Carmilla - Il Caso Battisti 2004

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Valerio Evangelisti Giuseppe Genna Wu Ming 1 e altri Il caso Battisti L’emergenza infinita e i fantasmi del passato A cura della redazione di Carmilla

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Valerio Evangelisti Giuseppe Genna Wu Ming 1 e altri

Il caso BattistiL’emergenza infinita e i fantasmi del passato

A cura della redazione di Carmilla

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© 2004, NdA Press

I diritti di ciascun articolo appartengono al rispettivo autore.

Si consente la riproduzione parziale o totale dell’opera e la sua diffu-sione per via telematica, purché a scopi non commerciali e a condizio-ne che questa dicitura venga riprodotta.

ISBN 88-89035-03-X

NdA Press ha deciso di pubblicare questo libro, che non tratta sol-tanto della vicenda specifica di Battisti, a dispetto del clima ostilecreatosi in Italia da un mese a questa parte, per due ragioni principali.

Uno, riteniamo importante dare spazio a un diritto di critica e aun’altra versione dei fatti. Le ragioni di una, a suo modo inusualeed eccezionale, mobilitazione che ha coinvolto importanti intellet-tuali, scrittori, docenti universitari, editori e politici di valenza eu-ropea sono state “stravolte” da quasi tutti i media, quando non ad-dirittura ignorate come nel caso della mobilitazione italiana. Rite-niamo questo fondamentale principio imprescindibile in una so-cietà a democrazia avanzata come la nostra, tanto più in casi comequesti dove il principale imputato non è più nelle condizioni di di-fendersi e quando parla con i media, spesso lo fa male.

Due, crediamo che non sia compito di editori, scrittori e giorna-listi stabilire o meno l’innocenza di Cesare Battisti, non intendiamoassolutamente inoltrarci in questo campo, ma altrettanto ritenia-mo che l’attenzione suscitata dal suo arresto a Parigi, possa esserel’occasione per fare chiarezza su un periodo irripetibile della nostrastoria che tutta la società italiana deve conoscere per evitare di la-sciarlo sospeso in un oblio (fatto di uomini e donne, nonché di me-moria) a uso e consumo di una delle parti che ne è stata protagoni-sta. Speriamo che il nostro lavoro non esasperi l’emotività suscitatadalle vicende ascritte a Battisti, ma che si iscriva in un dibattito pa-cato e necessario per chiudere definitivamente quel periodo sia dalpunto di vista storico che politico.

NdA Press, 21.3.2004

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CHI È CESARE BATTISTI

Cesare Battisti nasce a Sermoneta (Latina) nel 1954. Inizia il liceo classico nell’anno 1968, ma abbandona gli stu-

di nel 1971 trascinato via dal conflitto sociale diffuso. Nella ga-lassia giovanile dedita agli “espropri proletari”, Battisti si muo-ve in un territorio di confine tra lotta politica e banditismo me-tropolitano.

Dopo le prime schermaglie con la giustizia nel 1976 arriva aMilano dove si riunisce ad alcuni amici. Da quel raggruppamen-to nascono i Proletari Armati per il Comunismo (PAC), uno deitanti gruppi clandestini dell’epoca, a cui sono attribuiti alcuniomicidi e diverse rapine.

Nel 1979 viene arrestato nell’ambito di una vasta operazioneanti-terrorismo. Mentre sono in corso istruttorie basate princi-palmente sulle deposizioni di “pentiti”, Battisti è detenuto nelcarcere speciale di Frosinone. Il 4 ottobre 1981 è protagonista diuna spettacolare evasione.

Raggiunge la Francia e poi il Messico. Due anni dopo è tra ifondatori della rivista culturale “Via Libre”. Nel frattempo, gli arri-va notizia che è stato ritenuto responsabile di tutti i reati attribuitiai PAC, e di conseguenza condannato all’ergastolo in contumacia.

Nel 1990 decide di tornare in Francia, a Parigi, dove entra incontatto con la vasta comunità degli esuli italiani, accolti graziealla celebre “Dottrina Mitterrand”.

Poco dopo viene arrestato in seguito a domanda d’estradizio-ne del governo italiano, ma la Chambre d’accusation di Parigi lodichiara non estradabile. Battisti ottiene il permesso di soggior-no e scrive il suo primo romanzo, Travestito da uomo, pubblicatoda Gallimard nel 1993.

Negli anni successivi continua a scrivere e pubblicare (è auto-re di dodici libri), diventa padre di due figlie e lavora come porti-naio dello stabile in cui risiede. Il 10 febbraio 2004 viene di nuo-vo arrestato, in seguito a un accordo informale tra il ministrodella giustizia Castelli e il suo omologo francese Perben, e nono-stante il parere già espresso dai magistrati d’Oltralpe nel 1991.Comincia una grande mobilitazione contro l’estradizione. Dopoventi giorni Battisti ottiene la libertà provvisoria, il tribunale co-municherà la sua decisione il 7 aprile 2004.

Nel momento in cui questo libro va in stampa, la spada di Da-mocle è ancora sospesa sul capo dello “scrittore ex-terrorista”.

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“Nego totalmente i fatti specifici di cui mi si accusa e per iquali mi hanno condannato. Me ne assumo la responsabi-lità collettiva, come dovrebbe fare ogni uomo degno di que-sto nome implicato in un dramma sociale di portata così va-sta. Posso forse giudicare me stesso sventato, a quell’epoca,ma questo non mi dà il diritto di dimenticare il contesto po-litico e sociale che alimentò la mia sventatezza.”

Cesare Battisti

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Premessa 7

1. L’arresto, la mobilitazione, i primi appelli 23

2. Il caso Battisti. La riflessione 41

3. Il quadro storico 81

4. Appendici 137

Bibliografia essenziale 155

INDICE

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“Non posso nascondere la mia amarezza vedendo riemer-gere certe accuse alla magistratura italiana che, come dis-se allora Pertini, tanto contribuì a fermare il terrorismo,rispettando la Costituzione e le regole del processo.”

Armando Spataro, La Repubblica, 8 marzo 2004

“Di fronte ad una situazione d’emergenza [...] Parlamentoe Governo hanno non solo il diritto e potere, ma anche ilpreciso ed indeclinabile dovere di provvedere, adottandouna apposita legislazione d’emergenza.”

Sentenza 15/1982 della Corte Costituzionale.

Dopo la messa in libertà vigilata di Cesare Battisti, in quel diParigi, i media italiani si sono scatenati, rovesciando sull’o-pinione pubblica tutto il metallo fuso per anni negli altifornidel rancore, della vendetta, dell’ossessione securitaria.

È impossibile fare un resoconto di tutte le distorsioni ele falsità scritte e trasmesse nell’ultima settimana. Non c’èarticolo, per quanto breve, che non ne contenga decine.Persino i dettagli apparentemente insignificanti sono sba-gliati.

Episodi e personaggi che nulla c’entrano col caso in og-getto vengono gettati nel calderone per intorbidire la bro-dazza, scatenare il panico morale, impedire a ogni costol’uso della ragione.

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PREMESSA

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Un killeraggio mediatico come non se ne vedevano daparecchio tempo, al quale è faticosissimo opporre argo-menti ed elementi concreti, ricostruzioni storiche minima-mente approfondite.

Eppure non si può rinunciare a esercitare la ragione,non ci si può chinare e coprire la testa con le mani in atte-sa che passi la burrasca. Fosse anche un’impresa dispera-ta, occorre esercitare la ragione contro il fanatismo.

Non va taciuto che, in questo Paese, chi continua a op-porsi agli scoppi di emergenze strumentali è destinato asentirsi solo: è una di quelle campagne in cui devi coprirtisu entrambi i fianchi, il destro (ça va sans dire) e il sini-stro. Da entrambe le parti, gli argomenti (anche se è diffi-cile chiamarli così) sono i medesimi.

La cosa non deve sorprendere: parlare di emergenza-terrorismo significa tornare su storture giuridiche, strappicostituzionali e prassi inquisitorie che il PCI di fine anniSettanta (quello del “compromesso storico” e della “solida-rietà nazionale”) sostenne con entusiasmo e abnegazione.La stessa gente, oggi, dirige il centrosinistra. O meglio, di-rige quella parte di centrosinistra che, a mo’ di struzzo, hada poco messo la testa sotto la sabbia irachena, non votan-do contro la partecipazione dell’Italia all’occupazione neo-coloniale della Mesopotamia.

La stessa gente ha da tempo delegato a una sezione dimagistratura inquirente le fatiche di un’opposizione al go-verno B********* che in Parlamento non si è in grado dicondurre (quando proprio non ci si rifiuta di farlo per in-seguire il “dialogo”, la “responsabilità di fronte alle istitu-zioni” e l’inciucio bipartisan del momento).

Molte “toghe rosse” (come le chiama B*********) sonole stesse che istruirono e condussero i grandi processi con-tro il terrorismo (vero e presunto: nel tritacarne ci finironoanche i movimenti di quegli anni). A sinistra è tuttora ege-mone la visione della storia di chi scrisse e approvò le leggid’emergenza, e di chi rappresentava l’accusa ai processiche ne derivarono.

Non è sorprendente che chi prese e difese posizioni tan-to drastiche allora sia poco disposto a tornarci sopra oggiper darsi qualche torto, o almeno rimettere in prospettiva

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le ragioni. Anche perché a destra ci si dà impudicamente algrand guignol, si sparano le frattaglie con l’obice per in-zaccherare di sangue tutto il campo della discussione, sistrofinano con le cipolle gli occhi dei telespettatori. Conl’arma dell’emozione incontrollata e del ricatto morale, sirichiama all’ordine la sinistra “riformista”, la si spinge acondannare la sinistra “radicale”, a dividere il campo del-l’opposizione. Non che i “riformisti” abbiano bisogno ditroppe spinte...

In questo modo, però, si condanna il Paese all’eternapaura dei fantasmi del passato, passato che in realtà nonpassa ed è evocato per motivi di bassa cucina politico-elet-torale.

1. Le leggi speciali 1974-82

“Questo libro l’ho scritto con rabbia. L’ho scritto tra il1974 e il 1978 come contrappunto ideologico alla legisla-zione sull’emergenza. Volevo documentare quanto fosseequivoco fingere di salvare lo Stato di Diritto trasforman-dolo in Stato di polizia”

Italo Mereu, Prefazione alla seconda edizione di Storia dell’intolleranza in Europa.

Chi dice che il terrorismo fu combattuto senza rinunciarealla Costituzione e alle garanzie per l’imputato è disinfor-mato oppure mente. La Costituzione e la civiltà giuridicafurono sbrindellate decreto dopo decreto, istruttoria dopoistruttoria.

– Il decreto-legge n.99 dell’11/4/1974 aumentò a otto an-ni la carcerazione preventiva, vera e propria “pena anti-cipata” contraria alla presunzione d’innocenza (art.27comma 2 della Costituzione). – La legge n.497 del 14/10/1974 reintrodusse l’interroga-torio del fermato da parte della polizia giudiziaria, abo-lito nel 1969. – La legge n.152 del 22/5/1975 (“Legge Reale”) all’art.8rese possibile la perquisizione personale sul posto sen-

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za l’autorizzazione di un magistrato, nonostante la Co-stituzione (art.13, comma 2) non ammetta “alcuna for-ma di detenzione, di ispezione o perquisizione persona-le, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale,se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e neisoli casi e modi previsti dalla legge”. Da quel momento le forze dell’ordine poterono (e posso-no tuttora) perquisire persone il cui “atteggiamento” o lacui presenza in un dato posto non apparissero “giustifi-cabili”, anche se la Costituzione (art.16) dice che il citta-dino è libero di “circolare liberamente” dove gli pare.La “legge Reale” conteneva molti altre innovazioni li-berticide, ma non è questa la sede per esaminarle. – Un decreto interministeriale del 4/5/1977 istituì le “car-ceri speciali”. Per chi ci finiva dentro non valeva la rifor-ma carceraria di due anni prima. Il trasferimento in unadi quelle strutture era a totale discrezione dell’ammini-strazione carceraria, non c’era bisogno del parere del giu-dice di sorveglianza. Si trattava addirittura di un peggio-ramento del regolamento carcerario fascista del 1931: al-l’epoca, solo il giudice di sorveglianza poteva mandare undetenuto alla “casa di rigore”. La rete delle carceri specialidivenne presto una zona franca, di arbitrio e negazionedei diritti dei detenuti: lontananza dalla residenza dellefamiglie; visite e colloqui a discrezione della direzione;trasferimenti improvvisi per impedire socializzazioni, di-vieto di possedere francobolli (l’Asinara); isolamento tota-le in celle insonorizzate, ciascuna con un cortiletto per l’o-ra d’aria separato dagli altri (Fossombrone); quattro mi-nuti per fare la doccia (l’Asinara), sorveglianza continua eperquisizioni corporali quotidiane; privazione di ognicontatto umano anche visivo tramite citofoni e completaautomazione di porte e cancelli etc. Questi erano i posti in cui gli inquisiti, a norma di leggeancora innocenti, scontavano la carcerazione preventi-va. La Costituzione, all’art. 27 comma 3, recita: “Le pe-ne non possono consistere in trattamenti contrari alsenso di umanità e devono tendere alla rieducazione delcondannato”. Verso quale rieducazione tendeva il trat-tamento appena descritto?

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– La legge n.534 dell’8/8/1977, art.6, limitò le possibilitàda parte della difesa di dichiarare nullo un processo perviolazione delle garanzie dell’imputato e, rendendo piùsbrigativo il sistema delle notifiche, facilitò l’avvio diprocessi in contumacia (in contrasto con il diritto di di-fesa e contro la Convenzione europea dei diritti dell’uo-mo, che è del 1954). – Il “decreto Moro” del 21/3/1978, oltre ad autorizzare ilfermo di polizia di ventiquattro ore a fini di identificazio-ne, eliminò il limite di durata delle intercettazioni telefo-niche, rese le intercettazioni legali anche senza permessoscritto del magistrato, le ammise come prove anche inprocessi diversi da quello per cui le si era autorizzate, in-fine rese autorizzabili intercettazioni “preventive”, anchein assenza di indizi di reato. Inutile ricordare che la Co-stituzione (art.15) definisce inviolabile la corrispondenza“e ogni altra forma di comunicazione” se non per “attomotivato” dell’autorità giudiziaria “con le garanzie stabi-lite dalla legge”. – Il 30/8/1978 il governo (violando l’art.77 della Costitu-zione) emanò un decreto segreto, che non fu trasmessoal Parlamento, e venne pubblicato sulla “Gazzetta uffi-ciale” soltanto un anno dopo. Il decreto dava al generaleCarlo Alberto Dalla Chiesa – senza togliergli l’incaricodi garantire l’ordine nelle carceri – poteri speciali percombattere il terrorismo. – Il decreto del 15/12/1979 (divenuto poi la “legge Cossi-ga”, n.15 del 6/2/1980), oltre a introdurre nel codice pena-le il famoso art. 270bis,1 autorizzò, per i reati di “cospira-zione politica mediante associazione” e di “associazione

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1. “Chiunque promuove, costituisce, organizza e dirige associazioniche si propongono il compimento di atti di violenza con fini di eversionedell’ordine democratico è punito con la reclusione da 7 a 15 anni.

Chiunque partecipa a tali associazioni è punito con la reclusione daquattro o otto anni.”

Nel codice penale esisteva già l’art.270: “Chiunque nel territorio dello Stato promuove, costituisce, organizza

o dirige associazioni dirette a stabilire violentemente la dittatura di unaclasse sociale sulle altre, ovvero a sopprimere violentemente una classesociale o, comunque, a sovvertire violentemente gli ordinamenti econo-

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per delinquere”, il fermo di polizia preventivo della duratadi 48 ore, più altre 48 ore a disposizione per giustificare ilprovvedimento. Per quattro lunghi giorni un cittadino so-spettato di essere in procinto di cospirare, poteva rimane-re in balìa della polizia giudiziaria senza l’obbligo diinformare il suo avvocato. Durante quel periodo potevaessere interrogato e perquisito, e in molti casi si è parlatodi violenze fisiche e psicologiche (Amnesty Internationalprotestò diverse volte). Tutto questo all’art.6, una normastraordinaria della durata di un anno. All’art.9 la legge rendeva possibili le perquisizioni “percausa d’urgenza” anche senza mandato. La Costituzio-ne, art.14, recita: “Il domicilio è inviolabile. Non vi sipossono eseguire ispezioni o perquisizioni o sequestri,se non nei casi e nei modi stabiliti dalla legge secondole garanzie prescritte per la tutela della libertà perso-nale”. Che tutela della libertà c’è in un sistema doveviene legalizzato l’arbitrio, la facoltà di decidere sulmomento se per una perquisizione sia necessario omeno un mandato? All’art.10, i termini della carcerazione preventiva perreati di terrorismo venivano estesi di un terzo per ognigrado di giudizio. In quel modo, fino alla Cassazione, sipoteva arrivare a dieci anni e otto mesi di detenzione inattesa di giudizio! All’art.11, si introduceva un graveelemento di retroattività della legge, ordinando di appli-care i nuovi termini della carcerazione preventiva an-che ai procedimenti già in corso. Il fine era chiaro: im-pedire che decorressero i termini e che centinaia di se-polti vivi attendessero il giudizio a piede libero.

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mici o sociali costituiti nello Stato, è punito con la reclusione da cinque adodici anni.

Alla stessa pena soggiace chiunque nel territorio dello Stato promuo-ve, costituisce, organizza o dirige associazioni aventi per fine la soppres-sione violenta di ogni ordinamento politico e giuridico della società.

Chiunque partecipa a tali associazioni è punito con la reclusione dauno a tre anni.”

Com’è evidente, si tratta del medesimo reato. Che bisogno c’era diquesto “sdoppiamento”, se non quello di isolare e amplificare la “fattispe-cie terroristica”, e in base a questa aumentare le pene?

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– La “legge sui pentiti” (n.304 del 29/5/1982) coronò lalegislazione d’emergenza concedendo sconti di pena ai“pentiti”. Il testo parlava di “ravvedimento”. In un libroche nell’ultimo mese viene citato molto spesso (in Rete,non certo sui media tradizionali), Giorgio Bocca sichiedeva chi fosse mai il “pentito”: “Uno che per convinzioni politiche si è unito al partitoarmato e che poi, per ripensamenti politici, se ne è dis-sociato al punto di combatterlo, o qualsiasi avventuri-sta che prima si diverte a uccidere il prossimo e poi,catturato, scampa alla punizione denunciando tutto etutti?” Cito Elio e le storie tese: “Propenderei per la secondaipotesi / perchè emani un fetore nauseabondo” (dallacanzone “Urna”, del 1992). Bocca proseguiva: “Sono terroristi pentiti quei capettidel terrorismo diffuso che prima hanno plagiato dei ra-gazzi delle scuole medie, li hanno convinti ad arruolarsie poi li hanno denunciati per godere delle clemenze giu-ridiche? Sono ravveduti sinceri quelli che in mancanzadi serie delazioni se le inventano? [...] Lo stato di dirittonon è la morale assoluta, l’osservanza rigorosa delle leg-gi in ogni circostanza, ma è la distinzione e il reciprococontrollo delle funzioni. Nello stato di diritto la poliziapuò eccedere nei metodi inquisitori, ma il cittadino puòragionevolmente contare sul controllo del giudice sul poli-ziotto. Ma se si accetta con la legge sui pentiti e simili chegiudice e poliziotto siano la stessa cosa, quale controllosarà possibile? Ma, si dice, la legge sui pentiti è stata effica-ce, ha ottenuto centinaia di arresti e la fine del terrorismo.Questo è scambiare gli effetti per la causa: non sono i pen-titi che hanno sconfitto il terrorismo, ma è la sconfitta delterrorismo che ha creato i pentiti. Ci si dovrebbe chiederese la legge ha giovato o meno a quel bene supremo di unasocietà democratica che è il sistema delle garanzie. La ri-sposta è che i danni sono stati superiori ai vantaggi, anchese un’opinione pubbica indifferente al tema delle garanziefino al giorno in cui non è direttamente, personalmentecolpita, finge di non accorgersene. Sta di fatto che una no-tevole parte della magistratura inquirente si è lasciata se-

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durre dai risultati facili e clamorosi del pentitismo, ha pre-so per oro colato le dichiarazioni dei pentiti sino a capo-volgere il fondamento del diritto, le prove sono state sosti-tuite con i sentito dire. Grandi processi sono stati imba-stiti sulle dichiarazioni dei pentiti, centinaia di arrestifatti prima di raccogliere le prove. Un magistrato italia-no ha potuto dichiarare a una radio francese a proposi-to del caso Hyperion... ‘Non ho le prove ma le troverò’.Uomini politici, insegnanti, moralisti non si sonopreoccupati delle conseguenze inquisitorie della legge,della infernale catena di delazioni incontrollabili cheessa metteva in moto. La reazione delle vittime della de-lazione è stata, come si poteva prevedere, feroce, unaserie di cadaveri ‘infami’ è stata raccolta dalle guardiecarcerarie a cose fatte, secondo la legge barbara dellenostre prigioni. Nella fossa dei serpenti tutto è possibilee niente accertabile.”

Chiedo scusa per la lunghezza della citazione, ma credone valesse la pena.

La Corte Costituzionale non potè negare che tutte que-ste leggi fossero da stato d’eccezione: semplicemente deci-se che, “vista l’emergenza”, andava bene così. Ponzio Pila-to ha ancora le mani nel catino.

Non c’è cattiva memoria pubblica che possa rimuoverequesta realtà, non c’è ex-Pm che riesca a farmi accettare que-sta barbarie in nome della “Ragion di Stato”, nessuna sinistralegalitaria potrà mai convincermi della bontà di tutto questo.

2. Terrorismo, coscienza, “guerra preventiva”

“È proprio lo stato d’animo, il pensiero nascosto e nonespresso, la interna disobbedienza che divengono oggetto diindagine, in quanto è all’accertamento di essi che il giudicetende a risalire? Ecco che in processi di questi ultimi annisono sottoposti al vaglio del giudice penale comportamentiquali la creazione di un collettivo di lavoratori contrappostoal sindacato, l’organizzazione dei seminari autogestiti, lacollaborazione, mediante un articolo dal contenuto lecito, aun periodico riconducibile ad una struttura associativa rite-

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nuta illecita; l’intervento in un’assemblea universitaria, e, ingenere, rapporti interpersonali manifestatisi attraversoscambi di documenti politici, lettere, telefonate, ecc., tuttidal contenuto penalmente irrilevante.” Antonio Bevere, “Processo penale e delitto politico, ovverodella moltiplicazione e dell’anticipazione delle pene”, in Cri-tica del diritto n.29-30, Sapere 2000, aprile-settembre 1983

La Costituzione, all’art. 27, comma 1, dice che “la re-sponsabilità penale è personale”.

Eppure il nostro codice penale (che risale al fascismo enel periodo delle leggi speciali fu inasprito in più punti)pullula di reati come il “concorso morale” nel reato o la“adesione psichica” allo stesso, nonché di ogni forma direato associativo che si possa immaginare tra cielo e terra.

Gran parte delle istruttorie sul terrorismo lavoraronosoprattutto su questi elementi, oltreché sui sospetti e le in-tenzioni (il famoso “essere in procinto di”), su un’idea ol-tremodo estesa del concorso, del favoreggiamento, dellecontiguità.

Si arrivò a teorizzare il “fine terroristico” come sussi-stente “al di là dello scopo immediatamente perseguitodall’agente (omicidio, danneggiamento ecc.)” e di definir-lo “reato a forma libera” il cui specifico dolo “offre l’ele-mento unificatore e l’essenza dei delitti terroristici”.2 Inparole povere, terrorista è lo scopo, il fine ultimo, anchea prescindere da fatti concreti. Non c’è quindi da stupirsise in molti casi si finirono per processare la personalitàdegli imputati e la loro ideologia, quest’ultima identifica-bile nel loro essere amici di Tizio e Caio, o nel loro avereospitato Sempronio.

Terroristi si è, anche a prescindere da ciò che si fa. Ter-rorista è l’intenzione, contro la quale va combattuta una“guerra preventiva” che è tipica della società del controllo.

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2. Citazione dalla cosiddetta “Carta di Cadenabbia”, documentoconclusivo di un convegno di magistrati titolari delle principali in-chieste sul terrorismo, cit. R. Canosa - A. Santosuosso, Il processopolitico in Italia, Critica del Diritto n. 23-24, Nuove Edizioni Ope-raie, Roma, ottobre 1981 - marzo 1982, pag.17)

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La “cospirazione” c’è, anche se non ha portato a niente. Sipuò essere processati per “insurrezione” anche se l’insur-rezione non c’è stata: come disse Pietro Calogero, si trattadi un “reato a consumazione anticipata”, cioè – in parolepoverissime – il vero reato è volerla, l’insurrezione. Tribu-nali della coscienza.

Non sono un giurista, eppure mi sembra di poter rinve-nire il nucleo ideologico, il “meme” di quest’idea contem-poranea di “prevenzione” oltreoceano, nell’Anti-Riot Actdell’11 aprile 1968, ideato e usato contro i movimenti afro-americani e le mobilitazioni per porre fine alla guerra inVietnam. Tale legge punisce chi, durante uno spostamentosulla rete viaria interstatale, o durante l’uso di infrastruttu-re della rete viaria interstatale, commetta atti finalizzati a“incitare, organizzare, promuovere, incoraggiare, prende-re parte e portare avanti una sommossa [riot]”, o aiutiqualcuno in tale incitazione. Secondo la legge americana,un riot è un assembramento di cinque o più persone che,comportandosi in modo violento o minacciando di farlo,mettano in grave pericolo le persone e la proprietà.

Riassumendo, alcuni esponenti dei movimenti america-ni furono inquisiti, processati e condannati per aver viag-giato su strade interstatali con l’intenzione di aiutare qual-cuno a incitare un assembramento di cinque o più personeche minacciassero di comportarsi in modo da arrecaredanni alla proprietà. Spero sia chiara la percezione dellagrande distanza che separa la persona dal presunto reato.

Sia ben chiaro che non sto dicendo che tutti gli imputati diprocessi per terrorismo erano estranei a fatti concreti, cimancherebbe. Tuttavia, molte persone furono processate econdannate non per atti specifici bensì in nome di un’ideaastratta di “fattispecie terroristica”. Il proverbiale “processoalle intenzioni” fu reso una realtà dalla Ragion di Stato.

Gli effetti di quella distorsione sull’opinione pubblicaperdurano a tutt’oggi.

Non è un caso se quello che maggiormente si rimprove-ra a Cesare Battisti è il fatto di “non essersi pentito”.

Non è un caso se la crescente mostrificazione mediaticadi Cesare Battisti prescinde ormai dai reati per cui fu con-dannato, e s’incentra sulla sua personalità e il suo stile di

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vita (di adesso, non di allora): lo si accusa di essere “un vi-gliacco” perché è fuggito, di essere “un furbo” perché loprotegge “la lobby degli scrittori di sinistra”, lo si aggredi-sce coi flash all’uscita di prigione per rubare l’immagine“strana”, congelare la smorfia fugace e sbatterla in primapagina per far vedere che è “brutto, sporco e cattivo”.

3. Censure e rimozioni della stampa sul caso Battisti

Il mio scopo non è dimostrare che Cesare Battisti è inno-cente. Giudicare non spetta a me né all’opinione pubblica.Ciò che mi preme far capire è che il modo dominante di af-frontare questa vicenda soffre di tutte le storture, i vizi diprocedura e i nodi irrisolti del periodo dell’emergenza. So-no questi elementi, di cui non si vuol fare piazza pulita, aimpedire un confronto razionale, laico e costruttivo.

Le frettolose ricostruzioni della vicenda giudiziaria diCesare Battisti apparse sulla stampa italiana sono moltolontane dalla realtà dei fatti, e addirittura in contrasto congli atti delle istruttorie e dei processi. Se addirittura unodei PM di allora infila nella sua lettera aperta errori gros-solani, scrivendo ad esempio che il gioielliere Torregianiaveva ucciso un rapinatore nel proprio negozio anziché alristorante “Transatlantico”,3 figurarsi i semplici commen-tatori di versioni di quarta mano.

Tutti, ma proprio tutti, ripetono che Cesare Battistisparò a Torregiani e a suo figlio tredicenne, costringendoquest’ultimo sulla sedia a rotelle. Alberto Torregiani è statoanche intervistato dalle televisioni, che lo hanno presenta-to come “vittima di Cesare Battisti”.

Eppure, a detta dello stesso ex-PM di cui sopra, Battistinon faceva parte del commando che uccise Torregiani.4

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3. La ricostruzione dettagliata degli eventi che seguono è presada: Laura Grimaldi, Processo all’istruttoria. Storia di un’inquisizio-ne politica, Milano Libri, 1981

4. Da un testo di Armando Spataro, riportato integralmente in:Mario Pirani, “Se a Parigi pari sono Battisti e Victor Hugo”, La Re-pubblica, 8 marzo 2004, pag.14

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Battisti è stato condannato per aver “ideato” e/o “organiz-zato” quel delitto, conclusione molto difficile da dimostra-re, interamente basata su prove indiziarie e testimonianzedi “pentiti”. Questa è una delle cose che fa storcere il nasoOltralpe, tanto alla giustizia quanto all’opinione pubblica.Battisti viene indicato dai “pentiti” come ugualmente re-sponsabile per due omicidi avvenuti lo stesso giorno allastessa ora. Di fronte all’evidente impossibilità logica, il qua-dro si modifica sì da farlo risultare esecutore materiale diuno (delitto Sabbadin) e “ideatore” dell’altro (delitto Torre-giani). Inoltre è ritenuto ugualmente responsabile di decinee decine di rapine, e in generale di tutti i reati compiuti dal-l’organizzazione di cui faceva parte, i Proletari Armati per ilComunismo (gruppo che ebbe vita piuttosto breve).

Chi ignora quanto il nostro diritto (soprattutto quellodell’emergenza-terrorismo) sia incistato di contiguità, com-plicità e “compartecipazioni” di varia natura, si stupisce enon può che trovare contraddittorio il quadro emerso dallasentenza.

Ma non sto facendo una controinchiesta, quello che mipreme chiedere è: perché, di fronte alle madornali idioziedette dai media sul ruolo di Battisti nel delitto Torregiani,il Pm in questione non ha agito nell’interesse di una corret-ta informazione e di una maggiore comprensione di quellevicende, prendendo carta e penna e precisando: “Attenzio-ne, questa cosa non è vera”? Perché egli non ha smentitogli sciacalli dell’informazione gridata? È convinto di averreso onore alla funzione pubblica che esercita, comportan-dosi in modo tanto reticente?

Il direttore di un giornale razzista, in una trasmissionetelevisiva, ha gridato che “Battisti sparò alla schiena al-l’orefice Torregiani”, premendo sul pedale dell’isteria, de-scrivendo l’agguato come ancor più vile di quanto ci sipotesse immaginare. Ma Battisti non c’era, ce lo confer-ma il pubblico ministero. Inoltre, Torregiani – che indos-sava un giubbotto antiproiettile – affrontò il commando erispose al fuoco.

E ancora: perché omettere di citare le proteste di Amne-sty International per il modo in cui furono trattati i sospet-ti durante il fermo di polizia nell’istruttoria Torregiani?

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Amnesty International usò l’inequivoco termine “tortu-ra”. Aveva ragione? Aveva torto? Rimuovendo, non lo sco-priremo mai.

4. Il “mal francese”

“Ma come si permettono questi francesi? Pensano di po-terci dare delle lezioni?”. Ecco uno dei leitmotiven di que-sti giorni.

Il rancore nei confronti dell’opinione pubblica franceseche non ci vuole restituire un “macellaio”, un “mostro”.Quanto sono boriosi, i “cugini”! Sono Pazzi Questi Galli.

Anziché cercare di capire il punto di vista altrui, si dàper scontato e indiscutibile che abbiamo ragione “noi”. Enon ci si rende conto che, mentre li riteniamo colpevoli difarsi gli affari “nostri”, in realtà siamo “noi” che ci faccia-mo i cazzi loro. Non si capisce perché mai i francesi do-vrebbero rinunciare a una consuetudine giuridica pluride-cennale, la cosiddetta “Dottrina Mitterrand” (che in realtàè stata rispettata anche dai governi di destra), solo perchéil loro ministro Perben ha fatto un accordo col nostro mi-nistro C*******.

Se il ministro della giustizia cinese, o birmano, in barbaalla legge italiana che vieta l’estradizione di persone con-dannate a morte nel loro paese, ottenesse da C******* l’ar-resto e l’espatrio di un rifugiato (chiamiamolo Chèsáré Xi-liren), noi non reagiremmo con forza?

E se venissimo a sapere che un tribunale italiano ha giàesaminato la situazione di Xiliren nel 1991, dando un pa-rere contrario all’estradizione, e che nessun nuovo elemen-to giustifica un secondo arresto e un riesame a distanza ditredici anni?

E se, per soprannumero, nel nostro Paese Chèsaré Xili-ren non avesse mai e poi mai commesso un reato, tenendoanzi una condotta impeccabile, dando anche un contribu-to alla cultura nazionale?

Questo esempio ha un difetto: la Cina e la Birmanianon sono nell’Unione Europea. Infatti, molto rancore neiconfronti dei francesi si basa sull’idea che i “cugini” stiano

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ostacolando la formazione dello “spazio giuridico euro-peo”. Tale critica proviene da un Paese, il nostro, più volteoggetto di critiche e condanne da parte della Corte di Stra-sburgo, che per più di quarant’anni non ha rispettato laConvenzione europea per quanto concerneva le condannein contumacia, e che durante e dopo il G8 ha trattenuto inarresto cittadini europei sulla base di accuse inverosimili,attirandosi anche la protesta ufficiale del governo austria-co. Inoltre, al momento l’Italia detiene il primato del go-verno più “anti-europeista”, e si è fatta ridere dietro tutti igiorni da mane a sera durante il Semestre di presidenzadell’UE. Davvero crediamo noi di poter criticare chicches-sìa su questi temi?

Poi c’è chi ha detto: “i francesi sono teneri solo coi ter-roristi degli altri. I loro invece li trattano malissimo.” Nonc’è dubbio. Nonostante le distorsioni dei media nostrani,la Francia non è un paese dove se fai la lotta armata si con-gratulano dandoti pacche sulle spalle. Ti mettono in gale-ra, come accade in tutto il mondo. La conclusione sarebbedunque semplice da trarre: la sinistra francese non sta di-fendendo Battisti perché è stato un terrorista, ma nono-stante lo sia stato. L’opposizione all’estradizione va ben ol-tre Battisti e la sua vicenda umana (benché sia giusto farnotare che non delinque da trent’anni e non ha alcun colle-gamento coi nuovi gruppi lottarmatisti).

La campagna va ben oltre, per i francesi si tratta di di-fendere un principio, quello del diritto d’asilo, e un puntod’onore, quello della parola data da Mitterrand ai nostriconnazionali rifugiati nell’Esagono.

5. “Soluzione politica” e amnistia

C’è voluto uno scrittore francese, Daniel Pennac, per riu-scire a parlare di amnistia sulle pagine di un quotidianoitaliano. Probabilmente un nostro connazionale non sa-rebbe mai riuscito a superare certi “filtri”.

Pennac, intervistato da un quidam, ha detto: “Con laRepubblica l’amnistia è diventata qualcosa di necessarioalla concezione repubblicana della pace sociale. C’è l’e-

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sempio della Comune, ma più vicino a noi c’è anche l’am-nistia dei membri dell’Oas, che si sono battuti con le bom-be e con la violenza contro l’indipendenza algerina. Maquattro anni dopo la fine della guerra sono stati amnistia-ti. Erano di estrema destra, hanno ucciso: non ammettoche abbiano ammazzato, ma si dovevano amnistiare [...]L’amnistia è il contrario dell’amnesia. Si tratta di chiudereuna porta per permettere agli storici di capire un periodoin maniera meno passionale. Mi è difficile ammetterla sen-timentalmente, soprattutto se si immaginano le vittime. Ilproblema non deve però essere considerato dal punto divista affettivo”.

È un invito già caduto nel vuoto, in questo Paese certecose non si devono affrontare se non a colpi di emozioni edi psicologia delle folle. Si produce ancora isteria sugli an-ni Quaranta, sulle foibe, sulla “epurazione dal basso” deifascisti gestita da Volante Rossa e gruppi consimili, figu-rarsi se si può far partire un dibattito sull’emergenza senzarimuovere tutto quanto esposto sopra. Specialmente oggi,con l’opposizione a B********* dietro i sacchi di sabbiadelle trincee giudiziarie (un bel regalo, con tanto di fioc-chetto, di certa leadership girotondista).

Eppure bisogna fare il tentativo. Non credo di esagerareaffermando che questo Paese non potrà mai cambiare inmeglio senza ripensare quanto vi è successo negli anni Set-tanta. E solo dopo un’amnistia per gli ultimi prigionieri erifugiati dei cosiddetti “anni di piombo”, solo dopo la solu-zione politica di un problema che fu ed è politico e non so-lo criminale, si può sperare di capire cosa successe e comequegli accadimenti hanno condizionato la vita pubblicaitaliana.

Bologna, 8-9 marzo 2004

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SOLIDARIETÀ PER LO SCRITTORE CESARE BATTISTI

Abbiamo appreso con incredulità e immediata reazione disdegno dell’arresto a cui è stato sottoposto, questa mattinaa Parigi, lo scrittore Cesare Battisti.

L’autore italiano, esule in Francia per motivi politici,viene ora trattenuto dalle autorità francesi, a circa venti-cinque anni dai fatti per cui in Italia è condannato e inFrancia è stato processato. I quali fatti, e lo sottolineiamocon forza, non sono assolutamente quelli diramati oggi,in tv e su Rete, dagli organi di informazione: al solito, inmomenti drammatici, sia da un punto di vista personale(per lo scrittore Battisti) sia sociale (per l’attuale momen-to storico e politico che viviamo), emerge una disinfor-mazione pretestuosa, che ha il sapore del condiziona-mento di regime e che conduce a vette di tragica comicità– quale a tutti gli effetti è la dichiarazione del ministrodell’Interno Beppe Pisanu, il quale si è congratulato conla Direzione Antiterrorismo transalpina, per l’operazionedi cattura di una persona che da anni è rintracciabile dachiunque e il cui indirizzo di casa è reperibile perfino sulWeb. Cesare Battisti paga una gravissima deriva, politica-mente opportunista e scandalosamente revisionista, cheil governo Berlusconi ha imposto al nostro Paese edesportato in Europa, e in Francia in primis, per motivi di

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1. L’ARRESTO, LA MOBILITAZIONE, I PRIMI APPELLI

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pura propaganda elettorale e al fine di dare sostanza aldelirante fantasma rosso con cui pensa di ipnotizzare uncontinente intero. Al di là del surrealismo che presiedeall’arresto dello scrittore Cesare Battisti, risulta estrema-mente chiaro a noi di Carmilla che il contesto sociale incui maturarono le scelte di una generazione è, a oggi, unnodo irrisolto della vita civile italiana. Intervenire, a ven-ticinque anni da un periodo di autentica guerra civile,con l’arresto pretestuoso di una persona che ha subìtoanche in Francia il processo per fatti di eversione – il chedifferenzia, e di molto, lo status di Cesare Battisti rispet-to a molti altri consimili –, costituisce la conferma chedobbiamo affrontare l’onda lunga di una reazione che,soltanto per non apparire il mostro che è in realtà, si defi-nisce liberista e non autoritaria.

Carmilla è solidale con Cesare Battisti e ne chiede l’im-mediata scarcerazione. Ci mobiliteremo, con i mezzi cheabbiamo a disposizione, per attirare il massimo dell’atten-zione pubblica su questo scandalo giurisprudenziale edumano. A breve verrà pubblicato un appello per la libera-zione di uno dei più importanti scrittori italiani.

SOLIDARIETÀ A CESARE BATTISTI!

(Redazionale su Carmilla On Line, 10.2.2004)

LA RETE SI MOBILITA: LIBERAZIONE PER CESARE BATTISTI

Nel momento in cui viene scritto questo post, le 11.32 del12 febbraio ‘04, sono 712 le firme raccolte a favore del-l’APPELLO PER LA LIBERAZIONE DI CESARE BATTI-STI (molte le stiamo tuttora inserendo manualmente). InFrancia, una petizione consimile pubblicata dal sitoMauvaisgenre è stata sottoscritta da 1.400 persone. È unarisposta di enorme impatto, se si considera che gli appellisono on line da ventiquattr’ore soltanto. Nonostante l’in-credibile e grottesca disinformazione praticata da tv, ra-dio e giornali, la solidarità scattata attraverso la Rete di-mostra che un’alternativa comunicativa esiste e disponedi un rilievo non indifferente. Moltissimi firmatari non si

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sono limitati a inviare nome e cognome: hanno scrittoautentiche riflessioni sullo scandalo giudiziario e umanoche colpisce in queste ore Cesare Battisti. TENIAMOTANTISSIMO A RINGRAZIARE CIASCUNO DEI FIR-MATARI: non possiamo farlo personalmente, vista lamassa di adesioni, ma è fondamentale per noi esprimerela massima gratitudine a ogni persona che ha sottoscrittol’appello. Tra i firmatari compaiono nomi di prestigiopubblico: scrittori (i moltissimi francesi, tra cui cito Ser-ge Quadruppani, Pascal Dessaint e Dominique Manotti,pubblicati in Italia; tra gli italiani, oltre a Wu Ming cheha diffuso in newsletter l’appello e contribuito da sempreall’enorme diffusione della conoscenza sul caso Battisti,citiamo Nanni Balestrini, Tiziano Scarpa, Lello Voce,Marco Philopat, Sandrone Dazieri, Helena Janeczek, Lui-gi Bernardi), produttori cinematografici (Marco Muller,per esempio), disegnatori (come Vauro), giornalisti (co-me Loredana Lipperini di Repubblica), docenti universi-tari (da ogni nazione: l’UCLA americana e istituzioni tede-sche, svizzere, oltre che francesi). È un’adesione impor-tante, sia da un punto di vista emotivo (appena saremo ingrado, consegneremo a Cesare Battisti le firme), sia daun punto di vista politico (la realtà, una volta di più, nonè quella che appare nei media tradizionali, e la Rete per-mette una mobilitazione di straordinaria incisività, fa-cendo apparire necessario sciogliere anche culturalmen-te il nodo irrisolto di un tragico decennio).

Terremo aggiornati tutti sugli sviluppi del caso. Co-minciamo sin da ora segnalando l’articolo di Libération equello de il manifesto e il presidio degli scrittori francesi(saranno più di un centinaio, secondo le prime stime) da-vanti al carcere della Santé, a Parigi, lunedì 16 febbraioalle 17. Un appello al presidente Chirac è stato inoltratodallo scrittore Patrick Pécherot.

Per quanto concerne l’Italia, stiamo organizzando, invarie città, eventi e serate per Cesare Battisti: quasi certa-mente a Milano, certamente a Bologna – daremo avvisoper tempo.

(Redazionale su Carmilla On Line, 12.2.2004)

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APPELLO A CHIRAC PER LA LIBERAZIONE DI CESARE BATTISTI

di Michel Quint, Claude Mesplède, Pascal Dessaint, François Joly, Guillaume Chérel

Un gruppo di importanti scrittori francesi (Michel Quint;Claude Mesplède; Pascal Dessaint; François Joly; GuillaumeChérel) ha steso un appello al Presidente Chirac, al Parla-mento e al ministro della Giustizia di Francia, per protestarecontro lo scandaloso arresto di Cesare Battisti. Il testo, chequi riproduciamo nella traduzione di Paolo Chiocchetti,verrà inoltrato alle autorità lunedì 16. Lo scrittore PhilippeSollers era stato precedentemente ricevuto dal PresidenteChirac, esponendogli il caso di Battisti.

Lettera ai presidenti dei gruppi parlamentari all’Assem-blea Nazionale, al Guardasigilli e al Presidente della Repub-blica Francese

“Siamo degli scrittori che non sopportano più la situa-zione che si è venuta a creare con l’arresto e forse domanil’estradizione del nostro collega romanziere e amico CesareBattisti”.

Il romanziere Cesare Battisti è minacciato d’estradizioneverso l’Italia, dove si trova sotto il peso di una condanna cherisale all’epoca delle azioni terroristiche condotte durante glianni ‘70. Rifugiato in Francia dal 1990, come molti altri mili-tanti italiani, aveva ottenuto dal Presidente Mitterrand l’assi-curazione di poter vivere in Francia, alla condizione di nonfare più attività politica. Da allora Cesare Battisti ha rispetta-to questo impegno. Ha messo su famiglia ed è diventato scrit-tore, fornendo nei suoi romanzi delle testimonianze unichesu quel periodo e sugli avvenimenti che ha vissuto.

Un’allarmante anticipazione di quanto ora succede si eraverificata nel 2002, costringendoci alla stesura di una petizio-ne nazionale firmata da numerosi romanzieri, critici, editori,traduttori e personalità varie. Queste firme erano state depo-sitate presso i rappresentanti del ministero della cultura. Lasituazione era rimasta immutata. La parola data dal presi-dente Mitterrand a nome della Francia era stata rispettata.

Improvvisamente le cose sono cambiate. Abbiamo appenaappreso che nella mattinata di martedì 10 febbraio 2004, Ce-

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sare Battisti è stato arrestato nel suo domicilio dalla BAT, peressere poi incarcerato sulla base di una richiesta di estradizio-ne. Se una tale procedura venisse portata a termine, sarebbela parola data dalla voce di un presidente francese che verreb-be insultata, e il senso dell’onore della Francia calpestato.

Siamo tutti noi, Francesi di tutte le origini, ad essere offesida questa mancanza alla nostra parola data tramite un presi-dente eletto a suffragio universale. Ed evidentemente noi nonpossiamo che esprimere la vergogna da cui siamo pervasi.

È la sorte di un uomo, di una famiglia ma anche l’onoredelle lettere francesi e della nazione che sono in gioco. Nel-l’ora in cui l’Italia ha il coraggio di guardare sul grandeschermo le Brigate Rosse all’opera con le lore vicissitudini, iloro tormenti, le loro contraddizioni: nell’ora del matrimo-nio principesco Savoia–Coureau, del ritorno degli aristocra-tici in Italia, noi saremo più nazionalisti che il re di un paesenel quale non siamo...?

Ci sono dei conti che è indegno regolare per altri. CosìTolomeo offrì in passato la testa di Pompeo a Cesare, chene fu oltraggiato. Si può sperare che Berlusconi si senta in-sultato dal fatto che gli si consegni un uomo che è unesempio di umanità, perché questa umanità la misura allasua riconquista?

È per questo che domandiamo al Guardasigilli e al Pre-sidente della Repubblica francese, a nome nostro, a nomedi uomini che non sono in nulla migliori di Cesare Battisti,di restituire la libertà a Cesare e di riconfermargli il dirittodi asilo, che in nome della nostra dignità sta a tutti noifrancesi di conferire.

(Da Carmilla On Line, 13.2.2004)

CASO BATTISTI: MONTA LA PROTESTA DEGLI INTELLETTUALI

Secondo fonti francesi, sono molte migliaia le firme otte-nute dalle varie petizioni a favore di Cesare Battisti: oltre aquelle su web, che ammontano ormai a più di seimila traFrancia e Italia, sono ora da contare le adesioni provenien-ti dagli Stati Uniti, dal Messico e dalla Germania, grazie al-

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l’impegno di alcuni docenti universitari molto noti. Tra ifirmatari prestigiosi dell’appello italiano, si è aggiunta og-gi la scrittrice e traduttrice Laura Grimaldi, oltre che Anto-nio Moresco, Dario Voltolini, Carla Benedetti, il poeta Iva-no Ferrari e il poeta-traduttore e direttore editoriale Jean-Charles Vegliante.

A Parigi, ieri, si è tenuta una riunione per organizzarela manifestazione davanti alla Santé, lunedì prossimo,nel corso della quale verrà consegnato l’appello degliscrittori francesi al Presidente Chirac: ieri sera erano pre-senti centocinquanta persone, tra cui intellettuali moltonoti all’opinione pubblica francese, oltre che rappresen-tanti del sindacato dei magistrati, avvocati e le telecame-re di France 3.

Domani, sabato 14, alle 15.30, presso il CICP (21 ter rueVoltaire, 75011 metro nation o rue des boulets) viene a co-stituirsi ufficialmente il coordinamento per il sostegno aCesare Battisti.

Delphine Cingal, docente di letteratura anglosassonepresso l’Université Paris II-Assas, sta organizzando unastruttura che raccolga fondi per affrontare le spese proces-suali. Daremo notizie sugli sviluppi: Cesare Battisti nonversa in buone condizioni economiche e, qui in Italia, sipuò contattare Carmilla se si desidera fare pervenire alloscrittore aiuti di ordine monetario.

Nel baillamme disinformativo, spicca un articolo delgiornale francese destrorso Le Figaro, che racconta dell’ar-resto di Cesare Battisti a causa dell’uccisione di un suo vi-cino di casa a Parigi: la tragedia partorisce farse. Oltre allatrasmissione di Radio La-Bas, che abbiamo segnalato, ap-prendiamo che un programma lunghissimo e approfondi-to sul caso Battisti è andato oggi in onda sull’emittente ra-diofonica nazionale France Inter.

È stato comunicato che, con tutta probabilità, CesareBattisti comparirà davanti ai giudici mercoledì 18 o mer-coledì 25.

Vi terremo aggiornati su tutti gli sviluppi.

(Redazionale su Carmilla On Line, 13.2.2004)

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APPELLO PER CESARE BATTISTI

da Nazione Indiana, www.nazioneindiana.com

Non abbiamo gli elementi per esprimere un giudizio ap-profondito sulla vicenda processuale che portò molti anni faalla condanna all’ergastolo di Cesare Battisti, da quindicianni rifugiato in Francia. Né abbiamo alcuna comprensionenei confronti delle logiche del terrore di qualsiasi provenien-za né insensibilità verso la sofferenza di coloro che ne sonostati e ne sono vittime.

Ma non ci sembra che vi sia giustizia nel sottoporre una se-conda volta, dopo tanti anni, a una procedura di estradizione lastessa persona per la quale era già stata negata una prima volta.Sarebbe come portare di nuovo sul patibolo un condannato acui all’ultimo momento si era deciso di commutare la pena.

Inoltre non ispira un senso di giustizia l’impressioneche a dettare i tempi e i modi di questa operazione siano inrealtà contingenze politiche interne, per di più da parte diun governo che, in questa stessa materia, si è generalmen-te distinto nella pratica dei “due pesi e due misure” (roga-torie, immunità parlamentare, rifiuto di ratificare il man-dato di cattura europeo....) e nell’attacco frontale alla Ma-gistratura del nostro paese.

Ci uniamo perciò all’appello rivolto alle autorità france-si affinché non si prestino a un gioco che più che agli inte-ressi della giustizia e della verità sembra obbedire a logi-che di altra natura.

Sergio Baratto, Carla Benedetti, Ivano Ferrari,Andrea Inglese, Antonio Moresco, Tiziano Scarpa,

Giorgio Vasta, Dario Voltolini

L’HUMANITÉ: BATTISTI DEVE RESTARE IN FRANCIA

dal quotidiano francese L’Humanité, 13.2.04

Cesare Battisti è stato arrestato a casa sua, martedì, daagenti della DAT, la Divisione nazionale Antiterrorismo, etrattenuto in carcere sotto richiesta di estradizione. Nessu-na procedura accusatoria è stata ingaggiata contro di lui

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da parte della giustizia francese. È grazie alla richiestadel governo Berlusconi che lo scrittore è stato arrestato,in virtù di una domanda di estradizione che la giustiziafrancese aveva già rifiutato nel 1991. Nessun nuovo ele-mento è stato prodotto dalle autorità italiane. Cesare Bat-tisti, negli anni Settanta, era uno dei responsabili dei PAC

(Proletari Armati per il Comunismo), un’organizzazionedi estrema sinistra che propugnava la violenza politica. Èstato condannato all’ergastolo, mentre era latitante, sullabase di dichiarazioni di pentiti, che le negoziariono conla polizia. Un processo manifestamente truccato, che loaccusò, per fare solo un esempio, di avere commesso dueomicidi, lo stesso giorno alla stessa ora, a Venezia e a Mi-lano. Una condanna ottenuta in base a leggi eccezionali,che aggravavano la pena in funzione del contesto politi-co, in un paese dove non vengono riprocessati i contuma-ci. In pratica, fatti di trent’anni fa, che sarebbero cadutiin prescrizione o amnistiati, e che Battisti ha negato sem-pre di avere commesso. Nel 2002, egli ha riconosciutol’errore politico dei PAC, senza abiurare comunque agliideali della sua giovinezza. Nel 1985, François Mitterrand dichiarò che la Francianon avrebbe mai estradato coloro che risultava non fos-sero personalmente responsabili di crimini contro la vitae che avessero dichiarato l’abbandono definitivo dellaviolenza a ogni livello. Era, per l’appunto, il caso di Batti-sti, come di Paolo Persichetti, professore alla Paris VIII,estradato nell’agosto 2002. Il ministro della Giustizia,Dominique Perben, desideroso di confermare l’immaginedi un governo francese dal polso fermo e giustizialista –anche avventurandosi nei territori dell’estrema destra –,oltre che di compiacere Berlusconi, nostante sia palese laviolazione dei diritti, torna su un affare su cui già è stataemessa in Francia una sentenza, e fa crollare una voltaancora, insieme alla tradizione dell’asilo politico che laFrancia ha sempre concesso, i principi fondamentali deldiritto. Una richiesta di sospensione del provvedimentocautelare è stata presentata dagli avvocati di Battisti, in-sieme a una domanda di scarcerazione. Intanto, si sta or-ganizzando la solidarietà.

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PARIGI: LA MANIFESTAZIONE PER CESARE BATTISTI

di Serge Quadruppani

Autore noir di fama europea, Serge Quadruppani ha pubbli-cato in Italia L’Assassina di Belleville e La Breve Estate deiColchici.

Dalle 17 una folla di circa quattrocento persone – ma si so-no in seguito aggiunti molti altri – si è radunata davanti alcarcere della Santé, per manifestare il proprio rifiuto all’e-stradizione di qualunque rifugiato politico italiano arriva-to in Francia dopo gli anni Ottanta. Cesare Battisti si trovaper l’appunto improgionato alla Santé, sotto richiesta diestradizione.

Annunciato dapprima come semplice conferenza stam-pa, il concentramento ha avuto luogo su boulevard Aragoall’incrocio con rue de la Santé, ed è stato aperto dagli in-terventi di Alain Krivine (deputato europeo LCR-trotskista),Noël Mamère (Verdi) e dall’avvocato De Felice, apparte-nente alla Lega dei Diritti dell’Uomo, che difende Cesare.Philippe Sollers (autore Gallimard) ha in seguito preso laparola. Componevano l’assembramento scrittori e intellet-tuali di diversa estrazione (tra cui Tahar Ben Jalloun, il re-gista Yves Boisset, l’architetto PC Castro) insieme a una fol-ta rappresentanza di editori, giornalisti, semplici militanti,rifugiati politici italiani (tra cui Oreste Scalzone) che in-dossavano gli adesivi “Libérez Cesare”. Erano presenti an-che gruppi più o meno radicali che contestano la carcera-zione e il sistema repressivo.

I manifestanti sono rimasti più di due ore a scandireslogan di solidarietà con lo scrittore italiano, in modo che,se anche Cesare non avesse sentito, i cori raggiungesserocomunque gli altri detenuti.

Cinque deputati, Krivine e tre parlamentari Verdi e unsenatore del PC, sono riusciti, secondo i poteri di cui di-spongono per legge, a fare ingresso nel carcere, ma il mini-stro della Giustizia ha loro illegalmente interdetto l’incon-tro con Cesare.

Tra la folla, striscioni di sostegno alla causa di Cesare,un’enorme bandiera contro il sistema carcerario e la prima

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pagina del quotidiano l’Humanité (giornale del Partito co-munista) che titolava a caratteri cubitali “Libérez Battisti!”.

Tra i manifestanti si sono fatti sentire anche alcuniex(?)-stalinisti che, vent’anni fa, non avrebbero esitato aconsegnare Battisti alla polizia. Ma il mondo cambia, inFrancia come in Italia.

Al termine della manifestazione, la sensazione generaleè stata che il governo francese abbia compiuto una mossaazzardata e non priva di rischi.

Giovedì, alle 14.30, la Lega dei Diritti dell’Uomo terrànella sua sede una conferenza stampa. Alle 20.00, presso ilCICP (locale di incontro tra militanti) verrà proiettato ilfilm Cesare Battisti: rèsistances.

Il comitato di solidarietà a Cesare continuerà a organiz-zare azioni di sostegno, in vista del 3 marzo, data dell’u-dienza sulla richiesta di scarcerazione.

Cesare libero! Nessuna estradizione degli esuli italiani!

(Da Carmilla On Line, 17.2.2004)

LEGA PER I DIRITTI DELL’UOMO: LIBERATE BATTISTI

Nel pomeriggio di ieri, presso la sede parigina della Legaper i Diritti dell’Uomo, si è tenuta una conferenza stampasulla situazione di Cesare Battisti.

In una sala affollatissima, sono intervenuti:

– Michel Tubiana, presidente della lega per i Diritti del-l’Uomo, che ha messo in connessione i casi di CesareBattisti e di Paolo Persichetti, denunciando il malfun-zionamento della giustizia italiana che ha imposto pro-cessi iniqui negli anni Settanta e Ottanta, e terminandoil suo intervento con una riflessione sull’attuale posizio-ne del governo francese: “Rinnegare la parola data nonè soltanto un attentato all’onore della Francia, significasovvertire tutti i fondamenti della politica”.– Irène Terrel, avvocato di Cesare Battisti, a propositodella posizione del governo parla di una “forma di ol-traggio all’etica politica”. Terrel ha fatto giustizia sul ca-

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so dei vicini di casa di Cesare Battisti, che avrebberosporto denuncia contro di lui: si tratta di una deliberatavolontà di criminalizzazione. Ha inoltre ricordato comesia falso sostenere che Cesare, una volta estradato inItalia, avrebbe diritto a un nuovo processo: egli dovreb-be al contrario scontare le condanne comminateglimentre era in contumacia. De Felice, altro avvocato diBattisti, ha letto un passo di un documento della poliziache pretenderebbe che, nel ‘91, la corte di appello abbiasentenziato A FAVORE dell’estradizione – quando la veritàè esattamente l’opposto.– Philippe Sollers ha dato lettura di un magnifico testo diErri De Luca che presto sarà pubblicato su Le Monde.– Sono stati letti messaggi o sono intervenuti diretta-mente rappresentanti delle seguenti organizzazioni: Ci-made (organizzazione umanitaria protestante), Sinda-cato degli Avvocati di Francia, France Liberté (DanielleMitterrand), Sindacato della Magistratura.– Il biologo Albert Jacquard (una personalità estrema-mente nota in Francia) ha preso la parola in qualità disemplice cittadino.– Michèle Lesbre, scrittore, ha presentato l’appello fran-cese e ha segnalato un gran numero di iniziative di soli-darietà: la cittadina di Frontignan, in cui si tiene un fe-stival del noir, ha intenzione di nominare Battisti citta-dino onorario.– Serge Quadruppani ha presentato l’appello italiano eha spiegato perché è così difficile che passi in Italia, co-me le forze politiche svolgano un ruolo centrale nell’im-pedire un riesame del periodo 70-80, in nome della lottacontro il terrorismo, e perché la sinistra abbia delegatoai giudici il tentativo di risolvere i problemi che la poli-tica non è più in grado di affrontare – in particolare: co-me sbarazzarsi di Berlusconi e del berlusconismo.– Un rappresentante del Partito comunista francese (dicui erano presenti molti eletti) ha annunciato che ilgruppo comunista del Consiglio comunale pariginoproporrà che Cesare Battisti venga nominato “amicodella Città di Parigi”.– Il Capo di Gabinetto di François Hollande, segretario

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generale del Partito Socialista, ha letto un messaggio diquest’ultimo che insiste nuovamente sulla necessità di“rispettare la parola data”.

La riunione si è conclusa con la lettura di “alcune paro-le di Cesare Battisti”, un testo scritto in occasione dell’e-spulsione di Paolo Persichetti.

(Da Carmilla On Line, 20.2.2004)

SERATA AVENIDA LIBERATION: COM’È ANDATA

È andata benissimo. Presso il circolo Arci Sesto Senso, a Bo-logna, si è tenuta la prima serata italiana di solidarietà a Ce-sare Battisti. Valerio Evangelisti, Wu Ming 1 e Giuseppe Gen-na non soltanto hanno presentato Avenida Revoluciòn, l’ulti-mo libro tradotto in Italia di Cesare Battisti (uscito per NuoviMondi Media), ma hanno parlato della vicenda umana, poli-tica e giuridica dello scrittore italiano attualmente detenutonel carcere parigino della Santé, in attesa che sia esaminatala richiesta di estradizione per l’Italia. In un locale affollato,alla presenza di scrittori, di critici, di un’inviata del quotidia-no francese Libération e di moltissimi giovani, Valerio Evan-gelisti ha raccontato alcuni particolari del processo kafkianoa cui Battisti fu sottoposto in Italia. Non si è trattato di sem-plice memorialistica: l’esilio dell’autore del Cargo sentimen-tal è frutto di una scellerata conduzione, in un periodo di leg-gi speciali che alcuni pretenderebbero tuttora in vigore, di unprocedimento giudiziario falsato da trattamenti iniqui e vio-lenti da parte delle forze di polizia, confusione investigativa(dieci persone trattenute dagli organi giudiziari furono co-strette a “confessare” un medesimo omicidio), distorsionedelle accuse e costruzione di castelli immaginari a forza dinegoziazioni con poco credibili “pentiti”. Evangelisti ha an-che sottolineato l’importanza della letteratura di Cesare Bat-tisti: una delle pochissime, ai nostri giorni, a immergersi to-talmente in un’epoca che l’Italia stenta a elaborare. GiuseppeGenna ha introdotto all’opera di Battisti: soltanto quattro li-bri su un totale di dodici sono attualmente tradotti in Italia,

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ed è necessario e urgente pubblicare da noi il Cargo senti-mental, profondissima riflessione sull’intera storia contem-poranea d’Italia, dal dopoguerra all’insorgere del Movimentoche si è mobilitato ai nostri giorni. Wu Ming 1 ha anzituttoevidenziato le storture informative e la pochezza di argo-mentazioni che sono circolate in Rete e sulla stampa, am-pliando poi la prospettiva rispetto al contesto politico gene-rale in cui il caso Battisti esplode: l’inanità di un’opposizioneche ha delegato alla magistratura l’attacco al transitorio pre-mier e al suo governo, che è garantista soltanto in casi di in-teresse personale, mentre fioccano le proibizioni in ognicomparto del vivere civile. Sono andati esauriti i dossiercomposti dai materiali presenti on line su Carmilla, sono sta-te vendute copie di Avenida Revoluciòn, si sono aggiuntemolte firme all’appello (che stiamo aggiornando manual-mente e ripubblicheremo integralmente a breve). Prima de-gli interventi, è stato proiettato il video realizzato in FranciaCesare Battisti: rèsistances.

Vorremmo ringraziare tutti gli intervenuti: è stato impor-tante per noi, ma soprattutto per Cesare.

La serata, nelle intenzioni, diventerà una sorta di eventodisseminato per l’Italia. È imminente l’annuncio della datadi Milano (sono previste, sul palco, partecipazioni numero-se), mentre ci stiamo attivando per organizzare un’iniziativaanaloga anche a Roma.

(Redazionale di Carmilla On Line, 27.2.2004)

LETTERA APERTA DI 500 INTELLETTUALI AL MINISTRO DELLA

CULTURA FRANCESE, PER LA LIBERAZIONE DI CESARE BATTISTI

Mentre l’amministrazione comunale della capitale franceseaccorda in forma ufficiale e solenne la “protezione della Cittàdi Parigi” a Cesare Battisti, e istituisce un’apposita commis-sione; mentre varie cittadine qui e là per la Francia lo nomi-nano cittadino onorario; mentre addirittura gli inquilini del-lo stabile in cui abitava (già autori di un volantino intitolato“Ridateci il nostro portinaio”) marciano con tutto il 9° Cir-condario fino al municipio del quartiere e trovano la solida-

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rietà del sindaco e dei consiglieri, gli intellettuali transalpinipiù prestigiosi continuano la loro mobilitazione.

Quattro di essi, ben noti anche in Italia (lo storico PierreVidal-Naquet, il disegnatore Enki Bilal, la scrittrice Fred Var-gas, il regista Jacques Audiard) hanno redatto la lettera aper-ta che riportiamo, firmata nel giro di pochi giorni da 500 lo-ro colleghi.

Signor Ministro,l’arresto del romanziere Cesare Battisti e la minaccia di

estradizione che pesa su di lui destano emozione e riprova-zione nel mondo della cultura, e ben al di là di esso.

Noi, scrittori e romanzieri, editori e traduttori, librai, di-segnatori e fotografi, artisti, attori e cineasti, donne e uominidi cultura, le domandiamo di rompere il suo silenzio sulla si-tuazione di Cesare Battisti.

Noi non possiamo accettare che la nostra Repubblica riti-ri brutalmente l’impegno preso con Cesare Battisti di con-sentirgli di vivere tra noi a patto di rompere con la logica de-gli anni di piombo, promessa che Cesare Battisti ha piena-mente rispettato.

Non possiamo accettare che Cesare Battisti sia minaccia-to di estradizione per l’arbitrio di un voltafaccia giudiziarioinaccettabile, e imprigionato a vita in Italia, senza ricorsopossibile per via di una legge iniqua.

Ne va dell’onore della Francia, arricchita da tanti apportivenuti dal mondo intero, e della sua cultura, di cui lei è il ga-rante e il difensore naturale.

Ne va del rispetto della parola data, così come dell’avveni-re delle libertà e dei diritti nell’Europa in costruzione.

È per questo che vi domandiamo, Signor Ministro, di in-tervenire affinché la libertà sia restituita a Cesare Battisti, egli sia definitivamente assicurato il diritto d’asilo promesso.

Tra i 500 firmatari dell’appello, i più noti in Italia sonogli scrittori Daniel Pennac, Tonino Benacquista, Daniel Pi-couly, i registi Costantin Costa-Gravas e Bertrand Taver-nier, il filosofo Bernard-Henri Lévy, il disegnatore Willem.

(Da Carmilla On Line, 2.3.2004)

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DANIEL PENNAC: LETTERA A BATTISTI

Con il titolo “A un perseguitato”, lo scrittore francese Da-niel Pennac, che ha firmato l’appello per la liberazione diCesare Battisti, ha inviato una lettera allo scrittore italianodetenuto a Parigi in attesa di estradizione. Il quotidiano ilmanifesto l’ha tradotta e pubblicata nell’edizione domeni-cale. Ecco il testo.

Caro Cesare Battisti, non la conosco, non l’ho mai letta ecertamente non l’avrei seguita nella sua giovanile parteci-pazione alla lotta armata. Questo mi lascia tanto più liberodi dirle la vergogna che provo per ciò che il mio governo lesta facendo e che, attraverso di lei, minaccia, probabil-mente altri rifugiati italiani.

Il 10 luglio 1880, nove anni appena dopo la Comune diParigi (insurrezione che fece più di 30.000 morti!), i condan-nati vennero graziati e amnistiati. Siamo nel 2004, i fatti chele vengono imputati (i più gravi dei quali non sono stati pro-vati), risalgono a quasi trent’anni fa, e lei è di nuovo gettatoin prigione, tradito dal paese (che le aveva garantito asilo), econsegnato a quello che le rifiuta il perdono.

Come spiegare alle giovani generazioni una tale regres-sione del costume politico? E come far capire a coloro checi governano, che agendo in tal modo essi creano il climadi disperazione che ha spinto alla lotta armata l’adolescen-te che lei era negli anni ‘70?

Certo, i ministri passano e il sostegno che molti le stan-no dimostrando durerà più a lungo dei nostri rispettivi go-verni; ma è una magra consolazione, se pensiamo a qualesocietà può nascere da comportamenti in cui si può tradirela parola data da un capo di stato, e in cui la giustizia si ap-parenta alla vendetta – se non viene addirittura imbava-gliata. Naturalmente, spero con tutto il cuore di sbagliarmie che il mio governo, sensibile agli argomenti che gli sonostati presentati, resterà fedele alla garanzia di protezioneche le è stata data.

Coraggio dunque, sperando di vederla presto, libero.

(Da Carmilla On Line, 24.2.2004)

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LIBERATE BATTISTI!di Bernard-Henri Lévy

Francamente non avremmo mai creduto di ospitare un gior-no un intervento di Bernard-Henri Lévy (tratto dal settima-nale Le Point). Invece il caso Battisti ci mostra, ancora unavolta, la superiorità degli intellettuali francesi – inclusi i più“massmediatici” – rispetto a quelli italiani. Sulla detenzionearbitraria di Cesare Battisti prendono posizione personalitàpoco sospettabili di “sinistrismo”, come Philippe Sollers,Bernard Kouchner e tanti altri, tra cui, per l’appunto, Lévy.Una dimostrazione di indipendenza di pensiero, in Italiaquasi inimmaginabile.

Cesare Battisti, questo ex responsabile dei Proletari Arma-ti per il Comunismo riconvertito alla – buona – letteraturapoliziesca e arrestato, l’altra mattina, dalla polizia france-se. L’ho incrociato, una volta. Era presente – me ne rendoconto rileggendo le mie annotazioni dell’epoca – alla riu-nione organizzata nel novembre 1978, a Roma, dal quoti-diano italiano Lotta Continua, in cui si dibatté, con FélixGuattari e altri, se il terrorismo fosse o meno il figlio natu-rale di una coppia diabolica, fascismo e stalinismo.

Oggi il tempo è passato. La guerra è finita. La rivoluzio-ne anche. E tutti, tra i protagonisti del dibattito di allora,sarebbero d’accordo nel ritenere che la scelta della “lottaarmata” fosse al tempo stesso assurda e criminale. Chi hainteresse, data la situazione, a riaprire la vecchia piaga?Perché, sebbene Battisti vivesse a viso aperto, con moglie,figli, editori per i suoi romanzi, amici, indirizzo conosciu-to, fare di colpo finta di scambiarlo per una sorta di clan-destino? È veramente una buona idea, per un’Italia visibil-mente minacciata da un nuovo tipo di terrorismo, pren-dersela con chi si è ritratto dalla violenza antica maniera e,nei suoi romanzi, ha fatto più di chiunque altro per riflet-tere sul fenomeno, e dunque scongiurarlo?

In ogni caso, qui, in Francia, la questione non si ponenemmeno. La camera d’accusa della corte d’appello di Pa-rigi ha in effetti, tredici anni fa, già risposto no a una pre-cedente domanda di estradizione. Tutti i governi, da allora

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in poi, hanno implicitamente ratificato una posizione det-tata, in particolare, da quella peculiarità del diritto italia-no che fa sì che un condannato in contumacia, se conse-gnato, finisca direttamente in prigione, senza possibilitàdi nuovo processo.

Di conseguenza, visto che nel frattempo non è affioratoalcun elemento nuovo, le autorità francesi non hanno, og-gi, che una parola da dire, che un gesto da fare: liberareCesare Battisti.

(Da Carmilla On Line, 22.2.2004)

OGGI L’UDIENZA. LA CITTÀ DI PARIGI A SOSTEGNO DI BATTISTI

di Jacqueline CoignardArticolo apparso su Libération del 2 marzo 2004

Ci siamo. Oggi pomeriggio, alle 14, l’intera giunta comu-nale di Parigi uscirà dal municipio con la sciarpa tricolorea tracolla, alla guida di un corteo che si porterà fin sotto iltribunale della città, dove deve essere esaminata l’istanzadi scarcerazione presentata dai legali di Cesare Battisti.

Intanto si è appreso che già il 20 maggio 2003, dietropressione del governo italiano, il guardasigilli franceseaveva presentato al Procuratore generale una richiesta diestradizione, concernente Battisti e altri due rifugiati. Il 4dicembre 2003 il Procuratore aveva annunciato al ministe-ro l’archiviazione della pratica.

Tuttavia non c’è da essere troppo ottimisti, visto l’acca-nimento del governo francese su insistenza di quello italia-no (sono di ieri le pressioni indebite esercitate in Franciasu uno dei promotori del manifesto dei 430 intellettuali,poi saliti a 500).

Cesare Battisti è “posto sotto la protezione della Città diParigi”. Così ha deciso, ieri, il consiglio municipale per so-stenere lo scrittore italiano, ex attivista degli “anni dipiombo”, rifugiato in Francia nel 1990 e incarcerato il 10febbraio in attesa di una eventuale estradizione. “Noi do-mandiamo che la Francia rispetti i suoi impegni passati;che tutti gli altri rifugiati politici italiani, che beneficianodegli stessi impegni, non siano estradati; che Cesare Batti-

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sti possa beneficiare della protezione della Città”, ha spie-gato Christophe Caresche (PS). Tra il sarcasmo dell’oppo-sizione: “Volete farlo dormire qui?”.

Jacques Bravo, sindaco socialista del IX Circondario, incui Battisti viveva, replica: “Gli eletti di Parigi vigileranno.Ci mobiliteremo per analizzare e difendere questo caso”.D’altronde, un appello a manifestare dal municipio al pa-lazzo di giustizia di Parigi è stato lanciato per mercoledì,nel momento in cui i giudici esamineranno la domanda discarcerazione di Battisti. Con l’occasione, Pierre Mansat(PCF) rinfresca la memoria di certi consiglieri : “Nel 1996Cesare Battisti fu invitato d’onore di Jean Tiberi e di Jean-Jacques Aillagon, allora direttore degli Affari culturali del-la città (entrambi di destra; oggi Aillagon è ministro dellaCultura, NdR), per un incontro sulla letteratura italiana”.La sinistra parigina si ritiene alla testa di un movimentoper fare riconsiderare all’Italia le “proprie leggi di vendet-ta” e prevedere un’amnistia per azioni politiche che risal-gono a trent’anni fa.

Ieri, a Tolosa, una manifestazione per Battisti ha radu-nato 300 persone.

(Da Carmilla On Line, 3.3.2004)

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L’INCUBO BATTISTI

di Giuseppe Genna

Quanto sta succedendo in queste ore, in questi giorni a Ce-sare Battisti è, e lo è con esattezza scientifica, quanto staaccadendo in questi anni all’Italia e all’Europa: la minac-cia realizzata della violazione del diritto in nome di unadottrina superindividuale e astratta, elettorale e ipocrita,che mostra il suo vero volto quando si attiva per maciulla-re idee e corpi. A rischio di apparire generalista e massi-malista, affermo: c’è una continuità – che nemmeno più èinquietante – tra il caso Battisti, la deriva del Vecchio Con-tinente e l’orrore perpetrato in Afghanistan e Iraq. Si trattadi un medesimo ente saturnino, vòlto con sistematica pre-determinazione a divorare non i figli suoi, ma i figli del-l’uomo. La nonchalance con cui oggi, in Europa, si censu-rano le idee in tv e sui giornali, si sistemano i conti in unok corral indecente e amorale, si scatenano conflitti pre-ventivi e si compiono alla luce del sole crimini patenti –questo è il paesaggio che chi si ritiene ancora umano èchiamato oggi a modificare con forza e fatica. I nodi ven-gono al pettine: e sono nodi di capelli di un cuoio strappa-to a viva forza dai crani di chi pensa, di chi tenta di ricor-dare e di ridiscutere il passato per aprire il futuro. Sonoenormi le conseguenze implicite che sprigionano dalla

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2. IL CASO BATTISTI.LA RIFLESSIONE

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scelta del governo italiano di domandare l’estradizione diBattisti: costringono tutti noi a verificare con mano chi so-no le persone che si schierano – non, questa volta, per unabattaglia armata, ma per una battaglia di idee. Battagliache, come si nota in questi ultimi anni, non è che comportimeno sangue delle precedenti. Il prezzo della lotta per ilpacifismo, i diritti dell’uomo e la libertà, che sia condottacon la potenza delle idee e dei sentimenti oppure con altrisupporti, è un prezzo amaro e pesante. Eppure ciò non to-glie che lo tsunami di speranza in Movimento che si stascatenando finisca per travolgere chi vi si oppone: dimo-stra la storia dell’uomo che quando si spalanca una crepaideale, una frattura da cui il bene può scaturire, per unalegge superfisica il bene emerge. Da anni, questo è il pun-to, si sta rifacendo la Rivoluzione Francese: ed è una Rivo-luzione Francese planetaria. Sorprenderebbe se fosse laFrancia la prima nazione a sfilarsi da una simile Rivolu-zione Francese.

Per quanto concerne l’Italia, è necessario superare il di-sgusto emetico che provoca la condotta di un governo cie-co e reazionario come l’attuale. Il comportamento di Ber-lusconi e dei suoi è, una volta ancora, di una leggerezzache sa di tragico, e fa parte di una precisa strategia di in-nalzamento delle quote di conflitto e di ansia collettiva in-terne al Paese. La soluzioncina, che soltanto un ragiunattbrianteo poteva trovare geniale, di riaprire in questo modouna falla devastante nell’autocoscienza di una nazione, èuna trovata degna di uno Scaramacai quale in effetti è ilcoboldo governativo. Non si toccano in questo modo im-morale i meccanismi di elaborazione storica, faticosissimaper l’Italia, di un decennio tragico come i Settanta: un pe-riodo che si vorrebbe decontestualizzare dal periodo stes-so, una guerra civile autentica che si vorrebbe fare passareper scaramuccia tra serial killer splatter – come a tutti glieffetti è stato dipinto dai media nazionali Cesare Battisti,in questo caso vittima emblematica di un meccanismo distritolamento memoriale e politico.

Si badi bene: non è qui questione della colpevolezza ve-ra o presunta (nel caso di Battisti, ben meno che presunta,se nell’originale richiesta di estradizione gli sono stati ac-

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collati due omicidi, uno a Milano e uno a Venezia, avvenutinello spazio di mezz’ora...). Qui è in gioco una questioneenorme, che non è mai slittata fuori dal consorzio civile ita-liano. La stagione di piombo non ha schiacciato o segnatouna generazione soltanto: in realtà non ha mai smesso dicondizionare la vita nazionale. Se pensiamo allo spaurac-chio rosso, agitato nel perenne periodo pre-elettorale cheBerlusconi ha imposto alla vita politica del Paese, osservia-mo come il proprietario di Mediaset abbia preordinata-mente evocato, più che i rigori russi dello stalinismo, il bri-vido eversivo che fece tremare la borghesia italiana. Unaborghesia, tra l’altro, che rientra negli obbiettivi dell’attualegoverno italiano impoverire fino alla cancellazione. La pre-senza dei rifugiati a Parigi è sempre stata avvertita comeminaccia memoriale costante, come spada di Damocle sul-la testa di ogni coalizione politica. Sopita al di là delle Alpi,questa minaccia non cessava di allarmare i sonni dei poten-ti transeunti del Belpaese. A nulla è valso l’obnubilamentodegli Ottanta, quando si è cercato di fare bere più di unacittà agli italiani. A niente ha condotto la stagione del giu-stizialismo che ha figliato, come ogni parto giustizialista,un reazionariato che biascica dialetto lombardo.

Io penso che la questione dei postumi del terrorismo edella rivolta di massa italiana sia un fenomeno unico inEuropa e che non sia stata risolta; penso che non tocchisemplicemente una componente ideologica di sinistra, maanche personaggi di destra, il che non significa che speroin una soluzione a base di tarallucci Mulino Bianco e vinoall’etanolo; penso che si sia tentata oltre ogni limite unapolitica di imposizione dei processi di rimozione colletti-va, cosa che presupporrebbe una condizionabilità delmondo e della storia e dell’uomo, il che è opera non soltan-to impossibile, ma criminale; penso che questo tentativo diimporre la rimozione a un’intera collettività sia stata effet-tuata attraverso strategie consapevoli di condizionamentopsichico, attraverso l’inoculazione di un virus sottocultu-rale che ha il suo apice nel berlusconismo di massa; pensoche pochissimi ma spettacolari elementi umani della gene-razione che fece i Settanta dovrebbero vergognarsi, nonsemplicemente per l’abiura compiuta verso una prospetti-

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va storica che praticarono, ma per l’incredibile e strenuaopera di conversione al potere costituito da nessuno, che liha incoronati re per un giorno e piazzati su troni di carta-pesta e cartastampata; penso che costoro, ben lungi dal-l’essere memoria storica di un passato che non passa an-che senza di loro, costituiscano un ostacolo di abnormeentità sulla strada della rielaborazione di ciò che fu e ciòche non fu; penso che l’attuale classe dirigente sia emersanon dalla reazione ai fatti recenti di una bufala rivoluzio-naria condotta nelle aule di tribunale, bensì dall’impossibi-lità di affrontare criticamente lo spettro degli anni Settan-ta; e penso che le nuove generazioni si siano rotte i coglio-ni di osservare inermi questa incredibile messa in abisso diuna questione che non è sovrastorica, ma storica, e che co-me tale è naturale che sia metabolizzata.

Per l’appunto, io faccio parte della generazione che, aitempi, giocava a pallone ai giardinetti. La stessa generazioneche però ricorda bene il volto impietrito della madre quandofu ritrovato il cadavere di Moro e ascoltò le parole disanima-te: “Qui finisce un decennio, adesso arriveranno i carrarmatiper strada”. La madre che non intuiva che i carrarmati nonsarebbero giunti in strada, ma nell’etere, è uno dei legamipiù veri e vivi che gli attuali trentenni mantengono con unastagione che vissero non da adulti, ma da bambini, con ilportato di un’innocenza scevra da croste ideologiche, capacedi osservare le storie di sangue con un terrore lontano daogni aspettativa, per quello che erano: storie di sangue.

Penso che quell’innocenza bambina, non disgiunta dal-la vita della storia che si fece e che continua a farsi, sia og-gi la premessa necessaria per arrivare presto a quanto arri-veremo: sciogliere il nodo, non tagliarlo. È la medesimapremessa che mi fa vergognare di essere italiano quandol’Italia fa in modo che si vada a prelevare Cesare Battisti elo si traduca in carcere, per un’attesa kafkiana che riguar-da non soltanto il suo destino, ma quello di tutti noi. E poi-ché il destino è soltanto il presente, si intende qui che quel-l’incubo in cui hanno gettato Battisti è l’incubo del mio edel nostro presente.

(Da Carmilla On Line, 14.2.2004)

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TRE PASSI NEL DELIRIO (DEI DELITTI E DELLE PENE)di Girolamo De Michele

Girolamo De Michele è autore di Tiri mancini. Walter Benja-min e la critica italiana (Mimesis, 2000), Felicità e storia(Quodlibet, 2001), e numerose voci filosofiche dell’enciclope-dia multimediale Encyclomedia e di diversi saggi sul pensierofilosofico contemporaneo. È anche coautore (assieme a Um-berto Eco) di una storia del concetto di Bellezza in Cd-rom(Opera Multimedia). Ha curato un volume su Deleuze (GillesDeleuze. Una piccola officina di concetti, Discipline filosofi-che 1, 1998), l’edizione italiana di Michael Hardt, Gilles Deleu-ze, Un apprendistato in filosofia (a/change, 2000) e un ineditodi Èlie Wiesel (La memoria e l’oblio, in “arcipelago” 4, 1999).Nei primi mesi del 2004 Einaudi Stile Libero darà alle stampeil suo primo romanzo, Tre uomini paradossali.

Proviamo a fare non uno, ma tre passi oltre l’immediataemotività che si è espressa nella mobilitazione seguita al-l’arresto di Cesare Battisti. Tre passi, cioè tre aspetti che bi-sogna saper disgiungere entro la complessità umana, trop-po umana della vita di Cesare. Ma soprattutto: tre diversicompiti, tre campagne che dobbiamo avere il coraggio diosare, a partire dalle agende politiche del movimento sindalle assemblee preparatorie della giornata del 20 marzo,perché anche questa è guerra interna.

In primo luogo, va denunciato il carattere odiosamentevendicativo della “campagna acquisti” in atto da parte delministro Castelli tra i rifugiati politici italiani, iniziata il gior-no in cui Castelli si recò in Francia con una lista di 12 “sov-versivi” (tra i quali Persichetti e Battisti). Vale la pena di ram-mentare che i réfugiés sono in Francia per effetto di un con-tratto morale siglato tra loro e lo Stato francese ai tempi diMitterrand, contratto al quale si era attenuto, in nome dellacontinuità dello Stato attraverso il mutare dei governi, lostesso Chirac quando divenne capo del governo.

Persichetti, Battisti e compagni sono oggetto di unavendetta assolutamente gratuita (cos’hanno da aggiungerea ciò che già sappiamo alla ricostruzione degli anni ‘70?), eil loro eventuale “pentimento” sarebbe null’altro che un’a-

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biura inquisitoria, a uso e consumo del compiacimento deisuppliziatori; laddove i vari stragisti sono depositari dellepagine più nere della nostra storia, e uomini e istituti/isti-tuzioni che il loro silenzio copre sono tuttora attivi, sem-pre ben radicati nella società illegale.

Castelli, va sempre tenuto a mente, è il ministro che vi-sitò Bolzaneto nella notte delle torture; è l’uomo che ha in-consciamente rivelato il suo odio di classe nel paragonare itorturati di Bolzaneto agli operai della sua fabbrica (“esse-re costretti a restare in piedi per alcune ore non è tortura:nella mia fabbrica gli operai sono abituati a lavorare inpiedi otto ore senza lamentarsi”, dichiarò più o meno inquesti termini in Parlamento). Questo spirito vendicativo ètanto più pericoloso in quanto non è indirizzato verso unsoggetto sociale (la “classe antagonista”), ma è un residuoallucinatorio, la persistenza di una memoria malata che,come un orologio molle, cola giù su qualunque individuoabbia la ventura di richiamare, come un distorto déjà vu,le forme fordiste dell’antagonismo: tanto più pericoloso inquanto il bisogno di emergenza che esso rivela può colpirein modo indiscriminato.

In secondo luogo, dobbiamo avere la capacità di prati-care il terreno giuridico, di fare critica del diritto anche at-traverso l’uso dei suoi strumenti formali.

Lo status giuridico di Cesare Battisti è quello di un lati-tante condannato in contumacia a due ergastoli, commi-natigli in misura della sua asserita colpevolezza rispetto atutti i reati attribuiti ai Proletari Armati per il Comunismo.Com’è noto, Cesare non si è difeso in tribunale, ma ha pra-ticato l’evasione (il che lo renderebbe inestradabile, giac-ché la Francia non riconosce la validità delle condanne incontumacia). Il punto è proprio questo: evadendo, Battistiscelse di non difendersi perché le condizioni processualioggettive lo rendevano impotente a fronte delle dichiara-zioni dei pentiti.

È necessario ricordare che la gestione dei pentiti a Mi-lano è stata particolarmente vendicativa e spesso ai margi-ni della “legalità”? Ora, è un fatto che il diritto penale – inmodo esplicito dall’entrata in vigore del rito accusatorio –ha per oggetto il verosimile, ricostruito in base all’evidenza

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della prova, afferente alle singole persone, e non il giudiziopolitico complessivo (dal quale, via pentiti, alcuni giudicideducevano, applicando il rito inquisitorio, la colpevolez-za dei singoli, spesso privilegiando le cosiddette “figure diconfine” tra legalità e illegalità). E dunque sarebbe impor-tante ricostruire con precisione la sua vicenda processua-le, per dimostrare che, da un punto di vista puramente giu-diziario, le violazioni delle più elementari norme a tuteladel diritto di difesa rendono di fatto inaccertabili i reali li-velli giuridici di responsabilità, indipendentemente daglispecifici eventi attribuibili a Battisti.

Qui non parlo solo di alcune palesi incongruità dell’ori-ginaria domanda di estradizione – come faceva Cesare adessere nell’arco di mezz’ora a Milano e a Mestre? Parlo delfatto che, a fronte della illusoria pretesa che il diritto com-porti un’opzione secca tra innocenza e colpevolezza, esisteun’area di indecidibilità, nella quale si trovano quelli cheGeorge Boole, il fondatore della logica binaria (1=vero,0=falso) chiamava “residui indefiniti”: traducendo la logi-ca di Boole in quella processuale, nel determinare di quan-te accuse Cesare è colpevole non è possibile discernere tranessuna, alcune e tutte.

La cosa non deve sembrare bizzarra, perché è usuale neiprocessi americani: basterà rammentare il “caso O.J. Sim-pson”, o il proscioglimento dei fondatori dell’organizzazio-ne armata dei Weathermen: questi imputati sono non-pro-cessabili, e dunque a piede libero, perché le prove a loro ca-rico furono raccolte violando il diritto di difesa, e dunque leaccuse loro rivolte si rivelano indecidibili. Ebbene, è proprioquello che avviene se trasliamo la rilevanza processuale delpentito dal rito inquisitorio (dove la sua parola era legge, an-che in assenza del dichiarante in aula) al rito accusatorio(nel quale al dichiarante è richiesto di fornire prove certe eostensibili a sostegno delle sue accuse).

Oggi, riaprendo molti processi per “banda armata” o“terrorismo”, molte condanne si tramuterebbero in assolu-zioni: questa constatazione non è inficiabile dal principioche non si può processare due volte per lo stesso reato unimputato (ma questo principio deve valere anche per l’esa-me della richiesta di estradizione di Cesare). Non si tratta

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di riaprire i processi, ma di appalesare l’illogicità rebus sicstantibus di molte posizioni giudiziarie, magari per reim-postare in modo più attento e giuridicamente sensato unacampagna per l’uscita dai cosiddetti “anni di piombo”.

Vengo al terzo punto. A partire da una contraddizioneinterna al diritto, che va allargata dalla critica materialisti-ca: la contraddizione tra la certezza del diritto (che impo-ne la punibilità, anche temporalmente differita, del delit-to) e lo scopo della pena, che è la “riabilitazione” del reo.

A costo di essere realisti sino al cinismo: che finalità(una volta esclusa quella emergenziale di usare la penacome grimaldello per ottenere una confessione utile allesuccessive indagini) ha condannare un individuo che havissuto una vita palesemente difforme dal reato commes-so per un quarto di secolo or sono, praticando una solu-zione di continuità di spessore esistenziale? E dove va a fi-nire l’uguaglianza formale degli uomini davanti alla legge,se alle elezioni abbiamo visto e vedremo candidarsi no-stalgici e inquisiti eccellenti che i complessi disegni del di-ritto rendono “non punibili” per rispettabilissime alchi-mie procedurali – ma pur sempre pervicacemente intentia condurre dubbie politiche, senza soluzione di conti-nuità, mentre altri come Cesare Battisti hanno, come al-ternativa esistenziale, la galera o una stentata vita ai mar-gini della miseria? Hic Rhodus…

(Da Carmilla On Line,16.2.2004)

CESARE BATTISTI E LE LIBERTÀ IN ITALIA

di Wu Ming 1

“La vera questione politica posta dal terrorismo è sì saperecome vi si entra, ma soprattutto come se ne esce.”

François Mitterrand, 1985

“È noto che io sono per l’indulto. È una cosa notoria. È co-me chiedermi: ma lei ha i capelli bianchi? Certo. Sarei sta-to favorevole anche all’amnistia.”

Francesco Cossiga, “La Repubblica”, 31/07/1997

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“Purtroppo ogni tentativo mio e di altri colleghi della de-stra o della sinistra di far approvare una legge di amnistiae di indulto si è scontrato soprattutto con l’opposizione delmondo politico che fa capo all’ex-partito comunista.”

Francesco Cossiga, lettera a Paolo Persichetti, s.d. [2002]

L’appello per la liberazione di Cesare Battisti, arrestato a Pa-rigi il 10 febbraio scorso, ha avuto in pochi giorni un sor-prendente numero di adesioni. La sera di domenica 15 siera a quota 1360. Scrittori, registi, produttori cinematogra-fici, deputati, docenti universitari, giornalisti, addiritturamissionari, e “semplici” cittadini/e hanno voluto esprimerela loro solidarietà.

Oltre a questo appello ne esistono altri, in italiano e so-prattutto in francese, uno dei quali ha raccolto molte migliaiadi firme. C’è anche una lettera aperta al Presidente JacquesChirac, firmata da alcuni scrittori. A Parigi è tutto un vortica-re di iniziative, assemblee, conferenze stampa, e oggi (16 feb-braio) c’è stata una manifestazione (non autorizzata) di fron-te alla Santé. Quattro deputati (tre verdi e il trotzkista AlainKrivine) sono entrati e hanno chiesto di parlare con Cesare. Ilministro della giustizia Dominique Perben ha dato ordine diimpedirglielo, cosa che pare essere illegale.

Per tornare in Italia, la casa editrice DeriveApprodi hamandato in ristampa il romanzo di Battisti L’ultimo sparo,pubblicato nel 1998, e devolverà tutti i proventi alla difesalegale. Credo che tutti gli editori solidali con Cesare do-vrebbero acquisire i diritti dei suoi libri non ancora pub-blicati in Italia, o pubblicati ma fuori catalogo, e mandarliin libreria con la stessa clausola.

L’esame della situazione di Cesare da parte della magi-stratura francese sarà più lungo di quanto ci s’immaginava.Il problema principale è che, se il 3 marzo non dovesse esse-re accolta la domanda di libertà provvisoria presentata daisuoi avvocati, questo periodo lo trascorrerà tutto in galera.

Nei giorni scorsi, qualcuno ha espresso legittimi dubbi eperplessità su questo caso e sull’ appello. Qualcuno altroha detto e scritto vere e proprie idiozie, frutto di incancre-

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nimento ideologico e/o disinformazione sui temi dell’e-mergenza e della giustizia. Con questo articolo vorrei met-tere le cose in prospettiva per quanto mi è possibile, con-tribuire a fare chiarezza, senza il pesante linguaggio ideo-logico solitamente utilizzato per discutere di questi temi.

Per prima cosa farò un breve compendio della “Dottri-na Mitterrand” e della situazione dei rifugiati italiani inFrancia; dopo qualche cenno sul contesto in cui CesareBattisti fu processato e condannato, descriverò il contestodi oggi, quello del nuovo “allarme terrorismo”, passandobrevemente in rassegna alcune bufale propinateci dopol’11 Settembre; nel paragrafo successivo cercherò di ri-spondere ai dubbi suscitati dall’appello, infine chiuderòcon un personalissimo commento sullo stato delle libertànel nostro Paese.

È un compito che reputo urgente ma che non è facile.Spero mi verranno perdonati i tagli con l’accetta e le inevi-tabili sbavature.

1. La “Dottrina Mitterrand” fino all’arresto di Persichetti

Nel 1984 viene ufficializzata la cosiddetta “Dottrina Mit-terrand” (espressione imprecisa ma largamente utilizzata)sui rifugiati politici italiani. Più di un centinaio di reducidegli “anni di piombo” ottengono il permesso di restare inFrancia. In cambio devono rendersi visibili alle autorità erinunciare in modo inequivoco alla violenza politica. L’e-splicito intento dello stato francese è concedere a costorouna via d’uscita dalla clandestinità, ma è altrettanto deter-minante il fatto che le autorità italiane presentino dossierraffazzonati e lacunosi. Caso dopo caso, si fa evidente chequelle persone hanno subito processi (basati sulle leggid’emergenza del periodo 1975-82) che il diritto franceseconsidera iniqui.

Per la comunità dei rifugiati, questa differenza di cultu-ra giuridica diverrà un secondo livello di tutela, anche aprescindere dalla “Dottrina Mitterrand”.

La Francia non va idealizzata, sia ben chiaro, però lànon esistono bizzarre fattispecie di reato come “concorso

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morale” o “compartecipazione psichica”. Al contrario, gliitaliani sono abituati alla violazione di uno dei più antichiprincìpi del diritto: “Cogitationis poenam nemo patitur”[Non si punisca nessuno per il pensiero].

Il codice penale francese, a differenza di quello italiano,non prevede uno sparverso di reati associativi distinti soloda trucchetti semantici che significano diversi anni di ga-lera in più o in meno. Eclatante l’esempio degli artt. 270 e270 bis, rispettivamente “associazione sovversiva” e “asso-ciazione sovversiva con finalità di terrorismo e di eversio-ne dell’ordine democratico”. La descrizione del reato èpraticamente identica, solo che nel primo caso rischi da 5a 12 anni, nel secondo da 7 a 15. Un lascito della leggen.15, 6/02/1980, meglio nota come “Legge Cossiga”.

In Francia è ben raro condannare un imputato in base alledichiarazioni di un solo testimone. In Italia, invece, è consue-tudine: tutti i processi del caso “7 Aprile” erano costruiti sulledeposizioni di Carlo Fioroni; le condanne a Sofri, Bompressie Pietrostefani sono basate sulla chiamata in correità di Leo-nardo Marino. Una sola persona che accusa è ritenuta piùcredibile di decine di testimoni che scagionano.1

Infine in Francia, come accade in tutti i paesi europei ecome è previsto dalla Convenzione Europea sui dirittiumani del 1954, una condanna in contumacia non può di-ventare definitiva. Se un condannato in contumacia si pre-senta o viene catturato, la sentenza è annullata e il proces-so si rifà in sua presenza.

Di contro, la prassi giudiziaria italiana in materia dicontumacia è in totale dispregio del principio romano “Neabsens damnetur” [“Non si condanni un assente”]. La Cor-te Europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo, la CorteCostituzionale italiana e la Corte di Cassazione (a sezioni

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1. Ecco altre due caratteristiche tipiche del nostro sistema giudizia-rio/mediatico: la prima è l’inversione dell’onere della prova, ovvero nonè lo Stato che deve dimostrare la tua colpevolezza, sei tu che devi prova-re la tua innocenza; la seconda è l’escrescere dei “pentitismi”, delle dela-zioni, delle chiamate di correo, dei “super-testimoni”. Il lavoro d’indagi-ne viene quasi interamente sostituito dalle rivelazioni del tale o del talaltro, sostituzione che si è fatta sistema con la legge sui pentiti del 1982ed è oggi considerata naturale.

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unite) hanno chiesto alla magistratura di rispettare la Con-venzione Europea, che in teoria lo Stato italiano ha recepi-to con la legge n.848 del 4/8/1955. I tribunali ignorano que-sta richiesta, e continuano a pronunciare condanne defini-tive in contumacia. Secondo il giornalista Stefano Surace,anch’egli vittima di questa prassi, in Italia sono 5000 i de-tenuti condannati in questo modo.2

Tornando alla Francia: per diciotto anni non vi sonoestradizioni, fino all’agosto 2002, quando Paolo Persichettiviene arrestato e rimpatriato, in base a un decreto d’esradi-zione firmato nel 1994 dall’allora primo ministro EdouardBalladur. È il segnale di un cambio di fase. Il guardasigilliPerben dichiara che d’ora in avanti le vicende dei rifugiatiitaliani saranno valutate caso per caso.

2. Dare a Cesare quel che è di Cesare

L’enfasi posta dal diritto penale italiano sui reati associati-vi (e in particolare sulla “fattispecie terroristica”) ha spes-so portato i Pm a ignorare le responsabilità individuali infatti concreti, che hanno via via perso importanza a van-taggio del “fine ultimo”. Talvolta si è processata prima l’i-deologia degli imputati, vera base della “fattispecie terro-ristica”, e in seconda battuta i reati specifici di cui eranoaccusati.

A memoria di questa tendenza, andrebbe scolpita nelmarmo una dichiarazione di un giudice istruttore del pro-cesso “7 Aprile” (spezzone romano), rilasciata al “Corrieredella Sera” il 27/5/1979: “Stiamo cercando di ricostruire ilpercorso ideologico che ha portato l’imputato a commette-re i gravissimi reati di cui è accusato... L’imputato non si è

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2. Nel 2002 Stefano Surace, sessantanovenne, fu arrestato e incarce-rato a causa di tre condanne per oscenità risalenti a più di trent’anni pri-ma, quando dirigeva la rivista “Le Ore”. Surace non sapeva nulla di queiprocessi, si era trasferito in Francia ed era stato condannato in contu-macia. Al suo ritorno in Italia fu arrestato. La vicenda fece un certo scal-pore, per ottenerne la liberazione si mossero la FNSI e Reporters SansFrontières.

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ancora accorto di questo e continua ad attendersi che glivenga contestato un fatto preciso”.

Il 5 luglio dello stesso anno, sullo stesso giornale si po-teva leggere un’intervista al giudice, titolare dello “spezzo-ne veneto” dello stesso processo, in cui il magistrato defi-niva “ingenuo e sbagliato” pretendere “prove di fatti terro-ristici specifici”.

Tra l’altro, questo ha portato alla progressiva scompar-sa di reati intermedi come il “favoreggiamento”: si è tuttiterroristi e basta.

Con un clima del genere, era prassi quotidiana che a unimputato fossero attribuiti tutti i crimini commessi dal grup-po di cui faceva parte, anche quando circostanze oggettivene rendevano impossibile la presenza e partecipazione.

Successe anche a Cesare Battisti, condannato per variomicidi, due dei quali avvenuti lo stesso giorno a Milano eVenezia.

Per tali reati, dei quali si proclama innocente, fu con-dannato in contumacia con sentenza definitiva. Soprattut-to per questo il 29 maggio del 1991 la Chambre de Accusa-tion di Parigi si oppose all’estradizione, in quanto contra-ria alla Convenzione Europea dei Diritti Umani.

Poiché il governo italiano non ha presentato nessunnuovo documento, di fatto l’arresto, la carcerazione e ilnuovo riesame della situazione di Battisti violano un prin-cipio che sta molto a cuore ai francesi: non si può essereprocessati due volte per lo stesso reato, cosa che in questigiorni hanno fatto notare anche il Syndicat de la Magistra-ture e il Syndicat des Avocats de France.

3. DAI PACCHI-BOMBA AI BOMBAROLI-PACCO

Il ministro degli interni Pisanu ha definito l’arresto di Bat-tisti “un ulteriore significativo passo in avanti nella lotta alterrorismo”.

Stiamo parlando di un uomo che ha abbandonato lalotta armata e da più di vent’anni non commette alcun rea-to. Nel frattempo, non solo è rimasto perfettamente visibi-le e reperibile da chiunque, vivendo alla luce del sole e la-

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vorando come portinaio di un condominio, ma è addirittu-ra divenuto un personaggio pubblico, uno scrittore che la-vora con prestigiose istituzioni culturali e i cui libri sonopubblicati da grossi editori.

Stiamo parlando di una persona il cui rimpatrio nonaggiungerebbe alcunché alla nostra comprensione dellalotta armata degli anni Settanta.

Aver messo le mani su questa persona viene spacciatocome una brillante operazione anti-terrorismo.

Anche l’estradizione di Persichetti fu presentata comeun eroico blitz o un’operazione da 007. La realtà era bendiversa: Persichetti era docente a contratto all’Universitàdi Paris VIII, i suoi orari di lezione e ricevimento erano ap-pesi in bacheca e disponibili sul sito web dell’ateneo. Nonera poi difficile “scovarlo”.

Purtroppo, dopo l’11 Settembre e il nefasto ritorno delle“nuove BR”, in nome dell’allarme-terrorismo si può propi-nare all’opinione pubblica qualunque cazzata, anche ma-dornale.

Negli USA l’isteria sul terrorismo ha portato a leggi diabnorme liberticidio come il Patriot Act o l’Homeland Se-curity Act, e a inviti ridicoli alla popolazione, come quelloa sigillare gli infissi delle case con nastro isolante per farfronte a possibili attentati chimici.4

In Italia, oltre alle farse mediatiche e alle storie di ma-nette facili, è partita una grande seduta spiritica per evoca-re i fantasmi del passato.

Ai movimenti è stato imposto un dibattito senza capo nécoda su violenza e non-violenza, le contiguità tra lotte sociali eterrorismo, la presa di distanza dai pacchi-bomba (come se ladistanza non fosse già oggettiva e ben evidente). Trappola reto-rica in cui il ceto politico “no global” è caduto a faccia in giù,quando proprio non ci si è buttato con un’incudine al collo.

Il già citato art. 270 bis figura negli avvisi di garanziaconsegnati dalle Alpi alla Sicilia a occupanti di centri so-

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3. Quello del nastro isolante era un consiglio dell’amministrazioneBush. Poi si è scoperto che la più grande ditta produttrice di nastro iso-lante negli Stati Uniti aveva contribuito alla campagna elettorale repub-blicana. Cfr. www.thenation.com/doc.mhtml?i=20030331&s=drmarc

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ciali, sindacalisti di base, attivisti anti-guerra e reduci dallemanifestazioni anti-G8 di Genova.4

Sul versante della caccia al terrorista islamico, abbia-mo assistito a ripetute campagne d’allerta su attentati datiper imminenti, per poi scoprire che non avevano alcunfondamento.5

Altrettanto gravi sono i numerosi casi di “mostrificazione”dei musulmani, gente sbattuta al fresco e sui Tg di prima se-rata sulla base di indizi inconsistenti, in seguito (quando gli èandata bene) liberata senza clamore e senza una scusa.

A Bologna, il 20 agosto 2002, cinque persone vengonoarrestate all’interno della basilica di S. Petronio, in PiazzaMaggiore. Secondo la Procura, stavano facendo un sopral-luogo per preparare un attentato. Il reato di cui sono accu-sati è il solito 270 bis. Acriticamente, i media amplificanola notizia. Il “Corriere della Sera”, infischiandosene dellapresunzione d’innocenza, titola: “Al Qaeda voleva colpire aBologna. Piano per un attentato alla basilica di San Petro-nio sventato da un’operazione dei carabinieri. Nel mirinol’affresco con Maometto all’Inferno”.

Ma chi sono gli arrestati? Si tratta di un professore ita-liano e quattro cittadini marocchini, in visita turistica aBologna, entrati in S. Petronio con una videocamera e sor-presi a chiacchierare in arabo davanti al famoso affresco,che per i musulmani è altamente blasfemo. Del resto, co-me reagirebbe Baget Bozzo se gli arabi scrivessero “Dio la-dro” a caratteri cubitali sui muri delle moschee?

In meno di ventiquattr’ore, per fortuna, la vicenda sisgonfia. L’equivoco è chiarito, i cinque vengono scarcerati,la Procura di Bologna e i media (locali e nazionali) hannofatto una gran figura di merda, ma tanto verrà dimenticatanel giro di pochi giorni.

È solo un piccolo preludio alla grande demonizzazionedei musulmani in Italia.

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4. Cfr. l’arresto di alcuni militanti di Cosenza e Taranto nel novembre2002, storia raccontata da Claudio Dionesalvi nel suo libro Mammagial-la, Rubbettino, Cosenza 2003.

5. Cfr. www.repubblica.it/2003/k/sezioni/cronaca/terroita/bodava/bo-dava.html.

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Nei due anni successivi, a orientare le indagini dell’Anti-terrorismo sarà il mito della “cellula terroristica in sonno”,cioè non attiva ma pronta a diventarlo (il famoso reato “aconsumazione anticipata”).

Le indagini sono nutrite di cultura del sospetto e interpre-tazioni capziose al limite del paranoico. Come nei giorni del“7 Aprile” e dintorni, una conversazione telefonica in arabosu una partita di calcio diventa un messaggio in codice su unattentato da preparare in Germania. Comunissime espres-sioni idiomatiche arabe diventano inquietanti squarci su esi-stenze clandestine. Sulla confusione tra un verbo e un altrosi costruiscono altissimi castelli di carte.

Tutto queste emerge nel processo di Milano contro imembri della moschea di Viale Jenner, sospettati di legamicon Al Qaeda. Certo, si tratta di appartenenti all’Islam ra-dicale, ma di per sé non è un reato. Alla spinosa questione,Carlo Bonini e Giuseppe D’Avanzo dedicano un pezzo ap-parso su “La Repubblica” del 27 gennaio scorso, dal titolo:“Quando la caccia ad Al Qaeda mette a rischio lo stato didiritto”. È una presa di posizione importante, dato che sulloro stesso giornale ha scritto per molto tempo Magdi Al-lam, i cui articoli e libri criminalizzanti hanno contribuitonon poco a diffondere la peggior cultura del sospetto.6

L’articolo include una dichiarazione virgolettata di Ren-zo Guolo, studioso dei fondamentalismi contemporanei:“È problematico provare che proselitismo e propagandaideologica si traducono automaticamente in favoreggia-mento delle organizzazioni terroristiche. La distinzionetra l’appartenenza all’Islam radicale o alla sua ala jihadistaè spesso sottile, ma paradossalmente coincide con quellache separa i reati d’opinione da quelli di terrorismo”.7

Cogitationis poenam nemo patitur, appunto.

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6. L’unica opera di controinformazione su Magdi Allam è la memora-bile serie di articoli “Il Pinocchio d’Egitto”, scritti da Valerio Evangelistinella prima fase della guerra in Iraq e pubblicati su carmillaonline.com:www.carmillaonline.com/cgi-bin/mt-search.cgi?IncludeBlogs=2&sear-ch=Magdi+Allam

7. L’articolo si trova qui in formato pdf: www.difesa.it/ministro/rasse-gna/2004/gennaio/040127/56dq0.pdf

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Pochi giorni fa, il 12 febbraio scorso, all’aeroporto diVenezia viene bloccato un volo Alitalia per Roma. Motivo?A bordo c’è un passeggero di cittadinanza irachena. Unterrorista iracheno? No, un iracheno e basta. Volo ritarda-to di due ore, tutti scesi, si passa il metal detector mentrela polizia interroga il sospetto (ma sospetto in base a che?)e gli perquisisce i bagagli, già passati al check-in senzaproblemi. Risultato: il tizio è un rifugiato politico residen-te in Norvegia, che ha un appuntamento all’ambasciataturca di Roma per ottenere un visto.8

Che l’allarme terrorismo sia il più delle volte esageratopare rivelarlo un fatto recentissimo: i famosi Nuclei Terri-toriali Antimperialisti (banda armata attiva nel Nord-Estsu cui si indagava dalla metà degli anni Novanta) in realtànon sarebbero mai esistiti. Tutto un bluff portato avanti daun ex-giornalista di destra un po’ mitomane, tale LucaRazza, 36 anni, nel 1998 candidato alle amministrative delcomune di Udine nella lista di “SOS Italia”, piccolo movi-mento filo-Haider. Aveva preso un unico voto. Presumibil-mente il suo.

E i documenti degli NTA? Copia-e-incolla da articoli digiornale e vecchie “risoluzioni strategiche” delle BR trova-te sul web. Gli attentati? Roba da ladri di polli: qualcheauto incendiata e poco più. Razza avrebbe anche rivendi-cato azioni non compiute da lui, ad esempio facendo unatelefonata dopo l’omicidio Biagi. “Ho iniziato a scriverequei documenti per fare uscire il mio disagio e la mia rab-bia. Anche professionale: mi piace molto scrivere, è la miapassione, e nel 1992 sono stato allontanato da un quoti-diano dove lavoravo come giornalista pubblicista. [...] Hofatto tutto questo senza intenzione di uccidere alcuno esenza volontà di eversione dell’ ordinamento”. Una bellasequenza di “scherzi” per i quali lo avrebbero aiutato dueburloni amici suoi.

Nel bel mezzo di tutto ciò, l’arresto di Battisti viene de-finito “un ulteriore significativo passo in avanti...” ecc.

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8. Cfr. www.repubblica.it/2004/b/sezioni/cronaca/islammilano2/vene-zia/venezia.html

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4. L’appello, le reazioni, la “soluzione politica”

Secondo alcuni che si atteggiano a lucidi strateghi dellarealpolitik, non sarebbe il momento di criticare il sistemagiudiziario, perché la priorità è liberarsi di Berlusconi, eoggi il “garantismo” è strumentalizzato dal governo e dob-biamo distinguerci e così via.

Per prima cosa, quello del governo non è garantismo.Certo, questa destra cerca di depenalizzare una ristretta ti-pologia di reati commessi solo dai ricchi, nascondendo ilprivilegio di classe e l’indole golpista dietro una caricaturadi garantismo. Al contempo, però, impone a tutti gli altrileggi autoritarie e liberticide sulle droghe, sull’immigrazio-ne, sui diritti dei lavoratori, sulla fecondazione assistita,sui manicomi, sugli orari dei locali pubblici e chi più ne hapiù ne metta. Vorrebbero addirittura vietare ai bambinisotto gli undici anni di partecipare a manifestazioni (“fattaeccezione per le udienze papali”).9

Non va dimenticato che mentre Lorsignori ingaggiava-no un braccio di ferro con la magistratura sulle questioniche li toccavano direttamente, non hanno mai smesso dicomportarsi da partito d’ordine: se ne fottono se le carceriscoppiano (facendosi scavalcare “a sinistra” da Wojtila:forse dovrebbero vietare ai bambini anche le udienze pa-pali); non vogliono dare la grazia a nessuno; fanno spararesui manifestanti...

Al rimpatrio coatto dei rifugiati a Parigi sembra tenerciparticolarmente il ministro Castelli, bell’esempio di “ga-rantista”, che ha affrontato più volte il problema col colle-ga Perben. Ci tiene perché vuole utilizzare le estradizioninel clima di allarme descritto al paragrafo precedente.Non c’è dunque nessuna contraddizione tra la lotta controle estradizioni e per il superamento dell’emergenza, e lalotta contro questo governo che strumentalizza le pauredella gente per negare i diritti fondamentali.

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9. Da “Panorama” del 4/2/2004: “La parlamentare Alessandra Musso-lini è assolutamente contraria a una proposta ‘che’ sostiene ‘dà un’im-magine deteriore della politica, la politica è importante, fa parte della vi-ta, io stessa da piccola leggevo il quotidiano anziché Topolino’.

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In secondo luogo, è vero che la priorità è detronizzarel’Unto, ma se per farlo si deve imporre un nuovo PensieroUnico sulla magistratura, intesa come casta d’eroi da vene-rare e a cui dare sempre e solo ragione, si passa da un au-toritarismo all’altro, dal messianesimo forzitaliota al mes-sianesimo giudiziario, senza superare l’emergenza e benlontani dal risolvere i problemi del nostro ordinamento,anzi, quasi certamente aggravandoli.

Aggiungo che, parlando delle leggi speciali, non possia-mo tacere sulle gravi responsabilità del PCI, che appoggiòcon entusiasmo – e talora addirittura propose – le misurepiù autoritarie. Allo stesso modo non possiamo tacere sul-le responsabilità dei suoi eredi, prima PDS poi DS, che negliultimi vent’anni non hanno fatto né assecondato un solopasso per uscire dalla cultura dell’emergenza e chiuderequella pagina di storia. Anzi, a più riprese e su diversi temii DS si sono presentati come il campione dei partiti d’ordi-ne, invariabilmente “più realisti del re”, anche per paura diessere lasciati “fuori dalla modernità”. Brrrrrr...

Insomma, lottare contro la destra non può significaremettersi la mordacchia e non criticare più la sinistra istitu-zionale, o la magistratura.

Oggi a proporre una soluzione politica all’emergenza èproprio uno dei principali protagonisti della repressione,Francesco Cossiga. Fin da quand’era al Quirinale sostienela necessità di un indulto, un’amnistia, comunque un attoche parta dalla ri-contestualizzazione della lotta armata, lasua restituzione a una dimensione (nel bene e nel male)politica. Nel 1997, in un’intervista a “Sette”, dichiarò:“Non avevamo a che fare con criminali comuni. L’amnistianon è il perdono. È uno strumento politico: vuol dire chiu-dere politicamente un periodo storico. Quella del ‘68 e del‘77 è stata una generazione di militanti. E anch’io sono unmilitante.” Con dichiarazioni come questa, l’ex-Presidentesi è più volte esposto a una pioggia di strali, cosa che sem-bra divertirlo un mondo.

Se lo stesso Cossiga – che sulla più allucinante delle leg-gi speciali ci mise addirittura il nome – afferma che la so-luzione al problema non può essere trovata dentro il dirit-to penale e nelle pieghe delle vicende individuali, si capisce

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quanto siano fuori contesto le obiezioni del tipo: “Ma per-ché Battisti non torna in Italia ad affrontare la giustizia,anziché comportarsi come Craxi?”, “Ma perché non va ingalera? Al massimo chiederà la grazia”, o addirittura: “Maperché è fuggito? Non poteva comportarsi come AdrianoSofri?”.

Son tutti integerrimi, quando si tratta della galera de-gli altri.

Innanzitutto, togliamo di mezzo il paragone con Craxi.A Cesare Battisti è stato riconosciuto lo status di rifugiatopolitico, e per motivi più che buoni. A prescindere da qua-lunque valutazione sulla vicenda giudiziaria ed esistenzia-le dell’ex-leader socialista, sono due situazioni diverse sot-to ogni punto di vista.

Chi fa questo genere di obiezioni ha una visione com-pletamente schiacciata su un presente che crede eterno,senza principio e senza fine. Non sa nulla del contesto difine anni Settanta, non sa da cosa alcuni sono fuggiti: pro-cessi grotteschi per la negazione del diritto di difesa; impu-tati ammassati in gabbie, sovente in pessime condizionipsicofisiche, reduci da mesi o anche anni di carcerazionepreventiva in culo al mondo, nelle carceri speciali; in que-ste ultime c’erano anche i cosiddetti “braccetti della mor-te” (sezioni di isolamento assoluto) e vigevano angherie daparte degli agenti di custodia, perquisizioni corporali inti-me ripetute ogni giorno etc.; nel frattempo i capi d’accusa“lievitavano” per allungare a dismisura i termini del carce-re preventivo; infine, i media prima contribuivano alla tua“disumanizzazione”, facendo di te un mostro, poi si scor-davano che esistevi. Tutte cose denunciate da Amnesty In-ternational nei suoi rapporti di quegli anni.

È del tutto privo di senso il paragone con quanto subìtoda Adriano Sofri, per quanto grave: altra epoca, altra co-pertura mediatica dei processi, condizioni di detenzionecompletamente diverse. Sofri scrive su due o tre quotidia-ni e un rotocalco, appare in tv, scrive libri, ha intorno a séuna vastissima rete di solidarietà, la lotta per la sua graziaè portata avanti da un’alleanza politica trasversale, “terzi-sta”. Inoltre ha una certa età. Situazione completamentediversa da quella di un ventenne-venticinquenne mandato

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in un carcere speciale alla fine degli anni Settanta. E co-munque Pietrostefani, co-imputato di Sofri, ha fatto lastessa scelta di Cesare Battisti, e nessuno gli ha rotto i co-glioni, nemmeno Sofri, il quale non ha mai preteso che lesue scelte valessero per tutti. Ma poi, scusate, si fugge dache mondo è mondo, e solo in Italia la contumacia è consi-derata prova di colpevolezza.

La grazia. Sofri, che nemmeno l’ha chiesta, assiste (im-magino in preda al disgusto) al delirio che la proposta hascatenato. Massimo Carlotto spinse il suo metabolismoimpazzito oltre i 140 chili e sulla soglia della morte primache gli fosse concessa. A Curcio non la diedero anche se laproponeva Cossiga, allora Capo dello Stato.

Battisti, a differenza di Sofri, non ha grossi agganci po-litici. A differenza di Carlotto, gode di buona salute. A dif-ferenza di Curcio, è accusato di reati di sangue. Insomma,il più morto dei binari morti.

Un’altra obiezione all’appello, di natura del tutto differen-te, è questa: “Si è messa troppa enfasi sul fatto che Battisti èuno scrittore”. Può pure darsi. È un appello scritto rapida-mente (non da noi, ma da alcuni amici di Cesare), e – soprat-tutto – rivolto all’opinione pubblica di Francia, dove la perso-na in questione non è descritta come un macellaio, un aguzzi-no, una belva assetata di sangue, bensì come uno scrittore. Inparole povere: in questi giorni non è in galera il Cesare Batti-sti del 1980, ma quello del 2004, e l’appello descrive quest’ulti-mo. L’appello è rivolto ai francesi perché, allo stato attuale eper tutti i motivi descritti sopra, in Italia una campagna d’opi-nione non sortirebbe alcun effetto.

Termino questo paragrafo con una riflessione da cinefi-lo: in Inghilterra, sulle aberrazioni delle loro leggi antiter-rorismo, ci hanno realizzato un film come “Nel nome delpadre”. In Italia, di vicende come quella di Gerry Conlon ecompagnia ne abbiamo letteralmente centinaia, anche piùspaventose di quella. Dove cazzo sono i film?10 Se ve ne vie-ne in mente qualcuno comunicatemelo.

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10. Con la lodevole eccezione de Il fuggiasco di Andrea Manni, cheracconta la vicenda di Massimo Carlotto.

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5. Lo stato delle libertà in Italia

In parole poverissime: in questo Paese c’è una grandissimavoglia di spaccare i maroni al prossimo. Si vuole metter becconella libera scelta di una persona di non farsi amputare unpiede, ci si indigna perché i testimoni di Geova rifiutano letrasfusioni di sangue, si vorrebbero risolvere complicate que-stioni di bioetica con scorciatoie come il silenzio-assenso, siinfilano nei consultori preti per convincere le ragazze a nonabortire, si propone la “castrazione chimica” per i pedofili, AN

ha una proposta di legge contro le sette sataniche... Nel 1998 alcuni membri dell’allora Luther Blissett Project

scrissero un corposo saggio intitolato Nemici dello Stato: cri-minali, mostri e leggi speciali nella società di controllo, pubbli-cato da DeriveApprodi, nel quale si parlava di “molecolarizza-zione dell’emergenza”, cioè “un suo spingersi dalla res publi-ca ai microlegami sociali, dall’ordine pubblico alla privacy, fi-no ai recessi delle differenze singolari. In altre parole: dal Po-litico (territorio già completamente colonizzato e strutturato)al Culturale (in senso lato, antropologico) allo... Spirituale”.

Non riporto qui nemmeno uno dei numerosissimiesempi contenuti in quel saggio. Mi limito a dire che, daallora, la situazione è nettamente peggiorata, e non è solouna questione di destra e sinistra, o di comunicazione me-diale viziata dal conflitto d’interessi. La questione va moltopiù a fondo: è in atto un’offensiva contro la libertà d’e-spressione in tutte le sue accezioni, dalla libertà di culto aquella di cura e scelta terapeutica.

Sovente il nostro presunto “oltranzismo” su questi temi(che è poi lo stesso oltranzismo di Voltaire) ci ha attiratomolte critiche (e addirittura calunnie e tentativi di censu-ra). Alcuni di noi hanno preso posizione per la libertà diparola degli storici negazionisti contro la legge Fabius-Gayssot,11 dei neofascisti contro la Legge Mancino, dei dis-

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11. Appunto, non è il caso di idealizzare la Francia. La legge Fabius-Gayssot, approvata dal parlamento francese il 13/7/1990, all’art. 8 puni-sce (con pene da un mese a un anno di reclusione, e/o con un’ammendada 2000 a 300.000 franchi) “coloro che avranno contestato… l’esistenzadi uno o più crimini contro l’umanità come li si è definiti nell’articolo 6

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sidenti in materia di HIV/AIDS. In vicende ben note abbiamodifeso la libertà d’associazione dei satanisti. Per noi non sitransige: alle idee, per quanto rivoltanti o sconvenienti le sipossa considerare, vanno comunque opposte altre idee,non la forza dello Stato in armi. Per l’ennesima volta: cogi-tationis poenam nemo patitur. E ci interessano i “casi-limi-te”, perché su di loro si sperimenta la restrizione delle li-bertà di tutti quanti.

Questo non può essere un pezzo esaustivo, ad esempionon potevo certo citare tutti gli episodi di falso allarme sulterrorismo. Spero però di aver dissipato alcuni equivoci.Di lavoro da fare ce n’è tantissimo, e non si creda che conla caduta di Berlusconi lo stato delle libertà in Italia, lo sta-to di queste libertà, registri un sensibile miglioramento.Bisogna lottare, non lasciarsi imbavagliare, rifiutare perquanto possibile i ricatti morali della realpolitik.

15-16 febbraio 2004

CESARE BATTISTI DEVE TACERE

di Valerio Evangelisti

Il presente articolo è stato pubblicato dal quotidiano Le Soirdi Bruxelles mercoledì 25 febbraio 2004.

Se un lettore dei giorni nostri vuole documentarsi sullastagione di sangue che si abbatté sull’Italia verso la fine de-gli anni ’70, può trovare saggi e memorie di valore disegua-le. Trova però poche fonti letterarie davvero convincenti eartisticamente persuasive: certe pagine di Erri De Luca e iromanzi di Cesare Battisti.

Questi ultimi si presentano come romans noirs, ma so-no molto di più. In essi Battisti ha trasfuso la sua stessa,

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dello statuto del Tribunale militare internazionale, allegato all’accordodi Londra dell’8 agosto 1945, e che sono stati commessi dai membri diun’organizzazione dichiarata criminale in applicazione dell’articolo 9del suddetto statuto, o da una persona riconosciuta colpevole di tali cri-mini da una giurisdizione francese o internazionale” (trad.nos.)

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tormentata biografia: da delinquente comune, a militantedei gruppi “autonomi” giovanili tentati dall’esperienza del-la lotta armata, alla conseguente vita di esule braccato daun continente all’altro, fino all’asilo offerto dalla Francia.Come tanti altri giovani italiani della sua generazione, Bat-tisti si è trovato a vivere una condizione di perenne evaso,prolungatasi anche quando ogni ipotesi di insurrezione inItalia era tramontata da quasi un trentennio. A differenzadei coetanei che hanno condiviso il suo destino, ha trasfu-so il proprio vissuto in parola scritta. Pagine amare, taloraironiche, spesso intrise di cinismo. La storia del tramontodi ideali che, se mai vorranno riproporsi, dovranno trovarealtri mezzi e altri protagonisti. È questa sincerità, colma diconsapevolezza storica e aliena, proprio in ragione di ciò,dalla nozione moralistica del pentimento, che non gli èstata perdonata.

Capace di descrivere come pochi altri le ragioni di unasconfitta e l’esilio dei vinti, Battisti è quasi assente dalle li-brerie italiane. Si cercherebbe inutilmente, per esempio, ilsuo ultimo romanzo, Le Cargo Sentimental: straordinariadescrizione di un istinto di ribellione che passa da una ge-nerazione all’altra, e che fornisce un quadro sintetico mapersuasivo della storia d’Italia dalla resistenza al fascismoai giorni nostri. E ciò attraverso le vicende intrecciate digente semplice spinta alla rivolta senza avere affatto latempra, dura e spietata, del rivoluzionario di professione.

Nessun editore italiano ha avuto finora il coraggio dipubblicare un romanzo così. Destra e sinistra fanno invecea gara per offrire versioni semplificate della storia. La pri-ma – la destra – regola vecchi conti, riapre dossiers polve-rosi e, mentre chiude benevolmente un occhio sui criminiattribuibili a organi dello Stato o a militanti neofascisti,scatena la caccia ad attempati contestatori che si sono ri-fatti una vita qua e là per il mondo, con l’alibi oggi comunedella “lotta al terrorismo”.

La seconda – la sinistra italiana – ha costruito un interomito di rifondazione repubblicana sulla chiusura carcera-ria e repressiva del “capitolo” degli anni ’70, e stenta adammettere l’uso distorto della magistratura, il ricorso si-stematico a “pentiti” che tutto avevano da guadagnare dal

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loro pentimento, l’impiego della tortura nelle questure pergiungere a condanne rapide e sommarie, che nascondesse-ro il problema senza svellerne le radici.

Ecco dunque Battisti, imprigionato dal governo fran-cese su pressione di quello italiano, messo in carcere inattesa di un’estradizione che lo cancellerà per sempre,come uomo e come scrittore. Poco importa che il manda-to di cattura gli imputi delitti assurdi, commessi in luo-ghi diversi alla stessa ora. Poco importa che la magistra-tura francese abbia già negato una volta l’estradizione,scandalizzata dagli atti processuali che le provenivanodall’Italia, al punto di definirli, citando Clemenceau, frut-to di una “giustizia militare”. Poco importa il rispetto delprincipio Ne bis in idem procedatur, tra i fondamenti diogni diritto.

Cesare Battisti non era un rivoluzionario, ma un ribelle.Specie pericolosa per ogni regime. Che paghi, dunque. Chenon scriva più. Potrebbe riesumare verità inquietanti.

Questo il ragionamento nascosto (ma non tanto) delpartito dell’estradizione. L’Europa assisterà in silenzio?

(Da Carmilla On Line, 28.2.2004)

BENTORNATO, CESARE! UNA PRIMA VITTORIA

di Valerio Evangelisti, a nome di tutta la redazione di Carmilla

Oggi noi tutti di Carmilla eravamo così emozionati da nonriuscire a parlare. Si era appena sciolta una tensione dura-ta un giorno intero, punto estremo di quell’angoscia che sitrascinava ormai da un mese: da quando il nostro amicoCesare Battisti era stato arrestato.

La notizia, appena pervenuta dalla Francia, era che iltribunale di Parigi aveva deciso per Cesare la libertà prov-visoria, contro tutte le pressioni esercitate dal governofrancese e, attraverso questo, da quello italiano. Solo la se-ra prima il ministro della giustizia Dominique Perben (co-gnome pochissimo adeguato a chi lo porta) aveva approfit-tato di un canale televisivo per vomitare su Cesare tutte leignominie raccolte dal giornale-immondezzaio “Le Figa-

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ro” (autore, per mano del suo redattore Guillaume Per-rault, di deliranti invenzioni su un Battisti che minaccia dimorte i vicini di casa, che fugge dal carcere pugnalando unsecondino, che finisce le proprie vittime con un colpo allanuca, ecc.). L’intento di Perben era quello di influenzare lamagistratura, che pure già a fine 2003 non aveva ritenutodi dare seguito a una precedente proposta di estradizione.

Dal canto suo il portavoce del governo, Jean-FrançoisCopé, aveva cercato (come i ministri italiani Pisanu e Castel-li) di legare il caso Battisti al quadro fumoso del “terrorismointernazionale”, oggi pretesto a ogni violazione del quadrodemocratico. Come se Cesare e tutti gli altri italiani rifugiatiin Francia o altrove, tornati da quasi un trentennio a una vitanei limiti del possibile ordinaria, avessero qualcosa a che ve-dere con integralisti islamici o dinamitardi di varia specie.

Pur senza ancora affrontare la questione dell’estradizio-ne, i giudici parigini hanno quanto meno sancito, con la li-berazione di Cesare, la sua non pericolosità. Quest’ultima,se esisteva, era semmai legata alla sua capacità di scrivere;però in Francia – pur con il governo che si ritrova – ciò nonpare essere avvertito come una minaccia.

La sentenza decisiva è attesa per il 7 aprile. Data che inItalia suona emblematica. Quello stesso giorno, nel 1979,venivano arrestati Toni Negri, Oreste Scalzone e un cospi-cuo gruppo di intellettuali e docenti universitari italiani,accusati, sulla base del cosiddetto “teorema Calogero”, diessere i capi delle Brigate Rosse. Ci vollero anni perchéquell’imputazione, totalmente assurda, venisse lasciata ca-dere, ma nel frattempo i capi d’accusa erano stati via viamodificati, per renderli funzionali a una sentenza di con-danna. A quel tempo la Francia accettò di ospitare quantidegli accusati erano riusciti a varcare la frontiera, orripila-ta da una gestione così disinvolta della giustizia. Ci augu-riamo che i suoi magistrati, al momento di decidere sull’e-stradizione di Cesare Battisti, si ricordino di quello statod’animo, all’origine della successiva “Dottrina Mitterrand”.

E si ricordino delle immagini raccapriccianti viste a Ge-nova, nei giorni del G8, delle violenze nella scuola Diaz,delle sevizie nella caserma di Bolzaneto. Dello spettacoloscandaloso dei poliziotti di Napoli che circondano la Que-

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stura, a proteggerla dalle indagini sui loro colleghi colpe-voli di avere infierito con selvaggio accanimento su mili-tanti no-global quasi adolescenti, come documentato daimmagini che hanno fatto il giro del mondo.

Sotto il profilo della ferocia repressiva, l’Italia non è af-fatto cambiata, rispetto agli anni ’70. Questo resta il paesedell’impunità totale rispetto alle schegge dello Stato (scheg-ge importanti) che si macchiano di sangue. Stragi spavento-se non hanno mai avuto una soluzione giudiziaria, o ne han-no avute di comodo. Le inchieste sulla morte di tanti giova-ni – Saltarelli, Zibecchi, Varalli, Franceschi, Serantini, Lo-russo, Masi ecc. (chi si ricorda più di costoro?), fino a CarloGiuliani – si sono arenate o sono finite in assoluzioni anchequando dei colpevoli si sapeva nome e cognome, leggibilesulla mostrina della divisa. Adriano Sofri è in prigione, peròil volo dalla questura dell’innocente Giuseppe Pinelli fu de-rubricato in suicidio, malgrado una massa impressionantedi prove contrarie.

Cesare Battisti ha scritto più volte che le scelte estremecompiute da lui e da altri giovani della stessa generazionenacquero da questo quadro di radicale ingiustizia. Lo stessoquadro che vide un procuratore della Repubblica milanese,nell’ambito di un processo in cui fu coinvolto lo stesso Cesa-re (pieno di “pentiti” e di confessioni poi ritrattate), scriverein tutta tranquillità di coscienza, a proposito delle violenzecui furono sottoposti i fermati: “Nel caso che dalle violenzenon derivi malattia, ma solo transitoria sensazione dolorosasenza obiettivabili alterazioni organico-funzionali, si par-lerà di un altro reato: quello di percosse (art. 581 CPP). Inquest’ultima ipotesi, i fatti diventano di impossibile accerta-mento sul piano tecnico proprio perché in assenza di malat-tia manca qualsiasi elemento obiettivo”. Un’asserzione ob-brobriosa, che fa il paio con l’assoluzione preventiva accor-data, in tempi molto più recenti, dal vicepresidente del con-siglio (ex fascista) e dal ministro degli interni (ex piduista)agli autori dei macelli di Genova e di Napoli.

Se tutto ciò è vero, a una frase apparentemente ragionevo-le del corrispondente del Corriere della Sera da Parigi,Massimo Nava, che martedì 2 marzo si chiedeva cosa pen-

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seranno di una sentenza favorevole a Battisti i congiuntidelle vittime dei Proletari Armati per il Comunismo (i de-litti attribuiti a Battisti in prima persona sono oggetto del-la confusione più totale), ci sentiamo di replicare: e cos’a-vranno pensato i congiunti dei giovani uccisi e delle vitti-me delle stragi che ho menzionato più sopra, usi a vederepiovere assoluzioni ogni volta che l’autore del crimine ap-parteneva a un apparato dello Stato? Se si vogliono riapri-re quei dossiers, che li si riapra tutti; se li si vogliono chiu-dere, che li si chiuda tutti assieme. La soluzione più logicasarebbe avviare una discussione serena e informata (dun-que, alla larga certi giornalisti, in riferimento all’attributo“informata”!) sugli anni ’70. Non è una soluzione, invece,andare a pesca trent’anni dopo dei presunti “colpevoli” indisarmo ai quattro angoli del mondo, per poi seppellirli,spogliati della loro storia, in una Guantanamo locale sottoforma di penitenziario a vita. Viene il sospetto che, assie-me alle prede, si voglia seppellire – in modo particolare nelcaso di Battisti – anche la loro memoria, e quella collettiva.

Comunque non vogliamo dilungarci, in questo giornodi festa, memorabile per vari motivi. Anzitutto Cesare è dinuovo fra noi. Poi, abbiamo assistito a una straordinariamobilitazione di intellettuali capace di scuotere poteri ecoscienze di uno dei principali paesi europei (mentre, suLa Stampa, il corrispondente dalla Francia Cesare Marti-netti, d’ora in poi chiamato “il volpino”, parlava di “intelli-ghenzia in disarmo”: va’, va’, povero untorello, non sarai tuche spianterai Parigi). Abbiamo anche notato la capacitàdella narrativa di genere, in cui Carmilla è specializzata, dimobilitare via via altri settori della cultura, sino a risve-gliare settori importanti del potere politico. Si noti chequasi tutto il movimento è nato da un sito sulla letteraturanoir e di fantascienza, denominato “Mauvais Genres”.Quasi la dimostrazione di ciò che Carmilla ha sempre so-stenuto, circa la narrativa che è viva e quella che non lo è.

Infine una piccola soddisfazione personale: le 2.200 firmea sostegno di Cesare Battisti raccolte fino ad ora in Italiasono tutte dovute al nostro sito web, nella sua modestia, eai siti alleati: I Miserabili, Wu Ming Foundation, Indyme-

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dia e pochissimi altri. Se la stampa straniera ci ha dedicatogrande attenzione, quella italiana ci ha ignorati o – in unpaio di casi – sostenuti in modo fiacco. Noi volevamo anzi-tutto dimostrare che anche in Italia (e non solo in Italia)c’era chi – tra intellettuali e comuni cittadini – non era af-fatto disposto a lasciare solo Cesare e quanti, Oltralpe, sistavano battendo per lui e per gli altri esiliati.

La soddisfazione maggiore, però, è pensare che potre-mo rivedere Cesare, ridere con lui, bere con lui, subire isuoi scherzi e restituirli. Sappiamo che la battaglia non èaffatto finita (continuate a firmare, gente!), ma adesso Ce-sare ha di nuovo la parola. Se l’userà nel modo peggiore –quell’uomo è il sarcasmo fatto persona – lo perdoneremofacilmente. Perché si tratta di un amico, di un collega, diun compagno. Per usare un’unica parola, di un fratello.

(Da Carmilla On Line, 4.3.2004)

LETTERA A GIUSEPPE GENNA

di Paola De Luca

Paola De Luca è rifugiata in Francia. Questa sua lettera è del6.3.2004

Caro Giuseppe Genna,(...) Mi permetto di aggiungere un punto che mi sta a cuore.“Cesare Battisti non si è mai pentito”. Considero questa

frase la più significativa del testo. Senza pretendere di analiz-zare in poche righe la compatta convenzione ideologica delgiornalismo glamour italiano, nè la sua antilaicità militante,mi pare legittimo osservare che il vero crimine evocato eaborrito non è tanto l’assassinio di questo o quel povero cri-sto, ma il rifiuto di passare sotto la gogna della delazione.

L’istituto dell’infamia, invece di essere sotterraneamen-te usato (ragione di stato comprensibilissima!) e rapida-mente abbandonato o comunque celato (ricostituzione delterreno sociale terremotato in quegli anni) è diventataun’insegna di cui vantarsi e da esibire orgogliosamente innome della propria aderenza alla parte “sana” della nazione.

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In effetti, i crimini dei “pentiti ufficiali” sono stati moltorapidamente abbonati sia dal punto di vista giudiziario cheda quello sociale (si è mai visto un microfono d’un giornali-sta sotto il naso di un familiare delle vittime d’un pentito?).

Come spesso, la mitopoeiesi in Italia sostituisce trion-falmente la storia. Come se i fatti e la verità fossero, per lementi ufficiali della penisola, vessatori e insoddisfacenti.

I “misteri” del caso Moro sono sempre “aperti”, un vasodi Pandora scoperchiabile ad libitum: non importa chetutto si sappia ormai perfettamente (quante versioni delprocesso? cinque, sei, ventuno?), si potrà sempre aggiun-gere una tesi, un riferimento geopolitico, un nemico da ab-battere, un’allusione o una minaccia.

Il “telefonista” può essere stato Toni Negri, o forse Scia-scia o magari anche Cossiga, da quando ha cominciato adenunciare le sue stesse leggi d’emergenza.

Si è riusciti a fare delle verità (e delle prove, con buonapace del sig. Ostellino che si sciacqua abbondantemente labocca con la filosofia del diritto) orpelli postmoderni, obso-leti e – diciamolo! – inutilmente pedanti. Giustizia sostan-ziale, dicono questi “buoni maestri”, invece che formale.

Presto ci domanderemo – o le nuove generazioni do-manderanno a gran voce – perché rivolgersi alla giustiziaper dirimere l’eventuale conflitto; la giustizia sostanziale èpiù efficace se applicata dallo stesso offeso. O no?

“Cesare Battisti non si è mai pentito”. Questo è il verocrimine. Ed è questo che lui e noi altri non pentiti paghere-mo ad vitam aeternam. Il peccato mortale imperdonabile.

L’istituto giudiziario della prescrizione e quello socialedell’amnistia (sempre con buona pace degli evocatori dellafilosofia del diritto) non possono applicarsi su un tessutosociale che si è voluto ricompattare sull’infamia e sulla de-gradazione. Per essere riaccettati come italiani si deve es-sere delatori, non basta dichiararsi vinti e convinti che letendenze insurrezionali non potevano essere “coniugate”al modo indicativo. Occorre anche piegare la testa davantial Giano che dichiarava giudiziariamente che i nostri era-no crimini contro la personalità dello Stato e nello stessotempo non accettava la qualificazione di “politici” deglistessi, si deve religiosamente “pentirsi” e dichiarare che

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tutte le lotte antiautoritarie e antimperialiste che si sonocondotte erano insane e che occorreva delegarle alla sag-gezza e alla sagacia dei partiti di governo, unici garantidella convivenza democratica.

Si deve inoltre accettare la perennità ormai normale diquell’arsenale giuridico d’eccezione che è stato, è e sarà unmoltiplicatore di pene utilissimo per sbaragliare tutti, ter-roristi, rivoluzionari, nemici politici, mafiosi, anarchici di16 anni o newglobal, per i quali le leggi democratiche, il di-ritto alla difesa, la presunzione d’innocenza, la responsabi-lità individuale provata non sono che “margaritas anteporcos”, fronzoli formali da agitare, eventualmente, soloper persone impegnate in lotte straniere e fuori confine.

Confermando e confortando, tra altre sciagure, il sem-plicismo imperdonabile (quello sì!) con cui molti della miagenerazione avevano liquidato la “forma democratica”.

Restituire storia alla storia, uscire dal mito, dalla retori-ca e dalla religiosità pelosa del pentimento, potrebbe forseevitare che vecchi “demoni” vadano all’assalto delle nuovegenerazioni, che magari immaginano di ridare lustro allateoria dell’avanguardia armata di leninistica memoria connuove e atrocemente inutili azioni.

COME FABBRICARE UN MOSTRO. CESARE BATTISTI E I MEDIA ITALIANI

di Valerio Evangelisti

Articolo pubblicato in versione ridotta da L’Humanité del16.3.2004

“Quell’imbecille! Quell’imbecille!” Così si esprimeva l’o-norevole socialista Ottaviano Del Turco, giovedì 11 marzo,durante una trasmissione di Rete 4 intitolata “Zona Ros-sa”. Su uno schermo sfilavano le immagini di Cesare Batti-sti che usciva di prigione. Poco prima, l’ex magistrato Fer-dinando Imposimato si era rivolto al pubblico, tutto fiero:“Noi non leggiamo i romanzi di quel signore, non è vero?”Spettatori fin lì passivi avevano applaudito, entusiasti.

Ciò dà un’idea del clima di linciaggio che i media hanno ali-mentato in Italia dopo che Cesare Battisti ha ottenuto la libertà

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provvisoria. Ci sono trasmissioni contro di lui due o tre volte algiorno, su tutti i canali televisivi e radiofonici. Gli uomini politi-ci, dall’estrema destra ai partiti di centro-sinistra, dall’ex fasci-sta Fini all’ex comunista D’Alema, sono uniti da un crescendodi accuse contro Battisti e dalla domanda che sia estradato erinchiuso per sempre in un penitenziario. Si parla di una “Italiaintera” che si rivolta, come se un sistema dei media asservito aun sistema politico a maggioranza ultrareazionaria, e un’oppo-sizione debole e spesso complice, potessero davvero rappresen-tare la società italiana nella sua complessità.

Bisogna capire bene questo punto. L’Italia è il paese in cuiuna ex presidente della Camera dei Deputati, Irene Pivetti, di-venuta soubrette, presenta oggi un varietà televisivo sulla chi-rurgia estetica. In cui l’ex sottosegretario alla Cultura VittorioSgarbi faceva pubblicità a una marca di caffè mentre era an-cora nel pieno esercizio delle sue funzioni.

E l’Italia è anche il paese in cui una parte degli ex comuni-sti, i DS, dopo avere approvato tutte le guerre “umanitarie”,“preventive”, “democratiche” ecc., rifiutano di votare contro ilfinanziamento della presunta “missione di pace” in Iraq volu-ta da Berlusconi; in cui è quasi impossibile scoprire differen-ze tra il programma economico della maggioranza di destra el’opposizione di centro-sinistra, imperniati come sono en-trambi sulla “flessibilità” (vale a dire la precarietà del lavoro)quale sistema per uscire dalla crisi; in cui Massimo D’Alema,quando era capo del governo, si macchiava di vergogna ricon-segnando alla Turchia il leader curdo Ochalan, rifugiato inItalia. D’altronde, tra questo gesto e la richiesta di estradizio-ne di Battisti, esiste, a ben vedere, una sinistra coerenza…

Ma, al di là del mondo politico, sono soprattutto i grandiquotidiani (salvo Il manifesto e Liberazione) che si sono in-caricati di modellare l’opinione pubblica e di fare di CesareBattisti un mostro, nell’intento poco nascosto di influenza-re la stampa francese, dunque il pubblico, dunque i magi-strati di Parigi…

Qui bisogna distinguere tra i quotidiani italiani popola-ri e quelli che godono di una certa reputazione, benché ilfine ultimo sia lo stesso.

Tra i primi, vi sono per esempio tra giornali apparte-nenti allo stesso gruppo editoriale: Il Resto del Carlino

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(Bologna), La Nazione (Firenze), Il Piccolo (Trieste). Sonousciti, sabato 6 marzo, recando sulla prima pagina, una fo-to di Cesare Battisti che faceva una smorfia orrenda, e il ti-tolo, enorme, “Non è un martire, è un assassino”. Il conte-nuto era altrettanto volgare. Soprattutto si erano andati apescare intellettuali francesi favorevoli all’estradizione nelnostro caso Max Gallo e André Bercoff, direttore di FranceSoir. Poco imbarazzati, si sarebbe detto, di figurare tra ti-toli che grondavano odio.

Altro tratto comune ai media popolari – quotidiani dibasso livello, televisione pubblica o privata (in realtà nonce n’è che una, in Italia), radio – è, oltre al linguaggio esa-cerbato, la continua esibizione di “vittime di Battisti”, vereo presunte. Abbiamo visto ormai infinite volte in televisio-ne il figlio paraplegico del gioielliere Pier Luigi Torregianio il figlio del macellaio Sabbadin, uccisi dai PAC lo stessogiorno (16 febbraio 1979) con mezz’ora di intervallo, l’unoa Milano e l’altro presso Venezia.

Eppure, se c’è qualcosa di certo nella vicenda giudizia-ria di Cesare Battisti, è che egli non eseguì questi omici-di, in nessuno dei due casi. Il suo principale accusatore,Pietro Mutti – che, divenuto un pentito solo dopo l’eva-sione di Battisti, faceva parte di un’altra organizzazione(Prima Linea) e rilasciò confessioni quanto meno dubbie(secondo lui, le Brigate Rosse sarebbero state armate daiPalestinesi, ma la cosiddetta “inchiesta veneta” non ap-prodò a nulla) – negò sempre la partecipazione diretta diBattisti all’attentato Torregiani, mentre i magistrati gliattribuirono solo un ruolo di copertura per l’omicidioSabbadin (simultaneo all’altro). Battisti avrebbe parteci-pato alla loro organizzazione in quanto membro dei PAC.Il pentito Mutti, d’altra parte, riferiva voci raccolte nel-l’ambiente. Altri personaggi da lui accusati vennero poiassolti con formula piena.

D’altra parte, il caso Torregiani illustra bene il funziona-mento della giustizia italiana, tra la fine degli anni ’70 e l’iniziodegli anni ’80. Torregiani uccise uno dei due rapinatori cheavevano assalito il ristorante in cui cenava, il 22 gennaio 1979.Un cliente innocente morì nella sparatoria. Meno di un mesedopo, Torregiani fu ucciso a sua volta, davanti alla gioielleria

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di cui era proprietario. Per errore colpì il proprio figlio, che ri-mase invalido (buona parte della stampa italiana continua aripetere che il ragazzo fu ferito da Battisti in persona).

Durante l’istruttoria, rivolta contro un collettivo autono-mo di quartiere, vi fu una quantità di confessioni “sponta-nee”, di cui alcune totalmente assurde. Tredici “rei confessi”denunciarono in seguito di essere stati selvaggiamente per-cossi e torturati dalla polizia. I magistrati (nessun poliziottoche abbia ucciso o torturato dei “contestatori” è mai finito inprigione, in Italia; e il caso di Carlo Giuliani è sotto gli occhidel mondo intero) archiviarono tutte le denunce. Fu la primavolta che Amnesty International si pronunciò contro un pae-se occidentale – l’Italia – per ricorso alla tortura.

Il resto del processo – fondato inizialmente sulle confessio-ni di un giovane vittima di gravi turbe psichiche, che in segui-to ritrattò senza che se ne tenesse conto, di una ragazzina diquindici anni handicappata mentale, ecc. – brancolò nel buiofino alla comparsa, in una seconda fase, del “pentito” di turno.

Tutto ciò è ben descritto nel libro di Laura GrimaldiProcesso all’istruttoria (ed. Milano Libri, 1981), che fa bencomprendere come funzionasse la giustizia italiana duran-te gli “anni di piombo”. Il figlio di Laura Grimaldi fu a suavolta accusato di avere ucciso Torregiani. Tra le prove, ilrinvenimento a casa sua del disegno di un uomo con un fu-cile in una mano e una bomba nell’altra. Peccato che que-sto disegno non fosse opera del giovane, come fu afferma-to. Era stato eseguito nel 1944 da un partigiano iugoslavo,e figurava sulle mostrine dell’esercito della Jugoslavia.

Gli anni ’70 e i primi anni ’80 in Italia erano d’altrondequelli in cui si arrestava un povero diavolo per aver dise-gnato, sul tovagliolino di carta di una pizzeria, una stellasimile a quella delle Brigate Rosse; in cui si gettava in pri-gione una venditrice ambulante ottantenne (“NonnaMao”) quale complice dei terroristi. In cui Toni Negri euna dozzina di docenti universitari venivano imprigionati,il 7 aprile 1979, come “capi delle BR”, salvo poi riconoscereche non era vero e modificare il capo d’imputazione per man-tenerli ugualmente in prigione o in esilio; in cui si esaminava-no, sezione per sezione, le schede elettorali per vedere sequalcuno vi aveva tracciato slogan o disegni sovversivi; ecc.

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È chiaro che la stampa e i media popolari non hanno al-cun interesse a frugare in questo passato non precisamen-te pulito. A loro basta avere trovato il “mostro” a cui attri-buire tutti i delitti possibili, trascurando le altre confessio-ni poco utili del suo “pentito” personale; basta, senza sape-re nulla del processo, esporre alle lacrime del pubblico i fi-gli delle sue “vittime” – più probabilmente vittime di unaprocedura giudiziaria viziata, senza confronto reale conl’accusato, giudicato in contumacia (e privato del diritto aun nuovo processo se arrestato, che l’Italia, sola eccezionein Europa, ancora non prevede).

Veniamo ora alla “grande stampa” italiana, quella checonta: La Stampa, La Repubblica, Il Corriere della Sera, piùalcuni settimanali. In questo caso, è evidente un proposito dipiù largo respiro: parlare ai confratelli “intellettuali” francesie farli ricredere. Cominciamo con Barbara Spinelli, corri-spondente molto rispettata da Parigi de La Stampa. Il suo ar-ticolo (7 marzo 2004) si intitola “Cari amici francesi, su Bat-tisti sbagliate. Non lui, ma altri, sono le vittime degli anni dipiombo”. È stato tradotto su Le Monde del 13 marzo.

Barbara Spinelli accusa gli intellettuali che hanno fir-mato le petizioni pro Battisti di ignoranza: per via della lo-ro propensione all’ospitalità e della loro simpatia per i ri-belli, si sarebbero fatti ingannare. La ricostruzione degli“anni di piombo” in Italia a cui credono sarebbe quella deirifugiati, e non avrebbe nulla a che vedere con la verità.Battisti sarebbe stato il “capo” dei PAC e, senza eseguirlipersonalmente (in ciò Barbara Spinelli è più cauta dellamaggioranza della stampa italiana), avrebbe “ordinato” gliassassinii di Torregiani e Sabbadin.

Gli intellettuali francesi, nobili nella loro difesa di Drey-fus e di Solzenicyn, non dovrebbero lasciarsi ingannaredal fatto che Battisti sia uno dei loro, “uno di Gallimard”.Dovrebbero informarsi meglio: Alberto Toscano, corri-spondente da Parigi di Panorama, ha gia scoperto che il di-rettore de La Marianne non sa nulla dei delitti concreti at-tribuiti a Battisti. Se gli intellettuali francesi avessero vistoin tv, come Barbara Spinelli, il povero figlio di Torregianisulla sua carrozzella da invalido, avrebbero capito meglioda che parte stia la giustizia…

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Ecco un esempio di disinformazione intelligente. Ve-diamo dunque gli elementi che avvicinano Barbara Spinel-li ai suoi colleghi “di rango”:

Si ignora, o si finge di ignorare, che il rifiuto di estradareBattisti poggia su principi che non hanno nulla a che farecon la sua presunta colpevolezza. Le questioni in gioco, inFrancia, sono la possibilità che una stessa Corte si pronuncinuovamente su materia già giudicata, che uno Stato sottrag-ga di colpo a un rifugiato il diritto d’asilo che aveva concessoper tredici anni, che accetti che un prigioniero sia consegna-to alla “giustizia” di un paese che mantiene procedure tipi-che dell’Inquisizione, come la condanna in contumacia sen-za ripetizione del processo in caso di cattura, o come l’abiuradel prigioniero quale via per la libertà, affidando all’autoritàl’esame della sua coscienza individuale.

Si ignora praticamente tutto del caso giudiziario di cui sitratta. Nessuno ha accusato Battisti di essere “il capo” dei PAC,salvo una parte della stampa italiana più volgare, innamoratadei titoloni. Ancora oggi, Battisti è tutto salvo che un ideologo(lo si nota anche dall’impaccio di certe sue dichiarazioni). Selo si accusa di qualche cosa, è di avere “partecipato” (così silegge nella richiesta originale di estradizione) a due dei quat-tro assassinii che gli sono attribuiti, nonché a una sessantinatra rapine e aggressioni che gli sono addebitate per avere fattoparte dell’organizzazione (60 persone) che le rivendicò. Le al-tre due accuse di omicidio eseguito direttamente provengonodal “pentito” di cui ho già parlato.

Prima di scrivere una sola riga bisognerebbe saperequeste cose, se si ha il senso dell’onore, e non accusare ipropri colleghi francesi (più interessati ai principi in gio-co) di un’ignoranza che si condivide. D’altra parte, il “me-todo Spinelli” è comune alla maggior parte degli editoria-listi della stampa italiana e dei conduttori di talk-show.Così Mario Pirani, ex comunista ed ex dirigente dell’ENI

di Enrico Mattei, fa su La Repubblica del 4 marzo un ri-tratto di Battisti totalmente campato in aria: “ex brigati-sta rosso”, “riparato in Nicaragua” subito dopo l’evasio-ne, convertitosi in scrittore solo perché ciò poteva garan-tirgli una vita “confortevole e sicura” in mezzo agli intel-lettuali del Quartiere Latino (mentre Battisti creò la pro-

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pria rivista letteraria Via Libre quando si trovava in Mes-sico), ecc. È evidente che Pirani non sa nulla di Battisti.Si pronuncia sul destino di un uomo senza essersi nem-meno preso la briga di informarsi.

Stessa cosa per Alberto Toscano, uno dei riferimenti diBarbara Spinelli (anche, supponiamo, per ciò che riguar-da il supposto “partito di Gallimard”: Toscano scrisse in-fatti che tutti i romanzi di Battisti erano usciti pressoGallimard, mentre ciò è vero solo per i primi tre, su unadozzina. Vabbé, bazzecole).

Ebbene Toscano, sul settimanale Panorama, subitodopo avere accusato Philippe Cohén, de La Marianne, dinon sapere di cosa stesse parlando, descrive in dettaglio,fidandosi di una “fonte qualificatissima del ministerodella Giustizia”, il modo in cui Battisti avrebbe personal-mente “finito con gelido sadismo” il macellaio Lino Sab-badin, mentre questi giaceva ferito al suolo.

Abbiamo visto che Battisti non è stato accusato di avereeseguito materialmente questo crimine (attribuito a un altroimputato, di cui riporto le sole iniziali: D.G.). Dunque quellodi Toscano non è nemmeno più del giornalismo. È violenzaallo stato puro, contro qualcuno che si sa impotente a reagi-re per via giudiziaria, con una querela per diffamazione. Èla fabbricazione deliberata e paziente di un mostro, fino adarne un’immagine che permetta di schiacciarlo contro ilmuro. È il “gelido sadismo” che si vuole attribuire a Battisti.Non più il “metodo Spinelli”, ma il più generale “metodo ita-liano” di questi giorni.

Termino col peggio, che ci viene da un altro corrisponden-te de “La Stampa” da Parigi, Cesare Martinetti. Costui tradu-ce per il pubblico italiano una frase apparsa sul quotidianoL’Humanité, di questo tenore: Cesare Battisti a été condamnéen 1987 par la justice d’exception – un tribunal militaire –, ré-servée aux procès des militants de l‘ultra gauche.1

La frase tra lineette – “un tribunale militare” – è dei giu-

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Il 19 marzo L'Humanité ha pubblicato una replica di Cesare Marti-netti de La Stampa a questo articolo, circa il modo in cui lo stesso Mar-tinetti aveva tradotto "une justice d'exception - un tribunal militare".

Sostanzialmente, il giornalista avrebbe mantenuto i trattini. Ciò non

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dici francesi che per primi respinsero la richiesta di estra-dizione di Cesare Battisti. Quanto al fatto che una legisla-zione d’emergenza sia stata applicata ai militanti italianidi estrema sinistra, nessuno oserebbe negarlo (a parte al-cuni magistrati ed ex magistrati italiani a suo tempo coin-volti in pesanti distorsioni del diritto, e che oggi sembranoammettere tra le righe che stavano in qualche modo “ven-dicando” il loro collega Alessandrini).

Ma ecco come il pubblico italiano ha potuto leggere lafrase de L’Humanité, nella traduzione di Martinetti: “Bat-tisti è stato condannato nel 1987 da un giudice speciale diun tribunale militare riservato ai processi dei militantidell’estrema sinistra.”

Dubito che Martinetti, corrispondente da Parigi di uno deiprincipali quotidiani italiani, ignori la differenza tra “réservé”(l’oggetto sarebbe il tribunale militare) e “réservée” (l’oggettoè la legislazione d’emergenza). Eppure questa traduzione èpassata di quotidiano in quotidiano, di settimanale in setti-manale, fino a divenire la prova della cattiva conoscenza chenon solo L’Humanité, ma più in generale gli intellettuali fran-cesi che hanno firmato l’appello contro l’estradizione, i citta-dini solidali con Battisti – per farla breve, buona parte dellaFrancia – avrebbero dell’Italia degli “anni di piombo”, perce-pita come simile al Cile di Pinochet.

Tutto fa brodo, dunque – dalla pura menzogna alla tradu-zione “adattata” astutamente, dal “metodo Spinelli” alla scel-ta delle foto più idonee – perché il “mostro” Battisti e i suoi li-bri cessino di essere testimonianza di ciò che si vuole nascon-dere: l’adozione in Italia di “leggi d’emergenza” in gran parteancora operanti, che hanno permesso centinaia di processi-farsa, migliaia di arresti senza prova e il massacro sommariodi tutta una generazione di ribelli.

(Da Carmilla On Line, 16.3.2004)

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toglie che, trattini o no, "justice d'exception" è divenuto "giudice specia-le", invece di ciò che indicava ("procedura d'emergenza"). Lo stesso Mar-tinetti non ha chiesto rettifiche al Corriere della Sera, a Panorama e aglialtri giornali che hanno riportato la nostra stessa frase.

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“L’ARCO UNICO” DELLA REPRESSIONE

di Mauro Bulgarelli

Mauro Bulgarelli è deputato del partito dei Verdi

Sui giornali dei giorni scorsi campeggiavano – spesso af-fiancate – due notizie. La prima riguardava l’arresto a Pa-rigi di Cesare Battisti, ormai noto più in veste di affermatoscrittore noir che come latitante dei Proletari Armati per ilComunismo; l’altra, la relazione semestrale del Sisde che,fedele a un formulario per la verità un po’ consunto, ripro-poneva la teoria dell’ ‘unico arco eversivo’, nel quale stipa-va a vario titolo brigatisti, anarco-insurrezionalisti e disob-bedienti. L’accostamento delle due notizie, in effetti, ri-specchia efficacemente la filosofia che muove istituzioni einvestigatori che, quando si tratta di fare i conti con il con-flitto sociale, si ritrovano sulla strada che conoscono me-glio: quella dell’emergenza. A nessuno può sfuggire chel’attenzione repressiva che da qualche tempo le nostre au-torità riservano agli esuli degli anni ‘70 trova una sua logi-ca nell’adesione convinta del governo italiano alle nuovepolitiche disciplinari europee che, in materia di sicurezza,riesumano da un lato lo spettro terroristico e dall’altroquello del deviante (sia esso il migrante, il tossicodipen-dente o la marginalità ‘eccedente’ delle metropoli). Sottoquesto profilo, le centinaia di esuli si trasformano in veri epropri ostaggi da dare in pasto all’opinione pubblica percorroborare e rendere più efficace sul piano simbolico levirtù muscolari dello Stato, soprattutto laddove esso attra-versi una crisi di autorevolezza e di consenso sociale. Pro-prio quest’ultima considerazione ci riporta all’altro assedel problema, quello che investe il movimento, destinata-rio, negli ultimi tempi, di un rinnovato zelo inquisitorio. È,infatti, l’incapacità di governare l’insorgenza di pratiche diinsubordinazione sociale che minacciano di massificarsi edi autoriprodursi – penso alle lotte degli autoferrotranvie-ri, alle mobilitazioni spontanee della società civile a Scan-zano Jonico, La Maddalena, a Terni, nonché alla capacitàda parte dei lavoratori atipici e intermittenti di portare insuperficie la propria condizione di “senza diritti”– che con-

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siglia di colpire quei movimenti che hanno mostrato di sa-per dialogare, di intrecciarsi, con queste realtà.

Lo Stato, insomma, sembra da una parte voler riaffer-mare la vocazione emergenziale del diritto penale assem-blato nei “tribunali di guerra” degli anni settanta e, dall’al-tra, far retrocedere brutalmente la soglia della ‘legalità’ do-po che il grande movimento nato a Genova e cresciuto nel-le straordinarie mobilitazioni contro la guerra l’aveva si-gnificativamente spostata in avanti, affermando un princi-pio nuovo: non esiste illegalità di massa che possa esseresanzionata se essa si propone di contestare i crimini in-commensurabilmente più grandi perpetrati dai potentidella terra attraverso la globalizzazione del comando capi-talistico e i massacri della guerra preventiva. E proprio sulversante della piazza i segnali preoccupanti non mancano:botte e processi a chi lotta per la casa, a chi si oppone allacostruzione di quei lager camuffati che sono i Cpt, a chicontesta le scelte guerrafondaie di questo governo.

Sulla lettura penale degli anni ‘70 e la criminalizzazionedelle lotte dei nostri giorni – testimoniata dal nugolo di proce-dimenti aperti contro il movimento – si sostanzia la logica delredde rationem innescata dallo Stato, che la sinistra commet-terebbe un errore tragico se non tentasse di arginare in qual-che modo. Per far questo, la strada è lineare e non si presta ascorciatoie: rilanciare la campagna per la soluzione politica diquegli anni, imperniandola attorno a un progetto credibile diamnistia generalizzata, e impedire, a partire dall’inizio delprocesso per i fatti di Genova, che una nuova generazione dilotte venga data in pasto alla repressione e alle patrie galere. Inquanti, anche tra gli scranni del Parlamento, abbiamo magni-ficato “lo spirito di Genova” come una sorta di soffio vitale chepoteva rianimare una politica agonizzante? Bene, ora si trattadi difenderlo. A Genova centinaia di migliaia di uomini e don-ne hanno sfidato, con forme e linguaggi diversi, l’arroganzadelle zone rosse: è stato, a mio avviso, uno dei momenti più al-ti di democrazia dal basso che questo paese abbia mai espres-so, un patrimonio che va difeso e sottratto alle stanze dei tri-bunali, quelle stesse stanze dove nessuno è mai entrato, e forseentrerà mai, per l’assassinio di un ragazzo, Carlo Giuliani.

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IL COLLETTIVO AUTONOMO BARONA: APPUNTI PER UNA STORIA

IMPOSSIBILE

di Primo Moroni e Paolo Bertella Farnetti

da Primo Maggio n. 21, primavera 1984.

Abbiamo voluto scrivere una storia “impossibile”. Impossi-bile perché affonda le sue radici in procedimenti giudiziariancora aperti. Perché giornali, magistrati, Digos e “pentiti”ne hanno raccontato e distorto i pezzi che gli servivano.Perché molti compagni l’hanno ignorata, o rimossa, o trop-po rapidamente archiviata con un giudizio sommario. Per-ché i percorsi personali, collettivi e politici si intreccianofra loro in modo ingarbugliato, su un terreno inquinatodalle delazioni, dalle reticenze e dalle autocensure.

Questa è la nostra versione, basata sui documenti, sullecronache, sulle testimonianze dirette, nello sforzo che ab-biamo intrapreso di raccontare noi, per frantumamenti eavvicinamenti progressivi, la storia di questi ultimi anni.

Il quartiere Barona si trova alla periferia Sud di Milano,in un vasto triangolo compreso tra il Naviglio di Abbiate-grasso e il Naviglio Pavese di Pavia. Insieme ad altri quar-tieri (S.Cristoforo, Moncucco, Boffalora, Conca Fallata,Gratosoglio, Chiesa Rossa) prende il nome dalle grosse ca-scine agricole che formavano il territorio dei cosiddetti

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3. IL QUADRO STORICO

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“Corpi Santi” esterni alle mura spagnole. Un tempo Comu-ni, vennero inglobati nella grande Milano dall'amministra-zione fascista, che iniziò in queste zone un programma diedilizia popolare: tra il 1931 e il 1938 l’Istituto Case Popo-lari costruì i primi insediamenti collettivi proprio alla Ba-rona, affiancandoli a quelli degli anni venti nelle zone Sta-dera e Naviglio Pavese. Negli anni cinquanta sarebbero se-guiti S.Cristoforo, ancora la Barona, via Conchetta e viaTorricelli. Infine negli anni sessanta, in concomitanza conla grande immigrazione interna, vengono costruiti ex novoChiesa Rossa, Gratosoglio Nord, Sud e Torri, S.Ambrogio Ie II, Lodovico il Moro (Negrelli). Molte di queste costruzio-ni sono IACP e questo determina la formazione di una vastazona a carattere proletario e popolare.

Il vertice di questo triangolo tra i due Navigli è rappresen-tato dalla Darsena di Porta Ticinese, determinando una com-plessa relazione di scambi umani e politici tra le due zone,tanto che nella “geografia del politico” milanese la zona Sudé stata sempre considerata un prolungamento logico dellacapacità di produzione politica del quartiere Ticinese-Geno-va, che é stato senza dubbio il quartiere di massima concen-trazione delle sedi politiche del “movimento” cittadino.

Il CAAB (Collettivo Autonomo Antifascista Barona) na-sce nel novembre del 1974 per iniziativa di Fabio, quindicianni, e di Umberto, quattordici anni, amici da sempre. Nelgiro di pochi mesi si aggiungono altri amici, soprattutto excompagni di scuola media di Fabio, come Sante, Bob, Iva-no, Fabrizio, Marco, Tonino: “ci si trovava in uno scantina-to, in un bar oppure per strada e si parlava di noi e di checosa ci offriva il futuro, era il tempo del Collettivo Autono-mo Antifascista Barona, un gruppuscolo di ragazzi chesenza cercare nessun appoggio e senza allinearsi su posi-zioni di Partiti e movimenti politici esistenti volevano cer-care di costruire politicamente qualcosa di nuovo in zona.(Eravamo nati soli e volevamo fare tutto da soli)”.1

Il passaggio all’impegno politico di quella che era unacompagnia o banda di quartiere avviene per gradi e quasi

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1. Sei giorni troppo lunghi, dattiloscritto non pubblicato di Um-berto Lucarelli, pag. 92.

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naturalmente. All’inizio la compagnia si ritrovava in Piaz-za Miani, intorno a una panchina. Alcuni venivano soloper la passione della pallacanestro o per organizzare delle fe-ste, ma si parlava anche delle manifestazioni e dei problemidel quartiere-ghetto, senza campi di gioco o palestre, senzaspazi associativi per i giovani. Con il passare del tempo l’ami-cizia si impasta con i bisogni, con la cultura e l’emarginazioneproletaria. C’é la voglia di organizzare qualcosa che dia sensoalla vita quotidiana, c’é l’incontro alla scuola media con i figlidegli occupanti di viale Famagosta,2 uno dei primi grandi mo-vimenti di occupazioni di case a Milano. Alcuni di loro hannocominciato a disegnare col pennarello i pugni chiusi sui ban-chi di scuola, poi hanno continuato a riempire i muri delquartiere di scritte “per sentito dire”, firmandole MS o AO an-cora prima di sapere cosa significassero queste sigle.

Poi ci sono i contatti a livello personale con gli extra-parlamentari che cercano di muoversi nei quartieri e lacrescita per affinità culturale con i modelli della culturadel mitico ‘68, che passa anche attraverso la esperienzascolastica, secondo un percorso che accomuna la grandeparte dei Collettivi giovanili dei quartieri proletari ai mar-gini di Milano. È per ciò che i Collettivi vanno estendendo-si in tutti i quartieri a tradizione operaia e proletaria comeRozzano, Gratosoglio, Piazza Abbiategrasso, Conchetta alTicinese, Barona, S.Ambrogio, Tessera, Giambellino, Bag-gio, Quartiere Olmi, congiungendosi poi con quelli più aNord di Pero, Limbiate, Cinisello per saldarsi infine con lagrande area di Crescenzago, Padova, dove operano Collettivi

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2. Occupazione iniziata nel 1974 negli stabili IACP e organizzataprincipalmente da Lotta Continua e Avanguardia Operaia. Dureràalcuni anni, diventando un punto di riferimento politico per tuttal’area Sud. Nel marzo 1975 circa quattrocento famiglie partecipanoall’occupazione degli stabili IACP di piazza Negrelli, coordinandosicon gli occupanti di viale Famagosta. In particolare, dal 1975, le oc-cupazioni si estendono in tutta la zona, interessando particolarmen-te gli stabili IACP ma anche quelli privati. Si registrano quindi occu-pazioni in via Teramo, a Stadera, Gratosoglio, ChiesaRossa, Mon-cucco, Gallaratese, via Conchetta, via Torricelli, ecc. Molti Centri So-ciali e Circoli Autogestiti, trovano nelle case occupate, consolidandoil proprio rapporto organico con il quartiere.

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nelle zone Loreto, Leoncavallo, Lambrate, Ortica, Segrate. Sicomincia quasi sempre da temi astratti come l’antifascismo,la Cina, il Vietnam e l’antimperialismo, ma per la loro collo-cazione nella vita e nella memoria del quartiere i Collettivipassano rapidamente a tematiche concrete e di classe, tra cuila lotta per la casa e le occupazioni, le autoriduzioni, la lottacontro il lavoro nero, il collegamento scuola-lavoro.

Su questi temi concreti, sull’inchiesta nel quartiere si avvial’impegno politico del Collettivo, fin dall’inizio deciso a man-tenere il controllo sulle proprie azioni e sul proprio spazio, inaccordo con la sua identità e omogeneità di banda di compa-gni e amici. Per questo il Collettivo si definisce prima di tutto“autonomo”, senza nessun riferimento a quell’autonomiaoperaia che proprio in questo periodo si esprime attraversoRosso, ed è ancora sconosciuta alla Barona. Nell’altra defini-zione che si dà il gruppo, “antifascista”, c’è sia un’eco dellacultura di movimento di questi anni, dove tutto è antifascista(è anche il periodo degli scontri fisici con i “sanbabilini”), siauna nuova interpretazione del tipico obiettivo di una bandadi quartiere: “sorvegliare” la propria zona con una vigilanzaantifascista, cercare un nuovo modo di egemonizzare politi-camente uno spazio dove non possono giungere o comunquenon sono tollerate iniziative esterne.

Il Collettivo non si identifica con tutta la compagnia diamici della Barona: quando nel 1975 acquista una fisiono-mia più precisa è formato da una decina di militanti moltoattivi, in grado di coinvolgere, a seconda del tipo di iniziati-va, altri venti o trenta ragazzi che costituiscono o frequenta-no la compagnia. In questo stesso anno il CAAB trova una se-de provvisoria nello scantinato di un fiorista e comincia isuoi primi interventi sulle occupazioni di viale Famagosta: iprimi volantini vengono fatti a mano e attaccati con il Vina-vil. Una delle prime uscite “ufficiali” è al Fabbrikone,3 un vec-

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3. Si tratta di una vecchia fabbrica di via Tortona, smantellata damolti anni e occupata nel 1975 dal Coordinamento Autonomo InquiliniTicinese-Genova. L’occupazione nasce come risposta allo sgombero po-liziesco del Teatro Uomo di corso Manusardi, richiesto dal parroco dellachiesa di S.Gottardo a cui il teatro è annesso. Il Teatro Uomo è infattidestinato a diventare, insieme alla chiesa di S.Lorenzo alle Colonne unodei centri propulsori dell’emergente Comunione e Liberazione. L’occu-

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chio stabile occupato in zona Genova, dove si fanno notareper la loro divisa: giacca militare, camicia dell’aereonauti-ca, scarpe anfibie e basco con la stella rossa. Se la divisasi ispira all’iconografia di Che Guevara e della guerrigliasudamericana, le loro letture preferite sono soprattuttonord americane: Prateria in fiamme dei Weathermen,L‘autobiografia di Malcolm X, Col sangue agli occhi diGeorge Jackson, la storia e gli scritti delle Pantere Nere;ostici e lontani i classici del marxismo e i loro epigoni. Ifilm più ammirati e discussi sono quelli di Costa-Gavrascome Zeta e L‘Amerikano.

Fin da quando il quartiere comincia ad avvertire la pre-senza del Collettivo, l’atteggiamento della sezione locale delPCI è ostile: nel corso degli anni il giornaletto comunista dizona, La sedicesima, non mancherà di attaccare i giovaniautonomi, anche se i rapporti personali non arriverannomai allo scontro fisico. Atteggiamento per altro generosa-mente ricambiato dal Collettivo, non solo per la generalecultura antirevisionista che circola nel movimento, ma an-che per l’opposto giudizio sul fallimento dell’esperimentocileno di Allende, che porterà il partito comunista all’elabo-razione della strategia del “compromesso storico”.

Anche il rapporto con i gruppi extra-parlamentari sipresenta subito in modo conflittuale. Trattati dai militantidei gruppi “da sbarbati”, per la giovane età e l’inesperien-za, sono però costretti a frequentare le loro organizzazioniper poterne utilizzare i mezzi tecnici, come per esempio ilciclostile per la quasi quotidiana produzione di volantini.

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pazione del Fabbrikone andrà avanti alcuni mesi tra “scazzi” continuitra le varie componenti che si sono rapidamente aggregate, soprattuttotra i militanti del Coordinamento, che fanno capo all’Assemblea Auto-noma Alfa Romeo e quelli di “Rosso”. I primi intendono usare il luogocome centro di propulsione di lotte, secondo una tipica ottica operaia,mentre “Rosso” tende a legittimare una serie di soggettività e comporta-menti di tipo “nuovo” che la parte operaia rifiuta di riconoscere comeautonomi” e respinge liquidandoli come “Frikettoni”. Nel corso di unafesta discretamente “spinellata” si determinano comportamenti distrut-tivi del luogo stesso e “espropriazioni” delle attrezzature. Questo episo-dio, insieme a una sterminata polemica sulle responsabilità, determinauna progressiva decadenza del Fabbrikone, che diventerà sempre piùun asilo di “tossici”.

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Tutti di famiglie proletarie, i giovani autonomi soffrono diuna carenza cronica di soldi e di mezzi per la loro attività;per questo si divertono a identificarsi con gli eroi del popo-lare fumetto di Max Bunker, Alan Ford e l’agenzia TNT: unabanda di scalcagnati che sopperiscono con il volontarismoe i miracoli d’inventiva all’assenza di fondi e di mezzi. Bobè Grunf, l’autore dei “miracoli tecnici”, Ivano è Alan Ford,Fabio è la Cariatide e così via.

Il contatto con i gruppi produce dei tentativi di recluta-mento, che diventeranno abituali nel corso della storia delCollettivo. Il Movimento Studentesco è la prima organiz-zazione a corteggiare gli autonomi della Barona. Fanno in-sieme delle riunioni e delle ronde antifasciste in zona, di-scutono di antifascismo e di temi come l’Italia fuori dallaNATO. Il CAAB si stanca presto di questo rapporto, problemicome quelli della NATO o del Fronte Popolare sono troppolontani e non trovano seguito nel quartiere, i membri delCollettivo si sentono alieni dalla logica di organizzazione,dalle gerarchie, dai dirigenti e dai quadri. Si divertono dipiù con l’autoriduzione al cinema o la organizzazione difeste diverse, “proletarie” nel quartiere. Conducono unagrossa campagna contro l’ATM per avere migliori collega-menti con il centro e contro l’aumento del prezzo dei bi-glietti. Riempiono i mezzi pubblici di scritte spray, ci sal-gono sopra col megafono a fare propaganda. La loro pre-senza nel quartiere cresce e nel settembre 1976 produconoun giornaletto ciclostilato, Revolucion, un po’ per la “libi-dine” di vedersi scritti e un po’ per mettersi alla prova: scri-vono di aver voluto dimostrare “che dei ragazzi anche senon intellettualisti (per fortuna) possono prendere iniziati-ve di qualsiasi tipo!”. In questo primo numero i pezzi fortisono un articolo sul problema delle abitazioni nel quartie-re-ghetto e una ricostruzione grafica degli scontri di viaMancini finiti con la morte di Zibecchi, travolto da un ca-mion dei carabinieri. Lo slogan finale è “Contro lo statodella violenza ora e sempre resistenza”. Incredibilmente ilciclostilato, distribuito all’edicola di via Santa Rita, vienevenduto tutto e questo li spinge a continuare la esperienzain un rapporto col quartiere non più personale e frettoloso.

Il Collettivo, ora semplicemente CAB (Collettivo Autono-

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mo Barona), fa uscire altri due numeri. In quello di otto-bre/novembre ci sono analisi del quartiere, tipico ambien-te “AFRIKANO” (rione negro), temi esistenziali, una “CAB

story” un identikit del nemico delle masse comuniste: “nonè solo il fascistello sanbabilino, il burocrate DC, il clero rea-zionario, ma anche chi professandosi comunista, tradiscegli interessi della classe operaia”, temi di politica interna-zionale. Concludono avvertendo: “Con questo numero ab-biamo cercato di eliminare le pecche e le eventuali inge-nuità che caratterizzavano il primo numero (speriamo diesserci riusciti). Ma nel numero di dicembre sentono il bi-sogno di sottolineare : “Questo giornale è scritto da deicompagni adolescenti”, concludendo con questo slogan :“La nostra lotta cresce di zona in zona siamo i PELLEROSSA

della Barona”. Il giornale esce come supplemento di Katù - Flash (Vo-

gliamo Tutto); il rapporto con i compagni che fanno capo aquesta esperienza aiuta i membri del CAB a “smaliziarsi”nel linguaggio e nell’impegno politico e li fa entrare in con-tatto con Rosso. Accettano di vendere questa rivista nelquartiere, ma lo fanno soprattutto come occasione percontattare la gente; non riescono a leggere più di due arti-coli per numero e lo trovano troppo difficile. Anche il ten-tativo di leggere collettivamente Proletari e Stato di ToniNegri si fermerà alla prima pagina e il libro sparirà, proba-bilmente bruciato nella stufa.

Quando Vogliamo Tutto confluisce in Rosso i membridel Collettivo non approvano questa operazione e si tengo-no distanti. Ma se il percorso del Collettivo, con una storiasimile a quella di tanti altri micro-organismi autonomi, sisviluppa comunque “dentro, fuori, ai bordi dell’area del-l’autonomia organizzata”, rimane vivo il rapporto di scam-bio e non di subalternità con le organizzazioni maggiori,tipo quella che fa capo a Rosso. Tramonta invece definiti-vamente ogni possibilità di rapporto con gruppi comeAvanguardia Operaia e Movimento Studentesco, con i qua-li il CAB e altri collettivi (S.Ambrogio, via Teramo, “Forna-ce”, piazza Negrelli) occupano la Cascina Boffalora perfarne un centro comune: il contrasto fra il “dirigismo” deigruppi e l’autonomia dei collettivi farà fallire in breve tem-

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po questa esperienza. Da qui in poi il rapporto fra gruppi eautonomi sarà quasi sempre conflittuale, contraddistintospesso dallo scontro fisico.

L’apertura al quartiere dà buoni frutti e la gente seguecon simpatia le iniziative del CAB, ormai riconoscibile e ri-conosciuto alla Barona. Attraverso l’inchiesta di massa siimpegnano nei problemi di zona come lo sfruttamento, ilcarovita, le abitazioni, l’eroina, il lavoro nero. Su questipunti i membri del Collettivo formano delle commissionidi intervento. Organizzano frequenti mostre fotografichedavanti al supermarket di viale Famagosta, sull’ATM e all’o-spedale San Paolo, una struttura-fantasma che potrebbe,se funzionante al completo, garantire una maggiore assi-stenza sanitaria e uno sbocco di lavoro agli abitanti dellaBarona. In questo lavoro collaborano con il gruppo anar-chico di via Conchetta. Contro il lavoro nero il CAB organiz-za delle ronde proletarie tutti i sabati: in circa una trenti-na, con striscioni e volantini, entrano nelle piccole fabbri-che della zona e invitano gli operai a sospendere il lavoronero e a non fare gli straordinari. A volte l’intervento fun-ziona, gli operai ascoltano o discutono, in qualche caso se-gue l’assunzione con i libretti. Se questo è possibile nellefabbrichette con più di dieci operai, più problematico èl’intervento in quelle con pochi lavoratori, spesso legati daparentela con il padrone. Impossibile risulta interveniresul lavoro nero fatto in casa, come quello delle casalingheche fanno i giocattoli per poche lire al pezzo. Sui muri ven-gono scritte le denunce contro i padroni del lavoro nero,ogni giorno cancellate e puntualmente riscritte. L’interven-to nel territorio, nel giro di tre anni, è diventato capillare equasi quotidiano:

“Lavorare nel territorio per la ricomposizione proletaria subasi rivoluzionarie, non è affatto facile: è un progetto di lun-ga durata che viaggia tra mille difficoltà di ogni genere, mache abbiamo fatto nostro da sempre, sgombrando il campoda ogni ambiguità democraticistica. Rompere la tranquil-lità sociale nel territorio significa intervenire complessiva-mente, anche in situazioni o su temi specifici che ci eranosconosciuti o che avevamo sottovalutato, spesso ricomin-ciando tutto da campo o addirittura da O, in ogni aspetto

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della quotidianità metropolitana per materializzare colletti-vamente i bisogni proletari. Usare l’inchiesta di massa comedato di partenza, costruire un rapporto continuo con gliabitanti per non autoemarginarsi dagli emarginati”.4

ll quartiere si è ormai abituato alla presenza del CAB, allemostre fotografiche e ai cortei, ai volantini su vari problemilasciati nelle caselle delle abitazioni, agli interventi nel con-siglio di zona e alla distribuzione dei giornali. Il vero giorna-le del Collettivo è rappresentato dalle scritte murali che tap-pezzano la zona, accompagnate da una germinazione spon-tanea di messaggi di ignoti che si firmano CAB. Anche i nego-zianti collaborano di buon grado alla raccolta di fondi perrinsanguare le magre finanze del Collettivo. Si allargano an-che i contatti con gli organismi autonomi limitrofi comeChiesa Rossa, Gratosoglio, Zona Sud; ottimi sono i rapporticol circolo giovanile di S. Ambrogio, con cui spesso si lavorainsieme e si organizzano delle feste. Importante è anche lacollaborazione con il Co-Cu-Lo,5 che per alcuni mesi affian-ca il CAB nell’intervento sul lavoro nero. A differenza di quel-lo con i gruppi, si tratta di un rapporto abbastanza corretto:non ci sono i soliti pesanti tentativi di cooptazione, vengonomessi a disposizione del Collettivo il ciclostile e altri mezzitecnici per la propaganda.

Nel 1977 si trovano finalmente una sede, occupandodue locali in via Modica, ornati dai murales di Sante, il“grafico” del Collettivo. Il CAB si autoseleziona, la politicadiventa una attività a tempo pieno: dei nuovi compagni diorigine sarda, Sisinnio, Marco e Sebastiano trovano nel-

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4. “Black Out”, numero zero, 1 febbraio 1977, pag. 6. 5. Comitato Comunista (m-l) di Unità di Lotta, con sede in via Vige-

vano, nel Ticinese, dove fonda il Circolo Siqueiros. Pubblica fino al1979 il giornale “Addavenì” e, in concomitanza della crisi organizzati-va, “Controvento”. Il Co-Cu-Lo è formato da militanti operai di variefabbriche della zona sud e da conosciuti intellettuali di formazionemarxista-leninista che fanno un uso dialettico e originale della culturamaoista. È presente nella fondazione dei Coordinamenti Autonomi zo-na Sud e in gran parte delle iniziative di massa della seconda metà de-gli anni settanta. Può essere collocato nella tendenza m-l dell’area del-l’autonomia, ma con forti differenze politiche organizzative nei con-fronti dell’altra componente m-l che fa capo al giornale “Voce Operaia”.

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l’attività del Collettivo una risposta alle loro istanze di emi-grati delusi ed emarginati.

Il 1977 segna un passaggio qualitativo per tutti gli orga-nismi autonomi milanesi: è l’anno di via De Amicis e del-l’Assolombarda, dei cortei armati e del dibattito di massasulla lotta armata. A livello nazionale c’è l’uccisione di Lo-russo, la cacciata di Lama dall’università di Roma, il movi-mento del ‘77, il convegno di Bologna.

I collettivi autonomi milanesi, con la loro identità e lalegittimità di massa frutto del rapporto con il proprioquartiere, nell’urgenza di un progetto politico che unifichile loro esperienze, si trovano esposti alla superiore organi-cità progettuale delle organizzazioni maggiori che si muo-vono nell’ area dell’autonomia. Queste, sia clandestine chedi massa, sono guidate da quadri politici formatisi sin dal-la metà degli anni sessanta. Un quadro politico che rimanesostanzialmente di tipo leninista e tende quindi a legitti-mare le aggregazioni spontanee di movimento nella pro-spettiva di forzarne i contenuti per arrivare a un successi-vo loro reclutamento organico al proprio interno.

In questo periodo le dinamiche delle organizzazionidell’autonomia sono scosse dalla discussione su due pro-blemi fondamentali: l’emergenza massiccia della “tenden-za armata” e la fine della “centralità operaia”. Il dibattito siripercuote in modo confuso nelle strutture dei collettivisenza che questi abbiano gli strumenti per comprenderepienamente le diversità di motivazioni, di strategie che de-terminano le posizioni tattiche, le alleanze, le proposte checircolano. Alle riunioni dei collettivi partecipano spessomilitanti organici delle organizzazioni e, viceversa, i collet-tivi partecipano spesso alle riunioni nelle sedi delle orga-nizzazioni: tutto ciò oltre a determinare un forte scambiodi suggestioni politiche, costruisce una grande comples-sità di rapporti soggettivi e di solidarietà, che troverà lasua espressione più clamorosa nei cosiddetti “cortei arma-ti”, dove si troveranno quindi a convivere “immaginari”della pratica armata e militanti organici della stessa.

In questa zona di incontro-scontro fra la cultura dellaviolenza di massa contro il sistema, propria del movimento,e la messa in atto minoritaria e clandestina della lotta arma-

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ta, non è semplice decifrare i percorsi e le collocazioni deisingoli (e infatti si sa che è stato molto più facile fare di ognierba un fascio, affidandosi al criterio ignobile ma funziona-le della “contiguità”).

In questa situazione di confusione e di accelerazione, diverticalizzazione e di indurimento della lotta politica cittadi-na, si muove anche il CAB, partecipando con i collegamentiSud Ovest, cioè con S.Ambrogio, Chiesa Rossa e Co-Cu-Lo, amanifestazioni, a interventi nelle scuole e in fabbriche comel’Alfa Romeo. All’inizio dell’anno si impegnano in interventicontro il lavoro nero insieme al Collettivo Autonomo RomanaVittoria, in cui si fa notare per il suo protagonismo Marco Bar-bone. Avvertono in questo contatto delle spinte esplicite amuoversi nella direzione di Rosso e si allontanano da questaesperienza dopo le forzature dei cortei armati (come quello divia De Amicis che finisce con l’uccisione dell’agente Custrà),dove si accorgono che personaggi come Barbone cercano diprovocare scontri armati all’insaputa della maggior parte deicompagni che partecipano al corteo. Si sentono estranei ai “di-rigentini” che vanno nelle situazioni a indicare cosa si deve fa-re. Pur rifiutando di diventare portavoce di Rosso frequentanoil collegamento di via Disciplini6 per sapere cosa succede, peressere in contatto con gli altri organismi. A settembre parteci-pano alla tre giorni di Bologna, che sembra preludere a unaorganizzazione nazionale delle varie situazioni autonome.

Dopo Bologna l’aria diviene sempre più calda, c’è una gran

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6. Sede storica della rivista “Rosso” nella sua seconda versione, chenasce nel 1975 e dura ininterrottamente fino al 1979, quando viene ar-restata praticamente tutta la redazione. Sede del CPO (Collettivi Politi-ci Operai) e dei CPS (Collettivi Politici Studenteschi), può essere consi-derata una delle sedi più stabili dell’area dell’autonomia nel corso deglianni settanta. A periodi alterni e in rapporto al diffondersi dei collettiviautonomi, diventa anche “struttura aperta” di Coordinamento di situa-zioni di lotta (fabbrica, scuola, quartiere). Sostanzialmente da questasede sono passate gran parte delle strutture dell’autonomia milanese inun complesso mosaico di dibattito-scontro-rottura che ha permesso aimagistrati e ai “pentiti” le più diverse interpretazioni. Quello che è cer-to è che non è mai esistita una struttura centralizzata dell’autonomiamilanese e che, pur essendo “Rosso” dotato di una propria progettua-lità politica spesso in duro contrasto con le altre tendenze, teneva la se-de “aperta” tentando di porla “al servizio” del movimento.

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fretta, il discorso sulle forme di organizzazione e di pratica po-litica diventa quotidiano e spasmodico. Per qualche mese ilCollettivo continua a frequentare via Disciplini, dove il coordi-namento è sempre più sottoposto da varie parti a spinte e ur-genze di organizzazione. Nel telegrafo senza fili del movimen-to i coordinamenti e le situazioni collettive sono pieni di sus-surri e grida, le idee di formazioni come le BR o Prima Lineasembrano avere dei portatori qua e là, ma il quadro è moltoconfuso, solo voci e discorsi per sentito dire, mai proposte di-rette. Il CAB si sente però estraneo a queste forme di organizza-zione, dalla simpatia per le prime attività non cruente delle BR,dagli slogan provocatori a loro favore, è passato alla distanzapolitica nei loro confronti dopo le “quintalate”di sparamenti.

I giovani autonomi della Barona si rendono conto al coor-dinamento che ancora una volta il discorso è quello di acca-parrarsi gente per la propria organizzazione, di reclutare.Inoltre, una buona metà della gente che frequentava via Di-sciplini era diversa da loro, “stava bene”, sapeva parlare consicurezza, aveva il culto del personaggio senza incertezze,“andiamo, facciamo”. Non c’erano grandi rapporti sul pianopersonale: si sentono spinti a intervenire ai sabati dell’AlfaRomeo contro il lavoro straordinario, ma provano disagio,sono troppo distanti dal problema, la gente non li segue.

Nella crisi di Rosso vengono sollecitati a prendere posizio-ne sia da parte del gruppo che continua a fare capo al giorna-le, sia dallo spezzone transfugo di Barbone, ma non seguononessuno e si allontanano definitivamente da via Disciplini.

Nel corso del 1977 hanno pubblicato un paio di numeridel Bollettino del Collettivo Autonomo Barona che ha so-stituito Revolucion, e hanno collaborato alla redazione diBlack Out, un giornale di collegamento delle lotte autono-me ritenuto “più utile” di Rosso, con un linguaggio piùchiaro e inserti sui quartieri che ne rendevano più facile ladiffusione in Barona. Ma è forse troppo tardi per un’inizia-tiva di questo tipo: è il momento in cui cominciano a mol-tiplicarsi le testate autogestite dell’“ala creativa”, lontanedalla vecchia terminologia, come Apache, Sesto senso, Lapera è matura, Wow, Viola, Crach, ecc.

Nel 1978, il CAB viene sfrattato dalla sede in via Modica,e usa come punto di riferimento il centro di S.Ambrogio,

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frequentando anche la “Fornace”, il collegamento zonaSud Ovest e l’affollato coordinamento proletario della zo-na Sud in via Momigliano.

A questo punto della loro storia i membri del Collettivo co-minciano a cercare una strada politica che, da una parte,li faccia uscire dal ristretto ambito della zona, anche perrispondere alla generale spinta a una organizzazione piùallargata, e dall’altra li differenzi dalle altre proposte checircolano nel movimento. In risposta all’ipotesi avanzatada Rosso di fondare un partito dell’autonomia, fannouscire Eppur si muove... un ‘foglio per l’organizzazioneproletaria nella metropoli”, come primo tentativo di ana-lizzare le esperienze comuni dei collettivi territoriali mi-lanesi e di dare delle indicazioni teoriche e pratiche perla realizzazione di un progetto collettivo, passando dal-l’autonomia diffusa all’organizzazione proletaria nellametropoli. Dopo avere descritto la grande diffusione deicomportamenti antagonisti e la risposta capillare e pre-ventiva delle forze repressive statali e private, capiscono“come a questa estensione sociale di sovversione corri-sponda sostanzialmente l’incapacità delle varie forze del-l’autonomia cosiddetta organizzata di essere momenti diorganizzazione e direzione. Finché le proposte di mili-tanza rivoluzionaria saranno ricche di ideologia e mora-lismo, l’autonomia diffusa ne rimarrà sempre più estra-nea: lasciamo agli intellettuali e militanti, che negano laradicalità dei loro stessi bisogni, menarsela su forme par-titiche più o meno intergalattiche, salvo poi annegarequeste menate frustranti nel pessimo e costoso vino dellevarie “operette”.7

L’unico terreno di organizzazione praticabile rimanequello del territorio: “il fondare il nostro progetto di orga-nizzazione solo e unicamente assumendo il territorio co-

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7. La definizione di operette prende il nome dal locale “L ‘Ope-retta di corso di Porta Ticinese”, aperto intorno al 1977 da un furbocommerciante che aveva capito e interpretato i primi segnali di ri-flusso e disgregazione. Il modello è stato poi fatto proprio da moltialtri, soprattutto provenienti dalle formazioni di sinistra e moltospesso dalla fabbrica. In questo ultimo caso i capitali iniziali ven-

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me momento centrale di ricomposizione proletaria, è ilfrutto di anni di lotte e di esperienze territoriali lungamen-te praticate qui a Milano spesso ritenendole terreno se-condario o comunque complementare all’organizzazionedi fabbrica. Movimenti di massa autonomi dal capitale sisono sviluppati nelle scuole, nei servizi, nei quartierighetto, nelle piccole fabbriche e nelle prigioni, il movi-mento giovanile ed il movimento delle donne, fino al mo-vimento del ‘77 hanno posto fine alla parola centralitàoperaia... La via dell’organizzazione si fa ora più com-plessa e tortuosa e non può che essere il risultato di unalotta sul territorio, collettiva e di massa, per e dentro laricomposizione di classe. Per essere dentro a questo pro-cesso è necessario attaccare le attuali sedimentazioni or-ganizzative. L’esigenza di classe non è quella di trovarealleati, ma di ricomporsi sul territorio battendo ogni ten-tativo corporativo e riformista. Questa è la prospettiva:officina per officina, casa per casa, unità per unità pro-duttiva.” Non si crede più nella possibilità “di agire auto-nomamente in ogni singola zona e di ritrovare poi mo-menti specifici di coordinamento su iniziative delimitatee mai stabili”: questo ha impoverito il dibattito e impedi-to la circolazione dei contenuti delle forme di lotta,“creando di fatto una mentalità da banda, che ha provo-cato seri e infantili settarismi, quando non addirittura ri-valità fra i singoli collettivi.”

Ora è necessario “ricercare tutti i settori del Proleta-riato metropolitano, comportamenti antagonisti espressida una parte, spezzoni di organizzazione autonoma giàdati dall’altra e dall’insieme di queste due cose porre lebasi dell’organizzazione proletaria stessa.” Con l’antici-pazione repressiva del capitale e con il decentramentoproduttivo non si può più “intendere il contropotere co-

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gono realizzati principalmente attraverso super liquidazioni otte-nute spesso per il ruolo di avanguardia di lotta che i futuri gestoridelle osterie svolgevano nel luogo di lavoro. Il fenomeno si è diffu-so parallelamente alla crisi dei modelli politici e alla conseguentechiusura di molte sedi. Il bar serale diventa quindi un punto di ri-ferimento e di aggregazione.

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me una trincea da scavare sul posto di lavoro e la trattati-va come modo per imporre i bisogni operai: il contropo-tere diventa immediatamente lo scontro con il capitale,uno scontro quotidiano e continuato che vede nel terri-torio l’unico campo di battaglia, senza più linee di de-marcazione e mediazione tra capitale e proletariato...Costruire le ronde proletarie che vadano a visitare l’or-ganizzazione del lavoro e la composizione di classe terri-toriale, far nascere commissioni e gruppi di interventoche vanno a scovare i covi del lavoro nero, gli spacciatorid’eroina che seminano morte: formare commissioni dicontroinformazione per avere la conoscenza totale dellamilitarizzazione a cui siamo sottoposti; ronde contro ilcarovita che impongono il controllo dei prezzi e la qua-lità della merce venduta dai bottegai vari; gruppi di stu-dio che analizzano la nocività della vita metropolitana:scarichi industriali, lavorazioni pericolose, avvelena-mento degli inceneritori, dell’immondizia e delle fabbri-che della morte (vedi Seveso), rumorosità e igiene delterritorio dove i proletari vivono. Questi non sono che iprimi momenti di organizzazione e conoscenza che vo-gliamo costruire. La nostra pratica di intervento deve dasubito essere estesa omogenea e contemporanea su tuttala metropoli.”

Un altro punto accennato è la difesa dei proletari detenuti“comuni” accanto a quella dei politici. Netto è il rifiuto dellapratica esemplare armata: “Niente a che vedere con azionipiù o meno esemplari e con relative pretese di insorgenzaproletaria attorno a questi attacchi. Intendere il contropotereattacco indiscriminato e propagandistico agli apparati dellostato diffuso e ai centri di comando della fabbrica diffusa, si-gnifica impossibilità di tracciare un terreno di ricomposizio-ne e rimanerne fuori... Eliminando lo spacciatore di eroinanon si elimina la rete organizzativa di spaccio, la stessa cosavale per ogni settore dell’offensiva proletaria nelle metropoli,che intendiamo organizzare.”

Questo tentativo di elaborare un progetto politico par-tendo dalla propria esperienza territoriale arriva in una si-tuazione metropolitana dove si sta chiudendo la forbice re-pressione- lotta armata e sta maturando la crisi del dopo

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Bologna, dopo l’impatto esplosivo del movimento del ‘77.Il piano repressivo elaborato dal governo di Unità Nazio-nale, l’accettazione organizzativa delle formazioni armate,l’impossibilità per l’autonomia organizzata di attestarsi co-me bastione ai confini dell’illegalità producono per conse-guenza l’impossibilità per i collettivi di proseguire nellapratica di autodeterminazione, esponendoli per primi al-l’ondata repressiva.

Il CAB continua il confronto e la collaborazione con al-tri collettivi, come quelli del Gallaratese e di viale Unghe-ria. Inizia un rapporto con il Collettivo Politico Ticinese,con il quale organizza delle ronde contro l’eroina in piaz-za Vetra. Le iniziative si incrociano, come dimostrano inumerosi volantini del periodo firmati di volta in volta dadiversi raggruppamenti di organismi autonomi, ma sen-za omogeneità e senza più controllo sulla situazione. Imembri del CAB, in questo tentativo di allargare l’inter-vento politico al di là della propria zona, rallentano i con-tatti con il quartiere e si perdono un pò di vista anche fraloro, muovendosi a volte in situazioni diverse. In modounitario mandano avanti il discorso politico sul carcere.Nel 1978, in occasione della morte in prigione di MauroLarghi, producono un eliografato sulla sua morte, costa-to dei sacrifici in termini di denaro, “San Vittore comeStamheim”, anche per reagire all’indifferenza di Rosso edi altri gruppi. Nello stesso anno si ritrovano per una ma-nifestazione con striscioni OPAM, insieme al collettivo “gliUnghari” e al Collettivo Proletario S.Ambrogio contro ilcarcere e la militarizzazione del territorio; emettono unvolantone, “Dovere di tutti è essere liberi”. All’inizio del1979 sono tra i fondatori del Comitato MetropolitanoContro il Carcere alle Colonne di San Lorenzo.

Il 16 febbraio del 1979 un orefice della Bovisa viene uc-ciso da due giovani a volto scoperto. Si tratta di Pier LuigiTorregiani, già entrato nella cronaca per avere ucciso in unlocale pubblico un rapinatore. I due giovani salgono a bor-do di una Opel Ascona, al volante della quale c’è un terzogiovane, e dopo poche centinaia di metri si trasferisconosu una Renault 4 rossa, che risulterà poi appartenere allamadre di Sante Fatone, un membro del CAB. Fra il 17 e il 18

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febbraio scatta un’operazione della Digos, coadiuvata dal-la Squadra Mobile di Milano, che porta all’arresto di cin-que membri del Collettivo Autonomo Barona, mentre altridue, Sante Fatone e Sebastiano Masala, si rendono irrepe-ribili. I giornali, inaugurando la tecnica del “processo amezzo stampa” danno grande rilievo agli arresti e “sbatto-no i mostri in prima pagina”: i titoli sono del tenore “sgo-minata la cellula degli autonomi che ha assassinato Torre-giani”; si parla dei killers dell’autonomia, della “banda” po-litico-criminale della Barona. Riferendosi ai membri sardidel CAB, Sissinnio Bitti e i fratelli Masala, il Corriere dellaSera titola il 21 febbraio: “Come un pastore sardo può di-ventare un killer degli autonomi”. Mentre la stampa prose-gue il suo linciaggio, il Presidente della Repubblica si con-gratula con il ministro Rognoni per la brillante operazio-ne. Ma il 24 febbraio tre dei membri del Collettivo arresta-ti, Umberto Lucarelli (18 anni), Fabio Zoppi (19 anni) eRoberto Villa detto Bob (18 anni), vengono scarcerati perassoluta mancanza di indizi. Gli altri due arrestati, Sisin-nio Bitti (31 anni) e Marco Masala (18 anni), indicati comegli esecutori materiali del delitto, hanno un alibi di ferro,confermato da molte persone: all’ora del delitto erano pre-senti sul posto di lavoro e in seguito verranno completa-mente scagionati dall’accusa.

Lo scagionamento e l’estraneità all’omicidio Torregianirendono più allucinante e significativo il trattamento subi-to dai giovani durante l’“operazione”: inaugurando unatecnica che avrà in seguito altre applicazioni, gli autonomidella Barona vengono torturati selvaggiamente da agenti efunzionari della Digos per costringerli a confessare il delit-to. Pestaggi a pugni e schiaffoni, cerini accesi sotto i piedie i testicoli, bastonate sul torace attraverso una copertaper non lasciare segni, ingerimento forzato di acqua me-diante un tubo di gomma, botte sulle tempie con le nocchedelle mani e cosi via; due degli arrestati devono essere ri-coverati in ospedale. Il Collettivo Autonomo Barona, benconosciuto organismo autonomo, continuamente corteg-giato dai “partitini” della città, senza nessuna coperturapolitica e perfettamente noto alla polizia per la sua freneti-ca attività, si dimostra all’occasione il modello ideale per la

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criminalizzazione e la distruzione di una pratica politicaincontrollabile e irriducibile. Il Collettivo viene “scelto”per le sue caratteristiche, come esempio per inquinareun’area già fortemente sospetta agli occhi dell’opinionepubblica e per inaugurare un nuovo corso, più selvaggio eindiscriminato, della repressione, che porterà a una lettu-ra esclusivamente criminale di un lungo e complesso per-corso politico.

L’impatto devastante con le torture e la prigione, la fero-cia dell’esperienza subìta insieme alla consapevolezza diessere innocenti, in un primo tempo rinsaldano i rapportifra i compagni del Collettivo e li rafforzano nella convin-zione di avere ragione, di avere le idee giuste. Nonostanteche il caso Torregiani abbia distorto completamente, so-prattutto attraverso la diffamazione della stampa, la loroimmagine e la loro attività politica, i membri del CAB conti-nuano ad essere attivi, soprattutto sul problema del carce-re. Intervengono alla Palazzina Liberty, partecipano al cor-teo per i ragazzi di via De Amicis, formano comitati di libe-razione, emettono dei volantini contro la repressione, fan-no dei piccoli cortei di quartiere con una cinquantina dipersone e ronde nei negozi a spiegare la situazione deicompagni incarcerati e a raccogliere sottoscrizioni.

Ma la repressione diventa sempre più incalzante, l’attivitàdei vari collettivi si riduce sempre più all’autodifesa, semprecon meno cose da dire o sempre le stesse. La costituzione dicomitati di liberazione non riesce a tenere dietro agli arresti,l’operazione del 7 aprile dà la misura della portata e dellaqualità del disegno di criminalizzazione nazionale di tuttaun’area di movimento e focalizza su di sé gran parte dell’im-pegno antirepressivo. Tutto questo contribuisce a rimpiccio-lire il caso degli autonomi della Barona; in questo clima lamagistratura archivia con motivazioni grottesche l’inchiestaavviata dopo le denunce contro la tortura.8 L’estremo tentati-vo di coordinamento fra i collettivi sul problema della re-pressione finisce per sciogliersi anche perché ognuno lavorasu questo punto per conto proprio.

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8. Vedi Laura Grimaldi, Processo all’istruttoria, Milano Libri Edi-zioni, Milano 1981.

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Per il Collettivo della Barona il problema più grave è laprogressiva perdita di rapporto con il quartiere, l’attività sulterritorio che da sempre aveva funzionato come elemento dicoesione e di forza. Il quartiere all’inizio reagisce bene alcoinvolgimento nel caso Torregiani, dimostrando, dopo ildisorientamento provocato dalla campagna diffamatoria,piena solidarietà con gli autonomi scarcerati e gli altri delcollettivo. La gente si congratula e si indigna per la vicenda,offre sottoscrizioni, si ferma comunque a parlare con i “mo-stri” o con gli “eroi”. Ma il seguito giudiziario e altri avveni-menti sbricioleranno a poco a poco questo rapporto.

Sui compagni latitanti, nonostante la pochezza degli in-dizi, è gioco facile della magistratura imbastire una seriedi nuove accuse. I nuovi arresti di presunti membri del CAB

in relazione all’omicidio Torregani, come Grimaldi o Me-meo, creano confusione e sono difficilmente giustificabili.Anche se si tratta di persone mai state membri del CAB,vengono indicati come tali dalla magistratura: questo nonviene smentito né dal collettivo, per un senso di solidarietàcon i nuovi arrestati, né da questi ultimi, per avere una le-gittimazione della loro azione politica. È un meccanismoche incrina di nuovo la loro immagine, giustificato peròdalla vissuta esperienza carceraria. È lo stesso meccani-smo che agisce nell’emanazione di un nuovo numero diEppur si muove... nel dicembre del 1979. Nel nuovo nume-ro si difendono tutti i detenuti politici, si vuole affermarela legittimità di tutti i comportamenti antagonisti allo Sta-to; “Nessun comunista è innocente per lo stato! Nessun co-munista è colpevole per il Proletariato!” È un tentativo dimantenere un atteggiamento unitario e omogeneo, di fron-te alle paure e ai sospetti di una situazione di “caccia al co-munista”, dove i compagni si smarrivano per strada e tuttii progetti politici si riducevano alla sopravvivenza e all’in-tervento sul carcere. Ma il bisogno di non fare i giudici, didifendere tutti quelli che comunque pagavano il loro mododi essere contrari allo Stato, è anche il risultato dell’espe-rienza della prigione, della solidarietà intensa nata dentroquesta istituzione totale, che aveva fatto dimenticare lecollocazioni, le appartenenze. Si tratta comunque di un er-rore: difendendo le persone si difendono anche i loro pro-

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grammi, ma il Collettivo, che ora si firma Organismi Prole-tari della Barona per staccarsi dalle etichette di killers do-vute alla campagna diffamatoria, se ne rende conto solodopo l’uscita del giornale.

Il grosso dei superstiti del Collettivo si unisce a una par-te dei giovani del centro di San Ambrogio e continua unalimitata attività sotto il nome di CASBA (Comitato Autono-mo S.Ambrogio Barona). Un brutto colpo per gli autonomidella Barona è l’arresto di Sebastiano Masala, uno dei lati-tanti del collettivo, preso con delle armi che apparteneva-no a Prima Linea. È la crisi quasi definitiva dei rapporticon gli abitanti del quartiere: la gente non crede che il pas-saggio sia avvenuto “dopo”, che questo possa essere unosbocco naturale della latitanza nel particolare clima delmomento. Per la gente del quartiere i nuovi arresti di co-siddetti partecipanti al Collettivo, il passaggio alla lotta ar-mata di Sebastiano, la latitanza di Sante Fatone, che vieneconsiderata prova della sua non innocenza, sono tutti ele-menti che dimostrano o una pratica clandestina armata af-fiancata a quella fatta alla luce del sole o perlomeno lastrumentalizzazione di una banda di sprovveduti presi inun gioco più grande di loro. A questo si affianca l’attivitàdei “reclutatori” dei gruppi armati che cercano di trarrevantaggio dalla situazione e inquinano i tentativi di farechiarezza dei superstiti del Collettivo.

Poco tempo dopo il rilascio degli arrestati viene uccisoil poliziotto del quartiere, Campagna, proprio sotto la exsede del CAB. L’azione, recentemente rivendicata dai PAC

(Proletari Armati per il Comunismo), fu seguita allora daun volantino che lo accusava di essere un torturatore. L’in-fluenza politica negativa di questo fatto agisce a dispettodei tentativi di prendere le distanze e denunciare l’assur-dità del gesto. Cominciano ad apparire scritte delle BrigateRosse sotto le abitazioni dei membri del Collettivo e volan-tini di reclutamento delle BR nelle caselle dove questi eranosoliti porre i loro fogli. Compaiono volantini rivendicantil’omicidio di Torregiani nelle scuole o nelle assemblee incui gli scarcerati del Collettivo vanno a fare dibattiti sul lo-ro caso o sulle torture subìte.

Contro questo pedinamento continuo di fantasmi non

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sanno cosa fare, se non infuriarsi a vuoto e stare male. Al-l’inizio del 1980 la colonna Walter Alasia delle BR uccidetre poliziotti del commissariato Tabacchi della Barona,con una rivendicazione fatta in zona. I giornali escono conpezzi che danno per mandanti gli autonomi della Barona.I resti del Collettivo decidono di intervenire al comizio or-ganizzato dalle forze politiche della città per commemora-re gli agenti uccisi, presentandosi con un volantino intito-lato “Per fare chiarezza...” dove fra l’altro si dice: “In rela-zione all’uccisione dei tre poliziotti di via Tabacchi avvenu-ta ancora una volta nel nostro quartiere, gli organismi pro-letari della Barona prendono posizione sull’accaduto: cisono totalmente estranee queste assurde azioni le qualinon praticano nessun tipo d’intervento politico reale spe-cialmente in un quartiere proletario come il nostro. Fac-ciamo presente che da quando abbiamo iniziato il nostrointervento politico di zona sul lavoro nero, precario, sotto-pagato, contro l’espandersi dell’eroina, gli sfratti e per l’a-pertura dell’ospedale S.Paolo, non si è mai sentito parlaredi poliziotti assassinati (vedi A.Campagna, Santoro, Tatullie Cestari), né di bancari (vedi A. D’Annunzio ucciso persbaglio dalla P.S.), in quanto la nostra pratica politica dimassa toglieva e toglie spazio tuttora ad azioni esemplaridi questo tipo”, fino alla campagna infamante del casoTorregiani. Il volantino si conclude affermando: “Siamostufi di essere chiamati in causa tra false righe da tutta lastampa ogni qualvolta succeda un qualsiasi fatto di crona-ca in Barona o in zone limitrofe e diffidiamo qualsiasistrumentalizzazione ai danni dei nostri compagni”. La Di-gos ferma e sequestra i volantini perché manca l’indirizzodi dove sono stampati; tutti vengono schedati e processatiper direttissima.

Un mese dopo, alla Barona si tenta di fare un grossocorteo degli organismi proletari contro la repressione. Do-po aver concesso l’autorizzazione, la polizia manda a pren-dere a casa due membri del vecchio CAB, fra gli scarceratidel caso Torregiani: il vice-questore minaccia di arrestarlise la manifestazione avrà luogo. Non serve affermare dinon rappresentare le altre cinquanta persone che voglionofare il corteo. I due sono costretti a ritornare al centro di

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Sant’Ambrogio, già circondato dalle forze di polizia, perconvincere gli altri a rinunciare alla manifestazione. L’AN-SA aveva già dato la notizia della richiesta dell’autorizza-zione e il Giorno aveva scritto che gli autonomi della Baro-na avrebbero fatto il corteo contro il divieto della questura.Così all’interno del centro, nel quartiere spaventato e asse-diato dalle forze di polizia, si tiene semplicemente unaconferenza stampa per i giornalisti accorsi per documen-tare lo “scontro”; nei giornali del giorno dopo non verràpubblicato nulla. È uno degli ultimi atti politici organizza-ti dal Collettivo, seguito solo da sporadiche raccolte di fon-di e dal Comitato per la liberazione di Marco Masala, o daalcuni volantini come quello sulla chiusura dell’istruttoriaTorregiani.

Tagliato il cordone ombelicale con il quartiere, confusocon la pratica dei gruppi armati, assottigliato dai sospetti edalle paure, sempre nel mirino della Digos o della questu-ra, il collettivo è costretto a rinunciare alla straordinariavoglia di lottare che lo ha sempre accompagnato. Fenome-ni analoghi hanno devastato tutto il tessuto connettivo de-gli organismi spontanei della metropoli. Nessuna iniziati-va unitaria è più possibile, neanche a scopo difensivo, per-ché i superstiti di ogni gruppo sono costretti a frantumarsinella difesa dei propri “prigionieri”, ognuno nel proprioquartiere, chiusi per mantenere un briciolo della loro iden-tità e per non inquinarsi di fronte al pentitismo dilagante,a partire da quello di Barbone verso la fine del 1980. Ilpentitismo viene usato per leggere nel senso voluto dallamagistratura i diversi percorsi politici, serve per colpiresoprattutto chi non ha delazioni e conferme da scambiarecon il potere per attenuare le proprie imputazioni giudi-ziarie, giungendo così a un’iniqua distribuzione delle pene,che vede pluriomicidi in libertà e persone condannate inmodo sproporzionato anche per reati modesti. Il pentiti-smo si presta utilmente anche alla persecuzione giudizia-ria degli autonomi della Barona. Per Sisinnio, Marco, Fa-bio e Umberto gli ultimi anni sono stati un continuo entra-re e uscire dal carcere.

Sisinnio Bitti, prosciolto dall’omicidio Torregiani, è sta-to condannato a tre anni e mezzo per “partecipazione a

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banda armata”, perché il pentito Pasini Gatti lo avrebbevisto “discutere con altre persone” nello scantinato di viaPalmieri, considerato dai magistrati un covo della lottaarmata. In realtà, il luogo è un punto aperto di ritrovo delCollettivo di via Momigliano, messo a disposizione dalPDUP. Il 14 maggio 1983 viene imputato di “concorso mo-rale per duplice omicidio” (Torregiani e Sabbadin, un ma-cellaio veneto ucciso contemporaneamente all’orefice),perché un altro pentito, Pietro Mutti, lo avrebbe sentitodire che era d’accordo con le due uccisioni. Attualmente èdetenuto.

Marco Masala, scagionato per il caso Torregiani, è attual-mente in carcere, condannato a nove anni per un attentatocontro una caserma di carabinieri, sempre su indicazioni dipentiti. Fabio Zoppi, accusato di “esproprio proletario” di unnegozio di Hi-Fi dai pentiti Pasini Gatti, Andrea Gemelli e An-na Andreasi, è attualmente agli arresti domiciliari. Poiché si èostinato a dichiararsi sempre innocente del fatto, il magistra-to lo ha definito “irriducibile e socialmente pericoloso”. Hatrascorso due anni e due mesi in carcere. Umberto Lucarelli èattualmente in libertà provvisoria; insieme con Fabio Zoppideve rispondere di un esproprio e del bruciamento di tre “co-vi” del lavoro nero.

Alla fine del 1980, di fatto, il Collettivo non esiste più aparte sporadiche iniziative di qualcuno dei superstiti. Chiè rimasto fuori dalle disavventure giudiziarie se n’è andatoo si è spoliticizzato; anche il legame di amicizia per moltinon funziona più. L’apatia e l’impotenza hanno portato al-cuni della vecchia commissione sull’eroina a provare su disé questa sostanza, che ormai ha invaso la zona soprattut-to dopo la costruzione del ponte di collegamento con ilGiambellino, il centro di spaccio della droga di Milano. LaBarona, dopo aver conosciuto anni di militarizzazione apartire dal 1979, sembra oggi ritornata al normale letargodi un ghetto-dormitorio. Non ci sono più collettivi: è rima-sto il centro sociale di S.Ambrogio, dove alla sera si gioca aRisiko, e ogni tanto si suona.

Non ci sono neppure più volantini come questo, delgennaio ‘80: “la grande stagione della caccia al terrorista siè aperta. I cittadini sono invitati a partecipare e alla fine

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del gioco saranno sorteggiati ricchi premi per tutti. Ma noinon ci stiamo. La nostra sola pratica di lotta è una condan-na al terrorismo. Non ci nascondiamo dietro al mirino diuna pistola, né conduciamo vite parallele, di giorno braviragazzi di notte brigatisti spietati, né siamo disposti achiuderci in casa e far parlare per noi i vari boss dei partiticostituzionali di zona. Siamo decisi, e sempre lo abbiamofatto, ad intervenire politicamente in prima persona e allaluce del sole nel nostro quartiere.”

ANNI ‘70: STATO “D’EMERGENZA” E TERRORISMO

di Nanni Balestrini e Primo Moroni

Alcuni estratti da L’Orda d’oro, ed. SugarCo, 1988; ed. Feltri-nelli, 1997

La “strategia della tensione” era stata sconfitta da tre gran-di componenti sociali e politiche: la conflittualità dell’au-tonomia di classe, la pratica militante, il radicalismo de-mocratico. La posizione estrema e sintetica delle forma-zioni armate aveva storicamente prodotto “la forma-vio-lenza organizzata in partito”, ma questa componente erarimasta fino a tutto il 1976 sostanzialmente minoritaria(Bonisoli, uno dei protagonisti della fondazione delle BR,dirà che a quell’epoca i militanti non arrivavano a cento intutta Italia) e proprio nell’emergere del “movimento ‘77” siera trovata in gravi difficoltà progettuali: anche se il riferi-mento immaginario e politico alla tendenza armata si po-teva leggere in modo diffuso, non era tale però da autoriz-zare un’unità di intenti tra progettualità armata e praticadella violenza diffusa.

Crisi dei “modelli organizzativi”, radicalità del “bisognodi comunismo”, ristrutturazione profonda e autoritaria delciclo produttivo, ricomposizione della “forma stato” sonogli elementi dello scontro.

Confrontata con il periodo ‘69-’73, la novità più rilevan-te del ‘77 è data dal duro irrigidimento istituzionale, condi-viso ora dalla quasi totalità delle forze politiche rappresen-

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tate in Parlamento. Il progetto di ordine pubblico, che pas-serà alla storia come “legislazione di emergenza”, ha rap-presentato nel ‘77 “la base dell’accordo fra i partiti dell’arcocostituzionale ed è stato la condizione per la cooptazionedel Pci nell’area “democratica” o di governo; per la primavolta nella sua storia il Pci si è dichiarato favorevole a unmassiccio restringimento delle libertà e delle garanzie costi-tuzionali e si è impegnato in campagne ideologiche — ulti-ma quella del “referendum” sulla legge Reale — dirette adalimentare consenso popolare nei confronti del processo direstaurazione autoritaria” (L. Ferraioli, D. Zolo).

“Benché, come giustamente nota uno degli storici e deitestimoni più lucidi delle vicende istituzionali e degli appa-rati giudiziari italiani, una forte spinta all’inasprimentodelle sanzioni penali sia già cominciata nel ‘74-75, “il 1977 èl’anno chiave” (Romano Canosa). Tra l’altro viene posta unapesante ipoteca sugli avvocati che esercitano una difesa po-litica, consentendo di sospendere dall’esercizio della profes-sione chi incorre in procedimenti penali a suo carico o chiviene colpito da mandato di cattura” (Sergio Bologna).

È anche il periodo in cui vengono autorizzate — e mailegiferate — le “carceri speciali”, autentici lager destinatialla distruzione psicofisica dei detenuti, e viene estesa lapossibilità di ricorrere all’uso delle armi per impedire leevasioni facendo intendere che se ci saranno altre “stragidi Alessandria” non dipenderà dall’iniziativa personale eforzata di qualche magistrato, ma sarà obbligo di legge.Non a caso l’incarico di dirigere questo settore viene affi-dato al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che di quella“strage” era stato uno dei protagonisti.

In effetti, se la “strategia della tensione” era stata ma-novrata da settori dello Stato per “comunicare” al conflit-to di classe il ricatto terroristico di una possibile involu-zione reazionaria, la “legislazione di emergenza” è l’as-sunzione a livello istituzionale di una pratica sostanzial-mente “illegale”, involutiva, reazionaria, rivolta a condi-zionare e reprimere qualsiasi espressione organizzata ospontanea di ribellione sociale. Diverse sono le forme incui si manifesta la risposta dell’avversario di classe maidentiche le finalità.

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Nella percezione comune di migliaia di militanti — maanche di settori democratici — lo Stato nel coprire (tolle-rare od organizzare) le trame della “politica delle stragi”era stato delegittimato del monopolio esclusivo dell’usodella violenza, e d’altronde questo supposto privilegio “de-mocratico” è tra i più ambigui e contraddittori. NorbertoBobbio (uno dei padri della Costituzione) nell’interveniresu queste problematiche affermava: “Che i gruppi rivolu-zionari giustifichino la propria violenza considerandolacome una risposta, l’unica possibile, alla violenza delloStato, è più che naturale. [...] Del resto, questo stesso argo-mento è usato dallo Stato per giustificare l’uso della vio-lenza propria, della violenza cosiddetta istituzionalizzata,nei riguardi della violenza rivoluzionaria”. È dentro questaspecularità che, secondo Bobbio, i “democratici conse-guenti” elaborano le Costituzioni e le tavole delle leggi. Ilcompito di questi apparati “disciplinari” dovrebbe esserequello di equilibrare il diritto di rappresentanza dei movi-menti sociali con le esigenze di gestione e di riproduzionedelle democrazie. Quando ciò non avviene, quando vengo-no alterati unilateralmente gli statuti e le regole del gioco,si apre un conflitto dagli esiti imprevedibili.

A metà degli anni Settanta l’arretratezza conservatricedel potere democristiano aveva prodotto un “blocco” delsistema democratico, le cui avvisaglie si avvertivano fin dal1974 (quindi molto prima della fase del cosiddetto perico-lo “terrorista”) con il varo della legge che raddoppiava itermini di carcerazione preventiva, si consolidava con lareintroduzione dell’interrogatorio di polizia, per completa-re una prima fase involutiva con la legge Reale (1975):un’autentica “licenza di uccidere” delegata alle “forze del-l’ordine” (provocherà 350 vittime nei primi dieci anni diapplicazione).

Vista a distanza di anni, la dinamica autoritaria si pre-senta quasi come un disegno organico: da un lato “il terro-re delle stragi” favorito dagli apparati di sicurezza delloStato, e dall’altro una progressione di provvedimenti giu-diziari sempre più autoritari, giustificati con la necessitàdi difendere una non meglio definita “democrazia” minac-ciata dalla violenza, a sua volta genericamente evocata.

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Tutto ciò in risposta alla profonda modificazione della “co-stituzione materiale del sistema politico italiano”. Modifi-cazione che partendo dalla fabbrica e integrandosi nel so-ciale aveva profondamente alterato i rapporti di forza trale classi. Si era formato il sindacato, anzi l’unità sindacale,voluta dalla base, dall’operaio massa.

Il sindacato, unico strumento di mediazione tra il pote-re della classe operaia e il sistema dei partiti (di tutto il si-stema dei partiti), diventava anche la principale cinghia ditrasmissione tra la società civile e lo Stato, indebolendocosì in maniera drammatica e irreversibile il tradizionalepotere dei partiti, e in particolare di quelli di sinistra. Nellafabbrica e nella società i movimenti si sottraevano pro-gressivamente all’egemonia del PCI, che per la prima voltadal dopoguerra perdeva l’egemonia sulle fabbriche. Le for-me di lotta, la “conflittualità permanente”, i movimentiche portavano avanti il conflitto sul salario, sul reddito, suiservizi, sul consumo produttivo della forza lavoro, eranoquasi tutti autonomi e indipendenti dal sistema dei partiti.L’unica forza che tentava contraddittoriamente di rappre-sentarli era il sindacato nelle sue varie articolazioni, den-tro le quali prevalenti diverranno rapidamente le istanze dibase — mette conto di notare che la grande maggioranzadegli iscritti al FLM (l’organismo intersindacale dei consiglidi fabbrica) era priva di una qualsiasi tessera di partito —fino a scontrarsi duramente con i vertici.

“Una intera società pare in trasformazione accelerata,mentre si verifica una violenta e perdurante crisi di iden-tità della borghesia, che inizia dalla perdita della sua iden-tità culturale e delle residue eredità democratiche formate-si durante la Resistenza, ma si sostanzia in un suo conflit-to-modificazione di poteri interni alla sua composizione”(Sergio Bologna). È dentro questo scenario che si formauna tendenziale unificazione del quadro politico attorno alprogetto di difesa dello “Stato democratico”.

[…]Nel pre ‘77 è proprio il PCI che tenta di rivedere in

profondità i propri statuti materiali, i propri referenti e si-stemi di poteri interni. È anche il partito che in una primafase ottiene i maggiori vantaggi dalla spinta al rinnova-

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mento complessivo che proviene dalla società civile. Le vit-torie elettorali del ‘75-76 (massimi storici del dopoguerra)sono anche il risultato di un grande immaginario collettivoche nel “sorpasso” elettorale della Democrazia Cristianacondensa una parte dei bisogni espressi dal quinquennioprecedente. Ma tutto si rivela una tragica illusione. Il PCI,per strategia storica, per cultura politica, non è in condi-zione di recepire un bisogno di cambiamento così radica-le, ma al contrario persegue con ostinazione l’obiettivo dientrare nell’area di governo. Così si spiega l’abbandonodella discriminante contro la NATO (storica battaglia fin da-gli anni Cinquanta) e la scelta di lottare per ricostruire la“produttività” capitalistica duramente intaccata dalle lottesociali e di fabbrica.

Obiettivo indispensabile di questa strategia di avvicina-mento al potere è la necessità di ricondurre il sindacatodentro l’egemonia del partito e della sua strategia. Il sinda-cato era, come abbiamo visto, l’unica forza di mediazionedel conflitto. “Privo dei sindacati, il sistema politico italia-no non reggerebbe alle spinte di classe, alle spinte sul red-dito, ai nuovi bisogni” (Sergio Bologna). Qualsiasi ricom-posizione dall’alto del potere non poteva avvenire senza lacollaborazione del sindacato.

Su questa progettualità si innesca la politica dei sacrifi-ci mobilitando tutte le “teste fini” a disposizione. Trentinscrive un lungo testo di riflessione (Da sfruttati a produtto-ri) per spiegare la necessità del patto tra produttori per ri-costruire, vedi il caso, il percorso di “egemonia democrati-ca” del movimento operaio. Berlinguer, nel famoso discor-so agli intellettuali, spiegherà che il governo di sinistra nonè tanto un’ipotesi impossibile, quanto indesiderabile fin-ché il terreno della “produttività” non è “un’arma del pa-dronato” ma “un’arma del movimento operaio per manda-re avanti la politica di trasformazione”. Lama, dal cantosuo, in una famosa intervista a “La Repubblica”, ribadiràin forma organica gli stessi concetti, appoggiato dall’auto-rità dell’economista Sylos Labini che in maniera più incisi-va dichiara che “la sinistra deve deliberatamente e senzacattiva coscienza aiutare la ricostituzione di margini diprofitto, oggi estremamente depressi, anche proponendo

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misure onerose per i lavoratori. Questo può essere un pas-so nella direzione dell’egemonia gramsciana [sic]”. Questaultima sintesi teorica verrà fatta propria dal PCI durante lasua “partecipazione” al governo.

Ma una scelta strategica di questa natura non può svilup-parsi senza conseguenze drammatiche sul conflitto sociale.Essa significa l’esatto capovolgimento del conflitto capitale-lavoro sviluppatosi durante la fase rivoluzionaria precedente.Significa annullare tutte le conquiste dell’”autunno caldo” el’egemonia conquistata con il “partito di Mirafiori”. Si posso-no usare tutti gli artifici linguistici (i licenziati, ad esempio,diventano “esuberanti”), ma nella realtà sia gli operai che imovimenti che agiscono nella società non intendono rinun-ciare alle conquiste già fatte, vogliono anzi andare oltre.

La “legislazione d’emergenza” nasce proprio come deter-rente, come prevenzione del possibile scontro che si inne-scherebbe con la modifica delle “regole del gioco”. Il governodi “solidarietà nazionale” come espressione del taumaturgi-co e interclassista “stato democratico” tende ad assorbire insé nel Parlamento qualsiasi forma di conflitto, mentre quelliincompatibili diventano materia penale e giudiziaria.

La forma-stato sotto la figura del “sistema dei partiti”,che da sempre è una forma latente della storia italiana, rie-merge allora con forza e progettualità.

[…]Mentre nel ‘77 il Parlamento vara un pacchetto di “leggi

eccezionali”, le conseguenze delle pratiche insurrezionalidel movimento e il disperato arroccarsi nelle fabbrichedelle avanguardie operaie sconvolgono l’intero panoramadei movimenti rivoluzionari. Mentre l’autonomia e la ric-chezza del “movimento del ‘77” si confrontano con il de-serto della scomposizione soggettiva e il dilemma “avanticome, avanti dove?” assume significati esistenziali, leavanguardie di fabbrica vivono drammaticamente il “tra-dimento dei vertici”. L’uso politico della cassa integrazio-ne, il decentramento degli impianti, i continui licenzia-menti motivati da discriminanti politiche puntualmentelegittimate dallo straripante potere della magistratura,sembrano — e in effetti sono — ostacoli insormontabili al-la ripresa dell’iniziativa.

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È forse il periodo più oscuro dal dopoguerra. Se l’ango-scia dei primi anni Sessanta era stata una delle molle dellarivolta, la “paura” operaia produce disperate omologazio-ni. La battaglia “contro il terrorismo” viene usata come“cavallo di Troia” per far passare un progetto molto più va-sto e molto più complesso. Innanzitutto, da un lato, l’eli-minazione dal panorama politico italiano di una serie diforze di opposizione rivoluzionarie; dall’altro capo l’elimi-nazione del corpo centrale delle avanguardie di fabbricache avevano reso ingestibile il comando padronale sullafabbrica stessa. Per far ciò si mette in moto non soltantoun meccanismo processuale e legislativo che fa a pezzi lo “stato di diritto”, ma anche un formidabile apparato deimedia, una cultura, un modo di leggere e falsificare la sto-ria degli anni Settanta con l’obiettivo di privare della “me-moria” qualsiasi soggetto antagonista.

Nei giovani militanti si produce una sindrome terribile ri-spetto all’inutilità di qualsiasi forma di autorganizzazione dibase. Le scelte paiono essere solo di tipo estremo e radicale:una spirale dove da una parte c’è il diffondersi di massa dell’e-roina (10.000 drogati nel ‘76, 60-70.000 nel ‘78) come espres-sione di una radicale negazione dell’esistente; dall’altra, comein un diffuso bisogno di scelte di rigore e ordine morale, l’af-flusso in massa dentro le formazioni armate.

L’organizzazione armata che storicamente godeva delmassimo prestigio era quella delle Brigate Rosse. Con unasolida origine dentro la classe e un organico impianto teo-rico sempre più mutuato dalle esperienze della Terza In-ternazionale (dopo un lungo inizio decisamente più “ope-raista” e guerrigliero), le BR parevano un’organizzazioneimpenetrabile e imprendibile, dotata di una micidiale ca-pacità operativa. Il rapimento e l’uccisione dell’on. Moro,che si preparava a inserire direttamente il Pci nei livellidello Stato, facevano delle BR gli interpreti di un desideriodi risposta diffuso in modo contraddittorio nei resti deimovimenti. Larghi settori di avanguardie di fabbrica vede-vano con ammiccante simpatia i valori simbolici della vi-cenda Moro, e in molte aree movimentiste aveva destatogrande impressione l’efficienza militare esibita nel corsodel rapimento dello statista democristiano.

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Nei primi mesi del ‘78 e dopo la tragica conclusione dellavicenda di Aldo Moro, si assistette ad un continuo moltipli-carsi dei gruppi e delle pratiche armate. Affluiscono dentro leformazioni maggiori centinaia di militanti dell’autonomiadiffusa e intere sezioni di avanguardie di fabbrica — esem-plare a questo riguardo la vicenda della Brigata Walter Alasiadi Milano, per la gran parte costituita da giovani operai.Mentre il “sistema dei partiti”, apparentemente destabilizza-to dalle sue stesse scelte politiche, delega i poteri di controlloe repressione alle forze dell’ordine e alla magistratura, cheacquisisce poteri insindacabili e assoluti, scrivendo una dellepagine più nere nella storia degli “stati di diritto” moderni.

Le Brigate Rosse nel rapire e uccidere l’on. Aldo Mororealizzavano simbolicamente un passaggio della strategiadi “attacco al cuore dello Stato” elaborata a partire dal1975-76 come conseguenza del giudizio dato sulla ipotesidel “compromesso storico”. Nella Risoluzione della dire-zione strategica dell’aprile 1975 le BR avevano definitiva-mente abbandonato il modello dell’autointervista per porsicon un documento ufficiale che aspirava a essere una sortadi programma generale come nelle tradizioni dei partitistorici della Terza Internazionale. Già questa scelta, appa-rentemente formale, era indicativa di un porsi dell’orga-nizzazione armata come elemento egemonico della com-plessità del processo rivoluzionario in atto. Non più quindiun organismo armato clandestino come polo di riferimen-to delle esperienze più radicali dello scontro di classe, mavera e propria organizzazione che, ponendo la “lotta arma-ta” come unica linea strategica dello scontro di classe, co-me la “forma” della rivoluzione, tendeva a riqualificare alproprio interno tutte le esperienze prodotte dalla comples-sità del movimento reale. Una scelta strategica di questanatura non poteva che operare una drastica riduzione del-la stessa complessità e ricchezza dei percorsi organizzativie, dentro questa riduzione, provocare una progressiva con-trapposizione con altre esperienze di lotta non solo nei re-sti dei gruppi extraparlamentari ma anche nell’area del-l’autonomia organizzata e diffusa. Queste divisioni si man-terranno negli anni successivi provocando continue dina-miche di comprensione-rifiuto della pratica delle BR, ma

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sostanzialmente mai una loro completa delegittimazionefino alla divaricazione complessa e contraddittoria che siverificherà durante il “caso Moro”.

Nel rapire lo statista democristiano le BR intendevanosicuramente attaccare il progetto del “compromesso stori-co”, ma in realtà l’obiettivo più ambizioso era indirizzato aprendere l’egemonia, ad anticipare l’inevitabile scontro tra“centralità operaia” e Stato del capitale che nelle analisidelle BR veniva dato per certo, imminente come storico,“naturale” risultato dell’attacco che il capitale e lo Statostavano portando all’egemonia espressa dall’”operaio mas-sa”. Anticipare la “guerra civile dispiegata” attraverso leazioni esemplari e militari con l’obiettivo di prendere la di-rezione del movimento reale nel momento stesso in cuiquesto per genesi propria si sarebbe incontrato con il pro-getto BR. Questa progettualità tutta ideologica e indicativadel progressivo separarsi dal movimento reale avrebbe ri-cevuto una clamorosa smentita nella grande e traumaticasconfitta operaia alla Fiat nel 1980: decine di migliaia dioperai sospesi, di fatto espulsi dalla produzione, si disper-devano nel sociale diventando “invisibili” soggetti impau-riti e deprivati della propria identità di massa, mentre igruppi armati ormai innescati dalla pratica esclusivamen-te militare non erano più in grado di rapportarsi alle modi-fiche profonde intervenute nello scenario dello scontro.

“Negli ultimi mesi del ‘78 e nei primi del ‘79 cede la for-mula del governo di unità nazionale e parallelamente ven-gono liquidate anche le ultime barriere di mediazione.L’assassinio del magistrato Alessandrini (ad opera di Pri-ma Linea) acquista a questo punto un significato partico-lare perché rimette in discussione tutto il funzionamentoe la storia della magistratura nella gestione dei processipolitici degli ultimi dieci anni. Cadono le distinzioni cheancora settori politici e giudiziari facevano tra terrorismoorganizzato e movimenti di contestazione. La magistratu-ra, come corpo separato, ha una reazione d’autodifesa cheva al di là dei ritmi e dei tempi voluti dagli stessi corpi onuclei speciali antiguerriglia, agisce contro tutto e tutti,ficcando in galera teorici e politologi, tecnici e giornalisti”(Sergio Bologna).

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In effetti la teoria di un’unica direzione tra gruppi armatie movimento era stata portata avanti dalla magistratura pa-dovana e dagli articolisti comunisti di “Rinascita” fin dal1976-77, ma, come abbiamo visto nel dibattito relativo almovimento ‘77, era “passata” solo parzialmente provocandoaree di resistenza e di rifiuto non solo tra gli intellettuali maanche in consistenti settori dei magistrati democratici. Conla vicenda Alessandrini quest’ultima fragile barriera di agi-bilità si frantuma definitivamente contribuendo a dare fon-damento all’efficacia falsificatrice e devastante del “teoremaCalogero”. Deprivato violentemente dei propri strumenti dicomunicazione (vengono incarcerati e inquisiti centinaia diredattori), schiacciato dall’efficacia dei gruppi armati, ora-mai pressoché privo di alleati o “compagni di strada”, il mo-vimento si disperde in mille rivoli. È la fase dei “suicidi mili-tanti” seguita da quella ben più consistente dei “suicidi ope-rai” (più di duecento nella sola Torino tra i cassaintegrati).La fase in cui lo Stato ricostruitosi come apparato fa dell’e-mergenza un autentico e micidiale metodo di governo fun-zionale a ridisegnare in termini autoritari tutta la “geografiadel conflitto” facendo a pezzi qualsiasi forma di rappresen-tanza che non si pieghi alle nuove esigenze produttive. “L’e-conomia sommersa” (leggi “lavoro nero”) porta alla ribaltauna nuova generazione di imprenditori spregiudicati, ag-gressivi e preparati a confrontarsi con la tradizionale “razzapadrona” industriale, che dopo aver desertificato le fabbri-che dalle soggettività rivoluzionarie espresse dall’”operaiomassa”, può finalmente inglobare la scienza operaia dentrola ristrutturazione tecnologica e informatica.

La “cultura d’impresa” e l’”individualismo proprietario”si capovolgono in valori positivi difesi ed esaltati dai mediae dagli intellettuali che dentro il “pensiero debole” del“quotidiano” e del “basso profilo” della difesa dei propriprivilegi paiono trovare l’alibi alla loro fuga.

La teoria delle “due società”, che poteva sembrareun’eccessiva schematizzazione durante il movimento ‘77,assume all’inizio degli anni Ottanta una dimensione dimassa: centinaia di migliaia di giovani “non garantiti”, mi-lioni di sottoccupati sono l’asse portante e privo di rappre-sentanza della nuova ricchezza.

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Nei grandi labirinti metropolitani regna il silenzio dellaseparatezza e dell’impotenza, i volti “serializzati” dei “poli-tici” ripetono parole prive di senso dagli schermi televisivi.Sono iniziati gli anni Ottanta. Gli anni del cinismo, dell’op-portunismo e della paura.

CONDANNATI ALLA NORMALITÀ. I RIFUGIATI POLITICI IN FRANCIA

di Vincenzo Ruggiero

da Vis-àVis n. 2, 1994.

Questo articolo è stato concepito originariamente per unpubblico non italiano. L’enormità riguardante la situazio-ne dei rifugiati politici in Francia, che è nota tra noi so-prattutto tra i meno giovani militanti della sinistra, è infat-ti del tutto sconosciuta in altri paesi. L’intento di questocontributo era perciò di documentare una storia e denun-ciare una condizione di cui, vuoi tra accademici illuminativuoi tra gruppi politici, pochi erano a conoscenza. Redattoin inglese, l’articolo era rivolto ai due suddetti gruppi dilettori, ed è già apparso in una rivista di sociologia criticadel diritto che, sebbene in un numero ridotto di esemplari,circola nelle maggiori università del mondo (si tratta diCrime, Law and Social Change, Vol. 19, N. 1, 1993).

Alcune delle semplificazioni contenute nel testo si devo-no al tentativo dell’autore di descrivere a un pubblico in-ternazionale il clima politico italiano degli anni ‘70-’80. Ilettori di anziana milizia politica troveranno perciò alcunipassaggi un pò scontati, mentre altri ravviseranno delleapprossimazioni, a volte delle forzature. Altri semplice-mente discorderanno da alcuni spunti analitici che sono ilfrutto esclusivo, ovviamente, delle esperienze e delle opi-nioni dei rifugiati politici contattati e di scrive.

Sono stato incoraggiato a tradurre questo articolo dallaredazione di Vis-à-vis, che mi ha assicurato circa l’oppor-tunità della sua divulgazione. Mi è stato fatto notare, infat-ti, che anche il pubblico italiano più politicizzato, special-mente quello giovane, non è al corrente degli episodi che sinarrano qui di seguito. Gli avvenimenti che hanno coinvol-

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to la precedente, e la mia, generazione vengono avvertiti,mi è stato detto, come una eco lontana da chi fa politicaoggi. D’altro canto, la storia dei rifugiati politici italiani,conosciuta da pochi e trasmessa solo oralmente, rischia dilasciare poca traccia se non fissata, seppure sommaria-mente, in uno scritto. Spero che questi incoraggiamenti erassicurazioni, che ho trovato persuasivi, abbiano coltonel segno e che trovino riprova nell’interesse di chi legge.

Premessa

Gli anni ‘70 in Italia sono stati più conflittuali che altrove.I movimenti sorti nel corso degli anni ‘60, infatti, si sonomantenuti vitali per due decenni e, contrariamente aquanto verificatosi in altri paesi europei, il loro declino haavuto inizio solo nei primi anni ‘80. Questa anomalia dinatura temporale riflette dei contenuti politici altrettantoanomali. Sebbene coinvolgesse gli attori sociali più dispa-rati (operai, studenti, donne, insegnanti, medici, avvocati,giornalisti, detenuti, ecc.), il movimento riusciva ad eleg-gere per tutti delle strategie indipendenti e dei terreni ex-tra-istituzionali di lotta. Le stesse forme del conflitto, mol-to spesso, trascendevano i rituali della contrattazione per-manente. Le aspirazioni, in altre parole, non venivano ne-goziate, ma davano luogo a delle pratiche. Le definizioni“pratica dell’obiettivo” e “decreto operaio” riassumevanoun atteggiamento e insieme un programma: una volta in-dividuati dei bisogni collettivi e stabilite le modalità persoddisfarli, queste modalità andavano subito e autonoma-mente messe in campo e non negoziate.

Poco importava se, aggirando la negoziazione, le formee i contenuti delle lotte venivano ufficialmente ritenuti ille-gali. La stessa illegalità, infatti, non veniva ritenuta illegit-tima, essendo proprio la costituzione di una nuova legalitàe di una nuova moralità uno degli obiettivi di quelle lotte.

La formazione di numerosissimi gruppi armati, inter-namente ai movimenti della sinistra, non è in fondo cheun’espressione di questa ricerca di nuove legalità e mora-lità, ricerca condotta con le sfumature diverse nella sceltadegli obiettivi e degli strumenti e conformemente alle spe-

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cifiche convinzioni politiche dei gruppi stessi. Per un lun-go periodo, prima che avesse inizio una sorta di cacofoniadi azioni militari, era persino possibile riscontrare unacerta coerenza tra le convinzioni di un gruppo, la sua ana-lisi politica e sociale e gli “obiettivi armati”, se non le mo-dalità di operazione, con le quali l’obiettivo stesso venivapraticato.

La storia italiana di quegli anni non è stata ancora com-piutamente ricostruita, né una tale ricostruzione rientranei compiti di questo contributo. Di seguito, ci si limita adanalizzare uno degli esiti di quella stagione. Tra gli anni‘70 e la metà degli anni ‘80, il sistema della giustizia crimi-nale in Italia ha “raggiunto” oltre 20.000 rei politici. La ci-fra record dei detenuti politici della sinistra è stata di4.000. Un paio di centinaia di militanti rimangono ancoradetenuti. Molti, invece, non appena conseguita la libertàprovvisoria, hanno preferito lasciare il paese e aspettare “adistanza di sicurezza” le fasi finali del processo che li ri-guardava.

Alcuni sono riusciti ad evadere, altri sono stati scarce-rati per motivi di salute. Altri ancora sono fuggiti non ap-pena hanno avvertito come imminente l’arresto. Uno ha la-sciato il carcere in quanto eletto deputato del Parlamento.

Oltre 400 persone si sono raccolte a Parigi, luogo tradi-zionale dei rifugiati politici dove, ironicamente, già i co-munisti e socialisti italiani di inizio secolo avevano trovatoospitalità durante il periodo fascista.

Le testimonianze che seguono sono il frutto di conver-sazioni e interviste non strutturate effettuate nell’arco dialcuni anni. Solo dopo ripetute visite a Parigi, infatti, ilgruppo di rifugiati più frequentemente contattato ha av-vertito la necessità di far scaturire da quelle conversazioniun capitolo scritto, seppur breve, della propria storia.

Da queste testimonianze emerge che l’esilio è una for-ma di pena, una punizione “impropria”, sulla quale poeti eromanzieri si sono spesso intrattenuti, ma che raramente èstata oggetto di analisi da parte vuoi di sociologi criticivuoi di militanti politici. Siamo qui di fronte a cittadini eu-ropei che chiedono asilo politico all’interno della cosiddet-ta fortezza Europa, avendo costoro valicato soltanto le

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frontiere interne di questa fortezza. Un fenomeno che sicrede riguardare esclusivamente le vittime di una dittaturasud-americana o i transfughi altamente spettacolarizzatidegli ex paesi comunisti, si verifica invece tra noi, nella de-mocratica Europa unita.

Una anomalia giuridica

La condizione dei rifugiati italiani in Francia presenta un pa-radossale dilemma giuridico. Relativamente ad asilo politicoed estradizione, il trattato in forza tra i due paesi viene siglatonel 1979, quando una serie di paesi europei adotta una strate-gia comune di lotta al “terrorismo”. Ma sebbene il trattato in-troduca delle sostanziali limitazioni al diritto d’asilo, alcuniimportanti elementi delle legislazioni dei singoli paesi euro-pei non vengono completamente cancellati.

Secondo la costituzione italiana e francese, ad esempio,l’estradizione non può essere concessa qualora la personavenga accusata di aver commesso reati politici. Questoprincipio si basa sull’assunto secondo cui, nei diversi pae-si, esistono notevoli differenze nel valutare quali siano i li-miti giuridicamente accettabili entro i quali l’attività poli-tica può essere legittimamente svolta. A questo proposito,la costituzione italiana indica che tra due paesi che noncondividono la stessa nozione di legittimità politica, una“cooperazione repressiva” non può aver luogo.

D’altra parte, la stessa costituzione italiana indica che ireati commessi con l’intento di sovvertire i principi della li-bertà e della democrazia non vanno ritenuti reati politici.Controverso è anche l’art. 26 della nostra costituzione, checosì recita: l’estradizione va considerata possedere naturapolitica anche quando, pur se concessa per reati comuni,mira in realtà alla persecuzione politica di un individuo.

Infine, è principio internazionale condiviso che, unavolta negata l’estradizione, abbia inizio una procedura cheassicuri l’asilo politico a “chi viene impedito l’effettivoesercizio delle libertà democratiche nel proprio paese”(art. 10 della costituzione italiana).

Ignorando questi principi fondamentali, le autorità ita-liane hanno richiesto l’estradizione dei rifugiati non appe-

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na divulgatasi la notizia della loro presenza a Parigi. Tutta-via, le scelte a loro disposizione erano piuttosto limitate.Tra le formule più ovvie che potevano accompagnare le ri-chieste di estradizione vi era, ad esempio, l’asserzione che irifugiati avevano agito con lo scopo di sovvertire i principidi libertà e democrazia sui quali è basata la repubblica ita-liana. È questa un’affermazione piuttosto difficile da corro-borare, anche perché più adatta a descrivere gruppi e mili-tanti della destra. La sua originaria formulazione, tra l’altro,risale all’era post-bellica, quando tale norma costituzionalemirava ad impedire il risorgere del fascismo nel paese. Pote-va perciò esser utilizzata, al massimo, nel richiedere l’estra-dizione di rifugiati neo-fascisti. Al contrario, molti degli esu-li italiani in Francia avevano un passato di anti-fascismo, inalcuni casi anche violento, circostanza che impediva alle au-torità francesi di accettare le richieste di estradizione daparte di quelle italiane. Imputare a dei marxisti, libertari or-todossi o critici che siano, una condotta di stampo tipica-mente fascista veniva interpretato dalle autorità francesi co-me una contorsione politica davvero implausibile.

Altra scelta a disposizione delle autorità italiane consi-steva nel reclamare la natura non politica dei reati com-messi dai rifugiati. Ma anche questa strada si dimostravaimpervia in quanto molti esuli erano imputati in processicollettivi con altri membri di questa o quella organizzazio-ne. Tali processi, per altro, erano conosciuti vuoi dai me-dia vuoi dai magistrati che li istruivano col nome dellestesse organizzazioni politiche che fungevano da imputati.Ora, dimostrare che gruppi quali le Brigate Rosse o i Pro-letari Armati per il Comunismo non fossero altro che asso-ciazioni di delinquenti comuni richiedeva un bizantinismogiuridico più spiccato di quanto anche i più fantasiosi ma-gistrati non posseggano. Per questo motivo, quando tra leimputazioni a carico dei rifugiati figuravano reati quali ladetenzione di arma o il furto d’auto, le autorità francesi at-tribuivano anche a questi reati una connotazione politicache la loro controparte italiana attentamente ometteva. Dinuovo, l’estradizione veniva negata in quanto questi reativenivano ritenuti “reati mezzo”, o preliminari, propedeuti-ci, intesi a perseguire dei fini, in ultima analisi, politici.

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Ulteriore, seppure lontana, possibilità consisteva nell’im-putare i rifugiati di strage. Il codice penale italiano contem-pla questo reato, definendolo, più o meno, come assassinioo massacro intenzionale e indiscriminato. È improbabileche questa imputazione, quando rivolta a militanti della si-nistra, metta in moto la procedura di estradizione. È cono-scenza comune infatti che la strage negli anni ‘70 è reato ti-pico della destra, o degli apparati deviati dello stato. Per dipiù, nel richiedere l’estradizione per l’assassinio di un ma-nager della Cloracne (responsabile del disastro di Seveso), odi un maresciallo delle guardie di custodia (responsabile ditortura ai danni dei detenuti), le autorità italiane potevanodifficilmente utilizzare l’aggettivo “indiscriminato” che con-ferisce plausibilità all’imputazione di strage.

La procedura di estradizione può aver luogo solo quan-do il reato commesso nel paese richiedente sia consideratotale anche nel paese cui viene inoltrata la richiesta. Il codi-ce penale italiano definisce questo il principio della “dop-pia perseguibilità” o la “considerazione bilaterale di uncomportamento come reato”. Anche su questo punto i ma-gistrati italiani hanno incontrato non poche difficoltà.Reati quali “associazione sovversiva” o “partecipazione ecostituzione di banda armata”, coniati in epoca fascistacon l’intenzione di criminalizzare la sinistra (e riesumatidopo la Resistenza per criminalizzare i gruppi di destra)non hanno alcun significato giuridico in Francia. Di nuo-vo, l’estradizione veniva negata in quanto la cultura extra-giuridica di un paese, sulla quale si basavano le stesse defi-nizioni giuridiche, non corrispondeva alla cultura extra-giuridica dell’altro. Quando imputazioni vaghe quali asso-ciazione sovversiva o banda armata si dimostravano insuf-ficienti alla concessione dell’estradizione, le autorità italia-ne ricorrevano a un’altra contorsione giuridica. Ad esem-pio, se un’organizzazione era ritenuta responsabile di unospecifico reato, tutti coloro che erano imputati di far partedi quella specifica organizzazione venivano ritenuti re-sponsabili di quello specifico reato. Questa logica transiti-va rendeva superflua la ricerca delle prove tecniche riguar-danti le responsabilità individuali. Alcuni potevano perciòessere accusati di un reato sulla base della semplice conti-

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guità fisica, o dell’assonanza politica, con coloro che eranoaccusati di quel reato. Questo procedimento logico venivaritenuto dalle autorità francesi al pari di un sillogismo, e dinuovo l’estradizione veniva negata. La magistratura italia-na, che utilizzava la formula della “corresponsabilità mo-rale” nei procedimenti che si svolgevano in Italia, credevadi poter usare la stessa formula nelle richieste di estradi-zione. La cosa era inaccettabile in Francia.

Il rifiuto di concedere l’estradizione ha causato inizial-mente un serio imbarazzo. Occorre considerare, infatti, chel’estradizione viene comunemente rifiutata quando vi è ra-gione di credere che gli imputati, restituiti al proprio paese,verranno perseguitati e discriminati sulla base della loro raz-za, religione, sesso, nazionalità o convincimento politico(Art.698 del Codice italiano di Procedura Penale). I giudiciitaliani non potevano subìre una simile umiliazione, almenonon pubblicamente. D’altra parte, anche le autorità francesisi trovavano in una situazione imbarazzante, in quanto, unavolta rigettata la richiesta di estradizione, avrebbero di logicadovuto concedere ai rifugiati italiani l’asilo politico. Vediamocome sia i francesi che gli italiani hanno cercato simultanea-mente di nascondere l’umiliazione e l’imbarazzo rispettivi.

Un limbo segreto

Alcuni rifugiati hanno lasciato l’Italia come forma precau-zionale immediatamente dopo l’arresto di qualche lorocompagno. Alcuni, già ricercati dalla polizia, hanno fattouso di documenti contraffatti. Uno di loro ha preso il trenoMilano-Parigi insieme alla moglie e alla figlia. Indossandoparrucca e baffi finti, alla frontiera è stato trattato amabil-mente. Un altro è scappato in motoscafo. Con l’aiuto diamici benestanti, ha organizzato una breve crociera chedalla riviera ligure lo ha condotto sulla costa francese. Unaltro ancora ha attraversato la frontiera sugli sci. Infine,qualcun altro se l’è fatta a piedi.

In maggioranza, i rifugiati italiani hanno reso imme-diatamente pubblica la loro presenza in territorio francesein quanto hanno costituito un’associazione di difesa lega-le. Alcuni giuristi e avvocati francesi hanno aderito all’asso-

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ciazione e offerto prestazioni spesso gratuite. Le immediatepressioni esercitate dalle autorità italiane, che pur dubitava-no che l’estradizione sarebbe stata concessa, hanno condot-to all’arresto di molti dei rifugiati. Costoro, di regola, dete-nevano documenti falsi, reato che in Francia viene punitocon una pena di sei mesi. Ma per i rifugiati, ovviamente, seimesi in un istituto francese diventavano accettabili se para-gonati alle lunghe pene da scontare in istituti italiani.

La procedura per l’estradizione, osservata più in detta-glio, prevede due stadi distinti. Dopo il verdetto della corte(nel caso francese della Chambre D’Accusation), la decisio-ne finale perché una persona venga estradata va assunta invia ufficiale dal governo. In molti casi, a fronte del parere fa-vorevole espresso dai tribunali, il governo francese ha il piùdelle volte capovolto o ignorato questo parere. Nella mag-gioranza dei casi, insomma, l’ingiunzione ufficiale non èmai stata redatta. Lentamente, ha preso forma una sorta diaccordo informale tra l’associazione dei rifugiati italiani e ilministero della giustizia francese. L’illuminato dicastero diMitterrand ha dato a intendere che gli italiani non sarebbe-ro stati estradati se avessero tenuto un “basso profilo” politi-co. Per evitare imbarazzi ufficiali, però, non sarebbe statoloro concesso l’asilo politico, in quanto la concessione diquest’ultimo avrebbe significato un’aperta condanna del re-gime e della legislazione del paese vicino. Per molti degliesuli, comunque, questa vaghezza di status non si è mai di-mostrata ideale. In qualsiasi momento, infatti, il governopoteva ufficializzare l’estradizione, specie se insoddisfattodel “comportamento” di questo o quel rifugiato.

Nella testimonianza che segue si ha prova degli effettiimprevedibili causati da quella che viene interpretata damolti come una spada di Damocle:

“Alcuni rifugiati si sono allontanati da Parigi, in modo daavvicinarsi alla frontiera italiana e rendere più agevole lavisita di loro parenti o amici. Bene, sono stati seguiti dallapolizia e arrestati. Nelle zone meno centrali della Francia,la polizia ti arresta e ti consegna immediatamente ai colle-ghi al di là delle Alpi. Tutta la procedura legale viene in-somma sospesa”.

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Un episodio bizzarro si è verificato in occasione dellavisita di Ronald Reagan a Parigi. I più noti rifugiati italia-ni, ma anche molti baschi, irlandesi e latino-americani, so-no stati prelevati dalle loro abitazioni alcuni giorni primadell’arrivo di Reagan. Uno degli involontari protagonisti diquesto episodio ricorda:

“Non mi rendevo conto di cosa stava succedendo. Un mat-tino, di buon ora, si sono presentati tre agenti in borghese,ed io ho pensato: ecco, è finita. Come per altri, la corteaveva dato parere favorevole alla mia estradizione, ma ilgoverno non aveva ancora dato l’avallo ufficiale. Mi hannoportato alla stazione, dove ho trovato amici ed esuli di al-tri paesi pronti a partire. In realtà, ci hanno portati in unacittadina a ridosso della frontiera spagnola, da dove si go-deva la vista dei Pirenei. Ospitati in albergo, siamo stati te-nuti lontani da Parigi lo stretto necessario perché la visitadi Reagan non venisse disturbata. Temevano, non si samai, che stessimo per organizzare qualcosa. È stata infondo una breve e piacevole vacanza”.

In altri casi, le autorità francesi si sono rese responsabili diillegalità più gravi. Una decina di rifugiati, ad esempio, sonostati prelevati e accompagnati alla frontiera spagnola. Conse-gnati alla polizia di confine, sono stati condotti in carceri spa-gnole in attesa che le autorità italiane inoltrassero le richiestedi estradizione. Il governo spagnolo, a sua volta, ha pronta-mente accettato le richieste ed estradato quel gruppo di italia-ni. In questa maniera, la reputazione della Francia come pae-se tradizionalmente generoso nei confronti degli esuli politicidi tutto il mondo è rimasta ufficialmente intatta.

Un altro gruppo di rifugiati è stato letteralmente messosu un aereo con un biglietto di sola andata. Destinazione:un qualche paese africano. Le autorità francesi presenta-vano come particolarmente generosa questa pratica, inquanto, rassicuravano, non esiste trattato che regoli l’e-stradizione tra i paesi africani e l’Italia. Ad alcuni questaopzione è stata, con grande clemenza, offerta in anticipoper poter essere considerata. Altri sono stati semplicemen-te portati all’aeroporto senza che venisse loro comunicatala destinazione.

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Come già notato, la condizione dei rifugiati italiani a Pari-gi costituisce una anomalia giuridica. Non viene loro conces-so l’asilo politico, sebbene la loro presenza venga informal-mente tollerata. Non vengono estradati, eppure il loro inter-locutore, che è un’autorità astratta e irraggiungibile, puòprendere una decisione improvvisa a proposito, circostanzache consente di esercitare un costante ricatto su di loro.

Impigliati in un apparato burocratico, non ne conosco-no la logica e sono a loro oscure le procedure decisionali.Il modello di giustizia che i rifugiati si trovano di fronte èinsomma di tipo “carismatico”, modello che è adottato siadal loro paese d’origine che dal paese che li ospita. La leg-ge, per loro, non possiede le caratteristiche di calcolabilitàe prevedibilità razionale che dovrebbero esserle proprie. Èpiuttosto una legge dai toni magici, quei toni che Max We-ber attribuiva ai modelli arcaici di giustizia. La loro condi-zione è legata alle convinzioni di un giudice italiano che liha indotti a fuggire. D’altro canto, l’incertezza del loro sta-tus attuale è legata all’indecisione di un giudice franceseche, per motivi extra- giuridici, non può concedere loro l’a-silo politico. È questa una cosiddetta “giustizia di Kadi”,per cui le controversie vengono risolte da un’autorità ora-colare internamente ad una sfera di arbitrio: le decisioniassumono le sembianze dei dicta profetici. Nel caso dei ri-fugiati, si tratta di dicta politici travestiti da decisioni giu-ridiche, decisioni che non hanno però alcun valore norma-tivo, essendo soggette a improvvise mutazioni.

Imprevedibilità e vaghezza di status sono di per sè partedella punizione inflitta ai rifugiati politici italiani. Negan-do loro un interlocutore, un avversario con cui battersi onegoziare, li si priva anche di identità politica. Vige unasorte di sospensione della pena nei loro confronti, sospen-sione che riguarda simultaneamente la loro esistenza diindividui e di cittadini. Alcuni episodi, sparsi nel tempo,confermano periodicamente la precarietà della loro condi-zione. Sembrano messaggi deliberati: uno di loro viene ar-restato, un altro pedinato, un altro minacciato da personenon identificabili: questi episodi creano ansia permanentee dissuadono dal condurre attività politica. Il fatto che sia-no privi di diritti è comprovato dalla circostanza per cui

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non saprebbero a chi rivolgersi se volessero rivendicare deidiritti. La deprivazione politica di cui sono oggetto li collo-ca in un limbo, una nicchia segreta che è impervia al-l’informazione ufficiale. Aprire questa nicchia significhe-rebbe produrre imbarazzo politico ingestibile da partevuoi della Francia che dell’Italia.

Sconfitta politica come emarginazione

La generazione politicamente attiva negli anni ‘60 e ‘70sembra consapevole della propria sconfitta. Agli sconfittiviene negata un’identità collettiva e viene perciò simulta-neamente negata la possibilità di riprodursi politicamente.Gli italiani esiliati a Parigi assaporano inoltre un supple-mento di sconfitta, in quanto si scoprono privi di un locus,geografico e sociale, nel quale la riproduzione politica puòavere luogo. Parlo qui di una civitas, un luogo concepitocome universo pubblico. Per definizione, la civitas ha ca-rattere collettivo, non ci appartiene come individui. Ciono-nostante, ne abbiamo bisogno in quanto individui più diquanto la civitas abbia bisogno di noi; la sua esistenza pro-cede egregiamente anche in nostra assenza: è questa unadelle tragedie dell’esilio politico. Il paese che garantisce in-tegrità fisica ai rifugiati, allo stesso tempo, proibisce lorodi giocare un qualche ruolo nella sua vita politica. I com-portamenti e gli atti dei rifugiati vengono perciò privati disignificato sociale. L’esilio, in questo frangente, riduce l’in-dividuo a un “corpo”, perseguitato da un paese e condizio-nalmente protetto da un altro.

Per i rifugiati politici italiani tutto questo si traduce an-che in emarginazione sociale, materiale. In altre parole, ladeprivazione politica impedisce loro anche una decorosa ri-produzione materiale. Ma come vedremo di seguito, questacircostanza non riguarda tutti i rifugiati, essendo in operaun processo selettivo di cui si cercherà di tracciare il profilo.

Molti esuli a Parigi avevano un lavoro in Italia. O me-glio, usavano il proprio lavoro come puro strumento di so-pravvivenza, dedicando la maggioranza del tempo alla lo-ro vera attività: l’attività politica. L’esilio forzato, a questoproposito, si traduce per molti in una punizione insoppor-

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tabile, in quanto comporta la completa ristrutturazionedel proprio tempo. I rifugiati, ad esempio, sono costretti aprivilegiare il tempo produttivo nel senso ufficiale del ter-mine, a cercare un lavoro, a rincorrere una qualche formadi reddito. Poco tempo rimane per il loro lavoro non paga-to, segnatamente quello che attiene alla riproduzione poli-tica. È immaginabile poi a quale tipo di lavoro possa acce-dere uno straniero a Parigi. T.S. (tutte le iniziali sono fitti-zie), ad esempio, che in Italia era un impiegato nel serviziopostale, spiega:

“Non è che io non voglia lavare i piatti in un ristorante, manon voglio farlo per dieci ore al giorno pagato una mise-ria. Ho lottato tutta la vita contro lo sfruttamento, e guar-da ora come sono ridotto; non avevo idea che nella “civile”Europa esistessero condizioni di questo genere. Siamotrattati come animali dai quali ci si aspetta gratitudine perun piatto di minestra. Dove lavoro sono ossessionati dalcibo, come se le soddisfazioni personali si misurassero incalorie e proteine. È una vita ridotta al minimo: siamo deitubi digerenti. Non ho tempo di far niente, ma la cosa vie-ne vista come normale dai miei colleghi di lavoro. Mi dico-no: ma cosa vuoi di più, lavori, mangi, e hai un tetto dovestare al riparo”.

Per molti, la barriera della lingua ostacola l’accesso aun lavoro accettabile. È questa però una barriera di naturaspesso artificiale, eretta dai datori di lavoro a mo’ di discri-minazione nei confronti degli stranieri e di ricatto nei con-fronti di coloro che tra questi sono così “fortunati” da tro-vare un impiego. Non è raro, tra l’altro, che la poliziainformi il “generoso” datore di lavoro sul passato e l’iden-tità di chi è stato inavvertitamente assunto: un ricercatoper terrorismo. Alcuni rifugiati, infatti, vengono improvvi-samente licenziati senza apparente motivo, dopo strane al-lusioni riguardanti il loro passato da parte dei datori o deicompagni di lavoro. In questi casi, condannati alla “nor-malità” di un lavoro, agli esuli non vengono garantite lecondizioni di questa pur detestabile normalità. In altri ca-si, gli esuli rifiutano le condizioni di lavoro o innescano unconflitto che li porta al licenziamento. E.P. è stato assunto

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in un ospedale in qualità di analista di laboratorio. In Ita-lia svolgeva un lavoro simile, ma nella nuova condizione:

“Si davano tutti un gran da fare a darmi degli ordini. C’eranoun senso della gerarchia e un clima di disciplina che non homai visto in nessun altro posto di lavoro. Eravamo anchesoggetti a delle sottili umiliazioni quotidiane, fatte di piccoliricatti e dispettucci un po’ infantili. Avevano tutti paura di la-mentarsi e di dare risposta alle vessazioni. Mi sono licenzia-to dopo due mesi. Ricordo che in Italia comportamenti diquesto tipo non sarebbero stati tollerati. Pensa al clima negliospedali italiani: si sarebbe indetto subito uno sciopero, i ca-pireparto avrebbero avuto paura di noi, non noi di loro”.

Gli esempi di seguito danno conto dell’emarginazionemateriale di molti rifugiati a Parigi. Una trentina di loro in-segna italiano per qualche ora alla settimana in istituti pri-vati: possono essere licenziati in qualsiasi momento. Chi inItalia lavorava nella pubblicistica, ora si adatta occasional-mente a correggere bozze. Alcuni sono venditori ambulanti,altri muratori o imbianchini, lavori ad alto rischio per viadelle condizioni di illegalità in cui vengono reclutati. Versola fine degli anni ‘80, una trentina di loro, esausti di questecondizioni, ha deciso di lasciare Parigi e tornare in Italia eaccettare la condanna loro inflitta. A loro modo di vedere, lecondizioni di detenzione cui spontaneamente si sottopone-vano erano preferibili alle condizioni di lavoro che erano co-stretti ad accettare: bizzarra contraddizione del principiodella “minor eleggibilità del carcere”. Avendo negoziato il ri-torno in Italia, è stata loro garantita una qualche alternativaalla custodia dopo un certo periodo in carcere. Queste nego-ziazioni sono state condotte direttamente con direttori diistituti di pena, con magistrati di sorveglianza, o a volte conla mediazione di cappellani carcerari. Altri (un centinaio),preoccupati del mutevole clima politico francese, hanno de-ciso di trasferirsi altrove: in altri paesi mediterranei, in Su-damerica o in America Centrale.

Tra quelli rimasti a Parigi, molti sono disoccupati, e so-pravvivono grazie alla rete informale di solidarietà che èancora funzionante, o vengono “mantenuti” da parenti eamici residenti in Italia. Alcuni si sono ammalati, e sareb-

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be interessante verificare se la malattia da cui sono colpiti sidebba alle condizioni stesse dell’esilio. Alcuni sembranopercorrere la via dell’alcolismo, altri trascorrono periodi in-termittenti in ospedale psichiatrico. Un gruppo, qualche an-no addietro, ha cercato di risolvere i problemi di reddito conl’estorsione ai danni delle famiglie dei”pentiti”, loro compa-gni di una volta che li avevano denunciati. Chiedevano unasorta di risarcimento da parte dei “traditori” per essere statiridotti in quelle condizioni. Un numero non identificabile,sebbene limitato, fa ricorso ad attività illecite: compra-ven-dita di oggetti di poco chiara provenienza, o piccole rapine.

Altri sono diventati tossicodipendenti, e due di costorohanno deciso di lasciare Parigi e trovare sistemazione inregioni del mondo dove le droghe circolano con maggiorefacilità. In Tailandia, dove il loro livello di vita si è rivelatoinferiore a quello sperato, si sono accaniti in una reciprocaostilità ruotante attorno a soldi e droghe: ci è scappato ilmorto. La stampa italiana ha erroneamente trattato l’epi-sodio alla stregua di un atto di guerra tra trafficanti inter-nazionali in concorrenza.

M.G. ha lasciato Parigi a metà degli anni ‘80, e in un pae-se dell’America centrale, dove si è stabilito, ha collaborato ariviste della sinistra. Non molto tempo fa ha deciso di far ri-torno in Francia, dove risiede sua figlia. Nessun problemaall’aeroporto di Parigi, dove sembra non venire identificato.Viene in realtà seguito da un gruppo di agenti in borgheseper qualche giorno. Alla fine, gli agenti decidono di interve-nire, sebbene privi di uno specifico mandato di cattura. Siritiene che M.G. possa essere armato, ragione o pretesto cheinduce i poliziotti a massacrarlo con i calci della pistola pri-ma che lui si renda conto di quanto stia per accadere. So-pravvive, e dopo i sei mesi canonici di carcere per possessodi documenti falsi, è ora a Parigi libero e senza una lira.

Simbolicamente, l’esilio forzato equivale a spingere l’in-dividuo al suicidio. Un suicidio politico legato allo smarri-mento del senso di collettività. Evocando toni durkheimia-ni P.N. osserva:

“In tempo di guerra i suicidi quasi scompaiono: l’identifica-zione con una causa comune produce una spinta vitale ver-

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so il conseguimento di obiettivi collettivi. Per la maggioran-za di noi era questa la situazione in Italia. Ma qui, tuttequelle norme di tipo etico e ideale hanno cominciato a crol-lare. Alcuni sono messi in condizione di commettere unasorta di suicidio. Si lasciano andare, diventano apatici. Altrisi distruggono con l’alcool o semplicemente rinunciano apensare o a condurre un’esistenza critica. È questo uno deirisultati dell’esilio: un incoraggiamento al suicidio”.

L’esilio si presenta insomma come estrema accentua-zione della sconfitta, come supplemento di punizione dicui si è oggetto proprio in quanto si è stati sconfitti. Alcunirifugiati sembrano letteralmente aver perso il senno: vaga-no per le strade rifiutando di accettare la loro nuova condi-zione. Con ingenuità, alcuni cercano di capitalizzare sullacondizione di rifugiati, ostentando il loro status e usando-lo ai fini di ricavarne vantaggi e credibilità. Uno di costoroavverte come un suo diritto, lui rivoluzionario, l’ospitalitàdi chi, piccolo borghese, gli mette da tempo la casa a di-sposizione. C.D. racconta:

“Alcuni miei vecchi amici credono che il tempo si sia fer-mato quando loro sono arrivati a Parigi. Il fatto è che la lo-ro esistenza è tutta nel passato. Parlano sempre degli anni‘70 e delle loro imprese, presentando un’immagine di sè disedicenti guerriglieri dalla vita avventurosa. Sembrano unpo’ quegli anziani partigiani che non la smettono mai diparlare della Resistenza. Vengono tollerati come perso-naggi un po’ buffi, o come degli scocciatori che si finge diascoltare ma su cui non si fa affidamento”.

Alcuni girano il mondo credendo che la polizia sia sulleloro tracce, ma è questa solo una proiezione dell’immagineche hanno di se stessi. In realtà, sono stati semplicementedimenticati: sono soldati dispersi che non hanno mai fattoritorno dal fronte.

Una soave inquisizione

Come si è accennato, non tutti gli esuli italiani sono econo-micamente e politicamente emarginati. La condanna al si-

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lenzio politico scaturisce solo dal mancato diniego del pas-sato. Alcuni, al contrario, hanno preso distanza dalle pro-prie pratiche ed idee precedenti. A Parigi come a Canossa?Una sottomissione di natura confessionale in cambio del-l’integrità fisica?

A coloro ai quali è stata offerta una nuova civitas vieneimposto di farne un uso appropriato. In un certo senso, leautorità italiane sono riuscite ad esportare in Francia leprocedure e il clima di restaurazione imperanti nel loropaese. In questo modo, la restaurazione ha finito per colpi-re anche coloro che dal paese hanno preferito fuggire. Maper analizzare queste procedure e questo clima occorremuovere un passo a ritroso.

Le migliaia di attivisti politici processati in Italia hannodovuto fronteggiare un sistema della giustizia in cui molticommentatori hanno ravvisato una forma, seppure soave,di Santa Inquisizione. Le cosiddette leggi di emergenza,infatti, avevano introdotto nella legislazione delle catego-rie di tipo chiesastico e delle nozioni che sono connaturalia un’autorità sacrale e alla sua celebrazione. Le leggi inmateria di terrorismo venivano da alcuni paragonate alDecreto Pontificio del 1181, il cui nocciolo si sostanziavanella cosiddetta “sola suspicio”, vale a dire nell’idea che ilsospetto da solo potesse dar luogo a una punizione preven-tiva. Ma il sospetto, nell’opinione di molti giuristi, non ap-parteneva alla vantata tradizione dei principi illuministici.Piuttosto, era parte di un concetto di verità e di fede asso-lute. Il sospetto veniva anche interpretato come uno statopatologico della mente, o come un’ossessione religiosa. Ein effetti, in tribunale ci si preoccupava più di affermareuna verità assoluta che non di stabilire la verità giudizia-ria. I reati come fatto materiale tendevano a dissolversi,mentre le precise responsabilità giudiziarie perdevanoogni valore di fronte alle convinzioni politiche. Erano soloqueste ultime il vero oggetto del procedimento giudiziario.La personalità degli imputati era insomma più importan-te, ai fini della condanna, che non le azioni da loro com-piute. Un esempio: l’autocritica degli arrestati doveva suo-nare come abiura, da declamare pubblicamente e non damaturare nell’intimità. Possibilmente la si doveva divulga-

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re in aula, spettacolare e celebratoria. L’autorità insommafaceva di tutto per recitare forme moderne di autodafé

Tra le categorie affiorate negli anni dell’emergenza,“dissociazione” e “pentimento” si distinguono per aver la-sciato tracce vistose nella attuale legislazione. La primacomporta la presa di distanza da parte dell’imputato vuoidagli specifici atti compiuti vuoi dalla comunità politicanella quale quegli atti sono giunti a maturazione. Disso-ciarsi comporta un’azione positiva pubblica, un’azione chesia riproducibile in virtù della propria insita potenza pro-mozionale. Il pentimento, a sua volta, comporta una coo-perazione concreta, e inizialmente segreta, con le agenzieufficiali dello stato. Al pentito si richiede di rivelare nomi eindirizzi di complici o presunti tali, di assegnare responsa-bilità specifiche a individui e organizzazioni. Il pentimen-to, in altri termini, possiede una distinta natura militare:alcuni soldati semplicemente passano dalla parte del ne-mico. Ma paradossalmente, il danno sociale prodotto daipentiti è circoscritto, limitandosi a smantellare una orga-nizzazione clandestina e a penalizzare i membri che la co-stituiscono. La dissociazione invece è misura di più ampiorespiro sociale, in quanto crea un precedente ideologico,produce disaffezione e scoraggiamento non nelle file diuna specifica organizzazione, ma internamente ai movi-menti sociali in generale. La dissociazione si rivolge perciòa un numero elevatissimo di individui, ed è potenzialmen-te più insidiosa in quanto trascende la semplice sconfittamilitare. Il pentimento adotta il linguaggio dell’esercito,mentre la dissociazione attinge dal vocabolario comunica-tivo della società civile.

Coloro che si sono distanziati dal proprio passato han-no avuto, il più delle volte, la possibilità di riprendere oiniziare una professione. La loro “autocritica” assume rile-vanza non in quanto maturata nell’intimo delle convinzio-ni personali, ma in quanto si presta ad essere riprodotta etrasmessa al altri individui e gruppi. Ai dissociati si chiededi agire da testimoni di una sconfitta generazionale, dipromuovere una memoria di sconfitta che non si esauriscanel tempo passato e presente, ma che conservi un impattosignificativo anche relativamente al futuro. È un fatto che,

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per coloro che sono stati coinvolti in processi politici, dis-sociazione ha anche significato reinserimento e spesso la-voro. Molti altri hanno dovuto emigrare. Tra i primi, lo sta-tus pubblico di dissociati si è sostanziato in messaggi e ap-pelli chiari, inequivocabili, lanciati dalle pagine dei giorna-li o dagli schermi televisivi.

Vi è da aggiungere che, tra gli effetti della legislazione,si annoverano la liberazione di coloro che, pur responsabi-li di omicidi, operano chiamate di correità, e l’accanimen-to punitivo contro chi, non responsabile di reati di sangue,rifiuta di rilasciare dichiarazioni dissociative pubbliche.

Come si è già fatto notare, questa cultura e queste pro-cedure hanno attraversato il confine italiano, finendo perinformare anche le procedure delle autorità francesi neiconfronti dei rifugiati. Anche in Francia, perciò, l’avvio diuna carriera rispettabile è subordinata a qualche forma di“declamatio”, di professione di fede, che rassicuri l’auto-rità circa le proprie idee e progetti. Questa “declamatio”,anche qui è di natura attiva e coinvolge non solo chi ne èartefice: nel dichiarare la propria innocenza e i propri buo-ni propositi per il futuro, si finisce spesso per indicare lacolpevolezza o di denunciare la bellicosità dei propositi dialtri. I rifugiati che coltivano ambizioni accademiche, adesempio, sono costretti ad annullare il proprio attivismopassato tramite un contro-attivismo di natura e contenutoopposto.

Condannati al mercato

Il fatto che la soave inquisizione abbia attraversato il confinenon è dovuto ad accordi segreti tra Italia e Francia. È l’esiliostesso che può incoraggiare dissociazione e pentimento.

Le organizzazioni politiche italiane degli anni ‘70 eranocomposte da individui provenienti da diverse classi sociali.Ma le differenze di status tra i membri delle stesse organiz-zazioni venivano (frettolosamente?) dimenticate. A Parigi,le stesse persone una volta impegnate nella comune atti-vità politica sono ridotte a fare affidamento sulle proprierisorse economiche o professionali. Superate o rimosse, ledifferenze di status riemergono. Secondo T.B., quando i

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principi del mercato e della pura realizzazione individualevengono rapidamente interiorizzati, sono inevitabili deiprocessi di intima conversione. Così argomenta:

“L’esilio è per definizione carenza di opportunità e man-canza di sostegno. È isolamento in tutti i sensi. Quandosono arrivato a Parigi, ho trovato una situazione di “robin-sonismo”, la nostra isola di naufraghi essendo questagrande metropoli col suo mercato del lavoro sovraffollato.Come Crusoe, molti hanno pensato di potersi salvare solograzie alle proprie risorse personali, vale a dire, titolo distudio, specializzazione, amici influenti. La nostra sconfit-ta si può leggere anche in questo: il trionfo dell’individua-lismo e la scomparsa di un punto di riferimento collettivo.Molti rifugiati rifiutano persino di parlare del passato, e lacarriera intrapresa qui comporta la rottura con altri chehanno il loro stesso passato. Mi sento un po’ come nel ro-manzo “Il signore delle mosche”, dove un gruppo di bam-bini, presumibilmente in condizioni di eguaglianza nellaloro vita quotidiana, fanno naufragio su un’isola scono-sciuta. Qui, mettono in piedi la peggiore delle società, congerarchie di ferro e autoritarismo brutale. Si deve forsepensare che anche nella loro vita di tutti i giorni quei bam-bini non erano poi così “uguali”, ma che solo una sorta diartificio li faceva sembrare tali”.

L’esilio comporta il ritorno delle clientele, dei patronati o,nella migliore delle ipotesi, delle reti amicali e familiari che,sole, sono in grado di garantire riproduzione. R.P. osserva:

“Durante gli anni ‘70, il lavoro che uno faceva aveva pocaimportanza. Nella mia organizzazione, a dire la verità, ionon sapevo nemmeno come i miei compagni si guada-gnassero da vivere. Senza essere troppo nostalgici, le cosemolto spesso si dividevano, non perchè si praticasse unaforma primitiva di comunismo, ma perché in quel fran-gente politico la nostra identità non dipendeva dal lavoroufficiale che uno svolgeva. Qui invece siamo costretti avenderci sul mercato. Così, quelli che stanno bene sonocoloro che hanno una specializzazione che viene loro rico-nosciuta, che in passato hanno avuto modo e tempo di ac-cumulare esperienze e abilità utilizzabili nel mercato dellavoro ufficiale. D’altra parte, trovi qui della gente che let-

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teralmente non sa fare niente, sa fare solo politica, aven-dolo fatto per tutta la vita”.

Gruppi di status e circoli occupazionali sostituisconotra i rifugiati quelli che erano i raggruppamenti politici eideologici del passato. Coloro che si sono deliberatamenteassentati dal mercato si trovano ora ad affrontare un climaestremamente competitivo, le cui regole non conoscono otrovano difficile accettare. A Parigi, perciò, ha avuto luogouna selezione secondo la quale solo alcuni si trovano aproprio agio: possono ora disporre delle proprie abilità edel proprio capitale umano, e come conseguenza, la loroposizione nel mercato tende a differenziarsi. Insomma, lerestaurate condizioni di mercato hanno reintrodotto delledivisioni che molti ritenevano superate.

Come già ricordato, alcuni rifugiati che in Italia svolge-vano attività accademica non hanno trovato difficile conti-nuare la stessa attività in Francia. Ma questa circostanzanon è legata a un semplice e doveroso riconoscimento del-la loro professione. In alcuni casi, continuare la propriaprofessione ha significato ristrutturare la propria identitàfino a farla coincidere esclusivamente con la professionemedesima. Tra i rifugiati c’è chi lamenta:

“Se vuoi un posto all’università devi dimostrare di essereaffidabile, ma devi anche dimostrare che il tuo unicoobiettivo è di essere un buon professore. Inoltre, non devilimitarti ad assumere un ruolo passivo, ma devi essere unpropagatore attivo di quella che si chiama una buonadeontologia professionale. Ad esempio, può essere di unacerta utilità denigrare pubblicamente altri professori chesono “distratti” dalla politica; devi denunciare chi ha rap-porti con “gruppi pericolosi”; insomma devi infangare al-tri in modo da promuovere te stesso. Solo in questo modopuoi presentarti al mondo accademico come un intellet-tuale puro, al di sopra delle fazioni”.

Il passato si rivela orrido

Nelle osservazioni di uno dei rifugiati italiani, l’esilio è co-me una finestra che si apre sull’abisso: vengono le vertigini

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a guardarci dentro. Un altro paragona la situazione dei ri-fugiati a quella di sopravvissuti di un naufragio, laddove ladisperazione può spingere al cannibalismo. Ma questa si-tuazione non si limita a produrre sentimenti estremi rela-tivamente al solo presente, relativamente cioè a una situa-zione che è di per sè estrema. L’esilio, secondo I.L., rivela“il normale processo di costituzione della soggettività”. Ilsuo effetto è peggiore del prodotto di una situazione estre-ma. L’esilio rivela non come si è oggi, ma come si era inpassato. Il passato, allora, diventa orrido altrettanto quan-to il presente.

Narcisismo, competitività, panico di status appaionoimprovvisamente a rivelare di essere sempre stati tra noi.E.G. fa notare che l’esilio è un rivelatore molto vivido deglierrori previamente commessi, quando il movimento rivo-luzionario era in ascesa. Le questioni riguardanti la re-sponsabilità personale, ad esempio, non venivano mai dav-vero affrontate nella sinistra. I problemi etici erano assentidall’orizzonte dei militanti politici, i quali tendevano a mi-metizzare la propria individualità all’interno della vaghez-za molto accogliente del “collettivo”. I processi di rivolu-zione intima riguardanti l’individuo venivano rimandati aun futuro indeterminato, a un’epoca di epifania politicaimprobabile quanto indefinita.

Un altro rifugiato spiega:

“Eravamo convinti di far parte di una comunità morale icui valori erano opposti alla moralità ufficiale e a quelladello stato. Il nostro era invece una forma di “familismo”,simile in un certo senso al familismo tradizionale delle so-cietà segrete e dei gruppi chiusi. La nostra moralità ci le-gittimava in tutto quello che facevamo, e giustificavamoogni comportamento individuale facendo appello a unacollettività di cui non dubitavamo il sostegno. Un sostegnoperò che a volte era reale a volte solo immaginario. E tut-tavia, si riusciva a trovare un punto di equilibrio, un artifi-cio ideologico che ci consentiva di evitare ogni senso dicolpa. Qualsiasi cosa si facesse veniva interpretata comeuna necessità e non come l’esito di una scelta personale.Noi non ne avevamo colpa, essendo sempre dell’imperiali-smo la colpa”.

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La negazione della responsabilità, la condanna di chicondanna, l’appello ad una più alta lealtà, sono categorieche echeggiano altrettante tecniche di neutralizzazionemolto celebri in discipline quali la sociologia della devian-za. Ma nei comportamenti extra-legali di natura politicaqueste tecniche non fungono da rassicurazione per l’indi-viduo, mirano piuttosto a cementare una collettività, sep-pure talvolta artificialmente, attraverso l’esercizio di uncontro-potere. Quest’ultimo, nell’Italia degli anni ‘70, veni-va interpretato come depositario di una più alta moralitàrispetto allo stato. Come ricorda P.F.:

“La certezza di avere ragione ci proveniva da quella che ciappariva come una grande coerenza morale. Rinunciare al-la vita privata e agli interessi personali, trascurare gli aspet-ti dell’individualità, ci sembravano una garanzia e una pro-va inconfutabile del nostro altruismo. Se si faceva una rapi-na, ad esempio, i soldi non andavano ad aumentare il reddi-to di chi la faceva, ma servivano a finanziare l’organizzazio-ne. Questi meccanismi di auto-giustificazione sono stati di-latati al punto da coprire ogni tipo di comportamento. Cosìanche episodi orribili venivano a volte accettati con com-piacimento, in nome di interessi collettivi astratti”.

Ai rifugiati non viene solo negato un presente, viene an-che negato un passato. Quest’ultimo non viene cancellatoma appare in una luce diversa. Gli individui e i loro atti nevengono sfigurati, mentre la personalità dei primi e la logi-ca dei secondi rivelano tratti inaspettati. G.L. afferma diessere stato shockato da come persone da lui credutestraordinarie si siano invece rivelate scandalosamente or-dinarie:

“Molti di quelli che si sono rifugiati qui hanno ucciso, losappiamo tutti. Lo scandalo è che, una volta neutralizzatoil senso di colpa, e una volta pentitisi, hanno cominciato amostrare una serie di valori con i quali anche i reazionaridi vecchio stampo si sentirebbero a disagio. Mia nonna èpiù progressista di loro”.

La punizione insita nell’esilio, insomma, produce effetti

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anche sul passato di chi la recepisce. E contrariamente alladistopia orwelliana, il passato non scompare, ma torna piùvivido e spaventoso. Forse quelle persone sono sempre sta-te “scandalosamente ordinarie” come si rivelano essereadesso. La punizione inflitta con l’esilio sembra suggerireche non c’è via di scampo, e che il sistema “clona” i suoioppositori: coloro che si presentano come antagonisti, inrealtà, posseggono lo stesso repertorio di valori contro iquali sembrano combattere. Secondo D.S., ad esempio, iltipo di carrierismo di alcuni rifugiati è simile al carrieri-smo che si avvertiva anche negli anni più conflittuali. C’erauna lunga lista d’attesa per entrare nelle Brigate rosse, hadetto, come oggi c’è una lista d’attesa per avere un impiegodi prestigio dopo essersi pentiti.

Questa continuità nell’atteggiamento intimo degli indi-vidui, nonostante i drastici cambiamenti presunti, ha tro-vato espressione letteraria in Camus. Il Rinnegato è unsanguigno missionario che si impegna a convertire un po-polo notoriamente crudele. In effetti sarà lui a venir con-vertito da questo. Quando, dopo un periodo di convivenzacol suo nuovo popolo, gli arriva notizia che un altro mis-sionario ha assunto il suo impegno precedente, si arma ditutto punto e lo uccide in un’imboscata. In questa simme-tria di comportamenti, in realtà non è mai cambiato.

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INTRODUZIONE A CESARE BATTISTI, L’ULTIMO SPARO

di Valerio Evangelisti

Non sono mancati libri di memorie, film e romanzi suglianni in cui migliaia, e forse decine di migliaia, di giovaniitaliani decisero di prendere le armi contro un sistema chegiudicavano intollerabile, mentre altre decine di migliaia,e forse centinaia di migliaia, manifestavano la loro opposi-zione senza arrivare a scelte così radicali. In tutta l’abbon-dante produzione sul tema è stato però quasi sempre as-sente l’aspetto esistenziale, talora tragico ma talvolta festo-so, se non goliardico, di quell’esperienza. Ne è risultato unritratto a tinte uniformemente grigie, e spesso fosche, diuna realtà senz’altro drammatica, ma variegata e viva, an-che se indecifrabile dall’esterno.

Personalmente, pur avendo fatto scelte diverse da quel-le di Cesare Battisti, ho vissuto, tra la fine degli anni ’70 e iprimi anni ’80, in mondi contigui al suo. Ricordo bene co-me nei bar di piazza Verdi, roccaforte bolognese di quelloche veniva definito semplicemente “il Movimento”, si al-ternassero discussioni sulla lotta armata ad altre, intermi-nabili, sull’origine dell’universo, sul teatro o sul cinema;come per molti di noi quella stagione, vista da fuori qualeuna sorta di inferno, coincidesse con i primi amori e le pri-me, arruffate, esperienze sessuali; come serpeggiasse un

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4. APPENDICI

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particolare tipo di ironia, fondata sul paradosso, che in se-guito avrebbe fatto la fortuna di programmisti radiofonicie televisivi. Quando chi nel ’77 era democristiano, o addi-rittura fascista, rivendica un percorso analogo a quello delMovimento, mi viene da sorridere, perché il suo vissuto lu-dico non può essere stato simile al nostro.

Cesare Battisti, per la prima volta, rievoca tutto questo,in un romanzo che non può essere scambiato per un’auto-biografia, ma che ha senz’altro il sapore agrodolce della ve-rità. Le storie d’amore – e anche, molto tradizionalmente, dicorna – che si intrecciano all’interno del gruppo dei clande-stini; lo sguardo distaccato e umoristico; la deriva inelutta-bile verso uno scontro campale che nessuno si sente di af-frontare, e a cui nessuno è disposto a sottrarsi: tutto questonon era mai stato descritto con altrettanta efficacia e altret-tanta passione. Dove passione non significa però rivendica-zione. Battisti non è affatto pentito (della storia non ci sipente), ma nemmeno auspica una continuità impossibile.Sentimento naturale in chi incontrò sulla propria strada unmovimento granitico – le Brigate Rosse, ispirate alla tradi-zione comunista ortodossa – pronto a fulminare le eresiespontaneiste del proletariato giovanile, salvo imporgli livellidi scontro inauditi e, più tardi, a sconfitta ormai compiuta,costringerlo ad assistere allo spettacolo di un pentimentocollettivo e piagnone, quale nessun movimento guerriglieroal mondo aveva mai conosciuto.

È molto difficile rievocare l’atmosfera di quegli anni, inItalia, e far capire perché la suggestione della lotta armatariuscisse a conquistare tanti adolescenti. Un contesto cul-turale asfittico, in cui le vie di fuga erano dominate per in-tero dal modello americano; una classe politica screditatacome poche e destinata, di lì a quindici anni, a soccomberesotto il peso della propria corruzione; una serie intermina-bile di stragi impunite, messe in atto per puntellare il siste-ma e invocare soluzioni di forza; un fascismo strisciante einsidioso, fatto più di cinismo che di prese di posizioneideologiche, più di ottusità e di resistenza al cambiamentoche di nostalgie.

Contro tutto ciò si era condensato, a partire dalla metàdegli anni Sessanta, un vero e proprio culto dell’eguaglian-

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za. Anche chi lo disprezzava fingeva di aderirvi; chi ne eracolpito dava mostra di stare al gioco. L’opportunismo degliintellettuali italiani, riletto oggi, impressiona. Soprattuttoquando li si vede farsi cantori di un neoliberismo spietatoe rabbioso, che in comune con l’antico populismo ha solol’arroganza e il sostrato autoritario.

Accadde che, impregnati di ideali egualitari, tantissimigiovani (non certo la maggioranza, e meno che mai un’inte-ra generazione) si ribellassero alla gabbia di squallore che liimprigionava. Si formarono aggregazioni variopinte e sel-vagge, in cui lo studente fuorisede viveva in simbiosi con ilpiccolo delinquente politicizzato, la femminista con il ra-gazzo cresciuto tra lavori precari e la frequentazione del bardi quartiere. Una teoria nuova e stimolante, che si pretende-va marxista ma che di Marx accoglieva solo le suggestioni dialcuni scritti giovanili o secondari, dava un’identità politicaa questa coesistenza. Tramontata la centralità della vecchiaclasse operaia, emergeva l’ “operaio sociale”, disgregato sulterritorio e tuttavia funzionale ai processi di accumulazioneimposti dal sempre più accentuato ricorso alle macchine;oppure il “non garantito”, figura di proletario che, esclusadal sistema produttivo, non aveva accesso ai benefici delWelfare State e li rivendicava.

Il passaggio alla lotta armata non fu né automatico négraduale. Una società che aveva saputo assorbire senzatroppi traumi la protesta del ’68, si trovò paralizzata a frontedelle istanze egualitarie ben più radicali del ’77. Probabil-mente non riusciva ad afferrare l’ “umanità” di fondo di cuimasse di giovani – caratterizzate, al loro interno, dall’assen-za quasi totale di violenza, che riversavano invece all’esterno– erano portatrici. Reagì con impaccio e con rabbia. Ebbe larisposta che in fondo si era andata a cercare.

Una risposta che forse il potere auspicava, in quantocapace di semplificare un universo troppo complesso peressere fatto oggetto di repressione indiscriminata. Le Bri-gate Rosse, con le loro rozze teorie terzinternazionaliste,con la loro demenziale ridda di sigle (MPRO = Movimentoproletario rivoluzionario offensivo, SIM = Sistema impe-rialista delle multinazionali, ecc.), con le loro esecuzioniindividuali spacciate per guerriglia (fino all’orrore asso-

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luto dell’assassinio di un’anziana vigilatrice di Rebibbia,tra singhiozzi e colpi di tosse), diedero a chi governaval’apporto definitivo, consentendo la liquidazione del Mo-vimento e, di conseguenza, la fine del culto dell’egua-glianza.

Cesare Battisti ci parla di tutto questo, col tono aspro,l’ironia e l’assenza di retorica che gli sono consustanziali.Devono essergli grati non solo i lettori generici, ma anchegli studiosi dei comportamenti collettivi, dai sociologiagli storici: non hanno mai avuto tra le mani una testi-monianza pari a questa, e probabilmente non ne avrannoaltre in futuro.

Ci voleva uno scrittore condannato all’esilio dal suopaese, dopo un’evasione e una sentenza di taglio militareassurdamente severa, per ripercorrere senza animosità macon passione anni di cui, in Italia, è ancora difficile parla-re, a meno di non rendere omaggio alle fumisterie di com-plotti inesistenti o di spargere lacrime di contrizione. Bat-tisti è un tipo poco incline al piagnisteo, e poco disposto achiedere perdono per sé o per altri. La luce che gli brillanegli occhi, dopo un decennio di sofferenze e di fughe, èancora quella del sarcasmo. Ha l’aria di un ragazzino dalsorriso beffardo, intento a premeditare una nuova monel-leria. L’aria che avevano quasi tutti i partecipanti, fuori dairanghi delle “armate regolari”, a una guerra perduta inpartenza, ma che si riteneva valesse comunque la penacombattere.

PAROLE DI UN FUGGIASCO: L'INTERVISTA CENSURATA

di Cesare Battisti

Il romanzo di Cesare Battisti L'orma rossa (Einaudi Vertigo,1999) aveva a corredo una serie di dichiarazioni dell’autoreraccolte da Valerio Evangelisti. Il testo fu pesantemente ta-gliato dall’editore, cui peraltro va dato atto di avere avuto ilcoraggio di pubblicare un romanzo oggettivamente “scomo-do”. Riproponiamo ora le dichiarazioni di Cesare nella lorointegralità.

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Una narrativa che nasce dalla carne

Una decina di anni fa cominciai a buttare giù le primelinee di un romanzo. Allora non sapevo ancora dove anda-vo a parare, cercavo disperatamente una storia, un prete-sto dal quale snodare un riesame esistenziale. Senza esser-ne cosciente, stavo scrivendo l’ultimo capitolo dei miei an-ni Settanta…

Nel mio primo romanzo, Travestito da uomo (…per nonessere niente, era il titolo completo), Claudio, il protagonista,si dibatte per sopravvivere al purgatorio degli esiliati italiania Parigi. Finirà per abbandonare definitivamente la scenanel solo modo possibile. Tolta di mezzo questa mina vagante,mi sono detto allora, potrei tentare di spingermi oltre, di ri-salire ancora un po’ il tempo per gettare uno sguardo a unpassato meno recente. E un libro dopo l’altro, mi sono ritro-vato improvvisamente sulla soglia degli anni Settanta.

La prima reazione è stata quella di tornare indietro dicorsa, ma la macchina del tempo non funzionava più. Nonmi restava altro che avventurarmi in quel deserto di men-zogne dove brillavano le ossa di altri incauti. Non ci tenevoa fare la stessa fine, allora mi sono inventato una favola,un pretesto psicologico che mi liberasse dalla tara ideolo-gica. Solo inseguendo la fantasia potevo ricostruirmi unpassato ricco di dettagli tragico-umoristici; un passatoche, se anche fosse appartenuto alla vita di un altro, nonsarebbe stato meno reale del mio. In questo modo avevopensato di avere il personaggio biografico ideale. Non do-vevo fare altro che allineare narrativamente immagini rea-li, e inserirle nella storia per flash disordinati, purchéprofondamente nitidi e genuini, in modo da tessere il filodei miei anni Settanta.

Il risultato si chiama L’ultimo sparo. Né autobiografiané fiction, ma una ricerca del reale in cui raramente si vanella direzione di quel che ci si aspetta. Perché nella vitavera le reazioni sono sempre insensate, assurde, talora rac-capriccianti.

“Guarda, guarda… Impara a guardare!” E in quell’i-stante lo scrittore sparisce. Questa è l’unica conclusioneche pretende L’ultimo sparo.

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L’evasione e la fuga in Messico

Il 4 ottobre 1981 mi lasciavo alle spalle il carcere di Frosi-none. Non a testa bassa né svuotato nello spirito, comeavrebbero voluto i signori della repressione, ma con un’ar-ma in pugno e il petto che mi scoppiava dalla gioia. Alcuniscrissero di un’azione militare perfetta: senza colpo ferire,un gruppo di compagni penetrò all’interno del carcere e looccupò i tempo necessario per permettermi di varcare unadecina di cancelli.

L’aspetto “militare” dello sforzo di migliaia di giovani,che in quegli anni osarono sfidare il potere più selvaggio ecorrotto dell’Occidente, era l’unico linguaggio accessibileai media e a tutti coloro che rifiutavano vigliaccamente diguardare in faccia la realtà. No! Sono stati l’amore e la so-lidarietà, lo spirito libero e generoso di quei meravigliosianni Settanta che mi hanno strappato dalla prigione, nonquattro pistole arrugginite.

Purtroppo non mi fu possibile gioire a lungo della ritro-vata libertà. Qualche giorno dopo seppi degli infami ra-strellamenti effettuati dai carabinieri. A nessun membrodella mia famiglia, da una nipote di appena tredici anni amio padre morente di tumore, fu risparmiato l’abitualetrattamento riservato ai “terroristi”: arresti, ricatti, percos-se, tortura e condanna nel caso di una sorella colpevole diavermi reso visita in carcere. Con il groppo in gola fuggiiun’Italia disgraziata. In Francia non mi vollero, all’epocaaccettavano solo i fuggiaschi che si erano sporcate le maniesclusivamente d’inchiostro. Le mie erano un immondez-zaio, andai a lavarmele in Messico.

E fu un bagno d’ossigeno. In un paese così lontano dalgrigiore degli anni Ottanta in Italia, dove la frattura socialeperdurava in un clima di sconfitta da un lato e nell’isteriaindividualista e megalomane dall’altro, incontrai un popo-lo straordinario.

Ridendosene delle morali e di certi valori come la coe-renza, che laggiù è un lusso che non si permettono nean-che i parolai professionisti, il Messico mi ha insegnato aguardare me stesso e il mondo da un angolo inaccessibilealla cultura dominante occidentale. Al Messico devo la na-

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scita di mia figlia, la voglia impellente di scrivere e quel ca-lore umano che la democrazia italiana aveva relegato nelprofondo delle carceri speciali.

L’approdo in Francia

Nel ’90 sono dovuto tornare in Francia per ragioni familia-ri, ma anche perché restava il solo paese al mondo a tolle-rare la presenza dei fuggiaschi italiani. Il ritorno alla villelumière per me fu un trauma. Difficile riabituarsi a un in-trico di norme sociali che, in nome dell’ordine democrati-co, ti succhia la vita. Con affitti da capogiro, senza docu-menti e quindi senza lavoro, insomma nella miseria totalee con una famiglia da mantenere. Come se non bastasse,nello stesso giorno mi informarono che durante l’esiliomessicano era morto mio padre e avevo subìto una con-danna all’ergastolo. Al momento non realizzai, mi sembra-va talmente troppo che non riuscii a versare una lacrima.

In seguito, l’avvocato mi fece pervenire una valigia diatti processuali. Dopo averne letto qualche pagina, fu tan-to il disgusto per quell’ammasso di menzogne che decisi dibuttare tutto nella spazzatura. Nell’illusione di liberarmidefinitivamente di una storia che non mi apparteneva più,che era stata disonestamente rivista e corretta, mi misi ascrivere come un forsennato.

Nel ’92 uscì il mio primo libro, poi il secondo e così via. Glieditori e il pubblico francese si interessarono progressivamen-te a uno stile che la stampa definiva di volta in volta viscerale,crudo, picaresco. Intanto continuavo a remare come un pazzoin un mare di stenti. Ma da un paio d’anni le cose sono miglio-rate, nel senso che ora riesco a vivere dei miei romanzi.

I conti col PCI

L’ombra rossa è un altro passo a ritroso, un ulteriore tentati-vo di capire cosa mi / ci era successo negli anni Settanta, chepure avevo vissuto da protagonista. Venendo da una fami-glia religiosamente comunista mi sentivo autorizzato a rovi-stare tra i panni sporchi del PCI. Inoltre, in quel periodomantenevo una corrispondenza ricca di informazioni stori-

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che con un illustre membro del partito silurato insieme aPietro Secchia.

Al PCI rimprovero l’ambiguità calcolata, la lingua bifor-cuta con cui da un lato alimentava i sogni di tutti gli sfrut-tati, spesso mandandoli al massacro, e dall’altro si ripro-duceva come partito di potere intento a spartirsi la tortacon la Democrazia Cristiana. Del PCI detesto l’anima stali-nista, complottista e persecutrice che già durante la secon-da guerra mondiale giocò un ruolo di primo piano nella vi-gliacca distribuzione politica dei popoli europei.

Più tardi, durante la tragedia degli anni Settanta, cre-dendosi ormai a un passo dall’Olimpo, tutte le mascherecaddero e il PCI si rivelò per quello che era in realtà. Baste-rebbe ricordare le numerose espulsioni degli iscritti al par-tito che si rifiutavano di etichettare il movimento contesta-tario come una devianza di destra; gli sgherri di Lama al-l’assalto dell’università di Roma, spranga alla mano; le au-toblindo del sindaco di Bologna; le pattuglie armate controi comitati autonomi dell’Alfa e della Fiat; la brillante ideadi Giuliano Ferrara, allora consigliere comunale a Torino,di lanciare un censimento porta a porta con lo scopo dipromuovere la delazione verso ogni comportamento inodore di sovversione. E via di questo passo, fino alla coper-tura di assassinii, di torture, di decine di migliaia di licen-ziamenti, dell’arresto di oltre diecimila compagni.

Mi è difficile non credere che, se negli anni Settanta il PCI

avesse accettato il dialogo con il Movimento, si sarebbe potutoevitare un massacro. Invece hanno fatto come i fascisti, si so-no schierati con i cattolici dando il via alla caccia alle streghe.Del resto, dopo il ’43, non si contano i quadri del Fascio ricicla-tisi nel cosiddetto partito dei lavoratori. In comune avevano ilconcetto del lavoro: per gli uni rappresentava il fulcro della li-berazione (in URSS gli stakhanovisti lavoravano senza stipen-dio), per gli altri un’espressione del rafforzamento della razza.

Un’amnistia improbabile

Seconda Repubblica, voltare la pagina degli orrori, risana-mento sociale, giustizia, e chi più ne ha più ne metta. Paro-le che solo un paese con un governo politico forte può per-

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mettersi di concretizzare. Vista da lontano, questa poveraItalia con i suoi governucci tecnici o di transizione, chesono una manna per la satira politica internazionale, almassimo riesce a rattoppare qualche vecchio buco, se isoliti clan glielo permettono, beninteso. Per le soluzioni,quelle limpide, ci vuole il coraggio di uscire allo scoperto,ma dov’è? Forse nella pagina dei commenti de “La Repub-blica”, dove uno sprovveduto, se non malintenzionato,Franco Coppola,* per scongiurare un’eventuale amnistia,pasticcia tra terrorismo e lotta armata, tra stragi di Statoe rivolta sociale, tra Ustica o la Uno Bianca, cito testual-mente, e il Partito armato. E se si mettessero sullo stessopiano anche Mussolini e Togliatti, che avrebbero da ridirequesti buffi angeli vendicatori?

CESARE BATTISTI: AVENIDA REVOLUCIÓN

di Giuseppe Genna

Avenida Revolución è edito in Italia per Nuovi Mondi Me-dia. Il brano che segue è l’introduzione di Giuseppe Gennaalla versione italiana del romanzo.

Signore e signori siamo lieti di presentarvi il massimo tragli autori noir italiani, uno dei più appassionanti e impor-tanti scrittori di genere a livello europeo, e anche uno degliintellettuali di nuova specie che stanno facendo e farannoil culo alla cattiva globalizzazione con cui certa gentagliapensa di imbrigliare il pianeta: Cesare Battisti.

Nell’introdurre la figura di questo adrenalinico zingarodello spirito e delle geografie, vorrei evitare la facile retori-ca esistenzialista che, qui da noi, finora l’ha accompagna-to. Mi limiterò a ricordare le linee essenziali di un’avventu-ra umana che, almeno a mia conoscenza, non ha pari nel-l’Italia degli ultimi trent’anni. Chi finora ha avuto la fortu-na di leggere i romanzi e gli interventi di Cesare Battistipuò avere pensato che si tratti di scritti politici. Il fatto,

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*. F. Coppola, I carnefici e le vittime, “La Repubblica”, 16 feb-braio 1999.

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però, è che Battisti è un narratore e ci mette davanti a unascomoda verità: la narrazione è un fatto politico e la fic-tion è una forma di potere, esattamente come lo è il raccon-to di un’autobiografia. In parole povere: i libri di Battisti so-no tutti scritti politici, ma a una profondità che davvero nonha nulla a che vedere con le parentele superficiali che sonofinora state attribuite a questo imperdibile autore.

La vita di Cesare Battisti è un viaggio e, in un certo sen-so, i suoi romanzi possono apparire una forma innovativae impazzita dei resoconti di viaggio. Se uno si legge L’ulti-mo sparo, formidabile reportage su se stesso, ha l’impres-sione di trovarsi di fronte a un Truman Capote che, per di-sperazione o necessità, ha assunto qualcosa di stupefacen-te, pur di reggere alla potenza di un racconto tanto intimo,politico e sbalorditivo: una sorta di A sangue caldo peramanti della letteratura benzedrinica. Molti luoghi, moltepersone, molte esperienze ha attraversato Cesare Battistinel corso della sua vicenda esistenziale. Abbandonata l’Ita-lia, via Francia va in Messico – a Puerto Escondido, il chevi ricorderà qualcosa di cinematografico –, passa per Ma-nagua, ritorna a Parigi e diventa il massimo scrittore ita-liano di genere nero. In Francia è acclamatissimo: gli dedi-cano speciali televisivi, pagine di giornale, trasmissioni ra-diofoniche. In occasione dell’uscita dell’ultimo suo lavoro,lo splendido Le cargo sentimental, capita di vivere scenecome questa che racconto. Sono alla FNAC accanto allaGrande Arche, entro, chiedo a un commesso l’ultimo librodi Battisti e quello, accorgendosi che sono italiano, mi do-manda se lo conosco di persona, mi supplica di portargliun saluto affettuoso da parte di un fedele lettore. Sono intanti: non i commessi FNAC, ma i fedeli lettori dei romanzidi Cesare Battisti. Anche in Italia si contano schiere di fe-delissimi, che rimasero letteralmente incantati dalla po-tenza narrativa e civile di testi come L’ultimo sparo (DeriveApprodi) e L’orma rossa (Einaudi). Adesso che si preparaun rientro editoriale di grande richiamo, su Cesare Battistiè prevedibile che si scatenerà di nuovo la tentazione di far-ne un culto letterario. Non è il caso. Il culto è la degenera-zione dell’amore e tutti i romanzi di Battisti altro non sonoche un tentativo di impedire proprio questa degenerazio-

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ne. Il che garantisce a tutti i suoi lettori un’esperienza chesembrava perduta: quella di amare un scrittore e ciò che ciregala – vale a dire: amare la letteratura.

La tentazione critica da cui vorrei deviare, parlandodell’opera di Cesare Battisti, è questa: Battisti è interessan-te perché ha vissuto a fondo la stagione politica e i suoi so-no romanzi politici. Non è così. Sembra così, per alcuni ti-toli, ma non è mai così, come dimostra il libro che avete inmano e che si intitola sì Avenida Revoluciòn ma non haprecisamente nulla a che vedere con un’interpretazione su-perficialmente politica ed esistenziale. Certo, uno prendein mano L’ultimo sparo e dice: è la storia dei miracoli di unfuggiasco, è il resoconto finale di una generazione perdutaal sogno di libertà. Anche qui: solo in apparenza. L’ultimosparo è molto di più: in tempi in cui nessuno si filava i ro-manzi brevi, glaciali e sconvolgenti di Jean-Patrick Man-chette, prima della postuma riscoperta che dell’autore diNada ha fatto il massimo e più celebrato scrittore noir (manon solo), Cesare Battisti aveva scritto l’unico romanzoitaliano avvicinabile a Manchette. Teso, ritmato come unapiatta onda vibratoria, L’ultimo sparo otteneva proprio l’ef-fetto di un ultimo sparo: colpiva alla fronte il lettore e losegnava indelebilmente. Tra l’altro, esito non secondario,riproponendo, ma in maniera genialmente algida e rinno-vata, la questione assai tradizionale e letteraria dello spa-zio di scelta (o di non scelta) tra vita e morte, tra libertà enecessità, tra fatalità (termine precisamente manchettia-no) e rivolta, tra sogno e realtà. Ecco a che cosa giunge lascrittura politica di Battisti: alla totalità dell’esistente, cheè la vita vivente, con tutto il suo glorioso massimalismo,che ripete in perfezione e in presenza l’altrettanto gloriosatradizione epica. Non soltanto perché L’ultimo sparo, sto-ria largamente autobiografica, è un bilancio generaziona-le. È soprattutto perché si affronta il rapporto ambiguo,deficitario o trionfante che sia, tra l’individuo e la comu-nità che L’ultimo sparo si costituisce quale vibrante e su-percompressa epica contemporanea. Non è una storiogra-fia che Battisti tenta. Siamo fin troppo disinibiti per crede-re che la storia di un drop out, per quanto reattivo, siasemplicemente quello che sembra: le sue valenze allegori-

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che, diciamo così, sono ben più politiche di qualunque ri-mando semplicistico alla vicenda in sé, che è politica an-ch’essa.

Questo stravolgimento della storiografia, potentementerovesciata in narrazione epica, è un tentativo a cui Battistiè rimasto fedele in tutti i suoi romanzi, fino a questo Ave-nida Revoluciòn. Basta semplicemente considerare che,seppure in senso non soltanto fisico, L’orma rossa è quelladi Palmiro Togliatti: un approccio quasi shakespeariano(non ovviamente sul piano linguistico: sto parlando delpiano tematico) a tutta la messinscena che il Potere tentadi allestire nella sua opera di espropriazione dell’umano.

Proprio di questo si parla in Avenida Revoluciòn: dell’u-mano espropriato da se stesso. Qui Battisti ha calibrato inmaniera sconvolgente l’utilizzo non soltanto di un genere,ma di molti generi, tutti coagulati in uno. Non voglio sot-trarre una particola di piacere alla lettura rivelandone latrama: perché Battisti è uno dei pochi scrittori italiani chefunzionano prendendoti alla gola e non lasciandoti più.Parlerò piuttosto delle suggestioni che questo romanzoveicola e da cui è a sua volta veicolato. Avenida Revoluciònè una storia dell’Interzona: un luogo di mezzo, di conteni-mento e di contenzione, di libertà sfrenata e di duello al-l’ultimo sangue con l’alienazione, con gli altri e con se stes-si (è da tenere presente, questa notazione, quando si leg-gerà il finale e si osserverà da una prospettiva tutta nuovala sorte di Antonio Casagrande, il protagonista). Citarel’Interzona significa evocare immediatamente lo spettro diWilliam Burroughs – ed è esattamente ciò che desideravofare. Non nel senso che lo stile di Battisti è una macchinacomplessa e barocca e magari illeggibile di tagli e montag-gi: no, Avenida è un libro leggibilissimo secondo il caratte-re di linearità a cui lo “spettatore” occidentale pare essersiabituato. È piuttosto la mescola di tematiche tra cui l’auto-re fa scoccare archi voltaici impressionanti ad avvicinarequesto romanzo a quelli del genio del Pasto Nudo. Qui c’ètutto il corredo tradizionale della letteratura: amore, mor-te, lavoro, sesso, senso, confine, sogno, utopia, lotta, misti-ficazione. È un percorso iniziatico che in Avenida vieneraccontato, compiendo il quale Antonio Casagrande, uno

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che la casa la lascia e che grande non è affatto, verrà ad at-traversare l’esperienza definitiva, ma sempre mobile, dellaCasa Nomadica e della Grandezza dell’Uomo. Burocraziecomplesse e macchiniche, artificiali e stritolatrici, vengo-no ad affrontare de visu l’uomo che cerca la propria eman-cipazione, tentando di attaccarlo al muro dell’apparenza edel condizionamento. Muro che, peraltro, è uno dei massi-mi protagonisti del romanzo, che raggiunge il suo apice inuna Tijuana onirica ed epifrenica, in cui Battisti condensagli esotismi noir dell’Orson Welles de L’infernale Quinlan e,va da sé, il retrogusto anfetaminico dell’Ellroy di Tijuanamon amour. L’iscrizione oraziana che “non è cambiandocielo che si cambia anima” viene incisa a viva forza sullapelle dell’ex contabile Antonio Casagrande, in una via cru-cis che conduce da Milano al Messico (ma soprattutto nel-l’Altrove): esperienza ultimativa grazie a cui l’uomo si tro-va davanti al Leviatano, che non è il Potere ma Se Stesso, edeve prendere una risoluzione. E la risoluzione è questa: odi là o di qua, o si passa il confine o si resta dietro di esso,pur sapendo che molto spesso ciò che si trova al di là del li-mite è un’inversione – e si torna al di qua. Il gesto radicaledell’uomo in cerca di emancipazione significa questo: sot-trarsi al gioco incoerente della vita , al trucco con cui il de-stino presenta le sue tre carte tentando di gabbarci.

In mezzo a tutto ciò, secondo la precisa tradizione allaBurroughs (che, insieme a Kafka e al Dick di Ubik, mi pareil nume tutelare del libro di Cesare Battisti), farete l’espe-rienza da incubo di intermezzi apparentemente distonici,divaricati secondo la logica dell’allucinazione storiograficaa cui Battisti lavora con alacre impegno. Giusto per farviassaggiare la potenza civile, spiazzante e rivelatrice, diquesti inserti in forte connessione tra loro, ecco come cul-mina uno snodo importante di quella rete in cui sarete feli-cissimi di farvi prendere: “Oh, so bene chi sei: un artistadella sublimazione; altrimenti detto, un falsario dellarealtà. Ora però ti senti come un prestigiatore a cui hannosottratto conigli e cilindro. Dài, cittadino, mostraci comefarai a recuperare il potere delle tue pagine”.

Mentre nel successivo Cargo sentimental Battisti scon-volge il romanzo realista plurigenerazionale, entrando nel-

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l’abisso della costante uomo tra epoche diverse (per inten-derci: una versione avantpop di Bacchelli: di quella cosa lì,insomma), in Avenida egli realizza il sogno di un romanzofantastico e realista, cioè eminentemente, violentementepolitico, al di fuori dei comodi canoni del realismo fanta-stico alla sudamericana. Qui si avverte l’asprezza della bat-taglia di un uomo contro di sé, di un uomo che ha vissutocon profondità sempre e ovunque, non lasciandosi incan-tare dagli esotismi dell’alienazione, ma tentando la radica-lità, individuale e collettiva, come via primaria alla libera-zione dal giogo e alla riappropriazione del gioco. CesareBattisti, come del resto Valerio Evangelisti, operano sulfantastico e sul politico un lavoro di non tanto segreta ela-borazione. L’epoca che stiamo vivendo, la battaglia di mo-vimento che si sta preparando certificano quanto costoro,che sono tra gli ultimi umanisti, abbiano oggi ragione. Perquesto li dobbiamo amare.

CESARE BATTISTI: CARGO SENTIMENTALE

di Hubert Artus

Le Cargo Sentimental (Eds. Joëlle Losfeld, febbraio2003) èprobabilmente il capolavoro di Cesare Battisti. Ancora intra-dotto in Italia, il romanzo è stato recensito da Hubert Artussul sito francese Mauvais Genres. Pubblichiamo la traduzio-ne di quell’articolo.

Le cargo sentimental è una sommatoria di destini fami-liari, messi in vertiginosa centrifugazione. Sulla linea delromanzo che precedentemente Battisti aveva pubblicatoda Losfeld, Dernières cartouches (linea che si potrebbesintetizzare così: desiderio, amore, intensità dei ricordi,rabbia del vinto, forza della volontà rivoluzionaria), il car-go imbarca tre generazioni (il padre, il figlio narratore,una giovane figlia) per tracciare un bilancio sulla vita esulle lotte di ciascuno: la resistenza al fascismo di Mussoli-ni, gli anni di piombo e la resistenza all’economia liberista.

Il narratore, esule egli stesso dall’Italia in Francia, pen-dola tra il presente affannoso e il passato in cui ha agito

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senza specchietto retrovisore. Con la sua tipica strategialinguistica di spostamento sulla linea di confine, Battistiinnova il suo tentativo di parlare del passato al di fuori diqualunque nostalgia... ammesso che ci sia una verità dacatturare.

In Battisti, la frontiera tra realtà e fiction è sempre sotti-le; e quella tra reale e interpretazione del reale, anche. Que-sto romanzo, semplice soltanto in apparenza, esige un’at-tenzione costante e intensa in ogni momento. La lingua diquesto autore esprime rabbia e lascia trapelare sottintesi.

Per Battisti, le origini dell’ingiustizia commessa neiconfronti dei rivoluzionari italiani risale alla Guerra: unaguerra perduta che non ha permesso di affrontare compiu-tamente, in Italia, il fascismo. Sollevazione narrativa – co-me si deduce da una frase come questa, che Battisti ripetepiù volte: “Non è l’uomo che crea le circostanze, sono lecircostanze che creano l’uomo”. Il personaggio scopre, in-tera, non soltanto la storia del padre, ma anche la propria,tra gli stessi residui luminosi del proprio destino.

Due generazioni di combattenti per il medesimo risul-tato: nessun passaporto per vivere. Una terza generazioneche, i documenti, li ha. Il parallelo stabilito tra questi de-stini (che, per forza di cose, si intrecciano) offre una pro-spettiva di romanzo a più livelli e una dimostrazione di al-gebra politica implacabile. Battisti, che dispone di una vi-sionarietà acida, si congeda da noi, a fine libro, con un’im-magine (su una duna) di sfrenata poesia.

Se il potere, qualunque cosa esso sia, divide (lotte e ge-nerazioni) per meglio imperare, questo romanzo ricostrui-sce il legame e comprova l’intensissima esigenza intellet-tuale e letteraria di Cesare Battisti.

APPELLO PER LA LIBERAZIONE DELLO SCRITTORE CESARE BATTISTI

I servizi speciali francesi hanno arrestato lo scrittore Cesa-re Battisti, rifugiato in Francia ormai da quattordici anni.Su di lui pende una domanda di estradizione presentatadal governo italiano, sulla base di una condanna pronun-ciata in contumacia oltre un ventennio fa.

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È bene ricordare che a Cesare Battisti fu concesso asilopolitico solo dopo che un magistrato francese ebbe vaglia-to le “prove a suo carico”, e le ebbe giudicate contradditto-rie e “degne di una giustizia militare”. A Battisti erano statiaddossati tutti gli omicidi commessi da un’organizzazioneclandestina a cui era appartenuto negli anni ‘70, anchequando circostanze di fatto e temporali escludevano unasua partecipazione.

Dal momento della sua fuga dall’Italia, prima in Messi-co e poi in Francia, Cesare Battisti si è dedicato a un’inten-sa attività letteraria, centrata sul ripensamento dell’espe-rienza di antagonismo radicale che vide coinvolti centi-naia di migliaia di giovani italiani e che spesso sfociò nellalotta armata. La sua opera è nel suo assieme una straordi-naria e ineguagliata riflessione sugli anni ‘70, quale nessu-na forza politica che ha governato l’Italia da quel tempo aoggi ha osato tentare.

La vita di Cesare Battisti in Francia è stata modesta,piena di difficoltà e di sacrifici, retta da una eccezionaleforza intellettuale. È riuscito ad attirarsi la stima del mon-do della cultura e l’amore di una schiera enorme di lettori.Ha vissuto povero ed è povero tuttora. Nulla lo lega a “ter-rorismi” di sorta, se non la capacità di meditare su un pas-sato che per lui si è chiuso tanti anni fa. Trattarlo oggi dacriminale è un oltraggio non solo alla verità, ma pure a tut-ti coloro che, nella storia anche non recente, hanno affida-to alla parola scritta la spiegazione della loro vita e il lororiscatto.

Certo, c’è chi ha interesse a che una voce come quella diCesare Battisti venga tacitata per sempre. Chi, per esem-pio, contribuì alle tragedie degli anni ‘70 militando nelle fi-le neofasciste o in quelle di organizzazioni – clandestinequanto i Proletari armati per il comunismo – chiamateGladio o Loggia P2, e sospettate di un numero impressio-nante di crimini. Chi fa oggi della xenofobia la propriabandiera. In una parola, una gran parte del governo italia-no attuale.

Noi invece vorremmo che di scrittori capaci di affronta-re di petto il passato come Cesare Battisti ce ne fosserotanti, e che i cittadini francesi capissero chi rischiano di

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perdere, per la vigliaccheria dei loro governanti: un uomoonesto, arguto, profondo, anticonformista nel rimettere ingioco fino in fondo se stesso e la storia che ha vissuto. Inuna parola, un intellettuale vero. Non era tradizione dellaFrancia privarsi di uomini così, per farli inghiottire da unaprigione. Ci auguriamo che la Francia non sia cambiatatanto da tacere di fronte a un simile delitto.

Sì, delitto. Avete letto bene.

Seguono 2200 firme, tra cui le seguenti:

Valerio Evangelisti (scrittore), Serge Quadruppani (scritto-re, Francia), Daniel Pennac (scrittore, Francia), MarcoMuller (direttore della Mostra del cinema di Venezia, pro-duttore cinematografico), Wu Ming (scrittori), Vauro (di-segnatore), Giuseppe Genna (scrittore), Lello Voce (poeta),Nanni Balestrini (scrittore e critico), Antonio Moresco(scrittore), Tiziano Scarpa (scrittore), Marco Philopat(scrittore ed editore), Luigi Bernardi (scrittore ed editore),Helena Janeczek (scrittrice), Giorgio Agamben (filosofo,scrittore), Aldo Nove (scrittore), Davide Ferrario (regista),Guido Chiesa (regista), Dario Voltolini (scrittore), Loreda-na Lipperini (giornalista) Ivano Ferrari (poeta), MassimoCarlotto (scrittore), Florence Thinard (scrittrice, Francia),Tommaso Pincio (scrittore), Pino Cacucci (scrittore), Gil-les Perrault (scrittore, Francia), Roberto De Caro (criticomusicale, direttore di Hortus Musicus), Dominique Ma-notti (scrittrice, Francia), Paolo Cento (deputato Verdi),Mauro Bulgarelli (deputato Verdi), Stefano Tassinari(scrittore), Carla Benedetti (critica letteraria), Laura Gri-maldi (scrittrice e traduttrice), Gianfranco Manfredi (scrit-tore e musicista), Michele Monina (scrittore), Beppe Seba-ste (scrittore), Jean-Marie Laclavetine (scrittore, Francia),Octavio Carsen (giurista, Argentina), Giovanni Russo-Spe-na (deputato, PRC), Graziella Mascia (deputato, PRC),Massimiliano Governi (scrittore), Christian Raimo (scrit-tore), Sandrone Dazieri (scrittore), Jacques Tardi (disegna-tore, Francia), Christian Britsch (docente università di Zu-rigo), Anne-Marie Métailié (editrice, Francia), Deanna

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Shemek (docente università della California), Monica Del-l’Asta (docente università di Bologna), Jacopo De Michelis(editor)…

…e altri duemila tra intellettuali, operai, sindacalisti,imprenditori, fotografi, impiegati, artisti, musicisti, attori,cineasti, docenti, giornalisti, scrittori, studenti, dall’Italia,dall’Europa e da altri due continenti.

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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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OPERE DI CESARE BATTISTI

Les habits d’ombre, Série Noire Gallimard, Parigi 1993 (ed.italiana: Travestito da uomo, Granata Press, Bologna 1993)

Nouvel an, nouvelle vie, Ed. Mille et une Nuits, Parigi 1994L’ombre rouge, Série Noire Gallimard, Parigi 1995 (ed. italia-

na: L’orma rossa, Einaudi Vertigo, 1999)Buena onda, Série Noire Gallimard, Parigi 1996Copier coller (romanzo per ragazzi), Flammarion, Parigi 1997J’aurai ta Pau, Coll. Le Poulpe Ed. Balene, Parigi 1997Dernières cartouches, Ed. Joelle Losfeld, Parigi 1998 (ed. ita-

liana: L’ultimo sparo, ed. DeriveApprodi, Roma 1998)Jamais plus sans fusil, Ed. du Masque, Parigi 2000Terres brûlées (antologia a cura di CB), Ed. Rivages, Parigi

2000 Avenida Revolucion, Ed. Rivages, Parigi 2001 (ed. italiana:

Avenida Revolucion, Nuovi Mondi Media, Ozzano E. 2003)Le Cargo sentimental, Ed. Joelle Losfeld, Parigi 2003Vittoria (romanzo illustrato da Alain Karkos), Ed. Eden Pro-

ductions, Parigi 2003

TESTI UTILI ALLA COMPRENSIONE DEL PERIODO

AA.VV., La mappa perduta, 4 voll., Sensibili alle foglie, Roma 1994AA. VV., Settantasette, DeriveApprodi, Roma 1997

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Nanni Balestrini, Primo Moroni, L'orda d'oro. 1968-1977, lagrande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esisten-ziale, a cura di Sergio Bianchi, SugarCo, Milano 1988; Fel-trinelli, Milano 1997

Giorgio Bocca, Il caso 7 Aprile. Toni Negri e la grande inquisi-zione, Feltrinelli, Milano 1980

Giorgio Bocca, Noi terroristi. Dodici anni di lotta armata rico-struiti e discussi con i protagonisti, Garzanti, Milano 1985

Romano Canosa, Le libertà in italia. I diritti civili e sociali nel-l'ultimo decennio, Einaudi, Torino 1981

Lucio Castellano (a cura di), Aut. Op., Savelli, Roma 1980Centro di iniziativa Luca Rossi (a cura di) 685. Libro bianco

sulla legge Reale, autoproduzione, Milano 1990Collettivo redazionale La nostra assemblea, Le radici di una

rivolta, Feltrinelli, Milano 1977Comitati Autonomi Operai di Roma, Autonomia Operaia, Sa-

velli, Roma 1976 Comitato 7 aprile e collegio di difesa (a cura di), Processo al-

l’Autonomia, Lerici, Milano 1979Pasquino Crupi, Processo a mezzo stampa: il 7 Aprile, Com 2

Editrice, Venezia 1982Renato Curcio, Mario Scialoja, A viso aperto, Mondadori, Mi-

lano 1993Franco Fortini, Extrema ratio, Garzanti, Milano 1990.Prospero Gallinari, Linda Santilli, Dall'altra parte. L'odissea

quotidiana delle donne dei detenuti politici, Feltrinelli, Mi-lano 1995

Laura Grimaldi, Processo all'istruttoria. Storia di un'inquisi-zione politica, Milano Libri, 1981

G. Martignoni, S. Morandini, Il diritto all’odio, Bertani, Vero-na 1977

Italo Mereu, Storia dell'intolleranza in Europa, III edizione,Bompiani, Milano 1995

Mario Moretti, Carla Mosca, Rossana Rossanda, Brigate Ros-se: una storia italiana, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2002

Primo Moroni, IG Rote Fabrik, Konzeptbüro, Le parole e lalotta armata, Shake, Milano, 1999

Primo Moroni, Paolo Bertella-Farnetti, Collettivo AutonomoBarona. Appunti per una storia, in “Primo Maggio” n. 21,1984

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Primo Moroni, Quel ferrovecchio di Gladio, in AA. VV., “Lanotte dei gladiatori”, Calusca edizioni, Padova 1991

Ivan Palermo, Condanna preventiva. Cronaca di un clamorosocaso giudiziario che si vuol dimenticare: il “7 Aprile”, Piron-ti, Napoli 1982

Paolo Persichetti, Oreste Scalzone, Il nemico inconfessabile.Sovversione sociale, lotta armata e Stato d'emergenza in Ita-lia dagli anni 70 a oggi, Odradek, Roma 1998

Giuliano Spazzali, La zecca e il garbuglio. Dai processi alloStato allo Stato dei processi, Machina Libri, Milano 1981

Sergio Spazzali, Chi vivrà vedrà. Scritti 1975-1992, CaluscaCity Lights, Milano 1996

PRINCIPALI SITI INTERNET DEDICATI AL CASO BATTISTI:

In Italia:

www.carmillaonline.comwww.miserabili.comwww.wumingfoundation.comwww.indymedia.it

In Francia:

www.vialibre5.comwww.cesarebattisti.netwww.mauvaisgenres.comhttp://cesarebattisti.free.fr

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