Cassandra Clare - città degli angeli caduti fileCassandra Clare - città degli angeli caduti

317

Transcript of Cassandra Clare - città degli angeli caduti fileCassandra Clare - città degli angeli caduti

Cassandra Clare

Traduzione di Manuela Carozzi

Per Josh

Sommes-nous les deux livres d’un meme ouvrage?

[eBL 041]

Cassandra Clare - Città degli angeli caduti

[by Pico & Elena77]

Parte Prima

Ci sono piaghe che si aggirano nelle tenebre;

e ci sono angeli sterminatori che volano avvolti

nel manto dell’ immaterialità e di una natura taciturna;

non possiamo vederli, ma percepiamo la loro forza, e

soccombiamo sotto la loro lama.

JEREMY TAYLOR, A Funeral Sermon

Capitolo 1

IL PADRONE

— Solo un caffè, grazie.

La cameriera sollevò le sopracciglia disegnate. — Niente da mangiare? — chiese con aria

delusa e un marcato accento slavo.

Simon Lewis non poteva darle torto: probabilmente la ragazza sperava in una mancia

migliore di quella che avrebbe ricevuto per una semplice tazza di caffè. Ma non era colpa

di Simon se i vampiri non mangiavano. A volte, al ristorante, ordinava comunque un po'

di cibo, giusto per dare una parvenza di normalità, ma la sera tardi di un martedì, in un

Veselka dove era quasi l'unico cliente, non valeva la pena sforzarsi. — Caffè e basta.

Con un'alzata di spalle la cameriera riprese il menu plastificato e si allontanò per

consegnare l'ordinazione. Simon appoggiò la schiena contro la sedia di plastica dura e si

guardò attorno. Veselka, una tavola calda specializzata in cucina slava all'angolo fra Ninth

Street e Second Avenue, era uno dei suoi posti preferiti in tutto il Lower East Side: un

vecchio locale di poche pretese tappezzato di murales bianchi e neri, dove ti lasciavano

stare seduto tutto il giorno a patto di ordinare almeno un caffè a intervalli di mezz'ora.

Facevano anche quelli che una volta erano i suoi tortelli vegetariani preferiti con zuppa di

barbabietola, ma ormai quei tempi erano acqua passata.

Era la metà di ottobre, e al ristorante avevano iniziato a esporre i primi addobbi per

Halloween: un cartello in equilibrio precario con la scritta dolcetto o tortello? e la sagoma

di cartone del conte Blintzula, una specie di Dracula russo. Un tempo quelle decorazioni

un po' squallide facevano morir dal ridere Simon e Clary. Ora invece il conte, con quei

canini finti e il mantello nero, non lo metteva più tanto di buonumore.

Il ragazzo lanciò un'occhiata in direzione della finestra. Era una serata fresca e il vento

faceva volteggiare le foglie su Second Avenue come fossero manciate di coriandoli. Per

strada c'era una ragazza che camminava, una ragazza con un impermeabile legato stretto

in vita e con lunghi capelli neri che ondeggiavano al vento. Quando passava, la gente si

voltava a squadrarla. Anche Simon una volta guardava così le ragazze, fantasticando e do-

mandandosi dove fossero dirette, chi avrebbero incontrato: non dei tipi come lui, poco ma

sicuro.

Quella invece sì. La porta della tavola calda si aprì al suono di un campanello e Isabelle

Lightwood fece il suo ingresso. Appena vide Simon sorrise e gli andò incontro, togliendosi

l'impermeabile e appoggiandolo sullo schienale della sedia prima di accomodarsi. Sotto la

giacca portava quella che Clary definiva la "tipica tenuta da Isabelle": vestito di velluto

corto e aderente, calze a rete e stivali. Infilato in cima allo stivale sinistro, c'era un coltello

che Simon sapeva di essere l'unico a poter vedere. Nonostante ciò, mentre la ragazza si

sedeva gettando indietro i capelli, tutti i presenti rimasero a guardarla. Qualunque cosa

indossasse, Isabelle attirava l'attenzione come uno spettacolo di fuochi d'artificio.

La bellissima Isabelle Lightwood. Quando Simon l'aveva conosciuta, pensava che una

ragazza così non avrebbe certo avuto tempo da perdere con uno come lui. E in effetti non

si era del tutto sbagliato. A Isabelle piacevano i ragazzi che i suoi genitori avrebbero

disapprovato, e nel suo mondo questo significava "Nascosti": lupi mannari, vampiri, gente

così. Il fatto che si frequentassero regolarmente da un mese o due lo sorprendeva, benché

il loro rapporto si limitasse per lo più a incontri sporadici come quello. E in tutto questo,

Simon non poteva fare a meno di chiedersi se, senza la trasformazione in vampiro che gli

aveva rivoluzionato la vita in un solo istante, due come loro sarebbero mai usciti insieme.

Isabelle si portò una ciocca di capelli dietro l'orecchio, sorridendo raggiante. — Ti trovo

bene.

Simon si guardò di sfuggita nel riflesso della finestra della tavola calda. Da quando si

frequentavano, l'influenza di Isabelle era evidente nel suo nuovo look. Lei lo aveva

costretto ad abbandonare le felpe per i giubbotti di pelle, le scarpe da tennis per gli stivali

firmati. Stivali che, guarda un po', costavano trecento dollari al paio. Continuava a portare

le solite magliette con le scritte (quella sera era il turno di gli esistenzialisti lo fanno per

niente), ma i suoi jeans non avevano più le ginocchia bucate o le tasche strappate. Si era

anche fatto crescere i capelli, che ora gli cadevano fin sopra gli occhi, ma quello era più il

frutto di una necessità che di Isabelle.

Clary lo prendeva in giro per il suo nuovo stile, anche perché trovava tutto ciò che

riguardava la vita sentimentale di Simon ai confini dell'assurdo. Non riusciva a credere

che potesse frequentare Isabelle in modo serio. Ovviamente non riusciva nemmeno a

credere che frequentasse anche Maia Roberts, una loro amica, nonché lupo mannaro, in

modo altrettanto serio. Né tantomeno si capacitava che Simon non avesse ancora detto

all'una dell'altra.

Simon non sapeva bene come era successo. A Maia piaceva andare a casa sua per usare

l'Xbox, perché non c'era nella stazione di polizia abbandonata dove viveva il branco dei

lupi mannari. La terza o quarta volta che si era presentata da lui, prima di andarsene, si

era sporta in avanti e gli aveva dato un bacio. Lui ne era stato felice e aveva telefonato a

Clary per chiederle se fosse il caso di dirlo a Isabelle. — Prima pensa bene a quello che sta

succedendo fra voi — aveva risposto lei. — E poi... diglielo.

Si era rivelato un pessimo consiglio. A distanza di un mese, Simon non era ancora sicuro

di cosa ci fosse fra lui e Isabelle, perciò non le aveva detto niente. E più passava il tempo,

più l'idea di parlarne gli sembrava strana. Fino a quel momento era filato tutto liscio:

Isabelle e Maia non erano amiche e si vedevano di rado. Purtroppo per lui, però, le cose

stavano per cambiare. La madre di Clary si sarebbe sposata dopo qualche settimana con

Luke, suo amico di vecchia data, e alla cerimonia avrebbero partecipato sia Isabelle sia

Maia. Solo a pensarci gli veniva più paura che all'idea di essere rincorso per le strade di

New York da una torma inferocita di cacciatori di vampiri.

— Dunque? — fece Isabelle, svegliandolo di colpo dai suoi sogni a occhi aperti. —

Perché qui e non da Taki? Lì ti darebbero del sangue.

Il volume della sua voce lo fece trasalire: Isabelle era tutto tranne che discreta. Per

fortuna nessuno l'aveva sentita, nemmeno la cameriera che nel frattempo si era avvicinata,

aveva sbattuto la tazza di caffè sul tavolo di fronte a Simon, lanciato un'occhiata a Isabelle

e se n'era andata senza nemmeno chiederle se voleva qualcosa.

— Mi piace venire qui — rispose il ragazzo. — Io e Clary ci venivamo quando lei

prendeva lezioni da Tisch. Fanno dei pierogi con borscht eccezionali, vale a dire tortelli

dolci e zuppa di barbabietole, e poi resta aperto tutta la notte.

Isabelle però non lo stava ascoltando. Guardava alle sue spalle. — E quello chi è?

Simon seguì lo sguardo della ragazza. — Quello è il conte Blintzula.

— Il conte Blintzula?.

Simon fece spallucce. — Fa parte degli addobbi per Halloween. Il conte Blintzula è per i

bambini. È come il conte del programma "Sesame Street". — Sorrise notando lo sguardo

perplesso di Isabelle. — Ma sì, quello che insegna a contare ai bambini.

Lei scuoteva la testa. — C'è un programma televisivo in cui un vampiro insegna ai

bambini a contare?

— Se lo avessi visto, capiresti — mormorò Simon.

— In effetti la cosa ha delle basi storiche — osservò Isabelle, entrando in modalità

Shadowhunter saputella. — Alcune leggende sostengono che per i vampiri contare è

un'ossessione e che, se gli rovesci davanti un mucchietto di riso, devono interrompere

quello che stanno facendo per contare i chicchi. Ovviamente non c'è niente di vero in tutto

questo, come nella storia dell'aglio. E poi i vampiri non perdono tempo a insegnare ai

bambini. I vampiri fanno paura.

— Grazie tante, Isabelle — disse Simon. — È un gioco di parole. Al conte piace

contare, capito? "Bambini, che cosa ha mangiato oggi il conte? Un biscotto con le gocce di

cioccolato, due biscotti con le gocce di cioccolato, tre biscotti con le gocce di cioccolato..."

La porta del ristorante si aprì per lasciare entrare un altro cliente, e i due ragazzi vennero

raggiunti da una folata di aria fredda. Isabelle rabbrividì e prese la sciarpa di seta nera che

aveva con sé. — Non è realistico.

— Cosa avresti preferito? "Bambini, che cosa ha mangiato oggi il conte? Un contadino

indifeso, due contadini indifesi, tre contadini indifesi...

— Ssst! — Isabelle finì di annodarsi la sciarpa attorno al collo e si sporse in avanti,

appoggiando una mano sul fianco di Simon. All'improvviso i grandi occhi neri della

ragazza avevano preso vita, come succedeva solo quando era a caccia di demoni o stava

pensando di farlo. — Guarda laggiù.

Simon seguì il suo sguardo. C'erano due uomini in piedi davanti alla vetrinetta dei dolci:

torte ricoperte da uno strato di glassa, involtini dolci della tradizione ebraica, sfogliatine

danesi ripiene di crema. Ma nessuno dei due aveva l'aria di essere interessato ai dolci.

Erano bassi e incredibilmente magri, tanto che i loro zigomi sporgevano sul viso, sotto la

pelle, come fossero lame di coltello. Avevano i capelli grigi, radi, e indossavano cappotti

color grigio ardesia che arrivavano fino a terra.

— Chi pensi che siano, quelli? — chiese Isabelle. Simon li studiò con attenzione. Loro

ricambiarono lo sguardo con occhi privi di ciglia, più simili a buchi. — Mi ricordano degli

gnomi da giardino in versione cattiva.

— Sono dei Soggiogati — sibilò Isabelle. — Umani che appartengono a un vampiro.

— Appartengono... in che senso?

La ragazza sbuffò, spazientita. — Per l'Angelo! Non sai niente sulla tua specie, vero? Ma

almeno sai come nascono i vampiri?

— Be', quando una mamma vampiro e un papà vampiro si vogliono tanto bene...

Isabelle lo guardò storto. — Bene, tu sai che i vampiri non devono fare sesso per

riprodursi, ma scommetto che non sai veramente come funziona.

— Sì, invece — ribatté Simon. — Io sono un vampiro perché, prima di morire, ho bevuto

il sangue di Raphael. Bere sangue più morte, uguale vampiro.

— Non proprio — precisò Isabelle. — Sei un vampiro perché hai bevuto il sangue di

Raphael, poi sei stato morso da altri vampiri, e solo a quel punto sei morto. È necessario

che, a un certo punto del processo, si venga morsi.

— Perché?

— La saliva dei vampiri ha... delle proprietà. Delle proprietà di trasformazione.

— Bleah! — fece Simon.

Non dire bleah a me. Sei tu quello con la saliva magica. I vampiri si circondano di umani

con cui nutrirsi, quando sono a corto di sangue. Dei distributori ambulanti, in pratica. —

Izzy parlava in tono disgustato. — Penserai che perdere sangue li indebolisca sempre di

più, ma in realtà la saliva di vampiro ha delle proprietà curative. Aumenta il numero di

globuli rossi, rafforza e rinvigorisce gli umani che la ricevono, li fa vivere più a lungo. È

per questo motivo che la Legge non vieta ai vampiri di nutrirsi di sangue di umani; in

realtà, a loro, non fa male. Ovviamente di tanto in tanto il vampiro decide che un semplice

spuntino non gli basta più e che ci vorrebbe un Soggiogato... A quel punto comincia a

somministrare all'umano morsicato delle piccole quantità del proprio sangue, tanto per

tenerlo buono, fedele al suo padrone. I Soggiogati venerano i propri padroni e adorano

servirli. Tutto ciò che desiderano è stare vicino a loro, un po' come hai fatto tu quando sei

tornato dal Dumont: sei stato attirato dal vampiro di cui avevi bevuto il sangue.

— Raphael... — disse Simon con voce lugubre. — In questo momento non muoio dalla

voglia di stare insieme a lui, se proprio vuoi saperlo.

— No, perché quando diventi un vero vampiro il desiderio svanisce. Sono i Soggiogati

che adorano i loro signori, ai quali non possono disubbidire. Quando sei tornato dal

Dumont, il clan di Raphael ti ha dissanguato, tu sei morto, e sei diventato un vampiro. Ma

se non ti avessero prosciugato tutto il sangue, se anzi ti avessero dato un po' del loro

sangue, alla fine saresti diventato anche tu un Soggiogato.

— Tutto molto interessante — commentò Simon. — Ma non spiega il motivo per cui

stanno guardando noi.

Isabelle diede un'occhiata ai due sconosciuti. — Stanno fissando te. Forse il loro padrone

è morto e ne stanno cercando un altro. Ehi, potresti farti degli animali da compagnia! —

esclamò sorridendo.

— Oppure — ribatté Simon — sono qui per le crocchette di patate.

— I Soggiogati umani non mangiano cibo. Vivono nutrendosi di un miscuglio di sangue

vampiresco e sangue animale, che li mantiene in uno stato di animazione sospesa. Non

sono immortali, ma invecchiano molto lentamente.

— Purtroppo però — commentò Simon guardandoli — non sembra che stiano

invecchiando tanto bene.

Isabelle drizzò la schiena. — Stanno venendo qui. Credo che presto sapremo cosa

vogliono.

I Soggiogati si muovevano come se sotto i piedi avessero delle rotelle. Invece di fare dei

passi, sembravano scivolare in avanti senza far rumore. Ci misero solo pochi secondi ad

attraversare tutto il ristorante e, quando furono vicini al tavolo di Simon, Isabelle aveva

già sfilato il suo piccolo pugnale dallo stivale. Ora giaceva sul tavolo, splendente sotto le

luci fluorescenti della tavola calda. Era d'argento scuro e massiccio, con delle croci

marchiate a fuoco su entrambi i lati dell'impugnatura. A quanto pareva, erano motivi

ricorrenti su molte delle armi usate contro i vampiri, forse perché, pensò Simon, si riteneva

che fossero in prevalenza cristiani.

— Come distanza può bastare — dichiarò Isabelle, tenendo le dita a pochi centimetri dal

pugnale, mentre i due Soggiogati si fermavano accanto al tavolo.

— Shadowhunter — disse con un mormorio sibilante la creatura di sinistra — non

sapevamo che anche tu fossi coinvolta in questa situazione.

Isabelle sollevò uno dei suoi delicati sopraccigli. — Quale situazione?

Il secondo Soggiogato puntò contro Simon un dito lungo e grigio che terminava in

un'unghia giallastra e appuntita. — Trattative in corso con il Daylighter.

— Non è vero — disse Simon. — Non so nemmeno chi siete. Mai visti prima.

Io sono il signor Walker — si presentò la prima creatura. — E questo è il signor Archer.

Siamo agli ordini del vampiro più potente di New York, il capo del più grande clan di

Manhattan.

— Raphael Santiago — disse Isabelle. — In tal caso dovreste sapere che Simon non fa

parte di nessun clan. È un libero professionista.

Il signor Walker accennò un sorriso. — Il mio padrone ritiene che la sua sia una

condizione temporanea.

Gli occhi di Simon incrociarono quelli di Isabelle, dall'altra parte del tavolo, che scrollò le

spalle. — Ma Raphael non ti aveva detto di stare lontano dal clan?

— Magari ha cambiato idea — suggerì Simon. — Sai com'è: lunatico, scostante.

— No, non lo so. In pratica non lo vedo dalla volta in cui minacciai di ucciderlo con un

candelabro. Però la prese bene. Non si tirò indietro.

— Fantastico — fece Simon. I due Soggiogati lo stavano fissando; avevano gli occhi di

un grigio pallido, biancastro, simile a neve sporca. — Se Raphael ha intenzione di

accogliermi nel clan, è perché vuole qualcosa da me. Tanto vale che mi diciate di cosa si

tratta.

— Non siamo al corrente dei piani del nostro padrone — rispose il signor Archer in tono

altezzoso.

— Allora niente da fare — dichiarò Simon. — Non vengo.

— Se non vuoi venire con noi, siamo autorizzati a prenderti con la forza.

In quell'istante fu come se il pugnale saltasse in mano a Isabelle, o per lo meno lei parve

muoversi appena. Lo fece roteare velocemente. — Se fossi in voi, non lo farei.

Il signor Archer digrignò i denti. — Da quando in qua i figli dell'Angelo sono le guardie

del corpo dei Nascosti solitari? Ti pensavo al di sopra di questo genere di cose, Isabelle

Lightwood.

Non sono la sua guardia del corpo — rispose lei. — Sono la sua fidanzata. E questo mi

dà il diritto «di spaccarvi la faccia, se gli date fastidio. È così che funziona.

Fidanzata?. Simon rimase così sbalordito da guardare Isabelle con occhi increduli, ma lei

era impegnata a fissare i due Soggiogati, fulminandoli coi suoi occhi neri. Simon era quasi

certo che fino a quel momento Isabelle non si era mai presentata come la sua fidanzata. E

al tempo stesso si rendeva conto di quanto era diventata strana la sua vita, se la cosa che

più lo stupiva, quella Sera, era la dichiarazione di Isabelle e non il fatto di essere stato

convocato al cospetto del vampiro più potente di New York.

—Il mio padrone — disse il signor Walker in quello che probabilmente voleva essere un

tono di voce suadente ha una proposta da fare al Daylighter...

— Si chiama Simon. Simon Lewis.

— Da fare al signor Lewis. Vi prometto che il signor Lewis la troverà estremamente

vantaggiosa, se solo fosse disposto a venire con noi per sentire cosa ha da dirgli il nostro

padrone. Giuro sul suo onore che non ti sarà fatto alcun male, Daylighter, e che, se vorrai

rifiutare la sua offerta, sarai libero di farlo.

Il nostro padrone, il nostro padrone. Il signor Walker pronunciava quelle parole con un

misto di adorazione e timore reverenziale. Dentro di sé Simon rabbrividì per un istante.

Che brutto essere così legati a un'altra persona senza avere una propria volontà.

Isabelle scosse la testa, formulando un “no”. Probabilmente aveva ragione, pensò Simon.

Lei era una Shadowhunter eccezionale. Da quando aveva dodici anni cacciava demoni e

Nascosti fuorilegge, tra cui vampiri diventati criminali, stregoni dediti alla magia nera,

lupi mannari impazziti e colpevoli di aver divorato qualcuno, e probabilmente era più

brava di qualsiasi altro Shadowhunter della sua età, a parte suo fratello Jace. E poi c'era

Sebastian, pensò Simon, che era meglio di tutt'e due. Ma ormai era morto.

— Va bene — disse. — Vengo.

A Isabelle uscirono gli occhi fuori dalle orbite. — Simon!

Entrambi i Soggiogati si fregarono le mani, come i cattivi di una storia a fumetti. In realtà

non era il gesto in sé a dare i brividi, ma il fatto che quei due lo avevano fatto esattamente

nello stesso istante e nello stesso modo, come due burattini i cui fili venivano tirati

all'unisono.

— Eccellente — disse il signor Archer.

Isabelle buttò rumorosamente il coltello sul tavolo e si sporse in avanti, sfiorando la

tovaglia con i suoi lucenti capelli neri. — Simon — sussurrò in tono insistente. — Non

essere sciocco. Non hai nessuna ragione per andare con loro. E poi Raphael è un imbecille!

— Raphael è un grande vampiro — ribatté il ragazzo. — Il suo sangue mi ha reso un

vampiro. Lui è il mio... o come cavolo lo chiamano loro.

— Signore, creatore, padre. C'è un milione di definizioni per quello che ha fatto — disse

Isabelle, turbata. — Forse il suo sangue avrà anche fatto di te un vampiro, ma non è stato

quello a fare di te un Daylighter... — I suoi occhi incontrarono quelli di lui, dall'altra parte

del tavolo. È stato Jace a farlo. Ma non lo avrebbe mai detto a voce alta. Erano solo in pochi

a sapere la verità, in pochi a conoscere tutta la storia della vera identità di Jace e delle

relative conseguenze per Simon. — Non sei tenuto a fare quello che ti dice.

— Certo, lo so — rispose il ragazzo abbassando il tono di voce. — Ma se mi rifiuto di

seguirli, pensi che Raphael lascerà perdere e basta? No, non lo farà. Continuerà a cercarmi.

— Lanciò un'occhiata obliqua verso i Soggiogati; avevano l'aria di essere d'accordo con lui,

anche se forse se lo stava solo immaginando. — Mi farebbe controllare ovunque. Mentre

sono in giro, a scuola, da Clary...

— E allora? Pensi che Clary non saprebbe cavarsela, con loro? — sbottò Isabelle,

lanciando in aria le mani. — Come vuoi. Ma almeno lasciami venire con te.

— Neanche per idea — intervenne il signor Archer. — Queste non sono cose da

Shadowhunters. Queste sono faccende da Figli della Notte.

— Io non...

— La Legge ci riserva il diritto di condurre i nostri affari in privato — dichiarò

fermamente il signor Walker — insieme a quelli della nostra specie.

Simon li guardò. — Datemi un momento, per favore — disse ai due. — Vorrei parlare

con Isabelle.

Seguì un attimo di silenzio. Attorno a loro, la vita all'interno della tavola calda

continuava il suo corso. Il cinema in fondo all'isolato aveva chiuso e aveva portato

un'ondata di clienti per i quali le cameriere correvano a destra e a manca servendo piatti

fumanti. Ai tavoli vicini, due coppiette chiacchieravano e ridevano; dietro il bancone, i

cuochi si gridavano le ordinazioni a vicenda. Nessuno stava guardando i due, né aveva

notato che stava accadendo qualcosa di strano. Simon era abituato agli incantesimi, ma a

volte, quando era con Isabelle, non poteva fare a meno di sentirsi intrappolato in un muro

di vetro invisibile, tagliato fuori dal resto dell'umanità e dalle sue normali vicissitudini.

— Molto bene — commentò il signor Walker, facendo un passo indietro — anche se al

mio padrone non piace aspettare.

I due Soggiogati si diressero verso la porta, mostrandosi indifferenti alle folate d'aria

fredda che arrivavano quando qualcuno entrava o usciva, e rimasero lì in piedi come

statue.

Simon si rivolse a Isabelle. — Va tutto bene — la rassicurò. — Non mi faranno del male.

Non possono farmi del male. Raphael sa tutto del... — E, con un certo imbarazzo, si indicò

la fronte. — Di questo.

Isabelle allungò le mani sul tavolo e gli scostò all'indietro i capelli, con fare più pratico

che affettuoso, poi corrugò la fronte. Simon aveva visto il Marchio abbastanza volte, allo

specchio, da conoscerne perfettamente la forma. Era come se qualcuno, con un pennello a

punta sottile, gli avesse tracciato un semplice disegno sulla fronte, al centro, appena sopra

gli occhi. Ogni tanto sembrava che cambiasse forma, come le immagini mobili che si

indovinano talvolta nelle nuvole, ma restava sempre nero ed evidente, e pure un po'

inquietante, come un segnale d'allerta scritto in una lingua sconosciuta.

— Ma... funziona veramente? — sussurrò Isabelle.

— Raphael crede di sì — rispose Simon. — E non ho motivo di pensare che si sbagli —

Con quelle parole le prese il polso e se lo allontanò dal viso. — Andrà tutto bene, Isabelle.

Lei sospirò. — Ogni singola cosa che ho imparato finora mi dice che non si tratta di una

buona idea.

Simon le strinse le dita. — Dai, su, in fondo anche tu sei curiosa di sapere cosa vuole

Raphael, non è vero?

Isabelle gli diede una leggera pacca sulla mano e tornò a sedersi. — Me lo racconterai

quando torni. Chiamami subito, per prima.

— Lo farò. — Simon, fermo in piedi, si chiuse la cerniera della giacca. — E fammi un

favore, ti va? Anzi due.

Lei rimase a osservarlo fra il divertito e il diffidente. — Cosa?

— Clary ha detto che questa sera si sarebbe allenata all'Istituto. Se per caso la vedi, non

dirle dove sono andato. Si preoccuperebbe senza motivo.

Isabelle alzò gli occhi al cielo. — E va bene. Il secondo favore?

Simon si sporse verso di lei e le diede un bacio sulla guancia. — Prima di andartene

assaggia il borscht. È troppo buono!

Il signor Walker e il signor Archer non erano fra i compagni di viaggio più loquaci che si

potessero incontrare. Guidarono Simon attraverso le strade del Lower East Side in

silenzio, procedendo alcuni passi davanti a lui con la loro curiosa andatura scivolante. Si

stava facendo tardi, ma i marciapiedi cittadini brulicavano ancora di gente che aveva

staccato dal turno serale e correva a casa con la testa bassa e il bavero alzato per difendersi

dal vento freddo e insistente. Lungo St. Mark's Place spuntavano bancarelle che

vendevano di tutto, dalle calze a buon mercato, all'incenso al legno di sandalo, fino agli

schizzi in carboncino di New York. Le foglie crepitavano su marciapiede come ossa

essiccate. L'aria sapeva di gas di scarico misto a sandalo, ma sotto si indovinava l'odore di

essere umano: pelle e sangue.

A Simon si strinse lo stomaco. Cercava di tenere in camera bottiglie di sangue animale a

sufficienza (in fondo all'armadio nascondeva un piccolo frigorifero che sua madre non

poteva vedere) per evitare di ritrovarsi troppo affamato. Il sangue gli faceva schifo.

Pensava che un giorno si sarebbe abituato, che anzi avrebbe iniziato a desiderarlo, ma,

anche se placava i morsi della fame, non aveva niente di paragonabile al gusto del

cioccolato, del burrito vegetariano o del gelato al caffè. Era sangue, punto.

Avere fame però era peggio. Avere fame significava sentire cose che non voleva sentire:

il sale sulla pelle degli altri, l'odore pungente e dolciastro del sangue che trasuda da pori

sconosciuti. Tutto questo lo faceva sentire famelico, scombussolato, totalmente sbagliato.

Curvando le spalle in avanti, si infilò i pugni nelle tasche della giacca e cercò di respirare

con la bocca.

Svoltarono proprio su Third Avenue e si fermarono davanti a un ristorante sulla cui

insegna campeggiava la scritta CLOISTER CAFÉ — GIARDINO APERTO TUTTO L’

ANNO. Simon la osservò, stupito. — Cosa ci facciamo qui?

— Questo è il luogo d'incontro scelto dal nostro padrone — rispose il signor Walker in

tono carezzevole.

— Ah — fece Simon, colto alla sprovvista. — Pensavo che Raphael fosse più il tipo da...

ecco, da appuntamento in cima a una cattedrale sconsacrata o dentro una cripta piena di

ossa. Non lo facevo uno da ristorante modaiolo.

I due Soggiogati rimasero a fissarlo. — Ci sono problemi, Daylighter? — chiese infine il

signor Archer.

Simon si sentì indirettamente rimproverato. — No. Nessun problema.

L'interno del ristorante era buio, con un bancone di marmo che correva lungo una delle

pareti. Nessun cameriere venne ad accoglierli mentre attraversavano la stanza per

raggiungere una porta sul retro e poi il giardino.

A New York c'erano molti ristoranti con spazi all'aperto, ma solo pochi erano accessibili

ad autunno così inoltrato. Questo si trovava in un cortile circondato da diversi edifici e

aveva le pareti decorate da trompe-l'oeil che raffiguravano giardini all'italiana traboccanti

di fiori. Gli alberi, con le foglie tinte d'oro e ruggine dall'autunno, erano percorsi da fili di

luci bianche e i funghi termici disposti qua e là fra i tavoli emanavano un bagliore ros-

sastro. Al centro del cortile, una piccola fontana sprigionava schizzi d'acqua scroscianti.

C'era un unico tavolo occupato, e non da Raphael. Una donna magra, con un cappello a

tesa larga, era seduta vicino al muro. Sotto lo sguardo stupito di Simon, sollevò una mano

e fece segno al ragazzo di avvicinarsi. Lui si voltò e si guardò alle spalle; ovviamente non

c'era nessuno. Walker e Archer ripresero a muoversi. Confuso, Simon li seguì mentre

attraversavano il cortile e si fermavano a pochi passi dal punto in cui sedeva la donna.

Walker fece un profondo inchino. — Padrone — disse.

La donna sorrise. — Walker — rispose. — E anche tu, Archer. Molto bene, grazie per

avermi portato Simon.

— Fermi un attimo! — disse Simon guardando prima la donna, poi i due Soggiogati, poi

di nuovo la donna. — Lei non è Raphael.

Oh cielo, no! — rispose la sconosciuta togliendosi il cappello. Sulle sue spalle si riversò

una cascata di capelli biondo platino, splendenti sotto le luci in stile natalizio. Aveva un

viso levigato, bianco e ovale, bellissimo, dominato da enormi occhi verde chiaro.

Indossava dei lunghi guanti neri, una camicetta di seta dello stesso colore, una gonna a

tubo e un foulard anch'esso nero attorno al collo. Impossibile decifrare l'età che aveva, o

per lo meno l'età di quando era stata trasformata in una vampira. — Mi chiamo Camille

Belcourt. Piacere di fare la tua conoscenza — disse porgendo una mano guantata di nero.

— Mi hanno detto che qui avrei incontrato Raphael Santiago — disse Simon, senza

muoversi per stringergliela. — Lei lavora per lui?

Camille Belcourt rise con il suono di una fontana gorgogliante. — Assolutamente no!

Anche se una volta lui lavorava per me.

E a quel punto Simon ricordò. Pensavo che il vampiro fosse un altro, aveva, detto una

volta a Raphael, nella città di Idris. Sembravano passati secoli.

Camille non è ancora tornata da noi, aveva risposto Raphael. Faccio io le sue veci.

— Il vampiro capo è lei. Il capo del clan di Manhattan — disse rivolgendosi ai

Soggiogati. — Mi avete ingannato. Mi avevate detto che avrei incontrato Raphael.

— Io ho detto che avresti incontrato il nostro padrone — rispose il signor Walker. I suoi

occhi erano grandi e vuoti, così vuoti che Simon si chiese se quei due avessero davvero

voluto ingannarlo o se fossero semplicemente creature programmate come robot per dire

qualunque cosa il loro padrone gli avesse ordinato di dire, incapaci di allontanarsi dal

copione. — Ed eccolo qui.

Esatto — disse Camille rivolgendo ai Soggiogati un sorriso smagliante. — Walker,

Archer, ora andate, per favore. Io e Simon dobbiamo parlare da soli. — Simon sentì che

c'era qualcosa nel modo in cui aveva pronunciato quella frase... il suo nome, e anche la

parola "soli"... erano come una carezza segreta.

I Soggiogati si inchinarono e se ne andarono. Mentre il signor Archer si voltava, Simon

notò sul suo collo un segno, un livido profondo, così scuro che sembrava di vernice, con

due punti ancora più scuri nel mezzo: erano punture, circondate da carne lacera e

rinsecchita. Simon si sentì attraversare da un brivido silenzioso.

— Prego — gli disse Camille battendo la mano sulla sedia che aveva accanto. — Siediti.

Ti va del vino?

Simon si sedette, appollaiandosi scomodamente sul bordo della sedia di metallo. — In

realtà non bevo.

— Ovvio — rispose lei, comprensiva. — Ma non preoccuparti troppo, col tempo riuscirai

ad abituarti a bere vino e altre bevande. Alcuni fra i più anziani della nostra specie

riescono persino a nutrirsi di cibo umano senza troppi effetti collaterali.

Senza troppi effetti collaterali? A Simon quella frase non piaceva molto. — Ci vorrà

molto tempo? — volle sapere, abbassando di proposito lo sguardo sul cellulare e vedendo

che erano già passate le dieci e mezza. — Devo tornare a casa.

Camille bevve un sorso di vino. — Ah sì? E come mai?

Perché mia madre mi sta aspettando alzata. Okay, non c'era motivo per cui quella

sconosciuta dovesse per forza venirlo a sapere. — Avevo un appuntamento e lei mi sta

facendo ritardare — disse invece. — Mi stavo solo chiedendo che cosa ci fosse di tanto

importante.

—Vivi ancora con tua madre, vero? — chiese lei appoggiando il bicchiere. — Strano che

un vampiro potente come te non voglia lasciare casa e unirsi a un clan, non trovi?

— È per questo, allora, che lei mi fa arrivare in ritardo al mio appuntamento. Voleva

prendermi in giro perché vivo ancora in famiglia. Non avrebbe potuto farlo una sera in cui

ero libero? Ovvero la maggior parte delle volte, nel caso le interessasse.

— Non ti sto prendendo in giro, Simon. — Si passò la lingua sul labbro inferiore, come

per assaporare il vino appena bevuto. — Voglio sapere perché non sei entrato a far parte

del clan di Raphael.

Che poi è il tuo stesso clan, giusto?. — Ho la netta sensazione che lui non mi voleva —

rispose Simon. — In pratica ha detto che mi avrebbe lasciato in pace se io avessi lasciato in

pace lui. E così l'ho lasciato in pace, punto.

— Ah è così... — fece lei, gli occhi verdi accesi da un bagliore.

— Non ho mai desiderato essere un vampiro — proseguì Simon, cominciando a

chiedersi perché mai stesse raccontando quelle cose a quella sconosciuta. — Volevo una

vita normale. Quando scoprii di essere un Daylighter, pensavo che ci sarei riuscito, almeno

fino a un certo punto. Posso andare a scuola, vivere a casa mia, vedere mia madre e mia

sorella...

— Purché non ti capiti di mangiare di fronte a loro — osservò Camille — e tu tenga

nascosta la tua sete di sangue. Non ti sei mai nutrito di un umano, vero? Solo sangue

conservato. Stantio. Animale — proseguì arricciando il naso.

Simon ripensò a Jace e si affrettò a rimuoverne il ricordo. Jace non era esattamente un

umano. — No, mai.

— Succederà. E quando lo farai, non te ne dimenticherai. — Si chinò in avanti, verso di

lui, e i suoi capelli chiari gli accarezzarono la mano. — Non puoi nascondere la tua vera

identità per sempre.

— Quale ragazzino non mente ai propri genitori? — rispose Simon. — E comunque non

capisco perché la cosa le interessi tanto. Anzi, in realtà non ho ancora capito che cosa ci

faccio qui.

Camille si sporse di nuovo e la camicetta di seta nera le si aprì sulla scollatura. Se Simon

fosse stato ancora umano, sarebbe arrossito. — Me lo faresti vedere?

Simon si sentiva gli occhi che gli schizzavano fuori dalle orbite. — Vedere cosa?

Lei sorrise. — Il Marchio, sciocchino. Il Marchio di Caino. Ramingo e fuggiasco sarai

sulla Terra.

Il ragazzo aprì la bocca, poi la chiuse di nuovo. Come fa a saperlo? Erano in pochissimi a

conoscere l'esistenza del Marchio che Clary, a Idris, gli aveva impresso sulla fronte.

Raphael aveva detto che si trattava di un segreto letale e Simon si era comportato di

conseguenza.

Gli occhi di Camille però erano così verdi e decisi che Simon, per qualche ragione,

voleva obbedirle; c'era qualcosa nel modo in cui lei lo guardava, qualcosa nella musicalità

della sua voce. Si alzò e scostò il ciuffo di capelli, scoprendo la fronte perché lei la potesse

osservare.

Camille sgranò gli occhi e dischiuse le labbra. Si sfiorò appena il collo con le dita, come

per controllare le pulsazioni, inesistenti.

— Oh — esclamò. — Come sei fortunato, Simon. Che privilegio!

— È una maledizione — ribatté lui — non una fortuna. se ne rende conto, vero?

A lei brillarono gli occhi. — Caino disse al Signore: "Il mio castigo è troppo grande

perché io possa sopportarlo". È davvero più di quanto tu possa sopportare, Simon?

Il ragazzo si rimise a sedere, lasciando che i capelli tornassero al loro posto. — No. Posso

sopportarlo.

— Però non vuoi farlo. — La donna passò un dito guantato sul bordo del bicchiere di

vino, senza staccare gli occhi da Simon. — E se io fossi in grado di offrirti un modo per

trasformare in un vantaggio quella che per te è una maledizione?

Direi che finalmente ci stiamo avvicinando al motivo per cui mi ha fatto venire qui, ed è

già qualcosa. — La ascolto.

— Hai riconosciuto il mio nome, quando te l'ho detto? — chiese Camille. — Raphael ti

ha già parlato di me, vero? — Aveva un accento molto leggero, che Simon non riusciva

bene a individuare.

— Ha detto che lei era il capo del clan e che lui lo guidava soltanto in sua vece. Un po'

come un vicepresidente, o qualcosa di simile.

— Ah. — La donna si morse appena il labbro inferiore. — In realtà non è esatto. Vorrei

dirti la verità, Simon, vorrei farti una proposta. Ma prima mi devi dare la tua parola su

una questione.

— Quale?

— Sul fatto che tutto ciò che accadrà fra di noi qui, stasera, resterà un segreto. Nessuno

può venirlo a sapere. Non la tua amica pel di carota, Clary, né le tue due belle. E nemmeno

la famiglia Lightwood. Nessuno, Simon.

Il ragazzo si appoggiò contro lo schienale della sedia. — E se non volessi promettere?

— Allora te ne puoi andare, se è questo che vuoi — rispose. — Ma non saprai mai quello

che avrei voluto dirti. E sarà un'occasione sprecata di cui ti pentirai.

— Sono curioso — rispose Simon — ma non sono sicuro di esserlo così tanto.

Negli occhi di Camille c'era un barlume di sorpresa, ilarità e forse, pensò Simon, persino

di rispetto. — Niente di ciò che ho da dirti li riguarda. Non metterà a rischio la loro

sicurezza o la loro salute. La segretezza serve solo a proteggere me stessa.

Simon la guardò con sospetto. Era sincera? I vampiri non erano come le fate, non

sapevano mentire. Però doveva ammettere di essere curioso. — E va bene. Manterrò il

segreto, sempre che secondo me non possa mettere in pericolo i miei amici. Fine delle

trattative.

Camille aveva un sorriso di ghiaccio e Simon capiva bene che non amava essere messa

in discussione. — Perfetto — disse. — Presumo di non avere molta scelta, se ho un

bisogno così disperato del tuo aiuto. — Si sporse in avanti, mentre la sua mano sottile

giocherellava con lo stelo del bicchiere. — Fino a poco tempo fa ho gestito il clan di

Manhattan, e con molto piacere. La nostra base era in un edificio d'epoca nell'Upper West

Side, risalente a prima della guerra, e non quella fogna di hotel dove ora Santiago tiene i

miei. Santiago, o Raphael come lo chiami tu, era il mio braccio destro. Il mio compagno

più fidato... o almeno così pensavo. Una notte ho scoperto che uccideva gli umani,

portandoli in quel vecchio albergo di East Harlem e succhiando loro il sangue per puro

divertimento. Alla fine buttava le ossa fuori, nei cassonetti dell'immondizia. Rischi inutili,

che infrangevano la Legge dell'Alleanza. — Si interruppe per bere un sorso di vino. —

Quando andai a chiedergli spiegazioni, capii cosa aveva detto al clan: l'assassina, la

fuorilegge, ero io. Il suo era un piano ben preciso. Voleva uccidermi per impossessarsi del

mio potere. Così sono fuggita, protetta soltanto da Walker e da Archer.

— E per tutto questo tempo lui ha detto di essere a capo del clan solo in attesa del suo

ritorno...

Lei fece una smorfia. — Santiago è un bugiardo patentato. Vuole che io torni, questo è

certo, ma solo per potermi uccidere e assumere veramente il controllo del clan.

Simon non capiva bene cosa Camille volesse sentirsi dire. Non era abituato a donne

adulte che lo guardavano così, con grandi occhi colmi di lacrime che gli raccontavano la

storia della loro vita.

— Mi dispiace — si decise infine a dire.

Lei scrollò le spalle, in un modo così particolare da fargli pensare che quel suo lieve

accento poteva essere francese. — Acqua passata — fu la risposta. — Per tutto questo

tempo sono rimasta «nascosta a Londra in cerca di alleati, in attesa che qualcosa

cambiasse. E poi ho sentito parlare di te. — Alzò una mano. — Non posso dirti come, ho

giurato di mantenere il segreto. Ma nel momento in cui è accaduto, ho capito che tu eri ciò

che aspettavo.

— Io?

La donna si sporse in avanti e gli toccò una mano. — Raphael ha paura di te, Simon, e fa

bene. Sei uno della sua specie, un vampiro, ma non puoi essere ferito né ucciso; non può

alzare un dito contro di te senza scatenare su di sé l'ira di Dio.

Seguì un attimo di silenzio. Simon riusciva a sentire il leggero ronzio delle luci natalizie

sopra le loro teste, l'acqua che sgorgava nella fontana di pietra al centro del cortile, il

brusio della città. Quando tornò a parlare, lo fece con voce sommessa. — L'ha detto.

— Detto cosa, Simon?

— Quella parola. L'ira di... — Quelle tre lettere gli pungevano sulla lingua e gliela

facevano bruciare, come sempre.

— Sì. Dio. — Camille ritrasse la mano, ma il suo sguardo era benevolo. — La nostra

specie ha tanti segreti, tanti segreti che ti posso mostrare e spiegare. Imparerai che la tua

non è una condanna.

— Signora...

— Camille. Chiamami Camille.

— Continuo a non capire che cosa vuoi da me, Camille.

— No? — Scosse la testa, e la chioma lucente le ondeggiò sul viso. — Vorrei che ti unissi

a me, Simon. Unisciti a me contro Santiago. Andremo insieme in quella topaia del suo

albergo e, nell'istante in cui i suoi seguaci vedranno che sei con me, lo abbandoneranno e

seguiranno noi. Credo che, nonostante il timore nei confronti di Santiago, mi siano ancora

fedeli. Quando ci vedranno insieme, quel timore si dissolverà e loro saranno tutti al nostro

fianco. L'uomo non può combattere contro il divino.

Non lo so — disse Simon. — Nella Bibbia, Giacobbe ha lottato contro un angelo e ha

vinto. Camille lo guardò inarcando le sopracciglia. Simon fece spallucce. — Scuola ebraica.

Giacobbe chiamò quel luogo Peniel e disse: "Ho visto Dio faccia a faccia". Vedi, non sei

l'unico che conosce le Sacre Scritture. — Lo sguardo a fessura era sparito dal suo volto,

lasciando il posto a un sorriso. — Magari non te ne rendi conto, Daylighter, ma finché

porti quel Marchio sei il braccio vendicatore del Cielo. Nessuno può opporsi a te.

Sicuramente non un singolo vampiro.

— Tu hai paura di me? — le chiese Simon.

Se ne pentì quasi subito. Gli occhi verdi della sua interlocutrice si rabbuiarono come un

cielo tempestoso. — Io, paura di te? — Poi si ricompose, e i suoi lineamenti tornarono a

distendersi. — Certo che no — disse. — Sei una persona intelligente. Sono convinta che

capirai la saggezza della mia proposta e ti unirai a me.

— E qual è di preciso la tua proposta? Voglio dire, capisco la parte in cui affrontiamo

Raphael, ma dopo? In realtà io non lo odio, né voglio sbarazzarmi di lui solo per il gusto di

farlo. Lui mi lascia in pace, ed è quello che ho sempre desiderato.

Camille piegò le mani davanti a sé. Sul dito medio della mano sinistra, sopra il guanto,

aveva un anello d'argento con incastonata una pietra azzurra. — Tu pensi che sia questo

ciò che vuoi, Simon. Tu pensi che Raphael ti faccia un favore a "lasciarti in pace", come dici

tu. Invece lui ti sta tenendo in esilio. In questo momento credi che non ti servano altri della

tua specie, ti accontenti degli amici che hai, umani e Shadowhunters. Ti accontenti di

nascondere bottiglie di sangue in camera e menti a tua madre sulla tua vera identità.

— Come fai a...

Lei proseguì, ignorandolo. — Ma che cosa succederà fra dieci anni, quando ne avrai

ventisei? E fra venti? Trenta? Pensi che nessuno noterà che loro invecchiano, cambiano, e

tu no?

Simon non disse nulla. Non voleva ammettere di non aver guardato così in là nel futuro.

Anzi, di non voler guardare così in là.

— Raphael ti ha detto che gli altri vampiri per te sono veleno. Ma non deve essere così.

L'eternità è un lungo periodo da passare da solo, senza altri tuoi simili. Senza altri che

capiscano. Tu sei amico degli Shadowhunters, ma non potrai mai essere uno di loro. Sarai

sempre diverso, un escluso. Con noi invece saresti come tutti gli altri. — Mentre si

chinava, l'anello brillò di luce bianca, pungendo Simon negli occhi. — Abbiamo migliaia di

anni di conoscenza da condividere con te, Simon. Potresti imparare come mantenere il tuo

segreto, imparare a mangiare e a bere, pronunciare il nome di Dio. Raphael è stato crudele

e ti ha nascosto queste informazioni, anzi ti ha spinto a credere che nemmeno esistano.

Non è così. E io ti posso aiutare.

— Se io prima aiuto te — disse Simon.

Lei sorrise, mostrando denti bianchi e affilati. — Ci aiuteremo a vicenda.

Simon si appoggiò all'indietro. La sedia di metallo era dura e scomoda e, all'improvviso,

si sentì stanco. Guardandosi le mani, riusciva a vedere le vene che si erano scurite e si

diramavano come una ragnatela. Aveva bisogno di sangue. Aveva bisogno di parlare con

Clary. Aveva bisogno di tempo per pensare.

— Ti ho sconvolto — riprese Camille. — Lo so. Hai molte informazioni da assimilare. Mi

piacerebbe poterti lasciare tutto il tempo che ti serve per prendere una decisione su quanto

ci siamo detti e anche su di me. Il fatto è che non ce ne resta molto, Simon. Mentre

rimango in questa città, sono esposta agli attacchi di Raphael e dei suoi scagnozzi.

—Scagnozzi? — Malgrado la situazione, Simon abbozzò un sorriso.

Camille parve perplessa. — Che problema c'è?

— Be', è che "scagnozzi" è come dire "sgherri", o "tirapiedi". — Lei lo fissava con aria

incuriosita. Simon sospirò. — Lasciamo perdere, probabilmente tu non hai visto tutti i

filmacci di terz'ordine che ho visto io.

Camille increspò lievemente la fronte, facendo comparire fra le sopracciglia l'accenno di

una ruga. — Me l'avevano detto che eri un tipo un po' particolare. Forse è perché non

conosco molti vampiri della tua generazione. Però sento che mi farà bene stare con

qualcuno di così... giovane.

— Sangue fresco — disse Simon.

Stavolta Camille rise. — Allora, sei pronto? Accetti la mia offerta? Iniziamo a

collaborare?

Simon alzò gli occhi al cielo. Sembrava che i fili con le luci bianche oscurassero le stelle.

— Senti — disse a un tratto. — Apprezzo la tua proposta, davvero. — Merda, pensò.

Doveva pur esserci un modo per dirlo senza sembrare uno che rifiutava l'invito al ballo di

fine anno. Sono molto, molto lusingato che tu l'abbia chiesto a me, però... Camille, come

Raphael, parlava senza scomporsi, in tono formale, come il personaggio di una fiaba. Forse

poteva provare con la sua stessa strategia. — La mia decisione richiede tempo. Suppongo

che tu mi possa capire.

Lei sorrise, con molta grazia, scoprendo solo la punta dei canini. — Cinque giorni —

disse. — Non uno di più. — Allungò verso di lui una mano guantata; qualcosa brillava

dentro il palmo. Era un flaconcino di vetro, simile a uno di quei campioncini di profumo,

ma pieno di una polvere brunastra. — Terra di tomba. Rompi il flacone e io saprò che mi

stai chiamando. Se non lo farai entro cinque giorni, manderò Walker a sentire qual è la tua

risposta.

Simon prese il contenitore e lo fece scivolare in tasca — E se la risposta sarà no?

— In tal caso ne sarei dispiaciuta, ma ci lasceremo da amici. — A quel punto,

allontanando il bicchiere di vino che aveva davanti, lo congedò. — Arrivederci, Simon.

Il ragazzo si alzò in piedi. La sedia, strisciando contro il pavimento, emise uno stridore

metallico troppo rumoroso. Sentì di dover aggiungere qualcos'altro, ma proprio non

sapeva cosa. Per il momento, comunque, Camille lo aveva congedato, perciò decise che

preferiva sembrare uno di quegli strani vampiri moderni, un po' maleducati, piuttosto che

rischiare di essere di nuovo coinvolto nella conversazione. Se ne andò senza aggiungere

altro.

Ripercorrendo il ristorante in direzione dell'uscita, passò davanti a Walker e ad Archer,

in piedi accanto al grande bancone di legno con le spalle ricurve sotto i lunghi Cappotti

grigi. Riuscì a sentire l'intensità dei loro sguardi di rimprovero mentre si allontanava e li

salutava sfarfallando le dita, un gesto a metà fra un cenno amichevole e un “a mai più

rivederci”. Archer scoprì i denti, dei banali denti umani, e lo oltrepassò furtivamente

dirigendosi verso il giardino, con Walker alle calcagna. Simon rimase a guardare mentre

prendevano posto sulle sedie accanto a Camille, che non alzò lo sguardo mentre loro si

sedevano. Le luci bianche, che fino a poco prima illuminavano il giardino, si spensero

improvvisamente, non una dopo l'altra, ma tutte insieme, lasciando Simon dentro un

inquietante quadrato di tenebra, come se qualcuno avesse spento le stelle. Quando i

camerieri del locale si accorsero del blackout e corsero fuori per inondare di nuovo il

giardino di luce, di Camille e dei suoi Soggiogati umani non c'era più traccia.

Simon aprì la porta d'ingresso di casa sua — una fra tante villette a schiera tutte

identiche, in mattoni, che fiancheggiavano le strade del suo quartiere — e la socchiuse

appena, con le orecchie tese.

A sua madre, prima di uscire, aveva detto che avrebbe incontrato Eric e gli altri membri

della band per prepararsi al concerto previsto per sabato. Un tempo lei gli avrebbe creduto

e basta, senza problemi. Elaine Lewis era una madre di mentalità aperta, che non

imponeva mai il coprifuoco né a Simon né alla sorella, e nemmeno li obbligava a tornare a

casa presto le sere in settimana. Simon era abituato a restare fuori a qualsiasi ora con

Clary, a rientrare usando il suo mazzo di chiavi e a sprofondare nel letto alle due di notte,

un comportamento che fino ad allora non aveva suscitato particolari commenti.

Ora invece le cose erano cambiate. Simon era rimasto a Idris, la patria degli

Shadowhunters, per quasi due settimane: sparito da casa, senza possibilità di fornire scuse

o spiegazioni. Lo stregone Magnus Bane era intervenuto facendo a sua madre un

incantesimo per cancellarle la memoria e ora lei non ricordava niente dell'assenza di

Simon. O, per lo meno, non la ricordava consciamente. Infatti si comportava in modo

diverso: era sospettosa, gli stava addosso, lo osservava continuamente, insisteva perché

rincasasse entro certi orari. L'ultima volta che era rientrato da un appuntamento con Maia

si era ritrovato Elaine seduta nell'atrio, su una sedia rivolta verso la porta, con le braccia

incrociate e una malcelata irritazione dipinta sul viso.

Quella notte era riuscito a sentire il respiro di sua madre prima ancora di vederla. Ora

invece udiva solo il debole brusio della televisione che proveniva dal soggiorno. Doveva

averlo aspettato sveglia, probabilmente guardando puntate su puntate di qualche serial

ospedaliero che lei amava tanto. Simon si chiuse la porta alle spalle e ci si appoggiò contro

con la schiena, cercando di raccogliere le energie necessarie per mentire.

Già non era semplice evitare di mangiare insieme alla sua famiglia. Per fortuna sua

madre andava al lavoro presto e tornava tardi, mentre Rebecca, che frequentava il college

in New Jersey e tornava solo di tanto in tanto per lavare le sue cose, non lo vedeva

abbastanza spesso da notare che qualcosa non andava. Quando lui si svegliava al mattino,

in genere sua madre era già uscita, lasciando sul bancone della cucina una colazione e un

pranzo preparati con amore. Lui, sulla via per la scuola, buttava tutto in un bidone della

spazzatura. La cena era più complicata: le sere in cui la madre era a casa, gli toccava

sparpagliare tutto il cibo nel piatto, con l'aria di chi non ha fame e vuole portare tutto in

camera per mangiare studiando. Una volta o due si era sforzato, giusto per farla contenta,

ma dopo aveva passato ore chiuso in bagno a sudare e a vomitare finché quella roba non

gli era uscita dal corpo.

Non sopportava di doverle mentire. Si era sempre un po' dispiaciuto per Clary e per il

suo rapporto a volte conflittuale con Jocelyn, il genitore più iperprotettivo che avesse mai

conosciuto. Adesso però toccava a lui. Da quando Valentine era morto, la stretta di Jocelyn

attorno alla figlia si era allentata al punto da rientrare quasi nella normalità. Simon invece,

ogni volta che era in casa, poteva sentire su di sé lo sguardo di sua madre, pesante come

un'accusa, che lo seguiva ovunque si spostasse.

Raddrizzando le spalle, lasciò cadere la borsa a tracolla sul pavimento vicino alla porta e

andò in soggiorno preparandosi a ricevere la prevedibile ramanzina. Il televisore era

acceso, col telegiornale ad alto volume. Il giornalista locale stava facendo un servizio sul

caso di un bambino trovato abbandonato in una strada dietro un ospedale del centro.

Simon rimase sorpreso: sua madre detestava i TG, li trovava deprimenti. Guardò verso il

divano e ogni traccia di stupore svanì. Sua madre stava dormendo, con gli occhiali

appoggiati sul tavolino accanto e un bicchiere mezzo vuoto sul pavimento. Simon lo

riconobbe subito da quella distanza: whisky, probabilmente. Sentì una fitta. Sua madre

non beveva quasi mai.

Andò nella camera della donna e tornò con in mano una coperta fatta a maglia. Lei

dormiva ancora, respirando in modo lento e regolare. Elaine era una signora minuta, uno

scricciolo con un casco di capelli neri e ricci, striati di grigio, che si rifiutava di tingere. Di

giorno lavorava per un organizzazione ambientalista no profit e gran parte dei vestiti che

indossava erano decorati con disegni di animali. In quel momento portava un vestito con

una fantasia di onde e delfini corredato da una spilla che un tempo era un pesciolino vero

e adesso era incastonato nella resina. Mentre Simon si piegava per rimboccare la coperta

attorno alle spalle della madre, ebbe la sensazione che l'occhio laccato del pesce lo stesse

guardando di traverso.

Elaine si mosse, di scatto, girando la testa dall'altra parte. — Simon — sussurrò. —

Simon, dove sei?

Dispiaciuto, lui lasciò andare la coperta e si raddrizzò. Forse avrebbe dovuto svegliarla,

dirle che stava bene. Poi però ci sarebbero state delle domande a cui avrebbe preferito non

rispondere e, sul viso della madre, quell'espressione ferita che non sopportava. Si voltò e

andò in camera sua.

Si era buttato sul letto e, senza nemmeno pensarci, aveva preso il telefono sul comodino

per chiamare Clary. Rimase un istante in silenzio ad ascoltare il segnale di libero. Non

poteva raccontarle di Camille, le aveva promesso che la sua proposta sarebbe rimasta un

segreto. Non che si sentisse particolarmente in dovere verso quella donna, ma, se c'era una

cosa che aveva imparato negli ultimi mesi, era che tradire la parola data alle creature

soprannaturali era una mossa da evitare. Però voleva comunque sentire la voce di Clary,

come faceva sempre dopo una giornata difficile. Be', aveva sempre di che lagnarsi sulla

propria vita sentimentale e la cosa sembrava divertire l'amica a non finire. Rigirandosi nel

letto, si coprì la testa con il cuscino e compose il numero.

Capitolo 2

LA CADUTA

— Allora, questa sera ti sei divertito con Isabelle? — Clary, col telefono premuto contro

l'orecchio, si destreggiava con prudenza da una lunga trave a un'altra. Le travi erano

collocate a circa sei metri di altezza, nel sottotetto dell'Istituto adibito a sala allenamenti.

Camminare «sulle travi serviva a imparare a mantenere l'equilibrio. Clary le odiava. La

sua paura delle altezze rendeva l'intera faccenda una discreta fonte di nausea, malgrado la

fune elastica che aveva legata attorno la vita, utile per impedirle di schiantarsi a terra in

caso di caduta. — Le hai già detto di Maia?

Simon emise un suono debole e svogliato, che Clary interpretò come un chiaro "no".

Sentiva della musica in sottofondo; si immaginava Simon sdraiato sul letto, al telefono,

con lo stereo acceso a basso volume. Le sembrò stanco, quel genere di stanchezza capace

di rivelarle che il suo stato d'animo non era dei migliori. All'inizio della telefonata gli

aveva chiesto diverse volte se andava tutto bene, ma lui aveva minimizzato.

Clary sbuffò. — Stai scherzando col fuoco, Simon. Spero che tu lo sappia.

— Non lo so, in realtà. Pensi che sia davvero così importante? — chiese Simon in tono

lamentoso. — Non ho parlato con Isabelle, né con Maia, di volere un rapporto esclusivo.

— Lascia che ti spieghi una cosa su noi ragazze — rispose Clary sedendosi sulla trave e

lasciando penzolare le gambe. Le finestre a mezzaluna del sottotetto erano aperte e

lasciavano entrare una fredda brezza notturna che le gelava il sudore sulla pelle. Aveva

sempre pensato che gli Shadowhunters si allenassero con la loro divisa da duri, in un

materiale simile alla pelle, ma poi aveva scoperto che quella era per gli allenamenti di

grado avanzato, quelli in cui si usavano anche le armi. Per il genere di esercizi che stava

facendo ora, mirati ad aumentare flessibilità, velocità e senso dell'equilibrio, indossava

una canottiera e dei pantaloni chiusi con una cordicella che facevano tanto personale

ospedaliero. — Anche se non hai parlato di esclusiva, si arrabbieranno comunque se

scopriranno che stai uscendo con una persona che conoscono e di cui tu non dici niente. È

una regola non scritta di tutte le relazioni sentimentali.

— Be', e io come dovrei fare a conoscere questa regola?

— La conoscono tutti.

— Pensavo che tu stessi dalla mia parte.

— Ma io sono dalla tua parte!

Clary passò il telefono all'altro orecchio e sbirciò in basso, verso l'ombra che proiettava

sotto di sé. Dov'era Jace? Se n'era andato per prendere un'altra corda dicendo che sarebbe

tornato dopo cinque minuti. Ovviamente, se l'avesse sorpresa al cellulare, a quell'altezza,

si sarebbe arrabbiato parecchio. Capitava di rado che fosse lui il responsabile del suo

allenamento; in genere era un compito che spettava a Maryse, a Kadir o ad altri membri

del Conclave di New York , che si arrabattavano in attesa che si trovasse il sostituto di

Hodge, il precedente insegnante dell'Istituto. — Perché — riprese Clary — i tuoi problemi

non sono problemi reali. Stai frequentando due bellissime ragazze. Pensaci! Questi sono...

problemi da rockstar!

— Avere dei problemi da rockstar potrebbe essere un modo per diventare davvero una

rockstar...

— Non te l'ho detto io di chiamare la tua band Salacious Mold, caro mio.

— Ora siamo i Millennium Lint — protestò Simon.

— Senti, pensaci un po' prima che arrivi il giorno delle nozze. Se tutt'e due sono

convinte che ci andrai con loro e poi scoprono che stai facendo il doppio gioco, ti faranno a

pezzi. — Si alzò in piedi. — E a quel punto il matrimonio di mia madre sarà rovinato e

anche lei ti ucciderà. Quindi sarai morto due volte. Anzi tre, per essere precisi...

— Non ho mai detto a nessuna delle due che voglio sposarla! — esclamò Simon, ora

ufficialmente nel panico.

— Certo, ma si aspetteranno che tu glielo chieda. È questo il motivo per cui le ragazze

hanno il ragazzo: per avere qualcuno che le accompagni agli eventi più barbosi... — Nel

frattempo Clary raggiunse il bordo della trave, guardando giù verso le ombre illuminate

dalla stregaluce. Sul pavimento era tracciato con il gesso un cerchio usato per gli

allenamenti. — Senti, ora devo saltare giù da questa trave e probabilmente precipitare

verso una morte orrenda. Ci sentiamo domani.

— Alle due ho le prove con la band, te lo ricordi? Ci vediamo là.

— Okay, ciao! — Clary riagganciò e si infilò il cellulare nel reggiseno. I vestiti leggeri da

allenamento non avevano tasche, perciò cos'altro poteva fare una ragazza?

— Ehi, hai intenzione di restare lassù tutta la notte? — le chiese Jace mettendosi al

centro del cerchio di gesso e alzando gli occhi su di lei. Indossava la divisa da

combattimento, non i semplici vestiti da allenamento di Clary, e i suoi capelli biondi

risaltavano al buio in maniera sorprendente. Dalla fine dell'estate si erano scuriti

leggermente e adesso erano di un biondo dorato più scuro, tonalità che, secondo Clary, gli

donava ancora di più. Riuscire a notare anche i più piccoli cambiamenti nell'aspetto di Jace

la rendeva felice in modo assurdo.

— Pensavo che saresti salito quassù! — gli gridò lei dall'alto. — Cambiato programma?

— E una lunga storia — rispose Jace sorridendole. — Dunque, vuoi allenarti con i salti

mortali?

Clary fece un sospiro. Provare i salti mortali consisteva nel lasciare la trave e lanciarsi nel

vuoto, utilizzando la fune elastica per restare sospesi mentre ci si dava la spinta contro le

pareti e si facevano delle capriole in avanti verso il basso, il tutto per imparare a ruotare,

calciare e abbassarsi senza preoccuparsi di quanto fosse duro il pavimento o di quanto

facessero male i lividi. Aveva visto Jace farlo e le era sembrato un angelo che cadeva dal

cielo, si librava nell'aria, volteggiava e girava su se stesso con la grazia incantevole di un

ballerino. Lei, invece, si raggomitolava come un bruco appena si avvicinava il pavimento,

e il fatto di sapere, razionalmente, che non si sarebbe schiantata, sembrava non fare la

differenza.

Iniziava a chiedersi se essere nata Shadowhunter fosse poi così importante: forse era

tropo tardi per poter diventare una di loro, o per lo meno una davvero in gamba. O forse il

dono che rendeva lei e Jace quello che erano era stato distribuito fra loro in maniera

diseguale, per cui a lui era andata tutta la grazia fisica e a lei... be', non molta.

— Muoviti, Clary — la incitò Jace. — Salta! — La ragazza chiuse gli occhi e si lanciò. Per

un momento si sentì sospesa nel vuoto, totalmente libera. Poi però subentrò la forza di

gravità, che la fece precipitare verso il pavimento. D'istinto avvolse le gambe fra braccia,

strizzando gli occhi. La fune entrò in tensione e Clary rimbalzò verso l'alto, per poi

ricadere di nuovo giù. Mentre rallentava aprì gli occhi e si ritrovò appesa all'estremità

della fune, circa un metro e mezzo sopra Jace. Lui stava sorridendo.

— Bello — commentò. — Aggraziata come un fiocco di neve che scende leggero...

— Ho gridato? — chiese lei, seria. — Intendo mentre scendevo.

Jace annuì. — Per fortuna non c'è nessun altro, altrimenti avrebbero pensato che ti stavo

uccidendo.

— Tsé! Non riusciresti nemmeno a prendermi — fece lei allungando una gamba e

iniziando a roteare lentamente a mezz'aria.

Negli occhi di Jace comparve una scintilla. — Scommettiamo?

Clary conosceva quell'espressione. — No — si affrettò a dire — qualunque cosa tu abbia

intenzione di fare...

Ma ormai l'aveva già fatta. Quando Jace si muoveva in fretta, i suoi singoli gesti

risultavano quasi invisibili. Clary vide solo la mano che gli andava alla cintura, poi

qualcosa che balenò nell'aria. Sentì un rumore, come di stoffa che si strappava: la fune

elastica era stata tagliata in due. Senza più sostegno, e troppo sbalordita anche solo per

gridare, Clary precipitò... fra le braccia di Jace. L'impatto lo fece barcollare all'indietro e

insieme caddero su uno dei materassini imbottiti che ricoprivano il pavimento, con Clary

sopra. Lui la guardò e le sorrise.

— Ecco — le disse. — Stavolta è andata molto meglio. Non hai gridato neanche un po'!

— Non ne ho avuto il tempo — rispose lei. Era senza fiato, e non solo per la caduta.

Essere sdraiata sopra Jace, sentire il suo corpo contro il proprio, le faceva tremare le mani e

battere in fretta il cuore. Tempo prima aveva pensato che l'effetto che lui aveva su di lei (o,

meglio, gli effetti che si provocavano a vicenda) prima o poi sarebbero scomparsi,

conoscendosi meglio, ma non era stato così. Anzi, se possibile, più tempo passava insieme

a Jace e più la situazione peggiorava. O migliorava, a seconda dei punti di vista.

— Ora lui la stava guardando con quei suoi occhi color verde nocciola dorato,

spingendola a domandarsi se il loro colore si fosse intensificato dopo l'incontro con Raziel,

l'Angelo, sulle rive del lago Lyn di Idris. Ma non poteva chiederlo a nessuno: anche se tutti

sapevano che Valentine aveva evocato l'Angelo, e che quest'ultimo aveva guarito Jace

dalle ferite inflittegli dal padre adottivo, solo Clary e Jace sapevano che Valentine non si

era limitato a procurargli delle semplici ferite: nel corso della cerimonia d'evocazione

aveva pugnalato il ragazzo dritto nel cuore. Lo aveva pugnalato e lo aveva sorretto mentre

moriva. Su richiesta di Clary, poi, Raziel aveva riportato Jace in vita. L'enormità di

quell'evento non smetteva di scioccare Clary, sicura che lo stesso valeva anche per Jace.

Così avevano deciso di non rivelare mai a nessuno che lui, anche se solo per pochi istanti,

era morto sul serio. Era il loro segreto.

Jace alzò una mano e le scostò i capelli dal viso. — Sto scherzando — disse — non sei

così male. Ce la farai. Avresti dovuto vedere Alec, quando faceva i primi salti mortali...

Una volta si è dato un calcio in testa.

— Sicuro — rispose Clary. — Ma avrà avuto undici anni! — Lo osservò attentamente. —

Scommetto che tu invece sei sempre stato speciale.

— Io sono nato speciale — fece lui accarezzandole la guancia con la punta delle dita, un

gesto delicato ma abbastanza intenso da farle venire i brividi. Clary non disse una parola;

Jace stava scherzando, ma in un certo senso aveva ragione: lui era nato per essere ciò che

era. — Per quanto puoi fermarti, stasera?

— Lei accennò un sorriso. — Abbiamo finito di allenarci?

— Mi piacerebbe pensare che abbiamo concluso gli esercizi assolutamente

indispensabili. Però ci sono due o tre cosette che vorrei fare ancora... — Jace fece per tirarla

verso di sé, ma in quell'istante si aprì la porta e Isabelle entrò a grandi passi, battendo i

tacchi alti degli stivali sul parquet lucido.

Quando si accorse di Jace e Clary sdraiati sul pavimento, sollevò perplessa un

sopracciglio. — Vedo che qui si amoreggia. Ma non dovevate allenarvi?

— Nessuno ti ha detto che potevi entrare senza bussare, Iz. — Jace non si mosse, girò

solo la testa di lato per guardare Isabelle con un misto di irritazione e affetto. Clary invece

si alzò di corsa e si risistemò i vestiti spiegazzati.

— È la sala allenamenti, un luogo pubblico — replicò Isabelle, sfilandosi un guanto di

velluto rosso fiamma e fermandosi a guardarlo. — Li ho appena presi da Trash and

Vaudeville, la mecca del look da rockstar. Erano in saldo. Non vi piacciono da morire?

Non ne vorreste un paio anche voi? — disse puntando il dito verso gli altri due.

— Non so — disse Jace. — Ho paura che stonerebbero con la mia divisa.

Isabelle fece una smorfia. — Hai sentito dello Shadowhunter trovato morto a Brooklyn?

Il cadavere era completamente dilaniato, perciò non sono ancora riusciti a identificarlo.

Credo che la mamma sia già sul posto.

— Sì — rispose Jace alzandosi. — Riunione del Conclave. L'ho incontrata mentre usciva.

— Non me l'hai detto — disse Clary. — È per questo che ci hai messo così tanto ad

andare a prendere quella corda?

Lui annuì. — Scusami. È che non volevo spaventarti.

— In realtà non voleva rovinare l'atmosfera romantica — disse Isabelle, mordendosi un

labbro. — Spero solo che non si tratti di qualcuno che conosciamo.

— Non credo. Il cadavere è stato ritrovato in una fabbrica abbandonata, dove è rimasto

per diversi giorni. Se fosse stato qualcuno dei nostri, ci saremmo accorti della sua assenza.

— Jace si infilò i capelli dietro le orecchie. Clary era convinta che stesse guardando

Isabelle con aria impaziente, come infastidito dalla scelta di quell'argomento. In realtà

avrebbe preferito se lui gliene avesse parlato prima, anche a costo di rovinare l'atmosfera.

Gran parte di quello che Jace faceva, anzi di quello che tutti loro facevano, li portava

spesso a contato con la realtà della morte. Tutti i Lightwood, ciascuno a modo suo,

soffrivano ancora per la perdita del figlio più piccolo, Max, morto semplicemente per

essersi trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Era strano: Jace aveva accettato la

decisione di Clary di lasciare la scuola e iniziare gli allenamenti senza batter ciglio, ma

evitava di parlare con lei dei pericoli della vita da Shadowhunter.

— Vado a cambiarmi — annunciò dirigendosi verso la porta che immetteva nei piccoli

spogliatoi attigui all'area allenamento. Erano molto semplici: pareti di legno chiaro, uno

specchio, una doccia, ganci appendiabiti. Su una panca di legno accanto alla porta c'erano

delle pile ordinate di asciugamani. Clary si fece una doccia veloce e si vestì: collant, stivali,

gonna di jeans e maglione rosa. Guardandosi allo specchio notò che le calze erano sma-

gliate e i suoi capelli rossi, umidi e arricciati, erano un groviglio disordinato. Non sarebbe

mai riuscita ad avere un look perfetto come quello di Isabelle, ma Jace sembrava non farci

caso.

Quando tornò in palestra, lui e Isabelle avevano accantonato il tema dello Shadowhunter

morto per passare a qualcosa di cui, a quanto pareva, Jace era ancora più inorridito...

L'appuntamento di Isabelle con Simon. — Non ci credo che ti ha portato in un vero ri-

storante! — Jace era in piedi, impegnato a rimettere a posto i tappetini e il resto

dell'attrezzatura, mentre Isabelle, appoggiata al muro, giocherellava coi guanti nuovi. —

Pensavo che la sua idea di appuntamento consistesse nel portarti a vedere lui che gioca a

World of Warcraft coi suoi amici sfigati.

— Io — gli fece notare Clary — sarei uno dei suoi amici sfigati, grazie tante.

Jace le sorrise.

— Non era un vero e proprio ristorante, diciamo più una tavola calda. E poi voleva che

assaggiassi una zuppa rosa... — disse Isabelle ripensando alla serata. — È stato molto

dolce.

Clary si sentì subito in colpa per non poter confessare né a lei né a Jace di Maia. — Ha

detto che vi siete divertiti — disse.

Lo sguardo di Isabelle guizzò verso di lei. Sul viso le comparve un'espressione

particolare, come se nascondesse qualcosa, ma svanì talmente in fretta che Clary non fu

nemmeno sicura di averla davvero notata. — Hai parlato con lui?

— Sì, mi ha telefonato qualche minuto fa, giusto per farmi un saluto — rispose Clary

facendo spallucce.

— Capisco — disse Isabelle con la voce fattasi all'improvviso fredda e distaccata. —

Dunque, dicevo, Simon è molto dolce. Ma forse un tantino troppo dolce... E la cosa può

diventare noiosa — commentò infilandosi i guanti in tasca. — Comunque non è una cosa

stabile. Per adesso ci stiamo solo divertendo.

— A quelle parole il senso di colpa di Clary svanì. — Avete mai parlato... sì, insomma,

del fatto di non uscire con nessun altro?

Isabelle sembrò scandalizzata. — Certo che no! — A quel punto rivolse agli altri due uno

sbadiglio e, come un gatto, si stiracchiò le braccia sopra la testa. — Okay, e ora a letto. Ci

vediamo, piccioncini!

Detto questo, se ne andò, lasciando dietro di sé un'avvolgente scia di profumo al

gelsomino.

Jace rivolse lo sguardo verso Clary. Aveva iniziato a slacciare la divisa, una sorta di

guscio protettivo sopra i vestiti normali, che scatto davanti e dietro ai polsi. — Devi

tornare a casa, vero?

Lei annuì senza entusiasmo. Già il convincere sua madre a lasciarle seguire gli

allenamenti degli Shadowhunters era stato causa di una lunga e spiacevole discussione.

Jocelyn aveva puntato i piedi, dicendo di aver faticato tutta la vita per tenerla fuori da quel

mondo non solo pericoloso e violento, ma anche crudele e settario. Solo un anno prima le

aveva detto che, se si fosse voluta allenare, non le avrebbe più rivolto la parola; la ragazza

aveva ribattuto dicendo che, se il Conclave aveva sospeso quel genere di regole mentre il

nuovo Concilio rivedeva la Legge, significava che era cambiato rispetto ai tempi in cui Jo-

celyn era giovane, e che, in ogni caso, lei doveva imparare a difendersi.

— Spero che il motivo non sia Jace — aveva commentato infine la madre. — So cosa

vuol dire essere innamorati di una persona: vuoi stare dove sta lei e fare quello che fa lei.

Però, Clary...

— Io non sono te — le aveva risposto, sforzandosi di trattenere la rabbia. — Gli

Shadowhunters non sono il Circolo e Jace non è Valentine.

— Non ho parlato di Valentine.

— Ma è quello a cui stavi pensando — aveva ribattuto Clary. — Valentine lo avrà anche

cresciuto, ma Jace non c'entra niente con lui!

— Be', spero proprio che tu abbia ragione... — aveva sussurrato la madre. — Per il bene

di tutti.

Alla fine Jocelyn si era arresa, ma aveva imposto delle condizioni: Clary non poteva

vivere all'Istituto, ma doveva restare con lei a casa di Luke; tutte le settimane Maryse le

avrebbe riferito i progressi fatti dalla figlia, per assicurarle che Clary stesse davvero

imparando e non magari passando le giornate a contemplare Jace o a fare altro. E

soprattutto, Clary non doveva mai trascorrere la notte all'Istituto. Mai. — Non dormi nello

stesso posto dove c'è il tuo ragazzo — aveva dichiarato fermamente Jocelyn. — Non mi

importa se si tratta dell'Istituto, ho detto di no.

Il tuo ragazzo... Sentire quelle parole era ancora uno shock. Per molto tempo le era

sembrato del tutto impossibile che lei e Jace potessero mettersi insieme, diventare l'uno

per l'altra qualcosa di diverso da fratello e sorella, e questa cosa era stata troppo brutta e

difficile da accettare. Avevano deciso che sarebbe stato meglio non rivedersi mai più, ma

anche che sarebbe stato come morire. Poi, per miracolo, erano stati liberati. Il mio ragazzo:

ormai erano passate sei settimane, ma Clary non si era ancora stancata di quelle parole.

— Devo tornare a casa — disse. — Sono quasi le undici e mia mamma va fuori di testa

se mi fermo qui oltre le dieci.

— D'accordo. — Jace appoggiò la divisa, o almeno la metà superiore, sulla panca.

Indossava una maglietta sotto la quale Clary riusciva a intravedere, come inchiostro

attraverso la carta umida, i marchi. — Ti accompagno fuori.

Mentre passavano per le sue stanze, nell'Istituto regnava il silenzio. In quel momento

non c'erano Shadowhunters ospiti in visita da altre città: Robert, il padre di Alec e Isabelle,

era a Idris per contribuire alla formazione del nuovo Concilio. Con Hodge e Max

scomparsi per sempre, e Alec in viaggio con Magnus Bane, Clary si sentiva come se gli

altri presenti fossero gli ospiti di un albergo semivuoto. Le sarebbe piaciuto ricevere più

spesso visite da parte degli altri membri del Conclave, ma immaginava che al momento

tutti stessero lasciando tempo ai Lightwood. Tempo per ricordare Max, e tempo per di-

menticare.

— Dimmi un po', hai sentito di recente Alec e Magnus? — chiese Clary. — Si stanno

divertendo?

— Sembrerebbe di sì — rispose Jace togliendosi il cellulare dalla tasca e porgendolo alla

ragazza. — Alec continua a mandarmi foto irritanti, con molte didascalie del tipo VORREI

CHE CI FOSSI ANCHE TU, MA NON PROPRIO.

— Be', come dargli torto. È nata come vacanza romantica. — Clary passò in rassegna le

foto sul telefono di Jace e si mise a ridacchiare. Alec e Magnus di fronte alla torre Eiffel,

Alec in jeans come al solito e Magnus con maglione a righe da marinaio, pantaloni di pelle

e un basco assurdo. A Firenze, ai Giardini di Boboli, Alec portava ancora i jeans, Magnus

invece una maestosa mantella veneziana abbinata a un cappello da gondoliere. Sembrava

il Fantasma dell'Opera! Di fronte al Prado sfoggiava invece un bolero luccicante da torero

e degli stivali con plateau, mentre Alec era sullo sfondo, tranquillo, che dava da mangiare

ai piccioni.

— Te lo tolgo di mano prima che arrivi all'India — disse Jace riprendendosi il cellulare.

— Magnus con il sari. Sono cose che non si dimenticano tanto facilmente.

Clary scoppiò a ridere. Erano già arrivati all'ascensore, che aprì il suo cancelletto

traballante dopo che Jace ebbe premuto il pulsante di chiamata. La ragazza entrò per

prima, e lui la seguì. Nell'istante in cui l'ascensore cominciò a scendere (Clary pensò che

non si sarebbe mai abituata al barcollamento iniziale, da infarto, di quando partiva), lui,

nella penombra, le si avvicinò e la tirò a sé. Lei gli mise le mani contro il petto,

riconoscendo sotto la maglietta i suoi muscoli possenti e, più sotto, il battito del cuore.

Anche in quella luce tenue, gli occhi gli brillavano. — Mi dispiace non poter restare —

sussurro Clary.

— Non ti devi dispiacere — fu la risposta. Nella voce di Jace c'era un che di severo che la

colse di sorpresa. — Jocelyn non vuole che diventi come me. E non posso darle torto.

— Jace... — fece Clary, un po' scossa dall'amarezza del tono con cui il ragazzo aveva

parlato. — Va tutto bene?

Invece di risponderle il ragazzo la baciò, stringendola a sé. Il corpo di lui premette quello

di lei contro la parete, facendole sentire il freddo dello specchio sulla schiena, e le mani le

scivolarono attorno alla vita, salendo su da sotto il maglione. A Clary era sempre piaciuto

il modo in cui lui la stringeva. Dolce, ma non troppo delicato, almeno non così delicato da

non darle la sensazione che lui avesse il controllo della situazione più di quanto non lo

avesse lei. Nessuno dei due riusciva a tenere a freno quello che provava per l'altro, e a lei

questo piaceva, come le piaceva sentire il cuore di Jace che martellava contro il suo e le

parole che le mormorava sulla bocca quando rispondeva ai suoi baci.

L'ascensore si fermò cigolando e il cancelletto si aprì. Dall'altra parte Clary vide la vuota

navata della cattedrale illuminata da una fila di candelabri. Si strinse a Jace, felice che

l'ascensore fosse abbastanza buio da impedire allo specchio di mostrarle le guance in

fiamme.

— Forse posso restare — sussurrò. — Ancora un pochino.

Lui non disse nulla. Clary riusciva a percepire la tensione dentro al suo corpo, e anche lei

si irrigidì. Era più di una semplice passione: Jace aveva i brividi e tutti i muscoli gli

tremavano mentre le affondava il viso sopra la spalla.

— Jace — disse lei.

Lui la lasciò andare, di colpo, e fece un passo indietro. Aveva le guance paonazze, gli

occhi febbricitanti. — No — disse. — Non voglio dare a tua madre un'altra ragione per

detestarmi. Lei già mi vede come la reincarnazione di mio padre...

Si interruppe prima che Clary potesse dire: Valentine non era tuo padre. In genere Jace

stava molto attento a chiamare Valentine Morgenstern per nome anziché definirlo "mio

padre", sempre che lo nominasse. Erano abituati a evitare l'argomento, e Clary non aveva

mai ammesso di fronte a Jace che sua madre temeva di ritrovare in lui un secondo

Valentine: sapeva che il solo accennare a quel sospetto lo avrebbe ferito profondamente.

Quindi Clary, il più delle volte, faceva tutto il possibile per tenere lui e sua madre a debita

distanza.

Jace le passò accanto prima che lei potesse aggiungere qualunque cosa, e spalancò il

cancelletto dell'ascensore. — Ti amo, Clary — le disse senza guardarla. Stava fissando la

navata della chiesa; la fila di candele accese si rifletteva nei suoi occhi con un bagliore

dorato. — Più di quanto non abbia mai... — Si interruppe. — Dio... forse più di quanto

dovrei. Lo sai, vero?

Clary uscì dall'ascensore e si girò per guardarlo in faccia. C'era un milione di cose che

avrebbe voluto dirgli, ma lui aveva già distolto lo sguardo e stava premendo il bottone che

avrebbe riportato l'ascensore ai piani dell'Istituto. Fece per parlare, ma l'ascensore era già

sul punto di muoversi; le porte stavano per chiudersi, e in un istante sarebbe iniziata la

cigolante risalita. Infine le porte si serrarono di scatto, e Clary restò a fissarle per un

momento. Sopra era dipinto l'Angelo, con le ali spiegate e gli occhi levati al cielo. La sua

immagine era raffigurata ovunque.

Quando aprì bocca in quello spazio vuoto, la sua voce echeggiò seria. — Anche io ti amo.

Capitolo 3

SETTE VOLTE

— Sai cos'è la cosa bella? — disse Eric appoggiando le bacchette. — Avere nella band un

vampiro.

È questo il fattore che ci farà davvero decollare. Kirk, abbassando il microfono, alzò gli

occhi al cielo. Eric non faceva che parlare di quando il gruppo avrebbe sfondato, ma fino

ad allora non era mai successo nulla di concreto. Il loro evento più importante restava un

concerto alla Knitting Factory, a cui avevano partecipato solo quattro persone... di cui una

era la madre di Simon. — Non capisco come faremo a decollare se non possiamo rivelare a

nessuno la sua vera identità! — disse.

— Peccato — commentò il diretto interessato. Era seduto su uno degli amplificatori

accanto a Clary, nel frattempo impegnata a mandare messaggi, probabilmente a Jace. — E

comunque non ti crederebbe nessuno, perché guarda: eccomi qui, vivo e vegeto alla luce

del sole — disse alzando le braccia per indicare i raggi che penetravano dai buchi sul tetto

del garage di Eric, la loro attuale sala prove.

— In effetti questo inciderebbe negativamente sulla nostra credibilità — osservò Matt,

spostandosi i capelli rosso brillante dagli occhi e guardando Simon di traverso. — Forse

potresti metterti dei canini finti.

—Non gli servirebbero — ribatté Clary, infastidita, mentre metteva giù il telefono. — Ce

li ha già, autentici. E li avete anche visti.

Era vero. Quando aveva confessato la notizia alla band, Simon aveva subito dovuto

mostrare i denti. All'inizio pensavano tutti che avesse picchiato la testa o fosse in preda a

un esaurimento nervoso, ma una volta visti i canini si erano convinti. Eric aveva

addirittura ammesso di non essere particolarmente sorpreso. — L'ho sempre saputo che

esistono i vampiri, amico — gli aveva detto. — Eh sì, hai presente quelle persone che

restano sempre uguali anche quando hanno cento anni? Tipo David Bowie? Succede

perché sono vampiri.

Simon aveva evitato di dire che Clary e Isabelle erano Shadowhunters; non spettava a lui

rivelarlo. Anche il fatto che Maia fosse un lupo mannaro restava un segreto: per i ragazzi

della band lei e Isabelle erano soltanto due ragazze da urlo che, inspiegabilmente, avevano

entrambe accettato di uscire con Simon. La cosa veniva attribuita a quello che Kirk aveva

definito il "sex appeal vampiresco" del loro amico. A Simon non importava come lo

chiamassero, purché non si lasciassero mai sfuggire con l'una della storia con l'altra. Fino a

quel momento era riuscito con successo a invitarle a concerti diversi, in modo che non si

presentassero mai contemporaneamente.

— Magari potresti mostrare i canini mentre sei sul palco, che ne dici? — propose Eric. —

Ma sì, tipo una volta. Mostrali alla folla.

— Se lo facesse, il capo clan dei vampiri di New York vi ucciderebbe tutti — disse Clary.

— Ve ne rendete conto, vero? — Scosse la testa in direzione di Simon. — Hai detto a questi

qui che sei un vampiro, non posso crederci... — aggiunse abbassando il tono di voce per

non farsi sentire dagli altri. — Sono degli idioti, nel caso tu non te ne fossi accorto.

— Sono i miei amici — borbottò il ragazzo.

— Sono i tuoi amici e sono anche degli idioti.

— Le persone a cui voglio bene devono sapere la verità su di me.

— Ah sì? — fece Clary, in tono poco gentile. — E allora quand'è che lo dirai a tua

madre?

Simon non fece in tempo a risponderle che sentì bussare forte sulla porta del garage. Un

secondo dopo si aprì, lasciando entrare altra luce. Simon rimase a guardare, aprendo e

chiudendo le palpebre. Era un riflesso istintivo dei tempi in cui era un umano; in realtà ora

i suoi occhi impiegavano meno di una frazione di secondo ad adattarsi al buio o alla luce.

Sull'ingresso del garage, davanti ai raggi del sole autunnale, c'era un ragazzo. Teneva fra

le mani un foglio di carta; lo guardò titubante e poi alzò di nuovo gli occhi sulla band. —

Ehilà — esordì. — È qui che posso trovare i Dangerous Stain, la band?

— Ora siamo i Dichotomous Lemur — rispose Eric facendosi avanti. — Chi è che lo

vuole sapere?

— Mi chiamo Kyle — disse il ragazzo abbassandosi per entrare dalla porta del garage.

Rialzandosi, si buttò all'indietro i capelli castani che gli cadevano sugli occhi e consegnò il

foglio che teneva in mano a Eric. — Ho visto che cercavate un cantante solista.

— Tsé, buonanotte! — esclamò Matt. — Abbiamo attaccato quel volantino qualcosa

tipo un anno fa. Me ne ero completamente dimenticato.

— Sì — confermò Eric. — All'epoca facevamo cose diverse, ora rinunciamo quasi del

tutto alla voce. Tu hai esperienza?

Kyle, un ragazzo molto alto ma ben proporzionato, notò Simon, fece spallucce. — Non

molta. Però mi dicono che so cantare. — Parlava con una pronuncia un po' strascicata, più

da surfista che da americano del Sud.

I membri del gruppo si guardarono a vicenda, titubanti. Eric si grattò dietro l'orecchio.

— Ci puoi dare un secondo, amico?

— Certo. — Kyle uscì dal garage abbassandosi di nuovo e chiudendosi la porta alle

spalle. Simon riusciva a sentirlo anche da fuori mentre fischiettava appena: sembrava

qualcosa tipo John Brown, e non era nemmeno particolarmente intonato.

— Non so — disse Eric. — Non credo che in questo momento possiamo permetterci

qualcuno di nuovo. Sì, insomma, non possiamo raccontargli la storia del vampiro, giusto?

— No — confermò Simon. — Non potete.

Be', allora è un peccato — disse Matt scrollando le spalle. — Un cantante ci serve, Kirk fa

schifo. Senza offesa, Kirk.

— Fottiti — disse l'altro. — Io non faccio schifo.

— Sì invece — ribatté Matt — fai schifo, fai proprio schifo.

— Io penso — intervenne Clary alzando la voce — che dovreste dargli una possibilità.

Simon la guardò stupito. — E perché?

Perché è un gran pezzo di ragazzo — rispose Clary, lasciando di stucco Simon. Lui non

era rimasto granché colpito dall'aspetto di Kyle, ma forse non era il giudice più adatto per

valutare la bellezza maschile. — E al vostro gruppo serve un po' di sex appeal.

— Grazie — disse Simon. — A nome di tutti noi, grazie tanto.

Clary sbuffò. — Okay, okay, voi siete tutti dei bei ragazzi, soprattutto tu, Simon — li

rassicurò, dando a lui una leggera pacca sulla mano. — Però Kyle... è proprio figo. Sentite,

niente di personale, ma il mio parere di donna è che se lo fate entrare nella band

raddoppierete il numero delle fan.

— E questo vorrà dire avere ben due fan femmine invece di una sola! — commentò Kirk.

— Quale fan, scusa? — domandò Kirk, sinceramente curioso.

— L'amica della cugina di Eric. Com'è che si chiama? Quella che si era presa una cotta

per Simon. Viene a tutti i nostri concerti e dice in giro di essere la sua ragazza.

Simon rabbrividì. — Ma ha tredici anni!

— Quello è il tuo sex appeal vampiresco in azione, bello mio — gli disse Matt. — Le

donne non sanno resisterti.

— Ehi, ragazzi, per favore, non esiste niente del genere! — Dichiarò puntando un dito

contro Eric. — E non venite nemmeno a dirmi che Sex Appeal Vampiresco sembra il nome

di una band, altrimenti...

La porta del garage si riaprì di scatto. — Allora, ragazzi? — Era di nuovo Kyle. —

Sentite, se non volete farmi provare, per me non c'è problema. Magari avete cambiato

sound, pazienza. Basta dirlo e me ne vado.

Eric lo osservò inclinando la testa di lato. — Entra, fatti vedere.

Kyle fece come gli era stato detto. Simon rimase a osservarlo, cercando di indovinare

cos'era che lo aveva reso attraente agli occhi di Clary. Era alto, magro e con le spalle

larghe; zigomi pronunciati, capelli neri ricci un po' lunghi che gli ricadevano sulla fronte e

sul collo, pelle ambrata che ancora non aveva perso l'abbronzatura estiva. Le lunghe ciglia

sopra quei sorprendenti occhi color verde nocciola lo facevano sembrare una vera rockstar

da copertina. Indossava dei jeans e una maglietta verde aderente e le sue braccia erano

coperte di tatuaggi; nessun marchio, solo normali tatuaggi che gli avvolgevano la pelle a

spirale, salendo e scomparendo sotto le maniche della t-shirt.

Okay, Simon doveva ammetterlo. Kyle non era male.

— Sai — disse infine Kirk, interrompendo il silenzio. — Ora lo capisco. È bello, davvero.

Kyle batté le palpebre e si voltò verso Eric. — Allora, volete sentirmi cantare o no?

Eric staccò il microfono dall'asta e glielo passò. — Vai, è tutto tuo.

— Sapete, non era davvero niente male — disse Clary. — Io un po' scherzavo sul fatto di

far entrare Kyle nella band, ma in effetti sa cantare sul serio.

Stavano camminando lungo Kent Avenue, verso casa di Luke. Il cielo, ora che era quasi

il tramonto, dall'azzurro era passato al grigio scuro, e sull'East River incombevano nuvole

basse. Clary stava facendo scorrere una mano rivestita da un guanto lungo la rete che

separava lei e Simon dalla sponda di cemento crepato, provocando un tintinnio metallico.

— Lo dici solo perché per te è bello — rispose Simon. Sulle guance di Clary si formarono

delle fossette. — Non è così bello. Diciamo che non è il ragazzo più bello che abbia mai

visto. — Quel ruolo spettava, Simon ne era quasi certo, a Jace, ma fu abbastanza discreto

da non dirlo. — Però, davvero, penso che averlo con voi nella band sia una buona idea. Se

Eric e gli altri non possono dire a lui che sei un vampiro, allora non possono dirlo a nessun

altro. Speriamo che serva a metter fine a quella loro stupida idea. — Nel frattempo erano

quasi arrivati a casa di Luke; Simon la vedeva, dall'altra parte della strada, con le finestre

illuminate di luce gialla che contrastava col buio imminente. Clary si fermò davanti a un

punto in cui la rete era rotta. — Ti ricordi quando qui abbiamo ucciso un gruppo di

demoni Raum?

— Tu e Jace avete ucciso dei demoni Raum. Io per poco non vomitavo — ricordò Simon,

ma con la mente era altrove. Stava pensando a Camille, seduta davanti a lui nel giardino,

che gli diceva: Tu sei amico degli Shadowhunters, ma non potrai malessere uno di loro.

Sarai sempre diverso, un escluso. Lanciò uno sguardo obliquo verso Clary, domandandosi

cosa gli avrebbe detto se lui le avesse raccontato dell'incontro con la vampira e della sua

offerta. Probabilmente si sarebbe spaventata tantissimo. Il fatto che era diventato

invulnerabile non le impediva di continuare a preoccuparsi per lui.

— Ora non avresti più paura — sussurrò lei, come se gli leggesse nel pensiero. —

Adesso hai il Marchio. — Si voltò per guardarlo, restando appoggiata alla rete. — Qual-

cuno se n'è accorto, o ti ha mai chiesto qualcosa?

Simon fece di no con la testa. — Il più delle volte lo copro con i capelli, e poi si è scolorito

molto. Vedi? — disse scostandosi il ciuffo.

Clary allungò una mano per toccargli la fronte e il Marchio in rilievo. Lo sguardo della

ragazza era triste come quel giorno in cui, nella Sala degli Accordi di Alicante, aveva

dovuto imprimere sulla pelle del suo amico la maledizione più strana del mondo. — Fa

male?

— No, no, non fa male. — Caino disse al Signore: "Il mio castigo è troppo grande perché

io possa sopportarlo". — Lo sai, vero, che non te ne faccio una colpa? Mi hai salvato la vita.

— Sì, lo so. — Ora lo sguardo di Clary luccicava. Gli tolse la mano dalla fonte e si sfregò

il dorso del guanto sulla guancia. — Accidenti, detesto piangere.

— Mi sa che farai meglio ad abituarti — disse Simon, e quando lei sgranò gli occhi, si

affrettò ad aggiungere: — Mi riferivo al matrimonio. Quand'è, sabato prossimo? Tutti

piangono ai matrimoni!

Clary sbuffò.

A proposito, come stanno Luke e tua madre?

— Disgustosamente innamorati. È terribile. Comunque.. . — disse dandogli una pacca

sulla spalla — ora devo entrare. Ci vediamo domani?

Il ragazzo annuì. — Certo. A domani

Restò a guardarla mentre attraversava di corsa la strada e saliva le scale fino alla porta

d'ingresso di Luke. Domani. Si chiese quanto tempo era rimasto senza vederla per più di

qualche giorno di fila. Si chiese cosa significasse essere "ramingo e fuggiasco sulla Terra",

come aveva detto Camille. Come aveva detto anche Raphael. La voce del sangue di tuo

fratello grida a me dal suolo. Lui non era Caino, assassino del proprio fratello, ma la ma-

ledizione lo riteneva tale. Era strano, pensò, aspettare di dover perdere tutto, o comunque

non sapere se sarebbe accaduto oppure no.

La porta si chiuse dietro le spalle di Clary. Simon si girò per percorrere Kent Avenue,

verso la fermata di Lorimer Street della linea G della metropolitana. Ormai era quasi

completamente buio, il cielo sopra di lui un vortice di grigio e di nero. Simon sentiva le

auto che sgommavano sulla strada dietro di lui, ma non si voltava. In quel punto

andavano sempre troppo veloce, malgrado le buche e l'asfalto sconnesso. Fu solo quando

un furgone azzurro lo affiancò e si fermò stridendo che si voltò per guardare.

L'autista del mezzo strappò le chiavi dal cruscotto, spegnendo di colpo il motore, e

spalancò la portiera. Era un uomo alto, che indossava scarpe da tennis e una tuta grigia

con il cappuccio abbassato fino a nascondere quasi completamente il viso. Quando saltò

giù dal sedile di guida, Simon notò che in mano teneva un lungo e lucente coltello.

Simon, più tardi, pensò che avrebbe dovuto scappare. Era un vampiro, più veloce degli

umani. Poteva seminare chiunque. Avrebbe dovuto scappare, ma in quel momento era

troppo spaventato. Rimase immobile mentre lo sconosciuto, coltello scintillante alla mano,

si muoveva verso di lui. Gli disse qualcosa con voce bassa e gutturale, qualcosa in una

lingua che Simon non capiva.

Il ragazzo fece un passo indietro. — Senti — disse mettendosi una mano in tasca. — Ti

lascio il portafoglio... L'uomo invece scattò in avanti verso di lui, spingendo il coltello in

direzione del suo petto. Era come se tutto accadesse al rallentatore, col tempo che si

dilatava all'infinito. Simon si vide prima la punta del coltello vicino al petto, poi la lama

che intaccava la pelle della giacca, infine quest'ultima che veniva lacerata di traverso, come

se qualcuno avesse afferrato il braccio dell'aggressore e l'avesse strattonato. Lo sconosciuto

lanciò un urlo mentre veniva sbalzato in aria come un burattino a cui erano stati tirati i fili.

Simon si guardò attorno con ansia: qualcuno doveva aver visto o sentito il tentativo di

aggressione, ma nei paraggi non c'era nessuno. L'uomo continuava a urlare e si contorceva

disperato, mentre la maglietta gli si squarciava in mezzo al petto come se a strapparla

fosse una mano invisibile.

Simon rimase a guardarlo, in preda al terrore. Sul torace dell'aggressore stavano

comparendo delle ferite enormi; a un tratto la testa gli cadde all'indietro e dalla bocca gli

uscì un fiotto di sangue. Smise all'improvviso di gridare. E a quel punto cadde, come se la

mano invisibile che lo teneva sospeso si fosse aperta e avesse mollato la presa. Appena

toccato l'asfalto, l'uomo si sgretolò come un bicchiere che tocca terra e si infrange in mille

schegge luccicanti.

Simon cadde in ginocchio. Il coltello che avrebbe dovuto ucciderlo giaceva poco distante,

a portata di mano. Era tutto quel che restava del suo aggressore, fatto salvo un mucchio

cristalli luccicanti che il vento iniziava già a disperdere. Ne toccò uno con cautela.

Era sale. Si guardò le mani: stavano tremando. Sapeva cos'era accaduto, e anche perché.

Ma il Signore gli disse: "Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!".

Allora era questo che significava sette volte.

Riuscì a malapena a raggiungere il tombino prima di piegarsi su se stesso e vomitare

sangue per strada.

Nell'istante in cui Simon aprì la porta, capì di aver fatto male i calcoli. Pensava di trovare

sua madre già a letto, ma si era sbagliato. Era sveglia, seduta su una poltrona rivolta verso

la porta d'ingresso, col telefono sul tavolino accanto, e ci mise un secondo a notargli il

sangue sulla giacca.

Simon rimase sorpreso dal fatto di non sentirla gridare, ma la vide portarsi comunque

una mano alla bocca. — Simon...

— Non è sangue mio — si affrettò a rispondere lui. — Ero a casa di Eric, e Matt ha perso

sangue dal naso...

— Non voglio stare a sentire — replicò sua madre con un tono brusco, che usava solo di

rado. Gli ricordava il modo in cui parlava negli ultimi mesi di malattia del padre, quando

l'ansia era come un coltello nella sua voce. — Non voglio più stare a sentire le tue bugie.

Simon lasciò cadere le chiavi sul tavolino accanto alla porta. — Mamma...

— Non fai che raccontarmi storie. E io mi sono stancata.

— Non è vero — si difese lui, ma si sentì male dentro, perché sapeva che lei aveva

ragione. — E che in questo momento della mia vita stanno succedendo un sacco di cose.

— Lo so — disse sua madre alzandosi in piedi. Era sempre stata una donna molto

magra, ma ora gli pareva addirittura scheletrica; nei punti in cui i capelli, scuri come i suoi,

le ricadevano attorno al viso, facevano capolino più striature grigie di quante ne

ricordasse. — Vieni con me, giovanotto. Adesso.

Confuso, Simon la seguì nella piccola cucina giallo canarino. La madre si fermò e indicò

il bancone. — Ti dispiacerebbe spiegarmi quella roba?

A Simon si azzerò la salivazione. Allineati sul mobile, come una fila di soldatini, c'erano

le bottiglie di sangue che teneva nascoste nel minifrigo dentro l'armadio. Una era piena a

metà, le altre completamente, e il liquido rosso al loro interno brillava come un'accusa.

Aveva trovato anche le sacche di sangue vuote che lui si era preoccupato di risciacquare e

riporre ordinatamente dentro un sacchetto della spesa, per poi buttarle nella spazzatura.

Anche quelle erano sparse sul bancone della cucina, come una grottesca decorazione.

— All'inizio ho pensato che fossero bottiglie di vino — disse Elaine Lewis con voce

tremante. — Poi però ho trovato le sacche. E ne ho aperta una. È sangue, vero?

Simon rimase in silenzio. Sembrava che la voce gli fosse sparita per non tornare mai più.

— In quest'ultimo periodo ti comporti in modo così strano — proseguì la madre. —

Fuori a tutte le ore, non mangi mai, dormi a malapena, frequenti amici che non ho mai

visto e di cui non ho mai sentito parlare prima. Pensi che non mi accorga, quando menti?

Me ne accorgo, Simon. Ho anche pensato che magari ti drogavi...

Simon ritrovò la voce. — Hai frugato in camera mia?

Sua madre arrossì. — Ho dovuto farlo! Ho pensato... ho pensato che se trovavo della

droga avrei potuto aiutarti, inserirti in un programma di disintossicazione. Ma questa

roba? — disse indicando agitata le bottiglie. — Non so nemmeno cosa pensare. Che sta

succedendo, Simon? Sei entrato in qualche specie di setta?

Simon fece di no con la testa.

E allora parla — gli disse con le labbra che le tremavano. — Perché le uniche spiegazioni

che mi vengono in mente sono disgustose, malate. Simon, ti prego…

— Sono un vampiro — le disse. Non aveva idea di come gli fosse uscito, e nemmeno del

motivo per cui lo aveva fatto. Ma ormai eccola lì, quella frase, le cui parole aleggiavano

sospese fra loro come gas tossico.

Sua madre non sembrò più in grado di reggersi sulle ginocchia, e si accasciò su una sedia

della cucina. — Che cosa hai detto? — gli chiese con un filo di voce.

— Sono un vampiro — ripeté Simon. — Ormai lo sono da due mesi. Mi dispiace non

avertelo detto prima, ma non sapevo come fare...

Il viso di Elaine Lewis era bianco come uno straccio. — I vampiri non esistono, Simon.

— Invece sì — rispose lui. — Esistono. Ascolta, non è stata una mia scelta. Mi hanno

attaccato e non ho avuto scelta. Cambierei, se solo potessi. — Ripensò disperatamente al

libretto che Clary gli aveva dato molto tempo prima, quello che spiegava come dichiararsi

ai propri genitori. Ai tempi gli era sembrata una sciocchezza, ora non più.

— Tu pensi di essere un vampiro — disse, come intontita, la madre di Simon. — Tu

pensi di bere sangue.

— Lo bevo sul serio — precisò Simon. — Bevo sangue animale.

— Ma tu sei vegetariano!. — esclamò lei, ormai sul punto di scoppiare in lacrime.

— Lo ero, ora non più. Non posso permettermelo. Il sangue è la mia vita. — Simon si

sentì stringere la gola. — Non ho mai torto un capello a nessuno, non potrei mai bere

sangue umano. Resto sempre la stessa persona, il solito Simon!

Era evidente che sua madre si stava sforzando di non perdere il controllo. — I tuoi nuovi

amici... sono anche loro vampiri?

Simon pensò a Isabelle, a Maia e a Jace. Non poteva spiegare anche l'esistenza degli

Shadowhunters e dei lupi mannari, sarebbe stato troppo. — No, però loro sanno che io lo

sono.

— Ti hanno... ti hanno dato della droga? Forse ti fai di qualcosa? Qualcosa che magari

provoca allucinazioni? — Sembrava avesse sentito a malapena la sua risposta.

— No. Mamma, è la realtà.

— Non è la realtà... — sussurrò la donna. — Tu pensi che lo sia. Oddio, Simon. Mi

dispiace così tanto. Avrei dovuto accorgermene. Cercheremo aiuto, qualcuno troveremo.

Un medico. Non importa quanto costerà...

— Mamma, io non posso andare dal medico.

— Certo che sì. Devi andare da qualche parte. In ospedale, magari...

Simon le porse un braccio. — Sentimi il polso — le disse.

Lei lo guardò, scioccata. — Cosa?

— Il polso — ripeté lui. — Sentilo. Se ci sono battiti, hai ragione tu, e io verrò in ospedale

insieme a te. Ma se non è così, allora mi dovrai credere.

La donna si asciugò gli occhi dalle lacrime e si mosse lentamente per prendergli il

braccio. Dopo tutto quel tempo passato a occuparsi di suo marito durante la malattia, era

capace di misurare il battito cardiaco come una vera infermiera. Gli premette l'indice sul

polso e rimase in attesa.

Simon restò a guardarla mentre sul viso le passava prima un'espressione di tristezza e di

turbamento, poi di puro terrore. Si alzò in piedi, lasciandogli cadere la mano,

allontanandosi da lui. I suoi occhi spiccavano grandi e neri in mezzo al volto bianco. —

Che cosa sei?

Simon si sentì male. — Te l'ho detto. Sono un vampiro.

— Tu non sei mio figlio. Tu non sei Simon! — Stava tremando. — Quale essere vivente

non ha battito cardiaco? Che genere di mostro sei? Che ne hai fatto di mio figlio?.

— Sono Simon, mamma — le disse il ragazzo facendo un passo verso di lei.

La donna lanciò un grido. Non l'aveva mai sentita urlare così, e non voleva che

succedesse di nuovo. Era un suono orrendo.

— Allontanati da me. — La voce le si spezzò in gola. — Non fare un altro passo. — A

quel punto iniziò a sussurrare. — Barukh ata Adonai sho'me'a t'fila...

Stava pregando, si rese conto Simon con una scossa. L'aveva impaurita al punto da

spingerla a pregare che se ne andasse, che venisse bandito! E la cosa peggiore era che

riusciva a percepirlo. Il nome di Dio gli strinse lo stomaco e gli fece provare dolore alla

gola.

Sua madre aveva ragione, a pregare, pensò, sentendosi male nel profondo. Era una

creatura maledetta, e nel mondo non c'era posto per lui. Quale essere vivente non ha

battito cardiaco?

— Mamma — mormorò. — Mamma, basta.

Lei lo guardò con gli occhi spalancati e le labbra ancora tremanti.

— Mamma, non devi essere così sconvolta. — Simon sentiva la propria voce come se

provenisse da lontano, pacata e suadente, la voce di un estraneo. Mentre parlava teneva gli

occhi fissi su sua madre, usandoli per catturare lo sguardo di lei come un gatto potrebbe

catturare un topo. — Non è successo niente. Ti sei addormentata sulla poltrona del

soggiorno. Stai avendo un brutto sogno in cui io torno a casa e ti dico di essere un vam-

piro, ma è una follia, una cosa del genere non potrebbe mai accadere.

La donna smise di pregare. Aprì e richiuse più volte le palpebre. — Sto sognando —

ripeté.

— E un brutto sogno — le disse Simon. Le si avvicinò e le mise una mano sulla spalla.

Lei non si ritrasse. La testa le ciondolava, come quella di un bambino molto stanco. —

Soltanto un sogno. Non hai mai trovato niente in camera mia. Non è successo nulla.

Dormivi, tutto qui.

Le prese la mano. Lei si lasciò guidare in soggiorno, dove Simon la fece sedere su una

poltrona. Sorrise, quando lui la avvolse con una coperta, dopodiché chiuse gli occhi.

Simon tornò in cucina, dove con fare svelto e meticoloso buttò in un sacco della

spazzatura sia le bottiglie sia le sacche. Chiuse il sacco con uno spago e se lo portò in

camera, dove cambiò la giacca insanguinata con una pulita e buttò in fretta alcune cose

dentro uno zaino. Spense la luce e uscì, chiudendosi la porta alle spalle.

Quando attraversò il soggiorno, sua madre stava già dormendo. Si fermò per

accarezzarle dolcemente la mano.

— Vado via per qualche giorno — sussurrò. — Ma tu non ti preoccuperai. Non

aspetterai il mio ritorno. Penserai che sono in gita scolastica. Non ci sarà bisogno di

telefonare, va tutto bene.

Ritrasse la mano. Nella luce fioca sua madre sembrava allo stesso tempo più vecchia e

più giovane di quanto ricordasse. Raggomitolata sotto la coperta, era piccola come una

bambina, ma sul viso le erano comparse nuove rughe che Simon non aveva mai notato

prima.

— Mamma — mormorò.

Le toccò la mano e lei si mosse. Per evitare che si svegliasse, ritrasse di scatto le dita e si

allontanò senza far rumore verso la porta, senza dimenticare di prendere le chiavi dal

tavolino.

All'Istituto c'era silenzio. Era sempre così, in quei giorni. Jace si era abituato, di notte, a

tenere la finestra spalancata, perciò sentiva il rumore del traffico, le sporadiche sirene di

un'ambulanza o i clacson su York Avenue. Riusciva a sentire anche cose che ai mondani

sfuggivano, come lo spostamento d'aria causato dalla moto volante di un vampiro, il

battito d'ali delle fate, l'ululato lontano dei lupi mannari durante le notti di luna piena.

Ora invece la finestra era aperta solo a metà e lasciava entrare giusto la luce che gli

serviva per leggere sdraiato sul letto. Davanti a lui c'era, aperta, la scatola d'argento di suo

padre, di cui stava esaminando il contenuto. All'interno c'erano uno stilo dei suoi e un

pugnale da caccia con l'elsa d'argento, incisa con le iniziali SWH. Inoltre, e questa era la

cosa che a Jace interessava di più, la scatola conteneva anche un pacchetto di lettere.

Negli ultimi sei mesi Jace aveva iniziato a leggerne più o meno una ogni notte, cercando

di capire qualcosa di quello che era il suo padre biologico. A poco a poco ne era emerso un

ritratto, quello di un giovane uomo riflessivo, con genitori ambiziosi, che si era avvicinato

a Valentine e al Circolo perché sembravano offrirgli l'occasione di distinguersi dal resto

del mondo. Aveva continuato a scrivere ad Amatis anche dopo il divorzio, un dettaglio

che lei non aveva mai riferito a Jace. In quelle lettere erano evidenti il suo disincanto nei

confronti di Valentine e il suo disgusto per le attività del Circolo, ma solo raramente

parlava della madre di Jace, Celine. Era comprensibile: Amatis non voleva sentir parlare

della sua sostituta, eppure Jace non riusciva a non odiare un po' suo padre per questo. Se

non gli importava di Celine, perché l'aveva sposata? Se odiava il Circolo a tal punto,

perché non ne era uscito? Valentine era un pazzo, ma per lo meno era rimasto coerente ai

propri principi.

E poi, ovviamente, Jace si sentiva ancora peggio per aver preferito Valentine al suo vero

padre. Che genere di persona era per il fatto di aver compiuto una scelta simile?

Un colpo secco alla porta lo distolse dai sensi di colpa. Si alzò e andò a vedere chi fosse,

aspettandosi Isabelle che gli chiedeva questo o si lamentava di quello.

Invece non era Isabelle. Sulla soglia c'era Clary.

Non era vestita come al solito. Aveva una canottiera nera scollata, coperta da una

camicetta bianca chiusa con un nodo, e una gonna corta, abbastanza corta da scoprirle le

curve delle gambe fino a metà coscia. Aveva raccolto i capelli rosso vivo in due trecce, da

cui sfuggivano riccioli sospesi sopra l'incavo delle tempie, come se fuori avesse piovuto

leggermente. Quando lo vide sorrise, inarcando le sopracciglia. Erano color rame, come le

sottili ciglia che le incorniciavano gli occhi verdi. — Non mi fai entrare?

Lui guardò a destra e a sinistra nel corridoio. Non c'era nessun altro, grazie a Dio. Prese

Clary per un braccio, la tirò camera e chiuse subito. — Cosa ci fai tu qui? E successo

qualcosa? — le chiese tenendo la schiena appoggiata alla porta.

— No, va tutto bene. — Clary si tolse le scarpe e si sedette sul bordo del letto. Mentre si

sdraiava all'indietro, con le mani sotto la testa, la gonna le si alzò, scoprendo una porzione

ancora più ampia di gambe. Non era il massimo per la concentrazione di Jace. — Mi

mancavi. Mia madre e Luke stanno dormendo, non si accorgeranno che non ci sono.

— Non dovresti essere qui. — Le parole gli uscirono di bocca come una specie di

lamento. Detestava pronunciarle, ma sapeva che bisognava farlo, per motivi che nem-

meno sapeva. E che sperava di non sapere mai.

— Be', se vuoi che me ne vada basta dirlo. — Clary si alzò in piedi, gli occhi verdi che

tremolavano. Fece un passo verso di lui. — Ma sono venuta fin qui. Almeno potresti

darmi un bacio di saluto.

Lui la prese, la strinse a sé e la baciò. C'erano cose che andavano fatte e basta, anche se

erano una pessima idea. Lei scivolò fra le sue braccia come morbida seta. Jace le mise le

mani fra i capelli e lasciò scorrere le dita, sciogliendole le trecce finché tutti i riccioli le

ricaddero sulle spalle, come piaceva a lui. Ricordò di averlo voluto fare già la prima volta

che l'aveva vista, salvo poi pensare che fosse un'idea assurda. Era una mondana, non sa-

peva chi fosse, desiderarla non aveva alcun senso. E poi quel primo bacio, nella serra, che

per poco non lo aveva fatto impazzire. Erano scesi al piano di sotto, ma poi Simon li aveva

interrotti, e Jace avrebbe voluto ucciderlo come mai aveva desiderato uccidere nessun

altro, anche se razionalmente sapeva che il poverino non aveva fatto niente di male.

Quello che provava, tuttavia, non aveva niente a che vedere con la razionalità e, quando

era stato sfiorato dal pensiero che lei avrebbe potuto lasciarlo per Simon, si era spaventato

ed era stato male in un modo sconosciuto a qualsiasi demone.

E poi Valentine aveva detto che loro due erano fratello e sorella, e Jace aveva capito che

c'erano cose peggiori, cose immensamente peggiori che vedere Clary lasciarlo per un altro:

sapere, appunto, che la maniera in cui lui l'amava era, in un modo o nell'altro, totalmente

sbagliata; che quella che sembrava la cosa più pura e irreprensibile della sua vita era

corrotta senza possibilità di riscatto. Si ricordò di quando suo padre diceva che, nel

momento in cui gli angeli cadono, lo fanno in preda all'angoscia, perché hanno visto il

volto di Dio ma sanno che non lo rivedranno mai più. Ora, pensò, capiva come dovessero

sentirsi.

Non per questo la desiderava di meno; soltanto, il desiderio si era trasformato in tortura.

A volte, l'ombra di quel supplizio invadeva i suoi ricordi anche quando, come adesso, la

baciava, e quando lei lo spingeva a stringerla ancora più forte contro di sé. Clary emise un

gemito di sorpresa, ma non protestò, nemmeno quando lui la sollevò e la riportò sul letto.

Ci si sdraiarono sopra insieme, accartocciando alcune lettere, con Jace che buttava da una

parte la scatola per lasciare spazio ai loro corpi. Sentiva il cuore che gli martellava dentro

le costole. Non si erano mai ritrovati insieme su un letto in quel modo, non così. C'era stata

quella sera a Idris, in camera di lei, ma si erano a malapena sfiorati. Jocelyn stava attenta a

evitare che l'una passasse la notte nello stesso posto in cui c'era anche l'altro. Jace sapeva

di non piacerle molto, ma non poteva biasimarla: anche lui, al suo posto, probabilmente

non si sarebbe piaciuto.

— Ti amo — sussurrò Clary. Gli aveva tolto la maglietta e stava facendo scorrere le dita

sopra le cicatrici che aveva sulla schiena, anche su quella a forma di stella identica a quella

che aveva lei, reliquia dell'angelo a cui apparteneva il sangue condiviso da entrambi. —

Non ti voglio perdere, mai.

Lui fece scivolare una mano verso il basso per slegarle il nodo della camicetta. L'altra

mano toccò il freddo metallo del pugnale da caccia che doveva essere caduto dal letto col

materiale contenuto all'interno della scatola. — Non succederà mai.

Clary alzò lo sguardo su di lui, gli occhi luminosi. — Come fai a esserne così sicuro?

La mano di Jace si strinse attorno all'impugnatura del coltello. La luce della luna che

entrava dalla finestra andò a riflettersi sull'arma, ora alzata. — Sono sicuro — disse, e nel

farlo riabbassò il pugnale: la lama lacerò le carni della ragazza come fossero carta. Mentre

la bocca di Clary si apriva per lo stupore e il sangue le inzuppava la camicetta bianca, lui

pensò: Buon Dio, no, mai più.

Svegliarsi da quell'incubo fu come schiantarsi contro una vetrata, le cui schegge taglienti

continuavano a ferire Jace anche quando si alzò e si mise a sedere sul letto, ansimando.

Rotolò a terra, sentendo il bisogno di scappare, e colpì il pavimento di marmo con le mani

e le ginocchia. Dalla finestra aperta entrava un'aria fredda che gli dava i brividi, ma che

almeno cancellava gli ultimi frammenti di sogno che ancora gli stavano aggrappati.

Si guardò le mani. Non c'erano tracce di sangue. Il letto era un disastro, lenzuola e

coperte raggomitolate alla rinfusa come effetto di un sonno inquieto. La scatola con gli

oggetti di suo padre però era ancora sul comodino, dove l'aveva lasciata prima di andare a

dormire.

La prima volta che aveva avuto quell'incubo si era alzato per vomitare. Ora stava attento

a non mangiare anche fino a parecchie ore prima di dormire, con la conseguenza che il suo

corpo, per vendicarsi, gli provocava febbre e spasmi di dolore. Uno di questi lo colpì

proprio in quel momento e lo fece rannicchiare su se stesso e poi annaspare e tossire in

preda a conati.

Passata la crisi, Jace rimase con la testa premuta contro il pavimento gelido. Il sudore gli

si stava gelando sul corpo, la maglietta era incollata alla pelle, e si chiese, a ragione, se quei

sogni avrebbero finito per ucciderlo. Aveva tentato di tutto, per liberarsene: pastiglie e

pozioni per dormire, rune del sonno, rune della pace e della guarigione.

Tutto inutile. Quegli incubi si insinuavano nella sua mente come veleno, e non c'era

niente che potesse fare per evitarli.

Anche durante le ore di veglia faceva fatica a guardare Clary. Lei era sempre stata capace

di guardargli dentro in un modo che nessun altro sapeva fare e lui poteva solo

immaginare che cosa avrebbe pensato se solo avesse saputo dei suoi sogni. Rotolò su un

fianco e fissò la scatola sul comodino, illuminato dai riflessi della luna. Ripensò a

Valentine. Valentine, che aveva tenuto prigioniera e torturato l'unica donna che avesse mai

amato, Valentine, che aveva insegnato a suo figlio, anzi a entrambi i suoi figli, che amare

una cosa significava distruggerla per sempre.

La testa gli girava vorticosamente mentre si ripeteva le stesse parole, di continuo. Erano

diventate una specie di mantra e avevano iniziato a perdere il loro significato letterale.

Non sono come Valentine. Non voglio essere come lui. Non sarò come lui. Non lo farò.

Vide Sebastian (Jonathan, in realtà), il suo quasi fratello, che gli sorrideva attraverso un

groviglio di capelli bianco ghiaccio, con quei suoi occhi neri che brillavano di gioia

spietata. E poi vide il proprio pugnale che entrava e usciva dal corpo di Jonathan, finché

questo, esanime, cadeva verso il fiume mentre il sangue si mescolava agli arbusti e all'erba

delle sponde. Io non sono come Valentine.

Uccidere Jonathan non gli era dispiaciuto. Se ne avesse avuto la possibilità, lo avrebbe

rifatto anche ora. Non voglio essere come lui.

Di sicuro non era normale uccidere qualcuno, anzi uccidere il proprio fratello adottivo, e

non provare la minima emozione.

Non sarò come lui.

Ma suo padre gli aveva insegnato che uccidere senza pietà era una virtù. E forse non si

possono dimenticare gli insegnamenti dei propri genitori, per quanto disperatamente lo si

possa desiderare.

Non sarò come lui.

Molte persone non riuscivano mai a cambiare davvero. Non lo farò.

Capitolo 4

L'ARTE DELLE OTTO BRACCIA

QUI SI CUSTODISCONO L'ANELITO DI GRANDI CUORI

E NOBILI COSE CHE TORREGGIANO SULLA MAREA,

LA PAROLA MAGICA CHE GENERA MERAVIGLIE ALATE,

LA SAGGEZZA RIPOSTA CHE NON È MAI MORTA.

Queste erano le parole incise sull'ingresso principale della biblioteca pubblica di

Brooklyn, in Grand Army Plaza. Seduto sui gradini antistanti c'era Simon, intento a

osservare la facciata dell'edificio. L'oro sbiadito dell'iscrizione luccicava sulla pietra e

ciascuna parola brillava di vita fugace ogni volta che veniva catturata dai fari delle auto di

passaggio.

La biblioteca era sempre stata uno dei suoi posti preferiti, sin da quando era bambino.

Da una parte c'era l'ingresso riservato ai piccoli, ed era lì che per anni, ogni sabato, si era

dato appuntamento con Clary. Insieme radunavano pile di libri e andavano al vicino Orto

Botanico, dove potevano leggere per ore, sdraiati sull'erba, col rumore del traffico che

ronzava monotono e costante in lontananza. Come avesse fatto quella sera a finire lì, non

lo sapeva bene. Se n'era andato di casa il più in fretta possibile, per poi rendersi conto di

non avere un posto dove andare. Non poteva affrontare Clary: sarebbe rimasta sconvolta

dal suo gesto e di sicuro gli avrebbe chiesto di tornare a casa e aggiustare le cose. Quanto

a Eric e gli altri, loro non avrebbero capito. Jace invece non lo amava, e comunque non

poteva andare all'Istituto. Era una chiesa, e la ragione principale per cui i Nephilim

l'avevano scelta era proprio per tenere alla larga le creature come lui. Alla fine aveva

capito chi era la persona che avrebbe potuto chiamare, ma solo l'idea era stata abbastanza

sgradevole da farlo indugiare ancora un po' prima di trovare il coraggio necessario per

metterla in pratica.

Sentì la moto prima ancora di vederla, con il rombo potente del motore che fendeva il

suono dei semafori di Grand Army Plaza. Il veicolo attraversò l'incrocio ondeggiando e

salì sul marciapiede, dopodiché fece inversione e si lanciò su per i gradini. Simon si fece da

parte mentre la moto gli atterrava dolcemente accanto e Raphael staccava le mani dal

manubrio.

La moto si fece subito silenziosa. Come tutte quelle dei vampiri, funzionava grazie agli

spiriti demoniaci e reagiva come un cucciolo ai desideri del proprietario. A Simon

facevano paura.

— Volevi vedermi, Daylighter? — Raphael, elegante come sempre con la sua giacca nera

e i jeans dall'aspetto costoso, scese dalla moto e l'appoggiò contro il cancello della

biblioteca. — Spero ci sia un buon motivo — aggiunse. — Non vengo fino a Brooklyn per

niente... Raphael Santiago non è tipo da quartieri periferici.

— Ah, bene, inizi a parlare in terza persona. Non è segno di megalomania incombente o

cose del genere, vero?

Raphael fece spallucce. — Mi puoi dire quello che mi volevi dire oppure lasciare che me

ne vada. A te la scelta. — Si guardò l'orologio. — Hai trenta secondi.

— Ho detto a mia madre che sono un vampiro.

A Raphael si sollevarono le sopracciglia. Erano molto sottili e molto scure e, in un altro

momento, Simon si sarebbe chiesto se fossero truccate a matita. — E che cosa è successo?

— Ha detto che sono un mostro e ha cercato di cacciarmi pregando. — Ricordare quella

scena gli faceva salire in gola il retrogusto amaro di sangue stantio.

— E quindi?

— E quindi non sono sicuro di cosa sia successo. Ho cominciato a parlarle in modo

molto strano, con voce suadente, dicendole che non era successo niente e che si trattava

solo di un brutto sogno.

— E lei ti ha creduto.

— Lei mi ha creduto — confermò Simon a malincuore.

— Ma certo — disse l'altro. — Perché tu sei un vampiro. E uno dei nostri poteri.

L'encanto, la malìa. La capacità di persuasione, si potrebbe definire. Puoi convincere i

mondani a fare quasi qualunque cosa, se impari a usare questa abilità come si deve.

— Ma io non volevo usarla su di lei. È mia madre! C'è un modo per risvegliarla, per

sistemare le cose?

— Sistemare le cose per farti odiare di nuovo? Per farti ritenere un mostro? Strana

definizione di "sistemare le cose".

— Non mi importa — rispose Simon. — Si può fare?

— No! — esclamò allegro Raphael. — Non c'è rimedio. E lo sapresti, ovviamente, se non

disprezzassi così tanto la specie a cui appartieni.

— E va bene. Comportati pure come se io avessi respinto te. Non è che magari hai

cercato di uccidermi o cose del genere, no...

Raphael scrollò di nuovo le spalle. — Pure e semplici politiche vampiresche. Niente di

personale. — Si appoggiò contro il cancello e incrociò le braccia sul petto. Indossava

guanti neri da motociclista e Simon dovette ammettere che nell'insieme faceva la sua

figura. — Ti prego, dimmi che non mi hai fatto venire fin qui per annoiarmi a morte con

una storia su tua sorella.

— Mia madre — lo corresse Simon.

Raphael sventolò la mano, come se non gli interessasse. — Okay, okay, tua madre. Una

donna della tua vita ti ha respinto. Sappi che non sarà l'ultima, lascia che te lo dica. Perché

mi infastidisci con questa storia?

— Volevo sapere se posso venire al Dumont... — disse Simon, parlando molto in fretta

per non rischiare di cambiare idea a metà frase. L'aveva chiesto davvero, quasi non

riusciva a crederci. Ciò che ricordava dell'hotel dei vampiri erano sangue, terrore e dolore.

Ma era pur sempre un posto in cui rifugiarsi, un posto dove stare e dove nessuno lo

avrebbe cercato, se non voleva tornare a casa. Era un vampiro: era stupido avere paura di

un albergo pieno di altri vampiri. — Non ho un altro posto dove stare.

A Raphael brillarono gli occhi. — A-ha — esclamò con una punta di trionfo che a Simon

non piacque particolarmente. — Quindi ora vuoi qualcosa da me.

— Credo di sì. Anche se mi spaventa vedere che la cosa ti eccita tanto, Raphael.

L'altro sbuffò. — Se vieni a vivere al Dumont, non ti rivolgerai a me con Raphael, ma con

Padrone, Sire o Grande Capo.

Simon si fece coraggio. — E Camille? Raphael trasalì. — Che cosa intendi dire?

— Mi hai sempre ripetuto che non eri tu il vero capo dei vampiri — proseguì Simon con

calma — finché, a Idris, non mi dicesti che quel ruolo spettava a una certa Camille, giusto?

Mi spiegasti che non era ancora tornata da New York, ma presumo che, quando lo farà, il

capo sarà di nuovo lei, giusto?

Lo sguardo di Raphael si incupì. — Non credo di gradire la tua raffica di domande,

Daylighter.

— Ho il diritto di sapere come stanno le cose.

— No — ribatté Raphael — non ce l'hai. Vieni da me e mi chiedi se puoi restare nel mio

hotel perché non hai un altro posto dove andare, ma non perché desideri la compagnia dei

tuoi simili. Tu ci eviti.

— Cosa che, come ho già precisato, deriva dal fatto che una volta tu tentasti di

uccidermi.

— Dumont non è una casa famiglia per vampiri scontenti di essere tali — proseguì

Raphael. — Vivi fra gli umani, cammini alla luce del giorno, suoni nella tua stupida band.

Già, non pensare che non lo sappia. In ogni cosa che fai dimostri di non accettare ciò che

sei veramente. Se le cose stanno così, al Dumont non sei il benvenuto.

Simon ripensò a Camille che gli diceva: Nell'istante in cui i suoi seguaci vedranno che sei

con me, lo abbandoneranno e seguiranno noi. Credo che, nonostante il timore nei

confronti di Santiago, mi siano ancora fedeli. Quando ci vedranno insieme, quel timore si

dissolverà e loro saranno al nostro fianco. — Devi sapere — disse allora — che ho ricevuto

altre offerte.

Raphael lo guardò come se fosse pazzo. — Offerte di che genere?

— Soltanto... offerte — rispose Simon, vago.

— Tu non ci sai fare con questi giochetti, Simon Lewis. Ti consiglio di non riprovarci

mai.

— Bene. Ero venuto qui per dirti una cosa, ma ora non lo farò più — dichiarò il ragazzo.

—Certo. E scommetto che butterai anche il regalo di compleanno che mi avevi comprato

— replicò Raphael. — Che tragedia, che tragedia! — Recuperò la motocicletta, salì in sella

e il motore prese vita. Dal tubo di scappamento uscivano scintille rosse. — La prossima

volta che mi disturbi, Daylighter, cerca di farlo per un buon motivo. Altrimenti non sarò

così comprensivo.

E a quel punto la moto sfrecciò verso l'alto e in avanti. Simon reclinò il collo per guardare

Raphael che, come l'angelo da cui prendeva il nome, saliva in cielo lasciandosi dietro una

scia infuocata.

Clary, seduta con il blocco da disegno sulle ginocchia, mordicchiava pensierosa la

matita. Aveva disegnato Jace decine di volte (era la sua personale alternativa a quello che

la maggior parte delle ragazze scrivevano sul loro diario dei fidanzati), ma le sembrava di

non essere mai riuscita a ritrarlo davvero bene.

Innanzitutto era praticamente impossibile convincerlo a posare, così aveva pensato che

quel momento, mentre lui dormiva, sarebbe stato perfetto. Eppure il disegno non stava

riuscendo come sperava. Non sembrava lui, ecco tutto.

Lanciò il blocco sulla coperta, sbuffando esasperata, e si fermò a osservare Jace

portandosi le ginocchia al petto. Erano andati a Central Park per pranzare e allenarsi

all'aperto, intanto che il tempo era ancora buono, ma avevano fatto solo la prima cosa.

Sull'erba, vicino alla coperta, c'erano i contenitori di cibo di Taki. Jace non aveva mangiato

granché, si era limitato a spizzicare di tanto in tanto qualche noodle al sesamo, ma poi

aveva messo da parte il cartone e s'era sdraiato a pancia in su sulla coperta a fissare il cielo.

Clary si era seduta a guardarlo, a guardare il modo in cui le nuvole si riflettevano nei suoi

occhi limpidi, il disegno dei muscoli delle braccia incrociate dietro la testa, la pelle perfetta

che appariva fra l'orlo della maglietta e la cintura dei jeans. Avrebbe voluto allungare una

mano e farla scivolare sui suoi addominali scolpiti, invece aveva distolto lo sguardo e si

era messa a rovistare per trovare il blocco da disegno. Quando si era girata di nuovo,

matita alla mano, lui aveva gli occhi chiusi e respirava in modo tranquillo e regolare.

Ormai aveva già fatto tre schizzi preparatori e non era neanche lontanamente vicina al

disegno che voleva ottenere. Osservando Jace adesso, si chiese per quale strano motivo

non riuscisse a ritrarlo. La luce era perfetta, un dolce chiarore bronzeo d'ottobre che gli

gettava sulla pelle e sui capelli una tinta dorata ma meno intensa di quella che già avevano

naturalmente. Anche le palpebre chiuse erano incorniciate d'oro, in una tonalità appena

più scura dei capelli. Una delle mani era morbidamente appoggiata sul petto, l'altra aperta

lungo un fianco. Mentre dormiva il suo viso era rilassato e indifeso, più dolce e meno

spigoloso di quando era sveglio. Forse era quello il problema; capitava così di rado che

Jace fosse tranquillo e vulnerabile che ritrarlo in quelle condizioni sembrava... strano.

In quell'esatto istante si mosse. Nel sonno aveva iniziato ad ansimare leggermente,

mentre gli occhi, sotto le palpebre chiuse, saettavano a destra e a sinistra. La mano

appoggiata sul petto sobbalzò, finché il ragazzo non si mise a sedere talmente

all'improvviso che per poco non fece ribaltare Clary. Spalancò gli occhi. Per un istante

parve semplicemente confuso,- era impallidito in maniera spaventosa.

— Jace? — fece Clary, incapace di nascondere lo stupore.

Gli occhi di lui fissarono i suoi; un istante dopo lui l'aveva tirata a sé senza traccia della

consueta dolcezza. Se la mise sulle gambe e la baciò con passione, facendole serpeggiare le

mani fra la chioma rossa. Clary sentiva il cuore di lui che martellava all'unisono col

proprio e si accorse di avere le guance in fiamme. Erano in un parco pubblico, pensò, ed

era probabile che qualcuno li stesse guardando.

— Wow — fece lui allontanandosi e curvando le labbra in un sorriso. — Scusami. Mi sa

che non te lo aspettavi.

— È stata una gradita sorpresa. — Si sentì parlare con voce profonda e gutturale. — Ma

che cosa stavi sognando, scusa?

— Te — rispose Jace prendendole una ciocca di capelli e arrotolandosela sul dito. — Ti

sogno sempre.

Ancora a cavalcioni su di lui, Clary rispose: — Oh, davvero? Perché ho pensato che

invece stessi avendo un incubo.

Lui tirò indietro la testa per guardarla meglio. — A volte sogno che non ci sei più — le

disse. — Continuo a chiedermi quando capirai che faresti davvero meglio a lasciarmi.

Lei gli accarezzo il viso con la punta delle dita, facendole scorrere delicatamente sulla

superficie degli zigomi, giù fino alla curva della bocca. Jace non aveva mai detto quelle

cose a nessuno, soltanto a lei. Alec e Isabelle sapevano, poiché vivevano insieme a lui e gli

volevano bene, che sotto quell'armatura difensiva di sarcasmo e di finta arroganza lo

tormentavano ancora le schegge di memoria del suo passato. Clary però era l'unica a cui

lui diceva certe cose a voce alta. La ragazza scosse la testa; i capelli le ricaddero sulla fronte

e li scostò con impazienza. — Vorrei essere capace di dire le cose come le dici tu — disse a

Jace. — Tutto quello che dici, le parole che scegli, sono così perfette. Trovi sempre la

citazione perfetta, o la frase giusta per convincermi del tuo amore. Io invece non riesco ad

assicurarti che non ti lascerò mai... Lui le prese le mani. — Dillo di nuovo.

— Non ti lascerò mai — ripeté Clary.

— Qualsiasi cosa succederà, qualsiasi cosa farò?

— Io non mi stancherò mai di te. Mai. Quello che provo nei tuoi confronti... — Incespicò

con le parole. — È il sentimento più importante che abbia mai provato.

Cavolo, pensò Clary fra sé. Che frase idiota!

Jace però non sembrava avere apprezzato, perché sorrise malinconico e disse, in italiano:

— L'amor che move il sole e l'altre stelle.

— E latino?

— Italiano. E un verso di Dante — rispose.

Lei gli passò la punta delle dita sulle labbra e lui rabbrividì. — Io non so l'italiano —

disse Clary, con un filo di voce.

— Significa che l'amore è la forza più potente al mondo, capace di fare qualsiasi cosa.

Lei sfilò la mano dalla sua, consapevole che lui la stava guardando con gli occhi

socchiusi. Gliele allacciò dietro il collo, si piegò in avanti e gli toccò le labbra con le sue.

Non un bacio, questa volta, ma soltanto delle labbra che si sfioravano. Era sufficiente:

Clary sentì che il cuore di face batteva più forte e lo vide avvicinarsi per cercare di

catturare la sua bocca con la propria. Scosse la testa, scuotendo i capelli attorno a loro due

come una tenda che li avrebbe nascosti dagli occhi indiscreti delle altre persone nel parco.

— Se sei stanco, possiamo tornare all'Istituto — gli disse con un mezzo sussurro. — E fare

un pisolino. Non dormiamo insieme nello stesso letto da... da Idris.

I loro sguardi si incatenarono l'uno all'altro, e Clary capì che Jace stava ripensando alla

stessa cosa a cui stava pensando lei... La debole luce che filtrava attraverso la finestra della

cameretta di Amatis, la disperazione nella sua voce. Voglio solo sdraiarmi con te e

svegliarmi con te, una volta sola, una volta sola nella vita. Una notte intera, sdraiati fianco

a fianco, toccandoci solo le mani. Da quella volta si erano toccati molto di più, ma non

avevano mai dormito insieme. Lui sapeva che lei gli stava offrendo più di un semplice

riposino in una delle stanze inutilizzate dell'Istituto. Lei era sicura che lui glielo leggesse

negli occhi, anche se per prima non sapeva fino in fondo quanto stesse offrendo. Ma non

importava: Jace non le avrebbe mai chiesto niente che non fosse disposta a dare.

— Voglio farlo. — Il calore che gli vide negli occhi e la voce rotta con cui aveva parlato le

facevano capire che non stava mentendo. — Però... non possiamo. — Le prese i polsi con

decisione e li spinse verso il basso, con le mani a formare una barriera fra di loro.

Clary spalancò gli occhi. — Perché no?

Lui fece un respiro profondo. — Siamo venuti qui per allenarci, ed è quello che

dovremmo fare. Se passiamo tutto il tempo a sbaciucchiarci finirà che non mi

permetteranno più di aiutarti.

— Ma non dovrebbero comunque assumere qualcun altro che mi alleni a tempo pieno?

— Sì — rispose Jace alzandosi e aiutandola a fare lo stesso. — E sono preoccupato che se

ti abitui a baciare l'attuale istruttore, alla fine lo farai con tutti!

— Non essere maschilista. Magari mi trovano un'insegnante donna.

— In quel caso avresti il mio permesso. Te la puoi baciare, ma io devo poter guardare...

— Bene — fece Clary sorridendo e curvandosi per ripiegare la coperta che avevano

portato per sdraiarsi. — In realtà hai paura che prendano un ragazzo più bello di te.

Jace sollevò le sopracciglia. — Più bello di me?

— Potrebbe succedere — disse Clary. — Almeno in teoria.

— In teoria il mondo potrebbe spaccarsi di colpo in due lasciando me da una parte e te

dall'altra, tragicamente ed eternamente divisi. Però nemmeno questo mi preoccupa. Ci

sono cose... — disse con il suo tipico sorriso asimmetrico — troppo improbabili per

pensarci troppo su.

Le porse la mano, lei la prese e insieme attraversarono il prato camminando verso un

boschetto ceduo al confine dell'area di East Meadow, noto probabilmente solo agli

Shadowhunters.

Clary sospettava che fosse incantato, perché lei e Jace si allenavano lì abbastanza spesso,

ma nessuno li aveva mai interrotti a eccezione di Isabelle o Maryse.

In autunno Central Park era un'esplosione di colori. Gli alberi ai confini della distesa

erbosa si erano accesi delle loro tonalità più vivide e circondavano il verde con bagliori

d'oro, rosso, rame e ruggine. Era una giornata bellissima per fare una passeggiata

romantica nel parco e baciarsi su uno dei ponti di pietra. Peccato che non sarebbe

successo! Il parco, almeno per Jace, era un prolungamento esterno della palestra

dell'Istituto e lui era lì per insegnare a Clary svariati esercizi, fra cui orientamento

terrestre, tecniche di fuga e di evasione, uccisione a mani nude.

Normalmente l'idea di imparare a uccidere qualcosa senz'armi l'avrebbe esaltata, ma

c'era qualcosa, in Jace, che la preoccupava. Non riusciva a liberarsi di quella fastidiosa

sensazione che le faceva pensare a un problema serio. Se solo ci fosse stata una runa,

pensò, per costringerlo a dire quello che veramente provava... Ma non ne avrebbe mai

creata una simile, ricordò subito a se stessa. Non sarebbe stato corretto sfruttare il proprio

potere per cercare di controllare qualcun altro; e poi, da quando a Idris aveva creato la

runa vincolante, era come se quel potere fosse inattivo. Non aveva sentito il bisogno di

disegnare vecchie rune e nemmeno aveva avuto visioni in cui ne percepiva di nuove.

Maryse le aveva detto che, una volta cominciati seriamente gli allenamenti, le avrebbero

trovato come insegnante un esperto di rune, ma fino a quel momento non si era ancora

visto nessuno. Non che le importasse, in realtà. Doveva ammettere che, se anche il suo

potere fosse sparito per sempre, forse non le sarebbe dispiaciuto così tanto.

—Prima o poi ti capiterà di incontrare un demone e dovrai avere armi con cui affrontarlo

— le stava dicendo Jace mentre passavano sotto una fila di alberi carichi di foglie basse, i

cui colori andavano dal verde al giallo acceso. — Quando succederà, non puoi permetterti

di andare nel panico. Innanzitutto devi ricordarti che qualsiasi cosa può trasformarsi in

un'arma: il ramo di un albero, una manciata di monete (possono trasformarsi in un

eccellente tirapugni), una scarpa, tutto. E poi non dimenticare che tu stessa sei un'arma. In

teoria, quando avrai finito l'allenamento, dovresti essere in grado di fare un buco in un

muro o mettere al tappeto un alce con un solo pugno.

— Non darei mai un pugno a un alce! — protestò Clary. — È una specie protetta.

Jace sorrise appena e si girò rapidamente per mettersi di fronte a lei. Avevano raggiunto

il boschetto ceduo, una piccola area al centro di un gruppo di alberi. Nei tronchi mozzati

che li circondavano erano incise delle rune, segno che quello era un dominio degli

Shadowhunters.

— C'è un'antica disciplina di combattimento che si chiama muay thai — spiegò Jace. —

Ne hai mai sentito parlare?

Lei fece di no con la testa. Il sole splendeva costante e luminoso, e con quei pantaloni

della tuta addosso, più la felpa, aveva caldo. Jace si tolse la giacca e tornò a rivolgersi a lei,

stiracchiando le mani flessuose da pianista. In quella luce autunnale, il suo sguardo era

oro puro. Marchi della velocità, dell'agilità e della forza salivano come rampicanti dal

polso e superavano il rigonfiamento dei bicipiti, sparendo poi sotto le maniche della ma-

glietta. Clary si chiese come mai Jace avesse perso tempo a riempirsi di marchi, neanche

fosse stata una nemica con cui fare i conti.

Ho sentito dire che il nuovo istruttore, in arrivo la settimana prossima, è maestro di

muay thai — spiegò. — Nonché di sambo, lethwei, tomo, krav maga, jujitsu e di un'altra

disciplina di cui ora non ricordo il nome, ma con cui si uccide la gente usando dei baston-

cini o qualcosa del genere. Quello che voglio dire è che questo tizio non è abituato a

lavorare con qualcuno della tua età e con il tuo basso livello d'esperienza, perciò, se ti

insegno almeno le basi, spero che verrai trattata un po' meglio... — Le mise le mani sui

fianchi. — Ora girati e guardami in faccia.

Clary obbedì. In quella posizione, uno davanti all'altra, con la testa arrivava sotto il

mento di Jace. Gli appoggiò delicatamente le mani sui bicipiti.

— Il muay thai è detto l'arte delle otto braccia. Questo perché, per colpire, non si usano

soltanto pugni e piedi, ma anche ginocchia e gomiti. Prima trascini l'avversario verso di te,

poi lo martelli di colpi usando tutti gli otto punti finché non crolla.

— E con i demoni funziona? — domandò Clary, perplessa.

— Con quelli più piccoli. — Jace le si avvicinò ancora di più. — Okay. Ora fammi

passare una mano dietro al collo e afferramelo.

Poteva riuscirci solamente sollevandosi in punta di piedi, e per l'ennesima volta si

ritrovò a maledire la sua bassa statura.

— Ora alza anche l'altra mano e fai la stessa cosa, in modo da averle tutte e due attorno

alla mia nuca.

Clary obbedì. Jace aveva la pelle calda per il sole e i suoi morbidi capelli le solleticavano

le dita. I loro corpi erano l'uno contro l'altro; l'anello che portava al collo a mo' di ciondolo

le dava la sensazione di un sassolino pigiato fra due palmi di una mano.

— In un vero combattimento la mossa sarebbe molto più rapida — le spiegò. Forse lo

stava immaginando, ma le sembrò che Jace avesse la voce un tantino incerta. — Ecco, puoi

usare questa presa per fare leva: la sfrutterai per spingerti in avanti e dare più slancio al

calcio verso l'alto con il ginocchio...

— Accipicchia — disse una voce calma e divertita. — Solo sei settimane e già vi

prendete per il collo? Come svanisce in fretta l'amore fatale!

Clary lasciò la presa su Jace e si girò di scatto, anche se già sapeva di chi si trattasse. Lì,

in piedi in mezzo all'ombra fra due alberi, c'era la Regina della Corte Seelie. La Regina

indossava infatti un abito verde come l'erba, e i capelli, lunghi sulle spalle, erano del colore

delle foglie autunnali. Era bellissima e terribile come la stagione morente, e Clary non si

era mai fidata di lei.

— Che cosa ci fai tu qui? — chiese Jace affilando lo sguardo. — Questo posto è degli

Shadowhunters.

— Ho delle notizie che potrebbero interessare proprio agli Shadowhunters. — Mentre la

Regina incedeva con grazia, il sole che filtrava fra gli alberi le faceva scintillare la corona

di bacche attorno alla testa. A volte Clary si chiedeva se studiasse apposta quelle entrate a

effetto e, se sì, come ci riusciva. — C'è stata un'altra morte.

— Che tipo di morte?

Un altro dei vostri. È morto un Nephilim. — C'era un sottile godimento nel modo in cui

aveva dato quell'annuncio. — Il corpo è stato ritrovato all'alba di oggi, sotto il Ponte di

Oak. Come saprete, il parco è sotto il mio dominio. L'omicidio di un umano non mi

riguarda, ma quella morte non sembra di origini mondane. Il cadavere è stato portato alla

Corte per essere analizzato dai miei medici, i quali hanno dichiarato che si tratta di uno di

voi.

Clary lanciò un rapido sguardo verso Jace, ricordando la notizia, ricevuta due giorni

prima, dello Shadowhunter trovato morto. Era certa che anche lui stesse pensando alla

stessa cosa: era impallidito. — Dov'è il cadavere? — chiese.

— Vi preoccupa la mia ospitalità? Giace presso la mia Corte e vi garantisco che gli

abbiamo tributato tutto il rispetto che si meriterebbe uno Shadowhunter da vivo. Ora che

uno dei miei ha un seggio nel Consiglio, accanto ai vostri, suppongo che non possiate

dubitare della nostra buona fede.

— Come sempre, buonafede e sua Maestà vanno a braccetto. — Il sarcasmo nella voce di

Jace era evidente, ma la Regina si limitò a sorridere. Lui le piaceva, Clary ne era sempre

stata convinta, le piaceva nel modo in cui alle fate piacciono le cose belle solo perché sono

belle. La cosa non valeva invece per lei, e il sentimento era reciproco. — E perché informi

noi invece di Maryse? La tradizione vorrebbe che...

— Oh, la tradizione. — La Regina liquidò l'argomento con un gesto della mano. — Voi

eravate già qui. Mi è sembrato più comodo.

Jace le lanciò un'altra occhiata sospettosa e aprì il cellulare. Fece segno a Clary di restare

dov'era, e poi si allontanò di qualche passo. — Maryse? — gli sentì dire la ragazza non

appena qualcuno ebbe risposto, ma poi la voce di Jace venne soffocata da grida

provenienti dai vicini campi da gioco.

Colta da un gelido terrore, Clary tornò a posare gli occhi sulla Regina. Non la vedeva

dall'ultima notte trascorsa a Idris, quando non era stata propriamente gentile nei suoi

confronti. Aveva i suoi dubbi che la Regina se ne fosse dimenticata o che l'avesse

perdonata…Davvero rifiuteresti un favore dalla Regina della Corte Seelie?

— So che Meliorn ha ottenuto un posto nel Consiglio — disse Clary. — Sarai contenta,

no?

— Certo — rispose la Regina, guardandola con fare divertito. — Ne sono lieta quanto

basta.

— Dunque niente rancori, giusto? — chiese Clary.

Il sorriso della Regina si raggelò agli angoli, come ghiaccio sulle rive di uno stagno. —

Immagino che tu ti riferisca alla mia offerta, quella che hai molto sgarbatamente declinato

— rispose. — Come sai, il mio obiettivo è stato comunque raggiunto. Chi ci ha perso in

quel frangente, e suppongo che tutti siano d'accordo, sei stata tu.

— Il tuo accordo non mi interessava — spiegò Clary cercando, senza riuscirci, di

nascondere l'ostilità nella sua voce. — Sai com'è, la gente non può sempre fare quello che

vuoi tu.

— Non osare dare lezioni a me, bambina. — Con lo sguardo la Regina si rivolse a Jace,

che stava passeggiando avanti e indietro, accanto agli alberi, col cellulare in mano. — È

bellissimo — commentò. — Capisco perché ne sei innamorata. Ma ti sei mai chiesta cos'è

che ti attira a lui?

Clary non reagì; le sembrava che non ci fosse nulla da dire.

—Siete legati dal sangue del Cielo. Sotto la pelle, sangue chiama sangue. Ma il sangue e

l'amore non sono la stessa cosa — concluse la Regina.

—Nient'altro che enigmi — ribatté Clary con rabbia. — Ma quando parli così, dici mai

qualcosa veramente?

— Lui è legato a te — proseguì l'altra. — Ma ti ama?

Clary si sentì prudere le mani. Avrebbe voluto provare con la Regina qualcuna della

nuove mosse di combattimento appena imparate, ma sapeva che sarebbe stato davvero

poco saggio. — Sì, mi ama.

— E ti vuole? Perché amore e desiderio non sempre sono la stessa cosa...

— Questi non sono affari tuoi — replicò secca Clary, ma vedeva che la Regina le stava

puntando addosso occhi taglienti come lame.

— Tu lo desideri come non hai mai desiderato nient'altro. Ma lui, per te, prova la stessa

cosa? — La voce morbida della Regina era implacabile. — Potrebbe avere chiunque o

qualunque cosa desideri. Ti sei mai chiesta perché abbia scelto te? Non ti domandi mai se

se n'è pentito? È cambiato nei tuoi confronti?

Clary sentì le lacrime bruciarle in fondo agli occhi. — No, non l'ha fatto — disse, ma

dentro di sé ripensò al viso di Jace sull'ascensore, quella sera, e al modo in cui lui le aveva

detto di tornare a casa quando lei si era offerta di restare.

— Mi hai detto che non volevi stringere un patto con me perché io non avevo niente da

darti. Hai detto anche che al mondo non c'era niente che tu desiderassi. — Gli occhi della

Regina scintillavano. — Quando immagini la tua vita senza di lui, sei ancora convinta di

quelle parole?

Perché mi stai facendo questo? Clary voleva gridare, ma non disse nulla, perché la Fata

Regina le guardò alle spalle e sorrise dicendo: — Asciugati le lacrime, lui sta tornando qui.

Non c'è bisogno che ti veda piangere.

Clary si sfregò in fretta gli occhi col dorso della mano, poi si voltò. Jace stava

camminando verso di loro e aveva il broncio. — Maryse sta andando alla Corte. Dov'è

andata la Regina? — chiese.

Clary lo guardò, sorpresa. — È qui... — disse girandosi, e a quel punto si interruppe. Jace

aveva ragione: la Regina se n'era andata, lasciando come segno del suo passaggio solo un

turbine di foglie ai piedi di Clary, nel punto in cui aveva sostato.

Simon, con la giacca raggomitolata sotto la testa, era sdraiato sulla schiena e guardava in

su, verso il soffitto pieno di buchi del garage di Eric, provando un senso di disgrazia

incombente. Aveva lo zaino coi vestiti ai suoi piedi e il telefono premuto contro l'orecchio.

In quel momento la voce familiare di Clary, dall'altro capo della linea, era l'unica cosa che

gli impedisse di crollare completamente.

— Simon, mi dispiace tanto. — Clary doveva essere da qualche parte in centro. Dietro di

lei si sentiva il frastuono del traffico, che le smorzava la voce. — Sei davvero nel garage di

Eric? E lui lo sa?

— No — ammise Simon. — Adesso a casa non c'è nessuno, ma io ho la chiave. Mi è

sembrata una possibilità... E tu, invece, dove sei?

— In città. — Per gli abitanti di Brooklyn, Manhattan restava sempre "la città", l'unica e

sola metropoli. — Mi stavo allenando con Jace, ma poi lui è dovuto tornare all'Istituto per

non so quale impegno con il Conclave. Ora sto tornando a casa di Luke. — In sottofondo si

sentì un'auto suonare forte il clacson. — Senti, vuoi venire a stare da noi? Potresti dormire

sul divano di Luke.

Simon esitò. Conservava dei bei ricordi di quel posto. Da quando conosceva Clary, Luke

aveva sempre vissuto nella stessa casa a schiera, vecchia ma accogliente, sopra il negozio

di libri. Clary aveva la chiave per entrarci e insieme lei e Simon avevano trascorso una

gran quantità di ore felici leggendo libri "presi in prestito" dal piano di sotto oppure

guardando vecchi film in tivù. Ora però le cose erano diverse.

— Forse mia madre potrebbe parlare con la tua — propose Clary, preoccupata dal

silenzio dell'altro. — Farle capire la situazione...

— Farle capire che sono un vampiro?. Clary, credo che quello lo capisca, in qualche

strano modo. Ma questo non significa che lo accetterà o che se ne farà mai una ragione.

— Be', Simon, non puoi nemmeno continuare a farglielo dimenticare — osservò Clary.

— Non può funzionare per sempre.

— E perché no? — Sapeva che non stava ragionando in maniera razionale, ma lì,

sdraiato su quel pavimento duro, circondato dall'odore di benzina e dal sibilo dei ragni

che tessevano la ragnatela negli angoli del garage, sentendosi più solo che mai, la

razionalità gli sembrava un concetto quanto mai distante.

— Perché tutto il tuo rapporto con lei si fonderebbe su una bugia. Non potresti più

tornare a casa...

— E allora? — la interruppe bruscamente Simon. — Fa parte della maledizione, no?

"Ramingo e fuggiasco sarai sulla Terra".

Malgrado il rumore del traffico e delle chiacchiere in sottofondo, il ragazzo sentì Clary

che inspirava di colpo.

— Pensi che dovrei raccontarle anche di quello? — proseguì lui. — Di come mi hai

segnato con il Marchio di Caino? Di come io sia in pratica una maledizione ambulante? E

tu pensi che lei vorrebbe una cosa del genere in casa sua?

I rumori di sottofondo si placarono; Clary doveva essersi riparata dentro un portone. La

sentiva sforzarsi di ricacciare indietro le lacrime mentre gli diceva: — Simon, mi dispiace

così tanto! Tu lo sai che mi dispiace, lo sai...

— Non è colpa tua. — All'improvviso si sentì sfinito. Complimenti, prima terrorizzi tua

madre e poi fai piangere la tua migliore amica. È proprio la tua giornata, Simon. — Senti, è

chiaro che in questo momento è meglio se evito la compagnia della gente. Mi fermo un po'

qui, e quando Eric torna dormirò in casa con lui.

Clary soffocò il suono di una risata fra le lacrime. — Cosa? Ed Eric non fa parte della

"gente"?

— Ti spiegherò più tardi — rispose lui, poi esitò. — Ti telefono domani, va bene?

— Tu mi vedi, domani. Avevi promesso di accompagnarmi a provare quel vestito, te ne

sei dimenticato?

— Wow — fece lui. — Mi sa che allora ti voglio davvero bene.

— Lo so. Anche io te ne voglio.

Simon riagganciò e, ancora sdraiato, si tenne il cellulare sul petto. Che buffo, pensò, ora

riusciva a dire a Clary che le voleva bene, quando invece per anni ci aveva provato senza

che certe cose gli uscissero mai dalla bocca. Ora che dopo "ti" c'erano due parole, "voglio

bene", anziché una, era tutto molto più semplice.

A volte si chiedeva che cosa sarebbe successo se non ci fosse stato nessun Jace Wayland e

se Clary non avesse mai scoperto di essere una Shadowhunter. Allontanò il pensiero:

inutile, Simon, tieni a freno la mente. Non poteva cambiare il passato, poteva solo

guardare avanti. Non che avesse la minima idea su cosa il futuro gli avrebbe riservato:

restare per sempre nel garage di Eric, di certo, era escluso. Anche nello stato d'animo

attuale, dovette ammettere che si trattava di una sistemazione a dir poco pessima. Non

sentiva freddo (perché materialmente non avvertiva più né il freddo né il caldo), ma il

pavimento era duro, e per di più faceva fatica a dormire. Gli sarebbe piaciuto poter

ottenebrare i sensi. Il frastuono del traffico proveniente dall'esterno gli impediva di

riposare, come del resto faceva anche la puzza di benzina. Ma la cosa peggiore era il

tormento di dover pensare a come si sarebbe dovuto comportare d'ora in avanti.

Aveva buttato via quasi tutte le scorte di sangue e si era tenuto il resto nascosto nello

zaino. Poteva andare avanti per qualche giorno, ma poi sarebbe stato nei guai. Eric,

ovunque fosse, gli avrebbe certamente dato il permesso di stare da lui, ma probabilmente i

genitori avrebbero voluto chiamare sua madre. E dato che lei lo pensava in gita scolastica,

una telefonata del genere non sarebbe stata apprezzata.

Giorni, pensò. Era quello il tempo che aveva a disposizione. Prima di finire le scorte di

sangue, prima che sua madre iniziasse a chiedersi dove fosse sparito e chiamasse la scuola

per cercarlo. Prima che ricordasse tutto. Ora era un vampiro, avrebbe avuto diritto

all'eternità, invece gli restavano soltanto dei giorni.

Era stato così attento... Si era impegnato tanto per vivere quella che riteneva una vita

normale: scuola, amici, casa sua, camera sua. Era stato difficile, ma anche la vita lo era.

Altre opzioni gli parevano talmente deprimenti e solitarie che anche solo immaginarle gli

era insopportabile. Eppure nella testa gli risuonò la voce di Camille: Ma che cosa

succederà fra dieci anni, quando ne avrai ventisei? E fra venti? Trenta? Pensi che nessuno

noterà che loro invecchiano, cambiano, e tu invece no? La situazione che aveva creato per

se stesso, che aveva scolpito con cura fino a farle assumere la forma della sua vecchia vita,

non era mai stata immutabile, pensò adesso con un tuffo al cuore, non avrebbe potuto es-

serlo. Era rimasto attaccato a ombre e ricordi. Ripensò di nuovo a Camille, alla sua offerta,

che ora gli sembrava migliore di quanto non avesse pensato all'inizio. Era l'offerta di una

comunità, anche se non era la comunità che voleva. Gli restavano solo circa tre giorni

prima di darle una risposta definitiva. E cosa le avrebbe detto, a quel punto? Aveva

pensato di saperlo, ma ora non ne era più così sicuro.

Le sue riflessioni vennero interrotte da un forte cigolio. La porta del garage si stava

aprendo dal basso in alto, finché la luce non invase il buio all'interno. Simon si mise a

sedere, ogni muscolo del corpo improvvisamente all'erta.

— Eric?

— No. Sono Kyle.

— Kyle? — ripeté Simon perplesso, prima di ricordare che si trattava del ragazzo

appena entrato nella band come cantante solista. Per poco non si ributtò di nuovo

all'indietro sul pavimento. — Ah, giusto. Gli altri non ci sono, perciò se speravi di fare un

po' di prove...

— Non c'è problema. Non e quello il motivo per cui sono venuto. — Kyle entrò nel

garage, battendo le palpebre per adattarsi al buio e tenendo le mani infilate nelle tasche

posteriori dei jeans. — Tu sei comesichiama... il bassista, giusto?

Simon si alzò e si ripulì i vestiti dalla polvere del pavimento. — Simon.

Kyle si guardò attorno, con una ruga di preoccupazione fra le sopracciglia. — Mi sa che

ieri ho dimenticato qui le chiavi. Le ho cercate dappertutto, ma niente. Ah, eccole lì! — Si

abbassò sotto la batteria e riemerse un secondo dopo, trionfante, facendo tintinnare fra le

dita un mazzo di chiavi. Aveva un aspetto simile a quello del giorno precedente:

maglietta, azzurra stavolta, giubbino di pelle e medaglietta d'oro con un santo che gli

brillava attorno al collo. La chioma bruna era più scomposta che mai. — Allora? — gli

chiese, appoggiandosi contro uno degli amplificatori. — Stavi per caso dormendo qui, sul

pavimento?

Simon annuì. — Mi hanno buttato fuori di casa. — Non era del tutto vero, ma era

comunque quello che si sentiva di dire.

Kyle annuì in segno di comprensione. — Mammina ha trovato la scorta di erba, eh?

Brutta storia.

— No. Nessuna... scorta di erba — rispose Simon scrollando le spalle. — Divergenza di

opinioni sul mio stile di vita.

— E così ha scoperto delle tue due fidanzate? — ritentò l'altro ridacchiando. Era bello,

Simon doveva ammetterlo, ma a differenza di face, che era perfettamente consapevole di

esserlo, Kyle aveva l'aria di uno che con ogni probabilità non si spazzolava i capelli da

settimane. Nonostante ciò, in lui c'era una tenerezza spontanea e amichevole. — Sì, Kirk

me lo ha detto. Buon per te, amico — gli disse.

Simon scosse la testa. — Non è stato quello il motivo. Fra i due ci fu qualche istante di

silenzio.

— Nemmeno io... nemmeno io vivo in casa — confessò poi Kyle. — Me ne sono andato

un paio di anni fa. — Si avvolse le braccia attorno al torso, abbassando la testa. Parlava a

voce bassa. — Da allora non ho più parlato coi miei genitori. Sì, voglio dire, da solo me la

cavo, però... ti capisco.

— Quei tatuaggi — disse Simon, sfiorandosi di riflesso le braccia. — Che significato

hanno?

Kyle distese le braccia. — Shaantih shaantih shaantih — disse. — Sono mantra delle

Upanishad. È sanscrito, sono preghiere di pace.

In un'altra situazione Simon avrebbe pensato che farsi tatuare delle scritte in sanscrito

fosse un po' pretenzioso, ma in quel momento non fu così. — Shalom — gli disse invece.

Kyle lo guardò esitante. — Eh?

— Significa "pace" — gli spiegò. — In ebraico. Stavo pensando che sono parole simili.

Kyle lo studiò con attenzione,- sembrava stesse riflettendo. Alla fine gli disse: — Ti

sembrerà un po' assurdo...

Oh, non lo penso — lo interruppe Simon. — La mia definizione di "assurdo" è diventata

piuttosto flessibile negli ultimi mesi.

— Ho un appartamento. A Manhattan, nel quartiere di Alphabet City. Il mio coinquilino

si è appena trasferito; ci sono due camere, se vuoi puoi dormire nella sua. C'è un letto e

tutto il resto.

Simon esitò. Da un lato non conosceva Kyle per niente, e trasferirsi da un perfetto

sconosciuto gli sembrava una mossa di una stupidità epica. Quel tipo avrebbe potuto

rivelarsi un serial killer, nonostante i tatuaggi di pace. D'altro canto, proprio perché non

conosceva Kyle per niente, nessuno sarebbe mai andato a cercarlo da lui. E se invece si

fosse rivelato veramente un maniaco? pensò preoccupato. Per Kyle sarebbe finita peggio

che per lui, proprio come era successo la notte prima al suo aggressore.

— Sai che c'è? — fece Simon. — Mi sa che ti prendo in parola, se per te va bene.

Kyle annuì. — Ho qui fuori il furgone, se vuoi venire in città con me.

Simon si abbassò per raccogliere lo zaino coi vestiti e si rialzò mettendoselo in spalla. Si

fece scivolare in tasca il cellulare e spalancò i palmi delle mani, per indicare che era

pronto. — Andiamo.

Capitolo 5

INFERNO CHIAMA INFERNO[eBL 041] Cassandra Clare - città degli angeli caduti[by Pico & Elena77]

L’appartamento di Kyle si rivelò una piacevole sorpresa. Simon si aspettava un

bugigattolo in un I casermone popolare di Avenue D, con gli scarafaggi che si

arrampicavano sulle pareti e il letto fatto di gommapiuma e di cassette del latte. Invece

trovò un appartamento pulito, con due camere da letto, un sa-lottino, una tonnellata di

scaffali di libri e dozzine di fotografie alle pareti con i migliori posti dove fare surf. A

quanto pareva Kyle coltivava piantine di marijuana sulla scala antincendio, ma tutto non

si poteva avere.

La stanza di Simon era fondamentalmente una scatola vuota. Chiunque ci avesse vissuto

fino a quel momento non aveva lasciato dietro di sé nient'altro che un materasso

giapponese. Pareti spoglie, pavimento sgombro, una finestra dalla quale Simon poteva

vedere l'insegna al neon del ristorante cinese dall'altra parte della strada. — Ti piace? —

gli chiese Kyle, affacciandosi sulla porta con quei suoi occhi verde nocciola espansivi e

cordiali.

— Stupendo — rispose Simon, sincero. — Esattamente quello che fa al caso mio La cosa

più costosa di tutto l'appartamento era il televisore a schermo piatto del soggiorno. Si

buttarono sul divano e guardarono un po' di programmi di scarso livello, finché fuori la

luce del sole non cominciò ad affievolirsi. Simon decise che Kyle era un tipo in gamba.

Non rompeva, non si impicciava, non faceva domande. A quanto pareva, poi, in cambio

della stanza non voleva niente se non un contributo per le spese. Era un ragazzo simpati-

co, ecco tutto. Simon si chiese se non avesse dimenticato com'erano gli esseri umani

normali.

Dopo che Kyle fu uscito per il turno di lavoro serale, Simon andò in camera sua, crollò

sul materasso e rimase ad ascoltare il traffico che scorreva su Avenue B.

L'immagine del volto di sua madre lo perseguitava da quando se ne era andato di casa: il

modo in cui lei lo aveva guardato, con disgusto misto a terrore, come se fosse un intruso

fra le mura domestiche. Anche se non aveva bisogno di respirare, ripensarci gli provocava

ancora una stretta al petto. Ora invece...

Da bambino gli era sempre piaciuto viaggiare, perché andare in un posto nuovo

significava stare lontano da tutti i problemi. Anche in quel luogo, separato da Brooklyn

solo da un corso d'acqua, i ricordi che prima lo avevano divorato come acido - la morte

dell'aggressore, la reazione di sua madre quando le aveva confessato la sua vera identità -

sembravano confusi e distanti.

Forse era quello il segreto, pensò. Andare avanti. Come uno squalo. Andare dove

nessuno ti può trovare. Ramingo e fuggiasco sarai sulla Terra.

Ma quello funzionava soltanto se non c'era nessuno di cui ti importava da lasciarsi dietro

le spalle.

Simon dormì agitato tutta la notte. L'istinto naturale lo portava a dormire durante il

giorno, nonostante i poteri da Daylighter, ma si sforzò di scacciare inquietudine e sogni. Si

alzò tardi, col sole che invadeva la stanza dalla finestra. Dopo essersi messo i vestiti puliti

che si era portato da casa, uscì dalla stanza e incontrò Kyle che cucinava uova e bacon in

una padella antiaderente.

— Ehi, coinquilino — lo salutò con entusiasmo. — Ti va di fare colazione?

La vista del cibo provocò in Simon un certo senso di nausea allo stomaco. — No, grazie.

Però prendo del caffè — disse appollaiandosi su uno degli sgabelli da bar, leggermente

barcollanti.

Kyle gli spinse davanti, sul bancone, una tazza sbeccata. — La colazione è il pasto più

importante della giornata, bello. Anche se è già quasi mezzogiorno.

Simon circondò la tazza con entrambe le mani e sentì il calore penetrargli nella pelle

fredda. Pensò a un argomento di conversazione che magari non fosse il suo scarso

appetito. - Ah, ieri poi non te l'ho più chiesto. Che cosa fai nella vita? — fu la sua scelta.

Kyle prese una fetta di bacon dalla padella e la addentò. Simon notò che la medaglietta

d'oro che portava al collo era decorata con delle foglie e con la scritta in italiano "Beati

bellicosi", da cui dedusse che il suo coinquilino era probabilmente di religione cattolica. —

Faccio consegne in bicicletta — rispose il ragazzo masticando. — E fantastico. Posso girare

per Manhattan, guardare un sacco di roba, parlare con tutti. Molto meglio delle scuole

superiori.

— Hai lasciato la scuola?

— Ho preso un diploma da privatista l'anno scorso.

Ma sai, preferisco la scuola della vita. — Simon l'avrebbe trovata una risposta ridicola, se

non fosse che Kyle aveva detto le parole "scuola della vita" nello stesso modo in cui diceva

tutto il resto: con totale naturalezza. — E tu invece? Che progetti hai?

Oh, niente di che. Vagare per la Terra portando morte e distruzione a persone innocenti.

Magari bere anche del sangue. Vivere per sempre ma non divertirmi mai. Il solito,

insomma. — Bah, in questo momento prendo un po' le cose come vengono.

— Nel senso che non vuoi fare il musicista? — chiese Kyle.

Per la gioia di Simon, il telefono gli squillò prima che dovesse rispondere a quella

domanda. Andò a pescarlo dalla tasca e guardò lo schermo. Era Maia. — Ehi! Come stai?

— la salutò.

— Questo pomeriggio accompagni Clary a provare il vestito? — chiese con voce rotta

per via della linea disturbata. Probabilmente stava chiamando dal quartier generale del

branco, a Chinatown, dove i telefoni non prendevano benissimo. — Mi aveva detto che

saresti andato con lei, per farle compagnia.

— Come? Ah, giusto. Sì, ci andrò! — Clary gli aveva chiesto di accompagnarla a provare

il vestito da damigella di nozze, e dopo sarebbero andati insieme a comprare dei fumetti e

lei si sarebbe potuta sentire, così aveva detto, "meno ragazza gné gné tutta trine e

merletti".

— Bene, allora vengo anch'io — disse Maia. — Devo dare a Luke un messaggio da parte

del branco, e poi mi sembrano secoli che non ti vedo.

— Lo so. Mi dispiace molto...

— Non ti preoccupare — disse lei, piano. — Ma prima o poi mi dovrai dire cosa ti metti

al matrimonio, altrimenti i nostri look potrebbero stonare.

Riattaccò, e Simon rimase a fissare lo schermo del cellulare. Clary aveva ragione: il

giorno delle nozze sarebbe stato un D-Day e lui era dolorosamente impreparato per

scendere in guerra.

— Era una delle tue due ragazze? — chiese Kyle, curioso. — Quella coi capelli rossi che

ho visto al garage è una di loro? Perché era carina.

— No. Lei è Clary, la mia migliore amica. — Simon si infilò il cellulare in tasca. — Ed è

fidanzata. Cioè, è molto, molto, molto fidanzata. Di quelle coppie a prova di bomba

atomica. Fidati!

Kyle sorrise. — Chiedevo e basta! — Mise la padella del bacon, di cui ormai non c'era più

traccia, nel lavandino. — E quindi come sono le tue due ragazze?

— Sono molto, molto... diverse. — Per certi versi, Simon pensò, erano agli antipodi.

Maia era calma e coi piedi per terra, Isabelle viveva in un perenne stato d'eccitazione. Maia

era una luce costante nelle tenebre, Isabelle una stella infuocata che turbinava nel vuoto.

— Sì, ecco, sono tutt'e due favolose. Bellissime, intelligenti...

— E non sanno l'una dell'altra? — chiese Kyle appoggiandosi al bancone. — Cioè, non

ne hanno la minima idea?

Simon si ritrovò a spiegare come, al ritorno da Idris (senza però citarne il nome),

entrambe avessero cominciato a chiamarlo per uscire. E dato che a lui piacevano tutt'e

due, aveva accettato entrambi gli inviti. E poi, in qualche modo, le cose con ognuna

avevano preso una piega sentimentale, ma non c'era mai stata l'occasione di spiegare

all'una che c'era anche un'altra. La cosa sera ingigantita sempre di più, e ora Simon si

ritrovava in quella situazione assurda, senza voler ferire nessuna delle due, ma senza

nemmeno sapere come andare avanti.

— Be', se vuoi il mio parere — fece Kyle girandosi per svuotare il caffè avanzato da

Simon nel lavandino — dovresti sceglierne una e smetterla di fare il furbo. Niente di

personale, eh.

Kyle gli stava dando le spalle, perciò Simon, non potendo vederlo in faccia, si chiese per

un istante se l'altro fosse un po' arrabbiato. Aveva parlato con un tono di voce stranamente

severo... Quando però si voltò, la sua espressione era allegra e spontanea come sempre,

motivo per cui Simon decise che doveva esserselo immaginato.

— Lo so — gli rispose. — Hai ragione. — Si girò per lanciare un'occhiata in direzione

della camera da letto dove aveva dormito. — Senti, sei sicuro che ti va bene se resto qui?

Quando vuoi, me ne posso...

— Nessun problema. Resta tutto il tempo che ti serve — lo anticipò Kyle, aprendo nel

frattempo uno dei cassetti della cucina per trovare quello che cercava: chiavi di scorta

legate a un anello di gomma. — Eccoti un mazzo di chiavi. Qui sei assolutamente il

benvenuto, okay? Adesso devo andare al lavoro, ma se vuoi puoi restare. Fatti una partita

a Halo o quello che ti pare. Quando torno sarai qui?

Simon scrollò le spalle. — Probabilmente no. Alle tre mi aspettano per una prova d'abito.

— Bello! — commentò l'altro appendendosi una borsa a tracolla sulla spalla e

dirigendosi verso la porta. — Fatti fare qualcosa di rosso. È decisamente il tuo colore.

— Allora? — chiese Clary uscendo dal camerino. — Cosa ne pensi?

La ragazza fece una giravolta su se stessa. Simon, in equilibrio su una delle scomode

sedie bianche del Karin's Bridal Shop, cambiò posizione e rimase di stucco. — Stai bene —

le disse.

E in effetti Clary stava più che bene. Era l'unica damigella di nozze di sua madre, perciò

poteva scegliere il vestito che preferiva. Aveva optato per un modello molto semplice, di

seta color rame, con delle spalline sottili che mettevano in risalto la sua figura esile.

L'unico gioiello era l'anello dei Morgenstern, portato al collo su una semplice catenina

d'argento che le valorizzava la forma delle spalle e la curva del collo.

Fino a non molti mesi prima, vedere Clary vestita per una cerimonia di nozze avrebbe

suscitato in Simon un misto di sentimenti contrastanti: nera disperazione (lei non lo

avrebbe mai amato) ed esaltazione più totale (o magari sì, se solo avesse avuto il coraggio

di dirle come si sentiva). Ora invece gli faceva soltanto venire un po' di malinconia.

—Bene? — ripeté Clary. — Tutto qui? Bah! Maia, tu invece che ne pensi?

Maia aveva rinunciato alla sedia scomoda e si era messa sul pavimento, con la schiena

appoggiata a un muro decorato con coroncine e lunghi veli trasparenti. Su una delle

ginocchia teneva il Nintendo DS di Simon e sembrava assorta in una partita di Grand

Theft Auto. — Non chiedere a me — fu là risposta. — Io odio gli abiti. Se potessi, al

matrimonio verrei con i jeans.

Era vero: a Simon era capitato raramente di vederla con qualcosa che non fossero jeans e

maglietta. In quel senso era l'opposto di Isabelle, sempre con la gonna e i tacchi anche nelle

occasioni meno adatte (in realtà, dopo averla vista mandare all'altro mondo un demone

Vermis col tacco a stiletto degli stivali, era meno incline a preoccuparsi del suo look).

Il campanello del negozio suonò, annunciando l'ingresso di Jocelyn, seguita da Luke.

Entrambi avevano in mano del caffè fumante, e lei lo guardava con gli occhi che brillavano

e le guance rosse. A Simon vennero in mente le parole di Clary sul fatto che i due erano

"disgustosamente innamorati". Lui in realtà non ci trovava niente di disgustoso, ma forse

perché non si trattava dei suoi genitori. Sembravano così felici! Sì, doveva ammettere che

erano davvero carini.

Quando Jocelyn vide Clary, spalancò gli occhi. — Tesoro, stai d'incanto!

— Eh già, tu devi dirlo per forza, sei mia madre — rispose Clary senza però nascondere

un sorriso. — Scusate, per caso quello è del caffè nero?

— Proprio così. Consideralo un regalo per farci perdonare il ritardo — disse Luke

porgendole un bicchiere. — Abbiamo avuto un contrattempo. Problemi con il catering e

cose del genere. — Fece un cenno in direzione di Simon e di Maia. — Ehi, ciao ragazzi!

Maia inchinò la testa. Luke era il capo del branco di lupi mannari della zona di cui lei

faceva parte. Anche se era riuscita a perdere l'abitudine di chiamarlo "padrone" o

"signore", quando era davanti a lui gli mostrava comunque rispetto. — Ho un messaggio

per te da parte del branco — gli disse mettendo via il videogioco. — Devono farti delle

domande sulla festa agli Ironworks...

Mentre Maia e Luke iniziarono a parlare del ricevimento che i lupi mannari stavano

organizzando per le nozze del loro maschio alfa, la proprietaria del negozio, una donna

alta che era rimasta a sfogliare riviste dietro la cassa mentre i ragazzi chiacchieravano, si

rese conto che le due persone appena arrivate erano quelle che poi avrebbero di fatto

pagato il vestito, perciò corse ad accoglierli. — Mi hanno appena rimandato il suo abito, si-

gnora, ed è me-ra-vi-glio-so — commentò, in brodo di giuggiole, prendendo la madre di

Clary per un braccio e accompagnandola verso il fondo del negozio. — Venga a provarlo.

— Appena Luke fece per seguirle, la negoziante gli puntò minacciosamente un dito verso

la faccia. — Lei resti qui.

Luke, con un'espressione perplessa, rimase fermo a guardare la sua promessa sposa che

spariva dietro una porta scorrevole bianca, decorata con campanelle infiocchettate.

— I mondani dicono che non bisogna vedere la sposa col vestito di nozze prima della

cerimonia — gli ricordò Clary. — Porta male. Anzi, alla signora sembrerà strano anche

solo il fatto di vederti qui adesso.

— Ma Jocelyn voleva la mia opinione... — disse Luke, per poi interrompersi e scuotere il

capo. — Eh, già, le tradizioni dei mondani sono così particolari.

— E i matrimoni degli Shadowhunters, invece, come sono? — volle sapere Maia,

incuriosita. — Anche loro hanno delle tradizioni?

— Sì, le hanno — rispose Luke lentamente. — Ma questa non sarà una classica cerimonia

Shadowhunter. La tradizione non riguarda i casi in cui uno dei due non è uno

Shadowhunter.

— Davvero? — fece Maia stupita. — Non lo sapevo.

La cerimonia nuziale fra Shadowhunters, tra le varie fasi, ne prevede anche una in cui

vengono tracciate delle rune permanenti sui corpi degli sposi — spiegò Luke. Aveva la

voce calma, ma lo sguardo triste. — Rune d'amore e d'impegno. Ma ovviamente chi non è

uno Shadowhunter non può portare le rune dell'Angelo, perciò io e Jocelyn ci

scambieremo solo degli anelli.

— Che brutto! — sentenziò Maia.

Luke sorrise a quel commento. — Direi di no, invece. Sposare Jocelyn è quello che ho

sempre voluto, e i particolari non mi interessano granché. Le cose poi stanno cambiando; i

nuovi membri del Consiglio hanno fatto molto affinché il Conclave possa tollerare questo

genere di...

— Clary! — esclamò Jocelyn dal fondo del negozio. — Puoi venire qui un secondo?

— Arrivo! — rispose l'altra trangugiando in fretta quello che restava del suo caffè. — Mi

sa che si tratta di un'emergenza-abito...

— Allora buona fortuna. — Maia si alzò e appoggiò il Nintendo DS sulle gambe di

Simon, per poi chinarsi a dare al ragazzo un bacio sulla guancia. — Io devo andare, ho

appuntamento con degli amici all'Hunter's Moon.

Aveva un buon profumo di vaniglia. Sotto di esso, come sempre, Simon riusciva a

sentire il sapore salato del sangue misto a quell'odore pungente, vagamente simile al

limone, tipico dei lupi mannari. Ogni Nascosto aveva il sangue di un odore diverso: le fate

sapevano di fiori morti, gli stregoni di fiammiferi bruciati, altri vampiri di metallo. Clary

una volta gli aveva chiesto di cosa odorassero gli Shadowhunters. "Luce del sole", le aveva

risposto.

— A dopo, caro. — Maia si alzò, diede un'ultima arruffata ai capelli di Simon e se ne

andò. Mentre la porta si chiudeva dietro la ragazza, Clary fissò Simon con uno sguardo

penetrante.

— Tu devi sistemare la tua vita sentimentale entro sabato prossimo — gli disse. — Dico

sul serio, Simon. Se non glielo dirai tu, lo farò io.

Luke aveva un'espressione confusa. — Dire cosa a chi, scusa?

Clary scosse la testa. — Stai tirando troppo la corda, Simon Lewis.

Detto questo la ragazza si allontanò di corsa, reggendo un lembo della gonna. Simon

sorrise fra sé quando vide che, sotto l'abito elegante, la ragazza portava un paio di scarpe

da tennis verdi.

— È evidente — disse Luke — che qui sta succedendo qualcosa di cui io non sono al

corrente.

Simon gli rivolse uno sguardo. — A volte quello sembra proprio il motto della mia vita.

Luke sollevò le sopracciglia. — È successo qualcosa?

Simon esitò. Di certo non poteva raccontare a Luke della sua vita sentimentale: Maia

faceva parte del suo stesso branco, e i branchi di lupi mannari erano più leali delle bande

di strada. Parlandone, si sarebbe messo sotto una strana luce. Però Luke e rappresentava

comunque una risorsa: in quanto capo dei lupi mannari di Manhattan aveva accesso a

ogni genere d'informazione ed era particolarmente ferrato in materia di Nascosti. — Hai

mai sentito parlare di un vampiro che si chiama Camille?

Luke fece un lungo fischio. — So chi è. E mi sorprende che anche tu lo sappia.

— Be', è il capo clan dei vampiri di New York. Sì, devo dire che su di loro qualcosa so, in

effetti — rispose Simon, un po' a disagio.

Pensavo che tu volessi vivere il più possibile come un umano. — La voce di Luke non

esprimeva giudizi, solo curiosità. — Devi sapere che, quando presi il posto del capobranco

precedente, lei delegò i suoi poteri a Raphael e se ne andò. Credo che nessuno sapesse di

preciso dove fosse diretta. Camille è una specie di leggenda: una vampira

straordinariamente vecchia, da quanto ho potuto capire, famosa per la sua crudeltà e la

sua astuzia. Potrebbe competere con le fate!

— Tu l'hai mai vista?

Luke scosse la testa. — No, credo di no. Come mai questa curiosità?

— Mi ha parlato di lei Raphael — rispose Simon in tono evasivo.

Luke corrugò la fronte. — Lo hai visto di recente?

Prima che Simon potesse rispondere, il campanello del negozio suonò di nuovo e Simon

fu sorpreso di vedere Jace. Clary non aveva detto che ci sarebbe stato anche lui. Anzi, a

essere precisi, nell'ultimo periodo Clary non aveva parlato granché di Jace.

Il nuovo arrivato guardò prima Luke e poi Simon. Sembrava quasi sorpreso di vederli,

anche se in realtà era difficile a dirsi. Simon immaginava che Jace, quando era solo con

Clary, sfoggiasse l'intera gamma delle espressioni facciali esistenti, ma quella standard che

esibiva in mezzo agli altri era un misto di disinteresse e di orgoglio. — È come — aveva

detto una volta Simon a Isabelle — se stesse pensando a qualcosa di profondo e

significativo ma, se uno gli chiedesse di cosa di tratta, lui gli tirerebbe un pugno in faccia.

— E tu non chiederglielo — gli aveva detto Isabelle, trovando probabilmente ridicola

l'opinione di Simon. — Non c'è scritto da nessuna parte che dovete essere per forza amici.

— C'è Clary? — chiese Jace chiudendosi la porta dietro le spalle. Aveva l'aria stanca.

Sotto gli occhi gli spuntavano delle occhiaie e non si era preso la briga di mettersi una

giacca benché il vento autunnale iniziasse a farsi pungente. Anche se per Simon il freddo

non era più una preoccupazione, il solo guardare Jace in jeans e maglietta gli dava i

brividi.

— Sta aiutando Jocelyn — spiegò Luke. — Ma se vuoi aspettare qui con noi sei il

benvenuto.

Jace si guardò attorno, a disagio: pareti addobbate con veli, ventagli, coroncine, strascichi

ornati di perline. — È tutto così... bianco.

— Certo che è bianco — confermò Simon. — È un negozio per i matrimoni!

— Per gli Shadowhunters il bianco è il colore dei funerali — spiegò Luke — ma per i

mondani, Jace, è il colore dei matrimoni. Per le donne è simbolo di purezza.

Ma Jocelyn ha detto che il suo vestito non è bianco, o sbaglio? — disse Simon.

— Be' — fece Jace. — Mi sa che in effetti quell'occasione è ormai andata...

A Luke andò il caffè di traverso. Prima che potesse dire o fare qualunque cosa, nella

stanza ricomparve Clary. Ora aveva i capelli raccolti con delle mollette luccicanti e qualche

boccolo le ricadeva sulla fronte. — Non so — disse mentre si avvicinava a loro. — Karyn

mi ha pettinato e sistemato i capelli, ma le mollette non mi convincono...

Si interruppe non appena vide Jace. Dall'espressione che le comparve sul volto era chiaro

che nemmeno lei si aspettava di trovarlo lì. Dischiuse le labbra per lo stupore, ma non

disse nulla. Jace, da parte sua, la guardava fisso, e per la prima volta nella sua vita Simon

riuscì a leggere quell'espressione come un libro aperto: era come se per Jace il resto del

mondo fosse scomparso, lasciandolo solo con Clary. La stava osservando con un desiderio

così palese che Simon si sentiva in imbarazzo, come se si fosse intromesso in una scena

intima. Jace si schiarì la voce. — Sei bellissima.

— Jace — Clary era assolutamente sbalordita — va tutto bene? Non avevi detto che non

saresti venuto perché c'era la riunione del Conclave?

— Infatti — confermò Luke. — Ho sentito del cadavere di uno Shadowhunter ritrovato

nel parco... Ci sono novità?

Jace fece di no con la testa, senza staccare gli occhi da Clary. — No. Di sicuro non è un

membro del Conclave di New York, ma a parte questo non si sa niente. Il corpo non è stato

ancora identificato, i Fratelli Silenti lo stanno esaminando in questo momento.

— Bene. Loro riusciranno a capire di chi si tratta — commentò Luke.

Jace non parlò. Stava ancora fissando Clary. Simon pensò che avesse uno sguardo

stranissimo, quel genere di sguardo che potresti rivolgere a una persona che ami ma sai

che mai e poi mai sarà tua. Immaginava che a Jace fosse già capitato di sentirsi così, nei

confronti di Clary, ma perché proprio adesso?

— Jace? — fece Clary, muovendo un passo verso di lui. Il ragazzo distolse lo sguardo. —

La giacca che ti ho prestato ieri, al parco — le disse. — Ce l'hai ancora?

Ancora più sbalordita, Clary indicò con un dito il punto in cui aveva lasciato l'oggetto in

questione, un normalissimo giubbino scamosciato beige, appeso sullo schienale di una

delle sedie. — Laggiù. Te l'avrei riportata dopo...

— Be' — fece Jace prendendola e infilandoci dentro le braccia in tutta fretta. — Ora non

ne hai più bisogno.

— Jace — lo chiamò Luke con quel suo tipico tono di voce pacato. — Quando finiamo

qui, andiamo a cenare a Park Slope. Se vuoi unirti a noi sei il benvenuto.

— No — rispose Jace chiudendo la zip della giacca. — Questo pomeriggio mi devo

allenare, anzi sarà meglio se mi sbrigo.

— Allenare? Ma se ci siamo allenati ieri! — esclamò Clary.

— Alcuni di noi devono farlo tutti i giorni, Clary — rispose Jace. Non sembrava

arrabbiato, ma nel suo tono di voce c'era qualcosa di brusco che la fece arrossire. — Ci

vediamo più tardi — aggiunse senza guardarla, dopodiché si lanciò letteralmente verso

l'uscita del negozio.

Mentre la porta si chiudeva dietro le spalle di Jace, Clary si mise le mani fra i capelli e

strappò con rabbia le mollette. I ricci le ricaddero, tutti arruffati, sopra le spalle.

— Clary — disse piano Luke, alzandosi in piedi. — Che cosa stai facendo?

— I capelli — disse lei togliendosi anche l'ultima molletta. Gli occhi le luccicavano, e

Simon era sicuro che si stesse sforzando di non piangere. — Non li voglio portare così,

sembro una cretina.

— Non è vero — la rassicurò Luke, prendendo le mollette e appoggiandole su'uno dei

tavolini bianchi. — Ascolta, i matrimoni rendono gli uomini nervosi, okay? Non significa

nulla.

Giusto. — Clary si sforzò di sorridere e quasi ce la fece, ma Simon sapeva che Luke non

era riuscito a convincerla. Non poteva darle torto. E dopo aver visto l'espressione di Jace,

Simon non ci credeva nemmeno lui.

In lontananza, il Fifth Avenue Diner brillava come una stella sullo sfondo bluastro del

crepuscolo. Simon stava attraversando i vari isolati camminando accanto a Clary, mentre

Jocelyn e Luke li precedevano di qualche passo. Clary si era cambiata e ora portava di

nuovo i jeans, con una spessa sciarpa bianca attorno al collo. Di tanto in tanto

giocherellava con l'anello appeso alla catenina, un tic nervoso di cui Simon non sapeva

bene se la sua amica fosse consapevole o meno.

Lasciato il negozio di abiti da sposa, Simon le aveva chiesto se ci fosse qualche problema

con Jace, ma Clary non gli aveva dato una vera e propria risposta. Si era limitata a schivare

l'argomento facendo a lui delle domande su cosa gli stava succedendo, se aveva già

parlato con sua madre, se aveva intenzione di rimanere ancora da Eric... Quando le rispose

che stava da Kyle, Clary rimase sorpresa.

— Ma lo conosci a malapena — commentò. — Potrebbe essere un serial killer!

— Ci ho pensato. Ho controllato l'appartamento, ma se ha la ghiacciaia piena di armi

ancora non l'ho trovata. Comunque mi sembra un tipo piuttosto sincero.

— E com'è il suo appartamento?

— Bello, per essere ad Alphabet City. Più tardi dovresti passare a fare un giro.

— Non stasera — disse Clary, un po' distratta. Stava di nuovo giocherellando con

l'anello. — Magari domani?

Andrà a trovare Jace? si chiese Simon, ma non disse nulla. Se lei non aveva voglia di

parlarne, lui non avrebbe certo insistito. — Eccoci, siamo arrivati. — Le aprì la porta del

ristorante, ed entrambi vennero investiti da una folata di odori speziati.

Trovarono posto vicino a uno dei grandi televisori a schermo piatto allineati lungo le

pareti. Si misero tutti a sedere sui divanetti, mentre Jocelyn e Luke chiacchieravano

animatamente di questioni matrimoniali. A quanto pareva, il branco di Luke si era offeso

per non essere stato invitato alla cerimonia (anche se gli invitati erano pochi) e insisteva

per organizzare un'altra festa all'interno di una ex fabbrica ristrutturata del Queens. Clary

li ascoltava senza dire niente. Arrivò la cameriera, distribuendo dei menu talmente rigidi e

affilati che potevano essere usati come armi; Simon appoggiò il suo sul tavolo e guardò

fuori dalla finestra. Dall'altra parte della strada c'era una palestra con una parete di vetro,

attraverso la quale si vedeva della gente che correva sui tapis rou-lant o faceva i pesi con le

cuffie incollate alle orecchie. Corri, corri e non arrivi mai da nessuna parte. La stona della

mia vita.

Si sforzò di dirottare la mente verso luoghi meno bui, e quasi ci riuscì. Era una delle

scene più familiari di tutta la sua vita, pensò: i divanetti di una tavola calda, se stesso Con

Clary e la famiglia di lei. Era come se Luke ne avesse sempre fatto parte, anche prima di

voler sposare Jocelyn. Simon avrebbe dovuto sentirsi a casa. Tentò di fare un sorriso, ma si

accorse che la madre di Clary gli aveva appena fatto una domanda che lui non aveva

sentito. Tutti, al tavolo, lo stavano guardando in attesa di una risposta.

— Scusate — disse. — Non ho... dicevi?

Jocelyn fece un sorriso paziente. — Clary mi ha detto che avete aggiunto un nuovo

membro alla band?

Simon sapeva che stava solo cercando di essere gentile, o per lo meno gentile con quel

tipico modo di fare dei genitori che fingono di prendere sul serio i tuoi hobby. Eppure

Jocelyn aveva partecipato a diversi loro concerti, tanto per far numero. Di lui le importava,

le era sempre importato. Dentro di sé, in qualche angolo recondito della mente, sospettava

che quella donna avesse sempre saputo ciò che lui provava per Clary e si chiese se lei non

avrebbe preferito che sua figlia facesse una scelta diversa. Sapeva che Jace non le piaceva

molto, lo si capiva anche solo da come pronunciava il suo nome.

— Già — rispose Simon. — Kyle. È un tipo un po' strano, ma molto simpatico. —

Invitato da Luke a spiegare meglio questa "stranezza" di Kyle, Simon raccontò

dell'appartamento del ragazzo (stando attento a tralasciare il dettaglio che ora era anche il

suo), delle sue consegne in bicicletta, del suo furgone malconcio e antidiluviano. — E poi

sul balcone coltiva delle strane piante — aggiunse. — Non marijuana, ho controllato,

hanno delle foglie color argento...

Luke corrugò la fronte, ma prima che potesse aprire bocca arrivò la cameriera con in

mano una caraffa di caffè. Era giovane, coi capelli biondi ossigenati legati in due trecce.

Quando si piegò per riempire la tazza di Simon, una di esse gli sfiorò la mano. Sentiva su

di lei l'odore del sudore e, sotto, quello del sangue. Sangue umano, il più dolce di tutti gli

odori. Avvertì una morsa familiare allo stomaco e un'ondata di freddo gli si propagò per

tutto il corpo. Aveva fame, e tutto ciò che aveva mangiato a casa di Kyle era sangue a

temperatura ambiente. Un evento disgustoso, persino per un vampiro.

Non ti sei mai nutrito di un umano, vero? Succederà. E quando lo farai, non te ne

dimenticherai.

Chiuse gli occhi. Quando li riaprì, la cameriera se n'era andata e Clary, dall'altra parte

del tavolo, lo fissava incuriosita. — Va tutto bene?

— Benone. — Avvolse la tazza del caffè con una mano. Stava tremando. Sopra di loro, la

tivù sputava ancora, a tutto volume, il notiziario serale.

— Ah! — esclamò Clary, alzando lo sguardo verso lo schermo. — Stai ascoltando?

Simon seguì lo sguardo di lei. L'annunciatore aveva quell'espressione contrita che hanno

sempre i giornalisti curando devono dare una notizia particolarmente brutta. — Nessuno

si è fatto avanti per identificare un neonato trovato abbandonato diversi giorni fa in una

strada dietro l'ospedale Beth Israel — stava dicendo. — Il bambino è di razza bianca, pesa

tre chili esatti e non ha problemi di salute. È stato ritrovato legato a un seggiolino per auto,

dietro un cassonetto dell'immondizia — proseguì. — Il fatto più sconvolgente è che un

biglietto scritto a mano, infilato nella coperta del bambino, pregava le autorità ospedaliere

di uccidere il piccolo tramite eutanasia, perché, c'era scritto, "Io non ho la forza per farlo".

La polizia dice che probabilmente la madre soffriva di disturbi mentali, e sostiene di essere

sulla pista giusta. Chiunque abbia informazioni su questo bambino, contatti il numero

verde…

— Che cosa terribile — disse Clary, distogliendo lo sguardo dal televisore con un

brivido. — Proprio non riesco a capire come faccia certa gente ad abbandonare i figli come

fossero spazzatura...

— Jocelyn — disse Luke, con voce densa di preoccupazione. Simon guardò la madre di

Clary. Era bianca come uno straccio e sembrava sul punto di vomitare. Allontanò di colpo

il piatto che aveva davanti, si alzò da tavola e corse verso il bagno. Un secondo dopo Luke

lasciò cadere il tovagliolo e la seguì.

— O merda! — Clary si portò una mano alla bocca. — Non posso credere di averlo detto

davvero. Sono una stupida.

Simon era interdetto. — Ma che cosa sta succedendo?

Clary scivolò in giù sul divanetto. — Ha ripensato a Sebastian — disse. — Volevo dire

Jonathan. Mio fratello. Penso che te ne ricorderai...

Il suo era sarcasmo. Nessuno dei due avrebbe mai dimenticato Sebastian, vero nome

Jonathan, assassino di Hodge e di Max che per poco non era riuscito ad aiutare Valentine a

vincere una guerra in grado di concludersi con la distruzione di tutti gli Shadowhunters.

Jonathan, occhi neri come il carbone e un sorriso affilato come la lama di un rasoio.

Jonathan, con un sangue che, quando Simon l'aveva morso, sapeva di acido di batteria.

Non che se ne fosse pentito, chiaro.

— Ma tua madre non lo ha abbandonato — disse Simon. — Aveva deciso di crescerlo

pur sapendo che in lui c'era qualcosa di terribilmente sbagliato.

— Però lo odiava — ribatté Clary. — Non credo abbia mai superato questa cosa. Prova a

immaginare cosa significhi odiare il proprio figlio... Ogni anno, il giorno del suo

compleanno, prendeva una scatola con tutte le sue cose di quando era piccolo e ci

piangeva sopra. Penso piangesse per il figlio che avrebbe voluto avere... Sì, se Valentine

non avesse fatto quello che ha fatto.

— E tu avresti avuto un fratello — disse Simon. — Voglio dire, un fratello vero. Non uno

assassino psicopatico.

Clary, con l'aria di essere sull'orlo delle lacrime, spinse via il piatto. — Ho la nausea. Hai

presente quando hai fame ma non riesci a sforzarti di mangiare?

Simon guardò la cameriera coi capelli ossigenati, appoggiata al bancone del ristorante.

— Eh sì. Ho presente — rispose.

Alla fine Luke tornò al tavolo, ma solo per dire a Clary e a Simon che riportava Jocelyn a

casa. Lasciò dei soldi, e i ragazzi li usarono per pagare il conto prima di lasciare la tavola

calda e raggiungere il negozio Galaxy Comics, sulla Seventh Avenue. Nessuno dei due

però riuscì a rilassarsi abbastanza da potersi divertire, perciò si divisero, promettendosi

che si sarebbero rivisti il giorno successivo.

Per tornare in città, Simon salì in metropolitana con il cappuccio alzato e le cuffie

dell'iPod a tutto volume. La musica era sempre stata la sua via di fuga. Quando uscì su

Second Avenue e si diresse verso la Houston, dal cielo aveva iniziato a scendere una

pioggia leggera. Si sentiva lo stomaco legato.

Tagliò verso First Street, quasi deserta, una striscia di tenebre fra le luci sfavillanti di

First Avenue e Avenue A. Per via delle cuffiette, non li sentì arrivare da dietro finché non

gli furono quasi addosso. Il primo segnale che qualcosa non andava fu una lunga ombra

che attraversava il marciapiede sovrapponendosi, alla sua. Poi ne arrivò un'altra, questa

volta dall'altro lato. Si girò.

Dietro di sé vide due uomini, entrambi vestiti esattamente come il tizio che lo aveva

aggredito l'altra sera: pantaloni della tuta grigi, felpa dello stesso colore col cappuccio

abbassato per nascondersi il volto. Erano abbastanza vicini da poterlo toccare.

Simon fece un salto all'indietro, con una forza che lo sorprese. I poteri da vampiro erano

ancora una novità per lui e non avevano smesso di sorprenderlo. Quando, un istante

dopo, si ritrovò sui gradini d'ingresso di una casa, a qualche metro di distanza dagli

aggressori, ne fu talmente sbalordito da rimanere di sasso.

Gli sconosciuti avanzarono verso di lui. Parlavano la stessa lingua gutturale del primo

rapinatore, che, sospettava Simon, non era affatto tale. I rapinatori da strada, per quanto

ne sapeva, non erano organizzati in bande, ed era molto improbabile che il primo avesse

degli amici delinquenti che avevano deciso di vendicarsi di lui per la brutta fine del loro

compare. Era chiaro che c'era di mezzo dell'altro...

Avevano raggiunto i gradini, ed erano riusciti a metterlo in trappola. Simon si tolse le

cuffie dell'iPod dalle orecchie e alzò subito le mani. — Sentite — disse. — Non so cosa

volete, ma vi assicuro che è meglio se mi lasciate in pace.

Gli aggressori si limitarono a guardarlo. O almeno era quello che Simon immaginò, visto

che sotto l'ombra dei cappucci era impossibile vedere i loro volti.

— Ho la sensazione che vi abbia mandato qualcuno — aggiunse. — Ma la vostra è una

missione suicida. Sul serio. Non so quanto vi paghino, ma di sicuro non abbastanza.

Uno degli incappucciati si mise a ridere. L'altro aveva messo una mano in tasca e ne

aveva estratto qualcosa... Qualcosa che, sotto i lampioni cittadini, splendeva di luce nera.

Una pistola.

— O Signore! — disse Simon. — Non vorrai mica fare una cosa del genere, vero? Non

sto scherzando. — Fece un passo indietro, salendo uno dei gradini. Magari, se fosse

riuscito ad arrivare abbastanza in alto, avrebbe davvero potuto saltare sopra di loro, o

anche più in là. Qualsiasi cosa pur di non lasciare che lo attaccassero,- sapeva che non

sarebbe riuscito a limitarne le conseguenze.

L'uomo armato sollevò la pistola e ne alzò il cane con un click.

Simon si morse il labbro. Per il panico gli erano usciti i canini, che gli perforarono la

carne con dolore. — Non...

Dal cielo cadde un oggetto scuro. All'inizio Simon pensò che fosse semplicemente volato

giù da una delle finestre dei piani superiori, magari un condizionatore che perdeva o

qualcuno troppo pigro per portare la spazzatura giù dalle scale. Scese in modo preciso,

mirato, aggraziato. In realtà era un persona, che atterrò sopra l'aggressore buttandolo al

tappeto. L'incappucciato urlò con un filo di voce stridula, mentre la pistola gli scivolava

via dalla mano. Il secondo aggressore si piegò per afferrarla e, prima che Simon potesse

reagire, l'aveva già presa e stava tirando il grilletto. Dalla bocca dell'arma partì una

scintilla fiammante.

La pistola esplose. Esplose, e l’ aggressore con essa, troppo in fretta anche solo per

gridare. Avrebbe voluto per Simon una morte rapida, ma quella che aveva ricevuto in

cambio lo era stata ancora di più. Andò in pezzi come un bicchiere rotto, come i tasselli

colorati di un caleidoscopio. L'esplosione fu leggera, come il rumore di uno spostamento

d'aria, e poi nient'altro che una lieve pioggia di sale che ricadeva sul marciapiede come

pioggia solidificata.

Simon, la vista appannata, si accasciò sui gradini. Nelle orecchie sentiva un forte brusio,

finché qualcuno non lo afferrò bruscamente per i polsi e lo scosse forte. — Simon. Simon!

Alzò lo sguardo.

La persona che lo aveva preso e scrollato era Jace.

Non indossava la divisa, portava ancora i jeans e il giubbino che si era ripreso da Clary.

Era tutto in disordine: il viso imbrattato di sporco e fuliggine, i capelli bagnati di pioggia.

— Ma cosa diavolo è stato? — chiese a Simon. L'altro guardò a destra e a sinistra lungo

la strada.

Era ancora deserta. L'asfalto luccicava nero e umido, completamente sgombro. Il secondo

aggressore era sparito.

— Tu! — esclamò, ancora un po' intontito. — Hai assalito i rapinatori...

— Quelli non erano rapinatori. Ti seguivano da quando sei sceso dalla metropolitana.

Qualcuno li ha messi sulle tue tracce — dichiarò Jace, senza la benché minima esitazione.

— L'altro tizio — fece Simon. — Che cosa gli è successo?

— È sparito, così — disse Jace schioccando le dita. — Ha visto quel che è successo al suo

compare e se l'è data a gambe. Non so bene cosa fossero quei due. Demoni no, ma

nemmeno dei veri umani.

— Be', quello lo avevo capito, grazie!

Jace lo guardò più da vicino. — Poco fa... quello che è successo all'aggressore... Sei stato

tu, vero? Il tuo Marchio, lì — disse a Simon indicandogli la fronte. — L'ho visto brillare di

bianco prima che quel tizio... si dissolvesse.

Simon tacque.

— Fidati, io ne ho viste tante — riprese Jace. E per una volta nel suo tono di voce non

c'era sarcasmo né ironia. — Ma una cosa del genere... mai.

— Non sono stato io — rispose piano Simon. — Io non ho fatto niente.

— Non ne hai avuto bisogno — disse Jace. I suoi occhi dorati splendevano in mezzo a

quel viso sporco di fuliggine. — Sta scritto infatti: A me la vendetta, sono io che

ricambierò, dice il Signore.

Capitolo 6

IL RISVEGLIO DEI MORTI

La stanza di Jace era in ordine come sempre: letto rifatto alla perfezione, libri allineati sugli

scaffali in ordine alfabetico, appunti e quaderni accuratamente impilati sopra la scrivania.

Persino le sue armi erano allineate lungo la parete in ordine di grandezza, da uno spadone

gigante fino a una serie di piccoli pugnali.

Clary, in piedi sulla porta, trattenne un sospiro. L'ordine andava bene, ci era abituata. In

fondo, aveva sempre pensato, era il modo in cui Jace esercitava il controllo sugli elementi

di una vita che altrimenti sarebbe sembrata in preda al caos. Aveva vissuto così a lungo

senza sapere chi e cosa fosse davvero, quindi non poteva certo rimproverarlo per l'ordine

alfabetico con cui aveva disposto la sua raccolta di poesie.

Invece poteva, e lo faceva anche, rimproverarlo per il fatto che non era lì in quel

momento. Se non era tornato a casa dopo essere uscito dal negozio di abiti da sposa, allora

dov'era finito? Guardandosi attorno nella stanza, Clary si sentì cogliere da un senso di

irrealtà. Non era possibile che stesse succedendo una cosa del genere, giusto? Sapeva come

andava quando una coppia si separava, per averlo sentito dire da altre ragazze. Prima

l'allontanamento, con l'altra persona che evita sempre più spesso di rispondere ai

messaggi o alle chiamate. Poi quelle risposte vaghe, in cui dice che va tutto bene e che ha

solo bisogno di un po' di spazio. A quel punto il discorso del tipo "non dipende da te, sono

io". E infine le lacrime.

Non aveva mai immaginato che una cosa del genere sarebbe potuta succedere a lei e

Jace. Quello che c'era fra loro non era qualcosa di normale, che obbediva alle solite regole

delle coppie che si prendono e poi si lasciano. Loro appartenevano l'uno all'altra in

maniera totale, e sarebbe stato così per sempre, fine del discorso.

O magari tutti la pensavano così, finché poi si rendevano conto che erano come tutti gli

altri e che quello che ritenevano eterno era andato in mille pezzi?

Qualcosa di argenteo che luccicava, dall'altra parte della stanza, attirò il suo sguardo. Era

il libro che Jace aveva ricevuto da Amatis, con quel raffinato disegno di uccelli. Sapeva che

lo stava leggendo a poco a poco, assaporandone lentamente le parole, analizzando tutti gli

appunti e le immagini. Lui non le aveva detto molto, in proposito, e lei non aveva voluto

impicciarsi; i sentimenti di Jace verso il proprio padre biologico erano una cosa con cui

avrebbe dovuto fare i conti da solo.

Eppure ora si sentiva attirata dalla scatola. Si ricordò ili Jace seduto sui gradini frontali

della Sala degli Accordi di Idris, con la scatola sulle ginocchia. Come se potessi smettere di

amarti, aveva detto. Clary toccò il coperchio del contenitore e le sue dita trovarono la

fibbia, che si aprì subito. All'interno c'erano dei fogli sparsi e delle vecchie fotografie. Ne

prese una e la osservò, incantata. C'erano due persone, una ragazza e un ragazzo.

Riconobbe subito lei: era la sorella di Luke, Amatis. Guardava in su, verso quel giovane

uomo con tutto il fulgore del primo amore. Lui era bello, alto e biondo, però, diversamente

da Jace, aveva gli occhi azzurri, non ambrati, e i lineamenti erano meno spigolosi. Eppure

sapere chi era, cioè il padre di Jace, bastava per far stringere a Clary lo stomaco.

Rimise subito giù la foto di Stephen Herondale e per poco non si tagliò un dito con la

lama di un sottile pugnale da caccia che giaceva di traverso all'interno della scatola.

Sull'impugnatura erano incisi degli uccelli. La lama era macchiata di ruggine, o di

qualcosa che sembrava tale. Probabilmente non era stato pulito per bene. Richiuse in fretta

il contenitore e si allontanò, col senso di colpa che le pesava sulle spalle.

All'inizio aveva pensato di lasciare un biglietto, ma poi aveva deciso che sarebbe stato,

meglio aspettare di poter parlare con Jace di persona, perciò uscì dalla stanza e attraversò

il corridoio in direzione dell'ascensore. Prima aveva bussato alla porta di Isabelle, ma a

quanto pareva non c'era nemmeno lei. Anche le torce di stregaluce dei corridoi

sembravano brillare meno intensamente del solito. Clary, con addosso un senso di

profonda depressione, fece per premere il tasto di chiamata dell'ascensore ma... si accorse

che era già illuminato. Qualcuno stava salendo dal piano terra dell'Istituto.

Jace, pensò immediatamente mentre il cuore le balzava in gola. Ma no, non poteva essere

lui, si disse, magari era Izzy, o Maryse, o...

— Luke? — disse con stupore quando la porta dell'ascensore si aprì. — Che cosa ci fai

qui?

— Potrei farti la stessa domanda. — Luke uscì dall’ ascensore e richiuse il cancello alle

sue spalle. Indossava la giacca di flanella, chiusa con una zip e foderata di lana, che

Jocelyn lo implorava di buttare sin da quando avevano iniziato a uscire insieme. Era bello,

pensò Clary, che niente sembrava in grado di cambiare Luke, qualunque cosa accadesse

nella sua vita. Gli piaceva quello che gli piaceva, punto e basta, anche se si trattava di una

giacca cenciosa — Io però posso immaginarmelo... Lui è qui?

— Jace? No — disse Clary facendo spallucce e cercando di nascondere la

preoccupazione. — Non fa niente, lo vedrò domani.

Luke esitò. — Clary...

— Lucian. — La voce fredda che arrivò da dietro di loro era quella di Maryse. — Grazie

per essere arrivato subito.

Luke si voltò per farle un cenno. — Maryse.

Maryse Lightwood era in piedi sulla porta, con una mano delicatamente appoggiata

sullo stipite. Indossava dei guanti color grigio chiaro che si abbinavano alla gonna di

sartoria della stessa tinta. Clary si chiese se Maryse avesse mai portato un paio di jeans:

non aveva mai visto la madre di Isabelle e di Alec con indosso qualcosa che non fosse un

tailleur o la divisa da Shadowhunter. — Clary — disse. — Non mi ero accorta che ci fossi

anche tu.

Clary si sentì arrossire. Sembrava che a Maryse non importasse il suo andirivieni, ma

forse non si era neanche resa conto della relazione fra lei e Jace. Come biasimarla: stava

ancora cercando di superare la morte di Max, avvenuta solo sei settimane prima, e lo stava

facendo da sola, con Robert Lightwood ancora a Idris. Per la testa aveva cose ben più

importanti della vita sentimentale di Jace.

— Me ne stavo appunto andando — disse Clary.

— Quando ho finito qui ti do un passaggio verso casa — propose Luke, mettendole una

mano sulla spalla. — Maryse, per te è un problema se Clary sta con noi mentre parliamo?

Preferirei ci fosse anche lei.

Maryse scosse la testa. — Direi che non c'è problema. — Fece un sospiro e si pettinò i

capelli con le dita. — Credimi, l'ultima cosa che vorrei fare è darti dei pensieri proprio in

questo momento. So che la settimana prossima ti sposi... A proposito, auguri. Non so te li

ho già fatti.

— No — disse Luke. — Ma li apprezzo, grazie.

— Solo sei settimane — disse Maryse con un sorriso stanco. — Un corteggiamento

piuttosto intenso.

La mano di Luke si strinse sulla spalla di Clary, unico segnale del fastidio che stava

provando. — Suppongo che tu non mi abbia fatto venire fin qui solo per farmi gli auguri

di nozze, o sbaglio?

Maryse fece di no con la testa. Aveva l'aria molto stanca, pensò Clary, e nei suoi capelli

neri raccolti sopra la testa spuntava qualche ciocca grigia che prima non c'era. — Non

sbagli. Avrai sentito, immagino, dei cadaveri che abbiamo ritrovato nell'ultima settimana,

vero?

— Gli Shadowhunters morti, sì.

— Stasera ne abbiamo trovato un altro. Infilato in un cassonetto dell'immondizia, vicino

a Columbus Park, territorio del tuo branco.

Luke sollevò le sopracciglia. — Sì, ma gli altri...

— Il primo è stato trovato a Greenpoint, dominio degli stregoni. Il secondo galleggiava

in uno stagno di Central Park, di competenza delle fate. E adesso la zona dei lupi

mannari... — Tenne lo sguardo fisso su di Luke. — A te cosa viene in mente?

— Che qualcuno non molto contento dei nuovi Accordi sta cercando di mettere i

Nascosti gli uni contro gli altri — rispose Luke. — Ti posso assicurare che il mio branco è

del tutto estraneo alla faccenda. Non so chi ci sta dietro, ma, se vuoi la mia opinione, lo

trovo un tentativo decisamente maldestro. Spero che il Conclave riesca a vederci chiaro, in

questa faccenda.

— Non è finita qui — riprese Maryse. — Abbiamo identificato i primi due cadaveri. C'è

voluto del tempo, perché il primo era carbonizzato, quasi irriconoscibile, e il secondo in

avanzato stato di decomposizione. Non vuoi indovinare di chi potrebbe trattarsi?

— Maryse...

— Anson Pangborn — disse la donna — e Charles Freeman. Ti faccio notare che di

nessuno dei due si avevano notizie dal momento della morte di Valentine...

Ma non è possibile — la interruppe Clary. — Luke ha ucciso Pangborn ad agosto... da

Renwick.

— Ha ucciso Emil Pangborn — spiegò Maryse. — Anson era suo fratello minore.

Entrambi erano nel Circolo.

— Come Freeman — osservò Luke. — Allora c'è qualcuno che non uccide solo gli

Shadowhunters, ma gli ex membri del Circolo? E che lascia i loro cadaveri sul territorio

dei Nascosti? — Scosse il capo. — Sembra quasi che qualcuno stia cercando di dare una

scossa ad alcuni dei membri più... recalcitranti del Conclave. Magari per convincerli a

ripensare ai nuovi Accordi. Avremmo dovuto aspettarcelo.

— Forse sì — rispose Maryse. — Ho già avuto un incontro con la Regina della Corte

Seelie e ho mandato un messaggio per Magnus, ovunque sia. — Alzò gli occhi al cielo.

Sembrava che lei e Robert avessero accettato la relazione di Alec e Magnus con

sorprendente benevolenza, anche se in realtà, pensava Clary, non la prendevano troppo

sul serio. — In tal caso... — si interruppe con un sospiro. — Sono così esausta, in questo

periodo, mi sento come se non riuscissi nemmeno a pensare razionalmente. Speravo che tu

avessi qualche idea su chi possa essere il colpevole, qualche idea che a me non è venuta in

mente.

Luke scosse la testa. — Sarà qualcuno che nutre rancore contro il nuovo sistema, ma

potrebbe trattarsi di chiunque. Sui corpi non sono stati trovati indizi, vero?

Maryse sospirò di nuovo. — Niente di concreto. Se i cadaveri potessero parlare... vero,

Lucian?

Era come se Maryse avesse sollevato una mano per tirare una tenda davanti agli occhi di

Clary: si fece tutto nero, tranne un unico simbolo, sospeso come un cartello luminoso sullo

sfondo di un vuoto cielo notturno.

Forse, dopotutto, i suoi poteri non erano svaniti.

— E se... — disse piano, alzando-lo sguardo verso Maryse. — E se potessero farlo?

Guardandosi nello specchio del bagno del piccolo appartamento di Kyle, Simon non

riusciva a fare a meno di chiedersi da dove saltasse fuori quella storia sui vampiri che non

possono vedere il proprio riflesso. Lui, su quella superficie un po' ammaccata, ci stava

riuscendo senza problemi. Capelli castani arruffati, grandi occhi dello stesso colore, pelle

bianca e senza difetti. Si era pulito con una spugna il sangue uscito dal labbro tagliato, ma

la ferita si era già rimarginata.

Sapeva, da un punto di vista oggettivo, che essere diventato un vampiro lo aveva reso

più attraente. Isabelle gli aveva spiegato che i suoi movimenti si erano fatti più armoniosi

e che se prima sembrava disordinato e basta, adesso aveva quell'accattivante aria

scompigliata di chi è appena sceso dal letto.

— Dal letto di qualcun altro — aveva specificato. Eppure, quando si guardava allo

specchio, non vedeva niente di tutto ciò. Il bianco uniforme della pelle, come sempre, lo

inquietava, e lo stesso facevano le vene scure e ramificate che si intravedevano all'altezza

delle tempie, segno del fatto che quel giorno non aveva mangiato. Si vedeva come un

alieno, non come se stesso. Forse tutta la storia di non potersi vedere allo specchio quando

ci si è trasformati in vampiri era una metafora: il senso era l'incapacità di riconoscersi nel

riflesso davanti ai propri occhi.

Una volta asciugatosi, tornò in soggiorno, dove Jace era sdraiato sul divano a leggere

una copia malconcia del Signore degli anelli. La appoggiò sul tavolino non appena vide

Simon. Aveva i capelli che sembravano bagnati da poco, come se si fosse sciacquato il viso

con dell'acqua nel lavandino della cucina.

— Ora capisco perché ti piace stare qui — disse a Simon indicando, con un gesto del

braccio, tutta la collezione di locandine e libri di fantascienza di Kyle. — Questo è il

paradiso dei nerd!

— Grazie, gentile. — Simon studiò Jace con attenzione. Da vicino, sotto la luce intensa e

diretta della lampadina, Jace gli sembrava... malato. Le ombre scure che gli aveva notato

poco prima sotto gli occhi erano ora più evidenti che mai, e la pelle sembrava

letteralmente tirata sopra le ossa della faccia. La mano gli tremava un po' mentre si

allontanava i capelli dalla fronte con il suo gesto tipico.

Simon scosse la testa come per scacciare quel pensiero. Da quando conosceva Jace così

bene da capire quali fossero i suoi gesti tipici? Non erano mica amici! — Che brutta cera —

gli venne però spontaneo dirgli.

Jace lo guardò perplesso. — Momento insolito per iniziare una gara di insulti, ma se

insisti potrei farmi venire in mente qualcosa di simpatico.

— No, dico sul serio. Non hai un bell'aspetto.

— E me lo viene a dire un tizio con il sex appeal di un pinguino? Senti, capisco che

magari sei geloso perché il Padreterno con te non è stato straordinariamente generoso

come con me, ma non è un buon motivo per...

— Non sto cercando di insultarti, okay? — ribatté Simon. — Sembri malato. Quand'è

l'ultima volta che hai mangiato?

Jace ci pensò su. — Ieri?

— Ieri hai mangiato qualcosa. Ne sei sicuro? L'altro fece spallucce. — Be', non ci

metterei la mano sul fuoco. Comunque credo sia stato ieri, sì.

Perlustrando l'appartamento di Kyle, Simon aveva indagato anche sul contenuto del

frigorifero e non aveva trovato molto. Un limone raggrinzito, lattine di bibite, mezzo chilo

di carne macinata e, inspiegabilmente, una barretta di cereali nel freezer. Prese il suo

mazzo di chiavi dal bancone della cucina. — Seguimi — disse a Jace. — C'è un

supermercato all'angolo. Andiamo a comprare qualcosa da mangiare.

Jace sembrava sul punto di obiettare, ma alla fine scrollò le spalle in segno di resa. —

Bene — disse, con il tono di uno a cui non importa granché di dove stia andando o di cosa

stia per fare. — Andiamo.

Sui gradini dell'ingresso, Simon si fermò per chiudere la porta con le chiavi che ancora

stava imparando a usare, mentre Jace esaminava la lista di nomi allineati accanto ai

campanelli del citofono.

— Quello è il tuo, vero? — chiese indicando l'interno 3A. — Come mai dice solo "Kyle"?

Non ha un cognome?

— Kyle vuole diventare una rockstar — spiegò Simon scendendo i gradini. — Credo stia

lavorando a un nome d'arte. Tipo Rihanna.

Jace lo seguì, incurvando leggermente le spalle al vento, ma senza nemmeno tentare di

chiudere la lampo della giacca scamosciata recuperata da Clary quel giorno. — Non ho la

minima idea di quello che stai dicendo.

— Non avevo dubbi.

Mentre svoltavano l'angolo sulla Avenue B, Simon guardò Jace di traverso. — E quindi?

— gli chiese. — Mi stavi seguendo?. O il fatto che ti trovavi sul tetto di un edificio di fianco

al quale stavo camminando quando mi hanno attaccato è stata solo un'incredibile

coincidenza.

Jace si fermò sull'angolo, per aspettare che scattasse il semaforo. A quanto pareva anche

gli Shadowhunters dovevano sottostare alle leggi del traffico. — Ti stavo seguendo.

— Questa è la parte in cui mi dici che sei segretamente innamorato di me? Il fascino del

vampiro colpisce ancora!

— Il fascino del vampiro non esiste — ribatté Jace, citando con fare piuttosto sinistro un

commento già espresso da Clary. — E stavo seguendo Clary, ma poi lei ha preso un taxi, e

i taxi non so seguirli. Così sono tornato indietro e mi sono messo a tallonare te. Tanto per

fare qualcosa.

Stavi seguendo Clary? — ripeté Simon. — Ti do un consiglio prezioso: alla maggior parte

delle ragazze non piacciono i maniaci persecutori.

— Ha lasciato il telefono nella tasca della mia giacca — spiegò Jace dandosi una pacca

nel punto dove, a quanto pareva, era rimasto l'apparecchio. — Ho pensato che se capivo

dov'era diretta, avrei potuto lasciarlo in un punto in cui lo avrebbe trovato da sola.

— Oppure — disse Simon — avresti potuto chiamarla a casa e dirle che avevi il suo

cellulare, e lei sarebbe potuta venire a riprenderlo da te.

Jace non disse nulla. Il semaforo scattò e i due ragazzi puntarono verso il supermercato

C-Town, dall'altra parte della strada. Era ancora aperto. A Simon venne in mente che certi

negozi di Manhattan non chiudevano mai, una bella novità rispetto a Brooklyn. Sì,

Manhattan era un bel posto per un vampiro: potevi andare a fare la spesa a mezzanotte e

nessuno ti avrebbe guardato male.

— Stai evitando Clary — concluse Simon. — E immagino che non mi vuoi dire perché,

giusto?

— Giusto — rispose Jace. — Comincia a ritenerti fortunato per il fatto che ti stavo

seguendo, altrimenti...

— Altrimenti cosa? Ci sarebbe un altro aggressore morto? — Simon riusciva a sentire il

tono aspro con cui parlava. — Hai visto cosa è successo.

— Sì. E ho anche visto che faccia avevi tu mentre succedeva. — Jace parlava in tono

neutrale. — Non era la prima volta che ti capitava una cosa del genere, vero?

A Simon venne spontaneo raccontare dell'individuo con la tuta che lo aveva attaccato a

Williamsburg, da lui considerato un rapinatore qualunque. — Quando è morto, si è

trasformato in sale — disse. — Proprio come il secondo tizio. Credo si tratti di una

faccenda biblica... Colonne di sale, come la moglie di Lot.

Avevano raggiunto il supermercato; Jace spinse la porta e Simon lo seguì, prendendo un

carrellino fra quelli disposti accanto all'ingresso. Si mise a spingerlo lungo una delle corsie

e Jace gli andò dietro, visibilmente assorto nei suoi pensieri. — Credo che la questione sia:

hai idea di chi potrebbe volerti uccidere? — chiese di colpo a Simon.

Simon scrollò le spalle. La vista di tutto quel cibo attorno a sé gli faceva venire i crampi

allo stomaco, ricordandogli quanto avesse fame. Ma non delle cose in vendita su quegli

scaffali. — Forse Raphael. A quanto pare mi odia, e mi voleva morto prima che...

— Non è Raphael — lo interruppe Jace.

— Come fai a esserne così sicuro?

— Perché Raphael sa del tuo Marchio e non sarebbe così stupido da aggredirti in modo

tanto diretto. Sa bene quali sarebbero le conseguenze. Chiunque sia sulle tue tracce, è

qualcuno che ti conosce abbastanza da prevedere le tue mosse, ma non da sapere che hai il

Marchio.

Ma potrebbe essere chiunque.

— Esatto — gli confermò Jace sorridendo. Per un istante sembrò quasi tornare se stesso.

Simon scosse la testa. — Senti, sai già cosa ti andrebbe ili mangiare o vuoi che continui a

spingere questo carrello su e giù dalle corsie solo perché ti diverte?

— Questo di sicuro — disse Jace. — E in più non conosco bene la roba che vendono nei

negozi di alimentari mondani. Di solito cucina Maryse, oppure ordiniamo cibo d'asporto.

— Detto questo, fece un'alzata di spalle e prese un frutto a caso. — Che cos'è?

— Un mango. — Simon fissò Jace. A volte sembrava davvero che gli Shadowhunters

venissero da un pianeta alieno.

— Non credo di averne mai visto uno che non fosse già a pezzi — rifletté Jace. — Il

mango mi piace.

Simon agguantò il frutto e lo buttò nel carrello. — Fantastico. Cos'altro ti piace?

Jace ci pensò su un istante. — La zuppa di pomodoro — disse infine.

— Zuppa di pomodoro? Per cena vuoi zuppa di pomodoro e un mango?

Jace fece spallucce. — Non è che mi importi molto del cibo.

— Bene. Come vuoi. Tu resta qui, io torno subito. — Shadowhunters, mormorò fra sé

Simon, esasperato, svoltando l'angolo di una corsia piena di scatolame. Quella gente era

uno strano incrocio fra dei miliardari - ossia gente che non si è mai dovuta preoccupare del

lato pratico della vita, tipo fare la spesa o comprare il biglietto del metrò alle macchinette -

e dei militari, con la loro severa autodisciplina e il postante addestramento. Forse per loro

era più facile correre attraverso la vita con il paraocchi, pensò prendendo dallo scaffale

una zuppa in scatola. Magari era un atteggiamento necessario per mantenere la

concentrazione sullo scopo finale, scopo che, se il tuo lavoro consiste nel difendere il mon-

do dal male, è in effetti piuttosto impegnativo.

Mentre si avvicinava alla corsia dove aveva lasciato Jace, quasi provava compassione

per lui. A un tratto si fermò. Jace era appoggiato al carrello, e fra le mani rigirava

qualcosa. Da quella distanza Simon non capiva cosa fosse, ma non poteva avvicinarsi,

perché due ragazze gli bloccavano la strada, ferme in mezzo alla corsia a ridacchiare e

bisbigliare vicine vicine in quel modo tipico delle donne. Si erano chiaramente vestite per

sembrare più grandi: tacchi alti, gonna corta, reggiseno imbottito e nessuna giacca per

ripararsi dal freddo.

Sapevano di lucidalabbra. Di lucidalabbra, borotalco e... sangue.

Malgrado stessero sussurrando, Simon riusciva a sentirle benissimo. Stavano parlando di

Jace, di quanto fosse carino, e si sfidavano a vicenda ad andargli a parlare. Erano in corso

grandi discussioni sui suoi capelli e anche sugli addominali, anche se Simon non capiva

bene come facessero a vederli sotto la maglietta. Bleah! Pensò. Tutto questo è ridicolo.

Stava per dire "Scusatemi", quando una delle due, quella più alta e coi capelli più scuri,

partì all'attacco di Jace, barcollando leggermente sulle scarpe coi tacchi. Simon rimase a

guardarla mentre si avvicinava a Jace, che nel frattempo aveva assunto un'espressione

diffidente, e a un tratto venne colto dall'agghiacciante timore che l'altro avrebbe potuto

scambiare la ragazza per un vampiro o un qualche demone, estrarre di punto in bianco

una delle sue lame dei serafini e finire in galera insieme a lui Non doveva preoccuparsi.

Jace si limitò a sollevare un sopracciglio. La ragazza, senza fiato, gli disse qualcosa. Lui

scrollò le spalle, lei gli premette qualcosa nella mano e tornò subito dall'amica, finché le

due non uscirono insieme dal negozio ridacchiando e ondeggiando sui tacchi.

Simon a quel punto raggiunse Jace e buttò la lattina di zuppa nel carrello. — E allora?

Cosa è successo?

— Se non sbaglio — rispose l'altro — ha chiesto se poteva toccarmi il mango.

— Eeeh? Sul serio?

Jace fece spallucce. — Sì, e poi mi ha lasciato il suo numero di telefono — aggiunse

mostrando a Simon, con blanda indifferenza, un pezzo di carta che poi buttò nel carrello.

— Ora possiamo andare?

— Non la chiamerai, vero?

Jace lo guardò come se fosse pazzo.

— Scusami, come non detto. A te queste cose succedono di continuo, eh? Le ragazze ti

piovono fra le braccia.

— Solo se non sono sotto incantesimo.

— Certo, perché quando lo sei le ragazze non ti vedono. Non possono, sei invisibile! —

Simon scosse la testa. — Sei una minaccia pubblica. Non dovrebbero darti il permesso di

girare a piede libero.

— Che brutto sentimento, Simon Lewis, l'invidia... — Jace fece uno di quei sorrisi

sghembi che in genere avrebbero fatto venire a Simon la voglia di tirargli un pugno in

faccia. Non quella volta, però. Aveva appena capito cos'era l'oggetto con cui Jace stava

giocherellando, girandolo e rigirandolo fra le dita come se fosse qualcosa di prezioso e

pericoloso allo stesso tempo. Era il cellulare di Clary.

— Ancora non sono sicuro che sia una buona idea — disse Luke.

Clary, con le braccia incrociate sul petto per difendersi dal freddo della Città Silente, lo

stava guardando di traverso. — Magari avresti potuto dirlo prima che venissimo qui.

— Sono abbastanza sicuro di averlo detto. E diverse volte. — La voce di Luke riverberò

contro i pilastri che si innalzavano fin sopra le loro teste, fatti di pietra a venature colorate

di onice nera, giada verde, corniola rosa, lapislazzuli blu. Attaccate ai pilastri c'erano delle

torce di stregaluce che illuminavano i sarcofagi disposti lungo ogni parete e di un bianco

così intenso da far quasi male agli occhi.

La Città Silente era cambiata poco, dall'ultima volta che Clary l'aveva vista. Sembrava

ancora un luogo alieno, misterioso, anche se le rune incise sui pavimenti, che si

rincorrevano formando spirali e schemi ripetuti, invece di risultarle totalmente

incomprensibili, ora le stuzzicavano la mente con i loro molteplici significati. Maryse

aveva lasciato lei e Luke in quell'atrio appena erano arrivati, preferendo andare di persona

a colloquio con i Fratelli Silenti. Aveva inoltre avvisato Clary che non c'erano garanzie che

li avrebbero lasciati entrare tutti e t re a vedere i corpi. I Nephilim morti erano competenza

dei guardiani della Città di Ossa e nessun altro aveva potere su di loro.

Non che fossero rimasti molti guardiani del genere. Valentine li aveva uccisi quasi tutti

mentre cercava la Spada Mortale, lasciando in vita solo quelli che, in quel momento, non si

trovavano nella Città Silente. Da allora erano stati aggiunti nuovi membri all'ordine, ma

Clary dubitava che al mondo ci fossero più di dieci o quindici Fratelli Silenti in tutto.

Il forte rumore dei tacchi di Maryse sul pavimento di pietra li avvertì del suo imminente

ritorno prima che la vedessero ricomparire, seguita da un Fratello Silente avvolto nella sua

tunica. — Eccovi qui — disse, come se Clary e Luke non fossero esattamente dove li aveva

lasciati. — Questo è fratello Zaccaria. Fratello Zaccaria, questa è la ragazza di cui ti

parlavo.

Il Fratello Silente si scostò il cappuccio dal viso, molto lentamente. Clary cercò di non

lasciare trasparire lo stupore: non aveva l'aspetto di fratello Geremia, con la bocca cucita e

gli occhi infossati. Quelli di fratello Zaccaria erano chiusi e i suoi zigomi erano segnati

ciascuno dalla cicatrice di una runa nera. La bocca non era serrata con dei punti e, secondo

Clary, i capelli non erano rasati, anche se con il cappuccio alzato era difficile dire se stava

vedendo delle ombre o una chioma scura.

Si sentì toccare la mente dalla sua voce. Pensi davvero di poterlo fare, figlia di Valentine?

Si sentì arrossire. Non sopportava che le ricordassero di chi era figlia.

— Di sicuro avrai sentito parlare delle altre cose che ha fatto — intervenne Luke. — La

sua runa dell'alleanza ci ha aiutato a concludere la Guerra Mortale.

Fratello Zaccaria si coprì di nuovo il volto con il cappuccio. Vieni con me all'Ossario.

Clary guardò Luke, sperando di ricevere un cenno d'incoraggiamento, ma lui teneva lo

sguardo dritto e maneggiava gli occhiali come faceva sempre quando era in ansia. Clary

fece un sospiro e si mise a seguire Maryse e fratello Zaccaria, che si muoveva silenzioso

come la nebbia, mentre i tacchi della donna risuonavano sui pavimenti di pietra come

spari. Clary si chiese se la predilezione di Isabelle per le calzature scomode fosse di natura

genetica.

Seguirono un percorso tortuoso attraverso i pilastri, oltrepassando la grande piazza delle

Stelle Parlanti, dove i Fratelli Silenti avevano detto a Clary di Magnus Bane. Al di là di

quel punto c'era un ingresso sovrastato da un arco e chiuso con due enormi battenti di

ferro. Sopra vi erano marchiate a fuoco delle rune che Clary riconobbe come rune di morte

e di pace. Compariva inoltre un'iscrizione latina che le fece desiderare di aver portato con

sé i suoi appunti: per essere una Shadowhunter, col latino era molto indietro; la maggior

parte di loro lo parlava come seconda lingua.

Taceant colloquia. Effugiat risus. Hic locus est ubi nìors gaudet succurrere vitae.

— Cessino le conversazioni. Si spengano le risate — tradusse Luke ad alta voce. —

Questo è il luogo dove la morte e lieta di soccorrere la vita.

Fratello Zaccaria appoggiò una mano sulla porta. L'ultimo degli assassinati è stato

preparato per te. Sei pronta?

Clary deglutì forte, chiedendosi in cosa di preciso si fosse cacciata. — Pronta.

La porta si spalancò e tutti entrarono. Dentro c'era una stanza grande e senza finestre,

con le pareti di marmo bianco e liscio. Erano completamente spoglie, a eccezione dei ganci

a cui erano appesi degli strumenti d'argento per la dissezione dei cadaveri. Scalpelli

lucenti, arnesi che ricordavano dei martelli, seghe ortopediche, divaricatori costali.

Accanto a quelli, su dei ripiani, c'erano altri strumenti ancora più strani: aggeggi simili a

enormi cavatappi, fogli di carta vetrata e ampolle di liquidi multicolori, fra cui una con

l'etichetta "Acido" che sembrava emettere fumo.

Al centro della stanza c'era una fila di alti tavoli di marmo, per la maggior parte vuoti.

Tre però erano occupati e su due di essi Clary riuscì a intravedere una sagoma umana

coperta da un lenzuolo bianco. Sul terzo tavolo c'era un corpo con il lenzuolo abbassato fin

sotto la gabbia toracica. Nudo dalla vita in su, era chiaramente un uomo e altrettanto

chiaramente uno Shadowhunter. La pelle cadaverica era completamente coperta di

marchi, come voleva la tradizione della specie.

Clary ricacciò indietro l'ondata di nausea che le stava salendo dallo stomaco e si avvicinò

al cadavere. Luke la seguì, tenendole una mano sulla spalla con fare protettivo; Maryse era

in piedi di fronte a loro e osservava tutto con occhi curiosi, azzurri come quelli di Alee.

Clary prese dalla tasca il suo stilo. Mentre si chinava sull'uomo morto, sentiva il freddo

del marmo che le penetrava dentro la maglietta. Da quella distanza ravvicinata riusciva a

vedere i particolari della salma: i capelli erano color castano ramato e la gola incisa con

precisione da tagli verticali, come avrebbe potuto fare un enorme artiglio.

Fratello Zaccaria si fece avanti per togliere la benda di seta che copriva gli occhi del

defunto; erano chiusi. Puoi cominciare.

Clary fece un respiro profondo e appoggiò la punta dello stilo sulla pelle del cadavere,

sul braccio. La runa che aveva visualizzato prima, all'ingresso dell'Istituto, le tornò in

mente chiara quanto le lettere che componevano il suo stesso nome. Iniziò a disegnare.

Le linee del marchio nero uscirono a spirale dalla punta dello stilo, come avevano

sempre fatto, ma questa volta Clary sentiva la mano pesante e lo stilo che si muoveva

lentamente, come se anziché sulla pelle stesse scrivendo nel fango: era come se lo

strumento fosse confuso e si spostasse qua e là sulla superficie di quel corpo morto alla

ricerca dello spirito vitale che non c'era più. Mentre disegnava, Clary si sentì un nodo allo

stomaco; quando finì e rialzò lo stilo, stava sudando e aveva la nausea.

Per un lungo istante non accadde nulla. Poi, in modo improvviso e terribile, gli occhi

dello Shadowhunter morto si spalancarono. L'iride era azzurra, la sclera a chiazze rosse di

sangue.

Maryse trasalì, e dalla sua reazione si dedusse che probabilmente non aveva davvero

creduto ai poteri delle rune. — Per l'Angelo!

Dal cadavere giunse un respiro rantolante, il suono di qualcuno che cercava di respirare

attraverso una gola tagliata. La pelle dilaniata del collo si muoveva come le pinne di un

pesce. Il petto dell'uomo si gonfiò e dalla sua bocca uscirono delle parole.

— Fa male...

Luke imprecò e guardò verso Zaccaria, ma il Fratello Silente era impassibile.

Maryse si avvicinò al tavolo, mentre lo sguardo le si era fatto di colpo tagliente, quasi da

predatrice. — Shadowhunter — disse. — Chi sei? Voglio sapere il tuo nome.

La testa dell'uomo si dibatteva a destra e a sinistra, le mani si alzavano e abbassavano

convulsamente. — Il dolore... Fermate questo dolore.

Per poco a Clary non cadde lo stilo dalla mano. Era ancora più orribile di quanto si fosse

immaginata. Guardò verso Luke e vide che, con gli occhi spalancati per l'orrore, stava

indietreggiando dal tavolo.

— Shadowhunter — ripeté Maryse, in tono perentorio. — Chi è stato a farti questo?

— Vi prego...

Luke si girò, dando le spalle a Clary. Sembrava stesse rovistando fra gli strumenti dei

Fratelli Silenti. Clary restò impietrita quando vide la mano di Maryse, ricoperta dal guanto

grigio, che scattava e si stringeva attorno alla spalla del cadavere, affondando le dita nella

carne. — In nome dell'Angelo, ti ordino di rispondermi.

Lo Shadowhunter tossì. — Nascosto... Vampiro...

— Quale vampiro? — chiese Maryse.

— Camille, la venerabile vampira... — Il suono di quelle parole si smorzò quando, dalla

bocca del defunto, uscì una goccia di sangue nero raggrumato.

Maryse trasalì e ritrasse subito la mano. In quell'istante ricomparve Luke, con in mano

l'ampolla di acido verde che Clary aveva notato poco prima. Tolse il coperchio con un

unico gesto e riversò il contenuto sul marchio appena tracciato sul braccio del cadavere,

sfigurandolo. Il cadavere, mentre la sua pelle sfrigolava, lanciò un grido, dopodiché

ricadde all'indietro sul tavolo con lo sguardo vuoto e fisso, dimentico di qualsiasi forza lo

avesse riportato in vita per quel breve periodo.

Luke appoggiò l'ampolla sul tavolo. — Maryse — le disse in tono di rimprovero. — Non

è così che trattiamo i nostri morti.

— Lo decido io come trattiamo i nostri morti, Nascosto. — Maryse era pallida e aveva le

guance chiazzate di rosso. — Ora abbiamo un nome, Camille, e forse possiamo evitare

altre morti.

— Ci sono cose peggiori della morte. — Luke allungò un braccio verso Clary, senza

guardarla. — Vieni, Clary. Credo che per noi sia arrivato il momento di andare.

— Davvero non ti viene in mente nessun altro che potrebbe volerti uccidere? — chiese

Jace, non per la prima volta. Avevano passato in rassegna l'elenco diverse volte, e Simon si

stava stancando di sentirsi fare sempre le stesse domande. Per non parlare del fatto che,

secondo lui, Jace gli stava prestando attenzione solo in parte. Mangiata la zuppa che aveva

comprato al supermercato (fredda, direttamente dalla lattina con il cucchiaio, cosa che non

aveva potuto fare a meno di trovare disgustosa), Jace se ne stava appoggiato alla finestra

con la tenda scostata leggermente, per poter vedere il traffico che scorreva su Avenue B e

le finestre illuminate degli appartamenti dall'altra parte della strada. Al loro interno Simon

vedeva gente che cenava, guardava la tele, sedeva a parlare attorno a un tavolo. Cose

normali fatte da gente normale. E questo lo faceva sentire stranamente vuoto.

— A differenza di quanto succede a te — rispose Simon — devo dire che non ci sono

molte persone a cui non piaccio.

Jace lo ignorò. — Mi stai nascondendo qualcosa.

Simon fece un sospiro. Non aveva voluto dire niente dell'offerta di Camille, ma di fronte

alla minaccia di qualcuno che lo voleva uccidere, mantenere il segreto forse non era una

priorità. Decise di spiegare quello che era accaduto durante l'incontro con la vampira,

mentre |ace lo osservava con sguardo attento.

Finito il racconto, Jace disse: — Interessante, ma non credo sia lei che sta cercando di

ucciderti. Innanzitutto è a conoscenza del Marchio. E non credo che muoia dalla voglia di

essere sorpresa a infrangere gli Accordi in quel modo. Quando i Nascosti sono così vecchi,

in genere sanno come tenersi alla larga dai guai. — Mise giù la lattina di zuppa. —

Potremmo uscire di nuovo — propose. — Vedere se attaccano un'altra volta. Se potessimo

catturarne uno, allora forse...

— No — si oppose Simon. — Perché cerchi continuamente di farti uccidere?

— È il mio mestiere.

È un pericolo del tuo mestiere, o almeno è così per gran parte degli Shadowhunters. Nel

tuo caso invece sembra lo scopo finale.

Jace scrollò le spalle. — Mio padre diceva sempre che... — Si interruppe, e i lineamenti

gli si irrigidirono. — Ehm, volevo dire Valentine. Per l'Angelo, ogni volta che lo chiamo

così mi sembra di tradire il mio vero padre.

Simon, suo malgrado, provò compassione per Jace. — Senti, hai pensato che fosse tuo

padre per quanto, sedici anni? Non è una cosa che si dimentica in un giorno. E non

incontrerai mai l'uomo che era davvero tuo padre. È morto, perciò in realtà non puoi

tradirlo. Pensa a te stesso come a una persona con due padri, per un po'.

— Non si possono avere due padri.

— Certo che sì — ribatté Simon. — Chi dice il contrario? Posso comprarti uno di quei

libri per bambini, Tim-myha due papà. Ma non credo ne abbiano uno intitolato Timmy ha

due papà, di cui uno cattivo. A quello dovrai pensarci da solo.

Jace alzò gli occhi al cielo. — Affascinante — disse. — Tu conosci un sacco di parole e

tutte sono scritte nel dizionario, ma quando cerchi di metterle insieme per formare delle

frasi... be', non hanno senso! — Tirò leggermente la tenda della finestra. — Comunque non

mi aspetto che tu capisca.

— Mio padre è morto — disse Simon. Jace si girò per guardarlo. — Che

cosa?

— Immaginavo che non lo sapessi — rispose l'altro. — Cioè, lo so che non mi avresti

mai chiesto o che mai ti saresti interessato a sapere qualcosa su di me. Sì, mio padre è

morto. Quindi, lo vedi, una cosa in comune ce l'abbiamo. — Sentendosi esausto

all'improvviso, Simon si appoggiò all'indietro sul divano. Sentiva nausea, capogiri e una

stanchezza, una profonda stanchezza che sembrava essergli penetrata sin dentro le ossa

face, al contrario, aveva l'aria di possedere un'energia inesauribile che Simon trovava un

po' fastidiosa. Anche guardarlo mentre mangiava quella zuppa di pomodoro non era stato

facile. Troppo simile al sangue per non agitarsi...

Jace gli lanciò un'occhiata. — Da quant'è che non... mangi? Hai un brutto aspetto.

Simon fece un sospiro. Sapeva che, dopo aver assillato Jace per mangiare qualcosa, non

era nella posizione di controbattere. — Aspetta un attimo — disse. — Torno subito.

Staccandosi piano dal divano, andò in camera sua e recuperò l'ultima bottiglia di sangue

da sotto il letto. Cercò di non guardarla: il sangue separato era uno spettacolo

nauseabondo. La scosse forte mentre tornava in soggiorno, dove Jace stava ancora

guardando fuori dalla finestra.

Appoggiandosi al bancone della cucina, aprì il tappo della bottiglia e bevve un sorso. Di

solito non gli piaceva farsi vedere dagli altri mentre lo faceva, ma si trattava di Jace, e

quello che pensava non gli interessava. E poi, non era la prima volta che Jace lo vedeva

bere sangue. Almeno Kyle non era in casa: quello sì che sarebbe stato difficile da spiegare

al suo coinquilino... Difficile riscuotere entusiasmo nei coinquilini quando si tiene del

sangue in frigo.

A guardarlo erano due Jace: uno era quello vero, l'altro il suo riflesso nel vetro. — Non

puoi continuare a non nutrirti, lo sai.

Simon scrollò le spalle. — Ora lo sto facendo.

— Già. Ma tu sei un vampiro. Il sangue per te non è come il cibo. Il sangue... è sangue —

ribatté Jace.

— Molto illuminante, grazie — fece Simon buttandosi sulla poltrona davanti al

televisore; un tempo doveva essere stata ricoperta di un velluto giallo, ma ora era talmente

consunta che si vedeva il rivestimento grigiastro sottostante. — Hai molti altri pensieri

profondi come questo? Il sangue è sangue? Un tostapane è un tostapane? Il Cubo

Gelatinoso di Dungeons & Dragons è il Cubo Gelatinoso di Dungeons &. Dragons?

Jace scrollò le spalle. — Bene, ignora pure il mio consiglio. Vedrai che te ne pentirai.

Prima che Simon potesse ribattere, sentì il rumore della porta d'ingresso che si apriva.

Fulminò Jace con lo sguardo. — È arrivato il mio coinquilino, Kyle. Fai il bravo.

Jace sorrise amabilmente. — Ma io sono sempre bravo.

Simon non ebbe la possibilità di rispondere come avrebbe voluto, perché un secondo

dopo Kyle si era già precipitato in soggiorno con lo sguardo vispo e pieno di energia. —

Cavolo, oggi ho girato tutta la città! — annunciò. — Per poco non mi sono perso, ma poi

gira di qui, gira di là... — Si fermò a guardare Jace, accorgendosi solo in quel momento che

nella stanza c'era un'altra persona. — Oh, ciao. Non sapevo che avessi portato un amico.

— Porse a Jace la mano. — Kyle, piacere.

Jace non rispose allo stesso modo. Con grande sorpresa di Simon, si era completamente

irrigidito; gli occhi ambrati erano diventati fessure e l'intero corpo mostrava i segnali di

quello stato di allerta, tipici di uno Shadowhunter, che sembravano trasformarlo da

normale adolescente in qualcosa di ben più temibile.

— Interessante — disse. — Sai, Simon non mi aveva detto che il suo nuovo coinquilino

fosse un lupo mannaro.

Clary e Luke passarono gran parte del viaggio di ritorno a Brooklyn in silenzio. Lei

guardò scorrere fuori dalla finestra prima Chinatown, poi Williamsburg Bridge, brillante

come una collana di diamanti sullo sfondo del cielo notturno. In lontananza, sull'acqua

nera del fiume, vedeva Renwick, illuminato come sempre. Ora sembrava di nuovo un

rudere, con le finestre buie che spuntavano come le orbite di un teschio. La voce dello

Shadowhunter morto le sussurrò nella mente:

Il dolore... Fermate questo dolore.

Rabbrividì e si tirò la giacca ancora più giù sulle spalle. Luke guardò Clary per un

istante, ma non disse nulla. Fu solo dopo essere arrivato di fronte a casa ed aver spento il

motore del furgone che si voltò verso di lei e aprì bocca.

— Clary — le disse — quello che hai fatto poco fa...

— È sbagliato — rispose lei. — Lo so che è sbagliato. C'ero anch'io. — Si asciugò il viso

con la manica della giacca. — Su, dai, adesso sgridami Luke guardava fisso fuori dal

parabrezza. — Non voglio sgridarti. Tu non sapevi cosa sarebbe successo. Accidenti,

anch'io pensavo che avrebbe potuto funzionare, altrimenti non ti avrei accompagnato.

Clary sapeva che lo diceva per farla sentire meglio, ma non fu così. — Se tu non avessi

buttato l'acido sulla runa...

— Ma l'ho fatto.

— Neanche sapevo che fosse possibile. Distruggere una runa così, intendo.

— Se la si sfigura abbastanza, è possibile ridurne o distruggerne i poteri. A volte capita

che, durante il combattimento, il nemico cerchi di ustionare o ferire la pelle dello

Shadowhunter proprio per privarlo del potere delle sue rune — spiegò Luke con aria

assente.

Clary sentì che le tremavano le labbra e, per fermarle, le serrò forte. A volte dimenticava

gli aspetti più inquietanti della vita da Shadowhunter: "questa vita di cicatrici e morte", le

aveva detto una volta Hodge. — Be' , non lo rifarò.

— Non rifarò cosa? Quella runa in particolare? Non ho dubbi che non la rifarai, ma non

sono certo che sia questo il punto — fece Luke tamburellando le dita sul volante. — Tu hai

un dono, Clary, un grande dono, ma non hai la minima idea di cosa significhi, non hai la

minima preparazione. Non sai quasi niente della storia delle rune, né di quello che hanno

significato nei secoli per i Nephilim. Non sai distinguere una runa disegnata per fare del

bene da una disegnata per fare del male.

— Però quando si trattava della runa dell'Alleanza sei stato contento che la usassi —

ribatté Clary con rabbia. — Quella volta non mi hai chiesto di non creare rune.

— Non ti sto dicendo di non utilizzare il tuo potere adesso. Anzi, credo che il problema

sia che lo usi troppo di rado. Non lo fai per cambiarti il colore dello smalto o per far

arrivare la metropolitana quando ti serve, lo fai solo in questi rari momenti in cui è

questione di vita o di morte.

— Le rune mi vengono solo in quelle situazioni.

— Forse succede perché non ti hanno insegnato come funziona il tuo potere. Pensa a

Magnus, il suo potere è parte di lui. Invece sembra che tu consideri il tuo come una cosa

separata da te stessa, che ti capita e basta. Non è così. È uno strumento, e devi imparare a

usarlo.

— Jace ha detto che Maryse vuole consultale un esperto di rune per farlo lavorare con

me, ma ancora non è arrivato.

— Sì — disse Luke. — Ma immagino che Maryse abbia altre cose per la mente. — Tolse

la chiave dal cruscotto e per un momento restò seduto in silenzio. — Perdere un figlio

come lei ha perso Max... non riesco a immaginarmelo. Dovrei essere più indulgente nei

suoi confronti. Se ti fosse successo qualcosa, io... — La voce gli si spense.

— Vorrei che Robert tornasse da Idris — disse Clary. — Non vedo perché Maryse

debba affrontare tutto questo da sola. Deve essere tremendo...

— Molti matrimoni finiscono quando muore un figlio. Marito e moglie non riescono a

smettere di dare la colpa a se stessi o all'altro. Immagino che Robert stia lontano proprio

perché gli serve spazio, o magari è Maryse che ne ha bisogno.

— Ma loro si amano — osservò Clary, sbalordita. — Non è questo che significa amarsi?

Essere sempre presenti per l'altra persona, qualunque cosa accada?

— Luke guardò verso il fiume, verso l'acqua scura che si muoveva lenta sotto la luce di

una luna d'autunno. — A volte, Clary — le disse — l'amore non basta.

Capitolo 7

IL PRAETOR LUPUS

La bottiglia scivolò di mano a Simon e cadde sul pavimento, dove si infranse mandando

schegge in tutte le direzioni. — Kyle è un lupo mannaro?

— Certo che sì, idiota — rispose Jace. Guardò Kyle. — O mi sbaglio?

Kyle non disse nulla. L'espressione allegra e rilassata che prima aveva in volto era

sparita, lo sguardo verde nocciola era diventato duro e senza vita come il vetro. — Chi è

che me lo chiede?

Jace si allontanò dalla finestra. Nel suo comportamento non c'era niente di apertamente

ostile, ma tutto in lui lasciava pensare a una minaccia certa. Teneva le mani penzoloni

lungo i fianchi, ma Simon si ricordava quando lo aveva visto scattare in azione senza

lasciar passare un istante tra il pensiero e l'azione. — Jace Lightwood — rispose. —

Dell'Istituto Lightwood. A quale branco sei giurato?

— Gesù! — esclamò Kyle. — Sei uno Shadowhunter? — guardò Simon. — La ragazza

carina, quella che era con te al garage... anche lei è una Shadowhunter, vero?

Colto alla sprovvista, Simon annuì.

— È che per alcune persone gli Shadowhunters sono solo leggende. Come le mummie e i

geni della lampada. — Kyle fece a Jace un sorriso. — Puoi esaudire i desideri?

Il fatto che Kyle avesse appena definito Clary "carina" non sembrava averlo reso più

simpatico a Jace, il cui viso si era fatto pericolosamente teso. — Dipende — disse. — Il tuo

desiderio è quello di ricevere un pugno in faccia?

— Ehi, ehi... E io che pensavo che in questi giorni foste tutti felici per gli Accordi... —

disse Kyle.

— Gli Accordi si applicano ai vampiri e ai licantropi con delle alleanze chiare — lo

interruppe Jace. — Dimmi di che branco fai parte, altrimenti dovrò dedurre che sei un

vagabondo.

— Okay, basta così voi due — intervenne Simon. — Piantatela di comportarvi come se

foste sul punto di picchiarvi. — Poi guardò Kyle. — Avresti dovuto dirmelo che eri un

lupo mannaro.

— Mmh... Non ricordo che tu mi abbia detto di essere un vampiro. Magari ho pensato

che non fossero affari tuoi.

Simon, per la sorpresa, si sentì scuotere dalla testa ai piedi. — Cosa?! — disse guardando

la bottiglia di vetro rotta e il sangue sul pavimento. — Io non ho... non...

—Non ti preoccupare — gli disse Jace con calma. — Lui lo sente che sei un vampiro.

Proprio come tu potresti avvertire la presenza di lupi mannari e altri Nascosti, se solo

avessi più esperienza. Conosce la tua vera identità sin dal giorno in cui ti ha incontrato.

Vero, Kyle? — chiese al ragazzo fissando il suo gelido sguardo verde nocciola con il

proprio. Kyle non disse una parola. — E quella pianta che coltiva sul balcone, poi? È

aconito strozzalupo, ora lo sai.

Simon incrociò le braccia sul petto e guardò Kyle di traverso. — Quindi cos'è tutta questa

storia? Una messinscena? Perché mi hai chiesto di venire a vivere da te? I lupi mannari

odiano i vampiri.

— Io no — rispose Kyle — anche se il genere non mi fa impazzire. — Gli puntò un dito

contro. — Pensano di essere migliori degli altri.

— No, sono io che penso di essere migliore degli altri. Un'opinione che è stata

ampiamente confermata in una vasta gamma di situazioni — intervenne Jace

Kyle guardò Simon. — Ma questo parla sempre così?

— Sì.

— Non si può fare niente per chiudergli la bocca? A parte gonfiarlo di botte,

ovviamente.

Jace si allontanò dalla finestra. — Quanto mi piacerebbe che ci provassi...

Simon si mise fra i due. — Fermi, non ho intenzione di lasciarvi picchiare.

— E che cosa faresti se... oh. — Lo sguardo di Jace si fissò sulla fronte di Simon, e a quel

punto dovette sforzarsi di sorridere. — Quindi in pratica stai minacciando di

trasformarmi in qualcosa con cui si possono condire i popcorn, se non faccio quello che

dici?

Kyle sembrava perplesso. — Che cosa...

— Penso solo che voi due dovreste parlare — lo interruppe Simon. — Dunque Kyle è

un lupo mannaro. Io sono un vampiro. E anche tu, Jace, non sei esattamente il ragazzo

della porta accanto. Io direi di cercare di capire cosa sta succedendo e partire da lì.

— La tua fiduciosa idiozia non conosce limiti — commentò Jace, ma si sedette sul

davanzale della finestra con le braccia conserte. Un momento dopo si sedette anche Kyle,

sul divano. Continuavano a guardarsi in cagnesco. Eppure, pensò Simon, è già un passo

avanti.

— Bene — disse Kyle. — Io sono un lupo mannaro. Non laccio parte di un branco, ma

un'alleanza ce l'ho. Avete mai sentito parlare del Praetor Lupus?

— Ho sentito parlare del lupus — rispose Simon. — Non e una malattia?

Jace lo fulminò con lo sguardo. — Lupus è "lupo" in latino — spiegò. — E i pretoriani

erano la guardia scelta dell'imperatore nell'antica Roma. Perciò loro sono in pratica dei

Lupi Guardiani. — Scrollò le spalle. — Ne ho incontrati una marea, ma sono

un'organizzazione piuttosto riservata.

— E gli Shadowhunters no? — disse Kyle.

— Abbiamo le nostre buone ragioni.

E noi anche — rispose l'altro piegandosi in avanti per appoggiare i gomiti sulle

ginocchia, facendo così gonfiare i bicipiti. — Esistono due categorie di lupi mannari

spiegò. — Chi lo è perché è nato da genitori come loro e chi è diventato licantropo, parola

che, per inciso, viene dal greco e vuol dire "uomo-lupo", dopo essere stato morso. —

Simon rimase a guardarlo, sorpreso. Non avrebbe mai pensato che Kyle, fattorino su due

ruote un po' perdigiorno, conoscesse parole greche. Questo però era un altro Kyle:

concentrato, deciso, diretto. — Per chi di noi è stato morso, sono fondamentali i primi

anni. La forza demoniaca che causa la licantropia porta con sé un'infinità di altri

cambiamenti: ondate di aggressività incontenibile, incapacità a tenere a bada la collera,

rabbia e disperazione suicide. Il branco può essere d'aiuto, ma molti dei neo-infetti non

sono così fortunati da trovarne uno. Sono soli, cercano di gestire quella situazione

opprimente, ma molti di loro diventano violenti, contro gli altri o contro se stessi. C'è

un'alta percentuale di suicidi e di violenze domestiche. — Detto questo guardò Simon. —

Lo stesso vale per i vampiri, se non fosse che loro a volte sono anche peggio. Un uccellino

rimasto orfano non capisce cosa gli è successo. Senza una guida, non sa come nutrirsi in

modo sicuro e nemmeno come evitare la luce del sole. Ed è a quel punto che interveniamo

noi.

— Per fare cosa? — chiese Simon.

— Individuiamo i Nascosti "orfani", ad esempio vampiri e lupi mannari appena

trasformati che ancora non sanno cosa sono. A volte anche stregoni; ce ne sono alcuni che

restano anni senza conoscere la loro vera identità. Noi interveniamo, cerchiamo di inserirli

in un branco o in un clan e li aiutiamo a tenere sotto controllo i loro poteri.

— Buoni samaritani, insomma — commentò Jace con una scintilla negli occhi.

— In pratica sì — rispose Kyle, cercando di mantenere un tono di voce neutrale.

Entriamo in gioco prima che il nuovo Nascosto possa diventare violento, facendo del male

a se stesso o agli altri. So cosa sarebbe successo a me se non fosse stato per i membri del

Praetor Lupus... Ho fatto delle cose brutte, veramente brutte.

— Quanto brutte? — chiese Jace. — Brutte legalmente?

— Taci, Jace — disse Simon. — Sei fuori servizio, okay? Piantala di fare lo

Shadowhunter almeno per un secondo. — Si voltò verso Kyle. — E quindi com'è che sei

venuto a fare un'audizione per entrare nel mio pessimo gruppo?

— Sai che è pessimo? Non pensavo!

— Rispondi alla domanda.

— Ci ha parlato di te un nuovo vampiro, un Daylighter che vive da solo e non con un

clan. Il tuo segreto non è segreto come pensi. I vampiri alle prime armi, senza un clan che

li supporti, possono essere molto pericolosi. Mi hanno detto di aiutarti.

— Dunque quello che stai dicendo non è solo che non mi butterai fuori casa perché ora

so che sei un lupo mannaro, ma che nemmeno mi lascerai andare via, giusto?

— Giusto — confermò Kyle. — Cioè, se vuoi te ne puoi andare, ma io vengo con te.

— Non è necessario — dichiarò Jace. — Posso benissimo tenere d'occhio io Simon. Lui è

il mio neofita Nascosto da prendere in giro e comandare a bacchetta, non il tuo.

— Basta! — gridò Simon. — Tutti e due. Nessuno di voi era con me, prima, quando

hanno cercato di uccidermi...

— Veramente io c'ero — disse Jace — verso la fine, almeno.

A Kyle brillarono gli occhi, come avrebbero potuto fare quelli di un lupo, di notte. —

Hanno cercato di ucciderti? E cosa è successo?

Lo sguardo di Simon incontrò quello di Jace dall'altra parte della stanza e fra i due

nacque il tacito accordo di non parlare del Marchio di Caino. — Due giorni fa, e anche

oggi, sono stato seguito e attaccato da dei tizi con La tuta grigia.

— Umani?

— Non ne siamo sicuri.

— E proprio non sai cosa vogliono da te?

— Di sicuro mi vogliono morto — rispose Simon. — Ma a parte quello non lo so.

— Abbiamo degli indizi — disse Jace. — Indagheremo.

Kyle scosse la testa. — Bene. Qualunque cosa abbiate deciso di non dirmi, sappiate che la

scoprirò comunque. — Si alzò in piedi. — E ora sono a pezzi, perciò me ne vado a

dormire. Ci vediamo domani mattina — disse a Simon. — Quanto a te... — riprese,

rivolgendosi stavolta a Jace — penso che ci beccheremo in giro. Sei il primo Shadowhunter

che conosco.

— Peccato — fece l'altro. — Perché adesso tutti quelli che incontrerai saranno una

delusione pazzesca.

Kyle sbuffò e se ne andò, sbattendo dietro di sé la porta della sua stanza.

Simon guardò Jace. — Non torni all'Istituto, vero? — gli chiese.

Jace scosse la testa. — Hai bisogno di protezione. Chi lo sa quando potrebbero di nuovo

tentare di ucciderti?

— Questa tua idea di evitare Clary ha davvero preso una svolta epica — dichiarò Simon

alzandosi. — Tornerai mai a casa?

Jace lo guardò. — E tu?

Simon entrò deciso in cucina, prese una scopa e si mise a raccogliere i frammenti di vetro

della bottiglia rotta. Era l'ultima che aveva. Buttò tutto in pattumiera e passò accanto a Jace

per dirigersi verso la sua stanza, dove si sfilò giacca e scarpe per buttarsi sul materasso.

Un momento dopo Jace lo raggiunse. Si guardò attorno con le sopracciglia sollevate e

l'espressione divertita. — Che bel posticino ti sei trovato. Minimalista. Mi piace!

Simon rotolò su un fianco e fissò Jace con aria incredula. — Ti prego, dimmi che non hai

intenzione di restare in camera mia.

Jace si sedette sul davanzale della finestra e lo guardo. — Questa cosa della guardia del

corpo proprio non la capisci, vero?

— È che non avrei mai immaginato di piacerti così tanto — ribatté Simon. — "Tieni i tuoi

amici vicini e i nemici ancora di più", è questo che vuoi fare?

— Pensavo fosse "tieni i tuoi amici vicini così hai qualcuno che guida mentre ti intrufoli

di notte in casa del nemico per vomitargli nella cassetta delle lettere".

— Sono quasi certo che non sia così. E secondo me questa storia della protezione è più

inquietante che commovente, se proprio vuoi saperlo. Io sto bene, e poi hai visto cosa

succede, se qualcuno cerca di farmi male.

— Sì, ho visto — rispose Jace. — Ma prima o poi la persona che sta cercando di farti fuori

si accorgerà del Marchio di Caino. E a quel punto avrà due possibilità: arrendersi oppure

trovare un altro modo per ucciderti. — Così dicendo, si appoggiò alla cornice della li

nostra. — Ed è per questo che sono qui.

Malgrado l'esasperazione, Simon dovette ammettere che il ragionamento di Jace filava

alla perfezione, o per lo meno abbastanza bene da non richiedere altre domande. Si sdraiò

sulla pancia e sprofondò il viso fra le braccia. Dopo pochi minuti era già addormentato.

Stava camminando nel deserto, sulla sabbia ardente, accanto a ossa che si scolorivano al sole. Mai

aveva avuto così sete. Quando deglutiva, si sentiva la bocca foderata di sabbia, e la gola bordata di

lame. Il cellulare squillò all'improvviso e Simon si svegliò.

Rotolò di lato e mise svogliatamente una mano sulla sua giacca. Quando finalmente

riuscì a sfilare il cellulare dalla tasca, aveva già smesso di suonare.

Lo girò per controllare chi lo aveva chiamato. Luke.

Accidenti. Scommetto che mia madre ha chiamato a casa di Clary per cercarmi, pensò

mettendosi a sedere sul letto. Aveva ancora la mente annebbiata dal sonno e gli ci volle un

momento per ricordarsi che, quando si era addormentato in camera sua, non era solo.

Lanciò subito uno sguardo verso la finestra. Jace era ancora là, ma adesso dormiva.

Seduto, con la testa appoggiata al vetro, era circondato dai raggi di luce pallida dell'alba.

Così sembrava molto giovane, pensò Simon. Nessuna traccia di impertinenza sul viso,

niente atteggiamenti difensivi né sarcasmo. Quasi si riusciva a immaginare quello che

Clary potesse trovare in lui.

Chiaramente non stava prendendo troppo sul serio il suo ruolo di guardia del corpo, ma

quello si era capito sin dall'inizio. Simon si chiese, non per la prima volta, cosa diavolo

stesse succedendo fra lui e Clary.

Il cellulare squillò di nuovo. Simon scattò in piedi e andò in soggiorno, premendo il tasto

di ricezione un secondo prima che entrasse per la seconda volta la segreteria telefonica. —

Luke?

— Scusami se ti ho svegliato, Simon — esordì l'altro, educato come sempre.

— No, ero sveglio — mentì il ragazzo.

— Ho bisogno di incontrarti al Washington Square Park tra mezz'ora. Alla fontana.

Ora Simon era davvero allarmato. — Tutto a posto? Clary sta bene?

— Sì, sta bene. Lei non c'entra. — In sottofondo si senti un rumore sordo, da cui Simon

intuì che Luke stava mettendo in moto il furgone. — Vieni al parco. E non portare

nessuno.

Dopo quelle parole, la linea tornò libera.

Il rumore del furgone di Luke che usciva dal vialetto svegliò Clary dai suoi sogni

tormentati. Si alzò con un sussulto. Durante il sonno, la catenina che portava al collo le si

era impigliata fra i capelli e per liberarla se la sfilò dalla testa.

Lasciò cadere l'anello sul palmo della mano, con la catenina attorno. Il cerchietto

d'argento, con le stelline incise, sembrava strizzarle l'occhio per prenderla in giro. Si

ricordò di quando Jace glielo aveva regalato, avvolto nel biglietto che aveva lasciato

quando era partito a caccia di Jonathan. Nonostante tutto, non sopporto il pensiero che

questo anello vada perso per sempre, come non sopporto il pensiero di lasciare te per

sempre.

Erano passati quasi due mesi. Era sicura che lui la amasse, talmente sicura che la Regina

della Corte Seelie non era stata in grado di tentarla. Come poteva desiderare dell'altro,

quando aveva Jace?

Ma forse, le venne da pensare, avere qualcuno non era mai davvero possibile. Forse, per

quanto si possa amare una persona, lei può sempre scivolarti via dalle dita come acqua,

senza che tu possa farci niente. Ora capiva perché la gente parlava di cuori "infranti": si

sentiva come se il suo fosse di vetro rotto, con le schegge come coltelli che le trafiggevano

il petto ogni volta che respirava. Immaginati la tua vita senza di lui, aveva detto la

Regina...

Squillò il telefono e per un istante Clary si sentì sollevata dal fatto che, se non altro,

qualcosa interveniva per distrarla dalla sua tristezza. Il suo secondo pensiero fu Jace.

Magari non riusciva a raggiungerla sul cellulare, perciò la chiamava a casa. Appoggiò

l'anello sul comodino e si allungò per alzare la cornetta. Un secondo prima che potesse

aprire bocca, si accorse che sua madre aveva già sollevato l'altra cornetta di casa.

— Pronto? — disse una donna, carica d'ansia.

La voce all'altro capo della cornetta non le risultava familiare e aveva uno strano accento.

— Sono Catarina, dell'ospedale Beth Israel. Vorrei parlare con Jocelyn.

Clary rabbrividì. L'ospedale? Era successo qualcosa, magari a Luke? Magari era uscito

dal vialetto di casa sgommando pericolosamente...

— Sono io. — Sua madre non sembrava spaventata, anzi sembrava fosse in attesa di

quella chiamata. — Grazie per avermi richiamata così in fretta — disse infatti.

— Figurati. Mi ha fatto piacere sentirti. Non capita spesso di vedere qualcuno che si

riprende da una disgrazia come quella capitata a te. — Già, pensò Clary. Sua madre era

stata ricoverata al Beth Israel in coma, per gli effetti della pozione presa per impedire a

Valentine di interrogarla. — Gli amici di Magnus Bane sono anche amici miei.

Jocelyne sembrava tesa. — Hai capito il mio messaggio? Lo sai perché chiamavo?

— Volevi sapere del bambino — disse la donna all'altro capo della linea. Clary sapeva

che avrebbe, dovuto riagganciare, ma non ci riusciva. Quale bambino? Cosa stava

succedendo? — Quello che è stato abbandonato.

La voce di Jocelyn tradì esitazione. — S-sì... pensavo...

— Mi spiace dovertelo dire, ma è morto. Se n'è andato la scorsa notte.

Per un istante Jocelyn rimase in silenzio. Clary, anche attraverso la cornetta, riusciva a

percepire il turbamento della madre. — Morto? E come?

— Non lo so bene nemmeno io. Il prete e venuto a battezzarlo ieri sera e...

— O mio Dio! — esclamò Jocelyn con voce tremante. — Posso... potrei per favore venire

a vedere la salma?

Seguì un lungo silenzio. Finalmente l'infermiera disse: — Non ne sono sicura. Ora è

all'obitorio, in attesa di essere trasferito al laboratorio di medicina legale.

— Catarina, credo di sapere cosa sia successo al bambino — disse Jocelyn con un filo di

voce. — E, se fossi in grado di confermarlo, forse potrei impedire che l'episodio si ripeta.

— Jocelyn...

— Sto venendo lì — dichiarò la madre di Clary prima di riattaccare. Clary restò un

attimo a guardare la cornetta con aria intontita, dopodiché riattaccò a sua volta. Balzò in

piedi, si diede un colpo di spazzola, infilò jeans e felpa e uscì dal bagno appena in tempo

per incrociare sua madre in soggiorno, intenta a lasciare un biglietto accanto al telefono.

All'arrivo di Clary alzò lo sguardo e trasalì come se si sentisse in colpa.

— Stavo proprio per uscire — disse. — Ci sono delle incombenze matrimoniali

dell'ultimo minuto e...

— Risparmiati la fatica di mentire — dichiarò Clary andando subito al punto. — Ho

ascoltato la telefonata e so benissimo dove stai andando.

Jocelyn impallidì. Riappoggiò lentamente la penna che teneva in mano. — Clary...

La devi smettere di cercare di proteggermi — disse la ragazza. — Scommetto che non hai

detto niente nemmeno a Luke della telefonata in ospedale.

Jocelyn si tirò indietro i capelli, nervosa. — Mi sembrerebbe ingiusto. Il matrimonio è alle

porte, e poi...

— Giusto, il matrimonio. Perché tu ti stai sposando. Non pensi sia ora di fidarti di Luke?

E di fidarti anche di me?

— Ma io mi fido di te — ribatté piano Jocelyn.

— Allora non ti dispiacerà se vengo con te in ospedale, giusto?

— Clary, non penso sia...

— Lo so cosa pensi. Pensi che sia la stessa cosa successa a Sebastian, anzi volevo dire

Jonathan. Pensi che magari là fuori ci sia qualcuno che fa ai bambini quello che Valentine

ha fatto a mio fratello.

La voce di Jocelyn tremò appena. — Valentine è morto. Ma del Circolo facevano parte

altri che non sono mai stati presi.

E non hanno mai trovato il corpo di Jonathan. Non era un dettaglio a cui Clary piaceva

ripensare. Ma Isabelle era presente, al momento dei fatti, e ha sempre detto che Jace aveva

reciso la spina dorsale di Jonathan con la lama di un pugnale, lasciandolo morto, morto

stecchito. Ha detto di essere anche entrata in acqua per controllare. Niente polso né battito

cardiaco.

— Mamma — disse Clary. — Era mio fratello. Ho il diritto di venire con te.

Jocelyn annuì, molto lentamente. — Hai ragione. Credo sia giusto. — Prese la borsetta

appesa all'attaccapanni vicino alla porta. — Bene, allora prendi la giacca. Le previsioni

dicono che potrebbe piovere.

Di mattina presto, il Washington Square Park era praticamente deserto. L'aria era fresca

e pulita, le foglie una coltre già spessa che ricopriva i marciapiedi in strati di rosso, giallo e

verde scuro. Simon le scalcio via mentre passava sotto l'arco in pietra dell'estremità

meridionale del parco.

In giro c'erano poche persone: due senzatetto che dormivano sulle panchine, avvolti in

sacchi a pelo o dentro logore coperte, e dei tizi con la divisa verde della nettezza urbana

che svuotavano i cestini della spazzatura. Un ragazzo spingeva un carretto che vendeva

ciambelle, caffè e panini. Al centro del parco, vicino alla grande fontana rotonda, c'era

Luke. Indossava una giacca a vento verde chiusa con la zip e, quando vide Simon, lo

salutò Con la mano.

Lui rispose allo stesso modo, ma esitando: ancora non aveva capito se si era messo nei

guai. L'espressione di Luke, mentre gli si avvicinava, non fece che aggravare il suo brutto

presagio... Aveva l'aria molto stanca, e seminava qualcosa di più che soltanto stressato. Lo

sguardo, appena si posò su Simon, rivelò grande preoccupazione.

— Simon! Grazie per essere venuto — gli disse.

— Figurati. — Simon non aveva freddo, ma tanto per far qualcosa con le mani se le infilò

nelle tasche della giacca. — Qual è il problema?

— Non ho detto che ci sono dei problemi.

— Non mi avresti fatto venire fin qui, alle prime luci dell'alba, se non ci fossero dei

problemi — gli fece notare Simon. — Se Clary non c'entra, allora cosa...?

— Ieri, al negozio di abiti da sposa, mi hai chiesto di una persona, Camille — disse Luke.

Dagli alberi accanto si sollevò da terra, gracchiando, uno stormo di uccelli. Simon

ricordò un vecchio proverbio anglosassone sui corvi che gli ripeteva sua madre. Bisognava

contarli e ripetere: Uno per il dolore, due per la gioia, tre per le nozze, quattro per una

nascita; cinque per l'argento, sei per l'oro, sette per un segreto mai raccontato.

— Giusto — confermò Simon. Aveva già perso il conto degli uccelli che c'erano. Sette,

forse. Un segreto mai raccontato. Di qualunque cosa si trattasse.

— Hai sentito parlare degli Shadowhunters trovati uccisi in giro per la città in questi

ultimi giorni, vero?

Simon annuì lentamente. Non era felice di pensare a dove sarebbe sfociato il discorso.

— Pare che la responsabile sia Camille — riprese Luke. — Non ho potuto fare a meno di

ricordare che mi avevi chiesto di lei. Sentire il suo nome due volte in un giorno, dopo anni

di silenzio totale, mi è sembrata una strana coincidenza.

— Le coincidenze esistono.

— A volte — rispose Luke. — Ma .solo di rado sono la soluzione più probabile. Questa

notte Maryse convocherà Raphael per interrogarlo sul ruolo di Camille in questi omicidi.

Se salta fuori che sapevi qualcosa di lei, che hai avuto contatti con lei... Non voglio che ti

prendano alla sprovvista, Simon.

— Allora siamo in due. — La testa di Simon aveva ricominciato a martellare. Ma era

normale che i vampiri soffrissero di mal di testa? Non ricordava nemmeno l'ultima volta

che ne aveva avuto uno, prima degli eventi di quegli ultimi giorni. — Ho incontrato

Camille — disse. — Circa quattro giorni fa. Pensavo fosse Raphael ad avermi fatto

chiamare, invece era lei. Mi ha fatto una proposta: accetta di lavorare per me e io ti faccio

diventare il secondo vampiro più importante della città.

— E perché vuole che lavori per lei? — domandò Luke in tono neutrale.

— Sa del Marchio — rispose il ragazzo. — Ha detto che Raphael l'ha tradita e che grazie

a me avrebbe potuto riconquistare il controllo del clan. Ho la sensazione che Raphael non

le piaccia moltissimo.

— Molto interessante — osservò Luke. — Io invece ho saputo che, circa un anno fa,

Camille s'era congedata dal suo ruolo di capo clan fino a data da destinarsi, nominando

Raphael suo successore temporaneo. Se lo ha scelto come suo sostituto perché ora

dovrebbe combatterlo?

Simon fece spallucce. — Non lo so. Ti dico solo quello che mi ha detto lei.

— Perché non ce ne hai parlato, Simon? — disse Luke Con molta calma.

— Mi ha chiesto lei di non farlo — disse lui rendendosi conto di quanto fosse stupida

quella risposta. — Era la prima volta che incontravo un vampiro come lei — aggiunse — a

parte Raphael e gli altri del Dumont. È difficile spiegare com'era... Mi veniva da credere a

tutto quello che diceva, da fare tutto quello che mi chiedeva. Desideravo obbedirle, anche

se sapevo che mi stava usando.

L'uomo con il carretto stava passando di nuovo. Luke comprò un caffè e un panino, poi

si sedette sul bordo della fontana. Dopo un istante Simon fece lo stesso.

— L'uomo che mi ha fatto il nome di Camille l'ha chiamata "la venerabile vampira" —

spiegò Luke. — Deve essere uno degli esemplari più vecchi al mondo. Ci credo che riesce

a far sentire le persone così piccole!

— Piccole? Mi ha fatto sentire un microbo! — precisò Simon. — Ma mi ha promesso che,

se dopo cinque giorni non avessi accettato di lavorare per lei, non mi avrebbe mai più

cercato, lo le ho risposto che ci avrei pensato.

— E lo hai fatto? Ci hai pensato?

— Se uccide gli Shadowhunters non voglio avere niente a che fare con lei — rispose

Simon. — Questo è poco ma sicuro.

— Sono certo che Maryse sarà felice di saperlo.

— Ora però stai facendo il sarcastico.

— Niente affatto — rispose Luke con aria molto seria. Era nei momenti come quello che

Simon riusciva a mettere da parte l'immagine che aveva di Luke - il più o meno patrigno

di Clary sempre disponibile, sempre pronto a darti un passaggio per riportarti a casa da

scuola o a prestarti dieci dollari per un libro o un biglietto del cinema - e a ricordarsi che

era il capo del più grande branco di lupi mannari di Manhattan, una persona alla quale,

nei momenti cruciali, l'intero Conclave aveva prestato ascolto. — Tu dimentichi ciò che

Sei, Simon. Dimentichi il potere che hai.

— Vorrei poterlo fare — disse l'altro amaramente. — Vorrei che, non usandolo, sparisse

e basta.

Luke scosse la testa. — Il potere è una calamita, che attira chi lo desidera. Camille fa

parte di questa categoria, ma ne arriveranno altri. In un certo senso, siamo stati fortunati

che ci sia voluto così tanto tempo. — Guardò Simon. — Pensi che, se ti ricontatterà di

nuovo, potresti dirlo a me o al Conclave, indicandoci dove trovarla?

— Sì — rispose piano Simon. — Mi ha spiegato come cercarla. Ma non è che soffio in un

fischietto magico e lei compare all'istante. L'ultima volta che mi voleva parlare ha

mandato a sorpresa i suoi schiavetti e loro poi mi hanno accompagnato da lei. Perciò

avere gente attorno mentre cerco di contattarla non funzionerà. Potresti prendere i suoi

Soggiogati, ma lei no.

— Mmh... — Luke aveva l'aria pensierosa. Allora dovremo pensare a qualcosa di

intelligente.

— Meglio pensarci in fretta. Ha detto che mi avrebbe dato cinque giorni, quindi entro

domani si aspetta qualche notizia.

— Credo proprio di sì — disse Luke. — Anzi, ci spero proprio.

Simon aprì con cautela la porta d'ingresso dell'appartamento di Kyle. — Ehi! — chiamò,

entrando e appendendo la giacca sull'attaccapanni. — C'è nessuno in casa?

Non ricevette risposta, ma dal soggiorno sentì i familiari Zap! Bang! Crash! di un

videogioco ancora acceso. Entrò nella stanza tenendosi davanti, come un'offerta sacrificale,

il sacchetto bianco dei bagel comprati nel Bagel Zone di Avenue A. — Ho portato la

colazione...

La voce gli si smorzò. Non sapeva come avrebbero potuto reagire le sue autonominate

guardie del corpo se si fossero accorte che se l'era filata di nascosto. Di sicuro ci sarebbe

stata una frase tipo "Provaci di nuovo e ti uccido". Quello che non si aspettava erano Kyle

e Jace, seduti vicini sul divano, con l'aria di essere diventati grandi amiconi. Kyle teneva

fra le mani il joystick, mentre Jace, chinato in avanti coi gomiti sulle ginocchia, osservava

attento. Quasi non sembrarono accorgersi dell'arrivo di Simon.

Quello là, quello nell'angolo, sta guardando da tutt'altra parte — commentò Jace

indicando lo schermo. — Un calcio rotante lo metterebbe fuori combattimento.

— In questo gioco non si possono dare calci, si può solo sparare. Vedi? — rispose Kyle

massacrando svariati tasti.

— Che cavolata. — A quel punto Jace alzò lo sguardo, e fu come se vedesse Simon per la

prima volta. — Sei tornato dall'appuntamento che avevi per colazione, vedo — disse senza

troppa gentilezza nella voce. — Scommetto che hai pensato di essere molto furbo, a

svignartela così.

— Diciamo abbastanza furbo — ammise Simon. — Una specie di incrocio fra il George

Clooney di Ocean's Eleven e gli esperti di Miti da sfatare su Discovery Channel, però più

bello, ovviamente.

— Sono sempre molto felice di non avere la minima idea di cosa vai blaterando —

ribatté Jace. — La cosa mi infonde un senso di pace e benessere.

Kyle riappoggiò il joystick, bloccando lo schermo sull'immagine ingrandita di un'enorme

pistola con un ago sulla punta. — Io mi mangio un bagel.

Simon gliene lanciò uno, e Kyle andò alla cucina, che un lungo bancone separava dal

soggiorno, per scaldare e imburrare la sua colazione a domicilio. Jace invece diede

un'occhiata al sacchetto bianco e lo liquidò con un gesto della mano. — No grazie.

Simon si sedette sul tavolino davanti al divano. — Dovresti mangiare qualcosa.

— Senti chi parla.

— Ormai ho finito il sangue — rispose Simon. — A meno che non ti offri volontario.

— No, ti ringrazio. Ci abbiamo già provato, ma preferisco se restiamo solo amici... —

Nel tono di Jace c'era, come sempre, una punta di sarcasmo, ma da quella distanza Simon

riusciva a vedere quanto fosse pallido e con gli occhi cerchiati da ombre grigiastre. Le ossa

del viso, poi, sporgevano ancora più di prima.

— Davvero — disse Simon spingendo il sacchetto sul tavolo, verso Jace. — Dovresti

mangiare qualcosa, non sto scherzando.

Jace abbassò lo sguardo sulla spesa e fece una smorfia. Aveva le palpebre talmente

affaticate che gli erano ili ventate grigiastre. — Solo a pensarci mi viene da vomitare, se

devo essere sincero.

— Ieri notte ti sei addormentato — gli fece notare Simon — mentre avresti dovuto

sorvegliarmi. So che per te questa storia della guardia del corpo è più uno scherzo che

altro, però... da quand'è che non dormivi?

— Che non dormivo per una notte intera? — chiese Jace. — Allora vediamo... Due

settimane. Forse tre.

Simon rimase a bocca aperta. — Perché? Voglio dire, cosa c'è che non va?

Jace rispose con quella che era solo l'ombra di un sorriso. — Potrei venir chiuso in un

guscio di noce e considerarmi il re dello spazio infinito, se non fosse che faccio brutti

sogni.

— Questa la conosco. Amleto. Quindi non dormi perché ti vengono gli incubi?

— Vampiro — gli disse Jace con stanca determinazione — tu non puoi neanche

immaginare.

— Ehi! — Nel frattempo Kyle era tornato dalla cucina e si era buttato sulla poltrona

bitorzoluta prima di dare un morso al suo bagel. — Cosa sta succedendo?

Sono andato a incontrare Luke — disse Simon, e non vedendo il motivo di nasconderlo

spiegò quello che era successo. In ogni caso stette ben attento a non dire che Camille lo

voleva con sé non solo perché era un Daylighter, ma anche per via del Marchio di Caino.

Quando ebbe terminato, Kyle annuì. — Luke Garroway. È il capo del branco di

Manhattan, un pezzo grosso.

— Il suo vero nome non è Garroway. Una volta era uno Shadowhunter — disse Jace.

— Esatto, anche io l'ho sentito dire. E ha pure dato un forte contributo a tutta la

questione degli Accordi. — Kyle lanciò a Simon uno sguardo. — Ne conosci di gente

importante, eh?

— La gente importante crea un sacco di guai — rispose l'altro. — Basti pensare a

Camille.

— Una volta che Luke avrà raccontato a Maryse quello che sta succedendo, a lei ci

penserà il Conclave — lo rassicurò Jace. — Esistono dei protocolli specifici per i Nascosti

ribelli. — A quelle parole, Kyle lo guardò di sottecchi, ma Jace non sembrò notarlo, e

continuò a parlare con Simon. — Ti ho già detto che, secondo me, non è lei che vuole

ucciderti. Lei sa... si interruppe. — Sa il fatto suo.

— E ti vuole sfruttare — aggiunse Kyle.

— Giusto. E nessuno si brucerebbe una preziosa fonte d'aiuto come te — gli fece eco

Jace.

Simon guardò prima l'uno e poi l'altro, dopodiché scosse la testa. — Da quand'è che voi

due siete diventati come Cip e Ciop? Ieri sera era tutto un "Sono io il combattente più

valoroso!" "No, io sono il combattente più valoroso!", invece oggi vi ritrovo che giocate ad

Halo e vi date manforte a vicenda per convincermi.

— Ci siamo accorti di avere qualcosa in comune — disse Jace. — Te. Che dai fastidio a

entrambi.

— A proposito, mi è venuta un'idea — fece Simon. — Anche se penso non piacerà a

nessuno dei due.

Kyle sollevò le sopracciglia. — Sentiamola.

— Il problema è che, se mi tenete costantemente sotto controllo, i tizi che stanno

cercando di uccidermi non ci proveranno più, e se non ci proveranno più, non sapremo

mai chi sono. Senza contare che poi, appunto, dovreste tenermi sempre d'occhio, invece

suppongo che tutti e due abbiate di meglio da fare — spiegò il ragazzo. — Anzi —

riprese, guardando in direzione di Jace — forse tu no.

— Quindi? Tu che cosa proponi? — chiese Kyle.

— Tendiamo una trappola. Li spingiamo ad attaccarmi di nuovo. Cerchiamo di

catturarne uno e scopriamo chi li manda.

— Se non ricordo male — intervenne Jace — questa è la stessa idea che ho avuto io

l'altro giorno, e a te non piaceva molto.

— Ero stanco — si difese Simon. — Ma ora ho riflettuto. E finora, nella mia esperienza

coi cattivi, posso dire che non ti lasciano in pace soltanto perché li ignori. Continuano a

tornare in modi diversi. Perciò, o faccio in modo che tornino da me, o aspetto in eterno che

siano loro ad attaccare.

— Io ci sto — disse Jace

Kyle invece aveva un'aria perplessa. — Volete che ce ne andiamo in giro a zonzo finché

non saltano fuori di nuovo, giusto? — chiese.

— Ho pensato che renderebbe le cose più facili. Farmi vedere in qualche posto dove tutti

si aspetterebbero di trovarmi...

— Vuoi dire... ? — fece Kyle.

Simon indicò il volantino incollato al frigo. Millennium lint. l6 ottobre, alto bar.

brooklyn. H. 21.00. — Sì, mi riferisco al concerto. Perché no? — Il mal di testa non gli era

ancora passato. Era sempre lì, che pulsava a pieno ritmo; fece uno sforzo per dimenticar-

selo, cercando di non pensare a quanto fosse esausto o a come avrebbe fatto per arrivare

alla fine del concerto in quelle condizioni. In un modo o nell'altro doveva procurarsi

dell'altro sangue: non aveva scelta.

A Jace brillavano gli occhi. — Sai, vampiro, devo ammettere che hai avuto un'idea niente

male.

— Vuoi che ti attacchino sul palco?. — chiese Kyle.

— Renderebbe lo spettacolo emozionante — affermò Simon con più spavalderia di

quanta ne avesse in realtà. L'idea di essere attaccato un'altra volta era quasi

insopportabile, anche se non temeva per la propria incolumità: il problema era sopportare

ancora una volta la vista del Marchio di Caino all'opera.

Jace scosse la testa. — Non attaccheranno in pubblico. Aspetteranno fino alla fine del

concerto, e noi saremo lì ad affrontarli.

Kyle non era convinto. — Non so...

Continuarono così ancora per un po', Jace e Simon da una parte, Kyle dall'altra. Simon si

sentiva un po' in colpa: se Kyle avesse saputo del Marchio, convincerlo sarebbe stato molto

più semplice. Alla fine però il ragazzo cedette alle pressioni e accettò a malincuore quello

che secondo lui restava senza dubbio un "piano idiota".

— Però — concluse alzandosi e scrollandosi di dosso le briciole del bagel — ci sto solo

perché mi rendo conto che voi lo fareste comunque, con o senza il mio appoggio. Quindi

tanto vale che partecipi anche io. — Guardò Simon. — Chi l'avrebbe mai detto che

proteggerti da te stesso sarebbe stato così difficile?

— Avrei potuto dirtelo io — disse Jace, mentre Kyle si infilava una giacca e imboccava

la porta d'ingresso. Aveva detto agli altri che doveva andare al lavoro. A quanto pareva

faceva davvero le consegne in bicicletta: il Praetor Lupus, malgrado il nome altisonante,

non pagava poi così bene. Chiuse la porta dietro di sé, e a quel punto face tornò a

rivolgersi a Simon. — Dunque, il concerto è alle nove, giusto? Cosa facciamo per il resto

della giornata?

— Facciamo? — ripeté Simon con sguardo incredulo. — Ma a casa pensi di non tornarci

mai?

— Ma come, ti sei già stancato della mia compagnia?

— Posso chiederti una cosa, Jace? Vuoi starmi attorno perché mi trovi affascinante?

— Come scusa?! — fece Jace. — Perdonami, è che credo di essermi addormentato per un

secondo. Cosa stavi dicendo di così interessante?

— Piantala — gli disse Simon. — Piantala con il sarcasmo almeno per un secondo. Non

mangi, non dormi. Sai chi altro fa lo stesso? Clary. Non so cosa sta succedendo fra voi,

perché sinceramente lei non me ne ha parlato, e presumo che nemmeno abbia voglia di

farlo. Però è abbastanza chiaro che state litigando. E se pensi di volerla lasciare...

— Volerla lasciare?. — Jace lo fissò. — Sei impazzito?

— Se continui a evitarla — ribatté Simon — sarà lei a lasciare te.

Jace si alzò in piedi. La disinvoltura di poco prima era sparita, lasciando il posto a una

forte tensione: sembrava una tigre in gabbia. Andò alla finestra e arrotolò la tenda,

inquieto. Dalla fessura entrò la luce della tarda mattinata, che gli schiariva il colore degli

occhi. — Ci sono dei motivi per quello che faccio — dichiarò infine.

— Perfetto — rispose Simon. — E Clary li conosce?

Jace tacque.

— Tutto ciò che lei fa è amarti e fidarsi di te — continuò Simon. — Tu le devi...

— Esistono cose più importanti della sincerità — lo interruppe Jace. — Pensi che mi

diverta a farla stare male? Pensi che mi piaccia sapere che la sto facendo arrabbiare, o che

magari mi sto facendo odiare? Perché pensi che sia qui? — Guardò Simon con addosso

una specie di rabbia triste. — Non posso stare con lei — disse. — E se non posso stare con

lei, allora non mi importa molto di dove sto. Tanto vale che sto con te, Simon, perché se

almeno sapesse che ti sto proteggendo, forse ne sarebbe contenta.

— Cerchi di farla felice pur sapendo che il motivo principale per cui non lo è sei proprio

tu — disse Simon, senza molto tatto. — Non ti sembra un po' una contraddizione?

— Ma l'amore è una contraddizione — rispose Jace tornando a guardare fuori dalla

finestra.

Capitolo 8

CAMMINANDO NELLE TENEBRE

Clary non ricordò quanto odiava l'odore degli ospedali finché non oltrepassò con la madre

l'ingresso del Beth Israel. Disinfettante, metallo, caffè stanno, e non abbastanza candeggina

da coprire l'odore pungente di malattia e sofferenza. Il ricordo del ricovero di sua madre,

di Jocelyn che giaceva inerte e priva di sensi nel suo nido di tubi e fili, la colpì come uno

schiaffo in pieno viso. Trattenne il respiro, cercando di non sentire il sapore dell'aria.

— Stai bene? — Jocelyn si tolse il cappuccio della giacca e fissò Clary, i cui occhi verdi

erano carichi d'ansia.

La ragazza annuì, incurvando le spalle dentro il giubilino, e si guardò attorno. La

reception era un misto di freddo marmo, metallo e plastica. C'era un grande banco

informazioni dietro al quale andavano e venivano diverse donne, probabilmente

infermiere,- i cartelli indicavano la sala rianimazione, il reparto di radiologia, di oncologia

chirurgica, di pediatria e così via. Il bar lo avrebbe trovato anche a occhi chiusi: aveva

portato a Luke talmente tanti caffè macchiati clic sarebbero bastati a riempire il lago di

Central Park.

— Scusatemi — disse, oltrepassandole, un'infermiera alta e magra che spingeva un

anziano sulla sedia a rotelle. Per un pelo non passò con le ruote sui piedi di Clary. La

ragazza la seguì con lo sguardo: sì, c'era qualcosa, un luccichio...

— Clary, non si fissa la gente! — disse sua madre a bassa voce. Le mise un braccio

attorno alle spalle, in modo da girarsi entrambe verso la sala d'aspetto del laboratorio di

analisi del sangue. Clary si vedeva riflessa, con sua madre, nel vetro. Anche se era ancora

mezza testa più bassa di lei, si assomigliavano davvero, o no? Una volta, quando la gente

lo diceva, lei rispondeva che non era vero: Jocelyn era bellissima, lei no. Però la forma

degli occhi e della bocca era la stessa, come anche i capelli rossi, gli occhi verdi e le mani

sottili. Come mai lei aveva preso così poco dell'aspetto di Valentine e suo fratello tutto?

Lui aveva i suoi stessi capelli biondi e quegli inquietanti occhi scuri. Forse però, a guardar

bene, riusciva a vedere anche nel proprio aspetto qualcosa di Valentine... La mascella un

po' pronunciata, forse...

— Jocelyn. — Si voltarono entrambe. L'infermiera che prima era passata spingendo la

carrozzina ora era ferma davanti a loro. Magra, aspetto giovanile, pelle e occhi scuri.

Quando Clary la osservò bene, l'incantesimo che la copriva scomparve: rimase la donna

magra e giovanile, ma ora aveva la pelle blu e i capelli, legati in uno chignon, bianchi

come neve. La carnagione scura era in netto contrasto con la divisa rosa pallido.

— Clary — disse Jocelyn. — Lei è Catarina Loss e si è presa cura di me quando ero

ricoverata qui. Inoltre è un'amica di Magnus.

— Sei una stregona. — Le parole sfuggirono di bocca a Clary prima che potesse fermarle.

— Ssst! — La donna aveva lo sguardo terrorizzato e poi guardò Jocelyn di traverso. —

Non ricordo di averti sentito dire che avresti portato anche tua figlia. È una ragazzina!

— Clarissa è capace di comportarsi come si deve — dichiarò Jocelyn guardando la

ragazza con occhi severi. — Dico bene?

Clary annuì. Aveva già visto altre volte degli stregoni, oltre a Magnus, durante la

battaglia di Idris. Dall'esperienza sapeva che tutti avevano delle caratteristiche che li

distinguevano dagli umani, come gli occhi da gatto nel caso di Magnus. Alcuni avevano le

ali, le dita dei piedi palmate o quelle delle mani munite di artigli. Avere però la pelle

completamente blu era qualcosa di difficile da nascondere con delle lenti a contatto o dei

cappotti extralarge e di sicuro Catarina Loss doveva compiere tutti i giorni incantesimi

anche solo per metter piede fuori di casa, soprattutto considerando che lavorava in un

ospedale di mondani.

La stregona puntò il pollice in direzione degli ascensori. — Presto, seguitemi, cerchiamo

di fare in fretta.

Clary e Jocelyn corsero dietro di lei agli ascensori, finché non se ne aprì uno. Mentre le

porte si richiudevano alle loro spalle con un sibilo, Catarina schiacciò un bottone

contrassegnato dalla lettera O. Sotto c'era una fessura di metallo, chiaro segno che quel

piano poteva essere aggiunto solo con l'ausilio di un'apposita chiave. Toccando il tasto,

Catarina lo aveva illuminato facendo partire dal dito una scintilla azzurra, dopodiché

l'ascensore aveva iniziato a scendere.

Catarina stava facendo di no con la testa. — Se tu non fossi amica di Magnus Bane, mia

cara Jocelyn Fairchild...

— Fray — la corresse l'altra. — Ora mi faccio chiamare Jocelyn Fray.

— Niente più nomi da Shadowhunter, allora? — chiese l'altra con un sorriso

compiaciuto; le sue labbra, sullo sfondo di quella pelle blu, erano di un rosso abbacinante.

— E tu, ragazzina, sarai una Shadowhunter come tuo padre?

Clary cercò di nascondere l'irritazione. — No — rispose. — Sarò una Shadowhunter, ma

non come mio padre. E comunque mi chiamo Clarissa, ma puoi chiamarmi Clary.

L'ascensore si fermò e le porte si aprirono. Gli occhi azzurri della stregona rimasero

posati su Clary per qualche secondo. — Oh, lo so come ti chiami, Clarissa Morgenstern.

Una piccola ragazza che ha fermato una grande guerra.

— Così pare — rispose Clary, uscendo dall'ascensore subito dopo Catarina, con la

madre che le seguiva da vicino. — C'eri anche tu? Non ricordo di averti vista...

— Sì, Catarina c'era — disse Jocelyn, tenendo il passo delle altre due. Stavano

attraversando un corridoio spoglio: lungo i muri, niente finestre né porte. Le pareti erano

di un verde pallido nauseabondo. — Ha aiutato Magnus a usare il Libro Bianco per

risvegliarmi, poi è rimasta a sorvegliarlo mentre lui tornava a Idris.

— A sorvegliare un libro?

— E un volume molto importante — disse Catarina, con le suole di gomma delle scarpe

che cigolavano sul pavimento mentre avanzava a passo svelto.

— Pensavo che fosse la guerra a esserlo mormorò Clary a bassa voce.

Avevano finalmente raggiunto la porta, nella quale c'era una finestrella quadrata di

vetro smerigliato e la scritta "Obitorio" che campeggiava a lettere nere. Catarina, con

un'espressione divertita sul volto, girò la mano sul pomello e guardò fisso Clary. — Ho

imparato presto nella vita di avere poteri di guarigione — disse. — Sono le magie di cui mi

occupo io. E così lavoro qui, in questo ospedale, per uno stipendio da fame, e faccio quello

che posso per guaine dei mondani che urlerebbero se solo vedessero il mio vero aspetto.

Potrei guadagnare una fortuna vendendo le mie capacità agli Shadowhunters e agli

stupidi mondani che pensano di sapere cosa sia la magia, invece non lo faccio. Lavoro qui.

Perciò non fare tanto la saputella, piccola pel di carota. Non vali più di me solo perché sei

famosa.

Clary si sentì le guance in fiamme. Prima d'ora non aveva mai pensato a se stessa come a

una persona "famosa". — Hai ragione — rispose. — Scusami.

Gli occhi azzurri di Catarina guizzarono in direzione di Jocelyn, che aveva il viso pallido

e teso. — Pronta?

L'altra annuì e guardò Clary, che fece lo stesso. Catarina spinse la porta, e madre e figlia

la seguirono dentro l'obitorio.

La prima cosa che colpì Clary fu il freddo; in quella stanza si gelava, perciò chiuse subito

la giacca. La seconda fu l'odore: quello aggressivo dei disinfettanti sovrastava il tanfo

dolciastro della decomposizione. Una luce giallognola pioveva dall'alto delle lampadine

fluorescenti. Al centro della stanza sorgevano due tavoli anatomici, grandi e vuoti; c'erano

anche un lavandino e un tavolino di metallo con una bilancia per la pesatura degli organi.

Lungo una delle pareti correva un armadio di contenitori d'acciaio, simili alle cassette di

sicurezza di una banca ma molto più grandi. Catarina attraversò la stanza puntando verso

uno di essi, ne afferrò la maniglia e la tirò. Dall'armadio uscì, scorrendo su delle rotelle,

una lastra di metallo su cui giaceva la salma di un neonato.

La gola di Jocelyn produsse l'accenno di un rumore. Un secondo più tardi era corsa al

fianco di Catarina; Clary la seguì più lentamente. Aveva già visto dei cadaveri: quello di

Max Lightwood, per esempio, che conosceva e che aveva solo nove anni. Ma un neonato...

Jocelyn si portò una mano alla bocca. Aveva gli occhi molto grandi e scuri, fissi sul corpo

del piccolo. Clary abbassò lo sguardo. A prima vista il bambino, un maschio, sembrava

normale: dieci dita delle mani e dieci dei piedi. Tuttavia, osservandolo più da vicino (ossia

osservandolo come se avesse voluto vedere al di là di un incantesimo), notò che le dita non

erano affatto dita, bensì artigli appuntiti e ricurvi. La pelle era grigia e gli occhi, spalancati

e fissi, completamente neri. Non solo l'iride, ma anche la sclera.

Jocelyn sussurrò: — Sono come gli occhi di Jonathan quando è nato. Dei cunicoli di

tenebre. Sono cambiati tempo dopo, diventando più umani, ma ricordo che...

Con un brivido Jocelyn si girò e corse fuori dalla stanza, mentre la porta dell'obitorio

sbatteva alle sue spalle.

Clary guardò Catarina, che invece era impassibile. — E i dottori non avevano capito? —

chiese. — Insomma, quegli occhi... e quelle mani...

Catarina scosse la testa. — Non vedono quello che non vogliono vedere — rispose

facendo spallucce. — Qui c'è in ballo qualche forza magica che non ho mai visto molte

volte prima d'ora. Magia diabolica. Cose brutte. — Sfilò qualcosa dalla tasca. Era un

campione di stoffa, chiuso dentro una bustina di plastica trasparente. Questo è pezzo della

stoffa in cui era avvolto quando l'hanno portato qui. Anche questo puzza di magia

diabolica. Dallo a tua madre, magari lei lo può mostrare ai Fratelli Silenti, per vedere se

riescono a capirci qualcosa e magari scoprire chi è stato a fare tutto questo.

Clary, frastornata, lo prese in mano. Appena strinse le mani attorno alla bustina, davanti

agli occhi le comparve una runa: era una matrice di linee e di cerchi, l'accenno di

un'immagine che scomparve appena l'involucro le finì dentro la tasca della giacca.

Però il cuore continuava a batterle forte. Questa non andrà ai Fratelli Silenti, pensò. Non

finché non vedo come funziona quella runa.

— Parlerai con Magnus? — chiese Catarina. — Digli che ho mostrato a tua madre quello

che voleva vedere.

Clary annuì meccanicamente, come una bambola. All'improvviso l'unica cosa che

desiderava era andarsene da lì, da quella stanza illuminata di luce gialla, lontano

dall’odore di morte e da quel minuscolo corpo profanato che ancora giaceva sulla lastra di

metallo. Pensò a sua madre che ogni anno, il giorno del compleanno di Jonathan, tirava

fuori quella scatola e piangeva sulla ciocca dei Buoi capelli, sul figlio che avrebbe dovuto

avere, sostituito da una cosa come quella. Credo che non fosse questo tinello che voleva

vedere, pensò Clary. Credo che questo sia quello che sperava fosse impossibile. Invece "Va

bene, glielo dirò" fu tutto quello che riuscì a rispondere.

L’Alto Bar era il tipico locale alternativo, situato in parte sotto il cavalcavia della

superstrada Brooklyn-Queens, nel quartiere Greenpoint. Ogni sabato sera era aperto a

gente di tutte le età, e il proprietario era amico di Eric, perciò lasciava suonare il gruppo di

Simon praticamente ogni volta che voleva, benché cambiassero sempre il nome e non

fossero noti per attirare orde di fan.

Kyle e gli altri membri del gruppo erano già sul palco a sistemare la strumentazione e a

fare gli ultimi controlli. Avrebbero proposto una delle loro vecchie scalette, con Kyle alla

voce; aveva dimostrato di imparare in fretta i testi, perciò si sentivano piuttosto tranquilli.

Simon aveva accettato di rimanere nel backstage fino all'inizio del concerto, e la cosa

sembrava allentare almeno in parte la tensione di Kyle. Ora stava sbirciando attraverso la

tenda di velluto che lo separava dal palco, cercando di intravedere chi era venuto a

vederli.

L'interno del bar, un tempo, era arredato con gusto: pareti e soffitti laminati di metallo

che ricordavano i locali clandestini americani dei tempi, del proibizionismo, uno specchio

smerigliato in stile art déco dietro il bancone. Rispetto a quando era stato inaugurato, ora

l'Alto Bar era molto più trasandato, e sulle pareti campeggiavano macchie di fumo che non

andavano più via. Il pavimento era ricoperto di segatura, la quale, per via della birra

rovesciata e di altre schifezze, si era tutta raggrumata.

La cosa positiva era che i tavoli allineati alle pareti erano quasi tutti pieni. Simon vide

Isabelle seduta da sola, con indosso un vestitino di maglia color argento che ricordava le

armature medievali e ai piedi i suoi stivali schiaccia-demoni. Aveva i capelli raccolti in

uno chignon spettinato, infilzato con delle bacchette cromate. Simon sapeva che erano

affilate come rasoi, in grado persino di tagliare il metallo o le ossa. Le labbra erano

truccate di rosso acceso, il colore del sangue appena versato.

Ripigliati! disse Simon a se stesso. Smettila di pensare al sangue.

Diversi tavoli erano occupati dagli altri amici della band. Blythe e Kate, fidanzate

rispettivamente di Kirk e di Matt, erano sedute insieme e si dividevano una scodella di

nachos un po' incolori. Eric aveva svariate fidanzate sparse per i tavoli di tutta la stanza, e

poi c'erano parecchi suoi compagni di scuola, che contribuivano a far sembrare il locale

molto più pieno di quanto non fosse. Seduta in un angolo, tutta sola a un tavolino, c'era

Maureen, l'unica fan di Simon: una ragazza bionda, minuta, con l'aria da orfanella, a cui

avresti dato dodici anni anche se lei sosteneva di averne sedici. Simon pensava che in

realtà la vera età fosse quattordici. Vedendolo sbucare con la testa dalla tenda del

backstage, lo salutò con la mano e gli fece un gran sorriso.

Simon ritrasse la testa come una tartaruga, chiudendo la tenda di scatto.

— Ehi — fece Jace, seduto sopra un amplificatore rovesciato a controllare il cellulare —

vuoi vedere una foto di Alec e Magnus a Berlino?

— A dire il vero no — rispose Simon.

— Magnus ha dei pantaloni in pelle tirolesi.

— Ripeto, no.

Jace si rimise il cellulare in tasca e guardò Simon con aria incuriosita. — Va tutto bene?

Sì — fece l'altro, ma non era vero. Gli girava la testa, ora agitato e aveva la nausea, tutti

sintomi che attribuiva alla preoccupazione per quello che sarebbe accaduto quella sera. E il

fatto di non aver mangiato non lo aiutava.

Prima o poi avrebbe dovuto affrontare il problema, anzi, meglio prima. Avrebbe voluto

che ci fosse anche Clary, ma sapeva che lei non poteva raggiungerlo. Doveva sbrigare una

commissione per il matrimonio e lo aveva già avvertito della sua assenza con molto

anticipo. Aveva informato della cosa anche Jace, prima di arrivare al locale, e sembrava

che la notizia lo avesse sollevato e intristito allo stesso tempo, reazione effettivamente

singolare.

— Ehi, ehi! — Era Kyle, che aveva scostato un po' la tenda. — Ci siamo quasi — disse a

Simon guardandolo attentamente. — Sei sicuro allora?

Simon guardò prima Kyle e poi Jace. — Sapete che voi due formate proprio una bella

coppia?

I diretti interessati si guardarono a vicenda, e poi guardarono lui. Tutt'e due avevano i

jeans e una maglia nera a maniche lunghe. Jace tirò l'orlo della sua con un certo imbarazzo.

— L'ho presa in prestito da Kyle. La mia era parecchio sporca.

— Wow, adesso vi scambiate anche i vestiti! Queste sono cose che fanno solo gli amici

del cuore.

— Ti senti escluso? — fece Kyle. — Vuoi anche tu una delle mie magliette nere?

Simon evitò di sottolineare l'ovvio, cioè che nulla di adatto a Kyle o Jace potesse andare

bene anche per il suo fisico molto magro. — Purché ognuno si tenga i suoi pantaloni.

— Vedo che sono arrivato proprio quando la conversazione si sta facendo interessante

— disse Eric infilando la testa nella tenda. — Muoviamoci, è ora di cominciare.

Mentre Kyle e Simon salivano sul palco, Jace si alzò in piedi. Appena sotto l'orlo della

maglietta presa in prestito, Simon vide la lama luccicante di un pugnale. — In

In bocca al lupo per il concerto — disse con un sorriso spietato. — Io sarò giù dal palco,

con la speranza di essere il lupo per qualcun altro.

Raphael avrebbe dovuto presentarsi al tramonto, ma li fece aspettare per quasi tre ore

prima di comparire con la sua Proiezione nella biblioteca dell'Istituto.

Politiche vampire, pensò Luke, seccato. Il capo del clan dei vampiri di New York

arrivava, se doveva, ogni volta che gli Shadowhunters chiamavano; però non si lasciava

convocare, e nemmeno era puntuale. Luke aveva trascorso le ultime ore leggendo svariati

libri della biblioteca; Maryse non si era dimostrata molto loquace ed era rimasi, i quasi

tutto il tempo in piedi accanto alla finestra, a bere vino rosso da un bicchiere di cristallo e a

fissare il traffico che scorreva su York Avenue.

Si voltò quando comparve Raphael, simile a un segno tracciato da un gesso bianco

nell'oscurità. Prima emerse il pallore del volto e delle mani, poi il nero dei vestiti e dei

capelli. Infine eccolo lì, al completo, una Proiezione fatta e finita. — Avete chiamato,

Shadowhunters? — dissi guardando Maryse che veniva verso di lui. Poi si voltò,

spostando gli occhi su Luke. — E vedo che c'è anche il mezzo uomo e mezzo lupo. Sono

stato forse convocato per una specie di Concilio?

— Non proprio. — Maryse appoggiò il bicchiere sopra la scrivania. — Hai sentito parlare

delle morti che si sono verificate in quest'ultimo periodo, vero? I corpi degli

Shadowhunters che hanno ritrovato?

Raphael sollevò le sopracciglia in maniera molto espressiva. — Sì, ma non pensavo di

preoccuparmene. La cosa non ha niente a che vedere con il mio clan.

— Un corpo trovato nel territorio degli stregoni, uno in quello dei lupi mannari, uno in

quello delle fate — disse Luke. — Penso che i prossimi sarete voi. A me sembra un chiaro

tentativo di fomentare l'astio fra i Nascosti. Sono qui in buona fede, Raphael, per

dimostrarti che non ti ritengo responsabile.

— Uuh, che sollievo — fece l'altro, ma il suo sguardo era vigile e cupo. — E cosa ti aveva

fatto pensare che ci fossi di mezzo io?

— Uno dei morti è riuscito a dirci chi è stato ad attaccarlo — spiegò Maryse con

prudenza. — Prima di... morire del tutto, ci ha rivelato che la colpevole è Camille.

— Camille... — disse Raphael con voce calma ma un'espressione che, un secondo prima

di tornare vacua, tradì un lampo di sgomento. — Ma non è possibile!

— E perché non sarebbe possibile, Raphael? — chiese Luke. — Lei è il tuo capo clan. È

molto potente, e pure nota per la sua crudeltà. E a quanto pare è scomparsa. Non è mai

venuta a Idris per combattere insieme a te e non ha mai accettato i nuovi Accordi.

Nessuno Shadowhunter la vede o la sente da mesi... finora.

Raphael tacque.

— Sta succedendo qualcosa — disse Maryse. — E volevamo offrirti la possibilità di

spiegarci cosa prima di informare il Conclave del ruolo di Camille. Siamo in buona fede,

come vedi.

— Sì — disse Luke in tono comprensivo. — Non dovete proteggerla. Se tenete a lei...

— Tenere a lei? — Raphael si girò e sputò a terra, anche se, essendo una Proiezione, lo

fece più per il gesto che per altro.

— La odio. La disprezzo. Tutte le sere, quando mi sveglio, desidero la sua morte.

— Ah — esclamò Maryse. — Allora, forse...

— Ci ha comandati per anni — proseguì Raphael — Era già lei il capo clan, quando

diventai vampiro, ovvero cinquant'anni fa. Prima di allora, si era unita a noi da Londra;

non conosceva la città, ma fu abbastanza priva di scrupoli da riuscire a diventare il capo

del clan di Manhattan nel giro di pochi mesi. L'anno scorso sono diventato suo vice, poi,

qualche mese fa, ho scoperto che uccideva gli umani. Li uccideva per divertimento e ne

beveva il sangue, violando la Legge. A volte capita: certi vampiri si ribellano, e non c'è

niente che possa fermarli. Ma che questo succeda anche a un capo clan... be', si presume

che loro non si debbano abbassare a certi livelli. — Rimase in piedi in silenzio,

guardandosi dentro coi suoi occhi scuri, perso fra i ricordi. — Noi non siamo come i lupi,

quei selvaggi. Noi non uccidiamo il nostro capo per trovarne un altro. Per un vampiro,

alzare una mano contro un suo simile è il peggiore dei crimini, anche se quel vampiro ha

infranto la Legge. E Camille ha molti alleati, molti seguaci. Non potevo prendermi il

rischio di farla fuori: ho preferito andare da lei, dirle che ci doveva lasciare, sparire,

altrimenti mi sarei rivolto al Conclave. Non volevo farlo, ovviamente, perché sapevo che

se la cosa fosse venuta a galla ci sarebbe andato di mezzo tutto il clan. Avrebbero perso

fiducia in noi, ci avrebbero tenuti sotto stretto controllo. Saremmo stati offesi e umiliati di

fronte a tutti gli altri clan!

Maryse sbuffò, impaziente. — Ci sono cose più importanti che perdere la faccia.

— Invece, quando si è vampiri, può fare la differenza tra la vita e la morte — spiegò

Raphael. Poi riprese a parlare con voce più profonda. — Sapeva che lo avrei fatto, ne ero

certo, e infatti mi ascoltò. Accettò di andarsene. La mandai via, ma si lasciò dietro un bel

groviglio: io non potevo prendere il suo posto, perché lei non vi aveva rinunciato, e non

potevo spiegare la sua partenza senza rivelare quello che aveva fatto. Dovevo far passare

la sua scelta come un periodo di pausa, un bisogno di viaggiare. Sentirsi uno spirito un po'

vagabondo non è strano per la nostra specie, ogni tanto capita. Quando sai di poter vivere

in eterno, il posto dove sei fermo da molti, molti anni può finire per sembrarti una grigia

prigione.

— E per quanto tempo pensavi di poter continuare con la messinscena? — domandò

Luke.

— Fintanto che ci sarei riuscito — ammise Raphael. — Ovvero fino a oggi, a quanto

pare. — Distolse lo sguardo dagli altri e lo diresse verso la finestra e la luccicante notte

fuori da essa.

Luke si appoggiò con la schiena a uno degli scaffali di libri. Era vagamente divertito

dall'aver notato di essere proprio davanti alla sezione Miti e Leggende, colma di volumi

che parlavano di lupi mannari, naga, kitsune e selkies. — Ti farà piacere sapere che lei ha

raccontato più o meno la stessa storia su di te — disse evitando di menzionare a chi

Camille l'aveva detta.

— Pensavo avesse lasciato la città.

— Forse, ma è tornata — disse Maryse. — E a quanto pare il sangue degli umani non le

basta più.

— Non so cosa dirvi — fece Raphael. — Io ho cercato di proteggere il mio clan. Se la

Legge mi vuole punire, accetterò la punizione.

— Non ci interessa punirti, Raphael — ribatté Luke. — A meno che ti rifiuti di

collaborare, chiaro.

Raphael li guardò con lo sguardo in fiamme. — Collaborare a cosa?

— Vorremmo catturare Camille. Viva — dichiarò Maryse. —Vogliamo interrogarla.

Abbiamo bisogno di sapere perché ha ucciso degli Shadowhunters e perché proprio

quelli.

— Se speri davvero di farcela, spero che tu abbia un piano molto astuto. — Nella voce di

Raphael c'era un misto di allegria e di disprezzo. — Camille è furba persino per quelli

della nostra specie, e sai che da questo punto di vista non scherziamo.

— Ho un piano — annunciò Luke — di cui fa parte il Daylighter, Simon Lewis.

Raphael fece una smorfia. — Non mi piace — commentò. — Preferirei restare fuori da un

piano che si basa sul coinvolgimento di Simon.

— Be', allora peggio per te — fu la risposta di Luke.

Stupida, pensò Clary. Che stupida sei stata a non portarti l'ombrello. La pioggerellina

leggera di cui sua madre l'aveva avvisata quella mattina si era trasformata, ora che aveva

raggiunto l'Alto Bar di Lorimer Street, in qualcosa di simile a un acquazzone.

Si fece largo fra il gruppo di persone ferme a fumare sul marciapiede e si immerse con

piacere nel caldo asciutto del locale.

I Millennium Lint erano già sul palco, con i ragazzi che picchiavano duro sui loro

strumenti e Kyle, davanti, che ruggiva con voce sensuale dentro il microfono. Per un

attimo Clary si sentì orgogliosa: in fondo era in gran parte merito suo se Kyle era stato

preso nel gruppo, ed era chiaro che stava facendo fare bella figura a tutti.

Si guardò attorno nel locale, nella speranza di trovare Maia o Isabelle. Sapeva che non ci

sarebbero state entrambe, perché Simon stava ben attento a invitarle a concerti alterni. Lo

sguardo le cadde su una figura snella, coi capelli neri. Fece per raggiungerla, ma si fermò a

metà strada: non era affatto Isabelle, ma una donna più grande, con gli occhi truccati di

nero. Indossava un tailleur e leggeva un quotidiano, apparentemente indifferente alla

musica.

— Clary! Sono qui! — La ragazza si girò e vide la vera Isabelle, seduta a un tavolo vicino

al palco. Aveva un vestito che luccicava come un faro argentato: Clary navigò verso di lei e

si accomodò sulla sedia di fronte. — Colta di sorpresa dalla pioggia, vedo — commentò

Isabelle.

Clary si scostò dal viso i capelli bagnati, facendo un sorriso sconsolato. — Se sfidi madre

natura, perdi.

Isabelle sollevò le sopracciglia scure. — Pensavo che stasera non saresti venuta. Simon

diceva che avevi non so quale seccatura matrimoniale da sbrigare. — Da quanto aveva

capito Clary, a Isabelle non piacevano particolarmente né i matrimoni né tutti i fronzoli

dell'amore romantico.

— Mia madre non stava bene e ha deciso di rimandare — spiegò.

Era vero, ma fino a un certo punto. Quando erano tornati a casa dall'ospedale, Jocelyn

era entrata in camera sua e aveva chiuso la porta. Clary, sentendosi impotente e

dispiaciuta, l'aveva sentita piangere sommessamente da dietro la porta, ma sua madre non

aveva voluto farla entrare né parlarle. Alla fine era tornato a casa anche Luke, e Clary era

stata felice di lasciare che fosse lui a occuparsi di sua madre. Era uscita per fare un giro in

città, prima di andare a vedere il gruppo di Simon. Se poteva, cercava sempre di non

perderseli, e poi confidarsi con lui le avrebbe fatto bene.

— Ah. — Isabelle non chiese altro. A volte il suo totale disinteresse per i problemi degli

altri era un vero sollievo. — Sono sicura che Simon sarà felice di sapere che lei venuta.

Clary guardò verso il palco. — Com'è andato il concerto finora?

— Bene. — Isabelle mordicchiava pensierosa la sua cannuccia. — Quel loro nuovo

cantante è veramente carino. Ha la ragazza? Mi piacerebbe fare una bella cavalcata in giro

per la città con quel cavallino selvaggio.

— Isabelle!

— Che c'è? — fece lei guardando Clary e scrollando le spalle. — Ma sì, dai, io e Simon

non facciamo coppia fissa, te l'ho detto.

In effetti, pensò Clary, Simon non avrebbe certo potuto protestare, ma restava pur

sempre suo amico. Mentre stava per dire qualcosa in sua difesa, lanciò un'occhiata al palco

e vide qualcosa che attirò la sua attenzione: una sagoma familiare, che sbucava dalla porta

del backstage. L'avrebbe riconosciuto ovunque, in qualsiasi momento, non importava

quanto fosse buia la stanza o la sorpresa ili trovarselo di fronte.

Era Jace, vestito come un mondano, in jeans e maglietta nera aderente, che sottolineava il

movimento degli agili muscoli di spalle e collo. I suoi capelli brillavano sotto le luci del

palco. Lo guardò furtiva mentre lui si avvicinava al muro e ci si appoggiava contro,

guardando con decisione verso l'ingresso del locale. Sentì il cuore che cominciava a battere

forte. Le sembrava di non vederlo da una vita, anche se era passato appena un giorno. Ep-

pure guardarlo era già come vedere qualcuno di distante, uno sconosciuto. E poi che cosa

ci faceva lì? Simon non gli stava simpatico! Prima di allora non si era mai fatto vedere a

nessuno dei concerti della band.

— Clary! — esclamò Isabelle in tono di rimprovero. Si girò e vide che per sbaglio le

aveva rovesciato il bicchiere, facendo colare l'acqua sull'adorabile vestito argenteo.

Isabelle agguantò un tovagliolino e la guardò seria. — Parlagli e basta. So che lo vuoi

fare.

— Mi dispiace — rispose Clary.

Isabelle fece il gesto di allontanarla con la mano. — Muoviti.

Clary si alzò, sistemandosi il vestito. Se avesse saputo che c'era anche Jace, non si sarebbe

messa stivali, calze rosse e vestito vintage rosa shocking di Vivienne Westwood trovato

appeso nell'armadio a casa di Luke. Una volta trovava che quei bottoni verdi a forma di

fiore che salivano su fino al collo fossero divertenti e originali, ma ora si sentiva soltanto

molto meno elegante e sofisticata di Isabelle.

Si fece strada lungo la pista, ora affollata di gente che ballava, stava ferma a guardare,

beveva birra, si muoveva appena a ritmo di musica. Non poteva fare a meno di ripensare

alla prima volta che aveva visto Jace. Erano in discoteca, e lei lo aveva notato dall'altra

parte della pista. Quei capelli chiari, quella postura spavalda... lo aveva trovato bellissimo,

ma non nel senso adatto a lei. Non era il genere di ragazzo con cui era possibile uscire,

aveva pensato. Lui esisteva in un mondo a sé.

Jace non la notò finché Clary non gli fu quasi di fronte. Osservandolo da vicino, si

accorse della sua faccia stanca, come se non dormisse da giorni. Aveva i lineamenti del

viso tirati, le ossa che gli sporgevano da sotto la pelle. Se ne stava appoggiato al muro con

le dita infilale nei passanti della cintura e gli occhi dai riflessi d'oro pallido ben vigili.

— Jace — gli disse.

Lui sobbalzò e si voltò a guardarla. Per un istante gli si illuminò lo sguardo, come

sempre succedeva appena la vedeva, e Clary si sentì invadere da un'ondata incontenibile

di speranza.

Quasi all'istante, però, gli occhi di Jace si spensero e l'ultimo tocco di colore che aveva sul

viso scomparve. — Pensavo... Simon ha detto che non saresti venuta.

Clary venne attraversata da un senso di nausea che la spinse a reggersi al muro con una

mano. — Quindi sei venuto solo perché pensavi che non ci sarei stata io?

Lui scosse la testa. — Io...

— E quando intendevi rivolgermi di nuovo la parola? — Clary si accorse che le si era

alzata la voce e si sforzò invano di riabbassarla. Ora teneva le mani accanto ai Manchi,

chiuse a pugno, con le unghie che si infilzavano nei palmi. — Se hai intenzione di

chiuderla qui, il minimo che potresti fare è dirmelo, invece di non parlarmi per lasciarmi

capire le cose da sola.

— Perché? — disse Jace. — Perché tutti continuano a chiedermi se ho in mente di

lasciarti? Prima Simon e ora...

— Hai parlato di noi con Simon?. — Clary scosse la testa. — Ma perché? Perché non ne

parli con me?.

— Perché con te non posso farlo — fu la risposta di Jace. — Non posso parlarti, non

posso stare con te, non posso nemmeno guardarti.

Clary rimase senza fiato. Le sembrava di respirare l'acido di una batteria. — Cosa?

Jace sembrò rendersi conto di ciò che aveva detto e scivolò in un silenzio sgomento. Per

un istante si limitarono a guardarsi negli occhi. A un tratto Clary si girò e si mescolò

veloce al pubblico, facendosi largo tra gomiti che si agitavano e gruppetti che

chiacchieravano, cieca a tutto tranne che alla porta, dalla quale voleva uscire al più presto.

— E ora — gridò Eric al microfono — canteremo una nuova canzone. L'abbiamo appena

scritta. È per la mia ragazza... Usciamo insieme da tre settimane, ma, accidenti, il nostro è

vero amore. Staremo insieme per sempre, piccola. Ecco a voi... Ti martello come un

tamburo.

Mentre partivano le prime note, .dal pubblico salirono risate e applausi, anche se Simon

non sapeva se Eric si rendeva conto che tutti pensavano stesse scherzando, quando invece

non era così. Eric si innamorava sempre di tutte le ragazze con cui aveva appena iniziato a

uscire e non mancava mai di dedicare loro una canzone del tutto inappropriata.

Normalmente Simon non se ne sarebbe preoccupato, ma sperava davvero che dopo la can-

zone appena conclusa sarebbero potuti scendere dal palco. Si sentiva male come non mai:

capogiri, sudore a fiotti e sapore metallico in bocca, come di sangue stantio.

La musica si abbatté attorno a lui con violenza, come unghie che gli si infilzavano nelle

orecchie. Cercava di suonare, ma le dita gli scivolavano via dalle corde e si accorse che

Kirk lo stava guardando con aria interrogativa. Si disse di mantenere la calma, eh

concentrarsi, ma era come tentare di mettere in moto un’auto con la batteria scarica. In

testa gli echeggiava un rumore stridente, ma senza scintille.

Guardò verso il bancone del bar, in cerca, non sapeva nemmeno il perché, di Isabelle, ma

vedeva solo un mare di visi bianchi voltati verso di lui. Ricordò la prima notte all'hotel

Dumont, con tutti quei vampiri che lo guardavano come fiori di carta bianca che si

dischiudevano nelle tenebre del vuoto. Si sentì cogliere da un violento attacco di nausea:

barcollò all'indietro, mentre le mani perdevano la presa della chitarra. Aveva la sensazione

che il pavimento si muovesse sotto i suoi piedi. Gli altri membri del gruppo, assorti nella

musica, non si erano accorti di niente. A un certo punto si tolse la tracolla della chitarra e

scansò Matt con una spinta per raggiungere la tenda del backstage e attraversarla, appena

in tempo per buttarsi in ginocchio e vomitare.

Non salì niente. Si sentiva lo stomaco vuoto come un pozzo. Si alzò e si appoggiò alla

parete, premendosi le mani, fredde gelate, contro il viso. Erano settimane che non sentiva

né il caldo né il freddo, ma ora era quasi sicuro di avere la febbre... e di avere paura. Che

cosa gli stava succedendo?

Ricordò Jace che diceva: Sei un vampiro. Il sangue per te non è come il cibo. Il sangue

per te è... sangue. Che fosse tutta colpa del fatto di non aver mangiato? Ma in realtà non

aveva fame, e nemmeno sete: stava male come se fosse sul punto di morire. Allora forse lo

avevano avvelenato... E il Marchio di Caino non poteva difenderlo da attacchi del genere...

Si avvicinò lentamente alla porta antincendio che lo avrebbe portato in strada, sul retro

del locale. Forse un po' di aria fresca gli avrebbe chiarito i pensieri. Forse era tutta

stanchezza e tensione.

— Simon? — Una vocina, come il cinguettio di un uccello. Abbassò lo sguardo,

terrorizzato, e vide accanto a sé Maureen. Da vicino sembrava ancora più minuta: ossa

come stuzzicadenti e una cascata di capelli biondissimi, che le scendevano sulle spalle da

sotto un berretto di lana rosa. Portava degli scaldabraccia a strisce arcobaleno e una

maglietta a maniche corte con la stampa serigrafata di Fragolina Dolcecuore. Vedendola, a

Simon cascarono le braccia.

— Non è il momento giusto, Mo, davvero — le disse.

— Vorrei solo farti una fotografia con il cellulare — disse lei tirandosi i capelli dietro le

orecchie, tutta agitata. — Così posso farla vedere alle mie amiche, okay?

— Okay — accettò Simon. Gli pulsava la testa. Che cosa ridicola... Lui non era certo

pieno di fan, anzi Maureen era praticamente l'unica di cui fosse a conoscenza, e per di più

era l'amica della cuginetta di Eric. Pensò che, in effetti, non poteva permettersi di

ignorarla. — Vai, fai pure.

Lei alzò il cellulare, scattò, e poi fece una smorfia. — E una insieme? — Gli scivolò

vicino, stringendosi al suo fianco. Su di lei sentiva l'odore del lucidalabbra alla fragola e

sotto quello salato del sudore. Infine, quello più salato del sangue. Maureen alzò lo

sguardo verso di lui, tenendo con la mano libera il cellulare davanti a loro, e fece un

sorriso. Aveva gli incisivi distanziati, e una vena blu sul collo. Respirò, e la fece pulsare.

— Sorridi — disse la ragazza.

Simon si sentì trafiggere dal dolore mentre i canini gli uscivano dalle gengive,

affondandogli nel labbro. Si accorse di Maureen che restava senza fiato e poi del cellulare

che le sfuggiva di mano, mentre lui la prendeva e la brava verso di sé, conficcandole i

denti nel collo.

Il sangue gli esplose in bocca, con un sapore indescrivibile. Era come se poco prima

stesse soffocando e ora avesse ricominciato a respirare, inalando grandi boccate di

ossigeno fresco e puro. Maureen lottava per liberarsi e spingerlo via, ma lui ci faceva a

malapena caso. Non si accorse nemmeno che era svenuta; il peso morto di lei li aveva

trascinati entrambi a terra, e ora lui le stava sopra, con le mani strette attorno alle spalle,

stringendole e rilasciandole a ogni sorsata.

Non ti sei mai nutrito di un umano, vero? gli aveva detto Camille. Succederà. E quando

lo farai, non te ne dimenticherai.

Capitolo 9

DA UNA FIAMMA A UN'ALTRA FIAMMA

Clary raggiunse la porta e uscì fuori nell'aria serale imbevuta di pioggia. Ora veniva giù a

secchiate, e in un secondo si ritrovò bagnata fradicia. Strozzandosi con le gocce di pioggia

e le lacrime, sfrecciò di corsa accanto a un furgone giallo che le era familiare, quello di Eric,

con l'acqua che si accumulava sul tetto e poi scivolava dentro al tombino; stava per

attraversare la strada, senza rispettare il semaforo, quando un braccio la prese e la girò

verso di sé.

Era Jace. Fradicio quanto lei, la pioggia gli incollava i biondi capelli alla testa e gli faceva

aderire la maglietta al corpo come fosse vernice nera. — Clary, non hai sentito che ti

chiamavo?

— Lasciami andare. — Le tremava la voce.

— No. Non finché non parliamo. — Si guardò attorno, in su e in giù per la strada

deserta, con le gocce di pioggia che esplodevano sul nero del marciapiede come fiori che si

dischiudevano in un istante. — Vieni.

Continuando a tenerla per il braccio, quasi la trascinò dietro il furgone e poi in una

viuzza che passava accanto all'Alto Bar. Dalle alte finestre sopra di loro usciva il suono

smorzato della musica che veniva dall'interno del locale. La stradina aveva le pareti di

mattonelle ed era diventata una discarica di pezzi di attrezzature musicali ormai

inutilizzabili. Sparpagliati a terra, amplificatori fuori uso e vecchi microfoni, bicchieri di

birra rotti e mozziconi di sigaretta.

Clary si liberò dalla stretta di Jace e si girò per guardarlo in faccia. — Se hai in

programma di scusarti, risparmia la fatica. — Si scostò i capelli, bagnati e pesanti, dal viso.

— Non voglio starti a sentire.

— Volevo dirti che sto cercando di aiutare Simon — replicò lui mentre le gocce di

pioggia gli scorrevano dalle ciglia alle guance come lacrime. — Sono a casa sua da...

— E non potevi dirmelo? Non potevi mandarmi una riga di messaggio per dirmi

dov'eri? Oh, aspetta. No, non potevi farlo, perché il mio cavolo di telefono ce l'hai ancora

tu! Ridammelo.

Senza parlare, Jace si infilò una mano nella tasca dei jeans e le passò il cellulare. Lei se lo

mise nella borsa a tracolla prima che la pioggia potesse rovinarlo. Jace rimase a guardarla

con l'aria di chi si è appena preso uno schiaffo in faccia, e questo non faceva che

innervosirla ancora di più. Che diritto aveva di sentirsi offeso?

— Credo — disse piano il ragazzo — di aver pensato che la cosa più vicina a stare

insieme a te fosse stare con Simon. Vigilare su di lui. E poi, come uno stupido, ho pensato

che ti saresti accorta che lo stavo facendo per te, e che quindi mi avresti perdonato...

Tutta la rabbia di Clary salì in superficie, come una marea incandescente e inarrestabile.

— Non so nemmeno pei cosa pensi che dovrei perdonarti — gridò. — Forse per il fatto che

non mi ami più? Perché se è questo che vuoi, Jace Lightwood, puoi anche prendere e... —

Fece un passo indietro, e per poco non inciampò su un amplificatore abbandonato. La

borsa le cadde a terra mentre allungava una mano per tenere l'equilibrio, ma Jace si era già

mosso. Si protese per sorreggerla e non si fermò finché la schiena di lei non fu contro il

muro, il corpo avvolto dalle sue braccia, la bocca ammutolita da baci frenetici.

Clary sapeva di doverlo spingere via. La testa le diceva che era quella la cosa più

ragionevole da fare, ma al resto del corpo non importava cosa fosse o non fosse

ragionevole. Non quando Jace la baciava come se stesse pensando che farlo lo avrebbe

spedito all'inferno ma ne sarebbe comunque valsa la pena.

Lei gli affondò le dita nelle spalle, nel tessuto umido della maglietta, sotto il quale

avvertiva la resistenza dei muscoli; ricambiò il bacio con tutta la disperazione degli ultimi

giorni, l'angoscia di non sapere quello che lui stava o non stava pensando, la sensazione di

avere una parte di cuore strappata dal petto e mai abbastanza aria per respirare. —

Dimmelo — disse lei fra i baci, mentre i loro visi umidi scivolavano l'uno sull'altro. —

Dimmi cosa c'è che non va... Oh. — sussultò mentre lui si allontanava da lei quanto

bastava per abbassare le mani, mettergliele attorno alla vita e sollevarla per posarla sopra

l'amplificatore rotto, così che entrambi fossero alla stessa altezza. Poi lui le racchiuse la

testa fra le mani e si chinò in avanti, finché i loro corpi quasi si toccarono... Quasi. Era una

tortura: lei avvertiva il calore febbricitante che emanava il corpo di lui; continuava a

tenergli le mani sulle spalle, ma non era abbastanza, perché voleva sentirlo avvolto attorno

a sé, voleva che la stringesse forte. — P... perché — sussurrò. — Perché non puoi parlarmi?

Perché non puoi guardarmi?

Lui abbassò la testa per guardarla in faccia. Gli occhi, incorniciati dalle ciglia scurite dalla

pioggia, erano di un oro impossibile.

— Perché ti amo.

Lei non resistette. Gli tolse le mani dalle spalle, incastrò le dita nei passanti della sua

cintura e lo tirò a sé. Lui, le mani premute contro la parete, non oppose resistenza, e

distese il proprio corpo sopra quello di lei finché non furono completamente l'uno

sull'altra - petto, fianchi, gambe - come i tasselli di un puzzle. Le mani di lui le scivolarono

sulla vita; la baciò, indugiando a lungo, dandole i brividi.

Lei si ritrasse. — Quello che hai detto non ha senso.

— E questo nemmeno — rispose Jace. — Sono stanco di fingere di poter vivere senza di

te, non lo capisci? Non lo vedi che tutto questo mi sta uccidendo?

Clary lo fissò. Sapeva che era sincero, lo vedeva in quegli occhi che conosceva come i

propri, in quelle ombre bluastre che li segnavano, lo sentiva nel sangue che pulsava nella

gola di lui. Il desiderio di ricevere delle risposte lottò contro la parte più primitiva del suo

cervello e ne uscì sconfitto. — Allora baciami — sussurrò, e lui premette la bocca contro la

sua, mentre i loro cuori si scontravano attraverso i sottili strati di stoffa bagnata che li

dividevano. E lei ci affogò dentro, nella sensazione di lui che la stava baciando; nella

pioggia che le scorreva giù dalle ciglia; nel desiderio di lasciare che quelle mani

scorressero libere sul suo corpo e increspassero il tessuto del vestito, reso sottile e aderente

dall'acqua. Era quasi come averle sulla pelle nuda, sul petto, sulla vita, sulla pancia;

quando lui raggiunse l'orlo del vestito, la spinse più forte contro il muro afferrandole le

gambe, mentre lei gliele teneva strette attorno alla vita.

Jace emise un gemito di sorpresa, gutturale, e affondò le dita nel tessuto sottile delle

calze, che come prevedibile si ruppero. All'improvviso lei si ritrovò le dita bagnate di lui

sulla pelle nuda. Per non essere da meno, gli infilò le mani sotto la maglietta inzuppata e

lasciò che le dita esplorassero quello che incontravano: la pelle tesa e calda sopra le

costole, il netto profilo degli addominali, la cicatrice sulla schiena, le ossa delle anche che

sbucavano da sopra la vita dei jeans. Per lei era territorio inesplorato, ma sembrava che a

lui quelle carezze piacessero da impazzire: gemeva piano contro la sua bocca e la baciava

sempre più forte, come se non fosse mai abbastanza, mai abbastanza...

A un tratto nelle orecchie di Clary esplose un terribile rumore metallico, che la svegliò di

soprassalto da quel sogno di baci e di pioggia.

Allontanò Jace da sé con un sussulto, abbastanza forte da far sì che lui lasciasse la presa,

facendola cadere giù dall'amplificatore. Atterrò sui piedi, vacillando, e aggiustandosi in

fretta il vestito. Sentiva il cuore che le batteva come un martello contro la gabbia toracica, e

in più le girava la testa.

— Accidenti. — In piedi all'imbocco del vicolo, coi capelli neri e bagnati che le

avvolgevano le spalle come un mantello, c'era Isabelle. Tirò un calcio a una lattina vuota

che le ingombrava il passaggio e guardò Jace e Clary con aria di rimprovero. — Per l'amor

del cielo! — esclamò. — Voi due, non posso crederci. Ma perché? Che cos'hanno di male le

camere da letto? E la privacy, poi, dove la mettiamo?

Clary guardò Jace. Era bagnato fradicio, l'acqua gli scrosciava giù sui vestiti; i suoi

capelli biondi, incollati alla lesta, sembravano color argento per via della debole luce che

emanavano i lampioni in lontananza. Solo guardarlo faceva venire a Clary voglia di

toccarlo di nuovo, Isabelle o non Isabelle, con un desiderio così intenso che quasi faceva

male. Lui fissava Izzy con lo sguardo di chi era appena stato svegliato di soprassalto da un

sogno: sul suo viso c'erano stupore, rabbia, lenta presa di coscienza della realtà.

Vedendo lo sguardo di Jace, Isabelle disse in tono difensivo: — Stavo solo cercando

Simon. È corso giù dal palco e non so dov'è finito. — A un certo punto, si rese tonto Clary,

la musica era finita, anche se non ricordava esattamente quando. — Comunque è chiaro

che qui non c'è, quindi ricominciate pure a fare quello che stavate facendo. Che senso ha

sprecare un bellissimo muro quando hai qualcuno da sbatterci contro? Lo dico sempre. —

E con quelle parole si allontanò a passi decisi, tornando verso il locale.

Clary guardò Jace. In un altro momento avrebbero riso insieme del caratteraccio di

Isabelle, ma ora sul viso ili lui non c'era traccia di ironia, e la cosa le fece capire

immediatamente che quanto era appena successo fra loro - qualunque cosa fosse sbocciata

in quella perdita di autocontrollo - ora era svanito. In bocca sentiva il sapore del sangue,

ma non sapeva se era stata lei a mordersi il labbro oppure Jace.

— Jace... — Fece un passo verso di lui.

— Non... — accennò lui in tono molto brusco. — Non posso.

E poi se ne andò, correndo veloce come solo lui sapeva fare, una macchia che spariva in

lontananza prima che lei facesse anche solo in tempo a prendere fiato per chiamarlo.

— Simon!

Una voce arrabbiata esplose nelle orecchie del ragazzo. A quel punto avrebbe lasciato

andare Maureen, o almeno così si disse, ma non ne ebbe la possibilità. Si sentì prendere

per le braccia da mani possenti che lo staccarono dal corpo di lei. A metterlo in piedi fu un

Kyle bianco come uno straccio, ancora arruffato e sudato per il concerto appena terminato.

— Simon, maledizione. Cosa diavolo...

— Non volevo — si difese lui, senza fiato. Si rese conto che la sua voce era confusa,

smarrita. Aveva ancora i canini in fuori, perché ancora non aveva imparato a gestire quella

dannata faccenda. Dietro a Kyle, sul pavimento, intravide la sagoma ripiegata su se stessa

di Maureen, immobile in modo inquietante.

— È successo e basta...

— Te l'avevo detto. Te l'avevo detto, Simon! — Kyle aveva alzato la voce, e ora gli stava

dando una forte spinta. Simon barcollò all'indietro e la fronte sembrò bruciargli, mentre

una mano invisibile sollevava Kyle e lo scagliava con violenza contro il muro alle sue

spalle. Andò a sbatterci contro e scivolò a terra, appoggiandosi su mani e piedi, finendo

accovacciato come un lupo. Si rialzò vacillando. — Cristo santo, Simon...

Lui però si era inginocchiato accanto a Maureen, mettendole freneticamente le mani

addosso per raggiungere il collo e sentire se c'era ancora battito. Quando sentì la carotide

pulsargli sotto la punta delle dita, debole ma costante, per poco non pianse dalla gioia.

— Allontanati da lei. — Kyle, con voce tesa, si avvicinò a Simon. — Alzati e vattene via.

Simon si alzò esitante e rimase a guardare l'altro accanto al corpo inerte di Maureen. La

luce penetrava come una lama attraverso la tenda che portava sul palco,- sentiva che fuori

c'erano ancora gli altri membri della band che chiacchieravano fra loro e iniziavano a

smontare gli strumenti. Sarebbero arrivati lì da un momento all'altro.

— Quello che hai fatto poco fa... — disse Kyle. — Mi hai... spinto? Tu non ti sei mosso...

— Non volevo — ripeté di nuovo Simon, disperato. Sembrava fosse l'unica frase che

diceva in quei giorni.

Kyle scosse la testa, facendo svolazzare i capelli. — Vai via di qui. Esci e aspettami vicino

al furgone, a lei ci penso io. — Si chinò e prese Maureen fra le braccia. Vicino a quella

sagoma imponente, il suo sembrava il corpo di una bambola. Kyle fissò Simon con uno

sguardo di fuoco. — Vai. E spero che tu ti senta davvero, davvero in colpa.

Simon obbedì. Raggiunse la porta antincendio e la spinse. Non partì nessun allarme, era

rotto da mesi. La porta si richiuse alle sue spalle e lui si appoggiò contro il muro del retro

del locale mentre ogni minima parte del suo corpo iniziava a tremare.

L'Alto Bar dava su una stradina con dei magazzini. Dal lato opposto a Simon c'era uno

spazio libero, chiuso da una catena che faceva da cancello. Tra le fenditure del

marciapiede spuntavano brutte erbacce. Pioveva a dirotto e l'acqua inzuppava

l'immondizia disseminata per la strada trascinando bottiglie vuote di birra fino ai tombini

intasati.

Simon pensò che fosse la cosa più bella che avesse mai visto: era come se l'intera notte

fosse esplosa di luce caleidoscopica. La catena era un fascio di fili d'argento lucente, ogni

goccia di pioggia una lacrima di platino. L'erba che sbucava dall'asfalto crepato erano

lingue di fuoco.

E spero che tu ti senta davvero, davvero in colpa, aveva detto Kyle. Ma tutto questo era

molto peggio. Si sentiva fantastico, vitale come mai prima d'ora. Onde di energia lo

attraversavano come una scossa elettrica; il dolore alla testa e allo stomaco era scomparso.

Avrebbe potuto correre per centinaia di chilometri.

Era terribile.

— Ehi, tu. Tutto a posto? — La voce che aveva parlato era elegante e divertita. Simon si

girò e vide una donna con un lungo impermeabile nero e un ombrello giallo aperto sopra

la testa. Il recente dono della visione prismatica gliela faceva sembrare un girasole

scintillante. La donna poi era bellissima, anche se in quel momento gli sembrava

bellissimo tutto: aveva i capelli neri e lucenti, le labbra truccate di rosso. Ricordò

vagamente di averla vista seduta a uno dei tavoli durante l'esibizione con la band.

Simon annuì, senza azzardarsi a parlare. Doveva avere l'aria veramente sconvolta se una

perfetta sconosciuta lo avvicinava per sapere come stava.

— Cos'è, ti hanno tirato un colpo in testa? — gli disse la donna indicandogli la fronte. —

Hai un brutto livido. Sicuro che non devo chiamare aiuto?

Simon si coprì subito la fronte con i capelli, nascondendo il Marchio. — Sto bene, non è

niente.

— Okay, se lo dici tu... — Non sembrava troppo convinta. Si mise una mano in tasca, ne

estrasse un biglietto da visita e glielo consegnò. C'era scritto Satrina Kendall, e sotto il

nome, in stampatello maiuscolo, la professione: band promoter. Completavano il tutto

numero del telefono e indirizzo. — Questa sono io — annunciò la donna. — Mi è piaciuto

quello che avete fatto poco fa, ragazzi. Se avete voglia di fare le cose un po' più in grande,

datemi un colpo di telefono.

Così dicendo si girò e si allontanò con grazia. Simon la seguì con lo sguardo... Quella

serata non avrebbe potuto essere più strana di così.

Scuotendo la testa, gesto che fece volare gocce di pioggia in tutte le direzioni, affondò i

piedi nell'acqua per svoltare l'angolo e raggiungere il punto dove era posteggiato il

furgone. La porta del locale era aperta e la gente si stava riversando all'esterno. Tutto

sembrava ancora stranamente luminoso, pensò Simon, ma la visione prismatica iniziava

pian piano a svanire. La scena davanti ai suoi occhi tornò presto alla normalità: un bar che

si svuotava, porte laterali aperte, furgoncino con i portelloni neri spalancati già attorniato

da Matt, Kirk e altri amici che caricavano la strumentazione. Avvicinandosi, Simon vide

che appoggiata su un lato del furgone c'era Isabelle, con un ginocchio piegato e il tacco

dello stivale appoggiato sulla carrozzeria martoriata. Avrebbe potuto aiutare gli altri a

caricare, dato che era più forte di tutti i membri del gruppo, tranne forse Kyle, ma era

chiaro che non ne aveva nessuna intenzione. Simon non ne era affatto sorpreso.

Lei alzò lo sguardo mentre lui si avvicinava. La pioggia era diminuita, ma si vedeva che

era rimasta all'aperto per un po'; i capelli le formavano una tenda lunga e pesante che

scendeva sopra la schiena. — Ehilà — disse a Simon staccandosi dal furgone e andandogli

incontro. — Dov'eri finito? Ti ho visto correre giù dal palco…

— Già. Scusami, ma non mi sono sentito bene — rispose il ragazzo.

— Basta che adesso stai meglio — disse Isabelle stringendolo fra le braccia e

rivolgendogli un sorriso. Simon, sentendo che non avvertiva l'impulso di morderla, fu in-

vaso da un senso di sollievo. Poi, un'altra ondata di senso di colpa, quando ricordò il

perché.

— Non hai visto Jace da nessuna parte, vero? — le chiese.

Lei alzò gli occhi al cielo. — Sì, l'ho visto mentre si faceva Clary — disse. — Anche se ora

se ne saranno andati... a casa, spero. Sono la personificazione del "trovatevi una stanza".

— Non pensavo che Clary sarebbe venuta — disse Simon, anche se in realtà non era così

strano; probabilmente l'appuntamento per la torta era stato cancellato o qualcosa del

genere. Non era abbastanza in forze per arrabbiarsi del fatto che Jace si era rivelato una

pessima guardia del corpo. Dopotutto non aveva mai pensato che Jace si occupasse

seriamente della sua incolumità personale. Sperava soltanto che lui e Clary avessero

risolto il problema, qualunque cosa fosse.

— Va be'. — Isabelle fece un sorriso. — Visto che siamo rimasti noi due, cosa ne dici se

andiamo da qualche parte e...

Una voce, una voce molto familiare, sbucò dall'ombra appena dietro il lampione più

vicino. — Simon?

Oh no, non adesso. Non proprio adesso.

Si girò lentamente. Aveva ancora il braccio di Isabelle attorno alla vita, anche se sapeva

che non ci sarebbe rimasto per molto. Non se la persona che secondo lui aveva appena

parlato era quella che immaginava.

E lo era.

Maia era uscita dall'ombra ed era ferma in piedi a guardarlo, con un'espressione

incredula sul viso. I capelli, di solito ricci, le stavano incollati alla testa per via della

pioggia; gli occhi ambrati erano spalancati, i jeans e il giubbino, dello stesso tessuto,

inzuppati. Nella mano sinistra stringeva un pezzo di carta arrotolato.

Simon si accorse a malapena che accanto a lui gli altri membri della band avevano

rallentato i movimenti e li stavano guardando a bocca aperta. Il braccio di Isabelle gli

scivolò giù dalla vita. — Simon? — gli disse. — Che succede?

— Mi avevi detto che avresti avuto da fare — aggiunse Maia guardando Simon. — Poi

qualcuno, stamattina, mi ha infilato questo sotto la porta. — Allungò un volantino

arrotolato, subito identificabile con quello che pubblicizzava il concerto di quella sera.

Isabelle guardò prima Simon e poi Maia, mentre sul viso le compariva lentamente

l'espressione di chi aveva capito tutto. — Fermi un attimo — disse. — Voi due state

uscendo insieme?

Maia la guardò con aria decisa. — E voi due?

— Sì — affermò Isabelle. — E da qualche settimana ormai.

Maia strinse lo sguardo. — Anche noi. Ci frequentiamo da settembre.

— Non posso crederci — fece Isabelle. E davvero sembrava non riuscirci. — Simon? —

lo chiamò girandosi verso di lui, con le mani sui fianchi. — Hai una spiegazione?

I membri della band, che avevano finalmente caricato tutta l'attrezzatura (i vari pezzi

della batteria erano ammassati sui sedili posteriori, le chitarre e il basso sul retro), stavano

spudoratamente osservando la scena. Eric mise le mani a megafono attorno la bocca e

gridò: — Signore, signore! Non c'è bisogno di litigare. C'è abbastanza Simon per tutte!

Isabelle si girò di scatto e gli lanciò uno sguardo talmente di fuoco da ridurlo al silenzio

in un secondo. I portelloni posteriori del furgone si chiusero di colpo, il veicolo partì e si

allontanò. Traditori, pensò Simon, anche se a essere onesti gli altri avevano sicuramente

immaginato che lui sarebbe salito sulla macchina di Kyle, parcheggiata dietro l'angolo.

Sempre che fosse sopravvissuto abbastanza a lungo.

— Non posso crederci, Simon — disse Maia. Anche lei era in piedi con le mani sui

fianchi, nell'identica posizione di Isabelle. — Ma che cosa avevi in testa? Come hai fatto a

mentire così?

— Non ho mentito — protestò Simon. — Non ci siamo mai detti di essere una coppia

ufficiale! — Poi si girò verso Isabelle. — E noi nemmeno! E poi so che uscivi con altre

persone...

— Non persone che conosci anche tu, però — ribatté Isabelle, furente. — Non tuoi

amici. Come la prenderesti se scoprissi che stavo uscendo anche con Eric?

— Rimarrei sorpreso, onestamente — rispose Simon. — Non è certo il tuo tipo.

— Non è questo il punto, Simon. — Maia si era avvicinata a Isabelle, e ora le due lo

fronteggiavano insieme, un muro inamovibile di rabbia femminile. Il locale si era

completamente svuotato, e oltre a loro tre, in strada, non c'era più nessuno. Simon valutò

per un istante le possibilità di fuga, ma si rese conto che non erano molto buone. I lupi

mannari correvano veloce, e Isabelle era una cacciatrice di vampiri professionista.

— Mi dispiace, davvero — disse. Per fortuna l'euforia del sangue appena bevuto

cominciava a svanire. Le sensazioni travolgenti di poco prima avevano smesso di ine-

briarlo, ma in compenso gli avevano lasciato un senso di panico. Come se non fosse

sufficiente, con la mente continuava a tornare a Maureen e a quello che le aveva fatto. Si

chiese se ora fosse tutto a posto. Ti prego, fai che stia bene. — Avrei dovuto dirvelo,

ragazze. È che mi piacete tutt'e due e non volevo ferire né l'una né l'altra.

Nell'istante in cui quella frase gli uscì di bocca, Simon si rese conto di quanto fosse

assurda. Ecco l'ennesimo cretino che cercava delle scuse per la sua cretinata. Non aveva

mai pensato a se stesso come a un ragazzo capace di certe cose: lui era quello gentile,

quello che passava inosservato, al massimo del tipo misterioso o dell'artista tormentato.

Invece, quella volta, era il ragazzo pieno di se che se ne infischia se frequenta due ragazze

allo stesso momento, magari non mentendo su quello che sta facendo, ma nemmeno

dicendo la verità.

— Wow — disse, soprattutto a se stesso. — Sono un grandissimo stronzo.

— Direi che questa è la prima cosa giusta che hai detto da quando sono arrivata —

commentò Maia.

— Amen — sentenziò Isabelle. — Quanto a me, è troppo poco, troppo tardi...

La porta laterale del locale si aprì e qualcuno uscì fuori. Era Kyle. Simon si sentì

sollevato; il ragazzo aveva un'aria seria, ma non così seria come pensava avrebbe avuto se

a Maureen fosse successo qualcosa di sconvolgente.

Scese i gradini e li raggiunse, mentre ormai l'acquazzone si era trasformato in una

pioggerellina leggera. Maia e Isabelle gli davano le spalle, perché erano impegnate a

fulminare Simon coi loro sguardi inferociti. — Ora non ti aspettare che una di noi ti

rivolga ancora la parola — dichiarò Isabelle. — E io poi farò un discorsetto anche a Clary.

Un discorsetto molto, molto serio sugli amici che si sceglie.

— Kyle — disse Simon incapace, quando l'altro fu a portata d'orecchio, di trattenere

nella voce un senso di liberazione. — Maureen... Ora sta...

Non aveva la minima idea di come chiedergli quello che voleva sapere senza far capire a

Maia e Isabelle che cosa era successo, ma a quanto pareva non fu necessario, perché non

riuscì a completare la frase. Maia e Isabelle si erano già girate: Isabelle aveva l'aria

scocciata, Maia sorpresa, l'aria di chi si stava chiedendo chi fosse quel ragazzo.

Non appena Maia riuscì a osservarlo bene, cambiò subito espressione: spalancò gli occhi

e impallidì di colpo. Kyle, a sua volta, la fissava con l'aria di uno che si era appena

risvegliato da un incubo solo per scoprire che si trattava della realtà, e che non era ancora

finita. Mosse la bocca come per parlare, ma non produsse alcun suono.

— Ehi! — esclamò Isabelle, guardando prima l'uno poi l'altra. — Per caso voi due... vi

conoscete?

Maia dischiuse le labbra. Stava ancora fissando Kyle. Simon fece appena in tempo a

pensare che lei non lo aveva mai guardato neanche lontanamente con la stessa intensità

con cui ora guardava Kyle, quando la sentì sussurrare "Jordan"... Un istante dopo si

avventò su di lui, con gli artigli scoperti e acuminati, e glieli conficcò nel collo.

Parte Seconda

Niente è gratuito. Tutto ha un prezzo.

Per ogni guadagno, c'è un prezzo da pagare.

Per ogni vita, una morte. Anche la tua musica,

che tanto abbiamo ascoltato,

anche quella andava pagata. Tua moglie è stata

il pagamento per la tua musica.

Ora l'Inferno è soddisfatto.

Ted Hughes - The Tiger Bones

Capitolo 10

RIVERSIDE DRIVE 232[eBL 041] Cassandra Clare - città degli angeli caduti[by Pico & Elena77]

Simon sedeva sulla poltrona del soggiorno di Kyle e fissava il fermo immagine sul

televisore nell'angolo della stanza. Era il videogioco, messo in pausa, a cui aveva giocato

con Jace, e la scena era quella di un tunnel sotterraneo melmoso con un mucchio di ca-

daveri a terra, attorniati da pozze di sangue molto realistiche. Inquietante, ma Simon non

aveva né la voglia né le energie necessarie per alzarsi e spegnere. Le immagini che gli

erano passate tutta la notte per la testa erano state di gran lunga peggiori. La luce che

inondava la stanza attraverso le finestre, e che fino a prima era soltanto il chiarore

impalpabile dell'alba, ora si era intensificata fino a diventare la luminosità ancora pallida

del mattino presto, ma Simon se ne accorse a malapena. Continuava a vedere davanti agli

occhi il corpo accasciato di Maureen, con quei capelli biondi macchiati di sangue. Se stesso

che barcollava in avanti nel buio della notte, con il sangue della ragazza che gli cantava

nelle vene. E poi Maia che si avventava su Kyle, aggredendolo con gli artigli. Kyle era

rimasto fermo a terra, senza alzare un dito per difendersi; probabilmente si sarebbe

lasciato uccidere, se non fosse intervenuta Isabelle staccandogli di dosso il corpo di Maia e

facendola rotolare a terra, dove l'aveva bloccata finché la sua furia non si era trasformata

in lacrime. Simon aveva cercato di intervenire, ma Isabelle lo aveva dissuaso con uno

sguardo rabbioso, tenendo un braccio attorno alla ragazza e una mano alzata per fargli

segno di stare alla larga.

— Vattene via — gli aveva detto. — E porta lui con te. Non so che cosa le abbia fatto, ma

non deve essersi trattato di una cosa tanto piacevole.

E aveva ragione. Simon conosceva quel nome, Jordan. Lo aveva sentito altre volte,

quando aveva chiesto a Maia come fosse stata trasformata in lupo mannaro. Era stato il

suo ex ragazzo, gli aveva detto. Lo aveva fatto con un attacco crudele e violento,

dopodiché era scappato lasciandola a gestire da sola le conseguenze del suo gesto.

E quel ragazzo si chiamava Jordan.

Era quello il motivo per cui Kyle aveva solo un nome sul citofono: era il suo cognome.

Quello completo doveva essere Jordan Kyle, dedusse Simon. Era stato uno stupido, un

vero stupido a non esserci arrivato prima. Non che in quel momento gli servisse un altro

motivo per odiarsi.

Kyle, o meglio Jordan, era un lupo mannaro; guariva in fretta. Quando Simon lo sollevò

in piedi, senza troppa delicatezza, i profondi tagli che aveva sul collo e sotto i brandelli

della maglietta si erano già cicatrizzati. Simon gli aveva preso le chiavi e aveva guidato

fino a Manhattan senza quasi aprire bocca, mentre Jordan sedeva praticamente immobile

sul sedile del passeggero, fissandosi le mani insanguinate.

—Maureen sta bene — aveva detto infine mentre attraversavano Williamsburg Bridge.

— Sembrava messa peggio. Non sei ancora molto bravo a nutrirti di umani, perciò non

aveva perso troppo sangue. L'ho messa su un taxi, non ricorda niente. Pensa di esserti

svenuta davanti, e se ne vergogna moltissimo.

Simon sapeva di dover ringraziare Jordan, ma per quanto ci provasse non riusciva a

farlo. — Tu sei Jordan — gli disse. L'ex ragazzo di Maia. Quello che l'ha trasformata in un

lupo mannaro.

Si trovavano su Kenmare Street; Simon andò verso nord, direzione Bowery, una via

profilata di pensioncine da due soldi e negozietti illuminati. — Sì — disse finalmente

Jordan. — Kyle è il cognome. Ho iniziato a farmi chiamare così quando sono entrato nel

Praetor.

—Ti avrebbe ucciso, se non fosse intervenuta Isabelle.

—Se vuole farlo, ne ha tutto il diritto — replicò Jordan prima di sprofondare nel silenzio.

Non disse più nulla mentre Simon trovava parcheggio e insieme salivano le scale che li

portavano al loro appartamento. Era entrato in camera sua senza nemmeno togliersi la

giacca sporca di sangue, e infine aveva chiuso la porta sbattendola.

Simon aveva messo tutte le sue cose nello zaino e si era fermato un passo prima di

lasciare l'appartamento. Anche allesso non capiva bene perché la notte prima avesse esi-

tato, ma alla fine, invece di uscire, aveva lasciato le sue cose accanto alla porta e si era

seduto sulla poltrona, dove aveva trascorso tutta notte e dove stava ancora adesso.

Avrebbe voluto chiamare Clary, ma era troppo presto. Inoltre Isabelle l'aveva vista

allontanarsi insieme a Jace c l'idea di interrompere un momento speciale non era un

granché. Si chiese come stesse sua madre. Se l'avesse visto la sera prima, con Maureen,

l'avrebbe giudicato in tutto e per tutto il mostro che lo aveva accusato di essere. Forse era

così.

Alzò lo sguardo quando la porta di Jordan si aprì di uno spiraglio e il ragazzo ne uscì.

Era scalzo, con ancora in dosso gli stessi jeans e la stessa maglietta del giorno prima. Le

cicatrici sul collo si erano trasformate in segni rossi appena visibili. Guardò Simon. I suoi

occhi verde nocciola, di solito così luminosi e allegri, erano attraversati da un'ombra scura.

— Pensavo te ne saresti andato.

— Stavo per farlo — ammise Simon. — Ma poi ho pensato che dovevo darti la

possibilità di spiegare.

— Spiegare cosa? Non c'è niente da spiegare. — Jordan camminò lento verso il bancone

della cucina e rovistò in un cassetto finché non recuperò un filtro per il caffè. —

Qualunque cosa Maia abbia detto di me, sarà senz'altro vera.

— Ha detto che l'hai picchiata — rispose Simon. Jordan, in cucina, si chiuse nel silenzio.

Abbassò lo sguardo sul filtro come se non sapesse più cosa farsene.

— Ha detto che siete usciti insieme per mesi e che tutto andava alla grande — continuò

Simon. — Poi tu sei diventato geloso e violento. Quando lei te lo ha fatto notare, tu l'hai

picchiata. Ti ha lasciato, e mentre una sera tornava a casa da sola, qualcosa l'ha attaccata e

per poco non l'ha uccisa. E tu... tu hai lasciato la città. Senza scuse, senza spiegazioni.

Jordan appoggiò il filtro del caffè sul bancone della cucina. — Come ha fatto a venire qui

e a trovare il branco di Luke Garroway?

Simon scosse la testa. — È saltata su un treno per New York e li ha rintracciati. Maia è

una sopravvissuta. Non si è lasciata abbattere da quello che le hai fatto, come invece

avrebbe fatto un sacco di gente.

— È questo il motivo per cui sei rimasto? chiese Jordan. — Per dirmi che sono un

bastardo? Questo lo so già.

— Sono rimasto — rispose Simon — per quello che ho fatto ieri notte. Se avessi scoperto

tutto il giorno prima, allora sì, me ne sarei andato. Ma dopo quello che hai fatto per

Maureen... — Si morse le labbra. — Pensavo di poter controllare le cose che mi

succedono,invece non è stato così, e ho fatto del male a una persona che non lo meritava.

Ecco il motivo per cui rimango.

Perché se io non sono un mostro, non lo sei nemmeno tu.

Perché voglio sapere come si fa ad andare avanti,e forse tu me lo puoi dire. — Simon si

chinò in avanti. — Perché da quando ti ho conosciuto, sei sempre stato buono con me. Non

ti ho mai visto comportarti male e nemmeno arrabbiarti. E poi ho ripensato ai Lupi

Guardiani,e quando mi hai detto di esserti unito a loro perché avevi commesso delle

brutte azioni. Forse la brutta azione è Maia ed è lei la pena che cercavi di scontare...

—Sì, ci sto provando. — Rispose Jordan. — È lei.

Clary, seduta alla scrivania della camera libera in casa di Luke, aveva disteso davanti a

sé il lembo di tessuto preso all'obitorio del Beth Israel. Per tenerlo fermo lo aveva fissato

con delle matite, e ora lo sovrastava, stilo alla mano, cercando di ricordare la runa che

aveva visto in ospedale.

Concentrarsi era difficile. Continuava a ripensare a Jace, alla sera prima, a dove fosse

andato, al perché fosse così triste. Prima di vederlo, non si era resa conto di quanto fosse

abbattuto, e la scoperta le aveva straziato il cuore. Voleva chiamarlo, ma da quando era

rientrata a casa si era trattenuta diverse volte dal farlo. Se lui aveva voglia di spiegarle

qual era il problema, l'avrebbe fatto senza che gli venisse chiesto: lo conosceva

abbastanza bene da sapere che era così che si comportava.

Chiuse gli occhi e cercò di costringersi a disegnare la runa. Non l'aveva ideata lei, di

questo era abbastanza si cura. Era una runa che già esisteva, anche se non poteva giurare

di averla già vista nel Libro Grigio; la sua forma le indicava che non si trattava tanto di

traduzione, quanto di rivelazione, rivelazione di qualcosa nascosto sottoterra, come se

stesse soffiando via lentamente la polvere depositata sopra un'iscrizione...

Lo stilo le sussultò fra le dita e, quando riaprì gli occhi, Clary scoprì con sorpresa che era

riuscita a fare un piccolo disegno sul bordo del tessuto. Sembrava una macchia

d'inchiostro, con degli strani schizzi che si allargavano qua e là; Clary corrugò la fronte,

pensando che magari aveva perso il suo dono. Invece il tessuto iniziò a brillare, come

gocce d'acqua sull'asfalto bollente, e la ragazza rimase a fissare le parole che percorrevano

il panno come se a scriverle fosse stata una mano invisibile.

Proprietà della Chiesa di Talto. Riverside Drive 232.

Clary si sentì prendere dall'entusiasmo. Era un indizio, un vero indizio! Ci era arrivata

da sola, senza l'aiuto di nessuno.

Riverside Drive, numero 232. Si trovava, pensò, nella zona dell'Upper West Side, vicino

a Riverside Park, dall'altra parte del fiume rispetto al New Jersey. Non era molto distante,

anzi. La Chiesa di Talto... Clary appoggiò lo stilo con un espressione preoccupata sul viso.

Di qualunque cosa si trattasse, erano cattive notizie. Si lanciò n la sedia verso il vecchio

computer di Luke ed entrò Internet. Non si stupì di scoprire che le parole "Chiesa di

Talto" non davano alcun risultato sensato. Quello che c'era scritto sul bordo della striscia

di tessuto doveva essere in purgatico, o in ctoniano, o in qualche altro linguaggio

demoniaco.

Di una cosa però era certa: questa fantomatica Chiesa di Talto celava un segreto, e

probabilmente un segreto poco piacevole. Se era coinvolta nella trasformazione di neonati

umani in cosi con gli artigli al posto delle mani, non poteva trattarsi di una vera comunità

religiosa, Clary si chiese se magari la madre che aveva abbandonato il bambino vicino

all'ospedale ne facesse parte e le sapesse in cosa si era cacciata prima di dare alla luce suo

figlio.

Quando prese il telefono si sentì avvolgere da un'ondata di freddo, che la paralizzò con

l'apparecchio in mano. Voleva chiamare sua madre, ma si rese conto che non poteva

parlare di queste cose con lei, che aveva appena smesso di piangere accettando di uscire

un po' con Luke per scegliere le fedi. E sebbene Clary ritenesse sua madre abbastanza forte

da saper gestire qualsiasi verità fosse emersa, di certo si sarebbe messa nei guai con il

Conclave per aver approfondito le indagini fino a quel punto senza informarli.

Luke. Però Luke era con sua madre, perciò non poteva chiamare nemmeno lui. Maryse,

forse. La sola idea di contattarla le sembrava però assurda, la intimoriva. Inoltre Clary

sapeva, magari senza volerlo ammettere a se stessa, che se avesse lasciato il caso al

Conclave, lei sarebbe stata messa da parte, esclusa da un mistero che le sembrava

profondamente personale. Senza contare che poi le sarebbe sembrato di tradire sua madre

per il Conclave.

Ma partire all'avventura così, da sola, senza sapere cosa avrebbe trovato... Sì, si era

allenata, ma non fino a quel punto. E poi sapeva che, di carattere, era portata prima ad

agire e poi a riflettere. Strinse fra le mani il cellulare, esitò un istante... e mandò un breve

messaggio: RIVERSIDE 232. INCONTRIAMOCI SUBITO LI’. È IMPORTANTE. Schiacciò

il tasto d'invio e rimase seduta un momento, finché lo schermo del telefono non si accese

con la risposta: OK.

Con un sospiro, Clary appoggiò il cellulare e andò a prendere le sue armi.

— Io amavo Maia — disse Jordan. Ora era seduto sul divano, dopo essere finalmente

riuscito a prepararsi il caffè ma senza averne bevuto una goccia. Se ne stava lì con la tazza

fra le mani, girandola £ rigirandola mentre parlava. — Devi saperlo, prima che ti racconti

il resto. Arriviamo tutt'e due da una squallida cittadina del New Jersey e lei aveva sempre

un sacco di casini perché suo padre era nero e sua madre bianca. Aveva anche un fratello,

uno psicopatico totale: Daniel, non so se te ne ha mai parlato.

— Non molto — fece Simon.

— Con una situazione del genere alle spalle, la sua vita era praticamente un inferno, ma

non per questo si lasciava scoraggiare. La incontrai in un negozio di musica, stava

comprando dei vecchi dischi in vinile. Iniziammo a parlare e capii subito di avere davanti

a me la ragazza più in gamba nel raggio di chilometri. Bella, per di più. E dolce. — Mentre

parlava, Jordan aveva lo sguardo distante. — Siamo usciti insieme ed è stato fantastico.

Eravamo innamoratissimi, come quando hai sedici anni. Poi mi hanno morso: una sera,

durante una rissa in un locale. Una volta mi cacciavo spesso in guai del genere. Ero

abituato a prendere calci e pugni, ma non morsi. Pensai che il ragazzo che l'aveva fatto

fosse un pazzo, ma chi e ne importava. Andai in ospedale, mi misero i punti e on ci pensai

più.

— Circa tre settimane dopo è cominciato tutto. Ondate di rabbia e di nervosismo

incontrollabile. Non ci vedevo più e non capivo quello che stava succedendo. Sfondai la

finestra della cucina con un pugno solo perché si era incastrato un cassetto. Ero pazzo di

gelosia per Maia: pensavo che guardasse altri ragazzi, ero convinto che... bah, non so

nemmeno io cosa mi passasse per la lesta. So solo che sono scattato. L'ho picchiata. Vorrei

dire che non ricordo di averlo fatto, invece sì. E lei mi ha lasciato... — La voce gli si spense

in gola. Bevve un sorso di caffè, e Simon pensò che aveva l'aria di stare male. Doveva

essere una storia che raccontava di rado. O forse mai. — Un paio di sere più tardi andai a

una festa e la rividi. Che ballava con un altro. Che lo baciava come se volesse dimostrare

che con me era finita. Aveva scelto la notte peggiore per farlo, non che avrebbe potuto

immaginarselo.. . Era la prima notte di luna piena da quando ero stato morso. — Le

nocche delle mani, avvolte attorno alla tazza, gli erano diventate bianche. — E stata la

prima volta in cui sono mi sono trasformato. La trasformazione mi ha squarciato il corpo,

distrutto le ossa e la pelle. Morivo di dolore, e non solo per quello. Volevo lei, vo levo che

tornasse da me, volevo chiarire, ma tutto quello che riuscivo a fare era ululare. Iniziai a

correre per le strade, e fu lì che la rividi, mentre attraversava il parco vicino a casa sua.

Stava rincasando...

— E tu l'hai attaccata — intervenne Simon. — L'hai morsa.

— Già — ammise Jordan, perso nei ricordi. — Quando il giorno dopo mi svegliai, mi

resi conto di quello che avevo fatto. Cercai di andare da Maia per spiegarmi, ma a metà

strada venni bloccato da un tipo grande e grosso che mi fissava. Sapeva chi ero, sapeva

tutto di me. Mi disse di essere un membro del Praetor Lupus, assegnato al sottoscritto.

Non era molto contento di non essere intervenuto in tempo, dopo che avevo già morso

Maia. A quel punto non mi avrebbe neanche lontanamente permesso di avvicinarla,

diceva che avrei solo peggiorato le cose. Mi promise che i Lupi Guardiani l'avrebbero pro-

tetta e aggiunse che, avendo infranto una regola ferrea, ovvero quella di non mordere gli

umani, l'unico modo di evitare una punizione era di unirsi all'organizzazione e imparare

l'autocontrollo.

— Non volevo farlo. Gli avrei sputato addosso e mi sarei preso qualsiasi punizione

avessero voluto infliggermi. Mi odiavo da morire. Quando però lui mi spiegò che avrei

potuto aiutare altri come me, magari evitare che quanto successo a me e a Maia succedesse

anche ad altri, fu come vedere una luce in fondo al tunnel, in un futuro lontano. Come

fosse un'occasione per rimediare al male che avevo causato.

— D'accordo — disse piano Simon. — Ma non è una coincidenza un po' strana che alla

fine ti abbiano assegnato proprio a me? Uno che frequentava proprio la ragazza che avevi

morso e trasformato in lupo mannaro?

—Nessuna coincidenza. Il tuo caso è uno fra quelli che mi hanno affidato. Ho scelto te

appunto perché fra le informazioni c'era il nome di Maia... Un lupo mannaro e un vampiro

che escono insieme: sai, non capita lutti i giorni. È stata la prima volta in cui ho davvero

capito che anche lei si era trasformata dopo... dopo quello che le avevo fatto.

— Non hai mai controllato per scoprirlo? Mi sembra un po'...

— Ci ho provato. Il Praetor non voleva, ma ho fatto ciò che ho potuto per scoprire cosa le

fosse successo. Sapevo che era scappata da casa, ma le cose non le andavano bene già da

prima, perciò non potevo basarmi su quello. E non è che ci sia un registro nazionale dei lu-

pi mannari in cui cercarla... Speravo soltanto... speravo che non si fosse trasformata.

— Quindi hai accettato il mio caso per via di Maia? Jordan arrossì. — Ho pensato che

magari, incontrandoti, avrei potuto scoprire che ne era stato di lei. Se stava bene.

— Ecco perché mi hai rimproverato perché frequentavo anche un'altra! — disse Simon

ripensando alle parole di Jordan. — Volevi proteggerla.

Lui lo guardò di traverso da sopra il bordo della tazza di caffè. — Be', sì. La tua è stata

una cretinata.

— Quindi sei stato tu a infilare il volantino del concerto sotto la sua porta, vero? —

chiese Simon scuotendo la testa. — Interferire con la mia vita sentimentale faceva parte

della missione o è stato solo un tuo tocco personale?

— Io le ho fatto del male — rispose Jordan. — E non volevo che la cosa si ripetesse con

un altro.

E non ti è venuto in mente che se fosse venuta al concerto avrebbe cercato di farti a

pezzi? Se non fosse arrivata in ritardo, magari ti avrebbe aggredito mentre eri ancora sul

palco. Uno spettacolo nello spettacolo, insomma.

— Non lo sapevo... — disse Jordan. — Non potevo immaginare che mi odiasse così

tanto. Cioè, io non odio il ragazzo che mi ha trasformato, perché so che probabilmente non

riusciva a controllarsi.

— Sì — rispose Simon. — Però nemmeno lo amavi. Non avevi una relazione con lui.

Maia invece sì: ora lei pensa che l'hai morsa, l'hai mollata e poi ti sei completamente

dimenticato di lei. Ti odierà tanto quanto una volta ti amava.

Prima che Jordan potesse ribattere, suonò il campa nello. Non il citofono, segno che

qualcuno era davanti al portone del palazzo, proprio il campanello della porta di casa. I

due ragazzi si scambiarono sguardi perplessi. — Aspetti qualcuno? — chiese Simon.

Jordan fece di no con la testa e appoggiò la tazza di caffè. Insieme raggiunsero il piccolo,

corridoio d'ingresso, dove Jordan fece segno a Simon di restargli dietro, mentre apriva la

porta.

Non c'era nessuno. Soltanto un biglietto ripiegato sul lo zerbino, tenuto fermo da un

sasso con l'aria particolarmente pesante. Jordan si piegò per liberare il foglio di carta e si

raddrizzò corrugando la fronte.

— E per te — disse passandolo a Simon. Perplesso, l'altro aprì il biglietto. Stampato al

centro,in un infantile stampatello maiuscolo, c'era questo messaggio:

SIMON LEWIS, ABBIAMO LA TUA RAGAZZA. DEVI VENIRE

OGGI AL 232 DI RIVERSIDE DRIVE. PRESENTATI PRIMA

CHE FACCIA BUIO, ALTRIMENTI LE TAGLIEREMO LA GOLA.

—È uno scherzo — fece Simon fissando coni uso il biglietto. — Per forza.

Senza dire una parola, Jordan lo prese per il braccio e lo trascinò in soggiorno. A quel

punto lo lasciò andare e si mise a cercare il cordless. — Chiamala, Simon — disse appena

trovò la cornetta, mettendogliela in mano. — Chiama Maia e assicurati che sia tutto a

posto.

— Ma potrebbe non essere lei. — Simon fissò il telefono mentre quell'assurda situazione

gli girava attorno al cervello in tutto il suo orrore, come un morto vivente che assedia una

casa implorando di entrare. Concentrali, disse fra sé. Niente panico. — Potrebbe anche

essere Isabelle.

— Santo cielo! — esclamò Jordan guardandolo storto. — Qualcun'altra? Per caso

dobbiamo fare una lista di tutti i nomi da chiamare?

— Simon prese il telefono e si girò per comporre un numero.

Maia rispose al secondo squillo. — Pronto?

Maia, sono Simon.

Dalla voce di lei svanì qualsiasi traccia di cordialità. —Ah. Cosa vuoi?

— Solo controllare se stai bene — rispose lui.

— Sto bene. — Parlava in tono irritato. — Non è che la nostra storia fosse poi così seria.

Non sono contenta, ma sopravviverò. Resta il fatto che tu sei un coglione.

— No — disse Simon. — Volevo controllare che tu stessi bene fisicamente.

C'entra Jordan? — Pronunciando quel nome, Maia esprimeva rabbia e tensione. —

Giusto. Voi due ve ne siete andati insieme, no? Be', puoi dirgli di starmi alla larga. Anzi, la

cosa vale per sia per lui sia per te.

Riattaccò, e nella cornetta rimase solo un ronzio simile a quello di un'ape all'attacco.

Simon guardò Jordan. — Sta bene. Ci odia, ma a parte quello dalla voce sembra tutto a

posto.

— Okay, ora chiama Isabelle.

Ci vollero due tentativi prima che la ragazza rispondesse;quando Simon sentì finalmente

la sua voce, distratta e annoiata, dall'altra parte della linea, era ormai a un passo da una

crisi di panico. — Chiunque mi abbia chiamato, spero abbia un valido motivo — sentenziò

Isabelle.

Simon provò un profondo senso di sollievo. — Isabelle, sono Simon.

— Ossignore. Sentiamo, cosa vuoi?

— Solo controllare se stai bene...

— Cosa? E secondo te dovrei essere a pezzi perché tu sei un bugiardo, impostore,

grandissimo figlio di...

— No. — Quella cosa iniziava davvero a stancarlo. — Volevo sapere se stai bene, cioè,

non ti hanno rapita o cose del genere, vero?

Seguì un lungo silenzio. — Simon — disse infine Isabelle. — Questo è davvero, ma

davvero, il pretesto più stupido che abbia mai sentito per fare una lagnosa telefonata di

riappacificazione. Ma che problemi hai, dico io?!

— Credo di non saperlo — disse Simon riattaccando prima che potesse farlo lei e

ripassando il cordless a Jordan. — Anche Isabelle sta bene.

— Non capisco — fece l'altro con aria perplessa. — Chi potrebbe fare una minaccia del

genere, sapendo che è un bufala facilissima da smascherare?

— Penseranno che sono uno stupido — fece Simon, poi tacque. Gli era venuta in mente

una cosa terribile. Strappò di mano a Jordan il telefono e inizio a comporre freneticamente

un numero.

— Chi è? — chiese Jordan. — Chi stai chiamando?

A Clary suonò il cellulare proprio mentre stava girando l'angolo della Novantaseiesima

Strada verso Riverside Drive. Sembrava che la pioggia avesse lavato via la tipica sporcizia

cittadina; il sole, in mezzo a un cielo brillante, colpiva coi suoi raggi la striscia verde

brillante del parco che correva lungo il fiume, le cui acque, quel giorno, sembravano quasi

azzurre.

Infilò una mano in tasca per recuperare il telefono, lo trovò e lo aprì per rispondere. —

Pronto?

All'altro capo della linea c'era la voce di Simon. — Oh, grazie a... — Si interruppe. —

Tutto bene, Clary? Non ti hanno rapita o cose del genere, vero?

— Rapita? — fece lei controllando nel frattempo i numeri civici degli edifici. 220, 224...

Non sapeva bene cosa aspettarsi. Una vera e propria chiesa? O un posto che un

incantesimo avrebbe fatto sembrare abbandonato? — Simon, ma sei ubriaco o cosa?

— Per quello sarebbe un po' presto — rispose Simon, chiaramente sollevato. — No, è che

ho ricevuto... uno strano messaggio. Qualcuno che minacciava di fare del male alla mia

ragazza.

— Quale?

— Che simpatica. — Simon non aveva la voce divertita. — Ho già chiamato Maia e

Isabelle, loro stanno bene. Poi mi sei venuta in mente tu... Voglio dire, passiamo molto

tempo insieme e magari qualcuno potrebbe credere che siamo fidanzati. Ora però non so

più a cosa pensare.

Ah, boh! — Il 232 di Riverside Drive comparve davanti a Clary all'improvviso: un grosso

edificio squadrato, di pietra, con il tetto appuntito. Forse una volta poteva aver avuto l'aria

di una chiesa, pensò, ma ora non proprio

— Comunque Maia e Isabelle hanno scoperto l'una dell'altra, ieri sera. E non è stato

bello — aggiunse Simon. — Avevi ragione a proposito del fatto di scherzare col fuoco.

Clary osservò la facciata della sua destinazione. La maggior parte degli altri edifici lungo

la via ospitavano appartamenti di lusso, con i portieri in livrea dentro gli ingressi. Quello

invece no: solo una serie di alti portoni di legno a forma di arco e delle grosse maniglie di

ferro dall'aspetto antico al posto dei più comuni pomelli. — Ahi ahi. Mi dispiace per te,

Simon. Qualcuna delle due ti rivolge ancora la parola?

— Non proprio.

Clary impugnò uno dei maniglioni e spinse la porta, che si aprì cigolando appena.

Abbassò la voce. — Magari è stata una di loro due a lasciarti il messaggio?

— Ma no, non mi sembra nel loro stile — ribatté Simon, sinceramente stupito. — E se

fosse stato Jace?

Sentire quel nome era per Clary come un pugno allo stomaco. Trattenne il fiato e disse:

— Non credo che, pei quanto arrabbiato, ne sarebbe capace. — Allontanò il cellulare

dall'orecchio. Sbirciando dietro il portone semiaperto, fu felice di trovarsi davanti quella

che sembrava una normalissima chiesa: una lunga navata, il tremolio delle candele accese.

Dare una sbirciatina all'interno non le avrebbe di certo fatto male. — Ora devo andare,

Simon. Ti richiamo più tardi — gli disse.

Richiuse il telefono e proseguì lungo la navata della chiesa.

Pensi davvero che fosse uno scherzo? — Jordan camminava in su e in giù per la casa

come una tigre ingabbia allo zoo. — Non so. A me sembra davvero una specie di scherzo

malato.

— Malato? Non ho detto che non lo fosse. — Simon guardò il biglietto. Ora era

appoggiato sul tavolino del divano, con le sue lettere in stampatello visibili anche a una

certa distanza. Il solo osservarlo gli faceva contorcere lo stomaco, anche se a quel punto

sapeva che non aveva senso. — Sto solo cercando di pensare chi potrebbe averlo scritto. E

perché.

— Forse dovrei prendermi un giorno di ferie per controllare te e tenere d'occhio anche lei

— disse Jordan. — Sai com'è, non si sa mai.

— Deduco che tu ti stia riferendo a Maia — fece Simon — So che lo dici in buona fede,

ma non credo proprio che ti voglia avere attorno.

Jordan serrò la mascella. — Le starei lontano, così non mi vedrebbe.

— Wow. Lei ti piace ancora molto, vero?

— Ho una responsabilità personale nei suoi confronti —_ rispose Jordan con aria seria.

— Qualsiasi altro sentimento io possa provare nei suoi confronti, non conta.

— Puoi fare quello che vuoi — gli disse Simon. — Ma secondo me...

Il campanello della porta suonò di nuovo. I due ragazzi si scambiarono un rapido

sguardo prima di precipitarsi all'ingresso. Jordan arrivò per primo. Afferrò l'attaccapanni,

buttò giù le giacche e spalancò di colpo la porta brandendolo sopra la testa come fosse un

giavellotto.

Dall'altra parte della soglia c'era Jace, comprensibilmente perplesso. — Quello è un

attaccapanni?

Jordan buttò l'oggetto a terra e fece un sospiro. — Se tu fossi stato un vampiro, lo avrei

utilizzato per uno scopo ben più utile.

— Vero — disse Jace. — Ma anche se fossi stato un tizio con un sacco di cappotti.

Simon sbucò con la testa da dietro Jordan. — Scusa, abbiamo avuto una mattinata

difficile.

— Be', sta per diventarlo ancora di più. Sono venuto qui per portarti all'Istituto, Simon.

Il Conclave ti vuole vedere, e a loro non piace aspettare.

L'istante in cui il portone della Chiesa di Talto si chiuse dietro Clary, la ragazza ebbe la

sensazione di trovarsi in un altro mondo, lontana anni luce dal rumore e dalla frenesia di

New York. Lo spazio all'interno dell'edificio era molto ampio, con un soffitto alto parecchi

metri. Una navata stretta correva tra file di banchi e grosse candele marroni ardevano sui

candelabri a muro delle parete. L'ambiente le sembrava poco illuminato, ma forse soltanto

perché era abituata allo splendore della stregaluce. Avanzò lungo la navata, con le scarpe

da tennis che si sentivano appena sul marmo polveroso del pavimento. Che strano, pensò,

una chiesa senza neanche una finestra. Percorsa tutta la navata, raggiunse l'abside, dove

pochi gradini portavano alla pedana rialzata su cui sorgeva l'altare. Lo osservò, e si

accorse di un'altra stranezza: in quella chiesa non c'erano croci. Sull'altare compariva però

una tavoletta verticale in pietra, sormontata dall'immagine di un gufo inciso. L'iscrizione

recitava:

LA SUA CASA PENDE VERSO LA MORTE,

E I SUOI SENTIERI MENANO AI DEFUNTI.

NESSUNO FRA QUELLI CHE VANNO DA LEI NE RITORNA,

NESSUNO RIPRENDE I SENTIERI DELLA VITA.

Clary rimase perplessa. Non aveva troppa familiarità con la Bibbia (di certo non ne

ricordava, come Jace, lunghi estratti quasi alla perfezione), ma quelle righe, anche se

avevano chiaramente a che fare con la religione, le sembravano comunque un po' strane in

una chiesa. Rabbrividì e si avvicinò ancora di più all'altare, su cui poggiava un grosso

tomo chiuso. Fra le pagine c'era qualcosa come un Segnalibro, ma quando Clary si

avvicinò si rese conto che in realtà si trattava di un pugnale, con un'impugnatura nera su

cui erano incisi simboli occulti. Ricordò di averli già visti in qualche manuale. Sì,

quell'arma era un athame, spesso utilizzato nei rituali demoniaci di evocazione.

Sentì freddo allo stomaco, ma si chinò comunque per guardare la pagina contrassegnata,

decisa a scoprire di cosa si trattasse. Peccato che si ritrovò di fronte a una calligrafia

intricata e stilizzata, difficile da decifrare anche se fosse stata nella sua lingua. Si trattava

di un alfabeto con lettere appuntite e spigolose, che Clary vedeva sicuramente per la

prima volta. Le parole si trovavano sotto un'illustrazione di quello che era evidentemente

un cerchio di evocazione, di quelli che gli stregoni tracciano sul suolo prima di compiere

degli incantesimi allo scopo di attrarre e concentrare i poteri magici. Quello che si trovava

di fronte, dispiegato sulla pagina, in inchiostro verde, era formato da due diversi cerchi

concentrici, con un quadrato all'interno. Nello spazio fra i cerchi erano scarabocchiate delle

rune; Clary non le riconobbe, ma sentiva il loro linguaggio dentro le ossa, e le vennero i

brividi. Morte e sangue.

Si affrettò a voltare pagina e si imbatté in un gruppo di illustrazioni che le tolsero il fiato.

Era una serie di immagini, a partire da quella di uni donna con un uccello appollaiato

sulla spalla sinistra. Il volatile, forse un corvo, aveva un'aria furba e inquietante. Nella

seconda immagine l'uccello era sparito e la donna era in evidente stato di gravidanza.

Nella terza, era sdraiata su un altare non molto diverso da quello davanti a cui si trovava

ora Clary; sopra di lei incombeva una figura incappucciata, che teneva fra le mani una

siringa di fattura moderna, in contrasto con tutto il resto, piena di liquido rosso scuro. La

gravida sapeva con certezza che le sarebbe stato iniettato, perché stava urlando.

Nell'ultima immagine la donna sedeva con in grembo un bambino apparentemente

normale, se non fosse che aveva gli occhi del tutto neri, senza tracce di bianco. La madre lo

guardava inorridita.

Clary sentì che le si rizzavano i peli sulla nuca. Sua madre aveva ragione: qualcuno stava

cercando di far nascere altri bambini come Jonathan. Anzi, c'era già riuscito.

Fece un passo indietro, allontanandosi dall'altare. Ogni singola cellula del corpo le stava

gridando che in quel posto c'era qualcosa di molto, molto sinistro, finché si rese conto di

non poter indugiare un altro secondo: sarebbe stato meglio uscire e aspettare l'arrivo dei

rinforzi. Certo, era riuscita a scovare quell'indizio senza l'aiuto di nessuno, ma il risultato

era troppo sconvolgente per permetterle di gestire l'intera faccenda da sola.

Fu a quel punto che avvertì un rumore.

Un debole sussurro, come una marea lenta che si ritraeva, con l'aria di provenire

dall'alto. Alzò lo sguardo, tenendo l'athame stretto in pugno. E rimase a guardare. Lungo

tutto il ballatoio sopraelevato c'erano file e file di sagome silenziose, ciascuna con indosso

una specie di completo sportivo: scarpe da ginnastica, pantaloni grigio chiaro, felpe con la

zip e cappuccio calato sul viso. Erano completamente immobili, tenevano le mani

appoggiate al parapetto e guardavano in giù, verso di lei. O per lo meno così sembrava a

Clary, visto che in realtà non riusciva nemmeno a distinguere se fossero maschi o

femmine.

— Ehm... scusate — disse. La sua voce riecheggiò forte contro le pareti di pietra. — Non

volevo disturbare né...

L'unica risposta che ricevette fu il silenzio. Un silenzio di piombo. Il cuore cominciò a

batterle più forte.

— Be', io allora vado — disse deglutendo forte. Fece un passo in avanti, appoggiò

l'athame sull'altare e si giro per andarsene. Solo allora, una frazione di secondo prima di

voltarsi, sentì l'odore che c'era nell'aria: il tanfo familiare dei rifiuti in decomposizione. Tra

lei e la porta, alto come un muro, c'era un incrocio terrificante di pelle a squame, denti

affilati come lame e artigli sporgenti.

Clary aveva passato le ultime sette settimane ad allenarsi per affrontare un demone in

battaglia, anche uno di proporzioni gigantesche. Ora che però stava accadendo davvero,

l'unica cosa che riuscì a fare fu gridare.

Capitolo 11

LA NOSTRA SPECIE

Il demone si scagliò contro Clary, che smise di colpo di urlare e saltò all'indietro sopra

l'altare. Aveva fatto un salto mortale così perfetto che, per uno strano istante, si ritrovò a

pensare a quanto sarebbe stato bello se Jace fosse stato lì a vederla. Atterrò accovacciata,

proprio mentre qualcosa colpiva l'altare con violenza, facendone vibrare la pietra.

Nella chiesa risuonò un gemito. Clary si rimise subito in piedi e sbirciò oltre il bordo

dell'altare. Il demone non era così grande come aveva pensato in un primo momento, ma

non era nemmeno piccolo: era grande quanto un armadio a due ante e aveva tre teste

attaccate a supporti fluttuanti. Le teste erano senza occhi, ma con enormi mascelle aperte

dalle quali colavano fili di bava verdastra. A quanto pareva, per cercare di catturarla, il

demone aveva sbattuto la testa di sinistra contro l'altare, perché ora la scuoteva avanti e

indietro come volesse riacquistare lucidità.

Clary alzò lo sguardo, angosciata, ma vide che le sagome incappucciate erano rimaste al

loro posto. Nessuna si era mossa di un millimetro; era come se stessero osservando la

scena con aria indifferente. Si giro e si guardò alle spalle: a quanto pareva l'unico modo di

uscire dalla chiesa era passare dallo stesso portone attraverso cui era entrata, se non fosse

che il demone ora bloccava il passaggio. Rendendosi conto che stava sprecando secondi

preziosi, si allungò sull'altare per prendere l'athame; lo agguantò con decisione e si

riabbassò un secondo prima che il demone tentasse di nuovo di catturarla. Era riuscita a

rotolare da un lato mentre una delle teste, oscillando sul possente collo, si era slanciata

oltre l'altare cacciando fuori una lingua nera e spessa diretta verso di lei. Lanciando un

urlo, Clary conficcò l'athame nel collo della creatura, poi lo estrasse prima di

indietreggiare di corsa e togliersi di mezzo.

Il mostro si mise a gridare mentre la sua testa ferita si ritraeva, perdendo sangue nero a

fiotti. Tuttavia non si era trattato di un colpo mortale: sotto gli occhi di Clary, lo squarcio

iniziò a rimarginarsi lentamente, con la carne nero verdastra del demone che si richiudeva

come una cucitura. La ragazza si sentì presa dallo sconforto. Doveva immaginarselo: il

motivo di base per cui gli Shadowhunters usavano armi con le rune era che, grazie a esse, i

demoni non potevano rigenerarsi.

Con la mano sinistra si mosse per prendere lo stilo che teneva infilata nella cintura e la

estrasse proprio mentre l'avversario tornava all'attacco. Saltò di lato e si butto giù per i

gradini, rotolando dolorosamente finché non si scontrò con la prima fila di panche. Il

demone si girò, muovendosi un po' a fatica, e tornò alla carica. Clary si accorse di avere

ancora in mano sia lo stilo sia il pugnale (con cui cadendo si era anche ferita, tanto che la

sua giacca si stava rapidamente imbevendo di sangue), pei ciò spostò il primo nella mano

destra, il secondo nella sinistra, e poi intagliò a velocità disperata una runa enkeli

nell'impugnatura dell'athame.

Gli altri simboli, già presenti, iniziarono a fondersi fra loro e a muoversi, mentre la runa

del potere angelico entrava in azione. Clary sollevò lo sguardo: il demone le era quasi

addosso, all'attacco con tutt'e tre le teste, le bocche spalancate. Prendendo slancio, allungò

il bracciò all'indietro e scagliò il pugnale più forte che poteva. Scoprì, con grande stupore,

che aveva colpito la testa di mezzo proprio al centro del cranio, conficcando la lama fino

all'impugnatura. La testa ferita cominciò a dimenarsi, mentre il demone gridava e Clary lo

osservava, sollevata. La testa cadde semplicemente, toccando terra con un rumore

agghiacciante. La creatura continuava però ad avanzare, trascinando con il collo la testa

ormai morta, per raggiungere Clary.

Dall'alto giunse il rumore di una miriade di passi. Clary sollevò lo sguardo. Gli individui

con la tuta erano scomparsi, il ballatoio deserto: uno spettacolo davvero poco confortante.

Col cuore che le ballava nel petto un tango forsennato, Clary si girò e corse verso il

portone principale, ma il demone fu più veloce. Lanciando un gemito di fatica saltò al di

sopra di lei, oltrepassandola e atterrando davanti all'ingresso per bloccarle la strada.

Avanzò verso di lei sibilando, mentre le teste superstiti oscillavano, si sollevavano e si

distendevano per colpirla...

Qualcosa balenò nell'aria, il guizzo di una fiamma oro e argento. Le teste del demone si

voltarono di scatto, il sibilo divenne un grido, ma ormai era troppo tardi: quel la cosa

lucente che le circondava strinse forte e con uno spruzzo di sangue nerastro anche le due

teste rimanenti caddero senza vita. Clary rotolò via sotto una pioggia di zampilli di

sangue, che le ustionarono la pelle. Poi abbassò la testa quando la creatura, ormai

definitivamente decapitata, ondeggiò e piombò verso di lei...

Per poi sparire. Un attimo prima di precipitare a terra, il demone si volatilizzò,

risucchiato nella sua dimensione. Clary rialzò la testa con prudenza. Il portone frontale

della chiesa era aperto, e sulla soglia, con vestito nero, stivali e frusta elettrica in mano,

c'era Isabelle. Stava riavvolgendo lentamente la propria arma attorno al polso, scrutando

nel frattempo l'interno della chiesa con le sopracciglia avvicinate da un curioso broncio.

Quando gli occhi le caddero su Clary, sorrise.

— Accidenti, figlia mia — le disse. — In cosa diavolo ti sei cacciata, stavolta?

Il tocco delle mani dei servitori della vampira sulla pelle di Simon era freddo e leggero,

dava la sensazione di essere sfiorati da ali di ghiaccio. Rabbrividì un poco mentre gli

srotolavano la benda attorno alla testa, toccandolo con la loro pelle ruvida, per poi

allontanarsi facendogli un inchino.

Si guardò attorno aprendo e chiudendo più volte gli occhi. Fino a qualche istante prima

era alla luce del sole, sull'angolo fra Second Avenue e la Settantottesima, a una distanza

dall'Istituto che aveva ritenuto sufficiente per poter utilizzare la terra di tomba e contattare

Camille senza destare sospetti. Ora si trovava in una stanza semibuia, abbastanza grande,

con il pavimento di marmo lucido e degli eleganti pilastri a sorreggere un soffitto molto

alto. Lungo la parete sinistra correva una fila di sportelli con lo schermo di vetro, su

ognuno dei quali pendeva una targhetta d'ottone con la scritta cassieri.. Una targa simile,

sulla parete, presentava quella che era la Douglas National Bank. Uno spesso strato di poi

vere ricopriva il pavimento e i banconi, dove una volta la gente si appoggiava per

compilare assegni o ricevuti' di prelievo. Le lampade d'ottone appese al soffitto erano

rivestite di verderame.

Al centro della stanza sorgeva un'alta poltrona, e sulla poltrona sedeva Camille. I capelli

biondo platino erano sciolti e le cascavano sulle spalle come fossero fili di luce. Sul viso,

bellissimo, non c'era traccia di trucco, ma le labbra erano ancora di un rosso intenso. Nella

penombra della banca erano quasi l'unico colore che Simon riusciva a distinguere.

— In genere non accetto incontri durante le ore diurne, Daylighter — dichiarò. — Ma

trattandosi di te ho fatto un'eccezione.

— Grazie. — Simon notò che per lui non c'erano sedie, perciò continuò a restare in piedi,

un po' a disagio. Se il suo cuore fosse stato ancora in grado di battere, pensò, in quel

momento sarebbe stato un martello. Quando aveva accettato di collaborare con il

Conclave, si era dimenticato di quanto Camille lo spaventasse. Forse non era logico (in

fondo cosa avrebbero potuto fargli?), ma ormai la situazione era quella.

— Suppongo significhi che hai preso in considerazione la mia offerta — riprese lei — e

che l'hai accettata.

— Cosa ti fa pensare che sia così? — ribatté Simon, sperando caldamente che l'altra non

avrebbe ricondotto l'inutilità della domanda al fatto che voleva solo prendere tempo.

Camille, in effetti, aveva l'aria abbastanza impaziente. — Dubito che mi comunicheresti

di persona la notizia di un rifiuto. Avresti paura della mia reazione.

— E avrei ragione di farlo?

Camille si adagiò sullo schienale della poltrona, sorridendo. Era un mobile moderno e

lussuoso, diverso da ogni altro aspetto della banca abbandonata. Qualcuno doveva averla

portata lì apposta, probabilmente i servi di Camille, ora fermi ai suoi lati come statue

silenziose. — Molti direbbero di sì — rispose. — Ma tu non ne hai motivo. Sono molto

contenta di te. Anche se hai aspettato fino all'ultimo, prima di contattarmi, sento che hai

preso la decisione giusta.

Il cellulare di Simon scelse proprio quell'istante per iniziare a squillare insistentemente. Il

ragazzo trasalì, sentendo che lungo la schiena gli stava colando una goccia di sudore

freddo, poi si sbrigò a recuperare l'apparecchio dalla tasca della giacca. — Scusa — disse

aprendolo.

Camille fece uno sguardo inorridito. — Non rispondere.

Mentre Simon si portava il cellulare all'orecchio, riuscì con il dito a premere diverse volte

il tasto della fotocamera. — Ci vorrà solo un secondo.

— Simon!

Schiacciò invio e richiuse subito il telefono. — Scusami, non pensavo...

Camille, con il petto ansante sebbene, in realtà, non respirasse affatto, gli sibilò contro: —

Dai miei servitori esigo maggiore rispetto. Non osare farlo di nuovo, altrimenti...

Altrimenti cosa? — la interruppe Simon. — Non puoi farmi del male, non più di quanto

tu possa farne a qualsiasi altra persona. E poi mi avevi detto che non sarei stato uno dei

tuoi subordinati, ma un tuo collega. — Fece una pausa, colorando appena la voce della

giusta nota di arroganza. — Forse devo riconsiderare il fatto di accettare la tua offerta.

Lo sguardo di Camille si incupì. — Oh, per l'amor di Dio, non fare il bambinetto.

— Come fai a dire una cosa del genere? — chiese Simon.

Camille inarcò le delicate sopracciglia. — Quale cosa? Ti scoccia che ti abbia dato del

bambinetto?

— No. Cioè, sì, ma non è quello che intendevo. Hai detto "per l'amor di..." — Si

interruppe, con voce spezzata. Ancora non poteva dirlo: Dio.

— Perché io non credo in lui, sciocchino — affermò Camille — ma tu sì. — Inclinò la

testa da un lato, guardandolo come un uccello affamato guarderebbe un verme sul

marciapiede. — Penso che sia giunto il momento del giuramento di sangue.

— Giuramento di sangue?! — ripeté Simon, non sapendo se aveva capito bene.

— Ah, dimenticavo che le tue conoscenze in merito alla nostra specie sono molto

limitate... — disse Camille scuotendo la testa biondissima. — Ti farò giurare, con il sangue,

che mi sei fedele. Ti impedirà di disobbedirmi in futuro. Consideralo una specie di...

accordo prematrimoniale. — Sorrise, e Simon intravide il luccichio dei canini. — Vieni —

gli disse. Schioccò le dita con fare perentorio e i suoi servi accorsero da lei, le grigie teste

chinate verso il basso. Il primo a raggiungerla le porse una specie di antica penna di vetro,

di quelle con la punta a spirale per trattenere l'inchiostro. — Ora devi tagliarti e raccogliere

il tuo sangue — annunciò Camille. — Ti dovrei aiutare io stessa, ma il Marchio me lo

impedisce. Insomma, dobbiamo improvvisare.

Simon esitò. Pessimo. Tutto ciò era davvero pessimo. Sapeva abbastanza sul mondo

soprannaturale da conoscere il significato di un giuramento per i Nascosti. Non erano

promesse qualsiasi, che si potevano infrangere in qualsiasi momento: vincolavano sul

serio chi prestava il giuramento, come se lo legassero con delle manette virtuali. Firmando

il giuramento, sarebbe diventato in tutto e per tutto fedele a Camille, probabilmente per

sempre.

— Su — lo spronò lei, con un accenno di impazienza nella voce. — Non c'è bisogno di

indugiare.

Deglutendo, Simon fece un titubante passo all'indietro, e poi un altro ancora. Uno dei

servi gli si parò davanti, bloccandogli la strada. Gli puntava contro uno strano coltello,

un'arma poco rassicurante con un ago al posto della lama. Simon lo afferrò e se lo mise

sopra al polso. Poi riabbassò la mano. — Sai che c'è? — disse. — Non vado così matto per

il dolore. E nemmeno per i coltelli...

— Fallo! — ringhiò Camille.

— Deve pur esserci un altro modo.

Camille si alzò in piedi e Simon vide che i canini le erano scesi del tutto. Era davvero

furibonda. — Se non la pianti di farmi perdere tempo...

— Ci fu una debole implosione, come qualcosa di enorme che si strappava per metà.

Contro la parete di fronte comparve un pannello luccicante; Camille si voltò per guardarlo

e, quando si rese conto di cosa si trattava, le labbra le si dischiusero per lo stupore. Simon

sapeva che Camille aveva capito, proprio come aveva capito lui. Poteva essere solo e

soltanto una cosa, senza alcun dubbio.

Un Portale. Attraverso il quale si stavano riversando nel salone almeno una dozzina di

Shadowhunters.

— D'accordo — disse Isabelle, mettendo via il kit del pronto soccorso con fare sbrigativo.

Erano in una delle tante stanze vuote dell'Istituto destinate ai membri del Conclave in

visita. In ognuna erano presenti un letto, un cassettone, un armadio e anche un piccolo

bagno. Ovviamente in tutte c'era un kit per il pronto soccorso contenente bende, pomate e

persino uno stilo di scorta. — Ecco qui, ti ho iratzato per bene, ma ci vorrà un po' prima

che quei lividi scompaiano. E queste... — disse scorrendo con una mano sulle ustioni che

gli schizzi di sangue demoniaco avevano procurato al braccio di Clary — probabilmente

non se ne andranno prima di domani. Però, se riposi guariscono più in fretta.

— Perfetto. Grazie, Isabelle. — Clary si guardò le mani. La destra era fasciata e la

maglietta ancora strappata e macchiata di sangue, anche se le rune di Izzy avevano curato

i graffi sottostanti. Forse avrebbe potuto farsi anche da sola gli iratze, ma era bello avere

qualcuno che si prendesse cura di lei; magari Izzy non era la persona più dolce del mondo

ma, quando voleva, sapeva essere buona e gentile. — Grazie per essere intervenuta, e... sì,

per avermi salvato la vita da qualsiasi cosa fosse quel mostro.

— Un demone Idra. Hanno molte teste, ma sono abbastanza stupidi. E tu non te la stavi

cavando affatto male prima che arrivassi io! Mi è piaciuta la mossa dell'athame, hai

ragionato bene anche se eri in pericolo. Per uno Shadowhunter è importante quanto saper

fare dei buchi con i pugni. — Isabelle si buttò sul letto accanto a Clary e fece un sospiro. —

Mi sa che devo vedere cosa riesco a trovare sulla Chiesa di Talto prima che torni il Concla-

ve. Magari servirà a capire che cosa sta succedendo. Il personale dell'ospedale, i neonati...

— Rabbrividì. — La faccenda non mi piace.

Clary aveva raccontato a Isabelle tutto quello che poteva sul motivo per cui era andata in

quella chiesa, dicendole anche del neonato in ospedale, ma aveva finto di essere l'unica ad

avere dei sospetti, lasciando la madre fuori dalla vicenda. Isabelle si era molto

impressionata quando Clary le aveva descritto l'aspetto del bambino: un neonato normale

in tutto, se non per quegli occhi spalancati e completamente neri e i piccoli artigli al posto

delle mani. — Credo che abbiano tentato di creare un nitro bambino come... mio fratello.

Avranno fatto degli esperimenti su qualche povera donna mondana — spiegò Clary. —

Ma quando il bambino è nato, lei non dev'essere riuscita a sopportarlo e ha perso la testa.

E tutto così... Ma chi può aver fatto una cosa del genere!? Uno dei seguaci di Valentine?

Quelli che non vengono mai presi, e dici che magari cercano di far continuare a vivere le

sue idee?

— Può darsi. Oppure si tratta di qualche setta demoniaca. Ce ne sono moltissime, anche

se non riesco a immaginare perché qualcuno voglia generare altre creature come

Sebastian. — Quando pronunciò quel nome, il rancore le alterò la voce.

— Il suo vero nome è Jonathan...

— Jonathan è il nome di Jace — disse Isabelle, tesa. — Mi rifiuto di chiamare quel mostro

con lo stesso nome di mio fratello. Per me lui sarà sempre Sebastian.

Clary doveva ammettere che in questo Isabelle aveva ragione. Anche per lei non era

facile pensare a lui come a Jonathan; immaginava non fosse giusto nei confronti del vero

Sebastian, ma nessuno di loro lo aveva davvero conosciuto. Era più semplice affibbiare il

nome di uno sconosciuto al perfido figlio di Valentine anziché chiamarlo in un modo che

lo facesse sentire più vicino alla sua famiglia, alla sua vita.

Isabelle parlava in tono disinvolto, ma Clary sapeva che la sua mente era già al lavoro

per passare in rassegna varie possibilità. — E comunque sono contenta di aver ricevuto il

tuo messaggio. Ho capito che c'era qualcosa di strano, e a essere sinceri mi stavo

annoiando. Sono andati tutti via per fare non so cosa di segreto con il Conclave, ma io ho

preferito restare qui, perché con loro ci sarebbe stato anche Simon. Lo detesto.

— Simon con il Conclave? — Clary era sbalordita. In effetti, arrivando aveva notato che

l'Istituto sembrava ancora più vuoto del solito. Jace ovviamente non c'era, ma a dire il vero

non si era aspettata di trovarlo, anche se non sapeva dire perché. — Questa mattina gli ho

parlato, ma non mi ha detto niente di una sua collaborazione con loro — aggiunse.

Isabelle fece spallucce. — Ha qualcosa a che fare con le politiche vampire. Di più non so.

— Pensi che stia bene?

Isabelle sembrava esasperata. — Non ha più bisogno che lo proteggi, Clary! Ha il

Marchio di Caino. Lo possono far saltare in aria, possono sparargli, affogarlo, pugnalarlo e

starebbe comunque bene. — La guardò con occhi severi. — Tu sapevi del suo doppio

gioco, vero?

— Sì, lo sapevo — ammise Clary. — E mi dispiace.

Isabelle non diede troppa importanza alla confessione. — Be', sei la sua migliore amica.

Sarebbe stato strano il contrario.

— Avrei dovuto dirtelo — replicò Clary. — È che... non ho mai avuto l'impressione che

tu facessi davvero sul serio con Simon, capisci cosa intendo?

Isabelle corrugò la fronte. — Ed è così. Solo che... insomma, pensavo che facesse sul serio

almeno lui. Sai, tutte quelle storie sul fatto di essere di un'altra categoria eccetera. Forse da

lui mi aspettavo di più che dagli altri ragazzi.

— Forse... — disse Clary sottovoce — Simon non dovrebbe uscire con una persona che

pensa di essere di un'altra categoria. — Isabelle la fissò, e Clary si sentì arrossire. —

Scusami. Le tue relazioni non sono affari miei.

Isabelle stava tirando indietro i lunghi capelli neri per formare uno chignon, un gesto che

faceva sempre quando era nervosa. — No, esatto. Cioè, avrei potuto chiederti perché hai

scritto a me e non a Jace di venire alla chiesa, ma non l'ho fatto. Non sono stupida. Lo so

che tra voi c'è qualcosa che non va, nonostante i palpeggiamenti da vicolo buio. — Guardò

Clary con occhi penetranti. — Avete già dormito insieme?

Clary si sentì affluire il sangue alle guance. — Eh? No, non lo abbiamo fatto, però non

capisco che cosa c'entri con il discorso.

— Non c'entra — ammise candidamente Isabelle, sistemandosi i capelli. — Era solo...

maliziosa curiosità. Cos'è che ti trattiene?

— Isabelle! — Clary piegò le gambe, le strinse fra le braccia e fece un sospiro. — Niente.

Stiamo solo facendo le cose con calma. Io non l'ho mai... insomma hai capito.

Jace sì — disse l'altra. — O almeno presumo, ma non ne sono sicura. Però se ti serve... —

lasciò la frase sospesa a mezz'aria.

—Se mi serve cosa?

— Protezione. Così puoi starci attenta — rispose Isabelle. Parlava con fare così spiccio

che l'argomento avrebbe potuto essere la lista della spesa. — Magari pensi che l'Angelo sia

stato abbastanza lungimirante da darci la runa per il controllo delle nascite, e invece no!

— Ma certo che ci starei attenta — farfugliò Clary, sentendo che le guance le tornavano

rosse. — Ora basta però, mi vergogno.

— Sono discorsi fra ragazze — riprese Isabelle. — Se pensi che ci sia da vergognarsi è

solo perché hai passato la vita con Simon come unico amico. E a lui non puoi parlare di

Jace. Quello sì che sarebbe imbarazzante.

— E davvero Jace a te non ha mai detto niente? Non sai cos'è che lo tormenta? — chiese

Clary con un filo di voce.

— Non ha avuto bisogno di dirmi niente — rispose l'altra. — Il modo in cui vi state

comportando, e poi Jace che se ne va in giro con un'aria da funerale... Come facevo a non

notare che qualcosa non andava? Avresti dovuto venire da me già prima.

— Almeno sta bene? — chiese Clary con molta cautela. Isabelle si alzò dal letto e

abbassò lo sguardo su di lei. — No — rispose. — Non sta bene per niente. E tu? Clary fece

di no con la testa.

— Lo immaginavo — disse Isabelle.

Con grande sorpresa di Simon, quando Camille vide gli Shadowhunters non tentò

nemmeno di difendersi. Lanciò un urlo e corse verso la porta, per poi bloccarsi quando si

rese conto che fuori era giorno, e che uscire dalla banca l'avrebbe incenerita in pochi

istanti. Rimase senza fiato e si acquattò contro il muro, canini scoperti e un sibilo gutturale

che le usciva dalla gola.

Simon fece un passo indietro, mentre gli Shadowhunters del Conclave gli si disponevano

attorno, tutti vestiti di nero come uno stormo di corvi; vide Jace, con il viso così pallido da

sembrare marmo bianco, che trafiggeva con uno spadone uno dei servi di Camille mentre

gli passava accanto, con la stessa disinvoltura di un pedone che scaccia una mosca. Poi si

fece avanti Maryse, con una cascata di capelli neri svolazzanti che ricordavano a Simon

quelli di Isabelle. Si sbarazzò dell'altro servo, rintanato, con un colpo rapido e deciso della

lucente lama dei serafini, dopodiché avanzò verso Camille puntandogliela contro. Jace le

stava accanto e un altro Shadowhunter - un tipo alto, con delle rune che gli correvano a

spirale, su per le braccia, come rampicanti - la affiancava dall'altro lato.

Gli altri Shadowhunters si erano sparpagliati per setacciare la banca con quei loro strani

strumenti, i Sensori, studiati per individuare il minimo segnale di attività demoniaca.

Ignorarono i corpi dei Soggiogati umani di Camille, i quali giacevano immobili in mezzo a

pozze di sangue che si coagulavano. Ignorarono anche Simon; per l'attenzione che gli

dedicavano, avrebbe anche potuto essere una colonna di pietra.

— Camille Belcourt — pronunciò Maryse mentre la voce le riecheggiava contro le pareti

marmoree. — Hai infranto la Legge e sarai sottoposta alle punizioni previste. Ti arrendi e

vieni con noi o vuoi combattere?

Camille stava piangendo, senza nemmeno tentare di nascondere le lacrime, tinte di

sangue. Le rigavano il viso bianco di linee rosse, mentre fra i singhiozzi diceva: —

Walker... E il mio Archer…

Maryse aveva l'aria perplessa. Si rivolse all'uomo alla sua sinistra. — Che cosa sta

dicendo, Kadir?

— I suoi Soggiogati umani — rispose lui. — Credo stia piangendo per loro.

Maryse fece un gesto scocciato con la mano. — Ridurre degli umani in schiavitù è contro

la Legge.

— Li ho resi miei servi prima che i Nascosti venissero sottoposti alle vostre maledette

regole, bastarda. Sono rimasti con me duecento anni, erano come i miei figli...

La mano di Maryse si strinse attorno all'impugnatura del suo pugnale. — Che cosa ne sai

tu dei figli? — sussurrò. — Che cosa ne sa la tua specie di qualcosa che non sia

distruzione?

Per un secondo il viso rigato di lacrime di Camille si illuminò, trionfante. — Lo sapevo

— disse. — Non importa quello che dici o le bugie che inventi. Tu odi la nostra razza, non

è così?

Il viso di Maryse si contrasse. — Prendetela — ordinò. — Portatela al Santuario.

Jace si mosse e subito afferrò Camille per un braccio, Kadir le prese l'altro, e insieme la

immobilizzarono.

— Camille Belcourt, sei accusata di aver ucciso degli umani — proclamò Maryse. — E

degli Shadowhunters. Verrai condotta al Santuario, dove sarai sottoposta a un

interrogatorio. La condanna per il tuo crimine prevede la morte, ma è possibile che, se

collabori con noi, ti verrà risparmiata la vita. Siamo stati chiari? — chiese.

Camille alzò la testa con aria di sfida. — C'è solo un uomo a cui risponderò — disse. —

Se non me lo portate, non vi dirò niente. Potrete uccidermi, ma resterò in silenzio.

— Molto bene. E chi sarebbe quest'uomo? — chiese Maryse.

Camille scoprì i denti. — Magnus Bane.

— Magnus Bane — ripeté l'altra, sbalordita. — L'Alto Stregone di Brooklyn? E perché gli

vuoi parlare?

— Risponderò a lui — ribadì Camille — o a nessuno.

E quelle furono le sue ultime parole. Non aggiunse altro. Simon rimase a guardarla

mentre gli Shadowhunters la trascinavano via. Non si sentì, come avrebbe immaginato,

trionfante, bensì svuotato e afflitto da uno strano senso di nausea. Abbassò lo sguardo sui

corpi dei servi uccisi; anche a lui non piacevano molto, ma non erano stati loro a chiedere

di essere quello che erano, non sul serio. In un certo senso neanche Camille lo aveva fatto.

Però lei era comunque un mostro per i Nephilim, e forse non solo perché aveva

assassinato degli Shadowhunters... Forse per loro non c'era modo di vederla diversamente.

Camille era stata spinta attraverso il Portale; Jace era fermo dall'altro lato, facendo segno

a Simon, con impazienza, di seguirli. — Arrivi o no?

Non importa quello che dici o le bugie che inventi. Tu odi la nostra razza. — Arrivo —

annunciò Simon, avanzando senza convinzione.

Capitolo 12

IL SANTUARIO

— Secondo te, perché Camille vuole vedere Magnus? — chiese Simon.

I due sedevano contro il muro posteriore del Santuario, un enorme salone collegato

tramite uno stretto passaggio al corpo principale dell'Istituto. Non ne faceva parte

integrante e veniva utilizzato come luogo di custodia per demoni e vampiri. I santuari,

aveva spiegato Jace a Simon, erano in qualche modo passati di moda da quando erano

state inventate le proiezioni, ma a volte tornava utile. A quanto pareva, una di quelle volte

era arrivata.

Si trattava di un vasto spazio fatto di colonne e pareti in pietra, a cui si accedeva

passando per un doppio portone, dal quale un corridoio portava all'Istituto. Profondi

solchi indicavano che, qualsiasi cosa fosse rimasta imprigionata in quel luogo nel corso

degli anni, di sicuro era stata inquieta e... grossa. Simon non poteva fare a meno di

chiedersi in quante stanze enormi e piene di colonne avrebbe dovuto passare il tempo.

Camille era in piedi contro uno dei pilastri, con le mani dietro la schiena, sorvegliata da

ogni lato dai guerrieri Shadowhunters.

Maryse camminava avanti e indietro, scambiando di tanto in tanto qualche parola con

Kadir nel chiaro intento di stabilire un piano. Nella stanza non c'erano finestre, per ovvie

ragioni, ma ovunque brillavano torce di stregaluce che gettavano sulla scena un

particolare bagliore biancastro.

— Non so — disse Jace. — Forse vuole qualche consiglio di moda.

— Ah — fece Simon. — Chi è quel tipo insieme a tua madre? Mi sembra di averlo già

visto.

— Lui è Kadir. Probabilmente hai conosciuto suo fratello Malik, morto durante l'attacco

alla nave di Valentine. Kadir, dopo mia madre, è la seconda persona più importante di

tutto il Conclave. Lei conta molto su di lui.

Sotto lo sguardo di Simon, Kadir prese le braccia di Camille, gliele tirò dietro la schiena,

appoggiata alla colonna, e le legò con delle manette. La vampira lanciò un piccolo urlo.

— Meno male che c'è il metallo — disse Jace, senza un briciolo di emozione. — Li

ustiona.

Li ustiona? pensò Simon. Vuoi dire "vi" ustiona: io sono come lei. Non sono diverso solo perché

mi conosci.

Camille stava piangendo. Kadir si teneva alla larga, impassibile. Le rune, scure in

contrasto con la sua pelle, gli percorrevano tutte le braccia e il collo. Si girò per dire

qualcosa a Maryse, e Simon colse le parole "Magnus" e "messaggio di fuoco".

— Ancora Magnus — disse Simon. — Ma non è in viaggio?

— Magnus e Camille sono entrambi molto vecchi — disse Jace. — Non è così strano che

si conoscano. — Scrollò le spalle, con l'aria di chi non era particolarmente interessato

all'argomento. — Comunque sono abbastanza sicuro che alla fine lo convocheranno qui.

Maryse vuole ottenere delle informazioni, lo vuole davvero. Sa che Camille non stava

uccidendo quegli Shadowhunters solo per bere il loro sangue: ci sono modi più semplici

per procurarselo.

Per una frazione di secondo, Simon ripensò a Maureen e si sentì male. — Be' — disse,

cercando di non apparire preoccupato. — Allora tornerà anche Alee. Buone notizie, no?

— Certo. — La voce di Jace sembrava priva di vita. Non aveva nemmeno un

bell'aspetto; le luci biancastre della stanza si riflettevano in un modo nuovo sui suoi

zigomi, facendoli sembrare più sporgenti, segno che aveva perso peso. Le unghie erano

ridotte a mozziconi mordicchiati e gli occhi circondati da aloni scuri.

— Almeno il tuo piano ha funzionato — aggiunse Simon, cercando di infondere un po'

di buonumore nella malinconia di Jace. Era stata sua l'idea di far scattare a Simon una foto

col cellulare e mandarla al Conclave, così da poter aprire il Portale nel luogo in cui si

trovavano lui e Camille. — È stata una bella mossa.

— Sapevo che avrebbe funzionato — si limitò a osservare Jace. Sembrava che quel

complimento lo annoiasse. Alzò la testa mentre la doppia porta dell'Istituto si apriva al

passaggio di Isabelle, coi capelli neri che le svolazzavano da una parte e dall'altra. Si

guardò attorno, degnando a malapena Camille e gli altri Shadowhunters di uno sguardo,

dopodiché avanzò verso Jace e Simon, con gli stivali che battevano con fragore contro il

pavimento di marmo.

—Cos'è questa storia? Far tornare i poveri Magnus e Alec dalla loro vacanza? — esordì

Isabelle. — Hanno comprato i biglietti per l'opera!

Jace le spiegò la situazione, mentre Isabelle lo ascoltava, ferma con le mani sui fianchi,

ignorando completamente Simon.

— Bene — disse quando lui ebbe terminato. — Peccato che questa storia sia ridicola. Sta

solo prendendo tempo. Cosa volete che dica a Magnus? — Lanciò uno sguardo in

direzione di Camille, che ora non era più soltanto ammanettata, ma interamente legata al

pilastro tramite giri e giri di catena color ottone che si incrociavano sul suo corpo

all'altezza del petto, delle ginocchia e persino delle caviglie, tenendola immobile. —

Quello è metallo benedetto?

Jace annuì. — Le manette sono rivestite, per proteggerle i polsi, ma se si muove troppo...

— Imitò il suono di uno sfrigolio. Simon, ricordandosi come gli avevano bruciato le mani

quando aveva toccato la Stella di Davide nella sua cella di Idris, capace di ricoprirgli la

pelle di sangue, dovette resistere all'impulso di aggredirlo.

—Invece, mentre tu eri a caccia di vampiri, io ero in zona Riverside a sconfiggere un

demone Idra — disse Isabelle. — Con Clary.

Jace, che fino a quel momento non aveva dimostrato più di un vago briciolo di interesse

per ciò che lo circondava, trasalì. — Con Clary? Te la sei portata a caccia di demoni?

Isabelle...

— Certo che no. Quando sono arrivata, lo scontro era già iniziato da un pezzo.

— Ma come facevi a saperlo?

Mi ha mandato un messaggio — rispose Isabelle. — E così ci sono andata. — Si studiò le

unghie, come sempre perfette.

— Ha mandato un messaggio a te? — Jace le afferrò per il polso. — Sta bene? È ferita?

Isabelle abbassò gli occhi sulla mano di Jace attorno al proprio polso e poi li rialzò sul

viso del ragazzo. Simon non poteva dire se la stretta al polso le stesse facendo male, ma di

certo quello sguardo avrebbe potuto tagliare il vetro, come pure il sarcasmo nella sua voce.

— Sì, sta morendo dissanguata al piano di sopra, ma pensavo di non dirtelo subito, perché

mi piace la suspense...

Jace, come se si fosse reso conto all'improvviso di quello che stava facendo, lasciò andare

Isabelle. — Lei è qui?

— Di sopra — rispose Isabelle. — A riposare...

Ma Jace se n'era già andato, e stava correndo verso il portone. Lo attraversò come una

furia e scomparve. Isabelle, restando a guardarlo, scosse la testa.

— Non potevi pensare che avrebbe reagito diversamente — commentò Simon.

Per un istante Isabelle rimase in silenzio. Si chiese se fosse il caso di ignorare qualsiasi

cosa Simon avrebbe detto per il resto dell'eternità. — Lo so — disse infine. — Solo che mi

piacerebbe sapere cosa succede fra quei due.

— Non sono sicuro che lo sappiano nemmeno loro. Isabelle si stava mordicchiando il

labbro inferiore.

Sembrò molto giovane tutt'a un tratto, e insolitamente esitante, cosa strana per lei. Si

vedeva che aveva qualcosa che non andava, e Simon attese in silenzio, finché lei non

sembrò giungere a una conclusione. — Io non voglio essere così — disse. — Vieni, ti

voglio parlare — riprese dirigendosi verso la porta dell'Istituto.

— Davvero? — le chiese Simon, sbalordito.

Isabelle si voltò e lo fulmino con lo sguardo. — In questo momento, sì. Ma non ti posso

promettere che durerà per molto.

Simon si mise mani in alto. — Anch'io ti volevo parlare, Iz, ma non posso entrare

all'Istituto.

Fra le sopracciglia della ragazza si formò una grinza. — Perché? — Poi tacque, spostando

lo sguardo da Simon a Camille e viceversa. — Ah, giusto. E quindi come ti ha fatto ad

arrivare fin qui?

— Attraverso il Portale — spiegò Simon. — Ma Jace ha eletto che c'è un passaggio con

una porta che dà sull'esterno. Così, di notte, i vampiri possono entrare qui dentro. —

Indicò, sulla parete, una porta stretta a pochi passi ili distanza da loro. Era chiusa con un

chiavistello arrugginito, come se non venisse usata da un po'.

Isabelle scrollò le spalle. — D'accordo.

La ragazza tirò il chiavistello, producendo un forte stridore e mandando in aria scaglie di

ruggine simili a una Ime pioggerellina rossa. Dietro la porta c'erano una piccola stanza, coi

muri di pietra, che ricordava la sacrestia di una chiesa, e alcune porte che con tutta

probabilità davano sull'esterno. Non c'erano finestre, ma l'aria fredda si insinuava nelle

intercapedini delle porte, e Isabelle rabbrividì nel suo vestito corto.

— Ascolta, Isabelle — le disse Simon, immaginando che l'onere di iniziare la

conversazione spettasse a lui. — Mi dispiace molto per quello che ho fatto. Non ci sono

scuse...

— No, non ce ne sono — rispose lei. — E già che ci sei, magari dimmi anche come mai

frequenti il ragazzo che ha trasformato Maia in un lupo mannaro.

Simon le raccontò la storia che Jordan aveva raccontato a lui, cercando di essere il più

obiettivo possibile. Sentiva che era importante almeno spiegare a Isabelle che all'inizio lui

non sapeva chi fosse davvero Jordan, e anche sottolineare il pentimento di quest'ultimo. —

E così finisce la storia — concluse. — Però, sai com'è... — Tutti abbia mo fatto qualcosa di

sbagliato. Ma ora sentiva di non riuscire a confessarle di Maureen. Non in quel momento.

— Capisco — disse Isabelle. — Ho sentito parlare del Praetor Lupus. Se l'hanno voluto

come membro, suppongo che non sia poi un fallito totale. — Guardò Simon un po' più da

vicino. — Anche se non capisco perché dovresti avere bisogno di qualcuno che ti protegge.

Tu hai il... — e si indicò la fronte.

— Non posso passare il resto della vita a essere aggredito tutti i giorni e a vedere i miei

aggressori polverizzati dal Marchio — rispose Simon. — Devo scoprire chi è che mi vuole

uccidere. Jordan mi sta aiutando, e anche Jace.

— Credi davvero che Jordan ti stia dando una mano ' Il Conclave ha una certa influenza

sul Praetor e potremmo farlo sostituire.

Simon esitò. — Sì — rispose. — Penso che mi stia aiutando davvero. E poi non posso

sempre contare sul Conclave.

— Okay. — Isabelle appoggiò la schiena al muro. — Ti sei mai chiesto perché sono così

diversa dai miei fratelli? — chiese a Simon, senza alcun preambolo. — Intendo da Alec e

Jace.

Simon la guardò con aria confusa. — Vuoi dire a parte il fatto che tu sei una ragazza... e

loro no?

— No. Non sto parlando di quello, scemo. Insomma, guardali: loro non hanno problemi

a innamorarsi. Anzi, sono tutt'e due innamorati. Ed è quel genere di amore che dura per

sempre: fatto, finito. Pensa a Jace: ama Clary come se al mondo non ci fosse altro e mai ci

potesse essere. Lo stesso vale per Alec. Quanto a Max... — Le gli strozzò la voce. — Non so

come sarebbe stato per lui. Pero si fidava di tutti. Invece, come avrai notato, io non mi fido

di nessuno.

— Non siamo tutti uguali — le disse Simon, cercando ili sembrare comprensivo. — Ma

non significa che loro siano più felici di te...

— Invece sì — rispose Isabelle. — Pensi che non lo sappia? — Guardò Simon con

sguardo duro. — Conosci i miei genitori.

— Non bene. — Non erano mai impazziti dalla voglia ili conoscere il fidanzato vampiro

di Isabelle e quell'atteggiamento non aveva certo attenuato, in Simon, la sensazione di

essere semplicemente l'ultimo di una lunga serie di pretendenti indesiderati.

— Be', sai che facevano entrambi parte del Circolo. Però, ci scommetto, non sai che era

solo un'idea di mia madre. Mio padre non è mai stato molto entusiasta di Valentine e tutto

il resto. E poi, quando è successo quel che è successo e loro sono stati banditi, rendendosi

conto di aver praticamente distrutto le proprie vite, penso che lui abbia dato la colpa a lei.

Ma avevano già Alec e presto avrebbero avuto anche me, così mio padre decise ili

rimanere, anche se secondo me avrebbe preferito andarsene. E alla fine, quando Alec

aveva circa nove anni, ha trovato un'altra.

— Cosa?! Tuo padre ha tradito tua madre? Ma è... tremendo — disse Simon.

Me lo confessò lei — rispose Isabelle. — Mi disse che lui voleva lasciarla, ma poi lei

scoprì di essere incinta di Max. Sono rimasti insieme e poi mio padre ha lasciato l'altra.

Mia madre non mi ha mai detto chi fosse, solo che non ci si può mai fidare degli uomini. E

mi ha chiesto di non raccontare mai a nessuno questa storia.

— E tu? Lo hai fatto?

— Mai prima di adesso — ammise Isabelle.

Simon ripensò a un'Isabelle più giovane, che manteneva il segreto, non lo diceva a

nessuno, lo nascondeva persino ai fratelli. Lei, al corrente di cose sulla famiglia che loro

non avrebbero mai saputo. — Non avrebbe dovuto chiederti di farlo — disse, tutt'a un

tratto arrabbiato. — Non è stato corretto.

— Forse — disse Isabelle. — Pensavo che saperlo mi rendesse speciale. Non ho mai

riflettuto, invece, su come questa cosa avrebbe potuto cambiare il mio modo di essere. Ora

guardo i miei fratelli che spalancano le porti' dei loro cuori e penso: Ma siete pazzi i cuori

si infrangono. E penso che, anche quando si ricompongono, non si torna più gli stessi di

prima.

— Magari si diventa meglio — commentò Simon. — Io so di essere migliorato.

— Ti riferisci a Clary — disse Isabelle. — Perché lei ti ha spezzato il cuore.

— Me lo ha sbriciolato. Sai, quando qualcuno preferisce il proprio fratello a te, non è che

ne ricavi una bella iniezione di autostima... Ho pensato che magari Clary, una volta capito

che con Jace non avrebbe mai funzionato, avrebbe lasciato perdere e sarebbe tornata da

me. Finalmente, invece, mi sono reso conto che non smetterà mai di amarlo, che con lui

funzioni o no. E che, se stava con me soltanto perché non poteva avere lui, allora era

meglio rimanere solo, perciò ho chiuso.

— Non sapevo che avessi rotto con lei disse Isabelle. — Pensavo che...

— Che non avessi un minimo di dignità? — concluse Simon con un sorriso ironico.

— Io pensavo che tu fossi ancora innamorato di Clary — confessò lei. — E che non

potessi avere intenzioni serie con nessun'altra.

— Perché tu ti scegli dei ragazzi che non potrebbero mai avere intenzioni serie con te —

ribatté Simon. — Cosi nemmeno tu devi essere seria con loro.

Isabelle lo guardò e le si illuminò lo sguardo, ma non disse nulla.

— Io ti voglio bene — riprese Simon. — Te ne ho sempre voluto.

Isabelle fece un passo verso di lui. Erano in piedi, abbastanza vicini, in quella stanzetta

piccola; lui sentiva il rumore del respiro di lei, e sotto, più debole, il battito cardiaco.

Isabelle sapeva di shampoo, di sudore, di profumo alla gardenia e di sangue di

Shadowhunter.

Ripensare al sangue gli fece tornare in mente Maureen, e il corpo gli si irrigidì. Lei se ne

accorse - ovvio, era una guerriera, e tutti i suoi sensi erano allenati a percepire anche il più

piccolo movimento altrui - e indietreggiò, con la tensione sul volto. — Bene — gli disse. —

Sono contenta che abbiamo parlato.

— Isabelle...

Ma lei se n'era già andata. Simon andò a cercarla nel Santuario, ma era troppo veloce;

quando la porta si richiuse alle sue spalle, lei aveva già attraversato metà stanza. Lasciò

perdere e rimase a guardarla mentre spariva attraverso il doppio portone che conduceva

nell'Istituto, consapevole di non poterla seguire.

Clary si mise a sedere, scuotendo la testa per recuperare lucidità. Le ci volle un istante

prima di ricordarsi dov'era: una stanza vuota dell'Istituto, dove l'unica luce era quella che

entrava da una finestra in alto. Era una chiarore rossastro, quello del crepuscolo. Se ne

stava avvolta dentro una coperta; jeans, giacca e scarpe erano sistemati in ordine sulla

sedia accanto al letto. Di fianco aveva Jace che la guardava, come se, sognandolo, lo avesse

materializzato.

Era seduto sul letto, con la divisa addosso, come se fosse appena tornato da un

combattimento; aveva i capelli arruffati, e la debole luce della finestra gli rischiarava le

ombre sotto gli occhi, gli incavi delle tempie, le ossa degli zigomi. In quella cornice, la sua

era la bellezza assoluta e quasi surreale di un dipinto di Modigliani, tutto superfici e

angoli oblunghi.

Clary si sfregò gli occhi, allontanando il sonno con un battito di ciglia. — Che ore sono?

— chiese. — Da quanto...

Lui la tirò a sé e la baciò; per un attimo lei rimase di sasso, rendendosi conto che

indossava soltanto una maglietta leggera e la biancheria intima. Poi si lasciò andare senza

opporre resistenza. Era quel genere di bacio prolungato che la faceva sciogliere come

burro; quel genere di bacio capace di farle sentire che non c'era niente che non andasse,

che tutto era come prima, e che lui era semplicemente felice di vederla. Ma quando le sue

mani fecero per sollevarle l'orlo della t-shirt, lei le allontanò.

— No — disse serrandogli le dita attorno ai polsi. — Non puoi continuare ad

avvinghiarti ogni volta che mi vedi. Non è così che si evita un necessario chiarimento.

Lui fece un respiro interrotto. — Perché hai scritto un messaggio a Isabelle e non a me?

Se eri in pericolo...

— Perché sapevo che lei sarebbe venuta — rispose Clary. — Mentre non posso dire la

stessa cosa di te. Non adesso.

— Se ti fosse successo qualcosa...

— In quel caso credo che prima o poi lo avresti saputo. Sì, quando ti saresti degnato di

rispondere al telefono. — Continuava a tenergli i polsi; a un tratto li lasciò e si rimise a

sedere sul letto. Era difficile, fisicamente difficile, stargli così vicino senza toccarlo, ma

costrinse le mani a mettersi lungo i fianchi e a rimanere lì. — O mi dici cosa c'è che non va

oppure puoi anche uscire da questa stanza.

Lui dischiuse le labbra, ma non proferì parola. Clary era quasi certa di non avergli

parlato in tono così brusco da molto tempo. — Mi dispiace — disse lui finalmente. — Cioè,

lo so che per il modo in cui mi sono comportato non hai motivo di ascoltarmi. E

probabilmente non sarei nemmeno dovuto venire qui. Ma quando Isabelle mi ha detto che

ti eri ferita, non sono riuscito a trattenermi.

— Qualche scottatura — disse Clary. — Niente di importante.

— Tutto quello che ti succede per me è importante.

— Be', questo spiega sicuramente perché non mi hai mai richiamato. E anche perché,

l'ultima volta che ti ho visto, sei scappato senza darmi spiegazioni. Mi sembra... di

frequentare un fantasma.

La bocca di Jace si sollevò appena agli angoli. — Non proprio. A Isabelle è capitato, e lei

saprebbe dirti...

— No — lo interruppe Clary. — Era una metafora. E sai benissimo cosa voglio dire.

Per un istante scese il silenzio. — Fammi vedere le scottature — disse lui a un tratto.

Clary distese le braccia. All'interno dei polsi c'erano delle chiazze di pelle ruvida e

arrossata, in corrispondenza dei punti dove si era sporcata con il sangue del demone. Lui

le prese i polsi molto dolcemente, guardandola prima per chiederle il permesso di farlo, e

poi li voltò. Clary ricordò la prima volta in cui lui l'aveva toccata, nella strada fuori Java

Jones, alla ricerca di marchi che in realtà non aveva. — Sangue di demone. Spariranno tra

qualche ora. Ti fanno male?

Clary fece di no con la testa.

— Non lo sapevo — riprese lui. — Non lo sapevo che avevi bisogno di me.

A Clary si incrinò la voce. — Io ho sempre bisogno di te.

Lui chinò la testa e le baciò la scottatura sul polso. Lei si sentì percorrere da un'ondata di

calore, come se un ferro rovente la attraversasse dalle mani fino in fondo allo stomaco. —

Non lo avevo capito — disse Jace. Le baciò un'altra scottatura, sul braccio, e poi un'altra,

salendo fino alla spalla, mentre con il corpo la faceva scendere fino a sdraiarla con la testa

sul cuscino e lo sguardo alzato verso di lui. Si sorresse sui gomiti per non schiacciarla col

proprio peso, e ricambiò lo sguardo.

Gli occhi gli si incupivano sempre quando loro due si baciavano, come se il desiderio ne

cambiasse il colore. Le toccò il marchio della stella bianca sulla spalla, quello che avevano

entrambi, il segno che erano figli di chi era in contatto con gli angeli. — Lo so, in

quest'ultimo periodo sono stato strano — disse. — Ma tu non c'entri. Io ti amo, e questo

vale sempre.

— E allora che cosa...

— Penso sia per colpa di quello che è successo a Idris... Valentine, Max, Hodge, persino

Sebastian... Non ho fatto che incassare tutto, cercando di dimenticare, ma ora sto pagando

le conseguenze. Io... mi farò aiutare. Starò meglio, te lo prometto.

— Lo prometti?

— Te lo giuro sull'Angelo. — Chinò la testa e le diede un bacio sulla guancia. — Oh,

all'inferno. Giuro su di noi.

Clary attorcigliò le dita nella manica della maglia di lui. — Perché noi?

— Perché non c'è più nient'altro in cui credo. — Inclino la testa di lato. — Se ci

dovessimo sposare... — esordì, e dovette accorgersi che lei, sotto di lui, si stava irrigi-

dendo, perché fece un sorriso. — Niente panico, non ti sto facendo una dichiarazione! È

che mi chiedevo cosa sai dei matrimoni fra Shadowhunters.

— Non ci sono anelli — rispose Clary accarezzandogli con le dita la nuca, dove la pelle

era più morbida. — Soltanto rune.

— Una qui — disse lui toccandole delicatamente il braccio, sulla scottatura, con la punta

del dito. — E un'altra qui. — Le fece scorrere il dito su per il braccio, le attraversò la

scollatura e scese fin sopra al cuore, che batteva veloce. — Il rito deriva dal Cantico di

Salomone: "Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte

come la morte è l'amore".

— Il nostro è ancora più forte — sussurrò Clary, ricordandosi di come lo aveva riportato

in vita. Questa volta, quando gli occhi di lui si scurirono, lei gli prese il viso tra le mani e

gli coprì la bocca con la propria.

Si baciarono a lungo, finché nella stanza non entrava quasi più luce ed erano rimaste

soltanto ombre. Jace non mosse le mani né cercò di toccarla, anche se lei sentiva che

aspettava solo il suo permesso.

Poi capì che avrebbe dovuto essere lei a spingere la cosa più in là, se lo voleva. E sì, lo

voleva davvero. Lui aveva ammesso che qualcosa non andava e che lei non c'entrava

nulla. Meglio di niente, era un passo avanti. Doveva essere ricompensato, no? L'accenno di

un sorriso le increspò un angolo della bocca. Ma chi stava prendendo in giro... Era lei la

prima a volere di più. Perché era Jace, perché lo amava, perché era così bello che a volte

sentiva il bisogno di pizzicargli il braccio per vedere se era vero.

E lo fece sul serio.

— Ahi! E questo cos'era? — chiese lui.

— Togliti la maglietta — gli sussurrò. Fece per afferrarne l'orlo, ma lui era stato più

veloce. La tirò sopra la testa e la buttò a caso sul pavimento. Scrollò la chioma bionda.

Clary non si aspettava di vedere quelle ciocche d'oro spargere scintille di luce nel buio

della stanza.

— Alzati — gli disse piano. Il cuore le martellava nel petto. Di solito non era lei a

prendere il controllo, in certe situazioni, ma lui non sembrava affatto infastidito. Si mise a

sedere lentamente, alzandola insieme a lui, fin che non furono insieme in mezzo all'intrico

di coperte. Lei gli salì in braccio, mettendogli le gambe sui fianchi. Ora erano faccia a

faccia. Lo sentì trattenere il respiro, mentre muoveva le mani per spostarle la maglietta, ma

lei le respinse un'altra volta, piano, mettendogliele lungo i fianchi e alzando le proprie su

di lui. Si guardò le dita scorrere sul petto e sulle braccia di lui, sulla curva dei bicipiti dove

si intrecciavano i marchi neri, sulla stella che gli segnava la spalla. Scese con l'indice lungo

la linea che gli divideva i pettorali, giù sopra gli addominali scolpiti. Stavano tutt'e due

respirando forte, quando lei raggiunse la fibbia dei pantaloni. Lui non si mosse, e si limitò

a guardarla con un'espressione che diceva: tutto quello che vuoi.

Col cuore che le martellava, si mise le mani sul bordo della maglietta e se la sfilò da

sopra la testa. Avrebbe preferito indossare un reggiseno più carino (quello che aveva era

di semplice cotone bianco), ma quando sollevò lo sguardo e incontrò quello di lui ogni

preoccupazione svanì. Jace aveva le labbra dischiuse, gli occhi quasi neri; riusciva a vedere

il proprio riflesso e non le importava di avere il reggiseno bianco, nero o verde

fosforescente. Lui non vedeva altro che lei.

Gli prese le mani, se le appoggiò sui fianchi e poi le lasciò libere, come a dire: Ora puoi

toccarmi. Jace inclinò la testa verso l'alto e la bocca di lei scese sopra la sua; si stavano

baciando di nuovo, ma ora con passione invece che con dolcezza, come un fuoco che

ardeva rapido e impetuoso. Le mani di lui la toccavano in modo febbrile, tra i capelli e sul

corpo, spingendola verso il basso in modo da riportarla sotto di sé. Mentre le loro pelli nu-

lle scivolavano l'una contro l'altra, Clary si rese davvero conto che tra di loro non c'era

nient'altro che la sua maglietta, il reggiseno, gli slip e i jeans di lui. Impigliò le dita nei

capelli setosi e scompigliati di Jace, tenendogli la testa mentre la baciava sul collo. Quanto

in là vogliamo andare? Che cosa stiamo facendo? si stava chiedendo una piccola parte del

suo cervello, ma il resto gridava a quest'ultima di starsene zitta. Voleva continuare a toc-

carlo, a baciarlo; voleva che lui la stringesse e voleva sentire che lui era vero, lì con lei, per

restarci in eterno. Le dita di lui trovarono il gancetto del reggiseno. Clary si irrigidì. Nel

buio gli occhi di Jace erano grandi e luminosi, il sorriso adorante. — Posso?

Lei annuì. Respirava sempre più in fretta. Nessuno in vita sua l'aveva mai vista senza

reggiseno, per lo meno nessun ragazzo. Come se percepisse il suo nervosismo, lui le prese

delicatamente il viso con una mano e iniziò a mordicchiarle le labbra, sfiorandole finché il

corpo di lei non sembrò sul punto di sbriciolarsi per la tensione. La mano destra di lui, con

le dita lunghe e callose, le accarezzò la guancia, poi la spalla, tranquillizzandola. Lei però

era ancora irrequieta, ansiosa di sentire la mano di Jace che la toccava e tornava sul gancio

del reggiseno, mentre invece stava cercando qualcosa dietro di sé. Ma cosa stava facendo?

All'improvviso le venne in mente il discorso di Isabelle sulle precauzioni. Oh oh, pensò.

Si irrigidì appena e si allontanò. — Jace, non sono sicura di...

L'oscurità si accese di un bagliore argenteo, finché qualcosa di freddo e tagliente le

affondò a lato del braccio. Per un istante non provò altro che sorpresa, poi... dolore.

Ritrasse le mani, sbattendo le palpebre, e vide una striscia di sangue scuro che le

imperlava la pelle, dove una ferita superficiale le correva dalla spalla al gomito. — Ahia!

— esclamò, più per fastidio e stupore che per vero dolore. — Ma cosa...

Jace si allontanò da lei di colpo, scendendo dal letto, con un unico movimento.

All'improvviso era in piedi in mezzo alla stanza, senza maglietta, col viso bianco come un

fantasma.

Con la mano stretta attorno al braccio ferito, Clary si mise a sedere. — Jace, ma cosa...

Si interruppe. Nella mano sinistra di lui c'era un coltello, il coltello con l'impugnatura

d'argento che Clary aveva visto nella scatola con i ricordi del padre. Sulla punta c'era una

piccola traccia di sangue.

Clary si guardò la mano, poi rialzò lo sguardo su Jace. — Non capisco...

Jace aprì la mano, e il coltello cadde sul pavimento. Per un istante sembrò sul punto di

correre di nuovo via, come aveva fatto fuori dal locale. Invece crollò a terra e si prese la

testa fra le mani.

— Mi piace — disse Camille mentre la porta si chiudeva dietro Isabelle. — Mi ricorda un

po' me stessa.

Simon si voltò per guardarla. Il Santuario era molto buio, ma lui la vedeva chiaramente,

schiena contro la colonna, mani legate dietro. Vicino alle porte di accesso all'Istituto c'era

una guardia Shadowhunter, che non aveva sentito Camille oppure non era interessata.

Simon si avvicinò un po' di più alla prigioniera. Le catene che la cingevano esercitavano

su di lui uno strano fascino. Metallo benedetto... Era come se splendesse appena contro

quella pelle pallida e a Simon parve di intravedere qualche filo di sangue che colava

attorno alle manette sui polsi di Camille. — Non è affatto come te.

— È quello che pensi tu. — Camille piegò la testa di lato; i biondi capelli sembravano

sistemati ad arte attorno al suo viso, anche se Simon sapeva che non poteva esserseli

toccati. — Quanto vuoi bene ai tuoi amici Shadowhunters — riprese. — Come il falco che

adora il padrone che lo lega e lo benda.

—Le cose non stanno così — ribatté Simon. — Shadowhunters e Nascosti non sono

nemici.

—Non puoi nemmeno seguirli nella loro dimora! —gli fece notare Camille. — Ne sei

escluso. Eppure resti così pronto a servirli... Staresti al loro fianco anche contro la tua

stessa specie.

— Io non appartengo a nessuna specie — rispose Simon. — Io non sono uno di loro. Ma

nemmeno uno dei tuoi. E preferirei essere come loro che come te.

— Oh sì, invece. Tu sei uno di noi. — Camille si dimenava impaziente, scuotendo le

catene ed emettendo un debole gemito di dolore. — C'è qualcosa che non ti ho detto,

quando eravamo nella banca. — Sorrise a denti stretti per il dolore. — Sento su di te

l'odore del sangue umano. Ti sei nutrito da poco. Di un mondano.

Simon sentì qualcosa sobbalzargli dentro. — Io...

— È stato stupendo, vero? — le sue labbra rosse si curvarono. — La prima volta, da

quando sei vampiro, che non ti senti affamato.

— Non è vero — dichiarò Simon.

— Stai mentendo. — La voce di Camille segnalava determinazione. — I Nephilim

cercano di farci combattere contro la nostra stessa natura. Ci tollerano soltanto se

fingiamo di essere diversi da come siamo: dei cacciatori, dei predatori. I tuoi amici non

accetteranno mai quello che sei, ma solo quello che fingi di essere. Loro non farebbero mai

per te quello che tu fai per loro.

— Non so perché perdi tempo con questi discorsi — le disse Simon. — Quel che è fatto

è fatto. E non ho intenzione di lasciarti libera. Ho preso una decisione e quello che mi hai

offerto non mi interessa.

— Forse non ora... — disse piano Camille. — Ma succederà, succederà.

La guardia Shadowhunter fece un passo indietro quando la porta si aprì e Maryse entrò

nella stanza. La seguivano due sagome che Simon riconobbe all'istante: quella di Alec, il

fratello di Jace, e quella del suo compagno, lo stregone Magnus Bane.

Alec indossava un elegante completo nero; Magnus, con grande sorpresa di Simon, era

vestito in modo simile, Con l'aggiunta di una lunga sciarpa di seta bianca bordata di

frange e un paio di guanti dello stesso colore. Aveva i capelli ritti in testa, come sempre,

ma per una volta era sprovvisto di glitter. Quando lo vide, Camille ammutolì.

Sembrava che Magnus non si fosse ancora accorto di lei; stava ascoltando Maryse,

impegnata a ringraziarli, con un po' di imbarazzo, per essere arrivati così in fretta. — In

effetti non vi aspettavamo prima di domani.

Alec si sforzò di non sbuffare e allontanò lo sguardo; non sembrava molto contento di

essere lì. A parte quello, pensò Simon, sembrava più o meno il solito: stessi capelli neri,

stessi occhi azzurri e calmi, anche se in lui c'era qualcosa di più rilassato rispetto a prima,

come se, in un certo senso, fosse riuscito a entrare nella propria pelle.

— Per fortuna c'è un Portale vicino al teatro dell'opera di Vienna — disse Magnus

lanciandosi, con un gesto plateale, un lembo della sciarpa dietro le spalle. Appena ricevuto

il tuo messaggio, abbiamo fatto il più in fretta possibile.

— Continuo a non capire cosa c'entriamo noi in questa storia — disse Alec. — Quindi hai

preso un vampiro che stava per fare qualcosa di cattivo. Ma non è quello che fanno

sempre?

Simon si sentì rivoltare lo stomaco. Guardò in direzione di Camille per vedere se stava

ridendo di lui, ma lei aveva lo sguardo fisso su Magnus.

Alec, guardando Simon per la prima volta, arrossì. Su di lui si notava molto, perché

aveva la carnagione davvero chiara. — Scusa, Simon. Non pensavo a te, tu sei diverso.

Lo penseresti anche se mi avessi visto la scorsa notte, mentre succhiavo il sangue di una

quattordicenne pensò il diretto interessato. Rimase però in silenzio, e Simon si limitò a

rispondere ad Alec con un cenno.

— La presenza di questa donna è di rilievo nell'ambito delle indagini che stiamo

conducendo sulle morti dei tre Shadowhunters — affermò Maryse. — Ci servono delle

informazioni, ma vuole parlare solo con Magnus Bane.

— Sul serio? — fece Alec guardando Camille con fare curioso. — Solo con Magnus?

Magnus seguì lo sguardo del ragazzo e per la prima volta, o almeno così sembrò a

Simon, guardò Camille in faccia. Fra loro scattò qualcosa, una specie di scarica di energia.

Gli angoli della bocca di Magnus si sollevarono a formare un sorriso malinconico.

— Sì — disse Maryse, mentre sul viso le passava un'espressione di stupore, dovuta al

fatto di essersi accorta dell'intesa fra lo stregone e la vampira. — Ovviamente solo se

Magnus è disponibile.

— Lo sono — rispose lui, sfilandosi i guanti. — Parlerò io con Camille per voi.

— Camille? — Alec guardò Magnus sollevando un sopracciglio. — Allora la conosci?

Oppure... lei conosce te?

Ci conosciamo a vicenda. — Magnus fece spallucce, in modo quasi impercettibile, come

per dire che cosa ci vuoi farei — Una volta era la mia ragazza.

Capitolo 13

LA RAGAZZA TROVATA MORTA

— La tua ragazza ? — Alec era allibito, e Maryse pure. Anche Simon non poteva dire di

non essere molto sorpreso. — Uscivi con un vampiro?. Con una vampira?

— È successo centotrenta anni fa — disse Magnus. — Da allora non l'ho più vista.

— E perché non me lo hai mai detto? — chiese Alec.

Magnus sospirò. — Alexander, ho centinaia e centinaia d'anni di età. Sono stato con

uomini e con donne. Con fate, stregoni e vampiri, oltre che con uno o due djinn. —

Guardò Maryse di sottecchi, che nel frattempo aveva assunto un'espressione piuttosto

inorridita. — Troppe informazioni, forse?

Non c'è problema — rispose lei, anche se il suo tono di voce non era troppo convinto. —

Devo discutere un attimo con Kadir di una cosa. Torno subito. — Si avvicinò all'altro

membro del Conclave e insieme scomparvero dietro la porta. Anche Simon fece qualche

passo indietro, fingendo di osservare con attenzione una delle vetrate colorate, ma il suo

udito da vampiro era abbastanza sviluppato da permettergli di sentire quello che Magnus

e Alec si stavano dicendo, che lo desiderasse o no. Sapeva che anche Camille riusciva a

fare lo stesso. Stava ad ascoltare con la testa inclinata da un lato, le palpebre pesanti e l'aria

pensierosa.

— Quante persone? — chiese Alec. — All'incirca? Magnus scosse la testa. — Non saprei

fare un calcolo,e poi non ha importanza. L'unica cosa che conta è quello che provo per te.

— Più di cento? — lo incalzò il ragazzo. Magnus aveva lo sguardo impassibile. —

Duecento!

— Non riesco a credere che questa conversazione stia avendo luogo — affermò lo

stregone, rivolto a nessuno in particolare. Simon era tendenzialmente d'accordo con lui, e

avrebbe preferito evitare di assistere alla scena.

— Perché così tanti? — Gli occhi di Alec, nella penombra della stanza, risplendevano di

un azzurro intenso. Simon non riusciva a dire se fosse arrabbiato oppure no. Dal tono di

voce non sembrava, anche se di sicuro era molto teso. Forse, per una persona chiusa come

lui, quello era il massimo livello di rabbia che poteva esprimere. — Ti stanchi in fretta

delle persone?

— Vivrò in eterno — rispose Magnus senza scomporsi. — Non per tutti è così.

A quel punto fu come se Alec fosse stato colpito da un pugno. — Quindi resti con loro

finché muoiono, poi ti trovi qualcun altro?

Magnus non disse nulla. Guardò Alec con lo sguardo luminoso come quello di un gatto.

— Preferiresti che passassi il resto dell'eternità da solo?

La bocca dell'altro si contrasse. — Io vado a cercare Isabelle — disse, e senza aggiungere

una parola si girò e tornò dentro l'Istituto.

Magnus rimase a guardarlo con occhi tristi. Non un genere di tristezza umana, pensò

Simon. Era come se lo sguardo dello stregone celasse la malinconia di epoche intere, come

se gli spigoli taglienti della tristezza umana fossero stati smussati dall'incedere degli anni,

nello stesso modo in cui l'acqua del mare trasforma una scheggi a di vetro in un sassolino

rotondo.

Come se Magnus avesse capito che Simon stava pensando a lui, lo guardò di sottecchi.

— Ehi, vampiro! Si origlia?

— A dire il vero non mi piace quando la gente mi chiama così. Ho un nome — rispose

Simon.

— E credo che farò bene a ricordarmelo. Dopotutto fra cento o duecento anni ci saremo

soltanto io e te. — Magnus lo guardò con aria pensierosa. — Saremo tutto ciò che resta.

Solo a pensarci Simon si sentì come se fosse stato a bordo di un ascensore che

all'improvviso si stacchi dai cavi e inizi a precipitare verso il basso, centinaia di piani più

sotto. Non era la prima volta che quell'idea gli passava per la mente, ovvio, ma l'aveva

sempre rimossa. Il pensiero di restare un sedicenne mentre Clary cresceva, Jace cresceva, e

come loro tutti gli altri crescevano, invecchiavano, facevano dei figli, facendo di lui l'unico

per cui le cose non sarebbero mai cambiate, era troppo grande e terribile anche solo da

prendere in considerazione.

Avere sedici anni per sempre sembrava bello finché non ci si pensava seriamente: a quel

punto smetteva di essere una prospettiva entusiasmante.

Gli occhi da gatto di Magnus erano di un verde chiaro dorato. — Guardare in faccia

l'eternità — disse. — Non molto simpatico, vero?

Prima che Simon potesse rispondere, Maryse tornò da loro. — Dov'è andato Alec? —

chiese, guardandosi attorno stupita.

— E andato a cercare Isabelle — rispose Simon prima che Magnus dovesse dare

spiegazioni.

— Molto bene. — Maryse si lisciò il davanti della giacca, anche se non era affatto

sgualcito. — Se non ti dispiace, allora...

— Parlerò con Camille — disse Magnus. — Ma voglio farlo da solo. Se vuoi aspettarmi

all'Istituto, ti raggiungerò appena finito.

Maryse esitò. — Sai cosa chiederle?

Lo sguardo di Magnus non dava segni di incertezza. — So come parlarle, sì. Se è

disposta a dire qualcosa, lo farà con me.

Sembrava che entrambi di fossero dimenticati della presenza di Simon. — Me ne devo

andare anch'io? — chic se il ragazzo interrompendo la sfida, a colpi di sguardi, fra i due.

Maryse lo degnò appena di un'occhiata. — Ah, sì. Grazie per l'aiuto, Simon, ma ora non

sei più necessario. Se vuoi torna pure a casa.

Magnus non disse nulla. Simon scrollò le spalle e andò verso la porta che dava sulla

vecchia sacrestia e sull'uscita che lo avrebbe portato all'aperto. Arrivato sulla soglia, si

fermò per guardarsi alle spalle. Maryse e Magnus stavano ancora discutendo, anche se la

guardia stava già tenendo aperta la porta dell'Istituto, pronta a uscire. Solo Camille

sembrava ricordare che Simon era ancora lì. Gli sorrideva dalla colonna a cui era legata,

con gli angoli delle labbra incurvati all'insù e gli occhi brillanti come una promessa. Simon

uscì e si chiuse la porta dietro le spalle.

— Succede ogni notte. — Jace era seduto sul pavimento, con le ginocchia piegate e le

mani a penzoloni fra le gambe. Aveva appoggiato il coltello sul letto, accanto a Clary;

mentre parlava, lei lo copriva con una mano, ma più per rassicurare se stessa che per

timore di doversi difendere. Jace sembrava del tutto privo di energie; anche la voce era

vuota e distante, come se le stesse parlando da molto, molto lontano. — Sogno che entri in

camera mia e che... facciamo quello che stavamo facendo. Ma poi io ti faccio del male. Ti

ferisco, ti strangolo o ti pugnalo, e tu muori, guardandomi con quegli occhi verdi mentre

la tua vita scivola via fra le mie mani colpevoli.

— Sono soltanto brutti sogni — gli disse Clary in tono pacato.

— Hai appena visto che non è così — ribatté Jace. — Quando ho afferrato quel coltello

avevo gli occhi ben aperti.

Clary sapeva che aveva ragione. — Hai paura che stai diventando pazzo?

Lui scosse la testa, lentamente. I capelli gli caddero negli occhi; li spostò. Erano diventati

un filo troppo lunghi. Non li tagliava da un po', e Clary si chiese se non lo faceva perché

non se ne preoccupava. Come aveva fatto a non notare quelle ombre scure sotto gli occhi,

le unghie mordicchiate, l'aria esausta? Era stata talmente occupata a domandarsi se lui la

amava ancora da non pensare ad altro. — No, questo non mi preoccupa — rispose il

ragazzo. — Mi preoccupa l'idea di farti del male. Mi preoccupa pensare che, qualunque

cosa sia questo veleno che corrode i miei sogni, un giorno si infiltri anche nella realtà,

finché... — Fu come se la gola gli si chiudesse.

— Tu non mi faresti mai del male.

— Clary, avevo il coltello in mano! — Alzò lo sguardo su di lei, poi lo distolse. — Se

dovesse succedere una cosa del genere, io... — La voce gli si affievolì. — Gli

Shadowhunters muoiono giovani, capita spesso — riprese. — Lo sappiamo tutti. Tu volevi

diventare una di noi e io non te lo avrei mai impedito, perché non è compito mio dirti cosa

fare o non fare della tua vita. Soprattutto quando io per primo affronto gli stessi pericoli.

Che genere di persona sarei se ti dicessi che correre certi rischi va bene per me ma non per

te? E così ho pensato a come avrei reagito se tu fossi morta. Scommetto che ci hai pensato

anche tu.

— Io lo so come sarebbe — disse Clary ricordandosi il lago, la spada e il sangue di Jace

che si spargeva sulla sabbia. Jace era morto e l'Angelo lo aveva riportato in vita: erano stati

i minuti peggiori della sua vita. — Volevo morire. Ma sapevo quanto ti avrei deluso se mi

fossi arresa così.

Jace fece l'ombra di un sorriso. — E io ho pensato la stessa cosa. Se tu morissi, io non

vorrei continuare a vivere. Eppure non mi toglierei la vita, perché qualunque cosa ci sia

dopo la nostra morte, la voglio affrontare insieme a te. So che, se mi uccidessi, tu non mi

rivolgeresti più la parola, né in questa vita né in nessun'altra. È per questo che resisterei, e

cercherei di fare qualcosa di buono aspettando il momento di poterti rivedere. Ma se in-

vece fossi io a farti del male, se fossi io la causa della tua morte... mi distruggerei, e niente

potrebbe impedirmelo.

— Non dire queste cose. — Clary si sentì un brivido nelle ossa. — Jace, avresti dovuto

spiegarmelo prima.

— Non potevo — disse lui con voce atona, solenne.

— E perché no?

— Pensavo di essere Jace Lightwood — rispose. — Pensa vo di essere rimasto

indifferente al modo in cui sono cresciuto, ma ora mi chiedo se sia così vero, che la gente

può cambiare. Forse resterò sempre Jace Morgenstern, il figlio di Valentine. Mi ha

cresciuto per dieci anni, potrebbe essere una macchia che non laverò mai.

— Quindi pensi che sia colpa di tuo padre — disse Clary, mentre con la mente

ripercorreva quel frammento di storia che face le aveva raccontato una volta... Amare è

distruggere. E poi ripensò a come fosse strano riferirsi a Valentine come al padre di Jace,

quando in realtà era dentro di lei che scorreva il sangue di quell'individuo. Certo, non

aveva mai provato per lui quello che si può provare per un genitore, Jace invece sì. — E

non volevi che venissi a saperlo?

— Tutto quello che voglio sei tu — rispose Jace. — E forse Jace Lightwood si merita di

avere tutto quello che vuole. Ma Jace Morgenstern no, e da qualche parte dentro di me

deve esserci qualcosa che se ne rende conto. Altrimenti non sarei qui a cercare di

distruggere quello che c'è tra di noi.

Clary fece un respiro profondo ed espirò lentamente. — Secondo me no.

Jace sollevò la testa e la guardò incuriosito. — In che senso?

Tu pensi che si tratti di un fattore psicologico — rispose Clary. — Pensi di avere qualcosa

che non va. Be', io non sono d'accordo, e credo che questo sia opera di qualcun altro.

— Ma...

— Ithuriel mi ha inviato dei sogni — spiegò Clary. — Forse qualcuno lo sta facendo

anche con te.

— Ithuriel te li ha mandati per cercare di aiutarti, per guidarti verso la verità. Qual è il

senso di questi sogni? Sono malati, insensati, sadici...

— Forse hanno un significato — osservò la ragazza — che magari non è quello che

pensi tu. O forse chi te li sta mandando vuole farti soffrire.

— Chi potrebbe fare una cosa del genere?

— Qualcuno che non ci ama particolarmente — disse Clary, allontanando dalla mente

l'immagine della Regina Seelie.

— Può darsi — rispose sottovoce Jace, guardandosi le mani. — Sebastian...

E allora anche lui non lo vuole chiamare Jonathan, pensò Clary. — Sebastian è morto —

dichiarò la ragazza in tono un po' più brusco di quanto avrebbe voluto. — E se avesse

avuto questo genere di poteri, li avrebbe usati prima.

Sul volto di Jace si rincorsero il dubbio e la speranza. — Pensi davvero che potrebbe

trattarsi di qualcun altro?

Clary si sentì il cuore battere forte contro il petto. No, non ne era sicura. Lo avrebbe

desiderato con tutta se stessa, ma se si fosse sbagliata avrebbe alimentato le speranze di

Jace inutilmente. Le speranze di Jace e anche le proprie.

Poi però si rese conto che era passato molto tempo dall'ultima volta in cui lui aveva

sperato in qualcosa.

— Penso che dovremmo tornare nella Città Silente — annunciò. — I Fratelli possono

entrare dentro la tua testa e scoprire se qualcuno ci sta mettendo le mani proprio come

hanno fatto con me.

Jace aprì la bocca e la richiuse. — Quando? — chiese finalmente.

— Adesso — rispose Clary. — Io non voglio aspettare e tu?

Jace non rispose; si alzò in silenzio da terra e prese la maglietta. Guardò Clary e quasi

sorrise. — Se andiamo nella Città Silente, farai meglio a vestirti. Cioè, a me piace il look

mutandine e reggiseno, ma non so se i Fratelli Silenti sarebbero d'accordo. Sono rimasti in

pochi, e non voglio che si estinguano per l'eccitazione!

Clary si alzò dal letto e gli tirò contro un cuscino, più che altro come gesto di sollievo.

Prese i vestiti e iniziò a rimettersi la maglietta. Un secondo prima di infilarsela sopra la

testa, lo sguardo le cadde sul coltello che giaceva sopra le coperte, emanando i bagliori di

una fiamma d'argento...

— Camille — disse Magnus. — Ne è passato di tempo, vero?

Lei sorrise. Aveva la pelle più bianca di quanto lui ricordasse e sotto la superficie

iniziava a comparire un reticolo di vene bluastre. I capelli erano ancora color platino, gli

occhi ancora verdi come quelli di un gatto. Ed era ancora bellissima. Guardarla gli diede la

sensazione di essere,ancora a Londra: vide le lampade a gas, sentì l'odore del fumo, della

sporcizia e dei cavalli, la nebbia con il suo sapore metallico, i fiori dei Kew Gardens. Vide

un ragazzo coi capelli neri e gli occhi azzurri come quelli di Alec. E una ragazza con

lunghi capelli ricci e il viso serio. E poi c'era Camille. In un mondo dove tutto era destinato

ad abbandonarlo, lei era una delle poche costanti.

— Mi sei mancato, Magnus — gli disse.

— Non è vero. — Lo stregone si sedette sul pavimento del Santuario. Il freddo della

pietra gli penetrava nei vestiti, e fu contento di essersi portato la sciarpa. — Come mai

questo messaggio diretto a me? Solo un modo per prendere tempo?

— No. — Camille si sporse in avanti, scuotendo le catene. Magnus riusciva quasi a

sentire lo sfrigolio dei punti in cui il metallo benedetto le toccava la pelle dei polsi. — Ho

sentito delle cose su di te, Magnus. Ho sentito che in questo periodo sei sotto l'ala degli

Shadowhunters. E poi che eri riuscito a conquistarne uno, suppongo il ragazzo con cui

parlavi prima... Hai sempre avuto dei gusti piuttosto variegati.

— Vedo che sei stata a sentire i pettegolezzi sul mio conto — le disse Magnus. — Ma

avresti potuto parlarmi di persona. Sono a Brooklyn da molti anni, per niente lontano,

eppure non ti ho mai sentita. Mai vista a una delle mie feste. Tra di noi si è creato un muro

di ghiaccio, Camille.

— Non sono stata io a costruirlo. — Gli occhi verdi di lei si spalancarono. — Ti ho

sempre amato.

— Mi hai lasciato — rispose Magnus. — Mi hai fatto diventare il tuo zerbino e poi mi

hai lasciato. Se l'amore fosse cibo, sarei morto di fame per le ossa che mi lanciavi. —

Parlava con freddezza; ormai era passato molto tempo.

— Però avevamo tutta l'eternità — ribatté lei. — Sapevi che sarei tornata da te...

— Camille — replicò Magnus, con pazienza infinita. — Posso sapere cos'è che vuoi?

Lei aveva il petto ansante. Non aveva bisogno di respirare, perciò Magnus immaginò

che fosse soprattutto per fare scena. — So che gli Shadowhunters ti prestano ascolto.

Voglio che parli con loro per conto mio.

— Tu vuoi farmi fare qualche intrallazzo — tradusse Magnus.

Lei gli lanciò uno sguardo. — Oh, il tuo è sempre stato un lessico sconveniente. Troppo

moderno!

— Dicono che hai ucciso tre Shadowhunters — proseguì Magnus. — È vero?

— Erano membri del Circolo — rispose lei con il labbro inferiore che le tremava. — Un

tempo hanno torturato e ucciso la mia razza...

— È questo il motivo per cui lo hai fatto? La vendetta? — Approfittando del suo silenzio,

Magnus le disse: — Lo sai cosa fanno a chi uccide i Nephilim, Camille.

Lo sguardo di lei si accese. — Ho bisogno che intercedi per me, Magnus. Voglio

l'immunità. Voglio una promessa scritta da parte del Conclave in cui giurano che, se darò

loro le informazioni che vogliono, mi risparmieranno e mi lasceranno libera.

— Non ti lasceranno mai andare.

— E allora non sapranno mai perché i loro colleghi hanno dovuto morire.

— Dovuto? — ripeté Magnus, pensoso. — Interessante scelta delle parole, Camille.

Sbaglio o sotto questa faccenda c'è più di quanto si possa immaginare? Più del sangue o

della vendetta?

Lei rimase in silenzio, osservandolo, col petto che saliva e scendeva con studiata

precisione. Anzi, tutto quello che la riguardava era studiato: la piega dei capelli, la curva

del collo, persino il sangue sui polsi.

— Se vuoi che parli con loro di te — proseguì Magnus — dovrai dirmi almeno alcune

piccole cose. Prendila come una dimostrazione di buona fede.

Lei gli fece un sorriso radioso. — Sapevo che lo avresti fatto, Magnus. Sapevo che quello

che c'è stato fra noi non era del tutto morto e sepolto.

— Allora consideralo "morto vivente", se preferisci — replicò lui. — La verità, Camille.

Lei si passò la lingua sul labbro inferiore. — A loro puoi dire che, quando ho ucciso

quegli Shadowhunters, stavo eseguendo degli ordini. Farlo non mi disturbava, perché

avevano fatto del male alla mia gente e si meritavano di morire. Però non l'avrei mai fatto

se non fosse stato pei la volontà di altri... Altri molto più potenti di me.

Il cuore di Magnus iniziò a battere un po' più in fretta, e avvertirne il rumore non gli

piaceva. — Di chi si tratta?

Camille scosse la testa. — L'immunità, Magnus.

— Camille...

— Mi butteranno fuori, alla luce del sole, e mi lasceranno morire! — disse lei. — È

questo che fanno a chi uccide i Nephilim.

Magnus si mise in piedi. La sciarpa, fino a poco prima sul pavimento, si era sporcata, e

ora la guardò dispiaciuto. — Farò quello che posso, Camille, ma non ti prometto niente.

Non la amava, ma lei era un sogno dal passato, perciò avanzò finché fu abbastanza

vicino da poterla toccare.

— Ricordi... — gli sussurrò lei — Ricordi Londra? Le feste da Quincey's? E Will

Herondale? Lo so che te ne ricordi. Quel tuo ragazzo, quel Lightwood. Si assomigliano.

— Dici? — fece Magnus, come se non ci avesse mai pensato.

— I bei ragazzi sono sempre stati la tua rovina, Magnus. Ma cosa vuoi che ti dia un

mortale? Dieci anni, venti, poi il disfacimento inizierà a reclamarlo. Quaranta, cinquanta, e

se lo prenderà la morte. Io ti posso dare tutta l'eternità.

Lui le toccò la guancia. Era più fredda del pavimento su cui prima si era seduto. —

Potresti darmi il passato — rispose con una nota di malinconia. — Ma il mio futuro è Alec.

— Magnus...

La porta dell'Istituto si aprì, e Maryse vi si affacciò, con la stregaluce a farle da contorno.

Accanto a lei c'era Alec, le braccia incrociate sul petto. Magnus si chiese se il ragazzo

avesse sentito da dietro la porta qualcosa della conversazione fra lui e Camille.

— Magnus — disse Maryse Lightwood. — Siete giunti a un accordo?

Lo stregone lasciò cadere una mano. — Non sono certo che lo chiamerei "accordo" —

disse girandosi verso Maryse. — Però credo che dovremmo parlare.

Clary, che nel frattempo si era rivestita, seguì Jace in camera sua, dove il ragazzo riempì

una borsa di tela con le cose da portare nella Città Silente. Era un po' come, pensò,

qualcuno che andava a un macabro pigiama party. Si trattava per lo più di armi: qualche

lama dei serafini, il suo stilo e persino il coltello col manico d'argento la cui lama era stata

ripulita dalle tracce di sangue. Si infilò una giacca di pelle nera e lei rimase a osservarlo

mentre se la allacciava, liberando ciocche di capelli biondi da sotto il colletto. Quando si

voltò a guardarla, buttandosi la borsa sopra la spalla, le rivolse un debole sorriso, da cui

Clary intravide la piccola scalfittura dell'incisivo sinistro che aveva sempre trovato

irresistibile; un minuscolo difetto in un quadro altrimenti troppo impeccabile. Le si strinse

il cuore, e per un istante distolse lo sguardo, quasi incapace di respirare.

Jace allungò una mano verso di lei. — Andiamo.

Non si poteva chiedere ai Fratelli Silenti di andarli a prendere, perciò presero un taxi che

li portava verso Houston Street e il Marble Cemetery. Clary pensava di poter raggiungere

la Città di Ossa tramite Portale (c'era già stata, sapeva cosa aspettarsi), ma Jace aveva detto

che, per certe cose, bisognava rispettare le regole, anche se Clary non riusciva a non

pensare che i Fratelli Silenti li avrebbero trovati comunque piuttosto sgarbati.

Jace le sedeva accanto sul sedile posteriore del taxi, tenendole una mano e tracciandole

dei disegni invisibili sul dorso. I suoi gesti la distraevano, ma non abbastanza da impedirle

di ascoltare mentre lui le spiegava quel che era successo con Simon, la storia di Jordan, la

cattura di Camille e la richiesta di quest'ultima di parlare con Magnus.

— Simon sta bene? — chiese Clary, preoccupata. — Non me ne ero accorta. Era

all'Istituto e non l'ho nemmeno visto...

— Non era all'Istituto, era nel Santuario. E a quanto pare se la sta cavando meglio di

quanto immaginassi, se si considera che fino a poco tempo fa era un mondano.

— Il vostro piano però mi sembra pericoloso. Voglio dire, questa Camille, è una pazza

completa, giusto?

Jace le passò le dita sulle nocche delle mani. — La devi smettere di pensare a Simon

come al ragazzo normale che conoscevi un tempo, quello che aveva sempre bisogno

d'aiuto. Ora fargli del male è praticamente impossibile. Non hai ancora visto il Marchio in

azione: è come l'ira di Dio scagliata sulla Terra! Direi che ne devi andare fiera.

Clary rabbrividì. — Non so. L'ho fatto perché dovevo lai lo, ma continua a essere una

maledizione. E non impaginavo che stesse affrontando tutte queste cose da solo, non mi ha

mai detto niente. Sapevo che Isabelle e Maia hanno scoperto l'una dell'altra, ma la storia di

Jordan... Non sapevo che era l'ex di Maia e nemmeno... Insomma, non sapevo niente di

niente. — Perché non hai chiesto nulla. Eri troppo occupata a preoccuparti per Jace. Non si fa così.

— D'accordo — le disse Jace. — Ma tu gli hai detto cosa stai per fare? Perché la cosa deve

funzionare in entrambi i sensi.

— No. A dire il vero non ne ho parlato con nessuno — ammise Clary, raccontando a Jace

del viaggio verso la Città Silente in compagnia di Luke e di Maryse, di quello che aveva

visto all'obitorio del Beth Israel e della successiva scoperta della Chiesa di Talto.

— Mai sentita — commentò lui. — Isabelle ha ragione, la fuori ci sono sette demoniache

di ogni genere. La maggior parte non riesce a evocare dei demoni, ma a quanto pare

questa fa eccezione.

— Pensi che la creatura che abbiamo ucciso sia quella che veneravano loro? Pensi che ora

potrebbero... smetterla?

Jace scosse la testa. — Quello era soltanto un demone Idra, una specie di cane da

guardia. E poi la frase "La sua casa pende verso la morte e i suoi sentieri menano ai

defunti" mi fa pensare più a un demone femmina. E sono proprio le sette che adorano le

femmine a fare cose orrende ai bambini; non ti puoi neanche immaginare che strane idee

hanno sulla fertilità e sulla prole. — Appoggio la schiena al sedile e socchiuse gli occhi. —

Il Conclave andrà in quella chiesa e controllerà, ma, ci scommetti, non troverà niente. Hai

ucciso il loro demone guardia no, perciò si toglieranno di torno e faranno sparire ogni

traccia. Probabilmente dovremo aspettare che si stabiliscano da qualche altra parte...

— Ma... — Clary sentì lo stomaco attorcigliarsi. — Quel bimbo. E le immagini del libro

che ho visto. Io credo che vogliano fare altri bambini come... come Sebastian.

— Non possono — dichiarò Jace. — Hanno iniettato a un neonato sangue di demone, ed

è una cosa orrenda Ma si può dar vita a una creatura come Sebastian solo usando sangue

di demone con un bambino Shadowhunter. Invece il neonato è morto. — Le strinse forte la

mano come per rassicurarla. — Non sono brave persone, ma non riesco a immaginare che

ci provino di nuovo, ora che non ci sono riusciti.

Il taxi frenò sgommando all'angolo fra Houston Street e Second Avenue. — Si è rotto il

tassametro — annuncio l'autista. — Sono dieci dollari.

Jace, che in altre circostanze avrebbe risposto con una battutina sarcastica, gliene allungò

venti e scese dall'auto, tenendo aperta la portiera per far scendere Clary. — Sei pronta? —

le chiese mentre si dirigevano verso il cancello di ferro che portava alla Città Silente.

Lei annuì. — Non posso dire che il mio ultimo viaggio qui sia stato molto divertente,

però sì, sono pronta. — Gli prese la mano. — Finché saremo insieme, sono pronta a tutto.

I Fratelli Silenti li stavano aspettando all'ingresso della Città, quasi avessero previsto il

loro arrivo; Clary riconobbe fra gli altri fratello Zaccaria. Insieme formavano una fila

taciturna che impediva a Jace e Clary di proseguire oltre.

Perché siete venuti qui, figlia di Valentine e figlio dell'Istituto! —Clary non sapeva chi di loro

le stesse trasmettendo quel messaggio nella testa, o se lo stessero facendo tutti insieme.

Non è normale che dei bambini entrino nella Città Silente senza la supervisione di qualcuno.

Quella parola, "bambini", le diede fastidio, pur sapendo che tutti gli Shadowhunters

minori di diciotto anni erano considerati tali e quindi sottoposti a regole speciali.

— Ci serve il vostro aiuto — annunciò quando le fu chiaro che Jace non avrebbe

proferito parola. Spostava lo sguardo da un Fratello all'altro con fare stranamente apatico,

come qualcuno che ha ricevuto una miriade di diagnosi terminali da parte di diversi

dottori e ora, raggiunto il capolinea, attende senza troppa speranza il verdetto finale di

uno specialista. — Non è il vostro lavoro aiutare gli Shadowhunters?

Ma non siamo servi, pronti a soddisfare ogni vostra richiesta. E nemmeno tutti i problemi sono di

vostra competenza.

— Questo però sì — dichiarò Clary con fermezza. — Credo che qualcuno stia entrando

nella mente di Jace, qualcuno di potente, che gli scombussola sogni e ricordi. E lo spinge a

fare cose che non vorrebbe.

Ipnomanzia, disse uno dei Fratelli Silenti. La magia dei sogni. Questa branca è di competenza

esclusiva dei l'in grandi e potenti utilizzatori della magia.

— Come gli angeli — disse Clary, ricevendone in cambio un silenzio sorpreso e

imbarazzato.

Forse, riprese finalmente fratello Zaccaria, dovreste venire con noi dalle Stelle Parlanti. Era

chiaro che non si trattava di un invito, ma di un ordine, perché i Fratelli si voltarono

all'istante e iniziarono a camminare verso il cuore della Città senza controllare che Jace e

Clary li stessero seguendo.

Raggiunsero il padiglione delle Stelle Parlanti, dove i Fratelli presero posto dietro al loro

tavolo di basalto nero. Alle loro spalle, la Spada Mortale era tornata al suo posto sulla

parete e luccicava come l'ala di un uccello d'argento. Jace si mise al centro della stanza e

abbasso lo sguardo sul disegno di stelle metalliche intarsiate fra le piastrelle rosse e oro del

pavimento. Clary guardava il ragazzo con il cuore che le faceva male. Era difficile vederlo

così, privo della sua solita carica d'energia, simile a una stregaluce che soffocava sotto un

tappeto di cenere.

A un certo punto sollevò la sua testa bionda, battendo le palpebre, e Clary capì che i

Fratelli Silenti gli stavano comunicando con la mente, per trasmettergli delle parole che lei

non poteva sentire. Lo vide fare di no con la testa e lo sentì dire: — Non lo so. Pensavo

fossero solo dei normali sogni. — A quel punto la bocca gli si serro, e Clary non riusciva a

non domandarsi cosa gli stessero dicendo. — Visioni? Non credo. Sì, ho incontrato

l'Angelo, ma è Clary quella che aveva i sogni profetici, non io.

Clary si irrigidì. Si stavano pericolosamente avvicinando a chiedere cosa fosse successo

con Jace e l'Angelo, quella notte al lago Lyn. Non ci aveva pensato. Quando i Fratelli

Silenti ti guardavano nella mente, che cosa vedevano di preciso? Solo quello che

cercavano? Oppure tutto!

A quel punto Jace annuì. — Bene. Se voi siete pronti, io ci sono.

Lui chiuse gli occhi e Clary, che continuava a osservarlo, si rilassò un po'. Allora era così

che doveva essersi sentito Jace, pensò, mentre i Fratelli Silenti le avevano scavato nella

mente, quella prima volta. Vide dettagli che allora non aveva notato, perché avvolta nella

rete creatasi fra le loro menti e la propria, viaggiando all'indietro fra i ricordi e lasciando

fuori il resto del mondo.

Vide Jace che si bloccava, come se lo avessero toccato con le mani. Stava piegando la

testa all'indietro. Le mani, distese lungo i fianchi, cominciarono ad aprirsi e a chiudersi,

mentre le stelle sul pavimento divampavano di una luce argentea e accecante, così intensa

da farle venire le lacrime agli occhi. Jace era diventato una sagoma sinuosa su uno sfondo

di argento abbagliante, come le si trovasse nel cuore di una cascata. Tutto attorno a loro,

sussurri deboli e incomprensibili.

Sotto lo sguardo di Clary, Jace si buttò sulle ginocchia, puntando le mani contro il

pavimento. Le si strinse il cuore. Avere i Fratelli Silenti in testa l'aveva quasi fatta svenire,

ma Jace era più forte, no? Il ragazzo intanto si piegò lentamente in due, tenendosi le mani

strette contro lo stomaco, provando dolore in ogni cellula del corpo. Nonostante tutto, non

lanciò un solo grido. Clary non resistette: si lanciò verso di lui, in mezzo a quelle tascate di

luce, e gli si inginocchiò accanto. I sussurri che sentiva attorno a sé si trasformarono in un

coro di proteste mentre Jace girava la testa e la guardava. La luce d'argento gli aveva

cancellato gli occhi, che ora erano bianchi e inespressivi come lastre di marmo. Con le

labbra sillabò il suo nome, Clary.

E poi più niente: la luce, il rumore, tutto sparito, finché i due ragazzi si ritrovarono

inginocchiati insieme sul pavimento nudo del padiglione, circondati da ombre e silenzio.

Jace stava tremando; quando liberò una mano dall'altra, Clary notò che sanguinavano

entrambe nei punti in cui le unghie si erano conficcate nella carne. Senza smettere di

tenerlo per il braccio, alzò lo sguardo verso i Fratelli Silenti, ricacciando indietro la rabbia.

Sapeva che sarebbe stato come prendersela con un medico che aveva dovuto

somministrare un trattamento doloroso ma in grado di salvare la vita. Eppure era difficile,

troppo difficile, con qualcuno che si ama...

C'è qualcosa che non ci hai detto, Clarissa Morgenstern, esordì fratello Zaccaria. Un segreto

che entrambi state nascondendo.

Clary si sentì chiudere il cuore dentro una morsa di ghiaccio. — Che cosa vuoi dire?

Su questo ragazzo c'è il Marchio della Morte. A parlare era un altro dei Fratelli. Enoch,

pensò.

— Morte? — disse Jace. — Vuoi dire che morirò? — Non sembrava sorpreso.

Vuol dire che sei stato morto. Avevi oltrepassato il Portale ed eri entrato nel regno delle ombre,

con l'anima slegata dal corpo.

Clary e Jace si scambiarono uno sguardo. Lei deglutì. — L'Angelo Raziel... — disse.

Sì, il suo Marchio è anche sul ragazzo. La voce di Enoch era priva di emozioni. Ci sono solo

due strade per riportare in vita i morti: una è la negromanzia, la magia nera della campana, del

libro e della candela. Quella riporta una parvenza di vita. Ma solo la mano destra di un Angelo di

Dio può riportare l'anima di un mortale nel suo corpo con la stessa facilità con cui il primo alito di

vita è stato soffiato dentro al primo uomo. Scosse la testa. L 'equilibrio della vita e della morte, del

bene e del male, è delicato, giovani Shadowhunters. Voi lo avete alterato.

— Ma Raziel è l'Angelo — disse Clary. — Può fare quello che vuole. Voi lo venerate,

giusto? Se ha scelto di fu re questa cosa...

Lo ha fatto? Chiese un altro dei fratelli. Ha davvero scelto?

—Io... — Clary guardò Jace. Avrei potuto chiedere qualunque cosa nell'universo. La pace nel

mondo, la cura per qualche malattia, la vita eterna. Ma l'unica cosa che desideravo eri tu.

Conosciamo il rituale degli Strumenti, disse Zaccaria. Sappiamo che chi li possiede tutti, chi è il

loro signore, può fare all'Angelo una richiesta. Non credo che avrebbe potuto scegliere di dirti di no.

Clary alzò il mento. — Comunque, quello che è fatto è fatto — disse.

Jace fece l'ombra di una risata. — Potrebbero sempre uccidermi, lo sai? Per riportare

l'equilibrio.

Lei gli strinse la mano attorno al braccio. — Non essere ridicolo — gli disse, ma solo con

un filo di voce. Si irrigidì ancora di più quando fratello Zaccaria si allontano dagli altri e si

avvicinò a loro due, facendo scivolare deliziosamente i piedi sopra le Stelle Parlanti. Si

mise davanti a Jace, e Clary dovette resistere all'impulso di spingerlo via mentre il Fratello

si chinava e metteva le lunghe dita sotto il mento del ragazzo, sollevandogli il viso. Non

solo erano lunghe, ma anche affusolate e lisce: in pratica, le dita di un giovane. Prima di

allora Clary non aveva mai pensato troppo a che età potessero avere i Fratelli Silenti,

dando per scontato che fossero tutti dei vecchi grinzosi.

Jace, in ginocchio, alzò lo sguardo verso fratello Zaccaria, che lo ricambiò con

espressione cieca e impassibile. Clary non poteva fare a meno di pensare agli affreschi

medievali dei santi inginocchiati, con lo sguardo alzato e i visi soffusi di luce aurea. Se fossi

stato qui, disse il Fratello con voce sorprendentemente gentile, quando stavi crescendo, avrei

visto la verità sul tuo volto, Jace Lightwood, e riconosciuto la tua identità.

Jace aveva l'aria sbalordita, ma non si mosse per allontanarsi.

Fratello Zaccaria si rivolse agli altri. Non possiamo né dobbiamo fare del male al ragazzo. Fra

gli Herondale e I Fratelli esistono vecchi legami, e noi gli dobbiamo aiuto.

— Aiuto per cosa? — chiese Clary. — Vedi qualcosa di strano in lui? C'è qualcosa nella

sua testa?

Quando viene al mondo uno Shadowhunter, si esegue un rituale, e sia i Fratelli Silenti sia le

Sorelle di Ferro compiono sul nuovo arrivato un certo numero di incantesimi volti a proteggerlo.

Le Sorelle di Ferro, Clary sapeva dai suoi studi, erano la setta parallela ai Fratelli Silenti;

ancora più riservata della controparte maschile, aveva l'incarico di forgiare le armi degli

Shadowhunters.

Fratello Zaccaria proseguì. Quando Jace è morto e resuscitato, è nato una seconda volta, ma

non ha ricevuto alcun rituale di protezione. In questo modo è rimasto vulnerabile, esposto a

qualsiasi genere di influenza o avversione demoniaca.

Clary si inumidì le labbra, secche. — Cioè è stato posseduto?

Non è stato posseduto. Subisce un'influenza. Il mio aspetto, Jonathan Herondale, è che una

potente forza demoniaca ti stia sussurrando nelle orecchie. Tu sei forte, la combatti, ma lei ti

consuma come fa il mare con la sabbia.

— Jace — sussurrò il ragazzo attraverso le labbra esangui. — Jace Lightwood, non

Herondale.

— Come fai a essere sicuro che si tratta di un demone? E cosa possiamo fare per

convincerlo a lasciarlo in pace? — chiese Clary, preferendo concentrarsi sulle questioni

pratiche.

Enoch, con l'aria pensierosa, rispose: — Occorre eseguire un altro rituale per fornirgli le

protezioni, come se tosse appena nato.

— E tu lo puoi fare? — lo incalzò Clary.

Fratello Zaccaria inclinò la testa da un lato. Si può fare. È necessaria una preparazione, va

convocata una delle Sorelle di Ferro, forgiato un amuleto... La voce gli si affievolì. Jonathan deve

rimanere con noi finché il rito non sarà concluso. Questo per lui è il posto più sicuro.

Clary guardò di nuovo Jace, in cerca di un'espressione, di speranza, sollievo o gioia, una

qualsiasi. Invece il suo volto era impassibile. — Per quanto? — chiese.

Fratello Zaccaria allargò le mani sottili. Un giorno, forse due. Il rituale è pensato per dei

neonati; dovremo modificarlo, per adattarlo a un adulto. Se tu avessi più di diciotto anni, sarebbe

impossibile. Già così non sarà semplice, ma non è detto che non si possa fare.

Non è detto che non si possa fare. Non era quello che Clary sperava di sentire; avrebbe

voluto scoprire che si trattava di un problema da nulla, facilmente risolvibile. Guardò Jace.

Aveva la testa piegata, coi capelli che gli cascavano in avanti. La parte posteriore del collo

le sembrava così vulnerabile da farle sentire una fitta al cuore.

— Va bene — disse piano Clary. — Resterò qui con te e...

No. I Fratelli parlarono in gruppo, con un'unica, inesorabile voce. Lui deve rimanere qui da

solo. Visto quel lo che dobbiamo fare, non può permettersi distrazioni.

Clary sentì il corpo di Jace che entrava in tensione. L'ultima volta che erano stati soli

nella Città Silente, lui era stato ingiustamente imprigionato, aveva assistito alle orribili

morti di quasi tutti i Fratelli e subito le angherie di Valentine. Clary non poteva non pensa-

re che un'altra notte da solo in quel luogo gli avrebbe portato solo guai.

— Jace — gli sussurrò. — Farò tutto quello che vuoi tu. Se tu preferisci...

— Resto — dichiarò il ragazzo. Aveva sollevato la testa e parlava in tono forte e chiaro.

— Resto. Farò qualsiasi cosa, per sistemare questa faccenda. Devo soltanto chiamare Izzy e

Alec per dire... che resto a casa di Simon a tenerlo d'occhio. Tu spiegagli che li vedrò

domani o dopo.

— Ma...

— Clary. — Le prese dolcemente entrambe le mani e le racchiuse fra le sue. — Avevi

ragione. Questa cosa non arriva da me, è opera di qualcuno. Qualcuno che vuol fare del

male a me, a noi. Sai cosa vuol dire? Che se... mi potranno curare... non avrò più paura di

starti vicino. E per questo passerei nella Città Silente cento notti.

Lei si sporse in avanti, incurante della presenza dei Fratelli, e lo baciò appoggiando

lievemente le labbra su quelle di lui. — Ci vediamo presto — gli sussurrò. — Do mani

sera, dopo la festa agli Ironworks, torno qui da te.

La speranza negli occhi di lui bastava a spezzarle il cuore — Magari per allora mi

avranno già guarito.

Clary gli toccò il viso con la punta delle dita. — Sì, forse sì.

Simon si alzò, ancora esausto dopo una lunga notte di brutti sogni. Rotolò sulla schiena e

rimase a fissare la luce che entrava dall'unica finestra della camera da letto.

Non poteva fare a meno di chiedersi se avrebbe dormito meglio facendo quello che

facevano tutti gli altri vampiri, ovvero restando a letto durante il giorno. Anche se il sole

non gli dava problemi, subiva il fascino della notte, col desiderio di starsene sotto una

volta blu punteggiata di stelle. In lui c'era qualcosa che voleva vivere nell'ombra, che

percepiva la luce come la piccola puntura di un coltello... E c'era anche qualcosa che

voleva il sangue. E già aveva avuto modo di vedere cosa significava tentare di lottare

contro quell'istinto.

Si mise in piedi a fatica e si vestì a caso, per poi andare in soggiorno. C'era odore di toast

e di caffè. Jordan era seduto su uno degli sgabelli della cucina, con i capelli sparati come

sempre in tutte le direzioni e le spalle ricurve.

— Ehi, come va? — lo salutò Simon.

Jordan lo guardò. Era pallido, nonostante l'abbronzatura. — Abbiamo un problema —

gli disse.

Simon lo guardò perplesso. Non vedeva il suo coinquilino lupo mannaro dal giorno

prima, quando, tornato dall'Istituto, era crollato esausto sul letto. Non era in casa, e Simon

si era immaginato che fosse al lavoro. Forse invece era successo qualcosa. — Cosa c'è che

non va?

Ci hanno messo questo sotto la porta. — Con quelle parole Jordan gli allungò un

quotidiano piegato. Era una copia del New York Morning Chronicle, aperto su una pagina

in particolare. In alto c'era un'immagine spaventosa, la fotografia sgranata di un corpo

disteso su un pavimento, con gli arti magri come stecchini piegati in strani angoli.

Ricordava a stento una figura umana, come succede a volte con i cadaveri. Simon stava

per chiedere a Jordan perché avrebbe dovuto guardarla, quando lo sguardo gli cadde sul

testo sottostante:

RAGAZZA TROVATA MORTA

La polizia sta indagando sulla morte della quattordicenne Maureen Brown, il cui corpo è stato

rinvenuto sabato sera alle undici in un bidone della spazzatura fuori dal Big Apple Deli, sulla

Third Avenue. Anche se il dipartimento di medicina legale non ha ancora reso pubblica la causa

ufficiale del decesso, Michael Garza, proprietario del locale nonché responsabile del ritrovamento,

dice che la ragazza aveva la gola tagliata. La polizia non ha ancora individuato l'arma del delitto...

Incapace di proseguire nella lettura, Simon si lasciò cadere su una sedia. La foto era senza

dubbio quella di Maureen: riconobbe i suoi scaldabraccia arcobaleno, lo stupido cappello

rosa che indossava l'ultima volta che l'aveva vista. Mio Dio, avrebbe voluto dire. Ma le

parole non gli uscirono dalla bocca.

— Quel biglietto non diceva — disse a un tratto Jordan con voce lugubre — che se non ti

fossi presentato a quell'indirizzo, avrebbero tagliato la gola alla tua ragazza:

— No — sussurrò Simon. — Non è possibile, no. Ma se lo ricordava.

L'amica della cuginetta di Eric. Com'è che si chiama?Quella che si era presa una cotta per Simon.

Viene a tutti i nostri concerti e dice in giro di essere la sua ragazza.

Simon ricordò il telefono di lei, piccolo, rosa e ricoperto di adesivi, e ripensò a quando

Maureen lo aveva alzato per scattare una foto di loro due insieme. Il tocco della sua mano

sulla spalla, leggero come una farfalla. Quattordici anni. Si rannicchiò su se stesso,

avvolgendosi le braccia attorno al torace, quasi potesse rimpicciolirsi abbastanza da

scomparire

Capitolo 14

QUALI SOGNI POSSAN VENIRE

Jace si girava e rigirava nello scomodo letto della Città Silente. Non sapeva dove

dormissero i Fratelli e non sembrava che loro ci tenessero a rivelarlo. L'unico posto adatto

a ospitarlo durante la notte era, a quanto pareva, una delle celle sotterranee dove in genere

venivano tenuti i prigionieri. Gli avevano lasciato la porta aperta, così da non farlo sentire

un carcerato, ma neanche la fantasia più fervida avrebbe potuto trasformare quel tugurio

in un posto piacevole.

L'aria era pesante e viziata; si era tolto la maglietta ed era sdraiato sopra le coperte con

solo i jeans addosso, ma faceva ancora troppo caldo. Le pareti erano grigio scuro e

qualcuno aveva inciso nella pietra, sopra la testata del letto, le lettere JG, spingendolo a

chiedersi cosa potessero significare. Nella stanza non c'erano altro che un letto, uno

specchio crepato che restituiva a Jace un riflesso scomposto, e un lavandino. Per non

parlare poi degli spiacevoli ricordi che quel posto evocava...

I Fratelli avevano continuato a entrargli e uscirgli dalla mente tutta la notte, finché non lo

avevano ridotto a uno straccio. Data la loro riservatezza su qualunque argomento, non

aveva la minima idea se ci fossero dei progressi. Loro non sembravano contenti, ma in

fondo non lo sembravano mai.

La vera prova, lo sapeva, sarebbe stata dormire. Che cosa avrebbe sognato? Dormire,

sognare forse. Si girò a pancia in giù, affondando il viso fra le braccia. Sapeva che non

avrebbe potuto sopportare un altro sogno in cui faceva del male a Clary. Pensò che

avrebbe davvero potuto impazzire e l'idea lo terrorizzò. La morte non gli aveva mai fatto

troppa paura, ma la prospettiva di perdere la testa era forse la cosa peggiore che gli

venisse in mente. Eppure l'unico modo per andare a fondo di quella storia era

addormentarsi, perciò chiuse gli occhi e si costrinse a lasciarsi andare.

Dormì e sognò.

Era di nuovo nella valle, la valle di Idris dove aveva lottato contro Sebastian, rischiando

di morire. Era autunno, non estate inoltrata come l'ultima volta in cui c'era staio. Le foglie

iniziavano a esplodere nei colori dell'oro, del rame, dell'arancio e del rosso. Si trovava in

piedi accanto alla riva del fiumiciattolo, anzi del ruscello, che divideva la valle in due. In

lontananza vedeva qualcuno che gli stava venendo incontro; ancora non capiva chi fosse,

ma aveva il passo fermo e deciso.

Era talmente sicuro che si trattasse di Sebastian da dover attendere che lo sconosciuto

fosse veramente vicino prima di capire di essersi sbagliato di grosso. Sebastian era alto,

più alto di Jace, mentre questa persona era minuta — aveva il viso in ombra, ma era di una

testa o due più bassa di lui — con le spalle magre dei bambini e i polsi ossuti che

sbucavano dalle maniche troppo corte della maglietta.

Max

L'immagine del suo fratellino lo colpì come un pugno, buttandolo in ginocchio sull'erba

verde. La caduta non gli fece male. Tutto aveva i contorni sfocati del sogno che in realtà

era. Max aveva l'aspetto di sempre: un ragazzino con le ginocchia ossute alle soglie

dell'adolescenza e con l'infanzia ormai alle spalle. Non sarebbe mai diventato grande.

— Max — gli disse Jace. — Max, mi dispiace tanto.

— Jace. — Max rimase dov'era. Si era alzato un alito di vento, che gli toglieva i capelli

castani dalla fronte. Lo sguardo, dietro gli occhiali, era serio. — Non sono qui per me —

disse. — Non sono qui per perseguitarti o farti sentire in colpa.

Certo che no, disse una voce nella testa di Jace. Max ti ha sempre e solo amato e

ammirato. Per lui eri un grande.

— I sogni che hai avuto... sono messaggi — annunciò Max.

— I sogni sono colpa di un'influenza demoniaca. I Fratelli Silenti hanno detto che...

— Si sbagliano — disse subito Max. — Ormai sono in pochi e i loro poteri sono più

deboli di una volta. Questi sogni ti vogliono dire qualcosa, tu li hai fraintesi. Non ti stanno

dicendo di fare del male a Clary, ti stanno avvisando che già lo stai facendo.

Jace scosse la testa lentamente. — Non capisco.

— Gli angeli mi hanno mandato da te perché ti conosco — proseguì Max con la sua voce

squillante da bambino. — Lo so come sei con le persone che ami, lo so che a loro non

faresti mai volontariamente del male. Ma ancora non hai distrutto tutta l'influenza di

Valentine dentro di te. La sua voce ancora ti sussurra, tu credi di non sentirla, invece ti

sbagli. I sogni ti stanno dicendo che, finché non ucciderai quella parte di te stesso, non

potrai stare con Clary.

— Allora lo farò — rispose Jace. — Farò tutto quello che devo fare, basta che mi dici

come.

Max fece un sorriso radioso e allungò una mano che conteneva qualcosa. Era un pugnale

col manico d'argento, quello di Stephen Herondale custodito nella scatola. Jace lo

riconobbe subito. — Prendi questo — gli disse Max. — E rivolgilo contro te stesso. La

parte di te che è qui con me nel sogno deve morire. Quella che risorgerà sarà purificata.

Jace prese il coltello.

Max sorrise. — Bene. Siamo in molti qui, dal mio versante, a essere preoccupati per te.

C'è anche tuo padre.

— Non Valentine...

— Il tuo vero padre. Mi ha detto lui di farti usare questo. Eliminerà tutto il marcio dalla

tua anima.

Max sorrise come un angelo mentre Jace rivolgeva la lama del coltello verso se stesso.

Poi, all'ultimo istante, esitò. Era troppo simile a quello che gli aveva fatto Valentine,

perforandogli il cuore. Prese la lama e fece una lunga incisione lungo il braccio destro, dal

gomito al polso. Non sentiva dolore. Passò il pugnale nella mano destra e fece lo stesso

con l'altro braccio. Dalle ferite uscì un sangue molto più rosso di quello reale, del colore di

un rubino. Gli colava sulla pelle e scendeva a chiazzare l'erba.

Sentì Max che espirava piano. Il bambino si chinò e toccò il sangue con le dita della mano

destra; quando le alzò erano diventate lucide e scarlatte. Fece un passo verso di lui, poi un

altro. Così vicini, Jace gli vedeva bene il viso: pelle compatta da bambino, palpebre

traslucide, occhi... Non li ricordava così scuri. Max gli appoggiò una mano sul petto,

appena sopra il cuore, e con il sangue iniziò a fare dei segni. Era una runa. Jace non l'aveva

mai vista, era fatta di contorni sovrapposti e strani angoli.

Quando ebbe finito, Max riabbassò la mano e indietreggiò con la testa inclinata di lato,

come un artista che esamina la sua ultima opera d'arte. All'improvviso, Jace si sentì

trafiggere dal dolore: era come se la pelle del petto gli stesse bruciando. Max continuava a

guardarlo, sorridente, flettendo la mano insanguinata. — Ti fa male, Jace Lightwood? —

disse, e la sua voce non era più quella di Max ma un'altra, virile e familiare.

— Max... — sussurrò Jace.

— Hai causato dolore, e ora è dolore quello che ricevi — disse Max, il cui viso aveva

iniziato a brillare e a trasformarsi. — Hai causato sofferenza, e ora soffrirai. Adesso sei

mio, Jace Lightwood. Sei mio.

Era un dolore accecante. Jace si accasciò in avanti, con le mani aggrappate al petto, e

precipitò nelle tenebre.

Simon era seduto sul divano col viso fra le mani. La mente gli vorticava all'impazzata. —

È colpa mia — dia se. — Tanto valeva ucciderla quando ho bevuto il suo sangue. È morta a

causa mia.

Jordan era seduto scomposto sulla poltrona di fronte, indossava un paio di jeans e una t-

shirt verde sovrapposta a una maglietta a maniche lunghe con dei buchi sin polsi, dentro

cui aveva infilato i pollici. Stava esaminali do il materiale con aria preoccupata. La

medaglietta d'oro del Praetor Lupus che portava al collo luccicò. — Su, non potevi saperlo

— disse a Simon. — Quando l'ho fatta salire sul taxi stava bene. Questi tizi devono averla

catturata e uccisa in un secondo momento.

Simon si sentiva le vertigini. — Ma io l'ho morsa. Non tornerà, vero? Non diventerà un

vampiro, eh?

—No. Andiamo, conosci queste cose quanto me. Per farla diventare un vampiro avresti

dovuto darle un po' del tuo sangue. Se lo avesse bevuto e poi fosse morta, al lora saremmo

dovuti andare al cimitero e fare la guardia. Ma non è andata così.

Simon si sentì un sapore di sangue rancido in fondo alla gola. — Pensavano che fosse la

mia ragazza — disse. — Mi hanno avvertito che l'avrebbero uccisa se non mi fossi

presentato e, quando hanno visto che non arrivavo, le hanno tagliato la gola. Deve aver

aspettato tutto il giorno, chiedendosi se sarei arrivato, sperando di vedermi comparire... —

Gli si rivoltò lo stomaco, e si chinò in avanti, respirando forte, per cercare di non Soffocare.

— Sì — disse Jordan. — Ma la domanda è: chi è stato? — Lanciò a Simon uno sguardo

severo. — Penso che forse è ora che chiami l'Istituto. Non adoro gli Shadowhunters, ma ho

sempre sentito dire che i loro archivi sono dettagliatissimi. Forse possono dirti qualcosa

sull'indirizzo che c'era sul biglietto.

Simon esitò.

— E dai, ne fai di cavolate per loro. Per una volta fatti aiutare tu!

Simon scrollò le spalle e andò a prendere il cellulare. Tornato in salotto, compose il

numero di Jace. Isabelle rispose al secondo squillo. — Di nuovo tu?

Scusa — fece lui, in imbarazzo. A quanto pareva la loro breve tregua al Santuario non

era servita, come lui aveva sperato, a renderla più tenera nei suoi confronti. — Cercavo

Jace, ma forse posso parlare anche con te...

— Galante come sempre — ribatté Isabelle. — Pensavo che Jace fosse da te.

— No — disse l'altro, provando un senso di disagio. — Chi te l'ha detto?

— Clary. Forse sono andati di nascosto da qualche parte per stare un po' insieme. —

Isabelle non sembrava preoccupata, e neanche aveva torto: l'ultima persona che avrebbe

mentito su Jace, se lui si fosse trovato in pericolo, era proprio Clary. — Comunque Jace ha

dimenticato il telefono in camera sua. Se lo vedi, ricordagli che questa sera deve venire

agli Ironworks per la festa. Se non si fa vedere, Clary lo ammazza.

Simon si era quasi dimenticato che anche lui quella sera avrebbe dovuto partecipare.

— Giusto — disse. — Senti, Isabelle, c'è un problema...

— Spara. Adoro i problemi.

— Ma non so se adorerai anche questo — rispose lui, in tono incerto, prima di spiegarle

la situazione nei dettagli. Quando arrivò alla parte del morso a Maureen, Isabelle sussultò,

e lui si sentì un groppo in gola.

— Simon... — sussurrò la ragazza.

— Lo so, lo so — fece lui, disperato. — Pensi che non mi dispiaccia? Molto peggio, sono

distrutto!

— Uccidendola avresti infranto la Legge. Saresti stato un criminale e io avrei dovuto

uccidere te.

— Ma non l'ho fatto — affermò con la voce che gli tremava leggermente. — Non l'ho

fatto. Jordan giura che, quando l'ha messa sul taxi, stava bene. E i giornali dicono che le

hanno tagliato la gola, cosa che io non ho fatto. È stato qualcun altro, che vuole arrivare a

me. Solo che non ne capisco il motivo!

— Comunque non abbiamo ancora finito con questa storia. — Aveva la voce seria. —

Ora però vai a prendere il messaggio che ti hanno lasciato e leggimelo ad alta voce.

Simon fece come richiesto, e in cambio ricevette, da parte di Isabelle, un sussulto di

stupore.

— Sì, ho già sentito quell'indirizzo — disse. — È dove Clary mi ha detto di incontrarla

ieri. Si tratta di una chiesa nell'Upper West Side, il quartier generale di non so quale setta

demoniaca.

— E che cosa può volere da me una setta del genere? — chiese Simon, ricevendo da

Jordan, che stava ascoltando la conversazione solo per metà, uno sguardo curioso.

— Non lo so. Tu sei un Daylighter, hai dei poteri pazzeschi. Sarai sempre preso di mira

da pazzi e fanatici di magia nera, ti devi rassegnare. — Simon pensò che Isabelle avrebbe

anche potuto essere un po' più comprensiva. — Senti, vai alla festa degli Ironworks,

giusto? Possiamo incontrarci lì e discutere sul da farsi. Racconterò tutto a mia madre:

stanno già indagando sulla Chiesa di Talto, perciò aggiungeranno anche questa storia alle

altre informazioni.

— Okay — disse Simon, anche se l'ultima cosa al mondo di cui aveva voglia era proprio

andare a una festa.

— E porta anche, Jordan — gli raccomandò Isabelle. — Ti può servire una guardia del

corpo.

— Non posso, ci sarà anche Maia.

Con lei ci parlo io. — Sembrava molto più sicura di sé di quanto non sarebbe stato lui al

suo posto. — Allora ci vediamo là.

Riattaccò. Simon si girò verso Jordan, sdraiato sul divano con la testa appoggiata a uno

dei cuscini di tessuto intrecciato. — Cosa hai sentito di quello che ci siamo detti?

— Abbastanza da capire che stasera andiamo a una festa — disse Jordan. — Ho sentito

parlare degli Ironworks, ma io non faccio parte del branco di Garroway, perciò non sono

stato invitato.

— Credo che ora ci verrai come mia dolce metà — di chiaro Simon mettendosi il

cellulare in tasca.

— Okay, sono abbastanza sicuro della mia virilità da potermi permettere di farlo —

dichiarò Jordan. — Però sarà meglio trovarti qualcosa di carino da indossare — gridò

mentre Simon tornava in camera sua. — Ti voglio bellissima!

Anni prima, quando la zona di Long Island City, nel Queens, era un centro industriale

anziché un quartiere pieno di gallerie d'arte e di caffetterie, gli Ironworks erano una

fabbrica di tessuti. Ora invece quell'enorme involucro di mattoni era stato trasformato in

uno spazio spoglio ed essenziale ma splendido. Il pavimento era fatto di quadrati

sovrapposti in acciaio satinato; dei tubi sottili, dello stesso materiale, formavano arcate che

arrivavano fino al soffitto, avvolte da fili di lucine bianche. Alcune elabora te scale di ferro

battuto salivano a spirale e raggiungevano delle passerelle decorate con alcune piante

appese, mentre un immenso soffitto a vetrata offriva una vista spettacolare del firmamento

notturno. C'era persino una terrazza all'aperto, costruita sopra l'East River, da cui si

godeva un bellissimo panorama della Street Bridge Cinquantanove sima che incombeva

dall'alto, estendendosi dal Queens a Manhattan come una lancia di ghiaccio scintillante.

Il branco di Luke aveva superato se stesso, rendendo il locale ancora più bello. Qua e là,

disposti ad arte, c'erano degli enormi vasi di peltro, con fiori bianco avorio a gambo lungo,

e dei tavoli ricoperti di lino bianco erano stati disposti a cerchio attorno un palco

sopraelevato, sul quale un quartetto d'archi di lupi mannari si stava esibendo in un

repertorio di musica classica. Clary non poteva fare a meno di pensare che avrebbe dovuto

esserci anche Simon: Lycanthrope Quartet sarebbe stato un bel nome per un gruppo.

Clary passò da un tavolo all'altro, sistemando cose che non avevano bisogno di ritocchi,

gingillandosi con i fiori e raddrizzando posate d'argento già perfettamente allineate. Fino a

quel momento si erano presentati solo pochi ospiti, e nessuno che conoscesse. Sua madre e

Luke erano in piedi accanto alla porta per accogliere tutti con un sorriso, lui a disagio nel

completo elegante e lei raggiante in un vestito blu di taglio sartoriale. Dopo gli eventi degli

scorsi giorni, era bello vedere sua madre felice, anche se Clary si chiese quanto ci fosse di

vero e quanto di studiato. L'espressione della bocca di Jocelyn mostrava un accenno di

tensione sufficiente a farla preoccupate: era davvero felice o rideva ma dentro di sé

soffriva?

Non che Clary non sapesse come si potesse sentire sua madre. Qualsiasi cosa la

circondava, lei non riusciva a togliersi di testa Jace. Che cosa gli stavano facendo i fratelli

Silenti? Stava bene? Sarebbero riusciti a risolvete il suo problema, a bloccare l'influenza

demoniaca? Il giorno prima aveva passato una notte insonne, fissando l'oscurità della sua

stanza e preoccupandosi fino a sentirsi fisicamente male.

Più di ogni altra cosa, lo avrebbe voluto lì con sé. Si era scelta il vestito che indossava

quella sera (oro pallido, più aderente di qualsiasi cosa indossasse di solito) proprio nella

speranza di piacere a Jace; ora invece lui non lo avrebbe visto. Era stupido preoccuparsi di

un dettaglio del genere, se ne rendeva conto: se fosse servito ad aiutare Jace, avrebbe

passato il resto dei suoi giorni infilata in un barile di legno. E poi lui le ripeteva sempre

che era bellissima, senza mai lamentarsi del fatto che portasse quasi sempre jeans e scarpe

da tennis. Quell'abito, però, gli sarebbe piaciuto.

Quella sera, in piedi davanti allo specchio, lei stessa si era quasi sentita bella. Sua madre

le diceva sempre di essere "sbocciata tardi" e Clary, guardando la propria immagine

riflessa, si era domandata se la medesima cosa stesse succedendo anche a lei. Non era più

piatta come una tavola da surf: in quell'ultimo anno doveva aver messo una taglia di

reggiseno in più, e se guardava bene... Sì, quelli erano proprio fianchi. Aveva delle curve!

Delicate sì, ma da qualche parte si doveva pur iniziare.

Con i gioielli c'era andata piano, anzi pianissimo.

Alzò una mano per toccarsi l'anello dei Morgenstern, sulla catenella che portava al collo.

Quella mattina se lo era messo di nuovo, per la prima volta dopo giorni. Lo vedeva come

un gesto di tacita fiducia nei confronti di Jace, un modo per segnalare lealtà nei suoi

confronti, che lui lo sapesse o no. Aveva deciso che lo avrebbe indossato fino a quando si

sarebbero rivisti.

— Clarissa Morgenstern? — disse una voce gentile alle sue spalle.

Clary si voltò, sorpresa; quella voce le suonava nuova. Vide una ragazza alta e magra, di

circa vent'anni. Aveva la pelle bianca come latte, percorsa da vene di un verde chiaro

simile a linfa, lo stesso dei capelli. Gli occhi erano di un blu omogeneo, ricordavano delle

biglie, e l'abito a sottoveste, dello stesso colore degli occhi, era così sottile che secondo

Clary la ragazza stava sicuramente morendo dal freddo. Un ricordo le affiorò pian piano

alla mente.

— Kaelie — pronunciò Clary lentamente dopo aver riconosciuto la cameriera di Taki che

più di una volta aveva servito lei e i Lightwood. Per una frazione di secondo si ricordò

che, stando a certe voci, lei e Jace avrebbero avuto una breve storia, ma considerato tutto

quello che era successo non riusciva a preoccuparsene. — Non sapevo che... Conosci

Luke?

— Non scambiarmi per un'invitata — le disse lei, facendo un gesto di noncuranza. — La

mia signora mi ha mandata qui per cercarti, non per farmi partecipare ai festeggiamenti.

— Guardò incuriosita oltre le spalle di Clary, con quegli occhi tutti blu che luccicavano. —

Comunque, non sapevo che tua madre sposasse un lupo mannaro.

Clary sollevò le sopracciglia. — E quindi?

Kaelie la squadrò dall'alto in basso, piuttosto divertita. — La mia signora me l'aveva

detto che eri tosta, malgrado la tua taglia minuta. Con una statura come la tua, alla Corte ti

guarderebbero male.

— Non siamo alla Corte — ribatté Clary. — E non siamo nemmeno da Taki, il che

significa che sei stata tu a venire da me, il che significa che hai cinque secondi per dirmi

cosa vuole la Regina Seelie. Non mi sta molto simpatica, e non sono dell'umore giusto per

i suoi giochetti.

Kaelie le puntò alla gola un dito sottile, con l'unghia verde. — La mia signora ha detto di

chiederti perché porti l'anello dei Morgenstern. È un tributo a tuo padre?

Clary si portò di scatto una mano al collo. — È per Jace. Perché me lo ha regalato lui —

rispose, senza riuscire a trattenersi, dopodiché si diede della stupida da sola. Non era

saggio raccontare alla Regina Seelie più del necessario.

— Ma lui non è un Morgenstern — sottolineò Kaelie — bensì un Herondale, e loro

hanno il loro anello, con disegnati degli aironi anziché delle stelle del mattino. Non pensi

che gli si addica di più un'anima che si solleva come un uccello in volo anziché una che

precipita come Lucifero?

— Kaelie — ringhiò Clary fra i denti. — Cosa-vuole-la-Regina.

La fata scoppiò a ridere. — Che caratteraccio. Voleva solo farti avere questo. — Allungò

una mano, dentro la quale teneva un ciondolo a forma di minuscolo campanello d'argento,

con un anellino in cui si poteva infilare una catenella. Kaelie, muovendo la mano, lo aveva

fatto suonare, dolce e leggero come pioggia.

Clary si ritrasse. — Non li voglio i regali della tua signora — disse. — Perché sono

carichi di bugie e di aspettative. Non voglio essere in debito con la Regina.

— Non si tratta di un regalo — ribatté Kaelie, impaziente — ma di uno strumento

d'evocazione. La Regina ti perdona per la tua passata testardaggine e prevede che presto

arriverà il giorno in cui vorrai il suo aiuto. Lei è disposta a offrirtelo, nel caso tu decidessi

di chiederglielo. Se farai suonare il campanello, un servo della Corte verrà a prenderti e ti

porterà da lei.

Clary scosse la testa. — Non lo userò. Kaelie fece spallucce. — Prenderlo non ti costa

niente. Come in un sogno, Clary vide la propria mano che si allungava e le dita che si

chiudevano sopra il ciondolo.

Faresti qualsiasi cosa per salvarlo — disse Kaelie con voce dolce e acuta come il trillo del

campanello. — A ogni costo, non importa quanto dovresti pagare all'inferno o al paradiso.

Dico bene?

Nella testa di Clary risuonarono delle voci. Ti sei mai soffermata a pensare a quali non

verità ci potrebbero essere nella storia che tua madre ti ha raccontato, visto che il suo

racconto era funzionale al suo scopo! Credi davvero di conoscere ogni singolo segreto del

tuo passato!

Madame Dorothea disse a Jace che si sarebbe innamorato della persona sbagliata.

Già così non sarà semplice, ma non è detto che non ce la si possa fare.

Quando Clary strinse il campanello, chiudendolo nel palmo della mano, lo sentì suonare.

Kaelie sorrise, con gli occhi blu che brillavano come biglie di vetro. — Saggia decisione.

Clary esitò. Ma prima di poter rimettere il campanello in mano alla fata, sentì qualcuno

che la chiamava e, quando si voltò, vide sua madre che si faceva largo fra gli invitati per

raggiungerla. Si rigirò di scatto, ma non fu sorpresa di scoprire che Kaelie se n'era andata,

dileguandosi tra la gente come la bruma mattutina al sorgere del sole.

— Clary — disse Jocelyn raggiungendola. — Ti stavo cercando, poi Luke ti ha indicata,

qui in piedi tutta sola. Stai bene?

Qui in piedi tutta sola. Clary si chiese quale genere d'incantesimo avesse usato Kaelie,

perché in teoria sua madre era capace di riconoscerli quasi tutti. — Tutto a posto, mamma.

— Dov'è Simon? Pensavo stesse arrivando. Ovviamente sua madre pensava prima a

Simon che a

Jace, pensò Clary. Anche Jace era invitato, e per di più in veste di suo fidanzato ufficiale,

quindi avrebbe dovuto presentarsi con un certo anticipo. — Mamma — disse la ragazza,

poi fece una pausa. — Pensi che un giorno riuscirai a farti piacere Jace?

I verdi occhi di Jocelyn si addolcirono. — Guarda che mi sono accorta che non c'è. Ma

non sapevo se avevi voglia di parlarne.

— Cioè... — continuò Clary, imperterrita. — C'è qualcosa che potrebbe fare per piacerti

di più?

— Sì — rispose Jocelyn. — Potrebbe rendere felice te. — Sfiorò dolcemente il viso della

figlia e Clary strinse la mano in cui teneva il campanello.

— Lui mi rende felice, mamma, ma non può controllare tutto quello che accade al

mondo. Succedono delle cose che... — fece Clary, annaspando in cerca di parole. Come

faceva a spiegarle che non era Jace a renderla infelice ma quello che stava succedendo a

lui, senza però dirle di cosa si trattava?

— Lo ami così tanto — disse piano Jocelyn — che la cosa mi spaventa. Io ho sempre

desiderato proteggerti.

— E guarda com'è andata a finire — iniziò Clary, ma poi addolcì il tono di voce. Non era

il momento di incolpare sua madre o di litigare, non ora. Non con Luke che le guardava

dall'ingresso, con il viso acceso dall'amore e dall'ansia. — Se solo tu lo conoscessi,

mamma... — concluse Clary, in tono un po' sfiduciato. — Ma credo che tutte dicano la

stessa cosa quando parlano del loro ragazzo.

— Hai ragione — le disse Jocelyn, sorprendendola. — Non lo conosco, non bene. Lo

vedo, e in un certo senso mi ricorda un po' sua madre. Non so perché: non le assomiglia,

tranne per il fatto di essere anche lui molto bello e altrettanto vulnerabile...

— Vulnerabile? — Clary era allibita. Mai aveva immaginato che qualcuno, oltre a lei,

potesse associare Jace alla parola vulnerabilità.

— Oh, sì — proseguì Jocelyn. — Volevo odiarla per aver portato via Stephen da Amatis,

ma non si poteva non proteggere Celine. Ecco, Jace ha un po' di quell'aspetto. — Parlava

come se fosse assorta nei ricordi. — O forse e perché le cose più belle sono quelle che il

mondo può rompere più facilmente. — Abbassò la mano. — Non fa niente. Ho i miei

ricordi con cui fare i conti, ma restano comunque i miei. Jace non deve portarsi addosso il

loro peso. Però una cosa te la voglio dire: se non ti amasse come ti ama, perché ce l'ha

scritto in faccia ogni volta che ti guarda, non lo sopporterei nemmeno un secondo.

Ricordatelo, quando sei arrabbiata con me!

Liquidò con un sorriso il tentativo di Clary di spiegare che non era affatto arrabbiata con

lei e, prima di tornare da Luke, fece alla figlia un'ultima richiesta: non restare in disparte e

raggiungi gli altri invitati. Clary annuì e non disse nulla, restando a guardare la madre che

si allontanava. Nel palmo della mano sentiva il campanello che le scottava la pelle, come la

punta di un fiammifero acceso.

Nella zona attorno agli Ironworks c'erano per lo più magazzini e gallerie d'arte. Un

genere di quartiere, insomma, che la sera si svuota, così Jordan e Simon non ci misero

molto a trovare parcheggio. Quando Simon saltò giù dal furgone, vide che l'altro era già in

piedi sul marciapiede che lo scrutava con sguardo critico. Non si era preso nessun vestito

elegante quando se n'era andato da casa — niente di meglio che un giubbotto imbottito

appartenuto una volta al padre -, perciò aveva trascorso il pomeriggio con Jordan nell'East

Village, a setacciare i negozi alla ricerca del look giusto per la serata. Alla fine avevano

trovato un vecchio completo di Ermenegildo Zegna in un negozio di seconda mano, il

Love Saves the Day, specializzato in stivali luccicanti con la zeppa e sciarpe Pucci anni

Sessanta. Simon sospettò che fosse proprio quello il negozio di fiducia di Magnus...

— Cosa c'è? — chiese a Jordan, riassettandosi con imbarazzo le maniche della giacca.

Era un po' piccola per lui, anche se secondo Simon sarebbe bastato evitare di abbottonarla,

così nessuno ci avrebbe fatto caso. — Quanto sto male?

Jordan fece spallucce. — Non infrangerai nessuno specchio — gli disse. — Mi stavo solo

chiedendo se fossi armato. Serve niente? Un pugnale, magari? — Si sollevò appena un

lembo della giacca, e Simon notò qualcosa di lungo e metallico che luccicava contro la

fodera interna.

— Ora capisco perché tu e Jace andate così d'accordo. Siete tutti e due degli folli arsenali

ambulanti! — Simon scosse la testa, esasperato, e si incamminò verso l'ingresso degli

Ironworks. Era, dall'altra parte della strada, un grosso tendone dorato che copriva un

rettangolo di marciapiede abbellito da un tappeto rosso scuro su cui campeggiava

l'immagine, anch'essa in oro, di un lupo. Simon non poteva fare a meno di esserne un po'

divertito.

Appoggiata a uno dei pali che sorreggevano il tendo ne c'era Isabelle. Aveva i capelli

raccolti e indossava un vestito rosso lungo, con uno spacco laterale che scopriva quasi

tutta la gamba. Il braccio destro era decorato in una serie di cerchi d'oro. Sembravano

braccialetti, ma Simon sapeva che in realtà era la sua frusta elettrica. Era ricoperta di

marchi che le serpeggiavano sulle braccia, scendevano sulla coscia, le circondavano il collo

e le decoravano il petto, in gran parte visibile grazie alla profonda scollatura del vestito.

Simon si sforzò di non restare a fissarla.

— Ehi, Isabelle — disse.

Accanto a lui, anche Jordan stava cercando di non indugiare troppo con lo sguardo. —

Ehm, piacere — disse. — Mi chiamo Jordan.

— Ci siamo già incontrati — rispose Isabelle con freddezza, ignorando la mano tesa del

ragazzo. — Maia aveva cercato di strapparti la faccia a unghiate. E piuttosto a ragione,

direi.

Jordan sembrava preoccupato. — Lei c'è? Sta bene?

— Sì, è qui. Ma come si sente lei non credo siano affari tuoi...

— Provo un senso di responsabilità nei suoi confronti — disse Jordan.

— E dove si trova questa sensazione? Nelle mutande, per caso?

Jordan fece un'espressione indignata.

Isabelle rispose con un rapido cenno della sua mano sottile e decorata. — Senti, quello

che hai fatto in passato è passato. So che ora fai parte del Praetor Lupus e ho spiegato a

Maia cosa significa. È disposta ad accettare la tua presenza e a ignorarla, ma di più non

avrai. Non le dare fastidio, non cercare di rivolgerle la parola, non la guardare nemmeno,

altrimenti ti piegherò in due talmente tante volte che diventerai il mini origami di un lupo

mannaro.

Simon fece una smorfia.

— Zitto tu — gli disse Isabelle puntandogli un dito contro. — Non vuole parlare

nemmeno con te. Quindi, anche se stasera è stupenda (e ti assicuro che, se mi piacessero le

donne, io mi prenderei lei) nessuno di voi due ha il permesso di parlarle. Intesi?

I ragazzi annuirono, guardandosi la punta delle scarpe come degli scolaretti appena

spediti in punizione dalla maestra.

A quel punto Isabelle si scollò dal palo. — Perfetto. Su, entriamo!

Capitolo 15

BEATI BELLICOSI[eBL 041] Cassandra Clare - città degli angeli caduti[by Pico & Elena77]

L’ interno degli Ironworks era acceso da fili di luci brillanti e coloratissime. Un buon

numero di ospiti aveva già preso posto, ma almeno altrettanti continuavano a girovagare

tenendo in mano bicchieri di champagne pieni di liquido pallido e frizzante. I camerieri

(anche loro lupi mannari, notò Simon, come del resto anche gli altri membri dello staff,

tutti del branco di Luke) si muovevano tra gli ospiti offrendo i flùte. Simon ne rifiutò uno.

Dopo l'esperienza avuta alla festa di Magnus, non si era più fidato a bere niente che non

avesse preparato lui personalmente.

Maia era in piedi accanto a una delle colonne di mattoni; parlava con altri due lupi

mannari e rideva. Indossava un vestito aderente di seta arancio che le metteva in risalto la

carnagione scura, e i capelli erano un intreccio selvaggio di riccioli castano dorato che le

incorniciavano il viso. Quando si accorse di Simon e di Jordan, si girò di proposito

dall'altra parte. Il dietro del vestito aveva un profondo scollo a V che lasciava scoperta

molta pelle nuda, compreso il tatuaggio di una farfalla in fondo alla schiena.

— Non mi sembrava che ce l'avesse quando ci siamo conosciuti — disse Jordan. — Il

tatuaggio, intendo.

Simon lanciò un'occhiata al ragazzo. Aveva gli occhi fuori dalle orbite e guardava la sua

ex con un desiderio così palese che, se non fosse stato attento, temeva gli sarebbe costato

un bel pugno in faccia da Isabelle. — Dai — gli disse mettendogli una mano sulla schiena e

spingendolo leggermente. — Andiamo a vedere dove siamo seduti.

Isabelle, che nel frattempo li aveva tenuti d'occhio di nascosto, fece un sorriso sornione.

— Bravi, ottima idea.

Si fecero strada tra la folla e raggiunsero la zona dei tavoli, scoprendo che il loro era già

quasi tutto al completo. C'era Clary, con lo sguardo perso in un bicchiere di champagne

pieno di quello che con tutta probabilità era ginger. Seduti accanto a lei, Alec e Magnus,

entrambi con gli stessi completi neri con cui erano tornati da Vienna. Magnus sembrava

impegnato a giocherellare con le frange della sciarpa; Alec, con le braccia incrociate al

petto, guardava lontano con sguardo furente.

Quando Clary vide Simon e Jordan saltò in piedi, chiaramente sollevata. Aggirò il tavolo

per salutarlo, e Simon vide che indossava un vestito di seta giallo oro molto semplice e dei

sandali bassi dello stesso colore. Senza i tacchi a slanciarla, sembrava uno scricciolo.

Attorno al collo portava l'anello dei Morgenstern, il cui argento luccicava contro la

catenella in cui era infilato. Clary si sollevò sulle punte per abbracciarlo e gli sussurrò: —

Credo che Alec e Magnus abbiano litigato.

— Sì, sembrerebbe — bisbigliò lui a sua volta. — Dov'è il tuo fidanzato?

A quella domanda, Clary gli stacco le braccia dal collo. — Lo hanno bloccato all'Istituto.

— Si voltò. — Ehi, Kyle!

L'altro sorrise, un po' imbarazzato. — In realtà sarei Jordan.

— Sì, ho saputo. — A quel punto Clary indicò il tavolo. — Be', direi che possiamo anche

sederci. Penso che fra poco ci sarà il brindisi e tutto il resto. Ah, poi anche il cibo, spero.

Tutti si accomodarono; seguì un silenzio lungo e imbarazzato.

— Dunque, Jordan — disse a un tratto Magnus, facendo scorrere un dito lungo e bianco

attorno al bordo del bicchiere di champagne. — Ho sentito dire che sei nel Praetor Lupus e

vedo che indossi una delle loro medagliette. Cosa c'è scritto?

Jordan annuì. Aveva le guance rosse e gli occhi verde nocciola che gli brillavano: si

vedeva che solo una parte della sua attenzione era rivolta alla conversazione. Con lo

sguardo seguiva Maia per tutto il locale, stringendo e poi allentando le dita attorno al

bordo della tovaglia. Simon era certo che nemmeno se ne rendesse conto. — Beati bellicosi.

Benedetti siano i guerrieri.

— Bella organizzazione — osservò Magnus. — Ho conosciuto il fondatore, nel lontano

Ottocento. Si chiamava Woolsey Scott, di una stimata famiglia di lupi mannari.

Alec fece un suono orrendo con la gola. — E hai dormito anche con lui?

Gli occhi da gatto di Magnus si spalancarono. — Alexander!

In fondo non so niente del tuo passato, o mi sbaglio? — ribatté l'altro. — Tu non vuoi

parlarne. Per te non conta e basta!

L'espressione sul viso di Magnus era impassibile, ma nella voce c'era un accenno di

disappunto. — Questo significa che tutte le volte che citerò una persona che ho conosciuto

tu mi chiederai se siamo stati insieme?

Alec aveva l'aria inflessibile, ma Simon non riusciva a fare a meno di provare

comprensione: dietro a quegli occhi azzurri, il dolore era evidente. — Forse.

— Una volta incontrai Napoleone — disse Magnus. — Però non ci fu nessuna storia. Per

essere un francese, era sorprendentemente bigotto.

— Hai incontrato Napoleone?! — Jordan, che a quanto pareva si era perso gran parte

della conversazione, era molto colpito. — Allora è vero quello che dicono sugli stregoni?

Alec gli lanciò un'occhiata decisamente sgradevole. — Cosa dovrebbe essere vero, scusa?

— Alexander — disse Magnus con freddezza, mentre gli occhi di Clary si incrociavano

con quelli di Simon sopra il tavolo. Quelli di lei erano grandi, verdi e con un'espressione

che diceva oh-oh. — Non puoi essere scortese con chiunque mi rivolga la parola.

Alec reagì al commento con un ampio gesto della mano. — E perché no? Ti sto facendo

sfigurare? Eh già, magari speravi di provarci anche con questo lupo mannaro. Piuttosto

carino, se ti piace il genere capello sconvolto, spalle larghe e lineamenti perfetti.

— Ehi, senti... — fece Jordan con calma. Magnus mise la testa fra le mani.

— Oh, qui ci sono anche un sacco di ragazze, dato che a quanto pare per te non fa

differenza. Ma qualcosa che non ti piace esiste?

— Le sirene — disse Magnus dietro le dita. — Sanno sempre di alghe marine.

— Non fa ridere — rispose Alec, infuriato. Buttò la sedia all'indietro, si alzò da tavola e

si allontanò fra gli invitati.

Magnus continuava a tenere la testa fra le mani, con le punte nere dei capelli che gli

sbucavano fuori dalle dita. — Non riesco a capire — disse a nessuno in particolare. —

Perché il passato deve essere così importante?

Con grande sorpresa di Simon, fu Jordan a rispondere. — Il passato conta sempre —

dichiarò. — È questo che ti dicono quando entri nel Praetor. Non puoi dimenticare quello

che hai fatto, altrimenti non imparerai mai la lezione.

Magnus alzò lo sguardo, con gli occhi verde-oro che luccicavano fra le dita. — Quanti

anni hai? — gli chiese. — Sedici?

— Diciotto — rispose Jordan, con un'espressione vagamente spaventata.

L'età di Alec, pensò Simon, soffocando dentro di sé un sorriso. In realtà non trovava

divertente la scenata di Alec e Magnus, ma guardando l'espressione dello stregone era

difficile non provare una certa allegria amara. Jordan era alto il doppio di Magnus — ma

così magro da essere quasi pelle e ossa — eppure era chiaramente intimorito da lui. Simon

si girò per incrociare lo sguardo di Clary, ma lei stava guardando verso la porta

d'ingresso, col viso che all'improvviso le era diventato bianco come uno straccio. Lasciò

cadere il tovagliolo sul tavolo, mormorò uno "scusatemi" e si alzò in piedi, praticamente

scappando Magnus alzò le mani al cielo. — Be', se ci deve essere un esodo di massa... —

disse alzandosi con garbo e lanciando la sciarpa dietro il collo. Sparì fra gli invitati,

probabilmente alla ricerca di Alec.

Simon guardò Jordan, che di nuovo aveva occhi solo per Maia. Lei era girata di spalle e

stava parlando con Luke e Jocelyn, ridendo e buttando all'indietro i riccioli. — Non ci

pensare nemmeno — disse Simon, puntati dogli un dito contro. — Tu resti qui.

— A fare cosa, scusa? — fece l'altro.

— Qualsiasi cosa farebbe un membro del Praetor Lupus in questa situazione. Medita,

rifletti sui tuoi poteri Jedi, quello che vuoi! Io torno fra cinque minuti, e farai meglio a

essere ancora qui.

Jordan si appoggiò allo schienale e incrociò le braccia al petto con l'aria di chi non voglia

sentire ordini, ma Simon già aveva smesso di guardarlo. Si girò e si mischio alla folla per

seguire Clary, un punto rosso e oro fra vari corpi in movimento, coronato da una crocchia

di capelli lucenti.

La raggiunse vicino a una delle colonne avvolte di luce e le appoggiò una mano sulla

spalla. Lei si voltò di scatto, trasalendo, con gli occhi spalancati e una mano alzata come a

tenerlo distante. Quando vide di chi si trattava, si rilassò. — Mi hai spaventata!

— Si era capito — rispose Simon. — Cosa sta succedendo? Cos'è che ti agita tanto?

— Ecco... — Clary abbassò la mano, scrollando le spalle; malgrado si sforzasse di fargli

vedere che andava tutto bene, Simon percepì il sangue che le pulsava nel collo come una

martello. — Pensavo di aver visto Jace.

— Lo immaginavo — disse Simon. — Ma...

— Ma cosa?

— Hai l'aria davvero spaventata. — Non sapeva bene perché lo avesse detto, o quale

risposta sperava di ricevere. Lei si morse un labbro, come faceva sempre quando era

nervosa. Per un istante ebbe lo sguardo distante, uno sguardo già noto a Simon. Una delle

cose che aveva sempre amato di Clary era la facilità con cui riusciva a perdersi nei propri

sogni e con cui si rinchiudeva dentro mondi fantastici di maledizioni, principi, destino e

magia. Una volta anche lui ne era capace, riusciva ad abitare mondi immaginari tanto più

emozionanti proprio perché sicuri, ossia frutto dell'immaginazione. Ora che realtà e

fantasia si erano scontrate, si chiedeva se anche Clary, come lui, provasse nostalgia per il

passato, per la normalità. Si chiese se in quest'ultima ci fosse qualcosa, Come la capacità

d'immaginare o il silenzio, di cui non Capisci l'importanza finché non le perdi.

— Sta attraversando un brutto periodo — gli disse lei sottovoce. — Ho paura per lui.

— Lo so — disse Simon. — Ascolta, non per farmi i fatti tuoi, ma... ha capito cos'è che

non va? Qualcuno sa qualcosa?

— Jace... — Si interruppe. — Sta bene. Solo che ha dei problemi ad accettare alcune cose

riguardo a Valentine... Sai com'è. — Sì, Simon sapeva. Sapeva anche che Clary stava

mentendo. Proprio lei, che non gli nascondeva praticamente niente... Le lanciò un'occhiata

severa.

— Sta avendo degli incubi — riprese la ragazza. — Era preoccupato che ci fosse di

mezzo un qualche demone...

— Un demone?. — Le fece eco Simon, incredulo. Sapeva che Jace aveva avuto degli

incubi, glielo aveva rivelato lui stesso, ma non aveva mai accennato ai demoni Sai, a

quanto pare ci sono dei demoni che cercano di raggiungerti nel sonno — disse Clary, come

dispiaciuta per aver affrontato l'argomento. — Ma sono sicura che non è niente di grave.

Capita a tutti di fare brutti sogni, no? — Mise a Simon una mano sul braccio. — Voglio so-

lo vedere come sta. Torno subito. — Lo sguardo di lei lo stava già oltrepassando,

puntando verso le porte che davano sul terrazzo; Simon si fece da parte con un cenno e la

lasciò passare, restando a osservarla mentre si insinuava tra la folla.

Sembrava così piccola... Piccola come quando, in prima elementare, l'aveva

accompagnata davanti alla porta di casa ed era rimasto a guardarla mentre saliva le scale,

minuscola e determinata, con la sacca del pranzo che camminando le rimbalzava contro il

ginocchio. Il cuore, seppur privo di battito, gli si contrasse, e Simon si chiese se al mondo

esistesse qualcosa di più doloroso del fatto di non essere capaci di proteggere le persone

amate.

— Hai l'aria malata — disse una voce al suo fianco. Calda, familiare. — Stai pensando

alla persona orribile che sei?

Simon si girò e vide Maia appoggiata alla colonna dietro di lui. Attorno al collo si era

avvolta uno dei fasci di lucine bianche, e il suo viso era rosso per il calore dello champagne

e per quello della stanza.

— O forse dovrei dire "all'orribile vampiro che sei". Solo che, messa così,sembra solo che

non sei un vampiro in gamba.

— Ed è vero — disse Simon. — Ma non significa che non fossi bravo anche come

fidanzato.

Lei fece un sorriso di sbieco. — Bat dice che non dovrei essere così dura con te.

Soprattutto con uno un po' sfigato che prima non aveva mai molto successo con le donne.

— È come se mi leggesse nel pensiero.

Maia scosse la testa. — Non è facile restare arrabbiati con te — gli disse. — Ma ci sto

lavorando. — Detto questo si girò per andarsene.

— Maia! — la chiamò Simon. Iniziava a sentire male alla testa e ad avere le vertigini.

Però, se non le avesse parlato in quel momento, non lo avrebbe fatto più. — Per favore,

aspetta.

Lei si voltò di nuovo e lo guardò, con entrambe le sopracciglia sollevate a dimostrare

attesa.

— Mi dispiace per quello che ho fatto — le disse. — Lo so che l'ho già detto, ma lo penso

veramente.

Lei fece spallucce, impassibile, senza tradire la minima emozione.

Deglutì cercando di dimenticare il dolore alla testa. — Forse Bat ha ragione — riprese. —

Ma credo che la questione sia un'altra. Volevo stare con te perché... Ora ti sembrerò un

egoista... Perché mi facevi sentire normale, la persona che ero prima.

— Sono un lupo mannaro, Simon. Proprio normale non direi.

— Ma tu... Tu sei... — fece per dirle, incespicando con le parole. — Tu sei autentica, sei

vera. Anzi sei una delle persone più vere che abbia mai conosciuto. Volevi venire da me a

giocare a Halo, volevi parlare di fumetti, vedere che concerti c'erano in giro, andare a

ballare e insomma fare cose normali. E poi mi hai anche trattato come se io fossi normale.

Non mi hai mai chiamato Daylighter, vampiro o qualcosa che non fosse Simon.

—Quelle sono tutte cose che si fanno tra amici — osservò Maia. Si era appoggiata di

nuovo alla colonna, e mentre parlava gli occhi le luccicavano dolcemente. — Non con la

propria ragazza.

Simon la guardò e basta. Il dolore alla testa gli pulsava come fosse battito cardiaco.

— E poi ti presenti qui — aggiunse la ragazza — portando Jordan con te. Ma che cosa ti

è saltato in mente?

— Questo però non è giusto. Non avevo idea che fosse il tuo ex...

— Lo so, Isabelle me lo ha spiegato — lo interruppe Maia. — Però ho voglia di fartela

pesare lo stesso.

— Ah sì? — Simon guardò verso Jordan, seduto da solo al tavolo rotondo ricoperto di

lino, con l'aria di uno che aveva appena ricevuto una buca clamorosa dalla ragazza con cui

doveva andare al ballo di fine anno. All'improvviso Simon si sentì molto stanco, stanco di

preoccuparsi per tutti, stanco di sentirsi in colpa per le cose che aveva fatto e che

probabilmente avrebbe rifatto in futuro. — Be', Izzy ti ha mai detto che Jordan si è fatto

assegnare a me per poterti stare vicino? Dovresti sentire come chiede sempre di te. O

anche solo il modo in cui pronuncia il tuo nome. Accidenti, e poi come mi ha aggredito

quando pensava che ti stessi mettendo le corna...

— Non mi stavi mettendo le corna. Non eravamo una coppia fissa, d'accordo, ma

tradirsi è un'altra cosa...

Simon sorrise mentre Maia si interrompeva, arrossendo. — Penso sia positivo il fatto che

detesti Jordan al punto da prendere le mie difese contro di lui... — disse il ragazzo.

— Sono passati anni — rispose Maia. — E non ha mai cercato di rimettersi in contatto

con me. Neanche una volta.

— Sì che lo ha fatto — spiego Simon. — Lo sapevi che la notte in cui ti ha morso è stata

la prima in cui si era trasformato?

Lei scosse la testa, facendo rimbalzare i riccioli, con uno sguardo serio dentro ai grandi

occhi scuri. — No. Pensavo sapesse...

— Di essere un lupo mannaro? No. Più o meno aveva capito che stava perdendo il

controllo, ma chi penserebbe mai... a una trasformazione in lupo mannaro? Il giorno dopo

averti morso è venuto a cercarti, ma il Praetor lo ha fermato. Lo hanno tenuto lontano da

te, ma anche a quel punto lui non ha smesso di cercarti. Credo che negli ultimi due anni

non sia passato giorno senza che Jordan si chiedesse dov'eri...

— Perché lo stai difendendo? — sussurrò.

— Perché sono cose che dovresti sapere — disse Simon. — Ho fatto schifo come ragazzo

e sono in debito nei tuoi confronti. Dovresti sapere che non voleva abbandonarti. Si è

assunto il mio caso solo perché il tuo nome era citato fra gli appunti che mi riguardavano.

Maia dischiuse le labbra. Mentre scuoteva la testa, le luci brillanti che aveva al collo

splendevano come stelle. — Solo che non so cosa farmene, Simon. Come pensi che dovrei

reagire, io?

— Non lo so — rispose lui. Si sentiva come se degli artigli gli si stessero conficcando in

testa. — Però una cosa te la posso dire: sono l'ultima persona al mondo a cui dovresti

chiedere consiglio in materia di rapporti di coppia. — Si portò una mano alla fronte. —

Voglio uscire a prendere una boccata d'aria. Jordan è al tavolo laggiù, se gli vuoi parlare.

Indicò la zona dei tavoli e poi andò via, via dallo sguardo indagatore di Maia, da quello

di tutti gli altri presenti, dal suono di chiacchiere e risate a voce alta, e raggiunse

incespicando la porta.

Clary aprì le porte che davano sulla terrazza e venne accolta da una ventata d'aria fresca.

Rabbrividì, pensando che le sarebbe piaciuto avere con sé la giacca, ma non voleva

perdere tempo a tornare al tavolo per riprendersela. Fece un passo in avanti e si chiuse la

porta dietro le spalle.

La terrazza era un'ampia distesa lastricata, circondata da una balaustra di ferro battuto.

Alcune torce di bambù bruciavano dentro grossi contenitori di peltro, ma non

contribuivano granché a riscaldare l'aria, e forse era questo il motivo per cui lì fuori non

c'era nessuno, a eccezione di Jace. Era in piedi accanto alla balaustra, con lo sguardo

disteso verso il fiume.

Clary avrebbe voluto corrergli incontro, ma non poteva fare a meno di esitare. Lui

indossava un abito scuro, con la giacca aperta sopra una camicia bianca, e aveva la testa

piegata di lato, non rivolta verso di lei. Non lo aveva mai visto vestito così, sembrava più

grande e un po' distante. Il vento che soffiava sul fiume gli sollevava i capelli biondi e

Clary riusciva a vedere la piccola cicatrice sul lato della gola dove una volta Simon lo

aveva morso... Ricordò che Jace non si era opposto, rischiando la vita, per lei.

— Jace — lo chiamò.

Lui si girò, la guardò e sorrise. Era un sorriso familiare, che le sbloccò qualcosa dentro,

dandole il via libera per correre sul lastricato, raggiungerlo e buttargli le braccia al collo.

Jace la sollevò e la tenne in braccio a lungo, affondandole il viso nel collo.

— Stai bene — gli disse lei infine, quando lui la rimise a terra, strofinandosi con forza le

lacrime che le erano sgorgate dagli occhi. — Voglio dire, i Fratelli Silenti non ti avrebbero

lasciato andare se ora non stessi bene. Però avevo capito che per il rituale ci sarebbe voluto

molto tempo, no? Giorni interi?

— Invece no. — Le mise le mani ai lati delle guance e le sorrise. Dietro di lui, il

Queensboro Bridge si distendeva sopra l'acqua. — Li conosci i Fratelli Silenti, sollevano

sempre un gran polverone per ogni cosa che fanno. In realtà si tratta di una cerimonia

piuttosto semplice. — Sorrise. — Mi sono sentito un po' stupido. È un rituale pensato per i

bambini, ma io continuavo a ritenere che, se avessimo finito in fretta, sarei riuscito a ve-

derti con il tuo sexy vestito da cerimonia. Mi ha dato la forza di resistere. — I suoi occhi la

squadravano dall'alto in basso. — E lasciami dire che non sono per niente deluso... Sei

stupenda.

— Anche tu stai molto bene — gli disse lei ridendo tra le lacrime. — Neanche lo sapevo

che avevi un abito elegante.

— Infatti, l'ho dovuto comprare. — Le passò i pollici sugli zigomi, nei punti in cui le

lacrime li avevano resi umidi. — Clary...

— Perché sei venuto qui fuori? — gli chiese. — Si gela. Non vuoi tornare dentro?

Lui scosse la testa. — Volevo parlarti in privato.

Parla, allora — gli disse lei con un mezzo sussurro. Si tolse le sue mani dal viso e se le

mise sulla vita. Il bisogno di sentirlo contro di sé era quasi irresistibile. — C'è qualcos'altro

che non va? Adesso starai bene? Per favore, non nascondermi niente. Dopo tutto quel che

è successo, dovresti sapere che posso sopportare qualsiasi brutta notizia. — Si rendeva

conto che stava chiacchierando nervosamente, ma non riusciva a contenersi. Era come se il

cuore le stesse battendo mille miglia al minuto. — Voglio soltanto che tu stia bene — gli

disse con tutta la calma che aveva.

Gli occhi ambrati di lui si incupirono. — Continuo a rovistare in quella scatola, quella

che apparteneva a mio padre. Non provo niente. Le lettere, le fotografie... Non so chi erano

quelle persone, per me non sono reali. Valentine invece sì.

Clary lo guardò perplessa: non era quello che si aspettava di sentirgli dire. — Ricordi?

Ho detto che ci sarebbe voluto tempo...

Sembrava non sentirla nemmeno. — Se fossi davvero Jace Morgenstern, mi ameresti lo

stesso? Se fossi Sebastian, mi ameresti?

Lei gli strinse le mani. — Non potresti mai essere così.

— Se Valentine avesse fatto a me quello che ha fatto a Sebastian, mi ameresti!

Lo domandò con un'insistenza che Clary sinceramente non riusciva a comprendere. Gli

rispose: — Ma a quel punto non saresti più tu.

Lui restò con il fiato sospeso, come se quella risposta lo avesse ferito. Ma per quale

motivo? Era la verità! — Non so chi sono — disse Jace infine. — Se mi guardo allo spec-

chio vedo Stephen Herondale, ma mi comporto come un Lightwood e parlo come mio

padre. Come Valentine. Perciò vedo chi sono nei tuoi occhi e cerco di essere quella

persona, perché tu hai fiducia in lei e io penso che quella fiducia potrebbe bastare per fare

di me quello che vuoi.

—Tu sei già quello che voglio. E lo sei sempre stato — disse Clary, ma non poteva lare a

meno di sentirsi come se stesse gridando in una stanza vuota. Era come se Jace, per quante

volte lei gli ripetesse che lo amava, non fosse in grado di sentirla. — Lo so che ti senti come

se non sapessi qual è la tua vera identità, ma io la conosco. Io so. E un giorno anche tu

saprai. Nel frattempo non puoi continuare a preoccuparti di perdermi, perché non

succederà mai.

— C'è un modo... — le disse Jace sollevando i propri occhi e puntandoli su quelli di lei.

— Dammi la mano.

Sorpresa, Clary obbedì, ricordando la prima volta in cui lui le aveva preso la mano in

quel modo. Ora lei sul dorso aveva la runa, la runa dell'occhio aperto, quella che lui una

volta aveva cercato senza trovare. La sua prima runa permanente. Le voltò la mano

scoprendole il polso, la pelle vulnerabile dell'avambraccio.

Clary rabbrividì. Era come se il vento sopra il fiume le stesse entrando nelle ossa. — Jace,

cosa stai facendo?

— Ricordi quello che ti avevo detto sui matrimoni Shadowhunter? Di come, invece che

scambiarsi degli anelli, i partecipanti si marchiano a vicenda con delle rune di amore e di

impegno? — La guardò, con occhi grandi e vulnerabili sotto le folte ciglia dorate. —

Voglio farti un marchio che ci leghi, Clary. Piccolo, ma permanente. Ti va?

— Lei esitò. Una runa permanente, pur essendo ancora così giovani... Sua madre sarebbe

andata su tutte le furie. Però sembrava che nient'altro potesse funzionare, che non ci fosse

neanche una parola in grado di convincerlo. Forse con quel gesto ci sarebbe riuscita. Senza

dire niente, prese lo stilo e lo passò a Jace, che lo prese sfiorandole le dita. Ora Clary

tremava più forte, sentendo freddo ovunque tranne dove la toccava lui. Le prese il braccio,

se lo appoggio contro e abbassò lo stilo toccandole piano la pelle, muovendolo con

dolcezza in su e in giù e poi, vedendo che lei non protestava, con maggiore decisione. Col

freddo che sentiva, il calore dello stilo era quasi piacevole. Rimase a guardare mentre dalla

punta uscivano delle linee nere che andavano a formare un disegno duro, spigoloso.

I nervi le pizzicarono, improvvisamente allarmati. Quel disegno non parlava d'amore e

di impegno nei suoi confronti; c'era dell'altro, qualcosa di più cupo, che parlava di

controllo e sottomissione, perdita e tenebre. Stava tracciando la runa sbagliata? Ma era

Jace, figuriamoci se poteva sbagliare. Eppure su per il braccio, dal punto in cui la toccava

lo stilo, stava iniziando a salirle un senso di torpore, un pizzicore doloroso, come di nervi

che scattavano; alla fine iniziò a girarle la testa e il pavimento le si mosse da sotto i piedi.

— Jace. — La voce, da cui trapelava ansia, si alzò di tono. — Jace, non penso sia giusto...

Lui le lasciò andare il braccio. Teneva lo stilo in equilibrio nella mano destra, con la

stessa eleganza con cui avrebbe tenuto qualsiasi altra arma. — Scusami, Clary — le disse.

— Io voglio davvero essere legato a te. Non ti mentirei mai.

Lei aprì la bocca per chiedergli di cosa diavolo stesse parlando, ma non le uscirono le

parole. L'oscurità avanzava troppo in fretta e l'ultima cosa che sentì furono le braccia di

Jace mentre cadeva.

Dopo quella che gli sembrò un'eternità passata a vagare per una festa a suo parere

noiosissima, finalmente Magnus trovò Alec, seduto da solo all'angolo di un tavolo, dietro

un bouquet di finte rose bianche. Sulla tovaglia c'era una serie di bicchieri di champagne,

per lo più mezzi vuoti, probabilmente abbandonati dai vari invitati di passaggio. Anche

Alec aveva l'aria piuttosto... abbandonata. Mento appoggiato sulle mani, fissava il vuoto

con aria imbronciata. Non alzò lo sguardo, nemmeno quando Magnus agganciò una sedia

davanti a lui con il piede, la girò verso di sé e si sedette, appoggiando le braccia lungo lo

schienale.

— Vuoi tornare a Vienna? — chiese.

Alec non rispose, continuando a fissare il vuoto.

— Oppure potremmo andare da qualche altra parte — riprese Magnus. — Thailandia,

South Carolina, Brasile, Perù... Anzi no, aspetta, dal Perù mi hanno esiliato. Me ne ero

dimenticato. È una lunga storia, però divertente, se ti va di sentirla.

L'espressione di Alec era piuttosto esplicita: non gli andava. Si girò apposta dall'altra

parte e guardò fuori dalla stanza, come se il quartetto d'archi di lupi mannari lo

affascinasse.

Visto che Alec lo stava ignorando, Magnus decise di divertirsi a cambiare il colore dello

champagne nei bicchieri sul tavolo. Ne fece uno blu, l'altro rosa, e stava lavorando con il

verde quando Alec si allungò sul tavolo e lo colpì sul polso.

— Piantala — gli disse. — Ti stanno guardando.

Magnus si guardò le dita, che stavano mandando scintille blu. Sì, forse un po' si capiva.

Le piegò per nasconderle. — Be', devo pur fare qualcosa per evitare di morire di noia,

considerato che tu non mi parli.

— No — disse Alec. — Voglio dire, non è vero che non ti parlo.

— Ah no? — fece Magnus. — Ti ho solo chiesto se volevi andare a Vienna, o in

Thailandia, o sulla Luna, e non mi hai dato nessuna risposta.

— Non so cos'è che voglio. — Alec, a testa china, stava giocherellando con una forchetta

di plastica. Anche se si ostinava a tenere lo sguardo puntato verso il basso, l'azzurro chiaro

dei suoi occhi era visibile persino attraverso le palpebre abbassate, bianche e sottili come

pergamena. Magnus aveva sempre pensato che gli umani fossero la creazione più bella fra

tutte quelle presenti sulla Terra, e spesso se ne era chiesto il motivo. Solo dieci o vent'anni,

poi il disfacimento inizierà a reclamarlo, gli aveva detto Camille. Ma era la mortalità a

renderli quello che erano, la fiamma che bruciava più brillante proprio perché tremula. La

morte è la madre della bellezza, aveva detto un poeta. Si chiese se l'Angelo avesse mai

preso in considerazione l'idea di rendere i suoi servitori umani, i Nephilim, immortali.

Invece no, malgrado tutta la loro forza, in battaglia continuavano a cadere come erano

sempre caduti in tutte le epoche della storia.

— Hai di nuovo quell'espressione — disse Alec stizzito, alzando lo sguardo fra le ciglia.

— Come se fissassi qualcosa che io non riesco a vedere. Stai pensando a Camille?

— Niente affatto — rispose Magnus. — Quanto hai sentito della conversazione che ho

avuto ieri con lei?

— Gran parte. — Alec punzecchiò la tovaglia con la forchetta. — Origliavo da dietro la

porta. Mi è bastato.

— Invece credo di no. — Magnus lanciò un'occhiataccia alla posata, che scivolò dalle

mani di Alec e finì davanti a lui sul tavolo. Ci batté la mano sopra e disse: — Piantala di

giocherellare. Cosa ho detto a Camille che ti ha dato tanto fastidio?

Alec sollevò i suoi occhi azzurri. — Chi è Will? Magnus fece una specie di risata. — Will.

Santo cielo. È stato molto tempo fa; era uno Shadowhunter, come te. E sì, ti assomigliava,

ma tu non sei per niente come lui. Me lo ricorda di più Jace, per lo meno quanto a

personalità. E il mio rapporto con te non c'entra nulla con quello che avevo con Will. È

questo che ti dà fastidio?

— Non mi va di pensare che stai con me solo perché assomiglio a un tizio morto che ti

piaceva.

— Io non ho mai detto questo, è Camille che l'ha lasciato intendere. È la regina delle

allusioni e della manipolazione. Lo è sempre stata.

— Ma tu non le hai detto che si sbagliava.

— Se la lasci fare, Camille ti attacca su tutti i fronti. Ne difendi uno, e lei attaccherà

dall'altro. L'unico modo di avere a che fare con quella creatura è fingere che ciò che ti dice

ti stia lasciando indifferente.

— Ha anche detto che i ragazzi carini sono stati la tua rovina — aggiunse Alee. — Da cui

sembrerebbe che io sono solo un numero nel tuo lungo elenco di giocattoli. Uno muore o

se ne va, e tu ne prendi un altro. Io non conto niente. Io sono... insignificante.

— Alexander...

— Cosa che — proseguì Alee tornando ad abbassare lo sguardo sul tavolo — è parecchio

ingiusta, perché tu per me sei tutt'altro che insignificante. Per te ho cambiato tutta la mia

vita, invece a te non cambia niente, vero? Penso che sia questo vivere per sempre: non dare

troppo significato a niente.

— Ti sto dicendo che tu invece conti...

— Il Libro Bianco — disse a un tratto Alee. — Perché lo volevi così tanto?

Magnus lo guardò stupito. — Lo sai perché. È un libro d'incantesimi molto potenti.

— Ma ti serviva per qualcosa in particolare, per uno specifico incantesimo, giusto? —

Alec fece un respiro affannoso. — Non mi devi rispondere. Te lo leggo in faccia che è così.

Era... un incantesimo per rendermi immortale?

Magnus si sentì scosso nel profondo. — Alec — sussurrò. — No. No, io... Non farei una

cosa simile.

Alec lo fissò con i suoi occhi azzurri e penetranti. — Perché no? Perché in tutti questi

anni, con tutte le relazioni che hai avuto, non hai mai cercato di rendere nessuno

immortale come te? Se avessi la possibilità di avermi per sempre al tuo fianco, non vorresti

farlo?

— Certo che sì! — Magnus, accorgendosi di aver quasi gridato, si sforzò di abbassare il

tono di voce. — Ma tu non capisci. Non si ottiene niente in cambio di niente. Il prezzo

della vita eterna...

— Magnus. — Era Isabelle, che si affrettava a raggiungerli con un cellulare in mano. —

Magnus, ti devo parlare.

— Isabelle. — Di solito a Magnus piaceva la sorella di Alec, ma in quel momento non era

troppo entusiasta di vederla. — Cara, carissima Isabelle. Potresti per favore andare via?

Non è il momento giusto.

Isabelle spostò lo sguardo da Magnus al fratello, e poi viceversa. — Quindi non vuoi che

ti dica che Camille è appena scappata dal Santuario e mia madre richiede la tua presenza

all'Istituto, adesso, per aiutarli con le ricerche?

— No — rispose Magnus. — Non voglio che me lo dici.

— Be', peccato — fece Isabelle. — Perché è la verità. Insomma, credo che tu non sia

obbligato ad andare, però...

Il resto della frase rimase sospeso a mezz'aria, ma Magnus sapeva che cosa Isabelle stava

evitando di dire. Se non fosse andato, il Conclave avrebbe sospettato che dietro la fuga di

Camille ci fosse lui, e quella era l'ultima cosa di cui aveva bisogno. Maryse sarebbe andata

su tutte le furie, ostacolando ancora di più la relazione con Alec. Eppure...

— Scappata?! — fece Alec. — Nessuno è mai riuscito a scappare dal Santuario.

— Be', ora qualcuno ce l'ha fatta — rispose Isabelle. Alec sprofondò sulla sedia. — Vai —

disse. — È un'emergenza. Vai pure, continueremo a parlare più tardi.

— Magnus... — Si capiva che Isabelle era piuttosto dispiaciuta, ma la sua voce tradiva

una fretta inequivocabile.

— Va bene — disse Magnus alzandosi in piedi. — Pero... — aggiunse fermandosi

accanto alla sedia di Alec e chinandosi su di lui. — Tu non sei insignificante, chiaro?

Alec arrossì. — Se lo dici tu.

— Lo dico io — ribadì Magnus prima di girarsi e seguire Isabelle fuori dal salone.

Fuori, sulla strada deserta, Simon si appoggiò al muro degli Ironworks, contro i mattoni

coperti d'edera, e alzò lo sguardo al cielo. Le luci del ponte offuscavano le stelle, così che

l'unica cosa visibile era un nero manto di velluto. Desiderò intensamente, per riprendere

lucidità, di poter respirare quell'aria fresca, di sentirsela sul viso e sulla pelle. Non

indossava altro che una maglietta sottile, ed era come non averla.

Ora non poteva più rabbrividire, e anche solo il ricordo di quella sensazione iniziava ad

abbandonarlo, a poco a poco, giorno dopo giorno, scivolando via come i flash di una vita

passata.

— Simon?

Rimase immobile dov'era. Quella voce, tenue e familiare, volteggiava nell'aria come un

filo sottile. Sorridi. Era l'ultima cosa che gli aveva detto.

No, non poteva essere. Lei era morta.

— Perché non mi guardi, Simon? — Aveva la stessa vocina di sempre, poco più di un

sussurro. — Sono qui.

Dalla schiena gli salì un brivido di terrore; aprì gli occhi e si voltò lentamente.

In piedi, circondata dall'alone di luce di un lampione, proprio all'angolo di Vernon

Boulevard, c'era Maureen. Indossava un lungo abito virginale. Aveva i capelli pettinati

dritti sopra le spalle, che risplendevano alla luce artificiale, ancora un po' sporchi di terra

di tomba. Ai piedi portava delle ciabattine bianche; il viso era completamente bianco, con

due pomelli truccati di rosso e la bocca di rosa scuro, come fosse stata disegnata a

pennarello.

A Simon cedettero le ginocchia.. Si lasciò scivolare contro il muro a cui si stava

appoggiando. Lei gli andò vicino e abbassò lo sguardo; sul viso, un'aria di divertimento

compiaciuto.

— Sapevo che ti avrei stupito — disse.

— Sei un vampiro... — fece Simon. — Ma... come è stato possibile? Non sono stato io. So

di non averlo fatto!

Maureen scosse la testa. — Non sei stato tu, ma è stato a causa tua. Sai, pensavano fossi

la tua ragazza. Mi hanno rapita di notte da camera mia e per tutto il giorno dopo mi hanno

tenuta in una gabbia dicendomi di non preoccuparmi, perché saresti venuto a prendermi.

Invece non è stato così, non sei mai arrivato.

— Non lo sapevo — rispose Simon con voce spezzata. — Se solo avessi saputo, l'avrei

fatto.

Maureen si buttò i lunghi capelli biondi dietro una spalla, in un gesto che ricordo a

Simon, con stupore e dolore, le movenze di Camille. — Non fa niente — gli disse con la

sua voce da ragazzina.

— Al tramonto mi hanno detto che avrei potuto morire o scegliere di vivere così. Da

vampiro.

— E tu ha scelto questo?

— Non volevo morire — sussurrò. — Invece ora sarò per sempre giovane e carina. Posso

restare fuori tutta la notte e non dovrò mai più tornare a casa. E poi lei si prende cura di

me.

— Di chi stai parlando? Lei chi? Parli di Camille? Maureen, senti, quella è una pazza.

Non devi starla a sentire. — Simon si rimise in piedi con fare incerto. — Posso aiutarti,

trovarti un posto dove stare. Insegnarti come essere un vampiro...

— Oh, Simon... — Maureen sorrise, scoprendo i denti piccoli e allineati con precisione.

— Mi sa che anche tu non sai come si fa il vampiro. Non volevi mordermi, ma lo hai fatto.

Me lo ricordo. Gli occhi ti sono diventati neri come quelli di uno squalo, e mi hai morso.

— Mi dispiace tanto. Se solo ti lasciassi aiutare...

— Potresti venire con me — propose lei. — Questo sì, mi aiuterebbe.

— Venire con te dove?

Maureen guardò a destra e a sinistra sulla strada deserta. Sembrava un fantasma, con

quel sottile vestito bianco. Il vento le soffiava attorno al corpo, ma era chiaro che non

sentiva freddo. — Tu sei stato scelto — gli disse — perché sei un Daylighter. Chi mi ha

fatto questo vuole te. Però sanno che ora porti il Marchio e non possono averti finché non

sarai tu a scegliere di andare da loro. È per questo che hanno mandato me come

messaggera. — Chinò la testa di lato, come un uccellino. — Magari di me non ti importa —

disse. — Ma la prossima volta sceglieranno qualcun altro. Continueranno a prendere di

mira le persone a cui tieni, finché non resterà più nessuno. Tanto vale che vieni con me ora

e scopri che cosa vogliono.

— Tu lo sai? — chiese Simon. — Lo sai che cosa vogliono?

Maureen fece di no con la testa. Sotto la luce di quel lampione era talmente pallida da

sembrare quasi trasparente, come se Simon avesse potuto guardarle dentro. Come in

fondo, pensò lui, aveva sempre fatto.

— Ha importanza? — disse lei allungando una mano.

— No — rispose Simon. — No, credo di no. — E gliela strinse.

Capitolo 16

NEW YORK CITY ANGELS

Siamo arrivati — annunciò Maureen a Simon.

Si era fermata al centro del marciapiede e ora stava guardando l'imponente edificio di

vetro e cemento che si stagliava sopra le loro teste. Si vedeva che era stato progettato per

sembrare uno di quei condomini di lusso costruiti nell'Upper East Side prima della

Seconda guerra mondiale, ma i dettagli moderni lo tradivano: finestre alte, tetto di rame

ancora lucente, teloni che si dispiegavano sulla facciata promettendo appartamenti di

lusso a partire da 750.000 $. A quanto pareva i proprietari avrebbero avuto diritto a

utilizzare giardino pensile, centro fitness, piscina riscaldata e portiere ventiquattro ore su

ventiquattro, il tutto a partire da dicembre. Attualmente l'edificio era ancora in fase di

costruzione e sulle impalcature che lo circondavano campeggiavano i cartelli con la scritta

proprietà privata, vietato l'accesso.

Simon guardò Maureen. Sembrava si stesse abituando in fretta a fare il vampiro.

Avevano attraversato il Queensboro Bridge e Second Avenue per arrivare fin lì, tanto che

le ciabattine della ragazza ora erano a brandelli. Non per questo aveva mai rallentato e

nemmeno si era sorpresa di non sentire un briciolo di stanchezza. Ora guardava in su

verso il palazzo con un'espressione beata e il viso illuminato da quella che Simon poteva

solo interpretare come grande attesa.

— È tutto chiuso — disse Simon, sapendo di constatare l'ovvio. — Maureen...

— Ssst. — Allungò una mano per tirare un cartellone appeso all'angolo dell'impalcatura.

Venne via con il rumore del cartongesso e dei chiodi strappati, alcuni dei quali caddero a

terra davanti a Simon. Maureen buttò da una parte il pannello e sorrise vedendo il buco

appena fatto.

Un vecchietto che passava per strada, con al guinzaglio un barboncino avvolto in un

cappottino a quadri, si fermò a guardarli. — Dovresti far mettere una giacca alla tua

sorellina — disse a Simon. — Altrimenti con questo freddo si prenderà un accidente.

Prima che Simon potesse rispondere, Maureen si girò verso il passante con un sorriso

feroce che mostrava tutti i denti, compresi i canini appuntiti come spilli. — Non sono sua

sorella — sibilò.

L'uomo sbiancò, prese in braccio il cane e scappò via.

Simon scosse la testa in direzione di Maureen. — Non c'era bisogno di fare così.

I canini le avevano bucato il labbro inferiore, una cosa capitata spesso anche a lui prima

che imparasse a utilizzarli. Ora, lungo il mento, le scorrevano dei rivoli di sangue. — Non

venire a dirmi cosa devo fare — dichiarò stizzita, ma i canini le si ritrassero. Si passò il

dorso della mano sul mento, con fare infantile, sporcandosi tutta. Poi tornò a concentrarsi

sul buco appena fatto. — Vieni.

Ci si infilò dentro, e Simon la segui. Attraversarono una zona evidentemente scelta dai

muratori per buttare i loro rottami: qui e là attrezzi rotti, mattoni spaccati, vecchi sacchetti

di plastica, lattine di Coca sparpagliate sul pavimento. Maureen si alzò la gonna e si fece

strada in mezzo a quello scompiglio con fare schizzinoso e un'espressione disgustata sul

viso. Saltò uno stretto canale e salì su per dei gradini di pietra rovinati. Simon la seguì.

I gradini conducevano a una porta a vetri aperta, oltre la quale si apriva un ingresso in

marmo lavorato. Dal soffitto pendeva un grosso lampadario spento, anche se a riflettersi

sui suoi cristalli pendenti non c'era alcun tipo di luce: per un umano sarebbe stato troppo

buio per vedere qualsiasi cosa. C'erano un bancone di marmo pensato per un portinaio,

una lunga dormeuse collocata sotto uno specchio con la cornice dorata, due ascensori su

ognuno ilei lati della stanza. Maureen premette il tasto, che con grande sorpresa di Simon

si illuminò.

— Dove stiamo andando? — chiese.

L'ascensore suonò e le porte si aprirono. Maureen entrò, seguita da Simon. L'interno era

rivestito di pannelli fossi e oro, con specchi smerigliati su ognuno dei lati. — Si sale. —

Premette il tasto che portava al tetto e ridacchiò. — Su fino al paradiso! — disse prima che

si chiudessero le porte.

— Non riesco a trovare Simon.

Isabelle, che era rimasta appoggiata contro una delle colonne degli Ironworks, cercando

di non rimuginare troppo, alzò lo sguardo e vide Jordan incombere sopra di lei. Era

davvero alto in modo assurdo, pensò. Almeno un metro e novanta. La prima volta che lo

aveva visto lo aveva trovato molto attraente, con quei capelli scompigliati e gli occhi

tendenti al verde, ma ora, sapendo che-era stato l'ex di Maia, lo aveva inserito senza

esitare in quel cassetto della mente riservato ai ragazzi off-limits.

— Io non l'ho visto — continuò. — Ma pensavo che tu gli facessi da custode.

— Mi ha detto che tornava subito, ma è stato quaranta minuti fa. Pensavo stesse

andando al bagno.

— Ma che razza di guardiano sei? Non saresti dovuto andare al bagno insieme a lui? —

chiese Isabelle.

Jordan aveva lo sguardo inorridito. — Gli uomini — rispose — non vanno al bagno in

coppia.

Isabelle fece un sospiro. — Questa omofobia latente prima o poi sarà la tua rovina — gli

disse. — Vieni, andiamo a cercarlo.

Girarono per tutto il salone, intrufolandosi e sgusciando fra gli invitati. Alec, seduto da

solo col broncio a un tavolo, giocherellava con un bicchiere vuoto di champagne. — No,

non l'ho visto — disse rispondendo alla loro domanda. — Anche se devo ammettere che

non ci sono stato molto attento.

— Be', allora puoi venire con noi a cercarlo — propose Isabelle. — Così ti do qualcosa da

fare oltre a startene lì con una faccia da funerale.

Alee fece spallucce e si unì a loro. Decisero di dividersi e sparpagliarsi per tutta la festa:

Alee andò al piano di sopra per cercare Simon sulle passerelle e sul resto del secondo

piano,- Jordan si dedicò alla terrazza e all'ingresso; Isabelle perlustrò la zona degli invitati.

Quando stava iniziando a chiedersi se sarebbe stato ridicolo guardare anche sotto i tavoli,

venne raggiunta da Maia. — Tutto bene? — domandò quest'ultima guardando prima

verso Alec e poi nella direzione presa da Jordan. — Riconosco una squadra di ricerche

quando ne incontro una. Cosa state cercando? C'è qualche problema? Isabelle la aggiornò

sulla scomparsa di Simon.

— Gli ho parlato una mezzora fa.

— Anche Jordan, ma ora è sparito. E siccome, poco tempo fa, dei tizi hanno cercato di

ucciderlo...

Maia appoggiò il suo bicchiere sul tavolo. — Vi aiuto a cercarlo.

— Non sei obbligata. Lo so che in questo momento Simon non ti va esattamente a

genio...

— Questo non significa che non lo voglia aiutare, se è nei guai — rispose Maia, come se

il commento di Isabelle fosse ridicolo. — Ma Jordan non doveva sorvegliarlo?

Isabelle buttò in aria le mani. — Sì, ma a quanto pare gli uomini non seguono gli altri

uomini al bagno o cose del genere. Non l'ho trovato molto sensato.

— Già, i ragazzi non lo sono mai — dichiarò Maia, seguendola. Si insinuarono tra la

folla, anche se Isabelle era piuttosto sicura che lì Simon non ci fosse. Al centro dello

stomaco si sentiva un punto freddo che iniziava ad allargarsi e a raffreddarsi sempre di

più. Una volta tornati al tavolo da cui erano partiti, la sensazione era quella di avere

inghiottito un intero bicchiere di ghiaccio.

— Non c'è — decretò.

Jordan disse una parolaccia, poi fissò Maia con aria colpevole. — Scusa.

— Ho sentito di peggio — rispose lei. — Quindi qual è la prossima mossa? Nessuno ha

provato a chiamarlo?

— Parte subito la segreteria telefonica — disse Alec.

—Nella migliore delle ipotesi, potrebbe essere tornato a casa — disse Jordan. — Nella

peggiore... la gente che gli dava la caccia alla fine è riuscita a raggiungerlo.

— La gente che cosa?! — Alec aveva l'aria sconvolta; Isabelle aveva raccontato la storia

di Simon a Maia, ma ancora non aveva avuto la possibilità di aggiornare il fratello.

— Voglio tornare a casa a cercarlo — disse Jordan. — Se c'è, bene. Se no, è comunque da

lì che devo partire. Sanno dove vive, ci hanno infilato dei messaggi sotto la porta. Magari

lo hanno fatto di nuovo. — Non sembrava troppo fiducioso.

Isabelle prese una decisione d'impulso. — Vengo con te.

— Non devi...

— Sì invece. Ho detto io a Simon di venire qui stasera; è colpa mia. E in ogni caso questa

festa non mi sta divertendo per niente!

— Giusto — gli fece eco Alec, sollevato all'idea di potersene andare. — Sono d'accordo.

Forse dovremmo andarcene tutti. È il caso di avvisare Clary?

Isabelle fece di no con la testa. — È la festa di sua madre, non sarebbe giusto. Vediamo

cosa riusciamo a fare in tre.

— In tre? — chiese Maia, con un accenno di disappunto nella voce.

— Vuoi venire con noi, Maia? — fece Jordan. Isabelle restò di sasso: non sapeva come

l'altra avrebbe reagito a sentire il suo ex ragazzo che le rivolgeva la parola direttamente.

La bocca di Maia si contrasse appena e per un istante gli occhi le si posarono su di lui: non

come se lo odiasse, ma con aria riflessiva.

— Si tratta di Simon — disse infine la ragazza, come se quel commento non lasciasse

spazio a dubbi. — Vado a prendere la giacca.

Le porte dell'ascensore si aprirono su un vortice d'aria nera e di ombre. Maureen fece

un'altra risatina acuta e svolazzò fuori nel buio, con Simon che la seguiva sospirando.

Erano al centro di un grande salone di marmo, senza finestre. Non c'erano luci, ma la

parete a sinistra degli ascensori era provvista di un'enorme porta a vetro, attraverso la

quale Simon riusciva a vedere la superficie piatta del tetto, e sopra di esso il nero cielo

notturno punteggiato di stelle dalla luce fioca.

Il vento aveva ricominciato a soffiare con forza. Simon seguì Maureen fuori dalla porta,

uscendo all'aria fredda e sferzante che le faceva svolazzare il vestito come ali di una

farfalla notturna al centro di una tempesta. Il giardino pensile era elegante come

promettevano i cartelli. Il pavimento era formato da piastrelle lisce a forma di esagono;

dentro le serre fiorivano dei lunghi vasi di fiori, e le siepi erano potate con cura a formare

animali e mostri. Il viottolo che stavano percorrendo era fiancheggiato da minuscole

lucine. Tutto attorno a loro, alti edifici di vetro e acciaio con le finestre illuminate.

Il sentiero terminava con una fila di gradini piastrellati, in cima ai quali si apriva

un'ampia area delimitata su tre lati dall'alta parete che circondava il giardino. Era pensata

come spazio di aggregazione per i futuri inquilini del palazzo; al centro c'era un blocco di

cemento che, pensò Simon, un giorno avrebbe probabilmente ospitato un barbecue. Il tutto

era racchiuso dentro cespugli di rose potati con cura che sarebbero sbocciati a giugno, pro-

prio come i graticci ora spogli che adornavano le pareti sarebbero un giorno scomparsi

sotto una parete di foglie. Alla fine, quell'area si sarebbe trasformata in uno spazio di

grande fascino, un giardino pensile di lusso dell'Up per East Side in cui potersi rilassare su

una sdraio mentre l'East River scintilla alla luce del tramonto e la città si distende davanti

agli occhi come un mosaico luccicante.

Tutto perfetto, se non fosse che il pavimento era stato deturpato con una specie di

liquido nerastro e appiccicoso, usato per tracciare un cerchio approssimativo dentro uno

più grande. Lo spazio fra le due figure era stato riempito da rune scarabocchiate. Anche se

Simon non era uno Shadowhunter, ne aveva viste fare abbastanza dai Nephilim per

riconoscere quali provenivano dal Libro Grigio. Quelle erano diverse: avevano un aspetto

minaccioso, sbagliato, come una maledizione scritta di fretta in una lingua sconosciuta.

Il blocco di cemento sorgeva esattamente al centro dei cerchi. In cima c'era un oggetto

voluminoso e rettangolare, avvolto in un tessuto scuro, la cui forma non era molto diversa

da quella di una bara. Attorno alla base-dei blocco comparivano altre rune.'Se il sangue di

Simon avesse potuto scorrere, in quel momento gli si sarebbe gelato nelle vene.

Maureen batté le mani. — Oh — disse con la sua vocina da elfo, — che bello.

— Bello?. — Simon lanciò una rapida occhiata alla forma ricurva appoggiata sopra il

blocco di cemento. — Maureen, cosa diavolo...

— Lo hai portato. — A parlare era stata la voce di una donna, raffinata, potente e...

familiare. Simon si girò. In piedi sul sentiero, alle sue spalle, c'era una donna alta coi

capelli corti e neri. Molto snella, indossava un lungo cappotto scuro, stretto attorno alla

vita, come una femme fatale in un film di spionaggio degli anni Quaranta. — Maureen, ti

ringrazio — proseguì. Aveva il viso severo ma bellissimo, dai lineamenti scolpiti, con gli

zigomi alti e dei grandi occhi scuri. — Sei stata molto brava, i puoi andare. — Spostò lo

sguardo su Simon. — Simon Lewis — disse. — Grazie per essere venuto.

Nell'istante in cui pronunciò il suo nome, la riconobbe. L'ultima volta che l'aveva vista,

era in piedi sotto la pioggia battente, fuori dall'Alto Bar. — Tu... mi ricordo di te. Mi hai

lasciato il biglietto da visita. La promoter musicale. Wow, si vede che allora vuoi davvero

pubblicizzare il mio gruppo. Non avrei mai pensato che fossimo così bravi.

— Risparmia il sarcasmo — fece lei. — Inutile. — Spostò lo sguardo di traverso. —

Maureen. Ora te ne puoi andare. — Questa volta lo disse con voce decisa, e la ragazza, che

gironzolava come un fantasmino, lanciò urletto e tornò di corsa da dove era venuta. Simon

rimase a guardarla mentre svaniva oltre la porta che portava agli ascensori, provando

quasi dispiacere. Maureen non era chissà quale compagnia, ma senza di lei ora si sentiva

molto più solo. Chiunque fosse quella strana donna, emanava una distinta aura di potere

occulto che l'ebbrezza del sangue, l'altra volta, non gli aveva permesso di notare.

Mi hai fatto diventare matta, Simon — disse con la voce che ora arrivava da un'altra

direzione, a qualche metro di distanza. Il ragazzo si girò e la vide accanto al blocco di

cemento, al centro del cerchio. Le nuvole si spostavano rapide davanti alla luna,

provocando sul viso della donna un mutevole gioco di ombre. Trovandosi alla base dei

gradini, per guardare in su verso di lei doveva piegare il collo. — Pensavo che sarebbe

stato semplice prenderti. Gestire un normale vampiro, anzi, un neo-vampiro. Non é la

prima volta che incontro un Daylighter in vita mia, anche se non ce se sono da almeno

cento anni. Sì — aggiunse, sorridendo allo sguardo di lui. — Sono più vecchia di quel che

sembro.

— In effetti sembri piuttosto vecchia.

Lei ignorò l'offesa. — Ho mandato sulle tue tracce i miei uomini migliori e solo uno è

tornato blaterando non so cosa sul fuoco sacro e sull'ira di Dio. Da allora mi e risultato

piuttosto inutile e ho dovuto farlo abbattere. È stato molto spiacevole, e dopo

quell'episodio ho deciso che dovevo incontrarti personalmente. Ti ho seguito al tuo

stupido concerto, e più tardi, quando ti ho avvicinato, l'ho visto. Il Marchio. Avendo

conosciuto Caino di persona, si tratta di una forma che mi è particolarmente familiare.

— Conosciuto Caino... di persona?. — Simon scosse la testa. — Non puoi pensare che ci

creda.

— Puoi crederci oppure no — disse lei. — Per me non li differenza. Sono più vecchia dei

sogni dei tuoi simili, ragazzino. Ho camminato sui sentieri della valle dell'Eden, ho

conosciuto Adamo prima di Eva. Sono stata la sua prima moglie, ma non gli obbedivo,

perciò Dio mi ha cacciata e ha creato per lui una nuova compagna, generandola a partire

dal suo stesso corpo per renderla sottomessa per sempre. — Accennò un sorriso. — Ho

molti nomi, ma puoi chiamarmi Lilith, la prima di tutti i demoni.

A quella notizia Simon, che da mesi non sentiva freddo, rabbrividì. Aveva già udito il

nome di Lilith; non ricordava esattamente dove, ma sapeva che andava di gran passo con

le tenebre, con il male e con tutto ciò che c'era di terribile.

— Il tuo Marchio mi ha posta di fronte a un enigma — proseguì Lilith. —Vedi,

Daylighter, io ho bisogno di te. Della tua linfa vitale, del tuo sangue. Ma non potevo

costringerti, né farti del male.

Lo disse come se avere bisogno del suo sangue fosse la cosa più naturale del mondo.

— Tu... bevi sangue? — le chiese Simon. Si sentiva confuso, come intrappolato in uno

strano sogno. No, di sicuro tutto ciò non stava accadendo.

Lei rise. — Il sangue non è il nutrimento dei demoni, sciocco. Quello che voglio da te non

mi serve personalmente. — Gli porse una mano affusolata — Avvicinati.

Simon fece di no con la testa. — entro in quel cerchio.

Lei scrollò le spalle. — Come vuoi, allora. Volevo solo offrirti una visuale migliore. —

Mosse appena le dita, con fare quasi svogliato, il gesto di qualcuno che tira mia tenda. Il

telo nero che ricopriva l'eletto a forma di bara sparì.

Simon rimase a fissare ciò che era rimasto. Non si era sbagliato, a proposito della forma:

si trattava di un grosso contenitore in vetro, lungo e largo abbastanza da ospitare una

persona sdraiata. Una bara di vetro, pensò, come quella di Biancaneve. Quella però non

era fiaba. All'interno era racchiuso un liquido torbido, nel quale, nudo dalla vita in su, con

i capelli biondo chiarissimo che gli nuotavano attorno come alghe incolore, c'era Sebastian.

Attaccati alla porta di casa di Jordan non c'erano messaggi, niente sopra né sotto lo

zerbino d'ingresso, e ancora niente di immediatamente visibile all’interno. Mentre Alec

faceva la guardia al piano di sotto, Maia, in salotto, rovistava con Jordan nello zaino di

Simon, Isabelle, in piedi davanti all'entrata della stanza del Ragazzo, guardava in silenzio

il luogo dove lui aveva dormito negli ultimi giorni. Era una camera così spoglia... Quattro

mura senza niente appeso, pavimento sgombro con sopra un materasso giapponese e una

coperta bianca ripiegata ai piedi, un'unica finestra che dava su Avenue B.

Isabelle riusciva a sentire il rumore della città, la città in cui era cresciuta, con quei suoni

che l'avevano sempre circondata da quando era bambina. Aveva trovato il silenzio di Idris

terribilmente strano: non c'erano le sirene delle ambulanze e quelle antifurto delle auto, la

gente che gridava e la musica che, a New York, non cessava praticamente mai, nemmeno

nel cuore della notte. Ora però, lì in piedi davanti alla stanzetta di Simon, penso a quanta

solitudine ci fosse in quei rumori, quanta di stanza, e si chiese se anche Simon la sera si

fosse sentito così, sdraiato guardando il soffitto, solo.

Poi le venne in mente che in realtà non aveva mai vi sto la camera che occupava in casa

di sua madre, probabilmente piena di poster di band rock, trofei sportivi, scatole di quei

videogiochi che amava tanto, strumenti musicali, libri; tutte le cianfrusaglie della vita

comune. Lei non gli aveva mai chiesto di poterci andare, ne lui l'aveva mai invitata. Lei

aveva una paura folle di in contrare sua madre o di fare qualsiasi gesto che potesse essere

il segno di un impegno maggiore di quello che era disposta a offrire. Ora però, guardando

quella stanza che sembrava un contenitore vuoto, e sentendo attorno a sé il trambusto

diffuso e sinistro della città, provò per Simon un fremito di paura, mescolato a un uguale

fremito di rimpianto.

Si voltò verso il resto della casa, ma rimase ferma quando sentì un basso mormorio di

voci che arrivavano dal salotto. Riconobbe quella di Maia. Non sembrava arrabbiata, e la

cosa era già sorprendente di per sé, consideralo quanto sembrava odiare Jordan.

— Niente — stava dicendo. — Delle chiavi, qualche foglio con scritte sopra delle

statistiche di gioco. — Isabelle fece capolino da dietro la porta. Vedeva Maia, in piedi a un

lato del bancone della cucina, con la mano nella lasca incernierata dello zaino di Simon.

Jordan, dall'altrno lato, la stava guardando. Stava guardando lei, penso Isabelle, non

quello che stava facendo, in quel modo con cui i ragazzi ti guardano quando sono

talmente persi per te che ogni tua mossa li affascina. — Gli controllo il portafogli.

Jordan, che si era tolto il completo elegante per mettersi in jeans e giacca di pelle, corrugò

la fronte. — Strano che lo abbia lasciato qui. Posso guardare? — chiese porgendosi sopra il

bancone.

Maia si allontanò così in fretta da far cadere l'oggetto con uno scatto della mano.

Jordan ritrasse lentamente la propria. — Non stavo... Scusami.

Maia fece un respiro profondo. — Ascolta — gli disse. — Ho parlato con Simon. Ora so

che non volevi trasformarmi e che non sapevi nemmeno quel che stava accadendo a te.

Ricordo com'era. Ricordo che ne ero terrorizzata.

Jordan appoggiò piano, con cautela, le mani sul bancone. Era strano, pensò Isabelle,

guardare una persona cosi alta che cerca di apparire piccola e innocua. — Avrei dovuto

starti vicino.

Ma il Praetor non voleva — rispose Maia. — E poi, siamo onesti: non avevi la minima

idea di cosa volesse dire essere un lupo mannaro. Saremmo stati come due ciechi che

giravano in tondo. Forse è stato meglio così, almeno sono andata a cercare aiuto dove

avrei potuto trovarlo. Dal branco.

— All'inizio speravo che il Praetor Lupus ti avrebbe accolta — sussurrò lui. — Così avrei

potuto rivederti. Poi mi sono accorto che era da egoisti e che avrei piuttosto dovuto

desiderare di non averti passato la malattia. Sapevo che c'era un cinquanta per cento di

possibilità e pensavo che magari eri stata una dei pochi fortunati.

— Be', non è stato così — rispose Maia in tono molto concreto. — E nel corso degli anni

ho pensato a te costruendomi nella mente l'immagine di una specie di mostro. Quando è

successo, pensavo sapessi quel che stavi facendo. Pensavo fosse una vendetta perché

avevo baciato quel ragazzo, e così ti ho odiato. E odiarti rendeva tutto più semplice,

perché almeno avevo qualcuno da incolpare.

— Ed è giusto così — rispose Jordan. — Perché è colpa mia.

Maia passò le dita lungo il bancone, evitando lo sguardo di lui. — Certo che ti incolpo...

Ma non come prima.

Jordan alzò le braccia e si afferrò i capelli con i pugni, tirandoli forte. — Non passa

giorno senza che pensi a quello che ti ho fatto. Ti ho morso, ti ho trasformato, ti ho reso

quello che sei. Ho alzato le mani su di te, ti ho fatto male. Ho fatto male alla persona che

amavo più di qualsiasi altra cosa al mondo.

Gli occhi di Maia luccicavano di lacrime. — Non dirlo, è inutile. O pensi che serva a

qualcosa?

Isabelle si schiarì forte la voce ed entrò nella stanza. — Dunque, avete trovato qualcosa?

Maia distolse lo sguardo, battendo rapidamente le palpebre. — A dire il vero no.

Stavamo per cercare nel portafogli — rispose Jordan, abbassando le mani. — Lo raccolse

da dove Maia lo aveva fatto cadere. — Ecco qui — fece lanciandolo a Isabelle.

Lei lo prese e lo aprì. Tesserino scolastico, documenti, un plettro della chitarra infilato

nello spazio teoricamente previsto per le carte di credito, una banconota da dieci dollari.

Qualcos'altro attirò la sua attenzione: un biglietto da visita, infilato a casaccio dietro una

foto di Simon e Clary, di quel genere che si scattano nelle macchinette del supermercato.

Sorridevano entrambi.

Isabelle lo prese e la studiò con attenzione. C'era un disegno affusolato, quasi astratto, di

una chitarra sospesa in mezzo alle nuvole. Sotto, un nome.

SATRINA KENDALL – BAND PROMOTER. La scritta era seguita da un numero di

telefono e un indirizzo nell'Upper East Side. Isabelle corrugò la fronte. Qualcosa, un ricor-

do, le affiorò in fondo alla mente.

Porse il biglietto da visita a Jordan e Maia, nel frattempo impegnati a evitare di

guardarsi. — Ehi, che cosa ne pensate voi di questo?

Prima che potessero rispondere, la porta dell'appartamento si aprì ed entrò Alec. Aveva

il broncio. — Avete trovato qualcosa? È mezzora che aspetto di sotto, e non si è avvicinato

niente di anche minimamente minaccioso, a parte un universitario che ha vomitato sui

gradini dell'ingresso.

— Qui — disse Isabelle, passando il biglietto da visita al fratello. — Guarda questo. Non

ci trovi niente di strano?

A parte il fatto che nessun promoter potrebbe mai essere interessato al gruppo sfigato di

Lewis? — disse Alec tenendo il biglietto con due delle sue lunghe dita. Sulla fronte, fra gli

occhi, gli comparvero dei segni. — Satrina?

— Quel nome ti dice qualcosa? — chiese Maia. Aveva ancora gli occhi rossi, ma la voce

era ferma.

— Satrina è uno dei diciassette nomi di Lilith, la madre di tutti i demoni. È per lei che

tutti gli stregoni si chiamano figli di Lilith — spiegò Alec. — Perché lei ha generato i

demoni e loro in cambio hanno perpetrato la razza degli stregoni.

— E tu te li ricordi a memoria tutti e diciassette? — Jordan sembrava avere qualche

dubbio.

Alec gli lanciò un'occhiata diffidente. — Ah, e tu chi eri?

— Oh, chiudi il becco, Alec — disse Isabelle con quel tono che usava soltanto con il

fratello. — Senti, non tutti qui abbiamo la stessa sua memoria per le cose noiose. Non

ricordi tutti gli altri nomi di Lilith, giusto?

Con un atteggiamento di superiorità, Alec iniziò invece a elencarli tutti: — Satrina, Lilith,

Ita, Kali, Batna, Talto...

— Talto! — esclamò Isabelle. — Ecco. Lo sapevo che mi ricordava qualcosa. Lo sapevo

che c'era un legame! — Si affrettò a raccontare agli altri della Chiesa di Talto, di quello che

Clary aveva trovato e di come la cosa c'entrasse col mezzo demone morto trovato al Beth

Israel.

— Avresti dovuto dirmelo prima — la rimproverò Alec. — Sì, Talto è uno dei tanti nomi

di Lilith, e Lilith è sempre stata legata ai bambini. Era la prima moglie di Adamo, ma

scappò dal Giardino dell'Eden perche non voleva obbedire né ad Adamo né a Dio. Così

Dio la maledì per la sua disubbidienza: tutti i figli che avrebbe avuto sarebbero morti. La

leggenda vuole che abbia provato più volte ad averne, ma che tutti nascevano cadaveri.

Alla fine giurò vendetta contro Dio indebolendo e uccidendo i neonati umani.

Praticamente la si può definire la diabolica Signora dei Bambini Morti.

— Ma hai detto che era la madre dei demoni — disse Maia.

— Era in grado di crearli spargendo gocce del proprio sangue in un luogo chiamato

Edom — proseguì Alec. — Diventavano demoni perché generati dall'odio verso Dio e

l'umanità intera. — Sentendo su di sé lo sguardo di tutti, Alec fece spallucce. — È soltanto

una storia.

— Tutte le storie sono vere — disse Isabelle. Era uno dei suoi dogmi, da quando era

bambina, e tutti gli Shadowhunters ci credevano. Non esisteva una sola religione, una sola

verità, e non c'era leggenda che fosse priva di senso. — Lo sai anche tu, Alec.

— E so anche dell'altro — aggiunse il ragazzo restituendole il biglietto da visita. — Quel

numero di telefono e quell'indirizzo sono inventati. Non esistono, ne sono sicuro.

— Può darsi — fece Isabelle, mettendosi il cartoncino in tasca. — Ma non abbiamo altri

posti dove iniziare le ricerche, perciò partiremo da lì.

Simon non poteva che restare a guardare. Il corpo che galleggiava dentro la bara, quello

di Sebastian, non sembrava vivo, o per lo meno non respirava. Eppure non si poteva dire

che fosse inequivocabilmente morto. Erano passati due mesi: se fosse stato così, sarebbe

stato in condizioni molto peggiori. Aveva il corpo bianchissimo, come marmo; una mano

era ridotta a un mozzicone bendato, ma il resto era intatto. Sembrava addormentato, con

gli oc chi chiusi e le braccia distese lungo i fianchi. Solo il fatto che il petto non si gonfiava

lasciava pensare che qualcosa proprio non andava.

— Ma — disse Simon, sapendo di sembrare ridicolo — lui è morto. Jace lo ha ucciso.

Lilith appoggiò una mano pallida sulla superficie di vetro della bara. — Jonathan —

disse, mentre Simon ricordava che era quello il suo nome. Quando lo pronuncio, la voce le

diventò stranamente tenera, come se canticchiasse a un bambino. — È bellissimo, vero?

— Ehm — fece Simon guardando con ribrezzo la creatura contenuta nella bara, il

ragazzo che aveva ucciso Max Lightwood, di soli nove anni; che aveva ucciso Hoidge; che

aveva cercato di ucciderli tutti. — Non il mio genere, a essere sinceri.

— Jonathan è unico — disse lei. — È l'unico Shadowhunter che io abbia mai conosciuto

a essere in parte un Demone Superiore, caratteristica che lo rende molto potente.

— È morto — replicò Simon. Sentiva che in qualche modo era importante sottolineare

quel punto, anche se Lilith non sembrava afferrarlo.

La donna, guardando Sebastian, aggrottò le sopracciglia. — È vero. Jace Lightwood è

sgusciato dietro di lui e lo ha pugnalato alle spalle, attraverso il cuore.

— Come fai...

— Ero a Idris — lo anticipò lei. — Sono arrivata quando Valentine ha aperto la strada ai

mondi dei demoni. Non per combattere la sua stupida battaglia, ma soprattutto per

curiosità. Che Valentine potesse avere tanta arroganza... — Si interruppe, scrollando le

spalle. — Il cielo lo ha punito per questo, ovviamente. Ho visto il sacrificio che ha

compiuto, ho visto l'Angelo sollevarsi e attaccarlo, ho visto cosa è stato riportato indietro.

Io sono la più antica di tutti i demoni, conosco le Antiche Leggi. Una vita in cambio di una

vita. Sono corsa da Jonathan, ma era quasi troppo tardi. Quello che di lui era umano morì

all'istante: il cuore cessò di battere e i polmoni di gonfiarsi. Le Vecchie Leggi non erano

sufficienti. Ho cercato di riportarlo in vita, ma era troppo tardi, e tutto ciò che ho potuto

fare è stato questo. Conservarlo in attesa di questo momento.

Simon si chiese brevemente cosa sarebbe successo se si tosse messo a scappare, saettando

accanto a quel folle demone e lanciandosi giù dal tetto dell'edificio. Un'altra creatura

vivente non poteva fargli del male, grazie al Marchio, ma dubitava che il suo potere fosse

così vasto da difenderlo anche contro uno schianto. Eppure restava un vampiro. Se fosse

caduto per quaranta piani e avesse sbriciolato Ogni singolo osso che aveva nel corpo, si

sarebbe ripreso? Deglutì forte e trovò Lilith che lo guardava divertita.

— Non vuoi sapere — gli disse con la sua voce fredda e seducente — a quale momento

mi sto riferendo? — Prima ancora che lui potesse rispondere, si chinò in avanti, poggiando

le ginocchia sulla bara. — Immagino che tu conosca la storia di come sono nati i Nephilim,

vero? Di come l'Angelo Raziel ha mescolato il proprio sangue con quello degli umani,

facendolo bere a uno di loro, che diventò il primo Nephilim?

— L'ho sentita.

In effetti l'Angelo ha generato una creatura appartenente a una nuova razza. E ora, con

Jonathan, ne è nata un'altra ancora. Come il Jonathan Shadowhunter ha guidato i primi

Nephilim, così questo Jonathan guiderà la nuova razza che intendo generare io.

— La nuova razza che intendi... — Simon sollevò le mani. — Sai che c'è? Vuoi dare

inizio a una nuova razza a partire da un ragazzo morto: fai pure. Non vedo cosa c'entro io

in tutto questo.

— Ora è morto, ma non deve restare così — disse Lilith con voce fredda e priva

d'emozioni. — Esiste, ovviamente, un genere di Nascosto il cui sangue offre la possibilità

di, per così dire, risorgere.

— I vampiri — disse Simon. — Tu vuoi che io trasformi Sebastian in un vampiro!

— Si chiama Jonathan — affermò bruscamente Lilith. — Sì, in un certo senso. Voglio che

lo mordi, bevi il suo sangue e gli dai in cambio il tuo...

— Non lo farò.

— Ne sei così sicuro?

— Un mondo senza Sebastian — rispose Simon chiamandolo apposta così — è meglio di

un mondo con me. Non lo farò. — Sentiva montargli la rabbia, una marea rapida. — E poi,

anche se volessi, non potrei farlo. Lui è morto, e i vampiri non possono resuscitare i morti,

dovresti saperlo, visto che sai tante cose. Una volta che l'anima ha lasciato il corpo,

nessuno può più fare niente. Per fortuna.

Lilith piegò lo sguardo sopra di lui. — Proprio non lo sai, vero? — gli disse. — Clary non

te lo ha mai detto.

Simon cominciava ad averne abbastanza. — Non mi ha mai detto cosa?

L'altra ridacchiò. — Occhio per occhio, dente per dente, una vita per una vita. Per evitare

il caos ci deve essere l'ordine. Se viene data alla Luce una vita, un'altra deve essere data

alle Tenebre.

— Io non ho — disse Simon lentamente, con cautela — la minima idea di cosa stai

parlando. E non mi importa. Voi malvagi e i vostri inquietanti programmi di eugenetica

iniziano ad annoiarmi, perciò ora me ne vailo Se vuoi cerca pure di fermarmi

minacciandomi o facendomi del male, anzi dai, fallo.

Lei lo guardò e rise di nuovo. — Caino si è ribellato — disse. — Tu sei un po' come colui

di cui porti il Marchio. Era testardo, come te. Temerario, pure.

— Lui si è ribellato a... — Simon si strozzò su quella parola. Dio. — Io invece sto solo

avendo a che fare con te. — Con queste parole, si voltò per andarsene.

— Fossi in te non mi volterei le spalle, Daylighter — gli disse Lilith, e nella voce aveva

qualcosa che lo spinse a girarsi di nuovo per guardarla, appoggiata alla bara di Sebastian.

— Pensi di essere invincibile — aggiunse Lilith con un ghigno. — E in effetti non posso

alzare un dito contro di te. Io non sono una pazza; ho visto il fuoco sacro del divino e non

desidero che mi si rivolti contro. Non sono Valentine, per avventurarmi in quello che non

posso comprendere. Io sono un demone molto anziano. Conosco l'umanità meglio di

quanto tu possa pensare: capisco la debolezza dell'orgoglio, della brama di potere, il desi-

derio della carne, dell'avidità, della vanità e dell'amore.

— L'amore non è una debolezza.

— Ah no? — fece lei guardandogli dietro le spalle, con uno sguardo freddo e pungente

come una lama di ghiaccio.

Simon, sapendo di doverlo fare, si girò controvoglia e guardò dietro di sé.

Lì, sul sentiero di mattonelle, c'era Jace. Era vestito con un abito nero e una camicia

bianca. Davanti a lui, Clary, ancora con indosso il bel vestito color oro della festa agli

Ironworks. I capelli, lunghi e rossi, le erano sfuggiti dall'acconciatura e ora le ricadevano

sulle spalle. Stava ferma, in silenzio, avvolta fra le braccia di Jace. Sarebbe quasi potuto

sembrare un quadretto romantico, se non fosse per il fatto che in una delle mani lui strin-

geva un coltello lungo e scintillante, con il manico in osso, e lo teneva puntato alla gola di

Clary.

Simon fissò Jace in preda allo stupore più totale. Vide che sul viso non gli passava

l'ombra di un'emozione, e gli occhi erano del tutto privi di luce. Appariva spento,

completamente.

Inclinò la testa di pochi millimetri.

— Te l'ho portata, lady Lilith — disse. — Proprio come mi avevi chiesto.

Capitolo 17

CAINO ALZÒ LA MANO

Clary non aveva mai avuto così freddo. Anche quando si era trascinata fuori dal lago Lyn,

tossendo e sputando le sue acque velenose sulla riva, il freddo non era stato tanto intenso.

Anche quando aveva pensato che Jace fosse morto, non si era sentita una simile paralisi di

ghiaccio dentro il cuore. Allora bruciava di rabbia, rabbia contro suo padre. Ora invece

sentiva solo il gelo, che le arrivava fino alla punta dei piedi.

— Aveva ripreso coscienza nell'atrio di marmo di uno strano edificio, sotto l'ombra di un

lampadario spento. Ad averla portata fin lì era stato Jace, tenendole un braccio sotto le

ginocchia piegate e l'altro a sostegno della testa. Ancora confusa e frastornata, per un

momento aveva affondato la testa nel collo di lui, cercando di ricordarsi dove si trovava.

— Che cosa è successo? — aveva sussurrato. Raggiunto l'ascensore, Jace aveva premuto

un pulsante, e dal rumore traballante Clary aveva capito che il macchinario stava

scendendo verso di loro. Ma dove si trovavano?

— Sei svenuta — le disse lui.

— Ma... come... — A quel punto ricordò, e tacque. La mano di lui, la puntura dello stilo

sulla pelle, l'ondata di tenebre che l'aveva avvolta. Qualcosa di sbagliato, per aspetto e

sensazione, nella runa che lui le aveva disegnato. Rimase immobile fra le sue braccia per

un istante, poi disse: — Mettimi giù.

Lui la mise in piedi, poi si guardarono. Li separavano pochi centimetri. Clary avrebbe

potuto toccarlo, eppure, per la prima volta da quando si erano conosciuti, non voleva:

provava la terribile sensazione di essere di fronte a uno sconosciuto. Quel ragazzo aveva

l'aspetto di face; quando parlava, lo faceva con la sua voce; quando lei lo aveva stretto, le

era sembrato proprio lui. Eppure i suoi occhi erano strani e distanti, come lo era il sorriso

impercettibile che gli faceva capolino sulla bocca.

Le porte dell'ascensore si aprirono alle spalle di Jace. Clary ricordò quando, nella navata

dell'Istituto, aveva detto "Ti amo" alla porta chiusa di un ascensore. Ora dietro di lui si

apriva uno spazio nero come l'imbocco di una caverna. Clary si tastò la tasca per cercare lo

stilo; non c'era più.

— Mi hai stesa — gli disse — con una runa. E poi mi hai portata qui. Perché?

Il viso di lui, bellissimo, era completamente inespressivo. — Dovevo farlo. Non avevo

altra scelta.

Clary si girò e corse verso la porta, ma lui fu più veloce, come sempre del resto. Le si

parò davanti bloccandogli la strada e alzò i palmi delle mani. — Clary, non scappare. Ti

prego, fallo per me.

Lei lo guardò con aria incredula. La voce era quella di sempre, quella di Jace... Ma

sembrava una registrazione: tutte le tonalità e le frequenze giuste, ma senza vita ad

animarle. Come aveva fatto a non accorgersene prima? Pensava che quel suo essere

distante fosse dovuto alla stanchezza o al dolore, invece no: lui se ne era andato. Le si

rivoltò lo stomaco; saettò di nuovo verso la porta, ma l'unico risultato che ottenne furono

le mani di Jace attorno alla vita che la tiravano di nuovo verso di lui. Lo spinse,

incastrando le dita nel tessuto della sua camicia, strappandola.

Restò di sasso, con gli occhi spalancati. Sulla pelle del letto di Jace, poco sopra il cuore,

c'era una runa, una runa che non aveva mai visto. Non era nera, come quelle degli

Shadowhunters, ma rosso scuro, il colore del sangue. E non aveva nulla della delicata

eleganza che caratterizzava le rune del Libro Grigio. Era uno scarabocchio orrendo, fatto

non di linee sinuose e generose, ma taglienti e crudeli.

Jace sembrava non vederla. Si guardava quasi chiedendosi che cosa avesse Clary da

fissare, finché poi alzò gli occhi su di lei, confuso. — Va tutto bene, non mi hai fatto male.

— Quella runa... — fece Clary, ma si interruppe all'improvviso. Forse lui non si rendeva

conto di averla. — Lasciami andare, Jace — gli disse invece, allontanandosi. — Non hai

bisogno di fare così.

— Su questo ti sbagli — le rispose lui, avvicinandola di nuovo.

Questa volta Clary non oppose resistenza. Cosa sarebbe successo se fosse scappata? Non

poteva lasciarlo lì e basta. Jace c'era ancora, pensò, intrappolato chissà dove dietro quegli

occhi spenti, e magari le stava chiedendo disperatamente aiuto. Non poteva abbandonarlo,

doveva scoprire cosa stava succedendo. Si lasciò prendere in braccio e portare dentro

l'ascensore.

— I Fratelli Silenti si accorgeranno che te ne sei andato — gli disse mentre i pulsanti si

accendevano, piano dopo piano, mentre l'ascensore saliva. — Avvertiranno il Conclave.

Verranno a cercarti...

— Non ho niente da temere dai Fratelli. Non ero loro prigioniero, non si aspettavano che

me ne volessi andare. Non si accorgeranno della mia scomparsa fino a domani mattina,

quando si sveglieranno.

— E se dovessero svegliarsi prima?

— Oh — fece lui con fredda determinazione. — Non succederà. E molto più probabile,

invece, che saranno gli altri invitati a notare la tua assenza agli Ironworks. Ma cosa ci

possono fare? Non sapranno dove sei andata, e l'accesso a questo edificio è bloccato. — Le

tolse i capelli dal viso con una carezza, e lei restò in silenzio. — Dovrai avere fiducia in me

e basta. Nessuno verrà a prenderti.

Jace non estrasse il coltello finché non furono usciti dall'ascensore, quando disse: — Non

ti farei mai del male. Lo sai, vero? — Lo fece scostandole i capelli con la punta del coltello

e poi premendole la lama contro la gola. Appena saliti sul tetto, l'aria gelida le colpì le

spalle e le braccia nude. Le mani di Jace erano calde, mentre la toc cava, e riusciva a

sentirne il calore attraverso il vestito, ma era un calore che non la scaldava, non nel

profondo. Dentro, si sentiva piena di schegge di ghiaccio affilate.

Le venne ancora più freddo quando vide Simon che la guardava coi suoi enormi occhi

scuri. Aveva il viso slavato dallo sgomento, simile a un foglio bianco. Sta va guardando lei,

con Jace dietro, come se in loro vedesse qualcosa di intrinsecamente sbagliato, una persona

con la pelle del viso rivolta al contrario, una cartina del mondo senza più un lembo di terra

e con soltanto oceani.

Clary guardò a malapena la donna che aveva accanto, coi capelli neri e il viso sottile,

crudele: lo sguardo le era subito caduto sulla bara trasparente che si trovava sul piedistallo

di cemento. Era come se brillasse dall'interno, accesa da una luce lattiginosa.

Probabilmente l'acqua in cui galleggiava Jonathan non era acqua, bensì qualche liquido

meno naturale. La Clary di tutti i giorni, pensò lei stessa con distacco, avrebbe urlato alla

vista del fratello che se ne stava sospeso, come un cadavere del tutto immobile, in quella

che sembrava la bara di vetro di Biancaneve. La Clary paralizzata, invece, restò a guardare

con un vago e distante senso di stupore.

I capelli neri come l'ebano, la pelle bianca come la neve e le labbra rosse come il sangue.

Be', qualcosa c'era: quando aveva conosciuto Sebastian, lui aveva i capelli neri, che ora

però erano bianco-argento e gli fluttuavano attorno alla testa come alghe albine. Lo stesso

colore di Capelli del padre. Di loro padre. Aveva la pelle talmente chiara che sembrava

fatta di cristalli luminosi; anche le labbra erano incolore, come pure le palpebre degli

occhi.

— Grazie, Jace — disse la donna che il ragazzo aveva chiamato lady Lilith. — Lavoro

ben fatto, e con grande sollecitudine. Pensavo che all'inizio mi avresti creato qualche

problema, ma a quanto pare mi ero preoccupata senza motivo.

Clary li fissava. Anche se la donna non aveva un'aria familiare, la voce le ricordava

qualcosa. L'aveva già sentita, ma dove? Cercò di staccarsi da Jace, ma la stretta che

esercitava su di lei non fece che stringersi ancora di più. La lama del coltello le baciò la

gola. Una svista, si disse. Jace, persino quel Jace, non le avrebbero mai fatto del male.

— Tu — disse a Lilith fra i denti. — Che cosa hai fatto a Jace?

— Parla la figlia di Valentine. — La donna coi capelli neri sorrise. — Simon? Ti

dispiacerebbe spiegare?

Simon sembrava sul punto di vomitare. — Non ne ho idea. — Anche la voce era quella

di uno che si sta strozzando. — Credimi, voi due siete l'ultima cosa che mi aspettavo di

vedere.

— I Fratelli Silenti hanno detto che la causa di quello che stava succedendo a Jace era un

demone — disse Clary, e vide che Simon era più sconcertato che mai. La donna, invece, si

limitava a guardarla con occhi simili a cerchi piatti di ossidiana. — Quel demone eri tu,

vero? Ma perché Jace? Che cosa vuoi da noi?

— Da noi? — ripeté Lilith facendo riecheggiare una risata. — Tu non conti molto,

ragazza mia. Perché proprio te? Perché sei un mezzo per il mio fine. Perché mi servivano

questi due ragazzi, ed entrambi ti vogliono bene. Perché Jace Herondale è l'unica persona

di cui ti fidi più di qualunque altra al mondo. E perché il Daylighter tiene così tanto a te

che potrebbe rinunciare alla propria vita. Certo, forse non ti posso fare niente — disse

rivolgendosi a Simon — ma a lei sì. Sarai così testardo da restartene seduto mentre Jace le

taglia la gola, piuttosto che donare il tuo sangue?

Simon, con l'aspetto della morte in persona, scosse piano la testa, ma prima che potesse

dire qualcosa, Clary parlò. — Simon, no! Non farlo, di qualunque cosa si tratti. Jace non mi

farà mai del male.

Gli occhi impenetrabili della donna si concentrarono su Jace. Sorrise. — Feriscila — gli

disse. — Solo un po'.

Clary sentì che le spalle di face si irrigidivano, come quando nel parco le stava

insegnando a combattere. Avvertì qualcosa alla gola, come un bacio pungente, freddo e

caldo al tempo stesso, e poi un caldo rivolo che le colava giù fino alla base del collo. Simon

sgranò gli occhi.

L'aveva ferita. Lo aveva fatto sul serio. Pensò a Jace accovacciato sul pavimento della

camera da letto dell'Istituto, col dolore che trasudava nettamente da ogni piega del corpo.

Sogno che entri in camera mia. Ma poi ti faccio del male. Ti ferisco, ti strangolo o ti

pugnalo, e tu muori, guardandomi con quegli occhi verdi mentre la tua vita scivola via fra

le mie mani colpevoli.

Lei non gli aveva creduto. Non sul serio. Lui era Jace, non le avrebbe mai fatto del male.

Abbassò lo sguardo e vide il sangue che le macchiava la scollatura del vestito. Sembrava

vernice rossa.

— Hai visto — disse la donna. — Fa quello che gli dico. Non prendertela con lui, è

completamente in mio potere. Mi sono insinuata nella sua mente per settimane,

osservando i suoi sogni, scoprendo le sue paure e i suoi bisogni, i sensi di colpa e i

desideri. In un sogno ha accettato il mio marchio, che da quel momento arde sulla sua

pelle... E gliela trapassa, scendendo fino all'anima, che ora è nelle mie mani. Posso

plasmarla e governarla a mio piacimento. Farà qualunque cosa io gli ordini.

A Clary tornarono in mente le parole dei Fratelli Silenti. Quando viene al mondo uno

Shadowhunter, si esegue un rituale, e sia i Fratelli Silenti sia le Sorelle di Ferro compiono sul

nuovo arrivato un certo numero di incantesimi volti a proteggerlo. Quando face è morto e

resuscitato, è nato una seconda volta, ma non ha ricevuto alcun rituale di protezione. In questo

modo è rimasto vulnerabile, esposto a qualsiasi genere di influenza o avversione demoniaca.

Sono stata io, pensò Clary. L'ho riportato in vita, e volevo mantenere il segreto. Se solo avessimo

raccontato a qualcuno quello che era successo, forse sarebbe stato possibile compiere il rituale prima

che Lilith gli entrasse in testa. Il disprezzo che provava per se stessa le dava la nausea. Alle

sue spalle, Jace non parlava e restava fermo come una statua, con le braccia attorno a lei e

il coltello ancora puntato alla gola. Clary se lo sentì sulla pelle quando prese fiato per

parlare, sforzandosi di farlo in tono uniforme. — Capisco il modo in cui controlli Jace —

disse a Lilith — ma non il motivo. Di certo ci sono altri sistemi, più semplici, per

minacciarmi.

Lilith emise un sospiro, come se l'intera faccenda si stesse facendo noiosa. — Ho bisogno

di te — disse, ostentando pazienza — per convincere Simon a fare quello che voglio,

ovvero darmi il suo sangue. E ho bisogno di Jace non solo perché mi serviva un modo per

attirarti qui, ma anche come contrappeso. Nella magia ci deve sempre essere equilibrio,

Clarissa. — A quel punto indicò prima il cerchio nero tracciato sommariamente sulle

piastrelle e poi Jace. — È stato il primo. Il primo a essere riportato in vita, la prima anima a

tornare in questo mondo nel nome della Luce. Per questo deve essere presente, se voglio

riportare in vita anche il secondo, nel nome delle Tenebre. Hai capito adesso, stupida

ragazzina? Qui siamo tutti necessari. Simon per morire, Jace per vivere, Jonathan per

tornare. E tu, figlia di Valentine, per fare da catalizzatore a tutto quanto.

La voce demoniaca di Lilith si era trasformata in una cantilena gutturale. A un tratto

Clary rimase sbalordita lei riconoscere dove l'aveva già sentila: vide suo padre, in piedi al

centro di un pentagramma, e una donna con capelli neri e tentacoli al posto degli occhi

inginocchiata davanti a lui. Gli diceva: il bimbo che nascerà con questo sangue dentro di sé avrà

un potere più grande dei Demoni Superiori che popolano gli abissi tra i mondi. Ma ti avverto,

questo sangue brucerà la sua umanità, come il veleno brucia la vita nel sangue.

— Lo so — disse Clary a labbra strette. — So chi sei. Ti ho vista mentre ti tagliavi il polso

e facevi colare il sangue in un calice per mio padre. L'angelo Ithuriel me lo ha mostrato in

una visione.

Lo sguardo di Simon saettava all'impazzata da Clary a Lilith, i cui occhi neri tradivano

una punta di stupore. Clary immaginò che non fosse una reazione semplice da ottenere. —

Ho visto mio padre che ti evocava. So come ti ha chiamata: Signora di Edom. Sei un

Demone Superiore. Sei stata tu a dare il tuo sangue per rendere mio fratello quello che è,

sei stata tu a trasformarlo in... in una cosa orribile. Se non fosse stato per te...

— Sì, è tutto vero. Ho dato il mio sangue a Valentine Morgenstern, lui lo ha passato a

suo figlio e questo è il risultato. — La donna appoggiò piano la mano, quasi fosse una

carezza, sulla superficie di vetro della bara di Sebastian. Sul viso aveva il più bizzarro dei

sorrisi. — In un certo senso potresti quasi dire che sono la madre di Jonathan.

— Ti ho detto che quell'indirizzo non significa niente — insisteva Alec.

Isabelle lo ignorò. Nell'istante in cui avevano attraversato le porte dell'edificio, il

ciondolo di rubino che portava al collo aveva iniziato a pulsare debolmente, come il battito

di un cuore lontano. Era il segnale di una presenza demoniaca. In altre circostanze Isabelle

si sarebbe aspettata di vedere il fratello percepire la stranezza di quel luogo proprio come

faceva lei, ma in quel momento il pensiero di Magnus lo rattristava troppo per permet-

tergli di concentrarsi.

— Prendi la tua stregaluce — gli disse. — Io ho lasciato la mia a casa.

Lui le lanciò un'occhiataccia infastidita. L'atrio era troppo buio perché un normale essere

umano potesse vedere qualcosa. Maia e Jordan, ognuno alle estremità opposte della

stanza, avevano l'eccellente vista notturna dei lupi mannari; Jordan esaminava il bancone

di marmo del portiere, mentre Maia, appoggiata al muro, sembra va impegnata a

guardarsi gli anelli. — In teoria dovresti portarla con te ovunque — osservò Alec.

— Ah sì? E tu hai portato il tuo sensore? — rilancio lei. — Io dico di no. Almeno io ho

questo — disse toccandosi il ciondolo. — E ti posso dire che qui dentro c'è qualcosa,

qualcosa di demoniaco.

La testa di Jordan si girò di scatto. — Qui dentro ci sono dei demoni?

— Non lo so. Forse soltanto uno. Il ciondolo pulsava e poi si indeboliva — ammise

Isabelle. — Ma è una coincidenza troppo grande perché questo sia l'indirizzo sbagliato.

Dobbiamo dare una controllata.

Attorno a lei brillò una debole luce rosa. La ragazza alzò lo sguardo e vide Alec, con in

mano la sua stregaluce, che ne conteneva il bagliore con una mano. Gli proiettava strane

ombre sul viso, e lo faceva sembrare più vecchio di quanto in realtà non fosse, con gli occhi

di un azzurro più scuro del solito. — E allora muoviamoci — disse. — Perlustreremo un

piano alla volta.

Raggiunsero l'ascensore, prima Alec, poi Isabelle, quindi Jordan e Maia dietro di loro.

Sulla suola degli stivali di Isabelle erano tracciate delle rune di silenzio, ma i tacchi di Maia

ticchettavano sul pavimento. La ragazza fece una smorfia di disappunto e si fermò per

toglierseli, proseguendo a piedi nudi. Quando mise piede sull'ascensore, Isabelle notò che

all'alluce sinistro portava un anel-lino d'oro con un turchese incastonato.

Anche Jordan abbassò lo sguardo sui piedi di Maia. — Ricordo bene quell'anello —

disse. — Te lo avevo comperalo quando...

— Taci — lo interruppe lei premendo il tasto per richiudere le porte. L'ascensore partì e

Jordan si trincerò nel silenzio.

Si fermarono a ogni piano. La maggior parte erano anidra in fase di costruzione: nessuna

luce, cavi che pendevano dal soffitto come piante rampicanti. Le finestre erano sigillate

con travi di legno inchiodate, ma dei teli di stoffa si muovevano al debole vento come

fantasmi. Isabelle teneva una mano ben salda sul ciondolo, ma non accadde nulla finché

non raggiunsero il decimo piano. Quando si aprirono le porte, sentì uno sfarfallio contro il

palmo chiuso a coppa, come se stringesse un uccellino che aveva sbattuto le ali.

Parlò con un filo di voce. — Qui c'è qualcosa.

— Alec annuì e basta; Jordan aprì la bocca per dire qualcosa, ma Maia gli diede una

gomitata decisa. Isabelle sgusciò oltre il fratello ed entrò nell'atrio subito fuori

dall'ascensore. Ora il rubino pulsava e vibrava contro la sua mano come un insetto in

difficoltà.

Dietro di lei, Alec sussurrò: — Sandalphon. — Attorno a Isabelle divampò una luce che

illuminò la stanza. A differenza di alcuni altri piani che avevano visitato, quello sembrava

almeno parzialmente finito. Isabelle era circondata da pareti spoglie di granito, mentre il

pavimento era di piastrelle lucide e nere. Un corridoio portava in due direzioni: una

terminava in un mucchio di attrezzi da muratore e cavi aggrovigliati; in fondo all'altro si

stendeva un passaggio ad arco oltre al quale si apriva uno spazio buio.

Isabelle si voltò per guardare i compagni. Alec aveva messo via la stregaluce e teneva in

mano una lucente lama dei serafini, che illuminava l'interno dell'ascensore come una

lanterna. Jordan aveva estratto un grosso coltello, dall'aspetto brutale, che stringeva con la

mano destra. Maia sembrava impegnata a raccogliersi i capelli, ma quando abbassò le

mani aveva con sé uno spillone affilato come un rasoio. Anche le unghie le erano cresciute

e gli occhi le brillavano di una luce verdastra e ferina.

— Seguitemi — disse Isabelle. — In silenzio.

Tap, tap faceva il rubino che portava al collo mentre lei procedeva lungo il corridoio,

come un dito insistente che le martellava sulla pelle. Non sentiva gli altri dietro di sé, ma

intuiva la loro presenza grazie alle lunghe ombre che scorrevano sul granito delle pareti.

Aveva i muscoli del collo rigidi e i nervi in tensione, come sempre prima di affrontare una

battaglia. Quella era la parte che le piaceva di meno, l'attesa prima dello scatenarsi della

violenza. Durante un combattimento, l'unica cosa che contava era il combattimento stesso;

ora doveva impegnarsi per tenere la mente concentrata sul compito imminente.

Il passaggio ad arco incombeva sopra di loro. Era di marmo lavorato, dall'aspetto

stranamente antico per un edificio così moderno, e sui lati aveva ornamenti a volute.

Mentre lo attraversava, Isabelle alzò un secondo lo sguardo e per poco non si spaventò:

nella pietra era intasa la faccia di un gargoyle che sogghignava e sembrava guardarla di

traverso. Lei gli fece una boccaccia e si mise a studiare con lo sguardo la stanza in cui era

appena entrata.

Era grande, con il soffitto alto, chiaramente pensata per diventare uno spazioso loft. Le

pareti, interamente finestrate, offrivano una vista sull'East River e sul Queens in

lontananza, coi cartelloni della Coca-Cola che proiettavano il rosso e il bianco sull'acqua

nera. Le luci degli edifici circostanti incombevano luccicando nell'aria della notte come

decorazioni luminose su un albero di Natale. Anche la stanza era buia e piena di strane

ombre irregolari poste a intervalli regolari, vicino al pavimento. Isabelle strinse lo sguardo,

perplessa. Non erano animate, seminavano pezzi di mobili squadrati, a blocchi, ma cosa...?

— Alec — disse piano. Il ciondolo le brillava come se vivesse di vita propria, col cuore di

rubino che le scottava la pelle.

In un secondo il fratello le fu accanto. Sollevò la lama e la stanza si riempì di luce.

Isabelle si portò di scatto una mano alla bocca. — Oh, Dio mio... — sussurrò. — Oh, per

l'Angelo, no!

— Non sei sua madre. — La voce di Simon si incrinò quando pronunciò quelle parole;

Lilith non si voltò nemmeno per guardarlo; aveva ancora le mani appoggiate sulla bara di

vetro. Sebastian ci galleggiava dentro, silenzioso e inconsapevole di tutto. Era a piedi nudi,

notò Simon. — Lui una madre ce l'ha, ed è la stessa di Clary. Clary è sua sorella. Sebastian,

anzi Jonathan, non sarebbe troppo felice se le facessi del male.

A quelle parole Lilith alzò lo sguardo e scoppiò a ridere. — Tentativo coraggioso,

Daylighter — gli disse. — Ma non sono una sprovveduta, sai, ho visto crescere mio figlio.

Spesso gli ho fatto visita sottoforma di civetta. Ho visto come la donna che gli ha dato la

vita lo odiasse: lui non la ama, e nemmeno dovrebbe, e neanche gli importa di sua sorella.

Assomiglia più a me che a Jocelyn Morgenstern. — I suoi occhi scuri si spostarono da

Simon a Jace e quindi a Clary. Non si erano mossi, non davvero. Clary era ancora avvolta

nel cerchio delle braccia di Jace, con il coltello puntato alla gola. Lui lo teneva in mano con

disinvoltura, con negligenza, come se non vi prestasse molta attenzione. Simon però

sapeva quanto in fretta l'apparente disinteresse di Jace sarebbe potuto esplodere in un

gesto violento.

— Jace — disse Lilith. — Entra nel cerchio. Porta con te la ragazza.

Jace avanzò, obbediente, spingendo Clary davanti a se mentre attraversavano il confine

della linea dipinta di nero, le rune all'interno brillarono di un rosso improvviso, intenso. E

non furono le sole ad accendersi. Una runa sul lato sinistro del petto di Jace, poco sopra il

cuore, divampò come un fulmine, con un'intensità tale che Simon dovette chiudere gli

occhi. Ma anche così continuava a vederla, un malvagio intrico di linee rabbiose, stampate

all'interno delle sue palpebre.

— Apri gli occhi, Daylighter — minacciò Lilith. — Il momento è arrivato. Vuoi darmi il

tuo sangue o ti rifiuti? Nel secondo caso conosci il prezzo da pagare.

Simon abbassò lo sguardo su Sebastian nella bara e gli venne un colpo. Sul petto gli era

comparsa una runa identica a quella che aveva appena iniziato a splendere sul petto di

Jace, e la guardò nel momento in cui iniziava a sbiadire. Un secondo dopo era sparita del

tutto e Sebastian era tornato di nuovo bianco e immobile. Nessun movimento, nessun

respiro.

Morto.

— Non posso riportartelo indietro — disse Simon. — È morto. Potrei anche darti il mio

sangue, ma lui non lo ingerirebbe.

Il respiro di Lilith le sibilò fra i denti per l'esasperazione e nello spazio di un istante gli

occhi le brillarono di una luce perfida e corrosiva. — Prima lo devi mordere — disse. — Tu

sei un Daylighter. Nelle tue vene scorre il sangue di un angelo, si è mescolato al tuo, ce

l'hai nelle lacrime, nel fluido dei canini. Il tuo sangue da Daylighter lo rinvigorirà

abbastanza da permettergli di bere e deglutire. Mordilo e dagli il tuo sangue. Riportalo da

me!

Simon la guardò con sguardo allucinato. — Ma quello che stai dicendo... insomma,

secondo te io avrei il potete di riportare in vita i morti?

— È un potere che hai da quando sei diventato un Daylighter — gli disse. — Ma non hai

il diritto di usarlo.

— Il diritto?

Lilith sorrise, facendo scorrere un lungo dito con l'unghia smaltata di rosso sopra la bara

di Sebastian. — Si dice che la storia la scrivono i vincitori — rispose. — Potrebbe non

esserci molta differenza fra il lato della Luce e quello delle Tenebre come invece tu

immagini. Dopotutto, senza il buio la luce non avrebbe niente da cancellare.

— Simon la guardò con sguardo attonito.

— Equilibrio — proseguì lei. — Esistono leggi più antiche di quelle che chiunque di voi

possa immaginare, e una di queste prevede di non riportare indietro ciò che ha varcato la

soglia della morte. È a quest'ultima che appartiene l'anima, dopo che ha lasciato il corpo. E

non la si può riprendere senza pagare un prezzo.

— E tu sei disposta a pagarlo? Per lui? — chiese Simon indicando Sebastian.

— Lui è il prezzo. — Buttò la testa all'indietro e rise. La sua sembrava quasi una risata

umana. — Se la Luce riporta indietro un'anima, le Tenebre hanno il diritto di fare lo stesso.

Questa cosa mi spetta. Ma forse è meglio se chiedi alla tua amichetta Clary di cosa sto

parlando...

Simon guardò Clary. Sembrava sul punto di svenire da un momento all'altro. — Raziel

— disse debolmente. — Quando Jace morì...

— Jace è... morto — La voce di Simon era salita di un'ottava. Jace, malgrado fosse

l'oggetto della discussione, rimase calmo e privo d'espressione, con la mano armata ben

ferma.

— Valentine pugnalò — disse Clary con un soffio di voce. — E poi l'Angelo uccise

Valentine, dicendo che io avrei potuto avere quello che volevo. Io dissi che volevo riavere

Jace, che il mio desiderio era lui, e l'Angelo lo esaudì... per me. — I suoi occhi erano

enormi dentro al viso piccolo e bianco. — Restò morto soltanto per pochi minuti... Quasi

niente...

— Ma è bastato — sibilò Lilith. — Stavo attorno a mio figlio, mentre lui combatteva

contro Jace; lo vidi morire e cadere. Seguii Jace al lago, vidi Valentine che lo ammazzava e

poi l'Angelo che lo resuscitava. Sapevo che quella era la mia occasione. Tornai di corsa al

fiume e recuperai il corpo di mio figlio. L'ho conservato proprio per questo momento. —

Abbasso uno sguardo adorante sulla bara. — Tutto in equilibrio. Occhio per occhio, dente

per dente, una vita per una vita. Jace è il contrappeso: se vive lui, allora deve vivere anche

Jonathan.

Simon non riusciva a staccare gli occhi da Clary. — Quello che sta dicendo...

sull'Angelo... è vero? — le chiese. — E non l'hai mai detto a nessuno?

Rimase sorpreso nel sentire che fu Jace a rispondere. Sfregandosi la guancia contro i

capelli di Clary, disse: — Era il nostro segreto.

Gli occhi verdi di Clary mandarono lampi, ma il ragazzo non si mosse.

— Dunque vedi, Daylighter — disse Lilith. — Mi sto solo prendendo quello che mi

spetta di diritto. La Legge dice che il primo che è stato riportato indietro deve essere qui,

in mezzo al cerchio, quando torna il secondo. — Indicò Jace con un gesto sprezzante del

dito. — Lui è qui, tu sei qui. Tutto è pronto.

— Allora Clary non ti serve — insistette Simon. — Lasciala fuori da questa storia,

lasciala andare.

— Certo che mi serve, invece. Ne ho bisogno per convincere te. Non ti posso fare male

per via del Marchio, e nemmeno minacciarti o ucciderti. Però posso strapparti il cuore

quando strapperò la vita a lei. Ed è quello che farò.

Guardò verso Clary, e Simon la seguì con lo sguardo.

Clary. Talmente pallida da sembrare quasi bluastra, anche se forse quello era dovuto al

freddo. Gli occhi verdi erano enormi su quel viso smunto. Un rivolo di sangue essiccato le

scendeva dal collo fino alla scollatura del vestito, ora macchiato di rosso. Le mani

giacevano abbandonate lungo i fianchi, flosce e tremanti Simon la vide per come era, ma

anche per come era stata quando aveva sette anni: braccia scheletriche, lentiggini e quelle

mollettine blu di plastica che aveva continuato a portare fra i capelli fino a undici anni.

Ripenso alla prima volta in cui le aveva notato delle vere forme da donna sotto le

magliette larghe e i jeans che porta va sempre, e a come non era stato sicuro se continuare

a guardare o distogliere lo sguardo. Ripensò alla sua risata e alla sua matita che si

muoveva rapida sulla carta, lasciando dietro di sé disegni intricati e complessi: castelli con

le guglie, cavalli in corsa, personaggi dai colori vivaci frutto della sua immaginazione.

Puoi andare a scuola da sola, aveva detto sua madre, ma solo se ti accompagna Simon.

Ripensò alla sua ma no dentro la propria mentre attraversavano la strada, e a quello che

provava per quel compito meraviglioso di cui si era fatto carico: proteggerla.

Un tempo era stato innamorato di lei e, forse, una parte di lui lo sarebbe rimasta per

sempre, perché era stata la prima. Ma in quel momento non contava: lei era Clary, faceva

parte di lui, lo aveva sempre fatto e sempre avrebbe continuato a farlo. Mentre la

guardava, lei scuoteva la testa, muovendosi appena. Sapeva cosa gli stava dicendo. Non lo

fare. Non darle quello che vuole. Quello che mi succederà, succederà.

Entrò nel cerchio, e appena i piedi oltrepassarono la linea nera sentì un brivido, una

specie di scossa elettrica, che lo attraversava. — Va bene — disse. — Lo faccio

— No! — gridò Clary, ma Simon non la guardò. Era concentrato su Lilith, che nel

frattempo, con un sorriso freddo e compiaciuto, sollevava la mano e la faceva scorrere

sulla superficie della bara.

Il coperchio svanì, scorrendo all'indietro in un modo che provocò a Simon la strana

associazione con raperini a di una scatola di sardine. Ritirandosi, il coperchio si sciolse e

iniziò a colare lungo i lati del piedistallo di granito, cristallizzandosi in minuscole schegge

di vetro appena toccava terra.

Ora la bara era aperta, come un acquario; all'interno galleggiava il corpo di Sebastian e,

quando Lilith affondo le mani nel liquido, Simon pensò che avrebbe potuto vedere ancora

una volta il bagliore di quella runa sul petto. Sempre sotto il suo sguardo, Lilith prese le

braccia inerti di Sebastian e gliele incrociò sopra il petto, infilando quello bendato sotto

quello integro, con un gesto stranamente tenero. Gli scostò una ciocca di capelli bagnati

dalla fronte bianca e immobile, poi indietreggiò, scrollandosi l'acqua lattiginosa dalle

mani.

— Ora tocca a te, Daylighter.

Simon si avvicinò alla bara. Il viso di Sebastian era fiacco, le palpebre immobili. Sul collo,

nessuna traccia di pulsazioni. Simon ricordò quanto aveva voluto bere il sangue di

Maureen, quanto aveva desiderato sentire i propri denti al fondare nella sua pelle

liberando il fluido salato che vi scorreva sotto. Invece ora... si trattava di mordere un ca-

davere. Solo a pensarci, gli si rivoltava lo stomaco.

Anche se non la stava guardando, sentiva lo sguardo di Clary su di sé. Mentre si chinava

su Sebastian, sentiva anche il suo respiro, così come quello di Jace, che lo fissava con i suoi

occhi vuoti. Piegandosi sulla bara, chiuse le mani attorno alle spalle fredde e vischiose di

Sebastian. Resistette all'impulso di vomitare, abbassò la testa e gli affondò i denti nel collo.

Nella bocca si sentì il sapore del sangue nero dei demoni, amaro come veleno.

Isabelle si muoveva silenziosa fra i piedistalli di pietra. Con lei c'era Alee, Sandalphon in

pugno, che emanava raggi di luce in tutta la stanza. Maia era in uno degli angoli della

stanza, piegata a vomitare, con una mano appoggiata al muro per sorreggersi; Jordan le

stava vicino con l'aria di volerle accarezzare la schiena, ma timoroso di poter essere

respinto.

Isabelle non poteva dare torto a Maia se le era venuto da vomitare. Lo avrebbe fatto

anche lei, in mancanza di anni e anni di preparazione. Mai aveva visto uno spettacolo

simile a quello a cui stava assistendo ora. Nella stanza c'erano decine e decine di piedistalli

di pietra, forse cinquanta, su ognuno dei quali giaceva una cesta a forma di culla. Dentro

c'erano dei bambini. E ognuno di loro era morto.

All'inizio aveva sperato, girando freneticamente pei tutta la stanza, di trovarne uno

ancora vivo, ma si era resa conto che erano tutti morti da tempo. Avevano la pelle

grigiastra, i visetti lividi ed esangui. Erano avvolti dentro delle coperte, e anche se in quel

posto faceva freddo, Isabelle trovava impossibile che i piccoli fossero morti per

assideramento. Non sapeva quale fosse la vera causa del decesso, ma nemmeno poteva

sopportare di investigare troppo da vicino. Quello era un caso da affidare al Conclave.

Alec, dietro di lei, aveva le lacrime agli occhi; quando raggiunsero l'ultimo dei piedistalli,

stava imprecando sottovoce. Maia si era rialzata e ora era appoggiata alla finestra; Jordan

le aveva offerto un pezzo di stoffa, forse un fazzoletto, da portarsi al viso. Le fredde luci

bianche della città brillavano dietro di lei, penetrando il vetro scuro come una punta di

diamante.

— Iz — disse Alec. — Chi ha potuto fare una cosa del genere? Perché qualcuno, anche

un demone...

Si interruppe. Isabelle sapeva a cosa stava pensando. A Max, a quando era nato. Lei

aveva sette anni, Alec nove. Si erano chinati sopra il fratellino nella culla, divertiti e

incantati da quell'affascinante nuova creatura. Avevano giocato con le sue dita minuscole

e riso delle buffe espressioni con cui li stupiva quando gli facevano il solletico.

Isabelle provò una stretta al cuore. Max. Mentre camminava tra le file di culle, ora

trasformate in piccole bare, si sentì opprimere da un incontenibile senso di terrore. Non

poteva non notare che il suo ciondolo stava brillando intensamente e senza interruzioni,

segno che poteva aspettarsi di incontrare un Demone Superiore.

Ripensò a quello che Clary aveva visto nell'obitorio lei Beth Israel. A prima vista sembrava

normale. Ma le dita non erano affatto dita, bensì artigli appuntiti...

Facendo molta attenzione, mise la mano in una delle culle. Evitando accuratamente di

toccare il bambino, spostò di lato la sottile coperta che ne avvolgeva il corpo.

Si sentì il respiro uscirle dalla bocca sotto forma di sussulto. Normali braccia paffute da

neonato, polsi morbidi e rotondi. Le mani erano lisce e senza peli. Ma le dita, le dita erano

artigli, neri come ossa carbonizzate, munite di punte affilate. Senza volerlo, indietreggiò.

— Cosa c'è? — chiese Maia andando verso di loro. Aveva ancora la faccia sconvolta, ma

il tono di voce era calmo. Jordan la seguì, con le mani in tasca. — Cosa hai trovato? —

domandò di nuovo la ragazza.

— Per l'Angelo. — Alec, accanto a Isabelle, stava guardando dentro la culla. — È come...

come il bambino di cui ti ha parlato Clary? Quello del Beth Israel?

Isabelle annuì lèntamente. — Evidentemente non era un caso isolato. Qualcuno deve

aver cercato di crearne molti altri come lui. Altri come... Sebastian.

Isabelle raccontò con calma quello che Clary le aveva confidato: il neonato nell'obitorio,

il libro trovato alla Chiesa di Talto. — Qualcuno sta facendo degli esperimenti sui bambini

— disse — per far nascere altre creature come Sebastian.

— Ma perché qualcuno dovrebbe volere altri come lui? — La voce di Alec era colma di

odio manifesto.

— Lui era forte e veloce — rispose Isabelle. Faceva quasi un male fisico dire qualcosa di

positivo sul ragazzo che le aveva ucciso il fratello e aveva tentato di uccidere anche lei. —

Credo stiano cercando di allevare una razza di guerrieri di livello superiore.

— Non ha funzionato. — Gli occhi di Maia erano velati di tristezza.

Un suono così debole da risultare quasi impercettibile sfiorò i confini dell'udito di

Isabelle. La ragazza alzò la testa di scatto e si portò una mano alla cintura, dove era

avvolta la sua frusta. Qualcosa, nella fitta oscurità sul fondo della stanza, vicino alla porta,

si mosse: un fremito debolissimo, ma sufficiente perché Isabelle si staccasse dagli altri e

corresse in quella direzione. Si precipitò in corridoio, vicino agli ascensori. Sì, qualcosa

c'era: un'ombra che si era liberata dal resto del buio e ora si muoveva scivolando lungo la

parete. Isabelle acquistò velocità e si scagliò in avanti, buttandola a terra.

Non era un fantasma. Avvinghiati insieme sul pavimento, Isabelle scoprì con stupore

che da quella sagoma era uscito un lamento molto umano. Iniziarono a rotolarsi. Sì, la

figura era decisamente umana; sottile e più bassa di Isabelle, indossava una tuta grigia e

delle scarpe da tennis. Si alzarono dei gomiti appuntiti, che la colpirono all'altezza delle

clavicole. Un ginocchio le affondò nella pancia, all'altezza del plesso solare. Isabelle restò

senza fiato e si rotolò su un fianco, cercando con la mano la frusta. Quando riuscì a

estrarla, l'individuo era in piedi. Isabelle si rigirò di nuovo e fece saettare la frusta in

avanti; l'estremità si avviluppò attorno alla caviglia dell'avversario e strinse forte. Isabelle

lo tirò verso di sé e gli fece perdere l'equilibrio.

Poi si rimise in piedi, cercando con la mano libera lo stilo, infilato nella cintura. Con un

gesto rapido tracciò il marchio nyx sul braccio sinistro. Non ci mise molto ad adattare la

vista; quando i suoi occhi si abituarono al buio, l'intera stanza sembrò riempirsi di luce.

Ora riusciva a vedere meglio il suo nemico: una figura sottile in tuta grigia e scarpe da

tennis, che indietreggiava scomposta fino a toccare il muro con la schiena. Il cappuccio

della tuta gli era scivolato all'indietro, scoprendo il viso. La testa era completamente

pelata, ma il viso era senza dubbio quello di una donna, con zigomi pronunciati e grandi

occhi scuri.

— Sta' ferma — le intimò Isabelle tirando con forza la frusta. L'altra gridava di dolore. —

Piantala di fare resistenza.

La donna digrignò i denti. — Verme — le disse. — Miscredente. Non ti dirò niente.

Isabelle si rimise lo stilo nella cintura. — Se tiro la frusta come si deve, ti strappo la

gamba. — Così dicendo diede un altro strattone all'arma, tendendola, poi avanzò fino a

trovarsi di fronte alla donna. La guardò.

— Quei bambini — disse l'altra — non erano abbastanza forti. Una partita troppo

debole, troppo.

— Troppo debole per cosa? — Vedendo che la donna non rispondeva, Isabelle le

ringhiò contro: — Puoi dirmelo o perdere una gamba, a te la scelta. E non pensare che non

ti lascerei qui a morire dissanguata sul pavimento... Chi uccide i bambini non merita pietà.

L'altra digrignò di nuovo i denti e sibilò come un serpente. — Se mi fai del male, lei ti

annienterà.

— Lei chi... ? — Isabelle si interruppe, ricordando le parole di Alec. Talto è uno dei

diciassette nomi di Lilith. Praticamente la si può definire la diabolica Signora dei Bambini

Morti. — Lilith — disse. — Sei una seguace di Lilith. Hai fatto tutto questo... per lei?

— Isabelle. — Era Alec, che davanti a sé teneva la luce di Sandalphon. — Cosa sta

succedendo? Maia e Jordan stanno perlustrando tutto in cerca di... altri bambini, ma

sembra che fossero solo nella stanza grande. E questa invece?

— Questa... persona — disse Isabelle con aria disgustata — è un membro della setta

della Chiesa di Talto. A quanto pare venerano Lilith ed è per lei che hanno ucciso tutti

questi bambini.

— Non sono stati omicidi! — Esclamò la donna mettendosi dritta a fatica. — Non sono

stati omicidi, è stato un sacrificio. Sono stati sottoposti a un test e sono risultati deboli. Non

è colpa nostra.

— Fammi indovinare — disse Isabelle. — Avete cercato di iniettare alle donne incinte

del sangue di demone. Peccato che quella roba è tossica e che i bambini non potevano

sopravvivere. Nascevano deformi e poi morivano.

La donna mugolò. Fu un suono appena percettibile, ma Isabelle notò che Alee aveva

stretto gli occhi. Fra loro due era sempre stato lui il migliore a capire la gente.

— Uno di quei bambini — disse. Era il tuo. Come hai potuto iniettare al tuo piccolo del

sangue di demone?

Alla donna iniziò a tremare la bocca. — Non l'ho fatto. Eravamo noi a subire le iniezioni

di sangue. Le madri. Ci rendevano più forti, più veloci. Lo stesso con i nostri mariti. Però

ci siamo ammalati, sempre di più; iniziavano a caderci i capelli, e le unghie... — Sollevò

lentamente le mani, mostrando dita con unghie annerite e altre che erano cadute lasciando

dei solchi lacerati e sanguinolenti. Inoltre le braccia erano chiazzate di lividi nerastri.

— Stiamo morendo tutti — disse. Nella voce c'era un che di compiaciuto. — È questione

di giorni.

— Ti ha costretta a prendere del veleno e tu continui a venerarla? — le chiese Alec.

— Tu non capisci. — La donna aveva la voce fioca, trasognata. — Prima che lei mi

trovasse, non avevo niente. E come me tutte le altre. Vivevo per strada, per non

congelarmi dormivo sopra le grate della metropolitana. Lilith mi ha offerto un posto dove

vivere, una famiglia che si prendesse cura di me. Solo essere in sua presenza significa

essere al sicuro... Una sensazione che prima non avevo mai provato.

— Tu hai visto Lilith? — disse Isabelle sforzandosi di non far trasparire lo stupore.

Conosceva le sette demoniache; una volta, per Hodge, aveva scritto su di loro una rela-

zione, ricevendo anche un bel voto. La maggior parte delle sette veneravano demoni

inventati, frutto dell'immaginazione; alcune riuscivano a evocarne qualche demone

minore, che a quel punto uccideva tutti o si accontentava di farsi servire dai suoi adepti,

appagando i propri desideri senza dare in cambio granché. Però non aveva mai sentito

parlare di una setta che venerava un Demone Superiore e che lo aveva persino visto in

carne e ossa. Figuriamoci poi un demone potente come Lilith, la madre degli stregoni. —

Sei stata ammessa in sua presenza?

Gli occhi della donna si socchiusero. — Sì. E col suo sangue dentro di me riesco a sentire

quando è vicina. E ora lo è.

Isabelle non poté farne a meno: la mano le andò dritta sul ciondolo. Aveva iniziato a

pulsare ritmicamente dal momento in cui erano entrati nell'edificio e lei aveva pensato che

fosse per via del sangue di demone contenuto nei cadaveri dei bambini morti. Ora però si

rese-conto che la vicinanza di un Demone Superiore era una spiegazione molto più

sensata. — Lei è qui? E dove?

La donna sembrava sul punto di abbandonarsi al sonno. — Di sopra — disse

distrattamente. — Con quel ragazzo vampiro. Quello che gira di giorno. Ci ha mandato a

prenderlo, ma lui era protetto e non abbiamo potuto torcergli un capello. Chi si è messo

sulle sue tracce è morto. Poi, quando fratello Adamo è tornato per dirci che il ragazzo era

protetto dal sacro fuoco, lady Lilith si è arrabbiata e lo ha ucciso all'istante. Che fortuna,

morire per mano sua, che fortuna... — Iniziò a tremarle il respiro. — E intelligente, lady

Lilith: ha trovato un altro modo per attirare il vampiro...

La frusta cadde dalla mano di Isabelle, paralizzatasi all'improvviso. — Simon? Ha

portato qui Simon? Perché?

— Nessuno di quelli che vanno da lei — esalò la donna — fa ritorno...

Isabelle cadde in ginocchio, riprendendo la frusta. — Piantala — le ordinò con voce

tremante. — Piantala di blaterare e dimmi dov'è. Dove lo ha portato? Dov'è Simon? Dim-

melo, altrimenti...

— Isabelle — la interruppe Alee in tono grave. — Iz, è inutile. È morta.

Isabelle rimase a guardare incredula la donna. Era morta fra un respiro e l'altro, con gli

occhi spalancati e il viso disegnato da linee morbide. Ora era possibile vedere che, sotto le

privazioni, la calvizie e i lividi, c'era una giovane di venti anni al massimo. —

Maledizione.

— Non capisco — disse Alec. — Che cosa può volere un Demone Superiore da Simon?

Lui è un vampiro. Certo, un vampiro potente, ma...

— Il Marchio di Caino — disse Isabelle sconvolta. — Tutto questo deve avere qualcosa a

che fare con il Marchio. Per forza. — Raggiunse l'ascensore e pigiò con forza il pulsante di

chiamata. — Se Lilith è davvero la prima moglie di Adamo e Caino il figlio di Adamo,

allora il Marchio di Caino è quasi vecchio quanto lei.

— Dove stai andando?

— Ha detto che erano di sopra — rispose Isabelle. — Passerò al setaccio tutti i piani,

finché non lo troverò.

— Non può fargli del male, Izzy — disse Alec con quella voce da saggio che Isabelle

detestava. — Lo so che sei preoccupata, ma ha il Marchio di Caino: è un intoccabile.

Nemmeno un Demone Superiore può metterlo in pericolo, nessuno.

Isabelle lo guardò con cipiglio. — E allora perché lo vuole, secondo te? Per avere

qualcuno che passi in lavanderia a ritirarle i vestiti? Veramente, Alee...

Si sentì il suono di un campanello e la freccia sopra l'ascensore più distante si illuminò.

Isabelle avanzò mentre le porte iniziavano ad aprirsi. Ne uscì della luce... E dopo la luce, si

riversò fuori una marea di donne e uomini, tutti pelati, emaciati, con tute grigie e scarpe

da tennis. Brandivano armi rudimentali ricavate dai materiali da costruzione: schegge di

vetro, tondini d'acciaio, blocchi di cemento. Nessuno parlava. In un silenzio tanto assoluto

quanto inquietante, traboccarono fuori dall'ascensore come una cosa sola, puntando verso

Alec e Isabelle.

Capitolo 18

CICATRICI DI FUOCO

Le nuvole avevano iniziato a rotolare sopra il fiume, come a volte fanno la sera, portando

con loro una densa foschia. Questa non nascondeva ciò che stava accadendo sul tetto, ma

si limitava a depositare una sorta di nebbiolina oscura su tutto il resto. Gli edifici che si

innalzavano tutt'intorno erano tetri pilastri di luce, e la luna splendeva a stento, una

lampadina soffocata da quelle nuvole che correvano rapide e basse. Le schegge della bara

di vetro, sparse sul pavimento di piastrelle, brillavano come cristalli di ghiaccio; anche

Lilith brillava, pallida al chiarore della luna, guardando Simon che si piegava sul corpo

immobile di Sebastian e beveva il suo sangue.

Clary sopportava a stento quello spettacolo. Sapeva che Simon detestava quel che stava

facendo, e sapeva anche che lo stava facendo per lei. Per lei e persino, in piccola parte, per

face. Si rendeva conto di quale sarebbe stata la fase successiva del rituale: Simon avrebbe

donato il suo sangue a Sebastian senza opporre resistenza, dopodiché sarebbe morto. I

vampiri potevano morire per dissanguamento. Sarebbe andata così, e lei lo avrebbe perso

per sempre, e sarebbe stata colpa sua. Tutta colpa sua.

Sentiva Jace dietro la schiena, con le braccia ancora avvolte attorno a lei e il cuore che gli

batteva lento e regolare contro le sue scapole. Ripensò al modo in cui lui l'aveva stretta sui

gradini della Sala degli Accordi di Idris. Il rumore del vento fra le foglie mentre la baciava;

le sue mani calde su entrambe le guance; il modo in cui gli aveva sentito battere il cuore,

pensando che a nessuno battesse così, come se ogni palpito corrispondesse ai suoi. Da

qualche parte doveva esserci ancora, come Sebastian dentro quella prigione di ghiaccio.

Doveva esistere un modo per raggiungerlo.

Lilith stava guardando Simon chinato sopra Sebastian coi suoi occhi neri fissi e

spalancati. La presenza di Clary e di Jace le era del tutto indifferente.

— Jace — sussurrò Clary. — Jace, non voglio guardare. Si strinse a lui, come se volesse

rannicchiarsi fra le sue braccia, poi finse di spaventarsi quando il coltello le sfiorò la gola.

— Per favore, Jace — gli sussurrò. — Il coltello non ti serve. Lo sai che non posso farti

male.

— Ma perché...

— Ti voglio solo guardare. Voglio vederti in faccia. Clary sentì il petto gonfiarsi e poi

abbassarsi una sola volta, rapidamente. Lui rabbrividì, come se stesse lottando contro

qualcosa, respingendola. Poi si mosse, come solo lui sapeva fare, talmente in fretta da

sembrare un lampo di luce. Tenne il braccio destro stretto attorno a Clary e con la mano

sinistra fece scivolare il coltello nella cintura.

Clary si sentì il cuore battere all'impazzata. Potrei scappare, pensò, ma fu solo un istante.

Lui l'avrebbe ripresa. Pochi attimi dopo Jace era di nuovo avvolto attorno a lei,

afferrandole le braccia per girarla. Sentì le sue dita che le salivano su per la schiena, per le

braccia nude e tremanti, mentre veniva voltata faccia a faccia verso di lui.

Ora Clary non stava più osservando Simon e nemmeno il demone Lilith, anche se

continuava ad avvertire la loro presenza alle spalle, cosa che le dava i brividi lungo la

schiena. Alzò lo sguardo su Jace. Il suo volto le era così familiare... I lineamenti, il modo in

cui i capelli gli ricadevano sulla fronte, la piccola cicatrice sopra lo zigomo, l'altra sulla

tempia. Le ciglia, di un tono più scure dei capelli. Gli occhi, del colore di un vetro giallo

chiaro. Era quello a renderlo diverso, pensò. Aveva ancora l'aspetto di Jace, ma lo sguardo

era vacuo e spento, come se lo stesse osservando da dietro una finestra che dava su una

stanza vuota.

— Ho paura — gli disse.

Lui le accarezzò una spalla, facendo partire delle scintille che le si irradiarono lungo i

nervi; fu con un senso di nausea che si accorse di come il suo corpo ancora reagiva al tocco

di lui. — Non permetterò che ti succeda niente di male.

Clary lo fissò. Lo pensi sul serio, vero! È come se non riuscissi a vedere il distacco che c'è fra le

tue azioni e le tue intenzioni. In qualche modo lei deve essere riuscita a nascondertelo.

— Non riuscirai a fermarla — gli disse. — Lei mi ucciderà, Jace.

Lui scosse la testa. — No, non lo farà. Clary voleva gridare, ma si sforzò di mantenere la

voce calma e ponderata. — Lo so che sei qui dentro, Jace. Il vero Jace. — Si strinse più forte

a lui, sentendo premere contro il proprio ventre la fibbia della cintura. — Potresti

combatterla...

Aveva detto la cosa sbagliata. Jace si irrigidì completamente e lei gli vide un lampo di

angoscia negli occhi, lo sguardo di un animale in trappola. Era bastato un istante per farlo

tornare inflessibile. — Non posso.

Clary rabbrividì. L'espressione di lui era tremenda, davvero tremenda... Vedendola

tremare, però, Jace addolcì lo sguardo. — Hai freddo? — le chiese, e per un istante sembrò

il vecchio Jace, preoccupato che lei stesse bene. Le fece sentire male alla gola.

Annuì, anche se la temperatura era l'ultima cosa a cui pensare. — Posso mettere le mani

dentro la tua giacca?

Lui fece di sì con la testa. Teneva la giacca sbottonata e lei vi fece scivolare dentro le

mani, toccandogli piano la schiena. Attorno a loro, un silenzio angosciante. La città

sembrava congelata dentro un prisma di ghiaccio. Persino la luce irradiata dagli edifici

circostanti era fredda e immobile.

Jace respirava in modo lento e costante. Clary riusciva a vedergli la runa sul petto,

attraverso il tessuto strappato della camicia. Era come se, a ogni respiro, quel disegno

pulsasse. Era disgustoso, pensò, attaccato a lui come una sanguisuga che gli risucchiava

quanto di buono aveva, che gli risucchiava Jace.

Si ricordò quello che Luke le aveva detto su come distruggere una runa. Se la si sfigura

abbastanza, è possibile ridurne o distruggerne i poteri. A volte capita che, durante il

combattimento, il nemico cerchi di ustionare o ferire la pelle dello Shadowhunter,

appunto per privarlo del potere delle sue rune.

Tenne gli occhi fissi sul viso di Jace. Dimentica quello che sta succedendo, pensò. Dimenticati

di Simon e del coltello che hai alla gola. Quello che dirai adesso conta più di tutto quello che hai

mai detto finora.

— Ricordi quello che mi hai detto al parco? — sussurrò.

Lui la guardò sorpreso. — Cosa?

— Quando ti dissi che non capivo il significato di quella frase. Adesso me la ricordo e

capisco anche cosa voleva dire. Mi spiegasti che l'amore era la forza più potente al mondo,

più potente di qualunque altra cosa.

Fra le sopracciglia di Jace comparve una sottile increspatura. — Io non...

— Sì invece. — Vacci piano, Clary, si disse, ma non riusciva a trattenere la tensione che le

affiorava nella voce. — Te lo ricordi. La cosa più potente che ci sia, hai detto. Più forte del

paradiso e dell'inferno. Dev'essere più forte anche di Lilith, allora.

Niente. Lui continuava a fissarla come se non la sentisse. Era come gridare dentro un

tunnel nero e vuoto. Jace, Jace, Jace. Lo so che ci sei.

— C'è un modo per proteggermi e per continuare a fare quello che vuole lei — gli disse.

— Non sarebbe la cosa migliore?, — Spinse ancora di più il proprio corpo contro il suo,

avvertendo una stretta allo stomaco. Era come stringere Jace e non stringerlo al tempo

stesso, gioia e orrore mescolati insieme. E sentiva il suo corpo che reagiva al proprio, il

battito del cuore nelle orecchie, nelle vene; lui non aveva smesso di desiderarla,

nonostante chissà quanti livelli di controllo Lilith stesse esercitando sulla sua mente.

— Ora te lo spiego io — gli sussurrò sfregandogli le labbra contro il collo. Inalò il suo

odore, familiare come quello della propria stessa pelle. — Ascoltami.

Alzò il viso. Quando lui si chinò per ascoltarla, fece scivolare la mano dalla vita di Jace

all'elsa del pugnale che teneva infilato nella cintura. Lo estrasse proprio come lui le aveva

insegnato a fare quando si allenavano, tenendolo ben saldo dentro al palmo, poi strisciò

con violenza la lama sul lato sinistro del petto di lui, formando un arco basso e lungo. Jace

lanciò un urlo, più per lo spavento che per il dolore, pensò lei, e dalla ferita schizzò del

sangue che iniziò a colargli lungo la pelle, oscurando la runa. Il ragazzo si portò una mano

al petto e, quando la tolse e la vide rossa, fissò Clary con gli occhi sgranati, come se in un

certo senso fosse veramente addolorato, veramente incapace di credere a quel tradimento.

Clary si allontanò da lui, girandosi appena sentì il grido di Lilith. Simon non era più

chino sopra Sebastian; si era rialzato e ora guardava Clary, col dorso della mano premuto

contro la bocca. Il sangue nero dei demoni gli colava dal mento e gli finiva sulla maglietta

bianca. Aveva gli occhi spalancati.

— Jace! — La voce di Lilith si innalzò, sbalordita. — Jace, prendila. Te lo ordino.

Lui non si mosse. Spostava lo sguardo da Clary a Lilith alla propria mano insanguinata,

e ancora da capo. Simon aveva iniziato a indietreggiare rispetto a Lilith; all'improvviso si

fermò e si piegò in due, cadendo sulle ginocchia. Lilith diede le spalle a Jace e si avvicinò a

lui, con i severi lineamenti del viso contorti dalla tensione. — Alzati! — sbraitò. — In

piedi! Hai bevuto il suo sangue, ora a lui serve il tuo!

Simon si sforzò di mettersi seduto, poi scivolò senza forze sul pavimento. Gli venne un

conato e iniziò a vomitare sangue nero. Clary ricordo quando a Idris aveva detto che il

sangue di Sebastian era come veleno. Lilith alzò un piede all'indietro per assestare un

calcio a Simon, ma poi indietreggiò barcollando come se fosse stata spinta da una robusta

mano invisibile. Lanciò uno strillo acuto: nessuna parola, solo il grido simile a quello di

una civetta, il suono dell'odio e della rabbia allo stato puro.

Non era qualcosa che avrebbe potuto produrre un essere umano, piuttosto schegge di

vetro appuntite che finivano dritte nelle orecchie di Clary. — Lascia stare Simon! Sta male.

Non lo vedi che sta male?! — gridò.

Si pentì all'istante di aver parlato. Lilith si voltò lentamente, posando uno sguardo

freddo e autoritario su Jace. — Ti avevo avvisato, Herondale — tuonò la sua voce. — Non

farla uscire dal cerchio. Prendile l'arma.

Clary si era a malapena resa conto di stringere ancora il pugnale. Aveva talmente freddo

da sentirsi quasi paralizzata, ma, al di sotto di quella sensazione, una rabbia

incontrollabile verso Lilith e verso tutto le consentì di muovere il braccio. Buttò a terra il

coltello, che scivolò sulle piastrelle e arrivò ai piedi di Jace. Lui lo guardò con sguardo

perso, come se fosse la prima volta che vedesse un'arma simile.

La bocca di Lilith era sottile come una ferita sanguinante. Il bianco degli occhi era

sparito: nello sguardo non c'era che nero. Non c'era più niente di umano. — Jace — sibilò.

— Jace Herondale, mi hai sentito. E mi obbedirai.

— Prendilo — disse Clary a Jace, guardandolo. — Prendilo e uccidi lei o me. A te la

scelta.

Jace si chinò lentamente e raccolse il pugnale.

Alec teneva Sandalphon in una mano e, nell'altra, un hachiwara, adatto per parare attacchi

multipli. Ai suoi piedi giacevano almeno sei dei membri della setta, morti o privi di sensi.

Alec aveva già sconfitto un discreto numero di demoni, ma combattere contro i seguaci

della Chiesa di Talto aveva un che di particolarmente sinistro. Si muovevano tutti insieme,

più simili a una marea nera che a un gruppo di persone, ed erano inquietanti, perché

apparivano allo stesso tempo silenziosissimi, forti e veloci. Come se non bastasse,

sembrava che non avessero la minima paura di morire. Anche se Alec e Isabelle gridavano

loro di stare indietro, quelli continuavano ad avanzare come un'orda muta e compatta che

si scagliava contro gli Shadowhunters con l'incoscienza autodistruttiva dei lemming che si

gettano giù da una rupe. Avevano seguito Alec e Isabelle lungo il corridoio fino al grande

salone colmo di piedistalli di pietra, ma poi Jordan e Maia erano stati spinti a correre dal

rumore della lotta: lui con le sembianze da lupo, lei ancora umana ma con gli artigli

interamente dispiegati.

Era come se i membri della setta non si accorgessero nemmeno della loro presenza.

Continuavano a combattere, cadendo uno dopo l'altro, mentre Alec, Maia e Jordan

tiravano colpi a destra e a manca con coltelli, lame e artigli. La frusta di Isabelle formava

disegni luccicanti nell'aria mentre si accaniva sui corpi, lanciando schizzi di sangue. Maia

in particolare stava dando ottima prova di sé: attorno aveva i corpi accasciati di almeno

una dozzina di avversari e ora ne stava attaccando uno con una furia devastante; le mani,

munite di artigli, erano rosse fino ai polsi.

Uno dei nemici avanzò veloce contro Alec e gli si avventò contro a mani tese. Aveva il

cappuccio alzato, perciò non era possibile vedergli la faccia, né indovinarne il sesso o l'età.

Alec gli affondò la lama di Sandalphon nel lato sinistro del petto. La creatura gridò: il

grido di un uomo, forte e profondo. Collassò, tenendosi le mani aggrappate al petto, dove

le fiamme lambivano i bordi del buco apertosi nella sua felpa. Alec si girò, disgustato.

Odiava vedere quel che succedeva agli umani quando la lama dei serafini penetrava nella

loro carne.

All'improvviso sentì un forte bruciore lungo la schiena e, voltandosi, vide un altro

seguace di Talto che brandiva un pezzo d'acciaio acuminato. Questo però non portava il

cappuccio: era un uomo, col viso talmente magro che gli zigomi sembravano bucargli la

pelle. Sibilò e si scagliò di nuovo contro Alec, il quale saltò di lato lasciando che l'arma del

nemico gli fischiasse accanto senza toccarlo. Si girò e gliela calciò via di mano, facendola

cadere sul pavimento; l'altro allora voltò le spalle ad Alec e, quasi inciampando in uno dei

corpi, cominciò a scappare.

Alec esitò un istante. L'uomo era quasi riuscito ad arrivare alla porta. Sapeva di doverlo

seguire, perché magari stava correndo ad avvertire qualcuno o a chiedere rinforzi, ma si

sentì stanco nel profondo, disgustato e persino un po' nauseato. Forse quelle persone

erano possedute, forse non erano nemmeno più del tutto persone, ma uccidere degli esseri

umani era un po' troppo, per lui.

Si domandò cosa ne avrebbe pensato Magnus, ma a essere sinceri lo sapeva già. Non era

la prima volta che affrontava simili creature, i servitori di una setta demoniaca. Quasi tutto

quello che avevano di umano era stato consumato dal demone per ricavarne energia, non

lasciando nient'altro che lui feroce desiderio di uccidere e un corpo che moriva di una

lenta agonia. Ormai non li si poteva più salvare: incurabili, corrotti per sempre. Sentì la

voce di Magnus come se lo stregone gli fosse accanto. Ucciderli è il gesto più

compassionevole che puoi compiere.

Pigiato di nuovo l'hachiwara dentro la cintura, Alee iniziò l'inseguimento scagliandosi

fuori dalla porta ed entrando nel corridoio alla ricerca del fuggitivo. Non c'era nessuno. Le

porte dell'ascensore più distante si aprirono di colpo, facendo partire uno strano segnale

acustico, molto penetrante. Da quel punto si aprivano diverse porte; Alee, sapendo di non

avere indizi, ne scelse una a caso e la imboccò di corsa.

Si ritrovò in un labirinto di stanzette non ancora completate: era stato applicato di fretta

del cartongesso e, dai buchi nelle pareti, spuntavano cavi multicolori. La lama dei serafini

creava una rete di luce sulle pareti, mentre il ragazzo si spostava cautamente da un vano

all'altro, coi nervi a fior di pelle. A un certo punto la luce iniziò a muoversi e Alee fece un

salto. Abbassando la lama, vide un paio di occhi rossi e un corpicino grigio che si rifugiava

in una cavità del muro. Il ragazzo fece una smorfia di disgusto. Quella era New York.

Anche in un edificio nuovo di zecca, i topi.

Alla fine, le stanze si aprivano in uno spazio più ampio, non come il salone coi

piedistalli, ma comunque molto grande. C'era anche una parete di vetro, coperta in alcuni

punti con cartongesso incollato.

In uno degli angoli era rannicchiata un'ombra scura, vicino a una tubatura aperta. Alee le

si avvicinò con cautela. Era solo un gioco di luce? No, la sagoma era chiaramente umana,

una figura piegata e accovacciata con indosso abiti scuri. La runa della visione di Alee lo

solleticò mentre strizzava gli occhi per guardare e si sporgeva in avanti. La sagoma si

rivelo essere quella di una donna scalza, con le mani incatenate davanti a sé alla tubatura.

Sollevò la testa, quando Alee le si avvicinò, e la debole luce che si riversò dalle finestre le

illuminò la chioma biondo pallido.

— Alexander? — disse con voce colma di stupore. — Alexander Lightwood?

Era Camille.

— Jace. — La voce di Lilith si abbatté come una frusta sulla carne viva; persino Clary

trasalì quando fu raggiunta da quel suono. — Io ti ordino di...

Jace arretrò con il braccio. Clary si irrigidì, preparandosi... Finché lui non lanciò il coltello

contro Lilith. Saettò nell'aria, metro dopo metro, e le affondò nel petto; lei perse l'equilibrio

e barcollò all'indietro. I suoi tacchi scivolarono sulle piastrelle lisce, poi il demone si rad-

drizzò ringhiando e cercando con una mano di estrarre l'arma conficcatasi nel costato.

Sputando parole in una lingua che Clary non capiva, la prese e la buttò a terra: la lama

cadde con un sibilo, dissolta per metà, come fosse stata corrosa da un potente acido.

La donna si girò di scatto verso Clary. — Cosa gli hai fatto? Che cosa? — Fino a un

momento prima Lilith aveva gli occhi completamente neri, ora sembravano sporgere

all'infuori: dalle cornee le guizzavano serpenti neri. Clary lanciò un urlo e indietreggiò,

rischiando di inciampare su un cespuglio basso. Quella era la Lilith che aveva visto nella

visione di Ithuriel, con gli occhi di serpe e la voce aspra e roboante. Avanzò verso Clary...

E all'improvviso Jace fu tra loro, bloccando la strada a Lilith. Clary lo guardò: era di

nuovo lui. Sembrava ardere del fuoco della giustizia, come era successo a Raziel vicino al

lago Lyn durante quella notte terribile. Dalla cintura aveva estratto una lama dei serafini,

il cui bagliore argenteo gli si rifletteva negli occhi; il sangue gli colava dallo strappo nella

camicia e gli lucidava la pelle nuda. Il modo in cui guardava lei, in cui guardava Lilith... Se

gli angeli avessero potuto risorgere dall'inferno, pensò Clary, avrebbero avuto il suo

aspetto. — Michele — disse, e Clary non sapeva se fosse per via della forza di quel nome o

della rabbia nella voce, ma la lama di Jace si illuminò più intensamente di qualsiasi altra

lama dei serafini avesse mai visto. Distolse lo sguardo per un istante, accecata, e vide

Simon accovacciato accanto alla bara di vetro di Sebastian, simile a un mucchietto scuro.

Si sentì il cuore contorcersi nel petto. E se il sangue di demone di Sebastian lo aveva

avvelenato? Il Marchio di Caino sarebbe stato inutile. Era un gesto che aveva compiuto

volontariamente contro se stesso. Per lei. Simon.

— Ah, Michele. — La voce di Lilith traboccava di ilarità, mentre si muoveva verso Jace.

— Il capitano delle milizie del Signore. Lo conoscevo.

Jace sollevò la lama dei serafini; brillò come una stella, così forte che Clary si chiese se

riuscisse a vederla tutta la città, come una torcia che perforava il cielo. — Non fare un altro

passo.

Lilith, con grande sorpresa di Clary, si fermò. — Michele uccise il demone Samael, di cui

ero innamorata — rivelò. — Come mai, giovane Shadowhunter, i vostri angeli sono così

freddi e spietati? Perché distruggono chi non vuole obbedire?

— Non pensavo che fossi una così grande sostenitrice del libero arbitrio — rispose Jace,

e il modo in cui lo disse, con la voce carica di sarcasmo, contribuì a rassicurare

ulteriormente Clary sul fatto che quello era l'unico e autentico Jace. — Allora che ne pensi

di lasciarci scendere tutti da questo tetto? Io, Simon e Clary? Cosa ne dici, demone? È

finita. Ora non mi controlli più. Non voglio ferire Clary, e Simon non ti obbedirà. Quanto

a quella schifezza che stai cercando di resuscitare, be', ti consiglio di sbarazzartene prima

che cominci a puzzare. Perché non tornerà, ed ha passato la data di scadenza da un pezzo.

Il viso di Lilith si contrasse in una smorfia. Sputò verso Jace, e la sua saliva era una

fiamma nera che, colpito il suolo, si trasformò in un serpente che strisciò verso il ragazzo

con le fauci spalancate. Jace lo schiacciò con una scarpa e si sporse verso la donna con la

lama spiegata; ma quando la luce fu sul punto di illuminarla, Lilith aveva lasciato dietro di

sé soltanto un'ombra, per poi svanire e riformarsi di nuovo alle spalle di Jace. Quando lui

si voltò, lei gli si avvicinò quasi svogliatamente e gli batté il petto con la mano aperta.

Jace fece un volo e la lama dei serafini gli cadde di mano, scivolando sulle piastrelle. Il

ragazzo andò a schiantarsi contro il muretto che delimitava la terrazza con una forza tale

da creare delle crepe nell'intonaco. Poi cadde a terra, visibilmente scosso, con un tonfo

sordo.

Senza fiato, Clary corse per recuperare la lama dei serafini, ma non riuscì a raggiungerla:

Lilith sollevò la ragazza di peso con due mani scarne e ghiacciate, dopodiché la scagliò con

una forza spaventosa dentro una siepe bassa. I rami le massacrarono la pelle, aprendole

delle lunghe ferite. Lottò per liberarsi, col vestito rimasto impigliato tra il fogliame; senti la

seta che si strappava mentre si rimetteva in piedi, e quando si girò vide Lilith che faceva

rialzare Jace afferrandogli con mano ben salda il tessuto insanguinato della camicia.

Gli fece un sorriso, rivelando che anche i denti erano neri, splendenti come metallo. —

Sono contenta che sei in piedi, piccolo Nephilim. Ti voglio guardare in faccia mentre ti

uccido, non pugnalarti alle spalle come hai fatto tu con mio figlio.

Jace si passò la manica della camicia sulla faccia,- perdeva sangue da una lunga ferita

sulla guancia, e il tessuto da bianco diventò rosso. — Lui non è tuo figlio. Gli hai solo dato

del sangue, e questo non lo rende tuo. Madre di stregoni... — Si interruppe e girò la testa

per sputare sangue. — Non sei madre di nessun altro.

Gli occhi di serpente di Lilith saettarono avanti e indietro furiosamente. Clary,

districandosi a fatica dalla siepe, vide che ognuno dei serpenti aveva due occhi rossi e

luminosi. Si sentì rivoltare lo stomaco a osservarli mentre si muovevano, con i loro sguardi

che sembravano strisciare su e giù dal corpo di Jace. — Tagliare la mia runa, che gesto

brutale — pronunciò con odio.

— Ma efficace — ribatté Jace.

— Non puoi vincere contro di me, Jace Herondale — gli disse. — Potrai anche essere il

più grande Shadowhunter che questo mondo abbia mai conosciuto, ma io sono più di un

semplice Demone Superiore.

— E allora combatti — la sfidò Jace. — Ti darò un'arma, io userò la mia lama dei serafini.

Un duello uno contro uno, e vediamo chi vince.

Lilith lo guardò scuotendo piano la testa, coi capelli che le fluttuavano attorno come

fumo nero. — Sono la più antica di tutti i demoni disse. — Non sono un uomo, in me non

c'è traccia di quell'orgoglio maschile con cui mi vuoi stuzzicare, e un duello non mi

interessa. Quella è una debolezza tipica del tuo sesso, non del mio: io sono una donna,

userò qualsiasi arma, le userò tutte, per ottenere ciò che voglio. — A quel punto lo lasciò

andare con una spinta di disdegno; Jace barcollò un istante, ma si rimise subito diritto e

corse ad afferrare la lucente lama di Michele, ancora a terra.

La agguantò proprio mentre Lilith rideva e sollevava le mani. Dai suoi palmi aperti

esplosero delle ombre semiopache, e per Jace fu uno shock vedere che si solidificavano

formando due demoni identici, dalla forma nera e indistinta, con gli occhi color rosso

brillante. Toccarono terra muovendo minacciosi le zampe e ringhiando. Erano due cani,

pensò Clary, allibita. Due cani neri, scarni e dall'aspetto feroce, che ricordavano

vagamente due dobermann.

— Cani infernali — disse Jace in un soffio. — Clary...

Si interruppe quando una delle due bestie saltò verso di lui con la bocca spalancata,

grande come quella di uno squalo, sputando dalla gola un latrato agghiacciante. Un attimo

dopo anche il secondo spiccò un balzo in aria e si buttò direttamente su Clary.

— Camille. — Alec non ci stava capendo più niente. — Che cosa ci fai tu qui?

Si rese subito conto di aver fatto una domanda idiota e dovette resistere all'impulso di

tirarsi da solo una sberla. L'ultima cosa che voleva era fare la figura dello stupido davanti

alla ex fidanzata di Magnus.

—È stata Lilith — disse il vampiro con una vocina tremante. — Ha detto ai suoi seguaci

di fare irruzione nel Santuario. Non è attrezzato per difendersi dagli umani, e loro lo sono,

più o meno. Mi hanno tagliato le catene e mi hanno portata qui da lei. — Alzò le mani,

scuotendo gli anelli metallici che le legavano i polsi alla tubatura. — Mi hanno torturata.

Alec si accovacciò, per avere gli occhi alla stessa altezza di quelli di Camille. I vampiri

non potevano avere lividi, perché guarivano troppo in fretta, ma il lato sinistro dei capelli

della donna era sporco di sangue, dettaglio da cui Alee dedusse che probabilmente stava

dicendo la verità. — Diciamo che ti credo — le disse. — Che cosa voleva da te? Niente di

tutto quello che so su Lilith dice che nutra un particolare interesse per i vampiri...

— Tu sai perché il Conclave mi aveva imprigionata — rispose lei. — Avrai sentito.

— Hai ucciso tre Shadowhunters. Magnus dice che sostenevi di averlo fatto perché

qualcuno ti aveva ordinato di... — Si interruppe. — Lilith?

— Se te lo dico, mi aiuterai? — Il labbro inferiore le tremò. Aveva gli occhi enormi,

verdi, supplicanti. Era bellissima. Alec si chiese se avesse mai guardato in quel modo

anche Magnus e al solo pensarci gli veniva voglia di scuoterla.

— Forse — rispose con una freddezza nella voce che stupì anche lui. — Direi che in

questo momento non hai molto potere di trattativa. Potrei andarmene e lasciarti nelle mani

di Lilith, tanto a me non cambierebbe niente.

— Sì, invece — fece l'altra. Parlava in tono grave. — Magnus ti ama. Ma non ti amerebbe

se tu fossi il genere di persona che abbandona qualcuno in pericolo.

— Lui amava te — disse Alec.

Camille fece un sorriso malinconico. — Sembra che da allora abbia imparato la lezione.

Alec si inclinò leggermente all'indietro sui talloni. Senti — le disse. — Dimmi la verità. Se

lo fai, ti libero e ti porto al Conclave. Ti tratteranno meglio di Lilith.

Camille si guardò i polsi, incatenati alla tubatura. — Il Conclave mi ha incatenata —

disse. — Lilith pure. Non vedo una grande disparità di trattamento.

— Penso che allora la scelta spetti a te. Fidarti di me o fidarti di lei — dichiarò Alec. Era

una scommessa, se ne rendeva conto.

Aspettò svariati minuti, carichi di tensione, prima di sentirsi dire: — Molto bene. Se

Magnus si fida di te, allora mi fido anch'io. — Sollevò la testa, facendo del suo meglio per

non perdere la dignità malgrado i vestiti strappati e i capelli insanguinati. — È stata Lilith

a venire da me, non il contrario. Ha saputo che stavo cercando di riprendere da Raphael

Santiago il mio ruolo di capo del clan di Manhattan. Ha detto che mi avrebbe aiutata, se io

avessi aiutato lei.

— Aiutarla uccidendo gli Shadowhunterss?

— Voleva il loro sangue — spiegò Camille. — Era per quei neonati. Iniettava il sangue di

Shadowhunter e di demone nelle madri, cercando di ripetere quello che Valentine aveva

fatto con suo figlio. Però non ha funzionato: i bambini diventavano dei mostri e poi

morivano. — Accorgendosi dello sguardo disgustato di Alec, Camille aggiunse: —

All'inizio non sapevo quale fosse il motivo per cui voleva il sangue. Forse non hai un'alta

opinione di me, ma io non mi diverto a uccidere gli innocenti.

— Non eri obbligata a farlo soltanto perché te lo ha detto lei — osservò Alec.

— Camille gli rivolse un sorriso stanco. — Quando si è vecchi come lo sono io — disse

— significa che hai imparato le regole del gioco: le alleanze giuste al momento giusto. Da

stringere non solo coi potenti, ma con chi pensi che renderà potente te. Sapevo che, rifiu-

tandomi di aiutare Lilith, lei mi avrebbe ucciso; i demoni sono diffidenti per natura, e lei

avrebbe pensato che sarei andata dritta al Conclave per rivelare quello che sapevo sui suoi

piani per uccidere gli Shadowhunters, e questo anche se avessi promesso di non fiatare.

Ho immaginato che Lilith fosse un pericolo maggiore della tua gente.

— E di uccidere gli Shadowhunters non ti importava.

— Facevano parte del Circolo — disse Camille. — Avevano ucciso i miei simili, e i tuoi.

— E Simon Lewis? Perché ti interessava?

— Tutti vogliono il Daylighter al loro fianco — rispose lei con un'alzata di spalle. — E io

sapevo che porta il Marchio di Caino. Uno dei subalterni di Raphael mi è ancora fedele e

mi ha passato l'informazione. Pochi altri Nascosti ne sono a conoscenza, ma è una

caratteristica che lo rende un alleato di valore incalcolabile.

— È questo che vuole Lilith da lui?

Camille sgranò gli occhi. Aveva la pelle molto pallida, e sotto di essa, Alec lo aveva

notato, le vene si erano scurite e iniziavano a propagarsi come un reticolato su tutto il

viso, come avrebbe fatto una crepa sulla porcellana. I vampiri affamati perdevano il

controllo, poi, una volta rimasti troppo a lungo senza cibo, svenivano. Più erano vecchi,

più a lungo potevano resistere a digiuno, ma Alee si chiese quando era stata l'ultima volta

che Camille si era nutrita. — Cosa intendi dire?

— Pare che abbia convocato Simon per incontrarlo — disse Alec. — Sono da qualche

parte dentro a questo edificio.

Camille lo fissò un attimo di troppo, poi scoppiò a ridere. — Ma senti un po'. Lei non lo

ha mai nominato a me e io non l'ho mai nominato a lei, eppure entrambe lo inseguivamo

per i nostri scopi. Se lei lo vuole, è per il sangue — disse. — Il rituale che sta svolgendo è

quasi sicuramente un rituale di sangue. Quello di Simon, che contiene sia sangue dei

Nascosti sia sangue degli Shadowhunters, le sarebbe estremamente utile.

Alec avvertì un brivido di disagio. — Ma lei non può fargli del male. Il Marchio di

Caino...

— Troverà un modo per aggirare il problema. Lei è Lilith, la madre degli stregoni. Vive

da molto, molto tempo, Alexander.

Alec si rialzò in piedi. — Allora farò meglio a scoprire cosa sta facendo.

Le catene di Camille sferragliarono mentre anche lei cercò di alzarsi sulle ginocchia. —

Aspetta! Avevi detto che mi avresti liberato.

Alec si girò e abbassò lo sguardo per guardarla. — No, ho detto che ti avrei affidata al

Conclave.

— Ma se mi lasci qui, niente può impedire che sia Lilith la prima a trovarmi. — Buttò

all'indietro i capelli imbrattati, mentre sul viso le comparivano delle rughe di tensione. —

Alexander, per favore. Ti prego...

— Chi è Will? — le chiese di colpo. Le parole gli uscirono di colpo, senza preavviso, e

con grande orrore di chi le aveva pronunciate.

— Will? — Per un momento il viso di Camille non tradì alcuna espressione, poi diede i

segni di una vaga reminescenza e, infine, quasi di allegria. — Tu hai ascoltato la mia

conversazione con Magnus.

— In parte — ammise Alec senza sbilanciarsi troppo. — Will è morto, vero? Voglio dire,

Magnus ha detto che è passato molto tempo da quando lo aveva conosciuto...

— Lo so cos'è che ti preoccupa, giovane Shadowhunter. — La voce di Camille si era

fatta dolce e musicale. Dietro di lei, attraverso le finestre, Alec riusciva a vedere in

lontananza le luci intermittenti di un aereo che volava sopra la città. — All'inizio eravate

felici. Pensavate al presente, non al futuro. Ora lo hai capito: tu invecchierai e un giorno

morirai. Magnus invece no, lui andrà avanti. Non invecchierete insieme, vi allontanerete

sempre di più.

Alec pensò alle persone sull'aereo, lassù, nell'aria gelida, che guardavano la città come

fosse un campo di diamanti sfavillanti e lontani. Lui non era mai salito su un aeroplano,

poteva solo immaginare come ci si sentiva: soli, distanti, scollegati dal mondo. — Non

puoi saperlo — disse a un tratto. — Non puoi sapere se ci allontaneremo.

Lei gli fece un sorriso compassionevole. — Ora sei bellissimo — gli disse. — Ma lo sarai

ancora tra vent'anni? Tra quaranta? Cinquanta? Lui amerà ancora i tuoi occhi azzurri,

quando inizieranno a sbiadire, la tua pelle soffice, quando la vecchiaia la inciderà con

solchi profondi? E le mani, quando raggrinziranno e diventeranno deboli, i capelli,

quando si tingeranno di bianco...

— Taci. — Alec aveva sentito la propria voce incrinarsi, e se ne vergognò. — Taci e

basta. Non voglio sentire queste cose.

— Non deve andare per forza tosi. — Camille si sporse verso di lui, con gli occhi verdi

che le brillavano. — E se ti dicessi che non devi invecchiare? Che non devi morire?

Alec sentì salire un'ondata di rabbia. — Non mi interessa diventare un vampiro. Non

perdere nemmeno tempo a chiedermelo, non accetterei neanche se l'unica alternativa fosse

la morte.

Per il più breve degli attimi il viso di Camille si contrasse, ma la tensione sparì in un

secondo, appena l'autocontrollo tornò a funzionare. Accennò un sorriso e disse: — Non era

quello che intendevo. Se ti dicessi che c'è un altro sistema? Un altro sistema perché

possiate rimanere insieme per sempre?

Alec deglutì. Aveva la bocca asciutta come un pezzo di carta. — Dimmi.

Camille sollevò le mani, scuotendo le catene. — Tagliami queste.

— No. Prima parla.

Lei scosse la testa. — Non lo farò. — Aveva il viso duro come il marmo, come pure la

voce. — Hai detto che non avevo margine di trattativa, invece come vedi sì. E non me lo

lascio certo scappare.

Alec esitò. Nella testa sentì la dolce voce di Magnus. È la regina delle allusioni e della

manipolazione. Lo è sempre stata.

Però, Magnus, pensò, non me l'hai mai detto. Non mi hai mai avvertito che sarebbe stato così, che

un giorno mi sarei svegliato e mi sarei accorto di stare andando in una direzione che tu non potevi

seguire. Non mi hai ricordato che siamo essenzialmente diversi. Non c'è "finché morte non vi

separi", per chi non muore mai.

Fece un passo verso Camille, e poi un altro. Sollevando il braccio destro, abbassò la lama

dei serafini più forte che poteva. Trafisse il metallo delle catene, e i polsi di lei si staccarono

l'uno dall'altro, ancora ammanettati ma liberi. Sollevò le mani al cielo con un'espressione

di trionfo che le illuminava il viso.

— Alec. — Era la voce di Isabelle, dalla porta. Il ragazzo si voltò e vide la sorella in

piedi, con la frusta accanto. Era macchiata di sangue, come le mani e il vestito. — Che ci fai

qui dentro?

— Niente. Io... — Alec si sentì assalire dalla vergogna e dal terrore; quasi senza pesarci,

si spostò per mettersi davanti a Camille, come se potesse nasconderla alla vista di Isabelle.

— Sono tutti morti — dichiarò lei in tono triste. — I membri della setta. Li abbiamo

uccisi tutti. Ora sbrigati, dobbiamo cercare Simon. — Lo guardò con attenzione. — Stai

bene? Sei pallido.

— L'ho liberata — bofonchiò il fratello. — Non avrei dovuto. È che...

— Liberato chi, scusa? — Isabelle fece un passo dentro la stanza. Le luci della città,

tutt'intorno, la facevano risplendere come un fantasma. — Alec, che cosa stai blaterando?

Lo osservava con l'aria confusa di chi non capiva. Alec si girò, seguendo lo sguardo della

sorella, e vide... il nulla. La tubatura era ancora al suo posto, con accanto un pezzo di

catena, e la polvere sul pavimento solo leggermente spostata. Ma Camille era sparita.

Clary ebbe appena il tempo di alzare le braccia prima che uno dei cani infernali la

travolgesse, un proiettile gigante di muscoli, ossa e alito caldo e puzzolente. I piedi le vo-

larono in aria; si ricordò di quando Jace le aveva spiegalo come cadere, come proteggersi,

ma tutti i consigli le schizzarono via dalla mente mentre sbatteva a terra con i gomiti,

provando una scossa di dolore al lacerarsi della pelle. Un secondo dopo il cane le era

salito sopra, schiacciandole il petto con le zampe e dimenando da un lato all'altro la coda

bitorzoluta nella grottesca imitazione di uno scodinzolio. La punta era munita di

sporgenze simili ad artigli, come una mazza medievale, e dall'enorme cassa toracica della

belva proveniva un ringhio intenso, così forte e potente che Clary riusciva a sentirsi le ossa

che tremavano.

— Tienila ferma lì! Squarciale la gola, se cerca di scappare! — Lilith gridava gli ordini,

mentre l'altro cane infernale stava attaccando Jace. Lui lottava, rotolandosi senza sosta in

un mulinello di denti, braccia, gambe e scudisciate di quell'orribile coda. Clary girò a fatica

la testa dall'altro lato e vide Lilith avvicinarsi alla bara di vetro. Simon era ancora

rannicchiato lì vicino. Dentro alla bara galleggiava Sebastian, immobile come un corpo

affogato. Il colore dell'acqua era diventato da lattiginoso a scuro, probabilmente per via

del sangue.

Il cane che la bloccava a terra le ringhiava vicino all'orecchio. Quel suono le diede una

scossa di paura ma anche di rabbia. Rabbia verso Lilith e verso se stessa. In fondo era una

Shadowhunter: d'accordo essere battute da un demone Ravener quando ancora non aveva

mai sentito parlare dei Nephilim, ma ora era allenata e avrebbe dovuto essere in grado di

fare di meglio.

Tutto può trasformarsi in un'arma, le aveva detto Jace al parco. Il peso del cane infernale

era insopportabile. Clary emise un suono soffocato e si portò le mani alla gola come per

cercare aria. La belva abbaiò e ringhiò, mostrando i denti. Clary richiuse le dita sulla

catenina con l'anello dei Morgenstern che portava al collo, poi lo tirò con forza finché la

collana si ruppe: a quel punto la tirò contro il muso del cane come se fosse una frusta, col-

pendolo con violenza sugli occhi. La belva indietreggiò, ululando di dolore, e Clary ne

approfittò per rotolare su un fianco e mettersi sulle ginocchia. Con gli occhi iniettati di

sangue, il cane si rannicchiò, pronto a saltare. A Clary era caduta di mano la catenina e ora

l'anello stava rotolando via; si piegò per riprenderla, ma in quell'istante il cane partì...

Una lama splendente trafisse la notte, abbattendosi a pochi centimetri dal viso di Clary e

decapitando il cane, che lanciò un unico lamento e svanì, lasciando dietro di sé una

macchia nera di bruciato sul pavimento e il tanfo di demone nell'aria.

Due mani scesero per aiutare delicatamente Clary a rimettersi in piedi. Era Jace. Si era

infilato la lama incandescente dei serafini nella cintura e la impugnava con entrambe le

mani, osservandola con uno strano sguardo. Clary non avrebbe saputo descriverlo, e

nemmeno disegnarlo: speranza, stupore, amore, desiderio e rabbia tutti mescolati assieme

in un'unica espressione. La camicia, strappata in diversi punti, era inzuppata di sangue; la

giacca non c'era più; i capelli biondi grondavano di sudore e di altro sangue. Per un

momento Clary e Jace si guardarono e basta, con lui che le stringeva le mani con forza. Poi

aprirono bocca tutti e due nello stesso istante:

— Stai... — fece lei.

— Clary. — Senza lasciarle le mani, lui la allontanò dal proprio corpo e dal cerchio,

indicandole il corridoio che portava agli ascensori. — Vai — le disse, esausto. —Vattene

via da qui, Clary. — Jace...

Lui fece un respiro tremante. — Ti prego. — La lasciò andare, sfoderando di nuovo la

lama dei serafini dalla cintura, per tornare verso il cerchio.

— Alzati — ringhiò Lilith. — Alzati ho detto!

Una mano scosse la spalla di Simon trasmettendogli nella testa un'ondata di dolore.

Aveva fluttuato nelle tenebre e ora, riaprendo gli occhi, vedeva il cielo notturno, le stelle e

il viso bianco di Lilith che incombevano su di lui. Gli occhi erano scomparsi, sostituiti da

serpenti neri striscianti. Il trauma di quello spettacolo fu sufficiente a farlo scattare subito

in piedi.

Nell'istante in cui si alzò, gli venne da vomitare e per poco non cadde di nuovo sulle

ginocchia. Chiudendo gli occhi per sconfiggere la nausea, sentì Lilith che gridava

minacciosa il suo nome e gli appoggiava una mano sul braccio, per trascinarlo dove voleva

lei. Simon la lasciò fare. Aveva la bocca piena del sapore amaro e ributtante del sangue di

Sebastian; ora gli si stava diffondendo anche nelle vene, rendendolo debole, dandogli

nausea e brividi fino in fondo alle ossa. Si sentiva la testa pesante come cento incudini,

mentre le vertigini andavano e venivano a ondate intermittenti.

All'improvviso la fredda stretta di Lilith sul braccio era sparita. Simon aprì gli occhi e si

ritrovò sopra la bara di vetro, proprio come poco prima. Sebastian galleggiava nel liquido

nero e torbido, col viso disteso e nessun segno di vita nelle vene. Due buchi neri erano

ancora visibili su un lato del collo, dove Simon lo aveva morso.

Dagli il tuo sangue. La voce di Lilith echeggiò, non ad alta voce ma dentro la testa di

Simon. Fallo, adesso.

Simon sollevò gli occhi, confuso. Gli si stava annebbiando la vista; si dovette sforzare per

vedere Clary e Jace nell'oscurità che gli si stava chiudendo attorno.

Usa i canini, gli ordinò Lilith. Apriti il polso. Dai a Jonathan il tuo sangue. Guariscilo.

Simon si portò il polso alla bocca. Guariscilo. Risvegliare un morto era molto di più che

guarirlo, pensò. Forse la mano di Sebastian sarebbe ricresciuta. Forse era quello che

intendeva. Aspettò che gli uscissero i canini, ma non accadde. Stava troppo male per avere

fame, pensò, e dovette combattere contro il folle impulso di ridere.

— Non posso — disse con voce affannata. — Non posso...

— Lilith — La voce di Jace squarciò la notte e fece voltare la donna con un sibilo

incredulo. Simon abbassò i polsi lentamente, lottando per continuare a guardare. Si

concentrò sulla luce che aveva di fronte, finché capì che si trattava della fiamma guizzante

di una lama dei serafini, stretta nella mano sinistra di Jace. Simon ora riusciva a vederlo

bene, un'immagine distinta su uno sfondo buio. Non aveva più la giacca, era sporco, aveva

la camicia strappata e nera di sangue, ma il suo sguardo era limpido, forte e concentrato.

Non sembrava più uno zombi o qualcuno che gira sonnambulo dentro ai confini di un

terribile incubo.

— Dov'è lei? — disse Lilith con quei tremendi occhi che serpeggiavano in fuori. — Dov'è

la ragazza?

Clary. Lo sguardo ottenebrato di Simon scrutò le tenebre attorno a Jace, ma di lei non

c'era traccia. La vista iniziava a migliorare: ora vedeva il sangue che imbrattava il

pavimento e i brandelli di seta color oro rimasti impigliati nei rami della siepe. Sul

sangue, quelle che parevano impronte di zampe. Simon si sentì una morsa al petto.

Guardò subito verso Jace, che nel frattempo aveva la rabbia, molta rabbia dipinta in volto,

ma non era scosso come Simon si sarebbe aspettato se a Clary fosse successo qualcosa. Ma

allora lei dov'era?

— Lei non c'entra niente — pronunciò Jace in quel momento. — Tu dici che non posso

ucciderti, demone. Io invece sostengo di sì. Vediamo chi fra noi due ha ragione.

Lilith si muoveva così in fretta da sembrare una macchia senza contorni. Un attimo era

di fianco a Simon e quello dopo sul gradino accanto, sopra Jace. Gli si avventò contro a

mano tesa; lui si piegò, ruotando alle sue spalle e colpendola con la lama dei serafini. Lei

gridò e si voltò di scatto, col sangue che sprizzava dalla ferita; era nero lucente come onice.

Richiuse le mani come se volesse distruggere la lama dei serafini comprimendola. I suoi

palmi batterono l'uno contro l'altro con il fragore di un tuono, ma nel frattempo Jace si era

già allontanato, a diversi metri di distanza, con la luce della lama che danzava nell'aria

come la scintilla di un occhiolino beffardo.

Simon pensò che se si fosse trattato di uno Shadowhunter qualunque, e non di Jace,

sarebbe già stato morto. Ripensò a Camille che diceva: L'uomo non può combattere con il

divino. E gli Shadowhunters, nonostante il sangue dell'angelo, erano umani, mentre Lilith

era anche più di un demone.

Simon si sentì trafiggere dal dolore. Si accorse con stupore che finalmente gli erano scesi

i canini, e ora gli stavano tagliando il labbro inferiore. Il dolore e il sapore del sangue lo

eccitarono. Iniziò a mettersi in piedi, lentamente, tenendo gli occhi puntati su Lilith. Di si -

curo lei non sembrò notare né lui né quello che stava facendo, perché non staccava lo

sguardo da Jace, verso il quale era saltata con un altro ringhio improvviso. Guardarli

mentre combattevano, muovendosi avanti e indietro sul tetto del palazzo, ricordava una

danza di falene. Persino la vista da vampiro di Simon aveva dei problemi a seguirli mentre

si muovevano scavalcando le siepi e sfrecciando fra i vialetti. Lilith mise Jace con le spalle

contro il muretto che circondava una meridiana coi numeri dipinti di giallo; il ragazzo si

muoveva così in fretta da essere diventato una forma indistinta, mentre la luce della lama

di Michele si avviluppava attorno a Lilith come fosse una rete di filamenti scintillanti.

Chiunque altro sarebbe stato tagliato a brandelli in pochi secondi. Lilith invece si muoveva

come un fiume di acqua nera, come un'onda di fumo. Sembrava sparire e ricomparire a

suo piacimento e, anche se si vedeva che Jace non era stanco, Simon riusciva a percepire la

sua delusione.

Alla fine accadde. Jace scagliò violentemente la lama dei serafini in direzione di Lilith... E

lei la prese al volo, avvolgendola con una mano che iniziò a grondare sangue nero. Le

gocce, quando toccavano il pavimento, diventavano minuscoli serpenti di ossidiana che

sgusciavano via fra gli arbusti.

A quel punto Lilith prese la lama con entrambe le mani e la sollevò. Il sangue le scorreva

lungo i pallidi polsi e le braccia, simile a colate di catrame. Con un sorriso ghignante ruppe

la lama in due: una metà si disintegrò in polvere luccicante fra le sue mani, l'altra,

costituita dall'impugnatura e da un pezzo tagliente di lama, crepitava appena, una fiamma

quasi del tutto soffocata dalla cenere.

Lilith sorrise. — Povero, piccolo Michele — disse. — E sempre stato debole.

Jace ansimava, coi pugni chiusi lungo i fianchi e i capelli incollati alla fronte per il

sudore. — Tu e le tue conoscenze — disse a Lilith. — "Conoscevo Michele", "conoscevo

Samael", "l'arcangelo Gabriele mi faceva i capelli". Sembri una che cerca di imbucarsi a una

festa di VIP biblici.

Quello era il Jace spavaldo, pensò Simon, spavaldo e sarcastico perché pensava che Lilith

stesse per ucciderlo, e quella era la strada che lui voleva percorrere, in piedi sulle sue

gambe e senza paura. Come un guerriero, come facevano gli Shadowhunters. Il suo canto

del cigno sarebbe sempre stato quello: battute, frecciate e fintai arroganza, con quello

sguardo negli occhi che diceva: Sono migliore di te. Simon non se n'era mai accorto prima.

— Lilith — continuò Jace, riuscendo a far sembrare quel nome una maledizione. — Ti ho

studiata. A scuola. Il paradiso ti ha punita con la sterilità. Mille bambini, e tutti morti. Mi

sbaglio?

Lilith continuava a tenere in mano la lama che risplendeva di luce fioca, con il volto

impassibile. — Fai attenzione, giovane Shadowhunter.

— Altrimenti cosa? Altrimenti mi uccidi? — Il sangue colava dal viso di Jace sgorgando

dal taglio che aveva sulla guancia. Non si mosse di un millimetro per pulirselo. — Fai

pure.

No. Simon cercò di fare un passo, ma le ginocchia gli si piegarono, tanto che cadde

battendo le mani a terra. Fece un respiro profondo. L'ossigeno non gli serviva,, ma in

qualche modo lo aiutava a stabilizzarsi. Si sporse per afferrare il bordo del blocco di pietra,

appoggiandosi ad esso per rialzarsi. Si sentiva pulsare in fondo alla testa. No, non c'era

abbastanza tempo: a Lilith bastava spingere in avanti l'arma spezzata che teneva fra le

mani...

Invece non lo fece. Continuò a guardare Jace, ma non si mosse. All'improvviso dagli

occhi le partì un lampo e la linea della bocca le si distese. — Non puoi uccidermi —

dichiarò Jace alzando la voce. — Quello che hai detto prima. Io sono il contrappeso. Sono

l'unica cosa che tiene legato lui — e distendendo il braccio indicò la bara di vetro di

Sebastian — a questo mondo. Se muoio io, muore anche lui. Non è vero? — Fece un passo

indietro. — Potrei saltare giù dal tetto in questo stesso momento. — Suicidarmi. E mettere

fine a tutta questa storia.

Per la prima volta Lilith sembrò davvero agitata. La testa le scattava da un lato all'altro,

gli occhi di serpente fremevano, come se stessero assaggiando il vento. — Dov'è lei? Dov'è

la ragazza?

Il viso di Jace, grondante di sangue e di sudore, ospitava un sorriso. Anche il labbro era

tagliato, e il sangue gli colava giù sul mento. — Scordatelo. L'ho mandata al piano di sotto,

mentre eri distratta. Se n'è andata, al riparo da te.

Lilith ringhiò. — Stai mentendo.

Jace fece un altro passo indietro. Ancora un paio, e sarebbe arrivato al muretto che

delimitava il tetto dell'edificio. Jace aveva una capacità di sopravvivenza incredibile,

Simon lo sapeva, ma cadere da un palazzo di quaranta piani sarebbe stato troppo anche

per lui.

— Tu dimentichi — riprese Lilith — che io c'ero, Shadowhunter. Ti ho visto cadere e

morire. Ho visto Valentine piangere sul tuo cadavere, e l'angelo chiedere a Clarissa cosa

voleva da lui, qual era la cosa al mondo che desiderava più di qualunque altra, e l'ho

sentita pronunciare il tuo nome. Credendo di poter essere l'unica al mondo col privilegio

di riavere indietro l'amato scomparso, e tutto questo senza conseguenze... È questo che

avete pensato, vero? Tutt'e due? Sciocchi! — disse Lilith con disprezzo. — Vi amate. Lo

capiscono tutti, basta guardarvi. E il vostro è quel genere di amore che può ridurre in

cenere il mondo o innalzarlo alla gloria. No, non ti abbandonerebbe mai. Non se sapesse

che sei in pericolo. — La testa le scattò all'indietro e la mano in avanti, con le dita ricurve

come artigli. — Là.

Si levò un urlo e una delle siepi si aprì in due, rivelando Clary, accucciata per

nascondersi. Scalciando e graffiando venne tirata fuori dal suo rifugio benché avesse

piantato le dita a terra, tentando invano di aggrapparsi a qualsiasi cosa. Con le mani

lasciava tracce di sangue sulle piastrelle.

— No! — esclamò Jace slanciandosi in avanti, per poi rimanere di sasso mentre Clary

veniva sbalzata in aria, dove rimase sospesa di fronte a Lilith. La ragazza era a piedi nudi,

mentre il vestito di seta, ormai così sporco e logoro da sembrare rosso e nero invece che

oro, le svolazzava attorno con una spallina staccata e ciondolante. I capelli si erano

definitivamente liberati dalle mollette luccicanti e ormai le ricadevano tutti sulle spalle. I

suoi occhi verdi fissavano Lilith con odio profondo.

— Maledetta stronza — disse.

Il viso di Jace era una maschera d'orrore. Simon capì che, quando lui aveva detto che

Clary se n'era andata, ci credeva davvero; pensava che fosse al sicuro, invece Lilith aveva

avuto ragione, e ora muoveva trionfante le mani come una burattinaia, con gli occhi che le

danzavano, mentre una Clary terrorizzata vorticava sospesa in aria. Il demone mosse di

scatto le dita e sul corpo della ragazza di abbatté quella che sembrava una frusta d'argento

capace di tagliarle in due il vestito e la pelle sottostante. Clary lanciò un grido e si afferrò

la ferita, mentre il sangue chiazzava il pavimento come una pioggia scarlatta.

— Clary! — Jace si girò verso Lilith. — Va bene — le disse. Ora era pallido, la

spavalderia era scomparsa. Le mani, strette a pugno, avevano le nocche bianche. — Va

bene, lasciala andare e farò quello che vuoi. E così anche Simon. Ti lasceremo...

— Ti lasceremo, dici? — I lineamenti del viso di Lilith si erano deformati: i serpenti

continuavano a guizzarle nelle cornee, la bianca pelle del viso era troppo tesa e lucente, la

bocca troppo ampia. Il naso, quasi scomparso. — Non hai scelta. E soprattutto mi avete

stancata, tutti. Forse, se vi foste limitati a fare quello che avevo ordinato, vi avrei lasciati

andare. Ora invece non lo saprete mai, vero?

Simon si staccò dal piedistallo di pietra, barcollò e poi riprese l'equilibrio. Quindi iniziò a

camminare. Mettere un piede davanti all'altro era come trascinare delle enormi sacche di

sabbia bagnata lungo il bordo di un dirupo. Ogni volta che faceva un passo, una fitta di

dolore gli attraversava il corpo. Si concentrò per avanzare, a poco a poco.

— Forse non ti posso uccidere — disse Lilith a Jace. — Ma posso torturare lei fino a

quando non ce la farà più... Torturarla fino alla follia, e costringerti a guardare. Ci sono

cose peggiori della morte, Shadowhunter.

Fece scattare di nuovo le dita e la frusta d'argento discese di nuovo su Clary infierendo

questa volta sulla spalla, dove aprì un profondo squarcio. Clary si piegò ma non urlò,

infilandosi le mani in bocca e rannicchiandosi su se stessa come se potesse servire a

proteggersi da Lilith.

Jace si scaraventò in avanti contro Lilith... E vide Simon. I loro sguardi si incrociarono.

Per un attimo il mondo sembrò fermarsi, tutto sospeso nel vuoto, non solo Clary. Simon

vide Lilith completamente concentrata sulla ragazza, con una mano pronta ad accanirsi su

di lei con un colpo ancora più feroce. Jace era pallido d'angoscia; i suoi occhi incontrarono

di nuovo quelli di Simon e si incupirono. A quel punto capì, e fece un passo indietro.

Il mondo si confondeva attorno a Simon. Mentre si lanciava in avanti, comprese due

cose. Uno, non avrebbe mai raggiunto Lilith in tempo: la mano di lei stava già scattando in

avanti e l'aria davanti a lei era accesa di vortici d'argento; due, prima di quel momento non

si era mai reso conto di quanto un vampiro potesse essere veloce. Sentì i muscoli delle

gambe e della schiena che si strappavano, le ossa dei piedi e delle caviglie che scric-

chiolavano.

Ed eccolo lì, tra Lilith e Clary, mentre la mano del demone era sul punto di abbattersi. Il

lungo e tagliente raggio d'argento del demone colpì Simon sul viso e sul petto — un

istante di dolore devastante — dopodiché l'aria attorno a lui sembrò esplodere di

coriandoli luccicanti. Sentì Clary gridare, un distinto suono di stupore e sconcerto che

squarciò le tenebre. — Simon!

Lilith rimase di sasso. Guardò prima Simon e poi Clary, ancora sospesa in aria, poi la

propria mano, ora vuota. Fece un respiro lento e frastagliato.

— Sette volte tanto — sussurrò, ma fu interrotta all'improvviso da un bagliore accecante

che infiammò la notte. L'immagine che venne in mente a Simon, allibito, mentre dal cielo

piombava un'enorme vampata di fuoco che trafiggeva Lilith, fu quella di formiche che

bruciavano sotto un raggio solare concentrato da una lente d'ingrandimento. Per un

istante il demone rimase a bruciare di luce bianca e incandescente contro il buio del cielo,

intrappolato in quella fiamma abbagliante con la bocca spalancata sull'abisso di un grido

muto. I capelli le si sollevarono, una massa di filamenti ardenti davanti a uno sfondo di

tenebre. Poi divenne oro bianco, ridotto a una lamina sottile nell'aria, e infine sale, mille

granelli cristallini che piovevano ai piedi di Simon in uno spettacolo di spaventosa

bellezza.

E poi sparì

Capitolo 19

L'INFERNO È SODDISFATTO

Lo splendore inimmaginabile stampato dentro le palpebre di Clary si spense nel buio. Un

buio sorprendentemente lungo, che a poco a poco lasciò spazio a una luce grigiastra

intermittente e punteggiata d'ombre. Qualcosa di duro e freddo le premeva contro la

schiena, e tutto il corpo le faceva male. Sentiva sopra di sé voci che mormoravano,

provocandole una fitta di dolore alla testa. Qualcuno la toccò piano sul collo, poi la mano

si allontanò. Fece un respiro profondo.

Sentiva l'intero corpo palpitare. Socchiuse appena gli occhi e si guardò attorno, cercando

di non muoversi troppo. Era sdraiata sulle dure piastrelle del giardino pensile, e ne aveva

una di spigolo contro la schiena. Quando Lilith si era dissolta, lei era caduta a terra, piena

di tagli e lividi, senza scarpe, con le ginocchia sbucciate, il vestito squarciatoci punti in cui

il demone l'aveva ferita con la frusta magica, e rivoli di sangue che colavano dagli strappi

dell'abito.

Simon era inginocchiato sopra di lei, con l'espressione angosciata. Il Marchio di Caino

ancora brillava di luce bianca sulla sua fronte. — Il polso è regolare — stava dicendo. —

Comunque tu hai tutte quelle rune di guarigione... Ci dev'essere qualcosa che puoi fare

per lei!

— Non senza uno stilo. Lilith mi ha fatto buttare via quello di Clary, così, una volta

sveglia, non avrebbe potuto riprenderselo. — La voce era quella di Jace, bassa e carica di

angoscia repressa a stento. Era inginocchiato davanti a Simon, dall'altro lato di Clary, e

aveva il viso in ombra. — Riesci a portarla di sotto? Se andiamo all'Istituto...

— Tu vuoi che la porti io? — Simon sembrava sorpreso, e Clary non poteva biasimarlo.

— Non penso che voglia che la tocchi. — Jace si alzò, come se non riuscisse a sopportare

di restare fermo in un posto. — Se tu potessi...

Gli si spezzò la voce. Si girò, fissando il punto dove fino a un momento prima c'era

Lilith, un pezzo di nudo pavimento cosparso di molecole di sale. Clary sentì Simon

sospirare, volutamente, e chinarsi sopra di lei, mettendole le mani sulle braccia.

In quell'istante Clary aprì gli occhi del tutto e i loro sguardi si incontrarono. Lui aveva

capito che era tornata cosciente, lei se n'era accorta, ma nessuno dei due disse una parola.

Le risultava difficile guardarlo, guardare quel volto familiare, con il Marchio da lei stessa

impresso che brillava sopra gli occhi del suo amico come una stella bianca.

Si era resa conto, nel momento in cui gli aveva donato il Marchio di Caino, che stava

facendo un gesto di portata enorme, qualcosa di terrificante e colossale, il cui risultato

sarebbe stato quasi del tutto imprevedibile. E l'avrebbe rifatto, pur di salvargli la vita.

Eppure, nonostante tutto, mentre lui rimaneva lì in piedi con quel Marchio che bruciava

di luce bianca, mentre Lilith, un Demone Superiore vecchio come l'umanità, si dissolveva

in sale, lei non poté fare a meno di pensare: Che cosa ho fatto?.

— Sto bene — disse. Si sollevò su gomiti doloranti. A un certo punto era atterrata di

spalle, battendoli pesantemente e graffiandosi tutta la pelle. — Riesco a camminare.

Al suono di quella voce, Jace si girò. Vederlo le spezzò il cuore. Era coperto di lividi e di

sangue, un lungo taglio gli squarciava la guancia, il labbro inferiore era tumefatto e i

vestiti insanguinati erano letteralmente a brandelli. Non era abituata a vederlo in quelle

condizioni, ma era chiaro che, se Jace non aveva uno stilo per curare lei, non l'aveva

nemmeno per curare se stesso.

Se ne stava fermo con un'espressione assolutamente imperturbabile. Persino Clary,

abituata a leggergli il viso come si leggono le pagine di un libro, non riusciva a decifrarla.

Notò che lo sguardo di lui si posò all'altezza del suo collo, dove ancora provava un dolore

pungente nel punto in cui lui stesso l'aveva ferita, e ora il sangue andava raggrumandosi.

La freddezza del volto di Jace si incrinò, ma il ragazzo distolse lo sguardo prima che lei

potesse vedergli cambiare espressione.

Allontanando la mano tesa che gli stava offrendo Simon, Clary cercò di mettersi in piedi

da sola. Un dolore lancinante le trafisse la caviglia, costringendola a gridare e poi a

mordersi un labbro. Gli Shadowhunters non gridavano di dolore: lo sopportavano

stoicamente, ricordò a se stessa. Niente lagne.

— È la caviglia — disse. — Devo averla slogata, o rotta. Jace guardò Simon. — Prendila

in braccio — gli disse. — Come ti ho detto.

Questa volta Simon non rimase ad aspettare la risposta di Clary, le infilò un braccio sotto

le ginocchia e l'altro sotto le ascelle, sollevandola; lei gli mise le braccia attorno al collo e

strinse forte. Jace invece si diresse verso la cupola e la porta a vetri che dava sull'interno

dell'edificio. Simon lo seguì, trasportando Clary con la stessa attenzione che avrebbe

dedicato a una bambola di porcellana; lei si era quasi dimenticata della sua forza, ora che

era un vampiro. Non aveva più il solito odore, pensò con un pizzico di malinconia, quello

di sapone, dopobarba da due soldi (di cui in realtà non aveva bisogno) e gomma da

masticare alla cannella. I capelli sapevano ancora di shampoo, ma a parte quello non

c'erano altri odori, e la pelle era fredda nei punti dove gliela stava toccando. Irrigidì le

braccia attorno al collo, alla ricerca di un po' di calore umano. Aveva la punta delle dita

bluastre e il corpo intorpidito.

Jace, davanti a loro, aprì con un colpo di spalla i due battenti della porta a vetri. A quel

punto furono dentro, dove la temperatura era per misericordia un po' più elevata. Era

strano, pensò Clary, essere tenuta in braccio da qualcuno con un petto che non si gonfiava

a ogni respiro. Attorno a Simon sembrava aleggiare una strana elettricità, residuo del

bagliore brutale che aveva avvolto il tetto quando Lilith era stata distrutta. Voleva

chiedergli come stava, ma il silenzio di Jace era talmente devastante nella sua compattezza

che aveva paura di romperlo.

Il ragazzo allungò un dito verso il pulsante di chiamata dell'ascensore, ma le porte si

aprirono spontaneamente, dando sfogo allo slancio in avanti di Isabelle e della sua frusta

d'oro e d'argento, che le brillava dietro come la coda di una cometa. Alec la seguiva a

ruota. Quando Isabelle vide Jace, Clary e Simon, si fermò di colpo, tanto che Alec quasi le

andò addosso. In un'altra situazione sarebbe quasi stata una scenetta divertente.

— Ma... — Isabelle era senza parole. Era ferita, coperta di sangue, con il vestito rosso

ridotto a brandelli attorno alle ginocchia e coi capelli neri, anch'essi striati di sangue,

sfuggiti dall'acconciatura. Alec era messo poco meglio: aveva una manica della giacca

aperta di lato, ma sotto la pelle sembrava intatta. — Che cosa ci fate voi qui? — chiese

Isabelle.

Jace, Clary e Simon la fissarono tutti con sguardo perso, troppo traumatizzati per

rispondere. Finalmente Jace riuscì a dire, in tono asciutto: — Potremmo farti la stessa

domanda.

— Io non... Pensavamo che tu e Clary foste alla festa — rispose Isabelle. A Clary non era

capitato molte volte di vederla così in disordine. — Stavamo cercando Simon.

Clary sentì il petto dell'amico che si gonfiava, una specie di sospiro di sollievo tutto

umano. — Stavate? Isabelle arrossì. — Io...

— Jace? — Era Alec, in tono allarmato. Aveva rivolto a Clary e a Simon uno sguardo

stupito, ma poi tutta la sua attenzione si era concentrata, come sempre, su Jace. Forse non

era più innamorato di lui, se mai lo era stato, ma loro due erano ancora parabatai, gemelli

in battaglia, e Jace era sempre il primo cui Alec pensava durante qualsiasi scontro. — Cosa

ci fai tu qui? E, per l'Angelo, che cosa ti è successo?

Jace fissò Alec quasi come se non lo conoscesse. Sembrava il personaggio di un incubo

che scrutava un nuovo scenario non perché fosse sorprendente o drammatico, ma per

prepararsi a tutti gli orrori che avrebbe potuto rivelare. — Lo stilo — disse infine con voce

rotta. — Hai il tuo stilo?

Alec si portò una mano alla cintura, con sguardo perplesso. — Certo. — Lo porse a Jace.

— Se ti serve un iratze...

— Non per me — rispose lui, sempre con la stessa voce strana e incerta. — Lei ne ha più

bisogno — spiegò indicando Clary. Il suo sguardo incontrò quello di Alec. Oro contro

azzurro. — Per favore, Alec — aggiunse, mentre il timbro aspro della sua voce spariva

veloce come era arrivato. — Aiutala per me.

Si girò per andarsene, verso l'estremità opposta della stanza, dove c'era la porta a vetri.

Rimase in piedi con lo sguardo fisso, Clary non sapeva se sul giardino o sulla propria

immagine riflessa.

Alec seguì Jace con lo sguardo per un istante, poi si avvicinò a Clary e a Simon con lo

stilo in mano. Fece segno a quest'ultimo di depositare la ragazza a terra, cosa che l'altro

eseguì con molta delicatezza, appoggiandole la schiena alla parete. Simon si allontanò e

Alec si inginocchiò su Clary. Lei riusciva a leggergli la confusione in viso, e lo stupore,

quando si accorse di quanto fossero gravi le ferite che aveva sul braccio e sulla pancia. —

Chi è stato a ridurti così?

— Io... — Clary guardò disperata verso Jace, ancora con le spalle voltate. Vedeva il suo

riflesso nella porta a vetri, il viso una macchia bianca scurita qua e là dai lividi. Aveva il

davanti della camicia nero di sangue. — È difficile spiegare.

— Perché non ci hai evocati ? — domandò Isabelle, con la voce sottile di chi si sente

tradita. — Perché non ci hai detto che saresti venuta qui? Perché non hai mandato un

messaggio di fuoco, niente? Sapevi che saremmo venuti, se avevi bisogno di noi.

— Non c'è stato tempo — intervenne Simon. — E io non sapevo che Clary e Jace

sarebbero stati qui. Pensavo di essere da solo. Non mi sembrava giusto coinvolgerti nei

miei problemi.

— Coinvolgermi nei tuoi problemi?! — ripeté Isabelle, sbalordita. — Tu... — iniziò, ma

poi, sorprendendo tutti, e sicuramente anche se stessa, gli si buttò al collo, abbracciandolo

forte. Simon barcollò all'indietro, colto alla sprovvista dall'assalto, ma si riprese in fretta.

Strinse Isabelle fra le braccia, rischiando anche di impigliarsi nella sua frusta penzolante,

poi la strinse forte, appoggiandole il mento sui capelli corvini. Clary non ne era sicura,

perché Isabelle stava parlando a voce troppo bassa, ma le sembrò che la ragazza stesse

bisbigliando a Simon degli insulti.

Le sopracciglia di Alec si inarcarono, ma si astenne dai commenti mentre si chinava

sopra Clary, coprendole la vista di Isabelle e Simon. Quando le appoggiò lo stilo sulla

pelle, le fece fare un salto per il dolore pungente. — Lo so che fa male — le disse a bassa

voce. — Mi sa che hai battuto la testa. Magnus dovrebbe darti un'occhiata. Jace, invece?

Com'è messo?

— Non so — rispose Clary scuotendo la testa. — Non vuole che mi avvicini a lui.

Alec le mise una mano sotto il mento, girandole il viso da un lato e dall'altro, poi le

disegnò un secondo, leggero iratze di fianco al collo, appena sotto la mandibola. — Cosa

ha fatto di così grave?

Clary alzò di scatto gli occhi su Alee. — Cosa ti fa pensare che abbia fatto qualcosa?

Alec le lasciò andare il mento. — Lo conosco, Clary. E conosco il modo in cui si punisce.

Starti alla larga è una punizione contro se stesso, non contro di te.

— Lui non vuole avermi vicino, è diverso — sottolineò Clary avvertendo la ribellione

nella propria voce e odiandosi per essere così meschina.

— Tu sei tutto ciò che desidera — ribatté Alec in tono sorprendentemente gentile, poi si

sedette sui talloni togliendosi i lunghi capelli neri dagli occhi. In quei giorni c'era qualcosa

di diverso in lui, pensò Clary, una sicurezza che non aveva la prima volta che lo aveva

incontrato, qualcosa che gli permetteva di essere generoso con gli altri come non lo era mai

stato con se stesso. — Ma come avete fatto a finire qui, voi due? Non ci eravamo nemmeno

accorti che ve n'eravate andati dalla festa, finché Simon...

— Non l'hanno fatto con me — intervenne Simon. Lui e Isabelle si erano staccati, ma

restavano ancora vicini, l'uno accanto all'altra. — Io sono venuto da solo. Be', non proprio

da solo, sono stato... convocato.

Clary annuì. — Vero. Non ce ne siamo andati insieme a lui, dalla festa. Quando Jace mi

ha portata qui, non potevo immaginare che ci avrei trovato anche Simon.

— Jace ti ha portata qui? — disse Isabelle, stupita. — Jace, se sapevi di Lilith e della

Chiesa di Talto, avresti dovuto dirci qualcosa.

Jace continuava a guardare fuori dalla porta a vetri. — Devo essermene dimenticato —

disse con voce fredda.

Clary scosse la testa, mentre Alec e Isabelle spostavano lo sguardo dal loro fratello

adottivo a lei, come in attesa di una spiegazione per quello strano atteggiamento. — Non

era il vero Jace — disse infine. — Era... controllato. Da Lilith.

— Posseduto? — chiese Isabelle sgranando gli occhi per lo stupore. La mano le si strinse

di riflesso attorno alla frusta.

Jace si girò, dando le spalle alle porte. Aprì lentamente la camicia dilaniata per mostrare

l'orrenda runa della possessione e il taglio sanguinante che la attraversava. — Questo —

spiegò con la stessa voce atona di poco prima — è il marchio di Lilith. È così che mi teneva

sotto controllo.

Alec scosse la testa; aveva l'aria profondamente turbata. — Ma Jace... in genere l'unico

modo per interrompere una sottomissione demoniaca come quella consiste nell'uccidere

l'entità che la esercita; e Lilith è uno dei demoni più potenti che siano mai...

— È morta — annunciò Clary all'improvviso. — Simon l'ha uccisa. O forse si potrebbe

dire che lo ha fatto il Marchio di Caino.

Rimasero tutti a fissare Simon. — E voi due, invece? Come avete fatto a finire qui? —

chiese lui, sulle difensive.

— Cercavamo te — rispose Isabelle. — Abbiamo trovato il biglietto da visita che deve

averti lasciato Lilith. Jordan ci ha fatto entrare in casa tua. Ora è con Maia, al piano di

sotto. — Rabbrividì. — Il piano di Lilith... non ci credereste... una cosa agghiacciante.

Alec alzò le mani. — Calmi, calmi. Noi vi spiegheremo quello che è successo a noi, poi

Simon e Clary ci spiegheranno quello che è successo a loro.

Le spiegazioni durarono meno tempo di quanto Clary avrebbe immaginato, con Isabelle

a condurre gran parte della narrazione accompagnandola con ampi gesti della mani che,

in più di un'occasione, rischiarono di recidere con la frusta uno degli arti più esposti degli

amici. Alee ne approfittò per uscire sul tetto e lanciare un messaggio di fuoco al Conclave,

segnalando la loro posizione e chiedendo rinforzi. Al suo passaggio, Jace si era messo da

parte per fargli spazio, e lo stesso quando era rientrato, ma il tutto senza dire una parola.

Non aveva aperto bocca nemmeno durante il racconto di Simon e Clary su quanto

accaduto sul tetto, neppure quando erano arrivati alla parte in cui Raziel aveva resuscitato

Jace a Idris. Fu invece Izzy a intervenire, quando Clary cominciò a raccontare di Lilith,

presunta madre di Sebastian, e del corpo di quest'ultimo conservato in una bara di vetro.

— Sebastian? — Isabelle batté la frusta a terra con tanta violenza da aprire una crepa nel

marmo. — Sebastian è la fuori? E non è morto? — Si voltò per guardare Jace, appoggiato

alla porta a vetri con le braccia incrociate e il viso impassibile. — Io l'ho visto morire. Ho

visto Jace tagliargli la schiena in due, e l'ho visto cadere nel fiume. E ora mi dici che è là

fuori vivo e vegeto?

— No — si affrettò a rassicurarla Simon. — C'è il suo corpo, ma lui non è vivo. Lilith non

è riuscita a completare la cerimonia. — Simon le mise una mano sulla spalla, ma lei la

scrollò via. Era diventata bianca come la morte.

— "Non vivo" non è abbastanza morto, per i miei gusti — disse. — Ora vado là fuori e lo

riduco in mille pezzi. — E con quell'annuncio si incamminò verso le porte.

— Iz! — esclamò Simon appoggiandole di nuovo una mano sulla spalla. — Izzy, no.

— No? — Lo guardo con aria incredula.— Dammi una sola, buona ragione per cui non

dovrei tagliarlo in mille, inutili, coriandoli di bastardo.

Gli occhi di Simon saettarono per la stanza, indugiando un istante su Jace, come se si

aspettasse di sentirlo intervenire o almeno aggiungere un commento. Non lo fece, non si

mosse neppure. — Senti, Isabelle — disse infine Simon. — Hai capito come funzionava il

rituale, giusto? Jace è stato resuscitato dalla morte, perciò Lilith aveva il diritto di fare lo

stesso con Sebastian. E per riuscirci aveva bisogno della presenza in carne e ossa di Jace, in

qualità di... com'è che diceva lei...

— Di contrappeso — gli suggerì Clary.

— Quel marchio che Jace ha sul petto. È il marchio di Lilith. — Con un gesto in

apparenza inconscio, Simon si toccò il petto, poco sopra il cuore. — Anche Sebastian ce

l'ha. Li ho visti illuminarsi entrambi, quando Jace è entrato nel cerchio.

Isabelle, con al fianco la frusta che girava e rigirava su se stessa, e i denti piantati nel

rosso del labbro inferiore, era ansiosa di sapere. — E quindi?

— Penso che stesse creando una sorta di legame fra i due — disse Simon. — Se Jace

moriva, Sebastian non avrebbe potuto vivere. Perciò, se ora fai a pezzi Sebastian...

— Potresti fare del male anche a Jace — intervenne di colpo Clary appena anche lei si

rese conto della cosa. — O mio Dio! Oh, Izzy, non farlo!

— Perciò lo lasceremo vivere e basta? — Isabelle parlava in tono incredulo.

Taglialo a pezzi, se preferisci — fece Jace. — Ti do il mio permesso.

— Zitto — disse Alec. — Piantala di comportarti come se non ti importasse di vivere. Iz,

stavi ascoltando o no? Sebastian non è vivo.

— Ma nemmeno morto. Non abbastanza morto.

— Ci serve il Conclave — disse Alec. — Dobbiamo consegnarlo ai Fratelli Silenti. Loro

possono sciogliere il legame che ha con Jace, dopodiché, Iz, potrai versare tutto il sangue

che ti pare. Lui è il figlio di Valentine. Ed è un assassino. Tutti hanno perso qualcuno, nella

battaglia di Alicante, o conoscono qualcuno che ha subito una perdita. Credi che saranno

gentili con lui? Lo faranno a pezzi lentamente, da vivo.

Isabelle rimase a guardare il fratello.

Molto lentamente i suoi occhi iniziarono a gonfiarsi di lacrime, che poi le rotolarono giù

per le guance rigando lo sporco e il sangue che le ricopriva.

— Non lo sopporto — disse. — Non lo sopporto, quando hai ragione.

Alec tirò a sé la sorella e le diede un bacio sulla testa. — Lo so, lo so.

Lei strinse per un attimo la mano di Alec e poi si allontanò. — Bene — disse. — Non

toccherò Sebastian, ma non ce la faccio a stargli così vicino. — Lanciò uno sguardo verso la

porta a vetri, dove Jace sostava in piedi, in silenzio. — Scendiamo di sotto. Possiamo

aspettare il Conclave nell'ingresso. E poi dobbiamo recuperare Maia e Jordan: si staranno

chiedendo dove siamo finiti.

Simon si schiarì la gola. — Qualcuno dovrebbe restare quassù per tenere sotto controllo...

la situazione. Lo faccio io.

— No. — Era stato Jace a parlare. — Voi scendete, resto io. È tutta colpa mia, avrei

dovuto assicurarmi che Sebastian fosse morto, quando ne ho avuto la possibilità. Quanto

al resto...

La voce gli si smorzò. Clary ricordò quando gli aveva accarezzato il viso nel buio

corridoio dell'Istituto, ricordò di averlo sentito sussurrare Mea culpa, mea culpa, mea

maxima culpa.

Mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa.

Si voltò per guardare gli altri; Isabelle aveva premuto il pulsante di chiamata, ora

illuminato. Riusciva ad avvertire il brusio distante dell'ascensore che saliva. A un tratto la

fronte di Isabelle si increspò. — Alec, forse dovresti rimanere qui con Jace.

— Non mi serve aiuto — rispose il diretto interessato. — Qui non c'è niente da fare. Me

la cavo da solo.

Isabelle alzò le mani al cielo mentre l'ascensore arrivava con il solito suono di

campanello. — E va bene, hai vinto tu. Resta qui da solo a tenere il broncio, se ci tieni

tanto. — Isabelle entrò a passi decisi nell'ascensore, seguita da Simon e da Alec. Clary fu

l'ultima a entrare, voltandosi a guardare Jace. Era tornato indietro per guardare fuori dalla

porta a vetri, ma lei riusciva comunque a vederne il riflesso. La bocca era premuta in una

linea esangue, lo sguardo cupo.

Jace, pensò Clary mentre le porte dell'ascensore iniziavano a chiudersi. Voleva che si

girasse, che la guardasse. Non lo fece, ma all'improvviso lei avvertì delle mani forti sulle

spalle che la spingevano fuori. Sentì Isabelle che diceva: — Alec, ma cosa diavolo stai... —

Clary inciampò fuori dall'ascensore e, quando riprese l'equilibrio, si voltò per guardare gli

altri. Le porte si stavano chiudendo, ma in mezzo a loro riuscì a scorgere Alec, che le

rivolse un mezzo sorrisetto dispiaciuto e un'alzata di spalle, come a dire: Cos'altro avrei

dovuto farei Clary fece un passo in avanti, ma ormai era troppo tardi: le porte dell'ascen-

sore si erano chiuse con un clangore metallico. Ora era sola con Jace.

La stanza era disseminata di cadaveri, figure vestite tutte con la stessa tuta grigia,

accovacciate, accasciate, scagliate contro il muro. Maia, accanto alla finestra, respirava

forte e osservava incredula la scena che aveva davanti agli occhi. Aveva preso parte alla

battaglia di Brocelind a Idris, pensando che fosse la cosa più brutta che avrebbe mai visto

in vita sua. Quella, invece, in un certo senso era anche peggio. Il sangue che scorreva dai

membri della setta non era icore di demone, ma sangue umano. E i neonati... Silenziosi,

morti nelle loro culle, con le manine munite di artigli piegate una sopra l'altra, come

bambole...

Abbassò lo sguardo sulle proprie mani. Gli artigli erano ancora visibili, macchiati di

sangue da cima a fondo; li ritrasse, e il sangue le cadde sui palmi, sporcandola fino ai

polsi. Aveva i piedi nudi e chiazzati di rosso, il colore del liquido che defluiva da un lungo

graffio sulla spalla scoperta, che però aveva già iniziato a rimarginarsi. Malgrado il rapido

potere di guarigione dei licantropi, sapeva che il giorno dopo si sarebbe svegliata coperta

di lividi. Quando si è lupi mannari, di rado durano più di un giorno. Si ricordò di quando

era ancora umana e di come suo fratello Daniel fosse diventato un esperto nel colpirla con

violenza nei punti in cui i lividi non comparivano.

— Maia. — Jordan entrò da una delle porte ancora non finite, abbassandosi per schivare

un fascio di cavi penzolanti. Si rialzò e le andò incontro, facendosi strada tra i corpi. — Stai

bene'

Lo sguardo preoccupato sul viso di Jordan le fece contrarre lo stomaco.

— Dove sono Isabelle e Alec?

Lui scosse la testa. Aveva subito molti meno danni di lei; la spessa giacca di pelle lo

aveva protetto, come anche i jeans e gli anfibi. Lungo la guancia correva però un lungo

graffio, mentre fra i capelli castani e sulla lama del coltello che ancora stringeva c'era del

sangue raggrumato. — Ho passato al setaccio tutto il piano, non li ho visti. Ci sono un paio

di altri cadaveri in altre stanze. Potrebbero aver...

La notte si accese come una lama dei serafini. Le finestre diventarono bianche e una luce

rossa penetrò nella stanza. Per un istante Maia pensò che il mondo intero avesse preso

fuoco; Jordan, andandole vicino in mezzo a tutta quella luce, sembrò quasi scomparire,

bianco su bianco, in un campitura d'argento brillante. A un tratto si sentì un grido, e Maia

si mosse alla cieca in avanti, finendo per picchiare la testa contro una finestra di vetro

spesso. Alzò le mani per coprirsi gli occhi...

La luce scomparve. Riabbassò le mani, mentre il mondo le vorticava attorno. Avanzò a

tentoni, Jordan era ancora lì; lo abbracciò, o meglio gli si buttò addosso, come faceva

sempre quando lui la veniva a prendere a casa e la stringeva forte, passandole le dita fra i

capelli ricciuti.

Ai tempi lui era più magro, con le spalle più strette. Ora tutte le ossa erano circondate da

muscoli possenti, e stringersi a lui era come stringersi a qualcosa di davvero solido, come a

un pilastro di granito nel mezzo di una tempesta di sabbia nel deserto. Si aggrappò a

Jordan e sentì il battito del suo cuore sotto il proprio orecchio, mentre le mani di lui le

lisciavano i capelli. Una ruvida, confortante carezza alla volta, rincuorante e... familiare. —

Maia... Va tutto bene...

Lei sollevò la testa e appoggiò la bocca su quella di lui. Era molto cambiato, ma la

sensazione che provava baciandolo era sempre la stessa, la sua bocca morbida come una

volta. Lui si irrigidì un istante per lo stupore, poi la strinse a sé accarezzandole la schiena

nuda con lenti movimenti circolari. Ricordò la prima volta in cui si erano baciati. Lei gli

aveva dato i suoi orecchini per farseli mettere nel cassetto del cruscotto, ma la mano di lui

aveva tremato così tanto che gli erano caduti. Si era scusato, riscusato e scusato di nuovo,

finché lei lo aveva baciato per farlo stare zitto. Aveva pensato che fosse il ragazzo più

dolce mai conosciuto in vita sua.

Poi però era stata morsa, e tutto era cambiato.

Si ritrasse, con la testa che le girava e il respiro affannoso. Lui la lasciò subito andare; la

stava guardando a bocca aperta, con lo sguardo fisso.

Dietro di lui, attraverso la finestra, Maia vedeva la città. Si sarebbe quasi aspettata di

trovarla rasa al suolo, un deserto atomico attorno al loro palazzo, invece tutto era

esattamente come prima. Non era cambiato nulla. Le luci si accendevano e spegnevano

dagli edifici, dall'altra parte della strada; sotto, i rumori attutiti del traffico. — Dovremmo

andare — disse — a cercare gli altri.

— Maia. Perché mi hai baciato?

— Non lo so — rispose lei. — Pensi che faremmo bene a fidarci degli ascensori?

— Maia...

— Non lo so, Jordan! Non so perché ti ho baciato, non so se lo rifarò, ma so di certo

perché ho paura da morire e sono preoccupata per i miei amici, e so anche che voglio

uscire di qui. Okay?

Lui annuì. Sembrava che avesse un milione di cose da dire, ma aveva deciso di non farlo,

motivo per cui lei gli fu riconoscente. Si passò una mano fra i capelli arruffati, ricoperti di

polvere di intonaco, e annuì. — D'accordo.

Silenzio. Jace era ancora appoggiato alla porta, solo che adesso ci stava premendo contro

la fronte, con gli occhi chiusi. Clary si chiese se almeno si rendesse conto che lei era lì con

lui. Fece un passo in avanti, ma prima che potesse dire qualsiasi cosa lui aprì la porta a

vetri e uscì in giardino.

Rimase ferma un istante, osservandolo. Avrebbe potuto chiamare l'ascensore,

ovviamente, e scendere ad aspettare il Conclave in portineria, insieme a tutti gli altri. Se

Jace non aveva voglia di parlare, non ne aveva voglia, punto. Non poteva costringerlo. Se

Alec aveva ragione, cioè lui si stava davvero punendo, a lei non restava altro da fare se

non aspettare che si riprendesse.

Si girò per raggiungere l'ascensore e... si fermò. Una piccola fiamma di rabbia le si

insinuò dentro, facendole bruciare gli occhi. No, pensò. Non doveva lasciare che si

comportasse così. Forse poteva farlo con gli altri, ma non con lei. Lei si meritava qualcosa

di meglio. Entrambi si meritavano di meglio l'uno dall'altra.

Si voltò di scatto e raggiunse la porta. La caviglia le faceva ancora male, ma le iratze che

le aveva fatto Alec iniziavano a fare effetto. Gran parte del dolore fisico che provava si era

attenuato, trasformandosi in un fastidio sordo e pulsante. Raggiunse la porta a vetri e la

aprì con una spinta, uscendo sul giardino pensile. Provò un brivido non appena i suoi

piedi nudi entrarono in contatto con le piastrelle gelide.

Lo vide subito; Jace era inginocchiato vicino ai gradini, sulle piastrelle sporche di sangue

e di icore, ancora luccicanti per via del sale. Si alzò quando lei gli andò vicino, poi si girò, e

qualcosa di lucente gli pendeva dalla mano.

L'anello dei Morgenstern, infilato nella catenella.

Si era alzato il vento, che gli soffiava sulla faccia i capelli biondo scuro. Jace se li spostò

con impazienza. — Mi sono appena ricordato che lo avevamo dimenticato qui — disse.

Parlava con un tono di voce sorprendentemente normale.

— È questo il motivo per cui volevi rimanere quassù? Per riprenderlo?

Lui girò la mano, così che la catenella saltò verso l'alto, mentre l'anello gli restò fermo tra

le dita. — Ci sono affezionato. Sono uno stupido, lo so...

— Potevi dirlo, oppure sarebbe potuto restare Alec...

— Io non faccio parte del vostro gruppo — disse lui bruscamente. — Dopo quello che ho

fatto, non mi merito iratze, cure, abbracci, parole di conforto, né qualunque altra cosa che i

miei amici pensano mi serva. Preferisco rimanere qui sopra con lui. — Indicò con il mento

il punto dove il corpo di Sebastian giaceva immobile dentro la bara aperta, sul piedistallo

di pietra. — E, puoi scommetterci, di certo non mi merito te.

Clary incrociò le braccia davanti al petto. — Hai mai pensato a quello che mi merito io,

invece? Magari la possibilità di parlare con te di tutto quel che è successo?

Lui rimase a fissarla. Erano solo a pochi centimetri di distanza, ma la sensazione era

quella di un abisso inesprimibile. — Non so nemmeno perché dovresti avere voglia di

guardarmi, figuriamoci parlarmi.

— Jace — disse Clary. — Le cose che hai fatto... Quello non eri tu!

Lui esitò. Il cielo era così nero, le finestre illuminate dei grattacieli vicini così luminose

che era come trovarsi al centro di una rete di gioielli luccicanti. — Se non ero io —

proseguì — allora perché riesco a ricordare ogni singola cosa che ho fatto? Quando si è

posseduti, ci si risveglia e non si ricorda niente di quando c'era il demone. Io invece

ricordo tutto, tutto. — Si voltò di scatto e se ne andò via, verso il muro del giardino. Lei lo

seguì, felice della distanza che Jace aveva interposto fra loro e il corpo di Sebastian, ora

nascosto alla vista da una siepe.

— Jace! — esclamò. Lui si girò e mise la schiena al muro, accasciandovisi contro. Alle

sue spalle, un'intera città di luci elettriche rischiarava la notte come le torri demoniache di

Alicante. — Tu ricordi perché lei voleva che ricordassi — riprese Clary raggiungendolo,

un po' a corto di fiato. — Lo ha fatto per torturarti e per convincere Simon a fare quello che

voleva lei. Voleva che tu ti guardassi mentre ferivi le persone a cui vuoi bene.

E lo stavo facendo davvero — disse lui a voce bassa. — Era come se una parte di me,

distante, stesse osservando tutto gridando al resto di fermarsi. Peccato però che quell'altra

parte fosse assolutamente tranquilla, come se stesse facendo qualcosa di giusto. Come se

fosse l'unica opzione possibile! Mi chiedo se è così che si è sentito Valentine riguardo a

tutto quello che faceva. Come se avere ragione fosse così semplice. — Distolse lo sguardo

da Clary. — Non posso sopportarlo. Tu non dovresti essere qui con me, dovresti

andartene e basta.

Invece di fare come diceva, Clary gli andò accanto, anche lei con la schiena al muro. Si

teneva le braccia avvolte attorno al corpo; aveva i brividi. Finalmente, ma senza

entusiasmo, Jace voltò la testa per guardarla di nuovo. — Clary...

— Non puoi decidere — gli disse lei. — Tu non puoi decidere dove vado o quando ci

vado.

— Lo so. — Aveva la voce rotta. — Ho sempre saputo che sei così. E non so perché mi

sono innamorato proprio di una persona ancora più testarda di me.

Clary rimase un istante in silenzio. Il cuore le si era stretto in corrispondenza di una

parola ben precisa: "innamorato". — Tutte le cose che mi hai detto sulla terrazza degli

Ironworks... le pensavi veramente?

Gli occhi ambrati di Jace si offuscarono. — Quali cose?

Che mi amavi, fu sul punto di dire Clary, ma ripensandoci... Non lo aveva detto, o sì?

Non proprio quelle parole. Le aveva sottintese. E la realtà dei fatti, ovvero che loro due si

amavano a vicenda, era qualcosa che lei conosceva bene quanto il proprio nome.

— Mi chiedevi se ti avrei amato anche se tu fossi stato come Sebastian, o come

Valentine.

— E tu hai detto che non sarei stato più io. Invece guarda quanto si è rivelato sbagliato

— disse con una sfumatura di amarezza nella voce. — Quello che ho fatto stanotte...

Clary gli andò vicino. Lui si irrigidì, ma non si allontanò. Lo prese per la camicia, gli si

avvicinò ancora di più e gli disse, scandendo ogni parola. — Quello non eri tu.

— Vallo a dire a tua madre. Vallo a dire a Luke, quando ti chiederanno da dove arriva

questo. — Le toccò piano la base del collo; ora la ferita si era rimarginata, ma la pelle e il

tessuto del vestito erano ancora macchiati di sangue scuro.

— Glielo spiegherò io — rispose Clary. — Dirò che è stata colpa mia.

Lui la guardò, gli occhi ambrati increduli. — Non puoi mentire.

— E non lo farò, infatti. Sono io che ti ho resuscitato. Tu eri morto, e io ti ho riportato fra

i vivi. Sono stata io a turbare l'equilibrio, non tu. Ho aperto le porte a Lilith e al suo

stupido rituale, avrei potuto chiedere qualsiasi cosa... e ho chiesto te. — Strinse la presa

sulla sua camicia, con le dita bianche per la pressione e per il freddo. — E lo rifarei. Io ti

amo, Jace Wayland/Herondale/Lightwood o come cavolo ti vuoi far chiamare. Non

m'importa. Ti amo, ti amerò per sempre, e fingere che le cose potrebbero andare

diversamente sarebbe soltanto una perdita di tempo.

Negli occhi di lui passò uno sguardo talmente addolorato che a Clary si strinse il cuore.

Poi Jace le prese il viso fra le mani. Sentiva i suoi palmi caldi contro le guance.

Ricordi quando ti ho detto — le disse con la voce più dolce che lei gli avesse mai sentito

— che non sapevo se ci fosse un Dio oppure no, ma che in entrambi i casi eravamo

completamente abbandonati a noi stessi? Ancora non conosco la risposta, ma sapevo che

c'era una cosa chiamata fede, e che io non meritavo di averla. E poi sei arrivata tu, tu che

hai cambiato tutto quello in cui credevo. Hai presente quel verso di Dante che ti avevo

detto al parco? L'amor che move il sole e l'altre stelle?

Lei lo guardò incurvando appena gli angoli della bocca. — Continuo a non capire

l'italiano.

— È l'ultimo verso del Paradiso. "Ma già volgeva il mio disio e '1 velie, / sì come rota

ch'igualmente è mossa, / l'amor che move il sole e l'altre stelle". Dante, credo, stava cercando di

spiegare la fede in termini di amore invincibile. Forse sarò blasfemo, ma è così che penso

al mio amore per te. Sei entrata nella mia vita e all'improvviso ho avuto una verità a cui

aggrapparmi: io amavo te, tu amavi me.

Anche se in apparenza Jace la stava guardando, il suo sguardo era distante, come fisso

su un punto lontano.

— Poi iniziai ad avere quei sogni — proseguì. — E pensai che magari mi sbagliavo. Che

non ti meritavo, non ero degno di una felicità così perfetta. Voglio dire, chi è che se la

merita? E dopo stasera...

— Basta. — Lei gli stava ancora stringendo la camicia. Allentò la presa, distendendogli

le mani sul petto. Sentiva il cuore di lui che le correva sotto le dita; le guance gli erano

diventate rosse, e non solo per il freddo. — Jace. Mentre succedeva tutto quello che è

successo stasera, io una cosa la sapevo: non eri tu che mi stavi facendo del male. Non eri tu

che mi stavi facendo quelle cose. Io credo, nella maniera più assoluta e incontrovertibile,

che tu sia buono. E questo non cambierà mai.

Jace inspirò profondamente, tremando. — Non so nemmeno come cercare di meritarmi

tutto questo.

— Non devi farlo. Io ho abbastanza fede in te per entrambi — disse Clary.

Le dita di lui le scivolarono fra i capelli; il vapore dei loro respiri si sollevò fra loro sotto

forma di nuvola bianca. — Mi sei mancata così tanto — le disse. Poi la baciò, appoggiando

la bocca su quella di lei con dolcezza, non con il desiderio disperato delle ultime volte che

lo aveva fatto. Era un tocco che Clary conosceva bene, soffice e dolce.

Chiuse gli occhi mentre il mondo sembrava girarle attorno come una trottola. Facendo

scivolare le mani su per il petto di lui, si allungò più che poteva per avvolgergli il collo,

mettendosi in punta di piedi per avvicinare la propria bocca alla sua. Le dita di Jace

iniziarono a scorrerle giù per il corpo, sulla pelle e sulla seta, dandole i brividi e

spingendola ad avvicinarsi ancora di più a lui, benché entrambi sapessero di sangue,

cenere e sale. Non importava. Era come se il mondo, la città con tutte le sue luci e la sua

vita, si fosse ridotto a quello, soltanto lei e Jace, il cuore ardente di un mondo di ghiaccio.

Lui si ritrasse, a malincuore. Clary capì il perché un istante più tardi. Il suono dei clacson

e delle auto che sgommavano sull'asfalto raggiungeva persino loro, così in alto. — Il

Conclave — annunciò Jace, rassegnato. E a Clary fece piacere accorgersi che, per riuscire a

pronunciare quelle parole, lui aveva dovuto schiarirsi la gola. Aveva il viso accaldato,

come immaginava fosse anche il suo. — Sono arrivati.

Con la mano in quella di lui, Clary guardò giù dal bordo del tetto e vide una serie di

lunghe auto nere allineate davanti alle impalcature dell'edificio. I passeggeri si stavano

riversando in strada. Era difficile riconoscerli da quell'altezza, ma a Clary sembrò di aver

visto Maryse e diverse altre persone in divisa da Shadowhunter. Un secondo più tardi

anche il furgone di Luke si affiancò rombando al marciapiede, facendo scendere Jocelyn.

Clary l'avrebbe riconosciuta, da come si muoveva, anche a distanze ben maggiori di quella

Si girò verso Jace. — C'è mia madre, è meglio se scendo di sotto. Non voglio che salga qui

e veda... E veda lui — disse indicando con un cenno del mento la bara di Sebastian.

Jace, con una carezza, le scostò i capelli dal viso. — Non voglio perderti di vista.

— E allora vieni con me.

— No, qualcuno deve restare quassù. — Jace le prese la mano, la girò e ci fece cadere

dentro l'anello dei Morgenstern, con la catena che scivolava giù come metallo colato. Il

gancio si era piegato quando lei se l'era strappata dal collo, ma Jace era riuscito a

sistemarlo. — Prendilo, per favore.

Gli occhi di lei scattarono verso il basso, poi, con incertezza, risalirono sul viso di lui. —

Avrei dovuto capire quello che significava per te.

Lui scrollò appena le spalle. — L'ho portato per una decina d'anni — disse. — Contiene

una parte di me stesso. Significa che ti affido il mio passato e tutti i suoi segreti. E inoltre,

ricorda — aggiunse sfiorando appena una delle stelle incise attorno all'impugnatura. —

"Amor che move il sole e l'altre stelle". Fai finta che è quello il motivo per cui sono incise, non

per i Morgenstern.

Come risposta, lei si lasciò cadere la catenella sopra la testa, sentendo che l'anello

tornava dov'era di solito, sotto il collo. Era come la tessera di un puzzle che tornava al suo

posto. Per un istante i loro sguardi si fermarono l'uno sull'altro in una discorso muto, per

certi versi più intenso di quanto fosse stato prima il contatto fisico,- Clary si fissò nella

mente l'immagine di Jace in quell'istante come se lo volesse memorizzare: i capelli biondi

arruffati, le ombre proiettate dalle ciglia, gli anelli di oro scuro dentro l'ambra chiara degli

occhi. — Torno subito — gli disse stringendogli la mano. — Cinque minuti.

— Vai — le disse lui in tono ruvido, lasciandole andare la mano, mentre lei si girava per

percorrere il sentiero verso l'entrata del giardino. Nell'istante in cui Clary si allontanò da

Jace, sentì di nuovo freddo e, quando raggiunse le porte dell'edificio, stava gelando.

Aprendo la porta si fermò per voltarsi a guardare Jace ancora una volta, ma lui era solo

un'ombra, illuminata da dietro dal bagliore dello skyline di New York. Amor che move il

sole e l'altre stelle, pensò, dopodiché, come un'eco che le tornava indietro, sentì le parole di

Lilith. Quel genere di amore che può ridurre in cenere il mondo o innalzarlo alla gloria. Si

sentì percorrere da un brivido, e non solo di freddo. Cercò Jace con lo sguardo, ma era

svanito fra le ombre; si girò e tornò dentro l'edificio, lasciando che la porta si chiudesse

alle sue spalle.

Alec era salito al piano di sopra per cercare Jordan e Maia, lasciando Simon e Isabelle

seduti da soli, uno accanto all'altra, sulla dormeuse verde della portineria. Isabelle teneva in

mano la stregaluce di Alec, che illuminava la stanza di un bagliore quasi spettrale ed

emetteva, riflettendosi sui pendenti del lampadario, scintille di fuoco danzante.

Aveva parlato molto poco da quando il fratello li aveva lasciati lì insieme. Ora teneva la

testa china, i capelli neri che le cascavano in avanti, lo sguardo fisso sulle mani. Erano

delicate, con le dita lunghe, ma con le stesse callosità dei suoi fratelli. Simon non lo aveva

mai notato prima, ma alla mano destra portava un anello d'argento, con un disegno di

fiamme attorno alla circonferenza e una L incisa al centro. Gli ricordava l'anello che Clary

portava al collo, con il motivo di stelle.

— È l'anello di famiglia dei Lightwood — disse Isabelle notando dove si era posato lo

sguardo di lui. — Tutte le famiglie hanno il loro emblema. Il nostro è il fuoco.

Ti si addice, pensò Simon. Sì, Izzy era proprio come il fuoco, con quel suo vestito rosso

fiammante e l'umore mutevole quanto una scintilla. Prima, sul tetto, per un attimo aveva

pensato che lo avrebbe strangolato, mentre gli teneva le braccia attorno al collo e gli

affibbiava epiteti di ogni tipo, stringendolo come se non volesse più lasciarlo. Ora aveva lo

sguardo perso in lontananza, inarrivabile come una stella. Tutto davvero sconcertante.

Quanto vuoi bene, aveva detto Camille, ai tuoi amici Shadowhunters. Come il falco che

adora il padrone che lo lega e lo benda.

— Quello che hai detto prima — disse Simon, un po' esitante, guardando Isabelle mentre

avvolgeva una ciocca di capelli intorno al dito — lassù sul tetto... Hai detto di non sapere

che c'erano Clary e Jace, e che eri venuta per me... Era vero?

Isabelle alzò lo sguardo, infilandosi la ciocca di capelli dietro l'orecchio. — Certo che sì

— disse, indignata. — Quando abbiamo visto che non eri più alla festa, considerato che eri

in pericolo da giorni, e con la fuga di Camille... — Si interruppe. — E Jordan si sentiva

responsabile per te. Stava impazzendo.

— Quindi è stata un'idea sua venire a cercarmi? Isabelle si voltò e lo fissò per un lungo

istante. Aveva gli occhi scuri e indecifrabili. — Sono stata io ad accorgermi che non c'eri

più — disse. — E sono stata io a volerti cercare.

Simon si schiarì la gola. Si sentiva stranamente frastornato. — Ma perché? Io pensavo

che tu mi odiassi.

Era stata la frase sbagliata da dire. Isabelle scosse la testa, facendo oscillare i lunghi

capelli neri, e si sedette leggermente più in là. — Oh, Simon, non fare il tonto.

— Iz. — Simon allungò una mano e le toccò il polso, esitando. Lei non si allontanò, ma

rimase a guardarlo. — Camille mi ha detto una cosa al Santuario. Ha detto che agli

Shadowhunters non importa dei Nascosti, loro li usano e basta. Secondo lei i Nephilim

non farebbero mai per me quello che io faccio per loro. Tu invece sì, sei venuta per me. Sei

venuta per me.

— Certo che l'ho fatto — rispose Isabelle con una vocina strozzata. — Quando ho

pensato che poteva esserti successo qualcosa...

Simon si sporse verso di lei, finché a dividere i loro volti non ci furono che pochi

millimetri. Dentro ai neri occhi di Isabelle vedeva riflesse le luci del lampadario, aveva le

labbra socchiuse e riusciva a sentire il calore del suo respiro. Per la prima volta da quando

era diventato un vampiro, avvertì una sensazione di vero calore, come una scarica elettrica

che passava fra loro due. — Isabelle — disse. Non Iz, non Izzy. Isabelle e basta. — Posso...

L'ascensore era arrivato al piano; le porte si aprirono lasciando uscire Alec, Maia e

Jordan. Alec lanciò uno sguardo insospettito verso Simon e Isabelle, che intanto si

allontanavano di colpo l'uno dall'altra, ma prima che potesse dire qualcosa i battenti della

portineria si spalancarono facendo entrare gli Shadowhunters. Simon riconobbe Kadir e

Maryse, che attraversarono di corsa la stanza per raggiungere Isabelle e abbracciarla,

chiedendole cos'era successo.

Simon si alzò in piedi e, sentendosi a disagio, si mise da parte, ma per poco non venne

travolto da Magnus, che stava correndo a raggiungere Alec. Sembrava che di lui non si

fosse nemmeno accorto. Dopotutto fra cento, duecento anni, saremo soltanto io e te.

Saremo tutto ciò che resta, gli aveva detto al Santuario. Provando una solitudine

inesprimibile in mezzo a quella frenetica folla di Shadowhunters, Simon si appoggiò

contro il muro, nella vana speranza di passare inosservato.

Alec alzò lo sguardo proprio nel momento in cui Magnus lo raggiunse, lo prese e lo

strinse a sé. Gli fece scorrere le dita sul viso come se volesse accertare la presenza di lividi

o ferite, il tutto mormorando a bassa voce: — Come hai potuto... andartene così senza

neanche dirmelo... Avrei potuto aiutarti...

— Piantala. — Alec si ritrasse, infastidito.

Magnus riprese il contegno, calmando il tono di voce. — Scusami. Non me ne sarei

dovuto andare, sarei dovuto restare insieme a te. Camille se n'è andata. Nessuno ha la più

pallida idea di dove sia, e dato che tu non sai individuare i vampiri... — Fece spallucce.

Alec allontanò dalla mente l'immagine di Camille, incatenata alla tubatura, che lo

guardava con quei fieri occhi verdi. — Non importa, lei non conta. So che stavi solo

cercando di renderti utile. E poi non sono arrabbiato con te perché te ne sei andato dalla

festa.

— Però arrabbiato lo eri comunque — osservò Magnus. — Lo so. Ed è per questo che ero

così preoccupato. Scappare via così e metterti in pericolo solo per rabbia nei miei

confronti...

— Sono uno Shadowhunter — disse Alec. — Magnus, è questo che faccio, tu non c'entri.

La prossima volta innamorati di un assicuratore, oppure...

— Alexander — lo interruppe l'altro. — Non ci sarà una prossima volta. — Appoggiò la

fronte contro la sua, gli occhi verde oro che fissavano l'azzurro.

Il battito cardiaco di Alec iniziò ad accelerare. — E perché no? Tu vivrai per sempre. Non

è da tutti.

— Sì, l'ho detto, Alexander, però...

— Smettila di chiamarmi così, lo fanno già i miei genitori. E suppongo che sia molto

nobile da parte tua aver accettato la mia mortalità in maniera così fatalistica, della serie

tutto è destinato a finire eccetera, ma tu come credi che mi faccia sentire tutto questo? Le

coppie normali hanno la speranza: la speranza di invecchiare insieme, di vivere a lungo e

di morire nello stesso momento. Noi invece no. E non so nemmeno cos'è che vuoi.

Alec non sapeva bene che risposta attendersi — rabbia, una reazione difensiva o magari

ironia — invece la voce di Magnus si affievolì, incrinandosi appena, quando disse: —

Alex... Alec. Se ti ho dato l'impressione di aver accettato l'idea della tua morte, allora non

posso fare altro che scusarmi. Ci ho provato, pensavo davvero di esserci riuscito, pur

continuando a immaginare di averti con me per altri cinquanta, sessant'anni, pensando

che magari a quel punto forse sarei stato capace di dirti addio. Ma si tratta di te, e ora mi

rendo conto che non sarò più pronto a perderti di quanto non lo sia ora. — Gli appoggiò le

mani su entrambi i lati del viso. — Ovvero, per niente.

— Quindi, cosa facciamo? — sussurrò Alec. Magnus fece spallucce, e a un tratto sorrise.

Con quei capelli neri arruffati e gli occhi verdi luccicanti sembrava un adolescente

dispettoso. — Quello che fanno tutti — rispose. — Come hai detto tu. Speriamo.

Alec e Magnus iniziarono a baciarsi in un angolo della stanza, e Simon non sapeva bene

da che parte guardare. Non voleva dare l'impressione di fissarli durante quello che era

chiaramente un momento d'intimità, ma da qualsiasi parte spostasse lo sguardo

incontrava le occhiatacce degli Shadowhunters. Nonostante, alla banca, avesse combattuto

al loro fianco, nessuno lo guardava con occhi particolarmente amichevoli. Un conto era

Isabelle che lo accettava e si preoccupava per lui, ma gli Shadowhunters come genere

erano tutta un'altra storia. Sapeva a cosa stavano pensando. "Vampiro, Nascosto, nemico"

erano le parole scritte sui loro volti. Fu un sollievo quando le porte dell'edificio si

spalancarono di nuovo e Jocelyn entrò di corsa, ancora con indosso il vestito blu della

festa. Luke la seguiva a pochi passi di distanza.

— Simon! — gridò non appena lo intravide. Gli corse incontro e, cogliendolo di sorpresa,

lo abbracciò calorosamente. — Simon, dov'è Clary? Sta...

Simon aprì la bocca, ma non emise suoni. Come poteva spiegare proprio a Jocelyn, fra

tutti, quello che era successo quella sera? Lei, che sarebbe inorridita a sentir dire che buona

parte della cattiveria di Lilith, i bambini uccisi, il sangue versato, erano destinati a

produrre altre creature come il figlio che aveva perso, il cui corpo giaceva, ancora privo di

sepoltura, sul tetto dove ora stavano Clary e Jace?

Non posso raccontarle niente, pensò. Non posso. Quando guardò dietro di lei vide Luke,

che lo stava puntando con il suo sguardo azzurro, ansioso di sapere.

Dietro la famiglia di Clary vedeva gli Shadowhunters che si accalcavano attorno a

Isabelle, probabilmente intenta a raccontare gli eventi della serata.

—Io... — fece per dire, esitante, ma poi le porte dell'ascensore si aprirono di nuovo e

comparve Clary. Non aveva più le scarpe, il delizioso vestito di seta era ridotto a brandel li

insanguinati, le braccia e le gambe erano ricoperte di lividi che già iniziavano a

scomparire. Però sorrideva, anzi era addirittura raggiante, e più felice di quando Simon

non la vedesse da settimane.

— Mamma! — esclamò, e un secondo dopo Jocelyn le si buttò addosso per abbracciarla.

Da sopra la spalla della madre, Clary rivolse a Simon un sorriso. Lui si guardò attorno.

Alec e Magnus erano ancora avvinghiati, Maia e Jordan spariti; Isabelle continuava a

essere circondata da altri Shadowhunters, e Simon sentiva i sussulti di spavento e di

stupore del gruppetto mentre la ragazza li intratteneva col suo racconto. Intuiva che una

parte di lei ci stesse provando gusto: in fondo Isabelle adorava essere al centro

dell'attenzione, il motivo poco importava.

A un tratto si sentì una mano sulla spalla. Era Luke. — E tu Simon? Stai bene?

Simon si girò per guardarlo. Luke aveva l'aspetto di sempre: forte, solido, affidabile al

cento per cento e per nulla disturbato dal fatto che la sua festa di fidanzamento era stata

interrotta da un'improvvisa quanto drammatica emergenza.

Il padre di Simon era morto così tanti anni prima che lui se lo ricordava a malapena.

Rebecca ricordava qualcosa, per esempio che aveva la barba e che la aiutava a costruire

alte torri di cubetti, lui invece no. Era una delle cose che aveva sempre pensato di avere in

comune con Clary, che li legava: due padri morti, due ragazzi cresciuti da madri single e

forti.

Be', pensò Simon, almeno una di quelle cose si era rivelata vera. Anche se sua madre

aveva frequentato degli uomini, lui nella vita non aveva mai avuto una presenza maschile

costante all'infuori di Luke. Pensò che, in un certo senso, loro due avevano in comune

Clary. E anche il branco di lupi faceva riferimento a Luke come guida. Per essere un single

senza figli, insomma, quell'uomo aveva davvero un'enormità di gente a cui badare.

— Non so — disse Simon, dando a Luke la risposta sincera che, gli piaceva pensare,

avrebbe dato al proprio padre. — Non credo.

Luke lo guardò dritto in faccia. — Sei coperto di sangue. E suppongo che non sia il tuo,

perché... — Indicò con un cenno il Marchio di Caino, sulla fronte di Simon. — Però, dai —

riprese con voce gentile — anche coperto di sangue e con il Marchio di Caino sulla fronte,

resti sempre Simon. Mi dici che cosa è successo?

— Non è sangue mio, hai ragione — rispose lui con voce fioca. — Ma non è nemmeno

una storia tanto breve da raccontare. — Reclinò la testa all'indietro per guardare Luke; si

era sempre chiesto se un giorno anche lui sarebbe cresciuto ancora un po', superando di

qualche centimetro il metro e settantotto e riuscendo così a guardare Luke, per non parlare

di Jace, dritto negli occhi. Ora sapeva che non sarebbe mai stato possibile. — Luke —

disse. — Pensi che sia possibile fare una cosa così cattiva, anche se non volevi farla, da non

poter più riportare le cose come erano prima? Da non potersi far perdonare?

Luke rimase a guardarlo per un lungo momento di silenzio. Poi disse: — Pensa a

qualcuno che ami, Simon. A qualcuno che ami davvero. C'è qualcosa che questa persona

potrebbe fare per farti smettere di amarla?

Nella testa gli passarono una serie di immagini veloci, come le pagine di uno di quei

libretti che, se sfogliati rapidamente, danno l'impressione di movimento. Clary che si

girava per sorridergli da sopra una spalla; sua sorella che gli faceva il solletico quando lui

era solo un bambino; sua madre addormentata sul divano con la coperta tirata fin sopra le

spalle; Izzy...

Mise bruscamente fine ai propri pensieri. Clary non aveva fatto niente di così grave da

doversi meritare chissà quale perdono; nessuna delle persone che gli stavano venendo in

mente lo aveva fatto. Pensò a Clary, che perdonava sua madre per averle rubato i ricordi.

Pensò a Jace, a quello che aveva fatto sul tetto e a come era diventato dopo; aveva fatto

quello che aveva fatto senza volerlo, ma era convinto che non se lo sarebbe perdonato

facilmente. E poi pensò a Jordan, che non si perdonava per quello che aveva fatto a Maia,

ma che comunque era andato avanti, entrando nel Praetor Lupus e aiutando gli altri come

scopo di vita.

— Ho morso una persona — disse. Le parole gli erano uscite dalla bocca da sole e gli

sarebbe piaciuto potersele rimangiare. Si preparò alla reazione inorridita di Luke, che però

non arrivò.

— È ancora viva? — gli chiese. — Questa persona che hai morso. E sopravvissuta?

— Io... — Come spiegare di Maureen? Lilith aveva ordinato alla ragazzina di andarsene,

ma Simon era sicuro che con lei non fosse finita lì. — Non l'ho uccisa.

Luke annuì una sola volta. — Sai come fanno i lupi mannari a diventare capobranco?

Devono uccidere quello in carica. Io l'ho fatto due volte, e le mie cicatrici lo dimostrano. —

Spostò leggermente il colletto della camicia, in modo che Simon potesse vedere il lembo di

una spessa cicatrice bianca e frastagliata, segno che forse Luke era stato graffiato al petto.

— La seconda volta fu una mossa premeditata, un omicidio a sangue freddo. Volevo di-

ventare il capo, e uccisi. — Scrollò le spalle. — Tu sei un vampiro, è nella tua natura

desiderare di bere sangue. Hai resistito molto tempo senza farlo. So che puoi esporti alla

luce del sole, Simon, e quindi vantarti di essere un ragazzo normale, ma in realtà resti

quello che sei. Proprio come me. Più cercherai di contrastare la tua vera indole, più lei ti

controllerà. Accettati per come sei. Nessuno fra chi ti ama te lo impedirà mai.

Simon disse, con un filo di voce: — Mia madre...

— Clary mi ha raccontato quello che è ti successo con lei, e che ora stai da Jordan Kyle.

Fidati, Simon, tua madre lo accetterà. Amatis con me lo ha fatto. Sei ancora suo figlio. Se

vuoi, le parlerò io.

Simon scosse la testa in silenzio. A sua madre Luke era sempre piaciuto, ma scontrarsi

col fatto che lui era un lupo mannaro avrebbe, se possibile, peggiorato le cose anziché

migliorarle.

Luke annuì, come se l'avesse intuito da solo. — Se non vuoi tornare a casa di Jordan,

stanotte sei più che benvenuto sul mio divano. Sono sicuro che Clary sarebbe felice di

averti attorno, poi possiamo parlare domani di cosa fare con tua madre.

Simon raddrizzò le spalle. Guardò Isabelle, dall'altra parte della stanza, lo scintillio della

sua frusta, la lucentezza del ciondolo al collo, la danza leggiadra delle mani mentre

parlava. Isabelle, che non aveva paura di niente. Ripensò a sua madre, al modo in cui si

era allontanata da lui con la paura negli occhi; da allora aveva cercato di nascondersi da

quel ricordo, di rimuoverlo. Però ora doveva smetterla di scappare. — No — disse. —

Grazie, ma credo che stanotte non avrò bisogno di un posto dove dormire. Penso che...

stanotte tornerò a casa mia.

Jace era da solo sul tetto, con lo sguardo disteso sopra la città, con l'East River che si

snodava come un serpente nero e lucente fra Brooklyn e Manhattan. Aveva mani e labbra

ancora calde per il tocco di Clary, ma il vento che soffiava dall'acqua, gelido, le stava

raffreddando in fretta. Senza giacca, l'aria gli trapassava il tessuto leggero della camicia

come la lama di un coltello.

Fece un respiro profondo, riempiendosi i polmoni di aria fredda e svuotandoli

lentamente. Sentiva la tensione in ogni muscolo del corpo. Stava aspettando di sentire il

campanello dell'ascensore, di vedere le porte che si aprivano e gli Shadowhunters che si

riversavano in giardino. All'inizio si sarebbero dimostrati comprensivi, pensò, preoccupati

per lui. Poi, una volta capito quello che era successo... A quel punto si sarebbero allontana-

ti, scambiandosi sguardi complici mentre pensavano che lui non li stesse guardando. Era

stato posseduto, non da un semplice demone, bensì da un Demone Superiore; aveva agito

contro il Conclave, minacciato e ferito un altro Shadowhunter.

Pensò a come lo avrebbe guardato Jocelyn dopo aver saputo cosa aveva fatto a Clary.

Forse Luke lo avrebbe capito, perdonato. Ma Jocelyn... Non era mai riuscito a parlarle con

onestà, a dirle le parole che pensava avrebbero potuto rassicurarla. Amo tua figlia più di

quanto pensavo fosse possibile amare qualsiasi cosa. Non le farei mai del male.

Lei si sarebbe limitata a guardarlo, pensò, con quegli occhi verdi così simili a quelli di

Clary. Non si sarebbe accontentata di così poco: gli avrebbe voluto sentir dire quello che

lui stesso non era sicuro fosse vero.

Io non sono per niente come Valentine.

Davvero? Le parole sembravano arrivare trasportate dall'aria fredda, un sussurro

indirizzato soltanto alle sue orecchie. Non hai mai conosciuto tua madre. Non hai mai

conosciuto tuo padre. Hai dato il tuo cuore a Valentine quando eri piccolo, come fanno i bambini, e

sei diventato parte di lui. Ora non te ne puoi liberare con un netto colpo di lama.

Aveva la mano sinistra fredda. Abbassò lo sguardo e vide, restando di sasso, che per

qualche motivo aveva raccolto il pugnale — quello intarsiato d'argento, del suo vero

padre — e ora lo stringeva nel palmo. La lama, anche se corrosa dal sangue di Lilith, era

tornata integra, brillante come una promessa. Sentì che nel petto iniziava a diffondersi un

gelo che niente aveva a che fare con la temperatura esterna. Quante volte si era svegliato in

quel modo, sudato e affannato, con il pugnale in mano! E Clary, sempre Clary, morta ai suoi piedi!

Lilith però era stata distrutta. Era finita. Cercò di infilarsi il pugnale nella cintura, ma a

quanto pareva la mano non voleva obbedire al comando che gli dava la mente, face

avvertì, su tutto il torace, un calore pungente, ustionante. Quando abbassò lo sguardo vide

che il taglio sanguinante che aveva diviso in due il marchio di Lilith, nel punto in cui Clary

lo aveva sfregiato con il pugnale, era guarito. Ora il marchio brillava rosso sul suo petto.

Jace smise di cercare di rimettere il pugnale nella cintura. Le nocche della mano con cui

lo stringeva gli diventarono bianche, e il polso si piegò, mentre tentava disperatamente di

rivolgere l'arma verso se stesso. Il cuore gli batteva come un martello. Non aveva accettato

alcun iratze: come aveva fatto il marchio a rigenerarsi così in fretta? Se fosse riuscito a

sfregiarlo di nuovo, a sfigurarlo, anche solo temporaneamente...

Ma la mano non gli obbediva. Il braccio restava rigido al suo fianco, mentre il corpo si

girava, contro la sua stessa volontà, verso il piedistallo sul quale giaceva il corpo di

Sebastian.

La bara aveva iniziato a brillare di luce verdastra e fumosa: quasi il bagliore di una

stregaluce, ma con qualcosa di violento, qualcosa in grado di perforare la vista, face cercò

di fare un passo all'indietro, ma le gambe non gli si muovevano. Gocce di sudore gelato gli

scendevano giù per la schiena. Dal fondo della mente, una voce lo chiamò sussurrando.

Vieni qui...

Era quella di Sebastian.

Pensavi di essere libero solo perché Lilith se n'è andata! Il morso del vampiro mi ha risvegliato;

ora il sangue di lei nelle mie vene ti chiama.

Vieni qui.

Jace cercò di puntare i talloni a terra, ma il corpo lo tradì portandolo in avanti, sebbene la

mente razionale lottasse per impedirlo. Pur sforzandosi di non avanzare, i piedi lo

conducevano lungo la via verso la bara. Quando attraversò il cerchio dipinto a terra,

quest'ultimo emanò un bagliore verde, e la bara sembrò rispondere con un secondo flash

di luce color smeraldo. E un attimo dopo Jace era sopra la bara, che ci guardava dentro.

Si morse con forza il labbro, nella vana speranza di svegliarsi di colpo da quello stato

ipnotico in cui versava. Non funzionò. Sentì il sapore del proprio sangue mentre guardava

in basso su Sebastian, che galleggiava come un cadavere affogato in acqua. Sono perle quelli

che erano i suoi occhi. I capelli erano simili ad alghe incolori; le palpebre chiuse, blu. La

bocca aveva la stessa espressione severa di quella del padre: era come guardare Valentine

da giovane.

Senza volerlo, e del tutto contro la sua volontà, Jace iniziò a sollevare una mano. La

sinistra appoggiò la lama del pugnale sul palmo della destra, dove la linea della vita e

dell'amore si incontravano.

Dalle labbra gli uscirono delle parole. Le sentì come se provenissero da una distanza

immensa; non erano in una lingua che conosceva o che capiva, ma sapeva che cos'erano:

un canto rituale. La mente gridava al corpo di fermarsi, ma sembrava non servisse a nulla.

La mano sinistra iniziò a scendere, col coltello al suo interno. La lama fece un taglio netto,

deciso e superficiale sul palmo destro, che quasi subito iniziò a sanguinare. Jace cercò di

indietreggiare, di spostare il braccio, ma era come immobilizzato dentro il cemento. Sotto

il suo sguardo terrorizzato, le prime gocce di sangue schizzarono il viso di Sebastian.

Che aprì gli occhi. Erano neri, più neri di quelli di Valentine, neri come quelli del

demone che aveva proclamato di essere sua madre. Si fissarono su Jace, come grossi

specchi scuri che gli restituivano l'immagine del suo volto, contratto e irriconoscibile, con

la bocca che sillabava le parole del rituale facendole sgorgare fuori come un fiume d'acqua

nera in una cantilena senza senso.

Il sangue ora scorreva abbondante, tingendo il liquido della bara di un rosso più scuro.

Sebastian si mosse. L'acqua insanguinata si spostò con un'onda e si riversò fuori dai bordi

quando lui si mise a sedere, sempre con gli occhi neri puntati su Jace.

La seconda parte del rituale. Una voce parlava a Jace da dentro la sua testa. È quasi finito.

L'acqua gli scorreva addosso come lacrime. I capelli chiari, incollati alla fronte,

sembravano del tutto incolori. Sollevò una mano e la distese in avanti; Jace, agendo contro

il grido che si sentiva dentro, gli porse il pugnale, con la lama in fuori. Sebastian fece

scorrere una mano sul bordo della lama fredda e affilata; il sangue gli sprizzò dal palmo in

una lunga linea. Buttò via il pugnale e prese il polso di Jace, stringendogli la mano con la

propria.

Era l'ultima cosa che Jace si sarebbe aspettato. Non poteva muoversi per allontanarsi.

Sentì ognuna delle fredde dita di Sebastian che gli si piegavano attorno alla mano,

premendo le loro ferite sanguinanti una contro l'altra. Era come trovarsi in una morsa di

freddo metallo. Il gelo cominciò a salirgli nelle vene dalla mano; lo attraversò un brivido,

poi un altro, poi un altro ancora, tutti così dolorosi da dargli la sensazione che il suo corpo

si stesse rivoltando da dentro a fuori. Tentò di gridare...

E il grido gli si smorzò in gola. Guardò la propria mano e quella di Sebastian, strette

insieme. Il sangue scorreva attraverso le dita e sui polsi di entrambi, con l'eleganza di un

merletto rosso, brillando alle fredde luci artificiali della città. Non si muoveva come un

liquido, ma come fili rossi dotati di vita propria, che avvolgevano le mani dei due in

un'unione scarlatta.

Jace si sentì cogliere da uno strano senso di pace. Il mondo sembrò scomparire, come se

lui si trovasse in cima a una montagna, con tutto il resto davanti a sé pronto per essere

colto con una mano. Le luci della città che lo circondavano non erano più elettriche, ma di

mille stelle splendenti come diamanti. Sembravano brillare su di lui con una luce benevola

che diceva: Va bene. E giusto. È quello che avrebbe voluto tuo padre.

Con l'occhio della mente vide Clary, il suo viso pallido, la cascata di capelli rossi, la

bocca che si muoveva e formava le parole Torno fra cinque minuti.

E poi la voce di lei che si affievoliva mentre un'altra si sovrapponeva, cancellandola.

L'immagine di Clary nella sua mente si allontanò, scomparendo implorante nel buio, come

Euridice si dissolse dopo che Orfeo si era voltato a guardarla un'ultima volta. La vide,

braccia candide distese verso di lui, ma poi le ombre la travolsero, portandosela via.

Ora nella testa di Jace era una nuova voce a parlare, una voce familiare, una tempo

odiata, ora stranamente gradita. Quella di Sebastian. Era come se gli scorresse nel sangue,

in quel sangue passato dalla mano dell'altro alla propria, come in una catena di fuoco.

Ora, fratellino, io e te, disse Sebastian.

Siamo una cosa sola.

RINGRAZIAMENTI

Come sempre, la famiglia ha fornito il sostegno necessario per la nascita di questo libro:

mio marito Josh; mia madre e mio padre, Jim Hill e Kate Connor; la famiglia Eason;

Melanie, Jonathan e Helen Lewis; Florence e Joyce. Questo libro, ancora più di ogni altro, è

stato il risultato di un intenso lavoro di squadra, per cui voglio davvero ringraziare: Delia

Sherman, Holly Black, Sarah Rees Brennan, Justine Larbalestier, Elka Cloke, Robin

Wasserman; una menzione speciale va a Maureen Johnson per aver prestato il suo nome al

personaggio di Maureen. Grazie a Margie Longoria per il sostegno al Project Book Babe:

Michael Garza, proprietario del Big Apple Deli, prende il nome da suo figlio, Michael

Eliseo Joe Garza. La mia gratitudine va come sempre al mio agente, Barry Goldblatt; alla

mia editor, Karen Wojtyla; a Emily Fabre, per aver apportato modifiche ben oltre le

scadenze consentite; allo staff della Simon and Schuster e della Walker Books per aver reso

possibile il resto della magia. E infine, un grazie a Linus e a Lucy, i miei gatti, che hanno

vomitato sul manoscritto una volta sola.

“ebook di ebooklove.altervista.org se lo hai scaricato da altri siti... allora non e' originale”

Città degli angeli caduti è stato scritto con il programma "Scrivener" a San Miguel de

Allende, Messico