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realizzazione di una versione cartacea della rivista on line carmilla

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#0Carmilla N°0

Mensile di controinformazione, letteratura, cinema,

arte, spettacolo e forme di sopravvivenza.

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#Voci e controvoci: La coscienza dei soldati pg 3

#Per vedere di più: Il lavoro culturale ai tempi della malaria pg 5

#Qualcosa da dire: Verso l'iperspazio del caos pg 7

#Cose dell'altro mondo: L'Enel e la diga El Quimbo pg 9

#Voci fuori campo: Lettera al presidente pg 13

#Voci poetanti: Ricordi pg 15

#A quattr'occhi: Di scheletri e di ciccioni pg 38

#Quid Tum?: Death Economy. Il baratro terminale del collasso planetario pg 19

#Libri mon amour:

Marco Codebò: La bomba e la gina pg 17

L'intelletto generale alla ricerca del corpo pg 31

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Voci e controvoci

di Alessandra Daniele

Cito dall’articolo di Lorenza Ghinelli La pedagogia disarmante di Paulo Freire:

Vedo in Marco Bruno, come nel poliziotto, due facce della medesima medaglia, una medaglia che ha uno scopo preciso, far tornare i conti ai potenti. I poliziotti, così come i No Tav, assumono su se stessi ruoli prestabiliti da altri. Senza divertimento al-cuno e senza consapevolezza.

Vorrei controbattere citando una scena dal quarto atto dell’Enrico V di Shakespeare, nella quale tre sol-dati discutono se l’essere coscritti al servizio del re li sollevi dalla responsabilità morale delle loro azioni,

facendo ricadere solo su di lui le loro colpe: Ne sappiamo abbastanza se sappiamo che siamo sudditi del re; se la sua causa è in-giusta, l’obbedienza che dobbiamo al re ci toglie ogni responsabilità pei suoi atti.

Enrico V, fra loro in incognito, li avverte però che la responsabilità morale è personale, e che se mori-ranno con la coscienza nera, andranno all’inferno, e pagheranno personalmente per le loro malefatte, a prescindere dal loro status di coscritti:ogni suddito deve obbedienza al re, ma l’anima di cia-scun suddito è affare tutto suo. Enrico V rischia così di rendere i suoi uomini dei soldati “meno efficienti”, perché responsabilizzati, e quindi non più predisposti all’obbedienza pron-ta, cieca, e assoluta, se può costargli l’anima. Sol-dati “peggiori”, ma uomini migliori. Esseri umani, e

La coscienza dei soldati

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Paulo Freire (Recife, 19 settembre 1921 – São Paulo, 2 maggio 1997) è stato un peda-gogista brasiliano e un importante teorico dell’educazione.oggi ricordato in modo par-ticolare per aver introdotto i concetti di problem posing all’interno del processo/progetto educativo, ha contribuito a una filo-sofia dell’educazione, proveniente non solo dal più classico approccio riferito a Platone, ma anche dai pensatori moderni marxisti e anticolonialisti. Di fatto, in diversi modi la sua Pedagogia degli oppressi può essere meglio letta come un’estensione o una risposta a I dannati del-la Terra di Frantz Fanon, che poneva una forte enfasi sulla necessità di fornire ai po-poli nativi un’educazione che fosse, al tempo stesso, nuova e moderna, piuttosto che tradi-zionale, e anticoloniale.

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non macchine: il dubbio che tormenta l’agente Rick Deckard, cacciatore di androidi, è quello d’essere anch’egli una macchina, e proprio questo doloro-so interrogarsi sulla propria coscienza ne dimostra l’umanità. Il monito di Enrico V è il contrario di ciò che Ni-colas Eymerich promette sempre ai soldati al servi-zio dell’Inquisizione, prima di una strage di eretici, o ebrei, o musulmani: assoluzione preventiva e plena-ria per ogni atrocità commessa ai suoi ordini. “Stavo solo eseguendo degli ordini” era la linea di di-fesa di Eichmann. E non ha funzionato. Se un soldato spacca la testa a una contadina sessan-tenne, o ammazza un pescatore a fucilate, o insegue un ragazzo su un traliccio finché il ragazzo sbaglia la presa e cade fulminato, la colpa non è solo del re. Si accusa spesso la cultura antagonista di disuma-nizzare gli uomini in divisa vedendoli solo come cie-chi strumenti del potere, in realtà io ci tengo a fare esattamente il contrario: riconoscerli come esseri umani dotati del bene più prezioso dell’universo: una coscienza indipendente. Capaci di discernere gli or-dini che li portano a combattere le mafie, da quelli che li mandano a presidiare i cantieri controllati dal-le mafie. Persino Roberto Saviano (ormai ben lontano dalla cultura antagonista) avverte:

L’Alta velocità è diventata uno strumento per la diffusione della corruzione e del-la criminalità organizzata (…) Il tracciato della Lione-Torino si può sovrapporre alla

mappa delle famiglie mafiose e dei loro af-fari.

Una coscienza indipendente ti mette in grado di decidere se condividere le idee e le colpe del re, e del-le mafie, oppure no. Se essere migliore come soldato, o come essere umano.

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5Il lavoro culturale

ai tempi della malaria

di Francesco Zucconi

Il lavoro cognitivo è assediato da pratiche di lo-goramento vecchie e nuove, tra precarietà, riforme neoliberali e censura. Tira aria cattiva in Italia. Car-milla accoglie volentieri il manifesto introduttivo di un seminario organizzato da studenti e ricercatori dell’Università di Siena che si propone di ripensare il lavoro culturale come pratica di resistenza e di tra-sformazione del reale.

Brividi improvvisi e tremori intensi, mentre sale la temperatura e cala il sostegno della ragione. La mala-ria, si sa, esaurisce il senso del domani mentre disto-glie l’attenzione dall’oggi. Nessun proposito, nessuna memoria o spessore del tempo: ogni riflessione, ogni confronto d’opinioni, ogni energia critica è persa. Il lavoro culturale al tempo della malaria è come un atto di resistenza, prima di tutto a se stessi, nel ten-tativo di osteggiare l’inerzia, allontanare il senso del-la fine e il piacere che provoca. Dentro le università, qualcuno lo diceva da tempo: morte dell’arte, del teatro, del cinema e della lettera-tura, morte della cultura, dell’impegno e del mondo. Credendo di annunciarla come un presagio, della fine non erano altro che sintomi. Al tempo della malaria, se la cultura è sensibile e per prima ne risente, la società tutta non sta affatto bene. Ma c’è chi teme un peggioramento, un contagio reciproco, e si tende a evitare ogni incontro: meglio lasciarle separate. Che chi ha l’ambizione di studia-re non s’immischi con le cose del mondo; che i libri restino chiusi in se stessi. Questione di pubblica si-curezza. Al tempo della malaria, se la società tutta non sta af-fatto bene, dentro le università non è che si trovi un riparo. Chi vi cerca un riparo si crea una riserva. L’u-niversità è da sempre un luogo di incontro, ma anche e soprattutto un luogo di condivisione e manuten-zione dei saperi, in un dialogo ininterrotto tra gene-razioni diverse, nel comune intento di salvaguardare l’efficacia degli strumenti e delle metodologie in rela-zione alle nuove sfide che provengono dal presente. L’università è più di un luogo fisico circoscritto: mi-nacciata in quanto istituzione, si protrae e prosegue all’esterno, laddove il sapere si propaga nelle prati-

che, nelle oc-casioni di con-divisione della vita civile e po-litica, nel lavo-ro culturale. All’idea, forte-mente presente nel dibattito cul-turale contempo-raneo, che soltanto una figura intellet-tuale carismatica social-mente investita di tale ruolo possa rigenerare l’impegno e orientare i termini del dibattito culturale, sembra infatti possibile avvicendare un modello alternativo che valorizzi il lavoro quotidiano che coinvolge e accomuna realtà scientifi-che e professionali variamente dislocate. In che modo lo storico contemporaneo può elaborare una verità sul passato prossimo, un passato carico di ri-percussioni sul presente come quello italiano degli anni Settanta? E come si riarticola la riflessione socio-logica sul concetto di sfera pubblica nell’esplosione dei social network? Che cosa accomuna lo sguardo di un documentarista a quello di un etnografo quando questi condividono il “campo”? Come tradurre una lingua straniera senza schiacciare irreparabilmente la cultura che vi si trova espressa e che vi si esprime? Dove inizia il lavoro dell’artista e dove finisce quello dello studioso? Partendo da tali domande, si ha come l’impressio-ne che al di là dei problemi epistemologici che dif-ferenziano le discipline umanistiche, tanto la storia, quanto la sociologia, l’antropologia, la filosofia e la semiotica non possano prescindere dal terreno co-mune che inevitabilmente le lega: il mondo e il mon-do contemporaneo - di per sé inconoscibile - sul quale ogni sguardo scientifico opera una sezione, individua alcuni tratti pertinenti, costruisce il proprio mondo-modello di riferimento. Allo stesso modo, al di là delle specificità, sono figure intellettuali come quella del

Per vedere di più

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giornalista, del traduttore, del letterato, del cineasta… ad articolare di volta in volta i propri saperi ed esperienze nella messa in forma, nell’interpretazione e nella tra-duzione della realtà socialmente condivisa.Docente, romanziere o traduttore, a Milano,

a Siena o a Kansas City, poco importa. Come nelle pagine iniziali dell’opera di Luciano Bian-ciardi dalla quale il seminario prende il titolo in prestito, il lavoro culturale non prevede po-sizioni fisse di giudizio o privilegio. Affacciati al balcone, quando la febbre con-

cede il respiro, scorgiamo qualcosa “là fuori”. Qualcosa, una realtà sociale, culturale e politica,

che si modella in risposta alle domande e che si mo-difica in relazione alla profondità di sguardo che

vi si esercita. La malaria si combatte in provincia, laddove l’incontro, la voglia di acuire la vista e affila-

re le opinioni, è più forte della fiacca e della paura.

Di intellettuali (di ieri e di oggi) e della scrit-tura bianciardiana si parlerà nel convegno “Nascere intellettuali, morire pompieri. La scrittura di Luciano Bianciardi, tra scena e letteratura” curato da Angelo Romagnoli e Raffaella Ilari, coordinato da Stefano Jaco-viello che si svolgerà a Siena presso il Salo-ne Storico della Biblioteca degli Intronati, giovedì 29 marzo dalle ore 15.30. Nel pro-getto dedicato a Luciano Bianciardi, oltre al convegno, è stato realizzato uno spettacolo teatrale. Giovedì 29 marzo, alle ore 21 (con repliche venerdì 30 e sabato 31 marzo ore 18.30), sempre presso il Salone Storico del-la Biblioteca degli Intronati, viene presenta-to Non leggete i libri, fateveli raccontare, una produzione della Compagnia Pennacchia Ro-magnoli/laLut, tratto dall’opera di Luciano Bianciardi, con Angelo Romagnoli, per la re-gia Francesco Pennacchia.

Il seminario Il lavoro culturale. Lo sguardo delle scienze umane sul presente prende le mosse a Siena, mercoledì 26 gennaio presso la Sala Cinema della Facoltà di Lettere e Filosofia e si protrae fino al 1 giugno, con una cadenza quindi-cinale. Ideato e organizzato da studenti, dotto-randi e precari della ricerca, è inteso come spazio aperto e luogo di sperimentazio-ne di nuove forme di condivisione ed elaborazione delle opinio-ni all’interno e all’esterno dell’istituzione uni-versitaria: una piattaforma in cui le scienze uma- n e

p o s s a -no confron-

tarsi a partire da problematiche cogenti

e tematiche d’interesse co-mune, ma, ancora di più, un’occa-

sione per evidenziare come i saperi e le metodologie umanistiche siano di fatto

messe in azione, quotidianamente, nelle pratiche professionali di chi, a vario titolo, lavora nel campo del-

la cultura.

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Qualcosa da dire

Verso l’iperspazio del caos

di Mauro Baldrati

Giacomo Leopardi, durante i brevi soggiorni a Bo-logna del 1825-1826, rimase colpito dalla città e dai suoi abitanti: da un lato negativamente e dolorosa-mente, per gli sbalzi del clima e il freddo umido (il “bestialissimo freddo”, micidiale per la sua debole costituzione); dall’altro positivamente e gioiosamen-te per il carattere “allegrissimo, ospitalissimo” dei suoi abitanti. A Bologna, scriveva in una delle lettere milanesi, “nel materiale e nel morale tutto è bello, e niente è magnifico”. Nel materiale: Leopardi aveva ragione. Bologna me-dievale, con le sue strade strette, tortuose, fasciate da portici lunghissimi, con le piazzette e le chiese, i giar-dini interni delle case nobiliari belli ma non splendi-di come quelli milanesi, o romani, è molto bella, con straordinarie miniature, tonalità affascinanti, ma non magnifica. Non può competere con Firenze, o Vene-zia.Ma per Leopardi la mancanza del magnifico non era un difetto, né una mancanza, ma un pregio:

In Milano il bello che vi è in gran copia, è guastato dal magnifico e dal diplomatico, anche nei divertimenti.

Lo splendore del “diplomatico” minacciava, guastava

l’affettuosa bellezza che si confaceva al suo cuore.Però Leopardi forse non conosceva a fondo un angolo di Bologna dove il magnifico risplende fiero, olimpi-camente assestato sulla cima di un promontorio: la basilica di San Luca, che dall’alto del Colle della Guar-dia domina la città. È collegata al centro da un porti-cato lunghissimo (si dice il più lungo d’Europa), che parte dall’arco del Meloncello e permette di raggiun-gere San Luca anche durante una pioggia torrenziale senza mai aprire l’ombrello. È un edificio settecentesco, con linee barocche, non particolarmente sfarzoso ma con una sua mae-stà, discretamente vezzoso con le piccole guglie e il complesso sistema di circoli concentrici (le volte, le cappelle). Forse Leopardi la visitò, magari percorren-do la strada che si inerpica sulla collina a bordo del-la carrozza della contessa Malvezzi, “dama di molto spirito e di molta cultura” della quale era innamora-to, prima di ricevere da lei una cocente delusione (e quindi di cambiare la definizione in “quella puttana della Malvezzi”). Se ciò è avvenuto, non deve averne tratto una particolare impressione, soprattutto se la confrontava con le grandi chiese romane e fiorentine. Ma sicuramente Leopardi, considerate le sue condi-zioni di salute e la malformazione alla colonna verte-brale, non può essere arrivato a San Luca da un’altra

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via, meno conosciuta, ma più impegnativa: un ripido sentiero che scala il fianco della collina partendo da Casalecchio di Reno, comune della Città Metropoli-tana Ovest, denominato “i Bregoli”. L’attacco è dal Parco della Chiusa, particolarmente amato da Sten-dhal che vi si recava quasi ogni mattina durante il suo soggiorno bolognese del 1817, quando aspettava invano una lettera di Metilde Viscontini Dembowski, la Métilde di cui era infelicemente innamorato. I Bre-goli salgono fino alla Via di San Luca, con quattordici “stazioni” che simboleggiano la salita al Golgota di Cristo. È una antica via di pellegrinaggio, come il lun-go portico, sempre affollato di persone di ogni età e nazionalità che arrivano sudate, ansimanti, per tradi-zione, per il gusto dell’escursione, o semplicemente desiderose di chiedere una grazia alla potente Ma-donna di San Luca. Leopardi forse non ha visto la basilica apparire dopo una curva della Via di San Luca, nel tardo pome-riggio, quando i toni magenta della luce solare pros-sima al tramonto fanno incendiare l’intonaco rosso, benché scolorito e bisognoso di un restauro urgente. Ne avrebbe ammirato la magnificenza, la regalità. L’a-vrebbe descritta in tutta la sua potenza “diplomati-ca”, non ancora sfregiata dagli osceni monumenti del Ventesimo secolo, i tralicci dei ripetitori radiotelevi-sivi e telefonici che la circondano e sembrano minac-ciarla coi loro artigli protesi verso il cielo. I tralicci sono gli obelischi del vero, unico potere che domina l’economia, e il paesaggio: il Mercato. I colli di San Luca sono zone vincolate dalla Soprinten-denza per i Beni Architettonici e Paesaggistici, dove qualsiasi intervento, per quanto minimale (come per esempio la modifica di una piccola finestra nella corte interna di un edificio), è soggetto a parere. Ma non c’è Soprintendenza né divieto che possano fronteggiare il Mercato. La necessità del segnale televisivo che vei-cola pubblicità e consenso, o delle telecomunicazioni, esige risposte urgenti. E se i tralicci s’hanno da fare si fanno, in barba alle soprintendenze, ai piani paesag-gistici e ai principi democratici di sussidiarietà. Così sui porticati soprastanti le scale elicoidali che salgono alla basilica i tralicci incombono aggressivi, coi loro dardi elettromagnetici che inquinano chilo-metri quadrati di collina e insidiano la piccola zona magica e segreta del suo interno.Perché all’interno della basilica, oltre alla leggendaria icona della potente Madonna che si dice provenien-te da Costantinopoli, esiste un fulcro energetico di

incredibile potenza. Me lo rivelò una famosa prano-terapeuta di nome Albertina (che io chiamavo Alber-tine), che coniugava la mistica con la scienza medica, cattolicissima e tuttavia attenta alle energie materiali che ci circondano e che noi stessi sprigioniamo, spes-so in condizioni di squilibrio. Qui, nel punto segreto, che pochissimi conoscono (e che non deve mai essere rivelato, disse, con mio grande stupore), l’equilibrio viene ristabilito. Fu scoperto durante la costruzione di un antico ere-mo - sulle cui rovine è sorta la basilica - iniziata il 25 maggio 1194 dalla battagliera canonichessa Angelica Bonfantini, che lottò tutta la vita coi canonici renani, i priori del suo ordine, per essere indipendente (che significava soprattutto disporre delle ingenti dona-zioni che venivano elargite all’eremo). In questo pun-to tutte le energie che regolano la vita e il tempo si toccano, si scambiano, ritrovano l’armonia. Quando salgo alla basilica dai Bregoli sosto almeno venti minuti nel punto segreto, immobile, coi piedi paralleli coincidenti con la linea a piombo delle spal-le, come prescriveva la signora Albertina. Non riesco ad allontanare del tutto un senso di disagio, perché colgo occhiate incuriosite dei presenti, e dei vecchis-simi preti che ogni tanto fanno capolino. Ma resisto. L’esposizione aiuta nella guarigione dalle malattie, tutte le malattie, perché con la sua energia positiva aiuta la rigenerazione cellulare e il riequilibrio ner-voso. La cosa è sicura, diceva la signora Albertina, perché gli Antichi sapevano, erano i depositari della conoscenza, oggi dimenticata o svilita. Sempreché, ovviamente, la violenza dell’inquinamento elettroma-gnetico non inibisca o corrompa la sua potenza.Qui sosto immobile cercando di liberare la mente, guardando l’altare di marmo nero, sbirciando gli enormi quadri scuriti dal tempo di Guido Reni, Dona-to Creti, Il Guercino, Domenico Pestrini.Non so se mi rivolgo alla potente Madonna di San Luca, una signora che, come direbbe l’angelo del telefilm Supernatural, nell’alto gruppo celeste ha un’enorme influenza, persino superiore a pezzi da novanta come San Gennaro, Sant’Ambrogio, Sant’An-tonio. Però ha anche una lista d’ascolto sterminata, lunga quasi trecento anni e migliaia di chilometri di pellegrinaggi. Per cui sto in piedi al centro preciso del fulcro energetico in attesa di qualcosa, o di qualcuno che tuttavia non esce mai da un fortificato silenzio. Per la verità non so se c’è davvero qualcuno in ascolto, non credo che esistano risposte certe. In ogni caso, comunque vada, sono di fronte a un gate, un cancello, una pista di decollo, sotto la cascata delle forze positive, nel cono di luce e dell’amore, pronto per lanciare i miei atomi nell’iperspazio del Caos.

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Colombia: l’Enel e la diga El Quimbodi Fabrizio Lorusso

Nella regione di Huila, Colombia centromeridiona-le, il megaprogetto per la centrale idroelettrica di El Quimbo contrappone da mesi le popolazioni locali al governo del conservatore Juan Manuel Santos e alla multinazionale italiana ENEL (Ente Nazionale per l’E-nergia ELettrica), partecipata al 31% dal nostro Mini-stero dell’Economia, quindi dallo stato italiano. Que-sto caso, come molti altri in America Latina, ricorda da vicino la situazione vissuta in Val di Susa da oltre vent’anni. Un progetto caro, programmato da tempo, che si deve fare ormai “ad ogni costo” e “perché sì”, con gli abitanti del luogo (e non solo) che si oppongono e subiscono le vessazioni dell’autorità e la scarsa chia-rezza da parte della compagnia - in questo caso una multinazionale italo-spagnola dell’energia con grossi interessi in Colombia e in Sudamerica - su compensa-zioni e impatti ambientali. E’ vero, qui l’investimento

non viene dal capitale pubblico colombiano, proviene dall’estero e, in parte, dalle tasche degli italiani. Gli effetti ambientali, però, restano in Colombia, mentre gli utili derivanti dall’esportazione delle risorse gene-rate sul territorio vanno via. E’ il dilemma delle multinazionali che, presenti in più paesi per definizione, sono diventate un con-tropotere enorme, ma ogni paese poi regola il loro funzionamento e il loro potenziale d’intervento e di “negoziazione della sovranità” a livelli e in modi diversi. Storicamente in Latino America l’equilibrio s’è sempre spostato in favore del capitale e dell’in-vestimento, quasi sempre stranieri, pregiudicando l’economia regionale nel medio-lungo periodo con lo sfruttamento di benefici e di alleanze politiche stru-mentali, bisognose di grandi progetti legittimatori e rendite che s’ottengono nel breve periodo, nell’arco di un mandato (o mezzo) presidenziale, per capirci.

Cose dell'altro mondo

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Le famiglie perdono casa, terra, lavoro, abitudini e identità in vista di un eventuale guadagno per tutto il paese che, però, corrisponde spesso all’interesse di pochi piuttosto che a quello generaleLa prima pietra dell’opera è stata posta già nel feb-braio 2011, ma nell’ultimo mese e mezzo la situa-zione è precipitata: sono aumentate le proteste per la deviazione del Río Magdalena, fiume che, come il suo gemello Cauca, attraversa da sud a nord tutto il paese sudamericano. Da una parte c’è un investimento di 625 milioni di euro, dall’altra l’inondazione di circa 8500 ettari delle terre più produttive e fertili della regione e il trasfe-rimento di 3000 persone che dipendono dalla pesca, dalla pastorizia e dall’agricoltura.ENEL opera in Co-lombia con le controllate ENDESA (Empresa Nacional de Electricidad S.A.) ed EMGESA (empresa generadora y comercializadora de energía S.A.). Grazie alla pre-

senza storica di ENDESA in America Latina, ENEL ha oggi una capacità installata di sedici GW di cui 2,9 in Colombia. La idroelettrica El Quimbo, con i suoi 0,4 GW a regime per coprire tra il 4% e l’8% del fabbi-sogno elettrico nazionale, è in disputa tra i presunti “pionieri della modernità e dello sviluppo” e gli abi-tanti della valle tacciati da alti funzionari del governo del presidente Santos come difensori dell’ecosistema e di interessi politici esterni, “venuti da altre zone de paese” per creare disordini: industria ed energia per tutti, come parte di un piano nazionale basato sui settori estrattivo ed energetico, o sostenibilità locale e ambientale con autosufficienza alimentare, econo-mia locale e qualità di vita per le popolazioni. Il presidente definisce il suo progetto di rinascita per il paese come “la locomotrice minerario-energe-tica”, un termine sicuramente adatto al futurismo e alle esigenze dell’economia di un secolo fa e che ri-

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corda i modelli fallimentari della storia economica la-tino americana basati sull’esportazione e la svendita di materie prime e su un’industrializzazione pesante indotta dall’estero. Per far funzionare questo ipotetico “treno della modernità” ed estrarre più oro, carbone e idrocarbu-ri, serve più energia, quindi ecco che si chiude il cer-chio. Ad oggi, infatti, la Colombia non avrebbe biso-gno di un incremento così forte della sua produzione energetica. Su El Quimbo la posta in gioco è alta e le posizioni delle parti paiono inconciliabili, così come i modelli di sviluppo e di futuro sottesi all’operato go-vernativo e alle popolazioni colpite da progetti non condivisi.I cittadini contrari all’opera, uniti nell’asso-ciazione Asoquimbo, denunciano l’impresa di voler produrre soprattutto per l’esportazione e di non la-sciare nulla sul territorio: si stima una perdita netta per l’economia locale di 345 milioni di euro in cin-quanta anni e, anche se ci saranno 3000 assunzioni per la costruzione, poi resteranno solo poche decine di tecnici dopo un paio d’anni. La costruzione infatti dovrebbe terminare nel 2014.Nel 2008, con l’ex presidente Alvaro Uribe, “ENDESA cominciò i lavori senza le licenze ambientali”, precisa il senatore del Polo Democratico, Jorge Robledo. Le licenze, che stabiliscono anche le compensazioni a carico dell’azienda, vennero concesse l’anno dopo e poi negoziate al ribasso dall’impresa con il Ministero dell’Ambiente senza consultare le comunità, secon-do le denunce di Asoquimbo. “Tra il 2008 e il 2009 si fecero i tavoli di concertazione, con il Ministero dell’Energia e delle Miniere, il governo di Huila, i sin-daci dei comuni interessati direttamente, le comunità e l’impresa da cui scaturirono trenta accordi”, ha di-chiarato alla rivista colombiana Semana Luis Rubio, direttore di ENDESA Colombia. “Gli accordi furono inclusi come obblighi nelle licenze del progetto che

stiamo rispettando”, ha confermato Rubio. D’altro canto c’è chi sostiene il contrario e la stessa governatrice della regione, González Villa, ha riaper-to il tavolo di verifica per il rispetto degli accordi che “furono inclusi come obblighi nella licenza ambienta-le concessa dal Ministero dell’Ambiente per il proget-to ed è quello che dobbiamo verificare: se si stanno rispettando o no. Ci sono comunità in disaccordo col progetto, mentre EMGESA afferma che tutto va avan-ti secondo gli accordi”. Intanto i lavori sono iniziati comunque. Miller Dussan, ricercatore e attivista di Asoquimbo, parla di un “inganno di EMGESA alle co-munità dato che invece di risistemare degnamente gli abitanti, offre denaro in modo irresponsabile”. Un altro problema è che la compagnia “disinforma i di-versi gruppi che quindi non conoscono i tipi di com-pensazione proposti, l’acquisto delle terre da parte di ENDESA ha fatto perdere molti posti di lavoro agli abitanti”.Dalla fine del 2011 sono ripartite le proteste pacifi-che degli abitanti di Huila e il 14 febbraio c’è stato lo scontro di trecento poliziotti che hanno sgomberato quattrocento persone, anche donne e bambini, con lacrimogeni e manganelli. Il saldo è stato di qualche decina di feriti, di cui tre molto gravi, e un manife-stante che perderà l’occhio destro. “Le armi impie-gate non erano letali: fumogeni, lacrimogeni, granate stordenti ma mai armi da fuoco”, sostiene il capo del-la polizia locale Juan Peláez. Il documentario, Video che il governo non vuole che tu veda, con le immagini dello sgombero a El Quim-bo, del giornalista colombiano Bladimir Sánchez e dell’italiano Bruno Federico è passato da YouTube al portale della rivista Semana, ma Sánchez ha ricevu-to minacce di morte dopo la pubblicazione, mentre Federico il 3 marzo è stato detenuto per alcune ore dalla polizia dopo la diffusione del materiale (alle-

Cose dell'altro mondo

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gato in fondo all’articolo).Il presidente Santos ha de-finito l’azione della polizia “normale” e “secondo il protocollo” per un progetto pensato “per il bene di tutti i colombiani”. Il Ministro dell’ambiente Frank Pearl ha parlato di “interessi oscuri”, riferendosi ai contadini che non sarebbero “abitanti della zona ma studenti di altre regioni” e Santos ha affermato che “non accetterà che persone con intenzioni politiche blocchino l’opera”. Il 3 marzo a El Quimbo c’è stata un’altra protesta, condotta in più pun-ti, che è rientrata dopo alcune scara-mucce con la polizia che ha lanciato lacri-mogeni e granate da dispersione e, anche se i lavori sono già cominciati, la par-tita non è chiusa. “Lo scorso fine set-timana s’è deviato il fiume, secondo gli standard ambientali e tecnici”, ha com-mentato Rubio, “la gente ha diritto alle compensazioni secondo i censimenti socioeconomici e questi prendono del tempo”. “Abbiamo ricerche per proteggere la ricchezza natu-rale della zona”, ha precisato. Il 22 marzo gli oppo-sitori al progetto de El Quimbo hanno portato avanti l’iniziativa per una giornata senza luce, un black out nazionale con lo slogan “Non abbiamo bisogno di più energia, ma di meno consumo”, che sintetizza una differente visione alla base dello sviluppo per la Co-lombia.

Il giornalista Federico, che sta seguendo da vici-no tutta la vicenda, spiega invece che l’impresa ha riconosciuto solo 1700 compensazioni – soprattutto dei grandi proprietari con cui sono scesi a patti sulle 3700 documentate da Asoquimbo, che quattrocento abitanti sono stati allontanati dalla zona senza al-cuna alternativa e che i lavori sono continuati nono-stante non si siano risolti questi problemi e le licenze ambientali non siano state verificate completamente. Ma la corte dei conti e la magistratura hanno aper-

to un’inchiesta per corruzione e disa-stro ambientale e stanno indagando sulle accuse contro EMGESA, per viola-zioni ai diritti uma-ni e ambientali, e sugli stessi contratti dell’azienda, com-preso uno da 251 milioni di euro con l’italiana Impregilo per la costruzione della centrale.Rubio però non con-ferma, infatti, “la

compagnia non è a conoscenza dell’indagine”. Una

sentenza di sospensione dei lavori potrebbe arrivare, ma, visti i tempi della giustizia, il danno causato potrebbe essere già irreversibile: infatti, è già cominciata la deviazione del corso del fiume e solo l’imminente stagione delle piogge potrebbe rallenta-re, se non fermare del tutto, l’opera e trasformarsi in un’alleata delle popolazioni che esigono giustizia.

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Voci fuoricampo

Lettera al presidente

di Alessandra Daniele

Signor Presidente,so che lei è molto popolare nel nostro paese, popo-lare per davvero, e non solo rispettato per conve-nienza, opportunismo, o magari viltà. Moltissimi la vedono come un punto di riferimento istituzionale, in un paese in preda alla corruzione e alle mafie, una garanzia di fermezza, in un’era di disorientamento e di crisi mondiale. La sua competenza è indubbia. Nella sua lunga carriera, lei ha attraversato diversi cambiamenti epocali dello scenario politico, nazio-nale e internazionale, e sempre ha saputo adattarsi, e continuare la sua ascesa che l’ha portata ai vertici dello Stato.Si dice che un tempo lei sia stato comunista, o abbia appartenuto al partito comunista. Mi scuso, so che ormai questa parola è praticamente diventata un in-sulto, e che di certo non ha più nulla a che fare con lei, se mai ce l’ha avuto. Anche allora comunque lei era un uomo d’ordine. Ed è questa la coerenza che conta. Non è sul suo passato quindi che mi interrogo, ma sul suo presente. Non posso fare a meno di chieder-mi quanto le stia davvero a cuore la democrazia. Se non la consideri in realtà un lusso che non possiamo permetterci, o meglio, del quale possiamo permet-terci soltanto alcune delle forme esteriori. Un carto-nato di democrazia. Perché se così fosse, data la sua competenza, la sua lungimiranza, e la sua carica isti-tuzionale, io non potrei fare altro che darle ragione. Oltretutto, la nostra storia non è incoraggiante in proposito: il nostro paese sembra proprio un am-

biente inadatto alla sopravvivenza della democrazia. Forse c’entra la composizione dell’atmosfera. O il cli-ma. Dobbiamo rassegnarci? Signor Presidente, mi permetto di chiederLe di rive-larcelo, una volta e per tutte: ci tolga ogni patetica e perniciosa illusione residua. Lei può. Glielo consento-no il suo carisma, la sua esperienza, l’ampio consen-so (sincero o meno) di cui gode nel paese. Non si preoccupi delle reazioni internazionali, l’o-pinione che all’estero hanno della nostra democrazia è già così bassa che non può peggiorare, e comunque tutti continueranno a fare affari con noi come sem-pre, leciti e illeciti, finché gli converrà.Perciò, signor Presidente, sollevi pure il sudario dal volto della salma, non siamo bambini a cui si debba mentire sulla reale sorte della nonna defunta. La no-stra democrazia non è in vacanza, non è dalla zia, è morta. Se ce lo dice lei, Presidente, sapremo accettarlo, anche se dovesse ammettere d’avere inferto personalmen-te il colpo di grazia alla vittima. Quindi lo ammetta, anzi, lo rivendichi. Lo considereremo una forma di eutanasia, e gliene saremo grati. Il clima politico si chiarirà. Se ne gioveranno l’economia, e anche l’ordi-ne pubblico. Ci saranno i soliti contestatori. Lei però ha dimo-strato di sapere bene come vadano trattati.

Lettera di una cittadina russa al presidente Vladimir Putin.

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di Beta

Un lampo elettrico dietro gli occhi, l’ago che inietta il suo fluido ghiacciato ed io che svanisco come un’eco nella gabbia toracica, rallentati battiti cardiaci in lontananza.Dottor Ki“L’ultima volta ero un imputato in un procedimento per tentata strage, il personalizzatore mi diede l’identità

di un certo ingegnere Shima e poche altre indicazioni ul-teriori: mettere un paio di occhiali tondi, tagliare capelli e barba, ogni tanto sorridere senza motivo… poi per il resto ho seguito il solito iter: mi sono recato al blocco D-3 per

l’inoculamento file informativo, ho attesoil trasferimento veloce alla piattaforma sette, sono stato scannerizzato prima e dopo la prestazione. Nessuna anomalia è stata rilevata, io…”

“Lei non capisce, vero, signor H? Oppure non mi sta dicendo tutta la verità… lei afferma che, come di norma, non ricorda niente della prestazione, allora perché il rile-vatore onirico ha segnalato un anomalia nel suo tracciato notturno con picchi nella zona della memoria? Vuole pro-vare a spiegarmelo? Si fidi di me…” È uno squarcioun’aperturanel ventrenella terra,un’esplosioneun tuono nelle orecchiebisturisanguefusioneiodiocorridoi interminabilmentebianchivoci, voci, vociche gridano, che piangono,ordini soffocati dietromascherine,uomini bianchi,neve,cerate dietro cui sfilano i futurimostrisenza scarpepiedi di cellophane,in silenzio, tranne uno,che gridaassassiniesonoio.“Signor H, mi sente? Le ho chiesto se può spiegarmi come mai lei ricorda”.

Ricordi

Voci poetanti

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“Forse ci sarà un guasto nel mio sistema operativo, una perdita di file casuale…”“Non mi faccia ridere, signor H… il caso non esiste, solo la logica esatta della scienza: controllo, prevsio-ne, efficacia! Il suo S.O. è perfettamente funzionante, lei, come chiunque altro nel suo blocco, non ha accesso alla memoria a lungo termine, ossia ai ricordi della sua identità originaria,l’anestetizzatore emotivo è perfettamente integro, il recettore inoculamento file da prestazione in grado di resettare… e allora perché lei ricorda, signor H? Cosa ricorda di preciso? Lo dica a me, di me si può fidare…”Odore di disinfettante

barelle in fila come impiccatitubi-ossigeno-rilevatori di radiazionipericolo, pericolo, pericolorosso allarmesuono continuo che spacca i timpanici prendono ci prendonodove ci portanosilenzio un silenzio irrealela morte fredda ci abbracciae ci accarezza pietosa.Caviecontaminatelontano lontanoo nei sotterranei a chiusura

ermetica.Togliere gli organi infetti

bisturi sangueresettarei tuoi occhi nerimi sorridonomentre sprofondonell’assenza più totale,anch’io ti amosignora Shima.“Io non ricordo niente, ci dev’essere un errore, io le giuro che…”“Io non sono un prete signor H, non voglio giuramenti, e non ammetto che lei continui a insinuare che questa, chiamiamola, fuga di notizie sia imputabile a un errore del sistema. Il nostro è un sistema assolutamente perfetto, dove non esistono sbagli, rischi, possibilità. Tutto ciò che accade ha una sua logica ben precisa, ha capito bene? Tutto ciò che succede deve succedere”.Comunque non si preoccupi, visto che si rifiuta di collaborare, la sposteremo di blocco… ad esempio potremmo metterla al bloc-co S”.“No! No! La prego, lo smaltimento no, no, io…”“Cos’è, le dà fastidio l’odore della carne che brucia? Ma quella è carne di larve umane, insignificanti, obsoleti esseri che con-servano ancora gli organi interni, perché si sono rifiutati di farsi convertire… e scappano, poveri topolini in un labirinto sen-za via di fuga, dove mai penseranno di andare”.“E va bene, ricordo, l’esplosione, il reattore, le radiazioni, i morti, le piaghe, la disperazione… aaah!”“Signorina Yashi, abbiamo un altro ospite per il termosmaltitore, ma prima di mandarlo al blocco S, lo lasci in laboratorio. Domatti-na voglio dargli un’occhiata, chissà che tra qualche grumo elettrico non trovi traccia del morbo della memoria”.

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di Roberto Sturm

La memoria e la sua persistenza sono gli elementi imprescindibili per far sì che continuino a vivere in noi e nelle generazioni a venire gli orrori commessi dai nazifascisti durante la seconda guerra mondiale, specialmente nel momento in cui certa politica so-stiene l’esigenza di riscrivere la Storia, equiparando i caduti partigiani ai loro nemici o cavalcando le tesi negazioniste. Quando scompariranno l’ultimo parti-giano o l’ultimo internato nei campi di sterminio na-zisti, ci rimarranno solo le storie. Come quella raccontata da Marco Codebò, legata a filo doppio all’eredità del fascismo, una storia che ben conosciamo ma che è sempre utile ricordare: ne La bomba e la Gina c’è tutta la stagione di attentati volti ad alimentare la strategia della tensione, dal 1969 al 1984. Un disegno eversivo di cui l’autore vede l’inizio nel 1947 quando, a Portella della Ginestra, gli uomini del bandito Giuliano massacrarono dodici contadini accorsi per festeggiare il Primo Maggio. Le altre date sono tristemente note: le due bombe scoppiate alla Fiera Campionaria e all’Ufficio Cambi della stazione di Milano, il 25 aprile del 1969; le dieci bombe siste-mate su altrettanti treni nella notte dell’8 agosto e i diciassette morti della strage di piazza Fontana, il 12 dicembre dello stesso anno; le quattro vittime di via Fatebenefratelli a Milano, nel 1973; le otto morti di piazza della Loggia Brescia e le dodici dell’Italicus, nel 1974; la carneficina (ottantacinque vittime) della stazione di Bologna, nel 1980; i diciassette morti del rapido 904, nel 1984.

Marco Codebò: La bomba e la Gina

Marco Codebò, La bomba e la Gina, Round Robin Editrice, 2011, pp. 194, € 13,00 (edi-zione cartacea), € 4,99 (eBook){

{

Libri mon amour

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Era ed è evidente il disegno eversivo di smantellare le lotte del movimento operaio e di quella parte della società italiana più progressista. È per questo che il romanzo di Marco Codebò, profes-Codebò, profes-sore di Letteratura e lingua italiana alla Long Island University di New York, La bomba e la Gina, è impor-tante. Parte da lontano, l’autore, e non certo senza una ragione: nel 1940, a Ventotene, il confino fasci-sta più duro, il vicedirettore Marcello Guida comuni-ca al prigioniero Sandro Pertini che la sua condanna è prorogata di cinque anni. Ritroveremo Guida (il tra-sformismo non è una dote nata recentemente, pare) questore di Torino, poi trasferito a Milano nel 1969, sempre con lo stesso incarico. Destino vuole che sia l’anno dell’attentato di piazza Fontana. E coinciden-za vuole che il 15 dicembre, Giuseppe Pinelli, anar-chico, dopo tre giorni di interrogatori, minacce e torture volti a fargli confessare il coinvolgimento di Pietro Valpreda e degli anarchici, voli dalla finestra del quarto piano della questura. Nel 1975 la senten-za D’Ambrosio chiude il caso con l’assoluzione degli agenti accusati di omicidio volontario: Pinelli è preci-pitato a causa di un “malore attivo”. Codebò si muove agilmente su un terreno com-plicato e insidioso, mescolando cronaca, memoria e invenzione con uno stile accattivante, con un movi-mento narrativo senza soluzione di continuità tra i diversi punti di vista dei personaggi, arricchendo la vicenda di particolari che rendono credibili gli acca-dimenti immaginari come quelli reali.

Ed è proprio la credibilità uno dei punti di forza del romanzo, sostenuta dal prezioso lavoro di documen-tazione dell’autore: si mette così in rilievo una storia piena di contraddizioni, di omissis, di connivenze, di verità nascoste, di uno Stato che sguinzaglia i suoi servi più beceri – terrorismo di destra e criminalità organizzata – per conservare lo status quo, a qualun-que costo. L’autore ha dichiarato che la scelta di aprire il rac-conto richiamando il famoso articolo di Pasolini, pub-blicato sul Corriere della Sera il 14 Novembre 1974 (articolo che riportava così: “Io so i nomi dei respon-sabili della strage di Milano del 21 dicembre 1969”)è legata al fatto che

quella frase rappresenta ancora il massi-mo di verità a cui si è arrivati su Piazza Fontana: lo sappiamo tutti chi è stato ma non possiamo dirlo. Quindi in realtà non sappiamo un bel niente”.

Pasolini, e qui richiamiamo in causa (polemicamen-te, s’intende) il caso o le coincidenze, fu ucciso nel novembre dell’anno successivo, in circostanze mai chiarite definitivamente. Una sorta di “chi tocca i fili muore”… Nel 2005 si chiude, il settimo processo sulla strage. Non ci sono colpevoli e i parenti delle vittime vengo-no condannati al pagamento delle spese processuali: una maniera chiara per ricordare a tutti l’impunità del potere politico e che i suoi tentacoli sono ancora al loro posto e rivolti verso di noi.

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di Alan D. Altieri

Gli uomini muoiono,L’erba muore,

Gli uomini sono erba.

Gregory Bateson, Sillogismo in Erba

Un giorno, le banche avranno cessato di esistere.Al posto della filiale all’angolo, superati tumuli di macerie e carcasse di auto bruciate, attraversati via-li-immondezzaio popolati da puttanelle minorenni zeppe di crystal-meth, trans all’ultimo stadio della si-filide e tossici di speedball (cocaina + eroina) dal col-tello facile, troveremo (se siamo fortunati ad arrivarci vivi) un magazzino di baratto vestiti e scarpe usate, o anche nuovi/e. Nostri vestiti e nostre scarpe, sia chia-ro, ormai non rimane altro da barattare. That’s right, ya miserable commie scumbags: it’s back to the root! Questo luogo decisamente tetro (niente potenza elettrica, niente acqua corrente, niente servizi igieni-ci), è assediato da orde di mendicanti coperti di cenci putridi, da gente scavata dalla fame e da relitti umani in agonia a causa della disgregazione del servizio sa-nitario pubblico. Ecco perché il magazzino di baratto, unica forma di “commercio” rimasta, è sorvegliato da nerboruti individui asiatici che portano maschere an-tigas (là fuori, il lezzo di fogna e di cancrena toglie il respiro), muniti sfollagente e storditori elettrici. Una falange di quegli individui è armata di fucili d’as-salto Made-in-Bangladesh, proiettile in canna e sicura alzata, security above all, ya assholes!Quanto alla sede centrale della banca medesima, è un cavernoso ammasso di rovine annerite dal rogo ter-minale, ultimo atto della cieca disperazione di decine di migliaia di noi. Le rovine sono ancora transenna-te da resti di sbarre divorate dalla ruggine e coper-te di lichene, retaggio di amministrazioni comunali e governative da tempo inghiottite. Sulla salma di un muro chiazzato di sangue e vomito, affrescato di

guano di gabbiani da discarica, puzzolente di urina di cane e feci di ratto, è ancora leggibile la salma di un graffito:Capitalismo, mercati, globalizzazione…Bruciate all’inferno! Lo scenario di cui sopra è ricorrente in tutti slums infetti e devastati che ormai compongono la maggior parte degli agglomerati urbani (“città” è un termine da tempo obsoleto) a tutte le latitudini.Il giorno in cui le banche avranno cessato di esistere segnerà la “fine del mondo” così come lo abbiamo co-nosciuto da ben prima della Rivoluzione Industriale in avanti. Il giorno in cui le banche avranno cessato di esistere sarà la suicide hill, collina dei suicidi, di qual-cosa che conosciamo già ora. Questo qualcosa ha un nome: Death Economy, Economia della Morte. Il fulcro della Death Economy (DE) è tanto grotte-scamente semplice nella sua essenza quanto profon-damente congenito alla natura (in)umana: Uccidere per il PossessoA tutti gli effetti, la DE esiste dall’uomo di Neander-thal, e forse addirittura da prima. Ci si sfondava re-ciprocamente il cranio (sempre meglio farlo in dieci contro uno solo, possibilmente disarmato, perfetto se storpio o mutilato) a colpi di mazza di selce per la sorgente, il territorio di caccia, la femmina da ingra-vidare previo stupro di gruppo.Flash-forward su un arco di alcune migliaia di anni. Da Ramses a Caligola, da Carlo Magno a Timur Lenk, da Napoleone Bonaparte alla Regina Vittoria, da Adolf Hitler a Muhammar Khadafy, la DE è sempre stato l’unico metodo conosciuto di espansione eco-nomica. E anche del disastro conclusivo: ben pochi di

Quid tum?

DEATH ECONOMY. Il baratro terminale del collasso planetario

Prima parte: la Collina dei Suicidi

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quei regni/imperi sono sopravvissuti ai loro rispetti-vi demiurghi, e quand’anche ci siano riusciti non per molto tempo.Con la Rivoluzione Industriale - vertice DE del lavo-ro para-schiavista nella seconda metà del Dicianno-vesimo secolo - alcuni fini dicitori disquisiscono di colonialismo, imperialismo, liberismo e, alla fine, you guessed it, capitalismo. Ah, il suono seducente di questa parola. Mera semantica. Nell’analisi di John Maynard Keynes sulle crisi ricorrenti del capitalismo, la DE è un algoritmo ineluttabile verso il baratro:• guerra di conquista e sterminio;• controllo coatto delle materie prime;• depauperamento estremo delle medesime;• dominio totale sul lavoro dipendente;• aumento dei profitti;• picco consumistico;• aumento del debito privato;• saturazione dei mercati;• aumento del deficit pubblico;• impennata della speculazione bancaria;• corto-circuito stagnazione-inflazione-recessione;• spirale di depressione;• collasso sistemico conclusivo. Il Big Crash di Wall Street (1929) - inizio della Great Depression, risolta dieci anni dopo nell’orgia di deva-stazione della Seconda Guerra Mondiale (1939/1945) - rimane l’emblema più fulgido e più grondante (sangue & viscere) dell’Economia della Morte. Come nell’ancestrale simbolo dell’Ouroboros - il serpente che divora se stesso partendo dalla propria coda - la DE è certamente omicidio ma è soprattutto suicidio. Ed è proprio a causa della componente suicida che la Seconda Guerra Mondiale segna il tramonto dei con-flitti armati su vasta scala come veicolo di profitto. Tre ricadute primarie:• ricaduta politica: il soldato morto/mutilato in

guerra non genera consenso elettorale;• ricaduta welfare: il soldato morto/mutilato in

guerra diventa un perdurante peso economico per il potere;

• ricaduta economica: il soldato morto/mutilato in guerra costa comunque troppo.

Di conseguenza, la guerra stessa non è più un buon affare. Quanto sopra trova la sua conferma più eclatan-te nella Guerra del Vietnam. Scontro tutto politico e per nulla affaristico, la disfatta della battaglia di Dien Bien Phu (1954) segna l’inizio della fine del colonia-lismo francese, la caduta di Saigon (1973) è la pietra tombale dell’espansionismo americano.Rimanendo in terra americana, superata la palude infetta post-Nixon/Watergate, la DE è determinata a rialzare la testa. Affossato il mandato unico del mer-cante di noccioline Jimmy Carter, per i dodici anni successivi(1980/1992) - amministrazione Reagan (2 mandati) e Bush padre (durante il primo mandato) - la cosiddetta “globalizzazione” (Global Village, nella tragicomica definizione dalla grande statista Hilary Rodham Clinton) procede a ritmo serrato.Due vettori primari:• liberismo orizzontale, scavalcamento di tutte le

leggi sul lavoro;• deregulation verticale, scavalcamento di tutte le

forme istituzionali di controllo. Per la DE, la globalizzazione è la svolta epocale. I grandi imperi industriali a conduzione famigliare (Ford, Krupp, Thyssen, Rothschild etc etc etc) supe-rano finalmente la fase di multinazionali degli anni Settanta e si trasformano in sistemi conglomerati globali. Vere e proprie fortezze del meta-capitale, so-stenuti da apporti di liquidità tanto immani quanto ignoti, dotati di polivalenza accorpata (banche com-merciali, banche finanziarie, industrie, finanze, inve-stimenti, immobili, trasporti, comunicazioni etc etc etc), i sistemi conglomerati globali possiedono una struttura frattale la cui complessità si fa beffe di qualsiasi parametro di qualsiasi scrutinio da parte di

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qualsiasi ente governativo. Entità quali Carlyle Group o Halliburton - citando solo un paio delle più famose (e famigerate) - operano al di fuori di tutte le verifiche, tutti i controlli, tutti gli argini.È la conglomerazione globale è firmare il certificato di disintegrazione della politica, sia essa locale, nazionale, internazionale. I politicanti - “politici” è un altro termine largamente obsoleto - sono sostanzialmente ridotti a “garzoni di bottega, mandati dal macellaio a raccogliere i sospesi” (Apocalypse Now).A prendere decisioni, a stilare programmi, a stabilire riforme (reforms? oh, man, now that is a laugh…), non sono più né re, né capi di stato, né primi ministri, né parlamenti, né stati cosiddetti sovrani. A decidere tut-to per tutti sono enigmatici consigli di amministrazione che si riuniscono in conference call via computer. O magari, se proprio vogliono mettersi in mostra, nella sala congressi di alberghi a 666 stelle. Dai molti guru delle conspiracy theories, questi enigmatici consigli di amministrazione sono chiamati in una quantità di modi: NWO (New World Order), massoneria, Illuminatus, Trilateral Commission, Bilderberg Group, etc etc etc. Che ognuno scelga il nome che preferisce. O che ne inventi pure di nuovi: ragnatela, consorzio, compagnia. Di nuovo, si tratta di semantica. La realtà è comunque univoca: potere assoluto, profitto assoluto. Profitto a ogni costo, con ogni mezzo, contro ogni ostacolo. Profitto di pochi, pochissimi: alcune migliaia di individui a livello mondiale. Il resto, tutto il resto - gli ormai sette miliardi di grotteschi scarafaggi deformi che zampettano sulla cloacale super-ficie terrestre - è solamente “carne da macello”.Per la DE, l’avvento dei sistemi con-glomerati globali è l’evoluzione perfetta. Perdurando sottotraccia nell’Occidente in generale, negli USA in particolare, la DE continua co-munque a servirsi delle guerre su un doppio canale di manipolazione pro-pagandistica e industriale:• nessuna guerra grossa, sostituita

però dalla minaccia della guerra “finale” (Guerra Fredda/guerra nucleare), con conseguente pro-fitto dalla corsa agli armamenti strategici, rimpiazzata ora dalla eterna “guerra al terrore globale”, dove fa brodo tutto & il contrario di tutto;

• infinite guerre asimmetriche, primariamente nei quadranti medio-orientale, africano e sud-americano, con conseguente pro-fitto della vendita di armamenti convenzionali simultaneamente a tutte le parti belligeranti.

Giustappunto, a tutt’oggi sono quattro le “nazioni” (virgolette d’ob-bligo) che formano la cuspide del mercato mondiale degli armamen-ti: Stati Uniti, Russia, Cina, itaGLia. Quest’ultima al secondo posto mon-diale nel commercio di mine anticar-ro, antiuomo etc etc etc. Ue’, paisa’: mandolini, pizza, puttane & shrapnel!Grande trionfo sul campo della DE sottotraccia è la dissoluzione dell’U-nione Sovietica per bancarotta strut-turale. Due ragioni primarie:• impossibilità della società comu-

nista (ormai in sindrome buro-

Quid tum?

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cratica terminale) di reggere tre decadi nella rincorsa agli armamenti strategici (1950/1980);• disastrose perdite economiche, sociali, politiche causate da un’intera decade (1979/1989) di fallimentare

invasione/occupazione dell’Afghanistan. L’invasione/occupazione sovietica dell’Afghanistan è certamente da inquadrarsi nel più ampio scenario della Guerra Fredda. Al tempo stesso, è dato storico ormai accettato che, anno 1981, il Presidente Ronald Re-agan abbia autorizzato di persona la famigerata “Operazione Cyclone” - due miliardi di dollari in fondi neri CIA (Central Intelligence Agency) e 67.000 tonnellate di armi d’assalto e non solo fornite ai mujaeddin di Osa-ma Bin Laden (wait a sec, ya really mean THE “sheik of terror”?, wow!) - allo scopo di “farla pagare ai comu-nisti per la disfatta del Vietnam”. Invertendo l’ordine degli addendi, il risultato finale non cambia: niente più Unione Sovietica e Al Queda forever. Bingo!Al giro del biennio 1990/1991, sulla scia della Guerra del Golfo a.k.a. Prima Guerra dell’Iraq - vittoriosa cam-pagna scorched earth turpemente spacciata come operazione internazionale di pace - i conglomerati DE occi-dentali e americani hanno il sostanziale dominio planetario.Di questo dominio - e a dispetto della mini-recessione del 1991 - il susseguente doppio mandato della presi-denza Clinton (1992/2000) rappresenta l’ultima golden age. Dopo di che, nel decennio successivo, la DE stes-

sa non più sottotraccia ha la brillante idea di tornare ai fasti “bagnati” delle guerre d’invasione. Naomi Klein - assurta, nei primi anni Novanta, al ruolo di nume tute-lare del movimento no-global (Seat-tle R.I.P.) - studia validamente questa risorgenza bellica nel suo best-sel-ler Shock Economy (Rizzoli, 2007). Klein però, esaminati gli aspetti sto-rici dell’economia di rapina e stermi-nio, si limita a parlare della versione aggiornata delle guerre d’invasione e della loro ricaduta in termini di pro-fitti, ma soprattutto in termini di per-dite. Ma, mentre la Shock Economy è sostanzialmente omicida, la Death Economy è, ripeto, simultaneamente omicida & suicida.Nei miei interventi della serie Ameri-Ka dämmerung, cerco di analizzare alcuni incidenti di percorso nella DE. Eventi che rappresentano solamente prodromi del suicidio globale prossi-mo venturo. In estrema sintesi:• crollo delle dot.com companies

(1992/1995);• collasso delle Savings & Loan

(1986/1995);• disastro Enron Corp. (1993/2001). Da sole, queste tre crisi fanno per-dere alla DE in generale, all’economia americana in particolare, qualcosa come trecento miliardi di dollari (un triliardo di dollari, uno seguito do-dici zeri, rapportato all’attuale tas-so d’inflazione). Eppure, per quanto astrale, questa cifra è ancora nulla ri-spetto all’ossario che si stava, e che si sta tuttora, innalzando. Qualcosa che possiamo definire: L’Ossario Globale.

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23Nato dal sangue,

conviene che l’uomo viva nella sofferenza,e muoia tra gli spasmi.

Herman Melville

Nella inarrestabile marcia della Economia della Morte verso il baratro, l’anno di disgra-zia 2001 marca due eventi cruciali:• George W. Bush - dislessico ex-alcolizza-

to che parla con dio, noto come Governor Death, per il numero di sentenze capita-li eseguite nello stato del Texas durante il suo periodo sullo scranno di Dallas - diventa Presidente degli Stati Uniti. L’e-lezione è ottenuta per mezzo dell’ormai storico “broglio della Florida”, un bac-canale di schede farlocche, voti multi-pli, votanti fantasma etc. etc. etc. degno delle più turpi banana republics. And by the way, il governatore della Florida, Jeb Bush, è fratello del nuovo prez, oops!;

• 11 settembre: mentre il presidente di-slessico ex-acolizzato che l’11 settembre ascolta la favoletta della capretta raccon-tata da un bimba delle scuole elementa-ri, New York City & Washington DC sono sotto catastrofico, sconvolgente attacco diretto da parte del terrorismo fonda-mentalista islamico. Or whatever else…

Singolare che, proprio quel luminoso mat-tino di settembre, il più grande sistema stra-tegico del mondo, la più potente forza aerea del mondo, la più agguerrita marina milita-re del mondo, la più avanzata rete di satelliti del mondo, il più sofisticato servizio segreto del mondo, insomma tutti i sistemi “più del mondo” fossero simultaneamente in stato di ibernazione profonda. Quel luminoso mat-tino di settembre, dio, dobbiamo intendere, era in lunga, lunghissima pausa pranzo. Hey, man, have I got my godly needs, or what? Rispondendo all’11 settembre con la Glo-bal War on Terror, guerra al terrore globale, la DE ha un’occasione davvero unica per usci-re da sottotraccia. In questa fase, è essenziale osservare il Presidente degli Stati Uniti non-è il vero comandante in capo della guerra al terrore globale medesima.Mentre il dislessico ex-alcolizzato non cessa di parlare con dio - la cui pausa pranzo si estende ulteriormente - nella sala dei bottoni va a insediarsi un’allegra brigata di sogget-ti chiamati Vulcans. No, non i vulcaniani di Star Trek, tipo Mr Spock etc. Questi vulcania-

ni formano un gotha da vera e propria orgia delle già menzionate conspiracy theories. Sostenuti dall’affabile Richard Cheney, vice Presidente, “l’uomo più crudele che io conosca”, parola di Henry Kissinger, slurp!, guidati dall’avvenente Condoleeza Rice, hel-lo, doll!, i Vulcans traggono il loro nome dal-la statua del Dio Vulcano che torreggia sulla piazza principale di Birmingham, Alabama, città natale di Condoleeza e (ormai defunto) polo siderurgico americano. Per i due man-dati Bush figlio, sono i Vulcans a stringere in pugno il vero potere USA, potere politico, eco-nomico, mediatico ma soprattutto militare. Forti dell’appoggio ideologico/accademi-co, hey, man, such big words!, di tutti i think-tank neocon/teocon, pompati dallo state of fear propagandistico in cui sono immersi gli Stati Uniti e non solo, spacciando due guer-re medio-orientali simultanee (Iraq due, Af-ghanistan) come condotte nel nome di pace (eterna), libertà (di sterminio), democrazia (esportata al sangue), diritti umani (tortura, carceri ombra, esecuzioni mirate etc etc etc.),

i Vulcans cominciano ad adden-tare svariate carotidi:

• fare dell’Iraq democratiz-zato il cinquantunesimo

Partes econda: l'Ossario Globale

Quid tum?

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stato degli Stati Uniti (coca-cola, cocaine and whores, and they’ll become just like US!);

• prendere il controllo assoluto della zona geopolitica al quarto posto nella produzione mondiale di petrolio (and then we’ll see who’s got the beef, ya motherfuckers!);

• conficcare un doppio cuneo strategico (Iraq, Afghanistan) militare direttamen-te nel suppurato sfintere anale del Me-dio Oriente, pattugliando tutto il Golfo Persico ma soprattutto lo Stretto di Hor-muz, imbuto geografico attraverso il qua-le transita il 48% del petrolio planetario (sempre fi, sucka!);

• prepararsi ad applicare la DE contro i prossimi nemici: Iran, Siria, Giordania & oltre (peace is DEAD, fuckers! And YOU are next!);

• fare sì che il New American Century duri mille anni, un pò come il Terzo Reich (Ja! Über alles!).

Come poi siano andate le cose, è tuttora cronaca:• Iraq: plaga devastata da bombardamenti,

saccheggi, attentati, omicidi, stupri, ro-ghi e, in senso lato, dalle guerre tribali tipiche del Medio Oriente, la plaga deva-

stata in questione finita addirittura a gra-vitare nella sfera d’influenza del nemico iraniano;

• Afghanistan: passati esattamente dieci anni dall’inizio della guerra mai dichia-rata, i taliban che controllano il 95% del territorio, la produzione di eroina incre-mentata dell’85%, in fondo al tunnel af-ghano non c’è nemmeno l’ipotesi di una luce.

In sette anni (2001/2008), cartellino del prezzo delle guerre americane in M.O. pari a 2.1 triliardi di dollari (2,1 seguito da dodici zeri) a fondo perduto, la DE a guida Vulcans riesce in un’impresa davvero biblica: tramu-tare il villaggio globale in un ossario globale.Per gli Stati Uniti, il cui deficit federale nel 2006 è ancora dodici triliardi di dollari (do-dici seguito da dodici zeri), nel 2008 le due guerre vulcaniane hanno pompato quel defi-cit a quattordici triliardi di dollari (quattordi-ci seguito da dodici zeri). Quattro le nazioni creditrici: Cina, India, Arabia Saudita, Rus-sia. Esattamente come preconizzato in Dopo l’Impero (Tropea, 2003), cristallina analisi del grande sociologo e demografo francese Em-manuel Todd, nel crepuscolo con infamia del doppio mandato Bush figlio - due guerre per-dute, l’economia al disastro, i Vulcans desti-tuiti, inquisiti, riciclati, quant’altro - gli Stati Uniti sono ormai una (ex)superpotenza al li-mite del default (bancarotta) pressoché sotto commissariamento da parte degli (ex)nemici. Può apparire contraddittorio, forse addi-rittura assurdo, che si stabilisca una con-nessione diretta tra le ultime due guerre medio-orientali e la spada di Damocle del default americano. Alla prova dei fatti, non solo non è né contraddittorio né assurdo, ma è inevitabile. La ragione: per la sua stessa struttura frattale, il sistema DE è simultanea-mente isotropo e osmotico:• isotropo in quanto è simile a se stesso

dovunque;• osmotico in quanto è permeabile

dovunque.Nel momento in cui la guerra non è più un asset ma diventa una liabiality, la componen-te suicida della DE deve tornare a prendere il sopravvento sulla componente omicida. Non potendo più sbranare nemici all’esterno, la DE deve quindi divorare tutto quello che si trova all’interno. In sostanza, proprio come l’Ouroboros, la DE non ha altra scelta se non divorare se stessa.È in questa fase che i numeri - spese, ricavi, profitti, tassi, percentuali, statistiche, proiezioni, etc etc etc - perdono significato. La ragione? Molto semplice: nella DE suicida i numeri sono ormai entità prive di senso. Sono barzellette, farse, finzioni, burle, guit-

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Quid tum? Quid tum?

tate, frodi, inganni ma sono soprattutto menzo-gne, auto-distruttive menzogne. Anno di disgrazia 2008, ultimo anno del se-condo, grandioso & glorioso mandato Bush figlio & Vulcans. L’impennata del debito federale ame-ricano e, in parallelo, l’impennata del depaupera-mento individuale americano - in media, ognuno dei trecento milioni di cittadini USA è indebita-to per 55.000 dollari - innescano nuovamente quella spirale recessiva analizzata molto tempo fa da John Maynard Keynes. Il sistema bancario non più solamente americano ma globale si trova quindi a fronteggiare uno tsunami multiplo:• crisi di fiducia dei mercati azionari dovuta

alla disoccupazione in area 10% e alla ban-carotta di migliaia di imprese ed esercizi commerciali;

• eccesso di proprietà immobiliari “inerti & in-vendibili” dovuto all’indebitamento di cui so-pra e al conseguente crollo del mercato del mattone;

• voragine di liquidità dovuta alla insolvenza degli utenti delle carte di credito.

È possibile, per quanto non certo, che perfino i consigli di amministrazione DE si siano resi con-to dell’incombente hara-kiri strutturale:se crollano le banche, americane & non,per effetto domino crolla anche tutto il resto. Allo scopo di arginare il suddetto hara-kiri, tra Pennsylvania Avenue e Wall Street viene schie-rato un signore di nome Hanry M. Paulson. Lau-reato in economia a Harvard, partendo come assistente del sottosegretario alla difesa nella cristallina amministrazione Nixon, già nel remo-to 1974 Mr. Paulson passa alla Goldman-Sachs, tra le più importanti società d’investimenti degli Stati Uniti. Per tre decadi, sempre in ambito con-servatore/repubblicano, Mr. Paulson passa senza soluzione di continuità dalla politica all’econo-mia e viceversa. Nel 2006, con lo hara-kiri globale bene in vista, il presidente dislessico ex-alcolizzato che ancora cerca di parlare con dio - la cui pausa pranzo po-trebbe peraltro durare da qui all’eternità - nomi-na Mr. Paulson al rango di Segretario del Tesoro, equivalente americano di ministro delle finan-ze. Quintessenziale uomo di punta della DE, Mr. Paulson capisce di dover lavorare fin da subito al salvataggio delle banche. E lo fa nell’unico modo possibile: pompare denaro pubblico nel sistema bancario privato.Con una simile mossa, le banche americane do-vrebbero quindi: 1. diventare proprietà del governo americano,

giusto? 2. nel senso che le banche americane sarebbero

di fatto nazionalizzate, giusto? • Sbagliato: fin dai tempi eroici dei neander-

thal, la direttiva primaria della DE è rimasta sempre la stessa: quello che è mio è mio e quello che è tuo è mio;

• Sbagliato: noi della DE non saremo mai dei luridi “socialisti.” Noi della DE siamo e re-steremo dei Capitalisti, whadda fuck! Per cui, “privatizzazione dei profitti, collettiviz-zazione delle perdite”, quanto alle banche, cosa nostra sono! Ebbaciamo lemmani!

Certo, ovvio, naturale, difatti. Ma, hang on a sec, i soldi pubblici non sono infiniti, soprattut-to con quattordici triliardi di dollari, quattordici seguito da dodici zeri, di deficit federale. Per cui qualcuno dovrà pur restare sul campo di batta-glia, giusto? Giusto! Voglio dire, mica possiamo salvarle proprio tutte, le macchinette fabbrica-soldi, anche se quello che le macchinette vomi-tano non vale nemmeno la cartaccia igienica su cui è stampato, giusto? GIUSTO! Insomma, fo-calizziamo sulle banche, nessun dubbio, ma al tempo stesso decidiamo di mandare a fondo le altre istituzioni finanziarie che ora, per le ban-che stesse, costituiscono solo un rischio. Hey, man, that’s called slaughterhouse… soooo sorry!Per la DE, l’anno 2009 È l’anno del grande mat-tatoio. Salviamo Bank of America, Wells Fargo e Citygroup, yes, ma al tempo stesso stacchia-mo la spina a tutte le altre banche commercia-li e a tutte le altre società di trading. Lehman Brothers, Merril-Lynch, Bear Stearns, Fannie Mae & Freddie Mac… adios, finito, kaputt. Centinaia di milioni di dollari al rogo, migliaia di persone senza lavoro, centinaia di migliaia di risparmia-tori sul lastrico. Soooo fucking sooorrrrry!Tutti a fondo tranne, guess what, Goldman-Sachs. Ultimo e unico gioco in città rimasta, e della quale il lungimirante Harry M. Paulson - di-smesso assieme all’amministrazione del coman-dante in kapo ex-alcolizzato che ancora si ostina a parlare con dio - torna a fare il presidente del consiglio di amministrazione con un bonus bel-lo grasso & grosso. We’ree IN the moneyyyy! D’accordo, lo hara-kiri è evitato, ma adesso? Esclusa la fallimentare opzione guerra, la DE deve comunque tornare a fare cassa (da morto). In un simile disastrato, recessivo paesaggio eco-nomico globale, con il mercato immobiliare de-presso, la disoccupazione al 12%, i risparmi di intere generazioni bruciati, c’è bisogno di una nuova idea geniale. La quale puntualmente arri-va. I mean, are we fuckin’ cool, or what?Non esistendo più crediti ma solamente debiti, la (il)logica progressione da parte della DE è rica-varne comunque un (simulacro di) profitto, sia locale che globale. Ed ecco quindi l’idea geniale:vendere debiti facendo finta che siano crediti Il vizio di forma è che il debito è un negativo, di conseguenza anche il ricavo che se ne trarrà è un negativo, vale a dire una perdita. Questo con-cetto aritmetico assolutamente elementare è alla base del nuovo, catastofico, disastro annuncia-to: i cosiddetti toxic titles, titoli tossici.A tutti gli effetti, i toxic titles non esistono, non sono reali, non hanno alcun tipo di copertura.

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I toxic titles, sono scommesse (sballate), tiri di dadi (truccati), giri di roulette (russa). Si investe sul nulla, si gioca sul vuoto, si danza sull’abisso. È un tipo di speculazione criminale che il ger-go dei finanzieri d’assalto chiama Ponzi Sche-me, Schema Ponzi, in onore di Charles Ponzi: a proposito, capito da dove viene il buon Charlie, che ne fu l’ideatore nei primi anni del Ventesimo secolo?Imperatore assoluto contemporaneo di questa rivisitata variante della (s)vendita del Ponte di Brooklyn o della Fontana di Trevi è un signore di nome Bernard “Bernie” L. Madoff. Dopo quelli che gli investigatori federali reputano siano stati ben vent’anni di danza sull’abisso - cioè venden-do e comprando il nulla sulla falsariga del Ponzi Scheme elevato a potenza n - Mr. Madoff riesce ad annientare qualcosa come diciotto miliardi di dollari (diciotto seguito da nove zeri), allargando però il proprio personale conto in banca a 480 milioni di dollari. Oh, yeah, baby! Prossimo ospi-te delle patrie galere fino al giorno del giudizio, Mr. Madoff inaugura quello che verosimilmente è il penultimo, se non ultimo, capitolo della DE.Gettati i toxic titles in cloaca, la DE passa all’as-salto terminale: la devastazione dei titoli emessi dagli stati sovrani. Nel senso che questi igno-ti, oh, really?, meta-mega-gruppi speculativi cercano di mandare bancarotta intere nazioni dall’economia indebolita, ricavando comunque profitti dalla (s)vendita di titoli di stato acquisiti sottocosto. Prova in costume di quanto sopra è la banca-rotta dell’Islanda, avvenuta in progressione tra il 2008 e il 2010. In meno due anni, la piccola nazione artica scompare dallo scacchiere degli scambi internazionali finendo sotto l’incudine di un default pari a circa sessanta miliardi di euro (novanta miliardi di dollari).Va sottolineato: piccola nazione, solo trecento-mila abitanti, tanti quanti ne ha una media città continentale europea. Ma per la DE, la demolizio-ne dell’Islanda nel mattatoio della speculazione dei toxic titles è un magnifico incentivo non solo a procedere oltre ma addirittura ad alzare il tiro.Nel gergo della finanza d’assalto, l’acronimo PIGS (porci) indica quegli stati europei le cui eco-nomie sono più a rischio: (P)Portogallo, (I)Irlan-da, (G)Grecia, (S)Spagna.Dopo almeno diciotto mesi (siamo ormai alla fine del 2010) di borse altalenanti, titoli di stato in caduta libera, disoccupazione dilagante, poli-tica allo sfascio, le (nere) cronache (finto) finan-ziarie vengono allagate di proiezioni su quale di queste nazioni andrà per prima in default, tra-scinando chissà chi e/o chissà cosa nella voragi-ne. Sappiamo che la Grecia è già nella voragine. Sappiamo che le altre tre nazioni “porche” sono aggrappate alle ortiche che spuntano sull’orlo estremo della voragine medesima.Di recente però, grazie a un deficit nazionale

pari al 120% del PIL (Prodotto Interno Lordo) - e grazie anche svariate altre componenti di cui si parlerà nella terza parte di questo intervento - i PIGS sono diventati PIIGS. Nell’acronimo porco c’è una “I” in più. Non un caso quindi che la nazione della seconda “I” sia diventata per la DE il nuovo obbiettivo preferito. In realtà, la seconda “I” del branco di porci PIIGS non è una nazione ma una non-nazione, priva di qualsiasi coscienza collettiva, auto-castrata da qualsiasi etica sociale. È un non-luogo abitato da un non-popolo di addicts cronici: TV (infame), me-tanfetamina (tagliata), calcio (corrotto), lotterie (truccate), puttane (impestate). Non-nazione, non-luogo e non-popolo diventati barzellette porno perfino nelle ultime discariche tossiche planeta-rie quali Nigeria, Birmania, Corea del Nord etc etc etc. Tutto questo è chiamato in molti modi: bel-paese, malpaese, patonzia, puttanopoli, bananas, mignotto-crazia, mafia-ville, etc etc etc.Ma, nell’ottica DE, questo obbiettivo perfetto per il suicidio terminale può chiamarsi in un unico modo: NECROLAND

Quid tum?

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27Qui e qui le prime due parti

Così finisce il mondo,Così finisce il mondo,Così finisce il mondo,

Non con tuono, ma con un gemito.

Thomas Stearns Eliot, Gli Uomini Vuoti

Null’altro che una “espressione geografica” al 90% di dissesto idro-geologico - sono sufficienti sei ore di pioggia per detonare fiumi, di-sgregare montagne, annientare centri abitati - necroland è protesa verso un mare interno largamen-te noto per la qualità cloacale/tossica/venefica delle sue acque, nonché per le sue fosse comuni sommerse in continua espansio-ne. A necroland, terra comunque svagata & felice, i molesti vengono semplicemente… mandati a fon-do. Now swim, sucka! Swim!… and croak! Lunga e variegata e bagnata è la storia di necroland. In alcun modo potrà essere riassunta e/o tanto-meno analizzata in questa sede. In estrema, estrema sintesi, dopo un periodo di pseudo/para/meta dominio risalente alla prima metà del Primo Millennio dell’Era Volga-re, l’espressione geografica in que-stione finisce con il collassarsi in sanguinosa e sanguinaria barbarie.Negli oltre quindici secoli trascorsi del summenzionato collasso, ne-croland inesorabilmente consolida la propria strutturale natura ne-crotica. Nulla definisce la suddetta natura meglio delle parole, scritte circa sette secoli fa, del genio uni-versalmente considerato come il “padre della lingua” di necroland:

nave senza nocchiero in gran tempesta,non donna di provin-ce, ma bordello!

Un’invasione dopo l’altra, una sot-tomissione dopo l’altra, una guer-ra dopo l’altra, una strage dopo l’altra, gli abitatori di necroland si

rivelano, statisticamente, del tut-to incapaci/inabili/imbelli/inade-guati/impotenti ad accettare un concetto tanto fulcrale quanto scomodo: responsabilità.Assumersi una responsabilità si-gnifica essere pronti a pagarne le conseguenze, quali che que-ste siano. Responsibility? Screw THAT crap! Dalla cruda anali-si di un altro grande del pen-siero, discende un’altrettanto cruda definizione degli abitatori di necroland:POPOLO DI MORTI Yeah, necros: I LUV that! Alcuni ulteriori riferimenti storici:• i necros non hanno mai deca-

pitato un re;• i necros non hanno mai com-

battuto una Valley Forge;• i necros non hanno mai preso

una Bastiglia;• i necros non hanno mai assal-

tato un Palazzo d’Inverno;• i necros non hanno mai eretto

un Nido dell’Aquila.In quindici secoli, i necros non hanno MAI fatto unarivoluzione Intrinsecamente violenta e ra-ramente di successo, una rivo-luzione è comunque un atto di aggregazione nazionale e di con-divisione idealistica, quando non ideologica, concetti del tutto estra-nei ai necros.La medesima estraneità vale per anche qualsiasi concetto di gover-no. Nel giudizio di uno dei loro pseudo-re: “possono essere gover-nati solamente in due modi: corru-zione o baionette.” Nella visione di uno dei loro sub-demiurghi: “ten-tare di governarli è futile.”Imbattibili nelle loro faide indivi-duali ma, ancora statisticamente, incapaci/inabili/imbelli/inadegua-ti/impotenti ad affrontare una qualsiasi problematica collettiva, i necros restano una eterogenea, contraddittoria congerie para-tri-bale nutrita da due tra le più pri-mieve forze dell’in-umano: paura & avidità. Cionondimeno, voci di dissen-so e/o critica e/o allarme si sono sempre levate a necroland. Nei tempi andati, queste voci sono state bruciate sul rogo, impiccate sulla pubblica piazza, sprofonda-te nel ridicolo, ridotte al silenzio.

Queste voci riescono comunque a farsi sentire anche in epoca at-tuale, continuando a sottolineare come le analisi degli eretici citati più sopra rimangano generalmen-te valide.Nella loro genetica DE-responsa-bilizzazione, non è, né può es-sere un caso, che per i necros di quest’ultimo scorcio storico l’uni-co vero dio (RIP) sia la mostruosa entità con un occhio solo che, as-sieme al computer, ha cambiato il mondo. Questa mostruosa entità si chiama: televisione. Se la menzogna è la negazione della verità, la finzione è la nega-zione della realtà. Pertanto, all’in-no di “se non passa in televisione non è reale”, necroland si ada-gia in un intero “ventennio laido” (1991/2011) basato sulla preme-ditata cancellazione della realtà condotta attraverso l’assurdo tele-visivo di regime.Architrave del suddetto regime (privato) è la celebrazione (pubbli-ca) del culto della turpitudine, pro-gressivamente elevato a idolatria di sistema. Da qui le definizioni - NON dello scrivente - mignotto-crazia & puttanopoli.Disconnect, dis-connessione, è il termine anglosassone che meglio descrive questo fenomeno. In una situazione di disconnect, sono in-terrotte le correlazioni tra causa ed effetto, sono mutilati i parame-tri tra logica e delirio, sono soprat-tutto distrutti i confini tra bene e male, giusto e ingiusto. Chi sceglie e/o vuole e/o accetta di condurre una non-esistenza in disconnect, si cala in un mondo completamen-te illusorio. E totalmente psicotico.Pertanto non è, né può essere che, per l’intero ventennio laido, an-che la non-politica di necroland si auto-riconfiguri in tal senso. Alle esequie dell’ideologia di un utopi-co collettivismo (crollo del Muro di Berlino, 1989), corrisponde l’im-pennata del privilegio di una no-menklatura post-litteram.Per quanto paradossale nell’ambi-to delle cosiddette “demoKraZZ-Zie occidentali avanzate”, per quanto assurdo da una non-nazio-ne comunque appartenente alla dis-Unione Europea, e comunque ingabbiata economicamente dal

Quid tum?

Terza parte:

Welcome to Necroland!

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n-Euro, moneta unica europea, nel ventennio laido, sia i necro-governi (non-coalizione maggio-ritaria del tutto irrilevante), che i necro-parlamenti (non-suddivisio-ne partitica del tutto irrilevante) semplicemente cessano di opera-re, tantomeno di governare.Non hanno più alcuna necessità né di operare né di governare quan-do possono godere degli infiniti privilegi garantiti da leggi ridico-le, superate, contraddittorie, ma comunque fintamente denuncia-te, a tutti gli effetti sostenute, dal sistema“television-disconnect”. Quanto sopra ha un prezzo molto, MOLTO elevato:• costo parlamento (due camere)

anno 2001: € 1.10 miliardi;• costo parlamento (due camere)

anno 2011: € 1.58 miliardi;• costo parlamento (due camere)

media annuale: € 1.34 miliardi;COSTO PARLAMENTO (DUE CAME-RE) DECENNIO 2001/2011: € 10.34 MILIARDI. A simili livelli di cannibalico privilegio, non è, né può essere un caso che, nel ventennio laido, necro-governi e necro-parlamenti diventino una sorta di meta-amfe-taminica rivistazione di Freaks, il film-capolavoro di Tod Browning dominato da una in-umanità de-forme, deviata e grottesca. Detta rivisitazione esplicata e/o esibita in altrettanto grotteschi, incessan-ti ma soprattutto inutili diBBattiDi in “television-disconnect”.La lunga premessa di cui sopra - la quale, usando un termine ormai obsoleto, può senz’altro essere de-finita come invettiva, e della quale lo scrivente si assume piena re-sponsabilità - è il punto focale del presente trittico sulla Death Eco-nomy in terminale fase suicida. Tornando al simbolo dell’Ourobo-ros: necroland HA GIÀ commesso suicidio.Suicidio etico, intelletuale, cultu-rale, sociale, politico e, inevitabil-mente, economico. Di tale suicidio, la DE è perfettamente consapevole. Così come è perfettamente consa-pevole dei numeri primari del sui-cidio di necroland:• LAVORO NERO: € 145 MILIAR-

DI (9.0 % PIL);• EVASIONE FISCALE: € 220 MI-

LIARDI (14.0% PIL);• CRIMINE ORGANIZZATO: €

120 MILIARDI (8.0 % PIL);• PERDITA TOTALE: € 485 MI-

LIARDI (31 % PIL).Le cifre di cui sopra sono stime re-lative all’anno 2010.La realtà - non quantificabile con esattezza, né ovviamente tassabi-le con rigore - è che ogni anno il non-stato di necroland è in perdi-ta di 485 miliardi di n-Euro (485 seguito da dodici zeri), equivalenti a circa il 30% del PIL (Prodotto In-terno Lordo) di necroland medesi-ma. Vale a dire: A NECROLAND UN N-EURO OGNI TRE È GENERATO ILLEGALMENTE Considerando un tasso medio di cambio valuta Euro/Dollaro pari a 1.35, nel solo anno non-fiscale 2010 il non-stato di necroland è in perdita 654.75 miliardi di Dollari (654.75 seguito da dodici zeri).Considerando quattordici triliardi di dollari (quattordici seguito da dodici zeri) come attuale deficit federale americano, nel solo anno non-fiscale 2010, il non-stato di necroland ha accumulato un de-ficit pari al 9.17% del deficit degli Stati Uniti.Allargando l’arco temporale, negli esattamente trascorsi dieci anni dalla introduzione del n-Euro, il non-stato di necroland ha quin-di totalizzato una PERDITA COM-PLESSIVA (DECADE 2001/2011): € 4.85 TRILIARDI.Coefficiente 4.85 seguito da dodi-ci zeri.Conseguentemente, sempre nella decade 2001/2011, la non-nazione di necroland - superficie 4% della superficie degli Stati Uniti, popola-zione 20% della popolazione degli Stati Uniti - ha mutilato la propria ricchezza interna di una somma pari al 30% del deficit federale de-gli Stati Uniti.Per quanto concettualmente erra-to, si supponga di dimezzare - nel nome di una discutibile cautela - le cifre di cui sopra. Quindi, al cin-quanta percento:• perdita anno 2010: € 242.5 MI-

LIARDI (15.5% PIL);• perdita decade 2001/2011: €

2,425.0 TRILIARDI (20% deficit). Sulla scala di necroland rimane comunque una “catastrofe biblica”

paragonabile alla “catastrofe bibli-ca” americana imputabile al dop-pio mandato Bush figlio/Vulcans.Sotto questo incombere, alle so-glie del mitico “anno di disgrazia 2012”, il “ventennio laido” sembra essere giunto a conclusione. Va sottolineato: sembra.NON per volontà dei necros. For-get it, man, not US! MAI per volon-tà dei necros.Com’è ben notorio e nefasto da quindici secoli, i necros sono, statisticamente, incapaci/inabi-li/imbelli/inadeguati/impotenti. Il ventennio laido sembra quindi essere stato accantonato da altre forze, altre entità, altri demiurghi. Il vizio di forma? LA costante sto-rica di necroland: forze, entità, de-miurghi ESTERNI a necroland Ma da parte della non-politi-ca che occupa il non-parlamento della non-nazione in non-rappre-sentanza del non-popolo di ne-croland, non c’è, né può esserci, vergogna in questo. Non ci sono, né possono esserci, autocritica e/o colpa e/o rimorso e/o rimpianto. Ci sono per contro autoreferen-ziale compiacimento, ghignante soddisfazione, sado-masochistico trionfo.In pieno “television-disconnect”, tutt’altro che abbandonato, la fre-ak-nomenklatura si auto-presume affrancata dall’abisso della re-sponsabilità, liberata dall’orrore della decisione, fuggita dall’orrido della resa dei conti.Nell’orgia dell’Economia della Morte assistiamo al baccanale del-la non-politica del nulla. È davvero ipotizzabile che ne-ne-croland - questo “paese senza” (sintesi di un grande della lettera-tura), in questo “tempo devastato e vile” (analisi di uno dei più im-portanti autori contemporanei), in questo spazio di tumulazione del-la coscienza dominato dai mostri del sonno della ragione (aggiunta dello scrivente) - riesca a spegnere “television-disconnect” e ad accen-dere il cervello? A proposito, esiste ancora un cervello da accendere?Eppure, in piena tradizione del non-umorismo tipico di necroland - un umorismo tanto involontario quanto macabro - nella più tene-brosa delle tragedie emerge

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comunque la più grottesca delle farse. A necroland, perfino l’os-sario globale ammassato della Economia della Morte suicida ac-quisisce un suo ridicolo lessico finto, una sua surreale dis-connes-sione catodica. Okay, so, here we go:• BORSA:1. percezione: luogo fisico in cui

vengono trattati/e azioni, ob-bligazioni, titoli etc etc etc allo scopo di ottenere un profitto;

2. realtà: serraglio fuori controllo in cui un’orda urlante, sbavan-te, demente composta da sog-getti ad alto rischio cardiaco si domanda inutilmente che cosa rappresenti - il potere di se-parazione dell’occhio umano e l’assorbimento di informa-zioni da parte della neuro-cor-teccia NON lo consentono - il fluire di dati comunque privi di senso che scorre, incessan-temente e simultaneamente, su centinaia di monitor ad alta definizione.

• CAPITALIZZAZIONE:1. percezione: valore economi-

co delle azioni, obbligazioni, titoli trattati e/o scambiati in borsa;

2. realtà: carne da macello per la DE suicida. Frase topica: “Le borse hanno bruciato oggi n-miliardi di n-Euro e/o Dollari di capitalizzazione.” Che signi-fica? Chi ha perduto? Chi ha

guadagnato? A tutti gli effet-ti, la frase topica di cui sopra, nonché la parola “capitalizza-zione”, hanno perduto qualsi-asi significato.

• CRESCITA:1. percezione: fenomeno, ine-

rente soprattutto ai sistemi economici moderni, caratte-rizzato da un incremento che riguarda la ricchezza, i con-sumi, la produzione di merci, l’erogazione di servizi, l’occu-pazione, il capitale, la ricerca scientifica, le nuove applica-zioni tecnologiche.

2. realtà: aumento di volume dei corpi cavernosi dovuto alla messa in atto di apparati pneumo-idraulico-chimici.

• CRISI:1. percezione: mega-complotto

comunista plutocratico mas-sonico giudaico neo-integrali-sta cinico-dadaista ordito dai “poteri forti” ma comunque ri-solubile attraverso la liBBBertà (dalle patrie galere).

2. realtà: alterne fasi cannibali-che in cui i mercati (azionari) divorano loro stessi prima del decesso per suicidio DE.

• DEFAULT:1. pe rcez ione : “ inso lvenza”

finanziaria;2. realtà: bancarotta, capoli-

nea della DE suicida. Nel caso di stati “sovrani”, il default è quando i servizi si fermano, i dipendenti pubblici restano sul marciapiede, nessuna pen-sione viene più pagata, le in-dustrie chiudono, le banche vengono date alle fiamme.

• N-EURO:

Quid tum?

1. percezione: moneta unica, fulcro di stabilità economi-ca, finanziaria e produttiva, in uso ai paesi della cosiddetta n-Eurozona;

2. realtà: condannato a morte in attesa di decapitazione & smembramento da parte della DE suicida.

• N-EUROZONA:1. percezione: insieme degli stati

membri della dis-Unione Euro-pea che adotta il n-Euro come valuta ufficiale (diciassette stati);

2. realtà: allargamento su scala sub-continentale del già men-zionato film Freaks.

• MERCATO (azionario):1. percezione: luogo, non neces-

sariamente fisico, dove sono negoziati i titoli azionari;

2. realtà: manicomio criminale in cui gli infermieri sono fuggiti e in cui i pazienti si stanno già divorando gli uni con gli altri in diretta “television-disconnect”.

• POTERI “FORTI”:1. percezione: noti anche come

“Spectre”, avversari dei poteri “deboli”, whadda fuck’s that?, negatori del trinomio dio (morto)-patria (disgregata)-fa-miglia (disfunzionale), nemici giurati della crescita, punta di diamante del mega-complotto comunista plutocratico mas-sonico giudaico neo-integrali-sta cinico-dadaista condotto contro i mercati (azionari) at-traverso la speculazione an-ti-liBBBerista; alla gestione dei poteri forti c’è tale Ernst Stavro Blofeld, sinistro per-sonaggio di chiara ideologia marxista-leninista catto-comu-nista radical-chic con un’am-bigua passione per le gatte bianche a pelo lungo;

2. realtà: abbiamo incontrato il Nemico, e il Nemico siamo NOI.

• SPECULAZIONE (attacco della):1. percezione: l’attività di un

operatore che entra sul mer-cato (azionario) nel momento presente, presumendo degli sviluppi ad alto rischio il cui esito, positivo o negativo, di-penderà dal verificarsi o meno di eventi su cui egli ha formu-lato delle aspettative;

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2. realtà: la Spectre colpisce ancora.

• SPREAD:1. percezione: “differenziale

denaro-lettera”, espresso in percentuali (limite critico su-periore 8%), o in punti base (limite critico superiore seicen-to) è la differenza tra il prezzo più basso a cui un vendito-re è disposto a vendere un ti-tolo (ask) e il prezzo più alto che un compratore è disposto ad offrire per quel titolo (bid), spesso usato come misura del-la liquidità del mercato;

2. realtà: indicatore degli impulsi terminali del sistema economi-co già smembrato in attesa del decesso per DE suicida.

• NON-STATO:1. percezione: ordinamento giu-

ridico/politico che esercita il potere sovrano su un determi-nato territorio e sui soggetti a esso appartenenti;

2. realtà: ordinamento deviato/deforme basato sul sistema “television-disconnect”.

• TITOLI DI NON-STATO:1. percezione: obbligazioni emes-

se periodicamente dal mini-stero dell’economia e delle finanze per conto del non-sta-to con lo scopo di finanziare il proprio debito pubblico. Alla scadenza dell’obbligazione il (non)stato rimborsa il capitale iniziale;

2. realtà: estremo tentativo, as-solutamente disperato e pate-ticamente inutile, di fermare il cannibalismo terminale della DE suicida.

• VOLARE:1. percezione: distaccarsi dal

suolo, e/o tornare al suolo, tra-mite mezzi naturali (ali, elitre) o tecnologici (eliche, turbine, etc.);

2. realtà: un mercato (azionario) “vola” quando subisce im-provvise impennate, verso l’al-to o verso il basso, a seguito di eventi caotici e/o pilotati. Espressione gergale: “merca-to isterico”. Corrispettivo me-taforico: “volano i mercati”… … giù nella voragine terminale della Economia della Morte.

Sulla base di quanto sopra, sia

all’interno della n-Eurozona che all’esterno della n-Eurozona si moltiplicano le analisi secondo le quali il detonatore conclusivo dell’annunciato default globale suicida è proprio necroland. So here & now, in un bizzar-ro clima da controriforma, le già menzionate forze dall’esterno di necroland si preparano a varare provvedimenti i cui effetti più o meno salvifici sono e resteranno ancora tutti da verificare, contro un algoritmo ineluttabile, inevita-bile, inesorabile come l’Economia della Morte.Difficile definire quale sarà e/o quando si verificherà il punto di non ritorno al di là del quale l’Ou-roboros chiuderà il proprio ciclo cannibalico. Il detonatore pro-spettato più di frequente è l’u-scita di necroland (e/o non solo di necroland) dal sistema mone-tario n-Euro. Si tratterebbe dello smembramento economico sia di necroland che degli altri PIGS men-zionati nell’intervento DE. Di re-cente, la primaria banca svizzera UBS (Union Bank of Switzerland) ha analizzato per prima proprio un simile scenario. Ma si tratta di ipotesi, proiezioni, statistiche, tut-te da da prendersi con le molle. Al-cune componenti dell’analisi UBS restano però valide:L’uscita di necroland - o di qual-siasi altra nazione - dal n-Euro comporta la inevitabile, istanta-nea chiusura di tutti gli istituti di credito. In sostanza, non sapen-do chi crollerà e chi reggerà, le banche devono fermarsi. Prelievi, transazioni, depositi, pagamenti, pensioni. Tutto interrotto, tutto bloccato, tutto congelato. Impossi-bile dire per quanto tempo questo continuerebbe.L’uscita dal n-Euro comporta poi un ritorno alla moneta non-nazio-nale antecedente al n-Euro stesso. Nel caso di necroland, la necro-zecca dovrebbe quindi riprendere a stampare quella moneta, la quale però non avrebbe più alcun lega-me di cambio con il n-Euro attua-le. Sarebbe una moneta duramente svalutata. L’ipotesi UBS è una sva-lutazione dal 30% al 50% rispetto al valore pre n-Euro. Come nel-la economicamente e finanziaria-

mente devastata Repubblica di Weimar post Prima Guerra Mon-diale, la nuova moneta corrente di necroland “non varrebbe neppure la carta su cui è stampata.”In siffatta ipotesi, l’uscita dal n-Eu-ro costerebbe a ogni singolo abi-tante di necroland - uomini, donne, bambini, vecchi, ciechi, storpi, mu-tilati etc etc etc - qualcosa tra gli 8.000 e i 10.000 n-Euro per il pri-mo anno, tra i 4.000 e i 6.000 n-Eu-ro per svariati anni successivi, non è chiaro quanti anni successivi.Riguardo agli scambi internazio-nali, borse e mercati andrebbero kaputt. Crediti e prestiti, Import-export, trasporti & spedizioni, an-drebbero parimenti kaputt. Una visualizzazione di tutto questo è la prodigiosa sequenza dell’effet-to domino nell’eccellente, politi-camente scorrettissimo film V per Vendetta. Ulteriori ipotesi a più lun-go termine riguardo al “giorno in cui le banche avranno cessa-to di esistere”, scenario descritto proprio in apertura di questo trit-tico, appartengono a un rivisitato millenarismo.Al tempo stesso, di nuovo stando a “television-disconnect”, una tipi-ca, arrogante, suicida presunzione dei necros è “a NOI non può acca-dere.” Nulla di più sbagliato. Come insegna John Maynard Keynes, l’E-conomia della Morte siamo NOI, TUTTI NOI.Welcome to Necroland! And now…… GET READY TO DIE!

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di Franco Berardi Bifo

Questo testo è tratto dalle pp. 121-125 di Franco Berardi Bifo, La solleva-zione. Collasso europeo e prospettive del movimento.

Il 14 dicembre del 2010 centinaia di migliaia di persone, per gran parte studenti e ricercatori invasero il cen-tro delle città di Londra di Atene e di Roma e li misero a soqquadro. Non proprio a ferro e fuoco, per questa volta, la prossima si vedrà.La loro piattaforma rivendicativa, se così la vogliamo chiamare, consiste-va semplicemente in questo: la cono-scenza, la ricerca, l’educazione non possono essere sottoposte agli inte-ressi di arricchimento di una ristret-ta classe finanziaria, e le autorità politiche e finanziarie europee non possono tagliare i fondi per la ricerca e per la scuola, né possono pretende-re di sottomettere le linee di svilup-po della ricerca e dell’educazione alle

Libri mon amour

L’intelletto generale alla ricerca del corpo

finalità del profitto e del-la competizione. Se si fa questo si avvia un pro-cesso di imbarbarimento, di de-civilizzazione. L’autonomia della cono-scenza era il nucleo cen-trale della rivolta, ma il modo in cui questa autono-mia si manifesta è anzitutto la conquista dello spazio ur-bano, dello spazio esistenziale collettivo. Più che un movimen-to rivendicativo questo movimento di autonomia della conoscenza è un movimento di riattivazione dell’ener-gia e dell’affettività del corpo sociale del lavoro cognitivo.Dopo l’esplosione del 14 dicembre il movimento non ottenne naturalmen-te alcun ascolto da parte della clas-se dirigente europea, completamente sorda alla voce della società e total-mente incapace di immaginare solu-

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zioni politiche diverse da quelle che corrispondono all’applicazione dei dog-mi del neoliberismo e del monetarismo. E la rivol-ta si ripresentò, puntua-le, ancor più violenta, nelle quattro notti di rabbia del-

le periferie inglesi, nel 15 ottobre romano.

Un giorno, ragionando con una studentessa che aveva par-tecipato al movimento di di-

cembre, dissi che probabilmente il movimento aveva vissuto momenti di riflusso perché non aveva ottenu-to nessun risultato concreto. Lei mi guardò con una punta di disprezzo intellettuale e mi disse che non ave-vo capito niente. Nessuno della mia generazione, disse, si aspetta di ot-tenere qualcosa da questa classe di-rigente, nessuno di noi si aspetta di “vincere” ammesso che questa pa-

rola significhi qualcosa. La ragione per cui partecipiamo al movimen-to, la ragione per cui ci ribelliamo è che solo in quelle occasioni possia-mo vivere momenti d’intensità che altrimenti mancano nella nostra vita quotidiana.Poteva apparire una risposta superfi-ciale, vagamente psicologistica o co-munque poco politica. In realtà quella risposta manifestava consapevolez-za della questione fondamentale del movimento cognitario anticapitalista del nostro tempo: il bisogno di de-automatizzare il linguaggio, di riac-quistare una dimensione desiderante nella comunicazione sociale, di riat-tivare la corporeità delle singolarità in cui si articola l’intelletto generale connesso nella rete. Insomma l’ur-genza di mettere in moto il processo di ricomposizione sociale della forza lavoro cognitiva sperimentando nel-la rivolta la complicità affettuosa dei

Franco Berardi Bifo, La sollevazio-ne. Collasso europeo e prospettive del movimento, Manni, Lecce 2011, pp. 160, € 10.00{

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L’intelletto generale alla ricerca del corpo

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Libri mon amour

corpi, raggelati da decenni di virtualità e di competizione precaria.Sta nella rivolta la sola possibilità e la sola speranza di ricostituire le condizioni per l’autonomia del lavoro sociale dal dominio – oggi davvero spietato, davvero cieco – del capitale finanziario. E sta qui anche la sola speranza per l’umanità intera di sovvertire la tendenza alla de-civilizzazione che avanza a passi da gigante negli anni della riaffermazione brutale del fallimentare comando neoliberista. In un brano poetico di rara intensità, nella Quinta Elegia Duinese, Rainer Maria Rilke, dopo aver fatto appa-rire e scomparire dei girovaghi che sono forse ancora più fuggitivi di noi, costruisce una metafora bellissima della condizione precaria:

Ma dimmi chi sono questi girovaghi, questi anche un po’ Più fuggitivi di noi, che fin da piccini un volere sempre scontento incalza e torce. Ma per chi, per amore di chi? Li torceli piega li intreccia li lanciali butta li acchiappa; come da un’aria oleata, più liscia, piombano sul tappeto consunto, liso dal loro eterno saltare, questo tappeto perduto nell’Universo. Posato lì come un impiastro, come se il cielodel suburbio avesse fatto male alla terra in quel punto.

E infine, rivolgendosi all’annunziatore d’altri mondi possibili che nei suoi versi compare spesso come angelo, Rilke chiede se non esista una piazza, anzi afferma che non può non esserci una piazza (che noi non cono-sciamo) nella quale gli amanti, che qui non giungono mai all’adempimento, gettano finalmente le loro monete sempre risparmiate, laddove sempre mancava terreno.Non c’è alcun senso nascosto del testo di Rilke, ma nelle sue parole leggiamo una descrizione delle fragili ar-è alcun senso nascosto del testo di Rilke, ma nelle sue parole leggiamo una descrizione delle fragili ar-Rilke, ma nelle sue parole leggiamo una descrizione delle fragili ar-chitetture della felicità collettiva, “quelle scale che da tanto, dove sempre mancava terreno, s’appoggiavano soltanto le alle altre, tremanti.”

Angelo, ma ci sarà una piazza che noi non conosciamo dove, su tappeto indicibile gli innamorati che qui non giungono mai all’adempimento potranno mostrare le alte ardite figuredello slancio del cuore, le loro torri di gioia, le scale che da tanto, dove sempre mancava terrenos’appoggiavano soltanto l’una all’altra, tremanti. O, poterlo, dinnanzi a innumerevoli taciti morti spettatori d’intorno le getterebbero allora, le loro ultime monete, sempre risparmiate, sempre nascoste, che noi non conosciamo,le monete sempre valide della felicità alla coppia che sorride finalmente davvero, su tappeto placato?

La piazza che noi non conosciamo non è forse oggi ciò che la società impoverita dagli automatismi precari e compatibili, depauperata nella sfera sensibile, sta cercando? Non è forse la piazza che restitu-isce calore desiderante alla città privata del piacere e dell’erotismo dal ritmo competitivo e dal lavoro salariato, dal traffico automobilistico e dall’aggressività?Non è forse la piazza dei movimenti che al Cairo come a Madrid e Barcellona come a Roma e come a Londra hanno cominciato a occupare gli spazi pubblici e a bloccare la città per restituirla alla sua di-mensione felice?

Franco Berardi Bifo negli anni Settanta ha animato la scena dei movimenti e della comunicazione alternativa. Ha fondato la rivista A/traverso e parte-cipato all’esperienza di Radio Alice. Nei decenni successivi ha viaggiato e scritto per riviste di vari paesi. Autore di Precarious Raphsody (2009), The Soul at Work (2010) e After the Future (2011), tradotti in giapponese spa-gnolo coreano turco e finlandese, torna in Italia dopo aver contribuito a stimolare la sollevazione con articoli conferenze azioni teatrali. Nel 2011, assieme a Carlo Formenti ha pubblicato L’eclissi. Dialogo precario sulla cri-si della civiltà capitalistica.

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La sollevazione. Collasso europeo e prospettive del movimento.Perché l’intelligenza collettiva possa riconquistare la dignità che il capitalismo finanziario e criminale le ha sottratto, perché possa riconquistare il piacere dell’es-sere sensuale, fisi- co e affettivo occorre insorgere,

occorre sollevarsiPartendo dall’analisi del debi-

to in Occidente e del dominio bancario Bifo esamina la cri-

si dell’economia finanziaria e dell’Unione Europea, il collasso della psicosfe-ra sociale e l’esaurimen-to dell’idea distorta del tempo come merce. Il movimento degli indignados non è una forza compatta, linea-re. E la violenza non è esclusa dalla prospetti-va che ci aspetta. Quel

che è certo, è che si è rotto l’incantesimo para-

lizzante del Neoliberismo trionfante.

Adesso tocca all’immagina-zione politica trovare la strada,

elaborare un mantra che rimetta in circolo nella sensibilità collettiva le

energie della solidarietà, dell’empatia, del desi-derio di condivisione. La sollevazione è iniziata – nostro compito è im-maginarne le possibili evoluzioni. Intanto, le pagi-ne di Bifo accendono la miccia.

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di Marilù Oliva

Lei è una creatura, ma sdoppiata nell’eterno difetto – una ferita nell’animo, prima che uno straniamento fisico – della nostra epoca, quello legato all’ambiva-lenza rifiuto/desiderio di cibo. È un’infante che si chiama Olivia e porta nelle sue riflessioni, nei suoi dubbi, nei suoi incubi la semplicità verissima e disar-mante del pensiero bambino. Con optional di doppia lettura – da una parte Olivia stecchino, dall’altra in versione cannone – Scheltrina Cicciabomba è il risultato di un bel lavoro a quattro mani: sceneggiatura di Simona Vinci e disegni di Raffaella Ligi. I disegni assecondano su sfondi pastello – tranne quando si tratta di incubi ventosi,

e allora lì il blu incalza e vira verso il nero – la vicen- nero – la vicen-da di Olivia, “bambina troppo grassa e troppo magra che impara a voler bene a ciò che mangia”. Una storia adatta a tutte le età, dagli otto anni in su, condita con insicurezze, ricette mai ovvie, nonne matte e delizio-se immagini della protagonista calata nei diversi con-testi: in classe, sospesa tra i colori delle vivande – “il rosso non le sta tanto simpatico. Pomodori con tutti quei semini. Pizza gommosa sotto i denti…” –, oppu-re dietro una finestra, il martedì grasso. Ho rivolto qualche domanda su questo lavoro a Simona Vinci. Il filo conduttore di Scheletrine Cicciabomba è quello delle anomalie comportamentali legate alla

A quattr’occhi

Di scheletri e di ciccioni

Intervista a Simona Vinci

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nutrizione. L’amore si alterna all’odio verso il cibo e quest’ambivalenza si espande nella fisicità della piccola Olivia, la protagonista, che alterna le fasi magre e quelle cicciotte. Gli opposti sono sintomo di una medesima mancanza? O meglio, come avvie-ne in alcuni passaggi alchemici: anche nei disagi alimentari gli opposti combaciano?Le protagoniste sono due, e una al tempo stesso. Ho immaginato la storia di Olivia da due punti di vista opposti: Olivia come una bambina troppo magra e Olivia come una bambina troppo grassa. Il libro si capovolge e al centro c’è l’Olivia né grassa né ma-è l’Olivia né grassa né ma-’Olivia né grassa né ma-gra. Quella che ha imparato a non sfogare le sue ca-renze affettive e le sue ansie sul cibo, in un modo o nell’altro. Il blu di copertina e l’azzurro del neo che Olivia ha sulla guancia, ereditato dalla bisnonna omoni-ma, sono colori-metafora?Non ci avevo pensato! Il libro è consigliato dagli otto anni, ma dato il tema e le allegorie lo rendono adatto a tutte le età.

Ci credi nel valore terapeutico dei libri?Assolutamente sì, come primo passo diciamo. Credo che nessun libro sia in grado di guarire da una pa-tologia seria, ma certamente può aiutare a sbloccare qualcosa, ad individuare un problema, a farci sentire meno soli e darci il coraggio di approfondire il nostro malessere senza vergognarcene. La lettura di una sto-ria nella quale ci immedesimiamo può aiutarci a tro-vare ‘le parole per dirlo’. Tu sei stata Scheletrina e/o Cicciabomba?Sono stata entrambe, ma soprattutto, a partire dagli undici dodici anni sono stata Cicciabomba. Ho molto sofferto per il cambiamento del mio corpo e l’accetta-zione anche di una forma fisica femminile è stata per me un processo molto lungo. Cosa provoca questo rifiuto/anelito al cibo?Un rapporto di eccessi con il cibo che comincia in tenera età ha molte probabilità di continuare poi nell’adolescenza e nell’età adulta e di trasformarsi, in alcuni casi, in una patologia gravissima, che invade ogni spazio vitale e ti consuma (anche quando

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ti gonfia) da dentro. Imparare fin da piccoli ad ave-re un rapporto equilibrato con il nutrimento, credo sia uno dei regali più belli che dei genitori possano fare ai loro bambini. Il cibo non è (non deve essere) un demone e nemmeno un’ossessione. E’ il piacevo-le carburante che ci tiene in vita. Va rispettato, sen-za eccessi. Quando sento una bambina di sette anni dire: “quello non lo mangio perché mi fa ingrassare” vengo sopraffatta dallo scoramento. Ecco cosa faccia-mo (perché è evidente che la colpa è degli adulti) alle piccole donne di domani: già a sette anni sono sulla via di farsi ingabbiare e soffocare dagli stereotipi. La tua attenzione all’universo dell’infanzia si è manifestato a partire dal tuo romanzo d’esordio, Dei bambini non si sa niente (Einaudi, 2007), ma non solo. Cos’hanno di speciale, i bambini? Tutto. E specialmente, che ogni bambino reinventa il mondo (la lingua, il pensiero) da capo. E veder cre-scere un bambino è come avere una seconda possi-bilità di fare lo stesso anche noi adulti. Certo, non è facile saperli osservare, e ascoltare, i bambini, senza la tentazione di credere che siamo noi, i Grandi, a detenere sempre la verità e l’ultima parola su tutto. Cicerone sosteneva che vi fosse un nesso in-scindibile tra moralità ed eloquenza. Quindi, per estensione, tra moralità e comunicazione, la qua-le include anche la nozione di scrittura. Secondo te chi “maneggia la cultura” ha dei compiti o deve solo rispondere della propria arte?Non mi è mai piaciuta l’idea di un’arte al servizio di qualcosa. Se accade che l’Arte ci insegni qualcosa, e accade quasi sempre, è uno straordinario risulta-to, ma anche un’opera nata con le stigmate dell’im-moralità più bieca può rivelarsi assolutamente fondamentale. Come ti sembra la letteratura italiana, in que-sti anni? Riscontri un momento di impasse o di ricchezza?Negli ultimi anni ho sviluppato una sorta di orticaria da letteratura “d’impegno civile” (e lo stesso provo per il teatro): non bastano le buone intenzioni per fare letteratura. Nella letteratura italiana contempo-ranea sento spesso una mancanza di coraggio e un conformismo alle mode del momento. Va di moda il precariato, scrivo di precariato. Va di moda la crimi-nalità organizzata, scrivo di criminalità organizzata. Va di moda la fabbrica, scrivo di fabbrica. Certo è che non me la sento di dare la colpa agli autori, magari ci sono giovani scrittori miracolosi che manco ven-gono presi in considerazione dagli editori perché in quel momento, il genere che scrivono non ‘tira’. Poi naturalmente ci sono tantissimi autori di straordina-ria bravura, ciascuno a suo modo, che amo leggere. Su quali criteri ti fondi per stabilire che un’opera appartenga o meno alla letteratura?Semplicissimi: storia e stile (lingua) con il quale quel-la storia è raccontata. Cosa stai scrivendo, ora?Lavoro sempre a più cose contemporaneamente, ora però mi sto concentrando sul mio prossimo roman-

zo che uscirà per Einaudi e che intreccia molte storie e molti tempi e lo fa utilizzando registri narrativi di-versi: il reportage, la ricostruzione storica e il roman-zo. L’uno incastonato nell’altro a disegnare l’affresco di un luogo misterioso e inquietante e di un inquie-tante e misterioso rapporto intrattenuto con la ma-lattia mentale e la diversità in genere. Ci saluti con una citazione da Scheletrina Cicciabomba?

La chiamano con mille nomi e nessuno è mai Olivia. La chiamano:Sottiletta.Acciuga. La Smilza. Grissino.Bacchetto. Biafra. Cavalletta.Ma soprattutto la chiamano:Scheletrina.La chiamano:Grassona.Palla di lardo.Ciccia.Cubetto.Pancetta.Scrofolina.Cannoniera.Ma soprattutto, la chiamano:Cicciabomba. Quando era piccola pensava: qualsiasi altro nome è più bello di Olivia. Adesso, quando la maestra dice: Olivia, alla lavagna! Lei è felice e vorrebbe che la chiamasse alla la-vagna cinquanta volte al giorno.

A quattr’occhi

Simona Vinci e Raffaella LigiPrez-zo, Scheletrina e Cicciabomba, Sa-lani Editore, 2012, pg 96, € 19,90{

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