Catalogo Museo Pellegrino 2012

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Museo Giuseppe Pellegrino Opere dalla Règia Scuola Artistica Industriale all’Istituto Statale d’Arte - Lecce (1916 - 2010) Catalogo a cura di Salvatore Luperto Edizioni Grifo

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Catalogo Museo Pellegrino 2012

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Museo Giuseppe PellegrinoOpere

dalla Règia Scuola Artistica Industriale all’Istituto Statale d’Arte - Lecce

(1916 - 2010)

Catalogo a cura diSalvatore Luperto

Edizioni Grifo

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Museo Giuseppe PellegrinoOpere dalla Règia Scuola Artistica Industrialeall’Istituto Statale d’Arte - Lecce(1916-2010)

Liceo Artistico “G. Pellegrino”, Viale De Pietro, 12 - LecceTel. 0832/303833 (Dirigente Scolastico), 0832/305913 (Segreteria)[email protected] www.liceoartisticopellegrino.it

Progetto SALVATORE LUPERTOANNA PANAREOPINA TALESCO

Iniziativa promossa ed organizzata daLICEO ARTISTICO “G. PELLEGRINO” - LECCE

Catalogo a cura di SALVATORE LUPERTO

Testi DARIA DE DONNOSALVATORE LUPERTOANNA PANAREOPAOLO AGOSTINO VETRUGNO

Progetto graficoANNA PANAREOSALVATORE LUPERTO

© Edizioni Grifo 2011Via Sant’Ignazio di Loyola, 37 - 73100 LecceE-mail: [email protected] 9788896801888

Con il contributo

Testi critici sulle opereMICHELE AFFERRICARMELO CIPRIANI MARINILDE GIANNANDREASALVATORE LUPERTOLORENZO MADAROANNA PANAREOMARINA PIZZARELLI

Interviste a cura di PINA TALESCO

In copertinaEugenio Maccagnani, Monumento equestre a Garibaldi, 1888 ca.

Si ringrazianoper le donazioni: Fernando De Filippi, Salvatore Esposito, Antonio Gigante, Ugo Ma-lecore, Antonio Massari, Veniero Mazzotta, Giovanni Valentini;per le testimonianze: Marcello Gennari, Auro Salvaneschi;per la consulenza tecnica: Rosanna Lerede;per la gentile disponibilità: Dora Bandello, Franca Dolce, Maria Renata Dolce, Marcello Epifani, Clara Pagliara Gennari e tutto il personale del Liceo Artistico “G. Pellegrino”.

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Indice

5 Prefazione Cristina Longo

7 Presentazione Salvatore Luperto

9 Valore e potenzialità del museo locale Paolo Agostino Vetrugno

15 I Maestri dell’Istituto Statale d’Arte “G. Pellegrino” Salvatore Luperto

25 Arte e formazione per “avvicinare la scuola alla vita”. Il ruolo di Giuseppe Pellegrino Daria De Donno

29 Intervista a Auro Salvaneschi a cura di Pina Talesco

33 Opere Testi critici di M. Afferri C. Cipriani M. Giannandrea S. Luperto L. Madaro A. Panareo M. Pizzarelli

97 Intervista a Marcello Gennari a cura di Pina Talesco

101 L’archivio fotografico dell’Istituto d’Arte di Lecce Anna Panareo

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Atrio dell’Istituto Statale d’Arte di Lecce, anni Cinquanta.Sullo sfondo la ringhiera di Alceo Pantaleoni, il Garibaldi di Eugenio Maccagnani; in primo piano il Fanfulla da Lodi e il Busto di Giuseppe Pellegrino di Antonio Bortone.Archivio fotografico ISA Lecce.

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L’artista deve amare la vita e mostrarci che è bella. Senza di lui non ne saremmo tanto sicuri.

(Anatole France)

Il Liceo Artistico Statale (già Istituto d’Arte) “Giuseppe Pellegrino” di Lecce, che mi onoro di dirigere, pubblica questo Catalogo per presentare gli artisti e le opere che arricchiranno il costituendo Museo “G. Pellegrino”.Rappresentando un’attività del Progetto Unico di Istituto “‘Pellegrini’ nel Sa-lento, il Salento al ‘Pellegrino’: la scuola al servizio del territorio locale, il territorio locale al servizio della scuola” essa è parte integrante del Piano dell’Offerta For-mativa della Scuola.Lo sforzo continuo di rendere più attraente la didattica e l’impegno perma-nente degli educatori di incuriosire i discenti sulle straordinarie bellezze che l’uomo-artista ha realizzato in passato spingono spesso gli Istituti scolastici ad inserire nelle programmazioni annuali esperienze “fuori” dalle mura della Scuo-la, visite guidate alla scoperta di tesori nascosti, spesso sconosciuti. E allora, che cosa c’è di meglio di un Museo a Scuola? Quale arricchimento formativo può essere più appropriato di un Museo “dentro” una Scuola d’Arte? In quale altro modo l’Arte può essere indagata sul campo se non in un Museo che vive nella Scuola e con la Scuola?È possibile realizzare tutto ciò perché l’ex Istituto d’Arte “G. Pellegrino” con-serva nei suoi Laboratori, “chiusi” sottochiave, tanti capolavori che per ragioni di tutela del patrimonio artistico rischiano di rimanere poco noti e destinati all’oblio. Invece, il Museo “aperto” permette al tempo stesso di custodirli ga-rantendone la protezione e la conservazione in condizioni climatiche adeguate e di regalarne la fruizione al pubblico della scuola, del territorio e, perché no, anche dei notevoli flussi turistici che scelgono Lecce come destinazione di una vacanza o di un viaggio culturale.Ma lo spazio museale in via di realizzazione raccoglierà, conserverà ed esporrà lavori che gli studenti potranno osservare attentamente, scrutando ogni parti-colare, sostando insieme ai propri insegnanti per tutto il tempo e tutte le volte che lo desidereranno, senza spostarsi dalla Scuola.È frequente l’espressione dei ragazzi Roba da museo per indicare quanto, appar-tenendo al passato, non avrebbe più nulla da dire alla loro giovinezza. L’espe-rienza museale a Scuola insegna che alle opere ritenute morte è possibile dare vita, scoprendovi la vita che è racchiusa dentro: la vita dell’artista, la vita del

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contesto storico-culturale in cui è nata, la vita dei presenti cui quell’oggetto parla, rendendo – come dice Paul Klèe – «visibile ciò che non sempre lo è». Poiché secondo un detto orientale «chi ascolta dimentica, chi vede ricorda, chi fa impara», nel Museo della Scuola l’apprendimento potrà avvenire attraverso la mente, attraverso i sensi e attraverso il cuore.Il Museo diverrà non solo il luogo dell’ascoltare. Ma la “casa” delle conoscenze da acquisire attraverso il gusto della scoperta, la provocazione della curiosità, lo stimolo dell’interesse, le sfide dell’entusiasmo e della meraviglia. È il sogno non di «una testa ben piena» nella quale il sapere è ammucchiato, confuso, disordi-nato bensì la certezza della formazione integrale di una «persona ben fatta» in cui il sapere non è accumulato ma – grazie a un’attitudine naturale a trattare i problemi formulando domande, elaborando e discutendo ipotesi, esponendo e documentando il processo e i risultati – le informazioni sono selezionate ed organizzate in modo che abbiano un senso (Edgar Morin). In altre parole, i giovani, costruendo il proprio sapere in questo modo, sviluppano la capacità di progettazione e, lavorando anche in gruppo, maturano il personale senso di responsabilità ed accrescono l’autostima.Il Museo diverrà non solo il luogo del vedere. Gustando, attraverso gli stimoli sensoriali, l’ambiente ricco e accogliente si potrà guardare la bellezza, sentire le voci, toccare le forme, riscoprire i profumi della storia.Il Museo diverrà non solo il luogo del fare. Socializzando, rispondendo alle spinte del comunicare, dialogando si rivelerà un’occasione accattivante. Offren-do un prezioso antidoto alla violenza, alla sciatteria, alla volgarità che nella società odierna deturpano ambienti e rapporti umani emozionerà aprendo il cuore a valori umani come l’amore, la pace, la libertà.Con gioia ringrazio tutti coloro che hanno consentito la realizzazione di questo evento: alunni, docenti, personale ATA, Organi Collegiali che hanno deliberato in favore di tale iniziativa che dischiude nuove prospettive di conoscenze, di studio, di vita.E se la nostra Scuola, come la vita, è un’opportunità che va colta (Madre Teresa di Calcutta), il Museo del “Pellegrino” è bellezza da ammirare, beatitudine da assaporare, un bene prezioso di cui avere cura. Ma è soprattutto un mistero: (anche attraverso la consultazione del catalogo) scopriamolo!

Cristina LongoDirigente ScolasticoLiceo Artistico “G. Pellegrino” - Lecce

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PresentazioneSalvatore Luperto

Le opere custodite nel Museo Pellegrino risalgono ad un arco di tempo che va dalla fine del 1800 ad oggi e provengono, per la maggior parte, dall’Istituto d’Arte, da donazioni di artisti e da lasciti che nel tempo si sono raccolti e con-servati. Le sculture di Eugenio Maccagnani e di Antonio Bortone risalgono al periodo immediatamente precedente e seguente la fondazione della Regia Scuola Arti-stica Industriale di Lecce, avvenuta nel 1916. Del primo scultore è il monumento equestre in gesso, dedicato a Giuseppe Ga-ribaldi, il quale, ancora oggi, simbolo della scuola, è impresso nella memoria di tanti allievi che a partire dagli anni Quaranta hanno frequentato il “Pellegrino”. Del secondo scultore sono i bassorilievi in gesso del monumento ai Martiri ad Otranto, (ritrovati negli archivi), il bozzetto in gesso di Vittorio Emanuele II (ritrovato nel laboratorio di scultura) e il busto in bronzo di Giuseppe Pellegrino (collocato nell’ex aula dei docenti). Queste opere sono le più antiche della rac-colta assieme ad un olio (collocato nell’ufficio del dirigente), raffigurante una scena allegorica, di scuola napoletana databile al secolo XVII.Le opere selezionate e pubblicate nel catalogo costituiscono il corpus della col-lezione del museo. Esse sono state realizzate quasi tutte dai docenti e dai di-scenti alternatisi nel tempo nelle sezioni di: Ferro battuto, Ceramica, Pittura, Scultura, Legno. Conservare la memoria dell’Istituto d’Arte di Lecce, una delle istituzioni scola-stiche tra le più importanti della Città di Lecce, che ha influito notevolmente sulla cultura e sull’arte del territorio, è lo scopo del Museo Pellegrino. Nei due volumi sui Maestri dell’Istituto d’Arte, pubblicati rispettivamente nel 2005 e nel 2007, è stata ampiamente dimostrata la centralità di questa istituzione e la sua funzione nel territorio salentino per tutto il Novecento, dal 1916 ad oggi. In questo lungo periodo di quasi cent’anni si possono individuare tre importanti momenti caratterizzanti la storia della scuola, rappresentativi della cultura e del pensiero dominante del tempo: il periodo dell’“artigiano colto” (anni Venti e Trenta), il periodo della scuola-laboratorio (anni Quaranta e Cinquanta), il periodo delle sperimentazioni artistiche (anni Sessanta e Settanta). In questi

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periodi l’Istituto, con i suoi maestri d’arte, è stato tra i protagonisti nei dibat-titi che si tenevano nelle riviste culturali, nella stessa scuola e non di meno nei laboratori degli artisti, dove s’incontravano personalità dell’arte e della cultura. Questi luoghi erano dei veri e propri cenacoli in cui il confronto e lo scambio d’idee era sempre vivace e produttivo.Un museo nella scuola ha una duplice funzionalità: conserva la memoria del-l’Istituzione e nel contempo sollecita la coscienza storica degli operatori e degli studenti che la frequentano. Attraverso lo studio delle opere dei maestri del passato l’allievo può conoscere la sua identità e rafforzare la sua personalità. La didattica museale insieme con la didattica dei docenti deve favorire la cultura del documento, entrambe le attività devono fondamentalmente contribuire a stimolare, nella comunità scolastica, tutto ciò che è utile per la valutazione sto-rica del passato e ciò che ha valore documentario di un evento o semplicemente di un’azione significativa del presente. Ogni oggetto d’arte, oltre a comunicare un concetto e un significato artistico, secondo il positivista francese Hippolyte Taine, è l’evidente testimonianza di un momento storico e della cultura di un ambiente. L’opera d’arte quindi documenta il contesto dal quale l’artista riceve sollecitazioni, in relazione ai fenomeni culturali e storici di cui è testimone diretto o indiretto. E un museo, in quanto custode di contenuti culturali e di testimonianze storico-artistiche, ha dunque una chiara valenza etica ed estetica che non può essere trascurata ma deve essere evidenziata e sottolineata soprat-tutto quando il museo è parte di un’istituzione che presiede alla formazione dei cittadini del domani.

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Salvatore Luperto

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Valore e potenzialità del museo localePaolo Agostino Vetrugno

Nell’aprile del 1927 David Herbert Lawrence (1885-1930) visitava il Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia e annotava nei suoi appunti (Etruscan Pla-ces, 1932): «Il museo è eccezionalmente bello e interessante per chiunque co-nosca appena un po’ gli Etruschi. Contiene un gran numero di oggetti trovati a Tarquinia, reperti importanti. Se solo ci convincessimo e non strappassimo più gli oggetti dal loro contesto d’origine! I musei sono sempre un errore. Ma se è proprio necessario che ci siano, allora che siano piccoli e soprattutto a carattere locale. Per quanto sia splendido il museo etrusco di Firenze, come si sta meglio al museo di Tarquinia! Qui gli oggetti esposti sono tutti tarquiniesi e hanno un nesso gli uni con gli altri, formando una specie di tutto organico»1. Quasi mezzo secolo prima della visita di Lawrence, il salentino Cosimo De Giorgi (1842-1922) nelle sue peregrinazioni per la Terra d’Otranto, descriven-do la biblioteca di Oria, aperta al pubblico il 24 marzo 1864, esprimeva il suo compiacimento nel rilevare che la sala principale era stata destinata a ospitare «l’embrione d’un nascente museo»2. Lo studioso salentino poneva l’accento sul grande valore che aveva l’istituzione di un museo locale, perché era un inso-stituibile strumento di garanzia di una conservazione delle testimonianze non decontestualizzate dal territorio di appartenenza: «Io sono stato sempre contra-rio ai concentramenti nei grandi musei degli oggetti di arte e di antichità che formano le collezioni municipali. Dove c’è pericolo di dispersione, dove queste anticaglie son tenute in modo da sciuparsi, e dove manchi chi ne sappia ap-prezzare il valore e le custodisca gelosamente, il principio dell’assorbimento dei grandi musei lo ammetto anch’io. Ma se invece questi oggetti antichi possono essere ben custoditi, allora io penso tornare più utile agli studiosi il vederli nel luogo stesso dove furono rinvenuti. E questo appunto si verifica pel museo di Oria»3.

1 Tarquinia. Museo Archeologico Nazionale. Guida breve, a cura di Maria Cataldi, Roma, «L’Erma» di Bretschneider, 2001, pp. 5-6.2 C. DE GIORGI, La provincia di Lecce. Bozzetti di viaggio, vol. I, Lecce, Tip. Spacciante, 1882-1888, p. 287.3 Ibidem.

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Il valore del museo locale4 era stato in verità ampiamente compreso in Ter-ra d’Otranto dallo stesso De Giorgi alla fine dell’Ottocento e messo in atto con una sorprendente intuizione didattica, realizzando il Museo Gabinetto di Scienze Naturali presso l’Istituto Tecnico Commerciale “O. G. Costa”5.Negli anni Settanta del secolo scorso, in ambito nazionale, al centro del di-battito culturale il museo è stato considerato, a diversi livelli, come «luogo di apprendimento»6; ma il museo non può essere una scuola. Traudel Weber7, qualche decennio dopo, precisando il rapporto tra museo e scuola, definiva la relazione tra le due istituzioni, chiarendo come le scuole utilizzano il museo. Nell’ambito del dibattito nazionale sulla didattica museale, Pina Belli D’Elia aveva già precisato con lungimiranza che di solito «al temine “didattica” si associa inevitabilmente l’immagine di una sorta di scolarizzazione forzata del pubblico»; anzi, nel caso in cui il pubblico è costituito da studenti, il museo rappresenta «il perpetuarsi, anche fuori delle mura dell’aula, di un rapporto educativo più o meno coatto»8. Il museo, infatti, spesso è stato aperto (ma, ciò che rattrista, lo è ancora) a «torme scatenate di alunni delle scuole di ogni ordine e grado»9.Eppure la collaudata letteratura sulla didattica museale, in particolare dopo il rico-noscimento istituzionale del ruolo educativo dei musei10, sembrerebbe aver chiarito che, accanto alla didattica che può essere promossa nel museo, c’è anche una didat-tica del museo, nel senso che l’istituzione si fa promotrice di tutta una serie di ini-ziative di promozione culturale, diversificate, a seconda delle fasce d’età cui intende indirizzarsi, e connesse alla funzione di agenzia informativa e formativa.

4 P. BELLI D’ELIA, La funzione dei musei locali, in «Musei e Gallerie d’Italia», XVI, 45, 1971, pp. 21-26; EADEM, I problemi dei musei locali, in Il museo come esperienza sociale, Atti del convegno di studi, sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica, Roma, 4-6 dicembre 1971, Roma, De Luca, 1972, pp. 221-224.5 Cfr. Il Gabinetto di Fisica dell’Istituto Tecnico “O. G. Costa” a Lecce. Immagini del patrimonio scienti-fico salentino, a cura di Arcangelo Rossi e Livio Ruggiero, Congedo Editore, Galatina, 2000.6 Il museo, luogo dell’apprendimento o tempio delle Muse?, eds. E. SPICKERNAGEL and B. WALBE, 1976. 7 W. TRAUDEL, Musei e scuole: un esame del rapporto tra le due istituzioni, in Un luogo per scoprire: insegnare scienza e tecnologia con i musei, a cura di Maria Xanthoudaki, Milano, SMEC, 2003, pp. 33-44.8 P. BELLI D’ELIA, Introduzione, in C. GELAO, Didattica dei musei in Italia 1960-1981, Molfetta, Mezzina, 1983, p. VII9 Ibidem.10 Circ. n. 128, 7 marzo 1970, Ministero Pubblica Istruzione, Ministro Ferrari Aggradi.

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A ben riflettere nel rapporto museo-pubblico un ruolo privilegiato è stato, da sempre, assegnato alla scuola, partendo dalle prime sperimentazioni attuate all’in-domani della seconda guerra mondiale, sino alle «esperienze pilota» degli alunni milanesi nel 1958, proseguendo con le riflessioni sul ruolo del museo nella società contemporanea, maturate nei cosiddetti anni dei convegni, dal 1967 in poi. Negli anni Settanta il museo è stato oggetto di studio anche «fuori dal museo» e, in par-ticolare negli anni 1973-1980, sono state realizzate pubblicazioni destinate agli studenti e ai docenti, mentre tra il 1976 e il 1978 sono state tenute lezioni nelle sezioni didattiche dei musei. La scuola ed il museo, inoltre, spesso sono stati considerati per una nuova di-dattica della storia dell’arte. Un museo, tuttavia, non è soltanto di storia dell’ar-te né le esperienze terminano nel museo. Partendo dalla riflessione che un museo è uno strumento di educazione e di for-mazione, è evidente che il museo non può essere separato dalle altre istituzioni formative, in primo luogo dalla scuola. Perché allora non portare il museo in una scuola? Soprattutto in un contesto come il nostro, in cui si tende a musea-lizzare tutto, utilizzando in maniera distorta l’istituzione culturale per conferire la patente di autenticità e di valore a qualsiasi oggetto. Il museo a scuola può diventare un laboratorio, dove «il discente è attivamente coinvolto nei processi di ricerca finalizzati allo sviluppo delle proprie capacità e facoltà mentali»11. E il laboratorio può divenire «l’ambiente più adatto alla comprensione (…) in cui i ragazzi sono stimolati a pensare, trarre deduzioni, ipotizzare, esplorare, valutare, immaginare e creare»12, dove è possibile agli in-segnanti adottare la strategia più appropriata per «coinvolgere i ragazzi in vari tipi di ricerche che ne stimolano le capacità d’indagine»13, permettendo di agire con il corpo e con la mente.Non è raro attualmente trovare nelle scuole un laboratorio di Fisica, che permet-te di fare esperienze dirette; un laboratorio di botanica, utilizzato come centro didattico per un completo percorso che riguarda tutti gli aspetti della fisiologia vegetale; talvolta, c’è anche il laboratorio comunemente denominato scientifico,

11 G. KIRK, Changing Needs in Schools, in Education in Museums, Museums in Education, a cura di Tim Ambrose, Edinburgh, HMSO, 1987, p. 19.12 Ibidem.13 Ibidem.

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Valore e potenzialità del museo locale

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inteso come strumento per facilitare i processi di apprendimento; ci può essere anche il laboratorio linguistico, multimediale, finalizzato all’apprendimento del-le lingue straniere e ad esercitare le competenze di ascolto, lettura e produzione scritta ed orale di testi.È, tuttavia, difficile trovare un laboratorio di Scienze dell’Antichità, soprattutto all’interno dei licei Classici, con un consapevole e appropriato utilizzo degli stru-menti e delle attrezzature che caratterizzano un laboratorio archeologico, per in-tenderci quelli presenti all’interno dei dipartimenti di Scienze dell’Antichità.Oltre l’elaborazione dell’immagine dell’oggetto si avrebbe il contatto diret-to con l’oggetto antico: quanti reperti giacciono nei depositi dei musei per mancanza di spazio espositivo che potrebbero essere utilizzati e custoditi nelle scuole, come accade, ad esempio, per gli originali dei minerali. Sarebbe tanto utile rileggere la nota favola di Esopo sull’avaro, il quale, per paura di perdere tutte le sue ricchezze, le aveva sotterrate dopo averle convertite in un lingotto d’oro. L’esito non è dei migliori, perché un ladro se ne accorse e nottetempo le rubò. La morale è più che evidente: non vale la pena possedere una cosa senza goderla. L’oggetto, anche prestato da altri musei, non sarebbe semplicemente conservato ed esposto, ma entrerebbe direttamente in «contattato» con l’utente, sulla scia della pedagogia di Pestalozzi e Froebel fondata sui concetti educativi di sponta-neità e di intuizione.L’oggetto non sarebbe, poi, defunzionalizzato; anzi, non perderebbe la propria forza, poiché il luogo dell’incontro non è per la contemplazione, né è un luogo di ricerca destinato solamente a un pubblico selezionato. L’oggetto sarebbe in un luogo di tutti, in una scuola di un libero stato democratico che è, in primo luogo, libera scuola di democrazia. Basterebbe ricordare che il concetto di ap-partenenza a uno stato democratico parallelamente deve coincidere con i valori su cui si fonda lo stato democratico, primo fra tutti il concetto di pubblica utilità, attraverso cui si rafforza il concetto di cittadinanza. Le nuove condizioni per la conservazione, la produzione e la trasmissione del sapere non possono, inoltre, rinunciare alla biblioteca che è una istituzione inscindibile dal museo.Raccogliere i prodotti della storia è finalizzato alla loro custodia, perciò significa anche salvarli per sempre, seguendo i due fondamentali percorsi, noti in lette-ratura: l’esposizione circolare e l’esposizione lineare. Ma a scuola la musealizza-zione sarebbe superata ed il problema del rapporto tra oggetti e contenitore, da

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un lato, e tra oggetti e testi, dall’altro, sarebbe risolto dal contatto diretto del pubblico con l’oggetto, attivatore della memoria e delle emozioni.La visita, inoltre, sarebbe sostituita dalla frequentazione del laboratorio, dove tutto è incentrato sulla conversazione, terreno della cultura dell’apprendimento cognitivo ed emotivo. Fuori dal circuito del museo «luogo della separatezza contemplativa», le opere conservate nelle scuole rimarrebbero nel territorio di appartenenza, con un signi-ficato non solo artistico, ma anche civile, utile a ricostruire un’identità di appar-tenenza, come il recente museo geografico allestito, in Grecia, a Katakolon. Del resto è largamente evidente e ampiamente condiviso dagli studiosi più attenti che i musei locali contribuiscono all’unione delle realtà territoriali, in cui sono ubicati i cosiddetti musei minori, primi fra tutti quelli diocesani. I musei locali, infatti, sono tanti tasselli di un articolato itinerario conoscitivo, spazi della comprensio-ne, luoghi per pensare, conoscere e valorizzare il territorio. Da una, sia pure non recente, indagine condotta dalla Corte dei Conti, emerge che i musei si estendono in modo capillare su tutto il territorio nazionale e quelli di proprietà degli enti locali costituiscono la percentuale più elevata dei musei italiani ancora in costante espansione14.Le esperienze didattiche, realizzate in Olanda negli anni Settanta del secolo scorso e rese pubbliche da Maria Teresa Balboni15, testimoniano ampiamente come il problema del rapporto pubblico-museo sia notevolmente risolto ed egregiamente superato nei piccoli musei locali, più che nei grandi musei; per intenderci in quelli «lontani dalle grandi vie di comunicazione, che hanno cercato di darsi una specifica identità territoriale, e di collegarsi a un pubblico che, meno numeroso, può però intrattenere col museo un rapporto più continuativo»16.All’idea di un museo locale, direttamente collegato con il territorio di apparte-nenza, sembrerebbero essere legati i musei di archeologia subacquea17, sempre più numerosi, i quali offrono una visita museale virtuale consentendo di con-

14 Corte dei Conti, Deliberazione n. 8/AUT/2005, Sezione Autonomie Locali, adunanza del 16 novembre 2005.15 M.T. BALBONI, Esperienze didattiche presso alcuni musei olandesi, in Indagine sulla didattica dei beni culturali in Lombardia e su alcune esperienze in Italia e all’estero, Milano, Unicopli, 1977, pp. 367-383.16 C. GELAO, Didattica dei musei in Italia 1960-1981, Molfetta, Mezzina, 1983, p. 19.17 Cfr. il SIMAR (Sistema Integrato Marino per l’Archeologia).

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Valore e potenzialità del museo locale

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servare il ritrovamento nell’ambiente originario, rispettandone il contesto. La reperibilità del materiale per «i musei nelle scuole» potrebbe essere, in primo luogo, soddisfatta dai depositi in magazzino dei grandi musei, dove è spesso dimenticato e tenuto sotto chiave, «coperto dai cellophane, disposto su scaffali d’alluminio lasciati in magazzino. I cittadini, veri proprietari, non contano più nulla». Si tratta di «un enorme museo sepolto». Si tratta di utilizzare quei «de-positi delle civiche Collezioni archeologiche (che) sono nati insieme col museo, nell’Ottocento, e vengono periodicamente arricchiti da ritrovamenti, lasciti e donazioni»18.Ma la reperibilità potrebbe essere affidata, ad esempio, agli stessi studenti lad-dove il museo è direttamente collegato con l’attività creativa come può essere in un Istituto d’Arte, garantendo parallelamente il rispetto del primo ed ineludibi-le problema dell’apprendimento connesso all’istituzione museale19 Questo è auspicabile, soprattutto nella società attuale, perché «l’opera d’arte non è più soltanto un modello dei rapporti fra l’uomo di una certa epoca e il mondo nel quale vive, ma è anche un progetto, o una proiezione prospettica, di un mon-do che non esiste ancora, di un mondo che sta per nascere. L’artista vero ha una funzione ”profetica”; egli è per eccellenza colui che aiuta i suoi contemporanei a inventare il futuro»20. Ed i giovani, mai come in questo momento, hanno bisogno di inventare il futuro non abbandonando i loro sogni. Nel ripensare il rapporto tra l’uomo e il mondo, perciò, anche un’opera d’arte musealizzata dovrà ricoprire il ruolo di modello, «nel senso dato dai cibernetici a questa parola», che non rinvia soltanto al mondo contemporaneo, ma anche e soprattutto ad un mondo possi-bile e sostenibile.

18 A. STELLA, Anfore e statue, il tesoro nascosto nei depositi, in «Corriere della Sera», 21 agosto 2011, p. 3.19 P. DESANTIS, Il museo comunica al pubblico: dall’allestimento alle attività educative, in La qualità nella pratica educativa al museo, a cura di Margherita Sani e Alba Trombini, Editrice Compositori, Bologna, 2003, p. 46.20 R. GARAUDY, Per un dialogo delle civiltà. L’Occidente è un accidente, Cittadella editrice, Assisi, 1977, p. 102.

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I Maestri dell’Istituto Statale d’Arte “G. Pellegrino” Salvatore Luperto

L’Istituto Statale d’Arte di Lecce fu fondato nel 1916 per espressa volontà del Sindaco di allora, on. Giuseppe Pellegrino e dei “numi tutelari” Eugenio Mac-cagnani, Antonio Bortone (insigni scultori), Agesilao Flora (noto pittore-deco-ratore), Luigi Guacci (rinomato scultore), Giuseppe Peluso (noto decoratore musivo) per l’inserimento nel mondo del lavoro di artigiani “colti” capaci di soddisfare le richieste della raffinata committenza leccese, negli anni in cui l’ele-ganza del liberty era in gran voga. Un intento meritorio che permise ai giovani studenti salentini non solo di acquisire una prima formazione culturale, ma an-che di specializzarsi nei mestieri e nelle arti della tradizione artigianale leccese. In quel tempo occorrevano maestranze specializzate nell’arte muraria, nell’in-taglio della pietra, nella decorazione musiva e soprattutto abili artigiani che fossero maestri nella decorazione parietale, nell’arte della ceramica e nell’arte fabbrile. Occorrevano quindi artigiani consapevoli degli eventi culturali di cui erano testimoni, capaci e pronti a recepire le richieste della colta ed esigente committenza. Necessitavano intelligenti giovani che fossero in grado di espri-mere la coniugazione artistica tra arti maggiori ed arti minori.Gli artisti Maccagnani, Bortone, Flora, Guacci, Peluso, sostenitori dell’on. Pel-legrino e delle sue idee progressiste sulla funzione della cultura nel meridione, con i loro imponenti e creativi lavori, dimostravano idealmente che lo spirito della cultura dell’arte convive con lo spirito della cultura artigianale senza alcu-na delimitazione reciproca, ma in simbiosi l’uno con l’altro. Gli scultori Borto-ne e Guacci insieme con gli ingegnosi decoratori Flora e Peluso furono i fautori di una scuola d’arte idonea alla formazione di un alunno che fosse in grado non solo di realizzare un manufatto secondo la raffinata tecnica appresa dal maestro, ma soprattutto che fosse capace di interagire con il proprio “sapere” confron-tandosi autonomamente con “il sapere” di altre realtà culturali. Cultura è la parola-chiave nelle disposizioni ministeriali di quegli anni relative alla formazione dei giovani artigiani. La normativa didattica puntava a valoriz-zare l’artigianato artistico e a diffonderlo nella sua valenza culturale promuo-vendo il valore della trasmissione del sapere dai maestri ai giovani apprendisti artigiani. Ancora una volta l’erudizione si rivelava il fondamento, l’unica forza atta ad operare stimoli nella vita meridionale.

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G. Pellegrino nel discorso di inaugurazione della Regia Scuola Artistica In-dustriale di Lecce, evidenziando l’importanza della formazione professionale attraverso una «severa coltura artistica e tecnica», dichiarava: «Un operaio intel-lettualmente istruito, rappresenterà certamente una forza produttiva maggiore, di colui che non abbia altro patrimonio che la tradizione e la sola pratica del mestiere»1. Nella stessa occasione la Società Operaia di Mutuo Soccorso, antica scuola ottocentesca di preparazione soprattutto pratica, basata sull’apprendi-mento della tecnica nella logica del “maestro di bottega”, accogliendo con en-tusiasmo l’istituzione della Regia Scuola Artistica, esprimeva il suo consenso: «anche noi operai avevamo diritto ad una scuola professionale che fosse mezzo di progresso nella nostra classe»2, un progresso che solo con l’istruzione teorica dei saperi poteva essere conseguito.La Regia Scuola Artistica Industriale nel 1916 aprì le iscrizioni ai giovani sa-lentini che sempre più numerosi frequentarono i cinque laboratori delle sezioni attivate sotto la guida di valenti artisti giunti da vari luoghi d’Italia. Attilio De Luigi (primo Direttore dopo una brevissima parentesi del noto artista Ferruc-cio Scandellari) da Gemona, nel 1917; Almo Mercanti da Carrara, nel 1919, Nino Lodi e Alceo Pantaleoni da Udine (provenienti dalle “mitiche” Officine Calligaris), rispettivamente nel 1923 e nel 1926; Guido Gremigni da Volterra, nel 1937; Ottorino Fantozzi eccellente ebanista, Virgilio Carotti da Osimo, nel 1941 e tanti altri.I Direttori e i docenti della neonata Scuola d’Arte provenienti da realtà cultu-rali storicamente diverse da quella meridionale, ricchi di esperienze e di valori radicati nella cultura del Novecento del centro e del nord Italia, introdussero a Lecce, con il loro insegnamento, nel periodo successivo alla prima guerra mondiale, nuovi principi e nuove tecniche artistiche con le quali contribuirono a creare nuove espressioni stilistiche nell’arte e nell’artigianato salentino. Un primo esempio sono Nino Lodi (autore della pensilina liberty dell’Hotel Ri-sorgimento) capofficina nella sezione ferro battuto dal 1923 al 1925 ed Alceo Pantaleoni dal 1926 al 1936. I due giovani maestri si erano formati a Udine, presso le officine di Alberto Calligaris, uno degli artisti più noti del settore

1 A. SEMERARO, L’educazione dei due popoli, in Storia di Lecce dall’Unità al secondo dopoguerra, a cura di Marcella Rizzo, Laterza, Bari 1992, p. 561.2 IVI, p. 562.

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insieme con Alessandro Mazzucotelli e Alberto Gerardi (maestro di Antonio D’Andrea) attivo a Roma.Pantaleoni, nei suoi dieci anni di insegnamento nella Regia Scuola Artistica, introdusse l’eleganza stilistica, ispirata all’Art Nouveau, delle officine udinesi così come lo dimostra lo stile della ringhiera in ferro battuto realizzata nella Regia Scuola per la scala interna dell’istituto: un raffinato lavoro modulare, tipi-camente liberty, con spirali intrecciate in elementi fogliati, secondo il consueto repertorio di quegli anni.Pantaleoni nella sezione metalli realizzò insieme con i suoi allievi diversi lavori per la committenza pubblica e privata. Ne sono testimonianza le lunette del palazzo delle poste e i lampioni per la Banca d’Italia che si distinguono per l’ele-ganza e la finezza esecutiva. Qualità che il maestro udinese ha costantemente trasmesso ai suoi alunni.Un secondo esempio è Guido Gremigni giunto da Volterra a Lecce nel 1937. Lo scultore toscano per scolpire la pietra leccese utilizzò gli strumenti che usava, nel suo luogo di provenienza, per lavorare l’alabastro, con il risultato di uno stile nuovo dagli effetti marmorei inediti per la pietra leccese. Nasceva in quel modo una tecnica particolare che sarebbe stata seguita dai suoi allievi che con le loro opere l’avrebbero diffusa nel territorio salentino. Marcello Gennari, acquisita la delicata tecnica del maestro Gremigni, la personalizzò con la linea sciolta e sinuosa, incisa nella pietra e con l’audace levigazione della stessa (ot-tenuta con speciali carte abrasive) la rese visibilmente morbida e leggera come un velo.Un terzo esempio è Antonio D’Andrea, anche lui nominato nel 1937 (in so-stituzione di Alceo Pantaleoni). D’Andrea, in linea con il gusto déco di quegli anni, partendo dall’insegnamento impartitogli a Roma dal suo maestro Alberto Gerardi, elabora uno stile che in breve tempo si diffonde nella città e tra gli allievi della scuola d’arte e della sua bottega di via Monte Pasubio. Il suo stile affascina i facoltosi cittadini di Lecce, i quali sempre più frequentemente com-missionavano al maestro oggetti ed elementi d’arredo interno ed esterno per le loro abitazioni. Per far fronte alle numerose richieste alcuni studenti della scuola d’arte, dopo l’orario scolastico, frequentavano la bottega del maestro per forgiare e battere i caratteristici ferri modellati a “coup de marteau”. Nella sua bottega e nella scuola si realizzavano oggetti molto raffinati, alcuni dei quali furono molto apprezzati nelle fiere e nelle mostre in cui furono esposti. Uno

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splendido toro3, in ferro cesellato fu ammirato nella Mostra dell’arte nella vita del Mezzogiorno d’Italia allestita nel 1953 a Roma e pubblicato nel catalogo curato da Emilio Lavagnino4. Dopo la prematura morte di D’Andrea, avvenuta nel 1955, lo stile dandreano è ormai diffuso nel territorio e viene continuato nella sua bottega, ma soprattutto dagli allievi della Scuola d’Arte che, divenuti in seguito docenti, continuarono l’insegnamento del loro maestro, in particola-re Luigi Lezzi e Carmelo Leo.Tutti i docenti giunti dai vari luoghi dell’Italia centro-settentrionale furono abi-li maestri che, insieme con quelli del luogo fra cui Pietro Baffa, Giovanni Stano, Geremia Re, Raffaele Giurgola, Giuseppe Ferraro formarono giovani talenti del calibro di Antonio Mazzotta, Francesco Buonapace, Mino Delle Site, Aldo Calò, Luigi Gabrieli, Nullo D’Amato, Nino Della Notte, Lino Suppressa. Al-cuni di questi alunni divennero maestri innovatori, aperti alle nuove tendenze dell’arte contemporanea dalle quali recepirono gli orientamenti e il gusto della sperimentazione e della ricerca. Importante fu il ruolo didattico di Luigi Ga-brieli5 nella formazione di alunni che divennero in seguito esponenti dell’arte contemporanea. La ricerca pittorica dell’autore, docente nel Pellegrino per quasi trent’anni, di carattere intimo e privato, si svolge in particolare sul paesaggio sa-lentino che nel corso degli anni Quaranta e Cinquanta trasmuta dal figurativo alle soluzioni pittoriche vicine all’astrattismo e alla cultura informale. I nuovi validi maestri accanto ad altri ottimi maestri come Geremia Re rinnovarono idee e principi estetici con il supporto di docenti dell’area umanistica tra cui Giovanni Bernardini e Vittorio Bodini in particolare.Re, D’Andrea, Calò, Della Notte, Gabrieli, Mario Palumbo, caratterizzarono la scuola in un laboratorio in cui arte, artigianato e cultura erano in simbiosi.Sempre più la Regia Scuola Artistica, insieme con le riviste letterarie e con la rinomata bottega di D’Andrea (fondata nel 1938)6 e la “Bottega d’arte” dei fratelli Della Notte (fondata nel 1946) divenne, a partire dalla fine degli anni Quaranta, una sede di fervido dibattito culturale e di feconda creatività arti-

3 Opera collocata nel museo Pellegrino.4 E. LAVAGNINO, Introduzione, in Mostra dell’arte nella vita del Mezzogiorno d’Italia nel 1953, catalogo della mostra a cura di E. Lavagnino, Tav. CLXVIII, Roma 1953. 5 A Luigi Gabrieli, il 29 maggio 2011, è stato dedicato il Museo di Arte Contemporanea di Matino (MACMa).6 La bottega di v. Monte Pasubio di D’Andrea fu un luogo di ritrovo delle personalità più attente alla cultura salentina.

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stica. L’azione didattica di D’Andrea, di V. Bodini (doc. di St. dell’Arte), di Geremia Re, di Luigi Gabrieli, di Aldo Calò consentì lo sviluppo di nuove idee estetiche che influirono positivamente sulla formazione degli alunni. I loro al-lievi tra cui Fernando De Filippi, Romano Sambati, Giovanni Valentini, Salva-tore Esposito, Ercole Pignatelli, Armando Marrocco ricordano l’insegnamento di Bodini e di Gabrieli con grande ammirazione per le loro lezioni innovatrici e per il fascino personale esercitato sulla classe. De Filippi ricorda che «Bodini rappresentò qualcosa di nuovo. Ci permise di capire che la bellezza era qual-cosa di soggettivo; che era impossibile fornire una definizione univoca perché era compito dell’estetica definire i caratteri che suscitano le emozioni; che era impossibile stabilire un carattere oggettivo comune del significato della bellezza anche perché lo stesso termine subisce modificazioni sia attraverso le diverse zone geografiche che nelle diverse epoche. Cominciavamo finalmente a sentire che potevamo oltrepassare gli schemi…»7, mentre di Luigi Gabrieli ricorda che «era estroso, creativo, ci mostrava libri di Picasso, ci incitava a vedere quello che succedeva al di fuori del Salento, ci parlava delle nuove esperienze, delle nuove tendenze, parlava molto… Parlavamo vicino alle nostre opere ma osservavamo anche le riproduzioni dei dipinti dei maestri, i cataloghi delle mostre nazionali ed internazionali, le riviste d’arte. Grazie a lui cominciammo a porci problemi di critica, a comprendere che la stessa opera poteva avere più forme di lettura e che occorreva mettersi continuamente in discussione»8.L’elemento comune nella didattica di alcuni dei maestri degli anni Quaranta è senza dubbio l’apertura ai fenomeni artistici europei. La Scuola d’Arte in que-gli anni si caratterizza come luogo fertile di idee che indubbiamente vivacizza e sollecita il dibattito culturale all’interno dell’istituto. Giovanni Bernardini, insegnante di Cultura Generale dal 1946 al 1949, nella Scuola d’Arte Pellegri-no, ricorda che ebbe modo di constatare che «il primo contatto, per così dire, fisico con l’ambiente culturale salentino ebbe luogo proprio nella Scuola d’Arte, quindi con gli artisti prima ancora che con i letterati. Ebbi infatti la fortuna d’avere colleghi veri Maestri della pittura, della scultura, del ferro battuto: si chiamavano Virgilio Carotti, Guido Gremigni, Raffaele Giurgola; ma sopra

7 F. DE FILIPPI, Gli anni Cinquanta, ricordi di uno studente in I Maestri della Regia Scuola Artistica Industriale di Lecce (1916-1950), catalogo della mostra (Lecce, Castello Carlo V, 3-21 maggio 2005), a cura di S. Luperto, Lecce 2005, p. 36.8 Ibidem.

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tutti Luigi Gabrieli, di Matino, un uomo piccolissimo e silenzioso; Geremia Re, di Leverano; Aldo Calò, di San Cesario; Antonio D’Andrea, dalla barbetta nera un po’ mefistofelica…»9. Prima ancora, nel 1932 Bodini rilevava nell’insegna-mento di Geremia Re una ventata di novità che il giovanissimo poeta chiamava «il soffio di tendenze nuove». L’artista Re aveva sempre rifiutato l’accademismo vuoto e inutile impartito nei luoghi di formazione artistica e riguardo all’inse-gnamento delle discipline artistiche, rifiutando il decorativismo, egli sosteneva: «occorre distruggere gli schemi fissi, frutto di scopiazzature e cercar d’infonde-re nell’anima dell’alunno quel libero dominio dell’arte che lo condurrà senza dubbio alla completa sicurezza nella creazione»… «Occorre guardare sulla reale essenza dello spirito dell’arte. Avviare l’alunno alla creazione con metodi che non influiscano e giungano a spegnere la sua piccola personalità che con l’andar degli anni può svilupparsi e dar l’artista»10 .«Occorre distruggere gli schemi fissi…, occorre guardare sulla reale essenza del-l’arte» dichiara Re lasciando intendere che in quegli anni la scuola era ancora legata alla rigida lezione della regola, degli schemi e delle convenzioni che ripor-tavano indietro, alla didattica dei valori e dell’arte del pensiero ottocentesco. La sua lezione insieme con quella di Gabrieli, di Calò, di D’Andrea e di Bodini, certamente contribuì al rinnovamento culturale degli anni Cinquanta. Questi artisti insieme con i letterati di quel periodo, rileva Lucio Giannone, «formaro-no un gruppo compatto animato dall’esigenza di un rinnovamento dei mezzi espressivi sia nella letteratura che nelle arti figurative»11.Negli anni Cinquanta, superato il periodo post-bellico, vi è un progressivo ab-bandono degli schemi culturali del passato e la scuola non rimane indifferente all’emancipazione dei tempi, anzi si appresta al cambiamento anche se qualche docente è ancora restio all’evoluzione del persiero e dell’arte contemporanea. Intanto in questi anni buona parte del corpo docente si rinnova. A Giurgola, Baffa, Carotti, Re, D’Andrea e Calò subentrano Luigi Lezzi nel ’50, Orazio An-

9 G. BERNARDINI, Scuola d’Arte e dintorni, in I Maestri della Règia Scuola Artistica Industriale di Lecce (1916-1950), catalogo della mostra a cura di S. Luperto, Lecce, Castello Carlo V 3-21 maggio 2005, Edizioni del Grifo 2005, p. 40.10 M. CALASSO, Incontro con G. Re, in Taverna Letteraria, 1947, riportata in I Maestri della Re-gia…, cit., p. 148.11 L. GIANNONE, La vita letteraria nel Salento dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, in I Maestri dell’Istuto d’Arte di Lecce, 1951-1970, catalogo della mostra (Lecce, Castello Carlo V, 31 maggio-16 giugno 2007) a cura di S. Luperto, Lecce 2007, p. 51.

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tonaci e Marcello Gennari nel ’52, Beniamino Barletti nel ’53 (prima docente poi dal ’54 direttore), Marcello Fabbri e Oronzo Castelluccio nel ’55, Armando Marrocco, Vittorio Paradisi e Auro Salvaneschi nel ’59. Un ricambio generazionale di docenti che nel tempo, lavorando in contiguità, formeranno un gruppo coeso attorno ad un progetto edilizio ideato dagli ar-chitetti, impegnati nell’esecuzione a più mani di opere artigianali e artistiche. Tutti questi docenti alternano l’attività didattica pubblica a quella privata di progettista, di artista e di artigiano, svolgendo un duplice lavoro spesso non distinto, ma concomitante. Questo duplice ruolo, protratto nei decenni suc-cessivi, produsse dei vantaggi perché permise di calare la scuola nella realtà territoriale contemporanea12.Negli anni Sessanta, con lo sviluppo economico e il benessere diffuso tra più fasce sociali, si determina un incremento delle attività artigianali e un aumento della domanda di opere d’arte. Le vecchie botteghe sono sostituite dagli studi per la progettazione e dai laboratori per l’esecuzione dei manufatti, artistici e artigianali, per l’arredo interno ed esterno dei nuovi edifici, realizzati nei centri urbani con l’impiego di nuovi materiali edilizi. Il ferro e il cemento determina-no uno sviluppo rapido di nuovi luoghi cittadini, di piazze e quartieri. Sorgono a Lecce Piazza Mazzini e i viali della circonvallazione che chiuderà tutta la città in un anello nei decenni successivi. I nuclei più importanti che stigmatizzano la fisionomia urbana contemporanea sono ideati e progettati da importanti pro-fessionisti in servizio nella scuola d’arte Pellegrino. Nella seconda metà del Novecento la Regia Scuola diventa Istituto d’Arte ade-guandosi alle normative e ai nuovi programmi ministeriali.Intorno alla metà degli anni Sessanta nell’Istituto d’Arte, come in altre istitu-zioni, diviene centrale l’attività di gruppo che sarà esercitata in ogni occasione, permettendo di realizzare opere d’arte nella fusione del “sapere” con il “fare”. I palazzi, le chiese, i luoghi pubblici dei progettisti in servizio nella scuola (Benia-mino Barletti, Orazio Antonaci, Antonio Tempesta) si abbellirono di opere dei maestri della Scuola d’Arte che sintetizzano idee ed esperienze comuni. Molte

12 I docenti assunti negli anni Cinquanta svolsero un’attività didattica che dopo vent’anni sarà chiamata “interdisciplinare”. In quegli anni i docenti di laboratorio realizzano opere spesso fina-lizzate ad un unico progetto architettonico ideato dai progettisti in servizio nella scuola. Tra gli insegnanti si ricrea lo stesso sodalizio degli anni Quaranta nel periodo in cui insegnava Bodini.

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belle opere di tanti edifici leccesi hanno la firma di Oronzo Castelluccio, Luigi Lezzi, Marcello Gennari e Auro Salvaneschi. Sulla facciata dell’Hotel President sono visibili le decorazioni modulari in lamina metallica firmate da Gennari (docente di scultura) e da Salvaneschi (docente di ceramica e preside), mentre nella Chiesa dei Vigili del Fuoco di Lecce si ammirano le grate vetrate, il por-tone, gli arredi sacri realizzati da Lezzi (docente di ferro battuto) su disegno di Castelluccio (docente di pittura). Camminando per Lecce è facile imbattersi in opere grandiose di questi maestri. Capita frequentemente di scorgere, con vera sorpresa, lavori di pregevole qualità all’interno di palazzi, chiese, scuole. Nel tessuto urbano di Lecce si potrebbero tracciare dei percorsi d’arte con le sole opere dei maestri dell’Istituto d’Arte delle sezioni di Scultura, Ferro battuto, Ceramica e Pittura.In questi anni come pure nel decennio successivo diventa centrale la figura del docente di laboratorio che con la sua maestria esercita un fascino inconsueto che lo caratterizza nel tipico insegnante dell’Istituto d’arte che, con il camice e i suoi strumenti di lavoro, trasmette ai giovani allievi le sue conoscenze e com-petenze. I nomi emergenti degli artisti docenti, dagli anni Sessanta agli anni Novanta, oltre ai precedenti, sono Giancarlo Moscara, Damiano Tondo, Bruno Maggio, Nino Rollo. Tutti allievi dell’Istituto d’Arte tra la fine del Cinquanta e l’ini-zio del Sessanta, nel periodo in cui la scuola era diretta da Beniamino Barletti ed erano operanti gli artisti che formavano gruppo attorno ai progettisti della scuola che esercitavano la libera professione nel territorio leccese e nazionale. Moscara, Tondo, Maggio, Rollo svolsero l’attività didattica tenendo conto degli sviluppi artistici e culturali in atto negli anni Sessanta; sperimentarono a scuola le innovazioni stilistiche e concettuali insieme con Auro Salvaneschi e Oronzo Castelluccio approdando a soluzioni stilistiche nuove che molto hanno influito sulle successive generazioni di allievi che si sono formate nell’Istituto d’Arte. Moscara costituisce un esempio di docente sperimentatore delle espressioni ar-tistiche delle neoavanguardie della seconda metà del Novecento, che ha spazia-to dall’arte programmata e cinetica all’arte grafica, ironica e surreale; dall’arte figurativa all’arte creata con interpretazioni e lavorazioni personali dei supporti e dei materiali tra cui la carta che, tessuta e intrecciata, è impiegata per la sua espressione concreta e materica.Una funzione analoga l’ebbero anche alcuni docenti delle discipline teoriche che con la loro didattica contribuirono alla formazione aperta e autonoma de-

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13 Cfr. I. LAUDISA, Il giardino della memoria, in I Maestri dell’Istuto d’Arte…, cit, p. 68.

gli allievi. Negli anni Settanta, diversi docenti riuscirono ad instaurare tra gli alunni un clima di cooperazione abituandoli alla ricerca e al lavoro sperimentale in ambiti dell’arte nazionale e locale. Durante il loro insegnamento si organiz-zavano nelle classi impegnative e inedite ricerche sui fenomeni culturali legati al territorio, alla scoperta dei luoghi più suggestivi della città e della sua archi-tettura. Gli esiti dei lavori venivano presentati in spazi pubblici, riscuotendo interesse e successo13. Il metodo didattico seguito in quegli anni tendeva a ren-dere autonomi e critici gli allievi ovvero a stimolare nei giovani il sapere, il saper fare e soprattutto la curiosità. Con la loro didattica, i docenti coinvolgevano gli alunni nell’attività di ricerca pratica, li aiutavano a ragionare sui canoni estetici dell’arte classica e li agevolavano nel confronto con quelli dell’arte contempora-nea, costruendo un clima che consentisse di valorizzare le esperienze artistiche dell’allievo. Lo scopo era quello di superare la cultura scolastica e di abituarli ad esprimere, attraverso l’attitudine e le competenze del “fare arte”, tutta la loro creatività.Oggi la nuova generazione dei docenti-artisti, attenti alle innovazioni tecno-logiche, opera in una scuola in cui conoscenze, competenze e capacità, matu-rate nelle discipline teoriche, trovano espressione nell’attività di laboratorio, in manufatti e in opere che ottengono riscontri positivi nei pubblici concorsi, confermando il ruolo caratterizzante dell’istituto nella formazione artistica dei suoi alunni che coniugano “vecchio e nuovo”, il “sapere di ieri” al “fare di oggi”. Ne sono testimonianza valenti maestri (un tempo discenti) come Fernando De Filippi, Giovanni Valentini, Salvatore Esposito, Romano Sambati, Antonio Massari, Giancarlo Moscara, Marcello Gennari, Armando Marrocco, Pietro Liaci, Cosimo Damiano Tondo, Fiorella Rizzo, Antonio Gigante, Vittorio Di-mastrogiovanni, Bruno Maggio, Ercole Pignatelli, Roberto Buttazzo, Salvatore Spedicato, Rita Guido, Giovanni Valletta, Bruno Leo, Giovanni Corallo, Salva-tore Fanciano, Rosamaria Francavilla che, nel loro operato, affermano il legame con la cultura artistica che la tradizione da sempre assegna all’Istituto d’Arte di Lecce, oggi Liceo Artistico “Pellegrino”.

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Sala docenti, anni Cinquanta. In alto a destra la tarsia Puglia.Archivio fotografico ISA Lecce.

Sala docenti. Archivio fotografico ISA Lecce.

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Arte e formazione per “avvicinare la scuola alla vita”.Il ruolo di Giuseppe PellegrinoDaria De Donno

Il 13 febbraio 1916, in pieno conflitto mondiale, dopo un iter lungo e trava-gliato che parte dall’ultimo decennio dell’Ottocento (1896), viene inaugurata a Lecce la Scuola d’arti e mestieri divenuta poi Regia Scuola artistica industriale, rivolta a «creare schiere di operai tecnicamente ed intellettualmente istruiti, educati ad alti e nobili sentimenti»1.Sono queste le prospettive e le aspettative che hanno animato, alla luce di un impegno ventennale, il promotore, fondatore e futuro presidente dell’istituto, Giuseppe Pellegrino, a cui la Scuola verrà intitolata nel 1925.Giuseppe Pellegrino (1856-1931), avvocato di fama del foro leccese, è sindaco di Lecce per due mandati (1895-1898; 1908-1911), consigliere provinciale di Terra d’Otranto (1895-1903) e dal 1909 deputato al Parlamento nazionale per tre legislature (1909-1913; 1919-1921; 1921-1924).Come amministratore e poi come parlamentare, egli persegue, con attenzione tanto al contesto territoriale quanto al sistema-paese, un articolato progetto politico e culturale che vuole coniugare progresso e tradizioni, modernizzazione e attenzione alle vestigia del passato ponendo attenzione a due problemati-che forti: la trasmissione storica attraverso la creazione di istituzioni culturali; l’istruzione professionale, in particolare artistica e industriale.Siamo di fronte ad una interessante figura di politico-mecenate che avverte l’esigenza per un centro urbano che si va modernizzando, di una nuova “defini-zione iconografica” attraverso la creazione di contenitori culturali (Museo civi-co, Biblioteca di storia patria, Archivio comunale) e le committenze artistiche. È amministratore abile nel coinvolgere nel suo “progetto di città” intellettuali, uomini di cultura e artisti, soprattutto salentini, che si sono imposti ad alti livelli, come testimoniano le documentazioni conservate nell’Archivio privato del notabile (custodite presso gli eredi a Lecce), che ci consegnano una pluralità

1 G. PELLEGRINO, Festa scolastica (7 giugno 1925) per la premiazione degli alunni e la intitolazione della scuola, Lecce, Stab. tip. Giurdignano, 1925, p. 26. Per i riferimenti bibliografici e documen-tari si rinvia a D. DE DONNO, Notabilato e carriere politiche tra Otto e Novecento. Un esempio di ascesa (Giuseppe Pellegrino, 1856-1931), Galatina, Congedo, 2010.

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Antonio BortoneBusto di Giuseppe Pellegrino, 1934bronzo(Foto Maurizio Madaro)

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Arte e formazione per “avvicinare la scuola alla vita”

di relazioni a più livelli (con l’artista-artigiano Giuseppe De Cupertinis; con gli scultori Pietro Baffa, Almo Mercanti, Francesco De Matteis; con i pittori Luigi Scorrano e Geremia Re), che poi sarebbero state funzionali anche per l’avvio e il radicamento della Scuola nel tessuto cittadino.Tra i molti legami epistolari che egli attiva, più continue e confidenziali sono le corrispondenze con gli scultori Antonio Bortone ed Eugenio Maccagnani, i due artisti leccesi che più di altri hanno raggiunto prestigio e fama nazionale ed internazionale.Numerosi sono gli incarichi che il sindaco Pellegrino offre ad Eugenio Mac-cagnani, che tra Otto e Novecento è impegnato nell’esecuzione di più statue per l’Altare della Patria. La relazione iniziata alla fine dell’Ottocento prosegue, se pure in maniera discontinua, almeno fino al 1929 e ci restituisce le alterne vicende che hanno accompagnato alcune delle sue opere presenti a Lecce: l’ese-cuzione del Garibaldi a cavallo per il Museo civico, trasferito successivamente nell’atrio della Scuola; il gruppo Adamo ed Eva che, una volta riprodotto in marmo, sarebbe dovuto essere esposto presso la Scuola d’arte; ancora il gruppo del Reziario e del Marmillone, meglio noto come Lotta di gladiatori (premiato con medaglia d’oro all’Esposizione di Parigi) offerto in dono dagli eredi dello scultore alla Scuola per servire di modello agli alunni.Un’amicizia più profonda lega Giuseppe Pellegrino ad Antonio Bortone, che dal 1865 lavora a Firenze.Il temperamento dell’artista e il carattere della sua arte, pervasa da una forte vena intimistica, sono fatti per suscitare l’ammirazione di Pellegrino, che a lui affiderà nel 1898 l’esecuzione del monumento che gli sta più a cuore: quello all’eroe risorgimentale Sigismondo Castromediano.La produzione di Bortone è notevole. Tra i suoi lavori più apprezzati si distingue la statua del Fanfulla, premiata all’Esposizione di Parigi del 1878 con medaglia d’argento. Il modello in gesso dell’opera, che giungerà a Lecce nel 1916 e sarà fusa in bronzo solo nel 1922, avrebbe dovuto sorgere nell’atrio della Scuola ar-tistica-industriale «perché questi giovani alunni operai sappiano del loro grande Maestro e i venturi lo ricordino ed apprezzino»2.Durante gli anni della vecchiaia, il notabile leccese continua nell’opera di patronage verso giovani di talento spesso indigenti, dei quali intuisce l’ingegno e le attitudini.

2 Per la fusione in bronzo del Fanfulla, s.a.

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L’ultimo artista che protegge è lo scultore Francesco Buonapace, un ex alunno della scuola che proprio grazie all’intercessione di Pellegrino si afferma nell’am-biente artistico nazionale e in particolare milanese intorno agli anni Trenta del Novecento.I network costruiti dal notabile nel corso del tempo risultano nodali per la riqualificazione artistica e culturale del capoluogo salentino e in prospettiva anche per la vita della “sua” Scuola, che non a caso annovera tra i primi docenti il “caro amico” Antonio Bortone (dal 1916).Negli ultimi anni del suo impegno come deputato, Giuseppe Pellegrino ritor-nerà in più occasioni a trattare il tema dell’istruzione professionale, rispetto alla quale sostiene la necessità di coniugare “genialità e tendenze artistiche” (che egli riscontra negli artisti-artigiani salentini) con una formazione ad ampio raggio per «avvicinare la scuola alla vita».Nel complesso, la sfida appare vinta. La scuola sarà ricca di soddisfazioni per il suo fondatore. Alcuni degli studenti diverranno a loro volta validi docenti e artisti di fama tra i più innovatori. Due nomi fra tutti: lo scultore-artigiano Antonio D’Andrea e l’aereopittore Mino Delle Site.

Mino Delle SiteRitratto di Giuseppe Pellegrino, s.d.carboncinoArchivio G. Pellegrino - Lecce

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Intervista a Auro Salvaneschi a cura di Pina Talesco

A 23 anni, nel 1959, lei ha iniziato la sua attività di docente (di Decorazione Ceramica) nell’I.S.A. di Lecce, continuandola fino al 1973, mentre era Direttore della Scuola l’architetto Beniamino Barletti. Quale impressione ebbe? Quali ricordi conserva?Nell’ottobre del 1959, quando entrai in servizio, avevo ventiquattro anni. Vi rimasi fino al ’74. Il 1964 fu un anno di grandi successi: con i manufatti in ce-ramica, partecipai a diverse esposizioni, sia autonomamente che con gli allievi della scuola. A Faenza fui premiato ben tre volte da Aldo Moro, da cui ricevetti un riconoscimento personale e due per i lavori dei ragazzi, tanto che, in quel-l’occasione, l’onorevole disse “Tutto Lecce porta via!”. Allora era direttore Barletti, che mi concesse molta libertà di agire. Quelli furo-no anni di iniziazione, ero molto giovane ed avevo il desiderio di fare qualcosa di nuovo; d’altra parte venivo da un’esperienza culturale molto vivace, avendo partecipato a incontri e manifestazioni tra Milano, Venezia e Roma. Conservo dei ricordi bellissimi degli anni in cui studiavo a Pesaro, quando con alcuni compagni avevamo fondato una specie di cenacolo per discutere d’arte (e li-tigare, anche), confrontarci su questa o quell’espressione artistica, sull’una o sull’altra corrente (Picasso, optical art, e così via). La vendita delle prime opere mi permetteva di guadagnare qualcosa per po-termi spostare. Frequentavo la Biennale di Venezia, la Triennale di Milano, la Quadriennale romana. A Lecce, dunque, portai queste esperienze.

Nel 1959 erano in servizio con lei docenti che si sono distinti per il loro lavoro di progettisti, di artisti e di abili artigiani, tra cui lo stesso Direttore Beniamino Bar-letti, Orazio Antonaci, Marcello Fabbri, Marcello Gennari, Luigi Lezzi, Oronzo Castelluccio. Con questi colleghi stabilì una collaborazione didattica, ma anche professionale e privata.Quale fu il valore culturale e umano di quella esperienza?Non fui da subito d’accordo con tutti i colleghi, in particolare con Castelluc-cio (forse per via di incompatibilità caratteriali). Eppure alla fine diventammo amici; una volta mi sorprese dicendo: “Quel quadro me lo dai, e facciamo a scambio con un’opera mia?”.

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a cura di Pina Talesco

Inoltre, poiché, come ho detto, mi tenevo molto aggiornato, l’impatto con l’ambiente leccese, in parte legato ad una certa cultura napoletana, non fu faci-lissimo. Per me le esperienze materiche erano imprescindibili, sperimentando con i gres e le porcellane, che utilizzavo anche come elementi plastici e deco-rativi. Feci, allora alcuni disegni per Lezzi (con cui mi trovavo sempre d’accordo) che lui poi realizzò in ferro. Antonaci mi commissionò molti lavori tuttora visibili per le vie di Lecce (molte ville e numerosi palazzi con elementi di rivestimento in cemento, sebbene devo ammettere che la committenza mi limitava molto dal punto di vista dell’invenzione). Mentre con Marcello Fabbri non avevo legato molto, con Gennari condividemmo uno studio per quindici anni, fin-ché non fui nominato preside all’Istituto d’Arte di Parabita. Uno dei lavori più importanti realizzati insieme furono i pannelli che adornano l’aula magna dell’Università del Salento, a Palazzo Codacci Pisanelli. Il modello è mio, come pure il pannello all’ingresso dell’Hotel President, sulla destra. Anche sulla fac-ciata dell’albergo ci sono delle formelle, che feci fondere altrove in bronzo da artigiani specializzati. L’unico a non essere davvero intimorito dalle sperimentazioni era proprio Barlet-ti, una figura atipica con una sensibilità artistica fuori dal comune, molto sottile. Se diceva qualcosa, quello era il “Vangelo” e mi lasciava libertà totale, dicendomi: “Non fare l’insegnante, non fare il preside, continua l’attività artistica”.

Negli anni Sessanta e Settanta i docenti della sezione Ceramica e della sezione Pittura furono attenti alle neoavanguardie che si affermavano nell’arte contem-poranea. Lei sperimentò nuovi materiali e nuove tecniche nella ceramica e nella pittura, che vanno dall’astrattismo materico informale all’optical, dall’arte gestuale all’iperrealismo. Si riconosce in questa interpretazione?Quale ricordo ha di quel periodo?È vero: negli anni Sessanta la sezione Ceramica assunse una certa rilevanza. Era scoppiata l’epidemia dei nuovi materiali. Nel ’59 avevo ricevuto il premio “Ugolini”, che nuovamente mi fu assegnato nel decennio successivo. Allora esisteva l’Ispettorato per l’Istruzione Artistica che organizzava delle mostre di livello internazionale per tutti gli Istituti d’Arte: l’evento dedicato alla sezione Ceramica si teneva a Lerici, dove un nostro allievo meritò la medaglia d’oro e un diploma.

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Intervista a Auro Salvaneschi

Con gli studenti io sperimentavo sempre, soprattutto per quel che riguarda i materiali: gres, porcellane e relative cotture, tanto che spesso la sera restavo a scuola fino a tardi. Andavo dall’astrattismo materico informale all’optical, dal gestuale all’iperrealismo. Nell’86 il primo Istituto d’Arte a utilizzare il computer nella presentazione del-l’arte fu proprio quello di Parabita, dove lavoravo. Feci acquistare un computer per la scuola: costava molto, 180.000 lire con il software Autocad e quello per dipingere, oltre ad altri programmi. In quell’anno facemmo una grande mostra con gli allievi nel Castello Carlo V di Lecce, per cui dovetti racimolare la som-ma necessaria grazie all’aiuto di molti sostenitori. In quell’occasione, ricordo che il preside Serra del Liceo Artistico di Galatina, entrando esclamò: “Quanti colori!”.

Nei molti anni di permanenza nel “Pellegrino” è stato a contatto con opere eseguite dai suoi predecessori, tra cui i lavori in ferro battuto di D’Andrea (un pregevole toro) oppure le sculture di Bortone, di Martinez e altre. Ha qualche ricordo delle circostanze in cui furono realizzate? In particolare può darci informazioni su due pezzi (un nudo di donna e un chitar-rista in gesso su base di legno) che una tradizione orale attribuisce a Calò?Di Martinez avevo un gruppo di sculture in Presidenza. Per quanto riguarda il toro, non sono sicuro che l’autore sia D’Andrea, mentre il nudo di donna ricor-do che si trovava in uno scantinato; fui io a ripescarlo, come pure il chitarrista. Come mi diceva sempre Barletti, sono di Calò, realizzati quando insegnava qui; faceva lo scultore, ma insegnava Ebanisteria nel Laboratorio arredamento, poi dopo è stato a Roma, dove ha fatto il Preside. Sono di Calò, perché Barletti me lo diceva sempre. Io, per sentito dire, non ho documenti in mano, non posso parlare. Però Barletti mi diceva che queste opere sono di Calò, di Aldo Calò, perché erano amici fraterni, lui lo chiamava Aldo.

Nel periodo in cui ha diretto l’Istituto d’Arte di Lecce, ha fatto riferimento nella sua azione ad un’idea o a un progetto di scuola d’arte?L’Istituto d’Arte che avevo in mente era praticamente un Liceo d’Arte perché l’arte nasce da una solida cultura generale. Il mio sogno era che l’espressione “scuola d’arte” non fosse più pronunciata con un significato velatamente ne-gativo. Lo stesso pensiero portava avanti Gropius nella Bauhaus: progettisti e

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a cura di Pina Talesco

artigiani devono lavorare insieme! Come nel Rinascimento, quando si lavorava nelle botteghe o nelle corti, dove musicisti, pittori, scultori e letterati erano im-pegnati fianco a fianco. Io ci credo ancora e ritengo che una programmazione adeguata e il potenziamento dei laboratori possa ricondurre quest’istituzione al suo statuto originario. Fin dall’inizio, inoltre, ritenevo indispensabile l’aspetto imprenditoriale anche nella scuola, con la vendita dei manufatti degli allievi in esposizioni organizzate appositamente.

Adesso la sua ricerca artistica prosegue?Certo, sto preparando una mostra e lavoro molto: ho già una cinquantina di opere pronte. Credo di poter dire che, quando ero in servizio, lavoravo molto di meno. Oggi mi dedico ad un’arte computerizzata: prima lavoro con il computer provando le possibili soluzioni formali e poi realizzo l’opera. L’arte computerizzata serve per allargare la fantasia, anche solo giocando sulla tastiera. Le occasioni sono tante, bisogna saperle cogliere. In questi giorni sto chiudendo alcune esperienze di optical computerizzato, utilizzo la fotografia ed elementi assemblati e composti. Ho fatto delle opere impiegando anche delle ceramiche, delle piastrelle già fatte, degli elementi in natura, radici d’alberi e li ho assemblati a livello di sculture.In vita mia ho sperimentato il materico, l’informale, l’optical, l’arte gestuale, l’iperrealismo. Non sono mai contento di quello che faccio: faccio, guasto, ri-faccio…

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OPERETesti storico-critici di

Michele AfferriCarmelo Cipriani Marinilde GiannandreaSalvatore LupertoLorenzo MadaroAnna PanareoMarina Pizzarelli

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Opere

Allegoria, s.d.Olio su tela,

L’opera, di autore ignoto, è ri-cordata nelle testimonianze scola-stiche come il Diluvio o la Rac-colta della manna. Prima dei più recenti lavori di ristrutturazione dell’edificio, figurava nel salot-tino dell’ufficio di dirigenza, in un accurato allestimento realiz-zato dall’architetto Beniamino Barletti, direttore dell’Istituto dal 1954 al 1984. Un intervento di restauro, pro-babilmente negli anni Sessanta del Novecento, ha alterato la fisionomia originale del dipin-to che si trova in cattivo stato di conservazione, in quanto ri-coperto da uno spesso strato di vernice imbrunita, che ha forse eliminato i mezzi toni, e in parte ridipinto nelle zone in luce. Non è stata ritrovata alcuna documentazione ma testimo-nianze attendibili1 fanno rite-nere l’opera di antica fattura , probabilmente dei secoli XVII o XVIII, di scuola napoletana.

A. P.1 Quanto ricordato da Auro Salvaneschi è stato confermato da Rosanna Lerede, docente di Restauro presso l’A.A. B.B. di Lecce che ha valutato lo stato di con-servazione del dipinto e auspicato «un accurato intervento di restauro per con-sentire una puntuale ricerca storica». (Foto Maurizio Madaro)

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Allegoria

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Eugenio Maccagnani Lecce 1852 - Roma 1930

Monumento equestre a Garibaldi, 1888 ca.gesso

Il monumento equestre in gesso dedicato a Giuseppe Garibaldi di Eugenio Maccagnani nel tempo è divenuto un simbolo impresso nella memoria di tanti allievi e docenti che quotidianamente vengono accolti dalla maestosità del ca-vallo e del suo fiero condottiero nell’ampio atrio della scuola, sin da quando, negli anni Quaranta, la statua fu trasferita, su interessamento di Gaetano Gior-gino, dal Sedile (antica sede del Municipio di Lecce in piazza Sant’Oronzo), alla Regia Scuola Artistica Industriale.La versione in bronzo della statua è posta a Brescia, in piazza Garibaldi. Fu inaugurata l’8 settembre del 1889 per celebrare la memoria dell’eroe dei due mondi e di tutti i garibaldini caduti in guerra fra cui molti bresciani. A questa statua lo stesso autore s’ispirò per il monumento equestre a Garibaldi donato dalla comunità italiana alla città di Buenos Aires e collocato in piazza Italia dove fu inaugurato il 19 Giugno del 1904.Entrambe le opere s’inseriscono nella tradizione della scultura celebrativa in auge alla fine dell’Ottocento per commemorare l’eroismo risorgimentale dei patrioti italiani, caduti per i nobili principi di libertà e di indipendenza.La statua equestre del Pellegrino, molto più grande del naturale, rappresenta con vigore il patriottismo di uno dei maggiori protagonisti dell’Unità d’Italia, il cui eroismo è esaltato dallo sguardo austero del condottiero e dalla potente plasticità del cavallo. L’imponenza dell’opera e l’interpretazione realistica ottocentesca dell’illustre personaggio enfatizzano il significato simbolico del monumento.

Salvatore Luperto

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Opere

(Foto Maurizio Madaro)

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Antonio BortoneRuffano 1844 - Lecce 1938

Vittorio Emanuele II, s.d.bozzetto in gesso

Il bozzetto in gesso di Antonio Bortone raffigura, nell’elegante postura a chia-smo, un maturo signore con basco, borsa a tracolla, mantella al braccio e scar-poncini da caccia. Un affabile galantuomo dal volto sereno e sicuro, con baffi e pizzo che, per somiglianza, lascia pensare al re Vittorio Emanuele II in tenuta da caccia o da svago.La scultura si distingue dalla retorica enfatica della statuaria e della ritrattistica celebrativa di parte della produzione di Bortone. Di gusto romantico ma anche realista, l’artista, in questo bozzetto, evitando ogni encomio, si concentra sul sentimento che traspare dalla sicurezza del modellato e dal piglio spontaneo della figura. Queste caratteristiche sono presenti in alcune opere della fine del-l’Ottocento, in cui l’autore ritrae lo stato d’animo o il carattere del personaggio, colto in un naturale atteggiamento o nella sua quotidianità. Un esempio è il Fanfulla, ma anche Stefano Ussi o Quintino Sella. In queste opere, realizzate dal 1870 al 1886, l’autore, svincolato dagli schemi declamatori, senza lasciarsi con-dizionare dall’autorevolezza o dal prestigio del personaggio, dà spazio alla sua sensibilità per delinearne la personalità umana più autentica colta nell’espressi-vità del volto e dei gesti.

Salvatore Luperto

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Opere

(Foto Maurizio Madaro)

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Antonio Bortone, Vittorio Emanuele II

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Antonio BortoneIl sacco di Otranto del 1480, s.d.Altorilievo per il monumento di Otranto agli eroi della patria e della fedegesso

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Opere

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Antonio Bortone, Il sacco di Otranto del 1480

(Foto Maurizio Madaro)

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Alceo Pantaleoni Udine 1899 - Padova 1975

Modulo di ringhiera per la scala della R.S.A.I. Lecce, s.d.ferro battuto

Elemento modulare di ringhiera in ferro battuto della scala interna della Regia Scuola Artistica, eseguito da Alceo Pantaloni con i suoi allievi, su progetto del Direttore Attilio De Luigi.Pantaleoni, formatosi presso le mitiche officine Calligaris di Udine insieme con i noti artisti Alessandro Mazzucotelli e Alberto Gerardi (maestro di Antonio D’Andrea), giunse a Lecce nel 1926 dove rimase sino al 1936. Nei suoi dieci anni d’insegnamento nella Regia Scuola Artistica introdusse l’eleganza stilistica delle officine udinesi.Il raffinato manufatto in stile liberty del museo Pellegrino è un esempio. Il mo-dulo, eseguito con cura e perizia tecnica, presenta spirali intrecciate in elementi fogliati, tipico della produzione più diffusa di quegli anni. La linea curva e fles-suosa si svolge e si racchiude in tante spirali, creando un movimento di sinuosa eleganza raccolto negli aggraziati motivi floreali.

Salvatore Luperto

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Opere

(Foto Maurizio Madaro)

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Alceo Pantaleoni, Modulo di ringhiera

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Gaetano MartinezGalatina 1892 - Roma 1951

Giovinetta, s.d.bronzo

La maschera in bronzo Giovinetta, forse una maschera funebre, appartiene ad una serie di ritratti di bambini e adolescenti che cadenza la produzione dell’ar-tista, testimoniandone l’adesione intima e commossa all’umanità del soggetto, cui dedica sentimenti di struggente tenerezza. Nel raccontarci di quest’infanzia povera e sfortunata, Martinez sembra inconsciamente ereditare, in scultura, le tonalità interiori della pittura del conterraneo Gioacchino Toma, quel “male di vivere” che si esprime in atmosfere di solitudine e mestizia.Con il volto leggermente chino in avanti, lo sguardo basso, le labbra imbroncia-te, tra le bande laterali dei capelli, la testa della Giovinetta sembra faticosamente emergere dalla prigione della materia informe in cui affonda del tutto il collo e si profila appena il mento, in una sorta di “non finito” michelangiolesco. Vi appare un naturalismo di grande freschezza e verità, semplice ed essenziale, ove già si intravede quel percorso di riduzione formale e progressiva sintesi che a partire dagli anni ’40 porterà Martinez agli esiti più maturi della sua scultura. Una scultura che, nell’iniziale dicotomia della ricerca tra una linea “monumen-tale” e una più congeniale, intimistica, della quale fa parte la serie di ritratti di fanciulli, propende per la seconda; mentre si avvia a recuperare una sorta di ritorno alle origini, alla semplicità e compostezza di una classicità arcaica e popolare, mediterranea, che guarda a Nicola Pisano e Niccolò Dell’Arca, senza peraltro ignorare la modernità, il vigore plastico e la profonda umanità di Artu-ro Martini e Marino Marini. Il modellato fresco, immediato, riporta a Medardo Rosso nel senso che è pro-prio il gioco di ombre e di luci, nel suo incidere sull’oggetto, a sottolinearne l’intensa vitalità plastica: si tratta di una materia fluida che rende vive e sensibili le superfici al trascorrere della luce e rivela un’incipiente volontà, nell’artefice, di maggiore sintesi formale e compattezza volumetrica. Per queste considera-zioni si ritiene che la Giovinetta di Martinez possa essere collocata nella seconda metà degli anni ’30 anche per certe affinità con opere come Bimbo addormen-tato (1939) e Bimbo (1940 ca.).

Marina Pizzarelli

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Opere

(Foto Maurizio Madaro)

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Gaetano Martinez, Giovinetta

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Gaetano MartinezGalatina 1892 - Roma 1951

Deposizione, 1951 ca.terracotta

«La scritta in stampatello che si legge sul braccio corto della croce, Martinez, indica l’identità dell’uomo che viene deposto dalla croce stessa, cioè lo scultore. L’opera appare senza dubbio pensata da Martinez come un suo testamento spi-rituale, allusione alle tante sofferenze e incomprensioni delle quali fu oggetto durante tutta la sua vita»1.Gli elementi compositivi dell’altorilievo ricordano il timpano e la metopa dei frontoni degli edifici dell’età classica greco-romana, ma anche il modellato della tradizione presepiale salentina. Entrambi i riferimenti narrano l’epos umano dell’artista nella sacralità di un tempio religioso popolato da figure che fanno parte della sua vita quotidiana e affettiva. Sono semplici popolani che, accorsi scalzi si ritrovano, nei loro umili abiti, ad assistere attoniti all’atto finale del pathos umano di Gaetano Martinez. L’episodio, come in una rappresentazione teatrale, viene efficacemente narrato dai gesti delle figure che dal proscenio par-tecipano all’evento sacro che accade sul palcoscenico, mentre dai loro sguardi, emana un’ingenua atmosfera di sconcerto tipica della civiltà contadina salenti-na degli anni Cinquanta.La Deposizione appartiene al ciclo degli «Altorilievi a tutto tondo» (Mariani 1950), con i quali, lo scultore, evocando Arturo Martini per la struttura del-l’opera, Marino Marini per la semplificazione dei volumi plastici e gli artisti della corrente Novecento per il realismo delle forme classiche, spontaneamente racconta il sentimento delle tradizioni popolari. Martinez, attraverso l’armonia delle forme pure si orienta ad una figurazione quasi naif dello spirito cristiano e dei valori esistenziali della sua terra d’origine.

Salvatore Luperto

1 F. RIEZZO in Gaetano Martinez scultore, catalogo della mostra a cura di Giancarlo Gentilini e Federica Riezzo, R&R Editrice, Matera 1999, p. 135.

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Opere

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Gaetano Martinez, Deposizione

(Foto Maurizio Madaro)

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Opere

Puglia, s.d.

Fantasia leccese, s.d.Tarsie lignee con essenze di noce, ulivo, fico, acero, olmo, amaranto

La tarsia è un manufatto per molti anni ricorrente nella produzione della sezio-ne legno, talvolta oggetto di collaborazione progettuale con altre sezioni della RSAI1. Annio Lora, direttore della scuola dal 1936 al 1949, riporta infatti2 che sotto la direzione di Attilio De Luigi, e al tempo stesso della sua dirigenza, furono eseguiti, fra l’altro, nel laboratorio legno, diversi pannelli intarsiati. Con alcuni di essi, eseguiti su bozzetti di Geremia Re, la RSAI nel 1938 partecipò alla VI Triennale di Milano, ricevendo un premio.Si conservano ancora nella scuola tre tarsie, una dedicata alla Puglia e due alla città di Lecce. Le tre tarsie, simili nei contenuti, rispondono a una diversa logica compositiva: Puglia presenta una serie d’immagini, riferite alla natura e alla cultura del terri-torio, collocate su di una cartina isolata della regione e nello spazio circostante. Nelle altre due, di dimensioni più piccole ma uguali fra loro, “cartoline” di Lecce, nell’una, nell’altra il Sedile, una chitarra e altri oggetti dalla prorompente tridimensionalità, sono ambientate in uno spazio vuoto di sapore vagamente metafisico. Le tarsie sono tradizionalmente attribuite a Vito Maria Ciardo che aveva ter-minato gli studi nella stessa scuola nel 1923. L’attribuzione è improbabile, in particolare per Puglia la cui foto, senza alcun accenno all’autore dell’opera, è ri-portata nel volume citato in nota3, pubblicato nel 1942. Ciardo, nato nel 1906, ricoprì il posto di capofficina del laboratorio legno dal 1950 al 1968, anno della morte, come attestano i documenti di archivio della scuola.

Anna Panareo

1 Regia Scuola Artistica Industriale.2 Cfr. G. PALADINI, A. LORA, La Règia Scuola d’Arte Applicata all’Industria “G. Pellegrino” di Lecce, Le Monnier, Firenze 1942, pp. 31-333 G. PALADINI, A. LORA, La Règia Scuola d’Arte…, cit., Appendici, tav. VI.

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(Foto Maurizio Madaro)

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Opere

Tartaruga, s.d.massello di ferro ageminato

La scultura, realizzata con la più difficile materia plastica: il ferro, è forgiata in una forma compatta e ben strutturata. L’opera è mirabile per le qualità tecniche con le quali l’autore comunica il vago sentimento che traspare dallo sguardo attento della tartaruga, mentre fa capolino e sembra muoversi agilmente. La corazza dorsale, fortemente convessa, lavorata secondo un’antica tecnica persia-na, è impreziosita da gemine in ottone che affinano l’eleganza delle armoniose forme su cui i riverberi di luce creano morbidi effetti chiaroscurali.Realizzata prima del 19421 nel periodo in cui il laboratorio di ferro battuto fu diretto da Alceo Pantaleoni dal 1926 al 1936 e successivamente da Antonio D’Andrea dal 1937.

Salvatore Luperto

1 Cfr. G. PALADINI, A. LORA, La Regia Scuola d’Arte Applicata all’industria “G. Pellegrino” di Lecce, Le Monnier, Firenze 1942, dove nelle Appendici, tav. VII, appare l’immagine della tartaruga.

(Foto Maurizio Madaro)

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Galli

Galli, 1952 ca.massello di ferro

Due galli scolpiti nel ferro starnazzano festosi mentre si esibiscono vezzosi nel canto. I bargigli, i becchi aperti, le creste a forma di corona, le ali alzate sono cesellati con cura e precisione. Ogni particolare, espressione di un vigoroso pla-sticismo, rivela l’abilità dell’autore che con maestria artigianale combina, in un bizzarro incastro di forme, una composizione libera e fantasiosa in cui segmenti geometrici, linee interrotte o piegate, piani obliqui contrastanti s’intersecano e si aprono in direzioni divergenti quasi a voler richiamare l’attenzione sull’ener-gia del ferro mediante l’immagine in cui è stato trasformato. Questa abilità esecutiva rimanda ai lavori di Antonio D’Andrea degli anni Cinquanta, in par-ticolare ai galli scolpiti che sormontano una lampada del 19521 della collezione Innocenti di Roma.

Salvatore Luperto1 Cfr. E. F. ACCROCCA, Antonio D’Andrea, De Luca Editore, Roma 1972, tav. 71 .(Foto Maurizio Madaro)

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Antonio D’Andrea (attribuita)Lecce 1908 – 1955

Toro, 1946 ca.massello di ferro scolpito

Scultura in massello di ferro eseguita nel laboratorio di ferro battuto, nella metà degli anni Quaranta, sotto la direzione di Antonio D’Andrea. Fu esposta a Roma nella mostra dell’arte del Mezzogiorno d’Italia nel 1953, nella sezione dedicata agli Istituti e Scuole d’Arte del Meridione e pubblicata nella tavola CLXVIII del relativo catalogo curato da Emilio Lavagnino.Una replica della stessa opera, cm 22 x 36, datata 1945-46 (coll. ignota) è pub-blicata nella monografia Antonio D’Andrea curata da Elio Filippo Accrocca.Antonio D’Andrea in questa opera sperimenta una tecnica nuova per le scul-ture in ferro a tutto tondo, per la quale espone le motivazioni nel suo Diario (mai portato a compimento), di cui esistono poche pagine, alcune delle quali furono pubblicate nei numeri 13-14 della rivista L’albero di G. Comi. In una A. D’Andrea, riferendosi alla realizzazione del Toro, racconta: «Si trattava, stavolta, di un problema di pienezza. Non un vuoto a cui dar forma, ma un pieno da corporeizzare col vuoto. Un normale comunissimo processo da cartapestaio, o da battitore, d’arrotondatore di lamiera? Qualche cosa di più… Ed allora, ecco imporsi il sacrificio della pancia: fare in modo da espellere la pancia, senza l’idea dello squarcio, senza il brivido del macello, senza visceri appesi o palesemente estirpati. Non era che questo»1.L’opera, nell’eleganza delle forme anatomiche appena accennate, esprime una delicata sensibilità artistica che richiama la lirica semplicità dell’arte della prima metà del Novecento vicina a Marino Marini.

Salvatore Luperto

1 Cfr. E. F. ACCROCCA, Antonio D’Andrea, De Luca Editore, Roma 1972, p. 42.

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Opere

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Antonio D’Andrea, Toro

(Foto Maurizio Madaro)

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Aldo Calò (attribuita1)San Cesario 1910, Roma 1983

Figura, 1949 ca.gesso

La figura in gesso, presumibilmente del 1949 per gli stretti riferimenti stilistici con la figura in legno ubicata nel Museo Provinciale Castromediano di Lecce e con un’altra figura in legno del 19492, appartiene a quel gruppo di opere che rimandano alle Pomone di Marino Marini per le forme morbide ed eleganti e per la plasticità dei volumi che ne determinano le masse. Corrado Cagli nella sua lettura critica delle opere di questo periodo esposte nella Galleria del Secolo a Roma, nel marzo 1949, rilevava che la scultura di Calò andava «sempre più liberandosi dai modi di un sentimentalismo figurativo per giungere a significare tramite i sentimenti della forma…» per poi concludere «per questo oggi la sua scultura è più aderente alla materia di quel che non fosse ieri»3. Sono questi gli anni in cui lo stile di Calò si evolve risentendo non solo del cambiamento del linguaggio artistico in atto in quegli anni in Italia, ma anche del fascino delle opere di Henri Moore che il nostro artista vide esposte alla Biennale di Venezia nel 1948. La sua arte nel 1949 intraprese un nuovo percorso, orientando il suo stile ieratico, figurativo degli anni precedenti (vicino ad Arturo Martini) ad uno stile in cui la forma, fluida nei contorni, morbida e stabile nei volumi, è concepita come organismo architettonico strutturalmente organico nello spazio, così come si rileva in questa scultura.

Salvatore Luperto

1 L’opera, insieme con un’altra in gesso che ritrae un chitarrista, viene attribuita ad Aldo Calò dalla memoria storica dell’Istituto d’Arte, tramandata nel corso degli anni, in particolare da Be-niamino Barletti (direttore dell’Istituto d’Arte dal 1954 al 1984) così come ha riferito Auro Salva-neschi. Secondo Marcello Gennari (docente di laboratorio scultura dal 1952 al 1992), il progetto dell’opera è di A. Calò, mentre la realizzazione pratica è di un allievo così come normalmente avviene. Queste asserzioni sono contenute nelle interviste riportate nel presente catalogo.2 Cfr. N. PONENTE, Aldo Calò, De Luca Editore, Roma 1957, tav. 4.3 Ivi, pp. 21-22.

(Foto Maurizio Madaro)

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Opere

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Antonio MazzottaLecce 1900 - Roma 1991

Crocifisso, 1952bronzo

Il Crocifisso in bronzo del 1952 appartiene alla piena maturità dello scultore, nel periodo della sua permanenza romana. La datazione dell’opera è deducibile da una sorta di catalogo/pro-memoria compilato nel novembre del 1979 e con-tenente, oltre ad un repertorio fotografico delle opere e ad un’antologia critica, anche un interessante commento autobiografico dello stesso Mazzotta.Il corpo del Cristo crocifisso, scarnito e come disarticolato, non supportato dalla croce, si sviluppa in senso verticale in una raffigurazione di partecipe sof-ferenza. Nella figura tesa e insieme spezzata del Cristo che da una parte sfiora la terra e dall’altra si erge verso l’alto con le braccia sollevate, come estrema azione fisica e simbolica, sono drammaticamente compresenti le sue due natu-re, l’umana e la divina. E lo sono anche nelle mani, l’una contratta nel dolore, l’altra benedicente, mentre il volto chino, tratteggiato sommariamente, esprime nella bocca dischiusa tutta l’umana sofferenza dell’ultimo anelito. C’è un appel-lo all’attualità del tema che, eccepito dal sacro, si fa storia concreta, esistenza: quel corpo è il corpo di Dio, ma partecipa delle nostre stesse debolezze, delle nostre infermità, del nostro dolore.Non c’è, qui, la ricerca del “bello” che pure è tanto presente in altre opere (la Fontana dell’armonia, del 1927, per tutte), ma ispirazione profonda, rapi-mento, intima partecipazione al mistero della morte di Cristo. Così alla sottile introspezione dei ritratti, alle figure femminili tornite, dalle superfici levigate e polite, atte a riflettere la luce in morbido chiaroscuro, si contrappongono, nella Crocifissione e in genere nella scultura a tema sacro, una figurazione più scarna, affilata e sofferta, superfici scabre, come martoriate da una tessitura di segni che commentano i volumi, mentre la luce ne sottolinea le asperità.Entra, nel linguaggio di Mazzotta, una sorta di tensione espressionista che tende a infrangere l’iniziale dimensione accademica della sua scultura e sembra guardare all’opera più nuova, ardita e ricca di contenuti umani di Giacomo Manzù.

Marina Pizzarelli

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Opere

(Foto Anna Panareo)

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Antonio Mazzotta, Crocifisso

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Vendemmia, s.d.legno

La statua lignea Vendemmia, di autore anonimo, scolpita in un tronco di leccio, è unica nel suo genere tra quelle presenti nella collezione del Museo. La scultu-ra, databile agli anni Cinquanta, ha stretti legami con le opere degli anni Venti di Arturo Martini per gli evidenti richiami all’essenzialità volumetrica delle se-vere forme plastiche desunte dalle sculture del tardo medioevo.Nel giovane, raffigurato mentre coglie un grappolo d’uva, è presente lo spirito dell’umile lavoro contadino che qui è rappresentato, non solo dal semplice atto della vendemmia, ma soprattutto dalla spiritualità del corpo nudo, simbolo di umiltà, di quella più semplice, la stessa che esprimono i volumi nella loro scabra sintesi formale.L’opera, nell’impostazione della figura, nell’equilibrio delle forme, ricorda Il Pa-storello del 1926 di Arturo Martini soprattutto per le concezioni plastiche con le quali sono pensati i rapporti volumetrici nello spazio, nel calibrato dinamismo vuoto-pieno, luce-ombra.

Salvatore Luperto

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Opere

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Vendemmia

(Foto Maurizio Madaro)

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Figure, s.d.Scultura in cemento da calco in gesso (a), pietra (b)

Scultura in pietra (calcare duro) realizzata in scala 1:1 con il pantografo o mac-china a pantografo (strumento utilizzato per riprodurre in scala un modello). Questo utensile, usato per incisioni, fabbricazione di modelli, ecc., è basato su principi analoghi a quelli del pantografo da disegno. La matita del pantografo da disegno nella macchina a pantografo è sostituita da una fresa in rotazione sul proprio asse con la quale viene modellata la scultura riprodotta.

Salvatore Luperto

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(Foto a - b Maurizio Madaro)

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Luigi LezziArnesano 1927 - 2006

Gatto, 1955massello di ferro

Frequenta la Regia Scuola Artistica Industriale e la bottega di via Monte Pa-subio del maestro Antonio D’Andrea, dove apprende le tecniche di battitura e di forgiatura del ferro. Nella fucina di D’Andrea ha l’opportunità di venire in contatto con importanti personalità dell’arte e della cultura del tempo dalle quali intuisce ed apprende una visione più ampia di pensiero e di vita.Per Lezzi, la lavorazione del ferro sarà la costante della sua esistenza. Su com-missione degli architetti più noti del tempo (Beniamino Barletti, Antonio Tem-pesta, Orazio Antonaci) realizza opere di accurata fattura che oggi sono visibili per le vie della città e in luoghi pubblici e privati. Lezzi modella il ferro con abile maestria nello stile dandreano ed esegue sculture in massello di ferro scol-pito e cesellato.L’opera Gatto dai volumi stilizzati evoca l’esigenza dell’autore di cogliere nel-l’essenzialità delle forme l’espressione inquieta del piccolo felino che istigato manifesta tutta la sua aggressività nella statica posizione d’attacco o di difesa.La superficie della scultura, dai margini spigolosi, è finemente battuta, su di essa riverbera la luce che sfuggendo sugli stretti piani ne accentua le geometriche forme. La scultura, pur rappresentando un gatto ritratto in senso orizzontale, si sviluppa in verticale per via del dorso molto arcuato e della coda, tesi verso l’alto in posa reattiva al pericolo.

Salvatore Luperto

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Opere

(Foto Maurizio Madaro)

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Luigi Lezzi, Gatto

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Cosimo Damiano TondoSan Cesario di Lecce 1938

Figure, 1954 - 1955pietra leccese

Come riferito dallo stesso artista, l’altorilievo è stato realizzato all’età di 16 o 17 anni. In considerazione di tale notizia la datazione dell’opera è compresa quindi tra il 1954 ed il 1955, periodo in cui egli è studente presso l’Istituto d’Arte “Giuseppe Pellegrino” di Lecce e segue le lezioni di scultura di Marcello Gennari. L’altorilievo, realizzato in pietra leccese, è contraddistinto dalla reiterazione dei medesimi tratti somatici plasmati con chiara intenzione espressionista. L’opera è composta da sei figure – quattro mulìebri e due maschili – diversamente at-teggiate che denotano l’abilità tecnica nel rendere i singoli volumi attraverso la contrapposizione di pieni e vuoti. La versione originaria, andata distrutta in cottura, era in terracotta.

Michele Afferri

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Opere

(Foto Maurizio Madaro)

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Cosimo Damiano Tondo, Figure

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Armando MarroccoGalatina 1939

Figure 1, 1959altorilievo in pietra leccese

Gli altorilievi Figure del 1959 ca., come risulta dalla data dei bozzetti, appar-tengono ad un ciclo di opere giovanili realizzate in pietra leccese negli anni in cui l’autore frequentava l’Istituto d’Arte “Pellegrino”. Esistono diverse repliche dello stesso soggetto (alcune in terracotta) nelle quali è rilevabile lo stesso sche-ma compositivo. In tutte sono ritratte figure femminili, in atteggiamenti ed espressioni differenti, senza una funzione ben precisa perché ognuna è conce-pita come elemento di una composizione in cui hanno un ruolo determinante i volumi posti in risalto dai vuoti e dai pieni scanditi dalla luce. Il contrasto luce-ombra in queste opere assume un ruolo fondamentale per quel dinamismo scultoreo che ne scaturisce.I due altorilievi del “Pellegrino” derivano dagli studi preparatori di otto bozzetti che approfondiscono la figura umana nelle linee e nei volumi plastici. «…in questi disegni – rileva Raffaele Gemma – le figure all’improvviso si allungano, si deformano elegantemente, si affollano; si nota subito che il tratto corre veloce sulla carta fissando non la figura reale ma l’immagine traslata»1.In questi lavori giovanili, scolastici, realizzati sotto la guida di Marcello Genna-ri, sono «insiti i semi di tutti gli sviluppi futuri».

Salvatore Luperto

1 R. GEMMA, Armando Marrocco Artecontemporanea, Silvia Editrice, Cologno Monzese, 2007, p. 9.

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Opere

(Foto Maurizio Madaro)

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Salvatore Luperto

Armando MarroccoBozzetti, 1958 - 1959tecniche varie

Nella pagina successiva: Armando Marrocco Figure 2, 1959 pietra leccese(Foto Maurizio Madaro)

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Presentazione

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Giancarlo MoscaraLecce 1940

Maschere, 1959 - 1961tempera su tavola

Tre figure fantasiosamente abbigliate si affollano dietro la ringhiera di un bal-concino barocco che ne arresta d’improvviso il passo. Una luce sommessa ri-schiara la scena. Pierrot regge in mano un bastone da parata tracciato con una rapida velatura che attraversa il quadro dall’alto verso il basso. Enigmatiche e malinconiche, le figure si propongono come convitati di una festa in maschera, come attori da commedia dell’arte o come silenziosi mimi da strada: identità indefinite, provenienti dalla pittura, da quella contemporanea, e non solo. Da Picasso a Matisse a Degas, l’opera offre la visione di una realtà mediata dall’arte. Le forme, ampie e distese, disegnate da campiture che il guizzare della linea definisce appena, rimandano a una figurazione classica appuntata con pochi segni; la narrazione procede per sintesi astratte. Modulazioni tonali di delicate cromie scandiscono i piani di uno spazio, quasi privo di sfondo, costruito dal colore: il protagonista, in abito bianco, avanza sul proscenio, i figuranti sono risucchiati nell’ombra. Il dipinto si qualifica per freschezza esecutiva, orchestrato da un segno pitto-rico che simula, nella qualità delle superfici, corpi, volti, abiti, fiori: un lessico articolato che traspone l’immagine da un piano naturalistico a quello della pit-tura. Giancarlo Moscara dipinse l’opera nel 1959/61, suoi primi anni da docente nell’ISA di Lecce, luogo in cui, nel corso della formazione tecnica e culturale, aveva avviato il confronto con l’arte contemporanea, da cui attingere linfa vitale per la sua energia creativa.

Anna Panareo

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Opere

(Foto Maurizio Madaro)

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Bruno MaggioSan Cesario di Lecce 1943

Bozzetti, 1962-1963penna e acquerello

In una grande, elegante cartella, conservata nell’ufficio di dirigenza, erano rac-colti numerosi fogli con la migliore produzione progettuale dell’Istituto nei pri-mi anni Sessanta. Fra gli altri, alcuni disegni di Bruno Maggio, allora studente della sezione Scultura. Una delle pagine accoglie due composizioni a carattere sacro e due rappresen-tazioni di vita popolare quotidiana. Sono già presenti in questi disegni giovanili alcuni temi e caratteri stilistici che Bruno Maggio approfondirà nel corso della sua ricerca: la sintesi formale e la verve narrativa dai toni popolareschi e ironici. Tre dei quattro disegni, l’Adorazione dei Magi, la Crocifissione e un Interno con figure, evidenti progetti per bassorilievi, sono simili nella composizione verticale in cui la sovrapposizione delle forme scandisce i livelli di profondità. Le figure e gli oggetti, disegnati con rapidi tratti, sono come incastrati in uno spazio com-presso, costruito secondo una sequenza di piani che prefigura nella rappresen-tazione grafica i valori plastici. La narrazione è affidata alla dinamica dei gesti e alla definizione dei particolari con cui l’autore manifesta il suo spirito ludico di arguto osservatore. La struttura compositiva geometrica e i volumi squadrati delle figure riman-dano a uno spazio figurativo di derivazione cubista-futurista ma non mancano memorie di figurazioni antiche presenti sul territorio pugliese. Di diversa impostazione una Processione nelle vie del paese, osservata come dal-l’alto di una finestra. Una folla di figurine appena accennate invade lo spazio, dalle strade alle finestre, con gesti e bisbigli di cui sembra quasi di avvertire il brusio.

Anna Panareo

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Opere

(Foto Maurizio Madaro)

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Marcello SambatiLequile 1945

Figure, 1962 - 1963grafite su carta

Noto ai più come il «piccolo-grande maestro del teatro italiano di ricerca» (M. Palladini), gli esordi di Marcello Sambati sono legati non al palcoscenico ma alle arti figurative. Salentino di nascita, ma capitolino d’adozione, Sambati, dal 1960 al 1963, frequenta l’Istituto d’Arte “G. Pellegrino” di Lecce. I disegni in esame, eseguiti durante le lezioni di Disegno Professionale, risalgono all’anno scolastico 1962/63, ricadente nella lungimirante e più che trentennale presi-denza Barletti. Attraverso una linea sinuosa e flessibile, l’artista segna, in una prima stesura, il valore stereometrico delle forme, rivelando il suo interesse per una figurazione svincolata dalla realtà, decisamente antiretorica. Evanescenti nudi, forse fem-minili, popolano uno spazio indefinito, assumendo ritmiche movenze e pose cadenzate: messaggi di immediatezza espressiva, costruiti attraverso un segno conciso, continuamente spezzato, che nulla concede al descrittivismo accade-mico. Da un ispirato ductus disegnativo scaturisce una dimensione intimistica, un mondo quotidiano silenzioso e sommesso. E mentre il vigoroso chiaroscuro rafforza il tessuto grafico, rievocando alla mente la contrapposizione tra luce e buio delle sue opere sceniche, le anonime silhouette anticipano i corpi d’ombra immortalati sulla tela dal fratello Romano e i silenziosi protagonisti del suo teatro d’avanguardia.

Carmelo Cipriani

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(Foto Maurizio Madaro)

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Auro SalvaneschiPinarolo Po (PV) 1936

Reperto materico, 1964ceramica

Artista leccese d’adozione, è uno dei protagonisti della ceramica moderna salentina che ha contribuito allo svecchiamento e al rinnovamento dei metodi di cottura e di lavorazione dei materiali a pasta compatta tra cui la porcellana, il grès e il refrattario.Sempre continuo l’interesse di Salvaneschi per l’arte contemporanea e per i movimenti artistici, di cui, a partire dalla sua iniziale formazione a Pesaro, ha sperimentato tecniche e materiali, pervenendo a conoscenze e competenze artistiche sempre maggiori. Negli anni Sessanta, da docente nell’Istituto d’Arte di Lecce ha animato nei suoi allievi l’entusiasmo per le innovazioni stilistiche delle coeve espressioni artistiche delle neoavanguardie soprattutto della cultura informale.Reperto materico del 1964 è un vaso scultura la cui faccia anteriore assume uno spessore differente, anche illusorio, in rapporto alla luce che penetra e si articola nella conformazione sgranata della superficie invetriata. Lo spessore in rilievo sul fronte dell’opera non ha forma se non “la non forma” e appartiene al ciclo delle opere materiche informali. In questo periodo l’artista raggiunge risultati estetici che lo allontanano dai linguaggi tradizionali e lo inducono a soluzioni formali che caratterizzeranno la sua ricerca di artista sperimentatore.

Salvatore Luperto

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Auro Salvaneschi, Reperto materico

(Foto Cosimo Marullo)

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Auro SalvaneschiPinarolo Po (PV) 1936

Senza titolo, 1964 - 1965maiolica su legno

L’opera risente delle molteplici suggestioni di un autore che nelle lavorazioni della ceramica ha sempre elaborato complesse ricerche e sperimentazioni. Un racconto fiabesco si snoda in un’atmosfera sospesa ricca di elementi fantastici in uno spazio che appare costantemente ribaltato. La narrazione s’incastra seguen-do il taglio delle tessere di maiolica che presentano contorni frastagliati e irrego-lari. Lo smalto grigio-azzurro, ricco di molteplici sfumature, si modula sui sin-goli frammenti nell’incastro dei quali si percepisce la ricerca di una geometria dolce evocata dalle strutture compositive e dai motivi decorativi della veste della fanciulla e degli elementi architettonici. Simmetrie volutamente incerte che nell’ampio cerchio/rosone collocato sulla destra raggiungono raffinati intrecci. Dotato di una sapiente maestria nelle tecniche di modellazione e di cottura, Auro Salvaneschi, all’epoca giovane insegnante dell’Istituto d’Arte “Pellegrino”, si dimostra lontano da un semplice figurativismo descrittivo e predilige un re-gistro più sintetico. Di ampie dimensioni, ma curato in ogni singolo dettaglio, il pannello si colloca su una linea intermedia tra le scelte informali tipiche della sua produzione ceramica e quelle figurative, quasi iperrealiste, che dominano invece nella produzione pittorica successiva anche se qui le due “dame dal collo lungo” hanno il sapore delle figure femminili di Modigliani e alcuni rimandi alla pittura di Castelluccio.

Marinilde Giannandrea

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(Foto Maurizio Madaro)

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Auro Salvaneschi, Senza titolo

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Oronzo CastelluccioLecce 1931-2007

Composizione, s. d.legno inciso e dipinto

Incisa sul legno come una xilografia, l’opera conserva tuttavia caratteristiche pittoriche nella qualità delle superfici e nella delicatezza delle modulazioni lu-minose. Fu eseguita da Oronzo Castelluccio nei primi anni Settanta – come ri-cordano docenti e allievi allora presenti nella scuola1 – e ne attesta lo sperimen-talismo tecnico, derivato forse dalla sua formazione e protratto nel tempo in un’incessante ricerca di modalità espressive diverse, verificate quotidianamente nella pratica didattica di laboratorio. Le forme si dispongono lungo direttrici diagonali, disegnate da linee ascendenti aggrovigliate che simulano un gesto automatico, sottoposte in realtà a un con-trollo percettivo che definisce equilibri e ritmi compositivi. I segni di sgorbia che incidono la superficie di fondo convergono verso il cen-tro, determinando un dinamismo rotante, convergente/divergente. La pittura compare su brevi superfici cromatiche con tocchi di colori complementari (ros-so, arancio, turchese un po’ ingialliti dal tempo); una decorazione geometrica, centrale, incorniciata dalla linea, risuona come nota bizzarra. Evidente il richiamo alle avanguardie artistiche del Novecento con cui Castel-luccio andava confrontando la sua vocazione di pittore essenzialmente figu-rativo. Echi dell’espressionismo astratto e del surrealismo si rintracciano nel segno e nelle forme, a tratti vagamente figurative: rimandi a Mirò, e Kandinskij, ma anche a forme primitive. Ma al di là dei riferimenti formali, riporta alle avanguardie il carattere sperimentale insito nella fattura stessa dell’opera su cui aleggia il divertissement di un gioco creativo.

Anna Panareo

1 Le testimonianze a cui si fa riferimento sono quelle di Giancarlo Moscara e Auro Salvaneschi, al tempo docenti nell’Istituto e Maurizio Barba allievo.

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(Foto Maurizio Madaro)

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Movimento rotatorio, s.d.cartoncino cromolux

L’opera, realizzata con fitti tagli a raggiera su cartoncino rosso e nero, sviluppa al suo interno, dal centro verso l’esterno, un efficace effetto cinetico che dal suo nucleo (che lo genera) si espande nel cerchio che lo racchiude.Essa agisce nel fruitore sollecitando la retina dei suoi occhi e conseguentemente la psiche, stimolandolo a interagire attivamente con l’opera nel suo movimento cinetico. Eseguita presumibilmente nei primi anni Settanta appartiene al ciclo delle spe-rimentazioni artistiche della sezione di Decorazione pittorica, guidate dai do-centi Oronzo Castelluccio e Giancarlo Moscara.

Salvatore Luperto

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Opere

(Foto Anna Panareo)

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Programmazione in bianco e nero, s.d.maiolica

Negli anni Sessanta gruppi di artisti si concentrano ed aderiscono all’idea del-l’arte programmata per polemizzare sulla funzione dell’opera d’arte nel rappor-to: cultura e tecnologia, autore e produzione artistica, riprendendo le teorie del Bauhaus o del Costruttivismo.Quest’opera geometrica modulare, eseguita da Salvatore Mazzotta nel 1970 sotto la direzione di Auro Salvaneschi, è formata da maioliche quadrate, ognu-na delle quali riproduce barrette nere verticali su fondo bianco (che ricorda l’attuale codice a barre). Ciascuna di esse, posta in successione una accanto al-l’altra, crea un’immagine idealmente infinita. La composizione, ripetitiva nelle linee verticali, presenta una elaborazione modulare che nasce da un’operazione meramente tecnica (priva di carica emotiva) ovvero da un progetto che ha una ricerca estetica nel ritmo replicato di forme lineari parallele di diverso spessore, che potrebbe non avere interruzione. In questo lavoro l’arte è quindi nel pro-getto, nella “programmazione” dell’opera che non è espressione di una poetica soggettiva, ma il risultato di un processo razionale, perfetto nella forma dell’im-magine, rigoroso nella sua geometricità.

Salvatore Luperto

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(Foto Maurizio Madaro)

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Marcello GennariManduria 1932

Madonna con bambino, s. d.pietra leccese

La delicata e raffinata scultura raffigura una Madonna-fanciulla con bambi-no, in atteggiamento di simbolica dedizione e devozione all’Ente Supremo. La Donna, con il busto e il capo elegantemente portato in avanti, accenna ad un umile inchino alla volontà divina. Lo rivelano gli sguardi compunti e assorti della madre e del figlio che, consapevoli del loro destino, sono disposti ad af-frontarlo con devota serenità.Uno spirito di intima religiosità, accentuato dalla grazia e della levità delle for-me, sembra diffondersi dall’opera creando un’atmosfera di sacralità, partecipata da tutti.La scultura di piccole dimensioni racchiude l’espressione matura dell’artista in cui linea e volumi si fondono in una vellutata e pura superficie. Su di essa la luce scivola disegnando, nei solchi incisi, i profili dei volti, del nudo corpo di Gesù e dei veli della Madre. L’opera è realizzata in un frammento di pietra leccese di forma prismatica con le due facce unite che tracciano, in un angolo frontale, il profilo delle due figure.

Salvatore Luperto

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(Foto Maurizio Madaro)

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Antonio MassariLecce 1932

Pulsar, 1975 ca.inchiostri su carta

Si forma a Lecce, dapprima presso il Liceo Classico e poi all’Istituto d’Arte “G. Pellegrino”. Dopo la morte del padre (1954), il poliedrico artista Michele Massari, Antonio inizia a dipingere con continuità, occupandosi in partico-lare di problematiche sociali e politiche. Dalla fine degli anni Sessanta, dopo il suo trasferimento in Lombardia, insoddisfatto delle due scelte “obbligate” della pittura (figurazione o astrazione), intraprende una terza via avviando una ricerca sperimentale sulle Carte assorbenti: opere frutto di un processo “casuale” legato al contatto dell’inchiostro galleggiante con la carta. Si dedica a questo ciclo, proponendo decine di varianti, per trentacinque anni, tanto che Pierre Restany l’ha ribattezzato perentoriamente “Il Meccanico delle acque”. Pulsar – dall’omonima serie di carte assorbenti – è stata realizzata intorno al 1975, disponendo un manto di inchiostro di china in una vasca da bagno piena d’ac-qua. In seguito a questo primo processo, l’artista ha poi spruzzato sulla super-ficie un inchiostro incolore che ha immediatamente generato migliaia di punti bianchi, simili all’immagine delle stelle. Secondo quanto ha ricordato lo stesso artista, il titolo di questo ciclo gli fu assegnato dall’amico Oscar Signorini, ani-matore dello Studio D’Ars di Milano, con il quale Massari collabora da quasi cinquant’anni per attività editoriali ed espositive.

Lorenzo Madaro

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(Foto Maurizio Madaro)

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Salvatore EspositoGallipoli 1937

Gallipoli, s. d.olio su tela

Nelle marine di Salvatore Esposito le note cromatiche si orchestrano in una sin-fonia di variazioni tonali per rappresentare il mare di Gallipoli (terra d’origine) o di Sardegna (terra di adozione). Il suo non è un mare aereo o prospettico, è un mare trasverso, perpendicolare, rappresentato in un taglio “archeologico” stratigrafico. È uno spazio marino visto dagli occhi di un sub immerso nella cri-stallina luce riflessa nell’acqua, in una dimensione acquatica in cui sono visibili le gocce che la compongono. Ogni goccia ha la sua cromia più intensa e meno intensa in relazione allo spettro solare; ogni goccia è una colorata tessera tra-sparente che compone il mosaico di un mare trasversale. Sono tasselli di colore, serrati e concatenati, che suggeriscono uno spazio trasmutato nella mente da una suggestione visiva, da un’impressione ottica che proviene dal suo “retroter-ra” formativo. In Esposito, rileva Fernando De Filippi «c’è l’impressionismo, o meglio il neo impressionismo, un neo divisionismo che non costruisce immagi-ni riconoscibili, ma che vivifica la pittura facendola vibrare attraverso il segno, in un continuo tributo emotivo»1. Nell’opera Gallipoli del Museo Pellegrino la gamma cromatica dei blu evidenzia l’astrazione mentale del mare gallipolino, impressionato nel ricordo, di quel tempo dilatato nella memoria, molto più ampio di quello vissuto dall’autore nella “bella città” salentina.

Salvatore Luperto

1 F. DE FILIPPI, Dimensione lirica della pittura, in Salvatore Esposito, Pittura come incanto del pae-saggio, catalogo della mostra a cura di C. Cerritelli, Sassari Palazzo della Provincia 1999, Milano 1999, p. 21.

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Salvatore Esposito, Gallipoli

(Foto Maurizio Madaro)

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Antonio GiganteLecce 1935

Ricordanze – Muro, 2003olio su tela

Corposi impasti cromatici sfumano fra loro, accennano forme, strutturano uno spazio stratificato come un decollage o un illusionismo teatrale. Un volto in-definito – vago autoritratto – campeggia in posizione centrale. Figuratività o astrazione? Ma la figurazione è già nell’enunciato: Ricordanze, Muro, espressio-ne di una vicenda umana materiale e psicologica elevata a registro squillante di colori puri. Gigante non smentisce la sua vocazione figurativa ma dissimula la rappresen-tazione in una dimensione pittorica allusiva. Il Muro ha valore concettuale e simbolico, individuale e universale, si propone come metafora della scena ur-bana, barriera, schermo su cui si proiettano pulsioni esistenziali, ma l’oggetto concreto si stempera in una materia cangiante che recupera sensazioni: la magia di un tempo ritrovato. Si allontanano l’espressionismo contratto e le problematiche meridionaliste, l’autore mette in scena un monologo interiore, una riflessione sul suo essere nel mondo nel presente della pittura. Nella materia pittorica Gigante ritrova tracce della memoria e, in ultima analisi, della propria esistenza. La tavolozza si rischiara, il colore dissolve i contorni delle forme, si espande fuori dai confini. Una luce vivida s’incunea fra le crepe, tralci di foglie nell’azzurro ricevono linfa dal frammento figurale assorto. Il linguaggio costruisce visioni, evoca sentimen-ti; nel presente è implicita un’idea di futuro.

Anna Panareo

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Antonio Gigante, Ricordanze - Muro

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Giovanni ValentiniGalatina 1939

Astrale cyborg 3002, 2003elaborazione digitale

Artista di grande intuizione e creatività. La sua curiosità intellettuale lo ha porta-to, nel corso della sua attività artistica, sin da quando diciassettenne frequentava il “Pellegrino”, a verificare idee e materiali in campi e ambienti vitali diversi.Negli anni Sessanta approda all’universo della telematica e la sperimenta dap-prima con i calcolatori IBM, successivamente con la cibernetica. È uno dei primi artisti italiani ad effettuare collegamenti tra dimensioni cyborg e arte, intuendo le possibili relazioni tra organismi evoluti e cultura tecnologica.Con l’opera Astrale Cyborg 3002 (esposta alla Biennale di Venezia 2011) l’au-tore ci permette di entrare nello spazio come un astronauta in viaggio in una galassia, per ammirare le meraviglie dell’universo, gli stupefacenti colori e la pura luce.La realtà virtuale, in questa simulazione digitale, diventa possibile: i corpi ce-lesti, la luce, la rarefazione della nebulosa appaiono verosimili in quanto prefi-gurano un mondo infinito al quale si può accedere trascendendo la finitudine della realtà.

Salvatore Luperto

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Giovanni Valentini, Astrale cyborg 3002

(Foto Maurizio Madaro)

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Fernando De FilippiLecce 1940

Arbor Solis, 2009Arcilico su cartoncino

Nella poetica di Fernando De Filippi il tema dell’albero è ricorrente per il suo significato simbolico che per antonomasia rappresenta la vita e il naturale colle-gamento tra terra-cielo, materia-spirito, finito-infinito.Se per i poeti tedeschi preromantici l’albero prescelto è la quercia, attorno alla quale romanticamente si ponevano gli interrogativi sul senso della vita e della felicità; se per Ciardo è l’ulivo, «deità casalinga», l’emblema dei valori radicati nella terra salentina, per De Filippi è l’albero, ogni albero che «contiene i frutti della conoscenza» e «rappresenta l’espansione della vita, la vittoria sulla morte, l’espressione perfetta del mistero della vita che costituisce la sacralità del co-smo»1. In Arbor Solis del 2009, De Filippi raffigura una palma nella cui chioma riporta una dedica autografa di Lenin per rappresentare la vita e la sapienza del mitico personaggio storico. Questo dipinto, riprendendo lo stesso soggetto del ciclo dei Paesaggi Tropicali degli anni Sessanta e Settanta, pone l’attenzione sull’equilibrio strutturale e sull’effetto cromatico nel loro valore estetico. Cultu-ralmente raffinato nella sua essenzialità, apparentemente semplice, è il risultato di un procedimento mentale e pittorico denso di contenuti e di elaborazioni tecniche. L’opera, accurata e sintetica, si caratterizza per l’univocità dell’imma-gine e per l’essenzialità del suo universale significato simbolico della vita di ieri e di oggi che rinvia a sollecitazioni vive ed esperienze nuove oltre la comune esistenza e i costumi consueti.

Salvatore Luperto

1 A. ALTAMIRA, FDF, 2009, in Fernando De Filippi, opere 1962-2009, a cura di M. Afferri e A. Cassiano, Lecce 2009, p. 113.

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Fernando De Filippi, Arbor Solis

(Foto Fernando De Filippi)

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Ugo MalecoreRitratto di Uccio Cucugliato, 2000terracotta(Foto Oronzo Fari)

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Intervista a Marcello Gennaria cura di Pina Talesco

Nel 1968, lei è diventato titolare della cattedra di Scultura nell’I.S.A. di Lecce, mentre era Direttore della Scuola l’architetto Beniamino Barletti. Quale impressione ebbe? Quali ricordi conserva?Nei miei ricordi, la scuola appare come un’isola felice, soprattutto all’inizio, quando la maggior parte degli alunni si iscriveva per vocazione. Era molto am-pia, con cinque sezioni e un numero di alunni elevato, ma l’architetto Beniami-no Barletti la dirigeva con competenza.

Prima del 1968, sempre nell’I.S.A. di Lecce, lei ha svolto l’incarico di aiuto labora-torio di Guido Gremigni, lo scultore toscano che è stato anche suo maestro e da cui ha appreso la tecnica di lavorazione dell’alabastro. Quanto è stato importante per lei il rapporto con questo artista?Guido Gremigni era una persona completa ... artista, uomo, tecnico. Era molto affabile, paterno.Sono stato il primo alunno a diplomarsi con lui nella sezione scultura e gli sono rimasto molto affezionato. Ai tempi di Gremigni l’alabastro non si lavorava, si scolpiva soltanto la pietra leccese. Quando il maestro fu trasferito, io mi trovai a portare avanti per un anno la sezione scultura, insieme a Mario Marra. Siamo stati noi (Marra era figlio di un marmista) a introdurre le pietre dure e l’alabastro, materiali diversi da quelli che si erano lavorati fino a quel tempo.

Erano in servizio con lei docenti che si sono distinti per il loro lavoro di progettisti, di artisti e di abili artigiani, tra cui lo stesso Direttore Beniamino Barletti, Orazio Antonaci, Marcello Fabbri, Auro Salvaneschi, Luigi Lezzi, Oronzo Castelluccio. Con questi colleghi stabilì collaborazione didattica, ma anche professionale e pri-vata.Quale fu il valore culturale e umano di quella esperienza?I rapporti erano cordialissimi con tutti, sia sul piano umano che professionale. Ognuno di noi, se aveva bisogno di materiale diverso da quello che aveva a sua disposizione, andava a chiederlo negli altri laboratori. C’era uno scambio con-tinuo, c’era collaborazione. Ricordo con nostalgia, per esempio, che sotto le fe-stività di Natale, nell’ultimo giorno di scuola, si faceva una sorta di lotteria per

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a cura di Pina Talesco

gli insegnanti, mettendo in palio i lavori meno riusciti, invece di distruggerli. Rimpiango la vecchia scuola d’arte dove si formavano bravi artigiani-artisti.Con il preside Barletti c’era un rapporto di stima reciproca, tant’è che sono stato vicepreside per diversi anni. Orazio Antonaci era un tipo molto dinamico. Era un innovatore. Ha introdot-to nella scuola le decorazioni a carattere modulare, cioè pannelli che si ripete-vano sempre uguali. A Siena, in un corso di pittura e scultura che frequentai con Castelluccio, presentarono come risultato di ricerca avveniristica proprio le decorazioni modulari, che noi già facevamo a Lecce. Noi eravamo avanti per merito di Antonaci, che si aggiornava continuamente perché girava, viaggiava, vedeva e suggeriva. Marcello Fabbri era un vero amico, sempre pieno di iniziative. Non avevamo, però, un rapporto di lavoro perché insegnava Progettazione nella sezione Ebani-steria.Auro Salvaneschi per me è un grande innovatore. Quando giunse nell’Istituto d’Arte noi eravamo fermi alle “cotule” (per usare un termine dialettale), cioè ai manufatti in creta, ai vasi. Salvaneschi introdusse un tipo di ceramica nuova, con colori opachi, secchi, senza brillantezza. All’inizio alcuni definirono questi lavori “cocci bruciati”, perché diversi da quelli smaltati e lucidi della ceramica tradizionale. Salvaneschi, inoltre, aveva anche un modo di modellare che mi sorprendeva: non partiva dall’insieme, ma da un particolare, per esempio da una mano, e via via costruiva la figura. Con lui ho lavorato in società per diversi anni in un laboratorio, fin quando non divenne preside, prima dell’Istituto d’Arte di Parabita e poi di quello di Lecce. Sotto la sua presidenza, l’Istituto d’Arte di Lecce si rinnovò: l’atrio e i corridoi si riempirono di manufatti. Era veramente una scuola d’arte!Con Luigi Lezzi c’era un’amicizia antica. Le qualità di lavoro erano favolose. Ha continuato la tradizione di D’Andrea, ha interpretato in modo nuovo il ferro togliendogli la pesantezza. Col ferro battuto creava uccelli, fiori, trine, spirali...Oronzo Castelluccio per me è stato un grande pittore, però a causa del suo carattere un po’ chiuso non è riuscito ad affermarsi come meritava. Aveva una padronanza del disegno favolosa, era di una scioltezza e di una rappresentatività grafica straordinaria. Era un po’ ombroso, però se diventava amico di una per-sona era capace di darle il cuore. Negli anni Sessanta, a seguito della riflessione sul rapporto tra morfologia geologica e architettura di un territorio, lei ha scelto la pietra leccese come materiale privilegiato delle sue opere.

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Intervista a Marcello Gennari

Si riconosce in questa scelta?Quali sono le fasi di lavorazione della sua opera?Generalmente non inseguo stili o correnti. Per me la realizzazione di un’opera è un modo di raccontare con la pietra, non essendo in grado di farlo con la scrittura come ho sempre desiderato. Ecco perché i temi della “Nostalgia”, del “Rimpianto” o de “L’esodo” (indica le opere).Mentre lavoro mi piace ascoltare la musica, specialmente quella del periodo romantico strumentale tedesco. Quando ascolto l’Inno alla gioia della Nona sinfonia di Beethoven, mi commuovo. Considero la Pittura e la Scultura come due “dinosauri” dell’espressione umana perché ormai, monumenti a parte, la scultura è oggettivamente ingombrante e il dipinto, come fatto cromatico, può essere sostituito da altri interventi ... con il computer si possono ottenere cose che non si ottengono con i mezzi tradizionali. L’importante è, però, che l’opera trasmetta carica umana...esprima creatività. La pietra per me è fondamentale. Quando andai a Volterra, patria dell’alabastro, rimasi colpito dai mucchi di pezzi di alabastro fuori dalle botteghe. A scuola cu-stodivamo l’alabastro come una reliquia; prima di lavorare un blocco facevamo lunghe discussioni per non rischiare di rovinarlo. In Toscana, invece, era ammas-sato come noi tenevamo i blocchi di pietra leccese. Allora pensai alla nostra pietra come un alabastro particolare, con una fisionomia geografica ben definita.Il Barocco leccese è un Barocco di superficie perché dal punto di vista architetto-nico i nostri edifici sono poveri, ma la pietra consente infiniti voli alla fantasia.Cominciai allora a pensare di rivalutare questo materiale, a studiare le caratte-ristiche delle cave, ad interessarmi ai vari gradi di qualità della pietra per l’inta-glio. Oggi sono orgoglioso di appartenere a un territorio che è una potenziale scultura... potremmo scolpire quasi tutto il suolo di Lecce, perché è tutto pietra leccese, appunto. Sognavo per l’oggettistica di fare dei manufatti diversi, con uno spirito di in-novazione, per risvegliare un po’ di orgoglio negli artigiani. Ecco perché ho insistito con il traforo, le incisioni, il colore… purtroppo non ho più forza nelle mani per spingere il ferro...

Nei molti anni di permanenza nel “Pellegrino” è stato a contatto con opere eseguite dai suoi predecessori, tra cui i lavori in ferro battuto di D’Andrea (un pregevole toro) oppure le sculture di Bortone e di Martinez e altre. Lei ha qualche ricordo delle circostanze in cui furono realizzate? In particolare può darci informazioni su due pezzi (un nudo di donna e un chitar-rista in gesso su base di legno) che una tradizione orale attribuisce a Calò?

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La realizzazione delle opere di Martinez e Bortone è antecedente a quella di Calò.Il nudo di donna e il chitarrista in gesso, come impostazione sono di Calò, ma l’esecuzione è degli alunni. Infatti, ho visto modellare il chitarrista da un ragazzo di Trepuzzi, mi sembra si chiamasse Elia. Anche la statua che raffigura un giovane seduto è stata realizzata da un alunno, Tornese, sotto la guida di Gremigni. Ricorda, infatti, lo stile di Arturo Martini. Nella maggior parte dei casi i lavori che attribuiamo ai maestri sono realizzati dagli alunni sotto la guida dei maestri.

Spazio espositivo, primi anni Sessanta.Archivio fotografico ISA Lecce.

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L’archivio fotografico dell’Istituto d’Arte di LecceAnna Panareo

Nel cassetto di un mobile dell’ufficio di dirigenza, elegantemente arredato dall’ar-chitetto Barletti, con mobili realizzati in parte nell’Istituto, sono state ritrovate, conservate in alcune buste, un certo numero di fotografie che costituiscono il primo nucleo dell’Archivio fotografico della scuola. Alcuni pacchetti, di piccolo formato (6 x 9), riguardano bassorilievi in argilla cruda, probabilmente lavori d’esame per il diploma di Maestro d’arte, documentati prima di essere distrutti. Le altre fotografie, in tutto quarantasette (più alcune copie) del formato di cm 13 x 18 circa, riprendono vari ambienti interni ed esterni dell’edificio scolastico (la facciata, l’atrio d’ingresso, lo spazio espositivo, la sala docenti, le aule, i laboratori, gli alberi e i padiglioni esterni e alcuni oggetti), lustrati per l’occasione, comple-tamente vuoti. La presenza degli operatori è affidata alla presentazione dei manu-fatti nei rispettivi laboratori e negli spazi espositivi. Qua e là compaiono, poggiate casualmente, anche alcune opere di pregio conservate nel museo “Pellegrino”. Solo due foto sono animate dalla presenza degli studenti. In una alcuni ragazzi sono all’opera nel laboratorio di Decorazione pittorica, quando questo era collo-cato nel padiglione a piano terra; sul retro della foto due timbri della scuola: uno verde con lo stemma sabaudo e uno viola con il logo della Repubblica italiana, per cui la foto potrebbe essere datata 1946 o anche precedentemente. In un’altra foto gli alunni e le alunne (poche), con la presenza di due docenti in piedi, sono seduti in tre file di banchi allineati nell’aula magna, probabilmente riuniti per una prova d’esame, com’era in uso disporre nella scuola fino a tempi recenti. La testimonianza di un’alunna del tempo permette di collocare la foto nella seconda metà degli anni Cinquanta1. Insieme a altre (in tutto quattordici) che riportano sul retro lo stesso timbro del fotografo (Cav. Starace, via Paladini, 9 Lecce), è opera di Salvatore Starace2 fotografo leccese professionista a cui venivano affidati negli anni Cinquanta incarichi di prestigio3. Raffinato nelle

1 Ci si riferisce alla testimonianza della prof.ssa Clara Pagliara Gennari, in quegli anni allieva dell’Istituto.2 Il fotografo Marcello Epifani, allievo di Salvatore Starace, ricorda che in quegli anni il laborato-rio fotografico si trovava all’indirizzo indicato nel timbro.3 Cfr. I. LAUDISA, La città dell’anima. Bella Lecce di Francesco Barbieri e Salvatore Starace, Edizioni del Grifo, Lecce 1993.

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Archivio fotografico ISA Lecce

inquadrature e nei procedimenti di stampa, Starace si serviva della luce per creare riflessi, sottili passaggi di tono e ombre morbide che determinano atmo-sfere pittoriche. Dal 1950/51 la scuola aveva iniziato a funzionare come Istituto d’arte4, e dal 1954 era diretta da Beniamino Barletti (1954/84) che intendeva in vario modo qualificarla e documentare la sua presenza, sia nella progettazione di alcuni arredi – come lo stesso ufficio di dirigenza, la sala docenti e gli spazi espositivi – che attraverso la produzione artistica dei laboratori. Probabilmente fu Barletti a commissionare le foto ritrovate in archivio, di cui, ad esclusione di quelle di Starace, si ignora l’operatore. Alcune potrebbero essere precedenti alla dirigenza Barletti, ma per la maggior parte sono attribuibili al suo primo decennio come direttore di cui documentano le trasformazioni apportate agli interni scolastici fino ai primi anni Sessanta.La scelta curatoriale ha privilegiato criteri documentari-narrativi piuttosto che criteri estetici: sono di seguito pubblicate fotografie dei laboratori – da quelle più antiche a quelle più recenti – dei luoghi cioè dove furono eseguite molte delle opere presenti nel costituendo museo.

Atrio dell’Istituto, anni Cinquanta. Foto Salvatore Starace.

4 Cfr. M. GIANNANDREA, L’Istituto d’Arte di Lecce tra il 1950 e il 1970, in I Maestri dell’Istituto d’Arte di Lecce, 1951-1970, catalogo della mostra a cura di S. Luperto, Edizioni del Grifo, Lecce 2007.

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I laboratori

Laboratorio Decorazione pittorica, foto anteriore al 1946.

Laboratorio Decorazione pittorica, primi anni Sessanta.

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Archivio fotografico ISA Lecce

Laboratorio Arte della ceramica, anni Cinquanta. Foto Salvatore Starace.

Laboratorio Decorazione, Arte della ceramica, anni Sessanta.

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I laboratori

Laboratorio Arte della ceramica, sala foggiatura e formatura, anni Sessanta.

Laboratorio Arte della ceramica, sala forni, anni Sessanta.

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Archivio fotografico ISA Lecce

Aula Disegno dal vero, anni Sessanta.

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I laboratori

Aula Disegno dal vero, anni Cinquanta. Foto Salvatore Starace.

Laboratorio scultura, anni Cinquanta.

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Archivio fotografico ISA Lecce

Aula Disegno professionale, Arte dei metalli, primi anni Sessanta.

Laboratorio Arte dei metalli, anni Sessanta.

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I laboratori

Laboratorio Disegnatori di architettura e arredamento, anni Sessanta.

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Finito di stamparenel mese di giugno 2012

dalla Tiemme (industria Grafica) Manduriaper conto di Edizioni Grifo - Lecce