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Archivio Parrocchiale di Lerma. Manoscritto andato perduto e, a suo tempo, dattiloscritto dalla Signora Marie Ighina. Documento ritrascritto nell’anno 2014 da Paolo Bavazzano Cenni storici intorno al Santuario della Rocchetta. di Don Pietro Peloso (Parroco di Lerma dal 1835 al 1854).

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Archivio Parrocchiale di Lerma.

Manoscritto andato perduto e, a suo tempo, dattiloscritto dalla Signora

Marie Ighina. Documento ritrascritto nell’anno 2014 da Paolo Bavazzano

Cenni storici intorno al Santuario della Rocchetta.

di Don Pietro Peloso (Parroco di Lerma dal 1835 al 1854).

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Capitolo I

Descrizione del luogo ove è posto il Santuario

Il Santuario della Madonna delle Grazie, volgarmente chiamato della

Rocchetta, è uno di quei luoghi cari alle persone veramente cristiane, le

quali cercano talvolta di sollevare lo spirito e insieme riconfortarlo nella

pietà.

Benchè non sia lontano dal Borgo di Lerma più del cammino di

mezz’ora, egli è così appartato e solitario che dà vista di un eremo. Non vi

si trova bellezza d’arte o d’industria, ma vi si incontra il puro e il vero bello

della natura e della religione con che il Signore favella all’intelletto e al

cuore dell’uomo allora quando, scostandosi dai rumori del mondo, viene

cercando alcune ore di pace all’ombra ed al silenzio di qualche santo ritiro.

È posto il Santuario sopra un piede rialto del monte che chiamano la

Pracina e che nel fianco opposto tiene sepolte da secoli le rovine di Bano,

antico monastero di donne del quale tante cose raccontansi per tradizione,

ma poche se ne accertano per autentici documenti.

Rivolge il poggio infra ponente e tramontana; è assai ristretto e sull’erto;

e da una parte il fiume Piota, che colle lampanti sue acque ne lambisce, ne

rode e ne ritaglia la falda, e dall’altra parte il torrente di Malpertuso che con

profondo e stentato canale vi si raggira d’intorno sino al suo sbocco,

vengon facendo di tutto il sito una bislunga penisoletta. Ti presenta

dovunque greppi di crudo e svariato macigno, ma l’orridezza n’è

rattemprata dalla verzura di parecchi boschetti che ne rivestono i seni, da

prospettive magnifiche, che si spalancano in giro, dall’aria sempre pura e

salubre che si respira.

Si apre a levante la spaziosa Valle del Gorzente, fiume che lava le

miniere d’oro, ed influendo nel Piota rinunzia a questo colle sue acque il

suo nome, ed ambi lasciano intravedere da una riviera e dall’altra il lungo

tratto delle catene dei monti che fanno barriera al mare. Alla sinistra del

Piota fa sponda il fianco settentrionale della Pracina, qua scorticato e roso a

mille scherzi, là invece saldo e ricoperto d’alberi e d’erba, ed alla destra il

fianco meridionale del Mondovile, di larga base, che si riveste di boschi dal

fondo insino al mezzo del dosso poi se ne viene spogliato alla dentata sua

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vetta, che col fianco occidentale facendo sponda prima al Gorzente si

sporge con un bell’angolo sopra i due confluenti.

Più a tramontana ecco il Masino, piuttosto colle che monte, il quale

mostrando le sue radici sull’alveo dei due fiumi loro fa argine colle due

lande della sua base poste a scaglione l’una sull’altra e ricoperte di acervi

di ciottoloni che furono scavati dalle sue viscere in remotissimi tempi per la

ricerca dell’oro, ond’è fecondo; quello lontano e fra gli altri monti gigante e

quasi sempre rivestito di nebbia e coronato di nuvole guardato un tempo

dai lupi ai quali nel più rimoto suo seno dava covo sicuro. Al Masino tien

dietro la prolungata costiera del Brisco, monte che circonda le terre di

Casaleggio e di Mornese, che sembra chinarsi dinanzi al Tobbio sovrano, al

quale rendono omaggio dall’altra parte lungo il canale del Gorzente oltre

del Mondovile tutte le montagne aurifere scavate dagli speculatori francesi.

Verso tramontana fa scena la lunga costa del Buffalora che pareggia il

vicino se non lo vince d’altezza e ne è separato dal Burio, torrente

scendente dalli due luoghi suddetti.

Il torrente di Malpertuso poi scende dai monti meridionali che stanno di

contrafforte alla Colma. Montagna rinomata dalla cui cima scopresi dal dal

mare, apresi colle precipite acque una gola fra il monte della Pracina e il

vicino del Poggio Grosso, altro dei capi di quella larga catena sperimentato

per eccellente posizione militare nella guerra dell’anno 1800. Il perché

questo monte sembra di là accovacciarsi davanti al Santuario

sospingendogli incontro le acque del torrente per forzatamente guidarle

sotto i suoi piedi insino al fiume, e di qua sembra reprimere alla sua volta i

conati dell’emulo poderoso la Pracina colla robusta pianta del piede su cui

sta il Santuario e coll’estrema sua punta che poco sotto sorgendo isolata fra

l’alveo del Malpertuso e del Piota fa quinci argine alle acque del torrente e

quindi a quelle del fiume, e spiccandosi come un dente a maggior altezza

del fabbricato era di base a un fortilizio di una antichità sconosciuta, del

quale conserva ancora gli avanzi nella sommità dello scoglio e la memoria

nel nome della Rocchetta.

Così tra le due dure sponde forte compresso il torrente vien ripiegando

bisbetico il suo corso e rosicchiando in cento diverse guise il tortuoso

canale fino alla foce.

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Se ti fermi quindi in cotesta altura guatando con raccapriccio gli

incrocicchianti burroni e le braccia variate di questo di questo fondo alla

luce che quivi penetra da un più spazioso orizzonte per le diverse gole del

seno alpestre ti si solleva tosto lo sguardo e sei rapito a mirare verso il

meriggio i freschi dossi della Pracina che di lontano di verdeggiano

innanzi, verso ponente i bei Campi di S. Giovanni intersecati dal greto e

dalle verzure del fiume, e i tufi di S. Siro e i soprastanti vigneti e le rustiche

case, e verso tramontana il Castello coi fabbricati più eminenti di Lerma, e i

prati e i boschi, i coltivi e le rocce che la circondano nel largo sfogo della

riviera, il tutto a parte a parte quasi leggiadramente dipinto in una sola

veduta di lontananza col contrasto mirabile degli scogli vicini e delle piante

che ti sorgono in faccia lì da vicino.

Non si potrebbe poi dire la maravigliosa sorpresa che fanno i rostri e le

corna bizzarramente sporgenti dalle diverse aperture di cotanti macigni a

chi, bastando il coraggio, scendesse ad osservar queste grotte più da vicino

e in faccia dei boschetti onde son coronate le balze dell’una e dell’altra

sponda su pel torrente e sotto il fabbricato del Santuario. Qui ti rimani

come incantato all’armonia di questo nuovo teatro della natura, qui l’orrore

del deserto osservasi mirabilmente accoppiato coll’amenità del giardino ed

in mezzo al disordine il più bell’ordine si ravvisa. Concorrono a avvivare

codesti vaghi prospetti di nativa e pura bellezza le circostanti comunali

pasture dove si veggono secondo le stagioni raggirarsi dintorno branchi di

grosso e minuto bestiame o inerpicarsi talvolta a filo di queste creste e

dirizzarsi agli arbusti frotte di capre, ed augelli d’ogni maniera che nel loro

passaggio soffermansi lungo la valle ed invaghiti all’amenità del soggiorno

molti vi annidano; e soprattutto le acque che scendono di tempo in tempo

più o men copiose come s’è detto ai piè del Santuario. Le quali sia che

raccolte dal torrente trabocchino frastonando entro il bacino dell’alveo o

che ribollano mormorando fra i grossi sassi del fondo, sia che sorgive

attraversino i fianchi più vicini de’ monti e per le fessure, per gli antri, e pei

ciglioni si versino in cascatelle, massime allorché svelte dal vento o

incristallate dal freddo riflettono i raggi del sole, ti pare proprio che

infondano anima e vita in ogni parte di questa solitudine santa.

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Capitolo II

Descrizione del Santuario

Due sono le strade più frequentate che guidano al Santuario: l’una che

scende da’ monti, l’altra che sale dalla riviera del Piota. Questa sia che

l’allunghi passando da Lerma al nuovo Ponte, sia che la pigli più breve per

il letto del fiume, la trovi comunque aspra e pietrosa però non ripida, ma

sibbene dilettevole e fruttuosa nella santa tua brama di visitare la Madre

delle Grazie in questo suo Santuario.

L’alto continuato macigno tagliato a modo di conca alle due sponde del

fiume e vedesi ovunque incappellato di cinghie ed incavato di cavernette; la

sterminata cordigliera dei monti che seguendo il corso delle acque fanno un

dopo l’altro una armoniosa parata; i larghi pascoli, gli svariati boschetti,

tolgonti dalla noia ed allievano la fatica del tuo cammino, la qual però non

lascia, giunto che sei di la dal fiume, di darti bella occasione a meditar lo

stento che la gran Madre fece per te accompagnando al Calvario il Figliuol

suo benedetto, giacchè nel viaggio che ancor ti resta sino alla meta, incontri

ad ogni tratto dipinte in pilastri isolati tutte le stazioni della Via Crucis: e

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come vedi a spianarsi di mezzo agli alberi ed alle rocce il basso e piccolo

campanile della Chiesa, per più maggior desiderio di appressarti e salire nel

santo luogo non hai più peso del corpo, ancorché ti rimanga di valicare il

passo più difficoltoso e più aspero alla bocca del Malpertuso.

Ti sorge innanzi cotesto sano abitacolo e si innalza sotto i tuoi occhi

come più vi arrivi dappresso. La strada passava rasente ai muri di dietro

verso tramontane e levante.

Tutto il fabbricato consiste nella Chiesa e nell’Ospizio annesso, che

accompagnala lungo il piano a ponente e sostenendone il coro a tramontana

viene facendo l’ala di un braccio verso levante e mezzogiorno.

Posta la Chiesa a livello della piazza la quale esce da spianata sotto il

ciglio del monte accoglie entrambe le strade al Santuario dirette. Avendo

l’intero corpo un aggregato di costruzioni fattesi in vari discostissimi tempi

è situato e fabbricato in tal modo che non ha né forma né regola secondo

l’arte; ma sta sì bene in positura che d’ogni parte intorno se ne gode la vista

ed è meraviglia vederlo. Dalle coste di Lerma questo gruppo di fabbriche ti

pare che si sollevi maestoso contro le rupi con la base ben rivestita di un

amenissimo bosco.

Dalle eminenze della regione di S. Siro ti sembra nascere tra le balze; dal

Masino e dal Brisco lo vedi alteggiar in mezzo ai dirupi; dalla vetta e dai

denti di Mondovile e da parecchi altri monti vicini, specialmente dai cinghi

della Pracina lo ammiri spuntar da sotto ed ergersi quasi sotto i tuoi piedi:

e finalmente sembrati collocato sopra un’oasi amenissima, se lo rimiri dalla

caverna e dai greppi che sono in fondo all’alveo del torrente.

Volge faccia la Chiesa tra mezzogiorno e ponente e per esser presa da un

muricciolo di parapetto che vien cingendo il sito lungo il torrente, ha sì

poco spazio davanti alla sua porta maggiore ed al grazioso portichetto

ond’è riparata che ne resta obliquo il passaggio e l’adito difettoso. Volge il

fianco sinistro tra mezzogiorno e levante verso la piazza, la qual riuscendo

piuttosto grande, e riparata angolarmente dal detto fianco e dall’ala

sporgente dello Ospizio predetto, è aperta verso il torrente e contro il corso

del fiume è coronata e cinta al tutto di piante per quanto può comportare la

durezza del suolo e l’asperità del macigno sotto il quale è scavata, dona alla

Chiesa e all’attiguo fabbricato il più bello sfogo che mai; e al primo

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giungervi innanzi al capo delle due vie, benchè non ti sia fatto veder la

Chiesa, di fronte alla veduta di sì tranquillo e vago recinto l’animo ti si

ricrea.

Che, se la stagione è propizia, e dopo il viaggio ti assidi o sulla sponda

del muricciolo o accanto al portichetto sopra accennati, trovarti in seno di

questo santo ritiro, scorgere in giro come da te lontano il mondo, udire

insieme contemperati il sordo mormorio delle acque, lo stridio pungente

delle cicale, ed il soave canto di mille augelli, mentre che al vezzo di quelle

piante respiri l’aria che le scuote e ti refrigera recando seco le fragranze del

paradiso in terra perduto, ben ti riduce alla mente i generosi campioni che

colle armi di Gesù Cristo seppero riconquistarlo e ti passano quasi a

rassegna gli antichi monastici deserti; ed avvisando il luogo sacro alla

Madre divina ti pare che sii venuto in un ricetto dell’ordine di Cistello o

veramente dell’Ordine del Carmelo.

Capitolo III

Interno del Santuario.

Entrando in Chiesa per la detta porta di faccia ne vedi di un colpo

d’occhio l’intera nave ad eccezione del coro, il quale trovandosi separato

ond’è appoggiato l’altare maggiore ti appare solo per li due usci aperti ai

due lati del detto altare.

Piccolo ne è il vaso e piuttosto lungo, ma basso d’aria; per altro chiaro e

molto allegro. Contiene ai fianchi due Cappelle poco incavate con altri due

piccoli altari. Infra gli ornati dell’altar maggiore, li quali sono scolpiti con

qualche garbo in legno e dorati, a vece dell’ancona sta collocata

l’immagine sacrosanta di Maria e di Gesù. Un prezioso dipinto di antico

religioso pennello (v’ha tradizione esser una delle prime copie di quello

attribuito a S. Luca) ti rappresenta il busto della Madonna e il corpo intero

del Bambino vestito. La pittura è sopra una tela attaccata al legno, né si

conosce se colorita piuttosto a colla che a olio, benchè l’imprimitura si

scorga esser fatta di gesso. Se ne osserva la tavola ormai tutta tarlata entro

un cristallo ricinto in oggi di una cornice e di raggi indorati e anticamente

inserito nel mezzo dell’ancona; la quale fu cambiata di posto; quadro di

egregia mano e monumento insieme di antichità e di prodigio;

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conciossiaché “rappresentanti nel loro vero ritratto ed in figura normale

siccome genuflessi appiè dell’Immagine in atto di scioglier voto un

Marchese di Lerma con la sua consorte e con due figliuolini gemelli; questi

divoti coniugi, che dopo essere stati per lungo tempo privi di prole

ottennero ad intercessione della Madre SS.ma delle Grazie in questo stesso

Santuario invocata”. Le due figure ti son vedute alquanto più piccole del

naturale e circondate di maestosa aureola a foglia d’oro: la venerabil testa

della Vergine è ricoperta di manto sparso di stelle pure in oro segnate, il

quale combaciando sì modestamente affibbiato al petto vien rivestendo

l’intero busto, e rialzandosi poscia dal lembo s’involge e si sostiene intorno

al braccio sinistro: la capigliatura resta velata in un pannolino finissimo e

trasparente, che travedesi sulla fronte e scende al collo e sopra le orecchie,

ondulando con nobil garbo s’insinua sotto per cessare al fermaglio del

manto: nella carnagione tendente al bruno, nella ampia fronte, nelle

sopracciglia dolcemente curvate, negli occhi olivastri e penetranti, nel naso

piuttosto lungo e sottile, nelle melliflue labbra, insomma nella non larga

forma di tutto il volto e nelle mani e nelle dita distese oltre l’usato questa

figura al tutto d’aria tenera e grave in sé raccoglie mirabilmente le note che

ci lasciano scritte gli antichi Padri intorno alla fisionomia della Immacolata

Madre di Dio. Tien Ella amorosamente inclinato il viso al capo augusto del

suo Figliolo, con che egli sembra farle valido appoggio e starle in collo

seduto sul di lei destro braccio mentre colla sua mano sinistra si appiglia

alle dita del suo piè destro, e colla destra sostiensi alle mani materne, le

quali sono sì bene insieme intrecciate e conserte con quella manina che non

lasciano desiderare un gruppo più dignitoso ed un contegno affettuoso e

riverente. Il capo del divin pargoletto è solo coperto di biondi, brevi e

arricciati capegli; corrisponde a quel della Madre nel colore della carne; ha

fronte larga, bene incarnate le sopracciglia, vivaci ed ilari gli occhi e la

bocca disposta al più benigno sorriso: il corpo n’è rivestito di una turchina

compita e stretta ai lombi e da un mantino che dalle spalle pendondo lungo

la metà delle braccia ricoprelo interamente dalle ginocchia insino ai piedi, e

viene poi ripiegandosi colla tunica infra le mani, onde il bambino è

sorretto.

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Peccato che questo antico quadretto abbia dovuto toccarsi per ripararlo,

benchè soltanto nelle parti vestite! Ambedue però le immagini veggonsi

attuate sì dal vivo e tratteggiate con tanto spirito e tanta grazia, che ad onta

delle gravi ingiurie del tempo, se a contemplarle fermi fiso e devoto cogli

occhi ti rapiscono, colla bocca ti parlano e ti inondano il cuore di gioia

celestiale.

Dobbiamo far distinta menzione di una grazia singolarissima ottenuta dai

Marchesi di Lerma Agostino e Cecilia Spinola, testimoniata da pubblici

monumenti.

Questi piissimi coniugi si rimanevano senza prole da lungo tempo, e

nella fiducia di conseguirne per la intercessione della Madre di Dio che

avevano sempre sperimentata qual loro insigne benefattrice, fecero voto

appiè del Santuario di migliorarne la Chiesa se loro fosse stato concesso un

figliuolo. Ottennero essi la sospirata grazia, che fu maggiore del desiderio.

La Cecilia diede alla luce non uno ma due maschi gemelli. Il voto venne

compito col prolungamento della Chiesa eseguito negli anni 1619 ed il

successo fu ascritto sopra di un marmo che tuttora resiste intatto al suo

posto, essendo stato avvedutamente sottratto al furore dei distruttori del

1799.

Di questa preziosa epigrafe riportiamo la copia:

Augustinus Spinola Marchio Lerma

Deiparae Virgini Dominae et Patronae

Quod multis per eam beneficiis

Affectus et nuper prole diu optata

Auctus fuerit hoc ex voto

Exedificandum curavit eodem ipso

Exe quo prolem suscepit die hoc est

Quinta nona Julii Anno MDCXVIIII.

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Perché la memoria di tanta grazia restasse maggiormente impressa, li

graziati due coniugi si fecero dipingere da mano valente sopra di un quadro

che, avendo nel bel mezzo inserita la sacrosanta Immagine, servì di ancona

per più di due secoli.

Il coro della Chiesa è quadrato e di volto assai più basso del vaso

dell’altra parte: ha tre finestre poste all’altezza di quelle d’una sala comune

e queste contribuiscono a rallegrarne l’angustia e la grettezza offrendo sotto

diversi gradi la prospettiva più deliziosa, di cui si è fatto capo di sopra.

Capitolo IV

Dell’Ospizio del Santuario.

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Due poi sono le case d’Ospizio piccole entrambe. Una è chiamata

l’Ospizio vecchio e abbraccia come si è detto il piano destro della Chiesa

più verso ponente. Consiste in due camere al piano della Chiesa colla quale

comunica solo per l’orchestra ed ha ingresso dal lato corrispondente alla

facciata: la prima di queste camere è assai ristretta e serve per dar adito alla

scala dell’orchestra e all’altra camera, la quale è comoda, grande e molto

amena, perciocché dalle spaziose finestre che sono a illuminarla gode la

vista del bosco sotto del Santuario, e quasi per le traveggole dei tronchi, dei

rami, e delle frondi ti presenta qui gli scherzevoli andirivieni del torrente di

Malpertuso e l’altro scoglio della Rocchetta col largo salto che lo circonda,

là ti mostra colla fuga del fiume Piota, entro del quale si specchia, tutte le

alture che fanno la più vaga scena insino a Lerma. Entrasi in questa casa

per una porta dappresso al portichetto della facciata.

L’altra si chiama l’Ospizio nuovo, ed è la fabbrica, che sostenendo il

coro della Chiesa vien poi facendo ala sostenendo e riparando la piazza.

Questa casa è composta dell’abitazione dell’eremita proprio sotto del coro

e di parecchie camere tutte al filo di questo piano, ed al piano superiore,

che è quello della Chiesa, di altre tre camere e della Sagrestia. Nel secondo

piano si entra per la porta civile verso la piazza.

I due appartamenti comunicano tra loro per mezzo di una scala interiore

e comunicano entrambi col coro della Chiesa mediante la sacrestia.

Nel piccol atrio onde la porta civile dai detti appartamenti lascia

l’ingresso da mano destra alle camere e da sinistra alla sacrestia leggi

scolpita in marmo l’iscrizione seguente:

QUOD

IN B.M. MATRIS GRATIARUM CULTUM

IN QUO COLENTIUM COMMODUM

SACRARIUM ET DIVERSORIUM

COMMUNI OPERE

A FUNDAMENTIS EXCITATUM ERAT

ANNO D.NI MDCCCXXX

AD APTIOREM FORMAM REVOCATUM

MDCCCLI

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La camera della sacrestia piglia luce e aria da tre finestre

proporzionatamente grandiose, due rivolgenti alla sponda del fiume e una

alla piazza, ella è però assai chiara, allegra, ventilata ed asciutta; è munita

di comodi sufficienti per ascoltarvi le confessioni sacramentali e contenere

le sacre suppellettili di cui è provveduta la chiesa, ed ancora nel resto

ammobiliata decentemente. La prima camera a cui si ha adito dall’altra

parte e resta alquanto più piccola di quella della sacrestia, serve di sala

d’Ospizio. É illuminata da due finestre, l’una rimpetto all’altra verso il

fiume e verso la piazza.

Le altre due camere, di cui la prima è di anticamera all’altra, prendono

entrambe luce dalla parte del Piota, ciascuna per una sola finestra. Dalla

sala si scende all’appartamento inferiore, dove alla testa si trova la camera

della cucina, ristretta al tutto ma comoda, e sufficientemente fornita di

masserizie per ammannirvi tutto quanto si può richiedere dai visitatori

devoti che vogliono fare carità insieme.

Nel mezzo della piazza havvi una ben larga e profonda cisterna nel

macigno incavata, che ricevendo la piova dai tetti della chiesa e del nuovo

ospizio conserva e somministra per l’uso acqua abbondante limpida e

fresca.

E qui non è da tacere dei curiosi fenomeni con che la posizione del

santuario viene nell’esterno deliziando via maggiormente la piazza, e

nell’interno pressoché tutte le camere del detto ospizio. Allorché il sole

illumina secondo le diverse ore del giorno a parte a parte i luoghi

circonvicini penetrando il riverbero della luce per le finestre, non solo

rallegra tutte le camere del fabbricato con tappezzarne le fronti delle più

gaie sfumature dell’iride, ma sì ti reca le meraviglie più rare di cotal

genere. Non è si tosto tocca dai raggi del nascente sole la corrente del

fiume che ne vedi trascorrere e tremolar scintillanti le acque sotto i

padiglioni dei volti, e a sì svariato sfolgorio che ti consola abbagliandoti

non pur ti pare di essere a nuoto, ma di abbeverarti in un torrente di pura

luce celeste.

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Capitolo V

Antichità del Santuario

Il culto di Maria SS. nel luogo della Rocchetta è immemorabile.

Non si sa sinora quando e come questo culto avesse principio e in questo

luogo si edificasse una chiesa alla Regina del Cielo.

La memoria più antica che ci sia dato a conoscere di questo suo

Santuario si ritrovava scolpita in una piccola lastra di pietra nostrale, i cui

caratteri da quanto sembra romani furono barbaramente annullati dal furore

e dall’ignoranza dei politici riformisti dell’Anno D 1799, ed il tenore ci è

rimasto mercé la cura prudente del Sacerdote di Lerma Giacomo Pastore, il

quale essendo procuratore del santuario il quel tempo, copiò di propria

mano un’iscrizione così importante. Ecco quanto si legge nel prezioso

autografo che ci resta del benemerito sacerdote:

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1798. Agosto.

Copia dell’iscrizione di una piccola lapide di pietra incastrata nella

muraglia della Chiesa di N.S. della Rocchetta verso il pozzo della piazza.

HOC OPUS FIERI FECIT

EGREGIUS DOMINUS PASTORINUS

POTESTATE AERE NOMINE

M.D. LUCA SPINOLA EIUSDEM

LOCI D.C, AD HONOREM DEI

ET BEATAE MARIAE DE ROCCHETTA

ANNO D.NI M DDD. L. XXXX II

DIE XII SEPTEMBRIS.

Questa lapide si conserva tuttora al medesimo posto che si trovava

allorché venne trascritta e quell’epigrafe fu secondo la copia da poco tempo

restituita al pubblico sopra di una marmo che sta chiudendo l’antica lastra,

e porta iscritta sotto la prima la qui notata leggenda:

INIURIA TEMPORUM DELETA CIRCA FINEM SAECULI

PRAETERITI INSCRIPTIO RESTITUITA M. D. CCC. L. I.

Chiaro si scorge da questo autentico documento che già nell’epoca del

1492 esisteva la Chiesa del Santuario e veniva indicato sotto il nome stesso

col quale si qualifica sino oggidì: che l’opera di cui si tratta fu opera di

riparazione e tutt’al più di aggiunta fattasi al fabbricato di detta chiesa, la

qual cosa ci dà ogni ragione di credere assai più remoto il tempo della sua

fondazione.

Il Luca Spinola poi, segnalato nell’iscrizione quale autore dell’accennata

opera e quale commissionario del luogo della Rocchetta, avrebbe pochi

anni prima fatto acquisto di tutto il fondo di Lerma, nella cui giurisdizione

trovasi il detto luogo e ne avrebbe ricevuta l’investitura negli anni D.ni

1479 e 1488, prima da Guglielmo e quindi da Bonifacio Marchesi del

Monferrato, uomo d’altronde celebrato per la pietà e devozione speciale

verso la Madre di Dio, essendosi dato cura nell’anno 1480 acciocché

fossero edificate le Chiese tuttora esistenti nella Villa di Cornigliano, di S.

Maria Coronata e di S. Jacopo.

Argomentando dalle nozioni che traggonsi dalla detta memoria e dai più

sicuri ragguagli sinora avuti attorno al monastero di Bano alcuni inducensi

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ad assegnare la fondazione del Santuario al tempo comunque incerto della

caduta dell’antico stabilimento. Pensano che i terrazzani di Lerma

assuefatti a frequentare la Chiesa del Monastero di Bano intitolata a Maria

SS.ma, e celebre per questo augusto nome Le innalzassero per speciale

devozione una Cappella nell’opposta falda del monte sul quale trovavasi

quella chiesa, e ciò appena la videro abbandonata, essendo il Monastero

soppresso.

Altri cavando invece argomenti dall’iscrizione della lapide, dall’antichità

del Borgo di Lerma e segnatamente da quella degli avanzi esistenti in sullo

scoglio del fortilizio della Rocchetta e in fine dalla forma del fabbricato

presente e dalla stessa antichità dell’Immagine, sostengono che il santuario

abbia avuto principio dalla Cappella del fortilizio onde riceve il nome e sia

in conseguenza la Chiesa più antica del territorio di Lerma e dei Paesi

vicini.

Ma delle due opinioni la prima sembra poco o nulla probabile; la

seconda che sembra anzi probabilissima, proverebbe sì l’antichità del

santuario, ma non potrebbe segnare un’epoca almeno prossima alla sua

origine.

Capitolo VI

Dell’antico Monastero di Bano.

Il Monastero di S. Maria di Bano era situato, come sopra è detto, sul

monte della Pracina e nel fianco direttamente opposto a quello nel cui

estremo piede fra tramontana e ponente trovasi il Santuario.

Questo monte stando attaccato alla Colma apre dal suo seno meridionale

una valle al tutto erta e scabrosa, la quale vien circondata da un altro monte

vicino, e più in su resta chiusa dalla Colma medesima. Quivi in una

dirupata pendice di serpentino e di amianti pullulano parecchie fontanelle,

che raccolte al fondo e moltiplicate le loro acque formano un rivo, e questo

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via via crescendo si scava tra gli svariati scogli un bel largo canale alle

radici dei monti. Sopra un rialto lunghesso il ciglio dell’apertura del rivo tra

mezzogiorno e levante trovavasi fabbricato il Monastero e la Chiesa. Su

ogni parte del luogo se ne vedono ancora gli avanzi: blocchi di colonne di

selce qua e là rotolati, capitelli a forma di incudine, e basamenti; pietre

tagliate e scolpite di rabeschi e di croci; cornicioni di sasso e di mattone ad

ogni passo s’incontrano. Qui in mezzo a mucchi e macerie di frantumi trovi

un coltivo che il contadino ti chiama il Camposanto: trovi una casa rustica

assai più lunga che larga, e dall’architrave della vecchia porta tessuto a

grossi mattoni con (…) di sesto acuto, e dalla fuga delle finestrelle

conformi e regolari, di leggieri conosci che questa casa era un braccio del

dormitorio; là vedi un’altra casa che ora serve di fienile e di stalle e ben ti

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avvedi come fu questa fabbricata di nuovo colle pietre degli antichi edifici

e sta appoggiata ai muri di un altro edificio di un altro braccio del

monastero. Che se ti è fatto di insinuarti nei penetrali di essa, mentre

distingui il muramento nuovo dal vecchio, tra i pilastroni e i tramezzi

sproporzionati di questo scorgi l’usciolo di un sotterraneo che serviva di

cantina e che si crede tuttora esistere essendone chiusa la buca, ripieno

d’acqua e di terra. Presso al fienile havvi un tugurio parimente costruito sui

muri antichi, i quali mostrano ancora l’estremo cavo di un forno: più in là

coperto di alti e larghi castagni di fusti enormi e di una estrema vecchiezza

si allarga un piano denominato il Giardino, e dalla figura quadrilunga del

sito, dall’alto muro sottile ond’era chiuso alla testa, del quale sussistono

tuttora in piedi alcuni rottami si riscontra che fosse veramente l’orto della

cucina. Ora se scendi a mano sinistra nell’apertura del detto piano eccoti

innanzi i ruderi venerandi del tempio, di cui non basti più a rintracciare o la

grandezza o la forma, poiché una frana verso il canale ne seppellì nei secoli

forse la miglior parte: sotto il terriccio fra le barbe degli alberi scorgonsi

ancora in alcun luogo i mattoni del pavimento, e nella china della piove in

mezzo a grossi pezzi di muro che stanno in sul ciglione della frana ti son

vedute le fondamenta di parecchie colonne.

Se trascorrendo diritto il piano ti porti oltre le mura cadenti a capo del

giardino riesci presso ai burroni, che come detto danno sorgente alle acque

del rivo, di costà si ritrovano a mano destra sopra un cinghio le vestigia di

un acquedotto formato di tubi di terracotta, il quale sembra traesse origine

dai piedi della Colma e non è possibile più di sapere come derivasse il suo

corso sino alle fabbriche del Monastero, benchè nel seno del muro vecchio,

ond’è chiuso il fienile verso l’orto, sia stata scorta la (…) dei detti tubi. Nei

frantumi di quella balza e sotto il cinghio dell’acquedotto apresi una

finestra o piuttosto un armadio serrato di antico muro e coperto di un

semplice voltino in mattoni posti di quarto, piccolo, ma sì robusto lavoro,

che pare fatto di ferro, e comechè nudo e sporgente rovinandosi i monti si

resse incolume contro la forza dei secoli, e la potenza di enormi massi

rotolati dall’alto onde venne arietato ben mille volte. Il poco incavo di una

cotale finestra geme continuo d’acqua leggera e fresca, che facendovi

stagno nel fondo resta appannata di un mosco verde giallastro, il perché

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appellasi codesto luogo Fontana dell’Olio e tante favole se ne racconta.

Egli non sembra oggimai più possibile congetturare se tornasse a comodo

esclusivo del Monastero e fosse dentro o fuori della clausura codesta

rinomata fontana, la quale in ogni caso non poteva non esser preziosa nella

calda stagione, conciossiaché non si abbia ragione sufficiente di credere

che il picciol pozzo attuale scavato presso l’abitazione dei coloni sia

l’antico pozzo del Chiostro. Quindi scendendo alla sponda del rivo e

balzellando di sasso in sasso lungo il suo corso incontri un certo tratto di

sito che è chiamato il Mulino e credesi che fosse qui veramente una piccola

macina ad uso della Comunità religiosa, perciocché ancora si distingue nel

margine la forma di un serbatoio, o bottazzo, indispensabile per dare moto

ad una ruota, massime nella estate attesa la pochezza dell’acqua. Da questo

luogo poi ritornando al detto piano dell’orto per il ripido sentiero che i

coloni si apersero su per la frana, viensi di nuovo in mezzo ai rottami della

Chiesa, e si passa rasente uno ti cotale spessore che si direbbe il

fondamento del campanile; donde, se lasciando il sentiero che giudati

all’abitato e passo passo ti spingi e valichi le colmate di pietra e i

campicelli che trovansi tra il fienile e il ciglio della stessa frana e del canale

del rivo, tu compi il giro di tutta la superficie, che ancora rimane di quel

vetusto religioso ricetto.

Ma il monumento più interessante che siasi rinvenuto sinora in tutta

quella rovina conservasi dentro di un piccolo Oratorio eretto sotto il titolo

di S. Maria della Neve in tempo a noi più vicino e costruito con le pietre

del Monastero sullo spazio onde restano separati l’uno dall’altro i due

rustici fabbricati suddetti e con tanta grettezza che nol diresti mai più una

Chiesa.

Nella parete sinistra entrando vedi costì murato presso l’altare un marmo

e in questo scolpita a caratteri gotici o semigotici una iscrizione del

seguente tenore:

MCCLXXXXVIII die XVI augusti

Tempore D.ne Johanne Salvatrice Abbatissae

Sancte Marie de Bano frater Manfredus De

Muasca stando Janue de lemosinis fecit

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Fieri dormitorium un et istud aliud opus. Rogo

Quod D.ne que modo sunt et que venturis tem

Poribus d.no cocedente erunt debeant Deo

Preces fundere pro quibus qui predicto opera

Eleemosinas impenderunt.

Una iscrizione così preziosa erasi trasportata dal posto ove prima

esisteva acciocché restasse in sicuro.

Capitolo VII

Della fondazione ed abolizione del Monastero.

Il monastero era stato fondato dalla pietà de’ genovesi patrizi intorno

all’anno 1230, epoca in cui si erano moltiplicati i frutti delle buone

semenze dovunque sparse dal glorioso Dottore e Santo Abate di Chiravalle,

e specialmente nella Liguria avendone egli in persona visitato la Capitale e

avendo indirizzato alla nazione una lettera. Le donne delle più illustri ed

agiate famiglie di quell’insigne metropoli si facevano stolte agli occhi del

mondo per essere stimate prudenti agli occhi di Dio nell’oscurità del

deserto; onde le sacre vergini ivi raccolte sotto il patrocinio di Maria SS.ma

erano dell’Ordine Cisterciense e formavano una comunità numerosa,

genovesi per la più parte.

Consta da pubblici documenti che una Teresa Negro di Genova era stata

Prioressa negli anni 1288, e vedesi dalla detta lapide che ne era stata

Badessa la Giovanna Salvago pure di Genova negli anni 1298; e

novellamente si seppe esistere intitolata alle Monache di Bano la colonna di

un capitale assicurato sul Banco di S. Giorgio della detta Città.

Il Frate Manfredo de Muasca nell’epigrafe menzionato, il qual si osserva

che in Genova avea stanza, era un Collettore o Procuratore del Monastero;

e il monastero aveva certo di residenza tra le prime sue mura più sacerdoti

e chierici e laici religiosi forse del medesimo Ordine e pel servizio della

Chiesa e per la cura spirituale delle Monache; dal che si deve riconoscere la

causa del grossolano antico errore invalso generalmente nel volgo, e la

favola pur raccontata ai dì nostri, che cioè il fabbricato fosse diviso in due

parti abitato da due comunità religiose, una di uomini e l’altra di donne, e

che perciò venisse ad esserne il monastero abolito.

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Di questa abolizione ignoriamo il tempo e la causa. Havvi chi crede esser

stato soppresso il Monastero dopo che furono promulgati i decreti del

Concilio di Trento, ma questa credenza, lungi dall’essere giustificata, è

contrariata dai fatti e contraddetta da positive memorie.

Havvi poi chi sostiene, e con buon fondamento, che il Monastero di

Bano fosse soggetto alla giurisdizione dell’Abate di S. Maria del Tiglieto

d’Olba, Badia rinomatissima dei Cisterciensi, posta sul confine della

Liguria con il Monferrato e nella Diocesi d’Acqui. Dal che potrebbe

inferirsi che soppressa quella Badia restassero pure soppressi tutti i

monasteri affiliati; ma accettandosi tale inferenza bisognerebbe dire che

almeno l’abbandono del Monastero di Bano seguisse lungo tempo più tardi.

Vuolsi assegnare la rimozione dell’Abate e dei Monaci di Tiglieto alla

seconda metà del sec. XVI, e delle Religiose di Bano abbiamo notizie tali

da farci credere che non avessero ancor lasciato il monastero nella metà del

sec. XV.

Poco dopo dell’anno 1483 fu fabbricato nella Villa di Zoagli vicino a

Sestri Levante un Monastero sotto il titolo di S. Maria in un luogo

conceduto dalle Monache di S. Brigida e dai Monaci del medesimo Ordine

addetti al servizio della Chiesa loro intitolata Scala Coeli nella Città di

Genova. E quel nuovo stabilimento erasi fatto a bella posta per ritirarvi le

Monache genovesi di nascita, le quali si trovavano allora in Sezzè luogo

della Diocesi di Acqui nel Monastero di S. Stefano dell’Ordine Cistercense

e vi erano state traslocate buon tempo prima dal Monastero di Bano situato

nelle vicinanze del borgo di Lerma, Diocesi di Tortona, al quale monastero

appartenevano.

Codeste sole notizie le quali riceviamo da Bartolomeo Montaldo nella

sua Cronaca dei Prelati Ecclesiastici Genovesi pubblicata a Genova l’anno

1752, ci rivelano chiaramente che quelle Monache non potevano lasciare il

monastero di Bano e portarsi in quello di Sezzè gran tempo prima

dell’epoca sopra indicata, 1483, per esser poi traslocate nel nuovo

Monastero che poco dopo l’epoca stessa secondo la Cronaca erasi fatto

fabbricare in Zoagli a questo fine. Il detto autore riferisce tali notizie

mentre ci fa menzione di Oberto Pinello dei Conti di Lavagna Vescovo

Nebbiese Vicario Generale del Card. Paolo Fregoso Arcivescovo di

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Genova nella circostanza della consacrazione delle predetta Chiesa di Scala

Colei fattasi dal detto Oberto nell’anno 1477.

Era dotato il Monastero di Bano di fondi stabili sulle fini di Lerma e di

Tagliolo, al cui distretto comunale appartiene tuttora il territorio, ove

esistono le sue rovine, benchè soggetto alla giurisdizione parrocchiale di

Lerma; oltre il fondo sul Banco di S. Giorgio di Genova che si è fatto

cenno, e non furono mai più le rendite liquidate né applicate e cui sarebbe

stato diritto di percepirle dopo la abolizione del Monastero e l’estinzione

delle monache.

Li quali stabili vennero assegnati d’autorità della S. Sede Apostolica

l’anno 1513 alla Religione dei Canonici Reg. Lateranensi di S. Agostino e

dati in possesso al Convento di S. Maria di Castello della città di

Alessandria; poi da Felice Prevosto della Chiesa di quel Convento come

Procuratore e Sindaco di detto Ordine a nome della Religione furono

venduti al Principe Andrea D’Oria di Genova l’11 luglio 1545, il quale

dichiarò l’anno seguente averli esso comprati a nome di Adamo Centurione

pure di Genova, e da questo poi rivenduti a un Giacomo Maria Spinola,

figlio di Luca Spinola ricordato sopra, il giorno 12 novembre 1562.

Passarono finalmente in proprietà degli Spinola Marchesi di Lerma, e

intorno alla metà del secolo passato (‘700) furono devoluti alli Marchesi

Gentili di Molare, che tuttavia li posseggono. Il piccolo Oratorio ove si

conserva la lapide fu eretto, per quanto consta da memorie esistenti

nell’archivio parrocchiale di Lerma, dappoichè i detti beni furono assegnati

ai Canonici Lateranensi, con ciò sia che da questi, ossia dal loro

Procuratore, sia stato imposta ai compratori nell’atto della vendita l’obbligo

di farvi celebrare in perpetuo trenta Messa ogni anno.

Ecco quel poco che ci fu dato di poter sinora conoscere intorno al celebre

Monastero di Bano, che sui libri più antichi della Parrocchia di Lerma non

si distingue più notato che sotto la semplice denominazione di un rustico

abituro. Dalle poche esposte nozioni si raccoglie però che non potrebbe

sostenersi l’opinione di coloro, i quali assegnano la fondazione della prima

Cappella del Santuario al tempo della caduta di Bano. Le monache

genovesi, che lasciato il Monastero di Bano si trovano in quello di S.

Stefano di Sezzè dovevano certo esser in buon numero se per richiamarle in

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terra di Genova fu d’uopo fabbricar loro un nuovo ritiro, e pochi anni per

questo devono aver passato in Sezzè prima di essere trasferite in Zoagli nel

nuovo monastero, perché se gli anni della loro dimora in quella terra

fossero stati molti sarebbero mancate ai vivi la maggior parte. Ora posto

che lasciassero Bano poco avanti e pochi anni dopo, l’epoca segnata dalla

Cronaca, cioè il 1483, si riunissero nel nuovo monastero di Zoagli, e

ritenuto che la Chiesa del Santuario già esisteva sotto il suo nome della

Rocchetta all’epoca che Luca Spinola vi fece eseguire la sua opera cioè ne

l’anno 1492, è chiaro che, esistendo questa contemporaneamente a quella

del monastero di Bano, l’una non poteva essere eretta in sostituzione

dell’altra.

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Capitolo VIII

Lerma

Tocca alla parte di mezzogiorno il poggio sul quale sorge il Santuario la

forense linea di confine tra il comune di Lerma e quello di Tagliolo, benchè

l’intero sito appartenga alla Parrocchia di Lerma, il cui distretto si inoltra

nella Comunità di Tagliolo.

Lerma, Tagliolo, Casaleggio e Mornese, luoghi del Monferrato limitrofi

alla Liguria, anticamente facenti parte della Diocesi di Tortona ed oggi

della Diocesi di Acqui, di qua e di là dal fiume Piota mostrano nelle loro

castella il rispettivo monumento della loro antichità. Fra questi cinque Paesi

quelli che comprendono nei loro territori le sponde aurifere del Piota e del

Gorzente e si trovano più da vicino alle due riviere, hanno un altro

argomento di maggiore antichezza nei copiosi acervi di pietre, che trovansi

di qua e di là prolungati a seconda dei due canali ai piedi dei monti.

Il perché Lerma essendo come nel centro e presentando una copia

immensa di tali pietre segnatamente nelle due lande spaziose, che come

sopra dicemmo, sono appiè del Masino, vuolsi considerare il luogo più

antico dei circonvicini.

Sia che lo scavo di tanti sassi fosse opera degli schiavi come alcuni

pretendono, sia che come pensano altri fosse lavoro di milizie stanziate in

Italia, è cosa certa non solo che questa grande impresa ci segna un’epoca

lontanissima, ma ci lascia intravvedere come sin da quell’epoca venisse ad

essere per la prima abitata la costa più appresso al fiume, e insieme la più

vera ragione forse per cui tutta la terra in quel tempo solitaria e deserta

venisse quindi ad esser chiamata col nome di Lerma ovvero di Erma,

secondo che si scorge scritto in parecchie delle più antiche memorie.

Il territorio di Lerma il quale inclinato tra mezzogiorno e ponente verso

il canale del Piota e riunisce con vaghi nodi le fertili sue colline ai monti

delle miniere erasi naturalmente postura più acconcia per farsi punto

centrale nella direzione del lavoro di tante braccia, ed è sì grande infatti la

quantità delle pietre scavate nelle lande appiè del Masino che in altra parte

maggior non si trova, e questo è propriamente il sito che dall’ignoranza del

volgo assegnasi alla tradizionale ma favolosa Rondinaria.

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Il Borgo di Lerma si estende in una costiera direttamente spinta a

ponente volgendo un fianco verso l’apertura del fiume e l’altro verso di una

vallata denominata i Lubego. Consta di parecchi gruppi di case fabbricate

senz’ordine, e di una sola contrada aperta di cima a fondo in mezzo alle

case, la quale piuttosto dritta e vistosa scendendo viene a metter capo alla

porta dell’antico recinto, ove si trova il Castello, la Chiesa Parrocchiale, ed

altri corpi di case. Non presenta veruna traccia di antichità notabile in tutta

quella parte che è fuori della porta suddetta; ma al Castello, la Chiesa e le

altre case di dentro ne sono altrettanti monumenti significanti.

Sorge il Castello di Lerma all’orlo della costa su cui è fabbricato il Paese

e spicca maestoso a cavaliere della destra sponda del fiume, il quale

scendendo dai monti con diritto cammino, appena gli giunge innanzi

ripiegasi tutto sollecito per fargli specchio delle sue limpide acque e per

lambirne il piede, mentre alimenta gli orti ed il mulino nella sottoposta

vallea ed apre in giro le più deliziose vedute.

Al presente segna colla sua pianta una vera romboide e non è che un

gruppo di fabbricati diversi connessi insieme in diversissimi tempi. Nelle

facciate esterne non ha oggi mai più di castello che i merli e le due torri;

nel resto ci dà al tutto la vista di un signorile palazzo: i sotterranei son

convertiti in cantine; le carceri in magazzeni e dispende; i quartieri militari

in nobili appartamenti: furono sugguagliati gli spalti, spianati i fossi, tolti di

mezzo i ponti levatoi e le saracinesche, e fu persino mutato il posto della

porta, che or sembra quella di una basilica.

Ma di leggieri distinguonsi le fabbricazioni; alcuni pezzi di merli che

ancor si veggono sporgere in una interna camera del primo piano e dentro il

campanile della Chiesa dimostrano che ne era bassissimo il fabbricato più

antico: i merli ond’è tuttora circondato esternamente il coro della Chiesa, il

quale era un torrione, danno sicuro indizio che ne fu alzata la fabbrica; con

altri nuovi alzamenti e aggiunte fatte di seguito ne venne l’intera mole

ridotta allo stato presente.

L’antica fortificazione, qualunque fosse nella sua forma, aveva al tutto

l’aria di una cittadella moderna. Era circondata di muri, vallati in giro, e

uniti di torri. Aveva due porte, una di fronte verso il paese, l’altra di tergo

in faccia al cinghio sull’estremità della costa che si chiamava Porta Sottana:

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tutte le case che trovansi dentro il recinto e tutte le altre che furono

demolite, quelle comprese su cui sta fabbricata la Casa Parrocchiale e la

chiesa medesima, erano magazzini e caserme della fortezza.

Ignoriamo le epoche nelle quali fosse piantato o riformato questo

Castello il quale subì l’ultima variazione notevole e fu ridotto allo stato

presente nella seconda metà del secolo ultimo scorso (1700). Abbiamo però

ogni ragione di presumere che la prima opera si fosse dei primi tempi del

feudalesimo.

In diverse circostanze ebbe a provare ogni sorta di artiglieria e fu

riputato mai sempre per piazza forte.

Vedasi che i diversi corpi di fabbrica sono nell’esterno fregiati dell’arma

degli Spinola, ma in nessun disco si trova nota di tempo.

Appiè della scacchiera dipinta nella torre quadrata simmetrica a quella

del campanile si legge:

Fata trahunt retraahuntque sequamur

LV. SP.

Le due lettere LV. SP. se volessero significare Luca Spinola, come vi ha

ragione di credere, dovrebbe dirsi che lo stemma fosse stato colà dipinto ai

tempi del Luca Spinola, il quale è conosciuto pel primo benefattore della

Chiesa del Santuario indicato nell’albo dei Marchesi di Lerma per LUCA

PRIMO, conciossiaché si veda stare appoggiato alla terra un quartiere del C

Castello, fabbrica certo posteriore alla torre, perché il muro più nuovo con

l’angolo di connessura copre le prime due lettere della detta iscrizione

poetica dipinta ai piedi dell’arma.

Sull’arco esteriore dell’antica Porta Soprana, la quale tuttora sussiste e

mostra ancora gli indizi del Ponte Levatoio, havvi una lastra di pietra

nostrale, su cui si scorge che era scolpito un’epigrafe; e questo monumento

incontrò la disgrazia di quella del Santuario negli anni tempestosi 1799,

senza che alcuno pensasse di ricopiarne almeno le memorie più importanti.

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Capitolo IX

La Rocchetta

Un altro e più forte argomento per dimostrare come Lerma sarebbe il

borgo più antico dei circonvicini ci si presenta da quel dente di scoglio

accennato di sopra, il quale s’innalza vicino al poggio del Santuario.

Troviamo in sulla punta di questo dente gli estremi avanzi di un

monumento dei più significativi, che sarebbe al tutto rimasto ignoto e

inosservato se non avesse lasciato quasi un retaggio il suo nome generico al

luogo nel quale fu stabilito.

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La regione del santuario è distinta col nome di una piccola Rocca

fabbricata sul culmine di detto scoglio, del che non ti è più fatto di

riscontrare un segno se pur rimiri lo scoglio tutto all’interno.

Sbattuto e roso per secoli dalle acque del torrente e dirupato e scosceso

per ogni parte non ha nemmeno più orma onde potervi salire: pochi

castagni ne rivestono la falda rispetto al fiume; nel resto verbene e arbusti

ne ricoprono le brecce tra le creste e le corna che ti volge allo sguardo. Ma

se ti basti l’animo di arrampicarti per quelle rocce vi scorgi chiare le

vestigia di quel fortilizio.

Le fondamenta di una torre quadrata e di una parte dei muri ond’era cinta

e contenuta nel mezzo; la costruzione robusta e solida benchè di tutte pietre

selvatiche; la direzione di alcuni ruderi che stan tuttora pendenti sul

ciglione della frana, tutto ti assicura che la Rocchetta sì rinomata occupava

la vetta di cotesto scoglio.

Da quell’altura tutta isolata il tuo sguardo spazia per l’ampio delle due

riviere e delle valli penetra in tutti i varchi alle gole dei monti, numera le

coste dei loro fianchi e tutti i nodi principali delle loro catene. Con tutto ciò

non potresti a prima giunta immaginarti a qual uso servisse mai una

fortificazione sì angusta e in sì ristretto sito piantata.

Riflettendo però come cambiano i luoghi col cambiarsi dei tempi, e

come lo scoglio stesso si ti dimostra d’esser cambiato, e menomato tanto

che le sue viscere ti discopre, non puoi non darti a credere siano cadute

insieme la più bassa parte del forte e la via per entrarvi e le prime mura di

cinta, le quali forse stendevansi insino al poggio del Santuario attaccato

tuttora per una coda allo scoglio.

Del resto riconosce origine la Rocchetta dall’impresa di scavar le

miniere lungo i canali del Piota e del Gorzente; conta un’epoca

remotissima, e ritenuto che il territorio di Lerma fosse un deserto, ha ragion

di essere reputata nei suoi piccoli avanzi il monumento più antico che si

trovi da queste parti.

Tutti codesti monti che si veggono oggi per la più parte mondi di piante

erano certo in quei tempi una continuata boscaglia, né si poteano valicare

che per le gole e per gli alvei dei torrenti e delle riviere. Dalla sinistra

sponda del Piota e sotto lo scoglio appunto della Rocchetta era la via più

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antica di comunicazione tra il Monferrato e la Liguria; e salendo dal poggio

del Santuario alla gola del Malpertuso su pel fianco meridionale della

Pracina volgeva poscia sotto i piè della Colma verso il canale del Piota e la

valle di Bano ed inoltravasi per gli altri monti sino alla faccia del mare.

Poiché la via attuale partendo da Lerma e costeggiando la destra sponda

del fiume Piota varca il Gorzente e s’innalza per il Mondovile alla terra di

Genova, fu aperta da pochi secoli.

Quindi per lo buono andamento e miglior esito di sì gelosa e pericolosa

impresa riusciva indispensabile, massimamente in quei tempi di generale

anarchia, una munizione qualunque e si voleva una Torre onde difendere il

passo, specular dalla lunga le bande dei nemici e dei barbari saccheggiatori,

mandar il grido d’allarme agli scavatori delle miniere nell’imminente

incursione, tener in soggezione i lavoratori della terra nelle acque dei

confluenti, avere infine un luogo sicuro da riporvi la polvere del prezioso

metallo; al che non era possibile trovare altronde posizione più acconcia.

Ci asserisce la tradizione del Paese, che la Rocchetta si fabbricò nei

tempi antichi per guardare questa terra da quando a quando infestata da

compagnie di ladroni che venivano come il vento dalle montagne della

Liguria; e niente v’ha di più facile che i Saraceni fortificatisi sulle coste del

mare ligustico fossero sì li ricordati ladroni tratti dall’odore dell’oro che si

estraeva in queste miniere.

Dai primi scavamenti dell’oro in questo deserto si deve riflettere la

ragione dell’esistenza del piccolo forte. Sia che fossero questi eseguiti con

l’opera degli schiavi in sul cadere dell’impero romano, come pretendono

alcuni, sia pochi secoli dopo nell’opera delle milizie dei barbari stanziati in

Italia, come vogliono altri, mostra la smisurata quantità di pietre che tale

impresa durò per lungo tempo, nonostante il concorso di molte braccia.

Capitolo X

Chiesa di S. Giovanni Battista

(Oggi Cimitero)

Chiesa di S.to Gio Battista antica Par.le, ove si sepelisce et si celebra il

dì di S, Giovanni.

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Trovasi sulla destra sponda del Piota in mezzo ai campi, alla distanza di

cammino di un terzo d’ora dal Borgo.

Volge la sua facciata tra mezzogiorno e ponente e resta interchiusa dai

muri dell’attuale cimitero, che dell’antico non presenta più segno. Due

diritte mura di fianco collegate col muro di faccia di semplicissimo

frontispizio, le quali sostengono il tetto senza volta o soffitto; un’abside

coperta d’una volta a nicchia terminata d’un arco sui due pilastri, opera del

tutto tozza e deforme ti danno il piccolo vaso della Chiesa e del Presbiterio.

Non v’è alcun segno di sacrestia e di altri contigui fabbricati, e la mostra di

campanile che poco innalzasi sopra un muro di fianco si è lavoro di pochi

anni. La finestra tonda di forma aperta nella facciata sopra la porta, altre

due finestre ch’erano aperte in ciascuno dei due fianchi dall’alto al basso

del muro, non portavano che un di luce e il piccol fregio dentato a guisa di

merli che ancora in alcun luogo si scorge sotto le gronde ti fan distinguere

il più antico dal meno antico murato.

La parete interna del fianco destro entrando, l’incavo dell’abside e

l’interno dell’arco, onde si apre la nicchia del presbiterio sono dipinti a

fresco, e tre figure isolate, due negli angoli dei piloni de l’arco, e una

nell’angolo della parete di fondo danno sicuro indizio che tutto il vaso

fossa similmente dipinto.

Le pitture sembran fatte in due tempi e da due pennelli diversi, e lo stile

addimostra la loro antichità. Nella parete di fianco sono rappresentati

siccome in altrettanti quadri distinti in alto e in basso senz’ordine di ornato

e di prospettiva gli atti principali della Passione e della morte di Nostro

Signore, e giudicandone dal colorito codeste paiono essere più antiche delle

altre. Nella fascia dell’arco sono dipinti i busti di parecchi profeti ciascun

segnato dal proprio nome, ed una schiera di Santi dipinti in piedi nel

concavo dell’abside, tra i quali S. Giov. Battista, l’arcangelo S. Michele e il

Principe degli Apostoli fan coro dietro l’altare. Nel cielo poi della nicchia

fra gli emblemi dei quattro evangelisti e dentro una larga medaglia ovale

una gran figura si affaccia come in trono seduta, colla mano sinistra

tenendo un libro aperto, e facendo colla destra elevata un segno al tutto

grave e misterioso ti rappresenta l’Altissimo e sotto il simbolo dell’antico

dei giorni, o del sedente maestoso dei secoli.

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È poi cosa curiosa veder dipinta nella banda di una piccola finestra

presso l’altare al corno dell’epistola una piccola immagine di Maria col

Bambino in collo e in capo un cappellino da pastorella; e veder quivi sotto

fuori dell’ordine delle altre pitture una figurina genuflessa in atto di

orazione, effige quale si dice della pia donna che ammanniva ed apprestava

al pittore il quotidiano alimento nel tempo del suo lavoro.

Quelle pitture son certo meno antiche dell’epoca del fabbricato,

perciocché il muro del fianco internamente tutto pitturato mostra ancora

chiuse al di fuori le due archiere delle vecchie e lunghe finestre.

Una figura colossale di S. Cristoforo che sta dipinta sulla facciata della

chiesa presso la porta a mano destra entrando poco alto dal suolo e vi si

riconosce allo stile l’autore stesso delle figure del coro, presenta

(minutissimamente incise sull’intonaco fresco e colorite di rosso) sopra un

ginocchio le cifre 1412; dal che ci viene dato a comprendere sicuramente

l’epoca almeno delle pitture dell’abside.

Dalla seguente iscrizione, la quale con bei caratteri romani, ma con

cattivo latino, si ritrova scolpita sopra una pietra nostrale e porta in fregio

lo stemma di Casa Spinola, si scorge come la Chiesa fu restaurata, e

perirono le altre pitture ond’era adorna. Questa è murata nella cantonata di

facciata, precisamente nell’angolo che volge verso Lerma, e tutto il fianco

ben si ravvisa ben si ravvisa da cima a fondo essere stato rifabbricato.

Hoc opus fieri fecerunt

Antonius Paganus Q

Lafrachi. Odicelus Odoin

Q. Rainati. Et Franciscus

Caldironus Q. Antonii

Massari electi ad

Id opus perficiendum

Anno Domini

1501

Die XX Agosti

Dell’antico Cimitero abbiamo una memoria in una lapide di marmo, che

forse fu trasferita dal primo posto, e vedesi collocata nel presbiterio di

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questa Chiesa al lato dell’evangelio. L’epigrafe ne fu incisa in lettere

semigotiche ed il suo tenore ci esprime quello che segue:

MCCCCLVIII die V Iunii

Egregius Dnus Guillermi

Us Burletus De Clavaro P.

Testas Lerme fecit hunc

Totum Cemiterium Murar

E ad honorem Dei ac Beati

SSimi Sancti Johannis Bap

Tiste.

Buono che gli stolidi persecutori dell’antichità non abbiano avvertito

esistere in questa Chiesa si fatti monumenti nell’epoca malaugurata

predetta del 1799.

Capitolo XI

Delle Chiese tradizionali dell’Albarola e di San Siro.

Dalle più aperte colline di Lerma, di Tagliolo, di Casaleggio, di

Mornese, di Silvano, di Castelletto e di Montaldeo è veduto sull’eminente

dosso di una costiera il tronco di una torre quadrata spiccarsi netto di

mezzo agli altri comignoli dei tufi che lo circondano ai confini dei due

suddetti ultimi luoghi, ma nel distretto del territorio di Lerma.

Codesto tronco non presenta oggi mai più di un terzo della totale altezza

di quella torre, e si sarebbe a quest’ora interamente caduto ad onta della

robustezza del fabbricato, se la cura dei coloni di quelle terre non lo

sostenesse per interesse particolare. Un siffatto rottame comunemente

chiamato il Campanile dell’Albarola, fu sempre creduto l’avanzo del

campanile di una Chiesa che si pretende fosse intitolata S. Maria

dell’Aurora. Vi si riscontra con la maggiore semplicità del lavoro tutta la

solidità e la maestria di un’opera di riguardo. La costruzione è fatta di

pietre indigene bene affacciate e ben connesse; si sa come la torre aveva

nell’alto in ciascuno dei quattro venti una larga finestra sorretta da piccola

colonnetta della medesima pietra in mezzo alla corda dell’arco; perciocché

le finestre furono in parte demolite a memoria d’uomo ed esiste tuttora

alcuna delle dette colonne in una casa rustica di quei dintorni.