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a cura di Cristina Pallini e Stefano Recalcati QAP – Quaderni di Architettura del Paesaggio collana diretta da Vincenzo Donato e Giovanni Tacchini Città porto matrici architetture scenari

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a cura diCristina Pallini e Stefano RecalcatiQAP – Quaderni di Architettura del Paesaggiocollana diretta da Vincenzo Donato e Giovanni Tacchini

Città portomatrici architetture scenari

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Vincenzo DonatoGiovanni Tacchini

Cristina PalliniAlessandra Terenzi

Francesca BonfanteGiulia Tacchini

Laura Anna Pezzetti

Federico Acuto

Stefano Recalcati

Renato PugnoStefano Riva

Federica Blasini

Simone Caccavale, Emanuela Cozzi, Tiziana Giannetto, Laura Maria Luzzini

Giorgia d’Annibale, Andrea Ginex, Benedetta Nappini, Riccardo Pasquetti

Samuele CamoleseFederica BlasiniGiulia Tacchini

Antonio Acuto, Vincenzo Donato, Francesca Bonfante, Cristina Pallini

Giuseppe AlizziAnnalisa Scaccabarozzi

Vincenzo Donato, Cristina Pallini, Annalisa Scaccabarozzi

Antonella Marzi

Linee di ricerca7 Ricordi di città e di porti 27 Non solo logistica della movimentazione: nuovi ruoli per le città-porto

Matrici insediative della portualità77 Paesaggi portuali del Mediterraneo orientale111 Porti di Terrasanta127 Barcellona: città, porto e front de mar143 Bilbao, dove il fiume Nervion si converte in Ría159 Architettura, paesaggio, infrastruttura dall’ensanche ai progetti di Zuazo e Stirling171 I territori labili del Río de La Plata: tracce di portualità a Buenos Aires

Interpretazioni e scenari attendibili189 I sistemi portuali europei negli scenari di trasformazione globale205 Economics delle trasformazioni delle città-porto217 Il porto di Monfalcone come attrattore e motore di sviluppo 227 Il porto di Messina: lo sviluppo di un nodo strategico

Progetti di ricerca240 Genova città-porto? Una politica degli interventi per il recupero del ruolo competitivo244 Genova: per un nuovo Foro tra cardo e decumano

248 Taranto: nuovi ruoli per la città e il suo porto252 Il porto di Messina. Ragioni funzionali e memoria storica256 Bilbao fronte atlantico di Castiglia260 Salonicco: il porto storico come nuovo quartiere franco

264 Beirut: l’istruzione forma la città268 Istanbul: nuova accessibilità ferroviaria alla penisola storica274 Alessandria: dal porto nuovi ruoli per la città cosmopolita

Materiali per un atlante293 Per la costruzione di un atlante storico delle città-porto europee

Prima edizione 2012

Progetto grafico Ottorino Meregalli, Andrea Sampaoli

(LIDAR – Laboratorio Informatico di Architettura, DPA)Impaginazione

Andrea Sampaoli

ISBN 978-88-97748-15-1

copyright © 2012 LIBRACCIO editore® [email protected]

[email protected]

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Non solo logistica della movimentazione: nuovi ruoli per le città-porto Giovanni Tacchini

Contrastando alcuni determinismi

Ben più di quarant’anni sono trascorsi, un periodo prossimo al passaggio di due gene-razioni, da quando, studente, con Marco Canesi e Vincenzo Donato (e altri un poco più giovani tra cui Marita Baggio, Roberto Biscardini e Giorgio Goggi), e con Antonio Acuto e Giancarlo Consonni in qualità di allievi interni1, affrontammo sotto la guida di Piero Bottoni, Lucio Stellario d’Angioli-ni e Lodovico Meneghetti, le questioni ma-crourbanistiche connesse al tema dei poli di sviluppo e delle industrie motrici. Ci si inte-ressò allora, dapprima del porto di Genova e poi di alcuni porti del Mezzogiorno d’Ita-lia, correvano i tempi che avrebbero portato allo stimolante dibattito intorno al Progetto ‘80. Ciò avveniva nel quadro di attività di ricerca che, nel far dialogare tra loro approc-ci macroeconomici e macrourbanistici, ten-devano a ridefinire il quadro della pianifica-zione nazionale contrastando le esperienze, sia delle “mosaicature” degli urbanisti più tradizionali, sia quelle dei nuovi “piani-disegno” legati a scenari di espansione di tipo megalopolitano2. Tale lavoro, incentrato sulla relazione tra porto e presenza “fronte mare” dell’industria di base e della cantie-ristica, ma anche dell’industria motrice a queste connessa, poneva rilevanti questioni in merito alla ecologia delle funzioni e alle strozzature settoriali, infrastrutturali, terzia-rie del “sistema Italia”3.È stata questa una importante temperie

Abstract: Port cities can be approached in many different ways. A dominant character common to the main European ports of today is the giant scale of their technical equipment, and the resulting separa-tion from their cities. This contribution examines three case-studies: Genoa, Marseille (primary Western Mediterranean hubs) and the Dutch port system, while focusing the port / city relationship in historical perspective. By nature the port is the edge and connection between land and water; in the past the geo-graphical role of a port also encompassed the anthropological dimension, well beyond the logistic and the economic factors. The challenge of today seems to lie in a renewed roles for port-cities in the civilization processes.

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degli spazi di banchina5; dall’altro, una for-ma di geografia volontaria che – applicata al tema dei water-front abbandonati dalle attività portuali – ha dato vita a forme di riuso, dapprima coinvolgendo spazi ancora relativamente marginali (derelict area da sot-toporsi a proposte di tipo residenziale), poi interessando “spazi centrali”, sempre più ri-levanti, capaci di divenire campo strategico di iniziative di metropolizzazione fondate su attività di tipo terziario6.Osservando l’estensione dei principali porti europei, si può osservare come dominino il gigantismo e l’estroflessione dei congegni di banchina (venendo a risolvere in sé la di-mensione dello stoccaggio e la funzione di hub ridistributivi dei TEU), i quali sempre più spesso si configurano come separati dal-le funzioni urbane e dagli storici retroporti. Peraltro, ciò avviene con modalità differen-ti: in alcuni casi, come a Rotterdam, tale fenomeno appare più marcato, trovandosi un oggettivo interesse comune tra ammini-strazioni locali, enti portuali e terminalisti, a operare in logica di primati, dando vita al più grande azzonamento monofunzio-nale d’Europa: il lato in sinistra della Maas

che credo abbia noi tutti profondamente plasmato. Poi, seguendo percorsi a volte personali e a volte comuni, il campo di stu-dio delle città-porto si sarebbe esteso, coin-volgendo nuovi campi di interesse, nuovi confronti, nuovi ambiti territoriali e nuove generazioni di ricercatori4.Ora, ripensando tale esperienza, andrà rile-vato come essa si sia sviluppata lungo un pe-riodo storico cruciale segnato dal passaggio dall’era della economia mondo degli scambi commerciali di beni materiali (dalla secon-da metà del Quattocento, fino agli anni Settanta del XX secolo) a quella della globa-lizzazione guidata dalle strategie di impresa multinazionali, da nuovi produttori di in-visibles e da nuovi scenari finanziari sempre più liberi da vincoli e frontiere statal-nazio-nali. Sul piano dei trasporti, questo passag-gio si è concretizzato col sopravvento della modalizzazione del trasporto containerizza-to. Tutto ciò ha posto in essere da un lato, una forma di determinismo economico, ancor prima e ancor più che geografico, attraverso l’affermarsi degli “imperativi logistici” dei terminalisti, con conseguenti visioni por-tuali fondate su estroflessione e gigantismo

L’evoluzione del porto di Rotterdam dall’inizio del XX secolo allo stato attuale.

Alle pagine precedenti:Veduta aerea di Rotterdam con l’estuario della Maas.L.S. d’Angiolini, F. Mello, G. Rizzi, Progetto di piano regolatore di Augusta, 1957, vista zenitale del modello.

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Il primo edificio in altezza del nucleo direzionale di Rotterdam (sede della contrattazione petroli extra OPEC) negli anni Settanta.

e i nuovi spazi conquistati alla piattaforma continentale dell’Europort. In altre realtà le determinazioni logistiche dei terminalisti appaiono meglio contenute, in particolare nei casi in cui queste devono fronteggiare le strategie di pianificazione e di gestione dello spazio anfibio e periurbano, da sempre go-vernate, in modo più o meno diretto, dalle autorità di vere e proprie città-stato (è que-sto il caso dei porti di tradizione anseatica di Amburgo e di Brema).Se ci limitiamo a osservare il caso estremo di Rotterdam, risulta come già dalla fine degli anni Settanta emergesse la contrapposizione tra città e porto fino a produrne una dis-sociazione radicale7. Oggi l’evoluzione dello skyline urbano è segnata dai grattacieli del business district – quasi a inseguire l’antesi-gnano modello del grattacielo della Marco-niplein – e da una sterminata conurbazione di superfici e attrezzature portuali sul lato meridionale, che si proiettano a occidente verso e oltre la linea di costa. Così è che Rotterdam sembra divenire, come molte altre, ma diversamente da Am-sterdam, o dalla stessa Amburgo, una città mondiale, sempre più priva di una forma urbis e di una espressione urbana coerente-mente configurata. Per affrontare la questione del rinnovo ur-bano è necessario rivolgerci ai casi euro me-diterranei: “Da più di un decennio le città portuali sudeuropee tendono a occupare co-stantemente la scena urbanistica. Ieri messe di fronte al formarsi dei “vuoti urbani por-tuali”, materializzazione del declino di un sistema tecnico economico e sociale di una altra epoca, esse espongono oggi con una facilità e una precisione variabile, le loro condizioni nuove di città postindustriali. Per queste città l’ora è quella del “narcisismo urbano”, della apertura alla trasformazione della loro immagine obsoleta grazie alla messa in opera di grandi progetti ristrut-turanti caratterizzati dalla loro dimensione architettonica événementielle”8.Ora proprio quest’ultima impostazione viene ad essere volutamente ricercata dalle stesse amministrazioni pubbliche, le qua-li richiedono esercizi architettonici capaci di avere un effetto comunicativo sul piano internazionale, avendo lo scopo sia di com-piere un esercizio di seduzione immobiliare, sia di costruire un “effetto evento” capace di richiamare le forme più ampie del “turismo

urbano”, in particolare, internazionale; ciò rappresenta, dunque, l’espressione di due trend che, fino all’avvento della crisi del 2008, si presentavano in rapida ascesa. Se ne osserviamo rapidamente il mutare della casistica risulterà come un primo sta-dio si sia configurato come campo di “li-berazione” di quelli che venivano definiti come “fabbisogni arretrati” (utilizzando un linguaggio comune alla più seria pratica urbanistica dei piani urbanistici, anche se in questo caso eran fabbisogni di tipo “de-rivato” e non primari e fabbisogni di tipo qualitativamente elevato), tendenti a pro-porre forme nuove, ancorché di massa, di “qualità della vita”, entro lo spazio stesso dell’organismo urbano, ossia di dar risposta a fabbisogni del tempo libero (verde, attrez-zature sportive, consumi culturali, sistemi museali). Alla base stava una forte presen-za di investimenti pubblici su aree centrali o comunque fortemente connesse a “linee forza” dei trasporti collettivi, innescata da occasioni come a Genova le Colombiadi, a Siviglia l’Expo, a Barcellona le Olimpia-di9. Un secondo gruppo di progetti, come a Bilbao e successivamente a Marsiglia, si

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Salonicco: le aree del concorso per il New Western Arch bandito nell’anno della Capitale Europea della Cultura, 1997.

A fronte:Cartografia di La Spezia, 1859 ca.; in evidenza il grande golfo protetto e l’Arsenale.Il nucleo abitato di Emporio nell’isola di Chios; in evidenza gli elementi fondamentali della poleogenesi: l’acropoli, la spiaggia, l’asty.

è più chiaramente rivolto al modello della riconversione (alias rinnovo urbano o rivi-talizzazione), sulla base di progetti che si associano a quelli definibili come “circuiti della metropolizzazione”. Tendenza questa intesa come fenomeno di tipo regressivo che, riducendo il concetto di metropoli alla mera funzione garantita dall’effetto attrattore (in-dotto dalle economie di scala di quei nuovi servizi), comporta banalmente il ritorno alla definizione di metropoli ottocentesca10. Per quanto comunque preferibile alle forme di mix funzionali perseguiti dal modello lom-

bardo, tutti questi progetti sono il prodotto finale di una visione urbanistica tutta tesa a sostituire la pratica dello zoning con una serie di plan-masse. Con una forte componente architetto-nico-compositiva, tali progetti appaiono prevalentemente rivolti a nuove forme di consumo giovanile e di marketing cultura-le, piuttosto che a veri progetti di attività, destinati a una terziarizzazione consapevole dei fabbisogni emergenti in innovazione, ri-cerca, sviluppo, formazione e istruzione, e che si palesano a seguito della costruzione

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di nuovi scenari di civilizzazione alla scala ecumenica11.

La necessità di ripensare le origini

Poiché il porto, o meglio la città-porto, per sua stessa definizione e natura appare una connessione, o meglio, una “cerniera” tra ac-que e terre, essa gioca il suo ruolo e destino in uno scenario insediativo che è posto tra diverse zonalità e situazioni di margine. Ciò mette da subito in evidenza la complessità della sintesi che essa è chiamata a costruire. Ripartendo dalla geografia, possiamo dire che la città-porto, in quanto espressione di una o più configurazioni di fasce di con-tatto, opera sempre e comunque in una contestualità fisica e insediativa che è neces-sariamente in contrapposizione a ogni vi-sione meccanica dell’economia dello spazio. Essa interpreta una operante realtà che sta oltre (direi anche contro) le immagini dei modelli apodittici, da quello del rapporto “città-campagna” elaborato da von Thünen, alle costruzioni newtoniane di tipo gravita-zionale dei luoghi centrali, così come alle forme di costruzioni assiomatiche di tipo euclideo rivolte alla definizione degli spazi omogenei12. Il risvolto urbanistico è particolarmente si-gnificativo in quanto la città-porto è per an-tonomasia organismo capace di svolgere un ruolo attivo nella rielaborazione, estensione e assimilazione dei processi di civilizzazio-ne; essa ha nella sua matrice costitutiva il portato di una rivoluzione culturale che si traduce in un compito: produrre servizi. In tal senso, proprio per la sua necessaria estro-versione, essa è capace di divenire attrice di orizzonti di civilizzazione, nonché di confi-gurarsi in quanto “serra calda” dei processi di acclimatazione di nuove forme culturali, materiali e simboliche che guidano i proces-si di trasformazione delle società. Per questo le città-porto sono per loro stes-sa definizione espressione di una forma di sviluppo glocal. Proprio perché necessaria-mente estroverse, esse hanno saputo inven-tare e rielaborare loro livelli di sintesi stra-ordinariamente efficaci, capaci ogni volta di produrre valenze per un ruolo attivo e non meccanico del loro essere città. Ed è allora proprio su questo terreno che vorrei portare la mia riflessione, ponendomi da subito la

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Isola di Lipari: il centro urbano di Lipari con l’acropoli che protegge i porti a nord e a sud del promontorio.

domanda: in quanti modi possiamo osser-vare una realtà portuale?Un primo approccio giovanile, anzi molto giovanile, me lo avevano, per così dire, quasi imposto alcuni volumi trovati nella libreria del nonno nelle lunghe vacanze estive tra-scorse presso la casa avita. Erano volumi, come era tipico di quella generazione passa-ta attraverso due guerre mondiali (e il non-no era stato giovane tenente nella prima), dedicati alla storia delle marine militari: al-cuni dell’inizio del secolo, altri più recenti. Questo approccio mi aveva messo di fronte a una prima storia dell’organizzazione del porto che si dispiega in logica statale, os-sia legata all’affermarsi di una talassocrazia, espressione della storia di una marineria bel-lica che da ultimo diverrà, in senso tecnico-professionale, Marina Militare. Ne deriva la particolare forma di coerente organizzazio-ne di un mare-territorio che si risolveva in alcune immagini molto potenti e preziose di imbarcazioni (la triremi, la galea, gli in-crociatori ecc.), immagini per altro incen-trate intorno alla permanenza dell’arsenale che emerge su tutto, in una sua proiezione plurimillenaria, con il potente rilievo del suo manufatto. In questo senso stava a fron-te di ciò la ricerca dell’insenatura protetta, quasi sempre una baia chiusa, una laguna o un mar piccolo, a formare un bacino sicuro (Cartagine, Ostia) in periodo classico, e poi i racchiusi dei porti veneziani e ancora quel-li dei porti turco bizantini e arabi in epoca moderna, i golfi (La Spezia), i mari chiusi (Taranto), in epoca contemporanea.Vi sarebbe stata anche una storia parallela a questa, una storia di potere e di dominio che ritroviamo in alcuni capisaldi a iniziar da Venezia: “Chi si stupirà più che Vene-zia sia posta sulle paludi e sia sorta in una

laguna per niente esposta ai venti, essendo stati costruiti grandi terrapieni e cumuli di sabbia che contengono l’ira e l’impeto del mare?” annotava l’anonimo genovese13. Da questa sua condizione di città che – come ci ricorda l’autore della Honorantiae civitatis Papiae (siamo nell’827) –, “non arat, non se-minat, non vindemiat”, deriva il suo caratte-re primo: “coltivar el mar et lassar star la ter-ra”14. La città non nasce da acque generiche, non da un mare genericamente inteso, ma trae la sua prima linfa da quel determinato pezzo di Adriatico che la inviluppa delle sue dense realtà insulari e peninsulari a oriente, e anfibie a occidente. Essa, infatti, come in-segna Sanudo, è “nello intimo seno del mare Adriatico situada, sopra le acque salse”. Ne è figlia e, nello stesso tempo padrona, Maris Adriatici dominatrix15. Dell’Adriatico regina, Venezia è caput, do-minatrice assoluta di uno stato di mare che controlla le direttrici (o i corridoi) degli scambi, pur in una evoluzione da città-stato (repubblica marinara) a capitale di uno sta-to di terra. Così è che il rapporto di Venezia con l’Adriatico si vien sempre più delinean-do attraverso un lavoro preciso – visibile, connotabile, dettagliabile – di ricognizione e ricostruzione cartografica dei contorni ben definiti delle linee di costa, delle loro con-dizioni naturali, della loro disseminazione insediativa. Venezia non ha di fronte a sé un’indiscriminata, oceanica immensità, ma uno specchio d’acqua, via via restringentesi latitudinalmente sino a quella strozzatura quasi finale del canale d’Otranto. Ecco che essa definisce l’Adriatico un golfo, anzi il golfo di Venezia, il suo golfo, e l’abbraccia tutto, a mo’ di “territorio” da sottoporre all’obbligo di fare scala a Venetia. Una sto-ria questa che poi toccherà, manifestandosi

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Il sistema territoriale-fluviale dell’Elba con i porti di Amburgo, Altona, Harburg nei secoli XI e XIV.Planimetria dei docks di Glasgow, inizi del XX secolo.

in analoghe forme di imperio, altri gangli dell’economia mondo, in particolare quello londinese16.Più tardi avrei imparato a inseguire una di-versa storia, una storia connessa a lenti pro-cessi di civilizzazione capace di dare vita a parastrati di lungo periodo della città-porto. Una storia che si apre a spettri amplissimi di attività, e a un genere di vita (la marineria); che si lega a una sfida, quella dell’andare per mare ricercando nuovi orizzonti quali la pesca d’altura e/o giunge all’incontro con altri campi di pesca, in un gioco di attrat-tività e repulsività delle linee di costa17. A questa connessa, ma solo in parte, vi è una storia che muove dalla condizione fisico-geografica di margine tra una via del mare e un territorio più o meno chiuso nella sua autoctonia. Tutto parte da incontri spesso traumatici, incontri con l’“altro” che non si presenta come ospite, ma non ancora come occupante: incontri che non si regolano nel-la sola pratica violenta ed elementare della razzia. Lentamente, sull’arenile, si affina la tecnica del baratto che si attiva lungo uno spazio che ha alle spalle una foresta rifu-gio, e di fronte una rada che consente lo stazionamento in acque tranquille. Questo consente l’avvicinarsi, secondo ritmi sfalsa-ti, di due flussi di beni e di genti: l’una che provenendo dal mare deposita i suoi esotici beni di lusso, l’altra che propone le proprie pecunia, qui res e personae non agiscono e non sono agite simultaneamente come nel mercato, non scambiano e non comunicano in modo diretto tra loro. Qui vige uno sce-nario diacronico: ogni scelta vi è ponderata, coniuga attentamente il rapporto possibile tra bene in quanto espressione di un valore d’uso e di status e il suo possibile valore di scambio.Un passo e un incontro tantissime volte ri-petuto nella storia delle isole, delle penisole, lungo i continenti, un incontro apparente-mente gracile nell’istituire i rapporti tra gli uomini. È da qui che nasce l’άστυ delle città-porto greche18 (asty indica la parte bassa della città dove viveva il popolo, una zona rurale e periferica in cui risiedevano artigiani, con-tadini e commercianti) da cui a sua volta deriverà una componente dialettica fonda-mentale al definirsi dell’agorà19. E questo processo e questa originaria dimensione si affermano laddove le occasioni del sito con-sentono l’apertura allo slargo del caricamen-

to. Quella sarà poi la piazza, spiazzo, quello diverrà il fulcro del paesaggio urbano, come a Genova per piazza Caricamento, coi due lati costruiti da palazzate che contenevano le densità delle funzioni di servizio, il quasi voler tracimare degli isolati retrostanti e un terzo lato, quello della banchina, mobile, mutevole, ma a sua volta, a suo modo, e for-se, ancor più costruito degli altri, con l’albe-rata dei velieri che facevan da contrappunto alle prospicienti cortine edilizie. Poi avrei cominciato a ricercare cosa stava intorno e oltre la definizione tecnico-fun-

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del mar della Cina meridionale, diciamo la Canton dell’VIII secolo, ben prima della presenza europea: vi troviamo presenze per-siane, arabe, armene. Intorno all’emporio si delineano per settori i quartieri delle diver-se etnie, per certi periodi vi si può persino affermare, non senza tensioni spesso anche cruente, quella suprema forma di identità culturale che è espressa dal luogo di culto. Intorno al punto di rottura di carico for-me del risiedere, comportamenti, costumi, forme del produrre servizi, sono l’esito di prestiti, acculturazioni e orizzonti di civi-lizzazione, non mai espressione di semplici omologazioni21.Forme di convivenza, sintesi a partire da scambi – culturali ancor prima che econo-mici – si possono verificare meglio guar-dando a due manifestazioni della geografia umana che ben esprimono l’affermazione di valori e di modi comuni: la lingua e le forme degli edifici. È la possibilità di una lettura etimologica ad ampio spettro a fornirci il quadro di diffe-renze ma anche di prestiti e contaminazio-ni. Particolarmente importante da questo ultimo punto di vista appare il bagaglio dei prestiti che ci vengono dalla cultura e dalla lingua araba e dalla famiglia semitica forse ancor più che dalla talassocrazia greca. Il contributo dell’arabo a tanti termini mari-nareschi geografici come baia, tecnici come arsenale, o connessi alle attività mercantili come magazzino, fino alla forte presenza di altri termini e locuzioni nella lingua parla-ta. A ciò si aggiunga da ultimo, la storia di quella lingua comune, usata per secoli nei porti del Mediterraneo, che fu la lingua franca, vero e proprio vocabolario di 500 parole che consentì la comunicazione reci-proca a generazioni e generazioni di marinai e in tanti porti mediterranei. Parimenti la diffusione dell’olandese in Danimarca e in Russia ne testimonia l’uso come lingua fran-ca del Baltico. In modo simile i porti adottano, anche per gli edifici di servizio, soluzioni architettoni-che analoghe, se non identiche; si diffondo-no, per ampie fasce, vere e proprie mode ar-tistiche, come nel caso del gotico anseatico che impera tutta l’Europa del Nord.Contestualmente avrei appreso come quelle definizioni appartenenti all’area delle lingue germaniche di haven e di hafen, l’havre del-la lingua d’oil, appaiano connesse alla fun-

zionale di porto in quanto “punto di rottura di carico” e avrei allora guardato all’origine etimologica del termine, trovandovi una serie di matrici plurime certamente signifi-cative, a iniziare da quella latina di portus, dove l’origine fluviale di attraversamento, di passaggio e traghettamento appare fonda-mentale (e ciò non a caso si palesa pensando alla origine di Roma connessa a un guado del Tevere). Più schiettamente marittima mi sarebbe apparsa quella greca di ormeggio legata al termine ormos. Sarei andato più ol-tre, fin là dove ci porta il termine emporio, là dove la città-porto fa emergere l’importanza delle forme di cosmopolitismo che la ani-mano. In tal senso ricordo come, proprio la storia delle civilizzazioni mediterranee, ci mostri la città-porto non solo nel ruolo di rottura di carico (un luogo di accumulo e re-distribuzione delle merci), ma anche con un ruolo attivo di piazza finanziaria dove, con le merci, circolano monete di diversa pro-venienza. Quindi essa è, necessariamente, sede di strutture finanziarie e, per converso, di rappresentanze diplomatiche di grande rilievo, la città consolare per eccellenza: “La anima un orizzonte sovralocale che va ben oltre il cabotaggio, un orizzonte segnato da sempre dalle grandi direttrici continentali degli scambi che conoscono le forme più ampie dal baratto, dal dono e controdono che si attiva per via diplomatica, dalla razzia allo scambio della piazza di mercato come di quello fieristico. Questo elemento, unito all’alea della intrapresa mercantile, sviluppa una armatoria che si connette a nuove tec-niche, a nuovi sistemi di noli e di fitti, di prestiti e assicurazioni, a nuove forme con-trattuali, come fu il caso dell’accomandita genovese”19.La città-porto, cosmopolita e interetnica per eccellenza, ha sempre imposto alle autori-tà politiche la necessità di adattare leggi e istituzioni alla presenza di gruppi umani che non potevano essere sottoposti inte-gralmente alle norme del paese ospite20. È la città con molti quartieri, sede di diverse comunità. Se ad esempio prendiamo una città del Mediterraneo orientale, vi trovia-mo comunità franche, catalane, ebree, tur-che, albanesi, greche; è la regola, è questa una caratteristica dominante, in particolare in questo lembo di mare retaggio delle civil-tà classiche e di Bisanzio. Non diversamen-te ciò appare vero se prendiamo una città

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zione di riparo, darsena bacino. Esse espri-mono una permeabilità, prima di tutto tra acque dolci e acque salate, esse anticipano consapevole riconoscimento dei grafi e delle reti idrografiche che stanno alle loro spalle e che collegano questi centri attraverso acque interne ad altre città e ad altre regioni. Uno degli obbiettivi primari della politica degli interventi di queste città-porto è l’estendersi attraverso i canali in logica di rete. A tutto ciò fa da contrappunto l’esser caratterizzati dalla presenza di avamporti, retroporti, arti-colazioni territoriali di bacino molto ampie, cosicché essi non appaiono come una pura sequenza di azzonamenti ma come una vera, complessa nodalità trasportistica e insedia-tiva22.In questo senso è dall’avvento dell’economia-mondo che tutto – in una linea evolutiva più marcata nel nord – pare legare il porto a una funzione di servizio e di manufatto connesso a un’attività relazionata a quel gioco di ma-nipolazione delle merci che vi attribuisce un nuovo valore aggiunto. Tutto pare spingere da una primitiva funzione di riparo-rifugio, di servizio pubblico legato all’espletamento di un compito di pubblica utilità, al servizio delle operazioni di mercanti armatori, vale a dire verso la costruzione di un’entità che ap-partiene a un terziario produttivo, per dirla in linguaggio dell’oggi.

Tra tipologie portuali e geografie costiere:cosa ci insegnano cartografia e iconografia

Forma urbis e scelta del sito appaiono forse più facilmente allo sguardo nel caso delle città-porto di quanto ciò non avvenga per città di pianura. Rivolgiamoci allora all’ico-nografia. Guardiamo le rappresentazioni dominanti delle città-porto del Mediterra-neo e in particolare quelle di alcune repub-bliche marinare (Genova e Ragusa) o di loro scale23. Genova, Napoli e la stessa Marsiglia, sono peraltro città che l’iconografia esalta nella loro compattezza. La cultura di queste città è permeata dall’idea del “recinto”, del costruito, del paesaggio urbano che si dif-ferenzia dal circostante contesto. Immagini che rimarranno in essere fino a tutto il Sei-cento e anche oltre. Per certo appare come dato pregnante il fatto che i cartografi quasi sempre ci presentino – nell’ambito del Me-diterraneo – queste città, inevitabilmente

viste dal mare, mostrandoci organismi che sembrano sostanzialmente volger le spalle al proprio entroterra e vivere aprendosi, anima e corpo, alle direttrici della liquida pianura che sta loro davanti. Anche questo l’abbia-mo già percepito – non è solo un fatto di immagine – dietro quelle vedute proposte dal cartografo, che rappresentano la città vista dal mare. C’è una lezione di “rilievo d’ambiente” importante: quasi sempre la forma urbis si associa alla necessità di espri-mere la nodalità del fronte mare che apre alle direttrici di traffico. La cartografia tec-nica marinara ci aveva fornito la serie dei portolani con il rilievo dettagliato delle li-nee di costa, con le raggiere delle inclinate atte a misurazioni trigonometriche (le misu-razioni dei gradi degli imbocchi dei porti)24; e ciò si proietta anche sulla cartografia di Terraferma – come nel caso della Repubbli-ca di Genova – mutuando dai portolani il modo di misurare e governare il rapporto con le riviere25.Continuando a inseguire le lezioni che ci fornisce la veduta, in quanto supporto ico-nografico alla cartografia, e spostando lo sguardo verso il mare del Nord, fissandolo entro ogni città d’Olanda (cioè di quella porzione dei Paesi Bassi sita tra l’Utrecht e il mare del Nord e tra I’Iisselneer e la Maas i cui caratteri originari Huizinga ci ha de-scritto nel suo affresco della civiltà del Sei-cento), risulterà come questa sia sempre sta-ta posta in contatto con orizzonti mutevoli di cielo, di acque e di terra26. Al di sopra di queste città stà infatti un cielo la cui realtà atmosferica matericamente tersa ha, con la sua incombente presenza e con la sua mu-tevolezza, impressionato ogni viaggiato-re (Diderot nel suo Voyage en Hollande ne evidenzia le conseguenze “qualche volta si provano le quattro stagioni dell’anno nello stesso giorno”)27. Questo cielo, che con lo spessore delle sue nuvole invade gli skyline urbani e precipita l’orizzonte alla distanza di qualche chilometro, così come subitamente lo apre a prospettive regionali di rinnovata profondità ed estensione; con la sua dinami-ca presenza, è molto di più di un semplice riferimento climatico al contorno, è l’intrin-seca espressione della natura stessa di quei paesaggi. Al di là di certi mediocri cliché figurativi (ad esempio l’interpretazione dell’orizzon-talità dei paesaggisti olandesi come quel-

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la fotografia aerea come forma di percezio-ne istantanea, proiettò su quello stesso im-pianto urbano (ormai certo anacronistico) e sul contiguo Ijsselmeer increspato di onde, il gioco delle ombre portate da cumuli in-combenti. In tal modo egli non faceva del semplice virtuosismo, ma, astraendosi dalla vernacolarità del cityscape e dalla freddezza della oggettività topografica delle proiezioni verticali, esprimeva Amsterdam, il suo pae-saggio anfibio, la sua forma urbis, come un sistema relativo collocato in uno scenario di elementi diversamente mutevoli28.Tra questi elementi si evidenziava, per il suo diverso carattere, l’acqua dei canali, il cui imperituro senso di un fluire eracliteo era però segnato dal ritmo di una produzione del tempo regolata dalle portate, dalle cap-tazioni, dalle emissioni di altri canali. Modo d’essere domestico, diverso e autonomo ri-spetto a quello del defluire dei fiumi o dei ritmi cosmici delle precipitazioni e dello scatenamento delle acque del mare29. Que-sta regimentazione e domesticazione dello spazio-tempo è quella che nelle città olan-desi si sintetizza nella costruzione corposa-mente positiva di un luogo urbano che è

la dell’astrattismo di Mondrian) il cielo d’Olanda è la condizione dinamica che per-vade città e campagna. Non è a caso che nella famosa rappresen-tazione di Amsterdam di Cornelis Antho-nisz del 1544 (con un punto di vista quasi zenitale) la capacità di rappresentazione a volo di uccello di un sito urbano si sia co-niugata con la sensibilità di Jan Christiaen Micker (1598-1664), il quale, anticipando

J. Mikher, vista a volo d’uccello della città di Amsterdam (particolare), 1652. J. Van Goyen, veduta di Leida da nord est, 1650.

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porta, piazza, porto, borsa, municipio, pesa e mercato. È il nodo che scandisce il tempo degli approvvigionamenti urbani, è il cro-giuolo del definirsi di una pratica e di una ritmica frequentazione della città da parte della campagna, che sta nell’ordine degli eventi quotidiani e non più eccezionali. Questo orizzonte d’acqua domesticata sta spesso a un livello più alto di quello dei pie-di degli olandesi e si intride della corposa presenza di suoli torbosi, di sfagni e di hu-mus. Su queste terre anfibie le case hanno fondazioni alla maniera dei vascelli, nella sintesi della civiltà del Seicento i volumi delle case riprendono le stazze delle kogge30;una stessa cultura materiale, quella del ma-stro-carpentiere, sta alla loro base. In un gioco di simpatie e di similitudini navi e case sono assimilate in quel paesag-gio31. Emerge un’impronta di soluzioni microurbanistiche assolutamente vitale e caratteristica, segnata dalla presenza di ac-que domesticate, dove il canale-strada fonda la piazza e il mercato, dove il polder, con la sua organizzazione fondiaria e infrastruttu-rale, dà corpo a un nuovo quartiere, dove il dam segna l’organizzarsi delle banchine e degli haven. Questa straordinaria coerenza di risoluzione dell’impianto urbano fà di ogni città olandese un solido sistema relati-vo a fronte delle mutevoli coordinate degli elementi naturali, proiettata in un orizzonte di relazioni sovralocali attraverso il canale32.La prima constatazione che si può fare dun-que in merito alla città-porto europea è quel-la di un forte contrasto genetico. In primis, tra molti porti mediterranei e quelli del mare del Nord, vi è una fonda-mentale differenza geografica, ossia una differenza della condizione geomorfologica e delle caratterizzazioni del sito. Non è cer-tamente, dunque, un genius loci misteriosa-mente ineffabile, quello che una serie quasi infinita di vedute succedutesi nel tempo ci mostra. Alla compattezza normalmente configurata per i porti mediterranei fa da contrappunto una molteplicità di tipologie dei porti di quel secondo Mediterraneo che si estende dal canale della Manica al Baltico: porti estroflessi sul mare, e porti interni; po-licentrismi portuali posti lungo reti deltai-che e porti estuario molto spinti dentro la polpa continentale del territorio33.Andando oltre l’immagine della geografia umana e delle dinamiche di antropizzazione

ecco comparire, alla scala mondiale, alcune tematiche strutturali, forme di un rumore di fondo della geografia fisica. Un tema rilevantissimo è quello della sub-sidenza (fondamentalmente legata a cause antropiche ancor prima che a movimenti eustatici) che interessa molte formazioni costiere neogeniche. Queste dinamiche di subsidenza insidiano la straordinaria attrat-tività delle linee di costa, si pensi alla stessa Venezia. Osserviamo una carta che gli stu-diosi cinesi ci forniscono e che incrocia al proposito questi due dati. Osserviamo il drammatico contrasto che essa evidenzia: l’aumento in senso letterale del peso degli insediamenti metropolitani e l’accrescersi per questo e per altri fattori (mutamenti climatici) del rischio dell’abbassarsi delle porzioni terminali dei grandi bacini fluviali. Quegli enormi sistemi deltaici non stanno più in equilibrio con le colmate e con regi-mi di torbida (Fiume Giallo, Fiume Azzur-ro, Nilo).Un diverso quadro attiene agli estuari e alla tipologia, per così dire, dei porti estuario: essa non è solo l’espressione di uno sbocco fluviale regolato dall’azione di spazzamento

La “Madonna regina di Genova”, 1638 ca., donata alla Città dalla comunità dei genovesi di Palermo in occasione della costruzione delle mura.

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Teatro geografico delle coste cinesi: in alto, dettaglio della morfologia insediativa e delle terre anfibie nell’area di Shanghai (Fiume Azzurro).Densità insediativa in riferimento alla quota altimetrica: in grigio scuro la popolazione insediata in aree con quota altimetrica inferiore a -5m s.l.m.; si notino le tre formazioni deltaiche: da nord fiume Giallo, fiume Azzurro, fiume Perla.

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Caratteri morfologici del delta del Nilo;il sistema fluviale Reno-Mosa.Terminale alto Adriatico del sistema territoriale padano.

indotto dai flussi e riflussi delle maree che consentono la risalita delle imbarcazioni, questa tipoligia è connessa altresì a un mo-dellamento della linea di costa operato dal mare contro la roccia legata a strutturazio-ni tettoniche e a fasi orogenetiche. Qui la ricchezza dei casi appare avere uno svilup-po straordinariamente ampio e ci riporta a tipologie di sbocchi costieri particolari: alle rias, ai fiordi sommersi e a quelli emersi e ancora si pensi all’importanza nel nuovo e nuovissimo mondo degli spazi di baie plu-rime solo in parte connesse a confluenze di bacini fluviali (come è il caso di Boston o di Sidney) che interessano molte porzioni oceaniche della linea di costa, e suggerisco-no quasi alle città-porto il loro destino di key gate34.Ma a fronte dei dettami della geografia fisi-ca sta la dimensione volontaria e teleologi-ca della geografia umana. Per comprendere come anche intorno alla città-porto si con-figurino strategie urbane legate al formarsi di armature insediative, consideriamo bre-vemente tre casi. Vedremo così come le vie di sviluppo siano molteplici e possano essere profondamente diverse tra loro. Possiamo a tal proposito prendere come esempi para-digmatici i due porti primari del Mediter-raneo occidentale (Genova e Marsiglia) e il sistema portuale olandese (userò questo termine in senso stretto e soltanto riferito alle due provincie olandesi di Amsterdam e di Rotterdam). A Genova sono le attività portuali a im-prontare la matrice di tutte le attività35. La città appare molto compatta, prima di tutto per il sistema viario e dei trasporti: non esiste l’uso dei carri, tutto si fa a soma attraverso carovane di muli, o al più certe importazioni si fanno per barca attraverso lo

sbocco del colle del Turchino a Voltri dove le merci vengono imbarcate su piccole scia-luppe. Così l’approvigionamento minuto della città partecipa direttamente della vita portuale, il porto è al centro della vita quo-tidiana stessa della città36.

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Elaborazioni grafiche sulla struttura viaria, dei fondaci e degli “alberghi” a Genova in epoca medievale.

Nel 1134 il Comune di Genova obbliga tut-ti i frontisti del porto a predisporre dei por-tici perfettamente regolari e allineati, una vera via coperta pubblica di cui il comune percepirà gli affitti e assegnerà gli stalli e i banchi e getterà le basi per la costruzione di una prestigiosa facciata lasciata alla attività privata dei proprietari. In questo quadro di mobilitazione delle ri-sorse finanziarie, nello stesso anno, il Molo Vecchio e quello della Lanterna verranno omologati alla condizione di opera pia, co-sicchè potranno, come gli ospedali, gli ospi-zi e i conventi, essere oggetto di lasciti testa-mentari. Essi divengono così un importante elemento di identificazione simbolica del paesaggio municipale, della coesione pub-blico-privato operante nello sviluppo della città, come ci attesterà molti secoli più tar-di quel lascito del conte di Galliera, da cui prenderà le mosse la costruzione del molo della Lanterna.Il tessuto urbano è pervaso dalla presenza di fondaci, che portano i nomi delle gran-di famiglie allargate genovesi, e sono il ri-ferimento primo dell’albergo che organizza estesissime alleanze strutturate nella vertica-

lità delle case a torre; queste sono il cuore della contrada, corte e nucleo microurba-nistico dell’isolato in cui si confermano le solidarietà di una gens. Una seconda tipologia, strettamente con-nessa con i fondaci, è espressa dalle stationes, anche esse familiari (anch’esse appartengo-no e portano i nomi delle grandi famiglie), costituite da corti chiuse con magazzini coperti e caravanserraglio di lunghezza di 15-20 metri. In esse vengono a scaricare le loro balle i Piacentini, i Lucchesi e i Roma-ni37. Da fondaci e stationes “prendono così forma gli alberghi, che sono sia organismi socio-politici (perché tra i membri di que-sti vengono scelti gli uomini che ricoprono le più importanti magistrature), sia istituti a carattere demo-topografico, interessati alla gestione comune di certi spazi: piazze, logge e chiese. Persino i passaggi di proprie-tà all’interno delle mura sembrano essere condizionati dal rispetto della contiguità di residenza tra i componenti di uno stesso parentado e gli Statuti della Repubblica ri-conoscono questo particolare diritto sociale delle famiglie”38. A Marsiglia le relazioni terrestri sono rela-tivamente facili, nulla di comparabile con i percorsi accidentati, pericolosi, esposti agli attacchi dei briganti che i mercanti di Ge-nova debbono prendersi in carico con costi molto elevati in quel retroterra appennini-co. I centri dell’approvigionamento agricolo relativamente vicini e le loro esitazioni, fa-cilmente sfruttabili, configurano un ampio ventaglio di accessibilità. Sono in rapporto a questa stessa rete, e al commercio della valle del Rodano, che Arles e Port de Buc diven-gono porti a cui ci si rivolge direttamente per le forniture di grano39. Alla fine del XV secolo tutte le transazioni di questo piccolo, ma importante, punto di rottura di carico, Port de Buc (il porto della bocca del Roda-no, appunto), venivano decise dalle piazze finanziarie di Martigues e di Avignone. Quasi a continuare un’antica dialettica clas-sica tra acropoli e agorà a Marsiglia, la ville haute (la città episcopale con giurisdizione propria e un proprio porto) si contrappone alla ville basse, amministrata dal Comune. Qui si tiene fiera due volte all’anno (se ne sentiva evidentemente la necessità, mentre a Genova non si dà analogo bisogno, essendo qui i ritmi dello scambio estranei alle pul-sioni di un calendario delle stagionalità), e

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Organizzazione territoriale dell’area metropolitana di Marsiglia.

i mercanti della città svolgono un’intensa attività extramoenia40; rifornendosi alle fiere di Lione e di Ginevra – quando non di Pari-gi – percorrono i borghi, i castelli, le contee della regione per conseguire esiti economici attraverso uno scambio diretto. A Genova nulla di tutto ciò. A Marsiglia le vie prossi-me al centro si presentano, come nelle città medioevali dell’interno, attraverso il con-catenarsi delle organizzazioni di mestiere e senza rapporti diretti con il porto. La loro ecologia funzionale e degli scambi si orga-nizza internamente a una precisa specializ-zazione produttiva.In Olanda la scala e il teatro geografico si estendono ulteriormente. La rete idrografica olandese, con la continua divagazione deltaica dei vari corsi del Reno e della Maas, si presenta altamente instabile.La morte di un ramo dopo un’esondazione, la cattura da parte di un altro ramo, sono eventi che si sono succeduti, nei tempi sto-rici, a intervalli relativamente brevi di secoli, quando non di decenni, e di cui espressiva testimonianza è il ripiegamento del Reno sempre più a sud fino alla captazione di quella sede storica della Maas che, passando

da Rotterdam, ancora ne porta il nome ma non più le acque. Simile instabilità idrografica risulta inoltre accresciuta da una complessiva instabilità idrologica. Storicamente, sono infatti va-riabili i luoghi di incontro e di compene-trazione di acque dolci e acque salate. In-stabilmente anfibie sono le terre soggette ai fenomeni di subsidenza e di imbibimento (più o meno pronunciato) della falda frea-tica e di depressione rispetto al livello dei mari e alla pensilità dei corsi fluviali. Tutto ciò crea una tale complessità nei possibili mutamenti di quote relative, da non poter essere governata a partire da un solo capo-saldo (seppur la più potente delle espres-sioni urbane), ma deve necessariamente ri-ferirsi a quell’insieme di grafi che generano un sistema connesso, probabilmente il più complesso dei sistemi connessi possibili. La risposta a questa sfida geografica non poteva trovarsi altrimenti che in un sistema infrastrutturale capace di risolvere – attra-verso il consolidamento di relazioni di rete – la complementarietà e l’interrelazione tra singoli rami. Nel gioco di aste e nodi di questa maglia di canali e rami fluviali, le

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La liberazione della città di Leida, 1574.

città divenivano di conseguenza i capisaldi di armature territoriali e di nuove relazioni policentriche, anziché essere semplice e iso-lata espressione di una condizione puntual-mente favorevole (porto, centro di un gran-de territorio agrario e cosi via). Si configura in tal modo un sistema connesso di relazioni policentriche, che sta alla base dell’apertura economica delle città sul piano regionale (ancor prima che su quello continentale), e allo stesso tempo intimamente connet-te certe forme di sviluppo autocentrato (la rivoluzione agrononica guidata dalle città olandesi) con altre di sviluppo estroverso (la solidarietà interurbana nella gestione degli affari della Compagnia delle Indie).Ancora una volta, ne è espressiva testimone la più larga iconografia (quale ci è esempli-ficata dal grande arazzo del Museum La-kenhal di Leida), che rappresenta con piena consapevolezza non solo il problema del sito urbano, ma anche i reticoli e gli orizzonti spaziali di tale policentrica organizzazione. Di queste rappresentazioni l’Olanda del sud, e in particolare i terminali lungo la Maas dei vari itinerari policentrici, sono elementi di primo piano.

Dunque, è proprio guardando all’importan-za di questi terminali canalizi (Schiedam e il Delft Haven) o alla funzione di contatto tra i traffici di altura, di cabotaggio e di traspor-to fluviale di Rotterdam, nonché alla loro funzione di centri posti lungo direttrici di scambio, che si comprende la perdita d’im-portanza di un centro come Vlaardingen, dotato di una più lunga storia ma di minori connessioni con il retroterra. Questo aiuta a comprendere come, proprio a partire dalle reti delle acque interne sviluppatesi sul siste-ma deltaico dello spazio olandese, si sia po-tuto attivare – primo caso nella storia – un ambito metropolitano di tipo policentrico41.

I trionfi del porto in quanto città-emporio

Consideriamo ora più da vicino l’evoluzio-ne della funzione in sé e analizziamo breve-mente il delinearsi dell’apogeo dell’emporio in epoca moderna. Non l’emporio in quan-to prodotto di una diretta autonomia am-ministrativa di una città stato, ma in quanto espressione pianificata di un’entità statale di tipo territoriale (regionale, nazionale o

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imperiale), che si propone programmatica-mente gli effetti del produrre servizi: fiere, porti franchi, magazzini generali e borse. In questa città di fondazione si sviluppa una dinamica insediativa che, fornendo l’aisan-ce du lotissement (urbanizzazione primaria), risulta capace di rispondere ai fabbisogni emergenti di una popolazione in rapida cre-scita, proprio attraverso il disegno urbano e un’ampia serie di opere di infrastruttura-zione. La stessa dinamica dà vita altresì a un im-portante building cycle che consente la cre-scita dei parametri e delle grandezze macro-economiche e la formazione di una “massa critica” capace di giocare un ruolo primario a livello della gerarchia urbana e della defi-nizione statal-territoriale. Seguendo questo filo rosso, limitiamoci a osservare Livorno e Trieste: due casi italiani, significativamente non solo casi locali, uno collocato nel Mediterraneo occidentale e l’altro in quello orientale. Livorno ebbe uno dei maggiori sviluppi dell’epoca, superando numerose contrasta-te vicende provocate dall’impaludamento prodotto dei ristagni (fonte di endemismo malarico) nella fascia della linea di costa e nei terminali del bacino dell’Arno, e dalle pestilenze che l’emporio stesso intensificava nei suoi effetti in quanto “mercato comune dei bacilli”. Il processo insediativo connesso al definirsi di un vero e proprio sistema sanitario risulta senza dubbio innovativo e capace anche di superare, con l’impianto di Lazzaretti e di Ospedali, le congiunture sanitarie critiche dovute alle stesse epidemie portate dall’am-biente portuale. Altre condizioni determinanti sono poi le-gate all’origine etnicamente diversa della popolazione e ai limiti insediativi dello spa-zio urbano. Occorre risalire al ripristino, voluto da Cosi-mo de’ Medici nel 1491, di una provvigione della Repubblica fiorentina, che accordava immunità ed esenzioni fiscali ai nuovi abi-tanti di Pisa e Livorno42. “Nel 1548 viene in seguito emanato il primo stabilimento di privilegio a quanti, con famiglia, si trasferi-vano in città, garantendo sicurezza nelle per-sone e nei beni ai debitori pubblici e privati e ai condannati con sanzioni pecuniarie”43. E ancora, dopo il 1593, Francesco I pubbli-ca l’indulto in 44 articoli – la Costituzione

Livornina – per favorire tutti i mercanti di ogni nazione e credenza, che fossero venuti ad aprire commerci e casa a Pisa e Livorno. L’appello è rivolto con un bando espressa-mente ai “Levantini, Ponentini, Spagnoli, Portoghesi, Greci, Tedeschi, Italiani, Ebrei, Turchi, Mori, Armeni e Persiani”44. Lo spazio ridotto del bacino portuale, senza adeguate attrezzature, faceva si che i traffici navali avvenissero, privi di protezione, in prevalenza in mare aperto. Furono la pre-senza ricorrente della malaria, oltre alla pe-ste nella Toscana del 1582, a far sospendere forzatamente le opere già intraprese, fino a quando Ferdinando I, succeduto a France-sco I, ordinò di riprendere il programma costruttivo interrotto e “costituì un Consi-glio livornese di tecnici esperti in opere mi-litari e marittime, per progettare una città e un porto più grandi e tali da rispondere al nuovo destino di Livorno, esplicitamen-te designata come città-emporio di tutta la Toscana”45.Era dunque Livorno ormai una città-porto organicamente pianificata perché potesse accogliere 20.000 abitanti e più di 30 navi insieme: si trattava di promuovere una “fon-dazione mercantile”46.La popolazione entro le mura ebbe a Li-vorno un continuo incremento passando da 749 abitanti nel 1551 a 8.000 nel 1604, a 12.000 (quasi quanto Pisa) nel 1621, e a 28.040 nel 1745. Questa crescita avviene in un momento in cui i centri degli inte-ressi si spostano sull’Atlantico; così, mentre in Toscana decadono l’artigianato locale e l’industria tessile, l’operazione livornese ap-pare come una sfida, ed è un tentativo di geografia volontaria per il superamento degli equilibri degli Stati rinascimentali entrati in profonda crisi47.Viene quindi pianificato il quartiere Venezia Nuova proprio nell’entroporto, riunendo gli abitanti di Venezia e S. Marco e recuperan-do lo spazio occidentale della Fortezza Nuo-va e la zona fra l’antico canale e il porticcio-lo dei Genovesi, che verrà interrato48. Nelle linee di sviluppo della città del Mori riferi-scono di “tenuissimi stallaggi” con i quali si favoriva un vero “commercio di deposito”. Nello stesso tempo aumenta la richiesta di suoli edificabili, che vengono ricavati in lot-ti dentro la Fortezza nuova e destinati per volere mediceo alla società urbana, che do-veva essere costituita da “finanzieri, ricchi

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mercanti, artigiani, arrisicatori, forzati”. Si tratta quindi di un piano organico per inve-stire ad alta produttività di reddito i capitali pubblici, richiamando in città anche risorse private e interessi di lavoro e d’abitazione “senza differenze di classe per la borghesia mercantile e il proletariato urbano”49. Il ca-rattere tipologico e figurativo dei fabbricati nel quartiere Venezia Nuova si distingue per le misure alte, uno dei primi esempi in Italia di maison de rapport, corpi di fabbrica per più appartamenti e caratterizzati dalla desti-nazione d’uso mista dovuta alla presenza ai piani terreno e primo di depositi di servizio per il porto. Una popolazione cosmopolita e fluttuante verrà così a determinare l’identità urbana e civile di Livorno come città-porto, da un lato, profondamente diversa dal vec-chio tessuto degli acquartieramenti per et-nie del Mediterraneo, e dall’altro, estranea all’assetto e alla tradizione storica della To-scana. Numerose “comunità” verranno così a stabilirsi a Livorno costituendo un habitat urbano unico di isole sociali e di impianti insediativi con lingue, usi e tradizioni diver-se50. Nel 1728 con la visita dell’Imperatore a Trieste aveva preso corpo il progetto di un emporio, di un porto militare e di un arse-nale: “Una nuova immagine per una città-porto, completamente indifesa, senza mura, cannoni, avamposti, catene; completamen-te esposta a un attacco nemico portato dal mare. I porti olandesi potevano permettersi

qualche disinvoltura difensiva perché per giungere alla città bisognava forzare l’IJssel-meer ma per Trieste la cosa appariva certo più audace”.Ma queste similitudini e queste visioni nuo-ve di città aperta avevano radici funzionali profonde. Quando l’architetto Fusconi traccia il “Pia-no di una nuova città” il piano per l’esten-sione di Amsterdam è già stato eseguito in due differenti fasi tra il 1609 e il 1625, e tra il 1657 e il 1663; l’intervento olandese “servirà a ispirare il modello formale e or-ganizzativo dell’architetto e dell’Intendenza Commerciale51. Anche le banchine proget-tate da Giovanni Fusconi si avvicinano alle dimensioni di quelle olandesi: 6 klafter in quelle triestine, 10 metri nelle banchine di Amsterdam. Sulle banchine un’altra simili-tudine sorprendente: gli alberi. Là erano de-gli olmi qui dei tigli, ma il paesaggio da loro creato è lo stesso”52. Se i primi edifici realizzati nel Distretto saranno grandi e costose realizzazioni fatte eseguire dai ricchi mercanti, giunti per pri-mi in città, e non mediocri case d’affitto, si passerà poi a costruire residenze, manifattu-re e locande, e soltanto negli anni successivi, con l’arrivo di artigiani e piccoli negozianti, si inizierà a costruire più modesti edifici53. “Alcuni si sono già annunciati presso di noi, che qui a tale disposizione vogliono prende-re un Posto, portare subito alcune barche e contenitori di legno, e subito dopo voglio-no edificare vari edifici al loro posto (...)”54. Il progetto avrebbe così potuto ospitare nei suoi canali: “attraccate con sicurezza tanto le imbarcazioni di passaggio quanto quelle dei nuovi abitanti in attesa di costruirsi la casa. Il progetto risolveva contemporaneamente due problemi, quello del porto e quello del-la città, realizzando una notevole economia di scala e coinvolgendo i privati negli scavi dei canali. La Cassa Imperiale non avreb-be dovuto intervenire tanto onerosamente quanto nel caso del precedente progetto”55. La colmatura delle saline, lo scavo dei cana-li, i nuovi tratti di banchina, i moli, l’edifi-cazione dei nuovi edifici pubblici, nonché la manutenzione operata su quelli già co-struiti, contribuivano a mantenere vivace il mercato edilizio. Trieste è un formidabile cantiere di innovazione nel campo sia della razionalizzazione del ciclo edilizio, sia del rinnovamento del tessuto microurbanistico:

F. Zucchi, La Città di Livorno celebre Porto di mare nel Gran Ducato di Toscana, Venezia, 1751.

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“Per queste ragioni i magazzini erano talvol-ta più richiesti delle abitazioni stesse. Spesso occorreva un deposito per il legname, per le pietre, per coppi e le tavelle, e questi ma-teriali dovevano essere lavorati per divenire travature di solaio, tavole per l’impiantito, conci perfettamente combacianti56. Così, quando il porto era vuoto e scarseggiavano le merci, si poteva accontentare la richiesta di deposito avanzata da qualche capoma-stro. Allo stesso modo nei rari periodi du-rante i quali scemava la domanda dei privati potevano essere soddisfatte le necessità in-dotte dalle opere pubbliche”. Sullo sfondo di tutto ciò ecco apparirci uno squarcio fondamentalmente legato alla se-dentarizzazione, ovvero alla relativa fissazio-ne su terra ferma, di una figura specifica e di straordinaria portata storica: il mercante armatore. A Trieste molti commercianti vivevano sta-bilmente nelle loro barche. Molti di quelli che vi giungevano per la fiera, davano fon-do all’ancora sottocosta e vi rimanevano per oltre un mese. Quest’abitudine comune ai piccoli mer-canti-armatori nordici o mediterranei era propria di chi solcava i mari con le proprie merci alla ricerca di congiunture favorevo-li, di chi metteva la propria disponibilità di tempo al servizio di una tale ricerca.Non diversamente ciò avveniva altrove, in ambito genovese ad esempio: “La catego-ria dei commercianti-armatori non solo era numerosa a Genova nella prima metà dell’Ottocento, ma lo era anche negli altri ben più piccoli porti della Riviera. Ma il grosso del movimento tendeva sempre più a concentrarsi nel porto della Superba. Negli “scagni” attorno al porto e in piazza Banchi venivano concordati acquisti di grano russo ed egiziano per conto di importatori italiani e di clienti inglesi. Le navi che compivano il trasporto verso la Gran Bretagna dei cereali acquistati in mar Nero o in Egitto venivano utilizzate con carichi di ritorno di carbone e manufatti dal Regno Unito per Genova. In mano ai genovesi erano anche il commercio del vino, degli oli e di molti generi alimen-tari. La presenza genovese era forte anche nei settori della lana e delle pelli”57.Si configura così uno scenario capace di de-finire nuove occasioni di direzionalità e di consolidamento di un’attività terziaria come scenario di un processo diffuso di produzio-

ne di servizi allo sviluppo manifatturiero. “Tutta questa attività commerciale ha la funzione di mobilitare il piccolo risparmio verso impieghi produttivi. Prima dell’affer-marsi delle società anonime, l’istituto della caratura offre infatti anche ai piccoli rispar-miatori la possibilità di accedere all’attivi-tà marittimo-commerciale e all’impresa di suddividere il rischio, distribuendo i capitali investiti su un certo numero di navi”58...

Si guardino le immagini con la presenza delle imbarcazioni disposte in seconda e terza fila – in andana – con spesso a bordo

Prospetto della Città di Trieste e de’ suoi Porti come si vede dalla parte Settentrionale verso Mezzogiorno, 1728.Situazione della Cesarea città e porto di Trieste, 1801.

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Veduta dei docks de la Joliette nel porto di Marsiglia, XVIII secolo.

il commerciante armatore in attesa di con-giunture utili alla esitazione di una parte del prodotto. Nel porto di Marsiglia, prima che un’appo-sita legge consentisse alla città di dotarsi di un nuovo e più ampio bacino, quello della Joliette, si registrava un movimento di 20 navi al giorno e la presenza contemporanea all’ormeggio di ben 700 bastimenti: “Ne conseguiva una grave congestione; e le navi, per poter essere accomodate, dovevano es-sere sistemate in doppia fila, perpendico-larmente alla banchina e così vicine, le une alle altre, che le operazioni di entrata e di uscita non potevano essere eseguite sfrut-tando le vele”. Questa strozzatura veniva ulteriormente aggravata dal fatto che esiste-va un numero sempre più grande di mezzi di trasbordo che contribuivano a occupare il bacino. Le dimensioni medie della nave armata dal commerciante erano in genere modeste, pertanto per movimentare grossi volumi di traffico erano dunque necessarie molte navi. Questo fatto, unito alla lentezza delle operazioni di carico-scarico, richiedeva dunque molti metri lineari di banchina che risultavano comunque congestionati.

A Genova, dove nella prima metà dell’Otto-cento si era registrata una eccezionale con-centrazione di commercianti-armatori, la situazione non appariva molto diversa, ma ciò accadeva proprio perché nella concezio-ne del mercante armatore la nave era spesso considerata alla stregua di un magazzino galleggiante, senza effettiva necessità di esa-sperare la produttività della movimentazio-ne del carico.

La crisi tardo-ottocentesca del mercante armatore e i paradossi del vapore

Con la seconda metà dell’Ottocento si ma-nifesta la rapida scomparsa della figura del mercante-armatore. A metterlo fuori gioco contribuiscono, tra gli altri, due eventi determinanti: lo svilup-po delle nuove tecnologie e, in particolare, la navigazione a vapore e la guerra di Cri-mea (1848-1870). Quest’ultima “creando una forte domanda di trasporto per truppe, armamenti e materiali di rifornimento (il solo corpo di spedizione sardo, intervenu-to nel 1855, era di circa 18.000 uomini),

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fà uscire l’armatore-commerciante dall’an-tica logica e lo trasforma in puro venditore di spazio a bordo. Diverse flotte approfitta-no dell’occasione e nasce un modo nuovo di fare l’armatore: chi ha la nave offre solo un servizio di trasporto, lasciando ad altri il compito di commerciare le merci che egli si impegna a portare per mare”59. Con l’avvento del vapore si ha la conseguen-te progressiva specializzazione delle funzioni armatoriali: “Nel passato, il viaggio per mare delle merci era considerato una funzione in-timamente collegata con il commercio. Chi commerciava beni con l’oltremare doveva necessariamente essere anche armatore: non esisteva infatti la figura di colui che impegna capitali al solo scopo di vendere a terzi il ser-vizio di trasporto”60. L’impatto di questa trasformazione è du-plice: essa riguarda un importante cambia-mento sia nella domanda di strutture e ser-vizi portuali, sia nella stessa composizione del ceto economico che gravita attorno al porto. Quando la figura del commerciante-armatore era dominante, al porto si chie-deva innanzi tutto di dare riparo alla nave, di fornire un elevato numero di accosti,

la disponibilità di magazzini e poche altre cose. La nave non era molto importante per l’armatore-commerciante: il suo valore, rap-portato al valore del carico, era molto mo-desto, qualche volta addirittura irrisorio. Nel 1893 la navigazione a vapore rappresen-tava già i nove decimi circa del movimento del porto61. Così è che la questione della re-golarità dei flussi, la produttività e i tempi di banchina prendono il sopravvento sulle congiunture, come appunto ci attesta, nel 1894, la relazione della Commissione del porto di Genova61. Era certamente questa una rivoluzione copernicana; di questa situazione radical-mente nuova si trova traccia in moltissimi documenti che riguardano i traffici marit-timi dell’Ottocento. Il rapporto tra metri di banchina e carico movimentato diverrà allora il principale parametro di riferimento per giudicare la situazione e l’efficienza di un porto. Sul fronte del porto, dunque, produttività degli spazi di banchina, efficienza delle cala-te appaiono le nuove parole d’ordine. Non più congiunture, ma ragioni complessive di crescita con tassi e trends certi e sicuri, corre-

Vedute dei porti di Marsiglia e di Genova alla metà dell’Ottocento; in evidenza il gran numero di navi mercantili alla fonda in attesa delle migliori condizioni per transare.

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lati agli aggregati macroeconomici; ed ecco il traffico complessivo del porto di Genova, che nel 1875 assommava a 1.264.000 di tonnellate, passare nel 1884 a 2.394.800, e altri dieci anni dopo, nel 1893, raggiungere i 3.455.400 di tonnellate movimentate. Alla fine dell’Ottocento, l’aumento del traffico commerciale del porto rese così indispensabile l’ampliamento delle sue strutture. A questo scopo fu nominata una Commissione, a cui fu affidato “lo studio dei provvedimenti necessari a soddisfare i bisogni del traffico nel porto di Genova” (marzo 1894-gennaio 1896). La prima parte del lavoro della Commissio-ne mira principalmente a mettere in rilievo la deficienza delle calate e del corrispon-dente sviluppo di binari: “Anche a questo riguardo si procedette col metodo compara-tivo; presa, come base del movimento pre-sente, la densità media dello scarico che si effettua per ogni metro lineare di calata, o di ponte sporgente, utili per operazioni di commercio, si trovò che la media risultante è di tonnellate 535. Se poi si considera il singolo movimento di merci speciali, come quello dei carboni, si trova che lo scarico si fa persino con una densità di tonnellate 890 per metro lineare; intensità massima, di cui non havvi esempio in nessun altro porto. E né i grani, né i cotoni versano in condizioni migliori. I porti principali della Germania, dell’Inghilterra, dell’Olanda e della Spagna hanno un movimento normale medio di tonnellate 414 per metro lineare. Lo supera, ma ben di poco, la Francia col suo porto di Marsiglia, dove è di circa 420, e il detto coefficiente fu trovato già forte, per cui s’è deciso di provvedere a un ulteriore aumento di calate”62.Ma non è solo il rapporto economico e tecnico col nuovo vettore a determinare i cambiamenti del quadro, il vapore investe anche il retroporto. Si attiva tra ferrovia e navigazione un nuovo scenario di relazioni modali che a sua volta induce un profondo mutamento nella costruzione delle direttrici di scambio.Si delineano così due grandi filoni della at-tività marittima: quello della busca e quello della linea: il primo impostato sul movi-mento di carichi senza stretti vincoli di per-corso; il secondo su collegamenti regolari da punto a punto, con una logica simile a quella del trasporto ferroviario, a cui nessun

porto potrà più sottrarsi63. Il fatto è che l’avvento del vapore, e dei suoi effetti via terra e via acqua (il dominio delle rotte rispetto alla busca da un lato e delle linee del ferro dall’altro), contribuisce a de-finire uno sviluppo sempre più solido degli stati nazionali territoriali.Inevitabilmente tutto ciò si presenta come una drastica rottura, non priva di risvolti traumatici.All’accrescersi quantitativo degli scambi delle merci fa da riscontro un impoverimen-to di altra natura: ossia è la stessa rivoluzio-ne tecnologica che investe la navigazione e i porti con le sue implicazioni logistiche a di-minuire le occasioni e l’intensità dei contat-ti culturali. “La riduzione dei tempi di ban-china implica la riduzione della durata dello sbarco dei marinai, che per giunta navigano di più e più regolarmente. Sedi e soprattutto tempi dei legami si riducono a loro volta, mentre i mutati sistemi di comunicazione e l’uso sempre più massiccio del telegrafo decrementano la quantità di residenti esteri nei porti, e di fatto sgonfiano la consisten-za delle colonie mercantili che, nel passato, proponevano (e talora imponevano) ai na-tivi diversi modi di vita e di pensiero. Alla fine dell’Ottocento, nell’Europa delle nazio-ni e dei nazionalismi, i porti restano ancora delle “finestre sul mondo”, ma sono sempre più spesso finestre meno spalancate”64, che rischiano di perder la loro funzione di “serre calde”, mentre le città capitali e le metropoli attirano sempre di più uomini e novità.Così “l’avvento della navigazione a vapore fu sul medio periodo la fine di un grande numero di porti che esistevano e funziona-vano fin dall’epoca fenicia o greca. Gli scali si ridussero, aumentando le esigenze di pe-scaggio, di spazio di manovra e di impianti industriali. I piccoli luoghi di pesca tradi-zionale e di cabotaggio, riparati in recessi pittoreschi e chiusi, videro giungere villeg-gianti e turisti, ma si separarono definitiva-mente dalla grande navigazione”65. Come dovunque, il costo elevato delle opere dei porti costrinse alla loro concentrazione. Solo alcuni, attrezzati per le esigenze della vita marittima odierna, continuano, nello stesso luogo, una antichissima tradizione: Marsiglia, Napoli, Genova, Pireo, rientrano in questo caso e sono, forse, i piú antichi tra i grandi porti del mondo 66. Per comprenderne il significato, si pensi a

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come nel Mediterraneo orientale la busca e il cabotaggio, ossia lo scenario prevalente in cui operava il mercante-armatore, facesse sì che, fino all’inizio del nostro secolo, le cit-tà greche, le “città della stirpe”, non siano tanto quelle che stanno entro i confini della nazione-stato, ma continuino ad essere le città cosmopolite, poste al di fuori: Costan-tinopoli, Smirne, Alessandria. Ancor prima che a Salonicco e Atene, pro-prio al Pireo si ha – per così dire – una potente implosione: gli armatori greci vi si concentrano, i prodotti specializzati delle isole vengono qui dirottati; il porto del Pi-reo diviene un potenziale key gate, rispetto al sempre più vasto mercato urbano di Atene, ma senza una strategia di sviluppo territo-riale nessun effetto frontiera, proprio di un key gate, vi sarà praticabile.

Banchine, vie carrabili e ferrovie: il porto di transito

All’inizio del XIX secolo, l’affermarsi di una rivoluzione nei trasporti, che prima inve-ste lo scenario carrabile e poi, con l’abbi-namento ruota-vapore, quello ferroviario, è l’indicatore più significativo del radicale mutamento di rapporto tra porto, città e hinterland. Ancora una volta è l’iconografia a guidarci nella ricerca.Ammettiamo pure che una veduta come quella dello Schinkel (1803) sia in qual-

che modo influenzata dal tema paesistico dell’incontro col Mediterraneo – la sua ve-getazione e la sua storia classica –, ma cer-tamente la veduta da posteriori o dall’interno (dalla strada che scende dal Carso della riva vecchia e del porto franco che compare a occidente della città), è fortemente sinto-matica di un diverso porsi del rapporto tra viabilità e tessuto microurbanistico della città-porto. Del resto la visione di Schinkel tendeva a confermare quella veduta dall’alto che le strade austriache ormai ben consentivano67. Nella Veduta Meridionale della Città e Por-to Franco di Trieste di Pollencig (1801), la città non viene più ripresa dal mare, ma da un punto di terra. Esso è ricercato in modo che ne esalti e non appiattisca l’articolazio-ne funzionale delle sue parti; e così è anche un anno più tardi nella Vue de la Ville et du Port-Franc de Trieste di Heymann o nella Vue générale de Trieste di Cassas. Non è più, dunque, solo il mare, ma anche la strada a costruire un solido legame tra porto e città, perché: “Il commercio aveva bisogno di nuove strade per poter collegare i porti dell’alto Adriatico ai mercati continen-tali. Ecco che Trieste riesce proprio in questi ampi circuiti, in parte avvolgenti le Alpi, in parte circuitanti il pedemonte padano, a trovare, ancor più che in pure indicazioni dirette di valico, il suo riferimento e, in tal modo, riesce a definire una nuova nodali-tà68. Dal 1857, a seguito del completamente

Il porto del Pireo, 1882.

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della linea ferroviaria Vienna-Trieste, lo sca-lo giuliano è il primo porto sudeuropeo col-legato, via ferrovia, con la regione alpina”69. Osservando nello scorcio del secolo il qua-dro dei valichi, il loro evolversi in quanto a dotazione infrastrutturale e peso di flus-si, sembra sempre più confermarsi quella direttrice meridiana che da Genova (che si andava affermando come l’indiscusso prin-cipale porto italiano) passando per Milano e il Gottardo sale alla valle del Reno. Questa direttrice si configura come vera e propria via istmica europea, in alternativa a quell’al-tra che da Marsiglia si dipana lungo l’asse Rodano-Reno.Dovevano, tuttavia, passare ancora più di vent’anni prima che – grazie alla ferrovia del Gottardo – il porto di Genova e il suo na-turale hinterland transalpino venissero con-nessi attraverso una rete di comunicazioni di livello continentale in grado di facilitare i rapporti commerciali del Mediterraneo con la Svizzera e la Germania. Ma l’apertura di un traforo è di per sé sufficiente per garanti-re un decollo dei movimenti?Sgombriamo subito il campo da facili entu-siasmi. In una recensione, a firma di Lucien

Febvre, comparsa sul primo numero della prestigiosa rivista “Les Annales”70, quasi a volere da subito sfatare ogni possibile lega-me tra storia e determinismo geografico, egli ci spiega come non basti la ridotta distanza di una tratta ferroviaria a fare di Genova il porto della Svizzera e delle sue importanti città industriali; e ancor meno di alcuni am-biti della Germania del sud71. Piuttosto, un complesso quadro tariffario di noli, di ser-vizi, di pratiche di accompagnamento, più vicine omogeneità culturali, giuridiche lin-guistiche, determinano le scelte riguardanti i trasferimenti della merce, e ciò è tanto più vero quanto essa abbia un maggior valore aggiunto. E ancor meno dobbiamo crede-re che basti costruire una infrastruttura per definire una sua spontanea condizione di corridoio di transito. Così proprio nel caso di Genova, si dovrebbe testare, a fronte della insipienza degli enti territoriali nazionali, il relativo interesse da parte delle ferrovie sviz-zere a svolgere ancora lungo questa direttri-ce la funzione storica – “elvetica”, appunto – di staat pass72. Francesco Saverio Nitti osservava nel 1910 che: “i porti italiani, Genova stessa, riman-

K. F. Schinkel, Veduta del porto di Trieste, 1803.

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gono porti essenzialmente regionali e no-nostante gli sforzi solo la minor parte del traffico è diretta all’estero”73; mentre da uno studio pubblicato nel 1911, in un supple-mento del “Corriere Mercantile”, si può rilevare che: “l’hinterland dei porti dell’al-to Tirreno è fondamentalmente limitato all’area del Triangolo nella quale è dislocato circa il 40% dell’industria nazionale”74. Il movimento di transito internazionale del porto di Genova, in questo stesso periodo, è valutato intorno al 5% del traffico com-plessivo, smentendo la previsione secondo cui, dopo l’apertura del Gottardo, “Genova avrebbe potuto estendere il suo retro terra a tutta la Svizzera e a una parte della Germa-nia meridionale”75. In effetti, la linea del Gottardo aumentò sensibilmente gli scambi commerciali italia-ni con le aree geografiche immediatamente al di là delle Alpi, ma già cominciavano a farsi sentire gli effetti dell’utilizzazione, da parte dei porti nordeuropei, delle vie d’ac-qua interne (in particolare la migliorata navigabilità del medio Reno). In molti casi per Berna e Zurigo, obiettivi vagheggiati dai genovesi, Anversa e Rotterdam risultano

già più convenienti nonostante la maggior estensione del percorso terrestre che la via del Nord impone alle merci. Tema annoso, ma anche di grande attuali-tà, sempre fonte di grandi preoccupazioni e speranze, quello delle possibili correnti di flusso captabili dall’oltralpe, esso apre il ca-pitolo delle fughe e delle distorsioni di traf-fico a danno di Genova, tema che ha origini molto lontane e che pone in gioco, come abbiamo già ricordato, molte variabili.Tra queste la prima è senza dubbio data dal fatto che nella valutazione da parte degli operatori dell’area alpina è fondamentale la considerazione del “nolo e la frequenza del servizio. Il prezzo del trasporto marittimo, infatti, non è solo in funzione delle miglia percorse dal piroscafo, ma anche del rap-porto tra flussi in entrata e in uscita su una determinata rotta, giacché una nave trova le sue massime condizioni di economicità quando riesce a riempire le stive tanto nel viaggio di andata quanto in quello di ritor-no. Inoltre grandi volumi di traffico giusti-ficano, oltre a partenze frequenti, l’offerta di un insieme di servizi collaterali di alta qualità che già in questo periodo pongono

La zona di localizzazione dell’Ansaldo a Genova Sampierdarena, 1840 ca.

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il Northern Range in una condizione privi-legiata”76. A fronte di ciò si pone da un lato, il tema dell’interlocuzione di un Ente porto, in quanto soggetto capace di connettersi a una politica degli interventi di ampio respiro; dall’altro, il tema della presenza dei vari operatori internazionali attivi a Genova e delle partecipazioni sia sul piano finanziario che tecnico dei vari armatori, spedizionieri, assicuratori.Alla data dell’Unità, Genova è un porto il cui sviluppo è in parte “pericolosamente sgan-ciato dagli interessi del ceto commerciale e armatoriale, visto che molti rappresentanti degli ambienti economici genovesi che trag-gono beneficio dall’attività marittimo-mer-cantile usano ampiamente i loro risparmi per diventare azionisti di imprese ferrovia-rie, di società di gestione di pubblici servizi e di istituti di credito; oltre, naturalmente, a investire nel settore immobiliare”77. Si pone allora il problema del fino a dove Genuensis ergo mercator comporti una pru-denza a puntare su investimenti di lungo periodo; fino a dove la pratica del negotio li favorisca – i Genovesi – nel trovare l’occa-sione per ribaltare a proprio favore le situa-zioni; in altri termini si pone il problema del come la città-porto si rinnovi, andando oltre la vecchia struttura consolare dell’emporio e oltre il “porto pubblico” in cui lo stato inve-ste a fondo perduto.Quindi occorrono: nuovi bacini, scali, ma-gazzini, binari sulle calate, uffici doganali più efficienti, procedure più snelle. La que-stione dei porti, dopo l’Unità, s’inizia a pa-lesare come la costruzione di un punto di rot-tura di carico. Ciò significa dover governare il passaggio da porto-emporio a porto di tran-sito: “Negli anni Settanta l’impiego indu-striale del vapore cambia ormai, in maniera definitiva, il paesaggio portuale non solo per il crescente numero di piroscafi, ma anche per la trasformazione dei trasporti terrestri. Paradossalmente i primi rivolgimenti strut-turali nei porti derivano non dalla nave, ma dalla ferrovia78.Quando un sistema ferroviario passa dalla dimensione di collegamento punto a punto a quella di un grafo configurante una vera e propria dimensione di rete (nei cui nodi sono localizzate polarità importanti urba-ne), le infrastrutture portuali sono obbligate ad adeguarsi.

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La ferrovia “a rete” richiede, in quanto po-tentissimo collettore di traffico, una con-centrazione in alcuni punti di carico termi-nali, quali sono appunto i porti, ove si dia lo smaltimento veloce dei vagoni, che è legato alla rapidità delle operazioni di carico-scari-co delle navi: “Il porto per conseguenza ha bisogno di essere dotato di mezzi meccanici adatti alle operazioni di manipolazione delle merci, di piazzali e magazzini adeguati e di molti metri lineari di banchina”79. Per questa ragione si arriva ai banchinamenti a pettine (un modello incontrastato fino alla metà del XX secolo) che consentono di far giungere i carri in banchina e di aumentare la linea di contatto con la nave, senza l’occupa-zione di superfici troppo estese. Nella consapevolezza dell’esser città-porto, sempre più si delinea come centrale il tema di una accessibilità complessiva: in primis di tipo trasportistico in senso intermodale, (per merci e persone), ma legata altresì al sistema delle comunicazioni e alle forme di direzionalità e di governo degli scambi e dei sevizi connessi ai processi di produzione. Ciò richiede specializzazioni e forti sinergie. Queste trasformazioni si sono definite nei processi di civilizzazione di società in evo-luzione verso un industrialesimo già matu-ro e con alti tassi di urbanizzazione. Ciò è avvenuto in particolare nell’Europa centrale e nord-occidentale. Qui questo principio duplice delle specializzazioni e delle sinergie più che su generici scenari di bacino e di hinterland portuali, risulta indirizzato verso la risoluzione della rete delle armature urba-ne e ai sistemi portuali regionali. Da questo punto di vista, potremmo prendere in con-siderazione molti esempi: il binomio Rou-en-Le Havre, o ancora del sistema di porti connessi alla testa dell’estuario dell’Elba,

ossia al sistema Amburgo-Altona-Harburg, e altri ancora; ma ci limiteremo qui al solo caso olandese. Domandiamoci cosa ci insegni, da questo punto di vista, l’Ottocento olandese, osser-vando la costruzione dell’armatura incen-trata nei nodi continentali di Amsterdam e Rotterdam.Nell’Ottocento, dopo un periodo di rista-gno, l’Olanda, con l’apertura di grandi ope-re canalizie e la costruzione della rete ferro-viaria, si lancerà in una impresa che darà alla rete infrastrutturale maggiore respiro conti-

Il Nordzee Kanal: nel 1878 e negli anni Cinquanta.Piano di insieme del territorio attraversato dal Nordzee Kanal, 1957.

A fronte:Carta del porto di Genova, Touring Club Italiano, anni ‘50.Piano per la Grande Amsterdam di C. van Eesteren, 1929-1932.

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nentale. Nuovi riferimenti macrourbanistici investiranno Amsterdam e Rotterdam, le quali non solo sono rispettivamente le capi-tali dell’Olanda del nord e di quella del sud, ma anche i poli del primo ordine nei due sistemi che formano l’anello del Randstad. Ad Amsterdam l’apertura, nel 1876, del canale del mare del Nord, consentirà uno sbocco diretto al mare aperto e sarà in gra-do, lungo le sue sponde, di organizzare ser-vizi in autonomia funzionale e portuale80. A Rotterdam una coeva opera di canaliz-zazione della Maas costituirà, in sinistra e destra, una completa e innovativa organiz-zazione degli haven, nuove tecniche di rot-tura di carico, di groupage e di movimenta-zione, rompendo con le precedenti strategie dell’emporio e dei magazzini generali. Si definiranno così ampi spazi di banchina-mento e azzonamenti, soprattutto a sud, atti a rispondere alle nuove specializzazioni dello stoccaggio e movimentazione delle rinfuse e del bunkeraggio, negli ampi specchi d’acqua degli haven favorendo inoltre un trasbordo diretto sulle chalands che solcano il Reno81.L’analisi dei flussi in uscita e in entrata dai porti, elaborati dall’Unità d’Italia fino alla metà del Novecento, e basati su significative comparazioni internazionali, ha sempre mo-strato rispetto alle tre fasce di destinazione (il retroporto cittadino, la fascia di un ampio bacino macroregionale e quella del bacino internazionale), il definirsi per ogni singo-lo porto di alcune specifiche caratteristiche strutturali. In particolare nella comparazio-ne tra Marsiglia e Genova, appare come, per la prima, fosse proprio il retro porto cittadino (per due terzi) a operare come epi-centro di origine e destinazione delle merci, mentre per Genova, fosse piuttosto il peso fondamentale del Triangolo industriale ad

avere grande rilievo. Per entrambe vi era un restante 5% circa come peso dei flussi inter-nazionali (Svizzera fondamentalmente). Un simile quadro è dunque profondamente segnato in primo grado dal processo dell’in-dustrializzazione del bacino padano e in se-condo da quello cittadino e di come il porto si debba a questi adeguare.Con l’avvento dell’industrializzazione: “la funzione dei costi di produzione dei servizi portuali comincia a caratterizzarsi per una prevalenza dei costi fissi su quelli variabili i quali, man mano che si meccanizzano i servizi, tendono a divenire, di fatto, propor-zionali al quantitativo di traffico trattato. Questo significa che un porto, finché non raggiunge il limite di congestione, può di-venire tanto più competitivo quanto più movimenta tonnellaggio”82. In altre parole, il meccanismo delle econo-mie di scala applicato alla nave e al porto e collegato ai settori guida si configura come fondamentale fattore di ampliamento del retroterra. Ma ancor più, a fronte di ciò è fondamentale vedere come si consolidino le economie esterne, ossia quelle dotazioni infrastrutturali capaci di definire un quadro funzionale al servizio delle imprese. Così è che una risposta nella costruzione di attivi rapporti tra infrastrutture portuali e forme di sviluppo industriale, si possa pertanto trovare ad ambito territoriale più ampio.Ed è proprio su un simile fronte che con-verrà porre lo sguardo per comprendere il senso del mutamento di grande portata che ha investito la città porto di Genova, il cui caso appare esemplare. Qui è possibile vede-re come abbia giocato la rete del ferro nella costruzione coerente di azzonamenti di re-troporto e nella costruzione di forti relazioni con il bacino padano.

Genova:planimetria catastaledella zona di Sanpierdarena-Polcevera, 1857;veduta dei Cantieri Bombrini alla fine dell’Ottocento.

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Il porto di Genova nel processo di indu-strializzazione del triangolo industriale

Come sappiamo Genova ha avuto un ruolo centrale nel processo di industrializzazione italiano per l’importanza degli stabilimenti che si erano concentrati sul suo territorio, legati alla domanda generata dalla realizza-zione dei sistemi infrastrutturali nazionali: armamento delle linee, motori primi, calda-reria, ecc. Da questo punto di vista la storia dell’Ansaldo interpreta al meglio – lungo un arco di tempo che supera ormai 150 anni – potenzialità e condizioni di crisi di questa fondamentale “economia esterna”, fornita da porto e ferrovia, e vi risponde attraverso la costituzione di una “industria motrice” legata prima al vapore e poi all’elettroter-momeccanica. “Fin dai primi anni della sua attività, Ansal-

do era stato fra i collaboratori dell’ ammini-strazione civica in commissioni municipali per lo studio di problemi attinenti alla siste-mazione urbanistica e alle comunicazioni”83. E dell’esigenza tanto di un ingrandimento del porto franco quanto di una ferrovia che allacciasse Genova a Torino e alla Lombar-dia aveva discusso nelle riunioni della Socie-tà economica di manifatture e commercio. Egli si trovò quindi nelle condizioni ideali per occuparsi dei lavori preparatori all’alle-stimento della stazione di Genova e di altre infrastrutture, allorché il Governo varò nel 1845 il progetto di una linea ferroviaria che collegasse il capoluogo ligure con l’entroter-ra piemontese e, di qui, con i paesi d’oltral-pe. Realizzando una strada ferrata da Geno-va a Torino”84. Queste note adombrano già il ruolo strate-gico di un’area che, per un lungo periodo,

La costruzione del ponte ferroviario sul torrente Polcevera.Lavorazione di una turbina navale. Ansaldo, 1926. Ritratto di Giovanni Ansaldo (1814-1859).

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si sviluppò industrialmente mantenendo un layout relativamente stabile in un ambito ter-ritoriale di poco più di tre ettari all’estremo lato sud ovest del comune di Sampierdare-na, in lato sinistro della foce del Polcevera85.Altri sono i vantaggi del sito: innanzi tutto è sul mare, e ciò piace a Philip Taylor che coltiva il disegno di dedicarsi anche all’atti-vità di costruzioni navali; è vicina a Genova, e può facilmente essere rifornita dal porto. Infine: “fa parte di un’ area che attrae nu-merosi imprenditori britannici che avviano in quegli anni aziende che danno stimoli e vivacità al tessuto economico del Genovesa-to”86. Così la Taylor & Prandi, che ha realiz-zato una fonderia, un reparto di fucinatura (assumendo modellisti, tornitori, aggiusta-tori, calderai e falegnami), punta ad acquisi-re anche un tratto di arenile, necessario per la produzione cantieristica.In questa congiuntura si delinea il ruolo del-la Regia Marina che sarà fondamentale per il comparto meccanico e siderurgico naziona-le, come dimostrano i progetti di legge del 1877 per il suo potenziamento e del 1878 “sull’erezione di stabilimenti siderurgici per provvedere ai bisogni della Marina e dei la-

vori pubblici”87. Un complesso intreccio di interdipendenze produttive farà sì che alla meccanica e alla cantieristica si associ, dopo il 1908, anche l’attività siderurgica.Giovanni Ansaldo (1814-1859) giocherà una strategia insediativa sempre più rivolta alle aree poste in destra del fiume e disloca-te lungo la ferrovia del Polcevera sfruttando smistamenti, scali raccordi. Si formerà, ora esteso anche in destra del fiume, uno dei centri fondamentali dell’industria meccani-ca e siderurgica d’Italia. Ma torniamo ad analizzare le dinamiche che investono più direttamente la struttura del porto, domandandoci come Genova abbia perseguito il modello della specializzazione delle banchine.Dal 1853 Genova è collegata per ferrovia con Torino e la politica liberistica di Cavour produce effetti positivi per il porto: “Al con-fronto con la maggior parte degli scali del Paese, quello di Genova è un porto che si distingue: ha una linea ferroviaria che arriva fino in piazza Caricamento e i cui binari si estendono sulle calate. La merce in alcuni casi può andare dalle stive delle navi fino a Torino senza trasbordi. Nessun altro por-

A. Descalzi, studi di ampliamento e sistemazione del Porto di Genova, 1856.

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to italiano può vantare un simile cordone ombelicale con il suo hinterland. Anzi, la maggior parte degli scali nazionali si trova in stato di quasi abbandono”88.La bella planimetria di Genova della Guida Touring del 1916 pone in evidenza come, cinquant’anni dopo – entro lo spazio ancora compatto del porto – si sia attuato un cam-biamento non di facciata. La dotazione dei raccordi ferroviari e il loro distribuirsi a fasci sulle calate e sui ponti, ap-pare emblematica del sopravvento che pren-dono i doppi legami con i magazzini e con la banchina, proprio nell’ambito di questo sforzo di miglioramento dell’ esistente: “al posto delle tettoie di ricovero merci rea-lizzate col piano Parodi vengono costruiti magazzini in muratura a più piani destina-ti a fare da supporto tanto alla funzione di transito quanto a quella di emporio. Molti di essi hanno una specializzazione merceo-logica (vino, oli minerali, cotoni, pelli, ecc.) e in genere sono dotati, per facilitare la rela-zione tra ferrovia e magazzino, di un piano caricatore a una quota superiore a quella di calata e più o meno pari al pianale dei carri ferroviari”89.

Ma è dopo l’Unità che Genova diverrà in-contestabilmente un porto legato ai processi di industrializzazione della città e del trian-golo industriale. La città diviene il “porto del carbone” che serve una vasta porzione del bacino padano e in questo senso assume una sua propria specializzazione: “Venendo a mancare la sollecita disponibilità del nuovo bacino il CAP concentra gli sforzi nel mi-glioramento di quello vecchio. In aggiunta alla realizzazione del Ponte Assereto (opera finanziata con la legge del 1897) viene co-struito, tra il 1906 e il 1910, Ponte Carac-ciolo. Si tratta di due opere strutturalmente piuttosto simili concepite tenendo conto principalmente delle esigenze della discarica di carbone. I due sporgenti hanno fondali di circa otto metri e, in seguito, verranno do-tati complessivamente di 21 carri eleva tori elettrici, iniziando così la eliminazione dal porto dei cuflinanti, figura cui tradizional-mente era affidata la discarica del carbone”90.Ma il caso di Genova è particolarmente in-teressante proprio per la straordinaria mole di progetti che vengono proposti per le tra-sformazioni e l’ampliamento del porto a partire dagli anni Cinquanta fin quasi alla

Marsiglia, il porto de la Joliette e la Cattedrale Maggiore all’inizio del Novecento.

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fine del XIX secolo91: “è possibile coglie-re come l’immagine virtuale di una delle contraddizioni che maggiormente hanno segnato l’evoluzione di Genova in epoca moderna. Il fatto cioè di non aver mai avu-to un porto emporio, ma di essere passata da un porto di epoca preindustriale – pratica-mente quello del Seicento – a un porto di transito, saltando ogni fase intermedia di sviluppo. Questo fatto appare ancora più evidente dal confronto con le vicende urba-ne di altre città portuali. A Genova, tra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento, non fu intrapresa alcuna rifondazione, della città in senso borghese e commerciale, come avvenne, per esempio, col Borgo Teresiano a Trieste o col Borgo Murattiano a Bari. Né tanto meno venne edificata neppure una di quelle ‘case di commercio’ che allora si an-davano diffondendo in quasi tutti i quartieri portuali d’Europa. Vennero cioè a mancare spazi e attrezzature che permettessero una più forte interazione tra attività urbane e portuali. L’attività commerciale rimase for-temente penalizzata cosicché la piccola e media borghesia mercantile colse l’occasio-ne della progettazione del nuovo porto per propugnare quel tipo di città-emporio che aveva visto sorgere, in quegli anni, nei più importanti porti commerciali. Il progetto Molinari-De Scalzi è forse quello che meglio interpretò queste aspirazioni proponendo un vasto porto-emporio che, riprendendo lo schema napoleonico del Tagliafichi con le due darsene alle radici dei Moli Nuovo e vecchio e integrandolo con una lunga fascia di edifici commerciali che correvano lungo tutto il fronte a mare, controbilanciava in volumi per lo stoccaggio le superfici occu-pate dalle attrezzature portuali. Più che di un porto, Molinari e De Scalzi, proposero un progetto di città”92.Analizzando ora più compiutamente l’am-pliamento del porto, è il caso di considerare dapprima le, per quanto modeste, espansio-ni orientali del piano Parodi e della Fiera, legate a quell’asse di direzionalità costruito intorno alla copertura del Bisagno e a Piaz-za Vittoria: “Non c’è né creazione originale né rimarchevole ampiezza. Ma la localizza-zione scelta, tra il molo Cagni e la foce del Bisagno, è a est dell’insenatura primitiva ed è un fatto interamente nuovo. Per la prima volta si abbozza un’estensione su questo li-torale orientale del quale si è giustamente

sottolineato il carattere scosceso e pittoresco tale che, una minima comodità di passaggio verso il retroterra aiutando, non ci si me-raviglia che corrisponda ai nuovi quartieri di abitazione. E l’innovazione può essere ricca di conseguenze. L’installazione della Fiera più in basso di questa ‘circonvallazio-ne a mare’, che ricorda un po’ la corniche marsigliese, ma accerchia più strettamente i quartieri di abitazione e le ville residenzia-li, avvia un raggruppamento di tutto quel-lo che concerne gli uomini in opposizione alle merci. Non è escluso che nel futuro la stazione marittima sia trasferita al di là del Porticciolo Duca degli Abbruzzi in contatto con la Fiera”93.Ritorna, dunque, il tema della direzionali-tà. In primo piano vi è il ruolo di una città -porto che ricerca tra grandi difficoltà, tra industria e logistica del porto di transito, la difficile costruzione di uno scenario consa-pevole di terziarizzazione.Ma è a Ponente che si giocano i destini di Genova94. Il legame stretto tra un processo di industrializzazione e il porto avrà il suo com-pimento evolutivo solo con il definirsi della Grande Genova, ossia con l’espansione già prevista fin dal 1905, delle banchine poste oltre la Lanterna (i primi progetti risalgono agli anni Settanta dell’Ottocento).Il fondamentale aspetto caratteristico di questo periodo è l’affermarsi dell’industria-lizzazione portuale, cioè l’insediamento di attività manifatturiere negli spazi contigui e circostanti il porto: “In origine si tratta di attività cantieristiche o comunque legate alle esigenze della attività portuale: l’indu-stria metallurgica e quella meccanica. Più tardi il fenomeno coinvolgerà i settori im-perniati sul carbone (soprattutto cokerie e produzioni di base per l’industria chimica) e poi sul petrolio e i settori che nei loro costi di produzione traggono beneficio dal fatto di localizzarsi dove esiste una pronta dispo-nibilità di materie prime”95. Questo processo di industrializzazione por-tuale continuerà a estendersi e, alla vigilia della prima guerra mondiale, “dalle foci del Polcevera alle colline di Murta nel comune di Bolzaneto, e lungo la fascia costiera di Sampierdarena a Sestri, si può osservare una estensione continua di aziende siderurgiche e meccaniche”96. Riprendendo quella strategia che già l’An-saldo aveva saputo attivare, prendono corpo

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rilevanti interdipendenze di produzione in sintonia con la specializzazione – in autono-mia funzionale – di parti dell’ampliamen-to del porto. Si pone in essere una espres-sione industrialista vincente, elaborazione fondamentalmente italiana, che coniuga la scelta del fronte mare dell’industria di base con le autonomie funzionali dei porti industriali: “I soli a rendersi conto del ruo-lo chiave dei terminali marittimi sono gli esponenti della industria di base. Per essi, dato il basso valore unitario del prodotto trattato, il contenimento dei costi portuali è fondamentale. Ciò vale tanto per il settore petrolifero quanto per quello siderurgico. Con una sostanziale differenza: mentre per il primo le esigenze portuali si manifesta-no soprattutto in termini di infrastrutture che occorre tenere al passo col gigantismo navale, per il secondo le infrastrutture non bastano: occorre il controllo del costo del-le operazioni di imbarco e sbarco e quindi del fattore lavoro. Per il soddisfacimento di queste esigenze nascono, nel mondo, i porti industriali, cioè porti nei quali vi sono stabi-limenti concepiti per essere funzionalmente legati alla banchina. Per Genova l’occasione si presenta, in campo siderurgico, con la in-stallazione di un impianto a ciclo integrale a Cornigliano, cioè alla estremità di ponente del porto alla foce del Polcevera”97, anche se tra molte difficoltà: “L’idea di Oscar Sini-gaglia, portata avanti poi da Marchesi, di poter fare della siderurgia a filo di costa ap-provvigionandosi di minerale e di carbone a basso costo a migliaia di miglia di distanza, creerà le condizioni per lo stabilimento si-derurgico SCI (che poi diventerà Italsider) di ricevere carbone e minerale di ferro ope-rando con propri impianti e propri uomini, ciò si riassume nell’espressione “autonomia funzionale”98.Ad accompagnare gli anni del miracolo eco-nomico poi si avrà che: “Dal Polcevera al Va-renna, le rive della periferia orientale di Ge-nova sono un vasto cantiere. In un continuo andirivieni di enormi chiatte si impiantano dei pesanti cassoni di cemento e si scaricano mucchi di materiale di sterro davanti a Se-stri. Draghe da 1200 metri cubi di capacità scavano i fondali per riversare più lontano impressionanti quantità di sabbia e di fan-go. Il 30 novembre del 1959 un terrapieno in forma di trapezio con un viadotto carra-bile aggettava di quasi un chilometro verso

il mare, oltre la piattaforma già avanzata degli impianti siderurgici di Cornigliano e la potente diga di protezione esterna che af-fiora dalle onde. Alla fine dello stesso anno si prevedeva l’imminente messa in opera di una pista aerea provvisoria di 750 metri, sul terrapieno interrato fino alle erosioni che segnano l’inizio delle nuove installazioni destinate agli idrocarburi. Genova si è data un aeroporto e un nuovo porto petroli, la cui combinazione morfologica costituirà ciò che è stato convenuto di chiamare il com-plesso di Sestri-Multedo”.Tutto ciò consentirà il superamento di alcu-ne strozzature come l’allagamento del molo Nino Ronco e l’ammodernamento della Ca-lata Derna: “È significativo che si proponga per l’ampliamento del molo Ronco un pon-te analogo a quello del bacino di Sampier-darena. Con questo si troverà realizzata una decongestione altamente auspicabile per un porto il cui tasso di manipolazione ha do-vuto raggiungere 950 tonnellate l’anno per metro quadrato, e dal quale c’è da aspettarsi un abbassamento dei costi”99.

Ampliamento del porto di Genova: nel 1934 (in alto) e negli anni ’50 con il sistema Sestri-Multedo.

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Le rotte e la complessità degli scambi intra e trans mediterranei

Fino all’avvento del trasporto intermoda-le il traffico di linea si caratterizzava per la varietà merceologica dei carichi e “per la notevole eterogeneità delle dimensioni dei consignment; doveva, per conseguenza, offri-re alle navi un insieme di condizioni otti-mali. La nave, per operare al meglio, doveva rispettare la compatibilità merceologica dei carichi; sfruttare al massimo la sua capaci-tà di trasporto, sia in termini di tonnellate imbarcate, sia in termini di metri cubi uti-lizzati; essere stivata, infine, minimizzando i tramacchi, vale a dire gli spostamenti del carico all’interno delle stiva.Questo modo di operare era evidentemente legato a due fattori fondamentali: la profes-sionalità e la tradizione acquisita a livello di porto nelle operazioni dei carico e scarico, e la condizione geografica che finiva per fa-vorire “i porti ubicati in modo da generare un abbondante ed eterogeneo flusso di mer-ci all’interno del quale si inseriva il vettore marittimo”100. L’avvento del container elimina in buona

misura queste due condizioni e indebolisce il potere dei porti: “ora è la compagnia di navigazione a dettare legge e a stabilire quali sono le vie che la merce dovrà percorrere. Può permetterselo poiché ha esteso la sua responsabilità di trasporto dal fondo stiva al destinatario finale della merce accollandosi tutti gli onerosi investimenti necessari. Né, d’altra parte, potrebbe, fare diversamente poiché solo vendendo un servizio porta a porta essa riesce a minimizzare i costi e, al tempo stesso, a rispondere al nuovo modo di esprimersi della domanda di trasporto101. Così con l’arrivo nel porto di Genova di Vento di tramontana, la prima nave porta container dell’armatore Musso (e mai nome appare più profetico), la situazione cam-bia radicalmente, non solo perché si acui-sce il contrasto tra armatori e portuali, ma perché si delinea una nuova logica modale che governa gli spostamenti a più alto va-lore aggiunto, quella dei TEU (Twenty-Feet Equivalent Unit o unità equivalente a venti piedi), che, grazie all’importanza assunta nel quadro della globalizzazione, impone le sue regole al singolo porto di transito, ne sposta facilmente i possibili hub di transhipment, e

I poli industriali urbani principali (cerchi grandi),secondari (cerchi piccoli), i complessi industriali costieri recenti (triangoli).

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ne determina scenari di intermodalità forte-mente rigidi.Tutto ciò si basa su due processi: l’unitizza-zione e l’intermodalità. L’unitizzazione dei carichi mette l’arma-mento e i porti di fronte a una rivoluzione che coinvolge tanto la nave, quanto i mezzi di trasporto terrestre; l’intermodalità, cioè l’impiego coordinato e unitario di modi diversi di trasporto (rotaia, strada, nave) senza che vi sia manipolazione della merce nel passaggio da un modo di trasporto a un altro, provoca la contemporanea evoluzione delle navi e dei mezzi stradali e ferroviari, che si adattano a trasportare merci imballate in contenitori standard o in semirimorchi. Unitizzazione e intermodalità, conducono ad affermare un nuovo concetto di porto, inteso come punto di saldatura fra due flussi di traffico, uno marittimo e uno terrestre, senza rottura di carico102. Più la saldatura è rapida, più il porto è effi-ciente; la convenienza, per la merce, a usare un porto piuttosto che un altro comincia, dunque, ad avere come termine di riferi-mento, non più la posizione geografica dello scalo, ma i costi e i tempi di resa dell’intero

ciclo del trasporto.“Ciò non sarebbe stato possibile con le vec-chie tecnologie che obbligavano la nave di linea a restare ferma nei porti per il 60% della propria esistenza. Le nuove navi pos-sono invece avere soste limitatissime, misu-rabili addirittura in ore. Da rate di imbarco/sbarco di 500 tonnellate al giorno (un re-cord per la nave tradizionale), con la uni-tizzazione dei carichi è possibile arrivare a 10.000 tonnellate al giorno pari a circa 650 TEU”103. Vi è stato un primo periodo in cui questa rivoluzione ha un enorme impatto nei por-ti di tutto il mondo; non contano più (o contano molto meno di prima), i metri li-neari di banchina, ma diventano importanti la superficie di piazzale per i container (e i semirimorchi, i mezzi speciali necessari alla movimentazione) e la capacità del porto di crearsi un hinterland sufficientemente vasto per generare flussi di traffico adeguati alle dimensioni degli impianti specializzati di cui deve dotarsi con i relativi investimenti.A tal proposito, se guardiamo a Genova per i problemi dell’oggi, a fianco delle strozza-ture per le banchine dei TEU, emerge il fat-

Traffico container in milioni di TEU, 2001.

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to dell’essere il nodo ferroviario d’Italia più difficile da gestirsi in termini di esercizio e di potenziamento della rete. Di tutto ciò possiamo farcene una qualche ragione os-servando quel fascio di relazioni infrastrut-turali che stanno susseguenti al Polcevera e la cui densità è una delle più alte per con-centrazione d’Italia. Lungo gli ultimi centocinquant’anni, il valico dei Giovi, quello della rivoluzione stradale settecentesca che tende a unificare i tracciati delle antiche vie del sale e delle strade doganali, il traforo ottocentesco del-la ferrovia con il suo posizionarsi in sinistra del Polcevera (aprendo una ampia curva in Sampierdarena), l’autocamionale degli anni trenta del Novecento (che tende ad allontanarsi da quel fondovalle per cercare un recapito più diretto verso la Lanterna e i moli), insomma la relazione complessiva di questa direttrice col porto, si ripropo-ne all’attenzione della politica richiedendo sempre nuove opere e nuovi interventi, tutti considerati centrali, non solo per i destini del porto di Genova, ma per quelli stessi del cosiddetto triangolo industriale. Sarà certamente questo il vero nodo del

futuro del porto di Genova, assai più delle ristrutturazioni e degli ampliamenti – più facili a risolversi – degli spazi di banchina.A fronte di tutto ciò, stanno scenari di pro-grammazione in cui le correlazioni tra PIL (ovvero grado di sviluppo economico) e movimento marittimo appaiono determi-nanti, ma allo stesso tempo, spiegano solo una parte delle dinamiche: il fattore geogra-fico è destinato a pesare molto di più.Consideriamo, in primo luogo, il quadro geografico in cui si collocano i porti del Me-diterraneo. Il modellamento geomorfologico del Medi-terraneo, la sua strutturazione fisica con po-chi sbocchi di grandi pianure, non facilita le aperture dell’Europa occidentale, se non per alcuni punti privilegiati come i grandi delta (Marsiglia per la valle del Rodano, Venezia per quell’insieme di bacini idrogra-fici che dall’Isonzo scendono al Rubicone); mentre Livorno (per l’Arno) e Alessandria d’Egitto (per il delta del Nilo) fronteggiano situazioni più connesse a ragioni di valico legate a catene costiere. Le catene e i valichi alle loro spalle strutturano per altro diret-trici che sarebbe sbagliato sottovalutare nel

Il traffico nei porti in milioni di tonnellate, 1999; i semicerchi neri indicano un traffico di idrocarburi superiore al 60%.

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loro portato macrourbanistico per i termi-nali portuali104. Il secondo grande tema è quello del rappor-to tra intermodalità e peninsularità e delle prospettive macrourbanistiche che insieme posson giocare.Partiamo dal considerare il caso italiano: “il litorale italiano copre più della metà del traf-fico dei porti europei del Mediterraneo. Più fattori spiegano questo stato di fatto: in pri-mo luogo l’Italia non dispone di altri fronti marittimi e tutto il suo commercio per mare coinvolge obbligatoriamente il Mediterra-neo; in secondo luogo, l’Italia gioca un ruo-lo apprezzabile negli scambi internazionali; in terzo luogo, la forma stessa della penisola incoraggia un ricorso al cabotaggio nazio-nale, già favorito dalle necessità dei servizi insulari: questo cabotaggio rappresenta il 20% del traffico”105. Il tema dunque del ca-botaggio ritorna non solo in riferimento ai corridoi (Adriatico, Tirreno), ma anche del-le traversate da costa a costa. A tal proposito lo sviluppo dei traghetti e delle navi Ro-Ro (Roll-on/Roll-off) e della dislocazione medi-terranea delle sue linee appare molto istrut-tivo. Questo tipo di nave in un primo tem-

po si afferma soprattutto nei brevi percorsi, a esso più congeniali dati gli iniziali limiti di carattere tecnico ed economico. Ma nel vol-gere di pochi anni la Ro-Ro: “può affrontare convenientemente anche le rotte oceaniche sia sotto il profilo della sicurezza, sia sotto quello del grado di utilizzazione degli spa-zi di bordo, che comincia ad avvicinarsi ai coefficienti tipici delle porta contenitori”106. A ciò si associa, per il Mediterraneo, il tema della navigabilità interna che ha certamen-te avuto una grande storia e che interessa, da un lato, i tre principali bacini fluviali del Rodano, Po e Nilo; dall’altro, i grandi scena-ri istmici, sia, a occidente quello del Canal du Midi, sia, a oriente, quelli incentrati sul-la connessione con il bacino danubiano (da Trieste, Monfalcone, Gorizia; da Salonico, via Vardar e Morava)107. A tal proposito è tempo di tornare a porre la nostra attenzio-ne sui caratteri originari del mare che è per noi la vera matrice. “Nel corso della storia il Mediterraneo ha conosciuto l’alternarsi di prosperità e an-nientamenti economici. Durante l’antichità Il suo ruolo è preponderante, almeno per gli Europei, che dimenticano facilmente la ci-

Struttura geomorfologica del bacino del Mediterraneo: in nero le catene montuose, in grigio chiaro le pianure.

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viltà cinese. Ai tempi moderni il Mediterra-neo resta in disparte dalle grandi correnti di circolazione mondiale; a causa del progresso della navigazione oceanica che apre la co-noscenza di nuove terre e, più tardi, a causa della Rivoluzione industriale, della quale su-bisce gli effetti negativi: i Paesi dell’Europa nord-occidentale e gli Stati Uniti ricchi di carbone ne escono rinforzati. L’Atlantico set-tentrionale che li unisce diventa il cuore del-la vita marittima mondiale e lo è ancora”108. Ma se tutti gli studiosi sono pronti a rico-noscere la centralità del Mediterraneo nella storia mondiale fino all’avvento dell’epoca moderna, pochi sono però quelli disposti a ribadirne una ritrovata importanza nell’og-gi; prevalgono molto spesso i cultori di una visione letteraria di un Mediterraneo im-mobile, i cultori di una visione geopolitica ritornante degli scontri di civiltà, attenti a osservare e costruire confini là dove già si danno importantissimi scenari di scambio, e gli studiosi delle periferie economiche, inevitabilmente viste come realtà ritardata-rie e tagliate fuori dai giochi geoeconomici del centro. Più volte ci siamo scontrati con queste vi-sioni riduttive, più volte abbiamo cercato di ricostruire a partire dai suoi caratteri ori-ginari le strategie macroeconomiche e ma-crourbanistiche per le diverse aree regione che vi si affacciano109. In questa direzione, una prima constatazione è data dal fatto che da più di mezzo secolo almeno la repulsività di gran tratti di costa è venuta meno. Ciò è certamente il prodotto, non tanto di un dinamismo interno delle attività portuali, quanto di fondamentali trasformazioni ma-crourbanistiche, quali bonifiche idrauliche e nuove armature infrastrutturali; nuovi ter-minali foranei e nuovi legami di direttrice.Sono questi i fattori che hanno definito sce-nari di nuova attrattività e hanno consolida-to dinamiche di non ininfluenti fenomeni di tendenza insediativa. È stato in primis il processo di organizzazio-ne infrastrutturale che ha interessato, con la costruzione di direttrici litoranee, la fase di unificazione della penisola italiana e in cui le ferrovie (con i loro manufatti capaci di superare in rilevato conoide di deiezione, tomboli ecc.) hanno dato vita al formarsi di scali e marine; mentre le bonifiche idrauli-che, che hanno interessato le aree di margi-ne anfibio, sono state efficaci, non solo da

un punto di vista agrario, ma hanno anche operato in funzione della riorganizzazione delle foci dei fiumi disseminandoli di pre-senze urbane e di attrezzature portuali110. La seconda constatazione ci viene dal fatto che, nell’arco di poco più di mezzo secolo, il quadro delle localizzazioni industriali del Mediterraneo si sia profondamente strut-turato: “In alcuni siti particolari – come la Laguna di Berre (negli anni Trenta), la siderurgia italiana a Genova (stabilimen-ti di Cornigliano, anni Trenta) e a Napoli (stabilimenti di Bagnoli, 1910), o Sagun-to (1923) – l’insediamento dell’industria è precedente, ma l’aumento in capacità e la modernizzazione tecnologica risalgono come altrove agli anni Sessanta”111. Se alla fine della seconda Guerra mondiale, questa tipologia industriale era fondamen-talmente tutta italiana, poi essa farà scuola delineando un processo di industrializza-zione lungo le sponde di tutto il Mediter-raneo e moltiplicandovi significativamente gli scambi fra le sue sponde: “Negli anni di grande crescita economica tutti i Paesi si sono dotati di questo tipo di spazi indu-striali litoranei. Nelle penisole europee e in Francia, sono stati una delle leve essenzia-li delle politiche di sviluppo regionale: le aree industriali del Mezzogiorno e il ruolo dell’IRI in Italia dopo il 1960, i poli di svi-luppo e di azione dell’INI in Spagna dopo il 1964, l’operazione di Fos in Francia che comincia a funzionare nel 1972”112. È il modello dei poli di sviluppo concet-tualizzato da Perroux e poi ripreso dalla scuola di economia applicata di Grenoble sulle industrie industrializzanti a interessa-re i regimi arabi socialisti (l’Algeria de Bou-médienne, l’Egitto de Nasser, la Siria del partitp Baath degli anni Sessanta). In questa prospettiva sul versante sud del Mare No-strum, le industrie legate alle risorse minera-rie in relativa prossimità della linea di costa, si sviluppano, non tanto secondo l’antico modello di caricatori per l’esportazione, ma per cercar di dar vita appunto a industrie in-dustrializzanti; fatto che si associa così alla storica concentrazione di attività industriali nelle città leader (i classici binomi delle due città capitali (Damasco-Aleppo, Istanbul-Ankara, Alessandria-Il Cairo) e ha avuto un particolare riflesso sulla morfologia degli az-zonamenti degli spazi industriali del fronte mare e dello sviluppo litoraneo. Infine, resta

A fronte:J. Perthes, Mappa dell’Atlantico, 1906

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il fatto che il Mediterraneo continui ad ap-parire come un epicentro di squilibri. In primo luogo, per la densità della distri-buzione delle strutture portuali, volumi di traffico, panieri di beni scambiati: tutto oppone i litorali del quadrante nord-ovest (la Spagna e l’Italia contano ciascuna otto porti con più di 10 milioni di tonnellate di traffico) al resto del Mediterraneo. In questo senso, i disequilibri tra import ed export ap-paiono particolarmente importanti: a fronte di una quasi monocultura di petroli dal lato sud, si giustappone una importazione e una specializzazione di import sul lato nord. Gli idrocarburi rappresentano più del 40% de-gli scambi marittimi mediterranei e sono i principali responsabili dello squilibrio tra i flussi in entrata e in uscita dei porti dei due versanti. Gli squilibri tra le due rive sud e nord delineano altresì relazioni profonda-mente strutturate nel bacino occidentale del Mediterraneo: “Le strutture della sponda sud permettono il loro incamminamento verso i porti settentrionali del Mediterra-neo; essa è il teatro di una serie di correnti interne dalla componente meridiana nella messa in valore dei giacimenti sahariani”. Più rilevante e in una qualche misura più gracile appare lo squilibrio tra i due bacini d’oriente e occidente appare assai rilevante.In secondo luogo, vi è il dato dalla concen-trazione: “l’affaccio mediterraneo dell’Eu-ropa genera un traffico dell’ordine di 600 milioni di tonnellate, ossia il 30% del traffi-co marittimo del continente. Tre Paesi con-centrano il 90% di questo traffico: l’Italia, la Spagna e la Francia; la Grecia interviene per il 7%; il numero di porti mediterranei che manipolano più di 10 milioni di tonnellate è passato da uno nel 1913 a cinque nel 1925 e a quindici al giorno d’oggi”113.Tuttavia, malgrado queste strozzature: “So-prattutto dopo il 1960, Il mare Mediterra-neo è tornato a essere un’aerea di scambi molto attiva, dal momento che più di un miliardo di tonnellate di merci vengono sca-ricate e caricate nei suoi porti, e cioè il 20% del traffico portuario mondiale (5,3 miliardi di tonnellate nel 2000). Questa accelerazio-ne degli scambi, oltre alla scala mondiale, è legata alla crescita spettacolare delle penisole mediterranee d’Europa (è stato molto evo-cato il ‘miracolo’ italiano e spagnolo negli anni Sessanta), allo sviluppo economico dei paesi del sud, all’impennata dei traffici delle

rinfuse liquide (petrolio greggio, raffinato, gas liquido), e all’opzione di tutti i paesi mediterranei per il liberalismo economico e dell’apertura internazionale”. Dunque, il Mediterraneo ha ritrovato un grande ruolo sullo scacchiere mondiale ben più grazie a questi processi di sviluppo che a ragioni di carattere geopolitico. Dal 1869 il Mediterraneo quasi a ritrovare il suo antico ruolo oceanico – quando esso era il cuore della Tetide – con l’apertura del Canale di Suez è tornato ad essere la porta di passaggio verso l’Oriente e l’Austalasia; e successivamente, alla fine degli anni Sessan-ta, appare sempre più consolidarsi sulle rotte pendulum come un grande passaggio obbli-gato: “Lo sfruttamento del canale di Suez ne ha fatto uno spazio marittimo aperto a sud, che permette lo sviluppo parallelo della funzione degli scambi tra porti mediterranei e quelli dell’oceano Indiano. Il ruolo degli idrocarburi nel bilancio energetico europeo rafforza il ruolo internazionale del Mediter-raneo: questo mare ne permette il transito da Port Said a Gibilterra in direzione della Manica o del Mare del Nord”114.La sua importanza non viene meno anche in presenza dello sviluppo della circumnavi-gazione, al contrario, le rotte pendulum non fanno altro che confermare come “Il Medi-terrano alla fine sia uno dei segmenti della grande rotta marittima che convoglia le navi porta containers tra l’Asia e l’America del Nord passando per il Canale di Suez”115.

1 Negli anni Sessanta la sperimentazione didattica faceva riferimento, con la dizione di allievo interno, all’ottocentesco metodo lancasteriano del moniteur, cercando di dar vita, nei corsi progettuali, a una fatti-va partecipazione alla ricerca di gruppo. 2 Per dare alcuni riferimenti, possiamo citare, da un lato, Astengo e Campos Venuti, con la loro idea di concatenazioni per gerarchie e sommatorie dei piani, come pure Tutino (autore del “Piano turbina” per Mi-lano); dall’altro, il primo Bernardo Secchi, con l’idea dei modelli neotecnici sostanzialmente retti dalla for-za di crescita ergodica delle megalopoli.3 Per ecologia delle funzioni si intende quello scenario localizzativo e di rete tendente a spiegare le relazioni funzionali intercorrenti tra funzioni di produzione (industrie di base e produzioni più fini, come la chi-mica di base parachimica e chimica fine) ma anche tra funzioni di produzione, servizi e funzioni della vita associata. 4 In buona parte rappresentati nei contributi di questo

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quaderno.5 In un primo tempo queste visioni portuali erano espressione indiscussa e degli operatori del Northern Range; oggi esse dipendono sempre più dagli operato-ri asiatici, gli scenari continuano a cambiare, modifi-cando di conseguenza la direzione dei flussi di TEU.6 Cfr. per un inquadramento generale di “rinnovo urbano” e per un più specifico inquadramento dei waterfront: C. Chaline, La régénération urbaine, Puf, Paris 1999.7 Cfr. G. Tacchini, Città e caratteri originari: un quadro storico di riferimento, in Rotterdam: l’operante eredità. Problemi e progetti, Atti del Seminario, Milano-Delft, Baukunde-Politecnico di Milano, 1986. In questo seminario (1982), riprendevo i termini del dibattito presso la Technische Hogeschool di Delft con docenti, studenti e amministratori comunali di Rotterdam, ribadendo che: “ai giorni nostri, con l’Europort, si danno soluzioni che trasferiscono il porto sempre più in mare aperto, alla ricerca di spazi sempre più ampi e liberi: questa non pare essere politica perseguibile sul lungo periodo e prospettiva culturalmente vincen-te per la città (...). Se si confermerà e si rafforzerà il primato mondiale del porto di Rotterdam, si afferme-rà altresì una linea propria di logiche multinazionali, come quelle che governano il mercato dei petroli o le grandi linee di navigazione e spingono a una separa-zione sempre più decisa tra porto e città, la quale resta la vittima di una acculturazione violenta, come quella che nei suoi tessuti urbani si concreta nella estranea presenza degli edifici-grattacielo della Marconi Platz. Così, a partire dagli anni Settanta, la Maas ha sostan-zialmente perso il suo ruolo di elemento vitale che nel-la tradizione olandese scandisce i ritmi e i tempi della vita urbana, tendendo a divenire una ingombrante barriera spaziale o al massimo un suggestivo sfondo per il rinnovo urbano degli haven. In questa logica al-tre spinte all’ipertrofia si impongono dall’esterno alla città, quali quelle espresse dalle necessarie continuità dei tracciati continentali autostradali che spostano fuori asse rispetto alla città storica l’attraversamento della Maas (si veda come il Benelux tunnel o il ponte autostradale prendano il sopravvento rispetto alle se-canti del ponte del Feìjenoord e del Maas tunnel), ne consegue l’estendersi di una rete di traffici canalizzati all’esterno e poco integrati con la città”.8 Cfr. B. Bertoncello, R. Rodrigues-Malta, Marseille versus Euromediterranean, in “Annales de Géogra-phie”, n. 632, 2003, pp. 424-436 (traduzione dell’au-tore).9 Cfr. R. Rodrigues-Malta, Villes d’Espagne en régéné-ration urbaine. Les exemples de Barcelone, Bilbao et Madrid, in “Annales de Géographie”, n. 608, 1999, pp. 397-419.10 Con economia metropolitana si intende il concentra-si del commercio di una grande regione in un unico grande centro; per la critica a tale concetto cfr. G. Tac-chini, Matrici policentriche e policentrismo europeo, Po-litecnico di Milano, 2000, dove si propone il concetto di ambito metropolitano in stretta relazione allo svilup-po di una regione funzionale (a volte di una macrore-gione). Per un approccio operativo cfr. M.M. Baggio, V. Donato, G. Tacchini, Dalla coerenza regionale alla progettazione dei policentrismi, in Per la città, Clup, Milano 1989; G. Tacchini, Progettare policentrismo e contestualità urbana, in Progetti per la nuova Provin-

cia di Lecco, 145 Tesi di laurea discusse alla Facoltà di Architettura dal 1978 al 1993, Ordine degli Architetti della Provincia di Como, 1993.11 Con le sue sciagurate forme di riconversione delle periferie storiche legate a un nuovo terziario bottegaio e senza respiro (quello dei centri commerciali, degli ipermercati e delle piattaforme distributive dei gros-sisti) integrato a un immobiliarismo fondato su dina-miche di frammentazione della domanda di unità di uffici e residenza, a cui le zone di riconversione sono state sottoposte, presentate come legate agli interes-si metropolitani della Grande Milano. Per la portata del concetto di periferie storiche cfr. La periferia storica nella costruzione metropolitana, numero monografico di “Edilizia Popolare”, nn. 140-141, marzo-aprile, 1978; M.M. Baggio, V. Donato, G. Tacchini, O. Me-regalli, Davvero Periferia?, in Periferie e nuove urbani-tà, a cura di F. Bucci, Electa, Milano 2003, pp. 30-41; per la costruzione degli scenari di riconversione cfr. M.M. Baggio, G. Tacchini, La Bovisa come nodo di un sistema policentrico regionale, in “Quaderni del Dipar-timento di Progettazione”, n. 11, 1994; M. Baggio, L. Moriggi, G. Tacchini, La costruzione del sistema universitario lombardo: accessibilita’ e relazioni col ter-ritorio, in Il diritto allo studio nel sistema universitario lombardo, Franco Angeli, Milano 1994; G. Tacchini, Il sistema universitario regionale e il ruolo dei poli del secondo ordine, in “Architetti Novaresi”, novembre 1994.12 Per una critica a tali concetti cfr. G. Tacchini, From “intramoenia” to between the city, intervento alla con-ferenza Pubblic Life in the In-Between City, Technion, Haifa, 7-10 giugno 2010, in corso di stampa. 13 Cfr. G. Petti Balbi, Genova medioevale vista dai con-temporanei, Sagep, Genova 1978.14 Nel patto del 1175 tra Guglielmo II e la Repub-blica l’area di pertinenza veneta viene riconosciuta e delimitata nella linea Ravenna-Ragusa, in G. Benzo-ni, Un incontro marittimo: La Serenissima e la Puglia, in AA.VV., La Puglia e il Mare, Electa, Milano 1984.15 Al di là delle contestazioni; anzitutto quella del pontefice Giulio II, il solo sovrano della penisola che abbia diretti interessi territoriali e strategie statali e mercantili paragonabili a quelle di Venezia. Giulio II richiede perentoriamente che l’Adriatico sia libero a tutti, sì che vi circoli ogni sorte di robe et mercadantia per ogni suo loco senza che la Serenissima imponga i suoi gravami e punisca i delitti in questo commessi, per garantire la securitas navigandi. Sintomaticamente, Venezia, e non il libero mercantilismo del Pontefice, costruirà solidi rapporti culturali oltreché commercia-li con le Puglie. Ma se la securitas navigandi all’interno dell’Adriatico è garantita dalla flotta, essa necessita di punti di approdo, porti e fortezze. Per una breve disa-mina del concetto di scuritas navigandi, cfr. G. Ben-zoni, Un incontro marittimo, cit.16 Il caso “imperiale” del porto di Londra e della ma-rineria inglese è descritto in C. Wilson, England’s Apprenticeship 1603-1763, Longman, London 1965, trad it. Il cammino verso l’industrializzazione, il Muli-no, Bologna 1979.17 Al fine di comprendere l’importanza di una simi-le transazione, si riporta un passo dello storico gre-co Erodoto sulle modalità di questo commercio (IV, 196): “Quando siano arrivati e abbiano scaricato le merci, dopo averle disposte in ordine lungo la spiag-

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gia, si rimbarcano e alzano una fumata. Allora gl’indi-geni, vedendo il fumo, vanno al mare e poi, in luogo delle merci, depongono oro e si ritirano lontano dalle mercanzie. E i Cartaginesi, sbarcati, osservano e se l’oro sembra a essi degno delle merci, lo raccolgono e si allontanano, se invece non sembra degno, rim-barcatisi di nuovo, attendono: e quelli, fattisi innanzi, depongono altro oro, finché li soddisfino. E non si fanno torto a vicenda, perché nè essi toccano l’oro prima che l’abbiano reso uguale al valore delle merci, né quelli toccano le mercanzie prima che gli altri ab-biano preso l’oro”. 18 Cfr. G. Tacchini, Città porto – armature urbane e paesaggi mediterranei, Politecnico di Milano, 2000; in particolare il capitolo Ancora a proposito del paradigma di emporio, pp.113-119.19 Ibidem.20 Nel panorama europeo si incontrano porti do-minati da colonie straniere (Odessa), che di fatto li rendono del tutto separati dagli insediamenti umani circostanti. Analogamente nel Mediterraneo e a Bor-deaux gli stranieri sono organizzati per “nazioni”, co-stituendo così dei gruppi di strutture che riproducono lontano dalla patria modi di vita collettivi (feste ceri-monie, riti) propri della loro cultura d’origine; italiani e inglesi, presenti in modo non irrilevante a Lisbona, hanno sempre improntato il loro soggiorno a una se-paratezza piuttosto rigida. Queste due colonie hanno così avuto un ruolo debole nell’elaborazione della cul-tura della città. Molto più complesso è il quadro del Mediterraneo orientale, si vedano i casi esemplari di Pera-Galata. Ma i porti sono il vero melting-pot, quasi in senso letterale e certamente culturale e etnico, della vicenda storica europea: “È nei porti che s’introduco-no per primi i nuovi consumi, che appaiono i cibi eso-tici, dai porti che si diffondono le nuove abitudini”. Un gentiluomo inglese, avendo soggiornato a lungo a Lisbona alla fine del Settecento, scrive che, nono-stante gli inglesi conducessero una vita molto chiusa all’interno del loro mondo: “hanno introdotto l’uso del tè in Portogallo, uso adottato sia dai nativi che dagli stranieri delle altre nazioni installate a Lisbona. Ora questo uso è diventato universale in questa città; in ogni casa si beve tè ogni pomeriggio e se qualcuno desidera passare il pomeriggio con te tu lo puoi invi-tare al tè”, in H. Colburn, A Picture of Lisbon: Taken on the Spot: Being a Description, Moral, Civil, Political, Physical, and Religious of that Capital; with Sketches of the Governement, Character, and Manners of the Portu-guese in General, 1809; citazione ripresa da F. Angioli-ni, Il porto, in Luoghi quotidiani nella storia d’Europa, a cura di H.G. Haupt, Laterza, Bari 1993.21 Cfr. G. Tacchini, Città porto, cit.22 Cfr. L. Pierrein, La circulation maritime, in AA.VV., Géographie générale, Gallimard, Paris 1966.23 La progettualità dei moli dall’epoca postunitaria ai nostri giorni, da parte dello Stato, in particolare per i piccoli e medi porti, pare aver operato in tal senso.24 Lo sguardo dei portolani è rivolto al profilo delle coste e al modo in cui vi si inscrivono i porti.25 Si pensi al proposito all’opera di Matteo Venzoni, cartografo settecentesco che ha saputo fissare la ric-chezza urbana diffusa dello spazio della riviera come un suo intorno dipendente, si veda a tal proposito l’interpretazione che ne dà M. Quaini.26 Cfr. J. Huizinga, Nederland’s Beschaving in de Ze-

ventiende Eeuw, Amsterdam 1942, trad. it. La civiltà olandese del Seicento, Einaudi, Torino 1967. 27 Cfr. D. Diderot, Voyage en Hollande, Maspero, Paris 1978.28 Cfr. G. Tacchini, Città e caratteri originari, cit.29 Come non spiegare proprio nel gioco di questo contrasto tra stato selvaggio e stato domestico delle ac-que la scoperta di una nuova sensibilità paesistica, quella di Jacob Van Rujsdael? Nel primigenio flusso di un fiume, Van Rujsdael riscopre la metafora di una vita universale e naturale, diversa da quella di un pa-esaggio olandese, in cui il fluire dell’acqua del canale segna il tempo non solo del mercante, ma anche del contadino e di una campagna legata inscindibilmente al proprio mercato.30 La kogge (cocca) era una nave a vela di forma ro-tonda. Nata nei mari del nord (XII secolo), per in-crementare i commerci via mare con navi sempre più capaci e in grado di veleggiare anche con mare agitato, la kogge poteva raggiungere una stazza di 1000 tonnel-late; possedeva un ponte scoperto, sotto il quale un unico vano costituiva la stiva.31 Come ci attestano la visione di Amsterdam verso la metà del 1500 di Antoon van den Wyngaerde o quelle di Rotterdam dei primi decenni del Seicento di Floris Balthasarsz cfr. G. Tacchini, Città e caratteri originari, cit. 32 Cfr. G. Tacchini, Il farsi della citta’ sul fiume - nel cir-cuito del Randstat, in “Hinterland”, nn. 33-34, 1985.33 Cfr. G. Tacchini, Città porto - armature urbane e paesaggi mediterranei, cit. Nel capitolo Sistemi connessi al contorno si sviluppa il tema delle localizzazioni delle città-porto in riferimento alle bonifiche idrauliche del-taiche, pp. 87-101.34 Ibidem. 35 Si veda, oltre alla vasta opera di E. Poleggi dedicata alla storia urbana di Genova, J. Heers, Paysages ur-bains et sociétès dans les différents types de “villes portuai-res” en Méditerranée occidentale au Moyen Age, in Città portuali del Mediterraneo, a cura di E. Poleggi, Sagep, Genova 1989, pp. 11-27.36 Ibidem.37 Ibidem.38 Cfr. J. Heers, Gènes au XV siècle, Flammarion, Paris 1971. 39 Cfr. J. Heers, Paysages urbains et sociétès, cit.40 Cfr. J. Heers, Gènes au XV siècle, cit.41 Cfr. G. Tacchini, Dal Randstat alla padania, cit.; G. Tacchini, Il farsi della città sul fiume, cit.; G. Tacchini, La lotaringia ritrova la sua centralità, in “Il Moderno”, anno IV, n. 33, 1988.42 E.F. Guarini, Esenzioni e immigrazioni a Livorno tra sedicesimo e diciassettesimo secolo, in Atti del Convegno Livorno e il Mediterraneo nell’età medicea, Bastogi, Li-vorno 1978.43 Ibidem.44 Ibidem.45 La rifondazione di Livorno cominciò con la posa solenne della prima pietra il 28 Marzo 1577; fu concepita da Francesco I su progetto di Bernardo Buontalenti. La rifondazione fu compiuta con gran-de concorso di popolo, messa pontificale, muratura di medaglie con l’effigie di Francesco Gran Duca di Toscana (presente B. Buontalenti) e con ripetute salve di archibugi d’artiglieria. I lavori per terminare la diga verso la Torre del Fanale furono ripresi e sospesi in

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breve tempo, ma la politica medicea per potenziare la città continuo lenta e tetragona. Così furono ese-guite imponenti opere urbane e strutture portuali: la Nuova Darsena a sud di quella Vecchia con banchine e profondi fondali; la diga in direzione del Forte della Sassaia; il Fanale della Meloria; l’acquedotto (sotto la guida dell’olandese Mayer); il lazzaretto di S. Rocco (quello del Fanale costruito da Francesco I era trop-po piccolo); le Buche del grano in città e sui bastioni (per la conservazione delle derrate); il porticciolo per ricevere il traffico del Canale dei Navicelli e l’arsena-le marittimo (per la costruzione di navi da guerra e mercantili). Nuove fabbriche completarono il quadro organico del tessuto cittadino: il Duomo, che sostitu-iva l’antica pieve dando una struttura cultuale di for-te identificazione urbana; i portici in Piazza d’Armi, impianti di grande importanza non solo nella defi-nizione funzionale ma anche per l’affermarsi di una nuova unità vivente: la città. Furono costruite diverse abitazioni a uso privato date in affitto o a riscatto con mutuo di 7 anni a condizione che l’assegnatario si sta-bilisse in città. Cfr. E.F. Guarini, Esenzioni e immigra-zioni a Livorno, cit.46 Gli elementi di crescita urbana tra Seicento e Set-tecento si possono riassumere come segue. Dopo Fer-dinando I, Cosimo II ha il merito di aver realizzato veramente il grande porto con un’altra imponente diga parallela alla costa, dalla Sassetta in direzione nord-ovest. I lavori iniziati nel 1611 furono ultima-ti nel 1617; il successore Ferdinando II provvide alla costruzione dei nuovi quartieri necessari allo svilup-po del traffico e alle case commerciali; fu realizzato il quartiere della “Venezia Nuova” dando inizio il 6 Luglio 1629 ai lavori su palafitte per creare 23 iso-lati, 14 dei quali sul mare, con abitazioni e depositi, 4 chiese, 7 stabilimenti, il Rifugio, il luogo Pio, due Bottini dell’olio, gli Ammazzatori pubblici, il Piag-gione dei grani, il Monte Pio, la Pescheria nuova. Più tardi fu completata l’opera d’urbanizzazione con 25 strade, 3 piazze e 7 ponti (quello Grande della Venezia a 3 archi, della Crocetta o piccolo oggi scomparso, del luogo Pio, dei Domenicani, di Marmo della via Bor-ra, di S. Giovanni Nepomuceno, dei Lavatoi vecchi). Nel 1634 venne terminata la costruzione di un altro arsenale nella zona della Nuova Darsena e nel 1645 quella del Lazzaretto di S. Jacopo un chilometro a sud di Livorno. A Cosimo III, che morì nel 1723, si deve la Torre quadra della Meloria; con Gian Gastone, che fece ultimare nel 1731 i così detti “Bottini dell’olio ”, si concluse il periodo mediceo. Cfr. G. Nuti, Il porto e la città in epoca medicea, in Atti del Convegno Livorno e il Mediterraneo, cit.47 Livorno aveva una popolazione non numerosa ma stabilmente residente; ciò la differenziava da Portopi-sano anche dal punto di vista delle istituzioni: aveva proprie magistrature elettive, prima i consoli e poi gli anziani, Consigli e assemblee di cittadini, vale a dire ordinamenti e istituzioni più complessi di altri comuni del contado, e simili a quelli di alcuni pochi centri più importanti del territorio pisano. Tutto ciò testimonia l’importanza di questa “terra”, derivante dalla sua posizione sul mare a poca distanza da Por-topisano, di cui era stata in certo senso, un sobborgo satellite fino alle soglie del Trecento, e insieme testi-monia il favore con cui il governo di Pisa guardava al suo sviluppo. Ora, proprio negli ultimi decenni del

Trecento, il progressivo sviluppo di Livorno e l’accre-scersi dell’importanza del suo porto fu senza dubbio in rapporto diretto col graduale lento declino di Por-topisano, dovuto principalmente all’azione d’insab-biamento provocata dai depositi alluvionali dei vari corsi d’acqua della zona, e specialmente dell’Arno, la cui foce principale si apriva appunto nell’“arco di Stagno” (dunque, nel bacino stesso in cui si trovava Portopisano). Nel corso dei secoli XIV e XV questi depositi alluvionali modificarono profondamente an-che la situazione generale del vicino comprensorio, accentuando i caratteri palustri che resero sempre più inospitale la zona di Portopisano. Livorno invece, per la sua particolare posizione, venne a godere di una situazione privilegiata, che richiedeva alcune opere particolarmente importanti, a cui non riusciva a far fronte la realtà di una repubblica marinara: solo un nuovo stato territoriale poteva porvi mano. Cfr. G. Nuti, Il porto e la città in epoca medicea, cit. 48 Il progetto venne realizzato dal Santi Sanesi, esperto di lavori edilizi e urbani e provveditore dell’arsenale di Pisa. L’impianto delle fabbriche e dei servizi cittadini così attivati da gente francese, greca, inglese, mussul-mana e araba era capace di rispondere a una gestione diretta, che sarà nel tempo sempre più incrementata tramite i cospicui guadagni dovuti alle agevolazioni dei dazi. Cfr. Nuti, Il porto e la città in epoca medicea, cit.49 Ibidem.50 Alcuni dati possono meglio far comprendere la par-te attiva che hanno esercitato queste comunità nella Livorno medicea. La comunità ebraica è la più impor-tante; secondo il Repetti da 700 unità su 8.642 abi-tanti nel 1633, arriva a 4330 unità su 30.349 abitanti nel 1740. Questa comunità godeva di libertà di culto, autonomia amministrativa e dei privilegi sanciti dalla Costituzione Livornina; ogni mercante accolto nella comunità diveniva cittadino toscano. La comunità ebraica abitava intorno alla Chiesa di S. Francesco; le lingue parlate erano il portoghese, il castigliano e il dialetto giudaico (bagito). Gli ebrei erano dediti al commercio con oltre 30 case di spedizione su 150. “La comunità svolse una notevole influenza nella vita della città con l’apertura di un Monte di Pietà, con opere d’investimento industriale e di smercio (droghe e corallo) e iniziative rilevanti nell’arte, nella cultura, nell’assistenza pubblica scolastica e nella stampa (la prima stamperia risale al 1650). Nel 1606-1607, la comunità ebraica istituì la Compagnia per il riscat-to degli schiavi, quarant’anni prima dell’omonima Compagnia veneziana. I Greci Uniti, dai quali poi si separarono i Greci Sci-smatici (anche con un diverso cimitero), furono ospi-tati a Livorno in quanto facevano parte degli equi-paggi dell’Ordine dei Cavalieri di S. Stefano ed erano gente di mare esperta e intraprendente. La comunità greca si insediò presso la Chiesa di S. Jacopo in Ac-quaviva e nel 1626 risultava composta da 80 famiglie. Gli inglesi si trasferirono a Livorno per usufruire delle libertà di mercato che non avevano a Marsiglia. Di religione protestante, costruirono una chiesa con an-nesso cimitero e lasciarono il ricordo di importanti personalità nella cultura, nella marina, nella politica e nelle attività mercantili e industriali (manifatture del-la lana, seta e cotone e raffinazione dello zucchero). Gli olandesi vennero richiamati a Livorno da Amster-dam da esigenze di scalo e di commercio e dettero un

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notevole impulso al porto; si costruirono una chiesa e un cimitero presso i propri scali. Gli armeni operava-no come sensali, corrispondenti degli europei trasferi-ti nel Levante. Per erigere la loro chiesa ottennero che i mercanti armeni versassero una tassa per ogni balla di merce sbarcata a Livorno. Anche gli svizzeri, i fran-cesi, i valdesi, i siro-maroniti e i turchi costituirono delle piccole comunità con circoli, chiese e iniziative scolastiche. Cfr. E.F. Guarini, Esenzioni e immigrazio-ni a Livorno tra sedicesimo e diciassettesimo secolo, cit.51 Sfruttando i canali esistenti e l’energia fornita dai mulini, il terreno fu colmato e le nuove aree disposte all’edificazione. Diversamente dalla futura realizzazio-ne triestina, l’intervento olandese prevedeva due tipi di insediamento: il cosiddetto “piano dei canali” e il successivo intervento denominato “De Jordaan”. I tre canali semicircolari vennero chiamati Heerengracht, Keizsgracht e Prinzengracht. La loro larghezza varia-va fra i 25 e i 28 metri, mentre le banchine erano di profondità fissa (10 metri). All’interno i lotti avevano una profondità di poco superiore ai 100 metri e, per regolamento, la distanza interna fra l’edificazione pe-rimetrale non doveva essere inferiore ai 48 metri, spa-zio generalmente occupato da eleganti giardini. Que-sto insediamento era destinato ai ricchi mercanti, che realizzarono residenze lussuose e costose anche per i collaboratori e i soci delle loro imprese. Il “De Jorda-an” fu invece realizzato con case modeste e con una densità edilizia notevolmente maggiore; fu destinato ai quartieri degli artigiani e alla realizzazione di case d’affitto. I canali dividevano gli isolati in file di due elementi, a volte di tre, e al centro quattro. Le misure degli isolati non erano sempre ben definite. La loro estensione era più contenuta di quelle degli isolati del “piano dei tre canali”: 50 metri di profondità per i metri di lunghezza, in media. Nella seconda metà del Cinquecento era accaduto a Trieste, come ad Amster-dam di ricevere un numero elevatissimo di rifugiati. Essendo impossibile ospitarli all’interno dell’antico nucleo si pensò a una nuova vasta espansione da re-alizzarsi tramite il prosciugamento dei terreni esterni e la demolizione di un’ampia fascia di fortificazioni. Cfr. F. Caputo, R. Masiero, Trieste e l’Impero, Marsi-lio, Padova 1987; AA.VV. Neoclassico. Arte, architettu-ra, cultura a Trieste 1790-1840, a cura di F. Caputo, Marsilio, Padova 1990.52 Ibidem.53 Cfr. F. Caputo, R. Masiero, Trieste e l’Impero, cit.54 Ibidem.55 A proposito dell’abbinamento tra fiera e porto-ca-nale, è utile riferirsi alle belle pagine di Caputo e Ma-siero: “Con l’anno seguente, poi, sarebbero state con-cesse alla città due fiere franche e non più una sola. Le nuove disposizioni imperiali, rese pubbliche tramite gli avvisi stampati dall’Intendenza Commerciale, ave-vano fatto conoscere a tutti, in città come all’estero, i nuovi periodi di esenzione e franchigia: ‘di manie-ra, che la prima cominci alla vigilia della Domenica Exaudi, e continui fino alla vigilia della Santissima Trinità; l’altra poi cominci all’ultimo del mese otto-bre, e si finisca alli 14 del seguente mese novembre’. E per capire cosa significasse una fiera, bisognerà rile-vare quali libertà di negozio essa attivava. Dapprima all’interno dell’arsenale e quindi nelle case private, nei magazzini, nelle botteghe, sopra le imbarcazioni e in qualsiasi altro sito, venditori e compratori, mercanti

locali e forestieri, potevano negoziare all’ingrosso come al minuto qualsiasi genere di mercanzia. Ecce-zion fatta per il ferro, l’acciaio, il rame, il mercurio, il tabacco e il sale, generi regolamentati da rigorose norme protezionistiche, qualsiasi merce poteva essere scambiata in regime di franchigia doganale. Gli scam-bi potevano avvenire dentro e fuori la città, in case private, magazzini, botteghe, nelle stesse barche o in qualsiasi altro luogo. Rimanevano sospese le disposi-zioni emanate nel 1725 sulla proibizione della vendita al minuto delle merci depositate all’interno dei porti franchi. Passati i venti giorni della fiera quelle nor-me avrebbero ripreso vigore. Ciascuno poteva tenere, in quel periodo di sospensione delle norme consue-tudinarie, osteria o taverna in maniera tale da poter offrire vitto e alloggio. Uomini e animali potevano spostarsi liberamente e fermarsi ove lo ritenessero più opportuno. Durante la fiera potevano essere scaricate le merci senza servirsi di facchini del luogo. Ognuno poteva mediare tra venditore e acquirente stabilendo contratti; a chiunque veniva riconosciuto, solo in quei giorni, il ruolo di sensale. Era il grande affare della cit-tà, a cui non si poteva mancare, per poter partecipare, con le proprie mercanzie, alla fiera si doveva presen-tare, per iscritto o a voce, una richiesta ai Giudici e Rettori. Erano richiesti casotti: ‘Comparisce il sign. Stefano Marignani Capo d’Istria e volendo eriger due casotti per l’iminente fiera supplica compiacergli di concedergli la licenza di poter valersi de due siti sotto le logge offerendosi di corrispondere ciò che li verrà stabilito con riverenza si protesta’. Ma anche semplici cavalletti: ‘Comparisce Domenico de Biagio volendo render certa la sua mercanzia consistente in pochi ce-stini, altre simili bagatelle, adimanda poter estender su due cavaletti cappi a oggetto di aprofittarsene e far-ne la vendita nela prosima fiera’”. Cfr. F. Caputo, R. Masiero, Trieste e l’Impero, cit.56 Era necessario spegnere la calcina per ottenere un buon legante, proteggere la sabbia per non ritrovare imperfezioni intonaci, cuocere e macinare le pietre per un resistente terrazzo. Senza contare le opere ac-cessorie, i vetri per gli infissi, i lavelli di pietra e tutti quegli elementi strutturali e accessori che rendono la costruzione di un edificio un elenco ampio di mate-riali, sistemi di lavorazioni, tecniche. Ibidem.57 Erano invece controllati da commercianti-armatori esteri i traffici di prodotti coloniali, quelli dei tessuti e dei prodotti industriali. Né avrebbe potuto essere diversamente poiché il trasporto dei prodotti delle nascenti fabbriche era in genere riservato alle navi dei paesi produttori. Nella prima fase della rivolu-zione industriale l’Inghilterra esercitava una politica protezionistica, non solo nei confronti delle proprie manifatture, ma anche per garantire la presenza della propria flotta nei traffici originati nei porti nazionali. Ibidem.58 Ibidem. 59 Cfr. M. Macciò, G. Migliorino, Il porto frainteso. Genova e la questione marittima, Coste & Nolan, Ge-nova 1986.60 La figura dell’armatore puro comincia a delinearsi in Olanda nel XVII secolo, all’epoca della massima potenza marittimo-commerciale di quel Paese. È solo nell’Ottocento che la figura del commerciante-armatore scompare progressivamente per lasciar posto a quella dell’armatore puro.

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61 All’inizio dell’Ottocento un viaggio dall’Olanda al Giappone con una nave di circa 1000 tonnellate di stazza poteva produrre profitti dell’ordine di 120.000 fiorini; mentre il veliero impiegato poteva essere valu-tato attorno ai 150-200.000 fiorini. Se ne può dedur-re che, se tutto andava a buon fine, potevano bastare pochi viaggi e quindi un paio d’anni per ammortizza-re la nave che avrebbe potuto avere in seguito, salvo naufragi, una durata di trent’anni e oltre.61 Cfr. C. Bressan, Il porto di Genova e le sue questioni economiche, in “Nuova Antologia”, vol. CLII, 1897, pp. 433-39. 62 Ibidem.63 Il nuovo armatore lucra grossi guadagni con gli Stati belligeranti. Ma questi proventi che, per quan-to riguarda l’Italia, vanno in particolare a beneficio della marineria di Camogli, largamente impostata sulla “busca”, non vengono reinvestiti nell’ammoder-namento tecnologico della flotta. Si continua con i velieri e, nel giro di poco più di un ventennio, la scelta si rivelerà fatale.64 Ibidem.65 Si veda al proposito la rivista la “Marina Mercan-tile” in particolare le annate dei primi anni Settanta del XIX secolo. Cfr. F. Angiolini, Il porto in Luoghi quotidiani nella storia d’Europa, cit.; O. Ribeiro, Il Mediterraneo. Ambiente e tradizione (1968), Mursia, Milano 1972.66 Cfr. E. Mantero, G. Tacchini, Verso una architettu-ra, in Dall’Acropoli di Atene al porto del Pireo. Progetti di ristrutturazione di aree urbane, edizione a cura dei Politecnici di Milano e di Atene, ivi 1990.67 Sulla sommità del Semmering fu posta una lapide in cui si affermava che da quel valico sarebbe passato il commercio verso il mare, ovvero verso il “litorale austriaco”.68 Efficaci collegamenti fra il settentrione e il meridio-ne dei Domini Ereditari vennero creati con la siste-mazione del valico del monte Loibl, la cui apertura al traffico commerciale diede agevole comunicazio-ne fra Klagenfurt e Lubiana e con l’attraversamen-to del monte Semmering capace di unire Vienna a Graz (1728). La strada si dirige verso gli importanti mercati dell’Europa centrale di Francoforte, Colonia e quindi verso i Paesi Bassi. A nord si prosegue per Lipsia e Dresda; verso est si raggiungono le piazze di Praga, Bratislava e poi Danzica. Anche l’altra strada commerciale capace di penetrare i mercati dell’Eu-ropa centrale e orientale parte da Venezia, giunge a Pontebba quindi Villaco da cui si collega a Salísburgo. Verso est sono raggiungibili i mercati di Ludenburg, Bruck e Vienna, da dove è possibile proseguire per Presburgo, Raab e Pest verso est, per Brunn e Olmútz verso nord. La configurazione orografica dei rilievi al-pini e prealpini facilita gli spostamenti da est verso ovest o viceversa, non quelli in direzione nord-sud. Si va facilmente da Vienna sino in Baviera, in Tirolo. Ancor più agevole risulta il passo verso la Moravia e la Boemia. Le antiche strade seguono i percorsi dei grandi fiumi navigabili. La Sava, la Drava, il Danubio aprono agli uomini e alle merci l’Oriente. Più difficile raggiungere Trieste. Si può passare attraverso Graz op-pure Maribor, ma quest’ultima è una via lontana dai principali mercati interni e maltenuta. 69 Al governo imperiale preme proteggere gli interessi politici e commerciali nel Levante, ma anche impedire

il predominio francese nelle comunicazioni marittime nel Mediterraneo. Nel 1837 l’imperatore approva gli statuti della società di navigazione a vapore Lloyd Au-striaco (poi Lloyd Triestino, ora Lloyd Adriatico) e as-segna alla stessa un lucroso contratto postale affinché l’aquila imperiale sia presente a Costantinopoli, Salo-nicco, Trebisonda e in Siria. Non appena la tecnica lo consente, gli Asburgo si preoccupano di costruire una ferrovia capace di garantire una rapida linea di comu-nicazione tra il Belgio, la Svizzera, le province renane e Trieste, per far gestire a questo porto un hinterland ben più vasto dei territori posti sotto la loro sovranità.70 Jean-Francoise Bergier approccia le Alpi con questo concetto di economia di transito. Cfr. J.-F. Berger, Le trafic à travers les Alpes et les liaisons transalpines du haut Moyen Age au XVII siècle, in AA.VV., Le Alpi e l’Europa, Laterza, Bari 1975, vol. 3, pp. 1-72.71 Cfr. L. Febvre, M. Byé, Le Port de Gènes: son acx-tivité, son organisation, sa fonction économique, in “Annales d’histoire economique et sociale”, vol. 1, n. 1, 1929. Bisogna sottolineare i pericoli di un troppo facile determinismo legato a una sbrigativa geografia volontaria, spesso sorretta da una progettazione in-gegneresca elementare, che manualisticamente tutto consegna al compasso e alla squadra (in cui la linea retta e la distanza ridotta sono di per sé la soluzione capace di creare meccanicamente effetti di crescita). 72 Questione cruciale se si pensa ai Cantoni che hanno costruito il Gottardo, unico dei grandi passi che non presenta una reale continuità con i valichi costruiti dai Romani. 73 Cfr. M. Macciò, G. Migliorino, Il porto frainteso, cit. 74 Ibidem.75 Il dato del 5% è quasi una costante di riferimento se si guardano i dati Allan Rogers quarant’anni più tardi. Cfr. J.E. Hermitte, Geographie industrielle du port de Gènes, in “Mediterranée”, a. 2, n. 2, 1961, pp. 89-92; M. Macciò, G. Migliorino, Il porto frainteso, cit. 76 Benché significativi, questi episodi hanno tuttavia dimensioni ancora limitate anche perché il sistema di comunicazioni terrestri a livello europeo non con-sente ancora ai porti del Northern Range di espandere molto a sud il proprio hinterland, salvo casi particolari e specifiche merci. È un fatto, però, che in Italia non si è capaci di cogliere i segnali o di trarre le dovute conseguenze da ciò che comincia ad apparire eviden-te”. Cfr. F. Caputo, R. Masiero, Trieste e l’Impero, cit.77 Ibidem.78 Ibidem.79 Ibidem.80 La concentrazione che al suo sbocco sarà successi-vamente fatta di tutta la produzione siderurgica olan-dese è manifesta testimonianza di una pianificazione che ha guardato con attenzione all’esempio italiano.81 Ma a fronte di tali trasformazioni ben diverso sarà il rapporto che le due città instaureranno con il porto. Se ad Amsterdam questa estroflessione del porto avver-rà sotto l’egida di radicate funzioni urbane (ammi-nistrative, finanziarie, universitarie), a Rotterdam ciò segnerà un dominio delle funzioni portuali, in par-ticolare le rinfuse secche e liquide. Ad Amsterdam il rapporto tra il poligono urbano compreso nel Singel, il porto, il canale del Nord e l’Ijsselmeer sarà consa-pevolmente giocato, alla fine degli anni Sessanta del XIX sec. I Consigli Comunali respingono il piano del

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1866 dell’ingegnere Van Niftrik, non solo negando un’espansione sovradimensionata, ma legando il fu-turo urbanistico della città a due scelte fondamentali: quella di confermare l’ipotesi governativa di una sta-zione centrale passante nella zona del porto (in con-trasto con l’ipotesi del piano del 1866 che ne prevede-va la costruzione a sud); quella di una espansione più contenuta basata sul parcellare agricolo (gettando le basi di nuovi criteri gestionali che anticipano il piano di Berlage). Cfr. G. Tacchini, Città e caratteri origi-nari, cit.; G. Tacchini, Il farsi della città sul fiume, cit.82 Cfr. M. Macciò, G. Migliorino, Il porto frainteso, cit.83 Cfr. V. Castronovo, Giovanni Ansaldo e la Liguria del suo tempo, in AA.VV. Storia dell’Ansaldo: Le origi-ni, a cura di V. Castronovo, Laterza, Bari 1994.84 Con diramazione da Alessandria verso Novara e il Lago Maggiore le autorità sabaude si proponevano di fare di Genova un grande emporio che non servisse soltanto l’entroterra piemontese e parte di quello pa-dano ma anche la Svizzera e lo Zollverein tedesco”. In particolare, il tronco di strada ferrata dal capoluogo ligure ad Arona avrebbe dovuto raggiungere la Sviz-zera costeggiando le sponde del Lago Maggiore, senza toccare il territorio lombardo, contribuendo così allo sviluppo dei traffici verso l’Europa centro-occiden-tale, già avviato con l’apertura di un’arteria stradale nella stessa direzione. Cfr. V. Castronovo, Giovanni Ansaldo, cit.85 Il terreno su cui dovrebbe sorgere lo stabilimento è di proprietà del marchese Fabio Pallavicini che per cederlo pretende la somma di 800.000 lire; Prandi chiede al Re che si proceda all’esproprio dell’ area “per oggetto d’utilità pubblica”. Risolto il problema del terreno, nel 1847 si avvia la costruzione dell’offi-cina, dotata di macchinari provenienti dall’Inghilterra o dallo stabilimento marsigliese di Taylor”. Cfr. N. Nada, Genova e l’Ansaldo nella politica di Cavour, in Storia dell’Ansaldo, cit. 86 Cfr. M. Doria, Le strategie e l’evoluzione dell’Ansal-do, Ibidem. 87 Ibidem.88 Cfr. Il porto vecchio di Genova, Catalogo della mo-stra a cura di E. Poleggi e L. Stefani, Sagep, Genova 1985.89 Cfr. M. Macciò, G. Migliorino, Il porto frainteso, cit.90 Ibidem.91 Cfr. J. Sion, Italie, in Méditerranée Peninsules Médi-terranéennes, Tome VII, II, Gégraphie universelle, a cura di P. Vidal de la Blache e L. Gallois, A. Colin, Paris 1934.92 Cfr. Il porto vecchio di Genova, cit.93 Cfr. J.E. Hermitte, Le complexe de Sestri Multedo et l’extension du port de Génes, in “Mèditerranée”, anno I, nn. 2-3, 1960, pp. 33-47 (traduzione V. Donato).94 “Quando, dopo aver attrezzato anche l’ultimo angolo della conca che serve da invaso alla Superba, Genova ha dovuto favorire un monumentale radica-mento di moli, di banchine e di dighe su fondali che raggiungono i 27 metri di profondità, fu sempre verso ovest. Il complesso Sestri-Multedo è ancora all’inter-no della linea fissata nell’Ottobre 1905, quando, con il taglio del molo del Duca di Galliera e la costruzione del bacino della Lanterna, ebbe inizio una conquista del mare che avrebbe condotto fino al Polcevera”, ibi-

dem (traduzione C. Pallini).95 Nel campo siderurgico, intorno a Genova si affer-mano le prime iniziative private di qualche rilievo: le Ferriere Raggio sono le prime a impiantare nel 1882 un forno Martin-Siemens; a Bolzaneto sorgono nel 1887 le Ferriere Bruzzo con due laminatoi per lamiere sottili; nel 1898 si iniziano a Campi i lavori di costru-zione delle fonderie e delle acciaierie create dall’Ansal-do allora sulla via della integrazione verticale, sotto la direzione dei fratelli Bombrini. Alla foce del Cerusa-cresce la S.A. Ferriere di Voltri della famiglia Tassara. Questo complesso di investimenti porta la produ-zione ligure di acciaio a oltre 81.000 tonnellate, pari al 70 % della produzione nazionale del 1900. Nello stesso periodo la segheria di Rinaldo Piaggio a Sestri Ponente modifica la propria attività e si specializza nel campo degli arredi navali. Nasce così la Piaggio & C. che si assicura la quasi totalità dell’ arredamento delle navi che si costruiscono nei cantieri liguri. Si veda M. Macciò, G. Migliorino, Il porto frainteso, cit.96 Ibidem.97 Ibidem.98 Che darà il nome a una battaglia storica nel porto di Genova e nei porti italiani, (nei quali in base all’ar-ticolo 110 del Codice della navigazione del 1942 il la-voro è riservato, come abbiamo visto, alle compagnie e ai gruppi portuali), ibidem.99 Cfr. J.E. Hermitte, Geographie industrielle du port de Gènes, in “Mediterranée”, cit. 100 Cfr. M. Macciò, G. Migliorino, Il porto frainteso, cit.101 Ibidem.102 Ibidem.103 Cfr. R. Bergeron, Croissance des flux de conteneurs et avènement d’un mégaport: Gioia Tauro en Calabre, in “L’information Géographique”, n. 3, 1999, p. 99-111; G. Ridolfi, Italian ports and the wind of change, in “Tijdscrift voor economische en sociale geografie”, vol. 87, n. 4, 1996, pp. 348-356; G. Ridolfi, Contai-nerisation in the Mediterranean: between global ocean routeways and feeder services, in “Geographic Journal”, vol. 48, n. 1, 1999, pp. 29-34. 104 Cfr. G. Tacchini, Morfologia delle città-porto nel ba-cino del Mediterraneo, in Città-Porto. Scritti e Progetti, Clup, Milano, 1989; G. Tacchini, Studi sulla maglia dinamica, Politecnico di Milano, 2000; M. Cote, M. Joannon, Littoralisation et disparités spatiales, Mach-rek, Maghreb, in “Méditerranée”, nn. 1-2, 1999, p. 120.105 Cfr. J. Marcadon, Géographie portuaire de l’espace euro-méditerranéen, in “Méditerranée”, nn. 1-2, 1999, p. 125. 106 Cfr. M. Macciò, G. Migliorino, Il porto frainteso, cit.107 Al fine di comprendere il peso delle trasformazio-ni in corso in questa area cfr. M. Wolkowitsch, La vie maritime en Méditerranée, in “Méditerranée”, n. 1, 1982, pp. 29-37; R. Castejon Arqued, Commercial ports in Spain, in “Tijdschrift voor economische en sociale geografie”, vol. 87, n. 4, 1996, pp. 357-363; D. Goussios, P. Y. Péchoux, Un nouveau ròle pour le port de Volos (Grèce) en Méditerranée orientale, in “Méditerranée”, n. 1, 1982 pp. 39-45. 108 In M. Joannon, L. Tirone, S. Moro, Panorama car-tographique de la Méditérranée – 40 ans de géographie méditérranéenne, in “Mediterranée”, nn. 3-4, 2001,

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pp. 60-105 (traduzione C. Pallini).109 Cfr. G. Tacchini, Studi sulla maglia dinamica, cit.110 Cfr. G. Tacchini, Città porto, cit.111 Cfr. Les types d’espace industriels littoraux, in M. Jo-annon, L. Tirone, S. Moro, Panorama cartographique, cit. (traduzione C. Pallini).112 Ibidem (traduzione C. Pallini).113 Ibidem (traduzione C. Pallini).114 Cfr. J. Marcadon, Géographie portuaire de l’espace euro-méditerranéen, cit. (traduzione C. Pallini).115 Cfr. J. Guillaume, Le canal de Suez à la fin du XX siècle, in “Cahiers Nantais”, n. 52, 1999, pp. 35-44; J. Marcadon, Enjeux économiques et stratégiques des per-tuis maritimes (détroits et canaux ìnterocéaniques), in “Bulletin Association Géographique Française”, n. 3, 1999, pp. 292-302; J. Marcadon, Géostratégie, flottes marchandes et filières maritimes, in Une mer entre trois continents, in La Méditerranée, Ellipses, Paris 2001, p. 210; M. Seger, F. Palencsar, Perspectives of maritime traffic in the turkish straits, in “Pronet-Traffic-Traffi-co”, vol. 13, nn. 2-3, 2001, pp.161-174.