CINEMA ITALIANO ATTORI E ATTRICI: SEMPRE … · 01 06 04 08 25 14 10 17 24 TENDENZE IL GIOCO ......

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numero 5,50 € VERSO L’OSCAR Jep Gambardella recensisce La grande bellezza FOCUS Il cinema in Argentina CINEMA ESPANSO Bruno Bozzetto a San Francisco Dante Ferretti a New York TENDENZE Cosa pensano i politici del cinema italiano? CINEMA ITALIANO ATTORI E ATTRICI: SEMPRE SOLO I SOLITI NOTI? 12 dicembre 2013

Transcript of CINEMA ITALIANO ATTORI E ATTRICI: SEMPRE … · 01 06 04 08 25 14 10 17 24 TENDENZE IL GIOCO ......

numero

5,50 €

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CINEMA ITALIANO

ATTORI E ATTRICI:SEMPRE SOLO I SOLITI NOTI?

12dicembre

2013

POLEMICHE

LA DIREZIONE E LA REDAZIONE DI 8½ RINGRAZIANO TUTTI COLORO CHE NEL 2013 HANNO COLLABORATO ALLA REALIZZAZIONE DELLA RIVISTA: Mario AbisAlberto AbruzzeseCorrado AdamoRoberto AndòElisabetta AndreisSilvia AvalloneMario BalsamoGuido Barlozzetti Luca BarraStefano BartezzaghiGiancarlo BasiliAndrea BellavitaMarco BelpolitiIvan BerettaLuca BernabèPaolo BertettoEddie BertozziMarco BertozziTina BianchiBruno BigoniGaetano BlandiniAlice BonettiFausto BrizziFederico BrugiaLaura BuffoniMaria BurattiGiulio BursiMarco ButicchiPedro ButcherAndrea CancellatoClaudio CarabbaStefania CariniMassimo CarlottoDonato CarrisiSalvatore CarrubbaRiccardo CasaliPaola CasellaCaterina Caselli SugarLionello CerriGiovanni ChiaramonteFrancesca ChiocchettiFrancesca CimaMariuccia CiottaRodrigo Cipriani ForesioGiulia CogoliGuido CornaraPappi CorsicatoCallisto CosulichAlberto CrespiSilvio DaneseFulvio De BerardinisElio De Capitani

Andrea De CarloGiancarlo De CataldoSteve Della CasaLaura Delli ColliGoffredo De PascaleAnna Luigia De SimonePiera DetassisAdriano D’AloiaGuido Di FraiaGiorgio DirittiFederica D’UrsoPaolo Di RedaGiacomo DurziValerio EvangelistiRoberto FaenzaGiorgio FalettiLuisella FarinottiPier Francesco FavinoDavide FerrarioFabio FerrazzaDante FerrettiAlessandro FerrucciFabio FerzettiChiara GamberaleChiara GelatoIole Maria GiannattasioMimmo GianneriMarco GiustiGiorgio GosettiAldo GrassoMichela GrecoChiara GrizzaffiPeter HowellKyung Hyun KimLucio LaugelliAlessandra LevantesiLuigi Lo CascioStefano LocatiDaniele LuchettiJan LumholdCristiana MainardiFrédéric MaireLuca MalavasiFabrizia MalgeriMariarosa MancusoValerio Massimo ManfrediFranco MarineoUmberto MarinoEleonora MazzoniFrancesca Medolago AlbaniEnrico MenduniPaolo MereghettiWendy MigliaccioMagda MihailescuStefano MissioRocco MoccagattaFrancesca MontiFranco MontiniStefano MordiniAsia Marta Muci

Serafino MurriEnzo NattaTill NeuburgMaurizio NichettiMarino NiolaKatia NobbioOlkan OzyurtValerio OrsoliniJohnny PalombaAngelo PannofinoMarco Lucio PapaleoAlberto PasqualeFrancesco PatiernoLuca PellegriniCecilia PenatiMicheal PerkelAlberto PezzottaGiuseppe PiccioniGiovanni Marco PiemonteseFrancesco PitassioPaolo PizzatoVeronica PravadelliRoberto ProvenzanoAngela PrudenziAndrea PurgatoriLeonardo QuaresimaIvan QuaroniCostanza QuatriglioIlaria RavarinoRolando RavelloCarlos ReviriegoRossella RinaldiRoberta RonconiFederico RossinPaola RuggieroEmanuele SacchiPier Luigi SaccoSara SagratiSeverino SalveminiDaniela SanzoneMassimo ScaglioniMaurizio SciarraLorenza SebastianiMario Sesti Fabio SeverinoRoberto SilvestriAlessandro SpreaficoCaterina Taricano Micaela TaroniMaria Sole TognazziRoberta TorreBruno TorriRiccardo TozziVincenzo TrioneMichail TrofimenkovDaniele VicariElisa VinaiMarilena VinciAndrea VitaliMario Zanot

Dario Zonta Wang Xiaolu

SENZA DIMENTICARE COLLEGHI E AMICI DELLA DIREZIONE GENERALE CINEMA, LUCE-CINECITTÀ E ANICA CHE HANNO AGEVOLATO IL NOSTRO LAVORO CON PAZIENZA E SIMPATIA.

Non c’è niente da fare. Agli intellettuali non va giù. Ai cri-tici militanti neppure. I benpensanti radical-chic lo de-testano. E non capiscono – ammesso che abbiano mai capito qualcosa – come e perché Checco Zalone piaccia tanto al “popolo” italiano. Due anni fa, quando lo invitai

a incontrare gli studenti nella mia università, qualche settimana prima del successo travolgente di Che bella giornata, ricordo che ricevetti parecchie telefonate indignate di amici e col-leghi (docenti universitari, scrittori di fama, giornalisti, tutti nomi in vista nel sistema mediatico nazionale) che protestavano con me: ma come? Zalone all’università? Cosa avrà mai da insegnare costui agli studenti!?! Avevano ragione: agli studenti Checco non aveva nulla da insegnare, coi ragazzi poteva tutt’al più condividere. Caso mai, aveva qual-cosa da insegnare a loro. Che però erano (e sono) sordi. Impermeabili. Ora come allora. È davvero deprimente vedere come tanta parte del nostro establishment cultu-rale – quello stesso che con il suo snobismo elitario ha impedito la nascita di una vera industria culturale nel nostro paese – non voglia vedere. Non voglia capire. Il pubblico italiano non è disamorato del cinema e dei film. È stanco e nauseato da un certo tipo di film, tutti uguali, piattamente omologati, spesso invitati ai grandi festival ma incapaci di comunicare alcunché a un pubblico abbando-nato a se stesso, ma proprio per questo assolutamente bisognoso di un cinema capace almeno di trasmettere emozioni. Con il suo incredibile successo, Sole a catinelle dovrebbe aver insegnato qual-

cosa. Ad esempio: nessuno o quasi ha ragionato sul fatto che per due anni Checco Zalone ha lavorato esclusivamente al film. Non ha fatto tv, teatro, pubblicità, cabaret. Mentre tanti altri nostri at-tori “pensosi” e “impegnati” riescono anche a girare due o tre film all’anno, e in più fanno teatro, tv, pubblicità, e così via, fino alla vertigine dell’inflazione di sé. Checco ha curato il suo film con una dedizione d’altri tempi, con una cura assoluta, avendo perfino l’in-

telligenza di rinviare l’uscita del nuovo film di un anno nella consapevolezza che il pro-getto a cui stava lavorando non era quello giusto, o non era ancora maturo. Chi altri oggi farebbe lo stesso? Chi ha questa capa-cità di programmare, pianificare, rischiare, senza pietire sussidi, aiuti, finanziamenti, ma facendo uscire il pubblico di casa e portandolo al cinema? Ma non è cinema!, dicono le anime belle. Beati loro che sanno con certezza talebana cosa è cinema e cosa non lo è. Checco non pretende di saperlo. Lo “sente”, sente il paese e sente anche il cinema. Come facevano, ai tempi loro, pri-ma Totò e poi Alberto Sordi. Neanche loro, finché erano in vita, piacevano ai gendarmi del gusto e ai chierici del cinema d’autore. Sono stati riabilitati post mortem. Aveva ra-gione Marco Bellocchio ne Il regista di ma-

trimoni: in Italia comandano i morti. Almeno finché non c’è qualche Checco Zalone che riporta una ventata di vitalità. Non ha salvato il cinema italiano, Sole a catinelle. Però qualche indicazione preziosa l’ha data. Chissà se questa volta qualcuno vorrà provare a coglierla, e metterà a frutto la lezione.

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di Gianni Canova

EDITORIALE

QUELLI CHE SANNO CON CERTEZZA COSA È CINEMA E COSA NON LO È...

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SOMMARIO

EDITORIALE

QUELLI CHE SANNO CON CERTEZZA COSA È CINEMA E COSA NON LO È...di Gianni Canova

SCENARI

LAVORARE IN PROFONDITÀ. SENZA CERTEZZE di Bruno Bigoni

INTERVISTA A CATERINA D’AMICO:I SOLITI NOTIE L’ECCEZIONALE CASO DI MARGHERITA BUY di Ilaria Ravarino

MASTANDREA,SALEMME,ANGIOLINIE GERINI...MAI SENZAdi Wendy Migliaccio

PROFESSIONE CASTING DIRECTORdi Katia Nobbio

CARO ATTORI: SERIE ACONTRO SERIE Bdi Ilaria Ravarino

L'ATTORE È UNBUGIARDO AL QUALEQUI SI CHIEDE LA MASSIMA SINCERITÀdi Nicole Bianchi

CANI PIETOSI,CHE TENEREZZA!di Mario Sesti

NON AMOGLI ATTORIITALIANIUNA PICCOLA APOCALISSEdi Claudio Carabba

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TENDENZE

IL GIOCO DELLE MASCHEREdi Gianni Canova

SEI DOMANDEAI POLITICIITALIANIdi Francesca Chiocchetti

IL FANTASMA DELL’ONOREVOLEdi Fabio Ferzetti

L’ARMA PIÙ FORTEdi Enzo Natta

TRA IL TRANSATLANTICO E LA RETE,TANTO RUMORE PER NULLAdi Alessandro Ferrucci

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NUMERIdi Unità di Studi congiunta DG Cinema/ ANICA

DECRETO VALORE CULTURA: ITALIA ALLINEATA AI PIÙ AVANZATI PAESI EUROPEIdi Iole Maria Giannattasio

UNA RIVOLUZIONE COPERNICANA VISTA DALL'INDUSTRIAdi Federica D’Urso e Francesca Medolago Albani

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COSA MI PIACE DEL CINEMA ITALIANO

YOSHI YATABE,PROGRAMMING DIRECTORDEL TOKYO INTERNATIONALFILM FESTIVALdi Michela Greco

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Direttore ResponsabileGiancarlo Di Gregorio

Direttore EditorialeGianni Canova

Vice Direttore ResponsabileCristiana Paternò

Capo RedattoreStefano Stefanutto Rosa

In RedazioneCarmen DiotaiutiAndrea Guglielmino

Coordinamento redazionale DG CinemaAndrea Corrado

Coordinamento editorialeNicole Bianchi

Hanno collaborato Guido Barlozzetti, Bruno BigoniClaudio Carabba, Francesca Chiocchetti, Elio De Capitani, Steve Della Casa, Alessandro Ferrucci, Fabio Ferzetti, Michela Greco, Diego Lerer, Daniele Luchetti, Wendy Migliaccio, Enzo Natta, Katia Nobbio, Ilaria Ravarino, Rossella Rinaldi, Roberta Ronconi, Mario Sesti, Alessandro Spreafico

Progetto Creativo19novanta communication partners

Creative DirectorBruno Capezzuoli

DesignerGiulia Arimattei, Matteo Cianfarani, Valeria Ciardulli, Tommaso Dal Poz,Lorenzo Mauro Di Rese,Simona Merlini

8½NUMERI, VISIONI E PROSPETTIVE DEL CINEMA ITALIANO

Mensile d’informazione e cultura cinematografica

Iniziativa editoriale realizzata da Istituto Luce-Cinecittà in collaborazione con ANICA e Direzione Generale Cinema

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SOMMARIO

PUNTI DI VISTA

SE L'ITALIAPREFERISCEIL PROSCIUTTOAL CINEMAdi Daniele Luchetti

DALLA SALABUIA ALLAGHIANDOLAPINEALEdi Guido Barlozzetti

INTERNET E NUOVICONSUMI

IL DIVO DELLA PORTA ACCANTOdi Carmen Diotaiuti

GEOGRAFIE

ARCHEOLOGIA INDUSTRIALEE NATURA SELVAGGIA.BREVE VIAGGIO NELL’ALTO ADIGECHE NON CONOSCE CRISIdi Cristiana Paternò

BIOGRAFIE

RICORDI

IL SEGRETO DI GIGI MAGNI:LA VERA RICETTADELLA CARBONARAdi Steve Della Casa

NEL MONDO

DA PALERMO ALL’ASIA, IL VIAGGIO DELLA “CIABATTINA” COTTAdi Rossella Rinaldi

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CINEMA ESPANSO

BRUNO BOZZETTO.ALLEGRO NON…...NON CHIAMATEMIMAESTRO!di Nicole Bianchi

DANTE FERRETTI.IL LABIRINTO, I LEONI E I LAMPADARIDI SALÒdi Alessandro Spreafico

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FOCUS

IL CASO ARGENTINA

TANTO CINEMAPER POCO PUBBLICOdi Roberta Ronconi

BUENOS AIRES: QUANTI REGISTI PER METRO QUADRO!di Ro. Ro.

UNA TANGENZIALEA PIÙ CORSIEdi Diego Lerer

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Stampa ed allestimentoArti Grafiche La ModernaVia di Tor Cervara, 171 00155 Roma

Distribuzione in libreriaJoo DistribuzioneVia F.Argelati,35Milano

Registrazione presso il Tribunale di Roma n° 339/2012 del 7/12/2012

Direzione, Redazione, AmministrazioneIstituto Luce-Cinecittà SrlVia Tuscolana, 1055 - 00173 RomaTel. 06722861 fax: [email protected]

Chiuso in tipografia il 29/11/2013

DISCUSSIONI

VERSO L’OSCAR.E SE I PERSONAGGI COMINCIASSEROA RECENSIRE I FILM DI CUI SONO INTERPRETI?di Elio De Capitani

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di Bruno Bigoni

SCENARII soliti noti: l'inflazione degli attori

nel cinema italiano

Lavorare in profondita. Senza certezze

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SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano

“Portate ogni scena al massimo grado d'in-tensità.Ogni situazione, an-che la più semplice e

banale nasconde un’incognita da ri-solvere.” (Sergej M. Ejzenstejn).Capita spesso, quando vedo un film italiano, di avere la consapevolezza che il lavoro dell’attore non è abba-stanza approfondito. Responsabilità della regia, penso. Non credo si trat-ti di avere attori buoni o cattivi, ma solo registi incapaci di mettere i loro attori nelle condizioni migliori per esprimersi.Certo, tenendo conto dei limiti pro-duttivi di cui il cinema italiano soffre (soprattutto per gli esordienti) pos-so comprendere le infinite difficoltà a cui si va incontro, ma tutto ciò non basta a giustificare le infelici perfor-mance di molti interpreti. Credo co-munque si dovrebbe approfondire il lavoro di messa in scena. Vale per tutti i film, sia drammatici che comi-ci: viene offerta l’occasione di guar-dare e affrontare la vita reale, quindi di avvicinarsi alle cose vere.Allestire le scene richiede una co-noscenza profonda delle intenzio-ni che la narrazione nasconde, una certa posizione emotiva e la consa-pevolezza della necessità continua di apprendimento. La recitazione non può mai essere semplicemen-te l’enunciazione di parole e il movi-mento del corpo, bensì il luogo della ricerca, lasciandosi dominare meno dalla suggestione e più dalla consa-pevolezza (e magari anche dal senti-mento…). Forse per vedere attori più convincenti bisognerebbe ripartire dal linguaggio, ma anche dall’alfabe-to su cui si basa questo linguaggio.

Vale per gli attori, diventa ancor più importante per la regia.In questo modo le parole (ma anche i gesti, gli sguardi, le intenzioni) ri-troverebbero il loro vero significato, il loro autentico valore, e si presente-rebbero come il frutto di un pensiero profondo. Ecco, proprio questo.Lavorare in profondità: questo man-ca a mio avviso a molti attori del ci-nema italiano di oggi. Latitano quella qualità di lavoro e di tempo neces-sari a far diventare qualunque ac-ting non solo uno sfondo dove im-maginare le storie che si vogliono raccontare, ma anche il luogo dove apprendere il significato delle mille parole che formano l’immaginario di un interprete: partecipazione, se-parazione, solitudine, disagio, gioia e via dicendo. Accanto a quelle della creatività, del desiderio, del conflitto e dei mille altri aspetti della vita che ci circonda. Realizzare un acting dovrebbe signi-ficare sempre mettersi in gioco, ri-schiare. Per entrare nel mondo sco-nosciuto di un personaggio sarebbe necessario pensarlo in profondità, mettere in moto un’energia che pro-ietti verso il centro del suo sentire il motore dell’esperienza umana, sen-za cancellare i conflitti interni o ester-ni. Per creare un’interpretazione au-tentica, che sappia obiettivamente guardare (e di conseguenza rispec-chiare) la vita, gli attori (e i loro re-gisti) devono “immaginare sincera-mente” e muoversi di conseguenza. Il recitare deve mostrare come sono fatti l’uomo e le cose che lo circon-dano, non vedere il loro lato “esterio-re” ma la materia. Mi pongo sovente questa domanda quando entro in un cinema: cosa cerco in un film? Prima

di tutto la verità di ciò che vedo. La ri-conoscibilità, la verosimiglianza del-le storie che mi vengono raccontate. E soprattutto la sincerità di chi mi racconta una storia. Detesto la furbi-zia. La non riuscita di molti film che vedo è dovuta proprio, a mio avviso, a una pessima messa in scena, a un lavoro approssimativo, a una super-ficialità insistita.Verità per un attore (e per il suo re-gista) è vedere e dire ciò che è pre-sente, vivo, autentico. Farmi vedere ciò che veramente vede. Non quello che sembra di vedere. Raccontare la verità, per un attore, è percorrere un processo fatto di esperienze autenti-che legate alla storia che sta interpre-tando. Solo così io spettatore potrò credergli. Sono convinto che il segre-to di una buona recitazione stia so-prattutto nella qualità delle doman-de che ci si pone. Il cinema che amo non ha ricette precotte ma solo co-raggio, curiosità e duro lavoro. Mol-ti attori che sono stati abituati a un lavoro di sole certezze precostituite, di fronte a un nuovo modo di reci-tare sono terrorizzati dal non avere risposte, mentre avere risposte im-mediate per un attore equivale ad es-sere morto. In diversi cercano rispo-ste a tutto e poi si domandano come mai siano così refrattari ad essere vivi, agili, pronti e curiosi! Sono stati abituati ed educati ad avere una vita professionale fatta di risposte giu-ste. Ma dovranno comprendere, pri-ma o poi, che per essere liberi e per poter recitare in modo soddisfacen-te, per loro e per il loro pubblico, do-vranno abituarsi che a una domanda possono corrispondere molteplici ri-sposte giuste.

Riflessioni sull’acting nel cinema italiano. Servono interpreti che

comprendano che una stessa domanda puo avere molte risposte diverse.

E come dice Gogol: “Gli attori sanno troppo bene la parte.

Devono imparare a dimenticarla”.

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SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano

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INTERVISTA A CATERINA D’AMICO: I SOLITI NOTI

E L’ECCEZIONALE CASO DI MARGHERITA BUY

di Ilaria Ravarino

Crisi e reference system rendono difficile, se non impossibile, il ricambio di talenti. Colpa della paura di rischiare e della pigrizia produttiva, secondo la preside del Centro Sperimentale.

Sono famosi. Sono premiati. Sono bravi. Ma sono pochissimi. Così pochi, e privilegiati, da sfiorare l’appartenenza a una categoria di questi tempi piuttosto impopolare: la casta. Assediati da un esercito di colleghi precari, gli attori che lavorano

nel cinema italiano sono un’élite che non conosce crisi. Alcuni sono sulla cresta dell’onda da anni, altri lo sono diventati da poco, tutti sono richiestissimi. E (quasi) sempre nello stesso ruolo. Per Caterina D’Amico, preside del Centro Sperimentale di Cinematografia, il fenomeno non riguarda la mancanza di giovani talenti (“ce ne sono tantissimi”), quanto due sentimenti molto umani e uni-versali: pigrizia e paura di rischiare.

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Perché nel cinema italiano recitano sempre i soliti noti?Di fondo c’è un problema di pigrizia da parte dei produttori. Sono spa-ventati perché la gente non va più al cinema e cercano certezze. Ma io non vedo niente di male nel fatto che un attore faccia tanti film all’anno: perché dovrebbe farne solo uno? Il problema semmai è che si tende a of-frire a una stessa persona ruoli molto omogenei. Quando un attore ha suc-cesso con un film, ci si affretta forsen-natamente a proporgli parti simili a quelle che lo hanno reso riconoscibile al pubblico. E quel disgraziato finisce col rimanere intrappolato.

Colpa del produttore che non ri-schia, dell’autore senza fantasia o dell’attore che non dice di no?Poveri attori, loro il coraggio di dire di no ce l’hanno. Ma devono lavo-rare, e se gli propongono solo una cosa faranno quella per sempre. C’è qualcosa di schizofrenico nell’atteg-giamento di chi se la prende con gli attori sempre uguali a se stessi, e poi si lamenta della mancanza di uno star system italiano. In fondo cos’è lo star system se non avere un attore che fa sempre la stessa cosa?

E il reference system? Se un film con un cast di premiati ha maggiori possibilità di ricevere finanziamen-ti, non si rischia così di privilegiare sempre gli stessi attori?All’inizio succedeva di più. Prendia-mo Elio Germano. Dopo aver sfon-dato con Mio fratello è figlio unico, avrò letto almeno cento copioni con

lui. Improvvisamente non esisteva nessun altro. Era pigrizia da parte dei produttori, ma anche disperato desiderio di cavalcare quella che si credeva essere l’onda del momento. È una pulsione al sequel, al filone d’oro, che il reference system ha reso più perversa: perché se nel cast hai un attore che ha vinto un premio, fai punti. Però non esageriamo. Non è che l’attore debba aver vinto ieri: c’è un parterre ampio fra cui scegliere.

Il reference system, però, non aiuta il ricambio.Ho fatto parte della prima commis-sione che lo ha affrontato e da allora le cose sono cambiate. Per esempio abbiamo chiesto che fosse tolto per le categorie sussidiarie, quelle in cui vincono sempre gli stessi. Dato che a tutti serviva il ”nome”, la gente an-dava a supplicare il vecchio maestro scenografo o costumista dicendo: tu firmi il progetto, mi dai i punti e poi il resto lo fa il tuo allievo. Un inferno. Ma ci sono altri correttivi. I punti adesso vengono attribuiti al re-gista, allo sceneggiatore e agli attori protagonisti, cioè quelli che hanno un peso reale. Non puoi prendere un attore, dargli un cameo e acca-parrarti i suoi punti. In più esiste un punteggio assegnabile alla coerenza dell’insieme. A me è successo di dare punti a film che non avevano “nomi”, ma una compagine credi-bile e calzante. Poi certo, qualsiasi forma di punteggio automatico può creare danni. Ma d’altronde o ci si fida di una commissione, o si appli-ca un metodo puramente matemati-co. Cioè i punti.

E al botteghino? La star del mo-mento dà i risultati sperati?No. L’ attore ormai è solo uno degli elementi di un film. Succede anche nel cinema hollywoodiano. Qualcu-no va a vedere un film perché ci re-cita Ben Stiller? Non credo. Gli attori americani che suscitano i gridolini da red carpet, la gente non sa nem-meno come si chiamino. Sono solo facce. In Italia gli spettatori - e parlia-

mo di un pubblico adulto e accultu-rato - escono di casa per vedere Toni Servillo perché Servillo è in un film di Paolo Sorrentino, o perché recita in una storia interessante. L’appeal del grande star system si è depauperato: è il cinema stesso ad aver perso il suo potere evocativo. È il cinema che non è più sulle copertine dei giorna-li: oggi c’è la moda, altri divi che la fanno da padrone. Gli attori comici funzionano ancora come calamite, ma da soli non bastano. Non basta Elio Germano o Alba Rohrwacher. Con un’unica eccezione che dura da vent’anni. E non accenna a flettere.

Quale?Margherita Buy. La gente va a vedere un film con Margherita Buy perché c’è lei. E basta. Perché è bravissima, perché è molto bella, perché si trova in sintonia con una fetta riconosciu-ta e forte del pubblico cinematogra-fico italiano: le donne della sua età. Che s’identificano con lei o la sento-no vicina, portatrice di istanze che le riguardano tutte.

L’“effetto Buy” è un’eccezione. E agli altri cosa resta? Quando ero a Rai Cinema davo un consiglio ai registi con cui avevo a che fare: mettere nei loro film, accan-to all’attore di richiamo, anche un in-terprete che non conosce nessuno. In questo modo il nuovo attore sarà aiutato ad acquisire riconoscibilità. E un domani, magari, sarà lui a fare da traino per gli altri.

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mastandrea, salemme, angiolini e gerini...mai senza

di Wendy Migliaccio

Le facce che tornano in ogni film, i ruoli che si ripetono, le coppie fisse (categoria in cui stravincono Accorsi e Buy!): analisi degli interpreti italia-ni sempreverdi negli ultimi tre anni.

S cegliamo come campione il trien-nio 2011-2013 e osserviamo i cast dei film italiani usciti in questo pe-riodo nelle sale cinematografiche. Viene dato poco spazio alle novità

e gli attori principali sono scelti nell’Olimpo dei soliti noti, che vantano dai 5 agli 8 film interpretati nel triennio preso in esame. La scelta di case di produzione e casting director ricade per comodità sui nomi più prestigiosi con la convinzione - tutta da verificare - che richiamino un immediato sbigliettamento. Non è un caso che le lo-candine italiane tengano a sottolineare vi-sivamente l’importan-za del cast, attraverso immagini spesso ba-nali e ripetitive. Si per-severa nell’idea che ad attirare gli spettatori non siano tanto la sto-ria o la fascinazione del film quanto la popola-rità dei suoi interpreti. I motivi per cui si rima-ne ancorati a queste credenze discutibili sono tanti. Nessuno vuole rischiare e spesso chi sceglie a chi affidare i ruoli principali non ha competen-ze artistiche. Manca il coraggio. Manca la voglia di sperimentare, che dovrebbe par-tire proprio dalla ricerca dell’attore, per in-dividuare chi (famoso o no) più di altri sia in alchimia con l’essenza dei personaggio. Il coraggio però non si trova. Ecco perché gli attori italiani hanno il loro bel daffare. Tenendo conto che si è scelto di analizza-

re solo i film usciti in sala nel triennio ci-tato, escludendo documentari, produzioni straniere, fiction e film per la tv, osservia-mo che attori come Valerio Mastandrea, Claudia Gerini e Margherita Buy guada-gnano il podio con ben otto film. Se però includessimo anche i ruoli televisivi i nu-meri aumenterebbero ulteriormente. Ad esempio Ricky Memphis, oltre ai sei film per il cinema, nello stesso periodo ha pre-so parte a film per la televisione come Area Paradiso e a fiction come Notte prima degli esami ‘82 e Tutti pazzi per amore 3. I risultati del box office, non particolar-

mente gratificanti per i film italiani, dovrebbero aver svelato il falso mito della ricerca di succes-so attraverso il richia-mo dato dai nomi in auge. Eppure così non è, tanto che la scelta de-gli stessi attori genera inevitabilmente anche gli stessi abbinamenti. Esemplare è l’ormai ro-

data accoppiata Stefano Accorsi - Marghe-rita Buy. Nel recente Viaggio sola sono due ex fidanzati che covano ancora sentimenti l’uno per l’altra. Andando a ritroso la cop-pia è invece sposata e in crisi in Saturno contro mentre ne Le fate ignoranti il loro legame nasce dall’amore che entrambi nu-trono per lo stesso uomo. Questo sistema genera un’inconsapevole confusione. Ed è quanto meno sintomo di una stanchezza creativa, o di una pigrizia produttiva.

SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano

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Produzioni cinematografiche italiane 2011 - 2013

Attori Attrici

8 film:

7 film:

6 film:

5 film:

Valerio Mastandrea: Il comandante e la cicogna – Romanzo di una strage – Gli equilibristi – Padroni di casa – Viva la libertà – La mia classe – Cose dell’altro mondo – Ruggine.Vincenzo Salemme: Lezioni di cioccolato 2 – Senza arte né parte – Una donna per la vita – Mai Stati Uniti – Buona giornata – 10 regole per fare innamorare – Ex: amici come prima – Baciato dalla fortuna.

Ambra Angiolini: Viva L’Italia – Immaturi Il viaggio – Mai Stati Uniti – Stai lontana da me – Anche se è amore non si vede – Ci vediamo a casa – Immaturi – Tutti al mare.Claudia Gerini Reality – Una famiglia perfetta – Com’è bello far l’amo-re – Il comandante e la cicogna – Amiche da morire – La leggenda di Kaspar Hauser - Tulpa – Il mio domani.Margherita Buy Magnifica Presenza – Com’è bello far l’amore – Viaggio sola – 6 sull’autobus – Mi rifaccio vivo – Il rosso e il blu – La scoperta dell’alba – Habemus papam.Cristiana Capotondi Il peggior Natale della mia vita – Amiche da mo-rire – Amori elementari – La mafia uccide solo d’estate – La kryptonite nella borsa – La peggior settimana della mia vita – The Wholly Family – Indovina chi viene a Natale.

Raoul Bova Viva l’Italia – Immaturi Il viaggio – Buongiorno papà – Immaturi – Nessuno mi può giudicare.Fabio De Luigi Il peggior Natale della mia vita – Com’è bello far l’amore – Aspirante vedovo – Femmine contro maschi – La peggior settimana della mia vita.Toni Servillo Bella addormentata – È stato il figlio – La grande bellezza – Viva la libertà – Il gioiellino.Pierfrancesco Favino Posti in piedi in Paradiso – Romanzo di una strage – ACAB – La vita facile – L’industriale.Luca Argentero E la chiamano estate – Bianca come il latte, rossa come il sangue - Cha Cha Cha – C’è chi dice no – Lezioni di cioccolato 2.

Giuseppe Battiston: Il comandante e la cicogna – La variabile umana – Zoran il mio nipote scemo – La prima neve – Bar Sport – Io sono Li – Senza arte né parte.

Michele Placido Viva l’Italia – Razza bastarda – Tulpa – Itaker: Vietato agli italiani – Amici miei – Manuale d’amore 3.Rocco Papaleo Viva l’Italia – È nata una star – Una piccola impresa meridionale – Che bella giornata – Finalmente la felicità – Nessuno mi può giudicare.Ricky Memphis Immaturi Il viaggio – Mai Stati Uniti – L’ultima ruota del carro – Ex: amici come prima – Immaturi – Vacanze di Natale a Cortina.Christian De Sica Colpi di fulmine – Buona giornata – Colpi di fortu-na – Il principe abusivo – Amici miei – Vacanze di Natale a Cortina.Elio Germano Magnifica Presenza – Diaz – Padroni di casa – L’ultima ruota del carro – La fine è il mio inizio – Qualche nuvola.Marco Giallini Una famiglia perfetta – Posti in piedi in paradiso – Buongiorno papà – Tutti contro tutti – ACAB – Tutti al mare.Filippo Timi Com’è bello far l’amore – Asterix e Obelix – Italian Movies – Quando la notte – Ruggine – Missione di pace.

Carolina Crescentini Una famiglia perfetta – Allacciate le cinture di sicurezza – Niente può fermarci – Boris Il film – Henry – L’industriale.Alba Rohrwacher Bella addormentata – Il comandante e la cicogna – Con il fiato sospeso – Via Castellana Bandiera – Missione di pace – Sorelle mai.

Angela Finocchiaro Benvenuto al Nord – Il sole dentro – Ci vuole un gran fisico – Bar Sport – Lezioni di cioccolato 2.Barbora Bobulova Immaturi Il viaggio – Gli equilibristi – Una piccola impresa meridionale – Immaturi – Scialla.Asia Argento Dracula 3D – Baciato dalla fortuna – Cavalli – Gli sfio-rati – Isole.

SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano

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SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano

di Katia Nobbio

Il mestiere, le selezioni, i condizionamenti. Luca Argentero “primo volto giusto” per Mangia, Prega, Ama accanto a Julia Roberts, Muccino che all'inizio rifiutò Vittoria Puccini, la scoperta di Bova e Scamarcio e “i bambini” di Baaria. Ma i volti nuovi faticano a emergere “perché non fanno punteggio” al reference system.

PROFESSIONECASTINGDIRECTOR

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SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano

L uchino Visconti aveva in mente un volto. Lo trovò a Stoccolma. Il volto pallido ed emaciato di Björn Andrésen, un giovane attore sconosciuto: gli restituì l’immagine di Tadzio in Morte a Venezia, come uscita dalla penna di Thomas Mann. O meglio, l‘immagine che dalle pagine del romanzo aveva preso corpo nei suoi occhi di regista. Perché proprio Björn Andrésen era Tadzio? Come si trova un volto giusto, quel volto

che rispecchia il profilo tratteggiato dalla sceneggiatura? E perché spesso la faccia dell’attore ha la meglio sulle caratteristiche del personaggio? Lo abbiamo chiesto ad alcuni casting director, coloro che reggono il delicato equilibrio tra le esigenze del regista e quelle della produzione, tra l’arte e il marketing, le intuizioni, gli agenti e le agende degli attori.

LILIA HARTMANNcon il suo Studio-T - lavora molto per le pro-duzioni internazionali, tra gli ultimi titoli Va-tican di Ridley Scott e Mangia, Prega, Ama di Ryan Murphy; in produzione un nuovo Fran-cesco di Liliana Cavani con interpreti stranieri.

Chi è il casting director?Il mestiere del casting in Italia l’ha inventato mia madre: Isa Bartalini. Era assistente di Bla-setti e fu la prima casting director in Italia, sele-zionò gli attori, che erano tutti italiani tranne i protagonisti, per Cos'è successo fra mio padre e tua madre di Billy Wilder (1972). Oggi, quando le produzioni internazionali mi chiamano per comporre il casting italiano dei film comincio, insieme al mio socio Gianni Laricchiuta, ad inviare dei provini oltreoceano: li carichiamo online e i registi li vedono sul telefonino, dob-biamo essere molto attenti a tutto, a partire da una buona luce, altrimenti la resa in video non rende giustizia all’attore. Tra i tanti provini online i registi scelgono in genere 5 o 6 attori che vengono a provinare in Italia.

Qual è il grado di libertà concesso a chi fa il suo mestiere?Abbiamo libertà assoluta, può capitare che i producer americani ci chiedano dei volti noti, ad esempio per le serie tv che poi devono vendere alla Rai e a Mediaset, ma non im-pongono nomi. Per Labyrinth (Christopher Smith, 2011) abbiamo selezionato Claudia Gerini, per Crossing Lines (Dan Percival, 2012) Gabriella Pession.

Il casting più difficile?Gangs of New York (2001) è stata una bella sfida. Dovevamo scegliere gli attori per tanti piccoli ruoli e Martin Scorsese voleva vederli tutti. Cercavamo attori italiani che parlassero inglese e che sembrassero irlandesi. Ab-biamo cercato nei pub, nelle scuole, siamo andati a stanare attori ovunque. Per dare omogeneità visiva all’insieme, Scorsese ha chiesto l’occhio del casting director su tutti i ruoli, anche alcuni non parlanti come “The rich man”: un uomo ricco che aveva tre sce-ne in cui non faceva nulla. All’epoca studiavo

equitazione con un insegnante che assomi-gliava un po’ a Carlo d’Inghilterra, lo portai al provino e piacque subito.

Il casting più facile?Non è mai facile, a volte può capitare che il primo volto che ti viene in mente quando leggi una sceneggiatura sia quello giusto, ad esem-pio Luca Argentero per Mangia, Prega, Ama.

Perché si vedono sempre le stesse facce?Il sistema per la richiesta di finanziamenti da parte del Ministero per i Beni Culturali per la realizzazione di un film è un sistema a punti e la presenza nel cast di attori che abbiano vinto premi come i David di Donatello ga-rantisce un punteggio alto: è un gatto che si morde la coda. Vengono scelti attori che hanno già ottenuto dei successi e che conti-nueranno ad ottenerli, mentre non si riesce a far emergere volti nuovi.

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PINO PELLEGRINOamico di Ferzan Ozpetek da trent’anni, da più di venti lavora con lui; tra gli ultimi film, oltre a quelli del regista turco, Il volto di un’altra di Pap-pi Corsicato, Gli equilibristi di Ivano de Matteo.

Chi è il casting director?È un lavoro di aggiornamento continuo. Io vado a teatro, vedo la tv, vado al cinema e immagazzino volti e informazioni.

Qual è il grado di libertà concesso a chi fa il suo mestiere?

Dipende dal progetto e dall’importanza del regista. Ho lavorato con Ferzan Ozpetek da Le fate ignoranti (2000) all’ultimo film che sta per uscire, Allacciate le cinture, e non ho mai ricevuto una raccomandazione.

Il casting più difficile?Per Una mamma imperfetta (Ivan Cotroneo) insieme a Gabriella Giannattasio abbiamo visto attrici a non finire, quasi 500-600. Era-vamo partiti con dei nomi poi ci siamo con-centrati su volti meno noti. È stato un lavoro faticoso ma stimolante.

Il casting più facile?Non è mai facile, ogni volta c’è un attore su cui non si riesce a mettersi d’accordo. In Allac-ciate le cinture c’è Francesco Arca, un ex troni-sta: serviva un fisico come il suo ed era difficile trovare un attore noto con un fisico così.

Perché si vedono sempre le stesse facce?Nei film di Ferzan, che sono corali, riusciamo sempre a mettere uno o due volti nuovi ma è sbagliata la legge del finanziamento pubblico per i film, che attribuisce i soldi in base al nome degli attori invece che alla forza della storia.

FRANCESCO VEDOVATI ha coordinato la recente costituzione dell’ “Unione Italiana Casting Directors”. Tra i suoi ultimi film Miele di Valeria Golino, Viaggio sola di Maria Sole Tognazzi, Il ragazzo invi-sibile di Gabriele Salvatores (in produzione).

Chi è il casting director?Noi conosciamo molto bene gli attori e in-terpretiamo la richiesta del regista, spesso leggendo una sceneggiatura io ho già delle suggestioni ma so come procedere in base al regista con cui lavoro. In genere preferisco far vedere molti attori prima di insistere su quello “giusto”.

Qual è il grado di libertà concesso a chi fa il suo mestiere?Non tantissima. Il produttore e il distributore hanno bisogno di nomi da cartellone. D’altra parte è inutile proporre grandi attori con un alto valore di mercato se i budget non permet-tono di pagarli. A volte le produzioni ci affidano il budget in modo che possiamo risparmiare

su certi ruoli scegliendo attori meno noti per poi investire di più sull’attore affermato.

Il casting più difficile?Tante volte è difficile, soprattutto per i ruoli femminili sui quali tutti mettono bocca. Ad esempio ci è voluto tanto tempo per trovare l’adolescente de L’ultimo bacio. Abbiamo cer-cato a Roma, a Milano, fatto centinaia e cen-tinaia di provini in tutte le agenzie, poi sono finito a Firenze e ho trovato Martina Stella. Abbiamo cambiato il ruolo su di lei, trasfor-mandolo in un personaggio toscano. Per il sequel Baciami ancora non era facile cam-biare la protagonista dopo il rifiuto del ruolo da parte di Giovanna Mezzogiorno, ma io ho pensato subito a Vittoria Puccini che avevo conosciuto sul set quando ero assistente alla regia di Sergio Rubini. Con Muccino ho dovuto insistere, mi aveva detto di no quan-do gliel’avevo proposta per L’ultimo bacio e non voleva saperne. Alla fine, dopo aver visto moltissime attrici, ha accettato di incontrare Vittoria e dopo due provini l’ha scelta.

Il casting più facile?In memoria di me di Saverio Costanzo (2007): ho pensato subito a Filippo Timi per il ruolo del seminarista, era conosciuto a teatro ma pochissimo al cinema. Timi fu la prima per-sona che feci incontrare a Saverio, ci abbiamo messo tre mesi ma poi siamo tornati su di lui. Dopo l’ho chiamato per proporlo a Salvatores per Come Dio comanda e poco dopo lo chia-mò anche Marco Bellocchio per Vincere.

Perché si vedono sempre le stesse facce?Il reference system ci porta ad accapigliarci per gli stessi 3-4 nomi di successo. Per fare un film con Valerio Mastandrea, ad esempio, bisogna aspettare il 2015. Esiste un casting di attivazione, che è virtuale, in base al quale viene presentata la domanda di finanzia-mento. Contano i premi: premio vinto 20 punti, nomination 10 punti. Se poi quando si realizza il film l’attore non è più disponibile dobbiamo sostituirlo con un pari merito.

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CHIARA AGNELLOconta tra gli ultimi film Salvo di Grassadonia e Piazza, Terraferma di Emanuele Crialese, Il giovane Montalbano di Gianluca Tavarelli.

Chi è il casting director?È un lavoro creativo che ha per obiettivo la soddisfazione del regista. Ho iniziato con Il re-gista di matrimoni di Marco Bellocchio (2006) a fare il casting per i piccoli ruoli e poi mi sono inventata questo mestiere in Sicilia. Ero il punto di riferimento per le produzioni: ho provinato, per vari film, tutti gli attori siciliani.

Qual è il grado di libertà concesso a chi fa il suo mestiere?

Dipende dal progetto, i protagonisti spesso sono già decisi, ma per il resto del cast a volte siamo completamente liberi, come ad esempio per Faccia d’Angelo (Andrea Porpo-rati, Sky, 2012 ) con Elio Germano, una storia ambientata nel Nordest. Sono stata a Chiog-gia per un mese e ho composto un cast di attori professionisti e non, tutti veneti perché sono una purista: quando si gira in un certo luogo l’attore deve essere locale.

Il casting più difficile?Per Baaria ho curato il casting dei bambini. Servivano volti per interpretare lo stesso ruolo in età diverse e Tornatore teneva mol-tissimo alle somiglianze. Avevamo messo un annuncio sul giornale così per i provini abbia-

mo riempito l’atrio immenso di una scuola. I bambini erano tutti in fila e io dicevo “tu sì, tu no…” ma i genitori degli esclusi prendevano i figli e li rimettevano in fila!

Il casting più facile?Per Salvo ci abbiamo messo un anno a tro-vare la protagonista, Sara Serraiocco, ma il risultato è stato perfetto.

Perché si vedono sempre le stesse facce?Molti attori non fanno i provini, ti dicono “se vuoi me mi prendi e basta”, così vengono chiamati sempre per gli stessi ruoli.

ADRIANA SABBATINI lavora molto per la tv, con più di cento titoli: da Il capo dei capi di Enzo Monteleone a Al-cide De Gasperi e Einstein di Liliana Cavani.

Chi è il casting director?È l’angelo custode degli attori, il mediatore che può far passare un interprete dall’anoni-mato al successo.

Qual è il grado di libertà concesso a chi fa il suo mestiere?Le pressioni a volte ci sono, in tv ci sono tan-te voci: la produzione di appalto che è più o meno forte, il referente della rete, sono entità che hanno tante anime. Per Orgoglio (Giorgio Serafini e Vittorio De Sisti, Rai 1, 2004) il pro-duttore Goffredo Lombardo anticipava i soldi e poi vendeva la serie alla Rai, così se voleva aggiungere una scena, sforando il budget, lo

faceva di tasca sua. Aveva una passione forte per il suo mestiere, ha lavorato fino all’ulti-mo, malato. A me per il casting aveva dato carta bianca, andavo a fargli vedere i provini in clinica, mi riceveva con le flebo ma voleva vederli tutti dalla postazione video che si era fatto allestire.

Il casting più difficile?Per la serie tv Compagni di scuola (Tiziana Aristarco e Claudio Norza, Rai 2, 2001) ser-viva un “tenero violento”, un volto alla Matt Damon. Pensai subito al volto di Riccardo Scamarcio, lo avevo incontrato per caso, non aveva fatto nulla ma per me era lui. Lo portai alla produzione e piacque, ma la Rai non era convinta. Ho portato avanti una battaglia personale, abbiamo fatto sei provini, poi anche la regista Tiziana Aristarco si mise a lottare e alla fine prendemmo lui.

Il casting più facile?Tre metri sopra il cielo (Luca Lucini, 2004). Scamarcio “era” Step. Non ho perso neanche un secondo, l’ho proposto alla produzione e al regista: l’hanno scelto subito.Un’altra scelta immediata per me è stato Ra-oul Bova. Era un nuotatore, bellissimo. Avevo visto delle foto di agenzia per le pubblicità e avevo subito pensato a lui per la fiction Una storia italiana (Stefano Reali, Rai 1, 1991) sui fratelli Abbagnale. Era così timido, non aveva mai recitato: ricordo che ho riaperto l’ufficio appositamente per lui una sera alle 6 quando si decise a fare il provino. La battaglia con la Rai poi l’ha portata avanti il regista Stefano Reali, che si era subito convinto che Raoul Bova fosse quello giusto.

Perché si vedono sempre le stesse facce?In tv conta lo share. L’attore che porta un buon ascolto sarà richiamato come protagonista.

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Gli attori costano. Ma nel cinema italiano parlare di stipendi è qua-si un tabù. Indelicato chiedere, fastidioso rispondere. Soprattutto in tempi di crisi.

“L’aspetto economico è sempre stato fonda-mentale nel cinema, ma ormai è degenerato. Tutto è pensato in vista della fattibilità”. A dirlo è Mirta Guarnaschelli, celeberrima casting di-rector e aiuto regista di Pietro Germi, ai tempi in cui “gli attori ce li cercavamo viaggiando per l’Italia, nei teatri, per strada. Ormai i film sono montati su volti predefiniti e se li hai scritti pensando a uno di loro, ti devi adattare a un certo cachet. Per i ruoli minori resta poco: non proponi nemmeno più ai registi persone che pensi non abbiano un mercato”.I privilegiati non sarebbero più di una decina. Per i tecnici sono gli “attori di prima fascia”, per il pubblico le star. Nessuno di loro guada-

gna quanto un Depardieu, ma il loro cachet è alto: “Le star incidono moltissimo nell’e-conomia di un film – spiega Mario Gianani, produttore Wildside - Possono chiedere fino al 10, 15% del budget. Con un brutto film portano a casa 4 milioni di spettatori, con uno buono 10: il compenso è parametrato. Seguono la legge della domanda e dell’offerta. Sono numeri uno, producono valore. Il pro-blema è che sono pochi: è la scarsità che fa il prezzo. E finché sarà così, saranno sempre strapagati”. Cifre che viaggiano fra i 600.000 e gli 800.000 euro a film, “e nelle commedie – continua Gianani - il divario di compenso tra il numero uno e il numero tre è impres-sionante. Là il problema è che le star comiche tendono a non mescolarsi: De Luigi e Bisio sono gli unici a fare i film degli altri, Siani non li fa più, Verdone nemmeno, Benigni non li ha mai fatti. Girano i loro film ogni due anni,

di Ilaria Ravarino

Caro attori: serie A contro serie B

Nel cinema italiano parlare di stipendi è quasi tabù. Ma noi di 8½ siamo riusciti a saperne qualcosa di più. Parlano la casting director Mirta Guarnaschelli, il produttore Mario Gianani, l’attore di “seconda fascia” Dino Santoro e l’agente Daniele Orazi.

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e in mezzo non si muovono per non inflazio-narsi. Un discorso giusto, privatamente, ma il sistema ne soffre”. I produttori si dividono tra chi invoca un intervento calmierante, come chiese nel 2003 l’ad Medusa Giampaolo Letta, e chi come Gianani sposta il problema altrove. Puntando il dito sugli attori di secon-da fascia. “La media dei compensi è troppo alta. Un film medio italiano, che costa quattro milioni e ne incassa due, paga tra i 200.000 e i 400.000 euro gli attori di seconda fascia. Bisognerebbe dargliene 50.000, ma come si fa? È come nel calcio: se Totti prende 17 milioni, l’ultimo dei panchinari ne chiede al-meno 300.000. Viviamo un mercato abituato troppo bene”. Non tutti gli attori di seconda fascia, natural-mente, sposano la proposta. Anche perché non tutti si sentono esattamente dei privile-giati. Dino Santoro, bravo attore, fa questo lavoro da quindici anni. Formazione al Centro Sperimentale, lavori da comprimario al ci-nema, tanta fiction in mezzo (Il tredicesimo apostolo, Squadra Antimafia). E un impiego da cameriere per coprirsi le spese: «Sì, in un giorno un attore di seconda fascia guadagna quanto un operaio in un mese. Ma questo non ci rende automaticamente ricchi, perché il lavoro è saltuario e va accompagnato da spese come corsi e trasferte che non rimborsa nessuno. La posa, cioè il giorno di lavoro, è il culmine di questa attività: ma non sei tutto il mese sul set e le tasse si portano via gran par-te del compenso”. La lotta per la posa è duris-sima, perché se le star sono poche, gli attori di seconda fascia sono un esercito. E i provini, ormai, una rarità: “Dieci anni fa, in un mese, si facevano sette-otto provini. Oggi due-tre. Ci sono pochi film indipendenti, aperti a nomi meno pesanti, mentre per gli altri i ruoli da protagonista sono già assegnati”. E i famosi 200.000 euro a film? “Mai visti 100.000 euro tutti insieme. Con il passaggio all’euro gli stipendi sono calati: quando ho cominciato si prendeva anche un milione e 200.000 lire a posa. Ora è la metà”. E poi ci sono gli esordienti, giovani under 25 al loro primo lavoro al cinema. Daniele Orazi, agente, con Officine Lab da dieci anni ha un punto d’osservazione privilegiato: “Scegliamo fino a 10 talenti all’anno, selezionati tra le 800-900 proposte arrivate in agenzia. In un anno la metà di loro riesce a lavorare con continuità, non da protagonista. Un paio sbocciano”. Per loro gli stipendi viaggiano “tra i 600 e i 900 euro a posa, ma se il progetto è interessan-te e ha budget ridotto si accetta comunque,

considerata l’età. Si arriva anche a 400 euro a posa, anche se è un danno al mercato”. In un anno i fortunati mettono da parte 20-25 pose, guadagnando fino a 3.000 euro a film. “Alcuni produttori si piegano ai compensi stratosferi-ci delle star. Diamo 800.000 euro a qualcuno convinti che porti un rientro che magari non

arriva. A questo punto, su un film da 300.000 euro, il giovane dovrebbe prendere 30.000 euro, non 3.000. I produttori si lamentano di non poter pagare gli attori di fascia media, o medio bassa, perché il protagonista si prende tutto. È questo lo sbaglio maggiore”.

6 interpreti eccellenti, tra i volti più presenti sul grande schermo - Battiston, Gerini, Giallini, Lodovini, Rocca e Preziosi – ci raccontano in prima persona il loro rapporto con i registi e il set e mettono in evidenza pregi e difetti della categoria.

L'attore è un

bugiardo al quale

qui si chiede la

massima sincerità

di Nicole Bianchi

Secondo lei, esiste uno star system italiano?

Ricordi quella volta che si è sentito più incompreso, sottovalutato, strumentalizzato, sottoutilizzato.

Un pregio e un difetto degli attori italiani.

La cosa che non sopporta sul set. 1

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Il regista e il metodo che le hanno consentito di dare il meglio come interprete.

Un film che non rifarebbe e perché.

Un film che si è pentito di non aver fatto/aver potuto fare e perché.

La sua scena che vorrebbe restassein un’ideale antologia del cinema italiano.

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(Vittorio Gassman)

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Esiste forse più a livello televisivo: è un po’ tutto alterato dal momento che gli opinionisti non sono più filosofi o poeti ma casalinghe o calciatori, contro i quali non ho niente, ma credo possano essere poco indicativi rispetto alla nostra realtà. Anche i nostri attori più rappresentativi li vediamo più spesso in tv che al cinema: non si tratta di una differenziazione di carattere quali-tativo, ma se stiamo parlando di cinema cerco di dare una spiegazione al fenomeno; ci sono attori più rappresentativi, questo è certo, ma siamo lontani da un “sistema”, assenza che comunque non interpreto come un grande male.

Pregi molti, credo che ci siano attori ita-liani bravissimi. Il difetto è quello, forse, di accontentarsi nel senso che, assodato comunque che bisogna anche “campare” e che il panorama generale è quello che è, nel momento in cui interpreti bene un ruo-lo poi cercano di affidartelo per la maggior parte della carriera. Qui c’è un concorso di colpe, da parte di registi e sceneggiatori: però ci sono anche gli attori che si prestano a interpretare sempre uno stesso ruolo, cosa che alla fine ti fa identificare solo con quello. Anche in questo caso, non è un’ana-lisi qualitativa: un grande attore rimane co-munque tale, però in questo modo diventa quasi una maschera.

È difficile da dire perché ho avuto la fortuna di lavorare con autori che considero stra-ordinari: mi trovo a mio agio con chi mi permette di fare un buon lavoro e rispetto agli autori con cui ho lavorato sono davve-ro pochi quelli che non mi hanno messo in quelle condizioni. C’è un cinema che adesso è importante fare, quello degli au-tori nuovi, che ti portano nuova linfa vitale: mettere l’esperienza a disposizione di chi cerca di portare una storia al cinema.

È successo, certo. E mi rifaccio un po’ alla seconda risposta: è successo perché forse anch’io ho permesso che si creasse un malinteso; ci sono registi che mi han-no chiesto di fare esattamente un ruolo che avevo fatto in passato, qualcosa che mi avevano visto fare. E io mi dico: quello l’ho fatto in un’altra storia, si deve andare altrove, ho bisogno di costruire un per-sonaggio, di creare un “vissuto” che non può essere sempre lo stesso, la richiesta è “criminosa”.

GIUSEPPEBATTISTON

Come nella vita, non sopporto le falsità che serpeggiano sul set, che non ti ven-gano dette le cose fino in fondo. Non sopporto il cestino. E non sopporto la mancanza di sedie, perché sul set bisogna aspettare un casino!

C’è quello che non rifarei e quello che mi sono pentito di non aver fatto, ma per cor-rettezza, per decenza, non farò titoli. Anche perché nel percorso d’attore può capitare di trovarsi in condizioni in cui devi… girare qualcosa per forza, allora da quella forma d’imposizione in poi si “naviga” male e questo determina che si abbia uno scarso gradimento del progetto. Non si tratta solo di un fatto di gusto personale ma talvolta di circostanze. In generale penso che gran parte delle cose che ho fatto avrei potuto farle meglio, però mi capita anche di guar-dare film a cui ho preso parte e che mi fan-no domandare: ma adesso sarei capace di farlo? E non credo…

Vedi risposta precedente.

In questo momento, forse anche perché mi trovo in Veneto, sto pensando a Carlo Mazzacurati e credo che la scena dell’ul-tima cena de La passione sia molto bella, forse anche e proprio perché corale.

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CLAUDIAGERINI

Nel suo piccolo sì, è un mini star system es-sendo il nostro mercato molto piccolo, quasi asfittico: avere in un film un attore piuttosto che un altro fa la differenza, quindi c’è un mec-canismo legato alle star ma proporzionato alle dimensioni del nostro cinema. Il discorso di avere nel cast un interprete e non un altro comunque è un po’ ambiguo: avere una star può oscurare un progetto, può essere un de-terrente, quindi dipende da quello di cui si ha bisogno; a volte un progetto non ha bisogno di un grosso nome perché è ingombrante e andrebbe a catalizzare l’attenzione; altre volte invece un progetto ha proprio molto bisogno di una star: quando è piccolino, un nome mol-to conosciuto dà le ali al progetto, però l’attore in questione deve essere davvero particolar-mente aderente al personaggio.

Gli attori italiani sono molto naturali, un pre-gio è il saper dare un’interpretazione abba-stanza realistica: danno autenticità, verità; un difetto è fare sempre lo stesso personaggio, una volta che individuano un personaggio che gli riesce non c’è niente da fare, non lo mollano più! Non rischiano abbastanza, pre-feriscono restare nella sicurezza.

Sicuramente ci sono stati registi che mi han-no consentito questo, sì. Il metodo però è una cosa più intima per l’attore, ognuno ha il suo: un regista non ti può insegnare un metodo, ti può dare degli stimoli, delle visioni. Io seguo sempre molto le indicazioni del regista, per-ché reputo che sia colui che dà la paternità al progetto; in particolare posso citarne due: Tornatore, che ne La sconosciuta mi chiedeva tanto di restituire delle espressioni asciut-te, fredde, quasi una fissità, un’immobilità espressiva e questo mi ha dato tantissimo perché il mio personaggio aveva bisogno di questa gravità, per cui l’essere così distaccata nelle emozioni mi ha permesso di creare il personaggio, soprattutto perché io invece ho una mimica del volto molto mobile. Poi Carlo… con Carlo Verdone è una cosa com-plessa da spiegare perché noi siamo proprio alchemicamente, chimicamente, animica-mente uniti: ci sono anche delle chimiche attoriali, a noi basta essere messi insieme e succede qualcosa, con Carlo accade così, diventa tutto vero, tutto funziona. Lui mi ha tanto insegnato i tempi, che ho appreso stan-dogli molto vicino, studiando il suo cinema per anni, quindi forse è più corretto dire che, più che altro, me li ha trasmessi.

Sinceramente non mi viene in mente nien-te. Si sentono storie di rapporti conflittuali con il regista, di comportamenti aggressivi o strani giochi psicologici: a me non è mai successa questa cosa, mai. È una questio-ne di carattere, forse: io sono abbastanza sicura di me, mi piace quello che faccio, la-voro da quando ho 13/14 anni, quindi sono proprio cresciuta con questo lavoro, per cui probabilmente ho acquistato una certa sicurezza, gestisco bene l’ansia, non mi lascio sopraffare e poi cerco di imparare da tutto, ascolto, e mi creo su ogni set la mia piccola famiglia, cercando di “portarmi a casa” il film con molta rilassatezza.

Fare le prove! Io sono molto istintiva, mi piace molto sfruttare l’immediatezza di quello che mi viene in quel momento: ooodio provare, riprovare, riprovare… e togliere così naturalezza a tutto.

Un film che proprio non rifarei alla fine non c’è. Per esempio c’è Lucignolo, di Massimo Ceccherini, fatto in un periodo in cui avevo un contratto con la Cecchi Gori, per cui dovevo per forza lavorare: è un film che po-trebbe essere considerato quasi trash, però io con quella cifra comica sono riuscita a risultare molto bene e anche se non è un film che si fa rientrare nell’antologia indi-spensabile del cinema, con la sua chiave un po’ surreale, ironica, allusiva mi fa dire che mi è piaciuto come sono “uscita fuori”, il profilo del mio personaggio. Questo per dire che se anche mi è capitato di fare sce-ne o film di qualità non altissima io non ho motivi per dire che vorrei non averli fatti.

Non c’è nessun clamoroso rifiuto. Mi è dispiaciuto, ma sono comunque contenta della mia scelta, per il primo Immaturi, che Genovese mi aveva offerto e non feci, non perché non credessi nel film ma per-ché avevo appena partorito, mia figlia era veramente piccola e non avevo nessuna voglia di rimettermi sul set; il film comun-que ha fatto un grande successo, ma non per questo adesso sono pentita di non averlo fatto. Insomma, non esiste un film poi candidato agli Oscar che ho rifiutato!

Beh, l’antologia di Viaggi di nozze è ormai un cult: Jessica e Ivano… Oddio, questa è una domanda difficile però, perché non vorrei sembrare presuntuosa ma ne ho tre in mente. In Grande grosso e... Verdone la scena in cui lei è arrabbiatissima e fa una specie di danza del ventre generata dalla frustrazione: è divertente perché è un misto di erotico e nervoso; poi il discorso della scena di Non ti muovere, quando la bambina è in coma e c’è la mamma sul letto; sempre con Castellitto, in Una fami-glia perfetta, la scenata di gelosia.

Foto di Riccardo Ghilardi

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Certamente no: c’è qualche traccia ma non è più il “sistema star” di una volta. Oggi lo star system riguarda più altre ca-tegorie, come i calciatori o certi cantanti, ma io mi accontento, non mi serve lo star system: mi basta dire che è stupido sostenere che dà fastidio uscire di casa e avere il riscontro del pubblico. A me è una cosa che gratifica.

marcogiallini

Noi italiani siamo anzitutto un po’ ca-strati sotto il punto di vista dell’interna-zionalità, proprio perché non esiste uno star system, un’industria. Così, non esi-stendo in questo momento un sistema che ci sostiene, faccio fatica a trovare un difetto alla categoria, lo dico perché è anzitutto difficile lavorare, poterlo fare in film che ti interessano davvero. Poi dire un difetto sarebbe difficile anche per-ché non siamo tutti uguali, non potrei accumunare tutti. Per quanto riguarda il pregio invece credo che siamo tra i più bravi al mondo, senza piaggeria: in-somma se Raoul Bova, per citarne uno, oppure Favino hanno l’opportunità di essere “vestiti da Spider Man e volare” sono credibili! Certo che quando ti lanci da decine di metri ci vuole anche meno a diventare una star! (ride)

Posso dire che un po’ tutti i registi sono stati capaci di tirar fuori un buon lato di me, però di certo Marco Risi, per me uno dei primi, e Sollima, che mi ha dato la popolarità insieme a Carlo Verdone. Poi tengo a Claudio Caligari. Anche Paolo Genovese, il regista con cui ho lavorato più di recente.

Non sono proprio il tipo che si presta a esse-re sottovalutato: non credo che guardandomi si possa pensare che io mi faccia strumenta-lizzare, non ne ho il tempo! E nemmeno la prestanza fisica e il carattere credo lo lascino intendere. Oh cazzo se mi difendo!

È banale, lo so, ma non sopporto di alzarmi alle cinque di mattina. Non sopporto di vede-re poco i miei figli in alcuni giorni: è retorica ma è la realtà. Non vado mai in camper, ma veramente mai, devo proprio essere strema-to: preferisco fumarmi una sigaretta vicino ai macchinisti e guardare il loro lavoro, perché mi piace molto osservare qualsiasi cosa del set. Mi ricordo, bellissimi, dei cambi magaz-zino o di pellicola. Mi piace tutto, veramente tutto del set.

Un film che non rifarei c’è ma non farò il titolo - scusi la diplomazia, ma è anche questione di rispetto per il lavoro di tutti - anche perché comunque il regista già lo sa!

Il film che ho rifiutato era diretto da un regista molto conosciuto e ci rimase male, per cui anche qui non posso fare il titolo, ma non ho accettato per una questione di dignità…

La scena in cui faccio cantare Little Tony ne L’odore della notte è rimasta un po’ di culto, diffusissima su YouTube: credo che anche in relazione alle moda-lità tecnologiche di oggi quella “sia già rimasta”, non solo per come l’ho fatta io, ma per tutte le alchimie che rendono una scena eccezionale. Poi una scena con mio figlio in A.C.A.B. di Stefano Sollima e senza dubbio una delle scene con Carlo, Favino e me in casa insieme in Posti in piedi in paradiso.

Foto di FabioLovino

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Il cinema italiano di qualità oggi non punta sul divismo, chissà se è giusto o sbagliato...

Non è possibile individuare un pregio e un difetto di un attore perché vanno condivisi con l’intera macchina produttiva, dalla scrittura alla regia, al montatore… Noi attori siamo un tutto unico insieme alla troupe artistica e tecnica. 6Rifarei tutto negli stessi tempi e negli

stessi modi.

Credo molto nel valore delle scelte. Scelgo le parti seguendo l’ago di una mia bus-sola interiore, a volte interpretando ruoli che non danno impulso alla mia carriera in termini di notorietà ma che mi consen-tono di soccombere al fascino, di cui da sempre sono vittima, del lavoro dell’atto-re. Quindi, nessun rimpianto.

Non lo so… È come chiedere a un bambi-no se vuole più bene a mamma o a papà!

3Credo che la dote fondamentale di un regi-sta sia la capacità di capire la rappresenta-zione in modo da far vivere una scena, di darle un ritmo e di creare un’atmosfera che stimoli la creatività di tutti, quindi per la mia esperienza dico: Paolo Sorrentino. Per ciò che riguarda il metodo rispondo: tutti!!! Da Nicholas Ray a Alejandro Jodorowsky, perché credo che l’attore debba avere una certa padronanza della tecnica per aprire le porte all’ispirazione.

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Il cinema rende importante qualsiasi incontro. Un attore deve essere un bravo attore, anche se incontra un regista che ha un cattivo carattere e idee diverse dalle sue.

La mancanza di rispetto, la poca comunicazione e il pressapochismo che si respira un po’ troppo frequen-temente sui set italiani.

SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano

Secondo lei, esiste uno star system italiano?

Ricordi quella volta che si è sentito più in-compreso, sottovalutato, strumentalizzato, sottoutilizzato.

Un pregio e un difetto degli attori italiani.

La cosa che non sopporta sul set. 1

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Il regista e il metodo che le hanno consenti-to di dare il meglio come interprete.

Un film che non rifarebbe e perché.

Un film che si è pentito di non aver fatto/aver potuto fare e perché.

La sua scena che vorrebbe restasse in un’ideale antologia del cinema italiano.

valentinalodovini

Foto di FabioLovino

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5No.

Siamo italiani…

Actors Studio per un anno, Centro Sperimentale a Roma e Jury Ashiz, pe-dagogo russo che lavorava con gli atto-ri come fossero bambini. Risultato? Un grande cocktail: un pizzico di gioco, la tua memoria emotiva rielaborata, os-servazione, e istinto!

Un provino tanti anni fa dove il regista prima che uscissi disse “cancellala, questa non farà mai niente!” E invece…

Il set è l’unico posto dove tutto è possibile.

Non ho rimpianti, rifarei tutto.

Forse Le ragazze del Coyote Ugly, un film americano che ha incassato ovunque.

Se avessi la bacchetta magica tutte!

Secondo lei, esiste uno star system italiano?

Ricordi quella volta che si è sentito più in-compreso, sottovalutato, strumentalizzato, sottoutilizzato.

Un pregio e un difetto degli attori italiani.

La cosa che non sopporta sul set. 1

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Il regista e il metodo che le hanno consenti-to di dare il meglio come interprete.

Un film che non rifarebbe e perché.

Un film che si è pentito di non aver fatto/aver potuto fare e perché.

La sua scena che vorrebbe restasse in un’ideale antologia del cinema italiano.

STEFANIAROCCA Foto di GianMarcoChieregato

SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano

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No, da quando Mastroianni, la Loren e altri interpreti hanno avuto la possibilità di farsi conoscere all’estero per le loro capacità e, soprattutto, per le storie che raccontavano, perché l’Italia era in quegli anni un paese straordinario da narra-re, quindi il cinema italiano aveva una grande forza sul mercato perché poteva vantare dei portabandiera molto concreti, non teorici. Il presente è una fase, in cui non credo il paese necessiti di uno star system, un po’ perché anche quello ame-ricano sta facendo acqua da tutte le parti, quindi sarebbe anacronistico pensare di strutturare oggi un sistema così. Così come fa il cinema francese, c’è bisogno di raccogliere quello che sta accadendo e portarlo, da parte di un attore o un regi-sta italiano, fuori dal confine, anche oltre l’Europa: il primo che ci riesce vince e ristabilisce il sistema! Il difetto è che a volte non accettano di “concedersi fino in fondo” - in maniera visibile, e sottolineo visibile - valorizzando la grande umanità istintiva che appartiene loro, spunto non positivo per riconoscere, invece, quanto si sia tecnicamente capaci.

ALESSANDROPREZIOSI

Uno in particolare no, quasi tutti. Essendo io un attore che si espone molto, dichia-rando anche le difficoltà, le mancanze, i dubbi, le prepotenze, ogni regista ha avu-to la possibilità di plasmarmi a seconda del suo punto di vista. Mi sono trovato meglio con i registi che avevano una vi-sione della storia molto chiara e di conse-guenza del personaggio, il loro possesso del soggetto mi ha aiutato molto.

Non penso di essere stato sottovalutato, cre-do che il cinema sia una bilancia in equilibrio che tende alla perfezione e quindi se sono stato sottoutilizzato era perché la narrazione doveva essere più importante.

Non tollero ridurre la lavorazione all’ultimo secondo, l’andare in straordinario quando si sta girando un momento importante, trovar-mi in un passaggio topico della lavorazione con la percezione dell’urgenza di dover chiu-dere il set.

Mah… forse posso riferirmi a film per la te-levisione, perché per il cinema li rifarei tutti. In televisione ho ritenuto, per me, non giuste le prime puntate delle seconde serie, che ho fatto ma adesso leggo come un meccanismo contrario alla mia visione del mestiere dell’at-tore e della narrazione.

Quello ancora da fare, intendendo la voglia di raccontare una storia, di essere dietro la macchina da presa, anche come sceneggia-tore. Vorrei scoprire la possibilità di questa velleità che ho, quella che sto praticando nel teatro, ma applicata al cinema.

Per come sono fatto io, per come vivo il ci-nema, la cultura, il discorso di Consalvo ne I Vicerè.

Foto di GianniFiorito

SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano

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SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano

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vile. Il cinema italiano dagli Anni ’90 ad oggi non ha avuto attori peggiori della illustre stagione del dopoguerra, ma ha visto più cani di qualsiasi altra cinema-tografia tra quelle storiche più presti-giose. È un cinema che ha avuto talenti attoriali strepitosi, da Rubini a Servillo e un esercito sconfinato di aspiranti atto-ri, giovani senza talento, raccomandati, appassionatissimi, mediocrissime attri-ci, toccanti e fragili, che sembrano usci-te da una soccorrevole prosa di Cechov. La desertificazione del mercato, l’olo-causto dei produttori, il mattatoio delle tv – vogliamo parlare della recitazione nelle fiction? – la militarizzazione della lottizzazione dei contributi pubblici, ha prodotto questa folla sterminata di Ed Wood attoriali in sedicesimo che ha sognato il cinema, l’ha praticato, l’ha follemente amato senza avere alcuna chance di viverlo senza farsi massa-crare dagli sghignazzi del pubblico di Venezia o dalle recensioni, grondanti sarcasmo e indignazione, della critica cinefila. Io, invece, provo per loro, solo immensa tenerezza.

Cani Pietosi: era il titolo che avevo dato a un mio con-tributo a un volume col-lettivo sul cinema italiano degli Anni ’80, dedicato ai

film realizzati con l’art. 28. Il curatore, credo scandalizzato, lo cambiò senza neanche avvertirmi. In realtà ho sem-pre provato una grande empatia per gli attori italiani lasciati soli in bicamere incolori, sigarette nervose, inquadra-ture trasparenti, montaggio lineare e convenzionale, musica zuccherosa o solenne, luce di involontario e stinto realismo. Come diceva Truffaut, non c’è niente di più interessante, per la macchina da presa, che un attore in difficoltà. Nulla più del cinema italiano degli ultimi trent’anni ha lavorato con la stessa determinazione, con la stessa maniacale disciplina a questo risultato. Copioni impossibili, registi mediocri, zero soldi. Come si fa a non voler bene a tutti gli attori italiani – anche ai più cani – che hanno accettato questo mar-tirio con passione e devozione? Sono la prima linea del fuoco di fila delle attese

di Mario Sesti

Cani pietosi,

che tenerezza!

Siamo tutti ugualmente responsabili e colpevoli di fronte a qualcuno che recita male. Perché non è giusto esporlo al cinismo dei critici o dei selezionatori di un festival.

del pubblico, che può accettare uno sti-le d’illuminazione modesto, un set or-dinario, persino un sonoro disturbato: ma non perdona una battuta inutilmen-te violentata da un urlo. Quante ne ab-biamo sentite dalla metà degli Anni ’80 ad oggi? Ricorderò sempre un famoso critico cinematografico, oggi scompar-so, che vedendo un modestissimo film d’azione, durante una proiezione per la stampa, alle grida di dolore di un’attrice sullo schermo, il cui personaggio era te-stimone di una scena di efferata violen-za, sussurrò, accanto a me: “Che Dio ci perdoni”. Non c’è niente di più tragico del fallimento del tragico. Siamo tutti ugualmente responsabili e colpevoli di fronte ad un attore che recita come un cane. Perché non è giusto esporlo al cinismo dei critici o dei selezionatori di un festival, perché un regista che lo ha diretto in quel modo non può esse-re meno colpevole di lui, perché non c’è stato nessun fratello o mamma o fidanzata che ha avuto il coraggio di dirgli la verità. Dietro un attore cane c’è una società profondamente difettosa e

di Claudio Carabba

C’era una volta in Ita-lia lo “star-system”. Roba magari autar-chica e alla buona, non proprio un si-

stema perfetto come a Hollywood. Ma insomma, esistevano, fra gli uomini e le donne (maggiorate e no), nomi sicuri e capaci di assicu-rare incassi. Oggi tutto questo non c’è più, saltando i comici, che sono una “banda a parte”, come direb-be Godard. Francamente da Totò a Siani, per limitarsi a due “principi napoletani”, c’è una certa differen-za, ma ahimè le cose cambiano. Alcuni danno molte colpe ai nostri presunti divi, che sarebbero pigri e presuntuosi sul set, e poco propen-si a impegnarsi nelle indispensabili campagne di promozione. Un po’ è vero, ma la questione non è solo qui. È calata la produzione, la fiori-tura di registi (e sceneggiatori) della nuova generazione non è esplosiva, le sale rischiano il vuoto perenne. In questo quadro da piccola apocalis-se, tutti rischiano di affondare len-tamente. Poi ci sono ovviamente i

bravi e gli scarsi. Il “parco maschi-le” mi sembra stia moderatamente meglio. Però, dietro al magnifico Toni Servillo (non date ascolto agli antipatizzanti), non scorgo un grup-po impetuoso. Procediamo per casi esemplari: fra i bravi di mezza età si sono smarriti Sergio Castellitto (troppo preso dalla famiglia?) e il sempre perplesso Fabrizio Bentivo-glio. I più giovani sbagliano le occa-sioni: Pierfrancesco Favino, ottimo quando fa il celerino o il bandito di strada, è a disagio nelle commedie o (peggio) come amante in crisi. E mi aspettavo di più dai ragazzi violenti di Romanzo criminale, del film e del serial tv. È più disastrata la condizio-ne femminile, anche a causa dei co-pioni e dei ruoli fissi. Non per niente la fremente Golino, per salvarsi, si sta mettendo in proprio. Altre sono rimaste prigioniere di se medesime: Margherita Buy, nevrotica forever; ora la sensibile Alba Rohrwacher è ingabbiata nei panni della “bruttina sventurata”. In definitiva ognuno ha le sue colpe, dai produttori agli au-tori. Così attori e attrici tendono ad

adagiarsi, a cogliere i vantaggi del presente (uno sceneggiato tv, una pubblicità a puntate) senza impe-gnarsi. Il simbolo di questa sventata dissipatezza mi sembra Sabrina Fe-rilli, che quando vuole è brava (La bella vita, La grande bellezza)ma so-vente si limita a una simpatia facile da curva romanista.E poi c’è il tormentone degli spot. Così fan tanti, per carità (Clooney alla macchinetta del caffè, Banderas nel mulino dei biscotti). Ma uno slo-gan come “che bel sofà, beato chi se lo fa”, detto con un sorriso da cio-ciara stanca, questo no, proprio non vorrei vederlo.

Non amo gli attori italianiUna piccola apocalisse

Dietro al magnifico Toni Servillo, non scorgo un gruppo impetuoso. E Sabrina Ferilli sul sofà, questo proprio no.

SCENARI // I soliti noti: l'inflazione degli attori nel cinema italiano

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COSA MI PIACEDEL CINEMA ITALIANO

di Michela Greco

Yoshi Yatabe,

Programming Director del TokYo International

Film Festival

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A nni felici di Daniele Luchetti, La migliore offerta di Giuseppe Tornatore e Via Ca-stellana Bandiera di

Emma Dante. Il 26esimo Tokyo Inter-national Film Festival, che si è svolto dal 17 al 25 ottobre, ha portato in sala questo tris tricolore, distribuendo il cinema italiano tra il concorso in-ternazionale, gli Special Screening e il World Focus. Un’attenzione per la nostra produzione che è rimasta co-stante nel tempo, almeno negli ultimi anni in cui questo festival è diventato uno dei più grandi dell’Asia, probabil-mente anche grazie al suo sapiente mix tra imponente cinema main-

stream e piccole opere di giovani regi-sti che cercano nuovi linguaggi come, nel 2010, Le quattro volte di Michelan-gelo Frammartino. Quest’anno l’aper-tura è stata affidata a Captain Phillips di Paul Greengrass con Tom Hanks e il festival ha ospitato film come Bling Ring di Sofia Coppola e Behind the Candelabra di Steven Soderbergh. A rispondere alle domande di 8 ½ è Yo-shi Yatabe, Programming Director del Concorso del Tiff dal 2007. Lo è diven-tato dopo aver lavorato nella distribu-zione e promozione cinematografica, prodotto documentari, guidato il Fe-stival du Film Français in Giappone ed essere entrato nello staff di Tokyo nel 2002.

Cosa convince il Tiff a selezionare ogni anno almeno tre o quattro titoli italiani? Cosa vi piace del nostro cinema?

L’Italia ha una storia del cinema lunghissima e ricca, e i suoi film sono sempre indispensa-bili nei festival cinematografici. La coesisten-za di grandi lavori diretti da maestri e opere più piccole, fresche e stimolanti, di nuovi talenti emergenti rende il cinema italiano davvero importante e ci spinge a tenere d’oc-chio ogni nuovo titolo.

Cosa invece vi piace meno del nostro cinema?

Non posso davvero pensare a cosa non mi piace nel cinema italiano...

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COSA MI PIACE DEL CINEMA ITALIANO

Con quali criteri il vostro comitato di sele-zione sceglie un film italiano piuttosto che un altro?

Tendiamo a selezionare gli “art house film” di alta qualità, nei quali si rifletta in modo molto forte la personalità del regista.Vi sembra che il cinema italiano sia costi-tuito da un’ondata di talenti giovani o sia più matura?Sono sempre sorpreso nello scoprire eccitan-ti nuovi talenti accanto a maestri affermati. Perciò credo che la bellezza del cinema italia-no consista proprio nel fatto che contiene ed esprime le diverse generazioni, le più mature e quelle emergenti.

Se dovesse indicare alcuni nomi in partico-lare, quali segnalerebbe fra i più prometten-ti, tra i “registi italiani del futuro”?

Ce ne sono tanti, posso fare i nomi di alcuni autori che non a caso sono passati al no-stro festival negli ultimi: Saverio Costanzo, Susanna Nicchiarelli, Giuseppe Capotondi, Luca Guadagnino, Valerio Mieli, Gian Alfonso Pacinotti, Alice Rohrwacher, Elisa Fuksas, Matteo Botrugno e Daniele Coluccini.

E per quel che riguarda gli attori e/o le attrici?

Direi sicuramente Alba Rohrwacher e Isabella Ragonese tra le donne: tra gli uomini Michele Riondino e Luca Marinelli. Beh, forse non sono nemmeno più così “nuovi”, ma credo davvero che siano figure molto importanti per il panorama attuale del cinema italiano.

Se dovesse citare le due maggiori sorprese degli ultimi anni?

La solitudine dei numeri primi e Le quattro volte, tra molti altri!

Il Tokyo International Film Festival sem-bra apprezzare sia grandi film drammatici che piccole produzioni di nuovi filmaker, come ad esempio Et in terra pax e L’ultimo pastore.

È vero, perché, come dicevo prima, la mia in-tenzione è proprio quella di presentare questi due aspetti del cinema italiano al pubblico giapponese e asiatico, per mostrare quanto la vostra cinematografia sia ricca e variegata.

A proposito di questo, fino a che punto il nostro cinema riesce a raggiungere il pub-blico giapponese?

L’Italian Film Festival di Tokyo, che si svolge ogni anno a maggio, è uno dei festival di maggior successo della città. Le proiezioni

sono sempre pienissime di persone appas-sionate di film e di cultura italiana. Dai cinefili agli amanti della pasta, sembra che l’Italia provochi emozioni speciali a un ampio target di giapponesi. E devo dire che lo stesso di-scorso non vale per i film francesi e tedeschi.

Pensa che le selezioni ai grandi festival aiu-tino realmente la vita commerciale dei film?

Assolutamente sì! È una delle nostre preoc-cupazioni principali. Noi non mostriamo film solo per il pubblico, ma anche per gli addetti

ai lavori. Il fatto che opere relativamente pic-cole come Le quattro volte e Nina abbiano trovato una distribuzione giapponese e siano state portate in sala dimostra l’importanza della partecipazione ai festival. L’attenzione creata dalla proiezione al festival incoraggia i distributori a comprare i diritti del film e incrementa le sue possibilità di uscita com-merciale. Anche se quest’ultima non è l’unico obiettivo della proiezione, il festival dovrebbe fare il massimo sforzo per offrire alle opere la possibilità di essere viste, nelle migliori condizioni, dai compratori.

Il gioco delle maschere

TENDENZEIl cinema e la politica in Italia

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di Gianni Canova

Il gioco delle maschere

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Si prendono la scena. Interpretano un copione. Porgono le battute. Che nella società dello spettacolo i poli-tici siano attori consumati lo si sa da tempo. Almeno dai tempi in cui

Ronald Reagan è diventato presidente degli Stati Uniti d’America. Benché già nel lontano 1985 Robert Zemeckis in Ritorno al futuro ironizzasse con pungente sarcasmo sulla credibilità (futura…?) di quella presidenza, da allora non c’è politico di rango – da Bush a Obama giù giù fino a Grillo e a Berlusconi – che non sia prima di tutto un abile e astuto amministratore del proprio personaggio e dei copioni che sa recitare meglio. I politici come maschere? Non c’è dubbio. Anche il cinema li vede così. In Italia, almeno. Perché mentre il cinema americano quando mette in scena i politici li chiama sempre diretta-mente con nome e cognome, senza biso-gno di trucchi e abiti di scena, e non teme di costruire attorno ad essi affabulazioni e drammaturgie (da JFK a Nixon, da Lincoln a Hoover, e così via…), da noi è rarissimo che il nome di un politico appaia nel titolo (tra le poche eccezioni, Anno Uno-Alcide De Gasperi di Roberto Rossellini, Mussolini ultimo atto di Carlo Lizzani e Il caso Moro di Giuseppe Ferrara). Da noi, per lo più, i politici sulla sce-na sono maschere (Il portaborse, Il divo…). Di volta in volta grottesche, comiche, satiriche. Quasi mai tragiche. Forse perché siamo re-frattari alla tragedia. O perché anche i politici, come gli autori di cinema, sono più portati allo sberleffo e al fescennino che alla serietà e alla sobrietà. Spesso, si tratta di maschere zoomorfe. Sarà perché il pensiero politico da noi nasce – con Machiavelli – ricorrendo a

fortunate metafore animali (il Principe che deve avere “la forza del lione e l’astuzia della volpe”), ma certo è che il ricorso al bestiario è una costante nella teatralizzazione della poli-tica, sia nelle narrazioni dei cineasti (Moretti che chiama “il Caimano” Berlusconi), sia in quelle dei politici (Calderoli che descrive la ministra Kyenge come un orango), passando per le tre fiere che simboleggiano rispettiva-mente il potere militare, quello commerciale e quello agrario in quello splendido pamphlet brechtian-godardian-decurtisiano che è Il potere di Augusto Tretti. Maschere, sempre e comunque. Commedia, in ogni caso. Commedia dell’arte. Tra arlecchini servitori di ogni padrone e pulcinella imbattibili nell’arte di arrangiarsi. Da noi, paradossalmente, un grande film sulla politica come Lincoln di Steven Spielberg sarebbe impossibile e im-pensabile: troppo epico, troppo “alto”. Noi voliamo più bassi. Voliamo sulle paludi in cui la politica è la perenne arte della concertazio-ne e della negoziazione, è sotterfugio e sotto-bosco, è trucco e inganno. Con una visione della politica ormai del tutto arcaica, da presa del Palazzo d’Inverno. Ma di un arcaismo che probabilmente rispecchia – ahinoi… – quello della società.Quanto ai politici, riflettono l’analfabetismo filmico del paese di cui sono espressio-ne. Hanno del cinema – se va bene – una visione romantico-nostalgica oppure una concezione cinicamente strumentale. Ma nella maggior parte dei casi, per lo più, non lo considerano neppure. Non lo citano quasi mai né nei loro programmi né nei loro discor-si. Spesso non lo accolgono nel novero delle arti. Del resto, non c’è da stupirsi. Lasciano

sprofondare o cadere a pezzi Pompei, figuria-moci se sono disposti – di questi tempi – a salvaguardare il cinema. A investire denaro per preservare un immaginario che è quasi sempre stato – almeno fino agli Anni’80 – scomodo, sconveniente, non conciliante e – soprattutto – non riconciliato. Certo, a prenderli uno per uno, i politici italiani si dichiarano tutti grandi appassionati. Se non addirittura insaziabili cinéphiles. Recitano? Mentono? Interpretano? Chissà. Certo dico-no – senza sostanziali differenze di schiera-mento e di ideologia – di andare al cinema e di vedere i film. Ma quali sono i loro gusti? Le loro predilezioni? I loro film del cuore? Le interviste che seguono – pur senza avere alcuna pretesa di rappresentatività – provano ad aprire qualche squarcio, a suggerire qual-che indicazione. E, anche, a scovare qualche contraddizione. Tutti i politici intervistati, ad esempio, dichiarano di essere consumatori di film in sala, ma poi nessuno di loro (e nes-suna delle forze politiche in cui militano…) fa nulla per contrastare il declino delle sale e per favorire gli esercenti che stanno in trincea e si battono perché il cinema continui ad esiste-re anche nel nostro paese. Contraddittorio? Non c’è dubbio. Ma dove c’è contraddizione si può lavorare. Ci si può insinuare. Questo servizio di 8 ½ ambisce ad essere un primo passo per andare in questa direzione. Nella convinzione che proprio nel rapporto fra ci-nema e politica, e più ancora nel nesso fra politici e attori, ci sia uno dei nodi irrisolti del nostro paese. Del suo passato, ma anche del suo (e del nostro) futuro.

Nel rapporto fra politica e spettacolo, e ancor di più in quello fra politici e attori, c’è uno dei nodi irrisolti (e, forse, anche più contorti) della storia (non solo recente…) del nostro paese.

TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia

"Una giornata particolare di Ettore Scola è un capolavoro profondo e commovente, due diverse disperazioni che s’incontrano all’ombra di una delle pagine più crude della storia, il regime fascista. Habemus Papam di Nanni Moretti è invece il classico esempio di conformismo di sinistra”, così afferma il Presidente della VII Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei Deputati.

GiancarloGalan Pdl-FI

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TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia

Indichi tre film che consigliereb-be agli elettori o ai sostenitori del Pdl-FI perché esprimono bene il vostro sentimento del mondo e la vostra visione delle cose. Scelgo tre film non recenti ma ancora molto attuali. Il candidato, 1972 con Robert Redford, un film significativo perché mostra un giovane avvocato che decide di entrare in politica con poche pos-sibilità di vincere ma con l’obietti-vo di far guadagnare consensi alla causa dei diritti civili e ai problemi dell’ecologia. Al di là di ogni aspet-tativa vince ma con un prezzo molto alto, egli stesso entrerà a far parte del circolo di corruzione che cercava di combattere. Confesserà al suo avversario di non avere più idee per il futuro, la cinica replica: questa è la condizione migliore per un perfetto senatore. Una giornata particolare di Ettore Scola, con Mastroianni e la Loren, un capolavoro profondo e com-

movente, due diverse disperazioni che si incontrano, due umanità distinte, lontane, legate da un sentimento profondo all’ombra di una delle pagine più crude della storia, il regime fascista. Ed infine Il Dottor Živago, sullo sfondo di una drammatica storia d’amore: la delusione, anzi la disperazione, per quella che è stata la rivoluzio-ne russa.

Se dovesse commissionare un documentario sulla sua forza politica, a quale regista italiano le piacerebbe potersi rivolgere?Senza dubbio ad Ettore Scola. Mi affascina la genialità che emerge da ogni suo film, una rara capa-cità di saper unire alla grandiosità della storia e dei personaggi il sentimento che rende grandi le sue opere.

L’ultimo film che ha visto, l’ulti-mo film italiano che ha visto al

cinema, e infine – se c’è – il film del cuore e perché. L’ultima volta che sono stato al cinema ho visto Bella addor-mentata, di Marco Bellocchio, una tematica che mi sta partico-larmente a cuore, il racconto di una vicenda umana che ha avuto enorme impatto nella politica ita-liana e soprattutto nel mio partito, l’eutanasia, raccontata attraverso gli occhi di un senatore che deve scegliere se votare per una legge che va contro la sua coscienza o non votarla, disubbidendo alla di-sciplina del partito. Il film del cuo-re è il già citato Il Dottor Živago, lungamente osteggiato dal regime comunista perché invitava a pen-sare con la propria testa.

Il film politico che l’ha fatta più arrabbiare e perché.Habemus Papam di Nanni Moret-ti, il classico esempio di conformi-smo di sinistra, la scena della par-

tita di pallavolo, mutuando una battuta di Fantozzi, mi è sembrata come La corazzata Potëmkin, una cagata pazzesca!

È mai andato a un festival di cine-ma? Se sì quale e perché?Sono stato ospite di numerose edizioni della Mostra del Cinema di Venezia, prima come presi-dente della Regione Veneto, poi come ministro per i Beni Cultu-rali. Un’atmosfera affascinante, quasi incantata.

Preferisce vedere i film al cinema, in tv, sul tablet, in DVD, scaricarli da internet?Sono un romantico, preferisco ancora il cinema. Certe emozioni riesce a trasmetterle solo il grande schermo. Purtroppo non ho molto tempo libero quindi di rado riesco a concedermi una serata al cine-ma, ma ne vale sempre la pena.

di Francesca Chiocchetti

SEI DOMANDE AI POLITICI ITALIANI

Esponenti di Pdl, Pd, Scelta Civica, M5S, Lega Nord e Sel raccontano a 8½ il loro amore per il grande schermo tra visione personale del mondo e ideali di partito. E tra i film più amati/odiati spunta Diaz di Daniele Vicari.

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TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia

Indichi tre film che consigliereb-be agli elettori o ai sostenitori del Pd perché esprimono bene il vostro sentimento del mondo e la vostra visione delle cose.Django Unchained di Tarantino perché, oltre ad essere un bel film, è un inno al grande cine-ma italiano; Il lato positivo, per-ché noi del Pd abbiamo davvero bisogno di un “happy-end” e di una seconda opportunità, e Ami-ci miei perché non bisogna mai prendersi troppo sul serio.

Se dovesse commissionare un documentario sulla sua forza

politica, a quale regista italiano le piacerebbe potersi rivolgere? A Paolo Sorrentino, per la sua in-credibile capacità di visione. Per-mettetemi di fargli anche un sin-cero in bocca al lupo per il suo La grande bellezza, designato come film rappresentante del cinema italiano nella selezione del Pre-mio Oscar come miglior film in lingua non inglese.

L’ultimo film che ha visto, l’ulti-mo film italiano che ha visto al cinema, e infine – se c’è – il film del cuore e perché. L’ultimo film che ho visto è stato

Il grande Gatsby, mentre l’ultimo film italiano che sono andato a vedere è stato proprio La gran-de bellezza. Il film del cuore è La mia Africa perché nella sua tra-ma c’è un segreto che non ho ancora scoperto, e poi quanto è brava Meryl Streep!

Il film politico che l’ha fatta più arrabbiare e perché.Non mi sono mai arrabbiato per un film politico, al massimo pos-so aver sbadigliato.

È mai andato a un festival di ci-nema? Se sì quale e perché?

Beh sì, sono stato diverse volte alla Mostra di Venezia, a Cannes e all’American Film Market.

Preferisce vedere i film al cine-ma, in tv, sul tablet, in DVD, scaricarli da internet?Ho una passione per il grande schermo che comporta un rito al quale non voglio rinuncia-re: la pizza dopo la proiezione per scambiarsi le opinioni con gli amici. Ma non disdegno gli altri mezzi, purché siano legali, alla fine conta il contenuto, non il contenitore.

AndreaMarcucci Pd

“Ai nostri elettori consiglio Django Unchained di Tarantino, perché è un inno al cinema italiano. E anche Il lato positivo, perché noi del Pd abbiamo davvero bisogno di un ‘happy end’ e di una seconda opportunità, e Amici miei, perché non bisogna prendersi troppo sul serio”, così afferma il Presidente della Commissione Istruzione Pubblica, Beni Culturali, Ricerca Scientifica, Spettacolo e Sport del Senato della Repubblica.

“A Gabriele Salvatores commissionerei un documentario sul mio partito, un grande regista premio Oscar, capace di coniugare la drammaticità delle scene con una grande ironia e una sottile capacità descrittiva delle vicende storiche”, così afferma la deputata di Scelta Civica, membro della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione, della quale è anche vicepresidente, e della Commissione Agricoltura.

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TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia

Indichi tre film che consigliereb-be agli elettori o ai sostenitori di Scelta Civica con Monti per l’I-talia perché esprimono bene il vostro sentimento del mondo e la vostra visione delle cose. Invictus, Le ali della Libertà, Lezioni di piano. Sono tre film molto diversi tra loro ma con una forza narrativa e una visio-ne del mondo e della vita che rappresentano al meglio gli ideali di libertà, di giustizia, di amore. Invictus mette in scena, con grande intensità, la straor-dinaria vita di Nelson Mandela, un simbolo di libertà del nostro tempo. La storia di Andy Dufre-sne in Le ali della libertà invita a non demordere anche quando le cose sembrano precipitare e

a mantenere sempre aperto il cuore alla speranza. Lezioni di piano celebra la forza dell’amo-re come rinascita e come pos-sibilità di una nuova esistenza.

Se dovesse commissionare un documentario sulla sua forza politica, a quale regista italiano le piacerebbe potersi rivolgere? Gabriele Salvatores, un grande regista premio Oscar, capace di coniugare la drammaticità delle scene con una grande ironia e una sottile capacità descrittiva delle vicende storiche.

L’ultimo film che ha visto, l’ulti-mo film italiano che ha visto al cinema, e infine – se c’è – il film del cuore e perché.

La grande bellezza di Sorrentino. Il mio film del cuore è senz’altro Frankenstein Junior (in versione originale), perché è l’apoteosi dell’ironia. Senza ironia come potremmo vivere?!

Il film politico che l’ha fatta più arrabbiare e perché.Draquila. Un film interessante, ma troppo di parte. Al contrario, penso che Il Caimano di Moret-ti abbia saputo rappresentare la stessa vicenda in modo efficace e senza scadere in quegli ecces-si che alla fine ridimensionano la forza di un film politico.

È mai andata a un festival di ci-nema? Se sì quale e perché?No, non ho mai avuto l’occasio-

ne di partecipare a un festival del cinema. Mi piacerebbe poterlo fare, ma gli impegni e le attivi-tà che svolgo non mi lasciano il tempo di dedicarmi a queste ma-nifestazioni come vorrei.

Preferisce vedere i film al cine-ma, in tv, sul tablet, in DVD, scaricarli da internet?Lo spettacolo della sala cinema-tografica è unico ma senz’altro ho più occasioni di vedere film in DVD. Ho pochissimo tempo per andare al cinema e dunque scel-go la strada più semplice e quella che mi permette di dare comun-que una mano al cinema.

IlariaCapua Scelta Civica

“Non potrei non consigliare Capitalism: A Love Story, un film denuncia, tra decrescita e democrazia, del nostro sistema malato. E poi Avatar, bellissimo sia tecnicamente che ideologicamente, lo sguardo su un futuro diverso, anche e soprattutto nel segno dell’ecologia”, così afferma il deputato M5S e membro della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei Deputati.

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TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia

Indichi tre film che consiglierebbe agli elettori del M5S perché espri-mono la vostra visione delle cose.Inizierei da V per Vendetta. La ribel-lione al potere che opprime i cit-tadini: “Le parole non perderanno mai il loro potere, perché esse sono il mezzo per giungere al significato e, per coloro che vorranno ascol-tare, all’affermazione della verità”. Poi senz’altro Capitalism: A Love Story. Tra decrescita e democrazia, un film-denuncia nei confronti del nostro sistema malato. E non potrei mai non consigliare Avatar, bellissimo, sia tecnicamente che ideologicamente: lo sguardo su un futuro diverso, anche e soprattutto nel segno dell’ecologia.

Se dovesse commissionare un documentario sulla sua forza politica, a quale regista italiano le piacerebbe potersi rivolgere? Mi rivolgerei a Ferzan Ozpetek, un regista straordinario, italiano ormai acquisito, capace di narra-re i piccoli e grandi fatti della vita con sguardo lucido e intenso. Drammatico ma al contempo capace di essere leggero e vitale. Se potessi guardare anche all’e-stero, però, sceglierei Ken Loach.

L’ultimo film che ha visto, l’ulti-mo film italiano che ha visto al cinema, e infine – se c’è – il film del cuore e perché. È stato Il ministro, film francese che mi ha fatto tanto pensare

alla politica, com’è e come non la vorrei, al perché mi sono avvi-cinato al Movimento 5 Stelle. Lo consiglio. L’ultimo film italiano che ho visto al cinema è stato il Leone d’oro Sacro GRA. Un bel docu-film che descrive scene di vita di tutti i giorni a Roma. Il mio film del cuore è Dogville di Lars Von Trier.

Il film politico che l’ha fatta più arrabbiare e perché.Diaz. Il motivo sta nel fatto che quando ingiustizia e violenze sono perpetrate dallo Stato di-ventano ancora più intollerabili. Per tutti i ragazzi italiani è stato un episodio fondamentale nel-la vita della nostra società. Un

evento da non dimenticare, da analizzare a fondo.

È mai andato a un festival di ci-nema? Se sì quale e perché?Sono stato al Festival Interna-zionale del Cinema di Lodz e al Bari International Film Festival. Al primo sono andato perché in quel periodo stavo facendo l’E-rasmus in Polonia, mentre Bari è la mia città.

Preferisce vedere i film al cine-ma, in tv, sul tablet, in DVD, scaricarli da internet?Al cinema, il grande schermo re-sta il grande schermo.

Giuseppe Brescia M5S

“Ai nostri elettori suggerirei 300, avvincente, entusiasmante con una bellissima colonna sonora e immagini capaci di motivare a combattere per i propri ideali. E poi Bloody Sunday che racconta la cosiddetta domenica di sangue avvenuta a Derry nel 1972”, così afferma il senatore della Lega Nord e membro della Commissione Istruzione Pubblica, Beni Culturali, Ricerca Scientifica, Spettacolo e Sport del Senato della Repubblica.

Gian Marco Centinaio Lega Nord

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TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia

Indichi tre film che consiglie-rebbe agli elettori della Lega Nord perché esprimono la vostra visione delle cose.Inizierei da Braveheart, un film bellissimo, con delle immagini fantastiche, al quale sono pro-fondamente legato umanamente e politicamente, è senz’altro il film che ben rispecchia e rappre-senta la Lega Nord. 300, di Zack Snyder e Frank Miller, avvincente, entusiasmante con una bellis-sima colonna sonora e immagini capaci di motivare a combattere per i propri ideali. Bloody Sunday, tratto dal libro Eyewitness Bloody Sunday di Don Mullan, racconta la cosiddetta domenica di san-gue, avvenuta nel 1972 a Derry,

nell’Irlanda del Nord, una storia che tutti dobbiamo conoscere.

Se dovesse commissionare un documentario sulla sua forza politica, a quale regista italiano le piacerebbe potersi rivolgere?Direi a Bernardo Bertolucci. Un regi-sta semplicemente straordinario.

L’ultimo film che ha visto, l’ul-timo film italiano che ha visto al cinema, e infine – se c’è – il film del cuore e perché. L’ultimo film che ho visto al cinema è Una piccola impresa meridionale. Prima di questo avevo visto un altro film italiano che ha fatto molto discutere: La grande bellezza di Sorrentino.

Il mio film del cuore è invece il leggendario Star Wars: è stato il primo film di fantascienza che ho visto al cinema da bambino.

Il film politico che l’ha fatta più arrabbiare e perché.Senza dubbio Diaz. Questo film ha trattato una vicenda com-plessa, quale quella del G8 di Genova, con la pretesa di far passare il messaggio che i “cat-tivi” fossero quelli con la divisa. Molti amici di Genova, testimoni oculari di quei giorni, mi hanno raccontato di una città invasa da orde di teppisti e delinquenti.

È mai andato a un festival di cinema? Se sì quale e perché?

Sono stato al Festival del Cinema di Venezia. Trovo sia una rassegna d’assoluta eccellenza. L’atmosfera che si crea in quei giorni è magica e ti riporta indietro nel tempo. Preferisce vedere i film al cinema, in tv, sul tablet, in DVD, scaricarli da internet?Al cinema. Sulle poltrone del cinema non si ha nessuna distra-zione. Tutti i pensieri restano fuori e solo così si possono apprezzare appieno i film. La perfezione delle immagini e dei suoni, poi, rende tutto più magico e più autentico.

“Il film politico che mi ha fatto più arrabbiare è The Dreamers di Bertolucci, perché non si fa carico della complessità di una generazione. Il mio film del cuore è Il mago di Oz di Fleming, perché ha caratterizzato il mio immaginario culturale”, così afferma il deputato di Sel e membro della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei Deputati.

Celeste Costantino Sel

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TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia

Indichi tre film che consiglierebbe agli elettori di SEL perché espri-mono la vostra visione delle cose.Goodbye, Lenin di Wolfgang Be-cker, Diaz di Daniele Vicari, La sposa turca di Fatih Akin. Tre film fantastici, per regia, immagini, sce-neggiature. Tre storie, importanti, che fanno e faranno sempre riflet-tere per non dimenticare.

Se dovesse commissionare un documentario sulla sua forza

politica, a quale regista italiano le piacerebbe potersi rivolgere?Senz’altro a Costanza Quatriglio.

L’ultimo film che ha visto, l’ulti-mo film italiano che ha visto al cinema, e infine – se c’è – il film del cuore e perché. L’ultimo film che ho visto è Se-arching for Sugar Man di Malik Bendjelloul; l’ultimo film italia-no è stato La grande bellezza di Paolo Sorrentino. Il mio film del

cuore è Il mago di Oz di Victor Fleming, perché ha caratterizza-to il mio immaginario culturale.

Il film politico che l’ha fatta più arrabbiare e perché.The dreamers di Bernardo Berto-lucci perché non si fa carico della complessità di una generazione.

È mai andata a un festival di ci-nema? Se sì quale e perché?Sono stata a numerosi festival del

Cinema, quello di Taormina, Pe-saro, Roma e Torino. Ho una pas-sione per il cinema e questi eventi sono estremamente stimolanti.

Preferisce vedere i film al cine-ma, in tv, sul tablet, in DVD, scaricarli da internet?Al cinema.

di Fabio Ferzetti

D E L L’ O N O R E V O L EIn Italia un politico non può essere il centro di un film. Per atavica diffidenza verso il potere, i suoi segreti, i suoi apparati. Perché il campo è già dissodato ogni giorno da legioni di commentatori, vignettisti, blogger, conduttori di talk show. Ma soprattutto perché “politica”, oggi, in Italia è quasi una parolaccia.

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uanti politici abbiamo visto nel cinema italiano del nuovo millennio? Quanti ministri, presidenti, sindaci, segreta-ri, sottosegretari, quanti dibattiti parlamen-tari, quante votazioni a scrutinio palese o se-greto hanno lasciato il segno sugli schermi, se non nella memoria, mentre i partiti perde-vano ogni prestigio, gli italiani imparavano a odiare la casta in tutte le sue declinazioni e la politica diventava antipolitica, come in un film di fantascienza, senza che alla scena pubblica di una volta si sostituisse qualcosa in grado di raccontare tensioni e scenari del presente, fatta eccezione per la tv, a cui da Nanni Moretti (Aprile) a Sabina Guzzanti (W Zapatero) è stato delegato il compito di ri-assumere, incarnare, dare corpo al fantasma della politica italiana sul grande schermo?Messa così, in termini quasi statistici, la fac-cenda sembra semplice. La politica è un’os-sessione nazionale, non c’è film o docu-mentario di questi anni in cui non si avverta l’onda lunga del potere e delle sue degenera-zioni, eppure raramente è diventata materia di prima mano per il cinema, e soprattutto lo è diventata solo a certe condizioni. I film di argomento politico, già poco numerosi,

appartengono infatti quasi tutti a due grandi filoni. Quello della neocommedia made in Italy, il macrogenere oggi imperante (da non confondere con la Commedia all’italiana di una volta), e quello dei film che scavano nel passato più o meno prossimo per cercarvi radici e riflessi del presente. Al primo gruppo appartengono titoli come Diverso da chi? di Umberto Carteni, Buongiorno Presidente di Riccardo Milani, Viva l’Italia di Massimiliano Bruno. O i due film di Giulio Manfredonia con Antonio Albanese, Qualunquemente e il suo seguito,Tutto tutto, niente niente, che rappresenta l’estremo esito di questa deriva grottesco-nichilista ma del tutto esteriore, sostanzialmente qualunquistica, e in fondo parassitaria nei confronti delle mostruosità da cui prende le mosse.Nel secondo gruppo figurano film di ben altra caratura e già ampiamente commen-tati come Il divo di Sorrentino, Buongiorno, notte e Vincere di Bellocchio, il più esplicito nell’accostare l’epoca evocata alla nostra, ma anche Romanzo di una strage di Giordana e Noi credevamo di Martone, che a sua volta insiste sul cortocircuito passato/presente con anacronismi evidenti e ricorrenti nelle scenografie.Naturalmente ci sono eccezioni anche notevoli a questa schematica bipartizione. Pensiamo a Il Caimano di Nanni Moretti, a Viva la libertà di Roberto Andò, a Bella addormentata di Bellocchio, che riprende in chiave più apertamente politica intuizioni inaugurate con L’ora di religione e Il regista di matrimoni (“In Italia comandano i morti...”). Ma basta accostare tutti questi lavori al fran-cese Il ministro di Pierre Schoeller (o se vo-gliamo a The Queen, Il discorso del re, Frost/Nixon, Le passeggiate del campo di Marte, e l’elenco potrebbe continuare) per delineare i contorni di un vuoto a dir poco sintomatico.Oggi infatti in Italia un politico può essere l’oggetto di un film ma mai il soggetto, la forza propulsiva, il rappresentante di un uni-verso in cui lo spettatore è chiamato ad av-venturarsi e magari a perdersi (mai o quasi mai: pensiamo a Il Divo, classica eccezione che conferma la regola. Ma Andreotti porta-va con sé tutta una mitologia e fare un film su di lui e la DC, elaborando un linguaggio capace di trasfigurare e contenere un intero periodo storico con tutte le sue ombre, era impresa così epocale e titanica, oltre che ammirevole, da costituire un caso a sé).Dunque in Italia un politico non può essere il centro di un film, per ragioni abbastanza evidenti. Perché siamo un paese in cui i partiti sono o sono stati forti mentre lo Stato è sempre stato debole (di qui anche la traduzione pedestre del film di Schoeller, in originale L’exercice de l’Etat). Per atavica diffidenza verso il potere, i suoi segreti, i suoi apparati, e per tutto ciò che può sapere anche lontanamente di propaganda.

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TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia

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TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia

Perché l’esercizio quotidiano della politica è già dissodato ogni giorno da legioni di com-mentatori, vignettisti, blogger, conduttori di talk show, eccetera. Ma soprattutto perché “politica”, oggi, in Italia è quasi una parolac-cia. E nessuno dai tempi ormai remoti del profetico Il portaborse, investirebbe idee, de-naro, passione, nella costruzione di un (anti)eroe che rappresenti quel mondo.Eppure basta spingersi Oltralpe per trovare un film capace di appassionarci, proprio sprofondando in quel mondo tutt’altro che ideale. Un giovane ministro di secondo pia-no, dal colore imprecisato, opportunista per calcolo e necessità ma non per temperamen-to, un lottatore - e al tempo stesso un gioca-tore - dotato di fiuto, carisma, personalità, dunque capace di condurci nelle retrovie del governo facendoci sentire il lezzo animale della competizione, ma anche il profumo inebriante degli obiettivi e il peso spesso tragico dell’autorità. Insomma un grande personaggio, calato fino in fondo nel nostro presente in quanto dotato di un corpo (pre-rogativa del tutto assente nei cine-politici di casa nostra, forse perché di resa troppo problematica) e addirittura di un inconscio (la prima scena del film è proprio un sogno, erotico e metaforico, del protagonista). Dunque attraversato, fisicamente, da tutte le mutazioni e le accelerazioni, in primo luogo tecnologiche (social media etc.) che oggi investono l’esercizio del potere.Ma il film di Schoeller diventa ancora più prezioso se paragonato a quanto si fa in casa nostra. Presentato a Cannes nel 2011, ma arrivato in Italia solo due anni più tardi, Il ministro è uscito infatti un paio di mesi dopo Viva la libertà, l’unico film italiano di questi anni interamente dedicato a un politico nell’esercizio delle sue funzioni. Il confronto s’impone, tanto più che i due lavori sono così diversi da risultare perfettamente com-plementari. Per dare lo scettro del suo film

a un politico, Andò ha dovuto infatti sdop-piare il personaggio del segretario di partito interpretato da Toni Servillo. Mandando il segretario vero a “rinascere” in esilio men-tre il suo gemello filosofo, svitato e geniale, prende trionfalmente il posto del segretario. Il personaggio che rilascia interviste bomba, galvanizza il partito, arringa le folle e balla il tango con la cancelliera tedesca, tutti gesti di assoluta e immediata rilevanza politica, non è insomma un politico. Ma è proprio per questo che può essere rappresentato (susci-tando l’adesione dello spettatore); mentre il fratello, spogliato di ogni delega e potere, si “purifica” riscoprendo le radici personali e il senso della propria missione durante il suo soggiorno in Francia.Inutile insistere: il senso della (felice) para-

N O N C ’ È F I L M O D O C U M E N T A R I O D I Q U E S T I A N N I I N C U I N O N S I A V V E R T A L’ O N D A L U N G A D E L P O T E R E .

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TENDENZE // Il cinema e la politica in Italia

bola di Andò è evidente, ma prende un peso ancora maggiore nel contesto cinematografi-co di questi anni. Che hanno visto la politica (il corpo stesso dei politici) diventare letteral-mente irrappresentabile, o quasi. Al punto che ogni regista, ogni attore che si avventura su questo terreno, deve ridefinire le regole del gioco. Muovendosi entro i confini di un cam-po che potremmo idealmente incorniciare usando due film collocati all’inizio e alla finedel quindicennio, corrispondenti anche a due diversi modi di interrogare e rimodellare la scena della politica. All’inizio c’è Aprile, con le immagini della vittoria di Berlusconi in tv, il grido disperato di Moretti (“D’Alema, dì qualcosa di sini-stra!”), la constatazione dello scacco, politico e formale (che cinema fare, o non fare, in questa situazione?). Alla fine ci sono i politici “terminali” di Bella addormentata. Non tanto il pidiellino in crisi di Toni Servillo quanto i suoi colleghi corrotti, svuotati, ectoplasma-tici, ridotti a mendicare comparsate in tv, senza identità, senza ideali, senza psicologia, come testimonia irridendoli il parlamentare-psichiatra Roberto Herlitzka. Senza corpo, in

certo modo. Organismi parassitari che per vi-vere, e fare politica, hanno bisogno del corpo morente di Eluana Englaro.Ed eccoci tornati all’inizio. Perché forse pro-prio questo ha raccontato, nel suo insieme, il cinema italiano sulla vita politica di questi anni. L’ultimo corpo politico ad essersi con-quistato un posto nel nostro immaginario, in fondo, è quello di Moro in Buongiorno, notte (Moro è di gran lunga il politico più rappresentato nella storia del cinema italiano e mette i brividi pensare che era anche l’u-nico che capitava regolarmente di incontrare al cinema Nuovo Olimpia di Roma, dietro il Parlamento, nella prima metà degli Anni ‘70). Come se, dopo il caso Moro, la degenerazio-ne che ha investito la classe politica avesse reso addirittura impossibile rappresentarla. E al cinema - pensiamo anche al gesto pa-radossale di Moretti, che ne Il Caimano si sostituisce a Berlusconi, in certo modo divo-randolo - non fosse rimasto che mettere in scena, nei modi e secondo le strategie più differenti, questa impossibilità.

V I V A L A L I B E R T À , L’ U N I C O F I L M I T A L I A N O R E C E N T E I N T E R A M E N T E D E D I C A T O A U N P O L I T I C O N E L L’ E S E R C I Z I O D E L L E S U E F U N Z I O N I .

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di Enzo Natta

Avvicinato da un cronista mentre stava girando I sogni muoiono all’alba, Indro Montanelli allon-tanò subito il sospetto che aves-se goduto di riguardo da parte di

cultori di cinema prestati alla politica. Anche perché, disse all’incirca Montanelli, una cosa è il tornaconto immediato e l’altra è la passione per il grande schermo. Eravamo ai tempi del muto quando si mani-festarono le prime avvisaglie di un’attenzio-ne che non andava oltre l’interesse imme-diato. Il Luce, nato con finalità educative nel 1924, è subito assorbito dalla mano pubblica e trasformato in strumento propagandisti-co di regime. Prima che animale politico, Mussolini era un giornalista che aveva intu-ito la potenzialità mediatica delle immagini e la forza dei cinegiornali. Infischiandosene di plagiare Lenin, il Duce non esita a definire il cinema “l’arma più forte”, slogan tradotto in un progetto mastodontico: una Direzione Generale per la Cinematografia che metterà le mani sull’intero sistema e costruirà la “cit-tà del cinema”, affiancando all’Istituto Luce gli studi di Cinecittà e il Centro Sperimentale di Cinematografia. È vero che quando la sera si ritirava a Villa Torlonia il suo passatempo consisteva nella visione di film, ma le scelte difficilmente andavano oltre le comiche di Stanlio e Ollio

e la commedia leggera. Ben altra attenzione era invece dedicata ai cinegiornali.Eppure quelle parentesi di puro divertimento lascia-rono un segno profondo nel figlio Vittorio, che spinse la sua cinefilia fino alla direzione della rivista “Cinema”, in cui si fece i musco-li il miglior cinema italiano. Sarà proprio in quella redazione che la passione si tradurrà in impegno politico e viceversa. Fra i colla-boratori della rivista figurava Mario Alicata, arrivato all’esperienza politica attraverso l’azione culturale. La sua firma si alternava a quelle di Carlo Lizzani, Giuseppe De Santis, Gianni Puccini, Massimo Mida, poi tutti ap-prodati alla regia. Del gruppo faceva parte anche Pietro Ingrao, che ci ha lasciato il libro Mi sono tanto divertito – Scritti sul cinema (1936-2003).Li chiamavano “fascisti di sinistra”, “corpo-rativisti impazienti” per dirla con Gentile: Ingrao, Alicata e sodali erano operatori cul-turali che cercavano le chiavi di una nuova estetica in grado di determinare istanze di cambiamento. Come loro anche per Aldo Moro il Cineguf (la sezione cinema dei Gruppi universitari fascisti) fu l’officina in cui forgiò il passaggio dall’impe-gno culturale a quello politico. Un’esperienza vissuta da un’intera generazione. Non era raro che Ingrao, Alicata e Moro s’in-contrassero al Cinema Quirinetta, non tanto

Dalla nascita dell’Istituto Luce voluto da Mussolini ai VHS di Walter Veltroni passando per i “film atipici” di Aldo Moro e i panni sporchi di Giulio Andreotti. Così gli uomini di Stato hanno dichiarato pubblicamente la propria passione (a volte non disinteressata) per il grande schermo.

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perché vicino a Montecitorio, quanto perché pioniere nello svolgere attività d’essai.Aldo Moro era anche un frequentatore del Rialto, dove svolgeva la sua attività un cir-colo d’avanguardia come il Charlie Chaplin. I gusti raffinati di Moro erano oggetto di frecciatine da parte di Giulio Andreotti, che canzonava l’amico di partito con un’incon-fondibile espressione per definire il film d’autore: “Moro direbbe che questo è un film atipico”.Passato alla storia come l’uomo di potere che più di ogni altro ha legato la sua carriera politica alle vicende del cinema italiano (sot-tosegretario allo Spettacolo non ancora tren-tenne, artefice della legge sul doppiaggio, coinvolto nella polemica sul Neorealismo dopo aver affermato che “i panni sporchi si lavano in famiglia”), Andreotti era più spetta-tore di quantità che di qualità. Amico di don Francesco Angelicchio, consulente ecclesia-stico del Centro Cattolico Cinematografico, quasi tutte le sere lasciava il suo apparta-mento di Corso Vittorio Emanuele II e arri-vava a Borgo Sant’Angelo, dove al numero 9, sotto l’Auditorium di Palazzo Pio, era ubi-cata la saletta di proiezione del CCC. Là lo aspettavano don Angelicchio e un film che la commissione del CCC nel pomeriggio aveva revisionato al fine di redigere le classifiche morali che consentivano o vietavano la pro-iezione nelle sale parrocchiali. Altro appassionato di cinema è il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: una passione per il cinema coltivata ai tempi del Cineguf e tenuta in caldo, come dimostrano i suoi interventi su “l’Unità” negli Anni ‘70, quando si batteva perché i film di nicchia distribuiti dal gruppo pubblico non fossero condizionati dalla gabbia tarpa-ali del “crite-rio di economicità”.

Cinefilo per eccellenza è Walter Veltroni, cresciuto con merende di pellicola consu-mate prevalentemente al Filmstudio e nei cineclub romani. Diventato direttore de “l’Unità” nel 1992 promosse una campagna intesa a diffondere il cinema e affinare il gusto del pubblico, allegando al quotidiano VHS di film d’indiscusso prestigio. E infine ha promosso la Casa del Cinema di Villa Borghese, laboratorio culturale operoso at-traverso rassegne, mostre, manifestazioni, incontri, con annessa libreria specializzata. Chi il cinema lo aveva letteralmente nel sangue era Giorgio Almirante, figlio e ni-pote d’arte. Il padre Mario fu regista del muto; gli zii paterni Giacomo, Ernesto e Luigi, attori; la cugina Ilaria Almirante Manzini una diva dell’epoca. A sua volta lui fu direttore di doppiaggio.

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Ma tornando all’intervista citata all’inizio, a un certo punto il cronista disse a Montanelli che se la percentuale dei politici cultori della decima musa era molto bassa, proba-bilmente lo si doveva al fatto che, citando Marco Aurelio, i poeti frequentatori dei pa-lazzi del potere sono piuttosto scarsi.“E ancora di più lo sono i cineasti”, fu la risposta.

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Internazionale, non c’è dubbio. Distribuita su più generazioni, altro dato sensibile. Non schiacciata su un genere specifico, dal comico basso, poi alto, al comico casereccio fino al dramma shakesperia-

no, con qualche inflessione giovanilistica. È la sintesi della cultura cinematografica proposta in questi anni nei discorsi ufficiali dei nostri politici, attenti nel cercare la frase ad effetto, la suggestione giusta, la metafora colta, lo stupore negli occhi di chi ascolta, il titolo di giornale, la pacca sulla spalla dal collega. Certo, a volte, sarebbe utile verificare prima di osare, ma la società della comuni-cazione istantanea non sempre offre i giusti tempi davanti all’ambito microfono. Quindi, et voilà lo scivolone, con Luisa Bossa, depu-tata Pd con un curriculum da insegnante di latino e greco, secondo la quale Tanto rumore per nulla è un film, mentre si tratta di Molto rumore per nulla, celeberrima commedia di Shakespeare e film di Branagh ad essa ispi-rato. Poi ripensamenti, qualcuno potrebbe

parlare di opportunismo politico travestito da pragmatismo esistenziale: in questo caso in cima al podio sale Oliviero Diliberto, rivoluzionario nello scaricare un caposaldo della cultura comunista come La corazzata Potemkin, definita noiosa in un’intervista al “Corriere della sera”, a favore della comicità “di Boldi, Aldo, Giovanni e Giacomo, Banfi, Villaggio-Fantozzi, De Sica”. No a Wenders e Antonioni: “Forse che le masse popolari vanno a vedere Ejzenstejn?”. Non sia mai. Ma in quel tempo era ministro. Altra storia nel 2007 nella rossissima Livorno: durante un cineforum La Corazzata improvvisamen-te ritornò “un capolavoro! Non è un film di propaganda. Un film politico. Propaganda, semmai, sono certi film assai più recen-ti”. Fulminante e coerente la risposta del Villaggio-Fantozzi: dalla “boiata pazzesca” del 1976, rispose con “meglio la galera”, sempre nel 2007. Compromessi. Gli stessi ai quali è stato costretto il verdissimo Roberto Calderoli, leghista amante delle provocazio-

Tra il Transatlantico e la rete, tanto rumore per nulla

Il grande schermo strapazzato a suon di citazioni, spesso sbagliate, nel linguaggio “dei palazzi”, da Fantozzi a Totò.

di Alessandro Ferrucci

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ni, ma “costretto” a rincorrere una celebre battuta del romano Alberto Sordi in Il presi-dente del Borgorosso Football Club per solleci-tare gli allora alleati della Casa delle Libertà a scendere in piazza accanto a Umberto Bossi: “Chi si estranea dalla lotta è un gran figlio di mignotta... E fa anche rima...” (20 ottobre 2006). Con cosa fa rima? Mistero. Enorme soddisfazione per il democratico Roberto Di Giovan Paolo, ragazzone di cinquant’anni, cresciuto a pane e commedia americana, di qualità sia ben chiaro, lesto nello sfruttare una delle sue passioni giovanili per un lancio d’agenzia: “Io li odio i nazisti dell’Illinois!’’. Citazione del famoso The Blues Brothers per denunciare nell’aula del Senato di essere sta-to inserito in una lista del sito “Stormfront Italia”, in qualità di nemico dei neonazisti suprematisti bianchi legati al Ku Klux Klan americano (8 febbraio 2012).Immancab i l e . R i ch iamato . R i c i c l a to . Utilizzato per frasi, slogan, manifesti eletto-rali. Parodie. È il principe Antonio de Curtis

con il megafono in mano, appollaiato die-tro una finestra per racimolare voti al suo Antonio la Trippa in Gli onorevoli. A utilizzare il dialogo è Domenico Scilipoti nel 2010, tutto pubblicato sulla home page del suo sito: “In Parlamento tre voti possono essere determinanti per salvare un governo... noi applichiamo il do ut des: io do tre voti a te e tu dai tre appalti a me”; “Scusate la mia ignoranza, ma io so che il deputato deve fare gli interessi dell’elettore, di chi gli ha dato la fiducia, il voto...”; “Cose d’altri tempi...”; “Roba passata, sormontata... così funziona, secondo voi: i gonzi, gli imbecilli, i burini mi danno i voti e noi tre ci facciamo una bella pappata”. “Bravo! Lei ha capito tutto”. “Io ho capito troppo”. Giusto. Era l’8 dicembre del 2010. Pochi giorni dopo lo stesso Scilipoti passò dal partito di Di Pietro al sostegno del governo Berlusconi.Momenti di tenerezza con un tocco di no-stalgia nel racconto dell’onorevole Massimo Brutti. Era il 26 luglio del 2002, centro-sini-

stra e berlusconiani lottavano contro il decre-to legge “Cirami” a botte di ostruzionismo. Sedute lunghe. Estenuanti. Per inquadrare tutto va benissimo citare il film di Gabriele Muccino Come te nessuno mai, per con-fessare di essersi in fondo anche divertito: “Quella di questa notte è stata un’esperienza che ci ha fatto ringiovanire”. Passioni vere. Come quella di Walter Veltroni per il cinema, coraggioso nel 1994 a riabilitare pellicole come Quel gran bel pezzo dell’Ubalda, o la pitonessa Daniela Santanché a gridare sor-ridente a tutti “Io ballo da sola”, alla faccia di chi nel 2006 le faceva la guerra dentro la defunta Alleanza Nazionale. Poi però esi-stono anche le leggi del contrappasso, delle forme di meta-politica pirandelliana, quando è il cinema a uscire dallo schermo, a salire su un palco e urlare ai militanti: “Con questi dirigenti non vinceremo mai”. Lui era Nanni Moretti, era il 2002, e nei momenti di crisi i leader democratici ancora se lo rinfacciano reciprocamente.

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Il dossier economico di DG Cinema e ANICA

D E C R E T O V A L O R E C U L T U R A : I T A L I AA L L I N E A T A A I P I Ù AV A N Z A T I P A E S I E U R O P E I

di Iole Maria Giannattasio / Centro Studi DG Cinema-MiBACT

Con il provvedimento, il tax credit, oltre a diventare permanente, è stato anche esteso ai produttori indipendenti di opere audiovisive, con una copertura finanziaria di 110 milioni l’anno. Del resto nei programmi d’intervento dell’Unione Europea è già operativa una disciplina unitaria che regolamenta il prodotto audiovisivo nel suo insieme comprendendo film, tv-movie, documentari, cortometraggi, serie tv, serie web e videogiochi.

Tax credit permanente, estensione ai produt-tori indipendenti di audiovisivi e incremento a 110 milioni di euro. Con queste novità di ri-lievo il Decreto Valore Cultura (D.L. 91/2013) è diventato definitivamente norma dello Stato, dopo la conversione nella Legge 112/2013, avvenuta il 7 ottobre.Il Decreto Legge 91/2013 era stato delibe-rato nel Consiglio dei ministri del 2 agosto scorso come misura urgente per la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale italiano e per il rilancio del cinema, delle attività musicali e dello spettacolo dal vivo. Nel testo approvato in agosto le disposizioni

in ambito cinematografico si concentrava-no in particolare sul credito d’imposta (tax credit), introdotto dalla Legge Finanziaria n. 244/2007 ed entrato in vigore nelle sue varie forme tra il 2009 e il 2010, con validità sog-getta a rinnovo.L’urgenza di un intervento in tal senso era dovuta al precedente rinnovo del tax credit disposto nel Decreto del fare (L. 98/2013) che nel mese di giugno aveva prorogato la validi-tà della misura, in scadenza a fine anno, per il solo anno 2014 e con una copertura finan-ziaria dimezzata da 90 a 45 milioni di euro. Il DL Valore Cultura, deliberato in agosto e

convertito in legge in ottobre, incide in tal senso con una sostanziale riforma.Il primo grande risultato per il consolidamen-to del settore è, infatti, contenuto nell’art. 8 comma 1 che ha reso permanente il tax credit per il cinema, garantendo all’industria cine-matografica uno strumento ormai rodato e conosciuto che, liberato dalla minaccia di un mancato rinnovo, rappresenta un fattore di stabilità e serenità per la programmazione delle attività degli operatori.L’elemento rivoluzionario è stato però inseri-to nel corso della conversione in legge avve-nuta ad ottobre, con la L. 112/2013.

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Il tax credit, infatti, oltre ad essere stabilizzato è stato anche esteso ai produttori indipendenti di opere audiovisive, con una copertura finan-ziaria incrementata da 90 a 110 milioni di euro l’anno (art. 8 c. 2-3). L’allargamento delle agevolazioni fiscali a tut-to il settore delle produzioni audiovisive è un passo decisivo e necessario in uno scenario di convergenza dei servizi di media e delle con-seguenti trasformazioni dei modelli di produ-zione, diffusione e fruizione del prodotto. Già nel 1999 con il D.lgs. n. 300 erano attribuite al ministero dei Beni culturali le competenze per la “promozione delle produzioni cinema-tografiche, radiotelevisive e multimediali” ma, di fatto, in questi anni l’area funzionale in cui il ministero ha esercitato la sua azione è stata circoscritta al comparto cinematografico.L’estensione delle norme di agevolazione fisca-le anche alle opere destinate a tv e web apre ora la strada verso una inevitabile integrazione dell’intero comparto che favorisce anche l’alli-neamento del nostro paese ai sistemi adottati all’estero. Nei più avanzati paesi europei e nei programmi d’intervento dell’Unione Europea, infatti, è già utilizzata una disciplina unitaria che regolamenta il prodotto audiovisivo nel suo insieme comprendendo film cinemato-grafici, tv-movie, documentari, cortometraggi, serie tv, serie web, videogiochi e altro ancora.

L'ANOMALIA ITALIANA

L’anomalia italiana consiste quindi nell’assenza di un soggetto di riferimento per i prodotti de-stinati a canali prioritari di sfruttamento diversi dalla sala. Per gli audiovisivi non cinematografici non sono previste chiare definizioni e criteri di attribuzione della nazionalità, elementi che sa-ranno contenuti nella disciplina di dettaglio. Di conseguenza non sono stati attuabili, sino ad oggi, schemi di sostegno dedicati a contenuti televisivi e web, come invece avviene per le ope-re cinematografiche.

La distinzione basata sul canale primario di distribuzione del prodotto non solo è destinata ad affievolirsi in un contesto in cui le barriere tra luoghi della fruizione sono sempre più labili, ma finisce anche per separare mondi produttivi spesso comuni. In genere, infatti, le figure pro-fessionali che lavorano su entrambe le tipologie di contenuti sono le stesse.Sempre più ambigui appaiono, poi, i confini in termini di sviluppi narrativi e di sperimen-tazione di linguaggi con, da un lato, i film che assimilano le caratteristiche seriali delle opere televisive (film series) e, dall’altro, se-rie tv e web realizzate con qualità e standard cinematografici. Le differenze si individuano piuttosto negli schemi di finanziamento e re-perimento delle risorse e nell’eterogeneità dei cicli produttivi.Da tempo, quindi, in molti altri paesi europei la distinzione è stata superata con l’adozione di misure d’incentivo fiscale destinate al compar-to audiovisivo nel suo insieme. L’allargamento delle agevolazioni fiscali all’intero comparto della produzione audiovisiva consente, quindi, anche in Italia un sistema in grado di mettere in atto strategie organiche per lo sviluppo e il po-tenziamento del settore, oltre che agevolazioni all’accesso dei nostri prodotti sui mercati esteri e l’attrazione di investimenti stranieri sul nostro territorio.

Nei decreti attuativi della legge 112/2013 - da adottare entro il 7 gennaio 2014 di concerto con il ministro dell’Economia e delle Finanze, sentito il ministro dello Sviluppo Economico - l’operazione più delicata consisterà quindi nel chiarire il perimetro sia dei prodotti sia dei produttori ammessi al beneficio. Per questi ultimi, solo ai fini delle agevolazioni fiscali, la definizione che il decreto dà di produttori indi-pendenti (art.8 comma 5) è la stessa contenuta nel cosiddetto decreto Romani del 2010 (“ope-ratori non controllati da o collegati a emittenti, anche analogiche, che per un periodo di tre anni non destinino almeno il 90% della pro-pria produzione a una sola emittente”), ma particolarmente importante appare l’ulteriore specificazione in base alla quale essi debbano detenere “i diritti relativi alle opere sulle quali sono richiesti i benefici”.La ratio di tale specifica risiede nella necessità di evitare che il beneficio venga “traslato” di-rettamente alle emittenti televisive e non resti, invece, in capo alle produzioni indipendenti, ossia a quei soggetti che, dotati di maggiore autonomia finanziaria ed editoriale, possono sviluppare progetti che facciano da traino all’evoluzione e all’internazionalizzazione della produzione audiovisiva italiana.L’adozione delle nuove misure rappresenta quindi un’opportunità di crescita e ripensa-mento per il settore oltre che un atteso ricono-scimento da parte degli organi governativi del valore strategico delle industrie culturali per lo sviluppo e il rilancio del paese.

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U N A R I V O L U Z I O N E C O P E R N I C A N AV I S T A D A L L' I N D U S T R I A

Dal punto di vista dell’industria audiovisiva, il sofferto DL Valore Cultura (D.L. n.91/2013) e la relativa Legge di conversione (Legge n. 112/2013) rappresentano un momento di svolta nella storia del settore, per certi versi una vera e propria rivoluzione copernicana che si completerà con i decreti attuativi attesi entro gennaio 2014. I testi fanno emergere spunti di riflessione nuovi e aprono questioni mai affrontate nella produzione normativa, le cui risposte possibili non paiono univoche né immediate e su cui lo Stato sarà chiamato a esprimersi, consapevole di toccare temi decisivi per il futuro e di poter proporre una visione a lungo termine per la produzione culturale del nostro paese.

Dopo anni di battaglie per il rinnovo della mi-sura fiscale che, pur in modo progressivo e talvolta scomposto, ha stimolato una ogget-tiva maturazione del comparto industriale, la stabilizzazione costituisce una vittoria epoca-le nel dialogo con il Governo. La certezza di poter usufruire degli incentivi - a partire dal

In attesa a gennaio dei decreti attuativi della legge di convenzione del D.L. Valore Cultura, l’estensione delle agevolazioni fiscali a tutto l’audiovisivo porta alla ridefinizione del perimetro del settore, e costituisce una svolta decisiva nel rapporto fra Stato e industria cinematografica. La produzione audiovisiva, finora mai esplicitamente attribuita alla competenza di alcun Ministero, trova finalmente nel MiBACT una sede amministrativa di riferimento.

di Federica D’Urso e Francesca Medolago Albani / Ufficio Studi ANICA

“tax credit interno” - con una visibilità tem-porale superiore a uno o due anni consente infatti ai produttori di programmare la propria attività in modo più certo e di impostare piani di produzione pluriennali, innovazione di vita-le importanza, soprattutto in un’epoca in cui le risorse provenienti da altre fonti si riducono e il rischio sul singolo prodotto aumenta.

Il processo industriale che porta dallo svi-luppo alla realizzazione e distribuzione dell’opera cinematografica richiede infatti un tempo di preparazione lungo: l’incertez-za della disponibilità dei benefici fiscali nel medio-lungo termine non poteva che frenare entusiasmi e, soprattutto, investimenti. Una maggiore diffusione del fenomeno dell’inve-stimento in produzione da parte di imprese non appartenenti alla filiera - inoltre previsto dal tax credit cosiddetto “esterno” accanto al già consolidato product placement - è uno degli altri aspetti su cui la stabilizzazione del-la misura potrebbe influire in modo positivo.A fortiori vale il medesimo discorso per il tax

credit “internazionale”, quello attraverso il quale è tornata a crescere negli ultimi anni la capacità attrattiva dell’Italia per le grandi produzioni globali (vedi il Dossier dedicato alla produzione sul numero di settembre di 8½). Il venir meno dell’incertezza per una mi-sura di provata efficacia - il tam tam positivo è la migliore delle garanzie - toglie un osta-colo dalla strada che porta verso le location italiane, che si confermano economicamente competitive e apprezzate dal punto di vista naturalistico e storico-artistico. Il significati-vo valore generato dagli investimenti esteri, accanto alla continuità di lavoro per esecutivi e maestranze, offre anche possibilità di diver-sificazione e apertura sia per i talenti sia per gli stessi produttori italiani.

L’industria quindi non può che accogliere con entusiasmo la definitiva conferma degli incentivi fiscali al settore, anche alla luce del fatto che questi stanno progressivamente sostituendo per peso e valore il tradizionale sostegno diretto derivante dal FUS.

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STABILIZZAZIONE ED ESTENSIONE DEL TAX CREDIT

La questione dell’estensione del tax credit all’audiovisivo è invece più ricca di sfumature e chiaroscuri. Le modalità di attuazione che saranno indicate (su cui lo Stato dovrà cimen-tarsi bilanciando e coordinando competenze e risorse considerate storicamente separate) porteranno inevitabilmente alla ridefinizione del perimetro del settore. Certamente questa novità della norma, peraltro inserita con un emendamento in fase di conversione in legge del Decreto e quindi non contenuta nel testo originario del DL Valore Cultura, rappresenta una svolta decisiva nel rapporto fra Stato e industria cinematografica. Proviamo a indivi-duare di seguito alcuni aspetti essenziali.Innanzitutto, è la prima volta nella storia del-la normativa di settore che lo Stato decide di erogare aiuti al comparto della produzione di audiovisivo non cinematografico, unificando competenza amministrativa e gestione delle risorse presso il ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. Alla luce di ciò, l’immediata preoccupazione che il setto-re cinematografico tradizionale è legittimato a porsi (produzione, distribuzione, esercizio) riguarda proporzioni e modalità con cui i benefici verranno distribuiti fra cinema e audiovisivo.Più in generale, tuttavia, sembra che la vera portata di questo emendamento riguardi non tanto l’estensione del tax credit in sé, quanto piuttosto il principio sottostante, che costituisce un punto di non ritorno: la produ-zione audiovisiva, finora mai esplicitamente attribuita alla competenza di alcun ministero, trova finalmente una sede amministrativa di riferimento. Se i futuri interventi legislativi e regolamentari confermassero questa tenden-za, si tratterebbe di un momento storico per il ministero ma anche per il settore economi-co della produzione.

I produttori audiovisivi indipendenti ini-zieranno, da un lato, a godere di benefici e dall’altro a sottostare a vincoli già previsti per la produzione cinematografica (benefici di legge, contributi diretti e indiretti ma anche vincoli di denuncia inizio lavorazione, lingua, nazionalità, revisione - i.e. censura - interesse culturale)? Come questo si declinerà sulle coproduzioni e sulle produzioni estere girate in Italia? Il discrimine dell’indipendenza dei produttori riguarderà il sistema proprietario solo nazionale? Solo il tax credit alla produ-zione o anche quello per la distribuzione? Cosa si intende per distribuzione di un pro-dotto audiovisivo non cinematografico?Superato lo storico steccato del prioritario sfruttamento, sembra impossibile imma-ginare che se ne possano porre altri legati al canale di diffusione: non più solo la sala cinematografica, ma non solo la distribuzio-ne televisiva. Si aprono infatti le sterminate praterie delle produzioni nate per il web.

DEFINIZIONE DI “OPERA AUDIOVISIVA”

Una serie di domande che spinge a riportare quindi la questione ancora più a monte, al prodotto. È necessario interrogarsi in modo più tecnico su che cosa si dovrà intendere per “audiovisivo”, o meglio, citando la nor-ma (art. 8 c. 2), per “produttori indipendenti di opere audiovisive”. Rispetto al concetto di “indipendenza” del produttore si rimanda al paragrafo successivo, mentre è opportuno prima soffermarsi sulla definizione di “opera audiovisiva”, rinviata a un apposito decreto del MiBACT, da definirsi in concerto con il MEF, sentito il MISE.

Non esistono precedenti definizioni di “ope-ra audiovisiva” nella normativa primaria, nemmeno europea, ove l’attenzione è posta (Direttiva Servizi Media Audiovisivi) sull’ag-

gettivo più che sul sostantivo. Il più recente e vicino riferimento può essere rintracciato nel Regolamento AGCom contenuto nella Delibera 30/2011/CSP, relativo alla limitazio-ne temporale dei diritti secondari. Ma tale definizione non sembra utile ai fini attuali, anche perché essa ricomprende al suo inter-no la stessa opera cinematografica in quanto declinazione dell’ambito più ampio dell’ope-ra audiovisiva.Con buona probabilità il legislatore ha avu-to in mente di intendere l’opera audiovisiva come opera televisiva, ovvero destinata alla prima diffusione sulla piattaforma televisiva in modalità broadcasting, di genere fiction o comunque che implichi uno sviluppo nar-rativo. Ci si chiede tuttavia se, alla luce della rapida evoluzione del mercato dei contenuti e della conseguente crisi dei modelli di busi-ness tradizionali che hanno governato i diver-si mercati dei media - tenendoli peraltro se-parati - fino ad ora, non sia invece opportuno considerare un confine dell’opera audiovisiva che preveda un altro tipo di paletti, svincolati dalla piattaforma di distribuzione in quanto tale e dalla modalità di fruizione lineare.In altre parole, con una visione a medio ter-mine, è presumibile che la definizione di con-tenuto audiovisivo debba essere individuata indipendentemente dalle licenze di sfrutta-mento per i vari canali di diffusione, primaria o secondaria cha sia. La proporzione in termini di potere di mercato e quindi di forza contrattuale vedrà probabilmente nel volgere di pochi anni la tv tradizionale lasciare il passo agli operatori rilevanti sul web, per il quale verosimilmente si saranno individuati modelli di business più effi-caci di quanto non avvenga nel mercato attuale. Occorrerà dunque identificare gli elementi ca-ratteristici dell’opera audiovisiva, ripartendo dai principi cardine contenuti nella legge 633/41 sul diritto d’autore, anche se depurati dalle speci-fiche tecnologiche oramai superate dal corso della storia.

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Tante domande da porre al legislatore sulla delicatezza della definizione di “opera audio-visiva” e sulla complessità delle conseguenze che questa può avere sul mercato. Inevitabile peraltro ricordare che probabilmente, una vol-ta definita l’opera audiovisiva, lo Stato si dovrà occupare anche della ormai obsoleta defini-zione di “opera cinematografica” contenuta nel D. lgs n. 28/2004, improntata sulla natura della piattaforma di diffusione del contenuto più che sulla natura del contenuto stesso.

DEFINIZIONE DI “PRODUTTORE INDIPENDENTE”

Da ultimo, merita attenzione la definizione di “produttore indipendente (di opera audiovi-siva)”, chiamato in causa dall’art. 8 c. 5 della legge di conversione del DL. Per la prima volta, altro traguardo raggiunto nella storia della regolamentazione italiana del settore, nella definizione di produttore indipenden-te, oltre ai classici vincoli relativi all’assetto proprietario e alla non esclusiva della com-mittenza, viene introdotto il criterio relativo alla proprietà dei diritti di sfruttamento sull’opera per cui sono stati chiesti i benefi-ci (criterio peraltro previsto sin dall’origine nella Direttiva Europea Televisione senza Frontiere del 1989, da cui discendono tutte le norme nazionali). Anche del maggiore appro-fondimento di questo dovrà trattare il decreto attuativo previsto dalla legge. Quello della proprietà dei diritti di sfrutta-mento sulle opere è un tema storicamente cruciale per i produttori italiani, non solo e non tanto quelli specializzati in opere cine-matografiche, quanto piuttosto quelli mag-giormente impegnati sul fronte televisivo. Il modello di mercato che si è consolidato nel comparto televisivo ha finora di fatto impedi-to ai produttori indipendenti di mantenere la titolarità dei diritti, anche parziale, sulle opere finanziate dai broadcaster e quindi di arricchire le proprie library nel tempo, con conseguente impossibilità di accrescere patrimonio e red-ditività d’impresa. Come conseguenza delle prassi di mercato, la regolamentazione fino

ad ora si è sempre limitata a definire l’indipen-denza del produttore in base ai soli primi due criteri (assetto proprietario e non esclusiva), tralasciando il terzo pilastro identificato invece nelle norme europee.Se la nuova e attesa definizione di produtto-re indipendente che discenderà dal Decreto Valore Cultura interverrà anche in quest’area, sarà probabilmente destinata a ridefinire gli equilibri nei rapporti di forza che finora hanno condizionato il mercato della produ-zione televisiva, oltre che in parte di quella cinematografica.

PRIME RISPOSTE NEI DECRETI ATTUATIVI Dopo aver presentato in queste pagine le novità normative del Decreto Valore Cultura e della legge di conversione, illustrate dal Centro Studi DG Cinema, e dopo aver ospi-tato le riflessioni del comparto industriale ci-nematografico, in particolare l'Anica, il lavoro di elaborazione sull’intera materia è eviden-temente iniziato e, come appare evidente dal tipo di questioni che emergono a una prima riflessione, troverà alcune risposte nei decreti attuativi cui il Decreto Valore Cultura rinvia. È probabile e presumibile che il dibattito si apra e tenda a coinvolgere anche altri temi strutturali, non strettamente riferibili alle nor-me in questione.A questo proposito giunge con tempismo perfetto la Conferenza Nazionale del Cinema, progetto lanciato dal ministro Massimo Bray nel corso del Festival di Cannes 2013 e sviluppatasi in due sessioni, tavoli di la-voro prima e seduta plenaria poi, durante il Festival Internazionale del Film di Roma. L’intero mondo degli addetti ai lavori - in-dustria e Amministrazione - è coinvolto in un processo di riflessione e ridefinizione che dovrà necessariamente portare a proposte innovative sotto il profilo della policy e della gestione di un settore che, soprattutto, oggi è chiamato a partecipare direttamente e a portare contributi positivi per la costruzione del proprio futuro.

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CINEMA ESPANSO

T itolo della mostra è Bruno Bozzetto: Animation Maestro! Chi la conosce un po’ sa bene che non sopporta proprio essere chiamato “maestro”: come mai

questa parola campeggia in testa a una ce-lebrazione a lei dedicata? (ride molto divertito) Odio la parola mae-stro! Come al solito… queste idee arrivano da chi cura la produzione. Siccome c’è un legame del mio Allegro non troppo con la musica classica, in questo caso la parola è funzionale e ha un doppio senso: maestro d’orchestra e d’animazione. Ma lo ripeto: a me non piace! Certo, dopo le mie diverse esternazioni contro questa parola, è quasi comico ma, al di là di questo, l’iniziativa è molto bella, senza dubbio molto… più della parola maestro!Com’è nata questa mostra e perché è stato scelto di incentrarla “solo” su Allegro non troppo e non su una più ampia esposizione delle sue creazioni? Sono stato l’anno scorso negli Stati Uniti e ho visitato il museo della famiglia Disney e la figlia, Diane, diceva di aver intenzione di aprire il Museo anche a mostre esterne: io la cosa l’ho ascoltata volentieri ma mi è entrata

da un orecchio e mi è uscita dall’altro. Ma evi-dentemente l’interesse c’era e una volta rientra-ti in Italia sono tornati alla carica, incontrando anche la disponibilità e l’entusiasmo di Federico Fiecconi, curatore di questa mostra, che era con me in quell’occa-sione: probabilmente l’incontro personale ha soltanto sollecitato un’intenzione che era in fieri. La concentrazione

su Allegro è dovuta a due motivi: probabil-mente in America è il mio film più conosciu-to, ha avuto una importante diffusione, men-tre West and Soda e Vip li conoscono poco, o niente probabilmente; secondo, ha un lega-me stretto con Fantasia di Disney, soprattut-to per La sagra della primavera di Stravinskij. C’è anche un terzo motivo: i miei film non

sono pensati per bambini, infatti abbiamo avuto qualche problema nel selezionare i cartoni inizialmente perché io parlo di cose cattive, la società, la guerra… che possono essere anche proposte ai piccoli ma io le racconto in maniera diretta. Questo per spiegare perché abbiamo dovuto scartare diversi film possibili e comunque rispettare l’essere ospiti in “casa Disney”. Racconti lei cosa si può vedere esposto e se ci sia per caso qualcosa di inedito…La maggior parte sono disegni visti in altre mostre, ma non tutti: sono state selezio-nate anche cose nuove. Ci sono disegni a matita, schizzi, qualcosa dello storyboard: il materiale era tutto buono, per cui che fosse scelto un disegno piuttosto che un altro non mi creava problemi, ho lasciato massima libertà di selezione. Non ci sono “inediti”, anche perché… per fare quel film non abbiamo scartato nulla! Ci sono degli schizzi di lavorazione che naturalmente non sono rientrati nel film, ecco l’inedito! Cosa ne pensa del cinema nei musei? Crede che gli ambienti museali possano prestarsi bene ad ospitare il cinema e se sì qual è il modo migliore per non farlo risultare statico e garantirgli la magia del dinamismo?La cosa più bella del cinema in un museo è avere il film e la materia con cui questo è stato realizzato, così diventa più vivo perché uno spettatore passa dal disegno statico, che vede lì davanti agli occhi, al disegno in movimento: la magia la crea chi guarda, con la fantasia, supportato dal poter “toccare con mano” il disegno. È la stessa sensazione che si avrebbe se ci fosse lì in carne ed ossa l’attore di un film. Trovo che il cinema nei musei sia un’opportunità mol-to positiva, anche per una questione di “dimensioni”: una persona vede il disegno originale e il suo ingombro, poi lo guarda adattato al film e questo è significativo per la percezione del passaggio fisico da una cosa statica creata su un foglio allo schermo. Certo, l’animazione in particolare si presta a questo discorso perché nel cinema dal vero al massimo si possono esporre oggetti, props, costumi ma non è come il disegno, che invece rappresenta l’intera scena poi visibile esattamente uguale in movimento.

Bruno Bozzetto.Allegro non......non chiamatemi Maestro! di Nicole Bianchi

Allegro non troppo, in virtù della tecnica mista, ha visto la partecipazione dal vero di alcuni importanti interpreti del cinema italiano, uno per tutti Maurizio Nichetti. Che ricordo ha del lavoro sul set e perché scelse proprio lui?Nichetti faceva parte del mio studio da anni, su di lui abbiamo un po’ costruito il personaggio del disegnatore: era arrivato per sbaglio, era venuto a proporsi come interprete di un film pubblicitario, ma rendendosi conto che avevamo già scelto, come dice lui “uno molto più bello”, stava per andarsene quando gli venne in mente di dirmi che scriveva sceneggiature. Io veden-do una persona sveglia, simpatica e spirito-sa gli ho proposto di collaborare: facendo architettura masticava un po’ la tecnica del disegno e tutto questo era sommato a quel tipo di spirito surreale che serviva a me, capace di battute anche mimiche. Gli devo anche riconoscere di avermi rimesso in circolo il germe del film dal vero, con cui ho iniziato la mia carriera e che adoro: tant’è che Allegro è un film in tecnica mista e il lavoro di Maurizio è stato di grande aiuto… infatti è stato (anche) aiuto regista! Una genialità che però voglio riconoscere anche a Guido Manuli, sceneggiatore e animatore strepitoso: l’idea dell’orchestra di vecchiette è venuta proprio a loro due! Il mio ricordo della lavorazione del film? È stato un lavoro tranquillo, nato giorno per giorno, fatto tutti insieme: giravamo al teatro Donizetti di Bergamo, io abitavo al di là della strada, quindi uscivo, andavo a lavorare e tornavo a casa. Insomma è nato in una tale tranquillità che non poteva che essere allegro!In poco più di un anno è stato invitato negli USA da eccellenze dell’animazione,

alla Pixar da Lasseter e poi dalla famiglia Disney: qual è il valore aggiunto che ha l’animazione italiana di Bruno Bozzetto?Non lo so proprio, la persona più stupita sono io. Ci dev’essere qualcosa nella sem-plicità e nell’umorismo: il dover arrangiar-mi, come è successo a me, con pochi mez-zi ma riuscendo ogni tanto a far qualcosa di importante forse li ha colpiti. La prima cosa che mi ha detto Lasseter quando ci siamo incontrati è stata: mi ricordo la zan-zara di Self Service (1974)! Quindi sono le trovate necessarie al dover lavorare con

poco che li fanno ridere, perché spesso mi hanno parlato di “umorismo”, forse simile al loro, come succede in Nemo, dove gli squali vanno alla riunione degli alcolisti, che è un livello di lettura diverso da quello del bambino a cui si rivolge principalmente il film. Probabilmente gli piaccio perché facciamo lo stesso tipo di cinema: il mio Vip e Gli invincibili hanno molto in comune in fondo. Questa è l’unica spiegazione che trovo, perché altrimenti non capisco come possa io essere interessante per loro.

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CINEMA ESPANSO

La famiglia Disney ha voluto dedicare una personale a Bruno Bozzetto, in mostra al Walt Disney Family Museum di San Franciscofino ad aprile del prossimo anno. Noi l’abbiamo intervistato.

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CINEMA ESPANSO

di Alessandro Spreafico

“Dove vivi?” chiede Isabelle. Hugo la guarda per un mi-nuto, poi si volta e indica il grande orologio nella sta-zione dopo il ponte: “là”.

È proprio uno dei sette orologi di grandi di-mensioni costruiti per la colossale produzio-ne di Hugo Cabret di Martin Scorsese (2011) ad invitare all’immersione nell’universo “fer-rettiano”, ricreato nella retrospettiva che il MoMA di New York e Luce Cinecittà dedica-no a Dante Ferretti, maestro della scenografia cinematografica contemporanea.Si potrebbe raccontare la mostra come un compendio di progettazione per il cinema illustrato dai lavori di Ferretti, un artista che

nel corso della sua carriera ha saputo dare a quello che era un semplice mestiere artigiano un ruolo strutturale nel processo collabora-tivo col cinema d’autore. Nei suoi progetti ogni scenografia diventa un universo unico e si pone in un rapporto dinamico e dialettico con l'immaginazione del regista, contribuen-do così a imprimere una precisa impronta stilistica a tutto il film.I lavori di Ferretti sono sempre concepiti ad uso e consumo del pubblico cinematografico e, va detto, possono essere apprezzati al me-glio solo se visti nella loro collocazione origi-nale, all’interno del film proiettato su grande schermo. Per questo il 25 settembre scorso è stata inaugurata da Martin Scorsese la rasse-gna Dante Ferretti: progettando per il grande

schermo nel teatro del museo, in cui vengono proiettati integralmente i 22 film più rappre-sentativi dell’arte di Ferretti, tra cui The Aviator e Hugo Cabret, diretti dallo stesso Scorsese, e Sweeney Todd - Il diabolico barbiere di Fleet Street di Tim Burton, valsi allo scenografo tre premi Oscar come miglior art direction. La mostra Dante Ferretti: Progettazione e costruzione per il Cinema ospita diversi pezzi originali recuperati dai set, tra cui spicca-no i lampadari di Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini (1975) e i le-oni d’oro creati per la Mostra del Cinema di Venezia, oltre a numerosi disegni e bozzetti che guidano il visitatore attraverso il processo creativo dell'artista di Macerata. Il vero cuore dell'esposizione è però la labirintica installa-

“Se ti sei mai chiesto dove vengono creati i tuoi sogni, guardati attorno, vengono creati qui.”

(Hugo Cabret)

DANTE FERRETTI.

IL LABIRINTO, I LEONI

E I LAMPADARI DI SALÒ

CINEMA ESPANSO

zione di 12 schermi alla Roy and Niuta Titus Gallerie Hall, dove vengono proiettati alcuni estratti delle più grandi produzioni scenogra-fate da Ferretti, uno spazio ipnotico e onirico: cinema che narra altro cinema e dunque il racconto visivo si enfatizza in quello che co-munemente possiamo definire metacinema, qui arte visiva all’ennesima potenza. Ispirato dalla tradizione del cinema classico

italiano e portato a creare su vasta scala, dal 1969 Ferretti ha lavorato come scenografo in oltre 50 film, 24 produzioni operistiche e più di una dozzina di altre tra televisione, musei, moda e festival, collaborando con artisti di calibro internazionale come l'icona della moda Valentino, ma soprattutto con i mae-stri del grande schermo: Pier Paolo Pasolini, Federico Fellini, Martin Scorsese. Lo stesso Ferretti durante l’opening della mostra ha raccontato di quanto debba a Pasolini, che nel ‘64 lo assunse come assistente sceno-grafo nel leggendario Il Vangelo Secondo Matteo. Oltre ai nomi già citati - questa non è una lista ma un "alfabeto" di eccellenze - Ferretti ha collaborato con Liliana Cavani, David Cronenberg, Luigi Comencini, Marco Ferreri, Elio Petri, Sergio Citti, Mario Camerini, Franco Zeffirelli, Ettore Scola, Dino Risi, Marco Bellocchio, Luigi Zampa, Franco Brusati, Luciano Salce, Brian DePalma, Terry Gilliam, Julie Taymor, Jean-Jacques Annaud, Martin Brest, Neil Jordan e Anthony Minghella. Lavorando in Italia, Gran Bretagna e Nord America, ha vinto nel corso della sua carrie-

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ra 4 David di Donatello, 13 Nastri d’Argento, 3 BAFTA, oltre a i già citati 3 Oscar (su 7 nomination). Allestire una mostra come questa in anni in cui la tecnologia digitale ha ormai definitiva-mente cambiato il processo di realizzazione di un film, scenografie in primis, significa celebra-re il tramonto dell’arte scenica in grande scala dopo oltre un secolo di meraviglioso servizio.Un evento lungo sei mesi in uno dei templi dell’arte mondiale, il MoMA, rappresenta la chiara intenzione di valorizzare il contributo artistico della scenografia e più in generale di tutti quei ruoli, solitamente considerati di “secondo piano”, che trasformano la visione di un regista in realtà. Dante Ferretti diventa quindi una sorta di eroe del cinema, capace di portare la grande arte scenica italiana in tutto il mondo: non solo dà orgoglio al nostro paese, ma ci fa riflettere su quanto siano importanti (e complessi) l’interpreta-zione di un’idea e il processo che porta a concretizzarla."Se ti sei mai chiesto dove vengono creati i tuoi sogni, guardati attorno, vengono creati qui." (Hugo Cabret)

Il suggestivo immaginario dello scenografo di Macerataè in mostra al MoMA di New York fino al 9 febbraio 2014 in collaborazione con Luce Cinecittà.

RICORDI

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di Steve Della Casa

Era maniacalmente affezionato al concetto di romanità, che si può sintetizzare nella preferenza per il guanciale rispetto all’anglosassone bacon e all’italiana pancetta.

Il segreto di Gigi Magni:

la vera ricetta della carbonara

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Nessun altro regista rap-presenta lo spirito roma-no come Gigi

Magni. E, al tempo stesso, Gigi Magni ha una storia comune con tutti coloro che, più o meno con i suoi anni, hanno iniziato a fare il cinema di commedia in Italia negli Anni ‘50.Sembra una contraddi-zione, non è così. Gigi era maniacalmente affezionato al concetto di romanità, al punto da bollare come “bu-rino” chi abitava fuori dalle mura, cioè dal nucleo stori-co della città oggi espansa per chilometri e chilometri in tutte le direzioni. In que-sta sua puntuale richiesta di informazioni (“Tu che dici di esse de Roma, ‘ndo abiti?”) ricordava un po’ l’Ennio Flaiano degli ultimi tempi, quello che guardava i mille faccendieri che po-polano il bar Rosati, tem-pio una volta della grande generazione dei cinemato-grafari, e commentava con l’amico Vaime: “Guardali, credono di essere noi”. Nella carriera fa tanta ga-vetta, proprio come gli altri, e poi ha un rapporto quasi esclusivo proprio con un “burino”, Nino Manfredi, con il quale lavora per tanti film smettendo poi di fare il regista proprio quando Manfredi muore. Tra questi due poli ruota tutta la sua carriera. La sua scrittura, quando è sceneggiatore, è chiara e lineare, le gag che scrive per i film di Totò sono scoppiettanti ma gli

interessa di più il fatto che siano veramente imme-diate (e infatti Monicelli lo citava come esempio di prosa piana ed efficace, e ripeteva sempre che l’in-segnamento da dare a chi si avvicina oggi alla scrit-tura è molto chiaro: “Scrivi come Magni”). Ma anche la sua voglia di raccontare la Roma capitale di due po-teri spesso fusi in uno solo è al tempo stesso un atto di sfida verso il potere tempo-rale dei Papi (che secondo Magni non si è esaurito con la fine dello Stato pon-tificio) come anche un’at-tenzione quasi certosina per le fonti di creatività ro-mana, dal Belli a Pasquino, che con quel potere hanno sempre avuto una dialetti-ca intensa. Chiamato una volta in radio per una tra-smissione monografica su di lui, Magni annunciò per tutta l’ora di trasmissione che alla fine avrebbe svelato il suo vero segreto, il tesoro che consegnava alle future generazioni. Alla fine effetti-vamente lo svelò. Si trattava della vera ricetta della car-bonara, quella che nacque in via delle Fornaci in un’e-poca imprecisata e che mai avrebbe utilizzato l’anglo-sassone bacon e neanche la più nostrana pancetta. Ci voleva il guanciale, simbolo di una cucina povera ma fa-scinosa, come storicamente era quella romana “prima che i barbari venuti dalle campagne la distruggesse-ro”. Un colpo di scena, ma anche una filosofia di vita.

RICORDI

di Rossella Rinaldi

Da Palermo all’Asia, il viaggio della “ciabattina” CottaElena Cotta, la vincitrice della Coppa Volpi a Venezia per Via Castellana Bandiera di Emma Dante, è stata protagonista di una lunga tournée in Estremo Oriente.

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BusanTokyo

PechinoNEL MONDO

NEL MONDO

V ia Castellana Bandiera (A Street in Palermo il titolo internazio-nale) è stato uno dei film ita-liani più presenti nei maggiori festival autunnali: solo a otto-

bre l’esordio di Emma Dante è stato in pro-grammazione al BFI London Film Festival e nei più lontani Busan e Tokyo International Film Festival. La regista palermitana, impegnata nelle prove del Feuersnot al Teatro Massimo di Palermo, ha affidato la promozione “asiatica” del film alla coprotagonista e vincitrice della Coppa Volpi Elena Cotta, non nuova all’Estremo Oriente, nonché alle lunghe trasferte intercon-tinentali. Nella sua carriera cinquantennale, l’attrice ha girato un film in Australia, Terza generazione (del 2000), dove interpretava la madre di Greta Scacchi; mentre la compagnia fondata con il marito Carlo Alighiero la portò per la prima volta in tournée in Cina con uno spettacolo teatrale italiano, Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni. Elena Cotta è stata un’assidua frequentatrice della Cina per circa 30 anni perché la figlia, Barbara Alighiero, al suo fianco in questo tour, è un’eccellente sinologa e fino a due anni fa ha diretto l’Istituto Italiano di Cultura di Pechino. Ora l’attrice ottantaduenne è volata a Busan e a Tokyo, passando per Pechino, dove è stata protagonista di una conferenza stampa proprio all’Istituto Italiano di Cultura. Perfetta viaggiatrice, curiosa e aperta alle differenze dell’Oriente, dal cibo alle tradizioni, a Tokyo Elena ha sfilato sul green carpet (il tappeto ver-de realizzato con bottiglie di plastica riciclate, che conferma la vocazione ecologista di que-sto festival), al fianco di Tom Hanks, Francis

Ford e Sofia Coppola e del primo ministro Shinzo Abe; a Busan invece è stata ospite d’o-nore del direttore del Festival, Lee Yong-kwan, assieme a Gianfranco Rosi, l’autore di Sacro GRA, anche lui ospite dei coreani, e ha parteci-pato alla tradizionale photosession organizzata da European Film Promotion assieme agli altri personaggi europei. L’attrice ha incontrato il pubblico e ha approfondito i temi del film raccontando dettagli della lavorazione nel torrido agosto palermitano: “Ero completamente rilassata e nemmeno il caldo mi ha rovinato il piacere. Ero seduta in macchina, con il mio tè, i miei libri, le mie sigarette”. Quindi ha spiegato: “Il nostro mestiere è artigianato. Faccio sempre l’esempio del ciabattino, che fa in maniera eccellente una cosa che noi non sapremmo mai fare, ribattere i chiodi. Anche gli attori, dopo tanti anni, diventano bravissimi nel loro mestiere, ed io dopo cinquant’anni di carriera mi sento una brava ciabattina”. “La Coppa Volpi? Sicuramente non mi aspet-tavo questo riconoscimento, ma mentirei se dicessi che non lo speravo. Ho iniziato a pensarci subito dopo la proiezione stampa, quando durante l’incontro con i critici ho avuto un applauso straordinario, uno dei più belli della mia vita. Sto vivendo un mo-mento magico, che un mese fa non avrei mai immaginato”. Elena Cotta non ha perso occasione di ricor-dare con orgoglio la realtà che ha costruito con il marito Carlo Alighiero, con cui gesti-sce (con un terzo di comproprietà) il Teatro Manzoni di Roma: “Una realtà privata che si mantiene egregiamente con il proprio cartel-lone, senza aiuti statali, forte di ben 7.000

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abbonamenti”. Il palcoscenico, però, lo ha accantonato per un anno in vista di alcuni progetti cinematografici. Poi domande più specifiche e analitiche su Via Castellana Bandiera, sull’ampliarsi della strada nel corso del film (al termine diventa una via larghissima in cui potrebbero passare almeno due macchine): “Durante la lavorazione la sce-nografa Emita Frigato allargava gradatamente lo spazio, che alla fine era sufficiente per fare passare tutti. Il motivo del conflitto, per cui c’era stato un morto, non sussisteva. È una metafora dell’assurdità della guerra”. Un attimo di commozione il giorno prima della partenza da Tokyo, e poi, a due giorni dal ritorno in Europa, Elena Cotta è ripartita per il Festival di Zagabria.

BusanTokyo

Pechino

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DISCUSSIONI

di Elio De Capitani

VERSO L’OSCAR. E SE I PERSONAGGI COMINCIASSERO A RECENSIRE I FILM DI CUI SONO INTERPRETI?

Jep Gambardella prende le distanze, ma in fin dei conti disvela (disgela anzi) il confessabile segreto che ci ammala de La grande bellezza...

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DISCUSSIONI

L’APPARATO UMANO

Jep Gambardella

EDIZIONI

A me il film non è piaciuto troppo.Ne ho parlato anche con Toni, che pure è bravissimo, con-cordo.” (voce off ) “Ma che dici Jep? Non ti è piaciuto?”

“Siiiiiiiii maaaaaa.... no! Alla fine fine fine no! Come dire? Non è un film su oggi, su Roma, su di noi, se non tangenzialmente. È su di noi perché ha gli stessi ‘nostri’ difetti come opera. Ma non come materia dell’opera: anche se, palesemente, ambisce a quello.”“È un ‘omaggio’ a Fellini, a Scola e a tanti, tanti altri, e ne risulta una specie di metafilm, fin troppo voluto nei suoi compiacimenti.

DISCUSSIONI

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DISCUSSIONI

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È una pratica che non reggo più tanto.” “Anche se l’estetica lo fa apparire altro, è sostanzialmente un film meravigliosamente retrò nel suo essere elegantemente postmo-derno - ma ancor più sostanzialmente tardo-romantico fino al decadentismo partecipe - pur ambendo, con impeto ammirevole, all’aura del capolavoro d’altri tempi: inten-dendo aura in senso stretto, alla Benjamin (pronunciato all’inglese, è Jep che parla)... all’ apparenza, La grande bellezza lancia un ponte tra Roma... o - se vogliamo - La Città delle donne di Fellini e la Commedia all’Ita-liana con la stessa imprevedibile, affascinante e spiazzante intuizione con cui Tarantino - in Django Unchained - ha saputo trasformare il mito di Sigfrido di Wagner in uno spaghetti western del XXI secolo. Anche se i ragazzini che lo vedono, manco sanno chi è Sigfrido e se sono di Milano pensano a Wagner come una fermata del metrò e basta”. Maledettamente sornione, vagolante ma all’apparenza sicuro e soprattutto assai autoindulgente - Jep Gambardella in persona ci dice queste cose, languido sul divano del suo salotto, geniale critico capace di autocompia-cersi soprattutto nell’ autostroncarsi. “La grande bellezza. Un film autoindulgente come il suo protagonista: a mio avviso doppia-mente autoindulgente. Ma proprio per questo, paradossalmente, il bersaglio grosso lo centra, centra la malat-tia più diffusa nel nostro paese: noi ci dila-niamo, ma al tempo stesso siamo indulgenti con noi stessi, con la nostra incapacità di fare e la nostra abilità di parlarne, anche spietata-mente: è lo scrittore che non scrive più, è Jep il cortocircuito del film. Cioè, modestamente, io stesso e nessun altro.”“... Jep Gambardella, il sottoscritto, che qui, accettando di parlarvi del film come mai aveva voluto fare prima d’ora, postmoderna-mente, parodizzandosi nell’ auto-dilaniarsi, si auto-cita come in un specchio in loop all’infi-nito - giù, sempre più giù a spirale, fino a sfio-rare l’ auto-epigonalalità assoluta del Gizmo, ah ah ah!“ (?.... boh! A volte Jep spara a casac-cio, tanto conta il suono, nessuno obietta, al giorno d’oggi.)“Palesa il nostro (Sorrentino intendo) in que-sto film - tanto per citare e scusate la noia - il must d’ogni salotto ovvero Harold Bloom - la sua angoscia dell’influenza.Ahimè però quella ‘in tono minore’, quella di chi possiede un certa dose di consapevolezza e molta deferenza, addirittura venerazione, una venerazione quasi patologica, per l’uni-verso immaginativo dei grandi artisti del pas-sato che lo hanno preceduto, ma non sa pro-dursi nel supremo slancio del superamento, nel creare l’altro radicalmente nuovo, e nuovo al punto da cancellare i maestri, da vanificare il tentativo di discernere imprestiti o lezioni: per-ché tutto è qui, finalmente, in un modo... anzi, in un mondo totalmente nuovo, radicalmente

altro, mozzafiato.” “Gesù, ho perso il filo... Che stav’ a rice?Ah ecco:... incapace di altrettanta “grande bel-lezza”, per sentirsi all’altezza, l’epigono cita. Il genio, non cita, mai. Ruba ancora più spietatamente! Ma trasforma a tal punto che si potrà quasi dire, con grande efficacia d’immagine pur paradossale, che ci pare persino vero che è stato chi lo ha preceduto ad aver copiato lui, e non il contrario. Certo, paradossale, paradossale, un’ucronia, se mi è concesso, o più semplicemente un’iperbole. Ma rende l’idea, non vi pare? E se non vi pare, chissenefutte, come diceva mia zia, ah ah ah ah!”“Concludo. Se il passato non ti genera e invece sei tu ad illuminarlo, ti fai beffe del passato e sei tu a riaprire il canone, aggiungendo anche una sola opera, ma che supera tutte le precedenti. Ma pruvamme a cambià o titolo e... che so’... Il naufragio della bellezza... e non faccio il verso a caso al quadro di David - lo vorrei avere io, lo metterei, eh eh, in camera da letto, ma non mi equivocate ih ih ih ih... - che stavo... ah, sì, il naufragio della bellezza: così torna tutto e si capisce che non è un film da capire e non basta neppure definirlo un film in cui naufragare, come pur genialmente ha fatto il collega carissimo, l’amico Gianni Canova. No, non basta la sua descrizione pur efficacissima del naufragar m’è dolce in questo mare. Va spiegato il perché è dolce naufragarci.”

“Ve lo dice Jep il perché è dolce ‘sto cazz’e film: è il film della dolce consapevolezza, solo di poco nascosta, sviata.Sviata eppur pulsante consapevolezza dell’ irri-mediabile nostra colpa, dolce certezza che il disastro è già accaduto, che la vita è andata e non c’è grandezza se non nell’estetica del naufragio... ‘Qui troviamo un’immagine tra-gica bloccata nell’attimo che segue il disa-stro’. Tutt’al contrario della brulicante dispe-razione della contorsione dei corpi, ancora carica di speranza, de La Zattera di Medusa di Gericault. Nella morsa dei ghiacci spezzati di David ‘Non c’è disperazione, né sorpresa, né rancore contro il destino che si presenta a reclamare, con un evento violento, l’inelutta-bilità delle cose. È calma del sapere che ormai non c’è niente da fare e che le cose non sareb-bero potute andare che così’ (Ué, nun’ é robba mia, cito, l’ho letto inte nu blog su David, e me pare bbuone assaje)”. Mo’ concludo davvero. In una parola è il film del “simme futtute” ma anche del “quanto ci piace colliquare-collimare assieme” nella nostra Roma-tomba d’eros e thanatos, il Tode-stribe: detto così, saltando, noi ormai ex-altri-libertini, la cavallina, tra Freud e la Valduga.

così colliquare-collimare e nonavere alcun futuro finché

non sia arrivatoil tempo di te il tempo

della fine di me inme nuovo novità essere

altrove in un luogobizantino anzi baroccorecuperare il baroccovivendo in barocco

essere limenaccettare

tuttola mancanza

l’impossibilità

Mo’ ve siete beccate David, cripticamente Tondelli, e Freud, e la Valduga e pure Bloom, n’ata vota! “

“Bloom, Bloom, yes, rivisitato da Jep Gambar-della, cari miei.Bisogna, bisogna tirar fuori il vecchio Harold Bloom per capire Sorrentino: non ha creato il capolavoro ma un’opera assai epigonale, pur con tocchi qua e là di genialità indiscussa! Ma perché ci piace? Perché ci ammala? L’i-ronia, la critica sociale, nel film, è solo appa-renza. È l’inconfessata adesione il segreto del film (infatti fallisce nei personaggi dove non c’è possibile adesione, come nel cardinale, inefficace, inefficace, pura macchietta, nes-suna grandezza, come nella suora e nel suo devoto: essi sono nella magia d un altrove solo apparentemente messo alla berlina, ma non divaghiamo). Sono io stesso, Jep, il cortocircu-ito. Spiego meglio: è Il film del nostro perma-nente, già accaduto, naufragio - l’istantanea in motion picture d’uno sturm un drang ormai naufragato, di un’ epoca italica post resisten-ziale, post sessantottina e poi post-comuni-sta - che, credendo d’essere post-moderna fu immaturamente, permanentemente, infantil-mente, tardo-romantica senza saperlo... auro-ralmente in perenne tramonto, bell’ossimoro, eh? Siamo dei tardo-romanticoni: o dei tar-doni romantici ah ah ah!Anzi, ancora meglio, senza scherzi: il film della ‘bellezza del naufragio’, il naufragio di una vita e quello d’un epoca, contemplato in un’ estasi di autoindulgenza. Mandando affanculo ‘sta cazz’ e ‘angoscia dell’influenza’... se non quella noiosissima dell’infreddatura stagio-nale... ah ah ah ah! Scusate, è più forte di me, ucciderei mia madre per una battuta.”“Anche se, permettetemi il compiacimento finale: ma chi cazz’è ‘stu Bloom c’aimme tutt’e cità. Ci stava già tutto quanto in Nietzsche. E, se vulimme volà basse, pure in Croce. E pur’io, nel mio indimenticato L’Appa-rato umano, se vogliamo, modestamente... pur’io... pur’io... E se permettete, ‘modestamente’ un benea-mato cazzo. So’ nu’ genie io! Ah ah ah!”

IL CASOARGENTINA

FOCUS

Superficie2.780.403 km2

Popolazione totale40.412.376 ab.

Densità15 ab./km2

ValutaPESO ARGENTINO

Lingua ufficialeSPAGNOLO

CapitaleBUENOS AIRES

Forma di GovernoREPUBBLICA PRESIDENZIALE FEDERALE

PresidenteCRISTINA ELIZABETH FERNANDEZ de KIRCHNER

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Quando Mondo Grua portò le sue immagini sgranate in bianco e nero alla Settimana della critica di Venezia

(vincendone l'edizione '99) in molti sentirono che lì batteva un cuore nuovo. Era l'opera prima di Pablo Trapero, da subito diventato uno dei nomi simbolo del nuovo cinema argentino. Quel tango antico sulla metropoli sventrata di Buenos Aires, vista dall'alto della gru di Rulo - un cinquantenne ex rockettaro, ora in cerca di lavoro per sfamare sé, suo figlio e la madre - diceva tutto di un paese che stava per essere "ricostrui-to" secondo le leggi del neoliberismo sostenuto dal presidente Menem, e che lasciava ai margini cultura origi-naria e umanità di un intero popolo. Il cinema contemporaneo argentino è ancora oggi sospinto da quell'onda di forza e novità nata in quella metà degli Anni '90. Fino ad allora, nonostante

la fine della dittatura militare (1976-83), poco era successo nel cinema, a parte le eccezioni di Fernando Solanas (El exilio de Gardel, 1985, Sur, 1998) e Luis Puenzo (La Historia oficial, Oscar miglior film straniero 1984) sostenuti entrambi dalle coproduzioni interna-zionali. Il cinema per il mercato interno era da mezzo secolo dominato da pel-licole “costumbriste” ed “escapiste” (di maniera, di svago) che servivano a intrattenere gli argentini, prive di qual-siasi sollecitazione politica o sociale. La fine della dittatura aveva dato nuo-ve speranze al paese, non supportate però da nuove politiche economiche. Al contrario, il decennio del moderni-smo di Menem (1989-99) ha rappre-sentato economicamente un’assoluta continuità con il decennio precedente e anzi ha completato brutalmente la cessione nelle mani del modello nor-damericano: l'Argentina viene messa letteralmente in vendita, i ministeri finiscono nelle mani delle multina-

di Roberta Ronconi

Tanto cinema per poco pubblico

Il cinema argentino vive all’interno di una dicotomia. Ad una fortissima produzione nazionale - per numeri e qualità - corrisponde una bassissima percentuale di pubblico. Dovuta alla presenza di poche sale, alla troppa concorrenza nordamericana, al vecchio pregiudizio degli spettatori per i titoli di casa. E a una politica di finanziamenti statali a pioggia che in molti osservatori chiedono di rivedere.

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zionali e persino lo Stato si trasforma in un'impresa, riluttante - di conseguenza - ad investire i propri soldi in sanità, istru-zione e cultura pubbliche.Per il cinema argentino è però alle porte una svolta, inaspettata quanto radicale. È il 1994 quando una riforma del sistema au-diovisivo nazionale (la legge 24.377, anco-ra vigente) trasforma l’ex Istituto Nacional del Cinema (INC) in Instituto Nacional de Cine y Artes Audiovisuales (INCAA) che decreta l’aumento del 300% delle fonti di introito dell’Istituto (aumento delle percentuali su biglietti, video-cassette e pubblicità televisiva) e decide di investire grandi somme nella promozione del cine-ma nazionale, sia quello degli autori già affermati, che delle nuove generazioni. È grazie all’INCAA se nel 1996 arriva nelle sale del paese una strana collettanea di cor-ti firmati da sconosciuti. Historias Breves porta per la prima volta sugli schermi i nomi di Adrian Caetano, Bruno Stagnaro, Sandra Gugliotta, Jorge Gaggero, Tristan Gicovate, Pablo Ramos, Daniel Burman, Lucrecia Martel, Ulises Rosell e Andrés Tambornino. Tra loro questi giovani autori sembrano non avere molto in comune, se non la scelta di una rottura netta con il passato cinematografico tutto, sia quello “costumbrista”, sia quello dei padri nobili, degli “auteurs” come Solanas, Subiela, Aristarain, Gallettini che si ritrovano im-provvisamente accomunati sotto la comu-ne definizione di “dinosauri”, registi che ormai “si sono allontanati dalla strada, dal

quotidiano”, dirà di loro Lucrecia Martel. È lì invece, nell'anonimato delle periferie di Buenos Aires, che nascono i nuovi per-sonaggi e le nuove storie. Piccoli eventi, apparentemente insignificanti, realizzati con mezzi poveri (quasi tutto in 16mm e in bianco e nero) e con attori sconosciuti. La lingua è quella della strada, gli eventi quelli della strada. Historias Breves avrà in sala un successo non eclatante, ma si-gnificativo, che si rafforzerà e consoliderà con l'arrivo del lungometraggio-manifesto del Nuovo Cinema Argentino Pizza, birra, faso di Bruno Stagnaro e Adrian Caetano (1997), storia di un gruppo di ragazzotti anonimi, figli della marginalità, che deci-dono di forzare il lucchetto di ingresso dell'Obelisco (la torre-simbolo della nuo-va Buenos Aires) per andare a godersi la vista della città dell'alto. Una presa della Bastiglia, una dichiarazione di intenti, la rivendicazione di una nuova centralità dello sguardo. Dopo decenni di manie-rismi e falsità, nel cinema argentino la realtà si riprende il suo spazio e da allora non si dimostrerà più disposto a cederlo. In quella metà dei Novanta si gettano le basi dell'oggi. Si formano i nuovi registi, i nuovi produttori, i nuovi critici, le nuo-ve scuole e persino i nuovi festival. Oltre alla riapertura del Festival di Mar del Plata (1996) sotto la gestione dell'INCAA, nel 2000 nasce anche il Bafici (Festival del cinema indipendente di Buenos Aires). In un decennio, l'Argentina si posiziona in testa ai paesi latino-americani (affiancata

FOCUS // Dove il cinema sta meglio

da Brasile e Messico) per produzioni an-nue e visibilità internazionale. I due Oscar per La historia oficial (1985) e El secreto de sus ojos (2009) sono lì a dimostrarlo. Forte di un sostegno statale che ha pochi pari nel mondo, il cinema argentino nel 2012 ha raggiunto il record di titoli nazio-nali giunti in sala: 145 pellicole, di cui 90 di nuova produzione (le altre sono rimaste-rizzazioni o ritorni in sala), ben il 42% dei titoli complessivi (339), percentuale che difficilmente trova eguali nei mercati oc-cidentali. Anche lo sbigliettamento 2012 è più che lusinghiero: 46.811.755 gli ingressi registrati, per una popolazione di circa 42 milioni di abitanti. L’INCAA ha - per legge e volontà gover-nativa - la supervisione, la gestione della promozione e del sovvenzionamento del prodotto cinematografico nazionale. È fortissimo il suo legame con il governo della “presidenta" Cristina Fernandez de Kirchner (la cui figlia, tra l'altro, studia cinema) che da sempre è promotrice di una forte politica di sostegno alla cultura nazionale, a discapito dell'invasione di contenuti nordamericani e delle multi-nazionali. Ne è recentissimo esempio (dicembre 2012) la battaglia parlamentare per l’approvazione della Ley de Servicios de Comunicacion Audiovisual, intrapresa dal governo Kirchner contro il principale gruppo monopolistico editoriale del paese, il Clarin, un vero potentato della comuni-cazione, capace di enorme influenza (con tv e giornali), trasformatosi nel primo polo

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Nota: Per i dati e le informazioni si ringraziano la segreteria dell’INCAA, i critici argentini Diego Lerer, Cecilia Barrionuevo e il critico dell’Ansa per il cinema latinoamericano Ernesto Peres. Tra le pubblicazioni consultate: Il cinema argentino contemporaneo e l’opera di Leonardo Favio, pubblicato nel 2006 dalla Mostra del cinema di Pesaro.

di opposizione al governo di centro-sinistra della presidenta. Una legge necessaria per so-stituire vecchie norme risalenti alla dittatura e garantire spazi pubblici e plurali nei media, che ha trovato strenua opposizione anche da parte di un gruppo di giudici legati al Clarin, che sono riusciti a rimandarne l’attuazione. Ma qui finiscono i dati positivi. Al record di produzione nazionale fa infatti da contraltare la bassissima percentuale di pubblico dei tito-li nazionali. Un deficit dovuto in buona parte alla combinazione di mancanza di sale, quan-tità di blockbuster e titoli stranieri di grande richiamo, la endemica diffidenza del pubblico argentino verso i film di casa propria (storica rimane la battura di Darin ne El secreto de sus ojos: “Argentino no veo”). Nel 2012 sono stati infatti circa 6 i nuovi titoli per settimana, un ricambio continuo che non permette al “passaparola” di prendere piede. Il film di maggiore successo dell’anno, la commedia di Diego Kaplan Dos mas dos ha avuto meno di un milione di spettatori, seguito da Elefante Blanco di Pablo Trapero e Atraco! di Eduardo Cortés: in totale 1 milione e 500mila spettatori! I loro risultati sommati rappresentano il 54% del pubblico argentino che ha optato nell’anno per una visione nazionale. Le restanti 87 nuo-ve produzioni raggiungono con fatica qualche decina di migliaia di ingressi, la maggior parte attestandosi sotto i 5000. Gli schermi nel paese sono in totale 829 - aumentati di 37 unità rispetto al 2011 - raggruppati in 269 sale, appartenenti a circa 183 imprese. Ma oltre il 50% di queste appartiene a tre compagnie straniere: Hoyts, Cinemark e Village (circa il 63% di pubblico), mentre il primo esercente nazionale lo troviamo al 5° posto, la Riocin S.A. (con il 2,14% di pubblico). Quattro distributori raccolgono il 75% degli spettatori: al primo posto la United International Pictures, seguita dalla Walt Disney Argentina, dalla Fox Film e dalla Warner Bros., a cui è in mano anche la distribuzione delle principali pellicole naziona-li che devono rispondere quindi alle politiche di tenuta delle multinazionali straniere. Questa la grande contraddizione che vive il

cinema argentino in questo momento. La politica di finanziamento statale dell’INCAA (nel 2012 sono stati elargiti circa 41 milioni di pesos – 8 milioni di dollari – per 41 progetti di varia natura) che prevede sostegni a pioggia a qualunque progetto abbia una minima pre-senza in sala (da cui produttori che produco-no un solo film) sta da una parte consentendo a molti di sperimentare, ma allo stesso tempo disperde risorse e promozioni in mille rivoli, non tutti meritevoli. Per questo in molti osser-vatori del settore chiedono una revisione della legge di erogazione dei fondi, nella speranza che un finanziamento mirato permetta a più di 3-4 pellicole per anno di raggiungere un maggiore pubblico e maggiori entrate. Rimane comunque il dato positivo di un’ incredibile quantità di nuovi prodotti. Per questo l'onda del Nuovo Cinema Argentino non si arresta e anzi continua a "figliare". Tra i titoli degli ultimi tre anni, da menzionare al-meno il bellissimo El estudiante opera prima di Santiago Mitre (vincitore del Bafici 2011),

Un cuento chino di Sebastian Borensztein che ha avuto un notevole riscontro internazionale e La mujer sin cabeza di Lucrecia Martel. “Il cinema argentino in questo momento vive un fenomeno estremamente interessante. – ci dice Cecilia Barrionuevo, critica cinema-tografica e selezionatrice del Festival Mar del Plata - Non troviamo un movimento unico, ma molte nuove tendenze disomogenee tra loro. Si stanno inoltre creando gruppi di la-voro, registi che cooperano dando vita a un cinema nuovo ed estremamente vitale, come il trio di Santiago Loza, Ivàn Fund e Eduardo Crespo o l'altro formato da Mariano Llinas, Santiago Mitre e Alejandro Fadel. Da nomi-nare, infine, l’apparizione dello strano “ufo” della filmografia, José Celestino Campusano con la sua casa di produzione Cine Bruto, e i nomi dell’ultimissima generazione di cine-asti, tra cui Gastòn Solnicki, Gonzalo Castro, Matias Pineiro.

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di Ro. Ro.

La metà degli Anni '90 in Argentina vede l’esplodere delle scuole di cinema. Se fino ad allo-ra lavorare nella settima arte per il popolo argentino rappresenta-

va un' attività per pochi creativi, con l’in-cremento dei fondi statali e dell’attenzione internazionale, si trasforma per giovani e famiglie in un vero e proprio sbocco la-vorativo. Accanto alla prestigiosa ENERC (Escuela Nacional de Experimentacion y Realizacion Cinematografica, ramo didattico dell’INCAA, 350 studenti, di cui il 5% provenienti dal resto dell’America Latina), scuola triennale gratuita con fortissima selezione iniziale, spuntano nuove accademie e indirizzi universitari. Appaiono così La Fundacion Universidad del Cine (FUC), il Centro de Investigacion Cinematografica (CIC), il Centro del Investigacion y Experimentacion en Video

y Cine (CIEVYC), mentre le facoltà di Architettura, Filosofia e Lettere dell'uni-versità di Buenos Aires (UBA) creano i loro dipartimenti di cinema, che vanno così ad unirsi alle vecchie scuole di Santa Fé e alla Universidad de la Plata. Lo stes-so fanno le Facoltà di Architettura e lo IUNA (Instituto Universitario Nacional de Arte) che aprono corsi di Educazione all’Immagine e al Suono. Oggi parliamo in tutta l’Argentina di 11 tra istituti e scuole, che accolgono oltre 12mila studenti. Un numero abnorme, se si pensa che in tutto il mondo gli stu-denti di cinema sono circa 80mila. Una cifra tanto elevata da far dire al regista e sceneggiatore Carlos Sorin che “…l’unica industria prospera in Argentina è quella del cinema. Credo che Buenos Aires sia la città al mondo con la più alta concentra-zione di registi per metro quadro”.

Buenos Aires: quanti registi per metro quadro!

Dietro la macchina da presa nella capitale

Argentina: breve storia della formazione nelle scuole di cinema negli

ultimi 20 anni.

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Negli ultimi venti anni il cinema argentino ha vissuto un rinnova-mento estetico e generazionale che ha rappresentato un vero punto di non ritorno. Dall’inizio

dei Novanta, la nostra industria cinematogra-fica è passata da una produzione di circa 15 pellicole l’anno alle attuali 140, la presenza nei festival internazionali, prima minima, ora è evidente e generalizzata, mentre le scuole di cinema vedono ogni anno migliaia di nuovi studenti. Ma se si chiede in giro agli specialisti del settore, il giudizio è unanime: il cinema argentino è in crisi. Come è possibile, con questi dati?Per chi guarda all'industria, la crisi è data dal semplice fatto che pochissime pellicole nazionali hanno una buona riuscita in sala. Ogni anno, solo uno o due titoli figurano nella top ten. A parte El secreto de sus hojos, che nel 2009 ha raggiunto livelli di pubblico da titolo hollywoodiano con oltre 3 milioni di spettatori, normalmente è difficilissimo per un film argentino raggiungere quota 1 milione di ingressi. Alcuni titoli contano numeri che si aggirano tra le 50 e le 100mila presenze, ma il 90% della produzione nazionale ha un pubblico assai più ridotto.Per coloro che guardano non all’industria, ma alla qualità delle pellicole in sé, la sen-sazione è che la presenza nei festival inter-nazionali negli ultimissimi anni sia andata diminuendo. Nel 2008, per esempio, solo a Cannes figuravano due titoli in concorso (La mujer sin cabeza di Lucrecia Martel e Leonera di Pablo Trapero) e vari altri erano presenti nelle sezioni collaterali. Negli ultimi tre-quattro anni, i titoli in concorso sono di-minuiti e si fa fatica a trovare film argentini anche nelle altre sezioni.

di Diego Lerer

Una tangenziale a più corsie

Filo diretto da Buenos Aires.Il punto di vista critico.

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La crisi, per noi che guardiamo al cinema argentino da molto vicino, è dunque chiara. Ma allo stesso tempo bisogna riconoscere che è una crisi dettata da uno sguardo su-perficiale, condizionato da indicazioni che si basano solo sui dati classici del numero di spettatori e di presenza nei festival. Forse, la domanda che varrebbe la pena farsi è un'altra, ovvero: quanto è buono il cinema argentino in questo momento?A questa semplice domanda ci sono diverse risposte. Il cinema argentino dei Novanta e del primo decennio del Duemila era nuovo, originale, vedeva in campo giovani cineasti ca-ratterizzati da una certa omogeneità estetica, tanto da permetterci di definirlo come Nuovo Cinema Argentino. Titoli come Mondo Grua e il Bonaerense di Trapero, La Cienaga e La mujer sin cabeza di Martel, La libertad e Los muertos di Lisandro Alonso, Bolivia di Adrian Caetano, Silvia Prieto di Martin Reytman han-no reso possibile un fenomeno compatto e un suo riconoscimento cinefilo. Un'ondata di novità riconoscibile che ha continuato a cre-scere per diverso tempo fino ad ampliarsi al punto da perdere di definizione. I successivi giovani cineasti non hanno ricevuto lo stesso favore né da parte della critica né dai festival internazionali, anche perché le mode degli os-servatori cambiano e in un attimo l'attenzione può passare dall’Argentina a nuovi fenomeni regionali, magari in Messico o in Cile. Di fatto, in questi ultimi anni in Argentina si è continuato a fare buon cinema, ma in modo talmente differenziato da non per-mettere alcuna etichettatura unidirezionale.

Del resto, come trovare un’unica definizione per un titolo multinarrativo come Historias Extraordinarias di Mariano Llinas e l’asciutto e minimalista Los Salvajes di Alejandro Fadel? Cosa hanno in comune il thriller classico El estudiante di Santiago Mitre, il documentario Papirosen di Gaston Solnicki e l’adattamento shakespeariano di Matias Pineiro con Viola? Poco, quasi nulla. Ma tale varietà andrebbe valutata come un merito, piuttosto che come un problema. La crisi comunque esiste e si può consta-tare quotidianamente. Una produzione di 140 pellicole l'anno, con oltre 100 che non saranno particolarmente buone e di scarso successo: un numero non indifferente di pellicole “da festival”, sovvenzionate da comitati e fondi internazionali che cercano di dettare i canoni “giusti” per far trionfare all’estero una “pellicola latinoamericana”; una tendenza a un cinema “facile”, che non va oltre il prodotto professionale, incapace però di svolgere la funzione base, ovvero portare in sala gli spettatori.In conclusione: se la democratizzazione tec-nologica e i sovvenzionamenti statali sono serviti a qualcosa, è perché oggi il cinema argentino possa esistere non solo per esse-re in opposizione al vecchio cinema o per formare un nuovo movimento, ma anche per disperdersi in decine di corsie diverse e magari opposte.È vero: oggi nessuno sa esattamente cosa sia il cinema argentino di questi anni. Ma non è detto che questa sia una cattiva notizia.

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di Cristiana Paternò

Archeologia industriale e natura selvaggia. Breve viaggio nell’Alto Adige che non conosce crisi

GEOGRAFIE

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Archeologia industriale e natura sublime in Alto Adige, tra Val Venosta e Val Martello e fino a Bolzano. Le rovine di un alber-go di lusso, l’Hotel Paradiso,

progettato nel 1933 dal celebre architetto Giò Ponti, occupato dall’esercito tedesco nel ‘43, abbandonato dagli Anni ’50 e ina-gibile, nonostante vari progetti di ristrut-turazione. Un luogo magico e inquietante, degno dell’Overlook Hotel di Shining, oggi inaccessibile ma pur sempre maestoso. Potrebbe diventare un set se qualcuno dei produttori italiani, tedeschi e austriaci che hanno partecipato al location tour PLACES #2 all’inizio di ottobre se ne innamoreran-no. È il secondo anno consecutivo che la BL S, Film Fund & Commission organizza questo interessante appuntamento con la geografia del territorio (l’anno scorso la visita era dedicata ai castelli). Un’iniziativa finalizzata a far conoscere a produttori, registi, location scout, organizzatori ge-nerali la varietà e singolarità degli scenari della regione con la guida di esperti come Wittfrieda Mitterer, docente di Architettura

presso l’Università di Innsbruck ed esperta di monumenti risalenti all’epoca austriaca e al fascismo.Architettura razionale e scorci pittoreschi, resi ancor più estremi dalla straordinaria nevicata che per un giorno ha interrotto le comunicazioni tra la Val Venosta, campo base del tour, e il resto del mondo facendo saltare elettricità e internet. Quasi a voler riportare i viaggiatori indietro nel tempo, agli inizi del secolo scorso. Quando la valle più occidentale dell’Alto Adige era famosa presso i “nordici” per il clima stabile e tem-perato e veniva visitata, come ancora oggi, per la presenza della vetta più elevata del Sud Tirolo, nel gruppo dell’Ortles. Selvaggi scenari alpini dove ancora si vive in un maso collegato alla vallata solo da una teleferica, una vecchia officina ferroviaria nel centro storico di Bolzano, una diga mozzafiato e un lago artificiale in Val Martello, un’antica centrale idroelettrica, quella di Tel, nei pressi di Merano, ancora pienamente funzionante ma con la possibilità di fermare gli impianti per agevolare la presenza di una troupe, un rifugio antiaereo a Bolzano, reperto della

seconda guerra mondiale che ha scosso con violenza un territorio “geneticamente” di confine. BLS Film Fund & Commission ha messo a disposizione un fondo di 5 milioni di euro per il 2013 garantendo un finanzia-mento alla produzione per un massimo di 1,5 milioni di euro a progetto. Ma vi sono anche finanziamenti alla pre-produzione e allo svi-luppo delle sceneggiature per un massimo di 50.000 euro a progetto. Tra i film che hanno trovato casa qui anche Il principe abusivo di Alessandro Siani (prodotto da Cattleya), scelta non banale per un napoletano. Per la responsabile Christiana Wertz: “L’Alto Adige non è la location più scontata per il cinema e l’audiovisivo, tuttavia lo spirito imprendito-riale forte e creativo, la solidità economica e il coraggio di cambiare della politica parlano a nostro favore e il bilancio del 2012, il primo anno effettivamente operativo, è positivo con 500 giornate di riprese e un effetto territoriale del 163%”. Del resto la regione, in una fase di crisi come quella attuale, praticamente non conosce disoccupazione.

GEOGRAFIE

GEOGRAFIE

Tra le più affascinanti

location visitate nel corso di

PLACES #2 il leggendario

Hotel Paradiso, la centrale

idroelettrica di Tel, una

vecchia officina ferroviaria

nel centro di Bolzano, una

diga mozzafiato e un lago

artificiale in Val Martello.

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PREMIO

DOMENICO MECCOLI “ScriverediCinema” 2013 a 8½

A 8½ è stato quest’anno conferito il premio Domenico Meccoli “ScriverediCinema”, consegnato ad Assisi durante la XXXII edizione della storica rassegna Primo Piano sull’Autore.La giuria, composta da 60 tra giornalisti e critici ha così motivato la scelta: “Per la particolare angolazione con cui questa nuova rivista di cinema riesce a catturare l’attenzione degli addetti ai lavori e del pubblico, focalizzandola non soltanto sulle immagini tradizionali, ma principalmente sulla lettura dei numeri, che sono alla base dell’industria cinematografica.”

Domenico Meccoli, assisano di nascita, è stato un importante giornalista e critico cinematografico, inviato di “Epoca a Parigi”, direttore della Mostra di Venezia, fondatore del Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici in Italia, sceneggiatore, membro della giuria a Cannes e Berlino.

MOTIVAZIONE PREMIAZIONE

90°

90° 90°

INTERNET E NUOVI CONSUMI

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Il divo dellaporta accantodi Carmen Diotaiuti

Sempre più attori e celebri-ties raccontano su Insta-gram, il popolare social network di condivisione foto, gli aspetti più inti-

mi della loro vera o presunta quoti-dianità. Autoscatti e immagini dalla vita di tutti i giorni, affidati al web con una breve descrizione. Per rac-contare pubblicamente quelle emo-zioni private e quei momenti di vita personale che fanno percepire allo spettatore, per riconoscimento e identificazione, il divo come perso-na comune. Le foto sono commen-tabili e a loro volta condivisibili sui profili personali, secondo il prin-cipio della libera circolazione dei contenuti sulle reti sociali. Il pub-blico sbircia nella vita dei suoi ido-li ed entra a far parte della loro quotidianità. Può avvallarsi il dirit-to di commen-tare o criticare le sue scelte in un rapporto d’inte-razione che si fa paritario e ribal-ta l’immaginario della star: non più divinità asettica e distante, ma sog-getto vicino, che diventa significa-tivo proprio per il suo essere or-dinario, quotidia-no, irrilevante. È nell’avvicinamen-to e nell’annulla-mento della di-stanza che può trapelare per lo spettatore la natura privata, altri-menti sfuggente, dell’attore. Tra le star italiane più attive, Asia Argento conta quasi 33mila segua-ci e ben 1600 immagini pubblica-te: autoscatti, foto di famiglia, retro-scena dal set del suo ultimo film, Incompresa. Immagini per lo più provocatorie, condite da commen-ti irriverenti, per un profilo che rac-conta tanto della vita privata, ma che è anche in linea con l’immagi-ne pubblica che la rappresenta. La narrazione costante del sé permet-te di superare la distanza col per-sonaggio e diventa per l’attrice pos-sibilità di espressione della natura più autentica, testimone dell’identi-tà e della sua storia personale. Ma,

per non stravolgere il ruolo pub-blico costruito sul suo personag-gio, deve rimanere inevitabilmente coerente all’identità sociale e a ciò che lo spettatore si aspetta da lei. Preferiscono, invece, promuovere e salvaguardare principalmente la loro immagine sociale Luca Argen-tero e Fabio Volo, entrambi con un elevato numero di fan su Instagram a cui scelgono però di non rivela-re così tanto del loro privato. All’au-toscatto preferiscono la formula meno intima del reportage dai luo-ghi visitati, paesaggi urbani in cui raramente compaiono, lasciando intuire solo una certa personale passione per i viaggi e per la foto-grafia naturalistica.

Dallo scorso giugno Instagram ha introdotto la possibilità di pubbli-care video della durata massima di quindici secondi e questa ulte-riore opportunità espressiva lo ha reso interessante anche per l’indu-stria cinematografica. Dopo appe-na un mese, infatti, è apparso il pri-mo profilo dedicato a un film, @jobsthefilm, la pellicola con Ashton Kutcher nei panni di Steve Jobs, dove è stato anche pubblicato il pri-mo trailer creato appositamente per Instagram. La possibilità, inol-tre, di catalogare e ricercare con-tenuti tramite marcatori semantici permette di utilizzare il social net-work anche per la creazione di con-corsi ed eventi. Come il video con-

test lanciato in occasione della 32a edizione delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone, per la creazio-ne di video ispirati a scene da film muto, pubblicati sul web utilizzan-do l’hashtag #silentfilmscenes32.Ma non sono solo gli attori ad affi-dare al web le istantanee della quo-tidianità privata. A tre anni dalla na-scita, Instagram conta 150 milioni di utenti attivi. Reporter provetti che invadono il web con ogni sor-ta di immagini, spesso prive di al-cuna suggestione, che non rispet-tano i principi della composizione fotografica e finiscono col ritrarre compulsivamente momenti di vita del tutto irrilevanti. E se per la star la pubblica condivisione può es-

sere un gesto di distruzione e oltrepassamen-to del mito col-lettivo costruito sulla propria im-magine sociale, per il soggetto comune diventa bisogno ossessi-vo di testimonia-re ogni momen-to della storia personale, che diventa apprez-zabile e dota-ta di senso solo se affidata alla collettività. Un flusso ininterrot-to e schizofre-nico di fotogra-fie, un’epidemia delle immagi-ni che richia-ma quella peste del linguaggio

già descritta, trent’anni fa, da Ita-lo Calvino nelle sue Lezioni ame-ricane: “Viviamo sotto una piog-gia ininterrotta di immagini; i più potenti media non fanno che tra-sformare il mondo in immagini e moltiplicarlo attraverso una fanta-smagoria di giochi di specchi: im-magini che sono gran parte prive della necessità interna che dovreb-be caratterizzare ogni immagine, come forma e significato, come forza d’imporsi all’attenzione, come ricchezza di significati pos-sibili. Gran parte di questa nuvola d’immagini si dissolve immedia-tamente come i sogni che non la-sciano traccia nella memoria”.

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Instagram e gli attori: lo scatto social-casalingo che rende il

personaggio celebre a portata di click. Asia Argento “si spoglia” anche sul network fotografico;

Argentero e Volo, invece, lasciano solo tracce del loro passaggio.

INTERNET E NUOVI CONSUMI

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PUNTI DI VISTA

di Daniele Luchetti

Il regista di Anni felici ha

fatto parte della delegazione

di cineasti europei inviati

a Strasburgo per difendere

l’eccezione culturale. Ora ci

regala il suo diario ironico

di quella spedizione.

Se l'Italia preferisce

il prosciutto al cinema

PUNTI DI VISTA

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Durante la settimana cer-co di distrarmi dal lavoro, e quindi consulto sempre Facebook. Scrivo numero-si messaggi satirici verso il

M5S ma li cancello tutti. Capisco che ho solo voglia di sfogarmi con qualcuno, ma con loro è troppo facile. Quindi accetto la peggiore rogna che mi sia capitata quest’anno: occuparmi per conto dei 100autori di andare in una delegazione di colleghi a Strasburgo per fare una cosa che non so fare, di-fendere l’eccezione culturale, che però so abbastanza bene cos’è.Quindi facendo finta di capire cosa c’è a Strasburgo, accetto (consulto Wiki-pedia per sicurezza), e quindi prendo un aereo, un treno, un taxi e arrivo al Parlamento Europeo che infatti si trova lì come Wikipedia aveva promesso. La differenza con il Parlamento Italiano è che i commessi, quando ti accolgono, sono gentili, non hanno la puzza sotto il naso,e quando dici che vai da qualcu-no ti credono, e non ti chiedono manco i documenti. Siccome andavo da Barroso (il boss: fonte Wikipedia) si sono fidati e mi han-no fatto entrare senza battere ciglio. Se uno dice che va dal capo dev’essere vero, anche se è italiano. Lì si fidano, ed è una sensazione molto strana che non avevo mai sperimentato prima.I corridoi sono di linoleum scollato, ma poi c’è un atrio enorme tutto a vetri, con piante che scendono dal soffitto e molte scolaresche che si fanno fotogra-fare davanti alle bandiere. Mentre il no-stro Parlamento sembra una cassa da morto decorata da Sartorio - parlo solo di apparenza - questo sembra una sede della Nestlè o un aeroporto da cui non si parte mai.Mi riunisco finalmente a una delegazio-ne di colleghi molto più cazzuti di me, che vengono da nazioni particolarmen-te disastrate, o più cazzute della no-stra, o anche semplicemente più con-vinti che la democrazia sia un bene da difendere anche a brutto muso. Quin-di andiamo a parlare con questo Mr. Barroso che tutti conoscono ed infatti ci indicano l’ufficio. All’inizio stringe la mano a tutti, poi fa il cattivo, poi il buono. In sintesi la sua cultura politica sembra appartenere alla grande corren-te: “io sono io, voi non siete un cazzo”.

Però lo fa elogiandoci, dimostrando che ama molto il cinema, nominando molti film, ma tutti di registi morti. L’u-nico vivo che nomina è un suo conna-zionale di 105 anni che non rompe più le palle e infatti si vogliono molto bene, almeno così dice lui: De Oliveira non sappiamo se è d’accordo.Costa Gavras è il nostro capo supremo, per proiettare i suoi film al cineclub del liceo sono stato odiato dai compa-gni e schiaffeggiato dai fasci. Ma tutti lo adoriamo, e lui dice a Barroso cose tipo “a fijo de ‘na mignotta, ma davvero vuoi che la cultura sia in una trattativa commerciale? Sei pazzo?”. Però lo dice in maniera educata che non si capisce molto bene la parolaccia, solo la rabbia. Lui è greco, la democrazia l’ha inventa-ta, e lo sa dire benissimo tanto che Bar-roso capisce e si incazza lo stesso. Le sue posizioni sono talmente lontane dalle nostre che dice sempre: lo vedete che sono d’accordo con voi? Noi dicia-mo: che cazzo dici - sempre con edu-cazione estrema - e lui dice: sono con-tento che siamo d’accordo. Ad un certo punto si tradisce. Da una frase si capi-sce che tutto è perduto per noi, e che si sta attaccando da mezz’ora ad una frase ambigua che spera che non abbia-mo capito. Gli chiediamo spiegazioni, e all’improvviso lui dice che il tempo è fi-nito e che ha una delegazione di non so cosa (mi pare minatori, o trivellatori o birrai, non so). Siamo delusi ed incazza-ti. Radu Mihăileanu vorrebbe aggredirlo fisicamente, ma Barroso è circondato da segretarie vestite di ruvidi vestiti ap-parentemente Chanel, ma sicuramente di materiali corrosivi, e anelli con lame segrete. Christian Mungiu vorrebbe far-gli vedere un film su alcune suore rume-ne per ipnotizzarlo, ma lui sguscia fuori dove c’è già un drappello di giornalisti a cui dichiara: sono fiero di aver rassi-curato i registi europei, e infatti siamo della stessa idea. Io e loro siamo pap-pa e ciccia e infatti ho visto molti film in bianco e nero di registi morti e anche uno di cui ora non ricordo il titolo, però era bellissimo.Schiumiamo rabbia, anche perché nel-lo stesso istante era già in rete una di-chiarazione che diceva lo stesso.Veniamo quindi ricevuti da una de-

PUNTI DI VISTA

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legazione di deputati europei che aveva capitanato la grande mag-gioranza che si era schierata a fa-vore dell’eccezione culturale. Spe-rano che gli si diano belle notizie, ma noi siamo intontiti come pu-gili suonati. Loro dicono: Barroso vuole fare un favore agli america-ni perché tra un anno gli finisce il mandato e vuole andare a fare il pensionato a Central Park, magari con un incarico all’ONU. Ripetiamo gli stessi interventi fatti poco prima a Barroso anche se ai suddetti deputati non gliene frega un granché perché effettivamente loro sono d’accordo con noi. Ma noi siamo una compagnia di giro, oramai, al secondo debutto, e non vogliamo che si dica che non faccia-mo bene il nostro lavoro. Bérénice Bejo dice che è scappata dall’Argen-tina a tre anni con i genitori, e che hanno trovato in Francia una pa-tria della cultura e delle arti, e che è fiera eccetera. Io ripeto una bat-tuta apparentemente arguta sul-lo squilibrio tra peso commercia-le americano e fragilità del nostro audiovisivo e li faccio ridere perché sembra che abbia studiato e che ab-bia esemplificato con astuzia pro-blemi complessi, ma in realtà li ho solo esemplificati avendoli studiati poco. Radu fa il compagno duro e puro e le donne lo ammirano, e così via. Mungiu sparisce e non lo tro-viamo più. Però è scomparsa anche la sua borsa e quindi speriamo che sia semplicemente partito e non sia cacciato nei guai.Poi veniamo catapultati in una con-ferenza stampa dove dobbiamo ri-petere le stesse cose. Però ci siamo stancati, e quindi io dico di essere una esule argentina, Bérénice dice

le mie battute e così via, Costa Ga-vras resta fine e cazzuto, fino a sca-tenare gli applausi di una platea di giornalisti abituati a ben altre per-formance, e non ad un drappello di gente che nella vita sembra spassar-sela, come pensano di noi sbaglian-do di grosso.Poi in treno tutti assieme, come dopo una partita che si è perduta. Tutti al telefono, a cercare di par-lare con ministri, sottosegretari, presidenti di qualunque cosa, an-che della squadra della parrocchia. Chiunque abbia un po’ di potere, purché ci appoggi e ci voglia ascol-tare. A ministri e parroci arrivano le nostre telefonate esaltate, ogni tanto passo personaggi che proba-bilmente si stavano cucinando una minestrina a casa a Belvaux, che perora la nostra causa senza sape-re con chi esattamente.Ma nessuno sa o capisce di cosa stiamo parlando. Questo sciagu-rato accordo potrebbe far chiudere Rai, Mediaset, Sky, impoverire sta-bilmente le risorse alla cultura di tutta Europa, e renderci semplice-mente un mercato per il prodotto americano. Che tutti noi adoriamo, ma che riteniamo possa avere an-che un concorrente innocuo come noi, che fa bene al pubblico euro-peo, che ci premia con il 40% de-gli incassi, ma anche agli americani, che così non si sentono troppo soli nella conquista del mondo.Solo in Italia l’audiovisivo fattura quasi 16 miliardi: il doppio del traf-fico aereo. E la campagna pubblicitaria della destra ci ha fatti apparire come dei morti di fame alla ricerca di sussidi pubblici, quando per ogni euro che lo Stato ci concede gliene tornano 4 in forma di tasse. E con questa leg-ge che potrebbe venire, invece, si permetterebbe agli USA di farci ve-

noi stiamo sempre dalla parte dei film.Fateci caso: gli USA dal ‘45 non hanno mai dichiarato guerra a una nazione che pro-ducesse bei film. Perché chi produce film ha una faccia e un’anima: come si fa a bombardare? E invece se io che bombar-do sono lo stesso di quel film bellissimi, in fondo di che ti lamenti?Torno a lavorare. Spedisco questo post senza sapere come hanno votato oggi. Incrocio le dita. Non tanto per me, ma per quelli che ancora non hanno comin-ciato a fare film: attori, scrittori, regi-sti, tecnici. Che meritano di crescere in un’Europa che non ha svenduto il loro ta-lento prima che nascesse. Domani legge-rò sui giornali questa storia come se non mi riguardasse più. Ce l’ho messa tutta, e per due giorni ho fatto l’unico lavoro che mi sembra più bello di quello del regista: quello della democrazia.

Buonanotte, non rileggo, perdonatemi se qualcosa non si capirà.

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dere tutto il cinema che si vuole via inter-net, pagando le tasse in Irlanda, e senza lasciare una lira qui.Insomma, mentre torno mi arriva un sms. La posizione ufficiale dell’Italia è: ci abbandona. In cambio del commercio di prosciutti e formaggi in USA ha deciso di chiudere con l’audiovisivo. Dice che sia-mo tutelati abbastanza dalle clausole di garanzia che sono nell’accordo. Io non vi tedio con questo dettaglio. MA sappiate che è come dire: facciamo la trat-tativa, la mia casa la metto dentro la trat-tativa ma non si tocca. Gli americani la trattativa la fanno ma quello che davvero ritengono intoccabile lo hanno lasciato fuori: il sistema bancario. E hanno detto che se si toglie l’audiovisivo salta tutto. Ma insomma, perché ci tengono tanto questi statunitensi a mettere l’audiovisi-vo in una trattativa di commercio este-ro se sanno che non si può toccare? (Mi rendo conto che dico cose che potreste non capire, sappiate solo che in questo momento ho saputo di aver perduto tut-to: me lo dice l’sms).Non ho il coraggio di dirlo ai colleghi francesi, che nel frattempo invece stanno ricevendo il sostegno dal loro governo, che cambia posizione e decide di soste-nere la nostra: ringraziando per la difesa della cultura della patria, viva la Francia, e viva la cultura europea! Festeggiano con sidro analcolico sul TGV mentre io fischietto guardando fuori dal finestrino perché so che l’Italia è l’ago della bilan-cia e potrebbe essere per noi che si af-fonda tutti, francesi compresi.Dormo in un albergo di Parigi dove arrivo a notte fonda. È un albergo automatico, senza portiere e senza istruzioni. Riesco ad arrivare in stanza ma non ad accen-dere la luce perché l’albergo è ecologico e per una ragione che mi sfugge prendo molte ginocchiate al buio.

Parto all’alba e il giorno dopo ricomincia il mix, ma io non riesco a darmi pace. Te-lefono senza vergogna a chiunque, più su che posso, sarei disposto anche a parla-re con qualche grillino se facesse parte di questo pianeta, e a sorpresa ottengo qual-che udienza insperata estremamente pre-stigiosa. Entro in un palazzo minaccioso dove mi vengono chiesti molti documen-ti. Entro in uffici dove la scultura più alle-gra è quella di un milite cieco morente. Parlo con un LUI importante, simpatico, competente, empatico, intelligente, ma mi accorgo che anche a livelli molto alti non si sa con esattezza di cosa si stia parlan-do. Prego, imploro, divento spiritoso, fac-cio il morto, il cagnolino, racconto barzel-lette, mi metto la mano sul cuore, sciorino cifre, faccio ragionamenti impeccabili che mi sorprendo addirittura io stesso, ma mi viene detto: non posso promettervi nulla. Cazzo, ha ragione, il mio momento è fini-to: finisce il tempo della consultazione, co-mincia quello della politica, della decisio-ne. Tocca a loro, adesso. Però ora so che hanno capito bene tutti i termini della que-stione. Ed anche io ho capito quali sono le forze in gioco. Per ogni me che entra in quegli uffici, c’è un Obama che manda a dire, che raccomanda, che bonariamente spera, si auspica. Ci spacca il culo, Obama, con questa storia, e noi siamo pure con-tenti. E lo sapete perché? Perché loro han-no il cinema. E se decidono di fare il culo a qualcuno noi stiamo sempre dalla parte loro, anche se il culo lo fanno a noi: perché

PUNTI DI VISTA

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PUNTI DI VISTA

Dalla sala buia alla ghiandola pineale

di Guido Barlozzetti

PUNTI DI VISTA

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Sono nato in una sala buia e chiedermi se il cinema possa farne a meno è francamente una provocazione. Ma come tutte le provocazioni va presa

sul serio, perché non possiamo far finta che la Terra continui a stare al centro dell’universo, quando intorno abbiamo scoperto pianeti, galassie e soli a non finire. Voglio dire che una volta al centro della metropoli c’era la sala buia e oggi, intorno ad essa, andiamo a ritrovarci con un esercito di maxischermi domestici da alimen-tare con uno shopping in rete, senza nemmeno passare più per quella cosa obsoleta e ancora orribilmente mate-riale del DVD, analogica nel corpo pur essendo digitale nello spirito. Dunque, la tecnologia sta chiudendo un cerchio. Cataloghi immensi da consultare nella cassettiera web, da ordinare e scaricare in tempo reale, per essere visti subito sulla parete a cristalli liquidi del salotto hi-tech. D’altronde, anche la televisione qual-che trasformazione la sta subendo. Una volta ci sedevamo davanti al televisore, spettatori di un palinsesto che metteva in fila i programmi in ver-ticale, nella giornata, e in orizzontale, nella settimana. Gli appuntamenti era-no fissi e se perdevi un programma, addio. Poi, è cominciato un tragitto all’insegna di una partecipazione via via più intensa: il telecomando ha con-sentito di scegliere tra i programmi e di saltare da un canale all’altro, mentre i canali aumentavano in quantità e in qualità, fino a moltiplicarsi come i pani e i pesci con l’avvento del digitale. Così sono arrivate le reti tematiche in chiaro e poi quelle a pagamento, veri e propri bouquet dedicati, sempre più affollati, con annessi reggimenti di canali affiliati. E in più i pixel dell’alta definizione che stanno mandando in pensione il mistero della pellicola.Serviva un nuovo strumento per ge-stire tutta questa offerta. È arrivato anche quello, un super-telecomando capace di fare tutto, non solo selezio-nare i canali, ma anche interrompere la linearità della trasmissione e saltare nel tempo astratto e parallelo reward e forward, registrare programmi e, ultimo passaggio, acquistarli da un catalogo e vederli quando ci pare.Il cinema è un protagonista di questa storia. Nel tempo del monopolio, lo mettevano il lunedì e non a caso, per-ché quella era la serata in cui i cinema

erano chiusi o l’incasso era più basso. Nessuna concorrenza doveva fare il ser-vizio pubblico televisivo al cinema delle sale, due territori rigorosamente distinti. E quando sul secondo canale il cinema conquista un’altra posizione si tratta di film particolari, d’autore come si diceva, e non di grande impatto popolare come quelli del lunedì, in ogni caso tirati fuori dalle cineteche o dagli archivi polverosi delle major americane e nostrane. La svolta arriva con la tv commerciale che fa razzia dei cataloghi delle library italiche e USA e rimpinza i palinsesti di film. È da allora che comincia lo scolla-mento. Da una parte il cinema, quello della sala, perché nella sala ci vai per vedere un film, ma in realtà, come con-tinua pervicacemente a succedere a me, perché voglio andare al cinema; dall’al-tro, i film, compressi nel tubo catodico e spezzettati dalla pubblicità. Poi, nel nuovo regime della quantità dell’offerta, arrivano le pay che mettono in valore l’appeal e la qualità dei con-tenuti e così i film trasmigrano in toto o quasi dalla tv generalista nel nuovo scaffale, da cui lo spettatore sceglie a piacimento pescando in un’offerta mul-tigenere spalmata su più canali H24. Naturalmente, più questo processo avanza, crea e acquisisce mercato, più la finestra temporale tra i film al cinema e i film in televisione si riduce. Il prossi-mo passo sarà la cancellazione di ogni intervallo e la trasmissione, meglio la selezione da casa fra le prime visioni. Mi sembra un destino, che riguarda, ci metto un forse, anche il consumo nella massa immersa nel buio che va a implodere nella cellula living room. Il mercato deciderà e, chissà, solo qual-che conventicola di cinefili si riunirà in cripte per iniziati.A questo punto torno alla mia nascita. Nella sala buia, dicevo. Meglio, davanti allo schermo di un’arena cinematogra-fica estiva su cui davano le finestre di casa mia. I film li guardavo ma non li vedevo, le immagini mi entravano in testa e, in qualche caso, dopo anni le ho ritrovate e hanno acceso un corto-circuito che forse non hanno provato nemmeno gli spettatori dei Lumière sul Boulevard des Capucines. Fiume rosso, La legge del Signore. Poi, dalla metà dei ‘50, ho cominciato a soggiornare quotidianamente nella sala buia. Tende logore, sedili di legno scricchiolanti, fumo di sigarette. È chiaro che il mio desiderio non mi permette di abbandonarla. L’inconscio

Dal rito del film

al cinema

all’on demand tv,

fino alla fruizione

su piccoli supporti

portatili.

Ma un giorno

anche le nuove

generazioni

avranno nostalgia.

non si separa facilmente dal liquido am-niotico, specie quando il simbolico si è allocato in una sala buia. Forse, le ultime generazioni non avendo avuto questa frequentazione con la caverna, possono senza problemi disperdere il loro nella navigazione web e nel prêt à porter di film - e partite e musica e reality… - sui canali real time della tv oppure basta un’appli-cation sull'iPad o, peggio/meglio ancora, sul telefonino. Anche a loro, voglio crederlo, un giorno capiterà di avere nostalgia, quando qual-cuno gli proporrà di infilare nella testa un chip e di vedere tutto direttamente dalla ghiandola pineale dove Cartesio metteva la sede dell’anima.

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BIOGRAFIE

BIOGRAFIE

L aureato in filosofia, già professore a contratto in Sociologia dei processi culturali e Teorie e tecniche del linguaggio radiotelevisivo presso l’Univer-sità La Sapienza di Roma e l’Università di Perugia, lavora per la Rai come autore e conduttore di programmi televisivi. Si è occupato di organizza-zione di circuiti cinematografici, ha collaborato con la Mostra del Nuovo

Cinema di Pesaro e scritto libri sulla didattica del cinema, sugli sceneggiati tv, sulle major, sui media event e su Don Giovanni.

Il suo articolo è a pag. 78

GUIDOBARLOZZETTI

Nel 1972 è tra i soci fondatori del Teatro dell’ Elfo con cui lavora per anni come attore. Nel 1979 è tra gli ideatori e fondatori della rassegna Film-Maker di Milano. Nel corso degli anni ha realizzato numerosi film e documentari. Dal 1987 si dedica con sempre maggiore attenzione al cinema documentario di carattere sociale. Da sempre alterna la sua

attività di regista con l’insegnamento e la formazione.

Il suo articolo è a pag. 4BRUNOBIGONI

Inizia la carriera come assistente alla regia, conoscendo Nanni Moretti e af-fiancandolo in Bianca (1984): diventa aiuto regista ne La messa è finita. La Sacher, casa di produzione di Moretti, produce anche l’esordio di Luchetti alla regia, Domani accadrà (1988), con cui vince il Donatello come miglior film esordiente. Di 12 regie cinematografiche realizzate fino ad ora, la più recente

è Anni felici, autobiografia della sua famiglia.

Il suo articolo è a pag. 74DANIELELUCHETTI

A ttore e regista il cui nome è indissolubilmente legato a quello del Teatro dell’Elfo di Milano: prima diretto da Gabriele Salvatores, diviene poi lui stesso regista stabile, esordendo con Nemico di classe (1982), che gli ha dato credibilità e visibilità nazionale. Il suo ruolo cinematografico più conosciuto è quello di Silvio Berlusconi ne Il caimano, diretto da

Nanni Moretti. Dal 2005 si dedica anche all’insegnamento universitario della Storia del Teatro, presso lo IULM di Milano.

Il suo articolo è a pag. 58

ELIODE CAPITANI

Diego Lerer è stato critico cinematografico del quotidiano “El Clarin” (il più venduto quotidiano nazionale argentino), dal 1999 al 2012. Attualmente è delegato del Festival del cinema di Roma per l’America Latina e scrive critiche per diverse pubblicazioni del settore. Molto se-guito il suo blog “Microspia”.

Il suo articolo è a pag. 66DIEGOLERER

SUL PROSSIMO NUMERO IN USCITA A FEBBRAIO 2014.

SCENARICinema e musei INNOVAZIONII nuovi autori italiani di colonne sonore PROVOCAZIONI Il Leone d'oro a Sacro Gra ha fatto bene o male al cinema italiano? CINEMA ESPANSOUn intero film in un solo fotogramma

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/C/R

M/04/2013

L’attore è un tizio che se non parli di lui, non ascoltaMarlon Brando

Il piacere del successo per un attore è niente rispetto a quello che gli procura l’insuccesso di un collega

Jean-Paul Belmondo

ISSN 2281-5597

9 772281 559003

3 0 0 1 2