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ANRI SALA AS YOU GO a cura di Carolyn Christov-Bakargiev, Marcella Beccaria Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino 26 febbraio – 23 giugno 2019

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ANRI SALA

AS YOU GO

a cura di Carolyn Christov-Bakargiev, Marcella Beccaria

Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino26 febbraio – 23 giugno 2019

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RINGRAZIAMENTI Fiorenzo AlfieriPresidente, Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea

Sono molto lieto di inaugurare la mia presidenza al Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea con questo progetto dedicato all’artista Anri Sala.Nato a Tirana nel 1974, Anri Sala ha studiato a Parigi e ha vissuto per anni in Francia prima di trasferirsi a Berlino, dove attualmente vive e lavora. Nella sua carriera ha presentato mostre personali e collettive nei più importanti musei del mondo e ha rappresentato la Francia in occasione della 55. Biennale di Venezia nel 2013.Sala incarna in modo significativo la figura dell’artista cittadino del mondo, capace di dialogare con molteplici culture. La sua arte, intenzionalmente astratta, parla della complessità del reale e delle molteplici storie che ogni istante può racchiudere. Ancora una volta gli ambienti unici al mondo del Castello di Rivoli hanno ispirato l’opera di un grande artista: il progetto realizzato da Sala per questa mostra produce inedite esperienze percettive e visive che s’innestano nel lungo percorso di approfondimento sui linguaggi del contemporaneo avviato sin dalla fondazione del Museo.Il Castello di Rivoli rivolge un particolare ringraziamento all’artista e a tutti coloro che hanno sostenuto la mostra.

Carolyn Christov-BakargievDirettore, Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea

Tra gli artisti contemporanei più importanti a livello internazionale, Anri Sala ha partecipato in passato a significative mostre al Castello di Rivoli, tra cui le collettive Volti nella folla nel 2005 e Colori. L’emozione dei colori nell’arte nel 2017.Anri Sala. AS YOU GO presenta per la prima volta tre grandi opere filmiche installate in maniera correlata secondo una nuova concezione e coreografia che sviluppa l’idea di momento presente, alla base del lavoro di Sala, mettendola in relazione con l’architettura dello spazio espositivo e con la fisicità dei visitatori che incontrano l’opera.Per creare la mostra, Sala ha utilizzato tecniche di realtà virtuale per simulare gli spazi del terzo piano del Castello e trasformare le proprie opere filmiche in un’unica e inedita “scultura in movimento”, da lui proposta come una “parata”, capace di offrire ai visitatori un’esperienza immersiva di alto impatto emotivo e sinestetico.AS YOU GO, il titolo scelto dall’artista, sottolinea l’idea di un flusso di immagini in cammino che lascia ai visitatori la scelta di muoversi nello spazio in accordo con le proiezioni oppure di fruirne stando fermi, in una visione emancipatoria del linguaggio artistico e della cultura visiva.Il presente catalogo, riccamente illustrato con immagini della mostra, è uno strumento scientifico di approfondimento critico sul percorso di questo artista e raccoglie per la prima volta la straordinaria produzione scritta di Sala.Desidero rivolgere un sentito ringraziamento all’artista, al suo Studio, al nostro capo curatore Marcella Beccaria e a tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione della mostra e di questo libro.

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..FINCHÉ NON CI APPARTERREMO

Carolyn Christov-Bakargiev

“Attraverso questa parata, la mostra nel suo insieme diventa uno strumento musicale che si affida ai visitatori per ottenere la sua dimensione completa... finché non si apparterranno.”Anri Sala

Qual è il cuore della pratica di Anri Sala? Il suo interesse a scolpire nel pubblico l’esperienza dello spazio attraverso video e suono? La sua fascinazione per l’equilibrio tra azioni programmate e gesti improvvisati da parte dei musicisti impegnati nelle performance che commissiona per i suoi film? Il suo interesse per le emozioni suscitate negli spettatori da intervalli e lacune, attraverso cui possono verificarsi forme di riparazione dai traumi della Storia? Uno degli artisti più raffinati nel panorama contemporaneo, Anri Sala crea film e installazioni, sculture e disegni che parlano con eleganza sia delle più alte forme della cultura occidentale, spesso opere di grandi compositori e interpreti musicali, sia delle catastrofi che subisce il corpo umano – e non umano – durante i conflitti, emblematicamente visualizzate in alcune sue opere da arti amputati, o mani recise: proprio quanto di più essenziale ci sia per un musicista1. Le sue opere trasmettono un senso di empatia, un’acuta consapevolezza del dolore; ma lo fanno in modi che non sono mai drammaticamente espliciti e quasi tutte si riferiscono direttamente o indirettamente a forme di resistenza contro questa amputazione fisica ed estetica proprio attraverso la valorizzazione dell’attività manuale: sottolineando quanto sia importante la realizzazione di cose condotta con competenza, precisione e dedizione individuale2.

1 Nel suo saggio “Manutensions, or Anri Sala’s Outstretched Hands”, scrivendo dell’opera Ravel Ravel (2013), basata su uno spartito composto nel 1929- 1930 da Maurice Ravel per il pianista Paul Wittgenstein, che perse il braccio destro durante la prima guerra mondiale, Peter Szendy gioca con le parole maintenir (tenere e mantenere) e maintenant (ora), sostenendo che Anri Sala “ama che noi sentiamo la tensione che ci mantiene ora [maintenant]”, in Anri Sala. Ravel Ravel Unravel, pubblicato in occasione della 55. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, Il Palazzo Enciclopedico, catalogo della mostra, a cura di C. Macel e A. Sala (Giardini della Biennale, Padiglione francese, Venezia), Manuella Éditions, Institut français, Centre national des arts plastiques, Parigi 2013, p. 105. In Ravel Ravel due film sono proiettati su due diversi schermi, ognuno dei quali mostra la mano sinistra di un pianista che suona il concerto del compositore francese, in una riparazione virtuosistica della mano attraverso la rappresentazione di due mani sinistre. “Ciò che interessa Anri Sala è visibilmente il lavoro manuale, la manipolazione necessaria per fare, per fabbricare una frase musicale degna di questo nome [...] [Si tratta di] una presenza che viene costantemente prodotta dalla disgiunzione radicale [delle mani]” (ivi, pp. 109-110).

2 L’uomo artigiano di Richard Sennett (2008) pone il lavoro manuale e l’artigianato come forme di pensiero che si costituiscono assieme alla materia e a una consapevolezza del materiale, senza paura di parlare di una forma di lavoro orientata alla valorizzazione della nozione di “qualità”: questo ricorda quell’opera di “scalpello” digitale che Anri Sala mette in atto nella finalizzazione di tutte le sue installazioni. Mentre celebra e prosegue l’indagine filosofica e politica di Hannah Arendt, di cui era uno studente, Sennett prende però le distanze dalla convinzione di una gerarchia tra chi “fa” cose (chi le progetta e le fabbrica) e chi le pensa politicamente. Arendt aveva espresso le sue idee in La condizione umana nel 1958, poco dopo l’invenzione e l’uso della bomba atomica. Arendt crea una gerarchia tra animal laborans (sia la persona che fa il lavoro manuale, sia l’ingegnere o l’inventore di una tecnologia), che considera il fabbricare come il fi ne in sé e non riflette necessariamente sulle sue implicazioni, e homo faber, che invece riflette e può fare politica (tramite l’indagine filosofica e il linguaggio) costituendo lo spazio pubblico che rende la vita pienamente vissuta. In questo spazio pubblico le persone dovrebbero decidere quali tecnologie perseguire e quali reprimere. Arendt dunque contrasta l’homo faber – l’essere umano come creatore consapevole – all’animal laborans che è assorbito invece in un compito. Sennett sostiene che, secondo Arendt, “Le persone che fanno cose di solito non capiscono cosa stanno facendo. La paura di Arendt di invenzioni autodistruttive risale nella cultura occidentale al mito greco di Pandora […] Nello spazio pubblico, attraverso il dibattito, la gente dovrebbe decidere quali tecnologie dovrebbero essere incoraggiate e quali represse”. Inoltre, le decisioni dovrebbero essere provvisorie e poter cambiare con il tempo: “Le regole emanate dalla deliberazione sono messe in dubbio quando le condizioni cambiano e la gente medita ulteriormente; nascono quindi nuove regole provvisorie. Il contributo di Arendt a questa tradizione si basa in parte sull’intuizione che il processo politico è esattamente parallelo alla condizione umana di dare alla luce e quindi lasciare andare i bambini che

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L’arte di Anri Sala indaga punti di svolta traumatici o le loro conseguenze nella storia moderna dell’Europa occidentale: ciò è profondamente radicato nella sua esperienza di albanese della diaspora, nato nella capitale, Tirana, nel 1974, trasferitosi in Francia all’età di ventidue anni nel 1996 e in seguito a Berlino, dove vive e lavora dal 2004.

Oggi l’Albania confina con il Mar Mediterraneo a ovest, il Montenegro a nord (al confine con la Bosnia ed Erzegovina, con capitale Sarajevo), il Kosovo a nord-est, la Macedonia a est e la Grecia a sud. L’Albania fece parte dell’Impero ottomano dal XV secolo fino al 1912, quando divenne indipendente in seguito al diffondersi dei movimenti nazionalisti di fine Ottocento in gran parte dell’Europa. L’Albania non ha mai fatto parte dell’ex Regno di Jugoslavia (1918-1941), formato nei Balcani alla caduta dell’Impero ottomano, eppure giace al centro di quella che un tempo era chiamata la penisola balcanica – le terre europee dell’Impero ottomano a ovest dello stretto del Bosforo – cuore della letteratura e della cultura più avanzate per gli Ottomani. Occupata dall’Italia poco prima della seconda guerra mondiale, dopo il conflitto divenne uno stato comunista, la Repubblica popolare socialista albanese, fino al crollo del 1990, con la disintegrazione del blocco di stati governati sotto l’egida dell’Unione Sovietica. Anri Sala aveva quindici anni quando, nel 1989, fu abbattuto il muro di Berlino. Il mondo binario della guerra fredda che divideva il continente iniziò a frantumarsi, e con esso tutte le rigide norme che regolavano la vita nell’Europa dell’Est. Dal 1945 al 1992 la Jugoslavia fu una federazione socialista di sei repubbliche che comprendeva Serbia (incluso il Kosovo con maggioranza etnica albanese), Croazia, Bosnia ed Erzegovina, Slovenia, Montenegro e Macedonia. Durante le guerre etniche degli anni novanta, con l’opposizione della Serbia a questi nuovi ex stati jugoslavi indipendenti, l’Albania era vicina all’orrore, spaventosamente vicina, ma non fu mai coinvolta nelle guerre.

Quando l’Albania socialista crollò nel 1990, Anri Sala non emigrò subito e frequentò l’Accademia Nazionale delle Arti di Tirana dal 1992 al 1996. Mentre il precedente regime socialista sosteneva la produzione di una forma d’arte che s’inscrive nell’ambito del realismo socialista, caratterizzato da una pittura tradizionale e accademica, il nuovo regime liberale consentiva ai giovani artisti di esprimersi attraverso l’astrazione e incoraggiava lo sviluppo di uno stile molto individuale, qualcosa che il giovane Anri Sala trovava canonico e forzato tanto quanto le precedenti norme estetiche. Piùttosto che indulgere in tali forme di estrema espressione individuale di sé, iniziò a studiare l’antica arte dell’affresco, tecnica di pittura murale in cui il pigmento non viene mescolato con alcun legante ma è assorbito nell’umido intonaco della superficie di un muro, e fissato all’interno del muro stesso mentre l’intonaco si asciuga nell’arco di una giornata. Lavorare ad affresco significa pertanto essere estremamente attenti al tempo, dal momento che si deve dividere il proprio lavoro in “giornate”, preparando la nuova area di intonaco fresco che va dipinta, per l’appunto, in un solo giorno. Se l’intonaco si asciuga troppo presto il pigmento non viene assorbito e l’effetto finale si perde. L’area di connessione tra una “giornata” e l’altra è una parte essenziale del lavoro del frescante: per non rendere la connessione/divisione troppo visibile, non si lavora mai su una linea retta, ma l’artista prepara e pone l’intonaco fresco sul muro nella forma sinuosa che corrisponde ai contorni delle diverse forme che andrà a dipingere. C’è dunque qualcosa di temporale, sequenziale, architettonico, strutturale e musicale in questa forma di pittura murale, le cui caratteristiche sembrano essere anche alla base delle installazioni video che Anri Sala produrrà in seguito.

abbiamo creato e cresciuto. Arendt parla di natalità nel descrivere il processo di nascita, formazione di idee e la separazione da esse in politica. Il fatto fondamentale della vita è che nulla dura, eppure in politica abbiamo bisogno di qualcosa per orientarci, per sollevarci al di sopra delle confusioni del momento. Le pagine di La condizione umana esplorano come il linguaggio potrebbe guidarci, per così dire, a nuotare contro le turbolente acque del tempo”, R. Sennett, The Crafstman, Yale University Press, New Haven, Londra 2008, pp. 2–6 (traduzione redazionale).

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Dalla fine del 1996 al 1998 Anri Sala risiede in Francia per studiare video all’École nationale supérieure des Arts Décoratifs di Parigi, poi frequenta gli studi post-laurea in regia cinematografica presso Le Fresnoy – Studio national des arts contemporains a Tourcoing. Nel 1997 torna a casa per un breve periodo e crea la sua prima opera d’arte memorabile, Intervista (Finding the Words). Completata l’anno dopo, è un racconto documentario che ha come protagonista Valdet Sala, la madre dell’artista, la quale compare in un filmato muto durante una manifestazione politica nel 1977 e in un’intervista televisiva girata nel 1979, in pieno regime comunista, e nelle riprese effettuate nel presente, mentre osserva se stessa più giovane, incapace di ricordare le sue parole di allora. In Albania il 1997 fu un anno di gravi disordini sociali, causati dal fallimento di una serie di schemi finanziari spericolati: il Paese cadde in uno stato di guerra civile e, dopo la morte di duemilapersone, il governo fu rovesciato. L’opera tratta dell’eredità traumatica dell’Albania comunista. Anri Sala trova una vecchia bobina di filmati in cui sua madre, al tempo una giovane e impegnata donna comunista, compare al fianco del dittatore Enver Hoxha (primo segretario del partito del lavoro d’Albania, PPSh, dal 1941 al 1985) durante un congresso dell’Unione dei giovani laburisti nel 1977. Sulla stessa bobina è registrata l’intervista del 1979, condotta dalla Televisione nazionale albanese. Il filmato è muto, poiché all’epoca il suono veniva registrato separatamente dall’immagine. L’opera di Anri Sala racconta del tentativo nel 1997 di ricostruire le parole della madre con l’aiuto di alcuni giovani allievi di una scuola per sordi, nonché attraverso una conversazione con Valdet mentre guardano insieme il filmmuto. In Intervista, Anri Sala chiede a sua madre, “Come ti senti al pensiero che soltanto delle persone sorde possano leggere nel tuo passato?” Lei risponde, “È l’ironia del destino [...] Vivevamo in un sistema che era sordo ed era muto, in cui tutti parlavamo con una sola bocca e una sola voce […] Pensavamo che avremmo cambiato il mondo, ma a poco a poco abbiamo perso tutto. La mia generazione è stata vittima degli errori del passato”. E continua: “Secondo me ti abbiamo trasmesso la capacità di dubitare. Perché devi sempre mettere in discussione la verità”. Le complesse installazioni di Anri Sala incoraggiano il pubblico a porre attenzione, a decodificare la struttura dell’opera d’arte, a esercitare e perfezionare le proprie capacità interpretative, a emanciparsi dalla passività prodotta dalla nostra era di algoritmi pro-scienza e pro-tecnologia che rimuovono progressivamente le capacità interpretative dell’essere umano, e quindi la sua capacità decisionale. Nell’installazione filmica intitolata AS YOU GO (2019) creata appositamente per gli spazi del settecentesco Castello di Rivoli, ad esempio, l’artista ha combinato tre opere precedenti, i film Ravel Ravel (2013), Take Over (2017) e If and Only If (2018), in una nuova opera d’arte. Come un grande strumento musicale, l’installazione costituiva non solo una cornice in cui era possibile vedere i film, ma una meta-opera d’arte, una scultura in movimento, un dispositivo percettivo che è diventato il vero soggetto e fulcro dell’esposizione.Come strumenti di un’orchestra insolita, le tre opere filmiche sono state proiettate nelle sale, letteralmente scorrendo negli spazi del museo. La musica è presente in tutti e tre i film, che traggono rispettivamente spunto dal Concerto per la mano sinistra per pianoforte e orchestra in re maggiore di Maurice Ravel (1929-1930), dai due inni La Marsigliese (1792) e l’Internazionale (1888), e dall’Elegia per viola sola di Igor Stravinskij (1944).Anri Sala, tuttavia, è interessato alla musica non tanto per il suo contenuto quanto per la sua struttura: per il modo in cui organizza l’incontro fra l’opera d’arte e il pubblico nel tempo e nel tempo presente; per come trasforma un’architettura spaziale in un’architettura temporale che sviluppa e articola quell’incontro con il pubblico. Per evidenziare questa trasformazione, ha enfatizzato alcune caratteristiche già esistenti: gli spazi del Castello erano già suddivisi in cinque sale grigie, alte poco più di 4 metri e senza copertura. Come un gigantesco rendering architettonico visto dall’alto, l’intera struttura giaceva sotto il soffitto sovrastante, fatto di travi di legno scuro. Due sale di 12 x 12 metri erano seguite da un ambiente di dimensioni doppie (12 x 24 metri) e

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infine da altre due sale di 12 x 12 metri. Questo razionale spazio architettonico settecentesco è diviso in due parti da una parete centrale longitudinale, che l’artista ha esteso in modo che penetrasse nella grande sala, facendone un elemento centrale per l’intera architettura e per AS YOU GO, in modo da suddividere anche la sala doppia, accentuando l’architettura preesistente. Entrambi i lati di quella parete allungata sono diventati schermi di proiezione che attraversavano tutti gli ambienti della mostra. Inoltre, ciascuna delle sale su ambo i lati del lungo muro aveva anche un altro schermo indipendente, complicando ulteriormente l’esperienza degli spettatori, che potevano scegliere da che parte andare rispetto a questi schermi aggiuntivi. Potevano entrare da un’estremità e attraversare tutte le sale attorno alla parete centrale, quindi uscire e rientrare nuovamente, come se il loro percorso fosse esso stesso un loop filmico. Oppure potevano camminare dietro o davanti agli schermi indipendenti, nello spazio tra questi e il muro, oppure, ancora, potevano stare fermi: “Sono interessato all’idea che non ci sia destinazione da raggiungere, che la finalità sia nel viaggio in sé”3.Anri Sala ha creato un sistema sincronizzato di più proiettori, così che le tre opere potessero essere trasmesse consecutivamente, una dopo l’altra, in una modalità molto particolare: con importanti intervalli di muro vuoto tra le proiezioni che viaggiavano lungo le pareti, ogni film sembrava letteralmente compiere un viaggio, spostandosi da sinistra a destra attorno all’intero spazio. Ovunque lo spettatore fosse tra le sale espositive, inoltre, vedeva lo stesso identico momento del film e il suono in tutto lo spazio si diffondeva all’unisono. C’erano dunque due movimenti: l’immagine in movimento in ogni film, e il film stesso come oggetto che si muove nello spazio fisico di fronte agli spettatori. Questi potevano scegliere di rimanere fermi, e in questo caso il film passava e usciva alla loro destra per riapparire poco dopo da sinistra, oppure di camminare accanto al film in movimento, in modo da vederne l’evoluzione in sincronia con il proprio corpo. Anri Sala ha dichiarato: «La mostra prende la forma di una “parata”, in cui i video e le loro storie viaggiano attraverso l’intero spazio. I visitatori possono seguire il flusso, accompagnando la sua natura nomade attraverso la successione di stanze, oppure precederlo, o guardare queste opere itineranti stando fermi in una posizione fissa, in piedi o seduti, mentre le opere passano loro accanto […] Anche se la sequenza si svolge in un presente continuo ed è simultaneamente in tutte le stanze (in modo ubiquo), l’idea di tempo futuro è ovunque. Da qui proviene questa sensazione che ci turba: si vede un film che entra nella stanza da sinistra subito dopo averlo visto lasciare la stanza a destra. Ilfatto che il futuro (in senso temporale) emerga da sinistra, dallo spazio in cui siamo appena passati,produce un disturbo»4.Per creare questo disturbo, calcolare il tempo degli intervalli e definire tutto il programma dell’installazione, l’artista ha ricreato il museo nel suo studio di Berlino usando la realtà virtuale, in modo da poterne testare gli effetti. A prima vista, quindi, si potrebbe immaginare che il lavoro sia una celebrazione delle potenzialità della tecnologia. Invece è esattamente il contrario. In questa era di Intelligenza Artificiale e “siliconizzazione” del mondo5, di costante proiezione del sé verso degli “altrove” nell’economia dell’ attenzione provocata da smartphone e social media, che portano a una separazione traumatica dell’interiorità mentale dall’esperienza di un mondo in carne e ossa, “esterno”, un’installazione come AS YOU GO si affida alla più sofisticata tecnologia di realtà virtuale e al software di mappatura Pandora per creare un’opera d’arte fatta di contenuti completamente analogici. Un’opera d’arte che celebra l’esatto contrario della realtà virtuale, poichéAnri Sala utilizza le tecnologie come strumenti con obiettivi opposti a quelli per cui sono state create. “Sto perfezionando la parata il più possibile qui in studio”, ha scritto da Berlino, aggiungendo: “Non vedo l’ora di raggiungervi a Rivoli per un po’ di realtà, perché sto trascorrendo

3 Anri Sala in conversazione con l’autore, gennaio 2019.4 Ivi.5 É. Sadin, La silicolonizzazione del mondo. L’irresistibile espansione del liberismo digitale [2016], Einaudi, Torino 2018.

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troppo tempo in simulazioni virtuali”6.Essere incarnati in un luogo significa essere pienamente calati nel momento presente. Gli spettatori di Anri Sala sono già nel momento presente, poiché guardano film che riprendono esecuzioni musicali registrate in diretta: nel momento presente. In AS YOU GO l’artista non ha incluso narrazioni, né scorci di passato o salti nel futuro. Inoltre, sperimentando il movimento dei film come su una giostra, o un nastro trasportatore, o da dentro a una parata, gli spettatori diventano consapevoli di essere “qui e ora”. Questa attenzione al momento presente è una ripresa degli interessi fenomenologici di Maurice Merleau-Ponty7. In questo senso, Anri Sala rivendica lo spazio della mostra – in passato considerato un luogo di allontanamento dalla realtà – come uno spazio di realtà, di autenticità, uno spazio davvero pubblico. Cosa significa questo oggi? Come si collega, come risponde alle questioni urgenti di questo nostro tempo? Viviamo in un’era di big data, fagocitati in un vortice incessante e fluido di immagini prodotte e riprodotte da internet. Sopraffatti dai dati, li navighiamo attraverso programmi d’intelligenza artificiale che interpretano e pensano al nostro posto: la nostra unica funzione è quella di fare “clic”. Il desiderio di ricostruire situazioni di interpretazione attiva, come fa Anri Sala, è una contro-reazione alla perdita di potere provocata dalla cultura degli algoritmi. In questo senso, il suo lavoro è una forma di resistenza, politica ed estetica, alla passività incoraggiata dal digitale. Interessato all’idea di intervallo nel ritmo della musica, delle immagini e delle esperienze, Anri Sala inverte in questa mostra il paradigma emergente della passività dei visitatori – che normalmente ricevono l’illusione di realtà restando fermi – invitandoli a muoversi con le immagini, fisicamente inseguendole lungo il percorso espositivo, scandito da intervalli tra le proiezioni dei film. Dunque, più che una presentazione di tre opere filmiche intrecciate, si tratta di un dispositivo di proiezione che diventa un’unica, gigantesca scultura in movimento. Come nei suoi film precedenti che mettono in scena le aspirazioni e i fallimenti della modernità, in molta parte di AS YOU GO c’è un riferimento ai soggetti traumatizzati e alla loro capacità di reagire.In Ravel Ravel l’artista mette in scena la visione simultanea di due interpretazioni di pianisti diversi del Concerto per la mano sinistra, composto da Maurice Ravel tra il 1929 e il 1930 su commissione del pianista austriaco Paul Wittgenstein, che aveva perso il braccio destro durante la prima guerra mondiale. Dice l’artista: “Ravel Ravel è nato dall’intenzione di presentare due esecuzioni con i rispettivi tempi. A volte suonano all’unisono, poi si rincorrono con scarti temporali che producono echi e ripetizioni, così che la fisicità stessa dello spazio espositivo ne venga trasformata”.In Take Over l’artista indaga i possibili significati derivanti dalla giustapposizione della Marsigliese e dell’Internazionale, le cui vicende complesse s’intrecciano lungo la storia. Composta nel 1792 da Claude-Joseph Rouget de Lisle, La Marsigliese divenne l’emblema della Rivoluzione francese, per poi diffondersi in altri paesi e trasformarsi in un simbolo di libertà politica. Alla fine del XIX secolo, l’Internazionale era l’inno delle lotte dei lavoratori, accolto per promuovere ideali di uguaglianza e solidarietà. Scritto nel 1871, il testo dell’Internazionale veniva inizialmente cantato sulle note della Marsigliese finché, nel 1888, Pierre Degeyter compose la musica con cui divenne l’inno del movimento socialista internazionale. Ispirandosi alle trame che collegano questi due famosi brani, alle loro similitudini e differenze, il lavoro di Anri Sala affianca due esecuzioni consecutive: nella prima il pianista suona La Marsigliese su un piano meccanico programmato per suonare l’Internazionale, mentre nella seconda la situazione è invertita e il pianista suona l’Internazionale su un piano meccanico programmato per suonare La Marsigliese. Qui la competizione tra essere umano e macchina diventa esplicita, portandoci alla mente la difficoltà che abbiamo, per esempio, quando sfidiamo o cerchiamo di contraddire i correttori automatici del linguaggio sui nostri smartphone, così come molti altri algoritmi ormai di uso corrente nella nostra

6 Anri Sala in conversazione con l'autore, 15 gennaio 2019.7 Maurice Merleau-Ponty, La fenomenologia della percezione [1945], Bompiani, Milano 2003.

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vita quotidiana. A volte i due inni sono in accordo, altre volte c’è dissonanza e si scontrano. Allo stesso modo, volendo considerare i significati simbolici di questi due brani, rimaniamo perplessi e siamo incapaci di risolvere alcune contraddizioni: l’Internazionale celebra la libertà e la protesta oppure è associata all’oppressione come nei paesi dell’Est dove viveva Anri Sala? La Marsigliese è davvero rivoluzionaria o invece appartiene ai colonizzatori, come potrebbe essere percepita, ad esempio, nel Maghreb? Nei cinque minuti del suo svolgimento, la musica dell’Elegia per viola sola (1944) di Igor Stravinskij in If and Only If sembra distorta, leggermente fuori sincrono rispetto al tempo Lento della partitura. Inoltre qui il brano risulta più lungo di quanto dovrebbe essere, durando circa nove minuti. L’elegia originale fu commissionata a Stravinskij durante la seconda guerra mondiale dal violista belga Germain Prévost come omaggio al collega Alphonse Onnou che era deceduto negli Stati Uniti, dove si trovava poco dopo l’invasione del Belgio da parte di Hitler nel 1940. L’allungamento della durata della composizione nell’opera di Anri Sala è dovuto al fatto che il suo interprete Gérard Caussé rallenta o accelera il tempo musicale per proteggere e facilitare il percorso di una lumaca che si muove lentamente lungo la parte lignea del suo archetto in direzione della punta, lontano quindi dalla parte più pericolosa per lei, ovvero il luogo di contatto fra l’arco e le corde dello strumento. A un certo punto una seconda lumaca appare in basso a sinistra, e all’improvviso due lumache sono contemporaneamente sullo schermo, in posizioni diverse. Sembra quasi un difetto tecnico, o un errore nel montaggio del film, ma la presenza delle due lumache è del tutto intenzionale: mette in discussione l’interpretazione binaria e semplicistica di ciò che stiamo guardando e al contempo suggerisce che esiste uno spazio fuori dalla cornice – e fuori dall’opera – in cui tutte le decisioni sono già state prese da un artista/autore, e che il film è un montaggio di riprese diverse. Questo momento di consapevolezza della natura fisica, fabbricata, costruita dell’immagine registrata – dell’homo faber nell’animal laborans – è una presa di coscienza della nostra capacità di attenzione, precisione, singolarità. In sostanza, della nostra capacità di essere vivi. Solo se riusciremo a conoscere e intervenire intenzionalmente nei risultati dell’algoritmo, modificandoli, a usare Pandora anziché essere usati da Pandora, potremo preservare la libertà e il libero arbitrio individuali, perché è di questo che si tratta fondamentalmente. A causa della natura circolare di AS YOU GO, un loop architettonico e filmico, questo poetico omaggio alla necessità di coordinarsi tra desideri e volontà umane (Caussé) e non umane (lumaca/lumache) alla fine diventa una costruzione in cui il film potrebbe dilatarsi all’infinito lungo la parete del museo, dove il violista potrebbe suonare all’infinito adeguandosi al passo della lumaca, per sempre sull’arco. Progrediamo e tuttavia siamo sempre all’inizio, in una condizione esistenziale in cui il tempo è contemporaneamente lineare, circolare, multiplo e sovrapposto. Il muro divisorio centrale, allungato per accogliere la proiezione principale, è metaforicamente diventato un gigantesco arco lungo il quale noi, gli spettatori, potevamo camminare come lumache, fino alla fine, per poi girare attorno all’estremità e tornare indietro percorrendo il lato opposto, seguendo il movimento dei film; oppure potevamo decidere di restare fermi mentre il film ci passava accanto.Siamo in uno spazio di plasticità temporale, in cui il violista modifica la durata e metamorfizza l'interpretazione di una partitura per accogliere e convivere con una lumaca (forse due, o potenzialmente infinite lumache) che abita il suo arco, piegando la musica nell’adattare i propri movimenti a quelli della lumaca… finché non ci apparterremo, come dice l’artista. Questa continua evoluzione e plasticità del film nello spazio, che nell’opera di Anri Sala è conseguenza di un adattamento a condizioni difficili (come può essere per la lumaca trovarsi inspiegabilmente sull’archetto di un violista), ricorda i concetti espressi da Catherine Malabou. In Ontology of the Accident. An Essay on Destructive Plasticity (2009), Malabou affronta la trasformazione e il cambiamento che possono verificarsi in seguito al trauma, conseguenze di una forma d’improvvisazione grazie alla quale siamo in grado di rispondere alla necessità di riformulare repentinamente una nuova soggettività, e pertanto di riguadagnare la nostra vitalità: «Nel solito

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ordine delle cose, le vite seguono il loro corso come fiumi. I cambiamenti e le metamorfosi di una vita dovuti a capricci e difficoltà, o semplicemente al naturale spiegarsi delle circostanze, appaiono come segni e rughe di un processo di realizzazione continuo, quasi logico, che alla fine porta alla morte. Col tempo, alla fine si diventa chi si è; si diventa solo chi si è. Le trasformazioni corporee e psichiche non fanno altro che rafforzare la permanenza dell’identità, caricarla o fissarla, ma non la contraddicono mai. Non interrompono mai l’identità. Questa graduale inclinazione esistenziale e biologica, che può sempre e solo trasformare il soggetto in se stesso, non ovvia al potere di plasticità di questa stessa identità che si ritrova sotto una superficie apparentemente liscia, come una riserva di dinamite nascosta sotto la pelle color pesca di un essere in fin di vita. Come risultato di un grave trauma, o talvolta per nessuna ragione, il percorso della vita si può interrompere e una persona nuova, senza precedenti, viene a convivere con quella di prima, e alla fine occupa tutto il suo spazio vitale. Una persona irriconoscibile il cui presente non proviene da un passato, il cui futuro non ospita nulla a venire, un’improvvisazione esistenziale assoluta. Una forma nata dall’incidente, nata per caso, una specie d’incidente. Un nuovo essere viene al mondo per la seconda volta, da un taglio profondo che si apre in una biografia8.Questa nuova soggettività, augurale, di solito emerge dal danno e implica il diventare estranei al proprio sé precedente; ma tale trasformazione può anche essere apparentemente inspiegabile, non provenire da alcun trauma evidente. Malabou chiama questa forza trasformativa “plasticità distruttiva” e suggerisce che l’oblio del sé precedente è uno spostamento del dolore: “Ciò che la plasticità distruttiva ci invita a considerare è la sofferenza causata da un’assenza di sofferenza, nell’emergere di una nuova forma di essere, estraneo a quello precedente. Dolore che si manifesta come indifferenza al dolore, impassibilità, dimenticanza, perdita di punti di riferimento simbolici”9. Questa è “l’identità del sopravvissuto, una configurazione esistenziale e vitale mai vista prima. Un’identità dal cervello danneggiato che, pur essendo un’assenza dall’io, è comunque una psiche. […] La plasticità si riferisce quindi alla possibilità di essere trasformati senza essere distrutti; caratterizza l’intera strategia di modifica che cerca di evitare la minaccia di distruzione”10.L’approccio di Malabou contrasta con le teorie otto-novecentesche di “evoluzione creativa” del filosofo e psicologo Henri Bergson, secondo il quale il tempo e l’esperienza della coscienza sono in uno stato di flusso costante, senza rotture, anche se si verificano accelerazioni e contratture. Malabou basa tuttavia il suo pensiero sul senso bergsoniano del tempo come durata soggettiva: riconosce infatti che ci sia un lento cambiamento progressivo, ma sostiene anche che intervengano improvvise trasformazioni istantanee, e nel soggetto traumatizzato questi due aspetti si attivano contemporaneamente.Lo spazio/tempo a cui Anri Sala si rivolge nelle sue opere è spesso quello in cui avvengono entrambe queste trasformazioni, che interagiscono nell’intervallo tra il prima e il dopo, il sé precedente e la nuova soggettività. Un intervallo è uno spazio o una fessura tra oggetti, unità, punti o stati. È più generalmente associato agli ambiti della musica, del teatro e del cinema, dove si percepisce come un periodo di tempo di breve durata, tra due parti, atti o sezioni di una performance, durante il quale il pubblico riacquista coscienza di essere nella realtà circostante, dopo e prima di essere trasportato attraverso l’immaginazione nel mondo parallelo della performance. Può essere una semplice interruzione, o interstizio, oppure può accogliere un interludio, una forma di contenuto a sé stante, come il ritornello tra due strofe di una canzone11.L’esistenza di un intervallo implica quindi una forma di discontinuità, un prima e un dopo. Allo

8 C. Malabou, Ontology of the Accident. An Essay on Destructive Plasticity, Polity Press, Cambridge 2012, p. 5 (prima ed. Ontologie de l’accident. Essai sur la plasticité destructrice, Éditions Léo Scheer, Parigi 2009) (traduzioni redazionali).

9 Ivi, p. 18.10 Ivi, pp. 19 e 44-45.11 Cfr. il saggio di Marcella Beccaria in questo volume.

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stesso tempo, tuttavia, l’intervallo implica il suo contrario – la continuità – poiché collega due parti in precedenza distinte. Generalmente, questo frangente o intervallo connettivo è immaginato come privo di spazio, come solo una linea o divisione tra un qui e un là, un prima e un dopo. Eppure questa linea di contatto è spessa, è densa; più intervallo che punto di contatto; è lo spazio fra le “giornate” di un affresco, è una zona di sovrapposizione in cui il passato si spinge nel futuro come memoria, dove la memoria costituisce la sostanza della presenza. Questo è lo spazio della plasticità, della metamorfosi, lo spazio/tempo in cui un pianista può imparare a suonare, con la sola mano sinistra, un intero concerto che sembra eseguito da due mani, come in Ravel Ravel. Oppure, come in Intervista, è lo spazio/tempo dove un soggetto, una madre, può imparare a ricordare e a fare i conti con il suo precedente sé dimenticato con l’aiuto di suo figlio, l’artista Anri Sala, e di una scuola per bambini diversamente abili in grado di leggere le sue labbra. Oppure è l’intervallo che è la notte, l’unico tempo solitario in cui Jacques può rilassarsi in Nocturnes (1999); o è l’intervallo tra sonno e veglia, in cui il vecchio senzatetto di Uomoduomo (2000) impara a riposare anche in posizione seduta; o è lo spazio/tempo di attesa di una bomba nell’istante che passa tra il sibilo della caduta e il fragore dello schianto, come in Naturalmystic (Tomahawk #2) (2002); o è l’intervallo durante il quale una comunità dipinge la propria città con colori vivaci in Dammi i Colori (2003). Oppure, ancora, lo spazio plastico di una Sarajevo vulnerabile durante i giorni d’assedio nel 1992-1996, con i cecchini che terrorizzavano la popolazione sparando a passanti innocenti dalle colline, mentre si va da casa alle prove del concerto, come raccontato nell’opera 1395 Days without Red (2011).Nel discutere il tempo e la temporalità, Giorgio Agamben distingue il tempo cronologico (caratterizzato da una linearità omogenea, con una successione di momenti senza distinzione qualitativa) dal tempo kairologico, che è un tempo speciale, distaccato da quello lineare, dove il momento è distinto, un evento hic et nunc, percepito come fuori dal tempo normale. Il tempo messianico (dopo la morte di Cristo, come raccontato nel Nuovo Testamento) è una forma di tempo in cui ogni momento ripete e completa un evento che si è verificato prima della vita di Cristo (come narrato nell’Antico Testamento), in una sequenza di momenti di Kairos12. Ciò che Agamben non affronta, tuttavia, è il tempo come durata, né prende in considerazione il tempo dell’intervallo tra glieventi, il residuo dei grandi accadimenti storici, come viene sperimentato dalla coscienza. Questi sono gli intervalli della storia, gli intervalli della vita quotidiana intrecciati con l’esperienza dell’attesa, essa stessa uno spazio in cui spesso vengono percepite emozioni come la paura, a volte mescolata a noia e aspettativa. L’esperienza del tempo come qualcosa che accelera e rallenta, si curva, si piega, si sovrappone, si torce – la sua distorsione, in altre parole – descrive molto bene l’esperienza dell’universo di Anri Sala, un mondo in cui la temporalità è più complessa di quello che il senso comune ci porterebbe a pensare. Ma sicuramente è un tempo più sottile a livello strutturale, e più profondo. È un tempo in più, uno spazio aggiuntivo, un intervallo che si spinge fino a penetrare nello spazio e nel tempo cronologico in cui viviamo, alterando il tempo kairologico dell’istante. È la durée elastica ed estesa che si spinge nel reale. L’improvvisazione è la tecnica della plasticità dell’intervallo, la necessità di momenti di riposo, che interrompono il flusso della durata creando una “temporalità spazializzata” e un “tempo ritmo”13. In Naturalmystic (Tomahawk #2) Mihajlo, un giovane serbo di Belgrado, ripete più e più volte, come un rumorista per il cinema, il suo ricordo del sibilo di un missile che cade, includendo l’attimo di silenzio – l’intervallo temporale che corrisponde al momento in cui il missile si ferma a mezz’aria per verificare la localizzazione – prima che colpisca il suo obiettivo. A proposito di quest’opera Anri Sala dice: “ciò che mi aveva colpito di più di Mihajlo […] era stato il distacco intransigente che provava per ciò che gli accadeva: quello strano fenomeno chiamato ‘bombardamento chirurgico’ che, pur senza

12 G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Bollati Boringhieri, Torino 1998.13 In La dialectique de la durée (Presses universitaires de France, Parigi 1950), Gaston Bachelard sviluppa le sue idee a partire dalla nozione di ritmanalisi del teorico brasiliano Lúcio Alberto Pinheiro dos Santos nel 1931.

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mettere in pericolo la sua vita, gli impediva di viverla di notte, generando in lui un gran senso di noia”14. L’intervallo come soggetto dell’opera riappare in time after time (2003), in cui per poco più di cinque minuti Anri Sala filma di notte, su una via di scorrimento veloce a Tirana, un cavallo fermo accanto a una barriera di cemento, incapace di fuggire dai terrificanti camion e dalle macchine che sfrecciano veloci. Il cavallo alza lo zoccolo ogni volta che passa un veicolo, e questa nervosa ripetizione del gesto esprime tutta la sofferenza dell’animale che ha perso la libertà di muoversi, bloccato in un’attesa che è un intervallo senza fine. Il titolo si riferisce all’incessante passaggio dei veicoli o al tempo messianico descritto da Agamben? Anri Sala si chiede: “È possibile produrre una manifestazione visibile della perdita? Che aspetto ha ciò che non è del tutto presente? Deve esserci un modo specifico di inscrivere esseri o cose nel presente in modo che incarnino simultaneamente ciò che erano e non sono più, rappresentando quindi la propria progressiva scomparsa”15.Anri Sala è in grado di scolpire gli intervalli in modo che colleghino anziché disconnettere le cose. Si concentra sui toni emotivi prodotti da distorsioni di prospettiva, traduzioni, interpretazioni e trasformazioni al fine di intensificare la coscienza, credendo nel potenziale emancipatorio dell’arte e della cultura più raffinate. Fare arte significa per lui produrre nel suo pubblico forme di consapevolezza e la capacità critica di riconoscere la manipolazione. Scopo dell’arte è dunque esercitare la coscienza attraverso intervalli, allungamenti, distorsioni e ritardi che interrompono l’automatico fluire ininterrotto di informazioni e dati. In AS YOU GO, indipendentemente da dove ci si trovi nello spazio reale, l’immagine del film che si guarda è contemporaneamente e ovunque la stessa. È una situazione da bottiglia di Klein, un nastro di Möbius 3D in cui gli spettatori (noi, le persone in carne e ossa) non ce ne stiamo in un punto centrale dello spazio con indosso degli occhiali VR, intenti a vivere in un mondo virtuale a 360 gradi, con il corpo atrofizzato eccetto il collo che, schiavo della tecnologia, deve muoversi su e giù. Piùttosto, stiamo guardando una “Bubble Vision”16 dall’esterno, scegliendo in ogni momento se camminare insieme all’immagine che scorre o se rimanere fermi e guardare il film allontanarsi da noi, in attesa che la scena successiva ci raggiunga da sinistra.Secondo Hito Steyerl, le nuove tecnologie immersive isolano gli spettatori dal mondo: «Lo spettatore è al centro della sfera, ma allo stesso tempo [in realtà] manca. È completamente immerso in qualcosa di cui non fa parte […] Questo tipo di visione è modellato sulla falsariga di cose rotonde, sfere, o lenti arrotondate. Si potrebbe chiamare questo paradigma “Bubble Vision”, visione a bolla. Nell’ultimo decennio le panoramiche a 360 gradi sono diventate comuni nella fotografia, nel video e nella realtà virtuale. Parallelamente, ci sono state molte discussioni sulle “bolle filtro” che si dice generino divisione creando universi di informazione paralleli. Spesso anche le affermazioni che circolano all’interno delle bolle sono contestate nella loro veridicità”17».Anri Sala celebra la cultura più raffinata, il più preciso riverbero di un accordo, il tasto toccato dal pianista migliore di fronte alle forme di inettitudine, superficialità e stupidità che ci circondano. Più lavora nel dettaglio e si dedica alle sue opere nello spazio espositivo, più esse diventeranno migliori, pregne degli sforzi per raggiungere un ritmo emotivamente potente che lo tocchi

14 Cfr. qui p. 125.15 Cfr. qui p. 127.16 Hito Steyerl ha fatto riferimento per la prima volta alla “Bubble Vision” in una breve conferenza alla Serpentine Marathon GUEST, GHOST, HOST: MACHINE! alla City Hall di Londra il 7 ottobre 2017. La conferenza è stata ripresentata alla Penny W. Stamps School of Art and Design in Michigan il 31 gennaio 2018, alla Yale University il 22 febbraio 2018, e altrove. “Secondo Steyerl, Bubble Vision si riferisce al processo di visione del mondo senza il proprio corpo, attraverso un multiverso sferico parallelo. Steyerl sottolinea l’attuale ubiquità dell’estetica della Bubble Vision, che replica l’esperienza immersiva offerta dalla realtà virtuale in una visione a 360 gradi della sua pervasività nella nostra vita di tutti i giorni”. Emily Sasmor, http://topicalcream.info/blog/hito-steyerl-bubblevisione-estetica-diisolamento-yale / (ultimo accesso 21 novembre 2019).17 Hito Steyerl, https://www.youtube.com/watch?v=boMbdtu2rLE (ultimo accesso 21novembre 2019).

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profondamente e, per estensione, tocchi tutti noi. Ma questo tentativo di perfezione è intrinsecamente sisifeo. “Perfetto” è una parola arbitraria. Perfetto secondo cosa, e chi? Non è forse un concetto elitario da evitare, in nome dell’estetica democratica? Perficere, in latino, è “completare” qualcosa. Perfezione non è dunque completamente dissimile dalla nozione di precisione, da prae (prima) e caedere (tagliare), sebbene il primo termine implichi un senso di totalità e integrità (in contrapposizione alla separazione, all’essere in parti) e l’altro suggerisca un bordo definito, un taglio preciso. Per l’artista, la qualità del lavoro è definita dalla sua precisione e dalla sua perfezione. Eppure, Anri Sala non rifugge dai problemi: sfida la determinatezza del bordo che divide la superficie dalla non-superficie, o fa vacillare il confine tra il non-perfetto o non-integro e il perfetto, il completo, il tutto. Scava in profondità negli intervalli che nessuno ha notato e gli spazi sul bordo si fanno distorti per fare spazio a un miracolo, a un tempo in più, a uno spazio aggiunto, a un’esitazione. E dentro questi vuoti, in questi intervalli (il tempo tra il sibilo della bomba e l’esplosione), trova uno spazio di rifugio, uno spazio di tempo e di storia sospesi, di conflitti sospesi, un poco di pace, un piccolo “di più” conquistato con grande dolore, uno spazio di libertà per l’individuo, un’energia libidica aggiuntiva, senza scopo, non quantificabile in un’economia del tempo logica e funzionale.I nostri corpi sono separati da distanze e schegge d’identità indeterminate che ci dividono e ci frammentano, come zombie o fantasmi, o forse sopravvissuti, in un mondo fratturato in cui comunichiamo con brevi messaggi digitali che viaggiano attraverso il globo in apparente simultaneità e a velocità stratosferica. Ma c’è qualcosa nel lavoro di Anri Sala che ci aiuta a suturare le parti, a ricollegarle come fa l’abile frescante che connette le diverse giornate di un affresco: è “il tentativo di creare continuità fra momenti che sono separati o che sono stati fatti a pezzi, dando presenza a ciò che è diventato assente”18.Celebrando le più alte forme di cultura umana quali espressioni di menti impegnate, abili artigiani-pensatori, e abili musicisti – animalia laborantes che riscattano un homo faber alla deriva – Anri Sala contrasta la diffusa percezione che, nell’era dell’intelligenza artificiale, siamo solo degli organismi fragili e imperfetti, sopraffatti dalla tecnologia. Non usa la realtà virtuale come soggetto della sua arte, piùttosto la domina e la piega fino a farla diventare un semplice strumento, utile per improvvisare una macchina spaziale/filmica/sonora in movimento. Una volta compiùto il lavoro nello studio con Pandora, lascia andare la realtà virtuale, come in una clinica di disintossicazione digitale, e celebra invece il nostro vagabondare attraverso le sale del museo appena illuminate, uno spazio di una nuova dérive situazionista, uno spazio di libertà corporale in cui muoversi, sedersi, restare, andare, liberi di riposare e di chiedersi: “Should I Stay or Should I Go?” È questa la domanda finale, che celebra una libertà di scelta radicale, non collegata alla rete, staccata dalla presa, virtuosamente umana, in dolce mescolanza genetica con i nostri alleati viventi. Anche con le lumache.

18 Anri Sala in conversazione con l'autore, maggio 2019.

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PRIMA CHE IL SUONO DIVENTI MUSICA

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Marcella Beccaria

Voglio fare un piccolo esperimento. Voglio spingere il bicchiere d’acqua che è accanto al mio computer sino al bordo della scrivania. Poi intendo spostarlo ancora un po’, fino a quando una parte della sua base sporge fuori dal bordo. Poi, millimetro dopo millimetro, voglio spingerlo ancora. Mentre il mio dito sfiora la superficie del bicchiere, trattengo il respiro. Voglio arrivare a vedere – o meglio a percepire – quell’istante che separa la presenza del bicchiere sulla mia scrivania dalla sua possibile caduta a terra. L’esperimento non lo faccio per spiegare la legge di gravità a mia figlia, e neppure, anche se ce ne sarebbe bisogno, per fare spazio sul mio tavolo di lavoro. Lo faccio per me, per spiegare a me stessa, pur con un certo grado di approssimazione, la parte più indefinibile, e al tempo stesso pervasiva, dell’arte di Anri Sala. Si tratta di quel suo profondo interesse nei confronti di quello che definisce “il momento presente”. Il momento presente di Sala è una recherche in costante espansione che, quasi aprendo l’hic et nunc degli antichi latini alle complessità della fisica quantistica, riesce a catturare l’ineffabile pregnanza di quell’istante in cui la realtà è sul punto di prodursi, svelando un fitto intreccio di possibilità. Per fare un paragone tratto dal mondo analogico, è come se il momento presente di Sala riuscisse a isolare quell’istante indicibile nel quale la lancetta delle ore sta per spostarsi. Ma c’è di più. Invece che proporsi quali possibili documenti che registrano un determinato momento presente, ogni volta relativo a una specifica situazione, le opere dell’artista funzionano anche come dispositivi capaci di provocarlo, quell’istante, diventando esse stesse co-produttrici di quell’enigmatico frammento di tempo e spazio che separa il prima dal dopo. I modi secondo i quali si accende questa scintilla, provocando coinvolgenti situazioni esperienziali, è l’oggetto di questo testo, a partire dall’occasione della mostra AS YOU GO e dall’opera Bridges in the Doldrums in essa inclusa. Ideata dall’artista per le sale del terzo piano del Castello di Rivoli, AS YOU GO configura in una nuova sequenza dinamica le opere filmiche Ravel Ravel (2013), Take Over (2017) e If and Only If (2018). In maniera sottile, in un primo momento la mostra si rivela ai visitatori come una serie di sonorità che navigano attraverso gli spazi interstiziali, incluse le scale e l’atrio di accesso del terzo piano del Museo. I suoni sono enigmatici: se ne intuisce la natura di percussioni, ma il ritmo inusuale non si lascia decifrare. Quando ci si avvicina, l’enigma è svelato solo in parte. L’origine delle emissioni sonore si palesa nella forma di quattro tamburi dalla seducente pelle specchiante che, allestiti a soffitto e a terra, emettono suoni grazie alla presenza di coppie di bacchette che ne percuotono le superfici. Le bacchette sembrano azionate da mani invisibili: si muovono, ma nessun meccanismo si rivela agli occhi. Solo una più cauta indagine permette di intuire che esse rispondono alle vibrazioni della superficie riflettente di ciascun rullante. All’interno di ogni cassa, l’artista ha infatti posizionato due altoparlanti, uno a bassa e l’altro a media frequenza. L’altoparlante a bassa frequenza genera le vibrazioni che, trasmettendosi alla pelledi ciascun tamburo, innescano il movimento delle bacchette, rovesciando così l’usuale dinamica per cui le bacchette sono gli agenti che imprimono l’azione percussiva. Inizialmente lento, il ritmo si fa gradualmente più rapido, in un coinvolgente crescendo sonoro. Grazie ai suoni a media frequenza che, diversamente da quelli a bassa frequenza, sono udibili dall’orecchio umano, a tratti sembra di poter riconoscere qualcosa, forse una melodia familiare; ma si tratta di pochi battiti che subito evolvono verso altre sonorità. Anri Sala definisce l’opera in questione, Bridges in the Doldrums (2016), come “un arrangiamento in tre parti per sassofono, trombone e clarinetto […], costruito usando soltanto i ponti di settantaquattro canzoni pop, jazz e folk, provenienti da differenti periodi e geografie”19. L’opera è stata realizzata da Sala a partire da una prima versione in forma di performance tenutasi alla

19 Tutte le citazioni di Anri Sala riportate in questo saggio sono tratte da conversazioni con l’autrice, iniziate a partire dal 2002 in preparazione di un potenziale progetto di mostra al Castello di Rivoli. Ulteriori riferimenti includono gli scritti dell’artista, raccolti e pubblicati nel loro insieme per la prima volta in questo catalogo.

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Biennale dell’Avana nel 2015 che, prodotta in collaborazione con il musicista André Vida, includeva cento canzoni ed era arrangiata per sassofono, trombone e flauto. Una versione successiva, rielaborata per settantaquattro canzoni arrangiate per sassofono, trombone e clarinetto, è stata registrata in uno studio a Berlino per poi diventare la colonna sonora del lavoro scultoreo Bridges in the Doldrums. Prima di approdare al Castello di Rivoli, l’opera è stata presentata presso l’Instituto Moreira Salles a Rio de Janeiro nel 2016, dove due ulteriori altoparlanti diffondevano in una stanza limitrofa l’intera colonna sonora. In tutte le versioni descritte, gli strumenti prescelti spesso suonano passaggi originariamente destinati ad altri, rispondendosi e mutando il proprio ruolo, e il fulcro del procedimento artistico è sempre dato dal bridge o ponte. Nel linguaggio tecnico musicale, esso corrisponde a quel passaggio, solitamente di quattro o otto battute, che conduce alla melodia del ritornello. Se il ritornello rappresenta l’apoteosi della canzone, momento nel quale essa manifesta se stessa e, soprattutto per la musica pop, talmente riconoscibile da diventare a volte ossessionante, il bridge è invece una fase di tensione, quasi di indecisione, nella quale gli strumenti possono anche staccare il battito del tempo, bloccandosi contemporaneamente per pochissimi istanti. Il risultato è che l’ascoltatore è come separato da ciò che conosce, per poi essere lanciato nel ritornello al quale approda quasi si trattasse di un porto sicuro dopo lo smarrimento di un viaggio in mari sconosciuti. Come spiega l’artista, “in qualche modo il bridge allontana l’ascoltatore dalla canzone, mantenendo viva la sua attenzione ma sospendendo la fiducia e le aspettative, fino a quando il ritornello riconferma la familiarità con il brano”.In Bridges in the Doldrums, la progressione verso ritmi sempre più veloci che scandisce l’arrangiamento rafforza ulteriormente il valore intrinseco del concetto di bridge. Estendendo ben oltre l’usuale la tensione verso una possibile sonorità riconoscibile, l’opera rinnova costantemente un senso di attesa e di desiderio. Anziché appagare l’ascoltatore, concedendogli un passaggio sonoro conosciuto, l’opera sembra piùttosto alimentare senza sosta quel desiderio di sicurezza, costruendo a ogni incontro una tensione palpabile verso un auspicabile accadimento. In questo processo, nel quale molti istanti rinnovano l’irriconoscibilità di quelli precedenti, ciascun visitatore può paradossalmente trovarsi di fronte a quanto si presume conosca meglio: il proprio volto e il proprio sguardo. Come sopra descritto, la pelle di ciascun rullante è infatti una superficie riflettente, un lucido specchio che in maniera neutrale accoglie e restituisce ciò che ha innanzi, a confermare visivamente che l’opera è parte della realtà, in un dato luogo e in un preciso momento.Come sempre avviene nella pratica artistica di Anri Sala, anche il titolo dell’opera (che, come per tutti i suoi titoli, l’artista desidera mantenere nella lingua nella quale lo ha inizialmente immaginato, preferendo evitare traduzioni) aggiunge un ulteriore livello di interpretazione. Oltre all’evidente gioco di parole che accoglie in sé gli stessi drums (rullanti) che danno forma scultorea all’opera, i doldrums (stato di stagnazione o umore depresso) citati da Sala sono riferibili al corrispettivo termine nautico, inizialmente appartenente alla marineria inglese dell’Ottocento (probabilmente desunto da dulled, participio passato di dull = ottundere, sedare, e modulato sulla parola tantrum = capriccio, scenata). Oltre a descrivere una condizione o stato d’animo, la parola è stata applicata per definire porzioni di oceano (oggi indicate come Zona di Convergenza Intertropicale, ITCZ) che si estendono, secondo imprevedibili fluttuazioni dovute alle stagioni, per alcune miglia a nord e a sud dell’Equatore: una specie di cintura intorno al globo caratterizzata da bassa pressione atmosferica, che riduce la velocità del vento rendendolo estremamente variabile o addirittura assente. La calma piatta può anche alternarsi con improvvisi temporali che intrappolano le imbarcazioni a vela per giorni o intere settimane. Tristemente noti ai marinai delle prime traversate, e ancora temuti dagli equipaggi transoceanici, i doldrums corrispondono pertanto a quei tratti di mare nei quali i naviganti sanno di non poter esercitare alcun controllo sul proprio destino, secondo una condizione di costante incertezza. Approfondendo ulteriormente i possibili significati che riverberano nel titolo, si può aggiungere che

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il termine bridge presente in esso stabilisce anche un’inedita relazione con il sito museale del Castello di Rivoli. L’artista ha sviluppato l’opera per la sala al terzo piano del Castello che il restauro dell’architetto Andrea Bruno ha dotato di una passerella (o bridge). Si tratta di una sala insolita, colloquialmente detta “sottotetto”. Desiderando che i visitatori potessero ammirare l’alto livello di complessità tecnica dell’architettura dell’edificio (anche secondo lo sviluppo impresso da Carlo Randoni dal 1793, dopo il cantiere di Filippo Juvarra), in occasione del restauro avviato nel 1979 Bruno decise di non posare un pavimento in questa sala, preferendo invece attrezzarla con una passerella metallica. Posizionata in senso diagonale, la passerella si allarga al centro, permettendo di apprezzare l’estradosso della grande volta in muratura della vasta e imponente sala sottostante. Il restauro di Bruno ha inoltre preservato e consegnato alla storia dell’edificio le capriate in cemento armato che scandiscono l’ambiente del sottotetto. Costruite dal Genio Civile italiano nel 1948, queste strutture sostituirono le originarie travature in legno, distrutte nel 1943 quando uno spezzone incendiario colpì il Castello durante le drammatiche incursioni aeree della seconda guerra mondiale. Tale straordinaria compresenza di epoche e memorie è stata accolta da Anri Sala, che ha posizionato un rullante in basso, sugli estradossi settecenteschi, e ha appeso gli altri alle capriate novecentesche. In questo modo, il centro della passerella è diventato un luogo denso di significati che, quale ambiente introduttivo alla sequenza dei film che compongono AS YOU GO, rappresenta la prima esperienza che i visitatori possono fare rispetto alla già descritta attenzione dell’artista nei confronti del valore poetico del “momento presente”.Come spesso avviene nella pratica di Sala, dove più filoni di ricerca corrono paralleli e all’interno di ciascuno un’opera può dare origine a un’altra, Bridges in the Doldrums si posiziona entro un’organica evoluzione consequenziale di altri lavori che, per la maggior parte, includono rullanti quali forme scultoree produttrici di suono. Questa famiglia, se così la si può chiamare, riconoscibile nella produzione dell’artista a partire dalla primavera del 2009 con A Solo in the Doldrums, può essere a sua volta ricondotta a tematiche concernenti i modi in cui un dato luogo influenza lo svolgimento dei fatti che in esso accadono, come inizialmente esplorato nell’opera filmica Answer Me (2008). Girato a Teufelsberg vicino a Berlino, il film è ambientato in una ex base segreta, già utilizzato dalla CIA e dalla NSA per sorvegliare le comunicazioni sovietiche ai tempi della guerra fredda. Da stazione di ascolto, caratterizzata da un’iconica cupola geodesica, nel film il luogo diventa teatro di un peculiare “quasi-dialogo” tra un uomo e una donna, in cui la componente testuale è ispirata a un breve scritto del regista Michelangelo Antonioni. Ai tentativi di dialogo verbale della protagonista femminile, che chiede risposte mentre tenta di mettere fine alla loro relazione sentimentale, l’uomo reagisce concentrandosi sul set di batterie musicali che ha di fronte a sé. Voltato di spalle, estrae dagli strumenti un’impetuosa sequenza di densi suoni che a tratti zittisce la sua compagna, coprendone la voce. Il suo agire trasforma il vuoto dei propri potenziali silenzi in un pieno di fitto rumore. Con la sua indisposizione alla conversazione, l’uomo istituisce in ogni caso una sorta di comunicazione che consiste nella sostituzione di frequenze musicali al linguaggio delle parole. Le caratteristiche acustiche della cupola creano un’eco particolarmente lunga (e appropriatamente, il protagonista scelto da Sala è un percussionista professionista che ha ideato la sequenza ritmica in precisa relazione alla risposta in frequenza dal luogo in cui è ambientato il film). In un’inquadratura, la telecamera di Sala riprende lo sconforto della donna e la sua consapevolezza che, anche se in forma non verbale, alcune risposte le stanno comunque arrivando. Più esplicite di tante parole, le percussioni ritmiche la inducono in uno stato di profondo sconforto. Mentre stringe il capo, chino tra le mani, accanto a lei un rullante reagisce a sua volta alla forza della lunga eco che attraversa la cupola. Anche se nessuno impugna le bacchette che corredano il tamburo, queste ultime rispondono alle vibrazioni impresse di riflesso alla sua superficie.Come nota l’artista, nel suo lavoro la musica ha gradualmente assunto una funzione preponderante quale forma di espressione non-verbale che, a differenza del linguaggio, estende la percezione del

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presente. “Si ritiene che i momenti presenti più lunghi – quei lassi di tempo in cui la memoria non è ancora attivata e mancano le nozioni di passato e futuro – si verifichino durante l’ascolto della musica”, spiega Sala. Questa transizione avviene appunto dopo Answer Me e i modi in cui i rullanti, che l’artista genericamente indica come doldrums, diventano lavori autonomi sono la logica conseguenza della loro genesi, come sopra descritta nella sequenza filmica della donna con accanto il tamburo. Rispetto all’opera filmica, nella quale le frequenze presenti nell’ambiente inducono la vibrazione del tamburo e la conseguente azione delle bacchette, nelle opere scultoreo-sonore successive Sala rovescia questa relazione. Inserendo un altoparlante a bassa frequenza nella cassa del tamburo, l’artista struttura l’opera in modo che sia il rullante stesso, dal proprio interno, a generare il movimento delle bacchette. Quanto invece resta preponderante è il ruolo del doldrum quale agente capace di restituire in forma sonora, e secondo una predilezione per l’astrazione che attraversa l’intera opera dell’artista, determinate caratteristiche presenti in un dato luogo. Attraverso i doldrums, Sala riesce infatti ad accogliere nella sua ricerca e “tradurre” in frequenze, talvolta udibili e altre volte no, storie, memorie, tensioni, paure, ma anche caratteristiche fisiche come l’architettura, o addirittura situazioni geografiche o condizioni metereologiche, secondo una graduale apertura, a ogni nuova opera, versonuove interazioni e potenziali significati. Quasi aiutandoci a raggiungere uno stato di meditazione profonda, è questa compresenza, questo straordinario carico di potenzialità, che ci permette di assaporare al meglio “il momento presente”.Una precoce esplorazione del ruolo insito nell’inclusione di rullanti quali elementi capaci di reiterare la verità del presente è stata condotta da Sala in occasione della sua prima importante mostra museale negli Stati Uniti. In Purchase Not By Moonlight, allestita presso il Museum of Contemporary Art North Miami nell’inverno del 2008, l’artista include cinque rullanti posizionandoli in relazione alla struttura architettonica del museo, scandita da colonne, e in accordo con la selezione di opere filmiche presentate, che comprendono Answer Me. Interpretando l’allestimento dei propri lavori come una coreografia con una base ritmica che le corrisponde, l’artista sviluppa per ciascun film una traccia a basse frequenze, per poi trasmetterla in sincronia con il film attraverso l’altoparlante inserito nel rispettivo rullante. I movimenti delle bacchette di ogni rullante rispondono, reiterandola, alla scansione ritmica di ognuno dei film in mostra, creando una sorta di colonna sonora fatta di pure percussioni. Benché Sala non consideri questo primo allestimento come un lavoro autonomo, la stessa mostra Purchase Not By Moonlight costituisce un precedente significativo, una sorta di “metaopera” nell’ambito del percorso che coinvolge AS YOU GO. Va infatti ricordato che AS YOU GO è stata concepita dall’artista nella doppia accezione di mostra e opera e, intesa quale nuovo lavoro concernente la presentazione di quelli che lo compongono in relazione allo spazio espositivo del Castello di Rivoli, essa è a tutti gli effetti definibile come una “metamostra”, estendendo quindi le premesse rintracciabili in questo primo allestimento a Miami.Nella famiglia dei doldrums, come anticipato, la prima opera autonoma è A Solo in the Doldrums (2009), che nasce a partire da un invito a collaborare rivolto a Sala dalla coreografa inglese Siobhan Davies. A tale invito Sala ha risposto chiedendo a sua volta a Davies di ideare una coreografia da eseguirsi in assenza di pubblico. Dotando poi Davies di un microfono in grado di registrare i suoni dei suoi movimenti e del suo respiro mentre danza, l’artista ha tradotto gli impulsi sonori così ottenuti in suoni a bassa frequenza, non udibili dall’orecchio umano e fa in modo che siano suonati dall’altoparlante nel rullante, cosicché le bacchette rispondano alle vibrazioni. In questo senso, l’opera aggiunge un importante elemento che riguarda il paradosso di rendere visibile ciò che non lo è, ponendo gli osservatori nella condizione di attendere i movimenti e i suoni delle bacchette senza poter predire quando arriveranno.Con le opere immediatamente seguenti, Another Solo in the Doldrums (2011), presentata alla

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Serpentine Gallery a Londra, e poi Another Solo in the Doldrums (Extended Play) (2012), realizzata per la mostra al Centre Pompidou a Parigi, Sala sviluppa le frequenze trasmesse dagli altoparlanti celati nei rullanti – sempre in forma non udibile – a partire dalla colonna sonora data dall’insieme delle opere filmiche allestite in ciascuna mostra. Se in questi specifici contesti le opere funzionano dunque quali risposte alle emissioni sonore che attraversano lo spazio, quando estrapolate dall’allestimento originario entrambe diventano memoria di mostre passate, secondo una modalità ulteriormente approfondita con Another Clash in the Doldrums (2014). Realizzata dall’artista in occasione del Vincent Award, dove presenta allestite su due schermi montati l’uno contro l’altro le opere filmiche Le Clash (2010) e Tlateloco Clash (2011), l’opera è un rullante che risponde alla traduzione in basse frequenze delle sonorità presenti nelle due opere. La traccia che ne risulta sembra mettere in atto una sorta di antagonismo tra i due film, che si contendono il controllo delle vibrazioni da trasmettere alle bacchette.In Names in the Doldrums (2014) Sala per la prima volta inserisce nel rullante due altoparlanti: uno continua, come nelle opere precedenti, ad emettere basse frequenze, mentre l’altro produce frequenze medie. A differenza delle opere finora menzionate, queste ultime frequenze sono udibili all’orecchio umano. L’opera nasce nel contesto di una mostra personale al Tel Aviv Museum of Art – la prima di Sala in Israele – e in relazione ai drammatici eventi accaduti nel periodo precedente, espandendo l’idea che l’opera risponde al luogo e agli echi di varia natura che lo caratterizzano. Alcune settimane prima dell’opening della mostra, che significativamente Sala decide poi di intitolare No Names, No Title, violenti scontri nella striscia di Gaza avevano condotto alla tragica uccisione di numerosi bambini. Dal suo studio a Berlino, Sala sente via radio una registrazione che legge, uno dopo l’altro e senza alcun commento, il tragico elenco di nomi. Bandita dall’Autorità Israeliana delle Trasmissioni e non più diffusa via radio, la registrazione viene accolta dall’artista quale parte del proprio lavoro, mantenendo tanto l’emissione sonora della voce umana che recita la lista di nomi quanto intenzionalmente reiterandone il silenziamento imposto dalle autorità locali. Mentre la cassa a bassa frequenza trasmette la registrazione della voce che legge l’elenco, le basse frequenze così prodotte trasmettono vibrazioni alle bacchette. In questo modo, l’emissione sonora produce e cancella allo stesso tempo il suono dei nomi.Approfondendo il concetto originario relativo ai doldrums quale luogo fisico e mentale dell’immobilità che precede eventi non prevedibili, in opere seguenti Sala include riferimenti alla storia dell’arte, della musica e della cultura popolare producendo opere che possono essere identificate quale ulteriore gruppo all’interno dell’ampia famiglia dei doldrums. In Still life in the Doldrums (d’après Cézanne) (2015) le bacchette in legno sono modificate in modo che le loro parti terminali, quelle che andrebbero impugnate dal musicista, assomiglino a due peroni umani. Sospesa dal soffitto, sopra al rullante, c’è una composizione fatta da quattro crani che, allestiti in forma piramidale, citano il dipinto Piramide di teschi (1901) di Paul Cézanne, una delle sue numerose opere nelle quali il genere della natura morta viene approfondito nella sua declinazione di vanitas o memento mori: un assillo per la caducità della vita e una possibile consapevolezza dell’approssimarsi della morte che caratterizzò l’ultima fase creativa del maestro francese. Sala mantiene l’espressività pittorica che caratterizza il quadro colorando i teschi con sottili gradazioni di avorio più o meno brunito. Il forte messaggio del memento mori originario è come amplificato dalle oscillazioni che il gruppo scultoreo, appeso con sottili fili in nylon, inevitabilmente accoglie a causa dei movimenti delle bacchette. Alternando momenti di immobilità, esse talvolta si muovono energicamente, rispondendo alle vibrazioni ed emissioni – alcune udibili, altre non udibili – emesse dalla traccia sonora che è parte dell’opera. Addentrandosi in molteplici intrecci, essa comprende un libero riarrangiamento della nota composizione giovanile Verklärte Nacht (1899) di Arnold Schönberg, di poco precedente al dipinto di Cézanne, e frammenti di musiche dei cartoni animati di Tom e Jerry. Composte da Scott Bradley, che fu studente di Schönberg in California, queste musiche

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contribuirono al successo del cartoon di Walt Disney che, peraltro, nacque proprio nel 1901, con una coincidenza temporale rispetto alla datazione del quadro di Cézanne che Sala apprezza particolarmente. Al di là dell’evidente presenza di teschi umani, Still life in the Doldrums (Dont’Explain) (2015) si differenzia dall’opera sopra descritta per la parte sonora. Qui, mantenendo brani di Bradley, Sala aggiunge frammenti tratti dalla canzone jazz Don’t Explain (1946) di Billy Holiday e dalla versione interpretata da Nina Simone (1964), in relazione al fatto che il jazz si affermò quale genere musicale alla fine del secolo, negli stessi anni in cui Cézanne dipingeva i teschi. Entrambe le opere sopra descritte sono la risposta a quesiti che Sala ha posto a se stesso: “Come può un doldrum suonare uno still life? Com’è possibile che l’immobilità metta in azione qualcosa che per sua natura deve stare fermo?”. Conscio di addentrarsi in una zona ai limiti del paradosso, l’artista ha inoltre accolto le potenzialità fisiche offertegli dalla forma scultorea impiegata, che gli ha permesso, attraverso lo sviluppo a tutto tondo, di mostrare anche il retro della natura morta, quel lato nascosto che il dipinto non può far vedere.In un gruppo successivo di opere, allargando in questo caso la dimensione relativa all’utilizzo dello spazio aereo a sfidare la gravità, Sala inizia a sospendere i rullanti a soffitto, posizionandoli sempre al contrario, in modo che la membrana percuotibile sia visibile dagli osservatori sottostanti. I titoli di questo gruppo realizzato nel 2015, che include Moth in the Doldrums (Overtone Oscillations), Moth in B-flat, Moth in D, Transfigured Moth, sono accomunati dal riferimento alla falena (moth), insetto che incuriosisce l’artista per la sua parentela con le farfalle e la sua predilezione per un’attività notturna anziché diurna. In queste opere Sala aumenta la complessità della componente sonora. Nel caso di Moth in B-flat, Moth in D e Transfigured Moth il punto di partenza della traccia sonora è ancora una volta Verklärte Nacht di Schönberg, che interessa Sala in quanto composta nel periodo tonale del maestro austriaco che, come noto, in anni successivi si dedicherà invece allo sviluppo della musica atonale per la quale è riconosciuto come tra i più importanti esponenti dell’Espressionismo in ambito musicale. Addentrandosi nella struttura musicale ideata dal compositore per Verklärte Nacht – che, per inciso, fu inizialmente accolta sfavorevolmente anche per la presenza di un accordo non contemplato nei trattati di armonia dell’epoca – in ciascuna opera del gruppo Moth Sala sviluppa la sua ricerca in modi differenti. In Transfigured Moth ad esempio isola i momenti in cui compare un nuovo tono utilizzando un procedimento basato sul principio della dodecafonia, la teoria atonale sviluppata dallo stesso Schönberg nei suoi anni maturi. Ciò che non cambia è, come sopra descritto, il procedimento scelto dall’artista per isolare le note che vanno ogni volta a comporre la sua colonna sonora. Applicando un metodo che non è conforme al modello usato dal compositore per Verklärte Nacht, ma che appartiene a sue ricerche successive, Sala ottiene che le note suonate compaiano quasi nel momento in cui vengono espulse dalla composizione, causando di conseguenza i movimenti delle bacchette. Come i venti imprevedibili che soffiano improvvisi nei doldrums, in queste opere il visitatore è esposto a molteplici traiettorie, senza che gli sia possibile individuare una direzione dominante.In Moth in the Doldrums (Overtone Oscillations) due rullanti sono installati a pochi metri l’uno dall’altro, uno a pavimento e l’altro sospeso al soffitto. La fonte della componente sonora dell’opera deriva da una performance realizzata nell’estate del 2015 presso il Barbican di Londra, dove Sala collabora con Anna-Maria Hefele, specializzata in canto ipertonico, detto anche canto armonico, in quanto basato sulla possibilità di una singola voce di cantare una nota principale e il suo ipertono, secondo una tecnica originariamente adottata nelle ricerche filosofico-spirituali asiatiche per indurre stati di meditazione profonda. In quel periodo, seguendo – come spesso gli accade – più progetti contemporaneamente, Sala sta approfondendo la storia e la struttura musicale della Marsigliese e dell’Internazionale, secondo una direzione che nel 2017 lo porterà a realizzare l’opera filmica Take Over inclusa in AS YOU GO. Partendo dalle possibilità insite nella tecnica armonica, l’artista intreccia i due brani, in modo da sottolinearne le affinità storiche e musicali. Anche l’opera In-

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Between the Doldrums (Pac-Man) (2016) si presenta come due rullanti installati uno a terra e l’altro a soffitto, ma a pochi centimetri di distanza. Data la vicinanza delle due membrane percuotibili, le due coppie di bacchette producono un denso corpo sonoro che rinforza il potere dell’opera quale produttrice di autentici “momenti presenti”. Inoltre entrambi i rullanti recano per la prima volta una particolare pelle specchiante, aprendo l’opera a un’esplorazione dello “spazio in mezzo”, altro tema favorito da Sala. Poste l’una sopra l’altra, le due superfici specchianti producono una moltiplicazione di riflessi che genera, come dice l’artista, “un’infinità di spazi in mezzo”, secondo una densità visiva che arricchisce l’esperienza sinestetica dei visitatori. Cronologicamente, l’opera successiva nell’ambito della famiglia dei doldrums è Bridges in the Doldrums, descritta all’inizio di questo saggio, a cui segue 43 Names in the Doldrums (2017). Formato da un rullante sospeso a soffitto, il lavoro prende spunto da un tragico fatto di cronaca avvenuto il 26 settembre 2014 in Messico. Quel giorno, un gruppo di circa ottanta studenti di Ayotzinapa, in viaggio verso Città del Messico per una manifestazione in commemorazione della strage di Tlatelolco del 1968, subì un attacco che portò, oltre ad arresti da parte della polizia locale, all’uccisione di alcuni giovani e alla sparizione di 43 di loro, secondo modalità ancora controverse. Nell’opera di Sala l’elenco dei nomi degli studenti scomparsi è recitato da una voce femminile e trasmesso dall’altoparlante all’interno del rullante. Tuttavia, per via delle basse frequenze contenute nelle parole pronunciate, la pelle del tamburo vibra inducendo i movimenti delle bacchette, il cui rullio impedisce che i nomi possano essere uditi. In maniera non dissimile da Names in the Doldrums, l’opera riferita ai bambini uccisi a Gaza, Sala propone qui un chiaro messaggio che, reiterando la non-dicibilità di fatti drammatici a causa di pressioni politiche, espone l’azione coercitiva di queste ultime.Concepito come installazione apposita per i Kaldor Public Art Projects a Sydney, The Last Resort (2017) è ad oggi il più ambizioso tra i doldrums realizzati dall’artista. L’installazione consiste di trentotto rullanti dalle superfici specchianti appesi al soffitto di un padiglione all’aperto. Affacciato sulla maestosa baia di Sydney, il padiglione si trova sulla Observatory Hill, strategico punto di avvistamento già noto alle popolazioni aborigene e poi sede di Fort Philip, la cittadella costruita all’inizio dell’Ottocento come parte delle prime opere difensive della colonia penale di Sydney. Come per i lavori precedenti, i rullanti sono stati appositamente modificati e, in questo caso, nascondono al loro interno due altoparlanti ciascuno, uno a bassa e l’altro a media frequenza. Riflettendo sui primi momenti dell’occupazione colonialista, con l’arrivo del capitano James Cook presso la Botany Bay nel gennaio 1770, seguito dalla Prima Flotta di undici navi di condannati, ufficiali e relative famiglie nel 1788, Sala utilizza quale traccia sonora un brano pressoché coevo di Wolfgang Amadeus Mozart, il Concerto per clarinetto in La maggiore, K622 (1791). Sala interviene sul brano prescelto imponendosi precise regole, che in questo caso desume dalla lettura del diario di James Bell, preziosa fonte storica anch’essa risalente alle prime fasi della colonizzazione britannica dell’Australia. Scritto nel 1838, il diario racconta l’epico viaggio del suo giovane autore, all’epoca ventenne, che, invece di navigare per circa 130 giorni come previsto, a causa di molteplici disavventure si ritrovò per mare per sei lunghi mesi, sperimentando ogni genere di condizioni atmosferiche e, all’interno della nave, situazioni di corruzione e immoralità per lui prima inimmaginabili. Attingendo alle pagine di Bell, uno straordinario racconto di formazione che gradualmente porta il protagonista sempre più a contatto con la degenerazione che caratterizza la maggior parte dei suoi compagni di viaggio, Sala ha agito sul concerto di Mozart e ha sostituto le indicazioni di tempo della composizione originaria con le descrizioni relative all’intensità del vento che scandiscono le pagine del diario di James Bell. La melodia così ottenuta è stata poi suonata da un’orchestra e, registrando con microfoni separati la performance di ciascun musicista, Sala ha poi sistemato le tracce sonore nei vari rullanti in modo che la loro disposizione finale a testa in giù specchiasse quella di una possibile orchestra che suona nel padiglione.

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Sala ha inteso il suo intervento sul concerto di Mozart come una sorta di poetico deterioramento, dovuto alla lunga durata di un viaggio difficoltoso ed estenuante, come quello fatto dai primi coloni e da Bell. Come scrive nelle sue note sull’opera: “Volevo capire come un viaggio immaginario attraverso venti, onde e correnti d’alto mare avrebbe influenzato un capolavoro musicale dell’Illuminismo. Cosa ne sarebbe stato del Concerto per clarinetto di Mozart se avesse galleggiato alla deriva come un messaggio in una bottiglia, toccando poi terra dopo una lunga traversata?”. Accogliendo un passato distante, l’insistenza sul concetto di corruzione che domina l’opera può anche essere interpretato come un’eco del doloroso impatto della dominazione colonialista in una terra nella quale proprio la reiterazione di suoni e canti nella loro forma originaria è parte integrante della cultura spirituale degli aborigeni, quale sacro legame rituale che permette loro, a ogni canto, di ricreare il Creato.

SCRITTI E SCENEGGIATURE DELL'ARTISTA

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Déjeuner avec Marubi, 1997Il Dejeuner sur l’herbe di Manet passa sotto una macchina da cucire e la donna nuda della tela e rivestita dell’abito tradizionale delle contadine albanesi. Un gioco sulle tradizioni e sui tabu di un popolo.

Intervista (Finding the Words), 1998(Trascrizione di video in lingua albanese con sottotitoli in inglese)Tirana, 1998Anri Sala: Mamma, ho una sorpresa per te.Valdet Sala: Non mi fido delle tue sorprese.AS: Vieni a sederti! Mentre toglievo le mie cose dagli scatoloni ho trovato questa bobina di pellicola.VS: Che sorpresa! Non sapevo che avessimo questo film. È dei miei anni da militante.Enver Hoxha, dittatoreVS: Quindi è questa la tua sorpresa?AS: Sei commossa?VS: Veramente no.AS: Te lo ricordi? Che anno era?VS: Era il ‘77 mi pare. Vent’anni fa.AS: Che cos’era?VS: Il Congresso dei giovani albanesi.AS: Quanti anni avevi?VS: Vediamo, ora ne ho 52... meno venti... ne avevo 32.AS: Ti ricordi che cosa dicevi nell’intervista?VS: No. Sarei curiosa di saperlo.AS: Non c’è l’audio.VS: Peccato che l’audio sia andato perduto. Non mi ricordo, ma... Oh, Pushkin! Quello è Pushkin Lubonja.AS: Vive ancora in Albania?VS: Penso di si. Strano, non ricordavo che mi avesse intervistata.AS: Pronto, è la casa del signor Lubonja? Posso parlare con Pushkin? Sono Anri Sala, il figlio di Valdet. Credo che lei la conosca. Io studio cinema a Parigi e ho ritrovato una sua intervista a mia madre della fine degli anni settanta. Vorrei incontrarla e filmare un’intervista, se è possibile. Dato che lei era presente forse potrà aiutarmi a recuperare il testo. No, non è per la televisione! È un progetto personale. È un lavoro per la scuola di cinema. Pushkin Lubonja: Ho fatto più di duemila interviste, che cosa mai potrei dirle! In tutte le mie interviste, anche in quella con sua madre, le mie domande erano piùttosto prevedibili. Come del resto tutte le risposte. Persino il pubblico televisivo poteva prevederne i contenuti. Le domande erano stabilite in anticipo e si potevano dare soltanto risposte positive. Todi Lubonja: Che cosa è accaduto all’audio?AS: Ho trovato soltanto le immagini.TL: E perché non c’è nessun colore?AS: Il film è in bianco e nero.TL: Fammi dare un’occhiata. Ti dirò di quale congresso si tratta.Liri Lubonja: Lo puoi capire dal Primo Segretario.TL: Potrebbe essere il ‘78. All’epoca ce n’eravamo gia andati.LL: Come ho detto, bisogna vedere chi era il Segretario. Se era Mero o Monari o Bardhi.

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TL: Pirro, vecchio demonio! Pace all’anima sua.LL: E quello è Leka! Che somiglia a Pipi.TL: Dove?LL: Dietro Fiqirete.TL: Non mi pare.AS: Quindi a questo congresso voi non c’eravate?LL: No, lo hanno fatto dopo la nostra espulsione. Non sapevamo nemmeno che ci fosse stato.Liri e Todi Lubonja furono condannati a sedici anni di carcere dopo essere stati membri del Comitato centrale del Partito, alla guida dell’Unione dei giovani albanesi.AS: Lei era il tecnico del suono per l’intervista. E ora fa il tassista.Tassista: Io sono uno dei pionieri del Kinostudio. Ci ho lavorato per più di trent’anni. Non sono stato licenziato, ho lasciato per motivi economici, avevo una paga ridicola. I prezzi aumentavano, così ho comprato questa macchina e sono diventato tassista.AS: Perché nell’intervista manca l’audio?T: All’epoca non giravamo come fate voi ora. Non avevamo un audio sincronizzato. Immagine e suono erano separati: la macchina da presa era da un lato, il registratore dall’altro. Ecco perché manca l’audio. Probabilmente è andato perduto. All’epoca ero terrorizzato all’idea che durante le interviste con i capi della nomenclatura si potesse verificare qualche problema tecnico. Oggi invece c’e la paura della strada... rapine, scippi... e un altro tipo di paura. Però la preferisco perché ha una fine, mentre l’altra era infinita, terminava solo con la morte.“Questa... riunione... si è... tenuta... per... esprimere...chiaramente... la situazione... politica... del paese... in termini di lotta contro l’imperialismo, il revisionismo... e le due superpotenze: cosa possibile solo con il partito marxista-leninista. E solo se i giovani uniscono le loro forze sotto la protezione del Partito marxista-leninista...” “Esaminando la situazione politica attuale, non soltanto di alcuni paesi ma di tutto il mondo, e discutendo i problemi, possiamo apprezzare l’importanza del movimento rivoluzionario di un popolo.”VS: Non ci credo! È assurdo! Non posso proprio crederci! Sono solo parole vuote, non hanno senso. Io so come mi esprimo!AS: Guarda, ho chiesto a dei ragazzi sordi di decifrare il labiale, sono gli unici che possono farlo. Io leggo i sottotitoli e tu leggi le tue labbra.VS: Non è questione di visione politica, è che proprio non ha senso.AS: Leggi il labiale mamma! “...era molto chiaro...” “...in termini di... lotta...” “... contro l’imperialismo e le due superpotenze...”VS: Ma è assurdo!AS: “...con l’appoggio del partito marxista-leninista...” “...se i giovani uniscono le loro forze...”VS: Ma io parlo in quel modo?AS: “...la tutela del partito marxista-leninista...” “...otterrà la vittoria...”VS: In questa lotta.AS: “...in questa lotta...” “Anche se seguiamo la situazione politica attuale...”VS: Dove?AS: “...in alcuni paesi...”VS: Assolutamente no!AS: Ma il film non ha nessun taglio!VS: Quelle non sono le mie parole.AS: Invece sì! Leggi le labbra! Io leggerò il testo.AS: Quando hai fatto questa intervista?VS: Dopo il Congresso dei giovani albanesi.

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AS: Qual era l’argomento?VS: Era sulla rivoluzione globale, che avrebbe reso tutti gli uomini uguali, senza oppressione né sfruttamento. Suona ancora bene!AS: Tu credevi in quell’ideale?VS: Spesso mi domandavo cose come... Qual è il punto in cui inizia il compromesso con il potere e con se stessi e finisce la ribellione?AS: Come ti senti al pensiero che soltanto delle persone sorde possano leggere nel tuo passato?VS: È l’ironia del destino!AS: Ci vedi qualche aspetto in comune?VS: Si. Vivevamo in un sistema che era sordo ed era muto, in cui parlavamo con una sola bocca e una sola voce. È simbolico, perché in certi ambienti era meno rigido; tra noi, ad esempio, c’era una maggiore apertura. Sai, quando avevi nove anni scrivesti una poesia sulla tua paura della politica: come avresti potuto, se fosse stata contro le convinzioni della nostra famiglia? Le cose non erano tutte bianche o nere, potevamo vivere, innamorarci, avere figli... Pensavamo che avremmo cambiato il mondo, ma a poco a poco abbiamo perso tutto. La mia generazione e stata vittima degli errori del passato. I nostri genitori invece sono stati più fortunati. Avevano appena vinto la guerra. E tutto era possibile.Viva lo spirito rivoluzionario!Il 20 settembre vota per il Partito!VS: Il lato positivo è che si può imparare dalla nostra esperienza... per fare le cose in modo diverso. Ma se potessi tornare indietro non mi comporterei diversamente: credevo in quello che facevo, questo posso dirlo, ci credevo per davvero.Per te, patria mia, la canzone più bellacanto per te dal profondo del mio cuore.Per le tue montagne, per le valli selvagge,per te, patria mia,dove oggi vivo felice.Sei così bellae piena della grandezzadi una fortezza inespugnabile...LL: C’erano diversi tipi di persone. C’erano quelli che capivano cosa stava accadendo... e quelli che continuavano ad aggrapparsi ai propri ideali. Tua madre era una giovane militante, onesta e sincera. Non credo abbia agito per ipocrisia: in quegli ideali ci credeva per davvero. Poi è venuto il grande disincanto. Abbiamo toccato il fondo di un sistema che era stato pensato per creare la società perfetta.TL: Quando qualcuno si lamentava perché non c’era pesce al mercato, veniva processato per aver contestato l’autorità, e condannato per aver minacciato lo Stato. E lo rinchiudevano in prigione. Se gli avessi chiesto: “Perché sei qui?”, mi avrebbe risposto: “Mi sono lamentato perché non c’era il pesce al mercato”. È cosi che hanno legalizzato l’ingiustizia, l’oppressione e la violenza. Abbiamo vissuto sotto cinquant’anni di dittatura. Le dittature non smascherano il male, lo nascondono. E non garantiscono sicurezza, la impongono: un senso di sicurezza totalmente falso.VS: I comandamenti del comunismo erano di essere onesti, attenti al sociale, idealisti, energici, ottimisti ecc. Io ero tutte queste cose, e sono ancora così. E ancora oggi lavoro per questo, affinché la società possa essere più attenta ai bisogni degli individui, insomma, più umana.AS: E l’entusiasmo dei filmati d’archivio era vero?VS: Posso parlarti di esperienze concrete, dell’impegno di noi giovani. Abbiamo costruito tutte le terrazze dei frutteti. Abbiamo costruito le strade su a nord. Abbiamo costruito le ferrovie. Era vero,

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Anri, perché noi costruivamo per davvero. Poi c’era l’entusiasmo falso... L’isteria! L’entusiasmo delirante dei congressi e delle cerimonie. Quello era un entusiasmo forzato e senza senso, l’isteria collettiva della gente per il suo capo, che era una specie di icona. Più il capo era lontano, più sembrava mitico. Più si avvicinava, più diventava banale. Fino a perdere ogni significato.AS: Mamma, ti dà fastidio se filmo tutto questo?VS: Non lo so. Se non fossi stato mio figlio, non so se avrei accettato. Provo sentimenti contrastanti e non so darti una risposta semplice. Personalmente non mi dà fastidio, perché parlo di una realtà e del mio rapporto con quella realtà, che appartiene al passato ma riguarda anche il presente.L’Albania è sull’orlo della guerra civile. I carri armati si stanno dirigendo verso le città del sud, in mano alle forze armate ribelli. Valona è dilaniata da scontri violenti, che nelle ultime ore hanno provocato altre due vittime. I ribelli chiedono le dimissioni del presidente Berisha appena rieletto dal parlamento. Gli albanesi si stanno preparando per il primo cessate il fuoco dall’ultima guerra mondiale.Il loro denaro è sparito nei fallimenti a catena delle aziende locali, che hanno provocato la rivolta dei piccoli investitori. Il personale degli ospedali lavorava senza sosta e non sapeva come trattare le vittime di percosse o di proiettili vaganti.VS: Ho paura perché non vedo una via d’uscita. Non capisco che succede, sono spaventata e confusa. Quando parlo del futuro, intendo il futuro di chi mi sta vicino ma anche quello del Paese. I recenti avvenimenti hanno infranto molte speranze. È come se una forza distruttiva avesse spazzato via ogni energia costruttiva. Ho paura per voi e per me. Ciò che conta di più per me è che tu e tua sorella abbiate un futuro. È questo il mio desiderio più grande. Ma il mio desiderio di un futuro per l’Albania è altrettanto grande. È logico, perché non posso immaginarvi separati da questo Paese. Se l’Albania avrà un futuro, anche voi ce l’avrete. Ma se non ci sarà per lei non ci sarà neanche per voi. Come diciamo qui, “Chiedi una cosa, e ne otterrai due”.Secondo me ti abbiamo trasmesso la capacita di dubitare. Perché devi sempre mettere in discussione la verità.

Nocturnes, 1999(Trascrizione)Jacques: Li amo tutti, ma alcuni in particolar modo. Amo il fossorochromis rostratus, quello blu li al centro, un po’ scuro, con le femmine che hanno cinque macchie lungo il corpo. Ecco, quella si è appena girata. Mi piace la bocca perché sembra che stiano sempre sorridendo. Però la bocca non serve a sorridere, serve a mangiare nella sabbia. Infilano la testa sotto la sabbia e filtrano tutto, poi espellono attraverso le branchie, trattenendo il cibo. Ci sono un sacco di cose da mangiare nella sabbia.Denis: Quando hai una pistola, devi prendertene cura. Lì ti dicono: con la pistola ci lavori, ci dormi, ci fai sesso. Quando sei sotto la doccia, la capovolgi e la copri con un asciugamano. Una pistola è normale, per cui se arrivi qui e non ce l’hai, questo ti cambia. Hai problemi con le persone. Ho iniziato che ero giovane, avevo diciotto anni: mi sono arruolato appena ho raggiunto la maggiore età.Avevo compiùto diciott’anni a luglio e sono partito a ottobre. Per un ragazzo, a quell’età, la vita comincia. Poi, quando torni, ti ricordi tutto e pensi a quello che hai fatto negli ultimi quattro anni, se hai fatto cose strane. Non riesci a dire a te stesso: il 24 luglio del 1995 ho ucciso quattro persone. Ci pensi e ci ripensi, e poi ti ricordi le quattro persone che hai ucciso e il modo in cui l’hai fatto.Vedi il padre che esce di casa; non puoi vedere l’interno della casa, solo la forma. Poi dall’alto lo vedi allontanarsi, lo vedi andare verso altri ragazzi che fanno parte della milizia. Prende una pistola, fa un segnale e poi diventa tutto nero, e vedi il proiettile che viaggia.Ecco cosa ti impedisce di dormire. Non ti avvertono di tutto questo durante l’addestramento.

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J: Mi sono sempre sentito un marziano. Ne vuoi ancora un po’? Fin da piccolo mi sono sempre sentito come un marziano. Piccoli marziani. Marziani neri, bianchi, grigi. È terribile il modo in cui la gente li guarda. L’ho notato spesso, e mi spaventa. Volevo trasformarlo in un negozio, ma mi sono fermato. Pensavo, sarà fantastico, la gente può venire a trovare i genitori dei pesci. Poi un giorno si sono presentate cinque persone e tutti i pesci si sono allontanati, si sono nascosti negli angoli. È terribile, mi sono detto.Alcuni di loro non riescono a gestirlo, quello sguardo. Rimangono nell’angolo e di solito si ammalano abbastanza presto. D: Se non sbaglio ho ucciso quella persona il 13 marzo 1995 alle 17:28. Mi ricordo tutto. È stato l’episodio che mi ha sconvolto di più. Ogni volta che penso al suo viso poi non riesco a dormire. È un volto composto: lo vedo sempre prima da un lato, poi dall’altro, e poi di fronte con quel buco nella testa.Nel giro di quattro mesi ti rendevano perfetto. In quattro mesi imparavi tutto e poi ti mandavano in missione: avevi un piano, dovevi raccogliere informazioni, prendere appunti. Dovevi guardarti un po’ intorno e dopo tre settimane tornare al campo base... e scrivevi il tuo rapporto, ti riposavi un po’, ti mettevi il casco blu al posto del basco. Guidavi i camion, andavi a prendere la posta. Quello mi ha proprio ucciso, andare a prendere la posta, che ridere!E i colpi dei cecchini che fanno ping-ting-ting-ting. È una bella musica! Ma non posso augurarla neanche al mio peggiore nemico, davvero. Non posso.Vedi, ti consuma la vita, ti si legge in faccia. Non sei più capace di vivere normalmente. Così, ti aggrappi a quello che resta. Per me è la Playstation.J: Te ne accorgi quando ne aggiungi uno nuovo. Se metti un pesce nuovo, senza alcuna precauzione, in un acquario ben equilibrato dove ogni pesce ha trovato il suo spazio, il nuovo non durera più di un’ora.Ci sono sempre piccole tensioni, quindi, per evitare che diventino fonti di stress, i pesci trascorrono il loro tempo evitandosi: si guardano e basta. Il suono è ovunque, e quando a volte smette è molto stressante. È orribile. Quando smette, mi dico, oh merda, è un disastro, moriranno tutti. Non c’e più aria, non c’è più ossigeno. Panico.Nel cuore della notte, alle tre del mattino, mi sveglio e scendo. Non riesco più a sentire il rumore, non riesco più a sentire il suono.D: In fondo gli esseri umani non sono violenti, però gli piace dominare. C’è l’emisfero cerebrale che usiamo normalmente, ma la violenza è dall’altra parte, la vera violenza, la barbarie, la capacità di distruggere. Ti rasano la testa e ti mostrano i film. Non è il tipo di film che si vede in TV, sono i diversi modi di uccidere. Ti installano l’informazione e diventa un riflesso. E per non farti provare rimorso ti iniettano qualcosa che ti fa dimenticare che sei un essere umano.J: È sempre stato così, per gradi, devi... Come trovi il giusto equilibrio sociale, come fai? Osservo le cose e penso tra me e me: guarda, non sto dicendo che con gli esseri umani sia la stessa cosa, ma a volte penso, beh, che ci sono delle somiglianze, ma per entrare in relazione con le persone ho bisogno di usare altri mezzi.D: In pratica, devo fermarmi. Se non lo faccio e mi tengo tutto dentro, crescerà fino ad esplodere, e allora sì che diventa pericoloso. Ora ho le mie due vite, com’è giusto che sia. Di sera sono un ragazzino, mi metto la tuta e vado ad allenarmi nel parco, poi torno, faccio la doccia e mi trasformo in un vero bambino davanti alla Playstation... poi la spengo... e vado a vivere la mia giornata.

Byrek, 2000(Testo su diapositiva proiettata)Quando ero bambino, mia nonna si alzava presto la mattina e si metteva a impastare: farina, acqua e sale. Quando mi alzavo l’impasto era già sul tavolo. Mi piaceva moltissimo osservare le mani della

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nonna che preparavano la pasta sfoglia per il byrek. Ero piccolo, non andavo ancora a scuola, così mi arrampicavo su una sedia e la guardavo mentre lavorava di mattarello. Il byrek era grande, e mia nonna usava sempre la più capiente delle nostre teglie da forno. Per le vacanze, nascondeva una moneta fortunata nel byrek, che poi andava tagliato in cinque pezzi. In mano nascondeva sempre una seconda moneta e se qualcun altro trovava quella fortunata nel proprio pezzo, lei mi “aiutava” a trovarla nel mio, facendovi scivolare con discrezione la seconda moneta. Ero un bambino ed ero molto felice di trovare la moneta fortunata nel mio pezzo di byrek. Il nostro appartamento era piccolo e io dormivo nella sua stanza; i nostri letti adiacenti formavano una “L”. Io avevo gli incubi,quindi per farmi passare la paura le chiedevo di tenere la mia mano nella sua, per tutta la notte. Non so quale mano fosse, ma non faceva nessuna differenza. La mattina, quando mi alzavo, lei non c’era mai. Poi sono cresciuto e quando mi alzavo per andare a scuola l’impasto era già sul tavolo, coperto da un velo di farina. Intorno a mezzogiorno, quando rientravo a casa, la nonna stendeva la pasta sfoglia con il mattarello e vedevo le ultime palle di impasto scomparire nelle sue mani e diventare quasi trasparenti. Di solito mangiavamo verso le due, quando tutti erano a casa. All’epoca eravamo in cinque: nonna, papà e mamma, mia sorella e io. In seguito mia sorella lasciò il paese per continuare gli studi all’estero. Allora mia nonna cominciò a usare una teglia più piccola per cuocere il byrek per quattro persone. Non stavo più così spesso a guardarla impastare, e ancora più di rado la vedevo stendere la sfoglia. La maggior parte delle volte mangiavo il mio pezzo di byrek freddo, perché tornavo a casa tardi. E poi me ne andai anch’io, all’estero. Credo che mia nonna abbia continuato a preparare il byrek per tre, in una teglia ancora più piccola. Mi sentivo triste pensando a quella teglia, che non aveva mai dovuto usare prima.Oggi la nonna ha smesso di fare il byrek. Io e mia sorella siamo ancora all’estero. La moneta fortunata di nostra nonna ci ha portato fortuna. I miei genitori non mangiano con lei perché il loro orario di lavoro è cambiato. Ora mia nonna si sente molto debole, dice che non può più mangiare il byrek perché le fa male alla bocca.Il 25 marzo di quest’anno mi ha spedito la ricetta.

Uomoduomo, 2000La prospettiva della cattedrale20 potrebbe perpetuare il tempo fino al punto di fuga, se non fosse per l’uomo anziano che annuisce continuamente, come in un loop. Infrangendo la linearità del tempo, egli sfida la perpetuità divina e diventa lui stesso il proprio punto di fuga.

Bus 836 BFC 918 (named visual), 2000Ieri sera ho visto un autobus chiamato visual, con lettere blu scritte sulla sua pelle bianca. Pioveva. Per strada c’erano poche persone, per lo più facevano jogging con le cuffiette nelle orecchie. L’autobus, targa 836 BFC 918, era vuoto. Nessun autista, solo le luci d’emergenza lampeggianti. Dietro i finestrini si vedevano tre monitor TV che trasmettevano un filmato per l’autobus vuoto. Non so esattamente di che filmato si trattasse, i finestrini erano schermati e non vedevo altro che immagini sfuocate. Mi sono fermato, ma ancora non riuscivo a vedere bene. Ho potuto notare soltanto che c’erano i sottotitoli.Questo tipo di situazione e del tutto inverosimile, persino troppo per essere finta.Oggi mi è tornato in mente l’autobus bianco chiamato visual, immobile da qualche parte a Parigi, con le sue luci d’emergenza lampeggianti. All’interno, le immagini non venivano mostrate a nessun pubblico: totale vacuità, solo un film sottotitolato (forse in francese?) che abitava lo spazio interno. Dentro non c’era nessuno, le uniche persone li intorno erano i passanti con indosso gli auricolari.Non era nella natura dell’autobus stare immobile, né nella natura dei sedili essere vuoti, né nella

20 Il Duomo di Milano.

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natura del film essere senza pubblico. L’unico particolare adeguato alla scena erano le luci d’emergenza, raddoppiate dal riflesso sulla strada bagnata. Un autobus che non si muove, posti a sedere senza passeggeri, un film senza pubblico... Una totale disfunzione visiva, se non fosse per le persone che fanno jogging con le cuffiette nelle orecchie.

It Has Been Raining Here, 2001(Testo a muro)Certamente non li commuove. Mentre entrano in città, nessun commento sul suo aspetto infinitamente tetro e banale. Tornano dalla spiaggia, con gli ombrelloni sulle spalle bruciate. La folla esce dalla stazione, cammina sul terreno umido e si dirige verso la prima fila di edifici e gru, tra rifiuti e bidoni di spazzatura fumante. Il suono dei loro passi si dissolve in quell’ambiente familiare. Le rare parole che si scambiano rompono il silenzio assordante: “ha piovuto qui”.

Arena, 2001Lo zoo di Tirana. Negli ultimi anni il paesaggio qui intorno è cambiato, e il modesto parco che circonda il padiglione sta diventando ancora più piccolo. La vita urbana invade il paesaggio rurale e la città, che prima non si vedeva neanche in lontananza, si sta rapidamente avvicinando. I cani stanno intorno alle pareti di vetro del corridoio, una specie di cintura trasparente che offre una vista a 360 gradi e separa i due mondi animali. I rumori principali provengono da dietro la telecamera, dal cerchio interno del corridoio. Il padiglione è composto da una decina di gabbie identiche che offrono una modesta campionatura di specie animali locali o esotiche, quelle che sono sopravvissute alle mutazioni, all’instabile transizione della città. La telecamera disegna la mappa delle ansie del presente.

Missing Landscape, 2001Ogni volta che la palla va fuori, il portiere la segue e scompare nel “paesaggio smarrito”. Al ritorno, per rientrare in campo passa sempre attraverso la porta. Sembra quella convenzione teatrale per cui un attore si sposta attraverso i diversi spazi della scena passando sempre attraverso una porta, anche se sul palcoscenico non ci sono muri o confini fisici a separare gli ambienti. Ogni volta che il portiere entra in campo attraverso la porta, riconosce uno spazio all’interno di uno spazio, inconsapevolmente tagliandolo fuori dal mondo esterno, circondato dalle montagne. È portiere ed è attore, allo stesso tempo. Ci sono pochi momenti di vera tensione e violenza: quando lanci la palla e ricevi una pietra, o quando i bambini si comportano come i grandi che vivono nel “paesaggio smarrito”, fra il parco giochi e le montagne.

Promises, 2001(Testo a muro)“...Poi se la prese con Capone in persona e diede 10.000 dollari allo chef personale di ‘Scarface’ perché gli mettesse il cianuro nella zuppa. Lo chef cambiò idea all’ultimo momento e raccontò il piano al suo capo, mentre sul viso gli scorrevano le lacrime. Capone gli concesse di vivere, ma sostituì immediatamente tutto il personale della cucina. Poi dissero a Scarface che Aiello aveva messo una taglia di 50.000 dollari su di lui, per chi avesse avuto il coraggio di ucciderlo. Capone disse alla sua guardia del corpo di allora, Louis “Little New York” Campagna: ‘Nessuno può mettere una taglia sulla mia testa e farla franca’.”21

Ho chiesto a degli amici se potevano dire: “Nessuno può mettere una taglia sulla mia testa e farla franca”.

21 Tratto da Jay Robert Nash, Encyclopedia of World Crime, 1990.

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Blindfold, 200215 minuti al tramonto. Il sole colpisce le vuote e scintillanti strutture metalliche per i cartelloni pubblicitari, accecando la vista e censurando così lo spettacolo. Lentamente il sole scompare, la luce diminuisce, l’immagine si sprigiona. Lo spazio dietro i cartelloni si espande proiettando simultaneamente due inquadrature di due città che si muovono adagio, anche se non tanto quanto il sole.

Ghostgames, 2002Ghostgames è un film e un gioco. È simile al calcio, ma qui si gioca con un “granchio fantasma” al posto della palla. Bisogna trovare il momento e il posto giusto perché questa specie di calcio incontri la sua specie di palla. I granchi fantasma non si trovano ovunque, trascorrono la maggior parte dell’anno nelle tane e generalmente escono in massa solo d’estate, con la luna nuova e la bassa marea. Introducendo questo gioco in una passeggiata notturna, con le torce elettriche, lungo una spiaggia sabbiosa22, volevo vedere come ci si sente quando le regole incontrano ciò che non è contenibile, il razionale incontra l’irrazionale, il desiderio di giocare e controllare incontra la perdita di controllo e ciò che non è voluto.Ogni giocatore ha una torcia elettrica che può utilizzare per manovrare la direzione del granchio. Quando la luce colpisce il granchio fantasma, il giocatore inizia a prenderne il controllo: il granchio prima si ferma, poi cerca di farsi strada nell’oscurità, lontano dalla luce che lo insegue, dirigendosi verso il mare o nella sua tana sotto la sabbia.Come in un film atipico, volevo sostituire l’azione “sensata” con l’azione del gioco e rimpiazzare la sceneggiatura con le regole generali del calcio, che avrebbero fornito la struttura della storia. Il gioco mette in scena lo spazio. I granchi fantasma appaiono come creazioni semoventi continuamente cacciate e manovrate dai giocatori. Si potrebbe anche immaginare che il fascio di luce e i granchi siano un prolungamento del medesimo corpo, quello del giocatore.Ecco le regole: ogni contatto fisico è vietato ad eccezione di quello con la luce. Non si può giocare con lo stesso granchio per più di due minuti perché, in media, un granchio fantasma riesce a correre solo per tre minuti. Non si può tornare indietro. Si fa gol quando si riesce a spingere con la luce un granchio in mezzo alle gambe di un altro giocatore!

Durante le ricerche per quest’opera e per una possibile location, l’artista si è messo in contatto con alcuni scienziati, tra cui Daniel Ritchoff. Seguono alcuni estratti della loro corrispondenza.

Domenica, 23 giugno 2002...tra un progetto artistico e una ricerca scientifica. Immagino la prima inquadratura del film come un’immagine totalmente buia, con i punti luminosi delle torce elettriche in lontananza. Il suono presenterà lo spazio; il suono dell’oceano! Potrebbe essere un campo lungo, con le figure che si avvicinano. In modo alterno, l’immagine e a fuoco e fuori fuoco e sembra quasi che respiri. A volte potrebbe sembrare irreale, poiché ciò che vediamo non è ancora chiaro. Due persone con le torce camminano lungo la spiaggia per alcune centinaia di metri. Il fascio di luce si ferma sui granchi fantasma, spingendoli verso il mare o nella tana. A questo punto la passeggiata si anima e si trasforma in una partita, una partita simile al calcio ma senza contatto fisico, senza spinte, senza violenza fisica. È la luce a spingere! Del gioco mi interessa soprattutto il processo di invenzione, perché è un gioco d’astuzia, pieno di complessità e oscurità. Non c’è altro contatto che quello della luce: i giocatori cercano di spingere il granchio con la luce, ognuno cerca di spingerlo tra le gambe

22 Outer Banks, Carolina del Nord (USA).

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dell’altro. Quando qualcuno ci riesce e gol; ma è molto difficile, perché il granchio fantasma corre verso la propria tana o verso l’acqua. L’obiettivo del gol giustifica le azioni e aiuta a riconoscerle come parte di un gioco. Un aspetto importante è che non ci dovrebbe essere un campo delimitato, ma continuo. Quando un granchio fantasma fugge, i giocatori non fermano il gioco ma continuano a incrociare lo loro torce, fermandosi solo di tanto in tanto. Il gioco potrebbe finire per un possibile esaurimento del terreno a disposizione, magari per un piccolo corso d’acqua, che risulterebbe nero e renderebbe cosi l’immagine di nuovo nera, come all’inizio. Il suono avra una sua evoluzione. Oltre alla presa diretta, un’idea è quella di sviluppare una specie di suono sotterraneo legato al fatto che, man mano che il gioco prosegue, sempre più granchi fantasma si infileranno nelle tane per sfuggire alle torce, e questo suono diventerebbe quindi sempre più presente. So che i granchi fantasma fanno un rumore particolare quando scavano i loro tunnel. Non ho ancora tutto chiaro nei dettagli, ma ogni volta che lavoro a un progetto mi interessa lo sviluppo, il continuo adeguamento interpretativo dovuto agli scambi, alle esperienze e agli interrogativi che sorgono. Mi piacerebbe approfondire il comportamento dei granchi fantasma o avere qualsiasi informazione tu ritenga utile (ora che hai letto le mie riflessioni sul film). Volevo saperne di più sul modo in cui i granchi fantasma guardano le cose che li circondano; hanno davvero questi occhi “sopraelevati” che possono vedere a 360 gradi in un colpo solo? Ho imparato che i loro occhi non sanno guardare verso l’alto (quindi gli uccelli sono pericolosi!). Ti mando un’immagine in allegato: e uno scatto diurno che mostra un granchio fantasma sotto la sabbia. Il progetto è in notturna, ma volevo sapere se questo tipo di immagine è comune di giorno. Se il progetto si svolgerà agli Shackleford Banks, negli Stati Uniti, poi ti farò qualche altra domanda sul viaggio in barca per arrivarci, energia elettrica, acqua ecc. Un possibile rischio per la riuscita del progetto potrebbe essere la bellezza delle immagini. Sono sicuro che saranno magnifiche, ma non è quello l’obiettivo. Il mio scopo è l’intero processo di invenzione del gioco, gli incroci, la spinta della luce. E ci potrebbe essere altro da scoprire. Questo è il motivo per cui un approccio scientifico e una conoscenza più approfondita sarebbero utilissimi... e non finisce qui.Cari saluti, Anri.

Domenica, 23 giugno 2002Ciao Anri, la tua idea sembra interessante. Però non so se i granchi fantasma ti faranno il favore di partecipare al gioco. Penso che correranno velocissimi alle loro tane non appena vedranno le luci o avvertiranno qualcosa di strano sulla spiaggia. Forse potrai scorgere delle ombre veloci in lontananza, però appena vi avvicinerete non ci sarà più nessun granchio fantasma da vedere. Riuscire a fissare la tua idea su pellicola mi sembra ancora più improbabile.

Domenica, 23 giugno 2002Caro Martin, io penso invece che potrebbe funzionare perché ho vissuto una situazione di questo tipo a Bahia, in Brasile, una notte mentre camminavo in riva al mare con una torcia elettrica. Il fascio di luce per prima cosa blocca il granchio, e quando poi cerca di scappare, se metti la luce nella direzione opposta a quella del suo movimento, si ferma di nuovo. Comunque so che sarà complicato. Per me è difficile dire se dietro tutto questo c’è un’idea di base, almeno non in senso letterale. Come ti ho detto, si tratta più di una situazione in cui non c’è spinta fisica né contatto né violenza, ma soltanto la luce che gioca tutti questi ruoli. Ma tra qualche tempo avrò le idee più chiare e saprò condividerle meglio. Cari saluti, Anri.

Domenica, 23 giugno 2002Bene, allora speriamo che i granchi cileni si comportino come i granchi brasiliani, o almeno in modo simile. Speriamo che questa analogia funzioni meglio per i granchi che per i giocatori di

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calcio – il Cile ha perso anche col Giappone... Cari saluti, Martin.

Lunedì, 24 giugno 2002Ciao Anri. Posso indicarti i punti in cui è probabile trovare i granchi, se questo aiuta. E possono guardare senza problemi verso l’alto. Ma di solito non si mettono in quella situazione, si gettano sotto la sabbia se li disturbi e gli impedisci di tornare alla loro tana. Quel granchio era disturbato, oppure molto malato. Saluti, Dan.

Martedì, 25 giugno 2002Caro Martin, sono arrivato questa mattina, è stato un viaggio lungo, Parigi-Francoforte-Buenos Aires-Santiago. (Fa troppo freddo qui.)

Venerdì, 28 giugno 2002Magari dormi vicino all’auto. Non dovrebbe succedere nulla, ma un po’ di cautela è sempre utile. Martin.

Mercoledì, 3 luglio 2002Caro Dan, la situazione sembra perfetta, stagione e clima giusti, altissima densità di granchi. P.S. Sto pensando che le riprese dovrebbero svolgersi all’inizio di agosto.

Mercoledì, 3 luglio 2002Anri, non so se ho capito bene come vuoi procedere con il tuo gioco, cosa vuoi fare esattamente; ma possiamo far muovere i granchi di notte. Ci sono tane a riva e altre nell’entroterra. I granchi depositano le larve con la luna nuova e la luna piena, poi molte femmine vengono fuori subito dopo il tramonto, con l’alta marea: è il momento in cui la densità di granchi è più elevata vicino alla riva. Poiché si tratta di alta marea, anche le onde sono più grandi. Saluti, Dan

Mercoledì, 3 luglio 2002Caro Dan, la mia agenda dice che la luna piena ci sarà il 24 luglio e il 22 agosto (troppo tardi per me). Ma tu dici anche luna nuova. Queste sono le fasi lunari che ho trovato in rete.LUNA NUOVA PRIMO QUARTO LUNA PIENA ULTIMO QUARTOLuglio 10 10 26 Luglio 17 4 47 Luglio 24 9 07 Agosto 1 10 22Agosto 8 19 15 Agosto 15 10 12 Agosto 22 22 29 Agosto 31 2 31Significa che l’8 agosto ci sarà la luna nuova. Devo iniziare seriamente a preparare il viaggio. Saluti, Anri.

Naturalmystic (Tomahawk #2), 2002Ciò che più mi aveva colpito di Mihajlo (un ragazzo di Belgrado) era il distacco intransigente che provava per ciò che gli accadeva: quello strano fenomeno chiamato “bombardamento chirurgico” che, pur senza mettere in pericolo la sua vita, gli impediva di viverla di notte, generando in lui un gran senso di noia.Mentre di sera sedeva accanto alla finestra, questa noia gli faceva venir voglia di ammazzare il tempo – quella cosa di cui si dispone in quantità eccessive quando si è intrappolati negli eventi altrui. Ascoltava il suono dei bombardamenti e lo memorizzava, senza sapere che un giorno lo avrebbe portato in uno studio di registrazione a Parigi. Con oggettività e precisione quasi antropologiche, riusciva a riprodurre il particolare suono dei missili Tomahawk, che a metà strada trattengono il respiro per un istante prima di abbattersi sul loro bersaglio terrestre.

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Dammi i Colori, 2003(Trascrizione)Quando ho mostrato per la prima volta il filmato della città, a Poughkeepsie, Liam Gillick mi ha detto: “Anri, dimmi la verità. Dimmi che questa città non esiste. Ti prego, dimmi che non c’è un artista/sindaco amico tuo”.Edi Rama: La città era morta. Sembrava una stazione di passaggio, quelle in cui si resta solo se si è in attesa di qualcosa. Sembrava un corpo che continuava a invecchiare in silenzio, in cui tutto – la violenza delle rivolte e gli eventi accaduti – si era svolto come in uno scenario alieno. Un luogo che sembrava aver inghiottito ogni cosa senza risentirne minimamente.La questione ora è scoprire come questa città può diventare abitabile, come trasformarla da luogo in cui sei costretto a vivere dalla sorte a luogo in cui scegli di vivere.Quello del colore è stato un processo che ha permesso di sperimentare il tempo come elemento comune.Tutto questo paesaggio, modificato attraverso l’uso del colore, riflette lo svilimento dell’individuo, che è durato per decenni nella totale indifferenza dello Stato.Ma qui il colore ha anche un altro ruolo, quello di legare insieme tutti i volumi che sono stati aggiunti, brutalmente e individualmente, alla superficie originale, non da un artista ma da anonimi residenti che hanno voluto ampliare il loro spazio abitativo. Quando costruivano un balcone o aggiungevano un piano o allargavano una bottega, non hanno mai considerato che la forma creata dalla loro azione brutale dovesse risultare in armonia con quella creata dal vicino, o dal vicino del vicino: hanno così deturpato interi edifici.Non è questione di quale colore vuoi per il tuo balcone; né di quale colore vuoi per questo o quell’edificio, perché allora bisognerebbe sommare tutti i gusti e trovare la giusta via di mezzo, che sarebbe, inesorabilmente, un grigio.Più che una conseguenza della democratizzazione, ciò che abbiamo fatto qui è un’avanguardia della democratizzazione. È un processo che al tempo stesso precede e accompagna la crescita democratica di questo Paese, di questa comunità, e non un’iniziativa chiusa in se stessa che definisce un modello.Non voglio dire che dovrebbe accadere anche in altre città, né che altre città dovrebbero invidiare questa.Un’operazione di questo tipo infatti non avrebbe senso in una città che stabilisce comunicazioni e relazioni con le persone in altri modi naturali e soddisfacenti. Questa è la differenza.Il colore incide sul ritmo respiratorio e lo intensifica, aiuta a infrangere le cortine di polvere, a creare un tempo nuovo per la città.Ed è un paradosso, perché il nostro è il Paese più povero d’Europa, ha molti problemi; eppure non credo che in Europa ne esista un altro, neanche il più ricco, in cui le persone discutono così appassionatamente, tutte insieme, di colori. Se ne parla nei bar, nelle case e in strada, e la discussione più accesa riguarda l’effetto che i colori hanno su di noi. Credo che l’ambizione di trasformare questa città in un luogo scelto e non voluto dal destino sia un’utopia in sé.Secondo me una città in cui le cose si sviluppano normalmente potrebbe indossare i colori come vestiti, non usarli come organi.In un certo senso i colori qui sostituiscono gli organi.Non sono parte del vestito. Quel tipo di città indosserebbe i colori come un vestito o un rossetto.Non so come sia altrove, ma qui il rapporto tra il sindaco e il suo elettore somiglia a quello fra l’artista e lo spettatore.È un rapporto molto stressante, è un impegno quotidiano che in fondo punta dritto al cuore delle persone.

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I colori che uso non sono più un elemento, non sono una presenza frustrante chiusa tra quattro pareti che mi fa sorgere il dubbio se al giorno d’oggi valga o meno la pena dipingere, se la mia pittura ha un senso, se ha senso il fatto che mi sono stabilito in una capitale straniera e dipingo. Chi sono io per dipingere, e perché dovrei dipingere e non fare qualcos’altro?L’importante per me è che ho chiuso con questo dibattito.Non mi interessa più, quindi non ritengo necessario rispondere a queste domande.Prendete un po’ di rosso dalle luci di stop delle auto, e gettatelo nel buio. È bello.

Time after time, 2003È possibile produrre una manifestazione visibile della perdita? Che aspetto ha ciò che non è del tutto presente? Deve esserci un modo specifico di inscrivere esseri o cose nel presente in modo che incarnino simultaneamente anche ciò che erano e che non sono più, rappresentando quindi la propria progressiva scomparsa.

Three Minutes, 2004Ricordo la mia sorpresa quando ho imparato come un cambiamento nelle relazioni tra temperatura, velocità delle particelle e condensazione può produrre, da una data quantità di materia, nuova materia con qualità diverse. Mi sono anche chiesto fino a che punto, in generale, le cose del mondo dipendono dal fatto che abbiamo una temperatura corporea media compresa tra 36 e 38 gradi. Cosasuccederebbe se un giorno all’improvviso salisse a 39 gradi? Un eccesso di luce potrebbe portare a un eccesso di informazioni? Ho scelto un oggetto ordinario che ha un’unica funzione – che è la sua sola ragione di esistere – e l’ho filmato mentre svolgeva questa funzione in condizioni di luce controllata.Montato fotogramma per fotogramma, il film priva gradualmente l’oggetto delle sue associazioni consuete. Mi interessava dotarlo di una nuova efficienza che potesse mettere in discussione le aspettative iniziali, il motivo stesso per cui era stato prodotto o addirittura inventato, la sua raison d’être insomma. Affiorano nuove qualità che forniscono nuove informazioni sull’oggetto. Il piatto musicale riflette la luce e sviluppa una nuova competenza, che nessuno prima gli avrebbe mai riconosciuto. Durante questo nuovo slancio il piatto sfida la sua funzione originaria, suggerendo unariconsiderazione “sotto una nuova luce”.

Now I See, 2004Una band scrive una canzone seguendo alcune istruzioni. Per facilitare la comprensione del progetto la chiamerò canzone n. 1. La personalità della canzone eseguita sul palco stimolerà azioni espressive e gesti, tanto che chiudendosi le orecchie e smettendo di ascoltare si potrà vedere la musica e coglierne visivamente il ritmo, come se fosse musica per gli occhi.La canzone n. 1 funziona come una sceneggiatura cinematografica che stabilisce quando il cantante principale deve intervenire, come tenere il microfono e muoversi, come il percussionista deve colpire la batteria e quando il chitarrista deve mettersi a saltare. Insomma, la canzone n. 1 innesca ogni azione e ispira tutto ciò che si vede nell’immagine, con una sola eccezione: mentre si svolge la performance, un palloncino a forma di cane – parte della modesta decorazione del palco – si solleva e inizia a galleggiare a mezz’aria, come se fosse trasportato da misteriose frequenze sonore.Il testo della canzone potrebbe raccontare ciò che abbiamo visto e suggerire l’idea di una cesura nella narrazione. Verso la fine della canzone, la performance raggiunge il massimo della confusione. I musicisti saltano e si muovono senza alcuna sincronia o coordinazione, uno di loro è sdraiato sul pavimento.Mentre accade tutto questo, il palloncino a forma di cane atterra in mezzo ai loro movimenti

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disordinati, evitando per un pelo di essere schiacciato. Ma non per molto.Alla band viene chiesto di scrivere un’altra canzone. La canzone n. 2 è volutamente composta da suoni a bassa frequenza sintetizzati elettronicamente, integrati da una melodia tranquilla. Non ha testo e il suo tempo lento contrasta con la viva espressività della canzone n. 1.Mentre il palloncino a forma di cane si muove con grazia a mezz’aria, i suoni intensi della canzone n. 2 sostituiscono il ritmo irregolare della n. 1. Le sue basse frequenze invadono l’aria secondo uno schema immaginario. (Tra l’altro, le basse frequenze potrebbero essere il respiro invisibile che solleva il palloncino a forma di cane e lo trascina attraverso la tetra sala da concerto.)Man mano che il palloncino prosegue il suo viaggio, lo spettatore prova un crescente senso di distacco che lo separa dall’azione principale del film, ossia l’esibizione della band sul palco. I musicisti somigliano sempre più ai personaggi di un film, le cui vicende risultano ormai inafferrabili. Il ritmo visivo della performance e il caos che ne consegue contrastano volutamente con la quiete della canzone n. 2. Il palloncino a forma di cane è l’unica entità che continua il suo viaggio in armonia con la canzone n. 2, che è diventata l’unica musica per le orecchie.Quando la canzone per gli occhi e la canzone per le orecchie confluiscono in Now I See, mettono a confronto le due narrazioni riconoscendo un ruolo centrale ai sensi dello spettatore.

Làk-kat, 2004Lak-kat, termine dell’idioma wolof parlato in Senegal, indica coloro che provengono da regioni in cui il wolof non è la lingua madre. In un certo senso, significa il linguisticamente altro.Lak-kat (2004) esplora l’abbondanza e i limiti di un idioma attento alla distinzione fra le diverse sfumature tra bianco e nero, luminoso e scuro. Eppure il wolof non ha parole per indicare i colori primari – come il rosso, il giallo o il blu – e ha colmato questa lacuna adottando i francesi rouge, jaune e bleu. In questo senso, mi è sempre piaciuto pensare che rouge, jaune e bleu siano termini lak-kat: anche se di origine diversa, hanno trovato una nuova casa nel wolof.Nel tempo, traducendolo in altre lingue, il video Lak-kat potrebbe diventare uno strumento per testare e verificare la capacità di altri idiomi di distinguere e differenziare. Lavorando a stretto contatto con gli interpreti – che comprendono con acume le complessità e le oscurità linguistiche e la loro relazione con le geografie e i contesti storici – ho deciso di rendere visibili le evocative divergenze che si generano all’interno di una lingua.Queste divergenze si riflettono soprattutto in quelle aree in cui il colore della pelle e l’alterità si incontrano.La traduzione di determinate parole wolof in inglese britannico e in americano23 ha rivelato la specificità dei due diversi approcci alla colonizzazione e all’alterità, entrambi tormentati.La traduzione in portoghese brasiliano, lusitano e angolano24 ha svelato ulteriori prospettive prodotte dal fatto che una stessa lingua abbraccia tre continenti.Lo stesso procedimento applicato al castigliano e ai dialetti spagnoli parlati in Venezuela, Messico e Argentina25 ha creato una più ampia rete di varianti e differenziazioni. Inoltre ha fatto luce su un altro fattore implicito: l’influenza degli interpreti e della silenziosa rilevanza del colore della loro pelle.

Long Sorrow, 2005Long Sorrow è ambientato in un caseggiato soprannominato “Langer Jammer” (“lungo lamento” o “dolore”) nel Märkisches Viertel, una zona di Berlino molto vicina al luogo in cui si trovava il

23 Lak-kat 2.0 (britannico/americano), 201524 Lak-kat 3.0 (brasiliano-lusitano-angolano), 201625 Lak-kat 4.0 (castigliano/venezuelano/messicano/argentino), 2017

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Muro. La costruzione risale agli anni tra il 1965 e il 1974 e le sue idee architettoniche innovative hanno promosso un diverso modo di coabitare, ispirato a un nuovo senso di comunità.La costruzione iniziò subito dopo l’isolamento di Berlino Ovest con la costruzione del Muro. Dovendo accogliere moltissime persone in uno spazio limitato, la parte occidentale della città adottò misure coraggiose per rispondere all’improvvisa carenza di abitazioni. Il principio della “urbanità attraverso la densità” rifletteva le ambizioni di un tempo nuovo. Nel 1974, quando il complesso fu completato (vennero realizzati circa 17.000 appartamenti), suscitò reazioni negative: la stampa lo definì un ghetto, mascherato dalle avanzate idee sociali e architettoniche che proponeva. Col senno di poi, però, si è capito che probabilmente molte delle immagini denigratorie apparse sugli organi di stampa erano una montatura.Più che una narrazione, Long Sorrow è un particolare arrangiamento di situazioni, colorate da momenti di tensione, gesti e musica. Ambientato in un appartamento libero all’ultimo piano del “Langer Jammer”, vuole essere un’ulteriore estensione dell’edificio per mezzo di un urlo musicale.

Agassi, 2006Lo sguardo di Agassi è in ritardo. La palla da tennis non è più dove era un attimo prima. L’immagine proiettata coglie uno sfalsamento temporale, un momento solitamente invisibile che è rappresentato qui dal ritardo tra la direzione dello sguardo di Agassi e la posizione della palla. Filmare l’immagine fissa conferisce a questo ritardo una durata completamente nuova26. In questo caso la durata e di un minuto, cioè 1440 fotogrammi a 24 fotogrammi al secondo. Il tempo trascorre, ma nulla cambia.Tranne in due casi, ognuno lungo tre fotogrammi, in cui un bianco buco rotondo appare in alto, sulla destra dell’immagine, accanto alla palla, casualmente più vicino al punto in cui è diretto lo sguardo di Agassi. Nei film, questo buco bianco è un segno che indica al proiezionista che è il momento di cambiare bobina, per mantenere la continuità. Generalmente il pubblico non coglie, poiché il tempo che intercorre tra la scomparsa del primo buco e la comparsa del secondo è di 19 fotogrammi, circa 0,79 secondi, lo stesso che impiega la palla, dopo un servizio di Agassi, per raggiungere e colpire il campo dell’avversario.Quando vediamo il primo buco, “vediamo” il rumore della palla colpita dalla racchetta e poi, con il secondo buco, quello della palla che colpisce il terreno. Riusciamo così a percepire il tempo che ci vuole.

Air Cushioned Ride, 2006Secondo me un luogo è dove ci si ricorda di essere stati. Non è fatto solo di spazio ma anche di tempo. Ha le sue qualità, architettoniche, o sonore, o relative a eventi che vi sono accaduti. Alcuni luoghi non hanno edifici o date da ricordare, ma producono la propria colonna sonora.Una volta, mentre attraversavo in auto l’Arizona ascoltando musica barocca su Arizona Public Radio, sono capitato in un’area di sosta per camion. Man mano che mi avvicinavo, girando in cerchio intorno ai camion parcheggiati, le onde radio di una stazione sconosciuta che passava musica country hanno cominciato a interferire con la musica da camera che stavo ascoltando. Ê un fenomeno chiamato “modulazione incrociata”, o “emissione spuria”. Le diverse onde radio si avvicendavano perché quel “muro di camion” reindirizzava di volta in volta un pezzo musicale bloccando l’altro. Nel corso di un cerchio completo, la musica è cambiata più volte, sempre in 26 Composizione del film:

1175 fotogrammi con un primo piano di Agassi; 3 fotogrammi con l’immagine fissa e un foro rotondo bianco in alto, sulla destra dell’immagine; 19 fotogrammi con l’immagine fissa; 3 fotogrammi con l’immagine fissa e il foro rotondo bianco; 240 fotogrammi con l’immagine fissa.

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corrispondenza degli stessi punti. Quando uno dei camion è partito, ha aperto un nuovo passaggio nel “muro”, creando il potenziale per una nuova modulazione incrociata.

A Spurious Emission, 2007Dopo essere stata trascritta e arrangiata come partitura per musica country e barocca, la colonna sonora di Air Cushioned Ride è stata riproposta dal vivo in A Spurious Emission. Tra le due opere esiste un’affinità magica eppure delirante, maniacale. Le percezioni spaziali si traducono in nozioni temporali: il sud e il nord dei camion in Air Cushioned Ride si convertono in prima e dopo nella partitura di A Spurious Emission.

After Three Minutes, 2007Una mano invisibile colpisce un piatto musicale situato in una stanza buia illuminata da luci stroboscopiche. Una videocamera sta filmando. Le luci stroboscopiche possono produrre fino a sessanta flash al secondo, ma la videocamera può registrare solo venticinque fotogrammi al secondo. Si produce quindi una perdita tra quello che realmente accade e ciò che la videocamera riesce a riprendere, anche se i nostri occhi non riescono a cogliere la differenza. Il video registrato perde oltre metà della realtà.Una volta montato, il video è stato proiettato in una sala dell’Irish Museum of Modern Art di Dublino. La luce della proiezione agiva essa stessa come una stroboscopica, illuminando la galleria ogni volta che nel film appariva uno scorcio del piatto musicale che luccicava. Tutto ciò è stato catturato dalle telecamere di sicurezza a due fotogrammi al secondo. Anche a questo video manca una porzione di realtà, mentre espande quelli che inizialmente erano solo brevi scorci del piatto, conferendo al tempo un ordine nuovo.

Overthinking, 2007(Trascrizione)Anri Sala: Allora, c’è questa persona che voglio contattare, è un artista. Ci sono queste migliaia di immagini che ha raccolto durante la sua vita per l’archivio e che voleva rendere disponibili per altri artisti dopo la sua morte. E ora c’è questo progetto organizzato da due curatori che hanno lavorato all’archivio, lo hanno ordinato e reso accessibile agli artisti, e hanno invitato diverse persone, me compreso, a farci qualcosa. Così ho esaminato le immagini, che riguardano vari aspetti della vita: alcune le ha scattate lui stesso, altre le ha trovate, le ha prese da riviste o da altre persone. Il motivo per cui io sono qui è che... lui stesso le ha organizzate in categorie – “architettura”, “persone e personaggi storici”, “oggetti”, “modelli”, “dipinti”, “sculture”, “lavoratori e industria”, “miseria”. Ci sono queste due immagini che lui ha inserito nella categoria “architettura” e mi ha molto sorpreso che le abbia messe lì... perché quello che vedo in queste due foto è un suicidio... Come mai ha messo queste due immagini nella categoria “architettura”? Ecco, questa è la mia domanda.Medium: Di solito durante una seduta la prima cosa che facciamo è concentrarci. Concentriamoci quindi... [afferra la mia mano]. Grazie per essere qui... Per favore guida le nostre domande e dacci le risposte che vuoi darci, e io invoco luce intorno a noi e luce intorno a te. Grazie! Vuoi fargli una domanda particolare?AS: Sì. Voglio entrare in contatto con questa persona, è un artista. Nella sua vita, accanto alle opere d’arte, ha anche raccolto una vasta selezione di immagini... [il vento fa volare le carte]. Devo riprenderle?M: Sì. Devono essere importanti, perché lui continua a cercare di farle volare.AS: È la persona che stiamo evocando?M: Si. E continua a farlo solo con qualche carta, e questo è interessante. Gli piacciono [ride]. Va

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bene, continua con le tue domande.AS: Perché, perché questa sequenza di immagini in cui si vede una persona che si butta... come mai l’ha messa in “architettura” invece di metterla in “miseria” o di creare una nuova categoria chiamata “suicidio”. Questa è la mia domanda.M: Lui non vedeva la sequenza fotogramma per fotogramma come facciamo noi nella vita, ma come una progressione. E non credo che la stesse guardando dal punto di vista dell’uomo, ma da quello dello spirito di quell’architettura, dell’edificio. Sai, certi edifici hanno un’anima. Hai notato che la persona che si sta buttando non è disperata; è messa così [alza le braccia]. Sai, non si tratta di lui, ma piuttosto di qual è stata la causa del suo gesto. AS: Secondo lui cosa c'è di diverso tra qui e qui, se non è l’uomo... Non è l’architettura...M: Non è l’architettura.AS: Non è neanche la percezione delle persone che sono giù di sotto come...M: Esatto! Riguarda il sentimento di questo edificio, questo è ciò che sto cercando di farti capire: l’edificio.AS: Ma cos’è l’edificio?M: C’è qualcosa. Ad esempio, non ti è mai capitato di entrare in un edificio che ti fa sentire felice, e poi in una casa stregata, che ti rende infelice? Non si tratta solo della struttura, ma di quello che è successo al suo interno, di tutte le cose che lo circondano. Questo è quello che sta cercando di dire.AS: Ricorda o sa dove sono state scattate queste foto?M: [esita]AS: Sono immagini che ha trovato?M: No!AS: Come ha fatto ad averle?M: Gli sono state date. Ce ne sono altre, non molte, ma ci sono altre immagini.AS: Dello stesso posto?M: No, sono diverse. Le altre erano personali per lui, mentre queste sono personali per qualcun altro. Lui aveva domandato il perché di questi scatti, ma ne era rimasto scioccato. Lo aveva sconvolto soprattutto il fatto orribile che i presenti non prestassero alcuna attenzione a ciò che stava accadendo. Erano come l’edificio, non prestavano attenzione, proprio come quell’edificio.AS: Esatto! L’ho percepito anch’io. Ma poi sono rimasto sconcertato perché ho percepito che per lui era lo stesso: mettere l’immagine nella categoria “architettura”... ha trattato l’evento come hanno fatto loro...M: Giusto, lo sta vedendo con i loro occhi. È proprio questo il punto. Loro sono come l’edificio, non fanno nulla, proprio come quell’edificio. E quello che lui vuole cogliere è l’orrore di questa cosa. L’orrore in quell’edificio.AS: Gli dispiace che io gli chieda queste cose?M: Non ne soffre. Ha sofferto, ma ora non soffre più. A giudicare da quello che ricevo da lui, ora è molto gioioso, felice...AS: Ma ne ha sofferto...M: Sì, ne ha sofferto...AS: Per cosa, inizialmente?M: Sofferto è la parola sbagliata, scioccato è più giusto. Scioccato dalla gente in generale, dalla loro apatia, dalla noncuranza, dall’egocentrismo, dal narcisismo. Le persone possono essere sensibili al sociale, ma se non fanno nulla a riguardo allora continuano ad essere apatiche, narcisiste, egocentriche. E a non fare quello che deve essere fatto.AS: Sto cercando di riflettere su quello che tu... In pratica ti ha spiegato come osservare queste immagini da un punto di vista più ampio?M: Come una storia... non da un punto di vista individuale.

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AS: Ma come una storia significa che queste immagini sono collegate a molte altre immagini?M: Sono tutte collegate in una storia. Quando queste foto verranno messe in mostra, lui le metterà dove devono andare, capisci?AS: No!M: Lo capirai. Ci stai pensando, e lui è felice che tu lo stia facendo. Ma ci stai pensando troppo intensamente, Lui sistemerà ogni cosa al suo posto. Ha senso per te?AS: Ci sto pensando troppo intensamente...?M: Pensando troppo, pensando troppo.AS: Sto pensando troppo.M: Tu stai pensando troppo e lui ti renderà tutto chiaro, ti chiarirà tutto quando sarà il momento di mostrarle.AS: A proposito delle carte, c’era qualcosa che...M: Sì. Continua a far uscire la stessa carta, il nove di coppe, e vuole dire un’altra cosa, che anche dopo la fine della nostra seduta bisognerebbe continuare a riflettere su questo, perché anche la risposta è una progressione. Bisognerebbe continuare a rifletterci, e tutto si rivelerà da sé [il mio taccuino cade dal tavolo]. Fai attenzione anche ai tuoi appunti, perché ovviamente anche lui vuole prenderli. Quello che ho notato è che sta cercando di aiutarti, perché è venuto fuori il nove di coppe e il significato tradizionale di questa carta è il mistero svelato. Ecco perché vuole che tu smetta di pensarci troppo. E quasi una contraddizione. Certo, anche per te è importante pensarci molto; ma se ti poni come persona, come individuo, lui vuole che tu ci pensi molto, invece come artista vuole che tu lo capisca e basta. L’uomo comune vede le cose in un certo modo, l’artista le vede in modo diverso. Esiste una maniera oggettiva di osservare e poi c’è quella degli artisti. Lui vuole che le immagini siano viste in entrambi i modi, quello oggettivo e quello emotivo.AS: Può vedere queste immagini ora?M: Che vuoi dire? Lui può vedere tutto!AS: Ma potrebbe non essere qui con noi in questo momento?M: Sì, sì. Non sempre si riceve un segno. Avrebbe potuto anche dire: “tornate la prossima settimana”. Invece continua a dire che, com’è vero che lui è qui con noi ora, la prossima settimana, nei prossimi cinque giorni avrai un’intuizione. Ora sta a te sapere se avverrà in sogno o mentre crei la tua arte. Ma lui dice di prestare attenzione. Io ho la sensazione che verrà nei tuoi sogni e non nella tua arte, perché penserai fin troppo alla tua arte e non tanto ai sogni.AS: E il luogo da cui lo evochiamo oggi... Fa qualche differenza per lui se siamo a Los Angeles o da qualche altra parte?M: No, il punto di vista è più globale. Lui non vede così, non vede da un luogo specifico... può presentarsi in ogni caso.AS: Quando ha lavorato all’archivio, ha suddiviso le immagini nelle diverse categorie e ha deciso dove collocarle: è stata anche l’ironia a ispirare le sue scelte?M: È proprio questo il punto! Mettendole lì voleva evidenziare l’umorismo macabro della situazione. Ma allo stesso tempo voleva anche porre una domanda. In un certo senso vuole che vada così [muove il braccio come un serpente], cioè desidera che ci si pensi, ma vuole anche far vedere l’orrore di quel pensiero e il fatto che la gente non prestava alcuna attenzione. Sento qualcosa sul motivo per cui nella seconda foto c’è dell’erba. L’erba ha a che fare con la redenzione, con la possibilità che una cosa possa non accadere. Capisci cosa intendo? La morbidezza dell’erba e degli alberi, non cosi visibili nella prima foto. Anche l’erba fa parte dell’architettura, questo sta dicendo.AS: È la prima volta che partecipo a una seduta spiritica. Ti ho chiesto se era presente qui con noi non soltanto per sapere se voleva farlo o meno, ma anche per sapere se crede in questo tipo di incontri, dato che nella sua vita mi pare avesse i piedi ben piantati nel mondo reale.M: Questo è il mondo reale. La prima cosa per qualsiasi tipo di pratica è essere aperti, e lui al

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momento non deve preoccuparsi di questo. Non deve preoccuparsi di essere...AS: No, più che altro mi chiedevo se siamo entrati davvero in contatto, e anche se a lui dispiaceva che io avessi chiesto questo tipo di contatto.M: No no, lui lo voleva.AS: Nella sua vita non penso abbia creduto a queste cose.M: Sì, ma è proprio questa la parola chiave: “nella sua vita”.AS: Scusa?M: La parola chiave è proprio: “nella sua vita”.AS: Non voglio interromperti, quindi dimmi...M: È che... [ride] puoi fare un’altra domanda se vuoi. Succede un sacco di volte quando apro un canale: fa “bibiribiribirip” e poi se ne va e io rimango in silenzio perché non ricevo più nulla, quindi... Se hai un’altra domanda lui risponderà, credo, ma se non ce l’hai non lo farà, ecco tutto.AS: Grazie.M: Oh, grazie a te.

Ulysses, 2007“Per esempio adesso suona. Improvvisazione. Potrebbe essere quel che ti pare finché non senti le parole. Bisogna prestare attenzione. Duro. Comincia bene: poi percepisci gli accordi un po’ fuori tono: ti senti un po’ perso. Dentro e fuori ai sacchi sopra i barili, attraverso recinzioni metalliche, corsa a ostacoli. È il tempo a fare la melodia. Dipende da come ti senti. Comunque sempre bello da ascoltare.”James Joyce, Ulisse, 1922 (trad. it. di E. Terrinoni e C. Bigazzi, Newton Compton 2015)Ulysses (2007) trasforma un brano pop inedito in un progetto composto da istruzioni ritmiche e suggerimenti melodici. Basata su un brano originale dei Franz Ferdinand uscito poi nell’autunno del 2009 (anch’esso intitolato Ulysses), quest’opera intende sfidare l’ordine sequenziale tra originale e replica, dando al pubblico la possibilità di indovinare, fare congetture, eseguire e persino registrare la propria interpretazione di una canzone prima della sua uscita. Lavorando a stretto contatto con i Franz Ferdinand, ho ideato un insieme di mezzi e condizioni per indurre ipoteticamente il visitatore della mostra a immaginare ed eseguire una canzone ancora sconosciuta.Ulysses si compone di tre parti: una partitura (scritta in collaborazione con Jeremy Millar) in cui i testi della canzone sono accompagnati da una serie di istruzioni precise (che descrivono nel dettaglio esattamente quando e come la batteria e i piatti andrebbero colpiti); una playlist di frammenti melodici corrispondenti alle diverse parti della canzone (intro, strofa, riff, coro, inciso e coda); e un set che comprende una batteria e uno schermo.La partituraAnziché utilizzare la notazione musicale tradizionale, la partitura della batteria unisce ai testi originali della canzone una serie di indicatori onomatopeici (il tipo di suoni che si producono con la batteria) e istruzioni più specifiche per suonare. Visto il titolo del brano – Ulysses – è sembrato opportuno che tutte le parole onomatopeiche e le frasi usate come istruzioni specifiche fossero tratte dal romanzo di James Joyce del 1922.La playlistUna playlist composta da diversi frammenti melodici – cantati o eseguiti dalla band Franz Ferdinand – stimola il visitatore a comprendere il profilo melodico del brano e a crearne una propria“replica”.Il setUn insieme base di tamburi e piatti, circondato da pannelli acustici trasparenti sui quali sono fissate le parti stampate delle partiture, e un lettore CD da cui il visitatore/performer può ascoltare qualsiasi brano della playlist.

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Answer Me, 2008Answer Me è stato girato nella cupola geodetica del Teufelsberg, che in tedesco significa “montagna del diavolo”. Si tratta di un luogo molto particolare, in cima a una collina formata con le macerie della Berlino post-bellica sotto la quale è sepolto un altro edificio, un collegio militare progettato da Albert Speer. Durante la guerra fredda, in cima alla collina fu costruita una stazione di ascolto per monitorare le comunicazioni sovietiche con la Germania dell’Est.Il film nasce dal dialogo contenuto in una nota di Michelangelo Antonioni. Raccontando di una coppia che si separa, il regista scrive di voler “registrare una volta tanto non i loro dialoghi ma i loro silenzi, le loro parole silenziose. Il silenzio come dimensione negativa della parola”.Una donna cerca di porre fine a una relazione: “Ammettilo che è finita. Cosi tutto sarà chiaro e sapremo che cosa fare”. Il compagno si rifiuta di ascoltare e suona imperterrito la batteria. Lei gli ripete: “Rispondi!” ancora e ancora. A volte la sua voce si sente, a volte vediamo soltanto le labbra muoversi, perché la voce è sovrastata dal suono della batteria.Grazie all’eco prodotta dalla cupola geodetica progettata da Buckminster Fuller, le bacchette poggiate su un tamburo inutilizzato accanto a lei vibrano ai colpi della batteria suonata da lui. La pelle del tamburo vibra rispondendo alle frequenze di percussione. Amplificate dalla cupola, queste frequenze fanno rimbalzare le bacchette sul tamburo, creando un’eco udibile ma anche visibile. L’uomo si chiude all’ascolto e suona la batteria per evitare che la voce di lei lo raggiunga e interrompere le sue parole, tuttavia al tempo stesso “attraversa” lo spazio avvicinandosi a lei attraverso quelle stesse frequenze.In Answer Me ho sottoposto il dialogo di Antonioni all’influenza fisica dell’architettura. In un edificio cosi particolare, quel dialogo rimane un monologo oppure la batteria suonata da lui è l’altra metà di un dialogo, di cui “comprendiamo” solo la parte fatta di parole?

It Will Happen Exactly Like That, 2008“Con una finta di corpo dribblerà Peter Reid e a passi felpati si avvicinerà all’area avversaria. Un tocco sulla destra per cercare Jorge Valdano. Sarà Hodges ad anticipare Valdano con un morbido pallonetto verso la propria area. Peter Shilton, il grande portiere, uscirà per una presa apparentemente facile. Ma ecco che d’improvviso arriverà Diego Armando Maradona e con una mano salirà più in alto delle braccia tese di Shilton, toccherà il pallone e lo metterà in gol. Succederà tutto proprio così. Il piccolo Maradona con la mano a beffare il gigantesco Shilton.”Bruno Pizzul, celebre commentatore del calcio italiano, descrive l’azione che porterà alla rete di Maradona detta “La mano de Dios” come un evento ancora da venire. Per questa registrazione, avvenuta nel Parco Sempione di Milano, ho scritto i nomi dei giocatori coinvolti nell’azione su dei pezzi di carta e li ho sparsi sull’erba formando un grande cerchio. Ho invitato Pizzul a immaginare epresagire l’azione camminando da un “giocatore” all’altro, ma senza coinvolgere l’atleta successivo prima di essere arrivato al biglietto con il suo nome. L’azione è rallentata come una passeggiata nel futuro.

Title Suspended, 2008Quando una metafora prende vita emana un sorprendente senso di vulnerabilità. Volevo turbare la staticità di un’immagine emblematica – il tocco di Dio27 – tracciando il punto di arrivo e di partenza di questo particolare momento, dalla decostruzione alla ricostruzione, dalla disperazione alla riparazione. Mentre le mani guantate ruotano intorno al proprio asse, la forza di gravità ne modella lentamente la

27 Il particolare della Creazione di Adamo di Michelangelo, dove le dita di Adamo e di Dio qua si si toccano.

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forma, dando a Title Suspended il senso di un divenire che aspira al momento perfetto.

Why the Lion Roars, 2008Una sera di ottobre, all’Esplanade des Quinconces di Bordeaux si è verificato un brusco cambio di stagione. Non c’era un filo di vento e nella zona l’atmosfera sembrava immobile. Solo gli alberi sfidavano quella quiete assoluta tremando in diversi punti, come solleticati dall’interno. Sotto il fitto fogliame autunnale, decine di rondini come tante formiche sembravano aver perso ogni traccia del tempo, attirate dall’insolita mitezza del clima e dalla generosa abbondanza di avanzi dei caffe all’aperto, sotto gli alberi.All’improvviso uno scoppio di fuochi d’artificio provoco un vortice di ali: sbattendo e svolazzando, un’esplosione di rondini prese il volo dagli alberi. Le chiome furono talmente squassate da questo scatto repentino che nell’arco di quattro minuti, in una accelerazione veloce, l’autunno progredì di tre mesi. Le foglie marroni toccarono il suolo per prime, mentre quelle gialle, come titoli di coda, vagarono più a lungo nell’aria pronunciando in un soliloquio la prima lettera dell’inverno.Why the Lion Roars è un montaggio di lungometraggi che comunicano attraverso sensazioni termiche. Ognuno dei cinquantasette film selezionati corrisponde a temperature ben definite, che vanno da –11 °C a +45°C. Un termometro misura la temperatura esterna e determina l’avvicendarsi dei film proiettati, che cambiano a seconda dei gradi di calore reale. Sono le oscillazioni del clima a dettare la narrazione dei film. Nel momento esatto in cui si verifica un aumento o una diminuzione della temperatura, il film in corso viene interrotto e sostituito da un altro, provocando un’imprevista collisione di significato – i film vanno in letargo fino all’arrivo della loro “stagione”.Why the Lion Roars gioca con i film al telefono senza fili. Di alcuni si vedono soltanto frammenti in quanto al mattino la temperatura oscilla senza sosta, mentre altre pellicole vengono proiettate per intero o addirittura in loop, perché nel corso della giornata la temperatura si stabilizza. Frutto dell’infinita fluttuazione del tempo atmosferico, Why the Lion Roars affida al caso climatico la sua singolare combinazione di pellicole cinematografiche. A sua totale discrezione, un futuro trovato porta uno scompiglio senza fine nel presente.Why the Lion Roars è la versione, montata secondo le variazioni termiche, di una fiction basata su una storia vera: il tempo atmosferico.

Solo in the Doldrums, 2009Un rullante realizzato appositamente nasconde al suo interno un altoparlante che emette suoni inudibili a bassa frequenza; questi fanno vibrare la pelle del tamburo e provocano il rullo delle bacchette. Quando la coreografa Siobhan Davies mi ha proposto di collaborare, le ho chiesto di ideare una performance da eseguire senza pubblico. Un microfono ha registrato da vicino i suoi movimenti nello spazio e i suoni cosi prodotti sono stati poi modulati in frequenze inudibili.Come una nota a pie’ di pagina senza alcun rimando corrispondente, le bacchette della batteria mettono in scena le vestigia di una danza invisibile.

Flutterbyes, 20105 Flutterbyes28 si basa sull’aria Vogliatemi bene, un bene piccolino dal primo atto della Madama Butterfly di Puccini. La parte di Madama Butterfly è stata rivisitata in modo che non uno ma cinque soprani interpretano il personaggio dell’eroina. Le cantanti sono distanti tra loro, distribuite sul palcoscenico e in altri punti del teatro; l’intero ambiente e immerso nell’oscurità, rischiarata solo da speciali luci a LED inserite nei ventagli delle cantanti.

28 5 Flutterbyes faceva parte di Il Tempo del Postino, una mostra in scena curata da Hans Ulrich Obrist e Philippe Parreno e commissionata dal Manchester International Festival nel 2007.

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I cinque soprani non cantano mai contemporaneamente: quando una canta, le altre si limitano a mimare l’atto di cantare. Nell’istante in cui una interrompe l’emissione della voce e prosegue solo con la sincronizzazione labiale, subentra la voce di un’altra. A ogni soprano vengono assegnate frasi consecutive, singole parole o talvolta solo sillabe, in modo che si percepisca una “singola” voce di Madama Butterfly che si libra nella sala.E cosi il personaggio fluttua, disincarnato eppure vivo nella voce errante. Come acqua che scorre, il canto si snoda da un corpo all’altro mentre il movimento coreografico di queste voci assemblate genera una presenza complessa, che e transitoria e spezzata ma avvertita come continua e intera.

Inversion – Creating Space Where There Appears to Be None, 2010Creare spazio dove sembra che non ce ne sia, tra il primo piano e lo sfondo di un disegno, una dimensione intermedia: precipitiamo nella tana del coniglio per dispiegare lo spazio compresso che si nasconde negli scarabocchi disegnati sulle carte di un uomo politico29. Negli ultimi dieci anni, le astrazioni automatiche di Edi Rama hanno collegato il presente a un futuro altrimenti incomprensibile, “tra la semicecità intrinseca in ogni decisione politica e la precisione nella cecità, propria di ogni decisione artistica”30.Per percepire questo spazio possiamo metterci nell’assurda posizione di chi guarda il primo piano dallo sfondo, invertendo così la nostra percezione del disegno. Nel suo equilibrio dinamico c’è un leggero squilibrio, un ribaltamento leggibile solo con gli occhi della mente, la cui estetica a prima vista rende impercettibile un simile sconvolgimento. L’obiettivo non è scambiare in modo permanente lo sfondo con il primo piano, ma avvicinarsi all’invisibile piano intermedio da entrambi i lati per acquisire consapevolezza dell’ambigua area di mezzo.Forse si può spiegare meglio questa percezione ribaltata del disegno prendendo come esempio un dipinto di Nicolas Poussin, Paesaggio con un uomo ucciso da un serpente. In primo piano abbiamo l’azione: un uomo viene ucciso da un serpente; un altro per caso lo vede e fugge impaurito, a sua volta visto da una domestica che dallo spavento rovescia il bucato. Sullo sfondo abbiamo invece una graduale parvenza di stabilità: i pescatori che raccolgono le reti, i bagnanti in riva al lago e una cittadella in lontananza. Nel dipinto rovesciato e visto dalla prospettiva dell’imperturbabile cittadella, l’istante drammatico dell’uomo ucciso dal serpente rimane celato dall’ingannevole sicurezza del nuovo primo piano. Lo scambio dei livelli illusori del dipinto ci fa perdere contatto con l’evento principale. Il punto di vista dalla cittadella “non coglie i particolari, non viene raggiunto dai suoni, non sente il grido dell’uomo morso dal serpente”31.Ora fermiamo per un momento l’immaginato rovesciamento del dipinto, e lasciamo che il destino dell’uomo morso dal serpente torni in primo piano. Trasliamo questa inversione negli scarabocchi di Edi Rama. Le questioni politiche sullo sfondo passano avanti, mentre lo scarabocchio retrocede in secondo piano. L’osservatore quindi non può più ignorare il contenuto politico che ora è in primo piano. Sullo sfondo dei disegni automatici di Edi Rama c’è un’urgenza nascosta che indica la maturazione delle tematiche sottese: ciò che è emerso è un prodotto pragmatico della democrazia, vale a dire il vuoto appello alla stabilità che ha rinviato le questioni fondamentali. La democrazia è stata soppiantata da una burocrazia “animata da buone intenzioni”. Si sospetta che il voto sia

29 I disegni di cui si parla in questo testo sono i disegni automatici di Edi Rama, sindaco di Tirana, leader dell’opposizione di centrosinistra in Albania e artista. I suoi scarabocchi assumono una forma ripetitiva, come quelli di un “reality planner” che osserva dall’alto un paesaggio e definisce i quartieri come aree di pensiero mediante una cartografia a colori.30 Idea presa in prestito da una conversazione tra Marcus Steinweg e Edi Rama che fa parte di una serie di colloqui a due tra Edi Rama e lo storico dell’arte Michael Fried, l’artista Philippe Parreno, il filosofo Marcus Steinweg e l’attivista politico Erion Veliaj, svoltisi a Berlino nel giugno 2010 in occasione della mostra Creating space where there appears to be none – Conversion/Inversion. 31 Conversazione tra Edi Rama e Erion Veliaj.

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fraudolento, ma i mezzi per correggerlo sono altrettanto fraudolenti. Imprigionato in un circolo vizioso, il contenuto della democrazia è in balia della sua stessa sintassi. Ecco perché lo sfondo, velato dallo scarabocchio, ma anche camuffato su un altro livello dall’appello alla stabilità, invia un segnale del momento presente, anche più forte di prima. È l’unico modo per rendere visibile questo segnale e rovesciare il disegno.Grazie allo scambio dello sfondo con il primo piano ci troviamo quasi nella posizione dell’autore dei disegni, il quale “cammina senza guardare la strada ma la percepisce, la annusa, ed è spinto in una certa direzione non dal presupposto razionale secondo cui una strada esiste ma dal proprio istinto”32.Quando Edi Rama scarabocchia il suo sguardo è distratto, forse pochi passi dietro i suoi pensieri, e lo sfondo dello scarabocchio si sovrappone al primo piano della sua mente. In realtà, lo scarabocchio è l’opposto della distrazione (absent-mindedness), è l’incarnazione della concentrazione (present-mindedness si potrebbe dire, anche se questa parola non esiste). Lo spazio muto fra il primo piano della mente e il punto in cui si fissa lo sguardo è reso in una serie di conversazioni a due. Dalle differenti prospettive di quattro diverse posizioni, ogni incontro manda un messaggio – e attraversa la distanza tra il primo piano e lo sfondo dei disegni – proprio come gli intermediari di Paesaggio con un uomo ucciso da un serpente di Poussin, che in breve porteranno alla cittadella la notizia di un uomo ucciso da un serpente.

Le Clash, 2010Dall’interno di un edificio in muratura, un tempo locale cult della scena rock e punk, proviene il riff di una canzone famosa. Ruotando lentamente la manovella di un organetto, due musicisti passano davanti all’edificio abbandonato. Il suono dello strumento e il loro canto si sincronizzano con il riff che vibra, creando un effetto stereo simultaneo.Un uomo vaga in quel luogo con una scatola da scarpe sotto il braccio. Ascolta con aria assente e lentamente comincia a girare una piccola manovella che fa scaturire – nota dopo nota – una versione differente dello stesso pezzo.Quando le melodie si uniscono si ha la sensazione di uno slittamento della realtà, con due diverse evocazioni di uno stesso brano punk. Esse trasportano nel presente la melodia originaria: la durezza del suo sound e le sue basse frequenze si sono ormai dissolte sul pavimento del luogo deserto, la dove una volta veniva eseguita.

1395 Days without Red, 2011In 1395 Days without Red le prove dell’Orchestra Filarmonica di Sarajevo s’intrecciano con la vicenda di una musicista che attraversa la città assediata per unirsi al gruppo. Così come alcune imprecisioni ritmiche interrompono l’esecuzione del primo movimento della Patetica di Čajkovskij, la marcia della donna è interrotta da una serie di incroci, ognuno dei quali è un potenziale vicolo cieco.Il titolo del film fa riferimento ai 1395 giorni dell’assedio di Sarajevo, durante i quali indossando abiti rossi o di colori vivaci si rischiava di attirare l’attenzione dei cecchini. A ogni incrocio la donna si ferma, trattiene il respiro e poi attraversa. Dopo ogni incrocio riprende fiato e continua. Respiro trattenuto, respiro liberato: porzioni di tempo che si articolano in un canticchiare che le permette di continuare. Corre attraverso la musica mentre attraversa la città. Corre attraverso la città mentre in testa ripassa la sua musica.Come in un’improbabile partitura, in cui due strumenti rispondono a stimoli diversi suonando a tempo, il canticchiare della donna e il suono dell’orchestra si uniscono in un’unica melodia, fatta di

32 Conversazione tra Edi Rama e Marcus Steinweg.

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continuità e di tenacia, nonostante tutto.

Ravel Ravel, 2013Due diverse interpretazioni del Concerto per pianoforte per la mano sinistra di Ravel vengono eseguite contemporaneamente. I rispettivi tempi di esecuzione sono stati però modificati, così i due brani perdono e ritrovano continuamente l’unisono: uno procede un po’ più lentamente dell’altro, creando prima una leggera eco e poi un raddoppiamento delle note, per poi recuperare il ritardo e di nuovo allontanarsi.Il mio intento è di accentuare la risonanza di uno spazio grazie allo sfasamento temporale tra le due esecuzioni e, attraverso la ripetizione delle stesse note, indurre l’impressione di un’eco in un ambiente completamente muto, in cui l’assorbimento della riflessione acustica annulla ogni senso dello spazio.In un ambiente costruito secondo i principi della camera anecoica, anche detta “non luogo”, ciò paradossalmente significa creare uno spazio “altro”, uno spazio “intermedio” che emerge all’interno della divergenza tra le due performance e risiede nell’intervallo tra i rispettivi tempi musicali.

Unravel, 2013Unravel percorre lo stesso cammino di Ravel Ravel ma procede in senso inverso.Pur esplorando le stesse questioni sul tempo, sul ritmo e sulla percezione dello spazio, Unravel districa le differenze di tempo musicale che si erano intrecciate in Ravel Ravel. La DJ Chloe si trova al centro dello spazio principale del padiglione tedesco alla Biennale di Venezia e cerca di sincronizzare le due esecuzioni del Concerto per pianoforte per la mano sinistra. Ciascun brano registrato proviene da un diverso disco di vinile che suona su un diverso giradischi. Mentre con la mano sinistra Chloe accelera la registrazione di una delle due esecuzioni, in previsione di un imminente rallentamento in quell’interpretazione, con la destra rallenta opportunamente l’altra, cercando cosi di annullare le differenze di tempo fra i due. Nei momenti in cui riesce a sincronizzarli si avverte un curioso effetto stereo: uno stereo fatto di due realtà distinte. L’intensa concentrazione percepita sul suo volto e i movimenti delle mani, morbidi ma precisi come quelli di un chirurgo, sono in netto contrasto con la musica che scaturisce dalle sue azioni. La crescente frattura tra ciò che si vede e ciò che ci si aspetta di sentire quando si guarda un DJ in azione è contraddetta dal forte senso di sincronicità. Ciò che udiamo è senza dubbio il frutto di ciò che vediamo.Annullando in apparenza le differenze di tempo presenti nelle due esecuzioni di Ravel Ravel, qui si annulla la precedente percezione dell’eco dovuta alla ripetizione delle note. Tuttavia nel film si sente un’altra eco: il riverbero naturale del padiglione tedesco infonde in Unravel il proprio sigillo sonoro, riversando nel concerto una nuova consapevolezza dello spazio.

The Present Moment, 2014Si ritiene che i momenti presenti più lunghi – quei lassi di tempo in cui la memoria non è ancora attivata e mancano le nozioni di passato e futuro – si verifichino durante l’ascolto della musica. La durata di questi momenti presenti corrisponde spesso alla lunghezza delle “frasi” o dei “gesti” musicali.The Present Moment è il riarrangiamento di un brano di musica da camera adattato all’ascolto in uno spazio che termina in un immaginario cul-de-sac. Una registrazione della celebre composizione di Schönberg, Verklarte Nacht (Op. 4) del 1899, eseguita da un sestetto formato da due violini, due viole e due violoncelli, ne segna il punto di partenza.Entrando nella sala in cui riecheggia la musica di Verklarte Nacht, note singole – suonate a ogni

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cambio di tonalità nella partitura di Schönberg – e brevi gesti musicali si liberano e viaggiano nellospazio, come espulsi dal corpo principale della musica. Quando arrivano all’estremità della sala, si accumulano e si ripetono, quasi fossero intrappolati in un vicolo cieco, in uno spazio in cui la memoria sonora si condensa. Alcune note – tutte appartenenti alla tonalità di Si bemolle o di Re – allungano il loro viaggio fino a diventare due film distinti, in cui si trasformano in una serie di movimenti ricorrenti di spalle, gomiti, braccia e mani, manifestazione fisica (e origine) dei gesti musicali. Il loro arrivo e il loro incremento è rappresentato da un gruppo di sei musicisti che, in semicerchio e rivolti verso la parete, suonano il Si bemolle (o il Re) finché il successivo Si bemolle (o Re) della partitura originale di Schönberg lo sostituisce.Per tutta la durata di ogni film, i momenti presenti esistono sia prima sia contemporaneamente per ciascuno dei musicisti. Ogni membro del sestetto crea il momento precedente che dura finché non viene sostituito dal successivo. Gli strumenti musicali rimangono quasi invisibili per dare corpo allo sforzo fisico necessario alla produzione delle note.The Present Moment è una composizione da camera, il cui percorso in una grande sala suscita suoni e induce azioni che riecheggiano procedure ed eventi già preconizzati nell’opera di Schönberg, come il serialismo musicale e l’alto grado di suddivisione del lavoro e di specializzazione nella produzione industriale: tutti aspetti che si svilupperanno solo in seguito nel corso della storia.

Lines (Jung, Huxley, Stravinsky), 2015Lines (Afif, Sala, Flavien), 2015Ogni volta unisco le linee delle mani di tre individui diversi, tra loro contemporanei. Per Lines (Jung, Huxley, Stravinsky) ho scelto quelle di Carl Gustav Jung, Igor’ Stravinskij e Aldous Huxley: Stravinskij era molto amico di Huxley e gli dedicò la sua ultima composizione orchestrale, mentre Huxley e Jung analizzarono entrambi la nozione di inconscio, seppure in due modi distinti. In Lines (Afif, Sala, Flavien) ho unito le linee delle mani di due amici artisti – Saâdane Afif e Jean-Pascal Flavien – con le mie. Per ogni disegno parto dallo stesso punto sulla superficie della carta. Comincio seguendo la linea della vita di una mano e proseguo con le altre, producendo una sequenza ininterrotta con le linee dei tre individui. Quando la successione delle linee si chiude su se stessa per la sua naturale curvatura, passo alle linee della testa e quando la composizione sta per chiudersi di nuovo su se stessa, continuo con quelle del cuore, e cosi via. La forma di ogni disegno dipende dalle diverse linee delle mani; il mio intento e quello di espandere il disegno fino a che lo spazio della carta di pietra lo rende possibile.

Bridges in the Doldrums, 2016Arrangiamento in tre parti per clarinetto, sassofono e trombone, Bridges in the Doldrums33 è stato costruito usando esclusivamente i bridge di settantaquattro brani pop, jazz e folk di epoche e provenienze geografiche diverse. I brani sono stati assemblati secondo l’ordine del tempo musicale in modo da costruire un graduale senso di accelerazione, con i tre strumenti che si scambiano i ruoli in modo imprevedibile.Il bridge è il passaggio di transizione verso la fine di un brano, caratterizzato da una melodia o un ritmo nettamente diversi dal resto della composizione. Aiuta a rompere la monotonia dello schema e introduce un senso di eccitazione, con l’obiettivo di costruire la tensione che porta al culmine del

33 Basato su To Each His Own (in Bridges) del 2015, un arrangiamento di Anri Sala in collaborazione con André Vida, per clarinetto, sassofono e trombone, percussioni e basso amp.

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brano o di condurlo alla conclusione. In qualche modo il bridge allontana l’ascoltatore dalla canzone, mantenendo viva la sua attenzione ma sospendendo la fiducia e le aspettative, fino a quando il ritornello riconferma la familiarità con il brano. A questo punto l’ascoltatore si sente di nuovo a casa, e apprezza la deviazione straniante proprio perché è seguita da questo ricongiungimento. La natura stessa del bridge implica un senso di inclusione e al tempo stesso puo suscitare una sensazione di esclusione.

Syncopation, 2016(Testo raccolto da Natalie Bell)In musica, la sincope disturba la nostra percezione del tempo come flusso regolare, producendo la sensazione che sia “uscito dai cardini”.La sincope è intrinsecamente connessa al tempo in levare e consiste nello spostare l’accento al momento più inatteso della battuta, producendo uno slancio in quella che è generalmente percepita come la sua parte più debole. Il tempo in levare e il tempo in battere sono del tutto dipendenti l’uno dall’altro, in quanto non esiste senso del tempo senza ritmo e non c’è ritmo che non li contenga entrambi. Ciò che mi interessa della sincope – quell’intervallo o pausa tra il tempo in levare e l’istante che precede il battito – è come attiri il battito eppure sia riluttante a farsi battito, come offra uno spazio alternativo adiacente, sia in un contesto ritmico sia, in senso figurato, in un contesto sociale o politico.La sincope è un elemento ritmico essenziale del reggae e del jazz, generi intimamente legati alle tradizioni musicali afro-americane e, storicamente, ai canti degli schiavi. Nella musica africana, gli attacchi sincopati sono eseguiti da vari tamburi e da altri strumenti a percussione. Durante la schiavitù negli Stati Uniti i tamburi erano proibiti, perché i proprietari degli schiavi temevano che potessero essere usati per trasmettere messaggi tra individui o tra comunità. I ritmi sincopati venivano quindi prodotti battendo le mani o percuotendo oggetti.La sincope è anche strettamente legata alle nostre intuizioni sensoriali. Penso che il corpo si senta più vicino al levare, il cervello al battere, ovvero a ciò che è più prevedibile ed evidente. Se immaginiamo il battere come un’onda che si avvicina alla riva – evento visibile già prima del suo verificarsi – il levare è la risacca che lo compensa, l’onda invisibile che ti trascina lontano.Per me la sincope va al di là del discorso musicale: è un momento di sospensione, che potrebbe persino essere lungo quanto un ponte. In una canzone, il bridge è una sezione con una melodia o un ritmo nettamente diversi dal resto: allontana l’ascoltatore dalla canzone, dalla vera essenza del brano, mantenendo viva la sua attenzione ma sospendendo la sua fiducia. Un bridge interrompe un brano, contrapponendosi a ciò che l’ha preceduto e a ciò che sta per seguire, e all’improvviso produce una rottura: il fluire della musica e del tempo è interrotto. Il bridge, come il tempo in levare, sospende lo slancio della canzone e induce un senso di straniamento anziché di sicurezza e familiarità.Ogni canzone che amiamo ci fa sentire completi, nel senso che all’interno del brano ci sentiamo a casa. Finché dura, ci circonda e ci da tutto. Mi piace l’idea del bridge come elemento che fora questa bolla e lascia intravedere l’esterno: è come un pezzo di soggettività che interrompe quella prestabilita della canzone.Queste sono le caratteristiche che mi ispirano: l’idea di mettere in discussione il flusso canonico, di resistere a ciò che è già stabilito. I bridge, come la sincope, vanno contro il prevedibile e implicano un’energia che definirei quasi politica. I bridge, dopo tutto, sono momenti di “deriva” nel contesto di un brano musicale, e in questo senso sono analoghi alla derive dei situazionisti. Ne è un esempio tipico il modo in cui possiamo percorrere gli spazi urbani, usando la città non secondo gli schemi con cui era stata pianificata ma opponendoci al flusso consueto e prestabilito, creando situazioni che possono liberarci dalle esperienze o dai pensieri quotidiani.

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Per questo motivo immagino la sincope come qualcosa che può evolversi sia nello spazio sia nel tempo. Mi piace l’idea che possa portare il suo slancio al di là del contesto musicale e attirare l’attenzione sui luoghi più inaspettati o sugli spazi meno considerati: luoghi reali e spazi sociali che mettono in discussione i valori convenzionali e resistono alle norme prestabilite. La sincope può aiutare a sovvertire il senso dell’ordine e della routine nella nostra vita. A mio parere, mentre il tempo in battere è guidato da una rigida ripetizione, quello in levare produce differenza e distinzione: se il primo significa ordine e regola, il secondo permette diversità e apertura. Mentre l’ordine prestabilito vuole escludere tutto ciò che può mettere in discussione o interrompere la sua efficienza, la sincope può incoraggiare i più deboli, dare valore agli emarginati e ampliare la portata e lo scopo della società.Vedo la sincope, ad esempio, anche nell’applicazione del colore, nell’azione politica che ha ispirato Dammi i Colori (2003), il mio video su un progetto di pittura urbana condotto in Albania dall’artista e politico Edi Rama, allora sindaco di Tirana. Si è tentati di leggere il rinnovamento cromatico di un quartiere povero come esempio di avanguardia utopista; in quel caso però i colori non erano stati pensati per ridare slancio a una promessa idealistica, ma per incarnare il desiderio di spazi pubblici e la speranza che le cose potessero cambiare.Se si fosse trattato di un progetto utopistico – c’è qualcosa di autoritario nell’ideologia utopistica – i colori sarebbero stati dipinti in modo da corrispondere ai volumi dell’architettura. Invece i colori di Rama, significativamente, non miravano a quel tipo di uniformità visiva, ma si sovrapponevano irregolarmente ai volumi – la maggior parte dei quali erano interventi architettonici abusivi per espandere lo spazio abitativo – in una sorta di “fuori sincrono” che creava un rumore visivo. In questo modo, dai volumi e dai colori l’opera genera una sincope visiva: politicamente, e senza dubbio un intervento in levare.Dopo la caduta del comunismo (e dopo una pessima transizione post-comunista) nell’Europa dell’Est la gente si è sentita nauseata dall’utopia. Rama sapeva quindi che il suo progetto doveva essere diverso: doveva suscitare speranza facendo a meno dell’ideologia. In Dammi i colori, se l’utopia è il battere, la speranza è il levare. Naturalmente, la mia interpretazione è un po’ azzardata: infatti non sto più parlando di termini musicali, ma del modo in cui nella mia esperienza e nella mia immaginazione il significato di levare, di bridge e di sincope si allarga per significare altro.

43 Names in the Doldrums, 2017Un rullante e sospeso a testa in giù, fluttuante a mezz’aria; al suo interno nasconde una serie di altoparlanti integrati, le cui frequenze mettono in movimento la membrana del tamburo e le bacchette. Il rullo delle bacchette cosi prodotto sopprime la fonte stessa che ha indotto la loro reazione: una voce che elenca i nomi dei quarantatré studenti di Ayotzinapa34 scomparsi nel 2014 a Iguala, in Messico. Innescando il movimento delle bacchette, involontariamente la voce disturba se stessa e di conseguenza impedisce ai nomi di essere ascoltati. 43 Names in the Doldrums e allo stesso tempo una rivelazione e la sua istantanea rimozione. Induce

34 I loro nomi in ordine alfabetico sono: Abel García Hernández, Abelardo Vázquez Peniten, Adán Abrajan de la Cruz, Alexander Mora Venancio, Antonio Santana Maestro, Benjamín Ascencio Bautista, Bernardo Flores Alcaraz, Carlos Iván Ramírez Villarreal, Carlos Lorenzo Hernández Munoz, César Manuel González Hernández, Christian Alfonso Rodríguez Telumbre, Christian Tomás Colón Garnica, Cutberto Ortiz Ramos, Dorian González Parral, Emiliano Alen García de la Cruz, Everardo Rodríguez Bello, Felipe Arnulfo Rosa, Giovanni Galindes Guerrero, Israel Caballero Sánchez, Israel Jacinto Lugardo, Jesús Jovany Rodríguez Tlatempa, Jhosivani Guerrero de la Cruz, Jonás Trujillo González, Jorge Álvarez Nava, Jorge Aníbal Cruz Mendoza, Jorge Antonio Tizapa Legideno, Jorge Luis González Parral, José Ángel Campos Cantor, José Ángel Navarrete González, José Eduardo Bartolo Tlatempa, José Luis Luna Torres, Julio César López Patoltzin, Leonel Castro Abarca, Luis Ángel Abarca Carrillo, Luis Ángel Francisco Arzola, Magdaleno Rubén Lauro Villegas, Marcial Pablo Baranda, Marco Antonio Gómez Molina, Martín Getsemaní Sánchez García, Mauricio Ortega Valerio, Miguel Ángel Hernández Martínez, Miguel Ángel Mendoza Zacarías, Saúl Bruno García.

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– o meglio obbliga – i nomi degli studenti scomparsi a sopprimere acusticamente se stessi, commettendo un atto di autocensura. In questo modo rivela una condizione esplosiva all’interno di una stagnazione permanente.

All of a Tremble (Encounter I), 2017Fin dalle origini, in tutte le case del mondo occidentale il design della carta da parati è sempre stato strettamente legato all’espressione del gusto e ha fornito uno sfondo decorato alla vita domestica conferendole un’atmosfera, uno stile e un carattere.All of a Tremble (Encounter I) è un disegno di grandi dimensioni che suona l’incontro tra due motivi di carta da parati vintage. E al tempo stesso la manifestazione visiva della loro fusione e la conseguente colonna sonora della loro unione. Per tradurre l’incontro tra i due design in una colonna sonora e trasformare i loro disegni in musica, due metà dei rispettivi cilindri originali35 sono state unite in un unico rullo. Poi il rullo è stato trasformato in una sorta di carillon e unito a un apposito pettine d’acciaio. Le lamelle del pettine sono state accordate individualmente secondo una combinazione di scale musicali occidentali e orientali36.Il rullo ruota continuamente attorno al proprio asse37 e i suoi aghi fanno vibrare le lamelle producendo note e frasi musicali: in questo modo si genera il suono degli sfondi. I disegni sono stati impressi manualmente su strisce di carta da parati strofinando una matita sul retro della carta premuta contro il cilindro. Nella ripetizione dei motivi si sono verificate leggere differenze, dovute alle variazioni nell’uso e nell’impugnatura della matita. Le imperfezioni imputabili alla trascrizione a mano del motivo del rullo rendono il risultato più simile a un grande disegno che a una stampa meccanizzata. Tali imperfezioni contraddicono intenzionalmente il ruolo della carta da parati come testimonianza38 dell’emergere delle tecnologie automatizzate dall’era industriale in avanti. Inoltre, le variazioni che ne risultano esemplificano la fluttuazione fantasiosa delle note suonate dal rullo della carta da parati.Il titolo All of a Tremble (Encounter I) deriva dall’espressione inglese che suggerisce un tremore improvviso suscitato da un elemento di sorpresa. Esiste anche un’ulteriore ragione per cui ho usato questa frase per il titolo: si tratta infatti delle prime parole pronunciate artificialmente da una voce sintetica39.

Them Apples, 2017Them Apples è formata da 44 disegni di mele da cui è stato staccato un morso, disposti sulla parete come note di un’immaginaria partitura dell’inno nazionale tedesco. Le immagini sono state create disegnando su strati successivi di inchiostro umido applicato su carta di pietra, caratterizzata da uno scarso assorbimento dell’inchiostro che quindi si asciuga lentamente sulla sua superficie (la scelta 35 Il processo di stampa della carta da parati prevedeva cilindri decorati con piccoli aghi metallici in rilievo sopra il

rullo.36 La scala cromatica e quella a quarti di tono possono essere considerate scale occidentali, mentre la scala Pelog, che

comprende tre modi – Selisir, Tembung e Sunaren – è originaria di Bali e Java.37 Grazie a un software personalizzato per il controllo del movimento, la velocità di rotazione varia a seconda di una

determinata composizione.38 In origine i motivi delle carte da parati venivano dipinti a mano o stampati con blocchi di legno, ma all’inizio

dell’Ottocento l’invenzione del processo di stampa a rullo aumento la velocità e l’efficienza della produzione.39 Furono il risultato degli esperimenti di Eric Allan Humphriss, un giovane fisico britannico che nei primi anni trenta

lavorava come ingegnere del suono per un’industria cinematografica. Per replicare il parlato umano per mezzo di una voce sintetica, lo scienziato analizzò il suono delle parole che voleva riprodurre finché non riuscì a stabilire quale tipo di onda appartenesse a ogni parola; cominciò con il cercare la corrispondenza grafica di ogni componente fonetica e le combino insieme in una sequenza che corrispondeva alla parola richiesta. Riuscì a disegnare con cura le forme su lunghe strisce di cartone che potevano essere lette otticamente da una macchina e trasformate in una voce, che pronunciò: “all of a tremble”.

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di questo procedimento rimanda alla formazione iniziale di Anri Sala nella tecnica dell’affresco).I morsi, come impronte digitali, sono unici e appartengono ai rifugiati che l’artista ha invitato a partecipare. Parte integrante del progetto e base concettuale e materiale dei disegni di Sala è stato un workshop di tre giorni organizzato in collaborazione con l’organizzazione artistica pubblica Kurt-Kurt del quartiere Moabit di Berlino. L’interazione con i rifugiati, durante le sessioni in cui insieme hanno prodotto oggetti, disegni e fotografie, ha creato le condizioni da cui parte il progetto, costituito da eventi performativi incentrati sul tempo che sono poi diventati disegni.Them Apples crea una fitta trama di significati, che comprendono individuo e nazione, nuovi inizi e grande incertezza, identità e integrazione, e sono rappresentati sia dall’ambivalenza della mela come simbolo di conoscenza, tentazione e redenzione, sia dall’inno tedesco, carico di tracce fin troppo intrise di significati storici.

Take Over, 2017L’incontro con un brano familiare produce solitamente un piacere curioso che nasce dal poter anticipare ciò che seguirà. Take Over evita questa gratificazione, perché intreccia di proposito due canzoni universalmente note, La Marsigliese e L’Internazionale.Scritta e musicata nel 1792, La Marsigliese era in origine un canto legato alla Rivoluzione Francese e poi anche in altri paesi divenne il simbolo del rovesciamento dei regimi oppressivi.All’inizio, il testo dell’Internazionale – un inno agli ideali di equità, uguaglianza e solidarietà redatto nel 1871 – veniva cantato sulle note della Marsigliese, e soltanto nel 1888 fu composta la sua musica originale. Questa parentela musicale rispecchia l’affinità simbolica dei due brani. Nel corso del tempo la connotazione politica di entrambi gli inni ha attraversato importanti cambiamenti: si è passati dalla Rivoluzione alla Restaurazione, al socialismo, alla resistenza e al patriottismo, fino all’associazione con la colonizzazione e l’oppressione nella seconda metà del Novecento (come inni nazionali rispettivamente della Francia e dell’Unione Sovietica). Ancora oggi il loro significato è in divenire e i due brani non smettono di esprimere concetti validi.La vivace performance di un pianista e di un pianoforte meccanico mette i due inni uno contro l’altro, trasformando la tastiera in un paesaggio animato di alti e bassi. La congiunzione delle due melodie produce un senso di straniamento che non è causato dall’ingerenza dell’ignoto nel noto, ma dal sovvertimento del noto da parte di un brano altrettanto noto.

From appearance to process, from form to formation, from being to becoming, 2017(Testo raccolto da Falma Fshazi)Data la sua propensione ad avventurarsi nei territori di altre discipline, considero l’arte contemporanea più un orientamento che una pratica. Simile a un tuttofare che tocca ambiti diversi senza necessariamente rivendicarli o possederli, l’arte contemporanea attraversa nozioni e media differenti, analizzandone le reciproche intersezioni e interessandosi in particolare al divario che li separa. In questo modo rivela prospettive inedite e individua significati nuovi all’interno di quegli spazi intermedi.Per sua natura, l’arte contemporanea non è incline a suddividere il pubblico in spettatori, osservatori, ascoltatori, uditori o astanti, né a frammentare la pubblica arena in tante sedi specializzate. Ha invece la capacita di amalgamarsi e fondersi, senza per questo limitare la propria singolarità. Per questa sua natura camaleontica, induce a immaginare lo spazio pubblico, e di conseguenza l’architettura e l’urbanistica, attraverso la lente di altre arti e altre pratiche, di altri metodi e altri ambiti di studio. Se dovessi pensare allo spazio pubblico come a un film, sarebbe un film senza sceneggiatura né attori, che avrebbe il solo scopo di spingere il pubblico all’azione in

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modo da renderlo protagonista della narrazione. I movimenti della macchina da presa indirizzerebbero lo sguardo di ognuno verso se stesso.Se fosse una composizione musicale sarebbe un pezzo di musica da camera, in cui – in assenza di un direttore d’orchestra – avviene una conversazione tra voci distinte. Gli strumenti prestano orecchio l’uno all’altro e sono attenti al flusso generale, trasmettono senza comandare, suggeriscono le proprie intenzioni senza imporle. Se un giorno lo spazio pubblico dovesse diventare un sito archeologico, la speranza sarebbe di estrarne silenzi riflessivi e conseguenti azioni che lascino presagire il futuro. Mentre la mia immaginazione segue il suo corso, l’attenzione inizia a spostarsi dall’aspetto al processo, dalla forma alla formazione, dall’essere al divenire. Lo spazio diventa via via più permeabile e transitorio. È attraente ma non dispotico, allusivo ma non solenne, è consapevole del suo passato, eppure trasmette soltanto nostalgia per il futuro. Una favola avvincente di narrazioni inesauribili che non richiedono un’azione definita: tale spazio combinerebbe il desiderio di riunirsi e l’opportunità di allontanarsi, la fame di permanenza con la voglia di un momento presente in continua evoluzione.

The Last Resort, 2017Volevo capire come un viaggio immaginario attraverso venti, onde e correnti d’alto mare avrebbe influenzato un capolavoro musicale dell’Illuminismo. Cosa ne sarebbe stato del Concerto per clarinetto di Mozart se avesse galleggiato alla deriva come un messaggio in una bottiglia, toccando poi terra dopo una lunga traversata?Mozart scrisse la partitura nel 1791, tre anni dopo lo sbarco a Botany Bay della prima flotta inglese che apri la strada alla colonizzazione britannica dell’Australia. In un angolo remoto della mente, pensavo al divario e alla conseguente contraddizione tra il punto di partenza di alcuni pregevoli principi dell’Illuminismo – come la tolleranza e l’accettazione non giudicante dell’altro – e i loro effetti negativi all’arrivo, con l’esasperazione dei pregiudizi che poi causarono devastazioni e perdite indicibili. Ero incuriosito da questo divario e ho scelto di immaginarlo come un deterioramento causato dal viaggio. Quindi ho voluto inserire quest’idea di deterioramento nel Concerto di Mozart. L’ho immaginata come una force majeure – in questo caso il tempo atmosferico e le circostanze imprevedibili del viaggio – che impedisce al pezzo di raggiungere gli obiettivi del compositore.Pensando a tutto questo, ho sostituito le indicazioni di tempo originali fornite da Mozart con le condizioni del vento descritte da James Bell in A Voyage to Australia, un diario in cui ogni resoconto giornaliero comincia con la descrizione del tempo atmosferico (all’epoca, chi viaggiava in mare verso l’Australia seguiva la rotta dei clipper e il successo dell’impresa dipendeva in gran parte dai venti e dalle correnti oceaniche). Di conseguenza, venti sfavorevoli o assenti, brezze, burrasche, uragani e tempeste prendono letteralmente il controllo del Concerto, trasponendo il resoconto quotidiano di Bell nelle battute e nelle frasi musicali della partitura.La mia intenzione era di sconvolgere il Concerto per clarinetto di Mozart, in termini di flusso, gravità e ritmo, per generare la percezione di qualcosa che, dopo un lungo e difficile viaggio in alto mare, finisce per toccare un’altra riva, anche se non necessariamente nella forma prevista all’inizio.Ecco, il mio intento era di comporre con il deterioramento – un fenomeno legato al tempo – sottolineandone al tempo stesso il potere distruttivo.

If and Only If, 2018In If and Only If40, una chiocciola percorre per l’intera lunghezza l’archetto di una viola, muovendosi lentamente da un’estremità all’altra e sconvolgendo il delicato equilibrio su cui si 40 In logica, l’espressione “se e solo se” indica un’affermazione bicondizionale, in cui affinché l’enunciato sia vero

entrambe le condizioni devono essere valide.

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fonda l’interpretazione dello strumentista. Il passo della lumaca si impone sull’esecuzione e induce il violista ad adattarsi e a comporre accompagnando questa situazione in divenire. Quando la lumaca rallenta, esitando nel suo procedere, la incoraggia a continuare. In questo modo l’Elegia per viola sola di Stravinskij viene sconvolta dall’interazione tattile tra il musicista e la chiocciola, e la durata del brano si fa quasi doppia rispetto a quella abituale. L’Elegia si allunga in un viaggio che diventa parte tangibile del suo nuovo arrangiamento musicale.

Slip of the Line, 2018Potrebbe un gesto di magia nobilitare il flusso di lavoro di una catena di montaggio, riscattando i prodotti dalla forma e dalla funzione loro assegnata?Introdurre un mago nel cuore di un processo produttivo conferisce alla catena di montaggio l’aura di un regno incantato e ultraterreno. La razionalità, le leggi fisiche e l’efficienza economica fanno un passo indietro per consentire alla linea di produzione di accogliere una liricità sconosciuta, come una frase che non sa più esprimere il significato originario perché è inciampata in un lapsus freudiano.

AS YOU GO, 2019Ravel Ravel, Take Over e If and Only If, le tre opere che costituiscono AS YOU GO, si basavano tutte su percorsi di ritmo e ridefinizione, e sul dispiegamento della musica su se stessa. AS YOU GO combina i tre lavori in un esteso passaggio ciclico che può essere accompagnato, affiancato o attraversato dallo spettatore.Mentre queste narrazioni in divenire attraversano interamente lo spazio espositivo, i visitatori possono scegliere di spostarsi attraverso le sale seguendo le onde di immagini oppure di fare esperienza delle loro proiezioni itineranti da posizioni stabilite. I tre lavori sono anche accomunati dal fatto di essere composti da coppie di film complementari; e mentre si inseguono e si blandiscono a vicenda attraverso lo spazio, queste coppie creano un nuovo ritmo di presenze e distanze fatto di immagini e vuoti, di suoni e silenzi. Poiché vagano senza sosta attraverso la mostra, presenti in più sale contemporaneamente, le immagini innescano sentimenti contrastanti di déjà vu e ubiquità, mentre la ripetizione lotta contro la progressione.