Cibo Da Strada

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Panelle, Crocché e la friggitoria palermitana La storia gastronomica dei popoli mediterranei è ricca di pietanze, inventate o importate dai popoli occupanti, e poi radicate sui territori. Tra i consumi alimentari primordiali, la leguminosa pianta erbacea del cece , originaria dell’oriente, che cresce spontanea in tutto il bacino del Mediterraneo, occupa un posto di rilievo. Basti pensare che i suoi semi sono presenti nelle mense più povere di latini e arabi, popoli distanti fra loro parecchi secoli.

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Panelle, Crocché e la friggitoria palermitana

La storia gastronomica dei popoli mediterranei è ricca di pietanze, inventate o importate dai popoli occupanti, e poi radicate sui territori.

Tra i consumi alimentari primordiali, la leguminosa pianta erbacea del cece, originaria dell’oriente, che cresce spontanea in tutto il bacino del Mediterraneo, occupa un posto di rilievo. Basti pensare che i suoi semi sono presenti nelle mense più povere di latini e arabi, popoli distanti fra loro parecchi secoli.

Storica  friggitoria palermitana sita a Ballarò in Via Porta di Castro

(ora non più esistente n.d.r. 03/2007)

Gli arabi, dominatori della Sicilia a cavallo tra il 9° e l’11° secolo, avvezzi alla sperimentazione gastronomica, ne macinarono i semi, ricavandone una farina che mescolata all’acqua e cotta sul fuoco dava

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una sorta di impasto crudo, dal sapore non eccezionale.

Ma una sfoglia sottile di questa pasta, cotta a sua volta in una sostanza oleosa, diede vita alla prima “panella”: una sorta di “schiacciata” di piccole dimensioni, di un bel colore dorato. Il detto: “pari ‘na paniella”(sembra una panella) è appunto riferito ad oggetti che hanno avuto la malasorte di trovarsi schiacciati sotto pesi eccessivi.

Prerogativa del territorio, le “panelle” si possono gustare solo a Palermo e dintorni, associate al pane, e rappresentano il caratteristico spuntino del palermitano. Si dice che non esista cittadino palermitano, di vecchia o di nuova  generazione, che non le abbia gustate almeno una volta. Studenti e scolari nell’ora di ricreazione, negozianti, impiegati, manovali, artigiani, nelle pause di lavoro. Le deliziose frittelle di ceci, travalicano, con il loro superbo gusto, ogni differenza di censo e di cultura.

Si possono acquistare in una serie infinita di “friggitorie", di tipo fisso od ambulante, sulle strade di grande traffico, nei quartieri popolari  o

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residenziali, nei quartieri nuovi, nel centro storico.

I luoghi di stazionamento delle friggitorie ambulanti sono, da sempre e puntualmente, i luoghi ove a certe ore si verifica un notevole movimento di persone: quindi scuole, uffici, grandi magazzini, chiese, cimiteri e finanche i campi sportivi nei giorni in cui si svolgono gli incontri. In passato il panellaro si presentava con la carretta sulla quale era montata una baracca di legno chiusa da tre lati.

Al suo interno erano posizionati: un fornello in pietra lavica sul quale una grande casseruola veniva utilizzata per la frittura, un ampio ripiano in cui si mostravano le panelle già fritte contenute in piatti di alluminio, un contenitore di latta (barattolo di conserva) con il coperchio bucherellato per il sale, usato in funzione della richiesta del cliente. In un’angolo emergeva una piccola collinetta di “mafalde”, una classica forma di pane con la “giggiulena” e, appesi ad un gancio, i rettangoli di carta già tagliati a mo’ di tovagliolo.

In tempi più recenti hanno fatto la loro apparizione le “motolape” e i

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furgoncini che, attrezzati di tutto punto, portano in giro il prodotto già pronto per essere cucinato a richiesta, perché, per gustarle a dovere, le panelle devono essere molto calde. Una volta raffreddate, anche se insaporite con qualche goccia di limone, perdono il gusto originale. Se si prova poi a riscaldarle il risultato non è dei migliori.

Vanno gustate calde, e basta.

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Il destino delle panelle è condiviso con le crocchè, o “cazzilli” come li chiamano comunemente i palermitani richiamandosi alla loro forma fallica. Panelle e crocchè sono inseparabili, stanno sempre accanto e talvolta vengono mangiate insieme, nello stesso panino.

La contraddizione tra i due cibi è dovuta alla materia prima di cui sono composti. Le crocchè, ritenute meno classiche, sono realizzate con la patata, umile tubero importato dal nuovo mondo cinque secoli fa. Un connubio, questo, di prodotti vegetali diversi e di culture diverse.

Entrambi erano riposti dentro “u cannistru” (il canestro) e coperti da una “mappina” (salvietta a quadri), pronti per essere fritti.

Corre voce che,fino a qualche anno fa’, per verificare la temperatura dell’olio, il panellaio di tanto in tanto adottasse un sistema… che preferiamo non riferirvi (comunque approvato dai clienti) ma che gli segnalava la condizione termica ideale. Quindi, armeggiando con alcune schiumarole (manico lungo, manico corto, veri attrezzi del mestiere) immergeva le panelle e, rimestando, in pochi minuti serviva

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gli attenti clienti che là davanti seguivano con attenzione il processo di cottura.

 Altro prodotto da “friggitoria” era la melanzana, da sempre accreditata come la “carne dei poveri”: tagliata a “fieddi” (fette) , poi fritte, da mettere in mezzo al pane o “a quaglia” (nulla a che vedere con l’omonimo volatile) cioè incisa lungo i lati, lasciando la parte superiore integra, poi fritta intera, ideale nella stagione estiva per una colazione in riva al mare.

L’evoluzione ha portato alla nascita di diverse friggitorie, ovviamente più evolute dal punto di vista della scelta gastronomica, che si sono localizzate in più parti della città, divenendo un punto di riferimento per i clienti del “fast-food” alla palermitana. Questo tipo di locale richiama alcuni locali dei mercati arabi, ma anche alcuni  delle città spagnole: ambedue friggono ogni sorta di vivanda, poi consumata per strada.

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Il panellaro inizia la sua attività la mattina presto, in modo da fornire alle maestranze edili, già nella prima mattina, la possibilità di consumare una prima colazione a base di pane e panelle, con o senza l’aggiunta delle crocchè.

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Note:   Il CeceIl cece è una leguminosa di elevato valore nutritivo originaria dell'oriente che in passato veniva diffusamente coltivato anche nel nostro paese, fornendo comunque una modesta produzione.Attualmente la coltivazione del cece resiste in alcune regioni del mezzogiorno d'Italia (Sicilia) ma la coltura è stata da tempo sostituita da piselli e fagioli.A prova della grande diffusione dei ceci nel passato rimangono, in Piemonte, le "cisrà" zuppe di ceci realizzate a scopo benefico dalle confraternite.

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Pani ca meusa

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Panino con la milza

U pani c'a meusa, italianizzato in "il pane con la milza", è un esempio di tradizione gastronomica siciliana nel campo del cosiddetto "cibo da strada". La pronuncia corretta in palermitano sarebbe "pani c'a miévusa" con un allungamento della sillaba "ie".

Questa pietanza, tradizione esclusiva di Palermo, consiste in una pagnotta morbida (vastella), superiormente spolverata di sesamo, che viene imbottita da pezzetti di milza e polmone di vitello. La milza e il polmone vengono prima bolliti e poi, una volta tagliati a pezzetti, brevemente soffritti nella sugna. Il panino può essere integrato con cacioca vallo  grattugiato o ricotta (in questo caso il panino si dice maritatu, ossia sposato, cioè accompagnato da qualcos'altro) oppure semplice (schettu, ossia celibe, cioè solo).

Il meusaru si serve di un'attrezzatura tipica: una pentola inclinata, all'interno della quale frigge lo strutto mentre in alto attendono le fettine di milza e polmone che devono essere fritte solo al momento della vendita. Una forchetta con due denti serve per estrarre dall'olio le fettine fritte, che vanno scolate brevemente e inserite nella vastella, anch'essa calda, e per

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questo custodita sotto un telo. Il panino va servito caldo, in mano all'avventore, in carta da pane.

La maggior parte dei meusari sono ambulanti e si trovano in luoghi di mercato come la Vucciria. I più famosi sono l'Antica Focacceria San Francesco, che risale al 1834, il cui proprietario ha fatto della battaglia contro il pizzo una coraggiosa scelta di vita, denunciando i suoi estorsori mafiosi [1] [2] , L'Antica Focacceria di Porta Carbone, la Famiglia Basile nel mercato della Vucciria, "Nni Franco u Vastiddaru" in Corso Vittorio Emanuele (angolo Piazza Marina), l'antico e caratteristico "Piddu Messina" nel corso Alberto Amedeo adiacente all'antico mercato del "Capo". Infine, più recente, Nino u ballerino in Corso Aprile Finocchiaro (già Corso Olivuzza).

Indice

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Storia [modifica]

L'origine di questo panino sembra risalire al medioevo, quando gli ebrei palermitani, impegnati nella macellazione della carne, non potendo percepire denaro per fede religiosa per il proprio lavoro, trattenevano come ricompensa le interiora che rivendevano come farcitura insieme a pane e formaggio. Cacciati da Ferdinando II di Aragona detto il Cattolico, questa attività venne continuata dai caciottari palermitani. In realtà, il consumo di interiora, particolarmente diffuso a Palermo, è tipico di quelle comunità dove, al consumo di carne dovuto alla presenza di famiglie nobiliari, corrispondeva un utilizzo degli scarti della macellazione da parte del popolo.

A Palermo, accanto al panino con la milza, troviamo per strada anche il panino con panelle o crocchè (cazzille), la pizza-sfincione, le stigghiola, la frittola, il musso, il carcagnolo, la quarume, il polpo, l'aringa, e tutta una

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serie di pietanze da consumare in piedi: arancine, calzoni, spiedini, ravazzate.

  La gastronomia palermitana, oltre ad essere ricca di piatti pregiati, annovera anche ricette “povere” legate al suo passato e alla sua storia. Nel nostro caso, ad esempio, questo legame deriva dal medio evo, quando nella nostra città esistevano gruppi ebraici. Questi, in prevalenza, lavoravano presso i mattatoi della città e, a causa dei loro vincoli religiosi, non potevano percepire compenso per quel tipo di lavoro, quindi venivano pagati in natura, ovvero con le frattaglie che poi bollivano e vendevano ai cristiani. Quando nel 1492, Re Ferdinando II d’Aragona li allontanò dalla città, questa attività la intrapresero i “caciuttari” che fino ad allora vendevano pane “abbagnato” (intriso) di sugna accompagnato appunto dal cacio. Fu così che a questa loro farcitura aggiunsero la milza bollita e poi fritta nella sugna.Per noi palermitani, mangiare il pane con la milza rappresenta una ritualità, come, ad esempio, i luoghi deputati alla vendita del pane con la milza.Quando a Palermo dici “pani ‘ca mieusa” non puoi fare a meno di pensare ai punti di riferimento per i palermitani: l’antica focacceria di Piazza San Francesco  d’Assisi che risale al lontano 1834, oppure alle coreografiche “Baffone” di Porta Carbone, Basile alla Stazione Centrale e quella di via Bara all’Olivella.A proposito di questo popolare alimento da strada, mi piace riportare la descrizione che ne fa il giornalista palermitano Daniele Billitteri, rivolta ai buongustai che hanno goduto di questo unico e indimenticabile mix di sapori:….Scagli la prima pietra chi non si è mai “ammuccato” (modo colorito di dire mangiato) una stecca si “stigghiole” (altro mangiare da strada molto ricercato dai palermitani). Si faccia avanti chi non si è mai fermato a Porta Carbone per farsi sgocciolare sulla camicia la “saime” (strutto) di un pane con la milza comprato  da Baffone. E alzi una mano chi non ha ringraziato Dio e il buon mattino che porta sempre, onorandolo con pane e panelle, un breakfast di fronte al quale impallidiscono perfino le eggs & bacon (uova e

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pancetta) degli anglosassoni. No, non si può tirare fuori Palermo dalle sue frattaglie…quelle apparentemente occasionali che quotidianamente grondano grasso sugli sfortunati abiti di mila e mila palermitani di tutte le razze, di tutte le età, di ogni ceto e di qualsiasi censo….Ingredienti per le pagnotte1 chilo di farina 0025 grammi di lievito di birraUn cucchiaino di zucchero10 grammi di malto per panificazioneUn cucchiaio di miele20 grammi di sale

PANINO CON MILZA

Il pani ca meusa, italianizzato in "pane con la milza", è un

esempio di tradizione gastronomica siciliana nel campo del

cosiddetto "cibo da strada", precursore dell'odierno fast food.

Questa pietanza, tradizione esclusiva di Palermo, consiste in una

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pagnotta morbida, sormontata da una spruzzata di sesamo, che

viene imbottita da pezzetti di milza e polmone di vitello. La milza

e il polmone vengono prima bolliti e poi, una volta tagliati a

pezzetti, soffritti brevemente nella sugna. Il panino può essere

integrato con caciocavallo grattuggiato (maritato) oppure

semplice (schietto-celibe).

Tipica l'attrezzatura del meusaru: una pentola inclinata all'interno

della quale frigge lo strutto mentre in alto attendono le fettine di

milza e polmone che devono essere fritte solo al momento. Una

forchetta con due denti per carpire le fettine fritte, che vanno

scolate brevemente e ficcate nella vastella anch'essa calda, e per

questo custodita sotto un telo. Il panino va servito caldo, in mano

all'avventore, in carta di pane.

La maggior parte dei meusari sono ambulanti e si trovano nei

mercati come la Vucciria. I più famosi sono l'Antica Focacceria

San Francesco, che risale al lontano 1834, il cui proprietario ha

fatto della battaglia contro il pizzo una coraggiosa scelta di vita

denunciando i suoi estorsori mafiosi ], L'Antica Focacceria di Porta

Carbone, la Famiglia Basile nel mercato della Vucciria, ed infine

nel quartiere Olivuzza Nino U'Ballerinu.

Storia 

L'origine di questo panino sembra risalire al medioevo, quando gli

ebrei palermitani, impegnati nella macellazione della carne, non

potendo percepire denaro per fede religiosa per il proprio lavoro,

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trattenevano come ricompensa le interiora che rivendevano come

farcitura insieme a pane e formaggio. Cacciati da Ferdinando II di

Aragona detto il cattolico, questa attività venne continuata dai

caciottari palermitani. In realtà, il consumo di interiora,

particolarmente diffuso a Palermo, è tipico di quelle comunità

dove, al consumo di carne dovuto alla presenza di famiglie

nobiliari, corrispondeva un utilizzo degli scarti della macellazione

da parte del popolo.

Il cibo pronto da strada è anche una tipicità araba. Si pensi al

kebab, e a Palermo, accanto al panino con la milza, troviamo per

strada anche il panino con panelle e/o crocchè (cazzille), la pizza-

sfincione, le stigghiola, la frittola, il musso, la quarume, il polpo,

l'aringa, e tutta una serie di pietanze da consumare in piedi:

arancine, calzoni, spiedini, ravazzate.

Si mangiano calde, condite con sale e limone

U CANNOLU, IL CANNOLO SICILIANO

Da sempre  carnevale è festa di popolo, preceduto da una fase religiosa penitenziale e purificatoria, essa si ricollega al latino "carnem levare", divieto di mangiare carne

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ad iniziare dal primo giorno di quaresima.

Tale proibizione veniva però ampiamente "superata" nei cosiddetti giorni grassi, dal giovedì al martedì che precede il mercoledì delle "Ceneri".

Giorni tradizionalmente di false, intrighi, travestimenti e burle, insomma un periodo di spensieratezza dove tutto è consentito, che non da spazio ai musoni, perché è il tempo per scherzare e chi non ci sta secondo i proverbi, merita di essere paragonato addirittura ad un maiale.

A questo tipo di manifestazioni non può mancare la parte gastronomica, la carne di maiale e le sue trasformazioni diventano la regina della gola.

La carne "capoliata", in pratica tagliuzzata e cucinata in salsa di pomodoro con l'aggiunta di ricotta, sopra a delle tagliatelle caserecce si prepara un ottimo primo come le "lasagne cacate".

Il piatto tradizionale è precisamente la salsiccia (sasizza), cucinata in mille modi, ma la sua fine è arrostita alla brace e annaffiata da un buon vinello.

A conclusione per magnificare il tutto, il dolce per eminenza è il cannolo, al plurale "cannola", il suo nome viene da canna, (rubinetto).

Proviene dal nome volgare (latino) dell'arbusto "canna" (Arando donax) con fusto cilindrico vuoto e nodoso, anticamente usata per vari usi ordinari.

Uno scherzo sicuramente da preti, nato in un dimenticato monastero e successivamente propagato dalla pasticceria palermitana, un motteggio carnevalesco del tempo faceva uscire da un rubinetto (cannolo in siciliano, il termine molto antico e riscontrato in documenti che attestano il significato d'internodo della canna che serviva da cannella per abbeveratoi e fontane) invece dell'acqua, crema di ricotta.

Nel palermitano, dove il dolce è nato, sono notissimi i "cannolicchi", dalle dimensioni di appena un dito.

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La "canna" con la sua forma cilindrica e dal giusto diametro un tempo si usava per dare foggia alla cialda di questa delizia. Il particolare sta nel rivestimento, la "scorcia", la cialda è preparata con la farina nel cui impasto va aggiunto del vino marsala, l'uovo, lo zucchero e un po' di polvere di cacao per colorare l'impastatura.

Dopo aver fatto riposare l'omogeneo composto per un'ora viene spianato in una superficie lineare, successivamente si ricavano dei quadrati; oggi l'industria che ha preso il suo spazio ha ricavato delle forme metalliche trapezoidali per ricavare la sagoma della buccia, diagonalmente vengono avvolte intorno alla "canna" o ad un cilindretto di legno o metallico in acciaio, anticamente erano di latta, le estremità bisogna chiuderle pressandole.

La fase consecutiva comporta la frittura in una padella in cui è stato sciolto della sugna "a saimi", un grasso animale ricavato dal maiale, alcuni usano l'olio d'oliva abbondante. Appena le scorze si sono dorate vengono estratte e fatte asciugare e freddare, prima di staccarle dai tubi con molta cura.

La ricotta di pecora riveste grande importanza perché è l'elemento che va a riempire questo scaramantico cilindro, mescolata allo zucchero crea una crema soffice cui si aggiungono dadini di canditi e scaglie di cioccolato, completano l'opera del pasticciere: la scorzetta d'arancia candita o la "cirasa" o il tondino d'arancia all'estremità e, per finire una spolverata di zucchero a velo.

Il cilindro spesso non è altro che il simbolo della forma fallica, l'adozione emblematica di questa parte virile nasce dalla concezione mistica della forza rigeneratrice e della fecondità nonché dall'averle attribuito (vedasi i falli pompeiani) un valore apotropaico, ossia mezzo per allontanare il "malocchio".

Nulla ci vieta quindi di pensare che il nostro cannolo ne sia un'espressione, per giunta dolce carnevalesco e definito scettro del re. Un sacerdote palermitano, dedito a poesie, nel 1635 esaltava in un'ottava la magnificenza del cannolo con le metafore "scettru d'ogni re e virga di Moisè".

A questo prelibato dolce sono particolarmente cari gli emigrati perché legano fortemente la terra d'origine e ogni anno, a Piana degli Albanesi, è dedicata una sagra che si svolge nel periodo di carnevale, durante la quale

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vengono offerti dei "cannola" caratteristici per le loro generose dimensioni difficilmente riscontrabili in altre zone della Sicilia.

Il cannolo da Guinness dei primati è di un pasticciere di Piana

Nel periodo in cui si svolge la novena natalizia che anticamente comprendeva nove serate dove si riunivano parenti ed amici, le donne più anziane per allietare il tempo si apprestavano a preparare diverse pietanze tra cui il dolce natalizio per antonomasia: il buccellato.

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Il "buccellato palermitano", simbolo culinario del Natale

Era usanza di utilizzare questo dolce come trionfale al centro della tavola imbandita a festa per il pranzo di Natale, a fine pasto poi veniva consumato.

Nel palermitano esso rappresenta una grossa ciambella o dei tozzetti di pasta frolla ricoperti di glassa bianca di zucchero o velato o lasciati al naturale (grezze) spalmati di miele, con confettini multicolori e da ciliegie e fichi sciroppati o con pistacchi di Bronte.

Ripieni di frutta secca (fichi, uva passa, pinoli, noci e mandorle) e frutta candita (cucuzzata e bucce d’arancia) con scaglie di cioccolata fondente, il tutto amalgamato in un miscuglio che solitamente gli habitué chiamano “ammara-panza”.

La pasta frolla esterna prima di essere infornata è pizzicata per evidenziare l’impasto interno, cosi facendo si ricava una “merlatura” tipica.

La forma tipica palermitana è quella comunemente rotonda che preparano i pasticcieri cittadini, questo “pane speciale” simbolicamente ha un potere magico e augurale, difatti la corona circolare rappresenta il simbolo maschile di completezza ed eternità, forma perfetta, amuleto di protezione.

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Nei paesi dove la preparazione è affidata alle donne la forma varia: a corona, a palma, a mezzaluna, a tozzi come se fosse un pezzo di pane.

L’etimo di questo “pane speciale”, cioè pane che esce dal quotidiano nella cultura contadina e diventa dolce, è fatto risalire alla forma antica del “panificatus” dei romani.

Il suo nome deriva dal latino “buccellatum” cioè pane da convertire in buccelli, ovvero in piccoli tozzi, bocconi, per avere una migliore morbidezza.

La “buccina” era la tromba ricurva utilizzata dai legionari romani, dalla forma rotonda si ricavò la “buccella” il pane a ciambella che gli imperatori distribuivano al popolo e chi era addetto alla distribuzione erano chiamati “buccellari” da qui qualcuno lo storpiò in buccellato.

La presenza di frutta secca nel ripieno e la modalità della sua preparazione fa pensare che questo dolce tradizionale possa essere pervenuto da una ricetta del periodo medievale, la presenza della nazione lucchese nella città di Palermo fa credere che questo dolce ci fu importato da loro e quindi si diffuse in tutta la Sicilia in special modo nella cultura contadina, poiché tuttora  è un antico dolce lucchese.

L'antica pasticceria Taddeucci di Lucca

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Cannella

qb

Cioccolato fondente a gocce

150gr

PreparazionePrepariamo le “scorcie” Impastare la farina con gli altri ingredienti, in modo da ottenere una pasta piuttosto dura. Formare una palla, avvolgerla nella pellicola e farla riposare per circa un’ora. Spianare la pasta in sfoglia sottile e ricavare dei dischi da 10 cm. di diametro, avvolgerli nelle canne unte d’olio e immergerle in abbondate olio bollente (due – tre per volta). Non appena la pasta sarà di un bel dorato scuro scolare e mettere a raffreddare su carta assorbente. Prepariamo la crema di ricotta Se la ricotta è molto umida, come dovrebbe essere, farla sgocciolare in modo da eliminare la maggior parte di siero. Amalgamare bene la ricotta con lo zucchero. Lasciare riposare per un’ora e quindi setacciarla. A questo punto unire la cannella e il cioccolato fondente. Confezioniamo i cannoli Riempire le scorze con la crema e spianare le parti estreme aiutandovi con un coltello, posare una ciliegia candita alle estremità, mettere in un vassoio e spolverare con zucchero a velo e infine adagiare sul dordo la scorzetta di arancia candita

L'antico cibo da stradaCome di consueto tutte le volte che arrivo a Palermo e durante l'anno ci vado almeno due volte la prima cosa che faccio e' andare a mangiare un panino ca' meusa.E' ormai una tradizione che la porto avanti da anni,di solito vado a mangiarlo dalle parti della stazione centrale in uno dei tanti banchini che si trovano per la citta' e che vendono cibo da strada.Ma nell'Agosto del 2008 sono stato per la prima volta nell'Antica Focacceria San Francesco di cui avevo sentito tanto parlare.Una volta in televisione avevo visto un programma che Sky mandava in onda dal titolo ''No Reservation'' con Anthony Bourdein,un cuoco che girava mezzo mondo ad assaggiare i piatti tipici del posto.In una puntata appunto era dedicata proprio a Palermo, visitanto anche il locale storico,avendo anche appuntamento con il Presidente della Regione

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Cuffaro,assiduo frequentatore del posto,degustando le meravigliose prelibatezze del locale.

Sicuramente il posto merita una visita,perche' si trova in una zona di Palermo molto interessante a livello culturale,un consigliio? Meglio lasciare l'auto dalle parti della zona portuale ed andare a piedi,perche' non e' facile raggiungerlo in auto per chi non e' pratico della citta'.Si attraversano vicoletti per poi arrivare in una piazzetta dove i proprietari hanno sistemato i tavoli per mangiare le loro specialita'.Il locale e' sempre stato un punto di ritrovo e di riferimento per i palermitani e non solo.Quando si mette piede all'antica focacceria bisogna adattarsi ai tempi del posto e prendersela comoda ,quindi sconsigliato per chi ha fretta.Si, mi e' stato detto che c'e' sempre la fila e a volte si puo' anche aspettare qualche minuto in piu' per avere un tavolo o essere serviti, si puo' anche mangiare qualcosa in piedi,ma sempre con tanta tanta pazienza.Noi siamo riusciti quel giorno ad avere un tavolo ed abbiamo ordinato dei piatti che comprendevano le diverse specialita' tutto in foma ridotta : le panelle,arancini,sfincioni ,caponata e la focaccia maritata che attendevo da tanto (il panino ca' meusa),la chiamano maritata perche' vuol dire completa,ci mettono il formaggio cacio cavallo tagliato a julienne,perche' senza sarebbe non maritata!!!Il mio giudizio complessivo? Non mi ha lasciato soddisfatto,forse perche' conosco bene la citta' ed avendo mangiato sia a Palermo che in diverse zone della Sicilia occidentale posso sicuramente dire che c'e' di meglio.Infatti il cibo preparato qui e' prettamente della Sicilia occidentale.Non vorrei esagerare ma....mi e' sembrato un teatrino, dove cucinando in maniera quasi industriale il cibo perda il suo sapore.Il mio adorato pane ca' meusa non e' lo stesso dei miei preferiti banchini in strada,gi arancini troppo molli e le panelle cotte troppo..... il gelato e i dolci erano ottimi,ma sfido chiunque a trovare un bar o pasticceria in Sicilia dove non sappiano fare i dolci o il gelato!!!Durante il pranzo ho fatto un giro dentro al locale ed ho potuto ammirare il fascino e la storia che lo contraddistingue,bellissimi gli arredi in stile liberty cosi' sono notevoli le presentazioni ai banchi dove si possono ammirare i loro prodotti e la lavorazione dei piatti essendo tutto a vista.Molto bella la struttura esterna tutta in legno con la loro insegna ottocentesca.Non ho capito cosa c'entri il locale Hanami che hanno aperto di fianco da qualche tempo con la focacceria,e' un locale dove preparano piatti

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internazionali,mi fa pensare che si sia sfruttato al meglio il nome qui....Purtroppo ritorno a dire che nonostante la presentazione e il fascino della storia che il locale si porta dietro a me e' bastata questa visita all'Antica Focacceria San Francesco e conoscendo l'ambiente non aspettatevi grandi sorrisi e cortesie da film sulla Sicilia,perche' la vera Palermo e' cosi'.Nonostante io la ami per quello che e'.Spero che i miei adorati banchi di panini continuino a venderli per strada per la delizia dei palati....nei miei viaggi e nelle incursioni palermitane.

Pensi che questa opinione sia davvero utile?

Diario di Sicilia/3 Street food a Palermo

DI Lorenzo Sandano - CANALE Ristoranti - venerdì, 27 agosto 2010 | ore 8:30

 

L’ultima tappa del tour gastronomico in terra di Sicilia è dedicata a Palermo, non molto vicina alla residenza di vacanza a Menfi. Ma non sarebbe possibile mancare all’appuntamento con il panorama “mangereccio” del capoluogo. Gli indirizzi da provare, raccolti nell’arco della settimana, sono molti; quanto basta per mettere a dura prova lo stomaco e la capacità di assaggio! L’obbiettivo primario è quello di immergersi nei sapori più sinceri e tradizionali

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della cucina siciliana, a partire dal caratteristico “cibo da strada”, l’inimitabile “street food” palermitano!

La prima puntata d’obbligo è una vera e propria istituzione cittadina. In una suggestiva cornice, il tour comincia con un vero “fast food” all’italiana all’Antica Focacceria S. Francesco, in via Alessandro Paternostro, 58. Il locale è sempre affollato e non ha ha bisogno di presentazioni. E’ un luogo veramente piacevole dove poter degustare preparazioni simbolo (e decisamente ben realizzate) della gastronomia di Palermo. La duplice offerta della focacceria consente inoltre sia di poter scegliere tra le proposte del ricco bancone (mettendosi in fila muniti di vassoio) sia di poter ordinare, comodamente seduti al piano superiore, primi e secondi piatti della tradizione dal menù del giorno. Il servizio è rapido e preparato, in grado di soddisfare tutta la clientela nonostante la calca.

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Nel nostro caso, guidati dalla cortese cassiera, abbiamo “costruito” un menù con le proposte del bancone, ripercorrendo tutte le specialità palermitane. Tra gli assaggi spiccano sicuramente gli involtini di melanzane ripieni di pangrattato, pomodoro e pinoli, gli involtini di pescespada, le sarde a beccafico, le arancine al ragù e al burro (prosciutto e formaggio),

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lo sfincione (focaccia locale) alto e soffice e le panelle (frittelle di ceci) dalla frittura corretta ed asciutta. Piuttosto anonimi a mio parere si sono rivelati invece il timballo di anelletti al ragù, le crocche di patate e la caponata di melanzane. Capitolo a parte merita il vero protagonista della mia gita a Palermo, l’audace pan ca’ meusa (panino con la milza). In città sono diversi i “paninari” che propongono questa antica specialità da strada, che consiste in un panino privato della parte superiore della mollica, farcito al momento con milza, trachea e polmone di vitello lessati e poi cotti nello strutto in capienti pentoloni di ferro. Esistono due versioni di pan ca meusa: schietta e maritata. La prima lo prevede semplice, con sale, pepe ed una spruzzata di limone a piacere, mentre la seconda versione contempla l’aggiunta di ricotta, caciocavallo grattugiato o entrambi. Qui alla focacceria San Francesco ho approfittato della simpatica offerta mini-panino, assaggiando così sia la versione schietta che quella con ricotta e formaggio (preferisco la maritata). Pur essendo la mia “prima volta” con questo tipo di “street food”, tra me e la milza si rivela amore al primo morso (abituato al quinto quarto romano).

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Rotto il ghiaccio, si passa immediatamente a provare un altro indirizzo molto noto in città:Franco u Vastiddaru, in corso Vittorio Emanuele, 102. In questo rustico chioschetto, affacciato sulla strada, si possono gustare, oltre al pan ca’ meusa, anche panini farciti al momento con verdure, affettati e salse esposte sul bancone. Panelle, crocché, melanzane fritte ed arancine completano l’offerta. Non essendoci la possibilità di realizzare la versione maritata con la ricotta, opto per quella schietta, questa volta servita in una tipologia di pane allungato, molto più rustico e fragrante (mafalda). All’assaggio la schietta di Franco si piazza al primo posto superando la focacceria! La milza del panino è ben calda, tenera al punto giusto, una vera goduria! Colpito da un attacco di golosità prendo anche un’arancina al ragù ed una mini arancina al burro a portar via, rimanendo pero molto deluso. In entrambi i casi infatti la farcia interna è completamente fredda; un vero peccato in quanto sia la panatura che l’amalgama del riso erano di buona fattura.

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Per stilare una classifica definitiva dei paninari cittadini mi dirigo in prossimità del porto intento a provare l’ultimo indirizzo: Pani ca’ Meusa a Porta Carbone, in via Cala, 62. Ad un primo impatto la location potrebbe intimorire il visitatore: un chiosco abbastanza spartano preso d’assalto dalle mosche con due tavolini traballanti posizionati all’esterno. Qui però posso affermare di aver gustato in assoluto il miglior pan ca meusa di tutta la giornata! Oltre alla possibilità di scegliere tra due diverse tipologie di pane (pagnotta o mafalda) è anche disponibile la mitica versione maritata (solamente con caciocavallo grattugiato), un matrimonio perfetto tra farcia e panino! Ogni morso è pura estasi: profumi e sapori unici che avvolgono il palato…indimenticabile!!! A Porta Carbone ho l’immensa fortuna di conoscere il signor Giuseppe, paninaro di altri tempi, che dopo un iniziale freddezza nei modi e nel servizio, si rivelerà il vero protagonista del mio tour del gusto palermitano. Da discreto conoscitore dello street food cittadino espongo a Giuseppe la mia curiosità di provare un’altra specialità del posto, la stigghiola: intestino di vitellino da latte, prima attorcigliato e poi cotto allo spiedo sulla brace dagli abili stigghiolari. Il riservato paninaro mi fa capire che questi caratteristici personaggi sono difficili da trovare nel centro città e mi consiglia solamente di avvicinarmi alla zona industriale. Rassegnato ad abbandonare la ricerca della stigghiola, ringrazio comunque Giuseppe complimentandomi con

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lui ed augurandogli buon lavoro. Sulla soglia della porta sento però urlare il mio nome.

Giuseppe ci ripensa e mi fornisce la dritta migliore della giornata: “Proseguendo la via del porto supera l’ospedale e gira subito sulla destra in direzione Brancaccio, nella zona industriale. Al primo

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semaforo gira a sinistra fino alle giostre e prima del cavalcavia svolta a sinistra. Lì trovi Giovanni lo stigghiolaro. Digli che ti manda Giuseppe di Porta Carbone.” A questa notizia gli occhi mi si illuminano, ringrazio Giuseppe e mi dirigo a razzo verso Brancaccio! Nonostante le precise indicazioni, incontriamo qualche difficoltà nel trovare l’anonimo chiosco ambulante, costituito da un tendone blu ai lati della strada. Giungiamo all’apertura. Il signor Giovanni deve ancora arrivare, ma l’arcigno assistente sta già scaldando la brace per gli spiedini. Ci viene detto di ripassare una mezz’ora dopo. Al nostro ritorno capisco perché Giuseppe mi aveva raccomandato di dire che era lui a mandarmi. Il chiosco è letteralmente preso d’assalto da intere famiglie locali e vi è una vera e propria gerarchia sulla consegna della tanto ambita stigghiola. Fortunatamente Giovanni è una persona davvero disponibile. Mi fa assistere alla preparazione dello spiedino ed avendo saputo che vengo da Roma ci tiene a farmi notare la “parentela” tra la nostra pajataromana e questa gustosa preparazione.

Dopo un’attenta rosolatura sulla brace, lo spiedino viene passato nelle mani robuste di Giovanni che con fare deciso lo poggia su un tagliere di legno per ridurlo in tanti bocconcini da condire a piacere con pepe, sale e limone. Il (cordiale) stigghiolaro specifica che questa specialità va mangiata con le mani, nonostante la presenza scenografica di piccole forchettine colorate “per i figli di papà” 

Durante l’attesa del mio turno ho la fortuna di familiarizzare con i clienti abituali del chiosco tra i quali raccolgo

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pareri sugli indirizzi più “quotati” per le golosità locali. Non volendo innesco un simpatico dibattito mirato a decretare la migliore arancina o il migliore sfincione di Palermo.

Su quest’ultimo punto è Giovanni a dire l’ultima, raccomandandomi il Panificio in viale Amedeo d’Aosta e concludendo anche lui con la fatidica formula: “Digli che ti manda Giovanni u Stigghiolaro!” Giusto il tempo di godere, assaltando la mia ricca porzione di stigghiola, che sono già pronto a ripartire per testare il miglior sfincione della città!

Il panificio è molto piccolo ed identificabile solamente grazie ad un’anonima insegna verde luminosa. All’interno, oltre alla cortese gestione familiare, una piccola gamma di specialità dolci e salate sono visibili dalle vetrine del bancone. Faccio la mia ordinazione e mi viene consegnato, al modico prezzo di 90 centesimi, un bel trancio di sfincione appena sfornato, con un bonus (rispetto all’Antica Focacceria S. Francesco) di acciughe sminuzzate all’ultimo momento sul caciocavallo ancora caldo. Incredibilmente soffice, saporito e ben lievitato… Giovanni non si sbagliava!

Fatto il carico di cibi saporiti, si comincia a sentire la necessità di “staccare”. Quale modo migliore per farlo se non tuffandosi nel vasto panorama delle dolcezze palermitane? 

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Anche qui gli indirizzi validi da provare sono molti (Cappello, Spinnato, Bar Costa, Bar Alba), ma decido di affidarmi al mio esperto “cicerone” del tour siciliano Alberto Rinaudo, fissando come meta il Bar Mazzara. Il posto è incantevole, incornciato in un’isola pedonale con tavolini anche all’aperto. L’ideale per una “tarda merenda” gourmet grazie alla grande varietà di proposte sia sul fronte dolce che su quello salato (rustici, pizzette, calzoni e arancine su ordinazione)! Optiamo per una bella degustazione dal banco della pasticceria: eccezionale il cannolo, in grado di battersi ad armi pari con la versione di Maria Grammatico. Intensa e goduriosa la Setteveli di Cioccolato insieme al perfetto Gelo di Mellone! Capitolo a parte la Brioche farcita con gelato al Pistacchio e Panna… davvero commovente! Rimane un po’ di delusione per la brioche con una granita al caffé (acquosa) e la cassata in versione mini decisamente “troppo” dolce… Avremo poi modo di rifarci! 

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L’ora è tarda e nonostante la frenetica “attività mandibolare” non posso andare via da Palermo senza aver fatto visita ad un piccolo ristorante che mi ha consigliato il mio amico Diego del Pizzarium di Roma (ma Siciliano e Goloso doc!). Il locale si chiama Capricci di Sicilia, si trova in piazza Sturzo ed è un piccolo gioiellino di cucina tradizionale gestito con cura dalla signora Enza. Non ho tempo di consumare una cena completa, ma la straordinaria accoglienza della proprietaria mi spinge inevitabilmente ad assaggiare “qualche” sua specialità. Se passate da Enza non lasciatevi scappare gli imbattibili spaghetti ai ricci di mare, le tradizionalissime Margherite ca’nciova (acciughe, pomodoro, pinoli e uvetta) o gli involtini di pesce spada: bei piatti dai sapori puliti, nitidi e rassicuranti. La serata però sembra proprio non voler mai finire. Infatti Enza, alla quale ho confidato la mia delusione per le arancine e per la granita, prima mi frigge al volo due mini-arancine al ragù davvero succulente e poi mi consiglia un ultimo indirizzo per assaporare una specialità unica di Palermo in grado di riscattare la granita mancata: Le Cremolose.

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Il chiosco del Signor Roberto è frequentato anche a tarda ora perché, oltre al gelato e alle buone granite tradizionali, alle Cremolose si può degustare la specialità che dà il nome al locale, una preparazione unica nel suo genere che nasce dall’idea di conferire maggiore consistenza alla classica granita siciliana. Guidati dagli esperti camerieri degustiamo al tavolo un tris di Cremolose in coppa (Arancia Rossa, Anguria e Pistacchio) e una Brioche farcita di Cremolose ai Gelsi e alle Mandorle. Il risultato è veramente notevole, fresco e ben mantecato, ma molto più leggero del gelato. Roberto non ci rivela gli ingredienti che, pur essendo tutti naturali, rimangono un segreto ben custodito. Noi siamo comunque completamente soddisfatti e ci rimettiamo in viaggio per le sperdute campagne di Menfi con il cuore (e la panza) segnati dalla bellissima città di Palermo. (3. fine)

Le precedenti puntate sono dedicate a Pino Cuttaia e a Maria Grammatico e all’Hostaria Al Vicolo.

Grazie a Teresa De Masi per le foto di piazza della Vergogna e dell’Antica Focacceria S.