Che sinistra dopo il 25 maggio?

5
|19| di Antonio Floridia Direttore dell’Osservatorio elettorale della Regione Toscana Che sinistra dopo il 25 maggio? La politica italiana vive, oramai da due decenni, sulla spe- ranza salvifica che viene affidata ad un leader: ora sono Renzi e il PD a beneficiare di questa propensione (che per molti ita- liani è anche un alibi) a “delegare” ad un leader la soluzione dei problemi. Anche il successo di Renzi si può leggere all’interno di quel- lo che è stata una “narrazione dominante” nella politica italia- na. Occorre quindi chiederso: quale è stato il “discorso pub- blico” dominante? Ossia: quali sono state le idee, gli schemi interpretativi, il “senso comune”, con cui si leggono le vicende politiche e sociali del nostro paese? Si potrebbe dire che lo schema di gran lunga prevalente è quello tipico del “populismo”, ma occorre chiarire il senso di questa categoria. Possiamo fissare alcuni punti fermi. Il popu- lismo è, innanzi tutto, una sorta di “racconto”, una narrazione con cui si propone una visione della politica. Questo racconto ha alcuni passaggi-chiave. Il primo è quello che contrappone “noi” e “loro”: “noi” cittadini comuni (un corpo indistinto, sen- za interne differenze di idee ed interessi) e “loro”, le élite e le “caste” (non sono quelle politiche, ma anche quelle intellettua- li). Il secondo punto è un’idea dei problemi che la politica de- ve affrontare come di una questione “semplice”: per risolverli,

description

Il contributo di Antonio Floridia al quinto numero della rivista Firenze Dispari, "Che sinistra?"

Transcript of Che sinistra dopo il 25 maggio?

|19|

di Antonio Floridia

Direttore dell’Osservatorio

elettorale della Regione Toscana

Che sinistra dopo il 25 maggio?

La politica italiana vive, oramai da due decenni, sulla spe-ranza salvifica che viene affidata ad un leader: ora sono Renzi e il PD a beneficiare di questa propensione (che per molti ita-liani è anche un alibi) a “delegare” ad un leader la soluzione dei problemi. Anche il successo di Renzi si può leggere all’interno di quel-

lo che è stata una “narrazione dominante” nella politica italia-na. Occorre quindi chiederso: quale è stato il “discorso pub-blico” dominante? Ossia: quali sono state le idee, gli schemi interpretativi, il “senso comune”, con cui si leggono le vicende politiche e sociali del nostro paese? Si potrebbe dire che lo schema di gran lunga prevalente è

quello tipico del “populismo”, ma occorre chiarire il senso di questa categoria. Possiamo fissare alcuni punti fermi. Il popu-lismo è, innanzi tutto, una sorta di “racconto”, una narrazione con cui si propone una visione della politica. Questo racconto ha alcuni passaggi-chiave. Il primo è quello che contrappone “noi” e “loro”: “noi” cittadini comuni (un corpo indistinto, sen-za interne differenze di idee ed interessi) e “loro”, le élite e le “caste” (non sono quelle politiche, ma anche quelle intellettua-li). Il secondo punto è un’idea dei problemi che la politica de-ve affrontare come di una questione “semplice”: per risolverli,

basta la buona volontà, uno spirito decisionista, “tirar dritto”, poche chiacchiere e discorsi, fare le cose e non stare a lì a di-scutere e a riflettere più di tanto. Le due cose sono collegate: se le cose sono, in fondo, semplici, allora non occorrono par-titi, sindacati, associazioni, rappresentanze, “filtri”, regole. Ba-sta “uno di noi” per risolvere i problemi. Il “discorso pubblico”, in Italia, continua ad essere segna-

to da questa vera e propria ideologia, e da una cultura poli-tica (mai veramente sconfitta, nella storia del nostro paese) che lega insieme particolarismo e scarso senso civico, nel-la società civile, e “miopia” politica, nel governo delle istitu-zioni (ossia, letteralmente, una politica che non sa guardare lontano e non si pone nemmeno il problema). Tutto ciò è og-gi aggravato dalla progressiva scomparsa di anticorpi, o di “corpi intermedi”, in grado di introdurre nella sfera pubbli-ca qualche elemento di razionalità e lungimiranza. L’opinio-ne pubblica italiana è “invertebrata”, esposta alle più svariate ondate, volatile e fragile, piena di sospetti e di risentimen-ti. E, quel che è più grave, la politica insegue questo magma, cerca di adeguarvisi o di sfruttarlo, ben raramente cerca di contrastarlo. Ed è facile quindi innestare un tipico “ciclo” di

Credo che il solo terreno su cui il Pd

possa sperare di consolidare questa massa

magmatica di consensi sia quello di lavorare

seriamente a ri-costruire un “partito”

Che sinistra dopo

il 25 maggio?

|21|

entusiasmo e delusioni, di attese e disillusioni. Su questo, il PD di Renzi rischia moltissimo. Per questo, credo che il solo terreno su cui il PD possa

sperare di consolidare questa massa magmatica di consensi sia quello di lavorare seriamente a ri-costruire un “partito”, e un partito degno di questo nome. Ma, proprio su questo terreno, mi sembra che non solo ci sia molto lavoro da fare, ma anche che le idee che sembrano prevalere all’interno del PD non siano affatto consapevoli di quali possano essere le risposte giuste. Non solo: sotto l’ombrello di un “leader vin-cente”, si vive spesso alla giornata, non si riflette su cosa pos-sa e debba essere questo PD (che giustamente Ilvo Diamanti, chiama “PDR”, il “partito di Renzi”), su quale sia la sua iden-tità politica e culturale, quale “immagine dell’Italia” e della democrazia ne ispira l’azione… E, soprattutto, quale sia il modo di intendere la “demo-

crazia interna”, il modo di lavorare e di decidere, di questo partito: prevale una interpretazione plebiscitaria della de-mocrazia. Ma davvero, gli elettori delle primarie, e gli eletto-ri del 25 maggio, hanno dato una “delega in bianco” per quel-

Nel PD, in realtà, si discute poco

e si decide male: non basta affidarsi

al mero ruolo di ratifica di organi dirigenti

che sono stati eletti come diretta dependance

del leader

|22|

la specifica riforma del Senato? È semplicemente aberrante interpretare in questo modo il rapporto tra il leader e la “fol-la”… Nel PD, in realtà, si discute poco e si decide male: non ba-sta affidarsi al mero ruolo di ratifica di organi dirigenti che, in realtà, sono stati eletti come diretta dependance del leader, e poi appellarsi alla disciplina di maggioranza. Nessuno met-te in dubbio il fatto che, ad un certo punto, una discussione debba sfociare in una decisione: ma chi, e come, ha potuto veramente discutere quella scelta? si è costruito un processo di dialogo veramente inclusivo, che permetta a tutti – anche a chi non si riconoscerà nella scelta finale – di poter dire: “sì, non sono d’accordo, ma ho contribuito alla discussione, e di quel che ho detto si è tenuto conto”? Se il PD non affronta questi nodi, non riuscirà ad essere

veramente una “casa comune”, in cui tutti possano veramen-te riconoscersi: e sarà ben difficile costruire un legame un po’ più solido con la società italiana, con le diverse tradizioni di cultura politica che la compongono. Se non si farà questo, si potrà sperare solo sulla “tenuta” del traino personale del leader: ma in presenza di questa volatilità”, questi tipi di lea-dership sono estremamente vulnerabili, e possono improv-visamente rivelarsi molto deboli. È vero che viviamo in un’e-poca di personalizzazione della leadership, ma “personale” non vuol dire “solitaria”…

Che sinistra dopo

il 25 maggio?