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L’Europa centro-orientale nella politica dell’Italia fascistaSergio Lavacchini
Il lavoro intende porre l’accento sulle potenzialità espresse dall’Italia tra il 1919 ed il 1939 nella realizzazione di un progetto di espansione economica nell’area danubiano-balcanica. A partire dagli anni venti l’intervento italiano nell’area solleva a più riprese la preoccupazione di Francia e Gran Bretagna che vedono nell’Italia una temibile e astuta concorrente da tenere sotto controllo, un timore che si dissolverà nella seconda metà degli anni trenta quando la Germania rientrerà con prepotenza nei suoi mercati naturali dell 'Europa centro-orientale facendo arrestare irrimediabilmente l’iniziativa italiana. Con il consolidamento del regime fascista, quest’ultima perderà il carattere economico-fmanziario per assumere prevalentemente un carattere politico.I soggetti economici coinvolti in tale progetto vanno dall’industria meccanica all’industria cantieristica, da quella aeronautica a quella estrattiva e di raffinazione degli oli. Sono tuttavia anche i singoli imprenditori di piccole e medie imprese a confermare, con le loro iniziative, il disegno di espansione economica voluto dal regime. La Banca d’Italia e in particolare la Banca commerciale italiana si adoperano per creare le condizioni affinché venga realizzata una zona economica a guida italiana.Per la prima volta l’Italia si troverà a sperimentare nuovi strumenti per promuovere l’intervento italiano nell’area in questione, tra i quali ricordiamo, oltre a un buon sistema propagandistico, la creazione di Istituti di cultura italiana e di servizi d ’ informazione eco- nomico-finanziaria attraverso l’istituto nazionale per l’esportazione, l’allestimento di corsi di specializzazione per tecnici ed ingegneri nelle fabbriche italiane con l’intento di indurli a preferire la tecnologia italiana negli stabilimenti del paese d’origine.
This work examines thè efforts made by Italy from 1919 up to 1939 in arder to expand its economie presence in thè Danubian and Balkan areas. Since thè Twenties thè Italian penetration causedfrequent concern to France and Great Britain, which con- sidered Italy a formidable and cunning competitor to be held at bay — afear that was to fade away in thè second halfofthe Thirties, when Germany reap- pearedforcefully on thè scene of its naturai markets of Central and Eastern Europe blocking thè Italian initiative, that by that time had however turned in- creasingly politicai rather than economie and fi- nancial in character, as a resulto/thè consolidation of thè Fascist regime.The economie actors involved in this expansion Project spanned from engineering to shipbuilding in- dustry,from aeronautics to mining and oil refining, with thè active presence ofsmall and medium con- cerns giving significant support to thè efforts ofthe regime. The Bank of Italy and especially thè Banca Commerciale Italiana did their best to lay thefoun- dations ofan Italy-led economie zone.For thefirst time Italy happened to experiment with new means for backing up thè Italian intervention in that area, such as a sound propaganda System, thè creation ofinstitutesfor Italian culture and agen- ciesfor economie andfinancial information (thè lattee ones through thè National Institute for Foreign Trade), thè organization of vocational training courses for foreign engineers and other technical personnel in thè Italian factories with a view of favouring thè export of Italian technology.
‘Italia contemporanea”, marzo 2003, n. 230
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La nuova Europa
Al termine del primo conflitto mondiale le regioni dell’Europa centro-orientale presentavano un inedito assetto politico-geografico. Nuove realtà statuali erano sorte dal defunto Impero austroungarico e immensi territori caratterizzati da diverse culture, religioni ed etnie si presentavano, in un certo senso, al mondo per la prima volta. Nessuno dei paesi di cui ci occuperemo in questo saggio era soddisfatto delle frontiere assegnategli dai trattati di pace1. Ognuno, a suo modo, trovava il pretesto economico, sociale, geografico o linguistico per rivendicare territori vicini nel nome di un “sano” e agognato nazionalismo. La guerra aveva effettivamente aumentato le aspettative nazionaliste latenti e represse per decenni dal dominio degli Imperi centrali. Nel contempo, per certi versi, l’area in questione si presentava come una terra di nessuno: i capitali occidentali erano stati ritirati frettolosamente e la tendenza era continuata per 1 ’ incapacità delle nuove realtà di infondere sicurezza agli investitori stranieri che percepivano la precarietà politica e sociale di questi nuovi paesi. Questa sensazione era resa ancor più solida dal timore che dalla vicina Russia il messaggio bolscevico potesse attecchire nei territori degli ex Imperi centrali. Ad aggravare la situazione finanziaria dell’Europa centro-orientale stava soprattutto il ritiro dei capitali austriaci e tedeschi. I nuovi stati non avrebbero certo inteso continuare ad avere un’economia diretta dai circoli finanziari degli Imperi cen
1 Per una completa visione dei cambiamenti territoriali apportati dai trattati di pace al termine delle ostilità si vedano Amedeo Giannini, Saggi di Storia Diplomatica, Istituto per gli studi di politica intemazionale, Firenze, Tip. E. Ariani, 1948, pp. 148-155; The Information Department of thè Royal Institute of International Affairs, South Eastern Europe. A Politicai and Economie Survey, Londra, Oxford University Press, 1939. pp. 1-3,14; IvanTibor Berend, Gyorgy Ranki, Lo sviluppo economico nell'Europa centro-orientale nel XIX e XX secolo, Bologna, Il Mulino, 1978, p. 209.2 Cfr. Enzo Collotti, La politica dell’Italia nel settore danubiano-balcanico dal patto di Monaco all'armistizio italiano, in Enzo Collotti, Teodoro Sala, Giorgio Vaccarino, L'Italia nell’Europa danubiana durante la seconda guerra mondiale, Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, Quaderni di “Il movimento di liberazione in Italia”, Monza, La tipografia monzese, sd., p. 7.3 Le foreste si trovavano nella regione della Transilvania, passata per i due terzi, secondo il trattato del Trianon del 4 giugno 1920, nei confini della nuova Romania.
trali, meno che mai, poi, i vincitori avrebbero permesso agli sconfitti, e soprattutto alla Germania, alle prese con gli obblighi delle riparazioni di guerra, di disporre del controllo economico dei territori perduti2.
Con la ridefinizione dei confini, alcuni distretti industriali dell’ex Impero austroungarico vennero smembrati. Sorti vicino alle fonti di approvvigionamento della materia prima da sottoporre a lavorazione, ai giacimenti di minerale da estrarre e ai fiumi per l'utilizzo della forza idraulica, era inattuabile l’idea di riattivarli per innescare un qualche processo di ricostruzione economica. Non erano rari i casi in cui la nuova frontiera impediva alla fabbrica che produceva il prodotto finito di ricevere il materiale allo stato intermedio della lavorazione, o il carbone estratto a pochi chilometri, necessario a far funzionare i macchinari. L’industria tessile era stata spezzata in due: i filatoi che erano situati in Boemia e in Moravia si ritrovarono in Cecoslovacchia, mentre l’attività di tessitura era rimasta concentrata soprattutto a Vienna e nelle sue vicinanze. L’Ungheria fu spogliata di alcune importanti materie prime, indispensabili allo sviluppo delle sue industrie. Le restò, più o meno, circa la metà delle sue attività industriali, incluso l’importante centro manifatturiero di Budapest; ma perse numerose fonti di materie prime, compresi 1’84 per cento delle foreste3, una percentuale analoga dei minerali ferrosi, tutto il sale, tutti i giacimenti di rame e la maggior parte degli altri metalli non ferrosi, il 90 percento dell’energia idraulica, e il 30 per cento della ligni
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te4. La separazione di branche industriali legate un tempo dalla reciproca dipendenza era aggravata anche dalla rottura, oltre che della vecchia struttura commerciale, anche delle collaudate linee di comunicazione. A questo proposito vale l’esempio della Jugoslavia, che aveva ereditato cinque sistemi ferroviari, con quattro diversi scartamenti. Ogni sistema serviva centri differenti, i quali erano però praticamente separati tra loro.
4 Cfr. Michael Charles Kaser, E.A. Radice (a cura di), The Economie History of Eastern Europe 1919-1975, voi. I, Oxford. Clarendon Press, 1985, pp. 250, 386, 387; Derek H. Aldcroft, Da Versailles a Wall Street, Milano, Etas libri, pp. 125-127; Ivan Tibor Berend, Gyorgy Ranki, Storia economica dell’Ungheria, Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 152; Giuseppe Sztereny, L’economia pubblica ungherese, Roma, Istituto per l’Europa Orientale, 1929, pp. 207-208, 211- 214; Sante Cosentino, Italia e Cecoslovacchia, Bari, Società editrice tipografica, p. 28.5 Chiedere il carbone alle miniere della Slesia polacca per far ripartire le industrie della Boemia o permettere ai cereali ungheresi di raggiungere agevolmente i porti addatici attraverso le linee di comunicazione jugoslave avrebbe significato ammettere implicitamente la riconferma della vecchia struttura commerciale asburgica, in totale discordanza con le aspirazioni nazionali che la fine della guerra aveva rafforzato (cfr. Il problema dell’ Europa Centrale, “Quaderni dell’istituto nazionale di cultura fascista, 1938, n. V-VI, Roma, pp. 20-27).6 Cfr. Il problema dell'Europa Centrale, cit., pp. 37-43.7 Cfr. Derek Howard Aldcroft, Steven Morewood, Economie Change in Eastern Europe since 1918, Londra, E. Elgar, 1995, pp. 26-27. Occorre infatti notare che l’industria e l’agricoltura di quest’area europea si avvalevano di tecniche sorpassate e producevano, quindi, a costi più alti che nei paesi più avanzati, trovandosi, dunque, a essere meno competitive sul mercato mondiale. Per questo motivo, mentre alle frontiere polacche e cecoslovacche venivano frapposti gli stessi ostacoli a tutti i cereali e a tutta la farina provenienti dai paesi stranieri, in realtà la barriera era più difficilmente eludibile per il frumento ungherese che non per quello americano, nonostante che per quest’ultimo i costi di trasporto fossero più elevati.
Lo slancio verso Ovest
1 trattati di pace avevano ufficialmente sancito la capacità di autodeterminazione dei nuovi paesi, soddisfacendo e incrementando i sentimenti nazionalisti delle popolazioni. Questo clima si traduceva, sotto l’aspetto economico delle nuove realtà nazionali, nella volontà di creare all’interno dei confini una propria via per la ripresa economica: un progetto di ricostruzione che non passasse attraverso la collaborazione tra i paesi confinanti, ma che, anzi, rifuggisse da qualsiasi ottica di questo tipo5. La Romania, per esempio, intendeva intraprendere una nuova via economica indipendente dall’Ungheria; que- st’ultima, a sua volta, si guardava bene dall’u- sufruire della collaborazione cecoslovacca o ju
goslava. Ciò valeva per ogni altro paese sorto nell’Europa centro-orientale. La Jugoslavia aveva addirittura progetti di annessione dell’Albania: come era pensabile che i due paesi potessero formulare un progetto comune di collabo- razione? Ma il loro non era l’unico caso: l’Ungheria reclamava i distretti industriali passati ora alla Cecoslovacchia, spesso adducendo anche motivazioni etniche (il riferimento era alla popolazione ungherese rimasta nella Rutenia slovacca); ugualmente la Polonia aspirava ad annettersi il distretto moravo di Teschen, importante per le sue miniere e per la ferrovia che avrebbe permesso di mettere in comunicazione agevolmente le regioni della Galizia e della Slesia polacca con la Moravia e la Boemia6.
L’isolamento e la chiusura programmati dai paesi dell’Europa centro-orientale in difesa delle loro economie vennero perseguiti anche attraverso alti dazi all’importazione, con una protezione più decisa e rigorosa nei confronti dei paesi confinanti e meno verso quelli più lontani7.
A rafforzare queste tendenze nazionalistiche era anche la volontà di intraprendere un processo di ricostruzione economica indipendente dalla vicina Germania. La presenza tedesca nell’Europa centro-orientale non si limitava ad attività finanziarie, ma permeava quasi ogni aspetto dell’attività economica in Polonia, Un
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gheria, Cecoslovacchia, Romania, Bulgaria e Jugoslavia8. In sostanza, l’economia asburgica aveva attinto a piene mani alla tecnologia e all’ingegno tedeschi, confermando l’immagine di una Germania capace di gestire nel miglior modo possibile le risorse umane ed economiche di cui disponeva. Ai paesi di nuova costituzione non restava altro che individuare nuovi partner commerciali, trascurando i paesi confinanti e, soprattutto, cercando di affrancarsi dal complesso e potente organismo economico- commerciale tedesco9. I referenti non potevano essere altro che i paesi occidentali, i vincitori della guerra, i creditori degli Imperi centrali. Tuttavia, per i problemi di stabilità politica, le potenze maggiori, la Francia e la Gran Bretagna, non intendevano, almeno inizialmente, intraprendere rischiose iniziative su quei mercati, in quanto i governi degli stati dell’Europa centro-orientale, nella loro strenua volontà di unificazione, avevano provocato al- l’interno dei singoli paesi contestazioni e tentativi di rimettere in discussione l’equilibrio raggiunto dopo numerose difficoltà, favorendo tendenze centrifughe e separatiste. Con l’intento di arginare tali tendenze, i governi dell’Europa centro-orientale, a eccezione di quello cecoslovacco, non esitarono mai a ricorrere alla forza per instaurare delle dittature di stampo fascista, sfruttando lo scontento e i malumori delle forze nazionaliste, contrarie anche alla presenza di ebrei nei circoli economici e finanziari di quei paesi10. L’elemento antise
8 Sulle componenti economiche dell’industria e delle risorse umane tedesche presenti nell’area in questione cfr. Alice Teichova, P.L. Cottrell (a cura di), International Business and Central Europe, 1918-1939, New York, Leicester University Press-St. Martin’s Press, 1983, pp. 103-267.9 Cfr. E. Collotti, La politica dell'Italia nel settore danubiano-balcanico, cit., pp. 9-10.10 Per esempio in Ungheria la presenza di ebrei nelle attività commerciali, finanziarie e professionali era preponderante: essi rappresentavano il 60 per cento dei medici, il 53 per cento dei commercianti, il 51 per cento degli avvocati. Se solo il 12 per cento degli industriali erano ebrei, la percentuale saliva al 37 per cento per il settore dell’industria mineraria. Le cifre aumentavano se si teneva conto della sola Budapest; qui i giornalisti erano per esempio il 70 per cento contro una percentuale nazionale del 34 per cento. In definitiva gli ebrei costituivano il nerbo della borghesia e fino al 1917 il ministro della Difesa Szamuel Hazai e quello della Giustizia Vilmos Vazsony erano ebrei: cfr. Mariano Ambii, I falsi fascismi, Roma, Jouvence, 1980, pp. 71-72. Per un approfondimento si veda anche Henry Bogdan, Storia dei paesi dell'Est, Torino, Sei, 1994.
mita era uno dei caratteri portanti di queste dittature perché permetteva di realizzare un processo di autonomia e rinnovamento rispetto ai vecchi circoli economici ancora legati agli interessi finanziari degli ex Imperi centrali, circoli nei quali la presenza ebrea continuava a essere massiccia e che le nuove dittature nazionaliste intendevano far “saltare” per intraprendere un nuovo corso economico.
Proprio l’elemento nazionalista spingerà le nuove realtà statuali a guardare al regime fascista di Mussolini come a un ordine politico a cui ispirarsi. II maresciallo Miklos Horty in Ungheria, nominato reggente nel 1920, non faceva segreto della sua ammirazione per il fascismo italiano, prendendone a modello i canoni fondamentali, e alla stessa linea si atteneva l’operare del primo ministro Istvan Bethlen. Allo stesso modo similitudini ideologiche intercorrevano tra l’Italia e la Romania nel periodo in cui fu a capo del governo l’italofilo generale Alexandru Averescu, similitudini che venivano confermate ancora nel 1927, con l’ascesa del regime di Comeliu Zelea Codreanu e della sua Legione dell’arcangelo Gabriele. La Romania confermava questa tendenza politica, prendendo come modello politico il regime fascista e i suoi caratteri nazionalisti, soddisfacendo il bisogno di ordine politico e sociale che le forze nazionaliste del paese esprimevano; le stesse istanze venivano soddisfatte in Polonia dal regime militare presieduto dal maresciallo Jozef Pilsudski.
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L’interesse a Est
Le esigenze dei nuovi stati danubiano-balcani- ci di individuare altri referenti in grado di legittimare la loro esistenza sullo scacchiere europeo, in ambito politico ma anche e soprattutto economico, si incontravano con le aspirazioni italiane di creare una zona d’influenza politicoeconomica a guida italiana.
Il crollo del sistema delle grandi potenze, e in particolare dei tre imperi che occupavano l’area centro-orientale dell’Europa, portò alla ribalta, per i vincitori, la necessità di far coincidere i nuovi equilibri strategici e i nuovi confini territoriali con il principio di nazionalità. Si aprivano per il nostro paese opportunità fino ad allora impensate, come quelle di trovare sbocchi economici nel bacino danubiano e di esercitarvi una conseguente influenza politica. In fondo, la prospettiva strategica fascista riprendeva quella precedente dell’Italia liberale, individuando nell’espansione coloniale nel Mediter- raneo e in Africa i principali obiettivi. Per conseguirli era però necessario garantirsi una zona di sicurezza nell’area danubiana. Per questo, durante tutti gli anni venti, buona parte degli interessi politici saranno rivolti a quest’ultimo scacchiere. Gli anni tra il 1922 e il 1924 sono caratterizzati da una certa fluidità negli approcci italiani all ’ Europa centro-orientale: il maggior problema è quello di incorporare Fiume nello Stato italiano e contemporaneamente di impedire la costituzione di un’altra grande potenza in quell ’ area. A questo scopo Mussolini alterna con la Jugoslavia, restia ad accettare una simile soluzione, dialogo e minacce11.
11 Cfr. Enzo Collotti, Fascismo e politica di potenza. Politica estera 1922-1939, Milano, La Nuova Italia, 2000, pp. 209-211.12 Cfr. E. Collotti, Fascismo e politica di potenza, cit., pp. 214-215.
La politica balcanica di Mussolini era dominata dall’ambizione di trasformare quell’area in campo d’azione per l’espansionismo politico ed economico dell’Italia, e dal timore che questa espansione potesse venire minacciata dalla tradizionale “spinta a Oriente” della Germania. At
tribuendo da principio alla politica balcanica solo un’importanza settoriale e preparatoria, Mussolini vi aveva trovato invece i primi concreti successi: dalla Romania all’Albania e agli altri piccoli stati, tutti, con l’eccezione della Jugoslavia, apparivano ben disposti ad accettare l’amicizia e l’aiuto italiano, e a far parte di una costellazione di stati politicamente ed economicamente dominata dall’Italia. Il disegno di Mussolini non era quindi soltanto quello di salvaguardare alcuni interessi italiani, bensì quello più ardito di far prevalere gli interessi italiani sugli altri, in tutta la penisola balcanica.
La sua politica oscillerà di conseguenza tra ammiccamenti con la Piccola intesa e contatti con l’Ungheria quando si vorrà rendere più forte la pressione sulla Jugoslavia12.
“L’Italia non può andare che ad oriente”, così si espresse Mussolini, usando una delle sue ben note icastiche espressioni che non lasciavano replica, in occasione della discussione alla Camera sulla questione dell’annessione di Fiume del 22 febbraio 1924. E, ancora, nel giugno del 1928, nel discorso al Senato sulla politica estera dell’Italia, egli ebbe modo di ribadire: “L’Italia è potenza mondiale, e, dunque, ha interessi e ideali da difendere in ogni parte del mondo; ma soprattutto, essa vuole le sia riconosciuta diretta e non contrastata influenza sui Balcani”.
Queste due affermazioni già esprimono in maniera efficace l’attenzione riservata dal nascente regime fascista alle regioni dell’Europa orientale. L’espansionismo fascista mostrava di volersi concentrare su di un’area dove Germania e Austria avevano agito per secoli, costruendosi una stabile e solida reputazione che i trattati di pace non avevano potuto demolire. Il nuovo assetto geografico dell’Europa centroorientale, scaturito al termine del primo conflitto mondiale, comprendente i territori che si estendono dall’Elba alle pianure russe e dal Bal-
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fico al Mar Nero e all’Adriatico, fu tale da destare negli anni venti sempre più l’interesse della politica estera dell’Italia fascista, per poi lasciare spazio nella seconda metà degli anni trenta ai progetti di espansione in Africa Orientale.
La voglia di affermazione e di prestigio intemazionale e, meno frequentemente, ragioni di carattere economico spingeranno l’Italia fascista a sfruttare ogni opportunità concessa dalle potenze occidentali per la creazione di una propria zona d’influenza economica. Il nuovo assetto politico dell’Europa centro-orientale presentava esattamente queste caratteristiche. Era un’area ufficialmente libera e aveva subito uno sconvolgimento economico cui avrebbe dovuto seguire una vasta opera di riassetto.
In un primo momento, da parte delle potenze occidentali, venne dunque lasciato all’Italia il compito di occuparsi dei nuovi territori orientali, in particolare dei Balcani, visto che prima, durante e dopo il conflitto, essa aveva fatto presente le sue mire sull’Albania e la Dalmazia. Inoltre, all’Italia erano stati assegnati i territori del Trentino, dell’Alto Adige e dellTstria con il porto di Trieste, unico sbocco sul Mediterraneo dell’ex impero asburgico. Proprio la città giuliana era stata il naturale crocevia dei traffici commerciali della Croazia ungherese e della Ci- sleitania e aveva tutte le peculiarità per continuare a gestire proficui rapporti economici con quei territori allo scopo di contribuire anche alla loro risistemazione economica. Sembrava in
somma che l’Italia monarchica e cattolica, proprio come il defunto impero asburgico, avesse tutti i requisiti per potersi occupare dello sviluppo sociale ed economico di quest’area. In questo nuovo contesto l’Italia fascista utilizzerà ogni mezzo per riuscire nell’intento di creare ad Est una propria zona d’influenza e, come vedremo, ci riuscì.
La conferma di questo giudizio non può ovviamente prescindere dal confronto con l’azione che Francia, Gran Bretagna e, a partire dalla seconda metà degli anni trenta, Germania nazista svolsero in questa stessa area. In effetti, se Mussolini aveva subito compreso l’importanza per l’Italia dell’Europa centro-orientale, anche Francia e Gran Bretagna si resero immediatamente conto di quanto essa fosse importante, non solo da un punto di vista economico, ma soprattutto per il mantenimento di un equilibrio politico europeo raggiunto così faticosamente al termine del conflitto mondiale. I territori in questione saranno dunque il teatro dove l’Italia, muovendosi con una certa disinvoltura e dissimulando i limiti della propria condizione economica e la non proprio prestigiosa posizione politica intemazionale, assieme a, ma più spesso in conflitto o concorrenza diretta con, Francia, Gran Bretagna e Germania, attuerà strategie di politica estera ed economica per assicurarsi i favori dei governi di questi nuovi paesi13.
13 Con l’intento di non trascurare nessun elemento utile per l’esatta valutazione e comprensione della condotta italiana nell’Europa centro-orientale sono state esaminate carte conservate in diversi archivi, alcuni dei quali a una prima osservazione possono apparire anche estranei alle questioni trattate nel presente lavoro. L’Archivio centrale dello Stato e l’Archivio del Ministero degli Esteri alla Farnesina hanno permesso di verificare le motivazioni che stavano alla base del comportamento economico italiano. Così sono affiorati, tra l’altro, rapporti clientelati tra improbabili imprenditori e il regime, la concessione di particolari facilitazioni a questa o quella impresa. Il regime arrivava sino a ostacolare l’entrata delle aziende su quei mercati se non si fossero impegnate a omologare la loro attività alla dottrina fascista secondo un’immagine vincente e monolitica che il partito intendeva dare di sé all’estero. Un osservatorio privilegiato dell’attività finanziaria e della gestione di attività commerciali legate alla banca stessa è stato l’Archivio storico della Banca commerciale italiana, particolarmente attiva nell’intraprendere e nello stimolare iniziative nell’Europa centro-orientale tra le due guerre. L’Istituto per il commercio estero a Roma, ma soprattutto l’istituto agronomico per l’Oltremare di Firenze hanno fornito un’ampia letteratura sui programmi attuati dall’Italia in Albania, Croazia, Dalmazia, Cecoslovacchia, Polonia e Romania per lo sfruttamento agricolo e delle risorse del sottosuolo. Il fatto che tutte queste opere siano state pubblicate durante il ventennio fascista, e che adottino in maniera più o meno marcata i toni solenni della propaganda di partito, non ne diminuisce assolutamente l’importanza, anzi, nel nostro caso ci ha per-
Il presente lavoro intende proprio far luce sullo scenario appena delineato, per lo più trascu
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rato dalla letteratura storica anche più recente14. In esso abbiamo cercato di individuare principalmente i legami tra la politica economica e la politica estera del fascismo in quanto assi portanti di un’attività di penetrazione economica, senza però trascurare altre componenti non meno importanti, ma anzi tutte capaci di dare un proprio contributo alla spiegazione del problema. Sono stati quindi riportati e analizzati la condotta e gli atteggiamenti degli industriali, della Banca d’Italia, della grande industria meccanica e siderurgica, dei circoli finanziari e delle banche, degli enti creati per facilitare l’entrata nei nuovi mercati, le scelte di politica interna del governo e la responsabilità dell’apparato propagandistico nel creare un senso di forti aspettative nell’opinione pubblica.
L'intervento della finanza italiana
La Società delle nazioni chiamava gli stati vincitori a impegnarsi in un’opera di ricostruzione delle nuove realtà geopolitiche sorte dopo la sistemazione dei territori asburgici. Gli appelli della Società delle nazioni all’Italia per indurla a concorrere ai prestiti internazionali vennero sempre considerati con diffidenza dal governo italiano che, impegnato nell’opera di ricostruzione interna, doveva affrontare un clima di insoddisfazione e ostilità proprio nei confronti di
tale organismo per i “miseri” risarcimenti accordati all’Italia ai tavoli di pace.
È in questo contesto che l’Italia venne interpellata per partecipare al prestito di 200 milioni di franchi-oro per la costruzione di ferrovie in Bulgaria, ma la risposta del governo fu negativa. Esso accampò come pretesto la partecipazione italiana a un’iniziativa simile a favore dell’Austria, la cui estensione geografica era stata pesantemente ridotta con conseguenti problemi di sopravvivenza economica15. Nonostante la veridicità delle motivazioni italiane, il presidente della Banca d’Italia Bonaldo Stringher non potè fare a meno di rilevare l’occasione favorevole a cui stava rinunciando l’Italia. Se il prestito alla Bulgaria avesse incontrato i favori intemazionali, l’Italia non avrebbe potuto usufruire delle riparazioni, né tantomeno avrebbe potuto disporre in futuro di tutti quei contatti e canali preferenziali che la partecipazione al prestito avrebbe indirettamente creato e messo a disposizione in vista di futuri rapporti economici con la Bulgaria. Il governo italiano, resosi conto della situazione, cercò di ritrattare la questione, mostrandosi disposto a concedere eventuali sovvenzioni su investimenti che la Banca commerciale e il Credito italiano avrebbero dovuto fare in Bulgaria. Tuttavia rimaneva il veto sulla partecipazione italiana al prestito intemazionale e il governo ben si guardò dall’adoperarsi affinché il Tesoro potesse accordare delle garanzie
messo di comprendere meglio l’esatto valore che veniva attribuito al processo di penetrazione dell’Italia nell’Europa centro-orientale. Significative sono state le ricerche fatte presso il Public Record Office di Londra, dove i documenti visionati hanno fatto rilevare una vigilante supervisione della Gran Bretagna sulle vicende dell’Europa centro-orientale nel timore che l’influenza dell’Italia riuscisse a scalzare quella francese. La lettura dei documenti diplomatici inglesi ha permesso anche di disporre di una visuale esterna all’Italia e di dare l’esatto valore alla politica di penetrazione economica italiana in Albania, Bulgaria, Cecoslovacchia, Polonia, Romania, Ungheria e Jugoslavia. Ugualmente di grande aiuto è stata la vasta ed esauriente storiografia economica inglese riguardante l’Europa centro-orientale consultata presso la biblioteca della London School of Economics and Politicai Science.14 Facendo astrazione dalla letteratura del periodo fascista rimane da segnalare il volume di Giampiero Carocci (La Politica estera dell’Italia fascista 1925-1928, Bari, Laterza, 1969) il quale fa riferimento alla realizzazione di una riserva di caccia a guida italiana nell’area danubiano-balcanica. Si vedano inoltre la sintesi di Enzo Santarelli (Storia del fascismo, 2 voi., Roma, Editori Riuniti, 1981) e quella recente di E. Collotti, Fascismo e politica di potenza, cit.15 Cfr. Pier Francesco Asso, L’Italia e i prestiti internazionali, 1919-1931. L’azione della Banca d’Italia fra la battaglia della lira e la politica di potenza, in Pier Francesco Asso, Andrea Santorelli, Marina Storaci, Giuseppe Tattara, Finanza internazionale, vincolo esterno e cambi 1919-1939 (Ricerche per la storia della Banca d’Italia, voi. HI), Ro- ma-Bari, Laterza, 1993, p. 93.
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agli istituti di emissione per agevolare la partecipazione finanziaria dell’Italia16.
16 Cfr. P.F. Asso, L’Italia e i prestiti, cit., p. 96.17 Cfr. P.F. Asso, L’Italia e iprestiti, cit., p. 95.18 Cfr. P.F. Asso, L’Italia e i prestiti, cit., p. 96.19 Cfr. Giulio Sapelli, Trieste italiana, Milano, Angeli, 1990, pp. 29-33.20 A partire dal 1920 gli interventi Comit all’estero verranno eseguiti tramite la Società intemazionale di credito mobiliare ed immobiliare di Lugano (Sicmi). Sempre tramite la Sicmi, la Banca commerciale deteneva partecipazioni della Boemische Union Bank di Praga (Unionbank), nella Hrvatska Banka D.D. e nella Jugoslavische Union Bank, entrambe di Zagabria; nella Banca dalmata di sconto con sede a Zara e filiali a Spalato e Sebenico, nella Banque de Commerce de Varsovie, nella Banque de Pologne, e nella Banca Handlowy (Handlobank), tutte e tre con sede a Varsavia.21 Cfr. lo statuto, 19 agosto 1919, in Archivio storico della Banca commerciale, Milano [d’ora in poi ASBCI], fondo Direzione centrale, Ufficio finanziario, serie Pratiche e registri della Segreteria Finanziaria e di Sicmi 1905-1934, [d’ora in poi Ufficio finanziario, Sicmi}, cartella 25, fase. “Bulcomit 1921-1934”; Public Record Office [d’ora in poi PRO], FO 371/3007; lettere di Zampolli aToeplitz e due promemoria, in ASBCI, fondo Amministratori delegati, Segreteria dell’amministratore delegato Giuseppe Toeplitz 1916-1934, serie Pratiche della Segreteria Toeplitz 1916-1934 [d’ora in poi Toeplitz}, cart. 21, fase. “Zampolli Ottorino”.
Allo stesso modo la gestione delle trattative riguardanti il prestito rumeno evidenzieranno la totale differenza di vedute tra gli istituti di credito e il governo: mentre i primi erano impegnati a creare i presupposti per un futuro controllo delle nascenti economie danubiane, il secondo, occupato sul fronte interno, si muoveva alla ricerca di una stabilizzazione socio-economica del paese. L’operazione, che sarebbe stata garantita dallo sfruttamento delle concessioni petrolifere, era stata preparata con l’obiettivo di convertire e consolidare il debito estero del governo rumeno. Il debito era rappresentato da 400 milioni di lei-oro e la quota sottoscritta in lire italiane ammontava a circa un terzo del totale ripartito per una cifra superiore ai 75 milioni di lire alla Banca italiana di sconto e di 20 milioni al Banco di Roma. L’obbligo di convertire il debito rumeno in sterline avrebbe comportato forti perdite ai possessori italiani, causando l’opposizione delle autorità monetarie italiane all’operazione17.
Stringher a questo proposito informò il governo dell’opportunità di prendere parte all’operazione, solo se la lira avesse nel frattempo migliorato il suo corso nei confronti della sterlina, ed espose quindi il suo disappunto per il deplorevole comportamento mostrato dalla Banca commerciale italiana che, senza aver ottenuto dal governo un mandato speciale, aveva ade
rito al sindacato intemazionale promotore del prestito, concordando con il governo rumeno la condizione della nuova emissione18. L’abile mossa architettata dal governo rumeno era andata a segno, ma per i sottoscrittori si rivelò una perdita a causa del crollo del titolo, tanto che Stringher venne informato dell’avvenuta contrattazione del titolo fuori borsa e solo per modesti quantitativi.
L’orientamento della Banca commerciale si inseriva perfettamente nella tendenza propria dei circoli industriali italiani del tempo, impegnati nella ricerca di nuovi mercati, ora che le commesse belliche erano terminate. La presenza di un istituto di credito italiano nei nuovi territori avrebbe offerto un incentivo per introdursi in questi nuovi mercati agli operatori economici italiani, garantendo loro proficua collaborazione19.
Nell’agosto del 1919 venne costituita a Sofia la Banca commerciale italiana e bulgara (Bul- comit), Bulgarska Italianska Torgowska Banka; all ’ istituto fu riservata la possibilità di avere succursali, agenzie e rappresentanze in Bulgaria e all’estero20. Nel settembre dello stesso anno la Banca commerciale italiana fondò un nuovo istituto di credito a Bucarest con la denominazione di Banca Commerciale Italiana si Romana21. All’origine dell’iniziativa era l’ingente quantitativo di merci esportate dall’Italia in questo paese, specialmente tessuti in cotone, macchinari elettrici e automobili. Nei due anni seguenti ven
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nero aperte succursali a Brada e Galatz (Calati); nel novembre del 1922 la Commerciale italiana e romena (Romcomit) aprì una terza succursale a Chisinau, rilevando la vecchia succursale della Banca intemazionale di commercio di Pietrogrado22.
22 “Bollettino di notizie commerciali”, novembre 1922, n. 44.23 Sull’argomento si vedano Giorgio Rumi, "Revisionismo" fascista ed espansione colonialel925-1935', Giampiero Carocci, Appunti sull’ imperialismo fascista negli anni '20; Renzo De Felice, Alcune osservazioni sulla politica estera mussoliniana, tutti in Alberto Aquarone, Maurizio Vemassa (a cura di), Il Regime fascista, Bologna, Il Mulino, 1974; MacGregor Knox, Il fascismo e la politica estera italiana, in Richard J.B. Bosworth, Sergio Romano (a cura di), La politica estera italiana 1860-1985, Bologna, Il Mulino, 1991.24 Lettera del 22 febbraio 1928, in ASBCI, Ufficio finanziario, Sicmi, cart. 29, fase. “Banca Ungaro-italiana 1923- 1934”.25 II ministro delle Finanze Antonio Mosconi a Giuseppe Toeplitz, in ASBCI, Ufficio finanziario, Sicmi, cart. 20, fase. “Preliminari: corrispondenza di G. Toeplitz e M. Facconi e Ministero delle Finanze, aprile-maggio 1930”; Nicola La Marca, Italia e Balcani fra le due guerre, Roma, Bulzoni, 1979, pp. 86-89.26 Cfr. Zbigniew Landau, Jerzy Tomaszewski, The Polish Economy in thè Twentieth Century, Londra, Croom Helm, 1985, pp. 43-47.27 L’accordo sanciva il passaggio di Fiume sotto la sovranità italiana e di porto Barros sotto quella jugoslava. Il governo di Roma si impegnava a cedere in affitto agli jugoslavi un bacino del porto grande di Fiume, nonché a istituire un regime intemazionale per la stazione ferroviaria; a queste stipulazioni si aggiungevano poi alcune convenzioni speciali e accordi doganali di interesse sociale.28 Cfr. “Dziennik Ustaw” (Gazzetta ufficiale), della Repubblica polacca, n. 25/257/1924, e decreto del presidente della Repubblica polacca, 13 marzo 1924, cit. in Hanna Kozlowska, “I rapporti economici tra Italia e Polonia nel periodo 1918-1939”, tesi di laurea, Università Luigi Bocconi, Milano, a.a. 1983-1984, p. 68, nota 32.
A partire dal 1928 Mussolini iniziò ad appoggiare apertamente una politica “revisionista” in Europa centro-orientale, sposando la causa ungherese in politica intemazionale23. Sempre nel 1928 la Commerciale italiana decise di aumentare il capitale sociale della Banca ungaro- italiana, istituto che aveva fondato nel 1920 e di cui deteneva la maggioranza azionaria24. La Banca ungaro-italiana aveva concesso al governo ungherese prestiti a lunga scadenza, e nell’esigenza di smobilizzarli aveva deciso di ricorrere all’emissione obbligazionaria di buoni del Tesoro ungherese del 7,5 per cento. In pratica si doveva trovare chi mettesse a disposizione la somma per l’acquisto delle obbligazioni. Mussolini, intendendo sottoscrivere il prestito obbligazionario, riallacciò più volte le trattative nel corso del 1929 a causa della resistenza opposta dal direttore della Banca d’Italia Stringher. Questi, date le condizioni dei mercati, non intendeva togliere 2 milioni di dollari, tanto sarebbe occorso per la sottoscrizione, dalle riser
ve valutarie italiane, ma Mussolini, interessato ai risvolti che l’operazione avrebbe suscitato in campo intemazionale, non si curava del lato finanziario dell’operazione. Nel mese di ottobre, il prestito a favore della Banca ungaro-italiana veniva approvato e il consiglio di amministrazione della Comit ne ratificava l’esecuzione25.
Altro scenario non meno interessante era quello polacco. Come stava accadendo in altri paesi dell’Europa centro-orientale, anche la Polonia era fortemente provata da una spirale ipe- rinflazionistica, alla quale tentava di opporre un processo di stabilizzazione mediante un incremento di entrate straordinarie del Tesoro26. Sulla scia della firma del Patto di Roma27 (gennaio 1924), che confermava l’interesse dell’Italia a Oriente, la Banca commerciale dette l’avvio al negoziato con il governo polacco per la concessione di un prestito28. Nel marzo del 1924 venivano firmati tre accordi riguardanti il prestito, il primo con la Comit quale rappresentante del consorzio finanziario, il secondo con il governo italiano quale garante del prestito, il terzo con i fratelli Pecchioli, commercianti di tabacco e già proprietari di una fabbrica di tabacco a Posen. Il prestito ammontava a 400 milioni di lire, equivalenti a 90 milioni di zloty, ed era stato garantito dal governo fascista nel caso la Polonia non
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avesse potuto far fronte all’impegno preso per cause di guerra. Il direttore generale della Banca d'Italia Stringher non era stato informato dell’operazione, se non ad accordo siglato e, scrivendo a Mussolini, non nascose le sue perplessità sull’opportunità dell’operazione, ritenuta avventata e dai risultati precari per l’alta inflazione presente in Polonia, paese non gradito a gran Bretagna e Germania.
Se “le linee della pacifica espansione dell’Italia” guardavano a Oriente, per giungervi, era Annibaie Carena a ricordarlo, bisognava “cominciare con lo stabilire rapporti di cordiale e sincero buon vicinato che [sic] si incontra varcate le nostre frontiere”29. Contatti con le organizzazioni separatiste degli ustascia croati30 e una più o meno esplicita ostilità economica avrebbero in realtà caratterizzato i rapporti fra Italia e Jugoslavia. In questo clima s ’ inseriva anche il trattato di commercio contenente la clausola della nazione più favorita del 14 luglio 192431. Il trattato, infatti, ostacolato in ogni maniera dai nazionalisti jugoslavi, era fortemente voluto da Mussolini per mostrare alle altre potenze la sua volontà nei confronti della cooperazione italo-jugoslava32.
29 Annibaie Carena, La politica italiana nell’ Europa orientale sui documenti diplomatici, Milano, Treves, 1930, p. 113.30 Sull’argomento si veda Howard James Burgwyn, Il revisionismo fascista. La sfida di Mussolini alle grandi potenze nei Balcani e sul Danubio 1925-1933, Milano, Feltrinelli, 1979.31 “Trattato di commercio e di navigazione fra il Regno d’Italia e lo Stato S.H.S.” (Serbo-Croato-Sloveno), con annessi protocollo, protocollo finale e scambio di note, 14 luglio 1924, in Ministero degli Affari esteri, Trattati e convenzioni tra il Regno d’Italia e gli altri stati, 1924, voi. 32, p. 28.32 Slovene Chamber of Commerce, Italo-Yugoslav Commercial Treaty, 14 luglio 1924, in PRO, FO 371/9960.33 Cfr. P.F. Asso, L’Italia e i prestiti, cit.34 Cfr. I.T. Berend, G. Ranki, Storia economica dell’Ungheria, cit., pp. 106-107.
Allo stesso modo Mussolini aveva dato il benestare per la concessione di un prestito di 600 milioni di lire al governo serbo-croato-sloveno, tramite anche l’intervento della onnipresente Banca commerciale italiana. La capacità della banca milanese di patrocinare iniziative finanziarie di carattere intemazionale con estrema disinvoltura nei confronti della Banca d’Italia e la non utilità dell’intera operazione indussero Stringher a manifestare le sue critiche in meri
to. Il governo jugoslavo vedeva con diffidenza la partecipazione di un istituto di credito italiano al prestito e i nazionalisti si erano opposti anche all’apertura di una filiale della Banca commerciale a Belgrado. L’ostilità di Stringher fece naufragare l'intera operazione, non permettendo a Mussolini di attuare completamente i suoi piani33.
Chiuso uno scenario, altri se ne aprivano alle ambizioni espansionistiche italiane. Uno di questi fu rappresentato dalla situazione ungherese. Nonostante la precaria situazione finanziaria, dovuta a un alto tasso d'inflazione e a uno stato di moratoria nel pagamento dei risarcimenti di guerra, la Società delle nazioni decise nel 1924 di concedere un prestito per la stabilizzazione all’Ungheria34. Il prestito, osteggiato dalla Francia, era stato invece appoggiato dalla Gran Bretagna nell’intento di ridurre la forte influenza che la prima esercitava sull’area tramite la Piccola intesa di cui facevano parte la Cecoslovacchia, la Jugoslavia, e la Romania.
Francia e Cecoslovacchia infatti insistettero perché Mussolini abbandonasse l’iniziativa; questi però, così facendo, avrebbe indebolito il suo disegno di incrinare la Piccola intesa per ridimensionare nella regione il peso della Francia. Dunque, privilegiando il criterio politico rispetto a quello economico, dette disposizione al corpo diplomatico di partecipare al risanamento finanziario dell’Ungheria attraverso la partecipazione al prestito indetto dalla Società delle nazioni. Il piano di stabilizzazione approvato ufficialmente comprendeva anche la creazione di una Banca nazionale ungherese, un istituto di credito formalmente indipendente dallo Stato
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che avrebbe goduto del monopolio d’emissione35. L’operazione non sarebbe stata garantita dai governi dei paesi creditori, ma coperta dalle entrate su una serie di monopoli statali che andavano da quello del tabacco, a quello del sale, a quello dello zucchero. Il 50 per cento del prestito venne sottoscritto dalla Gran Bretagna, mentre la restante parte da Italia, Svizzera e Stati Uniti. L’Italia vi partecipò con una quota di 170 milioni, pari al 12 per cento del totale36.
35 Cfr. Charles P. Kindleberger, Storia della finanza nell’Europa Occidentale, Cariplo, Roma-Bari, Laterza, 1993.36 Cfr. P.F. Asso, L’Italia e i prestiti, cit., pp. 157-161.37 Cfr. G. Carocci, La politica estera dell’Italia fascista, cit., pp. 52-53.38 Per un approfondimento delle trattative si veda Matteo Pizzigallo, L’Agip degli anni ruggenti 1926-1932, Milano, Giuffrè, 1984.39 Cfr. Giuliano Caroli, Un’ amicizia difficile Italia e Romania (1926-1927), “Analisi storica”, dicembre 1984, n. 3, pp.288, 289.40 Cfr. John R. Lampe, The Bulgarian Economy, Londra, Croom Helm, 1980, pp. 193-194.
Nella seconda metà degli anni venti Mussolini avrebbe voluto vedere realizzato il disegno di una Locamo balcanica, composta da Italia, Romania, Ungheria e Bulgaria, a direzione italiana che si contrapponesse alla Piccola intesa e al sistema di alleanze francesi e costituisse allo stesso tempo un freno all’espansione tedesca nei Balcani e un argine alle pressioni russe nell’area. Il progetto venne osteggiato dall’Inghilterra, la quale, disposta a ridimensionare 1 ’ influenza francese nell’area, non intendeva assolutamente annullarla o sostituirla con quella italiana. Il progetto di creare un sistema di stati a direzione italiana avrebbe dovuto, nel lungo periodo, indebolire anche le posizioni di Jugoslavia e Cecoslovacchia allo scopo di sfasciare la Piccola intesa37.
Se i tentativi italiani di penetrare in Romania e di smantellare la Piccola intesa erano fino ad allora falliti, dopo la salita al governo del filoitaliano generale Averescu, nel marzo del 1926, l’Italia vedeva offrirsi un’inaspettata opportunità in questa direzione. Averescu intese subito avviare, infatti, i negoziati per la concessione di un prestito italiano al suo paese. Il ministro delle Finanze Giuseppe Volpi espresse al sottosegretario alle Finanze rumeno il suo parere favo
revole, a condizione che fosse regolata la questione di alcuni prestiti concessi alla Romania precedentemente, che venisse acquistato materiale navale di fabbricazione italiana per valore pari a tre quarti del prestito richiesto, e con l’impegno che venissero attribuite concessioni petrolifere al nuovo ente parastatale, l'Azienda generale italiana petroli (Agip).
Nel giugno del 1926 vennero dunque raggiunti tra Italia Romania due importanti accordi38. Il primo riguardava il consolidamento dei debiti rumeni verso l’Italia per una somma pari al57.311.814 lire da rimborsare al governo italiano in 50 rate annuali, il secondo accordava il prestito per un ammontare di 200 milioni di lire. Quest’ultimo sarebbe stato concesso dalla società Agip al governo rumeno, su autorizzazione del ministero delle Finanze, ed erogato direttamente dalla B anca d’Italia; esso sarebbe stato rimborsabile nell’arco di 10 anni all’interesse del 7 per cento; il pagamento avrebbe potuto essere corrisposto con la cessione di prodotti petroliferi39.
L’anno seguente il governo bulgaro, rilevando l’esigenza di ottenere un prestito per la stabilizzazione monetaria del paese, inoltrò al governo italiano, attraverso il suo ministro degli Esteri, la richiesta che si accollasse, in alternativa alla Società delle nazioni, l’onere finanziario della stabilizzazione bulgara. In questo modo il governo di Sofia intendeva svincolarsi dai condizionamenti politici ed economici che la Società delle nazioni avrebbe esercitato, se avesse gestito il prestito40.
Mussolini si dimostrò decisamente sensibile alla richiesta del governo di Sofia. Opponendosi nuovamente alla politica francese, col
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pevole di voler favorire gli stati della Piccola intesa, e in particolare la Jugoslavia, a scapito del risanamento economico della Bulgaria, portando come scusa il problema delle riparazioni, il governo si dichiarò disposto ad assumersi l’intera operazione. Mussolini e il direttore generale del Credito italiano, Mario Alberti, misero a punto un progetto in base al quale l’Italia avrebbe devoluto parte dei prestiti privati ottenuti dalle industrie elettriche sul mercato americano per finanziare la stabilizzazione della moneta bulgara.
Il progetto di Alberti avvalorava la preoccupazione che già da alcuni mesi si era diffusa nelle sfere del Dipartimento di Stato americano41. Il gigantesco flusso di capitali americani investiti nelle emissioni delle industrie italiane non sarebbero stati impiegati a scopi produttivi, né a rafforzare la stabilizzazione legale della lira che si stava decidendo in quei giorni, ma al contrario avrebbero contribuito a finanziare le mire espansionistiche del regime. Dietro lo scudo di “quota 90”, piuttosto che la difesa del risparmio delle classi medie o il rafforzamento del principio della solidarietà finanziaria intemazionale42, Mussolini stava preparando un’ulteriore fase dell’espansione finanziaria nell’Europa centro-orientale.
41 Cfr. P.F. Asso, L’Italia e i prestiti, cit., p. 310.42 Per un approfondimento sulla questione di “quota 90” si vedano Felice Guameri, Battaglie economiche fra le due guerre, Bologna, Il Mulino, 1986; Gualberto Gualemi, Industria e fascismo, Roma, Vita e pensiero, 1981; C.P. Kind- leberger, Storia della finanza nell’Europa Occidentale, cit.; Pierluigi Ciocca, Gianni Toniolo, L’economia italiana nel periodofascista, Bologna, II Mulino, 1976; Gianni Toniolo, L’economia dell'Italia fascista, Roma-Bari, Laterza, 1980.43 II delegato della Società generale costruzioni al ministro dell’Economia nazionale, 7 febbraio 1928, in Archivio centrale dello Stato [ACS], Presidenza del consiglio dei ministri [d’ora in poi Pcm], 1928-1930, 15.2.10.1156.44 Cfr. N. La Marca, Italia e Balcani, cit., p. 83.
La decisione di sottoscrivere una partecipazione al prestito bulgaro venne presa da Volpi nell’aprile del 1928. Di fronte alla consueta manifestazione di perplessità da parte di Stringher, il ministro Volpi espresse il desiderio che anche il capitale italiano contribuisse alla sottoscrizione del prestito per evitare che la Bulgaria fosse sottoposta soltanto all’influenza dei gruppi finanziari inglesi e americani. A parere di Strin
gher, la Banca d’Italia avrebbe dovuto rimanere estranea all’operazione, svolgendo semplice- mente il ruolo di intermediario fra il sistema bancario italiano e il governo bulgaro. La Banca commerciale esercitò invece pressioni sulle autorità monetarie per una partecipazione più consistente al prestito, anche perché era fortemente impegnata con la propria filiale bulgara nella costruzione di un grande acquedotto nazionale.
La vittoria della Società generale costruzioni alla gara d’appalto per la costruzione dell’acquedotto Rila-Sofia aveva sbaragliato l’accanita concorrenza di alcune ditte tedesche, che per l’occasione si erano unite in un consorzio ed erano appoggiate dal sindacato tedesco-franco-belga dei fabbricanti di tubi saldati Schweisserohr Verband-Mulheim Ruhr43. La pressione della Comit sul governo italiano si manifestò una prima volta nel marzo del 1928, quando l’istituto milanese chiese di partecipare per una quota maggiore di quella stabilita al capitale della Banca ipotecaria bulgara. E si ripetè più tardi nel 1928 quando, a seguito di un contrasto fra la delegazione bulgara e la casa intermediaria Schroe- der sul prezzo di emissione, il ministro delle finanze Moloff rivolse alla Comit la richiesta di subentrare al posto della Schroeder e organizzare 1’emissione sul mercato di New York. Moloff era stato vicepresidente della filiale della Comit in Bulgaria e la sua offerta deve essere stata considerata con grande attenzione. L’Italia, tramite il Credito italiano e la Commerciale, sottoscrisse al 7,50 per cento un milione e mezzo di dollari, pari a 28 milioni e 500 mila lire44.
In Romania, nel giugno del 1927 era tornato al potere il nazionalista rumeno Vintila Brati-
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nau, il quale si era subito adoperato per prendere le distanze da ogni relazione con l’Italia. In questa direzione il governo di Bucarest aveva annullato le commesse al Cantiere tecnico triestino per la costruzione di un incrociatore, come pure quelle ai Cantieri di Monfalcone, i quali avrebbero dovuto fornire alla marina rumena 4 sommergibili e un altro incrociatore, per una somma totale di 200 milioni di lire45. La richiesta inoltrata al ministero delle Finanze per la concessione di un prestito al governo rumeno al fine di metterlo in grado di pagare le commesse venne respinta coni’ indicazione di rivolgersi direttamente agli istituti bancari privati46. In questo clima l’Italia, in un primo momento, non intese partecipare al prestito intemazionale per la stabilizzazione della valuta rumena.
45 II prefetto di Trieste a Mussolini, 1 giugnol928, in ACS, Pcm, 1928-1930,15.2.8.1049.46 Regio ministero delle Finanze a Presidenza del Consiglio dei ministri, regio ministero Economia nazionale, regio ministero Marina, regia Legazione a Bucarest, 27 aprile 1928, in ACS, Pcm, 1928-1930,15.2.8.1049.47 Toeplitz al ministero delle Finanze, 31 luglio 1928, in ASBCI, Toeplitz, cart. 59, fase. “Prestito di stabilizzazione rumeno”.48 Cfr. P.F. Asso, L’Italia e iprestiti, cit., pp. 298-303.49 Sull’argomento cfr. H.J. Burgwin, Il revisionismo fascista, cit., pp. 184-190.50 Lettera del 6 ottobre 1928, in ASBCI, Toeplitz, cart. 57, fase. “‘Avv. Enrico Marchesano — Bucarest, 1927-1928’. Con ‘Scambio di corrispondenza per il Prestito romeno’, ottobre-novembre 1928”; P.F. Asso, L’Italia e i prestiti, cit., pp. 306-307.
Malgrado apparentemente si adoperasse per una cooperazione intemazionale, l’Inghilterra operava per diminuire l’influenza francese nella Piccola intesa, e Mussolini, accortosi che si stava disputando una battaglia politico-finanziaria, si rivolse al ministro degli Esteri Dino Grandi perché Volpi sollecitasse 1 ’ intervento del- l’alta banca italiana a favore del prestito rumeno. Una nuova crisi politica in Romania ebbe come conseguenza il rinvio della conclusione del prestito, rendendo necessario allo stesso tempo un aumento delle anticipazioni a breve alla banca di Stato rumena in modo da metterla in grado di difendere la stabilità del cambio e preparare le condizioni per remissione del prestito intemazionale. Notizie provenienti dalla filiazione rumena della Commerciale Romcomit riportavano l’interessamento della finanza tedesca alla concessione del prefinanziamento. Sfruttando anche i servigi del nuovo ministro
della Giustizia, Grigoire Junian, già membro del consiglio di amministrazione della Romcomit, la Commerciale riuscì a battere la concorrenza tedesca, concedendo un credito al governo rumeno di 12 milioni di dollari, mediante lo sconto di effetti accettati dalla Società di credito industriale di Bucarest47.
Nel febbraio del 1929, sotto l’egida di un sindacato rappresentante delle potenze alleate, venne lanciato il prestito per la stabilizzazione rumena, al quale la Banca d’Italia partecipò per un importo pari a 8 milioni di dollari, affidandone la collocazione alla Commerciale48. Mussolini aveva sempre auspicato la disintegrazione dello Stato jugoslavo e, a tal fine, aveva intrattenuto rapporti con l’organizzazione segreta dei separatisti croati allo scopo di fomentare rivolte entro i confini dello scomodo vicino49. Nel febbraio del 1928 era stato indetto il prestito per la stabilizzazione della moneta jugoslava, ma Mussolini, non intendendo partecipare all’operazione, si trovava per la prima volta sulle stesse posizioni di Stringher e di Volpi. Egli inoltre temeva che il prestito non sarebbe andato a consolidare il debito estero jugoslavo, bensì il riarmo delle truppe. Come ci si sarebbe potuti aspettare, la Comit prese l’iniziativa indipendentemente dalla posizione ufficiale del governo italiano, concedendo al governo jugoslavo un prestito di 100 milioni di dinari all’8 per cento, pari a 5 milioni di sterline, impegnandosi in questo modo a partecipare al prestito per la stabilizzazione jugosalva50.
Nell’intento di strappare le concessioni ad Ahmet Bey Zogu, alla testa del governo albanese, i servizi segreti britannici, ispirati e finanziati dalle compagnie petrolifere, presero
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contatto con elementi che capeggiavano alcune bande insurrezionali bolsceviche operanti in zone dell’Albania, della Macedonia e della Bulgaria, allo scopo di creare focolai di insurrezione alle frontiere delle tre regioni con l’intenzione di dare inizio a una nuova guerra balcanica, che avrebbe mutato le posizioni di influenza italiane nei Balcani51. Da Roma Mussolini chiedeva a Chamberlain di far desistere il suo ministro in Albania da una politica che contrastava con gli interessi italiani in una regione di vitale importanza per l’Italia52. La Gran Bretagna allentò la presa sull’Albania tramite il suo ministro Harry Charles A. Eyres, accordando implicitamente all’Italia il diritto di una penetrazione economica nello Stato albanese. Zogu, infatti, dietro offerta di un prestito di un milione di franchi-oro da parte dei negoziatori italiani, respinse le offerte del gruppo finanziario inglese. Mussolini, intenzionato ad avviare immediatamente l’intervento in Albania, prese contatti con il direttore centrale del Credito italiano, Mario Alberti, al fine di ottenere i finanziamenti necessari alla costituzione di un istituto di emissione, indicato già nel 1922 dal rapporto Calmès, e l’anno successivo dal consigliere finanziario del governo albanese, Hun- ger, come requisito fondamentale per il decollo economico del paese53.
51 Italo Sulliotti a Mussolini, in ACS, Pcm, 1924, 15.13.1994.52 Cfr. Ennio Di Nolfo, Mussolini e la politica estera italiana (1919-1933), Padova, Cedam, 1960, p. 179.53 II lussemburghese Albert Calmès venne incaricato nel 1922 dalla Società delle nazioni di compiere un esame preliminare della situazione finanziaria economica e fiscale dell’Albania; egli calcolò in 110 milioni di franchi-oro il fabbisogno finanziario del paese. L’anno successivo l’olandese Hunger veniva designato dalla Società delle nazioni come consigliere finanziario del governo albanese; egli propose a Ginevra la fondazione di un istituto di emissione per l’Albania: cfr. Francesco Jacomoni di San Savino, Il patto di Tirana, “Rivista di studi politici intemazionali”, 1953, n. 2, p. 6.54 G. Carocci, La politica estera, cit., p. 37.53 Cfr. Alessandro Roselli, Italia e Albania: relazioni finanziarie nel ventennio fascista, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 64-67.
Alberti era contrario alla penetrazione economica in quel paese, “vi si piegò solo in seguito all’imposizione di Mussolini”54. Egli era convinto che l’espansione avrebbe comportato costi superiori ai ricavi, deducendo da ciò l’opportunità di un intervento finanziario dello Stato ben superiore a quello che avrebbe potuto so
stenere da solo il Credito italiano. Nel marzo del 1924, Alberto Janssen, direttore della Banque Nationale de Belgique e presidente del comitato finanziario della Società delle nazioni, affidava a Mario Alberti la direzione dell’iniziativa per la costruzione della Banca d’Albania. Il 15 marzo 1925 il gruppo finanziario italiano concludeva col governo di Tirana la convenzione che dava vita alla Banca nazionale d’Albania (Banka Kombetare e Shqipnisj, e assegnava un cospicuo prestito per lavori pubblici. Al gruppo finanziario italiano spettavano 225 mila azioni così ripartite: Credito italiano, 100.000 azioni fondatrici e 15.000 azioni ordinarie; Banca commerciale italiana, 30.000 azioni; Banco di Roma, 30.000 azioni; Banca nazionale di credito, 30.000 azioni; altri istituti minori, 20.000. L’Istituto nazionale cambi con l’estero (Ince) doveva depositare presso una banca svizzera, a nome delle banche italiane sottoscrittrici, la quota del capitale da versare.
La “formale indipendenza” dell’istituto, la cui sede era fissata dall’articolo 2 dello statuto in Italia, era tutelata anche per quanto riguardava gli organi sociali: il consiglio di amministrazione e il comitato di amministrazione potevano riunirsi sia in Albania che in Italia. La direzione centrale era composta da due membri italiani e due albanesi; la presidenza era però comunque sempre attribuita a un italiano. Le assemblee venivano tenute attenendosi alla legislazione italiana sulle società per azioni. La banca veniva amministrata secondo la pratica e le consuetudini bancarie italiane55.
L’intera operazione era stata presentata dal governo fascista come un’iniziativa di aiuto ver
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so una popolazione vicina, sfruttata da secoli e bisognosa di una rinascita economica. Secondo la propaganda dell’epoca, l’Italia avrebbe soccorso il volenteroso popolo albanese con il suo ingegno e la sua industria, instaurando proficui rapporti di collaborazione tra le parti. In questa maniera essa veniva ad assumere il ruolo di “emancipatrice dei popoli”, dissimulando il raggiungimento del prestigio intemazionale a cui veramente ambiva56.
56 Cfr. Indro Montanelli, Albania una e mille, Torino, Paravia, 1939, pp. 75-80.57 Sull'opposizione degli ambienti finanziari e industriali alle iniziative di carattere economico di Mussolini si veda Piero Melograni, Gli industriali e Mussolini. Rapporti tra Confindustria e fascismo dal 1919 al 1929, Milano, Longanesi, 1980.58 Cfr. Antonio Baldacci, L'Albania, Istituto per l’Europa orientale, Roma.sd. [ma 1929], p. 394.59 Cfr. H. Kozlowska, “I rapporti economici”, cit., p. 116, nota 29.60 Cfr. Valerio Castronovo, Giovanni Agnelli. La Fiat dal 1899 al 1945, Torino, Einaudi, 1977, p. 474.61 Cfr. J. Warszawski, “Wspolpraca polskiego przemyslu motoyzacyjnego z firma Fiat w latach 1931-1980” (La collaborazione dell'industria della motorizzazione polacca con la società Fiat negli anni 1931-1980), tesi di laurea, Scuola centrale di pianificazione e di statistica, SGPiS, Varsavia, 1980, cit. in H. Kozlowska, “I rapporti economici”, cit., p. 118.
In maniera meno esplicita, gli ambienti governativi approvavano l’operazione per i vantaggi che questa avrebbe comportato nell’acquisizione di prodotti petroliferi e minerari, capaci di compensarne i costi. Sia la proprietà azionaria della banca sia la sua struttura organizzativa interna tradivano i buoni proponimenti con cui l’iniziativa era nata. Il gruppo finanziario rappresentato dalle banche italiane, diffidente verso la riuscita dell’iniziativa57, aveva fatto in maniera di mantenere il controllo del capitale e soprattutto della gestione.
Lo stesso Alberti, presidente della neonata Banca d’Albania, nel discorso d’inaugurazione sottolineò l’importanza che lo Stato italiano, in nome della difesa dei suoi legittimi interessi, garantisse e tutelasse l’operazione, come a indicare che solo l’appoggio statale avrebbe potuto scongiurarne il fallimento58.
Operatori economici italiani
In ambito industriale, il presidente della Fiat Giovanni Agnelli, subito dopo la guerra, aveva
impostato una politica sempre più attiva e intraprendente sui mercati dell’Europa centroorientale. Egli capì che questi nuovi paesi, privi di un’industria automobilistica, avrebbero costituito uno sbocco importante per quella italiana. Nel novembre del 1920 fu creata a Varsavia la prima rappresentanza della ditta torinese in quest’area. La società si chiamò Polski-Fiat Spa e ricevette l’esclusiva di vendita di prodotti della Fiat in Polonia59. Accanto alla consociata di Varsavia vennero poi create le Fiat di Bucarest, Zagabria, Sofia, Praga, e Budapest. Dell’importanza di quest’area testimoniano le cifre: la Fiat era stata in grado di collocare in questa zona tra il 1926 e il 1927, tra il 15 e il 20 per cento di tutte le sue esportazioni60. Considerati i buoni risultati che l’operazione aveva conseguito in Polonia, si decise, all’inizio del 1930, di lavorare a un progetto di costituzione di una fabbrica di autoveicoli. Al concorso si presentarono due aziende: la Fiat e la Citroen61.1 francesi non compresero la situazione polacca. Per produrre le automobili, la Polonia aveva bisogno di crediti esteri, considerata la scarsità dei capitali sul mercato interno. La proposta della Citroen non prevedeva invece la possibilità di grossi finanziamenti, anche perché l’industria francese si trovava essa stessa in una situazione precaria. Nonostante questo, il governo polacco chiese alla Citroen di modificare le sue condizioni. Avendo ricevuto una risposta negativa, il contratto venne firmato con la Fiat. Il contratto di brevetto fu preparato nel luglio del 1931 dal viceministro della Guerra, il generale Slawoj- Skaldkowski, e fu firmato ufficialmente il 21 ot
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tobre 193162. A partire dal 1933 le esportazioni Fiat subirono un’impennata, l’anno seguente l’Italia partecipò all’importazioni polacche di veicoli e di loro parti nella misura del 52,33 per cento63.
62 Cfr. H. Kozlowska, “I rapporti economici”, cit., p. 122.63 Cfr. W. Wyszynski, “Przemysl i handel samochodowy w Warszawie” (Industria e commercio automobilistico a Varsavia), tesi di laurea, SGPiS, Varsavia, 1936, p. 101, cit. in H. Kozlowska, “I rapporti economici”, cit., p. 125, nota 43.64 Cfr. V. Castronovo, Giovanni Agnelli, cit., p. 532.65 Cfr. “Bollettino di notizie commerciali”, marzo 1925, p. 116.66 Cfr. Filippo Tajani, L’avvenire dell’Albania, Milano,Ulrico Hoepli, 1932, pp. 131-140.67 Cfr. Roberto Almagià, L’Albania, Roma, Cremonese, 1930, pp. 222-227. Il sistema ferroviario Decauville, che prende il nome dal suo inventore, un ingegnere francese, era stato ideato per essere utilizzato nelle miniere, data la ridotta misura dello scartamento tra le verghe. Esso veniva installato direttamente sul terreno senza bisogno di traversine di legno. Particolarmente adatto per il traino a mano di carrelli o per piccole locomotive, poteva essere facilmente smontato e rimontato in altro luogo.68 “Bollettino di notizie commerciali”, 1923, n. 27, p. 148.69 Cfr. Relazioni economiche tra Italia e Albania, in “Rivista di politica economica”, 1924, pp. 106,107.
Agnelli inoltre riuscì a farsi valere nell’ambito dell’accordo di compensazione stipulato nel 1934 tra Italia e Polonia. Le miniere polacche dell’ Alta Slesia fornirono alle Ferrovie dello Stato italiane il carbone in cambio dei prodotti automobilistici destinati alla Panstwowe Zaklady Inzynieryjne (Pzinz, ossia Stabilimenti statali di ingegneria) e alla Polski-Fiat64. In questo modo la concorrenza dell’industria tedesca fu fermata almeno nel settore automobilistico. Le auto di fabbricazione italiana avevano conquistato anche i favori del mercato rumeno, a scapito delle grosse e costose auto di fabbricazione tedesca e austriaca65.
In Albania l’intera rete viaria versava in pessime condizioni; i lavori di manutenzione non erano mai stati eseguiti, né sotto l’impero ottomano, né tantomeno dopo; i ponti spesso risalenti a epoca romana, erano ormai distrutti, oppure erano stati sostituiti dai turchi con precari ponti di corda e legno66. L’eventualità di avventurarsi nella costruzione di un sistema di collegamenti ferroviari venne immediatamente scartata per l’enorme costo, dato che non esistevano tracciati precedenti a eccezione di alcuni a scartamento ridotto e di qualche Dacauville67.
In questo modo diventava di fondamentale importanza per il regime favorire sempre più
l’intervento di imprese italiane per la realizzazione di nuovi ponti e strade: un moderno e razionale sistema di infrastrutture avrebbe favorito e incentivato l’intervento economico italiano. Venne così pattuito tra i governi di Roma e Tirana che le imprese italiane impegnate nella costruzione di ponti avrebbero potuto rimanerne proprietarie e riscuoterne i pedaggi fintanto che le opere realizzate non fossero state riscattate dall’amministrazione statale68.
Allo stesso modo vennero incoraggiati i trasferimenti in Albania di industrie i cui processi di trasformazione potessero avvalersi in loco di materie prime a costi più bassi che in Italia. In questo clima, un ulteriore importante avvicinamento del primo ministro albanese Zogu all’Italia si verificò con la firma nel gennaio del 1924 di un trattato di commercio che accordava all’Italia la clausola della nazione più favorita. Il trattato stabiliva, oltre all’esenzione dal pagamento dei diritti di transito sulle merci, la possibilità di concessioni minerarie, industriali e agricole. Veniva infatti stabilito, per ciascuna delle parti contraenti, l’obbligo di non accordare, nei settori commerciale e industriale, concessioni, monopoli e privilegi a un terzo Stato. Nel campo delle concessioni minerarie, agricole e dell’industria dei trasporti si stabiliva invece che nessuna delle due parti contraenti applicasse ai cittadini dell’altra parte condizioni più onerose di quelle che venivano applicate ai sudditi nazionali o a quelli della nazione più favorita69.
L’Europa centro-orientale nella politica dell’Italia fascista 65
Con questa clausola l’Italia evitava che nella vicina Albania si costituissero a vantaggio di cittadini o ditte non italiane posizioni di privilegio o di monopolio. Si tentava in questo modo di limitare il pericolo di accaparramenti delle risorse naturali da parte di terzi; pericolo che negli ultimi tempi aveva assunto forme concrete a proposito dei giacimenti petroliferi. Come la Francia, la Gran Bretagna e la Germania, anche l’Italia cercava di mantenere i rapporti economici che aveva instaurato nel Levante prima del conflitto mondiale. Questo valeva particolarmente per la Dalmazia e l’Albania. Mantenere quest’obiettivo per gli imprenditori italiani che operavano in questi territori diventava sempre più difficile dopo le scelte che l’Italia aveva fatto in politica estera. Infatti il 2 agosto del 1920 era stato firmato tra Italia e Albania un trattato di amicizia, secondo il quale l’Italia rinunciava al protettorato di fatto sull’Albania e a Valona conservando solo l’isolotto di Saseno. Due mesi dopo, nel novembre dello stesso anno, con il trattato di Rapallo stipulato con il Regno serbo-croato-sloveno, l’Italia rinunciava alla Dalmazia, eccetto il porto di Zara e le isole di Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosa, erigendo a città libera Fiume e il suo territorio.
Proprio in Dalmazia si era sviluppata, per iniziativa italiana, l’industria del cemento, rappresentata da sei stabilimenti tutti controllati principalmente da capitale italiano. La loro produzione annuale si aggirava sulle 500 mila tonnellate l’anno con profitti che andavano dal 25 al 40 per cento, nonostante l’alto costo del carbone. L’industria del cemento Portland trovava in Dalmazia il suo posto ideale, sia per la quasi immediata vicinanza alla costa della materia prima, sia per la sua buona qualità.
Nel novembre del 1920, mentre stavano per concludersi i lavori tra i delegati italiani e jugoslavi per redigere gli accordi di Rapallo, furono toccate in altra sede questioni di carattere eco
nomico. A Santa Margherita i primi approcci furono imperniati su tre questioni principali: il riconoscimento dei diritti delle imprese a capitale italiano presenti sul territorio jugoslavo prima del conflitto, specialmente nella regione dalmata; la concessione di speciali facilitazioni per le iniziative italiane in Jugoslavia; la firma di un esauriente trattato di commercio e di navigazione con accordi bancari allo scopo di sviluppare le relazioni commerciali fra i due paesi per arrivare a una prossima unione economica.
Uno dei progetti più importanti a capitale italiano si trovava in Dalmazia e riguardava l’estrazione di carbone delle miniere del monte Promina e del distretto di Demis. Il carbone estratto, se pure di non eccelsa qualità, veniva impiegato dalle piccole industrie locali per le navi che svolgevano il servizio di navigazione costiera fra le due sponde dell’Adriatico. Sotto controllo italiano erano anche alcune fabbriche di carburo, di cianuro e altre numerose industrie di laterizi a Spalato70.
70 Cfr. Antonije Filipic, La Jugoslavia economica, Milano, Treves, 1922, pp. 238-241.71 Appunto di Mussolini per il Comitato permanente per le infrastrutture interne; ministero degli Affari esteri alla Presidenza del Consiglio dei ministri, 31 gennaio 1932,entrambi inACS.Pcm, 1931-1933,3.1.10.3993.
L’Italia individuò nuove opportunità di investimento per la creazione di imprese, anche con la partecipazione jugoslava, per la costruzione di strade ponti e ferrovie, per lo sfruttamento delle foreste della Slavonia e dell’energia idroelettrica in Dalmazia71. Dalla Jugoslavia come contropartita potevano essere esportati grano, suini in larga quantità, tabacco dalla Bosnia e in particolare dalla Erzegovina, e legname sempre da Bosnia, Erzegovina e Slavonia. L’Italia dal canto suo avrebbe esportato ogni tipo di materiale rotabile, automobili di grossa cilindrata, prodotti tessili e finiti del cuoio e della pelle. Già fiorente era il commercio dei tessuti attraverso le città di Zara, Sebenico e Curzola, che attraverso le loro strutture commerciali distribuivano la merce in Croazia, Bosnia Erzegovina, nel Montenegro e in Albania. E tuttavia nel corso degli anni trenta che l’imprenditoria italiana partecipò all’attività industriale e commerciale della Ju
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goslavia con maggiore successo nonostante le tensioni in politica estera tra i due paesi.
In Romania nel dicembre del 1919 venne fondata dalla Comit la Foresta società anonima per l’industria ed il commercio del legname, con sede a Milano. L’operazione faceva riferimento a una precedente acquisizione in Romania delle aziende di legname della Ungarischer Holzend- ler Ag. Creditinstitut (Holzbank) di Budapest. L’oggetto sociale assegnato alla società era l’esercizio dell’industria di produzione e lavorazione del legname e del commercio in Italia e all’estero. Il capitale sociale, inizialmente dell’ammontare di 50 milioni di lire, venne sottoscritto dalla Banca commerciale italiana e da case e personalità amiche dell’istituto di credito milanese.
L’iniziativa riguardò 1 ’ acquisto dell’ attivo forestale di Holzbank, costituito da 22 società anonime presenti in Romania e nei paesi appartenenti all’ex Impero austro-ungarico (nonché dai crediti concessi da Holzbank alle società stesse, le quali in seguito alla guerra erano per la maggior parte inoperose, mancando il necessario per riprendere le attività)72.
72 Verbale del 20 maggio 1920, in ASBCI, fondo Presidenza e Consiglio di amministrazione, serie Verbali del Consiglio di amministrazione 1894-1945 [d’ora in poi Consiglio di amministrazione], voi. V, p. 156.73 Cfr. S. Lauterbach, Kapital zagraniczny w lodzy (Il capitale straniero a Lodz), “Gazeta Polska” (Gazzetta polacca), 5 dicembre 1935, cit. in H. Kozlowska, “I rapporti economici”, cit., p. 106, nota 15.741. K. Poznansky al direttore H. Bursz a Varsavia, 18 gennaio 1938, cit. in H. Kozlowska, “I rapporti economici”, cit. p. 108, nota 16.
La Banca commerciale italiana fu interessata anche all’industria tessile polacca, soprattutto concedendo crediti. Quest’attività si sviluppò alla fine degli anni venti. La società polacca I.K. Poznanski SA, di Lodz, uno dei più grandi stabilimenti tessili dell’Europa, appartenente all’omonima famiglia, negli anni venti, ricorse spesso alla concessione di crediti da parte della Società intemazionale di credito mobiliare di Lugano (Sicmi), appartenente alla holding della Comit73. Nel 1930 la Comit, essendo creditrice della Sicmi, entrò in possesso della partecipazione che la Sicmi possedeva nella I.K. Poznanski SA.
La società polacca a quel tempo si trovava in difficoltà finanziarie e, non essendo in grado di pagare i suoi debiti, ebbe bisogno di ulteriore capitale circolante. La Comit, sfruttando questa situazione, chiese di ottenere gratuitamente la metà delle azioni ordinarie e 1.800 azioni privilegiate e di avere il potere decisionale nella gestione dell’impresa. I rapporti con i proprietari polacchi si svilupparono secondo le regole del ricatto: se le decisioni assunte non avessero corrisposto alla volontà della banca, immediatamente sarebbe stata indirizzata loro una richiesta di restituzione del denaro prestato74.
La penetrazione della Comit in Polonia si basò soprattutto sui legami di parentela della famiglia Toeplitz. Le persone che rappresentarono gli interessi della banca furono i Meyer (Giorgio, Stanislao e Stefano) e i Toeplitz (Sigismondo, Leopoldo, Teodoro e Stanislao principe Lubomirski).
NelTindustria tessile, la Comit ebbe le sue partecipazioni anche nella Czestochowskie Zad- lady Prezemyslu Wlokienniczego (Stabilimento dell’industria tessile di Czestochowa), uno dei sindaci della quale fu Giorgio Meyer, e nella To- maszewska Fabrika Sztucznego Jedwabiu SA (Fabbrica di seta artificiale di Tomaszow), nel cui consiglio d’amministrazione vi erano Sigismondo e Giuliano Toeplitz. Quest’ultima era stata acquistata dalla Comit nel marzo del 1925 per poter usufruire di una struttura industriale capace di rispondere al continuo aumento delle richieste di seta artificiale che si stavano registrando in Polonia e nei paesi confinanti. Toeplitz, inoltre, si impegnò a negoziare l’entrata della Snia-Viscosa nel capitale della costituenda società tessile polacca per una quota pari al 60 per cento. L’intero capitale sociale era rap
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presentato da 460 mila azioni, di cui 102 mila vennero acquistate dalla Commerciale75 e 250 mila vennero acquistate dalla Snia-Viscosa che in questo modo giunse a controllare la società polacca.
75 ASBCI, Toeplitz, cart. 36, fase. “Tomaszowska Fabryka — Varsavia”.76 Ferdinand Zweig, Poland between two Wars, Londra, Secker&Warburg, 1944.77 Meyer a Toeplitz, 28 luglio 1925, in ASBCI, Toeplitz, cart. 51, fase. “Polmin”.78 Cfr. Camera di commercio italo-orientale, L’Albania economica, Bari, Società editrice tipografica, sd. [ma dopo il 1927], p. 62.
Significativa dell’apertura polacca verso l’Italia fu l’offerta fatta dagli Stabilimenti polacchi statali di paraffina Polmin di Varsavia alla Mira-Lanza di Genova per la fornitura di candele, cera e paraffina. Mazzini della Mira-Lanza prese contatto con Toeplitz per avere informazioni sulla società polacca e per capire se esistevano le condizioni per avviare l’operazione. Toeplitz consigliò di contattare Stanislao Meyer per ottenere informazioni più esaurienti sull’opportunità offerta alla Mira-Lanza di acquistare parte della produzione della Polmin. La Polmin era uno stabilimento dello Stato polacco, dipendente dal ministero del Commercio e dell’industria. L’affare sarebbe dunque stato trattato dalla Bank Gospodarstwa Krayowego (Banca dell’economia nazionale) e ciò convinse Meyer che l’operazione non avrebbe presentato alcun rischio. Meyer anzi attirò l’attenzione di Toeplitz sul fatto che l’iniziativa avrebbe esercitato un’ottima influenza sugli altri affari che la Banca commerciale aveva in Polonia e che, nonostante dipendessero tutti dal ministero del Commercio, si concentravano in pratica presso il ministero delle Finanze. La conclusione dell’operazione proposta dalla Polmin si inquadrava in modo positivo negli affari che la Comit aveva con il Monopolio dei tabacchi polacco Poltabacco76, procurando alla Commerciale l’appoggio molto influente degli ambienti dove si decideva tutto, cioè il ministero delle Finanze. Le trattative ebbero corso immediato77.
Nell’accordo del marzo 1925 per la costituzione della Banca d’Albania, era contemplata anche la costituzione di una Società per lo svi
luppo economico dell’Albania (S vea)78. Essa era stata costituita il 23 aprile del 1925, con un capitale sociale di 15 milioni di lire di cui il 7 per cento attribuito gratuitamente al governo albanese. La società aveva lo scopo di procurare al governo albanese 50 milioni di franchi-oro e di erogarli con gradualità a un saggio non eccedente il 7,5 per cento, per la durata massima di 40 anni.
La Banca nazionale d’Albania aveva una forte influenza sulla vita economica albanese proprio tramite la Svea che, costituita per promuovere lo sviluppo dell’Albania, controllava direttamente i lavori pubblici e gli appalti a cui le imprese avrebbero concorso per l’assegnazione dell’esecuzione dei lavori. Come prima condizione nella stipulazione del prestito fu posta la norma che il suo ricavato dovesse servire unicamente alla costruzione di porti, ponti e strade, a opere di bonifica, prosciugamento di stagni, paludi e ad altri lavori di interesse per lo sviluppo agricolo del paese, a costruzioni di ferrovie, opere idroelettriche, impianti telefonici e telegrafici, sfruttamento di boschi. Nell’accordo venne disposto che il ricavato del prestito non fosse mai utilizzato per la manutenzione delle opere pubbliche, alla quale il governo albanese avrebbe dovuto provvedere con i mezzi del suo bilancio. Nel fissare i lavori da compiere venne stabilito il criterio di lasciare la scelta allo Stato albanese col quale la Svea doveva accordarsi circa l’ordine di esecuzione.
La Società per lo sviluppo economico dell’Albania assunse la funzione di collocatore e gestore del prestito e di agente pagatore delle opere pubbliche compiute con il ricavato del prestito stesso. Speciali norme furono pattuite nella convenzione circa l’esecuzione dei lavori, delegando la Banca nazionale d’Albania a promuovere e ricevere le offerte delle imprese e incaricando lo stesso istituto di esaminarle insie
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me a una commissione nominata dal governo albanese79.
79 Cfr. The Information Department of thè Royal Institute of International Affairs, South Eastern Europe. A Politicai and Economie Survey, Londra, Oxford University Press, 1939, pp. 88-89; Francesco Nobili Massuero, La rinascita economica dell’ Albania, “Rivista di politica economica”, 1927, pp. 756-757; F. Jacomoni di San Savino, Il patto di Tirana, cit., p. 10.80 Cfr. Matteo Pizzigallo, Alle origini della politica petrolifera italiana, Milano, Giuffrè, 1981, pp. 244-254.81 A sottolineare il carattere apertamente remissivo e accomodante dell’Italia verso il Regno serbo-croato-sloveno vena erano stati firmati nell’ottobre del 1922 gli accordi di Santa Margherita, secondo i quali gli italiani avrebbero dovuto abbandonare i territori di Susak al confine del territorio di Fiume.82 Cfr. Ernesto Cianci, Nascita dello Stato imprenditore in Italia, Milano, Mursia, 1977.
Le imprese italiane lavoravano in Albania tramite la Svea non sempre perché meritevoli per abilità imprenditoriale o tecnica, ma perché arguti titolari erano riusciti ad accattivarsi i favori degli ambienti governativi o della burocrazia facenti capo all’apparato del partito fascista. Per esempio, l’imprenditore Venanzio Venanzetti di Milano reclamava in una sua lettera per l’ostruzionismo attuato dalla Svea nei confronti dell’attività svolta dalla sua impresa in Albania, attività che era esercitata in maniera indipendente dall’ente statale. L’impresa, nonostante avesse più volte concorso agli appalti indetti dalla Svea, ne era sempre stata esclusa per motivi imputabili non al fatto che le sue offerte erano peggiori rispetto alla concorrenza, quanto piuttosto a una sospettata avversione di Venanzetti al regime. L’imprenditore milanese ribadiva, infatti, che l’opera della sua impresa in Albania contribuiva al progetto fascista di “collaborazione” indipendentemente dal fatto che egli possedesse o meno la tessera del partito. A questo proposito Venanzetti si rammaricava che il rappresentante della Svea in Albania, commendatore Luigi Sottili, ostacolasse in ogni modo l’operato svolto da imprese fuori dal controllo dell’ente.
Approvvigionamento energetico
Il progetto di nazionalizzare gli impianti di raffinazione presenti sul territorio di Fiume in Dalmazia rientrava a pieno titolo nella prospettiva
del regime di creare zone di influenza in Europa orientale partendo dai territori che si affacciavano sull’altra sponda dell’Adriatico. Il ministero delle Finanze italiano acquistò dalla Pho- togen la maggioranza azionaria della Needer- landsche Petroleum maatscapijphotogen di Amsterdam, rappresentata da 18.751 azioni dell’importo di 400 lire ciascuna, dando agli impianti la denominazione di Raffinerie di oli minerali società anonima (Romsa)80.
La gestione di un’attività a Fiume, nel cuore della Dalmazia, avrebbe funzionato come punto di partenza per assumere il controllo economico sulla regione che, da un punto di vista strettamente diplomatico, era stato negato all ’ Italia81. L’intera operazione di Fiume infatti si prestava, sotto l’aspetto strettamente economico, a qualche riserva, se si pensa al suo carattere assistenziale e alla modesta entità dell’intero impianto di raffinazione82. Tuttavia, il fatto che una potenza straniera acquisisse la raffineria fiumana avrebbe ostacolato il disegno italiano di controllare l’Adriatico.
Nell’accordo del 12 marzo 1925 stipulato tra i governi albanese e italiano, riguardante la nascita di un istituto centrale di emissione, venivano menzionate anche delle concessioni minerarie. Una a Valona, di 2.140 ettari, veniva accordata alla Società italiana miniere di Seleniza (Simsa), e l’altra, per una estensione totale di 47.213 ettari, era accordata alle Ferrovie dello Stato italiano. Per la gestione di quest’ultima veniva creata, nel luglio del 1925, l’Azienda italiana petroli Albania (Aipa), affidandone l’am- ministrazione al servizio approvvigionamento delle Ferrovie dello Stato, sotto il controllo del
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ministero delle Comunicazioni83; l’Aipa doveva provvedere alle opere di ricerca e di estrazione del petrolio.
83 Cfr. Giovanni Demaria e al., Principi di economia albanese, Padova, Cedam, 1941; N. La Marca, Italia e Balcani, cit., p. 23; Gino Borgatta, Albania, Venezia, Istituto di studi adriatici, 1943, p. 236; Albania, a cura dell’ufficio studi dell’Ispi, Milano, Istituto per gli studi di politica intemazionale, 1940, p. 121.84 E. di Nolfo, Mussolini e la politica, cit., p. 18085 Giovanni Demaria e al., Principi di economia albanese, cit., p. 127.86 Cfr. Mairo Grunberg, Il petrolio rumeno ed il capitale italiano, Roma, se.,1924, pp. 73-74.87 Cfr. M. Pizzigallo, Alle origini, cit., pp. 174-177.
L’Albania stava entrando sempre più nella sfera d’influenza italiana e l’implicito protettorato sarebbe stato raggiunto nel novembre del 1926, con il patto di Tirana, secondo il quale le parti contraenti si impegnavano a non assumere con altre potenze impegni politici o militari pregiudizievoli per gli interessi dell’altra parte. In questa maniera il governo italiano diventava arbitro della convenienza o meno che avrebbe avuto per l’Italia la realizzazione di intese politiche ed economiche tra l’Albania e gli altri stati84. Un controllo quindi volto a garantire senza intralci, secondo la propaganda del tempo, la moderna opera civilizzatrice dell’Italia e, implicitamente, il sistematico sfruttamento delle risorse di cui il paese disponeva.
Nel luglio del 1926, infatti, le Ferrovie dello Stato italiano ottenevano una nuova concessione petrolifera di 116.825 ettari nelle province di Beart, Durazzo e Valona, la cui gestione venne affidata sempre all’Aipa85.
Potenziali risorse petrolifere disponibili per l’Italia giacevano anche in Romania. Il ministro della Marina del governo Orlando faceva sapere a questo proposito della possibilità di stabilire un’influenza economica italiana in Romania al fine di instaurare scambi commerciali pagabili in petrolio. In questa maniera il mercato rumeno non sarebbe stato lasciato in preda a programmi di penetrazione commerciale di altri paesi e, invece di ottenere il pagamento in valuta pregiata dalla Romania, sarebbe stato sufficiente saldare le transazioni con l’esportazione di olio minerale. Il governo italiano interpellò dunque il suo rappresentante a Bucarest sul
la possibilità di rilevare dal governo rumeno concessioni di terreni petroliferi, o la partecipazione italiana a società petrolifere esistenti. La Banca di sconto, la Banca commerciale e il Credito italiano si unirono per acquistare il 51 per cento della società petrolifera ex tedesca Steaua Romena, controllata dalla Deutsche Bank, ma nel 1920 l’opposizione del governo rumeno e l’intervento anglofrancese, della Anglo Persian Oil C., in cui la Banque de Paris et des Pays Bas deteneva una posizione di minoranza, fecero fallire l’operazione86. L’anno prima era stato consegnato al ministro degli Esteri Tommaso Titto- ni, da parte di un ingegnere, il maggiore del Genio navale Leonardo Fea, il progetto di un oleodotto lungo 1.350 chilometri per il trasporto diretto del petrolio dalla Romania all’Italia, allo scopo di soddisfare il crescente fabbisogno energetico del paese e nel tentativo di renderlo autonomo dai trust petroliferi intemazionali.
Nel mese di agosto dello stesso anno una missione italiana si recò a Bucarest per chiedere ufficialmente la concessione di terreni per Io sfruttamento di giacimenti petroliferi. L’allora presidente del Consiglio lon Bratinau espresse le sue riserve sul progetto italiano e diede parere sfavorevole87. Successivamente, il consolidamento al potere del partito nazional-liberale rumeno fece naufragare ogni ulteriore tentativo di iniziativa italiana nel settore dei petroli. Il progetto portato avanti dal partito era infatti di nazionalizzare le risorse minerarie del paese nell’intento di restituire autonomia al paese. Per i circoli economico-finanziari italiani, un impegno attivo sulla questione delle concessioni petrolifere significava dover far fronte a grosse esposizioni finanziarie, rispetto alle quali i profitti non erano certo garantiti.
70 Sergio Lavacchini
Per quanto riguarda la Polonia, non vi è dubbio che anche questo paese presentasse ampi spazi per un’iniziativa italiana, nonostante la preponderante presenza francese. La scelta si ri- velavapoi particolarmente interessante per la relativa vicinanza dei giacimenti petroliferi galiziani alle raffinerie di Fiume. In un primo abbozzo dell’accordo venivano accordate dal governo polacco concessioni a società in cui fosse presente, senza specificare in che proporzione, il capitale italiano. La formula venne criticata dalla Polonia in quanto avrebbe permesso anche a società straniere con minime percentual i di capitale italiano di ottenere concessioni petrolifere; inoltre, i maggiori gruppi petroliferi mondiali, tramite società italiane di rappresentanza, avrebbero potuto comunque usufruire del- l’opportunità.
Nella nuova bozza dell’accordo veniva indicato esplicitamente che il governo polacco accordava solo a imprese riconosciute come italiane da entrambi i governi le opportunità garantite alle altre imprese petrolifere straniere e sottoponeva alla clausola della “nazione più favorita” la richiesta da parte italiana di nuove concessioni petrolifere88. L’accordo non diede i risultati sperati: già otto mesi dopo la sua stipulazione, il “Bollettino di notizie commerciali”, organo ufficiale del ministero dell’Econo- mia nazionale, indicava le ragioni del mancato decollo dell’operazione. Secondo l’addetto commerciale a Varsavia, la particolare formazione geologica del territorio galiziano avrebbe richiesto “un’ingente spesa non priva di rischi ed un lunghissimo tempo”; veniva denunciato inoltre che l’utilizzo di vecchie macchine a vapore, invece di quelle a funzionamento
88 Extract from report of proceedings of Italian cabinet respecting negotiations for commerce treaties with Poland. C6675/336/22, 1923, in PRO, Trade and Commerce, FO 371/8888; Matteo Pizzigallo, Alle origini, cit., pp. 202-207.89 Cfr. M. Pizzigallo, Alle origini, cit., p. 207.90 Scritta di un manifesto pubblicitario della Fiat (anni trenta) per sottolineare l’impegno di quest’ultima nella costruzione di aerei, motori per aerei, navi, motori per navi, auto, autoblindo e carri armati.91 Ingegner Brezzi a Pio Perrone, Torino, 11 novembre 1919, in Fondazione Ansaldo, Archivio economico delle imprese liguri Onlus, Genova [d’ora in FA], fondo Perrone [d’ora in poi Perrone], scat. 795, cit. in H. Kozlowska, “I rapporti economici”, cit., p. 55, nota 11.
elettrico, lente e non economiche per l’alto consumo di carbone, avrebbe reso costosa l’estrazione.
“La questione dei petroli polacchi evidenziava l'incapacità dell’industria italiana di attuare operazioni petrolifere, in cui erano necessari notevoli capitali e collaudate tecnologie. Requisiti che all’industria petrolifera italiana, priva di appoggi governativi e di solide coperture finanziarie, almeno per il momento mancavano completamente”89. L’operazione era stata dunque motivata non tanto da aspettative di profitto quanto piuttosto dalla volontà dell’Italia di prendere parte allo sfruttamento dei giacimenti petroliferi polacchi al pari delle altre potenze. Potenze che potevano contare su sistemi di gestione più avanzati grazie a una maggiore disponibilità di capitali.
Cielo, mare, terra90
Un’altra interessante vicenda ricca di notevoli risvolti politico-economici è quella che riguarda le forniture militari dell’Italia alla Polonia. Nel settembre del 1919 l’aeronautica italiana aveva ricevuto un’ordinazione dal governo polacco per la fornitura di 60 apparecchi S VA 10. L’ordinazione non venne passata all’Ansaldo perché l’aeronautica sperava di poter convertire gli SVA in altri apparecchi della Caproni e della Fiat. I polacchi non erano d’accordo sulla sostituzione, sui 90 ordinati, di 15 apparecchi SVAe Balilla con altrettanti di tipo BR. Soltanto quando l’aeronautica italiana si convinse che il governo polacco era irremovibile, passò l’ordinazione all’Ansaldo91.
L’Europa centro-orientale nella politica dell’Italia fascista 71
Nel gennaio del 1920 veniva costituita a Lublino la società Plage e Laskiewicz, in seguito denominata Wzlot. Il comitato promotore della ditta era costituito dalla Banca commerciale di Varsavia, dalla Banca per il commercio e l’industria, dalla Banca agricola, da Stefan Laury- siewicz e Stanislaw Meyer. L’accordo prevedeva la vendita alla Wzlot, da parte dell’Ansaldo, dei diritti di fabbricazione senza l’esclusiva di 200 aerei di tipo A300 e di 100 aerei AI Balilla; la consegna di due serie complete di disegni tecnici di ogni tipo di aereo; la vendita di 200 motori tipo Fiat A. 12 bis e di 100 motori tipo SPA 6 A immagazzinati già nei cantieri aeronautici di Torino. Nel febbraio del 1920 furono inviati in Polonia i primi 60 apparecchi ordinati dall’esercito polacco l’anno precedente92.
92 Brezzi a Perrone, 19 febbraio 1920, in FA, Perrone, scat. 92, cit. in H. Kozlowska, “I rapporti economici”, cit., p. 60, nota 21.93 Brezzi a Perrone, 13 aprile 1920, in FA, Perrone, scat. 92, cit., in H. Kozlowska, “I rapporti economici”, cit., p. 61, nota 22.94 Cfr. Annali dell'economia italiana, voi. 9.1,1939-1945, dir. Gaetano Rasi, Milano, Ipsoa, 1983, p. 286.95 Finché la questione era rimasta circoscritta agli ambienti tecnici della marina, le personalità di governo non se ne erano interessate, sicure che l’ordinazione dei sottomarini sarebbe stata certamente riservata ai cantieri francesi. Il governo rumeno presieduto da Vintila Bratinau, non intendendo confermare l’ordinazione all’Italia per la tensione politica esistente tra i due paesi, sembrava sottomettersi alle influenze della Francia che, nell’intento di ottenere l’ordinazione, aveva dato avvio a un’agguerrita campagna di denigrazione contro l’industria cantieristica italiana, sostenendo che ai prezzi proposti non poteva che corrispondere materiale assolutamente scadente. A quest’azione si contrapponeva il parere delle case inglesi Vickers e Armstrong, che dichiararono che l’industria navale italiana era assolutamente
Notevoli furono i tentativi da parte francese per sottrarre l’affare all’Ansaldo: a questo scopo vennero anche esercitate pressioni politiche sul governo polacco senza peraltro ottenerne soddisfazione. Quest’ultimo firmò il 27 marzo 1920 un nuovo contratto per la fornitura di 50 aerei (10 Balilla e 40 SVA) e versò per questa fornitura il 50 per cento dell’importo in buoni del Tesoro polacchi per un ammontare di 836.000 lire. Gli interessi erano pagabili presso la Legazione polacca a Roma, e così pure il buono alla scadenza. La Banca commerciale italiana era disposta a scontarlo a un tasso del 12 per cento, riducibile al IO93.
Ancora nell ’ agosto del 1921 fu firmato un terzo contratto col governo polacco per la fornitura di 40 aerei Ansaldo. I rapporti in ambito ae
ronautico con T Ansaldo terminarono nel 1923, ma ripresero nel marzo dello stesso anno per la fornitura di attrezzature e materiale rotabile a una società di Varsavia che si occupava delle riparazioni di locomotive. Tuttavia il legame che si era creato tra la Polonia e l’aviazione italiana non fu comunque interrotto, nel 1938 il governo polacco commissionò ai cantieri di Monfal- cone sei idrovolanti94.
La Romania, impegnata nel darsi un nuovo e indipendente assetto economico era disposta a intavolare rapporti di collaborazione con economie straniere capaci di fornire i macchinari e la tecnologia indispensabili per il raggiungimento dello scopo. Nel 1925, a una gara di appalto per la fornitura di sommergibili alla marina rumena, si erano classificati al primo e al secondo posto i Cantieri del Camaro, e i Cantieri Tosi di Taranto, seguivano al terzo e al quarto posto i cantieri francesi della Normandia e della Loira, al quinto posto gli Ansaldo-Sestri e al sesto di nuovo la Francia con la Schneider. I dirigenti e i tecnici della marina rumena insieme al ministero della Guerra rumeno avevano ritenuto il prodotto italiano il più rispondente alle esigenze della costituenda marina sia dal lato tecnico che da quello finanziario, bocciando le proposte dei cantieri francesi Normand, Loire, e Schneider. Impedimenti di carattere politico non permisero ai cantieri italiani di portare a termine l’operazione95.
Nel 1926, tornato Averescu a capo del governo rumeno, le competenti autorità di Bucarest confermarono la commessa ai cantieri ita
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liani del Carnaio e Tosi di Taranto, commissionando inoltre alle Officine e cantieri napoletani C. e T.T. Pattison la costruzione di due cacciatorpediniere96. Nel settembre dello stesso anno veniva firmato dal generale Averescu un trattato di amicizia con l’Italia nel quale venivano garantiti alla Romania i diritti sulla Bessarabia, anche se la ratifica per il momento veniva espressamente rinviata. Il generale era riuscito a farsi garantire da Mussolini una clausola segreta di carattere militare, secondo la quale si sarebbe dato il via a consultazioni in caso di aggressione non provocata da parte russa o ungherese97.
In questo modo l’avvicinamento alla Romania, auspicato da tempo dal governo fascista, sembrava un fatto compiuto. Si trattò comunque di un’illusione di breve momento, che i rivolgi- menti politici interni allo Stato balcanico avrebbero ben presto spezzato con il ritorno a capo del governo, nel giugno del 1927, del nazionalista Vintila Bratinau che pose termine a ogni iniziativa di collaborazione economica con i paesi stranieri. Si erano infatti arenate le procedure per la realizzazione da parte dello Stabilimento tecnico triestino di un incrociatore per la marina rumena, e si era colta l’opportunità per sbloccare la situazione in occasione della visita in Italia del ministro degli Esteri Titulescu.
Secondo il parere dei cantieri, la cosa non aveva avuto più seguito, non soltanto per ragioni politiche, ma anche e soprattutto per la questione della mancanza di fondi. I cantieri erano al corrente delle violente campagne della stampa rumena contro l’Italia, dopo la caduta del generale Averescu, tuttavia ritenevano che l’assegnazione della commessa sarebbe stata legata non solo a considerazioni di carattere politico, ma anche alla necessità che il governo italiano concedesse fondi alla Romania98.
Come è facile intuire, ai disaccordi e alle tensioni nei rapporti fra i due paesi faceva riscontro una scarsa propensione del governo italiano alla concessione di prestiti. Il ministro delle Finanze Volpi non ravvisava infatti la possibilità di un prestito alla Romania per l’acquisto di un incrociatore che avrebbe dovuto essere fornito dallo Stabilimento tecnico triestino. A questo proposito affermava che il governo rumeno avrebbe dovuto rivolgersi direttamente presso gli istituti di credito italiani utilizzando lo strumento delle garanzie statali ai sensi del rdl. 2 giugno 1927 n. 1046.
Agli appelli del prefetto di Trieste per lo sblocco della questione, il duce rispondeva che i circa 200 milioni di lavori commissionati dalla marina italiana alle industrie cantieristiche triestine non avrebbero dovuto far sentire la mancanza dell’eventuale perdita dell’ordinazione rumena99.
Nel 1933 i Cantieri riuniti dell’Adriatico di Monfalcone, superando l’agguerrita concorrenza dell’industria navale straniera, erano riusciti a prevalere nella gara per la fornitura alla Polonia di due transatlantici, da adibire anche al trasporto mercantile. La concorrenza dei cantieri stranieri era stata sbaragliata perché i due transatlantici associavano i prezzi contenuti alle avanzate caratteristiche tecniche. Per il pagamento della fornitura la Polonia sembrava porre condizioni di rateazione che i Cantieri non intendevano accettare. Per vincere anche quest’ostacolo all’acquisizione della commessa, venne esaminata la possibilità di una fornitura di carbone alle Ferrovie italiane a pagamento delle due navi. Le Ferrovie dello Stato italiano si dichiararono disposte ad acquistare dalla Polonia un quantitativo annuo di carbone fino all’ammontare di circa 15 milioni di lire annue, de
competitiva e aveva un livello tecnologico di prim’ordine rispetto a quella francese: cfr. il capitano di corvetta addetto navale Matteucci all’ufficio di Stato Maggiore della marina, 12 giugno 1925, in ACS, Pcm, 1925,1.2.2.238.96 Cfr. M. Pizzigallo, Alle origini, cit., p. 64.97 Cfr. G. Caroli, Un’amicizia difficile, cit., p. 293.98 II ministero degli Affari esteri al ministero delle Finanze, 7 febbraio 1928, in ACS, Pcm, 1928-1930, 15.2.8.1049.99 Mussolini al prefetto di Trieste, 1 giugno 1928, in ACS, Pcm, 1928-1930,15.2.8.1049.
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volvendo ai Cantieri gli importi relativi alle forniture di carbone in pagamento delle navi fino all’estinzione totale del credito100.
100 Archivio storico ministero Affari esteri [d’ora in poi ASMAE], serie Affari politici, 1931-1945, Polonia, b. 5, fase. 7.101 Polish-Italo Commercial Relations, 17 novembre 1933, in PRO, FO 371/16814.102 Ministero degli Affari esteri a Presidenza del Consiglio dei ministri, 16dicembre 1934,inACS,Pcm, 1934,14.2.2952.103 Si trattava infatti di forniture militari rappresentate da trattori, carri d’assalto e aeroplani.104 Ministero degli Affari esteri a ministero delle Finanze, 7 aprile 1932, in ASMAE, serie Affari politici, 1931-1945, Ungheria, b. 5, fase. 8.105 Cfr. H.J. Burgwin, Il revisionismo fascista, cit., p. 231.106 Cfr. L. Virgili, Dopo la conferenza di Londra per il riassetto dell’Europa Danubiana, “Rivista di politica economica”, giugno 1932, pp. 761,762.107 Gli accordi del Semmering vengono firmati nel 1932 tra Italia, Austria e Ungheria. Essi contemplavano, oltre a facilitazioni generali di credito e di trasporto, la concessione di premi concordati all’esportazione dei prodotti austriaci o ungheresi verso l’Italia. I nuovi accordi si basavano sul sistema Brocchi, che prevedeva premi agli esportatori sotto forma di anticipi di capitale assegnati a un tasso d’interesse molto favorevole e in misura tale da bilanciare l’onere delle tariffe doganali. In realtà, gli accordi funzionavano come un sistema mascherato di tariffe preferenziali, che era in
L’accordo preoccupava gli ambienti della finanza inglese, che vedevano nelle partite di carbone polacco una temibile concorrenza alle esportazioni di carbone inglese in Italia. Il pericolo diventava tanto più serio, se la Polonia, una volta saldato il debito delle due navi mercantili, avesse continuato a essere preferita alla Gran Bretagna nell’approvvigionamento di carbone. L’Inghilterra, infatti, nonostante non avesse vinto la gara di appalto, cercò di togliere la commessa ai cantieri italiani, offrendosi di acquistare grosse quantità di carne tipo bacon, non ottenendo tuttavia soddisfazione101. Il primo dei due transatlantici veniva varato il 20 dicembre del 1934 dai Cantieri riuniti dell’Adriatico per conto della compagnia Gdynia-Amerika Line di Varsavia102.
Nel gennaio del 1932 erano in corso presso il ministero delle Finanze di Roma le pratiche per concedere all 'Ungheria 1 ’ anticipo della somma di 15 milioni di lire a condizione che il governo ungherese, con quella somma, regolasse il suo debito con la Fiat per importanti forniture già eseguite e provvedesse per quelle rimaste in sospeso. La Fiat, nella speranza di recuperare il credito, si era rivolta all’istituto nazionale per l’esportazione (Ine) per ottenere garanzie dallo Stato italiano. L’Ine aveva sollevato obiezioni, sia perché la garanzia dello Stato poteva essere concessa per contratti non ancora effet
tuati, e non già per quelli già stipulati, sia perché non sarebbe stato possibile portare in discussione nel comitato dell ’ Ine tale richiesta, dato il carattere riservatissimo delle ordinazioni ungheresi103. La Direzione generale affari politici e commerciali Europa Levante Africa rilevò che, per importanti ragioni politiche, sarebbe stato comunque opportuno facilitare la consegna all’Ungheria del materiale approntato dalla Fiat104.
Fin dal 1930 Mussolini aveva cominciato ad adoperarsi per creare un blocco economico composto da Italia, Austria e Ungheria, al fine di evitare l’annessione dell’Austria alla Germania e sancire il rapporto privilegiato con l’Ungheria, per poter utilizzarla come elemento di disturbo contro la Piccola intesa105. Nel 1932, con soddisfazione dell’Italia, era fallito il piano Tardieu, che intendeva creare una federazione danubiana tra gli stati intesisti, l’Austria e l’Ungheria, allo scopo di confermare la situazione scaturita dai trattati di pace seguiti al conflitto mondiale106. In questo clima si inseriva l’iniziativa italiana per la stipulazione degli accordi del Sem- mering tra Italia, Austria e Ungheria107. Si trattava in realtà di accordi bilaterali fra le tre nazioni. Gli accordi tra Italia e Austria, e tra Austria e Ungheria erano già esecutivi, mentre que- st’ultima si riservava il diritto di firmare gli accordi con l’Italia. A tale proposito la concessione di un prestito di 15 milioni avrebbe potuto costituire un parziale compenso all 'Ungheriaper la conclusione dell’accordo. In ossequio allapo-
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litica “revisionista” ungherese, Mussolini, anziché facilitare la concessione della garanzia richiesta all’Ine, decise di offrire all’Ungheria un prestito di 15 milioni di lire con l’intesa che il governo ungherese avrebbe usato il denaro per il regolamento del suo debito verso la Fiat108.
Lo strumento della propaganda
In Bulgaria, come in Romania e Jugoslavia, i tecnici e gli ingegneri avevano seguito i loro corsi di studi a Berlino a Vienna o Budapest e, conoscendo maggiormente la produzione dell’industria meccanica ungherese e tedesca, spesso la preferivano, una volta tornati nei loro paesi. Per questo motivo, veniva rilevata la necessità di organizzare borse di studio di perfezionamento in stabilimenti industriali italiani da offrire a ingegneri jugoslavi, bulgari e rumeni, in modo da far conoscere il livello tecnologico raggiunto dell’industria italiana109.
I metodi con cui questa penetrazione dei mercati veniva effettuata doveva rispondere, senza incorrere in alcuna contraddizione, all’immagine che il regime intendeva dare di sé all’estero. In altre parole, i rappresentanti all’estero di ditte italiane avrebbero dovuto tener sempre presente gli obiettivi della politica fascista nello svolgimento della loro attività. A questo proposito il ministero delle Corporazioni, in una circolare del maggio 1934, aveva esortato le regie rappresentanze diplomatiche e consolari a procedere nella scelta dei propri agenti di commer
cio e dei propri consulenti legali all’estero da consigliare alle ditte italiane perché le assistessero nella loro attività.
Secondo il ministero, le regie rappresentanze all’estero, grazie alla loro profonda conoscenza delle condizioni economiche locali, erano in grado, non soltanto di facilitare la loro opera di penetrazione industriale e commerciale nei paesi esteri, ma anche di fornire loro avveduti e “disinteressati” pareri circa l’idoneità delle persone cui affidare la tutela dei propri interessi sulle varie piazze straniere. Si voleva insomma che la penetrazione commerciale fosse affidata a “persone favorevolmente note, anche dal punto di vista politico”110.
Si erano effettivamente verificati casi “anomali” in cui le ditte italiane, nella scelta dei legali e dei rappresentanti cui affidare i propri interessi all’estero, si erano rivolte a persone non proprio vicine, se non addirittura esplicitamente avverse, al regime. Dell ’ inconveniente era stato informato il ministero delle Corporazioni nazionali che aveva impartito con premura istruzioni “nella dovuta forma e con la necessaria riservatezza” alle organizzazioni dipendenti perché i regi uffici all’estero venissero preventivamente consultati dalle aziende sulla scelta dei legali e dei rappresentanti all’estero.
Dato l’alto numero di ditte italiane che avevano occasione di affidare la tutela dei propri interessi all 'estero, si rivelava di estrema difficoltà verificare che tutte si rivolgessero, per la scelta dei loro agenti e rappresentanti, alle regie rappresentanze. A queste ultime il ministero degli
effetti la risposta del duce all’aspirazione della Germania alì’Anschluss, oltre che ai multiformi progetti della Francia per la regione danubiana: cfr. Umberto Grazzi, Piccola Intesa, Intesa Balcanica e loro rapporti con l’Italia, “Rivista di studi politici e intemazionali”, gennaio-giugno 1938, n. 1-2, p. 54; H.J. Burgwin, Il revisionismo fascista, cit., p. 231. Gli accordi dovevano creare una corrente di traffici austriaci e ungheresi verso l’Italia e aprire i mercati italiani all’Austria e all’Ungheria.108 Ministero degli Affari esteri a ministero delle Finanze, 16 maggio 1933, in ASMAE, serie Affari politici, 1931- 1945, Ungheria, b. 5, fase. 8.109 Cfr. Antonio Giordano, L’andamento dei traffici nei paesi danubiani e balcanici e l’espansione economica italiana, “Rivista di politica economica”, marzo 1940, p. 229.110 Confederazione generale fascista dell’industria italiana a federazioni e associazioni nazionali di categoria, 4 maggio 1934, in ACS, Ministero dell’interno, Direzione generale della Pubblica sicurezza, Divisione affari generali e riservati, Massime 1880-1954 [d’ora inpoi/lgr], b. 30, fase. 18.
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Affari esteri suggeriva la registrazione dei nominativi di professionisti fuoriusciti o comunque ritenuti di sentimenti antifascisti, residenti in ciascuna circoscrizione consolare, inserendo nell’elenco anche professionisti di nazionalità estera, notoriamente avversi al regime111. È possibile riscontrare nell’attività dell’addetto commerciale in Romania, Eugenio Pom, 1 ’ “idoneità” a cui il regime faceva riferimento. Questi, di stanza a Bucarest, si richiamava implicitamente all’Italia quando affermava che “i paesi più progrediti industrialmente e il cui capitale ha bisogno dell’espansione, trovano sul suolo e nel sottosuolo rumeno possibilità infinite”.
111 Ministero degli Affari esteri a ministero dell’interno e ministero delle Corporazioni, 25 agosto 1934, inACS, Agr, b. 30, fase. 18.112 Cfr. Eugenio Pom, L’Italia e le prospettive economiche della Romania, “Rassegna dell’Est”, aprile-maggio 1925, p. 59.113 Cfr. Mario Battaglia, La propaganda commerciale all’estero: ifini ed i mezzi, “Rivista di politica economica”, giugno 1928, pp. 41-47.
L’appello era un aperto riferimento all’industria metallurgica italiana, ritenuta capace di produrre macchinari di eccellente tecnologia, tali da soddisfare le richieste rumene. L’addetto commerciale passava poi ad elogiare il grado di modernità raggiunto dall’industria idroelettrica italiana auspicando investimenti italiani nel settore anche in Romania. L’Italia, già presente in Romania per l’industria estrattiva, veniva ora spronata ad ampliare questo suo intervento ai settori della bonifica dei terreni paludosi, perché iniziasse un rapporto di collaborazione anche con la sua industria edile.
Significative sono le parole impiegate dall’addetto commerciale per stimolare l’intervento italiano, con le quali egli promuove l’immagine che Mussolini voleva per l’Italia all’estero:
L’Italia come una grande potenza e come un paese industriale tendente verso un’espansione commerciale non può rimanere indifferente di fronte alle possibilità economiche dei popoli ricostituiti nel dopoguerra ed il cui sviluppo economico può essere di grande giovamento per la soluzione dei problemi d’importazione e d’esportazione italiana. Partecipando al ‘risorgimento economico rumeno’ l’Italia sarà la benvenuta, poiché il popolo rumeno sa che il popolo italiano non
è uso fare dell’imperialismo economico che calpesta il sentimento d’indipendenza112.
Gli ambienti economici delle nuove realtà statuali non avevano nessuna intenzione di ricorrere all’aiuto delle economie tedesche e slave dopo le esperienze dei decenni passati, l’Italia di Mussolini, invece, anche se avrebbe voluto sfruttare a senso unico le ricchezze rumene, si presentava con una combinazione di caratteristiche uniche, rendendo così vantaggiosa e fruibile la collaborazione con essa: liberatrice dei popoli dalla tirannia degli Imperi centrali, con una solida e diversificata tecnologia industriale, apparentemente disponibile senza ipoteche di politica estera.
A metà degli anni venti il governo italiano avvertì la necessità di disciplinare l’intervento dell’industria nazionale, costituendo nell’aprile del 1926 un ente sottoposto al diretto controllo dello Stato, il già citato Istituto nazionale per l’esportazione, la cui prima realizzazione fu la creazione di un ufficio Mostre e Fiere. Si intendeva in questo modo limitare la partecipazione italiana a poche fiere; studiare accuratamente le categorie di prodotti che vi potevano essere utilmente esposti; selezionare le ditte espositrici, accentrando nell’Ine l’organizzazione di un servizio completo, ordinato ed economico alle ditte. Il fine era quello di rappresentare al meglio gli espositori italiani, in modo da fornire un utile ed economico strumento non solo di penetrazione, ma anche di affermazione della produzione italiana all’estero113. L’istituto era dunque sorto nel tentativo di dare un disegno omogeneo e razionale alla creazione di stabili flussi commerciali verso l’estero, Si intendeva in questa maniera sostenere l’incessante crescita della concorrenza straniera, che in Europa voleva dire soprattutto tedesca. In realtà Fine si rivelerà solo uno stru
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mento per amplificare le velleità del regime nell’Europa centro-orientale. Le relazioni sull'attività dell’istituto sono nel complesso un insieme di proponimenti che non produssero mai risultati concreti. Nella creazione di zone d’influenza economica in Europa, l’Italia concentrerà la sua azione su rapporti economici esclusivi e univoci con gli stati europei di nuova costituzione. L’Istituto fu il mezzo per realizzare una strategia che Francia Gran Bretagna e Germania avevano abbandonato da tempo, inserendo i loro piani di espansione economica in un programma di più ampia portata che teneva conto anche e soprattutto di sistemi economici extraeuropei.
Un elemento di contorno delle relazioni economiche tra Cecoslovacchia e Italia — non per questo meno importante per la propaganda che presentava il regime come erede delle antiche tradizioni risorgimentali e rivoluzionarie che avevano accomunato i destini dei due paesi114 durante il secolo passato — era stata l’inaugurazione nel marzo del 1923 dell’istituto di cultura italiana a Praga. Lo scopo di questa iniziativa era quello di diffondere e approfondire la conoscenza della cultura italiana in Cecoslovacchia, instaurando reciproci rapporti intellettuali e artistici fra l’Italia e la Cecoslovacchia con tutti i mezzi adatti a tal fine115. Il processo di conquista dei nuovi mercati dell’Europa orientale si sarebbe perfezionato mediante l’utilizzo dei sistemi di propaganda politica e sociale del regime fascista.
114 Cfr. Francois Fejtò, Requiem per un impero defunto. Dissoluzione del mondo austro-ungarico, Milano, Mondadori, 1996, pp. 141-145.115 Cfr. Arturo Cronia, L’Istituto di Cultura Italiana a Praga, “L’Europa orientale”, 1924, p. 37.116 Cfr. Giuseppe Riccoboni, 1 mezzi di penetrazione all’estero, in Dario Doria, Mario Aquarone, Willy Jona (a cura di). Atti del Congresso nazionale per l’espansione economica e commerciale all’estero, Trieste, Circolo di studi economici (Tip. Lloyd Triestino), 1923, pp. 274-275.117 Cfr. Maurizio Rava, Tommaso Sillani, Le riviste ed i giornali all’estero, in D. Doria, M. Aquarone, W. Jona (a cura di), Atti del Congresso nazionale per l’espansione economica e commerciale all’estero, cit., pp. 280-281.
Veniva previsto un ampliamento delle funzioni dell’Agenzia di stampa italiana a Praga, che si sarebbe dovuto concretizzare nella pubblicazione di articoli di propaganda non solo di carattere economico finanziario, ma anche e principalmente di “orientamento” verso il regi
me fascista. Veniva auspicata la costituzione di una casa editrice a Trieste, sostenuta dall'Ente generale di propaganda italiano, che si occupasse di edizioni scientifiche, traduzioni di opere straniere per l’insegnamento superiore nelle scuole degli stati dell’ex monarchia. Si indicava la necessità di realizzare pubblicazioni che trattassero anche di argomenti riguardanti il pensiero italiano, in modo da richiamare l’attenzione dello studioso sul processo di “rinnovamento” politico e sociale dell’Italia fascista.
Nei libri di storia, invece di riservare tanto spazio alla storia tedesca, russa o francese, si sarebbe dovuto dare la preferenza a quella italiana. I periodici avrebbero dovuto trattare argomenti e problemi del luogo mettendo però in risalto il coinvolgimento e l’interessamento che per essi aveva l’Italia e allo stesso tempo temi italiani, sollecitare scritti di autorevoli personalità del luogo, le quali, sia pure velatamente, accennassero anche al pensiero italiano sugli argomenti di cui discutevano. Si tentava in questo modo di creare delle affinità culturali che, secondo la pubblicistica del tempo, avrebbero facilitato l’opera di penetrazione italiana in tutti i campi dell’agire di quelle popolazioni116. In questo senso si consigliava di seguire l’esempio francese, che forniva gratuitamente riviste e giornali a biblioteche, istituti, sale di lettura a tutti i paesi dell’Europa centro-orientale che, per le loro condizioni finanziarie e la debole valuta, non potevano acquistarli direttamente. In quasi tutte le capitali di questi stati si pubblicavano giornali e riviste in lingua francese, redatti da persone del luogo notoriamente legate agli interessi della Francia, o da cittadini francesi117.
Mussolini e il suo sottosegretario e ministro Grandi avevano più volte affermato il carattere
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eminentemente economico e culturale dell’espansionismo fascista, che doveva basarsi sulla diffusione nel mondo delle merci e della cultura in modo da assicurare all’Italia un’egemonia materiale e morale nell’ambito di relazioni intemazionali amichevoli118. Senza lasciarsi scoraggiare dalla debolezza dell’imperialismo finanziario dell’Italia, il duce cercò di alimentare l’interesse per il fascismo in Bulgaria, paese in cui esistevano molti partiti e molti personaggi ben disposti a fare esperimenti di riorganizzazione politica ed economica in base a principi autoritari. Qui incontrò l’ostacolo di una presenza francese di vecchia data, sia pure meno consolidata che in altre parti dell’Europa orientale. Irritato da quest’egemonia economi- co-culturale, che poggiava su una rete banche, scuole, missioni e istituzioni caritatevoli, Mussolini volle che la competizione dell’Italia con la Francia per il controllo dei Balcani superasse i limiti della sfera diplomatica e giungesse anche nei circoli dell’intellighenzia bulgara: per togliere spazio all’influenza francese fondò alcuni istituti di lingua e di studi italiani che avrebbero dovuto infondere nei bulgari lo spirito innovatore di Roma e propagare in Bulgaria la formula fascista per una radicale trasformazione della struttura politica e della società di quel paese119.
118 Cfr. G. Carocci, Appunti sull’imperialismo fascista negli anni ’20, cit., p. 415.119 Cfr. J. Burgwin, Il revisionismo fascista, cit., p. 104; Francesco Casella, Le letterature dei paesi del Sud-est europeo in Italia, in Ennio Di Nolfo, Romain H. Ramerò, Brunello Vigezzi (a cura di), L’Italia e la politica di potenza in Europa 1938-40, Milano, Marzorati, 1988, pp. 210-211.
Missione (in)compiuta
Come abbiamo potuto vedere, notevoli furono gli sforzi fatti dall’Italia per avere accesso a quei mercati dove operavano forti concorrenti come Francia e Germania. L’operazione di penetrazione venne affiancata da iniziative di propaganda volte a mobilitare il paese per dar corpo all’immagine dell’Italia come potenza e raffor
zarla, in particolare nei confronti degli altri stati europei.
Il regime infatti era riuscito a proporre e a gestire con successo i sentimenti di rivincita e di affermazione che l’Italia nutriva verso le sponde adriatiche fin dal 1887, al tempo del rinnovo della Triplice alleanza. Fin da allora la pubblicistica che si occupava di politica estera aveva posto l’accento sulle aspirazioni italiane nelle regioni che si affacciavano sulle coste orientali dell ’ Adriatico. Il governo fascista era riuscito in questo modo a creare un clima di forte attesa nel paese, promettendo ai mezzadri l’assegnazione di nuove terre da sfruttare secondo nuove e moderne metodologie, mentre imprenditori più o meno credibili, sulla scia delle iniziative di governo, intravedevano facili e remunerativi guadagni. Già a partire dal 1923, non poche erano le lettere di solerti “imprenditori” che, spiegando le loro iniziative con motivazioni di carattere economico e sociale, esortavano Mussolini a dare l’avvio a un processo di espansione economica in quelle terre. Si arrivava a suggerire addirittura l’invio di coloni armati per poterli utilizzare in eventuali conflitti contro le popolazioni del posto e sancire definitivamente il dominio dell’Italia su quelle terre.
E dunque evidente il clima denso di aspettative verso i mercati di queste nuove nazioni, in quanto le notizie utili per incrementare la vendite non si limitavano a vino, olio, agrumi, alle conserve, ai cappelli di paglia, ai cotoni e alle sete. Si mirava anche a coprire la domanda nei settori siderurgico e della chimica, in cui la nostra produzione era del tutto sconosciuta, sfidando la reputazione degli eccellenti prodotti tedeschi e boemi che fino al giorno prima avevano dominato quei mercati.
Nella seconda metà degli anni venti, agli interessi imprenditoriali si sommarono le istanze
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del regime, il quale, abbracciata la politica “revisionista” ungherese, susciterà l’ostilità della Piccola intesa e quindi della Francia, ma anche della Gran Bretagna che non vedeva più nel fascismo una forza politica di equilibrio. In questo frangente, lo slancio verso i mercati dell’Europa centro-orientale perderà d’intensità, guidato non più dalla logica della libera iniziativa e del mercato, ma dalla necessità di corrispondere all’immagine che il regime fascista aveva progettato e voleva realizzare per l’Italia nell’Europa e nel mondo. Certo anche la crisi economica del 1929 darà il suo contributo ma, nei bollettini e nelle pubblicazioni citati, non c’è più traccia del fervore di un tempo. Tutte le notizie e le indicazioni sono, oltre che diminuite, anche tristemente asettiche e burocratiche, quasi a voler scoraggiare gli imprenditori che non godessero di tutti i requisiti economico-finan- ziari, ma soprattutto politici, per intervenire su quei mercati, onde evitare fallimenti e insuccessi che avrebbero compromesso l’immagine che il regime intendeva assolutamente presentare fuori dei confini nazionali.
Che l’Italia avesse dovuto comunque combattere l’agguerrita concorrenza economica delle altre nazioni, lo si è visto nel campo degli approvvigionamenti petroliferi in Albania, Polonia e Romania, dove con estrema difficoltà l’iniziativa italiana era riuscita a inserirsi, spesso anche sacrificando un reale risultato economico, e comunque sempre con un’ampia garanzia statale. Come abbiamo accennato, spesso dietro un successo dell’iniziativa italiana stava un permesso accordatoci da una potenza che considerava l’Italia una pedina da utilizzare in caso di bisogno. Le nuove realtà nazionali, d’altronde, bisognose di capitali per ristabilire le loro economie ma ben accorte a non perdere l’autono
mia e l’indipendenza raggiunte, rispondevano positivamente alle offerte italiane di prestiti o forniture, di merci, macchinari e materiale bellico.
Il riconoscimento di nazione libera da ogni potere sovranazionale aveva spinto ciascun nuovo Stato a tagliare in modo brusco e definitivo ogni legame economico-finanziario esistente precedentemente tra regioni contigue, rendendo le nuove frontiere mura invalicabili. Continuare a intrattenere rapporti di carattere economico con le regioni confinanti avrebbe significato la conferma della struttura economica imbastita dall’impero e contribuire comunque al processo di ricostruzione di nazioni dalle quali ci si era voluti staccare per intraprendere una propria via nazionale. La raggiunta indipendenza di questi paesi aveva incrementato il diffondersi del nazionalismo che aveva facilitato in alcune nazioni, come Polonia, Romania e Ungheria, l’instaurazione di regimi dittatoriali che, rifacendosi in maniera più o meno marcata al modello fascista, permettevano all’Italia di usufruire di un canale privilegiato per la realizzazione di iniziative di carattere economico e finanziario.
Studiando il rapporto tra iniziative economiche e politica estera fascista emerge il rilievo assunto da alcune aree dell’Europa centro-orientale. L’Italia, nonostante i limitati mezzi rispetto ad altre potenze, vi svolse infatti un’azione di penetrazione notevole, non solo per lo sforzo a cui si sottopose, ma anche per le metodologie che per la prima volta tentò di applicare, cercando nuove strade da percorrere o inserendosi in quelle già sperimentate dalle altre potenze occidentali, un’azione di penetrazione il cui elemento dinamico fu principalmente l’impulso politico fornito dal regime.
Sergio Lavacchini
Sergio Lavacchini, laureato in Storia economica nel 1996 presso la facoltà di Scienze politiche dell’università di Firenze, ha collaborato con il Centro italiano di ricerche e d’informazione sull’economia pubblica, sociale e cooperativa (Ciriec). Attualmente si occupa di educazione e istruzione presso il dipartimento delle Politiche formative e beni culturali della Regione Toscana.