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Castità consacrata e mutilazione spirituale JAMES W. HEISIG « In alcuni la castità è una virtù » scrisse Nietzsche, « ma in molti altri è quasi un vizio... Con quale raffinatezza cattivante la 'cagna sensualità' sa mendicare un pezzo di spirito, quando le si nega un pezzo di carne! ». L'amara esperienza ha diffuso, oggi, una nuova consapevolezza: la vita di castità consacrata, quale la si conduce in certe comunità religiose, regredisce a livello di muti- lazione spirituale; a stento merita il titolo di vita cristiana. Coloro che abbandonano lo stato di celibato confessando di non perce· pirne più, ai nostri giorni, il significato, non sono più eccezioni. Altri riman- gono, ma solo per inasprirsi progressivamente, disperando della possibilità di un qualsiasi equilibrio affettivo e chiudendosi nell'isolamento di fronte ai confratelli. Altri ancora sfruttano il quadro della vita religiosa come rifu- gio di sicurezza, mentre intrattengono illecite relazioni fuori delle mura, con o senza l'intenzione di andarsene e sposarsi. Né possiamo tacere che in comunità sia maschili che femminili i casi di « amicizie particolari » sem- brano in aumento. Non è più possibile ritenere, ingenuamente, che la « cagna sensualità » imperversi solo nel mondo esterno; essa si trova a suo agio anche in quelle case religiose dove l'immaturità affettiva e la sete di potere sfociano in abusi di ordine fisico e morale. Sarebbe · abbastanza facile ipotizzare una sbrigativa soluzione. del problema se davvero, come alcuni vorrebbero far credere, la legge dell'amore cristiano fosse dalla generalità autenticamente vis- suta nello stato comune di vita ... Non resterebbe che sciogliere le nostre comunità e invitare tutti, religiosi e suore, a rientrare in una vocazione i cui impegni risulterebbero più confacenti al messaggio del Nuovo Testamento. Ma il fatto sconcertante è che, ovunque si guardi nella realtà contemporanea, ben poca comprensione e rispet- to si riscontra per l'ideale cristiano dell'amore umano nei modi concreti di viverlo. L'impressionante numero di famiglie naufra- gate nel divorzio o nella separazione, il vanificarsi di ogni vera comunicazione familiare, il dilagante egoismo individua- listico, gli eccessi della decantata «liberazione sessuale»; questi e altri elementi di fatto concorrono a farci ritenere che ciò che ac- cade in certe comunità religiose sia, in realtà, un riflesso del declino dell'amore nelle società ultra-liberalizzate del mondo occidentale. I vari adattamenti che hanno instaurato nuovi rapporti tra la casa religiosa e il mondo esterno, hanno avuto conseguenze non sempre positive; in molti aspetti le nostre comunità sono divenute lo spec-

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Castità consacrata e mutilazione spirituale JAMES W. HEISIG

« In alcuni la castità è una virtù » scrisse Nietzsche, « ma in molti altri è quasi un vizio... Con quale raffinatezza cattivante la 'cagna sensualità' sa mendicare un pezzo di spirito, quando le si nega un pezzo di carne! ». L'amara esperienza ha diffuso, oggi, una nuova consapevolezza: la vita di castità consacrata, quale la si conduce in certe comunità religiose, regredisce a livello di muti­lazione spirituale; a stento merita il titolo di vita cristiana.

Coloro che abbandonano lo stato di celibato confessando di non perce· pirne più, ai nostri giorni, il significato, non sono più eccezioni. Altri riman­gono, ma solo per inasprirsi progressivamente, disperando della possibilità di un qualsiasi equilibrio affettivo e chiudendosi nell'isolamento di fronte ai confratelli. Altri ancora sfruttano il quadro della vita religiosa come rifu­gio di sicurezza, mentre intrattengono illecite relazioni fuori delle mura, con o senza l'intenzione di andarsene e sposarsi. Né possiamo tacere che in comunità sia maschili che femminili i casi di « amicizie particolari » sem­brano in aumento. Non è più possibile ritenere, ingenuamente, che la « cagna sensualità » imperversi solo nel mondo esterno; essa si trova a suo agio anche in quelle case religiose dove l'immaturità affettiva e la sete di potere sfociano in abusi di ordine fisico e morale.

Sarebbe · abbastanza facile ipotizzare una sbrigativa soluzione. del problema se davvero, come alcuni vorrebbero far credere, la legge dell'amore cristiano fosse dalla generalità autenticamente vis­suta nello stato comune di vita ... Non resterebbe che sciogliere le nostre comunità e invitare tutti, religiosi e suore, a rientrare in una vocazione i cui impegni risulterebbero più confacenti al messaggio del Nuovo Testamento. Ma il fatto sconcertante è che, ovunque si guardi nella realtà contemporanea, ben poca comprensione e rispet­to si riscontra per l'ideale cristiano dell'amore umano nei modi concreti di viverlo. L'impressionante numero di famiglie naufra­gate nel divorzio o nella separazione, il vanificarsi cresce~te di ogni vera comunicazione familiare, il dilagante egoismo individua­listico, gli eccessi della decantata «liberazione sessuale»; questi e altri elementi di fatto concorrono a farci ritenere che ciò che ac­cade in certe comunità religiose sia, in realtà, un riflesso del declino dell'amore nelle società ultra-liberalizzate del mondo occidentale. I vari adattamenti che hanno instaurato nuovi rapporti tra la casa religiosa e il mondo esterno, hanno avuto conseguenze non sempre positive; in molti aspetti le nostre comunità sono divenute lo spec-

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chio dei mali che minano la civiltà in generale. Con tutto ciò, non . assisteremmo a certi fatti se fosse in tutti presente una consapevo­

lezza: che pur cambiando ambiente, categoria teologica o stato di vita, uno non cambia il proprio cuore. Il vero amore cristiano non ha bisogno di scoprire nuove tecniche o metodi di vita: ogni ricerca di altre strade che non siano la dolorosa salita al Calvario, è destinata a fallire.

* * *

La vita religiosa rischia di perdere il suo riferimento e la sua appartenenza al Vangelo appena rinuncia ad essere lucidamente autocritica. Nei confronti della castità consacrata, questo ci impo­ne l'obbligo di armonizzare il nostro patrimonio di modelli, ideali e pratici, di vita evangelica, con l'esperienza vissuta dei religiosi di oggi.

Occorre innanzitutto riconoscere che gli evangelisti non ci han­no presentato il celibato di Gesù come un elemento dominante; il loro insegnamento ci indica solo che la contingenza sessuale deve essere abbracciata, in ogni caso, « in vista del Regno dei cieli » (Mt 19, 12). Poiché il Vangelo non contiene alcuna rivelazione sulla scelta del celibato da parte di Gesù né sui motivi personali che la ispirarono, non resta che considerare la condizione di Gesù entro la categoria più comprensiva della kénosis, il cui simbolo è la Croce. Con questo non si intende affatto esaltare lo stato di celi­bato al di sopra di quello matrimoniale, né stabilire una connes­sione necessaria fra la teologia kenotica e la rinuncia al matrimonio; né l'una né l'altra forma di vita costituisce un accesso privilegiato al vero amore cristiano; ciò che tutto decide, in questo campo, è la vocazione personale, il cui valore non va stabilito a detrimento di altre vocazioni, e le cui difficoltà non si sono mai mitigate con il creare una gerarchia di vocazioni... Il cuore ha ragioni sue per affidarsi a Dio, direbbe Pascal...

Ripetiamo che il celibato di Gesù, come ogni aspetto della sua vita, è un'espressione specifica della « via Crucis » che caratterizzò la sua missione di rivelare il Regno di Dio. In tutto il suo mini­stero pubblico, Gesù fu un uomo « a parte», incompreso dai suoi parenti, dai discepoli, da persecutori e avversari; non ebbe dove posare il capo né una casa da poter chiamare sua. La crocifissione non cominciò sul Calvario: gli ultimi patimenti furono il compi­mento di una crocifissione che aveva torturato il suo spirito fin dall'inizio. Bisognerebbe negare l'umanità del Cristo per supporre che egli abbia trovato facile attuare la sua vocazione vedendosi

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rigettato proprio da coloro che era venuto a servire e dovendo mor­tificare in sé la tendenza all'onore, al possesso e al piacere, e pre-

, gare in solitudine verso un cielo muto. La sua kénosis totale esi­. geva sempre più da lui, spingendolo a una povertà che lo spogliava ·di ogni interesse personale, a un'obbedienza che lo conduceva sem­pre più vicino a una morte ignominiosa, a una castità che gli ne­gava anche le soddisfazioni della comune condizione di _marito e di padre.

Le ragioni misteriose che ispirarono la decisione di Gesù di ri­manere celibe furono per molto tempo oggetto di attenzione e di investigazione, al punto che la teologia del celibato è fra le tradi­zioni più venerande della cristianità. Eppure, non sono mancati i ~< detrattori » della vita di castità consacrata; secondo alcuni, si tratterebbe di una disciplina di origine pagana, in cui non vi sa­rebbe· nulla di sano.

Si possono esemplificare questi due filoni della cultura occidentale cri­stiana, con la presentazione dei due ritratti contrastanti di Gesù, dati da due narratori del nostro secolo: D. H. Lawrence e Nikos Kazantzakis.

Nel romanzo The Man Who Died, Lawrence fa dipendere il celibato di Gesù da una scelta giovanile deviante; spinto da una religiosità morbosa, egli avrebbe intrapreso, senza sufficiente esperienza, una via che egli stesso avrebbe abbandonato se dopo gli eventi del Calvario avesse avuto la possi­bilità di tornare a una vita normale. Per Lawrence, la vita di Gesù narrata dai Vangeli è una vita di dare senza ricevere; in una specie di autoannien­tamento, egli si negò ogni possibilità di arricchimento da parte degli altri. Così Gesù rimase il Dio incarnato che poteva dare, captativamente, ai suoi simili, senza poter ricevere nulla da loro. Nel romanzo citato, Gesù ritorna davvero una . seconda volta, risvegliandosi dalla sua sepoltura, con un pro­fondo senso di insoddisfazione per avere, di fatto, perduto gli anni migliori della sua esistenza. Questa volta decide di scegliere una vita di cklre e rice­vere: sperimenta l'amore umano, e con questo le frustrazioni causate dalla originaria vocazione messianica vengono sanate. Con ciò, Lawrence ci offre la prima interpretazione del celibato come disciplina autodistruttiva che estrania un individuo dai suoi simili, nell'illusoria ricerca di una superiorità spirituale.

Anche Kazantzakis considera il celibato di Gesù come un aspetto del suo ruolo messianico; ma vi trova, riflesso risolutamente nel suo stile di vita, un valore che Lawrence non aveva riconosciuto. Il suo libro The Last Temptation of Christ si chiude col superamento di una tormentosa tenta­zione che sconvolge Gesù nella sua agonia in Croce. In un attimo di allu­cinazione, il passato scorre davanti ai suoi occhi; immagina di vivere una seconda volta, in una famiglia propria, nel sereno focolare di Betania, lon­tano dall'assurdo idealismo della missione messianica e libero da tutto ciò che lo aveva portato a morire in tanta desolazione, abbandonato da tutti come un criminale. Quando rientra in se stesso, si trova inchiodato alla croce, in agonia di morte; superando quest'ultima tentazione e sottometten­dosi all'imperscrutabile ed esigente volontà di Dio, consegna l'anima al Pa­dr~ e muore.

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Avendo vissuto una gran parte della sua vita in celibato, Kazantzakis nu­triva un rispetto profondo per questo aspetto della vita di Gesù, e in esso riscontrava un simbolo mistico dei limiti della natura umana di fronte al­l'irresistibile trascendenza di Dio. In entrambi i racconti, il celibato forma una parte essenziale del carattere di Gesù; mentre però per Lawrence esso prende un aspetto di egoistica e illusoria autosufficienza, per Kazantzakis è un elemento necessario nella vita di ogni uomo che fissa il suo sguardo all'orizzonte ...

Se assumiamo quest'ultimo e più positivo punto di vista, ve­diamo subito che il celibato, come rinuncia a sistemarsi nel matri­monio, ha un risvolto attivistico il cui valore pastorale è innegabile; libero, infatti, dalle preoccupazioni che assorbono un uomo che si è fatto la propria famiglia, il celibe può muoversi con totale dispo­nibilità, secondo le esigenze del suo servizio, come sperimentò e affermò anche s. Paolo (l Co 7, 32-35). Però, come ogni disciplina pratica, anche il celibato può smarrirsi per vie traverse, fino al punto da rendere la persona schiava delle proprie tendenze indi­viduali, in aperto tradimento di coloro che avrebbe dovuto servire: « sicché l'ultima condizione di quest'uomo diventa peggiore deila prima» (Mt 12, 45). Nel suo aspetto più personale; la rinuncia a sistemarsi nel matrimonio presenta un altro valore: lo stile di vita che si sceglie assurge a simbolo della situazione umana, in quel senso di Unheimlichkeit il quale ci ricorda che il cristiano non trova mai la sua installazione definitiva sulla terra, e che il suo cuore è inquieto finché non raggiunge Dio. Se v'è un pericolo in tali prospettive, è che potrebbero condurre, al limite, a negare ogni valore alle manifestazioni di amore e di intimità con gli altri, contraddicendo così il vero significato dell'Incarnazione. E inne­gabile però che, se nella vita di celibato venissero meno le premes­se spirituali o i frutti concreti, il risultato sarebbe un vuoto e una menzogna della peggior specie: la vita degenererebbe in un'appro- · priazione inautentica d'un nobile ideale.

Quando cerchiamo di dare all'ideale del celibato un contenuto e un significato attuale, siamo presi entro l'esigenza di mettere in correlazione la fede e l'esperienza, di applicare l'immagine del Cristo kenotico alle esigenze del destino individuale. Sorge allora un problema etico di primaria portata, la cui soluzione estende il

. campo della moralità ben al di là dei limiti della legge, e pone l'in­dividuo nella completa solitudine della decisione personale. La ra­gione si arrende davanti al compimento, e solo in secondo tempo rinnova il tentativo di integrare entro il suo potere di discerni­mento le conseguenze della propria scelta. Una difesa della castità consacrata non può essere confusa con una dimostrazione sillogi­stica; non è che il tentativo di renderei conto delle misteriose aspi-

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razioni del cuore che invitano ogni individuo, ciascuno a modo suo, a prolungare nel tempo e nello spazio il Signore incarnato. Da que­sta prospettiva vorremmo offrire ai lettori alcune considerazioni.

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C'è una tensione congenita nella natura umana, un paradosso insolubile che sfida la nostra ragione: tutti gli uomini possiedono, ciascuno a suo modo, aspirazioni e bisogni infiniti: ma ciò che rie­scono concretamente a conseguire non adegua mai l'oggetto delle loro tendenze; le loro capacità operative restano sempre al di sotto dei loro desideri. L'ambiguità di questa paradossale esperienza appare dal ventaglio delle interpretazioni che se ne dànno: da un estremo, c'è il nichilismo anarchico e scettico di chi vi vede la prova lampante che l'universo non è che un caos senza significato e senza scopo; al limite opposto, molti vedono in quell'esperienza la dimostrazione che i nostri desideri spontanei- devono sfociare, oltre la vita presente, nell'immortalità dell'uomo e nell'esistenza vera di Dio. Resta il fatto che, talvolta, la forza di certi eventi rende difficile, se non impossibile, subire . la contraddizione senza assumere una qualsiasi presa di posizione personale: la morte tra­gica di una persona cara, la sofferenza che travolge degli innocenti, lo scatenarsi cieco dei disastri naturali, sono esempi di eventi che spingono l'uomo sull'orlo di un abisso dove, come Giobbe, si trova impotente dinanzi all'ignoto e all'inevitabile. « Dove trovo io la forza di sperare ancora, e quando verrà la mia fine, che sempre aspetto? Ecco, non c'è più aiuto per me, e da me s'è allontanato ogni soccorso! » (Giob 6, 11-13). Non ci resta che da scegliere: o rifugiarci nella ricerca di attività e soddisfazioni immediate, ridu­cendo le nostre aspirazioni entro il quadro di ciò che è alla nostra portata; o avventurarci oltre, accettando i limiti della condizione umana non in una disperazione nichilista, ma in un atteggiamento radicale di speranza nutrita dalla fede in Dio.

Il proposito di affrontare il paradosso della condizione umana in questo impegno radicale e con lo sguardo all'orizzonte, è l'ulti- · ma giustificazione per qualsiasi mortificazione intenzionale. La sof­ferenza è una realtà alla quale nessuna esistenza umana può sfug­gire; ma la sua pura presenza non garantisce che essa abbia anche un significato per la persona. Troppo spesso, per sottrarci a .que­sta sfida, razionalizziamo, con una certa approssimazione, l'origine immediata della sofferenza: un disordine nella struttura sociale, un capriccio della natura, la malevolenza calcolata o irresponsabile de­gli altri, una disfunzione fisiologica, o l'immaturità, l'inesperienza,

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gli errori personali: basterebbe scoprire le cause e neutralizzarle per cancellare la sofferenza ... Una simile preoccupazione di iden­tificare ed eliminare le cause non ha alcun senso per la mortifica­zione, sofferenza liberamente progettata e scelta e il cui fine con­siste proprio nel condurre la persona alla consapevolezza della sua creaturalità e dell'inautenticità di ogni presunzione di voler essere come Dio. Non possiamo dilungarci nel chiarire i benefici, e i rischi, della mortificazione: osserviamo solo che se coltivassimo di più questa intuizione di fondo, forse ci avvicineremmo maggiormente al significato fondamentale della castità consacrata. ·

Una delle convinzioni più radicate nella cultura occidentale è che l'uomo potrà un giorno controllare integralmente il quadro della sua esistenza; allora la cosidetta « provvidenza » sarà ridotta a una nozione prescientifica. Il progresso sbalorditivo delle scienze dell'uomo e della natura ha diffuso la speranza che sia possibile eliminare gradualmente il disordine e la sofferenza. Per buona parte questa orgogliosa presunzione contemporanea è una reazione a tutta una tradizione di formalismo religioso che interpretava la via della perfezione come una serie di esercizi prestabiliti, da compiersi si­stt~maticamente secondo regole fisse; ma oggi stiamo uscendo dalla mentalità teologica e dagli atteggiamenti spirituali che condussero molti a cercare nei gesti liturgici, nella pura ripetizione di preghiere, nell'uso di oggetto sacri e nell'osservanza delle varie norme reli­giose, altrettanti metodi infallibili per capitalizzare meriti nella 15àn­ca celeste. Non ci siamo liberati completamente, però, dal pregiu­dizio sottostante: che la salvezza, tanto temporale che eterna, sia in funzione diretta dei nostri poteri e delle nostre prestazioni.

All'estremo opposto, l'intuizione prevalente nella spiritualità orientale è stata che l'individuo debba deporre ogni presunzione nei propri poteri, per aderire a qualcosa o a Qualcuno più grande di lui. Purtroppo, questa prospettiva può sfociare nella alienazione o nella dissoluzione della personalità; e di qui, ancora una volta, in tanto dolore e tanto male nel niondo ... Ora, ciò che la mortifica­zione cerca di raggiungere, è proprio una sintesi della sapienza dell'Occidente con quella dell'Oriente: conservare la libertà e la ~ trascendenza della volontà, sottolineando in pari tempo i limiti delle risorse dell'uomo e la necessità di confidare nel più alto dinamismo della Provvidenza.

* * *

Tutto ciò ha un rapporto diretto con la questione dell'amore umano, esempio palese del paradosso della nostra esistenza. Quan­do due persone si amano veramente, il loro mutuo accettarsi, do-

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narsi, condividere ogni cosa, li tocca in ogni aspetto della vita e li conduce a un reale impegno esistenziale. Nel senso più pieno, emozionalmente e fisicamente, due persone esprimono tale impegno nell'atto di amore che è il tentativo di fare appello a tutte le ener-

. gie a servizio dell'intimità: dove « due » diventano « una sola carne » nella ricerca di una nuova unità di comunione. Quando l'attrattiva reciproca attinge il vertice dell'ebbrezza, nell'unione, può far sorgere l'illusione momentanea della riuscita; ma alla fine c'è di nuovo la separazione, e ciascuno, ritirandosi nella propria in­dividualità, avverte la frustrazione di aspirazioni più alte delle pro­prie forze. Nell'uomo, questa sopravveniente tristezza è propria­mente metafisica, al suo livello più profondo; e tale rimarrebbe se non fosse accompagnata dalla speranza: ci sono sempre nuovi sforzi da fare, un nuovo domani da preparare, tanti errori da superare ...

L'importanza dell'impegno nella condizione matrimoniale deve essere evidente: solo con il proposito serio di crescere insieme nel­l'amore può nascere, al di là del piacere effimero, un valore signi­ficativo per entrambi. ~ forse un bene che tali impegni si assumano per lo più nell'ardore ma anche nella semplicità e ingenuità gio­vanile; la piena coscienza, frutto dell'età più esperta, che ogni no­stro sforzo sfocia nell'insoddisfazione, spaventerebbe molte anime sensibili e le indurrebbe all'isolamento. Dopo tutto, lo Spirito spira dove vuole e non può essere vincolato dal contesto matrimoniale: coniuge, casa, figli; il cuore umano è incapace di avere quaggiù un appagamento durevole nell'esplicazione delle sue capacità di amare ...

La castità consacrata non deve in alcun modo essere vissuta co­me una fuga dalla sofferenza profonda che l'amore umano implica. Il celibato è una forma dell'amore la cui caratteristica principale è l'accettazione cosciente della tensione fra desiderio e impotenza; è la scelta di trasformare quell'insicurezza nell'apertura al Dio in­travisto all'orizzonte. Esso attua questa scelta attraverso l'assunzio­ne deliberata della mortificazione di certe espressioni déll'amore. Il cristiano non dovrebbe tentare di intraprendere la imi-tatio Christi in una prospettiva di assoluta solitudine, lontano dai rischi con­creti, dai dolori reali e dalle esigenze pressanti che l'amore del prossimo comporta. Ciò a cui si rinuncia, da celibi consacrati, . nella ricerca dell'amore, è solamente la relazione esclusiva e la limita­zione del quadro di affetto e di impegno alla propria famiglia, in forza di un vincolo che lega il proprio destino a quello di un'altra persona e implica l'identificazione di sé nei modelli che esprimono e sviluppano tale impegno. Ciò che invece si assume è l'impegno più inclusivo: a porre, cioè, l'energia totale della persona a servizio

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di chiunque ne abbia bisogno, senza riservarsi in modo particolare a una sola persona. Evidentemente ci sono dei pericoli, ma anche meravigliose possibilità in un ideale così straordinario.

Il rischio reale che si può· incontrare nel consacrare se stesso ad una vita di castità è in quelle varie forme di mutilazione spirituale nelle quali, triste a dirsi, troppi religiosi finiscono col re­gredire. Il sintomo più ovvio di ciò è l'evidente paura dell'altro sesso, che sembra essere la sorte inevitabile, almeno per un certo periodo, di ogni persona consacrata, uomo o donna. Col passar del tempo e con più esperienza, l'insicurezza e il visibile disagio si compongono in una maschera convenzionale di buone maniere: ma lo smarrimento interiore e l'insicurezza continuano ad esau­rire le energie spirituali. ~ sciocco credere che la sessualità si limiti .alla sua componente fisica; è un bisogno fondamentale della per­sona raggiungere il completamento di sé attraverso il confronto e anche il conflitto che solo una « comparte >> è in grado di suscitare in lei. Si conquista la propria unicità solo accettando di esporre le proprie idee e sentimenti all'influsso complementare dell'altro ses­so; se infatti il celibato è una forma di amore universale, come tale non può escludere pregiudizialmente la metà del genere umano. La verginità consacrata non è un mezzo di preservazione di se stesso, un seppellire il proprio talento sotterra per restituirlo un giorno, integro ma senza incremento; è anzi un mezzo di donazione di se stesso, che accetta certe rinunce solo per poter dare di più. Sareb­be segno indubitabile che il celibato non è vocazione adatta a una persona, rilevare che esso richiederebbe da lei l'estinzione della facoltà stessa di amare in qualsiasi relazione umana. Il vero impe­gno del celibe è innamorarsi...

Conseguenza del deliberato isolamento sessuale è, molte volte, la fuga da se stesso, così frequente tra religiosi. ~ davvero triste rilevare il numero notevole di religiosi che ignorano se stessi al punto di convincersi che mancano di ogni valore personale. Anzi­ché rivolgersi a chi potrebbe aiutarli, preferiscono immergersi a capofitto · nell'attività, infatuandosi progressivamente nell'ostenta­zione dei propri successi visibili e alienandosi completamente da ciò che Dio benedì nello spirito umano con la sua Incarnazione. Per cogliere la portata del precetto: Amerai il prossimo tuo come te stesso, occorre comprendere che, piaccia o no, non possiamo ac­costarci agli altri più di quanto siamo disposti a rischiare di acco­starci a noi stessi. Ma le fughe da questo processo sono legione: l'illusorio orgoglio di autosufficienza, l'abitudine emozionalmente bloccante di dipendere troppo da «mamma»; l'ostentazione abu­siva di potere e di autorità; la tendenza ad accaparrare possessi

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personali e l'incapacità di affrontare se stesso ... Tutto ciò finisce col contagiare anche coloro che ripongono fiducia in una persona così impoverita ...

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Quando si deve prendere atto di tali esiti deteriori, si è indotti a sospettare che le grandi possibilità del celibato consacrato siano rimaste inespresse; se così non fosse, ci si dovrebbe astenere dall'in­coraggiare la vocazione al celibato che sorge così imprevista in ani­me giovanili piene di energia e impazienti di dedicarsi al servizio degli altri. A parte le molteplici occasioni per crescere nell'amore che accompagnano ogni vita di servizio, c'è un senso particolare secondo n· quale la disciplina mortificante del celibato apre la per­sona a una comprensione più profonda della propria umanità. Nel­l'ipotesi che uno non tenti di attenuare artificialmente la tensione della sofferenza necessaria - ad esempio precludendosi ogni rap­porto con persone o cose che gli ricordino il « frutto proibito » -è naturale supporre che la via a cui si è rinunciato possa, a volte, apparire molto allettante. L'amore eterosessuale è ordinariamente l'origine e il punto focale della maggior parte di tali problemi nella vita di celibato. Le situazioni in cui un consacrato, uomo o donna, ha normali contatti o collaborazioni con l'altro sesso, offrono poche difficoltà per la sua vocazione; mi pare raro invece il caso di per­sone consacrate che non giungano mai a dubitare della validità della propria castità, di fronte a una persona che sembra rappre­sentare la possibilità ideale per un pieno sviluppo umano nell'amo­re. f: l'eventualità più dolorosa, ma anche la più stimolante, che la vita di celibato può incontrare.

L'immediata e istintiva reazione a questa situazione è la vo­glia di deporre l'impegno della castità in entrambi i suoi aspetti fondamentali: la rinuncia alla donazione esclusiva di sé a una per­sona e alla normale espressione sessuale di questa donazione. In altre parole, è abbastanza facile accettare la mortificazione finché non si deve affrontare una sfida diretta, concreta ed emozionale; ma la forza del sentimento crescente tende a sfocare la scelta ini­ziale e a suggerire un arsenale di sofismi che a poco a poco la fan­no apparire priva di motivi e di significato. Non è neppure possi­bile scartare in ogni caso come assurda l'eventualità che sentimenti spontanei, specialmente se permangono invariati per un periodo assai lungo, vengano talvolta a prevalere su un impegno assunto di castità, rivelando una vocazione più profonda. Il destino non segue alcuna legge, e tanto meno quelle della logica razionale; spesso trascina uno per una· serie di impegni secondari, manifestando solo

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più tardi le sue prospettive autentiche. Ma sarebbe ben ingenuo chi pensasse che ciò si verifichi tanto spesso, al giorno d'oggi, quanto i meccanismi di razionalizzazione vorrebbero far credere.

Il celibe disposto a non fuggire - nell'isolamento o nel com­promesso sessuale - la tensione inevitabile, si trova immancabil­mente in quella situazione sconcertante che lo lascia combattuto fra desideri inappagati e appagamento indesiderabile. Da una parte, pulsioni instintive attraggono prepotentemente la sua attenzione, e dall'altra la rinuncia liberamente scelta chiede di essere attuata. La sapienza dell'Occidente sembra contendere nel suo cuore con la sapienza dell'Oriente: ci sono tante occasioni a portata di mano per afferrare la desiderata felicità; ma c'è qualcosa in lui che gli dice di superarle confidando totalmente in Dio. Vivere questa ten­sione e guardare nell'abisso, è provare la profondità della sofferenza che solo l'amore sa causare; ma è anche accettare il paradosso di essere uomo. Se uno non esita davanti alla solitudine e alla fru­strazione di una simile esperienza, può arrivare a comprendere in modo assai illuminante il significato del « prendere la propria cro­ce ». Chi è chiamato ad « avere gli stessi sentimenti che erano in Gesù Cristo» (Fil 2, 5) può comprendere che non esiste confor­mazione con Cristo più vera che abbandonare il proprio volere e potere in un atto di rinuncia che contraddice la ragione umana. Così si coglie un raggio di quella luce che trascende l'uomo. Non sarà forse un'esperienza sempre dolce: potrebbe essere terrificante all'estremo. Ma possiamo contemplare il nostro modello in Gesù, la cui agonia sulla Croce sembra averlo portato alla prova suprema di non poter comprendere le vie del Dio di amore, ma che infine affidò il suo spirito al Padre nella fede. Nel profondo di ciascun uomo, Dio opera continuamente: Egli sa scrivere diritto sulle no­stre righe storte, e porta a compimento il suo disegno con la nostra collaborazione. « Chi può comprendere, comprenda» (Mt 19, 12).

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NOTE E DISCUSSIONI

Riceviamo e pubblichiamo

Reverendo Padre Heisig,

Voglia scusare se mi permetto di scriverle pur senza conoscerla. Ho letto in «Vita Consacrata» di giugno-luglio 1972 il suo articolo

« Castità consacrata e mutilazione spirituale » veramente interessante. In seguito a tale lettura, mi sono sentito spinto a comunicarle una mia rifles­sione. Si tratta del significato, della natura del celibato di Gesù.

Dirò, per cominciare, che, alla parola celibato che indica un semplice stato civile, preferisco la parola « verginità » o « verginità consacrata », che contiene un riferimento, sia pure implicito, alla intenzione.

Lei scrive a pag. 4 73: « Ripetiamo che il celibato di Gesù, come ogni aspetto della sua vita, è una espressione specifica della via crucis che caratterizzò la sua missione di rivelare il regno di Dio». f: precisamente su questo punto . che mi permetto di non essere totalmente d'accordo.

Che la verginità sia per noi, semplici uomini e, per di più, segnati dal peccato originale e provati dalla triplice concupiscenza, anzitutto una rinuncia, e una rinuncia così profonda nella nostra carne, nel nostro spirito e nel nostro cuore, da essere indiscutibilmente una espressione specifica della « via crucis » che dobbiamo percorrere per giungere al regno di Dio e per far progredire nel mondo tale regno, questo è palese.

Ma fu lo stesso per Gesù? Egli fu pienamente uomo, l'uomo più normale di tutti, è vero. Poteva

dunque sposarsi: niente gli mancava per farlo. Però da un altro punto di vista, direi che non poteva farlo.

Mi spiego riferendomi a due passi del suo articolo: a) Lei scrive, a proposito del pensiero di Kazantzakis, pag. 475: «Se

assumiamo quest'ultimo e più positivo punto di vista, vediamo subito che il celibato, come rinuncia a sistemarsi nel matrimonio, ha un risvolto attivistico -il cui valore pastorale è innegabile; libero infatti dalle preoccu­pazioni che assorbono un uomo che sì è fatto la propria famiglia, il celibe può muoversi con totale disponibilità, secondo le esigenze del suo servizio, come sperimentò e affermò S. Paolo». Ora se qualcuno, in tutta la storia, ha dovuto essere pienamente libero, disponibile, per la missione da com­piere, è proprio Gesù. f: vero che nell'immediato, nel visibile, Egli non ha avuto se non un'attività assai limitata nel tempo e nello spazio. Ma al di là della sua attività umanamente misurabile, c'era la missione smisurata affidatagli dal Padre: il Padre da dvelare, il mondo da salvare, il Regno

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da instaurare. Se, ragazzino dodicenne, Egli doveva già liberarsi dall'au­torità, quanto legittima, dei genitori, per attendere alle cose del Padre suo,

' come mai avrebbe potuto mettere da sé un limite costringente alla sua . disponibilità al Padre, come sarebbe stato il matrimonio? E voleva inse­gnarci una simile disponibilità al servizio del Regno.

Molto più profonda mi appare la seconda ragione:

b) Lei scrive a pag. 475 in piccole lettere, che, nel celibato di Gesù, Kazantzakis « riscontrava un simbolo mistico dei limiti della natura uma­na di fronte all'irresistibile trascendenza di Dio ».

Questa formula mi sembra atta ad esprimere il mio pensiero più pro­fondo al dguardo: come mai Gesù, Figlio consostanziale del Padre, Gesù che ancora durante la sua vita quaggiù,« è nel seno del Padre» (Gv. 1, 18), Gesù che viene per sposare l'umanità radunata nella Chiesa (Ef. 5, 21-32), Gesù in cui ciascuno deve poter riconoscere lo Sposo unico (2 Cor. 11, 2), come mai Gesù avrebbe potuto legarsi ad una particolare sposa, avere dei propri figli, Lui che era venuto« per raccogliere in unità i figli di Dio dispersi» (Gv. 11, 52), anzi per essere, Lui stesso « Primogenito fra un gran numero di fratelli »? (Rom. 8, 29). Come mai Lui che doveva riunire

~~ tutti gli uomini nel suo corpo come altrettante membra, avrebbe potuto , lt dare il suo stesso corpo, pur nel matrimonio più santo, a una donna?

Se ne può dire altrettanto dell'Eucarestia.

, No, veramente non posso vedere come Gesù avrebbe potuto sposarsi. Ora in Lui c'era una sottomissione perfetta, e perfettamente naturale,

della carne allo spirito, dello spirito a Dio. Pur conoscendo, e meglio di chiunque, la bellezza e la grandezza dello stato matrimoniale e della pater­nità umana, Gesù, penso, non avrà conosciuto lo strazio interiore che costituisce, normalmente, per gli altri uomini, la rinuncia al matrimonio. Mi sembra dunque difficile riconoscere nel suo celibato una « espressione specifica della via crucis ». Ciò non impedisce di « considerare la condi­zione di Gesù entro la categoria più comprensiva della kénosis » (p. 473): non come una rinuncia, una privazione, bensì come una manifestazione dell'impossibilità per la trascendenza di Dio di lasciarsi sopraffare dalla limitatezza inerente alla natura umana, pur accettando di entrare nei limiti della natura umana, ma liberamente, conforme al disegno stabilito da Dio stesso.

Se mi sono permesso di comunicarle questa riflessione è in vista di un doppio scopo: mettere meglio in rilievo quello che, pur nella kénosis dell'Incarnazione, distingue Gesù da qualsiasi altro uomo; aiutare noi, che vogliamo seguirlo nella sua verginità, a prender coscienza dell'elemento di trascendenza divina contenuto in tale vocazione: senza il minimo di­sprezzo per il matrimonio, abbiamo sentito, per noi personalmente, una vera impossibilità a sottomettere alla limitatezza, non soltanto di una famiglia propria, ma anche dello stesso stato matrimoniale, quel « parte­cipare della natura divina» (2 Pt. 1, 4), quel« non più io vivo, ma Cristo

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vive in me » (Gal. 2, 20), quell'essere il sale della terra e la luce del mondo (Mt. 5, 13-14) a cui ci sentivamo gratuitamente chiamati. La fedeltà a tale chiamata non si può avere se non seguendo la via Crucis. Quando si ha però l'intuizione abbagliante del « troppo amore con cui Dio ci ha amato» (Ef. 2, 4), quando si prova l'impazienza stessa di Cristo di vedere àccendersi il fuoco che Egli è venuto a gettare sulla terra (cf. Le. 12, 49), allora sì, questa via Crucis la si può correre, come lo dice San Benedetto « con cuore dilatato ed ineffabile dolcezza di amore».

Conoscessimo il dono di Dio!

Mi perdoni, Reverendo Padre, di averla . disturbata per così poco, e riceva i miei umili ossequi.

Padre M. AGOSTINO JACOUIN

Cappellano Monastero N.S. di Valserena