrebbero essere posti alla storia ita­liana, e non solo italiana, contemporanea. Mi sembra questo il programma complessi­vo di Zunino. Ma quando il programma si tramuta in ipotesi generale, la cui verifica viene assegnata a giornali e libri stampati al- l’incirca tra il 1925 e il 1935 in Italia, la cosa prende un’altra piega: diventa un tributo a qualcosa che resta indimostrato. Lo scom­penso tra l’ipotesi maggiore e il limite della ricerca è inevitabile. Volere mantenere ad ogni costo attivo il circuito richiede una ca­rica di soggettività impressionante, che pro­duce alterazioni anche dove occorreva rigo­re. Questa vibrazione continua tra brevi ci­tazioni e incalzante interpretazione diventa ossessiva.

L’altra possibilità era quella di spostarsi sulla ricerca, decisamente, con tutta la noia e il peso che questo comporta.Un lavoro si­stematico su quelle fonti non si limitava sol­tanto ad una scelta di conferme, ma doveva impostarsi come una produzione di prove al­meno sulla linea della frase di Marc Bloch (scelta da Zunino come insegna) che le paro­le non sono mai del tutto separabili dalle co­se. Fare riferimento alla parte più propria­mente nuova (sei capitoli e una nota biblio­grafica) attraverso la quale dovremmo affer­rare l’ideologia del fascismo, come in una grande battuta di caccia, è un po’ come sen­tirsi sperduti e storditi; si è costretti a crede­re ad un’infinità di “mezzi di trasporto” re­

torici, su cui sale un viaggiatore surrealista, mentre noi restiamo sempre a terra in attesa che arrivi una qualche critica più posata sui materiali e sulla loro lettura. Restiamo estra­nei e allucinati. All’inizio siamo avvertiti che comincia l’immersione nel mare dell’ideolo­gia fascista: la speranza è di tornare a galla con “un uso sapiente di categorie analitiche estremamente flessibili” (p. 66). Invece si ve­dono via via comporsi i quadri ideologici co­me in sogno o in ogni altro stato emotivo, tranne quello della quieta dimostrazione.

Il lettore può chiedersi se l’ideologia è una parte della storia o se è un abile montaggio ed è suo diritto anche chiedere in che rap­porto l’una o l’altro stanno con l’imprint fa­scista degli italiani.

Gran parte delle difficoltà verte su questo: vi è più costruzione di scene che ricostruzio­ne di storia. Se è così che valore ha il pezzo del domino che Zunino cercava, per avere finalmente la disposizione esatta dei pezzi della storia d’Italia? Mantengo anche riserve verso la mia lettura, perché Zunino ha trop­pe risorse e non vorrei che mi sfuggisse il ve­ro senso dell’operazione: a me sembra che tra quelle carte Zunino abbia fatto più colla­ge che esplorazione, abbia cercato punti di appoggio, più che una salda scoperta. In quella massa di giornali e libri si trovano certo oracoli del fascismo, ma a scoprire il santuario dell’ideologia e il rapporto coi fe­deli ci corre ancora. Questo tentativo di mettere ordine nel caos è costato non pochi sforzi all’autore. Starei per dire che la vera serie costante (in lavori come questi nel fu­turo una parte la farà il computer) è proprio quella che l’autore fornisce per accostare ciò che non sta insieme, come nel caso dell’idea di futuro nel fascismo quando scrive: “ ... ciò non vuol dire che gli orizzonti scon­finatamente aperti del futuro fascista appa­rissero come linee troppo distanti, incapaci di catturare gli animi degli italiani. A ben vedere si dovrà affermare il contrario perché quella sensazione di vuoto si dovette risolve­

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re in un impulso a precipitarsi nel futuro piuttosto che a distogliere da esso lo sguar­do” (p. 122). Chi vorrà salvare la parte nuo­va entro questo saggismo funambolico esa­minerà pagina per pagina e solo allora vedrà che cosa resta in ordine a vecchie e nuove re­gole della ricerca storica. Questo dico con pieno rispetto del lavoro di Zunino, perché in effetti più di una volta leggendolo mi so­no chiesto se non ci fosse, in questo volo di Icaro, una specie di rabbia civile contro i pe­danti. Pagine come queste si scrivono in una speciale estasi guardando in una sfera magi­ca: lo sguardo è penetrante e la memoria co­nosce molte formule, ma è magia o realtà? E per di più, Zunino potrebbe indicare tutte le ragioni del suo lavoro ricordandomi che aveva scritto proprio: “Non ci dobbiamo [...] nascondere che il profilo ideologico del fascismo che si andrà componendo sotto i nostri occhi si situerà nei cieli delle formula­zioni originarie. In questo senso, l’ideologia del fascismo che abbiamo è un’astrazione che rappresenta un modello, ossia il tipo ideale dell 'homo ideologicus fascista” (p. 7). Tentare un’indagine che produca un’astra­zione è infatti l’altro scopo del lavoro, di cui finora non ho parlato. In questo modo Zu­nino si libera di tutte le nostre osservazioni? Forse in parte: una complessa strategia può contenere anche falsi scopi. Ma se è domi­nante quest’ultimo fine, fino a che punto Zunino può far agire il tipo ideale costruito, dove deve fermarsi questo strumento euristi­co ed espositivo? Fino a che punto la fanta­sia, orientata e disciplinata in vista della realtà, può aiutare il giudizio storico? Lungi da me l’idea di mettere le cose su piani com­plicati, ma Zunino ha introdotto sì tanta ri­flessione storico-sociale che non gli sembre­rà invadente il mio dubbio. Trovare il tipo ideale tra la retorica fascista e la vita della masse, mediante l’accentuazione di determi­nati elementi è un proposito eccellente, ma messo a posto lo strumento vuol anche dire che la spiegazione è trovata, o non piuttosto

comincia da quel momento la verifica? Non sono domande retoriche. Anche perché non sono riuscito a capire del tutto se Zunino cercava un pezzo di fascismo non studiato o una leva per spiegarlo. Questa ambivalenza tra storia del fascismo e astrazione ideologi­ca non è chiarita, l’incertezza tra ricerca concreta e forma dell’ideologia non è mai superata. Questa mediazione tra lo stato e la società civile, tra la violenza e il consenso, che si presenta con aspetti “pluralistici” (an­tidemocratici, ma pur demagogicamente ca­rezzevoli) è un pezzo di teoria o di realtà sto­rica e quali avvertenze dobbiamo avere per l’uso?

E, tuttavia Zunino provoca, stimola e rin­nova domande: la purezza ideologica dello sport, il mito della giovinezza al di sopra delle classi, il senso di partecipazione al co­mune destino richiamano lo studio di feno­meni che s’ingigantirono nella società del fa­scismo. Da una parte le scene del teatro ideologico, dall’altra il resto della storia. Nelle pagine sul razzismo, sulla demografia, sull’eugenica la corsa per acciuffare gli ele­menti ideologici è piena di energia conosciti­va ed anche l’avventura verbale in alcuni tratti è più riuscita: “Vagando per questi an­fratti dell’eugenica c’è da aspettarsi di met­tere il piede, da un momento all’altro, su qualche precoce virgulto razzista” (p. 280). Le parti più convincenti quindi sono quelle che aprono indicazioni di lavoro. L’indica­zione fondamentale resta la trasfusione en­demica (epidemica?) dell’ideologia. Non ho taciuto il dissenso, forse ho trascurato molti meriti: a mio parere, più evidenti dove la fu­sione del pensare e del cercare ha alleggerito la tensione. La tensione più schematica ri­torna nell’ultimo capitolo, Il problema mon­diale, Zunino riprende il suo fardello. Egli stesso annuncia che sta portando a compi­mento il periplo intorno all’ideologia del re­gime e si chiede di “quali forme si nutrisse l’immaginazione dell 'italiano fascista quan­do alzava gli occhi a contemplare il mondo”

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(p. 311). Siamo ormai al tema dei temi: più forte ancora la tentazione di collegare l’i­deologia alla storia che è seguita. “Ci vor­rebbe l’ascetica freddezza dello stilista” (p. 311) confessa Zunino che vuole resistere.

Sembra che si possa dire che tutta la za­vorra ideologica precedentemente esaminata non avrebbe portato la barca del fascismo sugli scogli della guerra se non ci fosse stato, fin dalla partenza, un motore che finì per dare accelerazione e produrre lo schianto. Negli anni venti questo motore era più silen­zioso.

Fa venire in mente la nave di Fellini in Amarcord: con la differenza che, un po’ alla volta, i crocieristi si trasformano in pirati aggressivi.

Ma in questo capitolo c’è ancora qualche colpo di scena. Non del tutto inatteso, per­ché era annunciato nella polemica contro la storiografia sul fascismo. Zunino produce il suo sforzo di revisione storica chiamando per un attimo in causa Alan J. Percival Tay­lor, lo storico controverso delle origini della seconda guerra mondiale {Le origini della seconda guerra mondiale, Laterza, 1961). Questa fulminea apparizione serve a stabili­re punti fermi nella visione storica di Zuni­no. Ma è meglio che il lettore legga diretta- mente, perché questo finale è ancora più ra­pido e sincopato del solito e in più allarga immensamente il territorio. Certe pagine de­stano innegabilmente attenzione: l’Urss e l’America viste dall’Italia negli anni venti e i conti che l'italiano sogna di fare col mondo. Quello che manca (e non si sa con che cosa sostituirlo) è il tratto temporale 1935-1945. Zunino impianta su questo tempo non esa­minato giudizi troppo impegnativi. Il limite a cui fermarsi poteva essere quella frase: “Via via l’aspirazione all’impero giungeva ad assumere cadenze kiplinghiane” (p. 359). Ma le pagine dedicate alla scomparsa della distinzione diritto-dovere negli affari inter­nazionali sono quasi inerti e la conclusione stiracchiata: “Il punto di arrivo non poteva

che essere un compatto e inestricabile aggre­gato di immagini destinato ad occupare un settore non secondario dell’orizzonte menta­le degli italiani” (p. 360).

Come il protagonista della favola dissemi­nò il terreno di sassolini per ritornare dal bosco, Zunino ha lasciato lungo il percorso non pochi dubbi. Ma in fine è uscito fuori dall’altra parte. Se si potesse cercare il pun­to medio in uno studio così pieno di inten­zioni penso che si troverebbe piuttosto in alto.

Se l’autore non apriva le ostilità con tutti quelli che, secondo lui, invece di esaminare la foresta, avevano piantato sul limite la bandiera dell’antifascismo avrebbe avuto maggiore coordinazione. Invece ha voluto contestare liberaldemocratici, marxisti e la storiografia della continuità', colpevole que- st’ultima di avere sospinto ai margini l’ideo­logia, così da far convivere quelle due cose, vale a dire “le tenebre della continuità e i fulgori della resistenza” (pp. 24-25). Il teore­ma finale di Zunino è invece questo: tra le folle oceaniche fasciste e i cenacoli sparuti degli antifascisti, tertium datur: i vincitori della seconda guerra mondiale; punctum diabolicum: il basso continuo dagli otto mi­lioni di baionette ai tredici milioni di voti De.

Per la relazione con fatti duri e severi l’o­pera di Zunino ci sembra più letteraria di quanto lo sia una riflessione di Robert Mu- sil che, dopo la lettura di questo libro, pon­go al principio, idealmente: “Nello splendi­do tempo imperiale le strade sono piene di gente, la vita continua. Sebbene ogni giorno centinaia di persone vengano ammazzate, incarcerate, picchiate, ... Questa non è sventatezza ma piuttosto da paragonare al­l’impotenza di un gregge che viene lenta­mente spinto in avanti mentre i primi cado­no in braccio alla morte. Esso fiuta, in­tuisce, diventa inquieto, ma la sua psicolo­gia non conosce reazioni, semplicemente non sa difendersi da questa situazione. Così

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anche qui si vede quanto siano determinanti i modelli indotti di comportamento sociale, il tipo di controllo” (Musil, Diari, 1899- 1947, vol. II, Torino, Einaudi, 1980, p. 1069). Zunino aveva in mente di descrivere

“l’arte di dirigere l’immaginazione” . Forse si è fatto prendere la mano da elementi esterni fino a sprecare talento.

Pietro Albonetti

Il filantropismo socialista al femminiledi Stefano Pivato

Ancora oggi, a quasi trenta anni di distanza dalla approvazione della legge Merlin, non sembra avere trovato una equa collocazione politico-culturale la motivazione di fondo di quel provvedimento. Le polemiche fra de­trattori e sostenitori di quella legge hanno lasciato piuttosto in ombra i moventi ideali — condivisibili o meno — di quella legge.

Chi era Lina Merlin? Da quali esperienze proveniva? A questi interrogativi cercherem­mo invano una risposta nel Dizionario bio­grafico di Franco Andreucci e Tommaso Detti (Il movimento operaio italiano. Dizio­nario biografico 1853-1943, Roma, Editori Riuniti, 1975-1979) nel quale la parlamenta­re socialista non compare. L’oblio che regna attorno alla figura della Merlin è, in parte, lo stesso che circonda una delle opzioni poli­tico-culturali più rappresentative nel movi­mento operaio italiano: quella del cosiddetto filantropismo socialista. In effetti su questo originale e ancor poco studiato filone della cultura del movimento operaio hanno a lun­go pesato i liquidatori giudizi di Antonio Gramsci. O, più recentemente, alcune rivisi­tazioni compiute attorno ad uno dei suoi campioni più rappresentativi, Edmondo De Amicis (in particolare, Sebastiano Timpana­ro, Il socialismo di Edmondo De Amicis. Lettura del “primo maggio”, Verona, Berta- ni, 1983) volte ad interpretare la pedagogia popolare dello scrittore ligure in chiave di

ortodossia marxista, snaturandolo da quello che verosimilmente appare il contesto di cui fu uno dei più significativi testimoni. E del filantropismo socialista, considerato in una ipotesi di lungo periodo, la legge Merlin de­ve verosimilmente considerarsi una eredità postuma, e più specificatamente di quella battaglia contro la “tratta delle bianche” che costituì uno dei momenti di maggior impe­gno del femminismo laico d’inizio Nove­cento.

Un volume che consente di riflettere su questi temi e di dare una identità meno vaga alle applicazioni pratiche del filantropismo socialista nella sua versione al femminile, è quello di Annarita Buttafuoco (Le Mariucci- ne. Storia di un’istituzione laica: l’Asilo Ma­riuccia 1902-1932, Milano, Angeli, 1985, pp. 491, lire 28.000). L’indagine analizza, spin­gendosi fino alla vigilia della seconda guerra mondiale, le sorti di una delle più originali istituzioni varate da quel “femminismo pra­tico” d’inizio secolo nell’ambiente milanese. L’Asilo Mariuccia venne fondato nel 1902 a Milano in aperto contrasto col cosiddetto “filantropismo assistenziale” e col pietismo di stampo confessionale. Animatrice del progetto fu Ersilia Majno Bronzini, coadiu­vata nell’opera da alcune militanti dell’U­nione femminile.

Moglie di Luigi Majno, deputato del Psi e difensore degli operaisti al processo del

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1887, Ersilia Majno era stata, nel 1899, fra le promotrici dell’Unione femminile di cui sarebbe stata anche presidentessa. La Maj­no, assieme a Linda Malnati e Carlotta Cle­rici, apparteneva a quella cerchia del mili­tantisme socialista milanese, assai attiva non solo nella organizzazione del proletariato femminile ma anche nel propugnare un col- legamento di questo con gli strati più illumi­nati del ceto progressista. In stretto contatto con Antonietta Giocomelli (“l’amazzone del cattolicesimo”), la Majno vantava anche una vasta cerchia di amicizie nell’ambiente del femminismo internazionale. Secondo Buttafoco, anzi, la sociologa scozzese Lucy De Bartlett, conosciuta nell’ambito della commissione reale per lo studio della delin­quenza minorile, ebbe non poca influenza sulla fondatrice dell’Asilo Mariuccia. Anzi, proprio quella visione “mistica” , per certi aspetti evangelica, che Buttafuoco attribui­sce alla Bartlett, convinta che il trionfo della causa femminile rispondeva ad una missione di natura religiosa, fu, probabilmente, alla base dell’amicizia fra le due donne.

Scopo della istituzione educativa fondata dalla Majno era quello di prevenire la “pia­ga” della prostituzione considerata come “estrema conseguenza della oppressione su­bita dalle donne” (p. 29). Dunque, l’Asilo Mariuccia doveva rispondere allo scopo di avviare un esperimento in cui “senza distin­zione di religione e di nazionalità potessero essere accolte le giovani esposte al pericolo di venire immesse nel giro della prostituzio­ne, vale a dire le figlie di prostitute o di car­cerati, le bambine abbandonate dalle fami­glie prive di assistenza o vittime di maltrat­tamenti, di violenza carnale, di incesto” (p. 122). L’Asilo Mariuccia — tuttora operante — nasceva dunque in quel clima di incipien­te industrializzazione allo scopo di prevenire o rimediare ad uno di quei “guasti” — se­condo il lessico cattolico del tempo — più evidenti del processo di inurbamento. Ma a differenziarlo dalle analoghe istituzioni che

in Italia — e in particolare a Milano — sor­gono con lo scopo di prevenire o curare la “tratta delle bianche” , non era solo il carat­tere aconfessionale che lo distingueva da analoghe iniziative gestite da religiosi, ma anche uno stile meno burocratico e uno spi­rito di tolleranza inconsueto. Ma il carattere più originale dell’Asilo Mariuccia, al di là delle etichette istituzionali e culturali, fu il tentativo di farne una esperienza le cui po­tenzialità non si esaurivano all’interno del­l’Asilo ma, più latamente, di farne “un idea­le campo di prova, quasi un laboratorio do­ve sperimentare le possibili combinazioni di una diversa identità sociale delle donne” (p. 50).

Da questa angolazione dunque si può co­gliere uno degli aspetti più originali della ri­cerca della Buttafuoco, se considerata nel­l’ambito disciplinare della storia della edu­cazione, e più specificamente della storia delle singole istituzioni educative.

In anni più o meno recenti nella storia dei partiti sul piano metodologico si è fatto rife­rimento all’ormai nota asserzione gramscia­na secondo la quale “scrivere la storia di un partito significa niente altro che scrivere la storia generale di un paese da un punto di vista monografico per porne in risalto un aspetto caratteristico”. In modo analogo io credo che oggi fare la storia di una istituzio­ne educativa non significhi solo ripercorrer­ne lo sviluppo e le vicende secondo linee in­terne ma, più latamente, comprendere quel­lo sviluppo e quelle vicende in relazione al contesto sociale, umano, politico ed econo­mico che lo circonda.

E questo, per l’appunto, è ciò che emerge dalla ricerca della Buttafuoco, il cui risulta­to non è dunque un libro su una istituzione educativa femminile ma, più ampiamente, un libro sulla condizione della donna all’ini­zio del Novecento.

Ma che cosa, al di là di una generica mo­dernità nei metodi educativi, contraddistin­gueva l’educazione “laica” dell’Asilo Ma­

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riuccia rispetto alle esperienze dell’assisten­zialismo confessionale? L’interrogativo tra­valica — a parere di chi scrive — i confini dell’Asilo Mariuccia per chiamare in causa la sostanza stessa del filantropismo sociali­sta, la cui molteplice eredità si coglie anche nelle simpatie — umane e culturali — che le operatrici dell’asilo nutrono. Esemplare, al proposito, l’ammirazione — sia pure con qualche riserva — della Majno per Camillo Prampolini e per la figura del “Gesù sociali­sta” , la cui teorizzazione come modello pro­pagandistico si deve appunto al socialista reggiano.

In effetti, al di là di tutte le sfumature di cui il filantropismo socialista appare per­meato, alla base sembra esserci quella sorta di “religiosità laica”in cui gli oggetti di culto e di venerazione sono deprivati della dimen­sione trascendente e si materializzano in fini e simboli concreti. L’Asilo stesso diviene og­getto di culto e di venerazione e l’opera edu­cativa è essa stessa concepita come una “missione”.

Chi scrive non concorda con chi, ancora recentemente, ha definito la morale sociali­sta come “piuttosto povera” o come un si­stema teorico con “non poche incertezze e lacune” (in particolare, Patrizia Audenino, Etica laica e rappresentazione del futuro nel­la cultura socialista dei primi del Novecento, “Società e storia” , 1982, n. 18, pp. 877- 919). Certo come sistema morale l’educazio- nismo socialista fra Ottocento e Novecento deve ancora essere oggetto di una analisi si­stematica; ma è indubbio che quello che Ro­berto Michels definiva il movente “morale” come la componente più caratteristica del socialismo italiano, abbia in effetti inciso più profondamente di quel che si creda, non solo nella storia del movimento operaio ma nella storia del costume e della mentalità della società italiana (R. Michels, Soziali- smus in Italien, Intellektuelle stròmungen, München, Meyer und lessen, 1925). E il vo­lume della Buttafuoco lo testimonia. Si pen­

si, ad esempio, ad alcuni fra i più significati­vi capitoli come quelli dedicati alla educa­zione del corpo, per i quali l’autrice utilizza le relazioni delle docenti di igiene. Così, ad esempio, scriveva Amalia Moretti Foggia al­la conclusione di un corso sulla fisiologia femminile tenuto alle allieve del Mariuccia: “Ho avuto anche sempre presente di vincere i falsi pudori delle fanciulle: così ho parlato liberamente delle mestruazioni (e dell’igiene necessaria) della gravidanza, del parto e del puerperio, nella convinzione che fosse dop­piamente utile e necessario farlo: alle prime parole ho sorpreso qualche sguardo e qual­che sorriso malizioso che io ho subito acer­bamente rimproverato, facendo osservare come nulla ci sia di ridicolo e di vergognoso nella natura” (p. 267).

Quanta differenza da quella sorta di “ne­gazione del corpo” che le ispettrici ministe­riali rilevano quasi ovunque nelle loro ispe­zioni periodiche presso gli Istituti retti da personale religioso femminile. Laddove, co­me ci informano alcuni rapporti giacenti presso l’Archivio centrale dello Stato, man­cava quasi ovunque la tinozza per il bagno giacché le monache vi annettevano una offe­sa al pudore.

Certo, all’autrice va riconosciuta una no­tevole dose di fortuna nell’aver reperito un archivio la cui ricchezza appare, a chi abbia un minimo di frequentazione con i disordi­nati archivi delle istituzioni scolastiche, con pochi confronti.

Materiali come le lettere che le “mariucci- ne” si scambiavano di nascosto fra i rami delle siepi e sotterrandoli in luoghi convenu­ti (e dalla Buttafuoco trovati ancora sporchi di terriccio, macchiati di erba e in parte lace­rati) ci consentono di spiare, di penetrare nei sentimenti più profondi e segreti delle con­vittrici e, dunque, in uno spicchio dell’ani­mo femminile del tempo.

E proprio nell’averci restituito questi frammenti dell’animo e della sensibilità fem­minile del periodo si deve convenire che

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l’autrice ha assolto ad uno dei compiti prio­ritari che Marc Bloch attribuiva alla ricerca storica. Ossia il “bisogno di cercare, di tro­vare l’uomo” — ma in questo caso si do­vrebbe dire la donna — “là dove esso è (o dove talvolta si nasconde) l’uomo vivente, l’uomo sensibile, l’uomo pieno di passione e di ardore e di temperamento”. (Marc Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, Torino, Einaudi, 1969, p. 6).

Occorre dunque concludere che se c’è sta­to in questi ultimi anni un campo della sto­riografia contemporanea nel quale l’apriori­smo ideologico è prevalso sui risultati della ricerca, questo è stato appunto quello della storia delle donne. Una serie di “contributi

per ulteriori ricerche” , discussioni a non fi­nire sulle metodologie e sulle discipline più affini alla storia del sentimento e dell’agire al femminile hanno contraddistinto una sto­riografia a cui, spesso, ha fatto difetto il do­cumento.

In questa direzione, dunque, il libro della Buttafuoco rende giustizia ad uno dei settori più originali della storiografia contempora­nea e va considerato come una sorta di inci­pit di una storia al femminile troppo sovente attardatasi su “prodotti stranieri dal fascino avvolgente eppure, alla resa dei conti, al­quanto poco solidi” (p. 21).

Stefano Pivato

Paesaggio e vita rurale nelle Marchedi Guido Crainz

L’Associazione bancaria italiana ha in corso un censimento quantitativo dei volumi di storia, economia ed arte pubblicati da tutti gli istituti di credito, e il lavoro si presenta improbo: i volumi editi dalle Casse di Ri­sparmio, ad esempio, superano da soli il mi­gliaio e iniziano a comparire nei primi anni del Novecento. Ancor meno facile è selezio­nare all’interno di questa immane produzio­ne, sviluppatasi spesso all’insegna del super­fluo e deH’inutilmente costoso, le opere si­gnificative, le pubblicazioni meritorie: certo però ve ne sono, e iniziano ora ad acquistare spessore e peso relativo maggiori che in pas­sato (altrettanto positivamente, del resto, va giudicata la crescente collaborazione fra banche e case editrici, che permette a una parte almeno di questi volumi di avere un pubblico più ampio di quello costituito dai più facoltosi clienti o dai più prestigiosi in­terlocutori delle banche stesse).

Esempio di notevolissimo interesse di scel­te più mature che affiorano all’interno della politica editoriale di taluni enti è un volume curato da Sergio Anseimi, Insediamenti ru­rali, case coloniche, economia del podere nella storia dell’agricoltura marchigiana, pubblicato dalla Cassa di Risparmio di Jesi nel 1985 e posto anche in commercio — tra­mite il “Consorzio Librai Marchigiani” — al prezzo di lire 60.000, di ben 420 pagine. È qui praticamente rovesciata (o meglio: radi­calmente rifiutata) la caratteristica che spes­so contraddistingue certi libri-strenna, l’oc- casionalità: il volume in esame raccoglie i ri­sultati di un lungo lavoro di confronto e di ricerca che ha avuto in questi anni i suoi ri­ferimenti principali nelle Università di Urbi­no e di Macerata e nella rivista “Proposte e Ricerche” ma che ha coinvolto anche studio­si di diversa collocazione.

Di qui lo spessore, la problematicità, la

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ricca articolazione di un approccio che con­sidera la vicenda mezzadrile nell’arco lungo del suo dipanarsi e nella globalità delle sue conseguenze nei modi di lavorare e di vivere. Il nesso fra tipi di abitazione rurale ed eco­nomia del podere è l’asse centrale del discor­so che si snoda attraverso i diversi saggi, e strettamente funzionale alla definizione di esso è l’accurata parte iconografica: l’inser­to centrale — Itinerario a colori attraverso la casa rurale marchigiana, con fotografie di Gianluigi Mazzufferi e testi di Renzo Paci — potrebbe costituire un libro a sé, ed è poi completato e integrato dalle immagini speci­fiche che accompagnano in modo ragionato i vari saggi.

I diversi contributi si misurano diretta- mente sia con la corposa presenza della vi­cenda mezzadrile nella regione (le oltre100.000 case coloniche, parzialmente inve­stite ora da processi di deterioramento, sono il simbolo fisico di una realtà “invisibile” ancora più diffusa) sia con alcune questioni generali cui quella vicenda rimanda.

Nel concludere il suo denso saggio intro­duttivo, che esamina l’itinerario della mez­zadria a partire dal 1400-1500 sino alla metà del Novecento, Anseimi si chiede: “Che cosa ha permesso alla mezzadria marchigiana di vivere l’incredibile lunga ‘transizione dal feudalesimo al capitalismo’? Che cosa ha consentito alle fragili colline d’argilla di reg­gere per secoli alla intensa coltura cerealico­la...?” . Non sono possibili risposte facili, osserva Anseimi, ma soprattutto le domande rischiano di essere mal poste: “Nell’ambito della modellistica economica la mezzadria può anche essere considerata una transizio­ne, e se si vuole una anomalia logica che contrasta con la lucidità dei processi teorici, ma gli uomini vivono senza tener conto di essi, hanno l’abitudine di badare ai propri interessi e san comparare” . Da questo punto di vista, continua Anseimi, la mezzadria marchigiana ha patito meno dell’agricoltura di altre zone lo squilibrarsi progressivo del

rapporto fra uomini, modelli di vita, risorse: per cogliere ciò che ha reso “forte” la som­ma di oltre centomila sistemi poderali incen­trati sulla presenza continua del colono è ne­cessario non trascurare l’assetto geomorfo­logico dei terreni, le difficoltà che esso po­neva all’introduzione di innovazioni analo­ghe a quelle che trovano applicazione in al­tre zone (in Lombardia per certi versi, nel­l’area tosco-emiliana per altri).

In questo quadro prevale dunque la sotto- lineatura che “l’organizzazione poderale, nel suo progressivo e coerente definirsi tra XV secolo e Novecento inoltrato, nell’area collinare è quella che meglio ha consentito di produrre derrate agricole su piccole unità fondiarie e ha salvaguardato il territorio, ponendo in essere una miriade di ecosistemi economici perfettamente integrati tra loro, non solo attraverso la varietà delle colture nel promiscuo del seminativo-vitato-olivato, con relativa rotazione delle foraggere, ma mediante un ingegnoso sistema idrico di uti­lizzazione delle acque piovane e con l’arma­tura di difese “naturali” costruita con siepi e presenza non casuale di alberi da legna, da frutto, da foglia. La casa colonica, con le appendici di capanne, stie e ripari, in buona posizione sul podere, contribuisce a far sì che il predio si configuri anche quale entità riassuntiva dell’ambiente nel quale è inse­rito...” .

Questo abbandono dell’ottica dei “ritar­di” e dei “residui” può forse sembrare bru­sco: esso però trova validi argomenti pole­mici (“non sarebbe umoristico — annota di sfuggita Anseimi — pensare ad un medioevo marchigiano del Novecento?”) e soprattutto permette un’analisi dell’economia del pode­re estremamente attenta alla funzionalità e alle ragioni specifiche dei diversi elementi. Sono qui ripresi e “irrobustiti” , del resto, ragionamenti e riflessioni già proposti — co­me s’è detto — da Anseimi e da altri in più di un’occasione: basti citare su questo punto il dibattito che si sviluppò al convegno orga­

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nizzato ad Urbino nel 1979 dall’Istituto Al­cide Cervi su Ribellismo, protesta sociale, resistenza nell’Italia mezzadrile fra XVIII e X X secolo (Bologna, Il Mulino, 1980, An­nali 2/1980), e le messe a punto che in quel­l’occasione si ebbero. Per citare solo la più ovvia: non viene negato per questa via il ca­rattere sostanzialmente subordinato del rap­porto di lavoro che la mezzadria instaura né il fatto che essa riflette l’egemonia delle città sulle campagne, ma vengono però indicati i limiti di un discorso che a ciò si arresti senza indagare più a fondo la specificità di rap­porti complessi, collocati nella loro dimen­sione reale.

Non v’è dubbio che questa griglia proble­matica permetta più di altre l’approfondi­mento dell’indagine su molteplici versanti, e da questo punto di vista un altro saggio cen­trale del volume è quello di Renzo Paci, La casa rurali: premesse e questioni di metodo. È qui riaffermata — e tradotta in analisi e osservazioni puntuali — la necessità di supe­rare appieno ogni visione del mondo rurale come immobile e di collegare gli studi sugli insediamenti e le abitazioni rurali a quelli “sui rapporti di produzione, sulla distribu­zione della proprietà terriera, sulla struttura produttiva e sulla stessa evoluzione demo­grafica” . Per questa via è possibile operare proficue saldature fra “elementi apparente­mente divergenti, ma che di fatto afferisco- no allo stesso tema, quali, ancora una volta, gli interventi del potere e del capitale cittadi­no, le innovazioni e le permanenze delle tec­niche e dei modelli costruttivi anche in rela­zione al substrato delle tradizioni rurali lo­cali, l’influenza delle diverse forme assunte nel tempo dal controllo della città sul terri­torio, nonché le scelte fatte dai ceti domi­

nanti per organizzare il prelievo dei prodotti agricoli e la loro mercantilizzazione, agendo sulla distribuzione delle colture o sui rappor­ti di produzione”.

Ecco allora che lo studio della casa rurale diventa lo studio non solo del suo adeguarsi agli sviluppi della policoltura poderale ma anche delle condizioni di quegli sviluppi. Ed ecco anche che esso si allarga all’analisi de­gli andamenti demografici e delle strutture familiari — questioni qui puntualizzate pre­liminarmente da Carlo Vernelli — e tenta di cogliere quei processi che portano progressi­vamente, nel nostro secolo, alla perdita di ruolo e funzioni dell’unità colonica (anche se si ha talora l’impressione di una forse in­sufficiente attenzione alle prime “intrusio­ni” nelle zone mezzadrili dei processi di mo­dernizzazione e al rapporto fra essi e tensio­ni sociali diffuse e sotterranee che in qualche modo precedono i momenti più espliciti di conflittualità).

Attorno a questo impianto problematico si articolano i circa trenta saggi che com­pletano il volume: essi prendono general­mente avvio da tipologie abitative partico­lari e utilizzano un’ampia messe di fonti. Non è possibile in una breve nota ripercor­rerli adeguatamente, né misurarsi appieno con i problemi che il volume solleva e con le risposte che propone: le stesse osserva­zioni critiche (pur possibili, come s’è in parte accennato) devono più distesamen­te tradursi nell’individuazione di percorsi ulteriori di ricerca, nella consapevolezza che un volume di questo tipo è destinato ad essere un punto di riferimento, un “interlo­cutore” rilevante per molto tempo.

Guido Crainz

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Le tappe della “soluzione finale”di Liliana Picciotto Fargion

Alla fine del 1944, l’avanzare degli eserciti alleati a est come ad ovest dell’Europa, por­tò i tedeschi alla necessità di abbandonare territori dove avevano precedentemente im­piantato centinaia di luoghi di detenzione e di campi di concentramento. Nella loro otti­ca, le possibilità di risolvere il problema del­le migliaia di detenuti erano tre: a) lasciare che i prigionieri e i deportati cadessero in mano degli alleati e, in definitiva, secondo il loro modo di vedere, contribuire al rafforza­mento economico e militare del nemico; b) ucciderli tutti sul posto; c) evacuarli verso territori fuori pericolo, nell’entroterra del Reich. Benché sia difficile orizzontarsi nelle intenzioni naziste dell’ultima ora che, nel crollo generale di tutto il sistema sembrava­no, prive di ogni logica, in generale pare prevalere la terza opzione: l’evacuazione, ad eccezione dei malati e degli intrasportabili. Per questi ultimi, a seconda della situazione, poteva sopravvenire la seconda ipotesi, cioè il massacro sul posto, come avvenne nel campo di Gross Rosen nel gennaio del 1945, oppure l’abbandono più totale, come avven­ne per lo più nel campo di Auschwitz.

Analizzando il modo in cui si svolsero le varie evacuazioni almeno due elementi ap­paiono costanti e ricorrenti nella scelta nazi­sta: la tendenza a mimetizzare o cancellare le tracce dei delitti commessi, la tendenza a conservare i prigionieri come forza-lavoro a disposizione dell’economia tedesca. Il pro­blema ancora aperto rimane invece quello di capire se il trattamento dei prigionieri, eva­cuati o abbandonati, fosse o meno uguale per tutti i campi; se vi fossero direttive speci­fiche per la scelta degli intrasportabili, per il trattamento di quelli che rimanevano indie­tro durante le marce perché indeboliti o di quelli che tentavano la fuga: se vi fosse in

ultima analisi una “politica delle evacuazio­ni” . Questi e altri problemi vengono affron­tati nel bel lavoro di Andrej Strzelecki dal ti­tolo Evakuacja, liqwuidacja i wyzwolenie KL Auschwitz (Evacuazione, liquidazione e liberazione del KL di Auschwitz, Auschwitz, Museo di Stato di Auschwitz, 1982, pp. 365, sip).

Il libro costituisce il primo tentativo di dar forma organica e documentata a un pro­blema che è stato completamente sottaciuto dalla storiografia concentrazionaria. Si trat­ta di una questione di non poca rilevanza dal momento che riguarda più di 200.000 perso­ne che, alla fine della guerra, furono costret­te con disastrosi trasporti in treno e con massacranti marce forzate, a spostarsi da un campo all’altro. Erano colonne di prigionie­ri stanchi, affamati, terrorizzati, congelati, sballottati da un punto all’altro della carta geografica, tormentati da guardiani Ss, che pur nella caduta rovinosa del Terzo Reich e nel conseguente disordine gerarchico, con­tinuavano ad infierire su di essi. L’auto­re prende particolarmente in esame la si­tuazione del campo di concentramento di Auschwitz.

Con l’avanzare delle linee sovietiche, i te­deschi furono costretti ad evacuare in gran fretta il campo verso occidente e, mancando i treni per i più, costrinsero i prigionieri a marce forzate nella neve. Secondo quanto è emerso dal processo contro Rudolf Hòss, comandante di Auschwitz (Cracovia, 1947), l’ordine di evacuazione generale dal campo fu impartito dal Capo supremo delle Ss e della polizia di Breslavia Ss Obergruppen- fùhrer Schamausser a metà gennaio del 1945. In seguito a questo ordine, furono fat­ti uscire tra il 17 e i 21 gennaio dal campo di Auschwitz I, da Birckenau e dai sottocampi,

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circa 56.000 detenuti ed avviati, incolonnati a piedi, in direzione ovest. Altri 2.200 pri­gionieri dei sottocampi furono evacuati il 23 gennaio verso ovest con i treni. Furono la­sciati indietro, perché intrasportabili, circa 8500 prigionieri, più qualche altro che nella confusione era riuscito a rintanarsi.

A Glewitz e a Wodziglow le colonne ap­piedate venivano caricate su treni merci che prendevano la direzione di Mauthausen, Ra- vensbrück e Buchenwald, posti al centro del- l’entroterra nazista. Le condizioni dei tra­sporti erano, se possibile, ancora peggiori di quelle delle marce. Così racconta nel volume di Strzelecki, Josef Tabaczynski: "... sui va­goni di circa 20 mq. venivano caricati 100 prigionieri, c’erano cioè 5 prigionieri per ogni metro, non ci si poteva muovere, il tre­no andava molto lentamente, i prigionieri non erano in alcun modo protetti dal gelo e cadevano in deliquio, scene dantesche, ognuno combatteva per il posto che occupa­va...” . Da Glewitz, improvvisato campo di concentramento temporaneo, venne effet­tuata una parziale evacuazione verso Ble- chammer posto poco a nord-ovest che fu tra le più tragiche: poiché le truppe sovietiche avanzavano a semicerchio, Blechammer era destinata ad essere raggiunta ancora prima di Auschwitz (il 21 gennaio 1945); le Ss in ritirata incendiarono e fecero saltare con granate le baracche piene di prigionieri, sparando all’impazzata anche con le mitra­gliatrici.

Dall’inizio del 1945 tutto l’intero universo concentrazionario si mise in movimento: fu­rono effettuate evacuazioni da Stutthof a Sachsenhausen, da Flossemburg a Bergen Belsen, da Buchenwald a Terezin tutte svol­tesi nelle medesime condizioni. Quanto ai deportati di Auschwitz lasciati nel campo, ricordo che il nostro Primo Levi nel capitolo Storia di dieci giorni del suo libro Se questo è un uomo (Torino, Einaudi, 1958), dà una mirabile descrizione del loro stato: attana­gliati dalla fame, dal freddo, dal terrore dei

gruppi sparsi di Ss, che presi dal panico del­la fuga sparavano su qualsiasi cosa si muo­vesse. I deportati vissero abbandonati dagli aguzzini e dal mondo, agonizzanti per nove interminabili giorni, prima che le avanguar­die russe li trovassero in mezzo ai cadave­ri. Con le colonne di evacuazione avevano lasciato il campo non solo le persone vali­de ma anche quei malati che avevano credu­to così di sfuggire al massacro che temeva­no le Ss avrebbero compiuto al momento dell’abbandono del campo. Come sempre sotto il regime nazista, niente era sicuro: scelte casuali decidevano della vita e della morte.

Come si sa, tutta la ricerca “concentrazio- naria” risente di mancanza di documenta­zione ufficiale nazista, sistematicamente e deliberatamente distrutta alla fine della guerra. Anche per Strzelecki non è stato fa­cile ricostruire la storia degli ultimi mesi di Auschwitz sulla base della documentazione frammentaria e scarsamente omogenea rac­colta: qualche documento tedesco, gli elen­chi nominativi dei trasferiti nei campi posti nell’entroterra del Reich, i protocolli delle esumazioni dei corpi dei prigionieri massa­crati durante le marce e, non ultime, le te- stionianze, le relazioni, i ricordi raccolti dal Museo di Auschwitz e da altri istituti po­lacchi.

Piani generali tedeschi per le evacuazioni, malgrado le molte ricerche, non si sono tro­vati, anzi la storica francese Olga Worm- ser-Migot dubita fortemente che siano stati impostati: sarebbe stata, dice, una ammis­sione implicita da parte degli organismi re­sponsabili, della disfatta incombente e ciò non era in alcun modo contemplato nelle al­te gerarchie fino alla fine di dicembre del 1944. Quanto al trattamento dei prigionieri evacuati, non è rimasto nulla, si è ritrovata però l’istruzione per il campo di Stutthof del 22 (o 24) gennaio 1945 che, per estensione, può ritenersi valida anche per Auschwitz. Viene raccomandato esplicitamente alle Ss

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di scorta l’uso di armi da fuoco contro pri­gionieri che tentavano la fuga. Ma come mai, si chiede l’autore, le Ss massacravano anche i prigionieri che non tentavano di fug­gire, ma che si fermavano perché troppo de­bilitati per continuare? Essi agivano di pro­pria iniziativa o su ordini superiori? Un massacro così generalizzato e delle dimen­sioni come si ebbe (la metà circa degli eva­cuati soltanto arrivò a destinazione) non po­tè essere soltanto un’iniziativa proveniente dalle basse forze Ss ma anche dagli ufficiali che capeggiavano le colonne di marcia.

Del resto, da quando furono istituiti i campi di concentramento, le guarnigioni erano state sistematicamente abituate a trat­tare i prigionieri come nemici dello stato e a non tenere in alcun conto la loro vita. Le difficoltà che rappresentavano i prigionieri inabili alla marcia, venivano risolte sempli­cemente con la loro soppressione. Formal­mente, coloro che erano stati messi in strada erano considerati gli abili; quelli che rompe­vano la fila durante il cammino, perché esausti, impedivano l’ordinato svolgimento della marcia e la soluzione più facile per le Ss era appunto trattarli come fuggiaschi o ribelli. I prigionieri, per parte loro, erano concentrati sullo sforzo essenziale di soprav­vivere e durare. Esauriti e spauriti non bada­vano a quanto capitava agli altri. Questa è la ragione per la quale oggi mancano testimo­nianze documentate: i prigionieri più deboli si trascinavano di solito in coda alle colonne e quando cadevano a terra erano uccisi dalle Ss. I più forti, che si trovavano davanti, ave­vano limitata possibilità di osservare che co­sa accadeva in coda. Udivano spari e vede­vano corpi di prigionieri delle colonne prece­denti perché le strade erano disseminate di cadaveri. Le relazioni e i ricordi raccolti dal­l’Archivio del Museo di Auschwitz si limita­no quindi a asserzioni generali ove si dice che le Ss sparavano e molti morivano; non vi è però nessuna descrizione di come anda­rono le cose.

Sulla data esatta dell’elaborazione dei pia­ni di evacuazione da Auschwitz non vi sono annotazioni precise: fin dal settembre del 1944 si era iniziata l’evacuazione dei magaz­zini e nell’agosto-settembre, a piccoli grup­pi, prigionieri, che costituivano eccedenza di manodopera, venivano trasferiti, senza però che si parlasse ancora di evacuazione gene­rale. Al contrario, nella primavera-estate del 1944, i nazisti pensavano ancora che il baci­no industriale dell’Alta Slesia fosse sicuro e costituisse un importante retroterra per l’e­vacuazione dei campi posti più a est: vi fu infatti il trasferimento dei prigionieri dal campo di sterminio di Majdanek verso Au­schwitz. Nell’ultimissima tavola riassuntiva, posta alla fine del volume l’autore elenca tutti i trasferimenti di prigionieri avvenuti prima dell’evacuazione generale dal campo. Si spiega così come mai, benché gli ebrei d’Europa fossero destinati quasi esclusiva- mente ad Auschwitz, alla liberazione, se ne trovassero disseminati in tutti i campi del Grande Reich. Dal libro di Strzelecki ap­prendiamo che i trasferimenti del mese di agosto furono sette per un totale di 6.000 prigionieri verso Flossemburg, Buchenwald, Natzweiler, Neuengamme, Ravensbruck; nel mese di settembre furono sedici per un tota­le di 14.000 prigionieri verso Flossemburg, Buchenwald, Ravensbruck, Mauthausen, Dachau e Stoccarda; in ottobre furono ben cinquanta per un totale di 26.000 prigionieri anche verso Gross Rosen, Stutthof, Sach- senhausen e Bergen Belsen; in novembre fu­rono quarantatre per un totale di 14.000 pri­gionieri; nel mese di dicembre furono dodici per un totale di 2.800 prigionieri; nel mese di gennaio del 1944 furono nove per un totale di 1.800 uomini. Prima ancora dell’evacua­zione generale di fine gennaio avevano dun­que già lasciato Auschwitz circa cinquanta­mila detenuti. Degli altri circa cinquantami­la deportati evacuati dopo il 17 gennaio, og­getto dello studio di Strzelecki, arrivarono a destinazione solo circa trentasettemila, spar­

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pagliati agli inizi di febbraio per lo più tra Buchenwald, Mauthausen e Ravensbruck. Questo vuol dire che circa il quaranta per cento di essi morì per strada: si consumò

così l’ultimo atto dello sterminio compiuto dal sistema dell’oppressione nazista.

Liliana Picciotto Fargion

Letteratura e ideologia nella cultura russadi Pier Paolo Poggio

Il libro di Vittorio Strada (Urss-Russia, Riz­zoli, Milano 1985, pp. 453, lire 30.000), che raccoglie una serie di saggi e numerosi arti­coli apparsi sul Corriere della Sera, si apre sulla constatazione dell’incapacità della cul­tura europea contemporanea di rinnovare la sua riflessione sulla Russia, e ciò proprio a partire dal momento in cui questa entrava in una grande mutazione storica. Di fronte al nodo della continuità-discontinuità tra Rus­sia e Urss la cultura europea del XX secolo non si dimostra all’altezza di questo tema decisivo (e la cosa non è senza rapporti con la decadenza del vecchio continente).

Il grande ciclo della riflessione europea sulla Russia (così ben analizzato da Dieter Groh in La Russia e l’autocoscienza d ’Euro­pa. Saggio sulla storia intellettuale d ’Euro­pa, Torino, Einaudi, 1980) si isteriliva nel­l’adesione acritica al modello sovietico e, successivamente, nella superficialità della “sovietologia” . Anche di qui deriva il carat­tere enigmatico dell’Urss, che il tempo non ha diluito ma accresciuto, così che oggi ci pare di avere un’informazione sufficiente sull’età di Lenin e Stalin ma non riusciamo a capire che cosa è diventata l’Unione Sovieti­ca e dove si sta dirigendo. Negli scritti di Strada non c’è una prognosi sul futuro rus­so-sovietico, anche se in vari punti egli sem­bra propendere per la diagnosi “nichilisti- co-scientifica” di Zinov’ev, ma uno sforzo costante di andare alle radici dell’enigma.

In questo lavoro utilizza due principali chiavi di lettura, due strumenti euristici per scoprire una verità ostica e inaccettabile, ben avviluppata da strati sovrapposti di ideologia: l’analisi della letteratura russa e sovietica, l’analisi del marxismo prima russo e poi sovietico. E tanto è elegante, raffinata, ariosa la sua esegesi della cultura letteraria russa (di ieri e di oggi), altrettanto è duro, perentorio, intransigente il suo attacco al marxismo, “macchina ideologica” e “stru­mento di asservimento mentale” .

In entrambi i casi, al di là di ogni possibile dissenso bisogna dire che il procedimento di Strada è legittimo e fondato: per motivi di­versi e per l’impressionante rafforzamento degli stessi motivi, la letteratura russa è an­cora oggi la via maestra per la comprensione del pianeta Russia (e la forma attraverso cui la Russia esprime la sua autocomprensione); non uno storico o un filosofo ma Solzenicyn ha fatto conoscere al mondo la verità dell’“arcipelago gulag” . E, d’altro canto, non è possibile evitare il nodo del rapporto marxismo-rivoluzione russa; per la storia e il destino della Russia così come del marxismo questo è il passaggio cruciale.

Tutto ciò si inquadra nel tentativo di spie­gare il nesso Russia-Urss (e per questa via di riflettere sul rapporto tra Russia e Europa, tra Oriente ed Occidente) senza cadere nel “mito della Russia come essenza dell’Urss o, viceversa, dell’Urss come essenza della Rus­

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sia” . Si tratta, ancora una volta, di affron­tare il tema della continuità e/o della di­scontinuità della storia russo-sovietica, col­locando all’interno di queste prospettive di­vergenti l’evento epocale della rivoluzione del 1917.

Rispetto alle soluzioni più correnti e scon­tate, Strada cerca un approccio originale, at­tivando una pluralità di percorsi, senza fare dell’ideologia marxista o, viceversa, della tradizionale autocrazia russa le cause uniche e fondamentali del sistema totalitario sovie­tico. (La prima tesi, come è noto ha attual­mente il suo principale portavoce in Alek­sandr Solzenicyn, la seconda è tipica della storiografia accademica occidentale, e ha il suo esponente di maggior spicco nell’ameri- cano Richard Pipes). A parte ogni contin­genza storica, questo nasce piuttosto dalla fusione, operata da Lenin, tra ideologia marxista e specifico russo, rappresentato in modo emblematico dal populismo.

Secondo Strada l’eredità politico-intellet­tuale populista agì come componente decisi­va nel marxismo russo (bolscevico) lo spinse a quel fatale esperimento di autorealizzazio­ne che fu la presa del potere dell’ottobre 1917. La “logica populista” dello sviluppo accelerato è indispensabile per cogliere le coordinate teoriche leniniane e pur nella sua straordinaria novità ed originalità anche la concezione del partito bolscevica deve molto al populismo rivoluzionario. Sono temi che Strada ha sviluppato in altri suoi lavori e che tornano immutati in questi scritti più recen­ti, invariata è anche una lettura a mio avviso unilaterale del populismo, una lettura stru­mentale come quella che, da opposti punti di vista, ne avevano dato Dostoevskij e Le­nin che sono un po’ i due estremi tra i quali si muove l’articolata indagine del nostro. L’anticapitalismo populista era sostanziato da una prospettiva comunitaria e da una cri­tica radicale dello sviluppo industriale che lo apparentano molto più a Gandhi che non a Lenin e Stalin. (Su questi temi mi permetto

di rimandare a P.P. Poggio, Comune conta­dina e rivoluzione in Russia. L ’obsëina, Ja- ca Book, 1978, nonché a Franco Battistra­da, Marxismo e populismo 1861-1921, id., 1982).

Così l’interesse dell’ultimo Marx per il po­pulismo segna uno scarto esplicito rispetto all’impianto ideologico del marxismo (inclu­so il nascente marxismo russo di Plecha- nov), per cui anche se Strada ha ragione nel sostenere che nell’incontro paradossale tra Marx e la Russia “sta il centro della storia del nostro tempo, la sua questione veramen­te fatale” , ha poi torto nell’appiattire Marx sul marxismo (contraddicendo il suo pro­gramma di un “ritorno” ad un Marx deideo­logizzato, “un pensatore tra gli altri...”). Proprio le posizioni di Marx sulla Russia, sia prima che dopo il suo incontro con il po­pulismo, rendono impossibile la costruzione di una continuità Marx-Lenin-Stalin, non a caso i marxisti russi erano costretti a “censu­rare” Marx e lo stesso faranno i custodi so­vietici dell’ideologia. Può darsi che il sociali­smo reale sia anche l’unico socialismo possi­bile ma è certo che il Marx dell’ideologia marxista non è il Marx reale. E questa non è solo una questione filologica. (Sull’ultimo Marx e la Russia si veda: Late Marx and the Russian Road, ed by. T. Shanin, Routledge & Kegan Paul, London 1984).

Bisogna aggiungere che gli scritti di que­sto volume coprono un arco di tempo piut­tosto ampio (del 1974 al 1984) e non è diffi­cile individuare un percorso e un mutamento nella posizione ideologica dell’autore: par­tendo da un’adesione critica al marxismo (si veda il saggio su Plechanov) egli arriva ad una critica radicale del marxismo, ad una vera e propria battaglia contro il marxismo (perché “oggi il mondo è dominato dal mar­xismo”, p. 401). Strada dice che il “caso Solzenicyn”, cioè il silenzio che da noi è ca­lato attorno allo scrittore russo, è un aspetto della “questione morale” in Italia; non pare azzardato cogliere in questo passaggio il mo­

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mento di un congedo definitivo e l’approdo ad un post-marxismo che, in questi scritti, si concretizza in una critica “eccessiva” del marxismo.

Secondo Strada l’Urss costituisce la verità provata del marxismo e tutto il marxismo è riducibile al “marxismo reale” (cioè sovieti­co), d’altro canto “con la rivoluzione bol­scevica il marxismo è diventato l’elemento centrale dell’attuale fase della storia uma­na” . Sono due tesi, a mio avviso, storica­mente infondate. Il “marxismo reale” è pre­cisamente una macchina ideologica oppres­siva e solo i marxisti che ad essa hanno sa­puto sottrarsi hanno espresso qualcosa di si­gnificativo; inoltre, ed è più importante, né il totalitarismo sovietico né la sua ideologia rituale sono al centro del mondo contempo­raneo. La loro forza atomica è del tutto inefficace per arginare una débàcle ideale di cui il libro di Strada è una significativa testi­monianza.

In ogni caso gli scritti raccolti in Urss- Russia sollecitano approfondimenti in sva­riate direzioni, ma due mi sembrano fonda- mentali. Da un lato Io studio rinnovato de­

la rivoluzione russa, su cui scontiamo un ri­tardo certo di per sé rivelatore ma ormai inac­cettabile; dall’altro il rapporto tra movimen­to operaio internazionale e Urss. E se sul pri­mo punto vi sono ostacoli concreti quasi in­sormontabili sul piano dell’accesso alle fonti storiche, per il secondo molto potrebbe essere fatto, anche in Italia ma ben poco concreta­mente si sta facendo. Dalla centralità monoli­tica si è passati ad una totale indifferenza, che evidentemente contagia anche gli storici i quali volgono i loro sguardi altrove.

Forse l’Urss-Russia non è al centro del mondo, come pensa Strada, ma lo è stata per molto tempo, oggettivamente per effetto del massimo evento epocale del nostro seco­lo, soggettivamente come mito a cui si ispi­rarono il movimento operaio organizzato e intere collettività umane. È quindi auspica­bile che la contemporaneistica italiana, spe­cie di sinistra, sappia raccogliere le stimola­zioni e provocazioni contenute nel lavoro di Strada inaugurando una stagione meno asfittica di studi sull’Urss e la Russia.

Pier P aolo P oggio

Movimenti e partiti politici

M a r i a G r a z i a M e r i g g i , Il Par­tito Operaio Italiano. Attività rivendicativa, formazione e cul­tura dei militanti in Lombardia 1880-1890, Milano, Angeli, 1985, pp. 295, lire 20.000.

Quando, nel congresso di Ge­nova del 1892, nacque il Partito dei Lavoratori Italiani, si pote­va già parlare di una storia del socialismo nostrano. Una storia fatta di idee, di programmi, di giornali, ma anche di movimen­ti organizzati, di tentativi insur­

rezionali, di lotte di fabbrica, di scioperi, di battaglie elettorali. Sul terreno ideologico nel bel mezzo del Risorgimento abbia­mo già il socialismo proto-anar­chico e libertario di Pisacane, ma è ben noto che fu soprattut­to il grande evento della Comu­ne parigina a spostare dal repub­blicanesimo interclassista di ma­trice mazziniana al socialismo quote crescenti di giovani demo­cratici sino ad allora devoti al “grande esule” oppure legati al mito garibaldino. Fu la stagione dell’anarchismo bakunista, la prima vera fase della storia del

socialismo e del movimento operaio, certo caratterizzata da ingenuità e da velleitarismo, co­m’era del resto inevitabile che fosse in un paese ancora non in­vestito in pieno dalla rivoluzio­ne industriale. E tuttavia mo­mento importante, perché di lì cominciò il distacco dalla fra­zione democratica della borghe­sia post-risorgimentale; fu l’a­narchismo il primo elemento ca­talizzatore di energie “rivoluzio­narie” i cui obiettivi non coinci­devano più con le mete politiche e ideali di Mazzini. Poi, da allo­ra, soprattutto nell’area geografi­

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ca della Val Padana e in partico­lare in Lombardia, in concomi­tanza con la sempre più marcata ed estesa affermazione del siste­ma di produzione capitalistico, fu un susseguirsi incalzante di nuove forme associative, di nuo­vi metodi di lotta, di nuovi pro­grammi. Dalla Romagna, dalla Toscana, dal Sud contadino e precapitalistico, il centro di gra­vità del movimento operaio si' spostò a Milano, dove la strada della progressiva differenziazio­ne ideologica e organizzativa del proletariato dalla borghesia, an­che quella più radicale, conobbe le tappe più importanti, ivi com­presa la fondazione di un nuovo partito. E questo fu il Partito Operaio Italiano, sul quale da tempo noti storici, si pensi a Ma­nacorda, Merli, Briguglio, han­no dedicato molte e dense pagi­ne. Eppure, a tuttoggi mancava una vera ricerca sistematica, una monografia capace di fare piena luce sui tratti distintivi di questa breve ma fondamentale espe­rienza. Lacuna che ora è stata al­meno parzialmente colmata da Maria Grazia Meriggi con un volume teso a far emergere la fi­sionomia peculiare — culturale e ideologica — del Poi. Partito operaista non solo nel nome, cioè organizzato e diretto in buona parte da operai autodi­datti, erede del giornale comu- nalista “La Plebe”, filiazione del Circolo Operaio di Milano, questo piccolo partito con ambi­zioni nazionali, di fatto eminen­temente lombardo, confinò di proposito la propria azione al solo settore delle rivendicazioni economiche, rifiutando da un lato l’intervento mediatore dello Stato, dall’altro l’allargamento della propria azione alla sfera politica. Fatti noti, tanto noti

che è ormai quasi un luogo co­mune storiografico parlare del Poi in termini di operaismo, economicismo, pansindacali- smo, o magari di settarismo ope­raistico e via elencando. Sicché, in una visione della storia di stampo più evoluzionista che storicista, per cui al buono suc­cede il meglio e al meno il più, si è soliti indicare nella nascita del Partito Socialista il salto di qua­lità che permise di superare sia l’infantilismo rivoluzionario de­gli anarchici sia il settarismo apolitico o economicista del Partito Operaio.

È chiaro che in questo schema c’è molto di vero, ma ci pare che porsi l’interrogativo se per caso il superamento dell’operaismo non abbia anche comportato qualche perdita, non abbia un poco contribuito ad appannare l’alterità, almeno potenziale, della classe operaia organizzata in partito, sia non solo legittimo ma utile. E la Meriggi con la sua paziente ricerca, pur non po­nendosi il quesito in modo così esplicito, ha aiutato a capire meglio le ragioni di una scelta che anche soggettivamente, cioè dai capi e dai militanti del parti­to, era proprio vissuta in fun­zione dell’ostinata volontà di riuscire ad essere protagonisti dalla rivoluzione industriale pur rimanendo diversi e opposti tan­to al padrone quanto allo Stato monarchico e alla sua classe di­rigente. Portare la lotta nelle fabbriche, organizzare scioperi e Leghe di resistenza, fondare un giornale, “Il Fascio Ope­raio”, il cui prevalente interesse si concentrava sul mondo del la­voro, volle dire al tempo stesso uscire dal rivoluzionarismo ver­bale e sottolineare concretamen­te, nello scontro di classe che

quotidianamente si registrava nelle città e in provincia, la dif­formità delle condizioni mate­riali di vita e quindi degli obiet­tivi del nascente proletariato nei confronti dell’ala sinistra della borghesia. E proprio la scelta dell ’economico rispetto al poli­tico fu un modo per sottrarsi al­la egemonia di quest’ultima, la quale non poteva infatti condivi­dere, degli operaisti strumenti, metodi e finalità di lotta che con­trastavano con il suo dichiarato solidarismo sociale. Questa con­sapevolezza, questa tensione eti­ca verso la costruzione di “una controsocietà con suoi valori e comportamenti”, per usare le pa­role della stessa autrice, è ben lu­meggiata nel libro della Meriggi.

Certo, rimanere ancorati alla sola dimensione economica del­le lotte avrebbe voluto dire re­stare subalterni sul piano politi­co, e ben lo comprese Turati al­lorché dette vita al Partito So­cialista.Ma resta appunto da chiedersi se la fase della maturi­tà rispetto a quella dell’infanzia del periodo della “Plebe” e del “Fascio Operaio” non sia stata, dal punto di vista dei valori e di una cultura autonomi, anche un parziale riallineamento sugli standard della borghesia demo­cratica. In ogni caso, in attesa che si approfondisca questa te­matica, è già importante che si disponga oggi di un testo che ri­conosca agli operaisti se non proprio un disegno culturale coerente (parlare poi di “strate­gia” come fa la Meriggi ci pare francamente eccessivo), almeno un coraggio e una volontà di au­toaffermazione che non si può riduttivamente confinare nella categoria dell 'economicismo.

Claudio Giovannini

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M a u r i z i o D e g l ’I n n o c e n t i , Geo­grafia e istituzioni del sociali­smo italiano, Napoli, Guida, 1984, pp. 254, lire 22.000.

Nell’ambito degli studi d’in­sieme sul Partito socialista ita­liano è stato fino ad oggi privile­giato un taglio metodologico di tipo etico-politico, volto a rico­struire le biografie degli espo­nenti di primo piano, le posizio­ni del partito nei confronti dei più importanti avvenimenti in­terni e internazionali, le vicende della lotta di corrente esaminate attraverso i dibattiti di vertice. Principale merito del volume di Degl’Innocenti è di avere adot­tato un taglio metodologico nuovo nell’analizzare le vicende del Psi dalle origini alla prima guerra mondiale, spostando l’attenzione su campi di ricerca poco studiati, quali quelli relati­vi ai caratteri originari del parti­to, alla geografia elettorale, alle strutture organizzative, alla ba­se e alla composizione sociale.

Il progressivo radicamento del Psi all’interno di un movi­mento operaio così vasto e com­plesso come quello italiano vie­ne in tal modo seguito attraver­so l’avvio e l’evoluzione di una propaganda di massa, le inizia­tive editoriali, la promozione del tessuto associativo e coope­rativo, la acquisizione delle sedi materiali, la costituzione delle strutture sindacali e territoriali.

L’autore non si limita tutta­via a delineare la mappa del complesso e affascinante “uni­verso socialista” ma esprime an­che diverse osservazioni critiche sulla storiografia in merito, che avrebbe forse valso la pena rac­cogliere in una introduzione e che è utile qui ricordare, anche perché chiariscono meglio il

particolare taglio del volume. A parere dell’autore, ad esempio, il “topos del ritardo” (p. 13), ov­vero l’interpretazione della fon­dazione del partito come un epi­sodio ritardato nel quadro euro­peo rispetto alla storia della so­cialdemocrazia tedesca e alla fondazione della Prima Interna­zionale (1889), ha finito per ca­ratterizzare una chiave interpre­tativa tesa a sottolineare la na­tura periferica e provinciale del Psi. Qui al contrario si sostiene come l’assetto politico, pro­grammatico e organizzativo che il Psi consegue tra la fine del­l’Ottocento e la prima guerra mondiale sia in consonanza con gli sviluppi della socialdemocra­zia europea, nel quadro di un processo sovranazionale che ve­de la nascita e lo sviluppo della società di massa. Ha pesato inoltre sulla storiografia quella che l’autore definisce la “con­trapposizione delle due anime”, la riformista e la rivoluzionaria che, formatesi agli inizi del se­colo avrebbero ripercorso tutta la storia del partito “come se questa, per l’appunto, fosse ri­masta ferma agli inizi del seco­lo” (p. 17). Per superare tale in­terpretazione, frutto dell’uso di categorie metastoriche, diventa fondamentale ricondurre le ten­denze all’interno del Psi ad una radice sociale, politica e orga­nizzativa specifiche (come ha fatto per primo Procacci). In al­tri termini, ci si preclude la com­prensione di ciò che è stato, per il periodo preso in considerazio­ne il fenomeno riformista, con le sue luci e le sue ombre, se lo si continua a studiare sotto il pro­filo politico-ideologico e di ver­tice, e non per il ruolo concreta­mente svolto nel processo di svi­luppo e di emancipazione socia­

le delle classi lavoratrici. Coe­rentemente con tale premessa, nell’ultimo capitolo del volume le varie fasi di prevalenza rifor­mista, integralista o rivoluzio­naria ai vertici del partito ven­gono considerate come il rifles­so delle profonde trasformazio­ni che investono la struttura economica e sociale del paese.

E ancora, ad una linea inter­pretativa che ha privilegiato la sottolineatura del carattere mo­derno e nazionale del partito so­cialista, il primo nella storia d’I­talia, si è contrapposta, da Gramsci in poi, una diversa in­terpretazione, che individua il tratto specifico del partito nel suo configurarsi come movi­mento, a carattere decentrato e con scarsa omogeneità. Non si fornisce qui una risposta, ma si fa presente l’esigenza di appro­fondire tale tematica attraverso lo studio dei gruppi dirigenti e della loro omogeneità, delle strutture organizzative, dell’ef­ficacia della politica di propa­ganda e dell’integrazione sociale da parte del partito.

Proprio sui temi della propa­ganda e dell’integrazione socia­le, nonché dei reciproci rapporti tra associazioni cooperative, or­ganizzazioni di resistenza e strutture di partito, il volume presenta, nel secondo capitolo, gli spunti più nuovi e interessan­ti. Rinviando a studi analoghi compiuti per gli altri partiti so­cialisti europei, vengono così analizzate le forme della propa­ganda, dal comizio ai simboli iconografici, dall’importanza del canto e dei cori popolari e di protesta, ai variegati titoli dei periodici locali, dalle mutazioni del lessico politico alla possibili­tà di esistenza di un’“arte socia­le” nell’epoca della rivoluzione

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industriale, per constatare come ci si trovi di fronte ad una pro­paganda “non passiva, che ten­de a coinvolgere, a richiamare il motivo dell’avanzata classe ope­raia-popolo cosciente” (p. 38), e che nello stesso tempo riprende diversi motivi provenienti dai movimenti rivoluzionari e socia­listi dell’Ottocento e dalla tradi­zione internazionalista.

Irma Staderini

U g o I n d r i o , Saragat e il sociali­smo italiano dal 1922 al 1946, Venezia, Marsilio, 1984, pp. 239, lire 24.000.

Il libro segue il filo degli avve­nimenti di carattere generale dal 1922 — che segna la disfatta dei partiti democratici di fronte alla reazione fascista — al 1947 — l’anno della scissione socialista — con particolare attenzione al­le vicende del Psi e alla riflessio­ne ideologica e politica di Giu­seppe Saragat, ricostruita attra­verso la bibliografia sul periodo e le testimonianze personalmen­te rese all’autore. Nell’ottobre 1922 prende la tessera dell’appe- na sorto Partito socialista unita­rio e collabora attivamente a “La Giustizia”, diretta da Clau­dio Treves, considerato come un “padre spirituale”. A diffe­renza di altri antifascisti Saragat espatriato, clandestinamente in­sieme a Treves nel novembre 1926, non si trasferisce a Parigi ma a Vienna, dove entra in con­tatto con il gruppo di Otto Bauer, che elabora in quegli an­ni l’“austromarxismo”. L’espe­rienza austriaca, tra il 1927 e il 1930, è fondamentale per l’evo­luzione delle sue posizioni: do­po la fine della antifascista

(1933) e l’avvento del nazismo in Germania diviene un convin­to assertore dell’unità tra socia­listi e comunisti, che considera non una mossa tattica ma una possibilità di rinnovamento dei limiti ideologici del riformismo e del comuniSmo, nell’ambito di una rinnovata concezione della democrazia, non più patrimo­nio esclusivo della borghesia ma obiettivo di conquista da parte del proletariato nella convinzio­ne che “è il problema della liber­tà umana che domina tutto” (p. 103). Saragat, nel corso degli anni trenta, è l’esponente mag­giore di una interpretazione di Marx ben lontana dall’accezio­ne leninista: il marxismo è visto non come dittatura del proleta­riato per instaurare il dominio di una classe sulle altre ma come “sforzo per arrivare alla aboli­zione delle classi, alla coscienza della libertà, all’umanismo inte­grale” (p. 125). Nel 1934 accetta quindi l’idea dell’alleanza tra socialisti e comunisti per com­battere il nazifascismo, negato- re dei valori autentici della civil­tà occidentale in nome dello sta­to e della razza; ma nel 1939, di fronte al patto Molotov-Rib- bentrop, reagisce violentemen­te, battendosi nel partito contro la tesi di Nenni, che propone di condannare l’accordo russo-te­desco mantenendo l’unità d’a­zione con i comunisti. Nono­stante questo contrasto, il bino­mio Nenni-Saragat è strettissi­mo dal 1930 al 1945. In seguito le divergenze tra i due leader so­cialisti si acuiscono fino al con­gresso di Firenze del Psiup nel­l’aprile 1946, nel corso del quale Saragat si fa sostenitore dell’au­tonomia socialista contro le cor­renti fautrici della politica di collaborazione e di unità con i

comunisti. In questo periodo il conflitto tra Saragat e Nenni ap­pare estremamente personaliz­zato, con conseguenze paraliz­zanti sul partito; a giudizio del­l’autore, ciò è dovuto al fatto che il futuro presidente della Repubblica non si impegna a sufficienza nella vita di partito a causa degli incarichi di governo e istituzionali assunti tra il 1944 e il 1946 (ministro senza porta­foglio e ambasciatore a Parigi rispettivamente nel primo e se­condo governo Bonomi, presi­dente della Costituente dal giu­gno 1946). La regressione del Psiup nelle elezioni del novem­bre 1946 rispetto alle ammini­strative della primavera e ai ri­sultati del 2 giugno e la convin­zione che presupposto per por­tare avanti una politica real­mente socialista fosse un rap­porto polemico — quanto meno sul piano ideologico — con il Pei, sono tra i motivi che con­ducono Saragat e il suo gruppo alla scissione e alla costituzione, il 12 gennaio 1947, del Partito socialista dei lavoratori italiani.

La tesi di fondo del libro, espressa dall’autore nell’intro­duzione, è che nel 1946 il Parti­to socialista perde la terza occa­sione storica di arrivare in forze al potere, dopo la rinuncia ad andare al governo con Giolitti ai primi del secolo e nel 1919. La frattura tra Nenni e Saragat va­nifica il successo elettorale del giugno 1946, quando il Psiup è il primo partito della sinistra: è “la chimera del fronte unico proletario ad ipnotizzare Nenni mettendo il suo partito alla mer­cè di quello comunista e costrin­gendo Saragat a fronteggiare il prepotere democristiano con scarse forze” (p. 26). Tale giudi­zio può essere più o meno con-

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divisibile: occorre tuttavia rile­vare che, nel corso della narra­zione, il punto di vista dell’In- drio sui singoli avvenimenti non risulta altrettanto chiaramente, limitandosi egli spesso a citare ampiamente e confrontare, nel testo, i lavori esistenti sull’argo­mento (soprattutto Manacorda, ma anche Valiani, Amendola, Nenni e altri).

Irma Staderini

F r a n c e s c a T a d d e i , Il sociali­smo italiano del dopoguerra. Correnti ideologiche e scelte po­litiche (1943-1947), Milano, An­geli, 1984, pp. 495, lire 28.000.

Come spesso è accaduto nel caso di periodi storici differenti, anche per la fase resistenza — immediato dopoguerra la rico­struzione, critica e analitica, del­la vicenda socialista avviene con un certo ritardo, a completare un panorama storiografico dove le analisi relative a altre forze politiche appaiono già da tempo sistematizzate, approfondite e discusse. Va ascritto a merito di Francesca Taddei, dunque, in­nanzi tutto, proprio l’accurata descrizione e l’ordinato collega­mento degli avvenimenti che, al­l’interno e all’esterno del Psiup, tra il 1943 e il 1947, hanno avuto rilievo per la sua storia.

Per la verità, più che l’affresco del partito nel suo complesso, l’autrice disegna quello del gruppo dirigente, soffermandosi in particolare modo sul dibattito politico e dottrinario che impe­gna i vari leaders. Questo ap­proccio metodologico, che trova precise motivazioni nella storio­grafia dei partiti politici, tanto più si giustifica nel caso del par­tito socialista. Infatti, compren­

dere i percorsi delle correnti, sta­bilire le ragioni dei contrasti o delle intese tra Nenni, Saragat, Pertini, Morandi o Basso, diven­ta essenziale e, in qualche modo, preliminare per qualsiasi ulte­riore riflessione o considerazio­ne che attenga ad aspetti orga­nizzativi del partito.

Taddei ha affrontato un lavo­ro impegntivo, basato sul pa­ziente confronto di una notevole mole di materiale — la stampa di partito innanzi tutto ma an­che documenti d’archivio. Ne è risultata una narrazione detta­gliata, che lascia trasparire pre­cisi intendimenti filologici, mi­nuziosa al punto di rendere ar­dui alla lettura taluni passaggi. Il rischio, del resto, deve essere ben calcolato dall’autrice alla quale stava a cuore, principal­mente, fare luce, sulla scorta di inoppugnabili riscontri testuali, su alcuni nodi, troppo somma­riamente “tagliati” in sede sto­riografica, magari sulla base di persistenti e condizionanti giu­dizi politici.

In effetti, soprattutto per gli anni della resistenza, un’analisi di questo tipo si rendeva neces­saria, al fine di verificare l’atten­dibilità dell’opinione più diffu­sa, che attribuisce negativamen­te al Psiup “giacobino” un ruolo destabilizzante dell’unità cielle- nistica, dal Congresso di Bari fi­no alla liberazione e oltre. Non è da credere, con ciò, che l’autrice sia mossa da intenti agiografici o pedestramente “rivalutativi”. In molti casi, anzi, la Taddei esprime riserve altrettanto severe quanto quelle formulate da Al­do Garosci (La ricomposizione del Psi, “Storia e politica”, 1975), da Paolo Spriano (Storia del Partito comunista italiano, Torino, Einaudi, 1973) o da Al­

do Agosti (Rodolfo Morandi, Ba­ri, Laterza, 1971). Anzi le sue cri­tiche appaiono semmai ancor più rafforzate e convalidate proprio dall’esame delle fonti dirette.

Ma, d’altra parte, Taddei perviene nel complesso a valuta­zioni più articolate di quelle cor­renti, per alcuni versi più equili­brate e per altri, invece, financo più esplicite. Per esempio quan­do sottolinea che la generosa, apprezzabile, intenzione del Psiup di coniugare insieme l’in­dirizzo dell’unità d’azione con i comunisti e la linea autonoma della “alternativa di potere”, non riuscì a concretarsi e si tra­dusse in sterile velleitarismo, non solo per carenze soggettive ma anche per i condizionanti ostacoli frapposti dall’esterno, in primis del Pei, con i suoi “continui rilanci massimalisti e strumentali” (p. 101) “Strumen­tale” l’autrice definisce infatti la profferta fusione avanzata, a date ricorrenti, dal Pei nei con­fronti del Psiup; non può consi­derarsi casuale, a giudizio di Taddei, che essa venga a coinci­dere sempre con momenti di particolare tensione e incom­prensione tra i dirigenti socia­listi.

Un altro tema esaminato con particolare interesse in questo volume — si può dire anzi che ne sia il filo conduttore — è quello dell’unità d’azione, cioè il patto di alleanza che legava i socialisti al Pei dal 1934 e che, dopo la traumatica rottura del 1939, sarà riconfermato ostina­tamente, a dispetto delle scissio­ni e dei pessimi risultati soprat­tutto elettorali degli anni cin­quanta. È cosa nota che tra i di­rigenti socialisti, tutti all’inizio concordi, compresi Saragat, Mondolfo e Faravelli, il più

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deciso assertore dell’alleanza sia stato Nenni. Per lui il Patto di unità d’azione rappresentava la chiave di volta dell’intero pro­getto di trasformazione istitu­zionale, economica e politica del paese.

L’insegnamento della storia costituisce per Nenni la prima giustificazione del vincolo di classe con il Pei. Ma, all’origine del suo persistente frontismo esistono anche due presupposti e un convincimento, gli uni co­me l’altro destinati a rivelarsi infondati, e in qualche misura, ingenui e utopistici.

Il primo presupposto: partiti socialisti europei e in particolare il Labour Party (con il quale Nenni aveva intessuto una serie di collegamenti, proprio per controbilanciare il peso e la pressione del patto con il Pei) avrebbe via via radicalizzato le loro posizioni politiche, offren­do un valido supporto interna­zionale alla linea del Psiup, che puntava alla “rottura della con­tinuità” attraverso un rafforza­mento delle sinistre nell’ambito della coalizione governativa ciellenista.

Il secondo presupposto: il si­stema del “socialismo realizza­to” avrebbero recepito i valori delle esperienze socialiste occi­dentali e si sarebbe alla fine de­mocratizzato, a condizione che i partiti socialisti avessero incal­zato dappresso i partiti comuni­sti. Infine il convincimento, frutto di una visione fiduciosa e ottimistica che portava a so­pravvalutare la forza della tra­dizione socialista e a enfatizzare le potenzialità organizzative dei vecchi e nuovi militanti: la bat­taglia, più o meno silenziosa, con i “cugini” per conquistare l’egemonia dello schieramento

progressista e del movimento organizzato dei lavoratori, si sa­rebbe conclusa con la vittoria del Psiup sul Pei. Una certezza, questa che animava anche Basso (al cui periodo di segreteria ven­gono dedicate alcune interessan­ti e recise annotazioni, ad es. a p. 368), ma che, nel suo caso, si colorì di troppe implicazioni ideologiche, sì da confondersi con la più delicata e ambigua te­matica del partito unico.

Sancito il fallimento della li­nea Nenni (per assecondare la formula tripartita, che avrebbe poi avvantaggiato esclusiva- mente la Democrazia cristiana) e, soprattutto dopo la nascita di Cominform, con l’immediato e conseguente irrigidimento del quadro internazionale, per il partito socialista arriva il mo­mento della resa dei conti. Que­sta sorta di “rimozione” di un dato di fatto sgradevole come è quello del conflitto aperto tra i blocchi (insieme alla paura an­gosciosa di commettere un atto sacrilego contro la classe lavora­trice, mettendo in dubbio il le­game di solidarietà con il Pei) induce i socialisti a affrontare una serie di scelte sempre più compromettenti e alla lunga, anche rischiose per l’autonomia e la sopravvivenza stessa del partito.

Il giudizio con il quale Taddei conclude la sua analisi non suo­na certo assolutorio. A partire dall’autunno 1947 — osserva — il Psi “imbocca la via degli aggiu­stamenti surrettizi e progressivi della propria linea politica, fino a farla interamente combaciare con i presupposti e i caposaldi che, da molto tempo, caratteriz­zavano quella comunista. Così ‘anziché sottoporre a un bilancio critico che, per essere utiliz­

zabile in sede politica, deve esse­re necessariamente serio e aper­to, i risultati di una linea che ci si ostina a non volere riconosce­re fallita, si preferisce ricorrere a furberie oratorie, assoluta- mente vane nella loro inconsi­stenza’” (p. 426).

Marina Tesoro

Filippo Turati e il socialismo eu­ropeo, a cura di Maurizio De­gl’Innocenti, Napoli, Guida, 1985, pp. 428, lire 35.000.

Il volume è composto da una raccolta di interventi tratti dagli atti del seminario storico inter­nazionale su Filippo Turati e il socialismo europeo (Milano, 8- 11 dicembre 1982), organizzato dall’Istituto socialista di studi storici, in collaborazione con la Friedrich Ebert Stiftung, la Fondazione Brodolini, l’Office Universitaire de Recherche So­cialiste.

Il seminario, come osserva nella Premessa Degl’Innocenti, rappresenta il coronamento del­la ripresa di interesse nei con­fronti del socialismo riformista e della elaborazione turatiana, ripresa di interesse partita una decina di anni fa dall’esigenza di ricostruire l’universo sociali­sta in tutta la sua complessità, da una diminuita influenza del­l’ideologismo esasperato e dal superamento parziale dei vecchi canoni dell’indirizzo metodolo­gico etico-politico. L’ampia partecipazione dei relatori, il ca­rattere di rassegna sui risultati conseguiti dalla più recente sto­riografia europea sul movimen­to operaio e socialista, la novità stessa dei temi indicati (vengono affrontati il rapporto tra leader

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e masse nell’età della Seconda Internazionale, il senso della storia e i socialisti, la lotta al­l’arretratezza) dimostrano nello stesso tempo la natura aperta e problematica del convegno, che può quindi segnare l’avvio di una nuova fase di iniziative. Tra i risultati più rilevanti dell’insie­me dei saggi — nota ancora De­gl’Innocenti — c’è il “definitivo inserimento del socialismo ita­liano e specialmente del riformi­smo turatiano nell’ambito del socialismo europeo”, un ap­proccio che permette un ulterio­re passo avanti agli studi di set­tore nell’ottica di una storia comparata.

Dalla lettura dei vari inter­venti emergono i numerosi ca­ratteri comuni ai leader della so­cialdemocrazia europea — Adler, Turati, Bebel, Hardie, Jaurès, Kautsky, Vanderveld — nell’epoca in cui si va afferman­do la “politica delle masse”: la centralità attribuita al Parla­mento, l’impegno giornalistico sulla stampa di partito, la capa­cità oratoria, la ricerca di un rapporto non conflittuale con le centrali sindacali, l’obiettivo dell’alleanza tra intellettuali e proletariato e — più in generale — il passaggio dalla dimensione regionale e locale dell’attività politica per pensare ed agire in termini nazionali e talvolta in­ternazionali. Obiettivo comune è la lotta all’arretratezza e l’im­pegno a favore del progresso economico e sociale. Diversi, a seconda delle peculiarità nazio­nali, le strategie e i modi di in­tervento sulla complessa realtà della società industriale: dalla ricerca di conciliazione tra di­mensione economica e dimen­sione etico-pedagogica che sta alla base delle iniziative del­

l’Umanitaria — analizzate nel­l’interessante saggio di Enrico Deeleva, Socialismo e etica del lavoro: la società Umanitaria — alla “coscienza tecnica” presen­te nel socialismo rivoluzionario francese che si concretizza tra l’altro, secondo Jaques Julliard (7/ sindacato d ’azione diretta e la produzione), nella lotta per una maggiore concentrazione nell’industria. Marek Walden- berg— in un intervento denso di spunti su: Kautsky e Bernstein: due concezioni della strategìa — sostiene che il marxismo della Seconda Internazionale è nel complesso coerente con il corpo principale della dottrina di Marx. Il giudizio negativo ripe­tutamente espresso su tale mar­xismo — visto alternativamente come dogmatico oppure defor­mato rispetto al pensiero di Marx — è conseguenza delle cri­tiche rivolte ai partiti socialisti della Seconda Internazionale, in particolare per quanto riguarda la loro reazione alla guerra. A parere di Waldenberg si dovreb­be parlare di “crollo della Se­conda Internazionale” in modo meno generico: la crisi del socia­lismo comincia prima della guerra mondiale e dura più a lungo di questa, avendo le sue cause profonde nelle strutture economiche e sociali della socie­tà di allora. Si può quindi pen­sare che nessuna delle due stra­tegie di portata europea emerse dall’inizio del secolo — il revi­sionismo da un lato e il marxi­smo ortodosso come “ideologia dell’assoluta opposizione” dal­l’altro — avrebbero potuto assi­curare un successo al movimen­to operaio negli anni precedenti la prima guerra mondiale.

Nel corso del primo dopo­guerra non mancano tuttavia da

parte dei leader socialisti euro­pei riflessioni e proposte incisive che tengono conto delle trasfor­mazioni sociali e politiche legate al conflitto: è il caso di Turati, il cui celebre discorso parlamenta­re del giugno 1920 viene analiz­zato nell’intervento di Giovanni Sabbatucci, “Rifare l ’Italia”: Turati tra dopoguerra e fasci­smo, come il risultato di una elaborazione cominciata nell’ul­tima fase del conflitto mondiale e di un continuo lavoro di ag­giornamento e confronto con le varie esperienze internazionali, in particolare con i tentativi di “economia razionalizzata” della Germania weimariana. Attra­verso la lotta al fascismo e al na­scente nazionalsocialismo si co­stituisce a partire dagli anni trenta un nuovo internazionali­smo che, come osserva Simona Colarizi nel saggio che chiude il volume Fascismo, crisi delle de­mocrazie, internazionalismo, non rinnega la solidarietà tra la classe lavoratrice mondiale e tuttavia si differenzia dall’inter­nazionalismo della prima guerra mondiale perché la difesa delle libertà democratiche è ora dive­nuta patrimonio comune del movimento socialista europeo.

Irma Staderini

A n t o n i o P a r i s e l l a (a cura di), Gerardo Bruni e i cristiano-so­ciali, Roma, Edizioni Lavoro, 1984, pp. 300, lire 25.000.

Ben poco, al di fuori della ri­stretta cerchia degli studiosi del mondo cattolico si conosceva del Movimento cristiano-sociale a suo tempo efficacemente defi­nito come “una specie di Partito d’azione cattolico”. In gran

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parte affidata alla memorialisti­ca coeva e posteriore la vicenda dei cristiano sociali, che ebbero in Gerardo Bruni la figura di leader e protagonista, risultava in effetti defilata dal pur ricco dibattito storiografico sulla va­riegata presenza dei cattolici nella storia italiana. Quanto mai opportuno appare dunque questo contributo collettaneo, che raccoglie gli atti del conve­gno su “Cristiani a sinistra in Italia fra fascismo e repubblica: l’esperienza di Gerardo Bruni e del Movimento cristiano socia­le”, organizzato nel 1981 dalla Fondazione Basso con la colla­borazione dell’Istituto romano per la storia d’Italia dal fasci­smo alla Resistenza. Alla luce dei contributi raccolti con pas­sione, meticolosità e rigore da Antonio Parisella, che ormai da anni si occupa del movimento di Bruni, si può dire senz’altro che il volume risponde alle aspetta­tive di chi rivolge l’attenzione alla storia dei movimenti e dei partiti politici non solo allo sco­po di misurare il valore etico e culturale di un’esperienza politi­ca in termini di consenso eletto­rale ma con la sensibilità di ana­lizzare anche la presenza di mo­vimenti e gruppi minoritari for­temente motivati e non confor­misti quali indubbiamente furo­no i cristiano sociali.

Le vicende dei cristiano socia­li, occorre precisare, vanno in­terpretate non solo entro le date in cui il movimento nacque e si disciolse dal 1941 al 1949 ma in un arco di tempo ben più ampio che ha lambito e condizionato anche i recenti travagli della si­nistra cattolica italiana. Non a caso — e molto opportunamen­te — al volume ha contribuito chi di quella esperienza fu te­

stimone o protagonista (Enzo Enriquez Agnoletti, Ada Ales­sandrini, Luciano Merlini, Adriano Ossicini, Ezio Rosini, Paolo Emilio Taviani) chi, più recentemente ne ha ereditato i travagli e le tensioni ideali (Li­dia Giancola Traversa, Antonio Zavoli) e chi, da storico, ha ana­lizzato le radici ideali e le com­plesse filiazioni culturali dei cri­stiano sociali (Maria Cristina Giuntella, Antonio Parisella, Luigi Urettini, Guido Verucci). Una ricostruzione quindi che in­terseca con esito felice, storia, memoria e passione militante.

La collocazione del movimen­to all’interno del mondo cattoli­co è bene precisata da Antonio Parisella laddove sottolinea che l’esperienza dei cristiano sociali “rappresentava (insieme con al­tre) un notevole tentativo di smuovere i cattolici, parlando il loro stesso linguaggio, in dire­zione di una democrazia intesa in senso non restauratore, anzi, fortemente progressivo e, ten­denzialmente, socialista” (p. 31).

E tale collocazione trovò un puntuale riscontro nelle alleanze che il movimento di Bruni venne via via stabilendo nel corso della sua breve esistenza. È pur vero che alla base del movimento persisteva un substrato di anti­comunismo che, come bene sot­tolinea ancora Parisella, aveva l’obiettivo — come alle origini di quasi tutte le sinistre del mo­vimento cattolico — di contra­stare il comuniSmo sul suo terre­no. Tuttavia furono altresì pre­senti dei concreti atteggiamenti che palesarono i limiti che il mo­vimento riteneva non si dovesse­ro superare per non porsi al ser­vizio della reazione. Significati­va, al proposito, l’asprezza con la quale Bruni, nel 1947, denun­

ciò l’anticomunismo saragatia- no e la successiva adesione dello stesso leader cristiano-sociale al Fronte democratico popolare. E sotto questo punto di vista — osserva Verucci — l’esperienza di Bruni anticipò per certi versi l’evoluzione dei gruppi della si­nistra cattolica fra gli anni Cin­quanta e Settanta, “evoluzione che si può schematicamente de­finire come una progressiva ra- dicalizzazione sul piano politi­co-religioso, come il passaggio da una prospettiva d’impegno in un’area socialista riformista a quella d’impegno in un’area so­cialista rivoluzionaria, il passag­gio da una fase in cui i punti di riferimento culturale sono anco­ra quelli della tradizione del pensiero cattolico a una fase in cui se ne vengono assunti altri e diversi, tra cui, fondamentale, il marxismo” (p. 62).

Il comuniSmo e il marxismo non furono tuttavia gli unici ter­mini di confronto del movimen­to di Bruni la cui complessità ideale traspare da puntuali con­tributi sulla ramificazione locale come quello di Maria Cristina Giuntella dedicato all’Umbria. Qui infatti l’autrice analizzando l’evoluzione del leader locale, Francesco Francescaglia, affer­ma che “forse fu proprio il mo­vimento di Capitini a raccoglie­re l’eredità dei cristiano sociali perugini” (p. 202).

È pur vero inoltre che l’azio­ne del movimento se testimonia­va 1’esistenza dei cattolici impe­gnati a sinistra e comportava un confronto non privo di riserve col marxismo e il comuniSmo, non rinnegava però le radici di una cultura cattolica che si ri­chiamava ad un ideale storico di matrice tomista. Nasceva così l’esigenza di salvaguardare la fi­

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sionomia del movimento sia dalla Democrazia cristiana che dai comunisti; e anche il rifiuto di confluire nella Sinistra cri­stiana per non confondere le ca­ratteristiche ideali e politiche del movimento nell’opzione comu­nista e marxista.

Di qui, in definitiva, l’origi­nalità di quella esperienza.

Stefano Pivato

A l e x a n d e r J . D e G r a n d , An­gelo Tasca. Un politico scomo­do, Milano, Angeli, 1985, pp. 267, lire 24.000.

L’autore, uno studioso ame­ricano, che insegna alla Roose­velt University di Chicago e che ha già scritto di storia italiana contemporanea, presenta qui il tormentato itinerario di Angelo Tasca, lungo la storia del movi­mento operaio dei primi sessan­tanni di questo secolo. La bio­grafia di Tasca si intreccia stret­tamente con la storia del Partito socialista e del Partito comuni­sta. Aderisce all’ala rivoluzio­naria e massimalista del Psi, de­dicandosi in particolar modo al­la battaglia culturale per defini­re l’identità del movimento so­cialista, influenzato in quegli anni da filosofie spesso molto contraddittorie, in cui conflui­vano Marx, Engels, Sorel, Cro­ce. Soreliana è certamente l’idea che non vi fosse passaggio auto­matico dal sistema capitalistico alla proprietà collettiva e che ta­le transizione richiedesse un atto di volontà e potesse realizzarsi solo con la violenza. Di qui l’importanza sempre annessa da Tasca alla battaglia culturale, per far crescere il soggetto della rottura rivoluzionaria. Già in

questa vigilia di guerra emergo­no con nettezza i temi e gli scon­tri che divideranno in seguito il movimento socialista e porte­ranno alla scissione di Livorno del 1921.

Di questi anni sono i rapporti intensi con Gramsci, Bordiga, Salvemini, Terracini, Togliatti. La guerra mondiale e la rivolu­zione bolscevica portano Tasca a fondare con Togliatti e Gram­sci “L’Ordine nuovo”. Il tenta­tivo era di capire quale potesse essere il significato del lenini­smo nel contesto italiano. Tasca entrò in contrasto con Gramsci sul ruolo dei consigli e successi­vamente con Bordiga e To­gliatti.

L’autore dimostra come Ta­sca fosse tra i primi dirigenti della sinistra italiana a capire la sfida di massa del fascismo e perciò a sostenere la necessità di un vasto fronte sociale e politico di alleanze. Di qui l’opposizione alla teoria del “sociolfascismo” e il suo appoggio a Bucharin, nel dibattito interno al gruppo dirigente sovietico.

Queste posizioni portarono alla sua espulsione dal Partito comunista d’Italia. A partire da questo momento Tasca avvia una revisione sempre più radica­le del marxismo, nel quadro di quel movimento revisionista, di cui De Man fu, in Belgio, il principale esponente, i cui capo­saldi erano la riduzione alla di­mensione etico-psicologica del socialismo, la pianificazione na­zionale, oltre l’internazionali- smo, e la critica della democra­zia liberale, in termini molto si­mili alla critica fascista. Nel 1935 si iscrisse al Psi, alleandosi alla destra socialista anticomu­nista e antiunitaria. L’esito di queste posizioni sarà, nel 1940,

l’adesione al governo di Vichy, per il quale lavorò come funzio­nario e propagandista antico­munista. Finita la guerra, si tro­vò, su una sponda opposta, a fare “il combattente della guer­ra fredda”, ma, ormai, la sua carriera politica era finita. Co­me scrive De Grand: “Non era né un eroe né un farabutto”; sa­rebbe un errore leggerne la vita solo a partire dall’ultimo perio­do, giacché grande contributo ha dato alla costruzione della si­nistra almeno su un punto: quello dell’analisi del fascismo, esposta in un libro del 1938: “La naissance du fascisme”. (Nascita e avvento del fascismo, L ’Italia dal 1918 al 1922, Bari, Laterza, 1965). De Grand forni­sce molte date, molti fatti, mol­te fonti, riuscendo a fare per brevi cenni la storia non solo di un uomo, ma di una generazio­ne e di un movimento. Quanto alle opinioni personali dello sto­rico, fanno capolino con molta discrezione, impedendogli di emanare sentenze e di semplifi­care le contraddizioni di un uo­mo e di una generazione.

Giovanni Comincili

A u r o r a C o r s e l l i , L i d i a D e N i ­

c o l a C u r t o , Indipendentismo e indipendentisti nella Sicilia del dopoguerra (con prefazione diG.C. Marino), Vittorietti, Pa­lermo, pp. 228, lire 20.000.

Il lavoro delle due studiose palermitane vuole essere una ra­diografia delle forze attive del movimento indipendentista sici­liano del dopoguerra, della loro distribuzione territoriale, dell’e­tà e provenienza sociale dei suoi aderenti, attraverso cui poter

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giungere ad un giudizio sulla quantità e qualità del consenso che si creò attorno a tale movi­mento. La ricerca rientra nel programma di studi e indagini che l’Issico (Istituto Siciliano per la storia dell’Italia contem­poranea) va realizzando sul te­ma “La Sicilia e gli Alleati”, e si fonda sul materiale documenta­rio rinvenuto presso l’archivio privato di Andrea Finocchiaro Aprile che del Mis (Movimento per l’indipendenza della Sicilia) fu promotore e leader indi­scusso.

La valutazione di base che le autrici fanno del movimento in questione è che si sia trattato di qualcosa di eterogeneo e com­posito, attraversato da ideologie diverse e contraddittorie, sulla scorta degli studi sul tema già realizzati da Giuseppe Carlo Marino, Giuseppe Giarrizzo, Francesco Renda e Alfredo Li Vecchi. Secondo quanto si rile­va nell’opera, “... nel primissi­mo periodo di sbandamento se­guito allo sbarco alleato” sem­brò avere successo “un movi­mento che trovava nel sentimen­to di sicilianità il minimo comun denominatore delle diverse ‘ani­me’ da cui era formato”. Suc­cessivamente, “la riorganizza­zione dei grandi partiti di mas­sa, l’isolamento in cui fu lascia­to il Mis da parte di quelle po­tenze internazionali che pure, all’inizio, ne avevano favorito lo sviluppo, la contraddittorietà e la sostanziale mancanza di una chiara linea politica...” (p. 12) portarono al rapido esaurirsi del movimento stesso, nonostante il discreto esito elettorale del 1946.

Oltre che l’epistolario tra il Finocchiaro Aprile e i suoi se­guaci, per la ricostruzione e

l’analisi sono stati adoperati i materiali elettorali, gli stessi ri­sultati delle consultazioni utiliz­zati come elementi di confronto rispetto alla rilevazione delle se­zioni comunali del Mis e delle leghe giovanili, ed in assenza di regolari elenchi di iscritti si è ri­corso al ricordo dei protagoni­sti, soprattutto per le vicende lo­cali.

Corselli e De Nicola hanno raccolto e considerato un cam­pione di 1366 adepti per ognuno dei quali hanno rilevato i dati anagrafici, professionali e di censo, nonché i titoli di studio; il relativo elenco diviso per pro­vince, costituisce la prima Ap­pendice del libro, mentre nella seconda vengono riportati do­cumenti originali impiegati nel testo e nella terza gli scritti “ideologici” del Mis. In partico­lare, questi ultimi, egualmente provenienti dall’archivio Finoc­chiaro Aprile, sono espressione del sicilianismo più radicale e del peso che all’interno vi hanno avuto le correnti cattoliche.

Le loro conclusioni ricondu­cono ad un movimento separati­sta di carattere preminentemen­te urbano, forte soprattutto nel­la parte occidentale dell’isola (Palermo, Trapani, Agrigento), favorito dalla mafia e dal nota­bilato in aree rurali, ed in alcuni casi non privo di slanci ideali autentici di cui erano portatori uomini sinceramente votati alla causa. Scarso, tuttavia, l’appor­to popolare (operai, contadini, impiegati) data la netta preva­lenza di ceti agrari privilegiati e di borghesia medio-alta: giudi­zio che non invalida la qualità della partecipazione soggettiva e giovanile in particolare. La ge­nerosa partecipazione di giovani come A. Varvaro e A. Canepa

nasceva in effetti dalla scarsa presa dei valori nazionalistici continentali e dalla disponibilità verso gli “anziani” individuati come i tramiti di una continuità culturale tra prefascismo e po­stfascismo, punto di forza per un risorgimento siciliano.

Laura Capobianco

R o b e r t o V i g h i , Per il sociali­smo, l ’antifascismo, le autono­mie. Scelta di scritti e discorsi dal 1914 al 1970 a cura di Luigi Arbizzani, F. Bonazzi del Pog- getto e Nazario S. Onofri, Bolo­gna, Amministrazione provin­ciale, 1984, pp. 485, sip.

Tre principalmente furono i centri dell’attenzione di Vighi: il dibattito politico alla testa della sinistra socialista bolognese, l’attività forense esplicatasi so­prattutto durante il ventennio fascista, l’impegno nella pubbli­ca amministrazione, alla presi­denza della Provincia di Bolo­gna per quasi vent’anni, fino al 1970. Una multiforme attività di cui questa ampia raccolta (vengono riediti 112 dei 359 scritti dell’autore) dà un ade­guato contributo di conoscenza. Di particolare interesse docu­mentario la causa, conclusasi nel 1931, durante la quale Vighi difese vittoriosamente i mezza­dri bolognesi che vollero conti­nuare l’applicazione del capito­lato “rosso” del 1920, rifiutan­do quelli successivi stipulati dal sindacato fascista (pp. 56-72); ancora nel campo forense è da segnalare la puntuale “contesta­zione delle accuse” a favore di Mammolo Zamboni e Virginia Tabarroni (24 ottobre 1932), nella quale si rilevavano pun­

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tigliosamente tutte le impreci­sioni e contraddizioni esistenti all’interno dell’inchiesta giudi­ziaria successiva all’uccisione di Anteo Zamboni, preteso atten­tatore di Mussolini nel 1926 (pp. 73-104).

Presidente dell’Amministra­zione provinciale di Bologna dal 1951, vedendo in tale ente l’isti­tuto di coordinamento delle “at­tività e possibilità dei comuni nel quadro della organizzazione politico-amministrativa-finan- ziaria della nazione” (giugno 1951, p. 317), curò particolar­mente alcuni interventi tesi a ta­le scopo, come il Piano territo­riale di coordinamento e attività dell’Unione regionale emiliana delle province (1957, pp. 366- 370) e i Piani poliennali di inter­vento (pp. 400-422).

Le attente e precise annota­zioni dei curatori premesse ad ogni testo collocano i singoli in­terventi nell’adeguato contesto storico-politico e costituiscono una necessaria traccia anche alla ricostruzione della biografia di Roberto Vighi. Particolarmente utile la nota bibliografica di Li­dia Testoni (pp. 453-472).

Luciano Casali

A n n a R i t a C a l a b r o e L a u r a

G r a s s o (a cura di), Dal movi­mento femminista al femmini­smo diffuso. Ricerca e docu­mentazione nell’area lombarda, Milano, Angeli, 1985, pp. 558, lire 35.000.

Costruire una mappa del mo­vimento femminista è sempre apparso compito arduo sia per le protagoniste, che si sarebbero trovate ad analizzare critica- mente la propria presenza nelle

organizzazioni, sia per studiosi in qualche modo “estranei”, per la difficoltà di ricomporre una real­tà multiforme e in fondo nota nelle sue articolazioni più signifi­cative solo a chi l’aveva vissuta.

Il taglio scelto dalle autrici del volume non è uniforme: in alcu­ni saggi prevale il momento de­scrittivo, mentre ne\V Appendice (“Alcuni gruppi si raccontano”) prevale la forma del racconto diretto delle protagoniste. Anna Rita Calabro (Milano 1965- 1984: fasi del movimento fem ­minista e tipologia dei gruppi) ricostruisce i percorsi delle prin­cipali aggregazioni suddividen­dole in gruppi, “di riflessione”, che privilegiano come modali­tà di azione politica e di elabo­razione teorica l’autocoscienza e in gruppi “di pratica nel so­ciale” che sviluppano forme di intervento nelle istituzioni a li­vello economico, politico e so­ciale. La descrizione, scandita da tabelle e articolata in punti salienti, è rigidamente costrui­ta secondo schemi sociologici. L'Appendice offre invece una panoramica molto viva, raccon­tata dalle donne che hanno ani­mato questi gruppi, in interviste anche lunghe ed elaborate e pre­senta quella che è stata la vita del movimento femminista degli anni settanta (esemplare è la te­stimonianza di Lia Cigarini sul Gruppo Analisi).

Gli interventi sul movimento femminista in Lombardia (di Rita Gay e Barbara Pezzini per Bergamo; di Emma Scaramuzza per Brescia, di Maria Antoniet­ta Confalonieri e Marta Ghezzi per Pavia, di Anna Maria Batti­sti per Sondrio) presentano un quadro indubbiamente ricco di informazioni, ma poco elabora­to e ridotto ai puri dati.

Più ricca appare la relazione di Scaramuzza che, nel descrive­re il movimento a Brescia, ne ri­costruisce la storia inquadran­dolo nella realtà socio-culturale della città e nella vita politica degli anni settanta.

Dopo la lettura di questo grosso volume, tornano alla mente le considerazioni di Mari­na D’Amelia su “Memoria” (n. 13, “Dalla differenza alla diffe­renziazione. Le difficili innova­zioni dei gruppi”) che analiz­zando gli interventi sulle asso­ciazioni degli anni ottanta pre­sentati nel numero (che si intito­la “Donne insieme”) ne sottoli­nea “una certa opacità” (p. 123) attribuibile anche all’aver messo tra parentesi la testimonianza orale privilegiando il momento della produzione di documenta­zione.

D’altra parte la stessa trasfor­mazione del movimento femmi­nista in centri culturali, coope­rative, centri di documentazione ha comportato una modifica­zione dei paradigmi interpretati­vi e degli approcci metodologi­ci, che vanno di conseguenza meditati e discussi ulteriormen­te. La scelta della forma di co­municazione più consona alla peculiarità dei gruppi femmini­sti non è certo risolvibile in po­che battute di critica al lavoro compiuto sinora: solo una non astratta sperimentazione delle forme di comunicazione, non solo storica, potrà rappresenta­re una tappa di un processo di analisi che è appena iniziato.

Il volume curato da Calabrò e Grasso, con tutti i limiti di un primo approccio, è indubbia­mente importante e per la docu­mentazione raccolta e per la gri­glia interpretativa scelta nell’e­laborazione di un materiale

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molto vario soprattutto sotto il profilo del linguaggio.

Paola Pirzio

R u g g e r o G i a c o m i n i , Ipartigia­ni della pace. Il movimento pa­cifista in Italia e nel mondo ne­gli anni della prima guerra fred­da, Milano, Vangelista, 1984, pp. 322, lire 12.000.

Nato formalmente a Parigi il 20 aprile 1949 il Movimento dei partigiani della pace giocò un ruolo di grande impegno e di particolare valore per gran parte degli anni cinquanta, mobilitan­do milioni di persone in tutti i continenti. Base dell’azione e dell’attività dei partigiani della pace, impegnati per il disarmo e perché una nuova guerra (que­sta volta nucleare) non sconvol­gesse il mondo appena uscito dalla terribile esperienza del se­condo conflitto mondiale, era la mobilitazione continua e gene­rale delle masse e dei popoli. Due capisaldi soprintendevano a tale impegno e a tali mobilita­zioni: la “consapevolezza del pericolo grave della guerra” e la convinzione della “possibilità di impedirla” (p. 20). Largamente diffusosi (ma gravi difficoltà ebbe negli Stati Uniti per l’ac­centuato clima di “caccia alle streghe” e perché accusato di es­sere influenzato e finanziato dai comunisti), il Movimento ebbe uno dei punti di maggior forza in Italia, almeno fino alla “cam­pagna” contro la bomba atomi­ca nel 1955, quando l’egemonia passò al Giappone.

Particolarmente significative e importanti per la mobilitazio­ne di massa, effettivamente con­seguita a livello internazionale,

furono le grandi “campagne” contro la bomba atomica, con­tro la guerra di Corea (con la raccolta di oltre 270 milioni di firme), per un “patto di pace” (con oltre 600 milioni di firme).

In un’Italia caratterizzata dalla dura repressione scelbiana (mentre nel mondo la guerra fredda sembrava rischiare quo­tidianamente il salto nella guer­ra guerreggiata), l’impegno dei partigiani della pace segnò un momento alto di impegno poli­tico e civile che seppe coinvolge­re cittadini di ogni condizione sociale anche al di fuori della stretta militanza nei partiti della sinistra cui il Movimento faceva soprattutto riferimento.

Costruito attraverso una do­cumentazione ufficiale ed esclu­sivamente “interna” al Movi­mento, il volume, come sottoli­nea Enzo Santarelli nell’ampia prefazione, fornisce un “reso­conto dei fatti nutrito di molti dati e notizie” (p. 14) su un pe­riodo ancora scarsamente af­frontato dalla critica storica. Una prima documentazione, quindi, e per ciò stesso di parti­colare importanza e valore.

Luciano Casali

L u c i a n o M a r r o c u , Il modello laburista. Struttura organizzati­va e distribuzione del potere nel partito laburista inglese tra le due guerre, Milano, Angeli, 1985, pp. 224, lire 18.000.

Il partito laburista, sorto agli inizi del 1900 come federazione di associazioni socialiste e sin­dacali, si trasformò nel primo dopoguerra con l’adozione del­l’adesione individuale (indivi­duai membership). Tale inno­

vazione, pur avvicinando il so­cialismo britannico a quello continentale, non modificò ra­dicalmente l’originaria struttura laburista, che continuò a basarsi essenzialmente sull’apporto del­le Trade Unions e dei vari grup­pi di ispirazione socialista, il più importante dei quali era l’Indi- pendent Labour Party (Ilp). Una struttura organizzativa così atipica rispetto agli altri partiti socialisti europei presentava problemi di delicato equilibrio tra la componente sindacale, preponderante sia dal punto di vista dell’insediamento sociale del Labour Party sia da quello finanziario, quella politicamen­te più indirizzata in senso socia­lista ed autonomamente struttu­rata in gruppi politici e la com­ponente, infine, dei nuovi iscrit­ti a titolo individuale, i quali fornivano con il loro lavoro vo­lontario un contributo impor­tantissimo specialmente durante le campagne elettorali.

L’esame attento e minuzioso della struttura organizzativa la­burista mostra però che le diffi­coltà poterono venire superate e che, nonostante inevitabili ten­sioni tra le varie componenti del partito nella definizione della li­nea politica ed anche nella scelta dei candidati alle elezioni, il La­bour seppe nel giro di pochi an­ni trasformarsi in una concreta forza di governo ed assumere nel sistema politico britannico quel ruolo di alternativa ai con­servatori, che fino alla prima guerra mondiale era spettato ai liberali.

La stessa “disaffiliazione” dell’Ilp, avvenuta nel 1932, de­rivò, più che dalle divergenze di carattere politico, dall’impossi­bilità di far convivere un partito organizzato all’interno di una

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struttura che aveva sempre più chiaramente assunto delle carat­teristiche proprie, specificamen­te laburiste, diverse quindi da quelle delle sue componenti ori­ginali. L’autonomia del gruppo parlamentare, e poi del governo laburista nei confronti della struttura di partito era un ulte­riore conferma della maturità del Labour Party ed insieme del suo completo inserimento nelle istituzioni politiche britanniche. Alla definizione di una specifica natura laburista nei due decenni tra il primo ed il secondo con­flitto mondiale contribuirono, oltre alle strutture organizzative di partito anche quelle culturali. Un ruolo essenziale ebbe la stampa, soprattutto con la tra­sformazione del “Daily Herald” da stentato organo ufficiale la­burista a grande quotidiano d’informazione, mediante un’o­riginale accordo con un gruppo editoriale privato, che ne rile­vò il 51 per cento e lo gestì con criteri imprenditoriali che lo re­sero concorrenziale nei confron­ti degli altri grandi giornali po­polari.

Di grande interesse appare anche l’illustrazione dei canali di formazione essenzialmente tecnica, dei militanti e dei qua­dri laburisti, cui il Labour Party dedicò una cura ed un’attenzio­ne sconosciute ai partiti sociali­sti europei più ideologizzati.

L’esperienza delle associazio­ni di massa legate al partito la­burista in campo culturale come in quello ricreativo e sportivo, confermarono d’altra parte che la società britannica, se era re­stia ad accettare un’ideologia al­ternativa a quella corrente, era pronta invece ad ascoltare, ac­canto ai concreti programmi po­litici di rinnovamento dei labu­

risti, anche il loro richiamo ai valori etici della giustizia sociale e dell’ugualianza politica. Prag­matismo e moralismo, mancan­za di dogmi ideologici e dedizio­ne dei militanti e dei dirigenti al­la causa laburista furono quindi le caratteristiche principali di un “modello” che se non fu in ef­fetti di esempio concreto agli al­tri partiti socialisti europei, rap­presentò per la Gran Bretagna una grande esperienza politica, destinata a non concludersi con la seconda guerra mondiale.

Maurizio Punzo

Italia fascista

F r a n c o F u c c i , Le polizie di Mussolini. La repressione del­l ’antifascismo nel “ventennio”, Milano, Mursia, 1985, pp. 414, lire 25.000.

Più che tentare la ricostruzio­ne delle vicende e della organiz­zazione delle “polizie” che agi­rono in Italia dal 1922 al 1945, il volume utilizza ampiamente quanto già è stato edito sull’ar­gomento e tende ad una messa a punto fra le contrastanti inter­pretazioni dei protagonisti. Ab­biamo trovato un solo docu­mento inedito (p. 296) e una so­la testimonianza inedita, del re­sto ampiamente utilizzata, quel­la di Luca Osteria, “agente se­greto” dell’Ovra, specializzato in azioni di provocazione nei confronti del Pcd’I e di “Giusti­zia e Libertà”, collaboratore delle Ss dopo l’8 settembre e fi­no alla primavera 1944, quando ritenne opportuno aprire un col- legamento anche con le forze della Resistenza.

Se il volume può essere utile per ricostruire nomi, incarichi e biografie dei dirigenti dei servizi di polizia, ci pare che il giudizio cui giunge l’autore su una scarsa efficienza e dell’Ovra e degli al­tri apparati di repressione con­trasti con quanto emerge da una sia pur rapida lettura delle carte d’archivio. Per quanto abbiamo visto nelle carte conservate al- l’Acs, gli “Ispettorati speciali” 1 e 2 dell’Ovra (che “curavano” l’Italia centro-settentrionale fi­no alla Toscana e alle Marche) ci sono apparsi tutt’altro che “insufficienti” e “inefficienti” e siamo indotti a non sottovaluta­re le capacità investigative (e re­pressive) dei commissari Nudi e D’Andrea né a ritenere l’Ovra poco più che un bluff (p. 202).

Forse per l’autore una esplo­razione anche superficiale delle carte d’archivio sarebbe stata più utile delle lunghissime cita­zioni dagli scritti di Guido Leto — si ha l’impressione che i suoi libri siano quasi totalmente tra­scritti — e di Carmine Senise. Troppe altre opere sono citate solo di seconda mano, provo­cando errori, sviste e indicazioni contraddittorie. Ad esempio: Pietro Secchia viene arrestato nel 1927 a p. 180 e nel 1931 alle pp. 171 e 254; il libro di Camillo Berneri Lo spionaggio fascista all’estero (Marsiglia, 1928) vie­ne indicato come edito nel 1930 a p. 35 e nel 1935 alle pp. 17 e 48; Gastone Sozzi “muore” il 6 febbraio 1928 a p. 152 e il gior­no successivo a p. 160.

Le pagine più felici sono, a nostro avviso, quelle sulla nasci­ta e l’organizzazione dell’Ovra (pp. 120-139) — ma inutilmente “scandalistiche” sono quelle in cui si traccia la biografia di Ar­turo Bocchini: pp. 86-119 —,

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sulla creazione della fitta rete di “informatori” e “confidenti” (pp. 139-161), sulla attività di Lu­ca Osteria: un personaggio deli­neato, forse, con tratti eccessiva­mente “positivi”. Certo fu un “agente” abile ad infiltrarsi fra le fiduciose (e a volte ingenue) schiere comuniste e gielliste ma, leggendo il libro, noi ci sentiva­mo, contrariamente a quanto fa­ceva l’autore, più propensi a schierarci dalla parte dei “perse­guitati” che non da quella del “persecutore”...

Luciano Casali

E d o a r d o B o r r a , Amedeo di Savoia, terzo duca d ’Aosta e vi­ceré d ’Etiopia, Milano, Mursia, 1985, pp. 385,lire 25.000.

Uomo riservato e misurato in vita, Amedeo d’Aosta non ha avuto fortuna da morto, perché le sue vicende sono state roman­zate e strumentalizzate, fino a farne l’eroe del colonialismo ita­liano e la vittima del regime car­cerario britannico. Gli rende giustizia questa biografia di Bor­ra, che gli fu vicino come medico e amico nei suoi ultimi anni e ora ne ripercorre con equilibrio la vi­ta pubblica e privata, sottolinean­done specialmente le doti umane. Non si tratta di una biografia scientifica e esauriente (le pagine sugli anni in Libia con Graziani e poi in aeronautica sono molto ra­pide, i rapporti con il re e Mussoli­ni appena abbozzati, i successi ot­tenuti come viceré d’Etiopia in­dubbiamente sopravvalutati), ma di un profilo informato e atten­dibile, che utilizza con discrezio­ne le carte del duca e della fami­glia, per mettere a fuoco la ricca personalità dell’uomo, demo­lendo (si spera per sempre) leg­

gende, esagerazioni e pettegolez­zi di troppe biografie giornalisti- che nel senso deteriore del ter­mine.

Giorgio Rochat

J e a n - P i e r r e V i a l l e t , La chiesa valdese di fronte allo stato fasci­sta 1922-1945, Torino, Claudia­na, pp. 423, lire 26.000.

Si deve sottolineare con Gior­gio Rochat, che ha scritto la prefazione per questa ricerca, il rilievo della decisione della Ta­vola valdese (l’organo ammini­strativo della Chiesa valdese) di aprire i propri archivi allo stu­dioso dell’Università di Greno­ble, Jean-Pierre Viallet.

La ricerca pubblicata dalla Claudiana è appunto la riduzio­ne per il grande pubblico di un lavoro molto più ampio, com­piuto quindici anni fa, che ora viene ripreso e rielaborato, nel quadro di una crescente atten­zione alle vicende del protestan­tesimo italiano.

L’autore ricostruisce, nella parte prima, l’ambiente econo­mico e sociale delle Valli valde­si, e l’atteggiamento culturale, tradizionalista, fortemente se­gnato dal rifiuto del mondo mo­derno, dal culto della “piccola patria” e dall’indifferenza per i problemi dell’etica collettiva.

Nella seconda parte si analiz­za la crisi della “civiltà prote­stante liberale”: sono gli anni “ambigui” (1919-1924) delle simpatie iniziali verso il fasci­smo, dovute a ostilità molto forte verso il Partito popolare, all’antisocialismo viscerale, al­l’attrazione del nazionalismo, alla disunione delle forze libera­li. Anni ambigui, perché alle sim­patie per quanto stava facendo

il fascismo su scala nazionale si contrappone l’ostilità e la con­danna per la politica scolastica e religiosa del regime. Nel com­plesso i Valdesi “furono molto meno sensibili alle manifesta­zioni ‘politiche’ di quel totalita­rismo che non agli atti che mi­nacciavano le libertà intellettua­li e spirituali”.

La questione della lingua francese fu uno dei terreni di scontro, essendo i Valdesi stori­camente bilingui e utilizzando essi il francese soprattutto nel­l’insegnamento religioso. E tut­tavia sfuggì alla Chiesa ufficiale valdese, preoccupata in primo luogo di salvaguardare i propri spazi, che il fascismo travolgeva le libertà di tutti. Come spiega Viallet, la Chiesa valdese scelse di essere “Chiesa silenziosa” di fronte all’imperversare del fasci­smo. Sicché, negli anni 1926- 1940, si sviluppò da parte valde­se una resistenza alle vessazioni fasciste, che quasi mai raggiunse la chiara coscienza della natura totalitaria del regime e che, vice­versa, contrattò i propri sempre più ridotti spazi. In effetti nel 1929 fu varata la legge sui “culti ammessi”, che doveva suscitare ben presto delusioni in sede di applicazione. Il regime esprime­va una politica antiprotestante, cui ci si oppose con il conformi­smo e con i compromessi, men­tre procedeva la fascistizzazione e l’italianizzazione delle valli. C’era, tuttavia, un minoranza di irriducibili, i cui principali espo­nenti formarono il gruppo dei giovani barthiani, ispirati dalla riflessione teologica e politica di Karl Barth. Essi forniranno in seguito i quadri politici e militari alla resistenza. Giovanni Miegge (1900-1961) sarà il loro leader intellettuale. Nonostante la bat-

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taglia dei barthiani, ancora nel Sinodo del settembre 1943 la Chiesa valdese respinse l’ordine del giorno Sibilia che conteneva l’autocritica per gli anni del conformismo e del silenzio. La Chiesa “prudente” prevalse an­cora una volta. Ciò non deve far dimenticare che quando si svi­lupperà la Resistenza, il contri­buto di esponenti valdesi sarà politicamente e culturalmente molto alto.

Il Viallet percorre con grande equilibrio il tormentato itinera­rio che porta fino al 1945, con­tribuendo in modo decisivo a far conoscere il passato e il pre­sente di una comunità religiosa del nostro Paese, che, pur essen­do minoritaria rispetto ai catto­lici, ha dato non poco, nel corso degli ultimi vent’anni, al rinno­vamento culturale e politico del­l’Italia.

Giovanni Comincili

A a . V v . , Tendenze della filoso­fia italiana nell’età del fasci­smo, a cura di Ornella Pompeo Faracovi, Livorno, Beiforte, 1983, pp. 327, lire 25.000.

Il volume, che presenta una parte delle relazioni al Conve­gno della società filosofica ita­liana tenuto a Livorno nel 1983, offre una panoramica ampia anche se non sempre nuova de­gli orientamenti e delle correnti della filosofia di fronte e duran­te il fascismo e delle iniziative culturali promosse da filosofi come Giovanni Gentile, in gran parte in conformità con le fina­lità del regime fascista.

Come sottolinea Eugenio Ga­rin nel titolo della sua relazione “La filosofia italiana di fronte al fascismo”, il rapporto filoso­

fia/fascismo non è semplice an­che per le difficoltà di raffron­tare due termini non facilmente confrontabili, proprio per il pia­no di astrazione in cui si muove la filosofia, estraneo al tipo di dimensione “frequentato dai fa­scisti e dal loro capo” (p. 17). Ma pur mettendo in rilievo il ca­rattere atipico di un simile con­fronto, Garin pone al centro della sua analisi il rapporto tra fascismo e idealismo, proposto dalla storiografia più tradizio­nale come rapporto per molti aspetti di coincidenza o perlo­meno di contiguità, ma se ana­lizzato alla luce degli studi e del dibattito culturale degli ultimi anni, di contrapposizione spes­so polemica. A giudizio di Ga­rin, che si richiama a testimo­nianze di intellettuali allineati con l’ideologia fascista, come Adriano Tilgher, l’idealismo è stato profondamente estraneo alla mentalità mussoliniana in gran parte ispirata a forme irra­zionalistiche. Italo Mancini (“La neoscolastica durante gli anni del fascismo”) analizza gli aspetti della neoscolastica, ad esempio il tema dell’ordine e del recupero della tradizione in an­titesi con la filosofia moderna, che più si avvicinano alla “ideo­logia” fascista. “Il colore del tempo, del tempo fascista” (p. 277) appare evidente in diversi aspetti di questa corrente di pensiero che tenta di porsi come alternativa di filosofia italica ri­spetto all’attualismo, posto spesso al centro di violente pole­miche da parte anche di Agosti­no Gemelli che in alcuni passi (Il mio contributo alla filosofia neoscolastica, Milano, Vita e Pensiero, 1926) sostiene che la battaglia contro l’idealismo “importato dai paesi nordici”

è sinonimo di amor di patria. Ma gli eventi precipitarono, co­me dice Mancini; la guerra e la politica razziale fecero fallire sia il sogno egemonico nutrito dalla neoscolastica sia ogni possibilità di accreditamento da parte del regime fascista. Giovanni Invit­to (“Spiritualismo, personali­smo e tendenze esistenziali nel pensiero cristiano”, propone l’analisi della linea di pensiero, lo “spiritualismo cristiano”, rappresentata da Armando Car­lini, Augusto Guzzo e Michele F. Sciacca, che pur frammenta­ta in molti rivoli si distingue dal­la neoscolastica e si contrappo­ne all’idealismo richiamandosi soprattutto a posizioni fidei­stiche.

Antonio Santucci ripercorre le tappe del pensiero di Rensi (“Un irregolare: Giuseppe Ren­si”), sinora poco studiato e solo recentemente riproposto al di­battito, e tratteggia il suo pro­gressivo avvicinarsi alla filoso­fia dell’autorità (Palermo, San- dron, 1920), ove ‘Tirregolare Rensi” assumendo la difesa dei valori nazionali contro la rivo­luzione proletaria e proponendo una nozione di ordine che si conciliasse con la libertà, riusci­va sospetto sia agli antifacisti per l’attacco alla democrazia sia al regime a causa della difesa di un governo garante dell’equili­brio delle parti.

Ornella Pompeo Faracovi (“Scienza e filosofia nell’Enci­clopedia italiana. 1929-1937”) delinea gli orientamenti della Società italiana per il progresso delle scienze fondata nel 1907, della Società filosofica italiana e della “Rivista di scienza” (poi “Scientia”) e delle pubblicazioni dell’editore Formiggini che av­viarono un dibattito su di un

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progetto di opera enciclopedica che doveva comprendere la cul­tura nel suo complesso, proget­to di cui si appropriò Gentile volgendolo a finalità anche poli­tiche del tutto estranee. Alberti­na Vittoria (“Gentile e gli Istitu­ti culturali”) illustra l’attività dell’Istituto nazionale fascista di cultura, dell’Istituto italiano di studi germanici e dell’Istituto italiano per il Medio e l’Estremo oriente, diretti da Gentile, con-' vinto di realizzare quell’unità tra attività teoretica e attività pratica indispensabili al compi­mento della funzione educativa della cultura. Le relazioni sugli orientamenti della filosofia ita­liana, pur attingendo ad opere note, si articolano secondo linee storiografiche ben precise e of­frono interessanti spunti per il dibattito, mentre gli interventi sulle istituzioni e le iniziative culturali sono espositive e riper­corrono spesso momenti di ri­cerche, i cui risultati appaiono ormai consolidati.

Paola Pirzio

R e n a t o S i t t i , La Capillare. Rap­porto su un’organizzazione fasci­sta di base, Ferrara, Cartografia artigiana, 1983, pp. 140, sip.

Il volumetto raccoglie consi­derazioni e notizie sul fascismo ferrarese, frutto della lunga e benemerita attività di ricerca e documentazione che Sitti svolge da anni attraverso il Centro et­nografico ferrarese da lui creato e animato. In particolare Sitti si sofferma sugli ultimi anni del regime, sul dibattito sul corpo­rativismo (in appendice sono ri­portati una ventina di interventi sulle riviste ferraresi del 1935- 38) e sul tentativo di inquadrare

strettamente tutta la vita della provincia con uno sviluppo del­le organizzazioni fasciste e para­fasciste e di una propaganda abile e articolata. Su quest’ulti­mo tema Sitti fornisce una docu­mentazione nuova e importante, ricca di dati sulla forza e la dif­fusione delle organizzazioni del regime e di quelle cattoliche pa­rallele. Da segnalare anche la documentazione fotografica as­sai interessante. Non convince invece il quadro complessivo del potere politico ferrarese: Sitti minimizza a più riprese il ruolo di Balbo (fino a scrivere che do­po il 1924 “si sfalda rapidamen­te la fortuna di Balbo”, p. 29), ma non si preoccupa di analizza­re gli equilibri politici provincia­li; e poi assegna agli uomini di Balbo una capacità di iniziativa e dominio persino eccessiva, at­tribuendo la creazione nel 1935 della “Capillare” che dà il titolo al volumetto, ossia di un piano per il controllo totale e appunto capillare della vita ferrarese pre­sentato implicitamente come una novità, anziché come lo svi­luppo della situazione preesi­stente. Ci sembra più corretto parlare della continuità del pote­re politico di Balbo e del suo gruppo di fidati e valenti colla­boratori e dopo il 1935, quando anche a livello nazionale appaio­no le prime crepe nel regime, di un loro maggiore attivismo or­ganizzativo, che non si può però comprendere senza un’analisi delle basi di classe del fascismo ferrarese. Il lavoro di Sitti, in so­stanza, è ricco di dati, ma inca­pace di un’analisi complessiva del fascismo ferrarese, e finisce col porre assai più problemi e stimoli di quanti riesca a risolve­re ed inquadrare.

Giorgio Rochat

R o b e r t S . D o m b r o w s k y , L ’esi­stenza ubbidiente. Letterati ita­liani sotto il fascismo, Napoli, Guida, 1984, pp. 118, lire11. 000 .

Contrariamente a quanto il ti­tolo lascerebbe supporre, i saggi raccolti in questo volume non si occupano delle vicende degli scrittori italiani in epoca fasci­sta, bensì dei fondamenti ideo­logici della loro diffusa adesio­ne al fascismo. Il discorso di Dombrowsky si inserisce in quel filone di studi relativamente re­centi che, in polemica con il tra­dizionale “mito consolatorio”, della radicale estraneità tra fa­scismo e cultura, sono venuti puntigliosamente documentan­do l’estensione e la profondità dei legami intercorsi tra l’intel­lettualità italiana e il fascismo in quanto movimento e in quanto regime. Nella fattispecie, gli strali dell’autore sono tutti ri­volti contro la ben nota tesi del carattere sostanzialmente este­riore del consenso dato al fasci­smo da alcune delle più eminen­ti personalità letterarie del pe­riodo, le quali vi avrebbero ap­punto aderito per “ingenuità” o per “opportunismo”, senza es­serne peraltro coinvolte sul pia­no della specifica produzione artistica.

Riproponendo una prospetti­va critica di ascendenza lukac- siana, “accentrata sui fatti lette­rari nella loro complessità socia­le e prevalentemente ideologi­ca”, Dombrowsky si sforza di mettere in luce, attraverso l’a­nalisi di testi campione partico­larmente emblematici, 1’ “ideo­logia implicita” di scrittori “protofascisti” come Oriani e Soffici, di Marinetti e i futuristi, di Pirandello, di Ungaretti e, in­

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fine, di Gadda, per giungere alla conclusione che nelle opere di questi autori, al di là delle mar­cate diversità di temi e di stili, agisce in misura più o meno di­spiegata, e con la parziale ecce­zione di un Gadda, un “para­digma” comune di interpreta­zione della realtà. Il nocciolo di tale “paradigma” consisterebbe in una risposta irrazionalistica ad una condizione sociale e psi­cologica di disintegrazione e di­saffezione dal mondo borghese: la ricerca di un nuovo senso del­l’esistenza sfocerebbe così in una varietà di mitologie com­pensative, tutte pervase da una più o meno esplicita vocazione totalitaria. E in questo caratteri­stico processo di mistificazione andrebbero appunto ravvisate le radici profonde dell’adesione al fascismo di scrittori di indubbia statura artistica quali quelli con­siderati.

Non mancano, in questi brevi saggi, pagine di penetrante ana­lisi critica. Le conclusioni gene­rali alle quali approdano sono tuttavia più suggestive che vera­mente persuasive. Che la cosid­detta “distruzione della ragio­ne” abbia costituito un humus straordinariamente fertile per la malapianta fascista è un fatto sin troppo evidente. Si può inol­tre facilmente convenire con l’autore sul carattere non mera­mente occasionale né esteriore della “fede” fascista di un Pi- randello o, più ancora, di un Ungaretti: ma una cosa è sotto- lineare la relativa “conciliabili­tà” (o “non contraddittorietà”, secondo Asor Rosa) del loro mondo poetico con il multifor­me universo culturale fascista, tutt’altra cosa è parlare di una presunta “omologia fondamen­tale”, “corrispondenza” o “in­

terdipendenza tra coscienza ar­tistica e politica”, in quanto de­rivante “per necessità interna” da un sotteso “modello conosci­tivo”.

Qui forse più che altrove sem­bra opportuno richiamare l’os­servazione di Asor Rosa, secon­do cui “sempre bisogna tener conto... del carattere particola­re della letteratura: altrimenti si mettono in rapporto o, peggio, si sovrappongono fenomeni le cui relazioni sono individuabili solo nell’ambito delle gran­di misure, dove però, spesso, perdono ogni significato speci­fico” (Storia d ’Italia, voi. 4, t. II, Torino, Einaudi, 1975, pp. 1417).

In realtà, che il “paradigma” irrazionalistico individuato da Dombrowsky debba necessaria­mente risolversi, per propria lo­gica intrinseca, in una scelta po­litica di natura fascista, rimane tutto da dimostrare (le esperien­ze delle avanguardie storiche eu­ropee sembrerebbero anzi nel complesso smentirlo). Ma quel che più lascia perplessi, sul ver­sante della concreta ricostruzio­ne storica, è che la sua tesi fini­sce per svalutare più del lecito altri motivi, forse meno profon­di ma-'culturalmente più decisi­vi, che condizionarono da lon­tano l’assenso di buona parte degli intellettuali italiani al fa­scismo, a cominciare dal nazio­nalismo, essenziale cemento ideologico sia del movimento che del regime mussoliniano.

Vittorio De Tassis

F i a m m a N i c o l o d i , Musica e musicisti nel ventennio fascista, Fiesole, Discanto, 1984, pp. 488, lire 48.000.

La domanda cui l’autore vuo­le rispondere non è semplice- mente relativa all’esistenza o meno di una “musica fascista”, ma, affrontando un tema fino ad ora quasi completamente tra­scurato, esamina produzione e consumo di musica durante il regime insieme all’apporto dei musicisti alla creazione di una cultura e di un consenso, disso­dando “un terreno semi-vergi- ne”e pubblicando materiali che permettono di “arricchire la di­scussione e disegnare un quadro frastagliato e complesso” della realtà musicale (e culturale) ita­liana durante il ventennio (p. 14). Ciò che ne risulta è un lavo­ro estremamente ricco di notizie e di stimoli, ampiamente docu­mentato e attento al dibattito e alle fonti anche provenienti da settori non contigui a quello musicale, come le sollecitazioni tratte da Isnenghi e Turi e dalla documentazione delle carte con­servate presso l’Archivio centra­le dello stato. È, anzi, da tale fonte che sono tratti gli elementi principali per ricostruire il rap­porto fra regime e singoli com­positori (pp. 306-472): un qua­dro che registra una “passerel­la” di artisti che “per fede e sen­so di disciplina autentico, sem­plice autogratificazione, giusto o cinicamente spregiudicato amor di carriera si misero (o fin­sero di mettersi) al servizio del­l’autorità e del regime” (p. 275).

D’altra parte, il fascismo non aveva trascurato di utilizzare la vasta popolarità acquisita da compositori come Mascagni, Puccini e Giordano, riciclando a proprio favore brani già noti (come {’Inno a Roma di Puccini del 1919), o commissionando specifiche musiche ufficiali, co­me l’Inno degli Avanguardisti

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(Mascagni, 1927) e l’Inno del Decennale” (Giordano, 1932). Attente e acute le “biografie” dei “musicisti popolari” e del loro rapporto con la dittatura^ maggiori, a contatto diretto con Mussolini, spesso vicini a Bot­tai, sempre in collegamento con il Minculpop che influiva in ma­niera determinante sulle scélte dei “cartelloni” teatrali: Giaco­mo Puccini (pp. 35-40), Pietro Mascagni (pp. 40-58), Umberto Giordano (pp. 58-65) e Riccar­do Zandonai (pp. 66-71).

Scelte politiche e cultura mu­sicale: fra compositori “appar­tenenti a paesi sanzionisti”, quelli sottoposti alle conseguen­ze delle leggi razziali, e altri, na­ti in paesi “nemici dell’Italia”; imbastire programmi teatrali di­veniva, negli anni Trenta, una difficile opera di equilibrismo. Solo gli autori tedeschi riusciva­no a trovare qualche spazio, so­prattutto Wagner e Mozart (po­chissimo eseguito fu Beethoven, pp. 26-30). Ciò che dominava, quindi, era il “prodotto nazio­nale” e, all’interno di questo, veniva privilegiato il conformi­smo, la rappresentazione di quanto la tradizione aveva con­solidato (soprattutto Giuseppe Verdi, ovunque riproposto, p. 25). Pur con ambiguità, incer­tezze e contraddizioni, la politi­ca musicale del fascismo sceglie­va gli stilemi e le indicazioni “consolidati”, abbandonando completamente, a partire dal 1930, le timide aperture lasciate alle novità e alle ambiguità del futurismo (pp. 72-119): consoli­datosi al potere, il fascismo ope­rava scelte conservatrici anche nel campo musicale.

Un discorso a parte, infine, meritano la “politica culturale incolta” (p. 12) del Minculpop

(diffusa attraverso i canali privi­legiati del Dopolavoro), operata mediante sovvenzioni che spes­so favorivano “dilettanti” ed una “inutile zavorra” di compo­sitori promossi dalle Mostre del Sindacato (pp. 21-22). Il livello delirante della polemica antie­braica partita già nel corso del 1937 finì con l’includere nella “lista nera” razzista (con l’ap­provazione di Giuseppe Bottai) anche compositori come Stra­vinsky, Honegger, Ravel e Mar- kevitch, che ebrei non erano (pp. 262-265).

Luciano Casali

A n t o n i o S a r u b b i , Il Mondo di Amendola e Cianca e il crollo delle istituzioni liberali (1922- 1926), Milano, Angeli, 1986, pp. 279, lire 25.000.

“Mio padre aveva un ufficio al giornale II Mondo che si tro­vava, redazione e tipografia, in via della Mercede. Direttore del giornale era Alberto Cianca, elegante e gioviale, sempre invi­schiato in faccende amorose”. Così scrive, in Una scelta di vita (Milano, Rizzoli, 1976) Giorgio Amendola a proposito del quotidiano liberale nato nel gennaio del 1922; ed aggiunge che il padre, oltre ad ispirarne la linea politica, ne era il garante nei confronti della proprietà.

L’intensa ma breve vita del giornale — che cessò le pubbli­cazioni nel 1926, quando si ebbe la soppressione della libertà di stampa — è oggetto del volume di Antonio Sarubbi. Per l’auto­re — docente di storia delle isti­tuzioni politiche nella Facoltà di scienze politiche dell’Università di Napoli — va riconosciuto a II Mondo il merito di avere “sin

dall’inizio combattuto i suppor­ti della concezione e dell’artico­lazione dottrinario-giuridica del regime fascista”.

In un brano di una lettera di Turati alla Kuliscioff, riportato nel libro, il deputato socialista parla di un “gruppo Amendola, a base meridionale” in disaccor­do con un “gruppo Bonomi, senza base”: “questa povera de­mocrazia — scrive Turati — è proprio ridotta al lumicino... pochi ma divisi”. In realtà, alle elezioni del 1924, era stato Bo­nomi a non volersi presentare insieme con Amendola; d’al­tronde, negli ambienti dell’anti­fascismo democratico non si era dimenticato l’atteggiamento del ministro della guerra del gover­no Giolitti nei confronti delle squadre fasciste, e si riuscì, in pratica, a bloccarne la candidatu­ra nella capitale. Ma, nel periodo immediatamente successivo alle elezioni, fu Giovanni Amendola che si prodigò per unire, nella lotta al fascismo, le varie com­ponenti dell’opposizione costi­tuzionale. A lui, al filosofo Gui­do De Ruggiero e al giornalista Emilio Scaglione si deve la reda­zione di un manifesto indirizza­to non solo agl’intellettuali ed ai professionisti, ma anche agl’im­piegati, agli artigiani, agli agri­coltori, perché — sottraendosi al richiamo sia del fascismo che del comuniSmo — si desse vita ad una terza forza liberal-demo- cratica. Scrive Sarubbi: “L’or­ganizzazione dei nuclei di demo­cratici e liberali che dovevano uscire dalle vecchie associazioni per porsi ‘sotto l’egida della Stella a cinque punte... senza al­cuna pregiudiziale delle opinio­ni politiche professate sino ad ieri, purché nei confini sani del­l’idea di patria e col proposito

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Rassegna bibliografica 145

immediato di svolgere azioni di propaganda per una seria rinasci­ta meridionale’ aveva il suo cen­tro a Napoli, dove operava Emi­lio Scaglione” (e dove, alla vigilia del voto,era imperversata contro il candidato Giovanni Amendola, poi comunque eletto, la violenza dei picchiatori di Mussolini, fatti venire anche da altre zone).

Associazioni democratiche sorsero pure in Abruzzo, in Ca­labria, in Puglia, in Basilicata. Rispetto ad esse, Il Mondo si as­sunse il compito di svolgere una costante azione di impulso e di guida, sempre “pronto a coglie­re con tempestività — sottolinea l’autore — quanto accadeva nel campo liberal-democratico” ed a reagire alle accuse di comuni­Smo sovversivo.

Il figlio Giorgio disse di Gio­vanni Amendola che “era un li­berale, legalitario, monarchico, quello che si vuole, ma indivi­dualmente era un combattente”, e Sarubbi gli riconosce piena­mente questa dote quando rico­struisce la coraggiosa battaglia intrapresa dall’uomo politico di Sarno contro le sopraffazioni del fascismo. L’accenno, nel vo­lume, alle insufficienze, pur ri­scontrabili accanto ai meriti, si riferisce alla povertà degli esiti di quella battaglia, che non riu­sci ad “andare al di là di una ri­volta e di una rivendicazione morale che potè aver assai scarsa efficacia sugli sviluppi del regi­me fascista che ormai si appog­giava ad elementi che non si fon­davano solo sul puro esercizio della forza”: stava infatti na­scendo il nuovo Stato, lo Stato forte la cui necessità avrebbe poi affermato Giovanni Gentile co­me dovere-diritto del cittadino.

Mario Pagano

L a u r a G a s p a r i n i , M a s s i m o

M u s s i n i (a cura di), 10 anni di fascismo a Reggio Emilia nella fotocronaca di Renzo Vaiani, Reggio Emilia, Amministrazio­ne comunale - Biblioteca muni­cipale, 1985, pp. 215, sip.; G i a n

F r a n c o C a s a d i o , V e n e r i o C a -

s a d i o S t r o z z i , La periferia del­l ’immagine. Dieci anni di fasci­smo nel Ravennate (1935-1944), Faenza, Coop. La Loggia, 1985, pp.XXIV-204, lire 20.000.

La retorica fascista di provin­cia ci viene restituita a tutto campo dalle migliaia di foto­grammi che le Leica di Renzo Vaiani e Alvaro Casadio scatta­rono a Reggio Emilia e a Raven­na negli stessi anni: dal 1934-35 alla fine della Rsi. Due fotografi tecnicamente preparati, con gu­sto ed inventiva, hanno lasciato una produzione ricchissima che esprime due modi diversi di ap­proccio all’immagine, ma ripro­duce anche un identico “sapore periferico” dei “fasti imperiali”, automaticamente ridimensiona­ti (e a volte involontariamente ridicolizzati) dalla piatta imita­zione e dalla ripetitività mono­tona di quanto avveniva a Ro­ma. Un regime “dimesso”, quin­di, che riecheggia retoricamente e stancamente, nelle ridotte di­mensioni della provincia le “adunate oceaniche”, cui non riescono a dare calore né vivaci­tà le riprese di Vaiani (caratteriz­zate da forti contrasti di “colo­re”) né quelle di Casadio (più at­tento ai personaggi che alla fol­la, ai mezzi busti che alle pano­ramiche).

I due volumi, che ripropongo­no 327 immagini del Ravennate e 244 del Reggiano (ma le ultime otto sono relative alla campagna elettorale del 1948) sono di par­

ticolare e vivissimo interesse e meriterebbero ben più di una rapida segnalazione, non tanto per le novità di quanto le foto­grafie ci propongono (che può avere solo un valore locale), quanto soprattutto per l’atmo­sfera che ricreano e che fa im­mediatamente rivivere le realtà provinciali dell ’ “ Italietta” fa­scista in camicia nera. Proprio da questo punto di vista, pro­babilmente, Ravenna e Reggio Emilia possono divenire uno specchio fedele di tante altre delle “cento città” d’Italia nel corso degli anni Trenta.

Luciano Casali

D a n i l o V e n e r u s o , Gentile e il primato della tradizione cultu­rale italiana. Il dibattito politi­co all’interno del fascismo, Ro­ma, Studium, 1984, pp. 271, li­re 22.000.

Nell’introduzione al volume l’autore, già noto al pubblico italiano per altri studi sul fasci­smo e sul movimento cattolico, dichiara di non voler ripercor­rere “le articolazioni della cul­tura fascista”, ma di voler veri­ficare la convergenza entro il progetto politico-sociale del fa­scismo della tradizione cultura­le italiana interpretata naziona- listicamente, come fonte di pri­mato italiano nel mondo (p. 10). Si tratta infatti di un libro che presenta il dibattito politi­co svoltosi in Italia negli anni del fascismo secondo una parti­colare chiave di lettura, incen­trata sul concetto gentiliano di “primato della tradizione cultu­rale italiana”. Intorno a questa linea di pensiero, Gentile sareb­be riuscito a far convergere un

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ampio consenso di intellettuali e uomini politici di vario orienta­mento, che a partire dalla vigilia della prima guerra mondiale avrebbero rivendicato un “pri­mato” politico dell’Italia nel mondo. Su questa base Gentile potè incontrarsi con nazionalisti come Corradini e con lo stesso Mussolini che, dopo Caporetto, avrebbe “gettato a mare il suo patrimonio positivista e darwi­niano” (p. 43) per abbracciare le tesi del filosofo siciliano. Que­sti, da parte sua, venne sempre più riconoscendosi con il fasci­smo, poiché esso realizzava “ciò che stava a cuore” a Gentile, cioè “l’ingresso dell’Italia tra le grandi potenze” (p. 82). Si sa­rebbe venuta così formando una linea mussoliniano-gentiliana, rappresentativa del fascismo più ufficiale ed “esclusivista”.

Nel corso degli anni trenta, tuttavia, la concezione gentilia- na dello Stato, fatta propria da Mussolini, rivelava agli occhi di molti tutta la sua angustia e, so­prattutto, la sua inadeguatezza a rispondere ai gravi problemi internazionali che venivano pro­filandosi e alle pressioni eserci­tate sul vecchio continente dalle grandi realtà politiche ed econo­miche rappresentate da Stati Uniti e Unione Sovietica. La stessa concezione gentiliana, a ben vedere, era minata da una profonda ed insanabile contrad­dizione, poiché ciò che nel pen­siero del filosofo doveva essere “il massimo dell’universalità, lo Stato-persona e lo Stato-religio­ne” trovava attuazione nel “massimo della particolarità” (p. 18), cioè lo Stato-nazione. Venne quindi maturando il bi­sogno di elaborare una cultura che conferisse una rinnovata di­mensione politica al fascismo,

secondo una prospettiva euro­pea. Di qui le varie formulazio­ni di “unione europea”, conce­pita come unione di civiltà in funzione anticomunista. A par­tire dal 1925 si sarebbe dunque venuta profilando una progres­siva crisi del “nazionalismo” e la formazione di due distinte “fasce” all’interno della cultura politica del fascismo: l’una gri­gia e ufficiale, rappresentata dal fascismo “esclusivista” di Mus­solini, l’altra, “non ufficiale, polivalente e molteplice”, entro cui Veneruso colloca intellettua­li e uomini politici di vario orientamento, impegnati in una difficile ricerca di vie nuove, per colmare la “frattura” creatasi “fra ideologia e realtà”. Questi riuscirono in diverse forme ad elaborare ’’nuovi moduli inter­pretativi della realtà mondiale”, superando di fatto ”il livello cui era giunto il processo di forma­zione di Mussolini da una parte (azione politica) e di Gentile dall’altra (tradizione culturale)” (p. 269).

L’impostazione del libro e la tesi sostenuta dall’autore susci­tano non poche perplessità. In primo luogo per una questione di metodo, in quanto Veneruso tende troppo spesso a spiegare importanti fatti di politica inter­na e di politica estera negli anni del fascismo partendo da una fi­losofia, quella gentiliana, che viene così caricata di troppe “re­sponsabilità”, con il risultato di ingigantire il ruolo di Gentile nella storia del fascismo. Il pen­siero gentiliano oltrettutto viene presentato secondo una lettura che appare assai riduttiva, fon­data essenzialmente su due, tre concetti (il concetto di Stato, il concetto di “primato culturale” e il concetto di rivoluzione dal­

l’alto), senza che siano mai ope­rate le necessarie distinzioni fra i diversi piani, quello filosofico e quello politico, della comples­sa opera gentiliana. La figura di Mussolini viene viceversa ap­piattita e ingabbiata nella non meglio specificata “linea esclu­sivista” del fascismo, cosicché, a lettura ultimata, si ha la singo­lare impressione che il vero fon­datore del fascismo non sia sta­to Mussolini ma Gentile. È evi­dente chela rivisitazione del di­battito politico del fascismo at­traverso una lente tanto fragile dà luogo a non poche forzature interpretative, come il voler col­locare all’interno di quella che l’autore chiama la ’’seconda fa­scia” della cultura politica del fascismo, intellettuali di prove­nienza e formazione tanto di­versi come gli ex-allievi del filo­sofo siciliano Omodeo, Russo, Codignola, Lombardo-Radice; ex-nazionalisti come Rocco e Federzoni; gli ’’universitari cat­tolici” e la rivista ”11 Frontespi­zio”, tutti accomunati da una sorta di ’’europeismo”. In que­sto e in altri casi per individuare un comune denominatore tra uomini di cultura tanto diversi Veneruso deve ricorrere a cate­gorie e definizioni assai poco ri­gorose. Tale, ad esempio, ci ap­pare la categoria di “realismo” (che dà il titolo ad un intero pa­ragrafo) e così anche il concetto di “nazionalismo”, usato talvol­ta per indicare un preciso orien­tamento, politico, talaltra per designare una generica posizio­ne ideale, cosicché quando l’au­tore parla di “crisi del nazionali­smo”, collocandola intorno al 1925, non si comprende a quale “nazionalismo” egli voglia allu­dere, né viene adeguatamente giustificata la periodizzazione

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Rassegna bibliografica 147

proposta. Ne risulta una rico­struzione del dibattito politico negli anni del fascismo schema­tica in qualche punto e poco persuasiva.

Angelo Montenegro

M a r i a F r a d d o s i o , Le donne e il fascismo. Ricerche e problemi di interpretazione, “Storia con­temporanea”, 1986, n. 1.

L’esiguità degli studi di storia delle donne in epoca fascista e nel contempo la difficoltà di re­perire indicazioni bibliografiche esaurienti sottolineano l’impor­tanza di una rassegna ampia e documentata come quella ela­borata dalla Fraddosio su que­sta tematica (cfr. anche Fraddo­sio, Donne nell’esercito di Salò, “Memoria”, 1982, n. 4). I riferi­menti bibliografici sono molto ricchi e presentano un quadro completo della produzione sto­rica sia sul piano delle storie ge­nerali (includendo anche opere ispirate ad ideologie antifemmi­nili) sia degli studi specifici. L’analisi si articola su due linee di ricerca che focalizzano e la condizione della donna durante il fascismo e la militanza femmi­nile nelle organizzazioni del re­gime.

La prima parte decisamente molto ampia e dettagliata, assu­mendo come griglia di lettura la “condizione della donna”, risul­ta però disorganica allineando ricostruzioni storiche quali La storia della guerra civile in Italia di Giorgio Pisano (Milano, FPE, 1966), la Storia del fasci­smo di Pino Rauti e Rutilio Ser- monti (Roma, Cen, 1976-77), a fianco di analisi precise come gli studi di Piero Meldini (Sposa e madre esemplare, Rimini-Firen-

ze, Guaraldi, 1975) e di Maria Antonietta Macciocchi {La don­na nera, Milano, Feltrinelli, 1976). Vengono così tratteggiati in ordine cronologico i momenti della storiografia sul fascismo nel suo complesso, che se illu­strano aspetti della vita delle donne, muovono da ottiche e fi­nalità così varie da comporre al­la fine un panorama non sempre chiaro, come la ricchezza della documentazione avrebbe potuto produrre. La scarsa organicità mi pare derivare da una non ben precisata motivazione della scel­ta della griglia di lettura, che comprende in sé dimensioni di vita come la famiglia, l’apparte­nenza ad una classe sociale, il lavoro, le ideologie antifemmi­nili prevalenti, la partecipazione alla vita politica, il controllo delle nascite..., che se risultano sempre tra loro intrecciate, spesso fanno capo a ottiche in­terpretative differenti, che non è possibile mettere tra parentesi.

La seconda parte della rasse­gna, pur abbastanza breve, ma proprio in quanto impostata su di una linea molto precisa, è senz’altro molto più omogenea.

Paola Pirzio

Italia liberale

D o r a M a r u c c o , Lavoro e pre­videnza dall’Unità al fascismo. Il Consiglio della previdenza dal 1869 al 1923, Milano, Angeli, 1984, pp. 128, lire 10.000.

Questo saggio costituisce un importante contributo nel cam­po della storia delle istituzioni e dell’amministrazione pubblica italiana. Proseguendo nella di­

rezione della sua precedente ri­cerca sul mutualismo nell’Italia liberale, l’autrice ha affrontato lo studio del Consiglio della pre­videnza e delle assicurazioni so­ciali, verificando le ipotesi che Alberto Caracciolo, già nel 1960 {Stato e società civile. Problemi dell’unificazione italiana, Tori­no, Einaudi), aveva formulato sulla proliferazione dei corpi consultivi, sulla loro funzione all’interno di un sistema rappre­sentativo e sulla loro importan­za per definire le misure dell’in­tervento statale nel periodo libe­rale. Rispetto agli studi sui con­sigli amministrativi (dei quali l’unico con taglio storico resta quello di Enzo Balboni, Le ori­gini dell’organizzazione ammi­nistrativa del lavoro, Milano, Giuffrè, 1968, dato che l’argo­mento è campo privilegiato del diritto amministrativo e costitu­zionale, come attesta meglio la ricca bibliografia sul Consiglio nazionale dell’economia e sui suoi precedenti), il libro della Marucco contiene un’ampia analisi storico-sociologica dei componenti del Consiglio, uni­tamente ad una discussione ap­profondita sui risultati della sua ricerca e sulle tesi più rilevanti all’interno del dibattito sul rap­porto sistema politico/ammini- strazione e sui mutamenti di quest’ultima avvenuti tra l’Uni­tà e il fascismo. La ricerca atte­sta infatti sia il progressivo au­mento della presenza di interessi settoriali organizzati all’interno della pubblica amministrazione, sia l’aumento del peso della bu­rocrazia anche in questo corpo consultivo. I risultati di questa ricerca confermano i dati relati­vi alla periodizzazione interna della storia amministrativa ita­liana, già stabiliti dagli studi

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più accreditati sull’argomento (come quelli di Sabino Cassese) e le peculiarità assunte, nelle va­rie fasi, dal sistema amministra­tivo nel suo rapporto con il go­verno ed il Parlamento. Anche nel Consiglio della previdenza si riscontra così, nel trentennio post-unitario, la medesima fu­sione tra personale politico e personale amministrativo ri­scontrabile in tutti i settori del­la pubblica amministrazione, mentre si delinea, a partire dal primo Novecento, la nuova cen­tralità degli interessi organizzati nel campo del credito e soprat­tutto della cooperazione, che determinano nuovi criteri di rappresentatività all’interno del Consiglio stesso. Ma la nuova organizzazione degli interessi del lavoro è in grado di imporre la realizzazione effettiva di un’adeguata legislazione socia­le? L’autrice segue da vicino i lavori del Consiglio, i risultati ottenuti ed i fallimenti, assieme alle sue difficoltà di funziona­mento che si accentuano a parti­re dagli inizi del secolo, anche in relazione alla mai realizzata fu­sione con il nuovo, importante organo sorto nel 1902, il Consi­glio superiore del lavoro, ed alla mancata ristrutturazione del vecchio Consiglio sul modello del nuovo. L’azione consultiva del Consiglio, limitata alla mu­tualità e alla previdenza, non corresse le lentezze della legisla­zione sociale giolittiana. Il pas­saggio all’assicurazione sociale obbligatoria, come risoluzione complessiva del problema della previdenza sociale avvenne solo durante la guerra. Essa, tutta­via, “non fu l’approdo di un lungo cammino dello Stato libe­rale per colmare il divario tra paese reale e paese legale, fu

invece un’offerta alle classi po­polari in cambio del loro coin­volgimento nell’impresa belli­ca”. Le conclusioni tratte dalla Marucco nel campo specifico della sua ricerca apportano ulte­riori conferme alle tesi di Paolo Farneti (Sistema politico e so­cietà civile, Torino, Giappic- chelli, 1971) relative alla manca­ta democratizzazione del siste­ma politico italiano nel periodo decisivo della sua espansione economica.

Maria Malatesta

La cassetta degli strumenti, Ideologie e modelli sociali nel­l ’industrialismo italiano, a cura di Valerio Castronovo, Milano, Angeli, pp. 305, lire 25.000.

Risultato di un’indagine pro­mossa nel 1981 dal Comitato di Scienze economiche e sociologia del Cnr sul tema “L’Italia del Nord: nascita di una società in­dustriale, 1880-1920”, il volume raccoglie otto saggi con l’inten­to complessivo di delineare un profilo, sia pure parziale, dei ri­svolti culturali e istituzionali connessi alla prima rivoluzione industriale italiana. Va imme­diatamente precisato tuttavia come la frammentazione e l’in­treccio dei terreni di ricerca — dalle scienze economiche e so­ciali alle relazioni industriali, dai modelli di comportamento borghesi alla militanza nei parti­ti, fino al campo delle simbolo­gie e degli stereotipi ideologici — più che costruire “un quadro significativo della nostra inizia­zione industriale”, come nelle intenzioni di Castronovo che ha curato la pubblicazione, abbia finito per denotare la mancanza di una pratica unificante di con­

fronto tra i giovani studiosi coinvolti nell’iniziativa. Né l’in­troduzione dello stesso Castro­novo fornisce elementi utili al­l’individuazione di una trama interna capace di legare i contri­buti — pure ricchi di spunti in­teressanti se considerati singo­larmente — in una coerente pro­posta interpretativa.

La cifra del volume mag­giormente carica di implicazioni sta tutta nella citazione schum- peteriana del titolo: nel riferi­mento cioè alla cultura econo­mica come “cassetta degli stru­menti” elaborati dagli economi­sti per l’investigazione, la regi­strazione, la previsione e il go­verno dei processi che caratte­rizzano il funzionamento della società industriale. Inserendosi nel dibattito storiografico — iniziato proprio da Castronovo alcuni anni fa — sull’esistenza e le caratteristiche della “cultura industriale” in Italia, alcuni contributi riescono, seppure con intenti soprattutto illustrativi e senza uno Sforzo interpretativo del tutto convincente, a focaliz­zare i riflessi del procedere del­l’industrializzazione sugli statu­ti metodologici ed epistemologi­ci dell’economia politica e delle scienze sociali in Italia, tra la fi­ne del secolo scorso e i primi de­cenni del Novecento. Sullo sfondo della parabola della cul­tura positivista, l’affermazione delle scienze sociali è segnata dalla crescita parallela di una re­te di istituzioni: il Laboratorio di economia politica fondato, nella Torino positivista e indu­striale, da Cognetti De Mardis, “campione dello sperimentali­smo applicato all’economia”; ma soprattutto il Politecnico di Milano, espressione del primo positivismo della Destra lom­

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barda, convinta sostenitrice del­la necessità di costituire la tecni­ca in scienza (la “scienza appli­cata”). Lungo tali coordinate si consumano alcune delle espe­rienze fondamentali della cultu­ra industriale dell’età liberale: quella de “La Riforma sociale”, con il suo caratteristico atteg­giamento pragmatico ed opera­tivo nei confronti dei processi industriali, analizzati con stru­menti originali come le grandi survey della letteratura econo­mica e legislativa, le indagini empiriche e la ricerca statistica (Denis Giva); quella della casa editrice Hoepli, organicamente legata al Politecnico, che con l’opera di divulgazione scientifi­ca operata dalla sua collana di manuali realizzò un programma di formazione di tecnici, periti e burocrati direttamente finaliz­zato alla costruzione dell’Italia industriale (Laura Barile); quel­la infine cronologicamente po­steriore dell’Ente nazionale ita­liano per l’organizzazione scien­tifica del lavoro, in cui la tradi­zione paternalistica della psico- tecnica italiana (centralità del fattore umano e dell’orienta­mento professionale contro l’“arida meccanizzazione” degli ingegneri americani) confluirà con le strategie corporative del sindacalismo fascista (Claudio Pogliano).

Da segnalare anche il brillan­te saggio dedicato da Giuseppe Berta alla visione di Luigi Ei­naudi delle relazioni industriali. Ripercorrendo le roventi pole­miche anticorporative dell’intel­lettuale piemontese e i suoi ripe­tuti scontri, a proposito delle funzioni del Consiglio superiore del lavoro, con il personale poli­tico di matrice nittiana sosteni­tore di un governo istituzionale

del lavoro, Berta sottolinea la “modernità” della figura di Ei­naudi, conservatore in grado di intuire “come possa essere irta di pericoli la strada di un acco­glimento delle forme della citta­dinanza industriale e sociale at­traverso l’estensione del reticolo istituzionale, in una situazione come quella italiana in cui sono esili le basi dell’autonomia so­ciale degli attori contrattuali”. Il richiamo ad Einaudi come di­fensore dell’autonomia della sfera economica contro la “ipo­statizzazione delle organizzazio­ni di rappresentanza degli inte­ressi” e il loro “perverso intrec­cio” con le funzioni dello Stato fa tutt’uno con le tesi ormai consolidate di Castronovo sul destino minoritario dell’indu­strialismo in Italia, incapace di raggiungere una piena legittima­zione e di condurre ad una “ac­cettazione a pieno titolo della logica conflittuale tra capitale e lavoro”. Ciò che induce a rite­nere che in fondo l’introduzione al volume dello stesso Castrono­vo non sia riducibile ad una pu­ra operazione di sponsorizzazio­ne editoriale.

Stefano Battilossi

A l b e r t o D e B e r n a r d i , Il mal della rosa. Denutrizione e pella­gra nelle campagne italiane fra ’800 e ’900, Milano, Angeli, 1984, pp. 267, lire 22.000.

Scrisse Marc Bloch, introdu­cendo il famoso studio su I ca­ratteri originali della storia ru­rale francese (Torino, Einaudi, 1973) che “vi sono periodi, nello sviluppo di una disciplina, in cui un’opera di sintesi, anche se a primo aspetto prematura, torna più utile di molte ricerche ana­

litiche”. Negli ultimi anni si so­no succeduti studi, ricerche, tesi di laurea, per lo più di carattere locale sulla storia della malattia; non sempre con esiti ugualmen­te felici. Spesso l’analisi delle forme endemiche o epidemiche è stata costruita usando parti­zioni territoriali o scansioni temporali che non hanno tenuto sufficiente conto dei caratteri profondi della morbilità, così come di altri momenti della vita degli uomini, quali natalità, mortalità.

I tempi delle malattie hanno in parte cadenze proprie ed i ri­gidi nessi causali tra fenomeni economici, condizioni di vita e malattia sono forieri di ambi­guità. Un’altra considerazione sollevano talune di quelle ricer­che analitiche locali, cui si è fat­to cenno, ed il problema venne lapidariamente esposto da Gio­vanni Berlinguer in apertura del convegno “Salute e classi lavo­ratrici in Italia dall’Unità al fa­scismo”, tenutosi a Pavia nel febbraio 1981. Secondo Berlin­guer “un medico che si improv­visa storico è pericoloso quanto uno storico che si improvvisasse medico (Salute e classi lavoratri­ci in Italia dall’Unità al fasci­smo, a cura di M. Luisa Betri e Ada Gigli Marchetti, Milano, Angeli, 1982, p. 11). Forse, no­nostante l’avviso, la trappola è già scattata più volte.

Non è casuale il fatto che la malattia sia stata colta prevalen­temente quale dato oggettivo e assai meno nel suo essere stata vissuta, filtrata dalla soggettivi­tà di gruppi sociali in certi am­bienti e in determinati momenti. La malattia, come la nascita, la morte, l’abbandono e la morta­lità dei bambini furono — e so­no — realtà non di brevi perio­

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di, ma connotarono la quotidia­nità di intere epoche storiche, sotto latitudini differenti. Una realtà di sempre, si potrebbe quasi dire; ciò che mutava non era solo la forma di tali fenome­ni ma anche, e forse soprattut­to, il modo in cui gli uomini e le società vissero nel tempo la ma­lattia o la morte. Ciò che potè apparire “normalità” in talune epoche, si fece intollerabile in altre.

Depone a favore del lavoro di De Bernardi l’aver appunto di­latato gli orizzonti, aver cercato di leggere orme magari tenui, apparentemente poco significa­tive che però portavano lonta­no, alla individuazione di remo­te radici di una malattia, la pel­lagra, per lo più colta nei suoi quadri fenomenologici. Le ori­gini del male della rosa sono da ascrivere, secondo l’autore, a fenomeni strutturali di lungo periodo (p. 58) ed egli coglie nel mais qualcosa di più di una me­ra coltura, ma il perno “attorno al quale ruotarono tutti i pro­cessi economici... e che di fatto consentì l’aggressione ai livelli di reddito e la proletarizzazione delle masse contadine: immise­rimento dei ceti produttivi delle campagne e diffusione del gra­noturco procedettero parallela- mente e quanto più elevata si fa­ceva la pressione padronale e imprenditoriale sul reddito e sul salario contadino, tanto mag­giore diventava l’estensione del­la coltura maidica e il suo peso nella ruota agraria” (p. 37). Doppiate le colonne d’Èrcole degli archi temporali troppo asfittici, lo studio, pur con qual­che disomogeneità, si muove ed abbraccia ambiti regionali vasti ed è proprio su questo terreno che esso svela taluni risvolti

bifronti. L’insufficienza quanti­tativa e qualitativa delle ricerche su aree tipicamente mezzadrili, piuttosto che bracciantili e a sa­lariati fissi o a piccola conduzio­ne diretta fa sorgere qualche in­terrogativo sulla geografia della fame delineata dall’autore e sui nessi causali con l’introduzione di nuovi ordinamenti colturali o con l’evoluzione dei rapporti di proprietà e di produzione nelle campagne già nel corso del Set­tecento. D’altro canto, proprio perché il lavoro si pone in qual­che modo come opera di sintesi, nell’accezione ricordata poc’an­zi, esso ha appunto il merito di stimolare ipotesi, domande, di porre nuovi problemi, solleci­tando ricerche lungo piste di cui ora è più facile cogliere la dire­zione ed il senso.

Così — si è visto — poco illu­minata è la pellagra nel sentire soggettivo della gente ed in tal senso uno dei tratteggi più sa­pienti, eppure scarno, lo dob­biamo cercare tutt’ora nelle pa­gine del II Mulino del Po di Bac- chelli. Come veniva vissuta la pellagra, all’inizio del secolo scorso, quando era accompa­gnata dall’abbandono di mi­gliaia di bambini nelle ruote dei torni; e come, invece, durante la seconda metà dell’Ottocento e più ancora sul finire del secolo, quando le porte dei manicomi si aprivano di meno per accogliere i pazzi pellagrosi e, viceversa, con intensificata frequenza si spalancavano per inghiottire qualcosa di nuovo, qualcuno che pareva rimpiazzare gli anti­chi ospiti: coloro che erano af­fetti da frenosi alcoolica? Sep­pure per ragioni diametralmente opposte il vino legava in qual­che modo pellagra e alcoolismo. Se ciò è vero, allora l’analisi di

De Bernardi, che giustamente punta al cuore del problema fis­sando l’attenzione sulla mais­coltura, dovrebbe dilatarsi ulte­riormente sino a prendere in considerazione tutta la trasfor­mazione del paesaggio agrario, compresa la scomparsa definiti­va del bosco in pianura, nel cor­so di Settecento ed Ottocento e di conseguenza la trasformazio­ne di tutti gli assetti produttivi, sottolineando, con altrettanta dovizia di particolari, i caratteri ed il senso di ciò che stava scom­parendo per lasciare il posto a nuove colture.

Allora forse diventerebbe più agevole cogliere nella sua unita­rietà l’insieme di quei fenomeni di morbilità che, nei decenni a cavallo dell’Unità e soprattutto dopo la metà del secolo scorso, colpiranno tutte le forme di vi­ta, sia quelle vegetali ed anima­li, sia gli uomini.

Gianluigi Della Valentina

C l a u d i a B a s s i A n g e l i n i , Gli “accoltellatori” a Ravenna (1865-1875). Un processo co­struito, Ravenna, Longo, 1983, pp. 249, lire 16.000.

Tredici accoltellati, colpiti da misteriose pugnalate nei sei anni fra il 1865 e il 1871, hanno fatto della “setta degli accoltellatori” una delle tante leggende che hanno contribuito a creare l’im­magine di una Romagna violen­ta negli anni successivi all’unità nazionale, fino alle origini del fascismo. Una Romagna nella quale l’espressione politica tro­vava la sua “abituale” espres­sione nell’estremismo barrica­diero e incendiario della Setti­mana rossa; una Romagna cos­

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parsa di vittime nei quotidiani scontri fra internazionalisti, mazziniani e borghesi. A partire dal 1865, vittime illustri (Anto­nio Monghini, direttore della Banca nazionale; Emilio Ghez- zo, presidente della Camera di commercio; Cesare Cappa, pro­curatore del re) e cittadini sco­nosciuti misteriosamente assas­sinati furono accomunati in un processo monstre, basato su prove indiziarie, testimoni cor­rotti, spie e “confidenti” accu­ratamente preparati. Tredici de­litti divennero il centro di una “congiura”, l’obiettivo politico dei “sovversivi” riuniti in una società segreta. Quale mezzo migliore per le autorità, quale più perfetto pretesto per co­struire e scatenare una repres­sione su larga scala contro la si­nistra ravennate? Soprattutto se tali “delinquenti” facevano par­te di quella Società di mutuo soccorso nella quale si stavano “annidando” i primi aderenti all’Internazionale? Anzi. Se­condo il Pubblico ministero la Società di mutuo soccorso era proprio nata per precisa volontà di un gruppo di accoltellatori che volevano, attraverso di essa, mascherare e proteggere i propri delitti. E, d’altra parte, era “co­sa fuori questione e certissima che malfattori e internazionali­sti sono la stessa ed identica co­sa” (p. 186). Tutta l’inchiesta, anzi la unificazione di inchieste che collegavano forzatamente tanti omicidi o tentati omicidi, rendeva evidente l’obiettivo pre­ciso del questore Serafini di di­struggere il nascente socialismo locale, sia attraverso la condan­na dei membri dell’organizza­zione, sia accreditando la ver­sione che trattavasi di una asso­ciazione a delinquere, di un

gruppo di “infami”. Una regìa sapiente del questore, che seppe mescolare alcuni attentati di chiara natura politica (i cui re­sponsabili erano comunque morti), qualche vendetta della malavita locale, un paio di omi­cidi avvenuti per vendetta per­sonale: tutti indipendenti gli uni dagli altri. Il tutto accuratamen­te presentato in un dibattimento in cui ogni cosa era mescolata e non si distinguevano più i delitti “politici” da quelli comuni, ma il tutto appariva frutto della mostruosa crudeltà dei ventitré poveri imputati che, storditi, non seppero né difendersi né, a volte, neppure parlare.

Tutto questo, grazie ad una indagine condotta con singolare pazienza, attraverso una attenta lettura degli atti processuali e di documenti archivistici accurata­mente cercati, trovati e intelli­gentemente usati: tutto ciò, di­cevamo, è riuscito a ricostruire l’autore in un libro puntiglioso e preciso. Ci si potrebbe doman­dare il motivo di una documen­tazione che a volte appare quasi eccessivamente accurata, se non si sapesse che, ancora a cent’an­ni da quegli avvenimenti, “stori­ci” e “studiosi” locali continua­no a ricostruire le vicende della “setta degli accoltellatori”, pe­renne riprova della perversità del sovversivismo romagnolo, accettando acriticamente le con­clusioni dell’inquisizione ordita dalle autorità di Ps.

Quella che l’autore ha rico­struito è, ora, una pagina esem­plare di storia locale, esemplare per l’accuratezza, il metodo, la qualità e l’equilibrio del raccon­to, il suo attento inserimento al­l’interno di più ampie vicende storiche; un contributo non solo alla conoscenza della “verità”

relativa alle storie umane e per­sonali dei ventitré imputati, ma un quadro della società nazio­nale negli anni in cui la paura nei confronti del movimento operaio, alle sue prime fasi or­ganizzative, scatenava ovunque la repressione in risposta a ri­vendicazioni che a volte poteva­no anche assumere aspetti e ca­ratteri estremistici.

Luciano Casali

F i o r e n z a T a r i c o n e , B e a t r i ­

c e P i s a , Operaie, borghesi e contadine nel X IX secolo, Ro­ma, Carucci, 1985, pp. 293, lire 15.000.

Il volume riunisce due saggi che hanno come comune campo di indagine la condizione fem­minile in Italia tra la seconda metà dell’Ottocento e il primo decennio del secolo successivo, ma che sono radicalmente diffe­renti per l’ottica e impostazione delle due autrici. Mentre Tari­cone infatti mette a fuoco, at­traverso una rilettura dei catalo­ghi femminili e della letteratura in voga nel periodo, i modelli più diffusi nel mondo intellet­tuale femminile borghese e alto­borghese, Pisa traccia un qua­dro dei lavori delle operaie e delle contadine, facendo ricorso a chiavi di letteratura mutuate anche dalla sociologia e dalla storia economica.

La distanza tra le diverse ti­pologie femminili risulta così fortemente accentuata: le bor­ghesi colte, impegnate social­mente, dibattono questioni poli­tiche e relative all’identità fem­minile; le operaie e le contadine invece appaiono estenuate da la­vori faticosi, non dissimili da

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quelli maschili, e dalle continue gravidanze. Paradossalmente però sono le borghesi descritte dalla Taricone a mostrare l’im­magine più monolitica e a rive­larsi ripetitive propagandiste dei lavori maschili dominanti e di un modello di donna che pone il sentimento materno al centro non soltanto della vita familiare ma anche dell’attività extrado­mestica, che assume per lo più le forme della beneficenza, del­l’assistenza, dell’insegnamento.

Se è innegabile la complicità femminile nei confronti delle di­scriminazioni attuate nei con­fronti del proprio sesso, è però altrettanto innegabile la presen­za, taciuta dall’autrice, di don­ne capaci di pensare e agire per sé e per le altre al di fuori di schemi e ruoli codificati. La sot­tovalutazione di figure ed inizia­tive emancipazioniste appare ad esempio evidente nel capitolo dedicato all’Unione femminile nazionale, che non si limitò ad essere, come scrive la Taricone, “la rappresentante più adeguata di una nuova e moderna estrin­secazione della beneficenza femminile” (cit. p. 103), ma fu un’associazione emancipazioni- sta importante e originale nel panorama culturale dei primi decenni del Novecento.

Particolarmente attento alle prospettive d’indagine maturate nell’ambito della storia delle donne in Italia e all’estero è lo studio di Pisa, che analizza l’e­voluzione del lavoro femminile alla luce dell’intreccio tra ruoli familiari e sociali, tra produzio­ne e riproduzione nei differenti contesti geografici.

Applicando al caso italiano il metodo utilizzato per la Francia e l’Inghilterra da L.A. Tilly e J. W. Scott (Donne lavoro e fa ­

miglia, Bari, De Donato, 1981), l’autrice fa giustizia di una serie di luoghi comuni relativi all’im­patto dell’industrializzazione sull’occupazione femminile. Di­mostra infatti che, contraria­mente all’opinione più diffusa, l’ingresso massiccio delle donne nel mercato del lavoro non si determinò in coincidenza con il decollo industriale, di solito col­locato dopo il 1896, ma ne costi­tuì la premessa, attraverso l’ac­cumulo di capitali derivanti dal­lo sfruttamento, nei decenni precedenti, di una manodopera femminile a basso costo. Lo svi­luppo industriale comportò in­vece la perdita di molte funzioni produttive femminili tipiche dell’economia capitalistica e, a partire dal 1881, un netto calo dell’occupazione femminile.

L’autrice nega quindi il nesso spesso stabilito tra lavoro remu­nerato ed emancipazione fem­minile e collega l’emergere della questione femminile agli inizi del Novecento alla formazione di un nuovo gruppo sociale composto da donne di estrazio­ne piccolo borghese, alfabetiz­zate e nubili, che si assunsero il compito di promuovere associa­zioni e battaglie emancipazio­niste.

Il saggio di Pisa illumina, co­me si è detto, aspetti poco stu­diati della condizione femminile tra Ottocento e Novecento ma suscita al contempo ulteriori in­terrogativi. Si avverte ad esem­pio l’esigenza di specificare il peso, i tempi, le modalità del contributo della forza lavoro femminile allo sviluppo econo­mico italiano, di approfondire l’analisi delle condizioni di vita e di lavoro delle operaie di fab­brica, delle lavoranti a domici­lio, delle domestiche, nei diversi

contesti geografici, di chiarire il fenomeno del forte aumento di donne nubili alla fine dell’Otto­cento, ma anche di conoscere le biografie delle leaders emanci­pazioniste che, a parte qualche eccezione, non sono state anco­ra scritte e infine di studiare l’attività delle associazioni fem­minili, i loro rapporti interni e con il contesto economico, so­ciale e culturale.

Emma Scaramuzza

M a r c o F i n c a r d i , Gli gnocchi e la polenta. La festa popolare nella vita, nella mentalità e nei miti di una cittadina emiliana del secondo Ottocento, Reggio Emilia, Club Turati, 1984, pp. IV-169, lire 12.000.

La “gnoccata” che, saltuaria­mente ripristinata, ad intervalli di alcuni anni, si celebra a Gua­stalla è considerata come una ti­pica espressione della propen­sione della Padania collettiva a mangiare e fare baldoria collet­tivamente. Possiamo certamen­te collocarla, con Fincardi, al­l’interno di quelle “comunità fe­stive” ormai perdute che vengo­no recuperate dalla società con­temporanea, mitizzante nostal­gicamente ma, nello stesso tem­po, come ha scritto Mesnil, svuotate, in tale riproposizione, di ogni implicazione sacrale e sociale che ne era stata all’origi­ne. Resta un prodotto, da con­sumarsi come semplice spetta­colo. Così il vagheggiato mondo preindustriale simbolicamente calato nella “gnoccata” trascura le reali origini ottocentesche e “risorgimentaliste” della festa di mezza quaresima, allontana il ricordo della sua forzata coinci­

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denza, dopo il 1921, con il Na­tale di Roma, colloca il tutto in una fantastica età dell’abbon­danza e della felicità simboleg­giata dalla distribuzione di “gnocchi” nella piazza del paese.

L’attento studio di Fincardi ricostruisce la storia della festa dalle sue origini (1868) e, so­prattutto, ricerca sogni, miti, mentalità popolari sottesi alla nascita della “gnoccata” e alla sua “folklorizzazione” avvenu­ta nel corso della seconda metà del XX secolo: da frutto di una “creatività comunitaria” a ri­presa quasi turistica, in cui il “bisogno di festa” ha assunto ben diversi connotati.

Luciano Casali

Rassegna della stampa per il 40° della Repubblica

“Nella cultura nazionale la vena celebrativa finora era stata ricca e feconda. I giornali hanno sem­pre registrato gli anniversari conimplacabile puntualità..... Ma,allora, perché il 40° anniversa­rio della Repubblica sta susci­tando un così scarso interesse? Qualche articolo sui giornali, in alternativa al metanolo, al nu­cleare e alla eterna quérelle tra Craxi e De Mita”.

Questa constastazione apre un breve intervento di Gian­franco Piazzesi sull’inserto “Tuttolibri” de La Stampa del 31 maggio. Una notazione per molti versi analoga è quella che rileva il lungo articolo di Jac­ques Nobécourt su Le Monde del 1 /2 giugno — e anche il fat­to che un quotidiano francese si occupi del tema in modo più ri­levante rispetto a buona parte

della stampa italiana è un aspet­to di un certo interesse —. Scrive Nobécourt: “Per l’anniversario di questo 2 giugno in cui fu fon­data la loro repubblica, gli Ita­liani non danzano sulle piazze, i pompieri non sfilano nei villaggi e i ministri dei vari culti non rin­graziano il Signore. Tuttavia è la festa nazionale e il presidente della Repubblica riceve nei giar­dini del Quirinale tutta la classe politica con le sue appendici.... Questa festa dell’oligarchia in nome della democrazia, nel pri­mo torpore dorato della prima­vera romana, sopporta bene tut­te le ombre dei pergolati che contemplano ancora i duraturi simboli dei poteri rivali: la cu­pola di San Pietro, dall’altro la­to della città, il Campidoglio, le rovine del Palatino e cioè: ipreti (in italiano nel testo), i Romani, i fardelli del mitico passato lati­no”. E conclude, dopo aver pas­sato in rassegna gli avvenimenti che portarono all’avvento della Repubblica, insistendo sul ruolo centrale di De Gasperi e Togliat­ti; “In effetti, ben prima che Berlinguer lo definisse nel 1974, questi primi mesi del 1946 vedo­no il “ compromesso storico” pienamente in atto. È all’incon­tro, alla convergenza di Togliat­ti e De Gasperi che l’Italia deve la transizione pacifica che non era assicurata in partenza. Il 2 giugno commemora l’avveni­mento. Lo merita”.

Una conferma — anche se molto rapida e ovviamente sen­za alcuna pretesa di essere esau­riente — dell’impressione di Piazzesi e Nobécourt si ricava dalla lettura dei quotidiani e dei periodici di maggiore diffusio­ne. Un aspetto comune alla massima parte degli interventi è la netta prevalenza di un taglio

cronachistico e incentrato sulle “memorie” dei testimoni. Sul Corriere della Sera del 1° giu­gno un articolo di Silvio Bertol­di, “Quarant’anni fa la Repub­blica”, commenta lo svolgimen­to del referendum istituzionale rievocando il ruolo dei protago­nisti e i giudizi che essi espresse­ro nell’immediato e in tempi successivi; sulla stessa pagina Piero Melograni in una breve nota chiarisce le ragioni della sconfitta di una monarchia che “non aveva mai messo profonde radici nel paese”. Nel numero del 2 giugno a fianco di un arti­colo di Gaetano Afeltra, “E Borsa disse: “Viva il re, ma in esilio”, sono pubblicati una se­rie di “Memorie” (Mario Solda­ti, Alberto Moravia, Rita Levi Montalcini, Elena Croce, Carlo Bo). L’inserto di Repubblica del 21 maggio comprende un’ampia ricostruzione degli eventi di Gianni Corbi, “Quaranta gior­ni, quaranta anni” , ricca di no­tazioni e di aneddoti che rievo­cano l’atmosfera convulsa di quelle giornate; il 3 giugno un articolo di Paolo Guzzanti, “L’Italietta che scoprì l’Ameri­ca”, è nella stessa chiave, men­tre puntati sull’attualità politica sono l’articolo di Mino Fuccillo e il fondo di Stefano Rodotà, ri­spettivamente del 3 e del 4 giu­gno sul messaggio del presidente della Repubblica Cossiga al Parlamento, interpretato non come un discorso celebrativo ma di richiamo alla classe politi­ca. Su Repubblica del 4 giugno infine da segnalare il commento di Beniamino Placido alle tra­smissioni Rai sul quarantenna­le, messe a confronto con quelle contemporanee sui mondiali di calcio, che conclude con l’affer­mazione che già nel 1946 “il

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154 Rassegna bibliografica

paese non aveva molta voglia di rinnovarsi”.

Rievocazioni e ritratti dei protagonisti anche sul Giornale del 2 giugno, a cura di Giovanni Cavallotti, “Referendum: mez­za Italia esultò, mezza Italia gri­dava al broglio”, e di Mario Cervi, “I quattro protagonisti del cambiamento: Umberto, De Gasperi, Romita, De Nicola”; sullo stesso quotidiano un parti­colare aspetto, quello dei rap­porti tra la Santa Sede e la mo­narchia, trattato diffusamente in una serie di articoli successivi (7 e 11 giugno), è oggetto di un esame più particolareggiato, che cita le ricerche dello storico En­nio Di Nolfo sulle carte di My­ron Taylor, e riproduce due let­tere inedite del 1947 di Pio XII e monsignor Martini a Umberto di Savoia, (le lettere accennano ad articoli di quotidiani dell’e­poca sul mancato aiuto prestato dalla Santa Sede alla monarchia).

L’intento documentario cara- terizza l’inserto de La stampa del 1° giugno, che riproduce il dibattito avvenuto sulle colonne dello stesso quotidiano nel 1946 tra il direttore di allora Filippo Burzio, monarchico, e due re- pubblicani, Umberto Calosso e Luigi Salvatorelli, e il resoconto cronachistico del tempo. Qual­che giorno prima, il 24 maggio, due interventi — un fondo di Alessandro Galante Garrone, ‘“ Forza dinamica’ disse Cala­mandrei”, e un’intervista di Ro­berto Martinelli a Livio Paladin, presidente della Corte costituzio­nale — avevano dato invece spa­zio al dibattito attuale sulla neces­sità o meno di riforme istituziona­li, tema che vedremo ripreso an­che da altri organi di stampa.

Spunti per un bilancio econo­mico, civile, politico e culturale

sono il filo conduttore dell’arti­colo di Giuseppe Mammarella sulla Nazione del 30 maggio, “Repubblica: 40 anni e li porta bene”, di tono moderatamente ottimistico. Il 2 giugno il quoti­diano fiorentino pubblica un ar­ticolo di fondo di prima pagina di Francesco Margiotta Broglio che solleva il tema del Concordato.

Degli inserti celebrativi del quarantennale pubblicati da al­tri quotidiani ci limitiamo a cita­re quelli degli organi di stampa dei principali partiti, tutti preva­lentemente in chiave politica at­tuale. L ’Unità del 1° giugno apre con un articolo di Natta, “Nella Costituzione c’è ancora oggi un programma per il futu­ro”, cui segue nella stessa linea Aldo Tortorella, “Dalla parte del cittadino c’è ancora tanto da fare”; lo storico Rosario Villari riprendendo un dibattito che è tornato attuale rivendica l’im­portanza dell’intervento di To­gliatti, “Fu merito di quella ‘svolta’ se nacque in buona salu­te”. L ’A vanti del 1° giugno, do­po aver rievocato il clima del 1946 e l’intransigente scelta re­pubblicana dei socialisti, in un articolo di Sebastiano Vassalli indica nel Presidente della Re­pubblica e nella Corte costitu­zionale le due istituzioni che hanno saputo più validamente esprimersi nei quarantanni re- pubblicani. Il Popolo, il 1/2 giugno, caratterizza il suo inser­to con interviste ai notabili de­mocristiani: Fanfani, Andreot- ti, Zaccagnini, Scalfaro, Rumor Taviani, Colombo, Sullo.

Tra i settimanali citiamo gli inserti de L ’Espresso e di Pano­rama, entrambi dell’8 giugno, che non si discostano se non per la maggiore ampiezza da quelli che abbiamo passato in rasse­

gna. Il primo si apre con un lun­go articolo di costume di Gior­gio Bocca “Come eravamo e co­me siamo”, ben riassunto dal sottotitolo: “Dal 1946 al 1986 sono cambiati il tenore di vita, il modo di lavorare, di divertirsi e di fare politica. Immutati, inve­ce, la fragilità di carattere, l’in­dividualismo, l’arte d’arran­giarsi”; seguono un intervento più storico-giornalistico di An­tonio Gambino “Storia di un anno”, che prende tuttavia le mosse dal 25 luglio 1943; un ar­ticolo di Luigi Pintor sulla “questione morale” fa la storia degli “scandali” dei quattro de­cenni trascorsi.

Su Panorama Gian Franco Vené, “Grazie maestà per la sua testardaggine”, rievoca i retro­scena del referendum istituzio­nale e gli errori di Vittorio Ema­nuele III che furono tra i fattori determinanti della scelta repub­blicana; seguono una serie di in­terventi “politici” a cura di esponenti di vari partiti.

Abbastanza curiosamente il più importante intervento “sto­rico” nel vero senso della parola che abbiamo potuto individuare è apparso su un giornaletto pro­vinciale, quello del Comune di Modena, tutto dedicato al qua­rantennale della liberazione del­la città ma che inserisce nella se­conda pagina un articolo di En­zo Collotti, “1946: si delineano i primi tratti della nuova demo­crazia istituzionale”.

C.R.

30 gennaio 1945:il suffragio femminile in Italia

Nel quadro delle celebrazioni, spesso di maniera, del quaran­

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Rassegna bibliografica 155

tennale della Repubblica II Ma­nifesto del 26 giugno 1986 pro­pone un inserto intitolato signi­ficativamente “1946-1986 don­ne, il voto ingrato”, scegliendo una tematica recentemente (2 giugno 1986) analizzata in una giornata di studio “La memoria storica del voto alle donne” or­ganizzata dall’Istituto romano per la storia d’Italia dal fasci­smo alla resistenza, ma in gene­re accantonata dalla storia tra­dizionale.L’intervento di Rossana Ros­sanda (“Un diritto tardivo: elet­trici ma non elette”) è un bilan­cio molto lucido, anche se ama­ro, di una conquista che costò lunghe battaglie, ma che si risol­se in una conferma della separa­tezza femminile. AI di là delle aspettative e dei timori dei parti­ti nel 1946, i dati più costanti della storia successiva eviden­ziano la partecipazione attiva e continua delle donne alle elezio­ni, ma anche la scarsità della rappresentanza femminile in Parlamento. L’esclusione delle donne “non dal fare politica, ma dalle istituzioni della politi­ca” per Rossanda è riconducibi­le in gran parte ad un inconfes­sato timore delle potenzialità eversive delle donne proprio ri­spetto alle istituzioni politiche, ma è anche tema nel suo com­plesso ancora “insodato”.Gli articoli di Maria Pia Biga- ran, di Annarita Buttafuoco e di

Paola Gaiotti De Biase traccia­no una significativa panoramica delle battaglie suffragiste e del rapporto con i partiti dalla fine dell’Ottocento al secondo dopo­guerra. Bigaran (“Da Cavour a Mussolini, buone per il Munici­pio ma non per il Parlamento”) mette in luce nei progetti suffra­gisti di fine secolo la differenza di valore attribuita al suffragio politico, sempre fermamente negato, e al voto amministrati­vo, che proprio perché giustifi­cato sulla base della proprietà e del pagamento delle tasse, dava sufficienti garanzie “nei con­fronti di un sesso altrimenti rite­nuto non idoneo all’esercizio del diritto di voto” (cfr. anche di Bigaran, Progetti e dibattiti parlamentari sul suffragio fem­minile: da Peruzzi a Ciolitti, “Rivista di Storia contempora­nea”, 1985, n.I). Buttafuoco nell’articolo “Sebben che siamo donne. I mille rivoli del suffra- gismo italiano”, analizza l’am­biguità dei Comitati pro suffra­gio (1905) formati da gruppi di donne di diversa formazione, sulla base di una mal definita identità femminile e nati con la funzione puramente tattica di rifondare il movimento. Per Gaiotti De Biase (“Tutta casa e urna. Come nasce la marginali­tà politica delle donne cattoli­che”) il voto femminile intro­dotto nel 1945 come “un pas­saggio obbligato”, impone alla

gerarchia ecclesiatica un inter­vento che influenzerà a lungo la partecipazione alla vita politica delle donne cattoliche determi­nando una sostanziale ambigui­tà: nel discorso di Pio XII, mol­to elaborato, si fondono due li­nee di tendenza consistenti nella preoccupazione pastorale di al­lontanare le donne dalla cultura moderna e nel contempo di assi­curarsi la possibilità di “metter­le in campo” proprio mediante gli strumenti della modernità. Le modalità della memoria e del processo di ricostruzione storica nei momenti fondamentali della storia delle donne e del suffra­gio femminile, appaiono diverse secondo Paola Di Cori. Nella prima fase la memoria è “comu- lativa e lineare” e si muove in una dimensione temporale in cui i singoli episodi compongo­no un patrimonio di esperienze organico, nel secondo dopo­guerra invece prevale una me­moria “dell’intermittenza”, che non è possibile ricomporre in un quadro unitario proprio perché il percorso del femminismo è ca­ratterizzato dalle fratture. Gli interventi, pur nella loro brevità e differenza di prospettive, pro­pongono ad un pubblico spesso estraneo alle tematiche della storia delle donne, alcuni mo­menti fondamentali di una vi­cenda storica sinora solo par­zialmente scritta.

P.P.