Cittadinanza attiva, e-government e nuove forme di partecipazione. Il caso della Città di Udine
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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TRIESTE
___________________________________________________________________________
FACOLTA’ DI SCIENZE POLITICHE
Corso di Laurea in Sociologia delle Reti Territoriali ed Organizzative
(CLASSE N. LM-88)
TESI DI LAUREA
IN
SOCIOLOGIA DEI FENOMENI PARTECIPATIVI
Cittadinanza attiva, e-government e nuove forme di
partecipazione. Il caso della città di Udine.
Laureando: Relatore:
Francesco Contin Chiar.mo Prof. Luigi Pellizzoni
Correlatore:
Chiar.mo Prof. Giorgio Osti
ANNO ACCADEMICO 2010/2011
Trieste, 29 marzo 2012
Indice
Introduzione pag. 7
Parte prima. Democrazia, partecipazione e nuovi media
1. Un sistema in crisi » 11
2. Forme e modelli di democrazia partecipativa » 18
1. Eterogeneità delle forme » 19
2. Casi concreti » 24
3. Tre «brecce» nel governo rappresentativo » 29
3. Democrazia e nuove tecnologie » 34
1. La democraticità della rete » 38
2. Sviluppi non democratici » 39
3. E-democracy, e-government e open government » 45
4. La «democrazia continua» » 52
4
Parte seconda. Il caso della città di Udine
4. Considerazioni iniziali » 56
5. Alcuni dati » 57
6. L'esperienza partecipativa di Udine » 59
1. Il progetto » 59
2. Un caso idealtipico » 70
3. Quali risposte? » 73
4. E-democracy udinese » 75
7. Criticità » 77
Conclusioni
8. Udine, esempio d'avanguardia » 80
9. Una certa idea di società » 84
Bibliografia » 87
5
L'esito delle rivoluzioni tecnologiche non dipende dallo strumento in sé,ma dal modo con il quale gli uomini decidono di utilizzarlo
Enrico Berlinguer (1983)
Introduzione
Il seguente lavoro è il risultato di un'analisi effettuata sul Comune di Udine. Il
caso, emblematico, si caratterizza, come vedremo, per i metodi di governo innovativi
che permettono un coinvolgimento attivo da parte dei cittadini nelle decisioni e nelle
attività amministrative locali. Innovazione e coinvolgimento: sono queste le parole
chiave su cui è basato lo studio e su di esse è imperniato il ragionamento che ho voluto
proporre. Il lavoro, soprattutto, è il frutto di un mio personale interesse nei confronti
della politica, della democrazia e, più in generale, di tutto ciò che riguarda la
partecipazione delle persone alla vita pubblica. Accanto a questo va considerata la
passione per i nuovi media, la rete e tutto ciò che concerne le nuove tecnologie. Sono
riuscito, in questo modo, a far convergere entrambe le tematiche ed elaborare un
percorso che mi auguro possa essere lineare e comprensibile ai lettori.
Il punto di partenza, e fonte d'ispirazione, che mi ha permesso di scegliere il caso
in questione, è riconducibile alla lettura di un articolo apparso su La Repubblica il
giorno 7 novembre 2011, dal titolo Web, democrazia aumentata da Firenze a Udine
firmato da Riccardo Luna. L'articolo fa riferimento alle nuove forme di governo digitale
che stanno prendendo piede un po' in tutto il Mondo occidentale e, anche se con qualche
ritardo, in Italia. Proprio qui si concentra l'attenzione di Luna, giornalista ed ex-direttore
dell'edizione italiana della rivista Wired, mensile statunitense sui media e le nuove
tecnologie, che analizza la situazione in cui versa «l'Italia 2.0» prendendo in
considerazione alcuni casi eccezionali che meritano più attenzione. Udine rientra tra
questi esempi virtuosi in quanto, da qualche anno (dal 2008, più precisamente), sta
portando avanti una politica di ammodernamento del sistema amministrativo che la
vede impegnata su due particolari fronti.
Innanzitutto attraverso l'utilizzo delle nuove tecnologie dell'informazione e della
7
comunicazione. Le nuove tecnologie digitali permettono di rendere più trasparente e, di
conseguenza, credibile il processo decisionale, sia grazie alla messa online dei dati di
pubblica utilità (open data) in modo da essere consultabili e fruibili dai cittadini
interessati, sia creando la possibilità di una ricezione continua di feedback che
permettono di monitorare costantemente la qualità dei servizi offerti.
Allo stesso tempo, la modernizzazione avviene mediante l'uso di metodi
partecipativi per il coinvolgimento dei cittadini nella gestione della cosa pubblica e nelle
scelte di pubblico interesse; metodi visti come una possibile soluzione alla
degenerazione politica e sociale ed alla disgregazione civica in atto.
Sulla base di questi due filoni di ricerca (tecnologia e partecipazione), nella loro
combinazione e nella loro trasposizione concreta, rappresentata dal caso della Città di
Udine, si articola quanto segue.
Il saggio si sviluppa in due parti. La prima parte, strettamente teorica, si apre con
un tentativo di operare una sintesi della crisi democratica e sistemica, cui stiamo
assistendo. L'attenzione si sposta poi sulle forme di coinvolgimento partecipativo che si
stanno con forza imponendo ad ogni livello, analizzandole a partire da tre punti di vista
distinti (eterogeneità delle forme, concretezza dei casi e modificazione del sistema). In
ultima battuta propongo una ricerca ed un ragionamento sul rapporto che si instaura tra
la democrazia e le nuove tecnologie, osservando (o almeno tentando di farlo) come
quest'ultime possano modificare il paradigma esistente e creare forme nuove di
democrazia («democrazia continua»). Nella seconda parte, invece, seguendo gli
indirizzi teorici individuati e sulla base di quanto già affermato, provo ad analizzare la
situazione udinese e ad indicare alcune linee guida che possano permettere una
definizione coerente del caso.
Infine, le ultime pagine le ho volute dedicare a quelle che mi piacerebbe
riassumere con il termine di «visioni», piuttosto che una conclusione vera e propria.
Sono in effetti considerazioni finali di un percorso che non possono essere conclusive,
perché quanto affrontato è troppo vasto ed in continuo movimento per potersi
permettere l'individuazione di un epilogo. Rappresentano un «dialogo» tra le due parti,
un tentativo di mettere a confronto le aspettative teoriche sviluppate nella prima con le
forme effettive riscontrate nel caso concreto. Vanno viste come un tentativo di
8
individuare una possibile strada che porti verso un miglioramento della qualità
democratica di un territorio, di un comune, di un aggregato urbano che è sintesi di
impulsi individuali ed interessi collettivi.
Mi rendo conto che parlare di Democrazia può risultare complicato ed ardito.
Forse presuntuoso. C'è il pericolo di scivolare nella banalità o di insinuarsi in
argomentazioni astratte e ragionamenti poco consoni ad una tesi di laurea. Iniziando
questo percorso non avevo ben chiara la rotta da tenere. Mi sono preso il rischio di
provare, in tal senso, ad affrontare le questioni poste da Crouch nel suo saggio,
Postdemocrazia, per cercare in qualche modo di fornire alcune risposte, anche se
parziali. La democrazia partecipativa, nelle sue forme esigenti ed ambiziose, e la
funzionalità dei nuovi strumenti tecnologici, democratici se utilizzati in maniera
virtuosa, mi hanno aiutato ad immaginare possibili soluzioni, che in parte ho potuto
riscontrare nel caso di Udine. La strada da percorrere è ancora lunga ed io, in maniera
semplice e senza troppe pretese, ho inteso indicare solamente un sentiero. Non già
definitivo poiché, come scrisse il poeta Antonio Machado, “il sentiero si fa
camminando”.
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Parte prima
Democrazia, partecipazione e nuovi media
1. Un sistema in crisi
Stiamo vivendo oggi una fase complessa e di difficile interpretazione. La
difficoltà dei governi ad uscire da una crisi economica e finanziaria che è sempre più
mondiale e meno locale e localizzabile, una politica che non risponde più alle logiche
dello Stato-nazione ma deve essere necessariamente transnazionale per cercare di
gestire la complessità degli eventi, un aumento esponenziale del divario tra ricchi e
poveri che porta circa l'1% della popolazione a gestire oltre il 40% della ricchezza
globale mentre il numero di coloro che non superano la soglia di povertà è in netta
crescita, la continua e generalizzata regressione delle politiche di welfare riscontrabile
in ogni Paese “occidentale”, il terrorismo internazionale che rende inefficace ogni
politica interna e di conseguenza porta ad una perdita di sovranità dei singoli stati,
infine le continue crisi ambientali che mettono a nudo l'incertezza di un Mondo a
tecnologia avanzata ed evidenziano una saturazione del sistema ed una sempre più
marcata insostenibilità delle modalità di produzione attuale. Per dirla con le parole di
Ulrich Beck, siamo in presenza di una «società mondiale del rischio» (Beck 2003) in cui
l'unica cosa certa è il fallimento delle istituzioni, delegittimate ed incapaci di tener sotto
controllo i pericoli incombenti.
In un contesto simile, la democrazia stessa – il sistema di governo cardine di
quello che viene comunemente considerato con il nome di «Mondo occidentale»,
riconosciuto e mai messo in discussione – pare non stia attraversando un ottimo
momento di salute. La democrazia rappresentativa, prodotto del fermento intellettuale e
partecipativo che uscì dalle due guerre mondiali negli anni '40 e '50, non sembra più in
grado di assolvere i doveri per cui era stata pensata. Le quattro questioni fondamentali a
cui doveva dare risposte (Pittèri 2007) rischiano oggi di rimanere inascoltate. Sta
velocemente perdendo la propria legittimazione e, quel che più conta, la sua credibilità.
11
Nata con gli obiettivi di 1) migliorare le condizioni sociali e creare cambiamento
senza l'uso della violenza, 2) limitare gli abusi di potere di chi governa attraverso un
sistema di pesi e contrappesi, 3) garantire un'ampia rappresentatività di tutti i cittadini e
poter dar loro voce nell'esercizio del potere e 4) favorire un'uguaglianza economica e
sociale (ovvero sostanziale) oltreché politica (formale), la democrazia rappresentativa,
che trova la sua «naturale» dimensione nello Stato nazionale, nell'ultimo ventennio ha
esaurito la sua funzione guida a causa soprattutto di due fattori: in primis uno
spostamento decisionale, diretta conseguenza della globalizzazione politica, economica
e sociale in atto, verso luoghi deliberativi non-istituzionali e, in secondo luogo, un
indebolimento dello Stato di diritto ad opera di governi che risultano legittima
espressione dalla volontà popolare (ibidem).
In altre parole, da una parte, vi è una nuova dimensione dello spazio pubblico che
non risulta più essere quello classico delle istituzioni democratiche, ma si è posizionato
su un piano mediatico dove, da momento deliberativo alto e simbolico qual era, ha
assunto le forme di un processo spettacolare, che segue logiche televisive e dello show-
business. Le decisioni pubbliche vengono prese lontano dalla vita «reale» dei cittadini e,
così facendo, causano un reflusso di quest'ultimi nella prossimità, nel locale, in luoghi
di condivisone vicini alle proprie vite. Si ha in effetti l'emergere, sempre più spesso, di
forze localistiche che tentano di contrastare il processo di globalizzazione in atto con
un'esasperata ricerca di «omogeneità» (ibidem). Questo percorso porta ad una crescente
intransigenza verso il diverso e, ad un livello superiore, alla frammentazione dello Stato
nazionale, con la conseguente frantumazione dei due pilastri posti alla base delle
socialdemocrazie nazionali nate dal secondo dopoguerra: solidarietà e superamento
delle diversità interne. In definitiva, questa prima declinazione porta alla nascita di
forme di «regionalismo neopopulista» che sfida in toto i valori democratici condivisi.
Dall'altra parte, invece, vi è un progressivo allontanamento tra lo Stato di diritto,
espressione di tutela delle libertà fondamentali, della separazione dei poteri e della
limitazione degli abusi, e gli istituti democratici, ovvero le istituzioni che permettono il
normale svolgimento del processo politico di ogni Paese, e comprendono suffragio
universale, libere elezioni e pluralità delle forze partitiche e delle fonti d'informazione.
La separazione porta, come scritto più sopra, ad un indebolimento del primo ad opera di
forze politiche legittimate a farlo, con una conseguente perdita di libertà dei singoli e
12
una limitazione dei diritti individuali, in nome di una presunta sicurezza comune.
Questo secondo percorso porta a conseguenze di non poco conto. I sistemi politici
occidentali si mostrano più favorevoli ed accondiscendenti verso “forme di populismo e
di leaderismo carismatico che alimentano climi di sfiducia nelle istituzioni e ricorso
frequente alle consultazioni referendarie o elettorali, con indebolimento del ruolo dei
mediatori tradizionali” (ibidem, p. 34) che sono in definitiva i partiti e le élite politiche.
Questo particolare periodo storico della democrazia viene posizionato da Crouch
(2003) sull'arco discendente di una ipotetica parabola, che ha avuto il proprio apice
nella democrazia liberale del secondo dopoguerra. Stiamo vivendo oggi, quindi, una
fase calante della democrazia che, in quanto posta su una parabola discendente, non
vede possibilità di miglioramento ma solamente un lento ed inesorabile declino. Non
siamo certamente in presenza di una non-democrazia ma di una fase meglio identificata
con il termine di postdemocrazia. In altri termini, un allontanamento dall'ideale alto di
Democrazia, dove il prefisso post sta ad indicare il superamento di due condizioni
precedenti: una fase predemocratica ed una fase più propriamente democratica. Il
periodo post porta inevitabilmente con sé un'elevata complessità, dovuta al concatenarsi
di caratteristiche nuove, influenza della società contemporanea, con residui delle due
fasi precedenti.
Nella postdemocrazia persistono gli aspetti formali della democrazia come noi la
intendiamo, con le sue forme istituzionali, gli appuntamenti elettorali, la libertà di
disporre di consultazioni referendarie, ma essi si mescolano e si confondono con
caratteristiche tipiche del periodo predemocratico. La tendenziale riduzione del sistema
di welfare, la manipolazione dell'informazione, la perdita d'interesse per la vita politica
e la scarsa partecipazione elettorale dei cittadini stanno ad indicare questa tendenza.
Crouch all'inizio del suo saggio Postdemocrazia identifica due modelli di
democrazia da prendere in considerazione. Il primo (la democrazia liberale)
“insiste sulla partecipazione elettorale come attività politica prevalente per la
massa, lascia un largo margine di libertà alle attività delle lobby, con possibilità
assai più ampie di coinvolgimento soprattutto a quelle economiche, e incoraggia
una forma di governo che evita interferenze con l'economia capitalista. Si tratta di
un modello elitario scarsamente interessato al coinvolgimento di larghi strati di
13
cittadini o al ruolo delle organizzazioni al di fuori dell'ambito economico” (Crouch
2003, p. 5)
mentre il secondo modello (la democrazia partecipativa) prevede una
partecipazione attiva della cittadinanza, che non si esaurisce solamente con le
operazioni di voto ma implica un impegno costante fatto di attività di discussione e di
decisione che riguardano ogni aspetto della vita pubblica. É evidentemente questa una
visone più «esigente» ed «ambiziosa» di democrazia rispetto al modello minimalista
della democrazia liberale. A questo secondo modello bisognerebbe tendere, per portare
un miglioramento all'interno della società. Ma lo stesso Crouch individua uno
scivolamento della democrazia del XXI secolo verso la forma elitaria, che altro non è se
non la postdemocrazia, già sopra citata.
La perdita di consenso e di autorità da parte di governi e governanti, l'ingombrante
e pervasiva presenza dei mass media nella vita politica, la trasformazione dei cittadini in
«clienti» utili solo per i voti che andranno ad assegnare, sono semplicemente aspetti che
accompagnano l'ascesa del sistema postdemocratico. Assistiamo, in generale, ad un
distacco incrementale tra mondo politico e mondo sociale, che oltre a portare ad una
perdita di identità di entrambi, favorisce l'intrusione nella sfera decisionale delle élite
economiche globali (Crouch 2003).
A ben vedere però, si potrebbe obiettare che la democrazia in quanto tale, intesa
come forma di governo, non pare propriamente in declino. I numeri confermano che la
sua diffusione è in crescita, risulta essere il modello di governo più diffuso al mondo ed
in continua espansione. È crescente il numero di elezioni e di governi eletti
democraticamente, anche in Paesi di debole tradizione. Sempre con le parole di Crouch,
“attualmente il numero degli Stati nazionali che hanno scelto sistemi
democratici di questo tipo è maggiore che nel passato. Secondo i risultati di un
progetto di ricerca sulla democrazia globale […] il numero dei Paesi dove si
svolgono elezioni ragionevolmente libere è cresciuto dai 147 del 1988 (alla vigilia
del crollo dell'Unione Sovietica) ai 164 del 1995 e ai 191 del 1999” (Crouch 2003,
p. 3).
14
L'elettorato si è riscoperto più critico, meno propenso a fidarsi dei propri
rappresentanti; quest'ultimi non godono più della riverenza e dell'autorità tipica del
passato. Ancora Crouch afferma: “di sicuro oggi viviamo in un'epoca più democratica
rispetto a qualsiasi fase della democrazia nel terzo venticinquennio del XX secolo”
(ibidem, p. 18). Ma allora in cosa consiste questa crisi?
Non sono in discussione i principi su cui si basa la democrazia, ma bensì le
risposte ai quesiti che la democrazia stessa, evidentemente, non è più in grado di fornire
anche a causa di una sua difficoltà strutturale.
Sul cambiamento delle forme democratiche ha scritto anche Sintomer (2009)
prendendo in considerazione l'evidente indebolimento del sistema partitico
contemporaneo. I partiti di massa, come li abbiamo conosciuti, non sono più
rappresentativi della società attuale. Innanzitutto vi è un allontanamento dei cittadini
dalla vita politica e questo comporta, in parte, uno svuotamento della macchina partitica
che si trova d'un tratto a dover fare a meno dell'attivismo partecipativo e del sostegno
dei propri iscritti e militanti. V'è allo stesso tempo un crescente scetticismo verso queste
forme organizzative, considerate rigide, chiuse, poco propense al cambiamento ed al
rinnovamento dei propri organismi dirigenti (sulle tendenze oligarchiche possiamo far
riferimento agli studi di R. Michels, 1912). I partiti, in definitiva, da strutture di massa
che sopperivano alle mancanze del welfare state nelle classi subalterne, da strumenti di
costruzione di paradigmi valoriali e di creazione di identità, sono diventati in misura
sempre maggiore delle «macchine elettorali», “poco interessate ai loro fondamenti
ideologici e senza molti legami con l'idea dell'autorganizzazione dal basso” (Sintomer
2009, p. 36). Ma la democrazia partitica è solo una declinazione del governo
rappresentativo e, più specificatamente, quella che Bernard Manin individua sulla base
di quattro caratteristiche: elezioni ad intervalli regolari, autonomia degli eletti rispetto ai
cittadini, autonomia dell'opinione pubblica e passaggio delle decisioni alla prova del
dibattito pubblico (Manin 1996; Sintomer 2009). Governo rappresentativo, dunque, che
è altro rispetto ad una forma di «democrazia pura» e che a ben vedere è la sintesi di una
logica allo stesso tempo aristocratica e democratica. Per Manin è a tutti gli effetti da
considerarsi un «regime misto» che nel corso della storia ha avuto tre stadi di
evoluzione. Inizialmente era un sistema basato sulla centralità del Parlamento, luogo del
governo e delle decisioni. Successivamente il sistema ha preso le sembianze di una
15
democrazia partitica, come già sopra delineata, basata sul funzionamento dei partiti di
massa. Infine è avvenuta una trasformazione nella direzione di una «democrazia
d'opinione» caratterizzata dalla possibilità di un contatto diretto tra leader politici ed
elettorato, in cui il potere burocratico viene sostituito da quello mediatico, la finzione
televisiva e le tecniche di marketing risultano centrali nella formazione dei programmi
politici ed in ultimo i cittadini vengono liberati dalla necessità, opprimente, di legarsi a
strutture partitiche (Sintomer 2009). In questo scenario risulta evidente che, più che crisi
della legittimità democratica, sarebbe più opportuno parlare di crisi della democrazia
partitica, della sua forma e delle sue modalità di adattamento al contesto socio-
economico.
Come già visto con Pittèri e Crouch la tendenza attuale sembra portare verso
forme di spettacolarizzazione del confronto politico, con la preminenza di figure
carismatiche distaccate da complessi organi di partito, e in cui i cittadini perdono il
proprio potere decisionale tramutandosi in spettatori passivi, chiamati in causa
saltuariamente, che compiono la propria missione democratica solamente in caso di
elezioni, con il rischio, non tanto sottaciuto, di essere manipolati nel momento della
scelta.
Proprio riguardo al ruolo dei cittadini vorrei spendere ancora qualche parola.
Riprendendo la definizione di Crouch di democrazia «esigente», si ha democrazia
quando aumentano le possibilità per le masse di partecipare attivamente alla
composizione delle decisioni pubbliche ed alla vita politica in generale. Ma si è visto
come la tendenza postdemocratica abbia portato ad una perdita di valore della
cittadinanza, svuotata di contenuti e di motivazioni, privata della propria coscienza
civica e del proprio peso politico. Risulta però altresì evidente che l'elettorato è
diventato, nel corso degli anni, via via più complesso, e sicuramente meglio informato,
più critico ed esigente. Siamo, allora, in presenza di una contraddizione oppure una
delle due considerazioni risulta incoerente con lo stato delle cose attuale? A questo
punto Crouch identifica ed esplicita due concezioni speculari di cittadino democratico
«attivo» che può aiutarci a rispondere al quesito. Vi è una accezione positiva, nel senso
in cui gruppi di cittadini agiscono collettivamente, organizzandosi in movimenti o altro,
formulando richieste e facendole pervenire al sistema politico. Sviluppando in altre
parole un atteggiamento propositivo nei confronti dei decisori. Dall'altra parte v'è una
16
situazione di cittadinanza con accezione negativa, che identifica le azioni di persone
impegnate in forme di protesta acritica, atte a denunciare le inefficienze del sistema e ad
accusare i comportamenti dei personaggi politici invisi (quello che oggi è riconosciuto
ed accettato con il termine di «antipolitica»). Emerge in maniera chiara come, all'interno
del paradigma postdemocratico, sia concepito, sviluppato ed addirittura favorito questo
secondo concetto di cittadinanza attiva, che permette in ultima istanza addirittura di
giustificare, agli occhi della popolazione più pigra e non-attiva, l'attuazione di misure
repressive e di limitazione delle libertà personali in nome di una teorica sicurezza e di
una presunta migliore governabilità.
Si staglia, nell'analisi contemporanea, sempre più, a questo punto, la necessità di
approfondire ed accrescere la visione più propriamente positiva del concetto di
cittadinanza, visto come unico modo per contrastare politiche e azioni volte a
consolidare il “massimo livello di minima partecipazione” (Crouch 2003, p. 126)
bramato e fortemente voluto dalle élite dominanti.
Per riuscire in questo scopo, diversi tra studiosi e autori, auspicano la nascita di
altre e nuove forme di democrazia (Allegretti 2006), vengono pensate e suggerite giurie
di cittadini ed assemblee elette con formule di sorteggio casuale, prendendo spunto dalle
modalità di organizzazione dell'antica democrazia greca (Crouch 2003, Sintomer 2009,
Sintomer e Allegretti 2009). Più in generale affiora la volontà di un ritorno “a forme di
democrazia «difficile»” (Pittèri 2009, p. 39) intesa come unico modo per gestire la
complessità.
In questo contesto i modelli partecipativi di democrazia, e la democrazia
deliberativa in particolare, possono offrire una risposta efficacie per invertire la
tendenziale deriva del paradigma postdemocratico (Mastropaolo 2001, Pellizzoni 2005).
Ma cosa intendiamo quando si parla di partecipazione all'interno di un sistema
democratico-rappresentativo? Che cos'è, nello specifico, la democrazia deliberativa e
cosa comporta in termini pratici? Inoltre come si giustifica e che cosa significa questo
proliferare di democrazie «con aggettivi» di cui si sente sempre più spesso parlare?
Nel capitolo che segue cercherò di sviluppare questo ragionamento per
comprendere l'impatto che queste modalità di gestione della «cosa pubblica» hanno
all'interno del sistema.
17
2. Forme e modelli di democrazia partecipativa
Quando si parla di «democrazia partecipativa» vi è sempre una gran confusione. Non è
semplice definire cosa significhi partecipare, soprattutto quando lo intendiamo come una
specificazione del termine «democrazia». Esistono forme di democrazia in cui non viene
contemplata la partecipazione? No. Ogni forma democratica implica in se un qualche tipo di
coinvolgimento dei cittadini, che sia essa diretta oppure rappresentativa. Dunque si potrebbe
supporre che siamo in presenza di una ripetizione, di una ridondanza, di una formula retorica
che non ci dice nulla di più rispetto a quello che sappiamo già. Per funzionare la democrazia
ha bisogno dell'apporto del pubblico. O meglio, di quello che oggi si è trasformato in
pubblico, a causa dello sviluppo della democrazia d'opinione. Ed è proprio su questo che
voglio soffermarmi. Quando si parla di forme partecipative della democrazia si pone l'accento
sul livello di attivismo e sulla qualità della partecipazione. Si vuole enfatizzare, cioè, una
caratteristica precisa ed un tipo specifico di democrazia, che non funziona se i cittadini si
comportano da pubblico ma pretende l'apporto e la presenza di «attori», consapevoli e
propositivi.
In una situazione di deficit democratico e di crisi delle istituzioni, trasformare il
pubblico in attori può essere una soluzione per superare l'impasse in cui il sistema si trova
creando un processo virtuoso finalizzato innanzitutto a ridare fiducia ai cittadini stessi ed in
secondo luogo a legittimare le decisioni pubbliche che si andranno ad assumere.
Dobbiamo però comprendere bene il significato del termine «democrazia partecipativa»
se vogliamo proseguire nell'analisi. Voglio, per prima cosa, citare un passaggio di un articolo
di Luigi Bobbio, apparso nella rivista Democrazia e diritto (n. 4 del 2006), che, anche se
apparentemente potrebbe risultare poco utile, credo possa dar spazio ad almeno tre ordini di
considerazioni.
18
“La mia impressione è che non ci troviamo di fronte a una forma di democrazia, ma
piuttosto di fronte a un insieme eterogeneo, contraddittorio e informe di aspirazioni,
linee di tendenza e orientamenti politici che cercano spesso solo a parole, qualche volta
con concrete esperienze, di aprire qualche breccia nella cittadella del governo
rappresentativo” (Bobbio 2006, p. 12, grassetto mio).
2.1 Eterogeneità delle forme
La prima considerazione che risulta evidente è la varietà e l'apparente inconsistenza che
ci si trova d'innanzi quando si ha a che fare con questo tipo di concetto. Quando si parla di
«democrazia partecipativa» quindi si deve tener a mente che non esiste una definizione
univoca ed esaustiva, ma che essa può essere data dalla somma delle varie esperienze emerse
nel corso degli ultimi 15-20 anni e che queste possono essere talvolta “contraddittorie” e
spesso inconcludenti. Qui di seguito indicherò una serie di differenze che, a livello teorico,
caratterizzano i processi partecipativi, tenendo come linea guida l'articolo di Bobbio sopra
citato.
In primo luogo vi sono due concezioni contrapposte che vanno prese in considerazione.
Una visione enfatizza gli esiti dei processi, pensati come mezzo per raggiungere obiettivi di
carattere sociale, per un cambiamento dei modelli di sviluppo, per frenare gli interessi di
parte. In questo caso non è importante la forma e le modalità di coinvolgimento, quanto i
risultati effettivi che la consultazione ha saputo fornire (concezione sostanziale). La seconda
visione, invece, pur non trascurando gli outputs, considera valido un processo inclusivo solo
nel caso in cui “tutti i soggetti sociali coinvolti hanno avuto modo di esprimersi, di informarsi
e di contare” (ibidem, p. 13), al di là degli esiti conseguiti (concezione procedurale). Alle
spalle di questi procedimenti vi è sempre una motivazione politica che va compresa, e la
ricaduta su l'uno piuttosto che l'altro dipende dal promotore (se dall'alto o dal basso lo
vedremo più avanti) e dalla tipologia di risultati che si vuole ottenere, perché anche la sola
19
partecipazione senza la riuscita di alcun risultato (in pratica senza alcuna ricaduta concreta
sulla decisione pubblica) può venir considerato un risultato utile, e nel caso di una pubblica
amministrazione anche un immobilismo «legittimato» dall'esito (scadente) di un processo di
questo tipo può essere visto di buon auspicio. Naturalmente questo non ricade tra gli usi
virtuosi di un processo inclusivo.
Sempre riguardo l'eterogeneità delle forme partecipative, grande importanza va data alla
differenza, spesso sottovalutata, tra «democrazia partecipativa» e «democrazia deliberativa».
Le due categorie partono da premesse teoriche completamente differenti ed hanno, altresì,
origini geografiche (e politiche) opposte. Per specificare meglio, c'è da dire che la democrazia
deliberativa è una forma più specifica, e con confini delimitati, di democrazia partecipativa,
dunque è una sua sotto-categoria piuttosto che una categoria «altra», ma le differenze teoriche
sono tali da permettere una utile comparazione.
La democrazia partecipativa tout court fa i suoi esordi negli anni Ottanta in America
Latina, nella città di Porto Alegre, e si sviluppa principalmente sotto forma di «bilancio
partecipativo». Più concretamente a Porto Alegre “la giunta […] si impegna nella creazione di
una struttura partecipativa che permetta di coinvolgere i cittadini non eletti nelle decisioni in
materia di bilancio” (Sintomer, Allegretti 2009) sotto la spinta di un fervente mondo
associativo locale e movimenti sociali urbani. Vi è dunque un ideale politico che sta alla base
di tale processo (di coinvolgimento della popolazione esclusa e di emancipazione delle classi
discriminate) e questo viene inteso come strumento di pressione da parte dei movimenti verso
le istituzioni municipali. La forma assunta è quella di assemblee cittadine in cui emergono e
vengono pesati gli interessi particolari di classi e gruppi organizzati.
La democrazia deliberativa, invece, prende le mosse dalle teorie di Habermas
(«principio del discorso razionale, secondo il quale la verità sarebbe garantita solo da quel
consenso che fosse stato raggiunto nelle condizioni idealizzate di comunicazione illimitata e
non autoritaria» in Ermeneutica e critica dell'ideologia 1979) e Rawls e si riferisce ad “un
processo basato sulla discussione pubblica tra individui liberi ed uguali, da cui trae la propria
legittimità” (Pellizzoni 2005, p. 8) e in cui il termine «deliberazione» non va inteso come
«decisione» ma nel senso di «dialogo» e «discussione» (ibidem). È una pratica che ha origine
nel mondo anglo-germanico tra gli anni Ottanta e Novanta del Secolo scorso (Joseph Bessette
ne parla la prima volta in un saggio del 1980) anche se, secondo J. Elster, “l'idea di
20
democrazia deliberativa e la sua applicazione pratica sono antiche quanto la democrazia
stessa” (ibidem, p. 9). Si differenzia dalle altre forme partecipative perché non si basa sul
principio di maggioranza ma bensì, come detto, si fonda esclusivamente sulla “discussione
fondata su argomenti” (Bobbio 2006, p. 14). Infatti il «partecipare» può includere ed
assumere forme totalmente diverse dal «discutere» e la pratica del voto ne è un esempio.
Inoltre il modello deliberativo prescrive, talvolta, la selezione anche casuale dei partecipanti, e
ciò non è assolutamente previsto dalla democrazia partecipativa tradizionale (sui princìpi di
inclusione ed esclusione tratterò tra poco).
Un ultimo accenno, che ritengo importante, va fatto in merito ad una differenziazione
interna alla democrazia deliberativa. Essa si distingue tra «dialogica» e «negoziale» in base
alla tipologia di linguaggio argomentativo su cui si fonda la discussione (sulle differenze tra i
concetti di «argomentazione» e «negoziazione» vedi Elster 1995 e Pellizzoni 2005). La
differenza sostanziale, su cui non vado a soffermarmi, riguarda il cambiamento d'opinione
interno (intimo) ai partecipanti, che avviene solamente nel caso dialogico. La democrazia
deliberativa «per definizione» riguarda quest'ultimo caso, mentre tutte le altre situazioni
rientreranno nelle forme deliberative «in senso debole». A questa tipologia appartengono, tra i
tanti, i modelli di giuria dei cittadini, consensus conference e scenario workshop (Pellizzoni
2005).
Una terza evidenza di eterogeneità è data dalla questione del «chi partecipa». Risulta
sempre complicato affrontare questa tematica, perché la risposta oscilla tra l'ambizione del
«tutti» e un più realistico «qualcuno», selezionato in base a qualche criterio prestabilito. Di
conseguenza le forme di democrazia partecipativa saranno influenzate dal criterio di
selezione, e gli stessi risultati ottenuti (in caso di riuscita) saranno fortemente condizionati dal
presupposto di partenza. È chiaro come risulti pressoché impossibile coinvolgere tutta la
popolazione (di uno Stato, di una città, di un quartiere e persino di un condominio) ma a
livello teorico questa opzione non va scartata ed anzi è da tenere in seria considerazione
perché rappresenta un faro, una linea guida a cui ogni processo partecipativo, ed ogni forma di
democrazia diretta, dovrebbe tendere. Al paradosso del «chi far partecipare alla democrazia
partecipativa», Bobbio (2006) risponde indicando tre metodi principali.
Il metodo della porta aperta consiste nel lasciare libertà d'intervento a tutti coloro che
sono interessati ad «entrare» fisicamente all'interno del luogo decisionale. Si tratta di un fatto
21
non trascurabile perché “costituisce un netto rovesciamento della pratica con cui abitualmente
vengono assunte le scelte pubbliche” (ibidem, p. 16), cioè in uffici chiusi e in riunioni
«intime» e talvolta sottaciute. Naturalmente la partecipazione e le forme di interazione vanno
gestite e regolamentate, il che non risulta sempre facile, ma non si tratta della questione
principale. Questo tipo di scelta, infatti, incorre in due difficoltà sostanziali. Da una parte il
livello di partecipazione, che non è mai elevato né tantomeno adeguato se si considera il
rapporto tra gli effettivamente «attivi» e gli «aventi diritto». Secondo i dati forniti dallo stesso
Bobbio si ha un livello di partecipazione del 5-7 per cento nel caso di Porto Alegre, ed
addirittura una media attorno all'1-2 per cento nei casi concreti di Spagna e Italia. Dall'altra
parte v'è la questione della disomogeneità del coinvolgimento (ibidem) che indica come
solamente un certo tipo di persone, in buona parte già coinvolte in altre iniziative, trovi le
motivazioni adeguate per fornire un proprio contributo nella formulazione delle priorità e
delle azioni da svolgere (Bobbio addirittura parla di una doppia autoesclusione, una
riguardante la «cittadinanza passiva» ed una più propriamente «politica», ibidem, p. 17). In
entrambi i casi la legittimazione data da una ipotetica, quanto fantomatica e pubblicizzata
libertà, sia di scelta (nel partecipare) che di opinione (nell'intervenire), nasconde un più
subdolo status di illegittimità che caratterizza le decisioni prese da minoranze travestite da
maggioranza, che si arrogano il diritto di fare scelte di carattere pubblico seguendo la regola
canonica del «chi c'è decide», con buona pace di quelle posizioni che non trovando adeguata
rappresentanza prima si trovano escluse anche in questo caso.
Il metodo del microcosmo riguarda, invece, la ricostruzione «in laboratorio» di tutti gli
interessi presenti in una data società. Non si tratta, come nel caso precedente, di lasciare libera
iniziativa ai cittadini di partecipare secondo la propria coscienza, ma, in una logica totalmente
inversa, di scegliere le persone «adatte» (per caratteristiche e secondo interessi particolari) e
convincerle a partecipare alla discussione. Il numero limitato di persone selezionate permette
di affrontare l'argomento in maniera più esaustiva, con una migliore operatività ed un
confronto diretto tra le diverse posizioni. La difficoltà del metodo sta, però, nella selezione e
nella ricerca degli interessi in campo, che devono essere tutti equamente rappresentati, e può
venire solamente ad opera di un attore esterno, non condizionato da pregiudizi o posizioni
precostituite. La mancata individuazione di una o più posizioni, soprattutto di quelle «meno
evidenti», rischia di compromettere la qualità del risultato e, in generale, del processo
partecipativo nel suo complesso.
22
Anche il terzo ed ultimo metodo individuato da Bobbio prende in considerazione la
costruzione di un microcosmo rappresentativo dell'intera società ma, questa volta, con una
campionatura casuale della popolazione di riferimento. Ciò permette di dare voce, con
maggiori probabilità, a chi normalmente, e per svariati motivi (che possono essere
motivazionali, caratteriali o culturali), non partecipa attivamente ad iniziative di carattere
pubblico. Anche in questo caso è in agguato un meccanismo di autoselezione, che porta chi
non si sente adatto a rinunciare all'incarico assegnatogli, ma le probabilità di esclusione della
cosiddetta cittadinanza «passiva» sono minori rispetto ad una situazione in cui si lascia al
cittadino la libertà di scegliere se partecipare o meno. La validità di questo metodo è data dal
fatto che permette di “riunire attorno ad uno stesso tavolo o una stessa sala un mix di persone
particolarmente variegato, per professione, età e ambiente sociale (e di assicurare – e non è
poco – una parità numerica tra donne e uomini), quale non è dato di riscontrare in nessun altro
ambito partecipativo” (ibidem, p. 18). Nello svolgimento delle pratiche democratiche
tradizionali, però, il sorteggio è visto con un po' di timore. Vengono avanzate, a suo discapito,
tutta una serie di critiche che hanno lo scopo di denigrare la partecipazione dei «non-
professionisti». La prima di esse riguarda la presunta incapacità dei cittadini «comuni» di
affrontare tematiche complesse o di carattere generale, con il rischio di una banalizzazione
della discussione che non porta a risultati «illuminati» o lungimiranti. Viene, in secondo
luogo, evocata la possibilità che un gruppo di cittadini, per così dire inermi, possa venir
condizionato ed essere manipolato più facilmente dall'esperto politico di turno, portando in
questo caso a soluzioni distorte e solo in apparenza condivise. Infine si considerano gli scarsi
effetti che questo tipo di coinvolgimento ha sul rafforzamento del capitale sociale e sulle
future volontà partecipative dei singoli protagonisti. Bobbio scrive che, con molta probabilità,
“i cittadini sorteggiati, una volta terminata la loro esperienza, torneranno verosimilmente alle
loro occupazioni di sempre e avranno pochi stimoli per riaffacciarsi sull'arena pubblica”
(ibidem, p. 19).
Le motivazioni addotte potrebbero sembrare credibili, ma paiono tuttavia più
verosimilmente delle scuse atte a non permettere un'allargamento dell'arena decisionale ai
«non addetti ai lavori» piuttosto che una difesa convita del merito dei meccanismi elitari.
Infatti se si prendono in considerazione i risultati (o forse più propriamente i non-risultati)
ottenuti fin'ora dal sistema rappresentativo, risulta evidente come le tre critiche al metodo del
sorteggio possono essere, senza troppa fatica, rivolte anche al sistema attuale. La quasi nulla
23
lungimiranza dei decisori, la facile manipolazione dell'elettorato (che non decide direttamente
ma conferisce potere ai futuri decisori) ed i limitati, e vani, tentativi di aumentare il capitale
civico e sociale dei cittadini sono caratteristiche rispecchianti più il sistema democratico
attuale che non le forme innovative di democrazia allargata.
Un'ultima caratteristica per cui le forme partecipative possono risultare diverse tra loro,
nella modalità di coinvolgimento e nei risultati, dipende dal loro punto di partenza, o per
meglio dire dalla tipologia di attore che si rende promotore del processo. Naturalmente sono
essenzialmente due le direzioni da cui un processo partecipativo muove. Può essere promosso
dal basso, dalla società civile e dalle associazioni (bottom-up), oppure, in direzione contraria,
essere una precisa volontà dell'istituzione (top-down) che si troverà a calare dall'alto il suo
prodotto. Non sarà mai, però, in maniera univoca l'uno o l'altro caso perché fondamentale è la
relazione tra le due dimensioni (società e istituzioni). Se infatti vi è una esclusiva promozione
dal basso si corre il rischio di non produrre risultati concreti perché non si è riusciti a
coinvolgere le strutture amministrative e decisionali, e dunque vi sarà un fermento
partecipativo ed un aumento quantitativo di processi democratici fine a se stesso che però
“non costituisce di per sé un'esperienza di democrazia partecipativa” (ibidem, p. 20). D'altra
parte un'iniziativa top-down rischia di non produrre quel «fermento partecipativo» citato in
precedenza che è uno dei presupposti fondamentali per la riuscita ottimale di un progetto di
questo tipo. Comprendere il punto di partenza di un processo, anche se si è consapevoli che
non vi è mai unidirezionalità, diventa di fondamentale importanza perché permette di cogliere
preventivamente le difficoltà, e talvolta i risultati, a cui andrà esso in contro.
2.2 Casi concreti
La seconda considerazione, in merito al passo di Bobbio sopra citato, riguarda l'effettiva
esistenza di casi reali che possono essere presi ad esempio ed analizzati per dimostrare che
quanto detto finora non si limita a trovar spazio solamente in tortuosi sentieri teorici e
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ragionamenti filosofici. Vi è, infatti, corrispondenza con la realtà e sono evidenti i riscontri
positivi dei meccanismi partecipativi nella società attuale.
Può risultare difficile, e addirittura inappropriato, tentare di elencare tutte le esperienze
concrete che hanno avuto luogo a partire dal caso di Porto Alegre. Come già visto in
precedenza l'eterogeneità è una caratteristica insita all'interno del grande contenitore dei
«fenomeni partecipativi».
A partire dagli anni '80 le forme e i progetti di partecipazione sono proliferati andando a
formare una casistica variegata che può essere raggruppata e studiata nella sua evoluzione in
base agli Stati ed ai contesti d'origine. Risulta però più semplice e significativo seguire la
tipologia effettuata da Sintomer ed Allegretti (2009). Propongo, in questo senso, questo
criterio d'anali per dare un'immagine più completa del fenomeno in oggetto. Potrà sembrare
strano, o addirittura paradossale, il fatto che nel paragrafo intitolato «Casi concreti» mi metta
ad elencare i sei modelli idealtipici della tipologia, ma è appunto con tale generalizzazione
che si riesce a cogliere in maniera adeguata la consistenza dei casi reali.
Sintomer e Allegretti individuano sei «modelli partecipativi» sulla base di quattro criteri
principali d'analisi: prendono in considerazione il contesto sociopolitico ed economico, i
quadri normativi e la volontà politica, le procedure utilizzate ed, infine, le dinamiche
dell'azione collettiva. Oltre a questi criteri, gli autori evidenziano altre due dimensioni che
permettono una definizione più precisa dei casi idealtipici. Le ulteriori dimensioni sono così
identificate:
- la relazione che si instaura tra la politica convenzionale e la dinamica partecipativa,
articolata in base a quattro tipi di rapporti tra le due sfere (intreccio debole, sostituzione,
strumentalizzazione e combinazione);
- una seconda dimensione ha, invece, a che fare con le forze, le debolezze e le sfide di
ognuno dei modelli in comparazione con gli altri.
Nello schema così individuato, con i quattro criteri discriminanti e le due dimensioni
aggiuntive, si riesce a creare una «mappa concettuale della partecipazione» (ibidem) in cui si
può inserire ogni caso di partecipazione. Nella figura sottostante (Figura 1) vengono messi in
evidenza a scopo esemplificativo i casi europei di bilancio partecipativo. Si può notare la non
coincidenza tra casi concreti e modelli idealtipici. Cioè, com'è prevedibile, le esperienze reali
non si sovrappongono perfettamente alle situazioni puramente teoriche, trovandosi talvolta a
metà strada tra due o più tipi ideali.
25
Figura 1. Tipologie di modelli di partecipazione. Fonte Sintomer e Allegretti (2009), p. 300.
I sei modelli idealtipici identificati da Sintomer e Allegretti sono, come si evince in
figura la democrazia partecipativa (in senso stretto), la democrazia di prossimità, la
modernizzazione partecipativa, il partenariato partecipativo, lo sviluppo comunitario e il
neocorporativismo.
a) Democrazia partecipativa
Il primo modello è caratterizzato dall'«emergere simultaneo» (ibidem) di un quarto
potere, cioè il potere diretto dei cittadini che si pone accanto ai tre poteri tradizionali
(legislativo, esecutivo e giudiziario), e di un contropotere cooperativo (o countervailing
power), che sta ad indicare la reale autonomia della società civile rispetto ai propri
rappresentanti istituzionali. Questa coincidenza permette una rivalsa delle classi subalterne,
che riescono in questo modo a raggiungere la sfera pubblica e partecipare al processo
decisionale (è il caso del bilancio partecipativo di Porto Alegre). Il contesto in cui prende
piede risulta essere quello dei Comuni progressisti dei Paesi con uno Stato sociale di tipo
26
conservatore (es. Spagna e Italia). È il modello che articola “con maggiore chiarezza governo
rappresentativo e democrazia diretta” (ibidem, p. 302) permettendo l'autonomia della società
civile ed una trasformazione istituzionale volta ad un accrescimento di legittimità. Le carenze
emergono nella difficoltà ad attivare (o nel riscontrare) le numerose condizioni favorevoli che
permettono un suo sviluppo.
b) Democrazia di prossimità
Il secondo modello identificato è caratterizzato dalla vicinanza geografica e da un
rapporto di informalità che si instaura tra cittadini e amministrazione locale. Si sviluppa in
ambiti microlocali, soprattutto in contesti di Stato sociale conservatore e di capitalismo
continentale o mediterraneo (es. Francia e Portogallo). Viene garantito un certo livello di
solidarietà anche se questo modello non può essere visto come strumento di giustizia sociale.
Il potere è consultivo, calato dall'alto (top-down) e vi è scarsa o nulla indipendenza della
società civile. Il rapporto diretto cittadino-amministratore conferisce una migliore
comunicazione riguardo a problemi e opportunità, ma il carattere personale, e dunque
arbitrario, della relazione favorisce uno spirito campanilistico e una strumentalizzazione della
società civile (ibidem).
c) Modernizzazione partecipativa
Questo modello prende in considerazione gli aspetti di efficacia e legittimità che le
amministrazioni pubbliche si trovano ad affrontare, prendendo in considerazione solamente
marginalmente l'aspetto partecipativo. Con le parole di Sintomer e Allegretti “i processi
partecipativi vengono iniziati dall'alto, sono scarsamente politicizzati e hanno solo una
valenza consultiva. La società civile gode di un'autonomia limitata e non vi è spazio né per un
quarto potere, né per un contro-potere cooperativo” (ibidem, p. 305). I miglioramenti sono
perlopiù di livello gestionale; vengono tralasciati gli aspetti di giustizia sociale. Questa
visione si avvicina al modello del New Public Management (vedi paragrafo 2.3) in cui la
partecipazione viene vista solamente come possibilità di feedback, con tecniche quali
sondaggi e referendum, trascurando invece gli aspetti deliberativi. Il modello è sviluppato
soprattutto in Germania e nell'Europa del Nord e in maniera indifferenziata rispetto al colore
politico dell'Ente.
27
d) Partenariato pubblico/privato partecipativo
Il quarto modello prevede una partecipazione dei cittadini al fianco di imprese private e
governo locale all'interno di una sorta di governance allargata, in cui cittadini e politica hanno
un peso specifico minore rispetto alle logiche finanziarie. La società civile risulta, così, essere
debole e dotata di scarsa autonomia decisionale. Tali processi hanno maggior successo
all'interno di Paesi capitalisti e con uno Stato sociale liberale.
e) Sviluppo comunitario
“Il tratto saliente del quinto modello è che la partecipazione verte fondamentalmente
sulla fase di realizzazione dei progetti, in un contesto di dissociazione tra l'amministrazione
comunale e un dispositivo partecipativo forte segnato da dinamiche bottom-up e non soltanto
top-down.” (ibidem, p. 307). Ciò significa che, in questo caso, i margini d'azione della politica
locale sono ridotti, mentre viene dato molto spazio all'azione deliberativa del «contropotere
cooperativo», cioè di gruppi organizzati di cittadini attivi che favoriscono una partecipazione
non convenzionale, scollegata dalle forme partecipative istituzionali (partiti politici e momenti
elettorali). L'aspetto negativo consiste nella disarticolazione dei progetti, se si pone come
punto di vista una visione globale del territorio, dovuta soprattutto all'assenza di un punto di
riferimento (politico-amministrativo) che abbia capacità di gestione e coordinamento. Questo
modello è particolarmente sviluppato nel mondo anglosassone ed ha, in generale, grande
diffusione nei Paesi di tradizione capitalista liberale (ibidem).
f) Neocorporativismo
L'ultimo modello della mappa implica la partecipazione di gruppi organizzati, gruppi
sociali e istituzioni nella formazione del governo locale, per “creare un ampio spazio di
concertazione con le «forze che contano»”. Si tratta di un modello basato sulla consultazione,
che tralascia la fase deliberativa e dà poca autonomia procedurale alla società civile. Il
processo infatti è tipicamente top-down. Il modello trova attuazione in contesti di Stato
sociale conservatore e capitalismo mediterraneo, ma trova terreno fertile anche in uno Stato
sociale «di taglio socialdemocratico» e di tipo continentale (ibidem).
Preso atto di una tale mappa concettuale, ora risulta più semplice definire, in base al
contesto sociopolitico, alla volontà politica e alle procedure previste per la partecipazione, in
28
quale modello idealtipico si inserisce il caso di studio che si va ad analizzare, quali
caratteristiche assume e quali sviluppi potrebbe innescare.
2.3 Tre «brecce» nel governo rappresentativo
Il terzo, ed ultimo, ordine di considerazioni che mi preme esplicitare è in merito al
tentativo di “aprire qualche breccia nella cittadella del governo rappresentativo” messo in atto
dalle nuove forme di partecipazione con lo scopo, innanzitutto, di superare la crisi di
legittimità già accennata nel primo capitolo.
A dire il vero, i meriti (o i presunti tali) riconosciuti ai processi partecipativi non vanno
ad esaurirsi con il tentativo di ri-legittimazione del sistema democratico-rappresentativo ma si
completano e si comprendono meglio chiamando in causa le tre sfere su cui queste nuove
modalità vanno ad impattare, modificando l'esistente. Le tre categorie di obiettivi in cui si
riconoscono tutte le sfide partecipative esistenti (certamente con intensità ed equilibri diversi)
sono riconducibili ad obiettivi di carattere gestionale, sociale e politico (Sintomer, Allegretti
2009).
Gli obiettivi di carattere gestionale fanno riferimento ad una volontà di miglioramento
del sistema pubblico-amministrativo attraverso l'uso e la valorizzazione del «sapere locale»,
cioè del sapere quotidiano e non specialistico in possesso degli abitanti e di coloro i quali
vivono a stretto contatto l'oggetto in questione (che sia uno spazio pubblico, un problema
sociale o altro). Secondo Sintomer e Allegretti, questa modalità rappresenta una “terza via alla
modernizzazione” (ibidem, p. 323) perché contribuisce ad un aumento di legittimità
dell'azione pubblica e ad un suo ammodernamento strutturale, attraverso il contributo del
«cittadino-utente». Questa posizione si rifà alle teorie del New Public Management (Quadro
2.1), che si pone come obiettivo il superamento delle complessità burocratiche del sistema
amministrativo dando più spazio all'aspetto manageriale.
29
Quadro 2.1 New Public Management
Il NPM è un nuovo metodo di gestione del settore pubblico che prevede un'integrazione delle
pratiche burocratiche tradizionali con una serie di accorgimenti che portano verso un maggior
orientamento al risultato, sulla base delle esperienze provenienti dal settore privato.
I principali obiettivi da assolvere, dal nuovo paradigma, risultano essere:
- una maggiore elasticità delle prestazioni;
- una riorganizzazione burocratica, votata all'efficienza;
- una separazione tra l'indirizzo politico e la gestione dei processi;
- un'organizzazione per processi e obiettivi;
- una misurazione delle performance e il controllo dei risultati
- una semplificazione delle procedure di accesso ai servizi;
- il ricorso all'innovazione tecnologica;
- un'attenzione maggiore alla qualità.
Fonte http://it.wikipedia.org/wiki/New_public_management
In questo conteso i cittadini, o «utenti» come sopra definiti, si trovano a ricoprire
quattro ruoli, nei rapporti con l'amministrazione pubblica. Sono consumatori, in quanto
interessati alla qualità del servizio, codecisori se vengono coinvolti al momento della
decisione, corealizzatori se partecipano alla fase progettuale ed infine valutatori nel caso in
cui vengano chiamati in causa per il controllo dei risultati.
Oltre ai suddetti ruoli si identifica una seconda dimensione che prevede quattro figure
prevalenti. I cittadini vengono considerati sulle basi delle categorie di: utente, cliente,
lavoratore e cittadino. Le due dimensioni vengono incrociate, da Sintomer e Allegretti, per
misurare l'intensità di coinvolgimento del singolo attore nell'azione pubblica. Dalle analisi
effettuate risulta che, in quasi tutti i casi, il coinvolgimento avviene solamente a livello di
consumatore e codecisore, lasciando ruoli marginali alle esperienze di corealizzazione e
valutazione del processo (ibidem).
La seconda categoria di obiettivi riguarda gli effetti sociali positivi che le forme
partecipative portano con sé. Si vede in essi la possibilità di ridurre (anche solo in maniera
parziale) alcune distorsioni presenti nel tessuto sociale complesso, che caratterizza la
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popolazione cittadina. In primo luogo vi è un carattere di giustizia sociale insito nei processi,
che favorisce una tendenziale allocazione delle risorse disponibili alle fasce di cittadinanza
più deboli. Naturalmente il problema principale risulta essere la quantità di fondi disponibili
nella realizzazione di tali processi; in mancanza di tali, gli interventi effettuati saranno
marginali e poco significativi.
I casi europei, a dire il vero, non sono caratterizzati da effetti sociali evidenti,
soprattutto perché il presupposto di partenza non è la riduzione degli stessi (rientra solo tra gli
obiettivi secondari) e perché l'impegno politico-istituzionale non va sempre in quella
direzione. Molto più significativi risultano, da questo punto di vista, i casi sudamericani, Porto
Alegre in primis, in cui l'obiettivo principale è proprio quello di dedicare una parte di bilancio
comunale agli strati più svantaggiati di popolazione.
Vengono individuati cinque fattori essenziali per trasformare i processi partecipativi in
veri e propri strumenti di giustizia sociale:
• È necessaria innanzitutto una forte volontà politica orientata in questo senso.
• Fondamentale, in secondo luogo, è la discussione di temi di rilievo, con cifre
cospicue messe a disposizione che permettono l'attuazione degli output.
• La trasparenza del processo è importante perché permette una sua corretta
valutazione ed una successiva verifica, in special modo i suoi impatti.
• Il quarto fattore riguarda i criteri di distribuzione, che devono essere espliciti e
favorire le classi subalterne.
• Infine non va dimenticata la mobilitazione sociale delle popolazioni chiamate in
causa.
Risulta difficile, se non raro, trovare tutti i fattori presenti e realizzati nello stesso
contesto, il che ci può portare a pensare che difficilmente un processo partecipativo possa
produrre effetti di giustizia sociale significativi, ma a ben veder “non è necessario che tutti e
cinque i criteri siano presenti contemporaneamente affinché la partecipazione abbia un
impatto reale”(ibidem, p. 352). È sufficiente la sola presenza di alcuni di essi, affinché si veda
l'innescarsi di un circolo virtuoso.
Nonostante ciò, viene ugualmente evidenziata la debolezza di questa categoria di
obiettivi, che perde efficacia in caso di una mancata volontà dall'alto o di una esigua
disponibilità di fondi, in particolare per quanto riguarda i casi europei.
31
La terza ed ultima categoria di obiettivi riguarda l'impatto politico dei processi,
all'interno del sistema democratico-rappresentativo. Gli effetti evidenti, ed immediati, che
sono emersi dal caso di Porto Alegre dimostrano una riduzione sostanziale del clientelismo,
l'emergere di un contropotere cooperativo (a cui ho già accennato in precedenza, paragrafo
2.2) e la creazione di una sfera pubblica delle classi svantaggiate (Sintomer e Allegretti 2009).
Il sistema partitico, invece, non pare subire significative trasformazioni, se non marginali
(ibidem).
I processi partecipativi, in questo senso, forniscono un contributo fondamentale alla
«democratizzazione della democrazia» in quanto si inseriscono nel sistema politico,
modificandolo ma non cercando di sovvertire l'ordine istituzionale. Si pongono l'obiettivo di
aumentare la trasparenza e di creare condivisione di processi e di risultati. Ciò avviene
solamente, però, in presenza di una ben determinata coerenza metodologica. È necessaria,
infatti, una razionalità procedurale, che implica l'utilizzo di schemi e modelli prestabiliti e un
incanalamento delle forme spontanee di aggregazione. Sulla base di questa considerazione
vengono indicati, grazie all'aiuto teorico di Habermas (1996), tre principi fondamentali che
caratterizzano ogni processo:
Principio di discussione, prevede un dialogo senza pregiudizi che faccia emergere le
ragioni delle parti in modo da evitare una difesa aprioristica e una chiusura verso le proprie
posizioni.
Principio di inclusione, stabilisce la non-esclusione di alcun attore interessato e
favorisce il crearsi di una dinamica dialettica che non riguarda solamente il rapporto
amministratore-cittadino, ma anche, e soprattutto, il confronto tra cittadini stessi.
Principio di pubblicità infine impone il criterio di trasparenza, in modo da non favorire
lo sviluppo di logiche clientelari e di azioni di lobbying.
Non sempre, a volte molto raramente, vengono rispettati tali criteri quando ci si cala
nella realtà, e la maggior parte delle volte vengono rispettati solamente in parte. Sintomer e
Allegretti (2009) affermano che “la qualità deliberativa dei bilanci europei è variabile: nelle
esperienze che abbiamo esaminato da vicino, è relativamente mediocre in quattro casi su venti
[…]; in due casi su venti, è piuttosto alta[…]. Nelle altre esperienze, la qualità deliberativa si
32
può considerare accettabile” (ibidem, pp. 366-367).
La qualità deliberativa dei processi, tutto sommato, si può valutare piuttosto
positivamente. Ma può essere considerato tutto questo come un'evoluzione del sistema
democratico, che attraverso la partecipazione muove verso forme di deliberazione avanzata?
Le rigide procedure deliberative, come teorizzate da Habermas, possono davvero portare ad
una nuova democrazia che riduca il deficit di legittimità di cui il sistema soffre? Possono
infine, in un tale contesto, le tecnologie dell'informazione aiutare e rendere più efficacie uno
sviluppo democratico in questo senso?
Nel capitolo che segue proverò ad affrontare il tema delle nuove tecnologie e il loro
impatto nel sistema democratico.
33
3. Democrazia e nuove tecnologie
Preso atto della crisi sistemica che coinvolge la società contemporanea, la
riflessione prosegue prendendo in considerazione il concetto di e-democracy, o per
meglio dire di come le tecnologie dell'informazione, ed in particolare la rete internet,
abbia influenzato e modificato il concetto di democrazia e le modalità di governo della
«cosa pubblica».
A metà degli anni Novanta, con i primi contatti e le prime forme di
contaminazione tra la rete e le forme di governo (Pittèri 2007, Bolognini 2001), si
ipotizzò subito un superamento delle forme tradizionali di rappresentanza, che già allora
cominciavano a denotare una fase di stanchezza, a favore di un modello di democrazia
diretta che superasse la logica della delega, per far rivivere, ad un livello più evoluto, le
modalità di gestione della polis, il modello ateniese, considerata il punto più elevato di
democrazia mai raggiunto. Un livello forse a volte un po' troppo mitizzato, a dire il
vero.
I primi casi di democrazia elettronica possono essere fatti risalire alla fine degli
anni Ottanta. Negli Stati Uniti, più propriamente a Santa Monica (California), fu messo
appunto nel 1989 un sistema di posta elettronica ed accessi internet pubblici denominato
PEN (Public Electronic Network) che permetteva, già allora, di ottenere informazioni di
interesse pubblico ed interagire con l'amministrazione della città. Casi analoghi ed in
evoluzione si registrarono nel 1994 a Minneapolis con il Minnesota Electronic
Democracy Project che aveva reso possibile uno spazio di discussione on-line in
occasione delle elezioni politiche che in quell'anno si sarebbero svolte in città. Questa fu
la prima iniziativa sviluppata dal basso, ed ebbe notevole successo tanto che rimane
tutt'ora attivo il sito internet www.e-democracy.org, diventato ormai un punto di
riferimento per tutte le esperienze di tale genere.
34
In Italia, il primo Ente ad interessarsi delle potenzialità delle discussioni on-line è
stato il Comune di Bologna nel 1998, che attraverso il progetto Iperbole
(www.comune.bologna.it), dava la possibilità ai cittadini di esprimere le proprie opinioni
relativamente a varie tematiche (bilancio comunale, sistema tariffario, trasporto
pubblico) attraverso forum di discussione appositamente realizzati.
Oltre a questi casi, si possono elencare tutta una serie di esperienze che
coinvolgono principalmente i paesi del Nord Europa, quali Finlandia, Danimarca e
Olanda che a partire dalla metà degli anni Novanta hanno aperto le porte delle proprie
amministrazioni locali per permettere un coinvolgimento dei cittadini nelle attività di
policy making e per la consultazione degli stessi su tematiche locali a sfondo sociale o
ambientale (Pittèri 2007).
Il caso più recente, e forse il più innovativo, risulta essere un progetto portato
avanti dal governo islandese in cui, tra il 2010 e il 2011, si è data la possibilità ai
cittadini dell'isola di redigere una nuova Costituzione, portando il proprio contributo
attraverso l'utilizzo dei social networks, in particolar modo Twitter (http://twitter.com/),
la quale ora è in attesa di essere approvata e ratificata tramite un referendum popolare.
Nel mezzo ci sono tutta una serie di iniziative che coinvolgono sostanzialmente
Comuni ed Enti locali, con diverse modalità di inclusione dei cittadini e con diversi
obiettivi a cui adempiere. Mi preme, però, rendere evidenti almeno due considerazioni.
La prima, di carattere temporale, vuole sottolineare quanto recente sia la storia
delle esperienze di e-democracy. Le quali esperienze sì, sono allo stato attuale molto
numerose ed in continuo aumento, ma talvolta non sono supportate da un'analisi
adeguata a causa soprattutto della rapidità del fenomeno. Infatti, per quanto prolifiche e
con modelli talvolta condivisi e ripetuti, sono rari i casi in cui si possa affermare un
reale adempimento degli obiettivi prefissati: talvolta si registrano bassi livelli di
partecipazione, poca inclusione, rari miglioramenti del livello di democraticità del
sistema ed una tendenziale ricaduta verso il circolo vizioso del «decidono sempre gli
stessi». Forse una riflessione più puntuale ed attenta potrebbe portare ad un
miglioramento in fase progettuale, andando ad incidere in maniera positiva anche sui
risultati.
La seconda considerazione è di ordine spaziale. Riguarda, nello specifico, il fatto
che la maggior parte delle esperienze disponibili ed analizzate sono relative (e
35
circoscritte) ad una dimensione che non oltrepassa il livello locale. Cioè, per meglio
dire, ci si è limitati fino ad ora a “computerizzare forme di partecipazione politica
esistenti, trascurando invece le potenzialità più specifiche dello spazio elettronico”
(Bolognini 2001, p.16) rimanendo così legati ad uno spazio locale, dove la politica e
l'amministrazione trovano già forme di partecipazione esistenti e dove spesso si è in
presenza di rapporti personali e di fiducia che prescindono dalle nuove tecnologie.
Un'esperienza di e-democracy a questi livelli, quindi, modifica le tipologie di
partecipazione nella forma, piuttosto che nella sostanza, lasciando inalterati i problemi
di inclusività che, teoricamente, si voleva risolvere in partenza.
Vi sono, dunque, potenzialità ancora non sviluppate per quanto riguarda la
«democrazia a tecnologia avanzata», talvolta perché non si ha ancora colto l'elevata
funzionalità e gli ampi margini di miglioramento che questi mezzi portano con sé o
perché, semplicemente, non si hanno le capacità o le conoscenze per rendere operative
e funzionali le opportunità che già ci sono.
Ma cosa comporta realmente l'intrusione del web 2.0 nell'azione politica e
amministrativa lo si può cogliere in maniera più immediata invocando l'immagine della
«democrazia diretta». Forma organizzativa che si identifica con l'esperienza di Atene del
V secolo a.C., consiste nella possibilità di tutti gli aventi diritto al voto di partecipare in
maniera attiva e diretta (appunto) alla gestione della «cosa pubblica» in materia anche
legislativa ed amministrativa, senza la necessità di delegare la propria rappresentanza a
soggetti terzi. Questa forma, di probabile funzionalità ad un livello locale, ha lasciato
spazio, nel corso dei secoli, con l'evoluzione dei sistemi politici e del modello dello
Stato nazionale, alla democrazia rappresentativa (vedi Capitolo 1). Oggigiorno, con il
sistema in vigore, le uniche occasioni in cui i cittadini hanno modo di esprimersi
direttamente sono relegate, almeno in Italia, ai casi di referendum, alle leggi di iniziativa
popolare ed in occasione di elezione diretta del capo (esempio dei Sindaci negli Enti
Locali, ndr.), che sono in definitiva situazioni, seppur importanti e da non sottovalutare,
che risultano effimere perché danno un potere limitato, non continuativo, relegato
temporalmente ad occasioni prefissate e i cui risultati, talvolta, possono non venire
riconosciuti, oppure aggirati, dai governanti (come, in certi casi, alcuni referendum).
Si può ipotizzare dunque, che con l'utilizzo estensivo e diretto di Internet si possa
proporre una riedizione della polis greca, a livello virtuale, superando in questo modo le
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limitazioni spaziali che la fisicità di un incontro sincronico, necessario fino ad ora per
un confronto dialettico, non permetteva a dimensioni che andavano oltre una certa
soglia.
Ho già scritto di come i teorici abbiano, in maniera forse troppo frettolosa,
dichiarato concluso il sistema democratico fondato sulla preminenza dei partiti a
discapito di forme nuove, influenzate dalla televisione generalista e dallo sviluppo delle
comunicazioni di massa, manifestate nei modelli di leaderismo e populismo mediatico
incanalate in quella che è stata definita con il termine di «democrazia d'opinione»
(Manin 1996, Crouch 2003, Sintomer 2009).
Naturalmente il sistema partitico non è ancora del tutto superato. Le nuove
tecnologie della comunicazione non hanno realizzato lo scavalcamento, previsto, della
logica della rappresentanza verso la tanto declamata «democrazia diretta». Nella realtà
si è assistito a forme più «soft» di interazione tra la democrazia rappresentativa e le
modalità di partecipazione favorite dal web 2.0, modalità che mescolano la tecnologia a
metodi tradizionali già consolidati (Pittèri 2007). Non può essere negata, però, la
direzione che governi locali e nazionali hanno intrapreso per cercare di evitare il declino
inarrestabile della propria legittimità agli occhi dei cittadini, e la tecnologia riveste
senza dubbio un ruolo importante nelle politiche attuate in questo senso.
Una democrazia diretta tout court può sembrare un modello utopico
irraggiungibile, in certi casi (e da taluni) non auspicabile, ma tale modello è bene che
vada tenuto a mente ed usato come punto di riferimento per proseguire nell'analisi delle
nuove forme di partecipazione.
L'utilizzo della tecnologia e lo sviluppo di forme di e-government nello
svolgimento attuale della democrazia è imprescindibile e, in questo senso, non si
possono svincolare le due cose nella riflessione sulle «nuove democrazie». Il perché lo
si evince sia dalle caratteristiche insite in Internet e nei nuovi media, considerati dai più
come «strumenti democratici in sé» (ibidem), ma anche perché i due concetti
(democrazia e tecnologia), pur essendo dissimili e non coincidenti, presentano, allo
stato attuale delle cose, un legame inscindibile che li porta sempre più spesso ad essere
collegati. In altre parole, lo svolgimento delle funzioni democratiche non pare più
possibile senza l'uso delle nuove tecnologie.
37
3.1 La democraticità della rete
Per vedere, nel concreto, come i nuovi media hanno modificato il sistema
democratico è opportuno, in primis, soffermarsi sulle caratteristiche insite nella rete.
Vi è l'idea, diffusa come detto più sopra, che Internet (e tutto ciò che lo circonda)
abbia caratteristiche intrinsecamente democratiche. Pare cioè che sia sufficiente la sua
presenza per conferire maggior equità al sistema. Questo è in parte vero perché la rete,
con il suo essere «orizzontale», ha modificato le modalità di relazione e di interazione
tra le persone. La sua estensione e la sua struttura permettono, a livello teorico, un
decentramento fisico che scardina la logica della centralità del potere. Favorisce
l'accessibilità a dati e contenuti creando nuove gerarchie, non verticali, mutando le
tipologie di accesso al sapere e smaterializzando i centri decisionali (Pittèri 2007). Il
controllo e la gestione della conoscenza non è più riservato a «pochi» che diffondono
contenuti ed informazioni con unidirezionalità. Lo sviluppo di internet, inoltre, ha
permesso la trasformazione degli individui da pubblico passivo, abituato al flusso
televisivo, ad attori creativi e consapevoli, come auspicato da Crouch (2003) nella sua
riflessione sul superamento della deriva postdemocratica. Gli utenti sono così in grado
di produrre informazioni e condividerle, l'interattività favorisce nuovi processi di
apprendimento, l'ambiente diventa «performativo», cioè basato sulla ricerca e non
sull'acquisizione passiva di contenuti (Lievrouw 1994, Pittèri 2007).
Vengono rafforzate e migliorate, attraverso la rete, le quattro componenti
fondamentali che caratterizzano ogni sistema democratico: l'opinione pubblica diventa
più consapevole e matura; viene stimolata la partecipazione, non solo a livello di
ricerca, di conoscenza e di informazioni, ma anche, e soprattutto, come contributo
propositivo che si manifesta sotto forma di inclusione decisionale; viene favorito il
dibattito razionale, fondato su contenuti e non su sensazioni empatiche; infine, vi è un
rafforzamento della rappresentanza, risultato di una maggior trasparenza (Pittèri 2007).
Le caratteristiche evidenziate modificano inevitabilmente il sistema socio-politico
di riferimento e la democrazia, invasa dagli strumenti elettronici e dalle potenzialità che
essi offrono, muta sé stessa nella forma e nella sostanza.
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Secondo Bolognini basterebbero tre punti per descrivere i vantaggi delle forme
elettroniche di democrazia (2001).
Innanzitutto, la trasparenza. L'utilizzo del personal computer (tramite internet,
ovviamente) permette una maggior accessibilità ad atti pubblici e dati, per il
reperimento di informazioni utili da parte del cittadino/utente, che porta ad aprire verso
l'esterno l'apparato burocratico, visto da sempre come luogo buio e macchinoso.
In secondo luogo, i feedback. La possibilità di una comunicazione diretta
cittadino-amministratore favorisce il recepimento di stimoli ed indicazioni «di ritorno»
che permettono ai decisori una miglior comprensione di come vengono percepite le
proprie azioni dall'opinione pubblica, in maniera continuativa e non filtrata.
Infine, l'inclusività. La rete offre spazi di discussione, sotto forma di blog, forum
ed altro, aperti a chiunque voglia parteciparvi, senza discriminazioni e senza limiti
d'accesso (apparenti), con la possibilità di un confronto asincrono, che non richiede cioè
la simultaneità della presenza fisica.
Ma bastano, veramente, questi indicatori per poter affermare di essere in presenza
di un aumento di democrazia? Ancora: è solamente tramite questi strumenti che si riesce
a superare l'annoso deficit di democraticità che affligge il sistema?
Una più cauta riflessione può portare alla luce che non tutto ciò che riguarda la
rete è necessariamente equo, ci sono zone d'ombra che creano diseguaglianze sottili,
talvolta difficilmente avvertibili. Allo stesso tempo, anche l'apparente neutralità ed
imparzialità della democrazia diretta nasconde in sé la possibilità di degenerazioni
pericolose che portano a derive non-democratiche. Vediamo ora in che modo.
3.2 Sviluppi non democratici
Non tutto ciò che è tecnologico, e tantomeno ogni forma di novità, dev'essere per
forza di cose migliore. Musso (2007) parla in questo senso di «tecno-utopia» per
39
intendere la tendenza diffusa a pensare che l'evoluzione tecnica possa garantire un
cambiamento sociale in termini positivi e che Internet, espressione massima di questa
evoluzione, sia l'annunciatore di una «nuova epoca». Questo modo di pensare si
inserisce in una ideologia contemporanea della rete, definita dallo stesso autore con il
termine retiologia, che altro non è che un immaginario “che accompagna la propaganda
[…] e i discorsi visionari sul futuro della società in rete” (ibidem, p. 207). Ancora, con
le parole di Pierre Musso
“la retiologia è un'ideologia che si vuole utopica, un'utopia tecnologica, cioè
un'ideologia il cui referente si riduce al feticismo delle reti tecniche, in particolare
Internet e le reti tele-informatiche. Tecnolatria, «tecno-immaginario», «tecno-
messianismo», «tecno-utopia», sono tutti termini che designano questo feticismo
della rete tecnica che dovrebbe poter mettere in scena un nuovo Referente
invisibile, un «Dio nascosto» creatore di nuovi legami sociali, di nuove comunità o
addirittura di una nuova società. La retiologia, interamente centrata sulla
«rivoluzione della rete», tenta di riempire un vuoto simbolico e concettuale
sfruttando le figure antiche del tessuto sociale” (ibidem, p. 207).
Naturalmente, non è questo il caso di affrontare la critica di Musso ed analizzare il
suo pensiero. Il passo riportato ci permette, però, di cogliere come non vada data per
scontata la fiducia che si ripone nel paradigma tecnologico. Musso infatti, a torto o
ragione, attua una violenta demistificazione che può essere usata come antidoto ad una
visione «leggera» ed affascinata nei confronti dei new media. Possono non essere valide
le teorie che sottolineano ed enfatizzano la democraticità del cyberspazio (Lévy 1996),
la non-gerarchia data dall'orizzontalità, oppure la visone della rete come «antidoto
all'alienazione» (Ferguson 1981). Vanno prese in considerazione, allora, anche le ombre
che le tecnologie dell'informazione lasciano dietro a sé.
La distanza, infatti, tra un uso virtuoso degli strumenti tecnologici, che implica
cioè l'esistenza di utenti/attori (ed in quanto tali, consapevoli) e non di meri spettatori,
ed un abuso sregolato, oppure distorto, degli stessi è molto breve. L'utilizzo
indiscriminato e poco lungimirante della rete può facilmente portare alla ribalta
«tendenze neopopulistiche e plebiscitarie» (Pittèri 2007) che non differiscono di molto
dalle modalità di fruizione mediatica che ha accompagnato l'ascesa dei regimi totalitari
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in Europa nel Ventesimo secolo (Fascismo e Nazismo, ndr.).
Vi è un rovescio della medaglia delle tanto declamate trasparenza ed equità che
accompagnano lo sviluppo di Internet e della rete. “Le nuove tecnologie […] possono
determinare nuove concentrazioni di poteri, piuttosto che la loro diffusione. […]
Possono dar luogo a sistemi di controllo, piuttosto che favorire le libertà personali e
civili. Possono imporre nuove disuguaglianze, piuttosto che dissipare quelle esistenti.
Possono concentrare nelle mani di pochi il sapere e la conoscenza, piuttosto che
diffonderli” (ibidem, p. 14).
Non è vero, dunque, che le tecnologie dell'informazione sono, a priori, sempre
positive. La presenza sempre più invasiva dei media all'interno del dibattito politico e
nella vita stessa delle persone porta ad un cambiamento nella gerarchia delle priorità
quotidiane. Non si tratta certo di un fenomeno nuovo. L'immagine risulta avere più
importanza rispetto ai contenuti, l'apparenza prevale sulla sostanza, si è consolidata
l'idea che il successo possa essere più facilmente raggiungibile attraverso l'aspetto
esteriore e l'illusione di ciò che non si è realmente. Queste tendenze sociali, esplose
negli anni Settanta con l'intrusione della televisione nella quotidianità, si sono
consolidate nella prassi politica soprattutto con l'avvento di Silvio Berlusconi in Italia, a
metà degli anni Novanta, e con il caso emblematico di Pim Fortuyn nelle elezioni
politiche olandesi del 2002 (Crouch 2003). I due esempi citati sono i due casi di punta, i
più evidenti, di una nuova (ormai nemmeno tanto recente, se si pensa al declino della
fortuna politica berlusconiana) forma di populismo causato dalle degenerazioni della
democrazia d'opinione, sistema che vede nel contatto diretto leader-cittadino la sua
fortuna. Il populismo, infatti, più che essere una forma autonoma di governo rappresenta
una «patologia della democrazia» (Mény, Surel 2001, Pittèri 2007) che emerge in
assenza di un apparato partitico rappresentativo.
Se il populismo prevale grazie alle debolezze dei partiti, e se la tecnologia, con la
sua orizzontalità ed il suo essere diretta, porta ad uno scavalcamento delle
organizzazioni partitiche, allora si può presumere che l'avanzamento tecnologico e la
riproposizione di modelli di democrazia diretta favorisca, in questo caso, l'imporsi di
forme di leaderismo d'immagine e di azioni politiche sempre più plebiscitarie, cioè
fondate sulla scelta duale del si/no, piuttosto che su decisioni mediate dalla ragione. Il
prevalere di questo percorso riduce di gran lunga l'autonomia democratica di uno Stato e
41
favorisce la creazione di nuove concentrazioni di potere, legittimate soprattutto dalla
logica brutale della «tirannia della maggioranza» (Pittèri 2007). In un sistema
apparentemente democratico, la scelta delle priorità politiche effettuata sulla base di
votazioni libere, aperte ad un pubblico che può manifestare la propria libertà di scelta
solamente attraverso il binomio si/no, estremizza il dibattito pubblico cancellando ogni
forma di dissenso ed annullando la dignità delle minoranze, sulla base della regola
fondamentale di ogni sistema democratico: la maggioranza ha sempre ragione.
Prendendo in prestito le parole di Rodotà, si può affermare che la prima forma di
degenerazione di un sistema siffatto risulta essere questa: “Mentre si rivolge lo sguardo
ad Atene, la realtà di oggi pare spesso modellata piuttosto su una delle istituzioni di
Sparta. «Gli spartiati potevano esprimere la loro opinione solo per acclamazione»”
(Rodotà 1997, p. 6). Il confronto e la valutazione delle opinioni passano in secondo
piano quando le decisioni vengono prese da folle omogenee e de-personalizzanti che
esprimono le proprie posizioni battendo le mani, “un metodo che ricorda assai da vicino
l'applausometro delle trasmissioni televisive, più che le procedure che siamo abituati a
definire democratiche” (ibidem, p. 7). Viene distrutta in questo modo una democrazia
fondata sul logos a favore di una democrazia basata soprattutto sull'immagine (ibidem).
La seconda forma di deriva in cui tende a scivolare la Rete è data dal rischio, non
troppo remoto, della perdita di libertà in cui incorrono gli utenti al momento del loro
ingresso e nell'utilizzo degli strumenti tecnologici. Dall'utopia di Internet come
espressione massima di ogni libertà individuale, come territorio libero da vincoli e
votato alla massima apertura espressiva ci si è subito resi conto di quanto complicato ed
instabile sia l'equilibrio tra emancipazione e controllo, tra ciò che è lecito e ciò che
oltrepassa i limiti del consentito. Si è assistito, soprattutto negli ultimi anni, ad un
proliferare di “leggi a garanzia delle proprietà intellettuali e dei copyright” (Pittèri 2007,
p. 15) che hanno portato alla creazione di quello che oggi sembra un campo minato,
dove non si capisce bene dove poter camminare, piuttosto che uno spazio aperto e
incontaminato. Un campo che, oltretutto, supera la mera dimensione «virtuale» e si
(con)fonde, impattando, con la vita «reale», presentandosi come uno spazio fluido in cui
le categorie di pubblico e privato vanno a perdere consistenza diventando un tutt'uno, un
continuum indefinito, che modifica la stessa concezione di privacy e di sfera
individuale.
42
La questione non riguarda solamente Internet e la navigazione online. “Ciò che
emerge come fatto nuovo nell'era digitale è che il cittadino, mediante l'uso del telefono,
le tracce lasciate dal semplice portarsi dietro un cellulare acceso, all'impiego del
bancomat e carte di credito, al telepass autostradale o alla carta di identità elettronica,
alla richiesta di programmi con la Tv digitale o l'utilizzo del satellite come sistema
d'allarme e protezione, non ha più il controllo delle informazioni che rilascia
nell'ambiente, per non parlare delle sue escursioni in Rete. Allora il tema si articola non
solo nella dimensione della «riservatezza», ma anche nella possibilità del «controllo» di
chi possiede i suoi dati e di quale uso ne faccia” (Iorio 2008, p. 59).
Il rischio insito in una «vita digitale» fa riferimento, allora, ad una possibile deriva
in quello che Pittèri definisce come lo scenario Grande Fratello, ovvero la situazione in
cui le tecnologie sono controllate a livello centrale, da uno Stato autoritario. Sempre con
le parole di Pittèri, uno Stato in cui “si prospetta un'apparenza di libertà e di democrazia
determinate proprio dalla possibilità offerta dalle tecnologie, per cui accedere a
molteplici fonti informative, instaurare relazioni con altri, interloquire anche con le
istituzioni attraverso un livello elementare di servizi è funzionale esclusivamente a
determinare una situazione estesa di controllo, di violazioni della privacy e di
limitazione delle libertà personali” (Pittèri 2007, p. 20). Per evitare una situazione da
Panopticon è necessario porre, in questo senso, delle regole che difendano l'autonomia e
la dignità dei cittadini perché il liberismo sfrenato e l'autoregolamentazione da sole non
bastano per una tutela adeguata degli users. Rodotà, in merito, afferma che è urgente
definire al più presto Internet come spazio costituzionale (Rodotà 2004, Pittèri 2007) in
modo da garantire gli stessi diritti (ma anche doveri) goduti nella vita reale,
estendendoli anche al mondo virtuale.
Tale tutela costituzionale non si limita, però, solamente alle modalità di
trattamento di dati sensibili o al rispetto della privacy ma, anzi, risulta fondamentale
anche per un altro nodo cruciale della questione che riguarda il deficit di equità in cui si
trova la Rete. Per rendere effettivo il concetto di eguaglianza è necessario
costituzionalizzare e rendere inalienabile il diritto di accesso (Rodotà 2011). L'esistenza
della rete dà luogo infatti alla nascita di nuove forme di disuguaglianza che devono
essere affrontate e superate a livello politico e sociale. Quando si affronta la tematica
dell'accesso a Internet ci si trova d'innanzi ad una duplice forma di discriminazione. Da
43
una parte vi è la questione dell'analfabetismo digitale, che in Italia, ad esempio, tocca
circa il 40% della popolazione (Luna 2012), riguardante tutti coloro i quali per una serie
svariata di motivi, non ultimi economici o culturali, non hanno le capacità e le
conoscenze per poter usufruire in maniera adeguata del personal computer collegato in
Rete (il non-collegamento in zone coperte dalla Rete viene definito da Luna come
«digital divide volontario»). Dall'altra parte vi è un problema di infrastrutture e di
copertura del segnale che non permette, ad esempio in Italia, a circa il 6% della
popolazione (ibidem) di poter collegarsi pur avendone le capacità.
Si tratta di una doppia forma di esclusione dalla vita digitale che va tenuta in
considerazione, e risolta, se si vogliono sviluppare nuove forme di partecipazione e
portare il dibattito politico in Rete. Escludere a priori ben determinati segmenti di
società è quanto di più lontano da un ideale democratico ci possa essere. Il digital
divide, in questo senso, deve essere necessariamente ridotto e superato perché “la
democrazia elettronica non può riguardare solo una parte privilegiata della popolazione”
(Bolognini 2001, p. 37). Questo è un ulteriore segnale di quanto non vada data per
scontata la presunta democraticità insita nelle nuove tecnologie dell'informazione. I
nuovi media non hanno, di per sé, caratteristiche emancipanti (Pittèri 2007) ma i
risultati, visti come incremento della partecipazione, aumento di democrazia, maggior
trasparenza e via dicendo, dipendono fortemente dall'uso virtuoso che istituzioni e
cittadini sapranno farne.
Per concludere, sempre con le parole di Pittèri, “l'impianto tecnologico e teorico
su cui basa la società digitale sembra soffrire, allora, degli stessi limiti che viziano le
società fondate su sistemi democratici tradizionali” (ibidem, p. 18). Vanno tenuti,
dunque, in seria considerazione tutta una serie di limiti e di rischi che Rodotà sintetizza
in quelli che definisce «i sette peccati dell'era digitale»: 1) diseguaglianza; 2)
sfruttamento commerciale e abusi informativi; 3) rischi per la privacy; 4)
disintegrazione delle comunità; 5) plebisciti istantanei e dissoluzione della democrazia;
6) tirannia di chi controlla gli accessi; 7) perdita del valore del servizio pubblico e della
responsabilità sociale (Rodotà 2007).
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3.3 E-democracy, e-government e open government
Dopo aver analizzato, anche se in maniera rapida, le qualità positive e le derive
non democratiche emergenti da una riflessione più attenta sulle caratteristiche della
Rete, entro ora nel merito e tento di approfondire il concetto di e-democracy, già
accennato e preso in considerazione ad inizio Capitolo, e le modalità di gestione open
che stanno caratterizzando le recenti tendenze dei governi locali e nazionali.
Abbiamo già visto come, con la democrazia elettronica, vengano coniugate
assieme lo svolgimento delle attività democratiche con l'evoluzione tecnologica in atto.
In particolar modo, Pittèri definisce questo processo come la “modalità di utilizzo delle
nuove tecnologie della comunicazione per promuovere e sostenere la partecipazione dei
cittadini nei processi decisionali, lungo tutto l'arco temporale del loro determinarsi, in
un ambito chiaramente definibile, quindi riferibile a una comunità amministrativamente
e geograficamente delimitata e circoscrivibile” (Pittèri 2007, p. 76). Vengono prese in
considerazione, quindi, la delimitazione geografica che riguarda tali processi, la
caratteristica di continuità degli stessi ed, in particolar modo, viene enfatizzato il
carattere partecipativo che con essi si vuole raggiungere.
In precedenza, abbiamo anche visto come strettamente legati tra loro siano il
concetto di e-democracy e le forme democratiche dirette che risultano dall'utilizzo delle
tecnologie dell'informazione. A questo punto è d'obbligo un chiarimento. Vi può essere,
infatti, confusione e smarrimento quando si parla o si legge di «democrazia diretta» ed
e-democracy. I due termini non sono assolutamente (ma questo è chiaro) sinonimi e,
dunque, non vanno confusi, anche se per loro natura e struttura si trovano ad essere
interconnessi e, molto spesso, sovrapponibili. Il primo, a ben vedere, può essere
considerato come la base teorica da cui muove lo sviluppo della democrazia elettronica.
Questa invece, nel suo evolversi, fornisce le competenze tecniche che permettono la
realizzazione effettiva del modello teorico diretto ed il conseguente superamento della
logica della rappresentanza. La e-democracy, però, non si spiega e si esaurisce
solamente con la formula della democrazia diretta e, tantomeno, si riduce ad un mero
strumento al servizio di quest'ultima. Anche se è evidente come l'uso delle nuove
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tecnologie indirizzi il sistema verso forme decisionali dirette e non mediate. Allo stesso
modo non tutte le forme di democrazia diretta sono riconducibili, e riducibili, alla
democrazia elettronica anche se quest'ultima pare, effettivamente, l'unico modello
fin'ora plausibile per la realizzazione di un sistema non-rappresentativo che oltrepassi la
soglia del locale, o quantomeno di limiti fisici «naturalmente» invalicabili, e che faciliti
la partecipazione attiva e continua dei cittadini.
Quello che, comunque, emerge dalle principali esperienze di democrazia
elettronica, di cui si dispone in letteratura, è la dimensione «verticale» che essa assume
nel momento in cui si concretizza (Pittèri 2007), uscendo dalla formulazione teorica.
Una verticalità condizionata dalla presenza indiscussa delle istituzioni, in fase di
promozione, regolazione e attuazione (ibidem), che tendono ad incanalare le spinte
provenienti dal basso in forme partecipative rigide e prestabilite.
Lo scenario che viene così a formarsi non è il superamento tout court delle
strutture democratiche rappresentative per mezzo degli strumenti tecnologici, ma
piuttosto l'inizio di un percorso che, partendo dalla forma di e-government – che come
definito da Bolognini (2001) consiste ne “l'utilizzo delle infrastrutture telematiche per
migliorare il coordinamento e l'efficienza operativa della pubblica amministrazione”
(ibidem, p. 34), porta ad una sorta di «governance territoriale» (Pittèri 2007), dove i
cittadini non solo usufruiscono di servizi telematici ma, attraverso gli stessi, giungono a
definire le priorità politiche e partecipano alle decisioni pubbliche, sempre però
accompagnati dall'inamovibilità dell'istituzione. In altre parole, la e-democracy, per
quanto utopica e rivoluzionaria possa presentarsi, non astrae la struttura istituzionale ma
bensì la implementa cercando di fornirle nuova legittimità.
Pittèri identifica, così, cinque modelli di democrazia elettronica, che esauriscono
in maniera adeguata “la quasi totalità delle dimensioni significate dal concetto esteso di
e-democracy” ma che raramente si ha avuto la possibilità di poterli osservare attuati
“contestualmente e simultaneamente in un medesimo ambito” (ibidem, p. 77).
I cinque modelli sono così articolati:
L'e-government riguarda soprattutto l'aspetto amministrativo ed in particolar
modo l'organizzazione dei processi, interni ed esterni, che portano all'attuazione di un
approccio manageriale dell'ente. Prevede, altresì, la trasformazione della cittadinanza in
46
utenza. È, in definitiva, “il processo di informatizzazione della pubblica
amministrazione che […] consente di razionalizzare e ottimizzare il lavoro degli enti e
di offrire a cittadini e imprese i servizi tradizionali in maniera più rapida e innovativa”
(ibidem, p. 77).
La e-democracy amministrativa prevede una democratizzazione maggiore
dell'ente rispetto all'e-government, superando, con l'aiuto della tecnologia, il «principio
di segretezza» caratterizzante le pubbliche amministrazioni. La maggior trasparenza e la
possibilità di ricezione continua di feedback hanno fatto in modo di produrre un
cambiamento di mentalità organizzativa favorendo un dialogo e un'apertura maggiore
nei confronti dei cittadini.
La e-democracy consultiva consiste, in maniera intuitiva, nell'attività di
consultazione dei cittadini in merito a precise tematiche ed in circoscritti momenti
decisionali. “Si tratta di una forma di e-democracy che mantiene il cittadino ancorato a
una posizione di subalternità relativamente ai processi decisionali della politica”, dove
le nuove tecnologie vengono utilizzate “in maniera per lo più massmediatica, one to
many, per cui il risultato atteso dal processo comunicativo è un feedback rigido a
opzioni predeterminate e non modificabili” (ibidem, pp. 79-80). Le priorità e gli
argomenti vengono determinati dall'istituzione, ma questa modalità ha il pregio di
estendere i processi inclusivi coinvolgendo i residenti privi di diritti politici, e non
solamente i cittadini, cioè “aprendo e ampliando l'ascolto a fasce di popolazione e a
gruppi sociali (immigrati regolari, ma privi di cittadinanza; city users; pendolari)
normalmente esclusi dai processi decisionali e amministrativi di un determinato
territorio” (ibidem, p. 80).
La e-democracy partecipativa, invece, prende in considerazione l'uso delle
tecnologie per attuare una partecipazione attiva in modo da inserire il cittadino nei
processi di policy making posizionandolo, almeno a livello teorico, su un piano di parità
con le istituzioni. È un modello ambizioso e «utopico», che a conti fatti “si è quasi
sempre risolto ed esaurito in processi di trasparenza istituzionale e di «ascolto soft»”
(ibidem, p. 80).
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La e-democracy deliberativa, infine, “individua nelle dinamiche discorsive e di
confronto la modalità imprescindibile secondo cui la partecipazione si attua” (ibidem, p.
81) realizzando il percorso teorizzato da Habermas attraverso l'uso dei new media e gli
strumenti messi a disposizione dal web 2.0. Non viene implicata solamente la
partecipazione attiva della cittadinanza ma, in questo caso, è la capacità di produrre
soluzioni condivise a discriminare la validità del processo (si veda, in merito, la
differenza tra democrazia partecipativa e democrazia deliberativa già affrontata al
paragrafo 2.1).
A questo punto, visti i modelli teorici di Pittèri, risulta più semplice definire la
tendenza attuale verso cui muovono le amministrazioni pubbliche come un aumento del
livello di apertura (openness), grazie all'influenza e all'utilizzo incrementale delle nuove
tecnologie. Questa evoluzione del sistema viene individuata e sintetizzata con il termine
di open government (open gov, per semplificare), in italiano semplicemente «governo
aperto». Che cosa sia l'open gov non è di difficile interpretazione. Indica soprattutto un
aumento di trasparenza e condivisione delle attività di governo attraverso i social media
e il web 2.0 ed un miglioramento qualitativo della partecipazione dei cittadini.
Due concetti connotano in particolar modo questa forma di governo che sta
prendendo piede nelle pubbliche amministrazioni, soprattutto di tradizione anglosassone
(in particolare USA, Canada e Australia), ed ora anche europee.
Il primo concetto è l'apertura, vista come nuova modalità di relazione tra Ente
pubblico e cittadino. L'amministrazione non è più concepita come un apparato
burocratico rigido ed unidirezionale ma viene prevista, altresì, una bidirezionalità delle
forme relazionali che comporta la condivisione di scelte, di decisioni e di processi,
mediati essenzialmente dai nuovi strumenti digitali.
L'altro concetto discriminante è, come già accennato, la trasparenza. Essa è
stabilita in base al grado di accessibilità che risultano avere i dati e le informazioni di
valenza pubblica. Questa disponibilità di informazioni permette, per un verso, un'azione
di controllo dell'ente da parte del cittadino, sulla base di dati concreti e risultati tangibili,
e, d'altro canto, viene data la possibilità agli stessi cittadini o ad enti privati di
sviluppare valore aggiunto e ricchezza, attraverso il riutilizzo dei dati in maniera
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creativa, oppure di trovare soluzioni alternative ai problemi emergenti (civic hacking).
Le pratiche di civic hacking non sono ancora state «istituzionalizzate» dalla letteratura
scientifica. Si trovano tracce e definizioni in alcuni blog e siti internet. I civic hacker
sono, come definiti da Ben Campbell, «citizens developing their own applications
which give people simple, tangible benefits in the civic and community aspects of their
lives» (fonte http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/10/03/civic-hacking-i-ladri-della-rete-
a-fin-di-bene/161705/). In altre parole il civic hacking raggruppa pratiche di utilizzo di
dati già resi disponibili, che vengono utilizzati in maniera talvolta alternativa rispetto a
quella prevista dall'istituzione, e favoriscono un miglioramento qualitativo della vita ed
una fruibilità maggiore degli stessi dati.
Tutto questo è reso disponibile solamente dalle procedure di open data (dati
aperti). Non si tratta d'altro che della pubblicazione dei dati di valenza pubblica, resi
disponibili senza restrizione ed in forma assolutamente gratuita, in formato leggibile, e
forniti sulla base delle esperienze amministrative di open government. Dal sito inglese
di Wikipedia si legge che «Open data is the idea that certain data should be freely
available to everyone». Dunque viene reso esplicito che si tratta di un'idea, una filosofia
di fornitura, accessibilità ed usabilità dei dati. Si pensa, in questo senso, che i dati
andrebbero trattati come «beni comuni» in quanto prodotti dalla pubblica
amministrazione, risultato dell'utilizzo di fondi pubblici e quindi di diritto appartenenti
alla comunità.
È recente la delibera del Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, riguardante
l'Open government e l'open data (dicembre 2009), in cui viene ufficializzata la svolta
politica intrapresa dall'amministrazione americana, mentre nel maggio dello stesso anno
il responsabile dell'amministrazione pubblica statunitense, il CIO (Chief Information
Officer) Vivek Kundra, lanciava il sito internet Data.gov in cui sono raccolte tutte le
informazioni rese disponibili dagli enti pubblici americani con un obiettivo ben definito:
«A primary goal of Data.gov is to improve access to Federal data and expand
creative use of those data beyond the walls of government by encouraging
innovative ideas (e.g., web applications). Data.gov strives to make government
more transparent and is committed to creating an unprecedented level of openness
in Government. The openness derived from Data.gov will strengthen our Nation's
49
democracy and promote efficiency and effectiveness in Government»
(http://www.data.gov/about).
In Italia, sulla falsa riga dell'esperienza statunitense, viene messo online, il 18
ottobre 2011, il sito internet dati.gov.it che riunisce tutte le esperienze di open data
delle Amministrazioni locali e degli Enti pubblici sul territorio nazionale. Tra i vari enti
inseriti vi trova spazio anche il Comune di Udine (www.comune.udine.it), sul quale
spiegherò in maniera più approfondita nella seconda parte del presente lavoro.
Riassumendo, si può affermare che l'Open gov è una concezione e, allo stesso
tempo, una forma di governance che si sposa e coincide con le teorie della e-democracy.
Rappresenta, infatti, un'evoluzione del concetto di e-government, indicante solamente
un ammodernamento amministrativo. Con l'Open government, invece, siamo in
presenza di una nuova idea di amministrare il territorio ed i cittadini. Anzi, pare più
corretto asserire che si è in presenza di un nuovo modo di amministrare con il territorio
e con i cittadini, utilizzando le potenzialità offerte da Internet e dalle nuove tecnologie
dell'informazione, fornendo più trasparenza all'attività burocratica, certezza dei risultati,
soluzioni condivise e legittimate ed, in sintesi, offrendo una versione di «Democrazia
più democratica» rispetto a quella attuale (questo rientra tra gli obiettivi di carattere
politico dei processi partecipativi, vedi paragrafo 2.3). Riccardo Luna, in un articolo su
la Repubblica, prova a tradurre, infatti, il termine open gov con il concetto di
democrazia aumentata (Luna 2011a), richiamando con esso, in un certo senso, l'idea di
realtà aumentata, con la quale si fa riferimento alla modificazione della quotidianità resa
tale delle nuove applicazioni digitali, ed allo stesso tempo affermando come, con queste
pratiche, si ottenga una democrazia più “forte, più credibile, più efficiente” (ibidem).
La riflessione sulla e-democracy lascia però spazio anche ad una serie di punti
critici (Pittèri 2007) ed è su questi che voglio soffermarmi nell'ultima parte del
paragrafo.
Innanzitutto vi è una sorta di «determinismo tecnologico» (ibidem), alla base delle
teorizzazioni fin qui affrontate, “secondo cui le tecnologie sono capaci di operare
cambiamento a prescindere dai contesti e dagli ambiti in cui operano” (ibidem, p. 82)
per cui è sufficiente una loro immissione, in un qualsiasi contesto, per creare
50
conseguenze virtuose, dal punto di vista della partecipazione, del confronto e della
trasparenza. In altre parole, riguarda la presunzione nel conferire un carattere di
«universalità» alle esperienze di e-democracy. Si pensa infatti che la democrazia
elettronica abbia un'applicabilità “assolutamente valida sia per migliorare e integrare i
processi partecipativi e la qualità democratica in Stati democraticamente consolidati sia
per favorire e stimolare processi democratici laddove non esistono” (ibidem, p. 82).
Questo punto di vista porta in auge un doppio livello di distorsione, secondo Pittèri.
Infatti, vi si può riscontrare una visione «etnocentrica», da un lato, ed un aspetto
«colonialista», dall'altro (ibidem). La prima distorsione è dovuta al fatto che i modelli di
democrazia elettronica si fondano sul concetto di, e sono l'evoluzione della, democrazia
occidentale, risultante dall'esito di due guerre “mondiali” e sviluppatasi in un contesto
sociopolitico e culturale ben definito. Il secondo punto di vista, invece, colonialista, non
è molto difforme dal pensiero che ha accompagnato la storia degli Stati nazionali
europei a partire dal 1500, e durante tutta l'Epoca moderna, come espansione ed
imposizione del proprio status quo, che in questo caso si traduce con l'imposizione di
tecniche e modelli applicativi per sviluppare forme di governo di matrice anglo-europea
in contesti completamente difformi.
Una seconda forma di criticità viene individuata da Pittèri nella «struttura a
progressività lineare» (ibidem) che caratterizza tali processi. Viene dato per scontato, in
questo caso, che solamente grazie al mero utilizzo delle nuove tecnologie si possa creare
maggiore democraticità del sistema. Ovvero, che il passaggio da forme di governo
elettronico a forme di e-democracy avvenga per vie «naturali», come evoluzione certa
del sistema, senza la necessità di inserimento e di controllo di altre variabili. C'è il
rischio di credere, infatti, che “il grado di democraticità cresce via via che si ricorre a
determinate tecnologie, per cui i processi di e-democracy si configurano solo come
successione di fasi tecnologicamente successive a prescindere dalle modalità di
relazione e di inclusione” (ibidem, p. 83). Le tecnologie, abbiamo già avuto modo di
vedere, non sono «democratiche in sé» ma il processo democratico e il loro utilizzo
vanno accompagnati da un accrescimento della consapevolezza delle istituzioni e
dell'utenza, nell'ottica di una maggior partecipazione attiva e di condivisione dei fini.
51
3.4 La «democrazia continua»
A questo punto, preso atto delle evoluzioni tecnologiche che accompagnano e
condizionano le riflessioni sui mutamenti democratici, vorrei soffermarmi su
un'ulteriore considerazione. Le attuali tecnologie dell'informazione offrono la possibilità
per uno sviluppo di una forma di democrazia che si presenta ai nostri occhi con
caratteristiche nuove e diverse rispetto a quanto siamo stati abituati fin'ora.
Vi sono, e da parecchi anni ormai, i segnali di un modello nuovo che sta
prendendo piede. Già nel 1997 Rodotà definiva questo modello con il termine di
«democrazia continua».
La democrazia in cui ci riscopriamo a vivere negli anni Duemila non è altro che
una sorta di confronto/conflitto dialettico tra le forme democratiche rappresentative,
legittimate costituzionalmente ma in crisi di credibilità, ed una riproposizione in termini
tecnologici della democratica diretta, non ancora bene definita nelle sue forme e con
alcune significative incongruenze. Una tra tutte il pericolo incombente di derive
plebiscitarie che le nuove tecnologie portano con sé, e che abbiamo già visto non essere
troppo remote (paragrafo 3.2).
La democrazia continua, in questo senso, non è riconducibile alle due forme
tradizionali, e tantomeno ad una semplice somma delle stesse. A differenza della prima
(rappresentativa) essa fornisce strumenti e modalità d'azione che non necessitano di
alcuna mediazione di soggetti terzi e, diversamente dal modello diretto, non fa
riferimento solamente al momento finale, quello in cui viene presa la decisione, ma
coinvolge il processo nella sua interezza (Rodotà 1997). Le tecnologie
dell'informazione, dunque, creano le condizioni per “consentire un passaggio da forme
partecipative intermittenti (le scadenze elettorali, i referendum) a forme di
partecipazione continua, affidate anche all'iniziativa della cittadinanza e non solo a
quella delle istituzioni” (Pittèri 2007, p. 49).
La continuità non è, però, riconducibile solamente ad un aspetto temporale. Le
nuove tecnologie permettono, allo stesso tempo, un annullamento delle distanze
“aprendo la prospettiva di una face-to-face democracy senza più confini” (Rodotà 2007,
52
p. 80) in un continuum spazio-temporale nel quale viene a crearsi una nuova dimensione
dell'agire politico e della costruzione della cittadinanza (ibidem).
In tale contesto, assumono un significato particolare i contenuti che vengono
messi online e resi disponibili dal nuovo sistema mediatico. L'informazione è la materia
prima più importante della società attuale, afferma Rodotà, ed in questo senso l'accesso
ad essa deve essere inteso come un diritto universale. L'Unione Europea in merito, con
la Direttiva 2003/98/CE, ha definito la normativa in materia di riutilizzo
dell'informazione del settore pubblico ed i criteri di tariffazione. In Itala l'attuazione
della direttiva è avvenuta tramite il Decreto legislativo 36/2006 del 24 gennaio. La
democraticità del sistema si valuterà, d'ora in poi, in base alla qualità ed alla facilità di
reperimento delle informazioni utili da parte dei cittadini.
Solamente rispettando i parametri di apertura e trasparenza si può dare il via ad
una “evoluzione della società dell'informazione in società della conoscenza” (ibidem, p.
110) dove per conoscenza si vuole intendere la capacità di usufruire in maniera adeguata
delle informazioni presenti in rete. Società che corre però il rischio, a questo punto, di
una nuova stratificazione, tra haves e haves nots, ovvero tra il cittadino che ha
disponibilità e capacità di accesso alla rete e chi di queste possibilità ne è privo.
Peter Glotz, in tal senso, descrive la situazione attuale definendo la la società
come una «società dei due terzi», cioè una società in cui non più del 65% della
popolazione risulta essere connesso. Tralasciando l'argomento del digital divide già
precedentemente affrontato, mi voglio soffermare ancora una volta sul peso che la
tecnologia ha nel contesto attuale.
Una società della conoscenza, così come definita, ha senso solo se la tecnologia
non viene usata come strumento per ottenere consenso su soluzioni già definite ma se si
manifesta la volontà di “servirsene come via per cogliere nella sua pienezza la realtà
sociale e dare voce a tutti quelli che la abitano” (ibidem, p. 103). Viene ripreso, così, il
concetto di partecipazione attiva dei cittadini, impegnati nella creazione di uno spazio
comune in cui le decisioni vengono prese e condivise dalla totalità degli interessati, in
un processo anch'esso condiviso ed aperto al contributo di tutti.
La tecnologia serve allora per ricreare quei «luoghi continui della politica» che
prima erano rappresentati dai partiti di massa e dai sindacato, svaniti sotto l'insistente
avanzamento dell'individualismo contemporaneo. “Ad una società lontana dai luoghi
53
canonici della rappresentanza, sempre più impoveriti, viene additata la via della
possibilità di tornare a partecipare a scelte comuni. […] Lo sforzo è quello di collocare
in una dimensione collettiva le opportunità offerte ai singoli dalle nuove tecnologie”
(ibidem, p. 110).
Se le opportunità si declinano in possibilità di informarsi, di esprimere le proprie
opinioni, di confrontarsi con altri e modificare le proprie posizioni, il tutto in una
dimensione non vincolata da limitazioni spazio-temporali, allora si è in presenza di una
riproposizione digitale delle forme di democrazia deliberativa auspicate da Habermas.
Lo spazio elettronico diventa un luogo comunitario dov'è possibile svolgere le funzioni
democratiche. Una democrazia che però risulta essere «difficile» (Rodotà 1997, Pittèri
2007), che richiede cioè impegno e sforzi cognitivi da parte dei partecipanti, ma che,
allo stesso tempo, rappresenta l'unica soluzione per evitare uno scivolamento verso
forme organizzative «facili», che fanno da viatico a pericolose derive populiste e
plebiscitarie.
La liberazione da vincoli fisici, la sua a-spazialità e a-temporalità non comportano
necessariamente una maggior rapidità nell'assunzione delle decisioni, una semplicità o
leggerezza delle scelte, ma bensì crea le condizioni per una possibilità di riflessione
maggiore. Va evitata, e ci sono le condizioni per farlo, una transazione verso una
democrazia «per acclamazione», che si limita a prendere per buone o rifiutare decisioni
già prese altrove (Rodotà 1997).
In definitiva, le nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione, oltre a
modificare la struttura amministrativa degli enti creando i presupposti per una
evoluzione elettronica nella gestione della cosa pubblica (paragrafo 3.3), forniscono la
chiave per un cambiamento radicale della democrazia che, diventando «continua»,
prevarica le forme tradizionali e costruisce un nuovo spazio politico e nuove condizioni
per la cittadinanza.
54
Parte seconda
Il caso della città di Udine
56
4. Considerazioni iniziali
Il caso che ho deciso di prendere in considerazione, per un'analisi più
approfondita e per cercare di applicare la dissertazione teorica fin qui affrontata,
riguarda il Comune di Udine. La mia scelta è ricaduta su questo Ente a partire dalla
lettura di un articolo apparso su La Repubblica del 7 novembre 2011 dal titolo “WEB,
democrazia aumentata da Firenze a Udine” (Luna 2011) in cui viene fatto riferimento
alle esperienze virtuose di open government che si stanno sviluppando in Italia,
asserendo appunto che i comuni di Firenze, Udine e Trieste saranno i primi ad adottare
(nel corso del 2012) openmunicipio, un progetto realizzato dall'associazione Openpolis
(www.openpolis.it) che prevede un monitoraggio dell'attività amministrativa in ottica di
una maggior trasparenza ed apertura verso i cittadini (vedremo più avanti nel dettaglio
di che cosa si tratta).
Vedremo dunque, in questa parte di elaborato, come e con quali mezzi il Comune
di Udine ha cercato, nel corso degli ultimi due anni, di aprirsi ai propri cittadini, quali
progetti sono stati avanzati e quali risultati sono stati ottenuti. Premetto sin d'ora che il
breve ciclo di vita del caso in oggetto non permette un'analisi approfondita dei risultati.
Per una valutazione più accurata degli output sono necessari dati che non sono ancora a
disposizione, e trarre conclusioni affrettate potrebbe essere fuorviante. Ritengo
comunque importante tentare un approccio, riferendomi soprattutto alle volontà di
partenza ed alle tipologie di intervento che sono state effettuate.
Prenderò come punto di riferimento un'intervista rilasciata dall'Assessore all'e-
government e all'innovazione del Comune di Udine, prof. Paolo Coppola, assieme ai
dati forniti e rintracciabili sul sito istituzionale della Città (www.comune.udine.it) e dal
blog dell'allora candidato (ed ora) Sindaco, prof. Furio Honsell (www.furiohonsell.it).
57
5. Alcuni dati
La città di Udine è situata al centro del Friuli Venezia Giulia, è la seconda città
della regione per dimensioni ed è capoluogo dell'omonima provincia. Il comune conta
una popolazione residente di 99.627 abitanti (dati ISTAT al 1/1/2011) ed è suddiviso al
proprio interno in sette circoscrizioni. Se si considera il territorio in cui è inserito può
essere considerato (e va considerato tale) il centro di un sistema urbano più ampio,
denominato SUU (Sistema urbano udinese), che comprende i Comuni di Pradamano,
Remanzacco, Povoletto, Reana del Roiale, Tricesimo, Tavagnacco, Pagnacco,
Martignacco, Pasian di Prato, Campoformido, Pozzuolo del Friuli e Pavia di Udine,
andando così a formare un'area insediativa di circa 180.000 persone che impegna
un'area con una superficie di 311,98 km². L'hinterland va tenuto in ampia
considerazione perché, vedremo in seguito, le iniziative partecipative non coinvolgono
solamente i cittadini elettori, già teoricamente rappresentati in consiglio comunale, ma
danno ampie possibilità di inclusione anche a chi (pendolari, stranieri, non residenti,
cittadini dell'hinterland) solitamente non ha la possibilità di essere ascoltato.
Tornando, e limitandoci per ora, al solo territorio comunale per un piccolo
accenno demografico, i dati a disposizione evidenziano come, dal 2003 ad oggi, vi sia
stato un incremento della popolazione di 3.691 unità, con un tasso di variazione del +
3,8%. Suddividendo i cittadini in quattro fasce d'età si può notare come vi sia un
notevole aumento della componente giovanile (da 0 a 17 anni, + 12,4%), un calo
drastico della seconda fascia 18-35 (- 10,3%), ed un tendenziale aumento delle ultime
due, quella della componente adulta e gli over 60 (rispettivamente + 5,6% e + 8,7%)
(vedi Tab. 1). In termini assoluti, le ultime due categorie contano oltre il 60% del totale
degli abitanti.
58
In tale contesto la presenza straniera è da tenere in alta considerazione,
rappresentando il 13,5% della popolazione attuale (dati ISTAT 2011), e vedendo un
tasso di variazione, nello stesso arco temporale 2003-2011, del 155,5%, con un
incremento in termini assoluti di 8.204 unità.
Tab.1 - Popolazione residente
01/01/03 01/01/11 variazione tasso di var.
0-17 12462 14011 1549 12,4%
18-35 21322 19126 -2196 -10,3%
36-60 34725 36673 1948 5,6%
> 60 27427 29817 2390 8,7%
Tot. 95936 99627 3691 3,8%
In sintonia con l'andamento nazionale, il saldo naturale (relativo al solo anno
2011) risulta essere negativo (- 256) mentre il saldo migratorio (stesso anno) è di + 444
persone.
Con i dati a disposizione, e ad un rapido sguardo, si può vedere come la
popolazione residente sia tendenzialmente anziana, ed in tendenziale aumento, e come
la componente straniera abbia un peso fondamentale nell'«economia» demografica
cittadina. Il tasso di variazione di quest'ultima fa ipotizzare come nel prossimo futuro
questa categoria sarà sempre più presente nel tessuto comunitario, raggiungendo
percentuali sul totale dei residenti sempre più elevate. In un tale contesto, il rispetto dei
diritti politici e di rappresentanza sarà sempre più importante, soprattutto per coloro i
quali non possono essere rappresentati con le modalità istituzionali tradizionali.
Un'ultimo dato che voglio mettere a disposizione riguarda il livello di
partecipazione elettorale. Alle elezioni comunali 2008, al primo turno (13-14 aprile) si
sono presentati ai seggi 62.048 persone, su un totale di 80.267 aventi diritto, pari al
77,3% (fonte www.regione.fvg.it). Un numero non sicuramente elevatissimo, ma che
denota comunque un interesse diffuso per quanto riguarda la vita politico-
amministrativa della comunità.
59
6. L'esperienza partecipativa di Udine
6.1 Il progetto
I cittadini di Udine si trovano a dover eleggere il nuovo Sindaco nell'aprile del
2008, dopo dieci anni di amministrazione Cecotti (lega nord, liste civiche, centro-
sinistra). La competizione elettorale vede presenti, tra gli altri, Furio Honsell, candidato
del centro-sinistra supportato da Pd, Sel, Idv e liste cittadine, ed Enzo Cainero,
appoggiato da Pdl, Lega Nord, Udc e civiche, i quali si affrontano successivamente al
secondo turno. Al ballottaggio, i cittadini udinesi scelgono il programma innovatore del
candidato del centro-sinistra, preferendolo all'avversario, con il 52,76% di preferenze,
pari a 24.907 voti.
Il Sindaco Honsell, nel programma presentato agli elettori (scaricabile dal blog
www.furiohonsell.it alla pagina programma), enfatizza i concetti di «innovazione» e
«partecipazione» sottolineando in più passaggi come queste due componenti siano
fondamentali nella costruzione di una città moderna e all'avanguardia. Citando alcuni
passaggi, si legge:
“Sono numerose […] le linee programmatiche principali lungo le quali
realizzare l’innovazione, che non deve essere solo incrementale, ma radicale: si
deve innovare il metodo di governo. Questo deve essere il risultato di un processo
di dialogo, fatto di proposte e di ascolto, e di condivisione con le componenti
cittadine, i comuni del SUU, attraverso incontri periodici”
(http://www.furiohonsell.it/attachments/article/2/linee_programmatiche_sindaco.pdf);
ancora, andando avanti:
60
“Numerose sono le reti da realizzare, sia tecnologiche che virtuali. In primo
luogo quella digitale, indispensabile per diffondere la cultura dell’innovazione e
della conoscenza, e anche per offrire servizi migliori ai cittadini e alle fasce più
deboli. Tutti devono poter accedere in modo veloce ed economico alla rete
informatica a banda larga (sia essa ADSL, WI-FI, oppure WIMAX). Questa deve
pertanto coprire tutto il territorio del SUU, ed entrare nelle case di tutte le famiglie
potenziando così l’accesso ai servizi gratuiti e di pubblica utilità […]. La
connessione a internet dovrebbe essere assicurata con possibilità di agevolazioni
economiche significative” (ibidem);
ed infine:
“È necessario sburocratizzare e semplificare la “macchina” comunale,
rendendola ancora più trasparente. […] Si deve garantire l’interoperabilità delle
banche dati […]. La comunicazione istituzionale e interna, nonché l’informazione
vanno intensificate anche mediante l’introduzione di nuovi strumenti digitali e
mediatici” (ibidem).
Si evince, da una rapida lettura dei passaggi citati, come emergano con vigore
alcuni temi specifici. Innanzitutto vi è la volontà di una modernizzazione amministrativa
a livello burocratico, che vada ad incidere su un piano metodologico e su quello tecnico.
Da una parte favorendo una partecipazione ed una inclusione dei cittadini nelle fasi di
proposta, migliorando l'ascolto e la condivisione progettuale. Dall'altro lato si nota la
spinta verso un utilizzo incrementale e sempre maggiore di internet e dei nuovi
strumenti messi a disposizione dal settore ICT, per snellire la «macchina» e favorire il
contatto con i cittadini.
In secondo luogo si denota, tra gli obiettivi, il superamento di quello che viene
definito con il termine di digital divide, in particolar modo per quanto riguarda le cause
strutturali (la rete deve coprire tutto il territorio) ed economiche (l'accesso deve essere
accessibile a tutti ed a basso costo).
Infine vengono identificati come fondamentali, e dunque da perseguire nel corso
del mandato elettorale, i concetti di trasparenza e di disponibilità pubblica dei dati (open
data), indirizzando così un processo di «sburocratizzazione» e semplificazione
61
amministrativa da attuare naturalmente attraverso l'utilizzo della strumentazione
digitale.
Questa serie di obiettivi, se effettivamente conseguiti, porta alla creazione di un
modello di Open government, sviluppato sulla base delle iniziative anglosassoni e
statunitensi e sui fondamenti teorici visti in precedenza (paragrafo 3.3).
In che modo la neoeletta Amministrazione comunale di Udine sia riuscita, dal
2008 ad oggi, ad implementare le proprie politiche di ammodernamento del sistema
burocratico lo vedremo tra poco. Soprattutto vedremo quali mezzi sono stati usati e
quali progetti attuati per “innovare il metodo di governo” e favorire la partecipazione
attiva, attraverso il dialogo e la condivisione, delle componenti cittadine.
Prima desidero, però, fare un'ulteriore considerazione. La centralità del tema
dell'innovazione (tecnica e metodologica) riscontrata nel programma elettorale e nelle
volontà della nuova giunta udinese è resa manifesta dall'individuazione e
dall'assegnazione di un assessorato ad hoc con deleghe all'innovazione ed e-
government. Un ruolo fondamentale, infatti, per il dinamismo dell'Amministrazione del
capoluogo friulano in questa direzione va riconosciuto all'Assessore Paolo Coppola,
Professore associato di informatica all’Università di Udine che, citando Riccardo Luna,
“sta facendo cose egregie con leggerezza (intendo senza dare l’impressione di spostare
macigni), competenza e senza soldi” (Luna 2011).
Passo di seguito brevemente in rassegna i progetti messi in campo fin'ora.
La prima serie di iniziative rientra nel progetto «AscoltoAttivo», con il quale
vengono proposte diverse modalità di confronto tra Amministrazione e cittadino,
attraverso l'utilizzo del computer e di internet. Si accede a questa sezione attraverso la
homepage del sito comunale, nella parte riservata ai servizi al cittadino, cliccando su
«servizi online», oppure passando dalla pagina «innovazione» selezionando la voce
Ascolto Attivo. Viene, in questo modo, data la possibilità di fare segnalazioni (ePart), di
valutare i servizi offerti e messi a disposizione dal Comune attraverso una serie di
questionari (iniziativa introdotta nel 2009 ed ampliata l'anno successivo), di suggerire
idee o proporre innovazioni. Vi è, infine, la possibilità di contribuire alla modifica dei
62
regolamenti comunali attraverso le modalità di interazione wiki. Un piccolo appunto: il
termine wiki indica un sito web in cui si ha la possibilità di modificare le informazioni
presenti all'interno. Tutti possono partecipare e contribuire alla creazione dei contenuti.
E' la logica su cui si basa l'enciclopedia più famosa ed utilizzata della rete, Wikipedia.
Letteralmente, la parola wiki si traduce con il termine «rapido», e trae origine
dall'idioma hawaiano (Pittèri 2007).
ePart, ad esempio, è un servizio on-line, sviluppato da una società di consulenza
tecnologica (Posytron Engineering S.r.l., ndr.) sotto forma di social network, che
permette ai cittadini di segnalare disservizi e malfunzionamenti riscontrati all'interno del
territorio comunale (www.epart.it). Collegandosi al sito internet si possono inviare le
proprie segnalazioni localizzandole su una mappa messa a disposizione.
L'amministrazione, ricevuto l'input, prende atto della segnalazione e provvede
successivamente (ed in maniera tempestiva) a risolvere il problema. Si può, attraverso lo
stesso sito, seguire lo stato di avanzamento dei lavori. Questa non è un'esclusiva del
Comune di Udine, ma un programma a cui esso ha aderito, che rientra nella tipologia di
soluzioni di e-government 2.0, cioè di partecipazione attiva del cittadino attraverso l'uso
dei social networks.
Una seconda serie di azioni rientra nel campo della trasparenza e dell'openness.
Nella sezione «Open Data», presente alla pagina «innovazione» del sito web comunale,
vengono messi a disposizione i dati di bilancio (Bilanci di Previsione e Bilanci
Consuntivi) dal 2008 al 2011, utilizzando i servizi offerti dalle Google Apps,
applicazioni web disponibili in rete, di semplice utilizzo e, soprattutto, gratuite. Nella
stessa pagina web si possono trovare dati relativi alla qualità dell'ambiente (forniti
dall'AMGA) ed al consumo di energia, dati demografici ed infine i dati relativi ai
risultati referendari delle consultazioni del 2011. Nelle volontà dell'amministrazione,
sembrano in procinto di essere messi in rete anche i dati del controllo di gestione ed è
prevista una collaborazione con l'ISTAT per l'utilizzo da parte del Comune del data
warehouse, letteralmente il «magazzino dei dati», già reso disponibile online dallo
stesso istituto statistico (intervista all'assessore Coppola, fonte
http://egov.formez.it/content/udine-opendata).
63
La terza, ed ultima, serie di interventi riguarda la partecipazione dei cittadini in
senso stretto. Più propriamente si fa riferimento alle modalità inclusive con cui si è
pensato di realizzare i nuovi PRGC (Piano Regolatore Generale) e PUM (Piano Urbano
della Mobilità) del Comune di Udine. Nel primo caso è stata prevista ed attuata una fase
di «ascolto e dialogo» preventiva all'adozione definitiva del piano, consistente in un
insieme di attività finalizzate al coinvolgimento dei vari stakeholders cittadini,
attraverso incontri pubblici, eventi tematici, con la possibilità di disporre di materiali
d'analisi e di sintesi del lavoro già svolto e con la creazione di una mailing list che
facilitava l'aggiornamento su iniziative future e sul proseguo dei lavori. Il piano, partito
formalmente nel 2009, è stato adottato il 25 luglio 2011 (con delibera n.67).
Nel secondo caso (PUM), invece, il contributo «dal basso» è stato limitato
all'apertura di un periodo di osservazione pubblica (dal 16 al 28 novembre 2011) in cui
era possibile presentare, anche online, proposte di modifica e soluzioni alternative
rispetto al piano previsto.
Non si esauriscono a queste, appena elencate, le iniziative e le novità introdotte
dall'amministrazione comunale. Altre, che non ho menzionato perché di minor impatto
oppure estemporanee, si possono trovare alla sezione «innovazione» della pagina web
del Comune (www.comune.udine.it/opencms/opencms/release/ComuneUdine/progetti).
Altre ancora, invece, sono in previsione e dovrebbero partire con l'anno corrente (2012,
ndr.). Una fra tutte, voglio citare, quella relativa al progetto Openmunicipio, iniziativa
promossa dall'associazione Openpolis, che viene descritta sul sito dell'associazione
stessa in questi termini:
“Open municipio è una piattaforma web che usa i dati politico-
amministrativi ufficiali forniti dai comuni che aderiscono al progetto, e li
distribuisce in formato aperto per offrire alla cittadinanza servizi di informazione,
di monitoraggio e partecipazione attiva. Le informazioni puntuali sulle attività di
sindaco, giunta e consiglio, personalizzate in base agli argomenti che interessano il
singolo utente, vivono sul sito oppure vengono recapitate direttamente nella sua
casella di posta elettronica. Queste stesse informazioni sono facilmente condivise
nei social network e partecipate dai cittadini utenti del sito, che possono
64
commentare e votare gli atti, monitorare politici, argomenti e territorio” (fonte
http://www.openpolis.it/progetti/openmunicipio).
Sempre nella medesima pagina web si può leggere come i comuni capofila di
questa iniziativa siano Senigallia e, proprio, Udine.
Risulta evidente, da questa rapida presentazione, come, con una serie di politiche
precise e ben individuate, si sia voluto operare a livello amministrativo verso un
cambiamento sostanziale nell'azione di governo optando per una maggiore trasparenza,
una partecipazione attiva del cittadino ed utilizzando strumenti ad alto contenuto
tecnologico.
Sulla base dell'intervista rilasciatami dall'assessore Coppola, dei dati disponibili
online e con riferimento a quanto ho potuto osservare, esprimo ora alcune
considerazioni relative ai progetti e ai primi risultati, approssimativi, di cui si dispone.
Il punto di partenza da cui muove il progetto elettorale, trasformatosi poi in
vittoria, è il presupposto di trovarsi in presenza di una carenza atavica di trasparenza e
dialogo caratterizzante la vita della comunità. Stando a quanto riferito dall'assessore, i
cittadini avevano la sensazione di non essere ascoltati e vi era, da parte di chi si
candidava a governare, la percezione di una mancanza di fiducia verso l'istituzione
locale. Con queste prerogative, dedicare una cospicua parte delle proprie forze ad
iniziative volte a migliorare la trasparenza ed il coinvolgimento delle persone è risultato
favorevole, innanzitutto in termini di risultati elettorali, ma soprattutto lungimirante
perché ha indirizzato l'apparato amministrativo verso un percorso che si propone di
risolvere tali carenze.
Al programma ePart sono iscritti all'incirca 700 cittadini, che tramite il computer
segnalano guasti e disservizi dislocati sul territorio comunale. Alcuni esempi:
in data 16/1/2012 è stata fatta una segnalazione (n. 2480, su via Tarcento, Ud) con
oggetto «marciapiede dissestato» alla categoria «arredo strade» in cui si segnala:
“marciapiede dissestato per piccola voragine, in collegamento con il tombino; già
transennato dai vigili urbani; in aggravamento”. Il problema è stato preso in carico dai
funzionari comunali che hanno aperto la pratica fissando l'inizio dei lavori in data 10/2,
65
con una data prevista di chiusura al 31/3. La pratica è stata aggiornata in data 8/3 con
l'operatore Caneva Luca che afferma: “intervento di sistemazione ultimato”. Stato della
segnalazione: Chiuso.
In data 5/3/2012, segnalazione n. 2862, in via Triesimo, con oggetto «Richiesta
pulizia area di parcheggio pubblica» nella categoria «Rifiuti» viene segnalato dalla
residente Martina Zerbin: “Chiedo cortesemente che si provveda alla pulizia dell'area di
parcheggio situata all'angolo fra viale Tricesimo e Via Piemonte, per le persone che si
recano presso il nostro condominio al civico 50/A di via Piemonte e per le attività
commerciali della zona la situazione è piuttosto vergognosa. Segnalo inoltre che a
seguito dell'intervento di potatura dei rampicanti del muro che divide la suddetta area
dalla privata abitazione al civico 98 di viale Tricesimo il materiale di risulta è stato
gettato all'interno del cortile della stessa, pertanto non si risolve il problema della
presenza di ratti da me segnalato in data 8/11/2011 mediante mail al Ten. Livera. Grazie
per l'attenzione”. L'operatore Molinari Luigi prende in carico la pratica e la dichiara
chiusa il giorno successivo.
In data 6/3/2012, segnalazione n. 2873, con oggetto «incrocio pericoloso» su via
La Spezia, nella categoria «Strade», viene sollevato da Rossi Alessandra il problema:
“Incidenti frequenti, anche gravi. Ormai vengono fatte rotonde ovunque. Perché non
qui, dove sarebbe utilissima e ci sarebbe anche lo spazio?”. Pratica aperta il giorno
stesso con inizio dei lavori previsto in data 7/3 e chiusura entro l'anno successivo
(31/12/2013), con l'operatore Caneva Luca che scrive: “La realizzazione della rotatoria
è già prevista e finanziata. L'inizio dei lavori è previsto entro l'estate”.
Non tutti i casi, però, vengono risolti tempestivamente:
in data 22/11/2010, in uno dei primi casi fatti pervenire, con oggetto «barriere
architettoniche», un segnalatore anonimo porta a conoscenza che “spingendo una
carrozzina o un passeggino in via Umberto Zilli dal numero 20 in poi, e' impossibile
proseguire sul marciapiede a causa dei pali luce posti proprio in mezzo non lasciando
spazio. Siamo costretti a percorrere in strada un tratto molto pericoloso a causa della
velocità delle vetture, problema sollevato diverse volte e mai controllato. E proprio in
via Zilli davanti le palazzine dei civici 17,19,21 ecc i marciapiedi sono ancora allo stato
grezzo da parecchi anni. Vi prego di attivare un controllo, almeno questa volta, grazie”.
L'operatore di riferimento fa sapere che: “Compatibilmente con i programmi attuativi, le
66
risorse finanziarie a disposizione e le priorità assegnate, sarà cura dell'Amministrazione
dar seguito a quanto segnalato”.
Questi sono solamente alcuni tra i tanti casi di segnalazione pervenuti agli uffici
comunali tramite il programma, resi pubblici e rinvenibili all'indirizzo
www.epart.it/udine. I casi vengono valutati, presi a carico dagli uffici competenti ed
approvati in tempi tendenzialmente brevi, con una previsione di inizio e chiusura dei
lavori ed una spiegazione delle modalità d'azione. I casi ancora in corso di accertamento
sono visibili online ma i dettagli non sono disponibili, fino al momento
dell'approvazione. Alcuni altri invece vengono rifiutati.
Ai questionari valutativi, invece, hanno risposto qualche migliaio di persone. I
dati sono approssimativi perché, afferma Coppola, “in generale non manteniamo questa
statistica perché tutti i servizi sono senza autenticazione o con autenticazione non
controllata”. Un problema a cui si è già pensato di ovviare utilizzando metodi di
autenticazione basati sulla Carta regionale dei Servizi. Nonostante ciò, il servizio di
valutazione pare stia dando buoni risultati. I suggerimenti pervenuti vengono
implementati l'anno successivo. In un'intervista disponibile sul sito italiano di Wired
(www.wired.it) lo stesso Coppola conferma: “Nel 2009 è emersa chiaramente in alcuni
servizi la richiesta di ampliamento degli orari di apertura. L'abbiamo fatto e,
puntualmente, i questionari 2010 ci hanno dato un risultato migliore rispetto all'anno
prima” (Marzano 2011).
I questionari relativi ai vari servizi sono disponibili alla pagina web del Comune,
nella sezione «Ascolto Attivo». Si possono compilare i questionari relativi all'Ufficio
Anagrafe, allo sportello Attività Economiche, al Centro Servizi per stranieri, alla Polizia
Municipale, o relativamente ai Musei Civici o alla Biblioteca Joppi, ed altri ancora. In
ogni sezione, oltre ad inviare il questionario opportunamente compilato, si possono
consultare i risultati degli anni precedenti. Ad esempio, per quanto riguarda la citizen
satisfaction relativamente alla Biblioteca civica nell'anno 2011, si evince dalla
compilazione di 181 questionari (di cui solamente 44 online, gli altri cartacei) che il
66% dei fruitori si è dichiarato «Molto» soddisfatto della competenza, il 25%
«Abbastanza» soddisfatto, mentre il 4% ha risposto «Poco» o «Per niente» soddisfatto.
67
La soddisfazione complessiva del servizio vede un 51% di risposte in cui il cittadino si
dichiara «Molto» soddisfatto e il 43% «Abbastanza».
Relativamente al Centro servizi per stranieri, invece, su 78 questionari compilati
(di cui 32 online) nel 2011, rispettivamente il 24% e 26% rispondono di sentirsi «Per
niente» o «Poco» soddisfatti del servizio, con un 33% «Per niente» soddisfatto alla voce
«Competenza». L'82% dichiara di usare abitualmente internet, mentre 28 tra i 78
rispondenti dichiarano di essere favorevoli alla possibilità di poter comunicare via
Skype con gli uffici del Comune.
Naturalmente sulla base di tali risultati, amministratori e funzionari del Comune
provvederanno ad andare in contro alle richieste dei cittadini, compatibilmente con le
possibilità, economiche e gestionali, dell'ente stesso. Vi è, dunque, una reale e
continuativa presa di coscienza della qualità e dello stato attuale del servizio, che
permette un miglioramento costante delle attività offerte.
Un ulteriore esempio di comunicazione cittadino - Comune è relativo al livello di
soddisfazione dei lavori di rifacimento di Piazza XX Settembre. In questo caso,
l'Amministrazione, dopo aver svolto i lavori di recupero, ha posto ai cittadini un
questionario (fig. 1) per valutare il livello di apprezzamento per quanto fatto.
Hanno risposto, entro la fine del 2011, 138 cittadini che hanno valutato in maniera
positiva il restauro della pavimentazione e del pozzo (complessivamente l'86%, fig. 2) e
la connessione wi-fi gratuita (il 56% si dichiara molto soddisfatto, fig. 3). I risultati
completi sono, anch'essi, disponibili sul sito del Comune. Di seguito ho riportato
solamente alcuni esempi.
Ciò che emerge chiaramente da questa serie di iniziative è come
l'Amministrazione abbia deciso di indirizzare le proprie politiche di coinvolgimento
della cittadinanza, rendendo disponibili diverse modalità di ricezione di feedback che
permettono un contatto continuo tra cittadino ed ente. Alcuni progetti sono ancora in
fase sperimentale ed in via di sviluppo, e questa fase embrionale non permette già una
valutazione complessiva sullo stato di progresso raggiunto. Quello che conta è, però, la
sensibilità dimostrata nel saper ascoltare le opinioni delle persone.
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Figura 1, esempio del questionario (fonte www.comune.udine.it)
Figura 2, soddisfazione del restauro (fonte ibidem)
Figura 3, soddisfazione wi-fi gratuito (fonte ibidem)
69
Un progetto che, invece, sembra non avere avuto buoni riscontri da parte della
popolazione è il «wiki-regolamento». Si può ipotizzare, forse, che nella sua concezione
potrebbe essere troppo innovativo e non compreso bene, nel suo utilizzo e nella sua
funzione, da parte della cittadinanza.
Ad ogni modo, le modalità di azione portate avanti dall'Amministrazione
comunale hanno alcuni tratti comuni e caratteristiche precise che ora vado a definire.
Economicità e replicabilità sono i primi termini che vanno sottolineati in quanto
inquadrano alla perfezione quanto descritto fin'ora. Tutti i progetti presentati hanno il
pregio di essere, senza troppe difficoltà ed impegno economico, riproducibili in contesti
diversi, grazie alla generalità che li caratterizza e per il basso costo di attuazione.
Talvolta si tratta di programmi presenti in rete, in altri casi sono progetti già attivi in
altri Comuni od organizzazioni private. Non sono iniziative nate ed esistenti solamente
a Udine, ma bensì esempi di come si possa prendere in prestito esperienza e conoscenza
di altri luoghi o contesti, portarle in loco, copiarle (in buona fede) ed adattarle alla
situazione specifica.
In secondo luogo, caratteristica comune ad ogni progetto presentato è quella
riguardante gli obiettivi da perseguire, come già riportato più volte: trasparenza e
inclusione sono al primo posto nell'agenda comunale. In entrambi i casi ci si propone di
raggiungere il traguardo prefissato tramite l'utilizzo delle nuove tecnologie e dei new
media. La trasparenza viene perseguita attraverso l'apertura e la messa in rete di tutti i
dati disponibili, secondo le procedure previste dall'open data. L'inclusione, per mezzo
dei servizi online quali questionari, sondaggi, posta elettronica ed altri sistemi di
feedback.
Un'ultima peculiarità da tenere in considerazione, la più importante e
caratterizzante, a mio avviso, riguarda la «sorgente» e la direzione da cui muovono i
processi. Tutto ciò che abbiamo visto fino a questo punto ha una fonte chiara e un
indirizzo evidente, che connota in modo inequivocabile la tipologia di interventi in atto.
Le iniziative, in altre parole, sono tutte generate dalla specifica volontà dell'istituzione,
secondo una logica top-down, di verticalità, che ha delle conseguenze ben precise. E
anche qualche criticità.
Come già detto in precedenza (paragrafo 2.1) è raro che in un processo
70
partecipativo ci si trovi d'innanzi ad una unidirezionalità stringente. Per il solo fatto che
esista, si può presumere l'esistenza di una relazione tra una volontà «dall'alto» e una
disponibilità all'azione «dal basso». In mancanza di essa saremmo di fronte ad un
processo che nulla ha di partecipativo, e che difficilmente riuscirebbe a funzionare. Ma
il punto di propagazione è una discriminante forte, tanto che i casi di cui si dispone in
letteratura si differenziano tra loro, appunto, dall'enfasi data ad una posizione piuttosto
che all'altra.
Nel caso di Udine siamo in presenza di un'iniziativa top-down, che risulta essere
positiva perché basata sull'efficienza e fa forza sulla velocità e sulla certezza di
realizzazione del progetto. Porta con sé anche alcuni limiti, però, in quanto essendo un
percorso imposto dall'alto c'è il rischio fondato di non riuscire ad essere percepiti in
maniera adeguata dalla popolazione (come nel caso del wiki-regolamento) e quindi di
non creare quel «fermento partecipativo» che permette il raggiungimento degli obiettivi
prefissati, con la conseguenza di lasciare inoperosi ed inutilizzati i mezzi messi a
disposizione.
6.2 Un caso idealtipico
Riprendendo ora in considerazione la prima parte del presente lavoro, ed in
particolar modo la tipologia in cui vengono individuati i sei modelli idealtipici di
partecipazione (Sintomer e Allegretti 2009), provo ad effettuare un confronto tra
l'esperienza udinese e tale modello teorico.
Solamente uno, tra i sei, però, pare il più appropriato per analizzare il caso in
questione. Basandomi, in particolar modo, sulla volontà politica e sulle procedure
utilizzate (due dei criteri d'analisi) provo a confrontare la scelta fatta
dall'amministrazione friulana con il modello della modernizzazione partecipativa.
Tralascio volutamente, come criteri d'analisi, il contesto sociopolitico e le dinamiche
71
dell'azione collettiva, il primo perché fuorviante rispetto all'eccezionalità del caso ed il
secondo a causa di una scarsità di dati, ed una conseguente mancata analisi,
relativamente al contesto sociale di partenza.
Il modello della modernizzazione partecipativa, come già visto, prevede alcune
caratteristiche ben precise. Innanzitutto, la verticalità. In questo modello risulta
fondamentale il ruolo che ricopre il governo locale, in quanto è lo stesso ente che
decide, tramite le forme partecipative, di coinvolgere nelle proprie decisioni cittadini
comuni e stakeholders locali, con la volontà di ampliare il bacino dei decisori e di
legittimare, in questo modo, le scelte da prendere. Risulta, così, essere ancora limitata
l'autonomia della società civile, che non si riscopre attiva e propositiva per proprio
volere, ma semplicemente viene chiamata in causa e coinvolta in progetti di
partecipazione rigidi e prestabiliti. L'attivismo viene incanalato in modalità inclusive
disegnate dall'ente istituzionale a propria discrezione. Utilizzando una terminologia già
vista in precedenza, non viene data possibilità di sviluppo di un «quarto potere» (cioè
quello dei cittadini) e tantomeno si dà la possibilità di emergere ad un contropotere
cooperativo (countervailing power, cioè l'autonomia della società civile). Le
motivazioni che spingono i decisori ad intraprendere questa strada sono dettate dalla
volontà di acquisire maggiore efficacia nell'azione di governo e ottenere legittimazione
delle proprie scelte.
Sintomer e Allegretti affermano, anche, che questi processi risultano essere
scarsamente politicizzati e limitati ad una sola valenza consultiva. Difatti, questa
caratteristica (di metodo strettamente consultivo) si riscontra nel caso udinese in quanto
appare assai limitata, anzi totalmente assente, la dimensione deliberativa nelle iniziative
proposte. Ci si limita ad aggregare proposte di singoli piuttosto che creare effettivi
momenti di confronto tra cittadini e amministratori che possono portare a conclusioni
condivise. Si mette in moto, in altre parole, una versione partecipata del New Public
Management che porta, sì, ad un miglioramento qualitativo dei servizi pubblici offerti,
passando attraverso i continui suggerimenti dei cittadini, ma che si limita nella sostanza
solamente a questo rapporto verticale.
Le critiche a questo modello sono relative e circoscritte ad una sua scarsa valenza
politica, che non permette, cioè, di affrontare e prendere in considerazione argomenti
72
delicati, quali ad esempio la giustizia sociale, limitandosi solamente ad un
miglioramento sotto il profilo tecnico e gestionale.
Il «contenitore idealtipico» appena visto riesce a descrivere, e contenere, bene il
caso del Comune di Udine. In entrambe le situazioni (quella teorica e quella reale) vi è
verticalità della proposta partecipativa, spazi ristretti di autonomia della componente
civica, una predilezione per le modalità di interazione consultiva rispetto ad una visione
della partecipazione come deliberazione ed infine un maggiore accento posto sugli
aspetti gestionali a discapito di quelli sociali e politici.
Proprio quest'ultimo aspetto mi permette di affrontare l'ulteriore passaggio teorico
che mi propongo di affrontare nel prossimo paragrafo (6.3).
Prima di passare oltre, però, volevo esplicitare un'unica discrepanza teorica che, a
mio avviso, sembra evidente. Nel caso di Udine, a differenza del modello teorico in cui
non viene concepito, vi è una forte declinazione politica dei progetti presentati. Il
centro-sinistra udinese ha individuato come proprio obiettivo l'ammodernamento della
struttura burocratica comunale, attraverso le nuove tecnologie e la partecipazione dei
cittadini, e sta portando avanti con impegno le proprie «promesse» elettorali. Non è
vero, dunque, che gli input a questi tipi di processi derivino solamente da aspetti tecnici
e gestionali. La modernizzazione diventa un tema prettamente politico nel momento in
cui una forza, scesa in campo per amministrare, si pone agli occhi degli elettori con
determinati progetti da portare avanti, e sui quali chiede una concessione di fiducia da
parte dell'elettorato stesso. In questo caso, vista la convinzione e la volontà, politica
appunto, di proseguire in tale direzione, valutare il modello partecipativo solamente da
un punto di vista gestionale risulta riduttivo.
Altra cosa rispetto alla «volontà politica» sono invece gli «obiettivi di carattere
politico» (come intesi al paragrafo 2.3). Vediamo di seguito come, e se, trovano risposte.
73
6.3 Quali risposte?
Ho già scritto di come i processi partecipativi rispondono sostanzialmente a tre
tipi di domande fondamentali. Vi ricordate, in merito, delle «brecce» nel governo
rappresentativo indicate da Bobbio? Le modalità di coinvolgimento partecipativo
impattano e modificano il sistema esistente su tre livelli distinti.
Dal punto di vista gestionale vi è la valorizzazione del sapere locale, che si
articola in senso comune, competenza cittadina e sapere politico (Sintomer, Allegretti
2009) ed il miglioramento della macchina amministrativa sulla base del modello del
New Public Management. Dunque: sburocratizzazione, snellimento e coinvolgimento
dei cittadini.
Per quanto riguarda gli aspetti sociali, si tratta di ridurre alcune distorsioni del
tessuto civico soprattutto in due modi. 1) Includendo nei processi decisionali le
categorie svantaggiate: classi subalterne, genere femminile, gruppi sociali non aventi
diritti politici; 2) attraverso l'allocazione di risorse economiche in determinati settori
d'intervento, individuati anche (e soprattutto) con l'aiuto delle categorie sopracitate.
Il terzo livello, invece, riguarda l'aspetto politico. Ciò significa maggiore
trasparenza e credibilità del sistema di governo, in un consolidamento di forze e
movimenti politici provenienti dal basso e nella trasformazione dei rapporti di potere tra
élites e popolazione. In sostanza, come già affermato, in questo modo si tende a
promuovere una «democratizzazione della democrazia» che si traduce in un
allargamento della base decisionale ed in una conseguente riduzione del deficit di
legittimità del sistema stesso.
Udine, in tale contesto, sembra rispondere in maniera positiva ad ogni livello,
naturalmente con alcune lacune ed ampi margini di miglioramento. I risultati migliori si
notano sotto il profilo gestionale dove, attraverso l'utilizzo delle nuove tecnologie, si
possono constatare i primi accorgimenti burocratici (nell'ottica di snellimento e velocità
nell'offerta di determinati servizi) ed un tentativo di coinvolgimento del sapere locale. Il
74
coinvolgimento, anche se ancora esiguo, è destinato ad aumentare in base all'abituarsi
dei cittadini ai nuovi strumenti di partecipazione.
Da un punto di vista sociale si nota l'interesse dell'amministrazione soprattutto in
merito al mondo femminile e per quanto riguarda l'individuazione di aree di
investimento attraverso i percorsi partecipati. Dal 2007, ad esempio, viene prodotto e
pubblicato il Bilancio di genere che permette un'analisi e un monitoraggio costante per
ciò che riguarda l'uguaglianza di genere e le pari opportunità.
A livello politico, evidente è l'enfasi sulla trasparenza e sull'apertura dei dati che
l'amministrazione ha voluto porre. Da sole, queste iniziative, non bastano a
«democratizzare» il sistema, ma di certo aiutano a creare quel circolo virtuoso che
permetterà, con un costante impegno negli anni, di aumentare la coscienza civica della
comunità.
Come già accennato al paragrafo precedente (6.2), il modello idealtipico della
modernizzazione partecipativa non prevede ampi spazi d'intervento per quanto riguarda
gli aspetti sociali e politici, soffermandosi quasi esclusivamente su quelli gestionali,
riguardanti l'ammodernamento strutturale. Soprattutto, tale modello, non prende in
considerazione una possibilità d'iniziativa delle classi subalterne, considerate come
utenti (attivi, ma pur sempre utenti) dei servizi offerti.
In questo senso viene confermata l'ipotesi che il Comune di Udine possa rientrare
in tale schema, con alcune precisazioni. Tutte le iniziative elencate, anche in merito ai
tre diversi livelli d'intervento, confermano che il promotore è sempre e comunque il
governo locale, che si impegna ad offrire servizi sempre più adeguati, di più facile
fruizione, con maggiore accessibilità e cercando il continuo contributo dei cittadini al
fine di un miglioramento, dell'ente e del servizio stesso.
Le risposte date in ambito sociale e politico sono spiegabili solamente dalla
«volontà politica» delle forze candidatesi ad amministrare il Comune e non dipendono
dalla struttura del modello di modernizzazione. I bilanci di genere e la
democratizzazione del sistema locale, ad esempio, rientrano in tale volontà; non sono
una conseguenza diretta dell'ammodernamento burocratico. Come, la stessa volontà
politica, viene enfatizzata in più occasioni dall'assessore Coppola che riguardo la
soddisfazione degli utenti ribadisce la propria visione: “non è la customer satisfaction
75
[…] ma la citizen satisfaction, perché i cittadini non vanno trattati da clienti” (intervista
di Flavia Marzano 2011).
6.4 E-democracy udinese
Quando si studia il caso di Udine, non ci si può riferire ad esso solamente come
un esempio di e-government. Abbiamo visto come Pittèri identifichi cinque gradazioni
di democrazia elettronica (paragrafo 3.3), determinate in base al livello di
partecipazione e coinvolgimento che riescono ad ottenere. È riduttivo fermarsi alla
definizione di governo elettronico perché, almeno in questo caso, non siamo in presenza
solamente di un approccio manageriale e perché i cittadini non vengono considerati
utenti (passivi).
Udine può, invece, rientrare nei casi di e-democracy amministrativa e consultiva.
Dove la prima rappresenta “la versione avanzata dell'e-government” (Pittèri 2007, p. 78)
con una concezione dell'uso tecnologico ai fini di un maggior coinvolgimento. Essa
implica una maggior democratizzazione dei processi, più apertura (openness) delle
istituzioni, trasparenza e una ricezione continuativa di feedback. Mentre la seconda
prevede “la consultazione dei cittadini in vista di determinati momenti decisionali”
(ibidem, p. 79) anche se il cittadino viene a trovarsi, anche in questo caso, in posizione
subalterna rispetto all'istituzione, i feedback sono rigidi e le priorità e gli ambiti di
intervento ancora definiti dall'alto.
Ad un livello di coinvolgimento maggiore si è, secondo Pittèri, in presenza di e-
democracy partecipativa. Il caso in questione sembra poter tendere a tale modello ma è
necessaria, a tal fine, una maggiore cultura e abitudine all'utilizzo dei nuovi metodi da
parte dei cittadini. Con le nuove tecnologie, in questa visione, “i cittadini […] vengono
a trovarsi in una condizione, almeno teorica, di parità con le istituzioni e con le
rappresentanze politiche relativamente alle istanze e alle problematiche da porre al
76
centro del dibattito politico” (ibidem, p. 80). A Udine non siamo arrivati ancora a ciò, e
la strada da percorrere è ancora lunga, ma c'è la volontà da parte dell'amministrazione di
mettere a disposizione strumenti sempre più raffinati ed efficaci per lo sviluppo e il
raggiungimento di tale situazione.
Le dinamiche discorsive, che si ritrovano, infine, nella e-democracy deliberativa,
invece sembrano ancora molto lontane dall'essere attuate, sia a livello di strumentazione
tecnica, ma anche (e soprattutto) a livello di cultura di governo.
77
7. Criticità
Arrivati a questo punto, ritengo doveroso prendere in considerazione alcuni punti
deboli che risultano evidenti comparando il caso di studio con l'analisi teorica. Due,
soprattutto, sono le «zone d'ombra» che meritano di essere affrontate.
Innanzitutto, la questione relativa al digital divide, che abbiamo visto articolarsi in
divario strutturale e divario culturale (paragrafo 3.2). Abbiamo visto, anche, come la
questione dell'accesso alla rete venga presa in considerazione già in periodo di
campagna elettorale. Si legge infatti nel programma del Sindaco Honsell: “tutti devono
poter accedere in modo veloce ed economico alla rete informatica a banda larga” e
ancora “la connessione a internet dovrebbe essere assicurata con possibilità di
agevolazioni economiche significative” (paragrafo 6.1). Il punto di vista strutturale,
dunque, pare essere superabile facilmente, se non già del tutto superato.
Ciò che, invece, va preso in considerazione è l'altro aspetto del digital divide.
Quello riguardante il livello di alfabetizzazione tecnologica della popolazione. Nel
programma elettorale viene preso in considerazione solamente l'aspetto «pratico» della
questione, tralasciando (forse in maniera inconsapevole) l'aspetto culturale. Abbiamo
visto, al capitolo 5, come la popolazione anziana residente (over 60) sia circa il 30% del
totale e come il tasso di variazione della categoria 18-35 raggiunga un preoccupante -
10.3% (con una ipotizzabile dispersione giovanile). Con una popolazione
«tendenzialmente» anziana va tenuta in seria considerazione la capacità e la possibilità
di utilizzo delle nuove tecnologie, ed impostando una politica partecipativa con un forte
utilizzo delle stesse, è ipotizzabile che una fascia importante della popolazione residente
venga esclusa a priori dal processo decisionale.
In questo senso si inserisce anche il secondo punto critico che intendo
sottolineare. Esso è relativo alla «progressività lineare» individuata da Pittèri (2007)
come uno dei due aspetti di distorsione della democrazia elettronica. Con essa si intende
78
la presunzione nel dare per scontato che una maggior democraticità del sistema sia
conseguenza «naturale» del processo tecnologico. Sono, invece, le relazioni umane e
l'uso che si fa delle tecnologie a determinare un miglioramento qualitativo della vita
civica di una comunità, non la mera presenza della tecnologia in sé.
Il progresso democratico di una comunità locale non è mai «lineare», ma va creato
e ricercato con attenzione e strumenti adeguati, assieme alle forze attive della
popolazione, in una sorta di dialettica tra le volontà di governo e gli interessi
provenienti dal basso. Va evitata, ad ogni costo, una marginalizzazione della
cittadinanza (sia nei contenuti che nelle pratiche) conseguente a scelte, a volte, troppo
innovative e per questo distaccate dal contesto e dalla realtà in cui vanno ad inserirsi. In
questo senso, accanto al perseguimento di politiche di modernizzazione del sistema e
dei metodi di partecipazione, vanno perseguite e non sottovalutate le forme tradizionali
di partecipazione. La e-democracy può funzionare solamente se accompagnata dalla
partecipazione concreta delle persone, che si traduce anche, e soprattutto, in momenti di
compresenza e interazione vis a vis, a cui la Democrazia non può rinunciare. Come
scrive Pittèri, “soltanto una sorta di realtà mixata in cui si integrano luoghi e mezzi
diversi, tecnologie e modalità d'azione, può favorire dinamiche d'inclusione e di
partecipazione diffusa della cittadinanza nei processi democratici” (ibidem, p. 109).
Il rischio maggiore in cui si incorre attuando politiche di questo tipo si riscontra
proprio nella scarsa attenzione dell'istituzione nei riguardi delle volontà, delle possibilità
reali e delle aspettative delle persone. C'è il pericolo di una non-partecipazione
volontaria e consapevole che rende inutili gli sforzi dell'amministrazione nell'aprire
tavoli di discussione, relativi talvolta ad argomenti poco sentiti o poco compresi da parte
dei cittadini.
Importanti sono, comunque, l'attivismo e le politiche propositive del Comune di
Udine, riconosciuto in tale senso come esempio d'avanguardia, che ha individuato nello
sviluppo tecnologico una strada per garantire una più ampia legittimità delle scelte
pubbliche ed un incremento della responsabilità civica dei propri cittadini grazie ad una
maggior possibilità di partecipazione.
Conclusioni
8. Udine, esempio d'avanguardia
Arrivati al termine di questo percorso, così come annunciato in introduzione, ora
dedico poche righe ad alcune considerazioni, finali ma non certo conclusive, che
possano sintetizzare quanto fin'ora visto.
Udine si presta molto bene a fungere da case study, in quanto la struttura
burocratica cittadina è caratterizzata da precise condizioni che permettono una sua
identificazione con il modello di modernizzazione partecipativa, tra l'elenco idealtipico
individuato da Sintomer e Allegretti (2009, paragrafo 2.2). La spiegazione non si limita
e nemmeno si esaurisce, però, solamente a tale livello di analisi. C'è stato bisogno, per
una miglior comprensione, di affrontare le tematiche relative allo sviluppo tecnologico,
alla e-democracy e alle nuove forme di open government riuscendo così avere una
visione più completa di quanto stia accadendo al capoluogo friulano. Oltre a ciò, vi è la
necessità di tenere in considerazione anche la volontà politica (lasciata in secondo piano
nel modello idealtipico) che si manifesta nel caso in questione, rendendo la situazione
più complessa di quanto si fosse ipotizzato inizialmente e per questo motivo anche più
interessante.
Il comune di Udine, per questa serie di motivi, si presenta come esempio valido
che vale la pena essere preso in considerazione ed usato come punto di riferimento per
uno sviluppo amministrativo da proporre in altri contesti.
L'amministrazione comunale è riuscita, in questi anni, a mettere in piedi e a
portare avanti un progetto di ammodernamento del sistema burocratico-amministrativo
che tocca due punti fondamentali: vi è un aspetto metodologico ed uno strumentale.
Da un punto di vista del metodo si è preso atto che una possibile soluzione alla
deriva antidemocratica che contraddistingue la politica italiana (e non solo) degli ultimi
80
anni è data da una assunzione di atti di responsabilità da parte di tutte le componenti
sociali. Le istituzioni, in prima battuta, rendendo trasparente e condiviso il processo
decisionale. I cittadini, allo stesso modo, partecipando attivamente alle scelte politiche
ed alle decisioni di rilevanza pubblica. Per fare ciò è necessaria la messa a disposizione
di meccanismi partecipativi che permettano l'inclusione di ampi strati di popolazione,
fino a questo momento lasciati ai margini, e creino le condizioni per una più stretta
comunicazione ed interscambio di idee tra cittadini e rappresentanti politici.
L'uso dei metodi partecipativi è visto come una possibile risposta alla crisi politica
ed istituzionale del presente. Ma abbiamo potuto osservare come sia vasto e variegato il
«contenitore» partecipativo. I metodi di coinvolgimento si differenziano per gli esiti cui
vogliono ambire (se mobilitare o produrre risultati), per le modalità di raggiungimento
delle soluzioni (se attraverso la partecipazione oppure mediante deliberazione), per
l'apertura o meno riguardo al chi è chiamato a partecipare ed infine per il promotore del
processo (se top-down o bottom up). Metodi che, nella loro eterogeneità, possono essere
ricondotti ad uno schema in sei modelli individuato sulla base del contesto sociopolitico
in cui s'inseriscono, delle volontà politiche, delle procedure messe in campo e
dell'attivismo della base. Modelli che, infine, riescono a rispondere a tre categorie di
obiettivi per il miglioramento del sistema democratico, più specificatamente obiettivi di
carattere gestionale, sociale e politico.
A Udine, in questo senso, si è optato per scelte di efficacia caratterizzate da
un'enfasi maggiore verso l'ottenimento di risultati piuttosto che una effettiva inclusione
di tutti i cittadini, con progetti in cui è riconoscibile una forte verticalità ed una spinta
verso un uso crescente delle nuove tecnologie.
Ed è proprio questo il secondo degli aspetti di modernizzazione toccati in
precedenza, quello di carattere strumentale. L'ammodernamento della struttura
amministrativa, infatti, passa attraverso un utilizzo sempre maggiore degli strumenti
messi a disposizione dai nuovi media e dal web 2.0. L'utilizzo delle nuove tecnologie
dell'informazione può essere interpretato, anche in questo caso, come la volontà di
aumentare il livello di trasparenza e partecipazione, oltre che di efficacia in senso
stretto. Da questo punto di vista, modernizzazione tecnologica e modernizzazione
partecipativa sembrano coincidere nei fini e negli obiettivi da perseguire.
Naturalmente non tutto quello che è tecnologico è, per forza di cose, migliore.
81
Vanno tenute in seria considerazione tutta una serie di distorsioni che ciò, ma soprattutto
internet, porta con sé e che rischiano di far perdere democraticità al sistema, invece di
aumentarne il livello. La privacy, innanzitutto, il cui mancato rispetto riduce le libertà
individuali trasformando la rete e l'utilizzo delle tecnologie in strumenti di controllo
piuttosto che in momenti ed opportunità d'emancipazione. In questo senso, Rodotà sta
portando avanti da diversi anni una proposta per fare di Internet uno spazio
costituzionale, in cui diritti di accesso e norme di comportamento vengono riconosciuti
come inviolabili ed inalienabili, alla stregua delle possibilità riconosciute e delle
limitazioni imposte nella vita reale. Un secondo livello di distorsione è dato dal rischio
di scivolamento del sistema in forme di «democrazia facile», o addirittura di perdita
della democrazia. Perché la rete, nella sua orizzontalità, oltre ad annullare le gerarchie
permette il superamento delle strutture organizzative con funzione di filtro, quali sono i
partiti politici, lasciando così spazio a forme di «leaderismo d'immagine», basate sul
rapporto diretto cittadino-capo, che trasformano una democrazia fondata sulla ragione
(logos) in una forma populistica centrata sulle emozioni (facilmente manipolabili). Un
ultimo carattere distorsivo della rete e delle nuove tecnologie, infine, è dato dalla
duplice forma di discriminazione che riguarda le possibilità di accesso. Infatti il digital
divide (o divario digitale) crea una doppia esclusione, una di carattere culturale ed una
di carattere strettamente strutturale. La seconda è risolvibile con una serie di
investimenti, ad esempio aumentando le capacità delle reti wireless. La prima, invece,
necessita di forme di alfabetizzazione digitale e di politiche sociali orientate in questo
senso per evitare una segmentazione della società in due categorie di cittadini: tra gli
haves e have nots, cioè cittadini di serie A con capacità cognitive (e connettive) e
cittadini di serie B esclusi in questo modo dai processi decisionali (Rodotà 1997).
Se non si tiene in dovuto conto questa serie di deformazioni (ed in particolar
modo, in questo caso, quella relativa al digital divide), il processo partecipativo, anche
in un caso circoscritto come quello di Udine, può risultare alterato e fortemente distorto.
È infatti possibile che, impostando una politica di openness e partecipazione basata
solamente sull'utilizzo delle nuove tecnologie, venga a crearsi una sorta di
«cortocircuito» dato dalla discordanza tra la percezione della realtà e la realtà effettiva.
Dove cioè, in altre parole, l'amministrazione si sente legittimata dall'appoggio dei
cittadini che partecipano senza rendersi conto che chi partecipa lo fa perché possiede
82
determinate caratteristiche. La partecipazione tramite l'uso della tecnologia, in questo
senso, è paragonabile al «metodo della porta aperta» dei metodi partecipativi
tradizionali, in cui tutti, teoricamente, hanno la possibilità di partecipare alle decisioni
ma che, a conti fatti, vede la presenza attiva solo di una minoranza, la quale prenderà
decisioni in nome di una maggioranza di assenti.
A Udine, per quanto mi è stato dato osservare, sono state attivate fino a questo
momento una serie di iniziative interessanti ed ambiziose, che vedono però i cittadini
coinvolti solamente a livello di «consumatori» e «valutatori», stando alla scala
interpretativa fornitaci da Sintomer e Allegretti (2009, paragrafo 2.3). Mi riferisco
soprattutto al progetto ePart e alle valutazioni online dei servizi (progetto
AscoltoAttivo), che sembrano quelli con maggior riscontro numerico e migliori risultati.
Per un passaggio, come anche auspicato dall'assessore Coppola, dalla dimensione
di customer a quella di citizen è necessario, a mio avviso, una implementazione delle
strutture ed un incremento dei momenti partecipativi, con la produzione di ulteriori
proposte, al fine di rendere effettive le dimensioni di «codecisione» e «corealizzazione»
(sempre stando a quanto teorizzato da Sintomer e Allegretti, 2009).
Per fare ciò non basta, tuttavia, limitarsi a fornire strumenti tecnologici sempre più
adeguati ed in linea con una tendenza a semplificare le forme della partecipazione. È
necessario invece l'accrescimento del senso civico della popolazione, il quale si
sviluppa esclusivamente attraverso forme di partecipazione tradizionale. L'educazione
civica rientra, in questo senso, tra gli obiettivi di carattere politico cui i processi
partecipativi si propongono di dare risposta.
Gli strumenti tecnologici sono utili ed aumentano la democraticità del sistema
solo se accompagnati da forme di incontro ed inclusione tradizionali, in una face-to-
face democracy (Rodotà 1997) che può essere sì mediata dalle nuove tecnologie ma in
cui non ci si può scordare del fattore umano. Forme tecnologiche e forme partecipative
non sono sinonimi e non vanno confuse, anche se a prima vista si può pensare che
assolvendo le stesse funzioni possano sostituirsi. Le prime non possono rimpiazzare le
altre ma sono ad esse complementari, e come tali vanno prese. Si rafforzano
vicendevolmente in un processo di democratizzazione del sistema.
83
9. Una certa idea di società
Mi riservo, ora, una breve riflessione conclusiva, di carattere generale, che astrae
il caso concreto, per offrire un quadro complessivo ed una visione più ampia di quanto è
stato detto fino a questo punto.
La riflessione, in particolar modo, riguarda le nuove forme di rappresentanza e le
nuove condizioni di cittadinanza che vengono a crearsi alla luce delle forme di e-
democracy e di «democrazia continua» che abbiamo visto manifestarsi. Pittèri, a tal
proposito, si chiede “se i luoghi tradizionali della democrazia rappresentativa siano
definitivamente morti o se si stia delineando la possibilità di integrare vecchie e nuove
forme dell'agire politico” (Pittèri 2007, p. 45). Quali scenari si prospettano nel prossimo
futuro? Cosa possiamo aspettarci sulla base di quanto ci è dato da osservare all'oggi?
Sull'inadeguatezza delle forme politiche tradizionali è già stato scritto, qui ed
altrove (Crouch 2003, Allegretti 2006, Sintomer 2009, Sintomer e Allegretti 2009, et
al.). È necessario, dunque, domandarsi quale direzione abbia preso la democrazia, e in
che verso, invece, vogliamo noi indirizzarla.
Viviamo un presente in cui le Istituzioni hanno perso credibilità agli occhi delle
persone, non si guarda più alla politica come strumento valido per guidare la società (su
questo punto potrei chiedermi se mai, nel corso della storia, le persone abbiano avuto
fiducia nella «classe politica», ma ciò risulterebbe retorico e fuorviante ai fini del
ragionamento), la fiducia dei partiti tocca livelli del 4% (Bordignon 2012, Diamanti
2012) e non ci sono stimoli per un cambiamento di rotta. Ci si rivolge in maniera
sempre più evidente a ciò che è considerato «tecnico», che sia esso uno strumento o un
sapere, perché si presume che una razionalità assoluta e a-politica (o per meglio dire
assoluta cioè a-politica, supponendo che le due cose necessariamente coincidano) sia la
soluzione migliore ai problemi collettivi.
Contrariamente a quanto detto, non ci si può, a mio avviso, distrarre e lasciarsi
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sopraffare da una fiducia irrazionale nei confronti di ciò che è tecnico, o si presenta
come tale. Si deve assolutamente accrescere la partecipazione dinamica dei cittadini ed
attivare forme di controllo affinché non si corra il rischio di scivolare in forme
democratiche semplificate, che basano il loro funzionamento su una logica di delega
aprioristica nei confronti dei possessori del «sapere tecnico».
Udine, in questo senso, si pone all'avanguardia (e fortunatamente non è la sola)
proponendo un'inversione di rotta rispetto a questo trend. Le scelte vanno riportate a
livello di «senso comune» (Sintomer e Allegretti 2009), la politica va fatta dalle persone
e dai cittadini perché è ad esse/essi che deve riferirsi. Mi rendo conto che questa via non
risulta semplice e non porterà a risultati immediati. La democrazia dei prossimi anni
sarà sempre più complessa nei contenuti (in linea con una crescente complessità del
Mondo globale, Beck 2003) e «difficile» (Rodotà 1997, Pittèri 2007) perché richiederà
impegno e sforzi cognitivi maggiori da parte di tutti, cittadini e stakeholders. Ma
risulterà essere, allo stesso tempo, meno complicata perché aiutata nel suo
funzionamento dalle nuove tecnologie. I nuovi media forniscono possibilità di contatto,
di dialogo, di reperimento delle informazioni, che fino a qualche tempo fa erano
impensabili. Bisogna aver consapevolezza di tali strumenti e farne buon uso in un'ottica
di accrescimento reciproco, tra cittadino e cittadino e tra cittadino ed istituzione.
Così come, rispetto alla televisione, Internet ha trasformato le persone da pubblico
ad attori, aumentandone la consapevolezza, allo stesso modo può favorire un processo
di cambiamento della cittadinanza, che da passiva si ritrova nelle condizioni di
contribuire attivamente alle decisioni d'interesse collettivo attraverso i mezzi messi a
disposizione. Va ricordata, però, la divaricazione tra accezione positiva ed accezione
negativa del cittadino attivo individuata da Crouch (2003):
“La democrazia ha bisogno di entrambi questi approcci alla cittadinanza, ma
attualmente quello negativo è molto più al centro dell'attenzione. Un dato
preoccupante, perché ovviamente è la cittadinanza in positivo a rappresentare le
energie creative della democrazia. Il modello negativo, con la sua aggressione
contro la classe politica, condivide con l'approccio passivo alla democrazia l'idea
che la politica sia essenzialmente un affare che riguarda le élite, soggette ad essere
accusate e incolpate da una massa che sta a guardare e si arrabbia quando scopre
85
che hanno commesso qualche errore” (Crouch 2003, p. 19).
Vanno allora cercati nuovi e migliori metodi d'inclusione, strumenti per la
partecipazione e soprattutto motivazioni che favoriscano la crescita e lo sviluppo di una
«cittadinanza positiva». Allo stesso modo è necessaria un'attenzione costante verso le
opportunità e le contraddizioni che le tecnologie portano con sé perché, come abbiamo
avuto modo di osservare, anche in esse ci sono aspetti negativi di cui non si può non
tener conto.
La democrazia moderna (parlamentare prima e partitica poi) è stata resa possibile
dalla diffusione della stampa e dalla conseguente creazione dell'opinione pubblica (Lévy
1996). La democrazia d'opinione è, invece, frutto di uno sviluppo dei media tradizionali
(televisione in primis) che hanno permesso una comunicazione diretta, ma
unidirezionale, tra leadership e cittadinanza. Oggi Internet, nella sua versione 2.0, e le
nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione possono diventare gli
strumenti per un nuovo paradigma democratico, basato sulla trasparenza, la continuità e
la partecipazione, che interrompa la parabola discendente, predetta da Crouch, verso la
postdemocrazia.
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