Chabod Storia Della Politica Estera Italiana Dal 1870 Al 1896 Parte 1

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Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896 di Federico Chabod Storia d’Italia Einaudi

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Storia dellapolitica esteraitaliana dal 1870al 1896

di Federico Chabod

Storia d’Italia Einaudi

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Edizione di riferimento:Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896,Laterza, Roma-Bari 1971

Storia d’Italia Einaudi II

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Sommario

Prefazione 1

Avvertenza 14

Parte prima. Le passioni e le idee 17

Capitolo Primo. La guerra franco-prussiana el’Italia

17

I. L’insegnamento della Prussia 17

II. La lezione della «realtà» 86

III. Contro la «realtà» bismarckiana 110

Capitolo Secondo. L’idea di Roma 165

I. La «missione» di Roma 165

II. Scienza o renovatio ecclesiae? 191

III. L’ombra di Cesare 258

IV. Gli antiromani 289

Capitolo Terzo. L’ordine e la libertà 299

I. Il programma conservativo 299

II. Il mondo dei savi 325

III. La libertà e la legge 360

Capitolo Quarto. Presente e avvenire 408

Parte seconda 437

Capitolo Primo. Le cose.. 437

I. Finanza ed esercito 437

Storia d’Italia Einaudi III

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II. L’apatia politica 457

III. Grande politica o politica dellatranquillità?

474

Capitolo Secondo. ... E gli uomini 508

I. Emilio Visconti Venosta 508

II. Costantino Nigra 537

III. Il Conte de Launay 551

IV. Il Conte di Robilant 555

V. Lanza e Minghetti 575

VI. Vittorio Emanuele II 577

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PREFAZIONE

Le origini di questo lavoro risalgono, ormai, lontano.Nel 1936, l’Istituto per gli Studi di Politica Internazio-nale, per iniziativa di Alberto Pirelli, suo presidente, diPier Franco Gaslini, segretario generale, e di Gioacchi-no Volpe, affidò infatti il compito di scrivere, su basedocumentaria nuova, una Storia della politica estera ita-liana dal 1861 al 1914, al compianto Carlo Morandi – al-la cui memoria rivolgo il mio pensiero – a Walter Matu-ri, ad Augusto Torre e a me, che assunsi l’impegno per ilperiodo dal 20 settembre 1810 al marzo 1896.

L’aiuto che avemmo dall’Istituto fu, sotto ogni riguar-do, prezioso: e sia, perciò, espressa qui la mia viva grati-tudine ad Alberto Pirelli e ad Alessandro Casati, a Gioac-chino Volpe, a Pier Franco Gaslini, a Gerolamo Bassani,attuale segretario generale dell’I.S.P.I. E anzitutto: perquell’aiuto ci fu possibile ottenere libero accesso all’Ar-chivio Storico del Ministero degli Affari Esteri, esploran-dolo compiutamente, con un lavoro continuo durato ol-tre sei anni, fra il 1936 e il 1943; ci fu possibile, cioè, assi-curare al nostro lavoro la indispensabile base documen-taria, necessaria premessa che era stata all’origine stessadell’iniziativa.

Questa base documentaria non è rimasta, tuttavia, lasola. Sempre più nel corso delle ricerche emergeva lanecessità di integrare i carteggi ufficiali con quei carteggipersonali, privati, i quali – per la storia d’Italia non menoche per la storia degli altri paesi – ne costituiscono l’in-dispensabile complemento, quello che solo, talora, per-mette di veder chiaro e preciso negli sviluppi di una si-tuazione e nell’atteggiamento di un governo. Certi giudi-zi e certi perché non si troveranno mai in nessun carteg-gio ufficiale. Quindi, non solo necessità di estendere le

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ricerche ad altri archivi pubblici, dove pure sono deposi-tati carteggi e diarî o, comunque, documenti interessantidirettamente la politica estera italiana (valgano, come so-lo esempio, le carte Visconti Venosta e Depretis dell’Ar-chivio Centrale dello Stato, a Roma); ma anche, quandofosse, possibile, ad archivi privati. Pure qui la fortuna mifu amica: ché, nella quasi totalità, i discendenti o con-giunti di antichi ministri e ambasciatori mi apersero, consignorile larghezza, i loro archivi. Anche questo materia-le, raccolto – oso dire – con paziente ricerca di vari an-ni, verrà da me inserito nella gran raccolta a stampa deiDocumenti Diplomatici Italiani, di cui escono ora i pri-mi volumi. Chiamato a far parte della Commissione chea tale pubblicazione attende, curerò infatti l’edizione deiDocumenti fra il 1870 e il 1896; e confido che l’inseri-mento in essa di documenti di archivi privati – per la pri-ma volta, nel confronto con le analoghe raccolte stranie-re – gioverà assai ad offrire un quadro quanto più pos-sibile completo, non solo dell’azione, sì anche degli in-tendimenti che all’azione mossero gli uomini di governoitaliani in quel periodo.

E siano, dunque, ricordati con gratitudine il compian-to marchese Giovanni Visconti Venosta di Sostegno, chemise a mia disposizione le carte di Emilio Visconti Ve-nosta; e il compianto senatore Francesco Salata, che miconsenti di valermi delle sue copie di fascicoli di docu-menti dell’Archivio di Vienna, che a me non era statopossibile consultare in loco.

Sia espresso il mio ringraziamento al Capo della Casadi Savoia, che, con grande liberalità, mi ha consentito divalermi dei documenti dell’archivio personale di VittorioEmanuele II.

E sono grato alla marchesa Dora Daniele di Bagni; perle carte Mancini; a donna Maria Pansa, per il diario delconsorte, Alberto; al conte Cesare Maria de Vecchi diVal Cismon, per le carte Nigra.

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Agli archivi italiani, pubblici e privati, occorreva infi-ne affiancare, per quanto fosse possibile, gli archivi este-ri. Anche quando la pubblicazione ufficiale per gli attidel periodo 1871-1896 era già avvenuta, la ricerca appa-riva necessaria: non potendosi nelle grandi raccolte pub-blicare tutto, era ovvio che molta parte del materiale ri-guardante direttamente l’Italia giacesse ancora inesplora-ta negli archivi – siccome mi doveva pienamente confer-mare la ricerca negli archivi del Quai d’Orsay, e il con-fronto fra il materiale ivi da me raccolto e quello – po-chissimo – pubblicato nei Documents Diplomatiques Fra-nçais per gli anni dal 1871 al 1876. Né v’è da insistere sulfatto che nella Grosse Politik tedesca le tracce della cor-rispondenza diretta fra Berlino e Roma sono nulle, finoal 1880.

Riuscito vano il tentativo di ottenere il permesso diconsultare le carte degli archivi tedeschi, mi fu invecepossibile la ricerca completa, per tutto il periodo fino al1896 nell’Archivio di Vienna; e nell’Archivio del Quaid’Orsay, qui nei limiti di tempo prescritti dalle disposi-zioni vigenti. Dei documenti inglesi spero di poter pren-dere visione per l’ulteriore corso del lavoro e i problemispecifici che in esso si presenteranno.

E anche qui desidero concludere ringraziando i fun-zionari dei vari archivi, segnatamente i funzionari del-l’Archivio del Ministero degli Affari Esteri, a Roma;l’ambasciatore Raffaele Guariglia e il prof. Ruggero Mo-scati, che mi hanno trasmesso i documenti e le notiziedall’archivio di Vittorio Emanuele II, di cui mi valgo; icolleghi ed amici che mi hanno dato prezioso aiuto, nelcorso delle ricerche o durante la collazione delle bozzesugli originali, per i documenti e i testi a stampa: la prof.Maria Avetta e la prof. Emilia Morelli, l’on. prof. Ro-berto Cessi, i proff. Giorgio Cencetti, Luigi Bulferetti,Carlo Cipolla, Armando Saitta, i dott. Rosario Romeo eGiuseppe Giarrizzo che si sono anche addossato l’one-

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re della compilazione dell’indice dei nomi del presentevolume1, con cui ha inizio la pubblicazione della Storiaanimosamente assunta dall’editore Laterza.

Il quale presente volume non è, né intende essere,dedicato già all’analisi, cronologicamente condotta, deiproblemi specifici e delle varie fasi della politica esteraitaliana fra il 1870 e il 1896. Se certo vi sono accenni atali problemi – e talora, anche, più che accenni, destinatid’altronde ad essere ripresi e svolti compiutamente atempo e luogo – ciò avviene soltanto per chiarire le lineefondamentali, direi l’impostazione stessa della ricerca.La narrazione distesa e continua verrà fatta nel corso diuna serie di volumi – quattro, presumo – che seguiranno.

Perché, prima di tessere l’ordito minuto di quella po-litica, prima di immergermi nella parte più specifica, piùtecnica direi del mio assunto, mi è sembrato indispensa-bile chiarire quali fossero le basi, materiali e morali, sucui quella parte specifica e tecnica necessariamente po-sava, quale il complesso di forze e di sentimenti ond’eraavvolta ed entro cui doveva muoversi, in quel momentostorico, anche la iniziativa diplomatica. Vale a dire, pas-sioni e affetti, idee e ideologie, situazione del paese e uo-mini, tutto ciò in una parola che fa della politica esteranient’altro che un momento, un aspetto di un processostorico assai più ampio e complesso, abbracciante tuttaquanta la vita di una nazione, e non consente comparti-menti stagni, e il momento dei rapporti con l’estero legastrettamente e indissolubilmente all’altro, della vita mo-rale, economica, sociale, religiosa all’interno.

La politica estera di uno Stato – quale esso sia – non sicompendia nelle sole trattative diplomatiche, nei carteg-gi fra il ministro degli Esteri e gli ambasciatori, così come– e questo è pacifico, più universalmente ammesso – lapolitica interna non si riassume nella corrispondenza deiprefetti col ministro, e nemmeno soltanto nella lotta deipartiti valutati esclusivamente in correlazione ai proble-

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mi interni, senza nessi con le ripercussioni di eventi in-ternazionali, e con le vicende di altri partiti in altri paesi.Presumere di chiudersi nell’uno o nell’altro di questi dueastratti compartimenti, e, ben chiusi dentro, presumeredi cogliere il significato e il valore delle vicende, sarebbeun tentativo simile a quello di chi ritenesse di provvede-re all’illuminazione delle grandi metropoli odierne conqualche lume a petrolio.

Per vero, se nelle maggiori e più significative tenden-ze della storiografia moderna, in Italia come fuori d’Ita-lia, s’è avvertita e s’avverte tuttora certa insofferenza, anon dir fastidio della cosiddetta storia diplomatica, ciòè dovuto, per molta parte, all’essere tale storia condot-ta, non sempre senza dubbio (esempi insigni in contrarionon mancano), ma pur troppe volte ancora, se anche tec-nicamente in modo eccellente, tuttavia con una certa an-gustia sostanziale di visione: nel migliore dei casi, anco-ra e sempre, in pieno Novecento, s’osserva il permaneredi una valutazione che ci riconduce alle origini della sto-riografia moderna, ai criteri – allora legittimi e fecondidi novità – puramente politico-diplomatico-militari degliscrittori fra Cinquecento e Seicento.

È ben vero che, per coonestare un simile modo di va-lutare, s’invocano i cosiddetti «interessi permanenti» diun paese, sorta di divinità ascosa che dovrebbe star al di-sopra di tutto quanto costituisce la vita concreta di unpopolo, lotte politiche, ideali e ideologie, cozzar di pas-sioni, per costituire il presupposto e lo scopo della politi-ca estera, la stella polare a cui tener l’occhio fisso duran-te la navigazione perigliosa, senza curar il resto. Ma se ildire che l’interesse di uno Stato deve costituire il moti-vo centrale delle preoccupazioni e dell’azione dei politi-ci di quello Stato, è dir cosa perfin banale talmente è ov-via – e ben ribadita da una tradizione secolare anche insede dottrinaria, cominciando dal Machiavelli e dal ducadi Rohan – l’aggiungere il «permanente», non fa che por-

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re in piena luce le strettoie fra cui ci si dibatte nel vanosforzo di costituire una sfera «politica estera», indipen-dente da tutto il resto e sovrastante la sfera della cosid-detta politica interna. Gli interessi permanenti sono unapura astrazione dottrinaria: di simili interessi, immuta-bili e fissi, nessuna storia di nessun paese ha mai offertoesempio, quando ne offre invece, a iosa, di più o menorepentini «capovolgimenti delle alleanze», di clamorosispostamenti nei rapporti fra le varie potenze, fine di quelche si denomina sistema politico ed inizio di un nuovosistema a sua volta destinato poi a scomparire.

Per il politico assai prima che per lo storico, il difficilesta nel valutare esattamente quali siano, in «un» determi-nato momento, gli interessi preponderanti; perché a cre-dere alla necessità e fatalità per esempio di certi contra-sti, può capitare come ai politici della Germania gugliel-mina che ritenevano impossibile l’accordo tra Inghilterrae Russia, e poi si vide come le cose andassero a finire.

Continuo movimento, processo storico sempre diffe-renziato e mai misurabile sul metro del passato, anche lavicenda dei rapporti internazionali non conosce le per-manenze immutabili.

Vero è anche che, ai tempi nostri, s’è cercato di costi-tuire un saldo fondamento fisico a quelle supposte per-manenze; e ricoprendo con nomi nuovi e pomposi co-se di vecchio buon senso, ma spesso soffocando il buonsenso e le vecchie cose buone sotto il peso di sciocchez-ze moderne, s’è scoperta la geopolitica. Dal fatto, tan-to ovvio anch’esso ch’è banale il ripeterlo e antico quan-to il pensare umano, dell’importanza fondamentale chela posizione geografica di un paese ha agli effetti dei suoirapporti con l’estero, si è cercato di far nascere un nuo-vo determinismo su basi geografiche, un meccanicismofatalistico per cui la natura condizionerebbe la storia diun paese. Quel che conti il «sito» sapevano già assai be-ne i teorici e i pubblicisti di molti secoli fa; e ne parlaro-

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no largamente poniamo i cinquecentisti, assai più accortituttavia nel lasciare amp io campo libero alla virtù uma-na, non schiava nemmeno del sito: ma i moderni dottri-nari han creduto di poter ridurre quel campo aperto, inun vano anelito alla scoperta di leggi fisse a cui far sotto-stare le vicende di un paese. Né si riflette che uno Statoha sempre avuto dinnanzi a sé almeno due vie diverse daseguire: e il difficile – al politico nel decidere, allo storicopoi nel comprendere – è tutto qui e soltanto qui, qualescegliere in quel determinato momento, in quella precisasituazione. Del che pure son piene le storie, dai tempi diCarlo VIII – a non risalir più su – dalla mainte disputa-tion alla sua corte fra i sostenitori dell’impresa d’Italia ele gens saiges et experimentéz che la trovavano invece trèsderaisonnable e non volevano saperne des fumées et gloi-res d’Italie; o dai tempi di Carlo V e delle contese, anchequi, tra i fautori e gli avversari della sua politica italiana.

Polemiche e contrasti poi trapassati assai arbitraria-mente anche nella storiografia, ad opera di studiosi i qua-li, persuasi che l’interesse politico prevalente dell’epocain cui essi scrivevano fosse un Assoluto, e facendo del-le loro preoccupazioni politiche un criterio di valutazio-ne storiografica anche per il lontano passato, condanna-rono per esempio come vana, dispersiva e innaturale lapolitica italiana di Carlo VIII e di Luigi XII, mentre uni-ca naturale politica per la Francia sarebbe dovuta esserela politica renana: trasposizione illegittima di preoccupa-zioni francesi dell’Ottocento e del Novecento nel mondodi fine Quattrocento. Oppure – esempio tipico – la lun-ga polemica in terra tedesca, dal von Sybel al von Belowe oltre, contro la italienische Kaiserpotitik del Medioevo,che sarebbe stata anch’essa una innaturale, deplorevoledispersione di forze tedesche verso il sud, causa di logo-ramento della monarchia germanica, della mancata crea-zione di un saldo Stato nazionale germanico, e ostaco-lo ad una più naturale e fruttuosa Ostpolitik: anche qui

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con una indebita trasposizione di preoccupazioni e pro-blemi germanici dell’Ottocento e del Novecento ai seco-li X-XIII. Tanto facilmente si è indotti a qualificare dapermanenti, eterni, interessi ed aspirazioni del momentopolitico in cui si vive!

Ora, è bene nel momento della scelta che sulle deci-sioni propriamente di carattere internazionale pesa – al-meno dai tempi della Rivoluzione Francese in poi – tut-ta la vita di un popolo, nelle sue aspirazioni ideali e nel-le ideologie politiche, nelle condizioni economiche e so-ciali, nelle possibilità materiali come nei contrasti inter-ni d’affetti e di tendenze. E qui la storia diplomaticapura – come storia tecnica di relazioni fra governi – hail suo limite. I diplomatici puri, fermi ancora all’idealedegli arcana imperii dell’Antico Regime, possono bensìsdegnarsi per le intrusioni «indebite» nel calcolo diplo-matico di elementi nient’affatto diplomatici, e soprattut-to delle ideologie politiche; possono sognare un nuovoStato di Utopia ove questi impuri contatti non avvenga-no: tali chimere vengono regolarmente spazzate via dal-la storia, che non conosce gli schemi astratti di una po-litica estera e di una Politica interna, nettamente distin-te l’una dall’altra, come non conosce «primati» dell’unao dell’altra, ma vede l’una e l’altra strettamente associa-te, fuse insieme, talora fattori di carattere più specifica-mente interno riverberandosi con maggior forza sull’at-teggiamento verso l’estero, talora invece fattori di carat-tere internazionale più modellando anche le vicende in-terne, a cominciare dalla stessa lotta fra i partiti. Del che,s’altra mai, è classico esempio proprio la storia dell’Italiaunita.

Impossibile, perciò, a chi voglia studiare la politicaestera italiana non rendersi conto, prima, che cosa fos-se quest’Italia nella sua formazione unitaria, non ricono-scere i molti elementi che le avevano dato vita e la cuipresenza si faceva – oh quanto chiaramente! – avverti-

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re anche nelle varie impostazioni e soluzioni vagheggiateper la politica estera. Soltanto su questo sfondo gli eventiinternazionali possono poi assumere il loro giusto rilievo.

Così come sarebbe opportuno – sia lecito auspicarlo– che coloro i quali attendono a ricerche specifiche suiproblemi della cosiddetta politica interna, non dimenti-chino che essi sono, a loro volta, strettamente allaccia-ti con quelli esterni e ne subiscono variamente l’influsso:siccome capita invece di osservare anche troppo di fre-quente, quando si leggono ricostruzioni storiche in cuil’Italia appare un po’ come una nuova Luna, mondo asé, perfettamente isolato, capace di regolare da sé solola sua vita; e perciò anche s’ascoltano ammonimenti sulcome si sarebbero dovute svolgere le cose, poniamo nelRisorgimento (e, naturalmente, non si sono svolte così),senza che mai sembri affiorare almeno il dubbio se nel-l’Europa, costituita com’era allora, sarebbero state possi-bili, anche solo per l’Italia, certe soluzioni; senza che maiil ricordo del ’48-’49 e del fallimento generale della rivo-luzione europea serva a mettere in guardia, almeno, sul-la necessità di tener ben presente, anche nel giudizio sul-la sola storia d’Italia, quel che, allora, fosse possibile inEuropa.

Rendersi, dunque, conto di quali forze ideali e morali,di quali interessi, di quali aspirazioni si componesse la vi-ta dell’Italia unita: forze, interessi, aspirazioni che avreb-bero condizionato, di volta in volta, lo stesso procede-re diplomatico, così come sulla situazione internaziona-le dell’Italia avrebbero pesantemente gravato – più forseche per altri paesi – atteggiamenti, manifestazioni e agi-tazioni all’interno. La rumorosa, violenta esplosione dimalcontento e di proteste, nell’estate del 1878, dopo ilCongresso di Berlino, o le accresciute manifestazioni an-ticlericali nel 1881 – la prima e le seconde strettamen-te collegate con tradizioni, passioni e tendenze dell’ani-ma italiana d’allora – significarono qualche cosa anche

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per la posizione dell’Italia di fronte all’Europa; e le pre-occupazioni di politica interna giocarono assai più chenon si sia spesso creduto nella conclusione della TripliceAlleanza.

Tutto ciò – che significa cogliere oltre che atteggia-menti e fatti, anche impressioni e stati d’animo, oltre chel’azione del governo anche le opinioni – consente altresìdi rendersi meglio conto del perché di certo agire di go-vernanti, anche se a distanza di tempo quell’agire sia poiapparso erroneo. È troppo comodo giudicare a distan-za di cinquanta o sessant’anni, allo storico che, post fac-ta, può conoscere intenzioni e mosse anche segrete dellevarie parti che agiscono sulla scena internazionale, cioèdei vari Sfiati; troppo comodo, quando non ci si chiedaanche se, allora, quel che si poteva sapere degli intendi-menti di un altro governo e le impressioni che s’avevanoe i giudizi comuni non giustificassero, invece, un atteg-giamento poi risultato sbagliato. Da errori simili nem-meno i grandissimi fra gli uomini di Stato, nemmeno unCavour e un Bismarck, furono immuni; e a ragion mag-giore gli altri. E basti, al riguardo, quel grosso errore diprospettiva politica che consisté, ancora dopo il ’70, nel-l’attribuire al Bismarck sempre il segreto pensiero di an-nettere l’Austria tedesca al Reich: grosso errore, ma con-diviso da molti, italiani e stranieri, politici e giornalisti, ela cui generalità occorre dunque tener presente, quandoci si trovi dinnanzi, per esempio, alla frase del Crispi alBismarck, nel colloquio del 17 settembre 1877.

In tutto questo, saper infine vedere gli uomini, le sin-gole personalità con i loro pensieri ed affetti: la storia,almeno fino ad oggi, è stata fatta dagli uomini e non daautomi, e dottrine e cosiddette strutture, che in sé e persé dal punto di vista della valutazione storiografica sonopure astrazioni, acquistano valore di forza storica soloquando riescono a infiammare di sé l’animo degli uomi-ni – dei singoli come delle moltitudini – quando diven-

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tano una fede, una religione interiore capace anche dicreare i martiri; quando cioè ideologie o rapporti socia-li diventano un fatto morale, che schiera attorno al pro-gramma di questo o quel partito politico, dietro a que-sta o quella bandiera i molti che solo ora per quell’im-provvisa accensione di una nuova fede – sentono comeingiustizia da combattere quel che per l’innanzi essi stes-si o i loro padri avevano riguardato come una fatalità acui rassegnarsi o addirittura accettato come un fatto nor-male e ovvio – sia che l’ingiustizia appaia nell’essere l’I-talia divisa e serva dello straniero, sia che appaia in undeterminato ordinamento economico e sociale.

Tanto più necessario questo cercare gli uomini quan-do s’abbia a trattare, come nel caso nostro, di storia poli-tica e, soprattutto, di storia dei rapporti politici interna-zionali: laddove, cioè, non soltanto la personalità gene-rale del singolo politico o diplomatico, le sue idee e il suoprogramma, ma il suo stile d’azione costituisce elemen-to mai trascurabile nelle vicende. Il modo di impostare econdurre innanzi una certa politica, il modo di avvicina-re e trattare le singole questioni, il modo di reagire – inuna parola, lo stile – per uomini come i nostri che sonouomini d’azione e non teorici da tavolino valgono alme-no quanto i cosiddetti programmi generali. Per megliodire, impossibile distinguere, in una determinata azionepolitica, quella che è la sostanza e quello che è il mododi mettere innanzi la sostanza: come nell’artista, così nelpolitico – quest’altro artista, che procede per intuizionie non per logica astratta, e, quand’è veramente tale, lo èper grazia di Dio e non per dottrina – forma e contenu-to fanno tutt’uno, e a voler valutare solo il secondo, tra-scurando la prima, si fa uno studio di ideologie e non diazione politica.

Perciò, dunque, cercar di cogliere gli uomini che di-ressero o furono i maggiori esecutori di una politica an-

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che nelle diversità del loro stile, diversità ricche di con-seguenze concrete.

So bene che molta parte della storiografia moderna di-sdegna l’uomo, come tale, e, confondendo i pettegolezzimondani con la ricostruzione morale e spirituale di unapersonalità, aborre dal cosiddetto psicologismo, per cor-rer dietro alle dottrine pure, alle pure strutture o a quel-l’ultimo meraviglioso portato di certa storiografia recen-tissima, le tavole statistiche, le percentuali, le medie, igrafici – tutte cose utilissime entro certi limiti, ma nel-le quali, con qualche diagramma e qualche media stati-stica, si vorrebbe racchiuso il segreto della storia. A leg-gere simili cose, mi vien fatto sempre di pensare al bra-vo generale Cartier de Chalmot, da Anatole France effi-giato mentre è intento a porre la sua divisione in schede:ogni fiche è un soldato, ogni fiche è una realtà; e il bravogenerale manovra, dispone, comanda, studia piani tatti-ci, imperturbabile nella convinzione che la realtà sia li,nelle sue fiches, mai assillato, nemmen per un attimo, daldubbio che, sul terreno, quella vera realtà che sono i suoifanti in carne ed ossa possa reagire agli ordini in modoaffatto imprevisto. Parecchi studiosi di storia sono oggidei generali Cartier de Chalmot: e lasciamoli, dunque, alloro comandar le truppe manovrando fiches.

Con il che, non s’intende certo, nemmeno qui, ritor-nare alla cinquecentesca virtù del principe solo arteficedi storia. Ma sì affermare che, in una determinata situa-zione, l’opera del singolo uomo di Stato interviene sem-pre incidendo sul corso degli eventi: o che, mediocre, silasci infine sommergere dagli eventi, o che, grande, rie-sca invece a incanalarli in un certo modo, a farli svolgerecon un ritmo anziché con un altro, a condurli verso cer-ti sbocchi anziché verso altri, rallentando o spronando,e in ultima analisi facendo sì che nella situazione ch’eglilascerà ai suoi successori rimanga impressa anche la suaorma-maggiore o minore, questo è di volta in volta il se-

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greto della storia. Come, data la situazione geografica diuno Stato, non esiste l’arbitrium indifferentiae, ma benela scelta fra l’una e l’altra via – e la scelta è opera dell’uo-mo, cioè libera; così, in una certa situazione storica nem-meno al maggiore degli uomini di Stato sarà concesso diagire a suo capriccio, ed egli dovrà sempre muovere dal-la realtà che gli sta innanzi – ma questa realtà gli consen-te poi sempre le scelte e i modi differenti di procedereoltre. Dove è appunto la indistruttibile libertà della sto-ria e il segreto del suo sempre imprevedibile dispiegarsifuturo.

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AVVERTENZA

Le abbreviazioni di cui si fa uso nelle note dono leseguenti:

t. = telegramma

d. = dispaccio

r. = rapporto

l. = lettera

s. d. = senza data

l. p. = lettera personale; lettera particolareo lettre particulière

s. n. = senza numero

f. n. = fuori numerazione

conf. = confidenziale

ris. = riservato

FONTI D’ARCHIVIO

I documenti citati senza riferimento archivistico si trova-no nell’Archivio Storico del Ministero degli Affari Este-ri, a Roma, e appartengono alle serie ordinarie: cioè, airegistri dei telegrammi in partenza e in arrivo, ai registridei dispacci, alla corrispondenza politica (rapporti) dellevarie Ambasciate e Legazioni.

Ai documenti del medesimo Archivio, che sono com-presi in serie speciali, è, invece, aggiunta l’indicazione ar-chivistica generale:

AE = Archivio Storico del Ministero degliAffari Esteri, con l’indicazione delfondo specifico, abbreviata nei casiseguenti:

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Ris = Riservato

Cas. Verdi = Cassette Verdi

Si avverte che questi ultimi riferimenti sono basati sul-l’ordinamento dell’Archivio negli anni 1936-43, quandocioè fu compiuta la ricerca. In questi ultimi anni l’Archi-vio è stato riordinato (il riordinamento è anzi ancora incorso); e alle antiche distinzioni in Riservato ecc., è statosostituito un solo complesso sotto la denominazione di:

Archivio del Gabinetto e del Segretariato Generale(1861-87), che comprende dunque le serie speciali di-stinte dalla corrispondenza politica ordinaria, telegrafi-ca ed epistolare. Dalle antiche indicazioni si passa tutta-via, grazie alle apposite concordanze, senza difficoltà allenuove; perciò, si sono mantenuti i riferimenti precisi delmomento della ricerca. Si avverte infine che nelle carteRobilant (che stanno a sé, fuori anche dall’Archivio delGabinetto), le lettere del Robilant al Corti sono in copiadattiloscritta.

Per altri archivi, le abbreviazioni sono le seguenti:

ACR = Archivio Centrale dello Stato, Roma

ABP. CP = Archives du Ministère des AffairesÉtrangères, Paris, CorrespondancePolitique.

Si avverte, anche qui, che i riferimenti ai volumi sonofatti secondo la classificazione vigente fino a questi ulti-mi tempi: classificazione per cui la corrispondenza conil rappresentante francese presso il Re d’Italia aveva con-tinuato la numerazione del precedente fondo Sardaigne.Proprio di recente, la serie Italie ha avuto numerazio-ne a sé, cominciando con 1 nel gennaio 1861. I volumi379-393, a cui si fa riferimento, sono quindi ora i volumi29-43.BCB = Biblioteca Comunale di Bologna

MRP = Museo del Risorgimento di Pavia

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MRR = Museo e Archivio del Risorgimentodi Roma

MRT = Museo e Archivio del Risorgimentodi Torino

Saw, P.A. = Haus-, Hof- und Staatsarchiv, Wien,Politisches Archiv. Per i fasc. III/112,XI/76 e rot. 459 mi sono valso dellecopie dattiloscritte del Sen. Salata.

Per altri archivi, infine, non si hanno abbreviazioni.FONTI A STAMPA

A.P. = Atti Parlamentari, Discussioni

D.D.F = Documents Diplomatiques Franqais(1871-1914)

G.P. = Die Grosse Politik der EuropàischenKabinette 1871-1914

Libro Verde 17 = Documenti Diplomatici relativi allaQuestione Romana comunicati dalministro degli Affari Esteri (ViscontiVenosta) nella tornata del 19 dicembre1870 [il numero d’ordine 17, secondol’elenco generale a stampa dei LibriVerdi, Documenti Diplomatici (LibroVerde), presentati al ParlamentoItaliano da l 27 giugno 1861, Bibliotecadel ministero degli Affari Esteri(Ufficio Intendenza)].

Salvo espressa avvertenza in contrario, le parole e lefrasi in corsivo, riportate da documenti o da testi a stam-pa, s’intendono sottolineate nell’originale o in corsivo neltesto a stampa.

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PARTE PRIMA

LE PASSIONI E LE IDEE

Capitolo Primo

La guerra franco-prussiana e l’Italia

I

L’insegnamento della Prussia

«Le génie italien va se formuler ici avec une expressionneuve, originale, propre. Les touchantes habitudes del’exil, les attaches du coeur pour les maîtres de la jeu-nesse de la génération aujourd’hui mûre, les conceptionsprogressivement formées à chaque étape de la nation de-puis cinquante ans, le guelphisme, le catholicisme libé-ral, l’Italie et la Papauté collaborant en politique, l’allian-ce des races latines, gardons-les comme souvenirs émou-vants et corame preuves de notre bonne foi et de no-tre bon vouloir dans chaque situation par où nous avonspassé, – mais rompons – en les liens dans notre pensée etdans notre action présente. L’Allemagne, après l’Angle-terre et l’Amérique a pris une telle avance sur le reste dumonde, qu’il faut hâter le pas et courir à la réalité, laisserlà les affections, les réves et l’idéal sentimental, et se sai-sir vigoureusement des seules choses solides et sûres, lascience positive, la production et la force qui provient del’unee ét de l’àutre. J’aime à vous redire ces choses quevous avez dites et depuis longtemps, parce que je sens àRome un esprit, un milieu qui sans être d’une supérioritéintellectuelle ou morale incontestable, me semble devoirdonner à notre activité politique et sociale une tenue plus

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sérieuse et plus. élevée que nous ne l’avons eue à Floren-ce, et moins exclusive que nous ne l’avions trouvée à Tu-rin. Cet effet de l’enthousiasme grave, de l’ardeur ré-fléchie, de la confiance sans jactance, du désir honnêtede faire beaucoup et bien, dont je suis témoin ici, toutle monde le ressent, tous les Italiens des autres provin-ces font éprouvé. Tachons qu’il ne soit pas trompeur ...Heureux qui pourra se trouver dans les parties vives dela grande aurore qui commence pour l’Italie!»

Con tali auspici il segretario generale del Ministero de-gli Affari Esteri, Alberto Blanc, allora in missione a Ro-ma, conchiudeva, il 12 ottobre 1870, una lunga lettera aMarco Minghetti, in quei giorni a Vienna2 Roma italianae supremazia della Prussia in Europa: i due grandi even-ti di quel drammatico settembre del ’70 destinato a noneclissarsi nell’oblio «sinché il moto lontano»3, venivanocosì strettamente associati; nell’uno e l’altro s’intravede-va l’inizio di un novus ordo, e anzitutto la grande auro-ra della terza Italia che, affrancata dai legami del passa-to, doveva marciar risoluta verso l’avvenire, fidando nelricordo e nel genio di Roma e nell’amicizia della potenzagermanica.

E veramente per conto suo il Blanc già sembrava pla-smarsi ad un modo di sentire del tutto appropriato alnuovo indirizzo politico ch’egli vagheggiava. Savoiardoe cresciuto su alla scuola diretta del Cavour4; poi sem-pre legato con gli uomini della Destra, capo di gabinet-to del La Marmora, segretario generale del Visconti Ve-nosta, e dunque per queste sue origini e consuetudini dilavoro uomo che avrebbe potuto – al pari appunto diun La Marmora, di un Lanza, di un Visconti Venosta –sentir ancora, come valori vivi e reali, i souvenirs émou-vants, Blanc dava invece un risoluto addio alle attachesdu coeur, alla tradizione del passato, per orientarsi versonuovi ideali, e non di sola politica spicciola, bensì di vitamorale. Bando agli ideali sentimentali, e viva le sole cose

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«solide e sicure», la scienza, la produzione, la forza: nonera ancora la parola, ma era già il concetto della Realpò-litik di gran moda poi, cioè valutazione delle pure forzetangibili e percepibili, con l’occhio fisico e il calcolo ma-tematico; era il trionfar di una concezione di vita atten-ta soprattutto ai problemi economici, allo sviluppo, subase meccanico-industriale, della civiltà, trasferendosi insecondo piano le preoccupazioni morali e culturali cheavevano, invece, costituito motivo dominante per le ge-nerazioni fra il ’20 e il ’50. Non per nulla, in altra letteraal Minghetti, egli insisteva sull’influsso ogni giorno cre-scente dei fattori economici nella politica internaziona-le, sulla necessità di lasciar che le grandi leggi economi-che producessero liberamente i loro effetti, sempre con-dannando «les tendances de sentimentalité ou de classi-cisme qui dominent encore tant d’esprits distingués cheznous»5. Il suo se saisir vigoureusement des seules chosessolides et sûres era bene espressione di un nuovo mododi porre i problemi della vita politica: e non già perchéprima fossero mancati il senso del concreto, del politica-mente possibile, delle forze vive, che sarebbe suprema-mente ridicolo nonché affermare, neppur pensare, quan-do appunto si rammenti che «prima» c’era stato un Ca-vour; ma perché solo ora si riducevano, così decisamen-te e così apertamente, le forze vive alla tecnica, alla pro-duzione, alla potenza materiale. Politica come pura for-za, quantitativamente precisabile: per questo – si diceva– già affacciarsi di concetti e idee alla prussiana, e asso-migliarsi della réalité propugnata dal segretario generaledegli Esteri, al Reelle a cui, una volta, il Re Sergente ave-va brutalmente richiamato il figlio, l’allora ancor sognan-te Federico6, e affinità fra le sue choses solides e la réalitéche poi, divenuto re, Federico II aveva, a sua volta, po-sto a base del suo agire e che ora appariva nuovamenteil criterio di giudizio del conte di Bismarck – l’uomo delgiorno. Anzi, una realtà ancora più corposa e massiccia,

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costituita non soltanto di battaglioni ben inquadrati e ar-mati ma di molte ciminiere di sonanti officine, e di grancopia di balle di mercanzie accumulate in magazzini e viavia poi per il mondo7.

Era, cioè, di già nel Blanc non solo un’aspirazione ge-nerica a volger la politica italiana nel senso dell’amiciziacon la Prussia, come avrebbero poi fatto molti degli stes-si più ostinati «francofili» del ’70; bensì, un modo di pro-spettare i problemi politici che doveva trovar il suo logi-co coronamento in una propensione di carattere moralee dottrinario verso la nuova Germania. Che era, certo,fatto di gran momento, come quello dal quale, al diso-pra dei singoli episodi diplomatici, sarebbe sorta, vie piùrafforzandosi, l’aspirazione ad accomunare i propri de-stini con le sorti dell’Impero centro-europeo: e l’aspira-zione avrebbe dato i suoi frutti, undici anni più tardi, inquell’inquieta estate del 1881 che avrebbe visto proprionel Blanc uno dei primi e massimi artefici del riavvicina-mento all’Austria e alla Germania, e quindi della TripliceAlleanza.

Per il momento, la parola alleanza non gli veniva an-cor sulle labbra; egli sembrava anzi propendere per unapolitica di attesa, salvo a decidere secondo il futuro det-tasse, o per una triplice Austria-Italia-Francia, se pro-prio la nuova Germania mostrasse tendenze soverchia-mente espansionistiche, o per un’alleanza con la Germa-nia, ove questa, paga dei suoi trionfi militari, si adattas-se a diventare «notre base d’opération continentale pournos destinées futures dans la Méditerranée, où la Fran-ce, et même l’Autriche pour l’Adriatique, sont nos riva-les naturelles»8. Ma già l’accentuare la necessità di attiva-re «les courants naturels qui doivent s’établir entre l’Al-lemagne, les ports italiens et l’Orient», e, per converso,il sottolineare che, prima di costituire un pericolo per lenostre frontiere, la Germania avrebbe dovuto far scom-parire l’Austria9, già questo stava ad indicare verso qual

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parte si rivolgessero, in maniera non dubbia, le simpatiedel Blanc; e più lo confermavano il tono generale del suodiscorso e quel suo ripetuto affermare la necessità di te-nersi ben stretti ad una realtà solida, e la polemica con-tro le tendenze sentimentali degli Italiani: le quali altronon erano che le tendenze cosiddette filofrancesi da cuila politica italiana appariva dominata, da oltre un decen-nio.

Il motivo polemico antifrancese, in un con il senso del-la forza economica e militare prussiana, avviava l’animoe il pensiero verso nuovi modi di sentire e nuove aspira-zioni: e il Blanc lo ribadiva apertamente. Egli non con-divideva i rimpianti dei suoi amici, di non esser inter-venuti a fianco di Napoleone III, perché, mantenendosineutrale, l’Italia aveva acquistata un’indipendenza mora-le prima contestatale dall’Europa. Come la morte di Ca-vour aveva, un giorno non lontanissimo, provato che l’e-sistenza dell’Italia non riposava su di un solo uomo, co-sì ora la caduta di Napoleone provava che le sorti del re-gno non dipendevano da una dinastia straniera10. Sedane il 4 settembre erano, insomma, il crisma apposto all’e-sistenza dell’Italia unita: e non tanto perché ne fosse sta-ta resa possibile l’occupazione di Roma, quanto perchél’Italia aveva dimostrato coi fatti di non essere un pro-tettorato francese, uno Stato vassallo, ma di avere, anzi,personalità propria finalmente chiara a tutti.

Questo tema, ripreso anche da altri uomini della De-stra, ispirante la campagna a pro d’un deciso avvicina-mento alla Germania che il Civinini conduceva nella fio-rentina Nazione11, riappariva con particolar vivacità in unaltro dei diplomatici che avevano parte attiva nella poli-tica estera italiana. Savoiardo anche lui e da tale originereso acre, assai più del Blanc, contro la Francia che l’ave-va fatto straniero alla terra dei suoi avi12; uomo dalle su-bite e impetuose reazioni, il conte Edoardo de Launay,

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ministro d’Italia a Berlino, era già assai più in là del suocollega sulla via dell’amicizia e alleanza prussiana.

Forse ancora gli risuonavano all’orecchio le afferma-zioni cavouriane, che egli stesso un tempo aveva per pri-mo lette: «nous marchons à la téte du grand parti natio-nal italien, comme le gouvernement prussien s’est placéà la téte de l’idée nationale allemande»13; certo, egli erarisoluto, accanito, insistente fin alla monotonia nel soste-nere la necessità dell’alleanza con la Prussia. Bisognavauna buona volta romperla con la Francia, con le pretesesmodate all’egemonia, con le arie di protezione di Pari-gi. Sin dall’inizio della guerra franco-prussiana, egli ave-va espresso chiaro e netto il proprio pensiero, quandoil Visconti Venosta lo aveva avvertito, il 23 luglio, essersuo intendimento circoscrivere il conflitto e quindi rima-nere neutrale, ma dover pure precisare che, nel caso di-venisse impossibile mantenere la neutralità, l’Italia «nonpotrebbe direi quasi materialmente uscirne che per por-si colla Francia»14. E qui il bollente savoiardo era scatta-to: «Mon sentíment national se révolte à l’ ídée que nousne puissions pas être nous-même: que nous soyons ac-couplés au sort de la France: que, le cas échéant, noustournions le dos à l’Allemagne, à laquelle l’avenir appar-tient». Per il bene d’Italia e della dinastia era necessario«rompre avec l’affectation française de nous protéger etde nous traîner à sa remorque»; non fare «la pire des po-litiques sentimentales, en nous rangeant, nous plus fai-bles, du côté du vaincu». Non ci si lasciasse suggestio-nare dal vecchio motivo del pericolo teutonico, perchéi tempi del Sacro Romano Impero erano ormai lontanie quanto al pangermanismo (come al panslavismo) «cesont là de grands mots. Comme les feux follets, quandon court sus, on, les fait reculer»15.

Erano, dunque, idee simili a quelle del Blanc, espres-se con più forza e perentorietà e, anche, continuità, comeche da allora, e per anni, il de Launay non desistesse mai,

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nei molti rapporti e lettere private che da Berlino rivol-geva al ministero o ai colleghi, come il Robilant, dal ri-tornare sul suo chiodo fisso: mostrar i denti alla Francia,farle smettere le arie di superiorità che ancora affettava16.Convinto, fin dal luglio del ’70, della vittoria prussiana17;convinto pure – e mal non s’apponeva – che l’Austriaavrebbe finito col ricercare l’amicizia germanica18, eglipoteva con particolar calore e forza di persuasione darpresso che ebdomadario sfogo al suo rancore contro laFrancia: dove, certo, agiva sotto anche il molto umanorisentimento personale, ma dove però il motivo privatoveniva riassorbito in una motivazione assai più generale,la necessità di riscattarsi dalla soggezione francese, che asua volta faceva del de Launay uno dei molti esponenti diuna gran corrente che attraversava tutta la storia italianadell’Ottocento.

Se nel Blanc trionfo della Prussia e trionfo della civil-tà industriale facevano tutt’uno; se dunque in lui il moti-vo economico già emergeva in primo piano e la sua real-tà somigliava assai alla realtà dell’uomo d’affari, nel deLaunay quell’apprezzamento mancava, ma risorgeva in-vece con maggior veemenza il ben più antico motivo gal-lofobo che aveva contrassegnato tana parte del pensieroitaliano nell’età del Risorgimento.

Come agli albori della nazione germanica erano state,nel ’700, da Justus Möser allo Herder, la reazione con-tro la civilisation francese e le sue pretese di tutto uni-formare a sé, e l’esaltazione dei Germani primitivi, deivecchi e buoni costumi dei Sassoni; così, con indubbioparallelismo, anche agli albori della nazione italiana erarifluita, tra molte polle sorgive, quella della gallofobia:ch’era, nuovamente, un mezzo per difendere la propriapersonalità nazionale e impedire ch’essa venisse soffoca-ta in sul nascere dalla pedissequa imitazione di cose al-trui. Questo aveva detto l’Alfieri, esaltando non pur ingenere la necessità degli «odî» nazionali, ma, proprio per

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l’Italia, la necessità dell’odio contro la Francia, presup-posto indispensabile della sua politica esistenza, quale sifosse per essere19; e questo aveva anche significato, conmolto minore eccesso di parola, il Saggio Storico del Cuo-co. Ed eran poi succeduti il Mazzini e il Gioberti del Pri-mato e il Pisacane20: ora predominando nella polemicaanti-francese i motivi puramente culturali, tanto vivi inun Leopardi, ora già passando in primo piano i motivipropriamente politici.

Lo stesso insistere su antichi primati italiani aveva unaevidente intenzione anti-gallica, rivelava questo bisognodi salvar se stessi e la propria vita spirituale, difendendo-si da quella che sembrava fatalità in Europa, l’imitazionedegli esempi francesi, buoni o cattivi che fossero21. Ca-vour e l’alto apprezzamento della civiltà franco-inglese,di cui si era nutrito il pensiero liberale italiano; il ’59 so-prattutto sembravano dovessero far tacere quel vecchiomotivo. Ma non era così: il filone antifrancese, semprerinfocolato da Mazzini, aveva ricevuto nuovo alimentodopo il ’60, anche fuor delle ire mazziniane, e non solo acagion di Mentana, bensì per il complesso generale deglieventi, in cui la personalità morale e politica del giovaneregno appariva dominata, umiliata, oppressa da quelladella più vecchia, grande, potente Francia. Il protettoree il vassallo. Onde non solo il Mazzini persisteva nell’av-versione alla Francia ma anche un uomo di sentire diver-sissimo come il Ricasoli riteneva gran guaio l’influenzafrancese sull’Italia. «La Francia sotto ogni forma di go-verno ci fu di molestia e danno; e or con la sua politica,or con le sue rivoluzioni, or con i suoi interventi militari,tenne avvinto al suo carro volubile e irrequieto il pensie-ro politico e sociale del popolo italiano, per cui fu sem-pre servile di Francia, mentre più gridava contro Francia.È questo un fato maledetto per noi. E questo non sapereessere Italiani, questo mancare del proprio nostro genio,questo ferire di continuo nei nostri procedimenti l’indo-

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le vera nostra, per imitare come fanciulli le cose francesi,e lo spirito degli ordinamenti francesi, è cagione perennedi debolezza e di scontento per noi.»22. Il Ricasoli, chenon era certo un anti-francese di indirizzo politico23, cheben riconosceva il valore degli affetti «suggellati col san-gue nel 1859»24, ma che voleva salvaguardare la persona-lità della nazione italiana, l’animo e lo spirito del propriopopolo, sulle orme di Alfieri e Leopardi, come tutti i mo-derati toscani, dal Capponi al Lambruschini, era avver-so all’imitazione delle foggie straniere25: tanto è vero, do-po il ’70 si sarebbe allarmato per il prevalere delle dottri-ne germaniche in Italia, ancor più lontane delle francesidall’anima italiana26.

Così, nella preoccupazione per la servilità alla Franciapotevano, un momento, concordare tendenze per tantialtri riguardi diversissime, il rivoluzionarismo di Mazzi-ni, che alla Francia dell’89 rimproverava di esser statanon l’inizio di una nuova epoca, ma la conchiusione diun periodo storico, e il conservatorismo di Ricasoli, chedeplorava la scomparsa di fede e di autorità dopo la rivo-luzione, avversava lo spirito giacobino e si inquietava perla «esagerazione insipiente data ai principii dell’89»27. Aquesta gran corrente si ricollegava dunque anche il con-te de Launay, conservatore, conservatorissimo, amantedell’autorità e immalinconito nel constatare la carenza diessa ai suoi giorni, convinto con il Guizot che «de nosjours ce n’est pas la liberté qui a besoin de défenseurs,mais l’autorité»28.

È, il suo, un antifrancesismo poco vario di elemen-ti, spoglio di valori culturali e morali, circoscritto uni-camente al più immediato ed elementare dei problemi,quello politico. I dodici anni da Plombières a Sedan pe-sano duramente, per lui, come per molti altri, sulla in-dividualità del giovane regno: sentite la rivolta che pro-rompe infine, non appena si presenti l’occasione propi-zia, contro uno stato di cose sempre più malamente tolle-

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rato, la stessa rivolta vibrante nel detto, assai in voga nel-l’agosto del ’70, «ci ho gusto che ai Francesi sia toccatauna buona lezione; erano troppo superbi»29, e che, accre-sciuta da nuovi motivi di astio, Tunisi, la guerra econo-mica, Aigues Mortes, continuerà a fermentare nel cuoredi tanti Italiani, sempre in sospetto di esser trattati dallaFrancia come pupilli, sempre più acerbi verso la «sorel-la latina» e finalmente tratti a desiderare l’occasione dipoter non solamente assistere alle «buone lezioni» da al-tri impartite alla Francia, bensì addirittura di poter dare,essi stessi, «una buona legnata ai Francesi», secondo eb-be ad esprimersi, un giorno, la regina Margherita, tantocara per la sua bionda mitezza al Carducci30.

Si aggiungeva in lui quel che era pure in molti Italiani,allora, in tutti anzi i patrioti, e rimase a lungo ed è nuo-vamente motivo che profonda nel passato e si connettecon le vicende di formazione dell’Italia unita: un sensocioè di dolore cocente, di amarezza e di rabbia, al ricordodelle vicine sconfitte militari, di Custoza e di Lissa che,con Novara, eran destinate a pesare assai duramente sul-la riputazione internazionale del regno. Ingenerosamen-te spesso, e spesso anche ingigantendo le proporzioni, sene valeva l’opinione pubblica europea non disposta a ri-conoscere meriti militari agli «amabili» Italiani, anzi di-sposta semmai a proclamare, con Ippolito Taine, che l’I-talia, troppo latina e municipale nella sua storia, era ri-masta estranea alla fedeltà del vassallo, di germanica sca-turigine, all’onore del soldato che aveva formato i grandiStati moderni, e priva dunque di spirito militare31; o, almassimo, con i più benevoli come il Treitschke, che l’I-talia per divenire davvero una grande potenza aveva bi-sogno di battersi32.

Ma anche l’Italia si sentiva «più fortunata che gran-de»33; sentiva che certe ferite non si rimarginano facil-mente, che un popolo giovane non può accettar certesconfitte, senza desiderare di poter conseguire anche la

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gloria militare, consacrazione dell’esistenza di una nazio-ne giovane34; e non tutti pensavano, come il Jacini, che seera naturale ci cuocesse il ricordo del ’66 e si desiderassedi avere un giorno o l’altro occasione «di fornire al mon-do prove decisive dell’intrepidezza italiana sui campi dibattaglia a pro di una causa giusta», non si doveva peròcercare ad ogni costo di far nascere tale occasione, «scor-gere in ogni mosca che vola una occasione, quasiché l’oc-casione fosse indispensabile per seguitare a vivere»35. Piùd’uno, invece, se n’arrovellava36, già disposto a deside-rare, assai prima del dannunzianesimo, il «lavacro deglieroi, il tiepido fumante bagno di sangue»37, come l’unicomezzo per far grande davvero un paese che usciva da se-coli di schiavitù. Ci voleva una grande vittoria38: ma in-tanto si sentiva di essere sotto il peso di un non lusinghie-ro ricordo: «checché si dica e checché si faccia – avver-tì un giorno il Nigra, che non era sicuramente un guer-rafondaio – noi siamo ancora, in Europa, sotto l’impres-sione di Custoza e di Lissa. E questa situazione può du-rare pur troppo finché l’Italia abbia avuto la fortuna dicancellare su altri campi di battaglia gli errori di La Mar-mora e le colpe di Persano. Il che vuol dire che l’Ita-lia per causa di quegli eventi, si covò d’allora in poi e sitrova anche ora nell’alternativa di rimanere sotto il pe-so di immeritate sconfitte o di desiderare d’essere travol-ta in una grossa guerra, per aver l’occasione d’affermarela sua forza militare»39. Palestro e San Martino, Calata-fimi e il Volturno, Castelfidardo e il Tirolo non possonofar dimenticare le nostre sconfitte, ammoniva Crispi; lestupende pagine della storia militare italiana sono subli-mi episodi in un poema, ma non sono un poema40. Perfi-no uomini noti per il loro antimilitarismo in genere sen-tivano che qualcosa mancava all’Italia nuova, ed era perl’appunto la gloria delle armi: e non ultimo lo osservò ilbardo della democrazia, il Cavalloni, il quale esortò i col-leghi deputati a non dimenticare «che l’Italia da quindici

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anni sconta antera nella sua posizione in Europa, scon-ta ancora e amaramente il castigo della mancata fortunadelle armi; e finché questa fortuna un giorno non le sor-rida in qualche battesimo cruento, non avrà mai tra lenazioni quel posto che sia degno dei suoi nuovi destini41.

Più d’uno dunque credeva che soltanto «una compli-cazione europea, che conducesse alla guerra, potrebbesuscitare nel nostro paese le forze che restaurano e danvigore alla vita dei popoli»42; credeva che lo Stato orga-nico, la convivenza riposata, per ora vagheggiabili comeuna augurata visione, si sarebbero potuti ottenere «soloquel giorno che una grande e nuova riscossa virile, unaseconda pruova di armi e di sangue abbia ridato all’Ita-lia il vigore che ora par che le manchi, di risentirsi tutta,e di provvedere con ordini e con riforme vitali al suo piùdegno avvenire»43, Oriani non era ancor giunto, con lasua invocazione alla guerra «forma inevitabile della lot-ta per la vita», al sangue «la migliore delle rugiade per legrandi idee», con il suo auspicare un conflitto, unica arradell’avvenire d’Italia, che, rendendole i confini naturali,cementasse all’interno con la tragedia di pericoli mortalil’unità del sentimento nazionale44: e già le idee di Orianierano nell’aria.

E non era nemmeno uno stato d’animo totalmentenuovo, di dopo il ’66, se già a far desiderare quell’altraguerra e a render popolare l’alleanza prussiana nella pri-mavera dell’anno di Custoza, era stata potente la speran-za in un’occasione «di affermare anche militarmente l’e-sistenza della nazione», mentre l’acquisto della Veneziaper semplici accordi diplomatici «avrebbe lasciata l’Italiarassegnata, ma non soddisfatta»45.

Bisogno di creare un’anima guerriera, e cioè di alza-re il tono della vita morale di un popolo da secoli avvi-lito: per questo, prima ancora del ’66, prima ancora del’59, s’era così frequentemente evocata la antica grandez-za militare degli Italiani, maestri di guerra al mondo, co-

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me monito per guarire con più nobili passioni le mol-li passioni che avevano fomentato le piaghe dei secoli diservitù46; per questo il Pisacane aveva visto nel problemamilitare il necessario punto di partenza per la creazionedi un’Italia capace di vera e duratura rivoluzione47, perquesto era salito a poesia il ricordo degl’Italiani in Rus-sia nel 1812, ne’ quali era riapparso l’antico valore itali-co pur se in lontane contrade e per una causa altrui, ocompiacentemente s’era ripetuto il detto di Napoleonesugli Italiani che sarebbero stati, un giorno, i primi sol-dati del mondo; per questo il d’Azeglio aveva contrap-posto a’ quadri e alle statue delle altre regioni d’Italia la«Galleria di battaglie» del Piemonte, battaglie «ora vin-te ora perdute, ma le sole che impedissero l’occupazio-ne d’Italia dallo straniero, quelle, che terminando con S.Martino, hanno spezzate finalmente le catene comuni»48;per questo, Cesare Balbo avrebbe dato tre o quattro Al-fieri o Manzoni o anche Danti o altrettanti Michelangelie Raffaelli «per un capitano che si traesse dietro dugentomila Italiani, a vincere od anche a morire»49.

Ma l’esperienza recente troppo era stata distruggitricedi sogni; né solo per Custoza e Lissa, bensì anche per lanon grande volontà di combattere in molte parti dimo-strata, per quella riluttanza all’andar soldato largamen-te diffusa e non ultima fonte di guai anche interni peril nuovo regno50. Tanto più acre e premente perciò ilfantasma della grande prova bellica, come necessario enon ancora conseguito suggello morale dell’unità mate-riale d’Italia.

E ancora: un Crispi poteva almeno trovar confortonelle prove di eroismo popolaresco, evocare le grandi da-te luminose dell’iniziativa popolare nel Risorgimento, leCinque Giornate, Roma, Venezia, Calatafimi, il Voltur-no. Ma simili conforti mancavano al monarchico conser-vatore de Launay; il quale non poteva, nemmeno lonta-namente, far la debita parte ai movimenti insurrezionali

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e popolari, a Mazzini e a Garibaldi. Il Risorgimento perlui era l’azione politico-militare della monarchia sabau-da, e nient’altro: il resto, anzi, eran quelle tendenze li-bertarie così dannose al principio di autorità e da tenerben in freno. Tanto più pertanto l’Italia unita gli appari-va scarsa di gloria militare. Stato vassallo della Francia,sino a quei giorni, e senza riputazione bellica; bisognosodunque di riscattare, di fronte all’Europa, la lunga sog-gezione e di provare in maniera inconfutabile la sua vir-tù guerresca, il regno aveva per il de Launay una sola viamaestra innanzi a sé, l’avvicinamento alla potente Ger-mania, la nazione dell’avvenire, e l’allontanamento dallaFrancia, sino a porlesi contro.

Sì, fino a porsi contro la Francia: il pensiero delsavoiardo era bene riassunto in un’affermazione che glisgorgava dal cuore all’inizio del 1872: «l’Italie ne seravraiment atnalgamée, le prestige de l’Autorité ne seravraiment constitué sur desbases à solide épreuve, que parune grande guerre contre la France»51.

Necessità di una grande guerra, che saggiasse a duraprova e perciò cementasse l’unità morale del popolo ita-liano: ciò intuiva il de Launay, e l’avvenire gli avrebbe,in questo, dato ragione, anche se per vie e modi del tut-to diversi da quelli ch’egli vagheggiava, anche se la lottasi sarebbe svolta, e a più gran distanza di tempo di quan-to egli non sospettasse, non già contro la Francia, bensìcontro l’Austria-Ungheria e la Germania stessa, saldan-do vittoriosamente sul Piave il conto malamente aperto,cinquantadue anni prima, sul Mincio. Ma anche questoprecisare il grande evento bellico dell’Italia, anche l’ap-pello alla guerra contro la Francia non eran proprio ca-ratteristici del solo de Launay: nuovamente, l’atteggia-mento e le parole del ministro di Vittorio Emanuele II aBerlino non erano – oh, certo, a sua insaputa! – che epi-sodi di una più ampia e generale sequela di pensiero, tan-to che l’espressione di un conservatore accanito, odiator

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di socialismo quale egli era, poteva richiamare un moni-to consimile sgorgato invece dall’anima del patriota chepiù di tutti era stato nel Risorgimento l’annunziatore disocialismo e aveva asserito che il secolo XIX sarebbe sta-to famoso nei fasti dell’umanità «non già per la servilee codarda schiera dei dottrinanti scaturiti dal suo seno,ma perché in tal epoca il socialismo, d’aspiratione fattosisentimento, ebbe partito, ed avrà attuazione»52.

Già il Pisacane, vivacemente polemizzando contro co-loro i quali additavano nella Francia la protettrice dell’I-talia e predicavano la fratellanza delle due nazioni, ave-va infatti concluso: «perché si attui la nostra fratellan-za con la Francia, bisogna combatterla e vincerla, o al-meno è indispensabile, che in parità di circostanze e diforze, sul medesimo campo di battaglia, contro un nemi-co comune, meritassimo la palma in una nobile gara digloriose gesta»53.

Certo, non per prostrarsi alla Prussia il de Launaygioiva che l’Italia avesse smessi gli inchini alla Francia:per quanto grande fosse la sua ammirazione per il solenascente, egli non avrebbe mai voluto, deliberatamente,far la parte del vassallo del re di Prussia: ammoniva,anzi, che se mai la Germania avesse voluto esercitare inItalia un’influenza eccessiva, sarebbe stato egli il primoa consigliare una certa rigidezza, per opporre una diga aqualsiasi pretesa, da parte sua come di ogni altra potenza:«Avec un caractère tel que le comte de Bismarck et deshommes d’Etats qui seraient formés à son école, on seperd par une condescendance au delà des limites dufuste et du raisonnable»54. Chacun maître chez soi55.

E ancor più tardi ribatté ch’era meglio non legarsi al-la Germania con un trattato formale di alleanza, essendoassai pericoloso navigar di conserva con un uomo comeil Bismarck, dai grandi meriti, ma di uno scetticismo ca-pace di improvvisi mutamenti di giuoco, tali da scompi-gliare tutti i calcoli: un uomo ch’egli ammirava assai, ma

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senza illudersi su di un suo presunto filoitalianismo, e inquesto tanto più acuto giudice degli uomini della Sini-stra convinti, invece, che il Cancelliere di ferro spasimas-se d’amore per l’Italia56. Meglio lasciar lavorare le cose,attendere i risultati dalla forza degli eventi: l’alleanza erain re, esisteva virtualmente, ciò ch’era assai preferibile adun trattato su pergamena.

Ed era, fuor di dubbio, sincero in queste sue afferma-zioni. Soltanto, il difficile sta poi sempre nel fissar i li-miti del juste et raisonnable; e il pericolo c’era che l’am-mirazione per il nuovo astro e soprattutto la avversio-ne a Francia57 non protraessero per avventura quei limititroppo più in là di quel che non fosse nel preciso interes-se dell’Italia. Tant’è vero che, pur in quei giorni del feb-braio 1871, quando i rapporti tra Berlino e Roma eranofreddi, il de Launay dimostrava di non credere non soloalla possibilità di tendenze egemoniche da parte del Can-celliere, allora tanto temute, ma nemmeno alla minacciadi immistioni germaniche nella politica interna degli al-tri Stati, sull’esempio napoleonico58: dando per tal modoprova di un robusto ottimismo, che gli eventi del ’74 edel ’75 e le vicende d’allora dei rapporti italo-germaniciavrebbero messo a dura prova.

Così, anche nel de Launay veniva in luce, assai piùfortemente calcato anzi, lo stesso orientamento fonda-mentale del Blanc: soddisfazione per il crollo dell’ege-monia francese che aveva tenuto al laccio l’Italia unita, eper l’indipendenza morale che quest’ultima si acquistava;ammirazione e compiacimento per l’opera del Bismarck,verso il quale dunque si doveva indirizzare la politica deiministri di Vittorio Emanuele II59.

E anche in lui, logicamente, si potevano avvertire ichiari segni di un modo di pensare tendente ad apprezza-re sempre più la «realtà», solida e vigorosa, contro i sen-timentalismi: ond’è ch’egli riferisse col tono di chi am-monisce, le decisioni bismarekiane di cercar la «sicurez-

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za» pel futuro non nelle disposizioni del popolo france-se, ma in precise garanzie materiali, Alsazia-Lorena e in-dennità di guerra schiacciante.

Un politico «realista» di più.Spogliata della passionalità del de Launay e investita

di un contenuto, ancor più che politico, morale e cultu-rale, con più profonda e larga aderenza quindi alla grancorrente di cui s’è detto, la preoccupazione per una so-verchia influenza francese in Italia aveva determinato an-che l’orientamento di un ben più robusto ingegno, qua-l’era quello di Quintino Sella. Non un diplomatico, co-me il Blanc e il de Launay, ma un uomo di governo, anziuna tempra vera di uomo di Stato: nel quale, pertanto, ilmotivo meramente istintivo e passionale veniva relegatocompletamente nello sfondo, senza capacità duratura diinfluire sul giudizio. E non erano quindi tanto le simpa-tie, pur vivissime, per la Germania e i suoi dotti60, ad ispi-rare il suo atteggiamento politico, così come le sue pre-visioni le quali, e ognuno lo sa, avevano colto nel segno,facendo di lui uno dei non molti Italiani che avessero inanticipo intuito il vincitore del duello franco-prussiano61:ché anzi quelle stesse simpatie erano germogliate su unfondo già diffidente verso la Francia e per ben calcola-te ragioni. Risaliva infatti agli anni del perfezionamen-to a Parigi, presso la Scuola mineraria, il giudizio – net-tissimo e deciso – sul pericolo che l’influenza francesecostituiva per l’Italia: pericolo non solo dal punto di vi-sta dei rapporti politici, sì anche e soprattutto dal puntodi vista della formazione morale e spirituale del popoloitaliano62.

Giudizio maturato sotto l’impressione degli eventi del’48-’49, delle non mantenute promesse francesi, anzidell’«assassinio»compiuto contro la repubblica romana;forse, non immune da qualche reminiscenza diretta del-la gallofobia culturale del Gioberti e degli ambienti dalGioberti dominati. Ma giudizio destinato a pesare anche

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inseguito sull’atteggiamento del Sella, nonostante i debi-ti di gratitudine che il ’59 imponeva, e ch’egli lealmentenon avrebbe mai negati63: e, già presso il termine di suavita, il sentire antifrancese ancora riappariva, fomentatoda altri nuovi eventi contemporanei, ma confortato pureda ricordi storici, non ultimi il Vespro Siciliano e la anti-patia che il suo caro Codice Mlabayla gli ispirava controgli Angiò64. La simpatia per la Germania, alimentata dal-la conoscenza diretta degli uomini e del paese, l’entusia-smo per la scienza, così caratteristico in lui, e quindi ne-cessariamente per quel gran centro di scienza ch’eranoi paesi tedeschi, facevano il resto. La risoluta e notissi-ma opposizione del laniere di Biella alle velleità di Vitto-rio Emanuele d’intervento affianco della Francia, traevacosì lunga origine e andava anch’essa – come quella delde Launay, ma con ben altra ampiezza di vedute – assaial di là del momento singolo e dell’episodio diplomatico.E, anche in lui, scienza, economia, industria, progresso;e senso della forza «che va rispettata» e ripugnanza allefantasticherie, al sentimento, a cui eran troppo proclivigli Italiani; e ammirazione per gli «uomini fatali», per i«popoli fatali»che nulla arresta65.

Pure al di là del momento politico e dell’episodio cer-cava di andare un altro italiano, uomo non di governoné di diplomazia, e nemmeno, in allora, partecipe atti-vo della vita politica, ma uomo di milizia e di studi, in-gegno acuto, colto, proclive a cercar di risalire dall’epi-sodio e dal particolare all’universale, e a scoprire le leg-gi della storia nonché le direttive generali di un’azionepolitica: Nicola Narselli, allora non ancora celebre perLa Scienza della storia e per La guerra e la sua storia66;non ancora parlamentare, semplice maggiore dell’eserci-to, insegnante alla Scuola Superiore di guerra, e autorede’ due libri su Gli avvenimenti del 1870-71; ne’ qualil’opinione dei «prussofili» – secondo si diceva – trova-va la sua formulazione più pensata, sostanziosa e aper-

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ta. Un uomo che, una volta deputato, si sarebbe col-locato nel centro e, come parecchi altri dei suoi coeta-nei, avrebbe vagheggiato e cercato di costituire un gran-de partito liberale-nazionale, di centro, con elementi del-la Destra progressista e della Sinistra moderata; un uo-mo, dunque, non propriamente della Destra, alla qualeanzi non avrebbe risparmiato dure critiche: ma, e pote-va essere sintomatico, grande ammiratore del Sella, percui nutriva «una specie di venerazione»67. E col Sella, in-fatti, si accordava pienamente il Marselli ne’ giudizi suFrancia e Germania.

Anche qui, il sostrato primo delle considerazioni erafornito dalla rivolta, politica, contro «lo spirito prepo-tente e conquistatore della Francia», contro la soggezio-ne italiana nel decennio post-cavouriano; e il primo sboc-co del ragionamento, era, quindi, la proposta dell’allean-za dell’Italia con la Germania e la Spagna. Ma il carat-tere puramente politico-diplomatico del problema veni-va ben presto superato, anche nel Marselli: il predomi-nio francese deve tramontare, perché la Francia, troppoirrequieta, con le sue incessanti convulsioni e rivoluzioniminaccia continuamente la tranquillità europea, e «do-po aver reso all’Europa l’eminente servigio di svegliar-la quando sonnecchiava, ora la disturba col far fracassomentre ella vuole studiare, lavorare, ordinarsi e progre-dire saggiamente». La Comune, l’ultima delle convulsio-ni in che la Francia vive dal 1789, con le sue fasi incen-diarie ammonisce giunta l’ora, per l’Europa, di esser lietache la direzione sfugga dalle mani francesi, e che l’anti-co direttore dell’orchestra europea scenda dal suo seggioper frammischiarsi tra i suonatori68.

Non più unicamente trapasso di egemonia politica,bensì, addirittura, mutamento potrebbesi dire di ritmodella civiltà europea: «... se sotto le ruote del carrosociale a sistema francese, noi non porremo una scarpaa sistema germanico, il carro andrà in mille frantumi»69:

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cioè, in altri termini, abbandonare «l’ideale francese diun progresso vorticoso, di una democrazia plebea», per«lavorare di conserva colla Germania al trionfo dellaDemocrazia armonica e del Progresso regolare»70.

In che dovesse propriamente consistere la Democra-zia armonica, di stampo germanico soprattutto, non rie-sce ben chiaro, ed è da dubitare riuscisse molto chiaro al-l’autore medesimo, nonostante le sue premesse storico-politiche, il suo ricorrere, secondo uno schema allora epoi assai di moda, ai caratteri essenziali delle due civiltà,la latina, che aveva espresso con Roma la sovranità del-lo Stato, e la germanica, che aveva apportato «la signoriadell’Individuo eslege»; nonostante il suo constatar com-piaciuto che, con lo sposalizio della cultura e dello Stato– forza ellenica l’una, latina l’altra – con l’individualismogermanico e l’orientalismo cristiano, l’individualismo erastato reso da quelle altre molecole del corpo europeo so-cievole, in modo da perdere le sue asprezze e pecche,e da trasformarsi nel nuovo individualismo, quello civi-le «vero capolavoro moderno». Il nuovo impero, tor-reggiante nel mezzo del continente, usciva «dalla fusio-ne della Coltura sviluppata, dello Stato rafforzato, del-l’Individualismo limitato», sì da rappresentare l’armoniatra la forza di conservazione e quella di progresso, tra lalibera investigazione e il rispetto alla legge71; e avrebbedunque potuto dare all’Europa l’esempio della contem-peranza fra la libertà dell’individuo e l’autorità della leg-ge, fra lo sviluppo della libertà della scienza e la libertàdella vita, fra l’unità del centro e la vitalità delle membra,la forza militare e i diritti dell’agricoltura, dell’industria,del benessere72.

Dunque, l’aurora di un nuovo periodo nella storia del-la civiltà: l’armonia pacata in luogo dell’altalena continuae violenta di rivoluzioni e reazioni, prodotta dal predo-minio francese; la serietà trionfante sulla frivolezza ... sì,la serietà germanica, vera vincitrice della guerra e final-

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mente sopravvenente a riportar l’ordine nel caos73. E unperiodo, nel quale l’Italia avrebbe potuto avere larga par-te, contrappesando il conservatorismo un po’ troppo ac-centuato dell’impero germanico, il suo procedere un po’lento secondo la natura delle persone gravi: quale avreb-be potuto essere, se non il popolo italiano, l’amico dellaGermania capace di spingere un po’, di accelerare i tem-pi, di costituire il necessario elemento progressivo beneaccordato con il necessario elemento conservativo? Eccol’ora è giunta: spunta la terza civiltà italiana; si schiude ilterzo periodo storico per la penisola ... e questo periodovedrà Italia e Germania proceder congiunte, aprendo aipopoli europei le vie del progresso armonico74. La mis-sione dell’una si allaccia strettamente alla missione del-l’altra.

Così, dal motivo contingente della vittoria delle armiprussiane il Marselli, che proprio allora stava maturandola sua nuova professione di fede positivistica, pur senzamai riuscire a strapparsi di dosso la camicia di Nesso del-la metafisica, e quindi, come il Sella, univa il rispetto allascienza con il rispetto alla forza, il Marselli risaliva ad unavisione generale della civiltà europea, presente ed avve-nire. Visione, certo, piena di luoghi comuni, indulgen-te di soverchio a viete formule della scienza tedesca, co-me quella dell’individualismo germanico75; tutt’altro chechiara anzi nebulosa parecchio in taluni dei concetti in-formatori; troppo corriva a far propri dei vecchi luoghicomuni e ad assumere tono moraleggiante, secondo av-veniva con l’esaltazione della serietà germanica in luo-go della frivolezza francese: poiché qui riappariva il vec-chio schema, caro già alle settecentesche polemiche anti-francesi contro la politesse, fatta sinonimo di superficia-lità e corruzione76, riapparivano gli ormai rituali precet-ti della corruzione francese, a cui avrebbero fatto contra-sto i puri e innocenti costumi dei Germani, che non era-no più quelli di Tacito, ma che venivano ancora adornati

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di molte delle virtù da Tacito già generosamente donateai discendenti di Arminio per fustigare la corruttela dellacorte imperiale romana.

Forse che proprio di quei giorni tali schemi non ve-nivano generalmente rimessi a nuovo come spiegazionemoralistica del crollo del Secondo Impero, anzi della nul-lità e impotenza della Francia, che alla dissoluzione mo-rale doveva anche l’instabilità degli ordinamenti politicie il trapassar dalle rivoluzioni al dispotismo?77 Da grantempo Parigi, la vecchia Babilonia, ostentava le sue gra-zie imbellettate per eccitare i sensi dei suoi adoratori78;Berlino era la serietà, la morigeratezza, la virtù: e nonera anche il puritano risentimento contro la corruzione el’immoralità di Babilonia che aveva ispirato alla rigidis-sima regina Vittoria la sua avversione contro la Francianapoleonica?79. E il vecchio e sempre moralistico GinoCapponi non trovava forse bene che il demi-monde pari-gino ricevesse una lezione80; e un altro storico, non piùdi Firenze ma delle Compagnie di ventura e della mo-narchia sabauda, non scopriva forse anch’egli che causadel crollo francese erano i vizi morali «vivere disordina-to, folli spese, speculazioni temerarie, passioni che quàmettono al concubinato e all’adulterio, colà al suicidioe al duello, calcolato restringimento della prole, libri espettacoli corruttori»?81.

Anche, quella visione era assai pervasa di senso mili-taresco della forza, ricopriva quindi certa tendenza auto-ritaria, certo vagheggiamento dello Stato forte, che in ef-fetti il Marselli avrebbe poi pienamente rivelato nelle suecritiche alla politica italiana; e già poco più tardi, sdegna-to per il «dormire» di tutti in Italia, egli avrebbe augura-to all’Italia metodi bismarckiani per guarire le piaghe delpaese, scettico, impassibile anche di fronte ai più graviproblemi82.

Ma insomma un tentativo di inquadramento d’insie-me c’era, riuscito o meno che fosse. Il de Launay era ri-

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masto sul terreno strettamente politico: il Blanc ne usci-va già parzialmente, con la sua ammirazione per le forzenuove, e cioè l’economia, in cui c’era come l’aperto pre-sentimento di nuovi modi di vita e di pensiero; il Sellavedeva il problema della reazione all’influsso francese sudi un piano generale italiano, culturale e politico. Ma so-lo il Marselli poneva, esplicitamente, il problema comeproblema di civiltà europea, come necessità di un ordinenuovo per tutti: nella mente di questo intelligente è coltomilitare di mestiere, dallo studio dei fatti darmi succedu-tisi tra l’agosto 1870 e il gennaio 1871 sgorgava tutt’unsistema nuovo, politico culturale morale.

Non si trattava più di semplice spostamento dell’equi-librio politico della vecchia Europa, bensì di un profon-do rinnovamento ab imis di tutto l’edifizio.

Una siffatta elevatezza di tono, possibile d’altronde aduno studioso ancora al di fuori della polemica politicae delle lotte di parte, era certo difficile da riscontrarequando si ritornasse in mezzo ai partiti, nel pieno dellabattaglia politica, e si passasse soprattutto nel campodella Sinistra, laddove le correnti filoprussiane avevanomaggiormente attecchito.

Senza dubbio, nella gioia per la caduta dell’impero na-poleonico e nel perdurante odio contro l’imperatore vin-to, si facevan luce anzitutto motivi ideologici di partito.Mentre, cioè, per un de Launay e anche per un Blanc,l’influsso francese era stato deleterio non perché bona-partistico, bensì perché francese, e deleterio sarebbe sta-to pur se, al posto dell’uomo del 2 dicembre, ci fosse sta-to un sovrano «legittimo» o un presidente di repubblica;mentre per un Ricasoli la Francia era stata dannosa al-l’Italia sotto ogni forma di governo, ed anzi proprio allamentalità giacobina democratica repubblicana irreligio-sa eran da attribuire i guai maggiori, per gli uomini dellaSinistra in genere a non dir del partito d’azione, l’ostilitàalla Francia era anzitutto ostilità al bonapartismo.

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Che la Francia si fosse interposta tra la volontà nazio-nale e Roma, questo aveva offeso un de Launay non me-no di un Crispi e di un Cairoli83; ma che tal fatto si fos-se verificato adopera del «tiranno» Napoleone, dell’uo-mo del 2 dicembre, del conculcatore della libertà, que-sto aveva esasperato soltanto i Crispi, Cairoli e compa-gni. A’ quali, anzi, poteva fin dolere che il bonaparti-smo fosse caduto sotto i colpi dello straniero, in seguitoad una guerra, dato che sarebbe spettato alla Francia illiberarsene84: stabilendo dunque, essi, una netta distin-zione tra il popolo francese e il suo tanto avversato ti-ranno, tra le colpe dell’imperiale usurpatore e la Francia,quella almeno erede dei princìpi dell’8985, sino a giunge-re all’affermazione che «la Francia soffre; ma la demo-crazia ha vinto una grande causa»86.

Qui, dunque, non si trattava più dei soli rapporti dipotenza Francia-Italia, bensì di un problema generaleideologico, d’ideologia di partito: il bonapartismo volevasignificare, infatti, non solo opposizione all’andata dell’I-talia a Roma, bensì imposizione, alla stessa Francia in pri-mo luogo e poi all’Italia, serva delle Tuileries, di un «si-stema morale», di tutto un complesso di idee e di consue-tudini, di un modo particolare di giudicare, di pensare,di sentire, insomma di tutta un’educazione, il cui fruttoera l’anima da «schiavo» del partito moderato italiano87

e la sua politica servile verso lo straniero, secondo sfug-gì detto al Crispi ancora nel 1891, in una celebre sedutaalla Camera88.

Si era nuovamente – seppur con assai diverso spirito– sullo stesso terreno su cui il Marselli portava per contosuo la discussione; si parlava di sistemi morali e politici;si contrapponevano due mondi, di valori inconciliabilifra loro.

Ma da simile punto di vista sarebbe poi dovuta sgorga-re una logica e immediata conseguenza: caduto Napoleo-ne III, crollato il bonapartismo, separatasi la causa del-

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la Francia da quella del vinto di Sedan, come mantener-si ostili alla risorgente repubblica, cui Gambetta animavacon il suo possente eloquio? Come non simpatizzare conla Francia, dato che essa, non fosse stata la violenza usur-patrice del Napoleonide, si sarebbe fin dal 1852 pacifica-mente riordinata nella libertà, rendendo lieti e fortunatidi sua amicizia i popoli dell’Europa?89.

Questo rivolgimento avveniva infatti nell’animo diGaribaldi e del Carducci: l’uno e l’altro, il semplice emagnanimo uomo d’azione, e il poeta allora più che maitutto irruenza caduto l’uomo del 2 dicembre non aveva-no visto più altro che la Francia dell’89, la rigeneratricedel genere umano, la nazione sorella.

Già nel luglio, quando pure tutto il partito d’azioneera decisamente prussofilo, pronto magari a collaborarecol Bismarck e ad offrirgli il prezioso aiuto di movimen-ti insurrezionali all’interno della penisola, qualora il go-verno di Vittorio Emanuele minacciasse davvero di volerintervenire a fianco di Napoleone III, già nel luglio Gari-baldi non aveva taciuto del «dispotismo mascherato» delgoverno di Berlino90; ora, il 7 settembre, si rivolgeva agliamici, per dichiarare «Ieri vi dicevo: guerra ad oltran-za a Bonaparte. Vi dico oggi: sorreggere la RepubblicaFrancese con tutti i mezzi»91, e poi partiva, per sostene-re il «solo sistema» atto ad assicurare la pace e la pro-sperità delle nazioni, per difendere la patria dei princì-pi dell’89 in pericolo. Scomparso Napoleone, diventava«dovere dell’Italia di volare in soccorso della Francia»92.Con la sua istintiva e lineare, ma tanto più profonda sen-sibilità per i fattori morali, l’uomo di Caprera traeva sen-za esitare le conseguenze logiche del suo atteggiamentodi prima.

E come lui mutava completamente fronte il poeta,che voleva tener dritta, nel campo dell’arte, la bandieradi Roma e di Marsala, di Aspromonte e Mentana93, eche avrebbe ricordato, sempre, il «triste» novembre del

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«triste» anno 1870, quando i prussiani circondavanoParigi e a lui morì il bimbo94. Alla imprecazione contro il«masnadier di Francia», l’imperial Caino, al brindisi pel

dì che tingeredee di tremante e luteopallor l’oscena guancia95

succedeva l’esaltazione del 78° anniversario della Re-pubblica Francese, proprio il 21 settembre 1870; e tiran-no, contro la Francia, diventava il governo regio di Prus-sia.

Ma il ferro e il bronzo è de’ tiranni in mano;E Kant aguzza con la sua RagionPura il fredd’ago del fucil prussiano,Kórner strascica il bavaro cannon.

Un anno e mezzo più tardi, ricordando l’epopea gari-baldina in terra di Francia, il Carducci dava forma di di-scorso ragionato a quei suoi impulsi e fantasmi poetici,contrapponendo alla vecchia casa feudale di Brandebur-go, avida di conquista, la democrazia, che non poteva di-menticare il 1789, non poteva porre in non cale il fattoche la libertà e la filosofia avevan preso le mosse da Pari-gi per correr tutta l’Europa, e che «dovunque un soldatofrancese è sepolto, poniamo pure che morto per la vio-lenza del momento anzi che per la libertà ... ivi la terraha ribollito poi sempre di rivoluzione ...».

E, procedendo oltre, sulla base dei princìpi della de-mocrazia, vedeva nuovamente il poeta, come certezzadel futuro, la confederazione, morale-ideale in un pri-mo tempo, delle genti latine, sorelle nella lingua, nelletradizioni, nelle istituzioni, nell’arte, confederazione cheera «un fatto di natura»: e così sognando e vagheggian-do salutava in Garibaldi e nei suoi compagni di Digionela primavera sacra italica96.

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A questi due uomini, che in un certo senso potrebberodirsi al di fuori dei partiti, e sicuramente erano fuori delladisciplina formale di partito, a Giuseppe Ferrari, checonvinto inizialmente della vittoria francese97, in diecigiorni, nell’agosto del ’70, si sentiva invecchiato di diecianni98, altri s’univano, di minor nome ma già di più strettivincoli con l’azione parlamentare della Sinistra: e tale eraRiccardo Sineo, il cui intervento a favore della Francia,nella discussione alla Camera il 21 gennaio 1871, eracosì pronunziato da indurre un altro dei deputati dellaSinistra, Luigi La Porta, a precisare che quelle erano leopinioni personali del Sineo, e non di tutti i suoi amicidella Sinistra99.

Lo stesso Agostino Bertani, che nella seduta dellaCamera, il 20 agosto 1870, aveva battezzata la Germania«antesignana del progresso e della civiltà»100, mutava poiopinione di fronte alla Francia repubblicana e finiva conlo scandalizzare il Mazzini, scrivendogli, nel gennaio del1871, che «se v’è scintilla di speranza per l’Italia è dallaFrancia»101.

Più importante di tutti, per i futuri sviluppi della poli-tica italiana e la parte che in essa avrebbe avuto, l’atteg-giamento di Felice Cavalloni, il cui fratello Giuseppe, ga-ribaldino in Francia, morena in seguito a ferite il 23 gen-naio 1871. Il suo giornale, Il Lombardo, fissava infatticon la massima chiarezza l’antitesi tra la Francia genero-sa, madre di civiltà e di libertà, e l’usurpatore Napoleo-ne. I moderati avevano simpatie per la Francia imperiale,la Francia che ci umiliava, con la servilità più obbrobrio-sa; noi questa Francia, ossia «questo pugno di miserabi-li che ne bestemmiava il nome e mercanteggiava il san-gue», l’abbiamo combattuta. «Sì, noi abbiamo aspettatoche la Francia vera si presentasse, purificata e fatta gran-de dall’espiazione e dalla sventura, per far causa comunecon lei. Abbiamo aspettato che la sua fosse una causa diuna nazione, e non di un uomo; della giustizia e non del-

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la conquista, della libertà e non del dispotismo. Abbia-mo aspettata per dir benedette le armi francesi, che es-se fossero le armi di un popolo e le armi della civiltà.»102.Benedette, ora, le armi francesi; benedetta la repubblicafrancese; che rappresenta il diritto e la libertà dei popoli,ripetevano altri minori103.

Tutti d’altronde gli uomini dell’opposizione doveva-no attenuare, dopo il 4 settembre del ’70, le loro simpa-tie prussiane: vuoi perché sinceramente e profondamen-te fossero venute meno le loro ragioni d’odio contro laFrancia, una volta caduto l’Impero, e il fascino della pa-rola repubblica su parecchi di essi trasformasse la guer-ra in guerra di principi, di libertà repubblicana contro lamonarchia prussiana invaditrice, secondo avrebbe inve-ce deplorato il Mazzini104; vuoi anche perché, di fronte alcrescente determinarsi di simpatie popolari per la Fran-cia, dopo Sedan, giudicassero poco opportuno, ai pro-prî fini politici, sembrar chiusi in una pregiudiziale ri-gidamente e totalmente antifrancese; vuoi infine perchéla gioia dei borbonici e dei clericali nel veder crollare ilsostegno europeo dell’«usurpatore» italiano, ammonisse«che ci doveva essere qualcosa di guasto in ciò che a’ lornemici piaceva tanto»105. Non solo in Italia, dove l’opi-nione pubblica, filo-prussiana all’inizio, aveva subito ra-pida evoluzione106, ma in tutta Europa la prosecuzionedella guerra faceva pender la simpatia pubblica a pro deiFrancesi: sia perché era generale persuasione che la cau-sa del conflitto fosse da ricercare esclusivamente nell’am-bizione e nella prepotenza di Napoleone III, e che per-tanto, caduto il gran responsabile, nessun legittimo moti-vo più giustificasse la sanguinosissima mischia107, sia per-ché l’opinione pubblica europea avvertiva, con sgomen-to, una durezza e consequenziarietà della volontà tede-sca di vittoria, come sin allora non s’era mai veduto. Ilbombardamento di Strasburgo, quello, più tardi, di Pari-gi sembrarono mostruosità ad una generazione che nul-

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la di simile aveva visto, né ricordava108: non certo la cam-pagna del 1859 e nemmeno quella del 1866, così pron-tamente conchiusa, potevano aver preparato gli animi aduna tanto implacabile, fredda e logica persistenza nellalotta, con tutte le crudeltà che ne derivano.

A siffatte preoccupazioni sentimentali si aggiungeva-no e sovrapponevano le preoccupazioni di carattere po-litico, presso tutte le grandi potenze: ora la vittoria prus-siana passava i limiti desiderabili; Bismarck eccedeva, di-venendo troppo potente, lui e il suo impero. L’Europaperdeva una maîtresse, come si disse, ma acquistava unmaître.

Così è che l’opinione pubblica veniva rapidamenteevolvendo a favore della Francia, anche nei paesi ini-zialmente meglio disposti per la causa prussiana, qualila Russia e l’Inghilterra109.

In Italia, dove già le propensioni della stragrande mag-gioranza del paese per la neutralità – che andava a favordella Prussia – non avevano tuttavia impedito, sin dall’i-nizio, che si facesse luce un movimento di simpatia perla Francia, gli eventi bellici successi a Sedan accresce-vano il senso d’orrore per quella che si giudicava ormaiinutile strage. E all’idea del bombardamento di Parigi sicommuovevano privati, giornali ed enti culturali110: nel-la seduta del 24 novembre 1870 era l’Istituto Lombar-do di Scienze e Lettere ad esprimere il desiderio che nel-le imminenti operazioni belliche si avesse riguardo ai te-sori d’arte racchiusi nella capitale francese; e vi facevaseguito, il 31 dicembre, la Società Reale di Napoli, chepregava il Visconti Venosta d’interporre i suoi buoni uf-fici presso il Bismarck, allo stesso fine111. Voti e prati-che destinati, s’intende bene, a restar senza effetto alcu-no: voto uguale a quello dell’Istituto Lombardo avevaemesso l’Accademia di Dublino, ma l’Università di Got-tinga, invitata ad associarvisi, aveva risposto, a mezzo delvice-rettore Riccardo Dove, in modo così brusco e tron-

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fio ad un tempo, che lo stesso segretario prussiano agliEsteri, von Thile, doveva ammetterne l’eccesso «par l’à-preté de sa parole»112.

Il mito della solidarietà degli uomini di scienza, unitinel culto del bello e del vero al disopra delle barrierepolitiche, subiva, anch’esso, rudi colpi in quei mesi d’uninverno rigidissimo, pel fisico come pel morale113.

Ma tuttoché infruttuose, simili proteste erano segnochiaro di quel che pensassero e sentissero i più di fronteal proseguire della guerra e al cannoneggiamento dellecittà, e di una città come Parigi114.

Non foss’altro che per calcolo di opportunità politica,o, se meglio piace, elettorale, anche i più accesi antifran-cesi della Sinistra dovevan, dunque, come suol dirsi, ver-sar acqua nel loro vino. Ed ecco così la stessa Riformaosservare, sin dal settembre del ’70, che ormai la guerranon aveva più ragion d’essere: il 16 luglio la Germaniaaveva giusto motivo di insorgere e di riversarsi sulla Fran-cia per impedire a Napoleone di passare il Reno con lesue truppe; oggi questa necessità è cessata «ed ogni spar-gimento di sangue sarebbe un atto di lesa umanità»115.Ed eccola, ancora, insistere sul concetto che la Germa-nia corre il rischio di trascendere i limiti dalla giustiziaassegnati al diritto di difesa, male opererebbe se cercassedi annichilire a Francia, di spingerla ad una umiliazioneintollerabile, strappandole l’Alsazia-Lorena, anziché ac-contentarsi della soluzione più equa, quella cioè di erige-re tali province in libero stato, indipendente e neutrale116,soluzione che il Crispi aveva già proposta sin dalla fine diagosto, rifacendosi al Cattaneo117.

Ma già nell’articolo del 29 settembre che esprimeva ta-li idee, allato dell’appello alla generosità del vincitore, al-lato di pensieri che si sarebbero potuti ritrovare fin sottola penna dell’antiprussiano Bonghi118 o, per lo meno, delDina: allato di questo tema umanitario a pro della Fran-cia, già nell’articolo si potevano rintracciare altri moti-

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vi di tono ben diverso, che fermavano a principio di viaqualsiasi rivolgimento d’affetti a favore della Francia.

E non era tanto il diniego di qualsiasi solidarietà dirazza. In quei giorni, in cui in Europa era già un grandiscorrere di questioni etniche e a molti veniva fatto discorgere negli avvenimenti l’espressione di un fatale con-trasto tra mondo latino e mondo germanico, e molti an-cora profetavano la decadenza inevitabile dei popoli la-tini, sopraffatti dai più freschi e giovani popoli germani-ci e slavi119, e in Italia Francesco Montefredini anticipa-va d’assai le profezie di Guglielmo Ferrero120 e oltr’Al-pe Flaubert gemeva sulla fine del mondo latino, vale adire di tutto quel che si amava121, altri invece propugna-vano la riscossa, vaticinando l’alleanza politica delle tregrandi nazioni latine. L’idea della fratellanza latina tor-nava in voga: accesamente ripresa dal Carducci, venivaassunta da Cesare Orsini a base di un progetto di allean-za italo-franco-spagnuolo122, mentre fuori d’Italia trova-va un difensore pieno di pathos in Jules Favre, nell’uomocioè che altra volta aveva difeso Felice, il maggior fratellodi Cesare Orsini123. E trapelava anche in altri commentidi uomini e giornali della Sinistra124; ma l’ambiente Cri-spino la ripudiava esplicitamente come «un grave erroreetnografico e storico, e un pregiudizio della educazionesoverchiamente francese che dopo il secolo passato si èinfiltrata in Italia»125.

Ben più importante era invece il rimprovero alla stes-sa Francia repubblicana di non aver avuto «il difficile co-raggio di separare assolutamente la causa dell’impero daquella della nazione»: poiché in tal modo s’apriva la viaai dubbi sulla effettiva validità della distinzione tra bona-partismo e nazione francese, si minava quindi alla base latesi dei democratici divenuti favorevoli alla Francia, e,annullando il distinguo, ricacciando nello sfondo il tran-sitorio fenomeno Bonaparte, si rendeva invece colpevo-le la Francia istessa. Garibaldi e Carducci, caduto l’u-

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surpatore, avevano risalutato la Francia dell’89, appor-tatrice di libertà al genere umano; Crispi e i suoi amicinon credevano più nella Francia, relegando tra le favo-le il consueto assioma della Francia donna di civiltà e dilibertà126.

Non maestra alle penti di una nuova fede politica,bensì «una vigorosa, forse la più vigorosa che mai siastata, affermazione d’unità nazionale»; bensì dunque,un magnifico organismo statale, che non solo non eranecessariamente amico dell’Italia, ma anzi poteva essernenemico, e non occasionalmente. Il motivo ideologico,antibonapartista e democratico, svanisce; e in luogo deifantasmi carducciani dell’imperial Caino o dei Sanculottidel ’92, sottentra la visione di una Francia intenta atessere non anche l’altrui, ma unicamente la propriastoria, che è non redenzione altrui ma conquista per sé127,occorrendo, rapina e crudeltà; una storia che è scrittain nome del proprio egoismo, l’egoismo di una Franciache è ostile all’Italia, nemica dell’unità nazionale italiana,quale si sia il governo insediato a Parigi128. Semmai, anzi,l’odiatissimo tiranno del 2 dicembre era personalmentestato il più favorevole o il meno sfavorevole all’Italia, fratutti i reggitori francesi del passato e del presente129.

Apparentemente, in una concezione siffatta sembravacontinuare l’atteggiamento del Mazzini, chiaramente in-sorto contro l’idolatria francese già assai prima del 1851,già dal 1834 tenacissimo nel richiedere che altri popo-li, e anzitutto l’italiano, assumessero l’iniziativa sfuggitadi mano ai Francesi130, esplicito nel dichiarare che il pro-gresso dei popoli stava nell’emanciparsi dalla Francia131.L’influsso troppo premente della cultura e delle ideolo-gie francesi aveva trovato in lui, come nel Gioberti, un’e-nergica ripulsa: o non era stato proprio lui, che vedevanel 1789 il compendio del lavoro intellettuale di diciottosecoli, non l’inizio di una nuova èra, e protestare controla venerazione dei passato francese, a scrivere nel 1835:

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«il passato ci è fatale. La Rivoluzione francese, io lo af-fermo convinto, si schiaccia. Essa preme, quasi incubo,il nostro core e gli contende di battere. Abbagliati dal-lo splendore delle sue lotte gigantesche, affascinati dalsuo sguardo di vittoria, noi duriamo anch’oggi prostratidavanti ad essa»?132.

Era la vigorosa reazione che assicurava il posto dell’I-talia nell’Europa, le impediva di gravitare come semplicesatellite nell’orbita della Francia, salvava la individualitànazionale133: perciò appunto, una reazione che andava aldi là delle contingenti vicende politiche e delle transeun-ti forme di governo, per fissare il problema della esisten-za di due diverse, nette individualità nazionali, ciascu-na degna di viver di vita propria; anche se poi, più tar-di, pure il Mazzini acuisse i suoi strali contro il bonapar-tismo e accennasse, anch’egli, ad una distinzione tra ledue Francie, quella buona e quella cattiva, la pura Fran-cia repubblicana e il covo della tirannide e delle sètte tra-viate comunisteggianti134.

Tanto profonda, organica, coerente era stata da de-cenni l’azione di Mazzini contro il timor reverentialisper la Francia e l’adorazione per un idolo ormai incapa-ce di iniziativa, che nessuno poteva meravigliarsi se, nel’70-71, anche dopo Sedan egli continuasse a dimostrarediffidenza per la repubblica del 4 settembre e disistimaper gli uomini del governo di Parigi-Tours-Bordeaux.

Non mai, forse, o rarissime volte almeno, la sua irri-tazione contro i «francofili» d’Italia fu più viva e trovòaccenti più accorati, che pervadono sia le lettere sia gliscritti e segnatamente quello di proposito dedicato allaGuerra Franco-Germanica. Preghiera agli amici di nonesser «troppo francesi», ché non lo meritano135; esor-tazioni a non guardar più alla Francia, ormai incapaced’iniziativa136; rimpianto, anche in lui, come negli uominidella Riforma e nel Cairoli, che tante promettenti energiesiano state trascinate da quell’illuso di Garibaldi a morir

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per la Francia, mentre si sarebbe dovuto agire in Italia, eper l’Italia soltanto137; monito ai sentimentali che si com-muovono per i bombardamenti di Strasburgo e di Parigie lanciano parole «stoltamente conciate» contro i nuoviUnni, senza tener a mente che ogni guerra è duello più omeno feroce, e che fino a quando non verranno soppres-se le cagioni delle guerre, mediante la confederazione re-pubblicana dei popoli e una istituzione internazionale diarbitrato, «ciascuno dei combattenti ha dovere, in nomedella propria Nazione, di vincere»: questo gli suggeriva-no gli eventi della guerra.

E non era ch’egli, a simiglianza degli uomini della Ri-forma e di altri italiani, vedesse nel movimento germani-co proprio attuati gli stessi suoi ideali, anche solo quellodi nazionalità: aveva, sì, mutato parere da quando, allavigilia ancora della guerra del ’66, trovava che l’alleanzadell’Italia con la Prussia era «vergognosa, ed in contrastocon tutte le nostre naturali tendenze nazionali»138, e che,se già conclusa, una simile unione avrebbe dovuto esse-re trascinata nel segreto «come la colpa». «L’Italia nondeve contaminare più oltre la santità della propria ban-diera, non deve proclamare all’Europa ch’essa non cercaalleati se non tra gli uomini che rappresentano il dispo-tismo il Governo Prussiano era, tre anni addietro e so-lo in Europa, satellite federato dello Czar a danno del-l’insurrezione Polacca: violava poco dopo ogni principiodi giustizia e di dritto a danno della Danimarca: rompe-va, in quell’opera nefanda, ogni fede di trattati e mentivasfrontatamente alle Potenze d’Europa, alle popolazioniconquistate, alla Confederazione Germanica: conculca-va recentemente e tuttora conculca Parlamento e Libertànella propria terra: rappresenta, nella questione attuale,la parte peggiore»139.

Le vicende della guerra del ’66, e dunque lo scac-co grosso inferto all’odiatissimo imperatore de’ France-si avevano non solo attenuato l’ostilità mazziniana per

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il Bismarck140, ma anzi condotto all’avvicinamento del’67-’68 tra l’agitatore genovese e il governo prussiano.

Eppure, non c’era, nemmeno ora, simpatia vera, pienarispondenza di sentimenti e d’idee. Ché anzi, come giànel 1867, quando si rivolgeva al Bismarck per offrirglil’alleanza del partito d’azione e averne in cambio denaroe armi, non aveva esitato a premettere di non condivide-re le idee politiche del prussiano, pur desiderando l’uni-tà tedesca, così ora non si peritava dal trovare, non solonel Bismarck la venerazione della forza e dei fatti, ben-sì «non buona» la via per cui la Germania combatteva indifesa della sua nazionalità141. Soprattutto, il Mazzini – inperfetta conformità d’idee, questa volta, con i moderatiDina e Bonghi – trovava che l’impadronirsi «senza libe-ro voto dei cittadini» dell’Alsazia-Lorena era «triste in-segnamento di libertà al popolo che compie quel fatto»,era proceder per via di «conquista», decretando inevita-bilmente una seconda guerra, tra le due nazioni, a brevescadenza; e conchiudeva in un monito severo: «Guida-ta da una cupida Monarchia, la Germania ha traviato al-la sua volta dai confini del Retto che la riverenza al pen-siero ingenita in essa le insegnava di non varcare e sosti-tuito al diritto di proteggersi un concetto di vendetta chesemina i germi di nuove guerre»142.

Ma, al disopra di tutte queste riserve così simili pertanta parte a quelle dei moderati, stava una ferma consi-derazione: non solo la Francia pagava il fio delle sue col-pe, colpe di un popolo tutto, e non puramente di una di-nastia o di un uomo143, ma era giunto per l’Italia il mo-mento di assumere l’iniziativa, di sedersi sul trono del-l’iniziativa europea, vacante dal 1815, e di dar inizio al-la sua missione. Insurrezione in Italia e proclamazionedella Repubblica, la bandiera della libertà issata trionfal-mente in Roma redenta dal giogo papale, sì come la na-zione tutta era, infine, redenta dalla soggezione alla Fran-cia: mai, come in quei giorni dell’estate 1870, l’agitatore

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sognò vicino il momento dell’avveramento della sua pro-fezia, e credette giunta l’ora in cui l’Italia si sarebbe postaa capo di un’«Epoca europea»144.

Poi, fu sì il crollo delle speranze e l’accasciamento mo-rale e il veder sfumato il «duplice sogno»145 e il sentir-si nuovamente solo, fra Italiani degeneri. Ma anche do-po lo svanire delle illusioni, anche quando vide Romaprofanata dalla monarchia e, in Francia, una parvenza direpubblica, senz’anima di repubblica146, anche allora ilMazzini rimase fermo nelle sue convinzioni; e continuòad insistere – lo faceva da trentacinque anni – su alcu-ne delle sue idee fisse: che cioè la Rivoluzione franceseaveva rappresentato non l’inizio di una nuova epoca, mala conclusione, se pur mirabile, e come l’ultima formuladi un’epoca ormai finita147; che la Francia non solo nonaveva più l’iniziativa in Europa, dal 1815148, ma anzi ave-va tralignato dalla propria missione, lasciandosi trascina-re dalle tendenze dominatrici, conculcando i diritti del-le nazioni sorelle, arrogandosi diritti di perenne primatotra le nazioni, ond’era giusta, se pur severa oltre il giusto,l’espiazione149; infine, che l’Italia doveva, essa, assumerel’iniziativa.

Perciò egli era contro la Francia, e non solo contro ilbonapartismo: contro, perché temeva, dall’influsso fran-cese così profondo e perdurante150, conseguenze delete-rie per la capacità d’azione, la volontà, i propositi stessidegli italiani in ispecie e degli europei in genere; contro,perché doveva forzatamente esser polemico per salvarel’individualità italiana, per destar nel suo popolo la vo-lontà di assumere l’iniziativa, vale a dire quella coscien-za di sé che gli sembrava ancor totalmente mancare151.Perciò, dopo aver predicato nel ’67 al Bismarck che bi-sognava combattere il «bonapartismo», pericolo perma-nente per l’Europa152 egli affermava ora la colpa di tuttala Francia, troppo sollecita a cercar un capro espiatorio e

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a riversar su di un uomo solo – giusta un antico costume– le colpe di tutti153.

In lui, dunque, la posizione era netta, di fronte allaFrancia come nazione, non di fronte alla sola Francia delSecondo Impero. E sarebbe egli stato non meno recisoe deciso anche di fronte alla Germania, quando l’influs-so tedesco fosse sembrato minaccioso come lo era statoquello francese; non per nulla il Mazzini deplorava, nel-l’agosto del 71, il «servile avvicendarsi come d’antico»di influenze francesi e germaniche154 d’accordo in questocon il Carducci, il quale, pochi mesi appresso, nel gen-naio del ’72, aggrediva «la borghesia ben pensante, cheammira sempre la forza e il successo», la quale «vestiva isuoi bimbi alla foggia degli ulani come pochi anni avan-ti gli avea vestiti alla foggia degli zuavi», comportando-si con la Francia, la maggior parte degl’italiani, «come loschiavo recente di servitù il quale esulta su la sventuradel padrone che teme»155.

Ma nella contrapposizione Francia-Italia, che il Crispie i suoi amici cercavan d’imporre, s’insinuavano ormaimotivi diversi da quelli mazziniani. Eran, quest’ultimi,esigenze morali, assai prima che politiche nel senso stret-to della parola, in connessione con un programma allacui cima splendeva l’ideale dell’Umanità, e che richiede-va quindi il concorde lavoro di tutti156, la fratellanza, peril trionfo di un principio, per il «nuovo fine sociale d’u-na sintesi europea che trasporti l’iniziativa dal seno d’unsolo popolo al di sopra di tutti e comunichi a tutti l’at-tività ch’oggi manca». Gli altri, erano sì in parte consi-derazioni di principio, come che si ritrovasse identità disviluppo, comunanza d’idee e di fini nel movimento na-zionale germanico e in quello italiano, avvinti pertanto inun solo destino e con l’ovvia conseguenza che, per con-trapposto, la fortuna d’Italia non coincideva con quelladi Francia157. Ma in parte notevole erano invece già con-siderazioni di pura politica pratica, si nutrivano di sem-

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plici rivalità statali. Dal sogno dell’Europa dell’avveniresi ritornava nella più angusta e concreta Europa dell’og-gi, con i suoi interessi di potenza, territorialmente, poli-ticamente, economicamente ben percepibili, di una ma-terialità immediata e corposa; dai princìpi si scendeva al-la pratica. Era l’abbandono sostanziale da pensiero maz-ziniano: come dalla repubblica il Crispi era passato allamonarchia, così passava dal programma europeo di Maz-zini alla valutazione, consueta a politici e diplomatici, dei«necessari» contrasti di interessi fra Stati vicini, in atte-sa di trascorrere anche – e fu l’ultima fase della sua espe-rienza – dall’esigenza originaria di libertà, teoricamentesempre mantenuta, alle tendenze praticamente autorita-rie nell’interno del paese.

È una concezione già quasi nazionalistica, che vede in-teressi specifici in lotta gli uni con gli altri e solo questi,parla di potenza e non vuol più concedere nulla al «sen-timentalismo» e, come nel Blanc, ripudia i «vieti princi-pî» e le dottrine del passato158; una concezione per cui icrispini e, anche, altri uomini della Sinistra, non esclusotalvolta il Mancini159, si trovano, senza volerlo, sullo stes-so piano del conservatore de Launay160, e lontani assai daGaribaldi e da Carducci.

La caduta del Secondo Impero e l’avvento della Re-pubblica non bastano quindi più per decidere pro e con-tro la Francia; e invece questi uomini, che proclamanola necessità di una politica puramente italiana161, nel sen-so di una politica non influenzata da memorie del passa-to, da preconcetti di razza, di religione, di storia, e pura-mente attenta agli interessi propri, razionalmente soppe-sati e valutati, che si atteggiano dunque anch’essi a real-politici, secondo il tono generale dell’epoca, questi uo-mini mantengono verso la Francia, pur dopo il 4 settem-bre, un atteggiamento pieno di riserva.

Mentre della Germania si può dire senz’altro esser«quella che per molti punti si manifesta in contatto con

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l’Italia», per la Francia bisogna attendere maggiormente:«quando essa receda completamente dalle velleità papi-ste e dal pregiudizio di credersi la nazione prevalente nelMediterraneo e la tutrice dell’Italia, quando la sua formadi governo ci garantisca dai pericoli di reazioni, essa po-trà divenire per noi egualmente che la Germania un’al-leata sul cui concorso nello sviluppo dei principi liberalipotremo fare assegnamento».

Bel miraggio ultimo: ma da quante premesse cautela-trici, da quali condizioni e se e ma non viene accompa-gnato, sì da sembrar proprio solo un miraggio! C’è qui,in nuce, tutto l’atteggiamento della Sinistra nei prossi-mi anni, allorché proprio le velleità papiste e la minacciadi movimenti reazionari in terra di Francia insorgeranno,talora con preoccupante violenza, a dar corpo alle ombreintraviste nell’articolo de La Riforma del 22 ottobre.

Un passo ancora e si poteva giungere all’idea della«naturalità» dell’alleanza italo-tedesca e, per converso,della «naturale» opposizione tra Italia e Francia. Che laPrussia fosse la «naturale» e provata alleata dell’Italia,poteva ben dire e ripetere il signore di Bismarck162 trop-po scaltrito politico per lasciarsi prendere nella pania ecredere alla realtà di una frase ch’egli pronunziava quan-do gli tornava comodo, salvo a lasciarla cadere quandopiù non gli importasse cattivarsi il governo di Roma. Po-teva ripetere, con maggior sincerità forse, il Mommsen163.Ma certo, il giorno in cui a qualche italiano fosse saltatoin mente di scorgere la naturalità dell’alleanza tra Ger-mania e Italia, l’affermazione sarebbe stata fatta con tut-ta serietà e calore di convinzione: il momentaneo accor-do di interessi fra Berlino e Roma avrebbe assunto la fis-sità duratura del fatto naturale, e, per contrapposto, but-tato via ogni relitto di anti-bonapartismo, tra Francia eItalia si sarebbe aperto un «naturale» dissidio, incom-ponibile per volontà di uomini, fatale, poiché lo svilup-po della vita italiana faceva presagire per il giovane re-

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gno «una grandezza e una potenza politica, nel mezzodìd’Europa, che non può aver luogo senza che la Franciaabbia a sentirsene colpita nelle sue tradizionali ambizionidi prevalenza»164.

Queste cose dunque furono dette in Italia e assai piùin Francia, dove i nemici dell’unità italiana avevano invo-cato anch’essi, da tempo, la «naturalità» del contrasto frale due nazioni165; anzi, banditori della naturalità dell’al-leanza italo-prussiana s’eran già trovati sin dal ’66, primaancora di Mentana, e n’era venuta la scoperta che i cuoridelle due nazioni, Italia e Germania, destinati a battereall’unisono nell’avvenire, avevano già battuto all’uniso-no nel passato, sempre, senza che i due popoli lo sapes-sero «perché avevano comuni le aspirazioni, i desideri, itimori, le speranze»166.

Qual meraviglia dunque se, con siffatto modo di senti-re, la spedizione garibaldina in Francia riuscisse poco ac-cetta a molti della Sinistra167; se poi, con il suo esito e lamala accoglienza fatta dall’Assemblea di Bordeaux al ge-nerale e le tribolazioni delle camicie rosse dopo l’armisti-zio, essa divenisse anzi motivo di più per affermare chela Francia, ingrata, superba pur nella débacle, aveva di-mostrato il suo odio – suo, dell’intera nazione – controtutto ciò che sapesse d’Italia; se dunque l’ultima impre-sa del magnanimo di Caprera si convertisse, contro il suoproposito, in argomento di propaganda anti-francese?

Tanto lontano ormai, in questi uomini, il proposito diassociare Francia e libertà, di veder in essa la nazioneeletta, solo fuggevolmente bruttata dal tiranno, che anzicotali attributi venivano generosamente abbandonati al-la Germania, proclamata difenditrice del principio d’in-dipendenza e di autonomia nazionale168, della civiltà e li-bertà europea169 e perfino della vera e sana democrazia170.

Né, d’altronde, almeno per taluno degli uomini dellaSinistra che così opinavano, e in primis per il Crispi, sa-rebbe stato necessario attendere proprio che in Francia

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si delineassero le velleità clerico-monarchiche. Assai pri-ma del manifestarsi aperto di tali tendenze nell’Assem-blea di Bordeaux, quando la Francia sembrava incarna-ta nel repubblicanissimo Gambetta, e, a Firenze, l’invia-to francese Senard si congratulava col re e col suo gover-no per l’occupazione di Roma, le tendenze di Crispi e deisuoi amici verso la Francia erano divenute nuovamente,dopo una fuggevole schiarita, diffidenti ed ostili.

Non si trattava del permaner di dubbi sulla reale ca-pacità di risurrezione di una Francia «libera»: que’ dub-bi, vivi anche nell’animo di parecchi che avrebbero vo-luto una forte Francia repubblicana, e temevano insicu-ro l’avvenire dell’appena nata e mal nata repubblica; on-de un Cairoli, esultante per il crollo del Secondo Impero,per la scomparsa nel disprezzo della «vergogna europeada tanto tempo inchinata», e lieto dell’onor di Francia inparte riparato, e auspicante là risurrezione della «vera»Francia dei diritti dell’uomo, rimaneva tuttavia incertis-simo del futuro e perciò, con tutti gli auguri, dubbioso esostanzialmente diffidente171.

Si trattava invece di ben altro, che di una Franciasaldamente e sicuramente repubblicana.

Lo stesso giorno in cui proclamava la necessità che laguerra cessasse, e in cui dunque sembrava assumere po-sizione favorevole alla Francia, La Riforma toccava infat-ti la questione di Nizza – di Nizza italiana172. Non unicaquestione ancor da risolvere, in omaggio al «diritto na-zionale»italiano; anzi, una fra le rivendicazioni, destina-te fatalmente a venir in luce aperta, diceva il quotidia-no, ogni qualvolta l’occasione si presentasse, se la pre-veggenza dei governi non avesse saputo sitcemarle a tem-po. Una fra le rivendicazioni, allato del Trentino, allatodella stessa Savoia, per la quale veramente il giornale ri-chiedeva non più il ritorno al Regno, bensì la «neutra-lizzazione», così come aveva chiesto la neutralizzazionedelle province renane, per separare, mediante una linea

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continua di territori inviolabili, la Francia dalla Germa-nia e dall’Italia, e creare una garanzia solida della paceeuropea.

Dove, fra l’altro, colpisce, ancor una volta, l’analogiafra le idee dei circoli crispini173, in questo tutt’altro checoncordi con gli altri ambienti della Sinistra174, e quel-le del conservatore de Launay, il quale pure, rifacendoa modo suo la carta d’Europa dopo la sognata vittoriaitalo-germanica sella Francia, avrebbe più tardi osserva-to esser preferibile forse neutralizzare la Savoia unendo-la alla Svizzera175: tanto il fervore antifrancese dell’uno edegli altri li avvicinava sostanzialmente, e senza che es-si nemmeno lo sapessero, in politica estera, al disopradi divergenze grandissime sui problemi di politica inter-na. Vicini, nei sogni di grandezza per il proprio paese edi una grandezza concepita anzitutto come affermazionedi forza militare: quei sogni che il sempre avveduto Bi-smarck aveva cercato di accarezzare, incoraggiare, spro-nare, soprattutto nei riguardi di Nizza, proprio nell’esta-te del ’70176, che ancora più tardi avrebbe ricordato, amezze frasi, al de Launay177, così come ad altri italiani dirango elevato li avrebbe ancor sempre fatti balenare talu-no fra i maggiori uomini responsabili della vita germani-ca, e fra essi il Moltke178. Seducente esca, senza dubbio,per chi avesse dimenticato Magenta e Solferino: e nondisdegnava di giovarsene fin un uomo come il Momm-sen, pronto a sostenere, con la sua autorità di scienzia-to, anche la politica bismarckiana, nell’estate del ’70179,e un altro dotto, l’indianista Alberto Weber, tra un rim-provero e t’apro, per l’«ingratitudine» degli italiani ver-so la Prussia, cercava, anche lui, di prospettare il mirag-gio di Nizza. Vero è che l’Italia aveva pure obblighi diriconoscenza verso la Francia, e più antichi che verso laPrussia: ma in politica tali sentimenti non contano, «lacamicia ci sta più vicina del soprabito»180.

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Con la questione di Nizza – che il gruppo raccolto at-tornoa Crispi avrebbe cercato, nei mesi seguenti, di sfrut-tare in vista di una vagheggiata soluzione definitiva e, bens’intende, italiana – risorgeva dunque, e il bonapartismoera appena sepolto e le truppe francesi non erano piùa Roma, un germedi dissensi profondi, rancori da parteitaliana e diffidenze da parte francese181: donde un rin-novato ostacolo, per gli amici della Riforma, ad un veroriavvicinamento italo-francese182. Al disopra delle que-stioni ideologiche, dell’usurpazione del 2 dicembre e del-l’immoralità del bonapartismo, stava dunque una que-stione territoriale: la quale a sua volta poi non veniva fuo-ri se non perché nell’animo inquieto del vecchio cospira-tore balenavano quei fantasmi di grandezza e di poten-za, dei quali più tardi si sarebbe alimentata la sua azionedi capo del governo italiano. «Spingere il nazionalismofino al più alto grado di austerità, in tutto e verso tut-ti: ecco il nostro bisogno indeclinabile dopo di aver pertanti anni subìto una politica di preponderanza stranie-ra; non altrimenti si riacquisterà la coscienza intiera del-la nostra personalità nazionale, non altrimenti dimostre-remo al mondo che l’Italia è e deve e vuole essere degliitaliani.».

Così, La Riforma del 23 ottobre 1870183: ed era vera-mente, qui, il grido dell’anima. Nazionalismo, proprio il«gretto geloso ostile nazionalismo» che il Mazzini, un an-no più tardi, nell’ottobre del 1871, supplicava non si con-fondesse con la santa parola «Nazionalità»184; grandezza,potenza, dignità nazionale: e poiché la dignità naziona-le sembrava offesa, anzi, per parlare il linguaggio di que-gli uomini, prostituita da un decennio di predominio eingerenza francese, quasi fatalmente que’ fieri sentimentisi volgevano contro la vicina di occidente.

Crispi poteva bene affermare in piena Camera, «l’ani-mo mio è lacerato e sanguina nel vedere le crudeli sven-ture onde è stata colpita la Francia»185: in verità, anche

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se il moto di commozione era sincero e spontaneo, essonon significava nulla più di una fuggevole effusione sen-timentale, mentre l’istinto, prima ancora che il ragiona-mento politico, lo conduceva, quasi per fatalità, controla Francia. Nel suo atteggiamento e nei pensieri di queidrammatici mesi del ’70-71 erano già, in nuce, l’atteggia-mento e i pensieri del periodo 1887-’96: ripetute, e certosincere, dichiarazioni di amicizia per la Francia; ma, insostanza, e sia pure grandemente facilitata, assai sprona-ta anzi dalle animosità e cattiverie d’oltr’Alpe, una politi-ca profondamente diffidente verso la Francia e, in ultimaanalisi, dunque, ostile.

Ora, si trattava di Nizza: più tardi, messe da parte an-che se non abbandonate le rivendicazioni ai confini del-le Alpi186, si tratterà di Biserta, di Tripoli e dell’equili-brio mediterraneo: ma nell’un caso e nell’altro, la riva-le «naturale» del giovane Regno appare essere proprio lanazione che ne ha pure aiutati, anzi sorretti i primi passi.

Sempre più svanirà il fascino dei principi dell’89 e del-la patria loro; e sempre più quest’ultima apparirà nellaluce di una calcolatrice utilitaria. L’ideologia scompare,per lasciare luogo alla pura considerazione dei fattori dipotenza, delle entità nazionali, bene armate, ispirate so-lo dal proprio egoismo e intente a disputarsi l’egemoniain questa e in quella parte del mondo. Politica realisti-ca o alla Bismarck, come si disse, quale proprio France-sco Crispi avrebbe cercato di tradurre in pratica, mol-to più tardi, una volta assunto il comando della nave ita-liana; politica nella quale sempre meno si dava peso aiprincìpi, alle cosiddette idealità e sempre più alla forzamaterialmente calcolabile e pesabile.

Che il valore dei principi subisse pericolose alterazio-ni, in questo primo affacciarsi di nazionalistica austerità,dimostrava proprio La Riforma, in quei mesi sul finiredel 1870.

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Era senza dubbio continuo, insistente il ritornello delprincipio di nazionalità, come della base su cui avrebbedovuto poggiare tutta la politica italiana: tanto più insi-stente in quanto l’occupazione di Roma richiedeva, ap-punto in quei giorni, che si ripetesse, esaltasse fino alpossibile il principio di nazionalità e dell’autodecisionedei popoli, come quello che legittimava la breccia di Por-ta Pia e l’insediamento a Roma.

Era il motivo ideale che con quello di libertà politicaaveva dato luce e respiro al Risorgimento: motivo pro-fondissimo, e ancora potente a commuovere i cuori e lefantasie, e ancora necessario per legittimare l’Italia unitadi fronte soprattutto al mondo cattolico.

Ond’è che, come in piena Camera lo aveva riafferma-to il Crispi187, così lo esaltava La Riforma: l’idea di nazio-nalità – diceva l’articolista – prima ancora di essere unprincipio politico è come un «grande ed operoso prin-cipio morale»; essa acquista un qualche cosa di mistico,di religioso, assumendo i caratteri «di una vera religionecivile»; è il presupposto necessario dell’idea di umanità,che mancherebbe della sua prima condizione essenzialeove non ci fosse l’idea di patria188. E nazione vuol diremissione: ad ogni popolo tocca la propria, ma a nessunouna più alta che alla nazione italiana, cui la Provvidenzadella storia chiama ad «affermare il principio di naziona-lità sui ruderi della teocrazia, – glorificare la libertà re-ligiosa e i diritti della civiltà sulla terra del Sillabo e deldogma»189.

Erano dunque i princìpi mazziniani190, ancora una vol-ta ripresi anche se del binomio nazione-umanità l’accen-to si spostasse, di preferenza, sulla prima parte, e la men-zione della seconda mancasse del calore e della fede on-d’era stata avvolta nella predicazione mazziniana191. An-che in questo, cominciava a trapelare l’incipiente nazio-nalismo, che avrebbe poi disdegnato, a maturazione av-

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venuta, la «santa famiglia dell’umanità» come un vaneg-giamento di imbelli.

Ferma, dunque, nel considerare il principio di nazio-nalità un grande principio morale, La Riforma era pari-menti decisa nel volerlo applicato «in tutte le sue logi-che conseguenze, senza eccezioni, senza restrizioni», nelnon ammettere ch’esso potesse mai essere subordinato«a princìpi che lo neghino in qualsiasi modo o in tutto oin parte, e possano arrestarne, o modificarne l’esercizioe lo sviluppo»192, convinta che «sorti dal principio di na-zionalità, abbiamo il dovere di sorreggere sempre con lasimpatia e con la benevolenza, ed ove ne sia il caso, conpiù validi aiuti, le nazioni oppresse, che ... si affaticanoa raggiungere la medesima meta, che noi più fortunati diloro, abbiamo raggiunto»193.

Così, dopo averlo tirato in ballo per Nizza, il veemen-te giornale di sinistra cercava, nell’estate del ’71, di pro-pugnare l’applicazione de: principio nazionale in quel-lo che, con l’impero ottomano, era stato, era e sarebberimasto sino al suo tramonto il teatro d’azione preferi-to dai rivendicatori dei popoli oppressi o almeno non ri-spettati nella loro personalità nazionale: vale a dire, l’im-pero asburgico. I dissensi violentissimi in seno alla du-plice monarchia pro e contro il federalismo, pro e con-tro la politica del ministero Hohenwart, offrirono allorafacile spunto alle notazioni dei Crispi e degli Oliva194.

Né soltanto era amore per i fratelli trentini195, perTrieste196, iniziale espressione del movimento così notodi poi sotto la denominazione d’irredentismo. L’amoredella Riforma per il principio di nazionalità abbracciava– mazzinianamente – tutti i popoli, soprattutto i popo-li dell’impero asburgico; si soffermava compiaciuto sullesupposte velleità di annessione all’impero germanico del-l’Austria tedesca, sul programma della «Grande Germa-nia» che, con nebulosa conoscenza delle cose e scarso in-tuito politico, si riteneva gradito anche al Bismarck197; si

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effondeva in previsioni di grandiosi rivolgimenti, e cul-minava – o sancta simplicitas! – nell’affermazione «chel’interesse e la logica della politica di nazionalità dovreb-bero aver scritto nel programma germanico la ricostru-zione della nazionalità polacca, la indipendenza della na-zionalità tzeca e l’ingresso dell’Alemagna austriaca nelpatto dell’impero»198.

Sembrava veramente che un soffio messianico aleg-giasse nel petto de’ redattori della Riforma, i quali, comeper la libertà, così per la nazionalità continuavano ad im-prestar, generosamente, al Bismarck le proprie idee e ilproprio sentire: tanto messianico, da non far loro avver-tire il ridicolo di supporre tendenze favorevoli alla nazio-ne polacca nonché in tutti i patrioti tedeschi, taluni deiquali erano invece stati così espliciti, sin dal ’48 e dal-l’Assemblea di Francoforte, a ripetere nettamente, pro-prio verso i Polacchi, «la Germania innanzi tutto»199, ad-dirittura in un uomo come il Bismarck che già nell’apri-le del ’48 s’era sdegnato per il sentimentalismo romanti-co dei Berlinesi a favor dei Polacchi200, che nel ’63 ave-va pienamente appoggiata la politica russa e che dove-va veder sempre nel «polonismo» uno dei maggiori pe-ricoli per la sua opera. E nemmeno avvertivano, guar-dando con compiacimento al federalismo austriaco, nonpiù il ridicolo, ma il danno sicuro, questa volta, che all’I-talia avrebbe arrecato, in quel particolare momento, l’e-ventuale trionfo dei federalisti in Austria.

Con la questione romana aperta, una Francia domi-nata dalla maggioranza clerico-conservatrice dell’Assem-blea Nazionale, un Belgio clericale; in simili condizioniavere ancora, in Austria, il trionfo della reazione clerico-feudale, a tendenze nettamente, dichiaratamente papali-ne e anti-italiane201 – e tale era il significato politico inter-nazionale del federalismo austriaco – sarebbe stato, dav-vero, un grosso pericolo per l’Italia.

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Ma Crispi e gli altri, sognando il prossimo congiun-gimento alla madrepatria del nucleo italiano dell’impe-ro asburgico, convinti che fosse imminente il congiungi-mento della parte tedesca al Reich202, non badavano piùa simili inezie, e continuavano a lumeggiare ai loro let-tori la necessità, fatalità, imminenza di una profonda tra-sformazione dell’impero asburgico203. Continuavano, an-che, ad attaccare il governo della Destra, di quei mode-rati che affettavano ora di ritener chiuso il periodo deigrandi movimenti, e che alla poesia del periodo eroico’59-’61, movente «di meraviglia in meraviglia e di prodi-gio in prodigio, con realtà superante l’immaginazione»,avevano fatto sottentrare «una nuda, una gretta, una ge-lida prosa come cappa di piombo»204.

Ma, insomma, erano ancora, formalmente almeno, iprincìpi mazziniani. Ora, quei principi s’erano fondati,a lor volta, sull’assioma della nazione come fatto morale,cioè come «volontà» di essere nazione, come espressio-ne della libera decisione dei cittadini. Se la formula delplebiscito di tutti i giorni doveva esser coniata, nel 1882,dal Renan, la sostanza di essa era già stata del Mazzini205;riappariva a tratti persino nel Mancini, anche se assaipiù frammischiata qui con elementi giusnaturalistici206. Ilpredominio del fattore volontà, coscienza, spirito, era lanota caratteristica del pensiero italiano sulla nazione, di-versamente da quello germanico ch’era sempre stato, perpiù larga parte, natura: era la fede di un’età, di un popo-lo i cui stessi riformatori sociali battevano sul «volontari-smo» e non accettavano i concetti – cari poi al marxismo– del dispiegarsi di forze e leggi economiche necessarie efatali207. Il richiamo alla storia e alle glorie passate, cioèalla creazione degli uomini, non al ceppo etnico, cioè al-la creazione della natura, era stato il motivo dominantenei più alti appelli allo spirito nazionale italiano, perchési ridestasse.

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Senonché, bruscamente, ad una concezione così alta,che tutto riponeva in interiore homine, e da siffatta forzad’interiorità derivava la sua superiore ampiezza di oriz-zonte nell’ambiente Crispino minacciava di sostituirsi unmodo di vedere di tutta diversa natura, tale da trasferirel’elemento decisivo dal campo morale e dalla vita internadegli uomini ad una presunta oggettività esteriore, a datidi «fatto» geografici, etnografici e linguistici, preesistentie condizionanti, in via assoluta, il volere degli uomini.

Nel dicembre del ’70 l’opinione, per avere contestatoalla Germania il diritto di annettersi l’Alsazia e parte del-la Lorena contro il «voto dei popoli e la coscienza del-le nazioni», sulla base pura e semplice della conquista, edunque contro il diritto nazionale, scatenava le ire di un«tedesco»; onde nella risposta l’organo moderato (a cuisi aggiungeva La Perseveranza del Bonghi) toglieva moti-vo dalla polemica per precisare il concetto «italiano» dinazione e nazionalità, fondato precisamente sulla liberavolontà dei popoli»208.

Fosse il furor polemico ad uso puramente interno, dipartito; fosse la vecchia ostilità, di stile mazziniano, con-tro il «plebiscito» di bonapartiana e dittatoriale origine;fosse la preoccupazione, comprensibile in quel momen-to, con Roma appena appena entrata nell’orbita naziona-le, che la teoria dei plebisciti potesse poi essere invocatacontro il giovane Regno209 o almeno potesse venire prati-camente contestata, come che si dicesse il voto essere sta-to praticamente «non libero» estorto con l’intimidazionee simili mezzi mentre proprio i Romani erano ancora inmaggioranza «neri»210; fosse il desiderio di spalleggiare lapolitica germanica, sempre vedendo nella Francia il ne-mico: certo, La Riforma intervenne nella polemica, pernegare valore alle idee esposte dai due giornali moderatie affermare, invece, la dottrina, per vero singolare assainel paese di Mazzini e proprio quando Mazzini deplora-va l’annessione dell’Alsazia «senza libero voto dei citta-

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dini», che il carattere della nazionalità è, di sua natura,anteriore e superiore a ogni volontà singolare e colletti-va; che il principio di nazionalità è un a priori, un dirit-to «naturale» rovente in ogni italiano; che la volontà deicittadini deve essere interrogata per la forma dello Sta-to, ma non per altro, mentre sarebbe ingiusto ed assurdofar decidere da una parte della nazione se intende essereitaliana, tedesca, francese211.

Antitesi più recisa alla formula «Roma dei Romani»,così in voga dal 1861, non potrebbe immaginarsi212.

Come era allora possibile riconoscere le nazionalità senon dai segni esteriori, geografia, razza e linguaggio es-senzialmente, cioè da quei segni ai quali il Mazzini avevanegato valore in sé e per sé? L’a priori era determinatodalla natura e anche, certo, dalla storia di un paese; mada una storia ormai pur essa diventata un dato oggetti-vo, preesistente alla coscienza e volontà dei singoli, datodunque di carattere del tutto naturalistico. E, tosto o tar-di, dottrine di tal genere avrebbero condotto alla identi-ficazione dell’a priori col fattore razza, tramutato, nono-stante tutto quel che di equivoco e di dubbio v’ha in es-so, in un imperativo categorico, a cui andrebbe subordi-nata la vita dei singoli come dei popoli; l’idea di nazionesarebbe affogata in quella di stirpe213.

Era un principio gravido di pericolosi sviluppi, taleda legittimare ogni forma di conquista o, come più tardisi disse, di imperialismo; un principio certo dissueto alpensare e al sentire degli Italiani.

Vero è che, poche settimane più tardi, La Riforma mu-tava repentinamente tono: al giungere delle notizie sul-le elezioni francesi del febbraio 1871, che avevano con-dotto al trionfo del partito italiano in Nizza, l’organo diCrispi proclamava distrutto, dalla nuova manifestazionedella volontà popolare, il fittizio plebiscito del 1860, fa-cendo così appello, come a criterio decisivo di valore, a

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quella volontà dei singoli cittadini un mese e mezzo in-nanzi cacciata perentoriamente fuor dell’arengo.

Contraddizioni sino ad un certo punto comprensibilicol fervore polemico e le necessità sempre varie e mute-voli della tattica politica; ma solo sino ad un certo punto,oltre il quale veramente si faceva palese il variar sostan-ziale dei principi.

Nel nostro caso, si trattava proprio di un mutare, len-to ma certo, di principi, dell’avviarsi verso concezioni na-zionalistiche, profondamente diverse dalle idee che ave-vano predominato nell’età della lotta per il riscatto: ch’e-ra, appunto, uno dei segni caratteristici del gruppo Cri-spino nei confronti degli altri gruppi della stessa Sinistra,ancor ben fermi nel volere l’autodecisione dei popoli, equindi avversi alle dottrine germaniche della nazionalitànaturale e incosciente214.

A mettersi su di una tal via eran di potente stimolol’esempio della Germania trionfante e l’influsso, nonancora imperioso e diffuso come pochi anni più tardi,ma già percepibilissimo, di idee e dottrine germaniche.Se l’Italia fra il 1830 e il 1850 aveva derivato moltaparte della sua cultura e dei suoi pensamenti dalla civiltàfrancese della Restaurazione e della Monarchia di Luglio,tanto che gli stessi atteggiamenti polemici antifrancesierano un po’ come certa insofferenza dei figli per i padri;ora si accingeva a derivare modi e forme della sua vitaspirituale dalla nuova dominatrice dell’Europa. E i primisegni si potevan vedere già qui, nell’oggettivarsi decisoper cosa dire del principio di nazionalità, ch’era purela più alta affermazione ideologica italiana del secolo;nel suo porsi a priori, come una categoria kantiana, mauna categoria che avrebbe reso lecita, anzi provocatalapolitica di forza: nel suo naturalizzarsi, essa che era statainvece spirito, animo, fede.

Non per nulla, gli scrittori e pubblicisti tedeschi so-stenevano infatti, quasi unanimi, il diritto della Germa-

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nia sull’Alsazia, perché terra tedesca, per razza, lingua etradizione di tempi lontani, anche contro il volere attua-le degli abitanti: e Treitschke ammoniva che l’Alsazia ela Lorena erano territori tedeschi «per diritto di spada,e noi ne disporremo in virtù d’un diritto superiore, il di-ritto della nazione tedesca, la quale non permetterà che isuoi figli perduti rimangano estranei all’Impero germani-co. Noi tedeschi, che conosciamola Germania e la Fran-cia, sappiamo meglio di quei miseri sventurati, ciò ch’èbuono per gli abitanti d’Alsazia, i quali, sotto l’influen-za pervertitrice del loro legame coi francesi, sono rima-sti estranei alle simpatie della nuova Germania. Controil lor volere noi li faremo risensare»215.

Il diritto superiore della nazione: com’era sintomaticoche di un sol parere fossero, in quei giorni, uomini comeMommsen, Treitschke e Crispi!

E d’altro ancora certo non puramente di originegermanica216, ma ormai di diffusione soprattutto germa-nica, cominciavano a imbeversi gli animi di questi italia-ni. Cominciava infatti a serpeggiare il principio della ne-cessità della guerra; e nella Riforma si poteva cosa leggerequel che per gl’Italiani poteva allora sembrare quasi unanovità, e che le generazioni future si sarebbero poi sen-tito ripetere da molti pulpiti, che la guerra cioè fa il suogiro, anch’essa compiendo «le sue crudeli ma necessariemissioni pel progresso morale dello spirito umano»217. Epoiché, come s’è detto, proprio soprattutto per l’Italiamolti vedevano la necessità di una grande vittoria, tut-ta sua, che consolidasse il suo prestigio e la sua potenza,così il suggerimento teorico cadeva in terreno propizio.

Era il primo avviarsi verso le concezioni che avrebbe-ro dominato l’età battezzata appunto dell’imperialismo,con le grandi unità politiche in conflitto permanente, an-che se non aperto, per il predominio continentale e ma-rittimo, per la conquista di colonie e mercati, fra gli osan-na di una letteratura anch’essa fontana ormai dalle invo-

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cazioni alla libertà e all’umanità, care al Romanticismo,e anelante invece al dominio e alla forza, da Kipling aD’Annunzio: età in cui il nazionalismo avrebbe comple-tamente trasformato senso e valore antichi dell’idea dinazionalità, in attesa di lasciar luogo, a sua volta, all’af-fermazione piena delle tendenze naturalistiche, trionfan-ti con la dottrina della razza. Nella qual dottrina l’ogget-tivarsi, il porsi a priori della nazione avrebbero trovatola loro logica conclusione: ché, dissociate nazione e libe-ra volontà degli uomini, altro non restava che cercare ilfondamento della nazione e la sua legittimità nell’a priorietnico, nel sangue. Blut und Boden.

Per allora, indubbiamente, nemmeno gli uomini del-la Riforma volevano sentir parlare di razza: idea, questache riconduceva alla fratellanza latina tanto detestata dalCrispi e compagni, o faceva pensare al professorale sus-siego della scienza germanica, alle già note affermazio-ni sulla superiorità innata dei Germani – che non erano,nemmeno queste, parole di gusto dei redattori del gior-nale Crispino218. Ma, togliendo il nesso strettissimo franazione e volontà nazionale, essi aprivano la via, senzaavvedersene e senza volerlo, all’affermarsi delle aborritetendenze razzistiche.

Né si trattava di un momentaneo vacillare delle con-vinzioni di un tempo. Che invece le affermazioni dellaRiforma, d’altronde più volte ripetute219, non fossero fug-gevole apparizione per amor di polemica, bensì espres-sione di un nuovo, diverso modo di sentire, provavanole, massime care all’uomo politico che di quel giornaleera, nel 1870, uno degli ispiratori. Il concetto di nazionecome di un a priori, indipendente dalla volontà degli uo-mini, precostituito, immutabile nel tempo, assoluto, in-distruttibile, eterno, venne infatti più volte riaffermato,prima e dopo il ’70, da Francesco Crispi.

Già nella sua celebre lettera al Mazzini, del 18 marzo1865, la nazione appariva come un dato di fatto preesi-

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stente alle manifestazioni della volontà popolare: «la na-zione, come l’uomo, esiste, e non è necessario che un po-polo o un Parlamento lo proclami perché esista. Eppe-rò io non poteva far dipendere da un sì o da un no, dallesottigliezze dei retori e dal sillogismo dei giuristi, l’unitàd’Italia, la quale ha base nella sua geografia, nella sua lin-gua e in tutte quelle condizioni morali che nessuno do-vrebbe ignorare ... Mia opinione era dunque che il po-polo non dovesse affermare l’unità nazionale, non costi-tuirla, ma dichiarare di volerla. Poscia le assemblee, cuiil plebiscito doveva esser legge, seguirebbero per istabi-lire le condizioni di libertà e di forza, affinché la volontàpopolare fosse attuata»220.

Con gli anni, sempre più nettamente s’affermò la «na-turalità» della nazione; onde il presidente del Consigliopoteva dire, nel discorso di Palermo, il 14 ottobre 1889:«se il plebiscito fosse stato necessario, avrebbe dato l’ul-tima sanzione alla sua legittimità [occupazione di Roma].Ma anche senza di esso il diritto nazionale non temevacontestazioni. La nazione esiste per virtù propria entrola cerchia de’ suoi confini. Ora, nessuna nazione al mon-do ha confini così definiti e sicuri come l’Italia. Natioquia nata»221. La «virtù propria» della nazione, come for-za naturale ed eterna: «l’esistenza e l’indipendenza del-le nazioni non possono essere soggette allo arbitrio daiplebisciti. Le nazioni vivono di diritto naturale, eterno,immutabile, né per forza di armi, né per volontà di plebicotesto diritto può ricevere alcuna mutazione»222.

Natio quia nata: la formula crispina applicava alla na-zione i princìpi giusnaturalistici, scorgeva un diritto na-turale, razionale ed eterno, valido per i popoli come pergli individui; dottrinalmente era dunque ancora Sette-cento, quando pure non si rifugiassi in un appello a Dioe alla creazione divina, con un balzo al di là delle solitepremesse razionalistiche223. Ma un tale insistere sulla na-turalità della nazione e denegare l’elemento volontaristi-

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co non poteva alla lunga reggersi su di un astratto dirit-to di natura o su vaghi accenni teistici; e si sarebbe dun-que dovuto ricercare più solida, corposa e massiccia basenell’appello al sangue, cioè all’unico elemento che potes-se effettivamente distinguere, ex initio, una nazione dal-l’altra prima che fosse intervenuta la storia, e cioè l’operadell’uomo, la volontà dell’uomo, a imprimere diversi ca-ratteri alle diverse nazioni. Così stava succedendo in ef-fetti nel pensiero tedesco il quale, per avere troppo forte-mente calcato sulla naturalità della nazione, s’avviava fa-talmente a trovare nel ceppo etnico l’elemento differen-ziatore e caratteristico. Perciò anche l’appello del Crispialla naturalità, alla eternità e immutabilità della nazionesuonava assai diverso dal riconoscimento con cui anchealtri uomini, come il Minghetti, ammettevano che i plebi-sciti non avessero creato il diritto, ma piuttosto lo avesse-ro riconosciuto, e s’appellavano alla geografia sì, ma an-che alla storia, alla cultura, al sangue dei martiri224 – cheera nuovamente volontà di uomini e fede.

Diventando un fatto naturale, antecedente al voleredegli uomini, la nazione acquistava per cosa dire ancheuna fatalità di movimento, ch’era proprio quel che civoleva quando si cominciassero a vagheggiare ingrandi-menti ed espansioni. Ma, dissociandosi essere stesso del-la nazione e volontà nazionale, si dissociavano pure na-zione e libertà: onde la formula natio quia nata, adatta agiustificare i programmi politici come s’usa dure di gran-dezza, sarebbe stata pure adattissima per le tendenze au-toritarie, le quali all’interno sempre più dovevano senti-re come un inciampo le lotte di partito e le contese par-lamentari, al cui posto doveva sottentrare l’uomo forte,padrone all’interno proprio per essere in grado di com-piere la missione di grandezza che la nazione imponeva,e che era «fatale», «naturale» anch’essa.

Ed era, nuovamente, un deciso abbandono dellatradizione italiana del Risorgimento, così tenace sin

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dall’Alfieri225 nell’insistere sulla indissolubilità del bino-mio nazionalità-libertà226, così saldamente ancorata all’i-dentificazione dei concetti di nazione e di civiltà-libertà.Concordi erano stati, in questo, Mazzini e Cavour, que-st’ultimo anzi primamente scosso dall’esigenza liberalee soltanto poi, a differenza dell’altro, condotto a volerel’indipendenza e da ultimo anche l’unità della patria227.Pur lasciando da parte il Pisacane, in cui il problema del-la libertà s’investiva di già di un contenuto sociale, incer-to e contraddittorio nelle formulazioni, ma ben certo epreciso nell’aspirazione, pur lasciando da parte il Pisaca-ne, le grandi e diverse correnti di che s’era nutrito il Ri-sorgimento erano state fermamente concordi su tal pun-to.

Eredi di questo credo, tutti i moderati, di cui bene po-teva ritenersi interprete il Bonghi quando il 3 febbraio1879 affermava alla Camera che i popoli per esser capaci«dell’applicazione pura e semplice del principio di nazio-nalità, bisogna che abbiano raggiunto un altissimo gradodi macerazione interna e di civiltà ... se queste esigenzedi civiltà non sono soddisfatte ... il principio di naziona-lità non può essere base di ricostituzione vigorosa»228.

Il principio di nazionalità, diceva il Mancini, è nel di-ritto internazionale quel che nel diritto pubblico inter-no si chiama sovranità nazionale e si realizza nel suffra-gio universale229; o, ripeteva un meno noto uomo politi-co, con una formula invero assai felice «non è altro chequello della libertà politica applicato alle circoscrizioniterritoriali; esso è la seconda fase del diritto pubblicodell’89, è il riferimento dei grandi princìpi della Rivo-luzione Francese alle relazioni fra popolo e popolo»230.Onde, se avesse dovuto temere un giorno così infaustoda mettere in pericolo la libertà del pensiero, allora, di-chiarava il 10 dicembre 1878, alla Camera, un non dub-bio patriota quale Francesco De Sanctis, dal suo seggio

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di ministro della Pubblica Istruzione, allora egli avrebbenegato l’Italia231.

Necessaria identità di nazionalità e libertà, quandola nazione fosse ricercata nel volere e nella fede degliuomini e si nutrisse continuamente del libero voto deipopoli. Ma staccate la nazione dalla volontà dei cittadini;fatene un a priori, preesistente a quel volere e da essoindipendente: l’identità scompare, il binomio si spezza,la libertà politica non è più condizione necessaria divita sana e forte per una nazione, anzi può divenire unostacolo al pieno dispiegarsi dello spirito di conquista acui la nazione «naturale» è dalla natura chiamata.

Nazionalismo e autoritarismo, riconoscimento dellaprovvidenzialità della guerra e avversione decisa agliumanitari: poco o molto, ma ciascuno di questi elementidel clima politico europeo ed italiano dell’ultimo settan-tennio era già percepibile, in nuce, nelle discussioni e neicommenti degli zelatori della Prussia.

Si offuscava anche in essi, fatalmente, il senso dell’Eu-ropa, della comunità civile tanto forte già nell’Illumini-smo settecentesco e, con ancora accentuato valore poli-tico, nell’età romantica, motivo centrale nel pensiero deiMontesquieu e dei Voltaire, dei Sismondi e dei Mazzini,degli Adam Múller e degli Heeren; e riprendevan vigoreinvece, le tendenze nazionalitarie, o, per dirla con espres-sione dei giorni nostri, autarchiche, già torbidamente ac-cennate dall’antieuropeo Rousseaú insistente nel consi-gliare l’attaccamento agli antichi usi e costumi naziona-li, perché solo così si affezionavano i cittadini al propriopaese e s’infondeva in loro «una naturale ripugnanza amescolarsi con lo straniero»232.

Gli odi nazionali, esaltati un tempo dall’Alfieri, riappa-rivano233; quegli odi nazionali, che fra il 1815 e 1848il pensiero europeo s’era affaticato ad attenuare, anzi acancellare, ricongiungendo patria ed Europa, trovandonella predicazione mazziniana i più alti accenti per salva-

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re ed armonizzare ad un tempo l’amore al proprio pae-se e l’amore alla maggior comunità civile ch’era, appun-to, l’Europa. Per un trentennio, nazione ed Europa, co-me nazione e libertà, eran stati termini indivisibili. Magli antichi motivi di divergenza riprendevano ora forza ecapacità di influsso: come in Europa, così in Italia i gran-di eventi del 1870 approfondivano, allargavano, rende-vano solidamente durature le crepe già aperte dal ’48 nelmondo ideale di prima il ’48; e ne usciva spezzato il tri-nomio nazione-libertà-Europa, la nuova trinità della sto-ria tanto accesamente profetizzata dal Mazzini; e anzi-tutto s’infrangeva il nesso tra la nazione e l’Europa e perprimo il nazionalitarismo spezzava il quadro armonico,dando l’avvio ad una nuova età234.

Tracciando il bilancio politico del 1870, e prenden-do lo spunto dalla celebre frase del conte di Beust «je nevois plus d’Europe», La Riforma non rimpiangeva la pre-sunta fine della vecchia Europa, anzi esultava perché ta-le tramonto lasciava libero corso alle forze sprigionanti-si dalle «potenze che hanno un avvenire», dagli stati incui fermentava «un moto di emancipazione, per così di-re, personale, che tende a dare il massimo sviluppo allainiziativa delle politiché nazionali»235. La nazione singo-la, lo stato singolo lanciati verso l’avvenire, seguendo ilsolo impulso delle proprie forze e senza più preoccupar-si di limiti che non fossero quelli del proprio interesse edella propria grandezza: questi erano i nuovi valori chesi sarebbero affermati nell’avvenire.

Intanto, cominciavano a riapparire motivi che richia-mavano all’Alfieri del Misogallo; e se Mazzini aveva pre-dicato per tanti anni l’amore fra i popoli, e dell’amorefra i popoli s’era commosso fin lo scanzonato Giusti, difronte ai Croati in Sant’Ambrogio, ora un ben più mode-sto uomo, ma tipico antesignano del prossimo nazionali-smo, ripeteva il detto alfieriano dell’odio. «Oh sì, è l’o-dio ciò che fa grande i popoli», proclamava fra applausi,

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il 2 luglio 1882, nel teatro Castelli di Milano, Rocco deZerbi236.

Forse, in luogo della vecchia Europa dei governi lanuova Europa dei popoli vaticinata da Mazzini e da Cat-taneo? la rivoluzione generale, il sovvertimento profon-do dell’ordine internazionale, sulla base dell’applicazio-ne integrale del principio di nazionalità?

Presso al termine della sua vita, in quello che si puòconsiderare il suo testamento politico in fatto di rappor-ti internazionali, Mazzini ribadiva, proprio nel 1871, ilvalore di «principio» della nazione, come mezzo per sa-lire all’Umanità; così che la missione dell’Italia, il moti-vo ispiratore di tutta la sua politica estera doveva esse-re lo «sviluppo del principio di Nazionalità come regola-tore supremo delle relazioni internazionali e pegno sicu-ro di pace nell’avvenire», il «rimaneggiamento della Car-ta d’Europa», l’alleanza con la famiglia slava in guisa dasottrarla al gigantesco tentativo russo di far cosacca l’Eu-ropa, e da accelerare la morte dell’impero turco e – del-l’impero asburgico, irrevocabilmente condannati a peri-re per mano delle popolazioni slave. A queste, giunges-se la parola dell’Italia: «Sorti in nome del Diritto Nazio-nale, noi crediamo nel vostro, e vi profferiamo aiuto perconquistarlo. Ma la nostra missione ha per fine l’assettopacifico e permanente d’Europa. Noi non possiamo am-mettere che lo Tsarismo Russo sottentri, minaccia peren-ne alla Libertà, ai vostri padroni; e ogni vostro moto iso-lato, limitato a uno solo dei vostri elementi, inefficace avincere, incapace s’anche vincesse di costituire una for-te barriera contro l’avidità dello Tsar, giova alle sue mi-re d’ingrandimento. Unitevi: dimenticate gli antichi ran-cori: stringetevi in una Confederazione e sia Costantino-poli la vostra Città Anfizionica, la città dei vostri Pote-ri Centrali, aperta a tutti, serva a nessuno. Ci avrete convoi»237.

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E il Crispi del ’71 e ’72, e La Riforma e molti altri an-cora della Sinistra sembrava continuassero ad accoglieretale insegnamento; e nuovamente alcuni anni più tardi,in piena crisi di Oriente, s’ebbero rinnovate esaltazionidel principio delle libere nazionalità. Pieni di pathos ta-luni appelli al principio «santissimo» di nazionalità238, ilquale «forma la nostra religione politica, è quasi un Dioche portiamo in noi stessi, agitante calescimus illo»239, fre-quente il rammentare che l’Italia «antesignana del fecon-do principio della indipendenza dei popoli sulla base deldiritto nazionale» non poteva partecipare a discussioniattorno alla sorte di altri popoli, e cioè i popoli balcani-ci, se non con un programma «rigorosamente consenta-neo alle basi della sua esistenza, che sono i princìpi di na-zionalità e di libertà per effetto dei quali essa ha potutorisorgere e sedersi nel banchetto delle grandi nazíoni»240.

Ma già in quegli anni, in cui pure il sacro senso dellanazione pareva destinato ad accendere ancora una voltagli animi, e il ricordo di Legnano e la nostalgia dei fra-telli trentini e triestini, gementi sotto il giogo asburgico,s’alleavano con l’esaltazione dei cristiani gementi sotto ilgiogo turco, sempre confluendo in una larga visione eu-ropea e rivoluzionaria, già in quegli anni era agevole scor-gere come s’andassero profondamente trasformando gliantichi ideali.

Che negli uomini della Sinistra allora al potere, con re-sponsabilità di governo, il tono si smorzasse d’assai, que-st’era ovvio. Se ai Depretis e ai Cairoli mancava il sen-so europeo dei Minghetti e dei Visconti Venosta, le dif-ficoltà pratiche dell’ora bastavano per imporre prudentilimitazioni, alla parola come all’azione; e se non v’aves-sero pensato loro, vi avrebbe provveduto Vittorio Ema-nuele II, che proprio in quei giorni viveva una ultima ri-presa delle sue velleità di governo personale241. Fu cosìmessa la sordina agli inni patriottici, e l’attuazione dell’i-deale nazionale italiano fu saggiamente rimandata a tem-

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pi migliori e il trionfo generale, e in ispecie balcanico, delprincipio di nazionalità fu relegato in secondo piano, difronte alla necessità di non mettere a soqquadro l’Euro-pa. La difesa degli «interessi di ordine generale», cioè laformula cara alla diplomazia europea dalla Restaurazio-ne in poi, finì, con l’essere enunciata anche dai ministridegli Esteri della Sinistra; e nel suo primo colloquio co-me ministro degli Esteri con l’ambasciatore d’Austria, ilMancini distinse anch’egli fra passato e presente: profes-sore di diritto internazionale, io ho sostenuto il princi-pio di nazionalità; ma comprendo benissimo la differen-za che v’è fra la teoria e la pratica, e so che se si voles-se applicare quel principio ai rapporti fra i vari Stati, sifinirebbe col renderli impossibili e col distruggerli242.

Certo, riaffiorava ogni tanto il ricordo dei grandi prin-cìpi di un tempo243, non senza che tali apparizioni, sia purmeramente verbali, servissero a chi, soprattutto all’este-ro, accusava il governo italiano di duplicità o, almeno,di oscillazioni e incertezze: proprio perché il senso dellacomunità europea antico regime non era in questi uomi-ni, a differenza dei moderati, profondamente radicato ecostituiva anzi l’accomodamento alla situazione politicacontingente, sulle rovine dei princìpi una volta professa-ti, proprio per questo a parole identiche diverso riuscivail tono della canzone cantata ora dal Cairoli e dal Depre-tis, di quel che non fosse riuscito quando la canzone erafraseggiata dal Visconti Venosta244.

Ma insomma la parola d’ordine nel campo governati-vo’ fu prudenza, pace, concerto europeo, tanto che forsel’accenno più deciso ai diritti delle nazionalità doveva es-ser pronunziato da un ministro certo non di sinistra peridee e sentimenti, e prudentissimo e alieno da ogni av-ventura quale il Corti245: ed era pur sempre un accennoassai vago, per nulla compromettente.

Più sintomatico era già che anche fuor del governo pa-recchi dei campioni della Sinistra mutassero radicalmen-

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te tono; che uno dei più fedeli, devoti e disciplinati mili-ti del Depretis, quale l’on. Musolino, sostenesse la Tur-chia, dichiarandosi più turco dello stesso Sultano e ne-gando che in Oriente fosse allora questione di nazionali-tà e di libertà, bensì puramente delle ambizioni russe246.Nella primavera del 1878 l’on. Musolino tornava alla ca-rica, propugnando l’alleanza con l’Austria, convinto dicompiere «un atto di vero patriottismo», ritenendo «unamiseria, un vero nonnulla» le piccole divergenze territo-riali fra Roma e Vienna nei confronti «della grande cau-sa comune che deve collegarci»247. E il giorno appres-so toccava addirittura al bardo della democrazia, a Feli-ce Cavallotti, pronunziare alla Camera dichiarazioni cheavrebbero anche potuto far strabiliare: nella questioned’Oriente identici sono gli interessi dell’Italia e dell’Au-stria, dell’Austria odierna, difenditrice dei Rumeni e tan-to poco somigliante all’Austria di Metternich, quanto po-co l’Inghilterra di Disraeli, difenditrice dei Greci, somi-gliava all’Inghilterra di Castlereagh; e l’Italia doveva es-sere amica dell’Austria, una volta che questa avesse datosoddisfazione agli interessi nazionali italiani, restituendole terre irredente. «Siamo amici dell’Austria»: era pro-prio l’ideale mazziniano ad andare in frantumi; il proble-ma si riduceva ad una questione specificamente italianae di limitate proporzioni; per il resto, rimanesse in pie-di la duplice monarchia e discendesse la valle del Danu-bio e si aprisse la via dei Balcani, dell’Oriente, come ave-va ragione di volere, ché del principio di nazionalità peri popoli balcanici «non si può parlare senza certe restri-zioni e ... certe riserve», essendo spesso confuso, incerto,mal distinto, troppo vago per dar «vigore, solidità, coe-sione a ciascuna di queste piccole agglomerazioni». So-lo l’Austria, inorientandosi, è in grado di opporre unavalida barriera contro il minaccioso traboccar della Rus-sia, contro il pericolo della unificazione zarista dei Bal-cani, da cui l’Italia sarebbe direttamente minacciata nel

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Mediterraneo e nell’Adriatico248: dov’era l’ombra di Cat-taneo che, sul dissolversi dei fortuiti imperi dell’Europaorientale, aveva profetizzato il sorgere di federazioni dipopoli liberi?249 Non l’ombra di Mazzini e di Cattaneo,ma l’ombra di Cesare Balbo riappariva; e il focoso de-mocratico lombardo seguiva le orme del moderatissimoconte piemontese, anche accogliendo i moniti giobertia-ni contro il pericolo russo, e accettava le direttive poli-tiche della Destra tanto combattuta. Mazzini aveva det-to: incapaci, ognun di per sè, i popoli balcanici di resi-stere all’avidità dello Czar; e quindi, unitevi tutti in li-bera confederazione, sulle rovine dell’impero asburgico,ch’era un’amministrazione, non uno Stato, e dell’imperoturco, accampamento straniero isolato in terre non sue.Cavallotti rispondeva: ciascuno dei piccoli indipenden-ti stati slavi non solo, ma anche la loro «sedicente» con-federazione sarebbero, impotenti contro l’assorbimentomoscovita; e quindi, avanti l’Austria, ad innalzar barrie-ra gagliarda che arresti il pericolo russo. Eran cresciuti,dopo la pace di Santo Stefano, i timori per l’avanzata co-sacca; le decennali paure s’inasprivano per i nuovi even-ti: e così, lasciamo l’ideale dei popoli liberi affratellatie corriamo al sodo di una forza militare già organizzatal’Austria-Ungheria.

E ancora. Per un Cavallotti, in fondo, i problemi di as-setto internazionale erano del tutto secondari: quel chefaceva veramente vibrare il suo animo eran le parole li-bertà, democrazia, anzi repubblica; ma lo sguardo nonera, e nemmeno pretendeva di essere, europeo. Si guar-dava a Francia e Italia, proprio perché nell’una e nell’al-tra nazione identici o quasi apparivano i grandi proble-mi interni, perché il radicalismo francese serviva da mae-stro e guida; ma niente più dello spaziare mazziniano sututto il continente, niente appelli alla nuova èra dell’Eu-ropa dei popoli, perché dell’Europa, nel suo insieme, alCavallotti non molto premeva. Il problema sentito era

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il problema ideologico, di partito; e lo sguardo abbrac-ciava solo que’ paesi, per l’appunto come la Francia, do-ve la situazione politica appariva identica o assai simi-le. La potenza rivoluzionaria del principio di nazionalitàsi restringeva dunque alla questione di Trento e di Trie-ste, diventava semplicemente irredentismo, e un irreden-tismo non generale, ma sempre più precisato in Trento eTrieste, con radi accenni ad altre contrade250.

Ma un Crispi voleva sempre vedere l’insieme, avevasempre lo sguardo fisso ai grandi problemi dei rapportifra gli stati: da ultimo, anzi, contrariamente al Cavallotti,la politica interna si sarebbe ridotta per lui in funzionedi quella estera, e alle preoccupazioni per la grandezzae la potenza della patria sarebbero state subordinate lepreoccupazioni interne di partito e di ideologia politica.Ora, appunto, Crispi e i suoi amici non accettavano piùla vecchia Europa dei governi ed esultavano per la suafine: ma credevano ancora nella mazziniana Europa deipopoli? O veramente, lontani dall’antica fede europeadei moderati, lasciavan cadere la nuova fede europea delloro maestro Mazzini, sicché non sussistessero più chele forze sprigionantisi dalle potenze ricche di avvenire,vale a dire le individualità delle singole nazioni, ciascunamarciante per conto proprio?

A leggere le dichiarazioni de La Riforma nel 1871 sem-brava che la fiaccola mazziniana fosse ancora accesa. Va-ticinio della prossima trasformazione dell’impero asbur-gico, con l’annessione dei Tedeschi alla madre Germa-nia; ma anche, vaticinio della prossima caduta dell’impe-ro ottomano. Si ricaccino i Turchi in Asia e si emanci-pino le popolazioni dell’Oriente. È caduto NapoleoneIII, che nel vecchio continente rappresentava la violen-za; è crollato il potere temporale, è scomparso il Papa-re,ch’era la negazione della ragion civile: giustizia vuol chesparisca anche il Sultano, che rappresenta l’assurdo. Do-po Sedan, il 20 settembre; dopo il 20 settembre ... un’al-

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tra gran data occorre, un ulteriore passo innanzi. Si in-tegri la Grecia, si dia completa autonomia agli Albanesi,ai Bulgari, ai Serbi, ai Rumeni; e con una confederazio-ne di coteste genti, legate da un governo centrale a Co-stantinopoli, ecco risolta la questione d’Oriente251. Così,nella fase più acuta della crisi determinata dalla denunziarussa delle stipulazioni riguardanti il Mar Nero, il circolocrispino prospettava la sua soluzione, che era indubbia-mente ancora di pretto stampo mazziniano e sembravaanticipare lo scritto, di poco posteriore, dell’apostolo.

Ma già assai poco mazziniano era l’atteggiamento dipieno favore alla Russia che La Riforma assumeva: pre-occupatissimo dei piani di espansione dello zarismo e av-verso a tutto ciò che sapesse di immistione russa nei Bal-cani, il Mazzini; esultante invece il giornale, per il qualela circolare Gorciacov, che aveva gettato lo scandalo neicrocchi della vecchia diplomazia, aveva dimostrato conun chiaro esempio «ciò che uno Stato ha il dovere di fareper custodire e rivendicare il proprio diritto»252. Vale adire, nuovamente l’esaltazione dei diritti degli Stati, del-le forze giovani, degli stati che hanno un avvenire, né piùné meno che di fronte ai gesti di forza della Prussia bi-smarckiana; e in tale compiacimento, si lasciassero purecadere le questioni di principio, libertà contro zarismo eautocrazia.

In verità, l’ulteriore svolgimento delle idee di France-sco Crispi doveva dimostrare che l’Europa dei popoli diMazzini era tramontata.

Continuò, sì, ad inneggiare nei discorsi pubblici al-la libera vita delle «quattro nazionalità distinte» deiBalcani253; e della Grecia cercò sempre di favorir le aspi-razioni concrete; e negli ultimi anni, ormai lontano dalpotere, ritornò all’antico ideale mazziniano, proclaman-do nuovamente la necessità della confederazione balca-nica e il Turco in Asia254, cosi come cercava di riallacciar-si a Cattaneo auspicando gli Stati Uniti d’Europa255. Ma

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dichiarazioni e progetti degli ultimi anni erano del vintopolitico, non dissimili pertanto dal liberalismo postumodi un Bismarck, gran nemico del Parlamento quand’eralui al potere e poi, cacciato dal potere, d’improvviso tra-mutatosi in un fervido assertore della libertà e del parla-mentarismo. E Crispi al potere aveva sì pensato semprealla Grecia, ma non aveva affatto disdegnato di inserirenel sogno mazziniano delle libere nazionalità balcanichequalcosa che arieggiava assai da vicino gli ormai consuetiprogetti di spartizione della Turchia, cari alla tradizionediplomatica delle grandi potenze europee256: vale a dire,cercar di assicurarsi una fetta dell’impero turco in que-sta o in quella parte, secondo i dettami della politica dipotenza257.

Di fronte al grande malato, anche gli ex-mazziniani fi-nivano col convertirsi ai princìpi classici della diploma-zia dei governi: inevitabile certo la caduta dell’impero ot-tomano, ma non bisognava affrettarla per non esporsi agravi pericoli «che le grandi potenze hanno uguale inte-resse ad evitare»258. E quindi prudenza, attenzione, vigi-lanza per non lasciarsi cogliere alla sprovvista dagli even-ti: ma niente fiaccole rivoluzionarie. Lo dissero i Cairolie gli Zanardelli; ma lo pensò anche Crispi.

Con molto maggior chiarezza ancora il mutar di ideesi rivelava, quando dal mostro turco si passasse all’altromostro contro cui Mazzini aveva imprecato. Perché an-che Crispi, dopo Cavallotti, pur semplice deputato e sen-za responsabilità di governo, affermò in piena Camera, il15 marzo 1880, la necessità dell’esistenza dell’Austria259:una bestemmia per il Crispi di dieci, venti anni innan-zi. E lo ripeté, presidente del Consiglio, il 4 maggio1894260, accettando così compiutamente la tesi che nel1871 era stata difesa dai moderati della Perseveranza edell’Italie contro i vagheggiamenti della Riforma, cioè delsuo giornale, sul fatale e augurabile smembramento im-minente dell’impero degli Asburgo261. Uno Stato come

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l’Austria-Ungheria bisognerebbe crearlo se non esistessegià262.

Presidente del Consiglio, agì come il conte di Robilantaveva per tanti anni invocato, contro le agitazioni antiau-striache; e sciolse il comitato per Trieste e Trento, e di-missionò il ministro Seismit-Doda, suo antico collega didirezione della Riforma, e battezzò pubblicamente l’irre-dentismo «il più dannoso degli errori in Italia»263.

Più su ancora delle questioni specifiche, imperoasburgica e impero ottomano, era il principio stesso dinazionalità che veniva avvolto dallo statista siciliano dimolte riserve e consigli di prudenza, giacché esso «nellasua ultima espressione, non può infatti, qualunque sia ildesiderio ideale, essere costantemente la norma esclusi-va del diritto politico e diplomatico». Assurdo l’avven-turarsi, in nome di quel principio, a distruggere l’unitàd’Italia, col provocare guerre europee e potenti coalizio-ni anti italiane, e quindi precipitando «follemente» a ro-vina: di fronte al principio di nazionalità, occorreva daparte dei governi «una moderazione sapiente»264. Cheerano i concetti medesimi e suppergiù gli stessi termini,che subito dopo il 1870 erano stati messi innanzi dai Vi-sconti Venosta, dai Dina, dai Bonghi. Senza rinunziareai principi santissimi di nazionalità, occorreva confessareche il mondo si trovava, ora, su di un’altra via265.

Che il mondo fosse cambiato, era verissimo; ed eranon meno vero che altri pensieri ed altro linguaggio siaddicevano all’uomo di governo responsabile che nonal cospiratore del 1860 e al deputato d’opposizione del1870. Lo svolgersi degli eventi europei sempre più in-duceva a prudenza, a relegare in soffitta vecchi ideali:proprio quand’era presidente del Consiglio, Crispi ave-va dinnanzi a sé l’alleanza anche con l’Austria e, per con-trapposto, con la Russia una difficile situazione, semprepiù tesa anzi con gli anni, parecchio anche per le paureche lui, Crispi, nutriva della grande congiura contro l’I-

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talia fra il Vaticano, la Francia e la Russia. In simili con-dizioni l’Austria veramente diventava un baluardo pro-tettivo, e lo sfacelo dell’impero ottomano un pericolososalto nel buio.

Ma non era soltanto la prudenza del presidente delConsiglio a temperar le passioni dell’uomo: ché a tantol’inquieto ed impulsivo Crispi non sarebbe mai giunto,ove l’ideale suo del 1890 fosse ancora stato l’ideale del1860; né avrebbe potuto mai riconoscere, in quel caso, inFrancesco Giuseppe il principe «che per mente e cuoreprimeggia su gli altri principi di Europa»266. Qualcosainvece era mutato, in interiore homine, sia pur per effettodell’esperienza, della pratica di uomo di governo, dellalezione dei tempi: ed era, per l’appunto, l’abbandonodei princìpi rivoluzionari e del programma mazziniano.Lo dichiarò egli stesso, esplicitamente, in un discorso allaCamera: sbagliano i signori dell’Estrema Sinistra quandoparlano come Mazzini nel 1854: «in quarant’anni si èfatto tale e tanto progresso, che le questioni che, a noigiovani, a noi cospiratori, ci facevano sollevare l’animo epreparare alle grandi lotte, oggi non si sentono più»267.

Nulla vi è di assoluto in politica; «l’uomo deve accon-ciarsi alle mutate circostanze dei tempi, alle condizionidiverse»268 che era la negazione recisa dello spirito stessodella predicazione mazziniana, in alto i princìpi, sempree ovunque, e l’accettazione, almeno teorica, della politicadel giusto mezzo. Nella politica pratica bisogna prende-re il mondo qual è, non perder il tempo nella discussionedi ipotesi che, per realizzarsi, ri chiedono secoli269.

Niente più rivoluzione generale, niente più l’Europadei popoli di Mazzini.

Ma nemmeno il senso europeo dei moderati, nemme-no la vecchia Europa dei Visconti Venosta e dei Bon-ghi. L’abbandono del principio rivoluzionario non vole-va ancor dire far proprio, intus, il principio conservato-re. All’Europa della rivoluzione Crispi non credeva più;

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ma non per questo poteva tramutarsi in un convinto esincero propugnatore dell’Europa classica. Il «sistemaeuropeo» lo poteva accettare nella prassi politica, in se-de tattica: farsene un ideale, come accadeva ai modera-ti, gli era impossibile, innanzi com’era negli anni e contutta una esperienza di pensieri e di affetti a quell’idea-le ripugnanti. Tramontò così un ideale universale, e alsuo posto rimase solo l’ideale particolare della grandezzadel proprio paese; il programma di rinnovamento gene-rale dell’Europa si ridusse ad un programma di potenzaitaliana. Persa la fede nel concorde, fraterno avanzar ditutte le nazioni giovani e ricche di vitalità, rimase, solo,l’anelito all’avanzar della propria nazione giovane. Cheera, certo, cosa assai consona ai tempi e all’esempio delmaggior politico, il signore di Bismarck, sempre ostilis-simo ad una Europa rivoluzionaria ma non meno scetti-co sull’Europa della tradizione e convinto che di idealice ne dovesse essere uno solo, quello della grandezza delproprio paese.

Onde restringersi dei programmi non fu solo pruden-za di governo, ma fece tutt’uno con l’incipiente sentirenazionalistico: più ristretti, i programmi divennero an-che più corposi, acquistando una precisione e sodezza dicontorni non prima avute, tanto che l’irredentismo stes-so, di origine rivoluzionaria e mazziniana, nazionalità elibertà fuse insieme nell’attesa messianica del grande rin-novamento generale dei popoli, poté poi da ultimo essercoltivato dal nazionalismo, che delle speranze nel rinno-vamento generale dell’umanità faceva a meno, per affi-sarsi unicamente nella potenza, grandezza, prestigio delproprio paese.

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II

La lezione della «realtà»

Così, se già di per sé la creazione di un potente imperonell’Europa centrale doveva naturalmente determinare,ovunque, il rinascere dello spirito di forza e di grandez-za anche ai danni dello spirito di libertà e di pace, e nellaterra stessa di Cobden e di Gladstone eccitava il risvegliodi orgoglio nazionale e l’appello di Disraeli, allo «spiritodominatore di queste isole»270, l’affermazione trionfantedel Bismarck e del Moltke e il modo di tale affermazio-ne conducevano ad un profondo sconvolgimento di valo-ri, trasferendosi dal piano politico-militare a quello mo-rale e spirituale, dai problemi singoli della vita interna-zionale al modo stesso di impostare quei problemi. InGermania, la lezione della forza era già stata accolta pri-ma; il prussianizzarsi del sentire e del pensare risaliva al-l’esperienza del.’48, che aveva avviato le menti a conce-pimenti assai diversi da quelli dell’età romantica, comeaveva documentato fra tutti il Droysen, con la sua evo-luzione dal più ricco e complesso contenuto morale del-la prima maniera all’esaltazione della politica, come puraforza della seconda maniera271. Ora, le nuove esperienzesi allargavano, non limitandosi certo all’Italia e agli Ita-liani; ché anzi persino in Francia, nella nazione-vinta, glieventi bellici si ripercuotevano nell’intimo delle coscien-ze, non solo per le ovvie reazioni di dolore e di sdegno,di ripensamento dei casi passati e di ricerca delle respon-sabilità, ma anche per un tormentoso rimescolarsi d’ideee dì credenze, attraverso a cui moriva tanta parte dellavecchia Francia e una nuova nasceva, non soltanto nelregime politico e nell’assetto istituzionale; ma anche nel-lo spirito e nella fede. La Francia culturale e morale dellaRestaurazione e della Monarchia di Luglio aveva resisti-to sotto l’Impero, nei suoi ideali e nei suoi propositi; non

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resistette alla guerra del ’70, alla sconfitta, alla lezione di«realtà» che le armi germaniche avevano impartito.

Svanì per primo, definitivamente, l’ideale della colla-borazione franco-germanica, di che, s’era così riccamen-te alimentato il pensiero francese per più di mezzo se-colo, da quando M.me de Staël, additando nella Ger-mania il cuore dell’Europa, aveva affermato che la gran-de associazione continentale non avrebbe potuto ritro-vare la sua indipendenza che attraverso l’indipendenzagermanica272. E Saint-Simon aveva fatto seguito imme-diato, con il suo programma di una società anglo-franco-tedesca come base necessaria della riorganizzazione del-l’Europa, anch’egli salutando nel popolo tedesco il po-polo destinato ad esercitare il primo ruolo nel conti-nente non appena riunito sotto un governo libero273; efu poi l’irrompere del pensiero tedesco in Francia, l’af-fisarsi dei maggiori rappresentanti della cultura france-se nei grandi padri della spiritualità germanica, Lessing,Herder, Kant, e furono Victor Cousin e la passion alle-mande di Michelet274 e gli auspici di una stretta collabo-razione culturale e politica fra le due nazioni e l’augu-rio di una Germania saldamente liberale, sostegno conla Francia di un’Europa liberale, illuminata, tutta scien-za e progresso275 Scienza e libertà andavano per mano,su questo vagheggiato cammino dell’avvenire; e il luglio1830 rinfocolò speranze, accese entusiasmi di qua e di làdal Reno, movendo d’amore per la Francia i giovani li-berali tedeschi, ai quali, come ai liberali italiani, la Fran-cia delle trois glorieuses sembrò nuovamente apportatri-ce di libertà ai popoli oppressi d’Europa. Vero è, cheben presto dietro al comune ideale di libertà erano ap-parse le prime, grosse discrepanze di nazionalità, ondenuovamente minacciosa, a molti dei liberali tedeschi, siprofilò la nazione che era pur sempre l’erede di Napoleo-ne e che già una volta, mettendo innanzi la parola liber-tà, aveva imposto la sua egemonia; mentre, dall’altro lato,

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Edgar Quinet, inizialmente anche lui, come Michelet, se-dotto dalla Germania di Herder, lanciava il primo gridod’allarme, denunziando il collerico nazionalismo tedescoe la minaccia contro l’Alsazia-Lorena276. Vero è, soprat-tutto, che la grave crisi diplomatica europea del 1840, at-torno alla questione d’Oriente, aveva scavato un primosolco, grosso, con le invocazioni dei nazionalisti francesiad una guerra sul Reno e l’immediato scattare della co-scienza germanica, nuovamente una nel sentir la passio-ne nazionale al di sopra delle ideologie politiche277. Allo-ra, Becker e De Musset avevan tradotto in versi quel chedi irreparabile si stava compiendo; nell’esaltazione del li-bero Reno tedesco e nel ricordo del Reno già contenutonel bicchiere francese, era riapparso brutalmente e bru-scamente il fondo secolare di un contrasto che nemme-no un comune ideale politico era capace di sanare. Allo-ra, al dir dello Heine ch’era pure, anche lui, un propu-gnatore dell’amicizia franco-tedesca, «il signor Thiers colsuo fragoroso tamburinare svegliò dal suo sonno letargi-co la buona Germania e la fece entrare nel gran movi-mento della vita politica dell’Europa; egli batteva la dia-na così forte, che noi non potevamo più riaddormentar-ci, e, dopo di allora, siamo rimasti sempre alzati. Se ungiorno noi diventeremo un popolo, il signor Thiers po-trà ben dire di non avervi contrastato, e la storia tedescagli terrà conto di tale merito»278.

Tuttavia, per quanto grave di conseguenze lontanefosse stata la crisi del ’40, non essa aveva potuto distrug-gere veramente il sogno; e se già in quei difficili gior-ni Victor Cousin, filosofo e allora ministro, continuava aparlare con entusiasmo dell’arte e della scienza germani-ca, della profondità d’animo e di spirito, dell’amore perla giustizia e dell’umanità propri dei Tedeschi279, passatala crisi gli antichi entusiasmi eran riapparsi, soprattuttofra gli uomini di cultura francesi, nei quali l’episodio po-litico, poco compreso nel suo significato profondo, non

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aveva potuto scalfire la passione per il genio scientifi-co dei Tedeschi. Leggendo per la prima volta Goethee Herder, Renan credette d’entrare in un tempio: e daquel momento tutto ciò che prima gli era sembrato or-namentodegno della divinità gli fece l’effetto di fiori dicarta ingialliti e consunti280; ed egli propose come scopoalla sua vita di lavorare per l’unione intellettuale, mora-le, politica di Francia e di Germania281. Gli rispondeva,dall’altra parte, Ludwig Börne, che, nel ’44, dichiaravadi amar la Germania più della Francia perché la Germa-nia era infelice, ma, per il resto, di sentirsi tanto francesequanto tedesco e di veder indissolubilmente legate liber-tà e felicità della Francia e libertà e felicità della Germa-nia: le colonne della libertà francese dovevano trovare laloro ferma base non sulla piazza della Bastiglia, ma sullerive dell’Elba282.

Nuovamente il ’48, almeno all’inizio, come una vol-ta il 1830, aveva recato lievito per una comune passio-ne: libertà e democrazia, rivoluzione europea, affranca-mento dei popoli avevano costituito una parola d’ordi-ne ovunque diffusa, e che si rivolgeva a Francia e Ger-mania non meno che ad Italia e Polonia soltanto la Rus-sia e l’Inghilterra restando estranee, al di fuori283. Forseche a Francia e Germania anzitutto non si era già voltada tempo l’attenzione del Marx, dai giorni degli effime-ri Deutsch-Französische Jahrbücher e dei suoi entusiasmiper il principio gallo-germanico, caro al Feuerbach, cuo-re francese e testa tedesca284; non si volgeva ora lo stes-so appello dei comunisti, la Germania, come una voltaper Saint-Simon ma in ben diverso modo, presentando-si quale terreno decisivo della lotta per l’avvenire285 nel-la continua ricerca di motivi comuni e di ideali identi-ci per l’uno e per l’altro popolo? Herwegh e Bornstedtnon avevano forse rivolto un appello ai cittadini francesiperché dessero armi ai Tedeschi emigrati e democratici,

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«che marciano in aiuto dei lorofratelli», per proclamareinsieme la repubblica tedesca dopo quella francese?286.

Così è che nonostante il 1840; nonostante il rinnovar-si di accenti altamente nazionalistici nel ’48, quando spi-rito di libertà e spirito nazionale dopo una prima ora diillusioni si trovarono a cozzare l’un contro l’altro, Polac-chi e Cechi e Italiani si scoprirono lontanissimi dai Te-deschi già irrigiditi nel loro esclusivismo patriottico, e laspedizione di Roma contrappose brutalmente Italiani eFrancesi; quando nell’Assemblea di Francoforte, sia difronte alla questione italiana, sia, soprattutto, di frontea quella polacca, l’egoismo nazionale trionfò sulle rovi-ne dell’ideale generale dei popoli liberi, e Wilhelm Jor-dan esclamò libertà per tutti, ma la potenza e la prospe-rità della patria tedesca al di sopra di tutto287: nonostan-te dunque tali fratture l’aspirazione ad una intima colla-borazione culturale e politica franco-germanica era con-tinuata. E ancora trovava credito largo l’assioma, di taci-tiana origine e divenuto luogo comune nella pubblicisti-ca e nella letteratura tedesca, da Hutten a Möser a Her-der, e poi divenuto luogo comune nella letteratura eu-ropea dell’età romantica, delle altissime qualità della na-zione tedesca «la morale più pura, una sincerità che noninganna mai, una probità a tutta prova»288, della libertàcome affermazione dello spirito germanico nata nei bo-schi, a dirla col Montesquieu, frammezzo a rudi guerrierigermanici «i nostri padri»289.

L’amore per la Germania, per la cultura tedesca, perla razza tedesca, aveva trovata in Francia, nuovi, strenuidifensori, massimo fra tutti Ernest Renan, gran pontefi-ce del verbo «la razza gallica necessita di esser ogni tan-to fecondata dalla razza germanica per poter produrretutto ciò che in essa è», onde se’ la Restaurazione avevaposto le basi del vero sviluppo intellettuale della Francianel secolo XIX, ciò era dovute alla libera invasione delgermanesimo, più benefica nei suoi effetti dell’invasione

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culturale italiana nel Cinquecento, troppo legata al vole-re dei sovrani290; Renan che, non trovando nulla di «ur-tante» nella conquista di un paese di razza inferiore adopera di una razza superiore, anzi attribuendo all’ordineprovvidenziale dell’umanità la rigenerazione delle razzeinferiori ed imbastardite ad opera delle razze superiori, einvocando così il ver sacrum europeo verso l’Asia e l’A-frica, con un popolo di soldati e signori – gli Europei –uno di lavoratore della terra – i negri – uno di artigia-ni – i cinesi –291, accettava proprio le più pericolose pre-messe del germanesimo e diveniva apostolo anche del co-lonialismo e dell’imperialismo; Renan, sempre domina-to dall’ormai convenzionale schema del profondo idea-lismo tedesco292, e ancora nel ’66 convinto della necessi-tà dell’alleanza franco-tedesca, culturale e politica293; Re-nan, che in questa alleanza, a cui si sarebbe aggregata an-che l’Inghilterra, vedeva «una forza capace di governareil mondo, e cioè di dirigerlo sulla via della civiltà libera-le, a ugual distanza dalle impazienze ingenuamente cie-che della democrazia e dalle puerili velleità di ritorno adun passato che non potrebbe rivivere»294.

Ogni illusione fu troncata dalla guerra; ogni sogno sva-nì. E se Michelet sentì colpito a fondo dal militarismoprussiano trionfante il suo lungo, romantico e democra-tico amore per la Germania e cadde nel pessimismo delleOrigines du XIX siècle295, e morì di lì a poco, moralmen-te e spiritualmente ucciso dagli eventi del ’70296; se Tai-ne, anch’egli pieno di ammirazione, prima, per la Ger-mania, usciva dalla tragedia sconvolto e «risvegliato» dalsuo sogno297, Renan stesso dichiarava che la sua era sta-ta una chimera ormai distrutta per sempre, ed un abissos’era scavato fra le due nazioni, difficilmente colmabileanche attraverso secoli. Svaniva il mito del tedesco tuttopurezza idealità rigidità morale, e appariva il prussiano inuniforme soldatesca, simile alla soldataglia di ogni tem-po, cattivo, ladro, ubriacone, vandalico non meno degli

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avventurieri del Wallenstein; ciò che s’era amato nellaGermania, la sua alta concezione della ragione e dell’u-manità non esisteva più e la Germania era soltanto unanazione, la più forte delle nazioni del momento ma nullapiù298. Finito il compito universale, che aveva fatto gran-de la Germania di Kant e di Goethe, di Lessing e di Her-der, cominciava il dominio della politica, e cioè del si-gnore di Bismarck; si conchiudeva il regno della Germa-nia spirito e cominciava il regno della Prussia forza299. Lopensava anche Jakob Burckhardt, una sera del dicembre1870, quando, interrotta la lettura di Mörike e posto dacanto il libro: una tal cosa, disse, sarà ora impossibile inGermania. Non si può voler essere un popolo impor-tante civilmente e nello stesso tempo politicamente. LaGermania ha ora scelto la politica come suo principio:ne sopporterà le conseguenze300.

La guerra seminava un odio violento fra le due partid’Europa, la cui unione più importava al progresso del-lo spirito umano; rompeva l’armonia intellettuale, mora-le, politica dell’umanità, introducendo per secoli un’acredissonanza nel concerto della società europea; spezza-va la triplice alleanza anglofranco-tedesca, unica garan-zia dell’Europa contro gli Stati Uniti d’America e soprat-tutto contro gli smodati appetiti della Russia e del suobarbarico mondo asiatico301.

E ancora, Renan non sapeva staccarsi completamente,nemmeno ora, dal suo vecchio sogno. Aveva lanciato ap-pelli al senso di moderazione dei Tedeschi, per una pa-ce giusta che non scavasse l’abisso fra i due popoli, ave-va profeticamente ammonito vae victoribus!; s’era rivol-to al collega di studi tanto ammirato, David Strauss302,sempre esortando contro l’eccesso di patriottismo; ave-va pronunziato sconsolatamente il suo nunc dimitte, lui,l’uomo dell’amicizia franco-germanica, ora costretto a ri-tirarsi e a tacere, non potendo più consigliare l’amore aisuoi compatriotti e non volendo consigliare l’odio303.

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«Anche coloro che sono filosofi prima di essere pa-trioti non potranno rimanere insensibili al grido di duemilioni di uomini, che noi siamo stati costretti a butta-re a mare per salvare gli altri naufraghi, ma che erano le-gati a noi per la vita e per la morte304» Eppure, eppu-re parecchio rimaneva in lui, se non dell’antico idealeeuropeo, almeno dell’antico germanesimo: questo, an-zi, usciva involontariamente ancor rafforzato dalla ter-ribile prova, rafforzato, intendiamo, come potenza sug-gestiva di dottrine e forme germaniche sul brettone dalmite sguardo: e n’era prova La réforme intellectuelle etmorale de la France, che finiva con l’additare, per mo-dello, ancora e sempre lo spirito germanico, ed esaltavalo spirito militare; di germanica origine, di cui la Fran-cia s’era malauguratamente privata con l’Illuminismo ela Rivoluzione, sostituendovi una concezione filosofica eugualitaria della società305; n’era prova il già accentuatorazzismo306, che precisava ancora più atteggiamenti deglianni precedenti307 e conduceva il Renan completamentefuori dall’orbita della grande tradizione liberale francese,dalla tradizione del Tocqueville308; n’era prova l’ammira-re sempre, direttamente o meno, la stessa organizzazionepolitica, sociale e militare prussiana309.

Ma erano proprio questi gli ultimi e affiochiti baglioridi quella che per cinquant’anni era stata una gran fiam-ma; e non più solo contro la Germania bismarckiana,bensì contro il mito stesso germanico, contro il «cieco»entusiasmo da cui quasi ogni Francese era stato pervasoper le cose d’oltre Reno, fra il 1815 e il 1870, grazie all’o-dio del secolo liberale per Napoleone I e alla predilezio-ne per i suoi nemici, contro la tradizionale raffigurazionedei Germani puri ed onesti, contro la scienza germanica,presentata ora non più nella sua luce di pura e disinteres-sata ricerca del vero, ma quale organizzazione utilitaria apro della patria, contro tutti questi idoli insorgeva dun-que la grande voce di Fustel de Coulanges, vibrante an-

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cora delle sì vicine lezioni a Strasburgo, la città perduta.Qui, veramente, tutto crollava del mito di un tempo, nelpassato e nel presente: dall’attacco alla storiografia tede-sca, nel ’72310, Fustel de Coulanges trascorreva a combat-tere l’esaltazione dei Germani nelle lontane istorie; e nenacque l’Histoire des institutions politiques de l’ancienneFrance, una, e la maggiore, delle tre grandi opere storio-grafiche in cui il rivolgimento di idee e di affetti deter-minato dalla guerra trovò la sua compiuta espressione311.Da tale pathos mosso, dall’amor di patria tanto più fieroquanto più dolorante la patria, dalla volontà di smasche-rare i funesti errori propagati dalla scienza germanica, lostorico della Cité antique divenne lo storico che prese dipetto le concezioni germanistiche sulla fine del mondoantico dominanti da più di un secolo, e demolì i miti del-la purità germanica originale, della libertà germanica pri-mitiva, della salvazione dell’umanità grazie alle orde de-gli invasori.

Così, svanì il gran sogno della cooperazione moralee spirituale tra i due popoli di qua e di là dal Reno; etramontò l’idea dell’alleanza anglo-franco-germanica, diquella gran base comune per fondarvi su la civiltà eu-ropea e il progresso avvenire, che Mazzini aveva cerca-to di modificare, sin dal 1832, progettando invece l’al-leanza morale italo-franco-germanica, come nucleo dellagrande fratellanza e Alleanza dei Popoli, cercando cioèdi far assumere anche all’Italia la parte di inziatrice, masenza far veramente breccia profonda nel pensiero eu-ropeo. Ora, non rimaneva più nulla: anziché avvicinar-si fondersi, l’una e l’altra cultura si allontanarono sem-pre più, la rivalità politica franco-germanica si complicòcon una assai più grave e profonda lotta di tendenze spi-rituali, e dunque la contesa prettamente politica finì perdiventare contesa di «civiltà», siccome dovevano dimo-strare gli appelli e le polemiche che caratterizzarono poila guerra del 1914-’18.

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In luogo di amore e gentilezza si predicò l’odio frai popoli: ogni gentilezza, scriveva Flaubert nei giornidell’invasione, è persa per molto tempo; comincia unmondo nuovo; si educheranno i bambini all’odio delprussiano312, Non a caso l’alfiere della revanche e padredel nazionalismo francese, Paul Déroulède, divenne taleper la profonda scossa morale prodotta in lui dalla guer-ra; ond’egli, prima del ’70 «cosmopolita» a suo stesso di-re, disdegnoso delle armi e zelatore delle arti, incapace dicomprendere la grandeur militaire alla De Vigny, sin dal’72 intonava i Chants du soldat, esaltando l’odio ormainato e la forza che stava per nascere, e preannunziando

la revanche ... lente peut-être,mais en tout cas fatale, et terrible à coup sûr313.

E mentre nel 1814 la reazione al crollo del Primo Im-pero era stata anche reazione allo spirito di conquistao, detto in termini odierni, al militarismo, ora succede-va precisamente l’opposto; la grandeur militaire ridiven-tò motivo dominante per tutti, Gambetta e radicali com-presi, el’assillo di riscattare Sedan e Metz tormentò daallora l’anima francese, con ancor più acre costanza diquel che l’assillo di riscattare Lissa e – Custoza tormen-tasse l’anima italiana.

Nessun indizio più eloquente di tal rivolgimento pro-fondo, degli atteggiamenti di un Renan, che nel ’49 avevainveito contro la scuola esclusivamente nazionalista, co-me negazione dell’ideale dell’umanità314 che ancora nel70 in piena guerra si ergeva pubblicamente, contro il pa-triottismo esasperato e lo spirito nazionalista315, che incuor suo non fu mai dimentico dell’antica fede e bàttez-zò il patriottismo nuovo stile come una moda destinata adurar cinquant’anni e poi, quando avrebbe ben bene in-sanguinata l’Europa, a non esser più compresa316; ma chepubblicamente non disdegnò di secondar l’aura popola-

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re, assumendo atteggiamenti da patriota benevolo per iDéroulède317.

Così è, che se già nei rapporti internazionali propria-mente politici la questione dell’Alsazia-Lorena era desti-nata a costituire il pomo della discordia europea, anchefuor della politica, nella vita della cultura, il fato delledue province pesò come la maledizione da cui le gentinon poterono liberarsi.

«Noi ci eravamo illusi – scriveva l’Amari quando ap-pena il cannone aveva cessato di tuonare – sperando chela dottrina e la civiltà avessero tanto ammansita l’umani-tà, almeno tra i popoli cristiani, da rendere men frequen-ti le guerre, men facili, meno ingiuste, meno crudeli», einvece! «le nazioni vivono tuttavia nello stato di natura,non dico la natura dei selvaggi dell’Oceania, ma di cer-to quella delle tribù arabiche»318. Ma già prima, quan-do appena il cannone aveva fatto udire la sua voce, giàprima Flaubert aveva riassunto, un un grido dell’anima,tutte le disillusioni e gli sgomenti di uomini brutalmentestrappati ad un roseo sogno: «Ah! lettrés que nous som-mes! l’humanité est loin de notre idéal! et notre immen-se erreur, notre erreur funeste c’est de la croire pareille ànous et de vouloir la traiter en conséquence»319.

Fossato aperto e incolmabile con la Germania, dun-que. Ma nello stesso tempo la lezione delle cose, il pe-so della sconfitta, l’onta della Francia invasa come influi-vano su idee e ideali dei politici e degli scrittori france-si, inducendoli ad accogliere principi e modi di essere delvincitore prussiano, e sia pure per rivoltarli contro di lui!

Sì, contro il germanesimo, contro l’idea della forza eper la libertà insorgevano gli uomini nuovi, quelli cheavrebbero creata la Francia repubblicana, i Gambetta e iFerry; e il radicalismo fu veramente, in quegli anni dopoil ’70, il fermento ideale attraverso cui si salvarono, pro-gredendo e sviluppandosi, i più fruttuosi motivi della vitapolitica francese del sec. XIX; e la stessa difesa gambet-

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tiana della latinità, dell’idea latina come della sola idea«generosa», contro lidea germanica320, ebbe questo indi-scutibile valore, di reazione decisa contro il perniciosoinflusso del «realismo» di stampo germanico. Insorgeva,ancora, un Fustel de Coulanges, che trovava elevati ac-centi per protestare contro il diritto di invasione e lo spi-rito di conquista, contro la valutazione puramente ma-teriale dei fatti, rivendicando la vita interiore, la morali-tà e spiritualità delle nazioni, e acutamente presagendo iguai futuri della Germania, che il bismarckismo avreb-be provocato321. Alta sempre si levava la voce di Ed-gar Quinet, il vecchio combattente della libertà, anch’e-gli ora con l’animo volto alla cattedrale di Strasburgo322:vecchio, ma non fiaccato, salutava il riapparire della li-bertà, quasi unico tra i grandi intellettuali a difendere ilradicalismo, vale a dire la forma in cui la libertà dovevaessere allora difesa in Francia323. E lungi dal ricorrere airimedi della forza, della «autorità», dal concedere alcun-ché ai conservatori, ne attaccava con veemenza animo epensieri, contraddicendo quasi punto per punto alle ideedi un Renan324.

Ma, accanto, quanto declinar di fede e dileguar di spe-ranze, quanto abbandono di forze ideali, sacrificate al-la forza cosiddetta reale e positiva! Il «realismo» vennedi moda anche lì e consigliò ripudio di princìpi e gene-rò pessimismi e irrigidì su posizioni di forza uomini cheerano pure di alto sentire e di raffinata cultura. Il rea-lismo, la forza, di fronte a cui è ridicolo affisarsi nellenuvole dell’ideale: com’era triste veder accogliere similiidee proprio da un Renan, infatuato a ripetere, agli amicidei rituali pranzi presso Brébant, in piena guerra, la suaconvinzione della superiorità della razza germanica, ec-citato sino al punto da accogliere, lui, lo storico di Gesù,la formula della forza che sovrastà al diritto, come unalegge eterna325.

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Erano i motivi che rendevano ancora più acre la con-danna democrazia, già per l’innanzi malamente vista dalRenan326, che la rendeva responsabile della decaden-za francese, del materialismo trionfante, della platitudebourgeoise327; la condanna del suffragio universale cheaveva reso padroni della vita pubblica i contadini, cioèl’elemento inferiore della civiltà328: e l’epilogo di un talmodo di sentire era La réforme intellectuelle et morale dela France, cioè il processo alla Rivoluzione francese e al-la repubblica, alla democrazia e al suffragio universale,nel nome del realismo e della volontà di potenza329. Tri-ste scritto, di cui il Mazzini avvertiva subito il male segre-to; triste ritorno verso l’esaltazione della potenza milita-re, espressa ormai solo dalla Prussia330, sul cui modello,vigoroso e feudale, con una forte monarchia e una for-te nobiltà, anche la Francia avrebbe dovuto ricostruiresé sessa, sempre che ne fosse ancora capace e non fosseinvece già agonizzante331.

Sedan e Metz e la capitolazione di Parigi ispiravanoil giudizio finale sui mali di cui soffriva la Francia: laguerra è l’opposto di quella mancanza di abnegazione,di quella asprezza nella rivendicazione dei diritti indi-viduali, che costituisce l’essenza della democrazia mo-derna. Con questo spirito non c’è guerra possibile. Lademocrazia è il più forte dissolvente dell’organizzazionemilitare; la vittoria tedesca è stata la vittoria dell’uomodisciplinato su colui che non lo è, dell’uomo rispettoso,attento, metodico, su colui che non lo è; è stata la vitto-ria della scienza e della ragione; ma è stata anche, simul-taneamente, la vittoria dell’antico regime, del principioche nega la sovranità del popolo e il diritto delle popo-lazioni di decidere del loro destino. Queste ultime idee,lungi dal rafforzare una razza, la disarmano, la rendonoinadatta ad ogni azione militare e, per colmo di sventura,non la preservano dall’abbandonarsi nelle mani di un go-verno che le faccia commettere i più grossi errori332. La

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civiltà è opera aristocratica, di un piccolo numero; l’ani-ma di una nazione è pura cosa aristocratica. Il suffragiouniversale è un mucchio di sabbia, non una nazione333.Corollario ultimo, la necessità della guerra, unico mez-zo per evitare l’avvilimento dell’uman genere: la guerra,condizione del progresso, frustata che impedisce ad unanazione di addormentarsi, tanto che il giorno in cui l’u-manità divenisse un grande impero romano pacificato esenza nemici esterni, quel giorno la moralità e l’intelli-genza correrebbero í più grandi rischi334.

Come una volta Pietro il suo Signore, così ora lo stori-co di Gesù rinnegava con tali affermazioni cinquant’annidi pensiero europeo, del suo stesso pensiero, rinnegava isogni di un progresso pacifico grazie al concorde lavorodelle nazioni, e anzitutto al concorde lavoro di Francia eGermania.

E Renan non era solo. Taine, che anch’egli da tempoaveva avuto des idées grises riguardo alla Francia e vede-va ora il grigio diventar nero335, smarrita ogni fede nei si-stemi politici fondati sull’eccellenza della natura umana,anch’egli diventato fieramente antidemocratico336, pur ri-manendo lontano dal germanesimo persistente di un Re-nan, e anch’egli avverso all’idolatria del numero, convin-to che la Francia non avesse ancora trovato, da ottant’an-ni, l’assetto politico conveniente337, e convinto che fos-se dovere di ciascuno occuparsi di politica e dover suo,in particolare, di far della politica sotto forma istorica338

Taine dava inizio alle Origines de la France contempo-raine, questa requisitoria solenne contro la Rivoluzione,spogliata del manto poetico e mistico da cui era stata av-volta e resa colpevole, in ultima analisi, dei disastri del’70339.

Più violento ancora l’irascibile, tormentato e cupoFlaubert nimicissimo di ogni idea di democrazia340, senzapiù illusioni e scettico ormai sulle possibilità di progres-so, sulla civiltà, sulla funzione stessa della letteratura341,

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convinto che il primo rimedio per assestare le cose sa-rebbe stato di farla finita con il suffragio universale, «lahonte de l’esprit humain»342, persuaso che la grande Ri-voluzione era stata un aborto343, avverso al 4 settembre,alla guerra, alla Comune, alla Repubblica, disperante ditutto e di tutti344 e con la sensazione che s’entrasse, do-po Paganesimo e Cristianesimo, nella terza grande fasedell’evoluzione umana, nella fase del muflisme345.

E con lui, Edmond de Goncourt disorientato, antide-mocratico, antirepubblicano346 e altri ancora che davan-ti alle schiaccianti vittorie della forza militare prussiananon sapevano più qual valore attribuire alle idee comefattori di storia. Insomma, un crollo morale, un diso-rientamento grande pur negli spiriti magni del pensierofrancese347: crollo e disorientamento che la Comune do-veva ancora accrescere348, sempre più spingendo quei let-terati e pensatori verso princìpi di conservazione pura, difobia della rivoluzione e della democrazia, di apprezza-mento del Dio degli eserciti e della polizia, che solo assi-cura la vittoria sul campo di battaglia e l’ordine nelle viedelle città.

Già una volta, dopo la dittatura del primo Napoleo-ne, il pensiero francese si era rivoltato contro le teoriedella sovranità popolare e del suffragio universale, cheavevano praticamente condotto agli pseudo plebisciti na-poleonici e al dissolversi della sovranità democratica neldispotismo349. Ma allora, almeno, c’era stata la gloire, chenemmeno il 1814 e Waterloo potevano offuscare perchéil 1814 e Waterloo eran sentiti come sconfitta di Napo-leone, non della Francia, e a Vienna la Francia non erastata umiliata: e avevan voglia i pubblicisti della Restau-razione di odiare la gloria militare e di respingerne leseduzioni350, essa rimaneva cara a tanta parte del popolo,come retaggio visibile del Primo Impero, inciso nel cuo-re delle moltitudini e destinato infatti, di lì a non molto,ad essere nuovamente esaltato e sbandierato. Ora, inve-

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ce, non solo la dittatura all’interno, bensì anche una ca-tastrofe esteriore mai verificatasi nella luminosa storia diFrancia; non solo dispotismo, a conseguenza dei plebi-sciti e della sovranità popolare, ma, in fine della vicenda,una sconfitta ignominiosa, la Francia corsa e calpestata,Metz e Strasburgo perdute: e questa volta non una scon-fitta del solo usurpatore, ché dopo Sedan il vinto nonera più Napoleone III ma la Francia istessa, la Francia diGambetta e di Jules Favre e di Thiers, la Francia di Parigiassediata bombardata costretta alla capitolazione e a ve-der sfilar nei Champs Elisées i soldati prussiani, la Fran-cia forzata a chieder pace e a subirla nella forma dura eumiliante voluta dal nemico.

Occorreva dunque una riforma: magari una riformaalla Renan, il quale dunque diveniva portavoce di queimedesimi sentimenti che, sul concreto piano politico,si esprimevano attraverso il trionfo elettorale delle for-ze conservatrici, monarchiche, nostalgiche del passatomonarchico nobiliare militare: singolare beffa del desti-no che riavvicinava, in quel momento, lo scrittore tan-to detestato e tanto detestante, e il clericalismo, cosìstrettamente legato proprio con il monarchismo la nobil-tà l’esercito! Almeno l’aristocrazia legittima che sogna-va Flaubert, per governare il popolo, eterno minorenne,era l’aristocrazia dei «mandarini», e cioè degli uomini discienza e di cultura351: illusione assai più grossa, ma alme-no illusione assai più consentanea all’animo e allo spiritodi un chierico delle lettere.

Diversamente che in Italia, la lezione delle cose condu-ceva qui dunque non pure all’apprezzamento della forzae al distacco dai vecchi sogni europeistici, ma anche adun’aspra polemica antidemocratica e persino antilibera-le. Diversamente che in Italia, dove realisti si proclama-vano soprattutto uomini della Sinistra e vecchi rivoluzio-nari alla Crispi, il realismo politico allignava in Franciasoprattutto fra i conservatori e parve significare, in quei

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giorni, nostalgia di un certo passato, così che si venne ac-centuando il distacco fra il vecchio alto ceto e le nouvellescouches sociales, il distacco che politicamente si espressenella lotta attorno al radicalismo e contrassegnò i primitempi della Terza Repubblica. Ma se, nel contrasto, i ra-dicali erano destinati a vincere sul terreno propriamentepolitico e parlamentare, qualche cosa tuttavia sopravvis-se di quell’atmosfera di crisi in cui era piombata, per ef-fetto di Sedan e di Metz, tanta parte dell’alta intelligenzafrancese: e fu il bisogno della forza, come forza non piùdi idee, ma di armi e di uomini; e fu l’invocazione ad unapolitica realistica, che sapesse astrarre anche dai desiderie dai voti delle moltitudini e, sul modello prussiano, con-fessato o inconfessato, guidasse con mano ferma la cosapubblica e si attenesse non alle vane declamazioni ideo-logiche, ma agli interessi concreti e ben precisi. Potentelievito per il formarsi delle dottrine nazionalistiche.

Allo stesso risultato ultimo doveva condurre un’altratendenza, pure ben delineata dopo il ’70 e tuttavia di as-sai diversa origine. Il subitaneo crollo dell’impero na-poleonico, legittimando l’opposizione condotta tenace-mente contro l’Impero anche in politica estera, sembra-va dar valore di verità assoluta alla critica del, principiodi nazionalità. Aver voluto seguire quest’ultimo, era sta-to il massimo errore di Napoleone III, fuorviatosi ai dan-ni della Francia e a favore dell’Italia e fin della Prussia: iveri interessi francesi erano stati sacrificati a quel princi-pio «assurdo»352. Ora, dunque, il vecchio astio degli op-positori al Secondo Impero, da Thiers a Broglie, trova-va finalmente facile motivo di giustificazione nel crollodi Sedan e, insieme, nel mancato aiuto dell’Italia, questacreatura di Napoleone III che al momento buono si erasottratta al suo benefattore, dimostrando come la politi-ca di sentimento fosse la più stolta delle politiche. Soloun sognatore alla Napoleone III aveva potuto illudersi suciò: un sognatore a cui si accoppiava il dilettante, l’uo-

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mo non esperto. Ci voleva l’ignoranza napoleonica delletradizioni politiche della Francia, per cascare così mala-mente in un trabocchetto, quale era il principio di nazio-nalità. Taine spogliava la Rivoluzione della sua veste mi-stica; Albert Sorel toglieva al principio di nazionalità l’a-lone ideale di che avevano circonfuso Mazzini e Miche-let, presentandolo come semplice arma tattica nelle manidei governi, strumento atto a servire tanto grandi disegnie nobili iniziative quanto grossolani appetiti di dominio.La forza – sempre essa! – rimaneva la ragion sovrana deire e delle nazioni353.

Ma la forza richiede di essere ben impiegata; e per benimpiegarla occorre la lunga lezione delle cose antiche, ecioè la conoscenza sicura delle tradizioni diplomatiche epolitiche che, sole, possono dare la sensazione esatta de-gli interessi reali di un paese e fornire all’uomo di statola giusta misura per modellare la sua azione. I politicantidel Secondo Impero avevano condotta la Francia alla ca-tastrofe, perché non avevano conoscenze sicure354; l’ac-cusa, da tutti condivisa, legittimisti e repubblicani, nobi-li e plebe355, era stata formulata sin dal 5 settembre 1870dal primo ministro degli Esteri della Repubblica, da Ju-les Favre che pure non era un reazionario né un nazio-nalista: «la Francia aveva intrapreso la guerra isolata inmezzo a un’Europa ostile. Il governo che l’aveva folle-mente precipitata in questa formidabile avventura nonaveva immaginato nessuna combinazione, offerto nessuntrattato, previsto nessun riavvicinamento». Per risolleva-re la Francia, era necessario ricreare questa sapienza per-duta. E così, nello sforzo grandioso di quegli anni di do-poguerra, quando ognuno non mediocre anelava a servi-re alla ricostruzione della patria vinta e depressa, e i piùgiovani ed impetuosi si spartivano il compito, quali nel-la storiografia, quali nel romanzo, quali nella poesia356; ecosì mentre un Taine rinunciava alle ricerche puramentespeculative e dava inizio alle Origines, per ammaestrare il

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suo paese, un Sorel si prefiggeva il compito di richiama-re la Francia alle sue luminose tradizioni di politica este-ra e poneva mano a L’Europe et la Révolution française,l’altra grande opera in cui la storiografia francese dellafine dell’Ottocento sottoponeva a revisione tutto quan-to s’era detto e pensato sull’evento rivoluzionario357. Lacontinuità fra il prima e il dopo la Rivoluzione Tocque-ville l’aveva ricercata, un trentennio innanzi, nella strut-tura interna del paese, sotto l’assillo delle preoccupazio-ni del pensiero liberale del primo Ottocento; Sorel, ora,guardava ai rapporti internazionali e diveniva il precet-tore dei diplomatici del Quai d’Orsay.

Ma da un siffatto ritorno sul passato, alla luce di unadura esperienza vissuta, della forza e della potenza mili-tare che s’impongono sul diritto – tale essendo il fermoconvincimento di ogni francese, dopo la pace di Franco-forte e la perdita dell’Alsazia-Lorena – che cos’altro po-teva derivare se non l’apprezzamento dei vecchi criteri dipolitica di equilibrio, di politica delle alleanze, di politicavolta a creare un «sistema» francese in Europa contro lepotenze rivali? In luogo dello stupido e vago principio dinazionalità, causa di tanti guai, nel cui nome, alla fin fine,s’era strappata alla Francia l’Alsazia-Lorena358, restituire,alla buon’ora, il principio dell’equilibrio europeo, Van-gelo diplomatico d’un tempo e auspicato Vangelo perl’avvenire359. Era la vecchia lezione della storia di Fran-cia, da secoli, storia di potenza, di prestigio, di grandeur;e l’animo di chi vi ci si tuffava per chiedere ammaestra-mento al presente, n’era inebriato360. Non più amare tut-te le patrie, come aveva detto Michelet, che guardava alla«sua» Germania, alla «sua» Italia, alla «sua» Polonia361;amare la propria patria, amare la Francia, e soltanto essa.

Così, a poco a poco, il desiderio di star ben aderen-ti alla realtà, senza perdersi dietro ad ideali fumosi, macon la vigile guida del passato, a cui ci si ricollegava sal-tando l’intermezzo vacuo del Secondo Impero, condu-

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ceva al vagheggiamento di una politica di potenza, sul-la base dei vecchi canoni dell’equilibrio, delle sfere d’in-fluenza, degli stati vassalli, una politica tutta nutrita disacro egoismo, che evitasse gli «errori» sentimentali362, enuovamente ne riceveva alimento continuo e sottile l’in-cipiente spirito nazionalistico. Da Taine poteva derivarelo spirito antidemocratico; da Sorel, gran maestro idea-le dei diplomatici francesi di un cinquantennio, lo spiri-to di grandezza, la volontà di potenza, il senso dei risul-tati a «positivi» e delle opere durature363 il convincimen-to, alla tedesca, del «primato» della politica estera: agliuni e agli altri finì con l’attingere il nazionalismo fin desiècle364.

Realismo, forza, scetticismo per le grandi affermazio-ni ideali, utili solo come strumento tattico: questi eranoi frutti delle vittorie prussiane del ’70. Declinavano gliideali, anche quello della libertà, che a far amare assaipiù cautamente, sopravveniva ancora la Comune; signo-reggiava la realtà365: comprendre et apprendre pour agir,era la nuova parola d’ordine che indicava nell’azione il fi-ne, tutto il resto, anche la cultura, servendo da mezzo366.Da una parte, come aveva detto il Blanc, la scienza po-sitiva, cioè la scienza applicata all’industria, e gli incre-dibili progressi di questa, la produzione e la forza dellatecnica367; dall’altra la politica anch’essa come scienza dicose solide e sicure, banditi gli affetti e gli ideali, messida canto i princìpi, cioè la politica come forza e potenzanumericamente calcolabili.

L’una e l’altra cosa si davano la mano, progresso tec-nico, e gigantesco sviluppo industriale, implacabile ra-zionalità nella condotta degli affari, ed evolversi della vi-ta politica verso forme statali sempre più quantitativa-mente forti, per ricchezza armi organizzazione estensio-ne colonie. Tramontava la piccola azienda artigiana, etramontava l’ideale del piccolo stato, così caro all’Illumi-nismo e al Romanticismo, ai Montesquieu Rousseau Si-

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smondi Adam Miiller, il cui posto era preso ora dal gran-de Stato368. Fenomeni, d’altronde, l’uno e l’altro, che nonerano se non i due aspetti di un solo processo storico incui la quantità tendeva sempre più a prevaler sulla quali-tà, la grande industria sull’artigianato, il grande Stato sulpiccolo, le masse di elettori sui valori personali, il pesodel numero sui raffinati valori della cultura e dell’intelli-genza.

Ma l’età del commercio non solo non si sarebbe so-stituita all’età della guerra, secondo il vaticinio di Benja-min Constant369, che aveva anticipato l’ottimismo cobde-niano sul nuovo spirito commerciale diffonditore di pro-sperità e pace nel mondo, anzi si sarebbe associata allaguerra; i popoli manifattori e commercianti, contraria-mente al detto del Minghetti giovane370, non sarebberostati alieni dal venir al sangue, e le guerre avrebbero ac-quistato in terribilità di distruzione quel che avrebberoperso in lunghezza di tempo, a fronte delle prolisse guer-riglie medievali. Trionfo del commercio, per quegli otti-misti, aveva voluto significare trionfo dello spirito di pa-ce e abbandono degli appetiti di conquista militare, di-sdegno della gloria guerresca; ma la gloria militare man-tenne il suo fascino e lo spirito di conquista cercò anzigiustificazione e pretesti e trovò spesso motivi anche inconsiderazioni di utile economico, per sopravanzare ri-vali e schiacciar concorrenze troppo pericolose. L’anticoe detestato spirito politico di conquista non fu assorbi-to, anzi assorbì in sé lo spirito economico dell’affare: on-de, in un mondo che allacciava ogni giorno più rapportistrettissimi di interdipendenza economica e in cui sem-brava che le piccole vecchie questioni europee di fron-tiera dovessero ridursi a episodi di scarso valore, le que-stioni europee di frontiera rimasero invece il fattore deci-sivo che poté travolgere l’umanità intera in conflitti maiprima visti. Lo spirito nazionalitario irruppe nella storiae scatenò i popoli l’uno contro l’altro; come aveva intui-

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to Mirabeau371, le guerre dell’antico regime divennero ungiunco da ragazzi in paragone delle nuove.

Commercio e libertà, aveva proclamato la scuola diManchester: ma il trionfo del protezionismo avrebbe,di lì a non molto, fatto comprendere che i sogni diun’armonia universale erano finiti.

Questo era il succo della nuova realtà: una realtà con-tessuta di molteplici elementi, a mano a mano semprepiù prementi per il rapidissimo evolversi della vita mo-derna in tutte le sue forme, sempre più accentuanti il va-lore del numero, di guisa che la stessa Realpolitik alla Bi-smarck finiva con l’essere solo una manifestazione del-lo spirito avviato a signoreggiare il mondo nelle prossi-me generazioni, e il Cancelliere prussiano diveniva l’in-carnazione politica di uno sviluppo storico che trascina-va con sé tutte le forme di vita372. Vecchio, stanco e sfi-duciato, il Minghetti lo riconobbe: «noi credevamo al-la giustizia e alla libertà, oggi si crede alla forza, ed alnumero»373.

La forza: e in luogo della predicazione in nome dell’u-manità di un Mazzini, degli appelli agli Stati Uniti d’Eu-ropa di un Cattaneo, dell’identità fra morale pubblica eprivata di un Balbo e di un d’Azeglio, risuonarono le vo-ci di un Droysen ad ammonire che nel mondo politicovale la legge della potenza, come in quello fisico la leg-ge di gravità374, o di un Treitschke, che lo stato è forza eil suo obbligo è la conservazione della potenza e chi nonè abbastanza virile per guardar bene in faccia tale veritàsi occupi di altro, ma non di politica375. La forza: indif-ferente anche ai sentimenti di avversione che provocava,pur di sentirsi materialmente sicura. L’oderint dum me-tuant diveniva più che mai assioma di politica; e ne davaesempio il Bismarck con l’affermare assai preferibile airiguardi verso i Francesi il garantirsi frontiere ben forti-ficate, e anche con il suo mal velato disprezzo per gli uo-mini in genere, vero «homme massue» destinato ad esse-

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re «l’étonnement, la terreur de tous, mais pas au delà»376.E ne davan prova anche i suoi luogotenenti, fra gli altri loSchweinitz, ambasciatore a Vienna, il quale, constatandonel 1872 l’animosità ovunque regnante contro la Germa-nia, invidia, timore, odio, conchiudeva che, pur essendomoderati e accomodanti, bisognava diventare ancora piùforti.

Ad incrementare anche dottrinalmente l’anelito allapotenza, a far della lotta l’ideale di vita delle giovanigenerazioni, avvezzando gli uomini all’indifferenza peri principi onde renderli idonei alla durezza del sentirerichiesta dai tempi, stava intervenendo anche l’influssodell’evoluzionismo darviniano e del sociologismo evolu-zionistico alla Spencer377; e fu di gran presa sugli animi,come che la lotta per l’esistenza, la necessità dell’adat-tamento all’ambiente e simili cose traducessero perfet-tamente in termini scientifici quanto stavano operandosu terreno pratico la politica di forza dei grandi stati ela spietata concorrenza dei grandi complessi industriali ecommerciali. Anche in Italia il nuovo verbo avrebbe pre-sto trovato banditori convinti, nella cui parola tramonta-va il Risorgimento e cominciava una nuova età.

«Le grandi fratellanze, sognate già da’ filosofi italianie francesi, tentate già da Napoleone III, tramontano tragli ideali del secolo; che già si rende ferreo per le gareeconomiche, pe’ sospetti sempre più fieri, per lo studiodelle armi: risorgendo ed allargandosi da poche cittàin vaste nazioni quella virile necessità che facea tuttisoldati i Greci ed i Romani. Ogni nazione sogguardaalla possibile nemica. Ogni grande Stato attende in frettaattorno al Mediterraneo a togliersi quanto più e quantoprima può di ciò che rimane senza forti signori: ognunodegli altri; anche la Francia, seppe quel che volea, el’ottenne a Tunisi, o in Egitto. E l’Italia sa di voler ciòche meno importa, o di non voler nulla; e si sforza, tra ilsorriso degli altri, a vestir di pudore la sua irresolutezza,

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colpevole verso i posteri. E si afferma custode del dirittoe della pace, giudice imparziale delle altre nazioni, senzaaver provveduto né alla sua autorità, né al vigore dellesanzioni»378.

Così sentenziava, nel 1882, Pasquale Turiello, nel cuidiscorrere ritornava spesso, appunto, il ritornello dellalotta per la vita fra le nazioni, dei popoli destinati a de-cadere nella lotta vitale mentre progredivano quelli «piùaccomodati a’ nuovi adattamenti», e fin la profezia del«periodo imminente d’una lotta mondiale per la vita»379;il Turiello che non a caso doveva divenire, di lì a poco, ilprimo cosciente, sistematico imperialista italiano380.

Quattro anni più tardi il Novicov concludeva che «lapolitica internazionale è l’arte di condurre la lotta per l’e-sistenza tra organismi sociali»381; e sopraggiungeva l’O-riani a trarre anch’egli dalla moda evoluzionistica la for-mula della lotta per la vita, che tra i popoli vuol dire laguerra382.

E anche qui, come già contro le idee razzistiche, pro-testava il Crispi, che, nazionalista di animo e in questogià pienamente all’unisono con i tempi nuovi, rimanevaconcettualmente uomo del primo Ottocento383. Ma an-che qui la logica interiore delle cose dava torto al Cri-spi; ed egli non s’avvedeva che il soverchio orgoglio na-zionale era proprio uno dei fattori, il massimo fattore an-zi, della durissima lotta per l’esistenza fra i popoli, quel-lo che più d’ogni altro rischiava di scatenare sugli uomi-ni la brutalità della natura fisica, quasi per dar ragione altristo motto del Grillparzer «dall’umanità, attraverso lanazionalità, alla bestialità»384.

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III

Contro la «realtà» bismarckiana

A sconvolgimenti del proprio sistema intellettuale e mo-rale si opponevano invece recisamente i più degli uomi-ni della Destra, di quelli che erano allora al governo e diquelli che, nel Parlamento e nel giornalismo o, comun-que, nella vita pubblica ne assecondavano le fortune.

Non è che questi uomini, pur respingendo con sde-gno l’accusa di servilismo385, avessero chiuso gli occhi difronte all’indiscutibile dato di fatto che la politica italia-na s’era svolta nell’orbita di quella francese, perfino nel’66, e che pertanto il giovane regno aveva avuta ridottad’assai la sua libertà d’azione e diminuita la sua perso-nalità. Lo riconosceva, molto esplicitamente, il ViscontiVenosta quando, ai primi di marzo del ’71, esaminava inuna lunga lettera al de Launay i rapporti italo-tedeschi:«la quistione romana è stata il vincolo che ha diminui-to la nostra libertà di azione, ed ha resa dipendente, perlungo tempo, la nostra politica, dalla politica francese.Ora questo vincolo è rotto, è nell’interesse di tutti ch’es-so non abbia a riannodarsi. La quistione romana sciol-ta, la neutralità conservata durante questa guerra, hannoreso indipendente la situazione politica dell’Italia»386.

Lo aveva già detto prima l’Artom, deciso fautore dellaneutralità proprio perché se si fosse commesso «il gravis-simo errore di legar le sorti nostre a quelle della Franciain questa occasione, il risultato sarebbe stato questo: ilnostro soccorso non avrebbe impedito le sconfitte fran-cesi, ma il regno d’Italia sarebbe considerato dall’Euro-pa come un’appendice dell’edificio napoleonico, desti-nato a scomparire coll’Impero»387. Le pretese della Fran-cia su Roma erano «il simbolo del vassallaggio che tuttal’Europa ci rinfaccia verso la Francia»388.

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Preoccupazioni di simil genere, unitamente all’altradi non render generale la guerra, trascinandovi ancheAustria e quindi Russia, e dando origine ad un conflittoeuropeo i cui risultati avrebbero potuto esser paurosiper l’esistenza stessa del Regno d’Italia, avevano pervero ispirato la politica del Visconti Venosta il quale,guadagnando tempo, molto grazie al Sella, aveva potutouscir senza guai da una situazione fra le più difficili389.Neutralità durante la guerra franco-prussiana e Romacapitale erano dunque, per tutti, anche per i moderati,la prova decisiva che l’Italia unita non era una sempliceed effimera creazione napoleonica.

O ancora, della smania di seguire la Francia e diprenderla pedissequamente a modello, si dolevano, alpari di uomini della Sinistra, dei moderati come StefanoJacini, a non dir del Ricasoli390.

E nemmeno si taceva che nello scoppio della guerra laFrancia aveva gravi responsabilità: lo stesso Nigra, a cuiuna simile ammissione più doveva costare, non si perita-va dall’affermare: «la guerra fu cominciata dalla Franciaingiustamente e contro i princìpi della propria politica.Parlando della Francia, inchiudo non solo l’imperatoreNapoleone e il governo francese, ma il paese, giacché ilCorpo legislativo, eccetto alcuni membri della Sinistra, ilSenato, la stampa, le pubbliche riunioni furono unanimio quasi unanimi nel volere e nell’approvare la guerra»391.

Ma simili constatazioni non sboccavano, come nel deLaunay e nel Crispi, in un atteggiamento ostile alla Fran-cia e di aperta simpatia per la Prussia. I Visconti Veno-sta, i Nigra, i Lanza, i Dina, i Bonghi potevano bene rico-noscere questo ed altro; potevano bene concordare pie-namente con i Blanc, i de Launay e i Crispi che la guerrafranco-prussiana ed i suoi risultati chiudevano una fasedi storia e un’altra ne aprivano, per tutta Europa392; po-tevano richiamare il virgiliano novus ab incepto saeclorumnascitur ordo393.

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Ma laddove gli uni salutavano con gioia il levarsi delnuovo sole europeo, gli altri guardavano con preoccupa-zione.

Sentimentalmente, essi rimanevano ancora legati allaFrancia, la grande maestra di civiltà, che aveva così po-tentemente influito sulla formazione del pensiero italia-no in genere e dei moderati in ispecie, fra il 1830 e il1848, e al vinto di Sedan, all’uomo a cui nonostante tut-to gli Italiani dovevano Magenta e Solferino, e cioè il pri-mo passo decisivo nell’impresa della loro liberazione, ilpasso che tutti gli altri aveva reso possibili e senza delquale tutto quel che poi avvenne non sarebbe stato nep-pure pensabile. «Figli di Magenta e di Solferino»: la fra-se poté più tardi apparire brutto fiore retorico e non dirpiù nulla, soprattutto quando a sentirla ripetere furonogenerazioni che l’Italia avevano trovata bell’e compiuta,né potevano rivivere le ore di ansia, le speranze e i dub-bi e l’entuiasmo finale dei giorni della riscossa, e pertan-to, come suol accadere ai figli e ai nipoti, trovarono fuoriluogo la gratitudine dei padri.

Già allora, anzi, la sua verità veniva contestata dagliuomini della Sinistra, i quali, o trovavano che il debitodi gratitudine era stato lautamente pagato con Nizza e laSavoia394, a non parlare di Mentana che aveva distruttoqualsiasi vincolo sentimentale395; o addirittura negavano,sulle orme di Mazzini, che ci fosse mai stato debitoalcuno di gratitudine.

E qui il dissidio tra i filofrancesi e gli antifrancesi, adirla con termini comunemente accolti, s’innestava nonsoltanto sulle lotte interne di partito, per cui il vinto im-peratore, dagli uni e dagli altri riconosciuto sostenitore,protettore, autore anzi delle fortune dei moderati396, ve-niva amato e odiato a seconda appunto dello spirito diparte; bensì su di un contrasto di vedute assai più pro-fondo e generale: gratitudine a Napoleone III, secondocoloro a’ quali il Risorgimento d’Italia appariva creazio-

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ne della monarchia sabauda, opera di governo che erapotuta riuscire in quanto, ad un certo momento, il re diSardegna aveva trovato un potente alleato nell’impera-tore dei Francesi; nessuna gratitudine, secondo coloroche vedevano invece nel Risorgimento la creazione del-le forze rivoluzionarie, lo sbocco di una lunga opera dipropaganda e di una passione trionfanti a malgrado del-le battute di arresto imposte da Napoleone III, a Villa-franca prima, ad Aspromonte e a Mentana poi. La pro-fonda eterogeneità di forze del Risorgimento, l’iniziativaregia, come si disse, e l’iniziativa rivoluzionaria, una ete-rogeneità le cui conseguenze si sarebbero ben presto re-se palesi nelle discussioni sui problemi stessi della politi-ca estera, e che aveva fatto del movimento nazionale ita-liano, una cosa del tutto diversa dal movimento nazio-nale germanico, bene e completamente accentrato, que-sto, attorno al monarca e al governo; siffatta eterogenei-tà veniva nettamente in luce anche nel problema che ciriguarda ora, stabilendo delle posizioni aprioristiche dacui né l’uno né l’altro dei disputanti era più in grado diintendere il contraddittore.

Crispi si era, sì, convertito alla monarchia: ma nell’a-nimo era sempre il vecchio cospiratore – amava ripeter-lo egli stesso – convinto che l’Italia l’avessero fatta so-prattutto Mazzini, Garibaldi397 e un po’ anche lui stes-so, con tanto d’inchino, ora sentito, a Vittorio Emanue-le II, e che l’egoistico intevento di Napoleone III aves-se più complicato che favorito le cose. Momento decisi-vo dell’unità era stato non il ’59, bensì il ’60 con la spe-dizione dei Mille. Lo scarso apprezzamento dell’operadel Cavour, del quale Crispi, presidente del Consiglio,non pronunziò nemmeno il nome, tra non pochi com-menti sdegnati, quando il 20 settembre 1895 inaugurò ilmonumento a Garibaldi sul Gianicolo e disse dei padridell’unità398; tale scarso apprezzamento a più riprese di-mostrato sia dal Crispi399, sia dai suoi amici400, era il si-

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gnificativo indizio di un modo di vedere il Risorgimentoche era in antitesi assoluta con il modo di vedere dei mo-derati. Non per nulla nei giorni critici del luglio-agostodel 1870, La Riforma ricordava il «vizio» della politicacavouriana, cioè l’accordo con Napoleone III, metten-do invece innanzi, quale protagonista, la «Rivoluzione»italiana401; e pochi mesi più tardi rivendicava a sé ed aisuoi amici il compito di essere i custodi dell’idea unita-ria contro gli stessi moderati402, nell’un caso e nell’altroribadendo la tesi della priorità e necessità dell’idea rivo-luzionaria, sola vera artefice del patrio riscatto.

Ma queste non erano, al certo, le idee dei Visconti Ve-nosta e dei Lanza, dei Nigra e dei Dina e dei Bonghi! Ecome per essi il Risorgimento era l’azione della monar-chia sabauda, sia pure con l’aiuto prima della prepara-zione morale mazziniana403, e poi delle forze rivoluziona-rie incarnate in Garibaldi, che avevano servito in quan-to erano state sfruttate o si erano poste volontariamen-te al servizio della politica piemontese404, così quell’azio-ne appariva possibile solo mercè l’aiuto francese: dondela gratitudine, di cui, contrariamente al detto della Sini-stra, nemmeno Mentana aveva spento l’obbligo405; don-de la non retorica e non banale rievocazione di Magentae di Solferino.

Libero da vincoli sentimentali per tutto il suo modo dipensare e per il suo passato, un Crispi poteva fin pensaread approfittare del momento per ritogliere Nizza allaFrancia; un uomo come il Visconti Venosta arretravasdegnato di fronte ad un’idea simile come di fronte acosa ingiuriosa per la lealtà del governo italiano. Unaquestione di Nizza non esisteva, non poteva esistere perl’Italia: Nizza era stata ceduta alla Francia in virtù diun trattato, sanzionato da un plebiscito: e non c’era datornarci su406. Lo doveva scrivere soltanto sette annipiù tardi: ma il sentimento era bene lo stesso, nel ’70come nel ’77: «se la Germania aggredisse la Francia per

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un proposito deliberato, e noi ci fossimo impegnati aseguirla per avere Nizza o la Savoia, noi faremmo unapolitica che sarebbe la diretta negazione di quella diCavour e che getterebbe nell’avvenire del nostro paeseun germe funesto. Non parlo di ciò che vi sarebbedi odioso nella nostra condotta nel farci noi, figli diMagenta e di Solferino, i ministri di un fato beffardo, nongià per difenderci da un’aggressione o da una minaccia,ma solo per riprendere, appoggiati a un più forte, ilprezzo liberamente dato del sangue sparso per noi»407.

In siffatta disposizione d’animo le notizie di Franciadovevano suscitare dolore e sgomento. Tra l’agosto del’70 e il gennaio del ’71, da Weissenburg e Wörth all’ar-mistizio, la gran maggioranza dei moderati, dal Viscon-ti Venosta al Lanza al Bonghi, ebbe amareggiata perfi-no la gioia di Roma dalle notizie d’oltr’Alpe: costerna-ti alla notizia di Sedan408, anche più tardi erano in unostato d’animo tale da far apparire poco convenienti i fe-steggiamenti al re in Roma quando i Francesi stanno «inlutto»409.

La ragion politica aveva persuaso i più che sarebbe sta-to impossibile per l’Italia entrare nel conflitto a fianco diNapoleone III; ma il dolore per l’inazione forzata ulce-rava profondamente il La Marmora, che come generalee uomo politico aveva sconsigliato l’intervento italiano,pur reclamando l’onore di mettersi alla testa di una com-pagnia per passar subito la frontiera e combattere a fian-co dei Francesi, qualora il governo avesse deciso di scen-dere in campo. «Pensare che quella Francia, senza dellaquale noi non potevamo costituirci a nazione, è minac-ciata di venire smembrata senza che da noi riceva il ben-ché minimo aiuto, e che l’imperatore rischia perdere lasua corona, forse anche per avere nel 1866 compromessala sua politica perché noi avessimo Venezia, sono tali ri-flessi e congiunture da profondamente addolorare chi hasensi d’onestà e di gratitudine»410. Cialdini avrebbe vo-

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luto un intervento diretto a fianco di Napoleone III e LaMarmora lo aveva sconsigliato: ma uno era il sentire inquesti due uomini, così dissimili e così poco amici.

Come nei due maggiori capi militari, così negli uomi-ni di governo, Sella eccettuato: dal Lanza, che si sentivaspezzare il cuore nell’assistere allo spettacolo «strazian-te» della rovina francese e non tratteneva le lacrime al-la notizia di Sedan411 e s’indignava per l’insensibilità del-l’Europa di fronte al bombardamento di Parigi412, al Vi-sconti Venosta, allo stesso Minghetti che fra tutti era pu-re il meno incline ai Francesi é non stupiva troppo perla catastrofe del Secondo Impero413 ed era scettico sul-l’avvenire di un paese «profondamente corrotto»414, masi sentiva «fortissimamente» commosso dalle parole delThiers, di passaggio a Vienna per implorare, anche lìvanamente, l’aiuto austriaco, e deplorava come inuma-na l’inerzia delle potenze neutrali415, a tal segno da am-mettere almeno la possibilità teorica di un intervento ar-mato a pro della Francia, sol che esso potesse riuscireproficuo416.

Attorno a questi eminenti tra i moderati, le figure mi-nori, ma talune minori solo ufficialmente ed esercitantiinvece un influsso continuo e notevole sulla cosa pubbli-ca: da Giacomo Dina, il perspicace e molto ascoltato di-rettore dell’Opinione, sin dall’inizio favorevole a Napo-leone e poi affranto al pensiero di «sì immensa sventura»,anche se dovesse riconoscere la sventatezza francese417; aMichelangelo Castelli, influente consigliere segreto nonsolo di Vittorio Emanuele II, ma anche dei capi dellaDestra, che non poteva soffocare il suo sentimento fa-vorevole all’intervento a fianco della Francia418; a Rug-gero Bonghi, che più di tutti effondeva nella stampa lasua preoccupata tristezza e assumeva atteggiamento riso-lutamente antiprussiano, sia nelle cronache quindicina-li della Nuova Antologia, sia nella milanese Perseveranza;a Michele Amari, a cui la gioia del Campidoglio conqui-

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stato era turbata dai disastri francesi419; al conte GuidoBorromeo, grande amico del Minghetti420.

Fra i diplomatici, era il Nigra, naturalmente, a condi-videre dolore e preoccupazione per le sorti del paese do-ve si era acquistata fama e aveva contratte amicizie gran-di e sicure: egli, che già nel ’68 aveva desiderato lasciarParigi e aver il posto di Londra, perché vedeva le cosedi Francia andare sempre peggio e gli era «doloroso l’as-sistere alla rovina di questo grande edilizio dell’Imperofrancese, col quale si collega tutta la politica da noi fat-ta sin qui»421, e che ancora il 7 agosto del ’70, pur dopoWeíssenburg e Wörth, aveva telegrafato al Visconti Ve-nosta per indurlo a intervenire immediatamente a fiancodell’imperatore422.

Com’è naturale, la commiserazione per la Francia cre-sceva quanto più crescevano le sue sventure: dopo Se-dan, affermava lo Artom, altro dei consiglieri di pri-mo piano che si era pronunziato recisamente per laneutralità423, si era fatta più viva la memoria di Solferi-no e di Magenta424; e veramente se la stessa Riforma tro-vava parole per invocare la fine della «inutile strage», ne-gli uomini e negli organi del partito moderato l’amarez-za per il crollo della Francia cresceva, sino a toccar le al-te note negli articoli roventi con cui il Bonghi deprecavala caparbia ferocia del vincitore.

E come dall’una parte il Carducci, così dall’altra s’al-zava nuovamente la voce dell’artista grande ad esprime-re d’impeto quel che in molti solo con riluttanza era sta-to compresso dalla voce della ragion pratica: GiuseppeVerdi, politicamente così lontano dal Carducci, amicodei moderati e del Visconti Venosta425, ma in quell’oc-casione così simile anche al Carducci, piangendo il disa-stro della Francia e la rovina, per esso, della civiltà mo-derna, non esitava a dichiarare preferibile, per l’Italia, lasconfitta con la Francia all’inerzia in cui ci s’era ridotti426.

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Sarebbe tuttavia puerile non vedere in questi uominialtro che la espressione dolorosa di un sentimento, ridur-re la loro visione politica entro i ristrettissimi limiti che,allora come sempre, avrebbero potuto essere dettati dalsolo fattore sentimentale. Questo agiva, indubbiamente;era il primo impulso, lo scatto immediato di fronte allenotizie amare; costituiva come un fondo su cui poteva-no fiorire pensieri e considerazioni: ma, per l’appunto,senza pensiero e senza idee gli uomini della Destra, gen-te, se altra mai, per abito mentale e dottrina adusata al-la meditazione talora fin eccessiva prima di agire – e n’e-ra esempio tipico il ministro degli Esteri, il molto riflessi-vo, molto cauto, molto soppesante i pro e i contro Emi-lio Visconti Venosta – non sarebbero mai, nonché salitisulla scena politica, nemmeno vissuti.

I loro portavoce ufficiosi affermavano sì la necessità,per un grande Stato, di un ideale senza cui non vi sareb-be politica positiva, ma semplice empirismo diplomatico,alla giornata; ma si dichiaravano pure recisamente avver-si a qualsiasi politica «sentimentale»427. E da Milano giàun anno innanzi identico modo di vedere aveva espres-so La Perseveranza, annotando che non le simpatie deb-bono tracciare la linea di condotta di un popolo, «mabensì l’interesse proprio, l’interesse bene inteso, l’inte-resse previdente, che, pur tenendo conto dei fatti dell’ie-ri, non si ferma a considerare soltanto le combinazionidell’oggi, ma investiga anche le eventualità del domani edel posdomani»428.

Se tali erano già le manifestazioni pubbliche, ancor piùattento alla realtà era l’uomo di governo; e il ViscontiVenosta si impazientiva, quando udiva parlare in terminisentimentali: «l’Italia ama la Francia, l’Italia non ama laFrancia, queste discussioni appartengono piuttosto alledispute degli innamorati che alla politica»429; il ViscontiVenosta, che già allora riteneva esser passati per unpezzo i giorni dell’intimità tra Italia e Francia e non si

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abbandonava affatto, quindi, ad effusioni emotive, mabasava la sua condotta su di una ben precisa valutazionepolitica, vale a dire sul convincimento «che il giorno incui fra i due paesi si fosse stabilita una causa necessariae permanente di ostilità, un gran punto d’interrogazionerimarrebbe sospeso sui nostri destini»430.

I fautori di un nuovo indirizzo politico e di un decisoavvicinamento alla Germania parlavano di realismo pro-prio, contrapponendolo al sentimentalismo altrui, cioèdei moderati; ma tanto poco si trattava di un contrastofra realismo e sentimentalismo, quanto poco avevano ra-gione i critici francesi del Secondo Impero di attribuirgliuna politica dettata esclusivamente dal sentimento, comese anche Napoleone III non avesse cercato di fare gli in-teressi suoi e del popolo francese esatti o sbagliati che isuoi calcoli fossero stati.

Senso della realtà, apprezzamento della realtà: ma eratutta la tradizione moderata che parlava in tal senso, susu fino ai padri del moderatismo, i Balbo, i d’Azeglio,i Durando, che tanto avevano insistito sulla necessità diun sodo realismo politico, sul senso pratico della realtà,sul buon senso!431 E che cos’era stata la soluzione del Ri-sorgimento, voluta, attuata dai moderati, se non proprioil trionfo dello spirito della realtà, il trionfo della politi-ca del giusto mezzo, contro il mito quarantottesco dellarivoluzione democratica universale? Che cosa l’aposto-lo dell’idea, il Mazzini, aveva rimproverato agli avversa-ri, se non precisamente il compromesso, cioè l’adattarsialla realtà, che spegne la fiamma ideale?

La stessa simpatia per il Secondo Impero, il difende-re la causa di Napoleone III, non erano forse un gros-so compromesso col principio della libertà, così energi-camente difeso in patria, ma non più difeso, per la Fran-cia, contro il dittatore: compromesso ch’era dettato dalconvincimento il miglior baluardo della causa italiana inEuropa esser sempre, per necessità e per interesse pro-

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prio, quel dittatore, e che dunque anteponeva decisa-mente l’interesse nazionale italiano al principio ideolo-gico? Altro che sentimentalismo e amore dei princìpiastratti!

Piuttosto, si poteva ripetere, entro certi limiti, anchedei luogotenenti di Cavour quel che era stato detto delCavour, che cioè il suo sguardo non oltrepassava mai iconfini del reale, ma il reale era per il suo genio oriz-zonte ben più vasto che non fosse per gli altri uomini432.Il genio non c’era più; il senso preciso della realtà, mo-mento per momento, il fiuto politico, l’abilità manovrie-ra potevano anche non esser grandissimi nei generali diAlessandro: e qui entravano in gioco i valori individua-li, le singole personalità degli attori politici; e qui, preci-samente, un uomo di stato come il Bismarck sovrastavadi troppo i suoi colleghi italiani inglesi austriaci france-si russi. Ma i canoni dell’agire erano sempre quelli del-l’occhio alla realtà, per gli uni come per gli altri. Soltan-to, appunto, la realtà dei moderati abbracciava più ele-menti, si presentava assai più complessa che non quel-la dei neorealisti. Puro calcolo politico, soppesamentodelle sole forze che potessero tradursi in termini politi-ci, cioè di potenza, per un Bismarck e i suoi imitatori insedicesimo; per i moderati, la realtà costituita non sol-tanto dalle forze materialmente precisabili e calcolabili,bensì anche dalle forze cosiddette morali, movimenti diidee e di affetti, atteggiamento dell’opinione pubblica esimili. Consenso e non timore, a base dell’azione di go-verno: quindi apprezzamento di molti elementi che i po-litici alla Bismarck lasciavan da parte o disprezzavano;quindi, anche, a prescindere dalle maggiori o minori abi-lità personali, un’azione più lenta e cauta, un assai menopronunziato forzar le situazioni, ch’erano la necessariaconseguenza del ripudiar l’autoritarismo e del ricercar ilconsenso.

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Già nel Cavour, almeno l’atteggiamento di fronte alproblema religioso e della Chiesa aveva dimostrato co-me la realtà s’arricchisse in lui di motivi non consueti neipolitici che amano battezzarsi realisti; e la diversità do-veva venire in luce chiaramente, poco più tardi del ’70,con l’azione e le parole del Bismarck durante il Kultur-kampf. Negli eredi del Cavour, tanto meno spregiudicatidi lui, tanto meno politici d’istinto, tanto più tormentatida preoccupazioni morali alla d’Azeglio, il peso delle for-ze morali nella valutazione degli eventi s’accentuò d’as-sai. E qui dunque, il realismo dei moderati era altra cosa,veramente; dal realismo predicato dai propugnatori delnuovo verbo. Ma nemmeno i più rigidi e moralistici frai luogotenenti di Alessandro intesero mai fare una poli-tica dottrinaria o sentimentale: del che offriva sicura te-stimonianza proprio la soluzione del problema di Roma,sino ai primi di settembre del ’70 voluta esclusivamentea mezzo delle forze morali, e d’improvviso, con il preci-pitar della situazione europea e l’aggravarsi delle polemi-che in Italia e il pericolo di gravi perturbamenti interni,decisa con le armi.

Gratitudine, moralità dell’agire politico, sì, ma con-temporaneamente, occhio alla realtà, occhio attento agliinteressi ben concreti. Politica, ancora, del giusto mez-zo, il vecchio ideale ereditato dai tempi della Monarchiadi Luglio e ch’era un ideale non solo di equidistanza frai due partiti estremi, i neri e i rossi, i giacobini e gli ul-tra, ma anche di equidistanza fra il dottrinarismo puro el’empirismo puro, fra la politica del caso per caso, la po-litica come pura tattica e con una sola direttiva strategica,la grandezza dello stato, e la politica che cercasse di so-vrapporre alle vicende quotidiane gli schemi preconcettidi un astratto corpo di dottrine.

Così è che il solo ricordo di Magenta e di Solferino edei vincoli di gratitudine che legavano il Regno all’Impe-ro, non sarebbe mai stato sufficiente per ispirare in uo-

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mini di solida struttura intellettuale e morale, com’era-no nell’insieme quelli di cui si discorre, tante e così gra-vi diffidenze e preoccupazioni di fronte alla Prussia e al-la politica bismarckiana. Forse il solo Vittorio EmanueleII si sarebbe mosso d’impeto, dando ascolto al prepote-re dei sentimenti personali e dinastici: e ancora ci si puòben chiedere se anche a lui non si presentassero alcuni al-meno dei dubbi, di carattere per così dire realistico, cheassillavano i suoi consiglieri!

Dubbi di carattere politico: e vale a dire timori di unatroppo profonda alterazione dell’equilibrio europeo, diuno spostamento di forze a vantaggio di una potenza,che era stata sì nostra alleata quattro anni innanzi, madi cui non si riuscivano ad afferrare bene le mire e ipropositi ultimi: o meglio, si credevano di intuire, macon non poca preoccupazione, scorgendosi in essi unaprecisa ambizione egemonica.

È dunque il motivo dell’equilibrio europeo spezza-to, che trova ampia, precisa formulazione in una lette-ra del Visconti Venosta al de Launay: «Prima delle vit-torie prussiane si sarebbe detto che [in Italia] il Gover-no era francese e il paese prussiano. Ora invece l’opinio-ne del paese si è grandemente modificata, esso è inquie-to, si sente impegnato in una certa solidarietà delle raz-ze latine, vede l’equilibrio europeo rotto, teme che le vit-torie prussiane abbiano in sé il germe di futuri pericoliper l’Italia, e riannodino la tradizione delle antiche inva-sioni germaniche, vede il sacro Impero a Trento e a Trie-ste, pensa che il Mincio fu dichiarato un fiume tedesco... l’Italia ... si sentirebbe minacciata coll’intera Europadall’abuso della vittoria»433.

Se non proprio la Germania sul Mincio, per lo me-no a Trento e a Trieste molti la temevano proprio allora,quando da ogni parte si parlava della inevitabile, prossi-ma annessione dell’Austria tedesca all’Impero germani-co; e se gli ambienti crispini la auspicavano in quei gior-

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ni, salvo più tardi il Crispi a mutar parere e a convincer-si che la diletta Germania era meglio non averla troppovicina, sin da allora i moderati, con assai più avvedutosenso politico, arretravano spaventati all’idea del signo-re di Bismarck che potesse mandar ordini ad un qualchegovernatore nel castello del Buon Consiglio.

Ma c’era di peggio. La Prussia era l’amica, l’alleatadella Russia; il sopravanzare dell’una voleva dire ancheil sopravanzare dell’altra potenza in Europa: e, di fatto,alle vittorie prussiane in terra di Francia faceva seguitola circolare Gorciacov, con cui la Russia denunciava leclausole del trattato di Parigi del ’56 che le avevanolegate le mani nel Mar Nero. Qual prova migliore chel’Europa andava sossopra, per far posto ad un’egemoniarusso-tedesca, cioè ad un giuoco di forze formidabilidalle quali gli altri Stati sarebbero stati schiacciati?

Michelet lo gridava, ben alto, che il conflitto franco-tedesco apriva le vie allo Czar in cupida attesa e signifi-cava la futura vittoria della Russia sull’Europa e sul mon-do, onde tutto l’accanimento tedesco nel distruggere laFrancia spianava la via agli eserciti russo-tartarici. Vaevictoribus! attenta la Germania stessa che, prussianiz-zandosi, apriva a sé stessa il baratro in cui sarebbe preci-pitata ad opera dei Cosacchi!434.

Meno apocalittico, ma ancor prima, qualche altro ave-va pure visto profilarsi, dietro alla concentrazione dellastirpe germanica, la concentrazione della stirpe slava, edietro all’uno e all’altro fatto la fine di ogni possibilitàpolitica per l’Italia: «in coteste enormi agglomerazioni,che non sarebbero maneggevoli che da governi assoluti,quale spazio resterebbe a’ geni singoli delle nazioni sto-riche, come è, per esempio, l’italiana; e a questa non sa-rebbe succeduto d’essere rinata appunto per ritrovarsi,avanti a cotesti nuovi aggruppamenti di popoli, più pic-cola di quello che era, in una diversa distribuzione del-

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le forze dell’Europa, ciascuno dei singoli Stati, nei qualiera prima divisa?»435.

Fantasie di pubblicisti? Niente affatto. Lo spettrodell’alleanza russo-prussiana turbava i sonni dello stes-so ministro degli Esteri, al quale pure destava spaven-to un’Europa di cui l’Occidente appartenesse alla Ger-mania e l’Oriente alla Russia, dato che l’Italia «è uno diquei paesi, che non possono farsi il loro posto e svolgereil proprio avvenire che in una Europa dove esista un cer-to equilibrio di forze»436. Tanto preoccupato il Viscon-ti Venosta, da ispirar la politica dell’Italia di fronte allaquestione del Mar Nero, fra il novembre del ’70 e il mar-zo del ’71, appunto al proposito fondamentale di impe-dire la formazione di una vera e propria alleanza, ancheformale, fra la Prussia e la Russia437.

Il pubblicista esprimeva dunque concetti che stavanoa base della politica estera italiana, quando affermava eripeteva le sue preoccupazioni per il minaccioso profilar-si di colossali imperi, troppo simili alle monarchie uni-versali già combattute secoli innanzi nel nome della li-bertà dell’Europa: «è nata, per l’errore degli uni e perl’oscitanza degli altri, una condizione di cose, nelle qualila Prussia, seguita dalla Germania, diventa padrona del-l’Occidente d’Europa, e la Russia padrona dell’Oriente.È l’intima unione delle due, durata più anni, quella cherende possibile a ciascuna un disegno, la cui effettuazio-ne richiederà anche più anni, ma del quale i primi trattipotranno essere già posti ora siffattamente da non v’es-sere più modo d’impedire di continuarli438. È utile que-sta consumazione alle potenze, che non sono né la Rus-sia né la Prussia? All’Inghilterra, all’Italia, all’Austria, al-la Spagna e qualunque altra? A noi pare che sia danno-so per tutte sotto ogni rispetto, non perché giovi loro diimpedire l’unità germanica, o paia possibile di sostene-re in eterno l’integrità della Turchia; ma perché l’unitàgermanica, per il bene suo e l’altrui, non deve diventare

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enorme, e all’Impero ottomano bisogna non surrogare laRussia, ma uno Stato, che, per vivere e per reggersi, sideva e possa sviluppare indipendente da essa. Se gli uo-mini di Stato che reggono l’Italia, l’Austria, l’Inghilterrahanno questo pensiero, badino che ogni giorno più checontinua e cresce la prostrazione della Francia, aumentaanche la difficoltà di opporsi in un avvenire più o menolontano alle ambizioni della Prussia e della Russia»439.

Si lasciassero pure le previsioni sul futuro, e si lascias-se pure la Russia: ma un fatto era certo, che la situazio-ne politica europea andava per aria, veniva meno il de-cennale appoggio della politica italiana, il continente eraalla mercè del conte di Bismarck e del Moltke – anche anon voler tener conto di pericoli più direttamente e stret-tamente minaccianti l’Italia, in Francia il partito clerica-le non più tenuto a freno dall’imperatore e la Germania... la Germania di cui sino alla primavera del ’71, dices-sero i Sinistri quel che volevano, non si sapeva bene qualpartito avrebbe preso di fronte alla questione romana.

Non tutti certo temevano come Lodovico Frapolli«questa novella inondazione di barbari», che oggi schiac-ciava la Francia, mentre domani si sarebbe rovesciata su-gli altri440; né parlavano dei Tedeschi come di una «innu-merabile accolta di vandali, che col ferro e col fuoco la-sciano di sé traccia ovunque pongono il piede»441. Ma an-che uomini di più pacato sentire, pur rifiutando di crede-re ad una nuova era di barbarie in Europa442; anche que-sti uomini non vedevano senza preoccupazione lo spro-fondare della potenza francese, il vuoto fatto laddove si-no a pochi mesi innanzi era una delle forze massime del-la politica europea, e, invece, nel centro Europa, un solo,potente impero la cui marcia sembrava irresistibile e allacui buona grazia era dunque affidata la tranquillità deglialtri stati. Persino il Minghetti, che non era tra gli atter-riti dalla nuova imminente barbarie e che tra i caporio-ni della Destra era stato dei meno accesi a favor di Fran-

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cia, persino il Minghetti riteneva che la mancanza di unaFrancia vigorosa e ben ordinata poteva creare dei gran-di pericoli all’Europa443 quella benedetta Francia, che eracome la carne del mercante di Venezia, da non potersenecavare una libbra senza che facesse sangue444.

Nessuno poteva in quei giorni prevedere che la Fran-cia si sarebbe ripresa con tanto mirabile celerità; che dilì a pochissimi anni sarebbe stata nuovamente una forzaviva e ben presente nel concerto europeo, avrebbe anziricominciato a tessere le fila di una politica non solo na-zionale, ma imperiale, di espansione oltremare, e avreb-be turbato, ancora e sempre, i sonni del principe di Bi-smarck. Del quale Bismarck nessuno parimenti osava as-sicurare quel che poi invece avvenne: che, cioè, compiu-ta l’unificazione germanica, egli avrebbe allontanato dasé ogni idea di ulteriore espansione, di conquista nuo-va e avrebbe atteso soltanto a conservare lo status quo, amantenere la pace in Europa, quella pace che esaudivatutti i suoi voti per essere la pace della Germania trion-fante.

Nulla di tutto ciò, per allora: ché anzi dal settembredel ’70 alla primavera del ’71, le inquietudini crescevanodi fronte alle esigenze di pace del Bismarck445. Se pursi fosse voluto ricorrere ai trattati del 1814-15, non sitrovava nulla che potesse essere paragonato alla attualerichiesta tedesca dell’Alsazia-Lorena446; nulla, s’intende,ai danni di una grande potenza vinta, com’era stata,anche allora, la Francia, ché, per quanto concerne gliscambi di territori o le annessioni ai danni di piccolipaesi, in vista del generale equilibrio europeo, e cioèper quanto concerne le sistemazioni territoriali in Italiae in Germania, le transazioni avvenute a Vienna eranorientrate perfettamente nella mentalità e nel clima moraledell’epoca, senza che nessuno in Europa se ne fossetroppo stupito447.

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Solo più tardi, nel pieno affermarsi dell’idea di nazio-nalità, si sarebbe sentita come ingiustizia e sopraffazionel’opera dei diplomatici di Vienna, in alcune parti d’Eu-ropa: e a distruggere l’ingiustizia sarebbe stata rivolta l’a-zione dei patrioti. Ma coloro stessi i quali avevano, perdecenni, combattuto Metternich e il suo sistema, cercan-do di dar fuoco alle polveri in Italia come in Ungheriae in Polonia, avevano sempre legittimato la loro azionesulla base del principio di nazionalità e di autodecisionedei popoli: dunque, non «conquista», nel senso imperia-listico della parola, era la loro, sì distruzione di ingiusteconquiste del passato, restituzione dei suoi diritti a chin’era stato un giorno privato con la violenza. Tant’è cheil vittorioso epilogo del movimento nazionale italiano, ela Lombardia e la Venezia strappate ad una delle grandipotenze europee, non erano sembrate «conquiste» nem-meno ai più accaniti nemici dell’idea unitaria italiana. Sipoteva deplorare il fatto, come lo deploravano i reazio-nari e i clericali di tutta Europa; si poteva bene vederein esso la vittoria di un principio pericolosissimo per laquiete generale, quello della rivoluzione interna control’ordine costituito: non si poteva affermare – e nessunoaffermò, ché sarebbe stato sovranamente ridicolo – cheCavour Mazzini Garibaldi significassero una ripresa del-lo spirito di «conquista», un riavvampare di aspirazioniegemoniche sul continente.

Il Risorgimento italiano appariva pericoloso come for-za rivoluzionaria, come lievito che correva il rischio nonsolo di alterare lo stato di cose territoriali in Italia, bensì,traboccando oltr’Alpe, tutto quanto l’ordre social euro-peo, secondo le fosche previsioni metternichiane, e cioèdi alterare in senso liberale la vecchia Europa ancora rea-zionaria, con una conversione del principio di nazionali-tà in liberalismo448. Ma l’equilibrio europeo, la pace ge-nerale del continente, il movimento nazionale italiano diper sé non li minacciava: troppo impari le forze. Una mi-

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naccia all’equilibrio generale poteva venire solo per il fat-to che un’altra grande potenza cercasse di sfruttare il mo-vimento italiano ai propri fini, scacciando l’Austria dal-la penisola per stabilirvi la propria egemonia: e così s’eratemuto a Londra e a Berlino449, non meno che a Vienna,di fronte all’alleanza franco-piemontese. Ma Villafran-ca egli eventi successivi, soprattutto la questione roma-na che s’era interposta, come una muraglia, tra le aspi-razioni italiane e la politica napoleonica, avevano ridatotranquillità all’Europa: non dalla valle del Po sarebberovenuti i pericoli gravi per l’equilibrio europeo450.

Preso in sé, e a prescindere dunque dall’alleanza delgoverno piemontese con la Francia napoleonica, il mo-vimento nazionale italiano aveva potuto suscitare allar-mi perché di origine rivoluzionaria, quell’origine di cui ilCavour per l’appunto cercava di avvalersi onde strappareil consenso delle grandi potenze alla sua azione di «ordi-ne»; era sembrato pericoloso, per quel suo appellarsi al-l’autodecisione dei popoli, e così alle costituenti e, fin adopera della monarchia sabauda, ai plebisciti: non era, néavrebbe mai potuto sembrare propriamente minacciosoper l’Europa intera.

Ancora dopo il ’59 non s’era sentita minacciata la pacegenerale del continente: il ’66 aveva dimostratola mode-razione bismarckiana, e una guerra così duramente com-battuta, dal punto di vista militare, s’era conclusa conuna pace ch’era stata veramente singolare per mitezza dicondizioni451. E poi, ancora, il ’67 e la questione del Lus-semburgo e la rinunzia prussiana alla forza: tutti esempi,dunque, di temperato calcolo politico.

Ora, improvvisamente, il quadro mutava totalmente.Non erano solo giornali e uomini politici italiani a chie-dere che, dopo Sedan, scomparsa la causa della guerra(come molti ingenuamente ritenevano), si ponesse finead una lotta che appariva gigantesca; né solo in quegliambienti ci si preoccupava degli smodati appetiti prus-

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siani. Ma, certo, in essi le preoccupazioni erano vivissi-me. Non più guerra di difesa, ma di offesa; non più – co-me nel ’59 – lotta per l’affermazione del principio di na-zionalità, bensì lotta di conquista, e cioè ritorno ai tenta-tivi egemonici alla Napoleone I.

E qui cominciava a farsi luce un sentimento, assaiprofondo, che andava oltre il particolare del momento –condizioni di pace, ferocia bellica – per assurgere ad unavalutazione d’insieme del movimento nazionale tedesconei confronti di quello italiano.

Perché, dopo tutto, si sarebbe anche potuto obbiet-tare agli antiprussiani d’Italia che in fondo non essi po-tevano biasimare nella potenza teutonica quel che ave-vano approvato e continuavano ad approvare un gior-no nel Piemonte e ora nell’Italia unita: Bismarck facevaquel che aveva fatto Cavour; la Prussia conduceva a ter-mine il processo unitario tedesco, così come aveva fat-to il Piemonte m Italia. Ed era, infatti, l’argomentazio-ne adoperata largamente dai filoprussiani – di destra odi sinistra che fossero – e, fuori dalla penisola, dai gior-nali tedeschi nelle loro polemiche con L’Opinione e LaPerseveranza452: argomentazione che gli storici hanno poiripreso, sotto altra forma, quando hanno dissertato sul-l’identità di sviluppo della storia tedesca e italiana nel se-colo XIX, sulle affinità sostanziali, evidenti, fra Risorgi-mento italiano e unificazione germanica.

Senonché – obbiettavano i Dina e i Bonghi – una simi-le vantata affinità era puramente immaginaria, e, al mas-simo, si limitava al particolare, all’accessorio, lasciandosussistere una abissale diversità di sostanza. L’uno deimovimenti – il nostro – aveva nome «libertà», l’altro – ilgermanico – «forza»453; l’uno aveva fatto appello e conti-nuava anche ora ad appellarsi alla libera espressione del-la volontà popolare – il plebiscito di Roma del 2 ottobrene era la prova – l’altro rifiutava brutalmente di ascol-tare la voce delle popolazioni che intendeva, per amo-

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re o per forza, inquadrare nella ferrea struttura del nuo-vo Reich; l’uno aveva proceduto quasi senza sangue, tral’esultanza delle popolazioni454, l’altro bombardava Stra-sburgo e Parigi, e conduceva una guerra, ormai senza fi-ni legittimi, con un’ostinazione degna della più selvaggiadelle tribù africane455; l’uno schiudeva le porte ben gran-di dell’avvenire, l’altro significava il brutale ritorno al di-ritto del più forte, all’idea originaria di «conquista», giu-sta l’indole della gente germanica «lenta, ma persistentead invadere sull’altrui»456.

Diversissimi i fondamenti e diversissimo il modo di at-tuazione dei due movimenti: in Italia all’unità di tradizio-ne, di storia, di lingua, alla precisa delimitazione del ter-ritorio, alla natura degli stati in cui si divideva, s’era ag-giunto «il sentimento attuale, la coscienza reale della na-zione a cui appartenevamo tutti, sentimento e coscienzaattestati dalle votazioni popolari, che ... sono state ne’plebisciti il fondamento e la ragione della costituzioned’Italia».

Il surrogare a questi quattro elementi veri e concreti,il solo elemento astratto, incerto, vago, antico dell’uni-tà di linguaggio, torna al convertire una questione politi-ca in speculazioni d’archeologia e di filologia, e il conse-gnare l’Europa alle passioni, che si coprono sotto di es-se. Intendiamo, che a quel tanto di saldezza che mancaal fondamento dell’unità del linguaggio i Tedeschi dico-no di poter supplire ... col più solido degli argomenti,cioè dire, colla forza. Ma se è questo il mezzo, noi uscia-mo da tutte quante le norme e le ragioni del diritto mo-derno, e risaliamo a quel diritto di conquista, del qualeci pareva che cotesta civiltà nostra oramai arrossisse; di-ritto di conquista, che bisogna allora accettare in tutta lanudità sua, e non isforzarsi di covrirlo con quel velo d’u-na parentela primigenia, che non ne scema punto il dan-no e l’onta ne’ popoli su’ quali è esercitato, nell’ora chela mano s’estende sovra di essi, straniera e nemica, poi-

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ché sono immemori de’ tempi nei quali si presume chefosse di fratelli e di consanguinei». In Italia, il plebiscito;in Germania, il rifiuto del plebiscito allo Schleswig. Nécerto Bismarck interrogherebbe più volentieri la popola-zione polacca della Posnania, alla quale non serve parlarslavo «poiché gl’interessi dello Stato Prussiano impedi-scono che qui abbia riguardo alla diversità del linguag-gio, come al contrario richiedono, che non consideri senon l’unità del linguaggio nell’Alsazia e nella Lorena chevuole strappare alla Francia.

In questo è davvero la differenza principale, sostan-ziale, tra il modo in cui la nazione italiana s’è formata,e quello, in cui, secondo la passione dell’erudizione ger-manica, s’avrebbe a fermare la tedesca. L’italiana ha cer-cato nel sentimento attuale, reale dei limiti suoi secondotraspariva dalla coscienza de’ popoli, il titolo suo; la te-desca non lo cerca soltanto in questo, non lo trova prin-cipalmente in questo, ma risale a’ tempi e a’ criteri, chepiù le giovano ad estendersi da ogni parte con scapito edurto di più d’uno degli Stati d’Europa. Dalla qual diffe-renza deriva, che come l’italiana ha potuto dire ed affer-mare di sé, ch’essa era augurio di pace e di concordia inEuropa, così la tedesca, se non trova un freno in sé od inaltrui, dovrà riconoscere, ch’essa è augurio di guerra e dicommozione duratura».

E in questo diverso orientamento l’Italia aveva dimo-strato «di possedere assai più di quel senno e di quel sen-so reale delle cose e dell’avvenire, ch’è il frutto delle vec-chie culture, già posate da gran tempo, e distillatesi dagran tempo nell’animo dei popoli»457.

La Riforma crispina cominciava ad accettare un con-cetto di nazione estraneo alla tradizione comune italia-na, e già modellantesi invece su idee e pensieri di stampogermanico; gli organi della Destra reagivano con estre-ma energia e talora anche – come nell’impetuoso Bonghi– con violenza di linguaggio singolare, contrapponendo,

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netta, l’idea italiana di nazione e diritti nazionali al mododi pensare germanico.

Spontaneità, ed essenzialmente «volontà» di essereuniti; dunque, ancora e sempre, come nel Mazzini, as-soluta primazia del fattore morale-spirituale. Noi Italia-ni, affermava il Bonghi, amicissimi del principio di na-zionalità, siamo sgomenti nel vedere qual concetto fal-so se ne siano formato i Tedeschi. Per noi, apparten-gono ad una nazione «tutti i popoli i quali nella loro co-scienza sentono d’appartenervi», e riteniamo ingiusto vo-ler con la forza l’unione ad uno stato di genti «le qua-li non si credono, non si sentono intimamente collega-te in un vincolo nazionale». I Tedeschi, invece, cerca-no i limiti di una nazione nella storia passata e nei de-stini avvenire: ora, nel passato ognuno cerca quel chepiù lusinga la sua ambizione; e per l’avvenire, ciascu-no si ferma a quelle combinazioni di territori da’ qualispera maggior utilità politica ed economica. In tal mo-do, mentre il principio di nazione doveva esser pegnodi un assetto tranquillo e pacifico, diventerà l’inizio diuna guerra lunga e crudele fra i popoli458. Questo il suc-co della dottrina italiana, concordi essendo in ciò rivo-luzionari e moderati, ad eccezione del Durando e del-la sua teoria della nazionalità geo-strategica, dipenden-te cioè dalla natura del terreno459: ed è strano che dellasua profonda diversità da quella germanica, in cui sem-pre più il fattore «nazionalità-natura» emergeva sull’altro«nazionalità-volontà», non si accorgesse proprio il codi-ficatore italiano del diritto della nazionalità, il Mancini.

La polemica si accendeva così, asperrima, circa l’Al-sazia: francese di animo, e quindi non appetibile dal Bi-smarck e dallo Stato Maggiore prussiano, dicevano i no-stri; tedesca di razza e linguaggio, ergo – per quel taleimperativo a priori della nazionalità, di cui La Riforma sifaceva così brillante difenditrice in Italia – ergo tedescaanche politicamente, piacesse o no agli abitanti di Stra-

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sburgo e Mulhouse, ribattevano i polemisti germanici.Il carattere «intimo» delle due regioni era perfettamen-te tedesco, diceva il Gervinus al Gregorovius 439, perconto suo convinto della naturalità tedesca dell’Alsazia;non era conquista, sì rivendicazione, retroazione, dice-va quel grand’uomo del Mommsen, dopo aver ammessoche, certo, «ogni conquista è delitto di lesa nazionalità,e chi calca a’ piedi un popolo gli offende tutti»: ma an-che lui doveva consentire che il processo di transizionesarebbe stato «duro e lungo» e che durante tale proces-so gli Alsaziani sarebbero stati Tedeschi più di nome chedi realtà ... , consentendo cioè che l’animo di tali Tede-schi di razza e di lingua non era precisamente tedesco460.Appunto per questo, rispondevano i nostri, è conquista,quando non si ha rispetto al desiderio delle popolazio-ni; e cercare di camuffare l’una con l’altro, diritto del-la forza e idea di nazionalità, era, semmai, triste indiziodi quale scadimento di senso morale la guerra già fossestata foriera, presso i Tedeschi461.

Il diritto di nazionalità, c’era: ma a favore della Fran-cia, non della Germania462.

Più schietto almeno, quell’altro gran dotto delloStrauss, il quale, dimentico dei Vangeli e della vita diGesù, anzi rivivendo l’Arminio caro al suo nuovo eroe,Ulrico di Hutten, volle dire anch’egli la sua parola sullapolitica del giorno, e affermò chiaro e tondo che l’Alsa-zia e la Lorena la Germania doveva tenersele, come vin-citrice, per la propria «sicurezza». La tesi del suo illustrecollega di studi, ma francese, Renan, sui vantaggi per laGermania stessa e per l’Europa di una pace che lasciassealla Francia le due province e sui pericoli della soluzioneannessionistica, veniva rifiutata dal professore germani-co, che già attorno al 1866 si era fatto beffe dei progettidei pacifisti ed era venuto fuori col paragone tra guerrae temporale, necessari perché purificano l’atmosfera463,e che ora ribatteva non giovare alla Germania i riguar-

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di per la Francia, ma giovarle bensì il dettare la pace co-me vincitrice, in guisa da chiuder bene l’uscio di casatedesco, fra Basilea e il Lussemburgo464.

Né diversamente opinava un terzo, illustre storico, ilnazional-liberale von Sybel, il quale, nelle colonne dellaKölnische Zeitung, constatando anch’egli come non fos-se facile ridur di nuovo Tedeschi gli Alsaziani, dati i lorosentituenti, chiedeva l’Alsazia e la Lorena tedesca, con ildistretto di Metz, rifiutando i consigli di coloro che, al-l’estero, propugnavano la pace disinteressata per ingra-ziarsi il popolo francese e porre così le basi di una paceduratura: «sarebbe più che leggerezza se fondassimo lanostra sicurezza avvenire sulla riconoscenza della Fran-cia e non unicamente ed esclusivamente sulla nostra for-za propria»465.

Non poteva, naturalmente, esprimere direttamente echiaramente un pensiero polemico il ministro responsa-bile della politica estera italiana: ma anche il ViscontiVenosta, pur nella forma prudente e impersonale, purcon solo riferimento diretto alla questione romana, ri-peteva il pensiero ispiratore che i polemisti della De-stra seguivano nella discussione sulla pace e sui rappor-ti franco-tedeschi, quando, nel suo discorso di Milanodel 9 novembre 1870, insisteva sul valore delle «forzemorali»466: contro coloro che credevano sommo libera-lismo in politica estera non tener conto dell’opinione eu-ropea, il valtellinese si appellava al grande esemplo delconte di Cavour, uno dei cui meriti – e non il minore –era certo quello di aver dato al nostro Risorgimento latradizione, sinceramente liberale, di una politica sempreintenta a procurarsi l’appoggio delle grandi forze moralidell’opinione. Certo, era possibile rompere «il vincolo diquesta potenza morale» con un appello puro e semplicealla forza, la quale semplifica molte questioni nei rappor-ti internazionali: ma con quali risultati? Anche per boc-ca del Visconti Venosta, diplomatico tutto sfumature e

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finezze, ma uomo dalla solida tempra morale, incrollabi-le nella sua fede nella libertà e perciò così poco gradito alsignore di Bismarck, anche per bocca del Visconti Veno-sta veniva dunque pubblicamente riaffermata la tradizio-ne italiana delle forze morali, proprio mentre l’Europaassisteva al trionfare orgoglioso della forza armata.

L’idea italiana – continuerà, pochi mesi appresso, ilBonghi in un saggio famoso sul bismarckismo – fondatasulla «interrogazione della coscienza attuale de’ popoli»,apriva un’aurora di pace e di giustizia nell’Europa; ese, di colpo, l’idea della forza, che per cinquant’annil’Europa aveva cercato di assoggettare all’idea del diritto,tornava a rizzarsi innanzi agli illusi, con la beffa sullelabbra, se il nuovo sistema prendeva nome dal ferro e dalfuoco, quest’era l’opera delconte di Bismarck, l’uomoche giocherellava coi princìpi, e, con lui, del suo popolo,un popolo litigioso, cocciuto e invadente più di ognialtro, un popolo che legge più e meglio degli altri, masenza che dalla cima dell’intelletto alcuna luce gli sogliadiscendere nell’animo467.

Spogliata del fervore polemico, che accentuava sover-chiamente e poneva contrasti troppo crudi e semplifica-va, schematizzando, mentre né di prove di pura forza erastato privo il movimento italiano, né certo vuoto di con-forti ideali era il movimento tedesco anche nella sua fa-se bismarckiana, spogliata di quegli eccessi e presa nelsuo nocciolo sostanziale, la tesi dei Bonghi, dei Dina, deiBon Compagni, a cui accedeva il ministro degli Esteri inpersona, era vera e coglieva il fondo delle cose assai piùdi quanto non l’abbiano, di poi, colto gli sforzi di stori-ci che hanno voluto affaticarsi a mettere in luce le affnitàdei due grandi movimenti europei del sec. XIX.

Come questi italiani avevano ragione nel predire cheda un trattato come quello imposto alla Francia nonpoteva uscire una vera pace, sl solo una tregua, e benarmata, destinata a preparare un nuovo, più tremen-

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do conflitto468; come essi consideravano giustamente unfunesto errore l’incorporazione dell’Alsazia-Lorena nelnuovo impero469, un errore la cui conseguenza sarebbestata un’Europa in continua, diffidente veglia d’armi pri-ma, e poi un’Europa dilacerantesi in una tragica lotta –e lo storico di oggi non può che confermare quel mododi vedere espresso ancora nei giorni della mischia470 co-sì il giudizio sulla sostanziale diversità fra Risorgimentoitaliano e Risorgimento germanico, nella loro fase risolu-tiva, coglieva anche esso nel segno.

Sin dall’inizio, era stato percepibilissimo un differen-te orientamento di pensiero di fronte ai problemi «nazio-ne e missione nazionale», da una parte già trapelando lainfrenàbile tendenza a trasferire l’elemento determinan-te della nazionalità fuori dalla volontà dell’uomo, in un apriori naturalistico, da cui più tardi si sarebbe fatalmen-te svolta in pieno l’idea di razza condizionante ex-initiola vita di un popolo471; mentre dall’altra parte, già col Fo-scolo e col Cuoco, si insisteva sul fattore volontà, quindieducazione, il motivo dominante poi della predicazionemazziniana. Nel successivo svolgersi degli eventi quel-la differenziazione ideologica s’era per così dire incarna-ta nella diversità di forme e di modi attraverso cui i duemovimenti erano giunti al successo. Tutto serrato attor-no all’iniziativa statale, monarchica, l’uno: il fallimentodell’iniziativa rivoluzionaria del ’48 era stato qui, veta-mente, totale, come che essa non avesse lasciato dietro asé più alcun residuo capace di una qualche azione, anzilegittimasse, con i suoi «errori», l’appello alla pura forza.Col sangue e col ferro aveva detto Bismarck, contrappo-nendo l’uno e l’altro ai discorsi e alle decisioni di mag-gioranza stile ’48: la Germania guarda non al liberalismodella Prussia, ma alla sua potenza472. L’unità deve esserecreata non dalla libertà, non da decisioni nazionali, madalla potenza di uno Stato contro altri Stati: è un pro-blema di politica estera, aveva ammonito il Droysen, ri-

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credutosi – molto ricredutosi – dei suoi ideali del ’48473.Scisso invece il movimento italiano in due forze, ben di-verse inizialmente e non sempre né bene fuse nemmenodi poi: l’iniziativa rivoluzionaria e quella regia, il repub-blicanesimo mazziniano e il sabaudismo del Cavour; vit-toriosa sì la seconda, dopo essersi accortamente giovatadella prima, ma non al punto da non lasciare più scorge-re le due diverse origini, e soprattutto costretta, anch’es-sa, ad accettare molte delle idee e de: sentimenti dei ri-voluzionari. Il Piemonte sabaudo aveva potuto assume-re e mantenere l’iniziativa solo accettando, sia pure en-tro certi limiti e con alcune riserve, le idealità che, pri-ma, la propaganda mazziniana aveva piantato nel cuoredegli Italiani, e anzitutto l’ideale dell’indipendenza e del-l’unità; la Prussia bismarckiana non accettava un bel nul-la dai «faziosi», né mutava interiormente volto, com’erasuccesso invece al Piemonte, da Carlo Alberto a VittorioEmanuele II. La Prussia di Guglielmo I compiva la suaopera, fra il ’64 e il ’70, rifiutando qualsiasi connessionecon gli uomini del ’48; il Piemonte di Vittorio Emanue-le II aveva compiuto la sua, fra il ’59 e il ’61, sviluppan-do anzi dallo Statuto il regime parlamentare, accettandoe ricercando la collaborazione di Garibaldi, sotto la gui-da di un primo ministro come il Cavour che dell’esigen-za della libertà politica aveva fatto la sua fede, prima co-me dopo il ’48, e tale esigenza manteneva inalterata purricorrendo poi, com’era ovvio, alla manovra diplomaticae alla forza per sciogliere i nodi.

E, senza dubbio, era stata, questa, anche una necessa-ria conseguenza della assai minor potenza militare e po-litica del Piemonte, che da solo era stato vinto a Novara,rispetto alla Prussia, subito vittoriosa: ma la conseguen-za n’era bene, che il primo s’era valso larghissimamen-te di quelle armi morali che la seconda spesso e volen-tieri amava disdegnare, e aveva fatto appello all’opinio-ne pubblica in una misura di cui l’altra non s’era mai so-

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gnata. La stessa diversità, fisica e morale, tra i due con-dottieri, tra il piccolo rotondetto vivace e allegro Cavour,e il gigantesco quadrato duro irritabile Bismarck, potevaacquistare valore simbolico delle diversità fra i metodi diazione e lo spirito dell’azione stessa. All’uno, profonda-mente liberale, era stato necessario il plebiscito; l’altro,disposto a servirsi delle idee e dei movimenti liberali so-lo in quanto giovassero, in un determinato momento, aisuoi calcoli politici, andava avanti con folgoranti vittoriee costringendo alla resa intere armate nemiche.

Da una parte, la forza, che da mezzo finiva, comesuole, col divenir ideale; dall’altro il ripudio della forzain sé, come quella che troppo a lungo aveva soffocato lalibera espressione della vita nazionale474.

L’identificazione fra nazione e libertà operatasi nel Ri-sorgimento e l’alta spiritualità dell’idea di nazione trae-vano come conseguenza che il principio di nazionalitàavesse, per gli Italiani, valore universale, non limitato al-la propria terra, sì abbracciante tutte le contrade dovegemevano popoli oppressi: con molta maggior passione,certo, nella predicazione mazziniana, che di tale univer-salità s’era fatta banditrice, da questa appunto attingen-do la sua forza rivoluzionaria; ma con indubbi ricono-scimenti da parte di quelli che mazziniani e rivoluziona-ri non erano, e tuttavia credevano nella nazione libera,ovunque si trovasse, anche se non intendessero poi, pra-ticamente, buttarsi allo sbaraglio per gli altri. Il movi-mento italiano poté così facilmente collegarsi con analo-ghi movimenti o tendenze; né fu il solo Mazzini a cer-car di unire strettamente Italiani e Ungheresi e Slavi delsud e Polacchi, ma fu, talora, la stessa diplomazia regia,da lui riprendendo anche in questo caso idee e concepi-menti, e sia pur commisurandoli più parsimoniosamen-te alle necessità tattiche della lotta. Dal che poi nacquequella tipica espressione generosa del Risorgimento, chefu il volontarismo anche a pro delle cause altrui; e molti,

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noti e meno noti, andarono a combattere e a morire perla libertà e l’indipendenza di altre patrie, fedeli al mot-to mazziniano di amar la propria patria perché si amava-no tutte le patrie: gran cosa, questa, che avvolge in unacalda commozione umana i fatti del Risorgimento, e chegiustamente l’anima popolare riconobbe ed esaltò nellafigura di Garibaldi, e consacrò nell’appellativo di eroedei due mondi.

Mentre, per contrasto, tenaci e forti nel cercar di at-tuare l’ideale della nazione germanica, i Tedeschi rima-sero, in stragrande maggioranza, indifferenti, quandonon ostili di fronte alle altrui cause nazionali: e se neeran dovuti accorgere proprio gli Italiani, nel ’48, quan-do nell’Assemblea stessa di Francoforte s’era dichiara-ta la necessità della linea del Mincio per la difesa del-la Confederazione475. Lo aveva riconosciuto, in un mo-mento critico, nel dicembre del ’58, proprio il de Lau-nay, il gran filogermanico del ’70: «I Prussiani sono ap-passionati seguaci del principio di nazionalità solo in ca-sa proria ... Si ricordi l’atteggiamento del Parlamento diFrancoforte nel 1848-’49, che proclamando altamente idiritti delle nationalità, si guardava bene dall’applicarliai Polacchi ed ai Boemi, e non aveva una parola per ilmovimento dell’indipendenza italiana, applaudendo in-vece alla tesi dei circoli militari, della necessità della li-nea del Mincio per la difesa della confederazione»476. Epoi il ’59, che aveva visto, sì, alcuni calorosi consensi allacausa italiana, e quello soprattutto del Lassalle – cioè diun rivoluzionario – ma assai più frequenti ostilità, nellastampa come nella pubblicistica477.

Certo, dalla tanto più popolosa e bellicosa Germanianon mossero giovani a combattere per la libertà l’indi-pendenza di estranee contrade; caddero, quelli che do-vettero cadere, per la propria, non per l’altrui causa, ealla nazione che ebbe Moltke mancò Garibaldi.

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Che cosa sarebbe stata Giovanna d’Arco fuori di Fran-cia, si chiedeva il Treitschke, tipico rappresentante diquesto patriottismo tedesco? Una sciocca edicola. E co-sì Garibaldi, uno di quegli uomini «mit grossem Herzenund leeren Kopfe», la cui forza sta soltanto nella fedeltàall’idea che li infiamma: infedeli all’idea, essi appaionodeboli ed insensati478. Né il Treitschke sospettava, nep-pur di lontano, che proprio per esser fedele alla sua ideaGaribaldi combatteva in terra di Francia.

Potente, ma chiusa in sé, l’idea di nazione germani-ca visse come idea germanica, tanto da finir appunto perapparire, ai moderati italiani, ormai confusa con il rina-scente spirito di conquista.

Ma non la sola idea di nazionalità, quale l’intendeva latradizione italiana, veniva in contrasto con le richieste ele affermazioni politico-ideologiche della Germania vit-toriosa. Le preoccupazioni dei Dina, Bonghi, Bon Com-pagni e – nella sfera dei politici responsabili – dei Viscon-ti Venosta e dei Nigra, non erano infatti esclusivamentepreoccupazioni di italiani, che avvertivano il profondodivario tra la propria e l’altrui ideologia, sì anche pre-occupazioni di europei che vedevano infranta la base sucui riposava la tranquillità del continente e la sua civiltà,il diritto della forza, il principio della «conquista», qua-li si venivano attuando ad opera delle armate del Molt-ke e dalla politica del Bismarck, erano un colpo direttoall’equilibrio europeo, alla «società»europea, alla comu-nità degli stati, senza di cui non era possibile pensare aduna vita ordinata delle nazioni, ma si rischiava di tornareall’età delle invasioni, degli sconvolgimenti generali.

La guerra franco-prussiana lascia in pessime condi-zioni «questa fabbrica scossa e mezzo diruta di tuttaEuropa»479: e il male è stato enormemente aggravato, an-zi è divenuto propriamente tale per l’ignavia delle grandipotenze e la loro incapacità a farsi ascoltare in un conflit-to che, coinvolgendo gli interessi generali, interessando

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tutto quanto «le corps politique de l’Europe», avrebbedovuto essere frenato e composto per tempo dall’inter-vento collettivo480. Nulla invece ha funzionato: e comesono rimasti assenti i princìpi di umanità e di generositàpolitica, così è miseramente fallito, alla prova, il concer-to europeo, quello che mezzo secolo di esperienza, dallapace di Vienna in poi, aveva costituito come un anfizio-nato europeo481. L’Europa ha dato prova di uno spensie-rato egoismo, di fronte alle vicende di una guerra in cuierano pure impegnati i suoi vitali interessi482.

Colpa massima dell’Inghilterra, dimentica delle tradi-zioni gloriose di Palmerston, chiusasi, col Gladstone, nelsuo splendido isolamento, insensibile – pareva – al rapi-do decrescere della sua influenza nella vita internaziona-le e paga della sua prosperità interna, delle sue manifat-ture e commerci e della sua libera vita interiore483, impe-gnata in una politica «mezzo mistica e mezzo mercantile»che, alla lunga, avrebbe finito con lo spogliare il caratte-re inglese di ogni vigore e il nome inglese di ogni pre-stigio. L’effacement of England, che parecchi degli stes-si scrittori e politici britannici deploravano484, era la cau-sa prima dell’effacement of Europe. Ma colpa anche del-le altre potenze, non esclusa l’Italia: incapacità, ignavia,cui particolari condizioni potevano parzialmente scusa-re, non giustificare compiutamente.

Erano preoccupazioni gravi, frammiste a sdegno perla prepotenza del vincitore e la passività complice deglialtri; e ne derivavano i progetti di far intervenire i neu-tri, allo scopo di por fine alla guerra, e le richiese di unapolitica più energica, del genere di quella che il 1° otto-bre del ’70 il Nigra, da Tours, rivolgeva al Visconti Ve-nosta: «... non posso dispensarmi dal parteciparvi le gra-vi preoccupazioni che desta in me lo stato presente di co-se in Francia ed in Europa. Parmi che sia pur giunto iltempo in cui le potenze neutre si concertino per tentareseriamente di por fine a questa guerra sciagurata e mici-

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diale. La Francia ebbe la grave colpa della rottura del-la pace; ebbe quella egualmente grave di lasciarsi vince-re. Che debba subire la pena dell’una e dell’altra, nes-suno lo contesta. Ma est modus in rebus. Anche la vit-toria ha i suoi limiti. La Prussia ha certamente diritto apremunirsi contro attacchi futuri. Ma per ciò è veramen-te necessario che si pigli l’Alsazia e la Lorena? È neces-sario, è utile alla Prussia stessa ed all’Europa che si creiuna nuova questione di nazionalità sulla riva sinistra delReno e sulla Mosella? Non sarebbe sufficiente guaren-tigia alla Germania, oramai unita e formidabilmente or-ganizzata per la guerra, lo smantellamento delle fortez-ze francesi dell’Est? Sembra a me che l’Europa non simostra abbastanza previdente, e che va preparando a séstessa colla sua indifferenza un avvenire pieno di pericolie di inquietudini. Né posso ammettere in nessuna guisache la Prussia venga a dire alle potenze neutre: «Voi nonavete preso parte alla guerra, dunque non avete diritto apigliar parte alla pace». Questa massima è contraria agliinteressi dell’equilibrio europeo, è contraria all’umanità,è contraria al principio della localizzazione e della limi-tazione delle guerre. E d’altra parte essa tenderebbe afavorire le coalizioni armate ...»485.

Mesi più tardi, lo ripeteva Anselmo Guerrieri Gonza-ga anch’egli rivolgendosi al ministro degli Esteri: «Tut-te le previsioni furono sorpassate. Le condizioni tutelatidell’equilibrio europeo che la Lega dei neutri doveva pro-teggere dove sono? Erano queste insieme ai princìpi dinazionalità e di libertà che noi dovevamo sostenere d’ac-cordo coll’Inghilterra ... Non sarebbe almeno il caso didisdire il famoso obbligo che ci siamo assunti coll’Inghil-terra e riprendere ognuno la nostra libertà d’azione? Al-meno non avremo l’aria di essere compari di una politicaalla quale non ho ancora trovato un epiteto convenien-te volendo che sia tale. Le giornate di Parigi mi fischianterribilmente negli orecchi»486.

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Certamente, in queste e simili idee affiorava anche l’in-tento per così dire polemico, l’intento, cioè, da parte de-gli amici della Francia, di smuovere i governi dalla loroinazione rappresentando sotto colori assai foschi l’avve-nire: più o meno coscientemente, chi gridava esser l’Eu-ropa minacciata obbediva anche – com’è ovvio – alle sueaffezioni, a quel che gli sgorgava dal profondo dell’ani-mo di sentimenti e di ricordi, obbediva insomma anchead un motivo sentimentale e ad un’inclinazione di par-te. Ed era infatti di argomenti di cotal genere che si av-valeva la propaganda francese, per fioca che allora si fos-se la sua voce; era ad un ragionamento del tutto analo-go che si affidavano scrittori e governo francesi, nel lorodisperato sforzo di trovar aiuto alla patria devastata487.

Soprattutto, le preoccupazioni per l’equilibrio eu-ropeo sconvolto derivavano ovviamente dal fatto chesi temeva e si giudicava dannoso per l’Italia un talesconvolgimento488. Saltava il perno della politica este-ra dell’Italia, da dodici anni, un perno che, nonostanteMentana, aveva pure consentito grandi vantaggi al Re-gno; e ci si trovava di fronte un uomo, il Bismarck, la cuipolitica, fra il settembre del ’70 e il marzo del ’71, eratutt’altro che rassicurante per l’Italia, proprio nella que-stione per essa più viva, la questione di Roma, fra i cla-mori dei clericali e dei circoli vaticani che sembravanotalora vaticinare nel protestante Guglielmo I il salvatore,il nuovo presidio contro l’usurpazione sabauda. Ovvio,pertanto, che negli ambienti di governo e in quelli vicinie amici al governo, l’alterazione dell’equilibrio europeosembrasse grave di minaccia per l’Italia. Era un po’ an-che il disorientamento di chi vede mutar tutto l’ambien-te in cui era avvezzo a muoversi, e deve, ora, crearsi unanuova linea di condotta diversa dalla precedente: fattotanto più grave, per i moderati, perché, significava nonpoter più fare affidamento, ormai, sulla sola esperienzacavouriana, non aver più come stella polare, a circostan-

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ze troppo mutate, l’insegnamento del gran conte – quin-to Vangelo per i moderati, loro conforto e ausilio in tut-te le grandi questioni, fosse la politica estera, fosse Romacapitale, fosse libera Chiesa in libero Stato. Ora, biso-gnava crear qualcosa di nuovo, assumere atteggiamenti,orientarsi senza più poter ricorrere ai consigli di quellaantica genialità489.

Ma, al disopra del motivo puramente emotivo e pas-sionale, e allacciata con le preoccupazioni dirette per ilproprio paese, c’era, in questi uomini, tutta una partedel proprio modo di essere e di pensare, tutto un pro-gramma politico-ideologico ad essere urtato, ferito dal-la «conquista»: ed era, per l’appunto, la coscienza «eu-ropea» dei moderati. Per quanto forte fosse l’idea na-zionale, non lo era ancora tanto da sommergere ogni al-tro pensiero, da soffocare l’aspirazione ad una comunitàpiù ampia, dove le singole nazioni, mantenendo ben net-ta, intatta la propria fisionomia, politica e morale, vives-sero tuttavia una vita resa comune da alcuni princìpi ge-nerali, e meglio che da princìpi teorici da una certa uni-formità di criteri generali d’azione. L’idea di nazione, acui quegli uomini si appellavano, non era ancora il na-zionalismo, non si era ancora dilatata fuor di misura, fa-cendo il deserto attorno a sé e proponendo, glorificandola lotta per la lotta, la conquista per la conquista come ilsupremo degli ideali.

All’idea di nazione restava tuttora indissolubilmentecongiunta l’idea del «consorzio europeo»; né solo nel-la tendenzafilo-francese e negli uomini di Destra, sì an-che in uomini di diverso atteggiamento, primo fra tut-ti il Marselli, uomo di centro e assai simpatizzante perla Germania, per il quale pure «il principio di nazionali-tà va sposato con quello di equilibrio» inteso come leg-ge di conservazione generale, e il diritto nazionale nonpoteva essere affermato che armonizzandolo con quelloeuropeo, con quello dell’umanità; per il quale gli eventi

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andavano giudicati da italiani sì, ma anche da europei490.E l’interesse dell’Europa poteva, anzi doveva imporre,eventualmente, i limiti all’interesse della singola nazione.Affermare, sì, il principio di nazionalità, per cui il princi-pio dell’equilibrio non ritornava «colle antiche vesti, marinnovato dal connubio» con il diritto delle nazioni: eperò sfuggire alla licenza e alla tirannide di quello stessoprincipio.

Davanti ai problemi che solleva l’unificazione germa-nica, scrivevano i moderati, «noi – fautori costanti delprincipio di nazionalità – restiamo perplessi davanti a co-desta esagerazione di esso, e pensiamo che, come nella vi-ta privata nessuno può ingrandirsi a danno degli altri, co-sì più ancora nel concerto delle nazioni non deve esserelecito ad una di esse ottenere un allargamento, che pre-giudichi la sicurezza delle altre, e sia necessario, se si vuolmantenere l’equilibrio delle forze e scemare le occasionidi guerra, che ciascuna nazione venga posta in condizio-ni di poter vivere e mantenere il suo»491. Quest’era tan-to più necessario con una Germania la quale, appena po-tente, sempre s’era vista avviata a espandersi sull’altrui,senza conoscer confini, e, con le sue dottrine sulla na-zione naturale, per ora si fermava al fattore lingua, pre-dicando che la patria abbracciava tutti i paesi ove suo-nasse parola tedesca, ma tosto, raggiunti i confini di lin-gua, si sarebbe sentita spronata a cercar un’altra sorta difrontiere, le frontiere «naturali»; onde l’unità germanicaavrebbe potuto minacciare la libertà dell’Olanda e del-la Danimarca, la sicurezza dell’Austria, l’indipendenzadell’Italia492.

Ma anche a prescindere dal caso specifico, e più grave,della Germania, occorreva porre dei limiti precisi al di-spiegamento del principio di nazionalità, che come ognialtro principio umano, traeva con sé effetti buoni, ma an-che parecchi effetti cattivi, e in certe situazioni finiva conl’eccitare «desideri, presunzioni e pregiudizi, che alzano

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una insuperabile barriera contro ogni pacifico e costanteordinamento»493.

E Gino Capponi, anch’egli perplesso e turbato difronte alle esigenze di pace di Bismarck, recitava il meaculpa, di noi liberali, che, a forza di gridar contro alleguerre di gabinetto dell’antico regime, abbiamo fatto unabella cosa, abbiam fatto nascere le guerre di nazioni,passime fra tutte494 – riprendendo, a cose fatte, un motivoche Mirabeau aveva per primo intuito, a cose non ancoraavvenute.

Fin il Sella, così reciso nel sostenere il diritto dellenazioni, così italiano nel suo agire, fin il Sella riconoscevaapertamente che vi erano «questioni superiori a quelle dipatria e di nazionalità, le quali, come quelle del comune,della famiglia, dell’individuo, sono soltanto parte dellaumanità»495.

Qualche altro, facile alle effusioni sentimentali, ma pa-triota di non dubbia fede, alcuni anni più tardi, di fron-te allo spettacolo dato dal Congresso di Berlino, con-dotto tra «cupi avvolgimenti» diplomatici e riconoscen-te solo l’impero della forza e dell’astuzia, avrebbe potu-to rievocare nostalgicamente il Medioevo «più genero-so, più magnanimo ... colle sue spensierate esaltazioni»con il suo senso cristiano totalmente smarrito nel seco-lo XIX; avrebbe potuto deplorare che l’idea angusta del-la nazionalità prevalesse sull’idea umana e sublime del-la cristianità496, ritornando così ai sogni che già avevanoispirato a Federico Novalis, nel 1799, fra il tumultuaredelle guerre, il suo inno alla cristianità medievale e il suovaticinio della nuova cristianità.

Era un avviamento caratteristico superare il mito del-la nazionalità come principio esclusivo della politica in-ternazionale; era l’atteggiamento che avrebbe consenti-to, sul terreno pratico, gli accordi con l’Austria e la ri-nunzia, almeno temporanea, all’irredentismo, che avreb-be, cioè, permesso la Triplice Alleanza e lo sviluppo del-

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la politica estera italiana dal 1882 al 1914: tant’è, proprioil Marselli già proclive nel 1871 a limitare l’onnipotenzadel diritto nazionale, nel 1881, propugnando l’alleanzacon l’Austria e la Germania, avrebbe affermato che perl’Italia l’impero asburgico era un antemurale preziosissi-mo contro la possibilità di un impero tedesco sulle Al-pi e a Trieste, un antemurale che occorreva sorreggere,uno Stato contrario sì al principio di nazionalità, ma nonsenza giovamento per la causa dell’umanità, come quel-lo che evitava «quei contatti immediati fra grandi masseelettrizzate, che producono le più rovinose scosse dellastoria»497.

Certo, nemmeno ora i moderati rinnegavano la fededella loro giovinezza che continuava a imporre loro ob-blighi morali, anche quando si proclamasse compiuta l’I-talia e si mettese perciò da canto, almeno per il momen-to, ogni ulteriore aspirazione su regioni italiane di linguae di stirpe, non di governo. E sarebbe toccato allo stes-so Visconti Venosta, così costante e sincero propugnato-re degli «interessi generali» dell’Europa, riaffermare, inpiena Camera, in un momento in cui nuovamente era ungran discorrere e disputar dei diritti delle nazioni, il ri-spetto de’ moderati – se non proprio più la passione –per il principio di nazionalità498.

Ma ormai era chiuso per essi il periodo rivoluzionario,finita l’età in cui «l’Italia nelle complicazioni europee ve-deva e cercava l’occasione opportuna per coronare l’edi-ficio della sua indipendenza, e della sua unità»499, e ini-ziato invece il periodo nel quale occorreva anzitutto di-fendere gli «interessi di ordine generale»500, secondo laformula classica della tradizione diplomatica da Metter-nich in poi, e ispirarsi a criteri europei e non puramen-te nazionali501, sì da far apprezzare il vantaggio e l’utili-tà per gli interessi europei della presenza dell’Italia nelconcerto delle grandi potenze502.

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E quindi, la loro preoccupazione sarebbe stata, all’at-to pratico, cercar di evitare le scosse violente, le pertur-bazioni belliche, per facilitare, invece, il graduale svilup-po de’ singoli movimenti nazionali, che avrebbero fini-to col conchiudersi felicemente, senza mettere a soqqua-dro il continente, conciliando così i due princìpi, dellanazionalità e dell’ordine europeo503.

Politica, diciamo da riformisti e non più da rivoluzio-nari, qual era stata quella italiana sino al Venti Settem-bre; o, si potrebbe aggiungere, tentativo di applicare al-le parti d’Europa ancora non libere nazionalmente, quelprogramma riformistico, gradualistico, prima le ferrovie,gli asili d’infanzia, le casse di risparmio, e poi la libertàpolitica e magari anche l’indipendenza, ma buoni buonie non fracassando porte e finestre, che un trentennio in-nanzi gli stranieri avevano predicato all’Italia504, che glistessi moderati italiani avevano auspicato, e che l’impe-tuosa fiammata del ’48 con le insurrezioni di popolo ave-va buttato per aria, costringendo anche i moderati e lamonarchia sabauda a mettersi sulla via dell’azione diret-ta.

Il principio di nazionalità veniva contenuto, svuotatodel suo lievito rivoluzionario generale; rimaneva un altis-simo ideale, ma non sempre suscettibile di pratica, im-mediata attuazione, un principio di grande valore mora-le, ma non sempre né ovunque di valore politico; si pre-cisava nell’«irredentismo», parola di grande fortuna do-po il ’76, ma che sostituì l’altra di rivoluzione europea,e significò appunto il surrogarsi di uno specifico e bendeterminato problema territoriale all’appello generale enon territorialmente limitato di prima. Anche qui, l’idea-le assunse forme più corpose e definite, ma ristrette, di-venne questione assai meglio disciplinabile ad opera de’governi: e v’ebbe l’occhio, appunto, la politica ufficialeitaliana, che da tali premesse lontane trasse, ancora nel1915 e oltre, il motivo della grande guerra non dallo sfa-

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sciamento dell’impero asburgico riproposto dagli eredidi Mazzini, ma, più limitatamente, dalla liberazione diTrento e Trieste, onde poi il gran fatto della scomparsadell’impero danubiano trovò impreparata e disorientatala maggioranza del ceto dirigente italiano.

A questo punto, con simili appelli all’Europa e all’u-manità, potrebbe venir fatto di pensare al Mazzini, allaconnessione strettissima ch’egli aveva posto tra la nazio-ne singola e l’umanità (e l’umanità era per lui ancora es-senzialmente Europa), alla Giovine Italia e alla GiovineEuropa.

Ricondurre l’Italia all’Europa era stato il sogno del ge-novese sin dagli anni giovanili e dal saggio D’una lette-ratura europea505; risospingere innanzi l’Europa, la gio-vane e nuova Europa che doveva sostituirsi alla vec-chia Europa agonizzante, farle riconquistare l’iniziativa,smarrita dal 1814, e con ciò dare inizio all’epoca nuo-va, quella sociale che portava scritto sulla sua bandie-ra Dio e l’umanità506 era stato il pensiero ispiratore delsuo apostolato, nel periodo della sua maggiore intensi-tà e forza507. E dunque, potrebbe sembrar ovvio pensa-re anzitutto a lui, al più grande agitatore d’idee che l’Ita-lia del Risorgimento avesse avuto, all’unica, anzi, perso-nalità veramente europea nel campo dell’ideologia, comeCavour lo era stato nel campo dell’azione.

Nulla di tutto ciò. L’appello all’Europa degli uominidella Destra non serbava nemmeno il più lontano restodel lievito rivoluzionario che era invece alla base dell’ap-pello di Mazzini; non mirava ad un’Europa futura, re-cante nel suo grembo i popoli nuovi affratellati dalla ge-nerale rivoluzione, politica e morale, ma ancora e sempreguardava all’Europa quale era stata modellata da un au-gusto passato, da una secolare tradizione culturale, reli-giosa, politica, quale era stata modellata dal pensiero delSettecento e del primo Ottocento.

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È, invece, ancora l’europeismo della vecchia scuolamoderata, dei Balbo e dei Durando, e dello stesso Ca-vour: un europeismo culturale-politico di largo orizzon-te, ben nutrito di studi e, anche, di esperienze persona-li, tra viaggi ed amicizie, un europeismo nutrito di sensodella libertà, ma senza lievito rivoluzionario.

Per Mazzini, s’era trattato non solo di ricongiunge-re l’Italia all’Europa, sì di rivoluzionare anche l’Europa,quella attuale essendo assolutamente impari al compito,reliquia del passato, non prodromo dell’avvenire (pro-prio com’era l’Italia dei principi); per i moderati e perlo stesso Cavour si era trattato di innalzare l’Italia al li-vello dei grandi popoli occidentali, Francia e Inghilterraessenzialmente508, non certo di mutare le basi su cui an-cora era assisa la civiltà europea, perché anzi quelle basiapparivano sicurissime e necessarie. Nell’uno, l’Europaattuale doveva morire; per gli altri rappresentava il piùalto fiore di civiltà, il modello verso cui innalzare anchelo spirito e la vita della nuova Italia. Mazzini aveva gri-dato «rivoluzionare Italia ed Europa»; i moderati aveva-no risposto «modifichiamo l’Italia», portandola al livellodelle grandi potenze europee. L’Europa di Mazzini eraun’Europa uscente dalla rivoluzione; l’Europa degli altriera l’Europa del «fuste milieu», del giusto mezzo tantocaro ai moderati d’Italia e di Francia509.

Due linguaggi profondamente diversi, di gente chenon era fatta per intendersi: l’uno, sognando il rinno-vamento universale delle gemi, vedendo nella rivoluzio-ne d’Italia solo la parte di un più ampio complesso, anzil’inizio della redenzione universale510; gli altri limitandole loro aspirazioni al problema italiano. Risolto questo,conseguita l’indipendenza e l’unità, con Venezia e Roma,l’europeismo di questi colti italiani diveniva un europei-smo pacifico, ria conservatori e amanti dello status quo.Essi non chiedevano di buttare sossopra la casa europea:una volta sistemate le faccende nel proprio appartamen-

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to, trovavano che l’edifizio, nel suo complesso, così co-m’era, non meritava affatto di essere demolito, anzi eraancora bello e solido e degno di essere abitato. Qualcunoaveva fin detto, e prima ancora che lo affermasse il Bal-bo: proprio per tenere in piedi la casa europea, è benesi compia l’indipendenza dell’Italia, del paese che, spez-zettato com’è, non serve a nulla, mentre invece, indipen-dente, servirebbe, in Europa, da bilancia tra Francia eAustria, e in Levante tra Russia e Austria511.

E qualche altro, come il Manzoni, anch’egli esaltan-te «l’animatissima e insieme pacifica prevalenza e qua-si unanimità di liberi voleri», del Risorgimento italia-no, contrapposto, questa volta, alla Rivoluzione francese,qualche altro osservò, a conclusione della vicenda, che«l’altre Potenze, che, quarantacinque anni prima, s’era-no trovate d’accordo nel raffazzonare una divisione del-l’Italia, che, nella loro sapienza, doveva essere una dallecondizioni fondamentali d’uno stabile ordine distruzio-ne, in questa sovvertire un ordine vero, non aveva fattoaltro che levar di mezzo una causa di guerre rinascenti,di vantaggi passeggieri e di disinganni costosi per alcune,e di pensieri molesti per l’altre; e si trovarono, senza sa-perlo, meno lontane da quell’ideale equilibrio messo incampo così spesso da loro ...»512.

Quel po’ di lievito rivoluzionario generale che potevaancora esservi nell’europeismo dei moderati, durante glianni della lotta, era comunque destinato a svanire comenebbia al sole non appena si fossero concretate le aspira-zioni ultime: la presa di Roma chiudeva, in effetti, il ci-clo, placava le aspirazioni e faceva desiderare, d’attornoa sé, lo status quo513 sì per il timore che da un rivolgimen-to generale europeo potessero derivare gravose incogniteai danni dell’Italia appena costituita, sì anche per l’istin-to di conservazione, per la riluttanza, diremmo di tempe-ramento, a metter per aria le cose e a provocar sconquas-si generali ch’era caratteristica di quegli uomini. Ottenu-

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to il proprio scopo, ben preciso, ci si adattava volentierialla parte dei beati possidentes, senza più poter compren-dere – se mai lo si fosse potuto – l’irrequietezza e lo scon-tento del Mazzini, che non sembrava mai pago e quindiappariva pericoloso e «sovversivo», ora più che mai.

Il principio di nazionalità era, per i moderati, nellostesso tempo «un gran principio di conservazione», e siapure di conservazione illuminata, secondo aveva affer-mato lo stesso Cavour514: conservazione interna contro ifermenti rivoluzionari, ma anche conservazione esterna,di un ordine europeo, di europeo, ebbero poi ad accor-gersi che la parte, della loro grand’opera, lungi dal una«comunità europea».

Forse che uno dei massimi rimproveri che gli stessiamici di Francia rivolgevano alla nazione d’oltr’Alpe nonconsisteva nelle troppo frequenti mutazioni di governo,nell’instabilità d’umore del popolo, nel non sapersi ac-contentare mai e posare, ad un certo punto, paghi deirisultati raggiunti, e quindi nell’esser causa di instabilitàgenerale in Europa?

L’idea di Europa che questi uomini difendevano eradunque sempre l’idea di quella che il Mazzini avevachiamato la vecchia e agonizzante Europa, e che ancorail Carducci mazzinianamente condannava come marcia,marcia, marcia, putrescat et resurgat515. «L’unità Europeacome l’intese il passato è disciolta; essa giace nel sepol-cro di Napoleone», aveva scritto il ligure516, ma i Bonghi,i Dina, i Visconti Venosta, i Nigra pensavano proprio aquella che non unità, sì più propriamente andrebbe de-finita società, o, come si diceva, «consorzio» dell’Euro-pa. La loro era ancora «l’Europa governativa», degene-rata, dal genovese violentemente combattuta517. Il con-sorzio politicamente aveva trovato le sue leggi pratichenella dottrina dell’equilibrio e del concerto delle grandipotenze; e i due principi dovevano salvare l’Europa dal-le avventure imperialistiche e dai tentativi egemonici al-

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la Napoleone I, da quei tentativi, cioè, che soffocandoi singoli Stati e la vita propria dei vari popoli, avrebbe-ro significato la morte della civiltà europea, il gran fruttoche, a farlo maturare, occorrevano i molti e diversi succhiforniti dalle varie nazioni.

Ed ecco allora, dietro a queste idee dei nostri uominidella Destra, apparire, lontano deux ex machina, una fi-gura a cui essi, una volta, non avrebbero certo creduto didoversi mai avvicinare: la figura di Clemente VenceslaoLotario principe di Metternich.

Già rconoscere la mitezza dei trattati di pace del 1815in confronto a quello che il Bismarck intendeva impor-re alla Francia518, e il rinvenire in quei lontani patti «unabase omogenea», di cui sarebbero invece stati preti quel-li attuali519, già siffatti accenni, che pur ricorrevano sottola penna dei maggiori pubblicisti della Destra, erano ca-ratteristico indice della mentalità conservatrice, dal pun-to di vista europeo, del nostro partito di governo. Masulle lontane origini metternichiane dell’europeismo po-litico propugnato nell’Opinione, nella Perseveranza e nel-la Nuova Antologia gettava luce completa, sul finire del1871, uno degli uomini eminenti della Destra, Carlo BonCompagni, uno dei più fidi collaboratori del Cavour520,uomo che il 27 marzo 1861, in pieno accordo col Cavour,aveva presentato, nel giovanissimo Parlamento italiano,l’ordine del giorno che proclamava Roma capitale d’Ita-lia. Non un codino, dunque, né, certo, un austriacantedel passato. Eppure, era proprio lui a celebrare l’elogio,dal punto di vista europeo, del sistema metternichiano.

L’ultima guerra, osservò egli nella IX lettera su Fran-cia e Italia521, ha mutato le condizioni di tutto il consor-zio europeo. Che cos’è questo consorzio? «I popoli del-l’Europa moderna entrano in uno stesso sistema politi-co, come entrano in uno stesso sistema planetario tutti icorpi celesti che girano intorno al sole.» Proprio nell’e-sistenza di un simile sistema è riposta la sostanziale dif-

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ferenza fra medioevo e età moderna da quando, col se-colo XVI, si ebbero «le origini di un equilibrio politicoordinato a limitare la potenza di qualunque sovrano ac-cennasse a soverchiare gli altri Stati. Oggi il sistema del-l’equilibrio politico è riguardato quale un vecchiume daparecchi che sono in grande errore. Il concetto dell’equi-librio politico procede da un fatto che succede pur trop-po dappertutto, e per cui suol divenire prepotente coluiche è oltrepossente».

Ora è vero che i vincitori del 1815 hanno assassinatol’Italia e instituita un’associazione contro la libertà. «Èquesta la storia della Santa Alleanza quale l’abbiamo im-parata in gioventù, e pur troppo è storia vera. Ma nonè storia compiuta.» I vincitori lasciavano alla Francia giànapoleonica tutto quel territorio che l’aveva resa potenteai tempi della monarchia, dando prova di una modera-zione, «se non singolare, certo rarissima nella storia. Perquesta moderazione poteva riguardarsi come compiutal’abolizione del diritto di conquista, promulgata dall’As-semblea costituente con dichiarazioni solenni, che rima-sero parole vane». E altro beneficio arrecò la Santa Al-leanza: «quello di riconoscere che, in tutte le questionidi diritto internazionale, l’interesse de’ singoli Stati deveconciliarsi coll’interesse generale dell’Europa». Le cin-que grandi potenze hanno, da allora, costituito un «anfi-zionato europeo», la cui intromissione fu per lo più be-nefica, quando ebbe smesso di presentarsi quale nemicoimplacabile di ogni libertà; e in tal guisa l’Europa potégodere di uno dei più lunghi e benefici periodi di pace.

Equilibrio europeo, sistema politico che caratterizzal’età moderna, pentarchia delle grandi potenze: comequesti concetti ci riportano nell’atmosfera del 1814-15,tra Metternich e Castlereagh e Friedrich von Gentz!Espressamente, nel parlare di «sistema europeo», il BonCompagni citava, con lo Ancillon, lo Heeren, l’auto-re cioè dello Handbuch der Geschichte des europäischen

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Staatensystems und seiner Kolonien, il massimo formula-tore dell’idea del «sistema europeo»522 caro alla scuola diGottinga, su cui si erano formati dottrinalmente gli uo-mini di stato tedeschi dell’età napoleonica e della Restau-razione, compreso lo Hardenberg, e su cui s’era forma-to, attraverso il Koch a Strasburgo, lo stesso Metterni-ch: volutamente, cioè, egli accettava l’Europa cara a tut-ti i conservatori. Qual meraviglia, dunque, se, senza sa-perlo, il Bon Compagni adombrasse idee e fin si servis-se di espressioni quasi identiche a quelle che ci colpisco-no quando apriamo i Mémoires di Metternich: «... il n’ya plus d’État isolé ... on ne doit jamais perdre de vue lasociété des États ... ce qui caractérise le monde moder-ne, ce qui le distingue essentiellement du monde ancien,c’est la tendance des États à se rapprocher les uns desautres et à former une sorte de corps social ... La socié-té moderne ... nous montre l’application du principe dela solidarité et de l’équilibre entre les États, et nous of-fre le spectacle des efforts réunis de plusieurs États pours’opposer à la prépondérance d’un seul»523. Anche lui, ilCancelliere tutto preso dal desiderio di ordine, aveva do-vuto polemizzare contro i negatori del principio di equi-librio: «L’idée de l’équilibre politique a été souvent atta-quée depuis la paix générale (1814-15) et reprochée aucabinet impérial lui-même comme une folie patronnéepar lui. L’idée, comprise somme elle doit l’être, n’en estpas moins la seule juste. Le repos sans l’équilibre est unechimére»524.

O, ancora, ascoltando il Bon Compagni dissertare sul-l’anfizionato europeo, veniva fatto di pensare alle osser-vazioni del collega e amico di Metternich, il Castlereagh,sull’unione delle grandi potenze, come presupposto in-dispensabile della pace europea, salvaguardia sicura del-la libertà e tranquillità del Commonwealth of Europe525,e a tutto quel che la prima metà dell’Ottocento europeoaveva detto e scritto sulla funzione delle grandi potenze,

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dal saggio del Ranke che trasportava il novello termine526

nel passato e faceva del concetto di grande potenza uncriterio d’interpretazione della storia527, alle annotazio-ni del Thouvenel, ministro francese degli Esteri, che nel1860 precisava, con burocratica esattezza, compiti, pre-rogative e doveri delle grandi potenze528.

Né, certo, erano questi pensieri del solo Bon Com-pagni; ché da non molto diverso sentire muovevano al-tri rimpianti per la fine del vecchio «consorzio» politico,sorto dopo la tempesta delle guerre napoleoniche. Cer-to, anch’esso, aveva avuto i suoi inconvenienti; ma oras’era giunti ad un’intera e dannosa «dissociazione» fragli Stati: «dall’essere dispotica e perpetua la comunan-za dei consigli e degl’interessi tra’ più potenti, noi siamotrapassati al negarle affatto ogni autorità, ogni possibili-tà d’esercitarsi; alla prepotenza unita e calma de’ moltis’è surrogata oramai la prepotenza solitaria e guerriera diquello che si trova in ogni caso il più potente»529. E an-che il Marselli se n’usciva, undici anni appresso, in con-siderazioni assai simili. Ché, dopo aver affermato nonpotersi applicare il principio del lasciar fare, lasciar pas-sare nemmeno a proposito delle nazionalità quando lacostituzione loro in imperi autonomi, ultrapossenti edambiziosi divenisse una minaccia per altri stati, necessa-ri all’«organismo generale dell’Europa»; dopo aver am-messo che la politica europea della seconda metà del se-colo XIX non poteva distinguersi da quella del secoloXVIII e della prima metà del XIX perché al principiodell’intervento si dovesse sostituire l’assoluta negazionedi esso, ossia «l’indifferentismo delle nazioni», ma per-ché si dovevano restringere e in parte mutare «le rego-le applicative dell’intervento»: anch’egli, l’acuto storicoe teorico delle istituzioni militari nella loro connessionecon tutta la vita di un popolo, anch’egli ritornava al siste-ma metternichiano. E citava, per disteso, le celebri pa-gine dei Mémoires, poco prima pubblicati, dove il can-

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celliere austriaco aveva teorizzata la necessità del sistemaeuropeo, caratteristico della società moderna di fronte aquella medievale; e annotava, sì, che «la pratica» di Met-ternich non spirava l’«amor cristiano» della teoria, anziriconosceva il «diritto della conquista compiuta» e chequindi «un abisso dovrebbe separare la politica interna-zionale dei nostri tempi da questo metodo del cancellie-re Metternich»; ma per affermare, subito dopo, la suaadesione ai princìpi europei del Metternich: «possiamougualmente dire che un abisso debba pure separarla dalprincipio della solidarietà fra gli Stati e degli sforzi riuni-ti di parecchi Stati per opporsi alla preponderanza di unsolo, per arrestare i progressi della sua supremazia? Secosì fosse, non vi sarebbe più ragione per parlare di unapolitica internazionale pratica, e l’Europa diventerebbedavvero un’espressione geografica».

Come per il Bon Compagni, così per il Marselli la col-pa della Quadruplice alleanza del 1814-15 era stata quel-la di aver negato ai popoli di governarsi liberamente; og-gi, la solidarietà internazionale ammette «che ogni nazio-ne abbia la libertà di costituirsi e governarsi a suo modo;ma a condizione che non diventi un elemento perturba-tore del tutto sociale, un elemento minaccioso alla pace,alla libertà, all’indipendenza delle altre nazioni. In que-sto secondo caso anche alla costituzione di un Imperonazionale si può legalmente opporre un limite»530.

Siamo proprio, per questo lato, nel mondo caro aiconservatori europei e ai professionisti della diplomazia:un mondo che affondava le sue radici nelle lunghe di-scussioni secentesche e settecentesche sull’equilibrio eu-ropeo, già allora considerato come una specie di «costi-tuzione» dell’Europa531, ma che aveva trovato la sua in-quadratura precisa, compiuta, ben rifinita in ogni partee, soprattutto, rivolta ad uno scopo di pace generale sol-tanto dopo la grande tempesta napoleonica nel sistemametternichiano.

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Curioso destino, che poneva in un certo senso nellascia del cancelliere di Francesco I d’Austria uomini la cuiopera era stata indirizzata a rovesciare il dominio asbur-gico in Italia! Curioso, se non fosse che poi, come il Met-ternich era stato l’esponente massimo e l’assertore piùeminente di un modo generale di porre il problema po-litico europeo alla fine dell’avventura napoleonica, cosìdopo di lui la formulazione era divenuta d’uso comune,quasi proprietà collettiva dei diplomatici europei e dellapubblicistica politica internazionale. Alla quale formu-la, senza dubbio, ci si poteva sottrarre: ma a condizionedi portare la rivoluzione su piano europeo, di uscir fuo-ri dal singolo ambito nazionale, per spaziare tra tutte lenazioni.

Allora, ma soltanto allora, si potevano buttar a marele formule dell’equilibrio, rifiutare – in omaggio al prin-cipio, morale e giuridico, della parità fra tutte le nazioni,grandi piccole, perché tutte egualmente volute da Dio– rifiutare il concetto istesso di «grande potenza», tipi-co del conservatorismo internazionale; come poteva fa-re, per l’appunto, il Mazzini, che alla Giovine Italia ave-va congiunto la Giovine Europa e per il quale il nuovo«equilibrio» che si sarebbe stabilito fra le nazioni, asso-ciate per un fine comune, non doveva conservar più nul-la dell’antico equilibrio fra i governi532.

Ma non i moderati! Per essi, il Risorgimento era statoed era Italia, e Italia solo; non Italia ed Europa insieme.Assolto il compito all’interno, ci si poteva assidere, con-tenti, al «banchetto delle nazioni»533, entrare nel cosid-detto concerto delle grandi potenze, ultimi per anziani-tà e importanza, ma insomma sempre ammessi nell’Ae-ropago: e nessun rimorso di coscienza avrebbe turbatoi loro animi, che non s’eran mai commossi per la «San-ta Alleanza dei popoli». L’Europa di Mazzini era l’Euro-pa dei popoli; la loro, era sì, culturalmente, l’Europa del-l’intelligenza, ma politicamente era ancora l’Europa dei

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governi. Né essi avrebbero mai sognato di rivoluziona-re la «mente europea», ai loro occhi assai ben congegna-ta, laddóve proprio allora al Mazzini essa appariva «de-stituita di qualsiasi fede comune, di qualunque concet-to di una mèta comune capace di raggiungere l’unionefra le nazioni ed assegnare a ciascuna di esse il suo com-pito pel bene di tutti, destituita, altresì, di qualsiasi uni-tà di legge atta a dirigere la sua vita morale, politica edeconomica»534.

Né certo si vuole qui rimproverare agli uomini dellaDestra di non essere stati dei mazziniani, di non aver vo-luto la rivoluzione generale, morale e politica, e di essersiacconciati volentieri, finita l’opera in Italia, a rientrar dibuon grado nel rango dei paesi amanti dell’ordine e del-lo status quo. Essi assolsero la loro missione, e fu gran-de missione; e fu già mirabil cosa che sapessero combat-tere per il proprio paese senza cader nell’eccesso di nonveder più che questo, senza chiudersi in una egoistica elimitata visione dei puri interessi nazionali, anzi sapesse-ro, sempre, vedere e apprezzare e amare la grande col-lettività civile europea. L’ideale di Mazzini, era stato, an-ch’esso, un ideale dei tempi535: anzi, lo era stato più assaidell’altro, che profondava le sue radici già lontano, nelleantiche tradizioni dell’equilibrio politico. Era sbocciatosu, in piena età romantica, attorno al 1830; ed egli, sol-levandolo dal piano puramente letterario in cui rimane-va, spesso, confinato dalla scapigliatura romantica536, neaveva fatto volontà politica, fede politica – la fede dellaSinistra romantica, che adorava la propria patria ma vo-leva amare tutte le patrie. Ora questa fede, la fede suae di Michelet, tramontava: dell’adorazione perla propriapatria e per tutte le patrie, rimaneva semmai solo la pri-ma.

Si vuol soltanto far vedere come questo europeismodei moderati non fosse di carattere novatore, sì conser-vatore, e affondasse le sue radici nel ricco humus del-

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le concezioni politiche dell’Europa della Restaurazione,e, ancor, più lontano, nel razionalismo settecentesco537 ecome il Risorgimento italiano, nella sua forma vittoriosa,e cioè di stato liberale-monarchico, avesse limitato il suoforzo e l’anelito sovvertitore e rinnovatore entro i confi-ni del proprio paese, lasciando intatta l’Europa nel suocomplesso.

Era, senza dubbio, quel declino della politica dei«principi», che il Mazzini aveva rinfacciato al Cavour co-me abbandono opportunistico, ma che era stato impo-sto e che continuava ad essere imposto dalla realtà del-le cose e che conduceva forzatamente a scindere, ad uncerto momento, politica estera e politica interna se nonsi voleva rischiare di fracassar tutto538. Onde, mentre ilsenso della libertà restava come punto fermo incrollabi-le, su cui nessun compromesso era possibile, si attenua-va invece il senso della nazionalità, che, a volerlo segui-re sino in fondo, avrebbe fatto assumere all’Italia la partedella grande rivoluzionaria permanente, e cioè l’avrebbecacciata in avventure dal pericolosissimo esito; o, alme-no, se ne limitavano le possibilità di applicazione pratica,si da poter collaborare, su piano internazionale, anchecon stati come l’impero asburgico e l’impero ottomano,che del principio di nazionalità costituivano, a dirla colMazzini, la negazione vivente. Era stata la grande mano-vra del liberalissimo Cavour, deciso a ricercar l’appoggiodella dittatura napoleonica per ricostruire l’Italia; era, inmutata situazione e sotto altre forme, la linea di condot-ta dei suoi epigoni, così fedeli al suo insegnamento e as-sai più di lui inclini d’istinto al «conservare», molto di-sposti a metter la parola fine al periodo delle rivoluzionie dei grandi gesti per far vivere l’Italia una, e permetter-le, nella pace, di procedere all’assestamento e al conso-lidamento interno. Lo disse ripetute volte, con estremachiarezza e sincerità, il Visconti Venosta: sia che, nel di-scorso al Senato sulla legge delle Guarentigie, il 22 apri-

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le 1871, egli affermasse che il movimento nazionale ita-liano aveva avuto l’ambizione altamente civile «di consi-derarsi come un progresso per la causa generale dell’or-dine e della libertà in Europa» e di un popolo turbolentoe ribelle avesse fatto «uno dei popoli più tranquilli e piùconservatori d’Europa»539; sia che, il 27 novembre 1872,insistesse sulla comunità d’interessi fra l’Italia e l’Euro-pa: «Oggi in Europa il bisogno precipuo più altamen-te sentito e confessato è quello della conservazione dellapace. L’Europa è e vuol essere liberale ... Ebbene ... perl’Italia la pace è e sarà sempre uno dei suoi grandi e per-manenti interessi ... la nostra causa è solidale della causadella libertà in Europa ... non v’è dunque ... non vi è al-cun paese che sia meglio in grado di associare i suoi par-ticolari interessi a quelli che oggi sono gli interessi gene-rali dell’Europa, vale a dire la conservazione della pace,il progresso liberale e la conservazione sociale»540.

Più tardi ancora, nel discorso elettorale tenuto a Tira-no il 25 ottobre 1874, egli ritornava su quegli stessi con-cetti, affermando che lo scopo della politica estera dell’I-talia dopo il ’70 era stato quello «di affrettare il momentoin cui finalmente le riuscisse di far parlare poco di sé. Ilche significa di far sì che l’Italia potesse finalmente ave-re dinanzi a sé quel periodo di tempo, al quale aveva pu-re gran bisogno di giungere; in cui, con un sentimento disicurezza e senza essere distolto da altre più vive solleci-tudini, il paese nostro avesse agio, pace e tempo necessa-rio per occuparsi delle sue questioni interne»541. E infine,non più ministro degli Esteri, ma dai banchi dell’opposi-zione, il 23 aprile del 1877, riassumeva ancora una voltail suo credo politico: «Quando ... la nostra costituzionenazionale non era compiuta, l’Italia nelle complicazionieuropee vedeva e cercava l’occasione opportuna per co-ronare l’edificio della sua indipendenza, e della sua uni-tà. Ora l’Italia è fatta, l’Italia è uno Stato costituito, edio credo che la sola politica che ci convenga è una poli-

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tica prudente, leale, scevra da ogni spirito di avventure,che faccia considerare il vantaggio e l’utilità per gli inte-ressi europei della presenza e dell’azione morale di que-sto giovine Stato nel concerto delle grandi potenze»542.Che era poi il credo politico non del solo Visconti Veno-sta, sì di tutti gli uomini della Destra: dal Dina, prontoad affermare finito il tempo della politica «agitatrice»543,al Minghetti, anch’egli convinto si dovesse modificare ilprogramma di governo rispetto all’Italia, sì da farlo di-ventare «conservativo»544, al Bonghi, per il quale occor-reva «circondare l’Italia di pace»545, al conte Guido Bor-romeo invitante a «camminare ora sulla punta dei piediper non far rumore»546, riportavano il mondo alla provadel ferro e del fuoco»584: e già il gran maestro, Cavour,aveva presagito ed ammonito contro il pericolo del ger-manesimo, sin dal ’48585.

Schiacciar la Francia, come voleva il Bismarck, equi-valeva a far della Germania la padrona dell’Europa, il si-stema dell’equilibrio essendo così congegnato che l’im-provviso venir meno di uno dei pezzi maggiori del giun-co sconvolgeva, da capo a fondo, il gioco medesimo. Ela situazione era tanto più grave in quanto – fatale con-seguenza della troppo completa disfatta – all’interno laFrancia non riusciva a ritrovarsi e ricementarsi, oscillan-do paurosamente tra reazione e anarchia, tra il legittimi-smo di Enrico V e i petrolieri della Comune.

Strappar alla Francia l’Alsazia-Lorena significava crea-re un motivo permanente e potente di conflitto in Euro-pa, trasformare la pace in semplice tregua, tregua armata;e al giudizio dei moderati italiani faceva riscontro quel-lo di un uomo tanto lontano da loro, il MarY, pur egliconvinto che l’annessione dell’Alsazia-Lorena era il mez-zo più sicuro per trasformare la guerra franco-prussianain una istituzione europea586.

Perfino la vita economica europea era minacciata nelsuo regolare svolgimento dal germanesimo trionfante:

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l’enorme indennità di guerra richiesta dal Bismarck –una cifra astronomica per l’epoca – faceva temere gra-vi difficoltà finanziarie e perturbamento di mercati, dicui avrebbero subito le non piacevoli conseguenze tut-ti quanti gli Stati. Ancora una volta, era una preoccupa-zione non italiana soltanto; la manifestava anzi per pri-mo il governo inglese, già innanzi la firma dei prelimina-ri di pace, nel febbraio587, la riprendeva poi il cancelliereaustro-ungarico, conte Beust, vi si associava il ViscontiVenosta588, e nella stampa la esprimeva L’Opinione589.

E anche qui, al disopra del fatto specifico c’era antite-si di principi e di metodi, fra il liberismo economico, ca-ro ai moderati e culminante addirittura in taluni nel so-gno di una lega doganale fra le nazioni, garanzia anche dipace politica, e il chiudersi nel mercato proprio, a dife-sa dell’interesse proprio, che il bismarckismo già minac-ciava e che in effetti avrebbe poi condotto al trionfo delprotezionismo590.

Così, violente polemiche antiprussiane e l’atteggia-mento di molti degli uomini della Destra, pur sboccian-do grazie ad una affezione sentimentale per la Francia,assurgevano a valore di opposizione di principi e di me-todo.

Aveva ragione Engels quando osservava che questaera la vera guerra, la guerra di nazioni, di cui l’Europaaveva perso il ricordo da un paio di generazioni: laguerra di Crimea, quella d’Italia, quella austro-prussiana,erano state tutte guerre di pura convenzione, guerredi governi che conchiudevano la pace non appena illoro meccanismo militare fosse in panne o cominciassead usarsi591. Questa no, era guerra di popoli, per laprima volta dopo l’età della Rivoluzione francese e diNapoleone; era «la» guerra, che spazzava via illusionisogni e miti di un cinquantennio.

Per questo, la vicenda franco-prussiana appariva gra-ve di conseguenze per tutti, neutri compresi; per questo,

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il Ricasoli, attonito, scosso, sdegnato, intravedeva nellaguerra, quasi sin dall’inizio, il «pomo di una discordiaeuropea»592; per questo il Bonghi, che sedici anni più tar-di avrebbe nuovamente definito il 1870 l’anno fatale perla pace, la civiltà, l’unità europea593, non si peritava allo-ra di affermare – e poteva sembrare bestemmia in boccaad un italiano – che in mezzo a così difficile e complica-ta condizione di cose, qual era quella dell’Europa minac-ciata dall’eccessivo ingrandimento della Prussia, «la que-stione romana sulla quale gl’Italiani paiono fissar solo iloro sguardi e le loro menti, ci appare d’una importanzasaremmo per dire, secondaria»594.

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Capitolo Secondo

L’idea di Roma

I

La «missione» di Roma

E tuttavia, quali profonde e durature conseguenze nonrecava con sé l’andata a Roma!

Non solo quelle che erano ovvie, a tutti manifeste, an-che all’uomo della strada: compimento dell’unità nazio-nale, da un lato, e dall’altro esacerbato il conflitto con laCuria romana, tanto da doversi temere le estreme con-seguenze, con la partenza del Papa dalla città di Pie-tro. Tutto ciò costituiva l’effetto immediato, scopertodel Venti Settembre, formava per così dire l’oggetto dellaprossima politica italiana, che rimaneva accentrata intor-no a Roma, dopo non meno di prima il Venti Settembre,come intorno al porro unum della vita nazionale. Pertan-to, a quella guisa in cui la politica estera sarebbe stata perparecchi anni dominata si può dire esclusivamente anco-ra dalla questione di Roma, divenuta banco di prova persaggiare le amicizie e le inimicizie, così in politica inter-na la preoccupazione di gran lunga prevalente, allato oalmeno subito dopo il gravissimo problema finanziario,sarebbe continuata ad essere, per parecchi anni, quelladei rapporti con la Chiesa, o, a dirla con espressione ca-ra allora non soltanto ad accesi tribuni dei partiti di sini-stra, sì anche a più calmi e ponderati uomini di Destra,del pericolo clericale.

E nemmeno sarebbero state unicamente le altre con-seguenze, ovvie, che pure balzavano, già allora, al-l’occhio dell’osservatore anche mediocre, dando origi-ne da una parte al giubilo di giornali e uomini politicimeridionali595 e a fieri propositi di por fine all’egemonia

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piemontese, perpetuatasi se non più nel governo alme-no nell’amministrazione596; e dall’altra parte a corruccio,rimpianto e fosche previsioni di più d’uno dei politicidel Settentrione, che vedeva con preoccupazione il tra-monto del predominio subalpino, perché convinto chele altre regioni d’Italia mancassero troppo di preparazio-ne morale e politica per poter fornire buoni quadri alloStato597 – non ultimo motivo per coloro i quali si oppo-nevano al trasferimento della capitale a Roma e motivonuovo per coloro che chiedevano un largo decentramen-to amministrativo598.

Trasformazione, questa, tutta interiore, meno appari-scente dell’altra; ma di assai lata portata e di profonde ri-percussioni sulla vita futura del Regno, destinato a pas-sare, in pochi decenni, da un’amministrazione piemon-tese o piemontesizzata, ad un’amministrazione reclutatain buona parte nel Mezzogiorno.

Al quale processo si sarebbe sempre più accentuata-mente contrapposto il correlativo ritrarsi dei settentrio-nali dalle carriere statali, il loro rivolgersi verso le libereattività industriali e commerciali, che proprio nei decen-ni seguenti e proprio nel Settentrione avrebbero assuntoampiezza di ritmo veramente moderno, offrendo ai gio-vani prospettive più seducenti non soltanto dal punto divista finanziario, si anche per quel che promettevano al-la libera iniziativa personale, al gioco autonomo delle vo-lontà e delle forze singole. E ne poté nascere quel dis-sidio, profondo anche se non sempre espresso, fra pae-se «produttore» e burocrazia o, come si è sentito dire,paese «improduttivo»; dissidio analogo a quell’altro frapaese legale e paese reale, di cui tanto si disse e si scris-se dopo il ’70, meno grave certo, ma non senza perico-li anch’esso come che abbia spesso fatto riaffiorare con-trasti regionalistici e accuse e polemiche reciproche frail Nord, pronto a vantar la sua produttività, le fabbrichee le aziende commerciali e i miliardi depositati in banca

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o investiti in nuove opere e affari, e il Sud, accusato diaccontentarsi del tavolo d’ufficio, di voler trascinare unamagra vita, mal retribuita ma anche lenta e scarsa di ini-ziative, e a sua volta replicante di dover sopportare, es-so, con la sua già povera economia agraria il peso dellaprotezione dai governi accordata a industrie e traffici delSettentrione.

L’iniziativa individuale, come si disse, parve localiz-zarsi nel Settentrione; nel Mezzogiorno, ogni aspettativasembrava volta allo Stato, da cui solo, annotava il Turiel-lo, s’usava attendere il bene collettivo599. Vecchia con-suetudine dei tempi borbonici; e tanto più facilmente,dunque, i figli della borghesia dell’antico Regno convo-gliavano verso il cursus honorum della burocrazia statale.

Più su ancora della sfera amministrativa, lo spostar-si del centro di gravità del Regno si sarebbe ripercosso,alla lunga, in modo sensibile, sul terreno pienamente epropriamente politico, nel senso che la capitale a Romae l’assurgere a maggior peso del Mezzogiorno avrebbe-ro dato importanza preminente a questioni, come quel-le mediterranee, meno sentite nella valle padana. Quas-sù, l’interesse primo sarebbe stato sempre rivolto allequestioni continentali, ai problemi propriamente euro-pei: campo di battaglia, e per secoli, delle grandi poten-ze contendenti per l’egemonia in Europa, levatosi a li-bertà in gran parte precisamente grazie ad una favore-vole congiuntura internazionale e perché diventato ele-mento primo di certi calcoli di politica europea, il Set-tentrione non poteva non rimanere essenzialmente con-tinentale nel modo di porre e risolvere i problemi poli-tici. Come in Lombardia, nonostante tutto quel che sa-rebbe successo tra il 1870 e il 1914, nonostante il germa-nesimo economico e i frequentissimi, amichevoli contatticon tedeschi commercianti, banchieri industriali, giorna-listi, doveva rimanere incancellabile il ricordo delle Cin-que Giornate e dei «tedeschi» dominatori dell’età di Ra-

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detzky, nessuno distinguendo, di fatto, tra austriaci e te-deschi; così l’Italia settentrionale in genere avrebbe con-siderato il problema politico sempre con mentalità con-tinentale, che vede il nocciolo dei problemi nei rapportiche si svolgono, in Europa, fra i vari organismi statali.

Poco sensibile a questi rapporti, in massima, e piùpronto invece a sentir l’importanza e il fascino del pro-blema mediterraneo, il Mezzogiorno avrebbe apportato,nella vita politica del Regno, per l’appunto il senso del-l’Africa e anzitutto l’aspirazione a Tunisi, non fosse altroperché meridionali erano nella stragrande maggioranza icoloni italiani che vi dimoravano, e interessi, affetti e ri-cordanze legavano il territorio africano con le terre delMezzogiorno.

Maggior rilievo, in Roma capitale, del Mezzogiorno,e sua più attiva e larga partecipazione alla vita pubbli-ca, volevano dunque dire anche tendenza, latente forsema alla lunga non inavvertibile, verso una maggior consi-derazione dei problemi mediterraneo-coloniali: non perpuro caso fu un napoletano, il Mancini, ad iniziare la po-litica coloniale italiana, andando a Massaua; e nemmenoper caso le aspirazioni mediterranee furono incarnate nelsiciliano Crispi.

Tutte queste sarebbero già state conseguenze più chesufficienti per vedere nel 1870, anche a prescindere dalgran conflitto europeo, una svolta decisiva della storiad’Italia.

Ma non erano le sole. L’ingresso a Roma, nella cit-tà in cui «spira un’aura che inebbria»600 avrebbe matu-rato frutti di ancor maggior gravità, destinati ad essereavvertiti soltanto dopo un lento, intenso lavorio nell’inti-mo dell’anima italiana: perché un cotal rivolgimento nonportava più su questioni determinate, su questo e quel-l’oggetto di discussione politica, sì sul modo stesso di es-sere e di pensare degl’Italiani, e significava quindi non l’i-nizio di un problema, storicamente e politicamente ben

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circoscritto e precisato, anzi l’avvento di una mentalitànuova, che avrebbe considerato i singoli problemi sottoluce diversa e con aspirazioni differenti da quelle dellegenerazioni ormai trascorse. Roma capitale voleva dire,a più o meno lunga scadenza, il determinarsi di un nuo-vo modo di valutare i problemi, morali e politici, almenopresso larghi ceti: e questa sarebbe stata la conseguenzamaggiore e più duratura della breccia di Porta Pia.

Non a tutti, certo, in sui primi momenti l’aura di Ro-ma sembrava inebriante; non tutti vi trovavano il milieu,che aveva così gradevolmente sorpreso il Blanc; e anzi,passato il primo istante di giubilo, svanito il momento incui il motto «Roma è nostra»aveva agito come «una scin-tilla elettrica, da un capo all’altro d’Italia, eccitando unentusiasmo profondo»601 cominciavano dubbi, perplessi-tà, recriminazioni, non soltanto sull’opportunità di tra-sferire, e di trasferire subito, la capitale da Firenze allaCittà Eterna, bensì anche sui vantaggi che l’acquisto diRoma avrebbe apportato al paese. Dubbi e recrimina-zioni, s’intende, presso gli stessi uomini che avevano vo-luto la soluzione del Venti Settembre, o almeno avevanocondiviso e approvato e condividevano e approvavano lapolitica del governo: ché, per quanto è dei clericali, sa-rebbe superfluo anche solo il rammentare con qual ani-mo essi vedessero i soldati di Vittorio Emanuele a Romae di quali lai e invettive e profezie di sciagura peggio chebibliche si affaticassero a far rintronar l’aria.

Erano le prime, inevitabili difficoltà d’ordine pratico,materiale; erano anche, nei primi accorsi alla città, il con-trasto fra sogno e realtà e l’ombra di delusione che suoleaccompagnare il compimento di un voto lungamente nu-trito in cuore. Nel caso particolare, era il constatar chemolta parte della popolazione romana rimaneva papali-na di animo, più sgomenta e seccata che lieta di una novi-tà tale da sommuovere profondamente abitudini e pen-sieri di una gente da secoli avvezza a non voler essere

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disturbata nella sua placida, indifferente e scettica vita,tra sole feste processioni, tra preti donne forestieri602, oche, nei ceti alti, nella cosiddetta aristocrazia nera, era le-gata da troppi vincoli d’interesse, oltre che di sentimen-to, con il governo pontificio, per non avvampare di ran-core contro gli «usurpatori». E negli altri, nei patriotiromani, si dovevan ben presto constatar pretese, richie-ste, impazienze603, certa alterigia di sentire fatte appostaper urtare chi, venendo a Roma, vi veniva con il ricor-do di tanti anni di lotte sostenute – e non propriamentedai Romani – per poter raggiungere quest’ultima meta604:quasi che gran degnazione dei moderni Quiriti fosse sta-ta l’accogliere nelle proprie mura l’Italia e Casa Savoia, eil merito fosse tutto loro e soltanto loro605.

Alle quali recriminazioni rispondevano le lagnanze deiromani, offesi dai modi troppo spesso militareschi e pe-rentori de’ nuovi venuti, dalle arie di conquistatori cheufficiali e soldati, burocrati e politici regi assumevano606:proprio le arie e i modi meno adatti per avvicinare unapopolazione scettica ma intelligente, priva sostanzial-mente di energia politica, fuor che nel ceto, rude ma fie-ro, de’ popolani repubblicani di Trastevere, ma di viva-ce sensibilità per la dignità formale, facile ad essere fe-rita nell’amor proprio, suscettibilissima quindi e pronta,con la esperienza plurisecolare di generazioni che tuttoavevan visto e conosciuto, a cogliere subito il lato ridico-lo di uomini e cose, specialmente quando questi uominiavessero la gravità pedantesca di certi burocrati di stam-po piemontese. Si aggiungevano gli interessi offesi607, oracome lo erano stati anni innanzi a Napoli, per le nomi-ne a importanti uffici pubblici di elementi non romani,che davan motivo – e talora, certo, giusto motivo di gri-dare, ancora, alla conquista; e il gravame delle nuove eben maggiori imposte608 di questa camicia di Nesso che lepopolazioni d’Italia avevan dovuto indossare, l’una dopol’altra, con l’unificazione, e che, come altrove, così anche

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a Roma offriva naturale e facile motivo ai lodatori delbuon tempo antico609.

Danni economici insomma: e vi calcavano su volentie-ri la mano gli amici del Papato e rappresentanti di Sta-ti esteri, per far vedere l’errore commesso dal governoitaliano col venti Settembre610.

Da un lato, dunque, sorta di stupore amaro nel con-statare come la terra promessa fosse tutt’altro che unparadiso611 come l’entusiasmo dei Romani non giunges-se a quel grado ch’era stato immaginato; alti lai sulla cor-ruzione che s’asseriva allignasse più profonda di quan-to non si fosse per avventura immaginato612; duri giudi-zi, soprattutto ad opera dei molto antiromani fiorentini,per i quali l’indolenza de’ Romani e la loro avversione allavoro superavano ogni limite pensabile613. E, dall’altra,lamentele e ironie sui «buzzurri», settentrionali in gene-re, ma piemontesi in ispecie. Condizione di cose perfet-tamente comprensibile, in cui il torto e la ragione era-no, manzonianamente, un po’ dall’una e un po’ dall’altraparte; che poteva, allora, improntare d’una nota di pessi-mismo il carteggio del luogotenente del re a Roma, il ri-gido La Marmora614, ma che, insomma, era fatto se nontranseunte, essendo poi anche in tempi successivi pienele cronache di lamentele contro i romani e contro la Ro-ma burocratica e ministeriale, quanto meno di non so-verchia gravità.

Quest’era ancora la piccola vita cittadina di Roma,piccola e soggetto di cronaca aneddotica come quelladi tutte le altre città. Ma, a Roma, al disopra della vi-ta di tutti i giorni, con le sue miserie e i suoi contra-sti pratici, c’era dell’altro, ed era l’idea di Roma: l’ideaper cui uomini di alto sentire, dopo tanti anni di desi-deri e di speranze, attendevano con animo in tumultodi potervi entrare615, e s’abbandonavano all’empito del-la commozione616, dopo aver varcato la Porta del Po-polo trepidi e quasi adorando617, reverenti innanzi alla

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potenza, al palpito «dell’immensa eterna vita di Romaal di là della superficie artificiale che a guisa di lenzuo-lo di morte preti e cortigiani avevano steso sulla grandedormiente»618.

Riappariva, quest’idea, com’era riapparsa in altri gran-di momenti della storia d’Italia, sia che l’avessero agita-ta, nelle sue manifestazioni d’impero e di potenza politi-ca, gli imperatori tedeschi medievali, sia invece che fos-se stata bandita, ad opera questa volta di uomini d’itali-ca origine e anima, soprattutto quale espressione supre-ma di vita civile. Come nel Rinascimento, così sorgevaora, dopo la parentesi dell’età barocca e di quella sette-centesca, già percorsa tuttavia, quest’ultima, da semprepiù frequenti e notevoli accenni alla grandezza, anzi al-la missione di Roma, unico centro pensabile sin d’alloraper l’unione di tutti gli Italiani619.

L’idea si imponeva: l’idea in cui la vita contingente,povera e meschina magari, della città e dei suoi abitanti,spariva, e rimaneva solo il significato morale, religioso,politico e culturale della millenaria tradizione. E che al-tro significava se non un richiamo alla necessità e fatalitàdi essa, il concitato richiamo che il prepotente Momm-sen rivolgeva al Sella una sera del 1871: «Ma che cosaintendete fare a Roma? Questo ci inquieta tutti: a Ro-ma non si sta senza avere dei propositi cosmopoliti. Checosa intendete di fare?»620.

A nessuno degli stranieri sfuggiva questa duplicità diRoma, idea universale prima ancora che città italiana;e come e più del Mommsen, e in pari tempo, invoca-va l’antica aria cosmopolitica di Roma un altro tedesco,innamorato di Roma, il Gregorovius, che era stato assaibenevolo amico del movimento nazionale italiano621, cheaveva salutato con gioia la «liberazione» dell’umanità dalgiogo papale, il secondo incubo di megalomania crollatodopo il crollo del primo incubo, l’impero napoleonico622;e che, ciò nonostante, s’immalinconiva nel veder l’Ur-

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be discesa da centro morale dell’umanità, da repubbli-ca mondiale, a capitale d’un regno di mediocre forza623,messo su dalla fortuna e dalle vittorie tedesche, ma inti-mamente debole e impari ai doni della sorte624. E ancoraalcuni anni più tardi, nel ’77, incalzava di sulle colonnedel suo Diario un terzo grande scrittore, di diversissimaorigine e mente, il Dostoievskij, anch’egli poco persua-so di quel che l’Italia unita avrebbe potuto fare, anch’e-gli in traccia della «grande idea romana dei popoli uni-ti», l’idea universale di cui il popolo italiano era deposi-tario e che, certo, non era attuata dal «piccolo regno disecond’ordine ... senza ambizioni, imborghesito»625.

Più benevolo il Renan: ma anche per lui il «modesto eonorevole» rinascer dell’Italia a nazione era fausto even-to per l’umanità in quanto, uccidendo il papato tempora-le, avrebbe provocato infallibilmente anche la fine dell’u-nità cattolica, dell’unità papale, della deplorevole istitu-zione causa dei maggiori guai del cattolicesimo dai gior-ni del concilio di Trento626; anche per lui, l’unità d’Italia,trascurabile evento in sé, poteva assumere valore genera-le solo per le sue ripercussioni non italiane627.

Per gli stranieri, avvezzi a veder in Roma il centro delcattolicesimo e cioè di un’idea universale, e freddi innan-zi al problema puramente nazionale italiano, l’Italia po-litica a Roma doveva trovarsi un fine più che nazionale,quando non intendesse rimaner piccina, piccina di fronteal Vaticano; e ben pochi si sarebbero accontentati dellasemplice bonifica dell’Agro Romano, che Guglielmo I diGermania indicava, nel ’75, a Milano, a re Vittorio comeil miglior modo per «giustificare la presenza del vostrogoverno in Roma»628. Giustificarsi dunque bisognava, difronte all’estero: e certo, in una città piena di tanti e tan-to grandi ricordi, in un luogo tutto memorie di una sto-ria universale, anzi, con il Vaticano tutto storia universa-le ancora, Re, Parlamento, Governo d’Italia sembravan

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piccoli e incapaci di contrappesare, da soli, i molti secolidi gloria.

Il Papato era là, vivo e potente e universale: e l’incubodi esser troppo impari al Vaticano, di dover cercar deipalazzi, ma tutti «più bassi» del Vaticano, come dicevaGino Capponi629, nessuno lo poteva scacciare.

Tanto più necessariamente l’idea di Roma doveva ri-sorgere, in quanto sembrava creata apposta per dar sod-disfacimento all’ideale, ignoto al Rinascimento, ma tantocaro al romanticismo dell’Ottocento, di una «missione»dei vari popoli.

Aspirazione, questa, nata quasi ad un parto con l’i-dea stessa di nazione, tal che se ne potevano ritrova-re le tracce un po’ dovunque, tra la fine del Settecen-to e i primi decenni dell’Ottocento: viva con particola-re intensità, inizialmente, in Germania, dove dallo Hum-boldt allo Schiller allo Schlegel era stato lanciato al mon-do il grido della missione germanica, l’essere lo specchiopiù puro dell’umanità, il vivere a contatto con lo spiri-to del mondo, nella giornata che sarebbe stata la mes-se di tutte le altre giornate vissute dagli uomini630; maben forte anche nella Francia della Rivoluzione e dellaRestaurazione, dal de Maistre, teorico della «magistratu-ra» francese sull’Europa631, al Guizot e al Michelet632 eai sansimoninni633, e forte, sempre, nell’Inghilterra la cuimissione, ai tempi di Cromwell divina, s’era ora umaniz-zata in una missione imperiale e di dominio, che stavaper essere esaltata da Tennvson Froude e Seeley634.

Era come se, nel momento in cui sorgeva a frantuma-re definitivamente ogni anche lontana reminiscenza dellavecchia respublica christiana, l’individualità nazionale, lanuova idea-forza dei tempi moderni, abbisognasse di unagiustificazione morale di valore universale, che ne legitti-masse la nascita. Nel campo della politica internaziona-le l’elevar a teoria, a dignità di principio la prassi dell’e-quilibrio europeo, secondo era avvenuto già dalla secon-

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da metà del ’600, aveva anche significato il tentativo dimantenere un quadro unitario generale, al disopra dellamolteplicità dei singoli Stati, sostituendo una unità net-tamente articolata all’unità idealmente massiccia di pri-ma; e ora, in questo ulteriore svolgimento della vita eu-ropea verso le forme differenziate pur sul terreno cultu-rale e morale, si continuava a cercare un motivo comu-ne, un principio che servisse a tener ben salda l’idea diquest’Europa laica, a individualità nazionali nettamentedefinite, e potesse fungere da ponte di trapasso fra la na-zione singola e la civiltà comune, di cui mai come nel-l’età dell’Illuminismo e del Romanticismo si esaltaronograndezza, forza e dignità.

Residuo, sotto certi aspetti, del cosmopolitismo set-tecentesco; fortunata eredità di quel possente sviluppoideologico che aveva portato, nel centro della vita euro-pea, i valori uomo ed umanità, e però forgiata propria-mente dal Romanticismo, che sulle orme di Rousseau edi Herder aveva invece amorosamente accarezzata l’in-dividualità della nazione; quindi di duplice e diversa ori-gine, senso del particolare e aspirazione ad una comu-nione generale di destini frammischiandosi, talora in fe-lice accordo, talora invece urtandosi e negandosi a vicen-da, l’idea di missione diveniva, a sua volta, precorritriceda un lato dell’umanitarismo e dall’altro del nazionali-smo moderno. Nell’invocare la missione di una nazio-ne si offriva infatti lo spunto per accentuare sempre piùil «dovere» di quella missione, e quindi per porre in pri-mo piano, a dirla col Mazzini, il fine, cioè l’umanità, con-tenendo a «mezzo» la nazione: e lo avrebbe dimostratoproprio l’evoluzione ulteriore di parecchi originariamen-te nutriti di idee mazziniane e poi passati alla predicazio-ne di tipo umanitario e pacifistico, o tramutati in aposto-li di Internazionali, con ira del Maestro, sempre preoccu-pato di salvare i due termini del binomio e di non sacri-ficare l’umanità, ma né meno, anzi tanto meno la nazio-

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ne, ch’era e rimaneva sempre il motivo centrale e soprat-tutto più chiaro, netto, lucido del suo pensiero. Ma erad’altro canto possibilissimo accentuare, nella missione, il«diritto», portando insensibilmente il mezzo al di sopradel fine, la patria più su dell’umanità, sì da sboccare inultimo nel pieno nazionalismo.

Possibilità, quest’ultima, tanto più facile a verificarsiin quanto la parola missione tendeva, già inizialmente,a trasformarsi, spesso e volentieri, nell’altra «primato»: everamente, perché un popolo avrebbe avuto una partico-lare missione, se non avesse dimostrato attitudini, capa-cità, e vantato tradizioni superiori a quelle degli altri po-poli, almeno in un certo campo? E così già nello Schillere nello Schlegel l’idea di missione tedesca s’era congiun-ta con l’idea della superiorità tedesca, non senza qual-che disdegno per gli altri popoli635, alimentando così nonsolo la intera coscienza di sé, ma anche l’ambizione chela Germania avendo creato il mondo moderno il mon-do moderno spettasse a lei636; ed era gran ventura quan-do l’idea di superiorità non cercasse una base apparen-temente oggettiva, continua e duratura, nel fattore etni-co, nel criterio razziale, secondo cominciava a tralucerenello Schlegel.

Proprio in Italia, la missione di Mazzini era stata pre-ceduta da una cospicua, anche se spesso scolastica, seriedi richiami a primati italiani; dall’abate bolognese PietroTosini, che sin al 1718-20 trovava l’Italia esser stata sem-pre il paese più cospicuo del mondo e gli Italiani averdominato su tutte le nazioni, all’Algarotti al Genovese alBettinelli e al Verri637, e, almeno per primati in particolaridiscipline, al Deniva e al Galeani Napione638. Si rivolges-se ad illustrare l’antico primato, sulle orme della vichianaesaltazione della antiquissima Italorum sapientia, giù giùfino al Platone in Italia del Cuoco; si limitasse a soste-nere, alfierianamente, che in Italia la pianta uomo nascedi più robusta tempra e più atta a grandi cose: nell’un

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caso e nell’altro era ormai una vecchia melodia, questadella originaria primazia italiana in civiltà e della peniso-la donna di provincie e maestra agli altri popoli, quandoper controbattere l’idea del primato francese la assunse ela svolse compiutamente e le diede risonanza e celebritàmai prima avute, l’abate Gioberti.

Con il quale si aveva, appunto, l’accentuazione in sen-so già nazionalistico di uno dei due motivi contenuti ingerme nell’idea di missione, proprio mentre il Mazzinistava accentuando parecchio il motivo «dovere» e abita-va all’Italia e alle altre nazioni schiave il compito euro-peo che loro spettava, e parlava dell’iniziativa di uno infavore di tutti. Più tardi, per reazione al neocosmopoli-tismo degli odiaitissimi «internazionali» avrebbe, ancheil Mazzini, insistito di più sul motivo «diritto»639: e allo-ra, anche, nella missione italiana da lui delineata si sareb-be avvertita – fin nel Mazzini! – una indubbia nota par-ticolaristica, l’accenno ad una politica di potenza, secon-do i dettami – della tanto esecrata prassi dei governi eu-ropei. Anch’egli, l’europeo di un’Europa di assai più lar-go spirito e comprensione dell’Europa metternichiana,l’apostolo dell’umanità come fine, anch’egli non sfuggìsempre alla tentazione dei problemi nazionali, nelle loroforme più di potenza, diplomatiche e militari; e come sicompiacque del vecchio tema della civiltà italica anterio-re alla greca640, così vagheggiò non solo l’Italia che apris-se la via alla civiltà moderna e iniziasse nuova Epoca dellastoria umana, si anche l’Italia che, conseguiti i veri con-fini nazionali, s’arrotondasse con domini coloniali e, in-sediata a Tunisi, tornasse a dominare il Mediterraneo641,secondo avevan fatto, una volta, le aquile di Roma.

Ma insomma, sfumasse in senso umanitario o in sensonazionalistico, l’idea di missione era stata ed era tuttoraun’idea di fronte presa sugli animi. Ed ecco dunquequest’idea riempirsi, per così dire, di un valore concreto,

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preciso, quasi tangibile e visibile, dal nome e dai fatti diRoma.

L’antico richiamo rinascimentale a Roma-madre, ch’e-ra stato allora congiunto con il disprezzo per i «barbari»oltramontani, si allacciava, sino a far tutt’uno, con il ro-mantico concetto di missione, che, nelle sue più alte ma-nifestazioni, cercava di trasformare il senso della forza edignità nazionale in iniziativa a vantaggio di tutti, di farservire ad una causa comune le doti e le glorie de’ singoligruppi.

Mancava, in questa ripresa ottocentesca dell’idea diRoma, il postulato della imitazione, così caro ai lettera-ti e artisti del Quattrocento: e non poteva non manca-re, come che le menti fossero ora dominate dalla fedenel progresso umano e non potessero pertanto più ac-conciarsi alla persuasione che il Vero e il Bello s’eranogià rivelati, una volta, nella storia passata, costituendo ilmomento-modello a cui l’umanità avrebbe dovuto sem-pre rivolgere gli occhi, per trarne guida e conforto642.

V’era, in più, il senso del lavoro comune, a pro di tut-ta l’umanità, a cui non avevano certo pensato troppo néi Ghiberti e gli Alberti, né i Valla e i Poliziano: com’eraovvio, dopo che il pensiero settecentesco aveva così pro-fondamente radicato negli animi il senso della colleganzadi natura e di destino fra gli uomini, senso rinnovato oracon tonalità laica e non più religiosa secondo era succes-so molti secoli innanzi, al momento della predicazionecristiana.

Era la Roma di Mazzini: la terza Roma, la Roma delPopolo, dopo quella dei Cesari e dei Papi. Universale,come che la sua tradizione storica avesse insegnato all’I-talia più che all’altre nazioni la «missione d’universalizza-re la propria vita», onde la vita della penisola era semprestata, nelle sue grandi epoche, vita d’Europa: «da Roma,dal Campidoglio e dal Vaticano, si svolge nel passato lastoria dell’umana unificazione»643.

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E al ramingo apostolo dell’Italia una, che aveva in sé«il culto di Roma»644, che di Roma aveva fatto la «reli-gione dell’anima» 51, la visione di questa imminente ter-za vita d’Italia dettava una di quelle pagine tutte pathosreligioso e profetico, potenti anche quando l’enfasi stili-stica ne sminuisca l’efficacia: «Sostate e spingete fin do-ve vale lo sguardo verso mezzogiorno, piegando al Me-diterraneo. Di mezzo all’immenso, vi sorgerà davanti al-lo sguardo, come faro in oceano, un punto isolato, un se-gno di lontana grandezza. Piegate il ginocchio e adora-te: là batte il core d’Italia: là posa eternamente solenneROMA.

E quel punto saliente è il Campidoglio del MondoCristiano. E a pochi passi sta il Campidoglio del MondoPagano. E quei due Mondi giacenti aspettano un terzoMondo più vasto e sublime dei due che s’elabora tra lepotenti rovine.

Ed è la Trinità della Storia il cui Verbo è in Roma»645.Roma: missione di grandezza, nel futuro come nel pas-

sato, allora quando l’Europa era semibarbara e le aqui-le romane volavano di trionfo m trionfo insegnando «aipopoli conquistati una sapienza di leggi che dura tutta-via riverita, i conforti della vita civile, e quella tendenzaall’Unità che preparò un mondo a Gesù»; e, una secondavolta, quando in una Europa «ravvolta fra la tenebra delservaggio feudale ... , voi, sorti a seconda vita, afferma-ste nei vostri Comuni la libertà répubblicana dell’uomoe del cittadino e diffondeste alle più lontane contrade ibeneficii della civiltà, delle lettere e del commercio»646.

Nel tumultuante animo di Mazzini si fondevano cosìtutti i motivi della tradizione italiana, di Roma e di pri-mato, da lui riplasmati e sublimati nell’alto concetto dimissione europea, ma non senza che permanessero e af-fiorassero, tratto tratto, le venature fortemente nazionali,e fin le lagnanze per l’ingratitudine altrui come sarebbeaccaduto più tardi di frequente647.

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Ed era in lui un’idea forza, una potentissima fiammad’azione, sentita e vissuta con la religiosità delle cosegrandi.

E vivamente sentita, nonostante che anche qui taloral’enfasi rettorica sembrasse prender la mano alla serietàdel proposito, era pure, questa idea, in tutti i devoti diMazzini, a cominciar dal Tirteo italico, il Mameli, cheun anno e più innanzi l’inno celebre, nel maggio del ’46,aveva ne L’alba visto risorgere la donna latina

Furor del feretro armata s’affacciaHa trovato il valore primiero,Ritrovò la sua lucida tracciaDella gloria nel noto sentieroNon ne spenser mille anni le impronteL’elmo antico s’adatta alla fronteRoma è sorta, dinnanzi ci sta648

E riviveva pur sempre il mito anche in coloro che dalMazzini avevano primamente tratto il loro bagaglio ideo-logico e che, poi staccatisi dal genovese, rimanevano tut-tavia vicini, per ispirazione, a taluni motivi fondamentalidel suo credo. Così succedeva per il Crispi e i suoi ami-ci della Riforma: tratti – come s’è visto – ad accentuarein senso nazionalistico la nazionalità di Mazzini, ma perciò appunto tanto più pronti a riprendere, dall’aposto-lo, quel mito di Roma che così facilmente si convertivain lievito di acceso nazionalismo.

Non stupiva, pertanto, trovare nella Riforma il richia-mo alla missione che incombe a chi detta leggi dalla cit-tà un giorno maestra di civile sapienza649; alla missionedell’Italia nel mondo delle nazioni.

«Nei rivolgimenti attuali che riordinano il mondo po-litico, a nessun popolo fu dato dalla provvidenza dellastoria un più alto ufficio di civiltà, come al popolo italia-no. Affermare il principio di nazionalità sui ruderi del-la teocrazia, – glorificare la libertà religiosa e i diritti del-

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la civiltà sulla terra del Sillabo e del dogma: è una mis-sione degna di un gran popolo e che la storia a traver-so le sue mirabili elaborazioni, riservava all’Italia. Oc-cupando Roma colle sue armi essa ha assunto in facciaal mondo civile l’impegno formale di risolvere il proble-ma in modo corrispondente agli interessi e al voto dellaciviltà universale.»650.

Momento solenne, quello del plebiscito del 2 ottobre,nella vita non dell’Italia soltanto, sì dell’umanità intera:«il medio evo crolla, l’età moderna splende sulle rovinedella teocrazia».

Fraseggiare sovente retorico: eppur sarebbe ingiustonegare, per ciò solo, vivezza e sincerità di quella fede, di-venuta tanto più ferma perché, notava l’articolista e nona torto, «abbiamo potuto vedere alla prova quanto la no-stra antica convinzione circa la possanza dell’idea di Ro-ma nella coscienza e nella mente degli Italiani si appones-se al vero: abbiamo veduto quanta forza morale possiedaquesta idea in ogni parte della nazione, in ogni ceto, inogni ordine di persone: essa appare fornita di uno straor-dinario vigore, ha evocato dalla profondità della coscien-za nazionale quelle grandiose manifestazioni che attesta-no le leggi essenziali della vita: essa è la vita stessa dellanazione651.

Non a torto: ché veramente il fascino dell’idea diRoma-madre s’estendeva assai al di là dei circoli mazzi-niani; e se finiva col toccare persino un uomo come Car-lo Cattaneo, così alieno da ogni afflato retorico e così so-lidamente ancorato alla realtà pratica e tanto varia delleregioni italiane, eppure anche egli indotto ad accomuna-re, nel ’48 e dopo il ’48, Italia e Roma, ad esaltare il ri-sorgimento della libera Italia in Roma e lo splendore, lapotenza di questi due nomi congiunti652, irraggiava poilargamente negli stessi ambienti dei neoguelfi.

Se il Mazzini, infatti, con la sua predicazione appas-sionata era da gran tempo il massimo apostolo dell’idea

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di Roma e della missione di Roma, altri, molti altri, chepur ripugnavano alle dottrine politiche del mazziniane-simo, sentivano di Roma con non diverso animo. Al-lato della parola del genovese, c’era l’eredità giobertia-na che, con l’esaltazione di un primato italiano fonda-to essenzialmente, nonostante tutti i Pelasgi, su Roma ela gloria cristiana di Roma653, con l’appello al Campido-glio, eterna cittadella delle nazioni, con l’ammonimentoche senza Roma l’Europa occidentale e australe sarebbeaperta alle alluvioni dei nuovi barbari, era sopravvissutaal fallimento dei progetti politici dell’abate piemontese,largamente influendo sugli spiriti: onde, chi deploravala «irragionevole superbia», cresciuta nell’animo degl’i-taliani, la «funesta passione» che aveva precipitato l’Ita-lia «nella superbia, nella stoltezza, della sua superioritànaturale e riconquistabile, su tutte le altre nazioni euro-pee», non a Mazzini, bensì a Gioberti attribuiva la col-pa, a Gioberti, la cui parola fatale «corse e rimase, a mal-grado del suo autore, nel suo senso più lato, più estremo,più dannoso»654.

Roma era idea base nell’una come nell’altra delle duemaggiori correnti ideologiche del pieno Risorgimento; esu questo punto potevan trovarsi d’accordo giobertianie mazziniani, nonostante tutte le divergenze d’interpre-tazione del passato e tutti i contrasti in merito alla solu-zione per l’avvenire. Tra l’uno e l’altro, questi due movi-menti avevan finito col padroneggiare, in tal senso, l’opi-nione pubblica italiana.

«Non più primati, non più superbie, non più sogni,per l’amor di Dio e della patria» aveva gridato l’antiro-mano Cesare Balbo655. Basta con le grandezze degli avi,con l’idolatria verso l’antico mista ai sogni dorati di unlontanissimo avvenire; basta voler rinverdire il presen-te con gli stillicidi del passato. La storia degli insuc-cessi nel risorgimento della nazionalità italiana è la sto-ria del continuo riaffiorare degli idoli dell’antichità, cioè

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dell’imporsi del genio artistico sul genio politico, a dan-no della patria, aveva dichiarato Giacomo Durando656.L’idolatria dell’antichità fuorvia il buon senso.

Ma, appunto, quest’era troppo buon senso e troppopoco immaginazione, troppo realtà e poco passione, inun momento in cui il buon senso non bastava più, e civoleva fantasia e passione. Perciò i dettami del buonsenso, ripetuti dai moderati Balbo Durando d’Azeglio,erano stati soverchiati dalla fantasia e dalla passione cheanimavano la tanto più calda predicazione mazziniana oanche la più cattivante parola giobertiana.

Perfino nel Cavour, così lontano da influssi mazzinia-ni e, anche, dall’oratoria turgida di un Gioberti, così in-differente ai ricordi classici657, così poco fantasticante dirisurrezioni, primato, terze età, così desideroso di mo-strarsi antiletteratura, non senza una certa qual nota dicivetteria658, tanto da arrischiare in piena Camera la con-fessione del dolore con cui egli, personalmente, sarebbeandato a Roma659; perfino nel Cavour, da ultimo, l’ideadi Roma era cominciata a balenare non più soltanto nel-la sua fatale connessione con l’unità d’Italia, bensì anchenella sua luce di missione universale che imponeva all’I-talia unita un gran dovere di fronte al mondo. E il dovereera di por fine alla battaglia fra la civiltà e la Chiesa, frala libertà e l’autorità; ed egli si sentì sicuro di raggiunge-re la meta, e sognò il giorno in cui avrebbe firmato, sul-l’alto del Campidoglio, una «nuova pace di religione, untrattato che recherà alle sorti avvenire dell’umana socie-tà effetti ben più grandi che non ebbe la pace di Vestfa-lia!». Il sogno lo accendeva di sempre nuovo entusiasmo;la sua parola s’innalzava allora, ne’ privati conversaci, si-no alla poesia, e lo Artom che l’ascoltava rimaneva atto-nito «vedendo quell’economista, quel politico avveduto,quella mente così pratica esprimersi con tanto calore sul-l’alleanza possibile, anzi prossima, fra il cattolicismo e lalibertà»660.

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L’arte ci uccide, aveva esclamato il Durando661, e nelprevaler della cultura e della forma pura sulla virtù, cioèdella letteratura sulla morale, dell’arte sulla coscienza ci-vica, Balbo aveva visto il decader dell’Italia, fra Trecen-to e Settecento. Cavour era, solitamente, di identicosentire662. Ma di fronte a Roma anch’egli andò oltre laragione tanto cara ai moderati piemontesi; e fu passionela sua e fu poesia, mentre la voce dei Durando e dei Bal-bo continuava a risuonare in quella del d’Azeglio, pitto-re e scrittore, ma in questo molto più attento alle consi-derazioni della ragione di stampo moderato.

Con non minor fermezza di convinzione e serietà d’in-tenti, se pur già con ben diversi propositi che non l’al-leanza fra cattolicesimo e libertà, Roma parlava al cuo-re e alla mente di uno dei maggiori fra gli uomini politiciapparsi dopo la morte del Cavour, Quintino Sella. Lon-tanissimo, anch’egli, dal pathos mazziniano e giobertia-no; certo non suscettibile di subitanei, facili e passegge-ri impeti di entusiasmo, anzi tutto ponderatezza, chiarez-za d’idee, organicità di visione, continuità di volere; sti-le secco e disadorno, com’era stato lo stile di Cavour ecome sarebbe stato poi lo stile di Giolitti, uno stile chenon aveva nulla in comune con l’oratoria della tradizioneitaliana663, il tessitore biellese trovava anch’egli che, comeRoma era stata la gran maestra dell’amor di patria664, cosìil suo era un gran nome, un nome terribile, che impegna-va la nazione per l’avvenire. «Noblesse oblige; e in Romavi è un formidabile retaggio di nobiltà. Io non so espri-mere quello che sento in me davanti a questo nome ...Non è soltanto per portarvi dei travet che siamo venutiin Roma ... Io sono certo che in fondo dei nostri animi visono pensieri assai più elevati.»665.

Quali fossero questi pensieri più elevati, egli stessoindicava nella formula della missione o, com’egli diceva,del proposito cosmopolita della scienza666.

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Pertinacissmo era stato nel volere l’andata a Roma, eostinato doveva essere anche, tra l’ottobre e il novembredel ’70, nel volere l’immediato trasferimento della capi-tale e la venuta del re a Roma, nel «romaneggiare» se-condo gli venne rimproverato dai moderati di altro sen-tire, soprattutto dai moderati fiorentini667 egli vedeva inRoma, e lo scrisse al Minghetti, il fata trahunt668.

Ora, del fato credeva si dovesse essere all’altezza an-che nell’avvenire, rendendosi conto della posizione che sioccupava davanti al mondo civile da che s’era a Roma669.La capitale del regno doveva corrispondere «all’alto uffi-cio a cui la storia, il voto pressoché unanime della nazio-ne, e le più alte ragioni di progresso, non solo del popolonostro, ma osiamo dire deil’intiera umanità, fatalmentela chiamavano»670.

Quando nel 1870 egli s’era adoperato in tutti i modiperché l’Italia venisse a Roma e vi portasse la sua capi-tale, aveva sempre pensato «non solo a dare all’Italia lasua eterna capitale, ma agli effetti che nell’interesse del-la nazione e della umanità sarebbero derivati dalla aboli-zione del potere temporale, e dalla creazione in Roma diun centro scientiifico»671.

E pertinacissimo fu così, ancora, nel promuovere ilculto della scienza, nuova missione di Roma, soprattuttomediante l’attività di quell’Accademia dei Lincei che dalui ebbe veramente nuova vita, e grazie a lui poté rifiori-re, porsi al livello dei maggiori corpi scientifici dell’Eu-ropa, svolgere opera gloriosa e non peritura: insistendo epremendo, lui, il più tirchio dei politici italiani672, per ot-tenere gli indispensabili aiuti finanziari673, insistendo congli amici scienziati perché collaborassero intensamenteai lavori dei Lincei, quasi dovere imposto dall’amor dipatria674.

«La lotta per la verità contro l’ignoranza, contro ilpregiudizio e contro l’errore, suscita la stessa unanimità

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che si trova nei giorni di combattimento per la difesadella Patria675.

Mutava così il fine della missione di Roma: dall’allean-za tra cattolicesimo e libertà, vagheggiata dal Cavour, sitrascorreva all’affermazione dell’impossibilità di quell’al-leanza, dopo il Sillabo, e quindi della necessità di impe-gnare la lotta contro il clericalismo in nome della Scien-za. E dal clima del Risorgimento si passava nel clima delpositivismo italiano ed europeo.

Giacché lo stesso substrato alimentava la fede del Sel-la nella missione della scienza, come libero esame ed in-segnamento sperimentale contrapposti al dogma676, e leinvocazioni dei giornali ed uomini della Sinistra al com-pito dell’Italia in Roma, di schiudere nuove vie alla ci-viltà umana, distruggendo gli ultimi avanzi della teocra-zia medievale: substrato di natura inizialmente raziona-listica, eredità del ’700, ma ormai ‘già assumente modi eforme di positivistico conio, ne’ quali si sarebbero spersele ultime tracce della vaga religiosità mazziniana, ch’era,ancora, prima metà dell’Ottocento. Voltaire s’ispessiva,sperimentalmente precisato e rifinito attraverso Comte,Littré e ora anche Darwin e Spencer. V’era, indubbia-mente, una notevole differenza di tono, che nel biellessemanteneva estrema precisione e serietà di parole e d’in-tento, mentre nella stampa di sinistra troppo spesso sitramutava in enfasi tribunizia senza solidità di cose con-crete; v’era anche la differenza che l’accento anticlericalediveniva, nei Sinistri, assolutamente predominante, sic-ché la scienza diveniva più mezzo per sbaragliare altruiche ideale a sé stante.

Ma anche nel Sella l’accento anticlericale non manca-va: la scienza a Roma era per gl’Italiani un dovere supre-mo, proprio in un momento in cui la scienza cammina-va rapidissimamente in un senso, e il cattolicesimo, dallafine del Settecento e soprattutto dopo il Sillabo, in sen-so diametralmente opposto. «Fuori i lumi! Fari elettrici

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anzi devono essere; imperocché abbiamo a fare con gen-te che si chiude gli occhi e si tappa le orecchie; abbia-mo a fare con gente che vuol pigliare i giovani fino dal-la infanzia, avviarli alle proprie scuole secondarie, e poivuol dare a costoro i più alti uffici che si possono affida-re all’umanità, come la direzione delle coscienze e l’edu-cazione della gioventù.»677 Roma centro di scienza equi-valeva ad una Roma laica, solidamente costruita di fron-te al Vaticano e alla tradizione chiesastica: tant’è, le sueproposte per il palazzo dell’Accademia delle Scienze inRoma fecero, a momenti, del dibattito a Montecitorio undibattito pro e contro la fede, pro e contro la scienza e laragione umana678. Alla voce del Sella s’accomunò quelladel Cairoli, che ammoni: «dove è la cattedra della Chiesache insegna i dogmi e non domanda che la fede, ivi deveessere protetta la scienza, la quale cammina alla perfet-tibilità colla spinta della ragione»679; e seguì l’enfasi tri-bunizia dell’Oliva, che propugnò l’editto pretorio dellascienza, cioè delle verità accertate, da opporsi al Sillaboe da promulgarsi in Roma680.

Soltanto, nel Sella c’era sempre una riserva, grossa ri-serva: il Dio della religione doveva per forza ritirarsi amisura che s’avanzava la scienza dell’osservazione; manon certo per scomparire, giacché «l’infinito, il princi-pio, il fine delle cose, Dio, il concetto di Dio non ca-de sotto la osservazione dei naturalisti; il certo si è chequesta libertà che noi sentiamo dentro di noi, se corri-sponde a una continuazione della responsabilità anchedopo la vita, cioè la questione della immortalità dell’ani-ma, non casca sotto nessun goniometro, sotto nessun di-namometro, sotto nessun microscopio o telescopio ... èchiaro dunque che il concetto di Dio e quello della im-mortalità dell’anima non appartengono al dominio del-le scienze positive», le quali non è vero che di per sé di-struggano tali concetti e quindi distruggano il concettodella religione681. Gli anticlericali, i laici di professione

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superavano invece questa sostanziale riserva e ammoni-vano finita la religione con l’avanzare della scienza e sipreparavano a salutare, con il Guyau, «l’irreligione del-l’avvenire».

Ma, questa diversità ben precisata, è pur vero che nelproblema Scienza-Chiesa il Sella era spiritualmente piùaffine agli uomini della Sinistra che non a molti dei suoicolleghi della Destra, i vecchi moderati alla Jacini e al-l’Alfieri di Sostegno, i quali invece recalcitravano pro-prio di fronte al dogma del progresso in nome e per vir-tù della Scienza e con esclusione del movente religioso,e riaffermavano la necessità del dogma cattolico, soprat-tutto per popoli come i latini, ai quali «piace dare am-plissimo luogo all’autorità, al precetto, tanto in politica,quanto in religione»682.

Lontano dai moderati piemontesi lombardi e toscani;vicino invece ai napoletani come Spaventa, non tocchi daínfiussi rosminiani o lambruschiniani e, in genere, dallecorrenti europee del cattolicesimo liberale, sorretti dallaloro antica tradizione anticurialistica che gl’influssi del-l’idealismo germanico stavano trasformando in coscien-za laica della vita: allo Spaventa, per il quale pure rifaregli Italiani significava «svestirsi del vecchio uomo, e faredi noi degli uomini moderni», dal pensiero nutrito di so-da e larga scienza, che potesse essere la mente di un gran-de e libero Stato683. E se i cattolici liberali s’erano, a lortempo, mossi in un’atmosfera europea, a sua volta il Sel-la si muoveva nella gran corrente europea di quei gior-ni, nuova e diversa rispetto alle precedenti: anche in luis’avvertiva la consonanza fra l’uomo e i tempi. Per vero,la sua affermazione sulla missione di Roma nella Scienza,che trent’anni prima avrebbe fatto sorridere i Gioberti ei Balbo usi ad esaltare la cristianità di Roma, e un cin-quantennio più tardi avrebbe fatto sorridere i realpoliti-ci, usi a valutare soltanto le missioni di forza e di conqui-sta, non fece allora sorridere nessuno: né il Mommsen,

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che l’ascoltò, ed era pure uomo mordacissimo e sprez-zantissimo d’altrui684, né gli Italiani che la conobbero.

Così, il senso politico della necessità di Roma capita-le si alleava in molti all’afflato mistico per Roma, al bi-sogno di credere nella missione della città eterna, nuova-mente esaltata da Mazzini e da Gioberti. Anche uomi-ni ch’erano tutt’altro che ciechi sugli inconvenienti a cuis’andava incontro, venivan trascinati da quest’ondata; ecosì Michele Amari, al quale i guai prossimi apparivanoben evidenti685, polemizzando in Senato con Stefano Ja-cini, non solo poteva accennare al gran nome di Roma,che li aveva infiammati e commossi tutti, gli ora canu-ti senatori, a’ bei tempi della giovinezza, bensì afferma-re reciso che tali magici effetti del nome dell’Urbe nonerano affatto dileguati, ribattendo al moderato lombar-do che la tradizione di Roma non era «trastullo da sco-lare, né da antiquario», ma parte indissolubile della vitaitaliana e origine del rinnovamento nazionale686.

La fede che ne derivava era schietta, piena, seria; eraun’idea-forza, uno stimolo necessario all’azione, un pre-supposto indispensabile per affermare, di fronte alle na-zioni straniere da secoli costituite, la propria individuali-tà nazionale.

Eran le conseguenze felici del mito: e veramente cer-ti ricordi classici, certi enncsiasmi di archeologi e di let-terati costituivano uno dei legami che tenevan, in allora,strette insieme levarle parti d’Italia, da tante altre que-stioni tuttora divise687.

L’Italia unita viveva, sotto questo riguardo, di una vitaspirituale parecchio diversa da quella dei giorni dell’at-tesa nel riscatto, dai giorni del primo Ottocento, quandoRoma era stata relegata nello sfondo e, in sua vece, entu-siasmi e affetti s’eran riversati verso l’Italia medievale, l’I-talia dei Comuni, di Pontida, della Lega Lombarda e diLegnano, l’Italia di Gregorio VII e di Alessandro III, o,ancor più su, l’Italia di Arduino, nella quale s’eran visti

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gli albori della nazione italiana688. Non a Roma, ma a Fi-renze, culla della civiltà italiana nell’età di mezzo, s’era-no volti gli sguardi; non i colli fatali, ma Santa Croce e lesue glorie aveva cantato il Foscolo; e a Firenze s’eran da-ti convegno gli spiriti magni, primo fra tutti il Manzoni,per attingere ivi alle radici profonde della vita spiritualedella nazione.

La risurrezione di Roma, propugnata informe diver-sissime dal Mazzini e dal Gioberti, era stata sancita da-gli eventi del ’48 e ’49: la repubblica romana e soprattut-to l’epica difesa garibaldina, ad opera di giovani accorsida ogni parte d’Italia, avevano riportato l’Urbe nel cuoredegli Italiani, innalzandola alla vetta del Risorgimento689,facendone il santuario della libertà690; mentre, d’altro la-to, il fallimento pratico delle prime guerre per l’indipen-denza, dimostrando insufficiente l’impeto rivoluzionariodi popolo e facendo palese l’inanità delle speranze ripo-ste nell’accordo tra i principi italiani, apriva bensì la viaall’iniziativa piena di Casa Savoia, ma costringeva anchequest’ultima a proporre, tosto o tardi, un fine ultimo chenon fosse semplicemente l’egemonia di Torino, anzi fa-cesse tutt’uno dell’unità d’Italia e di Roma capitale. Ilche faceva tutt’uno col trapassar dai progetti di confe-derazione alla tesi unitaria. Roma aveva parlato, prima-mente, al cuore di Mazzini, perché Mazzini era stato l’a-postolo dell’unità; i comuni medievali, le piccole repub-bliche avevano parlato al cuore di coloro che riluttava-no all’unità. Ovunque, in Italia come fuori d’Italia, nelCattaneo come nel Sismondi e nello Heeren, l’esaltazio-ne dei piccoli gloriosi Stati medievali era andata di paripasso con la ripugnanza verso i grandi Stati unitari cen-tralizzati; e se Cattaneo contrastava l’idea mazziniana diun’Italia unificata alla francese, lo Heeren aveva vatici-nato la fine della civiltà tedesca e della libertà dell’Euro-pa il giorno in cui la Germania si fosse unita in un soloStato691.

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Ora, su questo punto essenziale della sua predicazio-ne, Mazzini aveva vinto: ben lontana dai suoi ideali e dal-le sue predizioni setto tanti altri riguardi, l’Italia che erasorta era, sotto questo aspetto, la sua Italia, una, stret-ta in un sole organismo e non articolata federativamente.Sua era la vittoria; e la proclamazione del regno nell’auladel Parlamento Subalpino, il 17 marzo 1861, era stata adun tempo l’affossamento di un suo miraggio e il trionfodi un’altra e anche per lui più sostanziale idea. E l’unitàtraeva con sé, quasi legata da invisibile filo, l’idea di Ro-ma, perché il ceto dirigente «solo nella tradizione clas-sica e romana poteva trovare il concetto dell’unità dellapatria con Roma capitale»692.

Tale collegamento, il Cavour lo aveva bene intuito; edopo di lui l’accento politico della vita italiana s’era an-cor più fermato su Roma, non solo attraverso il «Roma omorte» di Garibaldi, ma pure attraverso la «Permanen-te» dei piemontesi. Così, dopo il ’48 Roma aveva occu-pato nei cuori degli Italiani un posto mai avuto nei pri-mi decenni del Risorgimento; il mito tornava a rifulgeredi nuova luce.

II

Scienza o renovatio ecclesiae?

Roma era dunque la missione, l’idea universale, il propo-sito cosmopolitico. Roma, missione, primato, terza etàdel mondo, tutte queste idee s’erano svolte insieme, inun viluppo strettissimo; le grandi ombre del suo passatotorreggiavano nuovamente sulla città dai sette colli.

Più tardi, sarebbero state le ombre di Scipione e diCesare; ma in quegli anni subito dopo il ’70 era l’ombradi Pietro a incombere sugli animi, con la sua secolarecontinua presente gloria e potestà, che gli uni eranoeccitati a difendere, egli altri s’accanivano a voler ridurre,

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sino a farne una parvenza esangue. Non la Roma paganae imperiale, bensì la Roma cristiana, segnacolo di fedenel mondo, era ancor viva e ben viva; con essa s’avevaa misurare direttamente, ora, lo Stato italiano. Entrar aRoma, significava trovarsi fronte a fronte il Papato, cioèun’idea universale: alla quale, cosa contrapporre per nonessere moralmente dominati e schiacciati?

La Scienza, diceva Sella; la libertà religiosa e cioè la se-parazione fra Stato e Chiesa, secondo la formula cavou-riana, rispondevano gli uomini di governo e molte del-le maggiori personalità della Destra. Riuscire a tanto; fartrionfare anche in Italia, sede del Papato, il principio cheil problema religioso va lasciato alla libera coscienza deicittadini e «che la convivenza della Chiesa libera accantoallo Stato libero si fonda non in un trattato di conciliazio-ne tra quella e questo, ma nella natura delle leggi di que-sto, quando essa sia tale da rendere possibile, senza inca-glio, la fondazione dell’ente morale, e dell’associazione re-ligiosa»; non intervenire quindi nei problemi della Chie-sa, limitandosi a restringerne i mezzi a quelli morali, li-beramente accettati dai credenti, e togliendole il sussidiasecolare della coazione esterna693: questo fu allora il pro-gramma della maggior parte dei capi della Destra, ai qua-li l’assolvere tale compito, semplice in apparenza e in so-stanza irto di difficoltà formidabili, apparve compito de-gno veramente dell’Italia e di Roma, tale da segnare lavia migliore ai destini morali e religiosi dell’uomo694.

Era ancora il programma cavouriano, a cui essi vollerotener fede, nonostante le situazioni mutate, nonostante ilSillabo e il Concilio Vaticano; e la via seguita, attraver-so la legge delle Guarentigie, condusse al successo, qua-lunque cosa si potesse dire in mento alle deficienze e allecontraddizioni di quella legge, perché attraverso tale po-litica si venne consolidando la coscienza dello Stato nonconfessionale, sopravvissuta a tante e tanto grandi tem-peste e che con l’unità nazionale e il senso della libertà

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costituì il retaggio dell’Italia ottocentesca ai posteri. E sealtri eminenti pensatori, soprattutto Bertrando Spaven-ta, trovavano insufficiente e provvisoria la formula ca-vouriana e vagheggiavano, al posto della Chiesa Stato loStato-Chiesa, o, come si disse più tardi, lo Stato etico695,rispondevano i nostri che, ad andar oltre il principio del-la libertà, c’era da surrogare al vecchio governo teologi-co che faceva a laico un governo laico che s’impancas-se a teologo696, rovinando e Stato e Chiesa, impedendosia il formarsi di una vera e salda coscienza politica, sia ilrifiorire del sentimento religioso, pur tanto invocato co-me premessa necessaria ad una vita nazionale moralmen-te salda. Perché, per i più dei moderati, anche per coloroche non vagheggiavano, alla Ricasoli, la riforma religiosae il trionfo del cattolicesimo «puro», impossibile appari-va una vita di popolo sana e robusta ove una forte inte-riorità non sorreggesse gli ordini statali; e la forte interio-rità poteva essere data solo dalla religione. Anche que-sta era un’eredità del primo Ottocento, dell’età romanti-ca, che aveva posto in interiore homine l’origine e la basedella vita collettiva e voleva far vivere la legge nel cuoredell’uomo sulle orme di Rousseau e contrariamente allatendenza politicizzante alla Montesquieu che aveva inve-ce fatto dipendere dalle forme di governo, dal sistema didiritto pubblico anche la moralità e la sostanzialità del-la vita interiore dei cittadini697. Ed era un motivo comu-ne alle più varie tendenze, fede e volontà richiedendo unMazzini, e cioè sempre interiorità, fede e volontà richie-dendo ugualmente quegli altri, i quali, lungi dal vaticina-re la fine del Papato, continuavano a credere nella mis-sione del cattolicesimo. L’educazione dell’uomo, cioè lapreparazione degli animi ai grandi compiti della vita col-lettiva, valeva tanto per Mazzini quanto per i moderati,diversi che fossero i fini e diverse le forme attraverso cuil’educazione doveva compiersi. Ora, appunto, per i mo-derati il fattore religioso restava preminente: o forse lo

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stesso Cavour che ammirava Rousseau e avversava Vol-taire, non aveva dimostrato, assai prima di enunciare laformula famosa, prima cioè che la ragion politica lo indu-cesse ad affrontare pubblicamente il problema, non ave-va dimostrato vivissimo interesse per il movimento reli-gioso in Europa, per le idee religiose «le grandi mystè-re du siècle», solo augurandosi che la religione non si al-leasse alla reazione politica?698 E nella stessa formula nonc’era forse la speranza, la certezza che in regime di pienalibertà la religione rifiorisse e la Chiesa rimanesse poten-te, nel campo suo, ma potente: la stessa speranza, dun-que, che continuavano ad accarezzare i suoi epigoni?699.

Or dunque niente Stato etico, per le maggiori figurenel campo dei moderati; ma rinvigorimento dello Stato,sperando che si rinvigorisse pure il sentimento religiosoe per vie autonome, senza interventi politici dall’esterno,dal quale rinvigorimento lo Stato stesso avrebbe in defi-nitiva tratto grande e diretto vantaggio, con la coscien-za dei cittadini moralmente ben temprata. Separazionedunque, che non voleva dire guerra, ma escludeva – al-meno in molti escludeva – i progetti di una conciliazio-ne a mezzo di atti ufficiali di governo, secondo la vecchiaprassi concordataria. Conciliazione, sì; ma se per la mol-titudine essa si presentava naturalmente sotto le forme diun accordo preciso e concreto, com’era raffigurato nellalitografia del Vaticinio, che andava a ruba dopo il Ven-ti Settembre e dove Pio IX benedicente dava il braccioa Vittorio Emanuele appoggiato all’elsa della sciabola700,per i capi assumeva forme meno semplicistiche e assaipiù complesse. «Quando dunque noi parliamo di con-ciliazione», dichiarava alla Camera il Visconti Venosta,«non intendiamo certo parlare di quei patti che confon-dono la politica con la religione, e che compromettonoin egual modo e l’una e l’altra; la conciliazione non in-tendiamo crearla per altra via che per quella della liber-tà; di quella libertà che non è già uno spirito di intolle-

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ranza o di violenza rivoluzionaria, ma che si ispira al ri-spetto di tutti i diritti, e quindi al rispetto del più incoer-cibile, del più sacro fra essi, che è quello della coscienzareligiosa». Scopo della politica italiana per il governo eradunque «di non rendere impossibile nell’avvenire la pa-cificazione, e la tranquilla coesistenza in Roma del papa-to, e del governo italiano»; per raggiungerlo, niente ac-cordi legali, ma nemmeno la via della coazione su cui eraentrato il Bismarck con il Kulturkampf e su cui avrebbevoluto entrare la Sinistra, una via che avrebbe apportatoall’Italia «la felicità del conflitto religioso in permanen-za» e che, con la rinunzia ai princìpi liberali e l’adozionedei metodi autoritari, avrebbe semplicemente allontana-ta la pacificazione701. All’anticlericale principe GerolamoNapoleone che gli rimproverava di esser troppo modera-to nella questione romana e lo incitava a «pousser le pa-pe hors de Rome», meno pericoloso essendo un preten-dente fuori che dentro, il Visconti Venosta rispondeva,questa politica non è la mia, io farò ogni sforzo per ren-der possibile l’intesa del Papato e della Monarchia in Ro-ma, lo stabilimento di un modus vivendi accettabile pertutti702. E più tardi, in un momento assai difficile per lerelazioni italo-germaniche, quando ovunque si parlava diproteste e pressioni bismarckiane sul governo di Roma –come sul governo belga – dall’uomo di Varzin imputatodi eccessiva condiscendenza verso il Papato, il ViscontiVenosta affermava al ministro di Francia pur eludendonele domande specifiche, il suo profondo orrore per le lot-te religiose, sino a rievocare addirittura, quale fantasmaammonitore, le guerre di religione del Cinquecento703.

Di fatto, sulla via prussiana della forza il governo ita-liano rifiutò di entrare tra il ’73 e il ’75, in pieno Kul-turkampf, nonostante i violenti attacchi della Sinistra, epeggio, il malcontento del Bismarck, nonostante si com-promettessero così le possibilità di accordo, formale esostanziale, con quella Germania che pure appariva co-

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me l’unica sicura alleata contro possibili colpi di testadei reazionari francesi: ed è il più alto elogio che s’ab-bia a tessere di quel governo e di quegli uomini: Ma sullavia della conciliazione concordata, anche solo come pro-spettiva teorica, rifiutarono di entrare, allora e poi, nondiciamo gli uomini della Sinistra, ma anche molti dellaDestra: alcuni, di sentire tanto spiccatamente anticleri-cale da sembrar uomini di Sinistra accesa, perché preoc-cupati per ben altri motivi come sarebbe stata l’elezionedi un pontefice troppo benigno che avrebbe imprigiona-to nelle sue reti la nobiltà e anche parte della borghesia,dominando così esso, con le armi morali, lo Stato704; mai più per la convinzione di che s’è detto, della necessitàcioè che Stato e Chiesa procedessero ciascuno per con-to suo, unico modo per l’uno e l’altra di rinvigorir sé e,ad un tempo, di cooperare al rinvigorimento dell’altraparte. Niente interventi politici nella vita religiosa, comenella vita economica: era lo stesso ottimismo fondamen-tale del lasciar fare, lasciar passare che aveva nutrito illiberalismo occidentale della prima metà dell’Ottocento.

Al Visconti Venosta s’era già unito in anticipo il Bon-ghi, poco dopo il 20 settembre, anch’egli parlando di unaconciliazione naturale, e non per negoziati diplomatici705,s’univa il Massari che anch’egli esponeva ai colleghi dellaCamera la sua persuasione nella conciliazione non con-cordata: «io anelo al giorno in cui l’amore della patriae l’amore della religione possano confondersi in un so-lo ed unico sentimento; ma, appunto perché io voglio,e sinceramente voglio, questa conciliazione, io desideroche non si facciano opere, non si diano passi i quali, vo-lendo affrettarla, finirebbero per allontanarla. Io credo... che la conciliazione dello Stato colla Chiesa non deb-ba essere il frutto artificiale di negoziati, di trattative, didisposizioni legislative, ma debba essere il frutto sponta-neo d’una politica illuminata e liberale, che essa debba

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essere la conseguenza del tempo confortato dal nostrotatto e dalla nostra operosa pazienza»706.

E se taluno più tardi, come il Bonghi nel famoso ’87,abbandonò per un momento il vecchio principio dellaconciliazione naturale per vagheggiare la conciliazionelegalizzata, altri, di pensiero meno facilmente influenza-bile dagli eventi del giorno, rimase fermo e incrollabi-le sino all’ultimo; e Silvio Spaventa ancora nel suo ulti-mo grande discorso, il 20 settembre 1886, ribadì a Ber-gamo i punti fermi del pensiero liberale che, per boccadi Camillo di Cavour, aveva proclamato finita l’èra deiconcordati707.

Anche qui, dunque, nel problema più delicato che uo-mo politico avesse ad affrontare, misura, equilibrio, cal-ma, attesa fiduciosa nell’effetto salutare del tempo, che ilVisconti Venosta chiamava a collaboratore in questa co-me in ogni altra questione di politica estera708: convinci-mento profondo dei frutti benefici della libertà, operantedi per sé: gli essi criteri, dunque, che costituivano le ca-ratteristiche dell’azione generale di governo della Destradopo il ’70. Ma era politica a largo respiro, che guarda-va l’avvenire e non si chiudeva nell’attimo fuggente; tuttadiscrezione, finezza, senso del limite e quindi richieden-te grande saggezza ed equilibrio interiore; politica trop-po sottile, come si disse una volta alla Camera della Poli-tica estera del Visconti Venosta, a troppo lunga scaden-za, e poco adatta a calmar le impazienze e le attese insuccessi immediati e visibili.

Tanto più, che, a determinare una siffatta linea di con-dotta, erano stati indubbiamente decisivi i principi, manon senza che v’interferissero fortemente anche conside-razioni dettate più specificamente dalle circostanze delmomento, e di assai, assai minor respiro ideale. Perchétra i campioni della Destra, Sella e Spaventa eccettuati,v’era un po’ come la sensazione di averla fatta grossa colVenti Settembre: cattolici, e quindi non senza gran trepi-

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dazione di coscienza di fronte al capo della Chiesa catto-lica, siccome chiaramente si avvertiva anzitutto e soprat-tutto nel Re, pien di rimorsi e di timori; uomini di go-verno, e quindi preoccupatissimi che, appena cessato ilconflitto franco-prussiano, il mondo cattolico non insor-gesse a chieder conto all’Italia dell’affronto fatto al Pon-tefice. Forse che al Minghetti, l’ex ministro di Pio IX,al primo annunzio del Venti Settembre ch’egli pure ave-va decisamente voluto, non era passato per capo un pen-siero, a lui stesso apparso così ardito da non osar espri-merlo neppure all’amicissimo Visconti Venosta: «che ilRe corresse immediatamente a buttarsi ai piedi del SantoPadre (uso la frase romana per eccellenza)»?709 L’atto dicontrizione dopo l’atto di forza: questo, uno Spaventa,a non dir di un Sella, non l’avrebbe mai potuto immagi-nare, e ci volevano le vecchie reminiscenze neoguelfe persuggerirlo710.

L’evitare ogni atto che potesse sembrare immistionenelle cose interne della Chiesa rispondeva dunque aiprincìpi, ma non meno alle convenienze dell’ora e allepreoccupazioni d’evitare ulteriori sconquassi. Già per ilVenti Settembre s’eran dovuti abbandonare, all’ultimomomento i «mezzi morali» per la forza; e il Visconti Ve-nosta, sia pur con estrema riluttanza, aveva dovuto ri-nunziare alla via lunga, da lui preconizzata ancora il 19agosto, e seguir la via breve711. Lo strappo era stato gros-so; e per quello, almeno, c’era la scusante del precipita-re della situazione europea, la repubblica in Francia, leincognite di un avvenire scuro scuro, il pericolo di guaianche in Italia, ove non si togliesse la questione di Romadalle mani della Sinistra e il governo, ancora una volta,non si ponesse, esso, alla testa della rivoluzione. Ma erapiù che sufficiente. Un ultimo sforzo, conseguenza ine-vitabile del grosso strappo, la legge delle Guarentigie: epoi, basta. Ritornare, ora, alla via dei mezzi morali, bada-re soprattutto ad evitare tempeste: la politica italiana do-

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veva aver per scopo «di non dare al partito clericale alcu-no di quei plausibili pretesti finora abbiamo avuto l’ac-corgimento di non fornirgli, di far sì che esso non pos-sa parlare in nome dei veri interessi religiosi ... È d’uopoche la questione non possa diventate una questione reli-giosa; facciamo si che essa rimanga ... una questione pu-ramente politica. Ed allora a queste passioni che ora siagitano ... voi vedrete presto mancare ogni eco dintorno,e ad esse medesime mancherà più tardi l’alimento»712.

La libertà di Cavour, sì; ma tanto più accetta in quan-to significava anche non far più nulla dopo il Venti Set-tembre, rimaner a guardare, lasciar che le cose andasseroper il loro verso senza doversi gravar la coscienza di nuo-vi dubbi e nuovi rimorsi. Ci ai rifaceva, tra i moderati,in questa come in tante altre questioni, alla formulazionedel gran Conte, divenuta come una sorta di quinto Van-gelo: ma a coloro i quali dicevano, badate Cavour avevaprofferito l’intera libertà alla Chiesa, per indurre Pio IXa rinunciare spontaneamente al potere temporale, e ora,dopo il Sillabo e l’Infallibilità, di fronte alle scomunichee alle insidie papali, alla lotta del clero contro l’Italia, an-ch’egli non avrebbe più disarmato totalmente lo Stato713,gli uomini di governo rispondevano con l’interpretazio-ne letterale, rifiutando chiose e postille.

Di qui la sensazione di incertezza e trepidezza, di unoscillare barcamenandosi empiricamente un colpo al cer-chio uno alla botte, che quella politica poté dare, solle-vando già allora le ire della Sinistra e, all’opposto, il mal-contento di cattolici alla Tommaseo e alla Capponi, o l’i-ronia del Toscanelli che all’azione del governo applicavai versi del Giusti:

Quell’occhio dal ti vedo e non ti vedo,Quel tentennìo, non so se tu m’intenda,Che dice sì e no, credo e non credo714

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e sollevando più tardi critiche severe di storici eminen-ti715.

Ma certo, quale che potesse essere il giudizio sull’azio-ne pratica del governo, momento per momento, una co-sa era sicura, ed è che una tale linea di condotta non sod-disfaceva né punto né poco all’idea della missione di Ro-ma. Urtava una parte degli stessi moderati, già entratiin gran collera per il Venti Settembre, turbati nella lorocoscienza716, e risoluti oppositori, poi, del trasferimentodella capitale a Roma, come di un progetto che rischia-va di incagliare la soluzione della questione romana, e,ponendo faccia a faccia Papa e Re, Vaticano e Quirina-le, Statuto e Sillabo, di provocare urti tremendi ad ogniora717.

Ma era del tutto insufficiente per coloro, cattolici eanticattolici, che sognavano la nuova missione di Roma.Anche ammesso il successo finale che cosa ne sarebbe ri-sultato? La buona armonia fra lo Stato italiano e la Chie-sa; la composizione di un dissidio interno; il consolida-mento dello Stato italiano; il trionfo in Italia dello spiri-to di libertà, operante per forza propria: cioè, sempre,una soluzione puramente nazionale, italiana, onorevolema modesta. Dei due, messe così le cose, dei due a gigan-teggiare sarebbe stata sempre la Chiesa, il Papato: Romacapitale d’Italia non avrebbe aggiunto nulla alla vecchiaRoma pontificale. Niente missione cosmopolitica dell’I-talia.

E ancora: lasciar la Chiesa a sé, non significava lasciarche continuasse nella via già battuta e sanzionata dal Sil-labo e dell’Infallibilità? Ora fra gli stessi cattolici più d’u-no ve n’era che, se ripugnava totalmente dall’anticlerica-lismo di conio giacobino e positivistico, ripugnava pu-re al veder continuare il cattolicesimo quale era, senzarinnovamenti interiori. La Chiesa quale era, sostanzial-mente, salvo l’abbandono delle tendenze politicamentereazionarie, accettavano il Lanza e il Visconti Venosta, a

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non dir del Capponi, del Jacini, dell’Alfieri718; la Chiesaquale doveva essere, propugnava un Ricasoli, e valea direcon un gran movimento di riforma interiore ripristinasseil «puro e vero cattolicesimo»: ebbene anche ad un Rica-soli l’azione di equilibrio del governo sembrava fiacchez-za, debolezza, pavidità. Lo Stato estraneo ad ogni immi-stione nella vita della Chiesa, per gli uomini di governo;lo Stato che doveva invece cooperare alla riforma dellaChiesa, per il Ricasoli.

Due concezioni in totale antitesi: e se ancora fra unVisconti Venosta, un Lanza, un Massari da una partee un Jacini, un Alfieri di Sostegno, un Casati dall’altrala differenza era più sul modo di comportarsi di quantonon fosse sul fine ultimo, più tattica che strategica, comeche gli uni e gli altri volessero la Chiesa lasciata a sé, fratutti quegli uomini e un Ricasoli il contrasto era già sulfine ultimo, sulla sostanza stessa delle cose.

L’anelito alla riforma, che operasse dentro la Chiesa,non mai fuori e contro la Chiesa719, ma che operasse, eurgentemente, il romito del Chianti720 l’aveva derivatodal magistero del romito di San Cerbone721 ma persistevaanche ora, tenacissimo, nel ’70 e dopo il ’70. Una volta,il Ricasoli aveva scritto al Giorgini, di aver la coscienza«che siamo alla vigilia di una grande rivoluzione nelcattolicismo romano a prò del vero cattolicismo, ed io ladesidero ardentemente e prima di morire vorrei vederla.Mi struggo di porci lo zolfanello ma non so dove siail punto più vivo alla esplosione»; e da tale desiderioeccitato, aveva diretto, nel ’65, i lavori della commissioneparla tare che erano sboccati nel rivoluzionario progettoCorsi722.

Ora in Roma egli vedeva, più che il fatto di una capi-tale che si trasloca «la futura trasformazione del Papato,che non può non essere, ne spero, che a bene, del verosentimento religioso, oggi compromesso dall’indifferen-tismo e dalla immobilità»723.

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Qui, nel saper operare saggiamente era riposta «l’ani-ma d’un avvenire nuovo della società umana»724; e il sag-giamente operare voleva dire spiegare la bandiera del-la libertà della Chiesa, della completa e assoluta sepa-razione della Chiesa dallo Stato, porgendo al mondo labase di una grande rivoluzione politico-sociale, di unfatto storico che dopo la fondazione del Cristianesimo«non saprei addurne un secondo egualmente benefico esplendido»725. Ma libertà della Chiesa, separazione fraStato e Chiesa significavano altra cosa, per il Ricasoli co-me per il Lambruschini, dalla formula cavouriana, alme-no dall’interpretazione dei moderati di governo726: vole-vano dire, invece, offrire alla Chiesa il mezzo di riformarsé stessa, aiutarla a riformar sé stessa, cioè intervenire so-prattutto agendo in modo che la Chiesa ridiventasse lacomunione dei fedeli, laicato e sacerdozio uniti. La gros-sa questione delle temporalità della Chiesa offriva a ciòimmediato e facile modo.

Non lo Stato che guarda la Chiesa vivere, ma lo Sta-to che aiuta la Chiesa a riformarsi: eran pensieri che ri-conducevan su su negli anni, quando il Ricasoli legge-va e spiegava il Vangelo alla piccola Betta727 o istruiva ilcanonico Parronchi sul come svolgere il Quaresimale aBrolio, per aprire i cuori e l’intelletto dei contadini a ve-rità e dolcezze inusitate728, o quando egli stesso, venutodi città in campagna e trovatala popolazione moralmenteabbandonata, aveva cominciato a riunire di domenica incasa sua i contadini, per legger loro parabole e cavarnequanti più insegnamenti fosse possibile729.

Roma quindi era problema religioso; la sua missio-ne ira sempre missione religiosa, alla rivoluzione politicadoveva seguire la rivoluzione religiosa730, e soltanto conl’avverarsi della seconda la prima avrebbe potuto dire diaver assolto veramente il suo compito. Perché Roma insé e per sé, come fatto politico, come semplice capitaledel Regno d’Italia, diceva poco al Ricasoli, d’accordo in

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questo senza saperlo con Mommsen, Gregorovius e Do-stoievskij. «Si è voluto Roma perché ci apparteneva; per-ché il non averla ci era nocivo più che averla; e se si è fat-ta Capitale, egli è perché era indicato dalle nostre conve-nienze politiche interne, e non già perché Roma rappre-senti alcuna cosa più che il centro del Governo di unaNazione, che repugna tutta concorde dall’accentramen-to, e dal farsi assorbire dalla sua Capitale ...»731 Nientemissione di Roma in senso laico; niente Roma faro di lu-ce nel mondo perché capitale d’Italia: tanto poco nel Ri-casoli Roma italiana doveva assolvere una missione co-smopolitica, ch’egli combatteva gl’intendimenti del Selladi farne un grande centro di cultura e di scienza, dandoin ciò libero sfogo anche alla diffidenza verso Roma ac-centratrice, dove sfociavano sia l’antiromanesimo d’allo-ra dei moderati toscani, sia le antiche preoccupazioni delRicasoli stesso come del Salvagnoli e di altri amici per laeccessiva centralizzazione della vita pubblica e il compli-carsi della macchina governativa732.

Ma missione di Roma, questo sì, della Roma cristiana,cattolica, alla quale appunto l’evento politico di Romaitaliana doveva servir da stimolo, motivo, occasione peruna trionfale ripresa nel mondo. E se v’era una provadecisiva del basso livello morale a cui eran caduti gliItaliani, la costituiva il fatto che i più non scorgevano inRoma se non un evento materiale, neppur presentendo«che vi sta riposta l’anima d’un avvenire nuovo dellasocietà umana»733.

Così dalla realtà presente l’anima si protendeva ver-so l’avvenire; dal problema puramente politico del con-tegno da tenere di fronte al Papato, l’immaginazione silanciava in arditi voli verso un grande evento futuro, ilrinnovamento della Chiesa per forza interiore, il riappa-rire del puro cristianesimo, che non era altro se non il«puro cattolicesimo», e l’umanità avviata, con rinnova-to abbandono nella ristoratrice parola del Signore, ver-

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so più alte forme di vita morale, che soverchiassero final-mente il sordido materialismo del secolo.

Né erano soltanto cattolici italiani a sognarlo; voci ab-bastanza simili, e non molto meno accese di zelo riforma-tore, si levavano oltre frontiera, e tra le altre quella di unodei prelati di maggior nome nella cattolicità europea diallora, il vescovo di Djakovo, Giuseppe Giorgio Stross-mayer, uno dei capi del movimento nazionale slavo, ch’e-ra stato uno dei risoluti avversari del dogma dell’infalli-bilità. Legato da personale amicizia col Minghetti734 ecol Visconti Venosta, e grado di far discutere dal Consi-glio dei ministri memoriali suoi, al momento della leggedelle Guarentigie735; pronto a servir da intermediario fraItalia e Francia nelle questioni attinenti a Roma papalee soprattutto a predisporre il terreno per l’eventualità diun conclave736, lo Strossmayer non soltanto auspicava sulterreno politico la collaborazione fra latini e slavi737, main campo religioso propugnava la riforma interna dellaChiesa: e in questo anch’egli vedeva la missione dell’Ita-lia politica, chiamata a cooperare, a favorire, a spronare.Occupando Roma e distruggendo il potere temporale, ilgoverno italiano ha fatto cosa utile a sé «ma eziandio be-nefica alla Chiesa e a tutta l’umanità. E difatti tale domi-nio aveva allontanato il Papato dalla sua divina destina-zione convertendolo in una istituzione meramente poli-tica. A tale dominio si deve ascrivere se il Papato vennemeno al suo carattere di universale, e se lo troviamo av-verso a tutte le più savie, rette e generose intenzioni d’I-talia. Però l’Italia occupando Roma diede solo principioalla sua grande missione, e molto le resta ancora da fare.Dopo ha un compito e ardisco dire una missione prov-videnziale che non potrebbe dimenticare senza sua grandisonore e pericolo, cioè il compito e la missione di farsì che il Papato ritorni alla sua primaria e immortale de-stinazione, e che riconciliatosi coll’Italia e per essa contutta la civile società, si studi efficacemente a purificare

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e santificare in conformità ai precetti della divina legge icambiamenti avvenuti e riconoscendo con lealtà e fran-chezza come la indipendenza e la libertà del Primate deicattolici sia sufficientemente costituita e garantita dallelibere istituzioni del Regno d’Italia, divenga per essa unelemento poderoso di grandezza morale anziché un ger-me funesto di debolezza e d’infermità. La Provvidenzadivina coll’avere designato Roma quale sede del Papatoimpose all’Italia l’obbligo di essere custode della libertàdella Chiesa e protettrice del Papato, e la costituì in talqual modo la mediatrice naturale tra il Papato e la civileSocietà.»738.

Perciò lo Strossmayer, approvando pienamente la leg-ge delle Guarentigie, trovava che in un sol punto il go-verno italiano aveva ecceduto – in debolezza – abbando-nando al Papa e alla Curia la nomina dei vescovi men-tre si sarebbe dovuto tornare all’antica disciplina «cleruset populus o, riservando Papa solo il ius confirmationis.Toccava all’Italia prender l’iniziativa su questo punto ca-pitale; così come era interesse dell’Italia e del mondo in-tero che si attuasse il programma ferito caro al vescovodi Djakovo: che, cioè, il Papato cessasse di essere un’i-stituzione esclusivamente italiana, come voleva la Curia,per ridiventare un’istituzione cattolica e mondiale739.

Più alla buona, era pensiero comune in quei giorni edi frequente affiorante nelle discussioni in Parlamento,che l’aver perso il dominio temporale anziché nuocereavrebbe giovato al Papato, liberandolo dalle scorie ter-rene e lasciandolo tutto al suo alto compito spirituale740.E ne convenivano i Lanza i Visconti Venosta i Minghet-ti i Borghi. Soltanto, nell’opinione comune il compitodell’Italia era stato appunto quello, puramente negativo,di liberale il Papato dalla soma terrena; ed era compitoesaurito. Il resto, ci pensasse a farlo la libertà, operan-te come grazia efficace; la sua vita interna la Chiesa sela regolasse da sé, senza che lo Stato v’avesse più ad in-

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tervenire: che fu appunto il concetto cardine del titolosecondo della legge delle Guarentigie.

Compito nient’affatto esaurito, per coloro che la pen-savano come un Ricasoli; missione che cominciava pro-prio soltanto allora, per coloro che attorno al 1870 vi-vevano ancora di sentimenti e di pensieri sbocciati nel-l’Europa della prima metà dell’Ottocento, in quel climacosì ricco di senso religioso e di attesa quasi messianicanel nuovo trionfo della fede, dove avevano potuto ope-rare Lamennais e, in Italia, Rosmini e Lambruschini. Ac-cordo tra fede e scienza, tra Chiesa e libertà, tra Chiesae pensiero moderno: era la tradizione dei Rosmini, deiManzoni, dei Lambruschini, che, per un Ricasoli, sul-le orme el Lambruschini, doveva divenir fede operante,anche da parte dei laici, e non rimaner fede puramentecontemplativa, siccome predicava il governo.

Idee e affetti ancora di prima il ’48, dunque, del cat-tolicesimo romantico. Ma i tempi non erano più quelli;al bisogno di riforma religiosa e età romantica sottentra-va, era già sottentrato il bisogno di scienza dell’età posi-tivistica, come avrebbe dimostrato il rapido declino delmovimento dei Vecchi Cattolici in Germania e dell’ecoeuropea di un Döllinger, così in auge, per un momento,proprio nel ’71. E quindi di scarsa risonanza ormai le vo-ci di un Lambruschini vecchio e di un Ricasoli già prati-camente fuori dei tempi, e trionfante invece la missionedi Roma alla Sella.

Alla voce del ministro delle Finanze, rispondevano in-fatti altre voci di uomini che, politicamente, apparte-nevano pure alla Destra; rispondeva soprattutto il coroconcorde degli uomini della Sinistra. Roma capitale delRegno, inizio di un’èra nuova nella storia dell’umanitàintera: e se l’Italia non aveste adempiuto al compito as-segnatole dal destino, non avrebbe avuto più ragione diessere nel mondo. «L’Italia non può ripudiare una mis-sione, direi mondiale, di cui la Provvidenza la incarica,

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e che le sta dinanzi. A lei spetta presentarsi davanti atutte le nazioni civili del mondo con questo insigne tito-lo al loro rispetto, alla loro riconoscenza, di essere cioèpervenuta, abbattendo il potere temporale del pontefi-ce, ad emancipare e rendere più autorevole e venerandoil potere spirituale, liberandolo dalla soma di una menche apparente sovranità politica, e sciogliendo, dopo se-colari conflitti, un infausto connubio, che non a noi sol-tanto nuoce, ma nuoce ai grandi e generali interessi dellaciviltà e della libertà del mondo.»741.

Ma nella perorazione del Mancini, alla vigilia del Ven-ti Settembre, c’era una formula convenzionale, di corte-sia, di opportunità politica, che altri uomini non condi-videvano certo, e forse nemmeno il Mancini professavasinceramente: il rendere più autorevole e veneranda lapotestà spirituale del Pontefice, era proprio soltanto unaformula a scopo tattico, in un, discorso parlamentare, eniente più.

Quel che s’era fatto sino allora, non bastava; L’abbat-timento del potere temporale non era fine a se stesso, masemplice mezzo: come per il Ricasoli, anche se con in-tenzioni del tutto opposte, il Regno d’Italia non doveva«stare a vedere», ma operare sulla Chiesa. Operare, que-sta volta, in senso distruttivo: l’Italia nuova e il cattoli-cesimo vecchio non potevano più stare insieme; l’Italia,creatrice del Papato, doveva distruggere il Papato, dove-va spaparsi742: e anche qui si accordavano voci dall’inter-no e dall’estero e si predicava, oltr’Alpe, l’obbligo del-l’Italia di sfasciare il cattolicesimo romano per riparare atutto il male causato dall’Italia all’umanità con la restau-razione cattolica del Cinque e Seicento743.

Non più il rinnovamento della Chiesa, il rinato fervo-re religioso delle genti; ma, esattamente all’opposto, la fi-ne della «superstizione», cioè dell’idea religiosa, il crol-lo del Papato anche come potere spirituale dopo il crol-lo del potere temporale; la fine del «vecchio cancro» che

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aveva roso per secoli il bel corpo dell’Italia744, e il trionfodel libero uman pensiero. In luogo del messianismo reli-gioso dell’età romantica, in luogo del cattolicesimo libe-rale, razionalismo settecentesco e giacobinismo rivestitia nuovo e scientificizzati dal positivismo trionfante. Inluogo della fiducia nell’accordo tra fede e scienza, Chie-sa e libertà, la convinzione della inconciliabilità assolutatra Chiesa e libertà, tra Papato e pensiero moderno.

Non più dogmi, ma scienza; la scienza che apporta-va la luce, debellando l’oscurantismo clericale, e custo-diva la verità nutrice della nuova morale. Altissimo fineper alcuni, come i Sella, fine a sé e in sé, anche se ser-visse contemporaneamente per la lotta contro il Papatoreazionario e anti-italiano, la scienza ben s’intende valevaper altri soprattutto come mezzo, in quanto serviva perla lotta contro la Chiesa: era la parola d’ordine del gior-no, ed è ovvio quindi se ne valessero, per i loro attacchi alPapato, anche uomini che della scienza avevano concet-ti assai assai nebulosi e, contrariamente al Sella, non so-gnavano minimamente di dedicarsi al suo culto. Soprat-tutto nelle polemiche giornalistiche e nei dibattiti parla-mentari, era sovente un nome pomposo che mal masche-rava la scarsa dimestichezza al pensare; e far di Roma lacapitale dello spirito moderno e così per la terza volta laregina del mondo civile aveva per un De Sanctis745 evi-dentemente, un significato di altra profondità e sostan-zialità che non per i redattori del Gazzettino Rosa. Ma,più o meno profondamente e puramente sentita che fos-se, la scienza fu allora l’appello che ebbe il potere di en-tusiasmare i molti, corbe un cinquantennio prima l’ave-van avuto invece altre idee e, fra esse, anche l’appello alrifiorir religioso dell’umanità; né mai un simile grido eb-be più vasta e profonda risonanza che in quegli anni, do-po il Sillabo e il decreto sull’Infallibilità, quando i gover-ni di mezza Europa erano in rotta col Papato, persino ilgoverno della cattolicissima Austria, e quando il trion-

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fo prussiano nella guerra appariva anche come il trion-fo della scienza sfruttata a fini bellici. La morte stessacelebrava il progresso scientifico746.

La religione del progresso, al posto della religione deidogmi.

Poco più tardi, lo si poté ascoltare dai pubblicisti bi-smarkiani, una voce dicentes, e fra le varie voci dei cantorisquillante soprattutto quella del Treitschke: che la Ger-mania, la grande patria della libertà del pensiero, noncombatteva per l’onnipotenza statale, ma per una più li-bera concezione del cristianesimo, per la libertà del pen-siero e della scienza, per una nuova vita spirituale ger-manica e quindi dell’umanità747. Ma in quei giorni trasettembre 1870 ed estate 1871, prima che il Bismarck,dissotterrata l’ascia fatidica, lanciasse il grido di guer-ra «nach aussen wie nach innen»748, e dopo ancora an-che in pieno Kulturkampf Italiani e Tedeschi disputan-dosi l’onore749, l’essere i liberatori del genere umano dal-la schiavitù spirituale dei preti lo reclamarono per sé ilaici italiani. E di Roma capitale questo divenne il com-pito più largamente e intensamente celebrato; e all’Italiavenivano additati della dea Roma

... le colonne e gli archi:non più di regi, non più di cesarie non di catene attorcentibraccia umane su gli eburnei carri;ma il tuo trionfo, popol d’Italiasu l’età nera, su l’età barbara750

La Scienza, gli istituti di alta cultura, l’Accademia deiLincei e l’Università, baluardo del nuovo pensiero con-tro il pensiero teocratico; i congressi degli scienziati, le li-bere discussioni che, avvenendo nella antica capitale del-la scienza ortodossa, e cioè della falsa scienza, costituiva-no un evento nella storia dello spirito umano751: qui ilpensiero acquistava forma concreta, anzi la sola forma

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concreta che l’idea del rinnovamento laico dell’umanitàpotesse assumere.

Scienza, discussione critica e non più accettazione cie-ca di dogmi: 1 grido si levava, alto, di qua e di là dalleAlpi. Entrer dans la science, dans l’examen, tuonava l’ira-condo Flaubert, grande artista e come tale deprecante l’i-nizio dell’età utilitaria e positivistica, ma d’altro canto fu-ribondo contro i dogmi, anticlericalissimo e quindi apo-stolo della scienza, della discussione critica, del predomi-nio dei mandarini cioè del sapere752. La regina legittimadel mondo e dell’avvenire non è ciò che nel 1789 si chia-mava la Ragione, è ciò che nel 1878 si chiama la Scien-za, esclamava Taiine753. E Renan poi, che intonava nuo-vamente il motivo del progresso della ragione, vale a diredella scienza, già accarezzato sin dal ’48 ne L’avenir de lascience e ripreso con grande ottimismo nel ’69, alla vigi-lia della guerra754; Renan, che modernizzava l’Ecclesiaste;affermando la vanità di tutto fuorché della scienza, l’ar-te stessa apparendogli ormai un po’ vuota755; Renan di-menticava le più assennate considerazioni del novembre1849 sulla naturale cattolicità del popolo italiano756, perproclamare che la fine del potere temporale avrebbe pro-vocato anche uno scisma simile al grande scisma d’Occi-dente e con ciò la fine dell’unità cattolica757. Proprio perquesto, il «modesto e onorevole» rinascer dell’Italia a na-zione era anche un fausto evento per l’umanità758. Così,nel 1881 egli affidava alle mani degli anticlericali roma-ni il gran problema del secolo XIX, della assoluta liber-tà religiosa e dell’agnosticismo statale in materia di fede:che voleva dire cacciar dal mondo le ultime vestigia diun regime opposto ai princìpi più saldi della civiltà mo-derna, e garantire i diritti della causa santa, la causa dellacoscienza limana, dello spirito umano, della scienza759.

Sfiduciato, spesso, della Francia; a momenti attana-gliato da torbide visioni sull’avvenire dell’umanità; pienodi contraddizioni interiori, e anzitutto proprio tra nostal-

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gie del passato aristocratico e inni alla scienza, che signi-ficava una società industrializzata, democratica e nazio-nalista; indeciso e oscillante tra gli intimi ideali artistico-religiosi e l’ideale scientifico assai più mutuato dai tem-pi, Renan tornava l’ideale a riprendere animo solo pen-sando al trionfo avvenire della scienza e alla fine dell’u-nità spirituale della Chiesa romana. Qual prova miglioredel viaggio in Sicilia, nell’estate del 1875, quando la na-ve che trasportava il novello apostolo delle gemi era stataattorniata, nei pressi di Selinunte, da uno sciame di bar-che cariche di Siciliani acclamanti «viva la Scienza!», elui, il grassoccio e sorridente Renan, era passato attraver-so l’isola simile ad un trionfatore, tra le continue ovazio-ni di un popolo intero, modesto nell’incedere e pur com-piaciutissimo che dopo Empedocle a nessuno, Garibaldieccettuato, fossero state tributate accoglienze simili? Ve-ramente, dopo l’Ungheria, la Sicilia era il paese più pros-simo a spezzare i vecchi legami con Roma papale e adiniziare la riforma religiosa760.

Roma centro di scienza, di pensiero laico rinnovato-re del mondo: fu un motivo intonato allora da una fol-to coro761 e continuamente riecheggiante nei decenni cheseguirono, si affermasse in Parlamento, da maggiori e mi-nori, che in Roma occorreva laicizzare lo Stato di frontealla Chiesa, o dal Crispi, presidente del Consiglio, chebisognava affermarsi con la scienza di fronte al Vaticano,per dar modo alla terza Italia di combattere i pregiudizidel passato762; si esaltasse, in campo de’ Fiori, GiordanoBruno; si ripetesse in Senato, nel 1913, a proposito del-la cattedra di filosofia della storia nell’Università di Ro-ma, che all’Ateneo dell’Urbe incombevano maggiori do-veri per essere «il vero segnacolo dell’emancipato spiritomoderno, di fronte al secolare dominio teocratico»763.

Né fra gli stranieri era solo Renan a credervi: ancoraall’inizio del secolo XX il Novicov esaltava la missioneintellettuale dell’Italia, destinata a divenire non soltan-

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to il «sanatorio intellettuale e morale del mondo», armo-nioso asilo di tutte le anime delicate, ma, come una vol-ta, anche la rinnovata educatrice del genere umano nellascienza, la madre delle scienze e delle arti764.

È naturale che nel gran coro intonato da pubblicistie uomini politici, soprattutto della Sinistra, e dai liberipensatori di professione, l’ideale della scienza, pur sem-pre riaffermato, sfumasse in assai più vaghi accenti in cuial principio positivistico della scienza si frammischiava ilricordo della predicazione mazziniana, con le sue indefi-nite attese messianiche, i suoi slanci oratori, il suo anelitoad una nebulosa religione del Vero e del Buono. Tipica-mente uomo della seconda metà del d’Ottocento, il Sel-la, e di una chiarezza e precisione veramente consona alsuo ideale; a mezza via spiritualmente tra prima e secon-da metà, tra predicazione mazziniana e positivismo allaLittré, tra ateismo e un confuso teismo, gli altri. E su pa-recchi, i meridionali in genere, il Mancini in ispecie, ur-geva ancora l’antica mentalità dei giurisdizionalisti sette-centeschi; e, su altri, in primis il Crispi, premevano gli in-flussi massonici e il verbo del grande architetto dell’uni-verso: su tutti, lo spirito giacobino, vivo e agitantesi oraproprio essenzialmente nel problema dei rapporti con laChiesa.

Così è che nelle apostrofi e invocazioni di quegli uo-mini il tono s’accendesse; come nell’oratoria parlamenta-re, così nella pubblicistica, al più contenuto e secco e ri-guardoso eloquio di un Sella succedeva il pathos di deri-vazione mazziniana, l’immagine grandiloquente, l’invet-tiva contro il Papato.

Lotta contro il nemico interno dell’Italia, che era adun tempo il cancro dell’umanità, il Papato; lotta controla teocrazia, per erigere sulle ceneri del trono dei papi unedilizio che, basato sulla morale e sulla scienza, fosse de-gno di essere il tempio dell’umanità765; ricondurre la reli-gione cattolica «ai modesti princìpi onde nacque», senza

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di che l’Europa liberale, non avrebbe mai avuto pace766:questo il programma della battagliera Riforma. Un’oc-chiata di quando in quando a Nizza e a Trento e un’al-tra all’Oriente: ma, per il momento, soprattutto e sem-pre, occhio al Papato e quindi alle mene dei reazionarifrancesi, procedendo concordi con il Titano che sfidavail Papato e tutelava la libertà dell’Europa, con il principedi Bismarck.

Crispi l’aveva già affermato anche prima che bisogna-va mirare a Roma «necessaria al popolo per essere la veracapitale d’Italia, e necessaria all’umanità per essere il ter-mine logico dalla cui conquista dipende la conquista del-la libertà di coscienza»767. E dalla missione emancipatricedi Roma nel cancellare la tirannia dei preti, nemici del-la patria e della civiltà, prendeva le mosse l’Appello allaDemocrazia che Garibaldi e Cairoli lanciavano il 1° ago-sto 1872768: e l’eroe dei due mondi incalzava, sia che de-plorasse di non poter ottenere dal governo e dalla mag-gioranza della Camera un decreto che liberasse l’Italiadal Papato anche spirituale769, sia che invitasse il popo-lo, da Frascati, ad iniziare il terzo periodo dell’incivili-mento di Roma, sostituendo a tutte le religioni rivelateo mentitrici «la religione del vero, religione senza pretibasata sulla ragione e la scienza»770. Dietro ai grandi pa-dri del laicismo, la gente minore, convinta che la rivolu-zione fosse giunta a Roma per combattere il cattolicesi-mo faccia a faccia, e che fora di morte del Papato fos-se suonata771; cupida di trar le conseguenze dalla presa dipossesso dell’Urbe, non sterile atto conchiuso in sé, bensìinizio di un’èra nuova772; spesso anche, come suole, pro-clive ad esteriorizzare il proprio sentire in manifestazionirumorose e, non infrequentemente, peggio che rumorosesconvenienti o ridicole773: proclive, per esempio, a paro-diare, il giovedì grasso per il Corso di Roma, la «Crociatacattolica del 1871»774, o a banchettare pubblicamente ilVenerdì Santo a Pisa775, o a trasformare la cerimonia nu-

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ziale di un ex sacerdote in una festa del «progresso»776.Né valevano gli ammonimenti di chi, patriota ma catto-lico, avrebbe voluto gran delicatezza di modi riguardo alPapa, soprattutto nella stampa, per attenuare il suo allar-me e non dar motivo ai cattolici di tutto il mondo di gri-dare contro l’Italia777; o di chi già prima aveva ammonitoche i preti andavano tenuti a freno quando trascendesse-ro, ma che i pretofobi erano per lo più ancora peggiori eavevano guastato parecchio le cose d’Italia778.

Dilagò l’anticlericalismo, con le sue Unioni dei libe-ri pensatori dagli ambiziosi e ottimistici programmi779: ein quelle forme e modi fu, sì, ovvia reazione all’atteg-giamento politico iella Curia romana e dell’alto clero edei Gesuiti di fronte all’unità d’Italia, e da questo pun-to di vista fu dunque collegato con una situazione spe-cificamente italiana, così da vendicare a sé, molto al dilà del presente, lontane, gloriose scaturigini e da presen-tarsi quale nuovo ghibellinismo che invocava il ghibelli-no Dante, trasformato in un gran laico780 e contrappo-sto al Vaticano781; ma fu anche espressione della creden-za in una prossima, inevitabile trasformazione della vitamorale dell’umanità, sulle rovine del credo religioso in-nalzantesi al culto della scienza e del progresso, e quin-di s’intrecciò e fuse strettamente con l’anticlericalismoeuropeo, segnatamente con quello francese, di identicostampo culturale e di identiche radici illuministiche po-sitivistiche massoniche, e con l’anticlericalismo francesefesteggiò, nel 1878, il centenario della morte di Voltaire,apostolo della guerra contro il fanatismo, la superstizio-ne, la religione782.

Perché molti credettero sinceramente che fosse giun-ta l’ora, del tramonto della Roma «hedificata ... superChristum petram per Petrum et Paulum»783; e all’Alear-di, inviperito contro la «immondizia volpina» regnantenel Vaticano, parve sul serio che il dominio della Crocesulle coscienze fosse terminato, tanto che, finito «questo

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tumulto delle anime», i popoli non avrebbero forse piùvoluto la Croce «né anche sulla loro fossa»784.

Alti voli dell’immaginazione, dunque; fervore di spe-ranze, di quelle speranze e attese messianiche che, nono-stante tutto, apportavano ancora nell’atmosfera già piùdura degli ultimi decenni dell’Ottocento un po’ dell’at-mosfera vibrante di fede nel futuro dei primi decenni delsecolo, allora libertà, armonia dei popoli, rifiorire delsentimento religioso, perfezionamento delle sorti uma-ne, ora, almeno, scienza e progresso. Nonostante tut-te le furie scatenate, clero, Internazionale, imperatori edex-imperatori, il XIX secolo trionfa785: lavoriamo dun-que, uomini di scienza, per la soddisfazione del nostrospirito, per la verità, per l’umanità786.

L’ideale viene oggi non dal prete, non dal filosofo, madalla scienza: «avremo un’ideale scientifico, e il secoloXIX, le siècle d’enfantement, lo porta nel suo grembo.L’ideale è morto: viva l’ideale!»787.

E sicuramente la coscienza dello Stato non confessio-nale, fondato sulla scuola laica, che i moderati consolida-vano ne’ modi consoni al loro pensiero, s’alimentò e s’ir-robustì per altre vie in quell’atmosfera, anche se caricadi intemperanze ed eccessi: non diversamente, se purein minor misura, da quel che accadeva allora in Francia,dove, in stretto rapporto anche lì con le passioni politi-che dell’ora e la lotta contro il clericalismo reazionario,la passione anticlericale si accentuava, il positivismo di-veniva sempre più antireligioso788, e lo stato laico riceve-va la sua definitiva consacrazione con le leggi Ferry sullascuola.

Anche in Italia, la legge sull’obbligatorietà dell’istru-zione elementare, fatta votare dalla Sinistra, nel 1877, eb-be questo preciso valore; e già prima, l’abolizione dellefacoltà di teologia, nel 1872, suonò come una recisa affer-mazione della laicità allo Stato789: tanto è vero, che l’av-versione del Bonghi al provvedimento era dettata dal ri-

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sorgere delle speranze, di rosminiana origine, in una ri-forma interna della Chiesa, e cioè da un motivo lonta-nissimo da quegli altri suoi pensieri sui diritti dello Statomoderno, di cavouriana e tocquevilliana radice790; e l’av-versione del Bon Compagni nasceva dal ricordo del neo-guelfismo, di Pio IX, del ’46 e del ’47, del periodo, cioè,in cui il cattolicesimo libertà nazionalità eran sembratifondersi in uno, e quest’uno non era sicuramente lo Sta-to laico di vita postquarantottesca in Piemonte prima ein Italia poi791.

Fu, nell’insieme, un’evoluzione concorde con l’asse-stamento e consolidamento dello Stato italiano in tutti icampi, dalla finanza alla coscienza pubblica, attraversoun lento, faticoso lavorio, frammezzo a difficoltà gravi diogni genere; concorde con il generale progressivo elevar-si al livello della civiltà dell’Occidente europeo, non purnelle libere istituzioni politiche e nel regime parlamenta-re, ma nell’economia e nella vita spirituale e morale: edera civiltà laica. E vi contribuirono gli uni e gli altri, mo-derati e non moderati, ciascuno a modo suo, anche, sesul momento, le polemiche fra gli uni e gli altri fosserovivacissime e il tono anticattolico, e non solo anticlerica-le, degli ambienti della Sinistra accentuasse il contrastofra la gran maggioranza dei moderati e tutti gli uominidella Sinistra. Idealmente, anzi, divenne questo il puntod’attrito più forte. Convertiti alla monarchia quasi tut-ti gli uomini politici già repubblicani; venuto meno dun-que il primitivo dissidio in merito alle forme istituziona-li, e accingendosi ora i Crispi e i Cairoli a diventar mini-stri del Re e presidenti del Consiglio, il motivo ideale didissenso fu costituito, dopo il ’70, dai rapporti fra Statoe Chiesa, siccome dovevano dimostrare le vicende deglianni fra il ’ 71 e il ’76 e l’assoluta antinomia di posizio-ne dinnanzi al Kulturkampf tedesco e un suo eventualecorollario in Italia. Il resto, contrasti rissimi sul sistematributario alla Sella, indirizzo di politica interna, perfino

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urti in merito alla politica estera, erano ancora dissidi dicarattere politico pratico, quando pure non si limitasse-ro ad essere motivi di offensiva parlamentare ed elettora-le; questo invece fu propriamente un principio, un’ideain discussione.

Per i moderati, lungo tutto il Risorgimento e ancorora, da un Minghetti ad un Visconti Venosta ad un Bon-ghi, per non dir di un Ricasoli e di un Capponi, il senti-mento religioso aveva e doveva mantenere valore fonda-mentale ai fini della società umana792. La religione face-va tutt’uno con la vita morale dei popoli: su questo, era-no stati d’accordo quasi tutti, ad eccettuarne il grupponapoletano degli Spaventa e alcuni altri, come il violentoAmari, i quali, se politicamente militavano nelle file par-lamentari della Destra, non potevano essere considerati,e in effetti non erano considerati dei moderati o almenodei moderati classici.

Per gli uomini della Sinistra, con cui s’accordavanoin parte anche i Sella e compiutamente gli Amari, tuttiquelli erano veramente sogni funesti; e lo Stato italianosarebbe stato saldamente costruito soltanto quando iltimor reverentialis di fronte alla Chiesa fosse svanito.

Che fu, ancora, fatto italiano in stretta connessionecon un più generale fatto europeo, e soprattutto fran-cese.

Ma, appunto, fu un fatto nuovo per l’Italia. Ché deisogni universali, delle attese in una Roma che annunzias-se nuovamente il verbo rinnovatore della civiltà umana,di consimili speranze e attese invece la fallacia apparvesempre più manifesta man mano che trascorrevano glianni.

Svanì, assai rapidamente, non pure il fugacissimo so-gno di una Chiesa nazionale, in un’Europa religiosamen-te tutta divisa in Chiese nazionali793, ma anche il ben piùradicato sogno di una riforma interna della Chiesa, ilgran mito di quella che potrebbe essere chiamata la Si-

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nistra del romanticismo cattolico: era già un pallido ri-cordo, anzi, nei giorni stessi dell’ingresso dei bersaglieriin Roma, dopo il Sillabo e il decreto sull’Infallibilità, ledue risposte massicce che la Chiesa aveva dato agli apo-stoli del suo rinnovamento. Dopo questo, non c’era piùnulla da sperare, salvo a mettersi risolutamente fuori econtro la Chiesa, seguendo l’esempio già offerto da Pie-ro Guicciardini794: le vie di mezzo, le soluzioni concilia-tive all’interno avevano fatto il loro tempo. Nella vita ve-ramente «progressiva» l’Italia doveva entrare, contraria-mente al detto del Sismondi, non già dopo una profon-da riforma che restaurasse il sentimento religioso795 bensìesclusivamente per virtù del sentimento laico, delle for-ze laiche; e quando le forze cattoliche avrebbero ripresoa partecipare alla vita pubblica, come tali, apportando illoro contributo, a mano a mano più fattivo e cospicuo,di pensieri e di opere, l’avrebbero esse stesse apportatosu tutt’altra base che su quella del Sillabo, accettando in-vece non solo l’Italia-unita con Roma capitale ma anchel’idea della libertà, e cioè accettando l’eredità dei laici.

Svanì il sogno dei Rosmini e dei Lambruschini, in Ita-lia, così come in Germania sarebbe rapidamente svanitoil sogno dei vecchi cattolici e del Döllinger, al quale ta-luni avevan potuto guardare come a sicura promessa dicose future796.

Riprendendo il vecchio detto sulla scarsa sensibilitàdegli Italiani per i problemi religiosi, vi fu chi osservòche il contrasto fra l’Italia e il Vaticano era puramentepolitico, e ammonì a non illudersi sulla possibilità di mo-vimenti alla Döllinger797. Ma anche coloro i quali non sa-pevano rinunziare alle illusioni su di una prossima, inevi-tabile, profonda trasformazione della Chiesa, e non con-dividevano il presupposto del «naturale» indifferentismoitaliano, alle illusioni univano ora una assai più acre osti-lità contro il Papato, contro la Chiesa ufficiale da cui nonc’era da sperare più nulla: siccome succedeva al Ricaso-

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li, sempre convinto, anche dopo il Sillabo e l’Infallibi-lità, di vivere in uno di quei periodi storici in cui un’e-tà tramonta e un’altra s’avanza, ma agitato da immagi-ni che richiamavano le intemperanze degli anticlericali edei liberi pensatori, da lui assai odiati; e così, riguardan-do dall’alto del Gianicolo Roma distesa ai suoi piedi eabbracciando in uno sguardo Vaticano, Quirinale, Co-losseo, trovava «très admissible l’imagination de contra-poser aux ruines de la Rome payenne les ruines de la Ro-me papale. Un jour viendra, je suis bien loro de la préten-tion d’en calculer la distance, destiné à nous montrer leVatican dans de telles conditions que, comparées aux ac-tuelles, on pourra dire de lui ce qu’on dit de tout monu-ment ancien, dont l’âme n’existe plus que dans les sou-venirs, et dans les pages de l’histoire»798. Anch’egli dun-que, convintosi dell’impossibilità che il Papato intendes-se i tempi e rinnovasse se stesso, convinto della «ostilitàdel curato verso la società civile»799, finì col ripiegare dalsogno di una palingenesi religiosa universale all’appelloa Roma come centro di sapienza civile almeno per il pre-sente e lasciando solo lontano futuro aperto allo spaziardell’immaginazione. La Roma papale era finita per sem-pre; restava la capitale d’Italia e nulla più: «ma per que-sto lato sarà nella realtà molto più che non fu, e che nonera, e non è attualmente, perché sarà sede di una Nazio-ne viva per la libertà e per l’indipendenza, e quindi in Ro-ma sarà il fuoco sacro, ben altrimenti sacro di quello del-le Vestali, del progresso civile»800. A differenza dei libe-ri pensatori, egli non intendeva certo escludere dal fuo-co sacro del progresso la Chiesa; ma ormai era costret-to a ritener «lontano ancora il giorno in cui si realizzeràquesto bel quadro di un Papato fattore di civiltà»801.

Con il maggior sogno di una palingenesi religiosa, ro-vinarono i più concreti e limitati miraggi, che di essa tut-tavia avrebbero dovuto costituire proprio l’inizio prati-co.

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Niente più «preziose novità» alla Lambruschini nelreggimento interno della Chiesa; niente sistema rappre-sentativo nella Chiesa, vescovi eletti a clero e popolo, al-la Rosmini, oppure dai deputati dei parroci delle diocesi,alla Lambruschini, o comunque eletti con la partecipa-zione dal basso, e non imposti dall’alto, come su ispi-razione del Minghetti aveva accettato di proporre, siapur con molte cautele, lo stesso Cavour802; niente piùcompartecipazione attiva del laicato alla vita della Chie-sa, da parecchi sognata ancora alla vigilia del ConcilioVaticano803.

Qualche ultima eco di tali velleità riformatrici si eb-be, veramente, ancora dopo il ’70. Già durante le discus-sioni sulla legge delle Guarentigie era stato apertamenteespresso il timore che, con la rinunzia totale dello Statoad ogni ingerenza nella vita della Chiesa, quando la Chie-sa s’irrigidiva sempre più in un organismo dominato dal-l’alto, si sacrificassero i diritti dei fedeli: a’ quali timo-ri e alla preoccupazione di impedire che un parroco tur-bolento sia installato nella pieve, e un tranquillo caccia-to via804, il Bonghi si ispirava, con successo, per mante-nere l’exequatur e il placet, pieno di fiducia che poi, nel-la magica aura della libertà, il Papa stesso avrebbe resti-tuito a clero e popolo gli originari diritti elettivi, e quindila Chiesa avrebbe emendato se stessa per propria virtù,non per funesta coazione esterna; mentre il Peruzzi, colMinghetti e il Ricasoli, proponeva, nel suo controproget-to, senza successo, di affidare l’amministrazione dei be-ni della Chiesa a congregazioni diocesane e parrocchiali,miste di chierici e laici805.

Dall’amministrazione dei beni il laicato avrebbe po-tuto partecipare «a qualche cosa di più nell’avvenire»,ricordava il Minghetti nel 1875, sull’esempio dei Parla-menti, i quali «hanno cominciato col tenere i cordonidella borsa, e poi sono arrivati ad ottenere delle gran-di prerogative politiche»806: e cioè si sarebbe giunti alla

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partecipazione dei fedeli nel governo della Chiesa807, al-le elezioni miste, al trionfo del sistema rappresentativoanche nella società ecclesiastica808. Sarebbe stata una ri-voluzione pacifica, con la definitiva disfatta della fazionereazionaria, aveva osservato già nel ’65 il Serra Gropel-li, gran propugnatore anch’egli del sistema delle congre-gazioni parrocchiali e diocesane di laici809; e il Minghet-ti, sempre preoccupato del problema religioso, memoreanch’egli dell’insegnamento del Rosmini810, attentissimoal movimento dei Vecchi Cattolici e a tutto ciò che sa-pesse di fervor religioso in Europa, cercava cosa di salva-re quelle possibilità di rinnovamento religioso in cui an-ch’egli sperava, e sia pur senza la passionalità e l’impe-to del Ricasoli, sia pure, soprattutto, escludendo recisa-mente ogni intervento del potere politico nella vita dellaChiesa e rimanendo fedele al principio della separazioneassoluta fra Stato e Chiesa811.

Altri, pur non vagheggiando future riforme cattoliche,erano anche essi d’accordo nel sostenere la necessità dinon lasciare il Pontefice solo e padrone dispotico alleprese con clero e laicato: altrimenti, basso clero e popo-lo sarebbero stati schiacciati dall’accentramento papale edai vescovi, e una legge a fine liberale avrebbe avuto laconseguenza nient’affatto liberale di instaurare la «tiran-nia dei Preti sui laici», e cioè il «più insopportabile fratutti i despotismi»812. Ch’erano, naturalmente, le idee so-stenute dalla Sinistra, e soprattutto dal Mancini, preoc-cupatissimo che la libertà della Chiesa non significasse ilpredominio e l’esclusiva potenza di una casta, cioè del-l’alto clero, e conducesse a un dispotismo papale, a tale«un autocratico accentramento di potere nel Pontefice,quale non è mai nella storia della Chiesa in egual misuraesistito»; e sostenitore quindi della libera elezione dei ve-scovi a clero e popolo o almeno della formazione di terneper libero voto dei capitoli813.

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Nella legge delle Guarentigie rimasero l’exequatur e ilplacet e non si parlò di congregazioni diocesane e parroc-chiali: solo l’art. 18 del titolo II lasciò aperto un valico,poi non percorso, per una successiva riforma dell’ammi-nistrazione dei beni, che avrebbe potuto anche condurreall’attuazione del progetto Peruzzi. E furono, poco piùtardi alcune piccole parrocchie del Mantovano a risolle-vare tutto il problema e a dargli una soluzione radicale,quasi ultima improvvisa e crepitante favilla prima dell’e-stinguersi del fuoco.

L’origine, era da ricercare nell’azione della Santa Se-de, nella dura intransigenza che ogni giorno più la carat-terizzava di fronte allo Stato italiano, in cui si ravvisavanon soltanto l’usurpatore del potere temporale, ma an-che, e anzi ancor più, lo Stato laico erede delle leggi Sic-cardi, il continuatore dell’odiata legislazione ecclesiasticasubalpina di dopo il ’50814, questione politico-nazionale equestione propriamente di rapporti Stato-Chiesa intrec-ciandosi strettamente e la seconda rendendo assai piùdifficile il componimento della prima815. Dalla qual du-rezza di propositi derivava la precisa volontà di immet-tere, nell’alta e bassa gerarchia ecclesiastica, elementi fi-dati e intransigenti: il sacerdote buon patriota, il parro-co che era ad un tempo fedele cittadino, dovevano scom-parire per lasciar posto al vescovo e al parroco chiusi insé, ostili alla gerarchia civile, propagandisti non a favoredello Stato, ma contro lo Stato816.

E fu altra e non piccola differenza di tono fra la vitaitaliana d’attorno la metà del secolo e il periodo di finesecolo: allora, soprattutto nell’Italia settentrionale e cen-trale, non pochi i sacerdoti accesamente patrioti, validicooperatori del movimento nazionale e fin martiri dell’i-dea di libertà e di nazione italiana; ora, rarissime e tantopiù notate le eccezioni dei chierici che apertamente pro-fessassero il loro civismo e patriottismo, un padre Tostiancora, erede degli entusiasmi del ’46 e ’47, e, nuovo, un

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Bonomelli. Allora, un Cavour, sia pur forzando le tin-te a scopo tattico817, aveva potuto vedere il carattere di-stintivo del Risorgimento, di fronte alle rivoluzioni ingle-si francesi e spagnuole, nell’appoggio e nella cooperazio-ne della gran maggioranza del clero «sinceramente reli-gioso, schietto amico della libertà»818, e, nel campo op-posto, un Radetzky aveva ammonito i comandi militariche vigilassero acciò i soldati austriaci adempiessero alloro dovere di buoni cattolici presso il rispettivo cappel-lano di reggimento, non mai presso i sacerdoti italiani, iquali appartenevano quasi tutti «ai più aperti e pericolo-si nemici» dell’Austria819. Allora i seminaristi di Milanoe di Monza avevan chiesto subito di combattere controgli Austriaci, perché il posto della Croce era sul campo;e avevano combattuto820.

Ma già l’allocuzione di Pio IX e lo svanire del mitoneoguelfo avevano inferto colpi decisivi all’ottimismo deiprimi mesi del ’48; le leggi Siccardi la successiva legisla-zione ecclesiastica Castelfidardo e ora il Venti Settembreavevan fatto tramontare completamente quell’ottimismoe quella collaborazione. Dei tempi in cui si pubblicava-no dichiarazioni di sacerdoti a favore dell’indipendenzae libertà della Patria821 e in cui padre Passaglia riuscivaa mettere insieme 9000 firme tra il clero, per supplicarPio IX che annunziasse la pace tra l’Italia e il Papato, traRoma metropoli del nuovo Regno e Roma cristiana 228,rimase il ricordo.

La gerarchia ecclesiastica venne reclutata ora tra ele-menti di ben diverso sentire; e cominciarono i vescovi,nominati in gran numero dalla S. Sede dopo la legge del-le Guarentigie, e tutti di parte nerissima822; e i vescovipremettero decisamente sul basso clero, allontanando gliecclesiastici sospetti di patriottismo e liberalismo, anchese cari alle popolazioni, e insediando al loro posto uomi-ni di fiducia, anche se men graditi ai parrocchiani. Ven-ne su così la generazione dei giovani sacerdoti fanatici,

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nemici dichiarati del governo, i quali s’adoperavano conzelo grande «per introdurre e diffondere le moderne pra-tiche divote, credendo con ciò di concorrere nel più ef-ficace modo al risorgimento ed all’agognato trionfo del-la Chiesa Cattolica Romana, ed alla confusione e distru-zione dell’odierna empietà»823; e al vecchio clero, colla-boratore o non molto avverso, si sostituivano, annotavail Guerrieri Gonzaga, i «neofiti del gesuitismo» un cleroche viveva segregato affatto dalla società civile824. Anzi-ché la collaborazione con i patrioti, s’ebbero le punizioniai sacerdoti che benedicevano le armi italiane, le richie-ste di ritrattazioni e il diniego dei conforti religiosi supre-mi ai complici «dell’usurpazione»825 o il diniego, almenomomentaneo, a che il tricolore delle società operaie en-trasse in chiesa827.

Senza dubbio, v’erano ancora sacerdoti cresciuti nelfiducioso clima del Risorgimento, che rimanevano nel-l’animo patrioti e avrebbero magari voluto manifestarlo;ma come fare, di fronte alla dura continua pressione deivescovi a cui facevan riscontro l’indifferenza del gover-no, fermo sulla sua linea di condotta di non immischiar-si nelle cose della Chiesa, e, peggio ancora, l’indifferen-za o l’ostilità di parte notevole del ceto liberale e patrio-ta, convinto ormai che il clero fosse un nemico e agis-se da nemico? L’una cosa s’intrecciava con l’altra, irrigi-dirsi della Curia romana e dell’alta gerarchia ecclesiasti-ca, e irrigidirsi di considerevole parte dell’opinione pub-blica posizioni anticlericali: divenivan rari i sacerdoti al-la ’48 e la nota antireligiosa s’accentuava e la massoneriariprendeva forze e prestigio, in Italia come in Francia,dove pure eran scomparsi i Lamennais e trionfava l’ul-tramontanesimo reazionario del Veuillot, ma i difenso-ri della libertà si chiamavano ora i radicali che portavanonella lotta una volontà anticlericale non conosciuta dai li-berali della Monarchia di Luglio. Il basso clero, in quellaparte che poteva aver velleità di resistenza, si sentiva iso-

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lato, premuto dall’alto della sua gerarchia e non sostenu-to dalle popolazioni: avvolto in un’atmosfera greve, esi-ziale, annotava un rosminiano, il teologo Clemente Tac-chini, «da per tutto fatto segno a disistima a diffidenza»,vedeva ai suoi piedi spalancarsi un abisso e al disopra delsuo capo udiva i Gerarchi e i Politici «contendere perpotestà e dovizie. E mentr’egli attonito cerca le cagionidello straordinario imperversare della contesa, sente i lo-ro colpi piombare su di lui stesso, e piombarvi così spes-si e così pesanti, che il meschino ne va pesto, spogliato efatto ludibrio alle genti, quasi egli appunto, egli solo fos-se il colpevole di tanto orrendo battagliare»828. «Se perl’addietro un Parroco aveva una gamba legata, e l’altra li-bera per metà – scriveva un parroco di campagna – orale avrà legate ambedue.»829.

Come pretendere che questo clero minore resistesse,anzi insorgesse da solo contro i vescovi, senza appoggioalcuno, aveva esclamato già nel ’64 il Serra Gropelli?830

Come esigere manifestazioni di patriottismo da un pove-ro sacerdote che da un momento all’altro poteva esserebuttato sulla strada dai suoi superiori, quando governo epaese avevano dimostrata tanta noncuranza per il cleroliberale?831.

Nessun sacerdote osa più levare una voce di calma edi pace, osservava qualcuno: onnipotenza del Papa e deiVescovi da un lato, indifferenza del laicato dall’altro in-ducono al silenzio832. Molti ecclesiastici che in passatoerano stati favorevoli all’Italia e al suo governo, conti-nuava il vescovo Strossmayer, ora si voltano contro il go-verno, dato che «per la legge delle Guarentigie veggonoabbandonato ogni affare della Chiesa e persino ogni loroavvenire ed interesse materiale in balìa assoluta del Papae dei Vescovi»833.

Alcuni anni più tardi, al termine di una sua inchiestache gli aveva fruttato più di 400 risposte al questionario,Leone Carpi traeva le somme sulle condizioni del bas-

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so clero, definendolo irresistibilmente avvinto, volente onolente, alla politica del Vaticano, abbandonato e tra-scurato dal governo, avversato dai liberali, povero nellapiù gran parte d’Italia, in preda a sofferenze materiali e acrudeli torture morali. A vescovi e parroci venivano elet-ti i più intolleranti, anche a costo di lasciar da parte sa-cerdoti integri e colti; l’episcopato pesava con mano diferro sul basso clero per costringerlo ad eseguire rigoro-samente le istruzioni della Curia romana: come preten-dere in tali condizioni amore delle istituzioni liberali neipoveri parroci? Il basso clero era il capro espiatorio del-la prepotenza del Vaticano e delle esigenze dello Stato:come stupirsi se esso, che nelle guerre dell’indipenden-za non era stato secondo al laicato per patriottismo, nellamaggior parte d’Italia, ora avesse tralignato?834.

Così trionfavano gli ultra, che attendevano la punizio-ne dell’Italia ad opera dei legittimisti e clericali oltramon-tani, Francesi e Spagnuoli, Enrico V e don Carlos; trion-favano i codini, desiderosi che tutto andasse a soqquadroper ripristinare sulle rovine d’Italia i vecchi regimi

Poi di retrogradividi un concilioche vanno in estasiin visibilioSognando prossima,anzi imminenteuna catastrofeun incidente,Che a casa il diavolomanderà tuttidella Penisolai farabutti835

I sacerdoti patrioti dovevano tacere; e tutta una partedel clero, animata da senso civico e da amor di patria,ma di non grandissima energia, sfiduciata e disorientata,per schivar gli urti da una parte e dall’altra, si rimetteva

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alla Provvidenza senza magari far molto per meritarnel’aiuto.

Dal quale abbandono del basso clero trassero moti-vo, anche più tardi, aspre critiche alla politica ecclesia-stica della Destra: il basso clero, che era anch’esso popo-lo, s’era lasciato diventar schiavo dell’alta gerarchia ec-clesiastica, per colpa del governo che aveva trascurato«quel primo dovere d’ogni statista italiano», rafforzandoinvece «con false e speciose teorie di libertà» le armi del-la tirannia papale, il lavoro di sedizione antinazionale edi propaganda gesuitica. Se una colpa v’era stata nell’a-zione del governo italiano dopo il ’70, anzi già dopo lamorte di Cavour, era bene questa836.

Con l’aver abbandonato a sé il clero che meritava lamaggior sollecitudine, perché non fazioso, perché ani-mato da spiriti civili, il governo aveva conseguito il belrisultato che anche i sacerdoti il cui patriottismo aveva alungo resistito alle suggestioni dei retrivi, spaventati edirritati dall’immeritato abbandono, passavano ora a frot-te nel campo nemico; e così seguitando, fra qualche an-no si sarebbe estinta, con l’attuale generazione sacerdo-tale, anche la memoria dei dolori e delle gioie, che pre-ti e laici avevano avuto in comune quando si trattava diprocurarsi una patria837.

E, correlativamente, diventò più fioca assai anche lavoce del cattolicesimo liberale dei laici, che il clero vati-cano combatteva aspramente come vaso d’iniquità838; sic-ché mancarono nel laicato degli ultimi decenni dell’Ot-tocento quei generosi impulsi e quel fervor religioso cheavevano tanto arricchita la stessa coscienza liberale del-la prima metà dell’Ottocento, e a destra furoreggiarono icodini, i quali, effigiato»un ritratto spaventoso del Catto-lico liberale, peggiore dell’eretico, del turco e del diavo-lo, appiccano poi quel sonaglio con facilità meraviglio-sa a chiunque ardisce non pensare come loro. Da ciòè nato che ogni Cristiano, il quale goda di una qualche

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riputazione, per non esporsi a quegli insulti, crescendoconfusione e forse anche scandali, si sta cheto; ed i codi-ni di quel silenzio si valgono per puntellare i loro sognicoll’autorità del senso cattolico»839. Così, con rimpianto,parlava un sacerdote; e gli rispondeva dall’estrema de-stra la voce di un altro sacerdote, lombardo e non piùtoscano, tutto infervorato dalle sue dottrine della batta-glia contro il liberalesimo e il governo italiano, il qualeesultava invece per la morte del cattolico-liberale840 co-me esultavano i partecipanti al congresso cattolico di Fi-renze nel settembre 1875, acclamando le severe parole diPio IX contro i falsi fratelli e cioè i cattolici liberali chepatteggiavano con l’errore841.

Or dunque a Mantova, nella terra di don Tazzoli, chesino al 1868 era stata retta da un cattolico-liberale, mons.Corti, senatore, del Regno842, e poi, in qualità di vicariocapitolare, da mons. Luigi Martini, un ben noto dellaschiatta dei sacerdoti liberali e patrioti, «l’angelico» con-fortatore dei martiri di Belfiore (fra gli altri, di Pier For-tunato Calvi)843 e inviso alla Curia romana proprio peril Confortatorio, non appena il campo era rimasto liberoper la rinunzia dello Stato italiano alla nomina dei vesco-vi, la Santa Sede s’era affrettata ad inviare, da Guastalla,un vescovo intransigentissimo, mons. Rota. Come altro-ve, anche a Mantova l’incarico del nuovo presule era direggere con pugno di ferro una diocesi tanto inquinata disentir liberale e nazionale, e di far mettere la testa a postoai discoli: donde, osservò un americano, William Chaun-cy Langdon, lo strano fenomeno di un vescovo reaziona-rio circondato da un clero liberale844. Ma l’antitesi dove-va essere di breve durata; perché il vescovo, non forni-to di exequatur, condannato il 2 maggio 1874 dalla Corted’Assise di Mantova quale colpevole d’abuso nell’eserci-zio delle sue funzioni per aver letto ai fedeli, nella catte-drale, l’Epifania del ’73, un’omelia che censurava la leggedi annessione di Roma al Regno d’Italia845, il vescovo in-

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transigentissimo cominciò ad allontanare gli ecclesiasti-ci sospetti, anche se cari alla popolazione, sostituendolicon uomini di fiducia, piacessero o no ai parrocchiani.

E accadde che mons. Rota nominasse un parroco aS. Giovanni del Dosso, dov’era un vicario, don Lonar-di, bene accetto alla popolazione, mentre il nuovo pasto-re non lo era; e poi, ancora, a Frassine, un altro sacer-dote, anch’esso non benviso ai parrocchiani. La rispo-sta dei fedeli fu pronta e decisa: adunatisi pubblicamen-te, dinnanzi ad un notaio, con tutta calma e perfetto or-dine si elessero il proprio parroco che, per S. Giovannidel Dosso, fu lo stesso don Lonardi846. Era l’autunno del1873; e il 14 gennaio 1874, a Palidano, dove era morto ilvecchio don Carlo Pavesi, buon prete e buon cittadino,vissuto sempre con in cuore l’Italia, i parrocchiani, diffi-dando delle intenzioni di mons. Rota, seguirono l’esem-pio ed elessero, solennemente e regolarmente, il nuovoparroco847.

Intervenne Carlo Guerrieri Gonzaga, che nel ’48 ave-va militato fra i Garibaldini della compagnia Medici afianco del Visconti Venosta, e come il Visconti Venostasi era poi risolutamente sottratto, con il fratello Ansel-mo, all’influsso mazziniano, convertendosi al culto di Ca-vour: altro tipico gentiluomo di campagna, preoccupa-tissimo di migliorare i suoi fondi, di razionalizzare l’agri-coltura, di portar a più alto livello le condizioni di vita deicontadini, ma anche tutto preso dal problema religioso,dall’elevazione morale del popolo, e, perciò, ministeria-le nelle questioni finanziarie, d’accordo invece con l’op-posizione sul problema ecclesiastico, dato che il gover-no dei moderati gli sembrava fosse venuto meno e con-tinuasse a venir meno al decoro, alla dignità, al doveremorale dello Stato848. Intervenne dunque questo Ricaso-li del Mantovano; ed interpellò il ministero, e fece di tut-to perché aiutasse un movimento ch’egli, Guerrieri Gon-zaga, non aveva mosso, ma in cui scorgeva un buon au-

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gurio per l’avvenire d’Italia, risvegliandosi la volontà deilaici in cose ecclesiastiche. Accorse poi, a difesa dei par-rocchiani e del Lonardi citati a giudizio dal partito delvescovo, il gran patrono ufficiale della libertà di coscien-za, il Mancini; e lo stesso Guardasigilli Vigliani espres-se, alla Camera, il suo personale compiacimento per talrisveglio di uno schietto sentimento religioso, dal qualeavrebbe potuto uscire «come da causa piccola un gran-dissimo effetto», e l’augurio di un rapido sopravvenire ditempi in cui fosse possibile affidare alle mani del popolole temporalità ecclesiastiche, mettere il clero in presen-za del laicato, obbligarlo a trattar coi fedeli, costringer-lo a diventar nazionale così da conseguire finalmente lapace tra società civile e società religiosa. Se ne interessòperfino il Gladstone, già nel ’71 preoccupato per l’ecces-siva larghezza della legge delle Guarentigie nei riguar-di dei vescovi849, e ora, non più primo ministro di SuaMaestà Britannica, tornato alle sue predilette meditazio-ni religiose; ed espresse la sua cordiale simpatia per quei«poveri e coraggiosi contadini», per la loro resistenza al«sistema di dispotismo, derivante dalla Corte Romana, eche, imposto al clero italiano, fa una guerra mortale allalibertà in tutti i suoi aspetti»850. Dalla Germania giunsenata naturalmente, in appoggio al Guerrieri Gonzaga, lavoce del battagliero von Treitschke851.

Ma fu rapida fiammata, anche se il tribunale di Manto-va prima e poi la Corte d’Appello di Brescia assolvesserodon Lonardi, nella causa promossa contro di lui e il suocoadiutore, don Seleuco Coelli, da quarantasette conta-dini, dipendenti da due grandi proprietari di ortodossosentire852.

Già nello stesso campo liberale all’azione del Guer-rieri Gonzaga e alle simpatie del Bonghi, riportato al-le sue reminiscenze rosminiane853, facevano riscontro lepreoccupazioni dell’ufficioso Dina che ci si incamminas-se verso una nuova costituzione civile del clero, detesta-

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to ricordo del giacobinismi francese, e si rompesse così lamoderazione della politica sino allora seguita854. E di fat-to il governo, per nulla voglioso di mutare le sue diretti-ve d’azione, finì col tenere un atteggiamento alla PonzioPilato, anzi sostanzialmente ostile, parecchio scettico, enon a torto, sulle possibilità di un ampio movimento distile mantovano855 il prefetto di Mantova, dapprima, in-giunse al Cognetti De Martiis, direttore della Gazzetta diMantova, che difendeva i parrocchiani, di smetterla, la-sciando cadere una «questione inconsultamente solleva-ta» e ammonì il sindaco di Gonzaga, reo di essere inter-venuto al banchetto in onore del parroco eletto di Pali-dano; e il Vigliani, una volta espressi i suoi calorosi vo-ti personali per il risveglio della coscienza religiosa, can-tò ben altra canzone come guardasigilli, ammonendo cheil Governo non poteva svolgere se non azione negativa,contro i ministri del clero avversi allo Stato italiano, manon era in grado di riconoscere gli eletti del popolo, edoveva limitarsi a sussidi finanziari, temporanei ove nonsi trattasse di sacerdoti già rivestiti prima della qualità dieconomi spirituali della parrocchia.

Imporre dall’esterno il principio dell’elezione popola-re? Lo stesso Guerrieri Gonzaga, che aveva difeso le ele-zioni là dove il popolo le aveva volute, era contrario aqualsiasi idea di simil genere!856. Intervenire di forza nel-la vita della Chiesa, contro l’alta gerarchia ecclesiastica –e questo avrebbe significato il riconoscimento dei parro-ci eletti? Coloro stessi che avevano auspicato le elezionipopolari del clero e l’amministrazione dei beni a congre-gazioni miste, come il Minghetti, avrebbero visto in que-sto un’offesa mortale al principio della libertà. Le elezio-ni popolari, sì, ottima, auspicabilissima riforma: ma per-ché volute dai fedeli, per risveglio spontaneo efficace egenerale, e pattuite di comune accordo, fra l’alto e il bas-so in seno alla Chiesa stessa857; non imposte, e nemme-

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no solo spronate o favorite dal di fuori della Chiesa, dalpotere politico.

E lasciando la teoria per star al pratico, che guaiavrebbero potuto sorgere, proprio in quel momento, avolersi cacciare nel pasticcio delle elezioni popolari!

Bastava un Kulturkampf in Europa: il governo italia-no lo aveva evitato, finora, nonostante i corrucci del Bi-smarck, e non intendeva, certo, tirarsi addosso nuovatempesta col Papato858.

Così, quando i parroci eletti, fidando nelle promesseverbali del Guardasigilli al Guerrieri Gonzaga, assunse-ro il loro posto nella primavera del ’74, cominciarono iguai: solo a stento, dopo mesi di attesa, giunsero i magriassegni del subeconomo. Alla lunga, diventava impossi-bile resistere; e così l’episodio mantovano rimase un epi-sodio, di rinnovamento interno della Chiesa ad opera deifedeli non restò che il ricordo e la Chiesa insisté semprepiù sulle forme organizzative interne centralizzate e do-minate dall’alto.

Lo stesso articolo diciotto della legge delle Guarenti-gie ebbe mai applicazione. Lo si invocò sovente859; unacommissione parlamentare si pose al lavoro per studiar-ne i modi860: ma la questione si esaurì lì, tra discorsi ecommissioni di studi. Presto detto, affidar l’amministra-zione dei beni ecclesiastici a congregazioni miste: ma sela Chiesa avesse posto il suo veto alla partecipazione deicattolici? Oppure, non v’era da temere l’indifferenza digran parte del laicato, che si sarebbe facilmente lascia-ta prendere la mano dal clero, nelle stesse congregazioniparrocchiane e diocesane?861 Il laicato ridotto in pillolecon il sistema delle congregazioni, sarebbe stato più fa-cile a digerirsi dal clero, aveva scritto il Giorgini sin dal1867, e ripetevano altri dopo di lui862.

Questo, a prescindere anche dal convincimento chein tale materia a nulla servisse la coazione esterna, e ilproblema religioso dovesse esser lasciato all’intimo del-

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le coscienze; prescindere infine dai più modesti, ma sem-pre necessari calcoli di opportunità parlamentare, quan-do nessuna discussione poteva eccitar maggiormente ilParlamento di una proposta di legge in materia religio-sa. Lo dichiarò apertamente il Visconti Venosta alla Ca-mera: «allo stato attuale delle cose se si vuol gettare laconfusione nella Camera, scomporre i partiti, discioglie-re la maggioranza, esporsi a udire dei commiati doloro-si, non v’ha mezzo più sicuro ed efficace che di portarein questo recinto una legge di carattere ecclesiastico»863.

Più di vent’anni dopo, quando si tornò a parlare del-l’art. 18, il Visconti Venosta espresse compiutamente lepreoccupazioni che già dopo il ’70 avevano premuto sul-l’animo dei moderati: «per parte mia, se la Chiesa po-tesse acconsentire a queste Congregazioni, non ci avreia ridire. Ma se il Papa proibisse ai cattolici di prenderviparte, come ad una perturbazione dei diritti della Chie-sa, di chi si comporrebbero le Congregazioni? Si cree-rebbe la causa di molti conflitti e di una perturbazionereligiosa che, questa volta, potrebbe penetrare nelle pa-rocchie, nei villaggi, in fondo alle nostre tranquille popo-lazioni. Sarebbe il risultato opposto a quello che ci pro-poniamo. Ed è la ragione per la quale vedrei, non sen-za timore, nello stato ancora immaturo della quistione,posta dinanzi al Parlamento una legge che sarebbe cau-sa di divisione del nostro stesso partito. Ho nella memo-ria la faticosa discussione della legge delle Guarentigiesu questo argomento. L’Italia ha dinanzi a sé tante diffi-coltà, tanti problemi che questo della trasformazione delbeneficio non mi pare il più urgente»864.

Senonché, il mancato rinnovamento nelle forme va-gheggiate dai cattolici alla Ricasoli e alla Guerrieri Gon-zaga non significò affatto, come essi temevano, decadi-mento del cattolicesimo, venir meno del senso religioso,trionfo assoluto dell’indifferenza e dell’incredulità. Dal-la lunga crisi durata più di mezzo secolo la Chiesa si rieb-

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be; respinti gli assalti dei novatori riprese il suo cammi-no, riacquistò le forze perdute e ne guadagnò di nuo-ve, riottenendo universale prestigio, autorità, grandezzae ridiventando una grande potenza mondiale. I fedelinon erano elettori nell’organizzazione ecclesiastica, ep-pure seguivano; seguivano anzi in rinnovata e più for-te schiera, i battaglioni dell’Azione Cattolica fornendo labase laica devota e sottomessa, non più riottosa alla ma-niera dei Riasoli. Il clero tenuto rigidamente in pugno dalpotere centrale, onde non si ripetessero gli sbandamentidei decenni precedenti, e costretto ad una ferrea discipli-na dal dogma dell’infallibilità; i laici convocati ad agire,sin d’allora, in quelle associazioni cattoliche, consiglia-te subito dalla Civiltà Cattolica e rapidamente estese intutto il Regno, a cominciare dalla Società per gli interes-si cattolici costituitasi in Roma e onorata di un Breve diPio IX nel febbraio 1871865; i giovani già organizzati sindal ’68 nella Gioventù Cattolica; l’«Opera dei Congres-si», l’arma più potente866: su questi saldi pilastri la Chie-sa, temporalmente vinta, riprese spiritualmente la lotta,quasi a dar ragione a coloro che nella perdita del poteretemporale avevano riconosciuto non diminuzione, bensìaccrescimento di potenza della Chiesa nel campo che erasuo.

Già taluno aveva ammonito, ancora nel ’70, che s’in-gannavano coloro i quali ritenevano fiaccata per semprela potenza della Chiesa e tramontato il sentimento reli-gioso nelle masse867: e l’avvenire dimostrò quanto fosseesatto tale giudizio e fallace invece la previsione di chicredeva di aver seppellito per sempre il Papato con labreccia di Porta Pia.

Parecchi infatti s’erano illusi, prima e dopo il ’70, chela Monarchia italiana a Roma avrebbe cacciato, anzi uc-ciso il Papato868, e fra essi l’immaginoso Renan869; e a nes-suno certo era dato prevedere che, in un lontano giornodi giugno, al finir di uno dei periodi più tristi e tormen-

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tosi della sua storia millenaria, la popolazione romana sisarebbe raccolta nella piazza di S. Pietro per osannareal Pontefice benedicente come al nuovo defensor urbis,al protettore e salvatore della capitale abbandonata dal-la Monarchia e costretta à volgere lo sguardo angosciatoverso le sacre basiliche cristiane, come quando, ai tem-pi remotissimi dello sfasciarsi di Roma imperiale, fra leondate dei barbari, «martyrum loca et basilicae aposto-lorum ... in illa vastatione Urbis ad se confugientes suosalienosque receperunt ... unde captivandi ulli nec a cru-delibus hostibus abducerentur»870. Nessuno poteva, al-lora e poi, prevederlo; ma qualche dubbio sulla solidi-tà rispettiva di Monarchia e Papato cominciò a germo-gliare, un decennio dopo Porta Pia, anche nell’animo difierissimi anticlericali; e l’Amari; ora non più convintodel mito del progresso continuo, pessimista sull’umani-tà che gli appariva destinata ad essere eternamente divi-sa fra credenti sciocchi e savi increduli871, si chiese qualedelle due fiaccole si sarebbe spenta per prima, Vaticanoo Quirinale, e temette che fra un secolo o due la Monar-chia avrebbe potuto crollare, ma si sarebbe sempre tro-vata una vile moltitudine, di ricchi e di poveri, per andara baciare i piedi al preteso successore degli Apostoli872.

Taluno, anche fra gli uomini di Stato esteri, aveva rite-nuto ormai indissolubilmente legate le sorti della Monar-chia italiana e del Papato, in Roma: se cadeva l’una, an-che l’altro si sarebbe trovato in posizione insostenibile,entrambi rappresentanti del principio di autorità controla rivoluzione repubblicana873. Ma qualche altro più av-veduto politico osservava – e assai prima che fosse ban-dito da parte ecclesiastica il ralliement alla Francia re-pubblicana – che forse non sarebbe stato così, il Papatoavrebbe retto anche se fosse caduta la Monarchia, si sa-rebbe accomodato anche di una repubblica, e forse anzipiù che di una monarchia874.

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Moltissimi avevano creduto che fine del potere tem-porale e fine dell’autorità politica del Papato facesserotutt’uno, commisurando la forza della Curia romana coni criteri validi per ogni altro organismo politico, territo-rio sudditi armi, e dimenticando di adattare ai tempi ilvecchio monito machiavelliano sui principati ecclesiasti-ci «sustentati dagli ordini antiquati nella religione, qua-li sono suti tanto potenti e di qualità che tengono e’ lo-ro principi in stato, in qualunque modo si procedino evivino»; e s’accorsero ben presto che, conforme al det-to di alcuni più savi875, la potenza politica della Chiesanon solo continuava anzi cresceva ancor più, già nei tem-pi di papa Leone XIII, sì che non sarebbe mai venuto ilgiorno vaticinato perfino dalla cauta Opinione876 – in cuii govenni esteri non avrebbero più avuto rappresentan-za diplomatica presso il Vaticano, affidando tutte le pra-tiche alle legazioni presso il Quirinale o a speciali addettiecclesiastici presso quelle legazioni.

Altri ancora avevano affermato che la colpa del deca-dere dei popoli latini, a fronte dei popoli anglosassonie germanici, fosse non già della razza, secondo si affer-mava generalmente, bensì del culto cattolico soffocatonedi energie, laddove le religioni riformate avevano eccitatal’attività umana, favorendo nazione e libertà: del che, an-ticipando Max Weber, essi adducevano le prove concre-te anche della superiorità industriale dei protestanti, delloro più spiccato bisogno di attività pratica in confrontoai cattolici chiusi nel tradizionalismo classicistico877.

Ma, decadenza o non decadenza, certo è che il senti-re cattolico non diminuiva; e ammoniva il Villari a nondisprezzar troppo le forze del clero, che erano immense,a star attenti alla gran battaglia che si preparava, impa-dronendosi per ora i sacerdoti delle scuole salvo a passarpoi alla riscossa politica878; e incalzava il Sella nell’81, checontro le troppo facili asserzioni sul tramonto dello spiri-to cattolico teocratico «l’influenza del pontefice è in real-

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tà maggiore oggi nel mondo di ciò che lo fosse quandoaveva il potere temporale»879.

Il Papa era qualcosa di più di un semplice canonico delDuomo, come molti avevan creduto fosse diventato880, néera possibile farne semplicemente un «onesto cittadino»al par di tutti gli altri881; e perfino il deista Crispi882, granpropugnatore dei diritti della ragione, illuminista e gia-cobino, ebbe a momenti l’intuizione del fallimento di unsogno di tutta la vita, capì che la redenzione di Romadal potere temporale non voleva ancor dire la vagheggia-ta redenzione del genere umano dal potere spirituale delPapa. Vecchio, stanco, amareggiato, notò nei suoi ultimianni, con crescente preoccupazione, i sintomi di ripresadella Chiesa, si accorse del movimento «che da qualchetempo avviene nel mondo, anche a suo favore», e par-lò nuovamente di onnipotenza della Curia e degli sfor-zi del diabolico consorzio di gesuiti per incatenare anco-ra lo spirito umano883. Se una colpa la borghesia italia-na aveva, questa non era l’avversione alle plebi di cui vo-ciferavano i socialisti, sì di averle abbandonate alle sèt-te ed ai preti, senza preoccuparsi della loro educazionemorale884. E col Crespi si sfogava l’amico Adriano Lem-mi, gran maestro della massoneria, che gli additava il di-lagar della lue clericalesca, tutto contaminante, la bal-danza eccessiva dei neri ormai padroni di quasi tutta l’e-ducazione della gioventù, a tal che, non provvedendosi,fra pochi anni si sarebbe avuto nonun popolo di citta-dini ma di chierici, grazie anche alle colpe dei prefetti iquali, invece di arginare la marea, aiutavano i clericali acombattere la massoneria885.

Vero è che, da Leone XIII in poi, la Chiesa stessa do-vette mutar parecchio tono, acconciandosi in parte al ma-riage de raison con l’esprit du siècle previsto in altro sensodall’Amari886: inesorabile sull’infallibilità, lasciò man ma-no cadere, nell’applicazione pratica, parecchio del Silla-bo, accettò la libertà e il progresso, rinunziò a puntella-

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re rigidamente «la veneranda maestà e l’impero dei Re»,a cui pareva indissolubilmente legata ancora fra il ’70 el’80887, e, comprendendo la sterilità della loro incantagio-ne sulla forma monarchica888, patteggiò con la repubblicaincitando i cattolici francesi al ralliement; anziché contra-stare conservativamente ad ogni movimento sociale, par-lò essa di questioni sociali; concordò poscia con governiliberi e men liberi; perfino, e fu momento decisivo, fecebuon viso, oltre che alla libertà politica, anche alla scien-za, cercando e trovando, con l’antica saggezza, le formu-le di accordo, dimentica che l’ultima opinione erroneacondannata nel Sillabo, l’ottantesima, era stata l’opinio-ne di coloro i quali ritenevano che «il Romano Pontefi-ce può e deve riconciliarsi e venire a composizione colprogresso, col liberalismo e colla moderna civiltà». E sefra il 1870 e il 1880 aveva detto o lasciato dire dai suoifedelissimi, o Controrivoluzione o niente, sputiamo sullaRivoluzione, senza far distinzione fra il 1789 e il 1793889,poi accettò l’89: del che la politica di Leone XIII versola Francia fu la visibile prova.

La Chiesa distruggerà la Rivoluzione, la Rivoluzionedistruggerà la Chiesa, erano stati i clamori dell’una e del-l’altra parte. Ma chi si sollevi al di sopra delle polemichevede non certo distrutto il Papato dalla Rivoluzione, mané meno il liberalismo, il progresso, la civiltà modernafermati e risospinti indietro dal Papato. Caute et pruden-ter, nel suo stile, la Chiesa romana fini con l’accettare lalezione dei tempi; e la sua riforma la fece, non nei modivagheggiati dai Rosmini, dai Lambruschini, dai Ricasoli,ma non meno sicuramente, tanto dal finir col riconoscerenon soltanto l’unità d’Italia con Roma capitale, avallando«l’usurpazione», ma con l’accettare anche uno Stato chenon era certo più lo Stato confessionale alla Carlo Felicee alla Carlo Alberto. Gli estremismi dell’una e dell’altraparte, come suole, non si realizzarono; ma l’una e l’altra

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parte, anche la Chiesa, dovette riconoscere qualche cosae patteggiare col suo contraddittore890.

La scienza, che era apparsa un dì inconciliabile con lafede, si conciliò largamente con la fede; e la Chiesa ebbetalora per alleato lo stesso formidabile progresso delle ri-cerche: spalancandoglisi dinnanzi mondi sconosciuti, sa-lendo ad altezze vertiginose, lo scienziato, preso nell’in-contenibile successione dei suoi esperimenti di cui sem-pre meno la ragione poteva calcolare con esattezza i ri-sultati ultimi e dominar gli sviluppi, scrutò sempre più afondo nei segreti della natura ma, quasi sopraffatto, chie-se poi a Dio il perché dei segreti. Onde, già in quel de-clinar di secolo il mite e grande Pasteur opponeva, tran-quillo, la sua ferma credenza religiosa al positivismo delTaine; e i due uomini non si intendevano più, l’uno ere-de ancora della mentalità di mezzo il secolo, la scienzacome libero pensiero sciolto dai nessi con l’ineffabile re-ligioso, anzi alla religione ripugnante, e l’altro esempiodi un nuovo tipo di scienziato, arditissimo nelle conce-zioni tecniche, ma non più libero pensatore anzi solida-mente ancorato alla fede degli avi. Taine credeva anco-ra di poter trovare nella scienza la soluzione dei proble-mi eterni dell’uomo e di risolver con essa la maggior que-stione dell’immortalità dell’anima; ma Pasteur, sorriden-do, «ah! Monsieur, à certe question, vous ne trouverezpas une solution dans nos cornues»891.

La fede nei trionfi della scienza, come trionfi di unaconcezione del mondo alla quale fosse lecito prescinde-re dalla religione, questa fede si oscurò anch’essa, lenta-mente, lentissimamente, ma non meno sicuramente, traOttocento e Novecento, sino a quando le grandi cata-strofi belliche non sopraggiunsero a ridar definitiva presasugli animi al verbo di Dio, e la consolazione della Croceriebbe tutto il suo antico fascino. Così fu che, lungi dalvedere Papato e Chiesa pencolare, piegarsi e cadere co-me vecchia rovina, i propugnatori della Scienza-Libero

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Pensiero, che si erano illusi il tempo lavorasse a favor lo-ro, con i progressi incessanti delle scienze naturali e del-la critica storica892, poterono assistere ad un progressivorinvigorimento di Chiesa e Papato. La scienza non di-strusse la fede, non divenne «la sola religione, la sola leg-ge, la sola consolatrice degli uomini», adempiendo a que-sti uffici «in modo ben più compiuto, più efficace e piùcostante non abbiano fatto infino ad ora tutte le religionipositive del mondo», secondo aveva auspicato, nel 1874,Giovanni Maria Bertini893.

A scemar vigore al mito della scienza non fu propria-mente soltanto e nemmeno in prima linea la controffen-siva della Chiesa: ché anzi, nell’interno stesso della co-munità dei sapienti si avvertivano sin d’allora esitazioni,dubbi, rimorsi; e con ciò le prime incrinature del tempio,le quali offrivano arra di successo sicuro alla controffen-siva della Chiesa.

La cultura, la scienza in sostituzione della fede: e lacultura volle dire anche sforzo per l’istruzione del popo-lo, che doveva esser posto in grado di capire, di discerne-re il vero dal falso, di rifiutare le superstizioni; volle direcioè lotta contro l’analfabetismo. La scuola fu battezza-ta perfino dal Depretis solitamente così privo di pathos«la chiesa dei tempi moderni»894; apparve come l’unicomezzo d’azione da contrapporre all’influenza della Chie-sa sulle moltitudini895: e non a caso la legge sulla obbli-gatorietà della istruzione elementare gratuita venne ap-provata solo nel 1877 sotto il governo della Sinistra, va-le a dire della parte più nettamente anticlericale, di cuifu la prima grande riforma, precedendo di quattro an-ni la stessa riforma della legge elettorale politica. Conessa, l’insegnamento religioso nelle scuole divenne pura-mente facoltativo, dopo che Benedetto Cairoli aveva af-fermato, in piena Camera, la necessità che ogni buon pa-dre di famiglia impedisse ai figli persino la lettura delcatechismo896.

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L’istruzione: parve il toccasana di tutti i mali e lo «spa-ventevole spettro di diciassette milioni di analfabeti» fuagitato come lo spettro dell’onta italiana ma pur fra i cetialti ma anche, e forse soprattutto fra gli stessi operai897, iquali sin dall’ottobre del 1856, nel congresso di Vigeva-no delle Società Operaie, avevano chiesto l’obbligatorie-tà dell’istruzione elementare, ripetendo il loro voto nelcongresso di Roma dell’aprile 1872898.

Ma ben presto apparve a più d’uno che diffusione del-la cultura, educazione del popolo significavano anchedare alle plebi armi per la loro lotta contro il persisten-te predominio degli alti e medi ceti, alimentando sociali-smo, anarchismo e simili conati di rivolta contro il mon-do borghese. L’incredulità poteva condurre alla rovinadella Chiesa, ma simultaneamente anche alla rovina del-la serietà esistente, siccome da tempo affermavano i pa-dri della Civiltà Cattolica; a far perdere la fede in Dioalle masse, si correva il rischio di non poterle più trat-tenere, nemmeno fuori di chiesa, nelle tradizionali for-me di vita. L’istruzione obbligatoria era necessariamenteconnessa, tosto o tardi, con suffragio universale e demo-crazia: Flaubert lo aveva compreso subito, nemico del-l’uno e dell’altra e quindi anche della prima e convintodella necessità dei «mandarini»; Flaubert, al quale pocoimportava che molti contadini sapessero leggere e nondessero più ascolto al loro parroco, ma importava assaiche molti uomini come Renan e Littré potessero vivere efossero ascoltati899. E anche Renan, pur illudendosi cheil razionalismo ben inteso fosse lungi dal condurre allademocrazia, deplorava che le scuole francesi divenisse-ro focolai di spirito democratico poco riflessivo e di unaincredulità che si traduceva in una sciocca propagandapopolare900; e vedeva la via di salvezza, proprio lui, il ne-mico del Papato, in un accomodamento con la Chiesa,sulla base delle verità progressive. Ai parroci di campa-gna l’educar il contadino, accordando Chiesa e scuola; ai

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dotti, invece, piena, assoluta libertà di pensare. Prende-tevi il gregge e rispettate gli eletti: libero pensiero ai se-condi, sillabario e catechismo ai primi901. Aristocratici-smo culturale, nell’uno come nell’altro dei due scrittorifrancesi; disdegno del volgo, consapevolezza che i valoriraffinati della cultura sono per pochi eletti? Anche que-sto, certo902: ma non senza che v’interferissero, appunto,preoccupazioni di altro genere, e cioè insofferenza an-che della democrazia politica, timore di sommovimentidal basso che turbassero la quiete e togliessero l’uomo distudi dalla sua tranquillità e dal pacifico discorrere conle proprie idee. Legittimista per natura, Renan odiavale rivoluzioni, quelle rivoluzioni che gli avevano reso ilcompito così difficile903. Conservatore, avversava il suf-fragio universale, le masse brute dei contadini, a cui erameglio dar calci nel sedere che il diritto di voto: e stes-sero quindi, questi bruti pericolosi, con il parroco che,solo, poteva tenerli buoni.

Un secolo innanzi, gli illuministi – e massimo fra tuttiil Voltaire – avevano anch’essi parlato della necessità del-le luci progressive, graduate: e quelle della plebe sareb-bero state sempre confuse, ed era bene che così fosse eche solo ai buoni borghesi, agli honnétes hommes venis-se riservata la rivelazione del vero904. Nei nuovi illumini-sti della seconda metà dell’Ottocento, quel principio ri-maneva saldo, pur variando i motivi per cui lo si invoca-va: Voltaire aveva temuto che contadini istruiti divenis-sero teologi, e cioè aveva temuto l’istruzione di semina-rio; Renan temeva ora che contadini ed operai trovasse-ro nella mezza scienza delle scuole elementari laiche l’in-centivo a tramutarsi in adepti del socialismo e dell’Inter-nazionale.

E non erano nemmeno novità assolute, queste del Re-nan; si poteva rammentare il «corriamo a gettarci nellebraccia dei vescovi; essi soli possono oggi salvarci», chesarebbe stato pronunziato, dopo la rivoluzione parigina

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del febbraio ’48, da Victor Cousin, gran pontefice uffi-ciale della filosofia universitaria francese, ex-carbonaro eliberale, già prima del ’48 per vero assai prudente, soli-to a impartire ai suoi discepoli che andavano ad insegna-re in provincia il consiglio di star in buon accordo coni vescovi, anzi di recarsi subito da monsignore per dir-gli che la filosofia non avrebbe mai avuto influenza chesulle classi colte, mentre la religione era necessaria per ilpopolo; e dopo il ’48 divenuto talmente prudente da ab-bandonare i suoi allievi alle vendette del clero905. Mol-to più importante, il deciso aiuto dato nel 1849-1850 dalThiers all’approvazione della cattolica legge Falloux, cheriapriva al clero, con la libertà d’insegnamento, larghepossibilità d’influsso sulla formazione dei futuri ceti diri-genti francesi906. L’uomo, che nel 1845 aveva difeso con-tro la Chiesa il monopolio universitario laico ed era stato,con il Dupin, l’autorevole interprete dell’anticlericalismoed antigesuitismo francese, quattro anni appresso, spin-to dal terrore dei «rossi», eccitato dalla «sorte de rage»da cui era sito invaso di fronte ai moti del giugno ’48907

e che lo avrebbe ripreso nel ’71 di fronte alla Comune,quattro anni appresso mutava totalmente fronte e, fra lostupore dei suoi ammiratori di oltre frontiera908, aprivale braccia al clero, incitando a dargli perfino il monopo-lio dell’istruzione elementare e andando così assai oltregli stessi desideri del clero e del suo amico, il più accortoabate Dupanloup, che doveva calmare gli eccessi di zelodel neofita909.

Il vivacissimo e mobilissimo Tarmerlan à lunettes del1871910, ammetteva francamente di aver cambiato idea:non per una rivoluzione nei suoi convincimenti, ma peruna rivoluzione nello stato sociale del paese. «Oggi chetutte le idee sociali sono pervertite, e che in ogni villaggioci si vuol dare un maestro di scuola giacobino, io consi-dero il parroco come un indispensabile rettificatore delleidee del popolo. Egli gli insegnerà almeno, nel nome di

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Cristo, che il dolore è necessario in ogni condizione so-ciale, che è la condizione della vita, e che quando i po-veri hanno la febbre non sono i ricchi che la inviano loro... Quando l’Università rappresentava la buona e saggiaborghesia francese, educava i nostri figli secondo i me-todi di Rollin, anteponeva i vecchi e sani studi classiciagli studi fisici e puramente materiali dei fautori dell’in-segnamento professionale, oh! allora io le sacrificavo lalibertà d’insegnamento. Oggi, non sono più della stessaidea. E perché? perché nulla è più come prima. L’U-niversità, cadendo nelle mani dei materialisti e dei gia-cobini, pretende insegnare ai nostri figli un po’ di ma-tematica, di fisica, di scienze naturali, e molta demago-gia ... Io sono quel che ero; ma non faccio che puntare imiei odii e la mia forza di resistenza là dov’è oggi il nemi-co. Questo nemico, è la demagogia, e io non gli abban-donerò l’ultimo resto dell’ordine sociale, vale a dire l’i-stituzione cattolica» E quindi, niente istruzione gratuitae obbligatoria, che sarebbe stata un’applicazione del «si-stema comunista»; e attacchi violenti contro i maestri discuola «veri antiparroci nei comuni, parroci dell’ateismoe del socialismo».

Così la paura del socialismo guidava verso nuove ami-cizie ed alleanze politiche il borghese Thiers che, quan-do invece si trattava dell’istruzione secondaria, degli isti-tuti dove venivan su i figli degli honnétes hommes, e cioèdella borghesia, e dove quindi non c’erano, o almeno sipensava non ci fossero pericoli di sovversivismo911 e, ri-trovava i suoi antichi spiriti e, anticipando Renan, chie-deva libertà di discussione filosofica e cercava di limitarel’influsso di quello stesso clero chiamato in aiuto controi bassi ceti; e il Dupanloup doveva nuovamente replicar-gli che la religione è buona tanto per i ricchi quanto peri poveri.

Il terrore del sovversivismo, un momento sopito du-rante la bonaccia del Secondo Impero, era stato rincru-

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dito, nella primavera del ’71, dalla Comune, che avevamostrato come il fuoco covasse tra le fondamenta dell’e-dificio; e vedeva giusto Taine, nel 1851-52 vittima dellareazione clericale, quando temeva che di fronte al dila-gar della democrazia le classi alte e medie poggiassero adestra, divenissero clericali, cercando la gendarmerie do-ve credevan di poterla trovare, e cioè nel cattolicesimo,non rifuggendo al caso dal cercar nuovamente riparo an-che nel bonapartismo, vale a dire nella dittatura912. Tai-ne stesso, d’altronde, sul tramonto della sua operosa vi-ta di sacerdote della scienza, diventava scettico sull’effi-cacia del culto tanto a lungo professato; e vide anch’e-gli nell’anticristianesimo un potente ausiliare del sociali-smo egualitario, ormai entrato nel sangue della Franciacome l’alcool nelle vene di un alcoolizzato o la morfinanelle vene di un morfinomane, e se n’uscì in una sconso-lata affermazione: «i nostri libri servono alla storia, allascienza; ma il nostro influsso sulla pratica è infinitamentepiccolo»913.

Divenne così d’uso comune il detto che, a spegnereil sentimento religioso, e cioè anche la rassegnazioneal patire, si otteneva soltanto di scatenare l’amarezzae la violenza delle folle affamate, non più contenutedalla reverenza per gli arcani decreti di Dio e sollevatedalla speranza nella vita eterna, dolce per chi avessesofferto nella vita terrena914: nel vedere i contadini miserie afflitti che non si ribellavano al loro duro destino, mal’accettavano come castigo di Dio e si recavano in chiesaa pregare con ferma fede, si capiva quanto avesse tortoProudhon nel proclamare l’inutilità di Dio915.

Non dissimili pensieri passarono pel capo di non po-chi Italiani, e perfino di liberi pensatori, a mano a ma-no che le condizioni interne del Regno si complicaronoper il fermento che saliva dal basso. Anche qui, già dopoil ’48 molto ottimismo era caduto; e si poteva rammen-tare quel che il Lambruschini aveva detto nell’Accade-

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mia dei Georgofili, il 4 agosto 1850, prendendo spuntodall’«impensato e lagrimevole fatto» sopravvenuto a por-ger nuove armi ai nemici delle scuole per il popolo, e cioè«la propagazione di dottrine sovvertitrici, fatta recente-mente in Francia da un certo numero ... di maestri dellescuole primarie divenuti evangelisti del socialismo». Co-sì ad antiche ire, ad antichi dubbi, si sono aggiunte nuo-ve ire e nuove dubbiezze «e a dubitare hanno comincia-to alcuni di coloro che combattevano già con noi» indot-ti a temere «che l’istruzione possa meno, per infonderenel popolo il rispetto alla religione e alle leggi, per in-culcargli l’osservanza dei propri obblighi nella famiglia,nella città, nella chiesa, e per meglio ammaestrarlo nel-l’esercizio delle arti, di quel ch’ella valga a disamorarlodella semplice e tranquilla vita del campo, della botte-ga, della casa, a inorgoglirlo per vana opinione di sapere,ad agitarlo di smodati appetiti, e a preparare quelle cie-che e servili turbe che con uno o con altro vessillo con-turbano poi lo Stato e manomettono gli stessi ordini so-ciali». Trepidazione di uomini di poca fede, osservava ilLambruschini che, per conto suo, non rinnegava la fedee non si lasciava sopraffare né abbattere da questi nuovifantasmi916.

Ma i fantasmi non s’erano dispersi; e dopo la Comu-ne e con l’infittire successivo dei segni di malessere so-ciale, anche in Italia, affollarono le immaginazioni più diprima, e gli uomini di poca fede crebbero di numero etalora anche di autorità.

Già nel 1871 Ruggero Bonghi, protestando control’associazione degli studenti universitari di Pisa, rea diaver esaltato le gesta dei comunardi di Parigi e di intorbi-dare l’anima della gioventù studiosa, con un pessimo spi-rito, malsano, vizioso, facendo della scolaresca uno stru-mento dell’Internazionale, e contro l’associazione deglistudenti medi di Jesi, anch’essa sospetta di inquietan-ti tendenze, rivendicava ai padri di famiglia il diritto di

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non tollerare «che i loro figliuoli tornino a casa presu-mendo di avere diritto, prima d’essersi affacciati, son perdire, alla vita, d’insegnare agli uni il modo di reggere l’a-zienda privata, agli altri il modo di governare l’aziendapubblica»917. Ed erano, ancora, Unversità e scuole me-die, le pupille degli occhi della borghesia! Quando dun-que si passasse all’insegnamento elementare, che toccavaanzitutto le plebi, c’era da rifletterci ancora di più.

Lo si poté veder bene nelle discussioni sul progettodi legge per l’obbligatorietà dell’istruzione elementare:nel ’74, era l’on. Lioy a lanciare un grido d’allarme con-tro coloro che facevano i maestri in mancanza di meglioed erano «gli apostoli di quelle idee sovversive con cui imembri corrotti della società vagheggiano lo scompigliodel consorzio civile», mentre l’on. Castiglia insisteva suidanni della legge la quale, gravando sui poveri, avrebbecondotto i «figli della miseria» soltanto a leggere i gior-nali umoristici e quegli altri «dove si trova quella sapien-za che trascina al socialismo, e dal socialismo vi gitta al-la materialità, alla materialità che finisce al più sfrena-to scetticismo»918. Così che, nel ’77, il ministro Coppi-no, nella relazione al disegno di legge, doveva poemiz-zare contro coloro i quali troppo temevano dalla «mez-za scienza» la creazione di un proletariato malcontentoe inquieto, affermando di non veder per conto suo, nel-l’insegnamento dell’alfabeto, un nemico così spaventosodell’ordine e della pace sociale919; e i deputati Incagno-li e Fambri s’associavano nel ritenere esagerati i perico-li della mezza scienza, atta soltanto a creare degli sposta-ti e a intristire gli animi920. Motto non infrequente, so-prattutto nelle campagne, fra i codini, era che la scuo-la essendo fonte di socialismo, se la gente non sa legge-re e scrivere è tanto di guadagnato921; e più passò il tem-po e più inquietante apparve, agli occhi dei benpensanti,la figura del maestro di scuola, dimesso nei panni e acce-so di animo, di que’ maestri tra i quali in effetti il socia-

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lismo trovò larga messe di reclute, propagandisti e qua-dri direttivi, onde a un certo momento la Milano socia-lista fu, anche, la Milano dei molti e bene organizzati eattivi maestri elementari. Così che, dopo l’attentato Pas-sanante, quando tutta Italia conservatrice insorse controla politica del reprimere, non prevenire alla Cairoli e al-la Zanardelli, il Bonghi poté rivolgere i suoi attacchi an-che contro i professori i quali annunciavano dalla catte-dra le dottrine più sbrigliate e contro i maestri elementa-ri di opinioni estreme, i quali s’associavano naturalmentenel paese con tutti gli altri sovversivi922.

L’istruzione non bastava; occorreva l’educazione, co-sa diversa e non identificabile senz’altro con la prima,anzi923. Il feticismo dell’alfabeto voleva dire lo Stato «inmano alle plebi cittadine, all’elemento più scontento, piùpresuntuoso per la sua mezza dottrina, più spostato, piùsovversivo della nostra società»924; la mezza dottrina erail più pericoloso dei fermenti925, e meglio dunque la cras-sa ignoranza delle moltitudini al presuntuoso restar sul-la soglia con l’illusione di esser già in fondo al tempiodella scienza926. Codesta cieca fede nella scuola e nei li-bri di lettura, rosea illusione di pedagogisti superficiali edi vecchi retori, superstizione del secolo conduce a que-sto – tuonava alla Camera, fra i bravo e i benissimo del-la Destra, l’on. Lioy contro il progetto di legge elettora-le nel 1881: che voi concedete il voto alle folle corrottedella città, ai fuchi scioperati e violenti dell’alveare socia-le, solo perché sono stati a scuola e sanno sbraitare nel-le taverne spropositate dottrine religiose, politiche e so-ciali: e lo negate alla pura e sana democrazia dei campiche nell’alveare sociale rappresenta gli operai continui eutili. Date voto ai faziosi; e lo negate a coloro che, co-me soldati, incaricate di sorvegliare i faziosi. Via questifeticismi, queste superstizioni del sec. XIX! La scienzanon è pane per la plebe; il proletariato anarchico dellascienza accetta solo le coriclusioni che possano confer-

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mare terribili negazioni e demolizioni brutali. La scien-za è eminentemente aristocratica927. Il progresso della ci-viltà risiede nelle classi colte, la cui educazione è la so-la ad aver importanza per il genere umano: la teoria dei«mandarini», cara al Flaubert, reclutava seguaci anche inItalia928, non ultimo il Carducci, ufficialmente democra-tico in quegli anni e amico del Cavallotti, eppure osti-le all’istruzione obbligatoria, questi «avori forzati del sa-per leggere un po’ più che per il suo consumo», e de-clamante contro «questa stupida volontaria materiale emorale degradazione e torttura del secolo», contro l’al-fabeto «il più ipocrita strumento di corruzione e delittoche l’uomo, questo animale eminentemente falso, abbiainventato»929.

Per parecchio tempo, certo, a trattener molti dal get-tarsi nelle braccia dei vescovi e dall’abbandonar ai parro-ci la scuola, intervenne la particolar situazione dell’Italia,con Papato e parte del clero, soprattutto dell’alto clero,avversi all’unità nazionale, sì che il loro trionfo avrebbesegnato nuovamente la fine della patria; e il pericolo cle-ricale, di ben altra portata in Italia che in Francia, appar-ve ancora per lunghi anni più grave di quello socialista,o, come diceva il Sella, l’Internazionale nera si presentòassai più minacciosa di quella rossa.

Dei due pericoli che potevano minacciare le istituzio-ni pubbliche, per l’assai minore gravità del problema so-ciale e per la ben diversa natura del conflitto con la Chie-sa, l’Italia doveva risentire il pericolo della reazione ne-ra assai più della stessa Francia, dove pure esso costitui-va già un motivo di tanta forza nello sviluppo della TerzaRepubblica: così, la battaglia parlamentare per l’obbliga-torietà dell’istruzione primaria fu condotta dagli uominidella Sinistra nel nome del libero pensiero contro la teo-crazia, e fu una grande battaglia politica contro la Curia.

Il fondo della questione, aveva detto già il Correnti,relatore sul progetto di legge nel ’74, era propriamen-

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te questo, scuole laiche contro scuole clericali, due seco-li l’un contro l’altro armati930; e, continuava il Coppino,ministro nel ’77, consisteva nel decidere se l’Italia doves-se essere uno Stato veramente e compiutamente moder-no, o continuare a vivere oscillando fra vecchio e nuo-vo, nella più contraddittoria e pericolosa delle situazio-ni. «... coltivando nel medesimo tempo il vecchio ed ilnuovo, quello per effetto di abitudine, questo costretti-vi dal moto di tutta la civiltà che ci attornia e ci invade,si generano nel paese antagonismi, contrasti e contraddi-zioni, per cui una parte della popolazione vive colla testain un secolo, e un’altra in un altro, e in mezzo alle qua-li in ultimo non può assiderai arbitra se non la violenza... Dove, per forza di tradizioni tenaci, è tardo e restiolo svolgimento della coscienza religiosa, la scuola rima-ne l’unico mezzo di elevar gli uomini alla pari colle isti-tuzioni liberali e di mettere nel modo di pensare e nell’a-nimo di tutti il fondameto di riforme, che altrimenti nonpenetrano nei costumi e mangono alla superficie a mododi piante senza radici»931.

A Roma staremo, dichiarava Benedetto Cairoli, «mal-grado le evidenti cospirazioni e le possibili aggressioni,non solo colla forza morale del diritto, ma colla demoli-zione progressiva del pregiudizio fatta dall’insegnamen-to»932 la legge sull’istruzione obbligatoria, continuava unacceso tribuno della Sinstra, l’on. Michelini, è una leggedi polizia, di salute pubblica: salviamo la patria, e tiria-mo un velo sulla statua del diritto costituzionale offesodal nuovo obbligo.

Il nostro nemico è quello della libertà e dell’incivili-mento è la Chiesa; ad essa noi dobbiamo opporre l’armadell’istruzione, la sola da cui sia vulnerabile933. Abbia-mo ereditato dei cattolici, concludeva il Petruccelli dellaGattina, tramandiamo ai posteri liberi pensatori ed uo-mini. «Il cattolico non è né cittadino né uomo» Faccia-mo nell’ordine morale ciò che già si è compiuto nell’or-

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dine politico, e dopo aver abolito la teocrazia tempora-le, facciamo crollare la teocrazia spirituale esautoriamola Chiesa con la scuola laica934.

Compiliamo un «catechismo civile», insegnando lemassime di giustizia e di morale sociale, aveva propostoil 28 gennaio 1874 l’on. Mazzoleni, anch’egli convintoche bisognasse contrapporre al dogma la scienza935.

Insegnamento obbligatorio, niente libertà d’insegna-mento ch’era una bella cosa m teoria, ma non dovevaconvertirsi in libertà di avvelenare gli animi936.

A lungo ancora, dunque, la paura del clericalismo pre-via sulla paura dei rossi; la fede nella scienza fu quasi uncoi Lario della fede nella patria e, in molti, fece tutt’u-no con il sentimento nazionale. Ma lentamente, con pro-gressione continua e sicura, l’orrore della «superstizio-ne» perdette forza e meno morse gli animi, e più comin-ciò a morderli la paure dei moti di piazza ad opera del-le plebi. E se già fra il 1874 e il 1877 s’eran levate vocia combatter il principio stesso della obbligatorietà dell’i-struzione elementare, come fonte di pericolo sociale; senel 1881 qualcuno aveva detto che sostituire la scienzaalla fede era il programma dei nihilisti russi937, nel 1883altri chiese in Parlamento che il governo intervenisse amigliorare le condizioni del clero, di quei «poveri del-lo spirito ... i quali ... nei comunelli rurali sono i soli cheabbiano parole di conforto per le derelitte popolazioni, ele sollevino all’altezza di qualche sentimento morale, cheinvano cercherebbero altrove»938.

Perché, quali erano i frutti della scuola nuova? Qua-le la sua efficacia educativa, la sua opera nel formar uo-mini dabbene, morali e cioè buoni cittadini, devoti alleistituzioni? Bastava a ciò l’istruzione sola; o non avevanoragione, invece, coloro che da tempo battevano sulla ne-cessità di porre a base dell’insegnamento la credenza re-ligiosa, di bandir dalle aule il verbo materialistico e ateo,seminatore non di verità ma di corruzione e di disordi-

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ne, rovina della collettività come dei singoli? La mora-le sociale o civile o indipendente, e cioè laica, non era«la morale del sacrifizio, della subordinazione volontariadell’uomo a un fine superiore a lui»; non questa rendeval’individuo capace di azioni grandi e di cittadini educatia tale scuola lo Stato non poteva accontentarsi. «Rendereindipendente la morale dalle credenze religiose, in quan-to a noi non lo comprendiamo di più di quello che rende-re indipendente un edilizio da’ suoi fondamenti.» E per-ciò, affermava un giurista come Giuseppe Piota, e perciòchiudiamo le cattedre delle scuole primarie e secondarie«all’ateo, al materialista, allo scettico, ed anche al sem-plice deista. Lungi dal sacerdozio di quell’insegnamen-to chi ha castrato l’anima sua dell’idea e del sentimentoreligioso. A siffatti eunuchi noi non dobbiamo affidarel’educazione morale e intellettuale de’ nostri figli»939.

La difficoltà comune a tutti i partiti liberali d’Europa,segnatamente nei paesi cattolici, è proprio questa, dice-vano altri: essi tendono a dissolvere il sistema di discipli-na, di dottrina, di sanzioni proprio della Chiesa cattolica,sistema che può essere oggetto di molte censure, ma cheè efficace e consolante per le classi che ne sono persua-se; e che cosa vi sostituiscono? Nulla. Nessuna dottrinamorale che compensi quella religiosa940. Si aprano purescuole e casse di risparmio: ma la malattia terribile di cuil’Europa soffre non si sana né con le une né con le altre,né con qualsivoglia simile mezzo. Tali cure non avrannoaltro effetto che quello dell’acqua sul petrolio. Le clas-si popolari che hanno dato così terribili esempi a Pariginon sono le più incolte, bensì le più colte. Occorre unprofondo rinnovamento intimo e morale, da cima a fon-do; ma dove trovare una fonte di educazione morale chenon sia anche religiosa? Dove può ricercarla lo Stato, sericusa l’aiuto di qualunque Chiesa? Solo ottenendosi l’u-nione dell’influenza religiosa è di quella intellettuale, l’i-

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struzione delle classi povere sarà il balsamo della società;altrimenti, ne sarà il verme roditore941.

Nel ’74, ministro, il Bonghi lamentava «questa trage-dia morale dello spirito umano», la dilacerazione nel-la coscienza semplice del popolo tra istruzione civile eistruzione religiosa942 nel febbraio del 1882 deplorava loscetticismo dei giovani, non riguardo alla certezza dellascienza, ma di fronte all’al di là, ai problemi eterni su cuila scienza nulla poteva dire «e quando qualcosa ne affer-ma o nega, lo fa, sto per dire, di nascosto; e richiamata asé, ringoia le parole», e i giovani si trovano abbandonatie soli943.

E il 1° marzo 1883, lumeggiando alla Camera le gravicondizioni morali dell’insegnamento elementare, da cuiuscivano giovani non molto docili e tristi, ritornava sultema prediletto, che era una sciagura il dissidio tra scuo-la e fede in un paese «nel quale tutte le plebi che voi vo-lete mandare a queste scuole sono religiose», senza nem-meno aver supplito alla mancanza dell’insegnamento re-ligioso fornendo ai giovani gli elementi morali una vol-ta procacciati dalla religione. E lamentava che i maestrie professori troppo spesso invece di educare i fanciullis’intrattenessero di politica e di partiti, qua discussionimaterialiste, e là ateistiche, e guidassero dimostrazioni inpiazza, generando scetticismo nei ragazzi, disordine mo-rale e sociale nelle masse, onde tosto o tardi il governoavrebbe dovuto stringere i freni e ricondurre sulla rettavia gli educatori del popolo944. Nelle Università, libera ri-cerca anche fuor della religione; ma nelle altre scuole, at-tenti a non toccar le cose di fede: erano, ancora, Thiers eRenan.

Dubbi e rimorsi di tal genere s’annidavano anche nel-l’animo di molti altri degli uomini della Destra; e Gio-vanni Lanza, sempre tenacemente fermo sul principiodella separazione fra Chiesa e Stato, esprimeva tuttavia,non più ministro, le sue perplessità sull’efficacia dell’in-

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segnamento e ammoniva che il divorzio, e peggio l’anta-gonismo fra religione e scienza poteva riuscire fatale al-la società moderna945. Altri proponeva che, mancando ilVangelo nelle scuole, si educassero i giovani con Epitte-to, Marc’Aurelio e la fiera morale degli antichi stoici946:ma uno era il sentire, la paura del vuoto morale che lascuola lasciava negli animi. Anche a parlare in nome del-la scienza, qual contraddizione voler praticarne il cultoe, ad un tempo, con il suffragio universale, abbandonareil potere politico alle classi che erano agli antipodi del-la scienza, a quei greggi di bipedi ancora immersi nelletenebre dell’età della pietra!947.

Perfino Crispi, nei suoi ultimi anni, amareggiato epessimista, constatava che la ragione dovrebbe esserepiù potente della fede, ma non lo è948, e si doleva chei governi avessero trascurato l’educazione del popolo,accrescendo sì il numero delle scuole, ma senza che inesse s’inculcassero efficacemente i doveri dell’uomo e delcittadino, si coltivasse il cuore, si alimentasse la mentecon princìpi di morale capaci di dare uno scopo allavita: donde lo scetticismo, l’incredulità dei giovani949, e,in alcune parti del Regno, il cader delle plebi stanchee sconfortate nelle braccia del prete950. Perfino lui, dicosì forte spirito anticlericale, nei torbidi anni di finesecolo fini col dire meglio i clericali che i socialisti951,invocando nel discorso di Napoli del settembre 1894l’unione della potestà civile e della religiosa, con Dio, colRe, per la patria, contro la setta infame sbucata dalle piùnere latebre della terra952.

Uomini di Destra e uomini di Sinistra, cattolici libera-li e massoni, si trovavano dunque d’accordo nelle deplo-razioni e nei timori: e toccò ad uno della nuova genera-zione, non sospetto certo di simpatie nere, di esprimerlicon tutta chiarezza.

La legge del ’77 ha tolto il catechismo dal novero del-le materie oggetto di esame; e fece bene. Ma, continua-

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va Ferdinando Martini, relatore della giunta del bilanciosulla Pubblica istruzione, s’era pure raccomandato al mi-nistro di provvedere con regolamento perché l’istruzionereligiosa venisse impartita a tutti gli alunni i cui genitorine facessero richiesta. Ciò non è stato fatto; e resta in ba-lia dei municipi il far impartire o no l’insegnamento reli-gioso. Bisogna uscire da tal confusione. «Se certi idealivi paiono tramontati, se siete capaci di sostituirne altri, secredete ciò sia in vostra facoltà, affrettatevi a cotesta so-stituzione. Egli è certo ... che, senza ideali, non c’è uomodi Stato per esperto che sia, che possa, alla lunga, gover-nare; non c’è popolo, per docile che sia, che si lasci go-vernare alla lunga. Senza alti ideali non prosperano na-zioni, non fioriscono civiltà.» Ora, che dà la scuola italia-na anche dopo la legge del ’77? Scarsi frutti, minori assaidi quelli che s’era sperato, pensava il Martini, pienamen-te consenziente con altri colleghi per i quali la scuola eraridotta ad una fabbrica di cattivi elettori953: e la colpa èdel sistema. «Se voi non formate il cittadino nella scuo-ia, voi avrete un bell’empire gli arsenali di armi; esse nonserviranno a nulla se voi non le affidate a mani mosse dacuori forti e generosi che sentano profondo l’affetto allapatria.» Bovio ha detto, finché non si risolve la questio-ne sociale, non vi sarà una buona scuola popolare: «ioinverto i termini ... e dico: finché non ci sarà una buo-na scuola popolare, la questione sociale sarà insolubile, ePer quanto voi siate disposti a concedere colle vostre leg-gi di riforma sociale, non farete che inasprire gli appeti-ti, perché mancherà, in colui che deve ottenere, la edu-cazione suffciente a pregiare il beneficio. Finché voi nonabbiate insegnato a distinguere le sembianze austere delvero, e le parvenze lusinghiere dell’utopia, finché [non]avrete buona scuola popolare, la questione sociale nonsarà altro che un’alterna vicenda di speculazioni infecon-de da una parte, e di cieche violenze dall’altra»954.

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I volteriani avevan paura che il volterianesimo trasci-nasse il popolo, la populace aborrita dal maestro; si allar-mavano nel constatare che il secolo XVIII stava diven-tando fatto delle moltitudini, anziché privilegio di unaschiera chi eletti, di saggi di illuminati. Già il non papa-lino Villari sin dal ’75 aveva espresso la sua paura che sistesse allevando un popolo di volteriani e di clericali955;con assai maggior chiarezza di linguaggio e con preoccu-pazioni molto più precise, il Martini si doveva sfogare,nel torbido clima di fine secolo, con un amico che nem-men lui poteva esser tacciato di clericalismo. Né tu Car-ducci, né Crispi riuscirete a nulla: «bada, che tu predichia un convertito: di ciò che il Quinet dice con grande ef-ficacia di parole e dimostra con grande autorità di esem-pi, che cioè le rivoluzioni politiche, le quali non accom-pagnino un rinnovamento religioso, perdono di vista l’o-rigine loro e i primi intenti e finiscono a scatenare ognicattivo istinto delle plebi; di ciò io sono convinto da unpezzo. Ma dopo il male che noi, tutti noi, caro Giosuè,abbiamo fatto, siamo in grado di provvedere a’ rimedi?A chi predichiamo? Noi, borghesia volteriana, siam noiche abbiam fatto i miscredenti, intanto che il Papa custo-diva i male credenti; ora alle plebi che chiedono la pouleau pot, perché non credono più al di là, ritorneremo fuo-ri a parlare di Dio, che ieri abbiamo negato? Non ci pre-stano fede: parlo delle plebi delle città e de’ borghi: lerurali, di un Dio senza chiesa, senza riti, senza preti, nonsanno che farsi. A tutto il male che noi (non tu od io, noiceto), abbiamo fatto per spensierata superbia, le tombeson troppo scarso compenso: abbiam voluto distruggeree non abbiamo saputo nulla edificare. La scuola doveva,nelle chiacchiere de’ pedagoghi, sostituire la chiesa. Unabella sostituzione! Te la raccomando..»956.

Dov’era più l’ideale della Scienza in Roma proclama-to dal Sella? Dove la fede nella scuola laica, sola educa-

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trice ad alto sentire, madre di un popolo rinnovato nelcostume e nell’animo?

Certamente, non tutti cadevano nello scetticismo delMartini, poco incline di sua natura a custodire in sé fe-di profonde; alle fosche profezie di chi vedeva imminen-te il nuovo sovvertimento universale, ad opera di barbarinon più calanti dal Settentrione ma emergenti dal fondostesso della società, e unica salvezza la Chiesa, altri op-poneva il suo ottimismo e la convinzione dell’impossibi-lità di un nuovo universale diluvio che stesse per ricopri-re la Civiltà957. Ma era, per così dire, più un permaneresu posizioni acquisite che un avanzare; più un riecheg-giare motivi ormai ben noti al pensiero europeo che nonun crear germi nuovi d’idee: ché anzi, proprio in Italia,la successiva fase di pensiero fu storicistica, aliena perciòdal mito della Scienza come liberatrice dell’uman gene-re, nel senso caro ai profeti di tra il 1850 e il 1900; i pas-si innanzi della cultura italiana furono compiuti su que-st’ultima via, che affinava il senso storico, ma rendevaimpossibile il fanatismo della ragione e della scienza.

E se questo avveniva nel campo propriamente specu-lativo, nella vita pratica il miraggio su cm s’appuntaronogli sguardi di folle sempre crescenti non fu, certo, quellodella’ cultura liberatrice, ma quello della società sociali-stica, di cui scienza e cultura erano elementi tutt’affattosecondari. Se anche il socialismo fu anticlericale e parvecondividere atteggiamenti e tono dei vecchi liberi pen-satori, in realtà il suo obbiettivo non era più la sola Ro-ma papale, ma tutt’un mondo di cui il Vaticano non erache una parte; lo scopo non fu più di contrapporre al-la religione dei preti la religione del vero, ma alla societàborghese la società proletaria. La lotta abbracciava piùampia sfera, il suo centro si spostava; l’attacco alla federivelata perdette intensità di forza, quanta ne guadagnòl’attacco all’ordine sociale costituito. Così che se, per unverso, la paura del socialismo finì col trascinare parecchi

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già liberi pensatori verso atteggiamenti più accomodanticol Vaticano e fece amare un po’ meno il Vero e un po’più la tranquillità sociale, dimostrando che in Italia, piùancora che in Francia, l’anticlericalismo era per la bor-ghesia non connaturale ma occasionale, di contingenzapiù che di principi958; per altro verso l’imporsi del socia-lismo fini col rendere meno diretto almeno, meno conti-nuo l’assalto al mondo della «superstizione e della bar-barie nera» in nome del mondo della luce e della ragione– ch’erano pur sempre, per quei socialisti, luce e ragione«borghesi».

Come ai contrasti di principi della prima metà dell’Ot-tocento, libertà e nazionalità contro legittimismo e ordi-ne europeo, si sostituiva ovunque, dopo il ’70, anche dot-trinalmente, una più corposa lotta di interessi, espansio-ne commerciale potenza coloniale prestigio, così ai con-trasti tra ragione e fede, verità ed oscurantismo, si sur-rogò la più palpabile antitesi fra le classi e la lotta per lagiustizia sociale.

La missione universale di Roma come centro di scien-za svanì pertanto rapidamente: se pur già non fosse ba-stata, a troncar le illusioni, la evidente sproporzione frail sogno e le possibilità di concretarlo, in un’Italia fati-cosamente avviata non che a sopravanzare altre nazioni,semplicemente a raggiungerle anche in fatto di studi e diprogresso scientifico.

III

L’ombra di Cesare

Niente renovatio Ecclesiae, in nome della Chiesa; nienterenovatio Romae, nel nome della Scienza. L’un dopol’altro svanivano i miraggi.

E allora? Adattarsi alla più modesta realtà, riconosce-re i limiti, acconciarsi di buon animo ad assolvere be-

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ne non missioni universali, ma semplicemente il compitodi costruire su solide basi il nuovo Stato, trasformandol’Italia in un grande paese moderno – che era poi il ve-ro modo di adempiere ad una missione e di collaborarefattivamente alla vita dell’umanità? Riconoscere, comevoleva il Bonghi fin dal settembre 1870, che la vera Ro-ma consisteva nel creare la fibra morale degli Italiani, su-scitando l’operosità intellettuale, ravvivando la coscien-za dei diritti e il sentimento del dovere959, rendersi conto,con Silvio Spaventa, che l’acquisto di Roma non potevainfondere negli animi, né doveva, alcuna pretesa di do-minio fuori di casa, le ragioni e le possibilità di simili do-mini non potendosi desumere dalle memorie del passa-to, ma da bisogni e necessità attuali e da forze vive e ca-paci di soddisfarvi960; dimenticare il passato, secondo au-spicava nuovamente il Bonghi; e vivere in tutto e per tut-to nel presente, che pub sembrar meno glorioso, perchélo si vede da vicino e urta e contrista, mentre il passato losi legge nella storia, spogliato di tutte le debolezze uma-ne che lo accompagnarono?961 Accettare, insomma, an-che idealmente, quel che praticamente si veniva facendo,paghi di mettere bene in assetto la casa propria?

Molti, senza dubbio, l’accettarono. Fra gli stessi stra-nieri che, un momento, avevano additato alla terza Ita-lia l’ideale della grande rivoluzione religiosa, fuori il Pa-pato e viva la Scienza, col venir meno di queste speranzesi pensò ad un’Italia di second’ordine, felice a suo mo-do nella mediocrità: e nessuno lo disse più apertamentedel volubile Renan, che passava dagli incitamenti controil Papato a giudizi assai lusinghieri962.

Ma era difficile, impossibile che tutti l’accettassero.Troppo a lungo, per decenni, si era parlato da ogni partedi missione di terza Italia, di rinnovamento universale963;troppo si era insistito sul compito immenso che toccavaall’Italia in Roma, perché improvvisamente ci si potes-se adagiare in un’azione di carattere puramente ammini-

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strativo ed economico. Da ogni parte a Roma si guarda-va come a qualche cosa di assai più grande di una nor-male capitale; ché agli squilli della Sinistra rispondeva,con ben altro tono ed intenti, senza dubbio, ma sempreesaltando la missione universale della città, la voce delPontefice che si appellava «a questa Nostra alma Città,sede del Pontificato, la quale sentì per essi [i Papi] talesingolarissimo vantaggio da divenire non solo rocca ine-spugnabile della fede, ma anche asilo delle arti belle, do-micilio di sapienza, maraviglia ed invidia del mondo»964.O non era proprio il continuo assillo polemico contro laRoma cattolica che eccitava i «naturalisti e razionalisti»,condannati nelle encliche papali, a cercare altrove il se-gno della nuova missione dell’Urbe?

Dunque, l’animo pieno di Roma. E i ricordi recentidel patrio riscatto erano di audaci imprese, di improvvi-si e mirabili eventi; erano poesia: e come fare ad accetta-re ora unicamente la prosa del pareggio e dei lavori pub-blici? Solo le alte idealità e le forti passioni avevano re-so possibile il Risorgimento: come scendere ora dal cie-lo in terra, quando invece l’Italia, uscita dall’inferno965,doveva dar prova al mondo della sua risurrezione?

Di questo e simil genere erano i sentimenti che agi-tavano l’animo alto ed inquieto dei Carducci e dei Cri-spi e travagliavano pure uomini di più temperato senti-re e modesto pensiero, preoccupati anch’essi che alla pa-tria, finalmente una, non toccasse la sorte della ceneren-tola fra le nazioni. Lo stesso dibattito attorno alla guer-ra franco-prussiana, il compiacimento per la caduta dellaFrancia e la fine del vassallaggio italiano di fronte al tene-broso del 2 dicembre non rivelavano forse, chiaramente,il bisogno profondo di additare alte mete politiche all’I-talia?

Tutto questo, ancora, era fermento puramente inter-no. Ma, oltr’Alpi, quale altro ribollir di passioni, ac-cendersi di entusiasmi e di speranze per la grandezza,

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la missione del proprio paese! Anelito alla potenza sem-pre più accentuato; dispiegarsi che dottrinario dell’im-perialismo, ad Occidente come ad Oriente; vita interna-zionale sempre più basata sulla forza, sempre più attentaal prestigio, ciascuna grande nazione corroboorando l’a-zione politica concreta con la rivendicazione dei proprititoli di nobiltà e delle proprie qualità da primato. As-sai prima che in Italia, in Germania Francia Inghilterrala missione da morale e civile diventava politica: al regnodello spirito per opera tedesca, auspicato da Humboldte Schiller, si sostituiva il regno terreno dei pangermani-sti; il magistero della Francia alla de Maistre e alla Gui-zot indossava l’uniforme da generale dai brillanti gallonidorati. La missione perdeva il suo carattere di universali-tà civile, dovunque, e diveniva missione di signoria parti-colare sulle genti. Oltre Manica, nella terra stessa da cuiera stato annunziato al mondo d verbo manchesteriano,Disraeli invocava, già nel ’72, lo «spirito dominatore diqueste isole», Tennyson, imperialista dal ’70, rielabora-va nel 1882 Hands all Round per sciogliere un inno allagrandezza imperiale britannica, Froude e Seeley davanoconcretezza storiografica alle dottrine dell’imperialismo,eventi spettacolari, come l’esposizione coloniale dell’86 eil giubileo della regina Vittoria nell’87, accendevano l’en-tusiasmo delle folle966, sinché Kipling riassumeva tutta lavecchia e nuova anima imperiale britannica, di qua e dilà dai mari, imperiale nel nome del Signore biblico.

Fair is our lot – O goodly is our heritage!(Humble ye, my people, and be fearful in your mirth!)For the Lord our God Most HighHe hath made the Jeep as dry,He hath smote for us a pathway to the ends of allThe Earth!967

Lontano, s’affacciava la Santa Russia protettrice deifratelli slavi e cristiani dei Balcani; la Russia dalle vergini,

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intatte forze destinate a rinnovare il mondo, nei proclamidei panslavisti.

A giustificar la missione, venivano evocati i grandieventi e le figure eroiche del passato: un passato mol-to vicino, per i vinti di Sedan, agli occhi dei quali tor-navano a risplendere di viva luce le figure di Richelieu edei costruttori francesi d’impero968; un passato lontanis-simo, evanescente nella preistoria, per i Tedeschi i quali,sulle orme di Ulrico di Hutten e di tutta una tradizionepubblicistica secolare, continuavano a guardare, ma coninusitata fierezza ormai, verso Arminio il Salvatore.

Alfredo Oriani voleva il monumento a Vittorio Ema-nuele II sul Campidoglio, il primo Re d’Italia sul piedi-stallo di Marc’ Aurelio, per dimostrare al mondo che tut-te le epoche storiche si verificano solamente sul Campi-doglio, l’idea civile che nemmeno l’idea cristiana avevaosato occupare; e si sdegnava che nessuno v’avesse pen-sato e non si fosse scorta la necessità di riannodare la no-stra storia all’antica, mantendo la grande tradizione ro-mana che era la sorgente di tutta la vita moderna969. Magià il 16 agosto 1875 40.000 Tedeschi avevano salutatocon fragoroso entusiasmo il monumento ad Arminio sulGrotenburg, là dove un tempo lontanissimo i fieri Ger-mani avevano salvato l’unità e la libertà dal giogo roma-no: Arminio il Salvatore, araldo della gandezza tedescarealizzata ora da Guglielmo I, il nuovo Salvatore che ave-va trionfato della doppiezza latina; in alto Arminio di 55piedi, che brandiva con la destra una spada colossale, esotto il profilo del re di Prussia ed imperatore di Germa-nia, passato e presente accomunati in una sola apoteosidi potenza e di gloria militare970.

Questa era l’Europa di fine Ottocento; e l’Italia era,anch’essa, Europa.

E dunque, tra ricordi e speranze dei giorni del vicinis-simo Risorgimento e incitamenti che provenivano dallarealtà europea presente, era tanto più difficile accettare

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il consiglio che da più parti veniva rivolto agli Italiani,e spesso anche con sentimento amichevole, non per di-spetto o tracotanza: accontentarsi di una posizione simi-le a quella della Svizzera e del Belgio, la più favorevolealla sicurezza e alla prosperità delle nazioni971; rinunziarea svolgere una politica da grande potenza, per chiudersinel proprio guscio rendendolo il più comodo modo pos-sibile. A consigli di questo genere rispondeva un gior-no il Minghetti che «un gran paese non può concentra-re in questo modo in sé stesso la sua attività. Il bisognodi espansione della giovinezza, se non gli si aprono talu-ne grandi prospettive, si inacidirà, si svolgerà in corrut-tela e malcontento. Un membro ragguardevole del Par-lamento inglese, Courtney, diceva ultimamente che biso-gna lasciar gli Egiziani cuocere nel loro sugo. Vi confes-so, che, pel mio paese, un avvenire simile non mi sorri-de: lo stufato potrebbe sentir di bruciato». Ch’era, conuna battuta scherzosa, una risposta giusta.

Chiedere all’Italia unita di accontentarsi della parte diun Belgio senza carbone, e quindi – oltre a tutto – di unoStato agricolo in mezzo ad un mondo industrializzato972

era un ingenuità, anche per chi non si lasciasse suggestio-nare dai fanatiasmi liviani e dal Campidoglio973.

Il ricordo della grandezza passata, l’attesa di una gran-dezza futura avevano costituito la forza motrice del Ri-sorgimento, dal Foscolo al Mazzini: suggerire ora di ac-contentarsi della posizione di Stato neutrale, anche sequesto fosse possibile ad un’Italia che già solo la lottacol Papato e l’Internazionale nera trascinava forzatamen-te nella grande politica europea, avrebbe significato but-tarsi dietro le spalle proprio l’idea forza che aveva con-sentito di raccogliere in unità le sparse membra della pa-tria. Avrebbero avuto ragione gli antipatrioti che aveva-no battezzato di mattane le idealità e le generose azio-ni dei cospiratori: ciascuno a casa sua, far bene le pro-prie cose e non lasciarsi stornare dai fumi di un’unità as-

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surda, dannosa, mentre nei vecchi Stati si poteva viveretanto comodi e tranquilli.

Impossibile dunque pretendere che l’Italia si estra-niasse dalla politica internazionale, rinunziasse a qual-siasi aspirazione anche per l’avvenire. L’opera dei sag-gi doveva essere di non lasciarsi trascinare troppo oltredai ricordi del passato, di contenere irrequietezze e va-nità; non poteva essere quella di rinunziare senz’altro adaver parte attiva nelle vicende europee. Ma, appunto,l’Europa, avviandosi alla distruzione di se stessa, into-nava allora concorde il canto della potenza e della glo-ria: l’eco si ripercosse in Italia e vi trovò l’antica voce diRoma974. Così fu che, tra il dileguar dei sogni nel trion-fo finale della scienza e l’imporsi di una realtà europeasempre più grandezza, forza, prestigio, a poco a poco al-l’immagine di Roma maestra di Vero cominciò a sosti-tuirsi l’immagine di Roma antica, donna di province; ealla missione universale di natura culturale e civile si so-vrappose il compito assai meno universale della grandez-za politica del proprio paese.

Riappare la Roma dell’imperio, non disdegnosa dellibro e pronta a rendere ancora omaggio alla scienza;ma accomunante libro e spada, scienza e forza militare,grandezza spirituale e potenza terrena. La scuola, si, mala scuola che educasse ad alto sentir patriottico e creassevalorosi soldati.

Toccò a Guido Baccelli, all’eloquentissimo Baccelli, didelineare tra i primi, conferenziere deputato ministro, ta-le nuovo compito della istruzione pubblica. Che la scuo-la fosse necessaria premessa ad ogni grandezza, anchepolitica e militare questa non era una novità, anzi un luo-go comune, dopo l’esaltazione della Germania vittoriosaa Sadowa e a Sedan, s’era detto, per virtù dei suoi mae-stri elementari più ancora che per virtù dei suoi genera-li, la dotta Germania essendo stata la creatrice della po-tente Germania. Già Francesco De Sanctis ne aveva fat-

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to ricordo alla Camera, avvertendo pure che lo stesso im-pulso, che spingeva a riformare l’esercito e la marina, eraquello che induceva a riformare l’istruzione. Coscrizio-ne militare, coscrizione scolastica975. Già egli, ministro,aveva propugnato l’educazione fisica nelle scuole, comefondamento necessario del coraggio fisico e morale, edu-cazione della volontà origine delle virtù militari, semprericordando la Germania e il Moltke976.

La scuola e le armi, l’insegnamento e il servizio milita-re, indissolubili: erano gli avvenimenti, l’evolversi dellapolitica internazionale a suggerirlo. Nel pieno della cri-si tunisina, sotto l’assillo della sconfitta morale dell’Italia,della «dura lezione che c’infligge la Francia, e che ci con-ferma l’Europa», perché l’Italia era debole, un uomo co-me Cesare Correnti, che, primo aveva cercato come mi-nistro della Pubblica Istruzione di imporre il principiodella obbligatorietà dell’istruzione elementare in omag-gio al credo democratico977, pensò anche lui che occor-reva essere forti e temuti; per il che, occorreva riprendervigore dalla stessa vergogna, dalla stessa disgrazia, comeaveva fatto la Prussia dopo Jena. «La generazione libera-trice, che ora si spegne, venne su sotto le bastonature deiCroati; la generazione, che adesso matura, sarà educa-ta dalle ingiurie francesi. Scuole, armi, prudenza e con-cordia ... Scuole popolari e armi intelligenti. L’elettoreesca dalla scuola, la scuola sia militare, cittadina, cristia-na. Non ti spaventare caro Cairoli. Il Cristianesimo è laforma democratica del pensiero religioso: il culto degliumili, dei poveri, di quelli che non cercano la vita se nonper le cose eccelse, di quelli che non temono la morte.Ricordati, ricordati di quello che colla sua cinica retori-ca disse un giorno Guerrazzi, me presente, a Cavour. Ilprete è un cane che si può avvelenare col boccone Vangelo.Cavour sorrise e non capì. Tu sei atto a capire.»978.

Ma soltanto nel clinico romano il credo comune si il-luminò della visione di Roma antica che ammoniva i tar-

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di nipoti. Anche a lui sorrideva il trionfo della Scienzain Roma; e, avvampando di spirito profetico, intravvede-va il giorno in cui il Policlinico di Roma sarebbe stato ilprimo del genere mondo e per esso l’Italia segno di no-bili invidie979. Ma la scienza doveva allearsi con la spa-da; scienza ed armi dovevan trovare unite Italia e Ger-mania sulla via sacra che conduce alla prosperità e al de-coro nazionale980. La scuola forgiasse i caratteri, prepa-rasse i bravi soldati pronti al sacrificio supremo per lapatria, fosse fabbrica del cittadino e del soldato; per ot-tenere tale scopo s’ispirasse di continuo alle grandi me-morie dell’alma mater, quando «questa città era ammira-ta dal mondo, per l’educazione del cittadino e del solda-to». Torriamo alla tradizione dei padri, e saremo i pri-mi educatori del mondo; facciamo rivivere le virtù del-la patria «che ne fecero la grandezza antica e le addita-no fra le ombre del futuro la linea certa di una grandez-za nuova». Perché non ritornare «a quella stoffa di sol-dati che vinsero il mondo, lasciando nella storia nostraun’orma ch’è grande ancora, una pagina imperitura digloria e di magnanimi esempi»? A sentir taluni, sembre-rebbe che l’epoca romana sia un’epoca quasi preistorica,mentre le siamo assai più vicini di quanto non s’imma-gini. Perché dunque non facciamo rivivere, nuovamen-te, il tipo perfetto dell’antico romano, che «doveva ave-re il braccio di un gladiatore e la testa di un giurecon-sulto»? Noi ci lamentiamo dello scarso senso di discipli-na dei giovani, del patriottismo che vacilla, delle dottri-ne sovversive e dell’insofferenza alle leggi, che s’insinua-no nell’animo dei giovani invece di sentimenti devoti al-le patrie istituzioni: e non facciamo nulla per opporci aitristi che s’impadroniscono delle teste esaltate dei giova-ni.

Ci pensò lui, ministro, a far qualcosa; e presentò il suoprogetto di una scuola popolare o complementare, cheavviasse i giovani, fra i sedici e i diciannove anni, ad una

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educazione civica, soprattutto a mezzo della «ginnasticamilitare generalizzata», affidata di preferenza ai sottuffi-ciali dell’esercito. Compito dell’opera educatrice del go-verno era preparare i cittadini per il giorno in cui avesse-ro dovuto pagare alla patria il loro tributo; quindi, aversempre presente il modello della legione romana, m gui-sa che il giorno del pericolo i soldati sappiano che è al-tissima gloria morir per la patria. La religione della pa-tria dev’essere universale, dev’essere inculcata nei giova-ni sin dai primi anni di scuola. L’ideale del secolo è ilcittadino soldato; il modello, Roma antica; oggetto del-l’educazione quella età che «superato il limite delle forzenecessarie alla pura conservazione, entra con un rigogliodinamico fra i contribuenti della società»981.

La scuola trovava il suo fine supremo non più nellalotta contro l’ignoranza per l’elevazione delle plebi, co-me s’era dichiarato un decennio innanzi, ma in una futu-ra possibile taglia contro un nemico esterno; l’esercito di-veniva «l’Università educatrice del popolo», le armi sosti-tuendo l’alfabeto nel compito formativo di un popolo982,tanto da far pensar preferibile un analfabeta buon solda-to ad un cittadino colto ma militarmente imperito983.

E allora, non appena s’abbandonava l’idea della scien-za per la scienza o il mito della scienza come strumen-to di lotta contro la religione, e vi si sostituiva la scien-za come strumento della grandezza politica della patria,ecco la rievocazione dei fatti gloriosi di Roma antica e ilproposito di imitarli. E s’aveva un bel dire, noi vogliamograndezza civile e non pensiamo più ad impossibile im-perio politico, come affermavano allora anche i più ac-cesi fra i romanisti: i fantasmi, una volta evocati, non sisarebbero più allontanati, e quei fantasmi parlavano so-prattutto di gloria militare e politica, e a lasciarli aggira-re fra i ruderi del Palatino e del Foro potevano soprav-venire giorni ne’ quali, situazione generale italiana euro-

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pea permettendolo, il loro richiamo avrebbe riacquistatotutto il suo fascino e il suo preciso valore.

Con la scienza patriottica nuovamente trionfava il sen-so della forza, della forza militarmente organizzata: «Ildinamometro politico d’un popolo più assai del nume-ro misura la forza; e la forza consiste nell’animo tempra-to dei cittadini e nella salda e gagliarda organizzazionedegli ordini militari. Le scienze nobilitano, le belle artiadornano, l’agricoltura e l’industria arricchiscono un po-polo; ma un popolo nobile, adorno e ricco potrebbe es-sere schiavo. Per converso un popolo meno nobile ... maforte per sua educazione e per armi, può trionfalmen-te combattere per la sua indipendenza»984. Proprio so-lo per l’indipendenza, proprio solo a santa difesa di sé:anche per quel «rigoglio dinamico» auspicato dal medi-co romano, che negli inusitati termini esprimeva pensie-ri già diversi dall’appello alle armi caro a tutto il Risorgi-mento dal Foscolo al D’Azeglio al Cattaneo, e simili as-sai, nivece, all’esaltazione, cara alla Riforma e a Crispi,delle forze giovani, prorompenti, delle forze vitali ricchedi avvenire?

Non a caso alla voce di Guido Baccelli s’univa, mamolto maggiore autorità e forza sostanziale di pensiero,la voce di Crispi.

In Roma non bisogna essere solo materialmente, dice-va Crispi nel Collegio Romano il 23 marzo 1884; e la stes-sa scienza non basta più. «... la nuova missione d’Italiaqui comincia, e se insediatici nella eterna città abbiamoabolito il principato civile dei pontefici, abbiamo procla-mato liberi i culti e le coscienze, è incompleta l’opera no-stra finché con gli studi e con le armi, con la scienza econ la forza, non avremo provato allo straniero che noinon siamo minori dei padri nostri.»985 E pochi giorni piùtardi, parlando al Circolo Universitario di Palermo, in-calzava esortando i giovani a rammentarsi dei Tedeschi,delle loro vittorie dovute anzitutto alla scienza che non

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solamente sviluppa e rinforza la mente, ma rende il brac-cio più forte, così che «ampliando col patrimonio del-la scienza le dottrine nelle quali ciascuno di noi si versa,potrete arrecare il vostro tributo alla potenza scientificadella pania, e, rendendovi utili come uomini di scienza,ponete esserlo come uomini di spada»986.

Non la Germania di Bismarck avevano sognato i cul-tori della scienza, fiduciosi in una Roma la quale, «perammenda dell’oppressione armata dell’antichità e dellemale arti de’ tempi appresso», promuovesse nel mon-do «la giusta libertà dell’opera e la illimitata libertà delpensiero»987: ma la gloria delle armi, anche a costo di op-primere, stava ridiventando la dea dell’Europa di fine se-colo, e il resto era ricordo di illusioni perdute. Sorgeva,nell’immaginazione, la nuova Roma potente e magnifica,magnifica anche per fasto di monumenti nuovi: «chiun-que entra in quella grande città vi trova la sintesi di duegrandi epopee, l’una più meravigliosa dell’altra. I monu-menti che celebrano queste epopee sono l’orgoglio delmondo; sono per gl’Italiani un pungente ricordo dei lo-ro doveri. Bisogna instaurare Roma ed innalzarvi anchenoi i monumenti della civiltà, affinché i posteri possanodire che fummo grandi come i nostri padri»988.

L’immagine di Roma era sempre rimasta viva nellamente degli stranieri; per questo il risorgimento dell’I-talia era temuto «come il possibile ritorno ad una gran-dezza e ad una potenza, le quali avevano lasciato profon-de vestigia sulla terra»989. Già solo il contrapporre l’Italiae lo straniero, già questo solo accenno bastava a dimo-strare come si fosse ormai fuori dalla pura missione di ci-viltà e s’entrasse nel sogno di grandezza politica, al qua-le bene si confaceva la distinzione fra il proprio e l’altrui.E se è vero che Crispi continuava a ripetere le formuledella missione italiana di civiltà, e a dichiarare di non vo-lere l’imperio di Roma, coppo scontato nei secoli dagliItaliani, è anche vero che ormai tali affermazioni si alter-

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navano con quelle, più sentite, sugli alti destini della pa-tria, il governo non servendo che «all’esplicazione dellavita nazionale, al benessere popolare, all’ingrandimentodella potenza dello Stato»; e l’essere amati dal resto delmondo non bastava più, occorreva anche esser temuti990.Ancora legato per tanta parte al passato, concettualmen-te; uomo della prima metà dell’Ottocento come struttu-ra dottrinale, Crispi viveva già con l’animo nella nuovaetà: e l’animo e gli impulsi e l’immaginazione contavanoin lui più che le dottrine. E dunque le immagini di Romaantica suscitavano naturalmente gli appelli alla potenza ealla grandezza politica e militare dell’Italia risorta; e l’in-sistere su Roma e l’augurarsi di poter ottenere per il citta-dino italiano «che non indarno ci possa ripetere di fronteagli altri popoli il Civis romanus sum», e il ribattere cheil passato doveva rivivere nella coscienza nazionale per ifatti gloriosi, per le virtù dei padri che ci diedero fama,e che dobbiamo rinnovare a grandezza d’Italia991, crea-vano l’atmosfera nuova, accesa di senso della potenza, incui il mito di Roma assumeva anch’esso nuovo significa-to. Non un motivo ornamentale, fiore retorico appicci-cato a lustro e decoro; ma un qualcosa che sgorgava daiprecordi, quasi istinto naturale che faceva tutt’uno conla personalità di un Crispi, sacerdote continuo e sincerodell’unità e della grandezza della patria.

L’esortazione alle storie, rivolta da Ugo Foscolo agliItaliani per creare la loro coscienza nazionale, e rinno-vata insistentemente dal Crispi992, che altro significava senon l’immedesimare presente e passato, fondare il primosulle glorie antiche che segnavano i doveri dell’avvenire,e quindi far tutt’uno del senso della patria con le gran-di memorie dei tempi trascorsi? Foscolo aveva vagheg-giato le glorie della itala gente, Machiavelli, Michelange-lo, Galileo; ora, risorgeva a nuova vita Roma antica, laRoma degli Scipioni e di Cesare.

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Senza dubbio, il vecchio amore risorgimentale per i li-beri Comuni non era ancor spento; e nello spirito pa-triottico degli Italiani fra 70 e ’80 era ancora continua-mente presente l’Italia dei secoli XII e XIII, marinara edonna di colonie per gli uni, antitedesca per gli altri: on-de da un lato le aspirazioni mediterranee si alimentavanodei ricordi della Quarta Crociata, e dall’altro l’irredenti-smo suonava la tromba di Legnano993. Ma sempre mag-giormente si inclinava, ad opera propugnatori della gran-dezza italica, ad esaltare l’espansione delle repubblichemarinare in Oriente più che le lotte contro gl’imperatori,Venezia e Genova più che Milano, le navi più che il car-roccio. Le tradizioni dell’antico splendore marittimo994

cominciavano a servire da stimolo per il domani: riappa-rivano, ammonitori, anzi erano già apparsi i fantasmi deiDandolo e degli Spinola quando

... l’itala vergine apparìaringiovanita per la terza volta: ... .e se lo scettro avito avea perduto,fe del remo uno scettro, e fu temuto995

Fu il richiamo più frequente negli anni fra il ’70 e l’80,quello che, primo, solleticò l’orgoglio nazionale provo-cando le grosse delusioni del ’78 e l’ondata di recrimina-zioni e improperi contro l’opera dei nostri plenipotenzia-ri al congresso di Berlino996; e s’intromise ovunque, nel-le considerazioni commerciali sui porti di Marsiglia e diGenova997, come nei giudizi politici, sulla condotta delgoverno italiano di fronte ad Inghilterra e Russia, Fran-cia ed Austria; e ispirò i lamenti sul decadere del regnod’Italia non soltanto di fronte alla grande Venezia medie-vale, bensì anche di fronte ai più modesti staterelli italia-ni della prima metà del secolo XIX, i quali – si diceva– avevano saputo tener alta la loro bandiera, in Orientee nel Mediterraneo, più e meglio di quanto non sapessefare il governo dell’Italia unita.

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Non è ora il momento di esaminare simili accuse e diosservare che il paragone non reggeva, essendo assai piùdifficile per una grande nazione, sospettata e combattu-ta, competere nel Mediterraneo con le maggiori poten-ze europee, dopo che l’apertura del canale di Suez ave-va nuovamente ridato al mare interno tutta la sua impor-tanza internazionale, di quanto non fosse stato al regnodelle Due Sicilie e al regno di Sardegna, potenze di se-cond’ordine e poco temute politicamente, mantenere unbuon posto nel Mediterraneo ante 1859, di assai minorimportanza nel commercio internazionale e pertanto me-no disputato e sorvegliato998.

Qui interessa solo l’osservare quanto vivo fosse, ancordopo il ’70, questo ricordo, che per i moderati trovavaconferma nell’esaltazione di Cesare Balbo del secondoprimato italiano, del Mediterraneo ridiventato lago ita-liano per merito di Venezia, Genova e Pisa999, e per glialtri nelle predizioni mazziniane, in quella parte cioè delpensiero dell’apostolo più suscettibile di interpretazioninazionalistiche.

Ma, con ciò non è che la memoria dei Comuni me-dievali si opponesse più a quella di Roma antica, che trale due ci fosse antitesi come era successo, spesso, nei pri-mi decenni dell’Ottocento. Allora, l’esaltazione dei liberiComuni era stata esaltazione di forze nuove, fresche, ori-ginali: l’Italia s’era vista sorgere dopo una gran parentesibuia, che aveva spezzato ogni continuità storica con Ro-ma lontana. Ora, nella gran ripresa post-quarantottescadel mito di Roma, l’uno e l’altro motivo si ricongiunge-vano insieme, la civiltà medievale italiana apparendo co-me il secondo grande germoglio sbocciata sul robusto eampio tronco da cui era già una volta sbocciato il germo-glio della civiltà latina: secondo germoglio che gli stu-diosi avrebbero cercato di ricollegare, attraverso la sco-perta di di linfe segrete, col primo1000. Le radici dell’isto-ria moderna si abbarbicavano negli imi ruderi delle età

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primitive; la storia d’Italia era una e continua, non ave-va principio se non coll’Italia1001. E se il primo Risorgi-mento sino a Mazzini aveva lasciato da parte Roma, ri-luttando ad accettare una troppo gravosa eredità di glo-ria militare e di potenza politica, ora, ad unità nazionalecompiuta, quando l’Europa intera si abbandonava al mi-raggio della potenza esteriore, ora era possibile accoglie-re nuovamente nella propria anima Roma antica e i Co-muni, gli Scipioni e i Dandolo: Roma, con Venezia, era ilgran ricordo di gloria mediterranea, che eccitava a nuoveglorie. «Qual’è l’Italiano che conscio di una così magni-fica eredità di memorie, davanti ad un così splendido av-venire non si senta commuovere, agitare da un desideriofebbrile di attività?»1002.

L’idea di un primato italiano anche in certi periodidella storia più vicina s’imponeva in quanto c’era, pro-fondo, il ricordo di un antico primato, quello romano,che aveva costituito l’apogeo della gloria di una stirpeanche in seguito rivelatasi non indegna di tanto grandiavi. A base di ogni concezione di primato – italico sta-va il primato di Roma antica, permesso da Dio per le vir-tù civiche dei Romani «qui causa honoris laudis et glo-riae consuluerunt patriae»1003 e presupposto terreno delsecondo, più alto primato, quello di Roma cristiana; ilpunto di partenza era sempre l’iniziale gloria mondanae felicità terrena dell’Urbe: e lo era stato perfino per unS. Agostino, molti secoli prima che per un Mazzini, e loera poi stato per un Dante. Questa era la pietra su cuiil sentimento nazionale italiano aveva edificato la sua ca-sa, dall’iniziale esaltazione del nome romano trascorren-do poi a ricercar le tracce delle romane virtù attraversoi secoli della storia italiana. Roma antica era continua-mente presente, anche quando si esaltassero le gesta diGenova, nel cui poema ricorreva, perenne, il grido «fidaa Roma: alla Roma dei Cesari, alla Roma di Cristo, allaRoma nova d’Italia»1004.

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Era una forma mentis particolare, quella foggiata intal modo. Il sentimento nazionale italiano era statocreazione di pensatori e scrittori e non aveva avuto, pertroppo tempo, il sostegno di una realtà politica concreta,com’era successo a Francia e Inghilterra. Aveva quindidovuto cibarsi quasi esclusivamente di ricordi storici,fondare i suoi diritti soprattutto sui vincoli morali espirituali, cioè su vincoli creati dalla storia1005 e, in ultimaanalisi, tutti risalenti a Roma, pagana e cristiana. Ilvolgersi al passato era stato, per tanto tempo, l’unicoelemento atto a sostenere le speranze nell’avvenire; el’esortazione foscoliana alle storie aveva fatto tutt’unocon l’esaltazione della santità della patria1006.

Una forma mentis pervasa di letteratura, con i pregi ei difetti della letteratura: slancio spirituale, appello alleforme superiori, pensiero, arte, cultura, e non alle infe-riori, razza, sangue, territorio; ma anche e spesso vani-tà, orgoglio determinato dal tempo che fu e sproporzio-nato al tempo che è, misero orgoglio già aveva esclama-to il Manzoni; e mancanza quindi di senso del limite edella misura, e predominio del fantasma storico sulla co-noscenza e valutazione attenta della realtà effettuale del-le cose. «Qualche avanzo d’idolatria verso l’antico, mi-sto ai sogni dorati di un lontanissimo avverare; l’attuali-tà, il presente non mai», aveva esclamato il Durando, peril quale l’arte si era eretta tiranna in Italia e uccideva gliitaliani1007. L’arte e la letteratura erano state principio dicose grandi, e potevano essere principio di funesti sogni;avevano dato la vita e potevano uccidere.

E, all’origine, Roma, sempre Roma, sempre il cemen-to romano di più tarda invocazione dannunziana1008. Co-sì che se nel primo periodo dopo il Venti Settembre il ri-cordo dei Quiriti non fu frequente e acceso come sareb-be diventato poi, l’orgoglio del gran nome vibrava ugual-mente nelle altre evocazioni di grandezza italica: il VentiSettembre cominciava a influire sugli spiriti anche attra-

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verso la celebrazione delle glorie marinare dei Dandolo edei Morosini; e il lievito romano, cioè il lievito dell’orgo-glio nazionale, fermentava sotto sotto anche se l’oggettone fosse Venezia nelle Cicladi o Genova alla prima cro-ciata.

Quest’era, anche, un ricordo più adatto al momento,come che parlasse soprattutto di espansione commercia-le, secondo permettevano i tempi; più tardi, col cresce-re delle forze, sarebbero cresciute le aspirazioni e allo-ra si sarebbe invocato soprattutto il dominio di Roma.Ma anche allora, anche pieno dispiegarsi della gloria mi-litare, anche allora Venezia e Genova avrebbero nutritola fiamma nazionalistica: non più mercantili, ma guerre-sche l’una e l’altra, la Genova di Guglielmo Embriaco ela Venezia di Enrico Dandolo, continuatori ed eredi delromano Duilio, tutti servendo all’invocazione

Italia, alla riscossa, alla riscossa!Ricanta la canzone d’oltremarecome tu sai, con tutta la tua possa,come quando sorgeva sopra il marein sangue e in fuoco un sol clamor selvaggio«Arremba! arremba!» e ne tremava il mare1009

Sangue e fuoco, evocati dal passato come auspicioper il sangue e il fuoco dell’avvenire quando un giornol’Italia, potesse vedere

... il mare latino coprirsidi strage alla tua guerra1010

e a Dio, sopra il mare, i viventi offrissero mirra esangue dall’altare che porta rostro1011.

La tradizione di Venezia Genova Pisa Amalfi divennegrido di guerra, e disse da sola quanto fosse mutato lospirito italiano dai giorni in cui era stata esaltata qualegloria civile di traffici.

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L’uno e l’altro motivo dunque, quello romano e quel-lo dei liberi Comuni, si allacciavano insieme; ispiravanosin da allora il vate della Terza Italia, che continuava lospirito del Risorgimento, celebrando dei Comuni la ru-stica virtù e Alberto da Giussano, vale a dire la libertàinterna e là lotta contro il Tedesco, ma salutava pure, ra-pito, la Dea Roma e ripeteva l’oraziano Nihil visere ma-ius; e Roma antica e Genova e Venezia medievali acco-munava, auspicio per l’avvenire, tra i rauchi gridi di gioiadell’aquila romana, tornata a distendere la larghezza del-le ali tra il mare e il monte, innanzi al Mediterraneo per laterza volta italiano1012. E Crispi trovava nomi d’eroi nel-le nostre storie; ma quando non ne offrissero l’età mo-derna e il Medioevo, chiedete nomi ed esempi alla Romaantica, alla inesauribile Roma1013; anch’egli legando insie-me le varie età dell’unico spirito italiano, e accomunandonello stesso orgoglio il civis romanus sum e i grandi tem-pi di Venezia coloniale1014. Alfredo Oriani a sua volta, vi-de la continuità ideale, quando la bandiera italiana tor-nò minacciando sui mari che sembravano averla dimen-ticata, e sventolando sull’asta delle antiche aquile roma-ne riprese la loro via. «Dacché le aquile romane eranostate uccise dallo stormo degli sparvieri nordici, il mon-do non ne aveva viste altre, e nulameno eternamente me-more del loro volo le aveva eternamente cercate sulla ci-ma di tutti i pennoni e di tutti i vessilli, che lo percorre-vano trionfando ... Tutti gli sforzi millenari d’Italia percostituirsi in nazione, il sangue dei suoi eroismi e le tra-gedie del suo genio non miravano che a questo giornonel quale rientrando, attrice immortale, nella storia do-po essersi circoscritta nei confini del proprio diritto, ve-leggerebbe un’altra volta sui mari portatrice di nuova ci-viltà. Il popolo sentì, senza dubbio, la grande ora quan-do fremente d’inesprimibile emozione si accalcò sul por-to salutando con epico orgoglio i soldati che tornavanoin Africa. Sì, tornavano un Africa, perché da tremila anni

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durava la lotta fra l’Africa e l’Italia, e l’Italia vi aveva giàvinto Annibale, imprigionato Giugurta, sottomessi i To-lomei, vinti i Saraceni, dissipati i Barbareschi; perché l’I-talia, altra volta sintetizzando tutta l’Europa e profetan-done l’avvenire, vi si era battuta contro tutto lo sforzodell’Oriente e aveva vinto.»1015.

Ecco perché sotto le grandi ali della Dea Roma ripara-vano ormai anche le esaltazioni marinaresche e comunalidi fine secolo.

Roma papale rimase in piedi; ma qualcosa di grandea Roma ci voleva: «il re di Sardegna è troppo piccolacosa per Roma. Roma, capitale del mondo, dev’essere lasede di una grande monarchia, o del pontificato»1016. Equindi, si pensò alla Roma della grande monarchia.

Del tramutare di ideali nessuno fu interprete più aper-to di Alfredo Oriani. Erede del Risorgimento nel sen-tir anch’egli, potentemente, la necessità della missionedell’Italia: una terza Italia senza un significato ideale nelmondo, sarebbe il più assurdo miracolo della storia mo-derna, una risurrezione senza vita, una riapparizione difantasmi che passano soltanto. Ma voce di tempi nuovie presagio di futuri, nel constatare la grandezza incrolla-bile di Roma papale, nell’assegnare all’Italia un ben altrocompito che non quello della riforma religiosa o del cul-to della scienza. L’Italia è cattolica: il non più volterianoromagnolo strappava il velo dell’illusione, cogliendo nelsegno. «L’odio ai preti e il disprezzo della religione nonsono ancora che molto superficiali: nel sentimento del-le masse il matrimonio vero è quello ecclesiastico, unicareligione il cattolicismo; si battezzano pressoché tutti ibambini, si affidano al clero per la prima educazione, s’i-niziano in tutti i gradi della religione. Si diffida dei colle-gi laici, si amano tuttavia i conventi mutati in educandati;tutte le Madonne e i Santi miracolosi sono più che maivivi nella illusione del popolo, un sottinteso scinde tut-te le coscienze: si vuole la libertà della vita pubblica e si

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crede ancora nella servitù della vita spirituale. La scien-za, incerta nei metodi, dubbia nei risultati, contradditto-ria nelle affermazioni, rimane in alto, retaggio e culto dipochi: la filosofia è quasi sconosciuta, la letteratura di-sertata dai campi dell’ideale per una irreflessiva passionescientifica non è più che pittura di superficie. La rivolu-zione nata e vissuta d’istinto non si è ancora mutata in ri-flessione. La maggior parte di coloro che l’hanno soste-nuta, morendo la sconfessano, onde i preti se ne vanta-no affermando che la sua verità non resiste in faccia allamorte.

Il sogno esposto da pochi, accarezzato da quasi tuttiè di una conciliazione, che accordando la coscienza re-ligiosa colla coscienza politica induca quella calma, chealtri secoli hanno conosciuto.»1017.

Il papato era sempre una grande cosa, l’ultima formaimperiale d’Italia, che certamente costò alla nazione laschiavitù verso gli stranieri e ne impedì l’unificazione,ma che rimane ancora il solo vanto dell’Italia contro lemassime nazioni. Vedova del papato, Roma non sareb-be che una grossa ed insignificante città di provincia; einvece la sua fiera e nobile testa sovrasta ancora al mon-do. «Che cosa vi rappresenterebbero soli i re di Savo-ia? La loro montanara fortuna fra il Panteon e San Pie-tro, il Colosseo e il Vaticano, non vi ha che un significatoprovvisorio: sono troppo antichi come conti della Savo-ia, troppo recenti come monarchi d’Italia, troppo estra-nei alla grande tradizione nazionale per dare davvero aRoma una incancellabile impronta di modernità.

Eppure i tempi assegnano all’Italia mediterranea unafunzione ed un primato. Bisogna guardare in alto e lon-tano. Bisogna essere forti per diventare grandi: «espan-dersi, conquistare spiritualmente, materialmente, coll’e-migrazione, coi trattati, coi commerci, coll’industria, col-la scienza, coll’arte, colla religione, colla guerra. Ritirar-si dalla gara è impossibile: bisogna dunque trionfarvi.

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L’avvenire sarà di coloro, che non lo hanno temuto; lafortuna e la storia sono donne, e amano soltanto i gagliar-di capaci di violentarle, che accettano i rischi dell’avven-tura per arrivare alla dominazione dell’amore ... L’impe-rialismo non è sogno che nei deboli, e diventa vizio sol-tanto negli incapaci al comando: i nostri ultimi eroi eranotutti grandi avventurieri, i nostri recenti viaggiatori vede-vano tutti nell’avventura un lineamento d’impero»1018.

La lotta dello Stato colla Chiesa passava dalla politi-ca alla scienza, dopo il Venti Settembre «giacché il dirit-to nazionale, ormai invincibile sul Campidoglio, avrebberispettato e imposto rispetto al diritto religioso»: il com-pito dell’Italia era altrove, era nell’Africa, su cui preme-va ora l’Europa che non poteva essere scopo a se stes-sa. La terza risurrezione italica non era stata consenti-ta dalla storia nel solo interesse degl’Italiani: «se l’Italiaè ridivenuta nazione, il secreto di questo fenomeno sto-rico sta nella necessità che la storia mondiale può averedella sua opera e nella facoltà del nostro popolo a pre-starla». Missione dell’Europa, e quindi anzitutto dell’I-talia, puntare sull’Africa e l’Asia, chiamando le razze in-feriori alla propria civiltà, condannando quelle che nonrispondono, distruggendo quelle che resistono1019.

Il mare nostro diventava cosa lo scopo di una grandepolitica estera italiana; l’anelito alla potenza distoglievalo sguardo dalle Alpi e lo rivolgeva sul mare.

E vi si accompagnò la polemica contro la borghesiavile ed egoista, incapace di alte cose: polemica che nonaveva più nulla in comune con quella dei socialisti, e ac-cusava nel borghese non il detentore della proprietà e losfruttatore del proletario, ma l’anima gretta di chi non sa-peva sollevarsi ad ideali di gloria e di potenza e soprattut-to rifuggiva dalle armi e dalla guerra. Borghese oggettodi disprezzo fu, non il possidente, ma il «filisteo» aman-te della pace e rifuggente dal rischio, l’uomo incapace dicomprendere l’eroico: e già prima dell’Oriani, a bollar di

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viltà la borghesia s’era alzata non solo la voce tonante delCarducci, ma anche quella, di assai più modesta eco, diPietro Ellero che imprecava contro la tirannide borghe-se, contro la plutocrazia, ma ad un tempo contro il socia-lismo e i deliri dei rossi minaccianti l’intera Europa, e im-precava contro gli «averi», solo perché avevano usurpa-to il posto delle forze morali e civili, spento il culto dellegrandi virtù e il senso dell’eroico. Bisognava uccidere lagrettezza borghese, per far rientrare l’umanità nel regalsentiero e riacquistare all’Italia l’antico splendore. Biso-gnava passare «dall’Italia vituperata da’ faccendieri e as-sassinata da’ pubblicani all’Italia vaticinata da’ profeti ebenedetta da’ martiri, dall’Italia bastarda ... all’Italia le-gittima e santa, dall’Italia presente e falsa all’Italia futu-ra e vera». Bisognava esaltare l’orgoglio nazionale, anziil pregiudizio nazionale; bisognava ricordare il primatodell’Italia e di Roma1020.

Così, mentre svaniva pían piano il mito di Roma scien-tifica e anticattolica, sbocciava il nuovo mito di Romaguerriera, non più ostile anzi ricercante l’alleanza dellaChiesa1021, e se, fra fra il ’70 e il ’90, gli uomini di più acce-so discorrer patriottico avevano avuto per motto «guer-ra al Prete – in alto il diritto e il nome italiano!»1022, il piùtardo nazionalismo dottrinario si professò altamente, ol-tre che guerriero, cattolico apostolico romano, e vagheg-giò il Papato collaboratore della grandezza politica del-l’Italia, riprendendo e sviluppando, senza saperlo, pen-sieri già balenati attorno al ’70 ad alcuni dei cattolici li-berali. Eran balenati infatti al Ricasoli, per il quale unaRoma unica sede del Pontefice e del Re, avrebbe avu-to conseguenze felici «mercé le istituzioni connesse colPapato, che possono dare un’influenza grandissima allaNazione nostra. Piglia ad es., la Propaganda fide che colmezzo dei Missionari porta il nome d’Italia nei paesi piùremoti e stabilisce corrispondenze e relazioni che apro-no la via ai commerci nelle più lontane regioni»1023. Ed

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eran balenati all’immaginoso Diomede Pantaleoni, chevolle – si disse – passare ai fatti, recandosi senz’altro, do-po il Venti Settembre, da Propaganda Fide per invitarlaad abbandonare in Oriente la protezione della Francia,nazione finita, e sostituirla con la protezione dell’Italia,a cui passava ormai l’influenza latina nel Mediterraneoorientale1024. Proudhon non aveva forse motivato, sin dal’61, la sua recisa opposizione all’unità d’Italia anche coni sogni dei patrioti italiani di un’Italia pontificale e impe-riale, che si servisse del Papato per conferire al Regno ilprotettorato della cattolicità?1025 E i diplomatici france-si non s’allarmavano molto, subito dopo il Venti Settem-bre, proprio temendo le pretese di dominio degli Italia-ni, che – a loro dire – avrebbero voluto far della Chie-sa il docile strumento delle loro prepotenti ambizioni, esoprattutto in Oriente?1026.

Queste erano dunque conseguenze lontane e oscuredell’idea di Roma: oscure, perché l’anelito ad agire ri-schiava di prescindere dalle condizioni dei tempi e delpaese, tramutandosi in desiderio di avventura. Per ar-rivare alla dominazione occorre accettare i rischi, dice-va l’Oriani; ma già solo la similitudine, conturbante luicome il D’Annunzio, del piegar la donna in un violentoamplesso, stava ad indicare quale pericoloso ebriamentopotesse alterare la chiarezza del pensare politico.

Era il rischio additato, già nel 1865, oltre che dai mo-derati italiani alla d’Azeglio, anche dal ginevrino Rodol-fo Rey: «Roma con i suoi ricordi può schiacciare tutti igoverni d’Europa, e a più forte ragione quello d’uno Sta-to recente, appena formato, obbligato ad ogni genere diriguardi. Roma è un’eredità onerosa, un nome magnificoma troppo pesante da portare»1027.

E tuttavia, non era ancor questo l’aspetto più preoc-cupante. Una politica di espansione, di conquista: mache almeno fosse sostanza e tutta cose. Ma quando ilsogno di grandezza si riducesse alle forme esterne della

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grandezza, all’apparenza fatua, ad alti clamori e a trom-be squillanti Quando il ricordo di uno stupendo passa-to agisse non sull’orgoglio, ma sulla vanità! Quando il ri-cordo degli avi si limitasse a rendere gli Italiani, secon-do aveva già deprecato il Foscolo, «simili in tutto agl’I-sraeliti, a cui bastava il ricordarsi boriosamente ch’eranodiscendenti di Abramo»1028: ed essi dei Romani antichi!

Era, questo, il maggior pericolo che la missione di Ro-ma i recava in sé. Idea di formidabile efficacia nell’ani-mo de’ grandi, poteva tramutarsi, nei mediocri, in fasti-diosa figura retorica; nella stessa persona, anzi, ove pro-prio non si trattasse di uomini di solidissima tempra, po-teva agire ora come forza benefica, ora come fuoco d’ar-tificio, provocando oscillazioni tra il lavoro serio e l’at-teggiamento istrionico, tra la fede sincera e il bluff pro-pagandistico.

Già una volta, essa aveva agito con duplice e alternan-te effetto, da un lato provocando l’appello del 7 giugno1347 di Cola di Rienzo alle città d’Italia e il decreto del1° agosto, sulla sovranità del popolo romano e il riordi-namento dell’impero, e dall’altro le cerimonie per la con-sacrazione a cavaliere del tribuno, con buffoni senza fi-ne «chi sona tromme, chi cornamuse, chi caramelle, chimiesi cannoni» e, con «tromme de ariento», con le en-fatiche parole di Cola al popolo acclamante: «Scaccia-te che questa notte me deo fare Cavalieri. Crai tornare-te, cha odirete cose le quali piaceraco a Dio in Cielo, al-l’huomini in terra»1029, con il bagno nella vasca di Costan-tino e poi ancora, il 15 agosto, la incoronazione con le seicorone, proprio in omaggio ai ricordi classici del tribun-to, che voleva rinnovare «gli antichi titoli delle caricheromane con gli antichi riti»1030.

Ora la pericolosa tendenza alle celebrazioni formaliriappariva; e trovava modo di farsi notare già pochesettimane dopo l’ingresso delle truppe italiane nella città.

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Erano entrate le truppe, ma non ancora il Re; e pen-sando a questo evento prossimo – si sperava – la Com-missione romana per la conservazione dei monumenti,biblioteche e archivi faceva sua la proposta di C. Rusco-ni, perché Vittorio Emanuele II salisse sul Campidoglioper la via Sacra, attraverso il Foro Romano, tra il Colos-seo e gli archi di Costantino, di Tito e di Settimio Seve-ro. Abbattendo il potere temporale dei papi, non avevaegli riportato un trionfo a petto del quale erano poca co-sa i trionfi degli antichi? Non si gridava forse già dal po-polo «il Re in Campidoglio», volendosi con ciò significa-re «come nel concetto della nazione s’identifichi già que-sto connubio delle meraviglie d’un tempo con quelle del-l’età nostra»? Bando alle considerazioni «da mercante»,al filisteismo: «in Roma tutto deve avere un’impronta digrandezza».

Era un’espressione simile apparentemente a quella diQuintino Sella; ma la grandezza diventava, ora, teatra-lità, spettacolo, mortaretti e fuochi d’artifizio e cavalie-ri caracollanti in bella mostra di sé, Vittorio Emanuele IIa cavallo col gran pizzo e l’elmo da generale ambicrini-to, e dietro a lui i generali al galoppo, magari il presiden-te del Consiglio e il ministro degli Esteri, i borghesissi-mi Lanza e Visconti Venosta, anch’essi su di un focoso escalpitante destriero.

A uomini come il Lanza, il Visconti Venosta, il Sellaqueste dovevano sembrare follie; e, di fatto, contro laproposta si schierava subito il portavoce del ministero,L’Opinione.

«Ridevole anacronismo», quello del comitato romano;il Re deve entrare a Roma come «Re cittadino e nonqual conquistatore romano»; l’Italia non deve procedereverso l’avvenire per le vie del passato, e deve guardarsidal voler risuscitare le età trascorse, ché ogni civiltà deveavere i suoi segni rappresentativi; e si badi bene che la

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via Sacra, s’era la via dei trionfatori, era pure, ai tempi diOrazio, il passeggio degli sfaccendati e degli oziosi1031.

Re cittadino: qui era colto, assai bene, il momentonuovo, che rendeva o avrebbe dovuto rendere impossibi-li le anacronistiche esumazioni del passato, anche se nonvi avessero ostato motivi d’indole contingente, ma gra-vissima, e cioè la necessità di non esasperare inutilmenteil Papa, con imprevedibili conseguenze1032.

Veramente, in un episodio di poca importanza si scon-travano due mentalità agli antipodi: la mentalità dell’ita-liano nuovo, venuto su attraverso una dura esperienza dilotte e di sacrifizi, culturalmente e moralmente prepara-to ai nuovi gravosi compiti che la storia imponeva al suopaese, avvezzo, quale si fosse il suo partito politico1033,a cercar respiro europeo, e ben convinto che l’età del-le sagre dovesse considerarsi chiusa se si voleva procede-re innanzi; e la mentalità dell’italiano rimasto uguale alse stesso degli ultimi due, tre secoli, venuto alla libertàe all’unità troppo in fretta e troppo per virtù di fortuna,poco preparato politicamente e con la testa piena di ri-cordi scolastici e di letteratura, dell’elmo di Scipio e delCampidoglio, respirante un’atmosfera falsa e viziata.

La tendenza alla festa, alla divagazione coreografica,già soverchiamente radicata in molti italiani, e fra essianche ne’ Romani che, i primi anni, dovevano stupire escandalizzare i nuovi venuti come popolo ancor sempreamico de’ baccanali1034, troppo pronto a cogliere il mini-mo pretesto per far baldoria e scialare1035, si trovava cosìrafforzata e in apparenza nobilitata dai nuovi eventi, dal-le date solenni del patrio riscatto, che occorreva celebra-re. In più della semplice festività tradizionale, la festivi-tà patriottica, e spesso, se non sempre, l’evocazione deiQuiriti d’un dì lontano: quale incitamento a spogliare ildizionario degli epiteti più altosonanti, a trarre dall’arse-nale dei ricordi quel che di più tronfio e di più baroccov’era, sino a giungere alle iperboli di coloro i quali non

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esitavano a definire gli italiani «i primi soldati del mon-do» per l’assalto a Porta Pia, e ciò mentre tra Weissen-burg e Sedan alquanto più serie battaglie avevano impe-gnati gli eserciti di Prussia e di Francia!1036.

E quanto facile il parlar d’eroi e di grandezza, ad agi-tar, furiosamente quasi, i fantasmi del passato contro levoci dell’assennatezza e della moderazione e del buonsenso: siccome aveva fatto, nel 1865, contro le tenden-ze antiromane alla Giorgini il «difensore» dei Romani,Antonio Stefanucci Ala, con l’invocazione alla grandezzaformale, l’esaltazione della propria superiorità e il dispre-gio per gli altri popoli1037; e avrebbe ripetuto, nel 1883,Francesco Coccapieller che dicevan matto ed era pro-priamente farneticante di grandezza romana e dunquenelle sue stramberie era l’eco fragorosa di un sentire pro-prio non soltanto di un matto come lui1038.

Il guaio si è che alla retorica ammantata di toga curu-le non resistevano sempre nemmeno uomini di alta leva-tura spirituale. Che la commissione romana per la con-servazione dei monumenti, biblioteche e archivi avessepensato la gloriosa idea di far entrare Vittorio Emanue-le a cavallo per la via Sacra non era grosso male; né granmale che la voce di cantori d’occasione rievocasse, e siapur dal teatro comunale Argentina, l’insuperabile aquilalatina dal volo sublime o ammonisse i deputati giungentia Montecitorio a parlar alto linguaggio, degno di Tullio,di Papirio, di Catone, di Regolo e Fabrizio, le terribili egrandi alme latine assurte, con il lauro al crine, per giudi-carli nel novello agone1039. Ma alla fioca voce dei cantoriromani rispondeva da Bologna ben altra voce.

Proprio il Carducci doveva infatti entrare di lì a po-co in lizza, per scagliar la sua invettiva contro l’Italia uf-ficiale; rea di aver condotto il Re a Roma in modo igno-minioso, rea di aver dato Bisanzio all’Italia, quand’essaaveva chiesto Roma. Zitti, zitti, piano piano, sembravadicessero Lanza e Visconti Venosta:

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Oche del Campidoglio, zitte! Io sonoL’Italia grande e una.Vengo di notte perché il dottor LanzaTeme i colpi di sole ...Deh, non fate, oche mie, tanto rumoreChe non senta Antonelli1040

Anche lui, dunque, il grande poeta, che non sempresfuggiva al fascino della retorica e spesso, poetando, sog-giaceva soverchiamente al ricordo archeologico, proprioper Roma; tutto passione e furore politico1041 ma non cer-to testa politica, anche lui avrebbe dunque voluto un al-tro ingresso, qualcosa di trionfale, e se non proprio la viaSacra almeno un ben alto squillar di trombe. Che l’entra-ta del Re dovesse anzi essere semplice e composta, senzainutili parate, per non render piú difficile una situazio-ne già assai delicata, nei rapporti col Papato e quindi conle potenze europee1042: che il grande merito del governo,al disopra e nonostante tutte le sue incertezze dubbiez-ze, oscillazioni, fosse stato allora anche di esser riuscito,con il suo modesto incedere, ad entrare in Roma ridu-cendo la caduta del potere temporale alle proporzioni diun fatto non maggiore della guerra franco-Prussiana1043,e guadagnando così m durevolezza e solidità di acquistoquel che perdeva in splendore e fasto di conquista; cheda un simile spettacolo di compostezza e riguardo l’Ita-lia non solo non scapitasse nella sua dignità di fronte alleestere nazioni, anzi ci guadagnasse in considerazione1044:tutto questo sfuggiva all’iracondo Giosuè, torvo controse stesso e contro l’Italia, bestemmiante Italia, papa, re,democratici1045, proclive a veder tutto nero e, della patria,a non scorgere che Custoza e Lissa e le piccole miserie1046.

E ancora, altre sue sfuriate erano contro la sostanzadell’Italia nuova, la miseria in cui al poeta sembrava ca-desse la vita nazionale: sfuriate, dunque, per un profon-do motivo, giustificato o meno ch’esso fosse. Ma nell’e-vocar le oche e il dottor Lanza e Antonelli il poeta, ahi-

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mé, soggiaceva anche lui alle stesse impressioni e aspira-zioni che avevano, prima, dato corpo alla proposta delpiù modesto e men tempestoso Rusconi: anche il poetaaveva bisogno di fragore esterno.

Brutto segno, proprio perché il Carducci era tra gliuomini in cui l’idea di Roma viveva in profondità esincerità e agiva sovente, come forra feconda. Anche inlui, il mito di di Roma

... madre de i popoli,che desti il tuo spirito al mondo,che Italia improntasti di tua gloria.

La voce di Roma, ch’era risuonata sl pura e frescanel Mameli dell’inno, togliendo all’elmo di Scipio, quel-la volta, la patina retorica per farne un’immagine di im-mediata naturalezza e spontaneità, nel Carducci trovavaalti accenti di poesia vera; ma s’affiorava pure non infre-quentemente in un esclamar retorico e in brutti versi.

Brutti versi; ma più spiacevole, per noi che non siamocritici di poesia, il constatar come, nonostante la since-rità dell’uomo e la sua forra intellettuale, venissero fuoriimmagini che troppo palesavano il gusto del teatrale. Esi metta pure, che nel Carducci questo bisogno di anti-chità anche nelle forme, di trionfi pagani e di cortei, ve-nisse fuori come reazione contro la Roma papalina «unaplebe di mendicanti ... una borghesia di affittacamere,di coronari, di antiquari, che vende di tutto, coscienza,santità, erudizione, reliquie false di martiri, false reliquiedi Scipioni, e donne vere; un ceto di monsignori e aba-ti in mantelline e fogge di più colori, che anch’esso com-pra e vende e ride di tutto; un’aristocrazia di guardiapor-toni; una società che in alto e in basso, nel sacro e nelprofano nel tempio e nel tribunale, nella famiglia e nel-la scuola, vive in effetto quale è tratteggiata nelle satiredi Settano e del Belli, come la più impudicamente scet-tica, la più squisitamente immorale, la più serenamente

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incredula e insensibile a tutto che di sublime, di nobi-le, di virtuoso, d’umano possibile credere, vagheggiare,adorare o sognare le altre genti»1047; si metta pure che ilfantasticar trionfi romani e cocchi e aquile legionarie, na-scesse spontaneo per contrasto non facilmente evitabilecon la Roma presente che appariva piccina piccina, a chinon volesse riguardar verso San Pietro, anzi sdegnassee odiasse il simbolo dell’oscurantismo. Il poeta sognavacose grandi; il presente gli sembrava detestabile, ed eccol’evocazione non solo degli antichi spiriti, sì anche degliantichi riti.

Si conceda tutto questo; ma non è men vero che anchenel Carducci l’idea di Roma veniva fuori con quel doppiocarattere di cui s’è parlato, Giano Bifronte con un voltotutto luce, idealità, sostanzialità e l’altro oscurato daitroppi fumi di incenso e vuoto al di dentro.

Il potente senso nazionale del Carducci non era anco-ra il nazionalismo gretto di più tardo conio; ed egli, inquesto uomo del Risorgimento, vedeva l’Italia nel mon-do, non contro il mondo, e amava eroi e glorie di al-tre nazioni, esaltando soprattutto la Francia dell’89; e lagrandezza d’Italia era, anzitutto, per lui, come per gli uo-mini del Risorgimento, altezza di sentire civico dei suoicittadini1048. Ma le immagini corpose della sua romanitànon erano più soltanto Risorgimento e piuttosto segna-vano il primo trapasso dalla romanità mistica del Maz-zini alla romanità politica, materialmente concreta, tan-to cara più tardi; e poiché era sovente romanità di sfar-zo, poté poi avvenire che, per molti ci quelli che venne-ro dopo di lui e già si nutrivano di altri degli, i suoi ap-pelli alla gloria e potenza d’Italia in Roma inducesseropiuttosto a chiudere l’Italia in sé e servissero da motivonazionalistico.

La festosità esteriore sembrava fatalmente collegatacon la grandezza interiore: madre di grandi cose e in-citatrice ad alti pensieri, Roma di necessità pareva richie-

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desse i panni curiali e il tono solenne. N’eran persuasianche uomini tutt’altro che animati dal sacro fuoco delvate, moderati nel pieno senso, politico-morale, della pa-rola, che normalmente erano refratteri all’incanto dei beigesti e delle frasi: così, uno degli amici del Minghetti, illombardo conte Guido Borromeo, ch’era un po’, senzadubbio, un Bastian contrario, e borbottava e brontola-va su questo e su quello, e vedeva il mondo, generalnien-te, sotto fosca luce, ed era non benevolo critico del Lan-za e del ministero in genere, ma che insomma non era unletterato facile ad accendersi per le belle parate. Eppu-re, anche lui, che pur non aveva nascosto la sua disistimape’ Romani e anzi aveva chiaramente espresso il timoreche Roma capitale accrescesse, cosa non augurabile, l’in-fluenza del Mezzogiorno nella vita politica italiana, pu-re anche lui, un antiromano, masticava amaro pel modocome s’andava a Roma, e gli pareva «dolorosa cosa ve-der l’Italia compire l’opera sua in modo così poco degnodi Lei, ed entrare in Roma con tanta poca anzi nessunadignità.

Dopo aver aperta una breccia a cannonate fa doloreassistere allo spettacolo d’una presa di possesso quasifatta a spintoni di Sinistra, con un Re che andrà forseper 24 ore a stento, con una Camera che non vi sarà innumero»1049.

Segno che l’aria di Roma inebriava davvero, anche chine stesse lontano.

IV

Gli antiromani

Pericolo evidente, dunque. E se ne rendeva pienamenteconto uno spirito sottile, il lombardo Stefano Jacini.

Nel celebre discorso del 23 gennaio 1871, in Senato,contro il progetto di trasferimento della capitale da Fi-

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renze a Roma, il motivo fondamentale era indubbiamen-te costituito dalla preoccupazione che, cosa facendo, nonsi distruggesse il «piedistallo» di quel grande potere re-ligioso la cui influenza mondiale era tuttora così forte –ed era un potere con sede in Roma, nel cuore della terraitalica; che non si aprisse, appena al chiudersi della que-stione romana (terminata, per lui, col Venti Settembre),una minacciosa «questione papale».

Preoccupazioni di cattolico praticante, d’accordo colpolitico nel ritenere nocivo e pericolosissimo il nuovopasso innanzi, e in ciò d’accordo con uomini quali ilMenabrea e l’Alfieri di Sostegno1050.

Ma, nell’argomentazione, il momento centrale eraquello costituito dall’attacco, reciso e duro contro il «mi-to» di Roma1051. Tutto il resto; discussioni pro e con-tro la posizione geografica, il clima, la sicurezza milita-re, era di valore assai secondario; poteva anzi stupire divedere un uomo quale il Jacini soffermarsi, nella polemi-ca attorno ad un problema come della capitale, su argo-menti di ben scarso valore e che si prestavano ad imme-diata e facile replica: la replica già data, un decennio inanticipo, dallo stesso conte di Cavour – in base ai crite-ri climatici topografici e militari, certamente Londra nonsarebbe capitale dell’Inghilterra e forse nemmeno Pari-gi della Francia1052. Il «più formidabile» dei motivi ad-dotti a favore di Roma capitale era ben altro: l’opinionepubblica, vale a dire il «dogma» della necessità del tra-sferimento del governo nazionale sul Tevere. E controquesto dogma volgeva dunque il suo tagliente ragiona-re il cattolico-liberale lombardo, con tutta l’aggressivitàch’era caratterisica di lui1053.

Era proprio l’idea letteraria di Roma ad essere impu-gnata, svuotata di contenuto, presentata in una sola dellesue due facce, e, naturalmente, in quella negativa. Ideada «antiquari»; relitto di un tempo che fu e che non do-veva più mai ritornare; «prodotto della rettorica, di quel-

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la rettorica la di cui influenza, ad Italia costituita, do-vrebbe essere la prima cosa da abolire, se vogliamo vera-mente prendere posto fra le nazioni moderne più civili ...belletto di una Italia decrepita e che ha fatto il suo tem-po, e non l’ornamento di quell’Italia che vagheggiamo eche deve percorrere le vie della libertà e del progresso sevuole assidersi da pari a pari colle nazioni più incivilitedel mondo»: la concezione di Roma che il pieno Risor-gimento aveva nutrito, pur nelle diversità delle tendenzepolitiche, e che proprio in quei giorni trovava concordisostenitori in uomini di Destra e di Sinistra, nei Sella co-me nei Crispi, nell’Opinione come nella Riforma e nel Di-ritto, questa concezione usciva malconcia assai dall’attodi accusa del senatore lombardo.

Nelle sue parole riecheggiava la tendenza antiroma-na che aveva trovato, forse, la sua più cruda espressio-ne, prima del ’48, nel Durando1054, ma che, ancor po-chi anni innanzi, si era rivelata aspramente nella paro-la del d’Azeglio: il discorso del 23 gennaio 1871 discen-deva per via diretta dalle Questioni Urgenti, in cui diecianni puma il cavalier Massimo aveva recisamente com-battuto il programma di Roma capitale d’Italia, negan-do che l’ambiente dell’Urbe «impregnato de’ miasmi di2500 anni di violenze materiali o di pressioni morali eser-citate dai suoi successivi governi sul mondo» fosse adat-to per un’Italia giovane, nuova, un’Italia che non dovevaaver più nulla a che fare con le memorie dell’antico mon-do romano1055. Concetto informatore e immagini eranoidentici; fin le obbiezioni di carattere igienico e strate-gico passavano dallo scritto del piemontese nel discor-so del lombardo1056. Di lì, e dal discorso che il d’Aze-glio aveva fatto leggere in Senato il 3 dicembre 18641057,ormai vecchio e stanco ma sempre «cocciuto come unrospo», amaro e dispettoso e sempre polemico contro ilCavour anche morto1058, era nata la corrente che avevatrovato altri sostenitori, decisi nel dichiarare, con Gian

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Battista Giorgini, che Roma era priva di tutte le idee sucui s’è fondata la società moderna e quindi era al di fuo-ri della civiltà moderna1059; espliciti nel ritenere, secon-do dichiarava, tra il ’70 e il ’71, il marchese Carlo Al-fieri, un errore funesto il trasferimento della capitale aRoma, come che tutti i motivi della gloria romana fosse-ro «ricordo del passato, d’un passato, dal quale la liber-tà moderna non ha nulla a ritrarre, del quale anzi saràsuo dovere e suo onore mostrarsi il perenne e trionfantecontrapposto»1060. Roma per il suo cosmopolitismo tra-dizionale, era la meno italiana fra tutte le città, la menoadatta ad essere la capitale di una nazione appena nata:a trovar necessaria Roma capitale avevan dovuto venire ipiemontesi, proprio dei quali era non intender mai nulladella storia d’Italia1061.

E non erano soltanto i d’azegliani: anche altri diben diverso orientamento politico muovevano all’attac-co contro dogma di Roma, e fra essi nessuno di più vio-lento linguaggio di Francesco Montefredini, che nell’o-stinazione per Roma rinveniva un nuovo mzio della irri-mediabile decadenza delle nazioni latine. La colpa, eradi Mazzini «mosso da quelle sue allucinazioni, da quellemeravigliose credenze sue politico-religiose, dalla gran-de speranza di poter da Roma, nuovo apostolo e ponte-fice massimo, predicare alle genti, che hanno ben altro afare che ascoltar Roma, il nuovo suo vangelo». Roma sa-rebbe stata la sicura rovina di tutta la nazione, com’eragià stata, nel passato, la tomba della patria italiana1062.

L’odio anticlericale del Montefredini era tutt’altra co-sa dalla riverenza cattolica del Jacini; ma ad entrambierano comuni gli strali contro l’educazione di collegio e iriflessi retorici di Livio. E altri ancora si associavano, si-no al punto da vagheggiare la creazione di una Washing-ton italiana, una capitale costruita ex-novo, di sana pian-ta, per esempio nella mediana conca umbra, sotto Assisi,m un sito centrale, sicuro, bello sano, in guisa che il cen-

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tro dello Stato fosse scevro da ogni gravame d’influenzee tradizioni di altre età: a Roma, piantar la bandiera ita-liana, porre un presidio, insediare un prefetto, e lasciar-la come museo d’antichità e d’arte, serbatoio di antichememorie e metropoli cattolica1063.

Roma capitale retorica degli Italiani: nella formulad’azegliana, ripresa dal Jacini, era tutt’ un modo di sen-tire il problema politico, tutta una tradizione non in-differente di pensiero politico moderato, che dava bat-taglia aperta, in Parlamento, alla trionfante tendenzaromana1064. Né certo si può contestare che nelle preoc-cupazioni di questi uomini nella paura di Roma1065, nelchiedersi con trepidazione non esente da sdegno «se hada durare eternamente questo Campidoglio»1066, v’eranoalcuni motivi tutt’altro che infondati. Ma era una batta-glia disperata e votata all’insuccesso sicuro; e a rialzar-ne le sorti non giovavano davvero le intemperanze degliantiromani.

Nelle parole del Jacini, per vero, parecchio v’eradi unilaterale e di capzioso; soprattutto, nella pale-se secchezza di tono, pienamente consona allo stiledell’uomo1067, colpiva l’atteggiamento eccessivamente ra-zionalistico e ad un tempo pragmatistico del pensiero.

Dire, in una questione come quella, che il problemadella capitale era «così eminentemente pratico, così emi-nentemente positivo e di competenza esclusiva della ri-flessione, del ragionamento e di accurati studi», signifi-cava tagliare alle radici non soltanto la retorica di Roma,sì anche quel momento passionale, emotivo, lirico sarem-mo per dire, ch’era pur stato all’origine di tutto il granmoto nazionale e senza del quale il Risorgimento o nonsarebbe avvenuto o sarebbe stato tutt’altra cosa. Ridurrea pura retorica l’idea di Roma, era dimenticare che in es-sa gli Italiani avevano trovata una parola d’ordine, a tutticomune, quando di un principio comune c’era bisogno:e lo stesso Jacini l’aveva riconosciuto otto anni innanzi,

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accettando intero, allora, il giudizio di Cavour e scriven-do che l’idea di Roma capitale d’Italia faceva vibrare damolte generazioni il cuore di ogni Italiano, con tutta po-tenza da agire nella storia anche per semplice enuncia-zione, prima ancora che la realtà vi corrispondesse; Ro-ma sola città italiana dalle tradizioni non municipali, Ro-ma associata a tutte le tradizioni della patria, alla educa-zione dei giovani del Risorgimento1068.

E veramente, altri aveva osservato, si potevan trovarecento buone ragioni per opporsi a Roma capitale: noncentralità, né geografica né intellettuale, né economica;atmosfera morale probabilmente peggiore di quella diogni altra città italiana; grandezza del teatro sproporzio-nata alla mediocrità degli uomini destinati a farvi da at-tori. Eppure, nonostante tutto questo, il sentimento ge-nerale affermava la necessità di andare a Roma, in ciòvedendo come l’ultima e definitiva sanzione del Risorgi-mento, il suggello all’Italia, una, indipendente e libera.O bene o male che fosse, la necessità del trasferimentodella capitale a Roma era politicamente innegabile1069.

Era caratteristico che proprio da un lombardo muo-vesse, nel momento decisivo, la parola più dura controRoma capitale: quasi che per uno di quei misteriosi dise-gni della storia, che appaiono soltanto a prospettiva lon-tana, sin da quel momento si dovesse avvertire il prossi-mo antagonismo tra la capitale politica e la «capitale mo-rale», quest’ultima mal rassegnata a cedere ora, così co-m’era stata un tempo mal rassegnata a cedere la Chiesaambrosiana di fronte alla Chiesa di Roma1070, e semprepronta a contrapporre a Montecitorio e al Campidogliole sue officine, le sue banche, i conti correnti dei suoicittadini, riprendendo la secolare contesa per il prima-to con tutti gli orgogli dell’antico Stato1071 e con i nuoviorgogli della potenza produttrice.

Un lombardo: e men fatto di pensare al nessun fasci-no che Roma aveva avuto per un altro lombardo, tanto

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maggiore, per il Manzoni, cattolico eppure mai recatosi,in vita sua, nella sede del successore di Pietro, mentre eraandato spesso in riva alla Senna1072, politicamente favore-vole a Roma capitale, anche a costo di urtarsi col gene-ro d’Azeglio, e pronto ad accettare la cittadinanza ono-raria di Roma, nel ’721073, spiritualmente non mai toccodalle grandi memorie di Roma e ripugnante anzi a Romaclassica1074. O, ancora, al nessun influsso che il Campi-doglio aveva esercitato, fino al ’48, sul robusto pensieropolitico di un altro grande lombardo, il Cattaneo diversoanche in questo dal Mazzini.

Era una tradizione regionale che riviveva nel Jacini, eche accentuava ancora e quasi inacerbiva la tradizionegenerale dei moderati di cui Jacini era l’erede: erede nonsoltanto nel rifiuto della retorica e del mito di Roma, ma,più generalmente nell’appello al lato positivo delle cose,alla competenza «esclusiva» della riflessione e degli studiaccurati, nel bandire dalla vita politica, come un guasta-feste, l’elemento emotivo e passionale, non diversamenteda come la folle du logis, la fantasia, era stata bandita dalrazionalismo settecentesco, tanto vivo ancora nella men-talità dei moderati in genere e in ispecie del cattolico Ja-cini. Positività, raziocinio, studio: un po’ come sé la vi-ta delle nazioni potesse essere regolata col puro calcolodella ragione, quasi una macchina ben congegnata.

E a percepire la differenza tra un simile modo di vede-re quello del grande politico, bene attento, certo, a nonlasciarsi fuorviare da fantasie e da facili miti, ma puresensibile alle voci dell’immaginazione e agli impondera-bili della storia, bastava raffrontare il discorso del Jaci-ni con quello del Cavour, dieci anni innanzi: niente af-fatto succube delle idee da antiquari, il Cavour; prontoa dichiarare, quasi con compiacenza, la sua personale in-sensibilità al fascino artistico di Roma, eppure altrettan-to pronto ad affermare la forza delle «grandi ragioni mo-rali» e di conseguenza, l’ineluttabilità di capitale. Pura

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riflessione, diceva Jacini; e Cavour gli aveva, in anticipo,ribattuto essere il sentimento dei popoli a decidere que-stioni come quella della scelta della capitale1075. Due con-cezioni antitetiche circa il modo stesso di porre il proble-ma politico. Né varrebbe l’osservazione del Jacini, esserstato quello del Cavour un abile atteggiamento polemico,per seppellire ogni velleità di federalismo in Italia, senzache però egli pensasse seriamente a trasportare la capi-tale a Roma1076. Al disopra di ogni discussione di tal ge-nere, d’altronde inutile perché campata per aria, costrui-ta su ipotesi più o meno arbitrarie ed in cui poi all’in-terpretazione Jacini si contrapponevano le interpretazio-ni completamente opposte di molti altri amici, discepo-li e collaboratori del Cavour, stava il fatto che tra il mo-do di impostare la discussione del gran conte, il suo ap-pello ai fattori spirituali e morali, all’immaginazione e alsentimento, e la positività del lombardo c’era un abisso.Abisso che separava il grande politico aperto ad ogni vo-ce, capace di intuire il valore concreto anche di quel chenon fosse buon senso comune, dall’uomo pur di notevo-le ingegno ma chiuso in un troppo rigido schema, troppostudio e poco intuito.

La polemica coraggiosa, ma troppo aspra e unilaterale,contro l’idea di Roma «belletto di una Italia decrepita»dimenticava quel che di fruttuoso, di molto fruttuosoi patrioti avevano pur trovato nell’idea, trascurava anzioffendeva ideali vivi e profondamente sentiti da uomininon sospetti né di retorica né di amor dell’antiquariato.

E così, svanita la sensazione prima provocata in Sena-to dalle sue parole, la sua battaglia contro la retorica diRoma, che coglieva così crudamente uno de’ grandi pe-ricoli parati innanzi alla nuova Italia, rimase sterile di ri-sultati. A presentar l’idea di Roma come un’idea da an-tiquari, si guadagnava soltanto di suscitar una reazioneche non avrebbe poi più fatto il debito conto nemme-no degli utili avvertimenti; ad esagerare nelle diatribe, si

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correva soltanto il rischio di suscitar per reazione gli in-censamenti a tutto spiano da altra parte – anche se, perallora, questi incensamene dovessero rimanere contenutiin innocue proposte di feste o parate trionfali, in proget-ti immaginari, in discorsi, o, al più, potessero ascenderea dignità letteraria ad opera del Carducci.

Di tal genere erano dunque le conseguenze del VentiSettembre. Una nuova forza s’imponeva, con Roma capi-tale, nella appena iniziata storia dell’Italia unita, una for-za capace di bene e di male; potente incitamento e vessil-lo di raccolta e segno di individualità nazionale ne’ giorniin cui la patria non era ancor una, e sempre atta ad ispi-rar alte idealità, chi volesse accoglierla a guisa di coman-damento morale che una grande tradizione imponeva al-la nuova Italia; ma pure capace di influire sinistramentesui destini della patria, chi si lasciasse invece abbagliaree insuperbire e sognasse ritorni impossibili.

Idee, tutte, che solo con il materiale possesso di Romapotevano sorgere. Vano infatti il credere che il senso diRoma potesse rivivere in altra città, che Milano potesseessere una seconda Roma; assurda l’invocazione dell’im-maginoso De Zerbi che o a Milano o altrove fosse Roma– purché fosse! «... però che la fede nella lancia del Qui-rite e nei destini altissimi incrollabili della patria, l’orgo-glio della propria stirpe e della propria cittadinanza, l’in-sofferenza della cerchia ristretta, e la forza di espansioneche fa guardare sempre più in là, sempre più in là, sem-pre, sempre più in alto, sempre più in alto, e l’indoma-bile pertinacia nel volere sovra ogni cosa la maestà delpopolo romano, – questo, che è Roma – questo non èancora in alcun luogo d’Italia!»1077.

Vano e assurdo: perché solo nel luogo stesso dell’an-tica gloria, tra gli avanzi della magnificenza d’un tempo,potevan davvero e con continuità rifiorire i sogni dellaromana grandezza. Solo tra i monumenti che celebrava-no le grandi epopee del passato ed erano, per gli Italia-

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ni, «un pungente ricordo dei loro doveri»1078, nascevanoi pensieri di esser grandi come i lontani padri.

L’espansione che il De Zerbi, nazionalista anzi tempo,sognava, movendo da Milano avrebbe avuto tutt’altrocarattere modi affatto diversi dall’espansione che si cercòpoi di far muovere da Roma.

Solo a Roma si poteva sul serio e continuativamentepensare a’ fantasmi antichi, che altrove avrebbero, rapi-damente, perso forza ed efficacia. Per rinnovare l’invo-cazione goethiana alle pietre ed agli alti palazzi, per at-tendere da loro la parola incitatrice, bisognava, anzitut-to, aggirarsi tra quelle pietre e quei palazzi. Ora, il cetopolitico a cui erano affidati i destini dell’Italia unita stavaper trasferirsi definitivamente tra le antiche pietre.

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Capitolo Terzo

L’ordine e la libertà

I

Il programma conservativo

Tuttavia, per il momento era sempre la cattedra di Pietroad eccitare gli animi, a difesa e a offesa. Gli archi e lecolonne non parlavano ancora bastantemente di potenzamilitare.

Intanto, per parecchi anni alla capitale sarebbe man-cata forza di assorbimento, nei confronti delle altre cittàdella penisola: non solo le condizioni dei pubblici uffi-ci facevano apparire l’Urbe come una locanda1079, un ac-campamento provvisorio, senza assetto né apparenza dicapitale1080; ma dallo stesso punto di vista politico s’ave-va spesso l’impressione che il vero centro continuasse adessere altrove, magari – annotava Il Diritto1081 – magarisulle ferrovie continuamente percorse in su e in giù daiministri. Discorsi programmatici dei capi partito, tuttipronunziati altrove a Torino o a Legnago o a CotognaVeneta o a Stradella o a Cossato; trattative importantidi carattere internazionale condotte altrove, e non nellacapitale1082; frequenti fughe dei deputati, smaniosi di tor-nare il più presto possibile a casa, e insofferenti anchedel clima e delle poco salubri condizioni degli immedia-ti dintorni dell’Urbe1083; lunghissime assenze del Re dal-la Città Eterna1084, a Vittorio Emanuele non gradita vuoiper il clima1085, vuoi soprattutto per i rimorsi che inquie-tavano la sua sempre cattolica coscienza1086 e il disagiomorale di dover contemplare, dal Quirinale S. Pietro e ilVaticano1087 in quegli anni s’ebbe sovente l’impressioneche Roma fosse la capitale proforma, ma che il vero cen-tro politico fosse altrove1088. La grande capitale di tem-

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pi più vicini a noi, Roma non lo era ancora: né i modera-ti al potere, Sella eccettuato, desideravano lo diventasse,chi più chi meno preoccupati che una capitale alla fran-cese non risucchiasse troppa la vita della nazione, testaenorme sproporzionata al corpo.

Ma anche a prescindere da simile lento affermarsidella capitale nuova, a smorzare ogni possibile velleità dibrandir nuovamente l’asta dei Quiriti c’erano non solola situazione europea – e sarebbe ampiamente bastato– ma anche il desiderio della popolazione e la volontàdegli uomini di governo di concentrare ogni sforzo nellegrosse e gravi questioni interne, svolgendo una politicaestera di tutta tranquillità. Perfino per i più agitatidegli uomini politici d’allora e i più facili ad infiammarsial ricordo delle grandi memorie, l’ora attuale non eraquella di una risurrezione della Roma di Scipione e diCesare, bensì l’ora della lotta contro il nemico internodell’Italia, che era ad un tempo il cancro dell’umanità: ilPapato. E quanto agli uomini della Destra il conservarediventava la parola d’ordine. Conservare dopo un dodicianni di improvvisi, insperati acquisti; trasformarsi dalievito rivoluzionario d’Europa in elemento d’ordine e dipace: questo era il nuovo ideale, sinceramente sentito,altamente proclamato anche con appelli diretti all’azionee al pensiero del Cavour1089.

La rivoluzione era finita: bisognava ora mettere inordine la casa1090, restaurare «molti principi molte idee,molti affetti che nel corso della rivoluzione abbiamo do-vuto necessariamente disconoscere o ferire»1091, rinfran-care anzitutto il principio d’autorità1092, sì da mettere laparola fine allo spirito giacobino. Già lo diceva, da Vien-na, il 22 ottobre 1870, il Minghetti al fido Pasolini1093; ilMinghetti il quale, allo scopo di consolidare definitiva-mente le istituzioni e di seppellire così per sempre qual-siasi idea di una Costituente, consigliava addirittura diaffrontare subito la questione della riforma dello Statu-

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to, togliendo motivo dalla necessità di regolare la situa-zione del Papa in Roma e introducendo tale regolamen-to nello Statuto, in titolo apposito, ma non in una leggea parte1094.

Pochi mesi più tardi, nella discussione in Senato sullalegge delle Guarentigie, il Visconti Venosta ancora unavolta dava espressione ufficiale e definitiva al pentimentosuo e dei colleghi di governo, riaffermando che la causaitaliana era per tutta l’Europa una causa di libertà sì, maanche di tranquillità e di equilibrio, che il movimento na-zionale italiano aveva avuto «questa ambizione altamen-te civile, di considerarsi come un progresso per la causagenerale dell’ordine e della libertà in Europa», che il po-polo italiano poteva essere considerato uno dei più tran-quilli e conservatori di Europa. E dichiarava che il com-pito politico della rivoluzione italiana era finito1095, sicurodi raccogliere il consenso non solo dell’alta Assemblea,bensì dell’opinione pubblica quasi unanime, non con-traddicendo in ciò, sostanzialmente, nemmeno la mag-gior parte degli nomini della Sinistra, Depretis, Rattazzi,Zanardelli, Cairoli.

Suggello supremo alle parole del ministro degli Esteri,il discorso della Corona per l’inaugurazione dell’XI Le-gislatura, il 5 dicembre 1870: dove pure l’Italia libera econcorde diventava per l’Europa un elemento di ordine,di libertà e di pace1096.

Ordine, pace, conservazione; prender posto nella fa-miglia europea, nel concerto delle potenze come una per-sona ammodo, dopo esser stati per tanto tempo il guasta-feste.

Ma ordine e conservazione nella vita europea presup-ponevano ordine e conservazione nella vita interna de’singoli paesi, e quindi anche dell’Italia; il conservatori-smo in politica estera faceva tutt’uno con il desiderio diconservazione e di stabilità anche in politica interna; e af-fermare l’uno significava affermare l’altro. Come si desi-

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derava che l’assetto europeo rimanesse inalterato quantopiù a lungo possibile, così si desiderava evitare qualsia-si disturbo e novità in casa propria. Poter fermare la si-tuazione al punto in cui era, sia nei confronti degli altriStati, sia, all’interno, nei rapporti fra i vari partiti e ceti:era il desiderio dei novelli Giosuè che per tal modo ripie-gavano sempre più su posizioni nettamente conservatri-ci. Gli interessi dell’Italia, identici a quelli dell’Eumpa,erano «la conservazione della pace, il progresso liberalee la conservazione sociale», affermava nuovamente il Vi-sconti Venosta alla Camera il 27 novembre 18721097: con-servazione, dunque, anche nel campo interno, oltre chein quello internazionale.

E vari uomini molto autorevoli condividevano le ideeche il La Marmora esprimeva, a Firenze, al ministro diFrancia Fournier, nel marzo del ’72: ci si può rammari-care per il «modo» con cui l’Italia si è costituita a grandenazione, ci si rammarica anche da noi; quel modo, quei«procédés ... sont embarassants pour ceux qui gouver-nent et qui veulent et doivent étre conservateurs, aprèss’étre servi de la révolution pour en arriver où nous som-mes: mais ce qui est fait est fait: le temps, la sagesse,la prudence, les ménagements, la force au besoin contreceux qui ... voudraient continuer à être révolutionnaires... consoliderons petit à petit notre état et social»1098.

Era un vecchio motivo, questo dell’ordine tutelatodall’iniziativa di casa Savoia. Risaliva su fino al ’481099.Ma soprattutto da quando il conte di Cavour si era ge-nialmente avvalse delle preoccupazioni che la propagan-da mazziniana ispirava alle Cancellerie europee per pro-clamarsi tutore dell’ordine in Italia e reclamar quella li-bertà di mosse che, negata a lui, sarebbe stata strappa-ta con ben altri intenti dall’agitatore genovese; da quan-do egli aveva fruttuosamente cercato di tacitare le poten-ze conservatrici, anche di fronte agli atti suoi più rivo-luzionari, affermando e facendo affermare dai suoi in-

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viati «qu’il n’y avait eu pour nous aucun moyen d’a-gir autrement sans nous laisser déborder par les véri-tables révolutionnaíres, et sans mettre en péril l’ordreet la sûreté générale au dedans et même en dehors del’Italie»1100, o lasciar agire Cavour o l’anarchia repubbli-cana nella penisola e l’incendio acceso nel continente, l’a-gitar lo spettro della rivoluzione dinanzi agli occhi del-l’Europa per strappar consensi nella questione romanaera ormai una prassi costante, quasi una ricetta quotidia-na. Forse che, nel settembre del ’70, il Visconti Veno-sta non aveva cercato di legittimare l’azione del gover-no presentandola come tutrice dell’ordine in un momen-to pericolosissimo1101, e suscitando così le critiche sia diconservatori come Gino Capponi1102; sia, soprattutto, de-gli uomini della Sinistra insorti a negare che alcun perico-lo ci fosse stato1103, ma trovandosi in perfetto accordo conaltri rappresentanti dell’opinione pubblica?1104 Lo stes-so Re non aveva forse dichiarato direttamente a Pio IXch’egli agiva per mantener l’ordine di fronte ai tenebro-si progetti del partito della rivoluzione cosmopolita?1105

E forse che, ancor più tardi, nella diuturna fatica di im-pedire ogni ritorno offensivo degli oltramontani dei varipaesi il ministro degli Esteri non si serviva, costantemen-te, dello stesso motivo, essere cioè il governo italiano aRoma un pegno sicuro di ordine e di tranquillità control’anarchia?1106

Era l’argomento di cui si giovavano, ne fossero o me-no convinti, i pubblicisti stranieri favorevoli al nuovo or-dine di cose1107 e persino – come già nel ’481108– i governiesteri che avevano assunto contegno benevolo verso l’I-talia e che in tal modo cercavano di tranquillizzare i cat-tolici o, addirittura, di evitare che l’azione violenta degliItaliani contro Roma servisse di pretesto ad altre pertur-bazioni dello status quo internazionale; così, nel novem-bre 1870, quando la Russia s’era dichiarata sciolta dal-le clausole del trattato di Parigi relative al Mar Nero, al-

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l’ambasciatore dello Zar a Vienna che tentava di giusti-ficare l’operato del suo governo richiamandosi all’esem-pio del Venti Settembre, cioè ad un’altra asserita viola-zione di impegni internazionali, prima ancora del Min-ghetti rispondevano il Beust e l’Andrássy, col far osser-vare anche che la mossa italiana «cagionata da fortissi-mi ed urgenti motivi interni ... aveva altresì un obbiet-to speciale d’ordine pubblico, e pur distruggendo il do-minio temporale del Papa non cessava di mantenere alcospetto dell’Europa un carattere conservativo»1109.

Tanto più necessario l’insistere sull’ordine, la tranquil-lità, il rispetto dell’autorità costituita, e l’assumere agliocchi dell’Europa la funzione del buon guardiano, inquanto il governo italiano era accusato dagli oltramon-tani, francesi belgi austriaci tedeschi irlandesi spagnuoli,di minar alle basi i sacri principi d’ordine e di autorità, didar l’avvio, con i suoi atti di violenza, a perniciosi scon-volgimenti nell’ordine morale, politico e sociale, di scuo-tere – siccome diceva monsignor Ledochowski – il prin-cipio monarchico stesso»au point qu’il sera difficile d’in-spirer au peuple le respect de ce qui est sacré et honora-ble, quand dans Rome les Italiens le foulent impunémentaux pieds»1110.

Codino e pauroso per gli uomini della Sinistra, il go-verno italiano appariva un mostro di empietà, un abbo-minevole sovversivo agli occhi dei reazionari europei: ta-le essendo la sua sorte, ora come ai tempi di Cavour,di dover operare equilibrandosi fra due impulsi estremied antitetici, l’uno interno soprattutto, l’altro soprattut-to esterno, e di dover cercare la via del successo giovan-dosi alternativamente dell’uno contro l’altro, agitando lospettro della rivoluzione mazziniana per garantirsi diplo-maticamente Roma, e mettendo innanzi lo spauracchiodi un intervento europeo per strappare al Parlamento ita-liano le Guarentigie al Papa, contro le pretese di chi loavrebbe voluto ridurre un vescovo come gli altri1111.

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Ma non erano soltanto necessità di mera tattica politi-ca a tendere gli uomini della Destra proclivi verso le af-fermazioni di conservatorismo, interno ed esterno; né laloro era soltanto la posizione di chi, enunciando princì-pi e programmi ad uso altrui, finisce poco o molto con ilrimaner egli stesso impigliato nelle sue reti, e col persua-dersi progressivamente della verità e santità di afferma-zioni destinate da prima a consumo altrui. Già per il Ca-vour l’avvrsione alla rivoluzione, al buttar tutto per ariae far piazza pulita dei vecchi istituti e anzitutto dell’isti-tuto monarchico, era stata tutt’altro che una mera lustradiplomatica; e per i suoi successori il desiderio di con-servazione era naturalmente ancor più forte, come che siritenessero ormai raggiunti tutti gli scopi del movimentonazionale, unità indipendenza libertà. Sinceri erano nel-l’affermare il loro desiderio di pace, la volontà di costi-tuire un elemento di orme per l’Europa; e sinceri con-tinuavano ad essere quando proclamavano di costituirel’unico valido presidio della tranquillità interna, di con-tro al temuto irrompere delle dottrine estremiste.

Proprio da questo timore reale e profondo del sovver-timento generale, nascevano le preoccupazioni maggiori:bisognava strappare alla rivoluzione le sue parole d’ordi-ne, mettersi a capo di essa per imbrigliarla, servirsene fi-no ad un certo limite ma impedire che passasse oltre esfuggisse di mano1112, ma questo appunto era il difficile,saper cogliere l’attimo in cui la spinta rivoluzionaria ren-desse il massimo dei vantaggi e offrisse il minimo perico-lo, l’attimo giusto, non prima né dopo, per causare guai.Occorrevano, a ciò, il fiuto e l’occhio del grande pilota: enon è dunque meraviglia se più volte ai generali di Ales-sandro fossero mancati il fiuto e l’occhio che Alessandro,cioè Cavour, aveva avuto in misura suprema, se la politi-ca dei moderati si fosse incagliata in secche che avevanoavuto nome Aspromonte e Mentana, e desse anche ora,nel ’70, l’impressione di essere indecisa, oscillante, sen-

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za nerbo. Né deve stupire che un simile indirizzo, turcoalterno giunco fra reazione e rivoluzione, eccitasse, allo-ra e poi, lo sdegno di uomini come il Crispi, il Carducci,l’Oriani, che erano rivoluzione e scorgevano viltà là do-ve era uria ricerca continua e difficile di equilibrio fra leforze opposte. Ma, nonostante tutti gli errori le esitazio-ni le incertezze, quella ricerca riuscì: l’Italia andò a Ro-ma monarchica, l’Europa accettò il fatto compiuto, anti-chi repubblicani si accinsero a diventare ministri del Red’Italia.

Perché il primo estremismo che spaventava era anco-ra, in quei giorni, il repubblicanesimo. La conservazio-ne doveva cominciare proprio di qui: mantener salda lamonarchia contro ogni propaganda di origine mazzinia-na, e dal 4 settembre 1870 anche di coloritura francese.Era, questo, un vecchio tema, che si perdeva lontano, al-meno almeno nel ’48; e la polemica non diceva ora nulladi nuovo nei suoi motivi ideologici e continuava a ripor-tare ai tempi dei grandi contrasti fra governativi e cospi-ratori; e l’avversione dei monarchici per Mazzini, il cuinome non veniva pronunziato senza farlo precedere daun aggettivo ingiurioso o seguire da un improperio1113,era comunque meno terribile dello sdegno che, tra ’48 e’49, aveva eccitato perfino un Cavour a proporre fa fuci-lazione immediata di ogni sedizioso1114. Qualcosa di nuo-vo sopravveniva però col settembre del 1870 a rinfoco-lare sì inquietudini monarchiche, ma anche ad aggiunge-re argomenti all’ormai vecchio precetto della monarchiache unisce e della repubblica che divide.

Da un lato, era l’instaurazione della repubblica inFrancia. Conservatrice, anzi, dal febbraio del ’71, rea-zionaria nella maggioranza dell’Assemblea; ma semprerepubblica, e col fascino delle idee francesi era cosa dapensarci su. Moriva di lì a poco Mazzini; ma oltr’Alpic’era un esempio, avrebbero anche potuto trovarsi incita-menti ed aiuti più pericolosi forse della parola del grande

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agitatore senz’armi. Così è, che fin dal 7 settembre 1870,tre giorni dopo gli eventi di Parigi, la fiorentina Nazionelanciava il grido d’allarme, proclamando che «da oggi»l’Italia era un popolo essenzialmente conservatore, cheessere conservatori significava salvare l’unità e l’indipen-denza dell’Italia, salvare la patria e la’ società minacciateda coloro i quali volevano nuovamente infrancesare l’Ita-lia in nome della repubblica; che i tentativi repubblicani,fin qui combattuti in nome degli ideali di partito, ora an-davano combattuti in nome della indipendenza della na-zione, e pertanto chi avesse sollevato il grido di repubbli-ca in Italia avrebbe dovuto esser trattato come un tradi-tore, anelante a far della patria uno strumento della po-litica straniera1115. Non per nulla da allora il giornale fio-rentino diventava filoprussiano accanito, cioè sostenito-re del paese in cui la vita pubblica era saldamente imper-niata sulla monarchia! Ma non era solo la Nazione a te-mere i contraccolpi in Italia del repubblicanesimo fran-cese; e non era nemmeno solo la milanese Perseveranzaad affermare, il 7 settembre, che ora veramente non c’e-ra più da esitare e bisognava andare a Roma. Perché ladecisione su Roma fu presa il 5 settembre, dal Re e dalLanza; e a farla prendere fu certo di gran peso la scom-parsa di Napoleone III, e vale a dire il venir meno dei ri-guardi dovuti all’imperatore; ma v’interferì fortemente,e molto più, il timore di quel che in Italia avrebbe potu-to succedere, non muovendosi il governo, ad opera deirivoluzionari incoraggiati dal 4 settembre1116.

Gli eventi del febbraio parigino del ’48, con le loro ri-percussioni europee ed italiane, non erano poi preistoria,e il Re e i suoi ministri se ne rammentavano bene.

La scarna prosa del verbale del Consiglio dei Ministridel 5 settembre diceva tutto e collegava, da sola, gli even-ti: «Il Consiglio delibera di nominare ad inviato straor-dinario a Parigi il Barone Ricasoli e di spedire in missio-ne straordinaria a Roma il Conte Ponza di San Martino

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per esporre al Pontefice la risoluzione del Governo Ita-liano di occupare Roma ed il territorio [sic! ] pontificiooffrendo tutte le garanzie possibili per la sua sicurezza eper il libero esercizio del potere spirituale.

Il Consiglio delibera d’incaricare il nostro inviato aParigi a riconoscere la Repubblica.

Delibera pure di dare al suo Presidente la facoltà difare tutti i provvedimenti necessari per preparare edagevolare l’ingresso delle nostre truppe nel territoriopontificio.

Delibera poi di chiamare sotto le armi una classe diseconda categoria»1117.

Senonché, andata a Roma l’Italia più che mai avevabisogno del Re. Di fronte al Papa, soltanto un Re potevadifendere l’Italia vittoriosa. Parecchi anni più tardi lodisse, con molta chiarezza, Domenico Zanichelli: mail pensiero suo era già stato sentimento comune, più omeno chiaro che fosse:

«Noi crediamo fermamente che l’Italia forse adottan-do l’idea repubblicana avrebbe potuto, però attraversomolte sventure e pericoli, cacciare gli stranieri e i tiran-ni interni, ma d’altra parte siamo convinti che nella lottacol papato sarebbe sempre rimasta, se repubblicana, soc-combente. Noi dobbiamo immensa gratitudine al re Vit-torio Emanuele per l’aiuto dato al risorgimento d’Italia,ma non la gratitudine sola, anche la necessità deve strin-gerci attorno a quell’istituzione che egli confuse coll’Ita-lia e a quella dinastia che la personifica. Guai se il nostropaese abbandonasse la monarchia; compirebbe un suici-dio perché la patria risorta dopo tanti secoli ritornereb-be, nel sepolcro e i posteri direbbero che gl’Italiani nonseppero conservare la preziosa eredità degli avi.

Per noi nella lotta col papato l’Italia avrà fondatasperanza di vittoria, solamente se rimarrà monarchica.»

Monarchia e Papato sono due forme di ordinamentiche fatalmente tendono a primeggiare e che possono

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esistere soltanto a patto di occupare il primo posto:di qui, il naturale contrasto fra di loro. Soprattuttoin Italia, dove la contesa era diretta, più grave assaiche non in qualsiasi altro paese, la monarchia non sisarebbe mai indotta ad accordi che po tessero menomarela sua supremazia, avrebbe sempre combattuto il Papatoalmeno sino a quando le sue pretese avessero importanzapolitica e sociale.

«Noi possiamo immaginare che una reazione cattolico-clericale prevalga in Italia per una causa qualunque, o ge-nerale all’Europa o locale nel nostro paese, si impadro-nisca del corpo elettorale e popoli la camera dei depu-tati di una maggioranza proclive ad accordi col Vatica-no, vogliosa di accontentarlo; ognun vede come in que-sta ipotesi nessuna autorità o forza legale potrebbe salva-re lo stato laico e nazionale all’infuori della monarchia,la quale, essendo per le ragioni sopradette, naturalmen-te contraria alle pretese politiche della Chiesa, trovereb-be in se stessa la energia sufficiente per resistere alla cor-rente clericale.

Ora se deve, come non è dubbio, essere cura degli ita-liani di costituire delle difese valide e inespugnabili con-tro i possibili attacchi del Vaticano è certo che dovran-no consolidare la monarchia e guardarsi dall’indebolir-la perché in essa troveranno sempre, quando sia neces-sario, una guida nella battaglia, una fortezza imprendibi-le, protetti dalla quale potranno combattere sicuri, riu-nirsi se dispersi, riaversi se una momentanea sconfitta oun timor panico, o un inganno ne avessero abbattuti glispiriti.»

S’aggiunga, il fascino della monarchia sulla immagina-zione popolare: di fronte al Papato, l’istituzione più im-ponente del mondo, che figura ci farebbe un presidentedi repubblica?

«La repubblica può essere nel desiderio di molti, maperò tutti dovranno ammettere che un’assemblea e un

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presidente in Roma vicino e accanto al papato farebberouna ben meschina figura e che il pontefice apparirebbeagli occhi e alle menti dell’universale immensamente piùgrande del rappresentante l’autorità politica. Un presi-dente, comunque eletto, sarebbe sempre un uomo comegli altri, un semplice delegato della nazione senza forzapropria, senza tradizioni, destinato a tornare nel nulla dacui è uscito, sarebbe discusso, appoggiato e combattu-to; come potrebbe reggere di fronte a quell’augusta au-torità che domina sulla terra, pretendendo un’investitu-ra dal cielo, che sorpassa i limiti degli stati, che ha a suosussidio la forza d’una tradizione due volte millenaria edi una religione che è dominante in Italia?

Mettiamo di fronte il papa bianco-vestito col triregnoIn testa, sulla sedia gestatoria, circondato dalla sua corteche è la più maestosa del mondo, e un presidente vestitoin borghese, circondato da ministri ed alti funzionari;immaginiamo questo spettacolo e vedremo subito come,qualunque sia la sostanza delle cose, il presidente appaiainferiore al papa.

E non solo nell’apparenza, ma anche nella natura in-timi delle istituzioni il pontefice apparirebbe sempre piùalto del capo del governo d’Italia e si concilierebbe col-la riverenza l’obbedienza del popolo. Che cosa rappre-senta un presidente di repubblica? Null’altro all’infuo-ri della volontà di quelli che, più o meno espressamente,più o meno liberamente lo abbiano eletto. Il suo poterenon ha altra base che il consenso; quando questo gli ven-ga a mancare, tanto in apparenza che in realtà, egli nonè più nulla. Quindi in Italia egli sarebbe non un’autori-tà per sé stante, ma semplicemente un mandatario il cuiufficio dipenderebbe ad ogni momento dalla volontà delmandante; forse dotato d’un potere effettivo ma privo diogni potere morale.

Perché quest’uomo potesse essere creduto uguale alpontefice bisognerebbe che il popolo italiano dimenti-

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casse tutta la sua storia, mutasse del tutto natura, biso-gnerebbe che a lui unisse immediatamente l’idea dellamaestà della patria e quindi fosse capace di un’astrazio-ne, la quale può essere concepita da menti colte e spre-giudicate, non lo può certo dal popolo. Il popolo non ca-pisce la sovranità altro che se è incarnata e si mostra cogliattributi esterni, quindi per lui, mancando il re, di sovra-ni d’Italia, rispettati e riveriti come tali, non vi sarebbeche il papa.»1118.

L’aveva già detto Renan, divenuto col tempo repubbli-cano per la Francia, ma sempre convinto sostenitore del-la causa monarchica per l’Italia1119; poco più tardi lo ripe-teva il già repubblicano Crispi, imprecando contro l’im-borghesimento della dinastia e l’abbassarsi del Re, chedeterminava l’innalzarsi del Papa1120.

E certo in quel momento storico le osservazioni co-glievano nel segno: dal prestigio formale della monar-chia, che l’indubbia azione esercitata su molti cuori dallaregina Margherita corroborava di un esempio probante,alla necessità di un regime monarchico per fronteggiarecon successo, all’interno e all’estero, l’offensiva di par-te clericale per decenni scatenata su piano internaziona-le contro l’Italia. Un’Italia repubblicana, con tutto quelche era successo fra il ’60 e il ’70 l’Europa monarchica econservatrice non l’avrebbe tollerata; e che le argomen-tazioni del Cavour e dei suoi eredi fossero state accolte,era gran prova dell’impossibilità, allora, di una soluzio-ne rivoluzionaria, mazziniana del problema italiano. Lamonarchia presidio, garanzia della libertà, dell’indipen-denza, dell’unità della patria: questo fu vero, e il gior-no in cui l’istituzione non resse più al compito che le erastato assegnato dalla storia, fu anche giorno di sciaguraper la patria; e, scomparsa essa, più alto ancora rifulse losplendor della tiara.

Ora, all’interno il pericolo repubblicano poteva sem-brar superato: Mazzini solo, al tramonto, con pochi fede-

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lissimi; gli altri, i maggiori tra gli uomini politici che era-no stati repubblicani o anche solo tendenzialmente re-pubblicani, i più eminenti tra i vecchi cospiratori, ormaiguadagnati alla causa monarchica, da Crispi a Cairoli, epresto ministri di Sua Maestà. Garibaldi, nonostante inon infrequenti malumori e le esplosioni verbali di tonorepubblicano, anzi socialistico, non nemico sul serio.

Ma fuori si addensavano i nuvoloni: repubblica inFrancia, e pazienza la repubblica di Thiers e quella deiduchi, ma dietro c’era Gambetta e il radicalismo; minac-ciosi sommovimenti repubblicani in Spagna, e quindi ali-mento d’oltre frontiera alla propaganda interna e rinfo-colamento della predicazione mazziniana.

E c’era dell’altro ancora. Dietro alla lotta politica proe contro l’istituzione monarchica, si cominciava a profi-lare un’altra lotta, contro tutto l’assetto sociale; dietro airepubblicani, appariva l’ombra dell’Internazionale; do-po il 4 settembre parigino veniva la primavera pariginadel 71, e l’estremismo repubblicano minacciava di sco-lorire di fronte ad un ben più radicale estremismo che,travolgendo anche l’istituzione monarchica, avrebbe pe-rò travolto tutto l’assetto sociale. Ora, questo nuovo epiù pericoloso estremismo vedeva schierato, in linea dibattaglia, tutto il ceto dirigente italiano, Destri e Sinistrifinalmente concordi quasi a dar ragione al detto del Ca-vour che, ove davvero l’ordine sociale fosse stato minac-ciato, i primi a schierarsi tra i conservatori sarebbero sta-ti i frondeurs e i repubblicani1121.

Uomini in cui il culto della libertà era veramente, pro-fondamente religione. Ma uomini, anche, in cui la liber-tà si riassumeva nei suoi aspetti morali e giuridici, sen-za che si scendesse molto a vedere quali basi di fatto oc-corressero perché la libertà di pensare e di agire potesseveramente essere di tutti e per tutti. Sacra la libertà del-la personalità umana; ma come assicurare le condizio-

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ni perché tutti potessero, sul serio, divenire personalità,questo rimaneva ancora sovente oscuro.

E invece, il ricordo del ’48 sorgeva di continuo ad am-monire contro le pretese della piazza, a spaventare conil fantasma della rivoluzione sociale, a render guardinghiverso i bassi strati ch’erano già stati capaci di accomuna-re il grido di lotta contro la reazione politica e contro lostraniero con il grido avverso i signori, avverso i padroni.Il ’48, l’anno fatale destinato a rimaner famoso nelle sto-rie «e per la grandezza del suo primiero impulso a prodi tutte le indipendente nazionali, e per le mattezze diesagerata libertà che vi si frammisero, e l’impicciolironodappertutto»1122: e il fatto solo che quella data rimanes-se nella tradizione popolare come sinonimo di disordinie anarchia, e che far un ’48 diventasse espressione popo-laresca per designare gran subbuglio, la gente in piazzae il saccheggio nelle case, è sufficiente prova di quantoprofonde fossero state le impressioni.

L’esperienza francese di quell’anno aveva avuto influs-so decisivo nell’orientare in senso nettamente conserva-tore, dal punto di vista sociale, il pensiero liberale italia-no ed europeo1123; e se un Thiers aveva favorito la pre-sidenza di Luigi Napoleone, perché aveva avuto «pau-ra», paura del socialismo, paura dei moti di piazzia1124,perfino un Cavour, pur disposto a riconoscere la gravi-tà e l’importanza della questione sociale1125, s’irrigidiva difronte al pericolo dell’estremismo operaio, sì da salutarenella repressione parigina del giugno ’48 la salvezza del-la civiltà moderna da una nuova invasione di barbari1126.E Cavour riusciva ancora a salvare la sua anima libera-le, a portar fuori intatta la sua fede nella libertà, pur at-traverso i timori e gli sdegni del ’48 e ’49. Ma molti al-tri uscivano invece dal biennio tormentoso con assai in-tiepidito sentire. «Tutti i possidenti, per quanto aman-ti della libertà e nemici del, despotismo, per quanto sisfiatino e parlino e gridino per la prima e contro il se-

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condo, amano un po’ meno la libertà ed odiano un po’meno il despotismo dopo l’apparizione della repubblicasocialista. A poter ricevere da tutti i liberali d’Europaquelle arcane confidenze che ha soltanto il guanciale, siformerebbe forse una statistica dalla quale apparirebbeun notabile ribasso nelle azioni del liberalismo»1127. Cosìaveva francamente scritto Massimo d’Azeglio, che conti-nuava a credere fermamente nella libertà e paventava lareazione conservatrice, pur trovando che «trattandosi dipadroni, meglio quello che ha lo stomaco pieno e buonipanni indosso, che chi è ignudo e digiuno, e s’ha a rifa-re alle spalle mie»1128; e ancora il Cavour si ricordava diaver veduto partire da Torino, nell’inverno del ’48, «uo-mini che si dicevano molto più liberali di me, e di averliveduti ritornare infinitamente più conservatori di quelloche io non sia»1129. Delle quali diffidenze e paure offri-va di lì a poco testimonianza sicura l’atteggiamento deipiù di fronte al colpo di Stato del 2 dicembre, atto pre-potente ma che salvava dall’anarchia1130; e continuavanoa dar prova, anche in seguito, certe simpatie di moderatiitaliani per la dittatura napoleonica e il suo tener a frenoi «cattivi umori» in Francia1131.

Senza dubbio, a quasi nessuno veniva in mente di ne-gare la importanza teorica del problema, o di invocarecontro le masse soltanto l’ausilio dei carabinieri, anchese da più parti si cominciasse a reclamar maggior consi-derazione per il principio di autorità, che le plebi dove-vano avvezzarsi a guardare con riverente affetto1132. Co-loro i quali pensavano soltanto alla forza e vagheggiavano«il formidabile apparecchio d’una repressione spietata»,erano – diceva un liberale sì, ma non certo di sinistra, ilmarchese Carlo Alfieri di Sostegno – i feroci della scuo-la empirica, laddove i mansueti «quando si vedessero al-la vigilia d’essere sopraffatti, o per un certo ribrezzo inextremis a spargere sangue, soprattutto il proprio, tran-sigerebbero sacrificando qualche porzione del diritto di

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proprietà, non certo a saziare, ma ad acquietare per qual-che tempo il proletariato irruente»1133. Ma anche questiultimi erravano; occorreva invece, proseguiva lo scritto-re, studiare i mezzi per impedire il rinnovarsi della guer-ra sociale. E il Sonnino, allora all’inizio della sua attivi-tà politica, aperto alle voci nuove della storia, non anco-ra chiuso in sé e, quasi fuori del mondo, cocciutamenteirrigidito su posizioni immutabili, il Sonnino ch’era tra ipochissimi a non cullarsi nell’ottimismo generico e gene-rale dell’Italia priva di materia incendiaria, perché privad’industria, deprecava risolutamente il sistema delle re-pressioni alla Thiers, come quello che spingeva i colpi-ti semprepiù in là, creava i martiri, trasformava in fedeuna iniziale passione. Il rispondere con le fucilazioni agliincendi, non risolveva nulla1134.

Cercar dunque di migliorare le sorti delle classi me-no abbienti: a parole, s’era tutti sostanzialmente d’accor-do, fin il conservatore de Launay. E s’ebbero discussio-ni pubbliche, già nella primavera del ’71, e il Giornale diModena fu centro di una discussione tra il suo diretto-re Pietro Sbarbaro, l’Alfieri di Sostegno, il laniere Ales-sandro Rossi e Cesare Cantù. Ma, ne’ fatti, quella pre-occupazione si conchiudeva soprattutto in un più largo egenerale appello alla beneficenza e alla carità1135, cioè al-l’empiastro con cui i ceti alti cercavano da tempo e avreb-bero ancora a lungo cercato di medicare le piaghe socia-li, illudendosi con ciò di sanare un male che ne avrebbeanzi ricevuto nuovo alimento, con una più decisa ribel-lionemorale contro l’idea dell’elemosina.

Si diffondeva, è vero, la convinzione che fossero ne-cessarie leggi a difesa degli operai; e si assisteva alle ini-ziative promosse da uomini della Destra e specialmen-te dal Luzzatti, sulla previdenza sociale e sulla tutela dellavoro; il problema gravissimo che l’economista patavi-no cercava di imporre all’attenzione dei circoli dirigentiitaliani1136. Ma precisamente in queste e simili discussio-

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ni veniva chiaramente in luce come l’atteggiamento del-la grandissima maggioranza dei benpensanti fosse ancoraquello di una quasi totale incomprensione del problema,nei suoi veri ed essenziali termini1137.

Paternalismo, filantropismo, beneficenza: era il limitemassimo a cui giungevano gli uomini delle classi dirigen-ti, a tanto indotti poi non puramente da ragioni umani-tarie, bensì anche – e molto – dalla convinzione che ciòfosse richiesto da un illuminato spirito di conservazione,per rendere impotenti i partiti anarchici e sovvertitori1138.Taluno trovava ch’era necessario migliorare retribuzio-ni e condizioni di vita degli operai; e qualche altro co-me il Minghetti, da tempo preoccupato dei pericoli del-lo sviluppo capitalistico e convinto che lo scopo supre-mo del secolo dovesse essere la redenzione delle plebi1139,si rendeva conto diretto della miseria di larghe masse dicontadini1140 e comprendeva che la miseria era ormai ungrave problema politico1141. Ancora, il De Sanctis osser-vava che la questione sociale era il massimo problema perla classe dirigente italiana, il problema che solo avrebbeconsentito di andar oltre il limite formale-giuridico dellalibertà e di creare un vivo e armonico organismo politi-co, trionfando dell’indifferenza e dell’apatia che domina-vano nella vita pubblica di fronte al permanere di partitie di formule ormai svuotati di contenuto1142.

Ma se taluno cominciava dunque ad aprire gli occhi;altri non si peritava dall’affermare che in Italia la ricchez-za non era male distribuita e che era vano cercare oppres-si e oppressori in un paese già fortunato per le condizio-ni generali «che si attengono alla ricchezza del suolo, allabontà del clima, alla sobrietà degli abitanti, alla fortunadi non essere né accentrati né divisi»1143. E mentre il Luz-zatti sosteneva tenacemente la necessità di una legge perla tutela dei fanciulli e delle donne nelle fabbriche e nelleminiere, Alessandro Rossi negava decisamente che nellefabbriche italiane gli operai patissero, per inumani rego-

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lamenti o per eccessivo lavoro; e la direzione della NuovaAntologia, così rappresentativa allora delle opinioni me-die del ceto colto italiano, appoggiava le idee del lanie-re di Schio, e gli industriali italiani saltavano addosso alLuzzatti, che veniva invitato dal direttore del Sole a nonscrivere più nulla in argomento, per evitar guai1144.

Erano, queste ultime, posizioni estreme; ma anchequando le grandi inchieste del Jacini e del Franchetti-Sonnino avrebbero rivelato le reali condizioni agraried’Italia e soprattutto la desolazione del Mezzogiorno, eanche quando la denutrizione dei bassi ceti e le condi-zioni primordiali di loro vita avrebbero trovato dolorosee troppo frequenti conferme di esempi, anche allora, po-sti di fronte ad una cruda realtà di fatti, gli uomini po-litici italiani avrebbero sempre ritenuto possibile uscir-ne mediante quei palliativi che si chiamano filantropia ebeneficenza.

Destri e Sinistri, quasi tutti, erano ancora fermi all’i-deale della carità: la carità dovere sociale, obbligo po-litico, virtù pubblica, aveva detto il de Tocqueville, chevedeva in questola più notevole innovazione dei moder-ni nel campo morale, la nuova forma assunta da idee giàpredicate dal cristianesimo1145; la carità, dovere non soloprivato ma pubblico delle nazioni cristiane, aveva ripe-tuto il Balbo, con Gino Capponi, proponendo all’uma-nità come scopo primo l’introduzione della carità nell’e-conomia, nella politica, nelle leggi1146. E anche il Cavouraveva fissato i suoi sguardi sulla carità legale come sul so-lo vincolo capace di unire le diverse classi e l’unico siste-ma atto a salvare la società dai pericoli incombenti1147; ela sua legislazione sociale era stata ancora la legge inglesecontro il pauperismo.

Che il problema fosse ormai ben diverso e non più sa-nabile con le semplici briciole della mensa di Epulone,ma necessitasse una completa revisione di tutte le ideee pregiudizi correnti sui rapporti fra capitale e lavoro;

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che la carità ’fosse, secondo aveva osservato già il Mazzi-ni, «virtù d’un’Epoca oggimai consunta e inferiore mo-ralmente alla nostra»1148, spettava al movimento sociali-sta sostenere e dimostrare, così come toccava al Giolittil’abbandonare la vecchia arma, cara ancora sul tramon-tar del secolo al Crispi e al Rudinì, dei carabinieri e delletruppe in servizio repressivo e dello stato d’assedio.

L’auspicio di Giuseppe Ferrari, di far il socialismo colgoverno e con i conservatori1149, era bene un auspicio distampo giolittiano, ma cadeva per allora nel vuoto: quasiche il pensiero liberale non avesse più la freschezza, for-za, capacità di veder alto e lontano, che aveva avuto nel-la prima metà del secolo, e non potesse, esso stesso, chemantenere il già acquisito senza conquistar di nuovo1150.

E se fin qui s’è parlato dei moderati, come di quelli a’quali incombevano le responsabilità di governo nel pe-riodo di cui trattiamo, non è da credere che presso gli uo-mini della Sinistra fosse molto diverso il sentire. Tutt’al-l’opposto, anche questi ultimi erano fondamentalmenteconservatori dal punto di vista sociale; e rari erano coloroi quali, come Agostino Bertani protestassero contro l’e-goismo borghese, ammonendo che anche in Italia si po-tevano ormai distinguere due razze d’uomini «quella delpane bianco e quella del pane di colore»1151. Soprattuttonel proporre i rimedi, Destri e Sinistri andavano d’accor-do: uomini tutti ideologicamente figli della prima metàdel secolo, e tutti concordi nella difesa della struttura so-ciale esistente. La carità, avevan detto Balbo e Cappo-ni; ma Crispi non era poi tanto lontano, anch’egli, da ta-le rimedio, e invocava la beneficenza e ricordava i mo-di di cui usano i preti per rendersi grati alle moltitudi-ni, accumulando grandi ricchezze per mezzo dell’oboloe giovandosene alla propagazione delle loro idee1152.

Divisi in tante altre questioni, Destri e Sinistri si ri-trovavano sul piano della difesa della società attualmen-te costituita: con maggior secchezza di tono e risolutez-

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za di espressione i primi, con maggior blandizia verba-le verso le masse i secondi; ma tutti d’accordo nel rite-nere sacra la proprietà e la borghesia colonna della vitasociale e politica1153.

L’inno alla borghesia lo innalzava infatti, alla fine dimarzo del ’71, e proprio in polemica contro l’Internazio-nale e la Comune parigina, non un giornale moderato,bensì uno dei due organi massimi della Sinistra, Il Dirit-to, che non solo constatava «la coesione, l’influenza legit-tima e meritata della classe borghese e proprietaria», masosteneva la piena legittimità di tale influenza, come chenessuna rivoluzione si fosse mai «identificata alla borghe-sia, al terzo stato, come quella che si è svolta in Italia dal1848 ad oggi: questa classe di cittadini ha pagato e lar-gamente il suo tributo alla patria, cospirando, studiando,combattendo per essa». Tanto più che questa borghesianon si è separata dal paese, formando una casta a parte,ma ha dischiuso invece alla classe operaia e campagnolala via di una completa emancipazione1154.

È vero, cioè, che i borghesi dicevano e in buona fedepensavano che il loro regno non era esclusivo, anzi aper-to a quanti lavorassero seriamente e intelligentemente.

La recisa impostazione classista, la divisione del mon-do indue, era sempre ripugnata e continuava a ripugna-re al pensiero liberale. Borghesia? ma una borghesianon esiste più dopo il 1789, appartiene alla paleontolo-gia, aveva scritto nel 1831 Saint-Marc Girardin. L’ugua-glianza civile, sancita nel 1789, fa sì che ora gli uni ora glialtri possano godere dei beni della società: ciascuno creail suo destino con la sua buona o cattiva condotta, com-binata con il corso degli eventi. Tout le monde est peu-ple, et tout le peuple est bourgeois. Popolo e borghesiasono due vecchi nomi che non significano più nulla, deimots de passe di cui ciascuno si serve secondo le circo-stanze; e non vi sono che due classi in realtà, la gente chelavora e la gente che vuole agitarsi, gli uomini che bada-

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no ai loro affari e i rivoluzionari di professione. Fra l’al-to e il basso della vita sociale, vi è movimento continuo,a va e vieni, chi sale e chi scende: sale l’uomo intelligen-te, economo, attivo, che ignora le coalizioni turbolente ele dichiarazioni di princìpi, e conosce più la strada dellacassa di risparmio che quella dell’osteria. Tutte le possi-bilità dischiuse quindi per gli operai, questi barbari del-la società moderna che la devono ritemprare con la lo-ro energia e il loro coraggio: soltanto, appunto, le pos-sibilità si dischiudono ai singoli individui, perché il cetonon esiste; e gli individui bisogna ammetterli nella socie-tà soltanto dopo che siano passati attraverso il noviziatodella proprietà, perché soltanto allora avranno interessea mantenere l’ordine sociale1155.

Il problema era dunque non di un blocco contro un al-tro blocco, ma di individui verso altri individui; si tratta-va di filtrare per così dire i singoli, e i mezzi erano educa-zione personale, buona volontà, capacità, risparmio1156.E nemmeno ora, pur dopo le esperienze francesi del ’48e del ’71, con l’Internazionale in piedi e Marx e Baku-nin predicanti alle masse, si rinunziava ad impostare intal modo la questione: lo diceva Il Diritto e lo ripeteva-no molti altri che il regno dei possidenti era aperto a tuttigli uomini di buona volontà, e che tutto stava nell’incul-care alle plebi le virtù classiche del cosiddetto borghe-se. Problema pedagogico, dunque: di fatto, si cercaro-no validi esempi di uomini del popolo divenuti proprie-tari, saliti in alto nella scala sociale grazie alle loro vir-tù, e poiché sulla vecchia tradizione italiana dell’esempioincarnato nel signore di campagna- specchio di alta vi-ta morale per i suoi dipendenti-si veniva innestando pro-prio allora, fra ’60 e ’80, la predicazione angloassone delself-made man, che era invece uomo di città, le buonefattezze borghesi di Beniamino Franklin vennero propo-ste anche agli operai italiani, perché giungessero là doveegli era giunto con il lavoro, l’onestà, il risparmio. La-

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vora, fa la tua fortuna, innalzati; volere è potere; sapereè potere: i grandi motti furono predicati agli operai co-me sicuro e unico modo per risolvere il gran problemasociale, senza scosse e senza urti, nel migliore dei mon-di possibili; e fiorirono nei libri di lettura gli ammirevoliesempi di poveri operai i quali col lavoro, l’istruzione, ilrisparmio, la Perseveranza, erano diventati padroni1157, esi esaltarono le generose conciliazioni dopo i torbidi fraoperai e padroni, finalmente affratellati e amici1158.

Sulle orme del più popolare tra gli esaltatori stranie-ri del lavoro intelligente e perseverante, che aveva con-dotto uomini, nati nella povertà e cresciuti fra stenti edostacoli d’ogni sorta a cospicue posizioni sociali, sulle or-me dunque, di Samuele Smiles si posero vari italiani, pri-mo fra tutti e più noto Michele Lessona; e non gli mancònemmeno prima ancora del successo enorme, l’alto ap-poggio del ministro degli esteri, il Menabrea, desidero-so che si facesse un libro del genere in Italia, con esem-pi tratti solo dalla vita di cittadini italiani, e perciò spro-nante i consoli all’estero a raccogliere dei cenni biogra-fici «intorno agli Italiani che onestamente arricchironoin codeste contrade, accennando segnatamente agli osta-coli della loro prima vita, agli sforzi ed ai mezzi da essiadoperati persuperarli»1159.

Sotto sotto, c’era ancora traccia di quella condannadella povertà, come risultato – generalmente – del vizio,e certo di mancanza di iniziativa e di capacità, ch’eraapertamente affiorata nel Guizot e su su, ancora, in pienaRivoluzione1160.

Ma se tali erano i precetti del liberalismo classico,niente divisione della società in strati rigidamente con-trapposti, continuo intrecciarsi fra gli uni e gli altri, co-minciavano lentamente ad emergere le concezioni affat-to nuove che insistevano, invece, sull’esistenza di queglistrati contrapposti, e al concetto di classe o di «stato»,svuotato nel suo contenuto giuridico tipo antico regime,

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davano ora contenuto schiettamente economico. Comin-ciavano ad emergere, e ad imporsi all’attenzione di mol-ti pure decisamente ostili ad accogliere socialismo, mar-xismo e simili; onde, nello stesso pensiero liberale italia-no che continuava a muoversi nella scia del pensiero li-berale occidentale e soprattutto francese, e si muovevacon ritardo, alla società di individui cominciava ad af-fiancarsi, fra ondeggiamenti continui, la società per ceti.Era già l’accettazione di posizioni nuove e di premessediverse della lotta politica, potentemente contribuendoa ciò lo sbocciante nazionalismo, che tendeva anch’essoa classificare una borghesia costituita dagli averi e dallabrama di averi ridotta a viltà d’animo e a mancamenti difronte alla patria. Molti anni più tardi l’inno alla borghe-sia del Diritto, nuovamente un uomo della vecchia Sini-stra, il Crispi anch’egli sempre convinto del dogma del-la proprietà sacra1161, riprendeva l’elogio della borghesia,alla quale gli Italiani dovevano tutto quel che si era fat-to per dare ai non abbienti qualità di cittadini, doveva-no istituzioni politiche, indipendenza della Patria, liber-tà dei cittadini1162: ma rimproverava alla borghesia nonegoismo di classe di fronte alle plebi, bensì egoismo dimaterialisti di fronte agli alti ideali della patria, non con-servatorismo sociale, ma pavidità nazionale. La borghe-sia pensava al ventre e non all’onore, simile in ciò alle ple-bi che erano anch’esse afflitte dalla malattia del ventre enon dalle preoccupazioni dello spirito1163.

Ma, fosse nazionalistico l’impulso o socialistico, nel-l’un caso e nell’altro la società cominciava ad apparirerealmente divisa in blocchi, perdendo la mobilità estre-ma con cui l’aveva caratterizzata il liberalismo classicodel primo Ottocento: le due forze nuove del mondo con-temporaneo, risolutamente dispiegantisi dopo il 1870 ecosì affini nel contrapporre all’individuo una superioreentità complessiva, patria o classe che fosse, comincia-vano a investire da destra e da sinistra il mondo libera-

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le. Così, l’affermare che il proprio regno non era esclu-sivo non impediva che il ceto dirigente sentisse di costi-tuire un regno, e sia pure un regno non di carattere eco-nomico, bensì morale-politico, non di struttura sociale,bensì di funzioni civiche, dovendosi intendere «borghe-sia» non alla francese, ma all’italiana, e cioè come «accol-ta di tutti gli uomini nei quali alla coscienza individualesi unisce una coscienza politica spiccata così forte che lirende atti, non solo a giudicare della cosa pubblica, maa informarla, a reggerla, a inspirarla in modo diretto eperfettamente consciente»1164.

Che tal regno potesse essere anche ingiusto affermava-no taluni degli stessi uomini d’ordine. Correvan paroleche sembravan riprendere l’aspra sentenza del Pisacane:«la parola democrazia, di cui si servivano, suonava peressi il regno della borghesia, la quale benché oppressapoliticamente, regnava per la costituzione sociale», on-de, nonostante le «nobilissime vittime» della classe me-dia per il patrio riscatto, non v’erano stati mutamenti so-stanziali rispetto alle «sterili dottrine» già trionfanti nel-la Rivoluzione francese, che avevano costituita in Franciauna società inegualissima, una nuova tirannide, per cui laclasse media «che aveva compita la rivoluzione, potentedi mente e di mezzi, oppresse il popolo che mancava ditutto»1165. Tornavano a risuonare parole simili, ad operadi chi proclamava che il popolo italiano aveva compiutola rivoluzione politica per un fine economico molto pre-ciso, cioè il miglioramento delle proprie condizioni di vi-ta, mancando il quale era ridicolo parlare di morale, diistruzioni di virtù civiche1166; o di chi dichiarava pubbli-camente che finora della libertà avevano goduto princi-palmente le classi benestanti, le quali in alcune provin-cie se ne erano servite per mantenere e accrescere il lorodominio su plebi ignoranti e misere. La gran maggioran-za delle popolazioni non conosce il governo se non co-me un esattore di uomini e di denaro; in molti luoghi è

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cresciuta la ricchezza delle classi più favorite, e il popoloha guadagnato poco o nulla1167. Incalzava il Sonnino, inpiena Camera: «oggi i possidenti usano citare la condi-zione misera dei contadini per valersene a proprio van-taggio, per farsene scudo di fronte all’irrompere degli in-teressi cittadini, per impietosire sulla propria sorte e sul-la gravezza delle imposte che pesano sulla proprietà fon-diaria. Ma quando si trovano essi posti di fronte a questaclasse dei contadini, sia nell’interno delle amministrazio-ni locali, sia negl’infiniti rapporti privati, allora, o signo-ri, quel sentimento di solidarietà non viene più alla lu-ce, non se ne vede più traccia. Informino, a mezzogiornocome a settentrione, le torme affamate dei contadini cheemigrano, e i centomila pellagrosi delle contrade più fer-tili e meglio coltivate d’Italia, e l’odio dei cafoni controla classe detta dei galantuomini, e gli squallidi abituri ele condizioni fisicamente e moralmente compassionevolidei paisani della bassa valle del Po»1168. Aveva voglia Be-nedetto Cairoli di assumere egli la difesa della borghe-sia, contro il Sonnino, di ricordarne «le manifestazionidi una provvida, spontanea e mai stanca filantropia», diesaltarne l’ultima; generosa prova di abnegazione, e va-le a dire l’estensione del diritto elettorale che era un sa-crifizio simile a quello compiuto dalla nobiltà il 4 agosto17891169. Al di sopra delle polemiche e dell’atteggiamen-to pro e contro, stava il gran fatto ché la società comin-ciava ad apparire divisa in strati sociali diversi, anzi con-trapposti. L’additare ai singoli le porte aperte non ba-stava più: il problema stava diventando un problema diceti. La borghesia italiana aveva avuto il suo 18301170: ecominciavano, dunque, le recriminazioni sul 1830.

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II

Il mondo dei savi

Ora, ad impedire che dalla beneficenza e dalla caritàpubblica – rimedio adatto per i singoli – i pensieri salis-sero verso decise riforme nella stessa organizzazione dellavoro – rimedio necessario quando si trattava di ceti –c’era anzitutto l’attaccamento ai beni ereditari o acquisi-ti, e cioè, della proprietà, radicato nel profondo dell’a-nimo di coloro c e costituivano il ceto dirigente. Eranotradizioni millenarie; e perfino i rivoluzionari di Franciale avevano ribadite nell’art. 17 della Dichiarazione deidiritti dell’89, e ancor più tardi, in pieno giacobinismo,nel ’93, avevano ripetuto che la proprietà è uno dei di-ritti dell’uomo e ciascuno è libero di disporre a suo arbi-trio della propria fortuna. Questo era il limite invalica-bile, che Thiers aveva ancora una volta ribadito; nel set-tembre del ’48, in un’opera ben accolta dai maggioren-ti italiani1171; e anche i meglio disposti a muovere incon-tro ai nullatenenti, insorgevano non appena si profilasseuna anche minima scalfittura del loro diritto di proprie-tari. Il Ricasoli, così sinceramente sollecito del benesse-re dei suoi contadini, preoccupato e tormentato delle lo-ro sorti, spesso trascinato da movimenti di umana com-passione e comprensione che vincevano anche i dettamidell’interesse personale1172, il Ricasoli, sol che s’accennas-se ad anche timidi tentativi di innovare in materia di con-suetudine e si delineasse una volontà dei contadini diver-sa da quella del padrone, il Ricasoli scattava e impartivaal fattore di Brolio uno di quei suoi bruschi ordini per ri-mettere a sesto le cose, subito, e far chiaro a tutti che ilpadrone era lui, la roba era sua, lui solo poteva disporne,e il primo dei contadini che s fosse permesso di parlarmale di lui sarebbe stato licenziato1173.

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Quando poi minacciassero eventi più foschi e in perio-di torbidi e inquieti, nel febbraio del 1849, corresser vocisu perquisizioni a Brolio, il barone di ferro non stava allemezze misure: se si presenta l’autorità pubblica, con tan-to di mandato in regola, s’aprano le porte; ma contro chisi presenti senza veste legale, si usi la forza. Armi pronte;e se vengono i «briganti», si spari senza scrupoli. Brolioè proprietà privata; nessuno può fare atto contro di essa;e quando l’autorità preposta alla tutela del vivere socialenon sappia adempiere al suo dovere «la nostra persona ela nostra roba bisogna saperla difendere da sé»1174.

Migliorare le condizioni dei ceti men favoriti dallasorte; migliorarli materialmente e moralmente: quest’erail primo dovere dei possidenti, e lo ripetevano da tempo,su tutti i toni, Lambruschini, Ricasoli, Minghetti. Manon lasciarsi tor di mano le redini, non permettere che ipredicatori d’iniquità, la mala genìa «venuta dall’infernoa sciupare tutto quello che tocca o di che parla»1175,travolgessero le masse con nefanda opera di sobillazione,precipitando a rovina il vivere civile e apportando nuovabarbarie.

Perché questo avrebbe significato il prevalere dei ce-ti inferiori, contadini e soprattutto operai. Rispettabi-li, gli operai, in quanto creature umane; benemeriti peril loro lavoro, da cui la vita veniva resa più facile e piùcomoda1176; ma come insieme, come ceto, non ascoltava-no in fatto di politica «che le passioni e gl’istinti, quan-do invece ci vorrebbe la calma, la tradizione ed ancheun po’ il sapere»1177. L’educazione degli operai non sem-brava ancora così progredita «da portare una fusione diclassi»1178; il loro senso morale non abbastanza sicuro perdeficienza di educazione1179.

L’impreparazione delle masse, la loro incapacità a col-laborare su piano politico con i ceti alti: è un punto fer-mo, su cui son tutti d’accordo1180 ora come quando Cesa-re Balbo aveva affermato che conta solo il ceto delle per-

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sone educate1181. Su su, si risaliva fino al disdegno degliilluministi per la populace. IL me paraît essentiel qu’ il yait des gueux ignorants, aveva scritto il Voltaire1182: ora,più d’uno si augurava, talora anche apertamente, che igueux rimanessero ignoranti1183; ma anche quelli che au-spicavano e volevano l’elevazione delle plebi, continua-vano a ritenere che per il momento almeno lo stacco fos-se troppo netto, di preparazione morale e culturale, per-ché gli uni si fondessero con gli altri.

Gli operai lo sentivano: noi non siamo considerati,nemmeno dopo la Rivoluzione francese, pur essendo labase di ogni ordinamento sociale; «lavoriamo sempree siamo perturbati ancor noi nell’animo nostro», oggicome gli operai del mondo antico e dell’età feudale;dobbiamo acquistare dignità nella coscienza di esserenecessari1184.

L’istruzione, l’istruzione obbligatoria e gratuita, recla-mavano le società operaie. Non basta nemmeno la sem-plice istruzione, rispondevano parecchi dei maggioren-ti: occorre l’educazione morale. Era questo il gran te-ma prediletto su cui avevano insistito da decenni, con di-verso accento e diverso fine, Mazzini e d’Azeglio, Lam-bruschini e Ricasoli: ma gli uni, con Mazzini, riteneva-no l’educazione legata a coscienza ed eventi rivoluziona-ri, egli altri la volevano come epilogo di un lento, gradua-le processo evolutivo, senza scosse né urti. S’acconten-tassero, per ora, i ceti inferiori delle ponderate elargizio-ni dei savi, dei beneveggenti; s’affidassero alla loro gui-da, prudente e saggia, e sotto la loro guida procedesse-ro, passo passo, come i fanciulli che la mano del peda-gogo conduce pian piano dall’alfabeto al racconto conti-nuato e dai numeri alle operazioni aritmetiche. I popo-li sono come i bambini che piangono e strepitano quan-do la mamma gli lava la faccia, e poi tutti belli le sorri-dono, diceva quel vecchio cospiratore d’un Settembrini(Epist., pp. 283, 285), che sentiva nell’aria certo odore

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non piacevole. Né sarebbe valso l’obbiettare che anchein questo campo era vero quel che già perfino un Bal-bo aveva osservato per l’educazione politica1185: non po-tersi cioè raffrontare l’educazione pubblica con la priva-ta, né esser completamente adattabile, alla prima, il sag-gio criterio dell’a poco a poco. E come non era riuscitoil dar la libertà a centellini, ma s’era poi dovuta dare tut-ta ed intera, sotto la pressione della piazza, così anche diquest’altra libertà era difficile pensare che potesse essereacquistata passo passo buoni buoni, e soprattutto potes-se subordinarsi ad una compiuta educazione del popolo,secondo intendevano i maggiorenti, la quale, quando s’a-vesse a ritener perfezionata nel senso loro, sarebbe statomistero di Dio il decidere.

Certo è che il motivo del popolo immaturo risuonòcostantemente: le plebi sono la futura speranza, la futurarisorsa della patria, ma bisogna lasciare che questi germicrescavo naturalmente, non spossarli e rovinarli con l’af-fidare loro uffici sociali di cui non sono ancora capaci1186.Trapassando fatalmente dal campo sociale al campo poli-tico, esso ispirò l’avversione non diremo al suffragio uni-versale, battezzato a gran voce dai conservatori italiani,come dai loro maestri francesi, gran delirio1187 del secolo,ma anche solo ad un allargamento del suffragio che an-dasse oltre certi limiti, molto ristretti. Si voleva proprioaffidare alla cieca le sorti del paese alla imperfettissimaeducazione degli operai, non preparati alla vita pubbli-ca, o mal preparati dai giornali più spregevoli, facile pre-da degli armeggioni rossi, pronti a trasformarsi «in com-pagnie e in battaglioni serrati di votanti, i quali saran-no a disposizione di chi li vorrà e saprà condurre» ?1188

Gli operai si dimostravano ogni giorno più riottosi, in-canagliti, di turpe linguaggio e attitudine, tanto che cittàuna volta famose per la gentilezza dei costumi erano oraavvilite dal linguaggio osceno e provocante di una ple-be sfrenata1189. E abbassare i limiti di età, dai venticin-

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que ai ventun anni, significava semplicemente accrescerela clientela dei partiti sovversivi, dei rossi1190.

Bella parola, la democrazia, ma spesso significava sem-plicemente «lo spostamento di quella insolenza anticadei baroni feudali; rivoltata dal basso all’alto», onde, li-beratasi dall’insolenza dell’aristocrazia, la società tollera-va oggi l’insolenza della piazza1191.

Attenti, dunque, a non lasciare in balia della imperi-ta moltitudine le redini del governo: perché «l’eccitazio-ne politica nelle classi inferiori tumultuariamente chia-mate al reggimento della cosa pubblica» tendeva sem-pre a divenir «egoistica», assumendo un carattere di lottasociale1192 e facendo così divampare, anche in Italia, quelconflitto di classi, a base economica, tuttora inesistente.Accordare il suffragio universale significava scatenare inItalia la questione sociale di cui per i il momento, grazieal cielo, in Italia non v’erano tracce al dir del sempre lo-quace Diomede Pantaleoni. «La proprietà ava dietro alvoto»: si facciano accedere alle urne le masse, e tosto otardi le proprietà passeranno in mano ai nullatenenti1193.

In questa affermazione, o in quella del Lampertico re-latore al Senato, che la causa della proprietà e dell’ordinesociale voleva dire infine la causa stessa della libertà1194,o, alla Camera, in quella del Codronchi che non bisogna-va travolgere gli interessi della proprietà così negletti an-zi dimenticati in Italia1195, veniva scopertamente fuori iltimore del proprietario. In altri avversari dell’estensionedel suffragio, siffatto timore era certo meno immediato emeno premente, e lasciava luogo alle preoccupazioni perla solidità degli istituti politici e la stessa libertà e uni-tà della patria che apparivano minacciate da un eventua-le predominio delle masse. Né questi altri timori eranosemplice schermo alla paura del ventre; né le preoccupa-zioni per gli ideali erano pura lustra messa innaffi per ri-coprire gli interessi minacciati. Ché se taluno temeva lemasse operaie, docile strumento dei faziosi rossi e quindi

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minaccianti l’ordine sociale e la proprietà, altri paventavainvece le masse campagnole, docile strumento dei fazio-si neri e quindi non nemiche della proprietà, bensì dellapatria libera e una. Ancor una volta, la classe dirigenteitaliana si trovava a dover fronteggiare due estremismi, didestra e di sinistra, l’internazionale rossa e l’internaziona-le nera, Carlo Cafiero e don Margotti; e chi più temettel’una e chi più l’altra, e i conservativi della Destra calca-rono a preferenza sul pericolo rosso auspicando, anzi, lapartecipazione alle urne dei cattolici, i quali «per condi-zione sociale, per interessi e per abitudini sono gli alleatinaturali di un governo regolare»1196; e i men conservati-vi della Destra e, naturalmente, tutti gli uomini della Si-nistra insistettero sul pericolo nero. Donde, l’esaltazioneda una parte dei contadina, apparsi già al Lambruschi-ni molto necessari per reprimere la baldanza dei «matti»della città1197 nuovamente invocati a sostegno dell’ordinecostituito, a baluardo contro i sovversivi1198; e l’additarepericoli delle città, vivaci e pronte al progresso, ma an-che più facile preda delle novità pur se «non buone»1199

e l’insistere perché Il diritto elettorale fosse esteso a mol-ti piccoli fittavoli e simili, ad uomini cioè «i quali hannocaro l’ordine sociale, quanto il risparmio delle loro lun-ghe fatiche, il quale non vogliono che il soffio di un’o-ra disperda»1200. Oppure, ancora, il sostenere che il pro-getto di legge era ingiusto, perché assicurava la prevalen-za delle classi urbane, turbolente, contro le popolazio-ni rurali, dividendo il paese anziché unirlo1201. E dall’al-tra parte, invece, l’insistere sui pericoli di una prevalen-za dei rurali, ignoranti, superstiziosi, strumento dei cle-ricali, dei sacerdoti maledicenti la patria, di chi voleva larestaurazione dell’antico ordine di cose sulle rovine del-l’unità italiana1202: e se gli uni citavano Taine e i suoi durigiudizi sui rurali francesi, gli altri si appellavano a Vache-rot e al suo tutt’opposto giudizio, esaltando nei contadi-

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ni l’elemento di stabilità e di ordine della Francia nellesue tormentose vicende1203.

Più spesso, si temevano gli uni e gli altri, pericolo gra-ve per la patria1204, tanto più grave in quanto gli uni e glialtri avrebbero anche potuto darsi la mano, i rossi ser-vendo praticamente ai più sottili calcoli dei neri, il socia-lismo diventando strumento del Papato1205. E anche sen-za questo, che brutto giorno quello in cui don Margottisguinzagliasse nei comuni rurali di tutt’Italia i suoi amicia prepararvi le elezioni nere, e oratori da trivio e giorna-listi da ricatto lavorassero per elezioni rosse; che spetta-colo «l’apertura del Parlamento in Montecitorio con 300deputati abbonati all’Unità Cattolica e 200 redattori diquei certi sudici fogli che non leggo e non nomino»!1206

Così, nella paura delle masse confluivano, in un con-nubio non sempre non facilmente distinguibile nei suoivari elementi, amor della libertà e senso della proprietà,amor della patria e attaccamento alle istituzioni, e anzi-tutto alla monarchia minacciata perché il suffragio uni-versale conduceva diritto e filato alla repubblica1207, orapredominando l’istinto di conservazione propriamentesociale ora invece predominando la preoccupazione pu-ramente politica; e solo un considerevole semplicismostoriografico potrebbe identificare senz’altro l’uno e l’al-tro timore, anzi far dipendere il secondo dal primo, per-ché nella paura dei neri assai poco interferiva il motivodel ventre e tutto diceva, invece, il motivo ideale. Ora,il timore dei neri fu ancor prevalente su quello dei ros-si, per molti anni dopo il ’701208: bisognava far testa con-tro il nemico comune, che era il Papato, ammoniva Cri-spi nel ’721209, e due anni appresso Quintino Sella incal-zava, che l’internazionale nera, più benigna all’apparen-za, in sostanza minacciava assai di più come quella che,pur di conseguire il suo intento parricida a rovina dellaunità e libertà patria, non esitava ad affilare a danno no-stro armi straniere, preparando intanto nel paese quanto

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avrebbe potuto contribuire alla loro vittoria1210. Anzichédeplorare l’assenteismo elettorale dei cattolici, il Viscon-ti Venosta si rallegrava, nel 1871, che Pio IX disdegnas-se la democrazia: altrimenti, il Quirinale sarebbe statocostretto a fare i conti col Vaticano1211.

Ed era logico che i neri preoccupassero assai di più,solo che si pensasse alle forze internazionali della rea-zione, potente in Francia ed in Austria e, fra il ’73 e il’74, minacciante di sopravanzare in Spagna, con la vio-lenta ripresa carlista. Privi affatto di appoggi internazio-nali pubblici, i rossi erano allora, e dovunque, minoran-ze di eretici; ma sempre potenti i neri e in grado di in-fluire, in più d’un paese, sulla politica ufficiale riguardol’Italia. Vi si aggiunga la convinzione diffusa che in Ita-lia, mancando i grandi agglomerati operai, mancasse lamateria incendiaria per agitazioni rosse: convinzione al-la quale ris i dava, secondo il suo costume, perentorietàdi «giammai»1212, continuando ancora per parecchi annia rifiutar fede allo spettro del socialismo e solo da ultimoscoprendo che la materia combustibile c’era anche in Ita-lia e il fuoco v’era stato appiccato da un pezzo. Le molti-tudini in Italia, da non confondersi con i monelli che fan-no le dimostrazioni in piazza, sono eccellenti, diceva inSenato Jacini fautore addirittura del suffragio universaleindiretto1213, e Zanardelli, risolutamente ottimista, con-vinto che fra noi non esistessero quei profondi antago-nismi, quegli odi, quei rancori di classe, che travagliava-no le altre maggiori nazioni d’Europa, ad ascoltare i fo-schi presagi di alcuni senatori si chiedeva «se dalle tombescoperchiate fossero sorti spiriti da secoli dormienti»1214.Del quale ottimismo dei progressisti di allora era testimo-nianza aperta lo scegliere l’istruzione elementare comerequisito più acconcio per l’allargamento del suffragio:fede nella Scienza, popolarmente concretata nella scuo-la, e fede in un pacifico e progressivo sviluppo armonicodella società, senza scosse né tumulti, fecero tutt’uno1215.

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Ora, la riscossa dei clericali voleva dire non attentatoalla proprietà, almeno in linea di principio1216, bensì uni-camente attentato alla patria. E fu dunque il sentimentodella patria ad insorgere, anche quando l’istinto del pro-prietario potesse riposar tranquillo; e nelle masse rura-li, in quel caso, si temettero i possibili sanfedisti, non ipetrolieri della Comune.

Certo, anche i petrolieri minacciavano, oltre la pro-prietà, la patria: il nome solo della Internazionale signi-ficava, allora, la negazione degli ideali nel cui nome s’eracombattutto e vinto. E in questo propriamente era unodei più intimi motivi di travaglio della vita italiana. Lapatria resa una e indipendente, i patrioti l’avevano offer-ta alle masse, certi di averne con ciò appagato gli ideali:ma il grande fatto politico era, per avventura, dalle ple-bi scarsamente sentito e, spesso, fin vilipeso come lustradi cui i padroni si avvalessero per tener quieto il greggeribelle1217.

I vantaggi dell’unità apparivano riservati al ceto deipossidenti, mentre l’asino, cioè il popolo, doveva conti-nuare a portare il basto come prima, e forse peggio diprima1218; e qualcuno dei contadini che aveva gridato vi-va la libertà, sperando l’avvento di un’epoca in cui anchei poveri potessero star meglio e lavorar meno, poi avevacrollato il capo: «libertà, eguaglianza, ma chi non ne hagratti la pancia»1219. La patria, la libertà, gran belle co-se, ma quando s’aveva fame non bastava: e un anonimodi Lodi diceva al Carducci, nel 1881, «basta col parlaredella libertà! occorre parlare della miseria»1220.

Qui c’era, nuovamente, un vuoto tra ceti dirigenti emasse. Già una volta Giuseppe Mazzini aveva bene av-vertito il distacco verificatosi fra ideologi e dottrinari dauna parte e popolo dall’altra, in Italia come in Francia; eperciò aveva posto a base del suo apostolato l’educazio-ne del popolo e aveva, sia pur assai vagamente, intravistoil problema sociale dietro la questione politica1221. Dopo

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di lui, Andrea Luigi Mazzini, sulle orme del Saint-Simone delle correnti socialistiche francesi e belghe, aveva assaipiù nettamente insistito sulla necessità che la rivoluzioneitaliana fosse largamente sociale1222, e il Pisacane avevavoluto che la rivoluzione fosse fatta non «per cambiare iministri o riunire una Camera ... ma per far sparire dallasocietà i ricchi oziosi ed i poveri che mancano del pane,e fare che ogni cittadino possa godere il frutto dei proprilavori senza assoggettarsi ad altri, e che nessuno più vivaoziando nei ricchi palazzi col sangue della povera genteche lavora»1223.

Ma il Risorgimento s’era effettuato per altre vie e conaltri risultati secondo era nelle possibilità della storiad’allora che non poteva essere la storia del secolo ven-tesimo; e nuovamente fra ceto dirigente e masse c’era unvuoto che tendeva ad aggravarsi sempre più. Turbolen-ze e disordini, di cui cominciavano a risuonar le crona-che, non facevano che accrescere le diffidenze e i timoridel ceto dirigente, spingendolo a considerare minaccio-si per la libertà stessa e per la patria i sommovimenti so-ciali. Patria e libertà rischiavano di porsi su piano antite-tico a quello delle aspirazioni sociali: il sopravvento del-la plebe avrebbe condotto all’egualitarismo e al dispoti-smo; rivoluzione sociale, livellamento, e come risultatoultimo una dittatura confortata da facile plebiscito, conla rinunzia delle plebi alla libertà politica pur di viver me-glio in servitù. Predominio del popolaccio, anarchia e inultimo la dittatura militare, il dispotismo: era l’aborritaevoluzione delle cose già condannata nella Rivoluzionefrancese dalla storiografia liberale del primo Ottocentoche aveva contrapposto l’89 e il ’93 come la luce e le te-nebre. L’antisocialismo sgorgava di necessità da tali pre-messe del pensiero liberale ottocentesco; e anche nei no-stri l’atteggiamento teorico trovava conferma di esempi,non soltanto nell’esperienza francese delle due dittatu-re napoleoniche, ma anche nel «socialismo» del governo

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p fido che negli ultimi anni aveva cercato di far dimen-ticare i «bisogni governativi», diceva Pio IX, ossia poli-tici, soddisfacendo quanto più possibile i bisogni loca-li, con lavori pubblici e larghezze a favore dei ceti menoabbienti1224.

Libertà politica minacciata, dunque; e la patria, la pa-tria aggredita dall’internazionalismo dei movimenti so-ciali, dall’atteggiamento polemico che i novatori assume-vano verso quella che era la parola sacra per il ceto di-rigente. Il socialismo di ora non era più il socialismopatriottico, nazionale, di un Pisacane1225; era internazio-nalismo, appello alle classi contro le nazioni. Patriotti-smo contro internazionalismo: questo distaccava lo stes-so Mazzini dal movimento nascente; questo era destina-to a scavare per decenni, un fossato profondo tra i partitisocialisti e i patrioti, nella furia polemica accentuandosiman mano da una parte le note prettamente nazionalisti-che, e dall’altra gli inutili anzi dannosi atteggiamenti cheferivano un sentimento vivo e profondo. Sul quale dolo-roso dissidio, grave di conseguenze, s’imperniò gran par-te della storia italiana dalla fine del secolo XIX al 1922.

Qualcos’altro ancora, tuttavia, nutriva la diffidenzaverso le masse. Tornava in ballo l’educazione, l’istruzio-ne: ora però non come incitamento ad innalzare gli al-tri, bensì come distacco, disprezzo verso gli altri. Veni-va fuori il disdegno del savio verso la imperita moltitu-dine, verso la massa amorfa tutta istinto e niente ragio-ne. «Noi dobbiamo restar noi, e noi puri, noi savi, noiantiveggenti» aveva gridato il Lainbruschini nel ’491226; enel grido era bene racchiuso tutto quel che ergeva unainvisibile ma formidabile barriera fra due mondi, e nonpoteva nemmeno esser racchiuso in una formula ben de-finita ed era qualcosa di più che non il puro senso delproprietario o il senso del patriota. I savi e il volgo o,guicciardinianamente, i pazzi e i savi1227: quel volgo cheanche i meno avversi avevan proclamato si dovesse sem-

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pre prendere «con quello che pare, e con lo evento del-la cosa»1228, e che i più avversi avevano battezzato «unoanimale pazzo, pieno di mille errori, di mille confusio-ne sanza gusto, sanza deletto, sanza stabilità»1229; la be-lua illa innumerorum capitum1230, la bestia senza pensierida tener a freno1231, costantemente sospettata dalla tradi-zione culturale europea e anzi tutto proprio dalla tradi-zione del pensiero politico, la vile populace alla quale, inpieno Settecento, anche il Voltaire aveva guardato condisdegno e con disdegno guardavano ancora i savi del-l’Ottocento, tanto più allarmati per i recenti, improvvisi,cruenti scatti d’ira di quelle plebi che «sentono la malat-tia del ventre, non quella dello spirito»1232.

Prima ancora che contro socialismo e comunismo ladiffidenza e l’ostilità si volgevano contro la democrazia.La democrazia: vale a dire, la legge del numero, la quan-tità contro la qualità, il peso bruto della massa control’intelligenza e la dottrina, la passione, il fanatismo e loistinto contro la raragione. Di queste paure s’alimenta-va l’atteggiamento antidemocratico di un Flaubert, di unRenan, e, ugualmente, degli scrittori e uomini di par-te moderata in Italia, a ciascuno de’ quali, vincendo lademocrazia, l’avvenire si presentava sotto i foschi coloridel grande Stato di masse militarista, imprenditore, tuttoschiacciante con la sua mole, e di masse inquadrate, unamisura precisa e controllata di Misère mit Avancementund in Uniform di rulli di tamburo regolanti militaresca-mente ogni movimento della collettività1233. Filisteismo,ignoranza, indifferenza ai problemi morali e spirituali e,sola superstite, la preoccupazione del proprio benesseremateriale: si camminava «nell’ora del tramonto»1234.

Tendenza agli interessi materiali del secolo presente:era un atto d’accusa svolto e ripreso, da decenni, di là edi qua delle Alpi, proprio ad opera di coloro i quali, po-liticamente, volevano il moderatismo. Gli animi sono oc-cupati, soverchiamente, dal benessere economico; l’egoi-

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smo e l’avidità, l’amor dei piaceri e il lusso dominano ilmondo contemporaneo, onde, perfino nei consigli del-lo Stato gli interessi del commercio e dell’industria ven-gono ascoltati «a preferenza della dignità e dell’onore»:l’aveva scritto Minghetti giovane1235, che addebitava allaMonarchia di Luglio il gran torto di aver materializzata laFrancia e che allo stesso Pio IX, convinto di dover favo-rire «gli interessi materiali» per guarire i mali dello Sta-to pontificio, opponeva la necessità di non farne scapita-re le «idee più elevate»1236. E Minghetti era uno dei tan-ti preoccupati che ben mangiare, ben bere e ben vestir-si stesse diventando lo scopo supremo dell’umanità1237;perfino al Sella, così alieno dalle romanticherie, l’ecces-sivo culto degli interessi materiali delle nuove generazio-ni faceva talvolta rimpiangere le quarantottate1238. Ave-van voglia di protestare Luigi Blanch, che la sentenza eratroppo severa1239, o Francesco de Sanctis, che nel ’69 be-nediceva la nuova generazione se impiegasse nell’indu-stria, nei commerci, negli studi positivi, l’energia dai vec-chi impiegata nelle cospirazioni e nella speculazione1240:il motto aveva fortuna, diveniva quasi formula stereoti-pa quando non riacquistasse improvviso calore e impetonello sdegno di un Flaubert. L’età del commercio, ave-va vaticinato ottimisticamente Benjamin Constant; ma al-tri ritenne che il commercio significasse, con la ricchez-za, avvilimento del sentire umano, bruttura di affetti e dipensieri e fu scettico di fronte

le magnifiche sorti e progressive

dell’umana gente e pensò con il poeta della Palinodiache la virile età

... volta ai severi

... economici studi, e intenta il ciglionelle pubbliche cose ...

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rifuggisse ormai dall’esplorare la propria anima e cer-casse fuori di sé quel che in sé non riusciva più a trovare.

Sorse così sin dai tempi della Monarchia di Luglio edivenne oggetto di perenni discussioni il quesito se ilprogresso tecnico non sopravanzasse quello morale, congrossi pericoli per il futuro; e si disputò come far proce-dere di paro l’uno e l’altro e, in particolare, come ricon-durre l’economia pubblica ad una stretta coordinazionee anzi subordinazione ai princìpi morali1241. Tra le qua-li discussioni e polemiche l’anima candida di Luigi Luz-zatti cercò di confutare le asserzioni del Buckle, allora ingran voga e con ben altra vigoria di pensiero già combat-tute prima dal Droysen1242: di provare, cioè, che la mora-le e la virtù erano le basi necessarie di ogni progresso tan-to che, ove mancassero, lo stesso avanzare nelle scienzee nella tecnica poteva condurre a risultati infelici1243. E ilMinghetti cercava l’accordo tra progresso tecnico e pro-gresso morale e disegnava i suoi connubi tra economiapubblica, diritto e morale, tentando di volgere a buon fi-ne anche la cupidità, vizio dei tempi, e sottolineando lanecessità che il principio morale informasse l’industria,perché durasse vigorosa1244.

Tra gli uni e gli altri dibattiti affiorava largamente laquestione sociale; e ci si chiedeva se l’uomo fosse og-gi più contento di prima e, negativa riuscendo la rispo-sta, come fare ad alleviare i bisogni delle classi povere,a tutelare i diritti degli infimi; e si affermava con il Min-ghetti la necessità di una legislazione sociale, che fosseun quid medium fra la teoria della libertà bastante a séstessa, ormai non più sostenibile integralmente, e l’oppo-sta teoria del diretto e continuo intervento statale. Dun-que, ancora, una via di compromesso, un giusto mez-zo economico-sociale dopo il giusto mezzo politico: nonsenza che trapelasse più di una volta qualche residuo del-l’ottimismo pre-quarantottesco, pre-marxista, sulla virtùdel buon esempio, giacché «quando il popolo vede un

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uomo rispettabile, onorato nella sua famiglia e nella so-cietà, che si occupa di lui, che studia i suoi bisogni, ches’ispira all’amore della sua classe, credo che il popolo hal’intuito assai fino, e, se incontra quest’uomo benefico, èa lui che si rivolge, e respinge gli agitatori nelle tenebre,donde mai non dovrebbero uscire»1245.

Dunque, ancor sempre la virtù dell’esempio alla Lam-bruschini e alla Ricasoli: il signore che doveva ripigliareil suo antico potere nello Stato, ma in modo diverso, ot-tenendo col sapere e con l’autorità d’una vita incorrot-ta quel che prima otteneva col denaro e con la cliente-la, guidando il popolo con l’esempio1246; l’uomo benefi-co, che risolveva con la sua virtù morale i grossi proble-mi dei tempi. Agli operai, scrittori di minor nomea ad-ditavano il self-made man; al ceto dirigente, e soprattuttoai signori di campagna Lambruschini Ricasoli Minghet-ti avevano additato e continuavano ad additare l’esem-pio classico del signore padre dei suoi sottoposti. Cac-ciato lungi dall’agone politico, almeno temporaneamen-te e nelle sue forme estreme, il mito dell’eroe riapparivanei problemi sociali, non diversamente da come l’asso-lutismo illuminato, ripudiato in politica e sostituito dal-la volontà della nazione, manteneva intatte le sue posi-zioni nei rapporti fra le classi, e cioè tra i proprietari e idipendenti1247. O non scopriva forse anche il Bonghi, frale cause della Comune, lo scemare del valore intellettua-le e morale delle classi alte, quindi il decrescere del loroconsorzio con le plebi cittadine e rurali e della loro in-fluenza sana e gagliarda sopra di esse: che era proprio loscemare della virtù dell’esempio?1248

Ora, in tutta quest’ansia per l’affermato tramonto delsenso morale e trionfo dell’egoismo, declino dello spiri-to e avvento della materia, fine dell’ideale e vittoria deltornaconto, il dibattito propriamente politico e sociale sislargava d’assai, esprimendo il tormento di una parte co-spicua del ceto dirigente italiano non pure di fronte ad

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un determinato problema, bensì alla civiltà moderna ingenere. Perché in quel volere l’incremento della ricchez-za, ma ad un tempo paventarne gli effetti e ricorrere aivecchi motivi antilusso e anticorruzione; nell’esaltare l’e-conomia pubblica, come allora dicevasi, ma temendonead un tempo gli sviluppi ove non fossero coronali da unnon minore progresso morale e culturale, v’era bene nelfondo una sorta di diffidenza e di paura di fronte allosviluppo così rapido e formidabile, della società moder-na. Politicamente, era il rinato spirito di conquista chei moderati, una voce, deploravano nella sua incarnazio-ne presente, e cioè nel bismarckismo; economicamente,la concorrenza sfrenata la produzione la circolazione diricchezza lo scambio a ritmo vertiginoso e sconvolgente.Nell’un caso e nell’altro, unico ideale la potenza, la forza,il peso del numero: press’a poco come in politica inter-na miravano a fare i democratici, imponendo anch’essila massa degli elettori, la quantità sulla qualità. Turbavae lasciava perplessi il prevaler del problema economico,il suo incidere profondamente su quello politico. Tur-bava il sopravanzare deciso nell’Europa dell’industria, ilsuo campeggiare ricacciando in secondo piano altre, piùconsuete e amate, forme di produzione; e lo si confessa-va di rado, esplicitamente, un cotal turbamento, ma losi effondeva negli inni all’agricoltura, la vecchia nutricedei popoli a cui una millenaria tradizione aveva sempreassegnato il primo posto e conferito dignità e riputazio-ne mai conseguite da industria e commercio, nonostantei Comuni medievali e i traffici degli Italiani nel periodopiù splendido della loro storia.

Qualcosa di nuovo si insinuava, senza dubbio, nellelodi della vita rustica, nell’incitamento a dar opera e sen-no ai lavori agricoli. Era lo sforzo di migliorare tecnica-mente la produzione, di modernizzare metodi e sistemi,di porsi a paro anche qui di Francia e Inghilterra; dondeil risveglio degli studi di agraria e il fervore di discussioni

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in giornali associazioni e congressi, che era tra i maggio-ri segni del rifiorir italiano a nuova vita1249. Donde l’av-vicinarsi, su questo piano, di uomini così diversi comeun Cattaneo un Cavour un Ridolfi un Capponi un Lam-bruschini un Ricasoli: e l’uno si preoccupava di cercar imerinos a Villach o di allevar maiali di razza inglese o diimpiantar trebbiatoi da riso1250, e l’altro – mortificato difarlo tardi – andava in giro per le vigne e le cantine del-la Borgogna e del Médoc, assaggiando i vini e traendoconfronti e ammaestramenti per il suo Chianti1251. Ma laconcordia nella parte tecnica nascondeva sostanziali di-vergenze di vedute generali.

Nessuna antinomia fra l’agricoltura e l’industria ilcommercio la finanza moderni, per un Cavour e un Cat-taneo, anzi perfetta sincronicità di sforzi; e l’agricoltu-ra vista essenzialmente come fatto economico, con occhida economista, da produttore, da tecnico. Nessun sen-so bucolico; non essenziale nemmeno il finalismo di ca-rattere educativo-morale1252, il vagheggiamento dell’agri-coltura come dell’unica, grande educatrice dei popoli esoprattutto nessuna esaltazione di essa come dell’unicabase per la struttura politica del paese.

Così accadeva, per l’appunto, con un Cavour, inizial-mente agricoltore par raison e poi, senza dubbio, sedot-to anche lui dal fascino della terra, trascinato e invilup-pato nei molteplici continui pensieri del lavoro agrico-lo, e quindi agricoltore pargoût1253, ma non mai sino alpunto da non tener l’occhio ben aperto e l’animo pron-to alle imprese industriali e ai problemi dell’alta finanza:Cavour, spinto dalla necessità a crearsi una posizione, adiventar ricco, a rendersi indipendente sottraendosi al-la spiacevole condizione del cadetto1254 costretto a sfoga-re la sua volontà «ardente e tormentata»1255 in altro cam-po da quello primamente vagheggiato, in un paese dovel’industria era vista con sospetto dal governo, quale ausi-liaria del liberalismo, e dove a lui Cavour, sotto Carlo Al-

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berto, non restava che piantar cavoli e coltivar vigne1256;Cavour, per il quale l’agricoltura era dunque il momen-taneo surrogato della politica e quasi il rifugio dei vin-ti della politica. Privo della sensibilità idillica per il divi-no silenzio verde della campagna1257, Cavour vedeva neicampi una fonte di produzione, nell’agricoltura una in-dustria e perfino una fonte di speculazione finanziaria,col gioco sulla differenza di prezzi ne’ vari mercati d’Eu-ropa. Il gentiluomo di campagna antico regime badava,al massimo, a sfruttar bene i suoi fondi: ma il suo oriz-zonte economico era tutto lì, in quei fondi. Cavour ve-deva i suoi campi, ma, assai, oltre, il mercato di Odessae quello francese; e seguiva il variar de’ prezzi, dal Bal-tico al Mar Nero, innestandovi su acquisti o vendite aseconda del momento1258.

Perciò, niente più pregiudizi, niente più «pretensio-ni primogeniali dell’agricoltura» connesse con il vecchioordine politico ormai crollante e, più generalmente, conuna tradizione millenaria che nei paterna rura aveva esal-tata la base del viver civile; niente superiorità dell’agri-coltura, ciò che aveva costituito un «funesto errore amolti fatale» e, nel passato, aveva indotto commerciantie industriali, appena saliti in ricchezza, ad investire i ca-pitali nella terra «come se una tale qualità conferisse lo-ro maggior dignità, gli elevasse nell’ordine sociale», an-ziché impiegarli ad accrescere gli opifici e ad estenderei traffici. Nulla più di tutto questo, ma riconoscimentoche «tutte le arti industriali, figlie del lavoro, hanno pa-ri titoli ai riguardi del governo, alle simpatie del paese»,tutte conferendo ugualmente al pubblico bene, tutte sudi uno stesso piano di dignità, continuava il Cavour checon tali affermazioni buttava per aria, prima ancora chel’assetto politico italiano, la vecchia mentalità di stam-po nobiliare-rurale1259. Il primo effetto della nuova vitapubblica, della libertà, doveva essere un’industria poten-te, giacché l’industria per svilupparsi «abbisogna a segno

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tale di libertà, che non dubitiamo affermare, essere i suoiprogressi più universali e più rapidi in uno Stato inquie-to sì, ma dotato di soda libertà, che in uno tranquillo, mavivente sotto il peso di un sistema di compressione e diregresso»1260.

Ma Cavour era un rivoluzionario, ne’ fatti se non a pa-role. E invece per molti altri dei maggiorenti italiani, laqualità del proprietario terriero era veramente quella checonferiva maggior dignità nell’ordine sociale, e l’agricol-tura era e doveva rimanere la primogenita. Così parlavala tradizione secolare che risaliva su su fino all’antica Ro-ma agraria, e si era rinverdita tra Cinquecento e Seicento,soprattutto, quando la corsa alla proprietà terriera e al ti-tolo nobiliare che le era connesso aveva distolto capitalie animi dall’attività industriale-commerciale, in Italia co-me in Francia e altrove, salvo che in Italia non s’era tro-vato il correttivo dei gruppi di eretici per causa di religio-ne, i quali assumessero su di sé industria e commercio1261.Non a torto il Salvagnoli deplorava nel 1834 che in To-scana la proprietà stabile fosse «sì pazzamente stimatache per antonomasia proprietario è il possessore di benifondi», e scherniva le «belle tradizioni castigliane» che iToscani dell’Ottocento continuavano1262. In Lombardia,nel ’37 il Cattaneo constatava che «moltissimi dei com-mercianti stessi non hanno quasi stima del commercian-te se non in quanto non sia commerciante», e cioè posse-desse terre o case, radicatissimo pregiudizio, per cui an-ticipi di credito venivano ottenuti soltanto da colui cheaveva qualcosa al sole1263; e ancora nel 1855 uno dei pro-pugnatori del rinnovamento economico, il Frattini, do-veva constatare che lo spirito del proprietario terriero,con la sua prudenza e cautela, dominava tuttavia, rinve-nendone anch’egli, come il Salvagnoli, una delle cause in«quella specie di obbrobrio in cui l’ignoranza castiglianatenne per alcuni secoli quelli che si dedicavano a specu-lazioni commerciali»1264. Del che, in effetti, eran prova,

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in Piemonte, le diffidenze e le cattive voci contro il Ca-vour, uomo d’affari e giocatore in borsa, e cioè venutomeno alla tradizione del suo ceto.

E già per un Ricasoli l’agricoltura era tutt’altro che ilsurrogato forzoso della politica; e anzi, costretto poi adarsi alla politica, contrariamente al Cavour1265 ne sentìsempre con fastidio il peso, sognando in cuor suo Brolioe i suoi vigneti e quelle plaghe solitarie ed inospiti «concui l’animo mio si pone senz’altro in piena risponden-za di pensiero e di affetto, lasciando la cura al mio ac-corto animale di posare piede in terra, per vivere a con-to mio negli spazi senza confine delle memorie, e dellaimmaginazione, finché dopo quattro o cinque ore di unlungo viaggio spirituale, quello fisico trova confine e mè-ta nella porta della casa cui io mi ero diretto»1266. Chese poi si trascorresse ad altri dei moderati, soprattutto aiToscani, allora il divario col Cavour appariva veramen-te in luce solare1267: nei Capponi e amici, nella «Chiesadei Capponi»1268, la passione per la terra era esclusiva etendeva a contrapporre agricoltura ed industria, di que-st’ultima additando bensì le opere gigantesche e le offici-ne poderose, ma anche i grossi guai e pericoli, ch’eranosoprattutto di carattere morale e sociale. I troppo rapidiprogressi meccanici, cioè dell’industria, sconvolgevanotroppo subitamente, apportavano disordini e inquietudi-ni, creavano la miseria. Costantemente mosso da preoc-cupazioni morali, Gino Capponi vedeva nell’operaio lasemplice macchina, il braccio senza mente, mentre nel-l’agricoltore mente e braccio andavano congiunti; ciecoil lavoro del primo, sempre intelligente quello del secon-do. E, continuando nel raffronto, richiamava i suoi ami-ci alle «pitture lacrimevoli della condizione disperata, incui per rapide vicende è posto gran numero di manifat-tori in que’ paesi, dove le opere gigantesche e le officinepoderose ... stanno accaparrate in pochi», alle «mani al-zate verso il cielo», mani armate contro il fratello; e vede-

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va il mondo industriale, creazione nuova, cercare fatico-samente il suo equilibrio, cercar di istituire «una societàsomigliante a quella che l’agricoltura, arte coeva del pri-mo umano incivilimento, compose da tempo antico tra ilproprietario e il lavoratore»1269. La servitù del telaio ge-nerava la guerra servile, sfociava nell’urlo della passione,nella «romba di vicina tempesta» che spaventava ormaitutta l’Europa; la mezzadria, gran vanto dell’agricoltura,era il modo di spegner l’odio pronto a diventar furore1270.

La macchina, voleva dire uno strascico di miserieumane1271; carattere «grande e terribile, immenso in benee in male»1272 del secolo, era progresso estrinseco e mate-riale, che abbrutiva l’anima anziché innalzarla a Dio co-me faceva la campagna aperta; e il sarcasmo leopardia-no sulle ferrate vie e i molteplici commerci e le macchi-ne al cielo emulatrici trovava larga eco anche in chi ri-fiutava il suo pessimismo cosmico e cercava invece rifu-gio in un rinnovato fervore religioso e morale1273. Cheera questa nuova educazione, eguale per tutti, avviataa produrre una generazione d’artefici? si chiedeva Gi-no Capponi1274. Il popolo macchina, quest’era il supre-mo voto dei politici e il pensiero di quei filosofi che piùsi chiamavano progressivi: «edera forse questa la liber-tà che i padri nostri volevano, per la quale contendeva-no?». L’industria era lo studio, la gloria, l’arma dei tem-pi, «il sacerdozio d’un secolo che ha per divinità il dana-ro»: dove le accuse consuete contro il materialismo e ilbasso animo del secolo salivano su, su, dagli uomini con-tro la macchina e contro il progresso tecnico. Meccani-co, voleva dire senz’anima, e fu spregiativo1275.

Quella che era la potente molla dello sviluppo indu-striale, produrre, produrre sempre di più, non acconten-tandosi delle richieste tradizionali del mercato, anzi ec-citando nuove richieste, e creando nuovi mercati; que-sto soffio di poesia della grande industria moderna, chegià allora induceva il Cattaneo a parlar di arte per la vita

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civile1276, e che molti decenni più tardi avrebbe trovatolasua apoteosi in un Ford, spaventava: «ciò solo che oggisi cerca e si vuole è il produrre: ma questa produrre giàvince il bisogno soprattutto in Inghilterra e in Francia, equindi già una cosa contraria alla natura stessa dell’indu-stria e delle arti»1277.

Perciò, si innovasse tecnicamente nell’agricoltura, masi conservasse al primo posto l’agricoltura, si conservas-se la tradizione paesana, ormai rurale, e niente o quasimanifatturiera: ch’era poi anche l’unico modo di servirela causa della civiltà, della moralità, della agiatezza nazio-nale, come chela mezzadria fosse retaggio d’inveterati co-stumi, causa di non grande ma generale agiatezza, pegnodi cristiana carità e di civile progresso, quasi congenita einseparabile condizione di nazionale carattere1278. L’agri-coltura «miglioratrice»1279. Il problema, da economico-sociale diveniva politico-morale; il conservatorismo eco-nomico faceva tutt’uno con il conservatorismo politico,e la paura dell’industria diveniva paura delle masse ope-raie.

Quanto sostanziali potessero essere i contrasti di ve-dute complessive anche fra uomini che si ritrovavano poid’accordo nel propugnare migliorie tecniche e maggiorproduttività, dimostravano le discussioni dei Georgofi-li toscani, fra il 1833 e il 1834, e il contrasto fra GinoCapponi, grande ammiratore di Pietro Leopoldo e dellesue riforme agrarie, convinto della primazia dell’agricol-tura, e il Salvagnoli, il quale, andando oltre il problemaspecifico della mezzadria, voleva si studiasse anzitutto lacondizione della proprietà terriera di fronte a industria ecommercio e deplorava che la Toscana, prima manifat-turiera e commerciante, si fosse poi prostrata sulla terracome a idolo, sacrificandole tutti i capitali e l’attività in-dustriale «e quando si scuote dalla superstizione geofila,non trova più capitali mobili, non più manifatture, nonpiù commercio, e va nel mercato universale a recar ma-

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gre spighe o poche bacche di olivo, mentre i concorrentirecano ogni maniera di prodotti»1280.

Dallo stato d’animo dei conservativi sgorgava così lacelebrazione dell’agricoltura come della grande educa-trice morale, della terra madre di virtù familiari e civi-che, sola arra sicura di un progresso tranquillo e rego-lare. Qui si era in tutt’altro mondo da quello di un Ca-vour e di un Cattaneo; e che le giovani generazioni pro-pendessero ormai per la macchina nulla toglieva al fattoche tra i vecchi, ma non solo tra essi, i più rimanesseroancora avvinti ai secolari ideali di vita. La natura ricon-duceva l’uomo a Dio; l’officina, lo rendeva ateo: non ca-sualmente, i grandi esaltatori dell’agricoltura auspicaro-no anche, tutti, un rinnovato fervore religioso, onde na-tura e Dio, lavoro dei campi fede educazione morale delpopolo si confusero in un solo sentire. Anche nel Min-ghetti, quest’altro agricoltore, l’agricoltore si fondeva colcredente seppure con minor pathos che non nel Ricaso-li; e come l’economia pubblica alla morale e al diritto,così l’industria egli voleva subordinata «alle buone leg-gi, alle buone istituzioni, all’istruzione, alla educazione,alla religione»1281. Cavour ammirava il Bentham e il suoutilitarismo; Minghetti lo riprovava1282.

E se i matti, come diceva il Lambruschini, stavanonelle città e occorrevano i savi del contado a tenerli aposto, non era forse prova sufficiente, questa, che lameccanica volgeva a male l’animo, mentre la terra lomanteneva nei sani precetti della vita cristiana?

Il tanto discusso problema dei rapporti fra economia emorale, fra progresso tecnico e progresso spirituale, tro-vava il suo pieno concretamento nelle discussioni sull’a-gricoltura e l’industria, sul potere educativo della primae sul deprimente influsso morale della seconda: l’uno el’altro erano due momenti formalmente distinti, sostan-zialmente identici, di un solo atteggiamento di fronte ai

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grossi quesiti che la civiltà moderna stava sollevando eche andavano ben oltre il puro fatto politico.

Corroborava un siffatto stato d’animo la tradizioneculturale umanistica, che dominava ancora l’Italia del-l’Ottocento, parlando con i suoi accenti di antica saggez-za; ed era la saggezza classica, e quindi, appunto, nonl’esaltazione dell’invenzione meccanica, bensì dell’ope-ra d’arte e della bellezza della natura. Dalle Georgichevirgiliane giù giù le lodi della vita rustica avevano tenu-to il campo, laddove la fatica del mercatore affannante-si pel mondo dietro la sua mercanzia non era mai assur-ta a dignità di esempio di vita, nemmeno nel periodo incui le città italiane erano state commercio e manifattura;onde, nella stessa Firenze quattrocentesca, Leon BattistaAlberti aveva fatto esaltare da Gianozzo e Lionardo il vi-vere in villa, «in aere cristallina, in paese lieto, per tut-to bello occhio ... sano et puro ogni cosa», orazianamen-te lontani dal travaglio delle altre faccende «in compera-re cura, in condurre paura, in serbare pericolo, in ven-dere sollicitudine, in credere sospecto, in ritrarre fatica,nel commutare inganno». La villa sola era «conoscente,gratiosa, fidata, veridica»1283, opera «de’ veri buoni uomi-ni et giusti massari», tutta diletto e serenità, niuna invi-dia, niuno odio, niuna malevolenza. Risuonavano anco-ra e sempre simili accenti, financo in bocca al fiero Rica-soli, al quale la quiete agreste sembrava «quiete vigorosaed elevata perché è l’effetto di un inalzamento del nostrospirito, come se si ritraesse da una specie di prostrazionein cui fosse giaciuto fino allora. Quante sono mai le co-se che ci diventano indifferenti, o non le degnamo d’unpensiero, che nella città ci angustiano sdegnandoci!»1284.

Ora, questa tradizione culturale dove le alte mura diRoma e gli archi antichi e gli eroi mitologici s’alternava-no con i quadretti di vita campestre, imperava tuttavia.Manzoni se n’era staccato, Manzoni che, non a caso, met-teva innanzi l’economia sociale a fondamento di ogni al-

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tro studio1285. Ma Carducci l’aveva ripresa, proprio neglianni di che discorriamo: Carducci, che trovò le note altedella sua poesia più ancora che nei grandi affreschi sto-rici, nell’abbandono alla voce della natura. Ancora a luiil silenzio verde del piano e il biondeggiar delle spighe eil trifoglio rosso su’ declivi dei prati infondevano pace egioia nell’anima; né destavano il suo genio i bagliori del-le fonderie, avvampanti nelle tenebre, che sollecitavanoallora la musa di Walt Whitman, e nei suoi canti che piùcolpirono per l’audacia di contenuto e parvero romperecon lo stile classico, la massima modernità fu la vaporie-ra dal fischio flebile, acuto, stridulo, i carri foschi, il neroconvoglio, il «mostro», l’empio mostro dall’anima metal-lica. Ma era cosa straordinaria, come indicava già solo iltermine classico, e cosa che recava dolore al poeta sia chegli portasse via Lidia, sia che lo strappasse ai cipressi diBòlgheri; e anche quando al bello e orribile mostro s’al-zasse il saluto del poeta, come a Satana il grande1286 e ilvapore, anelando nuove industrie in corsa per l’Umbriaverde, dicesse il risorger dell’anima umana dopo i foschigiorni del dissolvimento cristiano, anche allora erano ra-pide fugaci apparizioni, e, soprattutto, semplice mezzoper celebrare ancora la settecentesca forza vindice dellaragione. Nulla dell’esaltazione attivistica dell’americano,al quale la potenza del vapore, le grandi e celeri linee, ilgas, il petrolio, la terra diventata una rete di rotaie di fer-ro gonfiavano il petto d’orgoglio: ed egli invitava le Mu-se ad abbandonare Grecia, Italia, Europa, per cercar unmondo migliore più nuovo e più affaccendato, a lasciarcadere le favole su Troia e i castelli medievali per cantarel’industria, il frastuono del meccanismo, gli acquedotti igasometri i concimi artificiali.

Due poeti e due mondi, l’uno cantore di una civiltà in-dustriale in potente sviluppo, l’altro, poeta di un mondoancor legato alla terra madre di bionde messi e nutrice difamiliari virtù1287.

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E già il Carducci passava per mezzo eretico e scanda-lizzava! A voler esser liberi e pronti ad accogliere tut-te le voci del mondo moderno bisognava essere come ilCavour, lontano dalla tradizione culturale italiana, talo-ra, come un Guicciardini per il ballo, anch’egli rammari-cantesi di non aver appreso bene le lettere, ma general-mente indifferente e fin disdegnoso dei letterati e dellaletteratura, incurante del lavoro da tornitore e cioè dellarifinitura stilistica, tutto preso dall’economia e dalla po-litica, e convinto di essere adatto soltanto alle discussio-ni di puro ragionamento1288. Per la tradizione umanisti-ca italiana, Cavour era un eretico: e che altro potevasi di-re di un uomo il quale, recatosi a vedere la tomba di Ro-meo e Giulietta la battezzava «un abbeveratoio di buoial quale si è dato un nome pomposo», o rinunziava adannotare le sue impressioni su Venezia perché «l’ultimadelle guide di viaggio basterà a farmi ricordare le cose vi-ste in questa città», o dichiarava di non annettere grandeimportanza ai ricordi classici in sé?1289

Ma già l’eclettico Minghetti, pur largamente aperto aiproblemi del suo tempo, pur capace di ammirare i ritro-vati della scienza e dell’industria, già il Minghetti restavaancorato alle vecchie tradizioni; umanista di garbo scrit-tore di cose d’arte, oratore tornitissimo a differenza delCavour, non fu mai sciolto dalla reverenza per il classi-co – e nel classico c’era la terra, non la macchina – e nons’abbandonò mai del tutto alla esaltazione per la febbri-le attività moderna, com’era successo al Cavour e succe-deva alSella1290, né all’esaltazione della scienza come del-la nuova divini; anzi ne riaffermò nettamente i limiti e,al par di un Lambruschini e di un Capponi, le ripose dicontro la necessità della vita interióré dell’uomo, che erapoi sentimento religioso1291.

Il positivismo, certo, stava per irrompere anche nellacultura italiana, portandovi un soffio nuovo, spezzandovecchi schemi e aprendo così – nonostante tutte le sue

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debolezze speculative– più larghi spazi a quella cultura:non dovevano trascorrer molti anni, e c’era chi osserva-va che, come una volta non accadeva d’udire un discorsosenza il pericolo d’imbattersi nella tela di Penelope, nel-la spada di Damocle, nel masso di Sisifo, così, ora nonsi poteva più evitare il pericolo di incespicare nella evo-luzione, nella selezione naturale, nello struggle for life1292.Oppure, a promuovere un referendum sulle letture pre-ferite, c’era da veder Spencer e Darwin scavalcare qua-si tutti gli antichi dei dell’Olimpo letterario, solo soggia-cendo all’immensa autorità di Dante, della Bibbia e diShakespeare1293. Ma, tuttoché al suo tramonto, l’anticacultura combatteva ancora.

Il culto del «bello ideale» e del «bello morale» fu con-trapposto, così, all’industrialismo e al materialismo; ilpassato, con le sue virtù umane e la sua finezza culturaleal sormontare attuale della volgarità e della rozzezza1294;lo stile eletto alla brutalità degli appetiti scatenati: e nederivarono le discussioni in cui il tema dei rapporti fraprogresso tecnico e progresso morale assunse questa al-tra forma, della difesa del bello letterario quale correttivoalle tendenze materialistiche del secolo. Il bello letterariosalvava il bello morale, altrimenti minacciato di morte1295

«la bellezza è il più alto salire della natura e dell’uma-no intelletto, e vi trovo il più grande argomento controtutto ciò che tende a materializzare questa o quello»1296.E le polemiche sull’insegnamento, così vive allora e poi,fra coloro che reclamavano maggiore praticità, maggioremodernità e meno classicismo1297, e coloro che insisteva-no invece sulla assoluta necessità di tener fede alla tradi-zione umanistica, superiore essendo il «merito morale»delle lettere e delle arti1298, furono ancora un riverbero diun più generale contrasto, in cui mondo vecchio e mon-do nuovo si combattevano ovunque. Amore della culturaclassica, amore del bello secondo la tradizione, vagheg-giamento dell’artista come staccato dalle misere lotte ter-

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rene e risanatore, con le sue immagini, di quelle lotte, fe-cero tutt’uno, nei conservatori italiani ed europei, con lariluttanza alla civiltà moderna, razionale e industriale, dimasse e non più di singoli1299.

Amor della tradizione, dunque; e, come già ai tem-pi del Burke e del Cuoco, vi si fondava su il conserva-torismo che, nell’esaltare le tradizioni e cioè le caratte-ristiche dei singoli paesi, ripudiava la metafisica rivolu-zionaria, l’ideale della politica essendo non un’astrazio-ne generica, ma un dato ordine di istituzioni che convie-ne ad un dato luogo e ad un dato tempo. Lo ripeteva,ora, il Minghetti, che di quella vecchia metafisica rivo-luzionaria affermava sfatate completamente le grandi egeneriche affermazioni, sovranità popolare, uguaglianzanon solo civile ma anche politica di tutti, infallibilità delnumero, e via dicendo1300.

La tradizione: e bisognava esser ben fermi ora nel pro-teggerla contro il rigurgito gonfio e minaccioso della ple-be «corrotta e violenta», che era cosa ben diversa dal ve-ro e pacifico popolo1301. Lotta di classe, diritti del prole-tariato: questi e simili motti di guerra davano corpulentae massiccia forma ai timori generici, indirizzavano con-tro un movimento preciso, che non era più il romantici-smo sociale di assai incerto e sentimentale tono1302, ma ladura e serrata polemica marxistica o il moto perpetuo ri-voluzionario di stampo bakuniniano. Il volgo si muove-va: e tornavano alla mente le agitazioni di piazza, tantoesecrate dai moderati dopo che proprio il ’48 aveva di-mostrato come, una volta accesa la miccia, non si potessepiù sapere dove e con quanta forza l’esplosione avvenis-se; le dimostrazioni, che, a trovarcisi di fronte anche all’e-stero, il sangue bolliva per l’ira al Ricasoli, pensando «ache ci hanno condotto, noi Italiani, quelle dimostrazioni,in prima spontanee, poi divenute mezzi d’iniquità»1303.La plebe corrotta, significava la congrega dei comunistiche avevano già fatto tutte le ripartizioni delle proprie-

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tà, prima ancora di averle occupate1304; il popolo in piaz-za era «sempre cattiva cosa»1305 e voleva dire PellegrinoRossi assassinato1306, o, almeno, Lambruschini braccatodai Livornesi a San Cerbone e costretto a star fuori casamentre «que’ masnadieri» scalavano il muro dell’orto1307.Era il giacobinismo, la demagogia, la sopraffazione di chischiamazza su chi pensa, le vie leali abbandonate, men-tre la libertà significava, anzitutto, rispetto della legalità;era scambiare ogni furor di plebe per volontà di popo-lo e chiamar popolo ogni turba che passasse per le stra-de e soverchiasse i poteri legittimi; era tutto ciò, insom-ma, che ripugnava al pensiero liberale almeno quanto gliripugnava l’arbitrio di uno solo1308.

La ferocia dei volghi, armata di odio e di rancore, s’av-ventava contro la libertà come una nera tempesta1309. Neitumulti e fra le violenze non potevano trionfare i prin-cìpi dei moderati, che erano princìpi di ragione; tran-quillo sviluppo delle riforme, sì, ma niente rivoluzio-ni, quest’era sempre stato, era tuttora il programma deimoderati1310, o il bosco di Marco Minghetti, a Settefonti,tagliato e portato via1311, ma ormai non più di essi soltan-to, come che anche la Sinistra, conseguita l’unità e Ro-ma capitale, di rivoluzioni non volesse più sentir parlaree considerasse chiusa la fase dell’azione diretta.

Perciò, era naturale la ritrosia a concedere il dirittoelettorale alle masse. Noi puri, noi savi, pensavano vera-mente gli uomini della Destra, e a renderli ostili a che nel-la vita pubblica penetrassero larghi strati nuovi di eletto-ri, non erano solo le preoccupazioni di partito, vale a di-re la paura di esser sbalzati di seggio e di dover soggiace-re, nella contesa elettorale, a partiti non logorati dal pe-so del potere e quindi più freschi di energie e più po-polari. C’era il partito, ma c’era anche qualcosa di più:precisamente, il timore dell’ignoto, di un pericolo grossoe oscuro a cui s’andava incontro, senza poterne misura-re nemmeno tutta l’estensione. «Nella affannosa previ-

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sione di futuri mali» l’animo sbigottiva e si rifugiava, an-cora una volta, nel grido «Iddio protegga l’Italia», quasidisperando degli uomini1312. Ma anche nei più ottimisti,l’avvenire appariva fosco; il Minghetti che, come tutti imoderati europei, vedeva nel suffragio universale un ma-le, e difendeva il censo come criterio elettorale, in quan-to rappresentava non solo la proprietà «ma il lavoro, ilrisparmio, la operosità, la previdenza», si sentiva anch’e-gli «molto pauroso» per gli effetti della legge elettoralee temeva giorni tristi per la patria minacciata di disor-dine, confusione, immoralità, avvilimento1313. Il Viscon-ti Venosta, a sua volta, vedeva nella legge elettorale del1881 una «enorme avventura»1314: che era l’espressionepiù consona a definire lo stato d’animo di quegli uomi-ni e diceva qualcosa di più del timore, pur chiaramenteconfessato, di un trionfo dei radicali nelle future elezio-ni. E il Sella, che anche lui aveva battezzato di politicadelle avventure quella del suffragio universale, già parec-chi anni innanzi1315, il Sella deplorava che senza necessi-tà «fuorché quella di una gara pazza di apparente libera-lismo» ci si fosse lanciati in una grande incognita, allar-gando d’un tratto il suffraggio1316.

Gara pazza di apparente liberalismo; la deplorava an-che Pasquale Villari, sdegnato che taluni moderati, all’ul-tima ora, per non farsi battere troppo apertamente, aves-sero addirittura proposto il suffragio universale, non vo-luto né dal Depretis, né dallo Zanardelli, rassegnando-si «a dare il paese in mano di quelle moltitudini, primadi levarle dal loro abbrutimento, prima di calmare i loroodii», così che i liberali morivano «come retrogradi, e ...avendo l’aria di fare i faziosi per non morire»1317.

Uomini di Destra, conservatori? Sì; ma il timore che lecose andassero a rotoli per effetto dell’allargamento delsuffragio s’affacciò anche nell’animo di uomini della Si-nistra, i quali pure di quella legge erano stati artefici; eproprio il Depretis, come finemente gli aveva predetto

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il Minghetti, proprio il Depretis ebbe a spaventarsi del-le conseguenze, a temere che la partecipazione dei «nuo-vi strati sociali» avesse per logica conseguenza un pro-fondo sovvertimento nelle istituzioni, onde, al dir di chilo conobbe bene, egli pose da allora in poi ogni cura nelprovvedere ai ripari, opponendo robusti argini alle pa-ventate fiumane1318. Di qui il trasformismo, cioè la ricer-ca di una maggioranza parlamentare, di centro, ottenutacorrodendo i partiti come tali, manovrando sugli uomi-ni e attraverso gli uomini, sostituendo alle opposizioni diprincipio il problema tattico del momento per momento;e poiché la fiumana spaventava Minghetti come Depre-tis, l’appoggio dato dallo statista bolognese all’uomo diStradella, per far argine alla «demagogia invadente»1319, eil suo andar oltre le prevenzioni di molti dell’antica De-stra, per parare al pericolo incombente1320. Unica via disalvezza, onde non essere travolti dal torrente repubbli-cano o socialista, l’unione di tutti gli amici delle attualiistituzioni1321: dunque, il trasformismo, con cui il Depre-tis riuscì a tradurre abilmente in pratica quel che già al-tri, di Destra, aveva pensato e tentato, giacché gli sforzidel Sella per metter su un ministero con Nicotera e la Si-nistra moderata, tra giugno e luglio del ’79 e nuovamen-te nell’aprile dell’81, significavano bene trasformismo inanticipo1322, tentativo di creare cavourianamente una ba-se di centro superando i classici schemi di Destra e diSinistra1323.

Più tardi, di fronte al pieno affermarsi del socialismoanche altri uomini della Sinistra, tenaci fautori della leg-ge elettorale dell’81 e avversi al trasformismo, finironoanch’essi col chiedersi se non avessero a pentirsi «di ave-re allargato il suffragio popolare prima di aver educatole plebi. Abbiamo dato un’arma pericolosa in mano acoloro che non sanno servirsene, preparato il disordinemorale e la corruzione»1324.

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Timore delle masse, avversione decisa ad accettare di-visioni in blocchi contrapposti e appello agli individui,ai singoli, appunto per impedire le contrapposizioni rigi-de, caratterizzavano già l’agire politico del ceto dirigen-te. A più forte ragione, quelle esigenze dovevano farsivalere nei rispetti sociali. Perché qui poi, a volere affron-tare il problema come problema di struttura, e cioè am-mettendo la divisione per classi, si sarebbe dovuto forza-tamente far intervenire lo Stato: e se lo Stato intervenivanei rapporti economici e sociali, legiferava, limitava, co-stringeva, non era questa una flagrante, totale contraddi-zione con la libertà dei singoli, vale a dire col principiobase della libertà? Lo Stato: garante dell’ordine, dellatranquillità, della sicurezza di tutti e di ciascuno, ma noncoartatore della volontà e degli interessi dei singoli. Afondamento dell’idea ottocentesca di libertà stava sem-pre l’individualismo che Benjamin Constant aveva for-temente accentuato, rinnegando perfino il vecchio mito,tanto caro al Montesquieu, della antica libertà greca1325; egià s’era in allarme per la crescente invadenza dello Sta-to, per il moltiplicarsi delle sue funzioni, per il suo pe-netrare a poco a poco negli orti chiusi delle varie attivi-tà umane, e già era desta la diffidenza contro la «stato-latria», spesso rimproverata anche dai loro compagni diparte e, più, dagli avversari agli Spaventa e ai Sella1326.

Si trattasse del riscatto delle ferrovie, e dell’eserciziostatale di esse che parve la negazione dei princìpi libera-li, e condusse in effetti alla crisi parlamentare in seno al-la stessa Destra; si trattasse dell’istituzione delle casse dirisparmio postali, battezzata un’indebita ingerenza delloStato nel campo economico, una nuova prova del fune-sto progresso di idee che conducevano a sempre più lar-ghi interventi governativi laddove avrebbe dovuto regna-re, sovrana, la libertà1327; si trattasse della stessa obbliga-torietà dell’istruzione elementare, contro cui si levaronovoci a reclamar per i padri la libertà di mandare o no i

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propri figli a scuola1328, l’avversione allo Stato regolatoreera profonda. L’interesse sociale limitante la libertà delsingolo: questa era una mostruosità dei «novatori», per-ché nessuno avrebbe altrimenti ammesso che la societàpotesse dire ad un proprietario che lasciasse incoltivatoun suo podere ... «tu devi coltivare quelle prode, vuotarequelle fosse, incanalare quelle acque, affinché una partedella ricchezza nazionale non sia deteriorata, se no, an-drai soggetto a pene pecuniare, e, se occorra, anche allaprigione»1329. La libertà voleva dire sempre, il diritto perognuno «di dire la propria opinione, di scegliere il pro-prio lavoro e di esercitarlo; di disporre della sua proprie-tà, di abusarne perfino; di andare e venire, senza chiederpermessi, e senza render conto dei propri motivi o delleproprie iniziative»1330.

Ancora ci si appellava all’esempio del Cavour, osti-lissimo a qualsiasi intervento pubblico nella vita eco-nomica, tanto da schierarsi perfino contro i poderimodello1331; ancora s’aveva dinanzi agli occhi quell’As-sociazione Agraria Subalpina, ch’era stata, forse, il teatrodei maggiori trionfi dello spirito liberista in Italia1332.

Ed ecco, si chiedeva allo Stato di intervenire anchenella vita economico-sociale, con leggi protettive, assi-stenziali o che di simile: massima lesione ai principi del-la libertà individuale, al sacro diritto di proprietà. Doves’andava, mettendosi su di una tal via? S’andava difila-to al socialismo e al comunismo, di cui la statalizzazionenon sarebbe stata che l’avvio.

Lo Stato, doveva rimanere quello della Dichiarazionedei diritti del 27 agosto 1789; e non esorbitasse dai suoilimiti di tutela e di garanzia giuridica1333: fosse casermadelle truppe per la difesa della patria, caserma dei cara-binieri per la tutela dell’ordine pubblico; ma guai a vo-lere che tutto divenisse caserma! L’intervento dello Sta-to al posto dell’iniziativa privata, era the coming slavery,diceva Spencer; e i moderati italiani, anche se non posi-

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tivisti, la pensavano come lui «che si parla di accrescerele ingerenze dello Stato? Che lo Stato, limitato al suo le-gittimo ufficio di regolatore dei servizi generali veri, nonha esso un’opera immensa, complessa da compiere? ...Le ingerenze che si sono date allo Stato e gli si voglionodare fuori della ragione di sua esistenza, sono deleterieprima per lo Stato, poi pei singoli cittadini»1334.

Perciò, l’intervento dello Stato nelle questioni sociali,sia pure in forme che sembrerebbero oggi blandissime,trovò fierissimi e tenaci oppositori; l’impero germanico,che per la sua legislazione sociale poté essere battezzatoaddirittura impero socialista, apparve non già prototipodi libertà, secondo il detto della Sinistra nel 1870, anzi aparecchi dei moderati, prototipo dell’autoritarismo nel-l’Europa contemporanea, un autoritarismo che tentavadi compensare al popolo la privazione della libertà conla elemosina imperiale del benessere1335. I fedeli del ver-bo di Cavour vedevano contrapporsi ad esso «una spe-cie di Statolatria alla Bismarck, che ora appare come So-cialismo dello Stato, ora come tirannia dello Stato sullaChiesa»1336: nel che la diffidenza politica verso lo «spiritodi conquista» del Bismarck e il suo anti-parlamentarismosi rivelava per quel che era in realtà, e cioè elemento diun’opposizione più complessa e radicale che contrappo-neva due mondi. Polemizzando contro il socialismo dellacattedra, i professori tedeschi e i loro primi seguaci italia-ni, Francesco Ferrara esclamava anch’egli «ci si è spentoil senso della libertà, che direbbesi seppellito insieme al-la salma di quel Cavour, il quale lo aveva eccitato sì be-ne, e sorretto, e lasciato a’ suoi posteri qual sacro voto dasciogliere»1337. Nel confronto, era già un mezzo socialistail Minghetti che propugnava almeno la «teorica media»,alla Romagnoli: conservar sempre l’iniziativa individua-le, ma leggi sociali per il lavoro delle donne e dei fanciullianzitutto, vero e unico modo d’intervento dello Stato alquale incombeva il dovere della tutela e del soccorso1338.

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Rimedio naturale e massimo ai mali sociali apparivaperciò sempre l’azione dei singoli, la beneficenza, la ca-rità, l’esempio dato dalla persona di alto lignaggio chestendeva la mano pietosa ai miseri e li aiutava moralmen-te e materialmente ad uscir dai loro tormenti. Anco-ra sempre le istituzioni filantropiche come nel Piemon-te carloalbertino, la marchesa di Barolo il canonico Cot-tolengo don Giovanni Bosco1339; e vale a dire, con rinno-vato fervore; l’opera di assistenza sociale inaugurata e in-segnata dalla Controriforma, San Filippo Neri e San Ca-millo de Lellis, le Case di Misericordia gli ospizi gli orfa-notrofi le Opere per le Convertite, le regole per ben ser-vire gli infermi e «l’affetto materno verso il suo prossi-mo acciò possiamo servirli con ogni charità così dell’a-nima, come del corpo»1340. Tant’è, che taluno, ricercan-do i mezzi per opporsi alla terribile minaccia dei rossi epropugnando, appunto, la carità, suggeriva di esercitar-la possibilmente a mezzo del clero «e così il popolo lo ri-conoscerà non solamente come un consolatore spiritualema anche come un benefattore materiale»1341.

La carità, nome sacro, divino, indisputabile, incorrut-tibile, traente tutti i cristiani ad unanimità teorica, ave-va detto Cesare Balbo, per il quale il più bel libro che sipotesse scrivere sarebbe stato una Storia della Carità1342,proprio mentre stava nuovamente trionfando la «caritàcol Cristianesimo», sulle rovine di quegli altri nomi, difilantropia, socialismo, sentimento sociale, umanitario,che avevan voluto surrogarsi alla cristiana carità1343.

Unica nota nuova, nei progressivi di allora, nota laicae tipica del periodo, l’appello oltre che alla beneficenza,alla scuola «la fonte più bella ed efficace per incivilire eeducare le plebi bisognose, sollevarle, procacciare panee decoro» e scaldare il cuore di nobili affetti1344. Lastessa fede nell’istruzione che ispirava gli alti disdegnie i fieri propositi contro il Vaticano, ispirò anche ilconvincimento di porre rimedio alla questione sociale

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mediante il libro, che avrebbe dovuto essere quindi ilvittorioso debellatore del pericolo rosso e del pericolonero: e non sempre giovava che qualcuno ammonisse,prima si migliorino le condizioni economiche del popoloe poi si parli dell’istruzione, difficile essendo esigere lavirtù di andare a scuola in chi campa di stenti1345.

Tale, dunque, nel suo complesso l’atteggiamento delceto dirigente italiano. Di contro, le affermazioni deiribelli: lotta di classe, diritti del proletariato, guerracontro la società nella sua attuale struttura.

III

La libertà e la legge

I sovversivi apparivano dunque la genìa d’iniquità; ementre sin verso il 1870 il termine era servito ad indi-care i mazziniani e talora anche l’estremo opposto, cioèi legittimisti e i clericali1346 coloro cioè che intendevanometter sossopra l’ordine politico, ora cominciava a desi-gnare anche questa nuova setta, che avrebbe addiritturavoluto sovvertire l’ordine sociale. Continuarono le pre-occupazioni per la propaganda repubblicana; ma comin-ciarono le preoccupazioni per la propaganda rossa, chegià tentava d’insinuarsi nell’esercito1347 e talvolta addirit-tura nell’arma fedelissima dei reali carabinieri1348. Il casoBarsanti, nel marzo del 1870, aveva costituito un bruscocampanello d’allarme per gli alti comandi1349: e si tratta-va, ancora, di un moto repubblicano. Ma gli anni appres-so furono Andrea Costa, Errico Malatesta, Carlo Cafie-ro, Tito Zanardelli a tener desta l’attenzione delle auto-rità, politiche e militari, in attivo carteggio fra di loro persegnalare i sospetti1350.

Ora, a richiamar seriamente l’attenzione su questi piùpericolosi sovversivi furono, ancora una volta, gli avve-nimenti di Francia. Le manifestazioni di disagio popola-

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re, non infrequenti ormai dal 1860, la stessa rivolta deicontadini tra, la fine di dicembre del ’68 e il gennaio del’69, erano ancora state esplosioni di miseria e di reazio-ne contro provvedimenti specifici, soprattutto contro latassa sul macinato1351: e nell’ultima soprattutto a fomen-tare la rivolta era stata, assai più dell’estrema sinistra, l’e-strema destra, il clero.

Qualche preoccupazione c’era già, senza dubbio. Ne-gli stessi tumulti di Milano, il 24 luglio 1870, e di Geno-va il 3 e il 4 agosto, che avevano messo in allarme i con-servatori, pronti a rinfacciare al governo la sua debolez-za e inerzia, si era notata la «strana concomitanza» di unmovimento politico con uno sociale, di un tentativo re-pubblicano e di un tentativo contro la proprietà1352. ANapoli, il governo aveva dovuto constatare come la se-zione dell’Internazionale all’inizio del ’70 contasse buonnumero d’iscritti; si era trovato di fronte ad uno scio-pero, quello dei pellettieri, apertamente sostenuto dagliinternazionali, e aveva dovuto procedere a perquisizio-ni e arresti1353. Che qualche preoccupazione fosse già al-lora negli uomini di governo, dimostrava l’incarico da-to al Nigra; prima che scoppiasse la guerra, di trasmet-tere i rendiconti del processo che si svolgeva, innanzi iltribunale correzionale di Parigi, contro un considerevo-le numero di membri dell’Internazionale1354. Iniziato ilconflitto franco-prussiano, i timori avevano però ripresoaltra forma, più consona saremmo per dire alle antichetradizioni.

Che dai casi di Francia potessero derivare ripercussio-ni spiacevoli nella penisola, quest’era stato infatti temu-to, sin dall’inizio, dai moderati, e previsto dalle autoritàche avevano dato mano a misure preventive1355. Ma eranostati esclusivamente timori di possibili tentativi repubbli-cani, ai quali avrebbe anche potuto non mancare segretoappoggio bismarckiano1356: «se l’Impero di Napoleone èindebolito o fiaccato, quel partito, che ha fatto le rivol-

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te militari di Pavia e Piacenza, la sedizione di Milano ele barricate di Genova, leverà assai più il capo, e ripeteràsul serio l’opera sinora buffa ... Le bande repubblicane simoltiplicheranno ... La monarchia italiana ha posto, piùche non si crede e si vuole, le sue fondamenta sull’Impe-ro francese; e scosso questo, non sarebbe già messa a unpericolo, da cui non si potesse salvare, ma certo avrebbebisogno di guardare molto a sé medesima»1357. I timori,dunque, che dopo il 4 settembre parigino inducevano ilre e il Lanza a metter da parte ogni dubbio e ad ordinarealle truppe italiane di marciare su Roma.

Ed ecco invece, superato il periodo critico da tal pun-to di vista, ecco sopravvenire, nella primavera del ’71, lenotizie sulla Comune di Parigi.

A distanza di tempo, non è stato difficile vedere cheil movimento scoppiato il 18 marzo 1871 nella capitalefrancese non era, in realtà, un movimento propriamen-te sociale, almeno nella prima fase, e scorgere le causemolteplici, generali e particolari, durature e occasionali,che vi diedero l’avvio: soprattutto, la ribellione del sensonazionale repubblicano municipale dei parigini, esacer-bato dalla sconfitta e dalle sofferenze dell’assedio, offesodalla arrogante sfilata delle truppe prussiane attraversoi Champs Elisées1358 ulteriormente irritato dalla scelta diVersailles a sede dell’Assemblea e, forse specialmente, ir-rigidito contro le tendenze monarchiche dell’Assembleastessa. Ma l’impressione che i contemporanei ebbero,quasi tutti1359, di quei fatti, fu di un movimento essen-zialmente, anzi esclusivamente sociale1360: e accentuò ta-le carattere lo stesso governo francese quasi a giustifica-re, con ciò, la repressione spietata e feroce e a prepararela legislazione repressiva1361.

Sui nostri uomini di governo doveva pur fare impres-sione profonda il modo reciso con cui il Nigra, loro col-laboratore di fiducia e uomo non proclive, in genere, allaeccessiva perentorietà dei giudizi, commentava gli eventi

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sin dall’inizio. Se già il 21 marzo egli segnalava l’opinio-ne prevalente a Parigi, che la molla della sedizione fos-se l’Internazíonale1362, il giorno appresso egli si esprime-va con un esclusivismo in lui assai poco frequente: «hointeso emettere l’opinione che il movimento di Parigi siaopera di questo o di quel partito politico. È possibile,è anche probabile che i partiti politici tentino di sfrutta-re a loro pro’ i tristi eventi di cui siamo spettatori. Manon v’è dubbio a’ miei occhi che il movimento Pariginoè opera esclusiva dell’Internazionale e che il suo caratte-re più spiccato, anzi il carattere determinante è sociale ecomunista e nient’altro»1363. Altre volte, l’assolutezza diun siffatto giudizio venne temperata, e l’opera «esclusi-va» si ridusse ad opera «prevalente»: ma sempre, e coninsistenza, il diplomatico piemontese tornò sui neri di-segni della setta, che vagheggiava la rivoluzione mondia-le e lo scombussolamento dell’ordine di cose esistente,politico e sociale1364.

È ben vero che il Nigra affermava non voler egli in-vogliare a semplici mezzi di polizia, anzi inviare la Noti-ce historique o simili informazioni per consentire «quellaspontanea iniziativa di miglioramenti e di possibili con-cessioni della quale il Governo del Re si mostra in ognioccasione geloso», maggiore essendo l’onore del preve-nire che quello del reprimere; vero, dunque, ch’egli as-sumeva, anche in questo, atteggiamento e tono diver-so da quelli del conservatore de Launay, il quale, daBerlino, tuonava contro gli «héros de la fusillade et del’assassinat»1365 che tenevano Parigi sotto il terrore, fa-cendone il «rendez-vous de la démagogie universelle»1366,già con tale violenza di linguaggio rendendo palese conquale aborrimento egli, vero nobile savoiardo, vedesse ilpericolo d’uno sconvolgimento sociale.

Ma, insomma, anche il Nigra riteneva che le dottrinedell’Internazionale, vittoriose in que’ giorni a Parigi, po-tessero diffondersi con più o meno forza in altre contra-

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de; e a lui, ch’era un uomo d’ordine e il diritto di pro-prietà aveva scolasticamente difeso svolgendo il tema dieconomia politica nel concorso per l’accesso alla carrie-ra diplomatica1367, pericoloso sembrava soprattutto «ol-tre alla propaganda ordinaria, il ritorno nei loro paesi de-gli uomini che dopo la dottrina videro già e praticaronol’esempio»1368.

A tale previsione sembravano dar peso gravissimo lecifre fornite dal de Launay, secondo cui l’Internaziona-le avrebbe contato già 1.200.000 aderenti in Inghilterra e800.000 in Francia, senza calcolare quelli, pur abbastan-za numerosi, di altri paesi e fin della Germania1369; da-vano, certo, gran sostegno di autorità indiscussa le paro-le che lo stesso Bismarck pur pronto a cogliere nella Co-mune anche il motivo ragionevole, il vernünftige Kern,della lotta fra centralizzazione e desiderio di autonomielocali, pronunziava al Reichstag, il 2 maggio, nei riguar-di de’ fatti di Parigi, contro i repris de justice, i malfatto-ri e i partigiani della repubblica internazionale europeache si erano dato convegno a Parigi e avevano impressoal movimento un carattere «pericoloso per la civiltà»1370.

Che se poi Lanza e Visconti Venosta porgevano orec-chio alle voci della stampa, dopo quelle dei diplomati-ci, anche allora pervenivano loro alti lai e grida d’indi-gnazione: «disordine morale che atterrisce»1371, provoca-to dalla Internazionale, che minaccia una barbarie senzariscontro in nessun periodo della storia1372, determinatonon già dalla miseria, sì dall’odio contro le classi elevate,e proprio mentre c’era affettuosa premura in queste «disoccorrere alle vere miserie del povero» con istituti di be-neficenza e di previdenza1373; pericolo da cui nessun pae-se poteva ormai dirsi al sicuro1374, che avrebbe dovuto farseriamente meditare sulla propria imprevidenza coloro iquali nel ’48 si eran beffati dello spettro rosso, mentreinvece gli incendi di Parigi erano opera dei continuatoridell’insurrezione del giugno 18481375; pericolo momenta-

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neamente sopito dalla vittoria dei Versagliesi, ché di tre-gua si trattava e non di pace. Non illudiamoci. Siamo intregua; ma la guerra sociale non è stata resa impossibile.Il torrente minaccia di travolgere la civiltà moderna1376.

Così L’Opinione, l’organo magno degli uomini al go-verno, su cui Giacomo Dina talora traduceva gli intendi-menti degli amici Lanza e Sella, ma di cui talora si ser-viva per eccitare Lanza e consorti, giornale dunque cheparte esprimeva lo stato d’animo dei dirigenti moderati eparte contribuiva a crearlo1377.

E da Milano incalzava La Perseveranza con la sua in-vettiva del 26 marzo contro la «bordaglia ... immemored’ogni affetto di patria, pazza di furore, avida di lucri, in-sofferente di freni, invidiosa, pervertita»1378; e la fioren-tina Nazione ammoniva esser giunto il fatale momentodella nuova barbarie minacciante l’Europa, ad opera deinuovi Bagaudi, ed esser perciò necessario che i popoli sistringessero attorno ad un gran principio di conservazio-ne e di civiltà, respingendo sotto qualunque forma e pre-testo le idee francesi, divenendo antifrancesi per mante-nersi civili1379; e sulla rubrica della Nuova Antologia Rug-gero Bonghi dava ulteriore sfogo al raccapriccio dei ben-pensanti di fronte al tentativo delle classi operaie di Pari-gi di Scomporre la gerarchia naturale di tutte le classi so-ciali, sovvertendo l’ordine «non solo presente, ma essen-ziale e perpetuo, della società umana»1380.

Né la stampa della Sinistra contraddiceva a simili giu-dizi. La Riforma, concorde in anticipo con il Bismarck,trovava sì che alla radice dell’insurrezione parigina sta-va l’eccessiva centralizzazione e la mancanza di libertàde’ municipi1381, rinveniva dunque anch’essa-un che diragionevole nel programma della Comune o, come eb-be a dire ancor più tardi, «elementi degni della più al-ta considerazione»1382; ma finiva anch’essa, sulle ormedi Mazzini, per condannare il movimento a causa delsuo cosmopolitismo rifiutandone nel contempo le dot-

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trine sociali1383. Assai più deciso, Il Diritto inveiva con-tro l’anarchia1384, contro la più sinistra delle lotte interne,la lotta sociale: «sì, lotta sociale; giacché la ribellione diParigi non può avere altro carattere ... è l’emancipazionedel proletariato, è il quarto Stato che scende nell’arena».Una emancipazione che, nel modo con cui si svolge, co-stituisce una «minaccia alla società»1385, una «sciagurataanomalia»1386.

Significativo l’imbarazzo dei giornali repubblicani, iquali dovevano finire col trovarsi, assai nolenti, vicini aiconservatori1387; più significativo di tutto, agli occhi del-la parte moderata, che lo stesso Mazzini, il sovversivo diieri, condannasse la Comune e le sue dottrine1388. Segnoche queste dovevano essere, davvero, cosa abbominevo-le.

Un coro nutrito di imprecazioni e di lai. Non è, quin-di, ragion di meraviglia se il governo italiano, al par de-gli altri, s’insospettisse e preoccupasse; e tanto maggior-mente, in quanto la rivolta parigina non costituiva poi,allora, l’unico sintomo dell’attività sovversiva, anzi nonera se non il più clamoroso tra vari episodi, ne’ quali ave-van parte anche uomini e associazioni d’Italia.

Nella stessa Francia, a contorno dei fatti di Parigi, sta-vano, sempre nel marzo del ’71, quelli di Lione, Saint-Etienne, Tolosa, Narbonne, Limoges e soprattutto diMarsiglia; e a’ rapporti preoccupanti del Nigra il mi-nistro degli Esteri poteva aggiungere gli altri dei variconsoli, dal console di Chambéry, il quale sin dal set-tembre 1870 aveva segnalato come attivissimo il lavoriodell’Internazionale1389, al console di Marsiglia1390.

Fuori di Francia c’erano stati i fatti di Zurigo, il 9, 10e 14 marzo del ’71, prima ancora della Comune, che era-no anch’essi attribuiti all’Internazionale1391; e c’erano glieventi torbidi di Spagna, dove pure si diceva intrigasse-ro gli agenti della rossa associazione, in combutta con irepubblicani accusati dell’assassinio di Prim1392.

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Quanto all’Italia informazioni confidenziali dell’11marzo facevano sapere che a Parigi si era organizzataclandestinamente una legione garibaldina che si sarebbegià fusa con l’Internazionale, per proclamare la repub-blica in Italia e in Spagna e poi, unitamente alla Francia,prender la rivincita contro la Germania1393.

Si spiega così come, all’annunzio della Comune, siturbassero assai gli uomini di governo; e fra essi, il pacatovaltellinese che reggeva il dicastero degli Esteri non fu ilmeno preoccupato. A lui personalmente non era forseaccaduto di ascoltarlo; ma indubbiamente doveva poiaverlo ben conosciuto, da’ racconti del fratello e dellamadre, il ritornello che i contadini della Brianza avevanocantato nel ’48

Né a Marian né a CantùI tedesch ghe tornen pùE crepa i sciori1394

E le grida di morte ai signori, come sugli uomini diparte moderata1395, così dovevano aver fatta profonda im-pressione anche sull’allora mazziniano Visconti Venosta,poi staccatosi dal maestro e divenuto un moderato tipi-co, per il quale già solo i radicali erano «rossi», e cioèasini e imbroglioni1396.

Certo è che nella primavera del ’71 egli era profonda-mente turbato per la piega che prendevano gli eventi aParigi; e a tanto giunsero le sue preoccupazioni da in-durlo, prudentissimo e cautissimo quale era, a fare gravidichiarazioni all’incaricato d’affari austro-ungarico a Fi-renze, conte Zaluski1397.

Très alarmé, nella forza di resistenza di cui il partitorivoluzionario dava prova sulla Senna il Visconti Veno-sta scorgeva «un danger réel pour l’Europe. En rayon-nant de leur foyer, les principes subversifs acclamés parla Commune pourraient causer de sérieuses perturba-tions au dehors. L’Italie en est plus particulièrement me-

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nacée, en raison de sa proximité d’abord, et aussi à cau-se des nombreux éléments socialistes qu’ elle renferme».S’era in presenza di un pericolo generale; e perciò «enprésence d’un ennemi commun, les Puissances devraient... s’entendre sur les moyens de le réduire et de le désar-mer. Il y va de la sûreté des Etats autant que du progrèsde la civilisation. Le souffle impie qui a éteint chez cesmasses tout sens moral tout sentiment d’honneur, aprèsavoir poussé fatalement une grande cité vers la ruine etla désolation, passera encore sur d’autres pays, si l’on nelui oppose des digues suffisantes».

L’inquietudine del ministro,assez généralement parta-gée, attingeva in quel momento nuovi motivi da informa-zioni particolarmente pessimistiche: un uffciale italianodi stato maggiore, reduce da Parigi, e il barone AdolfoRothschild, di passaggio a Firenze, erano concordi nelritenere quasi inevitabile un intervento delle truppe te-desche, data l’impotenza del governo di Versailles a do-minare la situazione.

Momento, dunque, di umore particolarmente nero.Le riflessioni del Visconti Venosta non sfociarono in unaproposta precisa sugli accordi fra governi e rimasero con-tenute nell’ambito di una conversazione privata: e tut-tavia erano sufficiente indizio del turbamento in cui glieventi della Comune avevano buttato i moderati italiani.Che un uomo come il Visconti Venosta, solitamente co-sì misurato e soppesante ben bene le sue parole, potessepensare anche solo in via d’ipotesi e per un istante ad ac-cordi internazionali, cioè ad una Santa Alleanza di carat-tere sociale, bastava a dimostrare quanto gravi fossero lepreoccupazioni.

Per fortuna, né il Visconti Venosta, né i suoi colleghipotevano indursi sul serio a farsi, essi, iniziatori di unapolitica reazionaria europea. Quali che fossero i loro ti-mori, più su ancora stava l’amore per la libertà: quel-la libertà che era non solo senso della legalità, del limite

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giuridico, ma anche e soprattutto senso della forza delleidee che nessuna compressione materiale può, alla lunga,soffocare. Appellandosi di continuo all’esempio del Ca-vour, essi non potevano dimenticare le parole di lui pro-prio nei riguardi della scuola socialista, di lui che per-fino nel giugno ’48 aveva detto non bastare le armi delCavaignac per toglier definitivamente di mezzo la que-stione sociale, e che poi, uscito fuori dai timori imme-diati del ’48, aveva ripreso tutta l’antica fiducia nella li-bertà, sola e sicura risanatrice. L’unico mezzo di com-battere questa scuola socialistica che minaccia di invade-re l’Europa «è di contrapporre ai suoi princìpi altri prin-cìpi. Nell’ordine economico, come nell’ordine politico,come nell’ordine religioso, le idee non si combattono ef-ficacemente se non colle idee, i princìpi coi princìpi; po-co vale la compressione materiale. Per qualche tempo si-curamente i cannoni, le baionette potranno comprimerele teorie, potranno mantenere l’ordine materiale, ma sequeste teorie si spingono nella sfera intellettuale, credete... che tosto o tardi queste idee, queste teorie si tradur-ranno in effetto, otterranno la vittoria nell’ordine politi-co ed economico»1398.

Troppo intuito politico avevano anche quegli uomi-ni per non avvertire il pericolo che la causa della libertàavrebbe potuto correre ove si fosse soverchiamente insi-stito sulla minaccia rossa.

La paura degli eventi di Parigi veniva infatti immedia-tamente sfruttata dai reazionari di ogni paese, i quali ap-profittavano dell’occasione favorevole per riaprire, al di-sopra dell’Internazionale, una più ampia polemica con-tro tutto il secolo XIX, nelle sue conquiste fondamenta-li, e dunque anzitutto contro l’idea di libertà ma, sia purmeno direttamente, anche contro il principio di nazio-nalità, le due forze rivoluzionarie che avevano dato l’av-vio alla storia europea degli ultimi cinquant’anni. Ad es-se si faceva risalire la colpa anche degli eccessi dell’Inter-

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nazionale, raffigurata come logica, ma non voluta, conse-guenza di liberalismo e patriottismo nazionale: avete vo-luto, o borghesi, la libera espressione della volontà nazio-nale, le assemblee deliberanti, le discussioni parlamenta-ri, i ministri responsabili; avete scosso il sacro principiodi autorità, su cui la società era riposata tranquilla persecoli; e godetevi, dunque, anche i petrolieri di Parigi epregustate la divisione dei beni.

Era il tema su cui in Italia ricamava la stampa clerica-le. Vecchia consuetudine, d’altronde: seguendo l’esem-pio degli ultra francesi della Restaurazione, accaniti nelpresentare il terzo stato come sfruttatore del popolo enel dir che le chimere della Rivoluzione erano utili soloalla classe media1399, già da tempo anche in Italia i rea-zionari avevano cercato di sfruttare anzi eccitare risen-timenti di classe, pur di combattere i liberali e i patrio-ti. Sin dal ’48 essi avevano agitato lo spettro del comu-nismo per farne, diceva il Brofferio, «simbolo di fraternadiscordia ed evocare il funereo simulacro, che, collo spa-vento dell’avvenire, persuadesse il ritorno al passato»1400.Sulle masse rurali, soprattutto, s’era tentato di far leva,dal Metternich prima ancora del ’48, come dai clericali,per scagliarle contro i «signori», patrioti e liberali: nonsenza certo successo, d’altronde, fra lo sdegno di chi, co-me l’Aleardi, aveva inveito contro il villano vecchio semedegenerato1401.

Il patriottismo dei «signori» arma di sfruttamento, erastata la gran parola per controbattere il movimento na-zionale: per un Metternich e uno Schwarzenberg, primae dopo il ’481402 per Austriaci e clericali1403. E poi anco-ra, s’era insistito sul tema per creare imbarazzi al gover-no dell’Italia unita, sì che alla fine del ’68 la propagandaclericale aveva potentemente contribuito a crear l’atmo-sfera e a render possibile la rivolta dei contadini controla tassa sul macinato, innestando una speculazione poli-tica su una questione di miseria1404. Demagogismo cleri-

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cale, ripreso pure in Francia dal Veuillot, per cui mol-ti pensarono, in quegli anni, ad un segreto accordo frai neri e i rossi, tra il Vaticano e l’Internazionale, per ro-vesciare l’ordine di cose esistente; e taluni portarono finsulle scene la figura del chierico che cercava di aizzare glioperai contro i padroni e di provocare scioperi1405; e in-dubbiamente si assistette ad una significativa coinciden-za di motivi polemici contro il nuovo ordine di cose neigiornali d’ispirazione anarchica o socialista e nei giornaliclericali.

Ci ricamava dunque su la stampa clericale, sempre abi-le nel cogliere al balzo le occasioni offerte dalle tituban-ze dei liberali per riproporre il problema delle originidei mali presenti1406. Solo allo spaventoso chiarore dellefiamme che si levavano alte dalle Tuileries conveniva ri-leggere le opere di Voltaire e rimeditare i princìpi dell’89,inizio di tutti i guai1407. Socialismo, anarchismo della Co-mune e liberalismo italiano rivelavano una medesima ori-gine, derivavano dagli stessi princìpi di ribellione all’au-torità morale della Chiesa, si collegavano con la Riformaprotestante e il razionalismo settecentesco1408 si svolgeva-no con un identico materiale sviluppo1409, qui in Italia ec-citandosi la rivolta dei popoli contro i loro legittimi go-verni, là, a Parigi, eccitandosi la rivolta contro l’Assem-blea di Versailles1410; e le conseguenze ne erano la man-canza di pace e di ordine, la ridda dei tumulti, l’instabili-tà dei governi, le convulsioni periodiche che avevano tra-vagliato, dopo l’89, non pur la Francia, madre del pecca-to, ma quella parte d’Europa insensatamente trascinata-si nella scia della Francia, e che avrebbero continuato atravagliare i popoli sino a quando non fossero state ripri-stinate «le norme salutari ed inviolabili del cattolicismoe del buon diritto»1411.

Le stesse disavventure in politica estera, le invasio-ni e i crolli erano frutto dell’insania dei princìpi: dac-ché ai canti religiosi s’era sostituita la Marsigliese, per tre

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volte la Francia, una volta invitta, era stata invasa dallostraniero!1412; e qual contrasto non si percepiva oggi traParigi, ove tutto era confusione, sgomento, orrore, e Ber-lino, dove tutto offriva il sembiante della giocondità, del-l’unione, della concordia e della fiducia nell’avvenire1413

Stolti e incauti i liberali italiani se credevano di poter,con le loro vacue declamazioni a proposito degli inferna-li disordini parigini, evitare in Italia tragedie consimili1414:l’Italia era già sulla china verso l’abisso, stava precipitan-do, e possibile (anzi anzi probabile) era una Comune aRoma e giorno sarebbe potuto venire, in cui la basilica diS. Pietro avrebbe seguito o, almeno, avrebbe avute mi-nacciate le sorti della colonna Vendôme1415: i comunistiitaliani avrebbero tripudiato, tra il chiarore degli incen-di, sulle rovine di S. Pietro. E di tutto era colpevole il go-verno italiano, che era il primo e più formidabile nemicodel proprio paese, come quello che aveva cercato di di-struggere nel popolo la fede e la riverenza per il capo eper i ministri della religione cattolica1416; e usurpando sulpotere dei papi aveva minato alle basi il senso dell’auto-rità e del dovere.

Trionfava la Civiltà Cattolica nell’impartire, il 6 mag-gio, una lezione a coloro i quali rimproveravano ai co-munardi «di essere troppo dialettici nell’applicare gl’in-segnamenti e troppo attivi nello imitare gli esempi delleloro Signorie liberali e conservatrici» – noi soli che abbia-mo sempre detto o cattolici col Papa o barbari col socia-lismo, abbiamo il diritto di giudicare e vituperare Parigi,senza mutare improvvisamente il nostro nodo di pensa-re; trionfava nell’affermare che l’infernale sistema socia-listico era parto legittimo del liberalismo, conseguenzanecessaria dei due princìpi della separazione dello Sta-to dalla Chiesa e della sovranità popolare. «Lucentissi-ma» tesi era, per l’organo dei gesuiti, che il liberalismocostituisse «naturale famiglia e scuola del comunismo»,

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liberalismo e socialismo non fossero se non due momentidiversi, esplicazioni successive di uno stesso concetto1417.

Pietoso, dunque, il tentativo dei liberali di rinnegare icomunisti: conveniva ripulire la società dal morbo del li-beralismo e dalla sua influenza pestifera, se si voleva dav-vero impedire l’avvento della nuova età di ferro, ad ope-ra di barbari non irrompenti dal di fuori, anzi sorgentidal seno stesso della società, come i vermi dal putridumedi un cadavere1418.

Ma venisse pure l’universale rovina: la Chiesa sola sa-rebbe sopravvissuta, incrollabile; e l’Internazionale, ar-mata di fiaccole e di petrolio, sarebbe stata ministra del-l’ira di Dio e strumento per punire governanti e governa-ti, principi e popoli1419.

O con il Papa o con L’Internazionale: questo il dilem-ma che i fogli clericali ponevano.

Pochi anni più tardi, si sarebbe levata la voce dellostesso Pontefice, Leone XIII, ad ammonire contro coloroi quali, «con nomi barbari e diversi» chiamatisi socialisticomunisti e nichilisti «sparsi per tutto per tutto il mon-do e legati tra sé coi vincoli di iniqua cospirazione, ormainon ricercano più l’impunità dalle tenebre di conventi-cole occulte, ma apertamente usciti alla luce del giornosi sforzano di colorire il disegno, già da lunga mano con-cepito, di scuotere le fondamenta medesime del consor-zio civile»; ad esortare principi e popoli perché «accolga-no ed ascoltino come maestra la Chiesa, tanto beneme-rita della pubblica prosperità dei regni; e si persuadanoche le ragioni della religione e dell’impero sono sì stretta-mente congiunte, che quanto vien quella a scadere, tan-to dell’ossequio dei sudditi e della maestà del comandosi scema. Che anzi conoscendo che la Chiesa di Cristopossiede tanta virtù per combattere la peste del sociali-smo, quanta non ne possono avere le leggi umane, né lecostrizioni dei magistrati, né le armi dei soldati; ridoninoalla Chiesa quella condizione di libertà, nella quale possa

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efficacemente dispiegare i suoi benefici influssi a favoredell’umano consorzio»1420.

Di questa virtù della Chiesa, della necessità di optare,o con il Papa o con l’Internazionale, erano convinti mol-ti fra i laici. E come già fra il 1848 e il 1850, quando nonsolo Victor Cousin e Thiers avevano cercato l’aiuto deivescovi, ma anche in Italia uomini di minor nome ave-vano pensato al clero come unico argine efficace controil socialismo1421 così nuovamente ora coloro che vedeva-no imminente il diluvio universale tornavano a predicarl’accordo con la Chiesa. Fin dai ranghi degli uomini digoverno, o che tali erano stati in un recentissimo passato,si levavano voci preoccupate e preoccupanti, che non in-tendevano, certo, sacrificare l’unità italiana, ma sostene-vano esser gran tempo di smetterla con la diffidenza ver-so il clero e il Papato e di cercare invece l’alleanza di que-sti solidi pilastri dell’ordine contro il pericolo rosso. Col-laborazione con la Chiesa, necessaria non solo per sanarei dissidi delle coscienze, ma anche per costituire una sal-da barriera contro ogni minaccia dei ceti inferiori: così lapensava un personaggio non di secondo piano, già pre-sidente del Consiglio legatissimo al Re, di cui era per co-sì dire il Rattazzi di destra1422, Luigi Federico Menabrea.Il quale, nel suo discorso al Senato sulla legge delle Gua-rentigie, il 25 aprile 1871, riprendendo tutti i motivi po-lemici da gran tempo addotti contro il secolo degeneretrovava modo di sfogare le preoccupazioni, sue e di altri,di fronte ai torbidi tempi: tempi di immoralità, di mate-rialismo, anche nelle scuole, gravi di conseguenze fune-ste; tempi che sembravano far rivivere l’agitatissimo ulti-mo periodo di Roma repubblicana, allora il trionfo del-le dottrine epicuree, Lucrezio e il De rerum natura da unlato e dall’altro la rivolta di Catilina, ora il rinascere delvecchio sistema di Epicuro e, contemporaneamente, l’in-sorgere degli appetiti brutali, il dilagare dell’immoralità,la ribellione degli operai1423. La Francia, culla del rin-

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novato materialismo, pagava per prima gli errori, con laComune; ma anche l’Italia non poteva ritenersi al sicurodalle torve mene dell’Internazionale, che, ben organizza-ta, non aspettava se non l’istante propizio. Noi, conti-nuava il Menabrea, discutiamo sull’ingerenza governati-va nella Chiesa e facciamo come i Bizantini nel 1453: «in-vece di continuare la guerra ad un ceto che oramai nonpuò più essere pericoloso [il clero], uniamoci per scon-giurare il comune pericolo, e per ridonare la pace alle no-stre popolazioni che non domandano altro che di viveresicure e tranquille sotto la protezione delle leggi»1424.

Il Menabrea era, notoriamente, se non uomo dai tem-pi borgiani come aveva detto Garibaldi, e neppure pro-prio il torvo reazionario combattuto dalla stampa disinistra1425, un conservatore deciso, che nel ’50 aveva vo-tato contro le leggi Siccardi; ma questo non toglieva im-portanza alle sue parole, accolte – dice il resoconto par-lamentare – da vivissimi segni di approvazione. Ch’e-gli caricasse forse le tinte, ai fini polemici del suo di-scorso di opposizione al progetto governativo, può an-che essere1426. Ma nel suo dire c’era, ben viva, una preoc-cupazione sostanziale di fronte ai problemi sollevati dal-la Comune; e molti altri, fra i patrioti, la condivideva-no, tanto che il Ricasoli si chiedeva se, di fronte a «sìterribile e sfolgorante luce infernale», ci si sarebbe in-testati ancora a batter la via «che con tante esagerazio-ni e tanta deficienza di senso pratico, gli assolutissimi vi-sionari democratici dell’89-93 ci apersero, e per la qualecon un’avventatezza inarrivabile noi stessi, con sventuraognora più minacciosa ci ponemmo)»1427. Processo allaRivoluzione francese, in Italia come in Francia come inGermania, ricerca delle responsabilità storiche dei malipresenti?1428 Anche questo: non a caso, alcuni anni piùtardi, il Carducci protestava contro il vezzo di abbassaree impiccolire la Rivoluzione e riaffermava che il settem-

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bre del 1792 restava pur sempre il momento più epicodella storia moderna1429.

Ma, si facesse o no il processo all’89, cresceva il nume-ro di coloro i quali, per difendere lo status quo, invoca-vano «il connubio cordiale del principio di autorità colsentimento religioso; principio e sentimento che debbo-no essere, e sono, per l’essenza loro, collimanti e cospi-ranti in ogni civile società»1430; crescevano, allora e poi, leesortazioni ai cattolici perché partecipassero alle elezio-ni politiche, a fine di costituire con i moderati una soli-da diga contro i nemici dell’ordine sociale, contro i rivo-luzionari che combattevano non soltanto lo Stato italia-no ma anche la Chiesa e la religione1431: e venivano fuorigli appelli ai retrogradi, agli uomini dei principi spode-stati, che, avendo ormai tutelato la loro dignità persona-le, dovevano ora provvedere agli interessi comuni a tut-ti, ad essi e ai loro ex-nemici, cioè alla salvezza dell’inte-ra compagine civile1432; o le raccomandazioni si provve-desse alla stampa, troppo sbrigliata in fatto di religione:«attenti, perché per questa via si va al petrolio»1433.

Perfino dai delegati di Pubblica Sicurezza s’alzavanolamentele sul disaccordo fra Stato e Chiesa, sulla finedel «dolce giogo del Vangelo», che lasciavano aperta lavia alle teorie del socialismo, contro cui la legge riuscivaimpotenxe1434.

Parecchi trai moderati sembravano veramente condi-videre ora il giudizio espresso sin dal ’59 dall’acre Tom-maseo «che mal si scherza colle cospirazioni, e che chivuole fare altri strumento, fa di sé men che arnese»1435;né del tutto ingiustificati apparivano i timori della Sini-stra, che si cercasse di legare il trono all’altare1436 o, co-m’altri ebbe a ripetere ancor più tardi, si chiamasse il sa-cerdote per esorcizzare il demonio internazionale1437.

La paura era forte; e se a Parigi, nell’aprile del ’71,troppa gente aveva addirittura pensato ai Prussiani purdi domare il «mostro» scatenato, tradendo in ispirito

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la patria pur di salvare il ventre1438, in Francia e in Ita-lia molti dei ceti medi volsero gli sguardi angosciati al-la Chiesa romana, invocata come una sorta di gendarmemorale per salvare le persone e gli averi, secondo avevapredetto Taine1439 e doveva ripetere il Sonnino alla Ca-mera, il 30 marzo 1881, con duro giudizio sul clericali-smo della borghesia e delle classi agiate «le quali, ben-ché esse stesse scettiche e miscredenti, considerano la re-ligione come un mezzo di governo, e la vogliono e la so-stengono, non per sé medesime, ma per il popolo. Essevedono nell’organizzazione, nella forza civile della Chie-sa, un potente alleato pei loro interessi di classe, il qualepermette loro di riposare sicuri nel loro gretto individua-lismo; e sperano che per effetto delle predicazioni dellaChiesa la classe più infelice della società si persuada cheanche i patimenti che le provengono dall’opera loro, li-bera di ogni freno, vengono da Dio; che si rassegni, cioè,non solo al male inevitabile che tocca in sorte all’umanitàper legge di natura, ma anche a quello evitabile che deri-va dalla parzialità delle leggi, degli ordinamenti nostri edel cieco e spietato egoismo di classe»1440.

Per i clericali, proprio questa era la caratteristica delliberalismo borghese: «il borghese grasso non vuole in-commodi, vuole fàre alto e basso, e se il prete lo disturbacolle voci della coscienza e col ricordare il nome di Dio,lo pone in disparte; salvo poi a richiamarlo e a chiede-re perdono quando il petrolio lo minaccia nelle sostan-ze e gli toglie la quiete del benessere»1441. Salvo però –occorre aggiungere – a dar nutrimento essi stessi, i cle-ricali, a tali attese delle classi agiate, alternando le de-precazioni sui poveri contadini oppressi dal governo ita-liano con dichiarazioni più tranquillanti per la borghe-sia: come quando si affermava che il suffragio univer-sale, «di natura sua rivoluzionario», diventava se non be-nefico almeno innocuo quando il popolo fosse profonda-mente imbevuto di princìpi religiosi, giacché «la religio-

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ne imprimendo negli animi il santo timor di Dio, repri-mendo in essi lo smo dato appetito dei godimenti mate-riali, innamorandoli della virtù e confortandoli colla spe-ranza dei beni eterni, rende l’uomo contento dellà pro-pria condizione, e l’induce ad operare sempre secondo idettami dell’onesto ed a rispettare gelosamente gli altruidiritti»1442 – che era proprio quel che Vittorio Emanue-le II e Thiers avevano atteso dalla predicazione del clero,fra ’48 e ’50.

Bisognava dominare la paura. Perché, naturalmente,la soluzione vagheggiata dal Menabrea sarebbe andataa tutto vantaggio delle forze retrive: se egli si illudevadi poter ottenere la collaborazione del clero contro l’In-ternazionale, pur mantenendo le conquiste fatte a sca-pito del potere temporale e della Chiesa, bisogna direche tempra di politico non era. La collaborazione avreb-be significato subordinazione alla Chiesa, Menabrea a ri-morchio della Civiltà Cattolica, che già una volta, pro-prio nei suoi riguardi personali, aveva chiaramente det-to come fosse vano sperare di ottenere Roma e salvare alcontempo l’amicizia con la Chiesa1443.

Tanto più pericoloso un simile tentativo di coalizioneconservatrice, in quanto l’atmosfera generale d’Europatirava già verso il conservatorismo, dopo le vittorie prus-siane e il trionfo del Bismarck1444: e anche qui le impres-sioni e previsioni andavano per avventura assai più in làdi quanto poi non dovesse succedere; ma quelle impres-sioni e previsioni avevano pure il loro peso, e già assaiprima della Comune avevano fatto cullare in rosei sognii conservatori delle stesse nazioni latine, i quali – illuden-dosi – speravano che l’esempio della monarchia prussia-na e della sua nobiltà così salda servisse a ripristinare an-che tra i latini molto di quel che s’era perso e smarri-to; e così a parecchi borghesi avevano istillato fiducia inun avvenire quieto e ben ordinato grazie allo Junkertumprussiano1445.

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La reazione trionfava già in Francia con quell’Assem-blea nazionale contro cui era insorta Parigi: e reazionevoleva dire in Francia, facilmente, monarchia legittimi-sta e certamente opposizione all’Italia insediata in Roma,lotta contro lo stesso principio dell’unità e dell’indipen-denza italiana. La causa dell’Italia era, ancora e sempre,la causa della libertà; il trionfo delle tendenze reaziona-rie in Europa era pericolo imconparabilmente maggioreche non una rivolta di plebi: e lo riconobbe apertamentequello stesso Visconti Venosta, pure tutt’altro che tran-quillo sulle conseguenze della Comune: «un periodo ditendenze fortemente conservatrici s’apre con molta pro-babilità per tutta l’Europa. L’Italia, desiderosa di racco-gliersi in se stessa e negli affari suoi, potrebbe attraver-sare con abbastanza sicurezza un tale periodo. Ma sin-ché la questione romana resta aperta, essa non può con-siderarsi siccome al coperto dalle conseguenze di questasituazione»1446.

Era un po’ come dopo il ’48-49: il trionfo del-la Prussia; militare monarchica nobiliare, faceva le ve-ci, in parecchie. immaginazioni, della ripresa post-quarantottesca dell’Austria, militare monarchica nobilia-re, anche in questo dunque dimostrandosi le profondediversità tra movimento italiano e movimento germani-co; e quel che c’era di assai meno retrivo nella Prussia bi-smarckiana di fronte all’Austria di Francesco Giuseppe,era ampiamente compensato dalla assai maggiore gravitàdella Comune di fronte alle giornate del giugno ’48. Co-me dopo il ’48-49: e la esperienza di quegli anni provava,con ricordo ben vivo nell’animo di molti dei maggioren-ti di oggi, quanto facilmente la reazione riuscisse a trion-fare sfruttando le paure e i residui di paura; e i fedeli diCavour bastava si richiamassero ai moniti di lui, una so-la esser la questione fondamentale a cui tutto occorrevasacrificare, il mantenimento cioè della libertà contro lafazione reazionaria-clericale1447.

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Cavour non c’era più; ma i suoi fedeli non tralignaro-no dal suo insegnamento. E come, poco più tardi, rifiu-tando di iniziare un Kulturkampf in Italia tennero fedealla libertà di fronte al Papato, e cioè al maggior nemicodell’ora; così anche di fronte ai rossi seppero contenere iltimore, nell’un caso e nell’altro dando alta prova di quelche fosse lo spirito della libertà.

Non furono quindi soltanto uomini della Sinistra o an-ticlericali convinti a deprecare allora e poi il tentativo dilegare il trono all’altare; furono gli uomini di governo,i capi stessi dei moderati a non volere che i fatti dellaComune servissero da pretesto per una sterzata a destra.Bisognava evitare che l’Internazionale fungesse da don-na dello schermo per coprire la più pericolosa «cospira-zione papalina»1448; e si poté pertanto assistere al lavo-rio dei giornali, di destra e di sinistra, per tranquillizzarel’animo degli Italiani.

Gli organi moderati, polemizzando con i fogli clerica-li negavano una qualsiasi parentela o affinità tra il comu-nismo e il «gran moto nazionale» del Risorgimento, ne-gavano che gli orrori presenti fossero da addebitarsi allastoria stessa del pensiero moderno, cioè ai grandi tentati-vi, con cui, dalla Riforma alla Rivoluzione francese, l’in-telletto umano aveva cercato di snebbiarsi dalle tenebredel Medioevo. Il loro moderatismo, essi lo proclamavanoaltamente quando asserivano che il Partito liberale avevafatto la guerra ai troni dei piccoli sovrani che stavano inItalia, non mai al principio di autorità in sé: si era tratta-to di una «espropriazione forzata, indispensabile per farl’Italia e nulla più»1449. Cioè, in piena conformità a tut-to il loro modo di pensare, niente più spirito rivoluziona-rio, ora che la casa è costruita; niente più nuove avven-ture. Ma nemmeno ritorno all’indietro: e perciò, conti-nuavano i moderati, occorre far argine di fronte al pre-vedibile riaffiorare in Europa di tendenze conservatrici,per effetto delle vittorie prussiane e della Comune, colti-

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vando sinceramente le idee liberali, alla maniera inglese,svizzera, americana1450.

Più decisi, s’intende, gli organi della Sinistra, nelmettere in guardia contro gli allarmi ingiustificati edeccessivi1451; concordi, per altro, con la stampa modera-ta nel ritenere non meno pericoloso l’ultramontanismo ogesuitismo, capace di delitti orribili esso che si presen-tava come il riparatore degli eccessi della Comune1452. Econcordi, gli uni e gli altri, nel ritenere minacciato il prin-cipio stesso di nazionalità, oltre che quello di libertà, siadalla setta rossa, sia dalla setta nera, dagli internazionali-sti come dai gesuiti, pronti a darsi la mano per combatte-re liberalismo e nazionalità, salvo poi a combattersi a vi-cenda: tra i due, il gabbato non sarebbe stato il partitoclericale1453.

Considerazioni, queste ultime, che sarebbero state piùvolte ripetute negli anni seguenti, quando si favoleggiòdi segrete intese degli ultra-clericali coi rossi1454 e perfinos’ebbero comunicazioni diplomatiche da governi esteriche accennavano alle attese del Vaticano nell’anarchiagenerale1455; quando, certo, si assistette al compiacimentodegli intransigenti ogni qual volta il governo italianoparve messo in impiccio dalla opposizione – che era poisemplicemente la Sinistra!– ben lieti questi nerissimi seattraverso un grosso sconquasso generale riuscisse lorodi far riemergere trionfante sui flutti agitati della guerracivile la bandiera papale1456.

Tra gli stessi diplomatici stranieri, residenti a Roma,taluno denunciò «certains joueurs» che non nasconde-vano il loro giunco e dicevano «par la commune auSyllabus»1457; e qualche altro, accreditato presso la San-ta Sede, e deciso nel battezzar calunniose tutte le vocisu di un’intesa fra il Vaticano e i repubblicani, osserva-va tuttavia che v’erano due fatti molto spiacevoli i quali,abilmente sfruttati dai nemici del Papato, davano qual-che apparenza di ragione a quelle voci: il primo, che il

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clero e i clericali gridavano alto e forte, da due anni, chela restaurazione piena ed intera del Papato non sarebbepotuta avvenire, se non dopo una rivoluzione e una ri-pubblica rossa, di effimera durata; il secondo, il linguag-gio della stampa clericale in Italia. Essa rendeva dei pes-simi servizi alla causa che patrocinava: così come quan-do nel novembre del 1872, in vista del molto atteso mee-ting al Colosseo, insisteva nel predire, per quel giorno,una grande catastrofe, lo scoppio della rivoluzione a Ro-ma e la proclamazione della repubblica rossa, fornendoper tal modo argomenti alla stampa dell’altra parte peraccusare il Vaticano di complotti con gli estremisti1458.

Un atteggiamento da disperati, da rompitutto, che cer-cando la salvezza nell’eccesso del male muoveva a sde-gno cattolici sicuri come il Tommaseo1459, e, certamen-te, ripugnava allo stesso Pio IV non mai totalmente di-mentico del ’47: Pio IX che intendeva protestare sino al-l’ultimo respiro contro l’usurpazione dei suoi diritti, madichiarava che in fondo sarebbe stato molto imbarazza-to se gli venissero resi i suoi Stati: «mi ci troverei comein un palazzo senza porte né finestre, di cui non sapreiche farmi»1460. Ma era un atteggiamento di molti, allo-ra e ancora per parecchi anni; onde, agli appelli ai cat-tolici perché partecipassero alla vita pubblica, nell’inte-resse comune, si rispondeva «il nostro centro, non so-lo religiosamente, ma anche politicamente parlando, è ilPapato»1461 e tutto il resto non importava nulla; e s’esul-tava quando si poteva constatare che la Rivoluzione lan-ciava ai cattolici un «grido disperato»1462, la Rivoluzione,cioè tutti quanti, Destra compresa. I moderati dicevano,noi siamo ordine, legalità, e aiutateci dunque a respinge-te i rossi; ma la risposta era, voi siete padri dei mostri, erispondete anche delle colpe dei figli, che sono possibi-li solo perché voi avete scosso le fondamenta sacre dellasocietà.

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In Italia come in Germania, allora e poi, si rimbalzaro-no le accuse dei liberali che accusavano rossi e neri di la-vorar concordi alla rovina della società, i primi servendoai più abili secondi, tanto che, se il partito clericale spes-so era simile a chi tira la castagna dal fuoco con le zampedel gatto, per conto suo era sicuro di non aver mai fat-to la parte del gatto1463; e le accuse dei clericali che di-pingevano i liberali come gli alleati naturali dei rossi, ipreparatori del disordine sociale1464, e dimostravano l’in-conciliabilità fra il Vangelo e il comunismo1465. Alle qua-li polemiche dava alimento, almeno in Germania, ancheil primo dispiegarsi del socialismo cristiano, con il Kette-ler, i Christlich-Soziale Blätter, le «Società sociali cristia-ne», che sembravano a molti mascheratura per ricoprirben altri fini politico-ecclesiastici: tanto che non più so-lo il von Sybel accusava i clericali, virtuosi in demagogia,di servirsi di tutte le arti del radicalismo e del socialismo,ma Bismarck in persona denunciava l’accordo dei rossie dei neri, al Vaticano e in pieno Parlamento1466. Né inFrancia mancarono, ancora più tardi, fin nell’85, accusedi socialismo contro La Tour du Piti e gli altri propugna-tori del cattolicesimo sociale1467.

Per tal modo, attorno, ai fatti della Comune, sul cada-vere della Comune, non solo s’impegnava la lotta fra lospirito vecchio e il nuovo, cioè fra conservatorismo so-ciale e iniziativa rivoluzionaria sociale, traendo gli auspi-ci, i novatori, dal sangue dei trucidati1468, ma tornava a di-vampare, ancora una volta, il grande conflitto d’idee delprimo Ottocento, libertà e reazione politica; e ancor unavolta i maggiori de’ liberaliitaliani, nonostante i timori,rimasero fermi nella difesa del loro ideale.

E senza dubbio erano anche la necessità polemica eil desiderio di sventare in anticipo l’ondata reazionaria,ad ispirare ai giornalisti di parte liberale, destri o sinistriche fossero, un’altra constatazione: quella, cioè, che perl’Italia l’Internazionale non costituiva un pericolo serio.

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Per gli organi della Sinistra, fin dall’inizio; per quellidella Destra, solo dopo le prime sfuriate contro l’Inter-nazionale, ma ad un certo punto per quasi tutti i giornaliliberali il pericolo – orrendo, mostruoso fin che si vuole –non concerne l’Italia1469. Da noi, nemmeno l’ombra di unrivolgimento sul tipo della Comune, perché, in comples-so, la nostra situazione interna è abbastanza buona, sen-tenzia L’Opinione nel numero del 1° giugno 1871, finitacioè la Comune1470: e in tale ottimismo l’aveva precedu-ta di parecchio uno dei due organi magni della Sinistra,Il Diritto, che sin dal 31 marzo aveva cercato di combat-tere le preoccupazioni delle «anime timorate», osservan-do che, da noi, non avevan ragione d’essere le paure diun minaccioso scoppio della questione sociale. Manca,in Italia, la gran piaga del proletariato che affigge Fran-cia ed Inghilterra; da noi, non è il lavoro che sovrabbon-da, sono le braccia che mancano1471: come si vede, nel-l’ottimismo del Diritto c’era, almeno per l’affermazionesulle braccia che mancano, molto di volutamente ecces-sivamente roseo.

Impedire una reazione che, al disopra dell’Internazio-nale avrebbe colpito, in ultimo, gli stessi princìpi di li-bertà e di nazionalità; a tale scopo, servirsi anche dell’ar-gomentazione che in Italia il pericolo non esisteva: il mo-tivo venne ripreso e sviluppato ulteriormente, tra l’esta-te e l’autunno del ’71 e, ancora, nel ’72. Il ministro de-gli Esteri francese, Jules Favre, additava al mondo, comecausa della Comune, il governo napoleonico e l’Interna-zionale? Si contrapponeva alla sua diagnosi una più la-ta diagnosi, per cui il male aveva sede «nella violenza de’partiti, nell’indifferenza de’ mezzi per riuscire, nella for-za brutale anteposta alla libertà, nella sorpresa sostituitaal voto popolare, nello spirito rivoluzionario che giustifi-ca tutti i colpi di Stato»1472. I governi spagnolo e francesetentavano di promuovere accordi internazionali controla setta?1473 Si affermava che non la forza poteva impedi-

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re il lavoro delle idee, ma solo altre idee, più Bennate. Ilsistema più saggio è sempre quello della libertà1474; il no-do della questione sociale sta soltanto nell’adempimento,da parte di ciascuno, del proprio dovere, e in un maggio-re slancio dell’iniziativa individuale, unico vero rimedioalla maggior parte dei mali, politici, economici, sociali dacui l’Italia è ancora afflitta1475.

Per un anno e mezzo, insomma, fu un coro concorde.Solo dopo gli scioperi dell’estate 1872, i primi scioperisu larga scala dell’Italia moderna1476, solo allora qualcheapprensione cominciò ad insinuarsi di nuovo, per la pri-ma volta dopo la Comune. Nei fogli liberali si continua-va, sì, a manifestar fiducia e sicurezza che nulla sarebbeavvenuto di grave1477; e lo si faceva tanto più in quantoera necessario non lasciar attecchire le paurose predizio-ni dell’Osservatore Romano che, il 20 agosto, aveva va-ticinato imminente il tempo della dissoluzione, il giornodella vendetta di Dio e dell’esterminio, affrettato dai go-verni colpevoli, vedendo nel «codice dell’Internaziona-le» con i suoi eccessi, il mezzo con cui la giustizia divi-na avrebbe colpito le gemi ribelli a Dio1478. Ma già si co-minciava ad ammettere che qualche progresso i rossi l’a-vevan fatto, in Italia1479; che qualche connessione tra gliscioperi italiani e quelli del Belgio, della Francia, di Ber-lino e di Trieste c’era1480; che, insomma, se da noi c’e-ra da temere meno che negli altri paesi, tuttavia non bi-sognava addormentarsi ché «se siamo meno minacciati,non siamo però lontani da ogni pericolo»1481.

Il palese diffondersi dell’Internazionale in Italia, do-cumentato, se non altro, dai molti giornali e giornalettiper ogni dove pullulanti, e con titoli spesso ben adatti afar rabbrividire i benpensanti1482; i nuovi, aperti tentati-vi compiuti altrove, nella Spagna meridionale e occiden-tale, durante l’estate del 18731483; e, finalmente, i casi diRomagna dell’estate ’74, in cui veniva facilmente confu-so il sovversivismo nel vecchio senso, cioè repubblicano

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mazziniano, col sovversivismo nuovo, cioè bakuniniano esimile1484, davano, ormai, seriamente a pensare, non con-sentendo più di credere che quello della Comune fossestato un episodio, grave ma senza seguito, e facendo an-che temere, contro l’ottimismo d’un giorno, che l’Italiapotesse diventare facile campo per le mene dei rossi1485.

Ed ecco nella stampa, almeno in quella moderata, tra-pelare una tendenza verso qualche forma d’interventodell’autorità pubblica: sempre, si intende, salvaguardan-do pienamente la libertà politica, che nessuno dei liberaliavrebbe voluto toccata per nessun motivo1486, ma già conprime restrizioni all’assoluta libertà economica di man-chesteriana memoria.

Il congresso di Eisenach, nell’ottobre del ’72, dove,con l’intervento di molti dei più illustri economisti tede-schi, s’era discusso della questione sociale e dei modi diprevenirne i pericoli, offriva lo spunto all’Opinione peraffermare che lo Stato non poteva rimanere indifferen-te dinanzi alle grosse questioni dei rapporti di lavoro fraoperai e padroni, e che il vecchio principio del laisser fai-re cominciava a subire limitazioni nel campo sociale1487;quasi un anno più tardi il congresso, dei dissidenti del-l’Internazionale a Ginevra dava al giornale l’opportunitàdi riprendere la polemica contro i liberisti assoluti, con-vinti che lo Stato dovesse starsene in disparte, mentre eraormai necessario che lo Stato intervenisse nelle questionisociali, le studiasse e ne apparecchias se la soluzione1488.

Che erano, come si vede, i prodromi per le prime for-me di tutela del lavoro, per le leggi sulla previdenza eil lavoro delle donne e dei fanciulli, non a caso così ac-canitamente propugnate dal Luzzatti, che dell’Opinioneproprio di lì a poco doveva diventare magna pars1489.

Ma non ci si fermava lì; e allato de’ consigli allo Statoper un intervento a tutela dei lavoratori, affioravano con-sigli o, meglio, riflessioni di carattere, diremo, più pro-priamente poliziesco. Già nel parlar dell’Internazionale,

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dopo l’ottimismo ch’era stato di moda fra il giugno del’71 e l’estate del ’72, tornava in luce una malcelata preoc-cupazione: lo stesso incitamento allo Stato perché inter-venisse, muoveva dal presupposto che «sarebbe follia»il credere che gli Stati potessero non occuparsi di socie-tà come l’Internazionale, in lotta «contro l’intelligenza».Sì che quando cominciarono a fioccare pene, assai gra-vi, contro alcuni internazionalisti, accusati di cospirazio-ne contro la sicurezza interna, qualche giornale, e fra es-si la autorevolissima Opinione, non esitò ad approvare ilrigore della sentenza, convinto che quanto più frequen-ti saranno gli avvertimenti simili a quello che venne da-to dalla Corte d’Assise di Roma, tanto più rare sorgeran-no le occasioni d’invocare quelle leggi [penali] a salutaresgomento dei nemici dello Stato»1490.

Leggi igieniche e assicurative a tutela del lavoro, maanche mano forte contro i «settari»: erano i due rimedi,nell’uno dei quali si celava il pericolo che, anche incon-sciamente, nel gravar la-mano si venisse poi trascinati piùin là di quanto non si fosse voluto primamente andare, eche dalle proposte di reciproci contatti e scambi d’infor-mazioni tra le polizie dei vari paesi1491, si rischiasse di fi-nire in una sorta di nuova Santa Alleanza. Pericolo tan-to maggiore quanto più andassero scemando le paure diun trionfo europeo del clericalismo: meno grave appari-rà la minaccia degli «ultramontani», Enrico V don Car-los e i Gesuiti, meno insidiata l’unità d’Italia con Romacapitale, e tanto più preoccupanti appariranno i sovver-sivi, i due colori stendhaliani, il rosso e il nero, semprecostituendo lo sfondo cupo del quadro su cui spiccava ilbianco rosso verde dell’unità e della libertà.

Come nella stampa, così anche negli uomini di gover-no si succedettero in quegli anni paura per la Comune,ottimismo sincero ma anche ostentato per ragioni tatti-che, e nuovi timori; e cominciò un’alternativa di assicu-razioni formali sull’assenza di pericolo vero in Italia e,

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sotto sotto, di preoccupazioni man mano crescenti e nonmai più sopite.

Nelle confessioni del Visconti Venosta all’incaricatod’affari austriaco, s’insinuava l’affermazione che il go-verno italiano, vigilante, si riteneva in grado di repri-mere ogni movimento sovversivo; e il ministro la ripe-teva al conte de Launay, assicurandolo che in Italia, co-me in Germania, la vigilanza del governo era stata suffi-ciente finora «a rendere impotenti le mene degli agitato-ri, a sventare gli intrighi ed a premunire il paese da co-sì gravi pericoli»1492. E tuttavia, in quei giorni il ministrodegli Esteri non nascondeva che anche per l’Italia il peri-colo c’era, e grave; e allo Zaluski aveva parlato dei nom-breux éléments socialistes che il paese racchiudeva.

Due mesi e mezzo più tardi, il tono è d’assai mutato.In Italia, paese agricolo dagli scarsi centri industriali, nonvi sono che tracce quasi insignificanti dell’Internaziona-le; il pericolo non è, quindi, per essa né grave, né immi-nente: così il Visconti Venosta, nella sua risposta all’invi-to bismarckiano per misure comuni contro gli addetti al-la setta1493. L’unico pericolo vero potrebbe essere costi-tuito dal raggrupparsi attorno ai nuclei dell’Internazio-nale di tutti i malcontenti del regime, cioè anzitutto deimazziniani, dei «pochi settari che ancor sognano pressodi noi di rovesciare l’attuale governo»1494: Ma anche que-sto è un pericolo assai relativo, perché la tranquillità dicui l’Italia gode, conseguenza naturale della soddisfacen-te soluzione data alle grandi questioni nazionali, e l’attac-camento alla dinastia voterebbero all’insuccesso i tentati-vi mazziniani e socialisti. Preoccupazioni, dunque, sem-mai per una possibile alleanza tra i gruppi mazziniani el’Internazionale, sempre diffuse negli uomini di governo,nonostante il dissidio ormai apertissimo fra il Mazzini e iseguaci di Bakunin e di Marx1495.

Ora un simile ottimismo serviva mirabilmente ai finidella vecchia tattica: raffigurar l’Italia tranquilla, solo in

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conseguenza della possibilità di applicare il programmadel regio governo. Come era opportuno far notare al-l’Europa che l’Italia, il tanto temuto focolaio di spiritorivoluzionario, il terrore dei benpensanti europei un de-cennio innanzi, era un paese d’ordine e di tranquillità,laddove altre grandi nazioni, Francia e Spagna per pri-me, ondeggiavano fra anarchia e reazione! Come adattol’argomento per suffragare le dichiarazioni ufficiali del ree dei suoi ministri i quali cercavano in ogni modo di pre-sentare il regno nella veste di un ordinato e ormai tran-quillo e soddisfatto membro del concerto europeo!

Ma era anche un ottimismo sincero, dovuto alle in-chieste e alle informazioni del ministero dell’Interno. Se,conversando con lo Zaluski, il Visconti Venosta avevadato l’impressione di essere sotto il peso «d’informationsparticulières des moins satisfaisantes», poco appresso dalsuo collega dell’Interno gli pervenivano notizie tali da ri-condurre il sereno nel suo animo. Mentre infatti dallaFrancia gli perveniva notizia d’indirizzi e messaggi inviatida associazioni italiane alla Comune1496, il Ministero del-l’Interno gli comunicava, il 22 maggio, che dalle indaginia più riprese praticate ci si era potuti convincere della in-fruttuosità dei tentativi compiuti per far attecchire l’In-ternazionale in Italia1497. Poco più tardi, il ministero del-l’Interno, pur pregando quello degli Esteri di far seguirea Londra le opportune indagini, dichiarava che il prefet-to di Milano riteneva menzognera l’apposizione di 2540firme ad un preteso indirizzo della sezione milanese del-l’Internazionale al Comitato centrale di Londra1498; e, daultimo, ancora il 18 novembre Giovanni Lanza assicura-va il suo collega valtellinese che, in Italia, la setta non ave-va se non «pochi aderenti sparsi e di poca influenza»1499,proprio mentre, dalla parte opposta, il troppo entusia-sta Riggio assicurava lo Engels ancora un anno e poi «idestini della penisola che saranno nelle nostre mani»1500.

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Affermazioni che possono destare qualche meraviglia,ove si pensi che, almeno per Napoli, la polizia avevagià dovuto seriamente occuparsi della locale sezione del-l’Internazionale, arrestandone i capi sin dal febbraio del’701501; che tuttora si preoccupava assai del più noto e at-tivo fra essi, l’avv. Carlo Gambuzzi, cercando di seguir-lo passo passo ne’ suoi viaggi all’estero, dov’egli appari-va allora come uno dei capi del movimento italiano1502, e,con lui, faceva pedinare con insistenza Carlo Cafiero1503,il nobile barlettano, che da quei giorni sarebbe statospesso causa di seccature e di uggiose pratiche per í di-plomatici di Sua Maestà all’estero. Anzi cominciava sind’allora a profilarsi la necessità di stipendiare apposi-to agente di polizia privata che a Londra, gran centrode’ capi sovversivi e sempre più frequentata anche da-gli Italiani1504, seguisse le tracce de’ Gambuzzi, La Ceci-lia, Cafiero, Zanardelli e compagni: necessità prospetta-ta, com’è logico, dalla Legazione di Londra, poco atta eanche poco propensa a far essa la parte del gendarme, emessa in difficile situazione dal fatto che, contrariamen-te a quanto si poteva fare ad esempio a Parigi, col prefet-to di polizia generalmente ben disposto a fornire ai col-leghi italiani notizie riservate su questo o quel personag-gio, la polizia inglese rifiutava nettamente la sua collabo-razione e lasciava liberi gli stranieri, fino a quando alme-no non ledessero le leggi britanniche1505; ma riconosciu-ta dal ministero dell’Interno e tradotta in atto sulla finedel 1871, con ulteriori proposte poi per l’organizzazio-ne di un vero e proprio servizio italiano di polizia nellacapitale britannica1506.

Ma evidentemente, nonostante queste preoccupazio-ni in casi singoli, nel complesso il governo riteneva anco-ra non pericoloso il lavorio dei rossi: o meglio continua-va ad aver l’attenzione rivolta massimamente al partitod’azione ed a Mazzini, fomite sempre di preoccupazioni,anche morto, tanto da ispirar provvedimenti di assai di-

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scutibile legalità1507. I Gambuzzi ed i Cafiero eran con-siderati, soprattutto, possibili anzi robabili fiancheggia-tori dell’assai più antico e radicato movimento mazzinia-no. I progetti «sovversivi» nel maggio del ’71, erano an-cora, per Giovanni Lanza, quelli del partito d’azione1508:ancora il termine manteneva il suo primitivo significato,né era giunta l’ora, per il ministero dell’Interno, di vederspuntar, con pienezza di forze, dietro all’adusato «sov-versivismo» dei repubblicani il più pericolosa «sovversi-vismo» dei rossi, sempre valutato nei più modesti limitidi aiutante di battaglia dell’altro.

Si spiega così l’ottimismo del Visconti Venosta, ra-pidamente succeduto allo sconforto dell’aprile. Ad ali-mentarlo, sopravveniva anche il fatto che il temuto ritor-no dalla Francia dei garibaldini, sospettati come agitatorirossi dai due governi di Francia e d’Italia, filava via liscioliscio, senza disordini1509. Ond’è che, lungi dal promuo-vere degli accordi internazionali contro la setta, il mini-stro degli Esteri di Vittorio Emanuele si limitò, nei me-si che seguirono, a dare il suo assenso alle proposte per-venutegli da Berlino, nel luglio, su alcuni provvedimentiche i vari governi avrebbero dovuto prendere (cioè, co-municarsi reciprocamente i dati di cui venissero in pos-sesso sull’internazionale e i suoi agenti, come, in effetti,accadde dipoi); e a dichiararsi in linea di massima d’ac-cordo sul principio che attentati alla vita e alla proprie-tà, quali s’erano verificati a Parigi, rientravano nella ca-tegoria dei reati comuni, non di quelli politici, ed eranoquindi soggetti all’estradizione1510.

Veramente, anzi, su questo secondo punto il ViscontiVenosta non s’impegnava per una dichiarazione generaledi principio; si limitava ad osservare di aver già comuni-cato alla Francia di esser pronto ad applicare la conven-zione di estradizione agli autori degli omicidi e degli in-cendi di Parigi, e di esser disposto a rinnovare siffatta di-chiarazione alla Germania; o a qualsiasi altra potenza1511;

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e restando sul terreno di un, fatto specifico, le devasta-zioni parigine, evitava così, di dover compromettersi conuna dichiarazione generale, di principio, che sarebbe,d’altronde, andata assai oltre i suoi poteri, passando in-vece nella sfera addirittura del Parlamento. Sfumature,certo: ma sfumature che davano la esatta misura sì delmutamento avvenuto, in senso ottimistico, nelle valuta-zioni del nostro ministro degli Esteri, sì, e forse soprat-tutto, della riluttanza sostanziale sua (e con lui, dei mo-derati di governo) a mettersisulla via della reazione.

Analogamente, faceva sì conoscere al governo france-se la «ferma volontà» di quello italiano di cooperare conesso alla tutela dell’ordine sociale, prevenendo «la dif-fusione delle dottrine perniciose che minacciano all’Eu-ropa una nuova barbarie»: ma i provvedimenti doveva-no essere «compatibili colle nostre istituzioni e coi nostricostumi»1512; e poiché istituzioni, e più ancora che le isti-tuzioni, costumi e spirito con cui s’intendevano le istitu-zioni erano francamente, recisamente liberali, così il go-verno del re non sarebbe andato troppo lontano nella re-pressione.

In quell’ora, il Visconti Venosta assumeva dunque unatteggiamento complessivamente assai più liberale nonsolo di quello francese, ovviamente premuto dall’incubodegl’incendi e dei massacri parigini, ma altresì di quel-lo russo-tedesco: ché la proposta Bismarck era il risul-tato dei colloqui, a Berlino, tra il cancelliere e il princi-pe Gorciacov, l’uno e l’altro animati da sacro zelo con-tro il banditismo internazionale1513, cui attribuivasi a Ber-lino e a Pietroburgo eccessiva diffusione e potenza1514, espalleggiati nelle loro convinzioni anche dai sovrani e da-gli altri uomini di Stato prussiani, uno dei quali, il contedi Eulenburg, segretario di Stato all’Interno, si dichiara-va convinto che il pericolo d’una rivolta generale non erase non aggiornato e che sarebbe venuto il giorno «où ilfaudrait livrer bataille rangée à certe vermine sociale»1515.

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Dalle idee del cancelliere russo, sulla necessaria solida-rietà di tutti i governi contro la setta, era derivato l’invitobismarckiano1516.

Egli rimaneva, invece, assai più vicino all’atteggiamen-to del governo inglese, francamente e decisamente libera-le, il quale per bocca del Granville, consentiva, in linea dimassima, «à concourir par un échange de vues à s’éclai-rer mutuellement sur les ménées et les moyens d’actionde l’association internatinnale»; ma declinava, siccomequestione assai delicata e di pertinenza più dei tribunaliche del governo, l’invito a considerare alla stregua di de-litti ordinari i delitti dei membri dell’Internazionale1517, eriaffermava, invece, il diritto d’asilo e la «libertà» inglesi.Era, ritenevasi a Berlino, «une fin de non recevoir»1518;e praticamente a conclusioni non diverse conduceva l’at-teggiamento del cancelliere austriaco, il Beust, quale ave-va, sì, fatto buona accoglienza formale, ma aveva chie-sto informazioni sulla setta, la sua organizzazione, il nu-mero dei suoi aderenti, e una volta in possesso dei da-ti non aveva più aperto bocca coll’ambasciatore germa-nico, Schweinitz: salvo, poi, a proporre nel convegno diGastein dell’agosto, di fronte all’insistenza del Bismarcksui pericoli dell’Internazionale, un programma di lavoro,ma in senso di miglioramenti sociali più che di repres-sione. Di fronte all’azione combinata russo-tedesca sta-va un fronte liberale, che aveva come sentinella avanza-ta l’Inghilterra, ma poteva sostanzialmente contare anchesull’Italia e perfino sull’Austria1519.

Ed era parimenti notevole che anche il ministro ingle-se, al pari del suo collega italiano, ricorresse, per coone-stare la sua risposta, all’argomento della scarsa perico-losità dell’associazione1520: opinione sin allora condivisageneralmente nel Regno Unito1521, con un robusto e, perl’Inghilterra, fondato ottimismo di fronte all’avvenire.

Uguale, anzi più accentuato atteggiamento di sostan-ziale liberalismo, il governo italiano manteneva ancora

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in seguito, non solo per incidenti particolari di minorimportanza1522, si anche quando la questione dell’estra-dizione veniva, nei primi mesi del 1872, rimessa sul tap-peto dai governi di Spagna e di Francia, le due nazionicioè che, l’una per i ricordi della Comune, l’altra per lemene anarchico-rivoluzionarie alternantisi a quelle carli-ste, più sembravano dovessero paventare, in quei giorni,l’attività dei rossi. La circolare che il governo di Madridrivolgeva, il 9 febbraio 1872, alle sue legazioni all’este-ro perché ne informassero le varie potenze europee, pro-spettava infatti la necessità di mettersi d’accordo per esa-minare e decidere le misure più adatte allo scopo di com-battere l’Internazionale, suggerendo, fra l’altro, di com-prendere nei trattati di estradizione o in accordi specialiil caso di appartenenza all’associazione1523; poco appres-so, in Francia, l’Assemblea Nazionale discuteva e vota-va, il 13 e 14 marzo 1872, la legge contro l’Internazio-nale, promossa sin dall’agosto del ’71 e solo ora presen-tata dalla Commissione; e alla legge seguiva, nell’aprile,una nuova richiesta al governo di Roma – come agli altri– perché venisse concessa la ormai tanto discussa estra-dizione di chi risultasse appartenere alla associazione1524.

Due iniziative che confluivano in un unico sbocco: esi poté assistere ad una netta antitesi di atteggiamentofra le tre corti del Nord, ora concordi, il governo tede-sco disposto, non ad ammettere l’estradizione degli affi-liati dell’Internazionale, per il solo fatto di tal loro quali-tà, bensì ad accettare l’estradizione per gli autori di delit-ti commessi «in conseguenza» di affiliazione alla setta1525,quello russo, il più reazionario, sempre pronto a misu-re di rigore1526, quello austriaco, con l’Andrássy al postodel liberale Beust, ben disposto ad approvare la propostaspagnola1527, nei limiti in cui l’accettava Berlino; e dall’al-tra, il governo inglese, che nuovamente declinava l’invitomadrileno1528.

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Ancora una volta, il governo di Roma mostrò di inchi-nare sostanzialmente verso il lasciar fare all’inglese e nonverso le misure di rigore preventivo e generale: e dappri-ma il ministro dell’Interno, Lanza1529, e successivamenteil Guardasigilli, De Falco1530, fecero presente al loro col-lega degli Esteri l’impossibilità di dar seguito alle richie-ste spagnola e francese.

Certo, dal punto di vista strettamente formale l’at-teggiamento di Roma non era dissimile da quello tede-sco, siccome notava «con soddisfazione» il Lanza, alme-no di fronte alla richiesta spagnola: anche Berlino in-fatti, rifiutava di accettare l’estradizione per il sempli-ce fatto dell’appartenenza alla setta. Ma l’animo deipolitici di Roma era d’assai più vicino all’atteggiamen-to del Granville e del Gladstone, prettamente, profon-damente liberale, tutto imbevuto di quel che, in fat-to di politica interna, poteva bene essere consideratoil principio informatore del liberalismo inglese e quin-di europeo, il principio, cioè, del reprimere e non delprevenire. Lo dovevano proclamare apertamente, piùtardi, due uomini della Sinistra, il Cairoli1531 e, soprat-tutto, lo Zanardelli1532, anche contraddicendo al Crispiche, futuro zelatore del governo forte, già reclamava ilprevenire1533; ma, in quei giorni del ’71-72, almeno, fupure il principio a cui si ispirarono gli uomini della De-stra. L’alta perorazione di Francesco De Sanctis, alla Ca-mera, il 10 dicembre 1878, sulla necessità assoluta dellalibertà di pensiero e d’insegnamento1534, era anch’essa giàsostanzialmente contenuta nella dichiarazione del Lanzaal suo collega degli Esteri, che lasciava ad ogni associa-zione facoltà di raccogliersi intorno ad un programmaeconomico-politico «inspirato anche ai più assurdi sofi-smi della Scuola socialista». Insomma, ancora e sempreera il convincimento che occorreva valersi solo di «quel-le forze morali, che formano la sanità delle nazioni»1535; e«rispettare la legalità e la giustizia».

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Noi abbiamo tanto sofferto a causa dell’arbitrio – di-chiarava uno degli uomini di Stato italiani al ministro diFrancia, Fournier, nell’estate del ’72 – quando vivevamoa seconda dei capricci dei nostri numerosi governi, chevogliamo credere alla legalità, ora che ci sentiamo abba-stanza forti per essere una nazione, una e libera; e sia-mo abbastanza chiaroveggenti per non credere alla liber-tà che nella legge. Commentava il Fournier, che in Italianon c’erano da temere misure speciali contro i Gesuiti,a seguito della violenta politica bismarckiana: ai Gesuiti,come all’Internazionale1536, contro cui il governo italianoaveva rifiutato di predisporre una legislazione speciale,verrà applicata la legge comune. Gli Italiani hanno trop-po l’esperienza delle società segrete e della forza di pro-paganda loro procurata dalle leggi violente ed ecceziona-li, per voler creare dei martiri; i loro uomini di Stato han-no una gran fiducia nel tempo e nella legalità, per risol-vere le difficoltà apparentemente più compromettenti ecomplicate. Nel Parlamento, nel paese quel che dominaè lo spirito di legalità1537.

Era una prova certa della profonda serietà e saldezzadelle convinzioni liberali di quegli uomini. Giacché que-sto riaffermare il diritto di libera associazione non erapiù dovuto alla sicurezza di non aver nulla da temere.Lanza poteva bensì ripetere nella primavera del ’72 chel’«associazione internazionale, massime in Italia, è tutta-via in uno stato di formazione assai rudimentale, e si tra-vaglia ancora faticosamente intorno alle vie da scegliereper concretare un sistema di condotta, ed estrinsecare lasua azione» poteva assicurare il ministro di Francia pres-so il Quirinale, ch’egli, assai esattamente informato sul-l’attività dell’Internazionale in Italia, era molto tranquil-lo e non ne temeva le possibilità di propaganda, con isuoi appena 3 o 4000 affiliati, con il dissidio fra interna-zionali e mazziniani, con Garibaldi – desideroso di uni-re gli uni e gli altri privo delle necessarie qualità di or-

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ganizzatore, unico eventuale non grave pericolo essendoquello di un avvicinamento fra l’Internazionale e la mas-soneria priva oggi delle sue ragion d’essere cospirative diuna volta1538: ma egli stesso non si sentiva forse così tran-quillo come era apparso nell’estate e ancora nell’autunnodell’anno precedente.

Non erano infatti solo notizie dall’estero a conferma-re la diffusione dell’Internazionale in altri paesi o i lega-mi fra le sezioni estere e quelle italiane1539. Sin dal gen-naio del 1872 il ministero dell’Interno rilevava un’incon-sueta attività dei mazziniani e degli internazionalisti, peruna comune e imminente azione rivoluzionaria, in con-comitanza con analogo movimento francese1540; e sebbe-ne la data annunziata (il 24 febbraio) trascorresse senzaperturbamento alcuno, al di qua come al di là delle Al-pi, pur tuttavia al Lanza continuavano a pervenire noti-zie allarmanti, talora, come suole, fantastiche1541, e veni-van segnalati, anche dalle autorità francesi e austriache,i frequenti viaggi di veri o presunti agenti della setta1542:donde l’intensificarsi del carteggio di carattere poliziescofra il Ministero dell’Interno e quello degli Esteri, fra que-st’ultimo e gli agenti diplomatici all’estero, probabilmen-te assai poco soddisfatti di vedersi affibbiare un nuovo e,certo, non gradito compito1543.

E nell’estate sopravvenivano gli scioperi: 31, in 25 lo-calità diverse, quasi tutte dell’Alta Italia, dall’inizio diluglio alla fine di agosto; più importanti fra tutti quel-li, scoppiati contemporaneamente il 24 luglio, di Vero-na (operai delle officine ferroviarie, per cinque giorni)e di Torino (sciopero generale per nove giorni), e quel-lo di Milano (pure generale), iniziato il 5 agosto. Sem-pre fedele alla tattica di ostentare sicurezza e tranquil-lità per non fare il giuoco degli avversari1544, il governoparve continuare a ritenere, come molti altri Italiani, chela questione operaia non presentasse, nella penisola, glistessi pericoli che altrove, e non volle aver l’aria di attri-

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buire eccessiva importanza a quanto accadeva nei cen-tri industriali1545; ma, quasi sin dall’inizio, si preoccupa-va invece di possibili connessioni fra gli scioperi italiani equelli che, contemporaneamente, avvenivano in Francia,come determinati, gli uni e gli altri, da un’unica parolad’ordine lanciata da uno stesso potere direttivo1546. E il ri-sultato ultimo delle indagini compiute dal ministero del-l’Interno fu che, per gli scioperi più importanti, sebbenemancassero elementi per affermare che tutti fossero statipreparati esclusivamente dall’Internazionale, pure si ave-vano prove sufficienti per ritenere che essa li avesse pro-mossi e favoriti, e altresì per affermare che, dopo il Con-gresso tenuto dalla Federazione Italiana dell’Internazio-nale in Rimini, il 4, 5, 6 di agosto, la setta avesse fattosforzi per organizzare nuovi scioperi. A Torino, Milano,Verona, indubbia la sua influenza1547.

Dunque, non era più possibile, come l’anno innanzi,ostentare assoluto ottimismo: ora, e nonostante gli scre-zi profondi tra sezioni italiane e Consiglio Generale diLondra1548, che culminavano nel distacco delle prime dalsecondo proprio nel Congresso di Rimini, l’Internazio-nale aveva messo piede in Italia1549 e cominciava ad agirein modo indubbio e non privo di efficacia.

E finalmente, nel novembre del 1872, il grande mee-ting al Colosseo, per il 24 – che pur non era dell’Interna-zionale! – suscitava allarmi ancor più vivi: questo ap-pariva un vero e proprio tentativo rivoluzionario, chesi proponeva di mutare le istituzioni fondamentali del-lo Stato1550. Scapparono dalla capitale, in buon numero, iforestieri, timorosi di un vero e proprio conflitto cruento;si diffusero, come suole, le voci più inquietanti, non ul-tima quella – pure raccolta dal ministro di Francia pres-so il Quirinale – che il clero sperasse, sovreccitando glianimi, di provocare un conflitto aperto e quindi un at-to di forza del governo, e nuovi odii contro di esso: cer-to l’allarme fu grande, e il nome dell’Internazionale cor-

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se di bocca in bocca, e il pacifico cittadino rabbrividì in-contrando qua e là per le strade «de ces figures qui nesortent de terre que les jours où il se prépare un mauvaiscoup»1551.

Un anno più tardi, nuovi scioperi: e sempre più si raf-forza negli uomini di governo «il sospetto gravissimo chegli scioperi delle classi operaie fossero promossi dalle fa-zioni sovversive e specialmente dall’Associazione inter-nazionale. Ad avvalorare questo sospetto ... concorro-no ora i nuovi disordini avvenuti in alcune provincie ele successive notizie pervenute ...»1552. Infine, il ’74, villaRuffì da una parte, e dall’altra il tentativo insurrezionaledi Andrea Costa, Cafiero e Malatesta.

All’ottimismo cominciava dunque a subentrare unacerta inquietudine. Negli uomini di governo, come nellastampa. E bisognava andare in cerca di rimedi.

Di iniziative collettive delle potenze – d’altronde cosìpericolose e tali che, se si fossero realmente attuate,avrebbero nuovamente posto Lanza e consorti a frontea fronte col proprio vigile senso di libertà – non era piùil caso di sperare o temere l’avvento.

Passata era l’ora in cui non pure certa stampa, maperfino il ministro di Svizzera a Roma poteva temereaddirittura che Francia Germania Italia cercassero diaccordarsi per occupare militarmente i cantoni svizzeriloro confinanti, e mettere così fine al concentramentodegli internazionalisti su suolo elvetico1553.

La proposta spagnuola del febbraio era caduta nelvuoto; un po’ il fatto che, emanando da una potenza disecond’ordine e allora in piena crisi, era venuta fuori sen-za la necessaria autorità iniziale per imporsi veramenteall’attenzione dei gabinetti europei; un po’ l’opposizio-ne inglese e un po’ la difficoltà di mettere d’accordo le-gislazioni assai diverse avevano fatto fallire questa, comegià la proposta francese dell’anno precedente e, ancora,la stessa rinnovata proposta francese della primavera del

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’72. Sin dall’inizio delle discussioni sulla proposta spa-gnuola, sin da allora era affiorato in taluno de’ capi digoverno un sostanziale scetticismo sulla possibilità pra-tica di giungere ad un accordo generale europeo1554; e lostesso governo di Madrid era ben consapevole della de-bolezza iniziale della sua proposta, quando aveva espres-so il desiderio che qualcuna delle grandi potenze la fa-cesse sua, con ben altra autorità, assumendosi il compitodi concretare le basi dell’accordo1555.

L’unico uomo di Stato che avrebbe avuto prestigiosufficiente per costringere ad un accordo almeno le po-tenze continentali, il Bismarck, non era già più ora nellostato d’animo che gli aveva ispirato i passi presso i gover-ni europei del giugno ’71: ora, si stava iniziando il Kul-turkampf e in luogo dell’Internazionale rossa l’incubo delcancelliere diventava l’Internazionale nera, l’ultramonta-nismo. Il ricordo della Comune svaniva, e restava invece,ben fermo dinnanzi ai suoi occhi, il fantasma del Vatica-no: in luogo dei rossi petrolieri parigini, le nere vesti de’preti. Non solo ad accordi di carattere internazionali eglinon avrebbe d’ora in poi pensato, con i colleghi di Rus-sia e Austria, nemmeno nel grande convegno di Berlinoche fu pure una spettacolosa dimostrazione di conserva-torismo europeo1556; ma neppure a provvedimenti inter-ni: il Sozialistengesetz sarebbe stato preceduto dalle leggidi maggio, avrebbe dovuto attendere il 1878 e i due con-secutivi attentati contro la persona stessa dell’imperatoreGuglielmo per esser concretato.

E rimaneva, per il momento, pure senza costrutto il la-voro preparatorio delle commissioni tedesca ed austria-ca che avevano cercato di elaborare piani per risolvere laquestione sociale, non accontentandosi di reprimere, maanche di prevenire.

Era stato, questo, il risultato delle discussioni fra il Bi-smarck e il Beust, nei convegni di Gastein e di Salisbur-go, l’agosto e il settembre del ’71, il cancelliere germa-

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nico d’accordo ora che misure repressive contro l’Inter-nazionale non bastavano a risolvere la questione socia-le, di cui la prima era soprattutto un sintomo1557; il Beu-st più che convinto che la repressione sola non bastava,e occorreva invece organizzare anche una «controinter-nazionale» che lavorasse al di fuori dei governi1558, «stu-diare i modi migliori per opporre una diga di interessiconservatori alle passioni di chi vuol distruggere ogni or-dine governativo». Occorreva «favorire e proteggere lepretese degli operai, nel limite della giustizia, promuove-re le associazioni in cui essi trovino vantaggi reali e du-raturi: togliere, così in una sola parola, dalle mani deisovvertitori l’arma di cui si valgono per mantenere edusufruttare il malcontento nato da molteplici cause nel-lo sviluppo odierno delle imprese e delle industrie»1559.Su questa base, accettata dal Bismarck, si sarebbero do-vuti svolgere i lavori di commissioni austro-tedesche, co-me preparazione di una vera e propria commissione in-ternazionale da proporsi agli altri governi. In realtà, an-che i due memorandum del Beust erano rimasti senza se-guito immediato1560; e solo nella primavera del ’72, do-po la proposta spagnuola, si passava all’attuazione prati-ca, mediante la creazione di due commissioni, una tede-sca e una austriaca, le quali, dopo lavori preliminari se-parati, dovevano riunirsi in una conferenza a Berlino1561.La conferenza ebbe luogo, dal 7 al 29 novembre, a Ber-lino, e concluse, in effetti, per misure preventive e nonrepressive1562 ma tutto finì lì, senza traccia immediatanemmeno nella legislazione interna dei due paesi, e sen-za naturalmente che fosse mai più questione di convoca-re attorno ad un tavolo i rappresentanti delle altre grandipotenze1563.

Così, non c’era proprio da sperare o temere alcunaazione generale europea: bisognava che ciascuno se lasbrogliasse da sé, siccome faceva d’altronde il governoitaliano, che procedeva, specie sulla fine del 1872, a scio-

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glimenti di circoli e associazioni repubblicane e socialistenelle Marche, a Genova, in Toscana soprattutto.

E ad accrescere le inquietudini, cominciavano a so-pravvenire, oltre gli scioperi, oltre le informazioni dall’e-stero accennanti a grossi pericoli per l’Italia1564, anche al-tri eventi o annunci di eventi particolarmente atti ad im-pressionare uomini di governo dalla sincera ed ardentefede monarchica: vale a dire, gli attentati ai sovrani. Pro-prio quando gli scioperi in Italia stavano per giungere alpunto massimo, proprio allora, a sera tarda del 18 luglio1872, il re di Spagna, un Savoia, sfuggiva per miracolo al-le fucilate sparategli contro da cinque individui. E comeper gli scioperi le inchieste sboccavano nella constatazio-ne dell’indubbio intervento dell’Internazionale, così perl’attentato pochi giorni appresso perveniva da Londra lanotizia ch’esso era stato preparato nella capitale inglese,senza dubbio ad opera dell’Internazionale la quale, colregicidio, voleva provocare una rivolta in terra iberica1565.

Quest’era un fatto, una realtà che dava valore anchealle altre frequenti voci di preparativi di attentato, con-tro questo o quel sovrano1566: nessuna meraviglia che, sulfinire del 1872 e ai primi del ’73, a Roma si prendesseromolto sul serio le notizie da Londra su di un imminenteattentato contro Vittorio Emanuele II, e si ordinasse lamassima vigilanza su tutti i sovversivi – anche sui movi-menti di Ricciotti Garibaldi, proprio allora in Inghilterrae sempre sospetto di trame con l’Internazionale1567.

Così si alimentavano i timori; e s’alternavano fiduciae ansie, ottimismo e primi dubbi. Tra questi due poli,il senso fortissimo della libertà e le apprensioni di fron-te alle oscure forze che si agitavano in basso, tra l’alter-narsi de’ timori e delle considerazioni ottimistiche sul-la mancanza di materia infiammabile in Italia1568 dovevad’ora innanzi muoversi la politica italiana: anche la po-litica estera, per quanto almeno su di essa rifluissero igrandi problemi interni. Ond’è che come nella stampa

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crescevano le preoccupazioni per l’Internazionale e dal-l’animo di molti uomini del ceto dirigente non s’estirpa-va più la diffidenza per quel che poteva, anche improv-visamente, erompere dal basso1569, e agli ormai vecchiepigoni dell’immaginoso fraseggiare romantico la manodell’Internazionale appariva tratto tratto sulle pareti del-la moderna società, simile alla mano tragica della cenadi Baldassarre1570 e quando s’avevano in pugno operaicolpevoli di «cospirazione», dopo i tentativi insurrezio-nali del ’74, si colpiva duramente, e il Pubblico Mini-stero ne parlava come di «melma sociale»1571; così sem-pre più s’infittivano i carteggi mínisteriali, in cui veni-van innanzi i nomi dei grandi agitatori – talora, anchedi presunti grandi rivoluzionari – segnalati da PalazzoBraschi alla Consulta e da questa alle legazioni all’este-ro, soprattutto a Londra: nomi di persone che dovevanessere vigilate e pedinate, perché a Roma si potesse es-sere tranquilli. E pertanto oggi a chi consulti gl’incar-tamenti della corrispondenza ordinaria fra Roma e Lon-dra, vien fatto di osservare, non senza una iniziale me-raviglia, come, sovente, una parte non esigua, quanti-tativamente, dei dispacci e dei rapporti non contempligrandi problemi di politica internazionale, e tralasci i no-mi di Gladstone e Granville, per soffermarsi invece sul-l’andirivieni Londra-Parigi-Ginevra e Londra-Bruxelleso Milano-Londra di uno fdi questi errabondi propugna-tori del verbo proletario.

V’era così il pericolo che, senza ripudiare i princìpidella libertà, anzi riaffermandoli con fermezza, e senzadunque passare minimamente nel campo della reazio-ne, la politica estera del giovane Regno risentisse, tut-tavia, di diffidenze, di sospetti e di un’inquietudine va-ga ma reale, tali nell’insieme da inclinare i governanticon maggior simpatia verso le cosiddette potenze del-l’ordine, garanti sicuri della conservazione dello statusquo politico-sociale, cioè monarchico-borghese, dell’Eu-

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ropa. Il conservatorismo auspicato dal Minghetti diven-tava, insensibilmente, una realtà: un motivo di più peril riavvicinamento alla Germania imperiale e il distaccodalla Francia.

La quale, senza dubbio, era conservativa assai, anzireazionaria nella maggioranza dell’Assemblea Naziona-le eletta nel febbraio del 71; era conservativa e reazio-naria nei suoi ceti rurali, nella nobiltà e in parte stessadella borghesia: tant’è, essa doveva apparire minacciosaal giovane Regno, negli anni immediatamente seguenti il’70, come centro della reazione cattolica, ch’è come di-re minacciosa all’unità d’Italia. Ma se in quei primi an-ni dopo il ’70 la Francia appariva nel complesso conser-vatrice, c’era sempre l’ombra sinistra della Comune, sulfondo; e poi, rapidamente, fu Gambetta, fu l’appello al-le nouvelles couches sociales, fu la repubblica del ’76, ful’apparire trionfante del radicalismo, agli occhi dei mo-derati italiani parente prossimo, assai assai più di quantonon fosse in realtà, del socialismo e del sovversivismo. Erisorse quasi subito l’immagine della Francia come del-la nazione che passava, a sbalzi improvvisi, dalla reazio-ne all’anarchia, dal terrore rosso al terrore bianco, atta atutti gli estremi, irrequieta e instabile, capace di alimen-tare in un prossimo futuro nuovo fuoco rivoluzionario.Fille aînée de l’Eglise et mère de la Révolution1572 ad untempo, la Francia spaventava allora nell’una veste, quellaclerico-reazionaria, tutti indistintamente i partiti italiani,e, nell’altra, quella radicale, almeno gli uomini della De-stra, i moderati1573, che potevano sentirsi più tranquilli,dal punto di vista dell’ordine e della tranquillità interna,guardando a Berlino e a Vienna.

Non a caso il più feroce antiinternazionalista fra i di-plomatici italiani era, anche, il più accanito sostenitoredell’alleanza prussiana. Il conte de Launay, infatti, nonnascondeva mai al Visconti Venosta il suo modo di vede-re, assai spiccio e perfettamente analogo a quello del suo

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collega francese di Pietroburgo, il generale Le Flô, ch’e-ra stato d’altronde il ministro della Guerra nel governoversagliele durante la Comune1574 agire con la forza. Al-tro che le sedute delle commissioni di tecnici e di profes-sori universitari e di giuristi, che studiassero il rimedio almale!1575 Dati i tempi e i costumi, unica cosa salutare erasévir avec énergie1576. Pugno di ferro.

Atteggiamento logicissimo in un uomo che, prima an-cora si parlasse dell’Internazionale, già deplorava le so-verchie discussioni alla Camera italiana, di cui accusaval’esprit aussi peu pratique, è già profetizzava funeste coseal parlamentarismo e a chi su di esso poggiasse1577; in unuomo il quale si associava al parere del Guizot: «de nosjours ce n’est pas la liberté qui a besoin de défenseurs,mais l’autorité» Autoritario e antisocialista, il de Launaydimostrava, con il suo esempio personale, come avesseroragione coloro che temevano, per effetto della Comune,l’ondata reazionaria.

Certamente, nessuno degli uomini al potere in Italia,e nessuno anche di quegli altri moderati che ne avrebbe-ro raccolta la successione nel ’73, nessuno fra i Lanza, iMinghetti, i Visconti Venosta, a tacere dei Sella, avrebbemai fatto suo l’autoritarismo del savoiardo: solo un altrosavoiardo, il Menabrea, avrebbe potuto sottoscrivere adespressioni del genere, sicuro, anche, di trovarsi in pienaconformità d’idee col suo re, il quale aveva temuto cheThiers non si lasciasse trascinare da tendenze alla conci-liazione, da riguardi verso le «bande» di Parigi. «Nousavons ... trente ou quarante mille de ces misérables cheznous, et je sens qu’il faut être énergique contre eux»1578.

Ma che nessuna sfumatura in senso conservatore s’in-filtrasse nella politica italiana e anche nella politica este-ra, d’ov’era facile che il conservatorismo si ammantassedi altre motivazioni e fosse confortato da ragionamenti diinteresse diplomatico e finisse quindi con l’essere accol-to, in perfetta buona fede, da uomini sinceramente devo-

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ti all’idea e alle istituzioni liberali: che questo non avve-nisse, proprio in nessun modo, era altra questione. Tan-to più perché coloro che cominciavano ad agitare fra lemasse il problema sociale, agitavano anche quello istitu-zionale, la monarchia apparendo baluardo degli interessidei ceti cosiddetti privilegiati e la repubblica una neces-sità per la vittoria dei lavoratori e l’attuazione del nuo-vo ordine. Riappariva così, sempre, lo spettro della re-pubblica la quale, sorgesse pure ad opera dei mazzinia-ni, era sempre la rivoluzione, l’anarchia, la rovina di tut-to. Il pericolo repubblicano, più antico, apparve anco-ra sempre maggiore, assai maggiore del pericolo socialevero e proprio: e questa fu la preoccupazione più gra-ve, sin verso il ’90; e la preoccupazione anzi salì di tonodopo il 1878, condusse, fra il ’79 e l’81, ai giudizi pessi-mistici di Italiani e di stranieri sulle sorti prossime del-la monarchia, ripercuotendosi anche direttamente sullasituazione internazionale dell’Italia.

Ma non v’eran da attendere il 1882 e la conclusionedella Triplice Alleanza per scorgere il peso delle preoc-cupazioni conservatrici sulla stessa politica estera. Giànegli ultimi mesi del 1870, la repubblica in Francia vol-le dire parteggiare dei cavallottiani per essa e, invece, uncerto intiepidire delle simpatie filofrancesi nei moderati,anzitutto nel Bonghi1579, e addirittura il passar deciso dialtri a simpatie filoprussiane1580.

Né era questione soltanto di giornali e di opinionepubblica. Nell’autunno del 1870, proprio in sull’iniziodella vicenda storica di cui ci occupiamo, le preoccupa-zioni di politica interna avevano pesato concretamentesulla politica estera, con l’accettazione della corona re-gale di Spagna da parte del duca d’Aosta. L’argomen-to che aveva vinto le molte esitazioni del Visconti Veno-sta era stato infatti lo spauracchio della repubblica, in cuialtrimenti la Spagna sarebbe precipitata. Una repubbli-ca spagnuola di per sé non era cosa da commuovere; ma

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la situazione generale europea era mutata dal momentodel primo rifiuto del duca, era mutata anche dal luglio,quando il governo italiano sarebbe già stato disposto adaccettare, per salvare la pace europea, seppellendo l’in-cidente Hohenzollern1581. «... la repubblica a Parigi e la.Repubblica a Madrid costituiscono un fatto di cui un go-verno prudente deve preoccuparsi. Né vale il dire chela repubblica in Francia sarà del tutto effimera. Le variefrazioni dei partiti moderati francesi, sono ora dispostea unirsi intorno alla forma repubblicana siccome a quel-la che meno li divide ed è quindi più atta ad assumere laresponsabilità della pace e a sanare le piaghe della guer-ra. Se ciò avviene la repubblica durerà in Francia per unperiodo alquanto prolungato di tempo. Che se la repub-blica cade del tutto nelle mani del partito estremo essasi farà allora propagandista e se non ci creerà dei seriipericoli, per lo meno ci solleverà degli imbarazzi e delledifficoltà considerevoli.»1582.

Questi, dunque, i motivi della decisione del Viscon-ti Venosta1583, che non pensava nemmeno lontanamen-te di porre in tal modo le premesse di una politica digrandezza mediterranea, ch’era tutto preoccupato, spe-cialmente dopo l’ingresso a Roma, di non «andare in-contro ad alcun rimprovero, ad alcuna accusa di am-bizione inquieta ed incontentabile»1584, che non si so-gnava nemmeno di svolgere una politica di accerchia-mento dalle Alpi ai Pirenei, creando difficoltà alla Fran-cia, anzi, prima di decidere, si preoccupava di ottene-re l’assenso anche del governo francese alla candidaturadel duca Amedeo1585. Già allora, dunque, preoccupazio-ni in senso monarchico-conservatore, confortate dall’ap-poggio dell’Inghilterra1586, avevano ispirato la decisione,con gran piacere del duca desiderosissimo della coronaregale1587 e con plauso dei moderati, ai quali sembravaproprio necessario impedire che la Spagna si ordinasse arepubblica1588.

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Capitolo Quarto

Presente e avvenire

Motivi vecchi e motivi nuovi s’intrecciavano così nellavita morale e spirituale degli Italiani, gli uni collegandole giovani e le vecchie generazioni, il ’48 e il ’70, gli altripreannunziando diversi sviluppi e differente futuro. Permeglio dire, i vecchi ideali continuavano a signoreggiare,libertà e nazionalità sempre costituendo il fulcro dellavita italiana: ma già si avvertivano, nella interpretazionedi essi, accenti da’ quali trasparivano, come l’imporsidi nuovi problemi e l’avvento di forze storiche almenoparzialmente diverse da quelle del ’48 e del ’59, così lepossibilità di sviluppi anche ideologici capaci di portareassai lontano dalle antiche mète.

La libertà: era sempre il motivo che dava il tono d’in-sieme all’epoca. Che gli stessi ammiratori della potenzagermanica ritenessero, così pensando e scrivendo, di ser-vire la causa della libertà, dianzi conculcata dal tiranni-co figlio d’Ortensia, era gran prova di quali fossero gliideali degli Italiani attorno al ’70; e che la loro fosse il-lusione, nulla toglie alla serietà del convincimento, cosìcome poco importa che nuovamente essi s’ingannasseronel considerare il Kulturkampf come affermazione del li-bero pensiero e del libero volere umano in lotta control’oscurantismo cattolico, e nel volere, perciò, un Kultur-kampf anche in Italia. Nell’un caso e nell’altro essi im-prestarono al cancelliere germanico i loro sentimenti ele loro idee: cosa, appunto, di gran peso nel dichiararequale fosse la loro vita spirituale.

Libertà, sovranità popolare: e parlando di sovranitàpopolare la si interpretava ancora nel vecchio senso rous-seauiano, e parlando di democrazia, la si volesse o la siavversasse, si credeva ancora all’azione diretta, immedia-ta del popolo, siccome dimostrava lo stesso insistente ap-

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pello ai plebisciti come espressione della libera volontànazionale. Gaetano Mosca non era ancor giunto a negarfede a questi miti e a parlare delle minoranze organizzatee capaci, della classe politica unica vera attrice di storia.

Fede nella libertà: e gli uomini di governo, i modera-ti, ne offrirono prova decisiva in un momento particolar-mente difficile per la nazione italiana, in pieno infuriaredi agitazioni clericali, rifiutando di porsi sul terreno del-la lotta violenta contro il Papato su cui pure voleva spin-gerli il Bismarck. In quei due critici anni, fra la primave-ra del ’ 7 3 e la primavera del ’75, gli uomini della Destramantennero fede alla religione della libertà; e per man-tenere tal fede non esitarono a correre il certo rischio dialienarsi l’animo del cancelliere germanico, che pure ap-pariva loro, in quei frangenti, l’unico sicuro e solido so-stegno dell’Italia nell’Europa.

Analoga prova essi diedero, rinunziando a ricorreread una legislazione restrittiva nei confronti dei seguacidell’Internazionale. E pure, questo era un detestatissi-mo mostro. Di fronte alla Chiesa cattolica e al Papato,la grandissima maggioranza dei moderati, di animo cat-tolico, convinta della necessità della forza del sentimen-to religioso per una società bene ordinata, era nell’atteg-giamento di chi debba sopportare un doloroso e fataleperiodo di contrasti, ma senza dismettere mai la speran-za di un avvenire senza contrasti, con le due parti paci-ficate e rispettose l’una dell’altra. Ma di fronte alla pro-paganda dei sovversivi, l’avvenire se mai impauriva assaipiù del presente: qui, nessun accordo possibile, né ora némai; qui, veramente, la prospettiva di una lotta indefinitae senza quartiere.

Qui anche, perciò, il primo evidente irrigidirsi delpensiero liberale, com’era stato elaborato dall’Ottocen-to occidentale; qui, il precisarsi delle sue colonne d’Er-cole, almeno per qualche decennio e nonostante le vo-ci di chi premeva perché s’andasse oltre; qui, l’abbando-

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no di ogni lievito rivoluzionario e il conservare come pa-rola d’ordine; qui, i primi dubbi se proprio gli ideali del1789 dovessero considerarsi come ideali di valore assolu-to, eterno, da far trionfare sempre e dovunque, traendo-ne tutte le conseguenze, oppure se non fosse necessariaminore assolutezza di principi, minore consequenziarietàlogica, e invece discrezione senso della misura equilibrio,cioè ancor sempre giusto mezzo. L’avevano già detto i li-berali francesi della Monarchia di Luglio e i moderati ita-liani prima del ’48; e ora, chiuso il ventennio rivoluzio-nario, in cui anche i moderati avevano dovuto procederepiù rapidi di quel che non fosse stato nei loro program-mi, si tornava ai vecchi amori, a metà strada tra rivolu-zione e reazione. La Comune di Parigi era lì ad ammoni-re che bisognava far presto a porre degli argini. Soltan-to, crescevano le nuove forze sociali che avrebbero volu-to fare alla borghesia quel che la borghesia aveva fatto al-la nobiltà dell’891589; la Comune, era già qualche cosa dimolto più grave del giugno ’48, Mare era altro combat-tente dei sansimoniani e del Fourier: e perciò, dunque,anche il principio del giusto mezzo accentuava ora il suocarattere conservatore, si nutriva di preoccupazioni piùforti e rischiava di diventare assai più rigido e fermo suposizioni preordinate di quanto non convenisse alla suastessa natura di ricerca elastica delle soluzioni medie frai vari estremi.

Qualcosa di simile avveniva anche per l’altra grandeparola del Risorgimento.

Il principio di nazionalità rimaneva certo ancora, nellequestioni internazionali, l’unico capace di suscitare entu-siasmi, di far avvampare passioni popolari. Questo, erastato il motivo a cui aveva fatto appello e in cui aveva tro-vato la sua giustificazione il patrio riscatto; questo, con-tinuava a risplendere come da un alto faro.

L’antica fiamma rimaneva viva, anche se non intendes-se più illuminare la via a tutte le genti, bensì soltanto alla

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gente italica; e lo documentò, per gli anni di cui ci dob-biamo occupare, l’irredentismo, che da questo punto divista volle dire il continuare nell’Italia di fine secolo del-l’Italia del ’59 e del ’66 e, tenendo desto l’ideale della na-zionalità, anche in contrasto con la politica ufficiale deigoverni, mantenne il terreno propizio per l’ultima grandeimpresa dell’Italia liberale e nazionale del Risorgimento,la guerra contro l’Austria-Ungheria del 1915-18.

Ma anche quest’ideale stava perdendo il suo impulsorivoluzionario primitivo, rinunziando agli antichi sognidi un’Europa completamente nuova; anche esso lasciavacadere ogni estremismo e si acconciava al giusto mezzo.Il quale giusto mezzo aveva nome, ora, equilibrio euro-peo, necessità generali della vita internazionale, pericolodi rovinar tutto a voler esser troppo consequenziari nel-l’applicazione dei principi: bisognava sposare il princi-pio di nazionalità con quello di equilibrio, diceva aper-tamente il Marselli e ripetevano quasi tutti gli altri. Per imoderati, era atteggiamento logicissimo, invece della ri-voluzione il riformismo e star contenti ora che s’era mes-sa a posto casa propria. Per molti uomini della Sinistral’abbandono dei sogni universali di Mazzini e di Catta-neo era meno logico e coerente con l’antico sentire: maera proprio questa la prova che lo spirito rivoluzionarioera finito. Lucido puro e perenne era apparso al Cat-taneo il principio della nazionalità1590; ma anche di essoora si dubitava che potesse proprio esser preso semprea guida assoluta dell’agire politico, e purezza e perenni-tà si trasformavano in compromesso e in momentaneità;caso per caso, patteggiando con l’equilibrio europeo e lasituazione internazionale dell’ora.

Che in Francia Albert Sorel valutasse il principio dinazionalità alla stregua di uno dei tanti mezzi di cui sivale la politica, per coprire con un manto ideale interes-si molto precisi e concreti, non era poi gran meraviglia:troppa parte del pensiero e dell’opinione pubblica fran-

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cese era stata sempre o indifferente o avversa alle nazio-nalità, Michelet Quinet e i democratici erano stati an-che per questo aspramente combattuti, e un quindicen-nio prima del Sorel il principio di nazionalità era già sta-to battezzato une grosse blague, una semplice macchinada guerra e da rivoluzione, un luogo comune da un uo-mo di diversissimo sentire quale il Proudhon1591. Ma inItalia, dove anche i moderati avevano dovuto accettarela parola di Mazzini, diventando da federalisti unitari esventolando il diritto della nazione, sino a Roma; in Ita-lia, dove il principio di nazionalità costituiva la ragiond’essere della nuova vita comune, in Italia ebbero suonoinconsueto le scettiche parole con cui nel 1882 GaetanoMosca non solo insisteva sulla forza, la forza brutale, co-me uno dei maggiori fattori della costituzione delle na-zioni, ma, soprattutto, svuotava anch’egli? il principio dinazionalità del suo valore assoluto e ideale, per farne unamacchina da guerra. I governi lo applicano come tornaloro comodo. Quando si deve fare la guerra, ci vuole unaragione; in mancanza di meglio, il principio di nazionali-tà potrà sempre interpretarsi in modo da fornire qualcheragione: «così va il mondo nel secolo decimonono»1592.

Erano senza dubbio, le nuove esperienze europee didopo il ’70, soprattutto il giuoco troppo visibile di in-teressi delle grandi potenze attorno alle nazionalità bal-caniche, i patteggiamenti e i compromessi e il Congres-so di Berlino del ’78; era, parimenti, l’essere arrivati perproprio conto, la volontà di conservare l’acquisito senzacomprometterlo in avventure rischiose: ma, comunque,fosse la lezione delle cose fosse il naturale desiderio diconservare, la fede nel principio s’intiepidì e cominciò asmarrire quel carattere di assoluto che ne aveva fatto, inMazzini, una religione.

La lezione della realtà induceva ad abbandonare ilmessianismo rivoluzionario generale; indusse invece aguardar soltanto a sé stessi, a pensare alla propria forza e

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potenza. Dal principio di nazionalità la via era aperta perlo sbocciare del futuro nazionalismo, che era tutt’altracosa e che trovò zelatori focosi anche nei paesi che, ineffetti, meno avevano esaltato il diritto delle nazioni, acominciare da Francia e da Inghilterra.

Tale, dunque, il confluire dei motivi vecchi e nuovi.Come essi si sarebbero configurati e precisati, questo erail segreto dell’avvenire. Vogliamo dire, che non era an-cora fatalisticamente deciso che proprio la nazionalità di-venisse nazionalismo e la missione di Roma dalla scien-za trascorresse alla potenza; la via non era tracciata ex ae-terno, e soprattutto non era una via che potesse svolger-si soltanto fra le Alpi e gli Appennini. I vari motivi po-tevano svolgersi, intrecciarsi, signoreggiare l’uno e decli-nare l’altro, a seconda si svolgessero le cose anche al dilà delle Alpi; ideali e forze dovevano commisurarsi nonsolo alla vita italiana ma anche alla vita europea: come lapaura del prossimo diluvio universale veniva nuovamen-te eccitata, nel ’71, da un fatto non italiano, la Comune diParigi, così lo scetticismo sui grandi principi e il ricono-scere come ultima dea la forza erano ripercussioni ancheitaliane di un più generale atteggiamento europeo.

Gli uni e gli altri motivi, che si sono partitamente ana-lizzati, traevano alimento dall’esperienza generale del-l’Occidente, non solo da quella italiana, e s’intrecciava-no poi insieme, agivano l’uno sull’altro nel fluire gene-rale del processo storico divenuto veramente, come pro-nosticava Renan sin dal 1870, una specie di oscillazio-ne tra questioni patriottiche e questioni democratiche esociali1593. E poté pure succedere che certe tendenze,idee, sentimenti che nel ’70-’71 e ancora negli anni imme-diatamente successivi erano quasi proprietà di una deter-minata parte politica divenissero poi, col tempo, retag-gio della parte opposta; che, cioè, ferme restando quelletendenze e idee, esse venissero abbandonate dai primi-tivi propugnatori e passassero in dominio di coloro che,

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una volta, le avevano avversate. Era proprio il caso perl’atteggiamento pro e contro Germania e Francia.

Già nel 1870 la proclamazione della Repubblica a Pa-rigi, se aveva conciliato alla causa francese i democraticicavallottiani, aveva talora leggermente intiepidito, ma ta-lora addirittura fatte svanire le simpatie francesi di parec-chi moderati. Bonghi e La Perseveranza avevano soltan-to deplorato la leggerezza e sventatezza francese; ma Ci-vinini e La Nazione eran passati risolutamente nel campoopposto. Furono le prime evidenti ripercussioni dei mo-tivi ideologici sull’atteggiamento dei partiti in fatto di re-lazioni internazionali; e lo sviluppo ulteriore degli even-ti doveva accentuare assai di più questo inevitabile in-treccio tra problemi interni e problemi esteri. Talunirimasero certo fedeli agli antichi ideali, nell’uno e nel-l’altro campo: Bonghi e Visconti Venosta al ricordo diMagenta e di Solferino e alla diffidenza radicale verso ilbismarckismo1594; Crispi, alla sua antica avversione con-tro le pretese di superiorità francese e all’antico convin-cimento che l’Italia, per essere grande, dovesse scuotersidi dosso la soggezione alla politica e alla civiltà di Fran-cia. Ma i più, come suole, mutarono tendenze col mutardei tempi. Le simpatie per la Germania bismarckiana,così vive nei gruppi di Sinistra ancora al tempo del Kul-turkampf, alimentate, fra il ’71 e il ’74, dalle manifestazio-ni clerico-reazionarie dell’Assemblea nazionale francese,vennero poi rapidamente scemando, tosto che alla Fran-cia del duca di Broglie successe la Francia di Gambetta,alla Francia dell’ordre moral la Francia del libero pensie-ro e della democrazia; e fini che la Triplice Alleanza rac-colse i suoi maggiori suffragi tra i conservatori, mossi dapreoccupazioni interne a guardare con gran premura al-le monarchie dell’ordine e con timore alla Francia repub-blicana e radicale, e che i democratici brindarono invecealla fratellanza latina, una volta invocata dai moderati1595.

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Altri ancora, preoccupati anzitutto del pericolo cleri-cale e della questione romana, timorosi che di lì potesse-ro ancor sempre derivare pericoli mortali per l’unità d’I-talia, mutarono a più riprese il loro atteggiamento a se-conda che la Francia sembrasse più o meno favorevolealla Curia romana, dando pratica dimostrazione della ve-rità di quanto già in sede diplomatica aveva affermato ilVisconti Venosta, essere cioè tutta la situazione politicaitaliana nei rapporti internazionali dominata dalla que-stione romana1596: e così Domenico Farini, avverso pri-ma all’ordre moral, poi si convinceva e cercava convin-cere delle simpatie della Francia liberale verso l’Italia, siassumeva il compito di intermediario fra Gambetta, De-pretis e Cairoli, cercava di indurre Umberto I a recarsiall’esposizione universale di Parigi, nel 1878, anche per-ché così il re si sarebbe persuaso che la monarchia italia-na non aveva nulla da temere dalla repubblica francese,né dalle sue espansioni; anzi l’unione dei due popoli po-teva tutelare la causa della libertà in Europa, difendereed assicurare gli interessi delle potenze mediterranee1597;e poi, dopo Tunisi e forse soprattutto dopo il riavvicina-mento fra Leone XIII e la repubblica francese, secondodocumenta il Diario, mutava la sua fede nella «causa» co-mune in una diffidentissima, implacabile avversione allaFrancia rea per lui, come per Crispi, di congiurare colVaticano contro l’unità stessa d’Italia.

Ma queste sono le segrete vie della Provvidenza nel-la storia, per cui di volta in volta idee e aspirazioni tro-vano il portatore più adatto e, come fiaccola di Mara-tona, passano di mano in mano senza mutare esse natu-ra. Quel ch’era invece di notevole gravità per il futurosviluppo della storia d’Italia era, nelle controversie del’70-’71, una divisione di gruppi politici legata anche aduna diversità di alleanze con l’estero; e non su una diver-sità in casi concreti, specifici, bensì in genere e in astrat-to, quasi che si trattasse di un a priori della vita politi-

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ca. Allora i moderati in genere erano, per dirla alla po-polaresca, francofili e gli altri germanofili; ma, contraria-mente a quel che pensava l’Amari, illuso che in Italia fos-se passata la moda degli amori e odi di là delle Alpi e delmare1598, rimase costante il fatto di una profonda divisio-ne di animi riguardo alle amicizie da cercare o da respin-gere con questo o quello Stato estero. Infelicissimo fatto,notava sin da allora il Bonghi «perché è una corruzione eun pericolo grande, una divisione tra’ partiti la quale nondipende dalla diversità dei fini che si vogliono raggiun-gere o dei mezzi che si vogliono cercare, ma dall’allean-za estera, alla quale s’è risoluti di rimanere fedeli. Le al-leanze sono istrumenti i quali devono parere indifferentiper se medesimi a qualunque partito nazionale, ed essereusate l’una o l’altra secondo l’opportunità»1599.

L’opinione pubblica italiana fu veramente, allora epoi, divisa nelle simpatie per la Germania e per la Fran-cia. Presupposti sentimentali, questioni di princìpi, mo-tivi ideologici di politica interna, determinazione a prioridegli obbiettivi della politica estera, gli uni riguardandosolo l’ampia distesa del Mediterraneo e la sponda africa-na, e gli altri pensando solo alle Alpi, tutto ciò interferivanel determinare un siffatto schierarsi in parti opposte.

La Francia, voleva dire non soltanto i vecchi legamiculturali, il ricordo di Magenta e di Solferino, la borsadi Parigi e i Rothschild, ma anche, e soprattutto, somi-glianza di sviluppo politico interno e ripercussioni conti-nue delle vicende dei partiti dell’un paese su quelle del-l’altro. «S’ha un bel gridare contro la Francia», scrivevail Nigra al Minghetti. «Quelli che più gridano contro es-sa, ne subiscono, anche inconscia, l’ineluttabile influen-za. Il 18 marzo [1876] è in gran parte il prodotto delleultime elezioni francesi e dello stabilimento della Repub-blica in Francia»1600. Un po’ come diceva il Tommaseodel Manzoni, che la Francia gli stava sempre negli occhicome esempio o da seguire o da fuggire1601.

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Tanto che se la politica estera dell’Italia si svolse poiessenzialmente nell’orbita germanica, la politica interna,sviluppo di partiti e di ideologie, subì invece sempre,l’influsso francese: con una stridente contrapposizione,dunque, i cui effetti si poterono valutare pienamente nel1914-19151602.

Assai più lontana la vita politica germanica, che pote-va al più offrire motivo di meditazione e suscitare deside-ri nei conservatori malcontenti del parlamentarismo e va-gheggianti anche per l’Italia una qualche forma di cancel-lierato. Anche la cultura germanica, se poteva far presasul mondo universitario, come fece, non era né fu mai ingrado di controbattere il tradizionale e popolare influssodella cultura francese sulla più vasta cerchia dei ceti diri-genti italiani; e l’economia germanica anch’essa solo tardiprese posto di primissimo piano nella vita italiana1603 e lafinanza germanica solo sul finir del secolo contrastò nellapenisola l’antica finanza francese. Ma un motivo basta-va a contrappesare tutti gli altri insieme: ed era la forzamilitare tedesca, il mito ormai diffuso della invincibilitàgermanica.

Francia e Germania furono così veramente i due polida cui dipendevano la pace e la guerra per il popoloitaliano. Nessuna delle altre potenze europee potevaincidere così profondamente sulla sua vita.

Non l’Inghilterra. La guerra franco-prussiana era unduro colpo per il prestigio britannico: neghittosa e impo-tente appariva la condotta del governo di Londra; e nes-suno si rendeva ben conto, almeno, delle grosse difficol-tà in cui esso si era contemporaneamente trovato per lavertenza dell’Alabama con gli Stati Uniti, che aveva de-terminato la decisa campagna dei giornali statunitensi afavore della Russia, al momento della denuncia da partedi quest’ultima delle clausole relative al Mar Nero, e per-fino le profferte di appoggio del governo di Washingtona quello di Pietroburgo1604. Queste ripercussioni europee

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della politica mondiale della Gran Bretagna erano sfug-gite; e rimanevano i fatti, l’Inghilterra che incassava col-pi da tutte le parti, non riusciva a far deflettere di un pol-lice il Bismarck e doveva sostanzialmente avallare il ge-sto di forza della Russia ad Oriente. L’impressione eradunque che l’Inghilterra avesse finito di dirigere la poli-tica europea: «e ... uno ... degli effetti dell’ultima guer-ra sarà questo, che le Potenze continentali non conteran-no, o per fare o per impedire, che sopra sé medesime».La vecchia scuola «di quelli statisti inglesi, che metteva-no la gloria del loro paese nell’essere sempre a capo del-li avvenimenti europei è morta, e in suo luogo sono sortiuomini massaj e riguardosi, che ripongono il rule Britan-nia in una balla di cotone»1605. Queste impressioni dovet-tero poi dissiparsi, quakido al Gladstone successe il Di-sraeli e al disinteressamento in politica estera del primoil programma imperiale del secondo. Lo stesso Gladsto-ne, ritornato al potere, mutò atteggiamento, e fra l’80 el’85 fu il più sicuro, anche se non molto deciso sostegnodella politica estera italiana; e sopravvennero, poi, Sali-sbury e l’accordo italo-inglese del 12 febbraio 1887. Maanche nei momenti di maggiore intimità diplomatica frai due governi, l’Inghilterra non ebbe mai nella vita italia-na un’influenza concreta paragonabile a quella franceseo tedesca. Francia e Germania interferivano ogni gior-no nella vita anche dei singoli, nella vita spicciola quo-tidiana, con le mode o i libri e le polemiche dei giorna-li: l’Inghilterra era lontana. Rimase come una sorta ditabù, idolo a cui tutti rivolgevano un rispettoso inchino,come alla patria della libertà e delle istituzioni parlamen-tari e, contemporaneamente, alla dominatrice dei mari:l’incenso l’avvolgeva, ma la faceva anche più estranea. Iosono uomo all’inglese1606, dichiarava Crispi, e tutti i fe-deli dell’idea liberale avrebbero potuto ripeterlo: ma siera inglesi per principio, e in pratica, mentre i dottrinaricontinuavano a vagheggiare la lotta politica a due parti-

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ti sul modello britannico, chi influiva concretamente sul-le contese interne in Italia erano radicali e socialisti fran-cesi. Quello dell’amicizia coll’Inghilterra e del rispettoper l’Inghilterra era ormai un dogma, che trovava pienaespressione nella dichiarazione ministeriale del 22 mag-gio 1882, questa appendice al primo trattato della Tripli-ce, in cui il governo del Re dichiarava che le stipulazionidel trattato «in nessun caso» avrebbero potuto conside-rarsi come dirette contro l’Inghilterra. E avrebbe potu-to sorprendere che proprio la Francia, prima e maggiorecooperatrice alla felice conclusione del Risorgimento, ela Germania, fondata su quella Prussia alla cui alleanza,dopo tutto, era dovuta la Venezia italiana, fossero ogget-to d’inestinguibil odio e d’indomato amor, laddove reve-renza soltanto accompagnava l’Inghilterra, tutt’altro checooperatrice nel ’59, e certo mai impegnatasi direttamen-te: avrebbe potuto sorprendere, diciamo, chi avesse di-menticato non soltanto le considerazioni politico-militarisulle lunghe e indifese coste d’Italia e le città sul mare ela flotta britannica onnipotente, ma anche il fatto che iltempio della libertà era, da quasi due secoli, per il pen-siero occidentale, l’isola da cui pur di recente era usci-to il verbo di Manchester e continuava ad uscire la pa-rola del Gladstone, incarnazione politica del liberalismodi contro al Bismarck. Francesi e Tedeschi erano, an-che, ricordo secolare di rapporti continui, di amori e diodi, di contrasti e di guerre; erano tutta la tradizione ita-liana, dall’età del Barbarossa dei Comuni e degli Angiò,che continuava nell’Italia unita, dando alla nuova vicen-da aria quasi d’antica. Questa vivezza di passioni man-cava di fronte all’Inghilterra; il farla sorgere era destinodell’avvenire lontano quando l’incenso si dissolse e il ta-bù acquistò anch’esso la forma dei comuni mortali.

All’altra estremità dell’Europa, la Russia. Era lonta-na, geograficamente; perciò, le due nazioni non poteva-no farsi «né molto bene, né molto male»1607, annotava il

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Nigra ambasciatore a Pietroburgo. C’era stato sì, fra il’76 e l’80, in un periodo di asprezze italo-austriache, co-me un serrarsi di rapporti, tanto da far spesso favoleg-giare, nella stampa italiana e straniera, di segreti accordie addirittura di alleanza italo-russa, di cui sarebbe statopropugnatore il Tornielli. Ma, nell’insieme del periododi cui ci occupiamo, questa fu una parentesi: più tardi,invece, lontani geograficamente i due governi lo furonoancor più politicamente. Ma se fra l’86 e il ’95 la situa-zione giunse a tanto da costringere il Crispi infine a cer-car una via d’uscita, ancor una volta ricorrendo al Nigrache, con la sua magia, ripristinasse quel che non c’era piùe cioè relazioni amichevoli1608, già all’inizio del nostro pe-riodo, nell’inverno ’70-71, il governo italiano aveva chia-ramente dimostrato come la Russia gli apparisse più chepossibile amica e cooperatrice, come un grosso pericolomediterraneo contro il quale occorreva erger barriere1609.I tempi di Salvatore Contarini e del programma di un’Ita-lia equidistante tra Inghilterra e Russia, per la salvaguar-dia proprio dei suoi interessi mediterranei1610, erano an-cora assai di là da venire; e invece le diffidenze verso unaqualsiasi politica mediterranea dell’impero russo eran te-nute vive di continuo, non soltanto dal dogma dell’In-ghilterra tradizionale amica e dalla necessità di star conl’Inghilterra sempre, ma dal ricordo della guerra di Cri-mea e dalle parole del Cavour sul pericolo per l’Europa,per l’Italia, per il Piemonte, di un predominio russo nelMediterraneo. Ora, proprio ora, l’improvvisa denunziarussa delle clausole relative al Mar Nero, a fine ottobredel ’70, ’dimostrava come il colosso lontano si proten-desse nuovamente innanzi, a conquista e dominio1611.

Niente Russia nel Mediterraneo, soprattutto ora chela guerra del ’70 aveva disvelato gli intimi rapporti fra lecorti idi Berlino e di Pietroburgo, e, c’era quindi da te-mere il predominio russo-germanico sull’Europa e la finedella libertà europea. Un cinquantennio prima, Alessan-

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dro I era stato salutato come novello Messia dai popolilottanti contro l’egemonia napoleonica, le fiamme di Mo-sca apparendo l’aurora della libertà nel mondo1612; egliaveva difeso mirabilmente l’indipendenza della sua pa-tria e mirabilmente rivendicata l’indipendenza dell’Eu-ropa, ma, tornato in patria, era stato risoggiogato dallapatria tanto meno incivilita di lui1613: e da allora l’imperodegli Zar anziché difenditore di libertà era apparso comeuna nuova incarnazione dello spirito di conquista, e cioèun nuovo Napoleone in agguato. «La mia ambizione èvasta, come lo spazio, ma paziente come il tempo»1614: leparole che Lamartine aveva messo in bocca alla Russiaavevano bene riassunto quale fosse l’atteggiamento del-l’opinione pubblica occidentale e anche italiana di fron-te al grande Stato slavo. Il pericolo in cui l’Occidenteversava per la moscovita ingordigia d’impero, il Russo inmarcia attilesca alla volta di Costantinopoli e di li dittato-re selvaggio dell’Europa, era da tempo cagion di spaven-to; per uscirne, proprio in Italia c’era chi aveva pensatoa «riguadagnare gli aiuti del papato latino», come avevadetto nel ’44 il neoguelfo Carlo Troya1615, mentre altri sa-lutava ora con gioia la creazione della Germania unita,perché la sua emissione internazionale non era già quelladi violare le nazionalità europee, ma al contrario di pro-teggerle dalle invasioni slave, rigettando la Russia versol’Asia1616.

La Russia, era non soltanto una enorme forza politica,a la barbarie in marcia: l’8 febbraio 1855 Cesare Corren-ti aceva della guerra di Crimea anche una guerra ideolo-gica, l’Europa contro la Russia, la civiltà contro la barba-rie, la libertà contro l’eroismo della servitù1617, ma anchequi la sua voce era l’eco di altre e molte voci che da tem-po avevano intonata la stessa canzone. L’Inghilterra con-tro la Russia voleva dire le due tendenze opposte della ci-viltà, il progresso e la barbarie, la civiltà progressiva e lamarcia retrograda, aveva detto Cesare Balbo1618; e lo stes-

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so Cavour, prima ancora di additare al Parlamento subal-pino, il 6 febbraio 1855, il pericolo mortale di un trionforusso, che era la reazione, il principio opposto a quellodel progresso, della costituzione, della nazionalità nuovosangue vitale del Piemonte e dell’Italia, sin dal ’48 avevaindicato nello Zar un aperto e potente nemico del Risor-gimento italiano, pronunziando anch’egli il «guai a noi»se non si fosse posto un argine insuperabile «al torrentebarbarico che ci minaccia dal settentrione»1619. È ben ve-ro che il Cavour poi, tra il ’59 e il ’60, aveva diversamen-te giudicato, apprezzando l’indubbio e grande aiuto datodal governo di Pietroburgo alla causa italiana grazie so-prattutto al trattato segreto del 3 marzo 1859 con Napo-leone III1620; tanto che uno dei suoi più fidi collaboratori,Isacco Artom, in suoi appunti poteva rivolgersi agli sto-rici futuri perché segnalassero alla perenne riconoscen-za degli Italiani i grandi servizi resi dalla politica russae dalla intera famiglia slava alla causa dell’indipendenzaitaliana1621. È vero anche che già nelle stesse dichiarazio-ni del 6 febbraio ’55 c’era, molto, l’intento di far aval-lare con appelli altosonanti la cambiale in bianco ch’egliaveva firmato aderendo all’alleanza di Crimea. Ma i van-taggi diplomatici dell’atteggiamento russo nel ’59 eranoconsapevolezza di pochi; e che per premere sulle imma-ginazioni Cavour avesse dovuto evocare il pericolo russo,era prova sufficiente di quel che si sentisse e pensasse ge-neralmente dell’impero moscovita. Quelle dichiarazionipubbliche erano rimaste e continuavano a suggestiona-re, tanto più che anche dalla parte opposta, dal Mazzi-ni, giungevano non diverse affermazioni sul pericolo chei cosacchi e lo knut rappresentavano per la causa dellalibertà e delle nazionalità1622.

La Russia: una immensa, massiccia forza di cui si sa-peva e non si sapeva, ma che appariva sempre un miscu-glio di Europa e di Asia, di Occidente e di Oriente, dicivile e di barbaro, corpo vestito all’europea ed animato

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da spirito tartarico1623; non ancora cittadina di pari dirit-to nel consorzio civile delle altre nazioni, nella comunitàculturale europea in cui Tolstoi, Dostoievskij e Moussor-ski non avevano ancora introdotto la cultura russa1624. LaRussia era ancora Genghiz Khan; l’apocrifo testamentopolitico di Pietro il Grande veniva ancora preso per buo-no e tirato fuori ogni qualvolta s’avesse da temere qual-che mossa politica del governo di Pietroburgo1625; anchequando non s’accettasse più per formalmente autentico,si riteneva che sostanzialmente esprimesse sempre benei segreti pensieri degli autocrati di Pietroburgo. Se nonè vero, è ben trovato, s’era detto nel ’64: e s’ammette-va, sì, che la Russia si fosse fatta paziente e si sforzassedi essere civile, ma la si riteneva più formidabile nel suoraccoglimento che nella sua politica di espansione e diprovocazione, più pericolosa ora che giuocava essa purecon la rivoluzione e con le idee «accarezzando le passionipopolari, e parlando parole di emancipazione alla genteche predestina a sue vittime. Prima si chiamava, con or-goglio, la Santa Russia; oggi si chiama la Slava; prima siammantava con alterezza del suo manto di barbara e dicosacca; oggi si proclama parte di di una gran razza, laredentrice di tutta la razza slava»1626.

Ancora alla fantasia dell’Oriani giovane il cavaliereSarmata dal galoppo fantastico, ultimo vincitore nellastoria dell’Europa, appariva sgraziato come tutti i colos-si, bruscamente passato dalla infanzia alla virilità, dallacrudeltà della selvatichezza alla ferocia della civiltà, pri-vo di tradizioni e quindi di ideali, cresciuto ai confini del-la vera Europa, e ora impadronitosi di qualche idea eu-ropea quasi di contrabbando. La sua era una civiltà arti-ficiale; e prima che il sole la schiudesse naturalmente sul-la sua immensa superficie, avrebbero dovuto passare al-tri secoli, né forse il sole vi sarebbe mai stato caldo abba-stanza.1627

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Taluno cominciava a mutare atteggiamento, aspettan-dosi di vedere ringiovanito il «marcio» Occidente dall’af-flusso delle forze slave, vergini e nuove1628; taluno dun-que cominciava a porgere attento orecchio alle voci chedal mondo slavo s’alzavano a sua difesa ed esaltazione.Lo aveva già detto un trentennio prima il Mickiewicz:inferiori dal punto di vista del progresso meccanico, gliSlavi erano superiori dal lato morale; la loro anima si eraallargata, in nessun luogo v’erano cuori così caldi, un’at-tesa dell’avvenire così ferma. Erano in un’attesa solen-ne; tutti attendevano un’idea nuova1629. Ora, la paro-la dell’esule polacco, che aveva contrapposto allo spiritoterribile della Russia lo spirito cristiano della sua patria,veniva ripresa proprio dai Russi: e il grande archiman-drita del movimento slavo, il Katkoff, aveva annunzia-to l’imminente rivelazione della Russia sotto un aspettonuovo, il suo cessare di essere una cupa potenza asiaticaper diventare una forza morale indispensabile all’Euro-pa, realizzando quella civiltà greco-slava destinata a com-pletare la civiltà latino-germanica che, altrimenti, sareb-be rimasta fatalmente imperfetta ed inerte nel suo steri-le esclusivismo1630. E Dostoievskij incalzava proclaman-do che la Russia era non la vecchia Europa, ma la nuova,giovane, forte Europa in cammino, e che ad essa spetta-va di pronunziare la parola nuova per consacrare final-mente la fraternità di tutti gli uomini1631.

Ma queste appunto erano le parole di emancipazioneche, agli Occidentali, sembravano semplice e tenue veloper ammantare le smisurate ambizioni politiche e la vo-lontà di dominio. Gli appelli alla nuova civiltà masche-ravano ancor sempre il vecchio spirito di Genghiz Khan;il panslavismo era l’ultima incarnazione dello spirito diconquista. Come tale, esso minacciava direttamente an-che l’Italia: brindisi come quello portato, in una festa alcasino croato di Fiume all’inizio del ’71, all’imperatoredi Russia, che solo avrebbe potuto assicurare col suo do-

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minio la prosperità del litorale adriatico1632, provavanoche la propaganda russofila attecchiva fra gli Slavi, per-sino sull’Adriatíco. Non solo quindi timori di una ge-nerica supremazia russo-tedesca sull’Europa; nemmenosolo i timori già più precisi per l’irrompere della Russianel Mediterraneo orientale; ma, addirittura, il pericolodi una Russia nell’Adriatico. L’avversione ideologica allaRussia degli Zar e dei deportati in Siberia, la diffidenzacontro lo spirito tartarico, le génie asiatique, la semibar-barie della vita russa, tutti questi motivi generali del pen-siero dell’Occidente europeo acquistavano così precisio-ne di contorni politici, divenivano problema vivo e gravedi rapporti internazionali. La grande Russia e il più gran-de panslavismo piacevano assai poco agli uomini politi-ci italiani, Minghetti Visconti Venosta e Crispi non dissi-mili nel giudizio1633. Il Robilant fu, in questo, interpretedi un pensiero comune: «... non nutro malanimo di sor-ta contro la Russia: ma ... non posso guardare con indif-ferenza il suo avanzarsi nella penisola balcanica, perchéun solo nuovo passo di più ch’essa avesse a fare in quel-la direzione, avrebbe per noi le più gravi, forse anche ir-reparabili conseguenze. Ciò salta agli occhi di chiunquenon sia cieco»1634.

Balbo l’aveva già detto: ad una Russia padrona dell’O-riente europeo, preferibile, molto preferibile l’Austria,sia in nomedell’interesse italiano, sia in nome dell’inte-resse cristiano, cioè della comunità dei popoli1635. Il pro-gramma delle Speranze d’Italia, via libera all’Austria ver-so Oriente e l’Austria fuori d’Italia, aveva strettamenteallacciato preoccupazioni di italiano e preoccupazioni dieuropeo, la causa specifica dell’indipendenza della pe-nisola e la causa generale della cristianità, minacciata diun grandissimo regresso in caso di preponderanza russain Europa per l’evidente inferiorità della civiltà mosco-vita che avrebbe voluto ridurre al proprio livello le altreciviltà1636. L’interesse dell’Italia faceva tutt’uno con quel-

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lo dell’Europa: ed era di opporre una barriera alla Rus-sia. Perciò, allontanare l’Austria dall’Italia, ma tenerlabene in piedi, a guisa di antemurale che nella valle delDanubio e nei Balcani proteggesse l’Europa dalla mareaslava.

Ora, nel generale venir meno dello spirito rivoluzio-nario e nel sovrastare del moderatismo, che con i suoimetodi e fini acquistava a sé gli uomini della Sinistra, leidee del Balbo trionfavano. Non solo perché inorien-tarsi dell’Austria e suo abbandono delle terre ancora ir-redente vennero, da allora in poi1637, costantemente ab-binati, sia nei comizi popolari e nei commenti dei gior-nali fra il ’76 e il ’78, sia, addirittura, in quell’articolo Idel trattato separato italo-austriaco del 20 febbraio 1887,negoziato proprio dal conte di Robilant, e destinato a di-ventare l’articolo VII della Triplice edizione definitiva,che era bene, con la formula dei compensi, l’applicazio-ne diplomatica del vecchio principio delle Speranze d’I-talia. Ma anche perché la necessità dell’esistenza dell’Au-stria, il mostro tanto odiato da Mazzini, la grande nemi-ca del Risorgimento, diventò un assioma per tutti gli uo-mini politici italiani, Crispi e Cavallotti compresi. L’Au-stria elemento di civiltà verso l’Oriente, lo ripeteva Cri-spi sulle orme di Balbo.

Alla vecchia paura del dilagare russo sull’Europa s’ag-giungeva ora, dopo la guerra franco-prussiana, il timoreper una troppo schiacciante potenza germanica. Lo dis-se apertamente, sin dal ’71, La Perseveranza. L’Austria,certo, rappresenta la negazione del principio di naziona-lità; e noi non abbiamo mai avuto molta simpatia per es-sa. Ma oggi la situazione impone un giudizio che pre-scinda anche dalle simpatie, perché «li straordinarj even-ti delli ultimi dieci mesi hanno per tal modo mutato fac-cia al mondo e sconvolto l’equilibrio delli Stati, da far ri-guardare come un pericolo serio la eventuale scomparsa

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della monarchia delli Asburgo, o anche solo il suo ulte-riore indebolimento»1638.

Se i Tedeschi dell’Austria si congiungessero alla Ger-mania, questa ultima, già troppo poderosa, acquistereb-be una forza eccessiva, mentre lo stato asburgico, ridottoalle sue parti ungaro-slave, cadrebbe al rango di poten-za di second’ordine e l’equilibrio europeo, così enorme-mente sbilanciato dall’ultima guerra, ne sarebbe sconvol-to affatto, e l’Italia si troverebbe ad avere presso a sé, sul-l’Adriatico, la giovane e vigorosa Germania, colla qualeogni gara pacifica, come ogni eventuale ostilità, sarebbeassai più ardua che coll’Austria. Ecco quindi come nel-l’interesse di tutta l’Europa, e più specialmente nell’inte-resse nostro, noi non possiamo vedere senza apprensioniil progressivo decadimento della potenza austriaca»1639.

Queste idee, nel ’71 erano solo dei moderati; manon passarono molti anni e anche i più accesi amicidella Germania, Crispi per primo, si convinsero chedell’impero tedesco era meglio essere amici sì, ma nona immediato contatto.

Alla vecchia funzione antislava che i moderati delRisorgimento avevano assegnato all’impero asburgico,s’aggiunse dunque una funzione se non proprio antite-desca, almeno di servir da cuscinetto tra l’Italia e il trop-po vigoroso impero degli Hohenzollern1640. Dunque, ne-cessità dell’Austria. Non molti, forse, avrebbero pensa-to come il conte di Robilant che per nessun’altra que-stione «sarebbe tanto necessario all’Italia il tirar la spa-da e l’impegnare tutte le sue forze quanto per quella,se mai fosse sorta, di difendere l’esistenza e la potenzadell’Austria»1641; ma convinti che l’impero asburgico ri-spondesse ancora ad un’alta necessità europea e ancheitaliana, questo si lo pensarono quasi tutti1642.

C’era bensì, con l’Austria, la questione di Trento eTrieste, sempre aperta anche quando non se ne parlas-se. L’ideale della nazionalità poteva essere limitato, at-

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tenuato, svuotato del suo valore rivoluzionario generale;ma era ancora l’unico principioideale che potesse esse-re evocato a sostegno morale di una politica. Non anco-ra i sogni d’impero e lo spazio vitale, non la necessità direspiro sull’Oceano; ma, sempre, la nazione, lo Stato na-zionale, completo di tutte le sue terre e di tutti i suoi figli:e dunque, nonostante tutto, l’Italia del Risorgimento checontinuava, i padri che additavano la via ai figli e ai ni-poti. Come uno di quei corsi d’acqua carsici– irredenti –che appaiono e scompaiono, ma continuano a fluire an-che sotterra1643, così il motivo delle terre ancora da redi-mere poteva esplodere nei comizi popolari, nelle invoca-zioni e invettive carducciane, nella propaganda dei circo-li irredentistici, o poteva essere taciuto, talvolta anzi uffi-cialmente sconfessato dagli organi responsabili di gover-no: nessuno poteva ignorarlo, e nessuno infatti lo scon-fessò nel suo intimo, anche coloro i quali ritenevano fol-lia sbandierarlo sulle piazze e si affidavano al tempo cheapportasse la soluzione. Una soluzione, che appagassel’Italia ma senza far crollare l’Austria. Perciò, quandooccorresse perfino un’occhiata amichevole alla Russia laquale, a sua volta, contenesse gli Asburgo; perciò preoc-cupazioni e avversioni a che l’Austria da sola si ingran-disse ulteriormente nei Balcani e dilatasse ancora la suapotenza sull’altra sponda adriatica, perché simili ingran-dimenti e accrescimenti rischiavano di rendere semprepiù aleatoria la possibilità del compromesso finale. Sta-tus quo, in attesa del momento propizio per conciliarel’una e l’altra cosa, espansione ad oriente dell’Austria erettifica dei confini verso l’Italia.

Soltanto, questa linea politica che, tutto sommato,aveva una sua logica e coerenza intima, cercava di con-ciliare senso dell’equilibrio europeo e spirito di naziona-lità, ragionamentoe passione; e il calcolo politico dove-va continuamente urtare contro la immediatezza del sen-timento, l’opera di governo contro il grido di passione

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italica per Trento e Trieste. Il calcolo voleva un’Austriaforte, non tanto da poter respingere, in date circostanze,l’amicizia italiana anche a costo di cessioni in Val d’Adi-ge e oltre Isonzo, ma abbastanza per impedire uno scon-volgimento generale della situazione danubiana. Il senti-mento, parlava non solo di Trento e di Trieste, ma anchedella vecchia nemica del Risorgimento: l’Austria, nellaimmaginazione popolare, erano sempre i «Tedeschi» del’48 e del ’59, le Cinque Giornate, Venezia, Palestro eSan Martino e, da ultimo, Lissa e Custoza. I fantasmidel passato erano vicini e vivi e si protendevano sull’av-venire. Andar d’accordo con l’Austria, significava an-dar d’accordo con «l’imperatore degli impiccati»: e que-sto poteva rientrare nel calcolo dei politici, non mai nelsentimento popolare. S’illudeva il Minghetti quando af-fermava, alla Camera, nel ’72, che i sentimenti di avver-sione per l’Austria egli non li sapeva più comprendere,non avendo essi più ragione alcuna di esistere: depostigli antichi rancori, bisognava vedere nell’Austria soltan-to una nazione sorella, guardare ad essa, ormai nostraamica, con benevolenza ed affetto1644. Già solo quattroanni più tardi la commemorazione a Milano del settimocentenario della battaglia di Legnano, con le bandiere diTrento e Trieste avvolte in veli neri in testa al corteo1645,dimostrava come l’antica avversione fosse sempre viva.Era la fatale contraddizione, per cui, appena conclusa laTriplice Alleanza, due diplomatici italiani, e non dei mi-nori, disapprovarono il patto anche «perché il giorno incui fossimo invitati a marciare in nome del casus foederis,non si marcerà ...»1646.

Tali erano i rapporti italo-austriaci. Qui, non interferi-re di vicende ideologiche e di partito, non influssi cultu-rali, e nemmeno particolari allacciamenti finanziari; mauna valutazione propriamente di politica internazionale,complicata però e sempre contraddetta da una passione,

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che era un’antica passione e che, in fine, fu più forte diogni altro calcolo.

Una vivezza quindi di sentire, come non era non solonei riguardi della Russia, ma anche nei riguardi dell’In-ghilterra; e però una vivacità di passione tutta concentra-ta su di un solo punto, non abbracciante l’intera vita del-la nazione in tutte le sue forme, come accadeva con Fran-cia e Germania. Non a Vienna era il perno della politicaitaliana1647.

Francia e Germania erano dunque i due poli tra iquali si muoveva l’opinione pubblica italiana, i due puntiobbligati di riferimento dei pensieri e delle polemiche.Fuori discussione l’amicizia con l’Inghilterra, tutto ilresto si muoveva lì, riceveva luce e colore dal diversoparteggiare per l’una o per l’altra delle due nazioni: quasiche anche il sentire comune fosse consapevole che ilproblema essenziale della politica europea era, dopo il’70, quello dei rapporti Francia-Germania, attorno a cuitutti gli altri, questioni balcaniche e questioni coloniali,venivano a sovrapporsi, accrescendo i motivi di litigio,ma sempre presupponendo quella iniziale impostazionedel litigio europeo.

L’Italia si diceva ereditasse dallo Stato sabaudo e dallatradizione diplomatica piemontese la politica dell’equili-brio tra le forze in contesa per l’egemonia sull’Europa.Grande potenza di nome, ma non di fatto, di per sé inca-pace di agire con successo sulla scena continentale, do-veva riporre il segreto della sua fortuna, si ripeté spesso,nell’accorto bilanciarsi fra gli uni e gli altri: l’equilibriodell’Europa, diceva il Visconti Venosta, era condizionenecessaria alla felicità dell’Italia, alla quale nulla potevaessere più dannoso del soverchiare di una parte sola. Latradizione sabauda, insomma, dell’equilibrio tra Franciae Spagna prima, Francia ed Austria poi. Questi erano icalcoli secondo la cosiddetta diplomazia pura, il giunco

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rationale, matematico, soppesato mossa per mossa comesu di una scacchiera.

Ma gli Italiani del Regno unito ereditavano anche da-gli avi qualcos’altro che non fosse il giunco razionale del-l’equilibrio; ereditavano passioni che risalivano su su neltempo, passioni e spirito di arte, onde, sin dall’inizio del-la nostra vicenda, un profondo scindersi di interessi, ten-denze ideologiche, affetti ed aspirazioni che guardaronocome ad una stella fissa all’una o all’altra delle due mag-giori potenze continentali.

L’animo di molti Italiani fu da allora diviso fra lo zua-vo francese e l’ulano tedesco, come diceva il Carducci; everamente sembrava avesse ragione Giuseppe Verdi chenoi non si potesse camminare «senza essere appoggiati albraccio dell’uno o dell’altro»1648. Così i diplomatier pu-ri dovettero fare i conti con le passioni popolari e con gliinteressi dei partiti; e sulla politica estera italiana gravò,nei vari momenti, questo formidabile peso che era la di-visione a priori dell’opinione pubblica contro Francia ocontro Germania.

Fu il motivo più continuo, costante della politica ita-liana. Gli altri che si sono analizzati, idea di Roma e pre-occupazioni conservatrici, non solo non riuscivano anco-ra a soffocare i vecchi ideali di libertà e di nazionalità, maerano anche assai meno continui, più legati al vario svol-gersi degli eventi, più soggetti quindi ad adattamenti etrasformazioni secondo che i tempi richiedessero.

L’idea di Roma, pur già fermentando nel profondo, fuancora a lungo l’idea della Roma civile, laica; le sue ri-percussioni concrete sulla politica estera italiana furonosempre collegate con il vecchio problema dei rapporti traRegno e Papato, della lotta contro il Vaticano e l’inter-nazionale nera. Fu, sempre, la questione romana: questapesò profondamente sulla politica internazionale dell’I-talia; questa determinò in gran parte, almeno quanto lepreoccupazioni mediterranee e anche più, l’atteggiamen-

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to del Crispi verso la Francia, per lui cupa tessitrice diintrighi con il Vaticano ai danni dell’unità d’Italia, e ag-gravò la sua naturale ombrosità e sospettosità, facendo-gli vedere e spesso immaginare il Vaticano e i Gesuiti in-tenti ad annodare ovunque trame contro l’Italia1649; que-sta determinò, nel 1899, il veto reciso del governo italia-no contro l’intervento della Santa Sede alla prima confe-renza per la pace dell’Aja1650; questa determinò, nell’arti-colo 15 del patto di Londra, il veto del Sonnino alla am-missione della Santa Sede ad ogni trattativa di pace. Alconfronto, senza presa furono ancora i fantasmi di Dui-lio e di Scipione, i quali perché divenissero forza politicaefficiente, occorrevano altri uomini e altro clima genera-le. Il mito di Roma domina gentium era riservato all’av-venire, anche se gettasse le sue radici in quei decenni difine Ottocento.

Inversamente, le preoccupazioni conservatrici pesaro-no concretamente sulla politica estera proprio dopo il ’70e soprattutto fra l’80, e il 96, per poi attenuarsi grande-mente sino a svanire con l’inizio del nuovo secolo, con lapolitica giolittiana e cioè con il diverso atteggiamento delceto dirigente di fronte alla questione sociale e al movi-mento socialistico, d’altronde anch’esso divenuto rifor-mismo lontano dalla rivolozione perpetua di stampo ba-kuniniàno.

Il propendere per Francia o Germania rimase invecemotivo sempre presente.

Che poi posizioni di uomini e di partiti mutassero daquel che erano nel 70-’71, non è cagion di meraviglia, chipensi quanto complesse fossero e da quanto vari moti-vi determinate, onde, per esempio, i laici del ’71-75 do-vevano vedere nella Germania bismarckiana la nemicadel Papato, mentre i laici dell’inizio del Novecento do-vettero rivolgere gli sguardi verso la Francia di WaldeckRousseau e di Combes. Molte cose mutavano, uominied eventi, lasciando tuttavia inalterati taluni motivi fon-

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damentali che avrebbero contrassegnato lo sviluppo sto-rico avvenire. Mutava persino lo stato d’animo generaledell’Europa da quel ch’era stato nella primavera del ’71.

Allarmi e paurose profezie allora; inquieto chiedersiquali sarebbero state le nuove conquiste della Germania,ormai tesa a invader sull’altrui1651; perfino in Inghilter-ra, nel ’71, le fantasticherie su di una possibile aggressio-ne germanica contro l’isola e l’immenso successo del rac-conto della immaginaria battaglia di Dorking1652. Ancora,la Comune di Parigi e il raccapriccio di fronte agli orroriche i nuovi barbari, usciti dalle viscere stesse della socie-tà, minacciavano. Chi vedeva i nuovi Unni nei Tedeschidel Bismarck, chi nei petrolieri di Parigi, e molti in tut-ti e due. Dopo tutto questo, il vedere la sostanziale cal-ma conservatrice della politica bismarckiana, nessun’al-tra colonna Vendôme a terra e, anche, l’effetto natura-le del tempo condussero ad una distensione degli animiinvero assai grande.

Si era temuto che sopraggiungesse sull’umanità unanuova èra del ferro e del fuoco e che fosse ormai inu-tile parlare di diritti e di morale internazionale: ma già il25 settembre del ’71 la Ligue Internationale de la paix etde la liberté apriva, a Losanna, il quarto Congresso dellapace. S’era disperato dell’Europa come consorzio civile:ma otto giorni prima della pace di Francoforte Garibal-di parlava agli amici di Nizza di una unione europea conNizza capitale1653; e poco dopo veniva alla luce l’opera diCharles Lemonnier sugli Stati Uniti d’Europa. Tornaro-no a riapparire gli ideali europei alla Saint-Simon e al-la Càttaneo; e più tardi taluno auspicò per l’Italia il grancompito di iniziatrice della federazione europea, con Ro-ma rinnovato centro di civiltà e il Campidoglio aperto aidelegati dell’Europa unita1654.

Molto più importante di tutti questi congressi, di-scorsi e scritti, il giudizio arbitrale per la questionedell’Alabama, nel 1872. Gran fatto, insperato e nuovo,

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che due potenti nazioni come l’Inghilterra e gli Stati Uni-ti accettassero di risolvere pacificamente una controver-sia fattasi coli minacciosa ad un certo punto da sembrarcondurre alla guerra; grande esempio per gli Stati con-tinentali, anche se non facile da seguire subito, trovan-dosi l’Europa in fase di transizione dai vecchi Stati basa-ti sulla forza ai nuovi Stati fondati sul principio di nazio-nalità. Se non ora, almeno al termine del cammino pre-sente dell’Europa stavano l’arbitrato internazionale e lapace1655. Grande esempio, gradito agli Italiani che aveva-no dato al tribunale arbitrale il presidente, conte Federi-co Sclopis; salutato con gioia dai moderati, come il Bon-ghi, i quali, in perfetta coerenza con tutto il loro pensie-ro di settecentesca origine, credevano nel disarmo, nel-l’arbitrato internazionale, nell’organizzazione della pacemondiale1656, anche se la Sinistra, allora sotto l’incubo deiclericali francesi, non intendesse abbandonarsi a rosei so-gni e, pur rallegrandosi del risultato, ammonisse che nonbisognava farsi illusioni e che l’Italia specialmente ave-va l’obbligo di prepararsi pel giorno inevitabile in cui,provocata, avrebbe dovuto «contare sulla ragione dellascimitarra»1657.

C’era, in Inghilterra, Henry Richard che sollecitava ilgoverno a farsi promotore dell’arbitrato internazionale;c’era la petizione presentata al Parlamento con più di unmilione di firme e, finalmente, la vittoriosa discussionealla Camera dei Comuni l’8 luglio 18731658. E in Italia, il24 novembre del ’73, la Camera dei Deputati approva-va unanime la proposta Mancini, accettata dal ViscontiVenosta, perché «il Governo del Re nelle relazioni stra-niere si adoperi a rendere l’arbitrato mezzo accettato efrequente per risolvere, secondo giustizia, le controver-sie internazionali nelle materie suscettive d’arbitramento;proponga, nelle occasioni opportune, d’introdurre nellastipulazione dei Trattati la clausola di deferire ad Arbi-tri le questioni che sorgessero nella interpretazione ed

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esecuzione dei medesimi; e voglia perseverare nella be-nemerita iniziativa, da più anni da esso assunta, di pro-muovere convenzioni tra l’Italia e le altre nazioni civiliper rendere uniformi ed obbligatorie, nell’interesse deipopoli rispettivi, le regole essenziali del Diritto Interna-zionale Privato». Non era, certo, il miraggio della paceperpetua, respinto dallo stesso giurista napoletano; nonera nemmeno l’imposizione del principio di arbitrato an-che «nelle questioni di vita e di morte che sorgano tradue nazioni»1659. Ma erano pur sempre passi notevoli,soprattutto perché indicavano che tornava la fiducia nel-la vita collettiva delle nazioni. Dal suo seggio di presi-dente del Consiglio Marco Minghetti dovette, quel gior-no, rammentare giudizio di quindici anni prima, quandoaveva battezzato un utopia la speranza di comporre i li-tigi degli Stati mercè un tribunale di arbitri1660: almenol’Alabama gli aveva dato torto.

L’umanità tornava a sperare; dopo l’abbattimento e lepaure gli uomini ripresero a credere in un futuro miglio-re, in unavvenire, chissà, finalmente senza guerre, senzalutti e senza rovine. L’Europa si adattava alla sua nuovacondizione. E rifiorì il «roseo sogno» già accarezzato da-gli uomini del primo Ottocento e che era parso infran-to dalla lotta di distruzione franco-germanica: il porten-toso sviluppo economico, la ricchezza, l’entusiasmo perle conquiste della tecnica, il piacere di vivere una vitasempre più comoda e facile trassero l’uomo medio fuorid’angoscia e lo adagiarono in una immensa sicurezza disé e del futuro. Ritornarono, per l’Europa, i giorni felicidella Monarchia di Luglio per la Francia; e l’Europavis-se, tra l’uno e l’altro secolo, i suoi ultimi giorni di splen-dore, in quel mondo di ieri che, nei tempi della mise-ria, Stephan Zweig ha rimpianto come il nuovo Paradisoperduto.

Fu quindi un gran mutamento d’atmosfera dai giornidell’inverno 1870-71. E in siffatto variar di luci dell’oriz-

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zonte europeo è naturale si colorissero anche variamentetendenze sentimenti e idee in Italia.

Ma come l’ottimismo nel progresso e il compiacimen-to della propria vita non riuscirono mai a togliere dal-la coscienza degli uomini di governo e dei più chiaroveg-genti politici europei le preoccupazioni per lo stato di co-se determinato dalla guerra franco-prussiana, e i progettidi federazione europea e di arbitrato internazionale nonimpedirono che, praticamente, si iniziasse allora la corsaagli armamenti, in proporzioni mai viste; come dunquela fiducia generica dell’uomo della strada non impedì chel’epoca avesse veramente il carattere di una pace armatae l’Europa politica fosse nervosa, eccitabile, fondamen-talmente inquieta assai più che altre volte, e più certoche tra il 1815 e il 1848: così anche il vario atteggiarsi diuomini e di partiti e lo sfumare o accentuarsi di tenden-ze, non impedirono che i motivi profondi della vita ita-liana rimanessero, fondamentalmente, quelli che s’eranodispiegati nei giorni del trionfo prussiano e dell’ingressoa Roma.

Libertà e nazionalità, ma già con preoccupazioni chepotevano intiepidirne la fede, sia di fronte all’avanzaredelle masse, sia di fronte alle esigenze dell’equilibrio eu-ropeo, e certo, comunque, con il sostanziale abbandonodi ogni lievito rivoluzionario; idea di Roma che comin-ciava a fermentare negli animi, e sia pure per il momentodi una Roma laica contrapposta alla Roma papale; nettopronunciarsi di atteggiamenti nei confronti delle due po-tenze rivali sul continente, Francia e Germania: tale erail bagaglio di affetti e di pensieri con cui il ceto diretti-vo dell’Italia unita iniziava da Roma capitale il lavoro diassestamento dello Stato territorialmente compiuto.

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PARTE SECONDA

Capitolo Primo

Le cose..

I

Finanza ed esercito

Era un lavoro di assestamento e consolidamento: quin-di, anzitutto un lavoro nel campo interno. Poiché, fini-ta la guerra franco-prussiana anche gli avventurosi nonavrebbero potuto sognare, allora, nuove imprese e altriallori.

Già le condizioni dell’Italia fra le grandi potenze eranotali da troncar netto ogni possibile sogno che non fosseproprio di mente malata. Ultima venuta, in ordine ditempo, nel concerto europeo – ché, anche prima dellacreazione dell’impero germanico, la Prussia era da lungapezza, dall’età di Federico il Grande, una grande potenza–, l’Italia era anche l’ultima per potenzialità demografica,economica, militare, tanto da essere «grande potenza» dinome e di forma assai più che di fatto.

I suoi 26.801.154 abitanti – tale la popolazione del Re-gno al 31 dicembre del 18711661 – la lasciavano a notevo-le distanza non pure dalla Russia e dalla Germania, con iloro 78 e 41 milioni, ma anche dalla Gran Bretagna, con isuoi 32 milioni, e dai suoi vicini di occidente e d’oriente,la Francia la quale, nonostante la perdita dell’Alsazia Lo-rena, poteva ancora annoverare 36.150.262 abitanti1662, el’Austria-Ungheria, che ne contava 35.000.000.

Ma ancor più notevole il distacco e di profonde con-seguenze, ove dal campo demografico si passasse a quel-

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lo economico. Qui nonostante i progressi, indubbi, chevenivan annualmente fatti, si percepiva di primo acchi-to quanto giovane fosse, dal punto di vista della tecni-ca e della produzione,la nazione, così vecchia cultural-mente, e quanto arretrate le condizioni di troppe regioniond’era rallentato il progresso d’insieme1663; e balzava al-l’occhio anche dei più tardi la diversità di forza e di ric-chezza non solo a petto degli Stati di più anziana e soli-da ossatura, Francia e Inghilterra, ma ben anco dell’Im-pero germanico, che era pure di recente nascita politi-ca. Come dal punto di vista dei valori morali e spiritua-li, così dal punto di vista della ricchezza ed attrezzatu-ra materiale era agevole scorgere quanto lontane fossero,al disotto della apparente somiglianza di destini, le duecreazioni statali del secolo XIX, Germania e Italia.

Senza dubbio si progrediva: Quintino Sella potevacon legittima soddisfazione far rilevare, nella sua espo-sizione finanziaria alla Camera, il 12 dicembre 18711664,come tra il ’61 e il ’71 le ferrovie fossero passate da 2200chilometri a 6200, il telegrafo da 16.000 a 50.000 chilo-metri di filo, il reddito delle imposte dirette da 175 mi-lioni a 503, quello dei monopoli da 175 a 296. Questi esimili dati erano testimonianza sicura del progressivo eanche rapido avviarsi della vita economica italiana, pro-prio dopo il ’701665, verso una fase di assai più intensae larga attività, per la quale erano presupposto necessa-rio i grandi lavori pubblici, e soprattutto il miglioramen-to del sistema di comunicazioni, che finalmente creasseun mercato nazionale. Al quale miglioramento l’inaugu-razione del traforo del Cenisio, gloria dell’ingegneria ita-liana, apportava, proprio nel settembre del ’71, una con-sacrazione di valore internazionale, dopo che, pochi me-si innanzi, l’approvazione della convenzione per il tra-foro del Gottardo, da parte della Camera italiana, ave-va aperto nuove prospettive di scambio anche tra la val-le padana e l’Europa centrale. E, d’altra parte, i lavori

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portuali perseguiti dal 1861, con una spesa, sino al 1870,di 68.000.000 lire, col prolungamento dei moli a Geno-va, Napoli, Palermo, Ancona e il cantiere di raddobbo aLivorno e il bacino di carenaggio a Messina e la riattiva-zione del porto di Brindisi, per non rammentare se nonuna parte delle opere compiute1666, costituivano pure unabuona arra per il futuro sviluppo commerciale della pe-nisola.

Il quale sviluppo già si annunziava, con l’incrementonotevole del commercio di importazione ed esportazio-ne; da 830 milioni di lire nel 1862 a 964 nel ’71, e da 577a 1085 rispettivamente; nel complesso, un balzo da untotale annuo di 1.407.000.000 a 2.049.000.0001667.

Ma per quanto già incoraggianti in rapporto alle pas-sate condizioni della penisola e a quelle tuttora assai ar-retrate di una parte degli ex Stati Italiani1668, queste cifresuonavano ancora assai modeste di fronte alle corrispon-denti cifre delle altre grandi potenze. Vinta e duramentepiegata, la vicina d’Occidente, la Francia, manteneva an-cora sul giovane Regno una superiorità schiacciante, coni suoi 18.000 km. di ferrovie e un volume commercia-le complessivo di più di 6 miliardi di franchi, tre voltetanto1669.

Le 477 società italiane per azioni del 1871, con iloro 1.722 milioni di capitale, pur rappresentando di giàun considerevole aumento di fronte alle 392 dell’annoprecedente1670, erano ancora poca cosa di fronte alleconsimili società francesi, inglesi, germaniche, così comepoca cosa era ancora il risparmio pubblico di fronte aquello estero; e il reddito medio degli Italiani, di granlunga inferiore a quello dei Francesi, Inglesi e Tedeschi,era l’eloquente simbolo della assai diversa situazione incui l’Italia si trovava nei confronti delle altre grandipotenze1671.

Trasferita sul piano della finanza pubblica, la ancorascarsa potenzialità economica del Regno trovava piena

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espressione nel deficit, che sembrava destinato a diventarcronico, del bilancio statale, e nel corso forzoso.

Secondo i dati che il Minghetti presentava alla Came-ra, nell’esposizione finanziaria del 27 novembre 1873, ildisavanzo era stato di 338 milioni nel ’68, 216 nel ’69,307 nel ’70, 112 nel ’71, 113 nel ’721672; e anche sulla basedi più recenti ed elaborati calcoli, la continuità del defi-cit era sempre grave, 266 milioni nel ’68, 195 nel ’69, 249nel ’70, 79 nel ’71, 117 nel ’72, 139 nel ’731673.

E non era solo il bilancio statale a soffrire della neces-sità di turare senza requie grosse falle: anche i bilanci deiComuni, vale a dire della cellula organica base della vitacollettiva, cominciavano a presentare, dal ’68 in poi, ca-ratteristiche simili, anche se di minor entità1674, ond’è cheil 29 gennaio del ’71 L’Opinione poteva lanciare un gridod’allarme constatando che nel ’69 soltanto 219 Comuni(9 urbani e 210 rurali) avevano chiuso il bilancio in avan-zo, mentre 432 (21 urbani e 411 rurali) si limitavano alpareggio e tutti gli altri chiudevano in deficit. Non c’e-ra dunque di che stupire se, di fronte ad una simile situa-zione, la rendita 5% quotasse, nell’agosto del ’71, a 60 li-re oro e 64 lire carta1675; se la grande piaga dell’aggio cre-scesse ogni anno1676 e, di conseguenza, anche il cambiosull’estero si mantenesse sempre sfavorevole alla lira1677.

Era, questa, la grande prova che l’Italia unita dovevasuperare per convincere davvero all’estero tutti, ma mol-ti anche all’interno, di essere una creatura vitale, capa-ce di reggersi pur quando fosse svanito l’eccitamento pa-triottico dei giorni dell’azione armata.

Disavanzi nel bilancio statale, altre e grandi e ricchenazioni avevano avuto prima d’allora e avrebbero ancoraavuto senza che nessuno traesse da ciò oroscopi di mor-te; e la stessa Italia, una volta superata la fase iniziale eassestatasi all’interno, avrebbe potuto permettersi il lus-so, diciamo, di chiudere in deficit il proprio conto finan-ziario annuale senza che più si pensasse a decretare, su

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quella base, l’imminente fine del regno. Già un venten-nio dopo, nella pur gravissima crisi finanziaria d’intornoil 1890-1896, già allora, per seria che apparisse la situa-zione, i profeti di morte e gli affossatori in anticipo o nonesistettero più o furono trascurabile cosa. Ma in que-gli anni immediatamente seguenti l’unità, e forse special-mente dopo il ’70; dopo l’acquisto di Roma, e nel nuovoclima generale europeo, assai meno propizio agli ideali ingenere e, in particolare, all’ideale di nazionalità e anchea quello di libertà1678, certo meno propizio all’Italia per lascomparsa della potenza napoleonica, spesso sospettatadagli Italiani e sospettosa verso gli Italiani, ma in fondonon mai più dimentica dei giorni di Magenta e di Solfe-rino: in questo ambiente, politicamente meno emotivo,dominato dalla chiara e fredda logica del cancelliere ger-manico, molto attento ai «fatti» e, tra i fatti, anche allafinanza pubblica, in quest’ambiente occorreva che l’Ita-lia desse prova di saper vivere e di essere un’unità reale,solida, nell’animo generoso di una minoranza di patrio-ti decisi e nell’alto e profetico spirito di talune persona-lità di eccezione non solo, né solo nel fervore di una lot-ta cruenta e accesa di speranze di inni di poesia, sì anconella dura vita quotidiana di tutto un popolo, nella pra-tica di affari e di imprese in cui la poesia non aveva piùnulla da suggerire, e tutto diceva invece il tornaconto e ilcalcolo.

Era venuta su, quest’Italia, troppo d’improvviso, qua-si miracolosamente: ché i contemporanei non avevanol’obbligo di saper troppo di storia e di andar a ricercarele cosiddette origini del Risorgimento sin nei primi de-cenni del Settecento; bastava loro stare ai fatti, alla real-tà ben percepibile e riconoscer l’improvviso accendersidi una questione italiana dopo il 1815. Nel che poi, for-se, dimostravan d’avere, essi, più intuito storico-politicodi parecchi futuri professori di storia,come che coglies-sero nel vivo il momento veramente e propriamente rivo-

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luzionario, quel che insomma costituisce il Risorgimen-to, senza confonderlo con le riforme e il pensiero rifor-mistico, che erano stati il necessario presupposto dellarivoluzione, ma erano pur sempre tutt’altra cosa da essa.

Ora, a questo miracolo, in cui larga parte attribuiva-si alla fortuna, ben diversa essendo la stima per le quali-tà militari degli Italiani e per le qualità belliche dei Tede-schi, autori dell’altro, contemporaneo miracolo; a questomiracolo si chiedeva di dimostrare ch’esso posava effet-tivamente su basi solide, e non di creta: anche fuor del-la poesia, bisognava che l’Italia dimostrasse di saper fa-re, anzi di saper semplicemente vivere – e ciò a parecchiappariva da qualche anno piuttosto dubbio, consideran-dosi perfino che dopo il ’61 e soprattutto dopo il ’66 l’I-talia, in sostanza, più regrediva che progrediva1679; e chela nazione se ne stava «immobile nelle nicchie del suopassato»1680.

Nessuna prova più atta a saggiare se ne fosse o no ca-pace, di quella finanziaria: prova che stava particolar-mente a cuore ad una società, qual era la società euro-pea di dopo il ’70, lanciata in piena epopea capitalisti-ca e in cui l’apprezzamento dei valori economici sover-chiava, sempre di più, la valutazione dell’elemento spiri-tuale e lo stesso fattore politico veniva sempre maggior-mente connesso e talora fin subordinato a quello econo-mico. E prova difficile per un paese come il nostro, po-vero, economicamente arretrato, la cui finanza pubbli-ca era la risultante di diverse finanze statali, per lo piùzoppicanti1681, era tecnicamente ancora in una condizio-ne assai disordinata e spesso caotica con i sette diversi si-stemi di riscossione delle imposte unificati solo tra il ’72e il ’73, grazie ad un «lavoro diabolico»1682.

Era dunque una prova decisiva: molti erano gli scet-tici, e coloro che pensavano che sullo scoglio finanziarionaufragasse la navicella italiana, appena appena lancia-ta in alto mare; e molti, anche all’interno, fra clericali e

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reazionari di ogni genere, che speravano l’andasse così esi sfasciasse, alla prova dei soldi, l’edificio messo su, traviolenza e prepotenza, da quei mali uomini dei patrioti.Ma anche fra costoro v’eran parecchi perplessi e timoro-si che la costruzione politica non reggesse al vaglio del-la finanza; e ne dava prova, tra altri, Michelangelo Cae-tani, l’uomo che aveva apportato a Vittorio Emanuele IIil plebiscito di Roma, e che ora temeva «il fallimento difinanza» e vedeva nero nero per il proprio paese, non acausa di reazioni politico-religiose ma della «piaga» del-la finanza, e presagiva «demolizione del passato, e rovinadell’avvenire»1683; e così, da tali apprensioni mosso, in-vestiva i suoi capitali in titoli francesi, «perdendo anco-ra non poco nel cambio presente, per non perdere tut-to nell’avvenire»1684, seguendo d’altronde in ciò l’esem-pio di quegli altri italiani i quali, nel ’72, avevano sotto-scritto 620 milioni nei titoli del prestito francese di tremiliardi, vale a dire una somma pari ad un decimo cir-ca di quella che avevano impegnata nei titoli del debitopubblico del loro paese1685.

Il duca romano, spirito caustico sempre, prima a’danni della Curia Pontificia ed ora a’ danni dei nuovigovernanti1686; gran liberale di fama ma non tanto saldodi convinzioni da non ritrattarsi in punto di morte e chie-dere ammenda al confessore dei trascorsi patriottici1687;tormentato dal dolore fisico della cecità e dall’angosciamorale per la scomparsa della seconda moglie, era unospirito irrequieto ed inquieto e troppo spesso il suo eraormai pessimismo di abitudine e bisogno di mormorarsu tutto1688; ma sul punto finanza, le sue querimonie era-no allora di molti, che si raccomandavano a Dio o al-lo «stellone»1689, e penetrante e sostanzioso era il giu-dizio ch’egli esprimeva, il 2 agosto 1874, all’amico deCircourt: che l’Italia, quale era fatta, non poteva pre-sumere «di fare la conquista violenta di sé stessa», anzinon poteva «sussistere, durare e corroborarsi, se non per

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universale consenso, per comune benessere e per veromiglioramento»1690.

Proprio così: l’Italia non poteva fare la conquista vio-lenta di sé stessa, non poteva cioè agire sul suo corpo eco-nomico e morale come avevano agito le divisioni piemon-tesi contro l’Austria, i Mille contro la monarchia borbo-nica, con la forza; fatta l’unità, cacciato lo straniero e cac-ciate le dinastie locali, le armi non servivano più, e biso-gnava mantenere l’unità, procedere cioè con i mezzi eper le vie della pace e delle arti della pace.

Mutavan completamente gli obbiettivi della politica,e dovevan mutare i mezzi: tesa, fino al ’70, nella volon-tà di completare il Regno con la Venezia e Roma prima,con Roma poi, la classe dirigente doveva ora irrigidire leenergie in una tensione non meno accentuata e forse an-cora più aspra, ma per altre mete. A quella guisa in cuicambiava totalmente il clima politico europeo, con la ca-duta del Secondo Impero e l’avvento della potenza ger-manica, e, in Italia, con Roma capitale penetrava adden-tro nella vita nazionale un nuovo, potente germe d’ideee di sentimenti, alla stessa guisa cambiavan motivi e ra-gioni dell’attività politica: le questioni, nelle quali avevaa provarsi il valore degli uomini e dei partiti, divenivanquestioni di ordine interno, amministrativo ed economi-co; non erano più – annotava l’organo magno della De-stra al potere1691 – le quistioni d’un tempo, capaci di ap-passionar così vivamente gli animi, non potevano più ri-solversi con discorsi enfatici, e né meno con la sola auda-cia de’ fatti, ma richiedevano studio, senso pratico, spiri-to di sacrificio. Solo col senso pratico poteva farsi la nuo-va Roma, la Roma della civiltà moderna e della libertà, laRoma insomma vagheggiata dal Cavour, non la Roma deiCesari e della retorica tribunizia.

E se la questione finanziaria costituì in ogni tempo ecostituisce sempre un problema politico, esulando dal ri-stretto campo tecnico per investire tutta quanta la vita

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nazionale, in quel particolare momento di vita italianaessa diventava il problema politico, il problema naziona-le per eccellenza, quello dalla cui risoluzione dipendeval’essere stesso della nazione1692. Tutto si riconduceva e siriduceva lì1693: salvare il bilancio statale, riuscire infine alpareggio, dar la prova, coi fatti, ad un mondo che al pa-reggio del bilancio pubblico teneva ancora come ad unassioma incrollabile e non era avvezzo ai colossali defi-cit dei nostri tempi, dar la prova, dicevamo, che l’Italiaanche passata l’euforia delle cosiddette giornate radioseera capace di vivere la vita di ogni giorno, disadorna for-se, dura e faticosa certo, che non presentava gli alletta-menti esteriori, i colori e i suoni delle imprese belliche,che da troppa gente, tirata su fra la retorica e allattata al«latte di eloquentia», correva anche il rischio di esser sti-mata come prosaica imbelle e da poco, ma che era in ve-rità assai più difficile da combattere e non meno merito-ria da vincere delle stesse battaglie militari. Una prova,che affollava di incubi certe notti del pur quadrato Sel-la, condotto a veder in sogno, come in ridda, centinaia dimilioni di titoli...1694.

Il fallimento finanziario avrebbe significato, in quelperiodo storico, la fine dell’Italia unita; e nessun pro-digio in camicia rossa e nessuna abilità diplomatica allaCavour avrebbero più potuto rimettere insieme uno Sta-to che si fosse dimostrato incapace di assicurare la pro-pria vita finanziaria di ogni giorno.

Questo dissero, in quegli anni, molto chiaramente ea più riprese, uomini politici e giornali stranieri, amici enemici dell’Italia; e ammoniva un non dubbio amico, ilGladstone, una volta che a Firenze s’eran dati convegnouomini politici e altre personalità per onorarlo, ammoni-va il Gladstone, pur rallegrandosi dei vantaggi consegui-ti, che gli Italiani avevano in casa un nemico più terribi-le degli eserciti stranieri, ed era l’enorme deficit gravantesulla finanza pubblica1695.

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E a chi per avventura avesse mostrato disdegno perl’ammonimento come che venisse da un uomo tacciatodi umanitarismo e di scarsa sensibilità per i problemi del-la potenza e della forza, si poteva rispondere ricordandoche anche un altro grande uomo di Stato, non sospettocerto di pacifismo o, per dirla con espressione dei no-stri tempi, non sospetto di preferire il burro ai cannoni,anche il Bismarck dunque, tra le cose dette al Minghet-ti ed al Visconti Venosta nel settembre del ’73 a Berlino,aveva ammonito a sua volta: «Voi avete un solo nemicoda debellare a ogni costo; è il disavanzo», insistendo chea toglier di mezzo tale nemico dovesse il governo rivol-gere tutte le sue cure, e non ad accrescere gli armamen-ti, la forza di una nazione risiedendo anzitutto nel suocredito1696.

E nell’estate del ’74 tornava alla carica, sempre ripren-dendo pensieri già affiorati nel ’68, col palesare il suo stu-pore perché il governo di Roma, sicuro dell’appoggio te-desco in caso di aggressione della Francia, non riducessele spese militari per equilibrare il bilancio1697.

I due maggiori uomini di Stato europei, così fonda-mentalmente diversi, erano dunque concordi nel valu-tare la situazione dell’Italia1698; concordi erano gli orga-ni della stampa europea nel consigliare, ammonire ta-lora minacciare i politici italiani; e dall’apprezzamentosulla situazione finanziaria del giovane regno, alla qualeera così fortemente interessato il capitale estero1699, moltovariava nel contegno dei maggiori giornali e riviste, sic-ché quando, nel marzo del ’74, la Camera approvò nuo-vi stanziamenti di circa 80 milioni per le spese militari,a pareggio non raggiunto, fu un coro solo. Dallo auto-revolissimo Times in quegli anni già spesso poco bene-volo all’Italia per ragion di finanza1700, secondo cui me-no di ogni altro paese l’Italia poteva permettersi il lus-so di spendere il denaro pubblico in modo inutile ed im-produttivo, allo Standard, altro de’ riputati giornali ingle-

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si e organo del partito conservatore, che invitava gli ita-liani a guarir dalla mania per le spese militari e dalla im-piegomania – la mania per cui l’ideale di vita di un ita-liano era di esser impiegato dello Stato e di aver uno sti-pendio iscritto in bilancio – per lavorar di più e spenderdi meno, alla Pall Mall Gazette, soffermantesi sulla man-canza di coraggio dei successori di Cavour nel far frontevigorosamente alla situazione finanziaria e sulla impossi-bilità per l’Italia di tener in piedi un esercito di 360.000uomini: la stampa inglese era unanime e vi tenevan bor-done giornali e uomini politici statunitensi, a cominciareda quel senatore Boutevell che accomunava l’Italia allaSpagna, alla Grecia e ad altre nazioni «disonorate»1701.

Ma anche da parte germanica risuonavano voci si-mili, che riprendevano, amplificavano l’ammonimentodato dal Bismarck nel settembre dell’anno precedente;e della bisogna s’incaricavano la Augsburger Allgemei-ne Zeitung, il più importante giornale della Germaniameridionale1702, all’Italia ostile per lunga tradizione, e so-prattutto la Spenersche Zeitung, anch’essa non semprebenevola per il governo del Re1703. Dalle colonne di que-st’organo della stampa tedesca si levavano avvertimentidel tutto analoghi a quelli di cui s’erano incaricati i por-tavoce della City e del mondo finanziario anglosassone:gli italiani non riflettono abbastanza che non c’è forzamilitare dove non c’è forza pecuniaria, e non c’è forzapecuniaria dove non ci sono floride finanze; essi devonopersuadersi che, per ora almeno, e giocoforza rinunzia-re ad avere un esercito uguale a quello delle grandi po-tenze, e devono cercar invece di assicurarsi per ogni casaun alleata sicuro, che permetta loro di diminuire le spe-se militari e ristabilire le finanze; e devono riflettere be-ne su tali problemi, anche se molti in Italia vogliono ar-mare ancora di più, perché uno Stato in fallimento non èmai un forte alleato1704. Nelle quali considerazioni si sve-lava, certo, il dispetto tedesco versa il governo italiano,

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in quell’ora; così come negli inviti – e più aperti di cosìnon potevan essere – ad un’alleanza con la Germania tra-pelava ancora e sempre la volontà bismarckiana di piega-re il Minghetti ed il Visconti Venosta ai suoi desideri infatto di politica generale e particolarmente ecclesiastica.Ma, dispetto o no, anche le voci tedesche suonavano al-l’unisono con quelle del mondo anglosassone, all’uniso-no con le voci francesi per le quali l’Italia era senz’altroil paese del deficit1705; ed era un coro non gradevole, am-monimento minaccioso che svelava, ed avrebbe dovutosvelare anche ai più accesi sostenitori della «grande poli-tica», senza troppi riguardi al bilancio, quale fosse l’im-portanza del problema finanziario.

Era veramente la questione politica per eccellenza, laquestione vitale per il Paese, tanto vitale che, a non supe-rarla, l’Italia sarebbe o crollata o almeno scesa alla condi-zione dell’Egitto, terra sotto controllo finanziario altrui equindi colonia, non libera nazione. Del che s’era già avu-to aperto indizio il giorno in cui il rappresentante diplo-matico di un governo straniero, esprimendo brutalmen-te quel che anche in altri ambienti si pensava, s’era reca-to dal Sella a proporgli formalmente di sottoporre la fi-nanza italiana a controllo internazionale. Il ministro este-ro fu messo alla porta; ma il problema rimase e da allo-ra il Sella mosse deciso alla restaurazione della finanzapubblica1706.

E fu quindi giusto cercare il pareggio ad ogni costoanche gravando pesantemente sull’economia di un paesepovero, anche sollevando ire popolari, malcontento delnuovo Stato e perfino rimpianto dell’antico ordine di co-se. Tutti i ragionamenti validi per i tempi ordinari, ne-cessità di sviluppare l’attività economica, non opprimen-dola con soverchi balzelli1707 erano ora quasi senza valoredi fronte allo imperativo politico, che esigeva di urgenzail raggiungimento del pareggio, per dimostrare al mondola vitalità dello Stato italiano: l’unica dimostrazione di si-

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curo effetto, che potesse in quei giorni essere contrappo-sta alle violenze verbali, alle accuse ed alle manovre degliambienti clerico-reazionari della penisola e dell’Europa.

L’imperativo politico era categorico; e perciò anche,in un periodo in cui il sistema tributario era ancoraincompiuto, gli accertamenti assai imperfetti, gli stes-si metodi di esazione vari e discordanti, la equa razio-nale distribuzione dei pubblici carichi rimase un sognoed anzi si affastellarono spesso i tributi gli uni sugli al-tri, al solo scopo di raccogliere le somme occorrentiall’erario1708, ed il Sella dovette rinunziare alla sua ideadi una imposta globale sul coacervo dei redditi, con ali-quota progressiva1709. Il fardello fu così assai pesante so-prattutto per le classi meno abbienti, di grama vita giàe pertanto maggiormente colpite dalle sperequazioni tri-butarie sul tipo di quella sancita dalla imposta di ricchez-za mobile che incideva nella egual misura del 13,20% suqualsiasi reddito meritando di essere definita l’impostasulla immobile povertà1710; donde aspetto e in parte so-stanza di finanza di classe della politica finanziaria deimoderati, anche se l’accusa, tante volte ripetuta, allorae poi, si attenui quando si consideri che proprio nel pe-riodo fra il 1871 ed il 1875 la percentuale delle impo-ste sui redditi e sui patrimoni, nel complesso delle entra-te tributarie, fu la più alta mai avutasi nella storia d’Ita-lia, mentre quella delle imposte indirette fu la più bassa,nonostante l’imposta sul macinato1711.

Aver compreso questo imperativo, averne percepito laterribile importanza, costituisce gran titolo di gloria del-la Destra nei suoi ultimi anni di governo e, in particola-re, la prova indubbia delle qualità di uomo di Stato diQuintino Sella, la testa forte e secca1712 che fu allora latesta adatta, anche se impopolare. Non finanziere perstudi e pratica, divenuto uomo di finanza pubblica pernecessità1713, egli vide chiaramente e chiaramente affer-mò con la parola e con fermissima azione che il vero pro-

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blema politico d’Italia era quello finanziario1714 e che oc-correva affrontare qualsiasi impopolarità pur di salvareil paese dal dissesto economico e dal disonore1715, a cuisarebbe fatalmente seguito il disastro politico; e trascinòdietro a sé tutta la vecchia Destra, uomini di lui assai me-no energici come il Minghetti, a sua volta convinto chela breccia ancora aperta nelle finanze fosse quella «per laquale entrano le rivoluzioni col codazzo dell’anarchia edel dispotismo»1716, e che se ogni giorno aveva il suo affa-re, l’affare dell’Italia era allora il riordinamento delle fi-nanze, ancor più importante e preoccupante della stes-sa questione ecclesiastica1717. Perciò, giustamente, l’opi-nione pubblica vide in lui una forza politica d’assai su-periore a quella di un ordinario ministro delle Finanze;e uomini politici e partiti videro un capo, anche quan-do non lo amassero, nell’uomo che non fu mai presiden-te del Consiglio ed ebbe sempre un ministero tecnico,non politico in stretto senso come i due più ambiti del-l’Interno e degli Esteri, e in un Parlamento ricco di raf-finati e letteratissimi oratori, come il Cavour prima ed ilGiolitti poi fu oratore disadorno e fin stentato, anche seefficace1718, e tuttavia dal suo seggio di tecnico e con lasua parola non forbita esercitò un influsso politico deci-sivo e fu il valore più alto ed incontestato del ministeroLanza1719.

Tali dunque erano le condizioni dei tempi: l’Italia do-veva dimostrare, secondo annotava nell’agosto del ’72,con benevolenza questa volta, la Saturday Review, in ge-nere poco benevola appunto per la questione finanzia-ria, «a costo di quali sacrifizi ai nostri giorni una nuo-va nazione cerca di stabilirsi e di elevarsi al grado di po-tenza indipendente»1720, anche conclusa la lotta armata; edoveva esperimentare a sue spese che più dolorose del-le prove belliche riescono spesso, nella vita dei popoli, leprove della vita civile.

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Così il problema finanziario rimaneva al centro del-le preoccupazioni degli uomini di governo. E ne era in-fluenzata direttamente, s’intende, in premo luogo pro-prio l’organizzazione militare del Regno, quella potenzaguerresca che ha costituito, sempre nella storia dei rap-porti internazionali il fattore ultimo e decisivo dell’azio-ne politica e diplomatica: onde s’era facile, come fu det-to, far l’ambasciatore a chi aveva dietro di sé la HomeFleet, meno agevole riusciva a chi non poteva contare sudi una pari forza, terrestre o marittima. E fu il caso del-l’Italia, logicamente ultima fra le grandi potenze anchedal punto di vista della forza militare.

La necessità assoluta di economie, che non potevanoesser fatte sui bilanci dei lavori pubblici o dell’istruzio-ne, necessitanti invece di continui maggiori stanziamen-ti acciò la vita della nazione potesse svolgersi con ritmopiù celebre e moderno, si ripercosse anzitutto sui bilancimilitari, sottoposti a grosse falcidie a partire dal 1867.

Le spese per il bilancio della guerra fra il 1867 e il1870 diminuirono fortemente nei confronti degli anni1861-1865; ed anche dopo l’allarme determinato dallaguerra franco-prussiana e la ripresa europea degli arma-menti e le riforme del generale Ricotti, non superaro-no mai più, sino a pareggio raggiunto, i 200 milioni an-nui; quelle per la Marina diminuirono ancor maggior-mente, quasi della metà, sì che le spese militari toccaro-no la percentuale più bassa, nel complesso delle spesestatali, che si sia mai avuta nella storia dello Stato italia-no, il 18,66%1721. E anche qui siffatta contrazione di spe-se era particolarmente grave per un paese il quale, non-ché poter fare insegnamento su di una soda attrezzatu-ra iniziale, avrebbe dovuto spendere in proporzione as-sai più delle altre grandi potenze, trovandosi di fronteal problema di un completo riassetto delle forze armate.A cominciare dalla introduzione effettiva e completa delservizio militare obbligatorio, di fatto ancora assai teo-

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rico nel 1870 date le molte esonerazioni e surrogazioni,l’organismo militare era da rifare; né ci si poteva accon-tentare dell’esserci già lo scheletro nell’esercito piemon-tese, perché quel che era difficile era appunto il rimpol-pare questo scheletro e farlo divenire corpo grosso e ro-busto. Lavori di fortificazione alle frontiere, dopo che lacessione della Savoia aveva lasciata scoperta la linea del-le Alpi occidentali, dal Cenisio in su, e dopo che l’acqui-sto della Venezia aveva condotti i confini in zone prive,sino allora, di qualsiasi appressamento a difesa: era unprimo grosso problema, preoccupante soprattutto dopolo spettacolo dello straripamento de’ Tedeschi in Fran-cia, che faceva pensare nuovamente alle grandi invasio-ni, agli spostamenti di popolazioni intere1722 e, quindi, in-duceva a cercar un sistema protettivo sicuro e continuo.«Scoperti alle offese», com’erano, gli Italiani dovevanoscuotersi, se non per vero e profondo patriottismo, al-meno per il «presentimento dei nostri materiali perico-li», ammoniva il Marselli1723, incitando a risolvere il pro-blema della difesa dello Stato e, fra l’altro, a fortificareRoma; e un altro tecnico, il maggior generale del genioG. B. Bruzzo, incalzava, in un opuscolo, sulla necessità distudiare la questione della difesa generale dello Stato «intutta la sua generalità, partendo non da idee impiccioli-te da considerazioni di attualità, ma da idee larghe, cheabbraccino anche l’avvenire»1724 e proponeva un suo pia-no per dividere il paese in tre grandi scompartimenti –valle Padana, Italia centrale, Mezzogiorno – attrezzati inmodo che l’Italia non dovesse darsi per vinta anche dopoaver perduta la stessa capitale, e fosse «come una grandenave, che non sommerge ancora quando le acque l’han-no invasa in alcune delle sue parti»1725. Nel quale pro-getto, nuova suonava l’affermazione che l’Italia, espostaad invasioni nel Nord, poteva anche esserlo al Centro eal Sud, cioè dal mare; che roba vecchia da porre in ma-gazzino, andava considerato il consueto ritornello della

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valle del Po arbitra delle sorti d’Italia1726; e che, pertanto,più gravoso assai e complesso risultava il problema delladifesa, estesa dalla linea delle Alpi alle coste lunghissime.

Se poi dal problema del reclutamento e delle fortifi-cazioni si passava a quello dell’armamento, per terra eper mare, del reclutamento degli ufficiali, della divisio-ne del regno in riparti territoriali, insomma della struttu-ra stessa dell’esercito, ovunque il senso di dover ricomin-ciar da capo o quasi, ora soprattutto che c’era da imitarenon più la Francia, bensì la Prussia e l’organismo milita-re modello era diverso da quello esaltato per tanti anni; elo testimoniavano le appassionate discussioni sui proget-ti Ricotti, nella primavera del ’71, i Quattro Discorsi delLa Marmora e le polemiche di stampa ed il gran dibatti-to parlamentare dal 15 al 21 giugno. Discussioni e pole-miche che dovevano durare un pezzo, lungo tutto il mi-nistero Lanza e poi ancora lungo il ministero Minghetti,e che giunsero al diapason nel ’73-’74, quando gli accre-sciuti timori per una aggressione francese contro l’Italiaspinsero la Sinistra a premere sul governo, con la pro-posta Nicotera del18 marzo 1873, perché accelerasse edaccrescesse gli armamenti, preoccupando nel contempoanche parecchi degli uomini di Destra.

E fu un batter, soprattutto della Riforma1727, sulla ne-cessità di esser pronti, di esser protetti da un buon para-fulmine, di tener asciutte le polveri secondo aveva predi-cato Oliviero Cromwell1728; e, come doveva poi accade-re altre volte più tardi, così anche allora contro la politi-ca alla Sella si levarono le voci di coloro che, protestan-dosi zelatori del bene patrio e, naturalmente, accusandogli altri di tiepido senso dell’onore nazionale, chiedevanoarmi, armi, armi, anche a costo di maggior disavanzo dibilancio1729. Il ritornello che nell’Europa di oggi il dirittodelle nazioni aveva bisogno di rendersi visibile per mezzodella forza1730, o quell’altro che l’Europa si stava tramu-tando in una immensa caserma e quindi guai ai deboli1731,

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servivano egregiamente da punto di partenza alle invetti-ve contro la politica delle economie fino all’osso.

Era il gruppo crispino della Riforma, era Crispi cheinvocava si facesse presto, presto, presto ad armare, ognigiorno, ogni ora perduti costituendo un pericolo graveper le istituzioni e la libertà1732; erano militari di mestiere,come il Cialdini aspro ed acre pur nella compostezzaformale1733, il quale, dopo di aver già rischiato di farfallire la composizione del ministero Lanza nel dicembredel 1869 con la sua opposizione alle riduzioni di spesemilitari1734, dopo di aver tuonato contro la politica delleeconomie nella agitatissima seduta al Senato del 3 agosto18701735, ammoniva nuovamente i colleghi senatori, il 4giugno 1874, che la prosperità finanziaria non basta peruno Stato e che non era vero che l’Italia dovesse primadiventar ricca per poter poi essere forte – semmai piùvero che bisognava aver la forza per divenire ricchi1736.Riappariva così più che mai falsa nel mondo moderno, lacelebre sentenza del Machiavelli, già, errata ai tempi delsuo autore, che «gli uomini e il ferro truovano i danari eil pane, ma il pane e i danari non truovano gli uomini e ilferro»1737.

Era il Marselli a lamentare che gli Italiani si sarebberocontinuati ad illudere, nella convinzione «che le umili ri-verenze possano scongiurare una guerra fatale. La politi-ca della debolezza e della superficialità porta le sue con-seguenze sugli apparecchi guerreschi: noi non abbiamola febbre che dovremmo avere, e che avremmo se pensas-simo che la guerra con la Francia è inevitabile e potreb-be non essere lontanissima. Né fortificazioni, né flotta,né ordini solidi nell’Esercito. Pochi quattrini, poco pa-triottismo, poca elevazione morale. Non dispero dell’I-talia, anzi credo che il tempo possa rifarla; ma se non neavessimo il tempo?»1738. Perfino il mite cassinese LuigiTosti, preoccupatissimo per un intervento francese a fa-vore del Papa, che egli riteneva probabile, e quindi fau-

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tore dell’alleanza con la Prussia, voleva che si pensasseseriamente all’esercito, essendo questi tempi non di di-spute, ma di fatti1739.

Cotali e di simil genere erano le argomentazioni deipaladini del riarmo sollecito ed integrale, agli occhi deiquali la politica alla Sella era una politica diciamo rinun-ciataria. E non può affatto disconoscersi il molto di ve-ro di quelle affermazioni; che cioè nell’Europa di dopoil ’70, nell’Europa della pace armata, per far sentire leproprie ragioni occorreva più che mai essere forti, e che,cominciando quel fenomeno nuovo nella storia dei po-poli della corsa agli armamenti, il problema dell’organiz-zazione e potenza militare assumeva, se possibile, ancormaggior peso nei rapporti internazionali. Questo era ve-ro: né lo negavano gli uomini di Destra1740, fra i quali ilBonghi soprattutto batteva e ribatteva sul tasto dei pe-ricoli presenti e futuri della situazione europea, in con-seguenza dell’esito della guerra franco-prussiana; e am-moniva che l’esperienza del ’70 aveva dimostrato come il«corpo politico» l’Europa non esistesse e ciascuna nazio-ne dovesse, pertanto, fidare soltanto nelle sue forze e nel-le sue armi. Tanto più pensasse alle armi l’Italia la qua-le, non avendo potuto vincere una grande battaglia nelsuo formarsi, non aveva potuto perciò acquistare il sen-timento fiero, sicuro, altero del suo diritto, e doveva ac-quistar piena coscienza ora dell’efficacia delle sue forzedi terra e di mare.

D’accordo dunque gli uni e gli altri, nel constatare chel’età era di ferro: d’accordo nel richiamarsi a Cromwelle al suo «tener asciutte le polveri»1741, anche se il ricono-scere che l’Europa ritornava «ad un tempo di violenza ed’armi»1742 trasformandosi in un vasto campo militare, eche erano passati i tempi del Cobden e dei suoi amici, on-de non trovavan più base que’ loro ragionamenti rivoltiad uomini pacifici e ragionevoli, suonasse per i moderatitriste e doloroso1743, mentre nel gruppo crispino ispirava

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apprensioni sì, ma ad un tempo un mal velato compiaci-mento per il trionfante senso della forza e della potenza.«Noi credevamo alla giustizia e alla libertà, oggi si cre-de alla forza, ed al numero», doveva scrivere molti annipiù tardi, presso al termine di sua vita, Marco Minghettistanco, amareggiato, pessimista1744; ma fin dal ’71La Ri-forma gli aveva risposto in anticipo, esaltando proprio laforza, il numero, lo slancio vitale dei popoli giovani chehanno un avvenire.

Ma ancor più vero era che in quel momento il proble-ma salvezza per l’Italia era il problema finanziario, tut-to il resto passando in secondo piano, anche la questio-ne della forza militare; e che, tra il perpetuarsi del disa-vanzo con alcune divisioni di più, ed il pareggio con al-cune divisioni di meno, la forza dell’Italia, pur di fronteall’estero, stava nel pareggio1745.

Vittorioso pertanto, per fortuna della nazione, l’indi-rizzo Sella, la riorganizzazione dell’esercito e il riarmoebbero insufficiente appoggio finanziario. E fu, ripetia-molo pure, una necessità: ma ciò non toglie che dal pun-to di vista militare, l’Italia rimanesse ancor più indietroalle altre grandi potenze1746, e che da tale situazione diinferiorità troppo grande non ne venisse influenzata pro-fondamente la sua politica estera, perché era difficile gio-car serrato nel gioco diplomatico quando non s’aveva, al-le spalle, la Home Fleet o la Guardia prussiana

Per vero, pochissimi erano quelli che auspicassero al-lora un gioco serrato in politica estera da parte del go-verno italiano. La nazione era tutta presa dai grossi pro-blemi interni, primo fra tutti quello finanziario, ma nonesclusivo. Ché, anche a riguardare verso altre parti, c’e-ran gran ragioni di cruccio: come chi ponesse mente al-le condizioni della sicurezza pubblica e fosse condotto,dai fatti, alle tristi considerazioni che venivano espres-se dai Bonghi e dai Dina, sull’aumento impressionantedella criminalità, sulla progressione costante dei reati di

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sangue, sulla limitata efficienza della polizia, oppure sul-lo stato di pericolo continuo dominante in più di una re-gione, e soprattutto nella Romagna e nella Sicilia1747. An-che questa, grossa piaga sì per la gravità delle ripercus-sioni interne sì per la risonanza all’estero; risonanza par-ticolarmente spiacevole nella stampa britannica semprepronta a pubblicare lettere di protesta di sudditi di SuaMaestà la regina Vittoria in viaggio di piacere nella pe-nisola e svaligiati da banditi o, molto più semplicemen-te, seccati nella loro albagia dalle formalità di pubblicasicurezza e dalle richieste dei Carabinieri1748. Con il dis-sesto finanziario, era questo l’argomento che più pesa-va ai danni dell’Italia e faceva apparire urgente «lavarsiin faccia al mondo da questo obbrobrio dei ricatti, deigrassatori e degli assassini»1749: basso corso della rendi-ta nelle borse europee e quadro stereotipo dell’Italia co-me paese di ladri e di briganti, il quadro che doveva of-frire lo spunto al De Amicis per il fiero gesto del picco-lo patriota padovano, erano i due grossi pericoli per unpaese che voleva organizzarsi a Stato moderno ed esserericonosciuto ed apprezzato come tale.

Tutto questo bastava ampiamente, dunque, per occu-par l’animo ed il pensiero degli italiani. Erano i fatti adimporsi da sé: quei fatti che costringevano perfino il bat-tagliero de Launay a riconoscere che le condizioni inter-ne dell’Italia erano tali da non permettere il lusso di unapolitica che non avesse per oggetto esclusivo ed imme-diato la difesa del territorio nazionale1750.

II

L’apatia politica

Ma oltre ai fatti v’erano le impressioni; allato della realtàdiciamo oggettiva, lo stato d’animo soggettivo. E questo

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meno che mai avrebbe voluto, allora, preoccupazioni edifficoltà nei rapporti con gli altri paesi.

Era un po’ la naturale conseguenza del rilassarsi del-la tensione estrema che, dal ’59 alla presa di Roma, ave-va continuamente resa agitata la vita di molti Italiani. Gliuomini del ceto dirigente che erano allora nella piena ma-turità, avevano per lunghi anni vissuto in una atmosfe-ra febbrile; come annotava taluno, l’italiano quaranten-ne «avrà sentito parlare della tranquillità pubblica, del-la prosperità che si sviluppa sotto l’influenza di essa...ma in sostanza, questo stato di tranquillità non lo ha maigoduto. Non è forse naturale il supporre che desideridi provarlo anch’esso?»1751. Press’a poco lo stesso senti-mento vibrava nelle parole del ministro degli Esteri, il Vi-sconti Venosta, avvezzo sin dal ’48 alle inquietudini del-le lotte, anzi delle congiure per la libertà, e anch’egli oraconvinto che il paese anelasse a riposarsi ed a rifarsi, ap-punto, dalle lunghe agitazioni che lo avevano per tantianni travagliato1752.

Più su ancora del desiderio personale di tranquillità,era la convinzione che bisognasse finalmente porre unasosta al passar da un desiderio all’altro, dall’una all’altravoglia, per non consumar tutte le energie in simile rincor-rersi incessante di sempre nuove aspirazioni ed attende-re una buona volta al consolidamento interno dello Stato,alla educazione degli italiani, allo sviluppo economico1753.Come avrebbe ripetuto parecchi anni più tardi uno dellaSinistra, Michele Coppino, commemorando l’amico De-pretis «alla questione dell’essere si sovrapponeva nell’I-talia una, quella del ben essere»1754.

Desiderio di quiete naturalissimo, come un grande re-spiro di sollievo, ora che sul Campidoglio si era chiuso ilciclo, ed un affrettar con l’animo l’èra di tranquillità, gri-gia e monotona magari, ma senza sussulti ed apportatricedi calma, di benessere, di serenità.

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Naturalissimo, per quanto poi ad esso si mescolasseanche un meno apprezzabile sentimento, purtroppo lar-gamente diffuso; vale a dire una notevole indifferenzaper la vita pubblica, il fastidio di essere stati per tantotempo tormentati da questioni come Venezia e Roma,da appelli come Roma o morte, buoni a metter sosso-pra l’ambiente, cittadino e familiare, a perturbar gli affa-ri, amareggiare le gioie della vita; e l’intenzione, ora cheil turbine era passato, di lasciar correre le cose per il lo-ro verso e di occuparsi ciascuno del proprio «particula-re». Se ancor pochi anni prima, quando c’eran Venezia eRoma da liberare, uno straniero era colpito dalla passio-ne politica degli italiani, ed ogni considerazione cadevasubito lì, sul solito tasto, e dalla politica non s’usciva1755;se un quindicennio più tardi, al dir del jacini, tutti stro-logavano di politica estera e nei circoli e nei caffè si siste-mava l’Europa1756, ora, in questi anni di mezzo, di politi-ca moltissimi non avevano più nessuna voglia di parlaree sentir parlare. Delle controversie pubbliche s’occupas-se chi voleva: e non erano, certo, in molti a volersene oc-cupare, se il più diffuso quotidiano, Il Secolo di Milanoch’era poi giornale di informazione, attorno al 1880 su-perava appena le 30 mila copie, mentre dei maggiori or-gani politici Il Diritto non superava le 4 mila, La Rifor-ma le 2500, L’Opinione le 7000, La Perseveranza le 3000,solo il Popolo Romano raggiungendo le 12.5001757. Era,cioè, quel saper poco ed anche meno volerne sapere dipolemiche e di ideali politici, che il «poeta e storico» delminuto popolo italiano ha notato come tratti distintivi diquel popolo1758: soltanto che qui non si trattava del po-polo minuto, legittimamente preoccupato del duro e pe-noso problema del vivere quotidiano, da tale asprezza divita reso estraneo alla vita morale e politica dello Stato, sìda essere disposto a barattare il diritto elettorale ammi-nistrativo con un bicchiere d’acquavite1759 privo d’altron-de del diritto elettorale politico e quindi tenuto forzata-

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mente lontano dalla vita pubblica nelle sue più alte mani-festazioni; bensì proprio dello stesso ceto dirigente, del-le classi medie, che avevano i diritti e avrebbero dovutosentir i doveri.

Era – annotava qualche contemporaneo, pur nontraendone affatto conclusioni pessimistiche – mollezzache stava dentro nell’ossa e cullava tranquillamente, lan-guore intellettivo e morale, stanchezza che non si riusci-va a scuotere1760.

Era finito il ciclo eroico delle lotte per l’unità; e sino aquando l’irrompere delle masse sulla scena e l’affermarsidel movimento socialista non avessero proposto un altrogrande tema di battaglia, dando nuovamente agli occhidei più un significato preciso e concreto alla vita politicae destando sentimenti vivi laddove prima era indifferen-za, quando non peggio, per la vita normale dello Stato,sembrava venissero a mancare negli italiani e la voglia ela materia di ardenti lotte politiche1761, ove se ne eccettuila questione dei rapporti con la Chiesa, acutissima sì, mainfiammante all’azione i circoli degli estremisti, clericalisfegatati o liberi pensatori, meno la massa del popolo edella stessa borghesia che soffriva del dissidio, ma pro-prio per questo desiderava accentuarlo il meno possibilee riluttava a portarlo in piazza. Veniva a mancare la vo-glia della lotta politica anche perché, raggiunti gli scopisu cui si era concentrata febbrilmente l’anima nazionalenel dodicennio trascorso, molti erano come disorientati,né sapevano scegliere d’un subito altri e nuovi ideali, an-zi avvertivano un senso di vuoto: ora che s’era avuto tut-to, l’orizzonte invece di allargarsi sembrava restringersi,annotava il Villari, e gli italiani erano come uomini sfidu-cîati e disillusi, per non sapere che altro fare né che altrodesiderare1762.

E se perfino in Germania, nel paese dei maggioritrionfi, un von Sybel si chiedeva che cosa faremo ora1763,nella tanto meno trionfante Italia è naturale che il pro-

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porsi nuovi ideali sgomentasse. Così, troppa gente de-siderava di non occuparsi più, o il meno possibile, deiproblemi nazionali, lasciandone la cura ai politici, già ac-conciandosi sentimentalmente a che potesse esistere perdavvero, in uno Stato moderno, una categoria di poli-tici di professione ed il resto della popolazione fosse li-bera di disinteressarsi della cosa pubblica per attende-re unicamente al proprio lavoro; e si diffondeva l’incli-nazione, diceva il Bonghi, a pensare al sodo, a non con-fondersi il cervello, a lasciar correre, sopportando più omeno contenti il presente per trarne il miglior avvenirepossibile1764; o, annotava uno straniero, una volta che s’e-ra cessato di aver l’occhio fisso allo scopo comune – Ro-ma – ognuno s’abbandonava alle proprie personali pre-occupazioni e alle sue passioni individuali1765.

Rivelava un siffatto stato d’animo il fenomeno, assainotato allora e poi: della indifferenza degli elettori peril loro compito. Pure, il corpo elettorale, dato il sistemavigente, era già un corpo scelto: sui 27 milioni circa diItaliani, fra cui 7 milioni di maschi maggiorenni, appena528.932 – vale a dire l’1,97% – godevano nel 1870 deldiritto di voto1766. Una élite; un paese legale tanto ristret-to di fronte al paese reale1767: e per di più un paese legaledai forti squilibri interni, come che la qualità di elettoredipendesse dalla varia distribuzione della proprietà fon-diaria non solo, ma altresì dai diversi sistemi di catasto edi imposta, o addirittura dalla riduzione del limite d’im-posta, onde ai 30 elettori su 1000 abitanti della Liguria sicontrapponevano gli appena 15 dell’Umbria1768. Una éli-te, che dimostrava come, ad unità compiuta, la parteci-pazione alla vita pubblica avvenisse su basi non già piùestese, bensì assai più ristrette di quanto non fosse avve-nuto nel periodo di formazione, delle lotte, dei plebisci-ti: perché in tutta la Lombardia v’erano, nel 1870, 68.371elettori iscritti, ma quando s’era trattato, nel ’48, di vo-tar la fusione col Piemonte, erano stati 661.6261769; nel-

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l’Emilia, gli elettori iscritti sommavano ora a non più di42.248, ma quando s’era trattato del plebiscito per l’an-nessione, avevan votato ben 426.764, e così via. Che erauna contraddizione intima sostanziale, e bastava a spie-gar il distacco fra ceto dirigente – cioè un’oligarchia – epaese.

Un corpo elettorale, dunque, così ristretto, da susci-tar l’impressione fondata che i due partiti in disputa peril potere fossero due brillanti stati maggiori alla testadi minuscoli eserciti e con numerosi generali sempre inconflitto1770: e non v’era da invocare l’impreparazione,l’immaturità delle masse. Eppure, nelle elezioni del no-vembre 1870 votarono solo, a primo scrutinio, 238.448iscritti, cioè il 45,8%1771. Che era, e rimase, il limite piùbasso raggiunto dalla costituzione del Regno in poi, datoche le precedenti elezioni generali, pur non dimostrandonemmeno esse grandissima ansia di lotta politica, s’era-no tuttavia mantenute su percentuali più alte: il 57% nel’61, il 54% nel ’65-66, il 52% nel ’671772.

Dunque, un continuo regredire di interesse politico,tanto più notevole forse in quanto il maggior assentei-smo notavasi nei collegi di assai cospicui centri cittadini,là dove la lotta politica avrebbe dovuto essere più accesa:a Milano votava il 35,07%, a Genova il 39,12%, a Pado-va il 32,63%, a Bologna il 28,26%, a Firenze il 28,95%,a Livorno il 16,21%1773. Non fossero state le provincedel Mezzogiorno che il malcontento aveva spinto mag-giormente alle urne ancor credute vaso di possibili rime-di, giungendosi al 61,15% di votanti in Sicilia, il risultatodelle elezioni sarebbe stato ancora più sconfortante.

E le elezioni generali politiche non erano le sole a ri-velare lo scarso interesse alla cosa pubblica. Come giàper le questioni finanziarie, dove al disavanzo del bi-lancio statale occorreva aggiungere i disavanzi dei bilan-ci comunali e provinciali, così anche qui all’assenteismodal voto politico bisognava aggiungere l’assenteismo dal-

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le elezioni comunali e provinciali: nelle elezioni ammini-strative del 1872, la percentuale dei votanti fu di appenail 39%1774. Nelle elezioni comunali in molti luoghi i vo-tanti erano il 10%, e fin l’8 ed il 6 %1775. A Parma, nelleultime elezioni prima del ’70, su 4000 elettori se ne era-no presentati alle urne 108 e a Firenze, su 8200, 8791776;a Milano, nel giugno del ’72, si poteva assistere al «nonbello spettacolo» che su 9366 elettori soli 2014 parteci-passero alle elezioni, il 21,5%1777. Ed era la città delleCinque Giornate, il focolaio di tanta parte del Risorgi-mento!

Magro contrappeso a questa indifferenza nelle mag-giori città era il più vivace e battagliero interessamentonei piccoli centri, perché qui la lotta rischiava di rima-nere circoscritta, soprattutto allora, a questioni di inte-resse puramente locale, per non dir a beghe personali efamiliari1778.

Veramente, il popolo sembrava essersi ritirato sull’A-ventino1779. Non era possibile consolarsi col dire che leastensioni erano quelle dei clericali, fedeli al motto: «néeletti né elettori»: cioè che le astensioni eran quelle dicoloro i quali rimpiangevano l’antico ordine di cose edavversavano il nuovo, onde per i reazionari la scarsa af-fluenza alle urne comprovava che i gruppi nazionali an-cora nel 1870 erano una minoranza, mentre la maggio-ranza della popolazione sarebbe stata sempre contrariaall’unità ed al nuovo regime1780.

Intanto, il regredir continuo del numero dei votantidal ’61 al ’70 contraddiceva di per sé ad una tale spiega-zione, come che le ostilità al nuovo ordine fossero state,in genere, assai più forti all’inizio, mentre gli anni aveva-no cominciato a dissipar prevenzioni e a piegar riluttan-ze; e se è vero che proprio nel novembre del ’70 non so-lo i clericali arrabbiati, nemici della unità, potevano es-sere indotti ad astenersi dalle urne in segno di protesta,sì anche uomini di fede italiana il cui sentimento cattoli-

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co trepidava per il modo con cui s’era andati a Roma eper l’urto aperto con il Pontefice; se è vero dunque cheil Venti Settembre aveva potuto provocare le astensionidegli «uomini di timorata coscienza religiosa e onesti»1781

è altrettanto vero che non s’era ancora udita la parola diPio IX e l’affermazione non esser lecito «andar a sederein quell’aula», cioè a Montecitorio1782. S’era ascoltato digià, indubbiamente, don Margotti e s’era appresa da luila formula famosa; ma l’accordo era tutt’altro che unani-me su quel punto fra gli stessi zelanti cattolici, e se per-fino dopo il ’74, quando ormai Roma locuta erat, conti-nuarono le dispute e più di un cattolico continuò a soste-nere pubblicamente la necessità di non estraniarsi dallavita pubblica1783 e qualche parroco piemontese fu assaiesplicito «andate tutti a votare, perché ‘né eletti né elet-tori’ sono tutte balle!»1784, a maggior ragione prima del’74 le astensioni erano state tutt’altro che generali. Pro-prio a Roma, nel gennaio del ’71, per le elezioni a dueseggi in Parlamento, in ballottaggio, fu in lizza un candi-dato cattolico, l’avv. Pietro Venturi, rappresentante deigruppi antiastensionisti1785.

Comunque, poi, il sistema dell’astensione era pr le ele-zioni politiche: per quelle amministrative invece, proprionel ’72 v’era un gran spiegamento di forze clericali, a Ro-ma, il 4 agosto, e segnatamente a Napoli il 1° settembre.Votarono allora non tutti, ma molti cattolici militanti, uf-ficialmente autorizzati, anzi incitati dalle alte gerarchieecclesiastiche, capeggiati da sacerdoti e frati che afflui-rono in buon numero alle urne1786 impegnando asprissi-ma battaglia contro la lista liberale e per una propria li-sta: nella capitale, lo stesso Pio IX aveva dimostrato fa-vore alla partecipazione dei cattolici1787, e i direttori deigiornali cattolici, L’Osservatore Romano, La Voce dellaVerità, La Stella avevano seguito l’altissimo esempio, in-citando con insistenza e calore i fedeli a votare compat-ti per opporre una barriera contro il «torrente invadito-

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re dell’empietà»1788; a Napoli la campagna elettorale erastata patrocinata dallo stesso arcivescovo cardinale Ria-rio Sforza con la piena approvazione del Pontefice e del-la Curia Romana1789. La lotta aveva così assunto un evi-dente colore politico: le elezioni amministrative forniva-no l’occasione per uno schieramento politico in forze deiclericali, il fatto amministrativo scivolava inevitabilmentenel politico, così che una vittoria dei cattolici avrebbe si-gnificato, nelle speranze di più d’uno, uno scacco dei piùgravi per il governo1790 e, in genere, per il ceto dirigenteitaliano. Liberali e clericali: ad esser più precisi, anno-tava il ministro di Francia presso il Quirinale, si sarebbedovuto dire fautori e nemici dell’unità italiana1791 – comepensava anche Crispi, che invocava l’unione degli «uni-tari», senza gradazione di partito, contro i clericali1792.

Eppure anche in questi casi solo a mala pena s’erasuperato, a Roma, il 50% di votanti1793.

A smentire la facile credenza che l’astensionismo fos-se soltanto di color nero, stava il fatto che nelle successi-ve elezioni generali, dopo la proclamazione ufficiale del-la formula né eletti né elettori, la percentuale dei votantianziché abbassarsi ancora risaliva; stava comunque il fat-to, già nel novembre 1870, che le percentuali più alte divotanti erano date dalle province del Mezzogiorno, in cuinon può certo sostenersi che i cattolici fossero scarsi diautorità e di numero1794, mentre province largamente an-ticlericali, quali Piacenza, Parma, Modena, Reggio Emi-lia, Bologna, Ferrara, Forlì, Ravenna, Livorno, il gruppocioè emiliano-romagnolo e il centro dell’estremismo to-scano, l’uno e l’altro focolai vivi allora del repubblicane-simo e focolai prossimi dell’Internazionale prima, del so-cialismo e fin dell’anarchismo poi, erano fra quelle dallapercentuale più bassa di votanti1795.

Per vero, tra gli astenuti figuravano largamente i re-pubblicani, la cui parola d’ordine era stata, astenersi dal-l’urna per «incutere un salutare terrore alla monarchia

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rendendola conscia del suo isolamento», dimostrandola propria irriducibile ostilità alla istituzione monarchi-ca, evitando qualsiasi atto che potesse sembrare di con-senso e togliendo al regime costituzionale un mezzo in-dispensabile alla sua vita; più che dai giornali cattolici,l’astensione era stata consigliata dai giornali repubblica-ni, e alla fine l’indifferenza e la stracchezza degli elet-tori avevano offerto facile motivo non solo alle veleno-se e tripudianti polemiche dei neri, ma anche a quel-le dei repubblicani. Alle lodi dell’Osservatore Cattolicoper i credenti che s’eran astenuti, facevan riscontro, al-l’estremo opposto, le osservazioni della Gazzetta di Mila-no per la quale si era affermata, con le astensioni, la vo-lontà di radicali cambiamenti e s’era avuta la dimostra-zione che la legge elettorale non traduceva più i senti-menti della nazione1796: sul che meditava Agostino Berta-ni, poco convinto dei vantaggi di una simile tattica e in-dotto a proporre una «lega degli astensionisti» per po-ter decidere di volta in volta se recarsi o no alle urne1797,mentre Alberto Mario paragonava i repubblicani – trop-po contemplativi – ai monaci del monte Athos, i quali sicontemplavano l’ombelico nella fede di vederne uscire laluce dal monte Tabor1798.

Come non si poteva addurre a scusante la presuntapassività della plebe, che non ci aveva a che vedere, co-sì non si poteva imputare soltanto alle astensioni dei cat-tolici la percentuale bassissima dei votanti; e anche som-mando i repubblicani che volevano isolar la monarchia,il conto non tornava ancora. Per vero, i liberali di allo-ra non si fecero alcuna illusione al riguardo. Di Destrao di Sinistra che fossero, essi accusarono invece aperta-mente l’apatia e la poca compattezza dei liberali stessi1799,l’inerzia di coloro i quali si lamentavano, magari, che glialtri non facessero il loro dovere, salvo poi a lavarsi lemani, alla Ponzio Pilato, nel momento di scegliere fra ipartiti ed i candidati1800, l’indifferenza insomma di tanta

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parte del ceto dirigente per i grandi problemi della vitanazionale1801: ed avevano tutt’altro che torto.

Fenomeno di rilassamento potremmo dire nervoso,dopo un decennio così agitato quale era stato il primo de-cennio seguito alla costituzione del Regno, o, secondo siesprimeva il ministro austro-ungarico a Firenze «lassitu-de blasée qui suit les surexcitations trop vives»1802. «Dal-l’entusiasmo, dalle commozioni dei grandi avvenimenti –annotava Michelangelo Castelli – siamo arrivati a questigiorni nei quali la soddisfazione di tante aspirazioni e de-sideri di libertà, d’indipendenza, di unità ha prodotto ilsuo effetto naturale, non dirò la sazietà, ma quella indif-ferenza, quelle disillusioni che sono le consegerenze deltranquillo possesso di quel bene sospirato che credevasifonte inesauribile di ogni felicità»1803.

Come suole accadere, gli ideali non trovavano subita etotale rispondenza nella realtà: donde da un lato l’indif-ferenza di molti e la stracchezza, e dall’altro giudizi se-verissimi allora e poi pronunciati sullo Stato italiano e lafiacchezza e l’atonia politica, giudizi che vedevano nuo-vamente concordi due uomini così diversi come il Maz-zini ed il Ricasoli, e, fra poco, avrebbero visto concor-de anche il De Sanctis1804, ma che si ripeterono poi an-che sotto la Sinistra e durarono, sì può dire, almeno si-no all’affacciarsi sulla scena del socialismo come partitoorganizzato1805.

L’Italia avrebbe voluto cose grandi, subito, grandi ri-forme interne, grandi lavori, grande benessere; e poichéle cose grandi s’avevan a costruir lentamente, faticosa-mente, attraverso decenni, per i nipoti e non per le gene-razioni d’allora, l’inappagamento cresceva.

E vi si aggiungevano delusioni e scontento per quel-li che sono gli inevitabili guai del regime parlamentare:troppo frequenti mutamenti di governo e fantasmagoriedi ministri, che davano l’impressione del soverchiar di in-teressi passioni ambizioni personali sulle preoccupazio-

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ni per il bene pubblico; lungaggini alla Camera, moltediscussioni apparentemente senza costrutto, ire di partesterili e dissolventi1806; quindi riluttanza di molti ad im-mergersi nella «cloaca delle passioni politiche»1807.

Ed era certamente vero che ambizioni ed interessi per-sonali si agitassero, allora come sempre, nei partiti; chenon tutto fosse puro amore del bene pubblico, che biz-ze personali, intrighi, contrasti, minacciassero la efficaciadell’azione politica: anche nella Destra, pur tanto esalta-ta per la severità di stile e la generale dirittura dei suoiuomini, anche nella Destra c’eran guai a tale che un ani-mo iracondo come quello del Ricasoli rifiutava la presi-denza del Comitato Parlamentare dei moderati, non vo-lendo sapere «di capitanare gente che vi guizzano di ma-no peggio che anguille, che non ricordano il giorno do-po quello che dissero e promossero il giorno innanzi, chetroppo ciarlano, e poco pensano, e non sono per conse-guenza mai fermi nei propositi loro»1808.

Ancora, la troppa politica, vale a dire il far di ogniquestione motivo di dibattito politico, tirandoci dentropartiti e parlamentari, con l’effetto di rallentare e di in-ceppare il funzionamento dell’amministrazione, di tra-sferire pericolosamente le lotte politiche su di un pianoda cui avrebbero dovuto rimanere escluse. Era proprioper combattere un tale andazzo che Stefano Jacini pro-poneva di restringere le competenze del Parlamento aigrandi problemi nazionali, decentrando il resto1809; e, piùtardi, il Minghettí e Silvio Spaventa riaffermavano la ne-cessità che l’alternarsi di partiti al governo non mettes-se in pericolo le istituzioni, né pregiudicasse i diritti del-la giustizia e i legittimi interessi, e che le amministrazionilocali fossero indipendenti dall’arbitrio e dalle passionipolitiche1810.

Tutto questo, dunque, spiega come si creasse uno sta-to d’animo largamente diffuso di sfiducia e riluttanza adoccuparsi della cosa pubblica, di sospetto ed anche d’i-

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ra contro l’andamento delle cose, di un tetro pessimismodel genere di quello che improntava i giudizi di uominicosì diversi come il Carducci ed il Ricasoli. Gli iracon-di ed i pessimisti coglievano il vero di molti particolari,ma non erano più in grado di riabbracciar l’insieme nés’accorgevano che l’ideale di una Italia nazione modernaveniva, pur lentamente, concretandosi nei modi e nelleforme che erano possibili: Sella aveva ragione di confu-tar le accuse generiche di apatia, osservando che mai s’e-ra lavorato tanto in Italia1811; e più e meglio del politicoRicasoli, uomo selvatico1812, coglieva il succo delle vicen-de il non politico Lambruschini, che, lontano dalle pic-cole beghe quotidiane della politica, vedeva le cose pro-prio nel loro insieme, e quindi grandi, anche se gli uo-mini fossero per avventura piccoli: «gli uomini si trava-gliano per mandare a lor guisa la inevitabile rinnovazionedelle cose umane. Ma v’è una mano occulta che scompo-ne e ricompone senza che paia, e prepara un ordine mo-rale che può parere cosa da nulla, e sarà cosa maraviglio-sa poi suoi effetti. Non so se noi li vedremo almeno tut-ti; ma qualcuno sì, e grande e inaspettato. Io ammiro lasapienza divina che per operare le grandi mutazioni, siserve di strumenti che paiono insufficienti al bisogno. Sefosse vivo il Cavour, e avesse operato quel che ha fattoil Lanza, si direbbe: ecco la mano del grande uomo diStato. Invece dobbiamo dire (e me ne rallegro): ecco lamano di Dio. Queste considerazioni mi consolano e midanno coraggio a sperar bene delle cose nostre»1813.

Meglio che non nelle diatribe epistolari e negli sfoghicon gli intimi coglieva la sostanza delle cose il Ricasolistesso, in un discorso pubblico, quando era cioè costret-to ad innalzarsi al di sopra delle polemiche minute, riu-scendo ad un giudizio che quelle polemiche non annulla-va, ma certo rendeva di peso non decisivo: «verrà giornoin cui sarà riconosciuto e consacrato nei fasti d’Italia cheil Ministero attuale ha guidato la nazione a Roma, e ve

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l’ha mantenuta in un periodo difficilissimo. Sarà questoun glorioso periodo della storia contemporanea»1814.

La vera grande debolezza dello Stato italiano non con-sisteva nelle diatribe dei partiti, nelle lotte personali e si-mili, ma in quella estraneità delle masse alla vita pubbli-ca che il Sonnino doveva additare parecchi anni più tar-di, in piena Camera, discutendosi della riforma elettorale«la grandissima maggioranza della popolazione, più del90 per cento... si sente estranea affatto alle nostre istitu-zioni; si vede soggetta allo Stato e costretta a servirlo conil sangue e con i denari; ma non sente di costituirne unaparte viva ed organica e non prende interesse alcuno allasua esistenza ed al suo svolgimento»1815.

Il resto, eran motivi tutt’altro che caratteristici dellavita politica italiana, analoghe deplorazioni contro gli in-trighi parlamentari, la decadenza del costume, le eccessi-ve crisi ministeriali levandosi, allora e poi, in tutti i pae-si del continente a regime parlamentare; eran motivi, so-prattutto, che con il loro moralismo e pedagogismo na-scondevano il vero e grande problema politico, che era ditutt’altra natura e voleva invece dire render pienamentepartecipi de’ diritti e de’ doveri pubblici, e cioè della vi-ta dello Stato, tutti gli Italiani e non una ristretta cerchiadi privilegiati.

Con ciò, non si vuol certo sostenere che quelle lagnan-ze non avessero loro ragioni d’essere; che non si minac-ciasse talora di superar quel limite, entro cui devono purcontenersi le inevitabili manchevolezze della vita pubbli-ca quando si voglia che lo Stato rimanga, come diceva ilMachiavelli, bene ordinato.

E lo superavano, questo limite, non soltanto gli elet-tori che non si curavano delle urne, ma anche parec-chi uomini politici, deputati e senatori, il cui assentei-smo dalle sedute formava oggetto di frequentissimi am-monimenti nella stampa, anche qui unanime, di Destra odi Sinistra che fosse, e costretta per anni a ripetere il suo

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incitamento1816: ed era magra consolazione il rammenta-re che anche altrove, e perfino nell’Inghilterra, l’alma pa-rens della libertà, non era infrequente lo spettacolo diaule parlamentari semi deserte, fosse il caldo a far so-spirar le fresche aure marine e montane, fossero, a dirlacon Pitt, le quaglie e le volpi ad attirar maggiormente glionorevoli rappresentanti della nazione1817. Altri uominipolitici, più correttamente dichiaravano di rinunciare almandato nelle elezioni generali del novembre 1870, qua-si che allora si fosse chiuso per sempre un periodo di sto-ria, sì da lasciar liberi coloro i quali avevano lottato pro-prio soltanto per fare una patria e potevano quindi into-nare il nunc dimitte. Che era la motivazione addotta dauna delle maggiori personalità dell’Italia del Risorgimen-to, uomo di alto e rigido sentire, al quale non potevanoimputarsi accidia o mancanza di senso del dovere: mastanchezza, fastidio della vita politica, desiderio di far ri-torno a vita serena e riprendere un’attività più conformealle inclinazioni del proprio spirito1818, erano anche nelbarone Bettino Ricasoli, che rinunziava alla candidaturatra il dolore e un po’ lo sdegno dei moderati1819, già al-larmati per altre, cospicue defezioni, dal Peruzzi a Gui-do Borromeo, a Carlo Alfieri di Sostegno. Vari i motividi siffatta «fuga ragguardevole» di parlamentari del par-tito moderato1820: ma gravi le conseguenze, soprattuttoper lo spettacolo della diserzione di uomini i quali ave-vano pure ammonito che la libertà è un dovere, il primodei doveri, che il cittadino «non può rifiutare la sua par-tecipazione ai pubblici servizi, non può per pigrizia o peregoismo disinteressarsi... degl’interessi comuni e genera-li della sua patria», e che se in Italia la libertà non avevaancora arrecato tutti i suoi frutti, ciò era dovuto alla in-differenza di troppa parte della nazione per i problemi diinteresse generale1821. E se è vero che alcune di quelle ri-nunzie non avevano poi effetto pratico, perché di fronteal voto degli elettori, ostinati nel rieleggere l’antico loro

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rappresentante, il primo proposito del Ricasoli cedeva edegli ripigliava il suo seggio in Parlamento; è pur vero chequel rimettersi per la solita via era stracco e fiacco, det-tato non da convincimento ma semplicemente dal nonvoler essere scortese verso gli elettori, tale insomma daindurre a fare il deputato «alla meglio, o alla peggio»1822.

Il vecchio ceto di governo si rarefà, vuoti notevoli siaprono nelle sue file non solo per il naturale destino degliuomini, ma anche per volontario allontanamento allorache le forze fisiche sono intatte o quasi; donde, anche,governi composti in larga parte di uomini tolti dallaamministrazione pubblica, anziché di uomini politici verie propri1823.

A chi li guardi a distanza di tempo e contempli queglianni nell’insieme della storia d’Italia, tali improvvisi riti-ri e defezioni non rappresentano nulla di allarmante: so-no i segni del mutar del ceto di governo, del trapasso diindirizzo politico, i segni che precorrono, costituendoneuna delle necessarie premesse, la cosiddetta rivoluzioneparlamentare del marzo 1876. È quel rinchiudersi anzi-ché ampliarsi dei quadri della Destra, quel perdere anzi-ché acquistare uomini ed energie, in che s’avverte la im-minente crisi del partito moderato ed il suo tramonto co-me ceto di governo1824. Ma anche questo è vero sino adun certo punto, o più precisamente, non è tutto il vero:ché, al di sotto delle contese fra le due parti per l’eserci-zio del potere, giù nel fondo fondo s’avvertiva pure assaipiù grosso pericolo, l’estraneità della gran maggioranzadella popolazione alla vita pubblica e il ridursi di questaa una battaglia fra generali.

Comunque, allora quelle defezioni e quei ritiri parverogran cosa, suonarono per molti non già come segno ditrapasso da un gruppo di governo ad un altro, bensìcome segno di decadimento puro e semplice della classepolitica e fin come segno di decadimento degli istituti

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liberali, primo fra tutti il Parlamento, e come sfiducianell’avvenire della patria1825.

Allora, simili spettacoli di indifferenza non solo de-gli elettori ma anche degli eletti, e conseguenti lungaggi-ni di vita parlamentare poterono servire ad alimentare lapolemica antiparlamentaristica già forte e varia in queglianni1826: una polemica determinata non già da un atteg-giamento antiliberale, come un cinquantennio più tardi,ma anzi dal rammarico che le istituzioni liberali non fun-zionassero abbastanza bene, non fossero abbastanza for-ti e rispettate1827. Allora, confluendo in uno sbocco so-lo tedio personale, stanchezza delle lunghe lotte passa-te e desiderio di quiete, sdegno di fronte all’amore delproprio particolare e all’indifferenza di molti per le gros-se questioni del paese; allora ci furono valenti uomini acui venne a fastidio la vita pubblica; e a tacer del Ricaso-li, c’era il De Sanctis che, al vedere incancrenire la cosapubblica, almeno momentaneamente si isolava e si chiu-deva nella letteratura1828. Allora taluno dei moderati potéfar sua l’invocazione di Odilon Barrot «rendez-moi l’en-thousiasme de 1830», e chiedere il ritorno all’entusiasmodei giorni passati, l’entusiasmo non da piazza ed effime-ro, ma calmo, schietto, perseverante, senza del quale l’I-talia non si sarebbe sollevata a dignità di nazione coltaed operosa, né sarebbe diventata, come doveva, la prov-videnza della civiltà latina1829. Allora e anche poi uomi-ni di alto ingegno e di forte sentire morale poterono im-malinconirsi ed amareggiarsi per «la ignavia delle mentiche vi rattrista e vi snerva... la pigrizia di molti dei cosìdetti liberali che sono in fondo tradizionalisti... il difet-to di quella cultura che rende atti gli uomini a discutereanche quello che non si accetta o si respinge»: siccomedoveva capitare, più tardi, ad Antonio Labriola, indot-to a chiedersi se per gli Italiani, rosi com’erano dal tarlodel Cattolicesimo, non fosse destino essere tardi a pen-sare e svogliati nel progredire, buoni a sentir compiaci-

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mento della vanità dei ricordi classici e delle commemo-razioni retoriche, non a prender parte al moto genera-le del progresso1830; siccome capitava, sin da quei giorni,al Marselli che continuava ad arrovellarsi, sempre, sul-la questione se noi siamo vecchi o se siamo giovani congrande avvenire dinanzi, e tendeva spesso a dubitar del-la gioventù e dell’avvenire1831. Allora, si poté avere l’im-pressione che il motto degli italiani fosse diventato cha-cun pour soi, Dieu pour tous1832.

Gli Italiani sentivano che s’era chiuso un periodo sto-rico; e lo cingevano di rimpianto e guardavano immalin-coniti al presente1833.

III

Grande politica o politica della tranquillità?

Situazione di fatto, realtà diremmo obbiettiva e statod’animo generale facevano dunque sì che non fosse l’oradopo il ’70, per una attiva politica estera dell’Italia.

Conseguita l’unità, occupata Roma, l’Italia non chie-deva se non pace e tranquillità per curare il suo interno.E quanto poco la politica estera in sé, come intreccio direlazioni con le altre grandi potenze e azione nel concer-to europeo, premesse agli uomini degli anni dopo il ’70,di ben altro preoccupati che non dell’intessere le fila diuna illusoria politica di grandezza, per cui mancavano lebasi stesse, dimostrava il fatto che le maggiori personali-tà del mondo politico italiano eran note per il loro inte-resse e la loro preparazione, culturale e pratica, in que-sto e quel settore della politica interna – finanze, ammi-nistrazione, rapporti fra Stato e Chiesa –, non per la lo-ro bravura diplomatica: divenuto uomo di finanza il Sel-la, più vario ma sostanzialmente intento anzitutto ai pro-blemi dell’amministrazione interna il Minghetti, e comelui quegli che era allora la più robusta mente di teorico

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del liberalismo della Destra, lo Spaventa, uomo lontanoda un qualsiasi interesse fattivo per i problemi interna-zionali, giustamente pago di costruire all’interno del suopaese1834.

Non diverse attitudini nei campioni della Sinistra, dalDepretis, che vedeva nella politica estera una seccatura enei diplomatici la gente men gradita dopo i professori1835,al Cairoli allo Zanardellí al Nicotera al Baccarini al DeSanctis, tutti preoccupati essenzialmente di amministra-zione finanza allargamento del suffragio rapporti Stato-Chiesa e simili problemi di vita interiore. Lo stesso Cri-spi era preso, allora, soprattutto da problemi di politicainterna; e non era senza significato che nelle discussionialla Camera sulla politica estera la Sinistra mandasse al-l’attacco non i suoi capi, ma figure di secondo piano, ilMiceli, il La Porta, il Colonna di Cesarò.

Fatto caratteristico, la politica estera restava nelle ma-ni della diplomazia piemontese, o venuta su direttamen-te alla scuola piemontese. Lombardo, certo, il ViscontiVenosta, ministro: ma cresciuto alla scuola del Cavour, eanch’egli navigante in pieno nella scia delle vecchie tradi-zioni diplomatiche subalpine. E, attorno a lui, piemon-tesi e parecchi savoiardi1836: dal segretario generale, loArtom, al direttore della divisione politica, il Tornielli,ai principali capi missione all’estero: Nigra a Parigi, deLaunay a Berlino, Cadorna e più tardi Menabrea a Lon-dra, fra pochi mesi di Robilant a Vienna, de Barral a Ma-drid, Blanc a Bruxelles. Facevano eccezione il Caraccio-lo di Bella a Pietroburgo e il Barbolani a Costantinopo-li: ma erano, anche, fra i meno autorevoli. Uno statodi cose, insomma, che non trovava riscontro in nessunaltro settore dell’amministrazione italiana1837, nemmenonell’esercito, pure così legato alla dinastia e alle tradi-zioni sabaude, perché in esso, allato dei Ricotti, stavanoora in posizione di primissimo piano i Pianell e i Cosenz;e ch’era destinato a durare ancora assai a lungo, anche

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dopo la caduta della Destra, con il Tornielli e il Maffeidi Boglio – piemontesi entrambi – veri ispiratori, dietrole spalle rispettivamente del Depretis e del Cairoli, del-la politica internazionale dell’Italia dal ’76 all’81, sino aquando l’avvento del Mancini alla Consulta non portò,per la prima volta, mentalità, preoccupazioni e stile nonpiemontesi nella trattazione degli affari.

Era un’altra, evidente prova che per il momento irapporti internazionali non accaparravano l’attenzione el’interesse dei più. L’Italia voleva esser lasciata tranquil-la, e lavorar senza preoccuparsi troppo di quel che suc-cedeva attorno a lei, intenta alle sue cose interne e pocosensibile ai grandi eventi che si svolgevano allora oltre lesue frontiere, e che non producevano più, annotava unostraniero, se non «une impression voilée par cette impas-sibilité qui résulte chez les Etats de leurs préoccupationsintérieures en présence des malheurs d’autrui»1838.

Se è vero che, attorno al 1889, in tutti i convegni e ri-trovi del ceto di media cultura non si sentiva discorrered’altro, a detta del Jacini, che di politica estera – alleanze,combinazioni diplomatiche, guerre possibili, rettificazio-ni di confini –, e assai poco o nulla invece delle questio-ni interne1839, è ben certo che negli anni seguenti la pre-sa di Roma le conversazioni e i dibattiti familiari e di cir-colo vertevano su tutt’altro argomento, e che i proble-mi propriamente internazionali – eccezion fatta di quel-lo specialissimo problema ch’era la questione romana –lasciavano freddi gli animi.

Quel che l’Italia chiedeva e di cui abbisognava, ilgoverno della Destra lo diede, nella misura del possibile.

Alcuni anni più tardi, colui ch’era direttamente re-sponsabile della politica estera del paese, e tale responsa-bilità aveva assunta sin dal ’69, alcuni anni più tardi il Vi-sconti Venosta affermava che lo scopo della politica este-ra dell’Italia dopo il ’70 era stato quello di «affrettare ilmomento in cui finalmente le riuscisse di far parlare po-

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co di sé. Il che significa di far sì che l’Italia potesse final-mente avere dinanzi a sé quel periodo di tempo, al qualeaveva pure gran bisogno di giungere; in cui, con un senti-mento di sicurezza e senza essere distolto da altre più vi-ve sollecitudini, il paese nostro avesse agio, pace e temponecessario per occuparsi delle sue questioni interne»1840.

Era, condensato in una formula assai incisiva, lo stessopensiero che il valtellinese aveva costantemente espresso,dal settembre del ’70, sia che lo raffigurasse a guisa diprincipio e direttiva base nelle lettere personali ai suoipiù fidati collaboratori all’estero1841, sia che ne facesseoggetto di solenni dichiarazioni alla Camera, quandodoveva difendersi dalle critiche acerbe dei vari Miceli eLa Porta1842.

Ed era un programma in cui i moderati conveniva-no sostanzialmente tutti: gli uni, come il Minghetti, par-lando di conservatorismo; altri, meno noti, come Gui-do Borromeo, servendosi di immagini quasi identiche aquella del discorso di Tirano, e prospettando la necessi-tà «di camminare ora sulla punta dei piedi per non farrumore»1843; altri, come lo Spaventa, ammonendo chel’acquisto di Roma, la città dove aveva avuto sede il go-verno dell’impero del mondo «non deve né può infon-dere negli animi nostri alcuna arroganza o pretensionedi dominio fuori di casa nostra», giacché «le ragioni e lepossibilità di dominio al di là del proprio territorio nonsi possono desumere dalla memoria d’un potere, che nonè più da secoli e che niun secolo vedrà rinascere, ma dabisogni e da necessità attuali e da forze vive e capaci disoddisfarvi. Tale non è il nostro caso»1844. Tutti, dunqueconcordi che bisognasse «circondare l’Italia di pace»1845

ed essere modesti, almeno per mezzo secolo, come fu piùtardi ripetuto1846. Nella stampa diffondevano la diretti-va comune le grandi firme del partito, soprattutto il Di-na nell’Opinione; e tornava insistente il motivo, prima-mente svolto dal Dina, ripreso più tardi dal Jacini nelle

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sue celebri note sulla politica italiana1847, che ormai dove-va ritenersi chiuso il periodo in cui gli Italiani cercavanoogni occasione di perturbamento europeo per sfruttarlaa’ propri fini; febbrilmente ansiosi di giungere alla mè-ta, ch’era l’unità nazionale: questa raggiunta, si entravain una nuova fase in cui all’agitazione doveva sottentrarla calma, al desiderio di veder le acque mosse e torbide,il desiderio contrario, di veder tutto tranquillo limpidoe senza vento, e al continuo sogguardar oltr’Alpi, spian-do gli anche minimi incidenti della politica europea, laconcentrazione nelle cose proprie, negli affari interni. Iltempo della politica «agitatrice» era finito: chi sognasseora «una politica estera di supremazia e di primato, unapolitica tumultuaria e scapigliata, sarebbe un pazzo damandare a Bonifazio. Dopo l’acquisto di Roma, la poli-tica nostra è di osservazione e di raccoglimento»1848.

Motivo che, svolto nella stampa dagli amici del Mini-stero, era dunque comune a tutti i moderati; e il Viscon-ti Venosta lo avrebbe poi formulato, con tutta chiarezzae in termini quasi identici a quelli di cui s’era servito ilDina, quando, non più ministro, anzi parlando dai ban-chi dell’opposizione, interrogava il governo del Depretissulla sua politica estera, il 23 aprile del 1877.

«Quando... la nostra costituzione nazionale non eracompiuta» dichiarava il valtellinese quel giorno «l’Italianelle complicazioni europee vedeva e cercava l’occasio-ne opportuna per coronare l’edificio della sua indipen-denza, e della sua unità.

Ora l’Italia è fatta, l’Italia è uno Stato costituito, ed iocredo che la sola politica che ci convenga è una politicaprudente, leale, scevra da ogni spirito di avventure, chefaccia considerare il vantaggio e l’utilità per gli interessieuropei della presenza e dell’azione morale di questogiovine Stato nel concerto delle grandi potenze.

Io credo che solo per questa via l’Italia potrà conso-lidare la sua situazione internazionale, potrà renderla si-

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cura nel presente e nell’avvenire, ottenere il vantaggio difide alleanze ed amicizie, e assicurarsi quella legittima in-fluenza che ogni popolo ha ragione di ambire»1849.

Questo non voleva dire né chiudersi nell’isolamento,più che mai deprecabile, né rinunziare ad un’azione re-golare e continua nella grande politica generale1850, né av-vilire la propria dignità: era proprio L’Opinione ad inci-tare, un giorno, gli Italiani ad avere un po’ di coscienzadi se stessi, per non esser sempre raffigurati con un to-vagliolo sul braccio, dinanzi alla porta di un albergo, inattesa di forestieri1851.

Voleva bensì dire che, decisissimo nel difendere adogni costo l’unità compiuta e, in particolare, il più recen-te acquisto, Roma; deciso a non indietreggiare d’un pas-so dalle posizioni raggiunte, a non retrocedere, secondoscriveva il Visconti Venosta al Nigra il 27 febbraio del’711852, il governo del Re avrebbe cercato in ogni mododi prevenire gli incidenti, di accomodarli quando fosserosuccessi e non rivestissero gravità tale da costringere adabdicazioni di dignità o a rinunce ad interessi vitali: so-prattutto, che avrebbe evitato ogni avventura all’estero.Avrebbe, per riprendere la colorita espressione del mini-stro degli Esteri, cercato di far parlare poco di sé. Il cheera tutt’altro che facile, anzi difficilissimo compito datele circostanze: clamori europei e più che europei dellaparte clericale, alti lai e violentissime proteste contro la«prigionia» del Papa, e bellicosi propositi che fiorivanonelle parrocchie francesi, belghe e spagnole, in Irlanda eanche altrove, dovunque insomma un abito talare fossepresente ad esortare i fedeli alla nuova crociata.

Era però compito del tutto insufficiente, impari alladignità dell’Italia insediata in Campidoglio, a sentir levoci dell’opposizione.

La parola d’ordine della Destra era «pareggio», e laSinistra replicava che un uomo non vive di solo panee un popolo non vive solo di pareggio1853; il ministro

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degli Esteri diceva che era giunto il momento di non farparlare di sé, e l’opposizione insorgeva come se questofosse un insulto alla dignità patria1854, così com’era, dueanni innanzi, insorta contro altre parole attribuite alVisconti Venosta, che avrebbe detto ai suoi elettori diTirano, nell’estate del ’72 «noi non siamo ricchi, noinon siamo forti»1855. L’umiltà «più che cristiana» delvaltellinese eccitava il santo sdegno dei custodi dell’onornazionale, stretti attorno alla Riforma o al Diritto o aqualsivoglia altro de’ fogli di opposizione; più su ancoradel Visconti Venosta, era l’intero governo della Destraa svolgere una politica pietosa, avvilente per l’Italia una,indegna della maestà del Campidoglio.

Era una musica, che si levava alta e squillante attraver-so i versi e le prose sdegnose del Carducci, tutto presodal fascino dei grandi ricordi, trascinato a battezzar «vi-le» l’Italia dei suoi giorni, a buttar in faccia ai suoi con-temporanei l’elmo di Scipio del martire santo Mameli equelle «fisime liviane, che ebbero pur tanta forza da spin-gere i conservatori al Quirinale, e li spingeranno, per av-ventura, anche più là»1856; e che grazie all’iracondo Gio-suè è giunta familiare all’orecchio delle generazioni delsecolo XX.

Né il Carducci era solo a parlar sotto l’impulso de’grandi fantasmi del passato affollantisi nell’animo e nellamente: anche un ben più modesto uomo, ma politicoattivo e uomo di parte, Michele Coppino, commentandola sfiducia, la tristezza generale, si meravigliava che ilCampidoglio non avesse infuso negli Italiani, dopo ilVenti Settembre, le virtù degli antichi Romani1857.

L’esser giunti a Roma, avrebbe dovuto guarir tutti imali, por rimedio a tutte le manchevolezze dell’edificiostatale, quasi fosse, in Roma, la fata che trasforma icenci di Cenerentola in un risplendente abito da ballo.Stato d’animo miracolistico, contro cui i più sagaci edassennati avevano messo in guardia prima che s’entrasse

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a Porta Pia1858; ma le saggie osservazioni non giovavano eil miracolismo continuava a fluttuar nell’aria, avvincendopersino un uomo, bizzarro sì, ma d’ingegno e ricco diesperienza europea come Giuseppe Ferrari1859.

Senza dubbio, in simili polemiche bisognava far largaparte alle necessità tattiche della lotta che l’opposizioneconduceva contro il partito al potere. Molte cose veniva-no dette che, una volta la Sinistra al governo, sarebberostate prestamente dimenticate; e fra le cose dette controi ministeri Lanza e Minghetti quelle concernenti la poli-tica estera eran proprio, in massima, fra le meno impe-gnative per i più degli uomini della Sinistra1860.

Gridavano allora contro l’ignavia del governo che nonalzava abbastanza la voce in Europa, soprattutto con-tro la proterva Francia de’ preti e de’ reazionari, e di-menticava gli eroici fatti del ’59 e i Mille e la grandez-za d’Italia, l’elmo di Scipio e la camicia rossa e Vitto-rio Emanuele a cavallo fra gli zuavi, a Palestro; e finiro-no poi, anch’essi, col dichiarare solennemente alla Ca-mera, il 23 aprile 1877, e sia pur per bocca del ministrodegli Esteri, l’ex mazziniano ma da gran tempo modera-to Melegari1861, quel ch’era apparso grave sacrilegio, anniinnanzi, in bocca ai Visconti Venosta, Jacini, Dina, Bon-ghi e consorti. «L’onorevole Petruccelli mi chiede per-ché si sia abbandonata da noi la politica che ha precedu-to la costituzione della unità italiana. Questa è una do-manda molto grave, ed io penso che la Camera consen-tirà qui nella mia opinione. Gli Stati hanno una politicapropria del periodo di formazione, qual è stata quella se-guita sino al momento in cui ci impossessammo della no-stra capitale. Ma, secondo l’avviso degli uomini più sa-vi ed esperti, questa politica doveva cessare quando quelperiodo fu chiuso; e guai a chi cercasse di riaprirlo! Per-ché si affaccerebbero allora tutti i pericoli che potrebbe-ro minacciare la nostra esistenza politica.

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Dunque, a questo riguardo, abbiamo seguito la politi-ca dei nostri predecessori; cioè abbiamo cercato di rassi-curare l’Europa, di mostrare a tutti gli Stati che la nostrapolitica estera sarà fondata, da ora innanzi, essenzialmen-te sulle condizioni della pace e sul rispetto di tutti i legit-timi interessi e diritti degli Stati che ci circondano»1862.

Parole dette – ironia della sorte! – proprio poco dopoche, nella stessa seduta, il Visconti Venosta aveva pro-nunziato il suo credo politico, perfettamente identico,ma pensato e professato, a parole e a fatti, da tutta laDestra dopo il ’70.

Polemiche, dunque, dovute puramente alle necessitàdella lotta parlamentare e così transeunti: e n’era prova,ancora, il fatto che, pur di attaccare la politica del mi-nistero in generale e del Visconti Venosta in particola-re, mentre solitamente la si accusava di timidezza, fiac-chezza, servilismo di fronte alla Chiesa e alla Francia,insomma di paura congiunta con intenti oltramontani ereazionari1863, non si esitava, altra volta, a far del ViscontiVenosta, d’improvviso, un prepotente, smanioso di attidi forza «corrivo alla soverchieria ed alla prepotenza ver-so gli Stati deboli»1864. Era, questa, infatti l’accusa mos-sagli dal deputato Englen, e sostanzialmente anche dal«ministro degli Esteri della Sinistra»1865, il Miceli, quan-do, nella seduta del 25 novembre 1872, si venne a discu-tere alla Camera di due vertenze in cui il governo italia-no era o era stato impegnato: l’una, la vertenza con laGrecia a causa delle miniere del Laurium e della conte-stazione sorta, per esse, fra il governo di Atene e la so-cietà franco-italiana Roux-Serpieri; l’altra, la cosiddettavertenza della Gedeida col Bey di Tunisi nel 1871.

Per questa parte era dunque facile prevedere che, unavolta al governo, l’opposizione avrebbe mutato registroe che, al disotto delle polemiche contro l’ignavia delgoverno, non c’eran poi idee generali molto diverse,ad eccettuarne la questione dei rapporti con il Papato,

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dove veramente l’opposizione di vedute era sostanziale egrossa.

Ma non tutta l’opposizione era compendiata nei no-mi di Depretis, Zanardelli, Nicotera, Cairoli, o in quel-lo di Rattazzi, allora capo della Sinistra, ma che più diogni altro dei suoi gregari era in opposizione al governoproprio per ragioni di lotta parlamentare ed anzi di au-torità personale. C’era Crispi con il suo gruppo; e c’e-ran, fuori della Sinistra come partito ed in opposizioneanzi alla Sinistra su parecchie questioni, uomini eminen-ti i quali dissentivano profondamente dall’indirizzo cheil governo aveva adottato in fatto di politica estera.

E qui l’opposizione perdeva il suo carattere di mez-zo tattico momentaneo per assumere valore di antitesidi principi e di ideali. Per Depretis, Zanardelli, Cairoli,il dissenso con i moderati era sostanzialmente di politi-ca interna: liberalismo più pronunziato o, come dissero,democrazia, e cioè allargamento del suffragio ed avventodi un ceto dirigente a reclutamento più largo; anticleri-calesimo grandemente accentuato; contrasti sul proble-ma finanziario e sul sistema tributario alla Sella. Per unCrispi, tuttoché in quegli anni ancora poco attivo parla-mentarmente in questioni internazionali e come gli altricapi della Sinistra assai più attento alle questioni inter-ne preoccupato com’era di lottare per la libertà ora chel’unità era compiuta1866, di rafforzare l’edificio statale edi ottenere che gli Italiani divenissero i Sassoni della raz-za latina «fondando e facendo funzionare con verità leistituzioni parlamentari»1867; per un Crispi ed i suoi ami-ci l’opposizione era già, nell’intimo, sostanziale anche inpolitica estera: ed era opposizione non tanto su questa oquella questione specifica, bensì di stile e di animo.

Non che la mente del Crispi fosse già quella di un im-perialista o anche solo di un nazionalista del ventesimosecolo. Figlio spirituale della Rivoluzione francese, purcosì odiata talora, da lui come dal Mazzini come da al-

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tri, per il suo schiacciare l’anima italiana1868; giacobino,giusnaturalista1869, non ancora capace di respingere tuttii sogni umanitari, ad onta del conclamato realismo poli-tico, e in ciò diversissimo dal Bismarck, che di quei so-gni aveva sempre riso, il Crispi rimase sempre lontanoda qualsiasi dottrina di conquista per la conquista, daogni nazionalismo concettuale. In politica interna con-tinuò a predicare libertà libertà «il nostro idolo, la no-stra vita», a negare l’onnipotenza dello Stato, ad invo-care l’Inghilterra come paese modello e a definirsi libe-rale progressista, avverso ad ogni dittatura e riluttante aricorrere al carabiniere1870. Solo negli ultimi tempi, do-po il ’94, cominciò a pensare che in Italia il regime par-lamentare non fosse possibile; ma anche allora protestòche egli non avrebbe mai fatto nulla contro il Parlamen-to, lasciando tal briga a chi fosse venuto dopo di lui: e,comunque, fra gli stessi senatori e deputati erano in mol-ti allora a cinguettare contro il parlamentarismo, e la suanon era, certo, voce isolata1871. Il regime costituzionalealla tedesca ch’egli auspicò dopo il ’96, non era poi co-sa talmente insolita nelle discussioni di quei giorni, e nonad opera del solo Sonnino1872.

In politica estera rimase dottrinalmente fermo all’idea-le delle nazionalità, e sinceramente protestò il suo amo-re per la pace e il suo riluttare dalla guerra, anche dal-la guerra con la Francia che sarebbe stata una guerracivile1873. I tempi del totalitarismo, Führer-prinzip e spa-zio vitale, non erano ancora giunti; il suo pensiero fusempre imperniato sui grandi motivi del Risorgimento,unità, libertà, nazionalità, e dunque lontano non dicia-mo dalla dottrina fascista ma anche dal nazionalismo allaCorradini e perfino dagli accenti antiumanitari e antide-mocratici di un Oriani o di un Turiello. Fu autoritario inpratica; ma ideologicamente non giunse mai a rinnegare iprincìpi che aveva additati alla Sinistra del 1876: «spessogli autoritari parlano dei diritti dello Stato. Questo è un

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errore. Lo Stato non ha diritti e non può averne. Essoriceve una delegazione dal popolo per lo adempimentodelle funzioni che gli vengono attribuite...»1874. Pratica-mente, la sua fu una politica estera dominata dal mirag-gio della grandezza del proprio paese; concettualmente;non osò mai rinnegare l’ideale della fratellanza dei popo-li e frammischiò talora curiosamente, ne’ suoi giudizi, lavalutazione di pura potenza e l’ideologismo liberale1875.

Per converso, nei moderati c’erano ben altre aspira-zioni che quelle, come s’usò poi dire, di un’Italietta mo-desta modesta e chiusa nelle sue faccende interne. Giàla risposta del Minghetti al de Laveleye, l’insistere sul bi-sogno di espansione della giovinezza e sull’impossibilitàper un gran paese di contenere la sua attività in se stesso,erano eloquente indizio di quel che pensassero i maggio-ri tra i moderati. La grandezza del suo paese, anche unMinghetti la voleva: un Minghetti che, per il varo dellaMorosini, rammentava anch’egli le antiche glorie di Ve-nezia, commovendosi secondo era nell’indole sua, cioèsenza forzare i toni; che, con tutte le sue simpatie per ilGladstone, ne deplorava la politica estera come troppoumanitaria; che si chiedeva cosa avrebbe fatto l’Italia difronte all’espansione coloniale altrui e s’impazientiva, nel1886, al pensiero che l’Italia assistesse, semplice spetta-trice, alla spartizione della penisola balcanica, dopo ave-re già assistito all’occupazione francese di Tunisi: a chepro, allora, la Triplice Alleanza?1876

Un Minghetti, un Visconti Venosta, tuttoché ben fer-mi nella loro volontà di concentrare, per allora, gli sfor-zi del paese nella ricostruzione interna e di evitare ognicomplicazione esterna, sognavano, anch’essi, giorni av-venire in cui la nazione risorta e consolidata potesse svol-gere intensa attività anche fuori delle frontiere, non tan-to sotto forma di conquiste e di spedizioni militari, cosìestranee in genere al loro modo di pensare, quanto sotto

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forma di espansione economica e di influenza politica emorale.

Un’eccezione a siffatta avversione per le conquistepoteva esserci: ed era Tunisi.

È ben vero che, rievocando dinnanzi alla Camera, il 28novembre 1880, le linee direttive della politica estera del-la Destra nella questione tunisina, il Minghetti escludevavi fosse stata, in lui e nei suoi colleghi di parte, l’inten-zione di far dell’Italia la padrona della Reggenza, accon-tentandosi essi, invece, della sola indipendenza del Bey,dello status quo insomma, che, questo sì, eran stati decisia non lasciar violare per non veder compromessa la «le-gittima influenza» dell’Italia1877. È, vero anche che rievo-cando i progetti di spedizione del ’641878, li connetteva,secondo era stato nel fatto con la previsione «dell’ingres-so di altre potenze a Tunisi... affinché non potesse es-servi occupazione permanente a danno dell’indipenden-za di quel paese».

Ma il Minghetti diceva queste cose in pubblico, in unmomento in cui la questione tunisina era già gravementecompromessa e in cui, nonché avanzar richieste di domi-nio proprio, l’ottenere il mantenimento sicuro dello sta-tus quo sarebbe stato un bel successo per l’Italia; e puòesser quindi lecito dubitare che i suoi progetti fosserosempre stati così modesti.

Il suo amicissimo Visconti Venosta, ch’era con lui incosì intimo contatto d’idee, riduceva anch’egli d’assail’importanza dell’episodio del 1864, posto nella vera lucein una sua lettera al Nigra del 29 maggio 1894. «Voi ram-mentate gli avvenimenti di Tunisi, nel 1864, l’invio dellasquadra, la politica nostra nella eventualità di uno sbar-co della Francia o d’altre Potenze. Di tutto questo horicordi precisi. Ricordo anche che, nell’estate del 1864,credo nel giugno, a Fontainebleau, quando si fecero leprime trattative per la Convenzione di Settembre, l’Im-peratore Napoleone, parlando tra le altre questioni an-

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che della tunisina, vi deve, aver detto qualcosa di similea questo – che, senza giudicare dell’interesse che poteva-mo averci in quel momento, se l’Italia avesse creduto diandare a Tunisi, egli non si sarebbe opposto. Io, però, diquesto incidente non ho, come vi dicevo, un’esatta me-moria. Pepoli, molti anni dopo, lesse in un suo discorsoal Senato, un brano d’una sua relazione a Minghetti, nel-la quale era riferita una risposta consimile dell’Imperato-re come fatta a lui, nel 1864. Le parole di Pepoli le tro-verete nel libro di Chiala Pagine di storia contemporanea– Fascicolo II – Tunisi, pagina 223. Blanc, nel suo di-scorso di pochi giorni sono alla Camera, parlò del ‘con-senso ad una spontanea occupazione della Tunisia noti-ficatoci già ufficialmente da Napoleone III nel 1867’. Equi non so se egli intese parlare dei tempi del Ministe-ro Rattazzi successo nel 1867 a Ricasoli o dei primi mesidel Ministero Menabrea, perché nulla di simile vi fu du-rante il governo di Ricasoli, oppure se, per errore, scam-biò il 1864 col 1867. Ma se quest’ultimo è il caso, mi pa-re che Blanc ed altri prima di lui abbiano singolarmenteesagerato l’incidente, considerandolo come una occasio-ne nella quale la Tunisia fu messa a disposizione dell’I-talia e questa rifiutò d’occuparla. L’impressione che mirimase, da quella epoca lontana in poi, fu sempre che seda alcune parole dette sotto gli alberi di Fontainebleausi fosse voluto passare ai fatti, la dichiarazione un po’vaga dell’Imperatore avrebbe trovato dei grandi ostaco-li ne’ Ministri di lui, sopratutto in Drouyn de Lhuys, cu-stode delle antiche tradizioni. Il momento poi bastava,di per sé, a rendere vano questo discorso. Noi cercava-mo allora di impegnare l’Imperatore, se era possibile, aduna alleanza franco-inglese per la questione danese, al-leanza che ci doveva condurre alla liberazione della Ve-nezia. E se nessuna combinazione di questa natura po-teva avverarsi, cercavamo di concludere coll’Imperatorequalche accordo importante, decisivo nella quistione ro-

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mana. Insomma la guerra coll’Austria o la Convenzionedi Settembre. Mi pare un po’ difficile che il Governo ita-liano avesse a scegliere quel momento per andare invecein Africa e sostituire Tunisi a Venezia od a Roma.»1879.

Ma se non nel ’64 certo successivamente a Tunisi sipensò come ad augurabile terra italiana; e proprio ilVisconti Venosta ebbe a dichiarare, in pieno Consigliodei ministri, il 21 novembre 1870, parlando dei suppostiprogetti turchi di occupare la Tunisia, ch’era interesseitaliano opporvisi «giacché un giorno Tunisi dee toccareall’Italia»1880.

Non v’è da insistere sulla minore o maggior precisio-ne di aspirazioni volte al futuro e perciò appunto neces-sariamente assai elastiche e vaghe, soggette ad alterne vi-cissitudini, anzi, contraddizioni1881, in stretta connessio-ne d’altronde con il variar della situazione internaziona-le: onde se il Visconti Venosta, in sul finir del 1870, po-teva anche pensare a Tunisi italiana di fronte ai disastridella Francia e alle pessimistiche previsioni sull’avveniredella Francia, che non avrebbe più potuto occuparsi delMediterraneo e dell’Africa1882, già poco più tardi, di fron-te al rapido, quasi miracoloso risorger della stessa Fran-cia, è naturale mutasse tono e pensieri, come che entrarin urto con la Francia per Tunisi non potesse esser sta-to mai ne’ suoi divisamenti. Comunque, è certo notevoleche perfino il cauto Visconti Venosta, così vicino d’ani-mo, oltre che al Minghetti, a que’ conservatori lombarditipo Jacini tanto fieramente avversi ad ogni «megaloma-nia», non solo non escludesse, anzi auspicasse l’influenzaitaliana a Tunisi, dopo di aver già nel ’64 dichiarato chenessun avvenimento in Tunisia poteva rimanere «estra-neo» agli interessi italiani1883; e s’augurasse anche che il«gâteau turco» fosse servito solo quel giorno in cui l’I-talia dalla «petite table» fosse passata alla grande1884, inmodo da poter avere la sua buona porzione di torta.

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Affiorava dunque anche in lui il sogno già del Mazzi-ni e del Cattaneo1885, di tanto diversa parte politica, cheavevano guardato a quel «grande baluardo e grande ve-detta nel Mediterraneo» come ad un grosso pericolo perl’Italia, se in mani altrui, e quindi come ad un necessa-rio, futuro centro italiano: Mazzini, anzi, venendo fuo-ri proprio ne’ riguardi di Tunisi con quell’evocazione diRoma antica, destinata ad essere classico ritornello di poiin ogni conato espansionistico italiano.

Tunisi e l’Oriente: quell’Oriente nel quale era riposto,in gran parte, l’avvenire dell’Italia, diceva il Minghetti,appunto perciò additando il pericolo che il Mar Nero di-venisse un lago russo1886; quell’Oriente verso cui dove-va volgersi la legittima espansione dell’Italia, per la qua-le era interesse essenziale che le altre grandi potenze nonspadroneggiassero nel Mediterraneo e nel Levante, ripe-teva Giovanni Lanza1887.

Crispi, poteva appellarsi per i suoi programmi medi-terranei alla predicazione mazziniana, che, nel 1871, ad-ditava anche l’Asia all’Italia; Minghetti Visconti Venostae Lanza risalivamo invece alla gran parola di Cavour chea sua volta si collegava a Balbo: ma quale che fosse lafonte, il miraggio dell’Oriente attraeva anche i modera-ti, e così il Visconti Venosta, lamentando nel 1878 chela politica di completa astensione proclamata dal Cortisomigliasse molto all’assenza di una politica, lamentavapure con molta finezza di giudizio che l’idea di Trentoavesse tratto fuori strada la politica della Sinistra duran-te la crisi d’Oriente, e deplorava che il trattato di Berli-no con le sue conseguenze compromettesse la situazionedell’Italia in Oriente1888.

E così, accadde che in questioni gravi Crispi pensasseesattamente come Minghetti e Visconti Venosta: il man-cato intervento italiano in Egitto nel 1882 a fianco del-l’Inghilterra, fu deplorato dall’uno come dagli altri, e il

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Minghetti fu solito dire esser stato quello il maggiore er-rore di politica estera compiuto dal governo italiano1889.

In quell’occasione, altri s’era opposto con tutte le sueforze all’intervento italiano, e continuò a ritenere, sem-pre, che gli Italiani avrebbero dovuto esser ben conten-ti di non essersi lasciati rimorchiare in Egitto, cioè inuna trappola, in cui era facile entrare ma difficile usci-re, cacciandosi in un pasticcio senza gusto né vantaggi disorta1890. Ma anche il conte di Robilant che così pensa-va, era poi tutt’altro che disposto ad una politica di di-sinteressamento mediterraneo; e prima ancora di dare lapiù alta e fruttuosa prova dei suoi intendimenti imponen-do quei trattati separati italo-austriaco e italo-germanico,congiunti alla Triplice del 1887, e stringendo quell’inte-sa con l’Inghilterra, che tutti insieme furono la prima ela grande salvaguardia degli interessi mediterranei dell’I-talia, pensava si dovessero metter le mani, senza esitare,su Tripoli che era non un problema coloniale, bensì unproblema vitale per la posizione mediterranea e quindieuropea dell’Italia1891.

Analogamente, se il conte di Robilant voleva granrigore contro le manifestazioni irredentistiche per evitareche l’Italia si venisse a trovare in situazione difficilissima,Crispi, presidente del Consiglio, applicò le vedute delsuo antico avversario; e tra le idee da cui era «rinvenuto»,poche mutò così pienamente come l’antico programmarivoluzionario del dissolvimento dell’impero asburgico,e, in genere, della costruzione di una nuova Europa sullabase del principio di nazionalità applicato senza dubbi esenza compromessi.

Non dunque da una parte la rinuncia preventiva e dal-l’altra il nazionalismo programmatico di stile Novecento;non due poli opposti nelle dottrine, l’eroe e il bottegaioin antitesi l’Italia imperiale e l’Italia dei camerieri; non ilbianco e il nero crudamente contrapposti.

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Ma tra Crispi e la Destra, soprattutto il Visconti Ve-nosta, la differenza c’era, sostanziale, profonda, irriduci-bile. Pensieri e dottrine potevano non essere diversissi-mi, potevano derivare tutti da un’iniziale fonte comune,diritti dell’Uomo, libertà, nazionalità. Ma l’animo, il mo-do di sentire e d’agire, lo stile erano agli antipodi; e poi-ché erano uomini politici e non filosofi, l’azione soltantoe lo stile dell’azione valevano come misura. Ora, pron-to a proclamare nei discorsi la sua avversione allo spiri-to di conquista e il suo pacifismo, nell’animo il Crispi eraroso dall’ansia della immediata grandezza della patria, enell’azione, inquieta ed eccitata, nervi sempre tesi, scattie diffidenza ombrosa, finiva col precorrere di fatto il na-zionalismo. Non ne aveva ancora la chiarezza concettua-le; ne aveva già lo stile.

Era come nella politica interna, dove le sue dichiara-zioni di ossequio assoluto al principio di libertà, alla leg-ge, all’onnipotenza del Parlamento erano belle e orto-dosse, ma la sua pratica di capo del governo e di mini-stro degli Interni non era già sempre di sicura ortodossialiberale. Lo accusarono un giorno alla Camera di far leg-gi di Sinistra e politica di Destra1892; e, lasciando da parteque’ due concetti ormai molto equivoci, si potrebbe di-re che il pensiero in astratto era liberale e l’animo auto-ritario. L’azione risentì assai più dell’animo che del pen-siero. La teoria del reprimere, cara allo Zanardelli e alCairoli, era messa da parte e sostituita da quella del pre-venire; e anche nel prevenire il modo Crispi fu soven-te assai spiccio, e restrittiva l’interpretazione pratica del«prudente arbitrio del governo di vedere se in un datogiorno, in una data città, il permettere una pubblica adu-nanza possa esser causa di disordine»1893. Redini strettein pugno e tirate continuamente, e non redini larghe, al-la Giolitti, salvo a tirarle abilmente quando la svolta fos-se proprio pericolosa. Significativo, il frequente ricorre-re nei discorsi parlamentari di lui del motivo ordine pub-

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blico, tutela dell’ordine pubblico, vale a dire del motivosempre invocato e invocabile a giustificazione di una po-litica di polizia. Oppure, erano espressioni che colpiva-no per la loro durezza, franca, ma inabile e autoritaria,come quando, a proposito delle guardie municipali, av-vertiva la Camera che avrebbe potuto fare anche a menodi essa, procedendo per decreto reale1894.

Quel che lo caratterizzava, non erano dottrine e sche-mi teorici, ma l’azione concreta; e l’azione concreta fu,e apparve allora a tutti, amici e nemici, azione di unapotente personalità, fin troppo conscia della sua vigo-ria e proclive a disprezzare altrui1895, spesso imperiosanel fare1896, secca nel tono, facilmente irritabile e colle-rica, risoluta anche a passar sopra con soverchia facilità,all’ortodossia costituzionale, anteponendo di fatto auto-rità a libertà. Sempre più si accentuava la convinzioneche non era questione tanto di regime quanto di uomi-ni, e che «il regime, qualunque esso sia, è uno strumen-to che giova o nuoce secondo l’azione dell’uomo che lomaneggia»1897; sempre più cresceva la imperiosità praticasino a prorogare la Camera, nel ’94, quando essa dove-va pronunciarsi sulla relazione del Comitato dei Cinqueconcernente lui Crispi: cosa che in pratica era la decisanegazione dell’essenza stessa del regime parlamentare, ecosa certo mai vista1898.

Era, anche, il timore continuo di non far mai abba-stanza presto, di poter esser soverchiato dagli eventi: dalquale timore, derivavano le preoccupazioni del preveni-re e le misure cautelari di polizia e l’attenzione sospet-tosa di cui il diritto di riunione e di associazione venivafatto segno.

In politica estera, identica ansia di fare, far presto, e lapaura di arrivare troppo tardi, in un’Europa lanciata inpiena gara di potenza: onde, se Visconti Venosta LanzaSella Spaventa dicevano, prima mettiamo a posto la casa

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e poi ci faremo innanzi. Crispi diceva facciamoci innanzisubito, anche se la casa non è ancora assestata.

Il dissidio, anzi, toccava qui più a fondo; era dissidioconnaturato con tutto il modo di vedere, con il sentirestesso di quegli uomini e, ancora una volta, riportava susu alla fondamentale eterogeneità di forze del Risorgi-mento. L’Italia fattasi da sé, per virtù di soffio rivoluzio-nario potente – quindi, Mazzini e Garibaldi – che si sa-rebbe fatta, e meglio ancora, anche senza Napoleone III;l’Italia, dunque, già grande per virtù propria, già poten-te d’ispirazione, già atta a svolgere una splendente partenel consorzio dei popoli, che se non l’avesse svolta subi-to, la colpa sarebbe stata solo dei governanti, antiunita-ri e mediocri ieri, pusillanimi e mediocri oggi1899: questoera Crispi. La grandezza della patria, era «peccato origi-nale per noi... il peccato di quanti, Mazzini alla testa, la-vorarono per la costituzione di tutto il bel paese in uni-tà di Stato... per esser forti e potenti, basta, volerlo, esaperlo»1900.

Gli altri, i moderati, convinti, e talora anche ecceden-do1901, che l’unità d’Italia era stata concretamente possi-bile grazie soprattutto o addirittura grazie soltanto ad unfortunatissimo insieme di circostanze esterne, situazioneeuropea, Secondo Impero prima, poi anche Prussia, eche il merito degli Italiani era stato di aver colto al bal-zo l’ora propizia – quindi, Cavour e Vittorio Emanuele,il governo e non l’iniziativa rivoluzionaria: ma l’aver rag-giunto lo scopo non significava ancora che l’Italia fossegià tanto potente di virtù propria, da poter pronunziarel’adsum qui feci di fronte ai vecchi colossi della politicaeuropea. S’era stati fortunati; bisognava ora crescere al-l’altezza della fortuna, vale a dire consolidare ben bene loStato. Fare gli Italiani, aveva esclamato il pedagogo d’A-zeglio, esprimendo perfettamente il modo di pensare deimoderati. Gli Italiani ci sono, facciamo un governo de-

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gno di loro, rispondeva Crispi, e lanciamoci arditamenteverso l’avvenire.

Per l’uno l’Italia era già una grande potenza, di no-me e di fatto, tale da poter imporre il suo volere, pur-ché un volere ci fosse in chi la governava; per gli altri,l’Italia era formalmente una grande potenza, ma non an-cora nella realtà effettuale delle cose. Perciò, anche, inquesti ultimi, il desiderio di un lungo periodo di pace,che solo avrebbe potuto consentire all’Italia di farsi leossa e diventare una grande potenza anche di fatto. Unaguerra europea, ora, quale ne fosse l’esito, sarebbe per lanuova Italia un disastro, annotava un giorno il Nigra, sa-pendo bene di esprimere idee comuni anche al ViscontiVenosta1902: e per quale motivo quest’ultimo avrebbe de-precato, un giorno, che la crisi d’Oriente fosse scoppiatatroppo presto per l’Italia1903, se non perché convinto cheil suo paese non era ancora in grado di presentarsi nel-l’arengo internazionale con forti possibilità di azione? Asua volta, il conte di Robilant, proprio all’inizio di quel-la crisi d’Oriente, non aveva forse riconosciuto anch’e-gli che sarebbe convenuto all’Italia la questione dormis-se placidi sonni per altri dieci anni?1904

Né erano preoccupazioni solo dei moderati: gli sforziostinati della diplomazia italiana, nel ’76, governando laSinistra, per impedire il dilagar dell’incendio nei Balcani,per ottenere che le grandi potenze procedessero sempred’accordo e che il «concerto» europeo funzionasse, ave-vano obbedito alla stessa fondamentale preoccupazione,evitare una grande crisi europea in un periodo in cui l’I-talia non sarebbe stata in grado di fronteggiare situazio-ni difficili; e ancora, le ansie del Depretis – proprio delDepretis, a torto ritenuto poco sollecito dei problemi in-ternazionali – nel 1882, al momento della crisi d’Egitto,sempre per ottenere che essa fosse considerata da tut-te le potenze, Germania e Austria comprese, una que-stione assolutamente «europea», muovevano dallo stes-

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so timore, che l’Italia, lasciata sola questa volta di fron-te ad Inghilterra e Francia (come prima di fronte ad Au-stria e Russia), vedesse sacrificati i suoi interessi vitali nelMediterraneo1905.

Dire che nessuna potenza in Europa aveva bisogno dipace più dell’Italia, come dissero concordemente i mo-derati dopo il ’70 e ripeterono poi i Depretis e i Cairo-li guanti al potere, non era soltanto riluttanza sentimen-tale alla guerra, fede liberale nello sviluppo pacifico del-l’umanità, residuo di ottimismo alla Cobden sulla pacifi-ca gara dei commerci sostituita alla gara cruenta delle ar-mi: era anche convinzione precisa che, proprio in omag-gio al realismo politico, l’Italia non sarebbe stata ancorain grado di tutelare efficacemente i suoi interessi, quan-do il dio della guerra riprendesse nelle sue mani i destinidell’Europa.

Proprio gli eventi fra ’78 e ’81, Congresso di Berlinoe Tunisi, l’Italia uscita da una grande crisi europea perla prima volta dal ’56 senza successi materiali o morali –anzi, con la sensazione bruciante dell’insuccesso –, e poiancora costretta a subire lo smacco di Tunisi, avrebbe-ro rafforzato in molti, sin anco all’eccesso, la sensazioneche l’Italia dovesse andare piano nel valutare le sue pos-sibilità di politica internazionale. Con inconsueta bru-talità lo dichiarò un giorno del 1881 l’ambasciatore diRussia, Uxkull, al Mancini: l’Italia non doveva conside-rarsi una grande potenza; se le grandi potenze avevanoammesso l’Italia nei loro consigli, ciò era stato fatto percortesia, non già perché si ritenesse indispensabile il suoconsenso1906. Anche se non lo dicevano tanto apertamen-te, gli altri lo pensavano; e Bismarck lo fece capire consufficiente chiarezza tra il ’79 e l’821907. E dei nostri, pa-recchi parvero spesso non alieni dal condividere, sia pu-re con animo amareggiato, quelle idee: tanto che un gior-no fu il Blanc, segretario generale agli Esteri, a dichiara-re sia all’incaricato d’affari austro-ungarico, sia a quello

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germanico, che l’Italia non voleva per sé la parte di unagrande potenza, per cui le mancavano i mezzi1908; e altravolta fu il re in persona ad auspicare il giorno in cui, cre-sciuta la forza interna del paese, l’Italia potesse elevarsial rango delle grandi potenze1909.

Perfino nella stampa non mancava chi affermasse che«noi entravamo nel concerto europeo quasi per grazia,e vi dovevamo portar pretese e contegno modesti»1910, eche il conseguimento della potenza era frutto naturale elegittimo di un lavoro pacifico e secolare, vale a dire delrassodamento delle istituzioni e dello sviluppo economi-co e intellettuale – il lavoro a cui l’Italia era ora intenta1911.

Sempre, all’origine dei consigli di modestia per il pre-sente, la valutazione storica che il Risorgimento era sta-to possibile grazie alla favorevole congiuntura interna-zionale; onde, in quella stessa Rassegna che predicava lamodestia, si poteva anche leggere una rapida digressio-ne storica che ricordava la «fortuna» nel Risorgimento:«tutti assorti nel problema dell’essere... noi siamo anda-ti bene innanzi perché il costituirsi a nazione, se urtavaalcuni interessi, ne favoriva altri, e noi ci siam saputi de-streggiare fra questi e quelli. La collisione dell’interesseimperiale francese con l’austriaco, ci diè il primo potenteaiuto: il secondo ci venne dalla collisione dell’interesseprussiano con l’austriaco: il terzo da quella dell’interes-se germanico col francese. E il prevalente liberalismo, inEuropa, e la tendenza anti-papale degli Stati protestantividero nella vittoria della rivoluzione italiana, sotto unamonarchia leale e rispettabile, un interesse civile da nonostacolare; anzi da favorire. Così fummo...»1912.

Di simil genere erano anche i pensieri che inducevanoa parlare della «precipitosa conquista da noi fatta dell’u-nità, della libertà e dell’indipendenza contemporaneame-nte»1913; oppure della fortuna la quale aveva arriso all’I-talia in modo affatto singolare per molti anni mentre ora

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il consolidamento dell’edifizio si chiariva assai più labo-rioso del lavoro fatto per innalzarlo1914.

Il giudizio storico era la necessaria premessa di quellopolitico; e quest’ultimo tendeva dunque, verso l’80, afarsi ancor più pessimistico, giustificando per reazionedinnanzi al paese gli appelli crispini alla grandezza ecreando l’attesa nel suo avvento. Ma Depretis, uomodella Rivoluzione non era certo stato mai; e Cairoli,era stato sì Rivoluzione, ma senza potenza personale diaccenti, e perciò non urgevano in lui, come in Crispi, legrandi memorie.

Ma appunto perché nella valutazione politica del com-pito spettante all’Italia dopo il ’70 era implicito il giudi-zio su quel che fosse stato il Risorgimento, appunto perquesto il dissidio tra i moderati e un Crispi era incom-ponibile. Si parlasse al Crispi, l’uomo dei Mille, di unRisorgimento dovuto alla favorevole congiuntura euro-pea e alla diplomazia! Il Risorgimento era la Rivoluzio-ne, non meno grande di quella francese1915, che aveva tra-scinato tutti, volenti e nolenti; era passione, virtù di co-spirazione che Cavour aveva potuto diplomatizzare, mache recava in sé stessa tutti i motivi del successo. L’I-talia di Mazzini e di Garibaldi era già potente; la mar-cia in avanti era fatale, la grandezza sicura solo che nonmancasse l’animo ai reggitori.

Muoversi, dimostrare subito di essere ben vivi e pre-senti sulla scena europea; far sì che la grandezza sognatadivenisse realtà immediata, unico modo per riscattare lainiziale inferiorità italiana, per far dimenticare l’asservi-mento alla Francia bonapartista, per tener fede agli idea-li dei giorni eroici del Risorgimento, anzi per dimostrarela grandezza tutta italiana, la virtù tutta interiore del Ri-sorgimento stesso, della nostra Rivoluzione. La missionedell’Italia nel mondo aveva perso la sua universalità allaMazzini; l’Europa dei moderati non diceva nulla all’ani-mo del siciliano, e dunque, come s’è detto, nello svani-

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re dei motivi universali, rivoluzionari o conservatori chefossero, sola dea restava la propria nazione, la propriapatria: ma questa era una grande dea e Crispi la adorò el’adorazione tradusse in accenti mazzinianamente ancoraturgidi di pathos, in una eloquenza formale tanto lonta-na dalla disadorna parola di un Cavour o, più tardi, di unGiolitti. I fantasmi di Roma eterna parlavano al suo cuo-re; altri erano sazi di lotte ritenevano giunta infine l’oradel lavoro pacato e tranquillo, Crispi dall’unità consegui-ta e da Roma capitale volgeva lo sguardo alla grandezzaeuropea da conseguire, al più presto.

E poiché la realtà delle cose contrastava con tali so-gni, ne veniva come una suscettibilità ombrosa, prontasempre a vedere menomata la dignità nazionale da fattie parole altrui, sempre proclive a credere che metà delmondo stesse complottando contro l’unità d’Italia.

Perciò, opposizione risoluta al metodo, ai propositidella Destra. Il lasciar tempo al tempo, il voir venir, ti-pici della diplomazia alla Visconti Venosta, gli apparve-ro incapacità, ignavia, servilismo; e il suo stile fu, comel’azione, nervoso e a scatti, a salti di quinta1916; capace disorriso e di seduzione, ma più spesso brusco e imperio-so e addirittura scortese nella forma1917. Nella sostanza,sempre inquietudine, sempre trasalimento per l’incom-bere del pericolo, sempre sospetto per qualche affron-to alla dignità d’Italia e, contrariamente al detto di Ca-vour, l’innalzare a grosse questioni di prestigio naziona-le piccole questioni. Mancanza di misura e di equilibrio;politica a urti e spintoni1918.

Era ancora, molto, uno stato d’animo, un agire da co-spiratore. Lo ripeté, presidente del Consiglio, lo disse al-lo stesso Nigra, siamo dei vecchi cospiratori1919. Vecchicospiratori! A modo suo, se si vuole, anche il Nigra lo erastato, col Cavour: ma era stato, per così dire, un cospira-tore ufficiale, governativo, che cospirava per l’Italia manell’uniforme del diplomatico, onde sin da quei tempi i

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suoi erano stati l’animo e lo stile dell’uomo di governo.Certamente lo era stato il Visconti Venosta, dai giovanilientusiasmi mazziniani: ma dal Visconti Venosta del ’48era venuto fuori il ministro degli Esteri del ’70, modera-tissimo fra i moderati, tutto equilibrio discrezione finez-za, tutto arte del chiaroscuro, che non aveva più nulla aspartire con l’aria della congiura. Crispi era rimasto, ri-mase veramente sino all’ultimo un vecchio cospiratore.Giovane, lo era stato assai, assai più degli altri; e conti-nuò ad esserlo, vecchio e presidente del Consiglio e mi-nistro degli Esteri. Del cospiratore ripudiò molte idee,la repubblica e la distruzione dell’Austria; ne serbò l’a-nimo e l’istinto, la facile eccitabilità ed impressionabili-tà ad ogni rumore, che gli faceva accogliere senza troppidubbi informazioni allarmistiche, quando toccassero inlui le corde sempre tese e pronte al suono pericolo cleri-cale e pericolo francese; ne serbò l’ansia di agire e di con-cludere; ne serbò la mancanza di equilibrio e di misura.

Ancora, il bisogno quasi fisico di tenersi vicino al-la piazza, di lavorare direttamente l’opinione pubblica,cercandovi conforti e consensi più ancora che nel Par-lamento: donde i grandi discorsi a Torino a Palermoa Firenze1920, e il trattare distesamente di politica este-ra non soltanto nell’aula di Montecitorio, anzi il parlar-ne talora prima in teatro che a Montecitorio come quan-do, nell’87, la congiura per la pace ordita a Friedrichsruhfra lui e il Bismarck fu annunziata ai cittadini torinesi alRegio.

In fine l’uomo, il sentire altamente di sé, e la fede nelproprio genio; quindi, l’ansia di far presto, già innanzinegli anni come era1921, per poter lui associare il proprionome alla gloria d’Italia. I capi dei moderati potevanosentirsi indispensabili all’Italia come gruppo, come clas-se dirigente, non come singoli: la Destra era indispensa-bile all’Italia. Crispi, che apprezzava assai poco i colleghidi parte, vedeva in sé stesso il salvatore: non diversamen-

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te che del Gioberti, si poteva dire di lui che pensasse: «Ilmale d’Italia è di non avere sempre seguito i consigli diCrispi, il rimedio? Mettetevi nelle mani di Crispi»1922.

Così è che senza essere ancora propriamente naziona-lismo stile Novecento, soprattutto senza averne la risolu-ta chiarezza di princìpi, l’atteggiamento di Crispi in poli-tica estera aveva già un’impronta nazionalistica: naziona-lismo di stato d’animo, che era il necessario presuppostodel più tardo nazionalismo dottrinario.

Grandezza, prestigio della patria; poesia dei fatti eroi-ci, contrapposta alla prosa vile dei massai. Lo disse, con-chiudendo il discorso alla Camera del 10 marzo 1881: «èun fatto che più noi ci allontaniamo dai giorni della gran-de rivoluzione e più gli animi diventano gelidi e meschi-ni! quasi antipatriottici! Ritorniamo alle nostre origini, aquei concetti, a quelle grandi idee senza le quali non sa-remmo insorti, senza le quali non avremmo giammai at-terrato i sette principi, non avremmo atterrato il papato,non saremmo a Roma!»1923.

Ma sin da prima lo aveva dichiarato la sua Riforma.Poesia, contrapposta alla «prosa» dei moderati. Poe-

sia: cioè, nei campo politico, entusiasmo e fede, slancioe risolutezza, grandi propositi e grande animo. Quel cheaveva fatta l’Italia; la poesia «che audacemente, ma si-curamente, calcolatrice, dopo la campagna d’Italia, spic-candosi dai fumanti campi di Varese e di San Martino siassise al governo degli avventurosi navigli di Quarto, econ in cuore, se non sul labbro, il famoso: quid times?Caesarem vehis, assicurò il periglioso sbarco, e da Marsa-la, a Calatafimi; da Palermo a Milazzo; e da Napoli a Ca-pua, di meraviglia in meraviglia e di prodigio in prodi-gio, con realtà superante l’immaginazione, non fe’ mos-sa in guerra che non riscuotesse il plauso della più me-ditata strategia, non fe’ un passo in politica che non so-vrastasse ai più profondi calcoli della diplomazia», e cheora «quasi estremo sforzo del genio italiano, parve sva-

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nire o ritrarsi nell’umile scoglio, ove si ravvolse la ban-diera che l’aveva ispirata», per lasciar luogo ad «una nu-da, una gretta, una gelida prosa come cappa di piombo»,che pesa «sugl’istinti e sulle aspirazioni nazionali»1924.

Prosa, dovuta proprio anzitutto alla mancanza di poe-sia nei moderati: e poesia era da ricercar «in quell’entu-siasmo creatore, in quell’affetto pel bene e pel progresso,in quella ispirazione intuitiva che sa afferrare nel suo as-sieme un’epoca, una situazione e dirigerla potentemen-te alla vera mèta che si prefigge, infondendo in quanto lacirconda l’attività e l’energia che l’infiamma. Noi chia-miamo poesia quella che non permettea il sonno a Temi-stocle pensando alla gloria di Milziade, che non dava ri-poso a Bolivar innanzi alla fama di Washington, che arsele fibre del primo Bonaparte... poesia insomma i più fe-lici momenti di Cavour, e le meravigliose imprese com-piute da Garibaldi».

Ch’eran parole adattissime ad esprimere lo stato d’a-nimo dell’ambiente Crispino, innanzi all’Italia e al suogoverno. «Entusiasmo», «ispirazione», «potenza» di di-rezione: e, in pari tempo, il gran lievito personale, l’am-bizione, che non consente il sonno a chi ripensi gli allorialtrui: in altri termini, sul piano politico, azione. E a chiopponesse che non sempre eran tempi d’azione – s’inten-de, di azione febbrile e turbolenta – e che, proprio do-po il tormentosissimo periodo dell’Unità, dopo il dodi-cennio ’58-70, occorreva quiete e calma; e, ancora, a chiavesse chiesto quali dovevano essere le mete di tale azio-ne, una prima risposta sarebbe stata, da parte del Crispie dei suoi amici, che l’azione vale anche per se stessa, co-me generatrice di energia, suscitatrice di forti pensieri eincitatrice a magnanime gesta in un popolo – proprio ilcontrario di quanto capitava all’Italia, dove l’inettitudi-ne dei governanti e la loro fiacchezza generavano attor-no a sé sfiducia, scetticismo, e sordido materialismo1925.Così che lo spettacolo offerto dall’Italia d’oggi era triste

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e penoso; era, per dirla ancora col Carducci, lo spettaco-lo d’un paese dominato da Trissotino: «Uno scetticismoprofondo, un’indifferenza, uno sprezzo per tutto ciò ch’èbello, nobile e grande; un correr soltanto dietro alle cifreed a quanto possa soddisfare i sensi e riempire le borse,a detrimento del cuore e dell’intelletto, sono i caratteridistintivi dell’Italia attuale»1926.

Che se, per scender dalle epoche e uomini straordina-ri a più umile sfera, una buona e vigorosa amministra-zione aveva pure diritto a battezzarsi «poesia», ciò eravero solo in quanto «sapesse dar anima e vita a tutte leforze latenti d’una nazione, non solo nell’ordine mate-riale, ma nello sviluppo morale che ne dev’essere effet-to e compimento». Invece, gli amministratori della De-stra «... uomini prudentissimi al certo, ma prosaici, pre-ferenti le minuzie dell’analisi, anziché le complesse intui-zioni della sintesi, studiano molto, ma fanno poco, sannoad ogni questione creare una commissione, ma nulla chepossa tramandare il loro nome alla posterità, pietrifican-do la nazione nel gelo dell’anima loro»1927.

Dunque, ancora e sempre, azione, azione, azione; eazione di «sintesi» per intuizione, non di analisi e studio;azione, per crear entusiasmi, suscitar passioni, perfinonel caso della ordinaria amministrazione.

Quest’era propriamente attivismo, a qualunque costo,anche senza mèta precisa. Muoversi, fare, creare o anchesolo gridare – spesso la prima cosa si risolveva nella se-conda; qui era lo stato d’animo inquieto e inquietante diuna parte dell’opinione pubblica italiana, allora numeri-camente assai modesta, ma non trascurabile per impor-tanza di uomini, e che doveva costituire il primo nucleodei più grossi futuri plotoni di volontari dell’entusiasmoe dell’azione.

In politica interna, quello stato d’animo avrebbe, tostoo tardi, reso praticamente insofferenti di limiti giuridici,vale a dire insofferenti della tradizione liberale in quanto

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aveva di più genuino e puro, e avrebbe indotto l’animoagitato e incline agli estremi ad accettare ad un certomomento lo Stato «forte», quale appunto volle e cercòdi attuare il Crispi, perché esso prometteva azione e fede,ed irrideva al cosiddetto scetticismo materialone dei savied esaltava l’intuizione, la sintesi.

In politica estera, l’inquieto cercar di qua e di là do-ve poter iniziare un’azione qualsiasi, anche a costo di ri-schio, ch’era bello appunto perché rischio; quel ficcar-si in mente l’inevitabilità di un prossimo grande evento,bellico s’intende1928, e da quella premessa mossi accre-scer ogni dì inquietudine e tramestio, contribuendo co-sì sul serio a crear le ragioni di conflitti. Ch’era appuntol’atmosfera torbida, inquieta, tesa e gonfia anche pel mi-nimo incidente, che si veniva creando, tra il ’71 e il ’73,in Italia e in Francia, ad opera dei nazionalisti o – comesi diceva allora – chauvinisti d’ambo le parti: nemmeno iFrancesi, infatti, scherzando al riguardo, e anch’essi an-noverando molti, tra preti e nobili e borghesi di provin-cia, convinti, come di un dogma, della fatalità e necessi-tà di un conflitto coll’Italia, e trepidanti, vociferanti, in-giurianti, assai, assai più dei loro avversari d’oltr’Alpe.

Per gli Italiani alla Crispi, pieno l’animo dei ricordidolorosi di un lontano passato di smembramento politi-co della penisola e di quelli, ancor più cocenti, di alcunenon brillanti pagine militari del patrio riscatto, per questiItaliani l’anelito al fare diveniva, proprio soprattutto perl’Italia, condizione necessaria a dimostrare di non esseredeboli né servi di nessuno: era come un necessario atte-stato di nobiltà che bisognava conquistarsi. E si compli-cava pertanto con una ombrosa diffidenza verso l’estero,una suscettibilità esagerata, pronta a veder menomata ladignità nazionale dal minimo gesto men che cortese dal-l’estero proveniente: che era la testimonianza – annotavail Visconti Venosta – di non maturità di un popolo.

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Eran tutte cose che creavano un abisso fra la Destra el’ambiente crispino: e lo confermava anche l’avversioneal Cavour del secondo1929, che di tradizione cavouriananon voleva sentir parlare, quella tradizione – Vangelo deimoderati – che aveva sì nei momenti decisivi tutto osato etutto giuocato, non arretrando certo di fronte agli atti diforza, ma che era stata anzitutto miracolo di tempestività,di senso dell’ora, niente programmi troppo rigidi a lungascadenza, ma porre ben saldo il punto di partenza e poidilatare il programma sin dove la realtà lo consentisse.Ma la gran colpa di Cavour per il Crispi, era appunto dinon essere stato unitario della vigilia1930.

Qui il dissidio era dunque fondamentale; e si com-prende come il pareggio scopo supremo del governo suo-nasse per un Crispi prosa, gelo, meschinità. E se la De-stra diceva, conteniamo per il momento le spese milita-ri perché uno Stato deve avere prima le finanze a sesto,la Riforma batteva, come Catone il Vecchio, sul ceterumcenso della assoluta necessità di armare, armare, armareond’essere pronti per il momento della non lontana pro-va suprema.

D’altronde non era solo amor dell’azione per l’azio-ne a spronare coloro che volevano poesia e non prosa, ebattezzavano indegna d’un grande Stato la politica del-le economie sino all’osso. Tra l’affannarsi attorno allainevitabile, prossima guerra con la Francia, e il trepidarperché l’Italia dovesse aver contegno e animo e forza dagrande potenza, tra il vago generico attivismo, dunque,cominciava già a spuntar qualche obbiettivo più preciso:ed era il sogno del predominio italiano nel Mediterraneo.

Sogno di origine mazziniana1931: e insinuantesi, lento,lento, nell’animo di parecchi, e già travagliante nel pro-fondo lo spirito inquieto di Francesco Crispi. E all’O-riente accennava appunto la Riforma nell’agosto del ’72:all’Oriente e alla politica propria che vi doveva aver l’I-talia: «... a preferenza d’ogni altra potenza d’Europa;

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perocché non ve ne ha nessuna che per la sua posizionegeografica, per le tradizioni antiche, e per la somma de-gli interessi presenti, abbia tanti rapporti e contatti quan-ti essa ne ha con le popolazioni che si stendono oltre l’an-gusto mare che ne bagna le sponde». Inevitabile essen-do la caduta o trasformazione completa dell’impero ot-tomano, l’Italia avrebbe dovuto «esercitare una decisivainfluenza sugli avvenimenti», solo che al governo fosse-ro uomini all’altezza del compito1932. E venivano fuori,dunque1933, le tradizioni di Venezia e Genova; e la sto-ria era chiamata a sussidio della politica, con un procedi-mento divenuto poi familiare ai nazionalisti, ancilla doci-le delle pretese di potenza dei grandi Stati moderni, do-po essere stata, lungo il Medioevo, ancilla theologiae estrumento dell’edificazione delle anime cristiane.

Ma assai più chiaramente ancora il sogno di un’Ita-lia arbitra del bacino mediterraneo, almeno diplomatica-mente, veniva enunciato dal Cialdini. Era un uomo chedivergeva parecchio, su questioni fondamentali, dall’am-biente crispino; che, partigiano dell’alleanza francese edella lotta a fianco della Francia contro la Prussia, anco-ra il 3 agosto del ’70, si trovava, su questo problema capi-tale della politica estera italiana, esattamente al polo op-posto del Crispi. Ma anche nel Cialdini, autoritario e su-scettibile non certo meno del Crispi, anche nel Cialdinieran poi insofferenza militaresca dell’ordinato viver civi-le, sprezzo per i «contabili» dell’amministrazione e aspi-razioni a grandezza, potenza, forza militare.

Quest’ultimo problema lo vedeva accanitissimo, in Se-nato, contro i programmi alla Sella: militare e con tutta laconsueta alterigia nei confronti de’ problemi finanziari,battezzava il programma delle «economie sino all’osso»,che doveva salvare lo Stato, come un «monumento dellanostra politica insufficienza», nel mentre lanciava pateti-ci appelli al governo perché coprisse di ferro «anche que-sta povera Italia per difenderla dai prepotenti della ter-

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ra, per salvarla dai fulmini del cielo»; e non disdegnavanemmeno di servirsi di un argomento destinato a diven-tar poi trito e rancido in mano ai nazionalisti, rinfaccian-do ai civili scarso amore per l’esercito, ammonendo dicessar dal rinfacciargli il pane che mangia, dal presentar-lo come un vampiro che divora le sostanze dell’erario1934.Tali i suoi pensieri nel ’70, tali nel ’74, quando aggredivanuovamente, in Senato, la politica del governo, che vo-leva far diventar ricca la nazione, mentre occorreva nonmeno farla diventar forte1935 – con la differenza, però chenel ’74 anch’egli era diventato sospettoso di Francia ede’ Francesi1936. E anche per lui, cavouriano, come pergli anticavouriani scrittori della Riforma, i tempi volge-vano a male, con il trionfo della prosa sulla poesia. «Sia-mo lontani – scriveva al Castelli – da quell’epoca di fe-de e di entusiasmo, rappresentata dal genio di Cavour.Ora nuotiamo nel dubbio, nella freddezza, nella prosa,nel cinismo politico.»1937.

Sul problema espansione, grandezza, potenza, concor-di eran dunque le vedute del Cialdini e del Crespi: an-che il duca di Gaeta sognava orizzonti d’impero per ilsuo paese. E lo diceva con quella chiarezza e nettezzach’erano un suo indubbio merito.

Trovandosi, il 28 febbraio del ’71, a Madrid, in amba-sceria straordinaria presso re Amedeo1938, il Cialdini tele-grafò al Visconti Venosta che in una questione sorta fraSpagna ed Egitto, per via dell’interprete del consolatospagnolo maltrattato dalla polizia egiziana, il console in-glese si era intromesso come mediatore. Ed era spiacevo-le che il console italiano si fosse lasciato strappar l’inizia-tiva dal collega britannico: spiacevole «d’autant plus quej’ai lieu de croire que tôt ou tard l’Espagne pourra nousrendre service dans la question romaine et que d’ailleursapres l’abaissement de la puissance française l’Italie doitaspirer à la suprematie diplomatique dans les bassins dela Méditérranée».

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Qui, almeno, non c’eran dubbi, e lo scopo era benchiaro. Supremazia nel Mediterraneo; il sogno mazzinia-no che diveniva patrimonio comune di molti anche anti-mazziniani. Lo nutriva, s’è visto, lo stesso Blanc, di ca-vouriana scuola1939.

E certo era difficile con simili miraggi innanzi agli oc-chi accontentarsi del pareggio e dei programmi tributaridel Sella.

Così, l’indirizzo di governo della Destra trovava, con-tro di sé, anche al di fuori dell’opposizione per tatti-ca parlamentare, la tendenza alla poesia, cioè all’azione:un’azione magari senza una precisa mèta; vaga irrequie-ta, ma azione. E se non era da sopravalutare la forza nu-merica degli innamorati della poesia – pochi essendo inallora –, non era nemmeno da guardar con indifferenzaal loro agitarsi, forti com’erano di alcuni nomi d’indiscu-tibile prestigio e valore.

Per fortuna, l’Italia ebbe come nocchiero nel maregrosso della politica internazionale, in quegli anni dopoil ’70, l’uomo adatto alle circostanze de’ tempi, l’uomoche nessuna accusa di prosa avrebbe mai turbato: e fuEmilio Visconti Venosta.

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Capitolo Secondo

... E gli uomini

I

Emilio Visconti Venosta

Il bel ragazzetto, occhi celesti e lunghi capelli biondi ina-nellati che gli scendevano sulle spalle1940, s’era trasforma-to in un personaggio grave già nell’aspetto, alto, magro,dai lunghi favoriti rossicci che la mano accarezzava fre-quentemente, con un gesto all’inglese da cui veniva ac-centuata la prima impressione di calma e di controllointeriore, anzi addirittura di flemma britannica1941. E ilmolto tenero e facile a piangere Emilio, che pareva l’an-gelo del dolore quando supplicava la madre dietro la por-ta chiusa, era divenuto un uomo di Stato che poteva ap-parire, agli occhi di molti e, fra gli altri, di un giovaneaddetto di legazione come Bernardo di Bülow, tra i piùcalcolatori e i più cauti che vi fossero.

Certo, l’uomo poco più che quarantenne aveva ormaicompiuto, intera, la sua evoluzione morale e spirituale:dal seguace di Mazzini del ’48 era venuto fuori lo zelatoredi Cavour, e dallo scolaro che non aveva «la testa acasa», pensando più alla rivoluzione e alle congiure diquanto non pensasse alla filosofia del diritto, era uscitoun politico che aveva invece sempre la testa bene a casa.

Ma chi poi scrutasse più nel profondo s’accorgeva chequest’uomo – dal Mazzini battezzato infedele al sognodei primi anni, dalla Sinistra sempre considerato comeun transfuga e perciò particolarmente osteggiato1942 – purmutando sembianze fisiche, come natura voleva, e puravendo mutato anche parte politica, aveva serbato inal-terate le caratteristiche fondamentali. E lasciamo pureche il fanciullo già sognasse di fare il diplomatico, come

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che si trattasse di fantasie giovanili, anche se l’avveniredoveva tramutare la fantasia in realtà. Ma il raziocinarevolentieri, l’appellarsi nei momenti critici al calcolo dellaragione anziché abbandonarsi alla piena del sentimentoe alle illusioni dell’immaginazione, il mantenere la calmain ogni evento: tutto questo, che colpiva parenti, amici,conoscenti, nel giovane poco più che ventenne e gli assi-curava autorità sui coetanei lombardi, appena passata lagran furia rivoluzionaria del ’481943, costituiva pur sem-pre la prima e fondamentale caratteristica della persona-lità del ministro degli Esteri del Regno d’Italia.

Tutt’altro che freddo di animo, anzi capace di profon-di affetti, sensitivo ed impressionabile1944, ma capace pu-re di assoluto dominio sul sé stesso esteriore; tutto di-gnità, nell’aspetto e nell’accento, sobrio di gesti, parcoe lento di parole, ma di una parola misurata e precisae, anche in sedute tempestose, ferma e costante e ad untempo abilissima nel parere di dire senza dire in sostan-za né compromettere nulla1945; cauto e lento, ma sicuroponderatore di uomini e cose; tutto discrezione e nien-te pubblicità1946, senso rigoroso dei propri limiti, aborri-mento dallo strafare, dal trasformarsi in suonator di vio-lino da suonator di flauto1947, e aborrimento dalle faci-li popolarità1948; alienissimo da ogni gesto precipitato, daogni impazienza, ed assai proclive invece, secondandocerta natural pigrizia e irresolutezza, a lasciar tempo altempo, a soprassedere in una decisione grave di venti-quattro ore, sicuro che nulla sarebbe stato compromes-so di vitale ed il mondo non sarebbe andato in aria perquello e forse si sarebbe, invece, appianata qualche dif-ficoltà, rimosso qualche ostacolo1949; bene attento a noncacciarsi precipitosamente in situazioni senza vie d’usci-ta, e a tenersi invece sempre aperta la possibilità di ri-piegare o mutar tattica1950; disposto, pertanto, anzi che acercar di dominare e coartare con mano forte gli even-ti, a lasciarsi non trascinare da essi ma portare con essi,

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come su di un’alta onda, sino al momento giusto in cuipotesse, dolcemente e senza sforzo, farli piegare nel sen-so voluto1951; riluttante a stabilire programmi a lunga sca-denza, ad ipotecare in anticipo l’avvenire1952, e incline in-vece a procedere di passo in passo, di momento in mo-mento, anche facendosi forzar la mano dalle cose, certoadattando i propositi alle circostanze.

Era un uomo che, nei grandi momenti, aveva bisognonon soltanto della pressione dell’opinione pubblica, maanche di trovar fra i colleghi di ministero una qualchepersonalità più forte e decisa, eccitante all’azione, quasipungolo continuo che spingesse innanzi, creando quellaforza delle cose a cui egli non resisteva, e permettendoglid’altra parte di ovattare per così dire il metodo di azione,di smussare gli angoli, di render diplomaticamente accet-tabili agli altri Stati decisioni politiche nel cui fondo sta-va propriamente la forza. Non era l’uomo dalle pronte,decise risoluzioni, dagli improvvisi lampeggiamenti d’in-tuito e dalla energia secca e scattante: a lui, cavouria-no fedelissimo, mancava – come d’altronde a quasi tut-ti gli altri già collaboratori e poi successori del Cavour,più politici per riflessione che per istinto, più per volon-tà propria e virtù di logica e di dottrina che per graziadi Dio1953 – mancava proprio l’audacia del maestro, fat-ta di calcolo freddo sì ma anche di slancio, contessutadel quid imponderabile che fa passare, d’improvviso, dalmomento di puro raziocinio ponderante e soppesante almomento dell’azione risoluta. Ma era l’uomo mirabil-mente adatto alle situazioni già decise dalla logica deglieventi e dalla volontà pronta di qualche altra personali-tà di condottiero: nessuno meglio di lui poteva tradur-re in atto, dal punto di vista della diplomazia, il parti-to preso, proprio per quel suo temporeggiare, dilaziona-re, procedere a grado a grado, non rivelar mai, anzi ma-gari non accettar nemmeno personalmente tutto intero ilprogramma d’azione da altri già pensato e visto, e far an-

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dare invece le cose come se proprio non volontà di uomi-ni, ma un inesorabile fato le sospingesse innanzi – il fato,dinanzi a cui non restava che chinar la testa, a lui comeai suoi colleghi degli altri governi europei.

Sarebbe stato, quindi, fuori posto se avesse dovuto di-rigere la politica italiana in un momento in cui occorres-se osare e giocare gran gioco: era perfettamente a postoper dirigere la politica estera di uno Stato che aveva bi-sogno di calma, di requie, di assestamento e le cui ne-cessità di carattere internazionale erano, per il momento,soltanto di far definitivamente accettare dagli altri i fatticompiuti1954.

L’uomo e il suo stile erano rivelati appieno dall’atteg-giamento ch’egli tenne durante l’estate del 1870. Pre-occupatissimo di fronte ai problemi formidabili che laguerra franco-prussiana poneva all’Italia, deciso a gua-dagnar tempo per evitar decisioni precipitate e quindi,nonostante momenti di perplessità1955 e fin di abbando-no alle pressioni del re alle quali egli non resisteva come ilSella, in sostanza favorevole alla neutralità almeno sino aquando il conflitto non si generalizzasse ad opera altrui,Austria o Russia; contrarissimo sempre ad adottare perla questione di Roma la via della forza, abbandonando «imezzi morali»1956, il Visconti Venosta sino alla vigilia delVenti Settembre fra tutti i ministri fu il più restio all’azio-ne, sperando sino all’ultimo che Pio IX, giovandosi dellestesse esitazioni del governo di Firenze e delle sue pub-bliche dichiarazioni, accettasse di accordarsi con l’Italia,rendendo possibile la soluzione «intermedia» che avreb-be evitato – a vantaggio della stessa Italia – il fatale radi-calismo dell’azione unilaterale italiana1957. Il 3 settembre,nel Consiglio dei ministri, non solo si opponeva con cin-que colleghi all’immediata occupazione di Roma «a tut-to rischio», voluta dal Sella e dal Castagnola, ma anche,da solo, all’occupazione su garanzia di aver consenzientela Prussia; ed il giorno appresso tornava a parlar contro

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qualsiasi proposta di occupazione non diciamo di Roma,ma dello Stato pontificio in genere – sempre all’estremadestra con Govone ed Acton1958.

Alla notizia della repubblica in Francia, anch’egli ri-tenne giunto il momento di «osare»1959: ma il suo «osa-re» era sempre contenuto: ancora l’8 settembre, dichia-rava in un nuovo Consiglio dei ministri che «allo statoattuale delle cose, egli non assentirebbe mai a che si en-trasse in Roma colla violenza»1960; ed infine, dopo esser-si assentato dalla seduta del 13 ed essersi espresso con-tro, il 15, la formula di plebiscito prescelta1961, ancora il17 settembre tentò un supremo sforzo, proponendo che,come ultimo mezzo di conciliazione, il generale Cadornadichiarasse di astenersi dall’entrare in Roma se il conteArnim ottenesse il licenziamento immediato delle trup-pe straniere al soldo del Papa e la loro uscita da Romasenz’armi. La proposta venne naturalmente respinta daicolleghi, e in sua vece si ebbe il telegramma che ordina-va al generale Cadorna di impadronirsi a forza della cittàdi Roma, salva sempre la città leonina1962.

Dunque, un atteggiamento al quale certo non poteva-si attribuire l’andata a Roma, in quel modo: un atteggia-mento conforme a quello di molti, e non dei meno auto-revoli, tra i moderati, e, fra gli altri, assai vicino alla de-precazione con cui Stefano Jacini aveva assistito al VentiSettembre1963. I conservatori lombardi – e l’antico maz-ziniano Visconti Venosta era ora un buon conservatorelombardo – si fermavano su posizioni antitetiche a quel-le del tessitore di Biella. Tanto conservatore, da presen-tare di lì a pochi giorni le dimissioni – salvo a ritirarle,subito dopo – perché non si era inviato immediatameri-te il La Marmora a Roma, come pegno, di fronte all’in-terno e all’estero, di una politica prudente e conciliante,e perché, a suo dire, prendeva il sopravvento il «partitosovversivo»1964.

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Quindi, continue pressioni sui colleghi, urti forti coni più decisi fra essi e innanzi tutto col Sella, sempre nelsenso di frenare, di attenuare, di ritardare; si opponesseal trasferimento della Capitale a Roma, che egli, come ilJacini, dapprima non avrebbe nemmeno voluto1965; si op-ponesse, d’accordo con il Lanza e contro il Sella1966, al-l’immediata andata del re, salvo a trovar poi l’occasionedell’inondazione del Tevere, a fine dicembre, e sfruttarlaallora immediatamente; disapprovasse la presa di posses-so del Quirinale1967; s’inalberasse contro l’emendamentoRuspoli, nel febbraio del ’71, sempre con la minaccia del-le dimissioni, riuscendo poi, anche con l’aiuto di pressio-ni estere, a far ripristinare dal Senato un testo assai piùriguardoso per la Santa Sede1968.

Dunque un atteggiamento nient’affatto rivoluziona-rio, che doveva provocare gli acerbi rimproveri dell’op-posizione, allora e poi, e la nomea sua di reazionario1969.Politicamente, il Visconti Venosta usciva vinto dal con-trasto con la Sinistra, la cui azione era stata la necessa-ria premessa del Venti Settembre, e dal contrasto con ilSella che, nel ministero, aveva finito con l’imporre il suomodo di vedere. Eppure, eppure, diplomaticamente, co-me ministro degli Esteri, di fronte all’Europa, il Viscon-ti Venosta rendeva proprio allora, e proprio per quel suomodo di fare, notevoli servizi al suo paese.

Difenditore aperto e franco delle proprie idee egli po-té sì cercare fino all’ultimo di evitar la forza per risolve-re la questione di Roma, in omaggio al convincimentosuo e d’altri che occorresse risolvere il grosso problemasolo con le forze morali; ma una volta avveratosi l’even-to, nonché recriminarci su, ne divenne deciso sostenito-re, come tanti altri moderati, come lo stesso Jacini, so-prattutto come il Massari, anch’egli avverso all’uso del-la forza, ma una volta entrati a Roma, deciso a rimaner-ci ed a far propria la formula Roma o Morte1970. Era pro-prio nel suo stile, di esser irresoluto molto prima dell’a-

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zione, di pensarci su anche troppo; ma poi, intrapresal’azione, non solo non volgersi più indietro a recrimina-re, ma nemmeno ammettere sbandamenti e oscillazioni.Così, anche egli considerò il Venti Settembre come fat-to irrevocabile e diede la parola d’ordine ai rappresen-tanti dell’Italia all’estero che da Roma il governo italianonon sarebbe mai tornato indietro, che quello era il por-ro unum che sarebbe stato difeso con ogni mezzo, anchecon le armi, e si applicò a diplomatizzare il fatto politi-co rivoluzionario. Questo fatto, era stato voluto da altro;nel governo, il pungolo a lui necessario il Visconti Veno-sta l’aveva trovato nel «macigno» Sella1971, potentementespalleggiato, al di fuori dal Minghetti1972, così come nel’64 l’iniziativa per la Convenzione di Settembre egli l’a-veva accettata dal presidente del Consiglio Marco Min-ghetti, l’uno e l’altro uomini di assai maggior prontezzadi intuizione, il Sella poi non turbato da alcun timore re-verenziale di fronte alla Curia romana, e quindi più sol-leciti ad intendere la fatalità dell’agire, a render ragionealla Sinistra tumultuante, a Mazzini e ai repubblicani mi-naccianti la rivoluzione1973, a cogliere l’occasione offertadagli eventi europei e dal precipitare della situazione inFrancia. Ancora una volta, il lievito rivoluzionario s’erarivelato necessario perché il governo agisse; ancora unavolta s’era resa necessaria una certa situazione interna-zionale perché quel lievito rivoluzionario si traducesse,ad opera del governo, in azione precisa1974. Ma posto difronte ad eventi ineluttabili, che egli stesso avvertì cometali, per l’impetuosa ondata che dalla Sinistra della Ca-mera salì su su fino al governo; messo a contatto con unarealtà creata da altri, il Visconti Venosta si adoperò a tut-t’uomo perché questa realtà divenisse un fatto duraturo,ammesso anche oltre frontiera; e la sua «morbidezza» di-venne allora preziosa per consolidare quel che la «durez-za» dell’altro in seno al governo aveva fatto acquistare1975.

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Allora le sue esitazioni, i suoi dinieghi, il suo conser-vatorismo, le sue preoccupazioni cattoliche servirono luied il paese; tutto quel che aveva inceppato il politico, fudi aiuto al diplomatico1976. Giacché per quel suo mododi pensare egli era proceduto, nelle circolari diplomati-che e nei colloqui con gli inviati esteri a Firenze, propriopasso passo – secondo era nel suo stile – senza mai lan-ciarsi troppo in là, dando costantemente l’impressione,giusta, di non aver speranze, ambizioni esagerate e di es-sere, semmai, di momento in momento, trascinato, quasisoverchiato dagli eventi1977; a’ quali se non poteva resiste-re lui, il moderatissimo Visconti Venosta, chi mai avreb-be potuto opporsi? La tesi ufficiale del governo italiano– entrare nello Stato pontificio, in Roma, per evitar di-sordini, anzi la rivoluzione – in bocca sua appariva, eravera: o accettare quella soluzione, per spiacevole che fos-se, o fare un salto nel buio. Così passo passo, il ministrodegli Esteri poteva trascorrere dalla circolare del 29 ago-sto, dove si parlava «de réaliser cette adhésion moraledes gouvernements catholiques où l’Italie a toujours vule gage le plus efficace d’une bonne solution»1978, e cioè sialludeva apertamente al carattere internazionale degli ac-cordi col Papato, e dal memorandum dello stesso giornoche affermava il mantenimento della città leonina sottola sovranità del Pontefice1979; dalla circolare del 7 settem-bre, dove si rinnovava l’assicurazione circa gli «arrange-ments» con le potenze per tutelare l’indipendenza spiri-tuale del Pontefice1980, alle circolari dell’11 e del 14 otto-bre, che si limitavano a ribattere le accuse di Pio IX sul-la mancanza di libertà di comunicazioni e ad assicurareche, nel caso, egli sarebbe stato perfettamente libero dilasciare Roma1981; soprattutto, alla circolare del 18 otto-bre la quale, annunziando il plebiscito e l’annessione diRoma, taceva non solo della città leonina – ormai sottrat-ta al papa dal mancato accordo, dalla fiera volontà degliabitanti di Borgo e dal loro voto il 2 ottobre, dall’insor-

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gere dell’opinione pubblica contro la «franchigia territo-riale» ancora accennata nell’art. 3 del decreto legge del9 ottobre1982 – ma altresì della adhésion sia pur soltantomorale dei governi esteri, per proclamare invece solen-nemente che l’Italia si imponeva il compito di applica-re l’idea del diritto e della libertà ai rapporti fra Stato eChiesa, e s’impegnava – essa sola – a garantire l’eserciziodell’alta missione spirituale del Pontefice1983.

E anche in seguito non dissimile atteggiamento di pru-denza, calma, avversione ad ogni passo precipitoso. S’e-ra convinto presto che col Papa non c’era nulla da fa-re, almeno per il momento; che pura illusione erano lesperanze di chi già parlava di conciliazione, accordi, ab-bracci tra Pio IX e Vittorio Emanuele. E si astenne co-sì da ogni tentativo. «Ma l’Europa ci biasimerebbe e an-che si interporrebbe se, dopo aver ottenuto il principa-le, offendessimo inutilmente il Papa e i suoi sentimen-ti con imprudenze, con impazienze e con atti violenti.Ci vogliono dunque molti riguardi e molta longanimità etolleranza.»1984. Dalla Europa per il momento, non per-venivano proteste, osservazioni gravi, difficoltà1985, anzigiungevano, semmai, perfino voci di far presto1986: e an-che su questo punto nella sostanza aveva avuto ragionela Sinistra a dire, per bocca del Mancini, che l’ora nonpoteva essere più propizia, dato l’isolamento in cui PioIX s’era cacciato con il dogma dell’infallibilità1987, e cheoccorreva agire fortiter in re. Era proprio la maestà delPontefice romano a distogliere il ministro degli Esteri daogni atto nuovo, soprattutto formale, che potesse troppoimmediatamente e violentemente urtare; il Pontefice nonera ancora un semplice canonico del Duomo di Milano ebisognava evitare ad ogni costo di inasprire inutilmenteil già troppo violento contrasto, portando magari a con-seguenze che potevano essere irrimediabili, quali la par-tenza di Pio IX da Roma, certo urtando ancor più il sen-timento cattolico della popolazione e aggravando i dissi-

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di interni. La questione era non solo di fronte all’Euro-pa; ma, assai più, di fronte alla maggioranza cattolica de-gli Italiani. E certo nel proclamare il suaviter in modo ilVisconti Venosta ebbe allora ragione, anche di fronte al-l’Europa la quale, dopo non molto, cominciò a muover-si, qualcosa disse e cercò di fare e, certo, avrebbe trovatapiù facile occasione ad intervento in una politica italia-na men riguardosa e troppo spicciativa. Meno impulsi-vo, ma più costante nei propositi del Minghetti, che pri-ma aveva fin immaginato Vittorio Emanuele ai piedi diPio IX per chieder perdono e poi insisteva per il trasferi-mento immediato della Capitale, il Visconti Venusta nonvoleva né l’una né l’altra cosa: anch’egli poteva pensaredi averla fatta grossa, ma, appunto per ciò, riteneva oranecessario il guanto di velluto. E quindi mentre non soloil Sella e la Sinistra, ma anche gli amici Minghetti e Nigrainsistevano per il rapido trasferimento della capitale, sìda metter l’Europa dinnanzi al fatto compiuto prima cheavesse termine la guerra franco-prussiana1988, d’accordocon il Lanza egli fece rinviare l’esito formale e finale del-la cosa; che fu gioco anche rischioso, per l’imprevedibili-tà dell’avvenire a pace conchiusa, ma che riuscì e conse-guì il gran risultato di fare assistere l’Europa, ormai fuoriguerra, al tranquillo, sicuro, meditato e annunziato, an-che se non spettacolare ingresso del re d’Italia in Romasedendo il Papa in Vaticano.

Prima del Venti Settembre era stato il Minghetti a pre-mere sull’amico riluttante perché s’andasse a Roma; madopo il Venti Settembre divenne più deciso il ViscontiVenosta. Perché il Minghetti, preoccupato del fatto che«abbiamo cantato su tutti i tuoni che la soluzione defini-tiva della questione dell’indipendenza spirituale del Pon-tefice sarà riservata ad un accordo colle potenze», pen-sò prima ad una convenzione internazionale, e poi consi-gliò di accordarsi in anticipo con le grandi potenze alme-no per ottenere il loro assentimento allo schema di leg-

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ge per le guarentigie, in guisa da impegnarle per l’avve-nire e da restringere e limitare la loro futura azione di-plomatica in materia1989. Pertanto, la circolare del 18 ot-tobre non gli parve sufficiente, come quella che comu-nicava alle grandi potenze le direttive del governo italia-no, ma non era un invito, sia pur larvato, a discutere e atrattare1990. Incertissimo, anzi non favorevole all’ingressocon la forza a Roma, il Visconti Venosta invece non pen-sò poi a far genuflettere Vittorio Emanuele II dinnanzi aPio IX1991, e anche di fronte alle potenze agì con maggiorindipendenza di quanto suggerisse il Minghetti. Con ciò,egli iniziava il suo lungo, ostinato lavorìo di mesi per evi-tare qualsiasi intromissione straniera nelle discussioni in-terne sui rapporti con il Papa e la Chiesa, giungendo cosìal risultato finale: l’invito, nel giugno, alle legazioni este-re di trasferirsi da Firenze a Roma, seguito ancora, all’ul-tima ora, dall’annuncio dell’ingresso ufficiale del re nel-l’Urbe il 2 luglio, con un evidente colpo di sorpresa perforzar la mano ai governi esteri ancor riluttanti a farsirappresentare nella città eterna.

Tutto un lavorìo sottilissimo, che evitando, almenosino al giugno, le formulazioni troppo nette, gli impegnitroppo precisi, riuscì gradatamente – situazione europeapermettendo – ad assicurare la posizione dell’Italia anchedopo la fine della guerra franco-prussiana; a garantirlada ogni recisa e ostile presa di posizione da parte dialtre potenze; a dar l’impressione all’Europa che, sì, eraproprio così, non c’era altro da fare, la fatalità voleva cheRoma fosse riunita all’Italia1992.

Qual migliore prova di questa fatalità del vedere unVisconti Venosta, così moderato, così consapevole del-le responsabilità assunte dal governo italiano di fronteall’Europa, così «dégouté» del modo di procedere del-la Sinistra e della debolezza di alcuni suoi colleghi, e so-prattutto «dégouté» della continua connivenza del Sel-la con la Sinistra1993; un Visconti Venosta, al quale sol-

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tanto – o quasi – era da attribuirsi la relativa moderazio-ne di leggi e provvedimenti vari del governo1994, accetta-re eventi che – lo si sapeva – non aveva voluto, ma a cuinon aveva potuto infine opporre più nulla? Nessuno po-teva dubitare ch’egli, in seno al ministero, non fosse il pa-trocinatore di una politica di moderazione: egli era for-se il solo tra gli uomini politici italiani ad aver larghez-za e precisione d’idee nella questione romana1995 , e il suogran discorso del 30 gennaio, alla Camera, era degno ve-ramente di alto elogio, per l’abilità e per l’eloquenza concui aveva difeso il suo punto di vista1996. Certo, egli man-cava di energia1997; e troppo spesso anch’egli aveva do-vuto rimpiangere i fatti compiuti o un modo di proce-dere contrario alle sue idee e difficile o impossibile or-mai da correggere1998. Certo, anche, era pur sempre, co-me italiano, un «machiavellico»: e talora si poteva so-spettare ch’egli svolgesse una parte preordinata in un co-ro bene concertato1999. Ma era ancora la rocca dell’ordi-ne, la turris eburnea della saviezza in un gabinetto trop-po sovente maneggiato da quel radicale – per Vienna eParigi – d’un Sella2000; e il fatto ch’egli stesso riconosces-se che sarebbero state concepibili transizioni meno bru-sche, soluzioni intermedie per la questione romana, e la-mentasse si fosse ceduto troppo alla piazza2001, rendevatanto più difficile obbiettare all’ultima parte del suo ra-gionamento, che cioè la rapida marcia dei fatti esteriori(guerra franco-prussiana) avendo accelerato la soluzionein senso estremo della questione di Roma, era ora impos-sibile tornare indietro, e non c’era da pensare ad alcunatransazione. Tutto quel che si poteva fare era avvolgere ilPapa di onori e premure, farlo sentire pienamente liberosul terreno spirituale ed evitare ogni attrito: e su questopunto il ministro italiano era pronto a tener presenti i de-sideri delle altre potenze, ad accoglierne pareri, a preve-nire perfino le intenzioni altrui, a parlare lui stesso dellautilità di uno scambio continuo d’idee fra i vari governi.

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Così per il trasferimento della capitale: poiché gli even-ti avevano precipitata la soluzione, non rimaneva che su-birne le conseguenze, pur procedendo con prudenza eriguardi2002.

Eran discorsi, i suoi, fatti assumendo quel tono confi-denziale ed amichevole che tanto aggrada all’interlocu-tore, facilmente convinto da ciò di essere nelle buonegrazie del ministro e di aver libero accesso agli arcanaimperii2003; con ammissione di punti di vista altrui, con-fessione anche di qualche cosa che si sarebbe potuto, for-se, evitare se... se la marcia degli eventi non fosse statacosì rapida, pressante. Les événements, la forza delle co-se e delle circostanze: questo il fato che incombe, talo-ra velatamente, talora espressamente accennato, dietro acui scompaiono i singoli uomini. «Quando una forza su-periore domina gli avvenimenti, rivoltateli come volete,riusciranno sempre allo stesso costrutto.»2004. Uno degliatouts del giuoco diplomatico del valtellinese era proprioquesto: e il bello si è ch’egli credeva in quel che diceva.

Un giuoco, dunque, tutto di finezza, di chiaroscuri,di sottintesi, di voluto amichevole abbandono confiden-ziale, come se l’interlocutore più che il rappresentantedi uno Stato estero fosse un amico2005: giuoco sorret-to ammirevolmente, quando ne fosse il caso, anche daun’altra qualità che il Visconti Venosta aveva serbata deisuoi anni giovanili, quando sembrava l’angelo del dolo-re, il dono prezioso cioè «de s’émouvoir à propos, sansse compromettre»2006.

Certo è, che tra l’autunno del ’70 e la primavera del’71, situazione internazionale permettendolo, quel giuo-co riuscì e fu prezioso per il paese; e consisté nel pro-cedere passo passo «dans une voie déjà tonte jalonnée,sondant prudemment le terrain, n’osant presque plus sefier à la parole écrite et préférant à beaucoup près agir endehors par des actes de législation intérieure ou par desinsinuations d’un caractère personnel et intime.

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Il faut cependant convenir que ce cabinet si peu éner-gique aux yeux des impatients, a fait preuve de beaucoupd’habileté dans l’exploitation des circonstances dont leconcours lui a été si singulièrement favorable. Aprèsavoir rétréci successivement le cercle de ses promessesau fur et à mesure que la nécessité en devenait moins im-périeuse (les circulaires du chev. Visconti-Venosta et lesdébats parlementaires en font également foi), le gouver-nement a fini par chercher dans le transfert de son siè-ge I’engin capable de forcer la main à l’Etranger. Unefois assuré de l’adhésion des Puissances à son timide pro-spectus du 8 juin dernier le Ministre des affaires étrangè-res désira naturellement profiter de l’occasion pour fai-re paraître le Roi à Rome entouré du corps diplomati-que... Si ce but n’a pas été entièrement atteint, si lesdeux grands Etats catholiques n’ont pas voulu donnerà la présence de leurs Envoyés la couleur d’une démon-stration pouvant être interprêtée comme une consécra-tion d’un principe, ce n’est point faute de manoeuvressubtiles ou même de brusques surprises de la part de latactique italienne»2007.

Questo quadro, rapidamente ma bene sbozzato dal-l’incaricato d’affari austro-ungarico, conte Zaluski, il 22luglio 1871, era veramente l’esatta riproduzione e ad untempo il giusto elogio dello stile diplomatico del ViscontiVenosta e della tattica seguita nell’inverno 1870-71.

Non certo un grande uomo di Stato2008; ma un abi-le, esperto, calmo negoziatore, un diplomatico di altascuola, un ministro dall’ampia veduta europea che sape-va rendere ottimi servigi al suo paese. «L’accidia che lodomina in tutto quello che fa»2009, si trasformava allora ineccellente arma tattica; il motto con cui gli avversari de-signavano la sua politica, inertia sapientia2010, contro l’in-tenzione certo di questi avversari diventava, in quelle cir-costanze politiche, un elogio. Pochissimi sapevano, co-me lui, voir venir, secondo si diceva nel linguaggio del-

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la vecchia diplomazia: lasciar cioè che le cose si svolges-sero secondo voleva la loro forza interna; offrire buongiuoco allo «effetto salutare» del tempo, chiamato a farda collaboratore com’egli amava spesso ripetere2011; e at-tendere, attendere che in tale svolgimento e con quei sa-lutari effetti si presentasse l’attimo favorevole per inseri-re un buon negoziato, un accordo confidenziale, o alme-no una trattativa amichevole, traverso cui portar dolce-mente le cose verso il fine desiderato e convogliar le ac-que, fin lì magari irruenti a precipizio, verso un placidostagno dove svanisse anche l’ultimo ribollir di schiuma.

Siffatto stile d’azione e le caratteristiche di metodo tat-tico apparentavano il nostro uomo alla diplomazia classi-ca, nel senso europeo della tradizione, da Kaunitz e Met-ternich in poi. Ma, anche lasciando da parte stile e me-todo per addentrarsi più a fondo, nel mondo ideologicodel Visconti Venosta, anche in questo colpivano, subito aprimo tratto, alcune sostanziali affinità con la buona tra-dizione dalla Restaurazione in poi: e precisamente colpi-va il senso «europeo» della politica, la convinzione cioè,assoluta e sincera, non solo che non esistevano problemiisolati nel mondo moderno, perché tutti si concatenava-no l’un l’altro in guisa da non poter essere visti e risoltiseparatamente, senza profonde reciproche ripercussioni– era questo un dato di fatto, cui nemmeno i rivoluzio-nari dello status quo, gli amanti di novità ad ogni costoavrebbero potuto negare; bensì – e qui era l’importan-te – che, appunto per tale fatale concatenazione di even-ti, la libertà d’azione di ogni potenza doveva, ad un certopunto, esser limitata dal senso della «convenienza» gene-rale. La quale convenienza generale aveva trovato e con-tinuava a trovare la sua espressione nel cosiddetto «equi-librio» europeo e nel «concerto» delle grandi potenze:due elementi, o meglio, un solo elemento, poiché l’una el’altra cosa ormai si identificavano, da quando, con Ca-stlereagh e Metternich, nel 1814, la garanzia dell’equili-

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brio era stata appunto cercata e additata nell’accordo frale grandi potenze, condizione essenziale per la libertà ela sicurezza dell’Europa e la salvaguardia della pace.

Non solo, dunque, egli pensava «che le nazioni non vi-vono isolate nel mondo, la politica estera e la politica in-terna di un grande Stato toccano, per le loro naturali con-seguenze, per le loro naturali relazioni, a quel complessodi interessi, e di opinioni che si intrecciano nel consorzioeuropeo», ch’era ancora semplice constatazione di fatto;ma – augurio e programma – opinava che l’isolarsi da-gli altri e la mancanza di solidarietà non fossero in gene-re per le nazioni «un buon regime morale»2012. E, in par-ticolare, l’Italia, che non poteva separare i suoi interessi«dagli interessi generali dell’Europa»2013; doveva diventa-re, similmente all’Inghilterra, «un potere pacifico e pon-deratore nel consorzio delle nazioni», operando in modoche anche grazie al governo di Roma venissero tutelatigli interessi «della libertà e dell’equilibrio d’Europa»2014.Due termini, questi ultimi, indissolubili2015 e proprio so-prattutto per l’Italia, uno di quei paesi «che non posso-no farsi il loro posto e svolgere il proprio avvenire che inun’Europa dove esista un certo equilibrio di forze»2016.

E poiché libertà ed equilibrio d’Europa sono terminiindissolubili, ecco il timore per l’egemonia di questa oquella nazione; ecco l’avversione ai metodi e ai propo-siti alla Napoleone I2017, il genio maligno dell’Europa, ilSatana dinnanzi a cui occorre pronunziare un energicovade retro, avversione caratteristica di tutta la diploma-zia europea dal Metternich fino al nostro, mentre inve-ce al Bismarck quei metodi e almeno parzialmente anchequei propositi venivano largamente attribuiti; ecco, per-ciò, la diffidenza mai completamente sopita verso la Ger-mania bismarckiana che, a lasciarla fare, avrebbe potutofinire col trasformare l’Europa in un feudo suo e dellaRussia2018.

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Perfino il principio di nazionalità egli voleva, ora, li-mitato nella sua applicazione pratica, sì che non diven-tasse causa di incendio generale, il senso degli interessi,delle convenienze generali, il senso «europeo» sorgendoa frenare quell’amor di patria ch’era stato l’ideale esclusi-vo e prepotente dei suoi giovani anni di cospiratore e checontinuava certo ad essere una viva fiamma interiore2019.

Anni, veramente, ormai assai lontani: ché l’europei-smo dei Visconti Venosta ministro era diventato total-mente diverso dall’europeismo del Mazzini, per rientrarnell’europeismo de’ moderati italiani, così simile com’e-ra, per esempio, a quello del Bon Compagni e all’eu-ropeismo dei politici e diplomatici della Restaurazionee della Monarchia di Luglio. In fondo in fondo, pro-prio questo, secondo s’è già avuto occasione di osserva-re, costituiva un legame inavvertito fra il nostro, ribellene’ suoi begli anni di studente all’Austria metternichiana,e il Metternich.

Senonché, se il rispetto della formula dell’equilibrioeuropeo e del concerto delle potenze riconduceva dalVisconti su su verso i diplomatici ed i politici del 1814-15e della Restaurazione, verso tutt’altra fonte riportavanaltri motivi fondamentali del suo pensiero, anzi, il motivofondamentalissimo, ch’era quello della libertà.

Sì, occorreva salvaguardare l’equilibrio europeo: manon per soffocare, con la forza, le intime aspirazioni deipopoli e per imporre regimi di autorità, bensì perché solosalvaguardando, con l’equilibrio, la pace, era possibilesalvare il grande ideale dell’ora, l’ideale della libertà.Qui, le posizioni erano capovolte, rispetto, poniamo, aquelle di un Metternich, e diventavano, invece, simili aquelle di un Gladstone: come per il Gladstone, la stessapolitica estera doveva essere, anzitutto, senso e trionfodella libertà2020.

Era, senza dubbio, una libertà che aveva i suoi limi-ti di applicazione; che doveva esprimersi ad opera di un

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partito intelligentemente conservatore, atto a «mantene-re l’ordine, difendere l’onore, la moralità e la sinceritàdelle istituzioni liberali», tale insomma che per esso si at-tuasse il programma del progresso liberale e della con-servazione sociale.

Ma entro tali limiti la fede nella libertà era senza mac-chia e senza paura: di quella libertà «che non è già unospirito di intolleranza o di violenza rivoluzionaria, mache si ispira al rispetto di tutti i diritti»2021. Conservatoresì, e avversissimo ai radicali i quali, oltre a tutto, con laloro mancanza di misura e di stile trasformavano i comi-zi elettorali in un arringo di ingiurie e di oltraggi, rinfo-colando nelle moltitudini «un sentimento deleterio di ac-cusa e di sospetto non solo contro uno o più uomini, macontro tutte le classi che governano»2022; ma non reazio-nario, non vagheggiante la limitazione del governo parla-mentare e il ritorno allo Statuto, come voleva il Sonninodi fine secolo, tanto più ardito del Visconti Venosta ver-so il 1880 e tanto più conservatore di lui vent’anni dopo.E a chi, come Carlo Morini, deplorava il regime parla-mentare sostituitosi a quello costituzionale2023, il ViscontiVenosta rispondeva che l’Italia si era fatta con la libertàe si poteva mantenere solo con la libertà. Se si fosse do-mandato al conte di Cavour «con quale regime egli go-vernava gloriosamente il Piemonte, egli le avrebbe rispo-sto col regime parlamentare... io non so quale sarà l’av-venire del governo parlamentare, non so in quali formepolitiche si adagieranno le società venture. Ma se il go-verno parlamentare è un governo difficile, se ha, cometutte le cose umane, molte imperfezioni, se riflette col-le buone, anche le cattive qualità del carattere naziona-le, esso è però fino ad ora, nelle condizioni almeno dellamonarchia costituzionale, il sistema che guarentisce me-glio le pubbliche libertà e rende un paese che sappia gio-varsene, padrone de’ suoi destini. Io credo che, in Italia,il regime parlamentare può dare al governo, per la tute-

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la dell’ordine e per risolvere i conflitti che possono inte-ressare l’unità nazionale, una forza ch’esso non trovereb-be in una Assemblea dotata soltanto di limitata franchi-gia rappresentativa»2024. Inconvenienti? Certo ve n’era-no: e come il Minghetti, come il Jacini, anche il Viscon-ti Venosta ne indicava l’origine nel coesistere di gover-no parlamentare e di accentramento amministrativo, dueistituzioni che non potevano associarsi senza corromper-si reciprocamente. «Noi abbiamo il suffragio universa-le, il regime parlamentare e l’accentramento amministra-tivo. Nella miscela di questi tre elementi nasce e pro-spera la genia dei mestieranti della politica.» Ma eranoguai rimediabili con una profonda riforma dell’ordina-mento amministrativo, senza toccare minimamente il re-gime parlamentare, palladio della libertà. Senza libertà,finita l’Italia.

Tanto forte, continua, aperta tale fede da trasfigura-re ad un certo punto la figura del Visconti Venosta, fa-cendo apparire al disotto del diplomatico esperto e abi-le, una coscienza fermissima e una incrollabile soliditàdi convinzioni; e così egli, che per il suo stile era de-gno di entrare nell’olimpo dei diplomatici puri, acqui-stava d’improvviso un ben diverso rilievo e diveniva so-prattutto una personalità dalla netta e ferma figura mo-rale. Il contenuto, diciamo così delle idee del ministrodegli Esteri rialzava verso assai più alte sfere il suo me-todo, dava un tono insospettato al suo stile; e quest’uo-mo, tutto finezza, sfumatura, senso del limite, tutto ac-comodamento e accordo, disposto a temperare concilia-re superare i risentimenti di parte2025, quest’uomo, quan-do si toccassero i princìpi, s’irrigidiva, diventava duro etestardo, non concedeva più nulla2026, con una fermezza econtinuità di propositi di cui, per avventura, altri non l’a-vrebbe creduto capace. Il suo mondo morale era moltosolido, ed era anche permeato di una venatura sentimen-tale, che attenuava d’assai la secchezza del puro calcolo

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della ragione; onde, come non dimenticò mai la Franciadi Solferino, attirandosi una generale nomea di francofi-lo o, in bocca agli avversari, «tinto di pece francese»2027,così, su più generale piano, non lasciò mai scalfire, nem-meno di lontano, la fede che era stata della sua giovinez-za e che continuò ad essere dell’uomo maturo.

Libertà, pace, civiltà: tutte queste per lui non erano«sonore parolone», foggiate dagli Inglesi ad uso dellastupidità dei continentali, secondo affermava il suo mag-gior collega, il signore di Bismarck2028, così come l’Eu-ropa non era semplicemente la notion géographique delcancelliere di ferro. E proprio col duro e scettico prin-cipe di Bismarck dovevano scontrarsi i valori morali egli affetti del Visconti Venosta. Non fu un mero casofortuito che, nel settembre del ’73, a Berlino, laddove ilMinghetti riusciva ben accetto al cancelliere germanico,il valtellinese, invece, gli garbasse poco2029; e la antipa-tia era pienamente ricambiata dall’italiano, il quale con-fessava ad un amico essere il Bismarck «un compagno dipasseggiata che non vorrei avere sempre»2030. Tutto, neidue uomini, era in antitesi: dallo stile diplomatico alleidee, dal metodo agli scopi.

Già nel ’70, quando la politica del Bismarck trionfavagrazie alle armi di Moltke, già allora il nostro valtellinese– e la qualifica datagli dal Bülow di cauto e calcolatorequi soprattutto appare singolarmente incompleta – avevapubblicamente affermata, a Milano, la sua fede nelleforze morali: certo, esser sempre possibile rompere «ilvincolo di questa potenza morale dell’opinione pubblicaeuropea con un appello paro e semplice alla forza»;la forza, semplifica molte questioni in politica estera.Ma fra i tanti meriti di Cavour il minore non esserecerto quello di aver dato al nostro Risorgimento unatradizione sinceramente liberale, «d’una politica che hasempre cercato in suo appoggio le grandi forze moralidell’opinione»2031.

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La nota polemica era espressamente rivolta controquegli italiani della Sinistra i quali ritenevano di poteragire di fronte al Papa, dopo il Venti Settembre, comecon un qualsiasi parroco o cappellano di campagna, sen-za riguardi ai sentimenti del mondo cattolico; ma tocca-va più su dei Crispi, Oliva e compagni, che erano poi gliammiratori ed esaltatori del metodo bismarckiano del-la forza, e, al disopra della questione romana stessa coin-volgeva tutti i problemi europei, anche quello della guer-ra franco-prussiana e delle pretese tedesche sull’Alsazia-Lorena, le pretese che in quei giorni erano combattutenella stampa da compagni di fede del Visconti Venosta,il Bonghi nella Perseveranza e nella Nuova Antologia, ilDina nell’Opinione. Il monito toccava a nuora, ma suo-cera poteva intendere; e, comunque, era un monito incui si esprimeva tutto un modo di concepire la vita e lapolitica agli antipodi del modo del cancelliere prussiano.

In forma indiretta e velata; ma insomma in quel di-scorso riappariva chiara, a chi sapesse intendere e istituirparagoni fra quanto succedeva in Italia e quanto succe-deva in Francia, l’antitesi fondamentale fra il movimen-to nazionale italiano, liberale, e il movimento nazionaletedesco.

Vincolo della potenza morale dell’opinione pubblica;per nessun motivo, quindi, anche in casi gravi della vi-ta nazionale, rinuncia sia pur momentanea ai princìpi li-berali e uso dei mezzi reazionari, dirà egli più tardi, aproposito dei rapporti col Papato2032, proprio quando ilBismarck stava per iniziare in Germania il Kulturkampf,cioè l’uso della forza nei problemi ecclesiastico-religiosi:quale antitesi coi sistemi del cancelliere germanico, tantomaggiore uomo di Stato, ma dal tanto più angusto oriz-zonte ideale!

Veramente, in questo il Visconti Venosta era bene,con il Bonghi, il rappresentante più schietto e immedia-to del moderatismo italiano, così ripugnante di fronte al

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«bismarckismo», che aveva fatto scendere la moralità eu-ropea «al più infimo livello, a cui sia mai giunta ne’ tem-pi anteriori», onde il nuovo sistema, da lui iniziato, do-veva aver per motto «il ferro e il fuoco»2033. E se non fos-se la differenza di statura, verrebbe fatto di accostarlo,come spirito, al Gladstone, col Bismarck il maggior uo-mo di Stato dell’Europa d’allora, ma col Bismarck in to-tale, irrimediabile antitesi di idee e di princìpi: al Glad-stone, caro ai moderati italiani per l’altezza e serenità delsuo sentir liberale, la intatta «verginità dell’animo»2034, laprofondità del sentimento cristiano, pura fonte peren-ne da cui scaturiva di continuo una tranquilla forza, fi-dente nella giustizia, e per l’amore alla libertà, posto abase della stessa politica estera britannica. Anch’egli, ilGladstone, anzi egli soprattutto inviso al Bismarck chefinì per odiarlo di un odio tenace, rabbioso, implacabi-le, e da quest’odio si lasciò ciecamente trascinare, fra l’80e l’85, anche contro quel che avrebbe dettato la fredda-mente raziocinante ragion di Stato a lui cara; e a sua vol-ta l’uomo di Hawarden ricambiava di non minor anti-patia il cancelliere di ferro, ch’era il «diavolo», s’è verol’aneddoto che si racconta, dell’esclamazione sfuggita albritannico dinanzi ad uno dei quadri in cui il Lenbachaveva ritratto il gigantesco e duro Junker prussiano2035.Due mondi in totale antitesi, quello della libertà e quellodella forza; e il Visconti Venosta apparteneva al mondodi Gladstone. Bismarck, con il suo fiuto, lo intuì subitoe collocò il valtellinese nella schiera dei reprobi.

Quest’antitesi, apertamente riconosciuta, rimase nelfondo dell’animo al Visconti Venosta, e suggerì la dif-fidenza, mai sopita del tutto e pienamente ricambiata, al-lora e poi2036, di fronte al governo di Berlino, e permeò,talora anche inconsapevolmente, l’azione di governo delnostro, il quale non mollò mai né retrocesse d’un palmodai suoi princìpi, affrontando anche, per essi, nel ’74-75,il palese raffreddamento delle relazioni con Berlino. E

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in questo appunto dietro al diplomatico Visconti Veno-sta, all’uomo tutto duttilità, apparve, come d’improvvi-so, una figura assai diversa, un Visconti Venosta duroanche lui, alla Sella, come un macigno, fermissimo nelculto dei suoi ideali2037: un Visconti più duro e intrattabi-le, al riguardo, dello stesso amicissimo suo, il Minghetti,uno dei maggiori campioni del liberalismo italiano e pu-re, con tutto il suo liberalismo e le sue teorie e i suoi scrit-ti, meno ostile, anzi gradito al Bismarck2038 e meno diffi-dente verso il Bismarck, non perché credesse meno nellalibertà, ma perché era più malleabile lui del diplomaticoVisconti Venosta.

In verità, mentre il valtellinese si appellava sempre al-l’esempio e ai precetti del conte di Cavour e affermava dicontinuarne, con più modeste forze, la politica2039, in ve-rità in lui, come in parecchi altri dei suoi amici, segnata-mente nei lombardi, c’era ad un tempo qualcosa di me-no e qualcosa di più che nel gran conte: o meglio, c’e-ra un Cavour mescolato con un d’Azeglio. Vogliamo di-re che mentre in questi uomini era passata, pari pari, l’e-sigenza liberale del Cavour, c’era tuttavia un desiderio,anzi un bisogno di moralità della vita politica, una mora-lità per così dire casalinga, simile a quella del privato infamiglia, che li riavvicinava, per questo lato, al d’Azeglio.L’esigenza liberale, altissima, non aveva tuttavia impedi-to al Cavour di essere spesso sbrigativo nei mezzi, perfi-no per combattere i mazziniani2040. Grande uomo di Sta-to, il Cavour aveva fatto quel che tutti i grandi uomini diStato avevano sempre praticato: e cioè non aveva troppoesitato di fronte ai mezzi, e non s’era trattenuto dall’agi-re per scrupoli morali o per le considerazioni di puro di-ritto, care ai «Puritani parlamentari»2041. Ma per alto cheil fine fosse, un d’Azeglio, galantuomo innanzitutto2042,non avrebbe mai approvati certi mezzi, anch’egli persua-so, come il Ricasoli, che il fine onesto non purifica i mez-zi se non siano onesti2043.

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Travagliato da preoccupazioni morali e d’ordine edu-cativo, il d’Azeglio aveva sempre più accentuato le suetendenze venate anche di rimpianti piemontesi di fron-te all’Italia nuova, non esenti da una certa irritazione difronte a idee e sentimenti che egli non riusciva più a com-prendere, spesso piuttosto grettamente moralistiche chevividamente morali2044. E se fin da quando era politi-co militante aveva creato il mito del re «galantuomo»,coniata l’effigie di prammatica di Vittorio Emanuele II,ch’era invece caratteristica del modo di sentire di Mas-simo d’Azeglio, più tardi si assunse il compito di peda-gogo nazionale2045 e proclamò che fatta l’Italia occorrevafare gli Italiani.

Era un po’ come il rendere scolastico l’alto insegna-mento morale del Manzoni, che era la fonte ultima a cuis’abbeveravano questi uomini, lo specchio e il modello diun’alta e pensosa umanità che dalla profondità del sen-tire religioso traesse la forza dei convincimenti e la dirit-tura dell’azione; era un po’ un manzonismo morale nondissimile del manzonismo letterario, anche se di quest’ul-timo più serio e valido nelle sue ragioni.

Ora, il desiderio di far sempre cose da galantuomo,di agire con lealtà anche in politica e perfino in poli-tica estera, in quella parte cioè, dove più spesso e conpiù eccitanti lusinghe il Maligno tenta la coscienza de-gli uomini2046, s’era trasferito dall’autore dei Ricordi inparecchi altri dei moderati; e dopo aver ispirato l’one-sto, onestissimo e d’azegliano La Marmora2047, ispiravaora anche il Visconti Venosta. Era un’influenza, quelladel d’Azeglio, meno aperta e riconosciuta, meno facile apercepire anche, della raggiante, solare influenza del Ca-vour; e passava per lo più inavvertita allora, com’è pas-sata poi inavvertita ai posteri. Ma non per questo erameno effettiva: e basterebbe, a provarlo, l’atteggiamentodel Jacini, del Casati, dell’Alfieri di Sostegno nei riguar-

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di di Roma capitale, che si ricollegava direttamente agliscritti e discorsi del cavalier Massimo.

Che era un altro segno di riconoscimento tra i mo-derati classici, in cui il gruppo d’azegliano dava la ma-no ai Toscani alla Ricasoli, venuti fuori da un ambientetutto fermento morale e religioso e quindi risolutamentedecisi a far della morale pubblica tutt’uno con la mora-le privata2048; e l’ala sinistra della Destra, immune da re-miniscenze d’azegliane o lambruschiniane: siccome ap-pariva evidente solo che si raffrontassero uomini comeil Visconti Venosta e il Ricasoli da una parte, e il Sel-la dall’altra, vero erede questi della tradizione cavouria-na in tutto, nel sentir liberale ma anche nella risolutez-za, audacia e spregiudicatezza d’azione politica, lui chepersonalmente era una delle più alte e rigide figure mo-rali che la storia d’Italia abbia conosciuto2049. Abbastan-za significativo, che tra il Visconti Venosta e il Sella ri-tornassero di frequente quei periodi di cattivi rapportiche nel Cavour-d’Azeglio erano stati continui; e tocca-va agli amici Dina e Artom cercar di comporli ora, comeuna volta era toccato al Castelli far da mediatore fra Ca-vour e d’Azeglio, studiandosi che il primo comportasseciò che vi era a volte di troppo rigido e a volte di trop-po floscio nella natura del secondo, e che il d’Azegliosi adagiasse a ciò che v’era di troppo spigliato e subita-neo nella natura del Cavour2050. Significativo, che i rigi-di della Destra anche alludendo al Sella, nella questionedi Roma, deplorassero quella scuola piemontese, di mo-rale larga e alquanto ipocrita, peggioratrice della scuolacavouriana, «che prese a largheggiare in fatto di mora-le, e disprezzò i nobili tipi morali dei Balbo, degli Alfieri(Cesare), dei d’Azeglio, che pure amavano l’Italia quantochiunque»2051.

Così, sotto alla veste del diplomatico venivano fuorinel Visconti Venosta la serietà e sostanzialità delle pre-occupazioni morali. Anch’egli, al par del La Marmora,

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non avrebbe mai ammesso e nemmen pensato che talo-ra occorre «fare anche brutte cose, se no, non si riescedavvero in questo mondo infame. A corsaire corsaire etdemi», e non si sarebbe certo sognato di tenersi accantopersone adatte ad incarichi «sporchi»2052; anch’egli nonavrebbe mai ammesso il precetto del cardinale di Riche-lieu che altra cosa è essere homme de bien selon Dieu e al-tra selon les hommes2053; anch’egli restava incrollabile suldiniego dei due Vangeli, delle due morali, la pubblica ela privata2054, niente affatto disposto a perder l’anima perfare il ministro degli Esteri.

Non che fosse un moralista astratto e un visionario.Tutto all’opposto, aveva gli occhi ben aperti sulla realtà;e non sognava i regni di Utopia e non s’immaginava re-pubbliche o principati quali dovevano essere, ma li vede-va quali erano, onde, un giorno, al De Laveleye che pre-dicava l’inutilità delle lotte armate fra gli Stati e auspi-cava l’avvento di una giustizia internazionale, essendo laprosperità dell’uno condizione necessaria della prosperi-tà dell’altro, il nostro rispondeva sì sì, voi dite parole d’o-ro, mi par di ascoltare Cobden e Henry Richard, le vostreparole sono la ragione stessa, ma, per favore, date un’oc-chiata alla situazione dell’Europa e vedrete un campo ar-mato. Il vostro ragionamento presuppone popoli pacifi-ci e ragionevoli; e il mondo sarà forse così alla fine delXX secolo: ma intanto cerchiamo di non farci divorarenel secolo XIX2055.

Soltanto, la realtà del Visconti Venosta, come quelladei moderati tutti, comprendeva anche le forze morali ei grandi motivi ideali, i princìpi, senza dei quali la lottapolitica sarebbe apparsa meccanicismo tattico di effime-ro valore; ed era dunque una realtà ben diversa da quelladei neorealisti osannanti a Bismarck. Era una realtà cheteneva gran conto dell’opinione pubblica, dello stato d’a-nimo del paese: l’appello del Visconti Venosta alle forzemorali non era un mero espediente propagandistico, ma

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rispondeva al convincimento più profondo. Tutto il suoatteggiamento nella questione di Roma, nei due mesi de-cisivi dell’agosto e settembre 1870, derivava da questa ra-dicatissima persuasione, che occorresse risolvere il pro-blema evitando ad ogni costo la violenza2056, ed evitandoaltresì di porre gli interessi italiani in contrasto con quel-li generali dell’Europa «per esercitare un’azione isolataora subdola, ora violenta»2057; e poté essere ingenuo, e si-curamente, senza la provvida violenza della Sinistra nonavrebbe risolto nulla: ma era un atteggiamento che de-rivava da un’alta preoccupazione e che avrebbe poi as-sicurato linea e dignità all’azione successiva di governo.Tutta la sua politica nei riguardi del Papato dopo il Ven-ti Settembre, continuò ad ispirarsi al principio dei mezzimorali e a rifuggir dalla forza, anche quando a spingerlosulla via della forza fosse non più solo la Sinistra in Par-lamento ma il principe di Bismarck; e si mantenne fermonella convinzione che alla fine della lotta con la Chiesasi sarebbe potuto giungere soltanto mantenendo quellostesso atteggiamento liberale che moderati e non mode-rati, Destra e Sinistra eran concordi nel volere in tutte lealtre questioni interne, ma che la Sinistra avrebbe volu-to ripudiare di fronte al Papato2058: e fu gran vanto, suo edel governo italiano, l’aver evitato un Kulturkampf italia-no a cui incitarono per anni, con sempre crescente acri-monia, gli uomini della Sinistra in Italia e, dall’estero, igovernanti di Berlino.

Tale, dunque, l’uomo al quale era affidato il compi-to di guidare la politica italiana nei suoi rapporti con glialtri Stati, di continuare – secondo egli stesso diceva –il programma cavouriano, e cioè «quella politica libera-le e conservatrice che vuole procedere verso l’avvenire,ma procedere con sicurezza, che intende proporzionarei mezzi al fine ed il fine ai mezzi»2059. E procedere con si-curezza significava, secondo un aureo precetto del granconte, che il valtellinese ricordava nel discorso di Tirano

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«non fare delle grandi questioni colle piccole questioni.Le questioni secondarie bisogna trattarle certo in mododa mantenere illesi i diritti e la dignità della nazione, per-ché non è mai questo un interesse subalterno, ma bisognatrattarle con calma, mantenendole al loro posto e nel-la misura dell’interesse reale che vi è impegnato»2060; si-gnificava perseguire cioè una politica che non devia dal-la sua strada, che non perde di vista il suo scopo, chelo raggiunge, ma con moderazione e calma, senza ecci-tare fuor di proposito la suscettibilità nazionale «per farcredere che la vita politica degl’Italiani si tesse di sopru-si sopportati e di offese sofferte», senza cogliere ogni oc-casione per sospettare che la dignità nazionale sia statacontestata, secondo accade presso i popoli non seri néveramente grandi2061. Nulla più dell’incomposto clamo-re, dell’agitazione irrequieta, degli alti lai pubblici urta-va il senso di dignità nazionale che il Visconti Venostaaveva vivissimo e che, con la sua ritrosia alle declamazio-ni e il suo contenuto pudore, era veramente un orgoglionazionale assai più alto di quello dei molti vociferanti2062.Perché, alieno dal sollevare fuor di proposito questionidi dignità nazionale, egli riteneva che, una volta solleva-te, bisognasse risolverle, accettando tutte le conseguenzepossibili dell’azione intrapresa – cioè, anche la guerra2063.Sempre con quel suo caratteristico modo d’agire, pensar-ci molto su prima, ma poi, una volta tratto il dado, nondeflettere più a nessun costo.

Una politica, dunque, liberale ed europea, pacifica efondata sulle forze morali; una politica attenta alla digni-tà della nazione, e pur moderata e conciliante, che trat-tava gli inevitabili incidenti con calma «considerandolinel loro vero valore, non colla passione e coi puntigli»,e rifuggiva dal trasformare i piccoli incidenti in grandiquestioni per non «creare quelle situazioni che s’impon-gono come una fatalità, senza che poi sia quasi possi-bile spiegarne la genesi»2064. Una politica, di cui il mi-

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nistro degli Esteri teneva sempre e saldamente le rediniin mano, senza lasciarsi trascinare dalle suggestioni del-l’uno o dell’altro dei suoi agenti all’estero, e soprattuttosenza lasciarsi rimorchiare e trar fuori carreggiata dal fu-ror consularis2065, sempre disposto a veder l’universo con-centrato nella sede della propria giurisdizione e la salvez-za del proprio paese dipendere dall’energico comporta-mento magari per una rissa in una bettola fra nazionali estranieri. Una politica, infine, su cui anche i clamori del-la stampa non avevano la minima presa: i giornalisti del-l’avverso partito alzavano alte grida di indignazione, e ilministro lasciava dire e tirava innanzi per la sua strada.

Quanto prezioso fosse nella condotta degli affari que-sto non voler fare con le piccole delle grandi questioni, eil non complicare le già gravi con puntigli superflui e va-nità formali, il ministro degli Esteri magari a rimorchio diun console troppo eccitato, si poté poi rimpiangere piùtardi: e prima ancora di Crispi, nella questione di Tunisi.

In completo accordo intellettuale e morale con il suocapo era il nuovo segretario generale del ministero de-gli Esteri, Isacco Artom, che il Consiglio dei ministri dei30 novembre 1870 aveva elevato all’alta carica in sostitu-zione del Blanc, nello stesso momento in cui faceva delLuzzatti il segretario generale all’Agricoltura, Industria eCommercio2066.

Anche lui, uno della scuola cavouriana e di direttis-sima origine, segretario intimo e collaboratore fidatissi-mo del gran conte2067; anche lui, fermamente liberale edeciso nel voler salvare la tradizione cavouriana controle tendenze alla Bismarck2068; anche lui, con quella pun-ta di conservatorismo che era nel Visconti Venosta, e av-verso alle impazienze, agli scatti, alla politica da rompi-tutto. Legato da viva amicizia personale col suo mini-stro, sì da esserne l’alter ego2069, esempio raro di quel chevolesse dire l’affiatamento fra segretario generale e mini-stro, l’essere come due in uno ed uno in due2070. Spiri-

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to acuto e sottile, non brillante ma solido2071, colto, mol-to bene al corrente di tutta la politica ecclesiastica italia-na dal ’60 in poi, già autore di un progetto di istruzioniper i negoziati con la Curia romana nel febbraio 18612072,e nel ’75 sceso personalmente a polemica con il Treitsch-ke attorno alla legge delle Guarentigie2073, l’allampana-to Artom2074 sostenne il peso massimo delle discussioniinternazionali sulla questione romana: sua la redazione,con poche varianti del Visconti Venosta, dei memorialie dispacci destinati a giustificare all’estero l’atteggiamen-to del governo italiano2075. Un personaggio, dunque, diprimo piano, anche se non conosciuto dal grosso pub-blico, e in perfetta uniformità di idee e di metodo con ilVisconti Venosta.

II

Costantino Nigra

Terzo, di questa triade di amici chiamati dalla sorte asvolgere la loro opera in comunità di intenti2076, affiancatidal destino e dalla volontà e vicini allora e poi2077, nonsolo con l’animo ma con lo spirito, uniti da consuetudinesentimentale ma anche da affinità d’idee e da alto sentiredel proprio dovere2078, era Costantino Nigra.

Proprio così. Il bel Nigra, l’audace Nigra del ’58-59,inviato trentenne dal Cavour a Parigi per assolvere le par-ti difficili che il marchese Villamarina non era in grado disostenere; il fidissimo che nel marzo del ’59 aveva esorta-to il maestro a forzar la mano all’opinione francese, me-diante un pronunciamento a Modena o a Bologna o nel-le sole legazioni, interrompendo ad ogni costo il funestolavoro della diplomazia e dando fuoco alla miccia2079, cheancora nel ’66 aveva premuto sul La Marmora, per deci-derlo all’azione e alla guerra2080; l’alto, biondo, eleganteNigra dai grandi occhi scintillanti2081, seduttore sottile e

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fortunato di cuori femminili, capace di rivestire anche lapolitica di leggiadria mondana recitando all’imperatriceEugenia, una sera del ’63, sul placido laghetto di Fontai-nebleau, la barcarola di Venezia viva e in attesa2082; il Ni-gra già circondato da un alone in cui leggenda e storia siframmischiavano, e oggetto, come nessun altro fra i di-plomatici, di simpatie ed antipatie, di alti riconoscimentie di critiche aspre2083, il Nigra era, almeno ora, uomo distile parecchio simile allo stile del Visconti Venosta.

Era potuto sembrare se non proprio un cinico alla Tal-leyrand, almeno uomo dalla fredda volontà tesa verso ilsuccesso, fosse politico fosse amoroso, con indifferenzade’ mezzi; ed invece anche lui non solo era un leale, ma-gari audace ma un leale2084, sapendo essere franco e fer-mo pur attraverso l’arte finissima della sfumatura e la se-duzione della parola2085, bensì era capace di quelli che unTalleyrand avrebbe schernevolmente definiti sentimen-talismi, siccome provava il suo attaccamento affettuosoalla dinastia napoleonica2086. Sin dal ’68 egli aveva preve-duto il crollo del Secondo Impero; e sebbene trattato congrande benevolenza a corte, sebbene ricercatissimo nel-l’alta società parigina, sebbene legato a Parigi da amori eamicizie profonde, aveva desiderato di cambiar sede e diandar a Londra, o anche a Vienna. Gli è che, nonostan-te la sua posizione personale fosse immutata, e cioè otti-ma «questa vita d’incertezza continua, e questa tremen-da spada di Damocle che è la questione romana, la qua-le non sarà sciolta se non il giorno in cui vi sarà in Fran-cia una rivoluzione radicale e violenta, mi rendono que-sta residenza molto dolorosa. Aggiungi le accuse e le iredella nostra stampa e di molti fra i membri del Parlamen-to. Aggiungi le antipatie del re, e l’irritazione di Rattaz-zi il quale non mi perdonerà d’averlo coi miei telegram-mi forzato in certo modo di dare la sua dimissione2087. Epoi devo confessarti che le cose in Francia peggiorano, eche m’è doloroso l’assistere alla rovina di questo grande

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edifizio dell’Impero francese, col quale si collega tutta lapolitica da noi fatta sin qui»2088.

Non già che le simpatie per Napoleone III e per laFrancia togliessero al Nigra la precisa visione degli in-teressi italiani o lo inducessero a transigere e a cedere,quando fossero in giuoco grosse questioni. Come nel1859-60, così anche ora egli aveva l’orgoglio di essere ilrappresentante dell’Italia a Parigi e non il portavoce delgoverno francese presso il governo italiano: il senso, al-tissimo, della dignità nazionale si sposava con un profon-do senso di dignità personale, l’uno e l’altro intransigentisull’essenziale. Come il Visconti Venosta, anche il Nigrasi rifaceva sempre al gran principio del Cavour di cederesulle piccole cose, per guadagnare le grandi, di non tra-sformare piccoli incidenti in questioni grosse; nelle que-stioni veramente importanti, nessuna transazione, nessu-na rinunzia2089. Ma, questo sì, lo sforzo sincero di conci-liare gli interessi dell’Italia con quelli della Francia, leal-tà, e sempre lealtà, niente ondeggiamenti nelle linee ge-nerali, niente trescare alle spalle dell’uno e dell’altro. Al-lora, si trattava della Francia; ma più tardi, ambasciato-re a Vienna, uguale lealtà e chiarezza il Nigra volle ap-portare nella sua azione e, posto che con l’Austria l’Ita-lia non poteva trovarsi se non in alleanza o in guerra eche la guerra allora non si poteva fare e si era invece al-leati, volle la serietà dell’alleanza, disapprovando recisa-mente, come già prima il Robilant, tutto quello che conlo spirito dell’alleanza contrastasse e quindi anzitutto leagitazioni irredentistiche e i clamori sulle piazze2090. Nonsolo quindi verso la Francia, ma verso qualunque StatoNigra voleva dirittura di politica: il suo non era un at-teggiamento particolare, dettato soltanto da motivi affet-tivi e personali, ma una linea politica, uno stile di azio-ne, che i legami con la dinastia napoleonica e con Parigipotevano certo rafforzare, non creare.

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Col rimanere a Parigi altri sei anni dopo la caduta del-la dinastia napoleonica, poté sembrare uomo pronto avariare, disinvoltamente, anima e parte: e i bonapartistinon gli perdonarono l’accomodamento alla Repubblica,e le ire del principe Gerolamo2091, che metteva su ancheil suocero Vittorio Emanuele, costarono amarezze gran-di al Nigra da parte del suo stesso re2092. E invece que-sto non era: a non ascoltare che il desiderio suo, Nigraavrebbe voluto cambiar sede; non lo aveva fatto, giusta-mente, anche per non dar a credere con una partenza re-pentina «ch’io fossi anziché l’Agente dell’Italia, l’Agen-te dell’Imperatore... Io fui e sono il Rappresentante del-l’Italia e non quello d’una dinastia estera»2093. E a Parigicontinuò a volerlo, dopo alcune incertezze fra ’70 e ’72,il Visconti Venosta, giustamente persuaso – anche con-tro il cattivo umore di Vittorio Emanuele II – che nessunaltro avrebbe potuto rappresentare meglio l’Italia nellacapitale francese, pur dopo il 4 settembre2094.

Non era uomo pronto a mutare anima e veste secon-do tirasse il vento. Non lo era coi ministri, a’ quali non siperitava dall’esprimere schietto e netto il proprio disac-cordo, quando disaccordo ci fosse su questioni fonda-mentali: e così, in fine carriera, si urtò apertamente colPrinetti2095. Non lo era con gli altri: e la sua riconoscen-za per Napoleone III continuò ad affermarla apertamen-te, altamente anche dopo Sedan2096. C’era in lui un sensodella fedeltà, dell’amicizia, dell’attaccamento alle perso-ne una volta care, in una parola c’eran valori sentimenta-li che possono bene definirsi romantici. L’uomo che il 4settembre del ’70 aveva offerto il suo braccio all’impera-trice Eugenia per condurla fuori di portata della folla ur-lante e minacciante2097, apparteneva alla generazione deigiovani entusiasti del ’48, aveva combattuto, volontarionella terza compagnia bersaglieri, per il suo ideale, ave-va toccato una grave ferita a Rivoli; era originariamente,di animo e d’intelligenza, come uomo e come poeta, un

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romantico, nel mondo romantico era rimasto come aral-do diplomatico del principio di nazionalità, incarnandobene una generazione che non aveva più la mentalità ra-ziocinante e matematica del ’700, e non ancora la menta-lità positivistica della fine dell’800. Lo stesso abbando-narsi alla fievole ma decorosa vena poetica, la sinceritàe ricchezza degli interessi culturali, il culto amoroso del-le tradizioni popolari, eran tutti elementi che legavano ilNigra all’età romantica.

Politicamente, come nel Visconti Venosta, largo sensoeuropeo, che non distruggeva ma limitava la fede neldiritto delle nazioni; senso della misura imposta allapolitica di ogni singolo Stato, anzi sincera persuasionedella necessità della pace internazionale2098.

Né soltanto l’accordo era di sentimenti e di idee. Unavolta spronante ai fatti, e spronante nientedimeno che unCavour nel pieno della sua audacia creatrice, ora ancheil Nigra nel metodo, nello stile si assomigliava al ViscontiVenosta; e come lui tendeva alla prudenza, alla calma, alasciar tempo al tempo2099, al non ipotecare l’avvenire inanticipo2100, tutto finezza, abilità di giuoco, mezzi toni2101,tutto riluttanza al dar colpi di spada nell’acqua2102, tuttomisura.

Era, questa, la gran parola per il Nigra, tanto che chilo conosceva bene e aveva avuto con lui lunga dimesti-chezza di lavoro, poteva rammentargli un giorno, dopoanni di lontananza, gli shakespeariani versi del RiccardoII.

...How sour sweet music isWhen time is broke and no proportion kept!So is it in the music of men’s lives

come esperimenti «con leggiadria, un pensiero in cui El-la suole compiacersi. È il concetto della «misura» nel-le azioni degli uomini»2103. La misura: e anche per que-sto nello scrivere e nello stendere rapporti d’ufficio il Ni-gra era parco, di parole come di giudizi, riluttante ad av-

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ventar previsioni, soprattutto riluttante ad indicar pro-grammi e a forgiar direttive. Ne quid nimis, anche qui:concisione e precisione, non inutili prolissità, non lun-ghe scritture2104. Tanto parco e misurato nella sua pro-sa ufficiale da poter lasciar l’impressione come di un ap-pannarsi delle qualità tanto vantate di sagacia e di fiuto, edel venir fuori, invece, di un diplomatico-burocrate: cheè l’impressione lasciata, spesso, dai suoi rapporti d’uffi-cio, chiari e precisi, ma impersonali e tanto meno caratte-ristici di quelli, non diciamo del serio, attento, quadratoRobilant, ma anche del molto loquace de Launay. E pertrovar il vero Nigra, vale adire un acuto giudice di uo-mini e cose, un’intelligenza scaltrita e finissima, una co-noscenza profonda non solo della Francia sì della politi-ca europea in genere, per trovar tutto questo bisogna ri-correre alle lettere private: ché se le une, quelle non di-ciamo d’amore, più non esistenti, ma indirizzate a don-ne e specialmente di donne a lui, respiran davvero la fra-granza lieve di un passato gentile; e se le altre, corrispon-denza nutrita fra il diplomatico celebre e i maggiori dottid’Europa, soprattutto i maggiori glottologi2105, fanno pe-netrare nel vivo di una coltura sodissima, assai più che dadilettante2106; le lettere politiche personali allo Artom e alVisconti Venosta o, più tardi, al Robilant danno final-mente l’immagine del Nigra maggiore, non più sempliceseppur precisissimo e limpido informatore, bensì politi-co dal sicuro colpo d’occhio, dalla diagnosi penetrante,dalla personalità inconfondibile. Ma è un Nigra che vienfuori quasi soltanto nel carteggio personale, confidenzia-le: come un uomo che si sveli, ma all’amico soltanto, ea lui solo scopra il suo sentire, mentre in ufficio si chiu-de vie più nell’adempimento puntuale, ma schematico,preciso, ma impersonale, del compito che gli spetta. Ti-more di indiscrezioni per i carteggi ufficiali, prudenza?Anche2107. Ma un siffatto contenersi e frenarsi nella cor-rispondenza ufficiale, contrastante con la personalità dei

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carteggi degli altri maggiori fra i rappresentanti dell’Ita-lia all’estero, aveva anche, e anzi forse soprattutto, unadiversa origine che non fosse la prudenza, la «misura».Ed era un certo disincantamento, una specie di stanchez-za morale volgente in indifferenza, uno scetticismo, unostaccarsi con l’animo dalla politica, quasi che in essa nonfossero se non amarezza, disinganni, crucci e, in ultimo,vanità delle cose tutte.

È lo stato d’animo che più colpisce nel Nigra e che lodifferenzia nettamente, come uomo, dal Visconti Veno-sta pur così vicino a lui per stile e idee politiche. Vecchio,sul finir del secolo e nei primi anni del nuovo, il Nigra ap-parve, a chi personalmente lo conobbe, sempre vivacissi-mo spiritualmente, ma moralmente «stanco, chiuso in sée quasi disperante»2108; e ad altri, che aveva avuto con luiconsuetudine di lavoro, addirittura sembrò sepolto, luicosì disinteressato un tempo2109, in un egoismo che nonvoleva più seccature, e ch’era ad un tempo lagnanza pergli scarsi riconoscimenti avuti, a dir suo, dall’Italia2110.

Certo è che l’uomo, apparso così fiducioso di sé, co-sì forte di speranze allorquando andava a Parigi in nomedel Cavour, perdette lungo la via amara dell’esperienzafiducia e speranza; e cercò sempre più di star nella pe-nombra, di non far il primo attore, smarrendo il gustodella politica.

Affiorava in lui una «mancanza di confidenza nel farbene che per me è un ritegno grandissimo»2111, confessa-va nel marzo del ’71 al Visconti Venosta che gli propone-va di lasciar Parigi per Vienna2112, secondo parevano det-tare ragioni di opportunità riconosciute dagli amici stes-si del Nigra2113, a non parlar dei malevoli e degli uomi-ni della Sinistra, che in lui scorgevano l’incarnazione delbonapartismo italiano2114. E poteva stupire che un uomo,appena quarantaduenne, confessasse che con gli anni di-minuisce la confidenza e nascono gli scrupoli, quasi l’e-tà fosse già tarda e grave; ma il Nigra era ormai così, fi-

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sicamente e moralmente stanco, portato più ad astenersiche ad agire, più a meditare che a concludere2115. «Io sondiventato da qualche tempo pieno di scrupoli» scrivevaal Visconti Venosta il 24 giugno del 1871, quando vole-va, lui questa volta, andarsene da Parigi, abbandonar lacarriera e riposare. «Non ho più la felice confidenza del-la gioventù. Se capitasse il menomo screzio [tra l’Italia ela Francia] temerei che venisse attribuito alle buone re-lazioni che ebbi coll’Impero. Mi sento inoltre molto af-faticato. La sfiducia, il pensiero di essere oramai imparial mio compito s’impadroniscono spesso del mio animoe mi lasciano turbato.»2116

Il proposito di ritirarsi a vita privata fu abbandonato,e il Nigra rimase altri cinque anni a Parigi, e andò poi aPietroburgo, Londra e Vienna. Ma quello stato d’animoperdurò, se non con l’acuità di allora almeno come per-sistente senso di ripiegamento disincantato e amaro su sestesso.

Quindici anni più tardi, sull’inizio delle trattative peril rinnovo della Triplice Alleanza, quando il Robilant glicomunicò che i negoziati si sarebbero svolti a Berlino,tramite il de Launay, e che a lui Nigra sarebbe tocca-ta una parte del tutto secondaria, ascoltare le dichiara-zioni altrui, ma non discutere né agire in proprio, tran-quillizzò il ministro giacché «l’expérience de mon métieret mon caractère me portent plustôt à l’abstention qu’àl’empiètement»2117.

L’uomo fu sempre meno incline ad agire nel campopolitico, e sempre più spinto a rifugiarsi nella poesia enello studio, nelle Reliquie celtiche e nei Canti popola-ri del Piemonte. Non che gli mancasse l’energia per farquel che doveva, per assumere posizione netta quandofosse necessario, anche per dir chiaro e tondo il propriopensiero perfino ad un presidente del Consiglio imperio-so come il Crispi2118; o che venisse meno la capacità di im-porsi ovunque, perfino nel difficile ambiente di Vienna,

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con prestigio personale che sopperiva entro certi limitial non grande prestigio del paese che rappresentava2119.Ma sempre meno vibrava l’anima del politico e semprepiù quella dell’uomo di studio e di mondo, che trascor-reva intere sere all’ambasciata, con i suoi collaboratori,in lunghe letture di poesia e di storia2120, o continuava adaffascinare uomini e donne, sino alla tarda età, con il brioe l’eleganza della conversazione2121.

Quanto scarsa fosse ormai in lui la gioia dell’agire po-litico, doveva dimostrare il rifiuto, due volte pronunzia-to, di diventare ministro degli Esteri. Una prima vol-ta, nel giugno dell’85, quando il dimissionario Manci-ni gli annunziò che avrebbe fatto il suo nome; e imme-diatamente, da Londra, il Nigra gli rispose pregandolo«en ami et très sérieusement de m’épargner le chagrin derefuser une demande éventuelle du Roi et de mon amiDepretis»2122. Una seconda volta, com’è noto, nell’87, al-la morte del Depretis, quando Crispi e lo stesso Umber-to I personalmente e vivamente2123 insistettero perché egliassumesse la responsabilità della politica estera italiana:e anche allora fu un rifiuto, netto e reciso2124.

Erano, questi, i due episodi più significativi della suarinunzia ad una grande azione politica; ma non eranoepisodi isolati, né dovuti a momentanea stanchezza. Vicorrispondevano invece, i due altri rifiuti opposti al Cri-spi, nel 1894 e nel 1895, di recarsi a Parigi prima, a Pie-troburgo poi2125; per cercar di por fine a situazioni diffici-li. Saliva sempre più in fama, sembrava essere l’uomo deimomenti critici2126, lo stesso Crispi guardava a lui comeal nocchiero delle tempeste: ed egli si ritirava indietro edi burrasche non voleva più saperne. Era proprio unamancanza di gioia dell’azione, che caratterizzava l’animadel Nigra dopo il ’70; e lo disse chiaramente egli stes-so, quando, trasferito da Pietroburgo a Londra nell’82, ecioè abbandonando un posto di relativa importanza per

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l’Italia per assumerne un altro di importanza fondamen-tale, espresse al collega Robilant il suo dispiacere.

«Al momento di lasciar Pietroburgo – così scriveval’11 dicembre 1882 – sento un vivo e sincero rincresci-mento. La mia posizione qui era eccellente, l’accoglienzadi questa società era stata più che cortese, cordiale; dif-ficoltà politiche o d’altra natura non avevo affatto; le re-lazioni ufficiali, e non ufficiali, ottime. Ora invece devointraprendere una nuova vita, farmi ad altre usanze, col-tivare nuove relazioni, e Dio sa con quale esito. Avrò no-ie che qui non avevo ed occupazioni maggiori. Tuttavia,fra i varii posti a cui potevo aspirare, quello di Londraè certamente quello che mi lusinga di più. Farò laggiùil meglio che potrò. Ma se la sua amicizia per me Le fadire che potrò render colà al nostro paese grandi servi-zi, la mia coscienza mi avverte che dovrò contentarmi direnderne dei molto modesti. Grandi errori spero di noncommetterne. Avrò cura di vivere decorosamente e cer-to non farò il guastamestieri. Nel resto, Ella sa per pro-va, e meglio di me, che la nostra azione diplomatica, sepuò essere, com’è talora, aiutata dalla posizione perso-nale degli ambasciatori, non vale però in sostanza se nonquel che vale la forza morale e materiale che sta dietro dinoi, cioè l’autorità e la forza del governo e del paese cherappresentiamo.»2127

Dove colpivano il tono disincantato, lo scetticismo –pure parecchio fondato, ma in bocca ad un diplomatico!– sulle possibilità della diplomazia, il fastidio delle futu-re noie; soprattutto, quel ridurre in anticipo la propriaopera a viver decorosamente e non far il guastamestieri...ch’era un po’ poco. Era proprio il tono di uno scettico,indifferente ormai alla gioia del nuovo, riluttante a muo-versi, a cambiar vita, indotto sempre più ad accarezza-re e amare le proprie abitudini; era lo spirito che detta-va poi rapporti impersonali, precisi ed esatti, ma freddicome se si fosse convinto che tanto, a che pro?

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Singolare ritrarsi di un uomo che, un venticinquen-nio prima, era sembrato tutto proteso verso la politica,la lotta, le grandi decisioni! Disincantamento, amarezze,stanchezza fisica e morale; sentimento ferito dall’asprez-za della lotta politica, con le sue fatali ingenerosità, che, avincerle nell’intimo, occorre animo sdegnoso e forte piùdi quanto il nostro per avventura non avesse; sentimentoferito anche direttamente dai violenti attacchi con cui laSinistra ne criticò l’opera per anni ed anni, fino al ’76, fi-no cioè al tanto richiesto allontanamento da Parigi dell’i-taliano amico di Napoleone III e di Eugenia2128. Un po’,anche, l’abito diplomatico, con il suo scetticismo su uo-mini e cose e il suo diffidare della troppa passione, checonduce agli scatti di nervi e guasta il mestiere2129. Tut-to questo e delusioni e amarezze familiari2130, erano cer-to, alla base del suo atteggiamento disincantato e stanco;ed erano anche prova di quanto la presenza viva, conti-nua, eccitante e sferzante del Cavour avesse saputo tra-sfigurare i suoi collaboratori, facendone uomini d’azioneinebriandoli quasi e lanciandoli pieni d’audacia nella mi-schia. Col d’Azeglio, Nigra era stato soprattutto l’auto-re dell’ Epitalamio in nozze di Alessandrina con il mar-chese Matteo Ricci, ed era brillato per le lodi manzonia-ne; ma era stato il gran conte a foggiare il diplomatico, ilpolitico, l’uomo d’azione, plasmando di una potente im-pronta la buona materia che gli si offriva. Nell’alone delCavour il Nigra, come altri, s’era sentito riscaldato, ani-mo e mente: prova sicura della grandezza del ministro diVittorio Emanuele II, capace, come tutti i veri creatori,di agitare e infiammare attorno a sé. Ma ora questa lu-ce viva, questa fiamma era mancata; e in quelli che nonerano propriamente nati per la politica, né chiamati dallaProvvidenza a pascersi di essa e solo di essa, l’animo fi-nì con lo scoprire miseria e vuoto dove prima aveva vistoattività e potenza2131.

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Per continuare sul tono del ’59-’60 ci voleva una tem-pra di uomo d’azione che il Nigra non aveva. Una vol-ta, l’aveva scritto al Cavour «io ho fatto quel che ho po-tuto... Non posso dare quello che non ho»2132: e quelloche non aveva, o almeno aveva in misura assai inferiorealle doti dell’ingegno, vivissimo, pronto, acuto, era pro-prio la tempra del lottatore. Quel fondo del suo animo,tra idillico e mitemente affettivo, che veniva in luce ne-gli Idilli2133, traspariva anche sotto altre forme, nel poli-tico: l’uomo era, appunto, alieno dalle potenti passioni.Sincero e leale: ma d’una sincerità e lealtà che non pote-vano conoscere il duro e potente esclusivismo dei grandisentimenti e che gli consentivano invece una adattabilitàa circostanze mutate che, per esempio, un Robilant nonavrebbe potuto avere. Gli stessi valori ideali del Nigranon avevano la salda intransigente potenza che in altri:onde, mentre l’amico Visconti Venosta riluttò sempre alBismarck e al Crispi, Nigra ammirò Bismarck e nutrì nonequivoca simpatia per il Crispi2134.

Era come un intiepidirsi della vita interiore; e a deter-minarlo non era solo disincantamento personale. C’eradi peggio: ed era che l’Italia quale si presentava ad uni-tà compiuta non incarnava davvero gli ideali della vigi-lia. La delusione e l’inappagamento, se toccavano le al-te note nel Mazzini, non eran poi gran che minori anchein parecchi dei moderati, e, fra essi, nel Nigra. Anchequi, seppure in altro senso che non nel Visconti Veno-sta, era un po’ un atteggiamento alla d’Azeglio, il d’Aze-glio borbottone scontento amaro2135: rammarico nel sen-tire giorno per giorno diminuire l’influenza e il prestigiodella tanto amata terra natia «bellissima fra quante il solriscalda»2136; malcontento perché questa Italia che venivasu non garbava punto, per molti e molti aspetti. Irritazio-ne di fronte allo spettacolo «de’ birbi e degl’imbroglioni,in grand’uniforme di Italianissimi»2137: e anche qui, perpassaci sopra ci vuole o la corazza antisentimentale del

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politico nato2138, o la serenità distante dello storico. Ma ild’Azeglio e quelli come lui non erano politici d’istinto edi temperamento, e non potevano ancora essere storici.Aggiungi la sensazione, penosa, di esser messo in dispar-te, di essere ormai un sopravvissuto, buttato su di unaspiaggia solitaria dalle onde incalzanti de’ grandi even-ti: sensazione che nel d’Azeglio era viva già dopo il ’52 eche nel Nigra poteva sorgere dopo il ’70, soprattutto do-po il ’ 76, e che era, anch’essa, poco idonea a predisporrealla comprensione e all’indulgenza.

Questo stato d’animo, dunque, dovette entrar perqualche cosa nel disincantamento del Nigra. Certo, eratutt’altro che infrequente, se non nei suoi amici ViscontiVenosta e Minghetti – ben diversamente orientati sottoquesto riguardo – in altri, meno illustri amici e conoscen-ti, piemontesi anch’essi; e al d’Azeglio e al suo pessimi-smo si rifaceva apertamente uno di essi, il Govean, chelamentava in una lettera al Nigra, nel 1879, il decadimen-to del costume politico italiano: «Mancati i grandi scopiche guidarono gli italiani negli anni andati, vennero fuo-ri gli scopi particolari. E, come diceva Azeglio, i nuovivenuti trovando la tavola apparecchiata, mangiarono leportate. Poi vennero quelli che portarono via posate etovaglioli. Ora, dico io, sono altri venuti in cucina chesi disputano tegami, ramini e payuoli, e Dio sa con chemani»2139. Persino da molto in alto pervenivano al nostrovoci di scoramento, pessimismo, sdegno, come la voce diun principe che passava pure per capace e aperto d’inge-gno e di tendenze, Eugenio di Savoia-Carignano, il qualeanch’egli era in preda ad un tetro pessimismo2140. E pa-recchi anni più tardi toccava all’Alfieri di Sostegno d’e-sprimere ad uno straniero il senso, amaro che molti degliuomini del ’59 avevano di essere, ormai, dei sopravvissu-ti: al visconte de Vogüé, che gli chiedeva, nel 1896, comemai in un momento così difficile per la politica italiana,dopo Adua e il crollo di Crispi, in Italia non si pensas-

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se a chiamare al governo gli epigoni di Cavour, già con-sacrati dalla fama, già noti all’Europa, sì come la Francianei giorni duri aveva chiamato il Thiers, e si stupiva chenon si pensasse ad ornarsi, davanti all’Europa, dell’au-torità del Nigra, l’Alfieri rispondeva: «Vous avez raison,mais le temps a marché trop vite: ceux à qui vous penseztoujours, la foule et nos politiciens n’y pensent plus, nesavent plus s’ils existent. Ce sont des morts, embaumésdans leurs grands services»2141.

Des morts embaumés: nel ’71 il Nigra non poteva cer-tamente pensare ancora di sé stesso cosa come gli avven-ne più tardi2142; ma già doveva sentirsi in ambiente diver-so da quello in cui era cresciuta la sua gloria. Il crollo del-l’impero napoleonico e gli attacchi, aspri e ingiusti, dellaRiforma e del Diritto e la stessa convinzione dei suoi ami-ci che fosse meglio per lui cambiar Parigi con un’altra se-de, erano sintomi sufficienti per amareggiare una sensi-bilità viva e far riflettere un uomo sulla labilità delle coseumane, politica e fama in primis2143.

Così, tanto vicino al Visconti Venosta per orientamen-to generale ideologico e caratteristiche di stile diploma-tico, il Nigra era invece diverso dal suo ministro, perun disincantamento progressivo e uno scetticismo chenel valtellinese non erano invece accennati. Le asprez-ze della lotta parlamentare, il fastidio e a volte il disgu-sto non solo della polemica con gli avversari, ma talo-ra fin della forzata convivenza con colleghi imposti dallecircostanze e poco amati, non condussero il ministro de-gli Esteri a quel ripiegamento interiore ch’era in atto nelcanavesano2144.

Ma queste erano le differenze personali, di gusto edi sentire, così come già erano diversi i due uomini nelsembiante e nel contegno esteriore, dignitoso e un po’solenne il Visconti Venosta, brillantissimo e seducente ilNigra. Per quel che conta nella storia d’Italia, cioè perindirizzo generale e metodo di attuazione, i due uomini

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erano invece su di uno stesso piano; e accanto a loro,c’era, personalità assai meno spiccata, ma confidente eispiratore sagace, dagli stessi impulsi mosso, lo Artom.

III

Il Conte de Launay

Ben diverse, invece, le due altre maggior personalità delmondo diplomatico italiano, il de Launay e, a partiredall’estate del ’71, il Robilant. Gli altri rappresentan-ti all’estero non avevano infatti allora, né ebbero anco-ra per molto tempo una individualità spiccata: non i duemeridionali, il Barbolari a Costantinopoli e il Caraccio-lo di Bella a Pietroburgo, tolti d’altronde di scena frail ’75 e il ’76; non il Barrai, gratissimo al re, pubblica-mente elogiato dal La Marmora, come un degno allie-vo della ottima antica diplomazia sabauda2145, in contrap-posto al Nigra, esempio della nuova e non ottima scuo-la, ma che in realtà non era niente più di un diligentefunzionario2146; non il Greppi, giunto poi a larga notorie-tà per la robusta vecchiaia che lo condusse ai 103 anni divita, amabile uomo di mondo, ma certo né un Cavour,né un Talleyrand2147. Nemmeno il Cadorna, pur titola-re della legazione di Londra fino al ’75 e convinto di farbenissimo2148, aveva doti diplomatiche di rilievo; e quan-to al Corti, era allora lontano, a Washington, in una se-de, per quei tempi, di scarsa importanza. E così per allo-ra emergevano, oltre al Nigra, soltanto il de Launay e ilRobilant.

Anche nel caso del conte Edoardo de Launay l’impor-tanza di cui la sua firma godeva presso il ministero degliEsteri derivava per molta parte dall’importanza del po-sto. Berlino era, con Vienna e Parigi, la più delicata edifficile delle nostre legazioni: nulla di strano che il suotitolare godesse di un prestigio notevole. S’aggiunga che

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il de Launay era il decano del corpo diplomatico italia-no, un vecchio del mestiere, sempre pronto a far valerela sua esperienza con ammonimenti e consigli2149, zelantepignolo suscettibilissimo2150, geloso custode della profes-sione ch’egli avrebbe voluto preservare dall’impuro con-tatto dei dilettanti, cioè dei politici che venivano invia-ti a fare i diplomatici senza preparazione tecnica2151. Ilmestiere era una gran cosa per questa Vestale del fuocosacro, attaccatissima al suo dovere e ad esso veramenteonestamente fedele2152.

Sarebbe tuttavia ingiusto attribuire la posizione emi-nente che il savoiardo occupava nella diplomazia italia-na esclusivamente alle circostanze esterne che lo aveva-no posto in mezzo a grandi eventi e accanto a grandi uo-mini. Il de Launay non può certo dirsi che avesse do-ti superiori di politico, né particolar finezza di diploma-tico; restava, come intelligenza, di gran lunga al di sot-to di un Nigra e come solidità di quadratura d’assai aldi sotto di un Robilant: eppure una sua personalità l’a-veva, non era una figura solita, slavata, senza interesse.I suoi rapporti eran tutto, fuor che del tipo burocrati-co: prolissi, spesso inutilmente verbosi2153, ma esprimen-ti risolutamente e impetuosamente idee e sentimenti delloro autore, che non si peritava affatto di contraddire ilsuo ministro e, comunque, era sempre prodigo di consi-gli e anche di previsioni per il futuro. Se il tipo dell’o-nesto diplomatico di medio calibro doveva rispondere aipostulati dal Bülow padre dati come viatico al figlio no-vellino, e così essere cauto nei giudizi, far di rado pre-visioni, non criticare troppo aspramente, essere calmo eoggettivo2154, il conte de Launay non era sicuramente undiplomatico: assai proclive a far conoscere al ministro isuoi giudizi, deciso nell’esprimere il proprio parere e leproprie preferenze personali, le simpatie o le antipatie,tutt’altro che incline a sostenere la parte del diplomati-co muto, anche quando non fosse ufficialmente autoriz-

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zato a parlare dal suo governo2155, egli era un tipo com-pletamente opposto di agente all’estero. Gli piaceva, evi-dentemente, la parte di mentore; essere il père Joseph diun Richelieu qualsiasi sarebbe stato il suo sogno: perchéad essere Richelieu non ci teneva molto, almeno nei tem-pi in cui viveva, con quei benedetti parlamentari a’ qua-li occorreva render conto di azioni e procedimenti, co’quali occorreva discutere anche di cose su cui mantenereil silenzio sarebbe stato precetto essenziale della vecchiae sana ragion di Stato. E così anch’egli fece il suo bra-vo, gran rifiuto quando nel 1876 e nel 1877 gli fu offer-ta dal Depretis la carica di ministro degli Esteri2156. So-lo che i motivi del rifiuto eran differentissimi da quellidel Nigra; non derivavano certo da mancanza di fiduciain sé, da disincantamento, da scetticismo. Sorretto inve-ce sempre da un robusto ottimismo in se stesso, batta-gliero sempre e convinto, anche, che la luce della veritàsplendesse dinanzi agli occhi suoi, gli occhi di un costan-te e accanito sostenitore dell’intesa italo-germanica, ve-ro toccasana di ogni male per l’Italia, il de Launay nonera malato della maladie du siècle: pessimismo, roman-ticismo, ripiegamenti malinconici sul proprio io interio-re, tutto questo era un non senso per il solido savoiardo.Egli era un homme à poigne: e si sarebbe trovato com-pletamente a suo agio solo che ci fosse stata più autori-tà all’interno dello Stato da lui rappresentato all’estero,solo che il potere centrale si muovesse con maggior de-cisione e senza tanti inciampi di assemblee, commissio-ni, libri verdi e simili sciocchezze del liberalismo, un ve-ro guastamestieri almeno nel campo dei rapporti inter-nazionali, dove l’unica cosa degna erano ancora i precet-ti della vecchia, disprezzata ma tanto utile ragion di Sta-to. Launay credeva negli arcana imperii; credeva nellapolitica come scuola di alto stile, tempio riservato a po-chi eletti, agli esperti, ai tecnici – e la tecnica non s’im-provvisa; e, come Orazio, poteva ripetere il suo odi pro-

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fanum vulgus et arceo, comprendendo nel volgo tanto iparlamentari e i petulanti uomini di partito2157, quanto idilettanti che s’improvvisavano capi di legazioni, quan-to i giornalisti indiscreti, – altra peste del mondo moder-no! –, quanto i ministri che non sapevano tenir la dragéehaute agli importuni.

Era tutto un mondo di valori in piena antitesi conquello del Visconti Venosta. Se si potesse procedereper schemi, il de Launay si dovrebbe classificare come ilreazionario della diplomazia italiana di dopo il ’70, assaipiù reazionario del pur malfamato Menabrea.

Savoiardo di origine, egli continuava in ciò fedelmen-te la tradizione politica della sua terra, che aveva rappre-sentato l’estrema destra nel complesso dello Stato sabau-do; vissuto, come diplomatico, alle corti di Pietroburgo edi Berlino, aveva avuta rafforzata, dall’esperienza, la na-turale prima tendenza autoritaria. Alla libertà antepo-neva l’autorità2158, anche se talora il ricordo del conte diCavour si opponesse, persino in lui, all’«utilitarismo» delprincipe di Bismarck e lo convogliasse verso gli stessi lididei liberali italiani2159.

Altrettanto naturale ch’egli non si ritrovasse con unVisconti Venosta. Sostanza delle cose, cioè indirizzo po-litico da seguire e ideali da attuare, e forma delle cose,cioè metodo diplomatico, erano nell’uno e nell’altro di-versi quanto è possibile: al liberalismo, moderato sì, mafermissimo, del valtellinese, s’opponeva la chiara pro-pensione all’«autorità» del savoiardo; alle simpatie poli-tiche per la Francia del primo, che temeva le mire espan-sive della Germania, l’odio per la Francia e l’ammirazio-ne per la Germania del secondo, che riteneva necessaria,a far dell’Italia veramente una grande nazione, una guer-ra vinta contro la Francia2160, cioè auspicava un eventola cui sola possibilità faceva fremere Visconti Venosta eNigra2161; allo stile tutto finezza e chiaroscuri del mini-

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stro, il procedere carrément, a tagli netti e a posizioni de-cise, dell’inviato a Berlino.

Il de Launay se ne rendeva pienamente conto, e fre-meva e recalcitrava e scalpitava, come un cavallo al mor-so troppo stretto: «J’enrage souvent de ne pas avoir voixdécisive au chapître. J’écris parfois au Chev Visconti Ve-nosta des lettres qui doivent le piquer au vif, mais en pu-re perte. Si on me donne raison en principe, on ne saitpas se résoudre à agir». Con tali espressioni egli confida-va il suo disappunto, il 19 gennaio 1874, al conte di Ro-bilant, ministro a Vienna2162, quello fra i colleghi con cuiegli era più legato da amicizia.

IV

Il Conte di Robilant

Ed effettivamente, laddove nessuna sostanziale né for-male affinità si doveva rilevare con un Visconti Venostaod un Nigra, con il Robilant di primo acchito sembrava-no esistere parecchi punti di contatto. Anche nel valoro-so mutilato di Novara, diventato generale e comandan-te della Scuola di Guerra prima, ministro a Vienna poi,anche in lui nessuna traccia di inclinazione sentimenta-le a Francia2163, anzi convinzione assoluta «di non lonta-ne gravi complicazioni colla Francia»; quindi desideriodi uno stretto accordo con la Germania2164, e, per que-sto lato, disapprovazione della politica del Visconti Ve-nosta, giudicata troppa «conciliante» rispetto a Parigi2165,tanto che il de Launay poté augurarsi, quando seppe del-la nomina dell’amico a Vienna, una vigorosa azione co-mune, con un programma comune2166. E ancora, nel me-todo un piglio netto e secco, diversissimo dall’arte tuttasfumature del Visconti Venosta e del Nigra.

Ma le analogie si fermavano lì: e nella sostanza il diRobilant, lontanissimo certo dallo stile del suo ministro e

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del suo collega di Parigi, era ben diverso pure dal collegadi Berlino. Stava a sé, personalità di forte rilievo.

Uomo dell’alta nobiltà piemontese, membro di dirit-to di quel circolo ristretto e chiuso, ovunque presente espesso potente ch’era allora l’aristocrazia internazionale,dalla quale era uscita la madre, una Truchsess von Wald-burg, tedesca, e la moglie, una Clary-Aldringen, austria-ca, imparentato fra l’altro anche in Russia, col famosoe chiassoso generale Ignatieff, la cui moglie era sua cu-gina; di alta ed elegante figura, dai lineamenti irregola-ri animati da un’intensità di espressione tutta intelligen-za e dirittura2167; gran signore di origine, dunque, e ditratto, di una impeccabile cortesia, ma al tempo stessonon senza che una certa riservatezza sostanziale evitassele troppo facili espansioni e le esuberanze de’ primi ve-nuti; quindi, non di facile amicizia, pur essendo tutt’altroche un orso, anzi capace di caldi affetti – ed amici infattine ebbe parecchi ed insigni, dal Minghetti al Marselli; diuna dignità esteriore fatta di prestanza fisica, nonostantela mutilazione della mano, e di contegno, il conte di Ro-bilant si imponeva già all’esterno anche in un crocchiodi diplomatici e di uomini di mondo. L’uomo interioreconfermava a pieno la prima impressione.

Era uno spirito rifuggente dalla sfumatura: com’eranettamente tagliata, a linee rette, nei pensieri mai torbidio vaghi, sempre precisi e concreti, così lo era nel dire.Non ovattava la verità, ma la diceva se necessario conbrutale franchezza2168; anche in momenti difficili, nongli dispiaceva mettre les pieds dans le plat, sia pur difronte al ministro austro-ungarico degli Esteri. Era unostile diversissimo da quello del Nigra; e certo il Robilantnon era un ambasciatore con cui fosse comodo aver dafare2169. Eppure, dopo lunghi anni, i più trascorsi inuna situazione difficilissima, in un ambiente in generefrancamente ostile al paese ch’egli rappresentava, egli

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partì dalla capitale austriaca avvolta da assai, assai altaconsiderazione.

Ma l’energia del Robilant era anche diversa dall’ener-gia del de Launay, assai più verbosa e perciò meno so-stanziale. Il de Launay era sovente assai energico nei rap-porti confidenziali al proprio ministro: è lecito dubitarelo fosse altrettanto, quand’era necessario, non diciamocon Giove Olimpio incarnato nelle fattezze mortali delprincipe di Bismarck, ma anche, più semplicemente, colmesso di Giove, Thile o Balan o Bülow che fosse2170; Ro-bilant era energico nei rapporti al Visconti Venosta o alDepretis o al Cairoli o al Mancini ma lo era anche nei col-loqui a quattr’occhi con l’Andràssy lo Haymerle e il Kàl-noky, tanto da guadagnarsi, appunto, la nomea di amba-sciatore poco facile2171.

Soprattutto, alla energia formale del Robilant rispon-deva ben altra energia e solidità di pensiero. Qui, final-mente, ci si imbatteva in una figura di uomo non pro-teso alla ricerca del successo, anzi sdegnoso del plausocomune, ma nato per l’azione in genere e, in particola-re, per l’azione politica, anche se a questa pervenisse inetà non più giovanile, dopo una lunga esperienza mili-tare. Meno colto del Nigra, meno aperto a interessi va-ri, d’intelligenza meno brillante, il conte di Robilant erapure talora meno lucido nella diagnosi di una situazione,anche perché incline a lasciarsi trascinare da certo suofrequente pessimismo che accentuava i pericoli: e lo sivide nei primi mesi del 1880, nel momento di massimatensione fra Italia e Austria, quand’egli non escluse nelBismarck la malvagia intenzione di scagliar l’Austria inguerra contro l’Italia2172. In situazioni simile, il Nigra di-mostrava maggior freddezza di giudizio. Ma, più quadra-to e robusto, il Robilant aveva in sé il senso dell’azioneche all’altro cominciava a mancare. Come il Sella, era so-prattutto un carattere, una forza morale, «un’intelligen-za che inesorabilmente voleva ciò che vedeva», e quan-

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do vedeva chiaro, osava e poteva sempre2173. Tredicenneappena, a Vienna, quando il prozio materno, marescial-lo principe di Hohenzollern-Hechingen insisteva perchéegli studiasse in un collegio militare austriaco e poi en-trasse nel sua reggimento, aveva romanticamente scrittocol proprio sangue la sua decisione: «je ne servirai jamaisque mon Roi et ma patrie – signé de mon sang – CharlesRobilant»2174. Ora, nella piena maturità, lontano dall’e-saltazione romantica dei giovani anni, rimaneva incrolla-bile nei propositi.

Uomo d’azione per natura, largo nel concepire, soli-damente preparato, pronto a cogliere l’essenziale di unaquestione e a non perdersi nell’accessorio2175, deciso nel-l’iniziativa e, una volta assunta una linea di condotta, in-flessibile nel seguirla con risolutezza2176; sì che, quando fuchiamato ad un posto assai difficile, si buttò anima e cor-po all’opera, né le asperità del compito, né le disillusionidategli dalla politica del suo governo, riuscirono a fiacca-re questa dura, tenace volontà. Sovente, gli venne fattodi desiderare il riposo del suo Tusculum al Lingotto2177 epoté augurarsi che un ministro degli Esteri lo mandassea casa2178 o dichiarare che tra poco avrebbe pensato lui ametter le cose a posto, andandosene; e dopo «cattivissimigiorni» alle prese con il Ballhaus, poté esprimere la suastanchezza e sfiducia al Nigra, il quale allora lo esortava,proprio lui, che per carità non si perdesse d’animo2179.

Ma erano quei momenti di rilassamento che nell’uomod’azione scompaiono, non appena il lavoro richiami a sél’animo, e come Anteo che ha toccato terra, lascian nuo-vamente e continuamente luogo ad una ripresa di ener-gia e di volontà combattiva, sempre ricreantesi anche disul pessimismo e la stanchezza. Persino dopo la crisi mi-nisteriale del febbraio-aprile 1887 e la fine del suo perio-do di governo, persino allora l’amarezza, grande, che lopervase2180, e il «vero disgusto per la vita politica»2181 nonimpedirono che pochi mesi più tardi accettasse di torna-

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re in un’ambasciata, a Londra, per riprendere a tesserela faticosa tela, presto sventuratamente, sollevato da ognipreoccupazione e lavoro terreno dalla morte improvvisa.Per vero, nonostante il pessimismo di parecchie ore cir-ca l’Italia e gli Italiani2182, che lo riconduceva – anche lui– al vecchio d’Azeglio, la sua era la tempra dei forti2183.

Non era nemmeno ambizione, desiderio di gloria e dipotere: tali appetiti, dote naturale dell’uomo politico, glifacevano difetto. Non avrebbe mai, come il Cavour gio-vane, sognato il momento di essere primo ministro delre d’Italia; e questo era, forse, quel che gli mancava peressere uomo politico completo e, certo, era quel che loavrebbe ostacolato, come ministro in regime parlamen-tare.

Egli stesso avvertiva gli amici di non ritenersi taglia-to al compito di ministro: «ça n’est pas mon affaire, losento, lo so e non intendo provarmici, capisco sono co-se che non si provano, poiché il paziente sarebbe l’Ita-lia! Son pronto a rendere al mio Paese tutti i serviziche mi si potrà chiedere ma fare il ministro... c’andreb-bero circostanze tali perché io credessi di non poter ri-fiutare, che proprio auguro all’Italia non abbiano mai apresentarsi»2184; tanto più ch’egli non era uomo di parti-to, non aveva nessuno dietro di sé «mentre che per assu-mersi con successo un incarico di quel genere convieneavere un nome ed una situazione personale politica cheimponga al Paese fiducia e rispetto. Del resto né coi De-stri, né coi Sinistri non mi sento vocazione alcuna di fareil ministro e quindi se invitato rifiuterei sempre salvoc-ché la situazione nostra interna fosse tale ch’io dovessianzitutto ricordarmi di essere Soldato. Speriamo non sipresenti il giorno in cui il Re e la Patria abbiano bisognodel mio petto per far loro scudo, e che quindi mi si lascitranquillo»2185. Dopo l’esperienza, trovava nella situazio-ne politico-parlamentare del febbraio 1887 una «nuova

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conferma della mia completa inettitudine alla vita parla-mentare, cosa che non ho mai nascosto»2186.

E veramente, nell’85, dopo un primo gran rifiuto, nelgiugno-luglio, al momento dell’uscita del Mancini dalministero2187, cedette nel settembre soltanto perché sidovette convincere che era giunta l’ora in cui re e patriaavevan bisogno di lui, in una situazione di burrasca,con la Triplice già sostanzialmente morta proprio mentrel’orizzonte europeo si caricava di nubi nere nere; perciò,di fronte all’ordine formale del re, il soldato ubbidì e siaccinse, rassegnato ma coraggioso, al nuovo compito2188.

Una simile ritrosia di fronte al compito ministerialenon era tuttavia effetto puramente di mancanza di am-bizione e del senso della propria inesperienza come par-lamentare. C’era, anche, una sorta di diffidenza istintivaverso la lotta parlamentare, diffidenza accresciutasi congli anni, tra il ’70 e l’87.

Non già ch’egli fosse un autoritario, alla maniera delde Launay, secondo correva fama anche fuori d’Italia2189

e secondo gli venne spesso rimproverato dai suoi nemicipolitici2190. Anche qui, somiglianze esteriori celavano di-versità sostanziali. Il de Launay era un convinto adora-tore della maniera forte, e perciò ammirava Bismarck eil bismarckismo; Robilant non esitava a deplorare netta-mente l’atteggiamento antiliberale del cancelliere germa-nico.

«Ciò che a mio avviso vi ha di più grave oggi – scrivevail 12 maggio 1884 al suo amicissimo Corti – si è la guerraapertamente dichiarata al liberalismo, da parte del prin-cipe di Bismarck: essa rende sempre più difficili le nostreintime relazioni coi due Imperi nostri Alleati, e senza ve-ra intimità non vi ha alleanza che valga ancorché sii scrit-ta su carta pecora e debitamente bollata. Conviene poianche dire che a Giosuè solo fu dato di fermare il sole,Bismarck quindi si illude stranamente se crede di poterfare retrocedere il mondo: a mio avviso egli semina tre-

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mende tempeste che saranno raccolte un giorno dal futu-ro Imperatore di Germania2191. Non voglio s’intende direcon ciò che non vi sii qualcosa da fare per frenare il par-lamentarismo invadente come lo è in Italia, ma credo cheun Paese ben equilibrato come lo è la Prussia potrebbedar l’esempio molto utile di un giusto riparto delle attri-buzioni fra governo e rappresentanza nazionale, e questosarebbe, trovo, tutto il desiderabile. Anche in Italia ciòsi potrebbe conseguire procedendo con lealtà, ingegno efermezza poiché in fondo il Paese da noi dimostra chia-ramente di ciò volere. Pur troppo l’Uomo a ciò ci fa di-fetto, e se poi il Depretis venisse a mancare, non so dav-vero in mano di chi anderessimo a finire. Per conto miotemo sempre ancora che dovremo passare da Crispi; edai miei occhi ciò sarebbe la peggiore delle disgrazie checi potrebbe incogliere.»2192

In tale lettera era tutto il programma politico generaledel Robilant, ed era anche tutta la sua diffidenza profon-da verso il cancelliere germanico ed il suo emulo italianoin minore. Poiché, s’era favorevole sin dal ’71 all’amiciziacon la Germania, anzi all’intesa quando fosse legame trapari e non di vassallo a signore, egli aveva per il Bismarckconsiderazione, sì, per le qualità di grande uomo di Sta-to che nessuno avrebbe potuto contestare, ma ad un tem-po profonda antipatia: antipatia che poté accrescersi perl’episodio, personale, del settembre 1879 a Vienna, allor-quando il sire di Varzin, venuto nella capitale asburgicaa concludere l’alleanza austro-tedesca, aveva volutamen-te omesso di far visita all’ambasciatore d’Italia, mentre siera recato da quelli di Francia e di Turchia e dal nunzioapostolico, per dimostrare ostentatamente quali fosseroi suoi umori di allora verso l’Italia2193, ma che era fonda-ta su ben più gravi e generali motivi. Ed erano appuntol’autoritarismo, l’insofferenza del Bismarck per tutto ciòche non quadrasse col suo modo di vedere, i suoi scat-ti nervosi2194 e i suoi vivaci rancori2195, la sua imperiosità

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nel trattare con gli altri, appena appena questi altri nonfossero di potenza pari alla sua; era anche il sospetto diulteriori mire ambiziose, e il timore che l’egemonia ten-desse a divenir ancora più decisa e prepotente – sospet-ti e timori esagerati, è vero, ma non perciò meno vivi nelRobilant come in molti altri de’ contemporanei. Tuttociò cooperava all’avversione – ché tale può, invero, chia-marsi – del nostro generale per il cancelliere di ferro. Siaggiunga, ancora, che il Robilant non si faceva illusionesui sentimenti del Bismarck verso l’Italia; non si lascia-va cioè abbacinare minimamente dalle effusioni dei mo-menti amichevoli, dalle dichiarazioni solenni sulla «na-turale alleanza» fra l’Italia e la Germania, e scopriva in-vece, con sicuro intuito, che nel gioco politico del gran-de prussiano l’Italia contava o no, a seconda del momen-to e della situazione generale, e che per il Bismarck, co-m’era d’altronde logicissimo, unica preoccupazione eral’interesse tedesco. In genere, anzi, semmai, verso l’Italiaera piuttosto un sentimento, almeno dopo il ’66, di de-gnazione non scevra da un sostanziale disprezzo, che ilRobilant credeva di scorgere – e non certo a torto – nelcancelliere, talora, anzi, accentuandone il lato diabolicoe colorendone di nero cupo i disegni, più di quanto nonfosse nella realtà2196.

Così, quando nell’85, in un momento di gran raffred-damento italo-germanico, parve che alla Consulta si fos-se contenti di tutti i rappresentanti diplomatici all’este-ro, eccetto che del Launay, egli confidò all’amico Corti ilsuo modo di vedere, ben diverso da quello degli ammi-ratori italiani del gran cancelliere. «Dunque sono con-tenti di tutti, meno di De Launay. Ci vuol altro a tro-vare quell’Ambasciatore che sii atto a cambiare gli umo-ri di Bismarck a riguardo dell’Italia. Del resto sai le mieidee in proposito, fino acché piacerà a Dio di conservareal mondo quel flagello che si chiama Bismarck, non c’è

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da sperar pace, poiché pace certo non si può chiamare lostato attuale dell’Europa.»2197.

Ministro, il Robilant mantenne con fermezza e dignitàe abilità grandi questo suo atteggiamento di riserva difronte a quel che egli chiamava il «pro tempore padrondel mondo»: ed evitò le visite personali, o, come eglidiceva, le chiamate ad audiendum verbum2198, e sfuggìi convegni2199, ben sicuro che solo in quella manieraavrebbe fatto apprezzare dal sire di Friedrichsruh la suapersona e la sua politica – come in realtà fu, situazioneinternazionale aiutando.

Perfino in fatto di rapporti internazionali e di modo dicondurli, perfino su questo terreno l’italiano pensava di-versamente dal tedesco. Ché, mentre quest’ultimo ripu-gnava, in modo assoluto, a discuter con altri che con di-plomatici autorizzati le grosse questioni, e si incollerivaquando vedeva problemi di politica estera discussi trop-po a fondo in Parlamenti esteri o troppo precisamenteanalizzati in qualche libro di colore, verde o blu che fos-se; mentre dunque il Bismarck, gran rivoluzionario ne’fatti, ne’ metodi, nonostante la novità apportata dal suosapiente montare l’opinione pubblica a mezzo di campa-gne di stampa2200 – ch’era, realmente, la novità introdottada Napoleone III, dal Cavour e da lui nella diplomazia –,ne’ metodi rimaneva legatissimo a quelli della diploma-zia classica, segretezza non solo, ma altresì gli affari in-ternazionali riservati ai «competenti», ai «tecnici», gli ar-cana imperii degni di esser discussi solo da un ristrettis-simo gruppo di iniziati, laddove di fronte al volgo profa-no non c’era che da ripetere l’orazione odi et arceo; il Ro-bilant, non certo chiacchierone, né facile a divulgar noti-zie, e anche lui convinto che non tutto potesse esser da-to in pasto al pubblico, cominciava però a dar ben altropeso al parere dei popoli. Per il tedesco, questo pareredoveva servire allo statista quale arma di combattimen-to, mezzo tattico che si adopera, senza riguardo ai senti-

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menti in sé della moltitudine; per l’italiano, era già qual-cosa di più: liberale moderato in politica interna, il Robi-lant si avviava a concezioni liberali anche in politica este-ra, ripugnando sempre più alla classica concezione de-gli arcana imperii. E quando si sparse notizia della firmadi un trattato d’alleanza austro-germanico, ai primi del’79, notizia allora prematura, egli commentò con l’amicoCorti «per quanto riflette il trattato non vi ha chi credasii un fatto isolato; per mio conto vorrei essere assicuratoche l’Italia non c’entra affatto. Certo si è che questa poli-tica che si sta facendo a colpi di scena con trattati segretietc. non può alla lunga portare buoni frutti. Mi dirai checiò si è sempre fatto e non posso negarlo, ma noto peròche erano altri tempi, e che oggi i Popoli non si lascia-no più corbellare indefinitamente a quel modo»2201. Cheeran parole assai rare in bocca a diplomatici, e, al certo,impossibile ad udire in bocca al Bismarck!

Se tale era il giudizio sul Bismarck, altrettanto durodoveva riuscire quello sul Crispi. Non certo che il Robi-lant negasse il «molto valore» dell’uomo, dal quale pureaveva avuto amarezze e opposizioni grandi2202: ma, urtatodal fare tribunizio, e talora assai violentemente2203 vede-va e temeva nel focoso politico siciliano l’autoritarismodi un Bismarck minore, che non sapeva e non poteva chedominare, la vanità dell’uomo2204 e, soprattutto, la pro-pensione a lasciarsi trascinare dall’impulso del momen-to, la eccitabilità e quindi la facilità dei colpi di testa2205.Un uomo pericoloso, insomma, per il paese, nonostan-te le sue innegabili doti; ed era opportuno, dinanzi a lui,pronunziare il rituale libera nos Domine2206.

Con tali sentimenti, è difficile sostenere ch’egli fosseun autoritario di princìpi: lo stesso Marselli, prima suodipendente alla Scuola di Guerra e poi e sempre suoamico, uomo di Centro-sinistra, andava assai più in làdi lui, come quello che, nel ’73, si augurava «metodibismarckiani» anche in Italia, per guarire le piaghe del

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paese, scettico, impassibile anche di fronte ai più graviproblemi, dormiente della grossa2207.

In verità, militare di educazione e di sentire, venutosu in ambiente affatto diverso da quello in cui erano cre-sciuti i Nigra, i Visconti Venosta, i Minghetti, i Sella, conin cuore anzitutto una fede, il servizio del re che formavatutt’uno col servizio della patria; senza il continuo con-tatto diretto con la fede liberale del Cavour2208, che ave-va agito come una potente fiamma tutt’intorno, e abitua-to invece per lungo tempo ai contatti con l’ambiente mi-litare e di corte, che quella fede aveva sentito assai, as-sai meno: in verità, anch’egli aveva pienamente accetta-to lo Stato liberale e le idee della libertà. Per questa sin-cerità e onestà di credenza egli, legato da amicizia di na-tura ambientale e, diciamo, originaria al de Launay, po-té diventare amico schietto del Minghetti e del ViscontiVenusta, legarsi con loro di un’amicizia che era anche, senon proprio identità, perlomeno affinità d’idee; e il Min-ghetti, che lo stimava assai2209, parlandogli del trasformi-smo del Depretis, poteva dirgli che i giudizi dell’uomodi Stradella «sull’andamento delle cose interne ed este-re non sono diversi da quelli che portereste voi o io»2210,e più tardi poté sì ritenere che il Robilant non rappre-sentasse affatto la Destra nel gabinetto Depretis, ma nonperché fosse troppo reazionario, anzi perché voleva al-learsi col Nicotera2211.

L’insofferenza per la lotta parlamentare e l’instabilitàdei ministeri, la diffidenza per la democrazia che, ormaipadrona dell’Italia, non avrebbe tardato a condurre ilpaese «dove già ebbe a condurre gli altri Paesi ch’essa eb-be a signoreggiare»2212, nascevano certo sul vecchio fon-do antidemocratico che era stato motivo essenziale delmoderatismo, italiano e francese; ma erano anche poten-temente rafforzate da una lunga serie di esperienze e dipensieri, dallo scoraggiamento di fronte a quel che sem-brava caos di partiti, nervosismo di parlamentari, indif-

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ferenza per il bene pubblico e tutela del solo interesseprivato2213. Era lo stesso scoraggiamento che assaliva an-che il Bonghi e provocava lo scritto sulla Decadenza delregime parlamentare, appunto nell’84, cioè in quello stes-so periodo in cui le idee del Robilant divenivano semprepiù nere2214; che assaliva da anni, a tratti, parecchi deimaggiori fra gli uomini della Destra, non solo l’iracondoRicasoli, ma il Lanza, il Minghetti, il Visconti Venosta eperfino il Sella2215.

Caduta la Destra, il Robilant, con molti altri, avevavagheggiato quel gran partito di centra che, sull’esem-pio del Cavour, riappariva nuovamente come la miglio-re attuazione del regime parlamentare in Italia, mentre lacontrapposizione sistematica dei due partiti, all’inglese,non risultava possibile; che, soprattutto, sembrava l’uni-co rimedio per costituire una maggioranza stabile e com-patta tale da por freno al pericoloso dilagare a sinistra edifender saldamente l’ordine e le istituzioni2216. Anch’e-gli dunque pensò a quello che fu il metodo classico nellastoria politica italiana, per arginare contemporaneamen-te gli estremismi di destra e di sinistra, dal Cavour al De-pretis al Giolitti2217; e, come capo, anche lui, al par ditanti altri, vide il Sella2218. Poi, il Sella aveva disilluso an-che lui2219, era sceso dal suo piedistallo di solo uomo diStato che potesse salvare l’Italia2220, e da allora la situa-zione parlamentare italiana era parsa sempre più incer-ta: una iniziale fiducia accordata al Depretis2221; e poi,anche qui, speranze che svanivano, delusioni a catena,il Depretis vecchio, stanco, incapace fisicamente2222. Sututto questo, le amarezze della sua esperienza personaledi diplomatico: delusioni dell’azione di governo del suopaese nelle questioni internazionali2223, crisi di ministeronei momenti meno propizi2224; incertezza e fiacchezza didirettive, vedute non uniformi, il centro anziché dirige-re soverchiato dalle tendenze dei singoli rappresentantiall’estero2225, oscillar qua e là e quindi continuo decadi-

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mento del prestigio italiano, già non grande; isolamentoo, com’egli diceva effacement morale dell’Italia2226 – «...senza un governo forte non si fa politica energica qual èquella a cui lavoriamo Ella ed io»2227.

Si avvertiva, in lui, l’eterna reazione dell’uomo che, in-caricato di difendere gli interessi e la dignità della patriain terra straniera, molto più sente ogni anche piccola fe-rita, quasi squarcio nella propria carne, e più si arrovel-la per tutto quanto diminuisca forza e prestigio interna-zionale del proprio paese; e convinto della maggior im-portanza, del primato della politica estera sulla politicainterna, è incline a veder le conseguenze men buone deicontrasti d’idee e della lotta politica interna e, contraria-mente al detto del Machiavelli, non ritiene che le lottedei partiti facciano grande Roma.

Stato d’animo, dunque, non tipico del solo Robilanto di quegli altri italiani i quali, pur lontanissimi dal Cri-spi, s’immalinconivano perché le condizioni politiche in-terne non permettessero di tutelare bene la sicurezza ela dignità del paese all’estero2228: e ne erano prova, fuorid’Italia, le querimonie del francese conte di Saint Vallier,ambasciatore a Berlino, il quale il 21 marzo 1881 lamen-tava la funesta influenza dei miserabili interessi elettora-li, l’imbecillità e l’ignavia di una Camera preoccupata so-lo della propria rielezione e a tali meschini interessi de-cisa a sacrificare grandezza, sicurezza, onore del paese,provocando con l’assurda politica interna gli smacchi inpolitica estera2229. E dire che era quello il periodo in cuisi consolidava robustamente la Francia repubblicana! AlSaint Vallier, uomo d’antico regime, tale consolidamentoad opera dei Gambetta e dei Ferry poteva anche piace-re poco: ma un altro uomo, destinato a grandi cose nel-la storia diplomatica europea e proveniente invece dallefile dei costruttori della repubblica in Francia, lamenta-va anch’egli il tempo presente, l’immergersi nella medio-crità – legge delle democrazie – che conduceva necessa-

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riamente agli abaissements del paese all’estero. «Si figurasempre meno.»2230.

Era dunque uno stato d’animo diffuso, nel quale lepreoccupazioni anti-democratiche alla Taine venivanocorroborate dall’anelito al prestigio esterno alla Sorel.Ma il Robilant lo viveva certo con una intensità dolorosa,con la forza e la continuità ch’erano della sua natura.

Nazionalista o, come si diceva allora, chauvinista, ilRobilant non era: non si lasciava suggestionare dai fan-tasmi della grandezza antica, né intendeva dar colpi dispada nell’acqua. Ma pochissimi ebbero, e prima e do-po, fierezza nazionale pari alla sua: una fierezza ed unorgoglio gelosissimi della dignità della nazione, inesora-bili nel pretendere ciò che era dovuto all’Italia2231, prontiad inalberarsi, perfino contro l’onnipotente Bismarck, alprimo accenno che suonasse lesivo di quella dignità2232.Di qui, l’irritazione di fronte ai tentennamenti e agli er-rori del governo, imputati a colpa della lotta politica edelle beghe di partito.

Sulla materia, cioè sul popolo italiano, il giudizio oscil-lava, un momento tutto apparendo nero nero e nonvedendosi più speranze di risveglio e immaginandosil’Italia già ridotta nelle condizioni di una repubblicasudamericana2233, simile anzi ad una vecchia imbelletta-ta, senza slancio giovanile e senza forze2234; un momento,invece, constatandosi che c’era in giro una gran voglia difare, operosità economica e culturale, testimonianza chela materia era buona2235. Oscillare di valutazioni, legatoal variar dei momenti e dello stato d’animo di chi le pro-nunziava, e non dissimile dall’oscillare di molti altri Ita-liani: per rimanere nell’ambito delle persone che il Ro-bilant conosceva e stimava, anche il Marselli passava daespressioni di fiducia nel popolo italiano2236, a espressio-ni di nero pessimismo, che più nero di così era davverodifficile concepire.

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Comunque, mentre sulla materia vario poteva esse-re il giudizio, la colpa delle asserite debolezze dell’Italiavenne sempre più fatta risalire alla forma, alla veste cheil popolo aveva indossato; e s’insistette su quelle che ilBonghi chiamava le magagne divenute la necessaria om-bra del governo parlamentare2237, sull’arbitrio ministeria-le, sul prepotere in genere dei partiti e in specie sulla lo-ro eccessiva inframmettenza nell’amministrazione, sullaloro mancanza di omogeneità e di idee, sul loro corrom-persi. S’andò così in cerca di rimedi; e, venuto meno l’i-deale di un gran partito di centro vigorosamente guida-to e ben omogeneo, un rimedio apparve, anche al Robi-lant, ch’era rimedio potrebbesi dire connaturale al po-polo italiano: un popolo, al quale per atavica consuetu-dine sembrava maggiore l’uomo che calpesta dell’uomoche cammina2238, un popolo che nel periodo più splendi-do della sua storia civile aveva abbandonato le libertà co-munali con le sue lotte di parte per affidare le sue sortialla virtù dei condottieri di antica e di fresca prosapia, eil cui maggiore pensatore politico aveva racchiuso la le-zione delle cose del suo tempo nell’appello al principeredentore2239.

Come parecchi altri2240, come l’amico Marselli2241, co-me il giovane Vittorio Emanuele Orlando2242, anche ilRobilant credette cioè che il rimedio potesse essere rap-presentato dalla capacità politica di un «Uomo»; il qualemettesse le cose a posto e ripristinasse quel giusto ripartofra governo e rappresentanza nazionale ch’era la condi-zione necessaria per un sicuro sviluppo politico. L’aspi-razione nostalgica all’uomo miracoloso non fu di un mo-mento solo; anzi, il Robilant ci tornò su, a più riprese2243,denotando ch’essa era non frammentario balenio, ben-sì idea costante, profondamente radicata, originata dalconvincimento che «le condizioni in cui l’Italia si è fat-ta, necessitavano una successione di uomini di prim’or-

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dine per governarla, e siamo giunti al punto che ci fannoperfino difetto quelli di second’ordine»2244.

Attesa dell’uomo forte. Veramente, il Robilant non in-tendeva affatto che il suo avvento significasse autoritari-smo, dittatura o che di simile: il fatto solo d’aver pensatoad un Sella – notoriamente alieno da tendenze dittatoria-li – come al possibile restauratore della vita politica ita-liana, basterebbe a dimostrare come, per il nostro, l’uo-mo forte dovesse muoversi e agire nel quadro delle isti-tuzioni liberali, con spirito liberale, senza soffocare affat-to il Parlamento pur tanto discusso2245, ma limitandosi acorreggerne gli abusi, ad imprimere chiarezza di idee econtinuità di volere all’azione di governo, ad aver dinan-zi agli occhi, sempre, l’interesse e l’onore della patria,non i piccoli interessi personali e le beghe di partito. Lasua avversione al «bismarckismo», il suo profetico giu-dicar errato il tentativo del novello Giosuè di fermare ilprogresso delle idee liberali, confermano che l’uomo for-te, per lui come per molti altri di quelli che lo auspicava-no, allora2246, non doveva essere un dittatore, né contrap-porsi alle idee liberali, ma anzi permettere loro di svol-gersi nella loro pienezza benefica, senza le magagne chei piccoli uomini avevano introdotto nella vita politica.

E qui era certamente il punto debole di tal modo dipensare, l’ingenuità diremmo sorprendente in un uomotutt‘altro che ingenuo quale il Robilant. Affidarsi all’uo-mo forte, e ad un tempo credere di salvaguardare, intat-ta, l’essenza liberale richiesta dai tempi e dal corso dellastoria umana, era infatti grossa ingenuità: come se l’uo-mo «forte» avesse potuto rinunziare sul serio alle sue am-bizioni, e, una volta in possesso dell’autorità, soffocare leprospettive di dominio che ogni possesso troppo accen-tuato di autorità pone dinanzi agli occhi. Non per me-ro caso il Sella, liberale sino alle midolla e alieno dal po-sare all’uomo forte, non aveva potuto essere l’uomo at-teso, e aveva disilluso l’ambasciatore a Vienna, Bonghi e

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altri molti; l’uomo forte poteva esserlo il Crispi, ma quelche l’avvento del siciliano al potere significasse, il Robi-lant l’aveva avvertito assai per tempo, con timore ed av-versione.

Pretendere di sanare i mali, innegabili, della vita po-litica italiana d’allora con il ricorso ad un grande uomo,credere di aver trovato il toccasana per i difetti, non con-testabili, della pratica parlamentare, mediante l’improv-viso intervento di un deus ex machina che indirizzassele cose nel verso giusto, guarisse le piaghe interne quasicon un tocco di bacchetta magica e imprimesse saggio efermo orientamento alla politica estera, senza alterare innulla lo spirito della libertà2247: questa era una illusione,pericolosa illusione, che rischiava di preparare il terre-no ad esperimenti di autoritarismo pratico, se non anco-ra dottrinale, del genere di quelli che in effetti si ebberopoco più tardi. L’ambiente favorevole al Crispi lo si crea-va così2248: al Crispi, che per conto suo fin dal ’65 avevadichiarato di attender l’uomo il quale, risollevando l’Ita-lia, desse salute e vigore alla «generosa inferma»2249. Edinfatti al Crispi plaudirono parecchi di coloro che primaavevano lamentata l’insipienza del Parlamento e invoca-to un polso fermo2250: ma anche quelli che ritenevano ilCrispi pericoloso alla nazione, e tra essi proprio il Robi-lant, collaboravano inconsciamente alla sua ascesa, conle loro invocazioni all’Uomo.

In fondo, della stessa natura era anche il Secondodei rimedi che il Robilant prospettava, per correggere lemanchevolezze del regime parlamentare. E anche questosecondo rimedio non era solo di lui: egli lo enunciavadopo altri2251, insieme con altri, prima di altri, comegià per l’attesa dell’uomo forte muovendosi in un climagenerale. Otto anni prima che il Bonghi mettesse arumore l’Italia e irritasse Umberto I per il suo scritto suL’ufficio del Principe in uno Stato libero2252, il Robilantdeplorava infatti il soverchio assenteismo politico del re.

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«Il Costituzionalismo à outrance di Sua Maestà» scri-veva egli il 15 gennaio 1885 al suo solito confidente, ilCorti «è certamente bello ove lo si consideri dal lato teo-rico, ma a mio avviso non è pratico affatto. Ritengo cheanche colla più scrupolosa osservanza dei princìpi Costi-tuzionali, una parte notevole nell’indirizzo dello Stato ri-mane sempre al re. Dirò di più che troverei degnissimodi lode un Presidente del Consiglio che cominciasse daquella parte lì a rimettere in careggiata il carro dello Sta-to, che da assai tempo si muove proprio a dir poco sul-l’orlo del fosso»2253. Era, parecchio tempo in anticipo, lateoria bonghiana del principe che deve mantenere vigi-lanza alta, pura, costante sulla condotta dei poteri pub-blici, che deve sentirsi di più ed essere più di quello chei parlamentari esorbitanti vorrebbero si sentisse e fosse;era la richiesta di una Corona più operativa, che il Sonni-no avrebbe assai accentuato all’inizio del ’97, esprimen-do chiaramente quel che in molti ambienti si diceva, sulvenir meno del potere regio alla sua funzione2254.

E, anche qui, non si può negare che la scettica e talo-ra cinica indifferenza del re, almeno nel primo periododel suo regno2255, il suo fatalismo rassegnato che colpi-va assai gli ambasciatori stranieri2256, non toccassero do-lorosamente i fedeli monarchici, crucciati nel constatareche a Umberto I veniva meno l’animo ed egli s’impiccio-liva come per non lasciarsi scorgere2257. Ma anche que-sto richiamo al principe era pur sempre un appello allacapacità dell’uomo.

Invocando l’uomo forte, si andava in cerca della vir-tù di condottieri che dovevano uscire dalla folla dei co-muni mortali; invocando il principe si invocava una vir-tù consacrata dalla Corona regia e dalla secolare tradizio-ne: nel primo caso, ci si metteva su di una via che pote-va condurre alla dittatura dei «figli del popolo»; nel se-condo, su di una via al cui sbocco si offrivano i colpi diStato della Corona. Ma nell’un caso come nell’altro s’e-

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ra sempre lì, con quella benedetta attesa messianica nel-l’Eroe che redimesse la terra natìa dalle molte piaghe cheinfistolivano: erano sempre il Veltro di Dante e il princi-pe del Machiavelli, scesi dalle altezze eroiche della poe-sia e dell’alta immaginazione politica per rivestire marsi-na e sparato bianco oppure l’uniforme da generale tra-versata dal gran cordone rosso e blu dell’ordine militaredi Savoia.

Perché s’avrebbe un bel dire, il principe s’invoca inquanto è più che un uomo nella sua singolarità, è l’isti-tuto, è la funzione, è la tradizione di un supremo princi-pio d’ordine nello Stato. Certamente, l’appello al prin-cipe era diverso dall’appello all’uomo di genio proprioperché in esso venivano innanzi l’istituto e la tradizione;ma anch’esso poteva essere fatto solo in quanto il princi-pe regnante fosse o sembrasse di scarsa attività e di me-diocre virtù, e sollevasse dubbi per la sua capacità di uo-mo. Nessuno si sarebbe sognato mai di chiedere a Vit-torio Emanuele II un più attivo intervento nelle cose diStato: s’aveva piuttosto da pregar Iddio che non facessespuntare troppi progetti personali nella fantasia del so-vrano. Si discuteva invece sull’ufficio del principe dopol’80 proprio perché assai mediocri apparivano le quali-tà del nuovo sovrano e scarso il suo interesse per la co-sa pubblica2258; né bastava a porvi rimedio la ferma, du-ra e più che femminile volontà della bionda regina. Sela monarchia sembrava diventare non più che un’ombrao un trastullo, secondo scriveva lo Spaventa nel 18802259,ciò era dovuto alle debolezze del sovrano che, si diceva,copriva col suo nome la corruzione e l’ingiustizia eretti asistemi.

Così il problema del rimedio si riduceva al problemadi un uomo, principe o popolano che fosse; anzi, avevagià detto il Lanza, per il rimedio sarebbero occorsi insie-me un gran re e un gran ministro, dono della Provviden-za all’Italia2260. E se l’attesa nell’uomo di genio prepara-

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va il terreno al Crispi, le invocazioni al principe avreb-bero finito col provocare, attorno al principe e alla fineanche in lui, quelle velleità di colpo di Stato malamentesboccate nella repressione del ’982261.

Ma in questo il Robilant la pensava come tanti altri il-lustri liberali del suo tempo, ansiosi di raggiungere l’ir-raggiungibile perfezione della vita politica, di avere tut-ta la libertà e tutto l’ordine, dimentichi che già Machia-velli e Rousseau avevano ammonito sulla fatalità delle di-scordie nella libertà2262. E anche nell’avversione alla de-mocrazia i pareri erano concordi: che la Francia gambet-tiana, e cioè il radicalismo, fosse un esempio pericoloso,questo lo diceva anche il Minghetti2263.

E dunque, per conchiudere il lungo discorso, nullav’era nei pensieri del Robilant che lo facesse reaziona-rio più di tanti altri dei moderati. Forse, era il modo diesprimere quei pensieri, secco e netto, tagliente secondoil suo solito; forse era quel che di rigido e sostenuto locaratterizzava a far sembrare quei pensieri più autoritaridi quanto non fossero. Il tono Robilant era, certo, assaienergico; il suo stile, reciso e altero, talora ruvido e po-co adatto a guadagnare le simpatie dei parlamentari2264:era proprio l’opposto del parlar sapiente di un ViscontiVenosta, il quale non avrebbe mai fatto affermazioni co-sì chiare e nette come il Robilant faceva, alla Camera, il23 gennaio 18862265, o detto «evidentemente non esporròtutto ciò che penso», e neppure avrebbe, spazientito, la-sciato cadere la frase sprezzante sui «quattro predoni chepossiamo avere tra i piedi in Africa» alla vigilia di Dogali.Eppure, quanto vicino era al Robilant il Visconti Veno-sta con il suo liberalismo venato di conservatorismo po-litico e sociale, ma aborrente dal bismarckismo! E quan-to vicino all’ideale del Visconti Venosta il faire sans dire,massima favorita del Robilant!

Forse, ancora, era il ricordo, grato ai moderati maassai meno ai democratici, dell’energia con cui nel ’70

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aveva rimesso l’ordine nella turbolentissima provincia diRavenna; forse, bastava il fatto di essere un militare –e generale continuò ad essere chiamato fino all’ultima –per farlo ritenere più conservatore di quanto non fosse.

Era, certo, una personalità di alto rilievo, la più for-te personalità che si potesse annoverare nella diploma-zia italiana, Visconti Venosta e Nigra compresi. Nel-la carriera, egli era un intruso2266 e avrebbe potuto an-che passare per uno di quei dilettanti contro cui tuona-va il ringhioso custode del tempio, il de Launay; lo Ar-tom aveva cercato di opporsi alla sua nomina2267, e L’O-pinione, allo Artom assai vicina, l’aveva commentata nonbenevolmente2268. Ma diffidenze e malumori erano rapi-damente caduti: poco tempo trascorreva dalla sua nomi-na ed egli era già quel che sarebbe poi stato sino all’85,un collaboratore di primissimo piano per il ministro de-gli Esteri, e per quanti si occupavano in Italia di proble-mi internazionali una delle grandi forze della politica ita-liana di fronte all’Europa.

V

Lanza e Minghetti

Era dunque, in complesso, un bel gruppo di valentiuomini quello che annoverava un Visconti Venosta unNigra un Robilant: gente a cui si poteva sicuramenteaffidare la responsabilità di pilotare la nave italiana nelmare europeo, tempestoso e difficile.

Nei momenti più gravi e di fronte alle decisioni più ar-due, a quegli uomini si affiancava, naturalmente, il presi-dente del Consiglio. Meno, anche perché furono mino-ri le grandi occasioni dal ’71 al ’73, il Lanza, il fermissi-mo e rettissimo Lanza, tipo perfetto dell’uomo di buonsenso2269, diverso assai, nello stile, dal Visconti Venosta,perché privo di sfumature e mezzi toni, rigida ed intran-

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sigente – un po’ alla Ricasoli – quindi, con qualità reali diuomo di Stato soprattutto nei momenti scabrosi, di nonfacile accomodamento alle piccole schermaglie della vi-ta parlamentare e di una suscettibilità talora eccessiva2270;ma nella sostanza di una solidità e pacatezza che s’accor-davano bene con il fondo e il programma del ViscontiVenosta2271: nella più grossa delle difficoltà, quella di Ro-ma, anche egli convinto che la calma fosse la miglior lineadi condotta2272; e anch’egli incline assai a Francia, tutt’al-tro che insensibile ai motivi sentimentali, come il ricordodi Magenta e di Solferino, pur nell’apparente rudezza escabrosità del contegno esteriore.

Assai di più, anche perché il suo periodo impose diffi-cili decisioni, dal viaggio a Vienna e a Berlino all’atteggia-mento di fronte al Kulturkampf, assai di più il Minghetti:l’intelligente e colto Minghetti, l’uomo dalle esperienzee dalle amicizie europee, la principale figura ormai del-la parte moderata, assai più del Sella che stava sostan-zialmente a sé ed era sempre pronto ad evolvere fuor delquadro preciso di partito2273.

Era l’amicissimo del Visconti Venosta, ch’egli avevachiamato per la prima volta al governo, nel ’63, e chegli dimostrò il suo attaccamento rimanendo alla Consul-ta anche dopo la caduta del ministero Lanza; e talunovide nei due il maestro e il discepolo2274. Pure, questidue amici non erano proprio identici. Intelligenza pron-tissima, duttile, brillante, di una straordinaria facilità diassimilazione2275, il Minghetti era più pieghevole del Vi-sconti Venosta, meno duro sostanzialmente e meno in-crollabile su alcune posizioni2276; animo sensibile certo eaperto agli affetti, era tuttavia di più facile adattabilità aitempi e alle circostanze, tanto che, di tutti questi campio-ni della Destra, Sella eccettuato s’intende, fu il più pron-to e disposto a lasciarsi dietro le spalle i ricordi dell’al-leanza francese e ad orientarsi verso l’amicizia col nuo-vo astro germanico2277. Per il che, occorreva non soltanto

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duttile e pronto ingegno ma anche certa capacità di di-stacco dai ricordi del recentissimo passato. E così que-sto bolognese, alto biondo roseo, bello della persona edelegante di spirito, raffinato uomo di mondo2278, grandeoratore e finissimo conversatore2279, coltissimo, europeocome nessun altro, tranne il Cavour, degli uomini politi-ci del Risorgimento2280, innamorato di armonia2281 e tut-to permeato di senso estetico oltre che morale, del vive-re, e così il Minghetti si trovò facilmente a simpatizzarecol Bismarck2282, mentre una muraglia di diffidenza sepa-rava dallo statista germanico l’amicissimo del Minghetti,il valtellinese Visconti Venosta.

VI

Vittorio Emanuele II

Al disopra ancora del presidente del Consiglio in carica,arbitro supremo il re.

Veramente, sembrava ormai finito il tempo del secretdu roi e delle sue iniziative personali, al di fuori e al di so-pra dei ministri. Il 1870 anche da questo punto di vistasegnava una svolta da cui non era più possibile tornareindietro. Per il sovrano, infatti, esso aveva significato an-che il fallimento dei piani vagheggiati tra il ’68 e il ’69 eperseguiti ancora, all’ultima ora, con la missione Vimer-cati a Metz. In quelle ore decisive, Vittorio EmanueleII aveva dovuto riconoscere che il fattore morale dell’o-pinione pubblica era davvero di tanta forza da tagliare lavia anche ai progetti di un re; e gli aspri battibecchi con ilSella, così noti e cari alla tradizione, lo sprezzante accen-no regale ai mercanti di panno e la fiera risposta del biel-lese che i mercanti di panno avevan sempre fatto onorealla loro firma, mentre questa volta il re avrebbe firma-to una cambiale senza esser sicuro di poterla pagare2283,potevano bene assurgere a simbolo di un conflitto – en-

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nesimo conflitto, dolo quelli dei tempi di Cavour – tra levelleità del sovrano di trattare, esso, le questioni estere ele questioni militari, non fatte per i pacifici borghesi, e lanuova realtà politica, la realtà dello Stato liberale che erasì disposto ad accettare un re cittadino, capo dello Statoamato e rispettato, simbolo vivente della patria, ma nonera più disposto ad ammettere una misteriosa sfera di at-tribuzioni speciali, riservata al monarca e sottratta all’a-zione del governo. Era il conflitto ultimo fra la tradizio-ne, monarchico-diplomatico-militare, degli arcana impe-rii, e le imperiose esigenze del diritto popolare. Da unaparte, Lanza e Sella, i borghesi; dall’altra, il re, Cialdini eMenabrea, i militari infastiditi dalle preoccupazioni e daitimori di quei borghesi.

La partita fu perduta per il re e i suoi generali: del cheVittorio Emanuele ebbe poi a rallegrarsi, lui per primo,quando poté accorgersi d’averla scampata bella2284 e do-vette convincersi che, in fatto di previsioni sull’esito del-la guerra, il borghese Sella aveva visto meglio e con oc-chio più sicuro dei cosiddetti competenti, dei tecnici dimestiere, i quali l’avevano sbagliata grossa2285.

Ma al di sopra anche della questione in sé, pur gravis-sima, l’episodio doveva ammonire il sovrano sulla ormaiscarsa o nessuna utilità di una politica segreta italiana di-versa e talora in contrapposizione a quella ufficiale: on-d’egli, dopo aver dimostrato palesemente sfiducia e mal-contento al Lanza circa l’«indirizzo degli affari dello Sta-to» di fronte alle dimissioni che l’onesto e duro piemon-tese gli rassegnava il 7 settembre dovette cedere, rappat-tumarsi con lui, lasciargli finalmente via libera2286. E daallora nessun ministro ebbe più da sostenere col re lottedi tal genere, salvo per un momento, e con assai minorasprezza, nell’estate del ’73 il Minghetti quando dovetteinsistere sulla necessità del viaggio a Vienna e a Berlino.

Ma non soltanto la resistenza di ministri poco dispostia cedere alle voglie del sovrano condusse Vittorio Ema-

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nuele a desistere dai troppi progetti personali. Di assaimaggiore efficacia fu senza dubbio, a tal fine, la trasfor-mazione dell’assetto europeo avvenuta proprio nel ’70.

Il Re aveva, in fatto di relazioni internazionali, forma-ta la sua educazione nell’età napoleonica; egli era legatoall’alleanza francese non solo sentimentalmente, sì ancheconcettualmente, nel senso di essersi avvezzato a ponde-rare le situazioni, a calcolarne gli sviluppi e a deciderequindi la via da tenere sempre partendo da una situazio-ne europea dominata dal fattore Secondo Impero. Alme-no dal ’58 le cose erano andate così: punto fisso di rife-rimento, stella polare verso cui il Re drizzava lo sguardoper orientarsi nell’intrico dei problemi europei era, sem-pre, l’amico Napoleone III. E se già nello sviluppo ge-nerale della politica estera italiana l’alleanza con la Prus-sia del ’66 era stata niente di più che un semplice episo-dio, assolutamente incapace di mutare il significato e l’o-rientamento generale di quella politica, vale a dire lega-me con la Francia, tanto più vero quest’era per VittorioEmanuele II.

Ora, improvvisamente, tutto questo era mutato. Crol-lo del Secondo Impero; avvento al primo posto in Euro-pa di una potenza, la Prussia-Germania, verso cui il reera sentimentalmente poco propenso – e lo doveva di-mostrare ancora la sua riluttanza nel ’73 al viaggio a Ber-lino: completo scombussolamento di valori, di posizioni,e un panorama generale irriconoscibile dove, ad orien-tarsi, occorreva dimenticare un dodicennio di esperienzee affidarsi all’intuito, al fiuto politico per veder di crear-si una nuova esperienza, adatta ai tempi nuovi. Ancora:prima del ’66 e del ’70, Venezia e Roma, poi fino al ’70solo Roma, ma sempre Roma; clima identico moralmentea quello del ’59-60, diritto di nazionalità, italianità, fuo-ri lo straniero; e ancora e sempre i rivoluzionari, il parti-to d’azione, Mazzini. Dopo il ’70. l’Europa bismarckia-na, dove gli appelli di un decennio innanzi non serviva-

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no più; l’Italia anche a Roma, e quindi finita la funzio-ne bellica e internazionale del programma di un decen-nio; perfino Mazzini, vecchio, stanco, deluso, anche luiormai fuori dei tempi.

Aggiungi che Napoleone III si prestava mirabilmentecome partner per una partita a doppio giuoco: ostensi-bilmente i ministri degli Esteri, una volta scomparso Ca-vour; dietro le quinte, gli agenti di fiducia dei due sovra-ni, che trattavano ad insaputa dei ministri, alle spalle deiministri2287, i quali poi da fedeli monarchici dovevano co-prire con la loro responsabilità e con il loro silenzio leavventure del sovrano2288. La «sfinge», il tenebroso del 2dicembre, era proprio quel che ci voleva. Tali essendo idue protagonisti, l’amicizia e la parentela avevano forni-to un buon terreno di manovra; e Arese Pepoli Vimerca-ti da una parte, e il principe Gerolamo dall’altra avevanoservito ottimamente da comprimari.

Ora, invece, una corte, quella prussiana, con cui v’e-rano rapporti corretti, ma nulla più; anzi, nell’imperatri-ce Augusta una decisa avversione all’Italia e al suo re2289,ostentatamente dimostrata nel ’73, con l’assenza da Ber-lino durante il soggiorno di Vittorio Emanuele. Né Gu-glielmo I era uomo da correggere e far di testa propria,ripetendo la situazione delle Tuileries con Eugenia av-versa e Napoleone III ugualmente avviato a far quel chevoleva. Soprattutto, a Berlino impossibile ci fosse unapolitica segreta, di corte, diversa da quella ufficiale: erancose nemmeno da sognare, quando il timone del governoera in mano ad un nocchiero della forza del Bismarck.

Non solo, dunque, situazione generale completamen-te diversa, ma anche estrema difficoltà di trovare ora deicompagni di giuoco, per una politica segreta e dinasti-ca: fatto, questo, di grandissima importanza ove si pensiche il segreto del re presuppone strette relazioni perso-nali fra l’uno e l’altro capo di Stato, e ove si pensi, in par-ticolare, alla psicologia di Vittorio Emanuele II, fantasio-

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so e voglioso di agire in proprio, ma d’altro canto abitu-dinario, difficile nel contrarre nuovi legami, poco capa-ce di muoversi solo che gli si cambiassero i punti di ri-ferimento soliti. Invecchiava; aveva sempre più la sensa-zione di vivere in un mondo cattivo2290; Roma stessa glidava, con la fierezza per il Campidoglio salito2291, anchegli scrupoli di coscienza per il Vaticano offeso. Facevanpresto gli altri, Sella in testa, a gridare viva Roma capita-le: ma chi ci andava di mezzo, con la sua anima, era lui,il sempre cattolicissimo Vittorio Emanuele, che già il 25maggio del ’59 aveva scritto a Pio IX per averne l’assolu-zione, trovandosi all’esercito, in scontri micidiali «in pe-ricolo di morte ad ogni istante, e che giusto l’anno primadel Venti Settembre, gravemente infermo a San Rossore,aveva chiesto telegraficamente il perdono e la benedizio-ne del Papa2292. Ora, a tutti i vecchi guai con la Chiesas’era aggiunta anche la breccia di Porta Pia: e chissà cheal re non tornassero in mente le paure della madre con-vinta che Carlo Alberto soffrisse le pene del purgatorio«per avere iniziato questi affari»!2293

Quel «povero Vittorio» pensava e diceva Pio IX2294,che, pur fra i lampi e i tuoni delle proteste ufficiali, ser-bava sempre per il Re un che di affettuoso e di paterno,risalente su negli anni ancora a prima il ’48: povero Vit-torio, sempre attorniato da una banda di lestofanti, pri-ma i d’Azeglio, Cavour, Rattazzi, ora i Lanza e i Sella.Ma, a sua volta, re Vittorio pensava, con certa tenerez-za non priva di rimorsi, al «povero papa», anche lui cir-condato da «cattive teste» – e di cattive teste ve n’è, sot-to ogni bandiera – a quel «povero vecchio», a cui ne ab-biamo già fatte abbastanza; ed egli voleva usar tutti i ri-guardi «pour se pauvre diable de Saint Père: il m’aime,je le lui rends»2295.

Infastidito e stanco, sempre più egli tendeva a chiu-dersi in un suo cerchio di costumanze, sempre più rilut-tava ai pesi esteriori della dignità regale2296, sempre più

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era ostile (e gran viaggiatore non era stato mai!) ai viaggiall’estero, alle seccature del veder facce nuove e contrar-re nuovi legami. Tanto meno dunque gli poteva garba-re una situazione come quella di dopo il ’70, nella quale,chi avesse davvero voluto ricominciare politiche perso-nali, doveva anzitutto cominciare col guadagnarsi il soli-tario di Varzin.

Perciò la partecipazione del re alla politica estera ita-liana fu, senza alcun dubbio, meno intensa e attiva diquanto non fosse stata nel periodo intercorso fra la mor-te di Cavour e la presa di Roma2297.

Minor partecipazione non volle tuttavia dire comple-ta astensione. Questo era impossibile, per un uomo co-me Vittorio Emanuele II, anche invecchiato, anche a di-sagio nella nuova situazione generale. Affari esteri e co-se militari continuarono ad essere sino alla fine i due set-tori della vita nazionale a cui egli più volentieri rivolselo sguardo, secondo gli insegnava la secolare tradizionedella sua e delle altrui case regnanti: una tradizione cheprofondava le sue radici nell’età dell’assolutismo monar-chico quando, non essendoci problemi politici interni,con l’autorità concentrata nel principe, e solo trattando-si, dentro, di sistemare per il meglio le cose di finanza, lavita dello Stato si poteva compendiare nell’attività dei di-plomatici, intesa a prevenire guerre o a provocarle, e inquella dei militari, fermo sostegno del trono e speranzadi futuri ingrandimenti territoriali2298. Per quanto il mitod’azegliano l’avesse consacrato Re Galantuomo, VittorioEmanuele era sempre, d’istinto, soldato e, almeno comevelleità, orditore di trame diplomatiche: fra generali e di-plomatici reclutava le persone di sua fiducia, i consiglie-ri più graditi, accordando loro una stima ed un’amiciziache nessun ministro, nessun parlamentare si ebbe mai.Fino all’ultimo, e nonostante d’Azeglio Cavour RicasoliRattazzi Minghetti Lanza; nonostante la personale appa-renza, la bonarietà ridanciana dell’accoglienza, il disin-

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volto passar sopra l’etichetta formale, l’affabilità e perfi-no quella spesso ostentata grossezza e crudezza popola-resca di modi, che tanto incantava il piccolo borghese eil contadino, fino all’ultimo egli rimase il re, re per gra-zia di Dio, posto ad immensa distanza da qualsiasi deisuoi interlocutori2299: e proprio questa autorità egli vollesempre salvare con uno spirito non troppo dissimile daquello dei suoi antenati di prima il ’48, riducendo al mi-nimo la volontà della nazione che, per vero, anche nel-la formula consacrata dall’approvazione del Parlamentoveniva solo al secondo posto2300. I ministri erano i «suoi»ministri: nel che certo aveva dalla sua la lettera dell’art.65 dello Statuto2301 e anche lo spirito con cui Carlo Al-berto aveva concesso la Costituzione, ma non più l’inter-pretazione che dello Statuto s’era data e aveva definitiva-mente trionfato con la crisi Calabiana2302. E perciò, perquesti ministri che si sentivano ormai i ministri del pae-se, egli nutriva, fondo fondo, diffidenza e, antipatie per-sonali aiutando, financo avversione2303.

Tale diffidenza, istintiva, innata quasi come la passio-ne per le donne e per la caccia, era stata all’origine del-le sue velleità di politica personale; tale diffidenza è age-vole riscontrare nel suo interesse ai problemi di politicaestera anche dopo il ’76. I deputati hanno, spesso, pocasaggezza; i ministri, anche se buoni, passano, e tra l’unoe l’altro ministro non c’è continuità di direttive; gli unie gli altri possono essere costretti a soggiacere alle pres-sioni della piazza: garante della continuità della politicaestera deve essere il Sovrano. Tanto più quando ci si tro-vi in situazioni delicate e si debbano mantenere rapporticorretti, se non proprio cordiali, con una potenza estera,con la quale vi sono profonde e costanti ragioni di attrito.

Di fatto, s’egli intervenne nelle relazioni con la San-ta Sede, cercando di smussare gli angoli, quando fossepossibile2304; se avocò a sé la questione di Spagna, duran-te il difficile regno del figlio Amedeo2305; se tenne d’oc-

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chio Parigi e personalmente il Nigra, se intervenne ta-lora anche in altre questioni2306, i rapporti su cui Vitto-rio Emanuele II cercò di influire direttamente, dal ’75 al-la morte, buttando nella bilancia la sua autorità e impe-gnando personalmente la sua parola, furono i rapporticon l’Austria-Ungheria.

Era la vecchia nemica. Ma dopo il ’66 e con l’atteg-giamento complessivamente benevolo serbato dal gover-no di Vienna nella questione romana, si poteva anche di-menticare il passato tanto più in una situazione generaleeuropea così mutata. Ad occidente, anziché sull’allean-za bisognava ora, far conto su di una malcelata ostilitàfrancese, almeno fino al ’75-’76. L’Italia non poteva per-mettersi il lusso di una seconda ostilità, ad oriente: ne-mica l’Austria, ma a patto di aver con sé la Francia; nonnemiche l’una e l’altra insieme2307.

Era una ragion politica imperiosa, che faceva passareassai in seconda linea anche Trento e Trieste; una ragionein cui convennero allora e poi, per molto tempo, tuttigli uomini di governo italiani, dal Visconti Venosta alRobilant al Crispi.

Ma c’era un secondo motivo che invogliava il Sovra-no a seguire con occhio attento le relazioni fra Roma eVienna e ridestava un po’ gli antichi ardori. Del vec-chio sistema politico ch’egli aveva appreso a ben cono-scere, crollato l’impero napoleonico rimaneva, nel con-tinente, proprio soltanto l’impero asburgico. Meglio an-cora, rimaneva la corte asburgica: vale a dire, un centrocon cui era ancora possibile le secret du Roi, come quelloin cui politica estera e questioni militari rimanevano benstrettamente nelle mani dell’imperatore e dei suoi consi-glieri, sfuggendo all’azione del Parlamento e alla pressio-ne dell’opinione pubblica. Dei due che avrebbero dovu-to essere i compagni di giuoco nella vagheggiata TripliceAlleanza del ’68-69, rimaneva solo Francesco Giuseppe:ma, insomma, uno c’era ancora con cui riprendere per-

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sonali contatti, al disopra dei ministri. E con quest’unoc’erano i non mai rotti vecchi vincoli di parentela2308.

Situazione delle cose, diremo situazione obbiettiva, epossibilità di carattere soggettivo, vale a dire possibili-tà di agire nello stile delle pratiche a cui già era avvez-zo, spinsero Vittorio Emanuele a cercar d’intervenire,rendendosi personalmente e direttamente garante del-la condotta pacifica, anzi amichevole del suo paese neiconfronti della Duplice Monarchia. Già nel giugno del’74, quando gli venne sottoposta la nota dell’Andràssyal Wimpffen in data 24 maggio – il documento che rac-chiude la politica asburgica verso l’Italia sino al 1915 –,già allora egli aveva apertamente dichiarato di approva-re in tutto e per tutto i concetti espressi dal capo del-la politica austriaca2309: ed erano concetti che tagliava-no corto ad ogni possibilità di discussione sulle terre ir-redente, anche sotto forma di «compensi», e rendevanovane le speranze, di origine balbiana sull’inorientamentodell’Austria con abbandono di ogni terra italiana. E giàallora era personalmente intervenuto perché non si rin-novassero dimostrazioni irredentistiche; e aveva poi ab-bondato in espressioni d’amicizia per Francesco Giusep-pe, tanto da metter in imbarazzo, a Vienna, il conte diRobilant2310.

Ma fu l’incontro di Venezia, nell’aprile del ’75, a de-cidere il re di cercare un collegamento diretto con Vien-na, anche al di fuori del proprio ministro degli Esteri.Commosso per l’atto indubbiamente amichevole e gen-tile di Francesco Giuseppe che, per restituire la visitaa Vienna, aveva scelto, lui personalmente2311, proprio laperla dell’Adriatico, sua fino a nove anni innanzi, il relo fu2312: e ne aveva ragione. E allora, in quell’atmosfe-ra rasserenata, Vittorio Emanuele non soltanto s’impe-gnò virtualmente, con le sue proteste di amicizia fedele,a porre una pietra sulle questioni territoriali fra Italia eAustria-Ungheria, ma diede inizio ai suoi rapporti diret-

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ti, personali con il governo di Vienna. «... al momento disepararsi, re Vittorio parlando col conte Andràssy, dopoaver riconfermato i sentimenti di buona amicizia e dellaSua volontà di mantenerla, soggiunse: s’il arrive quelquechose qu’il soit important que je sache, dirigez vous à ce-lui là (designando Aghemo). Les Ministre passent: maiscelui là est toujours auprés de Moi. Queste parole le houdite io.» Così, il 21 ottobre 1879, il gran cacciatore diUmberto I e già di Vittorio Emanuele II, generale Berto-lè Viale, raccontava all’amico conte di Robilant la scenadi Venezia2313; e la raccontava traendo motivo dalla nuo-va e diversa scena svoltasi, alcune settimane innanzi, fraUmberto I e lo Haymerle. Il nuovo ministro degli Esteriaustro-ungarico, sino allora ambasciatore presso il Qui-rinale, recatosi a prender commiato dal re il 2 ottobre,aveva anzitutto cercato di rimettergli copia della famosanota Andràssy del maggio ’74, traendola dalla tasca delsoprabito; poi, di fronte al diniego di Umberto, gli avevachiesto «nel caso di qualche incidente, di poter commu-nicare con Lui direttamente per lettera, senza rivolger-si ai Suoi Ministri; conformandosi così a ciò ch’era statoconvenuto dal re Vittorio Emanuele col conte Andràssy,e confermato (asserisce l’Haymerle) da un telegramma diAghemo allo stesso conte». Questa volta, però, l’atmo-sfera non era quella di Venezia, e il cauto Umberto nonaveva più la facilità d’iniziativa del padre; e allo Haymer-le toccò la risposta «che il fare ciò avrebbe denotato esi-stere appunto quella diffidenza fra i due governi che lefatte dichiarazioni escludevano. Essere Egli [il re] per-suaso che, senza ricorrere a cotali mezzi, le relazioni fra idue governi sarebbero state buone come in passato»2314.

La risposta era assai più corretta costituzionalmen-te e giusta politicamente dell’iniziativa assunta da reVittorio2315; ma appunto perché veniva dopo un perio-do di rapporti diretti fra il Sovrano d’Italia e il governodi Vienna, essa poté dar l’impressione, a chi la ascoltava,

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di un mutar di umore da parte italiana. A caso vergine,si poteva essere amici senza essere alleati; difficile invecedopo un’alleanza cessata rimanere amici come prima, an-che a dichiararlo esplicitamente, perché ci sarebbe sem-pre qualcosa di cambiato, forse più in apparenza che inrealtà, ma ci sarebbe o almeno si crederebbe che ci fos-se: così ammoniva il Nigra, il 9 agosto del 1886, rispon-dendo al Robilant che gli aveva significato la sua inten-zione di non fare alcun passo per il rinnovo della Tripli-ce quale era2316. Osservazione identica si poteva fare cir-ca il diverso comportamento dei due Sovrani. Male ave-va fatto l’uno, ripigliando la cattiva abitudine dei rappor-ti personali con governi esteri, all’insaputa dei ministri; el’altro, per svincolarsi da tali ingranaggi, in cui d’altron-de non avrebbe saputo muoversi con la disinvoltura delpadre, era costretto ad un diniego che poteva anche sem-brare mutar di politica. Certo, nessuna meraviglia che loHaymerle si partisse sospettoso e diffidente.

Comunque, quale si dovesse poi essere il contegno dire Umberto, a Venezia Vittorio Emanuele aveva aper-to una nuova via, riproponendosene gran benefici perle buone relazioni del suo paese con l’impero asburgico.Anche questa volta, gli eventi dovevano e avrebbero do-vuto disingannarlo: nonostante tutte le sue proteste diamicizia e le sue regali attestazioni che le cose sarebberofilate come ordinava lui, volenti o nolenti i ministri, ta-li relazioni divennero negli ultimi tre anni di sua vita piùtorbide che mai. Ma il re era, almeno inizialmente, con-vinto che, mettendosi lui di mezzo, le cose sarebbero fi-late liscie. Les ministres passent: era proprio la diffidenzaper il regime parlamentare, discontinuo e vario, ad ispi-rare, ora e per l’innanzi, l’azione personale del Sovrano.Le Roi reste: e così, una parola regale era garanzia sicu-ra, incrollabile. Se necessario, il re avrebbe agito sui mi-nistri, perché il «maestro di cappella» era lui2317: questomotivo, non accennato nel ’75, quando al potere erano

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Minghetti e Visconti Venosta, due uomini cioè di cui po-teva ancora fidarsi, venne invece svolto più tardi, nei col-loqui fra Vittorio Emanuele e l’ambasciatore austriaco,quando al potere era la Sinistra, gente assai più sospetta.

Certo, dopo la «rivoluzione parlamentare» del marzo1876, che a dirla rivoluzione può far sorridere, oggi, mache allora parve veramente la fine di un’epoca e l’iniziodi un’altra, certo Vittorio Emanuele strinse in pugno lebriglie, assai allentate fra il ’70 e il ’76; e cominciò adordinare agli ambasciatori, a mezzo del fido Aghemo,che riprendessero a corrispondere direttamente anchecon lui2318. E mentre prima il suo interesse personale erarimasto confinato, generalmente, a re Amedeo in Spagnae alla regina Maria Pia in Portogallo, là dove cioè v’era unpreciso legame dinastico, ora carteggiò anche con il ducadi Magenta: proprio nel ’76, poco dopo l’avvento dellaSinistra, quando – à mon insu, disse il re – il Cialdini funominato ambasciatore a Parigi, e Mac Mahon non nevoleva sapere, fu Vittorio Emanuele a pregare l’antico«fratello d’armi», che facesse buona accoglienza al ducadi Gaeta, riuscendo a strappare un sì, avec résignation2319.

Né solo l’intervento era per le questioni di politicaestera: anche quelle di politica interna erano vigilate at-tentamente dal Sovrano, che non nascondeva talora alDepretis di aver «l’animo conturbato» per la situazio-ne, eccitava il presidente del Consiglio ad adoperarsi contutti i mezzi in suo potere per far cambiare «questa si-tuazione ché pel momento non la vedo molto lusinghie-ra», togliendolo cosa da «questo stato di grave preoccu-pazione in cui mi trovo»2320; e s’inquietava per la gros-sa questione delle convenzioni ferroviarie, e «quella osti-natezza di ZanardelIi mi fa pena», perché poteva minac-ciare la situazione del Ministero2321. Oppure, al momen-to del rimpasto ministeriale nel dicembre 1877, ricorda-va all’uomo di Stradella il generale Bertolè Viale per ilministero della Guerra, e voleva sapere che cosa si faces-

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se per i portafogli della Pubblica Istruzione e dei LavoriPubblici, e suggeriva, per le Finanze, Agostino Magliani,ed esprimeva il desiderio che Depretis pensasse pure alministero dell’Agricoltura e Commercio2322. O, ancora,telegrafava al Depretis di invitare il ministro della Guer-ra a comperare cavalli, per l’artiglieria e la cavalleria2323,e di mandargli subito a Torino i ministri dell’Interno edella Guerra, con cui voleva conferire2324.

E va aggiunto che una simile partecipazione attiva diVittorio Emanuele nelle vicende politiche del suo pae-se non destava risentimento e obbiezioni ne’ suoi mini-stri d’allora, più docili che parecchi dei loro predeces-sori della Destra. Tutt’all’opposto, era talora il Depre-tis a pregare il re di affrettare il suo ritorno a Roma, per-ché voleva parlargli, sottoporgli le sue riflessioni sulla si-tuazione, su alcuni provvedimenti necessarî, e la presen-za del re avrebbe potuto rimuovere qualche difficoltà2325;e altre volte era Vittorio Emanuele ad incuorare il pre-sidente del Consiglio «abbia fede nell’avvenire che nonpuò vacillare e calcoli sul mio valido appoggio»2326; e adire che il Ministero non doveva lasciar travedere nes-sun timore per l’avvenire, essendo desiderio del re ch’es-so «si dimostri più forte che mai»2327; e il Depretis alloraassicurava «che non mi mancherà né coraggio né energiaper meritare la fiducia di V. M.»2328.

In verità, ad uomini che si trovavano al governo in unasituazione internazionale assai difficile, sempre più dif-ficile, con una situazione interna indubbiamente parec-chio migliore, ma non senza che anche qui ci fossero que-stioni grosse, e soprattutto non senza che, a renderla par-lamentarmente meno buona, non cominciassero, dopo lavittoria del marzo 1876, i dissensi interni fra personalitàe gruppi della stessa Sinistra; in verità, ad uomini simili,quasi tutti nuovi al potere, il far affidamento sul re, co-me su di un punto fermo, dovette parer gran cosa. Tantopiù che questo re, ricco di esperienza politica e uomo di

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fiuto politico, avvolto da un prestigio sempre crescente egià sconfinante nella leggenda2329, era pure uomo affabi-le, premuroso perfino, che si preoccupava della salute edegli acciacchi del povero Depretis, e gli telegrafava «So-no inquieto sapendo che Ella non sta bene faccia il pia-cere mandarmi notizie sua salute»2330: un re da cui c’erada sentirsi esprimere, chiaro e tondo, disapprovazioni emalumori,2331ma tutto questo sullo stesso tono di comu-nicativa umana che improntava poi di una nota più checordiale, amichevole, i momenti di buon umore. I «tan-ti saluti», addirittura «tanti amichevoli saluti», che chiu-devano i telegrammi del re, convogliavano quei rappor-ti in una certa atmosfera, facevano apparire nel re quasiun amico, certo un amico posto tanto più su, ma insom-ma uomo anche lui, vivo, irruento magari e prepotente,ma vivo, e non una macchina da protocollo. Che era poiil gran segreto di Vittorio Emanuele, il saper trattare congli uomini e cattivarsi gli uomini: e certo era preziosa ar-ma politica in mano sua, ed egli stava ben attento a toc-care le corde sensibili nell’animo di ognuno dei suoi va-ri interlocutori2332; ma era un’arma resa possibile dal fon-do primo della natura del re, ben conscio della sua altis-sima dignità, che lo staccava dal comune dei mortali, mapoi, per certa esuberanza e facilità e anche primitività dinatura, tratto continuamente, nel commercio con gli uo-mini, a porsi sul loro piano, quasi fosse dimentico del di-ritto divino. Qui era in gran parte il segreto del fasci-no ch’egli esercitò, indubbiamente, e non solo sui picco-li borghesi e sui contadini incantati della sua speditezzadi modi, ma anche sugli uomini politici: qui era una del-le sue doti vere di capo di Stato, che poté dunque agirepersonalmente, e non solo per imposizione ma per con-senso, quando proprio non avesse a che fare con perso-nalità di eccezione come il Cavour o con uomini rigidi edifficili come il Ricasoli e il Lanza.

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Era come se nei suoi ultimi anni il re sentisse ribollirenuovamente in sé il desiderio di comando diretto: certo,ricevendo lo Haymerle, il 6 febbraio del ’77, egli osserva-va: «c’est vrai, les Ministres appartiennent au parti tantsoit peu avancé, mais ils ont le sincère désir d’avoir lesmeilleurs rapports avec Votre Gouvernement, et s’ils hé-sitaient, je les ferai bien faire ce que je veux»2333; e parec-chi mesi più tardi gli spediva il fido Aghemo2334 per assi-curarlo, ancora una volta, nel crescente intorbidarsi dellerelazioni fra i due paesi, ch’egli rimaneva fedele ai ricordidi Vienna e di Venezia, che voleva contraccambiare conlealtà la lealtà dimostratagli da Francesco Giuseppe, chei ministri conoscevano questa sua volontà e non avreb-bero mosso un dito a sua insaputa2335. Ancora nell’ultimaudienza accordata allo Haymerle, il 31 dicembre, irrita-to com’era per le cosiddette rivelazioni della Neue FreiePresse ribatteva esser male non fidarsi di lui, che avevadata la sua parola di essere amico dell’imperatore, e insi-steva sul moi2336, secondo una vecchia consuetudine chegli era stata cara una volta anche nei rapporti con PioIX2337. Tanto insisteva, da porre in imbarazzo l’interlo-cutore, il quale non poteva evidentemente esprimergli isuoi dubbi: e dubbi ne nutriva parecchi, non sulla buo-na volontà, ma sulle reali possibilità d’azione di VittorioEmanuele2338.

Tuttavia, qualche cosa il re poteva fare; era un buonterreno da sfruttare, riteneva l’ambasciatore austriaco2339.Ed effettivamente qualche cosa Vittorio Emanuele fece,almeno in quell’anno 1877, che doveva essere il più agita-to di quanti si fossero seguiti da tempo, nella storia dellerelazioni italo austriache; né si limitò a spedire dal nuovoambasciatore austro-ungarico, Haymerle, il suo missusAghemo, per ripetergli le assicurazioni che il Sovrano ve-glierebbe a che non sopravvenisse alcuna deviazione dal-la linea di correttezza nei rapporti con l’Austria, e per of-frirsi nuovamente quale intermediario per eventuali co-

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municazioni confidenziali e dirette con Sua Maestà2340,ma premette, in casi concreti, sul governo. Quando in-fatti, nell’aprile, s’approssimò la discussione alla Came-ra sulla politica estera del ministero, Vittorio Emanuelefece pervenire precise istruzioni al Depretis, inviandoglianche l’Aghemo da San Rossore2341, sul tenore della ri-sposta da dare alle varie interrogazioni, in senso pacificoe pacificatore2342: istruzioni che vennero rispettosamen-te eseguite, giacché i discorsi del Melegari e dello stes-so Depretis, alla Camera, il 23 aprile 1877, non furononella sostanza che una serie di variazioni sul tema prefis-so dalla volontà sovrana, culminanti nelle parole del De-pretis che l’Italia «ha regolato onorevolmente le sue re-lazioni con tutte le potenze, più specialmente con quel-le che le sono vicine [leggi Austria-Ungheria] e di cui es-sa considera la prosperità come la sua prosperità e comeprincipale condizione della sua sicurezza»2343.

Lo Haymerle, subito avvertito dall’Aghemo di questoregale intervento, poteva essere soddisfatto2344; e non me-no soddisfatto doveva essere qualche settimana più tar-di, quando il compiacente missus regio gli raccontò, anome espresso di Vittorio Emanuele, che allo scoppiodella guerra russo-turca il Consiglio dei ministri avevaseriamente discusso se non fosse il caso di procederead armamenti e a lavori di fortificazione ai quali, datala situazione, sarebbe stato impossibile togliere carattereanti-austriaco, e che era stato Vittorio Emanuele a pro-nunziare un «no» deciso, seguito dalla pronta sottomis-sione dei ministri2345. Atto di amicizia per l’Austria, che ilre desiderava venisse recato a conoscenza di Sua MaestàApostolica, e che, com’è ovvio, provocò il ringraziamen-to di Vienna e l’attestazione della fiducia di FrancescoGiuseppe nei sentimenti del suo regal fratello italiano2346.

E anche quando non si giungesse propriamente adinterventi di fatto, le parole di Sua Maestà erano recise ecalorose, nel senso dell’amicizia con l’impero asburgico.

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S’era allora in piena campagna irredentistica; ma il re nonesitava a sconfessarla apertamente ne’ suoi colloqui conil rappresentante di Vienna presso il Quirinale.

Già al Gravenegg, l’ultimo giorno del ’76, aveva di-chiarato che la polemica di stampa sul Trentino, origina-ta dal notissimo articolo de L’Opinione, il 3 ottobre 1876,gli aveva causato la più penosa impressione; ma ch’essatraeva origine da gente miserabile2347 e muoveva da in-tenti ostili al ministero Depretis – dunque, era ispirataanzitutto da ragioni di politica interna. Quando poi ilnuovo ambasciatore, lo Haymerle, affrontò risolutamen-te, nella sua prima udienza, lo scabroso tema, il re, do-po aver già inizialmente dichiarato di non volerne sape-re di tutte le polemiche e dimostrazioni provocate dagliirredentisti2348, interruppe con un «ma certo!» oltremo-do significativo il suo interlocutore, che chiedeva all’Ita-lia di considerare, in ogni evenienza, interamente chiusii conti con l’Austria2349.

Nonostante tutto questo la crisi diveniva sempre piùacuta, le polemiche di stampa più aspre; né valeva cheil re, a mezzo del Robilant prima – di passaggio a Ro-ma – e quindi dell’Aghemo facesse nuovamente sapereallo Haymerle, nel novembre, la sua ferma volontà di tu-telare i buoni rapporti tra i due Stati2350. Negli ultimigiorni di dicembre, come già si è rammentato, ad ope-ra della Neue Freie Presse scoppiava la grana delle as-serite dichiarazioni dell’Andràssy dinanzi alla delegazio-ne cisleitana in senso ostile, anzi addirittura minacciosoper l’Italia; e malcontento, eccitato, seccato soprattuttoperché a Vienna non si credesse alla sua parola, Vitto-rio Emanuele si lasciava andare ad una di quelle espres-sioni forti e fanfaronesche non infrequenti in lui: l’uo-mo, che nel 1850 aveva dichiarato il suo disprezzo per lacanaglia popolare2351, che nel ’67 lamentava non gli fos-se stato possibile effettuare il suo piano, lasciar i gari-baldini entrare in Roma, concentrarvisi in venti o trenta-

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mila, e poi marciare contro di essi e massacrarli, in mo-do che non ne rimanesse traccia2352, nel ’77, affermandodi non pensare né al Trentino né all’Albania, diceva al-l’ambasciatore d’Austria che coloro i quali nutrivano talimire in Italia venivano considerati come «cani»2353. Chenon erano cose da dire in quella forma, da parte di unSovrano, e nemmeno in quel momento, ad un ambascia-tore d’Austria-Ungheria. E s’è vero che in bocca ad unuomo come re Vittorio, compiaciuto del parlare grosso,popolaresco e anche smargiasso, affermazioni di tal ge-nere suonavano, per l’interlocutore attento, meno gravidi quanto non sarebbe successo in bocca ad altri2354, è an-che vero che da questo suo modo di fare, da questa faci-loneria, spesso voluta e calcolata per impressionare l’in-terlocutore con la crudezza delle espressioni, il re veni-va trascinato oltre il segno, così da umiliare in modo nondegno movimenti d’idee e d’affetti ch’erano, allora, in-tempestivi e pericolosi, ma che non erano da cani.

E qui appunto era il pericolo di simili interventi per-sonali del re, al di sopra e al di fuori dei suoi ministri; quigli «imbrogli» ch’egli combinava alle loro spalle poteva-no diventare fonte di guai grossi. Che egli si preoccupas-se assai delle relazioni con l’Austria-Ungheria e le deside-rasse su piano amichevole e si opponesse agli schiamaz-zi intempestivi delle dimostrazioni di piazza, questa erauna gran prova di serietà e di buon senso: di quel buonsenso o meglio intuito politico che già altre volte gli ave-va fatto scorgere la via giusta, anche contro il parere deiministri perfino contro lo scatto violento di un Cavour,com’era successo a Monzambano nel luglio del ’59. Nonsolo legittimo, dal punto di vista costituzionale, ma giu-stissimo, politicamente, che all’occorrenza egli invitassei ministri a considerare con molta attenzione i rapporticon la Duplice Monarchia e li ammonisse sui pericoli diuna politica troppo disposta ad oscillare secondo gli in-flussi della piazza. Ma estremamente grave ch’egli si inol-

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trasse su di una via di rapporti personali, dei quali i mi-nistri responsabili erano perfettamente all’oscuro e cheavrebbero anche potuto condurlo, e con lui il paese, inuna situazione tale da rendere ancora più minaccioso ilpericolo che si voleva evitare. Nulla, ancora, di riprove-vole politicamente s’egli si facesse inviare rapporti perso-nali, dal conte di Robilant o dal de Launay o dal Mena-brea; ma che egli poi ordinasse al Robilant, ad insaputadel ministro degli Esteri, di muovere osservazioni al go-verno di Vienna, questo era un grosso pasticcio politico,anche a prescindere dalla scorrettezza costituzionale.

Se ottime dunque erano le intenzioni, malfida era lavia seguita per attuarle. Ma non c’era poi nemmentroppo da stupirne; ché rispondeva in tutto e per tuttoal carattere di Vittorio Emanuele II, re costituzionale, sidiceva, e galantuomo, ma in cuor suo convinto che i graviaffari di Stato, ch’eran politica estera e questioni militari,i «laici», i borghesi non li avrebbero mai capiti bene,tranne, proprio, si trattasse di un uomo come il Cavour– e ancora, anche con lui era bisognato stare attenti. Erauna concezione ancora affatto personalistica dello Stato:il moi continuava a risuonare in bocca al re non troppodiversamente, poi, da come era risuonato in bocca ad unCarlo Alberto prima dello Statuto; e i rapporti personalifra sovrani continuavano ad essere considerati «il piùvalido anello» tra i diversi Stati2355.

Concezione, quest’ultima, ch’era d’altronde allora tut-t’altro che rara e propria del nostro, essendo invece co-mune, ben comune, agli altri monarchi dell’Europa con-tinentale, da Guglielmo I di Germania allo zar Alessan-dro II e, naturalmente, a Francesco Giuseppe; persino,almeno sotto forma di velleità non mai del tutto sopite,a Vittoria d’Inghilterra, che pur aveva dovuto chinar piùdegli altri il capo di fronte ai suoi ministri. Non ci si ap-pellava forse all’affetto fra zio e nipote, fra Guglielmo Ie Alessandro II, alla tradition séculaire, al legs sacré, que

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nos pères d’auguste mémoire nous ont transmis, per man-tener buoni i rapporti tedesco-russi ancor quando il Bi-smarck lottava per imporre al suo re e signore l’alleanzacon l’Austria, contro la Russia?2356

Anche fuor de’ sovrani, non solo gli uomini di cor-te o vissuti a lungo nell’intimità della corte, ma, in ge-nere, i militari e spesso i diplomatici come, nel caso no-stro, un de Launay e un Robilant, consideravano elemen-to di molta e talora decisiva importanza i rapporti dina-stici e l’amicizia personale de’ monarchi. Il vincolo di-nastico era ancora un fattore non interamente trascura-bile nei rapporti internazionali; la sua epoca stava perchiudersi, non era ancor chiusa del tutto: che i due oc-chi di un monarca di dinastia legittima fossero più sicu-ri che quelli di un ministro transeunte2357, questa era con-vinzione non del solo Vittorio Emanuele II; che la perso-na del Sovrano potesse, sola, offrir la necessaria garanziaai buoni rapporti fra due paesi, mentre la politica di unministero non impegnava i suoi successori, questo lo do-veva ripetere, ancora nell’ottobre 1881, il Blanc, segreta-rio generale agli Esteri, gran propugnatore del viaggio aVienna di Umberto I2358

Nessuna meraviglia, pertanto, che un re a fondo im-perioso e autoritario, sotto l’apparenza da bonaccione,come Vittorio Emanuele II, ben convinto di essere «ilRe», cioè il capo per secolare tradizione e per diritto di-vino, credesse, dando la sua parola, di assicurare l’ami-cizia italo-austriaca; e che, al crescer dei sospetti in Au-stria contro l’Italia, anche dopo la sua parola, si ritenessepersonalmente offeso e lo dichiarasse senza ambagi.

La sua parola. Lo Haymerle ci credeva; ma qualcunoavrebbe potuto obbiettare: e come conciliare queste di-chiarazioni di amicizia per l’imperatore d’Austria, di fe-deltà alla parola data, di avversione alle mene irreden-tistiche, con la missione Crispi, che cadeva proprio inquello stesso anno 1877 così ricco di regali attestazioni?

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Il dubbio nasce infatti spontaneo, quando si richiamialla memoria la lettera che il Crispi scriveva da Torino alDepretis, il 27 agosto 1877, subito dopo il suo colloquiocol re e prima della partenza alla volta di Parigi.

Il re, ch’era di buon umore – osserva il Crispi – nullaspera da una combinazione in conseguenza della guerradi Oriente, perché è ormai tardi per noi; tuttavia mi rac-comandò di fare tutto il possibile per vedere di entrarcicon qualche profitto. Diverso fu il suo linguaggio circa,lo scopo vero del viaggio, cioè l’alleanza con la Germa-nia. «Il re sente il bisogno di coronare i suoi giorni conuna vittoria per dare al nostro esercito la forza e il pre-stigio che in faccia al mondo gli mancano. È linguaggioda soldato e lo comprendo... E il re ha purtroppo ragio-ne. Se nel 1866 i generali non ci fossero mancati ed aves-simo vinto nel Veneto e nell’Adriatico, gli austriaci nonoserebbero parlare e scrivere di noi siccome fanno.»2359

Poteva esserci, in quest’espressione, un po’ di Vitto-rio Emanuele e un po’ di Crispi: l’uomo politico sicilia-no non era, sicuramente, un fedelissimo e preciso rife-ritore di cose udite o viste, come che la sua personalitàtendesse sempre a sovrapporsi su quella altrui2360. Per lomeno, poco adatto a rendersi conto della psicologia deisuoi interlocutori e poco avvezzo in particolare a Vitto-rio Emanuele, riaveva aver preso troppo alla lettera ta-luna di quelle frasi alla spaccona che Vittorio Emanueleera solito buttare nel discorso, e che bisognava coglierecon beneficio d’inventario. Ma nessun dubbio è più pos-sibile, quando si rileggano le istruzioni segrete del De-pretis al Crispi, di quello stesso 27 agosto. Perché in es-se veniva esplicitamene dichiarato che il volere del re,d’accordo col presidente del Consiglio, era «di stringerein modo più intimo i rapporti amichevoli dell’Italia conla Germania» addivenendo «ad un accordo concreto ecompleto col mezzo di un trattato di alleanza che fon-dandosi nei comuni interessi provveda a tutte le even-

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tualità. Gl’interessi italiani possono essere offesi non so-lo dalla prevalenza del partito oltramontano [in Francia],ma anche dall’ingrandimento dell’Austria coll’annessio-ne di alcune provincie ottomane, possibile conseguenzadella guerra d’Oriente. È desiderabile che i due governisi mettano d’accordo anche su questo punto»2361.

Interessi italiani minacciati dall’eventuale occupazio-ne austriaca della Bosnia-Erzegovina: ma era proprioquesto il leit-motiv di tutta la campagna di stampa ita-liana, a cominciare dal celebre articolo dell’Opinione il3 ottobre del ’76, che aveva messo a rumore gli ambien-ti viennesi e che il re aveva apertamente condannato neisuoi colloqui col Gravenegg e con lo Haymerle; era pro-prio questo l’appiglio a cui si afferravano gli irredenti-sti, per chiedere i compensi nel Trentino e sull’Isonzo,per rispolverare i vecchi pensieri del Balbo, per spinge-re il governo a tutelare energicamente i diritti italiani!L’alleanza chiesta alla Germania doveva servire, per l’I-talia, anzitutto contro l’Austria, non contro la Francia:questa era la «grave questione e la più urgente» che im-pensieriva il Depretis2362, anche se il Crispí, viste inuti-li le insistenze sul problema dell’Austria e dei compensi,con rara imperizia insistesse poi per un’alleanza controla sola Francia, che avrebbe servito essenzialmente allaGermania2363.

Ora, il Sovrano voleva anch’egli l’alleanza germanica:il colloquio col Crispi a Torino, prima della partenza, el’altro a viaggio compiuto, il 23 ottobre2364; i continui te-legrammi e rapporti con cui il presidente della Camerainformava via via il Sovrano dei risultati del suo viaggio, iringraziamenti di Vittorio Emanuele, il suo preoccuparsiper gli interessi italiani minacciati a Oriente, parlano unlinguaggio a sufficienza chiaro. E dunque, Vittorio Ema-nuele, che nella primavera del ’77 aveva più volte datola sua parola di rimanere fedele e leale amico dell’impe-ratore d’Austria, nell’agosto-settembre dello stesso anno

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non fu alieno dal combinare un giuoco che, riuscendo,avrebbe messo con le spalle al muro l’amico FrancescoGiuseppe, salvo poi ad infuriarsi, a fine d’anno, perché aVienna non si faceva abbastanza conto della sua parola.

Si deve certo sottolineare che il re (e meno che me-no il Depretis) non voleva spingere la sua azione sino al-le armi. Nella fanfara guerresca riprodotta dal Crispi leparole del Sovrano assumevano intonazione che poi, inpratica, Vittorio Emanuele non avrebbe certo mantenu-to, proprio lui che, a viaggio compiuto, si rammaricavacol Crispi che governo e Parlamento gli avessero lascia-to un piccolo esercito buono soltanto alla difesa del ter-ritorio nazionale e, con un’altra delle sue spacconate, la-mentava di non poter muovere duecentomila uomini persciogliere, lui, la questione d’Oriente. Che al re prudes-sero le mani, di fronte a quel gran parapiglia balcanico,era naturale; ed era della sua natura che egli sognasse unqualche «profitto», poter arraffare qualche cosa, ranchéquaich cosa, come aveva detto al Sella a fine settembre del’70. Naturale, anche, ch’egli, al par di tanti altri Italiani,sognasse una gran vittoria militare per riscattare Lissa eCustoza: egli che appena posate le armi nel ’66, impre-cando contro i ministri incapaci e i generali bestie, so-gnava già allora di poter far vedere un’altra volta di checosa fosse capace2365. Al riaprirsi della questione d’O-riente egli avrebbe voluto che l’Italia agisse decisamentein primo piano2366; poi, s’era calmato, ma certo non sen-za che tratto tratto, a seconda delle vicissitudini interna-zionali, non riaffiorassero, desideri, aspirazioni, sogni digloria. Ma che simili desideri e velleità premessero giàal punto da poter far sognare un’azione di forza, in quelmomento, questo è da escludere con piena sicurezza.

Ancor pochi mesi più tardi, alla vigilia della morte, leparole ch’egli pronunziò per il ricevimento di Capodan-no a Corte destarono allarme: l’Italia deve farsi temere,l’accenno al fosco orizzonte politico generale, alla neces-

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sità delle spese per l’esercito, parvero di sapor bellicoso;ma quando Depretis gli accennò all’interpretazione ches’era data alle sue parole, Vittorio Emanuele, stupito, ri-batté che aveva detto cose sempre da lui ripetute (ed eravero), che non eran nuove, e non erano allarmanti2367. Leparole grosse dovevano servire a premere sui deputati,che fossero più larghi di crediti militari.

Probabilmente, Vittorio Emanuele pensava che spin-gendo innanzi il principe di Bismarck e facendogli inar-care il sopracciglio, come a Giove Olimpio, l’Andràssy aVienna avrebbe desistito dal suo non possumus riguardoagli eventuali compensi. «Fare tutto il possibile onde ve-dere di entrarci con qualche profitto»; ma anche il re cre-deva che fosse ormai tardi, che non vi fosse più posto perl’Italia, e quindi era proprio un tentativo azzardato allameglio. In fondo in fondo, v’era già un sentimento mez-zo rassegnato all’insuccesso. Era un po’ come se Vitto-rio Emanuele pensasse, che tanto valeva lasciar tentare alCrispi: forse, qualche bene poteva risultarne, all’estero,e intanto si aveva un bene sicuro all’interno, acconten-tando un uomo che, in Parlamento, poteva sempre costi-tuire un pericolo grosso per il ministero. Che questi o si-mili pensieri passassero per la mente del re, prova il fattoche a più riprese, rispondendo al Crispi il quale gli parla-va di Decazes Bismarck Derby, egli accennava esplicita-mente alle «aspirations ministérielles»2368, e gli augurava«que les espérances ministérielles se réalisent»2369: quasivolesse sviare il discorso dai fatti esterni e riportarlo al-la lotta parlamentare, quasi cercasse di accarezzare e am-mansire in anticipo il focoso uomo politico, di cui pre-vedeva imminente l’ascesa al governo. E sarebbero, cer-to, assai strani quegli accenni e quel modo di toccar ar-gomenti e quel parlare di aspirazioni ministeriali ad unoche prospettava il pericolo di una guerra con la Francia oriferiva che Bismarck e Derby, offrivano l’Albania all’I-talia qualora non si pensasse che il re avesse consentito a

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servirsi del Crispi come missus dominicus anche per averfinalmente pace all’interno e per legar destramente allasua persona uno dei maggiori tra gli uomini politici ita-liani, pericoloso sì ma non difficile da sedurre col fasci-no dell’autorità2370. Non diversamente, d’altronde, ave-va fatto il presidente del Consiglio. Il Depretis, proclivea valersi di uomini di sua fiducia per missioni confiden-ziali all’estero2371, fiducioso allora – come gli uomini del-la Sinistra in genere – in presunte solidarietà internazio-nali per ideologia di partito2372, diffidente verso i diplo-matici di professione, che non erano certo degli uominidi sinistra, era anche lui tratto a tentare un po’ di diplo-mazia segreta e a combinar inutili imbrogli alle spalle de-gli ambasciatori, sostituendo al segreto del re il segretodi partito: un segreto che doveva rivelarsi ben presto as-sai più inconsistente del primo e naufragare, con la fac-cenda di Tunisi, nella delusione dei politici italiani di si-nistra per l’azione dell’amico Gambetta. Il segreto del requalche peso l’aveva avuto nelle relazioni internazionali;il segreto di partito non servì che a generare illusioni edelusioni. Or dunque il Depretis sin dalla primavera del1877 aveva pensato di inviare presso il Bismarck un tut-t’altro uomo, Domenico Farini, suo abituale coadiutorediplomatico per i contatti non ufficiali2373. Poi, incalzan-do gli eventi, forse anche preoccupato dell’insufficienzadel Melegari, ministro degli Esteri2374, e perciò deciso adassumere nelle sue mani la direzione effettiva della politi-ca estera, si era risolto nell’estate, probabilmente solleci-tato dalla sua ninfa Egeria per i problemi internazionali,e vale a dire il Tornielli segretario generale agli Esteri2375:né giovava che in una lunga conversazione fra il Keu-dell e il Tornielli, il luglio, l’ambasciatore di Germania,il quale pure aveva agitato il pericolo francese chieden-do persino che cosa avrebbe fatto l’Italia qualora la Ger-mania fosse stata attaccata, alle argomentazioni del Tor-nielli contro l’Austria e un suo ingrandimento territoria-

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le nei Balcani rispondesse ammonendo: «io temo... chese voi cercate di legare insieme le due cose, cioè la posi-zione identica che l’Italia e la Germania hanno in facciaalla cospirazione clericale e la situazione vostra specialenella questione orientale, voi potreste avere dal princi-pe di Bismarck una risposta che non vi piacerebbe»2376.Questa «doccia fredda»2377, che avrebbe dovuto metterein guardia da ulteriori insistenze, diveniva invece motivoper confermare il Depretis nell’utilità dell’invio in Ger-mania di «una persona sicura», che cercasse di conosce-re, se possibile, le vere intenzioni del Bismarck riguardoalla questione d’Oriente, quella cioè per cui finora «noné stato possibile venire ad uno scambio d’idee, dalle qua-li desumere la possibilità di un accordo preventivo»2378.Così il Depretis, primo e maggiore responsabile di tuttala faccenda, aveva proposto il Crispi come persona «sul-la cui saviezza e discrezione» il re poteva star pienamentetranquillo2379: e aveva scelto il Crespi sia perché premutodalle sue insistenze2380, sia anche perché pensasse di po-ter così legare alla politica del governo il pericoloso ami-co, rendendolo parzialmente corresponsabile della poli-tica estera. La situazione interna del governo preoccupa-va già allora il Depretis, tutt’altro che soddisfatto, tra l’al-tro, del modo in cui si profilavano i rapporti con lo anar-delli nella gran questione dell’esercizio delle ferrovie2381;forse egli già prevedeva prossimi guai ministeriali e par-lamentari, e Crespi bisognava tenerselo buono2382. L’uo-mo di Stradella, maestro di strategia parlamentare, che iproblemi di politica estera vedeva sempre anche, per nondire soprattutto, in funzione della politica interna2383, fa-cendo piacere al Crispi legava in realtà le mani al possibi-le e pericoloso oppositore del ministero, di lui tanto me-no sottile elucubratore di manovre parlamentari2384. Cosìdovette pensare anche il re, sempre attento, anche lui, al-la situazione interna: tentar non nuoce e, comunque, an-che se il viaggio non conduce a nulla, avremo almeno ac-

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contentato il presidente della Camera, ciò che è utile perle cose interne.

Tutto questo si può, dunque, si deve anzi ammettere.Ma insomma finì con l’essere un giuoco a partita doppianon molto simpatico; e fu anche un grosso errore politi-co, in quel particolare momento.

Perché, quale si fosse il sentimento intimo del Re neiriguardi di tale missione, maggiore o minore fosse la suafiducia nell’esito, certo è che lasciando andare in giro perl’Europa, a trattare di cose delicatissime e in un momen-to in cui c’era ben poco da trattare, il presidente dellaCamera italiana, commetteva uno sproposito. E se erada lodare, non per il modo, ma almeno per la sostanzadei pensieri che lo avevano indotto a parlare e ad agirecontro le perturbazioni irredentistiche, tanto più era dabiasimare la leggerezza con cui lasciava parlare ora al Bi-smarck, a nome del governo italiano, di alleanze control’Austria, di diritti italiani a compensi sulle Alpi e simi-li cose, già irrimediabilmente condannate e dal Bismarcke dagli altri governi europei2385. Non era più il caso di«tentare», di fare il possibile per vedere di «entrarci conqualche profitto», in quella maniera: perché, così com-portandosi, si continuava quella politica del voglio e nonvoglio, dico e non dico, tutta incertezza e va e vieni conti-nui, che fu il grande errore del governo italiano tra il ’76e il ’78 e che, non arginando le attese dell’opinione pub-blica in possibili «combinazioni» future sull’Adige e sul-l’Isonzo e protestando a Londra e a Berlino contro i pia-ni austriaci d’occupazione della Bosnia e della Erzegovi-na, ma nello stesso tempo dichiarando a Vienna di vo-ler mantenere i migliori rapporti con la Duplice Monar-chia e sconfessando ogni velleità annessionistica2386, finìcon l’armar di sospetti e diffidenze non ingiustificate ilgoverno austriaco, e, alle sue spalle, quelli di Londra edi Berlino, nel mentre lasciava profondamente deluse le

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grandi speranze alimentate in patria e conduceva così al-la crisi violenta dell’estate 1878.

Accettando la missione Crispi (e con un altro al postodel Crispi, sarebbe stato lo stesso) il re accettò, anch’egli,quella politica, contraddicendo ai più sani pensieri dialcuni mesi innanzi.

Che il miraggio di qualche acquisto territoriale potes-se, di quando in quando, riaccendergli l’animo, special-mente quando il fragore della guerra, nei Balcani e nel-l’Armenia, risvegliò la sua eccitabilità soldatesca e gli fe-ce, chissà, pensare con nostalgia alle belle cariche con-tro il nemico, a Palestro e a San Martino, era naturalis-simo: anima di soldato egli era nato e rimaneva, e il so-gno della bella vittoria per coronare i suoi giorni è uma-no potesse turbare il suo riposo. Ch’egli sperasse di po-ter trar vantaggio finale dalla crisi d’Oriente, questo erapiù che logico; e non era il solo, né aveva con sé solo Cri-spi a pensar così. Ma il momento non era ancor giuntoche permettesse di sfruttare la situazione generale a van-taggio anche dell’Italia; e, soprattutto, nessun vantaggioavrebbe mai potuto ottenersi, se lo si continuava a cer-care in una rettifica di confini a spese dell’Austria, conlo sguardo fisso su Trento. Quest’era cacciarsi in un vi-colo cieco, senza possibilità di uscita. E proprio il Robi-lant, che pure aveva pensato per primo ad abbinare que-stione d’Oriente e questione delle terre irredente2387, e,anche più tardi, dichiarava che l’annessione del Trenti-no doveva essere «uno degli obbiettivi che la nostra po-litica estera non dovrà mai perdere di mira»2388, ma chesapeva pure veder chiaro nella situazione, quale s’era an-data svolgendo, aveva additato come stessero le cose nelsuo rapporto personale a re Vittorio del 26 gennaio diquell’anno, il rapporto che tanto era piaciuto al Sovrano.

«In oggi – scriveva il nostro ambasciatore a Vienna –l’arrivo a Roma del barone di Haymerle come ambascia-tore di S. M. Apostolica, mette apparentemente almeno

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termine a quello stato di tensione nelle relazioni fra i duegoverni, che già sì vivamente cominciava a preoccuparel’opinione pubblica in Italia. Dico apparentemente, poi-ché in fondo la questione che occasionò il dissenso restaaperta sino acché non venga definitivamente composta laquestione d’Oriente né sembra ciò possa verificarsi cosìpresto. Essa sta nei termini seguenti. Il governo di V.M. crede sii contrario agli interessi dell’Italia che l’Au-stria aumenti la sua potenza sull’Adriatico coll’annessio-ne della Bosnia e dell’Erzegovina. Il governo di S. M. Im-periale dal canto suo mentre afferma non essere affattonei suoi desideri di annettersi Provincie Turche dichia-ra solennemente ed in modo anche minaccioso, che ovecontro i suoi intendimenti ciò dovesse verificarsi, neppurun pollice di terreno intenderebbe cedere in compensoall’Italia. A mio avviso la ragione sta da parte nostra maritengo del pari fermamente sii inutile aver ragione quan-do non si ha il mezzo di farla prevalere. L’Austria fortedell’alleanza della Germania non ci teme, e quindi puòsfidarci impunemente. A me non risulta l’Italia abbia al-leati tali che in caso di bisogno siano disposti ad appog-giar colle armi le sue eventuali pretese, potrebbe quindimolto probabilmente capitarci ciò che toccò alla Franciacolla Germania nel 1870.

Di necessità quindi conviene rassegnarci a vedereeventualmente il nostro vicino aumentar la sua potenzasenza compromettere il nostro prestigio ed anche forsela nostra esistenza con inutili conati. Ciò che noi dobbia-mo cercare di fare si è di prepararci utili ed efficaci al-leanze studiandoci intanto di mantenere corrette relazio-ni coll’Austria, evitando dal canto nostro non solo inop-portune discussioni intorno alla questione di cui è casoma anche tutte quelle pubbliche manifestazioni che pos-sono dar appiglio a reclami a fronte dei quali come sem-pre per lo passato non abbiamo altro mezzo di sortirnese non facendo poco dignitose mal velate scuse. Ove dal

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canto nostro si segua questo cauto procedere potremoforse affrontare senza pericoli la soluzione della questio-ne d’Oriente e finir per trarne qualche vantaggio. Fermamantiensi fin qui l’alleanza dei Tre Imperatori che è ditutta convenienza per la Germania. Essa non sarà peròeterna ed il giorno verrà non prossimo però in cui si scio-glierà; gl’interessi tedeschi e russi non potendo procede-re indefinitivamente concordi. Allorché ciò si verifiche-rà non conviene farci illusioni: l’Austria restando comesono in oggi le cose in Europa, cioè perdurando l’inde-bolimento della Francia locché dobbiamo desiderare, simanterrà per necessità della sua conservazione unita al-la Germania. Né per conto mio vorrei altrimenti succe-desse, poiché ben più paventerei un’alleanza fra una re-diviva Francia e l’Austria coll’appoggio della Russia. Ilnostro interesse sarebbe si potesse stabilire e mantenerel’alleanza fra la Germania Austria ed Italia e comune colnostro, sarebbesi pure quello dell’Europa tutta che nonavrebbe così a temer guerre, le tre potenze riunite essen-do abbastanza forti da imporre la pace alle altre. Intantoin questo momento più ancora forse che non l’Orientedesta preoccupazione l’attitudine reciprocamente ostileassunta dalla Germania e dalla Francia in conseguenzadel contegno tenuto in seno alla conferenza [di Costanti-nopoli] dai rispettivi plenipotenziari e dalle voci a cui sidiede luogo nella stampa dei due paesi. È però mio avvi-so i tempi non siano ancora maturi per una nuova guerraGermano-Franca, con tutto ciò non devesi tener in pococonto i sintomi che già si palesano siccome precursori dinuova futura lotta fra quelle due potenti nazioni.»2389.

Da questo quadro, così ricco di senso della realtà,emergeva chiaramente la saldezza dell’amicizia austro-tedesca e quindi – la conseguenza era ovvia – l’inutilitàdi cercar l’appoggio di Berlino contro Vienna.

Se Vittorio Emanuele avesse ben meditate queste as-sennate osservazioni del suo ambasciatore a Vienna,

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avrebbe potuto risparmiare, nell’estate del ’77, a sé il nonmantenere, di fatto, la parola tante volte pronunziata edinvocata, ed al suo paese gli esperimenti, allora inutilianzi dannosi, sul tipo del viaggio circolare in Europa delpresidente della Camera dei Deputati.

Vittorio Emanuele ci ha trascinati lontano. In queiprimi anni dopo il ’70, non s’avevano ancora da temere isuoi collegamenti diretti con il governo di Vienna, e lapolitica estera restava effettivamente nelle mani di chine aveva la piena responsabilità. Visconti Venosta eLanza, Visconti Venosta e Minghetti, ma soprattutto, neldisbrigo normale degli affari, Visconti Venosta e i suoicollaboratori diretti, Artom e i ministri all’estero.

Tra questi ultimi, come s’è detto, v’erano bensì dif-formità di vedute, divergenze che, nel caso del de Lau-nay, erano assai più che di sfumature. Eppure, la politi-ca estera del Regno d’Italia fu e diede anche l’apparenzadi essere una e unitaria; e la direzione suprema rimase difatto nelle mani del ministro, per esitante, cauto e incertoche questi potesse sembrare. Visconti Venosta accorda-va piena libertà di discussione e di critica ai suoi dipen-denti, che ne usavano largamente e perfino vivacemente;accoglieva consigli, abbisognava anzi, nei momenti de-cisivi, di impulsi provenienti dal di fuori: nel ’73, per ilviaggio a Vienna e a Berlino, l’impulso gli pervenne davarie parti, Robilant e de Launay dall’estero, Minghet-ti – decisivo – dall’interno. Ma consigli e impulsi, intui-zioni proprie e adattamento a eccitamenti altrui, tutto fi-niva col fondersi, con l’improntarsi ad uno stile, unito econtinuo2390; e unità e continuità fondamentali ebbe inquegli anni la politica estera dell’Italia, che, dalla tran-quillità e dignità dei sentimenti del ministro e dalla co-stanza sicura dei propositi, trasse quasi aria d’antica edera appena decenne2391.

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NOTE

1 Il par. III del primo capitolo della prima parte riprende, maqua e là ritoccato e parecchio ampliato, l’art. Il pensiero europeodella Destra di fronte alla guerra franco-prussiana, pubbl. ne LaComunità Internazionale, gennaio-aprile 1946.

2 BCB, Carte Minghetti, cart. XV, fasc. 66.3 R. BONGHI (per la Nuova Antologia), 30 settembre 1870

(ora in Opere, X, Nove anni di storia di Europa nel commentodi un italiano (1866-1874), a cura di M. Sandirocco, II, Milano,1942, p. 385).

4 Al suo andare in casa Cavour alle 5 del mattino, con l’Ar-tom, per lavorar sotto la guida del gran Conte, accenna il Blancin una lettera al Mancini del 15 dicembre 1882 (MRR, CarteMancini, busta 638, n. 8/15).

5 Lett. 10 settembre 1870 (BCB, Carte Minghetti, cart. XVfasc. 66). Contrariamente al detto del Blanc, il Minghetti nonvide però mai nella scienza positiva e nella forza le sole cose«solide e sicure»: cfr. qui appresso, pp. 259, 406-7, 413, 416.

6 «Halte dich an das Reelle» (E. LAVISSE, La jeunesse dugrand Frédéric, Parigi, 1891, p. 134).

7 Occorre tuttavia sottolineare che – com’è ben noto – il«realismo» del Bismarck s’era affermato come avversione all’i-deologismo legittimistico: cfr. soprattutto le bellissime lettere aLeopoldo von Gerlach, nel maggio 1857, Ges. Werke, Friedri-chsruher Ausg., 14, p. 464 sgg., soprattutto p. 470: «Das Prin-zip des Kampfes gegen die Revolution erkenne auch ich als dasmeinige an aber ich ... halte es nicht für möglich, das Prinzipin der Politik als ein solches durchzuführen ...», che significhe-rebbe ignorare «die Realitäten», g. 464. (Anche, Erinnerungund Gedanke, Ges. Werke, 15, p. 110 sgg.) E. MARCKS, Ottovon Bismarck, Stoccarda, 1935, pp. 37-8; con maggiore limita-zione del valore generale di quelle lettere, – e giustamente, nelsenso che spesso poi anche il Bismarek si lasciò influenzare damotivi di politica interna, cioè ideologici – E. EYCK, Bismarck,I, Erlenbach-Zurigo, 1941, p. 271 sgg. In genere, cfr. le acuteosservazioni di L. SALVATORELLI, Bismarck, in Rivista StoricaItaliana, LX (1848), p. 56 sgg., soprattutto p. 63. Non persua-

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sivo invece in genere, anche perché troppo astraente dai pro-blemi specifici del tempo, che danno il loro pieno significato ai«princìpi» del Gerlach (o di altri e alla «realtà» del Bismarck,O. VOSSLER, Bismarcks Ethos, in Historische Zeitschrift, 171(1951), p. 263 sgg.

Cioè: nel «realismo» di Bismarck, attento solo alla forza, l’e-lemento propriamente politico rimane sempre assolutamente,quasi totalmente soverchiante; mentre l’elemento economico,così vivo invece nel «realismo» posteriore (si veda già nello stes-so Blanc), rimane invece assai più nell’ombra.

8 Lett. del 10 settembre cit.9 ib. ib.10 ib. ib.11 Cfr. gli articoli La pace (24 ottobre 1870), e soprattutto Al-

l’estero (19 febbraio 1871). Nella Nuova Antologia, gli articoliL’antico e il nuovo impero in Germania (XVI, p. 807 sgg., XVII,p. 34 sgg.), e la lettera, postuma, Agli elettori del collegio di Pi-stoia (XIX, 1872, p. 435 sgg.), dove il Civinini afferma di nonessere «né cattolico né latino» di ritenere che ufficio dell’Italia èdistruggere il Papato, e che per la sicurezza e il progresso mora-le e intellettuale dell’Italia è necessaria un’intima alleanza collaGermania ed un’assoluta separazione dalla Francia. Alla mor-te del Civinini, nel gennaio 1872, il ministro di Prussia, Bras-sier de Saint-Simon, inviava al Massari una lettera (La Nazione,27 genn.) di condoglianze, esaltando nel defunto «un ami, quiavait compris les avantages d’un rapprochement des deux na-tions [Germania e Italia] trop peu connues l’une à l’autre», etrasmetteva una offerta di 1000 lire per la sottoscrizione apertaa favore del figlio del Civinini. Il fatto colpiva come «assez ca-ractéristique» l’attenzione del ministro austriaco, Wimpffen (r.Wimpffen, 3 febbraio 1872, n. 4 F; Saw, P. A., XI/80). Il ge-sto del Brassier de Saint-Simon è segnalato anche dal ministroinglese A. Paget (r. 29 gennaio 1872, n. 24; F. O., 45, 197).

12 Sull’attaccamento del de Launay alla sua terra d’origine, ela sua tristezza, nel ’60, a dover optare fra la sua Savoia e il suoRe, cfr. in G. GREPPI, Lettres du comte Ed. de Launay ... aucomte J. Greppi, in Revue d’Italie, dicembre 1906, p. 738.

13 Cavour al de Launay, ministro a Berlino 23 novembre1858. Per i motivi che spinsero il Cavour a questo passo, pressoil governo prussiano della «nuova èra», e per l’atteggiamento

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di quest’ultimo, cfr. F. VALSECCHI, La politica di Cavour e laPrussia nel 1859, in Archivio Storico Italiano, XCIV (1936), I,p. 39 sgg. E cfr. anche la lettera del Cavour al Manteuffel, il 18febbraio 1858, Lettere, ed. Chiala, VI, p. 177; e L. CHIALA,Pagine di storia contemporanea, I, Torino-Roma, 1892, pp. 14 e28.

14 AE, Ris., cart. 10. Il Visconti Venosta esprime al deLaunay idee del tutto analoghe a quelle che, due settimane piùtardi, Lanza esprime a S. Jacini (S. JACINI, Un conservatorerurale della nuova Italia, II, Bari, 1926, p. 43).

15 L. P. de Launay a Visconti Venosta, 29 luglio 1870 (AE,Ris., cart. 10). Nell’accenno ai tempi del Sacro Romano Im-pero, ormai lontani, il de Launay non fa che ripetere, come af-fermazione propria, quel che due giorni innanzi il Bismarck gliaveva detto: «vous n’auriez tien à craindre d’une Allemagnevictorieuse. Celle-cine s’inspirera pas des traditions surannéesdu St. Empire» (l. p. de Launay a Visconti Venosta, 27 luglio1870, AE, Ris., 10. Considerazioni analoghe verranno svoltedalla pubblicistica tedesca: cfr., p. es., l’art. di W. LANG, Deu-tsche and italienische Einheit, in Preussische Jahrbúcher, XX-VII, 1871, p. 219 sgg., tradotto poi in italiano, L’unità tedescae l’unità italiana, Roma, 1871). Anche l’ira del de Launay con-tro l’ostentazione francese di superiorità, è abilmente rinfoco-lata dallo statista prussiano: «Vous auriez cependant une occa-sion unique peut-être, de battre en bréche cette affectation desFrancais, de vous croire sous leur dépendance» (l. c.).

16 Cfr. p. es. l. p. a Visconti Venosta, 26 marzo 1871: «...quand la Frante se pavanait comete la puissance prépondéran-te, et visait trop à nous le faire sentir. Il fallait l’écarter de notteroute, puisqu’elle diminuait la liberté de nos allures» (AE, Ris.,cart. 10); allo stesso, 20 luglio ’71 «je regrette que nous ne lais-sions pas comprendre à notte voisin, que nous traitons aver luisur le pied d’une parfaite réciprocité ... je vous cric à tue-téte:osez» (ib., ib.). Contro le pretese francesi «de dominer, de mo-rigéner l’Europe» cfr. già l. p. de Launay al Visconti Venosta 5gennaio 1870 (ACR, Caste Visconti Venosta, pacco 4, fasc. 4).

17 Lett. cit. del 29 luglio; e cfr. r. de Launay, 27 febbraio1871, n. 788: «V. E. se souviendra que je n’ai pas variédepuis 1867 ... sur les chances de victoire de la Prusse et del’Allemagne, en cas de conflit armé avec la France».

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18 r. de Launay, 23 settembre 1870, n. 660. «Tout porteà prévoir que bientôt les rapports entre Vienne et Berlin semodifieront dans un sens très-amical».

19 Il Misogallo, prosa prima, Opere, ed. Torino, 1903, IV, p.124. E cfr. G. GENTILE, L’eredità di Vittorio Alfieri, Venezia,1926, p. 106 sgg. Sulle orme dell’Alfieri, oltre al Foscolo,anche il Leopardi «Dove non è odio nazionale, quivi non èvirtù» (Zibaldone, ed. Flora, Milano, 1937, I, p. 1165 e cfr.585 sgg.), e la insistente polemica leopardiana contro l’influssofrancese, per cui l’indole dei costumi italiani è divenuta «al tuttofrancese» (ib., I, p. 998). «... la Francia scellerata e nera» avevascritto il poeta (Sopra il monumento di Dante) poi modificando:« ... la più recente e la più fera, Per cui presso alle soglie Videla patria tua l’ultima sera».

20 Sul misogallismo del Gioberti cfr. GENTILE, op. cit., p.127 sgg. Quanto al Pisacane, si veda la sua polemica controgli Italiani che tessono l’apologia della Francia (Saggio su laRivoluzione, a cura di G. PINTOR, 2ª ed., Torino, 1944, p. 154sgg. [nuova ed. rivista da F. Pintor, Torino, 1956, N, d. E. ]).

21 C. BALBO, Della monarchia rappresentativa in Italia, Fi-renze, 1857, p. 93. Balbo non è però avverso all’imitazione,anche in ciò staccandosi dal Gioberti: cfr. le sue osservazionicontro la «smania d’originalità», che è segno certo di piccolezzad’ingegno, Pensieri sulla storia d’Italia, Firenze, 1858, p. 295.

22 Lett. del 17 settembre 1870 a Francesco Borgatti (Letteree documenti del barone Bettino Ricasoli, ed. Tabarrini-Gotti,X, Firenze, 1895, pp. 128-29). Nuovamente il 31 marzo1871, di fronte alla Comune di Parigi, egli ripete al Borgatti:«... chiunque non voglia partecipare a quelle rovine, dovràcessare dal prendere dalla Francia quello spirito infecondo edissolvente, che informò tutta quanta la sua opera legislativa esociale. Chi riescirà, io mi domando, chi riescirà a far ritornarel’Italia al suo proprio spirito, al suo proprio genio, e a darleordini conformi a questo suo genio?» (ib., p. 220).

23 Si veda la lettera al Nigra, del 30 agosto 1871 (Lettere e do-cumenti, X, p. 229); e il suo preoccuparsi perché l’Italia dimo-stri la sua gratitudine a Napoleone III, almeno dopo morto, conl’erezione di un monumento a Milano (ib., p. 275 sgg.).

24 Lett. 3 settembre 1870 a Luigi Torelli (Lettere e documenti,X, p. 124).

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25 Cfr. C. MORANDI, La Sinistra al potere, Firenze, 1944, p.40.

26 Lett. a Francesco Borgatti, 5 marzo 1876: «se primale nostre scuole erano inoculate della filosofia francese, oggilo sono di quella germanica, ambedue disadatte allo spiritoitaliano; ma la seconda, mi pare, anche più della prima» (Letteree documenti, X, p. 362). E già prima aveva scritto che la filosofiatedesca era stata anche più perniciosa al fondamento dellamorale delle massime socialistiche e delle idee francesi «con ladifferenza che nella Germania manca la forza e l’influenza delclero cattolico, che può salvare la Francia e si rende necessariaper la Germania la spada civile della Prussia» (Carteggi, ed.Nobili-Camerani, III, Roma, 1945, p. 460; cfr. G. GENTILE,Gino Capponi e la cultura toscana nel secolo decimonono, 3ª ed.,Firenze, 1942, pp. 76-77).

27 Lett. del 2 settembre 1870 a Francesco Borgatti (Lettere edocumenti, X, p. 117).

28 Lett. al conte di Robilant, 7 marzo 1871 (AE, CarteRobilant).

29 C. BON COMPAGNI, Francia e Italia, lett. VIII, ne L’Opi-nione, del 27 novembre 1871.

30 Così disse la regina al Farini, presidente del Senato, nelricevimento a corte per il Capodanno del 1894 (FARINI, Diario,I, Milano, 1942, p. 402). Che Margherita fosse d’animo,sovente, battagliero e la mitezza e gentilezza regali celasseroanche più plebee voglie di menar le mani, dimostra anchel’espressione di una lett. al Minghetti «che voglia verrebbedi picchiare addosso a quei farabutti!», e cioè ai repubblicanidi Forlì i quali, il 10 settembre 1883, presi a sassate alcunilampioncini con su dipinto lo stemma sabaudo, avevano poitumultuato (Lettere fra la regina Margherita e Marco Minghetti,ed. L. Lipparini, Milano, 1947, p. 99). Logico che daultimo ammonisse Francesco Ruffini che ci voleva il bastone:«Il bastone, caro Ruffini, il bastone ci voleva» (B. CROCE,Incontri con Vittorio Emanuele III, nel Corriere della Sera, 5aprile 1949).

31 Taine scriveva questo nel 1864, Voyage en Italie, 3ª ed.,Parigi, 1876, I, p. 407.

32 La politica, trad. ital., Bari, 1918, IV, p. 186.

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33 BON COMPAGNI, Francia e Italia, cit., lett. VII, l. c., 20novembre ’71.

34 Discorso De Sanctis alla Camera, il 23 aprile 1874 (parz.ripubbl. dal CROCE, Dai «Discorsi politici» ... di Francesco DeSanctis, in La Critica, XI, 1913, pp. 331-32)

35 Pensieri sulla politica italiana, Firenze, 1889, p. 69.36 Osservava acutamente Antonio Callenga: «è indubitato

che in fondo a tutta la irrequietezza, la gelosia, la esigente su-scettibilità degli Italiani in ogni questione relativa alla loro posi-zione nel concerto europeo, sta nascosta, dolorosa ed irritante,la memoria delle disfatte patite a Custoza ed a Lissa ... L’anti-ca accusa, crudele e sotto alcuni aspetti addirittura ingiusta, che«gl’Italiani non si battono», lacera ancora l’orecchio loro, ed es-si sentono che il battesimo di sangue col quale può effettuarsi lavera rigenerazione di un popolo non è stato nel caso loro tale datogliere tutte le macchie che molti secoli di avvilimento aveva-no lasciato sul loro carattere morale e sociale. Per quanto pos-sano amare la pare, gl’Italiani dovrebbero quasi chiamarsi con-tenti se ad essi si presentasse l’occasione di una lotta per la lottasoltanto» (L’Italia presente e futura, Firenze, 1886, pp. 24-25).Stesso sentire nel Guiccioli «la guerra è sempre una sventura,ma gioverebbe molto al nostro spirito nazionale. Bisogna che ilpopolo italiano acquisti coscienza delle sue virtù militari» (Dia-rio, in Nuova Antologia, 16 luglio 1935, p. 224).

37 Così, nel luglio 1882, ROCCO DE ZERBI (Difendetevi!,Napoli, 1882, p. 49).

38 Che questo fosse il desiderio di Vittorio Emanuele II,non si può dubitare, anche se si pub dubitare che pensassea tradurlo in realtà nell’estate del 1877: cfr. CRISPI, Politicaestera, 2ª ed., I, Milano, 1929, p. 9 e qui appresso, p. 683.

39 l. p. Nigra a Robilant, 9 agosto 1886 (AE, Carte Robilant).40 I doveri del Gabinetto del 25 marzo, in Scritti e discorsi

politici, Torino-Roma, 23 ed., s. a. [1891], pp. 381-82.41 Discorso alla Camera del 21 marzo 1881 (Discorsi Parla-

mentari di F. Cavalloni, Roma, 1914, I, p. 273).42 Così Domenico Farini (Diario, MRR, sub 14 febbraio

1897).43 P. TURIELLO, Governo e governati in Italia, Bologna,

1882, 11, p. 337.

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44 Fino a Dogali, ed. Bologna, 1912, p. 146.45 A. LA MARMORA, Un po’ più di luce sugli eventi politici e

militari dell’anno 1866, 2ª ed., Firenze, 1873, p. 312.46 Così il Foscolo, nella dedica al generale Caffarelli delle

Illustrazioni alle Opere di Raimondo Montecuccoli.47 Cfr. p. es., nella VI ed ultima Lettera ai suoi antichi

commilitoni, del 16 ottobre 1855: «Noi Italiani siamo stati, esaremoin avvenire, i maestri di guerra del mondo ... Suscitiamoin noil’antica baldanza» (Epistolario, a cura di A. ROMANO,Milano-Genova-Roma-Napoli, 1937, p. 237 sgg., e cfr. anchep. 218).

48 M. DE RUBRIS, Confidenze di Massimo d’Azeglio, Mila-no,1930, p. 304.

49 Lettere di politica e letteratura, Firenze, 1855, p. 439.50 Cfr. su ciò lo sdegno del d’Azeglio, nel ’48 (Scritti e discorsi

politici, ed. M. De Rubris, Firenze, 1936, II p. 10 e nota 1).E per la riluttanza dei Toscani, nel ’59, a prender parte allaguerra sui campi di Lombardia, F. MARTINI, Confessioni ericordi 1859-1892, Milano, 1929, p. 6 sgg. Al Villari, che gliaveva chiesto l’esenzione dalla coscrizione per gli alunni dellaScuola Normale di Pisa, l’Amari ministro rispondeva chiaro etondo: «Vi dichiaro che io non ci metterò mai una parola. Lacoscrizione è la base dell’Italia, ond’io amerei cambiare un paiodi alunni della Scuola e una dozzina di professori di Scuolesecondarie per un sol fantaccino. Datemi del barbaro quantovolete» (Carteggio di Michele Amari, II, Torino, 1896, p. 181; 5maggio 1864).

51 l. p. de Launay a Visconti Venosta, 24 gennaio 1872 (AE,Ris., cart. 10).

52 Saggio su la rivoluzione, cit., p. 139.53 Op. cit., p. 156. Su questa reazione antifrancese del Pi-

sacane, con un qualcosa «dell’amante tradito» cfr. G. FALCO,Note e documenti intorno a Carlo Pisacane, in Rivista Storia Ita-liana, XLIV (1927), p. 293.

54 r. de Launay, 27 febbraio 1871, n. 788. Cfr. anche quiappresso, p. 760, n. 220.

55 l. p. 5 gennaio 1870 al Visconti Venosta, e cfr. anche ll.pp. 6 e 12 gennaio (ACR, Carte Visconti Venosta, pacco 4, f. 4).

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Già allora consigliava una stretta intesa, non un’alleanza con laGermania.

56 l. p. de Launay al Visconti Venosta, 19 marzo 1872(ACR, Carte Visconti Venosta, pacco 5, fasc. 2). «Le Princede Bismarck est l’homme d’Etat le plus sceptique, le moinsscrupuleux, mais il est doué d’une rare intelligence de sespropres convenances politiques. C’est là la meilleure, je n’osedire, la seule garantie de sa bonne foi en ce qui nous concerne»l. p. al Visconti Venosta, 22 settembre 1872 (ib. ib.).

57 P. es., il 21 luglio 1874, seccato per il discorso pronunziatodal Nigra tre giorni innanzi, a Vaucluse, in occasione delle festeper il V centenario della morte del Petrarca, nel quale discorsorinveniva «les clichés à jet continu de la communauté de race,de notre reconnaissance pour la part prise à la libération del’Italie», il de Launay tornava sulla sua idea fissa: «Pour quecette reconnaissance devienne sincère et sans arrière pensée, ilfaudrait avant tout rev enir sur la cession de la Savoie et deNice, cession qui nous a été extorquée par le droit du plus fortsous les apparences trompeuses du suffrage universel. Il y a làune oeuvre de réparation à laquelle pour mori compte je seraisheureux et fier d’attacher mori nom, et j’espère bien vivre assezlongtemps pour contribuer à amener un pareil résultat» (l. p.n. 2 al Visconti Venosta ACR Carte Visconti Venosta, pacco 8,f. 3). Significativo che il de Launay, nel suo disdegno per l’innopetrarchesco e francofilo del Nigra, si trovasse a concordarpienamente con gli organi della Sinistra (cfr. Il Diritto, 22, 23,25, 28 luglio 1874). Sulla netta propensione del de Launay perla Germania e la malevolenza per la Francia cfr. anche Lettresdu comte Ed. de Launay ... au comte J. Greppi, cit., pp. 739 e754 (lett. de Launay, 17 giugno 1867: «vu le caractère français,sa manie dominante de gloriole et de chauvinisme»).

58 «Si le cabinet de Berlin, comme il faut l’espérer en tenantcompte de la perspicacité du comte de Bismarck, ne tombe pasdans la méme faute de l’empereur Napoléon et de ses conseil-lers maladroits qui étaient trop enclins à régenter l’Europe ...»;r. cit. del 27 febbraio 1871, n. 788.

59 de Launay 4 marzo 1871, n. 789 «il est évident ... qu’ensuite de cette perspective [de complications ultérieurs], l’opi-nion a prévalu ... de chercher des sûretés, non dans les dispo-sitions du peuple français, mais dans des garanties matérielles...». Il de Launay ripeteva quasi la stessa formula di cui il Bi-

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smarck si era valso, già il 22 agosto 1870, durante un colloquiocon Moritz Busch: «Unser Schutz gegen dieses Uebel liegt ni-cht in fruchtlosen Versuchen, die Empfindlichkeit der Franzo-sen momentan abzuschwächen, sondern in der Gewinnung gutbefestigter Grenzen» (BISMARCK, Ges. Werke, 7, p. 321).

60 Nel discorso agli elettori di Masserano, il 13 novembre1870, il Sella ricorda le sue impressioni giovanili, quando stu-diava in quel focolaio di scienza ch’è la Germania, e gli appas-sionati conversari con studenti tedeschi: «Nel nostro ardoregiovanile ci pareva allora che l’Italia e la Germania erano duenazioni sorelle, le quali potevano essere libere ed integre nonsolo senza danno o pericolo, ma con grande utile reciproco: edora non seppi, ministro, combattere le aspirazioni dello studen-te, e diedi il mio voto in favore della neutralità» (L’Opinione,17 novembre ’70).

61 Tra questi, si può annoverare Oreste Baratieri, che scrivevaallora nel Fanfulla, sotto lo pseudonimo di «Fucile» (MARTINI,op. Cit., p. 87).

62 ... d’ora inanzi una barriera insuperabile ci dividerà daiFrancesi. Né io provo questa soddisfazione perché tal fattosia in armonia coi sentimenti del mio cuore, ma perché io hosempre temuto che l’Italia si trovasse sotto l’influenza franceseed in tal caso, essendo noi ancora bambini ed ineducati, neavremmo almeno per lunga pezza sposato lo spirito e la patrianostra avrebbe per lungo tempo fatta falsa via che l’avrebbecondotta di nuovo a perdizione ... Qui l’Italia è riguardatacome ausiliare naturale della Francia, destinata a darle i suoiuomini, i suoi tesori, le sue campagne ... capirai come ...tenga per uno dei più gran mali che possa minacciare l’Italial’influenza francese ...» (lett. al fratello del luglio 1849 in A.GUICCIOLI, Quintino Sella, 2ª ed., Roma, 1887, I, pp. 24-25e 26-27. E cfr. G. FINALI, La vita politica di contemporaneiillustri, Torino, 1895, pp. 339-40). Certamente per influsso delSella (e non del Mazzini!) simili idee venivano accolte ancheda altri moderati: cosa dal suo biografo, il Guiccioli, pel quale«l’influenza francese è stata e sarà la nostra disgrazia. Vorreiinnalzare una muraglia della Cina tra noi e la Francia» (Diario,in Nuova Antologia, 16 luglio 1935, p. 242).

63 Ancora il 16 marzo 1880, alla Camera, controbattendoil Cairoli, che aveva parlato severamente della politica dellaDestra nel ’70, il Sella affermerà di gloriarsi d’essere rimasto

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fedele – nei limiti del possibile – all’amicizia con la Francia, conun governo «per cui l’Italia aveva doveri infiniti di gratitudine»(Discorsi Parlamentari di Q. Sella, I, Roma, 1887, pp. 195-96). Qui la necessità polemica fa diventare il Sella assai più ...«fedele» alla Francia di quanto non lo fosse stato in realtà nel’70; ma è pur sempre notevole com’egli – a differenza non solodei Crispi, Cairoli ecc., sì anche del de Launay – non cercassemai di negare o sminuire le benemerenze di Napoleone IIIverso l’Italia.

64 Sella ad Amari, 25 aprile 1882 (Carteggio di M. Amari, cit.,II, p. 276).

65 GUICCIOLI, op. cit., II, p. 6. Che il Sella fosse unammiratore del Bismarck, contrastando così al modo di sentiredei «francofili» della Destra, un Bonghi, un Visconti Venosta, èaltro significativo indizio del suo modo di pensare.

66 Sul M. storico, cfr. B. CROCE, Storia della storiografiaitaliana nel secolo decimonono, Bari, 1921, II, p. 172 sgg.

67 Cfr. La rivoluzione parlamentare del marzo 1876, Tori-no,1876, pp. 107 e 127 sgg. Per le critiche alla Destra, pp.11-12,53, 63, 75, 91. Ilprogetto del Marselli fu poi delineatopienamente nella Lettera agli elettori sulla situazione parlamen-tare, ch’è del 1880. Cfr. anche La politica dello Stato italiano,Napoli, 1882, p. 54 sgg.; e C. O. PAGANI, Per Nicola Marsellinel primo anniversario della sua morte, in Nuova Antologia, 1°ottobre 1900, p. 462.

68 Gli avvenimenti del 1870-71, l. II, Torino, 1871, pp. 198,200-01.

69 Op. cit., I. II, p. 202. Contro il miracolismo radicale allafrancese, che non ha fatto avanzare la Francia d’un passo nell’e-ducazione e nell’uso della libertà, e per un indirizzo totalmen-te opposto a quello francese, il Marselli insiste nuovamente nel1876 (La rivoluzione parlamentare, cit., p. 84 sgg.).

70 Op. cit., l. II, p. 208.71 Op. cit., l. II, pp. 204-08.72 Gli avvenimenti del 1870-71, p. 86.73 Gli avvenimenti del 1870-71, l. II, p. 202, nota I.74 Op. cit., l. II, pp. 209-10.

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75 Va notato però, ch’egli combatteva apertamente il già natorazzismo germanico e la pretesa della superiorità germanica(op. cit., l. II, p. 205): egli non avrebbe mai voluto che lochez-nous trasmettesse l’eredità al bei uns.

76 Cfr. C. ANTONI, La lotta contro la ragione, Firenze, 1942,p. 10 sgg.

77 Cfr. p. es.La Nazione, 9 settembre 1870, 12 e 27 marzo e25 giugno 1871 (Ammaestramenti; Le condizioni della Francia;Cose di Francia; L’avvenire).

78 Così aveva scritto, nel ’37, il Cavour, che pur non si atteg-giava a predicatore e si trovava anzi bene fra quelle «delizie»(Lettere, V., pp. 69 e 266).

79 Cfr. B. NOLDE, L’alleanza franco-russa, trad. it., Milano,1940, p. 25.

80 Lettere di Gino Capponi e di altri a lui, ed. Carraresi, IV,Firenze, 1885, p. 260.

81 E. RICOTTI, La libertà e il sapere, Torino, 1871, p. 19.82 Marselli a Robilant, 7 gennaio 1873 (AE, Carte Robilant).

I presentimenti del Marselli sono «oscuri, oscurissimi». Stesseidee in altra lettera del 25 marzo ’73: «... dei miei presentimenti,tremo. Mi arrovello sempre sulla questione se noi statu vecchio se siamo giovani con grande avvenire dinanzi» (ib.). E giànegli Avvenimenti del 1870 s’era chiesto «se siamo una giovanenazione che riprende il moto o una vecchia a cui furono gittatedue stampelle» (p. 140).

83 «Pourquoi l’aspiration à Rome était-elle le symbole si vi-vant de l’indépendance italienne? Parceque nos sentiments éta-ient à juste otre froissés par l’action violente et oppressive del’intervention étrangère: parceque la France entendait placer savolonté seule entre l’Italie et Rome» (l. p. de Launay al ViscontiVenosta, 2 maggio 1871, AE, Ris., c. 10).

84 Bonapartismo, ne La Riforma, 7 settembre 1870.85 «... scendete nelle piazze delle città italiane, andate nelle

campagne, nelle officine, e voi saprete che, senza essersi can-cellata la ricordanza dei benefizi che l’Italia ha ottenuto dal-la Francia, e senza credersi sciolta dalla gratitudine pei presta-ti compensi, nondimeno tutta la nazione italiana si senti [dopoMentana] ingiuriata dal suo amico e protettore, si sentì mutila-ta, fatta impotente, condannata per calcolo ad un eterno vassal-

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laggio dall’impero francese; e spontanea in tutti gli animi sorsee si andò sempre più propagando una singolare alienazione ne-gli affetti del popolo italiano, non dirò verso la Francia, versoquella generosa nazione a cui ci stringono vincoli indissolubili,e che ha inaugurato i princìpi di libertà ed è propagatrice fecon-da di civiltà nel mondo, ma verso il suo Governo, che aveva de-cretato e fatto eseguire quell’odioso intervento.» Discorso di P.S. Mancini alla Camera dei Deputati, il 19 agosto 1870 (DiscorsiParlamentari di P. S. Mancini, Roma, 1894, III, pp. 350-51). Ilde Launay, invece, era stato fin dubbioso che, dati i difetti insi-ti nella nazione francese, e cioè la pretesa a padroneggiar l’Eu-ropa, il regime della libertà non li avrebbe favoriti ancor più (l.p. 5 gennaio 1870 al Visconti Venosta, cit.).

86 La Capitale, 6 febbraio 1871 (Il martirio della Francia). Ecfr. 2 febbraio (Parigi): sotto la bandiera repubblicana «laFrancia si è rigenerata», dimostrando un’altra volta «che laservitù corrompe, la libertà fortifica».

87 L’educazione bonapartista, ne La Riforma, 15 settembre1870. E già il 28 luglio La Riforma aveva insistito sul bona-parttismo «che corrode ogni nerbo vitale della politica italiana,e la fa debole e servile ...», e l’8 agosto aveva ribadito che «lanostra forza morale sta dunque in gran parte collocata nella se-parazione della nostra causa da quella dell’impero napoleoni-co». E cfr. nel Gazzettino Rosa l’ingiuria contro Visconti Ve-nosta «valletto di tutte le potenze» e contro il governo italiano«domestico» del «padrone» Napoleone III (in P. M. ARCARI,La Francia nell’opinione pubblica italiana dal ’59 al ’70, Milano,1938, p. 134).

Della «servilità» verso la Francia dei governi della Destra di-scorrono, d’altronde, anche i meno intemperanti uomini poli-tici della Sinistra: così il Mancini, nel discorso alla Camera deiDeputati, il 19 agosto 1870: «quegli uomini i quali non hannoconosciuto altra politica che quella della docile e servile cliente-la del Governo imperiale di Francia» (Discorsi Parlamentari diP. S. Mancini, cit., III, p. 375, cfr. anche p. 386).

88 La celebre frase, pronunziata nella seduta alla Cameradel 31 gennaio 1891, e che provocò le dimissioni del secondoministero Crispi, è infatti da ricollegare a tutto il giudizio che laSinistra aveva dato, sin da vent’anni innanzi, della Destra.

89 La Repubblica a Parigi, ne La Riforma, 6 settembre 1870.Già prima, Il Popolo d’Italia di Napoli, democratico e repub-

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blicano, sin dall’agosto ostile alla Prussia monarchica e feuda-le aveva detto «L’impero non è la Francia» (11, 19 agosto): il 5settembre la prima pagina è «Viva la repubblica a Parigi».

90 Scritti e Discorsi politici e Militari (Ed. Naz., VI), III,Bologna, 1937, p. 44.

91 Op. cit., p. 46.92 Op. cit., pp. 50-51 (agli amici di Grecia, 4 ottobre 1870).93 Carducci a Garibaldi, primi di maggio del 1871, Lettere

(Ed. Naz.), VII, Bologna, 1943, p. 4.94 Ad Adolfo Borgognoni, 21 febbraio 1878 (Lettere, XI, p.

256).95 Dopo Aspromonte.96 Opere (Ed. Naz.), XIX, Bologna, 1943, pp. 24-26, 29.97 Scritti inediti, I, Carteggio inedito, a cura di A. Monti,

Milano, 1925, p. 245.98 Nel discorso alla Camera il 19 agosto 1870, ora in La

disfatta della Francia, a cura di U. GUANDA, Modena, 1943,p. 19.

99 A. P., Camera, p. 259. Contro le opinioni espresse dalSineo si schierò subito La Riforma (Italia e Francia, 23 gennaio1871). Il Sineo inviò pure, il 15 febbraio, una lettera al ministrodi Francia, Rothan, per protestare, anche a nome di un grannumero di colleghi, contro certe affermazioni della Riformasui rapporti passati e futuri tra Italia, Francia e Prussia. Egliconsiderava l’Italia come legata indissolubilmente alla Franciadalla comunanza di interessi, oltre che dalla gratitudine (G.ROTHAN, L’Allemagne et l’Italie 1870-7I, II, L’Italie, Parigi,1885, p. 275 n. 1 e cfr. p. 295).

100 Discorsi Parlamentari, Roma, 1913, p. 128.101 MAZZINI, Epistolario, LVII (Scr. Ed. In., Ed. Naz., XC),

p. 241 e cfr. 239. Naturalmente, Mazzini scattava ... «tuttal’anima mia si ribella contro una simile asserzione proferita date. La Francia è perduta dal 1815; non guida; segue».

102 Art. Le nostre contraddizioni!, 22 gennaio 1871.103 Così, nell’indirizzo a Jules Favre del Comitato di Reggio

Emilia della Lega Internazionale della pace e della libertà, l’8settembre 1870 (AEP, C. P., Italie, t. 379, f. 207).

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104 La guerra franco-germanica (Scr. Ed. In., XCII, p. 122).Sull’influsso della parola «repubblica» cfr. Ferrari, La disfat-ta..., p. 58. Annotava sarcasticamente La Nazione: «appena po-chi Francesi hanno potuto sostituire al nome d’Impero, il no-me di repubblica, è mutato d’un tratto, sulla presente guerra, ilgiudizio e il linguaggio dei nostri savii e meravigliosi radicali»(10 settembre 1870, Amenità radicali).

105 Così, sin dal 20 agosto, il Bonghi ne La Perseveranza(L’opinione pubblica in Italia), che batte sul chiodo: nemicidella Francia – nemici della monarchia e cioè dell’unità d’Italia.(L’attribuzione al Bonghi degli articoli di fondo, non firmati, deLa Perseveranza, è fatta in base allo schedario Bonghi, di cui hopotuto prender visione grazie alla gentilezza della sig.na MariaSandirocco, che ringrazio vivamente.)

106 Già il 29 luglio il Dina scriveva al Castelli «Mi pare che l’o-pinione venga migliorando; non c’è affetto in generale alla Fran-cia, ma si comincia ad intendere che la vittoria della Prussia sa-rebbe un danno gravissimo per noi», Carteggio politico di Mi-chelangelo Castelli, Roma-Torino-Napoli, II, 1891, p. 472. Piùtardi, il Visconti Venosta parlava di questo gran cambiamentodell’opinione pubblica europea all’incaricato d’affari francese,De la Villestreux, il quale, per conto suo, segnalava al suo go-verno il notevole mutamento di tono della stampa italiana (r. 19dicembre 1870; AEP, C. P., Italie, t. 379, ff. 384-385).

107 Caduto Napoleone «Dio non fu più coi Prussiani». La-Francia repubblicana «rappresenta in questo momento quellagiustizia per cui l’Europa faceva voti in favore della Prussia»,La Capitale, 20 gennaio 1871 (La religione di re Guglielmo e ilbombardamento di Parigi). E già il 17 dicembre 1870: in Fran-cia sventola ora «una simpatica bandiera, fra le cui pieghe reli-giosamente conservasi il codice della libertà» (Le tradizioni).

108 Cfr. gli articoli de Il Lombardo, diretto da Felice Caval-lotti, del 16, 18, 20 gennaio 1871. Alcune espressioni di que-sto giornale di Sinistra avanzata sembrano dettate dal modera-to Bonghi: implacabile ferocia dei Prussiani; la nostra epoca ètornata indietro di parecchi secoli e non ha più nulla da invi-diare alla ferocia medievale. E cfr. anche giudizi simili in F.ENGELS, Notes sur la guerre de 1870-1871, trad. franc., Pari-gi, 1947, pp. 95 sgg., 185 sgg., 225 (sono gli articoli che Engelsinviava alla Pall Mall Gazette).

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109 Per l’opinione pubblica inglese – favorevole alla Germa-nia sino a Sedan, e orientatasi poi a pro della Francia – cfr. K.MEINE, England und Deutschland in der Zeit des Uebergangesvom Manchestertum zum Imperialismus 1871 bis 1876, Berlino,1937, pp. 26, 28, 30, 31-32, 39-41. Anche, J. MORLEY,The li-fe of William Ewart Gladstone, Londra, 1903, II, p. 357. Il mu-tamento è sottolineato dalla Perseveranza del 26 ottobre (L’opi-nione pubblica inglese). Il 17 gennaio 1871 il ministro a Lon-dra, Carlo Cadorna, riferiva al Visconti Venosta che l’opinionepubblica inglese si era sensibilmente modificata dall’inizio del-la guerra «allorquando nella Francia altro non si vedeva che laNazione che aveva provocata una guerra che riputavasi ingiu-sta», e che soprattutto influiva in tal senso il bombardamentodi Parigi (r. Cadorna, 17 gennaio 1871, n. 187).

In Russia uguale mutamento dell’opinione pubblica, deter-minato da preoccupazioni politiche per l’eccessiva potenza del-la Prussia, e da sentimenti di compassione per i francesi. «Talrivolgimento nell’opinione generale della stampa, financo nellaGazzetta Russa di Pietroburgo, che tenea dapprima per la cau-sa Germanica, è ancora più visibile e più vivo nella cittadinan-za e nel popolo di Russia, e sarebbe impossibile il non veder-ne i segni nel linguaggio che tengono tutto giorno i mercatanti,i contadini e i borghigiani di questo paese» (r. Caracciolo, Pie-troburgo, 1-13 febbraio 1871, n. 217). Per la stampa svizzeracfr. H. U. RENTSCH, Bismarck im Urteil der schweizerischenPresse 1862-1898, Basilea, 1945, p. 101 sgg.

110 Violentissimo, ad es., il Piccolo Corriere di Bari, che il 14gennaio attaccava addirittura re Guglielmo di Prussia: «Oh, noichiamiamo re Bomba Ferdinando Borbone ... E non sarà giustochiamare oggi Guglielmo di Prussia re bombone?». Per questo,protestò il vice console a Bari della Confederazione Germanicadel Nord.

111 Ministero Istruzione Pubbl. a Ministero Esteri, 27 genna-io 1871 (AE, Rapp. Germania).

112 R. de Launay, 31 dicembre 1870, n. 747. La rispostadel Dove è nello Staatsanzeiger del 18 dicembre e, riassunta(La risposta dell’Università di Gottinga), nella Perseveranza del30 dicembre. Si noti: «Il popolo tedesco – che nelle sueaspirazioni intellettuali si studia sempre di realizzare la superbasentenza di Paracelso: Inglesi, Francesi, Italiani, seguite me; nonio voi, – è stato obbligato ad abbandonare il lavoro» pacifico

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da un’aggressione. Ma esso combatte per la sua esistenzanazionale, la sua coscienza morale, il suo onore, e anche «perla pace del mondo e per la moralità umana; giacché questecose sarebbero distrutte, se l’idea d’una Giustizia vendicatricedovesse cancellarsi dalla coscienza dei popoli. Se il mondoserba tuttavia la fede in cotesta giustizia, lo deve, dopo Dio,al popolo tedesco»

113 Proprio contro l’opera «funesta» dei dotti tedeschi, i qua-li, anziché concorrere all’«utile e doveroso apostolato di pace edi libertà» volsero ingegno, dottrina e autorità ad inasprire leire, insorgeva M. MACCHI, I dottrinarii d’Alemagna, Milano,1871, p. 6 sgg.

114 Altro significativo indizio dello stato d’animo della mag-gioranza, ormai, l’iniziativa per venire in soccorso degli agricol-tori francesi, con l’invio di sementi o di danaro, presa da un«Comitato Italiano» alla cui testa stava il senatore Luigi Torel-li, prefetto di Venezia, e, in Lombardia, dalla «Società Agraria»(cfr. La Perseveranza, 11 febbraio 1871).

115 La voce della Francia, ne La Riforma del 9 settembre 1870.Già il 6 settembre nell’articolo La Repubblica a Parigi si potevaleggere: «La guerra prolungandosi, diverrebbe guerra di razze,e sarebbe impossibile di prevederne la fine. È tempo che gliodii si spengano, che vengano meno anche i ricordi onde furonosuscitati».

116 Il conflitto franco-germanico, ne La Riforma, 29 settem-bre 1870. Anche il Roma e il Pungolo di Napoli temperaro-no assai il loro atteggiamento antifrancese. Al momento del-le trattative di pace, La Riforma osserva che le condizioni im-poste dalla Germania costituiscono un grandissimo errore, e sepossono essere approvate dallo stretto diretto, sono condannatedalla magnanimità e dalla prudenza politica, derivandone unapace che cova e matura la guerra (La Pace, 1° marzo ’71).

117 La neutralizzazione delle provincie renane, ne La Riformadel 30 agosto 1870. Cfr. Ultimi scritti e discorsi extraparlamen-tari (1891-1901), Roma, 1913, p. 394.

118 Il quale scriveva nella Perseveranza del 13 novembre(L’Europa e la guerra): «è più vero anche – ciò che molti, di-ventati barbari a un tratto, dimenticano – che quando un popo-lo civile ha vinto, ha salvato colla vittoria tutti gl’interessi legitti-mi suoi, e non continua, per stravincere, una guerra; della quale

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vede l’impossibilità di menarla a termine senza venir meno adogni umanità! e senza fare un infinito ed irreparabile danno asé medesimo»

119 Perfino un uomo di stato come l’Andrássy credeva ad un«noch nicht erschöpften Streit zwischen den lateinischen unddeutschen Völkerstämmen» (nell’istruzione segreta al Beust,del 1° aprile 1872, per un accordo intimo con l’Inghilterra, in F.LEIDNER, Die Aussenpolitik Oesterreich-Ungarns vom deutsch-französischen Kriege bis zum deutsch-österreichischen Bündnis,1870-1879, Halle, 1936, p. 15). La Perseveranza del 29 luglio1870 vedeva nella guerra la «lotta di razza», tramandatasi da se-coli di padre in figlio, tra Francesi e Tedeschi, da duemila annifa fra Latini e Teutoni. Un po’ di consolazione qualcuno la tro-vava almeno nel fatto che fra le nazioni latine l’Italia era quellache stava meglio (L’Opinione, 25 febbraio ’71, La razza latina);che teneva alta la bandiera latina (P. VILLARI, La guerra pre-sente e l’Italia, Firenze, 1870, p. 23). Nettamente pessimisticheinvece le considerazioni di C. ALFIERI, Considerazioni a propo-sito della guerra del 1870, in L’Italia liberale, Firenze, 1872, p.437 sgg.

120 Cfr. B. CROCE, La letteratura della nuova Italia, 4ª ed.,Bari, 1943, III, p. 359 sgg. Quanto al Ferrero è noto ch’egline L’Europa giovine (1897) contrappose l’Europa giovine deiGermani e degli Slavi all’Europa invecchiata dei Latini.

121 Correspondance, 4ª serie, Parigi, 1904, p. 44 e cfr. p. 42.122 L’alliance latine, Parigi, 1871, specialmente p. 72 sgg.

Anche ne La Perseveranza del 18 ottobre ’70 si parla dell’utilitàdi stringer insieme Spagna, Italia e Francia, le stirpi latine chepossano un giorno opporre i loro 80 milioni di uomini ai 60milioni delle stirpi tedesche; e nel numero del 25 novembre sisaluta nell’elezione del duca d’Aosta a re di Spagna «il principiod’una più intima ... unione tra la stirpe spagnola e l’italiananel comune nome latino», che divenga il focolaio di una civiltà«più mite, più sostanziale, più vera» di quella tedesca (Bonghi),Anche prima tali idee avevan trovato sostenitori: cfr. p. es.,G. DE SIMONE, La pace di Vienna e l’Italia, Napoli, 1866,p. 34; ID., Del principio di nazionalità come fondamento dellenuove alleanze e dell’equilibrio europeo, Napoli, 1867, p. 46(con accessione dell’Austria all’alleanza delle genti latine).

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123 Rome et la république française, Parigi, 1871, p. 201 sgg.e soprattutto p. 206.

124 Il Gazzettino Rosa aveva scritto, il 28 luglio 1870: «Nonamo i Prussiani perché sono di razza tedesca, eterna nemicadella latina. Non amo i Francesi perché odio generalmente chivuol farla da padrone in casa d’altri, per la loro blague, e perMentana» (ARCARI, op. cit., p. 131).

125 La Riforma prende apertamente posizione, il 27 dicem-bre 1871 (L’alleanza latina), contro le idee dell’Orsini approva-te dalla Perseveranza (L’alleanza latina, 11 dicembre): l’imperolatino, idea napoleonica, deve esser relegato tra i sogni; l’opu-scolo dell’Orsini è «un’aberrazione». È un funestissimo errore«l’elevare a ragione determinante un’alleanza il principio dellarazza», tanto più che è un errore il parlare di razze latine, comedi razze germaniche. (La frase riferita nel testo, nell’art. del 29sett. ’70.)

126 «Non è neppure che si abbia a temere che la civiltà siairremissibilmente perduta col declino politico della Francia ... enon è neppure che col cadere della Francia la causa della libertàsarebbe perduta nel mondo: no; pur troppo di libertà non è laFrancia che fu maestra alle genti, sotto qualunque nome e formadi governo ch’essa abbia adottato o vagheggiato.»

127 CRISPI, Pensieri e profezie, Roma, 1920, p. 133.128 La Riforma, 21 febbraio 1871 (Italia e Francia). Lo ripete-

rà il Crispi: «la Francia detesta l’Italia, e tutti i governi, Diret-torio, Consolato, Impero, monarchico, repubblicano ne hannoalimentato gli odi» (Pensieri e profezie, p. 123).

129 Si vedano le dichiarazioni Mancini alla Camera, il 19agosto 1870 (qui appresso, p. 167-68, n. 158).

130 Dell’iniziativa rivoluzionaria in Europa, Scr. Ed. In., IV,pp. 163, 170-71. E cfr. Fede e avvenire, ib., VI, p. 317; e,proprio nel ’71, Sulla rivoluzione francese del 1789. Pensieri,Scr. Ed. In., XCII, p. 217 sgg.

131 ib., IV, p. 178.132 Fede e avvenire, ib., VI, p. 339 (e cfr. ancora Sulla

rivoluzione francese ... , ib., XCII, p. 218-19). Ripreso, quasiidentico, dal CRISPI, Pensieri e profezie, cit., p. 130.

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133 Cfr. A. OMODEO, Primato francese e iniziativa italiana,in Figure e passioni del Risorgimento, Palermo, 1932, p. 51 sgg.[ora in Difesa del Risorgimento, 2ª ed., Torino, 1955. N. d. E.].

134 Agli Italiani (1853), ib., LI, pp. 37-38.135 Epistolario, LVII (Scr. Ed. In., XC), p. 162.136 ib. ib., p. 264. Ma gli esempi si potrebbero moltiplicare;

cfr. p. es., ivi, pp. 267, 300-01, 318, 321-22.137 ib., LVII (XC), p. 179; LVIII (XCI), p. 176.138 Epistolario, LI (Scr. Ed. In., LXXXII), pp. 157-58 (29

maggio 1866). Cfr. anche F. QUINTAVALLE, La politicainternazionale nel «Pensiero» e nella «Azione» di GiuseppeMazzini Milano, 1938, pp. 208 e 210.

139 La Guerra, ib., LXXXIII, p. 243, (in Il Dovere del 14maggio ’66).

140 Cfr. le giuste osservazioni del MENGHINI nell’introdu-zione al vol. LXXXVI degli Scr. Ed. In., p. XXI sgg.

141 «Je ne partage pas les vues politiques du Comte de Bi-smarck: sa méthode d’unification n’a pas mes sympathies. Maisj’admire sa ténacité, son énergie, et son esprit d’indépendancevis à vis de l’étranger je crois à l’unité de l’Allemagne, et je la dé-sire, comme je désire celle de ma Patrie. J’abhorre l’Empire etla suprématie que la France s arroge sur l’Europe» (Scr. Ed. In.,LXXXVI, pp. 107-08). In questa formulazione è chiarito per-fettamente l’atteggiamento mazziniano di fronte alla Germania.E cfr. la lettera a Carlo Blind, il 1° agosto ’70, «Nous voulonsl’unité Germanique comme l’Italienne; et nous haissons l’Em-pire» (Epistolario, LVI, Scr. Ed. In., LXXXIX, p. 337).

142 La guerra franco-germanica, Scr. Ed. In., XCII, pp. 124-125, 139. E si veda l’accenno al «militarismo» [prussiano], con-trapposto all’«anarchia» e al «vuoto d’idee» [francesi], nella let-tera a Camillo Finocchiaro-Aprile, del 5 aprile 1871 (Epistola-rio, LVIII, Scr. Ed. In., XCI, p. 3); e nello scritto Agli Italia-ni (1871): «... la Germania minaccia d’isterilire la vasta poten-za di pensiero che in essa s’accoglie, commettendo l’azione chedovrebb’essere collettiva e la formazione della propria Unità auna Monarchia militare ostile alla libertà» (Scr. Ed. In., XCII,p. 88).

143 «I fatti che seguirono diedero un altro grave insegnamen-to all’Europa ed è che un popolo è, in parte almeno e quando

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tollera lungamente, responsabile dell’ingiusta immorale politi-ca del suo Governo – che deve, per legge di cose, soggiacere al-le conseguenze – che non basta a evitarle la caduta di quel Go-verno, quando è determinata, non da fede e sacrificio sponta-neo del popolo, ma da un errore o da un atto codardo di quelGoverno medesimo» (Scr. Ed. In. XCII, pp. 130-31).

144 Epistolario, LVI (Scr. Ed. In., LXXXIX), p. 320.145 «Io, caro Nicolò, ho l’anima a bruno ... noi abbiamo la-

sciato che escisse – forse per poco – l’iniziativa dalla Francia eche si compisse la profanazione di Roma colla Monarchia. Ilduplice mio sogno è sfumato» (a Nicolò Le Piane, 17 ottobre’70, Epistolario, LVII, Scr. Ed. In., XC, p. 63; e cfr. lett. aglioperai di Genova, 24 ottobre, ib., pp. 81-82: «L’iniziativa re-pubblicana, che doveva ribattezzare l’Italia alla sua terza mis-sione, è sorta – per durarvi o no – dalla Francia. E Roma, pa-tria dell’anima, è profanata da una Monarchia»; e lett. a Gior-gina Saffi, 6 novembre, ib. ib., p. 111: «Nessuno di voi ha po-tuto capire la condizione dell’animo mio, uscendo da Gaeta ...l’ideale della vita, sfumato!»).

146 «Repubblica non è che di nome» (La guerra franco-germanica, Scr. Ed. In., XCII, p. 128 e cfr. p. 123). E cfr.nell’Epistolario: «non credo che la Francia possa ora incarna-re il principio e l’iniziativa in sé. Dove sentissi altrimenti, sarei... in Francia» (LVII, Scr. Ed. In., XC, p. 132, cfr. pure pp.57-58).

147 Così nel ’34, nello scritto Dell’iniziativa rivoluzionaria inEuropa (Scr. Ed. In., IV, p. 163 sgg. e specialmente p. 168 enota 1); così nel ’71, soprattutto Sulla rivoluzione francese del1789. Pensieri, già cit.

148 Cfr. l’asprissimo giudizio del 5 giugno ’71, ad EmiliaVenturi (Epistolario, LVIII, Scr. Ed. In., XCI, p. 74): «nonero davvero ottimista sulla Francia; ma non avrei mai pensatoche sarebbe caduta tanto in basso». E l’ultimo scritto delMazzini pubblicato nella Roma del Popolo tra il 22 febbraioe il 7 marzo 1872, doveva essere – quasi simbolo – la severacritica della Réforme intellectuelle et morale di E. RENAN (Scr.Ed. In., XCIII, p. 229 sgg.). Il credere che la Rivoluzionefrancese costituisse l’inizio di una nuova epoca e che l’iniziativafosse ancora della Francia, erano i due errori fondamentali che

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«falsavano i caratteri del moto progressivo e lo indugiavano inFrancia e in Europa» (ib., XCIII, p. 232).

149 Scr. Ed. In., (ib., XCII, pp. 137-39).150 «... vedo oggi ancora più vivo e potente ch’io non credeva

l’eccessivo prestigio esercitato dalla Francia e dai ricordi dellasua grande Rivoluzione sulle menti dei nostri giovani ...» (Sullarivoluzione francese del 1789, Scr. Ed. In., XCII, p. 218).

151 Su questa mancanza di coscienza di sé degli Italiani, comesulla causa di ogni male il Mazzini ritorna assai spesso tra il ’70 eil ’71: cfr. Epistolario, LVII (Scr. Ed. In., XC), p. 88 «abbiamotutto in noi, fuorché la coscienza della nostra missione e dellanostra potenza», p. 294 «l’Italia sembra dormire nel sonno deisette dormienti»; LVIII (XCI), 3-4, 34 ecc.

152 Scr. Ed. In., LXXXVI, pp. 109-10.153 Scr. Ed. In., XCIII, p. 231.154 Epistolario, LVIII (Scr. Ed. In., XCI), p. 163.155 Giuseppe Garibaldi, Un anno dopo. 21 gennaio 1872, in

Opere, XIX, pp. 23-24. Motivo del tutto identico nel Cantodell’Italia che va in Campidoglio:

Sì, sì, portavo il sacco a gli zuaviE battevo le maniIeri a’ Turcòs: oggi i miei bimbi graviSi vestono da ulani.Al cappellino, o a l’elmo, in ginocchioneSempre: ma lesta e scaltraScoto la polve di un’adorazionePer cominciarne un’altra.156 Scr. Ed. In., VI, p. 318.157 Gran sostenitore del parallelismo di sviluppo del princi-

pio di nazionalità nei due paesi fu, sempre, il Mancini, che neldiscorso alla Camera sulla legge delle Guarentigie, il 28 genna-io 1871, ricordò le opinioni espresse dal Bismarck sulla strettaaffinità tra questione italiana e questione germanica, costituenti«una questione sola, o due aspetti di una medesima questione;non essere possibile separarle e combattere contro l’una, senzaoffendere e rinnegare anche l’altra», e vi aderì «per questa na-turale comunanza degli interessi e dei programmi nazionali del-l’Italia e della Germania» (Discorsi Parlamentari di P. S. Manci-ni, III, p. 426. Cfr. F. RUFFINI, Nel primo centenario della na-

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scita di P. S. Mancini, in Nuova Antologia, 16 marzo 1917, p.13 dell’estratto). E già il 25 luglio 1870 un altro dei leaders del-la Sinistra, il Miceli, aveva affermato che l’Italia «obbedendo aisuoi princìpi» era attratta verso la Germania (A. P., Camera, p.3681).

158 La Riforma, 16 gennaio 1873 (Laboremus).159 Se nel discorso del 19 agosto 1870 questi aveva fatta la so-

lenne distinzione tra Francia e Napoleone III (cfr. qui soprap. 159, n. 84), poco più innanzi, nella stessa occasione, comin-ciava a dimostrare diffidenza per la Francia in sé: la Conven-zione di Settembre «nelle mani dell’imperatore Napoleone IIIm’inspira molto minor timore, che nelle mani di qualunque al-tro Governo che potrebbe in Francia succedergli, perché coluiil quale ha combattuto a Magenta ed a Solferino ... troverebbesempre nei suoi precedenti un morale impedimento a disfarel’opera sua, ed a trascorrere al di là di certi limiti, anche quan-do volesse compiacere i nostri nemici. Ma, signori, un titolo diquella natura ed efficacia in mani di un altro Governo france-se qualsiasi, non escluso anche quello di una repubblica france-se, permettete che ve lo dica da buono italiano, mi farebbe spa-vento» (MANCINI, Discorsi Parlamentari, III, p. 357). Tra ledue posizioni assunte a così breve intervallo, c’è una profondacontraddizione di cui il M. non sembra accorgersi: ma quest’èappunto il momento significativo, come che segni il trapassoinavvertito dall’antibonapartismo all’antifrancesismo, dal moti-vo soprattutto ideologico a quello che muove essenzialmente daconsiderazioni di potenza.

160 Lo ha già osservato G. SALVEMINI, La politica esteradella Destra (1871-1876), in Rivista d’Italia, XXVII (1924), vol.III, p. 362.

161 Cfr. l’articolo di fondo della Riforma del 28 luglio 1870; esoprattutto i due articoli Le nostre Alleanze nei numeri del 22e 23 ottobre.

162 Die auswärtige Politik Preussens, 1858-1871, IX, Olden-burg i. O., 1936, p. 774 (Bismarck, a Usedom, 9 marzo 1868).La «Germania» naturale alleata ecc., riappare un mese più tar-di, nel noto memoriale al Mazzini ([E. DIAMILLA-MULLER],Politica segreta italiana 1863-1870, Torino, 1880, p. 364 sgg.),di cui però la paternità mi sembra assai dubbia.

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163 «... non dimenticate l’alleanza naturale della nostra na-zione» (nella prima Lettera agli Italiani pubblicata ne La Per-severanza del 10 agosto 1870). Ma poiché il Mommsen parla-va anche dei «nostri gridi d’ammirazione per i combattenti diNovara», dello «scoppio d’entusiasmo [in Germania], quandoi Lombardi scossero le catene austriache», La Perseveranza os-servava che nella lettera del Mommsen prevaleva «una facoltàche è propria dei Tedeschi, la fantasia», ricordando invece l’at-teggiamento del Parlamento di Francoforte nel ’48 e del gover-no prussiano nel ’59 (la confutazione del Mommsen è fatta dalBonghi).

164 La Riforma, 21 febbraio ’ 71 (Italia e Francia). Anchequi, Crispi riprende il motivo: «Le alleanze, che direi naturali,sono quelle delle potenze che hanno un medesimo interesse adifendere, un medesimo fine a raggiungere. Siamo noi in talicondizioni con la Francia? Sventuratamente fra i due paesiesistono due quistioni, che da sole bastano a tenerli divisi: ilMediterraneo e il Papa», Pensieri e profezie, p. 128. Nonsarà inutile osservare che se il Cavour, nel ’58 e nel ’61 avevaparlato della Prussia come di un «alleato naturale» dell’Italia(CHIALA, l. c.), ciò era avvenuto – a prescindere dalle necessitàtattiche del momento, che valevano per un Cavour non menoche per un Bismarck – non certo facendo della Prussia «il»solo alleato naturale e contrapponendo – come poi i Crispi ecompagni – tale naturalità alla opposta naturalità del contrastocon la Francia!

165 Per questo, rinvio al secondo volume di quest’opera [L’A.rinvia qui al volume che, nel piano originario, avrebbe dovutoseguire a questo delle Premesse, e che non fu mai scritto.N.d.E.]

166 G. RATTI, Le alleanze d’Italia, 2ª ed., Milano, 1866, p. 13e cfr. pp. 9, 19, 20 sgg., 53 sgg. Il motivo base per il fatale urtoitalofrancese è, naturalmente, il contrasto per il dominio delMediterraneo. Cfr. anche nel Blanc, qui sopra pp. 25-26. Purenel Turiello gran sostenitore dell’espansione coloniale italiana,della riconquista dell’equilibrio nel Mediterraneo„ l’avversionealla Francia muove dall’identico presupposto (op. cit., ma 21ed., II, Bologna, 1890, p. 235, che precisa e accentua la la ed.,II, p. 335).

167 Cfr. l’articoloLe spedizioni di volontari in Francia nella Ri-forma del 19 settembre 1870: in Italia, non in Francia è ora la

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causa della libertà del mondo, «in Italia: è qui il posto assegnatoai credenti nella libertà, al dovere dei patrioti italiani». E si vedapure una lettera di Benedetto Cairoli ad Orazio Dogliotti del 9novembre 1870: «soggiunsi [a Garibaldi] aver io la convinzio-ne che il suo sacrificio non solo sarebbe inutile, ma pericoloso,perché togliendoci le simpatie della Germania non ci avrebberestituito quelle della Francia, la quale ancor oggi si vanta no-stra creditrice malgrado le antiche e recenti offese. Vorrei in-gannarmi ... ma temo che Garibaldi si pentirà poi amaramen-te della sua subitanea risoluzione» (L. C. BOLLEA, Documen-ti inediti della famiglia Cairoli, in Bollettino della Società Pavesedi Storia Patria, XV, 1915, p. 270). Invece Il Diritto approvavala decisione di Garibaldi (13 ottobre: Garibaldi e la quistione diNizza).

168 Così La Riforma del 23 luglio 1870.169 Così Il Diritto del 23 settembre 1870 (Le condizioni della

pace e la lettera di T. Mommsen). Kulturkampf aiutando, questamissione della Germania fu esaltata a lungo: nella Riforma del16 gennaio 1873 (Laboremus) la Germania era raffigurata come«face e faro di civiltà e di progresso», contro i «vieti princìpi edottrine del passato, che si attribuiscono alla razza latina».

170 Cfr. ne La Riforma del 21 agosto 1871 (All’Oriente): «Sevi è ... una nazione costituita con vera base democratica, èprecisamente la Germania, dove le armi sono in mano dellanazione, e la rappresentanza politica esce dalle viscere di unlarghissimo suffragio, dove la scienza e la virtù costituisconol’autorità, dove l’istruzione è diritto e dovere comune. Vi hain ciò l’avvenire sicuro di una libertà vera: ben altro che leconvulsioni perpetue di un’anarchia morale, a cui il pregiudiziodell’educazione francese possa attribuire il falso nome di libertàe di democrazia». E si rammenti che il Marselli auspicava iltrionfo della «democrazia armonica» di stampo germanico (cfr.sopra p. 37).

171 «Il risveglio della Francia dopo tanti anni di letargo, miesalta; ma non posso illudermi. Auguro con tutta l’animache le evocate memorie del ’92 inspirino la energia della fedein questa titanica lotta: auguro, non spero, non chiudo gliocchi all’evidenza. Anche i prodigi hanno un confine, e temoquindi effimera la Repubblica che prende per base del suorisorgimento l’impossibilità di una rivincita contro l’invasione

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straniera.» (Lett. alla cugina Fedelina, 6 settembre 1870, in M.Rosi, I Cairoli, 2ª ed., Bologna, 1929, 11, p. 266.)

172 La Riforma del 6 settembre, in polemica con L’Italie173 È bene tener presente che La Riforma fu fondata nel 1867

da Crispi, Cairoli, Bertani, e altri (CRISPI, Politica interna,Milano, 1924, p. 32), che la sua direzione rimase nelle manidi Crispi e Oliva, e più tardi, anche di Miceli e di Lazzaro (J.WHITE MARIO, Agostino Bertani e i suoi tempi, II, Firenze,1888, pp. 333 e 337); e dopo la breve sospensione dellapubblicazione, fra il 10 e il 16 dicembre 1872, la riprese conun consiglio direttivo composto da Colonna di Cesarò, Crispi,Nicotera, Oliva, Seismit-Doda (La Riforma, 17 dicembre 1872).

Una volta, il 26 aprile 1874, Crispi ebbe a manifestare, inuna lettera aperta al giornale, il suo dissenso (anche per alcuniarticoli del passato «che non esprimevano esattamente le mieopinioni»): ma si trattava di problemi di politica interna.

174 Cfr. infatti Il Diritto del 13 ottobre ’70 (Garibaldi e laquistione di Nizza): l’Italia non può «né favorire l’agitazionenizzarda, per non rendersi rea di slealtà verso la Francia, almomento in cui questa è sopraffatta dal nemico, e per nonnegare quel diritto plebiscitario che è la base del nostro dirittopubblico; e non può, d’altra parte, combatterla, perché codestaagitazione è, in sostanza, una prova affettuosa ...».

175 «Nice nous tendrait les bras, et, quant à la Savoie, il nousconviendrait de la détacher de la France, si non pour en rentreren possession, du moins, ce qui vaudrait peut-être mieux, pourla constituer en état neutre en union personnelle avec la Suisse»(l. p. de Launay a Visconti Venosta, 24 gennaio 1872, già cit.).

176 Il 27 luglio 1870, in un momento cioè assai critico deirapporti Prussia-Italia, il Bismarck, dopo aver affermato chela Germania, nonché ispirarsi alle tradizioni del Sacro Roma-no Impero, avrebbe un immenso vantaggio a veder aumenta-re la potenza dell’Italia, insinuava: «Pourquoi n’enverriez-vouspas un corps d’observation vers Nice?» (l. p. de Launay a Vi-sconti Venosta, 27 luglio 1870, già cit.). E le sue trame con laSinistra e la missione Holstein in Italia sfruttavano largamen-te il motivo «Nizza italiana». Agli approcci tedeschi accenna-va apertamente l’Artom, col Rothan: «... on nous a fait main-tes fois ... des insinuations au sujet de Nice; nous les avons tou-jours repoussées avec indignatión» (ROTHAN, L’Allemagne et

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l’Italie, cit., II, p. 169, e cfr. p. 277 ma sotto la data 23 febbraio,mentre il r. n. 44 è del 21, AEP, C. P., Italie, t. 380, ff. 266-266v.); e con sdegno respingeva simili eccitamenti La Perseveranzadel 30 ottobre ’70 (La stampa francese): «nessuno uomo di sen-no e di cuore in Italia ha pensato che dovessimo dare de’ calcialla Francia poiché non potevamo darle la mano!». E cfr. an-che 19 dicembre (Siamo parziali?): i due art. sono entrambi delBonghi.

177 In un lungo colloquio col de Launay, il 23 marzo 1871,Blsmarck «me laissa entendre qu’il n’eût dépendu que de nous,de profiter de cette guerre pour revendiquer la Savoie et lecomté de Nice. Il eût suffi d’une sunple manifestation, appuyéepar 4/m hommes de troupes». (l. p. de Launay a ViscontiVenosta, 24 marzo 1871. AE, Ris., 10).

178 Nel 1872 il tenente generale conte Petitti di Roreto, cheaveva assistito alle manovre della Guardia prussiana, si sentivadire dal Moltke stesso: «Je n’ai jamais compris pourquoi vousn’ayez pas alors [durante la guerra franco-prussiana] reprisNice; vous n aviez qu’à vouloir; et maintenant ce serait fait».E tal frase, annotava il Petitti, rispondeva ad un sentimentoassai comune nell’esercito germanico (r. Petitti di Roreto alministero della Guerra, 20 ottobre, trasmesso agli Esteri il30 ottobre). E cfr. le dichiarazioni dell’intendente generaledell’esercito prussiano Stosch, al Robilant, il 14 ottobre 1870,in SALVEMINI, La politica estera della Destra, l. c., 1924, p. 365n. 2.

179 «... voi sapete pure, che la culla dei vostri re ora è diparti-mento francese, e il vostro eroe francese di nascita ex-post». T.MOMMSEN, Agli italiani, Firenze, 1870, p. 6. Questo nella pri-ma lettera alla Perseveranza (10 agosto 70). Successivamente, ilMommsen trovò anch’egli che «forse» era «convenevole e giu-sto» non servirsi di quest’occasione per rivendicare i territoriitaliani passati alla Francia (ib., p. 26).

180 Contro il Weber protesta recisamente il MACCHI, op.cit., p. cit., 24 sgg.

181 A un certo punto, si affacciò anche un irredentismo còrso:Mauro Macchi si recò dal Rothan per dirgli che dei Corsi, giuntia Firenze e probabilmente aizzati dalla Prussia, si sarebberoincontrati con deputati dell’estrema Sinistra, per organizzareun Comitato separatista simile a quello di Nizza (r. Rothan,

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4 marzo 1871, n. 56; AEP, C. P., Italie, t. 381, f. 103.Cfr. ROTHAN, L’Allemagne et l’Italie, cit., II, p. 362, masotto la data 25 marzo [sic!] e senza il nome del Macchi). Suquesti tentativi, D. SPADONI, Perché la Corsica nel 1870-71non tornò all’Italia, in Arch. Storico di Corsica, XIV, 1938, pp.1-20; e cfr. G. VOLPE, Italia moderna 1815-1915, I, Milano,1943, pp. 67-68. Ma tutto con molto minore eco che non laquestione di Nizza.

182 La questione riappare ancora, seppure meno vivamente,più tardi: cfr. Il Diritto, 17 giugno 1872.

183 Art. Le nostre alleanze, II.184 Scr. Ed. In., XCIII, p. 85. Ancora una volta bisogna at-

tentamente distinguere fra lettera e spirito per capire la diffe-renza di posizione fra il Mazzini e l’ambiente Crispino (del Cri-spi, d’altronde, il genovese trovava «meschina» la condotta nelmaggio ’71, Epistolario, LVIII, Scr. Ed. In., XCI, p. 44). An-che Mazzieri voleva Nizza: Nizza e Roma sono i due nomi ac-comunati, nel programma ch’egli traccia nell’agosto ’70 e cheripete ostinatamente («Nous voulons Rome et Nice» Epistola-rio, LVI, Scr. Ed. In., LXXXIX, p. 337; 1° agosto 1870). MaNizza, come Roma, sono viste nel quadro di un generale rivol-gimento repubblicano in Italia (a cui potrebbe seguire anchequello in Spagna, cfr. Epistolario, LVIII, Scr. Ed. In., XCI, p.141): sono parti di un più compiuto, profondo, generale «ri-scatto», morale e politico. Tant’è vero, che, nel caso di un mo-to a Nizza – da lui d’altronde non ritenuto opportuno – «pensoche sarebbe bene manifestare altamente desiderio d’unione al-l’Italia e fare appello ad essa, per dare un punto d’appoggio allevarsi contro il Governo – che rifiuterebbe – in Italia» (a Lu-ciano Mereu, 14 aprile, 1871, ib. ib., p. 19); e che, venuta me-no la speranza nel rinnovamento «organico», generale, l’agita-tore può scrivere «s’anche Trento, Trieste e Nizza fossero no-stre, noi avremmo il contorno materiale, l’organismo inerte d’I-talia: manca l’altro fecondatore di Dio, l’anima della Nazione»(ib. ib., p. 162). La questione di Nizza è sempre indissolubil-mente collegata col movimento generale in Italia, per la repub-blica, con un «rinnovamento generale» europeo; non mero ac-quisto territoriale in sé e per sé – e sia pur rivendicazione di ter-ra già italiana – quale appariva per il Crispi e gli altri agitatoridel Comitato di Firenze.

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185 Il 19 agosto 1870 (CRISPI, Discorsi Parlamentari, Roma,1915, II, p. 78). Sulle «proteste» di tenerezza del Crispi per laFrancia e sulle «lacrime del cocodrillo» della Riforma, dopo il4 settembre, cfr. l’arguta nota del BONGHI (Contraddizioni, neLa Perseveranza del 12 settembre 1870).

186 Scrivendo a Giovanni Bovio il 17 luglio 1889, perchési evitino le agitazioni irredentistiche per Trento e Trieste,Adriano Lemmi, gran difensore della politica crispina, diceinfatti: «nella coscienza dei migliori stà che la questione diTrento e Trieste, come quella di Nizza, non si risolve con uncolpo di mano».

E il 23, ad Aurelio Saffi, contro gli agitatori: «Mica parlano,sai, di Nizza – ma ti pare? Quella non è terra Italiana ...» (MRR,Carte Crispi, b. 660, n. 7/7, e b. 664, n. 13/10).

187 Il 19 agosto 1870 (Discorsi Parlamentari, II, p. 78).188 La moralità dell’idea nazionale (La Riforma, 25 settembre,

1870).189 L’ora solenne (La Riforma, 3 ottobre 1870).190 Si veda soprattutto lo scritto sulla Nationalité (Scr. Ed. In.,

VI, p. 123 sgg.); ed anche quello Dell’iniziativa rivoluzionaria inEuropa (ib. ib., IV, p. 180). E cfr. A. LEVI, La filosofia politicadi G. Mazzini, Bologna, 1917, p. 217 sgg.; G. SALVEMINI,Mazzini, 48, ed., Firenze, 1925, pp. 43-44; L. SALVATORELLI,Il pensiero politico italiano dal 1700 al 1870, 3ª ed., Torino,1943, pp. 215-36, 243, 246 [6ª ed. riveduta, Torino, 1959,N.d.E.]; O. VOSSLER, Mazzinis politiches Denken und Wollenin den geistigen Strömungen seiner Zeit, Monaco-Berlino, 1927,p. 73; ID., L’idea di nazione dal Rousseau al Ranke, trad. it.,Firenze, 1949, pp. 115-16; H. KOHN, Profeti e popoli, trad. it.,Milano, 1949, p. 97.

191 «Le fratellanze universali, le democrazie cosmopolite sa-ranno bellissime cose, ma senza la primordiale idea della patria,senza il principio di nazionalità, sono idee illogiche e vacue»(La Riforma, 25 settembre). E si paragoni col credo mazzinia-no: «Il faut que rattachée à la loi générale de l’humanité, sour-ce de toute nationalité» (la traduzione del Saffi è meno incisiva:Scr. Ed. In., VI, p. 134).

Come si vede, il rapporto fra i due termini è, nella crispinaRiforma, mutato nei confronti della formulazione mazziniana.E anche se, altre volte, il pensiero del Mazzini appoggia più de-

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cisamente sul termine patria, la validità di questa è pur semprein funzione dell’umanità: senza patria non è umanità; ma l’u-na e l’altra sono egualmente sacre: e la nazione è lo strumentocon cui raggiungere l’intento ultimo e la patria «è il punto d’ap-poggio dato alla leva che deve operare a pro’ dell’umanità» (LaSanta Alleanza dei Popoli, in Scr. Ed. In., XXXIX, p. 214). Nel-la formulazione della Riforma rimane, invece, solo il disprezzoper lo «incerto indefinito cosmopolitismo» della seconda metàdel secolo XVIII, condannato sì dal Mazzini, perché privo del-l’idea di patria, e con particolare veemenza polemica proprionel 1871, contro gli internazionalisti d’ogni genere (Scr. Ed. In.,XCIII, p. 85); ma senza che questo «anticosmopolitismo» atte-nui in lui il senso dell’umanità. (Cfr. sempre i Doveri dell’uomo,ib., LXIX, pp. 47-69.).

«Senza Patria, non è possibile ordinamento alcuno dell’U-manità» dice, nel ’71, il Mazzini; ma ripete pure «L’Umanità èil fine, la Nazione, il mezzo». Per i Crispi, gli Oliva ecc., invece,l’Umanità anche come fine sta scomparendo.

192 28 aprile 1871.193 La politica italiana in Oriente, 1° settembre ’72.194 Cfr., dopo l’art. del 5 giugno ’71 sulla situazione austriaca,

la serie di articoli fra l’agosto e l’ottobre 1871: 14 agosto;All’Oriente (21 e 27 agosto); Il problema austriaco (7 settembre);Il partito liberale austriaco (19 settembre); Il problema austriacoè sul tappeto (21 settembre); Il principio di nazionalità (11ottobre); La Dieta di Trieste e l’Austria (18 ottobre).

195 Cfr. La questione del Trentino (26 agosto 1871, cfr. 7 ot-tobre ’71): i nostri fratelli trentini, «pensino che essi fan parteintegrale e carissima della famiglia italiana; che fra le loro mon-tagne sono le porte della casa comune, e che, se la fortuna nonci fu propizia finora, ciò non toglie che dovremo rivendicarle,e che un giorno dovranno essere restituite». Si tenga presen-te che nell’estate del ’71 la questione del Trentino era riappar-sa nella stampa italiana (A. SANDONÀ, L’irredentismo nelle lot-te politiche e nelle contese diplomatiche italo-austriache, I, Bolo-gna, 1932, pp. 95-96).

196 La dieta di Trieste e l’Austria (18 ottobre ’71): «...affettoche i Triestini sentono per la stirpe alla quale appartengono [l’i-taliana] e loro forti aspirazioni, alle quali è riservato il compi-mento nell’avvenire».

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197 È bene tener presenti queste considerazioni sull’Austriadella Riforma per intendere come poi, nel ’77, durante il suo ce-lebre colloquio col Bismarck a Gastein, Crispi potesse tentaredi allettare il cancelliere germanico parlandogli dell’Austria te-desca, dell’unità germanica «non compita», uscendo addirittu-ra nella frase «A voi non dispiace il territorio austriaco» (CRI-SPI, Politica estera, cit., p. 27). A chiarir meglio ancora ta-li grossi errori di prospettiva politica può essere addotto il fat-to che anche tra i moderati, in Italia, v’era chi paventava fatalee non lontano l’assorbimento dell’Austria nel Reich (BONGHI,ne La Perseveranza, 13 agosto ’70, 15 gennaio ’71); che anchein Inghilterra si credeva allora e ancora nel ’75, agli appetiti bi-smarckiani nei riguardi dell’Austria tedesca; e vi credeva, fra glialtri, l’ambasciatore britannico a Berlino, lord Odo Russell (cfr.MEINE, op. cit., pp. 69, 164, 166, 176, 187). Ancora nel 1878,dopo il Congresso di Berlino, il segretario generale agli Este-ri, Maffei di Boglio, riteneva che l’obbiettivo del Bismarck nonpoteva essere che quello «di rivendicare ogni particella di terri-torio tedesco, e di trasferire per conseguenza la sede dell’edifi-cio Austro Ungarico da Vienna a Pest» (l. p. Maffei a Robilant,9 settembre 1878; AE, Carte Robilant).

198 All’Oriente, II (27 agosto ’71).199 Cfr. V. VALENTIN, Geschichte der deutschen Revolution

von 1848-1849, II, Berlino, 1931, p. 125 sgg.; L. B. NAMIER,1848: The Revolution of the Intellectuals (Proceedings of theBritish Academy, 1944, XXX), p. 88.

200 Il Bismarck alla Magdeburgische Zeitung, 20 aprile 1848:io avrei compreso, che nel primo impeto di forza nazionale te-desca si fosse chiesta l’Alsazia alla Francia e piantata la bandieratedesca sul duomo di Strasburgo; ma baloccarsi con il cavalle-resco e il romanzesco, liberar e applaudire i Polacchi prigionie-ri a Berlino [allude ai fatti del 20 marzo] perché poi i Polacchiinsorgano contro i Tedeschi ... (Ges. Werke, 141 pp. 105-06).Sull’importanza di questo scritto, cfr. E. MARCKS, Bismarckund die deutsche Revolution, 1848-1851, ed. da W. Andreas,Stoccarda-Berlino, 1939, p. 41 sgg.

201 Notevole che al partito liberale austriaco La Riforma muo-vesse rimproveri: la democrazia viennese, come quella parigina,ha la mania del centralismo, e questo è l’equivoco in cui s’aggira(Il partito liberale austriaco, 19 settembre ’71).

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202 Sin dal 5 giugno ’71 «la parte tedesca e la parte italianadell’impero fra non molto tempo dovranno congiungersi cia-scuna alla propria famiglia, colle quali sono chiamate a viveredalla voce irresistibile della natura e dei più vitali interessi».

203 Perfino dopo la caduta del ministro Hohenwart, La Rifor-ma continuò a credere nell’imminenza di una soluzione radica-le, crollo o profonda trasformazione politica e territoriale del-l’impero asburgico (Le due crisi austriache, 12 novembre ’71).

204 Il sentimento nazionale (25 giugno ’72).205 Quest’è infatti il succo delle affermazioni del Mazzini sul-

la nazionalità. Ed è palese tanto negli scritti rammentati del ’34e del ’35, quanto e forse ancor più negli ultimi. Nel 1859 «LaPatria è la vostra vita collettiva – la vita che annoda in una tra-dizione di tendenze e d’affetti conformi tutte le generazioni chesorsero, oprarono e passarono sul vostro suolo ... la Patria è lafede nella Patria» Ai giovani d’Italia (Scr. Ed. In., LXIV, pp.165-66). Nel ’71 «... Ia Nazione è, non un territorio da farsi piùforte aumentandone la vastità, non una agglomerazione d’uo-mini parlanti lo stesso idioma ... ma un tutto organico per unitàdi fine e di facoltà ... Lingua, territorio, razza non sono che gliindizi della Nazionalità, mal fermi quando non sono collegatitutti e richiedenti a ogni modo conferma dalla tradizione stori-ca, dal lungo sviluppo d’una vita collettiva contrassegnata daglistessi caratteri». Nazionalismo e nazionalità (Scr Ed. In., XCIII,pp. 92-93). Nei Doveri dell’uomo, esplicito l’accenno al «vo-to» (Scr. Ed. In., LXIX, p. 67). Non è qui il caso di discuterese la dottrina della nazionalità come fatto morale (un but com-mun) debba o meno essere rivendicata al Buchez e al sansimo-nismo, come vuole R. TREVES, La dottrina sansimoniana nelpensiero italiano del Risorgimento, Torino, 1931, p. 71 sgg. Ecfr. invece, su questa natura «spirituale e volontaria» della na-zione, soprattutto V. G. GALATI, Il concetto di nazionalità nelRisorgimento italiano, Firenze, p. 50 sgg.; anche G. GENTILE,I profeti del Risorgimento italiano, Firenze, 1928, p. 39.

206 «Moltiplicate quanto volete i punti di contatto materialeed esteriore in mezzo ad un’aggregazione di uomini; questi nonformeranno mai una nazione senza la unità morale di un pensie-ro comune, di una idea predominante che fa una società quelch’essa è, perché in essa vien realizzata. L’invisibile possanzadi siffatto principio di azione è come la face di Prometeo chesveglia a vita propria ed indipendente l’argilla, onde crearsi un

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popolo: essa è il Penso, dunque esisto de’ filosofi, applicato al-le Nazionalità». (Della Nazionalità come fondamento del dirit-to delle genti, in P. S. MANCINI, Diritto Internazionale. Prele-zioni, Napoli, 1873, pp. 35-36.) E proprio nell’estate del ’70 ilMancini conferma le sue idee: nel discorso del 19 agosto 70, al-la Camera, egli ricorda le sue precedenti affermazioni: «Il me-desimo principio, che nel diritto pubblico interno si chiama So-vranità nazionale, e si realizza nel suffragio universale, è quel-lo che nel diritto internazionale chiamasi principio di naziona-lità». Già quest’equivalenza basterebbe a dimostrare la impor-tanza del fattore volontà nel principio di nazionalità: ma po-co più oltre il pensiero è ancora più esplicito: «Fu come conse-guenza di queste premesse, che si adoperò la magnifica formo-la che rendevasi Roma dei Romani, e, quando i Romani il voles-sero, dell’Italia» (MANCINI, Discorsi Parlamentari, III, pp. 341e 347; ma già nel discorso alla Camera del 18 novembre 1864,ib., II, p. 119. Qui il fattore «volontà» appare dunque decisivo.Cfr. F. LOPEZ DE OÑATE, pref. a P. S. MANCINI, Saggi sul-la nazionalità, Roma, 1944, p. XIV sgg.). La tesi ultimamentesostenuta dal CURCIO (Nazione Europa Umanità, Milano 1950,pp. 154, 161, 189), che nel Mancini la nazione sia una realtà so-prattutto naturale, è apprezzabile in quanto ha posto in rilievola non organicità di principi della teoria nazionalitaria, il fram-mischiamento di elementi eterogenei nel Mancini, e soprattuttoil fatto che il fattore natura e le dottrine giusnaturalistiche ab-biano in lui ben altra importanza che non nel Mazzini, non sen-za poi che la natura si alterni con la Provvidenza, oscillandosidunque fra giusnaturalismo e una specie di misticismo. Ma, asua volta, il Curcio ha poi nettamente sottovalutato la «coscien-za», di cui, nella prolusione romana del 1872, il Mancini torne-rà a parlare come dell’elemento «precipuo» fra quelli che co-stituiscono una nazionalità, dello «spirito vivificatore» di essa,ecc. (Prelezioni, cit., pp. 189 e 203). Posizione pienamente,totalmente giusnaturalistica è quella del Crispi: non quella delMancini.

207 Cfr. P. E. TAVIANI, Problemi economici nei riformatorisociali Risorgimento Italiano, Genova, 1940, p. 239 sgg.

208 Cfr. p. 128 n. 3. Già il 28 settembre, il Bonghi ne LaPerseveranza aveva sostenuto che prima di una decisione gliAlsaziani e i Lorenesi avevano il diritto di poter esprimere illoro voto (Le condizioni della pace).

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209 Tale preoccupazione è palese all’inizio e nel finale dell’ar-ticolo: «Se le dottrine della Perseveranza e dell’Opinione doves-sero applicarsi, ne verrebbe la conseguenza che l’unità del no-stro paese sarebbe esposta a sfasciarsi per la volontà scismaticadi alcuna delle sue popolazioni. È una teoria che ai separatistipuò piacere, ma che il partito unitario deve respingere con ognipossa».

210 Lo aveva detto il Mommsen il 17 settembre ’70: si diceche i romani siano in gran maggioranza neri e preferiscano iceppi del Papato e del cardinalato alla libertà italiana. Fosse purciò vero, gli italiani hanno ugualmente diritto a Roma capitale,perché la nascita dell’Italia è anteriore ai plebisciti (nel Diritto,22 settembre; e poi in op. cit.).

211 Il principio di nazionalità (La Riforma, 20 dicembre ’70).Già il 30 agosto ’70 idee analoghe sul «principio unitario ...anteriore e superiore ad ogni forma di governo. Da esso traela sua legittimità la rivoluzione italiana». E sulla questionedell’Alsazia-Lorena La Riforma tornerà l’8 ottobre 1872, a pro-posito dell’emigrazione in Francia dei patrioti delle due regio-ni (Il principio di nazionalità): anche ora, sostenendo le stesseidee sui «diritti imprescrittibili» della nazione, che sussistonosempre «finché durino i naturali confini che separano nazioneda nazione, ed in mancanza di questi, finché sorviva una raz-za, una storia, una lingua comune»; sulla unità nazionale «ch’e-siste per se stessa indipendentemente da ogni voto e da ogniplebiscito».

212 Il 17 settembre 1870 tale concetto era stato ripreso anco-ra da La Perseveranza (art. L’andata a Roma) per affermare «ne-cessario il voto del popolo per aggiungere il territorio romanoagli altri»: proprio quel che metteva in furore il Crispi!

213 Così, felicemente, La Perseveranza del 23 agosto 1870 (Lecondizioni della pace secondo i Tedeschi).

214 Si veda infatti la polemica fra Il Diritto, l’altro organo ma-gno della Sinistra, e il Mommsen, nel settembre del ’70, pro-prio a proposito dell’Alsazia-Lorena: Il Diritto si appella alla«volontà» delle due regioni, le cui popolazioni sole devono ri-solvere la questione, e proclama il plebiscito come base del di-ritto pubblico moderno, polemizzando anche apertamente con«certi giornali democratici» italiani, della «democrazia giacobi-na» che negano tali princìpi (12, 22, 23, 24 e 25 settembre ’70).

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Il Mancini stava in una via di mezzo, piuttosto contraddittoriain sé: mentre da un lato dichiarava non dipendere dalla volontà«l’appartenere ad una più che altra nazione» e il suffragio nonessere «che prova estrinseca» della unità ed identità nazionale– posizione Crispi e La Riforma – dall’altro difendeva l’utilitàdei plebisciti, augurandosi che divenisse «canone obbligatorionel Diritto delle Genti il subordinare la legittimità di ogni terri-toriale aggregazione all’approvazione del suffragio delle popo-lazioni de cui destini si dispone» – posizione dei moderati e delDiritto (Prelelezione del 1872, l. c., pp. 202-03). Il Mancini erapoi reciso nel sostenere l’indispensabilità del plebiscito pe’ casidi nazionalità dubbia; e questo nemmeno La Riforma lo negava,nell’art. del 20 dicembre.

215 Cfr. La Perseveranza, 1° novembre 1870 (Lo spirito crocia-to dei Tedeschi).

216 Si veda infatti già nel De Maistre la giustificazione dellaguerra, come origine delle grandi cose, arti, scienze ecc.: «lesang est l’engrais de cetre piante qu’on appelle génie» (Considé-rations sur la France, c. III, ed. Lione-Parigi, 1860, p. 41 sgg.).E dopo il 70, si veda Renan (qui sopra, pp. 86-87).

217 L’attività nazionale, ne La Riforma del 28 dicembre 70.218 Recisamente antirazzistico in genere è l’articolo, già ricor-

dato, sull’Alleanza latina, del 17 dicembre 1871.219 «Non per nulla abbiamo sempre professato ... l’unità e

l’indivisibilità della sovranità nazionale come diritto anteriore esuperiore al suffragio stesso delle diverse popolazioni d’Italia»(Gli avvenimenti di Parigi, ne La Riforma del 24 marzo 1871).

220 Scritti e discorsi politici di Francesco Crispi, cit., pp. 329-330.

221 Ib., p. 723. La formula riappare anche nella lettera aPrimo Levi, 16 novembre 1891: «Del resto, ho detto più volte,che la nostra nazione esiste quia nata; e non aveva bisogno deiplebisciti per essere»; e in altra lettera allo stesso, 16 agosto1892 «Natio quia nata, ricordatevelo»: Carteggi politici ineditidi Francesco Crispi (1860-1900), Roma, 1912, pp. 466 e 471.

222 Crispi a Raiberti, 14 novembre 1891 (Carteggi politiciinediti, cit., p. 461).

223 «La esistenza di una nazione o la negazione di essa nonpossono dipendere dal voto di un popolo. La nazione è, perché

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Dio l’ha fatta. Un plebiscito può costituire un fatto giuridico,ma non creare un fatto contrario alla natura», Pensieri e profe-zie, cit., p. 148: dove riaffiora anche il concetto pure espressonella lett. a Primo Levi, il 4 novembre 1891: «... i plebisciti so-no nulli, quando sono contro il diritto di nazionalità e contro lalibertà. Siccome è vietato il suicidio all’uomo, è vietato alla na-zione» (Carteggi politici inediti, cit., p. 459). Questa è una po-sizione già del Mancini (prolus. del 1872, cit., p. 203): è im-possibile che una nazione possa rinnegare il fatto della proprianazionalità.

224 Discorsi Parlamentari di Marco Minghetti, VIII, Roma,1890, p. 124.

225 Cfr. L. RUSSO, Ritratti e disegni storici, serie prima,Dall’Alfieri al Leopardi, Bari, 1946, pp. 98-99 [3ª ed., Firenze,1963 N.d.E.].

226 Basti, per tutti, il mazziniano appello ai Giovani d’Italia,nel 1859: «Adorate la Libertà. Rivendicatela fin dal primo sor-gere e serbatela gelosamente intatta ... Quei che vi dicono: voidovete avere prima Indipendenza, poi Patria, poi Libertà, o so-no stolti o pensano a tradirvi e a non darvi né Libertà né Patriané Indipendenza. Però che l’Indipendenza è l’emancipazionedella tirannide straniera e la Libertà ... dalla tirannide dome-stica; or, finché, domestica o straniera, voi avete tirannide, co-me potete aver Patria? La Patria è la causa dell’Uomo, non del-lo schiavo» (Scr. Ed. In., LXIV, pp. 182-83). D’altronde, giàil Manifesto della Giovine Italia era stato esplicito: «... tre basiinseparabili dell’Indipendenza, della Unità, della Libertà».

227 Cfr.L. SALVATORELLI, Pensiero e azione del Risorgimen-to, 2ª ed., Torino, 1544, p. 174 [7ª ed., Torino, 1962. N.d.E.].

228 Discorsi Parlamentari, l, p. 700; e cfr. W. MATURI,Ruggero Bonghi e i problemi di politica estera, in Belfagor,luglio 1946, p. 416.

229 Nel discorso alla Camera del 18 novembre 1864, e, nuo-vamente, il 19 agosto 1870 (Discorsi Parlamentari, II, p. 119,III, p. 341). Sulla nazionalità come svolgimento del principiodella libertà, nel Mancini, cfr. LOPEZ DE OÑATE, l. c., p. LIVsgg., LXIII sgg.

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230 C. CARACCIOLO DI BELLA, Dieci anni di politica estera,Città di Castello, 1888, p. 20. (È il discorso pronunziato alSenato il 4 maggio 1878, A. P., Senato, p. 134.).

231 Scritti politici, ed. Ferrarelli, Napoli, 1889, p. 220. Cfr.B. CROCE, La commemorazione di Francesco de Sanctis, ora inPagine sparse, II, Napoli, 1943, p. 362 [ora in Pagine sparse, 2ªed., Bari, 1960. N.d.E.].

232 Considérations sur le gouvernement de Pologne, c. III(Oeuvres complètes, ed. Parigi, 1826, p. 358).

233 Il Carducci ha colto perfettamente questo momento: «...in altri i tristi odii nazionali installati dagli storici e dagli scritto-ri dei tempi di servitù o di sventura, sublimemente appassiona-ti, fermentavano più che mai freddi e atroci, fino a divenire teo-riche di politica» (Giuseppe Garibaldi. Un anno dopo, 21 genna-io 1872, in Opere, XIX, p. 24). Dove è finissima, anche, la con-trapposizione fra la passione d’un tempo (Alfieri) e la freddezzadottrinaria dell’oggi.

234 L. MAGAGNATO (Nazione e rapporti internazionali nelpensiero di Mazzini, Vicenza, 1943, p. 25 sgg.) e il KOHN (Pro-feti e popoli, cit., pp. 87, 88, 101-02), hanno insistito sui peri-coli nazionalistici che l’esaltazione della nazione (e del prima-to di Roma) fatta da Mazzini celava. Ora, non c’è alcun dub-bio che in tale glorificazione il più tardo nazionalismo potessetrovar quegli spunti che non trovava certo, non diciamo in unCattaneo, ma nemmeno nei moderati. Senonché, sarebbe in-giusto ed errato giudicare troppo Mazzini da quel che avvennepoi (secondo capita soprattutto, forse, al Kohn), dimenticandoche la nazione in Mazzini è sempre connessa indissolubilmentecon l’umanità (cioè, per lui, (Europa: per vago che sia il concet-to e non politicamente concretato) e con la libertà, che ne costi-tuivano ad un tempo i due limiti. E dell’infrangimento di questilimiti Mazzini non è responsabile.

235 La eredità politica del 1870 (2-3 gennaio 1871).236 Difendetevi!, cit., p. 55.237 Politica Internazionale (1871), Scr. Ed. In., XCII, p. 153

sgg., 164-65.238 L’onorevole Miceli, alla Camera, 18 aprile (A. P., Camera,

p. 344).

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239 CARACCIOLO DI BELLA, op. cit., p. 19. Il Caracciolodi Bella, già ministro d’Italia a Costantinopoli e Pietroburgo, siera poi schierato nelle file della Sinistra da senatore, dal maggio1876. L’espressione su riferita si trova nel discorso al Senatodel 4 maggio 1878.

240 Così, nella seduta della Camera del 18 dicembre 1876,l’on. Miceli, uno degli specialisti della Sinistra nelle discussio-ni di politica estera, tanto da esser designato dal Bonghi comeil «ministro degli Esteri della Sinistra» allora quando la Sinistraera all’opposizione (A. P., Camera, pp. 407-08; qui appresso p.599). Dichiarazioni simili il Miceli farà anche più tardi, ritenen-do che la costituzione delle nazionalità balcaniche fosse (unicasoluzione degna dell’epoca, e attendendosi «i più grandi risul-tati» da una politica volta a tutelare il principio di nazionalità(8 e 9 aprile 1878 A. P., Camera, pp. 343, 346, 383).

241 Cfr. qui appresso, p. 716.242 r. Wimpffen, 10 giugno 1881, n. 27 A; Saw, P. A., XI/91.

D’altronde, già nella prolusione di Roma del 1872 il Manciniaveva cercato di rassicurare: il principio di nazionalità «nonimporre menomamente (obbligo di bandire novelle crociate perisconvolgere gli Stati esistenti e rifare la carta territoriale diEuropa» Prelezioni, cit., p. 199).

243 «Il Governo italiano non ha abbandonato né i principi aiquali deve la sua origine, né le loro conseguenze», Depretis allaCamera, 18 dicembre 1876 (A. P., Camera, p. 414, non riporta-to nei Discorsi Parlamentari). Nello stesso discorso Depretis al-la Camera il 23 aprile 1877, ripresa del programma ministeriale:all’affermazione che «l’Italia deve continuare nella politica pa-cifica, prudente, dignitosa che fin qui le ha cattivato le simpatiedelle Potenze europee» seguiva la limitazione «senza che, perprudenza eccessiva, rinunzi alla sua devozione ai grandi princì-pi della civiltà e dell’umanità». (Ib., p. 2716, c. s.).

244 Il Wimpffen, infatti, non attribuiva eccessivo valore allesuddette dichiarazioni del Mancini.

245 Nella seduta del 9 aprile 1878 alla Camera: «nei limiti pre-scritti dai trattati esistenti e dai riguardi dovuti alle potenze ami-che, la nostra azione diplomatica sarà dunque diretta eziandioad appoggiare, quanto più efficacemente si potrà, gl’interessi diquelle nazionalità alle quali gli italiani portano sì viva simpatia»(A. P., Camera, p. 383).

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246 Discorso del 23 aprile 1877 (A. P., Camera, pp. 2693-94).Identico tono nel discorso dell’8 aprile 1878 (A. P., Camera, p.374 sgg.).

247 Discorso dell’8 aprile 1878 (A. P., Camera, pp. 355-56).248 Discorso alla Camera del 9 aprile 1878 (Discorsi Parlamen-

tari di Felice Cavallotti, I, p. 85 sgg.).249 Dell’insurrezione di Milano nel 1848 e della successivaguer-

ra, Lugano, 1849, p. 306 [33 ed., Torino, 1949, N.d.E.].250 Nel discorso Cairoli, il 28 maggio 1876 a Milano, rivendi-

cazione anche di Nizza, oltre che di Trento e Trieste (SANDO-NÀ, op. cit., I, p. 124).

251 La questione d’Oriente, 16 novembre 1870.252 La eredità politica del 1870, 2-3 gennaio 1871.253 Cfr. il discorso di Torino, del 25 ottobre 1887, Scritti

e discorsi politici, pp. 709-10, e i discorsi alla Camera, del 3febbraio 1879 (Discorsi Parlamentari, II, p. 339), del 15 marzo1880, ib., II, p. 408, dove si riprende il disegno mazzinianodella confederazione, e del 4 maggio 1894, ib., III, p. 746. E cfr.CRISPI, Politica estera, I, p. 296 sgg., e Questioni internazionali,Milano, 1927 (ristampa), p. 231 sgg., dove la sua posizione dalPALAMENGHI-CRISPI, ordinatore del Diario e documenti delCrispi ed editore di queste opere, è tratteggiata sempre comequella dell’antico mazziniano.

254 CRISPI, Questioni internazionali, p. 241 sgg. (intervistacol Figaro del febbraio 1897).

255 Pensieri e profezie, p. 6 (1900). Ma quand’era al go-verno, Crispi dubitava della possibilità di attuazione, in Eu-ropa, dell’arbitrato internazionale (Discorsi Parlamentari, III,pp. 589-90). E si veda la sua discussione col Desmarest, nelsettembre-ottobre 1891, dove il riconoscimento dei grandi van-taggi dell’unione europea è sopraffatto dalla discussione suirapporti Italia-Francia, sulla Triplice e dalla polemica controgli «alleati attuali» della Francia, lo Czar e il Papa. Per far l’u-nione europea, la Francia si associ alla Triplice Alleanza, che è,ormai «il primo nodo della confederazione europea» (!). Le di-chiarazioni finali sono molte chiare «nella politica pratica, bi-sogna prendere il mondo qual’è ... non si deve perdere il tem-po nella discussione di ipotesi alla cui effettuazione è necessa-ria l’opera dei secoli ... rimettiamo ai nostri successori il co-

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ronamento dell’opera di progresso ...» (Ultimi scritti e discorsiextra-parlamentari, cit., pp. 381-97).

256 G. P., IX, p. 54 sgg. e 56 n. I. Cfr. H. KRAUSNICK, Hol-steins Geheimpolitik in der Aera Bismarck, 1886-1890, Ambur-go, 1942, p. 73.

257 Colloquio col Nigra, 25 gennaio 1896: «Nostro desiderioè, che non si muti lo statu-quo territoriale nella penisola balca-nica. Vogliamo però che, ove qualche mutamento avvenga, oveun riparto si faccia dello impero turco, l’Italia debba aver la suaparte. Il conte Nigra conviene in tutto ciò» (MRR, Carte Crispi,b. 668, n. 1/4). La parte dell’Italia doveva essere Tripoli (collo-quio con il vice-ammir. Accinni e il capitano di vascello Betto-lo, 16 novembre 1895, MRR, Carte Crispi, b. 667, n. 35/10. InQuestioni internazionali, p. 253, questa parte del colloquio nonviene riportata).

258 Il Diritto, 9 febbraio 1877 (La Costituzione in Turchia).259 «L’impero austro-ungarico è una necessità per noi. Quel-

l’Impero e la Confederazione elvetica ci tengono a giusta di-stanza da altre nazioni che noi vogliamo amiche ... ma il di cuiterritorio è bene non si trovi in immediato contatto con l’Ita-lia» (Discorsi Parlamentari, II, p. 408. Quasi con le stesse paro-le in Pensieri e Profezie, p. 3, questa silloge di pensieri che spes-so servirono come appunti preparatori ai discorsi). Le primedichiarazioni sulla «necessità» dell’Austria, elemento di civiltàverso l’Oriente, furono fatte – e si capisce il perché – nel viag-gio a Vienna, l’ottobre del ’77, ai redattori di giornali austria-ci (Politica estera, I, p. 63: da notare, come nei colloqui col Bi-smarck, alcune settimane prima, non v’è un solo accenno in talsenso, ivi, pp. 25 sgg., 46. Pieno riconoscimento della necessi-tà dell’Austria per l’equilibrio europeo il Crispi farà invece, colBismarck, dieci anni appresso, il 2 ottobre 1877, ivi, p. 290).

260 Se l’Austria si dissolvesse, all’Italia sarebbe tolto un ba-luardo verso Oriente. «Nell’orbita dell’Impero non è una na-zione, fra quelle che lo costituiscono, non è una nazione cheabbia per popolazione e per ragioni politiche tanta forza da po-ter costituire una potenza tale da resistere alle invasioni che ver-rebbero da destra o da sinistra dell’Impero austro-ungarico. Eallora? L’Italia sarebbe in contatto di quelle grandi Potenze, lequali, nell’attrito, potrebbero dominarla, come già fu essa dura-

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mente dominata nei secoli passati» (Discorsi Parlamentari, III,p. 746).

261 La Perseveranza, 17 giugno 1871. L’Italie ha detto che sel’Austria non esistesse, bisognerebbe inventarla, tanto cotestostato sembra a lei necessario; crede però che i Tedeschi del-l’Austria si uniranno alla Germania. Ma se questo si verificas-se, continua La Perseveranza, la Germania «già troppo podero-sa» avrebbe un incremento notevolissimo, e l’Austria «già trop-po infiacchita», cadrebbe al rango di potenza di second’ordine.E l’equilibrio europeo, così enormemente sbilanciato dall’ulti-ma guerra, sarebbe completamente sconvolto e l’Italia si trove-rebbe ad avere vicino a sé, nell’Adriatico, la giovane e vigoro-sa Germania, con la quale ogni gara pacifica come ogni even-tuale ostilità sarebbe assai più ardua che con l’Austria. Eccoquindi come nell’interesse di tutta l’Europa e più specialmen-te nell’interesse italiano, non si possa veder senza apprensioni ilprogressivo indebolimento della potenza austriaca.

262 Nel discorso di Firenze dell’8 ottobre 1890 (Scritti e di-scorsi politici, p. 760).

263 Nel discorso di Firenze dell’8 ottobre 1890 Scritti e discor-si politici, p. 750).

264 Ib., pp. 750-52.265 Discorso alla Camera, il 4 maggio 1894 (Discorsi parla-

mentari, III, p. 746).266 Colloquio del Crispi con l’ambasciatore d’Austria, Pasetti,

25 ottobre 1896: Pasetti dichiara che l’imperatore ha moltastima di Ciispi; e Crispi: «In verità, io sento vera devozionepel vostro sovrano. Ricordandomi le origini del suo regno, ledifficoltà ch’egli seppe superare, ritengo Francesco Giuseppecome il principe, che per mente e cuore primeggia su gli altriprincipi di Europa. Quando fui a Vienna e Buda-pest, ebbi acostatare, ch’egli è amato dai suoi popoli. E dissi a me stesso,bisogna che l’imperatore avesse delle speciali qualità, perché isuoi popoli, dimenticando le severità di regno del 18-18 e del1849, lo amassero» (appunti autogr. Crispi, MRR, Carte Crispi,b. 668, n. 2/10).

267 4 maggio 1894 (Discorsi parlamentari, III, p. 746). L’ac-cenno all’umanità che si svolge «con quella libertà e quella vi-goria che le nazionalità divise non potrebbero avere» è qui, ve-

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ramente, mero espediente oratorio, senza alcuna connessionecon tutto il ragionamento precedente.

268 MRR, Carte Crispi, b. 668, n. 14/6.269 Ultimi scritti e discorsi extra-parlamentari, cit., p. 396.270 Nel discorso al Crystal Palace del 1872 (W. LANGER,

La diplomazia dell’imperialismo, trad. it., I, Milano, 1942, pp.120-21).

271 Per questo prussianizzarsi, non solo esteriormente, delsentimento nazionale tedesco, cfr. F. MEINE, Johann GustavDroysen. Sein Briefwechsel und seme Geschichtsschreibung,in Historische Zeitschrift, 141 (1929), p. 249 sgg.; e ancheKAEGI, Historische Meditationen, I, Zurigo, 1942, p. 290 sgg.Ma soprattutto F. GILBERT, Johann Gustav Droysen und diepreussischdeutsche Frage, Monaco-Berlino, 1931, p. 120 sgg.

272 De l’Allemagne, ed. Parigi, 1857, p. 6.273 La riorganizzazione della società europea, 1945, p. 95 sgg.

e soprattutto 100.274 Su Michelet e la Germania cfr. W. KAEGI, Michelet

und Deutschland, Basilea, 1936, e anche Der junge Michelet,in Historische Meditationen, II, Zurigo, 1946, pp. 115 e 117sgg. [trad., it., in Meditazioni storiche, Bari, 1960, pp. 239-71.N.d.E.].

275 Su tutto il problema, cfr. J. M. CARRÉ, Les écrivainsfrançais et le mirage allemand, Parigi, 1947.

276 CARRÉ, op. cit., p. 63 sgg.277 Cfr. O. J. HAMMEN, The Failure of an Attempted Franco-

German Liberal Rapprochement, 1830-1840, in The AmericanHi’storical Review, LII, n. 1, ottobre 1946, p. 54 sgg.; CARRÉ,op. cit., p. 72 sgg. Ed è tipico che proprio nella Renania, incui i nazionalisti francesi credevano di trovar appoggio ed in cuirealmente, fino allora, c’erano state forti simpatie per la Francia,la crisi europea del 1840 e l’atteggiamento francese provochinouna violenta reazione antifrancese, e nazionale-germanica (cfr.J. DROZ, Le libéralisme rhénan, 1815-1848, Parigi, 1940, p. 208sgg).

278 Cit. in F. RUFFINI, La giovinezza del conte di Cavour, II,Torino, 1912, p. 230.

279 RUFFINI, op. cit., II, pp. 229-30.

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280 Lettre à M. Strauss, nel Journal des Débats del 16 settembre1870, ripubbl. ne La réforme inteltectuelle et morale, Parigi,1871, p. 168. Su Renan e la Germania, cifr. Soprattutto, oltreal Carré, op. cit., p. 81 sgg., TRONCHON, Ernest Renan etl’étranger, Parigi, 1928, p. 155 sgg.

281 RENAN, Correspondance, 1846-1871, Parigi, 1926, p. 341.282 Menzel der Franzosenfresser, Berna, 1844, p. 53 sgg., in

F. FEDERICI, Der deutsche Liberalismus, Zurigo, 1946, pp.110-71.

283 Cfr. NAMIER, op. cit., p. 3. Nel parlamento di Fran-coforte, le sinistre vedranno sempre nella Francia la Franciadell’89, rinnovandosi anche ora, come dopo il 1830, il dissidiocon le destre: cfr. E. SESTADI, La Costituente di Francoforte(1848-1849), Firenze, 1946, p. 70 sgg.

284 Cifr. A. CORNU, Karl Marx, L’homme et l’oeuvre. Del’hégélianisme au matérialisme historique, Parigi, 1934, p. 259sgg.; K. VORLAENDER, B. NICOLAJEVSKI, Karl Marx, trad.it., Torino, 1947, p. 80 sgg., e ancor sempre F. MEHERING,Karl Marx. Geshichte seines Lebems, 2ª ed., Lipsia, 1919, p. 53sgg. Nessuno di questi studiosi ha però visto come il program-ma franco-tedesco del Marx 1843 rientri nell’atmosfera gene-rale cara già ai liberali e ai sansimoniani, del concorde lavorofrnco-tedesco per il bene dell’Europa: muta radicalmente l’i-deologia, rimane il gran quadro europeo, che Mrx eredita dallaciviltà liberale del primo Ottocento.

285 Si confrontino i passi seguenti: «la nazione tedesca ... èdestinata ad esercitare il primo ruolo in Europa, appena saràriunita sotto un governo libero» (SAINT-SIMON, La riorganiz-zazione della società europea, cit., p. 100); i «comunisti rivolgo-no la loro attenzione soprattutto alla Germania, perché la Ger-mania è alla vigilia d’una rivoluzione borghese, e perché essacompie queste rivolgimento in condizioni di civiltà generale eu-ropea più progredita, e con un proletariato molto più evolutoche non l’Inghilterra nel decimosettimo e la Francia nel deci-mottavo secolo; perché dunque la rivoluzione borghese tede-sca può essere soltanto l’immediato preludio d’una rivoluzioneproletaria» (Manifesto del partito comunista, IV, trad. E. Canti-mori Mezzomonti, Torino, 1948, p. 227).

286 Cfr. soprattutto MENCHEN-HELFEN, NICOLAJEVSKI,op. cit. p. 171 sgg.; anche VORLAENDER, op. cit., pp. 155-56.

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È ben noto che il Marx invece si oppose recisamente a similiprogetti come inutili, anzi dannosi.

287 NAMIER, op. cit., p. 88. E si veda anche nel Bismarckl’ostilità al movimento nazionale italiano, e la paura che peramor di fantastiche teorie si finisse col perdere ciò che nel corsodei secoli le armi tedesche avevano conquistato in Polonia e inItalia (alla Magdeburgische Zeitung, cit., Ges. Werke, 141, p.106). Per l’ostilità dell’assemblea di Francoforte nei confrontidelle aspirazioni nazionali italiane – con pochissime eccezioni,fra gli uomini di estrema sinistra – cfr. Sestan, op. cit, p. 82sgg.

288 Così il SAINT-SIMON, op. cit., p. 95. Per il giudiziodel Cousin, cfr. qui sopra, p. 79. E per la tradizione secolarecfr. E. HÖLZLE, Die Idee einer altgermanischen Freiheit vorMontesquieu, Monaco-Berlino, 1925; ANTONI, op. cit., p. 80sgg., 172.

289 Esprit des Lois, l. XXVIII, c. 27. Tale concetto riapparenuovamente in RENAN (Philosophie de l’histoire contemporai-ne, in Revue des Deux Mondes, 1° luglio 1859; ora in Oeuvrescomplètes, I, Parigi, 1947 p. 34 sgg.), ed in Montalembert (lett.a Renan, 9 agosto ’59; RENAN, Correspondance, 1846-1871, p.382)

290 Cfr. G. SOREL, Germanesimo e storicismo di ErnestoRenan, in La Critica, XXIX (1931), p. 200.

291 La réforme intellectuelle et morale, cit., pp. 93-94.292 E. RENAN-M. BERTHELOT, Correspondance, 1847-

1892, Parigi, 1929, p. 56 (contrapposizione tra la profondaanima tedesca e la brillante e plastica superficialità italiana);RENAN, Correspondance, 1846-1871, p. 276 (la Germania «sisupérieure dans lei choses de l’esprít»).

293 Correspondance 1846-1871 cifr., p. 276 e cfr. p. 285.294 La réforme intellectuelle et morale, cit., p. V e cfr. p. 42.

Su questa triplice alleanza anglo-franco-tedesca, come base ne-cessaria della grandezza intellettuale e morale dell’Europa, cfr.anche l’art. La guerre entre la France et l’Allemagne, nella Re-vue des Deux Mondes del 15 settembre 1870, poi ripubblicatonella Réforme, p. 123 sgg.

295 D. HALÉVY, La fin des notables, Parigi, 1930, p. 68.

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296 M. RECLUS, L’avènement de la 3ª république, Parigi 1930,p. 138.

297 Cfr. V. GIRAUD, Essai sur Taine, son oeuvre et soninfluence, Parigi, 1902, p. 85 sgg.

298 La réforme intellectuelle et morale, cit., p. VI sgg. E cfr.il giudizio di Taine: «la guerre a mis à jour le mauvais et vi-lain côté de leur caractère que recouvrait une écorce de civili-sation. L’animal germanique est au fond brutal, dur, despotí-que, barbare ... tout cela vient d’apparaître à la lumière et faithorreur» (H. Taine. Sa vie et sa correspondance, Parigi, 1905,III, p. 49); e di Flaubert: «à quoi dono sert la science, puisquece peuple, plein de savants, commet des abominations dignesdes Huns et pires que les leurs, car elles sont systémathiques,froides, voulues, et n’ont pour excuse ni la passion ni la faim?»(Correspondance, cit., 4ª serie, p. 42 e cfr. p. 46).

299 La contrapposizione fra la Germania, con il suo spiritolargo, poetico, filosofico, e la Prussia, macchina militare epolitica, è infatti tema d’obbligo per gli scrittori francesi, nonsolo per il MICHELET, La France devant l’Europe, Firenze,1871, pp. X, 91 sgg., ma anche per il RENAN, Lettre à M.Strauss, l. c., p. 171 sgg.

300 Cit. in KAEGI, Historische Meditationen, cit., I, p. 313.301 La réforme intellectuelle et morale de la France, ne La

réforme ... , cit., p. 42; La guerre entre la France et l’Allemagne,ib., pp. 124-25

302 Correspondance, 1846-1871, cit., pp. 317 e 320.303 Nouvelle lettre à M. Strauss, 15 settembre 1871, pubblica-

ta ne La réforme intellectuelle et morale, p. 209.304 La réforme, p. 59.305 La réforme, p. 24 sgg.306 La selezione del ceto dirigente a mezzo della nascita è

preferibile alla selezione mediante elezioni (La réforme, p. 45).«Une société n’est forte qu’à la condition de reconnaître le faitdes supériorités naturelles, lesquelles au fond se réduisent à uneseule, celle de la naissance, puisque la supériorité intellectuelleet morale n’est elle-méme que la supériorité d’un germe de vieéclos dans des conditíons particulièrement favorisées» (ib., p.49).

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307 Se il 19 agosto 1854 il Renan accettava la tesi fondamen-tale del Gobineau, ma formulava riserve sull’applicazione, il26 giugno 1856 accentuava fati riserve, affermando che l’im-portanza del fattore razza è immensa all’origine ma perde poisempre più in efficacia, sino a cessare completamente, come inFrancia (motivo ripreso, nel 1882, in Qu’est-ce qu’une nation,Oeuvres, I, pp. 895 e 898). E concludeva che, lasciate da par-te le razze propriamente inferiori, il cui mescolarsi con le gran-di razze avrebbe soltanto avvelenato il genere umano, per l’av-venire si doveva prospettare una umanità omogenea, dove ogniricordo di diversa origine sarebbe stato spento (Corresporrdan-ce, 1846-1871, cit., pp. 84 e 120-21). Ma già nel ’59 la valuta-zione di fattori etnici è chiara: la Rivoluzione francese, guarda-ta con sempre minor simpatia, è la vittoria dell’elemento «ro-mano» sul «germanico» (G. STRAUSS, La politique de Renan,Parigi, 1909, p. 157). Nel 1890: «l’inégalité des races est con-statée» (pref. a L’Avenir de la Science).

308 È caratteristico infatti come, diversamente da Renan, ilTocqueville affermasse allo stesso Gobineau la sua irriducibileopposizione ai «principi» della dottrina sostenuta nell’Essai surl’inégalité des races humaines (Correspondance entra Alexis deTocqueville et Arthur de Gobineau, 1843-1859, 2ª ed., Parigi,1908, pp. 253-54 e 287).

309 Per comprendere appieno La réforme ... de la France, sideve tener presente che, come osservò Sorel (l. c., p. 362),Renan era sempre molto sottile, abilissimo nel non urtar troppodi petto l’opinione pubblica; che perciò si servi anche (pp.64-84) di due personaggi immaginari per far loro svolgere duetesi diverse, rimanendo così libero di dichiarare, in caso dipolemiche, quale dei due rappresentava la sua vera concezione.E infatti, di fronte alla vivace critica di Mazzini (Scr. Ed. In.,XCIII pp. 229 sgg.), Renan dichiarò che né l’uno né l’altro degliinterlocutori rappresentavano il suo pensiero. Egli li aveva fattiparlare per meglio mostrare i vari lati della questione, i modiopposti con cui si poteva concepire la riforma della Francia(lett. 7 aprile 1874 al sig. Yung, direttore della Revue politiqueet littéraire, nella Correspondance, 1872-1892, pp. 53-54).

310 L’art. De la manière d’écrire l’histoire en France et en Alle-magne depuis cinquante ans, apparso nella Revue des Deux Mon-des del 1° settembre 1872, ripubb. in Questions Historiques, Pa-rigi, 1893, è apparso ora in trad. it., con altri scritti relativi agli

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eventi del 1870, in un vol. dal titolo La guerra franco-prussiana,Roma, 1945 (p. 59 sgg.).

311 G. MONOUD, rivedendo le lezioni tenute a Strasburgodal Fustel de Coulanges fra il 1861 e il 1868, ha trovato chela notissima teoria sia carattere romano della monarchia mero-vingica era più piena ed intera prima del ’70; ed egli non cre-de pertanto che l’innegabile ostilità politica di Fustel contro laGermania e, anche, il suo scarso apprezzamento degli «erudi-ti» tedeschi, abbiano influito sulle concezioni dell’Histoire (Por-traits et souvenirs, Parigi, 1897, p. 148 sgg.). Ma è fuori dub-bio che tono e risolutezza di posizioni furono profondamenteinfluenzati dagli eventi del ’70: prima, lo storico francese nonavrebbe scritto frasi come queste: «... oggi noi viviamo in un’e-poca di guerra. È quasi impassibile che la scienza storica con-servi la serenità d’altri tempi. Ogni cosa è lotta intorno a noi econtro di noi; è inevitabile che anche la scienza s’armi di scudoe di spada. Sono cinquant’anni che la Francia è assalita e ber-sagliata dalla schiera degli eruditi. La si può rimproverare per-ché pensa un poco a difendersi dai colpi?» (Del modo di scrive-re la storia, l. c., p. 74). E cfr. appunto nel senso qui indicato,G. HANOTAUX, Sur les chemins de l’histoire, II, Parigi, 1924,p. 236 sgg. D’altronde, già il decennio a Strasburgo, sulla fron-tiera, era fatto per alimentar inquietudini e suggerir pensieri: loha osservato, acutamente, A. SOREL, Notes et portraits, Parigi,1909, pp. 13-14.

312 Correspondance, IV, p. 37. Più tardi, nel luglio 1871, ri-prende: «On commence à haïr la Prusse d’una façon naturelle,c’est-à-dire qu’on rentre dans la tradition française. On ne faitplus de phrases à la louange de ses civilisations» (ib., p. 67).

313 Cfr. H. FISHER, French nationalism, in Studies in Historyand Politics, Oxford, 1920, p. 149 sgg.; G. P. GOOCH,Franco-German Relations, 1871-1914, in Studies in Diplomacyand Statecraft, 4ª ed., Londra, 1948, pp. 3-4. I versi cit. sono inVive la France!

314 RENAN-BERTHELOT, Correspondance, p. 39.315 La guerre entra la Franca et l’Allemagne, l. c., pp. 139,

152, 164.316 RENAN-BERTHELOT, Correspondance, p. 467 (1878). E

cfr. anche la prefazione a L’Avenir de la Science, ch’è del 1890.

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317 Nel 1879 Renan pensava per un premio dell’Académieai Chants du soldat, preferendo Déroulède ad altri concorrentinotoriamente superiori come poeti: «mais ... nous faisons unesimple démonstration patriotique pour des sentiments qu’il estbon d’encourager» (Correspondance, 1872-1892, cit., p. 181).Viceversa, nell’88 protesta contro l’attribuzione di un premiodell’Accademia alla traduzione francese del von Sybel: «Je croisque l’Académie française et obbligée d’être un peu patriote»(Correspondance, 1872-1892, p. 325).

318 Cartegio, cit., II, p. 198 (13 marzo 1871).319 Correspondance, IV, p. 29 (3 agosto 1870).320 J. ADAM, Nos amitiés politiques avant l’abandon de la

Revanche, Parigi, 1908, p. 213.321 Cfr. gli scritti vari ora tradotti solo il titolo La guerra

franco-prussiana, cit., soprattutto pp. 15, 17, 21 sgg., 38 sgg.,47 sgg. Eppure anche in Fustel de Coulanges non mancavanocerto le preoccupazioni per l’avvento della democrazia, cfr. P.GUIRAUD, Fustel de Coulanges, Parigi, 1896, pp. 84-85.

322 L’Esprit Nouveau, Parigi, 1875, p. 125.323 op. cit., p. 120 e cfr. p. 127.324 «La haine du peuple, du prolétaire, c’est-à-dire le quatriè-

me ordre, condammé comete un fléau, le suffraga universel ba-foué, une voix accordée aux riches, un dixième de voix á l’arti-san; la noblesse et la haute bougeoisie maîtresses de tout; la mo-narchie présentée comete le salar ...» (op. cit., p. 114). E cfr. p.132 sgg.

325 Journal des Goncourt, IV, ed. Parigi, 1903, pp. 25-28,235. E cfr., nella prefazione al volume V, la replica di G. aRenan che lo aveva accusato di aver alterato completamente laverità. È ben vero che le affermazioni del Journal sono statemolto discusse: ma è anche vero che Taine, ad esempio, tiratoin causa anche lui e anche lui assai irritato, più che contro ifraintendimenti in questioni storiche e filosofiche («une fois oudeux, on me fair dire le contraine de ce qua je pensais et de cequa je pense ... faute de culture suffisante») protestava control’indiscrezione: «parler devant lui [Goncourt], c’est s’exposer àretrouver dans un livre ou dans un feuilleton des paroIes qu’onn’a pas dítes pour le public» TAINE, Correspondance, cit., IV,pp. 254-57. Nel caso specifico, la sostanza delle parole che

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Goncourt mette in bocca a Renan corrisponde nell’insieme aquanto Renan stesso scrisse, per il pubblico nella Réforme, e pergli amici, nelle lettere private (cfr. STRAUSS, op. cit., p. 197). Èchiaro che dato il carattere di Renan, così avido di popolarità, lapubblicazione del Goncourt, avvenuta in periodo già di pienonazionalismo francese, dovesse metterlo su tutte le furie (cfr.Correspondance, 1872-1892, pp. 347-48).

Sulla questione Renan nel ’70 cfr. ora i due lavori antitetici,di H. PSICHARI, Renan et la guerre de ’70, Parigi, 1947, cheha ragione nel parlare del dramma interno di Renan (cfr. spe-cialmente pp. 42, 46, 57), ma naturalmente accentua troppo la«difesa» dello scrittore; e del can. L. VIÉ, Renan, La guerre de70 et la «Réforme» de la France, Parigi, 1949, il quale, viceversa,accentua con spirito nazionalistico e con evidente partito presotutto ciò che possa danneggiare Renan, pur avendo ragione invari punti (così, per la Réforme, p. 315 sgg.). Cfr. la mia recens.in Rivista Storica Italiana, LXI (1949), p. 446 sgg., dove toccoanche la questione Goncourt.

326 Sin dal ’52: la causa della stanca sonnolenza della Franciaè la democrazia «jusqu’ici, le monde a appartenu à la pensée, àl’action, à la classe qui sous une forme ou sous une autre vivaitle plus; la téte gouvernait, maintenant la ventre l’emporte et leventre aime le repos» Correspondance 1846-1871, pp. 57-58 ecfr. p. 66. Cfr. la prefazione agli Essais de morale et de critique(28 aprile 1859), ora in Oeuvres complètes, II, p. 16 sgg.

327 La réforme intellectuelle et morale, pp. 25 sgg., 31 sgg., 47e 49, 115 «un pays démocratique ne peut être bien gouverné,bien administré, bíen commandé», p, 43.

328 Journal des Goncourt, IV, p. 28. Preferisco i contadinicome i tedeschi – dice Renan – a cui si dan calci nel sedere,che contadini come i nostri di cui il suffragio universale hafatto i nostri padroni; contadini «quoi, l’élément inferieur de lacivilisation, qui nous ont impose ... ce gouvernement [SecondoImpero]». Anche qui Renan conferma, suo verbo, il raccontodi Goncourt «la moralité supérieure du peuple allemand vientde ce qu’il a été jusqu’à nos jours très-maltraité» La réforme,p. 40. E cfr. p. 15: il suffragio universale del ’48 non èservito che a cinque milioni di contadini, estranei ad ogni idealiberale; e p. 68: «le peuple proprement dit et les paysans,aujourd’hui maîtres absolu de la maison, y sont en réalité des

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intrus, des frelons impatronisés dans une ruche qu’ils n’ont pasconstruite».

329 Cfr. RECLUS, L’avènement de la 3ª République, cit., p.137; HALÉVY, La fin des notables, cit., p. 71; A. BELLESSORT,Les intellectuels et L’avènement de la troisième République,Parigi, 1931, p. 135 sgg.

330 Per Renan, soltanto Prussiani e Russi si salvano da «cettevoie de matérialisme, de républicanisme vulgaire vers la quelletout le monde moderne ... paraît se tourner» La réforme, p. 82.

331 Al Déroulède, che lo pregherà di unirsi alla Ligue des Pa-triotes, Renan risponderà: «Jeune homme, la France se meurt,ne troublez pas son agonie», FISHER, op. cit., p. 151.

332 La réforme, pp. 54-55 e cfr. anche pp. 66, 76 (con puntatepolemiche contro i Francs tireurs, cioè contro i volontari allaGambetta).

333 RENAN-BERTHELOT, Correspondance, cit., p. 395 (26febbraio ’71; cfr. anche La réforme, p. 47.

334 La réforme, p. 111.335 Correspondance, cit., III, p. 55.336 Corres pondance, III, pp. 272, 225, 284, 326 sgg., 348 sgg.

E cfr. l’opuscolo sul Suffrage universel (Parigi, 1871).337 Les origines de la France contemporaine, I, prefazione.338 Correspondance, III, pp. 48, 90, 115, 175 (la decisione

di scrivere le Origines è presa tra aprile e maggio 1811). Cfr.GIRAUD, op. cit., p. 90 sgg., 190 sgg.

339 La ripresa da parte del Taine di motivi antirivoluzionarialla Burke, osservata dall’OMODEO (La cultura francese nell’e-tà della Restaurazione, Milano, 1946, pp. 235 e 249 n. 3; an-che GIRAUD, op. cit., p. 95) e d’altronde affermata dal Tai-ne stesso (Correspondance, IV, p. 122), è appunto da ricollega-re all’impostazione e allo stato d’animo del Taine, per cui la Ri-voluzione era «l’insurrection des mulets et des chevaux contreles hommes sous la conduite de «singes qui ont des larynx deperroquets»» (Correspondance, III, p. 266. E. cfr. G. HANO-TAUX, Mon temps, II, Parigi, 1938, pp. 164-65). Ma tale statod’animo non era solo di Taine, bensì di quasi tutta l’intellettua-lità francese dopo il ’70 (cfr. anche R. STADELMANN, Hippoly-te Taine und die politische Gedankenwelt des französischen Bür-

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gertums, in Deutschland und Westeuropa, Schloss Laupheim,1948, p. 61 sgg.). Renan, che nel settembre 1847 aveva di-feso, contro l’amico Berthelot, il «sublime» della rivoluzione(RENAN-BERTHELOT, Correspondance, cit., pp. 31-32), cheancora all’inizio del ’51 aveva sulla Rivoluzione «les préjugésordinaires en France» (Essais de morale et de critique, in Oeu-vres complètes, II, p. 16), portando a compimento la revisio-ne del suo giudizio iniziata sotto l’Impero e a causa dell’Impe-ro (Correspondance 1846-187I, pp. 50 e 154; Essais ... , cit., I.c.), trova ora che il sec. XIX è per la Francia «l’espiazione del-la rivoluzione» (La monarchie constitutionelle en France, 1869,ripubb. ne La réforme, p. 237 sgg.).

340 «Je hais la démocratie.» L’egualitarismo democratico glisembra un elemento di morte nel mondo (Correspondance, IV,pp. 55 e 232). La fede dei gambettiani nel suffragio universalerendeva Flaubert furibondo (J. Adam, Mes angoisses et nosluttes, 1871-73, Parigi, 1907, p. 384), mentre La réformedi Renan gli pareva, «très bien, c’est-à dire dans mes idées»(Correspondance, IV, p. 87). Cfr. anche in genere RECLUS, op.cit., p. 139; HALÉVY, op. cit., p. 72 BELLESSORT, op. cit., p34 sgg.

341 Correspondance, IV, p. 42 e cfr. p. 46: «le ne me croyaispas progressiste et humanitaire, cependant. N’importe; j’avaisdes illusions! Quelle barbarie! Quelle reculade! J’en veuxà mes contemporains de m’avoir donné des sentiments d’unebrute dudouzième siècle! Le fiel m’étouffe!». La conclusione èche non bisogna credere a nulla ... «c’est le commencement dela sagesse» (ib., p. 55).

342 Correspondance, IV, p. 74 e cfr. anche 29, 79, 82.343 «Nous pataugeons dans l’arrière-faux de la Révolution,

qui a été un avortement, une chose ratée, un four, «quoi qu’ondise»» ib., p. 73. La Rivoluzione francese deve cessare di essereun dogma e rientrare nella scienza, come il resto delle coseumane (ib., p. 48): che è esattamente la posizione di Taine.

344 «Ah, comme je suis las de l’ignoble ouvrier, de l’ineptebourgeois du stupide paysan et de l’odieux ecclésiastique!» (ib.IV, p. 71).

345 Ib., p. 44.346 Journal des Goncourt, IV, passim, p. e., pp. 150-51.

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347 Vi insiste molto il BELLESSORT, il quale però apporta nel-la sua analisi uno spirito, parzialissimo, in senso antidemocrati-co.

348 Cfr. il «désespoir set» e la collera muta di Taine di frontealla Comune (Correspondance, III, p. 77). Théophile Gautierripeteva «je crève de la Commune» e, secondo Flaubert, morìper la «charognerie moderne» (FLAUBERT, Correspondance,IV, p. 123).

349 Cfr. OMODEO, La cultura francese nell’età della Restau-razione, cit., p. 47.

350 OMODEO, op. cit., p. 48 n. 1. È questo uno dei temi carial CONSTANT, De l’esprit de conquéte et d’usurpation.

351 Correspondance, IV, pp. 55-56 e cfr. p. 73. Anche Renan,una volta, aveva pensato che forse un giorno o l’altro si sarebbeavuto qualcosa di analogo all’istituzione dei «lettrés chinois»,il governo diventando appannaggio dei «competenti» di unaspecie di accademia delle scienze morali e politiche (cfr. H.JASPAR. Ernest Renan et sa république, Parigi, 1934, p. 65).Ma ora, certo, era rinvenuto dai rêves e dalle illusioni della suagiovinezza; come diceva egli stesso, nel ’90, nella prefazione aL’Avenir de la Science.

352 DUC DE BROGLIE, Mémoires, III (1870-1875), Parigi,1941, p. 16. Per le critiche mosse dal de Broglie al principiodi nazionalità nel 1863 e nel 1868, cfr. G. FAGNIEZ, Le duc deBroglie, 1821-1901, Parigi, 1902, p. 64 sgg.

353 A. SOREL, Histoire díplomatique de la guerre franco-allemande, Parigi, 1875, I, pp. 372-73.

354 Così pensava Sorel, con Taine (HANOTAUX, Montemps,cit., II, p. 155 e cfr. la prefazione del SOREL, alla Histoire di-plomatique de la guerre franco-allemande) Anche per il duca diBroglie, Napoleone III aveva messo sossopra tutte le tradizio-ni della politica francese (l. c.). Quanto a Thiers, il suo giu-dizio era che in politica estera Napoleone III non capiva nulla:«c’était un réveur qui avait sur les affaires de l’Europe des con-ceptions absurdes et qui ne savait rien» (E. L. G. DE MAR-CÈRE, L’assemblée nationale de 1871, II, Parigi, 1907, p. 43:dichiarazioni Thiers al De Marcère).

355 Cfr. NOLDE, L’alleanza franco-russa, cit., p. 20.

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356 Questo stato d’animo è ben espresso dallo HANOTAUX,op. cit., I, Parigi, 1933, pp. 249-50.

357 Tale intento è già palese nella Histoire diplomatique dela guerre franco-allemande, I, prefazione. Per Sorel, questa furealmente una missione di vita, a cui sacrificò ogni cosa, anchela possibilità di azione politica diretta: cfr. HANOTAUX, op.cit., I, pp. 330-31, II, p. 154 sgg., e anche Sur les chemins del’histoire cit., II, pp. 213-14, 218.

358 Cfr. CH. GAVARD, Un diplomate à Londres. Lettres etnotes, 1871-1877, Parigi, 1895, p. 9.

359 DE BROGLIE, Mémoires, I, Parigi, 1938, p. 330.360 Un simile stato d’animo è percepibilissimo nello Hano-

taux, che cominciò ad entusiasmarsi per Enrico IV e Richelieue finì, ministro degli Esteri, con l’entusiasmarsi per la politicadi espansione coloniale (Mon temps., cit., I, pp. 315-17, II, pp.34-37).

361 Appunti di Michelet del 1854, G. MONOD, Jules Miche-let, Parigi, 1905, pp. 33 e 35.

362 Così il Chaudordy, che nell’inverno del ’70-71 diresse, daTours, la politica estera del governo della Difesa Nazionale (LaFrance à la suite de la guerre de 1870-71, 2ª ed., Parigi, 1887, p.95).

363 HANOTAUX, Sur les chemins de l’histoire, cit., II, pp.211-212.

364 Per l’influsso di Taine su Barrès, cfr. infatti P. H. PETIT-BON, Taine, Renan, Barrès. Étude d’influence, Parigi, [1935] p.98 sgg.

365 «L’ère du positivisme en golitique va commencer» FLAU-BERT, Correspondance, IV, p. 67: «tant de crimes ont été com-mis par l’idéal en politique qu’il faut s’en lenir pour longtempsà «la gérance des biens»» (ib., p. 77 e cfr. p. 79). Questo è unLeitmotiv di Flaubert, cupo e disperante, e convinto di precipi-tare in un periodo di abbrutimento dell’umanità: «je suis con-vaincu que nous entrons dans un monde hideux où les gens co-mete nous n’auront plus leur raison d’être. On sera utilitaire etmilitaire, économe, petit, pauvre, abject» (ib., pp. 34, 39, 41,46). E perciò egli si irrita per gli entusiasmi altrui: «vous m’af-fiigez, vous, avec votre enthousiasme pour la République. Aumoment où nous sommes vaincus par le positivisme le plus nel,

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comment pouvez-vous croire encore à des fantómes?» à Geor-ges Sand, ib., p. 32.

366 RECLUS, op. cit., p. 143.367 È notevole come uno scienziato del valore di un Berthelot

deplorasse, nel 1873, questo trionfare della scienza applicata edell’industrialismo; e lo deplorasse proprio a proposito dell’I-talia, ch’egli, dopo l’unità, aveva sperato riprendesse lo slanciospirituale dell’Italia del Rinascimento, mentre doveva ora con-statare tristemente che si limitava a seguir l’esempio degli Sta-ti Uniti, curando le applicazioni della scienza (Journal des Gon-court, V. p. 95).

368 Cfr. W. KAEGI, Der Kleinstaat im europäischen Denken,in Historische Meditationen, cit., I, p. 251 [ trad. it., cit., PP.33-90. N.d.E.], e il mio L’idea di Europa, in Rassegna d’Italia,II, 5 (maggio 1947), p. 33 sgg.

369 De l’esprit de conquête et d’usurpation, in Cours de po-litique constitutionnelle, ed. Laboulaye, II, Parigi, 1861, pp.140-141, 179.

370 Della economia pubblica e delle sue attinenze colla moralee col diritto, 2ª ed., Firenze, 1881, pp. 494-95.

371 Cfr. P. R. ROHDEN, Die klassische Diplomatie von Kau-nitz bis Metternich, 2ª ed., Lipsia, 1939, pp. 35-36.

372 Su quest’inizio di una nuova èra in tutti i campi, intellet-tuale, economico e politico, cfr. fini osservazioni in R. C. Bin-kley, Realism and Nationalism 1852-1871, New York-Londra,1935 (The Rise of Modern Europe, ed. da W. L. Langer, XVI),p. 306.

373 A Luigi Torelli, 21 ottobre 1886 [non ’87!], in A. MONTI,Il conte Luigi Torelli, 1810-1887, Milano, 1931, p. 322. Ana-logamente, nella lett. alla regina Margherita del 22 settembre1886: «... il sentimento morale ha perduto e perde ogni dì ter-reno nella politica per far luogo alla forza e alla sola forza» (Let-tere fra la regina Margherita e Marco Minghetti, cit., p. 268).

374 Historik, ed. Hübner, Monaco-Berlino, 1937, p. 352.375 La politica, cit., I, pp. 87, 99. E cfr. F. MEINE, Die

Idee der Staatsräson in der neueren Geschichte, Monaco-Berlino,1924, pp. 508-09.

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376 Così la contessa Alessandrina Tolstoi al generale von Sch-weinitz, nel febbraio 1871 (Briefweschsel des Botschafters Gene-ral von Schweinitz, Berlino, 1928, p. 72).

377 Cfr. la brillante analisi del LANGER, La dipl. dell’impe-rialismo, cit., I, p. 145 sgg.; e R. HOFSTADTER, Social Darwi-nism in American Thougth, Filadelfia, 1945, p. 147 (non mi èstato possibile vedere C. J. H. HAYES, A Generation of Mate-rialism, 1871-1900, New York, 1941).

378 Governo e governati in Italia, cit., II, pp. 311-12 (conalcuni ritocchi nella 2ª ed., cit., II, pp. 215-16).

379 op. cit., II, pp. 313, 320, 326. Identica applicazione del-la terminologia darviniano-spenceriana a proposito delle «isti-tuzioni organiche, che adattano massimamente le capacità al li-mite». Non sufficientemente svolto l’accenno a questi motivi inE. TAGLIACOZZO, Voci di realismo politico dopo il 1870, Bari,1937, p. 59: cfr. invece le giuste considerazioni di C. CURCIO,nell’introduzione a P. TURIELLO, Il secolo XIX ed altri scrit-ti di politica internazionale e coloniale, Bologna, 1947, p. XIXsgg. Né il Turiello è solo: c’è chi si proclama, non conservato-re, non radicale, non monarchico, non repubblicano, ma «evo-luzionario» (DI CAGNO-POLITI, Saggi di politica positiva, Na-poli, 1881, p. 7); e altri indagano le conseguenze dell’evoluzio-nismo sulla politica (A. VALDAMINI, Dottrina dell’evoluzionee sue principali conseguenze teoriche e pratiche, Firenze, 1882).

380 CURCIO, l. c., p. 20 Sgg.381 LANGER, op. cit., I, p. 147.382 Fino a Dogali, p. 146.383 «Certa il sopradominio delle teorie filosofiche ed atomi-

stiche, nell’antropologia e nella storia, legittimando la lotta perl’esistenza, che spiega come le razze animali più altamente do-tate e più forti debbano di necessità sostituirsi alle razze deboli,ha finito per creare una filosofia saturnica, secondo la quale, sei padri non divorano i figli, i figli divorano i padri. Queste co-se sono state dette, ripetute e confutate più volte, mercé quel-l’altra filosofia che riconosce negl’istinti umani una forza crea-trice, la quale non si rassegna alla brutalità della natura fisica»(Scritti e discorsi politici, cit., p. 674).

384 Sprüche und Epigramme, Zeitgemässes (Der ewige Grill-parzer, Linz, 1947, p. 591).

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Federico Chabod - Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896

385 Cfr. Bonghi ne La Perseveranza, in polemica con La Rifor-ma, dell’11 agosto 1870, La monarchia italiana e l’impero fran-cese. Niente padrone e vassallo, come affermano i Sinistri; ma«non ostante.. dispareri e differenze, che erano il risultato e ilsuggello dell’indipendenza reciproca, è rimasta ferma quell’in-tima intelligenza ed alleanza tra’ due Governi, ch’è stata la cau-sa della formazione successiva dell’Italia».

386 l. p. Visconti Venosta al de Launay, 7 marzo (ACR,Carte Visconti Venosta, pacco 5, fase. 2). Anche in altri puntidella lettera, il ministro degli Esteri insiste sullo stesso concetto:«l’Italia [mantenendosi neutrale] ... mostrò ... di essere unapotenza moralmente autonoma ed indipendente nel concertoeuropeo». Idee del tutto analoghe in l. p. id. a id., 18 ottobre1870 (ARCH. VISCONTI VENOSTA); e nel Minghetti, che,scrivendo il 22 ottobre 1870 al Visconti Venosta, osserva: «lascomparsa dell’Imperatore (e che miserabile scomparsa!) ci halasciato molto più liberi di azione» (ib.).

387 Artom a Visconti Venosta, da Vienna, 17 agosto 1870(ARCH. VISCONTI VENOSTA). Il 24 febbraio 1871 lo Artomconferma al Nigra il suo modo di vedere: «... all’Italia furtodegli avvenimenti ... dell’anno scorso avrebbe costato l’unità ela vita. Abbiamo con una non colpevole inerzia salvata la nostraesistenza» (AE, Carte Nigra).

388 Artom a Visconti Venosta, da Vienna, 30 luglio ’70 (AR-CH. VISCONTI VENOSTA).

389 Cfr. Guiccioli, op. cit., I, p. 263 sgg.390 Sulle condizioni della cosa pubblica in Italia dopo il 1866,

Firenze, 1870, p. 82. Per il Ricasoli cfr. qui sopra, p. 29.391 r. Nigra 30 gennaio 1871, n. 1386. Idee simili anche

nel Ricasoli (Lettere e documenti, X, p. 123) e nell’Amari, purelegato personalmente da tanti vincoli alla Francia (Carteggio,cit., II, p. 198).

392 P. es., ll. pp. Visconti Venosta a de Launay, 7 marzo ’71,già cit., e Visconti Venosta al Nigra, 27 febbraio ’71: «sinoratutto fu coperto dal frastuono delle catastrofi francesi. Ora chesi rifà silenzio in Europa e che si dissipa il fumo della battaglia,ogni Governo getta intorno lo sguardo per riconoscere questanuova Europa e per esaminare in quali condizioni si trovanella situazione che succede a così grandi vicende» (ARCH.VISCONTI VENOSTA).

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393 l. p. Nigra a Visconti Venosta, 6 marzo 1871 (ib. lascio lacit. del testo).

394 Si veda infatti il proclama del partito d’azione, pubblicatoil 21 luglio 1870 nel Gazzettino Rosa e sottoscritto, fra gli altri,dal Cavalloni e dal Martora: «considerando che i servizi resi dalSecondo Impero all’Italia in una causa giusta ... non obbliganopunto l’Italia a far atto di solidarietà in una causa ingiusta; tantopiù che quei servigi se da una parte furono il tardo corrispettivodel tanto sangue italiano versato per il primo impero, vennero,dall’altra, pagati ad usura anche di poi a prezzo di altro sangue,di denaro e di territori ...» (in ARCARI, op. cit., p. 135).

395 «Mentana ... liberò il popolo nostro da una servitù moraleche avevamo contratto» Discorso Crispi alla Camera, 3 febbraio1871 (Discorsi Parlamentari di F. Crispi, II, p. 88). Identicoatteggiamento nel Rattazzi (M. L. RATTAZZI, Rattazzi et sontemps, Parigi, 1881, II, p. 339) e nel De Sanctis (E. CIONE,Francesco De Sanctis Messina-Milano, 1938, pp. 194-95).

396 Per la Destra lo riconosce esplicitamente il Longhi, sindal 31 luglio 1870: «L’Imperatore non solo ha avuta tanta partenella formazione dell’Italia a nazione e Stato indipendente, mala natura e la forza del suo Governo in Francia è stata la princi-pal causa che in Italia il moto politico non si convertisse in unavera rivoluzione. Non è già egli quello che ha governato l’Italia;ma se qui la parte moderata è rimasta, in fin dei conti, sempredi sopra, si deve a ciò che in Francia egli ha contenuto gagliar-damente tutti gli umori cattivi, con che ha scemato il veleno el’acredine di quelli che serpeggiavano presso di noi. Anche do-ve la sua azione, come nella quistione di Roma, è riuscita talvol-ta amara e rincrescevole alla stessa parte moderata, nella reali-tà ha contribuito a rafforzarle il potere tra le mani. Poiché chivuol parlare sinceramente, deve convenire che la bandiera fran-cese a Roma, seda una parte irritava, dall’altra conteneva quellistessi che irritava, e infine, sforzava e radicali e moderati a cau-sare le vie ed i modi della rivoluzione in quella delle questioninostre, che più sarebbe stata suscettibile di diventare perturba-trice e violenta, una volta che si fossero abbandonati i tempera-menti della pazienza e l’uso delle influenze morali» (Nove annidi storia di Europa, cit., II, pp. 356-57). Per la Sinistra, lo af-fermerà esplicitamente La Riforma, ancora alla morte di Napo-leone III: il partito moderato ha dovuto il suo potere al defun-to sovrano, senza il cui appoggio non avrebbe potuto reggere

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un anno solo; Napoleone III è stato il vero fondatore, il poten-te sostegno del partito moderato in Italia (Una difesa precoce eMazzini e Napoleone III, 25 gennaio e 2 febbraio 1873).

397 Lo dichiarò alla stessa regina Margherita il 2 gennaio1897: «l’unità non si sarebbe costituita in Italia se Garibaldie Mazzini non si fossero posti alla testa del movimento e seVittorio Emanuele non vi avesse aderito e l’avesse capitanato»(Politica Estera, cit., p. 281, n. 1).

398 Vittorio Emanuele, Garibaldi, Mazzini (Ultimi scritti ediscorsi extra-parlamentari, cit., p. 219).

399 Un giorno, dopo aver affermato che i tre grandi a cui l’Ita-lia doveva maggior riconoscenza erano Vittorio Emanuele, Ga-ribaldi e soprattutto Mazzini, al Martini che gli chiedeva: «eil Cavour?», rispose scrollando le spalle: «Il Cavour? Che co-sa fece il Cavour? Niente altro che diplomatizzare la rivoluzio-ne» (MARTINI, Confessioni e ricordi, 1859-1892, cit., p. 151).È il giudizio sottointeso nel discorso sul Gianicolo. Assai piùattenuato esso riappare anche nel discorso alla Camera del 18maggio 1883, nel senso che l’aver diplomatizzato la rivoluzionediviene un merito del Cavour, il quale, con il Minghetti «mo-deratori della nostra impazienza, forse poterono impedire che,con l’opera nostra audace ed improvvisa, l’Italia fosse cadutanel precipizio ...» (Discorsi Parlamentari, II, p. 647). Ma ciò fudovuto, soprattutto, al riguardo per il Minghetti, che era pre-sente e che venne messo alla pari dei Cavour. Per il Crispi, lagrande colpa del Cavour fu sempre di non esser stato «unitarioalla vigilia».

400 Il Cavour «se non avrà altro merito vero di cui possatener conto la storia imparziale», certo avrà come titolo d’onorequello di aver creduto nella scienza e di aver voluto il traforodel Cenisio! Così La Riforma del 28 dicembre 1870 (L’attivitànazionale). Qualche altra volta si concede qualche cosa di piùallo statista piemontese «al quale, benché offuscato dal pesodelle tradizioni, delle abitudini e del partito cui fatalmente eralegato, non facea difetto il vigore della sacra scintilla ...» (ib.,25 giugno ’72, II sentimento nazionale). Ancora il 29 ottobre’72 il giornale riconosce che Cavour seppe «sorger talora adaltezza pari agli eventi» e benché ligio a Napoleone III non fumai servile come i suoi eredi Visconti Venosta e Nigra.

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401 Italia e Germania, ne La Riforma dell’8 agosto 1870: «...finché l’iniziativa della politica antinapoleonica e nazionale sispiegò senza reticenze e in tutta la sua chiarezza colla spedizionedi Quarto e la proclamazione dell’unità».

402 Il principio di nazionalità, ne La Riforma, 20 dicembre1870.

403 Cfr. L’Opinione del 12 marzo 1872: «il nome di Giusep-pe Mazzini è indissolubilmente associato alla causa nazionale... Quanti che ora seggono ne’ consigli della nazione, i qua-li impararono a balbettare ne’ suoi scritti il nome sacro d’Ita-lia! Egli ebbe merito di por fine alla rettorica eunuca e di in-vitar la gioventù al culto della grande idea della patria ... Pro-pugnò il principio dell’unità d’Italia allorché pareva lontana edifficilissima impresa la sua liberazione». Sono parole del Di-na (l’attribuzioneal Dina personalmente degli articoli di fondo,non firmati, de L’Opinione è fatta in base a L. CHIALA, Giaco-mo Dina e l’opera sua nelle vicende del Risorgimento italiano III,Torino-Roma, 1903. Naturalmente quelli accennati dal Chialanon sono tutti gli articoli del Dina, cfr. ivi p. 348).

404 Si veda il giudizio del Visconti Venosta: «ma è anchevero che se Garibaldi rappresentò l’impulso della rivoluzioneitaliana mancava però di quelle qualità che erano necessarieper ordinare questa rivoluzione in un modo qualunque e perfarne uscire un risultato possibile e duraturo» lett. al fratelloGiovanni, 28 giugno 1882 (ARCH. VISCONTI VENOSTA).

405 Così il MASSARINI, che è in questo interprete dei senti-menti della quasi totalità dei moderati (Cesare Correnti nella vi-ta e nelle opere, Roma, 1890, p. 277).

406 l. p. Visconti Venosta a Minghetti, 13 ottobre 1877 (BCB,Carte Minghetti, cart. XX, fasc. 93. Pubbl. daW. MATURI, Unbuon europeo. Emilio Visconti Venosta, in La Nuova Europa, II,1945, n. 34, p. 9). Riecheggia in queste espressioni il pensierogià manifestato dal Cavour, nella relazione alla Camera il 2ottobre 1860 (Discorsi Parlamentari, pubb. dalla Camera deiDeputati, Roma, 1872, XI, p. 240).

407 Dichiarazioni Visconti Venosta al ministro di Francia Ro-than (ROTHAN, L’Allemagne et l’Italie, cit., II, p. 277, ma cfr.qui sopra, p. 170, n. 175; il r. Rothan n. 44, in cui sono riporta-te le dichiarazioni dei Visconti Venosta, è del 21 febbraio, non23).

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408 Così il Visconti Venosta (cfr. Bülow, Memorie, trad. it.,Milano, 1931, IV, p. 170).

409 La Marmora a Lanza, 3 dicembre ’70 (Le carte di GiovanniLanza, VI, Torino, 1938, p. 306).

410 La Marmora ad Achille Arese, 1° settembre ’70 (in G.MASSARI, IL generale Alfonso La Marmora, Firenze, 1880, pp.410-411). Per l’atteggiamento del La Marmora di fronte allaguerra, ib., p. 409; CHIALA, Pagine di storia contemporanea,cit., I, p. 54; S. CASTAGNOLA, Da Firenze a Roma. Diariostorico-politico del 1870-71, Torino, 1896, p. 6, n.; GUICCIOLI,op. cit., I, p. 287. Nella Commemorazione di Alfonso La Mar-mora (5 gennaio ’79), di VERAX, pubbl. prima nel Fanfulla epoi ampliata e pubblicata in volume (Firenze, 1879) si accentuainvece il desiderio del generale di aiutare la Francia sulla basedi quel che lo stesso La Marmora disse più tardi, accentuandoanch’egli la sua posizione dell’estate ’70 in senso filofrancese,pur limitandola al periodo dopo i «primi disastri» (I segreti diStato nel governo costituzionale, 2ª ed., Firenze, 1877, p. 32).

411 L. LUZZATTI, Memorie, I, Bologna, 1931, p. 307. Questelacrime – travisate nel motivo – diedero origine ad un ironicoaccenno del Crispi alla Camera nel 1880 e a polemiche suigiornali (cfr E. TAVALLINI, La vita e i tempi di Giovanni Lanza,Torino, 1887, p. 179 sgg.; A. COLOMBO, in Il RisorgimentoItaliano, XXII [1929], p. 132 sgg.).

412 Lanza a La Marmora, 8 dicembre ’70 e 13 gennaio ’71 (Lecarte di Giovanni Lanza, VI, p. 31-f, VII, p. 34).

413 «La grande catastrophe de l’empire s’explique pour qui-conque avait médité les conditions de la France depuis quei-ques années» Minghetti a lord Acton, 23 settembre ’70 (BCB,Carte Minghetti, cari XV, fase. 107).

414 Carteggio tra M. Minghetti e G. Pasolini, Torino, 1930, IV,p. 196.

415 Minghetti (Vienna), 10 ottobre 1870, n. 16, ris.416 «Io deploro la situazione della Francia, e dico che se noi

fossimo certi di decidere la questione mettendo come Camillola spada sulla bilancia, forse direi andiamo. Ma andare, e farsibattere dai Prussiani e non portare alla Francia verace sollievo,e avere all’interno tutti i diavoli che la Prussia susciterebbe, mipare politica piena d’imprudenza ... comunque io vi consiglio

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e vi prego di usare al Thiers i maggiori riguardi, e di mostrar-gli la maggiore simpatia» l. p. Minghetti a Visconti Venosta, 9ottobre ’70 (ARCH. VISCONTI VENOSTA). Simpatia platoni-ca, certo: il 20 ottobre infatti il Minghetti si dice rassicurato perl’esito della missione Thiers «non già che io temessi nello statoattuale delle cose un intervento nostro armato: ma si trattava dimostrare il buon volere senza venire ad atti, e di non disgustareil Thiers senza impegnarsi» (ib.). E il 22, ancor più decisamente(si vede che l’eco delle commoventi parole del Thiers si era af-fievolita), dice di deplorare le sventure della Francia, ma di nonaver mai creduto «che noi dovessimo rendercene solidali» (ib.).

417 Dina a Castelli, 15 luglio, 14 settembre e 17 ottobre1870 (Carteggio politico di Michelangelo Castelli, cit., II, pp.471, 484, 487). Gli articoli di fondo dell’Opinione, sono latestimonianza eloquente del modo di sentire del Dina, chevoleva la mediazione delle potenze neutrali. Più tardi, certesue recise parole nei riguardi della Germania gli attirarono unrimbrotto del Sella: «che diavolo di un gusto hai di stuzzicareed offendere Bismarck, l’uomo il più vendicativo che esista?»(CHIALA, G. Dina, cit., III, pp. 288-89). Che L’Opinionepotesse esser considerata, entro certi limiti, l’unico giornaleufficioso, ammetteva persino il cautissimo Visconti Venosta,sia pure con un a forse» (l. p. al Nigra, 30 maggio 1871,ARCH. VISCONTI VENOSTA). I dissensi tra il Dina e ilgoverno sorgevano infatti sul terreno finanziario, a propositodei progetti del Sella (cfr. CHIALA, G. Dina, cit., III, p. 311sgg.). E cfr. invece ivi, pp. 240, 316, per i rapporti tra il ViscontiVenosta (o anche, pp. 293-94, il Lanza) e il Dina.

418 Ricordi di Michelangelo Castelli, Torino, 1888, p. 192 ecfr. p. 185.

419 Carteggio, cit., III, p. 288.420 Vivo Cavour «l’Italia non si sarebbe fatta legar le mani dai

neutri per poter assistere tranquillamente alla straziante agoniadella Nazione che sola faceva rispettare la razza latina», Bor-romeo a Minghetti, 17 novembre 1870 (BCB, Carte Minghetti,cart. XV, fasc. 69). E in altra lettera del 26 febbraio ’71: «Visentireste voi in grado di giustificare se non i fatti per se stes-si [occupazione di Roma e accettazione della corona spagnuo-la da parte del duca d’Aosta], almeno la moralità del tempo edel modo scelti per sciogliere due questioni della massima im-portanza per la Francia? Vi pare che potrete sostenere che era-

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vamo proprio noi, che era proprio Chi due volte firmò la Con-venzione, quelli che dovevano profittare dell’agonia della Fran-cia per fare i propri affari, perfino dare i Pirenei a chi ha già leAlpi?» (Ib., ib., cart. XVI, fasc. 4).

421 Nigra ad Artom, 19 gennaio 1868 (AE, Carte Nigra).422 Les revers partiels de la France n’ont pas changé mes

idées. Aux autres raisons il s’ajoute maintenant une raison d’é-quilibre européen menacé. En portant immédiatement secoursà la France nous ne risquons rien et nous faisons jouer à l’Italieun rôle grand génereux digne d’elle, utile à ses intérêts» (AE,Ris. 48). E cfr. il tel. precedente, pure del 7 agosto, con cui ri-feriva sulla richiesta di Napoleone III al governo italiano per unsoccorso di 60.000 uomini: «je n’ajoute rien à ce que je viens dedire. Vous connaissez mes sentiments ...» (Ricordi di Michelan-gelo Castelli, cit., p. 185; ma testo e data esatti in TAVALLINI,op. cit., I, p. 509).

423 Cfr. qui sopra p. 96.424 Artom a Nigra, 29 settembre 1870 (AE, Carte Nigra).425 Cfr. i Carteggi Verdiani, III, Roma, 1947, p. 121. Anche

R. BARBIERA, Il salotto della Contessa Maffei, 123 ed., Firenze,1918, p. 380.

426 «Io avrei amato una politica più generosa, e che si pagasseun debito di riconoscenza. Centomila de’ nostri potevano salvareforse la Francia e noi. In ogni modo avrei preferito segnare unapace vinti coi francesi, a questa inerzia che ci farà disprezzare ungiorno.» Lett. 30 settembre ’70 in A. LUZIO, Profili biograficie bozzetti storici, II, Milano, 1927, pp. 528-29. E cfr. lett.10 agosto 1870 (Carteggi Verdiani, I, Roma, 1935, p. 122;anche A. LUZIO, Garibaldi, Cavour, Verdi, Torino, 1924, p.33). Verdi biasimava la morgue, l’insolenza dei Francesi, cheli rendeva insopportabili: «ma chi pensa seriamente, e chi sisente vero Italiano, deve essere superiore a queste puntate diamor proprio» e deve rammaricarsi per la vittoria prussiana,grave di pericoli per l’Italia. Cfr. anche la lettera di GiuseppinaStrepponi, del 2 settembre 1870, Carteggi, I, pp. 122-23.

427 La politica francese, ne L’Opinione, 9 agosto 1871.428 La Perseveranza, 30 luglio 1870.429 l. p. al Nigra, 22 maggio 1871 (ARCH. VISCONTI

VENOSTA).

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430 l. p. al Nigra, 26 aprile 1885 (ARCH. VISCONTIVENOSTA).

431 Cfr. SALVATORELLI, Il pensiero politico italiano, cit., p.263.

432 Così lo ARTOM (introduzione a I. ARTOM e A. BLANC,Il conte di Cavour in Parlamento, Firenze, 1868, p. XIII).

433 Visconti Venosta al de Launay, 11 agosto 1870 (ARCH.VISCONTI VENOSTA). Come si vede, il Visconti Venosta nonera stato completamente convinto dalle dichiarazioni del Bi-smarck al de Launay e dall’ottimismo di quest’ultimo (cfr. quisopra, p. 27 e pp. 152-53 n. 14). Per tali preoccupazioni sulrinascere del vecchio Impero germanico, cfr. La Perseveranzadel 23 luglio 1870 (Bonghi) e la lett. di Vittorio Imbriani al DeMeis, nell’agosto del ’70 (in B. CROCE, Dal carteggio inedito diAngelo Camillo De Meis, in Atti Acc. Pontaniana, 1915, p. 31dell’estratto). Non le condivideva, invece, l’Artom che non sa-peva perché l’Italia dovesse allarmarsi dell’unità germanica piùdell’Austria «che è minacciata di perdere 8 milioni di tedeschi»(l. p. al Visconti Venosta, da Vienna, 17 agosto 1870, già cit.).L’Artom aveva simpatia per l’unità germanica (l. p. al ViscontiVenosta, 7 agosto 1870, da Vienna; ARCH. VISCONTI VENO-STA).

434 La France devant l’Europe, cit., p. III sgg., p. 94 sgg., etutto il capitolo Ce que c’est que la Russie, p. 99 sgg. Solo do-po la sconfitta, preoccupandosi dell’avvenire, Michelet pensò,anche lui, come Thiers e tanti altri, alla Russia come augurabi-le collaboratrice contro la Germania; in una nota del 4 maggio’71, del suo Journal, dice di aver visto in sogno donde potevavenire la salvezza per la Francia: «Cela est tout contraire à ceque j’avais prévu jusqu’ici. Le salut vierdra d’une alliance avecla Russie» (in J. M. CARRÉ, Michelet et son temps, Parigi, 1926,p. 232).

435 La Perseveranza, 23 agosto 1870 (Le condizioni della pacesecondo i Tedeschi). La diminuzione territoriale della Franciacostituirebbe il principio di questa nuova e dannosa alterazionedella situazione europea.

436 Lett. al Robilant del 1° luglio 1875, in SALVEMINI,La poìitica estera della Destra, cit., in Rivista d’Italia, XXVIII(1925), vol. I, p. 194.

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437 Istruzioni del Visconti Venosta al Cadorna, ministro aLondra, per la Conferenza sul Mar Nero, 28 dicembre 1870:«è gran ventura per l’Europa che un’alleanza offensiva e difen-siva fra la Prussia e la Russia non esista ancora attualmente: èurgente interesse dell’Europa d’impedirne la formazione» (AE,Missioni all’Estero, cart. 2). Che un’alleanza russo-tedesca co-stituisse il più gran pericolo per l’Europa, era preoccupazioneanche di altri governi, e anzitutto di quello di Vienna: si veda ilpensiero dell’Andrássy, nel 1872, in LEIDNER, op. cit., p. 17.

438 L’unica «unione» che paia salda al Bonghi in Europa, èquella tra Russia e Prussia, tanto salda da non poter essere «sol-leticata da nessuna promessa tanto da allentarsi o disciogliersi»(Nove anni di storia d’Europa, cit., II, p. 439, fine dicembre1870).

439 BONGHI, La risposta del Beust, ne La Perseveranza, 28novembre 1870.

440 Frappolli a Visconti Venosta, da Angoulême, 23 settem-bre ’70 (ARCH. VISCONTI VENOSTA).

441 La pace, ne La Perseveranza, 17 gennaio ’71 (Bonghi).442 l. p. Minghetti a Visconti Venosta, 22 ottobre ’70 «... né

tampoco sono di quelli che paventano la barbarie irruente inEuropa» (ARCH. VISCONTI VENOSTA). Giudizio identiconella lettera, stessa data, al Pasolini: «Io poi non partecipoalla paura dei nostri amici che nel trionfo della Prussia vedonola barbarie irruente» (Carteggio Minghetti-Pasolini, cit., IV, p.196). Lo stesso Nigra non condivideva «il pregiudizio volgareche la Francia sia decaduta in guisa da non potersi rilevare fraqualche anno, né che la Germania unificata debba portare laservitù e la barbarie in Europa» (r. 30 gennaio 1871, n. 1386,già cit.).

443 Minghetti a Beust, 14 aprile ’71 (BCB, Carte Minghetti,cart. XVI, fasc. 22). Già il 30 settembre del ’70 il Minghettis’era espresso in modo identico con il Luzzatti: «credo chesia per l’Europa un male che la Francia rimanga schiacciata eumiliata» (LUZZATTI, Memorie, cit., I, p. 309).

444 G. Capponi al Reumont, 12 ottobre 1870 (Lettere, cit., IV,p. 260).

445 L’Amari sperava soltanto, nell’ottobre del ’70, che si po-tesse «persuadere il vicario tedesco di Monna Provvidenza a far

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una pace da barbaro moderato» Carteggio, cit., III, p. 290 ecfr. II, p. 199. Quanto poco ci si attendesse ad una politicadi prudenza e di conservazione dello status quo da parte dellaGermania, conferma il Marselli, nel ’72: «Diciamocelo franca-mente ... non si credeva che la Germania fosse così raccolta einoffensiva dopo strepitose vittorie, perché il caso sarebbe sta-to un po’ nuovo nella storia. Eppure è così ...» Francia, Italia eGermania, in Nuova Antologia, XX, luglio 1872, p. 541...

446 È singolarmente istruttivo, al riguardo di quanto andiamodicendo, che nel 1871 un uomo come il Bonghi, non certosospetto di essere un reazionario, un antipatriota ecc., potesseparlare della «mitezza» e della «prudenza» degli stati europeinel 1815, ad eccezione della Prussia (Nove anni di storia diEuropa, cit., II, p. 453). Dove si vede appunto come laguerra francoprussiana e la pace che la seguì sembrassero cosanuova, che solo poteva trovare un precedente nelle conquistedi Napoleone I.

447 Cfr. per questo ROHDEN, op. cit., pp. 117-18.448 Cfr. A. OMODEO, L’opera politica del Conte di Cavour,

2ª ed:, Firenze, 1941, I, p. 246.449 Per i timori prussiani circa la politica d’espansione fran-

cese in Italia, cfr. F. VALSECCHI, La politica di Cavour e laPrussia nel 1859, cit., p. 41 sgg.; In., Il 1859 in Germania: lastampa e i partiti, in Studi Germanici, I (1935), p. 98; ID., Il1859 in Germania: idee e problemi, in Archivio Storico Italiano,XCIII (1935), I, p. 273 sgg. Degno di nota, che anche in Svizze-ra (intervento di Napoleone III raffreddasse gli entusiasmi perla causa italiana, sollevando preoccupazioni per l’ordine euro-peo (M. BAUER, Die italienische Einigung im Spiegel der sch-weizerischen Oeffentlichkeit, Basilea, 1944, pp. 20-21, 25, 124,183-84).

450 È l’argomentazione della Riforma, in polemica contro ilCialdini che nel suo famoso discorso al Senato, del 3 agosto’70, aveva affermato l’ostilità della Germania all’unità italiana:la Germania si era allarmata perché vedeva l’Italia in preda al-l’imperialismo napoleonico, il movimento nazionale strumentodelle ambizioni altrui; «... bastò che la rivoluzione italiana af-fermasse senza ambagi, francamente, altamente che essa vole-va essere e rimanere italiana e non al servizio di ambizioni fran-cesi, perché il vecchio antagonismo, le antiche antipatie politi-

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che della Germania verso di noi cessassero»: Italia e Germania,ne La Riforma dell’8 agosto 1870. Dov’è esatta l’impostazione,che la Prussia (e con essa altri stati, in primis l’Inghilterra) ave-vano visto una minaccia all’equilibrio europeo nell’interventonapoleonico, non nel movimento italiano in sé.

451 Sullo spirito di moderazione con cui apparivano terminatele guerre europee, dalla Crimea al ’66, mentre ora tutto mutava,e le condizioni di pace della Germania empivano il cuore disgomento, cfr. Le basi della pace, ne L’Opinione, 5 febbraio1871.

452 Cfr., per es., la polemica tra H. Homberger e La Perseve-ranza (nn. del 12, 25 e 26 agosto 1870); o La Riforma, ancorail 7 luglio 1873 (Sadowa), o La Nazione, l’11 settembre 1873 (Ilviaggio del Re a Berlino e il presente momento storico)

453 La guerra, ne L’Opinione, 28 dicembre 1870.454 Noi italiani che «ci siamo fatti nazione ... tra le feste, i

canti e la gioia universale, non possiamo comprendere come laPrussia voglia arrotondarsi colle cannonate, far ritornare nel se-no della madrepatria le pecorelle smarrite a furia di stragi ...»:L’Opinione, 2 ottobre 1870. Questo violento articolo provo-cò aspro risentimento in Germania (l. p. de Launay, 17 otto-bre; AE, Ris. 10) e una replica della Augsburger Allgemeine Zei-tung, secondo cui la spontaneità del movimento italiano era do-vuta all’intrigo, alla corruzione, e al «pugnale dell’assassino»,che era stato anch’esso uno degli strumenti di Cavour. Erangentilezze consuete aIl’Augsburger Zeitung, già nel ’47 battez-zata dal Ricasoli nemica perfino del nome italiano (Carteggi, II,p. 298), nel ’48 denigratrice del movimento nazionale italiano,che sarebbe stato solo un raggiro di pochi nobili, di pochi indi-vidui della razza bianca che spolpavano la razza bruna di con-tadini (CATTANEO, Dell’insurrezione di Milano nel 1848 e del-la successiva guerra, cit., p. IV); nel ’59 apertamente ostile al-la causa italiana, alla libera Italia che avrebbe dovuto fondarsi«sugli assassini e sull’aiuto francese», cfr. VALSECCHI, Il 1859in Germania: la stampa e i partiti, cit., p. 109). Anche lo storicoReuchlin, irritato dal linguaggio dell’Opinione, parlò dei mezzipoco onorevoli grazie a cui l’Italia aveva compiuta la sua unità(cfr. G. GREPPI, Une coulisse du théâtre de la guerre (1870), inRevue d’Italie, maggio 1906, p. 367). Una nuova polemica traL’Opinione e «un tedesco» fu provocata dall’articolo del Dina11 diritto della forza (9 dicembre) e condusse ad un altro arti-

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colo, Conquista e nazionalità (15 dicembre) e aduna nota il 20dicembre. Solito tasto: la Germania confonde il diritto dellanazione col diritto della forza.

Ancora il 3 luglio ’71 L’Opinione ribadiva il carattere delmoto italiano: «siamo il paese del plebiscito per eccellenza,perché la nostra vita politica è un plebiscito continuo ... Questoè il carattere del nostro moto nazionale ... Non abbiamo luttidomestici, non abbiamo città né villaggio che morda sdegnosoil freno a lui imposto» (Il Re a Roma).

455 BONGHI, Nove anni, cit., II, p. 440 (31 dicembre ’70).456 BONGHI, l. c., p. 354 (31 luglio ’70). Cfr. la polemica

della Perseveranza, 12 agosto.457 Il diritto delle nazioni (Bonghi), ne La Perseveranza del 31

agosto 1810.458 Siamo parziali?, ne La Perseveranza del 17 dicembre 1870,

e cfr. anche 19 dicembre. L’articolo è in polemica con ilcorrispondente fiorentino della solita Augsburger Zeiturtg.

459 G. DURANDO, Della nazionalità italiana, Losanna, 1846,p. 58 sgg.

460 Agli italiani, cit., pp. 22-23. Contro il Mommsen pole-mizza L’Opinione del 4 ottobre ’70.

461 BONGHI, Nove anni, cit., II, p. 407.462 Lett. di C. Guerrieri Gonzaga ne La Perseveranza del 28

agosto 1870.463 J. TER MEULEN, Der Gedanke der Internationalen Orgar-

sisation in seiner Entwicklung, II, 2, L’Aja, 1940, pp. 44-45.464 La prima e la seconda lettera dello Strauss al Renan ven-

nero pubblicate, tradotte, nel Diritto del 26 agosto, 16 e 17 ot-tobre 1870. Il ragionamento dello Strauss era perfettamenteidentico a quello del Bismarck (cfr. qui sopra, p. 157, n. 58),ed era condiviso pienamente da altri dotti tedeschi, come da Al-berto Weber nella lettera al De Gubernatis, nel Diritto del 18novembre 1870.

465 L’art. del von Sybel fu pubblicato, tradotto, ne La Perse-veranza del 24 settembre 1870.

466 Il testo ne La Perseveranza, 11, L’Opinione, 12 e 13 no-vembre 1870.

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467 Ora in Ritratti e profili di contemporanei, III (Opere, VI),Firenze, 1935, pp. 147, 150, 157, 159, 161. Già il De Simoneaveva battezzato il Bismarck, sin dal ’67 «Io sono ferro e fuo-co» (Del principio di nazionalità come fondamento delle nuovealleanze e dell’equilibrio europeo, cit., p. 38). L’uno e l’altro sirifacevano dunque alla espressione bismarckiana «durch Blutund Eisen» del settembre 1862, che aveva sollevato tanto scal-pore, e che d’altronde ripeteva il «ferro ignique» del 1859 (cfr.EYCK, Bismarck, cit., I, p. 429; caratteristica la difesa di A. O.MEYER, Bismarck, Stuttgart, 1949, pp. 185-86).

468 BONGHI, Nove anni, cit., II, pp. 448-49, 453-54, 460.Cfr. anche AMARI, Carteggio, cit., II, p. 199.

469 Su questo, L’Opinione insiste per più mesi; e così il Bon-ghi, il quale una volta afferma, molto acutamente, che l’Alsa-zia e la Lorena «non saranno una minor piaga nel corpo dellanuova Germania, di quello che la Lombardia e la Venezia sonostate nel corpo della vecchia Austria. Anzi, saranno una piagamolto più amara e pericolosa. Poiché in Italia non v’era già co-stituita ai lati della Lombardia e della Venezia una nazione co-sì forte, come pur resterebbe la Francia ai fianchi dell’Alsazia edella Lorena». (E Parigi?, ne La Perseveranza del 26 novembre1870). E altri, sempre osservando che per effetto della pace ilvincitore peserà troppo sul vinto, dice che la Francia starà nelcentro dell’Europa R come una piaga che la farà tutta febbrici-tante, fino al giorno in cui coglierà un’occasione, in cui crederàvenuta l’ora della rivincita» (ib., 30 gennaio ’71).

470 H. A. L. FISHER, Storia d’Europa, trad. ital., III, Bari,1937, p. 226. Lo disse allora, più volte, soprattutto il Bonghi:«La pace sarà, certo, una tregua; qualunque ne saranno i patti.Una pace che leva alla Francia due provincie, non ha piùsperanze di durare di quella che Napoleone dopo la campagnadel 1806 impose alla Prussia. Questo è il fato della Franciae di tutta quanta l’Europa; e del pericolo della guerra non cisaremo salvati, se non sospenderlo per molti altri anni su’ capinostri. Sarà la prima delle pene, a cui dovranno soggettarsi gliStati, i quali hanno ora mostrato una serenità così schiva da ognirischio» (Un amaro consiglio, ne La Perseveranza, 10 dicembre1870).

471 Nelle Philosophische Vorlesursgen aus dem Jahrers 1804bis 1806 di F. SCHLEGEL: «... quanto più antico e puro èil ceppo, tanto più lo sono i costumi; e quanto più lo sono i

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costumi ... tanto più grande sarà la Nazione» (cit. in F. MEINE,Cosmopolitismo e Stato nazionale, trad. ital., Perugia-Venezia,1930, I, p. 81). E cfr. le acute osservazioni dell’ANTONI, aproposito dello Herder, sull’idea tedesca di nazione, che nonfu l’idea della volontà nazionale, bensì della «natura nazionale,antecedente al volere umano (La lotta contro la ragione, cit.,p. 179). Nello Herder stesso, s’intromettono di già fattorinaturalistici nel senso biologico (ivi, p. 160; diverso il giudiziodi H. KHON, The Idea of Natiorzalism, 4ª ed., New York, 1948,p. 430).

472 EYCK, op. cit., l. c.473 GILBERT, op. cit., l. c.474 Per questa diversità fondamentale tra unità italiana e ger-

manica, cfr. B. CROCE, Storia d’Europa nel secolo decimono-no, 2ª ed., Bari, 1932, p. 247 sgg.; E. SESTAN, in Primato, 15dicembre 1942. Vi aveva insistito su già il NOVICOV, La mis-sione dell’Italia, Milano, 1902, p. 292 sgg. Per la lotta conti-nua fra liberalismo e nazionalismo nel movimento tedesco, conspiccata tendenza verso il secondo, SESTAN, La Costituente diFrancoforte, cit., p. 11 sgg.; e si veda un tentativo di spiegazio-ne della minore attrattiva dell’idea di libertà in STADELMANN,Deutschland und die Westeuropäischen Revolutionen, in Deu-tschland und Westeuropa, cit., p. 11 sgg.

475 Questa presa di posizione nel ’48, si chiarisce ancor me-glio ove si tenga presente la difdenza dell’opinione pubblica te-desca, già negli anni precedenti, verso un’alterazione dello sta-tus quo territoriale in Italia (cfr. S. BORTOLOTTI, La stam-pa germanica nei riguardi del movimento nazionale italiano ne-gli anni 1814-1847, in Rassegna Storica del Risorgimento, XXV[ 1938]; p. 519 sgg. Sul dileguarsi improvviso, nel ’48, delle«vive simpatie» della corte di Berlino per il regno sardo, cfr. F.CATALUCCIO, Piemonte e Prussia nel 1848-49, in Arch. StoricoItaliano, CVI [1948], p. 62 sgg.). E per la missione Arese a Mo-naco di Baviera e la sua immediata fine, R. BONFADINI, Vitadi Francesco Arese, Torino-Roma, 1894, p. 78 sgg.

476 De Launay a Cavour, 25 dicembre 1858 (cit. in VALSEC-CHI, La politica di Cavour e la Prussia nel 1859, cit., p. 45).

477 Cfr. VALSECCHI, Il ’59 in Germania: la stampa e i partiti,cit., p. 97 sgg., p. 231 sgg.; ID., Il 1859 in Germania: idee eproblemi, cit., p. 268 sgg.

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478 H. VON TREITSCHKE, Briefe, III, Lipsia, 1920, p. 300.Più che naturale che il Treitschke combattesse allora Garibaldi:ma il punto significativo è questo andar oltre il momento e ilfatto in sé, è l’evocazione di Giovanna d’Arco cioè il dire checiascuno deve combattere per il proprio paese, e solo per esso.

479 BONGHI, Nove anni, cit., II, p. 433. E cfr. p. 440:«avanti a quest’eccesso d’uso della forza [della Germania] sivede tutta l’Europa allibita; e dall’acre interesse di ciascunanazione spezzato il consorzio morale di tutte» (31 dicembre’70).

480 «Paura e viltà» dell’Europa, dice il BONGHI, op. cit., p.448, e cfr. pp. 411-13, 453. Cfr. anche La Perseveranza del23 agosto 1870 (Le condizioni della pace secondo i Tedeschi);e altri una volta trova ch’è doloroso «il vedere l’Europa ridot-ta ad un’impotenza che piglia l’aspetto della timidezza e dellapaura». Se le potenze neutre non si muovono «non sapremmopiù davvero a che abbia a ridursi la società europea. Sarebbeuna disgregazione, che scioglierebbe ogni vincolo di solidarietàfra’ popoli, e ci minaccerebbe uno stato di guerra permanente»(La politica estera ne L’Opinione del 21 gennaio 1871). Ma giàprima L’Opinione aveva insistito sulla necessità di un’azione deineutri, dato che il problema della Francia «interessa tutta quan-ta l’Europa» (L’Opinione, 7 ottobre 1870, ma molta più cautelail 3 novembre). Né erano solo i giornalisti ad esprimere aperta-mente simili preoccupazioni: il 13 gennaio 1871, come già si èdetto, è il presidente del Consiglio, Lanza, che scrive al La Mar-mora: «Nulla qui di rimarchevole se non che l’orrore che destail bombardamento di Parigi? L’Europa non se ne commuoveperò, come se si trattasse di un fuoco d’artificio! Le conseguen-ze potranno però essere fatali anche per le generazioni future»(Le carte di G. Lanza, cit., VII, p. 34).

481 C. BON COMPAGNI, Francia e Italia, Lett. IX, ne L’O-PINIONE, 2 dicembre 1871.

482 La Perseveranza, 24 settembre 1870 (Le condizioni dellapace secondo i Tedeschi). E cfr. anche 28 settembre, 4 e 20ottobre, 13 novembre (gli art. del 28 settembre, 20 ottobre, 13novembre sono del Bonghi).

483 BONGHI, Nove anni, cit., II, pp. 412, 436-37; La Perse-veranza, 2, 20 e 21 ottobre ’70 (Bonghi), 1° gennaio, 21 feb-braio (Bonghi), 1° marzo ’71 (Bonghi); L’Opinione (L’attitudi-

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ne dell’Inghilterra, 19 novembre ’70, La rassegnazione dell’In-ghilterra, 8 dicembre ’70, La politica inglese, 8 gennaio ’71, Lapolitica dell’Inghilterra, 11 marzo 71). Il 15 gennaio 71 il bom-bardamento di Parigi ispirava l’osservazione che in Inghilterrasi cominciava a capire «che, per adempiere la propria missio-ne, non basta essere una grande manifattura; bisogna pur es-sere una grande nazione ed avere una grande politica», quellapolitica cioè che Gladstone e Granville erano stati incapaci diperseguire e attuare. Come la pensasse il Dina sull’Inghilterra,in genere, in quel periodo, rivela, con linguaggio naturalmentepiù crudo, la lettera al Castelli del 19 novembre 70: «L’Inghil-terra strepita per l’affare d’Oriente e poi calerà le brache. Halasciato disfare la Francia e minaccia la guerra. Con chi? Nonho mai veduta una politica più meschina» (Carteggio politico diili. A. Castelli, cit., II, p. 492). Né era solo in questa idea: lostesso Visconti Venosta aveva osservato al de Launay, sin dal 23luglio 1870: «temo che l’Inghilterra, la quale si dovrebbe sem-pre trovare in prima linea quando si tratta di situazioni simili aquesta, dopo aver fatto poco per impedire la guerra, faccia po-co per ottenere questo secondo risultato [che la guerra sia cir-coscritta]» (AE, Ris., c. 10). Giudizi simili nel Minghetti (Luz-zatti, Memorie, cit., I, p. 309). Né solo gli uomini della Destracosì giudicavano, con meraviglia e rammarico, la politica ingle-se; assai più severo era – con la solita sua intransigente nettezza– il Mazzini, che trovava aver l’Inghilterra abdicato deliberata-mente all’iniziativa «inaugurando sotto nome di non-interventouna politica d’interesse locale» (Agli italiani, [1871], in Scr. Ed.In., XCII, p. 88), e cfr. Politica Internazionale (1871), ivi, pp.144 e 149: la teorica del non intervento, propugnata dall’Inghil-terra, è «negazione di tutti i princìpi conquistati fino a noi in-tellettualmente dall’Umanità ... Ateismo trasportato nella vitainternazionale o deificazione, se vuolsi, dell’Egoismo ...».

484 MEINE, op. cit., p. 56.485 ARCH. VISCONTI VENOSTA.486 [Febbraio 1871] (ARCH. VISCONTI VENOSTA).487 «L’Europe a un intérêt majeur à ce qu’aucune des deus

nations ne soit ni trop victorieuse ni trop vaincue ... La paixne peut être établie et maintenue que par l’intérêt commun del’Europe, ou, si l’on aime mieux, par la ligue des neutres passantà une attitude comminatoire»: E. RENAN, La guerre entre laFrance et l’Allemagne, l. c., p. 152 e 156. E cfr. la circolare

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Chaudordy del 15 gennaio 1871: l’Europa intende firmare lasua abdicazione e abbandonarsi ciecamente al destino che lestabilirà la Prussia? La «société européenne en train de sedissoudre, voilà la situation!» (Archives Diplomatiques, XI-XII[1871-1872], t. IV, n. 1112, p. 1515).

488 Questa preoccupazione è espressa sin dal 29 luglio 1870dal Dina al Castelli: «la vittoria della Prussia sarebbe un dannogravissimo per noi» (Carteggio politico di M. A. Castelli, cit.,II, p. 472); riappare il 25 agosto ’70, nelle parole di ErcoleOldofredi al Dina: «Rotto l’equilibrio europeo ... sentiremopiù di ogni altro Stato il peso che ci verrà addosso» (e il vecchioamico di Cavour esprimeva la sua desolazione per l’impotenzadell’Italia, CHIALA, G. Dina, cit., III, pp. 248-49); continuanel Cialdini, che teme l’avvento della reazione, con la Prussia ela Russia (Carteggio politico di M. A. Castelli, cit., II, p. 481),e in R. Bonfadini, che scrive all’amico Visconti Venosta il 15novembre 1870: «... lo stravincere dei Prussiani è pieno diminaccie per l’avvenire europeo. L’Inghilterra mi par destinataa sentire per la prima gli effetti del vuoto che ha lasciato laFrancia; ma noi, temo, saremo i secondi. Spero che tu faraidel tuo meglio per tenerci immuni dai danni prevedibili epreveduti» (ARCH. VISCONTI VENOSTA).

489 Questo disorientamento è palese, per es., nella lett. del-l’Oldofredi al Dina, sopra cit.

490 Marselli, Gli avvenimenti del 1870-71, cit., l. II, p. 118sgg., soprattutto p. 126; e cfr. anche nella polemica con ilBon Compagni, nel 1872: Francia, Italia e Germania, cit., inNuova Antologia, luglio 1872, pp. 551-52. Dottrinalmente,le idee del Marselli ricondurrebbero al Mazzini (nazione edEuropa-umanità), se non fosse che nel Marselli mancano deltutto il presupposto e il fine rivoluzionario mazziniano.

491 La Perseveranza, 26 agosto 1870 (replica al tedesco Hom-berger). L’unità germanica dovrebbe esser condizionata ad unarettifica di confini a favore di Francia ed Italia.

492 Ib., 9 e 29 agosto (Bonghi). Il pericolo non è per orasicuro.

493 Così il Bonghi, a proposito delle lotte nazionali dell’O-riente europeo (Rassegna politica del 30 settembre 1871, inNuova Antologia, XVIII, p. 452).

494 Lettere, cit., IV, p. 260.

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495 In una lettera al Luzzatti del 16 giugno 1874 (LUZZATTI,Memorie, cit., I, p. 496

496 LUZZATTI,Memorie cit., II, Bologna, 1935, p. 96.497 Politica estera e Difesa nazionale, in Nuova Antologia,

LVIII (1881), p. 142.498 «... noi sapevamo, o signori, che il corso della storia non

si può arrestare. L’Italia sin da quando essa era rappresenta-ta dal Piemonte, si mostrò sempre protettrice e benevola per lepopolazioni e per le nazionalità dell’Oriente. È questa una tra-dizione che noi non possiamo abbandonare, perché, mi affrettoa dirlo, crederei sventurato pel nostro paese quel giorno in cuiesso ponesse contro di sé i grandi princìpi liberali e morali chesono l’onore dell’epoca nostra» (9 aprile 1878, A. P., Camera,p. 363).

499 Visconti Venosta, nel discorso alla Camera il 23 aprile1877 (A. P., Camera, p. 2687).

500 JACINI, Pensieri sulla politica italiana, cit., p. 65.501 E di non averlo fatto il Jacini muoveva rimprovero ad una

«falange considerevole, ascritta alle classi dirigenti» (op. cit., p.66).

502 Visconti Venosta, nel discorso cit., del 23 aprile 1877.503 È sempre il Visconti Venosta, nel discorso del 9 aprile

1878, a definire: «Questa politica non aveva nulla di perturba-tore; essa procedeva col rispetto dei trattati, ma quando le oc-casioni si presentavano, quando era possibile l’accordo dell’Eu-ropa, essa concorreva a promuovere, rollo sviluppo civile e colprogresso delle popolazioni, anche l’avvenire di quelle naziona-lità le quali erano chiamate a fornire gli elementi di un nuovoequilibrio di cui gl’interessi dell’Europa avrebbero potuto ac-comodarsi, di un equilibrio destinato a prendere il posto del-l’antico quando gli elementi di questi avessero cessato di esi-stere» (A. P., Camera, pp. 363-64). Non potrebbe darsi testi-monianza più chiara e precisa delle aspirazioni dei moderati dicongiungere Europa e nazionalità. Naturalmente, era una con-cezione molto alta, tale da richiedere notevole equilibrio di giu-dizio e, anche, notevole preparazione culturale: ond’è che nonstupisce l’interruzione dell’on. Mazzarella «Questa è una poli-tica troppo sottile»

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504 Al Cattaneo, in Parigi, nella tarda estate del ’48, questecose venivano predicate da molti «come avrebbero potuto farea un Egiziano» (Dell’insurrezione di Milano nel 1848 e dellasuccessiva guerra, cit., p. IV).

505 CFR. SALVATORELLI, Il pensiero politico italiano dal1700 al 1870, cit., p. 224 sgg.; anche Pensiero e azione delRisorgimento, cit., p. 115.

506 Dell’iniziativa rivoluzionaria in Europa, in Scr. Ed. In., IV,pp. 155, 163, 167, 176 sgg. Cfr. C. MORANDI L’idea dell’unitàpolitica d’Europa nel XIX e XX secolo, p. 51 sgg.

507 Cfr. anche G. O. GRIFFITH, Mazzini profeta di una nuovaEuropa, trad. ital., Bari, 1935, pp. 108-109.

508 SALVATORELLI, Il pensiero politico italiano, cit., pp. 299-300; Pensiero e azione del Risorgimento, cit., p. 122 sgg.

509 Sul juste milieu, uno dei fondamentali concetti politicidell’Europa occidentale dopo il 1830, cfr., per il Cavour, D.ZANICHELLI, Cavour, ed. Firenze, 1926, p. 40 sgg.; RUFFINI,la giovinezza del conte di Cavour, cit., I, pp. 162 sgg. e 247;II, p. 297; OMODEO, L’opera politica ... , cit., I, p. 13;SALVATORELLI, Il pensiero politico italiano, cit., p. 292 sgg.

510 «Le creazione d’una Italia è un intento che, raggiunto,deve mutare le sorti dell’Europa e dell’Umanità», MAZZINI,La situazione (1857), Scr. Ed. In., LIX, p. 121.

511 Così, sin dal 1826 l’esule piemontese G. B. MAROCHET-TI, compromesso nei’ moti del ’21, dava alle stampe un volumesu l’Indépendance de l’Italie; moyen de l’établir dans l’intérêt gé-néral de l’Europer considéré specialement sous le point de vue del’équilibre politique (2ª ediz. riveduta e corretta 1830). Cfr. M.PETROCCHI, Equilibrio politico ed indipendenza d’Italia, in Ar-ch. Storico Italiano, XCVIII (1940), II, p. 131 sgg. Come è no-to, poi, il Balbo si appellava anche lui all’interesse dell’Europae della cristianità per sostenere le sue idee sull’inorientamentodell’Austria e l’indipendenza italiana (oltre alle Speranze d’Ita-lia, cfr. anche Meditazioni storiche, 3ª ed., Firenze, 1855, p. 534sgg.).

512 La Rivoluzione Francese del 1789 e la Rivoluzione Italianadel 1859, introduzione. (Tutte le opere di A. Manzoni, ed.Lesca, Firenze, 1923, pp. 994 e 998.)

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513 Già il Cavour, nella relazione del 2 ottobre 1860 alla Ca-mera, aveva affermato che lo scioglimento della questione ita-liana avrebbe chiuso per sempre nel Mezzogiorno d’Europa l’è-ra delle guerre e delle evoluzioni (Discorsi Parlamentari, pubbli-cati dalla Camera dei Deputati, Roma, 1872, XI, p. 240). Néquesto era mero espediente tattico, sì rispondeva ad una con-vinzione sincera e a un desiderio.

514 Nel discorso al Senato sull’annessione del Mezzogiorno, il16 ottobre 1860 (Discorsi Parlamentari pubblicati dalla Cameradei Deputati, XI, p. 277).

515 A Giuseppe Chiarini, 26 luglio 1877 (Lettere, XI, p. 161).516 Dell’iniziativa rivoluzionaria in Europa, in Scr. Ed. In., IV,

p. 177.517 Ib. ib., p. 155-56.518 BONGHI, Nove anni, cit., II, p. 453.519 La pace, ne L’Opinione, 12 aprile 1871.520 OMODEO, op. cit., I, p. 171.521 Ne L’Opinione del 2 dicembre 1871. Queste lettere, con

l’aggiunta, di altre due al Marselli pubbl. nella Nuova Anto-logia, furono poi raccolte in volume, Francia e Italia, Torino,1873.

522 ANTONI, op. cit., p. 114 sgg.; KAEGI, HistorischeMeditationen, cit., I, pp. 283-85.

523 Mémoires, I, pp. 30-31. Nella trad. ital. (Torino, 1943),pp. 38-39. Sulle concezioni «europee» del Cancelliere cfr.H. VON SRBIK, Metternich, Monaco, 1925, I, p. 350 sgg.;ROHDEN, op. cit., passim, e soprattutto pp. 138-39.

524 Mémoire, I, p. 127, n. 1 (trad. ital., p. 143, n. 1).525 Cfr. p. e. Castlereagh a Liverpool (1818): «et donne aux

conseils des grandes puissances l’efficacité et presque la simpli-cité des volontés d’un seul Etat» in C. K. WEBSTER, Castle-reagh et le système des congrès (1814-1822), in Revue des étudesnapoléoniennes, 1919, p. 79 e cfr. 80; ID., The Foreign Policyof Castlereagh, Londra, 1931, I, pp. 427 sgg. E cfr. soprattut-to British Diplomacy 1813-1815. Select Documents Dealing withthe Reconstruction of Europe, ed. da C. K. WEBSTER, Londra,1921, pp. 93, 101, 116,126, 141, 194-95, 218, 233, 238-39, 256,270, 275, 397, ecc.

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526 Il termine «grandi potenze» è infatti pochissimo usato an-cora nella seconda metà del ’700, quando ci si attiene in genereallo schema della lotta fra puissance dominante e puissance riva-le, le due potenze di prim’ordine affiancate da quelle di secondordre; per quanto già nel MABLY ci sia il contrasto fra grandespuissances e puissances subalternes (Oeuvres complètes, ed. Lio-ne, 1796, V, p. 19). Certo, a Vienna nel 1815 il rappresentan-te dell’Olanda, Hans von Gagern, osservava che «de ce termenouvellement inventé, les Grandes Puissances, il ne connaissaitni le sens précis, ni l’intention». Cfr. CH. DOWNER HAZEN,Le Congrès de Vienne (1814-15), in Revue des études napoléo-niennes, 1919, p. 69. Cfr. anche M. H. WEIL, Les dessous duCongrès de Vienne, I, Parigi, 1917, pp. 219, 276.

527 Lo scritto, celebre, Die grossen Mächte è del 1833.528 Cfr. Fontes furia gentium, ed. da V. BRUNS, Berlino,

1932, serie B, sezione I, tomo I, parte I, fast. 2, pp. 971-74.È, questa, la più chiara e completa esemplificazione di ches’intendesse per grande potenza nel set. XIX.

Sul valore dei termini «bilancia di potere» e «concerto euro-peo» a mezzo il set. XIX cfr. fini osservazioni in BINKLEY, op.cit., p. 157 sgg.; sulla fine della idea, della politica «federativa»proprio col 1870-71, ib., p. 299 sgg.

529 Il 1871, ne La Perseveranza del 1° gennaio 1871. Pensierinon diversi in uno scritto apparso anonimo a Bologna, nel 1870,La Nazionalità e l’equilibrio europeo, dove si sostiene la possi-bilità e necessità dell’accordo fra i due princìpi di nazionalità edi equilibrio, in guisa da evitare i due estreme, delle eccessiveagglomerazioni di popoli, e del soverchio loro frazionamento(p. 16 sgg., 29).

530 N, MARSELLI, La politica dello Stato italiano, cit., pp.374-380 (le preoccupazioni del Marselli riguardano il pansla-vismo).

531 Cfr. TER MEULEN, op. cit., I, L’Aja, 1917, p. 42. Si notiche per il Mazzini, invece, questi tentativi di equilibrio europeo«furono menzogna senza durata» (Nazionalismo e nazionalità,in Scr. Ed. In., XCIII, p. 95 – lo scritto è del 1871); ela Rivoluzione Francese non mutò nulla, non fu capace disradicare quella «meschina e indegna politica». Ancora unavolta, dunque, opposizione totale di vedute.

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532 Sull’«equilibrio» in Mazzini acute considerazioni sonostate fatte dal SALVATORELLI, Mazzini e gli Stati Uniti d’Eu-ropa, in Rassegna storica del Risorgimento, XXXVII (1950), pp.457-58, [ora in Miti e storia, Torino, 1965, pp. 337-47. N.d.E.].

533 L’espressione è dello stesso Cavour, nel discorso del 16ottobre 1860, in Senato (Discorsi Parlamentari, XI, p. 277).

534 GRIFFITH, op. cit., p. 468.535 Giuste osservazioni in H. G. KELLER, Das «Junge Euro-

pa», 1834-1836, Zurigo-Lipsia, 1838, p. 80.536 Cfr. F. BALDENSPERGER, Le grand schisme de 1830:

«Romantisme» et «Jeune Europe», in Revue de littérature com-parée, X (1930), p. 6 sgg.

537 Sulle origini razionalistiche, in genere, della tradizionemoderata, cfr. SALVATORELLI, Il pensiero politico italiano,cit., p. 261.

538 Su questo declino della «politica dei princìpi» in Europacfr. le acute osservazioni dell’OMODEO, L’opera politica delconte di Cavour, cit., I, pp. 244-45.

539 A. P., Senato, p. 776.540 A. P., Camera, pp. 3388-89. E cfr. anche il discorso del

14 maggio 1872 (ib., p. 2121).541 Pubbl. ne L’Opinione del 30 ottobre.542 A. P., Camera, p. 2687.543 Art. I partiti parlamentari, ne L’Opinione del 20 luglio

1871.544 Carteggio Minghetti-Pasolini, cit., IV, p. 195 (22 ottobre

1870).545 Nel discorso tenuto a Napoli il 29 ottobre 1874 (pubbl.

nel Supplemento de L’Opinione del 7 novembre, e, a parte,Roma, 1874, p. 9).

546 G. Borromeo a Minghetti, 3 marzo 1871 (BCB547, al Jaciniche tutte queste idee avrebbe lucidamente riassunte, assai piùtardi, muovendo rimprovero a coloro i quali dopo l’unità nonavevano saputo «ispirarsi a criteri europei», prendendo inveceper sola norma i propri desideri e dando così origine allamegalomania politica548.

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Fede inconcussa nel principio della libertà, che rimaneva pursempre il motivo centrale della vita spirituale e morale: e quiera l’abisso che separava l’europeismo dei nostri dall’europei-smo reazionario alla Metternich. Di questo incrollabile attac-camento ai grandi princìpi liberali, nessuno doveva esser inter-prete più schietto e deciso del ministro degli Esteri, Emilio Vi-sconti Venosta, sia che, nel ’71, augurasse alla Francia di rin-novare la sua tradizione liberale, per non porsi contro «le for-ze vive dei tempi nostri»549; sia che, discutendosi nel novem-bre 1873 alla Camera la mozione Mancini sull’arbitrato inter-nazionale, esprimesse la sua convinzione che «una grande gua-rentigia in favore della pace si trovi nelle istituzioni libere ...»e che «la pratica sincera e aperta delle istituzioni libere favori-sce il sentimento della giustizia»550, sia che, non più ministro,riaffermasse dinanzi alla Camera il credo suo e della sua parte,col ritenere «sventurato pel nostro paese quel giorno in cui essoponesse contro di sé i grandi princìpi liberali e morali che sonol’onore dell’epoca nostra»551.

Sarebbe stato difficile cogliere sulla bocca di un ministro de-gli Esteri, che non facesse parte di un gabinetto Gladstone, af-fermazioni in cui il credo liberale fosse esaltato con tanta net-tezza e sincerità, come quelle ch’egli pronunziava alla Camera,il 27 novembre 1872: «Oggi in Europa il bisogno precipuo piùaltamente sentito e confessato è quello della conservazione del-la pace. L’Europa è e vuol essere liberale. Essa non vuol gettar-si in mano della reazione, ma sfugge la demagogia.

Ebbene, signori, per l’Italia la pace è e sarà sempre uno deisuoi grandi e permanenti interessi. Per la natura stessa dellequestioni che noi siamo chiamati a risolvere, perché sono col-legate con la nostra esistenza nazionale, la nostra causa è soli-dale della causa della libertà in Europa. L’opinione liberale sache le nostre vittorie sono vittorie sue, come le nostre sconfittesarebbero sue sconfitte ...»552.

Qui, veramente, celebrava il suo trionfo la religione della li-bertà, quella ch’era stata la poesia dei grandi giorni del Risorgi-mento, e rimaneva la poesia dei nuovi giorni, più modesti e grigiall’apparenza, non infuocati da appelli guerrieri e canto di inniper le strade delle città insorte o appena liberate, eppure tantoutilmente spesi nel creare, pacatamente ma continuativamente,una solida base alle fortune della Patria unificata.

La libertà, il voto spontaneo dei popoli, nonché esser ribut-tati lontano, si fondevano con il senso europeo, rafforzandone

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le basi; onde, annotava il Bonghi, la stessa pratica dei plebisci-ti era «appropriatissima a servire di freno a qualunque violen-ta alterazione territoriale in avvenire. È una salvaguardia, chetutta Europa dovrebb’essere interessata a mantenere. Poiché sel’abbandonarla e il disprezzarla giova oggi alla Prussia, e nuocesoltanto alla Francia, nuocerà domani ad altri, e, ad ogni modo,riconduce sino da ora il diritto pubblico a quella mera ragionedella forza, dalla quale pareva essersi sollevato oramai»553.

E quindi, ben fermo restando l’ideale della libertà, attenua-re, smorzare, relegare in uno sfondo lontano tutto quanto po-tesse condurre ad urti internazionali, e quindi, in primo luo-go, attenuare e smorzare il principio di nazionalità, accettan-do dunque, per questo lato, i principi cari all’europeismo di-plomatico della Restaurazione. E se n’ebbe una prova pro-prio già nell’inverno del 1870-1871, allorquando alla guerrafranco-prussiana venne ad mancarsi nuovamente la questionedi Oriente per la denunzia russa delle clausole riguardanti laneutralizzazione del Mar Nero: ché, mentre il gruppo Crispi-no, fedele in questo al programma mazziniano, patrocinava lasparizione del Sultano, «l’assurdo» della vita internazionale, echiedeva l’integrazione della Grecia, l’autonomia degli Albane-si, dei Bulgari, dei Serbi, dei Rumeni, uniti in confederazionecon sede a Costantinopoli554, il governo italiano si preoccupòsoltanto, giustamente, di evitare ad ogni costo che il gesto russofosse il punto di partenza di una nuova crisi internazionale, e disalvare la pace, anche a costo di compromessi, tenendo cosa inpiedi «l’uomo malato».

La politica dei principi, nettamente e rigidamente contrap-posti, con tanta veemenza sentita nell’Europa dell’età metterni-chiana e mazziniana, era venuta meno dopo il ’48, dopo il falli-mento della rivoluzione generale europea555. Prima, dire liber-tà significava dire Europa nuova e l’europeismo diplomatico al-la Metternich era stato tutt’uno con la reazione, sicché ogni na-zione sembrava aver compreso il segreto del suo essere, veden-do che la libertà delle altre era condizione necessaria alla sua556;ora si poteva mantenersi fermi nell’atteggiamento liberale, puraccettando di buon grado di far parte della vecchia Europa di-plomatica, pur compiacendosi del concerto delle grandi poten-ze, dell’equilibrio e di simili accomodamenti pratici che eranostati immorali ed assurdi per il Mazzini.

Era il necessario adattamento ai tempi e alle circostanze, unadattamento d’altronde generale in Europa, come che, proprio

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all’opposto del Metternich, assai sprezzante dei «principi» e at-tento solo a valutare la convenienza pratica, caso per caso, fos-se il principe di Bismarck, l’uomo cioè che influiva così poten-temente sulla vita del continente. Anche in questa parte, ope-rava in profondità l’aspirazione al «realismo», di cui i Prussianitrionfanti avevano dato l’esempio557: realismo, e cioè ripudio diun’astratta politica di princìpi.

Già all’inizio lo aveva proclamato, crudamente, la fiorentinaNazione, non ancora divenuta amica del cuore della Prussia: ache scaldarsi il sangue per Francia o Prussia, credendo che l’u-na o l’altra rappresentino qualche grande principio? «È impos-sibile parlare di princìpi, laddove l’interesse domina nella suaforma più grossa e brutale.» È una questione di utilità, di tor-naconto; ed anche l’Italia, quando fosse costretta ad uscir dallaneutralità, non dovrebbe aver né scrupoli, né rimorsi, ma «pi-gliare quella parte che più ci torna, dove speriamo guadagnarpiù, o perdere meno», ora che il signor di Bismarck e il signorBenedetti «ci hanno felicemente liberato dalle patriottiche ef-fusioni e dalle scene sentimentali degli ammiratori della Prussialiberale, e degli spasimanti della Francia umanitaria»558.

Sacro egoismo in anticipo; realismo a tutto spiano. Del chedoveva dar prova ancora in seguito proprio il Bismarck; e in-sieme a lui gli altri, e massime il Disraeli, altro prototipo di unmondo ben diverso dal liberalismo manchesteriano e gladsto-niano, vero campione della ormai nata età dell’imperialismo:tanto che il secolo poteva chiudersi con l’alleanza tra la repub-blicana Francia e l’impero zarista, non senza orrore appunto diquelli che avrebbero voluto tener fede sempre ai princìpi e ri-fiutavano di contaminarsi con accordi impuri. E, al confronto, inostri erano ancora molto attaccati ai princìpi, siccome doveva-no dimostrare, di lì a poco, le vicende difficili fra il ’ 74 e il ’75,quando, pur di non lasciarsi trascinare in un Kulturkampf ita-liano e di non dover così rinnegare la propria anima liberale, ilVisconti Venosta e i suoi colleghi preferirono affrontare un pe-riodo di freddezza, anzi addirittura di tensione nei rapporti conl’onnipotente Germania bismarckiana.

Né l’adattamento dei princìpi alla realtà era destinato a rima-ner limitato ai rapporti internazionali, come che dovesse impor-si anche nella politica interna dei vari paesi europei, ne’ quali lecontese di parte non ebbero più, nemmeno esse, negli ultimidecenni del secolo e oltre ancora, quel carattere di assolutezza,intransigenza, consequenziarietà, che avevano caratterizzato il

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pensiero politico della Restaurazione559 e poi ancora, contrap-posto, come diavolo ed acqua santa, liberali e reazionari. Que-sti ultimi rimasero ancora, per qualche tempo, irriducibili nellaloro opposizione fanatica alla «rivoluzione»: legittimisti france-si, carlisti spagnuoli, clericali italiani, continuarono a veder nelliberalismo il peccato mortale dell’umanità e solo con la politi-ca del ralliernent in Francia cominciò l’evoluzione ufficiale, nondi singoli, ma di gruppi, verso posizioni meno retrive. E anchegli anticlericali dell’altra parte continuarono, per alcun tempo,l’intransigenza dei loro padri. Ma sul piano propriamente poli-tico, la Destra italiana fu, forse, l’ultimo esempio di un attacca-mento ai propri principi, nel complesso rigido, a costo di gio-carsi popolarità e favore del corpo elettorale, un attaccamen-to che, certo, irrigidiva e staticizzava, una volta per sempre, laposizione che il Cavour aveva invece assunta proprio grazie adun compromesso tattico. Poi, fu la Sinistra, la cui tante voltedichiarata minor levatura morale fu, appunto, questo maggiorsenso del compromesso tattico e questo più facile transigere, inpratica, alle esigenze della realtà anche contro le idee; e infine,fu il «trasformismo», che significò il trionfo del nuovo metododi condurre la lotta politica in regime parlamentare.

Il pessimista Bonghi lo deplorava altamente: oggi, sembra«che gli stessi parati che s’intitolano più Progressivi non osten-tino princìpi che per avere l’opportunità d’abbandonarli e didisdirli, quando lor convenga o una qualunque simpatia li com-muova. Il fine di ciascuno è diverso da’ princìpi che pronun-cia, e questi valgono o no, insino a che conferiscono a conse-guire quel fine e vi servono. Il giorno che appariscono o super-flui o dannosi, si gettano tra le ciarpe, per ricercargli un’altravolta poi, se l’occasione si ripresenta»560. Ch’era, naturalmen-te, giudizio eccessivo e peccante, come tanti altri del Bonghi,di quel continuo umore polemico contro uomini e cose del suotempo in cui rimaneva impigliato lo spirito del brillante giorna-lista; ma, come sempre in lui, nell’esagerazione c’era il fondo divero, acutamente colto, e sicuramente si fecero sempre più ra-ri coloro ch’erano disposti a ripetere, con il Lambruschini del’49, restar soli, noi puri, noi savi, noi antiveggenti, e non scen-der mai a transazione alcuna con le «sette» opposte, neppureper conseguire un fine determinato e comune561.

Fu, in non piccola parte, conseguenza del nuovo modo diintendere la vita ed i valori della vita nel clima europeo postro-mantico: trionfo dell’economia capitalistica, della tecnica, de-

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gli affari, di un mondo cioè dove i principi non dicono nullae tutto invece la convenienza pratica del caso per caso, dovela trattativa di compromesso costituisce elemento centrale del-le vicende, e, anziché rigidi, occorre essere duttili. Tramonta-vano ideali e modi di vita del Romanticismo; e s’affermavanoin loro vece ideali e modi di vita differentissimi, con un indub-bio abbassamento di tono morale e culturale, ma con parimen-ti indubbio allargamento quantitativo. Lo stesso ampliarsi dellasfera d’azione e d’attività dello Stato, il suo intromettersi sem-pre più ampio e continuo in questioni prima meno prementi –in primis, le questioni economiche – il suo leviatanizzarsi, trae-vano con sé, fatalmente, un minor attaccamento alle dottrine euna maggior considerazione del caso, della questione singola,tanto più che, assai spesso, s’imponevano problemi che i vec-chi princìpi non avevano contemplato e la dottrina non avevasistemato.

Fu, anche, la lezione dell’esperienza, la quale aveva insegna-to che gli uomini dei principi nella prima metà del secolo trop-po avevano fatto affidamento sulle forze morali e in troppo po-co conto tenuto la potenza materiale: donde le delusioni del ’48e del ’49, il sogno della rivoluzione europea infranto, lo stessomoto per l’unità nazionale, nel caso dell’Italia, portato poi alsuccesso grazie a combinazioni di politica europea, in cui il fat-tore potenza aveva avuto parte preponderante, il diplomatiz-zarsi, come fu detto, della rivoluzione italiana, cioè il suo accet-tare, allato delle forze morali, la forza di eserciti regi e di allea-ti imperiali. Il trionfo della soluzione monarchica, proprio nelRisorgimento, aveva già costituito un compromesso, per i dot-trinari, e vi avevan fatto corona le conversioni di vecchi maz-ziniani e repubblicani alla fede monarchica, che il Mazzini po-teva battezzar per tradimenti, ma che, molto al disopra dei ca-si personali, erano frutto della lezione delle cose e significavanol’avvento di età meno ripide sui principi.

Tutto questo traeva, dunque, verso il riconoscimento di unapolitica senza «principi»: e già lo si era visto assai chiaramen-te dopo il ’48. Ma l’impressionante spettacolo di potenza e ilmodo come la forza aveva trionfato nel compimento dell’unitàgermanica, davano il suggello definitivo a quanto già s’era ap-preso in vent’anni di storia: si trattava soltanto, ormai, di sa-pere sino a qual punto si potesse giungere coi compromessi econ gli adattamenti. Su questa via marciò risoluto il principe diBismarck, con i suoi ben calcolati ma anche repentini cambia-

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menti di fronte, quando l’occasione lo richiedesse; con il pas-sare dalle velleità di appoggio al Papa, nel novembre del 1870,al Kulturkampf e poi nuovamente ad amichevoli rapporti conLeone XIII; oppure con l’accettar prima e poi il rompere l’al-leanza con i liberali; o, ancora, in campo internazionale, conil trascorrer dalle proposte di Schönbrunn all’Austria, nel ’64,contro l’Italia, all’alleanza con l’Italia contro l’Austria, nel ’66,dalle ostilità contro la Francia, sino al ’78, alle blandizie verso laFrancia, sino all’85, e poi di nuovo all’ostilità, dalle ingiurie ver-so l’Italia, nel 1879 e nel 1880 all’alleanza con l’Italia. E vera-mente può dirsi ch’egli espresse ed incarnò, come nessun altro,lo spirito nuovo della nuova Europa.

L’idea di nazionalità aveva potuto separare i moderati italia-ni dai moderati di altri paesi; l’idea di Europa che aveva «la va-leur d’une patrie»562 li ricongiungeva e li ritrovava d’accordo:proprio come si trovavano d’accordo uomini di destra francesie liberali inglesi563, e come si dovevano trovare d’accordo, anco-ra nel 1875, al momento della famosa crisi di primavera, il mar-chese di Noailles, ministro di Francia a Roma, e il nostro Vi-sconti Venosta, tipico moderato italiano, nonostante la lontanaorigine mazziniana, d’accordo – dico – nel constatare che l’unadelle cause maggiori dei pericoli della situazione europea «étaitl’absence de ce qu’on appelait naguère ’une Europe’»564.

Che più? Nelle deplorazioni sulla carenza di spirito europeoe sul dissolversi del vecchio senso politico-diplomatico del corpsde l’Europe, si trovavano pienamente d’accordo, nella tragicaestate del 1870, i Visconti Venosta, i Bonghi, i Bon Compagni565

e il cancelliere dell’Impero austro-ungarico, il sassone conte Fe-derico di Beust, che consegnava ad un dispaccio ufficiale, pub-blicato nel Libro rosso austriaco, il suo celebre motto: «... jene vois plus d’Europe», e ancora in seguito ritornava su quelsuo concetto, fermamente convinto ch’esso racchiudesse il se-greto de’ molti guai sopravvenuti566, Più tardi, spettava al suosuccessore, l’ungherese conte Giulio Andrássy, così da lui dis-simile, l’affermare d’aver operato per «retrouver une Europe»,per «reconstituer un sentiment européen»567: anch’egli, dun-que, uomo della buona tradizione diplomatica europea.

Italiani e Austriaci e Francesi, uomini della più varia origi-ne: ma, quando gli Italiani fossero dei moderati, in fatto di Eu-ropa uno era il loro sentire e quello dei diplomatici dell’anticascuola asburgica o del Quai d’Orsay, e l’abdicazione dell’Euro-pa davanti alla onnipotenza prussiana scoraggiava, disgustando

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tanto un Bonghi quanto uno dei – tipici rappresentanti delle al-te caste europee e della, diplomazia antica, il principe Riccardodi Metternich568.

Anzi, nemmeno solo i diplomatici delle varie cancellerie e gliuomini dei partiti moderati sentivano allo stesso modo l’Euro-pa e la sua unità morale: perfino uomini che in politica internapassavano per radicali, per demagoghi per esaltatori di novità,non appena parlavano del consorzio europeo si rivelavano, suquesto terreno, ligi alle tradizionali concezioni; e un Gambet-ta diventava, al riguardo, altrettanto conservatore quanto i di-plomatici educati alla scuola del Quai d’Orsay e inviati all’este-ro dal duca di Broglie569, e anche in Francia la «patria europea»costituita dalla sofferenza, dall’esilio, dall’emigrazione, che Mi-chelet aveva mazzinianamente esaltato570, svaniva nell’Europadell’equilibrio politico, delle grandi potenze, dell’ordine e deigoverni costituiti.

Tanto lenti a produrre tutti i loro effetti sono, nella storia,i sommovimenti ideali, e tanto poco l’idea di nazionalità, nel-l’eccezione dei più, si intendeva destinata a buttar sossopra tut-to il vecchio bagaglio della ideologia politico-diplomatica dellaRestaurazione.

Una eccezione v’era però, che rompeva risolutamente i le-gami con quel mondo del passato, e, da «realpolitico» e sprez-zatore dei princìpi, disdegnava quelle ch’egli chiamava parole,non riconoscendo più alcuna sostanza al mito dell’Europa co-me unità morale, come corps politique: e, manco a farlo apposta,era proprio costituita dal Bismarek, il quale, accusato dall’opi-nione media europea, nell’inverno del ’70-’71, di distruggere ilsenso dell’Europa, doveva effettivamente, alcuni anni più tardi,in piena crisi di Oriente, esprimere, chiara e netta, la sua incre-dulità per la cosiddetta Europa. Prima, nelle annotazioni mar-ginali alla lettera del Gorciacov a lui, in data 2 novembre 1876;poi, nel Diktat di Varzin, in data 9 novembre, il gran cancellieredava infatti libero sfogo al suo scetticismo571.

Dov’è l’Europa? «Qui parie Europe a tort. Notion géogra-phique.» Finzione, parole che il Bismarck sempre ha sentito ri-suonar in bocca di uomini politici bramosi di ottenere qualco-sa, ma senza coraggio per chiedere in nome proprie; nettamen-te e chiaramente; finzione più volte adoperata contro la Germa-nia, e proprio nel ’70, o per far servire la Germania ad interes-si altrui. Ipotetico dovere di «europei», soddisfacendo al qualenon sì ottiene il ringraziamento di alcuno! Se la Germania do-

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vesse impegnarsi per qualcosa al di fuori dei suoi propri inte-ressi, lo dovrebbe fare non per adempiere a siffatti ipotetici ob-blighi di europei, bensì per compiacere una potenza amica, dacui è lecito attendersi la contropartita.

Finzione, l’Europa: anche se il signore di Bismarck, nella cir-colare del 16 settembre 1870, avesse una volta pure lui fatto ap-pello all’interesse dell’Europa, per cui lavorava la Prussia in lot-ta con la Francia, turbatrice della pace e quindi dell’Europa572.Ma forse era proprio perché la sua era stata pura mossa tatti-ca, strumento di una lotta in cui di tutto occorreva valersi; forseera proprio per questa sua personale esperienza che il Bismarcknon credeva nella sincerità europea degli altri. E nel caso spe-cifico del Gorciacov aveva anche ragione; ma sintomatico erache egli dal caso specifico risalisse ad una decisa affermazionegenerale, di principio, per negare il valore dell’idea in sé.

Era un credo politico, che veramente costituiva l’antitesi pie-na della tradizione europea di mezzo secolo, segnando un mo-mento rivoluzionario. Nozione geografica era stata, un cin-quantennio innanzi, per il principe di Metternich, l’Italia, cioèl’idea di nazione; nozione geografica diventava ora, per con-trapposto, l’ideale del gran signore renano, il corps politique del’Europe, al cui posto sarebbe dovuta rimanere, sola, l’idea del-lo Stato singolo, della nazione bene individuata, con le sue pe-culiari necessità e i suoi interessi specifici. Il Metternich ave-va rifiutato i diritti della nazionalità, cioè dell’individualità, innome del suo principio di conservazione dell’ordine europeo,cioè della collettività; ora, il Bismarck negava il consorzio del-l’Europa per affermare, di contro ad esso, duro e aspro nellasua figura isolata, lo Stato singolo avviato ad ascendere sul tro-no dell’Assoluto. Mutamento totale di prospettiva, in poco piùdi mezzo secolo!

Questa era una vera rivoluzione, in senso antitetico all’idealemazziniano: una rivoluzione che cercava di porre una pietratombale sulla politica dei principi, non riconoscendo più senon la convenienza pratica, momento per momento, caso percaso, che spazzava via ogni tentativo di creare, al di sopradei singoli organismi statali, almeno l’apparenza di una unitàmorale e civile, liquidando ogni sopravvivenza della vecchiaidea del corpus christianum, come di una necessaria solidarietàdi princìpi e di sentimenti fra i popoli europei. Era la finedell’europeismo e l’inizio dei nazionalismi e degli imperialismi,del pangermanesimo e del panslavismo; e vi dava l’avvio, col

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suo modo di pensare e la sua eccessiva aderenza alla realtàmateriale dei fatti, anche un uomo che temette, per tutto il restodella sua vita politica, lo chauvinismo francese e il panslavismo,come i maggiori pericoli concepibili per la patria tedesca573, eche non fu, certo, nemmeno un pangermanista.

Ma Bismarck era proprio l’uomo contro cui il senso europeodei liberali e dei conservatori italiani ed inglesi, francesi ed au-striaci, insorgeva nell’inverno del ’70-’71, giustamente presen-tendo il pericolo. Soltanto, nel 1876 anche il Bismarck non erapiù solo nell’aperto rifiuto di ogni considerazione che non fos-se l’interesse preciso del momento, e nello sprezzo per le grandi«parolone», doveri di europei o di cristiani o che altro si fosse.Da oltre Manica, dove nel 1870 dominava l’«umanitarismo»,la «sentimentalità» del Gladstone, che il Bismarck scherniva,gli veniva ora incontro, similia similibus, il nuovo artefice del-le fortune imperiali britanniche, il Disraeli, che in fatto di in-differenza ai «princìpi», di esclusivo apprezzamento della «glo-ria e potenza», non aveva nulla da apprendere, nemmeno daun Bismarck. Ma Disraeli sin dal ’72 aveva intonato la fanfaradell’imperialismo; e pure Disraeli urtava gli ideali dei modera-ti, e massime del Bonghi, che anche attraverso l’uomo di Statobritannico vedeva avanzarsi un’epoca nuova, quella della purapotenza, tramontando il suo vecchio mondo574.

Da questo punto di vista, dunque, i Visconti Venosta, iBonghi, i Dina, i Minghetti, i Lanza erano assai più vicini,spiritualmente, ai moderati e fin ai conservatori d’oltr’Alpe chenon ai Crispi e compagni, per i quali, come s’è visto, quelpresunto tramonto della vecchia Europa costituiva motivo nondi rimpianto accorato, sì di giubilo, come che significasse lafine dell’Europa «diplomatica», cioè l’Europa degli effimericompromessi, degli assurdi trattati, per lasciar libero corso alleforze sprigionantesi dalle «potenze che hanno un avvenire»,in cui fermentava «un moto di emancipazione, per così direpersonale, che tende a dare il massimo sviluppo alla iniziativadelle politiche nazionali»575.

Ch’ era ancora, e in perfetta concordanza con l’irrigidirsi delprincipio di nazionaltà in un a priori metafisico l’annunzio del-l’età dei nazionalismi esasperati: singolare coincidenza di mododi sentire fra il politico tutto, o almeno molto ragione e calcoloch’era il Bismarck, e l’impetuoso Crispi, che qui usciva comple-tamente fuori non soltanto dal quadro dell’europeismo alla ma-niera della Restaurazione, bensì dalla stessa concezione mazzi-

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niana dell’Europa futura, e, frantumando l’ideale della missio-ne comune, dell’umanità, lasciava solo sussistere, ingigantendo-lo quindi ed esasperandolo, l’ideale della nazione, ormai postocome fine a sé stesso, non più, mazzinianamente, come mezzo.

Ecco perché, nell’affermazione della potenza germanica con-tro la Francia, i moderati italiani scorsero non già un’altra affer-mazione di quello stesso principio di nazionalità, per cui essiavevano lottato, sofferto e vinto, bensì una nuova incarnazionedello spirito di conquista, la prima dai tempi di Napoleone ilGrande: con Bismarck e Moltke riappariva la mala bestia cheper cinquant’anni s’era riusciti a tenere lontano dall’Europa, lapace imposta dalla Germania era uno schiaffo dato ai princì-pi, che da cinquant’anni avevano prevalso nel diritto pubblicod’Europa576.

Conservatore com’era, l’europeismo politico di cui si è par-lato una cosa infatti doveva sopra tutte aborrire: i tentativi diegemonia continentale, o, come aveva detto già il Metternich,«le système de conquéte»577. Lo aveva aborrito in NapoleoneI; ed era non piccolo indizio del modo di pensare dei modera-ti che proprio l’ombra minacciosa del gran Còrso venisse rievo-cato come precedente dell’impero germanico578.

Rinasceva il vecchio, ma sempre ricorrente schema dell’e-quilibrio europeo, unica garanzia della pace e quindi della ci-viltà, minacciato dalle ambizioni e dallo spirito di conquista diun paese: schema su cui già una volta s’era vittoriosamente ap-poggiata l’offensiva antinapoleonica. Ora, è vero, riviveva fiac-camente: discorde o distratta, l’Europa del 70-’71 non avrebbepermesso, nemmeno ad un Metternich redivivo, le manovre del1813-’14. E ben presto d’altronde il Bismarck stesso si sareb-be incaricato di attenuare i timori e render meno acuta la mi-naccia, con quella sua politica di conservazione, che già s’è vi-sto come impressionasse subito, gradevolmente, i nostri uomi-ni: donde il venir meno dello spettro della conquista, che so-lo ulteriori eventi e mutate circostanze avrebbero, decenni piùtardi, fatto risorgere, incarnato in altre fattezze; donde il sospi-ro di sollievo che dovevan trarre i partigiani del «sistema» eu-ropeo, i «buoni europei» delle varie destre, in Italia e fuori d’I-talia, come che anche in altri paesi l’allarme fosse stato grandeper i troppo strepitosi successi bellici prussiani e si fosse, anchealtrove, trepidato per le sorti dell’equilibrio e del concerto dellepotenze579. Non ultima prova, anche questa, della vera naturadell’europeismo politico deimoderati italiani.

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Ma un simile riaffiorare di motivi politico-ideologici dei tem-pi della lotta antinapoleonica, era pur sempre assai caratteristi-co come quello che ricordava un modo di concepire i proble-mi della vita internazionale (equilibrio contro egemonia) ormaiben radicato e destinato ad affrontare ancora altre e maggio-ri prove, in un avvenire che gli uomini del ’70 potevano teme-re, non certo precisare. Era un po’ come la struttura organicadi quel che si diceva Europa: entità statali nettamente differen-ziate, ma concordi in uno scopo sostanzialmente negativo, assaipiù che positivo – impedire le «monarchie universali», frenaregli eccessivi ingrandimenti di una sola potenza, magari a mezzodi «compensi» ai terzi.

Era, soprattutto, il timore dello spirito di conquista, delpredominio della forza bruta, che conduceva i liberali a mettereun freno al principio di nazionalità, il quale altrimenti, lasciatolibero di sé stesso, avrebbe anche potuto mettere a soqquadrol’Europa.

Ora, appunto, per i moderati d’Italia il movimento germani-co, come per i suoi precedenti contrastava con lo spirito anima-tore del Risorgimento, opponendo al «voto spontaneo dei po-poli» il diritto della forza, così contrastava con l’europeismo, ilsecondo contrasto divenendo, anzi, fatale conseguenza del pri-mo. Là dove ci si appellava alla forza pura, là era anche il pe-ricolo per l’Europa: il diritto nazionale, attuato nella penisola,non aveva turbato la vita europea; il diritto di conquista, oltreche ledere il principio stesso di nazionalità, minacciava di but-tar per aria l’Europa580, sovvertendo il sistema su cui riposavala possibilità di convivenza delle nazioni.

«La ricognizione del diritto delle nazioni di costituirsi a Sta-to – scriveva il Bonghi – è parsa un effetto del progresso del-lo spirito sociale, perché è sembrato il più sicuro vincolo, la piùsalda base d’un consorzio tranquillo e durevole tra le società ci-vili di Europa. Perché tenga questa sua promessa, è necessario,che la sua applicazione sia accompagnata da molta equità, e chenessuna nazione pretenda di costituirsi siffattamente da render-si minacciosa alle altre. Altrimenti ... non è già la pace e la con-cordia, che questo diritto sarà venuto ad assicurare nel mondo,ma bensì la gelosia e la discordia, una gelosia ed una discordiaindomabili.»581.

Antitesi totale di idee e di metodi. «Noi siamo nati e vissuti– proclamava, polemicamente e ben pensando a’ Prussiani, ilBonghi, nel suo gran discorso alla Camera sulla legge delle

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Guarentigie, il 31 gennaio 1871 – asserendo precisamente idiritti nostri e rispettando scrupolosamente quelli di tutte lealtre nazioni. Siamo venuti al mondo con una promessa di pacee di giustizia. Noi abbiamo gettato un lampo di luce nel sorgere,non l’abbiamo accompagnato col triste rombo dei cannoni, nonl’abbiamo fatto precedere dal lampo dei manipoli, dall’ondadei cavalli e dal mortale luccichio delle spade, e non abbiamopredicata la dottrina del ferro e del fuoco. Noi abbiamo chiestoall’Europa che ci desse il posto che ci spettava, e l’abbiamopreso senza ledere i diritti altrui; abbiamo detto di volerlotenere senza neanche ledere le coscienze, gl’interessi morali dinessuna nazione d’Europa.»582.

Molti anni più tardi, quando già s’era in piena gara di po-tenza fra le grandi nazioni europee e la «pace armata» disve-lava, ogni giorno più, inquietanti crepe, il vecchio moderato,che di molte e troppe cose s’occupava, ma tenacissimo era nel-le sue idee, avrebbe ancora una volta ribadito il modo di vede-re suo e dei suoi antichi compagni di fede: «Abbiamo costituitole nazioni perché fossero le naturali membra dell’uman generee operassero da tali. Il pensiero di dare base nazionale agli Sta-ti, e che s’è effettuato per tanta parte durante il secolo ed è sta-to il meglio dell’opera sua, era pensiero di concordia e di pace.Le nazioni, rizzate di nuovo in piedi, non dovevano, nel con-cetto della nostra generazione, affrontarsi in armi le une le al-tre, e guardarsi arcigne e sfidarsi; ma vivere, poiché s’era fattoloro giustizia, amiche, e gareggiare nel bene e nel portare ad ef-fetto la maggior somma di felicità e di virtù, di cui sia capacel’uomo. Era forse un ideale troppo alto, e che credemmo so-prattutto troppo prossimo; ma non giova gl’ideali abbassarli, ecacciarli con la mano troppo lontano. V’ha forse giovani a cuiparrà un ideale de’ vecchi; ma cotali giovani sono decrepiti. Èinvece ideale che bisogna rialzare. E a ciò devono cooperare ecooperano, lente ma sicure, la coscienza popolare da una parte,e le menti elette dall’altra. Se gli uomini di Stato non sanno senon brancolare nelle tenebre dei lor pregiudizi e nelle remini-scenze pallide del lor passato, peggio per essi. Non sarà la pri-ma volta nella storia, che la luce è balenata a’ loro occhi di do-ve meno l’aspettavano, e alla luce, rassegnati pur di mantenersidi sopra, hanno ceduto»583.

I Tedeschi, invece, gente di cui non v’ha la più disadatta «adistinguere nel desiderio suo quello ch’è giusto da quello ch’èingiusto» BONGHI, Nove anni, cit., II, p. 409.

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547 Carte Minghetti, cart. XVI, fasc. 4).548 Pensieri sulla politica italiana, cit., p. 66 sgg.549 l. p. al Nigra, 5 agosto 1871 (ARCH. VISCONTI VENO-

STA).550 A. P., Camera, p. 34. Nello stesso giorno, identico inno

alla libertà levava il Boselli (ib., pp. 35-36).551 Nel discorso del 9 aprile 1878 (A. P., Camera, p. 363).552 A. P., Camera, p. 3888. E cfr. qui sopra p. 135.553 Il Thiers in Firenze, ne La Perseveranza, 14 ottobre 1870.554 Cfr. qui sopra, p. 72.555 Sul cambiamento profondo della politica europea dopo

il ’48 cfr. SALVATORELLI, Storia d’Europa dal 1871 al 1914,Milano, 1941, 1, pp. 34-35.

556 Sono le note espressioni del CATTANEO, nel programmadel Cisalpino, il 17 marzo.1848 (Scritti politici ed epistolario, acura di G. Rosa e J. White Mario, I, Firenze, 1892, p. 123).

557 Cfr. CROCE, Storia d’Europa, cit., p. 254 sgg.558 6 agosto 1870 (La nostra politica).559 Cfr. OMODEO, La cultura francese nell’età della Restau-

razione, cit., pp. 53 sgg. e 63.560 Il Thiers in Firenze, ne La Perseveranza del 14 agosto 1870.561 Lambruschini a Ricasoli, 9 maggio 1849 (Carteggi Ricaso-

li, III, p. 388).562 Metternich a Wellington, nel 1824: «C’est que depuis

longtemps l’Europe a pris pour moi la valeur d’une patrie», (inSRBIK, op. cit., I, p. 320).

563 Charles Gavard annota: «Tout le monde est ici [in Inghil-terra] atterré ... Il n’y a plus d’Europe, plus de société de peu-ples, si on laisse ainsi la force aller jusqu’au bout» (Un diploma-te à Londres, cit., p. 6).

564 Noailles à Decazes, 11 maggio 1875 (D.D.F., serie lª, I,n. 411, p. 448). «Il serait temps de penser à la reconstítuer[l’Eutopel, mais on ne peut marcher dans cette voie qu’avecune extrême prudence.»

565 Anche il MARSELLI condivideva simili preoccupazioni:«Questo ragionamento è fondato sulla credenza che vi sia an-

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cora una Europa. Se questa è un’illusione, se davvero l’Inghil-terra continuerà a nicchiare, i Latini a decadere, l’Austria a tre-mare, allora due potenze costituiranno l’Europa: Germania eRussia (Gli avvenimenti del 1870-71, cit., p. 121, n. 1).

566 BEUST, Trois Quarts de Siècle, Mémoires, trad. franc.,Parigi, 1888, II, pp. 392 e 414. Anche La Perseveranza del 3ottobre 1870 annota: «L’Europa!. Chi può asserire oramai seessa politicamente esiste?».

567 Dichiarazioni dell’Andrássy all’ambasciatore di Franciaa Vienna, de Vogüé, il 29 aprile 1878 (D.D.F., serie lª, II,p. 307). Per il persistere di simile credenza nella «societàeuropea», ancora più tardi e nella stessa diplomazia, cfr., p.es., il rapporto dell’ambasciatore francese a Costantinopoli,Bompard, il 3 ottobre 1912: «Le Congrès de Paris [ 1856] avaitbien ... fait entrer en principe la Turquie dans la société desnations européennes ... mais dans le fait il s’en était toujoursfallu de beaucoup que l’assimilation fút réelle et la Turquiecontinuait en réalité à être considérée par l’Europe comme unEtat d’un genre particulier contre lequel les Puissances avaientdes intérêts communs à défendre» (D.D.F s. 3ª, IV, p. 35).

568 Cfr. la sua lett. al Beust del 26 settembre 1870, inH. SALOMON, L’ambassade de Richard de Metternich à Paris,Parigi, 1931, p. 276.

569 Anche Gambetta osserva infatti, in una lettera del 27 gen-naio 1877 a Juliette Adam, che «tant qu’il n’v aura pas une Eu-rope», non si potrà essere al sicuro da una aggressione bismarc-kiana: ed Europa vuol dire, per lui, «concert européen» controla Germania (cioè, la vecchia idea già secentesco-settecentescadelle potenze unite contro l’aspirante all’egemonia, per tutela-re la «libertà» dei singoli stati), ricostruire l’ancien équilibre despuissances, l’équilibre européen base della sécurité commune e al-terato dalla Prussia che ha imposta la sua supremazia, laceran-do le vieux droit public. Par di sentire Metternich: ed è invece ilcreatore della repubblica francese, laica e democratica! (Lettresde Gambetta 1868-82, ed. da D. HALÉVY ed E. PILLIAS, Pa-rigi, 1938, n. 300.) Gambetta d’altronde rimase sempre tenaceassertore dell’equilibrio europeo, così come l’avevano concepi-to i diplomatici alla fine del sec. XVIII (cfr. P. DESCHANEL,Gambetta, trad. ital., Milano, 1935, p. 253).

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570 In una annotazione del 4 aprile 1854, pubbl. dal MO-NOD, Jules Michelet, cit., p. 35 e cfr. p. 33.

571 G. P., II, pp. 87-88, e cfr. anche p. 98. E si veda anche conquale ironia il Bismarck si riferisca alla celebre frase del Beustsull’Europa, Erinnerung and Gedanke, Gesamm. Werke, 15,p. 317. Acuto commento nello EYCK, op. cit., III, pp. 242-45.

572 BISMARCK, Gesamm. Werke, 6 b, p. 501.573 Sull’ostilità del Bismarck verso il panslavismo, cfr. anche

S. A. KAEHLER, Bermerkungen zu einem Marginal Bismarcksvon 1887, in Hist. Zeitschrift, 167 (1942), p. 106.

574 Cfr. il saggio sul Disraeli, in Ritratti e profili di contempo-ranei, II, Firenze, 1935, pp. 255-56 e soprattutto 272 sgg. E cfr.W. MATURI, Ruggero Bonghi e i problemi di politica estera, inBelfagor, I (1946), p. 419, n. 1.

575 Cfr. qui sopra, p. 67. Anche ne La Nazione di Firenze,moderata ma filoprussiana, aperto il dispregio delle «solite teo-rie grandi e profonde dell’equilibrio europeo», che potrebbe-ro aver per conseguenza il sacrificio dei veri interessi italiani. aBel successo sarebbe il nostro, se, assicurato l’equilibrio euro-peo e affermato il primato latino mediante la solita prevalenzadella Francia, equilibrio europeo e primato latino finissero colcacciarci da Roma!», 24 attobre 1870 (La pace).

576 La Perseveranza, 28 febbraio 1871.577 Mémoires, I, pp. 200-01 (trad. ital., p. 219).578 L’azione dei neutri, ne L’Opinione del 3 novembre 1870:

il nascente impero germanico minaccia l’equilibrio europeocome Napoleone I: ma una lega come quella formatasi controNapoleone non è ora possibile. Il sospetto dell’Europa controla Francia era antico; mentre questo potente impero germanicoè un fatto recente. Nessuno può precorrere i tempi: siamo nel1870, non nel 1900.

Giudizio analogo nel Taine: Guglielmo I e Bismarck assol-vono in questo momento la parte di Napoleone I, parte dete-stabile e che condurrà forse anche loro ad una catastrofe finale(Correspondance, III, p. 15 e anche 125). Cfr. anche nella stam-pa svizzera, RENTSCH, Op. cit., p. 103. Contro questi giudizi,il MEYER, op. cit., p. 668.

579 Si veda ancora, p. es., il discorso Kuranda alla Delegazio-ne Cisleitana a Pest, il 17 gennaio 1871: anche qui, rievocazio-

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ne della pentarchia delle grandi potenze, che aveva diretto la vi-ta europea negli ultimi 30-40 anni, e timori per il presente, da-to che l’Inghilterra egoisticamente pensa a se stessa e si disinte-ressa del continente, e che la Francia è fuori giunco. Preoccu-pazioni, come si vede, del tutto simili a quelle dei Bonghi, Dinaecc. (il discorso, nella Wiener Abendpost del 18 gennaio 1871).

580 «Mai nella storia si è presentato l’esempio di un’Europache sta spettatrice impassibile della propria disfatta, ché tale è larovina de’ nostri antichi alleati. Il diritto del più forte riprendeil suo cammino, ché la scienza prussiana non è la civiltà latina.»E. Oldofredi a Dina, 7 novembre 1870 (in CHIALA, G. Dina,cit., III, p. 275).

581 Nell’art. il diritto delle nazioni, ne La Perseveranza del 31agosto 1870.

582 Discorsi Parlamentari di R. BONGHI, I, Roma, 1913, p.236.

583 La situazione europea e la pace, in Nuova Antologia, 16settembre 1891, pp. 225-26.

584 BONGHI, Nove anni, cit. II, p. 448.585 Discorso alla Camera, 20 ottobre 1848: «Il germanismo

appena è nato e già minaccia di turbare l’equilibrio europeo, giàmanifesta pensieri di predominio e di usurpazione». DiscorsiParlamentari a cura di A. Omodeo, Firenze, I,. 1932, p. 64.

586 In una lett. al Comitato del parato social-democratico,poco dopo l’inizio della guerra (Histoire de la diplomatie, acura di V. POTIEMKINE, trad. franc, I, Parigi, 1946, p. 529).E cfr. in F. ENGELS, Le rôle de la violence dans l’histoire,Parigi, 1946, pp. 77 sgg. (lo scritto, tradotto, Violence etéconomie dans l’établissement du nouvel empire allemand, èprobabilmente del 1887-1888) [trad. ital., Roma, 1951. N.d.E.].E per le proteste dei socialdemocratici in Germania control’annessione, e l’arresto dei cinque di Brunswick e di JohannJacoby a Königsberg, F. MEHRING, Geschichte des deutschenSozialdemokratie, II, Stuttgart, 1898 p. 297 sgg.

587 Cfr. V. VALENTIN, Bismarcks Reichsgründung im Urteilenglischer Diplomaten, Amsterdam, 1937, p. 453.

588 d. Visconti Venosta a Cadorna (Londra), 13 marzo1871:«egli [Beust] crede che le condizioni generali del merca-to pecuniario saranno talmente disquilibrate da quella enorme

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cifra d’indennità, da accrescere le difficoltà finanziane di ogniStato che in avvenire dovesse ricorrere al credito pubblico. Ilconte Beust crede quindi che sarebbe giovare agli interessi co-muni dell’Europa il fare uffici perché quella cifra venisse dimi-nuita oppure si trovasse modo, nei negoziati del trattato di pacedefinitivo, di non gravar troppo la Francia di oneri che fosseroimpari alle sue forze economiche ... Le considerazioni econo-miche esposte dal conte Beust nel suo dispaccio al conte Appo-ny [a Londra, e fatte comunicare al Visconti Venosta per mez-zo del Kübeck, ministro austro-ungarico a Firenze] sono inve-ro giustissime, e l’Italia è quanto l’Austria nella necessità di te-nerne il debito conto. Parigi fu negli ultimi venti anni il princi-pale mercato monetario del continente. Una grande solidarietàd’interessi commerciali esiste tra la Francia e l’Italia: ogni mi-naccia di disastri finanziari in Francia eserciterebbe sulle Bor-se italiane una perniciosa influenza, e certo è nostro vivo desi-derio che la Francia ... non sia stremata d’ogni sua forza econo-mica e non sieno distrutte le fonti della sua ricchezza pubblicae privata». L’Inghilterra, che ha interessi non dissimili da quel-li italiani, dovrebbe vedere di trovare un espediente per rendermeno grave per il vinto il pagamento dell’indennità. Il d. Beusta Kübeck del 10 marzo 1871, Saw, P. A., XI/79; la risposta Kü-beck dei 18 marzo, ivi, XI/77, n. 21 B. Sul contrecoup le plus re-grettable per l’Italia delle stipulazioni finanziarie della pace ave-va però richiamata l’attenzione del Visconti Venosta già il mini-stro francese Rothan, sin dal 2 marzo; e l’art. dell’Opinione fu,a suo dire, l’effetto del suo colloquio col ministro degli Esteri.Anche il Sella si lamentò del contrecoup fâcheux della pace, dalpunto di vista finanziario (t. Rothan 2 marzo e rr. 3 marzo, n.53, 16 marzo n. 68; AEP, C. P., Italie, t, 381, ff. 32 v., 191 v. Ecfr. ROTHAN, L’Allemagne et l’Italie, II, cit., pp. 296-97).

589 Il credito pubblico, ne L’Opinione, 3 marzo 1871. Il 14ottobre il giornale annotava i primi effetti della perturbazioneeconomica prodotta dalla guerra e dall’enorme indennità: au-mento del tasso di sconto da parte della Banca d’Inghilterra ecc.(Il mercato pecuniario d’Europa).

Due anni dopo il giornale constatava gli effetti purtroppoassai reali della grossa indennità di guerra: per far fronte aiprestiti di guerra il mercato francese si era disfatto dei titoliesteri, fra cui gli italiani; e poiché nessun altro mercato era ingrado di riassorbirli, i valori italiani tornavano in patria. Ribassodella rendita, aggio cresciuto, difficoltà di sconto e ristrettezze

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di credito erano, per l’Italia, effetto della crisi internazionaledeterminata anche dal pagamento dei 5 miliardi alla Germania(L’Opinione, 26 ottobre 1873, La crisi finanziaria).

590 Cfr. BONGHI, Ritratti e profili di contemporanei, III, p.165; e MATURI, Ruggero Bonghi e i problemi di politica estera,cit., p. 419.

591 Notes sur la guerre de 1870-1871, cit., p. 219.592 Lettere e documenti, X, p. 123 (3 settembre 1870).593 Nuova Antologia, LXXXIX (16 settembre 1886), pp. 298-

299, 305.594 BONGHI, Nove anni, cit., II, p. 382 (1° settembre 1870).

E si veda il giudizio del GREGOROVIUS: «In altre circostan-ze questo avvenimento [ingresso delle truppe italiane a Roma]avrebbe commosso il mondo, oggi non è che un piccolo episo-dio del grande dramma universale» Diari Romani, cit., p. 451.

595 Comincia La Riforma sin dal 24 settembre ’70 (art. L’im-penitenza) a proclamare che a Roma si deve finalmente instal-lare «un’amministrazione la quale non sia altro che italiana», inmodo da dar luogo «a quella vera fusione che sino ad ora fupiuttosto un desiderio che una realtà». Segue il Roma di Napo-li, del 10 novembre, che è più esplicito assai: è proprio questio-ne di posti, di impieghi. Bisogna abbattere la prevalenza pie-montese nell’amministrazione; bisogna eleggere deputati del-l’opposizione, impadronirsi del potere e allora ristabilire l’equi-librio dei posti (e ciò, fra l’altro, spiega, anche i successi eletto-rali della Sinistra nel Mezzogiorno). Più tardi, nelle discussio-ni al Senato sul trasporto della capitale a Roma, il 24 gennaio1871, Antonio Scialoja trova benefico l’avvicinamento della ca-pitale alle provincie meridionali, sin qui troppo poco attive nel-la vita pubblica; e anche per l’eminente uomo la capitale a Ro-ma «contribuirà a ristabilire l’equilibrio delle influenze nell’in-dirizzo dell’amministrazione pubblica» (A. P., Senato, p. 141).Infine è il Minghetti, di passaggio a Napoli, a notare – dopo uncolloquio col Pisanelli – le velleità di costituire un partito napo-letano che imitando i centri, e i piemontesi della Camera passa-ta, metta il suo voto decisivo nella bilancia ... Comunque, essisentono che la importanza loro va a crescere col trasferimentodella capitale, e vorrebbero profittarne». (Minghetti a ViscontiVenosta, 11 gennaio 1871, ARCH. VISCONTI VENOSTA.)

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596 Nella seduta della Camera del 22 dicembre 1870, l’on To-scanelli affermava che l’egemonia piemontese – per lui benefi-ca era una realtà, nell’amministrazione come nel governo: ottosegretari generali dell’«egemonia» e nella questione di Roma gliincarichi essenziali conferiti a piemontesi, il conte di San Mar-tino, il gen. Cadorna, il La Marmora. (A. P., Camera, p. 176.)Nuovamente nel 1875 l’on. Mazzoleni dichiarava che la pre-sidenza della Camera era feudo esclusivo dei piemontesi (L’XILegislatura, Memorie di un defunto, Milano, 1875, p. 103, n. 1).

Il Roma del 10 novembre cit. (Gl’interessi meridionali da-vanti all’urna, di G. Lazzaro) osserva che uno solo dei diretto-ri generali di ministero è meridionale (quello dei Telegrafi), eche su 70 prefetti solo 8 sono meridionali. E cfr. anche gli al-tri artt. Pure del Lazzaro, del 14 e 21 novembre (Fatti e nonipotesi; All’Opinione di Firenze. Predica a braccia).

597 Chi si lamenta di più è il conte Guido Borromeo: «quelMezzogiorno che a Roma sarà potente pur troppo e forse trop-po!» Sarà questo uno dei più grandi guai che s’incontrerannoa Roma, dove «trionferà il Mezzogiorno, agitato dall’elementoromano».(Al Minghetti, 12 giugno e 14 settembre ’71. BCB,Carte Minghetti, cart. XVI, fasc. 4.) Il Bon Compagni è pen-soso: per lui, anzi, ministri napoletani e siciliani hanno peggio-rato le condizioni dello Stato «in ordine alla distribuzione de-gli impieghi». Nel ministero della Giustizia sovrabbondano gliimpiegati meridionali «onde riesce difficile ad un ministro diquelle stesse provincie sottrarsi alla loro influenza». Si appro-fitti quindi delle dimissioni del Raeli per non chiamare più aquel dicastero «un ministro nativo di quelle provincie in cui l’i-dea della legalità fu più svigorita» (al Lama, 20 febbraio 1871,in Le carte di G. Lanza, cit., VII, p. 60). Si noti chi il Borromeo,lombardo e minghettiano, era ostile al predominio piemontese(cfr. lett. al Minghetti, 31 luglio 1871, ib.): egli teme quindi l’a-scesa del Mezzogiorno a danno del Settentrione in genere, nondel solo Piemonte. Fosche previsioni emetteva il Rattazzi (Rat-tazzi et son temps, II, pp. 374, 426, 428-29); e il Carutti di Can-togno, lo storico di Casa Savoia, si preoccupava anche egli dellospostamento del centro di gravità politico, quale sarebbe esul-tato dal trasferimento della capitale a Roma (A. P., Camera, 21dicembre 1870, p. 127); e Jacini deplorava l’inevitabile diminu-zione dell’influenza piemontese «perché la tenacita di quel po-polo sarebbe per molti anni necessaria all’Italia» (A. P., Senato,p. 122). L’inviato francese a Firenze, Rothan, annotava, il 10

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gennaio 1871, il malcontento dei settentrionali, che temevanol’amministrazione si meridionalizzasse, a Roma (L’Allemagne etl’Italie, II, cit., p. 193).

598 Così il Pasolini (Carteggio Minghetti-Pasolini, cit., IV, p.193). Minghetti è d’accordo (ib., p. 195); e lo scrive ancheal Visconti Venosta, il 27 ottobre 1870 (ARCH. VISCONTIVENOSTA): «...è certo che a Roma bisognerà portare il menopossibile di affari e lasciarne il più possibile alle amministrazionilocali». In effetti, subito dopo il 1870 fu un gran parlare ediscutere, anche nei giornali della Sinistra (cfr. La Riforma, 11Luglio e 30 novembre 1871) di decentramento amministrativo.

599 Governo e governati in Italia, cit., I, lª ed., pp. 379 e 383.600 BONGHI Nove anni cit II p 417.601 Sella a Minghetti, 21 settembre 1870 (BCB, Carte Min-

ghetti, cart. XV, fasc. 127).602 In un lungo memoriale «Sulle condizioni attuali di Roma

e sui rapporti attuali col Papato e all’estero per quanto possa diRoma giudicarsene» 10 maggio ’71 (ARCH. VISCONTI VENO-STA), Diomede Pantaleoni, che non aveva «smessa l’abitudinedi dar consigli» (Artom a Nigra, 19 giugno 1871, AE, Carte Ni-gra; il maestro Cavour aveva giudicato il Pantaleoni un po’ va-nesio e chiacchierone, La questione romana negli anni 1860-61.Carteggio del Conte di Cavour con D. Pantaleoni, C. Passaglia,O. Vimercati, Bologna, 1929, II, pp. 187, 199 e 201), così di-pingeva al Visconti Venosta la borghesia: «la borghesia territo-riale in Roma non esiste, salvo come proprietaria di qualche vi-gna ... qualche caseggiato ... di fabbriche e d’industrie Romanon ha quasi traccia; e la sola borghesia potente ma ristrettissi-ma è quella dei mercanti di campagna o grandi affittuari di te-nute. Tutto il resto della borghesia è dunque rimasta povera, siè dovuta dedicare alle arti, alle scienze, alle professioni libera-li; e come queste tutte dipendono per l’impiego loro dai ricchie possidenti, questa borghesia non ha avuto la menoma indi-pendenza, ed è diventata servile, falsa, invidiosa altrettanto chebisognosa per la numerosa concorrenza in ogni ramo d’impie-go». Della «arrogante servilità» del medio ceto, contrappostaalla fierezza di modi e indipendente di concetti del basso popo-lo, il Pantaleoni parla anche in seguito. In conclusione, lo statodi cose sarebbe gravissimo «se l’accorrere di una eletta e nuo-va popolazione da tutte le provincie d’Italia non Basse [sic!] la

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sicurezza, che sarà ben presto ... modificato». Auspicio analo-go a quello di Nicomede Bianchi, per il quale bisognava porta-re «nella morta terra del Lazio l’operosità della vita subalpina.Gli antichi abitatori sono destinati a lasciare il posto ai figli ve-ri dell’Italia moderna» (Carteggio politico di M. Castelli, cit., II,p. 498). Il Castelli, per conto suo, lamentava l’inerzia del mu-nicipio e l’assenza di iniziativa nella popolazione abituata a nonvedere «che il governo» (Carteggio, cit., II, p. 497). Un qua-dro poco confortevole di Roma e dei Romani è anche quellodelineato da G. RAIMONDI, Roma tre mesi dopo l’occupazione,Milano, 1871, p. 9 sgg.

603 «... I Romani invece di ringraziare Iddio che senza virtùloro, sono esciti da una situazione intollerabile per un popoloche senta un poco di sé, sono in piazza di continuo disposti adagitarsi e ad agitare, e ad imporsi, ultimi aggiunti, alla grandefamiglia, con le loro impazienze, con le loro bambocciate. V’èdunque in questa Roma una fatalità, che deve rendersi maledet-ta per l’Italia?» Ricasoli a Luigi Torelli, 20 novembre 1870 (inMONTI, Il conte Luigi Torelli, 1810-1887, cit., p. 297. Nel te-sto pubbl. in Lettere e Documenti, X, p. 169 mancano questefrasi). Identico giudizio ne La Perseveranza del 20 novembre:impazienze dei Romani, i quali non hanno altra idea di uno Sta-to civile, liberale e laico: «che quella d’uno Stato, in cui qua-lunque gruppo di persone che schiamazza per le strade, si chia-ma popolo, e a qualunque pressione o grido o desiderio di questopopolo il Governo cede subito».

604 «Se i romani anziché essere liberati dagli Italiani, avesserloro fatta l’Italia, non avevano ancor il diritto, di elevare tantepretese, e imporsi orgogliosamente alle rimanenti provincie. Afuria di gridare che senza Roma capitale l’Italia non potevasussistere questi Signori l’hanno preso sul serio. Ma non mistupirebbe che tali smodate pretese provocassero una reazionecontro Roma.» La Marmora a Lanza, 19 novembre 1870 (Lecarte di G. Lanza, cit.; VI, p. 271). In un opuscolo Dal Reno alTevere di un «cittadino romano», Napoli, 1870, ma datato daRoma 10 agosto 1870, c’era già l’atteggiamento che doveva poitanto urtare: «Venite [o Italiani, a Roma], ma rammentate cheRoma fin dalla culla annunzia l’universo, perché annunzia unpopolo ch’è il popolo dei popoli» (p. 27 e cfr. p. 26).

605 Urtato dal manifesto elettorale dei liberali romani che, nelnovembre 1870, offrivano la candidatura a Quintino Sella, co-

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me al solo propugnatore zelante del programma nazionale in se-no al governo, e in segno di protesta contro il ministero che, adeccezione appunto del Sella, non voleva l’immediata andata delRe a Roma, vi fu chi scrisse chiaro e netto: «Nessuno ha avu-to più desiderio di Roma che noi; nessuno la venera più; nessu-no è più inclinato a volerla capo della penisola. Ma a un pat-to, che questo si senta membro della penisola, e non presumad’esserne tutto il corpo, solo perché ha affaticato meno d’ognialtro membro a trovarvi il suo posto; a un patto, che nel capoil cervello abbondi, e non già, come pare, manchi quasi affat-to. L’Italia è padrona di Roma; non Roma d’Italia. Diciamo ilvero; se in Roma, diventata capitale d’Italia, non si dovesse ri-trovare quella sobrietà di spirito pubblico, per la quale Torinoè rimasta meravigliosa in sino ad una ultima ora fatale, e Firen-ze è rimasta e rimane ammirabile sempre, sarebbe malinconicoe triste quel giorno che la sede del Governo dovesse trasmigra-re per la terza volta!» (Il Sella e i Romani, ne La Perseveranza,21 novembre 1870. E cfr. anche La Nazione, 17 e 22 novembre1870).

Ancora anni più tardi, lo osservava il GUICCIOLI: «Questivecchi romani sono curiosi. Credono di aver fatto un grandeonore all’Italia e alla Casa di Savoia con l’accoglierle nella lorocittà» (Diario, in Nuova Antologia, 1° agosto 1935, p. 433).

606 «Le maniere alquanto dure e asciutte e perentorie di talu-ni dei primi incaricati del Governo, eccitarono molto malcon-tento; ma più grande d’assai lo produsse in alcune classi il ve-dere che dal resto dell’Italia, anziché da Roma, si prendesserogl’individui per la Cattedra Universitaria e per gl’impieghi di-stinti. È questa una piaga ancora sanguinosa, specialmente frala classe media, che è di tutte la più numerosa, la più indigente,dotata spesso di molta intelligenza, ma ben di rado di un’egua-le dignità. Si gridò all’invasione, alla conquista; e l’opposizio-ne municipale trovò un plauso generale ... Un’opposizione del-la stessa natura è quella che lavora in mezzo alla DeputazioneProvinciale ...» Memoriale Pantaleoni, cit., cfr. anche La Mar-mora a Lanza, 9 dicembre; Vigliani a Lanza, 14 dicembre, Lan-za a La Marmora, 15 dicembre ’70 (Le carte di G. Lanza, cit.,VI, pp. 315, 321, 323).

607 Annotava sempre il Pantaleoni (Memoriale, cit.) che la so-la, vera, temibile opposizione era quella degli interessi: «L’op-posizione che muove dalle opinioni in Roma poco conta perché

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le convinzioni sono fiacche e povero il sentimento». Perciò, ilmalcontento di quelli che, a Roma, avevano favorito il nuovoordine di cose con la speranza di cavarne vantaggio personale,era molto più ... «rimarchevole» del malcontento di quelli cheavevan perso con la caduta del potere papale.

608 «... un notabile malcontento è stato sviluppato dallenuove tasse, tanto più gravi delle antiche, e venute sopra alpopolo e borghesia, prima che lo sviluppo degli interessi e gliaccresciuti guadagni le rendessero non solo leggiere a portarsi,ma vantaggiose» Memoriale Pantaleoni, cit.

609 Lo stesso Gadda, commissario del governo a Roma, tro-vava che in pochi mesi «noi non abbiamo finora guadagnatoterreno in Roma e ne abbiamo invece perduto. Ai clericali ab-biamo strappato poche o punte persone di quelle che continoper influenza; e dei nostri abbiamo resi tiepidi tutti quelli chesperavano grandi cose per il paese, e noi abbiamo potuto nul-la fare, tranne che imporre tasse: abbiamo avversari al Gover-no, tutti coloro che volevano impieghi, guadagni e simili grazie,che noi non abbiamo per nessuno, e chi gli avversari fanno in-travvedere e sperare. Ove poi si è formata una nuova classe dimalcontenti si è negli impiegati ex-pontifici che furono posti ariposo e che hanno una estesi; diramazione di aderenti che fan-no echeggiare dappertutto le loro strida. Questo è un guaio se-rio ed il governo non trova un cangi che lo difenda su questoterreno. E quello che vi ha di peggio in ciò si è che il Vaticanoinvita costoro e li alletta col dare e promettere le differenze distipendio che perdono». Al Visconti Venosta, 8 febbraio 1871(ARCH. VISCONTI VENOSTA

610 Per es., l’inc. di affari di Francia presso la S. Sede, Lefeb-vre de Béhaine, insisteva sui vantaggi economici che l’esercitopontificio – largo nello spendere assai più di quello italiano –apportava all’Urbe (rr. 4 gennaio e 29 marzo 1871, nn. 1 e 58,AEP, C. P., Rome, t. 1049, f. 7 e t. 1050, f. 168 v. Sui dannieconomici, per la fine del potere temporale, rr. 11 gennaio e 8aprile, nn. 5 e 67, t. 1049, f. 46 v., t. 1050, f. 236 sgg.).

611 «Temo pur troppo, che la questione Romana racchiudessemolti inganni, che ora si svelano.» La Marmora a Lanza, 14novembre ’70 (Le carte di G. Lanza, cit., VI, p. 248). E cfr. ilduro giudizio del Rattazzi (Rattazzi et son temps, II, p. 429).

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612 «... corruzione profonda che si alligna in codesta terrapromessa.» Lanza a La Marmora, 16 gennaio 1871 (Le carte diG. Lanza, cit., VII, p. 36). Lanza era poi inquieto anche perle spese: «... certe teste sono così esaltate da credere che conRoma abbiamo acquistato una California. Se ne accorgerannoquando saremo ai conti» (a La Marmora, 8 dicembre ’70, ib.,VI, p. 313).

Poco più tardi, Guido Borromeo troverà che da Roma nonè ancora uscito un solo uomo che valga qualcosa, per la vitapubblica italiana. «Disgraziatamente non mi pare che la Terrapromsa, ora conquistata fornisca, almeno finora, un Bipedespiumato che valga più d’un altro colle piume. Quando pensoche Doria e Pallavicini sono due grandi uomini, mi domandose non sia il caso di secolarizzare varii Cardinali e Monsignori»(Lett. già cit. Borromeo a Minghetti, 12 giugno 1871, BCB,Carte Minghetti, cart. XVI, fase. 4). Giudizio analogo, ancoraanni più tardi, in stranieri: quel che a Roma si designa perborghesia dà prova; da quattro anni, di una continua mediocritànell’amministrazione cittadina (r. Tiby, inc. d’affari francese,21 settembre 1874, n. 66; AEP, C. P., Italie, t. 390, f. 160).Soltanto il Sella stava fermo nel suo «romanesimo»: «I Romanisono una popolazione degna di esser, capitale» scriveva il 28luglio ’71 al Castelli (Carteggio di M. Castelli, cit., II, p. 512).

613 Cfr. ne La Nazione del 21 aprile 1871 (Lettere Roma-ne):«Di tutti i popoli che hanno una storia, è il popolo roma-no il solo, ch’io sappia, che non ha mai sopportato la condan-na comune a tutto il genere umano di vivere mediante il lavoro.Esso non ha mai lavorato, né per sé, né per gli altri».

614 Il quale La Marmora poi, d’azeglianamente, non era favo-revole a far di Roma la capitale d’Italia (Alfonso La Marmora.Commemorazione, 5 gennaio 1879, di VERAX, cit., p. 130; Car-teggio politico di M. Castelli, cit., II, p. 484). E cfr. la lett. al To-relli, in G. PALADINO, Roma. Storia d’Italia dal 1866 al 1871con particolare riguardo alla Questione Romana, Milano, 1933,p. 202. Non nascondeva, anzi, a Roma stessa, ch’egli era sta-to contrario al Venti Settembre (r. Lefebvre de Beéhaine, 15novembre 1870, n. 106; AEP, C. P., Rome, t. 1048, f. 166 v.).

615 «Dunque, domani sera io sarò a Roma. Non lo posso cre-dere ancora; certo, quando un tal desiderio sarà soddisfatto,che cosa potrò desiderare ancora?» E il grido di trionfo: «Sì,sono arrivato finalmente in questa capitale del mondo!». GOE-

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THE, Viaggio in Italia, 28 ottobre e 1° novembre 1786 (cit. dallatrad. Zaniboni, Firenze, s. a., I, pp. 144-45).

616 «Il mio carattere è poco suscettivo d’entusiasmo ... Madopo 25 anni io non posso né dimenticare, né esprimere le vivecommozioni che agitarono il mio spirito nell’avvicinarmi, e nelmio primo entrare nella città eterna ... io perdetti o godettimolti giorni d’inebriamento, prima d’essere in grado di passaread un esame freddo e minuto.» (GIBBON, Memorie, trad. it.,Milano, 1825, pp. 144-45.)

617 MAZZINI, Note autobiografiche (Scr. Ed. In., LXXVII),p. 341.

618 Id., ib., p. 346.619 Così il Denina e, limitatamente all’unione letteraria e

scientifica, anche il Bettinelli (C. CALCATERRA, Il nostro im-minente Risorgimento, Torino, 1935, pp. 159-60).

620 Discorsi Parlamentari di Q. Sella, I, p. 292; GUICCIOLIop. cit., I, p. 353.

621 Diari Romani, cit., pp. 75, 105, 129, 140. Egli cercòanche di guadagnare alla causa italiana, nel ’59, la redazionedell’Augsburger Zeitung sino allora ostile, ib., p 117.

622 Diari Romani, cit., p. 442; e cfr. p. 450: e io avrei vedutotanto volentieri ragli occhi la caduta del papato». Lo Stato dellaChiesa era una «mummia», ib., p. 66.

623 Ib., pp. 460 e 462. Idee simili eran già venute al Grego-rovius nel 1861, quando si attendeva il «destino» di Roma, pp.157-58. Appunto per salvare il carattere cosmopolitico di Romae dar soddisfazione, ad un tempo, al sentimento nazionale ita-liano, il Gregorovius aveva architettato – non primo né ultimo– una stramba combinazione, che consisteva nel lasciare al Pa-pa la città e il suo distretto e nel dare ai Romani la cittadinanzaitaliana (p. 262).

624 Questo motivo, dell’unità italiana dono della sorte e perlarga parte (Venezia e Roma) dei successi prussiani, risuonainfatti largamente anche nel GREGOROVIUS, l. c., pp. 460,463, 478-79.

625 Diario di uno scrittore, trad. it., Milano, 1943, p. 645.626 Correspondance 1872-1892, pp. 26-27.

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627 Già lo aveva scritto nel ’50 «Une assemblée délibérantau Capitole des petits intérêts de munícipalisme ítalien seratoujours ridicule» RENAN-BERTHELOT, Correspondance, p.116.

628 Lo racconta il Finali, testimone del colloquio (La vitapoetica di contemporanei illustri, cit., p. 223). D’altronde, giànel 1871 il von Schweinitz aveva detto al Minghetti: «Ebbene?cosa avete fatto per risanare la campagna romana? ... vi aspettolà per giudicarvi». Minghetti a L. Torelli, 21 gennaio 1883 (inMONTI, Il conte L. Torelli, cit., p. 485).

629 Nel discorso al Senato il 29 dicembre 1870, sul plebiscitoromano (Scritti editi e inediti, a cura di M. Tabarrini, Firenze,1877, I, p. 461).

630 MEINE, Cosmopolitismo e stato nazionale, cit., pp. 54-55.631 Considérations sur la France, c. II (ed. cit., p. 9): «Chaque

nation, comme chaque individu, a reçu une mission qu’elledoit templir. La France exerce sur I’Europe une veritablemagistrature ...»; cfr. p. 29: «La Providence ... a précisementdonné à la nation française deux instruments ... avec lesquelselle remue le monde, sa langue et l’ésprit de prosélytisme quiforme l’essence de ton caractère».

632 Cfr. OMODEO, Primato francese e iniziativa italiana, l. c.p. 27 sgg.

633 Cfr. TREVES, op. cit., p. 75.634 Cfr. LANGER, La diplomazia dell’imperialismo, cit., I, p.

119 sgg.635 Cfr. soprattutto nello Schiller, il frammento preparatorio

di una lirica – Deutsche Grósse – scritto probabilmente nel1801: «Gli altri popoli saranno stati il fiore caduco, questo[tedesco] farà il durevole frutto dorato. Gli inglesi sono avididi tesori, i francesi di splendore; ai tedeschi spetta in sorte ildestino più alto: «vivere a contatto con lo spirito del mondo... Ogni popolo ha la sua giornata nella storia; la giornata deiTedeschi messe di tutte le età’»». (MEINE, op. cit., I, p. 55).

636 Sono espressioni del DE SANCTIS, nel discorso alla Ca-mera del 22 novembre 1862. (La Critica, XI, 1913, p. 75).

637 Cfr. vari passi nella raccolta di E. ROTA, Il problemaitaliano dal 1700 al 1815. Milano, 1938, pp. 42, 47. Edel ROTA Le origini del Risorgimento italiano (1700-1800),

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Milano, 1938, p. 140 sgg., 532, 540, 583. Anche, G. NATALI,L’idea del primato italiano prima di Vincenzo Gioberti, in NuovaAntologia, 16 luglio 1917, p. 126 sgg.

638 Cfr. CALCATERRA op. cit., pp. 282, 412.639 Nello scritto Nazionalismo e Nazionalità, ch’è del 1871

(Scr. Ed. In., XCIII, p. 85 sgg.). L’intento polemico èdichiaratissimo.

640 Cfr. fra l’altro, le Note autobiografiche, cit. p. 32.641 Politica internazionale (1871), Scr. Ed. In., XCII, p. 143

sgg. Qui, dopo aver nuovamente insistito sul fine comune dellenazioni (umanità, scoperta progressiva della legge morale e in-carnazione di quella legge nei fatti), e dopo aver parlato dellaterza missione dell’Italia nel mondo (Roma del popolo ecc.),che ha per fine l’assetto pacifico e permanente dell’Europa,il Mazzini prospetta sì, come motivo fondamentale della po-litica estera itliana, quello dell’«iniziativa slavo-ellenica-daco-romana», ma poi parla di schiudere all’Italia le vie che condu-cono al mondo asiatico anche con l’invasione colonizzatrice aTunisi: «... come Marocco spetta alla Penisola Iberica e l’Al-geria alla Francia, Tunisi, chiave del Mediterraneo centrale ...spetta visibilmente all’Italia. Tunisi, Tripoli e la Cirenaica for-mano parte ... di quella zona Africana che appartiene vermen-te fino all’Atlante al sistema Europeo. E sulle cime dell’Atlantesventolò la bandiera di Roma quando, rovesciata Cartagine, ilMediterraneo si chiamò Mare nostro. Fummo padroni, fino alV secolo, di tutta quella regione. Oggi i Francesi l’adocchianoe l’avranno tra non molto se noi non l’abbiamo», pp. 167-68).Dove basterebbero gli accenni alla bandiera di Roma e al «ma-re nostro», anche senza l’esplicito accenno alle mire della Fran-cia, per rivelare la tendenza che pone il problema nei terministessi con cui lo avrebbe posto un uomo del nazionalismo tan-to esecrato dal Mazzini (cfr. KOHN, Popoli e profeti, cit., pp.87, 88, 101-102, tenendo però presenti le riserve qui sopra –cap. I, nota 253 – fatte, a proposito del pensiero di Mazzini ingenerale).

Sono queste le pagine che offrono lo spunto a coloro chevanno in cerca di «precursori», per veder nel Mazzini «il profe-ta dei giorni in cui viviamo» (E. PASSAMONTI, L’idea colonia-le nel Risorgimento italiano, Torino, 1934, p. 15 – prima pub-bl. nella Rivista delle Colonie Italiane, giugno-luglio 1932). Siavverta però che il Passamonti, per svista, attribuisce al Mazzi-

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ni – come diretto al Bismarck – il noto memorandum che sa-rebbe stato diretto invece dalla cancelleria prussiana [?] all’U-sedom nell’aprile ’68 (DIAMILLA-MULLER, Politica segreta ita-liana, 1863-70, cit., p. 346 sgg.; Mazzini, Scr. Ed. In., LXXXVI,p. xxx, sgg.), capovolgendo così le posizioni.

642 Agli italiani (1853), Scr. Ed. In., LI, p. 55.643 Note autobiografiche, p. 32.644 Ib. ib., p. 341.645 Ai giovani d’Italia (1859), Scr. Ed. In., LXIV, p. 180.646 Ib. ib., p. 157.647 «E quando l’Europa ingrata vi pose in fondo dividendosi

le vostre spoglie, il Genio Italiano, prima di velarsi per untempo, gettò dalla sua croce quasi pegno di ciò che un giornopotrebbe, un Nuovo Mondo all’Europa», l. c.

648 È vero che, sulla fine del 1846, o nel maggio del ’47 (perle discussioni sulla datazione cfr. G. MAMELI, La vita e gliscritti, a cura di A. CODIGNOLA, ed. del Centenario, Venezia,s. a. [1927], II, p. 40) in Roma il Mameli sembra disprezzare leglorie antiche

Ad altri le memorieI secoli che fûro,

(e su questo insiste il Calosso, Colloqui col Manzoni, Bari,1948, pp. 34-35): ma in realtà il suo, che è il vaticinio della nuo-va Roma, la terza Roma di Mazzini

Ove del mondo i CesariEbbero un dì l’impero,E i sacerdoti tenneroSchiavo l’uman pensiero ...Ondeggerà fiammanteL’insegna dell’amore ...Città delle memorieCittà della SperanzaLe cento suore ItalicheChiama e a pugnar ti avanza

è sempre un appello a Roma, che, dunque, deve essere sem-pre l’antesignana. E cfr. anche lo scritto Roma ritorna al Cam-pidoglio: «Dal Campidoglio è spuntata la luce. Essa si diffon-

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derà per tutta l’Italia, perché caduta la Roma dei Pontefici Re,ella tornerà anche una volta la Roma del popolo!» (op. cit., II,pp. 308-309).

649 L’Italia e Roma, ne La Riforma del 22 settembre 1870.650 L’ora solenne, ne La Riforma del 3 ottobre 1870.651 L’ora solenne, cit.652 Dell’insurrezione di Milano del 1848 e della successiva

guerra, cit., pp. 298, 300-301. Già il motto della pref. italianaè Italia e Roma! Cfr. Per la Sicilia (1848): «D’Accordo aquanto mi ragionate della Sicilia, rispondo sempre colle paroledi Torquato Tasso: Italia e Roma». La Sicilia «deve aggregarsialla universa Italia in Roma». (Scritti politici ed epistolari, cit.,pp. 141-4 E cfr. anche Epistolario, ed. Caddeo, Firenze, I,1949, p. 356 («Il rimedio è Italia e Roma!»), cfr. anche p. 346.

653 Alludo, beninteso, al Gioberti del Primato, non al Gio-berti del Rinnovamento, dove dilegua il mito del primato ita-liano e viene accentuata, invece, la iniziativa francese (cfr. A.OMODEO, Vincenzo Gioberti e la sua evoluzione politica, Tori-no, 1941, p. 104) [ora in Difesa del Risorgimento, 2ª ed. Torino,1955. N.d.E.]. Ma quel che pesò sulla storia d’Italia fu, appun-to, il Primato: perché, allora e poi, sino precisamente all’Omo-deo, i punti del Rinnovamento che attrassero l’attenzione furo-no la polemica attorno ai casi del ’48 e il programma «piemon-tese». Per l’esaltazione giobertiana di Roma cfr. A. BRUERS,Roma nel pensiero di Gioberti, Roma, 1937, p. 11 sgg.

654 BALBO, Della Monarchia rappresentativa in Italia, cit., p.148.

655 Della Monarchia rappresentativa, cit., p. 173. E cfr. N.VALERI, La «boria romana» nel pensiero di Cesare Balbo, inBollettino Storico Bibliografico Subalpino, XLV, (1947), p. 91sgg.

656 DURANDO, Della nazionalità italiana, cit., p. 10 sgg.657 «Je n’attache pas une grande importance aux souvenirs

classiques en eux-mêmes» lett. del 1830, in RUFFINI, La giovi-nezza del conte di Cavour, cit., I, p. 95.

658 Per le dichiarazioni del Cavour, tante volte ripetute, sullasua indifferenza per le arti e la sua scarsa cultura letteraria;cfr. Lettere, V, pp. 42 e 93-94; H. D’IDEVILLE, Journal d’un

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diplomate en Italie ... Turin, 1859-1862, 2ª ed., Parigi, 1872,pp. 176 e 218. Ma egli forzava anche la nota, presentandosiassai più disadorno culturalmente di quanto non fosse in realtà(RUFFINI, op. cit., I, pp. XIII e 29, n. 1; Ultimi studi sul Contedi Cavour, Bari, 1936, p. 146). È una ritrosia simile a quella chedimostrò più tardi il Giolitti, della cui rozzezza culturale moltosi parlò, mentre aveva cultura soda e precisa. Ma anch’eglinon voleva che la letteratura si mischiasse alla politica (cfr. F.CRISPOLTI, Politici, guerrieri, poeti, Milano, 1938, p. 63; G.NATALE, Giolitti e gli Italiani, Milano, 1949, pp. 72-75; G.ANSALDO, Il ministro della buonavita, Milano, 1949, pp. 49,308-309. E cfr. anche l’interessante episodio narrato dal conteSFORZA, Les bâtisseurs de l’Europe moderne, Parigi, 1931, p.225).

659 «Sì, o signori, per quanto personalmente mi concerne gli ècon dolore che io vado a Roma. Avendo io indole poco artisticasono persuaso che in mezzo ai più splendidi monumenti diRoma antica e di Roma moderna io rimpiangerò le severe epoco poetiche vie della mia terra natale» Discorsi Parlamentari,XI, p. 318 (25 marzo 1861).

660 E. ARTOM, L’opera politica dei senatore I. Artom nelRisorgimento Italiano, I, Bologna, 1906, p. 333 sgg. E cfr.A. OMODEO, Il conte di Cavour e la questione romana, in LaNuova Italia, I, n. 10 (20 ottobre 1930), pp. 409-11.

661 Op. cit., p. 11.662 È chiaro che rétori del calibro di un Guerrazzi e di un

Brofferio non potessero capir nulla di tutto ciò: di qui il lorodisdegno letterario contro la «prosaicità» del Cavour (cfr. F:VALSECCHI, Interpretazione di Cavour, in Quaderni dell’AlmoCollegio Borromeo, luglio 1946, Pavia, p. 2 sgg. dell’estratto, enuovamente il Risorgimento e l’Europa. L’alleanza di Crimea,Milano, 1948, p. 134 sgg.).

663 Efficace, ma stentato e disadorno oratore il Sella (MAR-TINI, Confessioni e ricordi, 1859-1892, cit., p. 130).

664 «Chi dunque ci ha fatto quali siamo, chi c’insegnò avolere una patria? Roma, niente altro che Roma ... tutto ciòche sappiamo, tutto ciò che pensiamo, tutto ciò che sentiamoin fatto di patriottismo, lo dobbiamo all’antica Roma: perconseguenza quando noi vecchi veniamo qui a Roma che fu lanostra maestra, sentiamo una riverenza di cui non potete farvi

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un’idea ... Ma non dimenticate ... che siamo Italiani per virtùdi Roma, perché se non fosse il sacro nome di Roma, le tantesventure, le tante ostilità che ebbe l’Italia l’avrebbero spezzata,l’avrebbero annullata; fu Roma che la tenne viva» (DiscorsiParlamentari di Q. Sella, I, pp. 308 e 310-11).

665 Discorsi Parlamentari, I, pp. 229-30 (21 giugno 1876).666 Lett. al Minghetti 21 settembre 1870, già. cit.; Discorsi

Parlamentari, I, 292.667 Lett. 21 settembre 1870, già cit.668 Così ne La Nazione del 20 novembre 1870.669 Discorsi Parlamentari, I, p. 292.670 Nella Relazione alla Camera sul disegno di legge per il

concorso dello Stato nelle opere edilizie e di ampliamento diRoma (Discorsi Parlamentari, I, p. 233).

671 Discorso alla Camera del 14 marzo 1881 (Discorsi Parla-mentari, I, p. 304).

672 «L’on. Sella, che ci ha parlato tante volte della lentedell’avaro, relativamente ai Lincei ha la lente del prodigo.» Cosìl’on. Toscanelli, nella seduta del 9 marzo 1881 (A. P., Camera,p. 4223).

673 Il 30 aprile 18 7 8 scrive al Cairoli, presidente del Consi-glio: «Un giorno o l’altro converrà pure che tu ti occupi dellaScienza in Roma. È quistione grave del più alto interesse perl’avvenire», MRP, Carte Cairoli, pacco 20. E ripete nel discor-so alla Camera, il 14 marzo 1881: «non ho creduto che vi fos-se ufficio più alto, al quale consacrarmi, se non quello dello svi-luppo della scienza in Roma» (Discorsi Parlamentari, I, p. 304).Persino in un discorso ai suoi elettori, alla vigilia delle elezioni,parlò – vox rarissima! – della scienza, dell’Accademia dei Lin-cei ecc. (Discorso nel banchetto offertogli il I5 ottobre 1876 daglielettori ... di Cossato, Roma, 1876, pp. 45-46.)

674 «... tu devi nella capitale del Regno aiutare il movimentoscientifico. Gli interessi della scienza e della patria lo richieg-gono», Sella a Luzzatti, 29 luglio 1875 (LUZZATTI, Memorie,II, p. 8). Anche qui, l’influsso del Sella, in alcuni ambienti,fu notevole: cfr. nel Guiccioli l’entusiasmo per i nuovi istitutiscientifici universitari «il miglior modo di prendere possesso diRoma», Diario, in Nuova Antologia, 16 luglio 1935, p. 238.

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675 Così, tra vivi applausi, nel discorso pronunziato nellaseduta reale dell’Accademia dei Lincei, il 19 dicembre 1880(Discorsi Parlamentari, I, p. 836).

676 Cfr. FINALI La vita politica di contemporanei illustri,cit., pp. 223 e 347-48. E cfr. le dichiarazioni del Sellastesso alla Camera, il 21 giugno 1876: «Io credo che il migliorcontrapposto al Papato sia proprio la scienza come scienza... se vi è una necessità a Roma, gli è proprio quella di uncontrapposto scientifico al Papato» (Discorsi Parlamentari, I, p.229. Anche nel discorso dell’Associazione Costituzionale delleRomagne, il 10 marzo 1879, ib., p. 818).

677 Discorso alla Camera, 11 marzo 1881 (Discorsi Parlamen-tari, I, p. 303 e cfr. p. 299 sgg.). Per L’Osservatore Roma-no, Sella era «maestro di materialismo» (14 settembre 1878: Lesoldatesche e l’internazionalismo).

678 A. P., Camera, 8-18 marzo 1881, pp. 4175-4469 (concorsodello Stato nelle opere edilizie di Roma).

679 A. P., Camera, p. 4302 (12 marzo 1881).680 «... non vedete poi che, di fronte a un consesso di pen-

satori, i quali possono d’anno in anno, promulgare l’indice del-le verità accertate, il Vaticano impallidisce? Il mondo guarde-rà a Roma come al faro della civiltà; e, davanti a questo faro, lafacella morente del Vaticano sparirà, e sparirà ben presto» (A.P., Camera, p. 4245; 10 marzo 1881). Anche per Alberto Ma-rio compito dell’Italia doveva essere, a Roma, «di spazzar via lapolvere cattolica, e nettare il sito per un congresso di sapientidel mondo civile, nel quale si confermassero tutte le conquisteintellettuali compiute da Lutero fin qui» cit. da ZANICHELLI,Monarchia e Papato in Italia, Bologna, 1889, p. 178, n. I. Cfr. lalettera di Salvatore Morelli al Mazzini, pubbl. nel Popolo d’I-talia di Napoli, il 27 settembre 1865, con l’appello a Mazzini,perché convochi «un gran concilio di tutti i liberi pensatori delmondo» e formuli il «nuovo vangelo, il vangelo civile, il vange-lo della scienza», in A. ROMANO Storia del movimento sociali-sta in Italia, I, Milano, 1954, p. 142. E per il progetto Ricciardidi un anteconcilio di liberi pensatori in Napoli, ivi, p. 309.

681 Discorsi Parlamentari, I, p. 299. E cfr. le sue dichiarazionidi non voler esagerare il positivismo, per non snaturarne il ca-rattere e cadere in una nuova metafisica, di non voler distrug-gere o menomare il sentimento religioso e le sue preoccupazio-

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ni di fronte alla corsa ai «puri godimenti materiali», conseguen-za della negazione assoluta di ogni spirito religioso, (ib., I, pp.810-811 e 300-301). Sella distingue fra la religione e la «tiran-nia», la «violenza» religiosa, che hanno atrofizzato lo svilupposcientifico (ib., p. 827 sgg.).

682 ALFIERI, L’Italia liberale, cit., p. 217.683 La politica della Destra, cit., p. 302.684 Son cose note: pure non è inutile rammentare come il

grande storico di Roma antica riuscisse personalmente osticoai più per la sua burbanza (GUICCIOLI, Diario, nella NuovaAntologia del 1° agosto 1935, p. 431: e cfr. anche l’aneddotonarrato dal CROCE, Intorno al giudizio del Mommsen su Cice-rone, in Quaderni della Critica, n. 6, novembre 1946, p. 68).E quanto mordace potesse riuscire, ingiustamente, anche ver-so i suoi connazionali, anche verso un uomo come il Gregoro-vius, dimostra (aneddoto narrato dal BÜLOW (Memorie, cit.,IV, pp. 333-34). Nessuno poteva allora immaginarsi il Momm-sen del codicillo al testamento (G. PASQUALI, Il testamento diTeodoro Mommsen, in Rivista Storica Italiana, LXI, 19-19, p.337 sgg).

685 «Da quel che ritraggo, noi ci precipiteremo su la cittàdi Roma, se il diavolo vorrà che ne siano aperte le porte. Equesto è probabile. Ci precipiteremo, chiudendo gli occhi alleenormi spese, al pericolo dell’avvenire ed ai tanti disordini chesi incontreranno, fisici e morali, nei sette colli. Sia che si voglia,(andare a Roma oggi è necessità ineluttabile» (al marchese DeGregorio, 14 settembre ’70: Carteggio, cit., II, p. 197).

686 A. P. Senato, pp. 125-26. Argomentazione press’a pocosimile nel discorso di Antonio Scialoja, pure polemico controJacini, ib., p. 1-11.

687 Lo osservava, giustamente, il GUICCIOLI (Diario, in Nuo-va Antologia, 16 luglio 1935, p. 222).

688 Cfr. CROCE, Storia della storiografia italiana nel secolodecimonono, cit., I, p. 113, sgg.

689 L’espressione, felicissima, è del SALVATORELLI, Pensie-ro e azione del Risorgimento, cit., p. 156. Cfr. anche L. GINZ-BURG, La tradizione del Risorgimento, in Aretusa, II, (1945), n.8, p. 16 e soprattutto A. M. GHISALBERTI, Popolo e politicanel ’49 romano, estr. dal vol. Giuseppe Mazzini e la Repubblica

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Romana, Roma, 1949, soprattutto p. 11 sgg., che ha molto be-ne colto il trapasso, per opera di Mazzini, dal problema pura-mente locale, romano, al termine ideale, di Roma centro di unanuova Italia, anzi di una nuova umanità.

690 L’espressione è del Cattaneo (l. c.), che è appunto la piùsignificativa prova del pieno rivivere dell’idea di Roma grazieal ’48. E cfr. il Carducci «quell’eroica gioventù democraticadel quarantotto e del quarantanove, la quale si tolse in manol’onore e l’avvenire d’Italia e lo si strinse al cuore in Roma e inVenezia» (A commemorazione di Goffredo Mameli, Opere, VII,p. 439).

691 Cfr. KAEGI, Historische Meditationen, cit., I, p. 273 sgg.,284-85.

692 È osservazione giustissima di D. ZANICHELLI, Studi po-litici e storici, Bologna, 1893, p. 500.

693 La Perseveranza del 15 ottobre e del 27 settembre 1870.694 La caduta del potere temporale, ib., 18 settembre ’70.695 Cfr. L. Russo, Francesco De Sanctis e la cultura napoletana

(1860-1885), Venezia, 1928 p. 302 sgg. [3ª ed., Firenze, 1959.N.d.E.].

696 La Perseveranza, nell’articolo cit., del 27 settembre ’70.697 Cfr. il mio art. L’idea di Europa, in La Rassegna d’Italia,

II, 4 (aprile 1947), p. 11 sgg.698 Cfr. la lett. al duca di Dino, 16 aprile ’51. Lettere, V, p.

230, e RUFFINI, Ultimi studi sul conte di Cavour, cit., pp. 22 23e 54-55.

699 Lo osservò, con grande acutezza, il DE SANCTIS, nelDiscorso alla Camera del 1° luglio 1864 (La Critica, XI, 1913, p.147). Perciò, egli si dichiarò poi contro la formula della «libertàdella Chiesa«, che era formula da partito conservatore (discorsodell’8 luglio 1867, ib., p. 311 sgg.).

700 U. PESCI, I primi anni di Roma capitale 1870-1878, Firen-ze, 1907, p. 506.

701 Discorso alla Camera del 14 maggio 1872 (A. P., Camera,pp. 2118-19); e cfr. L’Opinione, 17 settembre 1874 (LaConciliazione).

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702 Questo raccontò il Visconti Venosta all’inc. d’affari fran-cese, de Sayve (r. de Sayve, 5 marzo 1872, n. 27; AEP, C. P.,Italie, t. 384, ff. 217-217 v.).

703 Noailles, 9 marzo 1875, n. 18; AEP, C. P., Italie, t. 391, f.253 sgg.

704 Amari a Renan, 23 aprile 1873 (Carteggio, cit., II, p: 2121.E cfr. la risposta di Renan, anche lui d’accordo che un Papaalla Benedetto XIV sarebbe stata la peggiore delle soluzioni, euna conciliazione la estrema sventura (ib., p. 213). Concettianaloghi l’Amari svolge allo Hartwig, nel 1878, dopo l’elezionedi Leone XIII: «... la così detta conciliazione è impossibile;e se nol fosse mi spaventerebbe» (ib., p. 236); e ancora nel1887, rallegrandosi per il fallimento delle trattative del padreTosti (ib., p. 305): il preteso successore di San Pietro stia dov’è«finché la civiltà sciolga da quella pastoia le chiese nazionali»e separi il concetto religioso «da tutti gli incantesimi antichi emoderni».

705 Cfr. W. MATURI, Prefazione a BONGHI, Stato e ChiesaI (Opere, XII), Milano, 1942, p. xxv. E cfr. il discorso delBonghi alla Camera, il 29 aprile 1872 (Discorsi Parlamentari, I,p. 392).

706 Discorso del 13 marzo ’72 (A. P., Camera, p. 1183). Sullaconcordia spontanea, effetto della libertà della Chiesa, fra Statoe Chiesa, cfr. anche il discorso Minghetti alla Camera, il 30gennaio 1871 (Discorsi Parlamentari, V, p. 146).

707 La politica della Destra, cit., p. 183 sgg.; e cfr. P. RO-MANO (pseud. di P. ALATRI), Silvio Spaventa, Bari, 1942, p.261 sgg. Per la dichiarazione del Cavour, sulla fine dell’èra deiconcordati, le istruzioni al Passaglia e al Pantaleoni il 21 feb-braio 1861 (La questione romana negli anni 1860-61. Carteggiodel conte di Cavour, I, p. 313); e cfr. A. OMODEO, Cavour e laquestione romana, cit., p. 406.

708 Il Visconti Venosta lo ripeté ancora al De Laveleye, in unaconversazione nell’autunno 1883 (DE LAVELEYE, NouvellesLettres d’Italie, Milano-Bruxelles, 1884, p. 146).

709 Lo scrisse solo più tardi il 9 ottobre da Vienna al ViscontiVenosta aggiungendo: «Oggi non sarebbe più opportuno, puremanovrando abilmente nella Corte Pontificia si potrebbe riu-scire a ciò che il Papa ricevesse il Re anche col patto di non par-lare di nulla, solo come principe cattolico. In tal caso bisogne-

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rebbe premettere questa cerimonia all’altra dell’entrata solen-ne in città. Ma badate bene che a lungo non potrete impedirla.Bisogna guardare in faccia questa difficoltà e apparecchiarsi arisolverla» (ARCH. VISCONTI VENOSTA). Al Minghetti quelpensiero era nato «dall’indole nota del Papa».

Il Blanc, nella sua missione a Roma dopo il Venti Settembre,tentò di sondare il terreno presso la S. Sede, dicendo al card.Antonelli che il Re si era astenuto per delicatezza dal mandarespressamente dal Pontefice un personaggio, ma se il cardinaleriteneva che a Pio IX non dispiacesse ricevere un inviato regio,Vittorio Emanuele gli avrebbe inviato subito uno dei suoi mi-nistri «essendo suo vivissimo desiderio fare ogni cosa possibileper rendere la situazione meno penosa per Sua Santità». L’An-tonelli rispose che era preferibile astenersi, «l’invio d’un mini-stro o altro personaggio espressamente mandato non potendoattualmente che accrescere le difficoltà» (r. Blanc, 26 settem-bre 1870; AE, Libro Verde, riservato, Roma. Settembre-ottobre1870. Documenti, Roma, tip. di Gabinetto del min. Esteri,1895, n. 3, p. 9). Di fatto, non furono ricevuti né il marche-se Spinola, né più tardi, nel giugno 71, il generale Bertolé Viale(MONTI, Vittorio Emanuele II, cit., pp. 390-91).

710 Anche il La Marmora dichiarava (a Vittorio Emanuele)che «il Re d’Italia non può, massime dopo quanto è avvenuto,andarsi a inginocchiare davanti al Pontefice»; ma poiché egliriteneva pure che «tanto meno» il Re poteva entrare in Roma«come un conquistatore trattando il capo della cattolicità dal-l’alto in basso», così sconsigliava il trasferimento della capitalea Roma, almeno finché vivesse Pio IX (in PALADINO, op. cit.,p. 202).

711 Dichiarazioni alla Camera del 19 agosto 1870: «può darsi... che la via seguita dalla nostra politica [gradualismo] sialunga; rimane a vedere se ce ne sia un’altra più breve, o se vesiano di quelle che possano chiamarsi tali soltanto perché dopobreve tratto conducono all’abisso» (A. P., Camera, p. 4027).

712 Dichiarazioni Visconti Venusta alla Camera, genaio 1873A. P., Camera, p. 6196).

713 Lo osserva ancora lo ZANICHELLI, Monarchia e Papatoin Italia, cit., pp. 99 e 197.

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714 Discorso [di Giuseppe Toscanelli] alla Camera ... 23 genna-io 1871 ... contro il progetto di legge [sulle Guarentigie], Firenze,1871, p. 40.

715 Così il RUFFINI «specie di atarassia ecclesiastica, in cui sitrovò piombata la Destra, dopo il gran salto della legge delleGuarentigie, e che io non saprei significare se non dicendo allabuona, che era come il senso di pavido smarrimento di chipensa di averla fatta proprio grossa» (L’elezione popolare deiparroci, in Scritti giuridici minori, Milano, 1936, I, p. 341).

Il senso di averla fatta grossa c’era; ma il giudizio del Ruffiniè poi troppo severo, e troppo calcato sulle diatribe del Mancini,a lui molto caro, a proposito della questione dell’exequatur (siveda infatti l’altro studio del RUFFINI, L’Exequatur alla nominadei vescovi, ib., I, p. 329 sgg.). Quanto al FALCO egli dauna parte constata la contraddittorietà, le incertezze, gli erroridella politica ecclesiastica dei moderati che avrebbe fallito alsuo compito; e d’altra parte riconosce «l’eccellenza» dell’ideapolitica che essa seguì (La politica ecclesiastica della Destra,Torino, 1914, pp. 33-34).

716 Così GINO CAPPONI, Lettere, cit., IV, pp. 259-60. E cfr.anche pp. 264, 266, 272.

717 Nel discorso Jacini al Senato il 23 gennaio 1871 (A. P.,Senato, pp. 119-20). Concetti simili nel discorso Toscanelli allaCamera sullo stesso argomento.

718 È sintomatico, al riguardo, l’atteggiamento del Minghettiil quale, di fronte al movimento dei Vecchi Cattolici in Germa-nia, da lui attentamente seguito, riteneva «per lo meno proble-matico» il suo avvenire, in senso positivo, ma «gravi» i suoi ef-fetti in senso negativo «perché distaccherà molti altri spiriti daRoma e renderà ancora più ostili le classi dotte al Pontificato»(Carteggio Minghetti-Pasolini, cit., IV, p. 200).

719 Sia il Lambruschini che il Ricasoli, a differenza di un PieroGuicciardini, furono infatti avversi alla propaganda protestantein Italia e alle «conversazioni»: cfr. A. GAMBARO, Riformareligiosa nel carteggio inedito di Raffaello Lamhruschini, Torino,1926, I, pp. CLXXVIII-CLXXIX e II, p. 242; Carteggi diBettino Ricasoli, ed. Nobili-Camerani, III, cit., p. 461. IV,Roma, 1947, pp. 83-84.

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720 Così si battezzò il Ricasoli stesso (Carteggi, II, Bologna,1940, p. 15). Per il romito di San Cerbone, ib., I, Bologna,1939, p, 120.

721 Come sia stato decisivo l’influsso del Lambruschini sul Ri-casoli, dimostra ora con tutta evidenza l’edizione completa deiCarteggi: sino al 1837, e cioè sino al conoscersi dei due (l’iniziodell’intimità, col trapasso dal voi al tu, è fra ottobre-novembredel ’38,Carteggi, I, pp. 137-39, 266), le preoccupazioni cultura-li del Ricasoli sono essenzialmente di agricoltura e scienze natu-rali e tecniche, oltreché s’intende di cultura generale e di politi-ca, con un accentuato interesse ai problemi educativi man ma-no che la piccola Bettina cresce; e lo dimostrano le ordinazio-ni di libri, ib., I, pp. 8, 11, 16, 19, 21, 40, 59-60, 66, 71, 74.Dopo comincia l’interesse per i problemi religiosi, che rapida-mente sale ad un diapason altissimo; e comincian le ordinazio-ni anche di libri che trattino problemi religiosi, ib., I, pp. 278,374-75.

722 Cfr. FALCO, La politica ecclesiastica della Destra, cit., p.14. Ma cfr. soprattutto, per tutto l’atteggiamento del Ricasoli,A. C. JEMOLO, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni,Torino, 1948, p. 272 sgg. [5ª ed. Torino, 1963. N.d.E.].

E si veda anche la lett. 15 giugno 1865 a F. Della Valle diCasanova: «Roma col suo sillabo, Roma papale ... corre pelsuo pendio con acceleramento di moto. Noi ascendiamo peraltro pendio con moto lento ed ancor penoso, ma sicuro, checi porterà alla mèta ... laddove l’altro ... dovrà cadere infinenell’abuso da lui stesso scavato» (in B. CEVA, Un carteggioinedito di Bettino Ricasoli, in Nuova Rivista Storica, XXIV,1940, pp. 6-7 dell’estratto).

723 Lettere e documenti, X, p. 139 (A Giuseppe Pasolini, 4ottobre 1870).

724 Ib., p. 147 (A Francesco Borgatti, 2 novembre 1870).725 Ib., p. 130 (A Francesco Borgatti, 17 dicembre 1870).726 Cfr. l’interpretazione del Lambruschini della formula

Libera Chiesa in Libero Stato, GAMBARO, op. cit., I, pp.CDXIV-CDXV.

727 Lambruschini a Ricasoli, 3 novembre 1842 (Carteggi, I, p.307).

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728 La lett. del Ricasoli al can. Parronchi, di grande interesse,in Carteggi, I, p. 321 sgg.

729 Lettera al canonico Parronchi sopra cit.; e cfr. GENTILE,Bettino Ricasoli e i rapporti fra Stato e Chiesa, in Gino Capponie la cultura toscana nel secolo decimonono, cit., p. 61 sgg., AGOTTI, Vita del barone Bettino Ricasoli, Firenze, 1895, pp.22, 27 sgg., 36, 38 sgg.

730 Così egli pensava fin dal 1860, lett. al Borgatti, 19 dicem-bre 1870 (Lettere e documenti, X, p. 203).

731 A Celestino Bianchi, 23 gennaio 1873 (Lettere e documentiX, p. 277).

732 «Tra le cose che si vogliono fare pel rumore delle parole,dubito che debba essere questa grande Università Romana, do-ve il Governo si getta a corpo perduto, spendendo tesori, e pre-giudicando alle altre Università del Regno. Se c’era Universitàda sopprimersi, era quella di Roma; o altrimenti trattarla cometutte le altre» (Lett. al Bianchi sopra cit.). Contro la centraliz-zazione, Carteggi, III, pp. 402, 417-20, IV, pp. 33-34.

733 Lett. al Borgatti, 2 novembre 1870 (Lettere e documenti,X, p. 147).

734 Che ne faceva altissimo conto, tanto da porlo col Bismarckfra le personalità di eccezioni (cfr. R. W. SETON-WATSON,Die südslavische Frage im Habsburger Reiche, trad. ted., Berli-no, 1913, p. 136. Ivi p. 144 sgg., sulle amicizie europee delloStrossmayer; e pp. 589-630, la sua corrispondenza con Glad-stone, fra 1876 e 1886. E cfr. lett. Strossmayer 22 settembre1873, che a favore dell’Italia, alla principessa Troubezkoï, ma –per Thiers, in D. Halévy, Le courrier de M. Thiers, Parigi, 1921p. 485 sgg.).

735 CASTAGNOLA, Diario, cit., p. 133 (23 gennaio 1871).Il memoriale sosteneva che l’Italia non doveva privarsi di ogniingerenza nella nomina dei vescovi, ma rinunziarla «ai Capitoli,ai parroci ed ai fedeli più specchiati». Tale idea «è bene accettaalla maggioranza del Consiglio». Secondo il Castagnola, ilmemoriale era del «segretario» dello Strossmayer: in realtà,doveva esser stato presentato da mons. Vorsak (cfr. quiappresso), a nome dello Strossmayer. Questo spiega comeil WICKHAM STEED, che conosceva assai bene il ViscontiVenosta, potesse affermare che nell’elaborazione della leggedelle Guarentigie il nostro ministro degli Esteri aveva chiesto

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il parere dello Strossmayer (Mes souvenirs, 1892-1914, trad.franc., Parigi, 1926, I, p. 106).

736 Mons. Strossmayer il Minghetti e il Visconti Venosta sivedevano a Roma, quando il vescovo ci andava (così, nell’in-verno 1871-72); il Minghetti si recò a fargli visita, a Graz, il 25giugno 1872. Altrimenti, fungeva da intermediario, a Roma,mons. Vorsak, che abitava in via Ripetta 108. Ora, il 12 maggio[1872], lo Strossmayer prega il Vorsak di dire al Minghetti e alVisconti Venosta, ma solo a loro due, ch’egli, dovendo recar-si a Parigi dove Thiers e Rémusat desiderano vederlo, è pron-to ad operare a Parigi ed a Versailles «in quel medesimo senso,che fu stabilito da noi a Roma; giacché sempre più e più vengopersuaso, essere di immensa importanza nei tempi d’oggi, cheil futuro Pontefice sia uomo moderato ed alla pace amico». Nelcolloquio col Minghetti, a Graz, la questione del futuro concla-ve è ampiamente discussa: Minghetti dice che il vescovo deveinsistere, con i politici francesi, su «questi punti principalissimicioè che Roma offre la sola sede conveniente a tenervi il con-clave... e che il governo italiano è perfettamente al caso di ga-rantirne la sicurezza e la libertà». Comunque, mons. Vorsak,prima di partir da Roma per accompagnar lo Strossmayer a Pa-rigi, si recherà dal Visconti Venosta, che potrà fargli le comu-nicazioni che riterrà. Della questione il Minghetti parla poi aMonaco, con il Döllinger, in rapporti con lord Acton, proprioallora pregato dal governo inglese di esprimere le sue opinio-ni circa un eventuale conclave e a sua volta rivoltosi al Döllin-ger: la questione era allora discussa fra i vari governi, e per es-sa il Minghetti s era, appunto, recato a Vienna, per «confide-niziale incarico» del Visconti Venosta, a parlar con l’Andrássy,facendo poi la visita – segreta – allo Strossmayer (ll. pp. Min-ghetti a Visconti Venosta, 29 giugno e 9 luglio 1872. BCB,CarteMinghetti, cart. LXXXIII, fasc. b, lett. n. 3 e 6).

737 Stossmayer a monsignor Vorsak, nella lett. già citata del12 maggio [1872]: «... penso esser desiderabile ed esce di ne-cessità pei più importanti interessi europei, che l’elemento lati-no si metta poco a poco in intelligenza coll’elemento slavo, im-perocché fa d’uopo di frastornare recisamente l’elemento ger-manico dal mare Adriatico e Mar Nero, il che solamente effet-tuar si può, rinforzando, incoraggiando l’elemento slavo e ri-scattandolo dal giogo che ne opprime una grati parte. Altri-menti l’Europa ... dovrà chinar la testa sotto ... la suprema-

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zia germanica». Tali cose il Vorsak doveva ripetere al Minghet-ti e al Visconti Venosta (BCB, Carte Minghetti, cartone LXX-XIV, fast. III c). E cfr. anche l. Vorsak a Visconti Venosta,del 4 maggio 1872, per comunicargli lett. dello Strossmayer del29 aprile, nella quale il vescovo conferma l’antica sua opinione«poter e dover noi e gli Italiani un tempo diventare vicini e fra-telli, che concordemente avremo da difendere contro un terzola nostra indipendenza ...» (ACR, Carte Visconti Venosta, pacco5, fasc. 4).

738 Memoriale Strossmayer, per il Minghetti, Roma, 20 gen-naio 1872 (BCB, Carte Minghetti, cart. LXXXIV, fase. III, g).

739 Estratto di lett. Strossmayer [a mons. Vorsak], ricevutas Roma il 15 luglio [1871], comunicato al Visconti Venosta,con cui lo Strossmayer si riserva di parlare, alla sua venuta aRoma, l’inverno prossimo (ARCH. VISCONTI VENOSTA). Perquesta idea fissa dello Strossmayer, di ricreare cioè una «chiesauniversale», ponendo fine al predominio italiano, cfr. in genereSETON-WATSON, op. cit., p. 144; e LOISEAU, La politique deStrossmayer, in Le Monde Slave, n. s., IV (1927), p. 394.

740 Il Blanc lo disse perfino al card. Antonelli, in un collo-quio il 3 ottobre 1870. Il cardinale osservava che il Ponteficenon poteva dimenticare di essere stato spogliato dei suoi do-minii; il Blanc rispondeva convenendo «... essere cosa som-mamente delicata, anzi necessariamente penosa, una trasforma-zione inevitabile delle condizioni di un potere sovrano, anchequando tale trasformazione può inaugurare un’éra di grandez-za novella. Ricordavo che quando Re Carlo Alberto abbando-nava al suo popolo parte delle prerogative dell’antica sovranità,molti reputavano essere questa una spogliazione ben più graveche non quella di qualche territorio, poiché restringeva l’eserci-zio dell’essenza stessa della suprema potestà; non pertanto, colrestituire al suo popolo l’uso dei propri diritti, la Casa di Savo-ia si rese atta a compiere gli alti destini cui la chiamava la di-vina Provvidenza. Altrettanto fortunato abbandono può esse-re ora pel papato quello dell’amministrazione di territori i qua-li, dividendo l’Italia e mantenendo un funesto antagonismo frala Chiesa ed i popoli, impedivano che la suprema autorità spi-rituale si esercitasse con quella pienezza di splendore e di uni-versale consenso che le è dovuta ... Sua Eminenza mi rispo-se che, quantunque apprezzasse i sentimenti da cui ero mosso,pure non poteva riconoscere una somiglianza tra il mutamento

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delle costituzioni interne di uno Stato e lo spodestamento delPrincipe stesso» (r. Blanc, 3 ottobre ’70; Libro Verde riservatoRoma, cit., n. 9, p. 15).

741 Discorso alla Camera del 19 agosto 1870 (Discorsi Parla-mentari, III, pp. 373-74).

742 SETTEMBRINI, Epistolario, 2ª ed., Napoli, 1894, pp. 261,283. Che cosa il Settembrini intenda per «riformare» il Cristia-nesimo (espressione che formalmente parrebbe simile a qui ladel Ricasoli), risulta dal suo affermare che la nuova idea, la nuo-va religione che l’Italia prepara, mostrerà al mondo «che il granlibro non è la Bibbia ma la ragione».

743 Così il Renan all’Amari, sin dal 1865 (Carteggio di M.Amari, cit., II, pp. 187-88; e cfr. anche RENAN, Correspon-dance, 1872-1892, p. 27).

744 L’espressione vecchio cancro è usata anche dall’Amari,politicamente militante con la Destra (Carteggio, cit., II, pp.232-233).

745 Che lo affermò sin dal ’64 (LIONE, op. cit., p. 195).746 Un accenno a questo, in MICHELET, La France devant

l’Europe, cit., p. 47.747 Cfr. Part del TREITSCHKE, Libera Chiesa in libero Sta-

to, nei Preussische Jahrbücher, XXXVI (I875), pp. 236-37 e, giàprima, il discorso al Reichstag del 23 novembre 1871 (in FEDE-RICI, op. cit., pp. 342-43). E anche O. HARTWIG, Italien undRom, ib.; XXIX (1872), p. 194 e la Politische Correspondenz delfebbraio 1872, ib. XXIX, p. 247.

748 Art. della Kreuz-zeitung, 19 giugno 1871 (cfr. K. BA-CHEM, Vorgeschichte, Geschichte und Politik dee deutschenZentrums-partei, III, Colonia, 1927, p. 218; EYCK, Bismarck,cit., III, p. 87).

749 «L’Italia che oggidì ha comune con la Germania la gloriadi rappresentare la Civiltà in lotta col Papato» MARSELLI, LaRivoluzione parlamentare del marzo 1876, cit., p. 118. Il Mar-selli era accanito avversario di ogni accordo col cattolicesimo;bisognava invece «ritrovare la forza o per sottoporre il Papato,obbligandolo a trosformarsi, o per liberarcene, obbligandolo ademigrare» (ib., pp. 103-104, 125-27).

750 Nell’annuale della fondazione di Roma è dell’aprile 1877.

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Federico Chabod - Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896

751 Renan ad Amari, nel ’73 (RENAN, Correspondance, 1872-1892, p. 46; anche, ma abbreviata, in Carteggio di M. Amari, II,p. 214).

752 Correspondance, IV, pp. 48, 55 sgg.753 Correspondance, IV, p. 47.754 Nella conferenza Les services que la science rend au peuplé

(in Mélanges religieux et historiques, Parigi, 1904, p. 149). Lascienza avrebbe migliorato il mondo, facendone il regno dellospirito, il regno degli uomini liberi.

755 REVAN-BERTHELOT, Correspondance, p. 467.756 «Je n’avais pas compris ce que c’est qu’une religion popu-

laire, pese bien naivement et sans critique par un peuple; je n’a-vais pas compris un peuple créant sans cesse en religion, pre-nant ses dogmes d’une façon vivante et vraie. Ne nous fai-sons pas illusion, ce peuple est aussi catholique que les Ara-bes de la mosquée sont musulmans. Sa religion c’est la reli-gion; lui parler contre sa religion c’est lui parler contee un in-térêt qu’il sent enlui-même, tout aussi réellement que tel autrebesoin de la nature» (a Berthelot, da Roma, 9 novembre 1849,RENAN-BERTHELOT, Correspondance, p. 43 e cfr. p. 54: «lecatholicisme est l’âme même de ce pays; le chatolicisme est aus-si nécessaire à ce pays que la liberté, la démocratie ... l’est aunôtre»).

757 Correspondance, 1872-1892, pp. 15, 24, 27, 131. E cfr.Carteggio di M. Amari, II, p. 213.

758 Ib., p. 26 (1872) e cfr. p. 141: «Gomme j’aime beaucoupl’Italie, et pour elle-même et pour les services de premier ordrequ’elle rend á l’esprit humain» (1878). L’unità d’Italia e il benedella civiltà gli paiono indissolubili (ib., p. 130).

759 Ib., p. 215 sgg.760 Si veda il pittoresco resoconto di Renan a Berthelot,

RENAN-BERTHELOT, Correspondance, pp. 450-51. Cfr. Vingtjours en Sicile, in Oeuvres compl., II, pp. 383-84.

761 Cfr. anche lo scritto di due illustri docenti nelle Universi-tà di Palermo e di Roma, P. BLASERNA e C. TOMMASI CRU-DELI, L’Università di Roma. Pensieri di alcuni direttori di stabi-limenti scientifici italiani, Roma, 1871, pp. 17-18.

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762 Per le dichiarazioni del Crispi, che si rifà espressamenteal Sella, in Senato, il 17 luglio 1890, Discorsi Parlamentari di F.Crispi, III, p. 584. Anche per l’Accademia dei Lincei Crispisi mosse sulle orme di Sella; e il Sella lo ringraziò nel febbraio1878, per la benevolenza dimostrata verso l’Accademia, comeministro dell’Interno, e per il consiglio dato da lui e dal Coppi-no, e seguito da Umberto I «di mostrare favore alle scienze, allelettere, alle arti», onde il primo od uno dei primi atti personalidel nuovo Re era stata l’istituzione del Premio Reale (Carteggipolitici inediti di F. Crispi, cit., pp. 355-56).

763 Così il relatore Arcoleo, nel difendere il progetto di leggeche era stato vivamente attaccato dai senatori Croce, Garofalo,Lanciani, Comparetti, Del Giudice (seduta del 30 maggio 1913,A. P., Senato, p. 11238). E cfr. già nella relazione Arcoleo aldisegno di legge, p. 6; a Roma la scienza «ha l’alto dovere dicombattere e sostituire il dogma» (Documenti, n. 879 A). Inentrambi i casi, Arcoleo si richiama a Sella.

764 La missione dell’Italia, cit., p. 281 sgg.765 La Riforma, 20 settembre 1871 (Il 20 settembre).766 Così [L. G.], Le prisonnier du Vatican. L’Italie, la France

et la Prusse, Roma, 1872, p. 106.767 Ib., 26 luglio 1872 (Ancora dell’attentato di Spagna).768 Discorso elettorale del 14 ottobre 1865 (Scritti e discorsi

politici, cit., p. 458).769 GARIBALDI, Scritti e discorsi politici e militari, cit., III, p.

99 sgg. L’appello fu scritto dal Cairoli (ROSI, I Cairoli, cit., I,p. 245).

770 Lettera a C. Blind, 28 marzo 1875 (GARIBALDI, Epistola-rio, ed. Ximenes, II, Milano, 1885, p. 102).

771 Il 14 giugno 1875 (Scritti, cit., pp. 153-54).772 Così l’on. Mellana, nella seduta alla Camera del 15 maggio

1872 (A. P., Camera, p. 2131).773 Non ingiustamente osservava il TOMMASEO che «quan-

d’anco fosse cosa morale il mutare la coscienza del popolo ita-liano, il figurarsi di poterla mutare dicendo, dal Compidogliodelle impertinenze contro i cardinali o cosa simile, non è conse-guenza necessaria di cotesta moralità» (Roma e l’Italia nel 1850

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