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Le alterazioni della fosforemia costituiscono un elemento cardine della sindrome CKD-MBD (chronic kidney disease and mineral bone disorder), insieme alla disregolazione del metabolismo del calcio, della vitamina D, del PTH e ai relativi danni d’organo quali le calcificazioni extrascheletriche (tessuti molli e strutture vascolari) e l’osteopatia.

La sindrome CKD-MBD costituisce una delle principali complicanze dell’insufficienza renale cronica (IRC). Si pensi che l’ipotetica rimozione della CKD-MBD potrebbe ridurre del 17,5% il rischio di mortalità in dialisi.

Secondo recenti acquisizioni la progressiva espansione del pool organico di fosforo (P), sin dalle prime fasi dell’IRC, potrebbe costituire uno dei principali trigger della successiva cascata metabolica tipica dell’iperparatiroidismosecondario (SPT) e della sindrome CKD-MBD. Il controllo della fosforemia riveste pertanto un tassello imprescindibile nel trattamento dell’IRC dalle fasi iniziali all’uremia terminale (ESRD: end stage renaldisease).

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Un uomo di 70 kg conserva circa 700 mg di P distribuito in ossa e denti sotto forma di idrossiapatite (85%) e secondariamente presente a livello intracellulare nei tessuti molli (14%) come P organico (acidi nucleici, ATP e fosfolipidi).

Il P extracellulare circolante rappresenta solo l’1% del pool totale. Pertanto la fosforemia è scarsamente rappresentativa dello stato di accumulo o di deficit di P organico. Ancor più importante, i livelli di fosforemia non esprimono l’effettiva distribuzione del P tra il distretto scheletrico, quello intra- e quello extracellulare. La dieta occidentale fornisce un apporto quotidiano di P pari a circa 1500 mg. Di questi 600 mg vengono escreti nelle feci e 900 mg vengono assorbiti a livello intestinale dai cotrasportatori sodio-fosfato NPT2b e NPT2c sotto la regolazione della vitamina D e in funzione della biodisponibilità del P alimentare; il P circolante viene poi filtrato a livello glomerulare e riassorbito a livello del tubulo contorto prossimale (70%) dal cotrasportatore NPT2a sotto la regolazione positiva della vitamina D e negativa di PTH e fibroblast growth factor 23 (FGF23).

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Con il ridursi del tasso di filtrazione glomerulare (GFR) l’introito dietetico di P va ad espandere il pool fosforico dell’organismo. Le prime fasi del bilancio fosforico positivo non inducono un aumento percepibile dei livelli di fosforemia.

Tuttavia, l’espansione delle riserve organiche di P, verosimilmente a livello osseo, stimola la sintesi di FGF23. FGF23 è una fosfatonina capace di stimolare la fosfaturia tramite l’inibizione del riassorbimento tubulare di fosforo (TRP: tubular resorption of phosphate).

FGF23 è inoltre capace di inibire la sintesi di calcitriolo (stimolando la 24 alpha idrossilasi e inibendo l’1 alpha idrossilasi) e di PTH. L’azione fosfaturica di FGF23 si esprime grazie all’interazione con il suo recettore (FGFR: fibroblast growth factor receptor) e Klotho. Si ipotizza che l’aumento di FGF23 nelle fasi iniziali dell’IRC possa rappresentare i prodromi di un bilancio fosforico positivo.

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Tradizionalmente tre fasi consequenziali scandiscono la storia naturale del metabolismo minerale in IRC: 1) riduzione dei livelli di calcitriolo a partire da valori di GFR <60 ml/min;

2) SPT da valori di GFR <40 ml/min;3) iperfosforemia a partire da livelli di GFR <30 ml/min.

Recenti dati osservazionali hanno descritto un incremento dei livelli di FGF23 già per valori di GFR <75 ml/min. L’aumento di FGF23 potrebbe quindi rappresentare uno dei primi anelli della catena metabolica responsabile della CKD-MBD. Una recente analisi cross-sectional dello studio CRIC ha suggerito come l’espansione del pool fosforico sia un fenomeno precoce nella storia naturale dell’IRC, persino precedente alla riduzione dei livelli di calcitriolo (Isakova T et al. Kidney Int 2011;79(12):1370-813).L’aumento precoce dei livelli di FGF23 potrebbe conseguire all’espansione del pool fosforico, non ancora rappresentato da alterazioni della fosforemia. Il controllo del bilancio del P già in IRC stadio 3 potrebbe quindi limitare l’aumento di FGF23 posticipando nel tempo l’avvio della CKD-MBD (Cozzolino et al. Expert Opinion 2012;13(16):2337-53).

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Con la riduzione del GFR il bilancio del P diviene positivo, inducendo una progressiva espansione del pool fosforico nell’organismo. Il bilancio fosforico positivo è ancor più rilevante nel paziente dializzato.

Anche in presenza di una buona compliance dietetica, seguendo le raccomandazioni KDOQI per quanto riguarda l’intake proteico e la scelta di proteine a corretto contenuto fosforico, la ridotta clearance dialitica del P (800-1000 mg per sessione) espone il paziente uremico a un bilancio positivo di circa 115 mg/die.

Questa progressiva espansione del pool fosforico sarà solo minimamente riflessa dalla fosforemia, che rappresenta solo l’1% del pool organico.

Questo razionale avvalora i dati osservazionali che hanno descritto un’associazione tra terapia chelante e sopravvivenza anche nei pazienti dializzati normofosforemici (Isakova T. et al J Am Soc Nephrol 2009;20:388-396; Lopes AA et al Am J Kidney Dis 2012;60(1):90-101).

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È risaputo che la rimozione dialitica del P sia piuttosto scarsa, nonostante il suo basso peso molecolare. La carica negativa e l’elevato raggio molecolare, creato dall’alone acquoso, ne limitano infatti la dializzabilità.

La prevalente distribuzione del P a livello scheletrico e intracellulare implica una cinetica dialitica di secondo ordine, sostanzialmente differente da quella dell’urea. In corso di emodialisi, infatti, la fosforemia crolla nelle prime due ore in cui viene sostanzialmente rimosso il pool di P circolante.

Solo dalla seconda ora inizia la rimozione di P dai depositi extravascolari. I parametri su cui agire per aumentare la clearance del P in emodialisi sono quindi la superficie del filtro, il flusso ematico, la velocità del bagno dialisi, la metodica (prediligendo l’emodiafiltrazione in post-diluzione), la durata e la frequenza delle sedute. La rimozione del P in dialisi resta prevalentemente tempo-dipendente: va ricordato che un aumento di 60’ del tempo della seduta (da 4 a 5 ore) può incrementare di circa il 13% la rimozione di P. L’aumento della frequenza dialitica (dialisi quotidiana per 6 giorni/settimana) potrebbe invece offrire vantaggi maggiori, laddove praticabile.

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La clearance del P in dialisi peritoneale (DP) risulta sempre tempo-dipendente e risente delle stesse difficoltà note per l’emodialisi. Le caratteristiche chimico-fisiche del P rendono la sua clearance peritoneale significativamente correlata alla clearance peritoneale della creatinina ma non a quella dell’urea. I fattori che influenzano maggiormente la rimozione del P in DP sono di conseguenza: 1) il tipo di membrana peritoneale;2) il tempo di sosta;3) la funzione renale residua.

Il recente lavoro di Badve e collaboratori ha dimostrato come la CAPD fornisca una clearance del P superiore all’APD nei medio-alti, medio-bassi e bassi trasportatori. Questi dati sono stati recentemente confermati da Bernardo AO etal. (Clin J Am Soc Nephrol 2011;6:591-97). Il rischio di un bilancio P positivo in DP è considerevole nei pazienti anurici, laddove la clearance del P ricade esclusivamente sul trasporto peritoneale. La scelta della metodica dialitica e del tempo di sosta, alla luce della classe di trasporto, è quindi indispensabile per ottimizzare il bilancio del P nel paziente iperfosfatemico o anurico. In questi pazienti, la valutazione dell’efficienza dialitica dovrebbe includere anche il trasporto del P e non solo la clearance della Cr e il Kt/V.

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Nonostante la varietà delle metodiche dialitiche oggi a disposizione, la rimozione settimanale del P in dialisi rischia di essere insufficiente per garantire un bilancio fosforico neutro.

Come prima accennato, una dieta ottimale in dialisi (introito proteico = 1,2 g/kg/die, proteine ad adeguato contenuto fosforico = 10 mg/g proteine) fornisce un intake fosforico settimanale di circa 3,5-4 g. In emodialisi solo l’emodiafiltrazione o l’emodialisi standard associata all’attività muscolare può avvicinarsi a un bilancio neutro. Solo la dialisi notturna può raggiungere un bilancio settimanale negativo (8 ± 2,8 g/sett) grazie al notevole incremento delle ore totali di trattamento.

Al contrario, la dialisi quotidiana breve offre una rimozione del P sovrapponibile alla dialisi standard con filtri high-flux. La clearance del P è ulteriormente ridotta in DP, dove la rimozione del P difficilmente supera i 3 g/sett.

Considerata l’importanza di un adeguato introito proteico nel paziente dializzato, il rischio di un bilancio fosforico positivo dovrebbe essere sempre considerato all’atto della prescrizione dialitica e nella scelta dei chelanti in termini di dosi e classi.

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Il P circolante rappresenta una potente tossina, capace di stimolare l’invecchiamento vascolare attraverso processi attivi e passivi. Il P precipita nella tonaca media dei vasi arteriosi insieme al calcio sotto forma di idrossiapatite, creando il substrato per la genesi e la progressione delle calcificazioni vascolari. Oltre a questo meccanismo passivo, il P modula attivamente il fenotipo delle cellule muscolari lisce (VSMC: vascular smooth muscle cells). Penetrato all’interno delle VSMC attraverso il cotrasportatore sodio-fosfato Pit-1, il P induce l’espressione di proteine osteogeniche, quali il core binding factor alpha 1 (CBFA-1) o l’osteopontina.

Studi in vitro e in vivo hanno dimostrato che le VSMC esposte a elevate concentrazioni di P possono trasformarsi in osteoblasti e condrociti, avviando un processo di ossificazione vascolare. Il danno vascolare indotto dal P è poi regolato da numerosi agonisti e protettori, le cui reciproche concentrazioni potrebbero favorire o limitare i processi di calcificazione.

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Le ultime linee guida KDIGO del 2009 hanno posto in discussione i target terapeutici di Ca, P e PTH precedentemente consigliati dalle linee guida KDOQI del 2003.

Le due linee guida si differenziano anzi tutto per tre aspetti fondamentali: 1) le linee guida KDIGO sono state disegnate con l’obiettivo di migliorare a livello mondiale la prevenzione, la diagnosi, la terapia e la prognosi della sindrome CKD-MBD, a differenza delle KDOQI, disegnate per orientare la pratica clinica nella gestione del metabolismo e della patologia ossea in corso di IRC; 2) le linee guida KDIGO sono state redatte da un board internazionale no profit, mentre le KDOQI sono state stilate da un panel di specialisti nordamericani; 3) le linee guida KDIGO forniscono un grading dettagliato delle evidenze considerando sia la forza degli orientamenti (Livello 1: raccomandazione, Livello 2: suggerimento) sia la qualità delle evidenze scientifiche (A: elevata, B: moderata, C: bassa, D: molto bassa).

Nello stadio 3-5 le linee guida KDIGO suggeriscono di mantenere i livelli di fosforemiaall’interno del range di normalità. L’evidenza del suggerimento è sempre bassa (2C).

Nonostante i forti razionali di fisiopatologia e gli studi di associazione tra fosforemia e outcome clinici, non sono ad oggi disponibili studi randomizzati controllati che abbiano indagato l’associazione tra il raggiungimento di specifici target terapeutici e importanti outcome clinici sia in predialisi sia in ESRD. Le linee guida KDIGO pongono quindi l’accento sull’importanza di uno stretto controllo del bilancio fosforico sin dalle prime fasi dell’IRC, pur sottolineando i limiti delle attuali conoscenze sui target terapeutici nella sindrome CKD-MBD. Sulla base dei cenni di fisiopatologia sopra riportati e alla luce delle linee guida KDOQI e KDIGO, anche una lieve iperfosforemia in IRC stadio 3-5 merita un idoneo trattamento, poiché potrebbe rappresentare il fenomeno tardivo (tutt’altro che “precoce”) di un bilancio fosforico positivo con potenziali tossicità metaboliche e osteo-scheletriche.

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Studi osservazionali nella popolazione generale e in IRC stadio 4-5 descrivono l’associazione indipendente tra livelli di P, all’interno dei range di normalità, e importanti outcome. Il grafico sintetizza alcuni di questi lavori in funzione del GFR e delle soglie di P associate agli outcome di interesse.Nel Framingham Offspring Study (FOS) soggetti sani con P >3,5 mg/dl avevano un rischio di eventi cardiovascolari (ECV) aumentato rispetto ai pazienti con P <2,8 mg/dl (HR 1,55, IC 1,16-2,07) (Dhingra R. et al Arch Intern Med 2007;167:879-885).Lo studio ARIC, in pazienti con normofunzione renale, ha osservato un aumentato rischio di mortalità nei pazienti con P >3,8 mg/dl e un aumento del 14% dello stesso rischio per ogni incremento della fosforemia di 0,5 mg/dl (Foley RN et al Am Heart J 2008;156:556-63).I pazienti del Coronary Health Study (CHS) dimostravano un’associazione indipendente tra rischio di calcificazioni mitraliche e P >4,0 mg/dl rispetto a fosforemie <3,0 mg/dl (Linefsky J et al J Am Coll Cardiol 2011;58:291-7).Nei pazienti con storia di infarto miocardico (IMA) dello studio CARE, livelli di P >4,0 mg/dl erano associati a un aumentato rischio di IMA fatale e non fatale (Tonelli M. et al Circulation 2005;112:2627-2633).Nello studio PIRP, condotto in pazienti con IRC stadio 3-5, valori di P >4,3 erano associati a un aumentato rischio di mortalità e di progressione in ESRD (Bellasi A. et al Clin J Am Soc Nephrol 2011;6:883-891).

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Il controllo della fosforemia con la terapia chelante può quindi migliorare la sopravvivenza in IRC stadio 3-4? Lo studio osservazionale di Kovesdy et al. ha valutato 1188 pazienti con IRC in stadio 3-4 (2% in stadio 1, 8% in stadio 2, 4% in stadio 5) per un follow-up mediano di 3,1 anni. Il 29% dei pazienti era in terapia chelante (20% calcio in monoterapia, 3% sevelamer in monoterapia, 7% associazione di calcio e sevelamer).

Il trattamento con chelanti, rispetto alla sua assenza, era associato a una riduzione del rischio di mortalità del 39% (HR 0,57, IC 0,45-0,81) indipendente da età, sesso, razza, Charlson Comorbidity Index, diabete, eventi cardiovascolari, pressione arteriosa, BMI, fumo, periodo di arruolamento, terapia con calcitriolo, eGFR, albumina, bicarbonati, Ca, P, fosfatasi alcalina, emoglobina, globuli bianchi, percentuale linfocitaria e proteinuria/24 ore. Nella sensitivity analysis il vantaggio della terapia chelante non era però significativo in caso di fosforemia ≤3,8 mg/dl.

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Lo studio INDEPENDENT, controllato, multicentrico in aperto, ha valutato 212 pazienti con IRC stadio 3-4 randomizzati al trattamento chelante con sevelamervs calcio carbonato a dosi variabili con l’obiettivo di mantenere la fosforemia tra 2,7-4,6 mg/dl in stadio 3-4 e tra 3,5-5,5 in stadio 5.

Le dosi minime di sevelamer e di calcio carbonato erano rispettivamente 1600 mg/die e 2000 mg/die. La terapia con sevelamer era associata a un minor rischio di mortalità (HR 0,36 IC 0,15-0,83) e di raggiungimento dell’endpoint composito mortalità-inizio dialisi (HR 0,62 IC 0,40-0,97) indipendentemente da età, sesso, diabete, ipertensione, creatinina basale, calcificazioni coronariche (CAC) basali e dalle variazioni temporali nei livelli di calcio, P, PTH, colesterolo totale, LDL, trigliceridi, PCR, clearance della creatinina, pressione sistolica e diastolica e CAC. Tuttavia non veniva documentata alcuna associazione tra i parametri del metabolismo minerale e il rischio di mortalità. Gli autori, in linea con quanto sopra descritto, ipotizzavano che l’assenza di tale associazione dipendesse dal fatto che la terapia chelante può migliorare la sopravvivenza riducendo il pool fosforico, che resta tuttavia solo minimamente rappresentato dai livelli di fosforemia.Lo studio INDEPENDENT sottolinea come un controllo “nobile” del sovraccarico di P possa migliorare la sopravvivenza in corso di IRC sin dagli stadi 3-4.

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Ripetuti dati osservazionali hanno descritto un’associazione significativa tra livelli di fosforemia e progressione dell’insufficienza renale.Voormolen et al. hanno seguito 448 pazienti incidenti in pre-dialisi (eGFR >20 ml/min/1,73 m2) per un follow-up mediano di 337 giorni. In questa popolazione, con fosforemia basale di 4,71±1,16 mg/dl, ogni incremento di 1 mg/dl nei valori di fosforemia era associato a un aumento nella perdita di funzione renale pari a 0,154 (0,071-0,237) ml/min/mese. Tale associazione era indipendente dalla causa di IRC e dai valori di GFR, età, sesso, proteinuria, emoglobina e pressione sistolica.Lo studio di Schwarz et al. ha considerato 985 veterani statunitensi con IRC stadio 1-5. In questa analisi valori di fosforemia >3,3 mg/dl erano associati a un aumentato rischio di progressione dell’IRC (inteso come evoluzione in ESRD o raddoppio della creatininemia) (p for trend = 0,001). Inoltre, l’incremento della fosforemia di 1 mg/dl era associato a un aumento del rischio di progressione del 29% (HR 1,29 IC 1,12-1,48, p <0,001).

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Sulla base di precedenti dati di associazione tra livelli di fosforemia e progressione dell’IRC, questa analisi post hoc dello studio REIN ha indagato l’interazione tra i livelli di fosforemia e l’efficacia della nefroprotezione con ramipril vs placebo.

Indipendentemente dal trattamento, i pazienti con fosforemia al III e IV quartile erano esposti a una riduzione significativa della sopravvivenza renale rispetto ai pazienti con fosforemia inferiore ai valori mediani.

Un aumento della fosforemia di 1 mg/dl era associato a un aumento del rischio di progressione in ESRD (HR 3,3; IC 2,46-4,43). La nefroprotezione offerta da ramipril rispetto a placebo (progressione in ESRD e/o raddoppio della creatinina) era significativa solo per i pazienti con livelli di fosforemia tra I-II e III quartile. In altre parole, la terapia con ramipril perdeva di efficacia nei pazienti con fosforemia >4,0 mg/dl.Questi risultati suggeriscono come il P possa rappresentare un nuovo target terapeutico nelle strategie di nefroprotezione. Futuri studi randomizzati controllati potranno indagare se il controllo nutrizionale e la terapia chelante favoriscano la nefroprotezione con gli inibitori del sistema renina-angiotensina.

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Questo studio italiano di coorte storica ha osservato un’interazione significativa tra l’effetto antiproteinurico della dieta ipoproteica e i livelli di fosforemia e fosfaturia.

Sono stati arruolati 99 pazienti con IRC stadio 3-5 (GFR 38 ± 1 ml/min/1.73 m2) e proteinuria >1 g/die, trattati con dieta ipoproteica (LPD: 0,6 g/kg/die) per un tempo mediano di 24 mesi e successivamente convertiti a una dieta ipoproteica supplementata (VLPD: 0,3 g/kg/die) per un tempo mediano di 21 mesi.

Nel corso dell’osservazione tutti i pazienti erano in trattamento con ACE-I o ARB e furosemide. I livelli di fosforemia e di fosfaturia si riducevano significativamente rispetto ai valori basali dopo il trattamento con LPD e, ulteriormente, dopo il ciclo con VLPD. Il passaggio alla sola VLPD si associava a una significativa riduzione della proteinuria da 1542 mg/die (1274-1910 mg/die) a 987 mg/die (656-1300 mg/die) (p <0,001).Tale riduzione della proteinuria era tanto più marcata al ridursi dei livelli di fosforemia (effect modification p = 0,04) e di fosfaturia (effect modification p <0,001). Sorprendentemente l’interazione era indipendente dai livelli di natriuria e dalla nefroprotezione con inibitori del sistema RAA. Ancora una volta il controllo dell’intake fosforico sembra rilevante per ottimizzare la terapia nefroprotettiva.

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Le linee guida KDIGO suggeriscono, con un basso livello di evidenza (2C), di mantenere i livelli di P verso il range di normalità nel paziente dializzato, restringendo l’intervallo di 3,5-5,5 mg/dl, precedentemente raccomandato dalle linee guida KDOQI come evidenza.

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In questo studio prospettico osservazionale condotto su 53.933 pazienti in trattamento dialitico cronico, un intake proteico calcolato (nPNA: noramlizedprotein nitrogen appearance) di 1-1,4 g/kg/die era associato a una miglior sopravvivenza a due anni rispetto a valori di nPNA <0,8 g/kg/die o >1,4 g/kg/die.

L’associazione tra nPNA e sopravivenza era mitigata dall’aggiustamento per la MICS (malnutrition inflammation complex syndrome), che include i livelli di P. Tuttavia, gli autori dimostravano che l’aggiustamento per lo stato di denutrizione era metodologicamente scorretto. Infatti la MICS, essendo parte della catena causale che collega l’intake proteico alla sopravvivenza, non può essere considerata un fattore confondente.Si può quindi concludere che un ridotto apporto proteico è indipendentemente associato a un aumentato rischio di mortalità in dialisi. La necessità di mantenere un adeguato introito proteico espone il paziente dializzato a un elevato rischio di sovraccarico di P.

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L’iperfosforemia è associata a un aumentato rischio di mortalità in dialisi. Come evidenziato dal basso grado di evidenza riportato nelle linee guida KDIGO, non esiste un consenso generalizzato su quali siano i livelli di fosforemia ottimali in dialisi.

Lo studio osservazionale condotto da Kalantar-Zadeh K et al. su 58.058 pazienti in emodialisi cronica ha osservato che valori di fosforemia superiori o inferiori ai range proposti dalle linee guida KDOQI erano associati a una peggiore sopravvivenza.

Questi dati sono avvalorati dall’analisi tempo-dipendente, che ha considerato l’andamento della fosforemia durante il follow-up, non limitandosi ai soli valori basali. Diversamente da quanto discusso nel precedente studio di Shinaberger etal., lo stato di malnutrizione (MICS) non rappresenta un mediatore del nesso causale tra livelli di P e sopravvivenza.L’associazione tra fosforemia e sopravvivenza merita quindi l’aggiustamento per la MICS. Dopo l’aggiustamento per gli indici di malnutrizione (linea rossa), valori di fosforemia sino a 3 mg/dl non risultavano associati ad alcun peggioramento in termini di sopravvivenza.

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Quale rapporto intercorre tra l’introito di P alimentare, la fosforemia e la sopravvivenza in dialisi?Questo lavoro osservazionale di Noori N et al. ha valutato l’intake di P calcolato mediante appositi questionari nutrizionali. I livelli di fosforemia non erano significativamente associati all’intake fosforico espresso in terzili (p=0,26). Inoltre la correlazione tra fosforemia e intake fosforico era molto più dispersa (r=0,13, p <0,05) rispetto alla correlazione tra intake proteico e intake fosforico (r=0,76, p <0,001). Tuttavia, un elevato apporto nutrizionale di P risultava associato a un aumento del rischio di mortalità a 5 anni del 137%, indipendentemente dalla fosforemia e da altri importanti fattori di rischio.

Nonostante i limiti metodologici connessi alla ridotta numerosità campionaria e alla rilevazione dell’intake fosforico tramite questionari, questi risultati evidenziano la tossicità del bilancio fosforico positivo in dialisi e sottolineano come la fosforemia rappresenti solo parzialmente l’espansione del pool fosforico.

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Questo studio osservazionale di Shinaberger et al. ha indagato il rischio di mortalità a 3 anni legato alle variazioni dell’intake proteico e dei livelli di fosforemia in 30.075 emodializzati nei primi 6 mesi di osservazione.

I pazienti con un progressivo aumento dell’introito proteico (nPNA) associato a una contemporanea riduzione dei livelli di fosforemia dimostravano una riduzione indipendente del rischio di moralità rispetto ai pazienti esposti a un aumento della fosforemia associato a una riduzione del nPNA.

Specificamente, la riduzione del rischio di mortalità associata al mantenimento di un nPNA >1,0 g/kg/die era più marcata in presenza di una riduzione dei livelli di fosforemia ≥1,5 g/dl.

Sulla base di questi risultati sembra ragionevole che, nel paziente dializzato, il tentativo di ridurre l’iperfosforemia limitando l’introito proteico potrebbe vanificare gli effetti benefici legati alla normalizzazione dei livelli di P. Al fine di migliorare la sopravvivenza dei pazienti, è auspicabile un approccio multidisciplinare che punti a un adeguato counselling nutrizionale, alla migliore efficienza dialitica e alla più idonea terapia chelante.

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Non sono ad oggi disponibili studi randomizzati controllati in dialisi che abbiano confrontato l’impatto della terapia chelante rispetto al placebo sulla sopravvivenza. Infatti, le nozioni di fisiopatologia, i dati epidemiologici e l’esperienza clinica non rendono eticamente plausibile l’assegnazione dei pazienti dializzati a un braccio placebo, che li esporrebbe a un rapido rischio di iperfosforemia. Esistono, tuttavia, studi osservazionali che hanno documentato una ridotta mortalità nei pazienti trattati con terapia chelante, rispetto ai pazienti non trattati.Questo studio osservazionale di Isakova et al. ha valutato 10.044 dializzati incidenti per un anno. La terapia con chelanti del P era associata a una riduzione del rischio di mortalità del 29% (HR 0,71, IC 0,62-0,81). Dato di notevole rilievo, nella propensity score analysis stratificata per i quartili di fosforemia, la terapia chelante era associata a un beneficio in termini di sopravvivenza anche nei soggetti normofosforemici (HR 0,72, IC 0,54-0,97). Questi risultati, pur con i limiti del disegno osservazionale, sostengono ancora una volta come il controllo del bilancio fosforico sia importante per migliorare la sopravvivenza in dialisi anche nei pazienti normofosforemici.

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Considerando che 1) il sovraccarico di P nelle fasi iniziali dell’IRC può indurre un progressivo aumento dei livelli di FGF23

2) i livelli di FGF23 sono associati, indipendentemente dai livelli di P, ad outcomesfavorevoli sia in IRC (Fleiser D et al. JASN 2007;18:2601-2608) sia in ESRD (Gutierrez OM et al. N Engl J Med 2008;359(6):584-592)

3) esiste un’associazione tra terapia chelante e migliore sopravvivenza nei dializzati normofosfatemici (Isakova T. et al J Am Soc Nephrol 2009;20:388-396)

è stato ipotizzato che un miglior controllo dell’intake di P potrebbe ridurre FGF23 già nelle fasi iniziali dell’IRC.In questo studio 18 pazienti con IRC in stadio 3 e P <4,5 mg/dl ricevevano una dieta standardizzata (intake proteico 0,8 g/kg/die) a basso contenuto di P (intakedi P da proteine animali 700 mg/die) per 4 settimane. Nelle 4 settimane successive i pazienti proseguivano con la stessa dieta, associando un chelanteprivo di calcio (lantanio carbonato) alla dose di 750 mg per ognuno dei 3 pasti quotidiani. A 4 e 8 settimane si procedeva al dosaggio di FGF23 e dei restanti parametri del metabolismo minerale, inclusi i dati del bilancio di P sulle urine delle 24 ore.Il trattamento combinato dieta-chelante offriva una riduzione significativa nei livelli di fosfaturia e riassorbimento tubulare del fosforo (TRP) pur senza una significativa riduzione della fosforemia e dei livelli di PTH. Consensualmente, l’associazione dieta-chelante induceva una significativa riduzione di FGF23. Nonostante questi risultati, i chelanti privi di calcio NON SONO ATTUALMENTE PRESCRIVIBILI NEI PAZIENTI IN PREDIALISI CON P <5,5 mg/dl.

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È dunque difficile poter misurare il sovraccarico di P nelle fasi iniziali di IRC. Benché i livelli di FGF23 potrebbero, in parte, rappresentare l’espansione del pool fosforico, il dosaggio di FGF23 non è ancora validato né tanto meno accessibile nella pratica clinica quotidiana.

Sarebbe quindi utile sviluppare indicatori surrogati del sovraccarico di P. Il riassorbimento tubulare del P (TRP), regolato da FGF23, potrebbe essere un valido candidato.

A differenza della fosfaturia, che risente dell’intake di P nelle ore della raccolta urine, il TRP potrebbe rappresentare più fedelmente l’azione costitutiva di FGF23 a livello del tubulo prossimale.

È stato ipotizzato che valori di TRP <80% possano indicare l’attivazione di FGF23 e l’inizio del sovraccarico di P. Tale ipotesi dovrà comunque essere validata da studi appropriati, che potrebbero definire soglie di TRP significative per differenti livelli di GFR.

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In conclusione:1) i livelli di P sono associati a eventi sfavorevoli nella popolazione generale, in IRC e in ESRD, quali calcificazioni vascolari, infarto miocardico, ictus, progressione dell’IRC, ingresso in dialisi e mortalità;2) l’iperfosforemia è un fenomeno tardivo nella storia naturale dell’IRC e il sovraccarico di P, che precede l’aumento della fosforemia, potrebbe essere uno dei trigger della CKD-MBD nei soggetti normofosfatemici;3) FGF23 potrebbe rappresentare un marker precoce del sovraccarico di P nei pazienti in predialisi;

4) il sovraccarico di P evolve parallelamente all’apporto alimentare di proteine; l’intake proteico raccomandato espone il paziente dializzato a un elevato rischio di sovraccarico fosforico;

5) esiste un forte razionale secondo il quale il counselling nutrizionale, l’adeguatezza dialitica e la terapia chelante possono migliorare la cura e la prognosi dei pazienti affetti da IRC grazie a un miglior controllo del sovraccarico di P senza compromettere l’apporto calorico e proteico.

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