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LEuropa centro-orientale nella politica dellItalia fascista Sergio Lavacchini Il lavoro intende porre laccento sulle potenzialità espresse dallItalia tra il 1919 ed il 1939 nella rea- lizzazione di un progetto di espansione economica nellarea danubiano-balcanica. A partire dagli anni venti lintervento italiano nellarea solleva a più ri- prese la preoccupazione di Francia e Gran Bretagna che vedono nellItalia una temibile e astuta concor- rente da tenere sotto controllo, un timore che si dis- solverà nella seconda metà degli anni trenta quando la Germania rientrerà con prepotenza nei suoi mer- cati naturali dell 'Europa centro-orientale facendo ar- restare irrimediabilmente liniziativa italiana. Con il consolidamento del regime fascista, questultima perderà il carattere economico-fmanziario per assu- mere prevalentemente un carattere politico. I soggetti economici coinvolti in tale progetto van- no dallindustria meccanica allindustria cantieristi- ca, da quella aeronautica a quella estrattiva e di raf- finazione degli oli. Sono tuttavia anche i singoli im- prenditori di piccole e medie imprese a confermare, con le loro iniziative, il disegno di espansione eco- nomica voluto dal regime. La Banca dItalia e in par- ticolare la Banca commerciale italiana si adoperano per creare le condizioni affinché venga realizzata una zona economica a guida italiana. Per la prima volta lItalia si troverà a sperimentare nuovi strumenti per promuovere lintervento italiano nellarea in questione, tra i quali ricordiamo, oltre a un buon sistema propagandistico, la creazione di Isti- tuti di cultura italiana e di servizi d informazione eco- nomico-finanziaria attraverso listituto nazionale per lesportazione, lallestimento di corsi di specializza- zione per tecnici ed ingegneri nelle fabbriche italia- ne con lintento di indurli a preferire la tecnologia ita- liana negli stabilimenti del paese dorigine. This work examines thè efforts made by Italy from 1919 up to 1939 in arder to expand its economie presence in thè Danubian and Balkan areas. Since thè Twenties thè Italian penetration causedfrequent concern to France and Great Britain, which con- sidered Italy a formidable and cunning competitor to be held at bay afear that was to fade away in thè second halfofthe Thirties, when Germany reap- pearedforcefully on thè scene of its naturai markets of Central and Eastern Europe blocking thè Italian initiative, that by that time had however turned in- creasingly politicai rather than economie and fi- nancial in character, as a resulto/thè consolidation of thè Fascist regime. The economie actors involved in this expansion Pro- ject spanned from engineering to shipbuilding in- dustry,from aeronautics to mining and oil refining, with thè active presence ofsmall and medium con- cerns giving significant support to thè efforts ofthe regime. The Bank of Italy and especially thè Banca Commerciale Italiana did their best to lay thefoun- dations ofan Italy-led economie zone. For thefirst time Italy happened to experiment with new means for backing up thè Italian intervention in that area, such as a sound propaganda System, thè creation ofinstitutesfor Italian culture and agen- ciesfor economie andfinancial information (thè lat- tee ones through thè National Institute for Foreign Trade), thè organization of vocational training courses for foreign engineers and other technical personnel in thè Italian factories with a view of favouring thè export of Italian technology. Italia contemporanea, marzo 2003, n. 230

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L’Europa centro-orientale nella politica dell’Italia fascistaSergio Lavacchini

Il lavoro intende porre l’accento sulle potenzialità espresse dall’Italia tra il 1919 ed il 1939 nella rea­lizzazione di un progetto di espansione economica nell’area danubiano-balcanica. A partire dagli anni venti l’intervento italiano nell’area solleva a più ri­prese la preoccupazione di Francia e Gran Bretagna che vedono nell’Italia una temibile e astuta concor­rente da tenere sotto controllo, un timore che si dis­solverà nella seconda metà degli anni trenta quando la Germania rientrerà con prepotenza nei suoi mer­cati naturali dell 'Europa centro-orientale facendo ar­restare irrimediabilmente l’iniziativa italiana. Con il consolidamento del regime fascista, quest’ultima perderà il carattere economico-fmanziario per assu­mere prevalentemente un carattere politico.I soggetti economici coinvolti in tale progetto van­no dall’industria meccanica all’industria cantieristi­ca, da quella aeronautica a quella estrattiva e di raf­finazione degli oli. Sono tuttavia anche i singoli im­prenditori di piccole e medie imprese a confermare, con le loro iniziative, il disegno di espansione eco­nomica voluto dal regime. La Banca d’Italia e in par­ticolare la Banca commerciale italiana si adoperano per creare le condizioni affinché venga realizzata una zona economica a guida italiana.Per la prima volta l’Italia si troverà a sperimentare nuovi strumenti per promuovere l’intervento italiano nell’area in questione, tra i quali ricordiamo, oltre a un buon sistema propagandistico, la creazione di Isti­tuti di cultura italiana e di servizi d ’ informazione eco- nomico-finanziaria attraverso l’istituto nazionale per l’esportazione, l’allestimento di corsi di specializza­zione per tecnici ed ingegneri nelle fabbriche italia­ne con l’intento di indurli a preferire la tecnologia ita­liana negli stabilimenti del paese d’origine.

This work examines thè efforts made by Italy from 1919 up to 1939 in arder to expand its economie presence in thè Danubian and Balkan areas. Since thè Twenties thè Italian penetration causedfrequent concern to France and Great Britain, which con- sidered Italy a formidable and cunning competitor to be held at bay — afear that was to fade away in thè second halfofthe Thirties, when Germany reap- pearedforcefully on thè scene of its naturai markets of Central and Eastern Europe blocking thè Italian initiative, that by that time had however turned in- creasingly politicai rather than economie and fi- nancial in character, as a resulto/thè consolidation of thè Fascist regime.The economie actors involved in this expansion Pro­ject spanned from engineering to shipbuilding in- dustry,from aeronautics to mining and oil refining, with thè active presence ofsmall and medium con- cerns giving significant support to thè efforts ofthe regime. The Bank of Italy and especially thè Banca Commerciale Italiana did their best to lay thefoun- dations ofan Italy-led economie zone.For thefirst time Italy happened to experiment with new means for backing up thè Italian intervention in that area, such as a sound propaganda System, thè creation ofinstitutesfor Italian culture and agen- ciesfor economie andfinancial information (thè lat­tee ones through thè National Institute for Foreign Trade), thè organization of vocational training courses for foreign engineers and other technical personnel in thè Italian factories with a view of favouring thè export of Italian technology.

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La nuova Europa

Al termine del primo conflitto mondiale le re­gioni dell’Europa centro-orientale presentava­no un inedito assetto politico-geografico. Nuo­ve realtà statuali erano sorte dal defunto Impe­ro austroungarico e immensi territori caratteriz­zati da diverse culture, religioni ed etnie si pre­sentavano, in un certo senso, al mondo per la prima volta. Nessuno dei paesi di cui ci occu­peremo in questo saggio era soddisfatto delle frontiere assegnategli dai trattati di pace1. Ognu­no, a suo modo, trovava il pretesto economico, sociale, geografico o linguistico per rivendica­re territori vicini nel nome di un “sano” e ago­gnato nazionalismo. La guerra aveva effettiva­mente aumentato le aspettative nazionaliste la­tenti e represse per decenni dal dominio degli Imperi centrali. Nel contempo, per certi versi, l’area in questione si presentava come una ter­ra di nessuno: i capitali occidentali erano stati ritirati frettolosamente e la tendenza era conti­nuata per 1 ’ incapacità delle nuove realtà di infon­dere sicurezza agli investitori stranieri che per­cepivano la precarietà politica e sociale di que­sti nuovi paesi. Questa sensazione era resa an­cor più solida dal timore che dalla vicina Rus­sia il messaggio bolscevico potesse attecchire nei territori degli ex Imperi centrali. Ad aggra­vare la situazione finanziaria dell’Europa cen­tro-orientale stava soprattutto il ritiro dei capi­tali austriaci e tedeschi. I nuovi stati non avreb­bero certo inteso continuare ad avere un’econo­mia diretta dai circoli finanziari degli Imperi cen­

1 Per una completa visione dei cambiamenti territoriali apportati dai trattati di pace al termine delle ostilità si vedano Amedeo Giannini, Saggi di Storia Diplomatica, Istituto per gli studi di politica intemazionale, Firenze, Tip. E. Aria­ni, 1948, pp. 148-155; The Information Department of thè Royal Institute of International Affairs, South Eastern Eu­rope. A Politicai and Economie Survey, Londra, Oxford University Press, 1939. pp. 1-3,14; IvanTibor Berend, Gyorgy Ranki, Lo sviluppo economico nell'Europa centro-orientale nel XIX e XX secolo, Bologna, Il Mulino, 1978, p. 209.2 Cfr. Enzo Collotti, La politica dell’Italia nel settore danubiano-balcanico dal patto di Monaco all'armistizio italia­no, in Enzo Collotti, Teodoro Sala, Giorgio Vaccarino, L'Italia nell’Europa danubiana durante la seconda guerra mon­diale, Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, Quaderni di “Il movimento di liberazione in Italia”, Monza, La tipografia monzese, sd., p. 7.3 Le foreste si trovavano nella regione della Transilvania, passata per i due terzi, secondo il trattato del Trianon del 4 giugno 1920, nei confini della nuova Romania.

trali, meno che mai, poi, i vincitori avrebbero permesso agli sconfitti, e soprattutto alla Ger­mania, alle prese con gli obblighi delle ripara­zioni di guerra, di disporre del controllo econo­mico dei territori perduti2.

Con la ridefinizione dei confini, alcuni di­stretti industriali dell’ex Impero austroungarico vennero smembrati. Sorti vicino alle fonti di ap­provvigionamento della materia prima da sotto­porre a lavorazione, ai giacimenti di minerale da estrarre e ai fiumi per l'utilizzo della forza idrau­lica, era inattuabile l’idea di riattivarli per inne­scare un qualche processo di ricostruzione eco­nomica. Non erano rari i casi in cui la nuova frontiera impediva alla fabbrica che produceva il prodotto finito di ricevere il materiale allo sta­to intermedio della lavorazione, o il carbone estratto a pochi chilometri, necessario a far fun­zionare i macchinari. L’industria tessile era sta­ta spezzata in due: i filatoi che erano situati in Boemia e in Moravia si ritrovarono in Cecoslo­vacchia, mentre l’attività di tessitura era rima­sta concentrata soprattutto a Vienna e nelle sue vicinanze. L’Ungheria fu spogliata di alcune im­portanti materie prime, indispensabili allo svi­luppo delle sue industrie. Le restò, più o meno, circa la metà delle sue attività industriali, inclu­so l’importante centro manifatturiero di Buda­pest; ma perse numerose fonti di materie prime, compresi 1’84 per cento delle foreste3, una per­centuale analoga dei minerali ferrosi, tutto il sa­le, tutti i giacimenti di rame e la maggior parte degli altri metalli non ferrosi, il 90 percento del­l’energia idraulica, e il 30 per cento della ligni­

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te4. La separazione di branche industriali legate un tempo dalla reciproca dipendenza era aggra­vata anche dalla rottura, oltre che della vecchia struttura commerciale, anche delle collaudate li­nee di comunicazione. A questo proposito vale l’esempio della Jugoslavia, che aveva ereditato cinque sistemi ferroviari, con quattro diversi scartamenti. Ogni sistema serviva centri diffe­renti, i quali erano però praticamente separati tra loro.

4 Cfr. Michael Charles Kaser, E.A. Radice (a cura di), The Economie History of Eastern Europe 1919-1975, voi. I, Oxford. Clarendon Press, 1985, pp. 250, 386, 387; Derek H. Aldcroft, Da Versailles a Wall Street, Milano, Etas libri, pp. 125-127; Ivan Tibor Berend, Gyorgy Ranki, Storia economica dell’Ungheria, Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 152; Giuseppe Sztereny, L’economia pubblica ungherese, Roma, Istituto per l’Europa Orientale, 1929, pp. 207-208, 211- 214; Sante Cosentino, Italia e Cecoslovacchia, Bari, Società editrice tipografica, p. 28.5 Chiedere il carbone alle miniere della Slesia polacca per far ripartire le industrie della Boemia o permettere ai cereali ungheresi di raggiungere agevolmente i porti addatici attraverso le linee di comunicazione jugoslave avrebbe signifi­cato ammettere implicitamente la riconferma della vecchia struttura commerciale asburgica, in totale discordanza con le aspirazioni nazionali che la fine della guerra aveva rafforzato (cfr. Il problema dell’ Europa Centrale, “Quaderni del­l’istituto nazionale di cultura fascista, 1938, n. V-VI, Roma, pp. 20-27).6 Cfr. Il problema dell'Europa Centrale, cit., pp. 37-43.7 Cfr. Derek Howard Aldcroft, Steven Morewood, Economie Change in Eastern Europe since 1918, Londra, E. Elgar, 1995, pp. 26-27. Occorre infatti notare che l’industria e l’agricoltura di quest’area europea si avvalevano di tecniche sorpassate e producevano, quindi, a costi più alti che nei paesi più avanzati, trovandosi, dunque, a essere meno com­petitive sul mercato mondiale. Per questo motivo, mentre alle frontiere polacche e cecoslovacche venivano frapposti gli stessi ostacoli a tutti i cereali e a tutta la farina provenienti dai paesi stranieri, in realtà la barriera era più difficil­mente eludibile per il frumento ungherese che non per quello americano, nonostante che per quest’ultimo i costi di tra­sporto fossero più elevati.

Lo slancio verso Ovest

1 trattati di pace avevano ufficialmente sancito la capacità di autodeterminazione dei nuovi pae­si, soddisfacendo e incrementando i sentimenti nazionalisti delle popolazioni. Questo clima si traduceva, sotto l’aspetto economico delle nuo­ve realtà nazionali, nella volontà di creare al­l’interno dei confini una propria via per la ri­presa economica: un progetto di ricostruzione che non passasse attraverso la collaborazione tra i paesi confinanti, ma che, anzi, rifuggisse da qualsiasi ottica di questo tipo5. La Romania, per esempio, intendeva intraprendere una nuova via economica indipendente dall’Ungheria; que- st’ultima, a sua volta, si guardava bene dall’u- sufruire della collaborazione cecoslovacca o ju­

goslava. Ciò valeva per ogni altro paese sorto nell’Europa centro-orientale. La Jugoslavia ave­va addirittura progetti di annessione dell’Alba­nia: come era pensabile che i due paesi potes­sero formulare un progetto comune di collabo- razione? Ma il loro non era l’unico caso: l’Un­gheria reclamava i distretti industriali passati ora alla Cecoslovacchia, spesso adducendo anche motivazioni etniche (il riferimento era alla po­polazione ungherese rimasta nella Rutenia slo­vacca); ugualmente la Polonia aspirava ad an­nettersi il distretto moravo di Teschen, impor­tante per le sue miniere e per la ferrovia che avrebbe permesso di mettere in comunicazione agevolmente le regioni della Galizia e della Sle­sia polacca con la Moravia e la Boemia6.

L’isolamento e la chiusura programmati dai paesi dell’Europa centro-orientale in difesa del­le loro economie vennero perseguiti anche attra­verso alti dazi all’importazione, con una prote­zione più decisa e rigorosa nei confronti dei pae­si confinanti e meno verso quelli più lontani7.

A rafforzare queste tendenze nazionalistiche era anche la volontà di intraprendere un pro­cesso di ricostruzione economica indipenden­te dalla vicina Germania. La presenza tedesca nell’Europa centro-orientale non si limitava ad attività finanziarie, ma permeava quasi ogni aspetto dell’attività economica in Polonia, Un­

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gheria, Cecoslovacchia, Romania, Bulgaria e Jugoslavia8. In sostanza, l’economia asburgica aveva attinto a piene mani alla tecnologia e al­l’ingegno tedeschi, confermando l’immagine di una Germania capace di gestire nel miglior modo possibile le risorse umane ed economi­che di cui disponeva. Ai paesi di nuova costi­tuzione non restava altro che individuare nuo­vi partner commerciali, trascurando i paesi con­finanti e, soprattutto, cercando di affrancarsi dal complesso e potente organismo economico- commerciale tedesco9. I referenti non poteva­no essere altro che i paesi occidentali, i vinci­tori della guerra, i creditori degli Imperi cen­trali. Tuttavia, per i problemi di stabilità poli­tica, le potenze maggiori, la Francia e la Gran Bretagna, non intendevano, almeno inizial­mente, intraprendere rischiose iniziative su quei mercati, in quanto i governi degli stati del­l’Europa centro-orientale, nella loro strenua vo­lontà di unificazione, avevano provocato al- l’interno dei singoli paesi contestazioni e ten­tativi di rimettere in discussione l’equilibrio raggiunto dopo numerose difficoltà, favorendo tendenze centrifughe e separatiste. Con l’in­tento di arginare tali tendenze, i governi del­l’Europa centro-orientale, a eccezione di quel­lo cecoslovacco, non esitarono mai a ricorrere alla forza per instaurare delle dittature di stam­po fascista, sfruttando lo scontento e i malu­mori delle forze nazionaliste, contrarie anche alla presenza di ebrei nei circoli economici e finanziari di quei paesi10. L’elemento antise­

8 Sulle componenti economiche dell’industria e delle risorse umane tedesche presenti nell’area in questione cfr. Alice Teichova, P.L. Cottrell (a cura di), International Business and Central Europe, 1918-1939, New York, Leicester Uni­versity Press-St. Martin’s Press, 1983, pp. 103-267.9 Cfr. E. Collotti, La politica dell'Italia nel settore danubiano-balcanico, cit., pp. 9-10.10 Per esempio in Ungheria la presenza di ebrei nelle attività commerciali, finanziarie e professionali era preponde­rante: essi rappresentavano il 60 per cento dei medici, il 53 per cento dei commercianti, il 51 per cento degli avvoca­ti. Se solo il 12 per cento degli industriali erano ebrei, la percentuale saliva al 37 per cento per il settore dell’industria mineraria. Le cifre aumentavano se si teneva conto della sola Budapest; qui i giornalisti erano per esempio il 70 per cento contro una percentuale nazionale del 34 per cento. In definitiva gli ebrei costituivano il nerbo della borghesia e fino al 1917 il ministro della Difesa Szamuel Hazai e quello della Giustizia Vilmos Vazsony erano ebrei: cfr. Mariano Ambii, I falsi fascismi, Roma, Jouvence, 1980, pp. 71-72. Per un approfondimento si veda anche Henry Bogdan, Sto­ria dei paesi dell'Est, Torino, Sei, 1994.

mita era uno dei caratteri portanti di queste dit­tature perché permetteva di realizzare un pro­cesso di autonomia e rinnovamento rispetto ai vecchi circoli economici ancora legati agli in­teressi finanziari degli ex Imperi centrali, cir­coli nei quali la presenza ebrea continuava a es­sere massiccia e che le nuove dittature nazio­naliste intendevano far “saltare” per intrapren­dere un nuovo corso economico.

Proprio l’elemento nazionalista spingerà le nuove realtà statuali a guardare al regime fa­scista di Mussolini come a un ordine politico a cui ispirarsi. II maresciallo Miklos Horty in Un­gheria, nominato reggente nel 1920, non face­va segreto della sua ammirazione per il fasci­smo italiano, prendendone a modello i canoni fondamentali, e alla stessa linea si atteneva l’o­perare del primo ministro Istvan Bethlen. Allo stesso modo similitudini ideologiche intercor­revano tra l’Italia e la Romania nel periodo in cui fu a capo del governo l’italofilo generale Alexandru Averescu, similitudini che venivano confermate ancora nel 1927, con l’ascesa del regime di Comeliu Zelea Codreanu e della sua Legione dell’arcangelo Gabriele. La Romania confermava questa tendenza politica, prenden­do come modello politico il regime fascista e i suoi caratteri nazionalisti, soddisfacendo il bi­sogno di ordine politico e sociale che le forze nazionaliste del paese esprimevano; le stesse istanze venivano soddisfatte in Polonia dal re­gime militare presieduto dal maresciallo Jozef Pilsudski.

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L’interesse a Est

Le esigenze dei nuovi stati danubiano-balcani- ci di individuare altri referenti in grado di legit­timare la loro esistenza sullo scacchiere euro­peo, in ambito politico ma anche e soprattutto economico, si incontravano con le aspirazioni italiane di creare una zona d’influenza politico­economica a guida italiana.

Il crollo del sistema delle grandi potenze, e in particolare dei tre imperi che occupavano l’a­rea centro-orientale dell’Europa, portò alla ri­balta, per i vincitori, la necessità di far coinci­dere i nuovi equilibri strategici e i nuovi confi­ni territoriali con il principio di nazionalità. Si aprivano per il nostro paese opportunità fino ad allora impensate, come quelle di trovare sboc­chi economici nel bacino danubiano e di eserci­tarvi una conseguente influenza politica. In fon­do, la prospettiva strategica fascista riprendeva quella precedente dell’Italia liberale, indivi­duando nell’espansione coloniale nel Mediter- raneo e in Africa i principali obiettivi. Per con­seguirli era però necessario garantirsi una zona di sicurezza nell’area danubiana. Per questo, du­rante tutti gli anni venti, buona parte degli inte­ressi politici saranno rivolti a quest’ultimo scac­chiere. Gli anni tra il 1922 e il 1924 sono carat­terizzati da una certa fluidità negli approcci ita­liani all ’ Europa centro-orientale: il maggior pro­blema è quello di incorporare Fiume nello Sta­to italiano e contemporaneamente di impedire la costituzione di un’altra grande potenza in quell ’ area. A questo scopo Mussolini alterna con la Jugoslavia, restia ad accettare una simile so­luzione, dialogo e minacce11.

11 Cfr. Enzo Collotti, Fascismo e politica di potenza. Politica estera 1922-1939, Milano, La Nuova Italia, 2000, pp. 209-211.12 Cfr. E. Collotti, Fascismo e politica di potenza, cit., pp. 214-215.

La politica balcanica di Mussolini era domi­nata dall’ambizione di trasformare quell’area in campo d’azione per l’espansionismo politico ed economico dell’Italia, e dal timore che questa espansione potesse venire minacciata dalla tra­dizionale “spinta a Oriente” della Germania. At­

tribuendo da principio alla politica balcanica so­lo un’importanza settoriale e preparatoria, Mus­solini vi aveva trovato invece i primi concreti successi: dalla Romania all’Albania e agli altri piccoli stati, tutti, con l’eccezione della Jugo­slavia, apparivano ben disposti ad accettare l’a­micizia e l’aiuto italiano, e a far parte di una co­stellazione di stati politicamente ed economica­mente dominata dall’Italia. Il disegno di Mus­solini non era quindi soltanto quello di salva­guardare alcuni interessi italiani, bensì quello più ardito di far prevalere gli interessi italiani sugli altri, in tutta la penisola balcanica.

La sua politica oscillerà di conseguenza tra ammiccamenti con la Piccola intesa e contatti con l’Ungheria quando si vorrà rendere più for­te la pressione sulla Jugoslavia12.

“L’Italia non può andare che ad oriente”, co­sì si espresse Mussolini, usando una delle sue ben note icastiche espressioni che non lasciava­no replica, in occasione della discussione alla Camera sulla questione dell’annessione di Fiu­me del 22 febbraio 1924. E, ancora, nel giugno del 1928, nel discorso al Senato sulla politica estera dell’Italia, egli ebbe modo di ribadire: “L’Italia è potenza mondiale, e, dunque, ha in­teressi e ideali da difendere in ogni parte del mondo; ma soprattutto, essa vuole le sia rico­nosciuta diretta e non contrastata influenza sui Balcani”.

Queste due affermazioni già esprimono in maniera efficace l’attenzione riservata dal na­scente regime fascista alle regioni dell’Europa orientale. L’espansionismo fascista mostrava di volersi concentrare su di un’area dove Germa­nia e Austria avevano agito per secoli, co­struendosi una stabile e solida reputazione che i trattati di pace non avevano potuto demolire. Il nuovo assetto geografico dell’Europa centro­orientale, scaturito al termine del primo conflit­to mondiale, comprendente i territori che si estendono dall’Elba alle pianure russe e dal Bal-

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fico al Mar Nero e all’Adriatico, fu tale da de­stare negli anni venti sempre più l’interesse del­la politica estera dell’Italia fascista, per poi la­sciare spazio nella seconda metà degli anni tren­ta ai progetti di espansione in Africa Orientale.

La voglia di affermazione e di prestigio in­temazionale e, meno frequentemente, ragioni di carattere economico spingeranno l’Italia fasci­sta a sfruttare ogni opportunità concessa dalle potenze occidentali per la creazione di una pro­pria zona d’influenza economica. Il nuovo as­setto politico dell’Europa centro-orientale pre­sentava esattamente queste caratteristiche. Era un’area ufficialmente libera e aveva subito uno sconvolgimento economico cui avrebbe dovuto seguire una vasta opera di riassetto.

In un primo momento, da parte delle poten­ze occidentali, venne dunque lasciato all’Italia il compito di occuparsi dei nuovi territori orien­tali, in particolare dei Balcani, visto che prima, durante e dopo il conflitto, essa aveva fatto pre­sente le sue mire sull’Albania e la Dalmazia. Inoltre, all’Italia erano stati assegnati i territori del Trentino, dell’Alto Adige e dellTstria con il porto di Trieste, unico sbocco sul Mediterraneo dell’ex impero asburgico. Proprio la città giu­liana era stata il naturale crocevia dei traffici commerciali della Croazia ungherese e della Ci- sleitania e aveva tutte le peculiarità per conti­nuare a gestire proficui rapporti economici con quei territori allo scopo di contribuire anche al­la loro risistemazione economica. Sembrava in­

somma che l’Italia monarchica e cattolica, pro­prio come il defunto impero asburgico, avesse tutti i requisiti per potersi occupare dello svi­luppo sociale ed economico di quest’area. In questo nuovo contesto l’Italia fascista utilizzerà ogni mezzo per riuscire nell’intento di creare ad Est una propria zona d’influenza e, come ve­dremo, ci riuscì.

La conferma di questo giudizio non può ov­viamente prescindere dal confronto con l’azio­ne che Francia, Gran Bretagna e, a partire dalla seconda metà degli anni trenta, Germania nazi­sta svolsero in questa stessa area. In effetti, se Mussolini aveva subito compreso l’importanza per l’Italia dell’Europa centro-orientale, anche Francia e Gran Bretagna si resero immediata­mente conto di quanto essa fosse importante, non solo da un punto di vista economico, ma so­prattutto per il mantenimento di un equilibrio politico europeo raggiunto così faticosamente al termine del conflitto mondiale. I territori in que­stione saranno dunque il teatro dove l’Italia, muovendosi con una certa disinvoltura e dissi­mulando i limiti della propria condizione eco­nomica e la non proprio prestigiosa posizione politica intemazionale, assieme a, ma più spes­so in conflitto o concorrenza diretta con, Fran­cia, Gran Bretagna e Germania, attuerà strate­gie di politica estera ed economica per assicu­rarsi i favori dei governi di questi nuovi paesi13.

13 Con l’intento di non trascurare nessun elemento utile per l’esatta valutazione e comprensione della condotta italia­na nell’Europa centro-orientale sono state esaminate carte conservate in diversi archivi, alcuni dei quali a una prima osservazione possono apparire anche estranei alle questioni trattate nel presente lavoro. L’Archivio centrale dello Sta­to e l’Archivio del Ministero degli Esteri alla Farnesina hanno permesso di verificare le motivazioni che stavano alla base del comportamento economico italiano. Così sono affiorati, tra l’altro, rapporti clientelati tra improbabili im­prenditori e il regime, la concessione di particolari facilitazioni a questa o quella impresa. Il regime arrivava sino a ostacolare l’entrata delle aziende su quei mercati se non si fossero impegnate a omologare la loro attività alla dottrina fascista secondo un’immagine vincente e monolitica che il partito intendeva dare di sé all’estero. Un osservatorio pri­vilegiato dell’attività finanziaria e della gestione di attività commerciali legate alla banca stessa è stato l’Archivio sto­rico della Banca commerciale italiana, particolarmente attiva nell’intraprendere e nello stimolare iniziative nell’Euro­pa centro-orientale tra le due guerre. L’Istituto per il commercio estero a Roma, ma soprattutto l’istituto agronomico per l’Oltremare di Firenze hanno fornito un’ampia letteratura sui programmi attuati dall’Italia in Albania, Croazia, Dal­mazia, Cecoslovacchia, Polonia e Romania per lo sfruttamento agricolo e delle risorse del sottosuolo. Il fatto che tut­te queste opere siano state pubblicate durante il ventennio fascista, e che adottino in maniera più o meno marcata i to­ni solenni della propaganda di partito, non ne diminuisce assolutamente l’importanza, anzi, nel nostro caso ci ha per-

Il presente lavoro intende proprio far luce sul­lo scenario appena delineato, per lo più trascu­

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rato dalla letteratura storica anche più recente14. In esso abbiamo cercato di individuare princi­palmente i legami tra la politica economica e la politica estera del fascismo in quanto assi por­tanti di un’attività di penetrazione economica, senza però trascurare altre componenti non me­no importanti, ma anzi tutte capaci di dare un proprio contributo alla spiegazione del proble­ma. Sono stati quindi riportati e analizzati la con­dotta e gli atteggiamenti degli industriali, della Banca d’Italia, della grande industria meccani­ca e siderurgica, dei circoli finanziari e delle ban­che, degli enti creati per facilitare l’entrata nei nuovi mercati, le scelte di politica interna del governo e la responsabilità dell’apparato pro­pagandistico nel creare un senso di forti aspet­tative nell’opinione pubblica.

L'intervento della finanza italiana

La Società delle nazioni chiamava gli stati vin­citori a impegnarsi in un’opera di ricostruzione delle nuove realtà geopolitiche sorte dopo la si­stemazione dei territori asburgici. Gli appelli del­la Società delle nazioni all’Italia per indurla a concorrere ai prestiti internazionali vennero sempre considerati con diffidenza dal governo italiano che, impegnato nell’opera di ricostru­zione interna, doveva affrontare un clima di in­soddisfazione e ostilità proprio nei confronti di

tale organismo per i “miseri” risarcimenti ac­cordati all’Italia ai tavoli di pace.

È in questo contesto che l’Italia venne inter­pellata per partecipare al prestito di 200 milio­ni di franchi-oro per la costruzione di ferrovie in Bulgaria, ma la risposta del governo fu nega­tiva. Esso accampò come pretesto la partecipa­zione italiana a un’iniziativa simile a favore del­l’Austria, la cui estensione geografica era stata pesantemente ridotta con conseguenti problemi di sopravvivenza economica15. Nonostante la veridicità delle motivazioni italiane, il presidente della Banca d’Italia Bonaldo Stringher non potè fare a meno di rilevare l’occasione favorevole a cui stava rinunciando l’Italia. Se il prestito alla Bulgaria avesse incontrato i favori intemazio­nali, l’Italia non avrebbe potuto usufruire delle riparazioni, né tantomeno avrebbe potuto di­sporre in futuro di tutti quei contatti e canali pre­ferenziali che la partecipazione al prestito avreb­be indirettamente creato e messo a disposizione in vista di futuri rapporti economici con la Bul­garia. Il governo italiano, resosi conto della si­tuazione, cercò di ritrattare la questione, mo­strandosi disposto a concedere eventuali sov­venzioni su investimenti che la Banca commer­ciale e il Credito italiano avrebbero dovuto fare in Bulgaria. Tuttavia rimaneva il veto sulla par­tecipazione italiana al prestito intemazionale e il governo ben si guardò dall’adoperarsi affin­ché il Tesoro potesse accordare delle garanzie

messo di comprendere meglio l’esatto valore che veniva attribuito al processo di penetrazione dell’Italia nell’Europa centro-orientale. Significative sono state le ricerche fatte presso il Public Record Office di Londra, dove i documenti visionati hanno fatto rilevare una vigilante supervisione della Gran Bretagna sulle vicende dell’Europa centro-orien­tale nel timore che l’influenza dell’Italia riuscisse a scalzare quella francese. La lettura dei documenti diplomatici in­glesi ha permesso anche di disporre di una visuale esterna all’Italia e di dare l’esatto valore alla politica di penetra­zione economica italiana in Albania, Bulgaria, Cecoslovacchia, Polonia, Romania, Ungheria e Jugoslavia. Ugualmente di grande aiuto è stata la vasta ed esauriente storiografia economica inglese riguardante l’Europa centro-orientale con­sultata presso la biblioteca della London School of Economics and Politicai Science.14 Facendo astrazione dalla letteratura del periodo fascista rimane da segnalare il volume di Giampiero Carocci (La Politica estera dell’Italia fascista 1925-1928, Bari, Laterza, 1969) il quale fa riferimento alla realizzazione di una ri­serva di caccia a guida italiana nell’area danubiano-balcanica. Si vedano inoltre la sintesi di Enzo Santarelli (Storia del fascismo, 2 voi., Roma, Editori Riuniti, 1981) e quella recente di E. Collotti, Fascismo e politica di potenza, cit.15 Cfr. Pier Francesco Asso, L’Italia e i prestiti internazionali, 1919-1931. L’azione della Banca d’Italia fra la batta­glia della lira e la politica di potenza, in Pier Francesco Asso, Andrea Santorelli, Marina Storaci, Giuseppe Tattara, Finanza internazionale, vincolo esterno e cambi 1919-1939 (Ricerche per la storia della Banca d’Italia, voi. HI), Ro- ma-Bari, Laterza, 1993, p. 93.

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agli istituti di emissione per agevolare la parte­cipazione finanziaria dell’Italia16.

16 Cfr. P.F. Asso, L’Italia e i prestiti, cit., p. 96.17 Cfr. P.F. Asso, L’Italia e iprestiti, cit., p. 95.18 Cfr. P.F. Asso, L’Italia e i prestiti, cit., p. 96.19 Cfr. Giulio Sapelli, Trieste italiana, Milano, Angeli, 1990, pp. 29-33.20 A partire dal 1920 gli interventi Comit all’estero verranno eseguiti tramite la Società intemazionale di credito mo­biliare ed immobiliare di Lugano (Sicmi). Sempre tramite la Sicmi, la Banca commerciale deteneva partecipazioni del­la Boemische Union Bank di Praga (Unionbank), nella Hrvatska Banka D.D. e nella Jugoslavische Union Bank, en­trambe di Zagabria; nella Banca dalmata di sconto con sede a Zara e filiali a Spalato e Sebenico, nella Banque de Com­merce de Varsovie, nella Banque de Pologne, e nella Banca Handlowy (Handlobank), tutte e tre con sede a Varsavia.21 Cfr. lo statuto, 19 agosto 1919, in Archivio storico della Banca commerciale, Milano [d’ora in poi ASBCI], fondo Direzione centrale, Ufficio finanziario, serie Pratiche e registri della Segreteria Finanziaria e di Sicmi 1905-1934, [d’o­ra in poi Ufficio finanziario, Sicmi}, cartella 25, fase. “Bulcomit 1921-1934”; Public Record Office [d’ora in poi PRO], FO 371/3007; lettere di Zampolli aToeplitz e due promemoria, in ASBCI, fondo Amministratori delegati, Segreteria dell’amministratore delegato Giuseppe Toeplitz 1916-1934, serie Pratiche della Segreteria Toeplitz 1916-1934 [d’ora in poi Toeplitz}, cart. 21, fase. “Zampolli Ottorino”.

Allo stesso modo la gestione delle trattative riguardanti il prestito rumeno evidenzieranno la totale differenza di vedute tra gli istituti di cre­dito e il governo: mentre i primi erano impegnati a creare i presupposti per un futuro controllo del­le nascenti economie danubiane, il secondo, oc­cupato sul fronte interno, si muoveva alla ricer­ca di una stabilizzazione socio-economica del paese. L’operazione, che sarebbe stata garanti­ta dallo sfruttamento delle concessioni petroli­fere, era stata preparata con l’obiettivo di con­vertire e consolidare il debito estero del gover­no rumeno. Il debito era rappresentato da 400 milioni di lei-oro e la quota sottoscritta in lire italiane ammontava a circa un terzo del totale ri­partito per una cifra superiore ai 75 milioni di lire alla Banca italiana di sconto e di 20 milioni al Banco di Roma. L’obbligo di convertire il de­bito rumeno in sterline avrebbe comportato for­ti perdite ai possessori italiani, causando l’op­posizione delle autorità monetarie italiane al­l’operazione17.

Stringher a questo proposito informò il go­verno dell’opportunità di prendere parte all’o­perazione, solo se la lira avesse nel frattempo migliorato il suo corso nei confronti della ster­lina, ed espose quindi il suo disappunto per il deplorevole comportamento mostrato dalla Ban­ca commerciale italiana che, senza aver ottenu­to dal governo un mandato speciale, aveva ade­

rito al sindacato intemazionale promotore del prestito, concordando con il governo rumeno la condizione della nuova emissione18. L’abile mossa architettata dal governo rumeno era an­data a segno, ma per i sottoscrittori si rivelò una perdita a causa del crollo del titolo, tanto che Stringher venne informato dell’avvenuta con­trattazione del titolo fuori borsa e solo per mo­desti quantitativi.

L’orientamento della Banca commerciale si inseriva perfettamente nella tendenza propria dei circoli industriali italiani del tempo, impe­gnati nella ricerca di nuovi mercati, ora che le commesse belliche erano terminate. La presen­za di un istituto di credito italiano nei nuovi ter­ritori avrebbe offerto un incentivo per introdursi in questi nuovi mercati agli operatori economi­ci italiani, garantendo loro proficua collabora­zione19.

Nell’agosto del 1919 venne costituita a Sofia la Banca commerciale italiana e bulgara (Bul- comit), Bulgarska Italianska Torgowska Banka; all ’ istituto fu riservata la possibilità di avere suc­cursali, agenzie e rappresentanze in Bulgaria e all’estero20. Nel settembre dello stesso anno la Banca commerciale italiana fondò un nuovo isti­tuto di credito a Bucarest con la denominazio­ne di Banca Commerciale Italiana si Romana21. All’origine dell’iniziativa era l’ingente quanti­tativo di merci esportate dall’Italia in questo pae­se, specialmente tessuti in cotone, macchinari elettrici e automobili. Nei due anni seguenti ven­

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nero aperte succursali a Brada e Galatz (Cala­ti); nel novembre del 1922 la Commerciale ita­liana e romena (Romcomit) aprì una terza suc­cursale a Chisinau, rilevando la vecchia succur­sale della Banca intemazionale di commercio di Pietrogrado22.

22 “Bollettino di notizie commerciali”, novembre 1922, n. 44.23 Sull’argomento si vedano Giorgio Rumi, "Revisionismo" fascista ed espansione colonialel925-1935', Giampiero Carocci, Appunti sull’ imperialismo fascista negli anni '20; Renzo De Felice, Alcune osservazioni sulla politica este­ra mussoliniana, tutti in Alberto Aquarone, Maurizio Vemassa (a cura di), Il Regime fascista, Bologna, Il Mulino, 1974; MacGregor Knox, Il fascismo e la politica estera italiana, in Richard J.B. Bosworth, Sergio Romano (a cura di), La politica estera italiana 1860-1985, Bologna, Il Mulino, 1991.24 Lettera del 22 febbraio 1928, in ASBCI, Ufficio finanziario, Sicmi, cart. 29, fase. “Banca Ungaro-italiana 1923- 1934”.25 II ministro delle Finanze Antonio Mosconi a Giuseppe Toeplitz, in ASBCI, Ufficio finanziario, Sicmi, cart. 20, fa­se. “Preliminari: corrispondenza di G. Toeplitz e M. Facconi e Ministero delle Finanze, aprile-maggio 1930”; Nicola La Marca, Italia e Balcani fra le due guerre, Roma, Bulzoni, 1979, pp. 86-89.26 Cfr. Zbigniew Landau, Jerzy Tomaszewski, The Polish Economy in thè Twentieth Century, Londra, Croom Helm, 1985, pp. 43-47.27 L’accordo sanciva il passaggio di Fiume sotto la sovranità italiana e di porto Barros sotto quella jugoslava. Il go­verno di Roma si impegnava a cedere in affitto agli jugoslavi un bacino del porto grande di Fiume, nonché a istituire un regime intemazionale per la stazione ferroviaria; a queste stipulazioni si aggiungevano poi alcune convenzioni spe­ciali e accordi doganali di interesse sociale.28 Cfr. “Dziennik Ustaw” (Gazzetta ufficiale), della Repubblica polacca, n. 25/257/1924, e decreto del presidente del­la Repubblica polacca, 13 marzo 1924, cit. in Hanna Kozlowska, “I rapporti economici tra Italia e Polonia nel perio­do 1918-1939”, tesi di laurea, Università Luigi Bocconi, Milano, a.a. 1983-1984, p. 68, nota 32.

A partire dal 1928 Mussolini iniziò ad ap­poggiare apertamente una politica “revisionista” in Europa centro-orientale, sposando la causa ungherese in politica intemazionale23. Sempre nel 1928 la Commerciale italiana decise di au­mentare il capitale sociale della Banca ungaro- italiana, istituto che aveva fondato nel 1920 e di cui deteneva la maggioranza azionaria24. La Banca ungaro-italiana aveva concesso al gover­no ungherese prestiti a lunga scadenza, e nel­l’esigenza di smobilizzarli aveva deciso di ri­correre all’emissione obbligazionaria di buoni del Tesoro ungherese del 7,5 per cento. In pra­tica si doveva trovare chi mettesse a disposizio­ne la somma per l’acquisto delle obbligazioni. Mussolini, intendendo sottoscrivere il prestito obbligazionario, riallacciò più volte le trattative nel corso del 1929 a causa della resistenza op­posta dal direttore della Banca d’Italia Stringher. Questi, date le condizioni dei mercati, non in­tendeva togliere 2 milioni di dollari, tanto sa­rebbe occorso per la sottoscrizione, dalle riser­

ve valutarie italiane, ma Mussolini, interessato ai risvolti che l’operazione avrebbe suscitato in campo intemazionale, non si curava del lato fi­nanziario dell’operazione. Nel mese di ottobre, il prestito a favore della Banca ungaro-italiana veniva approvato e il consiglio di amministra­zione della Comit ne ratificava l’esecuzione25.

Altro scenario non meno interessante era quello polacco. Come stava accadendo in altri paesi dell’Europa centro-orientale, anche la Po­lonia era fortemente provata da una spirale ipe- rinflazionistica, alla quale tentava di opporre un processo di stabilizzazione mediante un incre­mento di entrate straordinarie del Tesoro26. Sul­la scia della firma del Patto di Roma27 (gennaio 1924), che confermava l’interesse dell’Italia a Oriente, la Banca commerciale dette l’avvio al negoziato con il governo polacco per la conces­sione di un prestito28. Nel marzo del 1924 veni­vano firmati tre accordi riguardanti il prestito, il primo con la Comit quale rappresentante del consorzio finanziario, il secondo con il governo italiano quale garante del prestito, il terzo con i fratelli Pecchioli, commercianti di tabacco e già proprietari di una fabbrica di tabacco a Posen. Il prestito ammontava a 400 milioni di lire, equi­valenti a 90 milioni di zloty, ed era stato garan­tito dal governo fascista nel caso la Polonia non

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avesse potuto far fronte all’impegno preso per cause di guerra. Il direttore generale della Ban­ca d'Italia Stringher non era stato informato del­l’operazione, se non ad accordo siglato e, scri­vendo a Mussolini, non nascose le sue perples­sità sull’opportunità dell’operazione, ritenuta avventata e dai risultati precari per l’alta infla­zione presente in Polonia, paese non gradito a gran Bretagna e Germania.

Se “le linee della pacifica espansione dell’I­talia” guardavano a Oriente, per giungervi, era Annibaie Carena a ricordarlo, bisognava “co­minciare con lo stabilire rapporti di cordiale e sincero buon vicinato che [sic] si incontra var­cate le nostre frontiere”29. Contatti con le orga­nizzazioni separatiste degli ustascia croati30 e una più o meno esplicita ostilità economica avrebbero in realtà caratterizzato i rapporti fra Italia e Jugoslavia. In questo clima s ’ inseriva an­che il trattato di commercio contenente la clau­sola della nazione più favorita del 14 luglio 192431. Il trattato, infatti, ostacolato in ogni ma­niera dai nazionalisti jugoslavi, era fortemente voluto da Mussolini per mostrare alle altre po­tenze la sua volontà nei confronti della coope­razione italo-jugoslava32.

29 Annibaie Carena, La politica italiana nell’ Europa orientale sui documenti diplomatici, Milano, Treves, 1930, p. 113.30 Sull’argomento si veda Howard James Burgwyn, Il revisionismo fascista. La sfida di Mussolini alle grandi poten­ze nei Balcani e sul Danubio 1925-1933, Milano, Feltrinelli, 1979.31 “Trattato di commercio e di navigazione fra il Regno d’Italia e lo Stato S.H.S.” (Serbo-Croato-Sloveno), con an­nessi protocollo, protocollo finale e scambio di note, 14 luglio 1924, in Ministero degli Affari esteri, Trattati e con­venzioni tra il Regno d’Italia e gli altri stati, 1924, voi. 32, p. 28.32 Slovene Chamber of Commerce, Italo-Yugoslav Commercial Treaty, 14 luglio 1924, in PRO, FO 371/9960.33 Cfr. P.F. Asso, L’Italia e i prestiti, cit.34 Cfr. I.T. Berend, G. Ranki, Storia economica dell’Ungheria, cit., pp. 106-107.

Allo stesso modo Mussolini aveva dato il be­nestare per la concessione di un prestito di 600 milioni di lire al governo serbo-croato-sloveno, tramite anche l’intervento della onnipresente Banca commerciale italiana. La capacità della banca milanese di patrocinare iniziative finan­ziarie di carattere intemazionale con estrema di­sinvoltura nei confronti della Banca d’Italia e la non utilità dell’intera operazione indussero Stringher a manifestare le sue critiche in meri­

to. Il governo jugoslavo vedeva con diffidenza la partecipazione di un istituto di credito italia­no al prestito e i nazionalisti si erano opposti an­che all’apertura di una filiale della Banca com­merciale a Belgrado. L’ostilità di Stringher fe­ce naufragare l'intera operazione, non permet­tendo a Mussolini di attuare completamente i suoi piani33.

Chiuso uno scenario, altri se ne aprivano al­le ambizioni espansionistiche italiane. Uno di questi fu rappresentato dalla situazione unghe­rese. Nonostante la precaria situazione finan­ziaria, dovuta a un alto tasso d'inflazione e a uno stato di moratoria nel pagamento dei risarcimenti di guerra, la Società delle nazioni decise nel 1924 di concedere un prestito per la stabilizzazione all’Ungheria34. Il prestito, osteggiato dalla Fran­cia, era stato invece appoggiato dalla Gran Bre­tagna nell’intento di ridurre la forte influenza che la prima esercitava sull’area tramite la Pic­cola intesa di cui facevano parte la Cecoslovac­chia, la Jugoslavia, e la Romania.

Francia e Cecoslovacchia infatti insistettero perché Mussolini abbandonasse l’iniziativa; questi però, così facendo, avrebbe indebolito il suo disegno di incrinare la Piccola intesa per ri­dimensionare nella regione il peso della Fran­cia. Dunque, privilegiando il criterio politico ri­spetto a quello economico, dette disposizione al corpo diplomatico di partecipare al risanamen­to finanziario dell’Ungheria attraverso la parte­cipazione al prestito indetto dalla Società delle nazioni. Il piano di stabilizzazione approvato uf­ficialmente comprendeva anche la creazione di una Banca nazionale ungherese, un istituto di credito formalmente indipendente dallo Stato

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che avrebbe goduto del monopolio d’emissio­ne35. L’operazione non sarebbe stata garantita dai governi dei paesi creditori, ma coperta dal­le entrate su una serie di monopoli statali che andavano da quello del tabacco, a quello del sa­le, a quello dello zucchero. Il 50 per cento del prestito venne sottoscritto dalla Gran Bretagna, mentre la restante parte da Italia, Svizzera e Sta­ti Uniti. L’Italia vi partecipò con una quota di 170 milioni, pari al 12 per cento del totale36.

35 Cfr. Charles P. Kindleberger, Storia della finanza nell’Europa Occidentale, Cariplo, Roma-Bari, Laterza, 1993.36 Cfr. P.F. Asso, L’Italia e i prestiti, cit., pp. 157-161.37 Cfr. G. Carocci, La politica estera dell’Italia fascista, cit., pp. 52-53.38 Per un approfondimento delle trattative si veda Matteo Pizzigallo, L’Agip degli anni ruggenti 1926-1932, Milano, Giuffrè, 1984.39 Cfr. Giuliano Caroli, Un’ amicizia difficile Italia e Romania (1926-1927), “Analisi storica”, dicembre 1984, n. 3, pp.288, 289.40 Cfr. John R. Lampe, The Bulgarian Economy, Londra, Croom Helm, 1980, pp. 193-194.

Nella seconda metà degli anni venti Musso­lini avrebbe voluto vedere realizzato il disegno di una Locamo balcanica, composta da Italia, Romania, Ungheria e Bulgaria, a direzione ita­liana che si contrapponesse alla Piccola intesa e al sistema di alleanze francesi e costituisse allo stesso tempo un freno all’espansione tedesca nei Balcani e un argine alle pressioni russe nell’a­rea. Il progetto venne osteggiato dall’Inghilter­ra, la quale, disposta a ridimensionare 1 ’ influenza francese nell’area, non intendeva assolutamen­te annullarla o sostituirla con quella italiana. Il progetto di creare un sistema di stati a direzio­ne italiana avrebbe dovuto, nel lungo periodo, indebolire anche le posizioni di Jugoslavia e Ce­coslovacchia allo scopo di sfasciare la Piccola intesa37.

Se i tentativi italiani di penetrare in Romania e di smantellare la Piccola intesa erano fino ad allora falliti, dopo la salita al governo del filoi­taliano generale Averescu, nel marzo del 1926, l’Italia vedeva offrirsi un’inaspettata opportu­nità in questa direzione. Averescu intese subito avviare, infatti, i negoziati per la concessione di un prestito italiano al suo paese. Il ministro del­le Finanze Giuseppe Volpi espresse al sottose­gretario alle Finanze rumeno il suo parere favo­

revole, a condizione che fosse regolata la que­stione di alcuni prestiti concessi alla Romania precedentemente, che venisse acquistato mate­riale navale di fabbricazione italiana per valore pari a tre quarti del prestito richiesto, e con l’im­pegno che venissero attribuite concessioni pe­trolifere al nuovo ente parastatale, l'Azienda ge­nerale italiana petroli (Agip).

Nel giugno del 1926 vennero dunque rag­giunti tra Italia Romania due importanti accor­di38. Il primo riguardava il consolidamento dei debiti rumeni verso l’Italia per una somma pari al57.311.814 lire da rimborsare al governo ita­liano in 50 rate annuali, il secondo accordava il prestito per un ammontare di 200 milioni di li­re. Quest’ultimo sarebbe stato concesso dalla so­cietà Agip al governo rumeno, su autorizzazio­ne del ministero delle Finanze, ed erogato di­rettamente dalla B anca d’Italia; esso sarebbe sta­to rimborsabile nell’arco di 10 anni all’interes­se del 7 per cento; il pagamento avrebbe potuto essere corrisposto con la cessione di prodotti pe­troliferi39.

L’anno seguente il governo bulgaro, rilevan­do l’esigenza di ottenere un prestito per la sta­bilizzazione monetaria del paese, inoltrò al go­verno italiano, attraverso il suo ministro degli Esteri, la richiesta che si accollasse, in alterna­tiva alla Società delle nazioni, l’onere finanzia­rio della stabilizzazione bulgara. In questo mo­do il governo di Sofia intendeva svincolarsi dai condizionamenti politici ed economici che la So­cietà delle nazioni avrebbe esercitato, se avesse gestito il prestito40.

Mussolini si dimostrò decisamente sensibi­le alla richiesta del governo di Sofia. Oppo­nendosi nuovamente alla politica francese, col­

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pevole di voler favorire gli stati della Piccola intesa, e in particolare la Jugoslavia, a scapito del risanamento economico della Bulgaria, por­tando come scusa il problema delle riparazio­ni, il governo si dichiarò disposto ad assumer­si l’intera operazione. Mussolini e il direttore generale del Credito italiano, Mario Alberti, mi­sero a punto un progetto in base al quale l’Ita­lia avrebbe devoluto parte dei prestiti privati ot­tenuti dalle industrie elettriche sul mercato ame­ricano per finanziare la stabilizzazione della mo­neta bulgara.

Il progetto di Alberti avvalorava la preoccu­pazione che già da alcuni mesi si era diffusa nel­le sfere del Dipartimento di Stato americano41. Il gigantesco flusso di capitali americani inve­stiti nelle emissioni delle industrie italiane non sarebbero stati impiegati a scopi produttivi, né a rafforzare la stabilizzazione legale della lira che si stava decidendo in quei giorni, ma al con­trario avrebbero contribuito a finanziare le mi­re espansionistiche del regime. Dietro lo scudo di “quota 90”, piuttosto che la difesa del rispar­mio delle classi medie o il rafforzamento del principio della solidarietà finanziaria intema­zionale42, Mussolini stava preparando un’ulte­riore fase dell’espansione finanziaria nell’Eu­ropa centro-orientale.

41 Cfr. P.F. Asso, L’Italia e i prestiti, cit., p. 310.42 Per un approfondimento sulla questione di “quota 90” si vedano Felice Guameri, Battaglie economiche fra le due guerre, Bologna, Il Mulino, 1986; Gualberto Gualemi, Industria e fascismo, Roma, Vita e pensiero, 1981; C.P. Kind- leberger, Storia della finanza nell’Europa Occidentale, cit.; Pierluigi Ciocca, Gianni Toniolo, L’economia italiana nel periodofascista, Bologna, II Mulino, 1976; Gianni Toniolo, L’economia dell'Italia fascista, Roma-Bari, Laterza, 1980.43 II delegato della Società generale costruzioni al ministro dell’Economia nazionale, 7 febbraio 1928, in Archivio cen­trale dello Stato [ACS], Presidenza del consiglio dei ministri [d’ora in poi Pcm], 1928-1930, 15.2.10.1156.44 Cfr. N. La Marca, Italia e Balcani, cit., p. 83.

La decisione di sottoscrivere una partecipa­zione al prestito bulgaro venne presa da Volpi nell’aprile del 1928. Di fronte alla consueta ma­nifestazione di perplessità da parte di Stringher, il ministro Volpi espresse il desiderio che anche il capitale italiano contribuisse alla sottoscri­zione del prestito per evitare che la Bulgaria fos­se sottoposta soltanto all’influenza dei gruppi fi­nanziari inglesi e americani. A parere di Strin­

gher, la Banca d’Italia avrebbe dovuto rimane­re estranea all’operazione, svolgendo semplice- mente il ruolo di intermediario fra il sistema ban­cario italiano e il governo bulgaro. La Banca commerciale esercitò invece pressioni sulle au­torità monetarie per una partecipazione più con­sistente al prestito, anche perché era fortemen­te impegnata con la propria filiale bulgara nel­la costruzione di un grande acquedotto nazio­nale.

La vittoria della Società generale costruzioni alla gara d’appalto per la costruzione dell’ac­quedotto Rila-Sofia aveva sbaragliato l’accani­ta concorrenza di alcune ditte tedesche, che per l’occasione si erano unite in un consorzio ed era­no appoggiate dal sindacato tedesco-franco-bel­ga dei fabbricanti di tubi saldati Schweisserohr Verband-Mulheim Ruhr43. La pressione della Comit sul governo italiano si manifestò una pri­ma volta nel marzo del 1928, quando l’istituto milanese chiese di partecipare per una quota maggiore di quella stabilita al capitale della Ban­ca ipotecaria bulgara. E si ripetè più tardi nel 1928 quando, a seguito di un contrasto fra la de­legazione bulgara e la casa intermediaria Schroe- der sul prezzo di emissione, il ministro delle fi­nanze Moloff rivolse alla Comit la richiesta di subentrare al posto della Schroeder e organizza­re 1’emissione sul mercato di New York. Moloff era stato vicepresidente della filiale della Comit in Bulgaria e la sua offerta deve essere stata con­siderata con grande attenzione. L’Italia, tramite il Credito italiano e la Commerciale, sottoscris­se al 7,50 per cento un milione e mezzo di dolla­ri, pari a 28 milioni e 500 mila lire44.

In Romania, nel giugno del 1927 era tornato al potere il nazionalista rumeno Vintila Brati-

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nau, il quale si era subito adoperato per prende­re le distanze da ogni relazione con l’Italia. In questa direzione il governo di Bucarest aveva annullato le commesse al Cantiere tecnico trie­stino per la costruzione di un incrociatore, co­me pure quelle ai Cantieri di Monfalcone, i qua­li avrebbero dovuto fornire alla marina rumena 4 sommergibili e un altro incrociatore, per una somma totale di 200 milioni di lire45. La richie­sta inoltrata al ministero delle Finanze per la con­cessione di un prestito al governo rumeno al fi­ne di metterlo in grado di pagare le commesse venne respinta coni’ indicazione di rivolgersi di­rettamente agli istituti bancari privati46. In que­sto clima l’Italia, in un primo momento, non in­tese partecipare al prestito intemazionale per la stabilizzazione della valuta rumena.

45 II prefetto di Trieste a Mussolini, 1 giugnol928, in ACS, Pcm, 1928-1930,15.2.8.1049.46 Regio ministero delle Finanze a Presidenza del Consiglio dei ministri, regio ministero Economia nazionale, regio ministero Marina, regia Legazione a Bucarest, 27 aprile 1928, in ACS, Pcm, 1928-1930,15.2.8.1049.47 Toeplitz al ministero delle Finanze, 31 luglio 1928, in ASBCI, Toeplitz, cart. 59, fase. “Prestito di stabilizzazione rumeno”.48 Cfr. P.F. Asso, L’Italia e iprestiti, cit., pp. 298-303.49 Sull’argomento cfr. H.J. Burgwin, Il revisionismo fascista, cit., pp. 184-190.50 Lettera del 6 ottobre 1928, in ASBCI, Toeplitz, cart. 57, fase. “‘Avv. Enrico Marchesano — Bucarest, 1927-1928’. Con ‘Scambio di corrispondenza per il Prestito romeno’, ottobre-novembre 1928”; P.F. Asso, L’Italia e i prestiti, cit., pp. 306-307.

Malgrado apparentemente si adoperasse per una cooperazione intemazionale, l’Inghilterra operava per diminuire l’influenza francese nel­la Piccola intesa, e Mussolini, accortosi che si stava disputando una battaglia politico-finan­ziaria, si rivolse al ministro degli Esteri Dino Grandi perché Volpi sollecitasse 1 ’ intervento del- l’alta banca italiana a favore del prestito rume­no. Una nuova crisi politica in Romania ebbe come conseguenza il rinvio della conclusione del prestito, rendendo necessario allo stesso tem­po un aumento delle anticipazioni a breve alla banca di Stato rumena in modo da metterla in grado di difendere la stabilità del cambio e pre­parare le condizioni per remissione del presti­to intemazionale. Notizie provenienti dalla fi­liazione rumena della Commerciale Romcomit riportavano l’interessamento della finanza te­desca alla concessione del prefinanziamento. Sfruttando anche i servigi del nuovo ministro

della Giustizia, Grigoire Junian, già membro del consiglio di amministrazione della Romcomit, la Commerciale riuscì a battere la concorrenza tedesca, concedendo un credito al governo ru­meno di 12 milioni di dollari, mediante lo scon­to di effetti accettati dalla Società di credito in­dustriale di Bucarest47.

Nel febbraio del 1929, sotto l’egida di un sin­dacato rappresentante delle potenze alleate, ven­ne lanciato il prestito per la stabilizzazione ru­mena, al quale la Banca d’Italia partecipò per un importo pari a 8 milioni di dollari, affidandone la collocazione alla Commerciale48. Mussolini aveva sempre auspicato la disintegrazione del­lo Stato jugoslavo e, a tal fine, aveva intratte­nuto rapporti con l’organizzazione segreta dei separatisti croati allo scopo di fomentare rivol­te entro i confini dello scomodo vicino49. Nel febbraio del 1928 era stato indetto il prestito per la stabilizzazione della moneta jugoslava, ma Mussolini, non intendendo partecipare all’ope­razione, si trovava per la prima volta sulle stes­se posizioni di Stringher e di Volpi. Egli inoltre temeva che il prestito non sarebbe andato a con­solidare il debito estero jugoslavo, bensì il riar­mo delle truppe. Come ci si sarebbe potuti aspet­tare, la Comit prese l’iniziativa indipendente­mente dalla posizione ufficiale del governo ita­liano, concedendo al governo jugoslavo un pre­stito di 100 milioni di dinari all’8 per cento, pa­ri a 5 milioni di sterline, impegnandosi in que­sto modo a partecipare al prestito per la stabi­lizzazione jugosalva50.

Nell’intento di strappare le concessioni ad Ahmet Bey Zogu, alla testa del governo alba­nese, i servizi segreti britannici, ispirati e fi­nanziati dalle compagnie petrolifere, presero

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contatto con elementi che capeggiavano alcune bande insurrezionali bolsceviche operanti in zo­ne dell’Albania, della Macedonia e della Bul­garia, allo scopo di creare focolai di insurre­zione alle frontiere delle tre regioni con l’in­tenzione di dare inizio a una nuova guerra bal­canica, che avrebbe mutato le posizioni di in­fluenza italiane nei Balcani51. Da Roma Mus­solini chiedeva a Chamberlain di far desistere il suo ministro in Albania da una politica che contrastava con gli interessi italiani in una re­gione di vitale importanza per l’Italia52. La Gran Bretagna allentò la presa sull’Albania tramite il suo ministro Harry Charles A. Eyres, accor­dando implicitamente all’Italia il diritto di una penetrazione economica nello Stato albanese. Zogu, infatti, dietro offerta di un prestito di un milione di franchi-oro da parte dei negoziatori italiani, respinse le offerte del gruppo finanzia­rio inglese. Mussolini, intenzionato ad avviare immediatamente l’intervento in Albania, prese contatti con il direttore centrale del Credito ita­liano, Mario Alberti, al fine di ottenere i finan­ziamenti necessari alla costituzione di un isti­tuto di emissione, indicato già nel 1922 dal rap­porto Calmès, e l’anno successivo dal consi­gliere finanziario del governo albanese, Hun- ger, come requisito fondamentale per il decol­lo economico del paese53.

51 Italo Sulliotti a Mussolini, in ACS, Pcm, 1924, 15.13.1994.52 Cfr. Ennio Di Nolfo, Mussolini e la politica estera italiana (1919-1933), Padova, Cedam, 1960, p. 179.53 II lussemburghese Albert Calmès venne incaricato nel 1922 dalla Società delle nazioni di compiere un esame prelimi­nare della situazione finanziaria economica e fiscale dell’Albania; egli calcolò in 110 milioni di franchi-oro il fabbisogno finanziario del paese. L’anno successivo l’olandese Hunger veniva designato dalla Società delle nazioni come consiglie­re finanziario del governo albanese; egli propose a Ginevra la fondazione di un istituto di emissione per l’Albania: cfr. Francesco Jacomoni di San Savino, Il patto di Tirana, “Rivista di studi politici intemazionali”, 1953, n. 2, p. 6.54 G. Carocci, La politica estera, cit., p. 37.53 Cfr. Alessandro Roselli, Italia e Albania: relazioni finanziarie nel ventennio fascista, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 64-67.

Alberti era contrario alla penetrazione eco­nomica in quel paese, “vi si piegò solo in seguito all’imposizione di Mussolini”54. Egli era con­vinto che l’espansione avrebbe comportato co­sti superiori ai ricavi, deducendo da ciò l’op­portunità di un intervento finanziario dello Sta­to ben superiore a quello che avrebbe potuto so­

stenere da solo il Credito italiano. Nel marzo del 1924, Alberto Janssen, direttore della Banque Nationale de Belgique e presidente del comita­to finanziario della Società delle nazioni, affi­dava a Mario Alberti la direzione dell’iniziativa per la costruzione della Banca d’Albania. Il 15 marzo 1925 il gruppo finanziario italiano con­cludeva col governo di Tirana la convenzione che dava vita alla Banca nazionale d’Albania (Banka Kombetare e Shqipnisj, e assegnava un cospicuo prestito per lavori pubblici. Al gruppo finanziario italiano spettavano 225 mila azioni così ripartite: Credito italiano, 100.000 azioni fondatrici e 15.000 azioni ordinarie; Banca com­merciale italiana, 30.000 azioni; Banco di Ro­ma, 30.000 azioni; Banca nazionale di credito, 30.000 azioni; altri istituti minori, 20.000. L’I­stituto nazionale cambi con l’estero (Ince) do­veva depositare presso una banca svizzera, a no­me delle banche italiane sottoscrittrici, la quota del capitale da versare.

La “formale indipendenza” dell’istituto, la cui sede era fissata dall’articolo 2 dello statuto in Italia, era tutelata anche per quanto riguar­dava gli organi sociali: il consiglio di ammini­strazione e il comitato di amministrazione po­tevano riunirsi sia in Albania che in Italia. La direzione centrale era composta da due mem­bri italiani e due albanesi; la presidenza era però comunque sempre attribuita a un italiano. Le assemblee venivano tenute attenendosi alla le­gislazione italiana sulle società per azioni. La banca veniva amministrata secondo la pratica e le consuetudini bancarie italiane55.

L’intera operazione era stata presentata dal governo fascista come un’iniziativa di aiuto ver­

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so una popolazione vicina, sfruttata da secoli e bisognosa di una rinascita economica. Secondo la propaganda dell’epoca, l’Italia avrebbe soc­corso il volenteroso popolo albanese con il suo ingegno e la sua industria, instaurando proficui rapporti di collaborazione tra le parti. In questa maniera essa veniva ad assumere il ruolo di “emancipatrice dei popoli”, dissimulando il rag­giungimento del prestigio intemazionale a cui veramente ambiva56.

56 Cfr. Indro Montanelli, Albania una e mille, Torino, Paravia, 1939, pp. 75-80.57 Sull'opposizione degli ambienti finanziari e industriali alle iniziative di carattere economico di Mussolini si veda Piero Melograni, Gli industriali e Mussolini. Rapporti tra Confindustria e fascismo dal 1919 al 1929, Milano, Lon­ganesi, 1980.58 Cfr. Antonio Baldacci, L'Albania, Istituto per l’Europa orientale, Roma.sd. [ma 1929], p. 394.59 Cfr. H. Kozlowska, “I rapporti economici”, cit., p. 116, nota 29.60 Cfr. Valerio Castronovo, Giovanni Agnelli. La Fiat dal 1899 al 1945, Torino, Einaudi, 1977, p. 474.61 Cfr. J. Warszawski, “Wspolpraca polskiego przemyslu motoyzacyjnego z firma Fiat w latach 1931-1980” (La col­laborazione dell'industria della motorizzazione polacca con la società Fiat negli anni 1931-1980), tesi di laurea, Scuo­la centrale di pianificazione e di statistica, SGPiS, Varsavia, 1980, cit. in H. Kozlowska, “I rapporti economici”, cit., p. 118.

In maniera meno esplicita, gli ambienti go­vernativi approvavano l’operazione per i van­taggi che questa avrebbe comportato nell’ac­quisizione di prodotti petroliferi e minerari, ca­paci di compensarne i costi. Sia la proprietà azio­naria della banca sia la sua struttura organizza­tiva interna tradivano i buoni proponimenti con cui l’iniziativa era nata. Il gruppo finanziario rappresentato dalle banche italiane, diffidente verso la riuscita dell’iniziativa57, aveva fatto in maniera di mantenere il controllo del capitale e soprattutto della gestione.

Lo stesso Alberti, presidente della neonata Banca d’Albania, nel discorso d’inaugurazione sottolineò l’importanza che lo Stato italiano, in nome della difesa dei suoi legittimi interessi, ga­rantisse e tutelasse l’operazione, come a indica­re che solo l’appoggio statale avrebbe potuto scongiurarne il fallimento58.

Operatori economici italiani

In ambito industriale, il presidente della Fiat Giovanni Agnelli, subito dopo la guerra, aveva

impostato una politica sempre più attiva e in­traprendente sui mercati dell’Europa centro­orientale. Egli capì che questi nuovi paesi, pri­vi di un’industria automobilistica, avrebbero co­stituito uno sbocco importante per quella italia­na. Nel novembre del 1920 fu creata a Varsavia la prima rappresentanza della ditta torinese in quest’area. La società si chiamò Polski-Fiat Spa e ricevette l’esclusiva di vendita di prodotti del­la Fiat in Polonia59. Accanto alla consociata di Varsavia vennero poi create le Fiat di Bucarest, Zagabria, Sofia, Praga, e Budapest. Dell’im­portanza di quest’area testimoniano le cifre: la Fiat era stata in grado di collocare in questa zo­na tra il 1926 e il 1927, tra il 15 e il 20 per cen­to di tutte le sue esportazioni60. Considerati i buoni risultati che l’operazione aveva conse­guito in Polonia, si decise, all’inizio del 1930, di lavorare a un progetto di costituzione di una fabbrica di autoveicoli. Al concorso si presen­tarono due aziende: la Fiat e la Citroen61.1 fran­cesi non compresero la situazione polacca. Per produrre le automobili, la Polonia aveva biso­gno di crediti esteri, considerata la scarsità dei capitali sul mercato interno. La proposta della Citroen non prevedeva invece la possibilità di grossi finanziamenti, anche perché l’industria francese si trovava essa stessa in una situazione precaria. Nonostante questo, il governo polac­co chiese alla Citroen di modificare le sue con­dizioni. Avendo ricevuto una risposta negativa, il contratto venne firmato con la Fiat. Il contratto di brevetto fu preparato nel luglio del 1931 dal viceministro della Guerra, il generale Slawoj- Skaldkowski, e fu firmato ufficialmente il 21 ot­

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tobre 193162. A partire dal 1933 le esportazioni Fiat subirono un’impennata, l’anno seguente l’I­talia partecipò all’importazioni polacche di vei­coli e di loro parti nella misura del 52,33 per cento63.

62 Cfr. H. Kozlowska, “I rapporti economici”, cit., p. 122.63 Cfr. W. Wyszynski, “Przemysl i handel samochodowy w Warszawie” (Industria e commercio automobilistico a Var­savia), tesi di laurea, SGPiS, Varsavia, 1936, p. 101, cit. in H. Kozlowska, “I rapporti economici”, cit., p. 125, nota 43.64 Cfr. V. Castronovo, Giovanni Agnelli, cit., p. 532.65 Cfr. “Bollettino di notizie commerciali”, marzo 1925, p. 116.66 Cfr. Filippo Tajani, L’avvenire dell’Albania, Milano,Ulrico Hoepli, 1932, pp. 131-140.67 Cfr. Roberto Almagià, L’Albania, Roma, Cremonese, 1930, pp. 222-227. Il sistema ferroviario Decauville, che pren­de il nome dal suo inventore, un ingegnere francese, era stato ideato per essere utilizzato nelle miniere, data la ridotta misura dello scartamento tra le verghe. Esso veniva installato direttamente sul terreno senza bisogno di traversine di legno. Particolarmente adatto per il traino a mano di carrelli o per piccole locomotive, poteva essere facilmente smon­tato e rimontato in altro luogo.68 “Bollettino di notizie commerciali”, 1923, n. 27, p. 148.69 Cfr. Relazioni economiche tra Italia e Albania, in “Rivista di politica economica”, 1924, pp. 106,107.

Agnelli inoltre riuscì a farsi valere nell’am­bito dell’accordo di compensazione stipulato nel 1934 tra Italia e Polonia. Le miniere polacche dell’ Alta Slesia fornirono alle Ferrovie dello Sta­to italiane il carbone in cambio dei prodotti au­tomobilistici destinati alla Panstwowe Zaklady Inzynieryjne (Pzinz, ossia Stabilimenti statali di ingegneria) e alla Polski-Fiat64. In questo modo la concorrenza dell’industria tedesca fu ferma­ta almeno nel settore automobilistico. Le auto di fabbricazione italiana avevano conquistato anche i favori del mercato rumeno, a scapito del­le grosse e costose auto di fabbricazione tede­sca e austriaca65.

In Albania l’intera rete viaria versava in pes­sime condizioni; i lavori di manutenzione non erano mai stati eseguiti, né sotto l’impero otto­mano, né tantomeno dopo; i ponti spesso risa­lenti a epoca romana, erano ormai distrutti, op­pure erano stati sostituiti dai turchi con precari ponti di corda e legno66. L’eventualità di avven­turarsi nella costruzione di un sistema di colle­gamenti ferroviari venne immediatamente scar­tata per l’enorme costo, dato che non esistevano tracciati precedenti a eccezione di alcuni a scar­tamento ridotto e di qualche Dacauville67.

In questo modo diventava di fondamentale importanza per il regime favorire sempre più

l’intervento di imprese italiane per la realizza­zione di nuovi ponti e strade: un moderno e ra­zionale sistema di infrastrutture avrebbe favori­to e incentivato l’intervento economico italiano. Venne così pattuito tra i governi di Roma e Ti­rana che le imprese italiane impegnate nella co­struzione di ponti avrebbero potuto rimanerne proprietarie e riscuoterne i pedaggi fintanto che le opere realizzate non fossero state riscattate dall’amministrazione statale68.

Allo stesso modo vennero incoraggiati i tra­sferimenti in Albania di industrie i cui proces­si di trasformazione potessero avvalersi in loco di materie prime a costi più bassi che in Italia. In questo clima, un ulteriore importante avvi­cinamento del primo ministro albanese Zogu al­l’Italia si verificò con la firma nel gennaio del 1924 di un trattato di commercio che accorda­va all’Italia la clausola della nazione più favo­rita. Il trattato stabiliva, oltre all’esenzione dal pagamento dei diritti di transito sulle merci, la possibilità di concessioni minerarie, industria­li e agricole. Veniva infatti stabilito, per cia­scuna delle parti contraenti, l’obbligo di non ac­cordare, nei settori commerciale e industriale, concessioni, monopoli e privilegi a un terzo Sta­to. Nel campo delle concessioni minerarie, agri­cole e dell’industria dei trasporti si stabiliva in­vece che nessuna delle due parti contraenti ap­plicasse ai cittadini dell’altra parte condizioni più onerose di quelle che venivano applicate ai sudditi nazionali o a quelli della nazione più fa­vorita69.

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Con questa clausola l’Italia evitava che nel­la vicina Albania si costituissero a vantaggio di cittadini o ditte non italiane posizioni di privi­legio o di monopolio. Si tentava in questo mo­do di limitare il pericolo di accaparramenti del­le risorse naturali da parte di terzi; pericolo che negli ultimi tempi aveva assunto forme concre­te a proposito dei giacimenti petroliferi. Come la Francia, la Gran Bretagna e la Germania, an­che l’Italia cercava di mantenere i rapporti eco­nomici che aveva instaurato nel Levante prima del conflitto mondiale. Questo valeva partico­larmente per la Dalmazia e l’Albania. Mante­nere quest’obiettivo per gli imprenditori italia­ni che operavano in questi territori diventava sempre più difficile dopo le scelte che l’Italia aveva fatto in politica estera. Infatti il 2 agosto del 1920 era stato firmato tra Italia e Albania un trattato di amicizia, secondo il quale l’Italia ri­nunciava al protettorato di fatto sull’Albania e a Valona conservando solo l’isolotto di Saseno. Due mesi dopo, nel novembre dello stesso an­no, con il trattato di Rapallo stipulato con il Re­gno serbo-croato-sloveno, l’Italia rinunciava al­la Dalmazia, eccetto il porto di Zara e le isole di Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosa, erigendo a città libera Fiume e il suo territorio.

Proprio in Dalmazia si era sviluppata, per ini­ziativa italiana, l’industria del cemento, rappre­sentata da sei stabilimenti tutti controllati prin­cipalmente da capitale italiano. La loro produ­zione annuale si aggirava sulle 500 mila ton­nellate l’anno con profitti che andavano dal 25 al 40 per cento, nonostante l’alto costo del car­bone. L’industria del cemento Portland trovava in Dalmazia il suo posto ideale, sia per la quasi immediata vicinanza alla costa della materia pri­ma, sia per la sua buona qualità.

Nel novembre del 1920, mentre stavano per concludersi i lavori tra i delegati italiani e jugo­slavi per redigere gli accordi di Rapallo, furono toccate in altra sede questioni di carattere eco­

nomico. A Santa Margherita i primi approcci fu­rono imperniati su tre questioni principali: il ri­conoscimento dei diritti delle imprese a capita­le italiano presenti sul territorio jugoslavo pri­ma del conflitto, specialmente nella regione dalmata; la concessione di speciali facilitazioni per le iniziative italiane in Jugoslavia; la firma di un esauriente trattato di commercio e di na­vigazione con accordi bancari allo scopo di svi­luppare le relazioni commerciali fra i due paesi per arrivare a una prossima unione economica.

Uno dei progetti più importanti a capitale ita­liano si trovava in Dalmazia e riguardava l’e­strazione di carbone delle miniere del monte Pro­mina e del distretto di Demis. Il carbone estrat­to, se pure di non eccelsa qualità, veniva impie­gato dalle piccole industrie locali per le navi che svolgevano il servizio di navigazione costiera fra le due sponde dell’Adriatico. Sotto control­lo italiano erano anche alcune fabbriche di car­buro, di cianuro e altre numerose industrie di la­terizi a Spalato70.

70 Cfr. Antonije Filipic, La Jugoslavia economica, Milano, Treves, 1922, pp. 238-241.71 Appunto di Mussolini per il Comitato permanente per le infrastrutture interne; ministero degli Affari esteri alla Pre­sidenza del Consiglio dei ministri, 31 gennaio 1932,entrambi inACS.Pcm, 1931-1933,3.1.10.3993.

L’Italia individuò nuove opportunità di inve­stimento per la creazione di imprese, anche con la partecipazione jugoslava, per la costruzione di strade ponti e ferrovie, per lo sfruttamento del­le foreste della Slavonia e dell’energia idroelet­trica in Dalmazia71. Dalla Jugoslavia come con­tropartita potevano essere esportati grano, suini in larga quantità, tabacco dalla Bosnia e in par­ticolare dalla Erzegovina, e legname sempre da Bosnia, Erzegovina e Slavonia. L’Italia dal can­to suo avrebbe esportato ogni tipo di materiale rotabile, automobili di grossa cilindrata, prodot­ti tessili e finiti del cuoio e della pelle. Già fio­rente era il commercio dei tessuti attraverso le città di Zara, Sebenico e Curzola, che attraver­so le loro strutture commerciali distribuivano la merce in Croazia, Bosnia Erzegovina, nel Mon­tenegro e in Albania. E tuttavia nel corso degli anni trenta che l’imprenditoria italiana partecipò all’attività industriale e commerciale della Ju­

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goslavia con maggiore successo nonostante le tensioni in politica estera tra i due paesi.

In Romania nel dicembre del 1919 venne fon­data dalla Comit la Foresta società anonima per l’industria ed il commercio del legname, con se­de a Milano. L’operazione faceva riferimento a una precedente acquisizione in Romania delle aziende di legname della Ungarischer Holzend- ler Ag. Creditinstitut (Holzbank) di Budapest. L’oggetto sociale assegnato alla società era l’e­sercizio dell’industria di produzione e lavora­zione del legname e del commercio in Italia e all’estero. Il capitale sociale, inizialmente dell’ammontare di 50 milioni di lire, venne sot­toscritto dalla Banca commerciale italiana e da case e personalità amiche dell’istituto di credi­to milanese.

L’iniziativa riguardò 1 ’ acquisto dell’ attivo fo­restale di Holzbank, costituito da 22 società ano­nime presenti in Romania e nei paesi apparte­nenti all’ex Impero austro-ungarico (nonché dai crediti concessi da Holzbank alle società stesse, le quali in seguito alla guerra erano per la mag­gior parte inoperose, mancando il necessario per riprendere le attività)72.

72 Verbale del 20 maggio 1920, in ASBCI, fondo Presidenza e Consiglio di amministrazione, serie Verbali del Consi­glio di amministrazione 1894-1945 [d’ora in poi Consiglio di amministrazione], voi. V, p. 156.73 Cfr. S. Lauterbach, Kapital zagraniczny w lodzy (Il capitale straniero a Lodz), “Gazeta Polska” (Gazzetta polacca), 5 dicembre 1935, cit. in H. Kozlowska, “I rapporti economici”, cit., p. 106, nota 15.741. K. Poznansky al direttore H. Bursz a Varsavia, 18 gennaio 1938, cit. in H. Kozlowska, “I rapporti economici”, cit. p. 108, nota 16.

La Banca commerciale italiana fu interessa­ta anche all’industria tessile polacca, soprattut­to concedendo crediti. Quest’attività si sviluppò alla fine degli anni venti. La società polacca I.K. Poznanski SA, di Lodz, uno dei più grandi sta­bilimenti tessili dell’Europa, appartenente all’o­monima famiglia, negli anni venti, ricorse spes­so alla concessione di crediti da parte della So­cietà intemazionale di credito mobiliare di Lu­gano (Sicmi), appartenente alla holding della Co­mit73. Nel 1930 la Comit, essendo creditrice del­la Sicmi, entrò in possesso della partecipazione che la Sicmi possedeva nella I.K. Poznanski SA.

La società polacca a quel tempo si trovava in dif­ficoltà finanziarie e, non essendo in grado di pa­gare i suoi debiti, ebbe bisogno di ulteriore ca­pitale circolante. La Comit, sfruttando questa si­tuazione, chiese di ottenere gratuitamente la metà delle azioni ordinarie e 1.800 azioni privilegia­te e di avere il potere decisionale nella gestione dell’impresa. I rapporti con i proprietari polac­chi si svilupparono secondo le regole del ricat­to: se le decisioni assunte non avessero corri­sposto alla volontà della banca, immediatamen­te sarebbe stata indirizzata loro una richiesta di restituzione del denaro prestato74.

La penetrazione della Comit in Polonia si ba­sò soprattutto sui legami di parentela della fa­miglia Toeplitz. Le persone che rappresentaro­no gli interessi della banca furono i Meyer (Gior­gio, Stanislao e Stefano) e i Toeplitz (Sigi­smondo, Leopoldo, Teodoro e Stanislao princi­pe Lubomirski).

NelTindustria tessile, la Comit ebbe le sue partecipazioni anche nella Czestochowskie Zad- lady Prezemyslu Wlokienniczego (Stabilimen­to dell’industria tessile di Czestochowa), uno dei sindaci della quale fu Giorgio Meyer, e nella To- maszewska Fabrika Sztucznego Jedwabiu SA (Fabbrica di seta artificiale di Tomaszow), nel cui consiglio d’amministrazione vi erano Sigi­smondo e Giuliano Toeplitz. Quest’ultima era stata acquistata dalla Comit nel marzo del 1925 per poter usufruire di una struttura industriale capace di rispondere al continuo aumento delle richieste di seta artificiale che si stavano regi­strando in Polonia e nei paesi confinanti. Toe­plitz, inoltre, si impegnò a negoziare l’entrata della Snia-Viscosa nel capitale della costituen­da società tessile polacca per una quota pari al 60 per cento. L’intero capitale sociale era rap­

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presentato da 460 mila azioni, di cui 102 mila vennero acquistate dalla Commerciale75 e 250 mila vennero acquistate dalla Snia-Viscosa che in questo modo giunse a controllare la società polacca.

75 ASBCI, Toeplitz, cart. 36, fase. “Tomaszowska Fabryka — Varsavia”.76 Ferdinand Zweig, Poland between two Wars, Londra, Secker&Warburg, 1944.77 Meyer a Toeplitz, 28 luglio 1925, in ASBCI, Toeplitz, cart. 51, fase. “Polmin”.78 Cfr. Camera di commercio italo-orientale, L’Albania economica, Bari, Società editrice tipografica, sd. [ma dopo il 1927], p. 62.

Significativa dell’apertura polacca verso l’I­talia fu l’offerta fatta dagli Stabilimenti polac­chi statali di paraffina Polmin di Varsavia alla Mira-Lanza di Genova per la fornitura di can­dele, cera e paraffina. Mazzini della Mira-Lan­za prese contatto con Toeplitz per avere infor­mazioni sulla società polacca e per capire se esi­stevano le condizioni per avviare l’operazione. Toeplitz consigliò di contattare Stanislao Meyer per ottenere informazioni più esaurienti sul­l’opportunità offerta alla Mira-Lanza di acqui­stare parte della produzione della Polmin. La Polmin era uno stabilimento dello Stato polac­co, dipendente dal ministero del Commercio e dell’industria. L’affare sarebbe dunque stato trattato dalla Bank Gospodarstwa Krayowego (Banca dell’economia nazionale) e ciò convin­se Meyer che l’operazione non avrebbe pre­sentato alcun rischio. Meyer anzi attirò l’atten­zione di Toeplitz sul fatto che l’iniziativa avreb­be esercitato un’ottima influenza sugli altri af­fari che la Banca commerciale aveva in Polo­nia e che, nonostante dipendessero tutti dal mi­nistero del Commercio, si concentravano in pra­tica presso il ministero delle Finanze. La con­clusione dell’operazione proposta dalla Polmin si inquadrava in modo positivo negli affari che la Comit aveva con il Monopolio dei tabacchi polacco Poltabacco76, procurando alla Com­merciale l’appoggio molto influente degli am­bienti dove si decideva tutto, cioè il ministero delle Finanze. Le trattative ebbero corso im­mediato77.

Nell’accordo del marzo 1925 per la costitu­zione della Banca d’Albania, era contemplata anche la costituzione di una Società per lo svi­

luppo economico dell’Albania (S vea)78. Essa era stata costituita il 23 aprile del 1925, con un ca­pitale sociale di 15 milioni di lire di cui il 7 per cento attribuito gratuitamente al governo alba­nese. La società aveva lo scopo di procurare al governo albanese 50 milioni di franchi-oro e di erogarli con gradualità a un saggio non ecce­dente il 7,5 per cento, per la durata massima di 40 anni.

La Banca nazionale d’Albania aveva una for­te influenza sulla vita economica albanese pro­prio tramite la Svea che, costituita per promuo­vere lo sviluppo dell’Albania, controllava di­rettamente i lavori pubblici e gli appalti a cui le imprese avrebbero concorso per l’assegnazione dell’esecuzione dei lavori. Come prima condi­zione nella stipulazione del prestito fu posta la norma che il suo ricavato dovesse servire uni­camente alla costruzione di porti, ponti e strade, a opere di bonifica, prosciugamento di stagni, paludi e ad altri lavori di interesse per lo svi­luppo agricolo del paese, a costruzioni di ferro­vie, opere idroelettriche, impianti telefonici e te­legrafici, sfruttamento di boschi. Nell’accordo venne disposto che il ricavato del prestito non fosse mai utilizzato per la manutenzione delle opere pubbliche, alla quale il governo albanese avrebbe dovuto provvedere con i mezzi del suo bilancio. Nel fissare i lavori da compiere venne stabilito il criterio di lasciare la scelta allo Sta­to albanese col quale la Svea doveva accordar­si circa l’ordine di esecuzione.

La Società per lo sviluppo economico del­l’Albania assunse la funzione di collocatore e gestore del prestito e di agente pagatore delle opere pubbliche compiute con il ricavato del pre­stito stesso. Speciali norme furono pattuite nel­la convenzione circa l’esecuzione dei lavori, de­legando la Banca nazionale d’Albania a pro­muovere e ricevere le offerte delle imprese e in­caricando lo stesso istituto di esaminarle insie­

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me a una commissione nominata dal governo al­banese79.

79 Cfr. The Information Department of thè Royal Institute of International Affairs, South Eastern Europe. A Politicai and Economie Survey, Londra, Oxford University Press, 1939, pp. 88-89; Francesco Nobili Massuero, La rinascita economica dell’ Albania, “Rivista di politica economica”, 1927, pp. 756-757; F. Jacomoni di San Savino, Il patto di Tirana, cit., p. 10.80 Cfr. Matteo Pizzigallo, Alle origini della politica petrolifera italiana, Milano, Giuffrè, 1981, pp. 244-254.81 A sottolineare il carattere apertamente remissivo e accomodante dell’Italia verso il Regno serbo-croato-sloveno ve­na erano stati firmati nell’ottobre del 1922 gli accordi di Santa Margherita, secondo i quali gli italiani avrebbero do­vuto abbandonare i territori di Susak al confine del territorio di Fiume.82 Cfr. Ernesto Cianci, Nascita dello Stato imprenditore in Italia, Milano, Mursia, 1977.

Le imprese italiane lavoravano in Albania tramite la Svea non sempre perché meritevoli per abilità imprenditoriale o tecnica, ma perché arguti titolari erano riusciti ad accattivarsi i fa­vori degli ambienti governativi o della buro­crazia facenti capo all’apparato del partito fa­scista. Per esempio, l’imprenditore Venanzio Venanzetti di Milano reclamava in una sua let­tera per l’ostruzionismo attuato dalla Svea nei confronti dell’attività svolta dalla sua impresa in Albania, attività che era esercitata in manie­ra indipendente dall’ente statale. L’impresa, no­nostante avesse più volte concorso agli appalti indetti dalla Svea, ne era sempre stata esclusa per motivi imputabili non al fatto che le sue of­ferte erano peggiori rispetto alla concorrenza, quanto piuttosto a una sospettata avversione di Venanzetti al regime. L’imprenditore milanese ribadiva, infatti, che l’opera della sua impresa in Albania contribuiva al progetto fascista di “collaborazione” indipendentemente dal fatto che egli possedesse o meno la tessera del par­tito. A questo proposito Venanzetti si rammari­cava che il rappresentante della Svea in Alba­nia, commendatore Luigi Sottili, ostacolasse in ogni modo l’operato svolto da imprese fuori dal controllo dell’ente.

Approvvigionamento energetico

Il progetto di nazionalizzare gli impianti di raf­finazione presenti sul territorio di Fiume in Dal­mazia rientrava a pieno titolo nella prospettiva

del regime di creare zone di influenza in Euro­pa orientale partendo dai territori che si affac­ciavano sull’altra sponda dell’Adriatico. Il mi­nistero delle Finanze italiano acquistò dalla Pho- togen la maggioranza azionaria della Needer- landsche Petroleum maatscapijphotogen di Am­sterdam, rappresentata da 18.751 azioni del­l’importo di 400 lire ciascuna, dando agli im­pianti la denominazione di Raffinerie di oli mi­nerali società anonima (Romsa)80.

La gestione di un’attività a Fiume, nel cuore della Dalmazia, avrebbe funzionato come pun­to di partenza per assumere il controllo econo­mico sulla regione che, da un punto di vista stret­tamente diplomatico, era stato negato all ’ Italia81. L’intera operazione di Fiume infatti si prestava, sotto l’aspetto strettamente economico, a qual­che riserva, se si pensa al suo carattere assi­stenziale e alla modesta entità dell’intero im­pianto di raffinazione82. Tuttavia, il fatto che una potenza straniera acquisisse la raffineria fiuma­na avrebbe ostacolato il disegno italiano di con­trollare l’Adriatico.

Nell’accordo del 12 marzo 1925 stipulato tra i governi albanese e italiano, riguardante la na­scita di un istituto centrale di emissione, veni­vano menzionate anche delle concessioni mine­rarie. Una a Valona, di 2.140 ettari, veniva ac­cordata alla Società italiana miniere di Seleniza (Simsa), e l’altra, per una estensione totale di 47.213 ettari, era accordata alle Ferrovie dello Stato italiano. Per la gestione di quest’ultima ve­niva creata, nel luglio del 1925, l’Azienda ita­liana petroli Albania (Aipa), affidandone l’am- ministrazione al servizio approvvigionamento delle Ferrovie dello Stato, sotto il controllo del

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ministero delle Comunicazioni83; l’Aipa dove­va provvedere alle opere di ricerca e di estra­zione del petrolio.

83 Cfr. Giovanni Demaria e al., Principi di economia albanese, Padova, Cedam, 1941; N. La Marca, Italia e Balcani, cit., p. 23; Gino Borgatta, Albania, Venezia, Istituto di studi adriatici, 1943, p. 236; Albania, a cura dell’ufficio studi dell’Ispi, Milano, Istituto per gli studi di politica intemazionale, 1940, p. 121.84 E. di Nolfo, Mussolini e la politica, cit., p. 18085 Giovanni Demaria e al., Principi di economia albanese, cit., p. 127.86 Cfr. Mairo Grunberg, Il petrolio rumeno ed il capitale italiano, Roma, se.,1924, pp. 73-74.87 Cfr. M. Pizzigallo, Alle origini, cit., pp. 174-177.

L’Albania stava entrando sempre più nella sfera d’influenza italiana e l’implicito protetto­rato sarebbe stato raggiunto nel novembre del 1926, con il patto di Tirana, secondo il quale le parti contraenti si impegnavano a non assume­re con altre potenze impegni politici o militari pregiudizievoli per gli interessi dell’altra parte. In questa maniera il governo italiano diventava arbitro della convenienza o meno che avrebbe avuto per l’Italia la realizzazione di intese poli­tiche ed economiche tra l’Albania e gli altri sta­ti84. Un controllo quindi volto a garantire senza intralci, secondo la propaganda del tempo, la moderna opera civilizzatrice dell’Italia e, im­plicitamente, il sistematico sfruttamento delle risorse di cui il paese disponeva.

Nel luglio del 1926, infatti, le Ferrovie dello Stato italiano ottenevano una nuova concessio­ne petrolifera di 116.825 ettari nelle province di Beart, Durazzo e Valona, la cui gestione venne affidata sempre all’Aipa85.

Potenziali risorse petrolifere disponibili per l’Italia giacevano anche in Romania. Il ministro della Marina del governo Orlando faceva sape­re a questo proposito della possibilità di stabili­re un’influenza economica italiana in Romania al fine di instaurare scambi commerciali paga­bili in petrolio. In questa maniera il mercato ru­meno non sarebbe stato lasciato in preda a pro­grammi di penetrazione commerciale di altri paesi e, invece di ottenere il pagamento in va­luta pregiata dalla Romania, sarebbe stato suf­ficiente saldare le transazioni con l’esportazio­ne di olio minerale. Il governo italiano interpel­lò dunque il suo rappresentante a Bucarest sul­

la possibilità di rilevare dal governo rumeno con­cessioni di terreni petroliferi, o la partecipazio­ne italiana a società petrolifere esistenti. La Ban­ca di sconto, la Banca commerciale e il Credito italiano si unirono per acquistare il 51 per cen­to della società petrolifera ex tedesca Steaua Ro­mena, controllata dalla Deutsche Bank, ma nel 1920 l’opposizione del governo rumeno e l’in­tervento anglofrancese, della Anglo Persian Oil C., in cui la Banque de Paris et des Pays Bas de­teneva una posizione di minoranza, fecero fal­lire l’operazione86. L’anno prima era stato con­segnato al ministro degli Esteri Tommaso Titto- ni, da parte di un ingegnere, il maggiore del Ge­nio navale Leonardo Fea, il progetto di un oleo­dotto lungo 1.350 chilometri per il trasporto di­retto del petrolio dalla Romania all’Italia, allo scopo di soddisfare il crescente fabbisogno ener­getico del paese e nel tentativo di renderlo au­tonomo dai trust petroliferi intemazionali.

Nel mese di agosto dello stesso anno una mis­sione italiana si recò a Bucarest per chiedere uf­ficialmente la concessione di terreni per Io sfrut­tamento di giacimenti petroliferi. L’allora pre­sidente del Consiglio lon Bratinau espresse le sue riserve sul progetto italiano e diede parere sfavorevole87. Successivamente, il consolida­mento al potere del partito nazional-liberale ru­meno fece naufragare ogni ulteriore tentativo di iniziativa italiana nel settore dei petroli. Il pro­getto portato avanti dal partito era infatti di na­zionalizzare le risorse minerarie del paese nel­l’intento di restituire autonomia al paese. Per i circoli economico-finanziari italiani, un impe­gno attivo sulla questione delle concessioni pe­trolifere significava dover far fronte a grosse esposizioni finanziarie, rispetto alle quali i pro­fitti non erano certo garantiti.

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Per quanto riguarda la Polonia, non vi è dub­bio che anche questo paese presentasse ampi spazi per un’iniziativa italiana, nonostante la preponderante presenza francese. La scelta si ri- velavapoi particolarmente interessante per la re­lativa vicinanza dei giacimenti petroliferi gali­ziani alle raffinerie di Fiume. In un primo ab­bozzo dell’accordo venivano accordate dal go­verno polacco concessioni a società in cui fos­se presente, senza specificare in che proporzio­ne, il capitale italiano. La formula venne criti­cata dalla Polonia in quanto avrebbe permesso anche a società straniere con minime percentual i di capitale italiano di ottenere concessioni pe­trolifere; inoltre, i maggiori gruppi petroliferi mondiali, tramite società italiane di rappresen­tanza, avrebbero potuto comunque usufruire del- l’opportunità.

Nella nuova bozza dell’accordo veniva in­dicato esplicitamente che il governo polacco accordava solo a imprese riconosciute come ita­liane da entrambi i governi le opportunità ga­rantite alle altre imprese petrolifere straniere e sottoponeva alla clausola della “nazione più fa­vorita” la richiesta da parte italiana di nuove concessioni petrolifere88. L’accordo non diede i risultati sperati: già otto mesi dopo la sua sti­pulazione, il “Bollettino di notizie commercia­li”, organo ufficiale del ministero dell’Econo- mia nazionale, indicava le ragioni del manca­to decollo dell’operazione. Secondo l’addetto commerciale a Varsavia, la particolare forma­zione geologica del territorio galiziano avreb­be richiesto “un’ingente spesa non priva di ri­schi ed un lunghissimo tempo”; veniva denun­ciato inoltre che l’utilizzo di vecchie macchi­ne a vapore, invece di quelle a funzionamento

88 Extract from report of proceedings of Italian cabinet respecting negotiations for commerce treaties with Poland. C6675/336/22, 1923, in PRO, Trade and Commerce, FO 371/8888; Matteo Pizzigallo, Alle origini, cit., pp. 202-207.89 Cfr. M. Pizzigallo, Alle origini, cit., p. 207.90 Scritta di un manifesto pubblicitario della Fiat (anni trenta) per sottolineare l’impegno di quest’ultima nella costru­zione di aerei, motori per aerei, navi, motori per navi, auto, autoblindo e carri armati.91 Ingegner Brezzi a Pio Perrone, Torino, 11 novembre 1919, in Fondazione Ansaldo, Archivio economico delle im­prese liguri Onlus, Genova [d’ora in FA], fondo Perrone [d’ora in poi Perrone], scat. 795, cit. in H. Kozlowska, “I rap­porti economici”, cit., p. 55, nota 11.

elettrico, lente e non economiche per l’alto con­sumo di carbone, avrebbe reso costosa l’estra­zione.

“La questione dei petroli polacchi evidenzia­va l'incapacità dell’industria italiana di attuare operazioni petrolifere, in cui erano necessari no­tevoli capitali e collaudate tecnologie. Requisi­ti che all’industria petrolifera italiana, priva di appoggi governativi e di solide coperture finan­ziarie, almeno per il momento mancavano com­pletamente”89. L’operazione era stata dunque motivata non tanto da aspettative di profitto quanto piuttosto dalla volontà dell’Italia di pren­dere parte allo sfruttamento dei giacimenti pe­troliferi polacchi al pari delle altre potenze. Po­tenze che potevano contare su sistemi di gestio­ne più avanzati grazie a una maggiore disponi­bilità di capitali.

Cielo, mare, terra90

Un’altra interessante vicenda ricca di notevoli risvolti politico-economici è quella che riguar­da le forniture militari dell’Italia alla Polonia. Nel settembre del 1919 l’aeronautica italiana aveva ricevuto un’ordinazione dal governo po­lacco per la fornitura di 60 apparecchi S VA 10. L’ordinazione non venne passata all’Ansaldo perché l’aeronautica sperava di poter converti­re gli SVA in altri apparecchi della Caproni e della Fiat. I polacchi non erano d’accordo sulla sostituzione, sui 90 ordinati, di 15 apparecchi SVAe Balilla con altrettanti di tipo BR. Soltan­to quando l’aeronautica italiana si convinse che il governo polacco era irremovibile, passò l’or­dinazione all’Ansaldo91.

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Nel gennaio del 1920 veniva costituita a Lu­blino la società Plage e Laskiewicz, in seguito denominata Wzlot. Il comitato promotore della ditta era costituito dalla Banca commerciale di Varsavia, dalla Banca per il commercio e l’in­dustria, dalla Banca agricola, da Stefan Laury- siewicz e Stanislaw Meyer. L’accordo prevede­va la vendita alla Wzlot, da parte dell’Ansaldo, dei diritti di fabbricazione senza l’esclusiva di 200 aerei di tipo A300 e di 100 aerei AI Balilla; la consegna di due serie complete di disegni tec­nici di ogni tipo di aereo; la vendita di 200 mo­tori tipo Fiat A. 12 bis e di 100 motori tipo SPA 6 A immagazzinati già nei cantieri aeronautici di Torino. Nel febbraio del 1920 furono inviati in Polonia i primi 60 apparecchi ordinati dall’eser­cito polacco l’anno precedente92.

92 Brezzi a Perrone, 19 febbraio 1920, in FA, Perrone, scat. 92, cit. in H. Kozlowska, “I rapporti economici”, cit., p. 60, nota 21.93 Brezzi a Perrone, 13 aprile 1920, in FA, Perrone, scat. 92, cit., in H. Kozlowska, “I rapporti economici”, cit., p. 61, nota 22.94 Cfr. Annali dell'economia italiana, voi. 9.1,1939-1945, dir. Gaetano Rasi, Milano, Ipsoa, 1983, p. 286.95 Finché la questione era rimasta circoscritta agli ambienti tecnici della marina, le personalità di governo non se ne erano interessate, sicure che l’ordinazione dei sottomarini sarebbe stata certamente riservata ai cantieri francesi. Il go­verno rumeno presieduto da Vintila Bratinau, non intendendo confermare l’ordinazione all’Italia per la tensione poli­tica esistente tra i due paesi, sembrava sottomettersi alle influenze della Francia che, nell’intento di ottenere l’ordina­zione, aveva dato avvio a un’agguerrita campagna di denigrazione contro l’industria cantieristica italiana, sostenendo che ai prezzi proposti non poteva che corrispondere materiale assolutamente scadente. A quest’azione si contrappo­neva il parere delle case inglesi Vickers e Armstrong, che dichiararono che l’industria navale italiana era assolutamente

Notevoli furono i tentativi da parte francese per sottrarre l’affare all’Ansaldo: a questo sco­po vennero anche esercitate pressioni politiche sul governo polacco senza peraltro ottenerne soddisfazione. Quest’ultimo firmò il 27 marzo 1920 un nuovo contratto per la fornitura di 50 aerei (10 Balilla e 40 SVA) e versò per questa fornitura il 50 per cento dell’importo in buoni del Tesoro polacchi per un ammontare di 836.000 lire. Gli interessi erano pagabili presso la Legazione polacca a Roma, e così pure il buo­no alla scadenza. La Banca commerciale italia­na era disposta a scontarlo a un tasso del 12 per cento, riducibile al IO93.

Ancora nell ’ agosto del 1921 fu firmato un ter­zo contratto col governo polacco per la fornitu­ra di 40 aerei Ansaldo. I rapporti in ambito ae­

ronautico con T Ansaldo terminarono nel 1923, ma ripresero nel marzo dello stesso anno per la fornitura di attrezzature e materiale rotabile a una società di Varsavia che si occupava delle ri­parazioni di locomotive. Tuttavia il legame che si era creato tra la Polonia e l’aviazione italiana non fu comunque interrotto, nel 1938 il gover­no polacco commissionò ai cantieri di Monfal- cone sei idrovolanti94.

La Romania, impegnata nel darsi un nuovo e indipendente assetto economico era disposta a intavolare rapporti di collaborazione con eco­nomie straniere capaci di fornire i macchinari e la tecnologia indispensabili per il raggiungi­mento dello scopo. Nel 1925, a una gara di ap­palto per la fornitura di sommergibili alla mari­na rumena, si erano classificati al primo e al se­condo posto i Cantieri del Camaro, e i Cantieri Tosi di Taranto, seguivano al terzo e al quarto posto i cantieri francesi della Normandia e del­la Loira, al quinto posto gli Ansaldo-Sestri e al sesto di nuovo la Francia con la Schneider. I di­rigenti e i tecnici della marina rumena insieme al ministero della Guerra rumeno avevano rite­nuto il prodotto italiano il più rispondente alle esigenze della costituenda marina sia dal lato tecnico che da quello finanziario, bocciando le proposte dei cantieri francesi Normand, Loire, e Schneider. Impedimenti di carattere politico non permisero ai cantieri italiani di portare a ter­mine l’operazione95.

Nel 1926, tornato Averescu a capo del go­verno rumeno, le competenti autorità di Buca­rest confermarono la commessa ai cantieri ita­

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liani del Carnaio e Tosi di Taranto, commissio­nando inoltre alle Officine e cantieri napoletani C. e T.T. Pattison la costruzione di due caccia­torpediniere96. Nel settembre dello stesso anno veniva firmato dal generale Averescu un tratta­to di amicizia con l’Italia nel quale venivano ga­rantiti alla Romania i diritti sulla Bessarabia, an­che se la ratifica per il momento veniva espres­samente rinviata. Il generale era riuscito a farsi garantire da Mussolini una clausola segreta di carattere militare, secondo la quale si sarebbe dato il via a consultazioni in caso di aggressio­ne non provocata da parte russa o ungherese97.

In questo modo l’avvicinamento alla Roma­nia, auspicato da tempo dal governo fascista, sembrava un fatto compiuto. Si trattò comunque di un’illusione di breve momento, che i rivolgi- menti politici interni allo Stato balcanico avreb­bero ben presto spezzato con il ritorno a capo del governo, nel giugno del 1927, del naziona­lista Vintila Bratinau che pose termine a ogni iniziativa di collaborazione economica con i pae­si stranieri. Si erano infatti arenate le procedu­re per la realizzazione da parte dello Stabili­mento tecnico triestino di un incrociatore per la marina rumena, e si era colta l’opportunità per sbloccare la situazione in occasione della visita in Italia del ministro degli Esteri Titulescu.

Secondo il parere dei cantieri, la cosa non ave­va avuto più seguito, non soltanto per ragioni politiche, ma anche e soprattutto per la questio­ne della mancanza di fondi. I cantieri erano al corrente delle violente campagne della stampa rumena contro l’Italia, dopo la caduta del gene­rale Averescu, tuttavia ritenevano che l’asse­gnazione della commessa sarebbe stata legata non solo a considerazioni di carattere politico, ma anche alla necessità che il governo italiano concedesse fondi alla Romania98.

Come è facile intuire, ai disaccordi e alle ten­sioni nei rapporti fra i due paesi faceva riscon­tro una scarsa propensione del governo italiano alla concessione di prestiti. Il ministro delle Fi­nanze Volpi non ravvisava infatti la possibilità di un prestito alla Romania per l’acquisto di un incrociatore che avrebbe dovuto essere fornito dallo Stabilimento tecnico triestino. A questo proposito affermava che il governo rumeno avrebbe dovuto rivolgersi direttamente presso gli istituti di credito italiani utilizzando lo stru­mento delle garanzie statali ai sensi del rdl. 2 giugno 1927 n. 1046.

Agli appelli del prefetto di Trieste per lo sbloc­co della questione, il duce rispondeva che i cir­ca 200 milioni di lavori commissionati dalla ma­rina italiana alle industrie cantieristiche triesti­ne non avrebbero dovuto far sentire la mancan­za dell’eventuale perdita dell’ordinazione ru­mena99.

Nel 1933 i Cantieri riuniti dell’Adriatico di Monfalcone, superando l’agguerrita concorren­za dell’industria navale straniera, erano riusciti a prevalere nella gara per la fornitura alla Polo­nia di due transatlantici, da adibire anche al tra­sporto mercantile. La concorrenza dei cantieri stranieri era stata sbaragliata perché i due tran­satlantici associavano i prezzi contenuti alle avanzate caratteristiche tecniche. Per il paga­mento della fornitura la Polonia sembrava por­re condizioni di rateazione che i Cantieri non in­tendevano accettare. Per vincere anche quest’o­stacolo all’acquisizione della commessa, venne esaminata la possibilità di una fornitura di car­bone alle Ferrovie italiane a pagamento delle due navi. Le Ferrovie dello Stato italiano si di­chiararono disposte ad acquistare dalla Polonia un quantitativo annuo di carbone fino all’am­montare di circa 15 milioni di lire annue, de­

competitiva e aveva un livello tecnologico di prim’ordine rispetto a quella francese: cfr. il capitano di corvetta addet­to navale Matteucci all’ufficio di Stato Maggiore della marina, 12 giugno 1925, in ACS, Pcm, 1925,1.2.2.238.96 Cfr. M. Pizzigallo, Alle origini, cit., p. 64.97 Cfr. G. Caroli, Un’amicizia difficile, cit., p. 293.98 II ministero degli Affari esteri al ministero delle Finanze, 7 febbraio 1928, in ACS, Pcm, 1928-1930, 15.2.8.1049.99 Mussolini al prefetto di Trieste, 1 giugno 1928, in ACS, Pcm, 1928-1930,15.2.8.1049.

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volvendo ai Cantieri gli importi relativi alle for­niture di carbone in pagamento delle navi fino all’estinzione totale del credito100.

100 Archivio storico ministero Affari esteri [d’ora in poi ASMAE], serie Affari politici, 1931-1945, Polonia, b. 5, fase. 7.101 Polish-Italo Commercial Relations, 17 novembre 1933, in PRO, FO 371/16814.102 Ministero degli Affari esteri a Presidenza del Consiglio dei ministri, 16dicembre 1934,inACS,Pcm, 1934,14.2.2952.103 Si trattava infatti di forniture militari rappresentate da trattori, carri d’assalto e aeroplani.104 Ministero degli Affari esteri a ministero delle Finanze, 7 aprile 1932, in ASMAE, serie Affari politici, 1931-1945, Ungheria, b. 5, fase. 8.105 Cfr. H.J. Burgwin, Il revisionismo fascista, cit., p. 231.106 Cfr. L. Virgili, Dopo la conferenza di Londra per il riassetto dell’Europa Danubiana, “Rivista di politica econo­mica”, giugno 1932, pp. 761,762.107 Gli accordi del Semmering vengono firmati nel 1932 tra Italia, Austria e Ungheria. Essi contemplavano, oltre a fa­cilitazioni generali di credito e di trasporto, la concessione di premi concordati all’esportazione dei prodotti austriaci o ungheresi verso l’Italia. I nuovi accordi si basavano sul sistema Brocchi, che prevedeva premi agli esportatori sotto forma di anticipi di capitale assegnati a un tasso d’interesse molto favorevole e in misura tale da bilanciare l’onere del­le tariffe doganali. In realtà, gli accordi funzionavano come un sistema mascherato di tariffe preferenziali, che era in

L’accordo preoccupava gli ambienti della fi­nanza inglese, che vedevano nelle partite di car­bone polacco una temibile concorrenza alle esportazioni di carbone inglese in Italia. Il peri­colo diventava tanto più serio, se la Polonia, una volta saldato il debito delle due navi mercanti­li, avesse continuato a essere preferita alla Gran Bretagna nell’approvvigionamento di carbone. L’Inghilterra, infatti, nonostante non avesse vin­to la gara di appalto, cercò di togliere la com­messa ai cantieri italiani, offrendosi di acqui­stare grosse quantità di carne tipo bacon, non ot­tenendo tuttavia soddisfazione101. Il primo dei due transatlantici veniva varato il 20 dicembre del 1934 dai Cantieri riuniti dell’Adriatico per conto della compagnia Gdynia-Amerika Line di Varsavia102.

Nel gennaio del 1932 erano in corso presso il ministero delle Finanze di Roma le pratiche per concedere all 'Ungheria 1 ’ anticipo della som­ma di 15 milioni di lire a condizione che il go­verno ungherese, con quella somma, regolasse il suo debito con la Fiat per importanti fornitu­re già eseguite e provvedesse per quelle rimaste in sospeso. La Fiat, nella speranza di recupera­re il credito, si era rivolta all’istituto nazionale per l’esportazione (Ine) per ottenere garanzie dallo Stato italiano. L’Ine aveva sollevato obie­zioni, sia perché la garanzia dello Stato poteva essere concessa per contratti non ancora effet­

tuati, e non già per quelli già stipulati, sia per­ché non sarebbe stato possibile portare in di­scussione nel comitato dell ’ Ine tale richiesta, da­to il carattere riservatissimo delle ordinazioni ungheresi103. La Direzione generale affari poli­tici e commerciali Europa Levante Africa rilevò che, per importanti ragioni politiche, sarebbe sta­to comunque opportuno facilitare la consegna all’Ungheria del materiale approntato dalla Fiat104.

Fin dal 1930 Mussolini aveva cominciato ad adoperarsi per creare un blocco economico com­posto da Italia, Austria e Ungheria, al fine di evi­tare l’annessione dell’Austria alla Germania e sancire il rapporto privilegiato con l’Ungheria, per poter utilizzarla come elemento di disturbo contro la Piccola intesa105. Nel 1932, con sod­disfazione dell’Italia, era fallito il piano Tardieu, che intendeva creare una federazione danubia­na tra gli stati intesisti, l’Austria e l’Ungheria, allo scopo di confermare la situazione scaturita dai trattati di pace seguiti al conflitto mondia­le106. In questo clima si inseriva l’iniziativa ita­liana per la stipulazione degli accordi del Sem- mering tra Italia, Austria e Ungheria107. Si trat­tava in realtà di accordi bilaterali fra le tre na­zioni. Gli accordi tra Italia e Austria, e tra Au­stria e Ungheria erano già esecutivi, mentre que- st’ultima si riservava il diritto di firmare gli ac­cordi con l’Italia. A tale proposito la concessio­ne di un prestito di 15 milioni avrebbe potuto costituire un parziale compenso all 'Ungheriaper la conclusione dell’accordo. In ossequio allapo-

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litica “revisionista” ungherese, Mussolini, anzi­ché facilitare la concessione della garanzia ri­chiesta all’Ine, decise di offrire all’Ungheria un prestito di 15 milioni di lire con l’intesa che il governo ungherese avrebbe usato il denaro per il regolamento del suo debito verso la Fiat108.

Lo strumento della propaganda

In Bulgaria, come in Romania e Jugoslavia, i tecnici e gli ingegneri avevano seguito i loro cor­si di studi a Berlino a Vienna o Budapest e, co­noscendo maggiormente la produzione dell’in­dustria meccanica ungherese e tedesca, spesso la preferivano, una volta tornati nei loro paesi. Per questo motivo, veniva rilevata la necessità di organizzare borse di studio di perfeziona­mento in stabilimenti industriali italiani da of­frire a ingegneri jugoslavi, bulgari e rumeni, in modo da far conoscere il livello tecnologico rag­giunto dell’industria italiana109.

I metodi con cui questa penetrazione dei mer­cati veniva effettuata doveva rispondere, senza incorrere in alcuna contraddizione, all’immagi­ne che il regime intendeva dare di sé all’estero. In altre parole, i rappresentanti all’estero di dit­te italiane avrebbero dovuto tener sempre pre­sente gli obiettivi della politica fascista nello svolgimento della loro attività. A questo propo­sito il ministero delle Corporazioni, in una cir­colare del maggio 1934, aveva esortato le regie rappresentanze diplomatiche e consolari a pro­cedere nella scelta dei propri agenti di commer­

cio e dei propri consulenti legali all’estero da consigliare alle ditte italiane perché le assistes­sero nella loro attività.

Secondo il ministero, le regie rappresentan­ze all’estero, grazie alla loro profonda cono­scenza delle condizioni economiche locali, era­no in grado, non soltanto di facilitare la loro ope­ra di penetrazione industriale e commerciale nei paesi esteri, ma anche di fornire loro avveduti e “disinteressati” pareri circa l’idoneità delle per­sone cui affidare la tutela dei propri interessi sul­le varie piazze straniere. Si voleva insomma che la penetrazione commerciale fosse affidata a “persone favorevolmente note, anche dal punto di vista politico”110.

Si erano effettivamente verificati casi “ano­mali” in cui le ditte italiane, nella scelta dei le­gali e dei rappresentanti cui affidare i propri in­teressi all’estero, si erano rivolte a persone non proprio vicine, se non addirittura esplicitamen­te avverse, al regime. Dell ’ inconveniente era sta­to informato il ministero delle Corporazioni na­zionali che aveva impartito con premura istru­zioni “nella dovuta forma e con la necessaria ri­servatezza” alle organizzazioni dipendenti per­ché i regi uffici all’estero venissero preventiva­mente consultati dalle aziende sulla scelta dei legali e dei rappresentanti all’estero.

Dato l’alto numero di ditte italiane che ave­vano occasione di affidare la tutela dei propri in­teressi all 'estero, si rivelava di estrema difficoltà verificare che tutte si rivolgessero, per la scelta dei loro agenti e rappresentanti, alle regie rap­presentanze. A queste ultime il ministero degli

effetti la risposta del duce all’aspirazione della Germania alì’Anschluss, oltre che ai multiformi progetti della Francia per la regione danubiana: cfr. Umberto Grazzi, Piccola Intesa, Intesa Balcanica e loro rapporti con l’Italia, “Rivista di studi politici e intemazionali”, gennaio-giugno 1938, n. 1-2, p. 54; H.J. Burgwin, Il revisionismo fascista, cit., p. 231. Gli accordi dovevano creare una corrente di traffici austriaci e ungheresi verso l’Italia e aprire i mercati italiani all’Austria e all’Ungheria.108 Ministero degli Affari esteri a ministero delle Finanze, 16 maggio 1933, in ASMAE, serie Affari politici, 1931- 1945, Ungheria, b. 5, fase. 8.109 Cfr. Antonio Giordano, L’andamento dei traffici nei paesi danubiani e balcanici e l’espansione economica italia­na, “Rivista di politica economica”, marzo 1940, p. 229.110 Confederazione generale fascista dell’industria italiana a federazioni e associazioni nazionali di categoria, 4 mag­gio 1934, in ACS, Ministero dell’interno, Direzione generale della Pubblica sicurezza, Divisione affari generali e ri­servati, Massime 1880-1954 [d’ora inpoi/lgr], b. 30, fase. 18.

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Affari esteri suggeriva la registrazione dei no­minativi di professionisti fuoriusciti o comun­que ritenuti di sentimenti antifascisti, residenti in ciascuna circoscrizione consolare, inserendo nell’elenco anche professionisti di nazionalità estera, notoriamente avversi al regime111. È pos­sibile riscontrare nell’attività dell’addetto com­merciale in Romania, Eugenio Pom, 1 ’ “idoneità” a cui il regime faceva riferimento. Questi, di stanza a Bucarest, si richiamava implicitamen­te all’Italia quando affermava che “i paesi più progrediti industrialmente e il cui capitale ha bi­sogno dell’espansione, trovano sul suolo e nel sottosuolo rumeno possibilità infinite”.

111 Ministero degli Affari esteri a ministero dell’interno e ministero delle Corporazioni, 25 agosto 1934, inACS, Agr, b. 30, fase. 18.112 Cfr. Eugenio Pom, L’Italia e le prospettive economiche della Romania, “Rassegna dell’Est”, aprile-maggio 1925, p. 59.113 Cfr. Mario Battaglia, La propaganda commerciale all’estero: ifini ed i mezzi, “Rivista di politica economica”, giu­gno 1928, pp. 41-47.

L’appello era un aperto riferimento all’indu­stria metallurgica italiana, ritenuta capace di pro­durre macchinari di eccellente tecnologia, tali da soddisfare le richieste rumene. L’addetto commerciale passava poi ad elogiare il grado di modernità raggiunto dall’industria idroelettrica italiana auspicando investimenti italiani nel set­tore anche in Romania. L’Italia, già presente in Romania per l’industria estrattiva, veniva ora spronata ad ampliare questo suo intervento ai settori della bonifica dei terreni paludosi, per­ché iniziasse un rapporto di collaborazione an­che con la sua industria edile.

Significative sono le parole impiegate dal­l’addetto commerciale per stimolare l’interven­to italiano, con le quali egli promuove l’imma­gine che Mussolini voleva per l’Italia all’estero:

L’Italia come una grande potenza e come un paese in­dustriale tendente verso un’espansione commerciale non può rimanere indifferente di fronte alle possibilità economiche dei popoli ricostituiti nel dopoguerra ed il cui sviluppo economico può essere di grande gio­vamento per la soluzione dei problemi d’importazio­ne e d’esportazione italiana. Partecipando al ‘risorgi­mento economico rumeno’ l’Italia sarà la benvenuta, poiché il popolo rumeno sa che il popolo italiano non

è uso fare dell’imperialismo economico che calpesta il sentimento d’indipendenza112.

Gli ambienti economici delle nuove realtà sta­tuali non avevano nessuna intenzione di ricor­rere all’aiuto delle economie tedesche e slave dopo le esperienze dei decenni passati, l’Italia di Mussolini, invece, anche se avrebbe voluto sfruttare a senso unico le ricchezze rumene, si presentava con una combinazione di caratteri­stiche uniche, rendendo così vantaggiosa e frui­bile la collaborazione con essa: liberatrice dei popoli dalla tirannia degli Imperi centrali, con una solida e diversificata tecnologia industria­le, apparentemente disponibile senza ipoteche di politica estera.

A metà degli anni venti il governo italiano av­vertì la necessità di disciplinare l’intervento del­l’industria nazionale, costituendo nell’aprile del 1926 un ente sottoposto al diretto controllo del­lo Stato, il già citato Istituto nazionale per l’e­sportazione, la cui prima realizzazione fu la crea­zione di un ufficio Mostre e Fiere. Si intendeva in questo modo limitare la partecipazione italia­na a poche fiere; studiare accuratamente le ca­tegorie di prodotti che vi potevano essere util­mente esposti; selezionare le ditte espositrici, ac­centrando nell’Ine l’organizzazione di un servi­zio completo, ordinato ed economico alle ditte. Il fine era quello di rappresentare al meglio gli espositori italiani, in modo da fornire un utile ed economico strumento non solo di penetrazione, ma anche di affermazione della produzione ita­liana all’estero113. L’istituto era dunque sorto nel tentativo di dare un disegno omogeneo e razio­nale alla creazione di stabili flussi commerciali verso l’estero, Si intendeva in questa maniera so­stenere l’incessante crescita della concorrenza straniera, che in Europa voleva dire soprattutto tedesca. In realtà Fine si rivelerà solo uno stru­

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mento per amplificare le velleità del regime nel­l’Europa centro-orientale. Le relazioni sull'atti­vità dell’istituto sono nel complesso un insieme di proponimenti che non produssero mai risul­tati concreti. Nella creazione di zone d’influen­za economica in Europa, l’Italia concentrerà la sua azione su rapporti economici esclusivi e uni­voci con gli stati europei di nuova costituzione. L’Istituto fu il mezzo per realizzare una strate­gia che Francia Gran Bretagna e Germania ave­vano abbandonato da tempo, inserendo i loro pia­ni di espansione economica in un programma di più ampia portata che teneva conto anche e so­prattutto di sistemi economici extraeuropei.

Un elemento di contorno delle relazioni eco­nomiche tra Cecoslovacchia e Italia — non per questo meno importante per la propaganda che presentava il regime come erede delle antiche tradizioni risorgimentali e rivoluzionarie che avevano accomunato i destini dei due paesi114 durante il secolo passato — era stata l’inaugu­razione nel marzo del 1923 dell’istituto di cul­tura italiana a Praga. Lo scopo di questa inizia­tiva era quello di diffondere e approfondire la conoscenza della cultura italiana in Cecoslo­vacchia, instaurando reciproci rapporti intellet­tuali e artistici fra l’Italia e la Cecoslovacchia con tutti i mezzi adatti a tal fine115. Il processo di conquista dei nuovi mercati dell’Europa orien­tale si sarebbe perfezionato mediante l’utilizzo dei sistemi di propaganda politica e sociale del regime fascista.

114 Cfr. Francois Fejtò, Requiem per un impero defunto. Dissoluzione del mondo austro-ungarico, Milano, Mondado­ri, 1996, pp. 141-145.115 Cfr. Arturo Cronia, L’Istituto di Cultura Italiana a Praga, “L’Europa orientale”, 1924, p. 37.116 Cfr. Giuseppe Riccoboni, 1 mezzi di penetrazione all’estero, in Dario Doria, Mario Aquarone, Willy Jona (a cura di). Atti del Congresso nazionale per l’espansione economica e commerciale all’estero, Trieste, Circolo di studi eco­nomici (Tip. Lloyd Triestino), 1923, pp. 274-275.117 Cfr. Maurizio Rava, Tommaso Sillani, Le riviste ed i giornali all’estero, in D. Doria, M. Aquarone, W. Jona (a cu­ra di), Atti del Congresso nazionale per l’espansione economica e commerciale all’estero, cit., pp. 280-281.

Veniva previsto un ampliamento delle fun­zioni dell’Agenzia di stampa italiana a Praga, che si sarebbe dovuto concretizzare nella pub­blicazione di articoli di propaganda non solo di carattere economico finanziario, ma anche e principalmente di “orientamento” verso il regi­

me fascista. Veniva auspicata la costituzione di una casa editrice a Trieste, sostenuta dall'Ente generale di propaganda italiano, che si occu­passe di edizioni scientifiche, traduzioni di ope­re straniere per l’insegnamento superiore nelle scuole degli stati dell’ex monarchia. Si indica­va la necessità di realizzare pubblicazioni che trattassero anche di argomenti riguardanti il pen­siero italiano, in modo da richiamare l’attenzio­ne dello studioso sul processo di “rinnovamen­to” politico e sociale dell’Italia fascista.

Nei libri di storia, invece di riservare tanto spazio alla storia tedesca, russa o francese, si sa­rebbe dovuto dare la preferenza a quella italia­na. I periodici avrebbero dovuto trattare argo­menti e problemi del luogo mettendo però in ri­salto il coinvolgimento e l’interessamento che per essi aveva l’Italia e allo stesso tempo temi italiani, sollecitare scritti di autorevoli persona­lità del luogo, le quali, sia pure velatamente, ac­cennassero anche al pensiero italiano sugli ar­gomenti di cui discutevano. Si tentava in questo modo di creare delle affinità culturali che, se­condo la pubblicistica del tempo, avrebbero fa­cilitato l’opera di penetrazione italiana in tutti i campi dell’agire di quelle popolazioni116. In que­sto senso si consigliava di seguire l’esempio francese, che forniva gratuitamente riviste e giornali a biblioteche, istituti, sale di lettura a tutti i paesi dell’Europa centro-orientale che, per le loro condizioni finanziarie e la debole valu­ta, non potevano acquistarli direttamente. In qua­si tutte le capitali di questi stati si pubblicavano giornali e riviste in lingua francese, redatti da persone del luogo notoriamente legate agli in­teressi della Francia, o da cittadini francesi117.

Mussolini e il suo sottosegretario e ministro Grandi avevano più volte affermato il carattere

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eminentemente economico e culturale dell’e­spansionismo fascista, che doveva basarsi sul­la diffusione nel mondo delle merci e della cul­tura in modo da assicurare all’Italia un’egemo­nia materiale e morale nell’ambito di relazioni intemazionali amichevoli118. Senza lasciarsi scoraggiare dalla debolezza dell’imperialismo finanziario dell’Italia, il duce cercò di alimen­tare l’interesse per il fascismo in Bulgaria, pae­se in cui esistevano molti partiti e molti perso­naggi ben disposti a fare esperimenti di riorga­nizzazione politica ed economica in base a prin­cipi autoritari. Qui incontrò l’ostacolo di una presenza francese di vecchia data, sia pure me­no consolidata che in altre parti dell’Europa orientale. Irritato da quest’egemonia economi- co-culturale, che poggiava su una rete banche, scuole, missioni e istituzioni caritatevoli, Mus­solini volle che la competizione dell’Italia con la Francia per il controllo dei Balcani superas­se i limiti della sfera diplomatica e giungesse anche nei circoli dell’intellighenzia bulgara: per togliere spazio all’influenza francese fondò al­cuni istituti di lingua e di studi italiani che avreb­bero dovuto infondere nei bulgari lo spirito in­novatore di Roma e propagare in Bulgaria la formula fascista per una radicale trasformazio­ne della struttura politica e della società di quel paese119.

118 Cfr. G. Carocci, Appunti sull’imperialismo fascista negli anni ’20, cit., p. 415.119 Cfr. J. Burgwin, Il revisionismo fascista, cit., p. 104; Francesco Casella, Le letterature dei paesi del Sud-est euro­peo in Italia, in Ennio Di Nolfo, Romain H. Ramerò, Brunello Vigezzi (a cura di), L’Italia e la politica di potenza in Europa 1938-40, Milano, Marzorati, 1988, pp. 210-211.

Missione (in)compiuta

Come abbiamo potuto vedere, notevoli furono gli sforzi fatti dall’Italia per avere accesso a quei mercati dove operavano forti concorrenti come Francia e Germania. L’operazione di penetra­zione venne affiancata da iniziative di propa­ganda volte a mobilitare il paese per dar corpo all’immagine dell’Italia come potenza e raffor­

zarla, in particolare nei confronti degli altri sta­ti europei.

Il regime infatti era riuscito a proporre e a ge­stire con successo i sentimenti di rivincita e di affermazione che l’Italia nutriva verso le spon­de adriatiche fin dal 1887, al tempo del rinnovo della Triplice alleanza. Fin da allora la pubbli­cistica che si occupava di politica estera aveva posto l’accento sulle aspirazioni italiane nelle regioni che si affacciavano sulle coste orientali dell ’ Adriatico. Il governo fascista era riuscito in questo modo a creare un clima di forte attesa nel paese, promettendo ai mezzadri l’assegnazione di nuove terre da sfruttare secondo nuove e mo­derne metodologie, mentre imprenditori più o meno credibili, sulla scia delle iniziative di go­verno, intravedevano facili e remunerativi gua­dagni. Già a partire dal 1923, non poche erano le lettere di solerti “imprenditori” che, spiegan­do le loro iniziative con motivazioni di caratte­re economico e sociale, esortavano Mussolini a dare l’avvio a un processo di espansione eco­nomica in quelle terre. Si arrivava a suggerire addirittura l’invio di coloni armati per poterli utilizzare in eventuali conflitti contro le popo­lazioni del posto e sancire definitivamente il do­minio dell’Italia su quelle terre.

E dunque evidente il clima denso di aspetta­tive verso i mercati di queste nuove nazioni, in quanto le notizie utili per incrementare la ven­dite non si limitavano a vino, olio, agrumi, alle conserve, ai cappelli di paglia, ai cotoni e alle sete. Si mirava anche a coprire la domanda nei settori siderurgico e della chimica, in cui la no­stra produzione era del tutto sconosciuta, sfi­dando la reputazione degli eccellenti prodotti te­deschi e boemi che fino al giorno prima aveva­no dominato quei mercati.

Nella seconda metà degli anni venti, agli in­teressi imprenditoriali si sommarono le istanze

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del regime, il quale, abbracciata la politica “re­visionista” ungherese, susciterà l’ostilità della Piccola intesa e quindi della Francia, ma anche della Gran Bretagna che non vedeva più nel fa­scismo una forza politica di equilibrio. In que­sto frangente, lo slancio verso i mercati del­l’Europa centro-orientale perderà d’intensità, guidato non più dalla logica della libera inizia­tiva e del mercato, ma dalla necessità di corri­spondere all’immagine che il regime fascista aveva progettato e voleva realizzare per l’Italia nell’Europa e nel mondo. Certo anche la crisi economica del 1929 darà il suo contributo ma, nei bollettini e nelle pubblicazioni citati, non c’è più traccia del fervore di un tempo. Tutte le no­tizie e le indicazioni sono, oltre che diminuite, anche tristemente asettiche e burocratiche, qua­si a voler scoraggiare gli imprenditori che non godessero di tutti i requisiti economico-finan- ziari, ma soprattutto politici, per intervenire su quei mercati, onde evitare fallimenti e insuccessi che avrebbero compromesso l’immagine che il regime intendeva assolutamente presentare fuo­ri dei confini nazionali.

Che l’Italia avesse dovuto comunque com­battere l’agguerrita concorrenza economica del­le altre nazioni, lo si è visto nel campo degli ap­provvigionamenti petroliferi in Albania, Polo­nia e Romania, dove con estrema difficoltà l’i­niziativa italiana era riuscita a inserirsi, spesso anche sacrificando un reale risultato economi­co, e comunque sempre con un’ampia garanzia statale. Come abbiamo accennato, spesso dietro un successo dell’iniziativa italiana stava un per­messo accordatoci da una potenza che conside­rava l’Italia una pedina da utilizzare in caso di bisogno. Le nuove realtà nazionali, d’altronde, bisognose di capitali per ristabilire le loro eco­nomie ma ben accorte a non perdere l’autono­

mia e l’indipendenza raggiunte, rispondevano positivamente alle offerte italiane di prestiti o forniture, di merci, macchinari e materiale bel­lico.

Il riconoscimento di nazione libera da ogni potere sovranazionale aveva spinto ciascun nuo­vo Stato a tagliare in modo brusco e definitivo ogni legame economico-finanziario esistente precedentemente tra regioni contigue, rendendo le nuove frontiere mura invalicabili. Continua­re a intrattenere rapporti di carattere economico con le regioni confinanti avrebbe significato la conferma della struttura economica imbastita dall’impero e contribuire comunque al proces­so di ricostruzione di nazioni dalle quali ci si era voluti staccare per intraprendere una propria via nazionale. La raggiunta indipendenza di questi paesi aveva incrementato il diffondersi del na­zionalismo che aveva facilitato in alcune nazio­ni, come Polonia, Romania e Ungheria, l’in­staurazione di regimi dittatoriali che, rifacen­dosi in maniera più o meno marcata al modello fascista, permettevano all’Italia di usufruire di un canale privilegiato per la realizzazione di ini­ziative di carattere economico e finanziario.

Studiando il rapporto tra iniziative economi­che e politica estera fascista emerge il rilievo as­sunto da alcune aree dell’Europa centro-orien­tale. L’Italia, nonostante i limitati mezzi rispet­to ad altre potenze, vi svolse infatti un’azione di penetrazione notevole, non solo per lo sforzo a cui si sottopose, ma anche per le metodologie che per la prima volta tentò di applicare, cer­cando nuove strade da percorrere o inserendosi in quelle già sperimentate dalle altre potenze oc­cidentali, un’azione di penetrazione il cui ele­mento dinamico fu principalmente l’impulso po­litico fornito dal regime.

Sergio Lavacchini

Sergio Lavacchini, laureato in Storia economica nel 1996 presso la facoltà di Scienze politiche dell’università di Firenze, ha collaborato con il Centro italiano di ricerche e d’informazione sull’economia pubblica, sociale e cooperativa (Ciriec). Attualmente si occupa di educazione e istruzione presso il dipartimento delle Politiche for­mative e beni culturali della Regione Toscana.