Children Hospital projet
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Una fiaba su misura
Riflessioni e proposte per
l’ospedale pediatrico
Burlo Garofalo di Trieste
Le favole dove stanno?Ce n’è una in ogni cosa:nel legno del tavolino,nel bicchiere, nella rosa.La favola sta lì dentroda tanto tempo, e non parla:è una bella addormentatae bisogna svegliarla.Ma se un principe, o un poeta,a baciarla non verràun bimbo la sua favolainvano aspetterà.
Bruno Munari
Motivazione ................................1
Introduzione ...............................3Riassunto del lavoro ............................................3
Smarrimento e orientamento ...............................3
Il bambino e l’ospedale .......................................10
Conclusioni ........................................................11
Ricerca 13
L’immagine ambientale ............15
I percorsi ..................................17
Linguaggio dello spazio ............18
Il luogo è il messaggio ..............20Introduzione alla semiotica spaziale ..................20
La psicologia ambientale ed architettonica ............................23Nascita e sviluppo .............................................23
A misura d’utente .............................................23
L’ambito ospedaliero .................25Psicologia ambientale nelle strutttura sanitarie .25
La comunicazione ambientale nell’ospedale ........25
Interazione uomo-ambiente
nei servizi sociosanitari .....................................26
L’individuo ................................28Breve storia dell’ospedale ...................................28
L’individuo e la malattia ....................................28
L’individuo e l’ospedale ......................................29
Il bambino .................................30Il bambino e la malattia ....................................30
Il bambino e l’ospedale:
problemi psicologici e psicopatologici ..................31
L’ospedalizzazione nei primi 12/18 mesi di vita .32
L’ospedalizzazione nei bambini di 3/4 anni ........32
L’ospedalizzazione nei bambini di età
tra i 4 anni e l’adolescenza ................................33
L’ospedalizzazione dell’adolescente .....................33
Comportamenti e meccanismi di difesa
nel bambino malato cronico ...............................34
L’umanizzazione ospedaliera ...36L’importanza della narrazione ...........................36
Burlo Garofalo di Trieste ..........39Presentazione ....................................................39
Da “Ospedaletto” a Istituto di ricerca. ...............39
Bruno Pincherle ........................42
Fase progettuale 47
L’allestimento ............................58
Accessori ...................................68
La guida ....................................76
Bibliografia ................................83
Ringraziamenti .........................87
Sommario
1
Per comprendere meglio quali siano le motiva-
zioni che mi hanno portato a scegliere questo
argomento piuttosto che un altro, come sog-
getto della tesi, ci è parso necessario racconta-
re qualche riga della mia storia.
In generale sono sempre stata una persona
“sana” senza alcun grave problema di salute,
di conseguenza, gli incontri con l’ambiente
ospedaliero sono stati perlopiù sporadici.
La prima volta che mi ricoverarono fu nel 2000
per effettuare una semplice operazione di cor-
rezione ad uno strabismo congenito.
Nell’ultimo anno però per motivi riguardanti
la salute, ho trascorso molto tempo in ospe-
dale. Inizialmente erano visite ed esami vari
giornalieri, quindi si limitavano a brevi lassi
tempo. In un secondo momento, tuttavia, sono
stata ricoverata diverse volte per alcune set-
timane. Mentirei se dicessi che le giornate in
ospedale scorrono in fretta, e che sono diver-
tenti e piacevoli. Innanzitutto si è consape-
voli del fatto che, all’interno dell’edificio in
questione, vi ci si trova perlopiù a causa e per
svolgere un iter medico che prevede esami,
prelievi, interventi. È possibile tenere con sé
ben pochi oggetti personali e quindi, ad un
certo punto giunge la noia. In questi momenti,
passeggiavo su e giù lungo il corridoio del
reparto. Alle pareti vi erano appese riprodu-
zioni di opere d’arte e un unico “murales” nel
quale era dipinto un paesaggio. A quel punto
mi sono chiesta quale fosse il mio ricordo in-
fantile rivolto agli ospedali. Del luogo dove
ero stata operata da bimba non rammentavo
alcun spazio colorato, alcun disegno, niente.
L’edificio in questione è il Burlo Garofalo di
Trieste.
Successivamente ho avuto modo di vedere
altre strutture sanitarie tra le quali il Meyer
di Firenze, l’ospedale universitario Carreggi e
quello di Padova. A questo punto ho deciso di
richiedere una visita guidata al Burlo per valu-
tare se i miei ricordi fossero corretti.
Come verrà esplicato nelle seguenti righe, a
mio parere, la visita ha mostrato quelle che
potrebbero essere argomentazioni e sempli-
cemente delle migliorie. I quesiti che mi sono
posta sono molti. Cos’è che rende un luogo ac-
cogliente? L’ospedale può o potrebbe essere
tale? Oppure è più opportuno un ambiente
sterile e neutro?
Cercando delle risposte si è tentato di capire
se, e quale sia il legame che l’uomo potrebbe
instaurare con l’ambiente che lo circonda. Ma
le domande, a questo punto, più che diminu-
ire, aumentarono. Anche in uno spazio come
quello di cura è possibile un legame, ma so-
prattutto, vi deve essere o non vi deve essere?
Di che tipo?
Il mio interesse si è rivolto nello specifico,
all’utenza. Coloro a cui è rivolta l’attenzione
sono i bambini. Questo istituto è stato creato,
innanzitutto, per i più piccoli e poi è stato am-
pliato. Ma prima della struttura chi si occupa-
va delle esigenze sanitarie dei più piccoli? Così
ho scoperto il professor Bruno Pincherle. Un
medico impegnato nella propria professione
non solo in ambito sanitario ma anche sociale
e politico per la stessa Trieste nel periodo pre e
post bellico. Proprio da questa figura ho voluto
Motivazione
2
ispirarmi per iniziare il mio progetto. Egli, per
divertimento e per intrattenere i suoi pazienti
narrava storie e faceva dei disegni che poi re-
galava agli stessi.
Uno degli aspetti di cui si è parlato durante la
visita al Burlo Garofalo è la presenza della ma-
scotte: un bambino di nome Max. Questi è pre-
sente anche nell’infografica della struttura,
ma non risulta adattabile a tutti gli ambiti di
applicazione che richiederebbe.
Mi pare corretto che la mascotte sia un
bambino e per rinnovare l’immagine di
questo mi è parso ancora più giusto utilizza-
re i disegni del famoso pediatra per realizzar-
ne uno nuovo. In tal modo, il proseguimento
dello studio di tale ambito si è concentrato su
una serie di problematiche molto concrete e ad
una serie di possibili soluzioni. Ovviamente la
validità di quest’ultime, sarebbe confermata o
smentita solo attraverso l’utilizzo delle stesse.
Le proposte, tuttavia tengono presente della
grafica preesistente considerandone le proble-
matiche. A causa di questioni riguardanti l’ap-
palto della grafica, sono presenti innumerevoli
tipologie di infografica. Per ovviare tale proble-
ma si propone di fornire ali utenti una mappa
dell’edificio. Ma le argomentazioni sono
ancora molte. Partiamo dall’esigenza di una
guida multi lingue, ad un diario nel quale i
bambini possono scrivere ciò che vogliono, da
un allestimento vero e proprio ad una shopper.
Le piccole cose che si possono fare per mi-
gliorare la comunicazione di un luogo sono
molte. Le scelte progettuali mirano a creare
comunicazione. Come potrete notare nel pro-
seguimento della lettura è che il bambino, in
particolare, non necessiti di infografica quanto
di una guida che lo accompagni in luoghi che
sanno comunicare e farlo sentire a suo agio
anche in un ambiente ospedaliero.
3
Riassunto del lavoro
La ricerca e questa tesi, sono il frutto di una
riflessione successiva alla visita presso l’ospe-
dale pediatrico “Burlo Garofalo” di Trieste. Il
plesso viene inaugurato nel 18 novembre 1856,
in occasione della visita a Trieste dell’im-
peratrice d’Austria, con lo scopo di “assi-
curare gratuitamente ai fanciulli di poveri
genitori adeguato asilo”. Negli anni succes-
sivi cambia nome più volte e ubicazione. In
seguito si amplia e da pediatrico, muta ad in-
fantile, rivolto sia ai bambini che alle mamme.
Negli anni ottanta l’ospedale diventa Istituto
Scientifico (in altre parole anche di ricerca) e
promuove nuovi modi di cura come la deospe-
dalizzazione, questo significa che il ricovero in
ospedale avviene solo se è indispensabile.
Introdussero, così, il day-hospital in cui il
bambino sarebbe restato in ospedale per un
solo giorno.
La visita a tale struttura ha portato, ad un
primo impatto, alcune problematiche. Le se-
guenti righe non vogliono avere la presunzione
di porre un giudizio, ma propongono innanzi-
tutto, alcune argomentazioni in merito ai temi
che in un momento successivo potrebbero ri-
velarsi utili per il rinnovamento e magari, il
miglioramento, soprattutto sul piano infogra-
fico, di tale struttura.
L’accoglienza nell’ospedale ossia l’entrata
all’interno della struttura, riguarda anche la
comunicazione iniziale a partire dalla segna-
letica è fondamentale per non creare una spia-
cevole situazione di smarrimento. L’infografica
presente si percepisce solo al momento dell’ac-
cesso dell’edificio mediante due grandi iscri-
zioni informative sulla pavimentazione delle
quali una indica il pronto soccorso infantile e
l’altra la direzione per le urgenze ostetriche
ginecologiche. Nonostante la loro evidenza,
data dalle dimensioni, e dal colore, non sono,
purtroppo, visibili dall’esterno. Il resto della
segnaletica potrebbe non essere immedia-
tamente percepibile, poiché collocata in un
angolo a destra, “ammucchiata” senza distin-
zioni di colori, o piani, e affiancata ad immagi-
ni della mascotte, forse piccole e poco leggibili.
In alto, non visibile a causa della troppa vi-
cinanza vi è un altro cartello segnaletico del
pronto soccorso. Normalmente questo tipo di
wayfinding funziona, ma in questo caso, po-
trebbe non essere molto efficace in quanto gli
utenti vi ci passano sotto, senza notarlo o farci
caso.
Smarrimento e orientamento
Visitando l’ospedale ho potuto notare come
più persone si siano dovute affidare al consi-
glio degli infermieri per chiedere informazio-
ni riguardo alla direzione da intraprendere per
arrivare in taluni luoghi.
Lo smarrimento, per questo motivo partendo
altresì dall’entrata, è la prima caratteristica
che si vuole tenere in considerazione. A causa
di problemi riguardanti l’appalto dei progetti
grafici, sono innumerevoli e diverse tipologie
d’infografica. Queste sono poste apparente-
Introduzione
4
Sopra: le molteplici tipolog ia di infografica presenti al Burlo
A fianco: infografica del pronto soccorso dello stesso, anche in questo caso domina la confusione
5
mente prive d’ordine nella struttura, spiazzan-
do talvolta il paziente. Un ambiente del genere
dovrebbe apparire leggibile e visibile, ben con-
formato e distinto, attrarre l’occhio ad una
maggiore attenzione e partecipazione soprat-
tutto del bambino.
La stimolazione dei sensi in un simile ambien-
te dovrebbe essere semplificata, estesa e ap-
profondita. L’immagine ambientale dovrebbe
creare un “legame” tra l’osservatore ed il suo
ambiente. Partendo proprio dal ruolo che i per-
corsi e la segnaletica assumono in una strut-
tura così complessa, come sostiene anche la
branchia della psicologia che si occupa di ciò,
che inizia l’analisi e le proposte. Una buon’im-
magine ambientale darebbe a chi la percepisce
un senso di sicurezza e placherebbe il senso di
disorientamento.
6Le immagini rappresentano le varie tipolog ie di allestimento presenti all’interni dei reparti
7
È risaputo, infatti, che il caos dovuto all’as-
senza di tracce di connessione, con punti di
riferimento produca un sentimento spiacevo-
le. “Comunemente, infatti, noi siamo sostenuti nella
ricerca della nostra destinazione sia dalla presenza
d’altri esseri umani sia da speciali artifici: piante,
toponomastica, cartine stradali, segnali, targhe” (La-
Clecla).
Se, tuttavia capitasse la disavventura di
perdere l’orientamento, saremmo subito
pervasi da un senso d’ansietà. Ciò sottolinea
quanto esso sia legato al nostro senso d’equi-
librio e di benessere. La stessa parola “smar-
rito” porta con sé sfumature di vera tragedia.
Si valuti, inoltre, che la persona in gestione si
trova, talvolta in una situazione d’emergen-
za, o deve arrivare puntuale ad una presta-
zione medica, e magari in uno stato emotivo
instabile. Il tutto parte considerando il fattore
movimento.
“Il movimento è il tramite tra l’uomo e l’ambien-
te e ci consente di osservare ciò che esiste quando
esso è legato alle modalità con cui avvengono gli
spostamenti. Un aspetto importante da considera-
re è quindi la percezione dinamica dello spazio. Essa
diviene passiva se siamo trasportati, attiva se cam-
miniamo.
Riflettendo su come si modifica la percezione di un
luogo in base alle nostre possibilità di movimento,
va detto che la velocità dello spostamento condiziona
sensibilmente la qualità dell’osservazione e quindi
della percezione dello spazio. Il semplice fatto che
quando ci muoviamo le cose a noi più vicine scorrono
via più velocemente di quelle lontane, c’induce a pre-
scindere dai dettagli in primo piano e a focalizzare la
nostra attenzione sulle cose più lontane che diven-
gono riferimenti all’interno del nostro campo visivo.
Il mezzo adoperato per spostarsi, quindi, non è neu-
trale e sarebbe un errore considerarlo solo un attrez-
zo funzionale allo spostamento. (…)(Paolo Francesco
Licari).
Se il movimento è una parte fondamentale
del conoscere, allora il mezzo che consente lo
stesso movimento (nel nostro caso l’infografi-
ca) non è solo un veicolo ma anche un osser-
vatorio particolare della nostra esperienza.
La segnaletica o com’è definito “il Wayfinding”
può giocare un ruolo importante.
8
In un ospedale, devono soddisfare le esigenze
fondamentali degli utenti che sono soprattut-
to quelle di rispondere alle loro attese e offrire
dei messaggi chiari e facilmente leggibili.
Inizialmente, bisognerà studiare la planime-
tria, analizzando gli accessi, e pensare dove
collocare targhe e cartelli in modo che gli
utenti li intercettino prima che questi arrivino
a destinazione.
Sarà quindi fondamentale capire quali sono
le esigenze dell’utente, verificare come esso
si sposta all’interno degli spazi, prevedendo-
ne semmai i movimenti, individuare i punti di
maggiore traffico e con il maggior numero di
confluenze, dove dovranno essere date mag-
giori indicazioni, e i punti di stasi o attesa.
Pare quasi approssimativo realizzare un way-
finding per un ospedale “x” dato che ogni
luogo possiede una sua specificata identi-
tà e in quanto tale ha determinate esigenze,
bisogni e servizi da soddisfare secondo il tipo
d’organizzazione dell’edificio degli utenti, dei
servizi che offre al suo interno e la loro stessa
posizione all’interno dello stesso.
Si propone inoltre, di fornire all’utente un diagram-
ma simbolico di come l’ambiente è coerentemente
conformato: una mappa o delle istruzioni (korz-
binskhi, 1993).
Fino a quando egli sarà in grado di far corri-
spondere la realtà circostante al diagramma,
egli avrà la capacità di mettere in relazione le
cose e quindi di orientarsi. Tale progetto è at-
tuabile in una struttura soprattutto se com-
plessa come quella considerata.
L’orientamento è il motivo originario dell’immagine
che si ha di un ambiente e la base su cui si possono
costruire associazioni emotive. L’immagine vale non
solo nel senso immediato, perciò agisce da mappa
per i movimenti nello spazio(...), serve da struttu-
ra di riferimento all’interno della quale un individuo
può agire e cui si può appigliare la sua conoscenza.
In questo senso l’immagine ambientale diviene un
tessuto organizzativo di spazi e possibilità (k.Linch,
1960).
In un ospedale come il Burlo, interviene in tale
ambito un altro importante fattore quale, la
multiculturalità.
A causa anche della sua ubicazione geografica
“a confine” tra l’Italia, la Slovenia, l’Austria, la
Croazia, e in un certo senso la Germania, vede
un afflusso non esiguo di molte culture e di
conseguenza di molteplici lingue.
Partendo dalle esigenze degli individui in una
struttura sanitaria e non solo, si può affer-
mare che il Burlo richiederebbe una maggiore
organizzazione dell’infografica. La coordina-
zione di questa all’interno di una struttura
è uno dei fattori basilari per creare un’im-
magine complessiva di un ambiente e attri-
buire un’identità che lo renda accogliente e
confortevole.
Lo sviluppo dell’immagine di un luogo è un
processo reciproco, come afferma ancora
Licari, tra osservatore e cosa osservata ed è
possibile rafforzare tale immagine attraverso
l’utilizzo d’elementi simbolici, come segnali,
oppure tramite l’educazione di chi percepisce
l’ambiente.
Elevare la figurabilità di un ambiente significa
anche facilitare la sua identificazione visiva e
la sua strutturazione.
Come suggerisce Lynch (2004) “Noi siamo conti-
nuamente impegnati nel tentativo di organizzare ciò
che ci circonda, di e di identificarlo. Ambienti diversi
sono più o meno suscettibili di tale trattamento”. [...]
Abbiamo la possibilità di conformare il nostro nuovo
mondo urbano in un paesaggio figurabile: visibile,
coerente e chiaro. Ciò richiederà un atteggiamento
A fianco: Confronto tra una sala d’attesa comune e quella gestita dai volontari
9
10
nuovo da parte del cittadino ed una configurazio-
ne del suo ambiente in forme che attraggono lo
sguardo, che si organizzano da livello a livello nel
tempo e nello spazio, che si costituiscono come
simboli per la vita umana”.
Fiorani (2006) dal canto suo afferma che
“L’uomo ha la necessità di stabilire e cogliere re-
lazioni vitali nell’ambiente in cui è inserito, di
conferire significato e ordine alle cose e agli avve-
nimenti e alle azioni. Il processo d’apprendimento
dello spazio è un processo complesso di costru-
zione di schemi mentali, determinati cultural-
mente, che poggiano su schemi operativi.
Lo spazio non è una categoria dell’orientamento,
ma fa parte d’ogni orientamento.
L’uomo si orienta spazialmente sulla base della
determinazione di un centro, stabilendo il proprio
luogo” (Licari). L’ultimo punto da conside-
rare è l’allestimento vero e proprio d’ogni
reparto che malgrado tutto potrebbe acqui-
sire maggiore forza. Quello che si è cercato
di esplicare, altresì mediante ciò che
questi autori, è che in tale luogo, scarseg-
gia d’identità, che anche un modo per fare
proprio lo spazio, per stabilire il proprio
luogo.
Il bambino e l’ospedale
L’accoglienza in ospedale, come afferma
Giuliana Filippazzi, non si limita all’ingres-
so dell’ospedale ma si estende a tutta la
permanenza del piccolo utente all’interno
dell’edificio.
Al Burlo, ogni corridoio o quasi è ornato
con dei quadri o immagini illustrate ma
il tutto potrebbe risultare sparso, poiché,
malgrado ogni reparto ciascun medico
appone delle opere e cerca a suo modo di
creare un certo ambiente accogliente, il
tutto non pare soddisfacente a completare
e uniformare l’immagine complessiva del
luogo.
Le sale d’attesa presentano i disegni dei
bambini e di qualche gioco, e quella gestita
dai volontari, carina e colorata, paiono
come “piccole isole tranquille”, ma carenti
di livelli di gioco e visualizzazione.
Nel caso dei genitori o in ogni modo delle
persone adulte, a mio parere, tale aspetto
si può riscontrare in una buon’informa-
zione riguardo alla percezione della co-
municazione e il rapporto che si dovrebbe
instaurare con la struttura sanitaria (lo
spazio) e il personale.
Il confronto con la malattia potrebbe essere
difficile per tutti, in quanto potrebbe com-
promettere e minaccia la vita. Come per un
adulto, quando un bambino è in ospedale il
suo rapporto, con il tempo cambia. Le gior-
nate si svuotano. In questo tempo sospeso,
in uno spazio limitato e poco familiare su-
bentrano la noia e talvolta anche l’ansia.
Questo “tempo” potrebbe trasformarsi e fa-
vorire la fantasia, il disegno e la lettura. Il
bambino vede la malattia come una sorta
di punizione e l’ospedale stesso come una
sorta di luogo di detenzione o espiazione
della colpa. La domanda più frequente (che
anche un qualsiasi adulto malato si pone) è
”Perché proprio a me?”.
I bambini tra i tre e i sette anni che ap-
partengono, secondo Piaget, allo stadio
preoperazionale dello sviluppo cognitivo
attribuiscono la causa della loro malattia
ad un fenomeno di tipo magico o natura-
le. Verso i sette- otto anni, il bambino in-
11
comincia a distinguere ciò che è interno
e ciò che è esterno alla propria persona.
Ha quindi la consapevolezza che la malat-
tia è localizzata all’interno del suo corpo
mentre la causa può essere esterna. Il
bambino crede di guarire perché collabo-
ra e consente ai dottori di intervenire sulla
malattia. Verso gli undici anni i bambini
acquisiscono sempre maggiori conoscenze
delle strutture e delle funzioni degli organi
interni e intuisce il complesso legame tra
corpo e mente. Il bambino identifica l’or-
gano malato, anche se si comprende che la
causa può essere esterna, come ad esempio
un virus o un’infezione.
Porli in ospedale, in ogni caso, ad ogni età,
significa estrapolarli dai luoghi che sentono
proprio a spazi che sono comunemente il
sinonimo d’asettico e neutrale, innanzi-
tutto, per non parlare delle paure riguar-
do medici, medicine, punture ecc... L’uomo
sente la necessità di “addomesticare” un
luogo attribuendogli una sorta d’identi-
tà. Si può stare male in un luogo che non
si riesce a sentire o a fare nostro un luogo
perché il nostro corpo si aspetta un’affinità
con le presenze fisiche circostanti. Nel caso
in cui questa è negata, il mondo che ci circonda
diventa ambiguo e insopportabile, pericoloso e
insignificante (Franco LaClecla).
Questa è la necessità che il giovane sente
nei confronti della stanza, del corridoio,
della sala d’attesa dell’ospedale.
È ovvio che in ospedale tale obiettivo è
piuttosto laborioso da perseguire ma av-
vicinabile. “Il fatto è che ci sono tanti “qui”
quanti i soggetti o i luoghi che fanno espe-
rienza dello spazio circostante”.
Questo quanto Piaget e Inhelder hanno sco-
perto nelle loro ricerche sulla sensibilità ed
esperienza spaziale del bambino.
È sempre a partire dal suo ”qui” che il
bambino coglie il suo corpo, gli oggetti che
lo circondano in giri sempre più vasti in cui
le relazioni tra qui e gli oggetti vanno ri-
empiendolo spazio intorno si tratta di uno
spazio la cui densità e distanza sono in re-
lazione all’esperienza.
Conclusioni
Si può affermare, osservando le righe pre-
cedenti, che il bambino non necessiti di
un infografica vera a propria. Il bambino è
sempre (o quasi) accompagnato dai genitori
(anche per un fatto di trauma).
Non ha bisogno di “informazione” ma di
“comunicazione” di addomesticare il luogo,
di “mammizzarlo” (come afferma Giuliana
Filippazzi). Ha bisogno di una guida che lo
faccia sentire un po’ più a casa, che renda
lo spazio che lo circondi quanto meno, più
familiare. Un’ area che comunica o anche
solo che svolga il ruolo di distrazione per
alleviare almeno un po’ l’impatto e la con-
vivenza in tali luoghi utili e necessari ma
così disagevoli e tediosi.
Ricerca
15
Come già introdotto, la progettazione dei per-
corsi interni ed esterni è stata così influenzata
secondo la tipologia edilizia che sarà presa in
considerazione.
Mentre la ricerca architettonica favorisce i
luoghi della cura e della ricerca (ambulato-
ri, sale chirurgiche, laboratori e camere di
degenza), non dovrebbe essere trascurato
l’apparato connettivo (corridoi e percorsi di
diversa natura e dimensione).
Un ambiente del genere dovrebbe essere pia-
cevole e distinguibile e si dovrebbe presentare
chiaro.
La stimolazione dei sensi in un simile am-
biente dovrebbe essere semplice ma anche svi-
luppata e indagata.
L’immagine ambientale che si verrebbe quindi,
a creare è il risultato di un processo reciproco
tra l’osservatore ed il suo ambiente. Ogni edifi-
cio è un caso a se stante, con particolari e spe-
cifiche esigenze in tale ambito.
Una buon’immagine ambientale dà a chi la
percepisce un importante senso di sicurez-
za e gli consente di stabilire tra sé e il mondo
circostante, una relazione armoniosa e un
sentimento opposto allo smarrimento. Il caos
dovuto all’assenza di tracce d’orientamento e
di connessione con punti di riferimento può
produrre un impressione sgradevole.
Comunemente noi siamo sostenuti nella ricerca della
nostra destinazione sia dalla presenza d’altri esseri
umani sia da speciali artifici: piante, toponomastica,
cartine stradali, segnali, targhe.
Se tuttavia, ci capitasse la disavventura di perdere
l’orientamento, saremmo subito pervasi da un senso
d’ansietà e di paura, e tutto ciò ci rivela quanto esso
sia legato al nostro senso di equilibrio e di benessere.
La stessa parola “smarrito” significa molto di più che
una semplice incertezza geografica: essa porta con
se sfumature di vera tragedia (La Cela, 2005).
Lo sviluppo dell’immagine ambientale è
dunque un processo reciproco tra osservato-
re e cosa osservata ed è possibile rafforzare
tale immagine attraverso l’utilizzo di elementi
simbolici, come segnali, o attraverso l’educa-
zione di colui che percepisce l’ambiente, anche
e soprattutto visuale.
Si potrebbe fornire all’utente una mappa o
delle istruzioni. Fino a quando egli sarà in
grado di far corrispondere la realtà circostante
alla mappa, egli avrà la capacità di mettere in
relazione le cose e quindi di orientarsi.
Come suggerisce Lynch “Noi siamo continuamen-
te impegnati nel tentativo di organizzare ciò che ci
circonda, di strutturarlo e di identificarlo.
Ambienti diversi sono più o meno suscettibili di tale
trattamento” [...] abbiamo la possibilità di conforma-
re il nostro nuovo mondo urbano in un paesaggio fi-
gurabile: visibile, coerente e chiaro.
Ciò richiederà un atteggiamento nuovo da parte del
cittadino ed una configurazione del suo ambiente in
forme che attraggono lo sguardo, che si organizzano
da livello a livello nel tempo e nello spazio, che si co-
stituiscono come simboli per la vita umana”.
Fiorani dal canto suo afferma che “L’uomo non
solo percepisce lo spazio e agisce nello spazio, ma
anche lo costruisce per esprimere la struttura del
suo mondo.
L’uomo, possiede, infatti la necessità di stabilire e co-
gliere relazioni vitali nell’ambiente in cui è inserito,
L’immagine ambientale
16
di conferire significato e ordine alle cose e agli avve-
nimenti e alle azioni.
Il processo di apprendimento dello spazio è un pro-
cesso complesso di costruzione di schemi mentali,
determinati culturalmente, che poggiano su schemi
operativi.
Lo spazio non è una categoria dell’orientamento,
ma fa parte di ogni orientamento. L’uomo si orienta
spazialmente sulla base della determinazione di un
centro, stabilendo il proprio luogo. Ogni comunità
semiotizza il proprio spazio e istituisce il territorio
come testo semiotico in cui si iscrivono e prendo-
no forma in strutture territoriali le relazioni sociali.
Nel territorio è dunque scritta l’identità e la storia di
una comunità”.
17
Una città o un organismo edilizio sono, infatti,
strutturati secondo un organizzato sistema di
percorsi che contribuiscono a crearne l‘iden-
tità. Di conseguenza le vie, la trama di linee
di movimento abituale o potenziale attraver-
so un organismo architettonico o urbano, sono
uno strumento per ordinare l’insieme. Come
afferma Licari, i percorsi si presentano con
una serie di emergenze tipiche degli oggetti
in cui la funzione segnaletica è importante,
a cui vanno aggiunte quelle emergenze che
risultano da casuali figure non intenziona-
te. Le prime saranno gli edifici, i loro accessi,
le insegne e le illuminazioni. Le seconde
saranno il colore di un edificio, la presenza di
un portico o di elementi non allineati, un’area
verde o una qualsiasi altra interruzione di
ritmi e delle omogeneità dominanti.
Alcune di queste emergenze si rendono se-
gnaletiche attraverso un richiamo a funzioni
estetiche, in altre parole, innescando catene
paradigmatiche che classificano certe forme
piuttosto che altre. Gli itinerari principa-
li, allora, dovrebbero possedere gli elementi
particolari, che ne permettono l’individuazio-
ne rispetto ai canali circostanti: una qualità
spaziale caratteristica, una particolare grana
della pavimentazione, uno specifico schema di
illuminazione, un dettaglio tipico, un colore.
Questi elementi dovrebbero essere impiega-
ti in modo da dare continuità al percorso, e se
uno o più di essi è coerentemente adoperato,
allora il percorso può essere identificato come
continuo e unificato. Tutto questo conduce a
quello che noi potremmo chiamare come una
gerarchia visiva degli ambienti, analoga alla
gerarchia funzionale: l’individuazione sen-
sibile dei canali chiave e la loro unificazione
come elementi percettivi continui. Tutto ciò
rappresenta il telaio per l’immagine del luogo.
In questo sistema il punto strategico è l’incro-
cio, un luogo di connessione e di decisione per
chi è in movimento. Se l’incrocio cioè, produce
un’immagine chiara, l’osservatore può costru-
ire una struttura soddisfacente.
Mentre i riferimenti che sono indicazioni pun-
tuali considerati esterni all’osservatore, sono
elementi fondamentali per una distanza; sono
elementi fisici che possono variare di scala.
Poiché l’utilizzo dei riferimenti comporta l’iso-
lamento di un elemento da un coacervo di
possibilità, la caratteristica chiave per questa
categoria diviene la loro singolarità.
I riferimenti diventano identificabili, prescel-
ti come significativi, se contrastano con lo
sfondo del contesto nel quale sono inseriti, se
posseggono una forma chiara e leggibile, e se
hanno preminenza nella ubicazione spaziale.
Il contrasto figura-sfondo sembra essere
il fattore principale. La figura è una cosa,
mentre lo sfondo è vissuto come spazio vuoto.
Un contributo allo studio delle condizioni di
stimolazione del costituirsi delle unità percet-
tive è stato portato da Max Wertheimer: ha in-
dividuato un numero di fattori che favoriscono
il raggruppamento degli elementi. I principali
fattori di unificazione in unità di campo per-
cettivo sono: la vicinanza, la somiglianza, la
continuità di direzione, la chiusura, la pre-
gnanza, l’esperienza passata.
I percorsi
18
L’uomo sente la necessità di “addomesticare” un
luogo attribuendogli una sorta d’identità (Franco
LaClecla) “sente la necessità di stabilire e cogliere re-
lazioni vitali nell’ambiente in cui è inserito, di confe-
rire significato e ordine alle cose e agli avvenimenti e
alle azioni. Il processo d’apprendimento dello spazio
è un processo complesso di costruzione di schemi
mentali, determinati culturalmente, che poggiano su
degli schemi operativi”. (Francesco Paolo Licari)
Come affermano molte delle tesi esposte
nell’esami di sintesi finale (A.a.2009/10) e
le stesse affermazioni appena esposte, la
nostra esistenza è completamente immersa
nello spazio. Lo spazio può essere considera-
to un’insieme di entità complesse e struttura-
te che parlano in relazione a se e a ciò che ne
è al di fuori. È un dialogo che prevede un’in-
terazione tra lo spazio e il suo osservatore: il
primo organizza, seleziona, ordina, prescrive o
propone, confonde, definisce, è un linguaggio
complesso; il secondo attribuisce significati.
“[...]Il nostro corpo possiede una sua spazialità
specifica, ha delle dimensioni precise, occupa una
certa estensione di spazio: sono i così detti “sei lati
del mondo” l’alto e il basso, il davanti e il dietro,
la destra e la sinistra , ossia le categorie semanti-
che che ricaviamo dall’esistenza spaziale del nostro
corpo. Dalla sua postura eretta, e che proiettiamo
sul mondo come una specie di griglia antropomor-
fa che trasforma l’estensione in spazio, il continuo
in discreto, l’amorfo in strutturato” (Gianfranco
Marrone, corpi sociali: processi comunicativi e semi-
otica del testo, 2001).
Spesso capita di entrare in un luogo scono-
sciuto, ci si guarda intorno cercando nell’am-
biente i ‘segni’ necessari a comprendere quale
sia l’identità di quel luogo, e quale percorso si
voglia intraprendere. Questi segni potrebbero
essere espliciti un’insegna, una luce, la dispo-
sizione degli arredi, o impliciti. Alcuni si mo-
strano in forma di istruzione, altri in forma di
invito all’interpretazione. I primi sono comu-
nicazione esplicita e spesso univoca; i secondi
comunicano il senso stimolano la voglia o
la necessità di scegliere fra questa o quella
ipotesi.
Gli spazi della nostra vita sociale, ambienti ar-
chitettonici o urbanistici, si presentano nella
forma di un campo semiotico che richiede una
nostra scelta di azione. Questo campo è com-
posto di luoghi e di percorsi, di mete e dire-
zioni, spazi di attesa. Una dimensione spesso
celata è stata chiamata da Kevin Lynch “way-
finding“. Il termine è stato riproposto ed esteso
otre alla disposizione di segnali indicatori,
come nomi di strade, insegne e numeri civici.
In italiano, wayfinding potrebbe essere reso
con orientamento spaziale, e meglio ancora
con cognizione spaziale. Questo ha il compito
di far sì che un ambiente sia in grado di far
comprendere dove ci si trova (favorendo la co-
struzione di una mappa mentale del luogo) sia
quale percorso intraprendere per arrivare ad
una determinata destinazione. Ciò includereb-
be la progettazione di tutti quegli elementi che
rendono un ambiente un organismo in grado
di comunicare. I sistemi di segnaletica, il
modo di ripensare le stesse strutture architet-
toniche e urbanistiche, oltre la nota dialettica
forma-funzione, avrebbero come scopo l’espli-
Linguaggio dello spazio
19
cita capacità di invitare all’interpretazione, di
indirizzare le scelte, di guidare verso l’auspica-
ta soluzione.
E’ l’ambiente che deve presentarsi già segnato,
come sistema che guida le nostre azioni (se ciò
è possibile), o siamo noi, con la nostra attività
interpretativa, che di fatto segniamo la strada,
che facciamo un nostro un luogo? Se infatti
l’attenzione al wayfinding dovesse limitarsi
solo all’elaborazione di sistemi visuali di se-
gnaletica, intesi come ausili all’orientamento,
ci troveremmo nella situazione paradossale di
progettare oggetti per risolvere problemi posti
da altri oggetti. La presenza di un sistema di
segnaletica seppur utile, è di fatto, un passo
verso l’accumulo e il rumore informativo.
Ma allora che cos’è che attribuisce identità ad
un luogo?
È vero che la attribuiamo noi o l’immagine
ambientale che gliela fornisce?
Il wayfinding è parte integrante dell’identità
del luogo, o potrebbe essere una cosa e stante
o no?
Non è necessario rispondere nell’immedia-
to a tali quesiti poiché le variabili che entrano
in gioco sono molte: innanzitutto verranno
approfonditi argomenti che riferiscono l’in-
terazione tra la comunicazione, il luogo, il
soggetto.
20
Come già introdotto, il nostro contatto iniziale
con un ambiente, il primo atto interpretativo è
lo sguardo panoramico e indagatore: cerchia-
mo di comprendere in quale campo stiamo,
quale gioco ci è proposto. È la nostra prima
mossa o domanda, dove lo spazio-ambien-
te in cui ci si trova è il nostro interlocutore.
Questo campo e questo gioco possono essere
rappresentati dal modello della comunicazio-
ne di Roman Jakobson, nel quale sono mostra-
ti i sei fattori e le sei corrispondenti funzioni
del linguaggio, modello che viene qui ripropo-
sto. In un’azione comunicativa tra il mittente
e un destinatario vi sono: le regole, la situazio-
ne e il luogo. Mittente e destinatario sono così
messi in relazione da una linea dominante,
all’interno della quale si trovano il messaggio
e il canale. Esterni a questa linea rimangono il
riferimento (contesto) e i diversi tipi di regole
(codici). Il riferimento è tutto ciò che riguar-
da il contenuto informativo del wayfinding
(entrare/uscire, muoversi/ fermarsi ecc.).
Le regole sono invece le modalità di compren-
sione dei messaggi:esse sono scelte dal mitten-
te e rese nel messaggio.
Nel wayfinding però, mittente, messaggio e
canale di fatto coincidono con il luogo stesso
in quanto fonte, forma e trasmissione dei con-
tenuti orientativi. Il luogo, che agisce sul de-
stinatario, si rivolge alla sua attenzione: il
luogo-mittente attraverso la funzione espres-
siva, manifesta ed evidenzia le informazio-
ni necessarie. Il luogo-messaggio attraverso
la funzione estetica o poetica, vale a dire con
un’adeguata progettazione delle forme, dei
colori dei materiali, del lettering, ecc... Il luo-
go-canale attraverso la funzione fatica o di
contatto, la quale concerne tutti gli elemen-
ti prossemici quali la posizione, la direzione
e la dimensione degli artefatti ambientali e
comunicativi.
La funzione referenziale, invece attiva nella
mente dell’utente le ‘immagini’ o le ‘associa-
zioni di senso necessarie alla comprensione
delle informazioni; così come alla memoriz-
zazione e al riconoscimento dei luoghi. Infine,
la funzione metasemiotica (o metalingui-
stica) è quella dove si concentrano le attivi-
tà più impegnative in senso cognitivo: l’avvio
dell’attività inferenziale, l’interpretazione e
la decodificazione; ma anche (se il caso) la ri-
flessione e l’analisi sul sistema di orientamen-
to, il giudizio in termini di soddisfazione o di
critica.
La cognizione dello spazio e dell’ambiente
richiede un buon contatto, il quale interes-
sa anche gli aspetti di coinvolgimento empa-
tico: far sentire l’utente di un luogo “a casa
propria”, rendere gli ambienti pubblici familia-
ri e diminuire ogni effetto di estraneità!
Introduzione alla semiotica spaziale
Ogni comunità semiotizza il proprio spazio e istitu-
isce il territorio come testo semiotico in cui si iscri-
vono e prendono forma in strutture territoriali le
relazioni sociali. (…). L’uomo si orienta spazialmen-
te sulla base della determinazione di un centro, sta-
bilendo il proprio luogo. “Il fatto è che ci sono tanti
Il luogo è il messaggio
21
“qui” quanti i soggetti o i luoghi che fanno esperien-
za dello spazio circostante”. (Franco LaClecla)
La disciplina che ha come base lo studio dei
segni è la semiotica. Ricercare il sistema delle
relazioni grazie al quale i segni possono signi-
ficare è l’obiettivo principale della semiotica.
Considerato che, il segno è in generale qual-
cosa che rinvia a qualcos’altro, possiamo af-
fermare che la semiotica è la disciplina che
studia i fenomeni di significazione e di comu-
nicazione. Nell’approccio semiotico allo studio
della comunicazione, il processo di significa-
zione è la capacità di generare significati ed
implica la capacità di un messaggio di essere
dotato di senso per i comunicanti.
Per significazione s’intende ogni relazione
che lega qualcosa di materiale a qualcosa di
assente, ad esempio la luce rossa del semaforo
significa per un automobilista “stop”.
Invece quando metto in pratica una relazione
di significazione allora attivo un processo di
comunicazione. Le relazioni di questa defini-
scono il sistema che viene ad essere presuppo-
sto dai concreti processi di comunicazione.
La semiotica considerata come approccio alle
forme significanti è nata dal bisogno di chi
si confronta nella pratica con le realtà signi-
ficanti d’esplicitare le procedure d’analisi e
d’interdefinire i concetti. Nel momento in cui
dobbiamo stabilire la problematica dell’identi-
ficazione della qualità della forma, di volume
o di ritmo costituenti il significante di un mes-
saggio non verbale, in questo caso per arriva-
re a tale identificazione la semiotica si serve
di una procedura ereditata dalla linguistica
strutturale: la commutazione. La commutazio-
ne è lo strumento della relazione di presuppo-
sizione reciproca tra il piano dell’espressione
e il piano del contenuto di un insieme signifi-
cante, tra il suo significante e il suo significato.
Il segno nella semiotica del testo è inteso come
l’elemento minimo di rimando. Per studio del
segno si intende la ricerca del livello più sem-
plice quasi astratto del senso.
Nelle lingue e nelle forme di comunicazioni di
base e complesse esiste il segno come relazio-
ne duale che lega il significato al significante.
Sulla base dello studio del segno si è stabili-
to una classificazione dei segni: quelli iconici,
dove il significante è simile al significato;
quelli indicali, dove vi è una connessione fisica
con il significato; quelli simbolici o codici, in
questo caso vi è una relazione tra significante
e significato in modo arbitrario.
I segni appartengono a dimensioni e a materie
diverse; sono inoltre relativamente intercam-
biabili per il semplice fatto che acquistano il
loro significato solamente all’interno dei loro
contesti. I significati lessicali di certi segni
sono significati contestuali.
Considerato isolatamente nessun segno ha
alcun significato. Qualsiasi significato di un
segno nasce da un contesto.
Per essere immediatamente comprensibile alla
maggior parte delle persone, il segno deve av-
vicinarsi il più possibile al gesto iniziale a cui
cerca di corrispondere.
In un ospedale, una stazione ferroviaria, un
aeroporto internazionale il solo linguaggio che
abbia qualche probabilità di venire compreso
22
da tutti è visuale.
L’associazione di segni e significati costitui-
sce un codice, mentre l’evoluzione dall’im-
magine al simbolo iconico è il pittogramma
(Jean, 1994: 173). Con i pittogrammi si evita
di scrivere in molte lingue. Questi , talvol-
ta non rappresentano ciò che vogliono espri-
mere ma la loro immagine è frutto di una
tradizione visiva e convenzione sociale (ad
esempio il simbolo del bagno). Come ben sap-
piamo furono i nostri antenati ad anticipa-
re e a gettare le basi per la elaborazione di un
codice, la scrittura, che permette di comuni-
care informazioni tramite segni. Il sistema di
scrittura in cui i concetti sono espressi me-
diante disegni, si dice pittografia. In queste
icone della comunicazione umana pre-scrit-
toria (pittogrammi, ideogrammi, ecc...) viene
dunque espressa la necessità di coniuga-
re l’idea ad una forma, la mente all’immagi-
ne, riducendo concetti complessi ed astratti a
forme sintetiche elementari.
La domanda che ci verrà spontanea è: ma
un bambino avrà bisogno di informazione o
magari un qualcosa di più o di meno?
23
Nascita e sviluppo
La psicologia ambientale nasce in America
e sviluppa alla fine degli anni 50 e nel corso
degli anni 60 negli USA. È la disciplina che si
occupa delle relazioni che si instaurano tra le
persone e il loro ambiente (Proschansky 1987).
”Ambito della psicologia che si interessa ai rapporti
tra processi psicologici e processi dell’ambiente socio-
fisico” (Bonnes, Secchiaroli, 1992).
La psicologia ambientale trova negli USA la
sua patria di riferimento per la molteplicità e
sistematicità delle iniziative orientate alla sua
fondazione e sviluppo. La problematica della
pianificazione – progettazione degli edifici de-
stinati alla cura dei pazienti psichiatrici rap-
presenta il campo di studi di diversi gruppi di
ricerca.
Innumerevoli studiosi si sono occupati di studi
riguardanti gli effetti che l’assetto spazia-
le e architettonico dell’ospedale può avere sul
comportamento dei pazienti definendo degli
assetti: “sociofughi” (in grado di scoraggiare
l’interazione sociale) e “sociopeti” (capaci di
incoraggiare l’interazione sociale). Da questi
studi se ne svilupperanno altri che elabore-
ranno i concetti di “territorialità umana” e
“spazio personale”.
Queste esperienze hanno contribuito a fornire
indicazioni psicologiche ai progettisti dei
luoghi cura non solo psichiatrici, e principal-
mente, esse hanno aperto la strada ad una
fase di interazione con le varie scienze della
progettazione architettonica ospedaliera, al
fine di creare un progetto formale in grado di
migliorare le condizioni ambientali e di favori-
re il miglioramento e la guarigione dei degenti.
Anche in Europa si costituiscono gruppi di
studio basati sulla collaborazione di psicologi
e architetti: questo nuovo ambito di studi plu-
ridisciplinare è denominato, sia negli USA che
in Europa, Psicologia Architettonica (Bonnes,
Secchiaroli, 1992; Bonaiuto, Bilotta, Fornara ,
2004). In questo periodo si susseguirono im-
portanti congressi di psicologia architettonica.
Si ricordi, in particolare il contributo dell’ur-
banista Kevin Lynch (1960) che ha proposto un
nuovo approccio, in un certo senso rivoluzio-
nario, ossia pensare la città e la sua progetta-
zione partendo dall’ immaginabilità che essa
può avere nella mente dei suoi fruitori. E’ l’ini-
zio dell’ abbandono del tradizionale concetto
di progettazione urbana a favore di una nuova
concezione che mette il soggetto fruitore al
primo posto.
A misura d’utente
Le ricerche dei diversi gruppi di studio portano
a nuove valutazioni: la progettazione definita
“egocentrica”, volta principalmente a soddi-
sfare i bisogni estetici e di autoaffermazione
dell’architetto-progettista, risulta inadeguata
e nasce l’esigenza di considerare i bisogni dei
destinatari / utenti degli edifici stessi (Bonnes,
Secchiaroli, 1992). Questa nuova prospettiva
che pone l’utente al centro del processo pro-
gettuale rende necessaria l’introduzione di
nuovi metodi di ideazione. Teorici propongono
La psicologia ambientale ed architettonica
24
un articolazione in tre fasi principali: analisi,
sintesi, valutazione; quest’ultima fase, sicu-
ramente rilevante, comprende l’analisi delle
reazioni degli utenti nei confronti degli edifici
costruiti. Essendo quest’ultimo un ambito di
studi anche della psicologia, lo psicologo viene
chiamato a far parte accanto ad altre figure
professionali come architetti e ingegneri, del
processo progettuale.
In quest’ambito vi è chi pone l’accento sull’im-
portanza del distinguere le esigenze di ade-
guatezza funzionale degli edifici da quelle
relative alla loro forma. In questo senso nasce
l’utilità della ricerca psicologica, che si viene a
prefigurare come possibile ponte tra problemi
di ordine concreto – operativo e individuazione
di soluzioni ottimali non solo da un punto di
vista estetico visivo ma, soprattutto, da quello
dell’adeguatezza (funzionale) dell’architettura
ambientale rispetto alle esigenze e aspettative
di coloro che utilizzano le costruzioni stesse.
Canter, con un altro psicologo ambientale, T.
Lee (1974) hanno cercato di definire quali sono
le informazioni che la psicologia può fornire
alla progettazione dell’ambiente, indicando tre
categorie: a) Le attività della gente: la tipolo-
gia di attività svolte dalle persone, dove e in
che modo vengono svolte, come cambiano; b)
Le valutazioni differenziate: quali sono cioè le
gerarchie di priorità esistenti tra queste, dal
punto di vista sia pratico che qualitativo; c) Il
rapporto comportamento - ambiente: cono-
scere non solo le reazioni dell’individuo alle
variabili architettoniche, ma scoprire anche
i motivi di tali rapporti in una prospettiva
interattiva.
Un ambito di studi specifico della psicolo-
gia ambientale che si occupa del rapporto tra
processi psicologici e ambiente socio-fisico è
rappresentato dagli studi di “percezione am-
bientale”. Ci si riferisce alla varietà di quei pro-
cedimenti psicologico e sociali che avvengono
nelle persone nei confronti dell’ambiente socio
– fisico con cui queste interagiscono, e che
trovano un’ esplicita manifestazione nelle mo-
dalità di azione e di pensiero che esse tendono
ad esibire nei confronti degli ambienti stessi
(Bonnes, Secchiaroli).
Possiamo distinguere tre tipologie di assetti
ambientali riferiti agli scopi, ai bisogni, alle
aspettative e di conseguenza alle relative per-
cezioni ambientali degli utenti. Il primo ri-
guarda progetti che hanno una funzione di
sostegno nei confronti dei comportamenti che
gli utenti intendono assumere; i secondi pro-
muovono negli utenti specifici comportamenti,
gli ultimi possono ostacolare i comportamenti
degli utenti.
La prospettiva che è assunta è quella di “pro-
cesso” e non solo di “prodotto” in relazione al
progetto stesso: questo significa considerare il
progetto come un momento di un più ampio
processo in cui il progettista collabora con
vari esperti disciplinari, ad esso affiancati, e
l’utenza per ottenere un risultato “a misura”
dei fruitori.
25
L’ambito ospedaliero
Psicologia ambientale nelle strutttura sanitarie
La psicologia ambientale si propone di stu-
diare e di stabilire un collegamento specifico
tra i fenomeni psicologici e l’assetto dell’am-
biente spazio – fisico, relativo alle persone
a cui tali fenomeni psicologici si riferiscono
(Stokols,1978; Stokols & Altman, 1987).
È stato scelto di approfondire anche tale ar-
gomento partendo dall’esigenza e la volontà
di pensare e realizzare, in concreto, ambien-
ti che rispondano il più possibile ai bisogni dei
loro fruitori. Questo impegno diviene ancora
più forte quando l’ambiente oggetto di inter-
vento è rappresentato da un luogo di cura, uno
spazio particolare perché racchiude una realtà
imposta, non scelta dall’utente.
Lo spazio ospedaliero è stato sempre consi-
derato come “spazio neutro” in cui l’uso dei
colori, dei materiali hanno contribuito a de-
finire un ambiente anonimo ed indifferen-
ziato. Un luogo così definito ha come unico
scopo quello soddisfare le esigenze funziona-
li ed igieniche ad esso attribuite, si è trascura-
ta una cultura dello spazio che riconosce quei
processi interattivi che si instaurano tra la
persona e l’ambiente.
Lo spazio architettonico, contenitore dei
vissuti e delle azioni umane, è in grado di co-
municare con il soggetto che lo vive, esso può
generare sensazioni di benessere e di disagio,
essere stimolante, positivo o, all’opposto,
estremamente deprimente. In una condizione
come il ricovero, le caratteristiche fisiche del
luogo possono dare un contributo per rendere
meno spiacevole ai pazienti la permanenza
in ospedale ed avere una valenza terapeutica.
Sarà necessario, allora, intervenire su quelle
proprietà dell’ambiente in grado di influire sia
sullo stato d’animo che sul grado di comfort
fisico necessario all’individuo. La suddivisione
dei diversi spazi, i materiali utilizzati, i colori,
l’illuminazione, le forme, ecc... sono gli oggetti
di questo intervento, sono tutte caratteristi-
che che possono essere valutate e stabilite per
ottenere un “habitat” a misura dei fruitori.
L’ambiente potrebbe avere un ruolo rilevante
nel processo di guarigione del malato, se esso
viene calibrato in base alle esigenze fisiche e
psicologiche dell’utenza.
La comunicazione ambientale nell’ospedale
In un ospedale i sistemi segnaletici devono
soddisfare le esigenze fondamentali degli
utenti che sono soprattutto quelle di risponde-
re alle loro aspettative e offrire dei messaggi
chiari e facilmente leggibili in una situazione
di stress o di fretta dovuta agli orari e preno-
tazioni di visite mediche.
La conoscenza dei flussi e dei percorsi all’in-
terno del complesso ospedaliero, nonché il
posizionamento delle targhe in base ai percor-
si e alle condizioni di illuminazione, quando
parliamo di segnaletica, sta alla base della
costruzione della catena delle informazioni.
Deve inoltre essere considerata la flessibilità
e la intercambiabilità degli elementi della se-
26
gnaletica per una maggiore facilità di montag-
gio, manutenzione e pulizia.
Il colore può assumere un ruolo decisivo,
d’orientamento all’interno della città-ospeda-
le. Coordinando adeguatamente la segnaleti-
ca, infatti, colori diversi potrebbero connotare
i diversi edifici, piani o reparti.
Interazione uomo-ambiente nei servizi sociosanitari
Gli ospedali sono diventati negli anni luoghi
altamente specializzati all’interno dei quali il
paziente si sposta per ricevere prestazioni sa-
nitarie specifiche.
Come afferma Francesco Licari, uno dei primi
fenomeni da marcare, è il movimento. Questi
è il tramite tra l’uomo e l’ambiente e ci con-
sente di osservare ciò che esiste quando esso è
legato alle modalità con cui avvengono gli spo-
stamenti. Un aspetto importante è quindi la
percezione dinamica dello spazio. Essa diviene
passiva se siamo trasportati, attiva se cam-
miniamo. Riflettendo su come si modifica la
percezione di un luogo in base al movimen-
to, la velocità dello spostamento condizio-
na la qualità dell’osservazione e quindi della
percezione dello spazio. Il semplice fatto
che quando ci muoviamo le cose a noi più
vicine scorrano via più velocemente di quelle
lontane, ci induce a focalizzare la nostra at-
tenzione sulle cose più lontane che divengo-
no riferimenti all’interno del nostro campo
visivo.
Muoversi all’interno di un centro urbano a
piedi o in auto, significa due diverse esperien-
ze dello stesso spazio. Se il movimento è fon-
damentale per lo scibile, allora il mezzo che
consente quello stesso movimento è un veicolo
ma anche un osservatorio.
Per queste ragioni la segnaletica di un com-
plesso socio-sanitario riveste un ruolo di fon-
damentale importanza per l’orientamento
degli utenti al suo interno.
La scienza che si occupa della pianificazione
e progettazione di impianti di segnaletica di
orientamento si chiama “wayfinding”. Wayfin-
ding significa anche scegliere e seguire un per-
corso che porti ad una destinazione definita,
in maniera efficiente; è l’insieme dei segnali
che utilizziamo per capire dove siamo e dove
stiamo andando.Non è il semplice orienta-
mento (come nella navigazione), ma in senso
più ampio è la percezione dello spazio in cui
siamo inseriti, è un comportamento. Con il
termine Wayfinding si intende la capacità di
una persona di sapere dove si trova e come
raggiungere la propria destinazione. La ricerca
in quest’ambito è piuttosto recente: parte dal
lavoro di K. Lynch The image of the city, 1960,
un urbanista, e si sviluppa in campo archi-
tettonico per indicare l’insieme dei proces-
si percettivi, cognitivi e comportamentali che
l’individuo attua per raggiungere una deter-
minata destinazione.
I termini orientamento e wayfinding, spesso
utilizzati come sinonimi nella letteratu-
ra scientifica, indicando due concetti diversi,
seppur complementari e riguardanti entram-
bi la psicologia cognitiva del comportamento
durante la deambulazione: per orientamen-
to si intende la capacità di determinare la
propria posizione nello spazio, in termini as-
soluti e in relazione a riferimenti significativi,
in primo luogo il punto di partenza e quello di
arrivo. Migliorare l’esperienza di wayfinding di
un utente equivale a migliorare i segnali am-
27
bientali che gli sono offerti per orientarsi e che
diffondono, l’informazione spaziale. Questo va
incontro alle esigenze informative del paziente
e contribuisce a migliorare l’immagine perce-
pita della qualità generale del servizio sanita-
rio. La segnaletica, inoltre è parte integrante
della comunicazione dell’edificio: la dimensio-
ne comunicativa interna e le modalità comu-
nicative che essa attua verso l’esterno.
Per ogni ente la segnaletica ambientale do-
vrebbe essere coerente per immagini e per si-
gnificato a tutte le forme di comunicazione
aziendale.
Come sappiamo tramite la comunicazione si
costruiscono significati e si trasmettono co-
noscenze. La vita di ogni individuo è caratte-
rizzata infatti da momenti di apprendimento
all’interno di un contesto di riferimento e da
momenti di apprendimento di elementi pro-
venienti dall’esterno: tali fasi si perpetuano
proprio attraverso la comunicazione e l’osser-
vazione dei comportamenti (Harrison).
Ogni forma di comunicazione dunque pre-
suppone l’esistenza di un linguaggio: parole,
segni, immagini, simboli, sono gli elemen-
ti costitutivi del linguaggio, che permette
alla persona di determinare la sua posizio-
ne in base alla mappa cognitiva del luogo che
si è formata. Viviamo in un mondo di imma-
gini e di suoni e indubbiamente l’immagine
«sembra» più facile, più pregnante, immedia-
ta e vera della parola, specialmente perché
si pensa che rimandi ad altri significati e che
basti «guardare» per capire. Come sappia-
mo l’immagine nel suo rapporto con il titolo e
con il testo viene immediatamente percepita
per prima. In generale i messaggi di tipo non
verbale (ad esempio le immagini, i segni) pos-
siedono una forza sintetica e comunicativa più
penetrante e diretta rispetto alle parole: l’im-
magine trasmette significati che, attraverso le
parole, si sarebbero comunicati con maggiore
difficoltà e dispendio di tempo e di energie.
In questa direzione si tenta di inserire la
forma simbolica del disegno nel sistema delle
comunicazioni di una organizzazione e di in-
dagarne la sua natura per capirne l’impor-
tanza. Infatti l’uomo traccia i disegni per
determinare le forme e interpretare la realtà
che lo circonda attraverso l’ausilio di questo
mezzo tecnico. La comunicazione, in questo
senso, può essere considerata come una specie
di azione inserita in un sistema complesso in
cui le discriminanti sono l’orientamento verso
l’ambiente o verso le altre persone, mentre
l’espressione figurativa rappresenta un mezzo
di comunicazione attraverso il quale l’autore,
colui che crea i disegni, cerca di trasmettere la
propria intenzione di trasmettere un messag-
gio ad un destinatario.
Ci muoviamo nelle strade delle città a piedi, in
bicicletta e all’interno delle macchine ricono-
scendo codici socialmente costruiti con i quali
evitiamo i pericoli a cui siamo quotidianamen-
te esposti. E’ possibile agire in tal modo perché
si è in grado di decifrare i segnali di perico-
lo che ci indichino divieti e istruzioni. Sempre
più spesso si utilizza un linguaggio pregno di
segni, simboli, immagini e segnali, come pit-
togrammi e immagini scritte per velocizzare
l’ orientamento nello spazio. Ed essi sono da
un lato abbreviazioni visive, mentre dall’altro
costituiscono un nuovo linguaggio che si può
vedere come una semplificazione di contenuti
complessi.
In questa direzione si apre uno scenario che ri-
teniamo importante per il ruolo che l’informa-
zione potrà assumere all’interno del progetto.
28
L’individuo
Breve storia dell’ospedale
I primi ospedali risalgono al IV secolo a.C. in
cui ogni ordine religioso vi gestiva un ospizio
per poveri, viandanti e malati, definendo così
una prima rete di presidi ospedalieri, diffusa
nel territorio. I ricoveri ospedalieri venivano
realizzati in prossimità di monasteri e lungo le
vie di pellegrinaggio.
Erano strutture prive di specificità funziona-
le e spaziale, ma, si differenziavano in base
al tipo di persone ospitate (infermi, poveri,
anziani, forestieri). Questi ambienti spesso ve-
nivano ricavati all’interno di strutture mona-
stiche esistenti, mentre nel caso delle nuove
edificazioni la tipologica corrente adottata
era quella ad aula, a sviluppo lineare con una
o più navate. Dal punto di vista morfologico
la tipologia si è evoluta nel tempo, assumen-
do varie forme. Negli ospedali, in generale si
è sempre cercato di creare un ambiente il più
neutrale possibile ma si può notare come negli
ultimi anni alcuni strutture soprattutto a ca-
rattere pediatrico si siano adempiti a “crearsi“
una buona immagine ambientale.
L’individuo e la malattia
Nell’immaginario collettivo la malattia è vista
nella sua accezione più negativa. Le patologie,
fin dall’antichità, fin dalla presenza dell’uomo
sono sempre esistite e fin dall’antichità l’uomo
si è ampiamente adempito per risolvere, cu-
randole e prevenendole, ove possibile.
In seguito alla lettura di innumerevoli tesi in
merito alle patologie fisiche e mentali e al rap-
porto che l’uomo e anche il fanciullo instau-
rano con la stessa, sorgono spontanee alcuni
quesiti:
La normalità è assenza di malattia?
La sofferenza potrebbe non esserci?
L’esperienza concreta dell’umanità, a memoria
di uomo, è caratterizzata dalla presenza della
sofferenza, delle possibili cure e, altresì, della
morte. Occorre anzitutto recuperare con occhi
moderni la visione comune del paziente con
un’attenzione rinnovata alla sua storia perso-
nale, alle vicende che hanno preceduto il suo
presentarsi in ospedale.
Le reazioni dell’individuo alla malattia sono
diverse a seconda delle caratteristiche di
questa ultima (in particolare il tipo, la gravità,
la durata); ma anche l’atteggiamento psicolo-
gico dell’individuo influisce sul decorso della
malattia conducendo a comportamenti che
possono migliorare o peggiorare la condizione
patologica.
L’atteggiamento emotivo del degente potrebbe
influire sul decorso del malessere attraverso i
rapporti tra sistema nervoso centrale, sistema
neurovegetativo, sistema endocrino e sistema
immunologico. Una reazione psicologica de-
pressiva ad una malattia, attenuando le difese
immunitarie, potrebbe esporre il paziente ad
altri attacchi morbosi, innescando la spirale:
malattia – depressione – malattia. Interrogarsi,
perciò, su quali siano le reazioni psicologiche e
su che cosa si possa fare per renderle più posi-
tive, pare importante.
29
La relazione tra il sistema nervoso e il sistema
immunitario, che può dare luogo a gravi
conseguenze, può infatti provocare benevo-
li effetti terapeutici quando lo stato emotivo
del soggetto sia positivo anziché negativo. Ciò
significa che, se un’attivazione emotiva e un
atteggiamento ansioso e depresso hanno il
potere di diminuire le difese immunitarie, con
tutta la catena di conseguenze negative che ne
derivano, un atteggiamento calmo, ottimistico
e sereno ha, al contrario, il potere di aumenta-
re le difese immunitarie e di facilitare il supe-
ramento della malattia.
L’atteggiamento del malato nei confronti della
malattia dipende da molti fattori.
Vi è in primo luogo l’individuo con la sua per-
sonalità costruita nel corso dell’età evolutiva
e della storia personale. La personalità è forse
la variabile più significativa nel determinare le
reazioni psicologiche alla malattia; su di essa è
possibile influire nei casi gravi solo con inter-
venti specialistici di tipo psicoterapico.
In secondo luogo si pone l’ambiente che ci cir-
conda il paziente. La personalità in ogni caso,
interagisce continuamente con l’ambiente e
con le persone che la circondano; l’ambiente di
vita del paziente e lo stesso servizio sanitario,
come affermano molte tesi, costituiscono va-
riabili rilevanti.
Il vero quesito che ci si pone, in questo caso è:
e se il nostro paziente avesse 6 anni il cui svi-
luppo cognitivo è in fase di sviluppo?
Vale lo stesso?
È più vulnerabile? Come l’ambiente potrebbe
influenzare il suo comportamento?
L’individuo e l’ospedale
Il paziente ricoverato in ospedale e in generale
tutti coloro che frequentano tale loco hanno il
diritto di essere informati riguardo le loro pa-
tologie e tutto ciò che fa parte dell’iter di cura.
Però vi è un altro tipo di informazione che
l’individuo necessita ossia quella che tratta
l’orientamento all’interno dell’edificio, altri-
menti detta segnaletica o wayfinding.
Accenniamo tale argomento che è oggetto
continuo di discussione ma spesso, in pratica,
trascurato.
30
Il bambino
Il bambino e la malattia
“Si stabilisce il concetto di sano definendo ciò che è
normale: malato è la condizione alternativa. Rimane
tuttavia da chiarire dove si trovi esattamente il
confine tra sano e malato, se sia possibile in assolu-
to tracciarlo, e se non si debba piuttosto partire dal
presupposto che una persona sia più o meno sana o
malata”.
Nei primi anni di vita (fino a sei-sette anni)
qualsiasi affezione che si accompagni a dolore
e pena fisica viene vissuta come proveniente
dall’esterno, come conseguenza di un evento
aggressivo inducente una sofferenza di grave
entità.
Il bambino non è in grado di distinguere le
differenze fra una malattia più o meno grave;
per questo motivo potrà reagire con un com-
portamento dominato dall’ansia e dalla paura
indipendentemente dalla gravità della malat-
tia. Non tutti i bambini però reagiscono allo
stesso modo di fronte alla malattia: alcuni si
distaccano da tutto e arrivano anche a respin-
gere qualsiasi contatto e offerta d’aiuto; altri
richiedono continuamente amore e attenzione
alla madre che li cura diventando così molto
esigenti, lamentosi e dipendenti.
Il bambino malato, così come l’adulto, chiede
spiegazioni riguardo la sua malattia e riunisce
tutte le risposte ottenute nel contesto di ciò
che conosce del mondo attorno a lui.
Questa conoscenza è influenzata dal livello
di sviluppo cognitivo. Solitamente la com-
prensione della malattia è legata a ciò che i
bambini sanno del proprio corpo.
E’ fondamentale informare il bambino con
spiegazioni accessibili, dialogando e non ricor-
rendo a menzogne ed inganni tali da facilitare
fantasie inappropriate.
Spesso la malattia viene vissuta come una pu-
nizione, molti bambini pensano che sia stata
causata da un loro comportamento errato e
credono di poter guarire mettendo in atto un
comportamento corretto, ubbidendo ai propri
genitori, riordinando i giochi, aderendo ad
un insieme di regole rigide, in altre parole
“facendo i bravi”. Per il bambino in età presco-
lare non è facile affrontare il ruolo del malato;
da un lato ha il bisogno di assistenza, dall’al-
tro si rifiuta di farsi curare.
I bambini fino agli undici anni, ritengono che
l’ammalato abbia una responsabilità diretta
rispetto all’insorgenza del malessere.
La valutazione della durata della patologia è
molto diversa nel bambino rispetto all’adulto.
Per un bambino un periodo brevissimo può
sembrare lunghissimo; questo perché fino
a quattro-cinque anni la percezione dell’ar-
co temporale non è oggettiva: non si conce-
pisce un unico tempo ma tanti quanti sono i
momenti vissuti percepiti.
Tra due azioni della stessa durata il bambino
percepisce come più lunga quella più difficile.
Verso i sei anni il bambino inizia ad avere una
considerazione più oggettiva del tempo, anche
se in una situazione di ospedalizzazione, la
percezione del tempo reale si realizza più tar-
divamente e si rivela distorta anche oltre gli
otto anni. Un interessante modello che spiega
il concetto di malattia nel bambino viene
31
offerto da una ricerca del 1980 facendo riferi-
mento alla teoria di Piaget.
Secondo gli studiosi le spiegazioni che i
bambini danno sulle possibili cause dei distur-
bi sono in realtà meno svariate di quanto si
possa pensare e sono raggruppabili in catego-
rie specifiche.
In generale, i bambini tra i tre e i sette anni
che appartengono, secondo Piaget, allo stadio
preoperazionale dello sviluppo cognitivo attri-
buiscono la causa della loro infermità a un fe-
nomeno, di tipo magico o naturale.
Verso i sette-otto anni, passando allo stadio
del pensiero logico-concreto, il bambino in-
comincia a distinguere ciò che è interno e ciò
che è esterno alla propria persona.
Ha quindi la consapevolezza che la patologia
è localizzata all’interno del suo corpo mentre
la causa può essere esterna. In questa età c’è
l’idea della contaminazione. Il bambino crede
di guarire perché collabora e consente ai
dottori di intervenire sulla malattia.
Verso gli undici anni i bambini acquisiscono
sempre maggiori conoscenze delle strutture e
delle funzioni degli organi interni e si intuisce
il complesso legame tra corpo e mente.
Il bambino identifica chiaramente l’organo
malato, anche se si comprende che la causa
può essere esterna, come ad esempio, un virus
o un’infezione.
Il bambino e l’ospedale: problemi psicologici e psicopatologici
Molti progressi sono stati fatti in questi ultimi
anni in campo pediatrico dal punto di vista
«Salute fisica » del bambino ricoverato in ospe-
dale. La messa a punto di tecniche diagno-
stiche sensibili e l ’applicazione di terapie di
più ampia concezione hanno portato ad un
miglioramento delle possibilità terapeutiche
del medico. Viene però segnalata da più fonti
e innumerevoli tesi in merito, una lacuna in
questa «macchina terapeutica» in evoluzione.
Ci si riferisce alla mancata considerazione da
parte del personale sanitario del problema
della «salute mentale » del bambino ricovera-
to. Già da tempo pediatri, psichiatri, psicolo-
gi ed altri operatori sociali segnalano i pericoli
derivanti dal trauma che potrebbe accompa-
gnare l’ospedalizzazione in età infantile.
Gli ospedali pediatrici potrebbero pensare a
soluzioni concrete con l ’obiettivo di minimiz-
zare i danni conseguenti a questa esperienza.
Il ricovero potrebbe creare un turbamen-
to nelle abitudini e nel modo di vivere del
bambino con alterazioni dei suoi rapporti fa-
miliari e sociali.
Il tipo di reazione alla malattia e le difficoltà
psicologiche incontrate dipendono dal grado di
maturazione effettiva raggiunta, dall’età, dal
carattere acuto o cronico, benigno o maligno
della malattia stessa, dall ’atteggiamento
della famiglia, dal clima emotivo nel quale i
bambini e i loro genitori si trovano.
32
Mentre nella prima infanzia si assiste spesso a
delle forme di regressione in quanto i bambini
perdono l ’autonomia da poco acquisita con
ritorno a fasi di sviluppo precedenti, nelle età
successive, soprattutto nel periodo scolare, il
bambino si rende conto delle differenze tra sé
e i suoi compagni maturando spesso reazioni
di tipo fobico ossessivo che si accentuano so-
prattutto nel periodo adolescenziale.
L’ospedalizzazione nei primi 12/18 mesi di vita
È questa forse la fase più vulnerabile di tutto
lo sviluppo del bambino, in questo spazio di
tempo i rapporti con la madre si sono salda-
mente strutturati e la loro continuità si rende
indispensabile. L’equilibrio e l’indipendenza
acquisiti dal bambino sono instabili ed ogni
interferenza dell’ambiente sull’integrità della
diade madre-figlio, rischia di dissolvere per-
manentemente i traguardi evolutivi raggiunti.
Altri problemi possono derivare dall’essere ac-
cudito per un certo lasso di tempo da persone
diverse ed in maniera discontinua. Queste
infatti, determinano per la loro eterogeneità,
un grave disorientamento nel bambino, in-
fluenzando così il suo grado di affettività che
finisce con l’impoverirsi, al punto da fargli as-
sumere in seguito atteggiamenti asociali.
Oltre a relazioni sociali disturbate sembra che
la funzione maggiormente colpita sia quella
del linguaggio con la capacità di astrazione.
In molti bambini si è osservato che la separa-
zione da ospedalizzazione ha influito anche
su aspetti dei processi intellettivi e della
personalità.
Per quanto riguarda i danni conseguenti a
questo tipo di distacco si può dire che distur-
bi derivanti da separazioni di breve durata
tendono a scomparire a condizione che non
si ripetano la reversibilità dei danni derivan-
ti da separazioni più lunghe è anch’essa quasi
sempre possibile.
L’ospedalizzazione nei bambini di 3/4 anni
In questo periodo di tempo il bambino com-
pleta l’acquisizione dei meccanismi motori in-
dispensabili alla sua attività, raggiungendo la
maturità funzionale del suo sistema neuromo-
torio. Quando in questa fase il bambino, ospe-
dalizzato, viene a perdere le cure genitoriali,
egli non è ancora in grado di capire la neces-
sità di questa separazione né tanto meno può
in qualche modo essere preparato ad un tale
evento. Così in preda ad una reazione acuta e
durevole di ansia, inizia a manifestare il suo
malumore e la sua collera in maniera ben più
attiva e cosciente di quanto poteva accadere
nei primi mesi di vita.
Nei bambini fino a 3-4 anni teorici hanno
potuto individuare tre momenti fondamen-
tali delle varie tappe di disadattamento: una
prima fase detta della protesta, seguita da
quella della disperazione e per ultima quella
della negazione, preceduta da una pseudo
tranquillità che scorrettamente viene inter-
pretata come sintomo di assestamento.
Normalmente quando la degenza del bambino
è di breve durata egli giunge a sviluppare solo
la fase della disperazione, passando per la
prima fase, quella della protesta. Di fronte ad
una lunga degenza (nell’ordine di mesi e oltre)
è più facile osservare il passaggio nella fase
33
della negazione in cui il bambino, vedendo
l’incapacità della figura materna di soddi-
sfare le sue esigenze, tenta di sbarazzarsi del
«bisogno di lei», ed inizia la ricerca di forme di
gratificazione diverse. È da rilevare che questo
può accadere anche se i bambini hanno occa-
sione di vedere la madre quotidianamente.
Anche nei bambini di questa età è sempre pre-
sente il pericolo di involuzione: abbastanza di
frequente infatti le madri di bambini dimessi
dall’ospedale riferiscono di averli dovuti riedu-
care alla pulizia ed a mangiare da soli.
Altri sintomi di questa regressione indotta
dall ’ambiente ospedaliero sono: paure not-
turne, repressione dell’espressione verbale e
una sintomatologia psicosomatica funzionale
transitoria.
L’ospedalizzazione nei bambini di età tra i 4 anni e l’adolescenza
Se nei bambini fino a 3-4 anni di età l ’ospe-
dalizzazione rappresenta un trauma a livello
dei rapporti con la madre, per il bambino più
grande il ricovero in ospedale significa l ’al-
lontanamento da «tutto» l’ambiente familia-
re. Anche per i bambini di questa età esiste
sempre il rischio di andare incontro a fenome-
ni di disadattamento e di regressione del tipo
di quelli riferiti per le età precedenti e a forme
di reazioni depressive, mascherate da disturbi
psicosomatici). Dotato di un equilibrio emotivo
ancora instabile il bambino arriva con facilità
all’ansia e all’angoscia per ciò che lo aspetta
sotto forma di pericoli fantastici, interpretan-
do gli eventi curativi come punizioni, come
atti di regressione. Oltre al pericolo di regres-
sioni nel campo delle acquisizioni igieniche,
motorie e del linguaggio o all’insorgenza di
forme fobiche, i bambini di quest’età sotto-
posti a lunghi periodi di ricovero presentano
manifestazioni di deterioramento individuale
quali: infantilismo, egocentrismo, monotonia
e tristezza, indipendentemente dalla gravità
della malattia organica che ha causato il rico-
vero e del tipo di terapia applicato.
L’ospedalizzazione dell’adolescente
L’ospedalizzazione dell’adolescente è molto più
ricca di spunti traumatici rispetto al bambino
minore d’età. In questo paziente è presente un
forte senso d’autoidentificazione e indipenden-
za, unito ad un crescente bisogno di «privacy»
e «selfexpression ».
L’acquisizione della propria autonomia, l’iden-
tificazione con i compagni e con il gruppo, le
preoccupazioni intorno al proprio corpo ed al
proprio aspetto fisico, la propria identità,
e valori e scopi della propria vita fanno
dell’adolescente malato cronico un soggetto
vulnerabile.
L’ adolescente porta con sé un’ansia genera-
ta dalla paura della morte, della mutilazione
e avverte altri timori non peculiari dell’ado-
lescenza ma che assumono un’importanza
poiché questo è uno stadio in cui il giovane è
alla ricerca della sua indipendenza (per questo
i teenager avvertono di più la mancanza della
loro routine giornaliera, i dischi, le telefo-
nate, gli amici, la radio) e maschi presenta-
no in genere maggiori disagi psicologici delle
femmine.
La mascolinità viene di solito associato all’in-
dipendenza e all’attività, mentre la femminili-
tà alla dipendenza e alla passività. La giovane
34
cronicamente malata tende quindi a sviluppa-
re un concetto di sé, mentre il maschio si può
sentire facilmente inadeguato e poco adatto,
dal punto di vista sociale.
Comportamenti e meccanismi di difesa nel bambino malato cronico
Il ricovero in ospedale sottopone il bambino
di qualunque età all’insorgenza di sentimenti
d’insicurezza o d’ostilità e ad uno stato di «de-
privazione » perciò si assiste ad un grave im-
poverimento della sua personalità.
Così succede che limitazioni imposte dall’am-
biente quali le restrizioni del gioco possono
rimuovere la valvola di sicurezza necessaria
al bambino per scaricare l’ansia e i sentimen-
ti spiacevoli facendolo fantasticare eccessiva-
mente per far fronte agli eventi della nuova
situazione. Così il gioco e le attività scolastiche
dovrebbero essere essenziali per un malato
cronico. Il gioco gli permette di esprimere e di
rivivere i suoi conflitti e le sue angosce profon-
de con la frequente inversione dei ruoli e la ca-
nalizzazione delle cariche aggressive.
Di fronte allo sconvolgimento delle abitudini il
bambino si trova spesso disorientato, crea dei
nuovi meccanismi di difesa. Il meccanismo di
rifiuto sembra utile per far fronte al senso di
disperazione e di impotenza.
L’isolamento, la razionalizzazione, la rimo-
zione e la proiezione (su persone o cose del
mondo esterno) sembrano poter essere d’aiuto
al bambino per far fronte alla sua realtà.
I meccanismi di difesa che sembrano dan-
neggiare lo sviluppo della personalità, sono
la regressione, il meccanismo di fuga dalla
realtà e l’isolamento e a limitare i suoi inte-
ressi e i suoi rapporti sociali. Durante i periodi
di lungo ricovero i più piccoli possono giunge-
re alla perdita del controllo del proprio corpo
che è manipolato come un oggetto, con conse-
guente ritorno a livelli di sviluppo precedenti.
Nell’età scolare il bambino malato cronica-
mente comincia a rendersi conto della dif-
ferenza che esiste tra sé e i suoi compagni
nell’attività fisica, nella dieta, nel comporta-
mento. I bambini ospedalizzati devono sempre
essere costantemente orientati al nuovo am-
biente ed alla vita che in esso si conduce.
Molti di loro ad esempio in casa dormono con
una piccola luce, oppure sono accompagnati
dal genitore ogni qualvolta si recano al bagno;
mantenere quest’abitudine anche nel reparto
è molto importante, così com’è necessario non
far sentire al bambino l’obbligo del letto che
può assumere il significato di uno strumento
di contenzione.
È quindi bene aiutare il bambino a mantene-
re il senso della normale routine e lasciarlo
libero fuori del letto più tempo possibile.
Porli in ospedale, in ogni caso, ad ogni età, si-
gnifica estrapolarli dai luoghi che sentono
proprio a spazi che sono comunemente il sino-
nimo d’asettico e neutrale, innanzitutto, per
non parlare delle paure riguardo medici, medi-
cine, punture ecc...
L’uomo sente la necessità di “addomesticare”
un luogo attribuendogli una sorta d’identità.
Si può stare male in un luogo che non si riesce
a sentire o a fare nostro un luogo perché il
nostro corpo si aspetta un’affinità con le pre-
senze fisiche circostanti.
Nel momento in cui questa è negata, il mondo che ci
circonda diventa ambiguo e insopportabile, pericolo-
so e insignificante (LaClecla).
Questa è la necessità che il ragazzo sente nei
confronti della stanza, del corridoio, della sala
d’attesa dell’ospedale. È ovvio che in ospe-
dale tale obiettivo è piuttosto laborioso da
perseguire ma avvicinabile. “Il fatto è che ci
sono tanti “qui” quanti i soggetti o i luoghi che
fanno esperienza dello spazio circostante”.
Questo quanto Piaget e Inhelder hanno scoper-
to nelle loro ricerche sulla sensibilità ed espe-
rienza spaziale del bambino.
È sempre a partire dal suo ”qui” che il bambino
coglie il suo corpo, gli oggetti che lo circonda-
no in giri sempre più vasti in cui le relazioni
tra qui e gli oggetti vanno riempiendolo spazio
intorno si tratta di uno spazio la cui densità e
distanza, è riguardo all’esperienza.
36
L’umanizzazione ospedaliera
L’importanza della narrazione
Parendo da quelli che possono essere i traumi
dati dal ricovero del bambino, molti sono i pro-
getti attuati dagli ospedali (soprattutto, pedia-
trici italiani e non che stanno o hanno attuato
dei “progetti creativi” per quella che è definita,
“l’umanizzazione degli ospedali” basandosi,
spesso su fondamenti teorico-psicologici come
la cromoterapia ecc. Dopo aver visionato innu-
merevoli progetti d’umanizzazione pittorica il
quesito che mi è sorto spontaneo è ma baste-
ranno delle belle immagini colorate per dare
un’identità all’ospedale o il loro unico scopo è
di intrattenere ma rimanere fini a se stesse?
Molto interessanti sono le attività propo-
ste dagli ospedali per l’intrattenimento dei
bambini. Gli esempi in Italia sono molti a
partire dal Meyer. Quelle che più ci hanno
colpito sono le letture animate. Nella fase in
cui si riuscisse, a mettere assieme il “bello”
degli allestimenti negli ospedali pediatrici, le
letture e quindi le narrazioni, si potrebbe fare
della stessa struttura sanitaria una sorta di
percorso narrativo.
Manuela Trinci, psicologa e psicoterapeuta in-
fantile, si è fermata su un particolare tipo di
narrazioni, le fiabe, chiarendo perché possia-
mo dire che “guariscono”, ma non che sono
medicine. Guariscono, perché le fiabe sono
degli “spazi intermedi insaturi “. Sono spazi
“intermedi”, perché lì il lettore/ascoltatore
può passare, per entrare e uscire dalla storia
stessa, e così facendo indaga e conosce i propri
stati d’animo, riuscendo finalmente a dar loro
un nome. Sono “insaturi” perché il lettore/
ascoltatore può, in momenti diversi della
propria vita, riempire quegli spazi di valenze
diverse, riconfigurandone ogni volta i contenu-
ti. Questi “spazi in cerca di coautore” consen-
tono dunque di acquisire visioni del mondo
sempre nuove e insospettabili prima dell’ini-
zio del viaggio.
Tutto questo si potenzia se le storie sono lette
a voce alta, con altri. La lettura ad alta voce
instaura una trama affettiva che lega lettore e
ascoltatore. Va ricordato che la voce è la prima
vera storia con cui un bimbo entra in contatto.
Quando sente la mamma (a partire dalla “voce
ombelicale” della gestazione) il bambino fa la
sua prima acquisizione di uno spazio interno
dove è sé, diversamente e insieme all’altro da
sé: la madre. La voce costituisce da un lato
una continuità nella narrazione, dall’altro il
senso d’alterità dell’ascoltatore.
Storie e voce consentono di sviluppare una
comprensione delle proprie realtà interne
non razionale, poiché mettono in atto una co-
municazione intuitiva, subconscia, affettiva.
Insomma, offrono occasioni d’idee (e dei loro
significati) che aiutano a farsi un’idea della
vita e della morte perché nelle storie si parla
di bene e di male, facendoli convivere e intera-
gire in modo chiaro.
Il viaggio nelle storie consente invece di af-
frontare in modo simbolico i processi che il
bambino vive in sé e che non osa riconoscere
o di cui non osa parlare. Fra questi l’angoscia
d’abbandono, un’angoscia che i bimbi ospeda-
lizzati, conoscono bene come sottocategoria
37
del senso di precarietà e di morte.
Che le storie abbiano dunque questo potere te-
rapeutico la nostra società distratta sembra
averlo appreso bene, talmente bene da bana-
lizzarne i contenuti.
Sempre più genitori richiedono libri che curino
un problema contingente dei figli: difficoltà col
vasino, rifiuto del cibo, trasloco imminente,
ecc.ecc..: “libri-aspirina”, da assumere in caso
di bisogno specifico, che sollevino dall’impe-
gno di esserci coi propri figli, e, chissà, magari
da comprare in farmacia in un futuro non
troppo lontano… I libri, le storie, invece, non
sono farmaci e non sollevano affatto da questo
compito primario, sono momenti transiziona-
li, spazi d’incontro fra il mondo del bambino
e i suoi contenuti, il mondo dell’adulto e i suoi
contenuti. Sono terreno di rapporti che devono
curare immaginazione con immaginazione, in
un gioco di ricerca e interscambi che non am-
mettono scorciatoie. Si può cercare in un libro
una strada per affrontare un problema, ma
poi, il problema, bisogna affrontarlo…
Si avrebbe il piacere di pensare a questo pro-
getto di comunicazione come una grande
storia narrata all’interno dell’ospedale che ne
segue il più possibile i percorsi dell’utente. In
tal modo il bambino troverebbe una sorta di
guida per immagini, che magari non orienta,
accompagna.
Questa sorta di guida potrebbe essere uno
stesso bambino e questo si rinconducereb-
be ad una problematica già presente all’in-
tero della struttura: la forza e l’utilità della
mascotte.
39
Presentazione
Gli Istituti di Ricovero e Cura a Carattere
Scientifico (I.R.C.C.S.) sono una rete di presidi
ospedalieri distribuiti sul territorio nazionale
che costituiscono un sistema di monitoraggio
e miglioramento della qualità dell’assisten-
za. Gli I.R.C.C.S. operano a livello locale, ma
al livello provinciale, regionale e nazionale.
Nell’individuare e rispondere a bisogni reali
fondandosi sulla continuità fra ricerca, assi-
stenza e umanizzazione dei rapporti medico-
malato, gli I.R.C.C.S. svolgono anche un’azione
parallela a quella universitaria ed egualmente
essenziale.
Il Burlo Garofalo è stato riconosciuto quale
I.R.C.C.S. alla fine degli anni ‘60, epoca in cui
l’Ospedaletto di via dell’Istria andava definen-
do la propria identità culturale.
In quegli anni il Burlo sviluppava, forse fra i
primi in Italia, una politica assistenziale in cui
il “prendersi cura” supera la dimensione della
“cura”: il bambino, in quest’ottica, diventa il
soggetto di un progetto di salute personale che
inizia già in epoca prenatale.
L’Istituto in questo modo ha contribuito alla
diffusione della cultura “Mother Child Health”,
promossa dall’Organizzazione Mondiale della
Sanità e fondata fondamentalmente sulla
promozione e sul sostegno alla famiglia. Ha
inoltre iniziato e coordinato progetti di ricerca
e formazione a livello europeo, in particolare
in tema di medicina perinatale.
Da “Ospedaletto” a Istituto di ricerca.
Il Burlo Garofolo nasce il 18 novembre 1856,
quando, in occasione della visita a Trieste
dell’imperatrice d’Austria, viene inaugura-
to “l’Ospedale infantile” con lo scopo di “as-
sicurare gratuitamente ai fanciulli di poveri
genitori adeguato asilo”. Patrocinante dell’ini-
ziativa assistenziale è la ricca e multietnica
borghesia cittadina, desiderosa di esprime-
re anche concretamente il proprio impegno
filantropico, e nel contempo sottolineare
all’imperatore il proprio coinvolgimento nella
promozione dello stato sociale.
Il primo Ospedaletto è dotato di 24 letti per
“fanciulli d’ambo i sessi, realmente poveri, di
tutti i culti ed affetti da morbi curabili” ed è
collocato inizialmente sul colle di S. Vito, al
pianterreno dell’ospizio dei padri Mechitaristi.
Una decina d’anni dopo, l’ospedale viene tra-
sferito in un edificio proprio in via del Bosco.
Nel 1907 l’Ospedaletto, come fu chiamato per
lungo tempo dai triestini, riceve il lascito della
baronessa Maria de Burlo Garofolo e da allora
verrà chiamato “Ospedale Infantile e Pie Fon-
dazioni Burlo Garofolo”.
In seguito, nel 1922 viene riconosciuto come
Istituzione pubblica di beneficenza.
Nel 1928 Alessandro De Manussi elargisce, in
memoria della moglie Aglaia, una cospicua
somma, lascito che è legato alla costruzio-
ne di un padiglione per il ricovero di bambini
con malattie croniche, incurabili e bambini
deficienti. Cambia di nuovo la denominazione
dell’ospedale, che diventa “Ospedale infantile
Burlo Garofalo di Trieste
Corridoio di un reparto del Burlo Garofalo
40
e Pie fondazioni Burlo Garofolo e dott. Alessan-
dro e Aglaia de Manussi”.
Nel 1964 in seguito alla fusione con la “Società
degli amici dell’Infanzia”, la Clinica dei Lattan-
ti di Via Manzoni è trasferita al Burlo ed è co-
struito il Centro Immaturi.
Nel 1967 l’antico ospedaletto acquisisce le cat-
tedre universitarie di Pediatria e di Puericul-
tura e nel 1968 è riconosciuto come Istituto di
Ricovero e Cura a Carattere Scientifico.
Poco dopo, nel 1972, con l’arrivo della Divisio-
ne d’Ostetricia e Ginecologia, modifica ancora
gli ambiti d’assistenza trasformandosi da
Ospedale Pediatrico in Materno-Infantile, con
una concezione, per l’epoca, originale nel pa-
norama sanitario italiano.
Nel 1978 acquisisce le cattedre d’Igiene e di
Genetica e nel 1979 la cattedra d’Ostetricia e
Ginecologia.
Nel 1981 è confermato il riconoscimento d’Isti-
tuto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico.
Negli anni Ottanta sviluppa e promuove
una cultura sanitaria del tutto innovativa,
in cui la deospedalizzazione e l’umanizza-
zione delle cure, costituiscono il riferimento
fondamentale.
L’ultimo decennio del ventesimo secolo
propone all’Istituto la ricontestualizzazione
della propria missione, nell’ambito della nuova
organizzazione di tipo aziendalistico, secondo
gli schemi e gli indirizzi contenuti nella legge
502/92.
Nel ventunesimo secolo il Burlo Garofolo
rivista il suo passato riformulando il presen-
te proponendosi come Ospedale per la salute
materna infantile. È protagonista essenziale
del Dipartimento per la salute della donna e
del bambino nell’ambito dell’Area vasta giu-
liano isontina, è polo di riferimento pediatrico
della regione Friuli-Venezia Giulia, promuove
lo sviluppo e il coordinamento della rete na-
zionale degli IRCCSS pediatrici.
Sopra: Vedute dell’edificio Burlo garofalo dall’esterno
41
L’Istituto Burlo Garofolo persegue un’ottimiz-
zazione delle prestazioni che passa in misura
eguale attraverso i miglioramenti tecnologi-
ci, e la costante vigilanza sulla qualità dell’as-
sistenza, sia sul piano dell’efficacia che del
rispetto dei diritti del malato. Per il raggiungi-
mento di questo fine, i contributi del personale
medico ed infermieristico sono egualmen-
te importanti. Con la sua lunga esperienza
pratica d’avanguardia, l’Istituto ha l’obbligo e
l’impegno di mantenere un alto livello di com-
petenza, motivazione e dedizione dell’équipe
medico-infermieristica. A tale scopo è essen-
ziale mantenere, e semmai rinforzare, l’impe-
gno sulla formazione.
In questo clima, in cui l’impiego di tecnologie
avanzate e strumentazioni ricercate, avviene
in un’organizzazione sanitaria dotata di una
notevole sensibilità e impegno sociale, ma
anche con particolari competenze comunica-
tive con pazienti e famiglie, l’obiettivo priori-
tario generale rimane quello di promuovere la
salute per una maggiore diffusione ed efficacia
delle azioni preventive.
L’Istituto contribuirà, quindi, ad un’imposta-
zione culturale della sanità che esalti l’impor-
tanza primordiale della prevenzione primaria
e l’imprescindibile impegno verso un’attua-
zione equalitaria e umana delle prestazioni
d’assistenza.
I progetti di ricerca preclinica e clinica do-
vranno a tal fine integrarsi al progetto gene-
rale di migliorare la qualità e l’efficacia della
diagnosi e delle cure con il rapido trasferimen-
to all’assistenza dei risultati utili.
In parallelo si dovrà provvedere, per adegua-
ti strumenti epidemiologici, al monitoraggio
dello stato di salute della popolazione dell’effi-
cacia e della qualità delle cure.
42
Il dottor Bruno Pin-
cherle fu molto attivo
a Trieste dagli anni
del novecento fino
alla scomparsa a
causa della leucemia
nel 1968. L’importan-
za di tale individuo
risiede nel fatto che
non fu solo medico
molto importante per
i bambini, ma un cit-
tadino attivo e par-
tecipe nella città di
Trieste. Si occupò: dai
problemi riguardanti
gli orfani e i bambini
denutriti, alle que-
stioni sugli effetti e
conoscenza dei conservanti, dall’’approvvigio-
namento di medicinali indispensabili ai pro-
blemi riguardanti l’inquinamento.
Lasciò un segno per l’impegno politico, per
come lo visse nell’opposizione, attraverso la
persecuzione e la Resistenza, negli strumen-
ti della democrazia. Infine fu uno studioso di
Stendhal di rilievo internazionale.
Spesso si arrabbiava e dibatteva per battersi
per le sue idee ma spesso consolava mamme
e inventava storie e disegnava ai bambini
malati. La caratteristica che lo rendeva pe-
culiare per non dire unico nel suo genere è la
creatività. A quanto letto, non vi era il dottor
Pincherle se nei pressi non vi si trovava una
penna e un foglio su cui disegnare. Lavorava
col cuore col cervello
e con le immagini.
Dottor Pincherle fu
un pediatra molto
amato a Trieste, dove
nacque, nel 1909,
visse e morì nel 1968.
Iniziò a lavorare alla
Clinica Lattanti, dove,
agli inizi degli anni
‘30, vi erano molti pro-
blemi di denutrizione
nei bambini, figli di fa-
miglie troppo povere
e numerose, o di
mamme sole e abban-
donate. Era necessario
che tutti ricevesse-
ro il latte e così parte-
cipò a quella bell’iniziativa che garantiva il
latte di mucca con distribuzione gratuita per i
poveri. Tuttavia, verso la fine di quegli anni fu
licenziato, dato che si era rifiutato di iscriver-
si al partito fascista. Ben presto gli fu impedi-
to del tutto di lavorare perché ebreo; dovette
partire e infine fu arrestato e internato nel
Salernitano.
Tornò nel ‘45 e partecipò attivamente alla vita
cittadina, tanto che in quanto consigliere di
Zona (l’organo amministrativo di Trieste in
quegli anni) si preoccupò di riorganizzare i Ri-
creatori: i doposcuola dei tempi dell’Austria
tuttora attivi e funzionanti a Trieste, campi
sportivi, laboratori artigianali, luoghi dove i
ragazzi del quartiere potevano passare le gior-
Bruno Pincherle
Sopra: copertina del libro “Un professore matto ha in testa un gatto“ dedicato a Pincherle
A fianco e nelle pag ine successive : i disegni che il medico faceva ai propri pazienti
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44
nate. Uno degli scopi che voleva raggiunge-
re era di togliere I bambini dalla strada. Oltre
che per fame in quel periodo si moriva d’infe-
zioni, di polmoniti, di tonsilliti. La penicillina,
sbarcata a Napoli nel ‘44, si trovava anche a
Trieste, ma era carissima, e ben pochi poteva-
no permettersi le cure necessarie. Dottor Pin-
cherle riuscì ad ottenere dal Consiglio di Zona
la somministrazione gratuita per tutti I malati
in ospedale.
Visitava i bambini e poi, regalava loro i suoi
disegni, inoltre, ai più grandi raccontava le
storie dei medici famosi, quelli che avevano
considerevolmente migliorato la vita dei pa-
zienti. Ad esempio, per tranquillizzare i bimbi
prima della vaccinazione raccontava la storia
di Jenner, colui che scoprì che il vaiolo vaccino
proteggeva da quello umano.
Consolava e confortava le madri mentre atten-
devano le operazioni dei figli.
A quei tempi i chirurghi usavano operare i
bambini di tonsille senza anestesia (dicevano
che correvano il rischio di soffocare inghiot-
tendo sangue) e per il dottor Pincherle questo
era un grosso problema.
A quei tempi l’opinione comune sosteneva che
i bambini non provavano alcun dolore, ma lui
combatteva quest’opinione, dato che capiva
benissimo che il dolore non conosce età.
Li trattava con rispetto, spiegava, si faceva
ascoltare anche con l’aiuto dei disegni ed essi
ne restavano incantati, ne subivano la forza
persuasiva con cui egli li tranquillizzava.
Negli anni ‘60 i problemi della fame, delle ane-
stesie, degli antibiotici furono definitivamente
superati, ma Dottor Pincherle si trovò a com-
battere altre battaglie, come quella contro la
barbara usanza di non far praticare educa-
zione fisica nelle scuole. “Il maestro non ci fa
fare ginnastica perché siamo indisciplinati “
dicevano i bambini. Lui li visitava, guardava
le schiene e scriveva lettere di monito agli in-
segnanti. Combatté anche contro l’abitudine
di dare ai bimbi i formaggini industriali, che
all’epoca si usavano molto, complice Carosello.
La vita politica della città lo vide impegnato
fino all’ultimo, si occupò delle prime proble-
matiche ambientali, contro i tram a gasolio
che dovevano sostituire quelli elettrici, già co-
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sciente dei rischi dell’inquinamento e delle
terribili malattie che questo provoca.
A mio parere, per questa serie di motivazio-
ni, è saliente tenere in considerazione, per
il progetto di un ospedale pediatrico quale
il Burlo di Trieste non solo la sua figura, ma
anche tutti i simpatici e spontanei disegni che
faceva.
Un’identità forte come quella di Pincherle po-
trebbe elevare la figurabilità e quindi l’identità
dell’ospedale stesso.
Fase progettuale
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49
In tale fase progettuale ci si è concentrati su
problematiche reali e concrete date dal con-
fronto innanzitutto con il mondo ospedaliero e
in secondo luogo con i reali bisogni che il Burlo
Garofalo possiede. Le proposte sono semplici e
mantengono come idea di fondo la narrazione
e l’accoglienza.
La struttura, come introdotto, possiede già
un infografica. Di conseguenza, si è cercato di
trovare soluzioni diverse presupponendo, data
la confusione attuale in tale ambito, o il man-
tenimento della stessa o l’eliminazione totale
della segnaletica all’interno dell’ospedale. Con
tali scelte si è posto in primo piano la parte ri-
guardante l’allestimento e la guida.
In un momento successivo sono state aggiunte
quelle piccole cose come la shopper, la cartel-
lina, la tovaglietta per mangiare i biglietti per
le visite, che rafforzano la visione complessiva
e la “portano fuori” dall’ospedale amplifican-
dola all’immagine stessa della città, Trieste.
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Nelle pag ine precedenti avete potuto notare i disegni del dottor Pincherle. La mascotte attuale, come potrete vedere è
un bambino biondo con la carnag ione chiara. La nuova non prevede colore ed è composta da semplici grafismi.
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Bozze iniziali
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In seguito a più prove si è scelto di mantenere il segno gestuale nella realizzazione della nuova
immagine della mascotte introducendo lo stesso dottore ed alcuni animali.
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Partendo dalle riflessioni iniziali l’allestimen-
to si è dimostrato il mezzo migliore per creare
questa sorta di percorso narrativo per i bimbi
all’interno dell’ospedale, la cui “guida” rappre-
senta uno stesso bambino.
Considerando la creatività dell’utente, la ma-
scotte non è stata colorata, ma posta in bianco
e nero.
Il materiale con il quale si sarebbe pensato
di realizzarle dovrebbe avere caratteristiche
specifiche.
Innanzitutto, per dar modo all’utente di inte-
ragire con lo stesso, dovrebbe essere opaco e
lavabile.
Inoltre in altezza non dovrebbe superare il
metro e cinquanta, in modo tale che potrebbe
essere visto sia dal bambino piccolo ma anche
quello disteso in un lettino.
L’allestimento
4200 mm
55 mm
200 mm
1350
mm
150
mm
100
mm
1840mm
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4200 mm
55 mm
200 mm
1350
mm
150
mm
100
mm
1840mm
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Le immagine scelte, si ispirano al mondo delle
fiabe, all’immaginario infantile.
In ognuna di esse vi si possono trovare ele-
menti alle favole più conosciute ma il fattore
realmente importante è che siano inserite in
contesti del tutto comuni e quasi banali (come
ad esempio, le balene nel lavandino).
I colori dominanti sono il blu e il giallo che
esprimono contemporaneamente pace, vigore.
Il tutto contribuisce a creare un atmosfera so-
gnante e fantastica
61
62
Il pr incipio che accomuna tutte le illustrazioni del progetto, è: la fantasia si può trovare ovunque, la mag ia e l’incanto ci potrebbe essere, ci dovrebbe essere sempre nella vita tutti, anche in ospedale.
63
64Possibile collocamento all’interno dei corridoi dell’allestimento
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1350
mm
150
mm
100
mm
1250 mm
55 mm
200 mm 800 mm
1350
mm
150
mm
100
mm
1250 mm
55 mm
200 mm 800 mm
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Tali pannelli di dimensioni inferiori rispetto ai primi, dovrebbero essere collocati all’interno delle stanze ma anche in tutte quelle zone (come le sale di attesa) che attualmente non possiedono un alto livello di figurazione.Anche con questi il bambino avrebbe la possibilità di interagire. Inoltre queste avrebbero la possibilità di movimento tramite piccole e nascoste rotelle.
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Burlo Garofalo di Trieste
Accessori
Quale miglior modo di conservare documenti,
e oggetti vari, dati strada facendo nel percorso
sanitario?
Per facilitare l’utente si sono pensati due
gadget che lo potrebbero aiutare: una cartelli-
na e una shopper.
Inoltre dei colorati biglietti sono utili per ricor-
darsi gli appuntamenti medici.
La tovaglietta fa parte del progetto di acco-
glienza, e verrà regalata all’utente al conclu-
dersi della degenza.
Quale miglior modo di elevare e portare l’im-
magine del Burlo nella stessa Trieste?
Il colore utilizzato per la cartellina, la shopper e le guide è:
C=0
M=55
Y=100
K=0
Sopra: piatto del packaing della shopperA lato: foto della shopper riprodotta in scala 1:1,5
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Burlo Garofalo di Trieste
Sopra: piatto del packaing della cartellinaA lato: foto della cartellina riprodotta in scala 1:1,5
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Buon Appetito Bon Appétit Good Appetite Guter Appetit
280 mm
400 mm
I.R.C.C.S. Burlo Garofalo di Trieste
Appuntamento
Giorno...................Ore...........
Dove......................
Giorno...................Ore...........
Dove......................
Giorno...................Ore...........
Dove.......................
Giorno...................Ore...........
Dove........................
I.R.C.C.S. Burlo Garofalo di Trieste
Appuntamento
Giorno...................Ore...........
Dove......................
Giorno...................Ore...........
Dove......................
Giorno...................Ore...........
Dove.......................
Giorno...................Ore...........
Dove........................
105 mm
75 mm
Ogni qual volta viene prenotata una visita medica è possibile usuffruire di questi colorati biglietti.La grafica scelta dovrebbe invogliare l’utente a non solo a non perderlo ma farne una sorta di souvenir.
A lato: la tovaglietta, oltre ad allietare il desinare del fanciullo avrebbe la funzione di gadget/regaloda portare a casa
scala 1:1,5
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Buon Appetito Bon Appétit Good Appetite Guter Appetit
280 mm
400 mm
I.R.C.C.S. Burlo Garofalo di Trieste
Appuntamento
Giorno...................Ore...........
Dove......................
Giorno...................Ore...........
Dove......................
Giorno...................Ore...........
Dove.......................
Giorno...................Ore...........
Dove........................
I.R.C.C.S. Burlo Garofalo di Trieste
Appuntamento
Giorno...................Ore...........
Dove......................
Giorno...................Ore...........
Dove......................
Giorno...................Ore...........
Dove.......................
Giorno...................Ore...........
Dove........................
105 mm
75 mm
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La guida
Questa rappresenta l’attuale guida dell’ospe-
dale. Questa dovrebbe essere riprodotta in sei
lingue. Nel progetto si è pensato di non rea-
lizzare una semplice guida ma di diversificare
l’utenza.
Inoltre queste, sono costose per essere stam-
pate. Indi per cui si nella realizzaione si ha
tenuto conto della semplice riproducibilità,
anche mezzo fotocopia.
La prima è stata creata per gli adulti con tutte
le informazioni utili per muoversi all’interno
dell’ospedale compresa la mappa.
Quest’ultima dovrebbe sostituire le diverse ti-
pologie di infografica presenti nell’edificio.
Un secondo libretto prevede una guida e un
diario per il bambino.
Quest’ultimo è saliente rispetto alle tematica
affrontate precedentemente. Il bambino può
scriverci quello che desidera e vi sono degli
spunti per fare dei disegni ed esprimersi.
La rilegatura scelta permette sia di aggiungere
fogli che toglierli per regalarli a chi desidera.
Il carattere scelto è il Caecilia poiché molto
leggibile anche se di dimensioni inferiori.
Il colore scelto è l’arancione poiché già presen-
te nella grafica attuale quindi mantenuto per
un fatto di riconoscibilità e coerenza.
In alto: guide esistentiA destra: nuove proposte
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sale operatorie
rianimazione degenze e day-hospital ortopedia
ostetricia e ginecologia
farmacia e sterilizzazione
radiologia area parto
medicina pediatrica e terapia intensiva neonatale
pronto soccorso pediatrico
pronto soccorso ostetrico ginecologico
oculistica e odontoiatra
CUP
Piano Terra
Primo piano
Secondo piano
neuropsochiatria infantile ostetricia e ginecologia ostetricia e ginecologianido
clinica pediatrica emato-oncologia
Terzo piano
Quarto piano
In basso: la mappa che aiuterebbe l’utente a orientarsi.A destra: esempi di pagine della guida
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80Sopra: esempi pagina del diarioA lato: esempi guida in inglese
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Http://beaumontchildrenshospital.comwz
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Ringraziamenti
Penso che ogni persona alla fine di tre anni di
studio debba ringraziare tantissime persone,
ma allo stesso tempo scusarsi con le stesse.
Innanzitutto sono grata a mamma e papà
sponsor ufficiali della tesi, supporto morale
anche solo per telefono, altresì nell’ultimo
anno. Ringrazio Sara per le idee, per avermi
sopportato e aver creduto sempre in me, e
Davide per aver fatto da cavia.
La distanza spesso crea dei buchi, e per questo
ringrazio coloro che mi sono stati vicini.
Anche quando tornavo a casa dopo due mesi
erano li ad aspettarmi, Chiara, Chiara, France-
sca, Anna, Christian, Marta, Damiano (sapete
di cosa sto parlando).
L’ultimo anno è stato difficile, causa i proble-
mi di salute, per questo tutti, tutti i compa-
gni di corso che oltre ad aver incrementato la
mia esperienza e cultura, mi sono stati vicini
e sostenuto.
Esprimo riconoscenza in particolare a Sissi,
mia copilota e grande amica, per i lunghi
viaggi in macchina con la musica a tutto
volume, per avermi ascoltato anche quando
mi rivelavo noiosa, lagnosa, e ripetitiva.
La lista potrebbe continuare per diverse righe
partendo da coloro che hanno collaborato con
aiuti di vario tipo, quali Luisella, Dario e Ago-
stina, Paola, Stefano, Olga, Genni e Francesca.
Se dovessi citare le persone che hanno con-
tribuito ho quantomeno partecipato a questo
mio percorso non posso tralasciare Cinzia,
Laura, Jlenia e le mitiche del blocco 250!
Infine ringrazio la professoressa Silvana Sola
che ha contribuito a questo progetto e la
consulenza da parte del professor Roberto
Pieracini.
Grazie, grazie, grazie