Carlo F. Traverso (ePub) - liberliber.it · letteratura italiana del cav. abate girolamo tiraboschi...

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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Storia della letteratura italiana del cav.Abate Girolamo Tiraboschi – Tomo 1. – Parte 1: Dalla letteratura degli Etruschi fino alla morte diAugustoAUTORE: Tiraboschi, GirolamoTRADUTTORE:CURATORE:NOTE: Il testo è presente in formato immagine sulsito The Internet Archive (http://www.archive.org/).Alcuni errori sono stati verificati e corretti sullabase dell'edizione di Milano, Società tipograficade' classici italiani, 1823, presente sul sito OPALdell'Università di Torino(http://www.opal.unito.it/psixsite/default.aspx).CODICE ISBN E-BOOK: 9788828101277

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenzaspecificata al seguente indirizzo Internet:http://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

COPERTINA: [elaborazione da] "Maschere tragiche ecomiche" mosaico romano - Musei Capitolini - Roma -https://it.wikipedia.org/wiki/File:Tragic_comic_ma-

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TITOLO: Storia della letteratura italiana del cav.Abate Girolamo Tiraboschi – Tomo 1. – Parte 1: Dalla letteratura degli Etruschi fino alla morte diAugustoAUTORE: Tiraboschi, GirolamoTRADUTTORE:CURATORE:NOTE: Il testo è presente in formato immagine sulsito The Internet Archive (http://www.archive.org/).Alcuni errori sono stati verificati e corretti sullabase dell'edizione di Milano, Società tipograficade' classici italiani, 1823, presente sul sito OPALdell'Università di Torino(http://www.opal.unito.it/psixsite/default.aspx).CODICE ISBN E-BOOK: 9788828101277

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sks_-_roman_mosaic.jpg - Pubblico Dominio.

TRATTO DA: Storia della letteratura italiana delcav. abate Girolamo Tiraboschi ... Tomo 1. [-9.]: 1:Dalla letteratura degli Etruschi fino alla morted'Augusto. - Firenze : presso Molini Landi, e C.o,1805. - 2 pt. ([4], L, 217, [1]; V, [2], 220-382 p.

CODICE ISBN FONTE: n. d.

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 4 dicembre 2013

INDICE DI AFFIDABILITÀ: 10: affidabilità bassa1: affidabilità standard2: affidabilità buona3: affidabilità ottima

SOGGETTO:LIT004200 CRITICA LETTERARIA / Europea / Italiana

DIGITALIZZAZIONE: Ferdinando Chiodo, [email protected]

REVISIONE:Claudio Paganelli, [email protected] Santamaria

IMPAGINAZIONE:Ferdinando Chiodo, [email protected] (ODT)Carlo F. Traverso (ePub)Ugo Santamaria (revisione ePub)

PUBBLICAZIONE:Claudio Paganelli, [email protected]

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TRATTO DA: Storia della letteratura italiana delcav. abate Girolamo Tiraboschi ... Tomo 1. [-9.]: 1:Dalla letteratura degli Etruschi fino alla morted'Augusto. - Firenze : presso Molini Landi, e C.o,1805. - 2 pt. ([4], L, 217, [1]; V, [2], 220-382 p.

CODICE ISBN FONTE: n. d.

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 4 dicembre 2013

INDICE DI AFFIDABILITÀ: 10: affidabilità bassa1: affidabilità standard2: affidabilità buona3: affidabilità ottima

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Indice generale

Liber Liber......................................................................4Elogio di Girolamo Tiraboschi scritto da Pompilio Poz-zetti.................................................................................9

Elogio di Girolamo Tiraboschi.................................10opere stampate da Girolamo Tiraboschi...................34

Opere inedite........................................................40Elogio lapidario........................................................43

Prefazione alla prima edizione di Modena...................46Prefazione alla nuova edizione di Modena...................65Tavola generale delle abbreviature...............................72

Metodo per le Abbreviature......................................73Metodo per le Spiegazioni........................................75

Storia della letteratura italiana......................................94Al colto pubblico italiano gli editori.........................95Parte Prima. Letteratura degli Etruschi.....................97Parte II. Letteratura degli abitatori della Magna Gre-cia e de' Siciliani antichi.........................................147

Capo I. Filosofia, Matematica, e Leggi..............149Capo II Poesia, Eloquenza, Storia, ed Arti liberali............................................................................201

Parte III Letteratura de' Romani dalla fondazione diRoma fino alla morte di Augusto...........................254

Libro Primo. Letteratura de' Romani dalla fonda-zione di Roma fino al termine della prima guerracartaginese..........................................................256

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Indice generale

Liber Liber......................................................................4Elogio di Girolamo Tiraboschi scritto da Pompilio Poz-zetti.................................................................................9

Elogio di Girolamo Tiraboschi.................................10opere stampate da Girolamo Tiraboschi...................34

Opere inedite........................................................40Elogio lapidario........................................................43

Prefazione alla prima edizione di Modena...................46Prefazione alla nuova edizione di Modena...................65Tavola generale delle abbreviature...............................72

Metodo per le Abbreviature......................................73Metodo per le Spiegazioni........................................75

Storia della letteratura italiana......................................94Al colto pubblico italiano gli editori.........................95Parte Prima. Letteratura degli Etruschi.....................97Parte II. Letteratura degli abitatori della Magna Gre-cia e de' Siciliani antichi.........................................147

Capo I. Filosofia, Matematica, e Leggi..............149Capo II Poesia, Eloquenza, Storia, ed Arti liberali............................................................................201

Parte III Letteratura de' Romani dalla fondazione diRoma fino alla morte di Augusto...........................254

Libro Primo. Letteratura de' Romani dalla fonda-zione di Roma fino al termine della prima guerracartaginese..........................................................256

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Libro Secondo. Letteratura de' Romani dal finedella prima guerra cartaginese fino alla distruziondi Cartagine........................................................270

Capo I. Poesia................................................270Capo II. Gramatici, Retori, e Filosofi greci inRoma, e studio della Filosofia tra' Romani....307Capo III. Eloquenza, Storia, Giurisprudenza.331

Libro Terzo. Letteratura de' Romani dalla distru-zion di Cartagine fino alla morte di Augusto.....339

Capo I. Poesia................................................343

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Libro Secondo. Letteratura de' Romani dal finedella prima guerra cartaginese fino alla distruziondi Cartagine........................................................270

Capo I. Poesia................................................270Capo II. Gramatici, Retori, e Filosofi greci inRoma, e studio della Filosofia tra' Romani....307Capo III. Eloquenza, Storia, Giurisprudenza.331

Libro Terzo. Letteratura de' Romani dalla distru-zion di Cartagine fino alla morte di Augusto.....339

Capo I. Poesia................................................343

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STORIADELLA

LETTERATURA ITALIANADEL CAV. ABATE

GIROLAMO TIRABOSCHI

TOMO I. - PARTE I.DALLA LETTERATURA DEGLI ETRUSCHI

FINO ALLA MORTE D'AUGUSTO

www.liberliber.it

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STORIADELLA

LETTERATURA ITALIANADEL CAV. ABATE

GIROLAMO TIRABOSCHI

TOMO I. - PARTE I.DALLA LETTERATURA DEGLI ETRUSCHI

FINO ALLA MORTE D'AUGUSTO

www.liberliber.it

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ELOGIO DI

GIROLAMO TIRABOSCHI SCRITTO

DA POMPILIO POZZETTI

C. R. DELLE SCUOLE PIE, BIBLIOTECARIO PUBBLICO IN MODENA;PROFESSORE ONORARIO NELL'IMPERIALE UNIVERSITÀ DI WILNA,MEMBRO, E SEGRETARIO DELLA SOCIETÀ ITALIANA DELLE SCIENZE, ESOCIO CORRISPONDENTE DELLE ACCADEMIE DI PADOVA, DI PISTOJA, E DI

TORINO.

Quis desiderio sit pudor, aut modus Tam cari Capitis?

Orazio, Ode XXIV. del Lib. I.

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ELOGIO DI

GIROLAMO TIRABOSCHI SCRITTO

DA POMPILIO POZZETTI

C. R. DELLE SCUOLE PIE, BIBLIOTECARIO PUBBLICO IN MODENA;PROFESSORE ONORARIO NELL'IMPERIALE UNIVERSITÀ DI WILNA,MEMBRO, E SEGRETARIO DELLA SOCIETÀ ITALIANA DELLE SCIENZE, ESOCIO CORRISPONDENTE DELLE ACCADEMIE DI PADOVA, DI PISTOJA, E DI

TORINO.

Quis desiderio sit pudor, aut modus Tam cari Capitis?

Orazio, Ode XXIV. del Lib. I.

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ELOGIODI

GIROLAMO TIRABOSCHI

Dopo che molte penne di valenti Italiani han tributatoomaggio al sapere ed alle virtù di Girolamo Tiraboschi,non ardirei avventurarmi all'arringo medesimo, ove purnon mi vi sospignessero gli altrui impulsi autorevoli, ecosì l'opportunità di compiere al debito per me già con-tratto inverso la memoria sempre acerba e sempre ono-rata dell'insigne Defunto. E certo a pochissimi compete,siccome a lui, il diritto di vivere eternamente nella ricor-danza de' posteri, dappoichè egli consacrò in particolarmodo il frutto de' suoi pellegrini talenti, delle lunghe vi-gilie, della vasta sua dottrina alle glorie della nazionaleletteratura, affaticandosi, ora a toglierne dall'obblivionei benemeriti coltivatori, ora ad assicurarne gli inclitinomi nel possedimento della immortalità.Bergamo, città feconda in ogni tempo di chiari ingegni,diede, correndo il decimottavo giorno di dicembredell'anno mille settecento trentuno, i natali a Girolamodi Vincenzo Tiraboschi, e di Laura dello stesso cogno-me. Risplenderono in quello sin dai primi anni le dotipiù belle d'intendimento e di cuore, che, insiem con-giunte, l'uomo costituiscono pienamente commendabile.Nella tenera età medesima, in cui grande suol essere la

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ELOGIODI

GIROLAMO TIRABOSCHI

Dopo che molte penne di valenti Italiani han tributatoomaggio al sapere ed alle virtù di Girolamo Tiraboschi,non ardirei avventurarmi all'arringo medesimo, ove purnon mi vi sospignessero gli altrui impulsi autorevoli, ecosì l'opportunità di compiere al debito per me già con-tratto inverso la memoria sempre acerba e sempre ono-rata dell'insigne Defunto. E certo a pochissimi compete,siccome a lui, il diritto di vivere eternamente nella ricor-danza de' posteri, dappoichè egli consacrò in particolarmodo il frutto de' suoi pellegrini talenti, delle lunghe vi-gilie, della vasta sua dottrina alle glorie della nazionaleletteratura, affaticandosi, ora a toglierne dall'obblivionei benemeriti coltivatori, ora ad assicurarne gli inclitinomi nel possedimento della immortalità.Bergamo, città feconda in ogni tempo di chiari ingegni,diede, correndo il decimottavo giorno di dicembredell'anno mille settecento trentuno, i natali a Girolamodi Vincenzo Tiraboschi, e di Laura dello stesso cogno-me. Risplenderono in quello sin dai primi anni le dotipiù belle d'intendimento e di cuore, che, insiem con-giunte, l'uomo costituiscono pienamente commendabile.Nella tenera età medesima, in cui grande suol essere la

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dissipazione, tenuissima la fermezza nello studio, appar-ve Girolamo affatto irreprensibile; nè fin d'allora gli ot-timi genitori ebber dal figlio se non testimonianze disommessione, di compostezza d'animo, e di cristianapietà. La compassion generosa a pro degli indigenti mo-strossi nel fanciullo anzi bisognevol di freno che di ecci-tamento. Attinse egli in patria dal sacerdote Pietro Ar-neati, che teneavi pubblica scuola, le cognizioni elemen-tari delle lettere, e questi lieto di tanto discepolo non ri-finì mai di esaltarne la prontezza della mente e la perse-veranza della applicazione, onde quella sua puerizia as-sai memorabile si rendè. L'accesa voglia di erudirsi, in-dizio d'anima nata alla sapienza, spronavalo a gir conti-nuamente in traccia di libri, ed a leggerli con incredibileavidità, sicchè Marco Tullio chiamato avrebbe lui giovi-netto, conforme appellò Catone adulto, divoratore ap-punto di libri.Preludj sì fausti in Girolamo determinarono il padre dilui a collocarlo, mentre d'un anno solo oltrepassava idue lustri, per lo raffinamento dell'educazion sua, nelCollegio di Monza retto allora da' Gesuiti, fra i quali,Giammaria Prati e Pietro Cattaneo gl'istillarono alterna-tamente il sano gusto bell'arte oratoria, e nella poetica.Quanto fosser eglino presi dalle prerogative d'ogni ma-niera nell'Allievo radicate, e quanto ei lo fosse a vicendadell'esemplarissima vita de' suoi maestri, lo scuopre, daun lato l'impazienza onde chiese di vestirne le divise, lodice dall'altro il giubilo di quelli in accogliere, animati

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dissipazione, tenuissima la fermezza nello studio, appar-ve Girolamo affatto irreprensibile; nè fin d'allora gli ot-timi genitori ebber dal figlio se non testimonianze disommessione, di compostezza d'animo, e di cristianapietà. La compassion generosa a pro degli indigenti mo-strossi nel fanciullo anzi bisognevol di freno che di ecci-tamento. Attinse egli in patria dal sacerdote Pietro Ar-neati, che teneavi pubblica scuola, le cognizioni elemen-tari delle lettere, e questi lieto di tanto discepolo non ri-finì mai di esaltarne la prontezza della mente e la perse-veranza della applicazione, onde quella sua puerizia as-sai memorabile si rendè. L'accesa voglia di erudirsi, in-dizio d'anima nata alla sapienza, spronavalo a gir conti-nuamente in traccia di libri, ed a leggerli con incredibileavidità, sicchè Marco Tullio chiamato avrebbe lui giovi-netto, conforme appellò Catone adulto, divoratore ap-punto di libri.Preludj sì fausti in Girolamo determinarono il padre dilui a collocarlo, mentre d'un anno solo oltrepassava idue lustri, per lo raffinamento dell'educazion sua, nelCollegio di Monza retto allora da' Gesuiti, fra i quali,Giammaria Prati e Pietro Cattaneo gl'istillarono alterna-tamente il sano gusto bell'arte oratoria, e nella poetica.Quanto fosser eglino presi dalle prerogative d'ogni ma-niera nell'Allievo radicate, e quanto ei lo fosse a vicendadell'esemplarissima vita de' suoi maestri, lo scuopre, daun lato l'impazienza onde chiese di vestirne le divise, lodice dall'altro il giubilo di quelli in accogliere, animati

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dalle più ragionevoli speranze, tra loro il novello Alun-no, che divenir dovea segnalato Campione. Vinte le re-nitenze paterne, mediante le iterate prove d'una voca-zion legittima e veracemente spirata dall'Alto, incammi-nossi Girolamo, benchè unica speme alla discendenzadei suoi, benchè sol d'anni quindici, e non compiuti an-cora, incamminossi, nel diciannovesimo giorno d'otto-bre del mille settecento quaranta sei, al noviziato in Ge-nova della Compagnia di Gesù. Colà offerì ognora in semedesimo preclari esempj di Evangelica petizione, esingolarmente di quella perpetua negazion della volontàpropria, che n'è l'apice il più scabroso ed il più merito-rio.Finito il biennio del regolar tirocinio ed il corso degliumani studj, ripetuto sotto la scorta de' Padri GiuseppeGrazzano e Giambatista Nogera, udì nella filosofial'esperto Padre Gioseffantonio Cantova e quindi fu de-stinato all'esercizio per anni cinque delle scuole inferioriin Milano, poi in Novara; e conobbesi presto che unospirito nobilissimo, quello, cioè, di essere altrui giove-vole, dirigeva le sue occupazioni. Vide che il Vocabola-rio italiano-latino del Padre Mandosio domandava, perl'assoluto profitto de' principianti, riforme, giunte, spie-gazioni, laonde si accinse ad impartirgliele, e corredatocosì di benefica supellettile, il pubblicò: fatica questache sia riputata a vile unicamente da coloro, i quali co-stumano dalla semplice intitolazione d'un'opera il pregioargomentarne, e la dottrina universa dell'Autore. E po-

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dalle più ragionevoli speranze, tra loro il novello Alun-no, che divenir dovea segnalato Campione. Vinte le re-nitenze paterne, mediante le iterate prove d'una voca-zion legittima e veracemente spirata dall'Alto, incammi-nossi Girolamo, benchè unica speme alla discendenzadei suoi, benchè sol d'anni quindici, e non compiuti an-cora, incamminossi, nel diciannovesimo giorno d'otto-bre del mille settecento quaranta sei, al noviziato in Ge-nova della Compagnia di Gesù. Colà offerì ognora in semedesimo preclari esempj di Evangelica petizione, esingolarmente di quella perpetua negazion della volontàpropria, che n'è l'apice il più scabroso ed il più merito-rio.Finito il biennio del regolar tirocinio ed il corso degliumani studj, ripetuto sotto la scorta de' Padri GiuseppeGrazzano e Giambatista Nogera, udì nella filosofial'esperto Padre Gioseffantonio Cantova e quindi fu de-stinato all'esercizio per anni cinque delle scuole inferioriin Milano, poi in Novara; e conobbesi presto che unospirito nobilissimo, quello, cioè, di essere altrui giove-vole, dirigeva le sue occupazioni. Vide che il Vocabola-rio italiano-latino del Padre Mandosio domandava, perl'assoluto profitto de' principianti, riforme, giunte, spie-gazioni, laonde si accinse ad impartirgliele, e corredatocosì di benefica supellettile, il pubblicò: fatica questache sia riputata a vile unicamente da coloro, i quali co-stumano dalla semplice intitolazione d'un'opera il pregioargomentarne, e la dottrina universa dell'Autore. E po-

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scia che i suoi Correligiosi Filippo Bovio ed il mentova-to Cantova ebberlo introdotto negl'intimi penetrali dellesacre discipline, qual non diede Tiraboschi esperimentoillustre d'intelletto valevole ad abbracciar qualunque piùaustera scienza, attraendosi in teologica solenne deputa-zione la maraviglia de' Professori maggiormente consu-mati in quegli studj. Ma siccome le amene facoltà par-vero sopra tutt'altre a se chiamarlo e ritenerlo con pos-senti allettativi, ascese egli perciò con geniali e prosperiauspicj, in Milano nell'Università di Brera, la cattedradella Rettorica. Che se io affermi aver quivi Tiraboschigrandeggiato, non solo qual precettor valoroso, bensìquale scrittor forbito, e nella metrica, e nella sciolta ora-zione, e nel latino, e nell'italico linguaggio, ne avrò, sì atestimonj che a mallevadori quanti lessero, gli elegantiversi che d'esso lui, in ambi gli idiomi, vennero, non haguari providamente a luce, quanti gustaron le prose, chegià tempo le videro, modelli di Tulliana facondia: l'unadelle quali pone in chiaro i vantaggi e l'eccellenza dellostudio risguardante la patria storia, l'altra i motivi, ondesottratta ai rischj di minaccevole infermità l'augusta Im-peratrice Regina Maria Teresa, dovea l'Insubria rallegra-re sì per istraordinaria foggia ed esultare. Quasi peraltro ciò fosse lieve alla perizia ed all'attivitàdel nostro Retore, sollecitossi egli in questo mezzo amietere allori negli spinosi campi dell'Erudizione. Parlodi quella che deriva, come da limpida fonte, copiosa-mente; ed abita entro i volumi ove racchiuse e rischiarò

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scia che i suoi Correligiosi Filippo Bovio ed il mentova-to Cantova ebberlo introdotto negl'intimi penetrali dellesacre discipline, qual non diede Tiraboschi esperimentoillustre d'intelletto valevole ad abbracciar qualunque piùaustera scienza, attraendosi in teologica solenne deputa-zione la maraviglia de' Professori maggiormente consu-mati in quegli studj. Ma siccome le amene facoltà par-vero sopra tutt'altre a se chiamarlo e ritenerlo con pos-senti allettativi, ascese egli perciò con geniali e prosperiauspicj, in Milano nell'Università di Brera, la cattedradella Rettorica. Che se io affermi aver quivi Tiraboschigrandeggiato, non solo qual precettor valoroso, bensìquale scrittor forbito, e nella metrica, e nella sciolta ora-zione, e nel latino, e nell'italico linguaggio, ne avrò, sì atestimonj che a mallevadori quanti lessero, gli elegantiversi che d'esso lui, in ambi gli idiomi, vennero, non haguari providamente a luce, quanti gustaron le prose, chegià tempo le videro, modelli di Tulliana facondia: l'unadelle quali pone in chiaro i vantaggi e l'eccellenza dellostudio risguardante la patria storia, l'altra i motivi, ondesottratta ai rischj di minaccevole infermità l'augusta Im-peratrice Regina Maria Teresa, dovea l'Insubria rallegra-re sì per istraordinaria foggia ed esultare. Quasi peraltro ciò fosse lieve alla perizia ed all'attivitàdel nostro Retore, sollecitossi egli in questo mezzo amietere allori negli spinosi campi dell'Erudizione. Parlodi quella che deriva, come da limpida fonte, copiosa-mente; ed abita entro i volumi ove racchiuse e rischiarò

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le lontane memorie dell'Ordine degli Umiliati. Gli ultimifunesti eventi che ne produsser l'eccidio, andavan, gli èil vero, per le bocche d'ognuno, ma le primitive glorie diesso giacevansi neglette e dalla maggior parte ignorate.Comparvero su tale argomento le Dissertazioni di Giro-lamo, e dileguarono le dubbiezze intorno i principj diquell'Istituto, riferiti per lui saggiamente all'anno mille ediciassette dell'era volgare: imparossi in qual guisa, cen-to e più anni dipoi, Pietro dal Pozzo stabilì gli Umiliaticlaustrali dell'un sesso e dell'altro, e come fu, indi a nonmolto, fondata un'adunanza di sacerdoti colla stessa de-nominazione da san Giovanni Medense, ed altra, inquello stante, ne sorse di pie femmine all'Istituto mede-simo con augusti inviolabili patti arrolate. Nulla rimanquivi pel Tiraboschi a bramare, nè circa le leggi, leusanze, la liturgia di que', tra siffatti Religiosi, viventi insolitario ritiro; nè circa le particolarità, le vicende, loscioglimento de' laici: nulla sui riti, sulle costituzioni diquesti, sui manuali esercizi, e sul lanificio segnatamentein che gli Umiliati spiccarono, e sugli impieghi diversifidati loro dai Principi e dalle Repubbliche. Perfetta è laserie dei Generali Prepositi, e dei soggetti infra loro,quali per dottrina e santità ragguardevoli, e quali inoltreper calda eloquenza domatrice del vizio, e delle serpeg-gianti eresie. Ma le umane prevaricazioni che cosa mainon vagliono ad isconvolgere e ad atterrare! Decadutaverso la metà del secolo sedicesimo, scrive il nostro Fi-lologo, dal primiero vigore la regolare osservanza, sciol-to irreparabilmente alla rilassatezza ogni ritegno, preci-

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le lontane memorie dell'Ordine degli Umiliati. Gli ultimifunesti eventi che ne produsser l'eccidio, andavan, gli èil vero, per le bocche d'ognuno, ma le primitive glorie diesso giacevansi neglette e dalla maggior parte ignorate.Comparvero su tale argomento le Dissertazioni di Giro-lamo, e dileguarono le dubbiezze intorno i principj diquell'Istituto, riferiti per lui saggiamente all'anno mille ediciassette dell'era volgare: imparossi in qual guisa, cen-to e più anni dipoi, Pietro dal Pozzo stabilì gli Umiliaticlaustrali dell'un sesso e dell'altro, e come fu, indi a nonmolto, fondata un'adunanza di sacerdoti colla stessa de-nominazione da san Giovanni Medense, ed altra, inquello stante, ne sorse di pie femmine all'Istituto mede-simo con augusti inviolabili patti arrolate. Nulla rimanquivi pel Tiraboschi a bramare, nè circa le leggi, leusanze, la liturgia di que', tra siffatti Religiosi, viventi insolitario ritiro; nè circa le particolarità, le vicende, loscioglimento de' laici: nulla sui riti, sulle costituzioni diquesti, sui manuali esercizi, e sul lanificio segnatamentein che gli Umiliati spiccarono, e sugli impieghi diversifidati loro dai Principi e dalle Repubbliche. Perfetta è laserie dei Generali Prepositi, e dei soggetti infra loro,quali per dottrina e santità ragguardevoli, e quali inoltreper calda eloquenza domatrice del vizio, e delle serpeg-gianti eresie. Ma le umane prevaricazioni che cosa mainon vagliono ad isconvolgere e ad atterrare! Decadutaverso la metà del secolo sedicesimo, scrive il nostro Fi-lologo, dal primiero vigore la regolare osservanza, sciol-to irreparabilmente alla rilassatezza ogni ritegno, preci-

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pitarono gli Umiliati in tali eccessi, che giunser talunifino ad insidiar con aperta violenza, quantunque, la mer-cé divina, inutilmente, i bei giorni del santo Arcivesco-vo di Milano e Cardinale Carlo Borromei, ansioso di ri-mettere, coll'industrie del suo fervore, nel diritto cammi-no i traviati. Costò l'orrendo attentato ai complici la vita,ed al Corpo intero, per Bolla di Pio V. l'estrema dissolu-zione. Un'Opera frattanto, per eseguir la quale feced'uopo a Tiraboschi aggirarsi tra gli angoli dimenticati efra la polvere degli archivj e delle librerie, separar daicerti gli ambigui, gli autentici dagli apocrifi documenti,discutere e rettificar le varie sovente discordi opinionidegli scrittori nell'intricata materia; un'Opera che river-bera cotanto splendore ne' sacri e ne' civili annali de'bassi tempi, condita inoltre da urbanità costante di latinopurgatissimo stile, festeggiata dai luminari della patria edella forestiera letteratura, si fu quest'Opera il fruttodell'età fresca d'un uomo indefesso ne' giornalieri scola-stici uffizj, assiduo nelle pratiche della domestica disci-plina, ed in gravose altre incumbenze applicato, fra lequali non dee tacersi il ragionato indice dei libri esisten-ti nel Collegio, adesso Ginnasio nazionale, di Brera. Im-perocchè sarebbesi allora detto che Tiraboschi, secondoscrissero di Timoleonte Corintio, univa in se l'alacritàdella gioventù, ed il senno della vecchiezza.Né stupisco io già che ad autore omai sì conto ed ap-plaudito rivolgesse le mire il Duca Francesco III. d'Este,giudice dei talenti e protettore, allora quando assegnar

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pitarono gli Umiliati in tali eccessi, che giunser talunifino ad insidiar con aperta violenza, quantunque, la mer-cé divina, inutilmente, i bei giorni del santo Arcivesco-vo di Milano e Cardinale Carlo Borromei, ansioso di ri-mettere, coll'industrie del suo fervore, nel diritto cammi-no i traviati. Costò l'orrendo attentato ai complici la vita,ed al Corpo intero, per Bolla di Pio V. l'estrema dissolu-zione. Un'Opera frattanto, per eseguir la quale feced'uopo a Tiraboschi aggirarsi tra gli angoli dimenticati efra la polvere degli archivj e delle librerie, separar daicerti gli ambigui, gli autentici dagli apocrifi documenti,discutere e rettificar le varie sovente discordi opinionidegli scrittori nell'intricata materia; un'Opera che river-bera cotanto splendore ne' sacri e ne' civili annali de'bassi tempi, condita inoltre da urbanità costante di latinopurgatissimo stile, festeggiata dai luminari della patria edella forestiera letteratura, si fu quest'Opera il fruttodell'età fresca d'un uomo indefesso ne' giornalieri scola-stici uffizj, assiduo nelle pratiche della domestica disci-plina, ed in gravose altre incumbenze applicato, fra lequali non dee tacersi il ragionato indice dei libri esisten-ti nel Collegio, adesso Ginnasio nazionale, di Brera. Im-perocchè sarebbesi allora detto che Tiraboschi, secondoscrissero di Timoleonte Corintio, univa in se l'alacritàdella gioventù, ed il senno della vecchiezza.Né stupisco io già che ad autore omai sì conto ed ap-plaudito rivolgesse le mire il Duca Francesco III. d'Este,giudice dei talenti e protettore, allora quando assegnar

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volle all'estinto padre Giovanni Granelli un successorenella direzione della sua Biblioteca di Modena. Accennobensì, a raro esempio di modestia letteraria, le ripugnan-ze di accettar l'onorevole carico espresse dall'umile Tira-boschi, cui l'esortazioni soltanto e gli stimoli d'accredi-tati suoi Confratelli bastarono a superare. Assunse egliadunque, nel giugno dell'anno mille settecento settanta,il regolamento di questo santuario delle Muse, ove trovòed ebbe, parecchi anni, a colleghi i prodi Gesuiti Dome-nico Troili e Giovacchino Gabardi. Le fatiche, alle qualidedicossi in lustro della Biblioteca, ed in benefizio deglistudiosi, non solo giustificarono qui abbondevolmentel'egregia scelta; ma palese fu ben presto per ogni doveche degno era Tiraboschi dell'intrapresa carriera, e delgrido stesso de' suoi predecessori, nomi tutti incisi inoro nei tempio di Minerva.Confesso manifestamente di smarrire il coraggio e lalena in faccia al maestoso tema che ora a se m'invita, laStoria cioè dell'Italiana Letteratura, il cui primo volume,composto nel giro d'un anno, e messo al pubblico, riem-piè d'ammirazione l'Italia non solo, ma gli stranieri piùlenti nel rendere agl'Italiani giustizia. Crebbe questa adismisura tosto che seppesi terminato, nell'intervallo dipoco oltre il decennio, un lavoro che s'avvolge e spaziaper tante età, quante ne passarono dall'introdursi appogli Etruschi i buoni studj al secolo che dianzi con equi-voca fama tramontò. E qual cosa potrei io dirne che mi-nore non fosse del Comune avviso, e qual pregio ram-

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volle all'estinto padre Giovanni Granelli un successorenella direzione della sua Biblioteca di Modena. Accennobensì, a raro esempio di modestia letteraria, le ripugnan-ze di accettar l'onorevole carico espresse dall'umile Tira-boschi, cui l'esortazioni soltanto e gli stimoli d'accredi-tati suoi Confratelli bastarono a superare. Assunse egliadunque, nel giugno dell'anno mille settecento settanta,il regolamento di questo santuario delle Muse, ove trovòed ebbe, parecchi anni, a colleghi i prodi Gesuiti Dome-nico Troili e Giovacchino Gabardi. Le fatiche, alle qualidedicossi in lustro della Biblioteca, ed in benefizio deglistudiosi, non solo giustificarono qui abbondevolmentel'egregia scelta; ma palese fu ben presto per ogni doveche degno era Tiraboschi dell'intrapresa carriera, e delgrido stesso de' suoi predecessori, nomi tutti incisi inoro nei tempio di Minerva.Confesso manifestamente di smarrire il coraggio e lalena in faccia al maestoso tema che ora a se m'invita, laStoria cioè dell'Italiana Letteratura, il cui primo volume,composto nel giro d'un anno, e messo al pubblico, riem-piè d'ammirazione l'Italia non solo, ma gli stranieri piùlenti nel rendere agl'Italiani giustizia. Crebbe questa adismisura tosto che seppesi terminato, nell'intervallo dipoco oltre il decennio, un lavoro che s'avvolge e spaziaper tante età, quante ne passarono dall'introdursi appogli Etruschi i buoni studj al secolo che dianzi con equi-voca fama tramontò. E qual cosa potrei io dirne che mi-nore non fosse del Comune avviso, e qual pregio ram-

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menteronne, senza che un'altro, a preferenza laudevole,ne occorra all'animo incontanente? Mare immenso die-desi qui Girolamo Tiraboschi a solcare: l'Italia cui nè glioltramontani pure sempre rivali scrittori contrastano ilvanto di madre e di nutrice delle scienze e delle arti,presenta a chi di sì magnifica asserzione elegga raccorreed ordinare le prove una messe di cose, per estensione,per varietà, per importanza solenni, ed a ridursi ed astringersi in un corpo solo assai malagevoli. I monu-menti del sapere fino allora accumulati, la biografia col-tivata, i letterarj fasti di molte città e provincie nostredescritti, l'Idea medesima, avvegnachè difettosa, che ilnapolitano Giacinto Gimma esibì intorno la Storiadell'Italia letterata, se costituivano quasi la minieradonde ricavare i fondamenti dell'istoria, tal però nonl'avresti a ragion nominata innanzi che Tiraboschi pren-desse a congregarne le parti, a distribuirle, a congiun-gerle, e quasi ad infonder loro anima e vita. Quindi, ilnascere, il fiorire, il deteriorare, il cadere, il risorgerenell'Italico paese, così delle Lettere e delle Scienze,come della Pittura, della Scultura, dell'Architetturaaventi con esse vincoli strettissimi; quindi le disputatenascoste cause, or degli avanzamenti, or delle stagioni,or degli errori dell'umano ingegno, la natura e le qualitàdiverse de' diversi secoli, le invenzioni dell'arti, le sco-perte scientifiche, i viaggi, le navigazioni, le gesta deidotti, il favore conceduto lor dai Sovrani, gli utili stabi-limenti, le Accademie, le Università, le Biblioteche, iMusei; siffatto cumulo di gravissimi obbietti e d'altretta-

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menteronne, senza che un'altro, a preferenza laudevole,ne occorra all'animo incontanente? Mare immenso die-desi qui Girolamo Tiraboschi a solcare: l'Italia cui nè glioltramontani pure sempre rivali scrittori contrastano ilvanto di madre e di nutrice delle scienze e delle arti,presenta a chi di sì magnifica asserzione elegga raccorreed ordinare le prove una messe di cose, per estensione,per varietà, per importanza solenni, ed a ridursi ed astringersi in un corpo solo assai malagevoli. I monu-menti del sapere fino allora accumulati, la biografia col-tivata, i letterarj fasti di molte città e provincie nostredescritti, l'Idea medesima, avvegnachè difettosa, che ilnapolitano Giacinto Gimma esibì intorno la Storiadell'Italia letterata, se costituivano quasi la minieradonde ricavare i fondamenti dell'istoria, tal però nonl'avresti a ragion nominata innanzi che Tiraboschi pren-desse a congregarne le parti, a distribuirle, a congiun-gerle, e quasi ad infonder loro anima e vita. Quindi, ilnascere, il fiorire, il deteriorare, il cadere, il risorgerenell'Italico paese, così delle Lettere e delle Scienze,come della Pittura, della Scultura, dell'Architetturaaventi con esse vincoli strettissimi; quindi le disputatenascoste cause, or degli avanzamenti, or delle stagioni,or degli errori dell'umano ingegno, la natura e le qualitàdiverse de' diversi secoli, le invenzioni dell'arti, le sco-perte scientifiche, i viaggi, le navigazioni, le gesta deidotti, il favore conceduto lor dai Sovrani, gli utili stabi-limenti, le Accademie, le Università, le Biblioteche, iMusei; siffatto cumulo di gravissimi obbietti e d'altretta-

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li, cui prolissità sarebbe ad uno ad uno annoverare, creanella ben disposta, ben colorita, ed appien maestrevoletela dell'Istoriografo nostro, ove stanno compresi, unaspecie d'incanto, del quale non so io se abbiavi il più ef-ficace a destar negli spiriti commossi ed attoniti, compa-gno all'ammaestramento, il diletto. E per sì grande im-presa, cui sappiamo essersi dal Leibnizio eccitato, mainvano, il Magliabechi; quale universalità di cognizioni,ad internarsi nei segreti di ciascheduna scienza, qual ret-titudine di criterio nelle spesse indagini d'astruse propo-ste, quale accorgimento, qual dilicato gusto ne' proferitigiudizj, qual diligenza nel racconto e nello sviluppod'intralciati avvenimenti non ispiegò Tiraboschi! Laquale ultima proprietà disser taluni, ben mi è noto, so-verchia minutezza; e questi io pregherei significarmicandidamente, se rimosse di colà simili biografiche in-chieste, non ne svanissero per avventura quella precisio-ne e que' ritrovamenti di celate verità, le conseguenze dicui, in poter d'uom pari a lui che lodiamo, giovano so-prammodo a diffinir lo stato genuino e le gradazionidell'Italica Letteratura, ed a pennelleggiarne con sicu-rezza la totalità e l'amplitudine. Che se piacque a Tira-boschi allargarsi in discussioni alquanto più del consue-to, là dove parlò (siami lecito addurne qualche esempiotra i moltissimi) o d'Archimede, o di Cicerone, o dellosventurato Ovidio, forsechè gli studj, le produzioni, gliscoprimenti del principe de' matematici non formanol'epoca viepiù bella che ostentino le scienze esatte ne'tempi suoi? forsechè la vita dell'Arpinate non è una cosa

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li, cui prolissità sarebbe ad uno ad uno annoverare, creanella ben disposta, ben colorita, ed appien maestrevoletela dell'Istoriografo nostro, ove stanno compresi, unaspecie d'incanto, del quale non so io se abbiavi il più ef-ficace a destar negli spiriti commossi ed attoniti, compa-gno all'ammaestramento, il diletto. E per sì grande im-presa, cui sappiamo essersi dal Leibnizio eccitato, mainvano, il Magliabechi; quale universalità di cognizioni,ad internarsi nei segreti di ciascheduna scienza, qual ret-titudine di criterio nelle spesse indagini d'astruse propo-ste, quale accorgimento, qual dilicato gusto ne' proferitigiudizj, qual diligenza nel racconto e nello sviluppod'intralciati avvenimenti non ispiegò Tiraboschi! Laquale ultima proprietà disser taluni, ben mi è noto, so-verchia minutezza; e questi io pregherei significarmicandidamente, se rimosse di colà simili biografiche in-chieste, non ne svanissero per avventura quella precisio-ne e que' ritrovamenti di celate verità, le conseguenze dicui, in poter d'uom pari a lui che lodiamo, giovano so-prammodo a diffinir lo stato genuino e le gradazionidell'Italica Letteratura, ed a pennelleggiarne con sicu-rezza la totalità e l'amplitudine. Che se piacque a Tira-boschi allargarsi in discussioni alquanto più del consue-to, là dove parlò (siami lecito addurne qualche esempiotra i moltissimi) o d'Archimede, o di Cicerone, o dellosventurato Ovidio, forsechè gli studj, le produzioni, gliscoprimenti del principe de' matematici non formanol'epoca viepiù bella che ostentino le scienze esatte ne'tempi suoi? forsechè la vita dell'Arpinate non è una cosa

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medesima colla storia più luminosa della prisca RomanaEloquenza? o forse lo scandagliar l'astruse cagionidell'esilio di quel Poeta non conferiva a disvelare vieme-glio il carattere di Augusto e della sua corte, da cui di-pendeva, per dir così, il destin delle lettere allora domi-nante? Nè intendo come avesse potuto la fortuna di esse,durante la quartadecima età, conseguir nelle carte di Ti-raboschi opportuno risalto, ove egli appagato si fosse discorrere velocemente sulle azioni di Francesco Petrarca,il quale ne rifulse a quella stagione in Italia maestro epadre; nè scorgo donde abbian meglio a risultare i fregidell'aureo Cinquecento, che dall'esteso veridico raggua-glio di quanto operarono i Bembi, i Sadoleti, i Flaminj, iFracastori, i Sannazari, gli Ariosti, l'uno e l'altro Tasso, iSigonj, i Manuzj, i Panvinj, gli Aldovrandi, i Sarpi, iFalloppj, i Palladi, i Sansovini, i Vignola, i Marchi, i Ti-ziani, i Raffaelli, i Buonarroti, i Correggi ed altrettaligenj privilegiati, per sollevare il nome italiano al colmodella grandezza nelle arti belle non meno che nella seriae nella piacevole letteratura. E attenderò che qualcun di-mostri per qual via maggiormente spedita venisse purdato all'Autore guidarci a ravvisar la condizione avven-turosa delle sublimi dottrine nel secolo successivo, diquella che se gli offeriva spontanea dal seguire a passo apasso il divin Galilei che ne fu l'eccelso ristoratore; eche, mediante lo spirito geometrico intromesso da luinella fisica terrestre e nella celeste, mediante le originaliscoperte diffuse nel regno della sperimentale filosofia,recò in questa una felice rivoluzione, perfezionata po-

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medesima colla storia più luminosa della prisca RomanaEloquenza? o forse lo scandagliar l'astruse cagionidell'esilio di quel Poeta non conferiva a disvelare vieme-glio il carattere di Augusto e della sua corte, da cui di-pendeva, per dir così, il destin delle lettere allora domi-nante? Nè intendo come avesse potuto la fortuna di esse,durante la quartadecima età, conseguir nelle carte di Ti-raboschi opportuno risalto, ove egli appagato si fosse discorrere velocemente sulle azioni di Francesco Petrarca,il quale ne rifulse a quella stagione in Italia maestro epadre; nè scorgo donde abbian meglio a risultare i fregidell'aureo Cinquecento, che dall'esteso veridico raggua-glio di quanto operarono i Bembi, i Sadoleti, i Flaminj, iFracastori, i Sannazari, gli Ariosti, l'uno e l'altro Tasso, iSigonj, i Manuzj, i Panvinj, gli Aldovrandi, i Sarpi, iFalloppj, i Palladi, i Sansovini, i Vignola, i Marchi, i Ti-ziani, i Raffaelli, i Buonarroti, i Correggi ed altrettaligenj privilegiati, per sollevare il nome italiano al colmodella grandezza nelle arti belle non meno che nella seriae nella piacevole letteratura. E attenderò che qualcun di-mostri per qual via maggiormente spedita venisse purdato all'Autore guidarci a ravvisar la condizione avven-turosa delle sublimi dottrine nel secolo successivo, diquella che se gli offeriva spontanea dal seguire a passo apasso il divin Galilei che ne fu l'eccelso ristoratore; eche, mediante lo spirito geometrico intromesso da luinella fisica terrestre e nella celeste, mediante le originaliscoperte diffuse nel regno della sperimentale filosofia,recò in questa una felice rivoluzione, perfezionata po-

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scia dai suoi esimj discepoli, e dagli Accademici del Ci-mento. Ben perciò servì al proprio decoro ed all'univer-sal desiderio l'Italia, affrettandosi a replicar di tant'Ope-ra le edizioni; e ben providero Landi e Zenoni fra i no-stri, Retzer fra gli Alemanni, al comodo ed all'istruzionedegli stranieri, donandone, alla Gallica il primo, l'altroalla natìa, il terzo alla Tedesca favella giudiziosi com-pendj. Che più? Gli stessi clamori suscitati da SaverioLampillas, e da Tommaso Serrani spagnuoli contro il Ti-raboschi, quasichè avess'egli, nel salvar l'onore dell'Ita-lica, vilipeso non rade volte quel dell'Ispana letteratura,lungi dal turbargli il possesso del credito acquistato, co-spirarono ad aumentarglielo, atteso le invitte ragioni, ac-campate da se, e dai chiarissimi Vannetti e Zorzi, perrintuzzarne gli assalti. Coronarono i trofei dell'Autore lesignificazioni d'aggradimento, onde la regia Accademiadi Madrid accolse da lui medesimo simile inesauribil ri-cetto di letterarie dovizie.Lavoro sì rilevante e sì ampio, capace di stancar le forzeintellettuali e l'attenzione d'uom qualsivoglia il più sve-gliato ed il più laborioso, non impedì a Girolamo di trat-tare ad un tempo differenti soggetti, e di pubblicar, nonaltramente che a sollievo del principal suo travaglio,moltiplici produzioni, di mole, ma per intrinseci attributinon certamente, inferiori. Tali sono a dirsi le vite disant'Olimpia, e di Fulvio Testi, le ricerche sull'originedella stampa, non pochi opuscoli ed articoli, di cui ab-bellì la metodica Enciclopedia di Padova, parecchi gior-

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scia dai suoi esimj discepoli, e dagli Accademici del Ci-mento. Ben perciò servì al proprio decoro ed all'univer-sal desiderio l'Italia, affrettandosi a replicar di tant'Ope-ra le edizioni; e ben providero Landi e Zenoni fra i no-stri, Retzer fra gli Alemanni, al comodo ed all'istruzionedegli stranieri, donandone, alla Gallica il primo, l'altroalla natìa, il terzo alla Tedesca favella giudiziosi com-pendj. Che più? Gli stessi clamori suscitati da SaverioLampillas, e da Tommaso Serrani spagnuoli contro il Ti-raboschi, quasichè avess'egli, nel salvar l'onore dell'Ita-lica, vilipeso non rade volte quel dell'Ispana letteratura,lungi dal turbargli il possesso del credito acquistato, co-spirarono ad aumentarglielo, atteso le invitte ragioni, ac-campate da se, e dai chiarissimi Vannetti e Zorzi, perrintuzzarne gli assalti. Coronarono i trofei dell'Autore lesignificazioni d'aggradimento, onde la regia Accademiadi Madrid accolse da lui medesimo simile inesauribil ri-cetto di letterarie dovizie.Lavoro sì rilevante e sì ampio, capace di stancar le forzeintellettuali e l'attenzione d'uom qualsivoglia il più sve-gliato ed il più laborioso, non impedì a Girolamo di trat-tare ad un tempo differenti soggetti, e di pubblicar, nonaltramente che a sollievo del principal suo travaglio,moltiplici produzioni, di mole, ma per intrinseci attributinon certamente, inferiori. Tali sono a dirsi le vite disant'Olimpia, e di Fulvio Testi, le ricerche sull'originedella stampa, non pochi opuscoli ed articoli, di cui ab-bellì la metodica Enciclopedia di Padova, parecchi gior-

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nali, sopra tutti il Modenese, che riconobbe da lui l'esi-stenza, l'avviamento, i progressi; il tomo primo della Bi-blioteca Modenese, col quale a dilucidar cominciò i let-terarj annali delle provincie obbedienti allora al serenis-simo Ercole III. d'Este, che avealo testé insignito del ti-tolo equestre, dichiaratolo Suo Consigliere, e Preside,con ampliati stipendj, a questa Biblioteca, ed alla Duca-le Galleria delle medaglie. Eppure, affin di procederfranco ad esporre le cristiane eroiche virtù di quella in-comparabile Vedova, poi diaconessa della Chiesa Co-stantinopolitana, convenne a Tiraboschi premere incertie lievemente segnati Greci vestigj; e ciò non solo, matoglierne con sottil raziocinio l'istoria dalle vanità dellepopolari tradizioni e d'inveterati fallaci racconti. Echiunque ami svolger le pagine ove contengosi le vicen-de arcane del Pindaro Modenese nel secolo decimosetti-mo, non men decantato pe' suoi voli animosi in sol Par-naso, che pel maneggio d'implicati affari nei gabinettidella politica; e vi trovi un'esatta contezza di sue poeti-che esercitazioni, delle riscosse onorificenze, de' gelosiministeri commessigli dall'Estense Francesco I; degli in-fortunj e della morte di lui; valuterà di leggeri le curespese dal Biografo a diseppellire e ad appurar le notiziesu cui ergesi il piano di quella venustissima narrazione.Metallo della vena stessa e di non dissimile prezzo si èognuno degli or mentovati ingegnosi parti del cavalierTiraboschi, infra i quali, amor del patrio bene vuol cheio distingua la Biblioteca degli Scrittori e degli Artistinativi de' già Estensi Dominj, che in sette volumi egli

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nali, sopra tutti il Modenese, che riconobbe da lui l'esi-stenza, l'avviamento, i progressi; il tomo primo della Bi-blioteca Modenese, col quale a dilucidar cominciò i let-terarj annali delle provincie obbedienti allora al serenis-simo Ercole III. d'Este, che avealo testé insignito del ti-tolo equestre, dichiaratolo Suo Consigliere, e Preside,con ampliati stipendj, a questa Biblioteca, ed alla Duca-le Galleria delle medaglie. Eppure, affin di procederfranco ad esporre le cristiane eroiche virtù di quella in-comparabile Vedova, poi diaconessa della Chiesa Co-stantinopolitana, convenne a Tiraboschi premere incertie lievemente segnati Greci vestigj; e ciò non solo, matoglierne con sottil raziocinio l'istoria dalle vanità dellepopolari tradizioni e d'inveterati fallaci racconti. Echiunque ami svolger le pagine ove contengosi le vicen-de arcane del Pindaro Modenese nel secolo decimosetti-mo, non men decantato pe' suoi voli animosi in sol Par-naso, che pel maneggio d'implicati affari nei gabinettidella politica; e vi trovi un'esatta contezza di sue poeti-che esercitazioni, delle riscosse onorificenze, de' gelosiministeri commessigli dall'Estense Francesco I; degli in-fortunj e della morte di lui; valuterà di leggeri le curespese dal Biografo a diseppellire e ad appurar le notiziesu cui ergesi il piano di quella venustissima narrazione.Metallo della vena stessa e di non dissimile prezzo si èognuno degli or mentovati ingegnosi parti del cavalierTiraboschi, infra i quali, amor del patrio bene vuol cheio distingua la Biblioteca degli Scrittori e degli Artistinativi de' già Estensi Dominj, che in sette volumi egli

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tutta assembrò, riportatane dai Conservatori, cui indiriz-zolla, dell'eccelsa Comunità di Modena, oltre cospicuodonativo, l'aggregazione al loro Corpo, ed all'Ordin no-bile della città. E vuol pur esso l'amor del patrio beneche io la additi ai concittadini studiosi, quasi prendendoa dir loro così: Mirate qual folto stuolo di letterati, di fi-losofi, di professori d'arti sortì un tempo nelle nostrecontrade e culla ed instituzione ed incoraggiamento e ri-compense: avvertite gli scoscesi ed erti sentieri che bat-terono, gli ostacoli che sormontarono, i sudori onde toc-carono le mete di gloria, profusi, nella Giurisprudenzada un Panciroli; nell'Anatomia e nella Medicina da unBerengario, da un Falloppio, da un Cesare Magati, da unRamazzini, da un Torti; nella Filosofia, nella Teologia,nella Scienza delle lingue Esotiche, e nella Polemica daun Giovanni Pico, da un Alberto Pio, da un CardinalCortese; nelle Fisicomatematiche da un Montanari, daun Cantelli, da un Domenico Vandelli; nell'Istoria natu-rale da un Vallisnieri; nella Critica da un Castelvetro;nella Poesia e nelle Lettere Greche, Latine, Italiane daun Boiardo, da un Sassi, da un Francescomaria e da unaTarquinia Molza, da un Sadoleto, da un Manzoli, da unoScapinelli, da un Ottonelli, da un Testi, da un Tassoni,da un Cassiani, da un Salandri, da un Paradisi; nell'Artemilitare da un Montecuccoli; nelle Musicale da un Me-rulo; nell'Eloquenza sacra da un Sabbatini; nella Pitturada un Allegri; nella Scoltura da un Clementi; nell'Archi-tettura da un Barozzi; nella Plastica da un Begarelli;nell'Intaglio da un Ugo da Carpi, e da un Ceccati; nella

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tutta assembrò, riportatane dai Conservatori, cui indiriz-zolla, dell'eccelsa Comunità di Modena, oltre cospicuodonativo, l'aggregazione al loro Corpo, ed all'Ordin no-bile della città. E vuol pur esso l'amor del patrio beneche io la additi ai concittadini studiosi, quasi prendendoa dir loro così: Mirate qual folto stuolo di letterati, di fi-losofi, di professori d'arti sortì un tempo nelle nostrecontrade e culla ed instituzione ed incoraggiamento e ri-compense: avvertite gli scoscesi ed erti sentieri che bat-terono, gli ostacoli che sormontarono, i sudori onde toc-carono le mete di gloria, profusi, nella Giurisprudenzada un Panciroli; nell'Anatomia e nella Medicina da unBerengario, da un Falloppio, da un Cesare Magati, da unRamazzini, da un Torti; nella Filosofia, nella Teologia,nella Scienza delle lingue Esotiche, e nella Polemica daun Giovanni Pico, da un Alberto Pio, da un CardinalCortese; nelle Fisicomatematiche da un Montanari, daun Cantelli, da un Domenico Vandelli; nell'Istoria natu-rale da un Vallisnieri; nella Critica da un Castelvetro;nella Poesia e nelle Lettere Greche, Latine, Italiane daun Boiardo, da un Sassi, da un Francescomaria e da unaTarquinia Molza, da un Sadoleto, da un Manzoli, da unoScapinelli, da un Ottonelli, da un Testi, da un Tassoni,da un Cassiani, da un Salandri, da un Paradisi; nell'Artemilitare da un Montecuccoli; nelle Musicale da un Me-rulo; nell'Eloquenza sacra da un Sabbatini; nella Pitturada un Allegri; nella Scoltura da un Clementi; nell'Archi-tettura da un Barozzi; nella Plastica da un Begarelli;nell'Intaglio da un Ugo da Carpi, e da un Ceccati; nella

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Filologia e nella Storia da un Sigonio, da un Corsini, daun Muratori. Deh! poichè hanno i domestici esemplarimirabil possanza ad infiammar d'alta emulazione l'ani-me generose, non desistete mai dal procacciarvene so-stanziale e perenne alimento in siffatto emporio, in co-desta viva e parlante scuola che Girolamo Tiraboschi neaperse.Uguali servigi prestò Egli dipoi all'ecclesiastica, allaprofana erudizione, ed alla generale istoria d'Italia, coltessere e divolgare l'interessantissima del Monastero disan Silvestro in Nonantola, a cui tanta rinomanza conci-liarono e l'epoca remota di sua fondazione, accaduta cir-ca la metà dell'ottavo secolo per Opera di sant'Anselmo,Duca in prima del Friuli, monaco poscia Benedettino, edi vasti possedimenti, ed i privilegi, onde il re de' Longo-bardi Astolfo, e Carlo Magno la munirono, infinegl'insigni diritti che su molte regioni mantenne, entro efuori di questa vaga porzione d'Europa. Dato fu a Tira-boschi, assistito in ciò dall'intelligenza e dalla infaticabi-lità di monsignor vicario Andrea Placido Ansaloni,l'agio di esplorare qual più volle riposto lato dell'archi-vio Nonantolano, per l'avanti conteso a chi che si fosse,e fino a quel lume inestinguibile d'ogni letteratura, ilMuratori, poscia anche all'eruditissimo padre France-scantonio Zaccaria, e così l'opportunità di trarne al gior-no serie ubertosa di documenti, di codici, di pergamenead appoggiarvi lo storico edificio dell'augusta Badia, undì progettato indarno alla sagacità di Carlo Sigonio.

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Filologia e nella Storia da un Sigonio, da un Corsini, daun Muratori. Deh! poichè hanno i domestici esemplarimirabil possanza ad infiammar d'alta emulazione l'ani-me generose, non desistete mai dal procacciarvene so-stanziale e perenne alimento in siffatto emporio, in co-desta viva e parlante scuola che Girolamo Tiraboschi neaperse.Uguali servigi prestò Egli dipoi all'ecclesiastica, allaprofana erudizione, ed alla generale istoria d'Italia, coltessere e divolgare l'interessantissima del Monastero disan Silvestro in Nonantola, a cui tanta rinomanza conci-liarono e l'epoca remota di sua fondazione, accaduta cir-ca la metà dell'ottavo secolo per Opera di sant'Anselmo,Duca in prima del Friuli, monaco poscia Benedettino, edi vasti possedimenti, ed i privilegi, onde il re de' Longo-bardi Astolfo, e Carlo Magno la munirono, infinegl'insigni diritti che su molte regioni mantenne, entro efuori di questa vaga porzione d'Europa. Dato fu a Tira-boschi, assistito in ciò dall'intelligenza e dalla infaticabi-lità di monsignor vicario Andrea Placido Ansaloni,l'agio di esplorare qual più volle riposto lato dell'archi-vio Nonantolano, per l'avanti conteso a chi che si fosse,e fino a quel lume inestinguibile d'ogni letteratura, ilMuratori, poscia anche all'eruditissimo padre France-scantonio Zaccaria, e così l'opportunità di trarne al gior-no serie ubertosa di documenti, di codici, di pergamenead appoggiarvi lo storico edificio dell'augusta Badia, undì progettato indarno alla sagacità di Carlo Sigonio.

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Grazie sien rendute per tutto questo alle accorte premuredell'Abate di essa commendatario, e odierno Vescovo diReggio, monsignor Francescomaria, d'Este, che alle vir-tù dell'eminente suo grado la conoscenza accoppiando egli ornamenti migliori delle severe e delle gentili dottri-ne, rettamente divisò l'utilità che a queste ridondata sa-rebbe dal ravvivarne le oscure memorie, e l'ingenita mu-nificenza impiegò al nitor della stampa, ed al meritatoguiderdon dell'Autore. Inoltrino adesso gli amatoridell'antichità lo sguardo ed i pensieri ne' libri che circala Nonantolana Abbazia Tiraboschi dettò: eccovi, sem-brerà loro che ei venga dicendo, i memorandi effetti del-lo zelo ond'arsero i personaggi, da' cui voleri questa ne'primitivi tempi dipendè; gli ospizj eretti a soccorsod'infermi, di mendici, di pellegrinanti; i monastici alber-ghi moltiplicati, l'esemplarità, in mezzo ad inudita mol-titudine di claustrali, promossa. Ma tosto che un fataledisordine strascinolli nei vortice delle fazioni e delleguerre bollenti allora tra il Sacerdozio e l'Impero, tostoche alla cenobitica umiltà e mansuetudine succederonole intestine discordie ed i procellosi raggiri dell'ambizio-ne; chi può enumerare gli scapiti di quel pria sì floridostabilimento? Non disgiunte da essi andarono le meta-morfosi degli Abati regolari ne' Commendatarj, dei Cas-sinesi ne' Cisterciensi in iscarso novero, cui restò appe-na, di tanta opulenza, un annuo assegnamento valevole asostentarli. Conciossiachè, negli Abati (l'elezion de'quali al Capo visibile della Cattolica Chiesa quindi in-nanzi appartenne) le sostanze si concentrassero e i do-

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Grazie sien rendute per tutto questo alle accorte premuredell'Abate di essa commendatario, e odierno Vescovo diReggio, monsignor Francescomaria, d'Este, che alle vir-tù dell'eminente suo grado la conoscenza accoppiando egli ornamenti migliori delle severe e delle gentili dottri-ne, rettamente divisò l'utilità che a queste ridondata sa-rebbe dal ravvivarne le oscure memorie, e l'ingenita mu-nificenza impiegò al nitor della stampa, ed al meritatoguiderdon dell'Autore. Inoltrino adesso gli amatoridell'antichità lo sguardo ed i pensieri ne' libri che circala Nonantolana Abbazia Tiraboschi dettò: eccovi, sem-brerà loro che ei venga dicendo, i memorandi effetti del-lo zelo ond'arsero i personaggi, da' cui voleri questa ne'primitivi tempi dipendè; gli ospizj eretti a soccorsod'infermi, di mendici, di pellegrinanti; i monastici alber-ghi moltiplicati, l'esemplarità, in mezzo ad inudita mol-titudine di claustrali, promossa. Ma tosto che un fataledisordine strascinolli nei vortice delle fazioni e delleguerre bollenti allora tra il Sacerdozio e l'Impero, tostoche alla cenobitica umiltà e mansuetudine succederonole intestine discordie ed i procellosi raggiri dell'ambizio-ne; chi può enumerare gli scapiti di quel pria sì floridostabilimento? Non disgiunte da essi andarono le meta-morfosi degli Abati regolari ne' Commendatarj, dei Cas-sinesi ne' Cisterciensi in iscarso novero, cui restò appe-na, di tanta opulenza, un annuo assegnamento valevole asostentarli. Conciossiachè, negli Abati (l'elezion de'quali al Capo visibile della Cattolica Chiesa quindi in-nanzi appartenne) le sostanze si concentrassero e i do-

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minj tutti del Monistero: donde furon poi, volgendo ilmille settecento ottantatrè, esclusi anco i rispettabiliavanzi della Cisterciense famiglia. E ciò che l'Autore af-ferma relativamente alla spirituale ed alla civile giuri-sdizion della Badia, ed ai paesi, in cui l'una e l'altra sidilatarono, forma un erario inestimabile di cognizionidiplomatiche, cronologiche, e geografiche.L'amore operoso di Girolamo Tiraboschi inverso questacittà, da appellarsi a più titoli la seconda sua patria, sic-come gli suggerì, appresso averne illustrata la letteratu-ra, di tratteggiarne, sull'ingresso dell'anzidetta istoria, levicissitudini politiche e le ecclesiastiche, di rappresen-tarci inoltre le filantropiche religiose costumanze del piùantico fra' suoi pii sodalizj da S. Pietro Martire denomi-nato, di propalare, adorno di preziose annotazioni, l'ine-dito scritto del Modenese Giammaria Barbieri conce-mente l'Origine della Poesia Rimata, che dagli Arabipropagossi agli Spagnuoli, indi ai Provenzali, e da que-sti a noi: così, tale amore operoso, indicò al profondosapere di Tiraboschi un campo ferace dove signoreggia-re, producendo le Memorie Storiche de' luoghi perl'addietro all'Estense dominazione soggetti. Dappoichèlo spirito filosofico, salutevole in ciò e benagurato, haesteso anche nell'imperio della filologia il suo potere,scrivere la peculiare istoria d'alcun paese non è tutt'unoche adunarne i materiali, e cronologicamente disporli,ingombrandola di esagerate speciose relazioni, pascolosoltanto e ricreamento della volgare credulità.

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minj tutti del Monistero: donde furon poi, volgendo ilmille settecento ottantatrè, esclusi anco i rispettabiliavanzi della Cisterciense famiglia. E ciò che l'Autore af-ferma relativamente alla spirituale ed alla civile giuri-sdizion della Badia, ed ai paesi, in cui l'una e l'altra sidilatarono, forma un erario inestimabile di cognizionidiplomatiche, cronologiche, e geografiche.L'amore operoso di Girolamo Tiraboschi inverso questacittà, da appellarsi a più titoli la seconda sua patria, sic-come gli suggerì, appresso averne illustrata la letteratu-ra, di tratteggiarne, sull'ingresso dell'anzidetta istoria, levicissitudini politiche e le ecclesiastiche, di rappresen-tarci inoltre le filantropiche religiose costumanze del piùantico fra' suoi pii sodalizj da S. Pietro Martire denomi-nato, di propalare, adorno di preziose annotazioni, l'ine-dito scritto del Modenese Giammaria Barbieri conce-mente l'Origine della Poesia Rimata, che dagli Arabipropagossi agli Spagnuoli, indi ai Provenzali, e da que-sti a noi: così, tale amore operoso, indicò al profondosapere di Tiraboschi un campo ferace dove signoreggia-re, producendo le Memorie Storiche de' luoghi perl'addietro all'Estense dominazione soggetti. Dappoichèlo spirito filosofico, salutevole in ciò e benagurato, haesteso anche nell'imperio della filologia il suo potere,scrivere la peculiare istoria d'alcun paese non è tutt'unoche adunarne i materiali, e cronologicamente disporli,ingombrandola di esagerate speciose relazioni, pascolosoltanto e ricreamento della volgare credulità.

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All'impresa, che qui rammento, dell'infaticabile Tirabo-schi presederono il più maturo giudicio e la riflessionpiù scrupolosa nello spiar con vantaggio i pubblici ed iprivati archivj delle Atestine città e delle confinanti, nelrivocare ad austero scrutinio i moltissimi documentiestrattine, e nell'intrecciar de' trascelti fatti, quasid'altrettanti ben commessi anelli, una salda catena chel'epoche abbracciasse ed i rivolgimenti, i quali determi-narono d'età in età la varia condizione de' popoli. Laon-de, o li faccia egli ad informarcene, riguardando in ispe-cial guisa al Modenese ed al Reggiano territorio, con sa-lir fin là dov'è permesso rinvenirne le prime tracce, e ca-lare al ventunesimo anno del secolo quintodecimo, al-lorchè il marchese Niccolò III. d'Este trasmise la ricupe-rata sovranità di Reggio, insiem con quella di Modena,a' proprj discendenti: o descriva i tumulti e le rivoluzio-ni che agitarono lunga pezza l'alpestre ma fertile provin-cia del Frignano venuta in quel torno pur essa in podestàdegli Estensi: o tenga ragionamento de' monasterj, deglispedali, e d'altre provvide istituzioni degli antenati no-stri, trionfano universalmente, coll'ordine e colla chia-rezza della locuzione, il peso a la copia delle sincere no-tizie, atte a punger del pari la curiosità degli investigato-ri delle patrie cose che ad esercitar la perspicacia dei po-litici specolativi. Doti quelle in tutto caratteristiche diTiraboschi, le quali non vaglio ad esprimere come sfol-goreggiano parimente colà ove pigliò ad ordir le genea-logie de' vetusti signori di Carpi, della Mirandola e diCorreggio; fido sempre alle norme ed alle cautele che

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All'impresa, che qui rammento, dell'infaticabile Tirabo-schi presederono il più maturo giudicio e la riflessionpiù scrupolosa nello spiar con vantaggio i pubblici ed iprivati archivj delle Atestine città e delle confinanti, nelrivocare ad austero scrutinio i moltissimi documentiestrattine, e nell'intrecciar de' trascelti fatti, quasid'altrettanti ben commessi anelli, una salda catena chel'epoche abbracciasse ed i rivolgimenti, i quali determi-narono d'età in età la varia condizione de' popoli. Laon-de, o li faccia egli ad informarcene, riguardando in ispe-cial guisa al Modenese ed al Reggiano territorio, con sa-lir fin là dov'è permesso rinvenirne le prime tracce, e ca-lare al ventunesimo anno del secolo quintodecimo, al-lorchè il marchese Niccolò III. d'Este trasmise la ricupe-rata sovranità di Reggio, insiem con quella di Modena,a' proprj discendenti: o descriva i tumulti e le rivoluzio-ni che agitarono lunga pezza l'alpestre ma fertile provin-cia del Frignano venuta in quel torno pur essa in podestàdegli Estensi: o tenga ragionamento de' monasterj, deglispedali, e d'altre provvide istituzioni degli antenati no-stri, trionfano universalmente, coll'ordine e colla chia-rezza della locuzione, il peso a la copia delle sincere no-tizie, atte a punger del pari la curiosità degli investigato-ri delle patrie cose che ad esercitar la perspicacia dei po-litici specolativi. Doti quelle in tutto caratteristiche diTiraboschi, le quali non vaglio ad esprimere come sfol-goreggiano parimente colà ove pigliò ad ordir le genea-logie de' vetusti signori di Carpi, della Mirandola e diCorreggio; fido sempre alle norme ed alle cautele che

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egli medesimo in aureo suo libro ai genealogisti pre-scrisse, non senza averli guidati a conoscere gli ingan-nevoli scogli da evitare, e le menzogne sparse ne' diplo-mi e negli scrittori finti e spacciati del falsator famosoAlfonso Ciccarelli. Può dirsi a tutta equità che la mente e la penna di Tira-boschi eran preste ad improntare bellezze insolite sopraargomento qualsivoglia in cui si fossero adoperate. Te-stimone oltre le dotte fatiche sin qui rammemoratene,quelle che ei partitamente sostenne; e quando a delinear-ci in monsignor Rambaldo degli Azzoni conte Avogaro,canonico primicerio della trivigiana Chiesa, l'immaginedel probo ecclesiastico e del filologo squisito; e quandoa proteggere dall'imputazioni di Stefano Arteaga la no-biltà, la ricchezza, l'avvenenza del soavissimo idiomanostro; e quando a provare che il sistema Copernicanosorto nell'Alemagna, ottenne subito in Italia seguaci, enella Metropoli stessa del Cristianesimo e ne' sommiPontefici chi tantosto lo favoreggiò; e quando a porre invista le cause precise, onde poi la Romana Inquisizionea condennarlo s'indusse nel principale e nel più fervidotra suoi promotori, il gran Galileo Galilei; e quando arestituire al gesuita padre Pietro Paez, e ad atri missio-narj di lui confratelli, anteriori allo scozzese viaggiatoreJacopo Bruce, il primato, che questi arrogavasi, nel ri-trovamento e nella descrizione delle occulte sorgenti delNilo.Applicato a queste profittevoli e dotte fatiche passava

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egli medesimo in aureo suo libro ai genealogisti pre-scrisse, non senza averli guidati a conoscere gli ingan-nevoli scogli da evitare, e le menzogne sparse ne' diplo-mi e negli scrittori finti e spacciati del falsator famosoAlfonso Ciccarelli. Può dirsi a tutta equità che la mente e la penna di Tira-boschi eran preste ad improntare bellezze insolite sopraargomento qualsivoglia in cui si fossero adoperate. Te-stimone oltre le dotte fatiche sin qui rammemoratene,quelle che ei partitamente sostenne; e quando a delinear-ci in monsignor Rambaldo degli Azzoni conte Avogaro,canonico primicerio della trivigiana Chiesa, l'immaginedel probo ecclesiastico e del filologo squisito; e quandoa proteggere dall'imputazioni di Stefano Arteaga la no-biltà, la ricchezza, l'avvenenza del soavissimo idiomanostro; e quando a provare che il sistema Copernicanosorto nell'Alemagna, ottenne subito in Italia seguaci, enella Metropoli stessa del Cristianesimo e ne' sommiPontefici chi tantosto lo favoreggiò; e quando a porre invista le cause precise, onde poi la Romana Inquisizionea condennarlo s'indusse nel principale e nel più fervidotra suoi promotori, il gran Galileo Galilei; e quando arestituire al gesuita padre Pietro Paez, e ad atri missio-narj di lui confratelli, anteriori allo scozzese viaggiatoreJacopo Bruce, il primato, che questi arrogavasi, nel ri-trovamento e nella descrizione delle occulte sorgenti delNilo.Applicato a queste profittevoli e dotte fatiche passava

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frattanto Girolamo Tiraboschi gli anni suoi più gloriosi,e vedeva appressarsi omai il sessagesimo terzo dell'etàsua. Ed oh! se uman prego valesse a disarmare colei chetutto adegua, avrebbero i voti e le lagrime di chiunqueha in pregio le lettere sospeso tra le mani di essa l'impla-cabile strale; e Tiraboschi tuttor vivente alla prosperitàdi quelle, non ci dorremmo noi di esser fraudati del to-pografico dizionario della Modenese provincia, e giuli-va sarebbe l'Italia di aggiugnere ai proprj eruditi tesori,non tanto il Lessico per le antichità del medio evo, cheei meditava, quanto le opere sulle origini dei principatiin Italia stessa, e l'altra, in cui prefiggeasi dimostrare,che agli Italiani, in forza delle scoperte d'ogni manieraonde avvantaggiarono le scienze, e sovvennero allaumanità, il titolo si conviene, l'irrefragabile titolo di be-nefattori e di maestri delle nazioni.Ma oh! deluse nostre speranze, oh! vanissimi desiderj!Spuntò il giorno trentesimo di maggio dell'anno millesettecento novanta quattro, e comparvero seco i tristi fo-rieri della morte di Tiraboschi, e della nostra disavven-tura. Assalito in Modena da violento profluvio di san-gue, provocato da quel crudele malore cui la vita seden-taria assoggetta gli studiosi, l'impeto e la fierezza di essoin breve il ridussero a tale che fu mestieri avvisarlo re-pente essere oimè! i suoi giorni in pericolo. Ed ora, chibasterà ad esprimere la rassegnazione e la calma imper-turbata, colla quale sentì l'annunzio improvviso, e il di-voto ardore onde apparecchiossi a ricevere i sussidj ed i

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frattanto Girolamo Tiraboschi gli anni suoi più gloriosi,e vedeva appressarsi omai il sessagesimo terzo dell'etàsua. Ed oh! se uman prego valesse a disarmare colei chetutto adegua, avrebbero i voti e le lagrime di chiunqueha in pregio le lettere sospeso tra le mani di essa l'impla-cabile strale; e Tiraboschi tuttor vivente alla prosperitàdi quelle, non ci dorremmo noi di esser fraudati del to-pografico dizionario della Modenese provincia, e giuli-va sarebbe l'Italia di aggiugnere ai proprj eruditi tesori,non tanto il Lessico per le antichità del medio evo, cheei meditava, quanto le opere sulle origini dei principatiin Italia stessa, e l'altra, in cui prefiggeasi dimostrare,che agli Italiani, in forza delle scoperte d'ogni manieraonde avvantaggiarono le scienze, e sovvennero allaumanità, il titolo si conviene, l'irrefragabile titolo di be-nefattori e di maestri delle nazioni.Ma oh! deluse nostre speranze, oh! vanissimi desiderj!Spuntò il giorno trentesimo di maggio dell'anno millesettecento novanta quattro, e comparvero seco i tristi fo-rieri della morte di Tiraboschi, e della nostra disavven-tura. Assalito in Modena da violento profluvio di san-gue, provocato da quel crudele malore cui la vita seden-taria assoggetta gli studiosi, l'impeto e la fierezza di essoin breve il ridussero a tale che fu mestieri avvisarlo re-pente essere oimè! i suoi giorni in pericolo. Ed ora, chibasterà ad esprimere la rassegnazione e la calma imper-turbata, colla quale sentì l'annunzio improvviso, e il di-voto ardore onde apparecchiossi a ricevere i sussidj ed i

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conforti celestiali, che somministra nell'ultimo passo aifedeli la religione? Oh! avessero i moderni sedicenti fi-losofi ascoltato il personaggio cristiano, l'eccellentescrittore, il sacerdote specchiatissimo pronunciar, contrasporto di effetto superno, davanti il SACROSANTO

VIATICO, la sua profession solenne di fede: oh! vedutol'avessero, fortificato dall'estrema Unzione da se fervo-rosamente addimandata, starsene, posta ogni terrena sol-lecitudine in non cale, in perpetua unione con Dio, esempre sereno, sempre tranquillo pel dolce presentimen-to dell'immobile riposo che l'aspettava, recitar con fiocavoce, in un col degno Ministro dell'Altare, salmi di pe-nitenza! Così, nel dì quarto della sua fatal malattia, cuiun'irrimediabile iscuria sopravvenne, passò il CavalierGirolamo Tiraboschi dagli affanni e dalla servitù di que-sta vita caduca alla beatitudine ed al regno dell'eterna,dalla penosa ricerca delle poche verità, cui lice quaggiùarrivare, alla svelata contemplazione del sommo,dell'immenso, dell'immutabile Vero.Fu il Tiraboschi di mediocre statura, di carnagione ten-dente al cenericcio, di volto anzi scarno che no; la fronteavea spaziosa, gli occhi vivaci, il naso elevato alquantonella estremità, il mento acuto, i labbri vermigli, gravela fisonomia. Ebbe tomba nella parrocchiale suburbanachiesa de' santi Faustino e Giovita; ed il cenno altrui,che portommi a stenderne il latino elogio, scolpito sulmarmo innalzatogli nella chiesa medesima, obbligando-mi a dimorar posatamente coll'animo nella considerazio-

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conforti celestiali, che somministra nell'ultimo passo aifedeli la religione? Oh! avessero i moderni sedicenti fi-losofi ascoltato il personaggio cristiano, l'eccellentescrittore, il sacerdote specchiatissimo pronunciar, contrasporto di effetto superno, davanti il SACROSANTO

VIATICO, la sua profession solenne di fede: oh! vedutol'avessero, fortificato dall'estrema Unzione da se fervo-rosamente addimandata, starsene, posta ogni terrena sol-lecitudine in non cale, in perpetua unione con Dio, esempre sereno, sempre tranquillo pel dolce presentimen-to dell'immobile riposo che l'aspettava, recitar con fiocavoce, in un col degno Ministro dell'Altare, salmi di pe-nitenza! Così, nel dì quarto della sua fatal malattia, cuiun'irrimediabile iscuria sopravvenne, passò il CavalierGirolamo Tiraboschi dagli affanni e dalla servitù di que-sta vita caduca alla beatitudine ed al regno dell'eterna,dalla penosa ricerca delle poche verità, cui lice quaggiùarrivare, alla svelata contemplazione del sommo,dell'immenso, dell'immutabile Vero.Fu il Tiraboschi di mediocre statura, di carnagione ten-dente al cenericcio, di volto anzi scarno che no; la fronteavea spaziosa, gli occhi vivaci, il naso elevato alquantonella estremità, il mento acuto, i labbri vermigli, gravela fisonomia. Ebbe tomba nella parrocchiale suburbanachiesa de' santi Faustino e Giovita; ed il cenno altrui,che portommi a stenderne il latino elogio, scolpito sulmarmo innalzatogli nella chiesa medesima, obbligando-mi a dimorar posatamente coll'animo nella considerazio-

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ne de' meriti suoi fuori dell'ordinaria sfera, contribuiva araddoppiare il mio smarrimento in vedermi collocato,successore ahi! troppo ineguale di lui, nel governo (in-sieme co' già suoi, al presente miei venerati colleghi) enella custodia di questa Biblioteca. Il ritratto di Girola-mo Tiraboschi, eseguito al vivo dall'abil pennello delvalente nostro professore Giuseppe Soli, mirasi, perunanime deliberazione de' primarj concittadini di Esso-lui, appeso nella sala del magnifico maggior Consigliodi Bergamo. Accademie parecchie fregiarono del nomedi Tiraboschi i loro Cataloghi, e la ristorata Università diModena godè contarlo tra' suoi Onorarj professori. Néometter deggio di ricordare il consesso di sapienti Mo-denesi, da un mecenate e coltivator prestantissimo dellescienze, il marchese Gherardo Rangone, accoltonell'abitazion sua propria, e di consigli, e di patrocinio, ed'annui premj coadjuvato; dove il sapere di Tiraboschi,un del bel numero, sovente campeggiò, ed allora persingolare maniera, quando si fece a mettere in acconciamostra le sperienze dagli antichi istituite sulla trasfusio-ne del sangue.Che se la repubblica letteraria contristossi, rapitole sif-fatto ornamento pel quale non ebbe ad invidiar Varroneal Lazio, nè alla Grecia Plutarco, lo pianse ad ugual ra-gione l'intera società degli uomini, cui mancò in Girola-mo chi formavane, col treno delle morali virtù, l'edifica-zione e la delizia. La cortesia, la mansuetudine, l'attac-camento invariabile al prescelto istituto, la fedeltà ai

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ne de' meriti suoi fuori dell'ordinaria sfera, contribuiva araddoppiare il mio smarrimento in vedermi collocato,successore ahi! troppo ineguale di lui, nel governo (in-sieme co' già suoi, al presente miei venerati colleghi) enella custodia di questa Biblioteca. Il ritratto di Girola-mo Tiraboschi, eseguito al vivo dall'abil pennello delvalente nostro professore Giuseppe Soli, mirasi, perunanime deliberazione de' primarj concittadini di Esso-lui, appeso nella sala del magnifico maggior Consigliodi Bergamo. Accademie parecchie fregiarono del nomedi Tiraboschi i loro Cataloghi, e la ristorata Università diModena godè contarlo tra' suoi Onorarj professori. Néometter deggio di ricordare il consesso di sapienti Mo-denesi, da un mecenate e coltivator prestantissimo dellescienze, il marchese Gherardo Rangone, accoltonell'abitazion sua propria, e di consigli, e di patrocinio, ed'annui premj coadjuvato; dove il sapere di Tiraboschi,un del bel numero, sovente campeggiò, ed allora persingolare maniera, quando si fece a mettere in acconciamostra le sperienze dagli antichi istituite sulla trasfusio-ne del sangue.Che se la repubblica letteraria contristossi, rapitole sif-fatto ornamento pel quale non ebbe ad invidiar Varroneal Lazio, nè alla Grecia Plutarco, lo pianse ad ugual ra-gione l'intera società degli uomini, cui mancò in Girola-mo chi formavane, col treno delle morali virtù, l'edifica-zione e la delizia. La cortesia, la mansuetudine, l'attac-camento invariabile al prescelto istituto, la fedeltà ai

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giurati dogmi e doveri, l'amor dei simili, la prudenza, lamorigeratezza, l'integrità, la moderazione, la pietà, il di-sinteresse tralucevano nel portamento, ne' discorsi, nelleazioni di lui; e tu Modena, tu mia diletta Modena, ne fo-sti spettatrice. Circondato dalla pubblica estimazione,stretto in util commercio di lettere (che questa libreriagelosamente custodisce) col fior dei dotti Europei, iquali ambivan dirigergli e consacrargli le lor produzioni,richiesto frequentemente de' suoi giudizj in ardui puntidi critica, servò ognora inalterato il contegno di affabili-tà e d'impareggiabil modestia, nè usci mai di quelle lab-bra un motto che denotasse o qualche stima di sè, o pocad'altrui. Indagatore imparziale del vero non isdegnò chegli fosse indicato eziandio sulla rovina delle proprie sen-tenze. Oltre gli attestati che, della pronta sua docilità edella gratitudine a chi aveagli comunicato lumi e pareri,egli porse nella seconda impression Modenese della ce-leberrima tra le sue Opere: e non l'udimmo rispondere aGianlodovico Bianconi che, sebbene con urbanità ugua-le all'acume, la contradisse per aver negato all'Ippocratelatino, Aulo Cornelio Celso, la dovutagli sede tra gliscrittori dell'aureo secolo, ingenuamente rispondergli,avete vinto? Nol mirammo ceder la palma al rinomatoCassinense don Andrea Mazza, rischiarator felice de'motivi, donde provenne la relegazione irrevocabile delSulmonese? E qualora alcuno pur volesse accordarsicoll'abate Lorenzo Mehus in credere che Tiraboschi riu-scisse nella question Celsiana anzi liberale coll'opposi-tore che giusto colla ventilata causa, io son pago che si-

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giurati dogmi e doveri, l'amor dei simili, la prudenza, lamorigeratezza, l'integrità, la moderazione, la pietà, il di-sinteresse tralucevano nel portamento, ne' discorsi, nelleazioni di lui; e tu Modena, tu mia diletta Modena, ne fo-sti spettatrice. Circondato dalla pubblica estimazione,stretto in util commercio di lettere (che questa libreriagelosamente custodisce) col fior dei dotti Europei, iquali ambivan dirigergli e consacrargli le lor produzioni,richiesto frequentemente de' suoi giudizj in ardui puntidi critica, servò ognora inalterato il contegno di affabili-tà e d'impareggiabil modestia, nè usci mai di quelle lab-bra un motto che denotasse o qualche stima di sè, o pocad'altrui. Indagatore imparziale del vero non isdegnò chegli fosse indicato eziandio sulla rovina delle proprie sen-tenze. Oltre gli attestati che, della pronta sua docilità edella gratitudine a chi aveagli comunicato lumi e pareri,egli porse nella seconda impression Modenese della ce-leberrima tra le sue Opere: e non l'udimmo rispondere aGianlodovico Bianconi che, sebbene con urbanità ugua-le all'acume, la contradisse per aver negato all'Ippocratelatino, Aulo Cornelio Celso, la dovutagli sede tra gliscrittori dell'aureo secolo, ingenuamente rispondergli,avete vinto? Nol mirammo ceder la palma al rinomatoCassinense don Andrea Mazza, rischiarator felice de'motivi, donde provenne la relegazione irrevocabile delSulmonese? E qualora alcuno pur volesse accordarsicoll'abate Lorenzo Mehus in credere che Tiraboschi riu-scisse nella question Celsiana anzi liberale coll'opposi-tore che giusto colla ventilata causa, io son pago che si-

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mile eccesso di magnanimità, o più presto eroismo, ab-biagli meritato una sorta di rimprovero ignoto all'iracon-da generazione de' letterati. Verso quelli cui uniformitàd'inclinazioni, di sentimenti, di studj legavalo, apparveGirolamo Tiraboschi specchio di rara amorevolezza, nèeravi onesta cosa che pe' medesimi di buon grado nonimprendesse. Alle frequenti istanze loro diede le Inscri-zioni Latine che a gran numero ed in vario tema compo-se, nelle quali si ravvisa, o m'inganno altamente,tutt'esso il giro, la costruzione, il colore delle antiche ro-mane. Del caro a lui ed a tutti i saggi signor abate Gae-tano Marini non tollerò che andasse inulto il nome dalleostilità d'un Antiquario del Tebro, incollerito per nonaverlo avuto ad approvatore della bizzarra sua interpre-tazione di Vecchia lapide, e così il cavalier Tiraboschi, ilqual seppe astenersi dall'aguzzare contro i proprj ancorpiù veementi aristarchi lo stile, non esitò di accorrere,atleta risoluto e gagliardo, al riparo del bersagliato ami-co. E furono le istigazioni di molti in Roma che il mos-sero, e quasi (conforme scossemi una cotal volta eglistesso il Tiraboschi) lo violentarono ad impugnar l'armiper liberare dalle accuse d'un Teologo famigerato diquella dominante la Storia della Letteratura Italiana,renduto avendo, mercè il vezzo di finissima ironia, vie-più amabile e quindi viepiù insinuante e valida la sua di-fesa. Cui, se le note apposte nella Romana ristampa, ba-stino a scemar forza, lascieronne volentieri ad altri ladecisione.

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mile eccesso di magnanimità, o più presto eroismo, ab-biagli meritato una sorta di rimprovero ignoto all'iracon-da generazione de' letterati. Verso quelli cui uniformitàd'inclinazioni, di sentimenti, di studj legavalo, apparveGirolamo Tiraboschi specchio di rara amorevolezza, nèeravi onesta cosa che pe' medesimi di buon grado nonimprendesse. Alle frequenti istanze loro diede le Inscri-zioni Latine che a gran numero ed in vario tema compo-se, nelle quali si ravvisa, o m'inganno altamente,tutt'esso il giro, la costruzione, il colore delle antiche ro-mane. Del caro a lui ed a tutti i saggi signor abate Gae-tano Marini non tollerò che andasse inulto il nome dalleostilità d'un Antiquario del Tebro, incollerito per nonaverlo avuto ad approvatore della bizzarra sua interpre-tazione di Vecchia lapide, e così il cavalier Tiraboschi, ilqual seppe astenersi dall'aguzzare contro i proprj ancorpiù veementi aristarchi lo stile, non esitò di accorrere,atleta risoluto e gagliardo, al riparo del bersagliato ami-co. E furono le istigazioni di molti in Roma che il mos-sero, e quasi (conforme scossemi una cotal volta eglistesso il Tiraboschi) lo violentarono ad impugnar l'armiper liberare dalle accuse d'un Teologo famigerato diquella dominante la Storia della Letteratura Italiana,renduto avendo, mercè il vezzo di finissima ironia, vie-più amabile e quindi viepiù insinuante e valida la sua di-fesa. Cui, se le note apposte nella Romana ristampa, ba-stino a scemar forza, lascieronne volentieri ad altri ladecisione.

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Pertanto, all'uom dottissimo e grandemente benemeritodell'uman genere, non ristette la pubblica ammirazionedi erigere monumenti perenni di laude, gareggiarono gliscrittori nel tramandarne alla posterità la rimembranza,l'Arcadia di Roma invitò oratori e poeti a celebrare ilsuo Cratillo Ideo: ma questi doverosi tributi d'ossequioinverso l'immortale Girolamo Tiraboschi, mentre onora-no la comune riconoscenza, esacerbano in chicchessia ilrammarico d'averlo sì presto irreparabilmente perduto.

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Pertanto, all'uom dottissimo e grandemente benemeritodell'uman genere, non ristette la pubblica ammirazionedi erigere monumenti perenni di laude, gareggiarono gliscrittori nel tramandarne alla posterità la rimembranza,l'Arcadia di Roma invitò oratori e poeti a celebrare ilsuo Cratillo Ideo: ma questi doverosi tributi d'ossequioinverso l'immortale Girolamo Tiraboschi, mentre onora-no la comune riconoscenza, esacerbano in chicchessia ilrammarico d'averlo sì presto irreparabilmente perduto.

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OPERE STAMPATE DA

GIROLAMO TIRABOSCHI

I. Nuovo Vocabolario Italiano-Latino per usodelle scuole di grammatica compilato dal P.Carlo Mandosio della Compagnia di Gesù, poicorretto ed accresciuto. Milano 1755. Primaedizione.

II. De Patria Historia. Oratio. Mediolani 1759.Ex typographia Marelliana.

III. Vetera Humiliatorum Monumenta adnotatio-nibus ac dissertationibus prodromis illustrata.Mediolani 1766. Galeatius Tom. 3. Vedi intor-no quest'Opera gli Atti degli Eruditi di Lipsia,all'anno 1766.

IV. De incolumitate Mariæ Theresiæ sollemnisgratulatio, Mediolani 1767, ex typographiaMarelliana.

V. Storia della Letteratura Italiana. Volumi 14.Modena per la Società tipografica 1772-81.Prima edizione. La seconda, intrapresa in Mo-dena dall'autore ed arricchita di copiose giunte,è in volumi 16. Presso la stessa Società tipogra-fica 1787-93, oltre le ristampe in Firenze, in

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OPERE STAMPATE DA

GIROLAMO TIRABOSCHI

I. Nuovo Vocabolario Italiano-Latino per usodelle scuole di grammatica compilato dal P.Carlo Mandosio della Compagnia di Gesù, poicorretto ed accresciuto. Milano 1755. Primaedizione.

II. De Patria Historia. Oratio. Mediolani 1759.Ex typographia Marelliana.

III. Vetera Humiliatorum Monumenta adnotatio-nibus ac dissertationibus prodromis illustrata.Mediolani 1766. Galeatius Tom. 3. Vedi intor-no quest'Opera gli Atti degli Eruditi di Lipsia,all'anno 1766.

IV. De incolumitate Mariæ Theresiæ sollemnisgratulatio, Mediolani 1767, ex typographiaMarelliana.

V. Storia della Letteratura Italiana. Volumi 14.Modena per la Società tipografica 1772-81.Prima edizione. La seconda, intrapresa in Mo-dena dall'autore ed arricchita di copiose giunte,è in volumi 16. Presso la stessa Società tipogra-fica 1787-93, oltre le ristampe in Firenze, in

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Roma, in Napoli, in Venezia, e presentementein Pisa. La Lettera poi onde il Tiraboschi ne ac-compagnò il dono alla reale Accademia di Spa-gna, e similmente la Risposta fattagli dal segre-tario della medesima, trovansi a carte 39, e se-guenti (nota 28) dell'Elogio del Cav. GirolamoTiraboschi pubblicato in Modena l'anno 1796.dal Ch. Bibliotecario Sig. Antonio Lombardi.

VI. Vita di S. Olimpia Vedova e Diaconessa del-la Chiesa di Costantinopoli. Parma 1775.Stamperia reale.

VII. Lettera intorno al Saggio storico-apologeti-co della Letteratura Spagnola dell'ab. SaverioLampillas. Modena 1778. Ristampata nel tomoVIII, parte II della Storia della letteratura Ita-liana, seconda edizione Modenese.

VIII. Vita del conte D. Fulvio Testi. Modena1780. Società tipografica.

IX. Biblioteca Modenese, o Notizie della Vita edelle Opere degli scrittori nati degli Stati delSerenissimo Duca di Modena. Modena 1781-86. Presso la Società Tipografica. Volumi 7,colle Notizie degli Artisti.

X. Orazione sopra le antiche Accademie di Mo-dena, inserita fra le Prose e Poesie degli Acca-demici Ducali Dissonanti di Modena, recitatanella solenne Adunanza tenuta a' 15 di Dicem-

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Roma, in Napoli, in Venezia, e presentementein Pisa. La Lettera poi onde il Tiraboschi ne ac-compagnò il dono alla reale Accademia di Spa-gna, e similmente la Risposta fattagli dal segre-tario della medesima, trovansi a carte 39, e se-guenti (nota 28) dell'Elogio del Cav. GirolamoTiraboschi pubblicato in Modena l'anno 1796.dal Ch. Bibliotecario Sig. Antonio Lombardi.

VI. Vita di S. Olimpia Vedova e Diaconessa del-la Chiesa di Costantinopoli. Parma 1775.Stamperia reale.

VII. Lettera intorno al Saggio storico-apologeti-co della Letteratura Spagnola dell'ab. SaverioLampillas. Modena 1778. Ristampata nel tomoVIII, parte II della Storia della letteratura Ita-liana, seconda edizione Modenese.

VIII. Vita del conte D. Fulvio Testi. Modena1780. Società tipografica.

IX. Biblioteca Modenese, o Notizie della Vita edelle Opere degli scrittori nati degli Stati delSerenissimo Duca di Modena. Modena 1781-86. Presso la Società Tipografica. Volumi 7,colle Notizie degli Artisti.

X. Orazione sopra le antiche Accademie di Mo-dena, inserita fra le Prose e Poesie degli Acca-demici Ducali Dissonanti di Modena, recitatanella solenne Adunanza tenuta a' 15 di Dicem-

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bre 1780. Modena 1781. Soliani.XI. Storia dell'augusta badia di San Silvestro di

Nonantola, aggiuntovi il Codice Diplomaticodella medesima illustrato con note. Modena1784. Società Tipografica. Tomi 2 in foglio.

XII. Discours sur l'autorité des Historienscontemporains. Premesso al tomo primo dellaParte istorica dell'Encyclopedie Methodiquestampata a Padova nel 1784. Si leggono quiviassai articoli del Tiraboschi, spettanti singolar-mente ad Istoria Letteraria.

XIII. Lettera al Reverendissimo Padre NN. (ilpadre Tommaso Maria Mamachi Domenicano),autore delle annotazioni aggiunte all'edizioneromana, della Storia della Letteratura Italiana.Modena 1786. Ristampata nel tomo VIII, parteII. di questa medesima Storia, sec. ediz. Mo-den. Ed in Roma l'an. 1797 dal tipografo LuigiPerego Salvioni, con annotaz.

XIV. Notizie della Confraternita di S. PietroMartire. Modena 1789. Società Tipografica.

XV. Riflessioni sugli Scrittori Genealogici. Pa-dova 1789. Stamperia del Seminario.

XVI. Dell'Origine della Poesia rimata, Opera diGiambatista Barbieri modenese, pubblicataper la prima volta e con annotazioni illustrata.

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bre 1780. Modena 1781. Soliani.XI. Storia dell'augusta badia di San Silvestro di

Nonantola, aggiuntovi il Codice Diplomaticodella medesima illustrato con note. Modena1784. Società Tipografica. Tomi 2 in foglio.

XII. Discours sur l'autorité des Historienscontemporains. Premesso al tomo primo dellaParte istorica dell'Encyclopedie Methodiquestampata a Padova nel 1784. Si leggono quiviassai articoli del Tiraboschi, spettanti singolar-mente ad Istoria Letteraria.

XIII. Lettera al Reverendissimo Padre NN. (ilpadre Tommaso Maria Mamachi Domenicano),autore delle annotazioni aggiunte all'edizioneromana, della Storia della Letteratura Italiana.Modena 1786. Ristampata nel tomo VIII, parteII. di questa medesima Storia, sec. ediz. Mo-den. Ed in Roma l'an. 1797 dal tipografo LuigiPerego Salvioni, con annotaz.

XIV. Notizie della Confraternita di S. PietroMartire. Modena 1789. Società Tipografica.

XV. Riflessioni sugli Scrittori Genealogici. Pa-dova 1789. Stamperia del Seminario.

XVI. Dell'Origine della Poesia rimata, Opera diGiambatista Barbieri modenese, pubblicataper la prima volta e con annotazioni illustrata.

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Modena 1790. Società Tipografica.XVII. Elogio storico di Rambaldo de' Conti Az-

zoni Avogaro. Bassano 1791. Remondini.XVIII. Memorie Storiche Modenesi col Codice

diplomatico illustrato con note. Tomi 5. Socie-tà Tipografica.

XIX. Nel Nuovo Giornale dei Letterati d'Italia,cominciato in Modena nel 1773, e proseguitofino all'anno 1790, oltre moltissimi estratti, hail Tiraboschi di proprio gli Opuscoli seguenti.

1. Notizie e descrizione di un Codice ms. della Poetica del Vida. Nel tomo XIV.2. Notizie della Vita e delle Opere di Zaccaria Ferreri Vescovo della Guardia. Nel tomo XVI. 3. Notizie dell'Accademia Torinese, detta Papi-niana. Nel tomo XXXIII. 4. Lettera sull'Iscrizion sepolcrale di ManfredoPio Vescovo di Vicenza. Nel tomo XXXIX. 5. Risposta al Reverendiss. P. Ab. D. Andrea Mazza sul motivo dell'esilio di Ovidio. Nel tomo XL. 6. Riflessioni sull'indole della lingua italiana, in risposta alla nota A aggiunta dal Sig. Ab. Arteaga alla Dissertazione del Sig. Borsa, inti-tolata: Del gusto presente in Letteratura Italia-na. Ivi. E furono prima stampate nel tomo III.

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Modena 1790. Società Tipografica.XVII. Elogio storico di Rambaldo de' Conti Az-

zoni Avogaro. Bassano 1791. Remondini.XVIII. Memorie Storiche Modenesi col Codice

diplomatico illustrato con note. Tomi 5. Socie-tà Tipografica.

XIX. Nel Nuovo Giornale dei Letterati d'Italia,cominciato in Modena nel 1773, e proseguitofino all'anno 1790, oltre moltissimi estratti, hail Tiraboschi di proprio gli Opuscoli seguenti.

1. Notizie e descrizione di un Codice ms. della Poetica del Vida. Nel tomo XIV.2. Notizie della Vita e delle Opere di Zaccaria Ferreri Vescovo della Guardia. Nel tomo XVI. 3. Notizie dell'Accademia Torinese, detta Papi-niana. Nel tomo XXXIII. 4. Lettera sull'Iscrizion sepolcrale di ManfredoPio Vescovo di Vicenza. Nel tomo XXXIX. 5. Risposta al Reverendiss. P. Ab. D. Andrea Mazza sul motivo dell'esilio di Ovidio. Nel tomo XL. 6. Riflessioni sull'indole della lingua italiana, in risposta alla nota A aggiunta dal Sig. Ab. Arteaga alla Dissertazione del Sig. Borsa, inti-tolata: Del gusto presente in Letteratura Italia-na. Ivi. E furono prima stampate nel tomo III.

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della Storia della Letteratura Italiana, sec. ediz. Moden. 7. Lettera di un Giornalista ad un suo amico sopra un Iscrizione spiegata dal Pad. Paoli. Nel tomo XLIII. A questa controversia appartie-ne la Notificazione letteraria impressa in fogliovolante, colla quale il Tiraboschi si dichiara au-tore della citata Lettera.

XX. Lettere erudite ed altre produzioni inseritein Opere altrui. Nel Prodromo della nuova Enciclopedia Italia-na (Siena 1779). Piano della Classe Storica edInvenzione della Stampa. Nel Commentario la-tino sulla Vita di Alessandro Zorzi scritta dalCav. Clementino Vannetti, Lettere due di Tira-boschi stese da lui in italiano, poi tradotte in la-tino. Nell'edizion napolitana de' Salmi traspor-tati in versi italiani da Saverio Mattei, Letteradi Tiraboschi, altra di lui nella bell'Opera diGio. Francesco Galeani Napione intitolata;Dell'uso e de' pregj della lingua italiana. DueLettere intorno i viaggi del Sig. Bruce agli au-tori delle Notizie letterarie pubblicate in Cese-na l'anno 1792: inserite nelle medesime ai nu-meri 9 e 17 dell'anno stesso. Due Lettere latineal Sig. Giuseppe de Retzer segretario aulico inVienna editore delle Opere di Girolamo BalbiVescovo di Gurck. Nel tomo III. del Mercurio

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della Storia della Letteratura Italiana, sec. ediz. Moden. 7. Lettera di un Giornalista ad un suo amico sopra un Iscrizione spiegata dal Pad. Paoli. Nel tomo XLIII. A questa controversia appartie-ne la Notificazione letteraria impressa in fogliovolante, colla quale il Tiraboschi si dichiara au-tore della citata Lettera.

XX. Lettere erudite ed altre produzioni inseritein Opere altrui. Nel Prodromo della nuova Enciclopedia Italia-na (Siena 1779). Piano della Classe Storica edInvenzione della Stampa. Nel Commentario la-tino sulla Vita di Alessandro Zorzi scritta dalCav. Clementino Vannetti, Lettere due di Tira-boschi stese da lui in italiano, poi tradotte in la-tino. Nell'edizion napolitana de' Salmi traspor-tati in versi italiani da Saverio Mattei, Letteradi Tiraboschi, altra di lui nella bell'Opera diGio. Francesco Galeani Napione intitolata;Dell'uso e de' pregj della lingua italiana. DueLettere intorno i viaggi del Sig. Bruce agli au-tori delle Notizie letterarie pubblicate in Cese-na l'anno 1792: inserite nelle medesime ai nu-meri 9 e 17 dell'anno stesso. Due Lettere latineal Sig. Giuseppe de Retzer segretario aulico inVienna editore delle Opere di Girolamo BalbiVescovo di Gurck. Nel tomo III. del Mercurio

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italiano che usciva a Vienna nel 1792. Giunte ecorrezioni per l'Enciclopedia metodica france-se dell'edizione di Padova. Le parole di Tirabo-schi riferite da me nell'Elogio, relativamentealla quistione sopra l'età in cui Celso fiorì, in-contratisi nella Lettera, del medesimo Tirabo-schi posta alla fine delle Lettere sopra A. Cor-nelio Celso al celebre Ab. Girolamo Tirabo-schi. Roma 1779. Circa le quali può leggersil'articolo 1 delle Osservazioni letterarie perl'anno 1794. del fu Ab. Lorenzo Mehus. Firen-ze 1794. Bonajuti.

XXI. Memoria Storica 1 sui primi promotori delsistema Copernicano. Memoria Storica II sulla condanna del Galileoe del sistema Copernicano. Nel tomo VIII, par-te II della Storia della Letteratura Italiana,Sec. ediz. Moden.

XXII. Memoria sulle cognizioni che si avevanodelle sorgenti del Nilo prima del viaggio delSig. Jacopo Bruce. Nel tomo 1 delle Memoriedella Reale Accademia di Scienze, belle Lettereed Arti di Mantova. Mantova 1794.

XXIII. Saggi di Poesie e d'Iscrizioni, In fine del-la seconda Lettera risguardante alcune parti-colari notizie de primi anni e de' primi studjdel Cav. Tiraboschi, pubblicata dal chiariss.

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italiano che usciva a Vienna nel 1792. Giunte ecorrezioni per l'Enciclopedia metodica france-se dell'edizione di Padova. Le parole di Tirabo-schi riferite da me nell'Elogio, relativamentealla quistione sopra l'età in cui Celso fiorì, in-contratisi nella Lettera, del medesimo Tirabo-schi posta alla fine delle Lettere sopra A. Cor-nelio Celso al celebre Ab. Girolamo Tirabo-schi. Roma 1779. Circa le quali può leggersil'articolo 1 delle Osservazioni letterarie perl'anno 1794. del fu Ab. Lorenzo Mehus. Firen-ze 1794. Bonajuti.

XXI. Memoria Storica 1 sui primi promotori delsistema Copernicano. Memoria Storica II sulla condanna del Galileoe del sistema Copernicano. Nel tomo VIII, par-te II della Storia della Letteratura Italiana,Sec. ediz. Moden.

XXII. Memoria sulle cognizioni che si avevanodelle sorgenti del Nilo prima del viaggio delSig. Jacopo Bruce. Nel tomo 1 delle Memoriedella Reale Accademia di Scienze, belle Lettereed Arti di Mantova. Mantova 1794.

XXIII. Saggi di Poesie e d'Iscrizioni, In fine del-la seconda Lettera risguardante alcune parti-colari notizie de primi anni e de' primi studjdel Cav. Tiraboschi, pubblicata dal chiariss.

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Sig. Canonico Carlo Ciocchi bibliotecario inModena 1794. Società tipografica.

OPERE INEDITE.

I. Prolusiones in Universitate Braydensi habitænonis Nov 1755, e 1776.

II. De bibliothecarum utilitate. Oratio habitoXIX. cal, Jan. 1762.

III. De veterum Monumentorum utilitate. Oratiohabito IV. Idus Dec. 1764.

IV. De Litterarum in Rempublicam utilitate.Oratio.

V. De Italorum studiis. Oratio habito XVIII. Cal.Jan. 1766.

VI. Panegirici Sacri, con varj altri Ragionamen-ti.

VII. Catalogo ragionato de' libri del già Colle-gio de' Gesuiti di Brera. In più volumi in fo-glio.

VIII. Dissertatione sui Riti con cui festeggiatasi

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Sig. Canonico Carlo Ciocchi bibliotecario inModena 1794. Società tipografica.

OPERE INEDITE.

I. Prolusiones in Universitate Braydensi habitænonis Nov 1755, e 1776.

II. De bibliothecarum utilitate. Oratio habitoXIX. cal, Jan. 1762.

III. De veterum Monumentorum utilitate. Oratiohabito IV. Idus Dec. 1764.

IV. De Litterarum in Rempublicam utilitate.Oratio.

V. De Italorum studiis. Oratio habito XVIII. Cal.Jan. 1766.

VI. Panegirici Sacri, con varj altri Ragionamen-ti.

VII. Catalogo ragionato de' libri del già Colle-gio de' Gesuiti di Brera. In più volumi in fo-glio.

VIII. Dissertatione sui Riti con cui festeggiatasi

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il S. Natale dai nostri maggiori, lettanell'Accademia del S. Natale in Modena, il dì15 Dicembre 1772.

IX. Dissertatione letta nell'Accademia di S. E. ilSig. Marchese Gherardo Rangone, sulle spe-rienze della trasfusione del sangue fatte dagliantichi.

X. Lettera sulla venuta di Gustavo Adolfo in Ita-lia, in risposta alle Ricerche storiche d'un suoamico sullo stesso argomento.

XI. Dizionario topografico dei Dominj Estensi.XII. Notizie sulla secca di Brescello, sopra alcu-

ni luoghi dei Modenese, ed Albero della casaMontecuccoli. Tutto autografo.

XIII. Vita di Giannandrea Barotti Ferrarese. Au-tografa.

XIV. Moltissime Iscrizioni latine. Le indicateproduzioni, eccettuatine il Catalogo ragionatode' libri del già Collegio di Brera, e il Diziona-rio topografico dei Dominj Estensi, possedutodal celebre Sig. Ab. Giambatista Venturi, attualMinistro di S. M. I. il Re d'Italia presso la Rep.Elvetica, si conservano presso l'anzidetto Sig.Canonico Ciocchi, il quale pensa di pubblicarlequanto prima, congiuntamente alla Raccoltadelle Opere minori di Tiraboschi già stampate.

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il S. Natale dai nostri maggiori, lettanell'Accademia del S. Natale in Modena, il dì15 Dicembre 1772.

IX. Dissertatione letta nell'Accademia di S. E. ilSig. Marchese Gherardo Rangone, sulle spe-rienze della trasfusione del sangue fatte dagliantichi.

X. Lettera sulla venuta di Gustavo Adolfo in Ita-lia, in risposta alle Ricerche storiche d'un suoamico sullo stesso argomento.

XI. Dizionario topografico dei Dominj Estensi.XII. Notizie sulla secca di Brescello, sopra alcu-

ni luoghi dei Modenese, ed Albero della casaMontecuccoli. Tutto autografo.

XIII. Vita di Giannandrea Barotti Ferrarese. Au-tografa.

XIV. Moltissime Iscrizioni latine. Le indicateproduzioni, eccettuatine il Catalogo ragionatode' libri del già Collegio di Brera, e il Diziona-rio topografico dei Dominj Estensi, possedutodal celebre Sig. Ab. Giambatista Venturi, attualMinistro di S. M. I. il Re d'Italia presso la Rep.Elvetica, si conservano presso l'anzidetto Sig.Canonico Ciocchi, il quale pensa di pubblicarlequanto prima, congiuntamente alla Raccoltadelle Opere minori di Tiraboschi già stampate.

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Il Chirografo della Città di Modena ed il Partitodella città di Bergamo, citati nell'Elogio alla paginaXVI, si leggono appiè della Lettera prima del lodatoCanonico Carlo Ciocchi riguardante alcune più im-portanti notizie della Vita e delle Opere del Cav. Ti-raboschi. Modena 1794. Società tipografica.

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Il Chirografo della Città di Modena ed il Partitodella città di Bergamo, citati nell'Elogio alla paginaXVI, si leggono appiè della Lettera prima del lodatoCanonico Carlo Ciocchi riguardante alcune più im-portanti notizie della Vita e delle Opere del Cav. Ti-raboschi. Modena 1794. Società tipografica.

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ELOGIO LAPIDARIO

Al def. Cav. Tiraboschi da collocarsi nella suburbanaChiesa de' SS. Faustino e Giovita, ov'è sepolto, compo-

sto dal P. D. Pompilio Pozzetti delle Scuole Pie.

I . X . Θ . Y . C .CINERIBUS ET MEMORIAEHIERONYMI TIRABOSCHI

POLYHISTORIS AETATIS SVAE CVM PAVCIS NU-MERANDI

HIC NATVS BERGOMISOCIETATI IESV ADOLESENS NOMEN DEDIT

POLITIORES LITTERAS DOCVIT MEDIOLANI INBRAIDENSI COLLEGIO

IBI QVE VETVSTIS HVMILIATORVM MONVMEN-TIS

EDITIS ATQVE INLVSTRATISTANTAM INDVSTRIAE DOCTRINAE QVE SVAE

OPINIONEM CONCITAVITVT MVTINAE AB FRANCISCO III

ATESTIAE BIBLIOTHECAE PRAEFECTVS FVERIT

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ELOGIO LAPIDARIO

Al def. Cav. Tiraboschi da collocarsi nella suburbanaChiesa de' SS. Faustino e Giovita, ov'è sepolto, compo-

sto dal P. D. Pompilio Pozzetti delle Scuole Pie.

I . X . Θ . Y . C .CINERIBUS ET MEMORIAEHIERONYMI TIRABOSCHI

POLYHISTORIS AETATIS SVAE CVM PAVCIS NU-MERANDI

HIC NATVS BERGOMISOCIETATI IESV ADOLESENS NOMEN DEDIT

POLITIORES LITTERAS DOCVIT MEDIOLANI INBRAIDENSI COLLEGIO

IBI QVE VETVSTIS HVMILIATORVM MONVMEN-TIS

EDITIS ATQVE INLVSTRATISTANTAM INDVSTRIAE DOCTRINAE QVE SVAE

OPINIONEM CONCITAVITVT MVTINAE AB FRANCISCO III

ATESTIAE BIBLIOTHECAE PRAEFECTVS FVERIT

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SCRIPTIS AVTEM AC LAVDE CLARIOR IN DIESAB DNO N HERCVL III. P. F.

EQVESTRI HONORE DONATVS INTER SVI CON-SILIARIOS ADSCITVS

NEC NON ATESTINAE BIBLIOTHECAE ET NVMO-PHYLACI PRAESES DICTVS EST

IPSE DE PRAESTANTIVM INGENIO AC SCIENTIAITALORVM

SINGILLATIM ETIAM NOSTRATIVM BIOGRA-PHIA

DE RE CRITICA IN ALIENIS SENTENTIISSVARVM TAMEN MINIME TENAX

ADPOSITE CASTIGANDISDE RE DIPLOMATICA IN ANNALIBVS NONANT-

VLANI COENOBI CONDENDISDE OMNIGENA DENIQVE ERVDITIONE

EGREGIE MERITVSHVIC

HISTORIAE LETTERATVRAS ITALICAE PATRINVNCVPATO

EIDEMQ. FRVGI INTEGRO PIENISSIMO IN EGE-NOS BENIGNO

IN OMNES COMI ABSQVE FVCO

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SCRIPTIS AVTEM AC LAVDE CLARIOR IN DIESAB DNO N HERCVL III. P. F.

EQVESTRI HONORE DONATVS INTER SVI CON-SILIARIOS ADSCITVS

NEC NON ATESTINAE BIBLIOTHECAE ET NVMO-PHYLACI PRAESES DICTVS EST

IPSE DE PRAESTANTIVM INGENIO AC SCIENTIAITALORVM

SINGILLATIM ETIAM NOSTRATIVM BIOGRA-PHIA

DE RE CRITICA IN ALIENIS SENTENTIISSVARVM TAMEN MINIME TENAX

ADPOSITE CASTIGANDISDE RE DIPLOMATICA IN ANNALIBVS NONANT-

VLANI COENOBI CONDENDISDE OMNIGENA DENIQVE ERVDITIONE

EGREGIE MERITVSHVIC

HISTORIAE LETTERATVRAS ITALICAE PATRINVNCVPATO

EIDEMQ. FRVGI INTEGRO PIENISSIMO IN EGE-NOS BENIGNO

IN OMNES COMI ABSQVE FVCO

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QVEM EHEV DIRA MORSIN MVTINENSIBVS COMMENTARIS ABSOLVEN-

DIS INSVDANTEMVNIVERSORVM ORDINVM LVCTV INTERCEPIT

MVT III NONAS IVNIAS AN. MDDCCXCIIIIPHILIPPVS IOSEPH COMES MARCHISIVS

PATRICIVS MVT ET REG HEST MASSAE CET DY-NASTES

REGIAE AQVILAE ALBAE AC D. STANISLAIPONT MART EQ TORQVATVS

SERENISSIMI DVCIS A CVBICVLIS ET A SANC-TIORIBVS CONSILIIS

VIRI CLARISSIMI NOMINIS STVDIOSISSIMVSQVOD VNVM POTERAT

PERPETVAM OBSERVANTIAE SVAE TESSERAMTITVLVM NVNC PONENDVM AERE SVO CVRA-

BATVIXIT ANNOS LXII MENSES VI DIES VI

IN P. V.

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QVEM EHEV DIRA MORSIN MVTINENSIBVS COMMENTARIS ABSOLVEN-

DIS INSVDANTEMVNIVERSORVM ORDINVM LVCTV INTERCEPIT

MVT III NONAS IVNIAS AN. MDDCCXCIIIIPHILIPPVS IOSEPH COMES MARCHISIVS

PATRICIVS MVT ET REG HEST MASSAE CET DY-NASTES

REGIAE AQVILAE ALBAE AC D. STANISLAIPONT MART EQ TORQVATVS

SERENISSIMI DVCIS A CVBICVLIS ET A SANC-TIORIBVS CONSILIIS

VIRI CLARISSIMI NOMINIS STVDIOSISSIMVSQVOD VNVM POTERAT

PERPETVAM OBSERVANTIAE SVAE TESSERAMTITVLVM NVNC PONENDVM AERE SVO CVRA-

BATVIXIT ANNOS LXII MENSES VI DIES VI

IN P. V.

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PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE DI MODENA

Cominciata nel 1772, e compiuta nel 1782.------

Non v'ha scrittore alcuno imparziale e sincero che allanostra Italia non conceda volentieri il glorioso nome dimadre e nudrice delle scienze e delle bell'arti. Il favoredi cui esse hanno tra noi goduto, e il fervore con cui da'nostri si son coltivate e ne' più lieti tempi del romanoimpero, e ne' felici secoli del loro risorgimento, le hacondotte a tal perfezione, e a tal onore le ha sollevate,che gli stranieri, e quelli ancora tra essi che della lorgloria son più gelosi, sono astretti a confessare che danoi mosse primieramente quella sì chiara luce che bale-nò a' loro sguardi, e che gli scorse a veder cose ad essifinallora ignote. Potrei qui arrecare molti scrittori checosì hanno pensato. Ma a non annojare i lettori fin daprincipio con una tediosa lunghezza, mi bastin due soli.Il primo è Federico Ottone Menckenio, il quale nellaprefazione premessa alla Vita di Angelo Poliziano, dalui con somma erudizione descritta, e stampata in Lipsial'anno 1736, così ragiona: "Ebbe il Poliziano a sua patrial'Italia, madre già e nudrice dell'arti liberali e della lette-ratura più colta, la quale, come in addietro fiorì per uo-

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PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE DI MODENA

Cominciata nel 1772, e compiuta nel 1782.------

Non v'ha scrittore alcuno imparziale e sincero che allanostra Italia non conceda volentieri il glorioso nome dimadre e nudrice delle scienze e delle bell'arti. Il favoredi cui esse hanno tra noi goduto, e il fervore con cui da'nostri si son coltivate e ne' più lieti tempi del romanoimpero, e ne' felici secoli del loro risorgimento, le hacondotte a tal perfezione, e a tal onore le ha sollevate,che gli stranieri, e quelli ancora tra essi che della lorgloria son più gelosi, sono astretti a confessare che danoi mosse primieramente quella sì chiara luce che bale-nò a' loro sguardi, e che gli scorse a veder cose ad essifinallora ignote. Potrei qui arrecare molti scrittori checosì hanno pensato. Ma a non annojare i lettori fin daprincipio con una tediosa lunghezza, mi bastin due soli.Il primo è Federico Ottone Menckenio, il quale nellaprefazione premessa alla Vita di Angelo Poliziano, dalui con somma erudizione descritta, e stampata in Lipsial'anno 1736, così ragiona: "Ebbe il Poliziano a sua patrial'Italia, madre già e nudrice dell'arti liberali e della lette-ratura più colta, la quale, come in addietro fiorì per uo-

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mini in ogni genere di dottrina chiarissimi, e fu fecondadi egregi ingegni, così nel tempo singolarmente in cuinacque il Poliziano, una prodigiosa moltitudine ne pro-dusse, talchè non vi ha parte alcuna del mondo, che inuna tal lode le sia uguale, o somigliante. Il che, benchèsia per se stesso onorevole e glorioso, più ammirabilesembrerà nondimeno a chi consideri la caligine e l'oscu-rità de' secoli precedenti, e osservi quanto stento e faticadovesse costare, e insieme a quanto onore tornassel'uscire improvvisamente dalla rozzezza e barbariedell'età trapassate, e il terger felicemente le macchie tut-te di cui l'ignoranza già di tanto tempo avea deformatal'Italia". L'altro è il sig. de Sade autore delle Memorieper la vita di Francesco Petrarca, stampate colla datad'Amsterdam l'anno 1764, che nella lettera agli eruditiFrancesi premessa al primo tomo "Rendiam giustizia,dice (p. 93), all'Italia, e sfuggiamo il rimprovero che isuoi scrittori ci fanno, di esser troppo invidiosi della suagloria, e di non voler riconoscere i nostri maestri. Con-vien confessarlo: a' Toscani, alla testa de' quali si deeporre il Petrarca, noi dobbiamo la luce del giorno, che orci risplende: egli ne è stato in certo modo l'aurora. Que-sta verità è stata riconosciuta da un uomo che tra voi oc-cupa un luogo assai distinto. Egli c'insegna (VoltaireHist. Univ. t. 2, p. 179) che i Toscani fecer rinascer lescienze tutte col solo genio lor proprio, prima che quelpoco di scienza che rimasta era a Costantinopoli passas-se insiem colla lingua greca in Italia per le conquiste de-gli Ottomani".

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mini in ogni genere di dottrina chiarissimi, e fu fecondadi egregi ingegni, così nel tempo singolarmente in cuinacque il Poliziano, una prodigiosa moltitudine ne pro-dusse, talchè non vi ha parte alcuna del mondo, che inuna tal lode le sia uguale, o somigliante. Il che, benchèsia per se stesso onorevole e glorioso, più ammirabilesembrerà nondimeno a chi consideri la caligine e l'oscu-rità de' secoli precedenti, e osservi quanto stento e faticadovesse costare, e insieme a quanto onore tornassel'uscire improvvisamente dalla rozzezza e barbariedell'età trapassate, e il terger felicemente le macchie tut-te di cui l'ignoranza già di tanto tempo avea deformatal'Italia". L'altro è il sig. de Sade autore delle Memorieper la vita di Francesco Petrarca, stampate colla datad'Amsterdam l'anno 1764, che nella lettera agli eruditiFrancesi premessa al primo tomo "Rendiam giustizia,dice (p. 93), all'Italia, e sfuggiamo il rimprovero che isuoi scrittori ci fanno, di esser troppo invidiosi della suagloria, e di non voler riconoscere i nostri maestri. Con-vien confessarlo: a' Toscani, alla testa de' quali si deeporre il Petrarca, noi dobbiamo la luce del giorno, che orci risplende: egli ne è stato in certo modo l'aurora. Que-sta verità è stata riconosciuta da un uomo che tra voi oc-cupa un luogo assai distinto. Egli c'insegna (VoltaireHist. Univ. t. 2, p. 179) che i Toscani fecer rinascer lescienze tutte col solo genio lor proprio, prima che quelpoco di scienza che rimasta era a Costantinopoli passas-se insiem colla lingua greca in Italia per le conquiste de-gli Ottomani".

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Un sì bel vanto, di cui l'Italia va adorna, ha fatto chemolti eruditi oltramontani si volgessero con fervore allastoria della nostra letteratura; e in questi ultimi tempisingolarmente abbiam veduto esercitarsi in questo argo-mento, e dare alla luce opere assai pregevoli Tedeschi eFrancesi di non ordinario sapere. Così tra i primi GiovanBurcardo, e il sopraccitato Otton Federico Menckenio,Giangiorgio Schelornio, e Gian Alberto Fabricio; e tra'secondi gli autori delle Vite degli Uomini illustri e delleDonne illustri d'Italia, il già lodato sig. de Sade, ed altrihan già preso a diligentemente illustrare quali uno, qualialtro punto della nostra storia letteraria. Egli è questo unnuovo argomento di lode alla nostra Italia; ma potrebbeanche volgersi a nostro biasimo, se, mentre gli stranierimostrano di avere in sì gran pregio la nostra letteratura,noi sembrassimo non curarla, ed essi avessero a rinfac-ciarci che ci conviene da lor medesimi apprendere le no-stre lodi. E veramente ce lo hanno talor rinfacciato;come fra gli altri il mentovato autore delle Memorie perla Vita del Petrarca, il quale con modesto bensì, ma as-sai pungente rimprovero si maraviglia che noi non ab-biam finor sapute non sol le picciole circostanze, manemmen l'epoche principali della Vita di sì grand'uomo,e che un oltramontano, qual egli è, abbia dovuto inse-gnarci cose ch'egli avrebbe dovuto apprender da noi.Esamineremo a suo luogo se di una tale trascuratezzasiam noi accusati a ragione. Ma certo pare che gli stra-nieri possan dolersi di noi, che in un secolo in cui la sto-ria letteraria si è da noi coltivata singolarmente, niuno

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Un sì bel vanto, di cui l'Italia va adorna, ha fatto chemolti eruditi oltramontani si volgessero con fervore allastoria della nostra letteratura; e in questi ultimi tempisingolarmente abbiam veduto esercitarsi in questo argo-mento, e dare alla luce opere assai pregevoli Tedeschi eFrancesi di non ordinario sapere. Così tra i primi GiovanBurcardo, e il sopraccitato Otton Federico Menckenio,Giangiorgio Schelornio, e Gian Alberto Fabricio; e tra'secondi gli autori delle Vite degli Uomini illustri e delleDonne illustri d'Italia, il già lodato sig. de Sade, ed altrihan già preso a diligentemente illustrare quali uno, qualialtro punto della nostra storia letteraria. Egli è questo unnuovo argomento di lode alla nostra Italia; ma potrebbeanche volgersi a nostro biasimo, se, mentre gli stranierimostrano di avere in sì gran pregio la nostra letteratura,noi sembrassimo non curarla, ed essi avessero a rinfac-ciarci che ci conviene da lor medesimi apprendere le no-stre lodi. E veramente ce lo hanno talor rinfacciato;come fra gli altri il mentovato autore delle Memorie perla Vita del Petrarca, il quale con modesto bensì, ma as-sai pungente rimprovero si maraviglia che noi non ab-biam finor sapute non sol le picciole circostanze, manemmen l'epoche principali della Vita di sì grand'uomo,e che un oltramontano, qual egli è, abbia dovuto inse-gnarci cose ch'egli avrebbe dovuto apprender da noi.Esamineremo a suo luogo se di una tale trascuratezzasiam noi accusati a ragione. Ma certo pare che gli stra-nieri possan dolersi di noi, che in un secolo in cui la sto-ria letteraria si è da noi coltivata singolarmente, niuno

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abbia ancora pensato a compilare una storia generaledella letteratura italiana.Abbiamo, è vero, moltissimi libri che a questo argomen-to appartengono; e per riguardo alle biblioteche degliscrittori delle nostre città e provincie particolari, non vene ha quasi alcuna al presente che non abbia la sua. Ta-lune ancora hanno avuto scrittori che la storia dellescienze da lor coltivate hanno diligentemente esaminatae descritta, fra le quali degna d'immortal lode è la Storiadella Letteratura Veneziana dell'eruditissimo procurato-re e poscia doge di Venezia Marco Foscarini, a cui altronon manca se non che venga da qualche accurato scrit-tore condotta a fine. Ma fra tutte le opere all'italiana let-teratura appartenenti deesi certamente il primo luogoagli Scrittori Italiani del ch. Co. Giammaria Mazzuc-chelli. Noi ne abbiamo già sei volumi che pur non altrocomprendono che le prime due lettere dell'alfabeto; el'erudizione e la diligenza, con cui la più parte degli arti-coli sono distesi, ci rende troppo dolorosa la memoriadell'immatura morte da cui fu rapito l'autore. Sappiamoche molti articoli e copia grandissima di notizie pe' se-guenti volumi egli ha lasciato ai suoi degnissimi figli, enoi speriamo ch'essi alla gloria loro non meno che aquella di tutta l'Italia provvederanno un giorno col reca-re al suo compimento un'opera a cui non potranno lestraniere nazioni contrapporre l'uguale. Ciò non ostanteniuna di queste, o di altre opere di somigliante argomen-to non ci offre un esatto racconto dell'origine, de' pro-

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abbia ancora pensato a compilare una storia generaledella letteratura italiana.Abbiamo, è vero, moltissimi libri che a questo argomen-to appartengono; e per riguardo alle biblioteche degliscrittori delle nostre città e provincie particolari, non vene ha quasi alcuna al presente che non abbia la sua. Ta-lune ancora hanno avuto scrittori che la storia dellescienze da lor coltivate hanno diligentemente esaminatae descritta, fra le quali degna d'immortal lode è la Storiadella Letteratura Veneziana dell'eruditissimo procurato-re e poscia doge di Venezia Marco Foscarini, a cui altronon manca se non che venga da qualche accurato scrit-tore condotta a fine. Ma fra tutte le opere all'italiana let-teratura appartenenti deesi certamente il primo luogoagli Scrittori Italiani del ch. Co. Giammaria Mazzuc-chelli. Noi ne abbiamo già sei volumi che pur non altrocomprendono che le prime due lettere dell'alfabeto; el'erudizione e la diligenza, con cui la più parte degli arti-coli sono distesi, ci rende troppo dolorosa la memoriadell'immatura morte da cui fu rapito l'autore. Sappiamoche molti articoli e copia grandissima di notizie pe' se-guenti volumi egli ha lasciato ai suoi degnissimi figli, enoi speriamo ch'essi alla gloria loro non meno che aquella di tutta l'Italia provvederanno un giorno col reca-re al suo compimento un'opera a cui non potranno lestraniere nazioni contrapporre l'uguale. Ciò non ostanteniuna di queste, o di altre opere di somigliante argomen-to non ci offre un esatto racconto dell'origine, de' pro-

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gressi, della decadenza, del risorgimento, di tutte insomma le diverse vicende che le lettere hanno incontra-to in Italia. Esse sono comunemente storie degli scritto-ri, anzi che delle scienze; e quelle a cui questo secondonome può convenire, son ristrette soltanto o a qualcheparticolare provincia, o a qualche secolo determinato. IlLeibnizio bramava che un'opera di tal natura fosse intra-presa dal celebre Magliabechi (Ep. Germ. ad Maliab. p.101); ma non sappiamo ch'egli pensasse a compiacerlo.L'unico saggio che abbiamo di una storia generaledell'italiana letteratura si è l'Idea della Storia dell'ItaliaLetterata di Giacinto Gimma, stampata in Napoli l'an.1723 in due tomi in quarto, opera in cui sarebbe a bra-mare che l'autore avesse avuto eguale a un'immensa let-tura anche un giusto criterio, e a un'infinita copia unsaggio discernimento. Se vi ha alcuno a cui io cada insospetto di volermi innalzare sulle rovine altrui, il pregoa leggere egli stesso l'opera accennata, e a giudicare perse medesimo se io ne abbia recato troppo disfavorevolgiudizio. Certo così ne ha pensato anche chi natural-mente dovea esser portato a lodarla, cioè il dott. Mauro-dinoia che ha scritta la Vita di questo autore (CalogeràRacc. d'Opusc. t. 17, p. 418), e che confessa che inquest'opera deesi bensì lodare l'intenzion, dell'autore,ma non il modo con cui l'ha condotta ad effetto.Il desiderio adunque di accrescere nuova lode all'Italia,e di difenderla ancora, se faccia d'uopo, contra l'invidiadi alcuni tra gli stranieri, mi ha determinato a intrapren-

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gressi, della decadenza, del risorgimento, di tutte insomma le diverse vicende che le lettere hanno incontra-to in Italia. Esse sono comunemente storie degli scritto-ri, anzi che delle scienze; e quelle a cui questo secondonome può convenire, son ristrette soltanto o a qualcheparticolare provincia, o a qualche secolo determinato. IlLeibnizio bramava che un'opera di tal natura fosse intra-presa dal celebre Magliabechi (Ep. Germ. ad Maliab. p.101); ma non sappiamo ch'egli pensasse a compiacerlo.L'unico saggio che abbiamo di una storia generaledell'italiana letteratura si è l'Idea della Storia dell'ItaliaLetterata di Giacinto Gimma, stampata in Napoli l'an.1723 in due tomi in quarto, opera in cui sarebbe a bra-mare che l'autore avesse avuto eguale a un'immensa let-tura anche un giusto criterio, e a un'infinita copia unsaggio discernimento. Se vi ha alcuno a cui io cada insospetto di volermi innalzare sulle rovine altrui, il pregoa leggere egli stesso l'opera accennata, e a giudicare perse medesimo se io ne abbia recato troppo disfavorevolgiudizio. Certo così ne ha pensato anche chi natural-mente dovea esser portato a lodarla, cioè il dott. Mauro-dinoia che ha scritta la Vita di questo autore (CalogeràRacc. d'Opusc. t. 17, p. 418), e che confessa che inquest'opera deesi bensì lodare l'intenzion, dell'autore,ma non il modo con cui l'ha condotta ad effetto.Il desiderio adunque di accrescere nuova lode all'Italia,e di difenderla ancora, se faccia d'uopo, contra l'invidiadi alcuni tra gli stranieri, mi ha determinato a intrapren-

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dere questa Storia generale della Letteratura Italiana,conducendola da' suoi più antichi principj fin presso a'dì nostri. Dovrò, io qui forse discendere alle usate prote-ste di essermi accinto a un'opera superiore di troppo alleforze del mio ingegno e del mio sapere? A me pare checotali espressioni siano omai inutili ed importune. Se tunon ti credevi uomo da tanto, dicon talvolta i lettori,perchè entrasti tu in sì difficil carriera? E se hai pensatodi poterla correre felicemente, perchè ci annoj con cote-sta tua affettata modestia? Io ho intrapreso quest'opera, ecolla scorta di tanti valentuomini i quali or l'uno, orl'altro punto di storia letteraria hanno dottamente illu-strato, ho usato di ogni possibile diligenza per ben con-durla. Come io siaci riuscito, dovran giudicarne i lettori.Se io sono stato troppo ardito nell'intraprenderla, saròancor facile a condannarla, quando dal parer comune de'dotti io veggala condannata. Nemmeno mi tratterrò io aragionare della utilità e dell'importanza di questa miaOpera. Se essa avrà la sorte di essere favorevolmenteaccolta, e posta tra quelle che non sono indegne d'esserlette, io mi lusingherò di aver fatta cosa umile e vantag-giosa. Ma se essa sarà creduta mancante di que' pregiche le converrebbono, invano mi stancherei a mostrarnela necessità e il vantaggio. Meglio impiegato per avven-tura sarà il tempo nel render conto a' lettori dell'ordine edel metodo a cui in questa mia Storia ho pensato di atte-nermi.Ella è la Storia della Letteratura Italiana, non la Storia

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dere questa Storia generale della Letteratura Italiana,conducendola da' suoi più antichi principj fin presso a'dì nostri. Dovrò, io qui forse discendere alle usate prote-ste di essermi accinto a un'opera superiore di troppo alleforze del mio ingegno e del mio sapere? A me pare checotali espressioni siano omai inutili ed importune. Se tunon ti credevi uomo da tanto, dicon talvolta i lettori,perchè entrasti tu in sì difficil carriera? E se hai pensatodi poterla correre felicemente, perchè ci annoj con cote-sta tua affettata modestia? Io ho intrapreso quest'opera, ecolla scorta di tanti valentuomini i quali or l'uno, orl'altro punto di storia letteraria hanno dottamente illu-strato, ho usato di ogni possibile diligenza per ben con-durla. Come io siaci riuscito, dovran giudicarne i lettori.Se io sono stato troppo ardito nell'intraprenderla, saròancor facile a condannarla, quando dal parer comune de'dotti io veggala condannata. Nemmeno mi tratterrò io aragionare della utilità e dell'importanza di questa miaOpera. Se essa avrà la sorte di essere favorevolmenteaccolta, e posta tra quelle che non sono indegne d'esserlette, io mi lusingherò di aver fatta cosa umile e vantag-giosa. Ma se essa sarà creduta mancante di que' pregiche le converrebbono, invano mi stancherei a mostrarnela necessità e il vantaggio. Meglio impiegato per avven-tura sarà il tempo nel render conto a' lettori dell'ordine edel metodo a cui in questa mia Storia ho pensato di atte-nermi.Ella è la Storia della Letteratura Italiana, non la Storia

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de' Letterati Italiani, ch'io prendo a scrivere. Quindi malsi apporrebbe chi giudicasse che di tutti gl'italiani scrit-tori, e di tutte le opere loro io dovessi qui ragionare, edarne estratti, e rammentarne le diverse edizioni. Io ver-rei allora a formare una biblioteca, non una storia; e sevolessi unire insieme l'una e l'altra cosa, m'ingolferei inun'opera di cui non potrei certo vedere, nè altri forse ve-drebbe mai il fine. I dotti Maurini che hanno intrapresala Storia Letteraria di Francia perchè han voluto con-giungere insieme storia e biblioteca, in dodici tomi han-no compreso appena i primi dodici secoli, e pare ch'essi,atterriti alla vista del grande oceano che innoltrandosilor si apre innanzi, abbiano omai deposto il pensiero dicontinuarla. Per altra parte abbiam già tanti scrittori dibiblioteche e di catalogi, che una tal fatica sarebbe pres-so che inutile; quando singolarmente venga un giorno acompirsi la grande opera mentovata di sopra degli Scrit-tori Italiani. Ella è dunque, il ripeto, la Storia della Let-teratura Italiana, ch'io mi son prefisso di scrivere; cioè laStoria dell'origine e de' progressi delle scienze tutte inItalia. Perciò io verrò svolgendo, quali prima delle altre,e per qual modo cominciassero a fiorire, come si andas-sero propagando e giugnessero a maggior perfezione,quali incontrassero o liete, o sinistre vicende chi fossercoloro che in esse salissero a maggior fama. Di quelliche col loro sapere e coll'opere loro si renderon più illu-stri, parlerò più ampiamente; più brevemente di quelliche non furon per ugual moda famosi, e di altri ancorami basterà accennare i nomi e rimettere il lettore a quelli

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de' Letterati Italiani, ch'io prendo a scrivere. Quindi malsi apporrebbe chi giudicasse che di tutti gl'italiani scrit-tori, e di tutte le opere loro io dovessi qui ragionare, edarne estratti, e rammentarne le diverse edizioni. Io ver-rei allora a formare una biblioteca, non una storia; e sevolessi unire insieme l'una e l'altra cosa, m'ingolferei inun'opera di cui non potrei certo vedere, nè altri forse ve-drebbe mai il fine. I dotti Maurini che hanno intrapresala Storia Letteraria di Francia perchè han voluto con-giungere insieme storia e biblioteca, in dodici tomi han-no compreso appena i primi dodici secoli, e pare ch'essi,atterriti alla vista del grande oceano che innoltrandosilor si apre innanzi, abbiano omai deposto il pensiero dicontinuarla. Per altra parte abbiam già tanti scrittori dibiblioteche e di catalogi, che una tal fatica sarebbe pres-so che inutile; quando singolarmente venga un giorno acompirsi la grande opera mentovata di sopra degli Scrit-tori Italiani. Ella è dunque, il ripeto, la Storia della Let-teratura Italiana, ch'io mi son prefisso di scrivere; cioè laStoria dell'origine e de' progressi delle scienze tutte inItalia. Perciò io verrò svolgendo, quali prima delle altre,e per qual modo cominciassero a fiorire, come si andas-sero propagando e giugnessero a maggior perfezione,quali incontrassero o liete, o sinistre vicende chi fossercoloro che in esse salissero a maggior fama. Di quelliche col loro sapere e coll'opere loro si renderon più illu-stri, parlerò più ampiamente; più brevemente di quelliche non furon per ugual moda famosi, e di altri ancorami basterà accennare i nomi e rimettere il lettore a quelli

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che ne hanno più lungamente trattato. Della vita de' piùrinomati scrittori accennerò in breve le cose che son piùnote; e cercherò d'illustrare con maggior diligenza quel-le che son rimaste incerte ed oscure: e singolarmente ciòche appartiene al loro carattere, al lor sapere e al lorostile. La storia ancora de' mezzi che giovano a coltivarele scienze, non sarà trascurata; e quindi la storia dellepubbliche scuole, delle biblioteche, delle accademie,della stampa, e di altre somiglianti materie avrà qui luo-go. Le arti finalmente che diconsi liberali, col qualnome s'intendono singolarmente la pittura, la scultura,l'architettura, hanno una troppo necessaria connessioncolle scienze, perchè non debbano essere dimenticate;benchè nel ragionare di esse sarò più breve, poichè nonappartengono direttamente al mio argomento.Sono stato lungamente dubbioso qual metodo convenis-se meglio seguire; cioè se di tutte insieme le scienze do-vessi formar la storia, seguendo l'ordin de' tempi, o diciascheduna scienza favellare partitamente. L'uno el'altro metodo parevami avere i suoi incomodi non menoche i suoi vantaggi. L'ordine cronologico ch'è più secon-do natura, sembra che rechi confusion tra le scienze, sic-chè non possa distintamente vedersi ciò che a ciasche-duna appartiene. L'ordine delle scienze, che potrebbecredersi più vantaggioso, sembra che rechi confusionene' tempi, e che sia nojoso al lettore quel dover più voltericorrere la stessa carriera, e dall'età antiche scenderealle moderne, e poi di nuovo risalire alle antiche, e non

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che ne hanno più lungamente trattato. Della vita de' piùrinomati scrittori accennerò in breve le cose che son piùnote; e cercherò d'illustrare con maggior diligenza quel-le che son rimaste incerte ed oscure: e singolarmente ciòche appartiene al loro carattere, al lor sapere e al lorostile. La storia ancora de' mezzi che giovano a coltivarele scienze, non sarà trascurata; e quindi la storia dellepubbliche scuole, delle biblioteche, delle accademie,della stampa, e di altre somiglianti materie avrà qui luo-go. Le arti finalmente che diconsi liberali, col qualnome s'intendono singolarmente la pittura, la scultura,l'architettura, hanno una troppo necessaria connessioncolle scienze, perchè non debbano essere dimenticate;benchè nel ragionare di esse sarò più breve, poichè nonappartengono direttamente al mio argomento.Sono stato lungamente dubbioso qual metodo convenis-se meglio seguire; cioè se di tutte insieme le scienze do-vessi formar la storia, seguendo l'ordin de' tempi, o diciascheduna scienza favellare partitamente. L'uno el'altro metodo parevami avere i suoi incomodi non menoche i suoi vantaggi. L'ordine cronologico ch'è più secon-do natura, sembra che rechi confusion tra le scienze, sic-chè non possa distintamente vedersi ciò che a ciasche-duna appartiene. L'ordine delle scienze, che potrebbecredersi più vantaggioso, sembra che rechi confusionene' tempi, e che sia nojoso al lettore quel dover più voltericorrere la stessa carriera, e dall'età antiche scenderealle moderne, e poi di nuovo risalire alle antiche, e non

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tenere mai fisso il piede in un'epoca determinata. Perisfuggire quanto sia possibile gl'incomodi, e per godereinsiem de' vantaggi di amendue i metodi mi è sembratoopportuno il seguir l'ordine cronologico ma diviso in va-rie epoche più ristrette, di uno, a cagion d'esempio, didue, o più secoli, secondo la maggiore, o la minor am-piezza della materia; e in queste diverse epoche ragiona-re partitamente di ciascheduna scienza, ed esaminarequai ne fossero allora i progressi e le vicende. In questamaniera, senza andar sempre salendo, o discendendo perla lunga serie de' tempi si potrà agevolmente vedere ciòche alla storia di ciascheduna scienza appartiene, e sipotrà insieme vedere quai fosse a ciascheduna epoca ilgenerale stato della Letteratura in Italia.Quand'io dico di volere scriver la Storia della Letteratu-ra Italiana, parmi ch'io spieghi abbastanza di qual trattodi paese io intenda di ragionare. Nondimeno mi veggocostretto a trattenermi qui alcun poco, poichè alcuni pre-tendono di aver de' diritti su una gran parte d'Italia, e perpoco non gridano all'armi per venirne alla conquista.Convien dunque che ci rechiam noi pure sulle difese, eci disponiamo a ribattere, se fia d'uopo, un sì terribileassalto. Gli eruditi autori della sopraccennata Storia Let-teraria di Francia parlando della letteratura de' Galli altempo della repubblica e dell'impero romano (t. 1, p.54) ci avvertono che, se volessero usare de' lor dritti, po-trebbono annoverare tra' loro scrittori tutti que' che fu-ron nativi di quella parte d'Italia, che da' Romani dice-

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tenere mai fisso il piede in un'epoca determinata. Perisfuggire quanto sia possibile gl'incomodi, e per godereinsiem de' vantaggi di amendue i metodi mi è sembratoopportuno il seguir l'ordine cronologico ma diviso in va-rie epoche più ristrette, di uno, a cagion d'esempio, didue, o più secoli, secondo la maggiore, o la minor am-piezza della materia; e in queste diverse epoche ragiona-re partitamente di ciascheduna scienza, ed esaminarequai ne fossero allora i progressi e le vicende. In questamaniera, senza andar sempre salendo, o discendendo perla lunga serie de' tempi si potrà agevolmente vedere ciòche alla storia di ciascheduna scienza appartiene, e sipotrà insieme vedere quai fosse a ciascheduna epoca ilgenerale stato della Letteratura in Italia.Quand'io dico di volere scriver la Storia della Letteratu-ra Italiana, parmi ch'io spieghi abbastanza di qual trattodi paese io intenda di ragionare. Nondimeno mi veggocostretto a trattenermi qui alcun poco, poichè alcuni pre-tendono di aver de' diritti su una gran parte d'Italia, e perpoco non gridano all'armi per venirne alla conquista.Convien dunque che ci rechiam noi pure sulle difese, eci disponiamo a ribattere, se fia d'uopo, un sì terribileassalto. Gli eruditi autori della sopraccennata Storia Let-teraria di Francia parlando della letteratura de' Galli altempo della repubblica e dell'impero romano (t. 1, p.54) ci avvertono che, se volessero usare de' lor dritti, po-trebbono annoverare tra' loro scrittori tutti que' che fu-ron nativi di quella parte d'Italia, che da' Romani dice-

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vasi Gallia cisalpina; perciocchè i Galli ch'erano di làdall'Alpi, occuparono 400 anni innanzi all'era cristianatutto quel tratto di paese, ed erano lor discendenti queiche poscia vi nacquero. E qual copia, dicon essi, di va-lorosi scrittori potremmo noi rammentare? Un CecilioStazio, un Virgilio, un Catullo, i due Plinj, e tanti altriuomini sì famosi. Essi son nondimeno così cortesi chespontaneamente ce ne fan dono, e ci permetton di anno-verarli tra' nostri; e si aspettano per avventura che ditanta generosità ci mostriam loro ricordevoli e grati. Manoi Italiani per non so qual alterigia non vogliam riceve-re se non ciò ch'è nostro, e nostri pretendiamo che sianotutti i suddetti scrittori della Gallia cisalpina. Di fatto,come allor quando si scrive la storia civile di una pro-vincia, altro non si fa se non raccontare ciò che in quellaprovincia accadde, qualunque sia il popolo da cui essafu abitata, così quando si parla della storia letteraria diuna provincia, altro non si fa che rammentare la storiadelle lettere e degli uomini dotti che in quella provinciafiorirono, qualunque fosse il paese da cui i lor maggiorieran venuti. A qual disordine si darebbe luogo nella sto-ria se si volesse seguire il sentimento dei mentovati au-tori? Che direbbero essi se un Tedesco pubblicasse unaBiblioteca Germanica, e vedessero nominati in essaFontenelle e Voltaire? Eppure non discendono eglino iFrancesi da' Franchi, popoli della Germania? Oltre diche, come proveranno essi che quegli scrittori discen-dessero veramente da' Galli transalpini? Eran forse essi isoli che abitassero que' paesi? Niuno dunque eravi rima-

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vasi Gallia cisalpina; perciocchè i Galli ch'erano di làdall'Alpi, occuparono 400 anni innanzi all'era cristianatutto quel tratto di paese, ed erano lor discendenti queiche poscia vi nacquero. E qual copia, dicon essi, di va-lorosi scrittori potremmo noi rammentare? Un CecilioStazio, un Virgilio, un Catullo, i due Plinj, e tanti altriuomini sì famosi. Essi son nondimeno così cortesi chespontaneamente ce ne fan dono, e ci permetton di anno-verarli tra' nostri; e si aspettano per avventura che ditanta generosità ci mostriam loro ricordevoli e grati. Manoi Italiani per non so qual alterigia non vogliam riceve-re se non ciò ch'è nostro, e nostri pretendiamo che sianotutti i suddetti scrittori della Gallia cisalpina. Di fatto,come allor quando si scrive la storia civile di una pro-vincia, altro non si fa se non raccontare ciò che in quellaprovincia accadde, qualunque sia il popolo da cui essafu abitata, così quando si parla della storia letteraria diuna provincia, altro non si fa che rammentare la storiadelle lettere e degli uomini dotti che in quella provinciafiorirono, qualunque fosse il paese da cui i lor maggiorieran venuti. A qual disordine si darebbe luogo nella sto-ria se si volesse seguire il sentimento dei mentovati au-tori? Che direbbero essi se un Tedesco pubblicasse unaBiblioteca Germanica, e vedessero nominati in essaFontenelle e Voltaire? Eppure non discendono eglino iFrancesi da' Franchi, popoli della Germania? Oltre diche, come proveranno essi che quegli scrittori discen-dessero veramente da' Galli transalpini? Eran forse essi isoli che abitassero que' paesi? Niuno dunque eravi rima-

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sto degli antichi abitatori di quelle provincie? Non pote-vano fors'anche molti dall'Italia cispadana, o da altreparti esser passati ad abitare nella traspadana? Gli stessiMaurini non hanno essi stesa la loro Storia a tutto queltratto di paese che or chiamasi Francia? Permettan dun-que a noi pure che, usando del nostro diritto, nostri di-ciamo tutti coloro che vissero in quel tratto di paese cheor dicesi Italia. Ad essa appartengono similmente l'isoleche diconsi adiacenti, ed esse perciò ancora debbono inquesta Storia aver parte, e la Sicilia singolarmente chedi dottissimi uomini in ogni genere di letteratura fin da'più antichi tempi fu fecondissima.Gli stessi autori della Storia Letteraria di Francia si di-chiarano (pref. p. 7) di voler dar luogo, tra' loro uominiillustri per sapere, anche a quelli che, benchè non fosse-ro nativi delle Gallie, vi ebbero nondimeno stanza perlungo tempo, singolarmente se ivi ancora morirono. Edessi hanno in ciò eseguita la loro idea più ampiamenteancora che non avesser promesso. Perciocchè hanno an-noverato tra' loro scrittori, come a suo luogo vedremo,anche l'imperador Claudio, perchè a caso nacque in Lio-ne, anzi ancora Germanico di lui fratello, solo perchè èprobabile ch'egli pur vi nascesse. Nel che non parmich'essi saggiamente abbiano provveduto alla gloria dellaloro nazione. Troppo feconda d'uomini dotti è semprestata la Francia, perchè ella abbisogni di mendicarli percosì dire, altronde, e di usurparsi gli scrittori stranieri.L'adornarsi delle altrui spoglie è proprio solo di chi non

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sto degli antichi abitatori di quelle provincie? Non pote-vano fors'anche molti dall'Italia cispadana, o da altreparti esser passati ad abitare nella traspadana? Gli stessiMaurini non hanno essi stesa la loro Storia a tutto queltratto di paese che or chiamasi Francia? Permettan dun-que a noi pure che, usando del nostro diritto, nostri di-ciamo tutti coloro che vissero in quel tratto di paese cheor dicesi Italia. Ad essa appartengono similmente l'isoleche diconsi adiacenti, ed esse perciò ancora debbono inquesta Storia aver parte, e la Sicilia singolarmente chedi dottissimi uomini in ogni genere di letteratura fin da'più antichi tempi fu fecondissima.Gli stessi autori della Storia Letteraria di Francia si di-chiarano (pref. p. 7) di voler dar luogo, tra' loro uominiillustri per sapere, anche a quelli che, benchè non fosse-ro nativi delle Gallie, vi ebbero nondimeno stanza perlungo tempo, singolarmente se ivi ancora morirono. Edessi hanno in ciò eseguita la loro idea più ampiamenteancora che non avesser promesso. Perciocchè hanno an-noverato tra' loro scrittori, come a suo luogo vedremo,anche l'imperador Claudio, perchè a caso nacque in Lio-ne, anzi ancora Germanico di lui fratello, solo perchè èprobabile ch'egli pur vi nascesse. Nel che non parmich'essi saggiamente abbiano provveduto alla gloria dellaloro nazione. Troppo feconda d'uomini dotti è semprestata la Francia, perchè ella abbisogni di mendicarli percosì dire, altronde, e di usurparsi gli scrittori stranieri.L'adornarsi delle altrui spoglie è proprio solo di chi non

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può altrimenti nascondere la sua povertà. Io mi conterròin modo che alla nostra Italia non si possa fare un talerimprovero. Degli stranieri che per breve tempo vi furo-no, parlerò brevemente e come sol di passaggio. Piùlungamente tratterrommi su quelli che quasi tutta tra noicondussero la loro vita, perciocchè se essi concorsero arendere o migliore, o peggiore lo stato dell'Italiana Let-teratura, ragion vuole che nella Storia di essa abbiano illoro luogo.Nè in ciò solamente, ma in ogni altra parte di questaStoria io mi lusingo di adoperar per tal modo che nonmi si possa rimproverare di avere scritto con animotroppo pregiudicato a favore della nostra Italia. Egli èquesto un difetto, convien confessarlo, comune a coloroche scrivono le cose della lor patria, e spesso anche i piùgrandi uomini non ne vanno esenti. Noi bramiamo chetuttociò che torna ad onor nostro sia vero; cerchiam ra-gioni per persuadere e noi e gli altri; sempre ci sembra-no convincenti gli argomenti che sono in nostro favore;e mentre fissiamo l'occhio su essi, appena degniam di unguardo que' che ci sono contrari. Molti ancora de' nostripiù valenti scrittori italiani hanno urtato a questo sco-glio; e io mi recherò a dovere il confutarli, quando misembri che qualche loro asserzione, benchè gloriosaall'Italia, non sia bastantemente provata. Ma gli stranieriancora non si lascian su questo punto vincer di mano; e igià mentovati dottissimi autori della Storia Letteraria diFrancia ce ne daranno nel decorso di quest'Opera non

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può altrimenti nascondere la sua povertà. Io mi conterròin modo che alla nostra Italia non si possa fare un talerimprovero. Degli stranieri che per breve tempo vi furo-no, parlerò brevemente e come sol di passaggio. Piùlungamente tratterrommi su quelli che quasi tutta tra noicondussero la loro vita, perciocchè se essi concorsero arendere o migliore, o peggiore lo stato dell'Italiana Let-teratura, ragion vuole che nella Storia di essa abbiano illoro luogo.Nè in ciò solamente, ma in ogni altra parte di questaStoria io mi lusingo di adoperar per tal modo che nonmi si possa rimproverare di avere scritto con animotroppo pregiudicato a favore della nostra Italia. Egli èquesto un difetto, convien confessarlo, comune a coloroche scrivono le cose della lor patria, e spesso anche i piùgrandi uomini non ne vanno esenti. Noi bramiamo chetuttociò che torna ad onor nostro sia vero; cerchiam ra-gioni per persuadere e noi e gli altri; sempre ci sembra-no convincenti gli argomenti che sono in nostro favore;e mentre fissiamo l'occhio su essi, appena degniam di unguardo que' che ci sono contrari. Molti ancora de' nostripiù valenti scrittori italiani hanno urtato a questo sco-glio; e io mi recherò a dovere il confutarli, quando misembri che qualche loro asserzione, benchè gloriosaall'Italia, non sia bastantemente provata. Ma gli stranieriancora non si lascian su questo punto vincer di mano; e igià mentovati dottissimi autori della Storia Letteraria diFrancia ce ne daranno nel decorso di quest'Opera non

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pochi esempj. Qui basti l'accennarne un solo a provareche anche i più eruditi scrittori cadono in gravi falli,quando dall'amor della patria si lasciano ciecamentecondurre. Essi affermano (t. 1, p. 53) che i Romani ap-presero primamente da' Galli il gusto delle lettere. L'opi-nion comune, che esamineremo a suo tempo, si è che ilricevesser dai Greci; e niuno avea finora pensato che iGalli avessero a' Romani insegnata l'eloquenza e la poe-sia. Qual prova recano essi di sì nuova opinione? LucioPlozio Gallo, dicono, fu il primo che insegnasse rettori-ca in Roma, come afferma Svetonio. Lasciamo stare perora che non sappiamo se Prozio fosse nativo della Galliatransalpina, o della cisalpina, e se debba perciò annove-rarsi tra' Francesi, o tra gl'Italiani. Ma come è egli possi-bile che sì dotti scrittori, come essi sono, non abbianoposto mente al solenne equivoco da cui sono stati trattiin errore? Svetonio e Cicerone, come a suo luogo vedre-mo, non dicon già che Plozio fosse il primo professoredi rettorica in Roma, ma che fu il primo che insegnollalatinamente, poichè per l'addietro tutti i retori usatoaveano della lingua greca. In fatti Plozio visse a' tempidi Cicerone: e il gusto delle lettere erasi introdotto inRoma più di un secolo innanzi. Io credo certo che, se,non si fosse trattato di cosa appartenente alla gloria del-la lor patria, avrebbero i dotti autori riconosciuto facil-mente il loro errore, ma è cosa dolce il ritrovare un nuo-vo argomento di propria lode, e quindi un'ombra vana eingannevole si prende spesso per un vero e reale ogget-to. Forse a me ancora avverrà talvolta ciò riprendo in al-

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pochi esempj. Qui basti l'accennarne un solo a provareche anche i più eruditi scrittori cadono in gravi falli,quando dall'amor della patria si lasciano ciecamentecondurre. Essi affermano (t. 1, p. 53) che i Romani ap-presero primamente da' Galli il gusto delle lettere. L'opi-nion comune, che esamineremo a suo tempo, si è che ilricevesser dai Greci; e niuno avea finora pensato che iGalli avessero a' Romani insegnata l'eloquenza e la poe-sia. Qual prova recano essi di sì nuova opinione? LucioPlozio Gallo, dicono, fu il primo che insegnasse rettori-ca in Roma, come afferma Svetonio. Lasciamo stare perora che non sappiamo se Prozio fosse nativo della Galliatransalpina, o della cisalpina, e se debba perciò annove-rarsi tra' Francesi, o tra gl'Italiani. Ma come è egli possi-bile che sì dotti scrittori, come essi sono, non abbianoposto mente al solenne equivoco da cui sono stati trattiin errore? Svetonio e Cicerone, come a suo luogo vedre-mo, non dicon già che Plozio fosse il primo professoredi rettorica in Roma, ma che fu il primo che insegnollalatinamente, poichè per l'addietro tutti i retori usatoaveano della lingua greca. In fatti Plozio visse a' tempidi Cicerone: e il gusto delle lettere erasi introdotto inRoma più di un secolo innanzi. Io credo certo che, se,non si fosse trattato di cosa appartenente alla gloria del-la lor patria, avrebbero i dotti autori riconosciuto facil-mente il loro errore, ma è cosa dolce il ritrovare un nuo-vo argomento di propria lode, e quindi un'ombra vana eingannevole si prende spesso per un vero e reale ogget-to. Forse a me ancora avverrà talvolta ciò riprendo in al-

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trui; ma io sono consapevole a me medesimo di essermiadoperato quanto mi era possibile perchè l'amore dellacomun nostra patria non mi accecasse nè mi conducessegiammai ad affermar cosa alcuna che non mi sembrasseappoggiata a buon fondamento.A questo fine assai frequenti s'incontreranno in questamia Opera le citazioni degli autori che servono di provaalle mie asserzioni, e posso dire con verità che ho volutivedere e consultare io stesso quasi tutti i passi da me al-legati; poichè l'esperienza mi ha insegnato che è cosatroppo pericolosa l'affidarsi agli occhi, o alla memoriaaltrui. Nè io però mi sono punto curato di una cotal glo-ria di cui alcuni sembrano andare in cerca coll'affastella-re citazioni sopra citazioni, e schierare un esercito interodi autori e di libri, facendo pompa per tal maniera dellasterminata loro erudizione. Io sarò pago di produrre gliautori che bastino a confermare ciò che avrò asserito. Leleggi che in ciò io mi sono prefisso sono di appoggiarmisingolarmente agli autori o contemporanei, o il men lon-tani che sia possibile dai tempi di cui dovrò ragionare;ad autori che non possan cadere in sospetto di averescritto secondo le loro proprie passioni; ad autori chenon mi narrino cose che la ragione mi mostra impossibi-li; ad autori finalmente che non vengano contradetti dapiù autentici monumenti. Che mi giova, a cagiond'esempio, che molti autori moderni mi dicano che Pol-lione prima d'ogn'altro aprì in Roma una pubblica bi-blioteca? Se essi non mi recano in prova il detto di qual-

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trui; ma io sono consapevole a me medesimo di essermiadoperato quanto mi era possibile perchè l'amore dellacomun nostra patria non mi accecasse nè mi conducessegiammai ad affermar cosa alcuna che non mi sembrasseappoggiata a buon fondamento.A questo fine assai frequenti s'incontreranno in questamia Opera le citazioni degli autori che servono di provaalle mie asserzioni, e posso dire con verità che ho volutivedere e consultare io stesso quasi tutti i passi da me al-legati; poichè l'esperienza mi ha insegnato che è cosatroppo pericolosa l'affidarsi agli occhi, o alla memoriaaltrui. Nè io però mi sono punto curato di una cotal glo-ria di cui alcuni sembrano andare in cerca coll'affastella-re citazioni sopra citazioni, e schierare un esercito interodi autori e di libri, facendo pompa per tal maniera dellasterminata loro erudizione. Io sarò pago di produrre gliautori che bastino a confermare ciò che avrò asserito. Leleggi che in ciò io mi sono prefisso sono di appoggiarmisingolarmente agli autori o contemporanei, o il men lon-tani che sia possibile dai tempi di cui dovrò ragionare;ad autori che non possan cadere in sospetto di averescritto secondo le loro proprie passioni; ad autori chenon mi narrino cose che la ragione mi mostra impossibi-li; ad autori finalmente che non vengano contradetti dapiù autentici monumenti. Che mi giova, a cagiond'esempio, che molti autori moderni mi dicano che Pol-lione prima d'ogn'altro aprì in Roma una pubblica bi-blioteca? Se essi non mi recano in prova il detto di qual-

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che antico, la lor autorità non mi convince abbastanza.Ma io veggo che ciò si afferma da Plinio e da qualchealtro antico accreditato scrittore; e questo mi basta per-chè il creda. Se in ciò singolarmente che a storia appar-tiene, l'autorità di uno, o più scrittori bastasse a far fede,non vi sarebbe errore che non si dovrebbe adottare. Ilnumero degli autori copisti è infinito; e tosto che un det-to è stampato, sembra che da alcuni si abbia in conto dioracolo. Io dunque più alla scelta, che al numero degliautori ho posto mente, e nella storia antica ho allegaticomunemente gli autori antichi, lasciando in disparte imoderni. Questi però ancora ho io voluti leggere atten-tamente quanti ne ho potuti aver tra le mani, che trattas-sero cose attinenti al mio argomento, e di essi mi songiovato assai, e si vedrà ch'io allego spesso il lor senti-mento, e fo uso delle loro scoperte, e talvolta ancora ri-metto il lettore agli argomenti che in prova di qualchepunto essi hanno arrecati. Ed io mi lusingo che niunopotrà rimproverarmi ch'io siami occultamente arricchitocolle altrui fatiche, poichè quanto ho trovato di pregevo-le e d'ingegnoso negli altrui libri, tutto ho fedelmente at-tribuito a' loro autori.Il diligente studio ch'io ho dovuto fare sugli antichiscrittori per trarne quanto potesse essere opportuno allamia idea, mi ha necessariamente fatto scoprire molti er-rori e molte inesattezze degli scrittori moderni. Ma ordi-nariamente non mi avrebbe condotto il farlo, e spessoavrei dovuto arrestarmi per dire che il tale e il tal altro

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che antico, la lor autorità non mi convince abbastanza.Ma io veggo che ciò si afferma da Plinio e da qualchealtro antico accreditato scrittore; e questo mi basta per-chè il creda. Se in ciò singolarmente che a storia appar-tiene, l'autorità di uno, o più scrittori bastasse a far fede,non vi sarebbe errore che non si dovrebbe adottare. Ilnumero degli autori copisti è infinito; e tosto che un det-to è stampato, sembra che da alcuni si abbia in conto dioracolo. Io dunque più alla scelta, che al numero degliautori ho posto mente, e nella storia antica ho allegaticomunemente gli autori antichi, lasciando in disparte imoderni. Questi però ancora ho io voluti leggere atten-tamente quanti ne ho potuti aver tra le mani, che trattas-sero cose attinenti al mio argomento, e di essi mi songiovato assai, e si vedrà ch'io allego spesso il lor senti-mento, e fo uso delle loro scoperte, e talvolta ancora ri-metto il lettore agli argomenti che in prova di qualchepunto essi hanno arrecati. Ed io mi lusingo che niunopotrà rimproverarmi ch'io siami occultamente arricchitocolle altrui fatiche, poichè quanto ho trovato di pregevo-le e d'ingegnoso negli altrui libri, tutto ho fedelmente at-tribuito a' loro autori.Il diligente studio ch'io ho dovuto fare sugli antichiscrittori per trarne quanto potesse essere opportuno allamia idea, mi ha necessariamente fatto scoprire molti er-rori e molte inesattezze degli scrittori moderni. Ma ordi-nariamente non mi avrebbe condotto il farlo, e spessoavrei dovuto arrestarmi per dire che il tale e il tal altro

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hanno errato, senza alcun frutto, e con molta noja de'miei lettori. Se io comprovo bene il mio sentimento,cade per se stesso a terra l'opposto. Allor solamente hogiudicato che mi convenisse di farlo, quando mi si of-frisse o a combattere l'opinione, o a scoprire l'errore diqualche autore che fosse meritamente avuto in pregio didotto e di veritiero. Le opere di tali scrittori si leggonocomunemente con sì favorevole prevenzione, che facil-mente loro si crede quanto essi asseriscono. E questo èil motivo per cui e in questa Prefazione e altre volte neldecorso dell'Opera ho preso a esaminare e a confutarealcuni passi della più volte mentovata Storia Letterariadi Francia, ne' quali mi è sembrato che senza ragione sivolesse scemar l'onore alla nostra Italia dovuto. Ella èquesta un'opera di una vastissima erudizione e diun'immensa fatica, e piena di profonde e diligenti ricer-che; e troppo è facile ad accadere che l'autorità di sì dot-ti scrittori sia ciecamente e senza esame seguita. Io mison dunque stimato in dovere di confutare, ove fossed'uopo, ciò che a svantaggio dell'Italia vi si afferma, sin-golarmente col toglierle alcuni uomini illustri che noi abuon diritto riputiam nostri. Ma nel combattere le opi-nioni di questi e di altri accreditati scrittori io ho usatodi quel contegno ch'è proprio d'uomo che si conosce in-feriore di molto in forze al suo avversario, e che spera divincere solo perchè si lusinga di avere armi migliori. Sipuò combatter con forza, si può ancora scherzare piace-volmente senza dire un motto onde altri a ragione si re-puti offeso. Le ingiurie e le villanie troppo mal si con-

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hanno errato, senza alcun frutto, e con molta noja de'miei lettori. Se io comprovo bene il mio sentimento,cade per se stesso a terra l'opposto. Allor solamente hogiudicato che mi convenisse di farlo, quando mi si of-frisse o a combattere l'opinione, o a scoprire l'errore diqualche autore che fosse meritamente avuto in pregio didotto e di veritiero. Le opere di tali scrittori si leggonocomunemente con sì favorevole prevenzione, che facil-mente loro si crede quanto essi asseriscono. E questo èil motivo per cui e in questa Prefazione e altre volte neldecorso dell'Opera ho preso a esaminare e a confutarealcuni passi della più volte mentovata Storia Letterariadi Francia, ne' quali mi è sembrato che senza ragione sivolesse scemar l'onore alla nostra Italia dovuto. Ella èquesta un'opera di una vastissima erudizione e diun'immensa fatica, e piena di profonde e diligenti ricer-che; e troppo è facile ad accadere che l'autorità di sì dot-ti scrittori sia ciecamente e senza esame seguita. Io mison dunque stimato in dovere di confutare, ove fossed'uopo, ciò che a svantaggio dell'Italia vi si afferma, sin-golarmente col toglierle alcuni uomini illustri che noi abuon diritto riputiam nostri. Ma nel combattere le opi-nioni di questi e di altri accreditati scrittori io ho usatodi quel contegno ch'è proprio d'uomo che si conosce in-feriore di molto in forze al suo avversario, e che spera divincere solo perchè si lusinga di avere armi migliori. Sipuò combatter con forza, si può ancora scherzare piace-volmente senza dire un motto onde altri a ragione si re-puti offeso. Le ingiurie e le villanie troppo mal si con-

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fanno ad uomini letterati, e noi Italiani siamo forse noningiustamente ripresi di esserne troppo liberali coi nostriavversarj. A questo fine mi sono astenuto dall'entrare incerte contese sulla patria di alcuni nostri antichi scritto-ri, nelle quali lo spirito di partito regna da lungo tempo,per modo che non è possibile il mostrarsi favorevole aduna parte senza che l'altra se ne dolga troppo aspramen-te; e nelle quali perciò il voler decidere è cosa pericolo-sa al pari che inutile. Io accennerò le ragioni che daamendue le parti si arrecano, e lascerò che ognuno sentacome meglio piace.Tutta l'opera sarà divisa in sette, o otto volumi i quali, seil cielo mi concederà vita e forze, verrannosi coll'inter-vallo, come spero, non maggiore di un anno seguendol'un l'altro. Forse sembrerà ad alcuni troppo ristretto untal numero di volumi all'ampiezza della materia. Ma nelmetodo a cui ho pensato di attenermi, mi lusingo chepossan questi bastare a porre in sufficiente luce la Storiadella Letteratura Italiana. Chi vuol dir tutto, comune-mente non dice nulla; e molte opere son rimaste, e ri-marran sempre imperfette perchè gli autori avean presoa correre troppo ampio campo. Quando io abbia condot-ta a fine la mia Opera, se alcuno vorrà darle una mag-gior estensione, potrà farlo più agevolmente; ed io mi ri-puterò onorato se vedrò altri di me migliori entrare piùfelicemente di me in questa stessa carriera.Per ultimo, comunque io abbia usato di ogni possibilediligenza nel compilar questa Storia, sono ben lungi dal

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fanno ad uomini letterati, e noi Italiani siamo forse noningiustamente ripresi di esserne troppo liberali coi nostriavversarj. A questo fine mi sono astenuto dall'entrare incerte contese sulla patria di alcuni nostri antichi scritto-ri, nelle quali lo spirito di partito regna da lungo tempo,per modo che non è possibile il mostrarsi favorevole aduna parte senza che l'altra se ne dolga troppo aspramen-te; e nelle quali perciò il voler decidere è cosa pericolo-sa al pari che inutile. Io accennerò le ragioni che daamendue le parti si arrecano, e lascerò che ognuno sentacome meglio piace.Tutta l'opera sarà divisa in sette, o otto volumi i quali, seil cielo mi concederà vita e forze, verrannosi coll'inter-vallo, come spero, non maggiore di un anno seguendol'un l'altro. Forse sembrerà ad alcuni troppo ristretto untal numero di volumi all'ampiezza della materia. Ma nelmetodo a cui ho pensato di attenermi, mi lusingo chepossan questi bastare a porre in sufficiente luce la Storiadella Letteratura Italiana. Chi vuol dir tutto, comune-mente non dice nulla; e molte opere son rimaste, e ri-marran sempre imperfette perchè gli autori avean presoa correre troppo ampio campo. Quando io abbia condot-ta a fine la mia Opera, se alcuno vorrà darle una mag-gior estensione, potrà farlo più agevolmente; ed io mi ri-puterò onorato se vedrò altri di me migliori entrare piùfelicemente di me in questa stessa carriera.Per ultimo, comunque io abbia usato di ogni possibilediligenza nel compilar questa Storia, sono ben lungi dal

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credere che non vi abbia in essa errori e inesattezze inbuon numero. E perciò anzi che sdegnarmi contro chime gli additi, io gliene saprò grado; e, ove fia d'uopo,ne' seguenti volumi inserirò, come in altra mia opera hofatto, le correzioni e le giunte da farsi a' volumi prece-denti. Io non so intendere come alcuni siano così diffici-li a confessare di avere errato; quasi ciò non fosse statocomune anche a' più famosi scrittori. E non deesi egliscrivendo cercare il vero? Se dunque tu non sei rinscitoa scoprirlo, e un altro cortesemente te lo addita, perchèchiuder gli occhi e ricusar di vederlo? Io certamente daniuna cosa mi stimerò più onorato che dal vedere uomi-ni eruditi interessarsi per dare a questa mia Opera unamaggior perfezione; e suggerirmi perciò lumi e notizieche giovino o a corregger gli errori nei quali mi sia av-venuto di cadere, o ad accrescere pe' seguenti voluminuovi argomenti di gloria all'Italiana Letteratura.E basti il detto fin qui di tutta l'Opera in generale. Perciò che appartiene a questo primo volume, di una cosasola mi pare di dover avvertire chi legge. Sembrerà for-se a taluno ch'io potessi, o forse ancora dovessi, più am-piamente stendermi sulla Letteratura degli Etruschi. Al-tri certo ne hanno scritto assai più. Ma io ho giudicatoche intorno a questo argomento fosse miglior consigliol'essere breve; anche perchè mi è sembrato di non poterfare altrimenti, volendomi attenere alla massima da meseguita di non affermar cosa alcuna che all'autorità degliantichi scrittori non fosse appoggiata. Se altri altre cose

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credere che non vi abbia in essa errori e inesattezze inbuon numero. E perciò anzi che sdegnarmi contro chime gli additi, io gliene saprò grado; e, ove fia d'uopo,ne' seguenti volumi inserirò, come in altra mia opera hofatto, le correzioni e le giunte da farsi a' volumi prece-denti. Io non so intendere come alcuni siano così diffici-li a confessare di avere errato; quasi ciò non fosse statocomune anche a' più famosi scrittori. E non deesi egliscrivendo cercare il vero? Se dunque tu non sei rinscitoa scoprirlo, e un altro cortesemente te lo addita, perchèchiuder gli occhi e ricusar di vederlo? Io certamente daniuna cosa mi stimerò più onorato che dal vedere uomi-ni eruditi interessarsi per dare a questa mia Opera unamaggior perfezione; e suggerirmi perciò lumi e notizieche giovino o a corregger gli errori nei quali mi sia av-venuto di cadere, o ad accrescere pe' seguenti voluminuovi argomenti di gloria all'Italiana Letteratura.E basti il detto fin qui di tutta l'Opera in generale. Perciò che appartiene a questo primo volume, di una cosasola mi pare di dover avvertire chi legge. Sembrerà for-se a taluno ch'io potessi, o forse ancora dovessi, più am-piamente stendermi sulla Letteratura degli Etruschi. Al-tri certo ne hanno scritto assai più. Ma io ho giudicatoche intorno a questo argomento fosse miglior consigliol'essere breve; anche perchè mi è sembrato di non poterfare altrimenti, volendomi attenere alla massima da meseguita di non affermar cosa alcuna che all'autorità degliantichi scrittori non fosse appoggiata. Se altri altre cose

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han ritrovate appartenenti alla letteratura degli Etruschi,e se le hanno bastevolmente provate, potranno le eruditeloro opere supplire al difetto di questa mia. Ben mi è di-spiaciuto di non poter far uso di due Dissertazioni sullafilosofia e sulla musica degli Etruschi dal dottissimo an-tiquario Monsig. Passeri pubblicate non ha molto inRoma insieme colla spiegazione delle pitture delineatesu' vasi etruschi. Ma non mi è stato possibile l'averle intempo ad usarne; che molto certamente avrei io potutoraccoglierne ad illustrare questo mio argomento (1).

1 Ho poi veduta l'opera del ch. Passeri da me qui accennata, e ne ho fatto usoin una nota alla seconda edizione aggiunta.

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han ritrovate appartenenti alla letteratura degli Etruschi,e se le hanno bastevolmente provate, potranno le eruditeloro opere supplire al difetto di questa mia. Ben mi è di-spiaciuto di non poter far uso di due Dissertazioni sullafilosofia e sulla musica degli Etruschi dal dottissimo an-tiquario Monsig. Passeri pubblicate non ha molto inRoma insieme colla spiegazione delle pitture delineatesu' vasi etruschi. Ma non mi è stato possibile l'averle intempo ad usarne; che molto certamente avrei io potutoraccoglierne ad illustrare questo mio argomento (1).

1 Ho poi veduta l'opera del ch. Passeri da me qui accennata, e ne ho fatto usoin una nota alla seconda edizione aggiunta.

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PREFAZIONEALLA NUOVA EDIZIONE DI MODENA

Cominciata nel 1787, e compiuta nel 1794.------

Il favorevole accoglimento di cui gli eruditi Italianihanno onorata questa mia Storia, le replicate edizioniche nel corso di pochi anni se ne sono pubblicate, e iCompendj che se ne sono anche fatti nella lingua fran-cese e nella tedesca, potrebbono lusingarmi per avventu-ra ch'io avessi fatta opera degna della pubblica lode edell'universale applauso. Ma il mio amor proprio non miaccieca a tal segno, e, consapevole a me medesimo de'difetti del mio lavoro, non posso rimirare il favore, concui è stato accolto comunemente, che come un omaggioprestato all'Italiana Letteratura che n'è l'argomento, ecome un eccitamento a me stesso a correggerlo e mi-gliorarlo. A questo fine è diretta la nuova edizione cheora ne offro al pubblico, in cui mi sono studiato di to-gliere dalla mia Storia gli errori, e di aggiugnerle moltealtre notizie, che o l'erudizione e la gentilezza de' mieiamici mi hanno cortesemente additato, o la mia rifles-sione medesima mi ha suggerito. Molti di fatto o colle opere lor pubblicate, o con lettere a

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PREFAZIONEALLA NUOVA EDIZIONE DI MODENA

Cominciata nel 1787, e compiuta nel 1794.------

Il favorevole accoglimento di cui gli eruditi Italianihanno onorata questa mia Storia, le replicate edizioniche nel corso di pochi anni se ne sono pubblicate, e iCompendj che se ne sono anche fatti nella lingua fran-cese e nella tedesca, potrebbono lusingarmi per avventu-ra ch'io avessi fatta opera degna della pubblica lode edell'universale applauso. Ma il mio amor proprio non miaccieca a tal segno, e, consapevole a me medesimo de'difetti del mio lavoro, non posso rimirare il favore, concui è stato accolto comunemente, che come un omaggioprestato all'Italiana Letteratura che n'è l'argomento, ecome un eccitamento a me stesso a correggerlo e mi-gliorarlo. A questo fine è diretta la nuova edizione cheora ne offro al pubblico, in cui mi sono studiato di to-gliere dalla mia Storia gli errori, e di aggiugnerle moltealtre notizie, che o l'erudizione e la gentilezza de' mieiamici mi hanno cortesemente additato, o la mia rifles-sione medesima mi ha suggerito. Molti di fatto o colle opere lor pubblicate, o con lettere a

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me dirette mi hanno o avvertito di qualche fallo, o co-municato qualche nuovo lume alla mia Storia opportu-no. E io riconoscente alle amichevoli loro premure, hoemendato i passi ne' quali mi han fatto conoscere ch'iom'era ingannato, o se le lor ragioni non mi sono sembra-te bastanti a farmi cambiar sentimento, con quella ri-spettosa sincerità che tra i coltivatori de' buoni studjdeesi usare a vicenda, ho addotto i motivi che non mipermettevano di seguire la loro opinione. Così ho ado-perato con quelli che colle maniere proprie d'uom lette-rato hanno impugnato qualche passo della mia Storia.Ma perchè le difese, secondo i militari assiomi, debbonessere proporzionate alle offese, io spero che i lettorinon si sdegneranno meco se a chi talvolta con libristampati ha vivacemente assalito non tanto me quantol'onore dell'Italiana Letteratura, risponderò io pure al-quanto vivacemente. Nel che però studierommi di farein modo che la vivacità si contenga entro i terminidell'urbanità e della moderazione, e che la maniera, qua-lunque ella siasi, dagli avversarj tenuta nell'assalirminon mi ritenga giammaj dal darmi lor vinto, quando iovegga ch'essi combatton con armi alle mie superiori.Io guarderommi qui dall'inquietar le ceneri dei trapassa-ti, e dal rispondere ad uno che diffinì gravemente la miaOpera non esser altro che un ammasso di fatti e di datecol titolo di Storia Letteraria. Diasi ciò al dolore di unuomo che veggendo dall'esatta osservazion delle daterovesciato un sistema di cui compiacevasi, si rivolse

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me dirette mi hanno o avvertito di qualche fallo, o co-municato qualche nuovo lume alla mia Storia opportu-no. E io riconoscente alle amichevoli loro premure, hoemendato i passi ne' quali mi han fatto conoscere ch'iom'era ingannato, o se le lor ragioni non mi sono sembra-te bastanti a farmi cambiar sentimento, con quella ri-spettosa sincerità che tra i coltivatori de' buoni studjdeesi usare a vicenda, ho addotto i motivi che non mipermettevano di seguire la loro opinione. Così ho ado-perato con quelli che colle maniere proprie d'uom lette-rato hanno impugnato qualche passo della mia Storia.Ma perchè le difese, secondo i militari assiomi, debbonessere proporzionate alle offese, io spero che i lettorinon si sdegneranno meco se a chi talvolta con libristampati ha vivacemente assalito non tanto me quantol'onore dell'Italiana Letteratura, risponderò io pure al-quanto vivacemente. Nel che però studierommi di farein modo che la vivacità si contenga entro i terminidell'urbanità e della moderazione, e che la maniera, qua-lunque ella siasi, dagli avversarj tenuta nell'assalirminon mi ritenga giammaj dal darmi lor vinto, quando iovegga ch'essi combatton con armi alle mie superiori.Io guarderommi qui dall'inquietar le ceneri dei trapassa-ti, e dal rispondere ad uno che diffinì gravemente la miaOpera non esser altro che un ammasso di fatti e di datecol titolo di Storia Letteraria. Diasi ciò al dolore di unuomo che veggendo dall'esatta osservazion delle daterovesciato un sistema di cui compiacevasi, si rivolse

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sdegnosamente contro quelle arme da cui sentivasi pun-to. Io son persuaso, e spero che niuno vorrà contrastar-melo, che la verità e la esattezza sono la prima dote chein uno storico si richiede, e che le riflessioni e i sistemicadono a terra, se i fatti a cui sono appoggiati, non han-no che fondamenti o rovinosi, o incerti. Perciò prima diogni altra cosa io mi sono studiato di scoprire la verità ele circostanze de' fatti, e ne ho poscia tratte le riflessioniche mi son sembrate opportune. E io ardisco di lusingar-mi che se alcuno, spogliando la mia Storia delle crono-logiche discussioni, e delle minute ricerche nelle qualiho creduto che mi obbligasse a trattenermi più voltel'essere io il primo a rischiarare un sì ampio argomento,ne traesse solo la sostanza dei fatti, e le conseguenzeche ne ho dedotte, e le generali considerazioni sullo sta-to della Letteratura, che qua e là ho sparse in più luoghi,verrebbe forse a formare quel filosofico quadro che adalcuni sembra mancare a quest'Opera. Ma checchè sia diciò, io non mi arresterò a provar lungamente che il me-todo da me seguito sia il migliore. Io mi compiaccio divederlo palesemente approvato dall'universal favore de-gli eruditi Italiani, e quindi non potrò pentirmi giammaidi averlo seguito. Altri, a cui ne sembri diversamente, siaccinga all'impresa; e se l'Italia, dimenticata la mia Sto-ria, onorerà di più grata accoglienza il nuovo lavoro,non sarò io tra gli ultimi a fargli applauso. Ma di apolo-gie basti fin qui, e passiamo a vedere quale metodo ioabbia tenuto in questa nuova edizione.

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sdegnosamente contro quelle arme da cui sentivasi pun-to. Io son persuaso, e spero che niuno vorrà contrastar-melo, che la verità e la esattezza sono la prima dote chein uno storico si richiede, e che le riflessioni e i sistemicadono a terra, se i fatti a cui sono appoggiati, non han-no che fondamenti o rovinosi, o incerti. Perciò prima diogni altra cosa io mi sono studiato di scoprire la verità ele circostanze de' fatti, e ne ho poscia tratte le riflessioniche mi son sembrate opportune. E io ardisco di lusingar-mi che se alcuno, spogliando la mia Storia delle crono-logiche discussioni, e delle minute ricerche nelle qualiho creduto che mi obbligasse a trattenermi più voltel'essere io il primo a rischiarare un sì ampio argomento,ne traesse solo la sostanza dei fatti, e le conseguenzeche ne ho dedotte, e le generali considerazioni sullo sta-to della Letteratura, che qua e là ho sparse in più luoghi,verrebbe forse a formare quel filosofico quadro che adalcuni sembra mancare a quest'Opera. Ma checchè sia diciò, io non mi arresterò a provar lungamente che il me-todo da me seguito sia il migliore. Io mi compiaccio divederlo palesemente approvato dall'universal favore de-gli eruditi Italiani, e quindi non potrò pentirmi giammaidi averlo seguito. Altri, a cui ne sembri diversamente, siaccinga all'impresa; e se l'Italia, dimenticata la mia Sto-ria, onorerà di più grata accoglienza il nuovo lavoro,non sarò io tra gli ultimi a fargli applauso. Ma di apolo-gie basti fin qui, e passiamo a vedere quale metodo ioabbia tenuto in questa nuova edizione.

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Sono stato lungamente dubbioso se io dovessi cambiare,o rifondere, ove il bisogno lo richiedesse, diversi passidella mia Storia, o se lasciandoli quali essi sono nellaprima edizione, dovessi in piè di pagina aggiugner noteche o rischiarassero, o correggessero i passi medesimi.Questo secondo metodo mi è sembrato per più ragioni ilmigliore; e singolarmente perchè non ispiacerà forse a'lettori il vedere come io abbia pensato in addietro, equali ragioni mi abbiano poi condotto a cambiare senti-mento. Egli è vero che in questo modo vengo io stesso apalesare gli errori ne' quali io era caduto, e a farne unapubblica confessione. Ma non è egli meglio l'accusarespontaneamente il suo fallo, che l'udirselo rinfacciare? Iltesto dunque della Storia sarà comunemente lo stessoche nella prima edizione, trattone allor quando il cam-biamento sarà sì lieve che sembri inutile l'indicarlo. Lenotizie nuovamente scoperte, lo scioglimento dei dubbjsu qualche punto propostimi, la correzion degli errori, leragioni, per le quali ho creduto talvolta di non dovereabbandonare l'antica mia opinione, benchè da altri im-pugnata, tutto ciò sarà nelle note a piè di pagina aggiun-te. Quelle tra esse che si vedranno segnate coll'asterisco,sono quelle medesime che si leggono nelle Correzioni enelle Giunte da me poste al fine della prima edizione, enella edizion romana collocate ciascheduna opportuna-mente a lor luogo. Le altre segnate con qualche letteradell'alfabeto son quelle che a questa nuova edizione ora

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Sono stato lungamente dubbioso se io dovessi cambiare,o rifondere, ove il bisogno lo richiedesse, diversi passidella mia Storia, o se lasciandoli quali essi sono nellaprima edizione, dovessi in piè di pagina aggiugner noteche o rischiarassero, o correggessero i passi medesimi.Questo secondo metodo mi è sembrato per più ragioni ilmigliore; e singolarmente perchè non ispiacerà forse a'lettori il vedere come io abbia pensato in addietro, equali ragioni mi abbiano poi condotto a cambiare senti-mento. Egli è vero che in questo modo vengo io stesso apalesare gli errori ne' quali io era caduto, e a farne unapubblica confessione. Ma non è egli meglio l'accusarespontaneamente il suo fallo, che l'udirselo rinfacciare? Iltesto dunque della Storia sarà comunemente lo stessoche nella prima edizione, trattone allor quando il cam-biamento sarà sì lieve che sembri inutile l'indicarlo. Lenotizie nuovamente scoperte, lo scioglimento dei dubbjsu qualche punto propostimi, la correzion degli errori, leragioni, per le quali ho creduto talvolta di non dovereabbandonare l'antica mia opinione, benchè da altri im-pugnata, tutto ciò sarà nelle note a piè di pagina aggiun-te. Quelle tra esse che si vedranno segnate coll'asterisco,sono quelle medesime che si leggono nelle Correzioni enelle Giunte da me poste al fine della prima edizione, enella edizion romana collocate ciascheduna opportuna-mente a lor luogo. Le altre segnate con qualche letteradell'alfabeto son quelle che a questa nuova edizione ora

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si aggiungono (2). Talvolta però ove l'ordine e la chiarez-za mi è sembrato richiederlo, ho inserita nel testo mede-simo qualche giunta, ma contrassegnandola e racchiu-dendola tra i segni ", acciocchè si avverta che essa man-ca nella prima edizione. Questo metodo avrà ancora ilvantaggio, che restando separate per tal maniera tutte lenon poche aggiunte fatte ora alla Storia, esse si ristam-peranno poscia a parte insieme unite a vantaggio diquelli che avendo acquistata alcuna delle prime edizioni,di mal grado soffrirebbono probabilmente o il rimanerprivi delle notizie a questa ristampa aggiunte, o il dover-le a troppo caro prezzo acquistare comprando ancoraquesta nuova edizione.Dovrei ora indicare que' dotti e cortesi uomini che allacorrezione e al miglioramento di questa mia Storia mihanno i lor lumi somministrati. Ma molti ne ho già an-noverati nella Prefazione premessa al tomo IX della pri-ma edizione; e nel riprodurla che farò poscia innanziall'ultimo tomo di questa ristampa, aggiugnerò quelli an-cora a' quali debbo le molte nuove notizie di cui ora l'hoaccresciuta. Io conchiuderò frattanto questa Prefazioneprotestando la sincera mia riconoscenza agli eruditi Ita-liani, non solo perchè accolta hanno e favorita questamia Opera, più che io non le credessi dovuto; ma ancoraperchè il mio esempio sembra avergli animati ad illu-strare e a difendere sempre più le glorie dell'italiana Let-2 Nota degli editori. Alcune poche che si troveranno distinte da noi con que-

sto segno + sono quelle stesse che già esistono a piè di pagina nella primaedizione di Modena.

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si aggiungono (2). Talvolta però ove l'ordine e la chiarez-za mi è sembrato richiederlo, ho inserita nel testo mede-simo qualche giunta, ma contrassegnandola e racchiu-dendola tra i segni ", acciocchè si avverta che essa man-ca nella prima edizione. Questo metodo avrà ancora ilvantaggio, che restando separate per tal maniera tutte lenon poche aggiunte fatte ora alla Storia, esse si ristam-peranno poscia a parte insieme unite a vantaggio diquelli che avendo acquistata alcuna delle prime edizioni,di mal grado soffrirebbono probabilmente o il rimanerprivi delle notizie a questa ristampa aggiunte, o il dover-le a troppo caro prezzo acquistare comprando ancoraquesta nuova edizione.Dovrei ora indicare que' dotti e cortesi uomini che allacorrezione e al miglioramento di questa mia Storia mihanno i lor lumi somministrati. Ma molti ne ho già an-noverati nella Prefazione premessa al tomo IX della pri-ma edizione; e nel riprodurla che farò poscia innanziall'ultimo tomo di questa ristampa, aggiugnerò quelli an-cora a' quali debbo le molte nuove notizie di cui ora l'hoaccresciuta. Io conchiuderò frattanto questa Prefazioneprotestando la sincera mia riconoscenza agli eruditi Ita-liani, non solo perchè accolta hanno e favorita questamia Opera, più che io non le credessi dovuto; ma ancoraperchè il mio esempio sembra avergli animati ad illu-strare e a difendere sempre più le glorie dell'italiana Let-2 Nota degli editori. Alcune poche che si troveranno distinte da noi con que-

sto segno + sono quelle stesse che già esistono a piè di pagina nella primaedizione di Modena.

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teratura. E non debbo io compiacermi al vedere tanti e sìdotti scrittori i quali ben conoscendo che a me non erapossibile il ricercare e l'indicare ogni parte del vastissi-mo campo ch'io avea preso a correre, quali una, quali al-tra parte ne hanno con assai maggior diligenza esamina-ta e illustrata? Quanti bei lumi non ci hanno dati, ristrin-gendoci solo alle opere che a storia letteraria apparten-gono, le Opere del sig. Soria e del sig. Barbieri e del sig.Napoli-Signorelli sugli storici e sui filosofi e sulla lette-ratura in generale del regno di Napoli, e le Notizie degliscrittori del regno stesso, il cui primo tomo pubblicatodal p. d'Afflitto ci fa con impazienza aspettare gli altri,gli Archiatri pontificj del sig. ab. Marini, il Catalogodell'edizioni romane del secolo XV del p. Audifredi, gliscrittori bolognesi del c. Fantuzzi, i Bassanesi del sig.Verci, gli Asolani di mons. Trieste, i Discorsi sulle Let-tere e sulle Arti Mantovane del sig. ab. Bettinelli, gl'illu-stri Comaschi del c. Giovo, diverse opere del p. IreneoAffò e del sig. barone di Vernazza, gli Elogi degl'IllustriPiemontesi, diversi ben ordinati ed eruditi cataloghi dibiblioteche, come di quella di s. Michel di Murano delp. ab. Mittarelli, delle biblioteche Nani, Farsetti, e Pinel-li del sig. ab. Morelli, di quella del c. Firmian, e singo-larmente della Laurenziana del sig. can. Bandini! Tuttain somma l'Italia pare ora ardentemente rivolta a tali stu-di, che forse in addietro eran troppo trascurati e negletti;e io mi riputerei felice se potessi lusingarmi di avere inqualche modo contribuito ad accendere sì bella gara.Egli è vero che questa nuova luce, di cui l'Italia per le

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teratura. E non debbo io compiacermi al vedere tanti e sìdotti scrittori i quali ben conoscendo che a me non erapossibile il ricercare e l'indicare ogni parte del vastissi-mo campo ch'io avea preso a correre, quali una, quali al-tra parte ne hanno con assai maggior diligenza esamina-ta e illustrata? Quanti bei lumi non ci hanno dati, ristrin-gendoci solo alle opere che a storia letteraria apparten-gono, le Opere del sig. Soria e del sig. Barbieri e del sig.Napoli-Signorelli sugli storici e sui filosofi e sulla lette-ratura in generale del regno di Napoli, e le Notizie degliscrittori del regno stesso, il cui primo tomo pubblicatodal p. d'Afflitto ci fa con impazienza aspettare gli altri,gli Archiatri pontificj del sig. ab. Marini, il Catalogodell'edizioni romane del secolo XV del p. Audifredi, gliscrittori bolognesi del c. Fantuzzi, i Bassanesi del sig.Verci, gli Asolani di mons. Trieste, i Discorsi sulle Let-tere e sulle Arti Mantovane del sig. ab. Bettinelli, gl'illu-stri Comaschi del c. Giovo, diverse opere del p. IreneoAffò e del sig. barone di Vernazza, gli Elogi degl'IllustriPiemontesi, diversi ben ordinati ed eruditi cataloghi dibiblioteche, come di quella di s. Michel di Murano delp. ab. Mittarelli, delle biblioteche Nani, Farsetti, e Pinel-li del sig. ab. Morelli, di quella del c. Firmian, e singo-larmente della Laurenziana del sig. can. Bandini! Tuttain somma l'Italia pare ora ardentemente rivolta a tali stu-di, che forse in addietro eran troppo trascurati e negletti;e io mi riputerei felice se potessi lusingarmi di avere inqualche modo contribuito ad accendere sì bella gara.Egli è vero che questa nuova luce, di cui l'Italia per le

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fatiche di tanti valentuomini si è mostrata adorna, ha ec-citato in alcuni stranieri quel sentimento che avendo unamedesima origine produce nondimeno, secondo la di-versità degli animi in cui si risveglia, diversi effetti, eche negli uomini grandi è emulazione, ne' piccioli è ge-losia ed invidia, e si sono perciò vedute nel sen dell'Ita-lia uscire al pubblico alcune opere colle quali si è prete-so di oscurarne, o di diminuirne le glorie. Ma sono an-che insorti alcuni tra' più valorosi Italiani a difendere lacomun patria. E io ancora, come ho fatto in addietro,così studierommi in questa nuova edizione di ribattere leloro accuse, e mi parrà di aver raccolto il più dolce frut-to che dalle mie fatiche sperar potessi, se mi verrà fattodi assicurare all'Italia il glorioso vanto, di cui sopra ognialtro si pregia, di madre e maestra delle scienze e dellearti.

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fatiche di tanti valentuomini si è mostrata adorna, ha ec-citato in alcuni stranieri quel sentimento che avendo unamedesima origine produce nondimeno, secondo la di-versità degli animi in cui si risveglia, diversi effetti, eche negli uomini grandi è emulazione, ne' piccioli è ge-losia ed invidia, e si sono perciò vedute nel sen dell'Ita-lia uscire al pubblico alcune opere colle quali si è prete-so di oscurarne, o di diminuirne le glorie. Ma sono an-che insorti alcuni tra' più valorosi Italiani a difendere lacomun patria. E io ancora, come ho fatto in addietro,così studierommi in questa nuova edizione di ribattere leloro accuse, e mi parrà di aver raccolto il più dolce frut-to che dalle mie fatiche sperar potessi, se mi verrà fattodi assicurare all'Italia il glorioso vanto, di cui sopra ognialtro si pregia, di madre e maestra delle scienze e dellearti.

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TAVOLA GENERALEDELLE ABBREVIATURE

Non sarà forse disutile a chi abbia duopo di questa Tavola, innan-zi di consultarla, di conoscere il metodo tenuto 1. nel formar leabbreviature che inserite si troveranno nell'opera presente, 2. neldare la spiegazione di dette abbreviature.

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TAVOLA GENERALEDELLE ABBREVIATURE

Non sarà forse disutile a chi abbia duopo di questa Tavola, innan-zi di consultarla, di conoscere il metodo tenuto 1. nel formar leabbreviature che inserite si troveranno nell'opera presente, 2. neldare la spiegazione di dette abbreviature.

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METODO PER LE ABBREVIATURE

I. Ogni abbreviatura avrà il suo significato particolare, nè serviràmai a due nomi diversi. Per esempio l'abbreviatura Hist. che si-gnificar potrebbe così Historia come Historicus, non servirà cheper Historia; e per significare Historicus verrà fatto usodell'abbreviatura Histor. Parimente Ant. significherà Antonio, eAnton. Antonino, ec.

Che se alcuna rara volta poi una stessa abbreviatura avrà due si-gnificati diversi, la circostanza in cui verrà impiegata essa abbre-viatura, toglierà sempre ogni qualunque equivoco. Per esempiol'abbreviatura p. che significa così padre, come pagina, allorchèdovrà significar padre verrà seguita da un nome come il p. Fran-cesco, il padre Francesco; da un numero allorchè dovrà significarpagina, come p. 400, pagina 400, ec.

II. Le lettere iniziali majuscole, o minuscole, serviranno spessevolte per distinguere i sostantivi dagli addiettivi, i plurali dai sin-golari, e i nomi proprj particolari dai nomi proprj generali. Peresempio l'abbreviatura di Romano sostantivo sarà Rom., quella diromano addiettivo sarà rom. L'abbreviatura di Dissertazioni saràDiss., e quella di dissertazione diss. Così l'abbreviatura di Agosti-no sarà Ag., e di agosto ag., ec.

Talora per distinguere un sostantivo da un addiettivo, verrà accre-sciuta di qualche lettera l'abbreviatura dell'addiettivo, come peresempio apost. apostolo, apostol. Apostolico, ec.

Alcuna volta pure, per distinguere un plurale di un singolare, ver-rà duplicata l'ultima consonante dell'abbreviatura, come per esem-pio nell'abbreviatura di codex, ch'è cod., verrà duplicato il d, e siformerà così l'abbreviatura codd. per indicare codices, ec.

III. Non si troverà mai puntata abbreviatura alcuna dopo la penul-tima lettera della voce abbreviata. Perciò l'abbreviatura Vit. non

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METODO PER LE ABBREVIATURE

I. Ogni abbreviatura avrà il suo significato particolare, nè serviràmai a due nomi diversi. Per esempio l'abbreviatura Hist. che si-gnificar potrebbe così Historia come Historicus, non servirà cheper Historia; e per significare Historicus verrà fatto usodell'abbreviatura Histor. Parimente Ant. significherà Antonio, eAnton. Antonino, ec.

Che se alcuna rara volta poi una stessa abbreviatura avrà due si-gnificati diversi, la circostanza in cui verrà impiegata essa abbre-viatura, toglierà sempre ogni qualunque equivoco. Per esempiol'abbreviatura p. che significa così padre, come pagina, allorchèdovrà significar padre verrà seguita da un nome come il p. Fran-cesco, il padre Francesco; da un numero allorchè dovrà significarpagina, come p. 400, pagina 400, ec.

II. Le lettere iniziali majuscole, o minuscole, serviranno spessevolte per distinguere i sostantivi dagli addiettivi, i plurali dai sin-golari, e i nomi proprj particolari dai nomi proprj generali. Peresempio l'abbreviatura di Romano sostantivo sarà Rom., quella diromano addiettivo sarà rom. L'abbreviatura di Dissertazioni saràDiss., e quella di dissertazione diss. Così l'abbreviatura di Agosti-no sarà Ag., e di agosto ag., ec.

Talora per distinguere un sostantivo da un addiettivo, verrà accre-sciuta di qualche lettera l'abbreviatura dell'addiettivo, come peresempio apost. apostolo, apostol. Apostolico, ec.

Alcuna volta pure, per distinguere un plurale di un singolare, ver-rà duplicata l'ultima consonante dell'abbreviatura, come per esem-pio nell'abbreviatura di codex, ch'è cod., verrà duplicato il d, e siformerà così l'abbreviatura codd. per indicare codices, ec.

III. Non si troverà mai puntata abbreviatura alcuna dopo la penul-tima lettera della voce abbreviata. Perciò l'abbreviatura Vit. non

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significherà mai Vita, ma Vitæ, o Vitis, ec. così Ner. non signifi-cherà Nero, ma Nerone, o Neronis, ec.

IV. Tutte le volte che nel testo sarà accennato un qualche nomeproprio, o un qualche titolo di opera, e che questo nome, o titoloverrà ripetuto nella immediata citazione, allora si troveràun'abbreviatura particolare, vale a dire più ristretta del solito. Peresempio se verrà nominato Claudio, e che ivi si citi Svetonio inClaudio, la citazione sarà questa (Svet. in Cl.). Che se poi non ve-nisse nominato Claudio, in tal caso si troverà nella citazioneClaud. ch'è l'ordinaria abbreviatura di Claudio. La medesima ab-breviatura particolare verrà usata nel ripetere una citazione postanella stessa pagina, o poco innanzi.

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significherà mai Vita, ma Vitæ, o Vitis, ec. così Ner. non signifi-cherà Nero, ma Nerone, o Neronis, ec.

IV. Tutte le volte che nel testo sarà accennato un qualche nomeproprio, o un qualche titolo di opera, e che questo nome, o titoloverrà ripetuto nella immediata citazione, allora si troveràun'abbreviatura particolare, vale a dire più ristretta del solito. Peresempio se verrà nominato Claudio, e che ivi si citi Svetonio inClaudio, la citazione sarà questa (Svet. in Cl.). Che se poi non ve-nisse nominato Claudio, in tal caso si troverà nella citazioneClaud. ch'è l'ordinaria abbreviatura di Claudio. La medesima ab-breviatura particolare verrà usata nel ripetere una citazione postanella stessa pagina, o poco innanzi.

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METODO PER LE SPIEGAZIONI

I. Nella spiegazione di queste abbreviature viene spesso fatto usodel singolare italiano, benchè esse abbreviature servano talvoltaancora per alcuni nomi latini, o francesi, e di varie declinazioni,come per esempio l'abbreviatura Bibl. spiegata per Biblioteca, laquale può significare ugualmente Bibliotheca, Bibliothecæ, Bi-bliothèque, ec., e ciò non per altro che per rendere, più facilel'intelligenza dei nomi, ed evitare ancora possibilmente una lunga,serie di nomenclature e di declinazioni.

II. Allorchè la citazione sia puramente latina, o francese, e nonmai, o di rado, venga usata in italiano, si troverà in questa Tavolala spiegazione latina, o francese corrispondente in nominativosingolare, e non in altri numeri e casi; e ciò per l'oggetto, spiegatodi sopra, di evitar le declinazioni, mentre viene supposta semprebastante capacità nel leggitore per rilevare a qual numero ed aqual caso appartenga il nome dall'abbreviatura indicato. Tanto piùche nelle citazioni si troverà bene spesso qualche nome antece-dente che indicherà il numero e il caso del nome abbreviato.Come per esempio nella citazione (in Vita Alex.); Alex., ch'èl'abbreviatura di Alexander, non può stare pel nome antecedenteche in genitivo singolare, vale a dire Alexandri, e con ciò vienebastantemente indicato il numero e il caso.

III. Se una citazione però sia sempre, o quasi sempre, usata in no-minativo plurale, o ne' casi obbliqui singolari, o plurali, allora laspiegazione dell'abbreviatura corrisponderà al numero e al casovoluto dalla detta citazione.

IV. Le abbreviature dei superlativi dottiss. dottissimo, eruditiss.eruditissimo, ec. quelle che si completano colla terminazione ius,ium, o io, come Plin, Plinius, o Plinio, elog. elogium, o elogio,ec. sono state omesso in questa Tavola, perchè, essendo abbastan-za chiare, ne sarebbe stata superflua la spiegazione.

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METODO PER LE SPIEGAZIONI

I. Nella spiegazione di queste abbreviature viene spesso fatto usodel singolare italiano, benchè esse abbreviature servano talvoltaancora per alcuni nomi latini, o francesi, e di varie declinazioni,come per esempio l'abbreviatura Bibl. spiegata per Biblioteca, laquale può significare ugualmente Bibliotheca, Bibliothecæ, Bi-bliothèque, ec., e ciò non per altro che per rendere, più facilel'intelligenza dei nomi, ed evitare ancora possibilmente una lunga,serie di nomenclature e di declinazioni.

II. Allorchè la citazione sia puramente latina, o francese, e nonmai, o di rado, venga usata in italiano, si troverà in questa Tavolala spiegazione latina, o francese corrispondente in nominativosingolare, e non in altri numeri e casi; e ciò per l'oggetto, spiegatodi sopra, di evitar le declinazioni, mentre viene supposta semprebastante capacità nel leggitore per rilevare a qual numero ed aqual caso appartenga il nome dall'abbreviatura indicato. Tanto piùche nelle citazioni si troverà bene spesso qualche nome antece-dente che indicherà il numero e il caso del nome abbreviato.Come per esempio nella citazione (in Vita Alex.); Alex., ch'èl'abbreviatura di Alexander, non può stare pel nome antecedenteche in genitivo singolare, vale a dire Alexandri, e con ciò vienebastantemente indicato il numero e il caso.

III. Se una citazione però sia sempre, o quasi sempre, usata in no-minativo plurale, o ne' casi obbliqui singolari, o plurali, allora laspiegazione dell'abbreviatura corrisponderà al numero e al casovoluto dalla detta citazione.

IV. Le abbreviature dei superlativi dottiss. dottissimo, eruditiss.eruditissimo, ec. quelle che si completano colla terminazione ius,ium, o io, come Plin, Plinius, o Plinio, elog. elogium, o elogio,ec. sono state omesso in questa Tavola, perchè, essendo abbastan-za chiare, ne sarebbe stata superflua la spiegazione.

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Per la stessa ragione sono state omesse le abbreviature particolariindicate di sopra al numero IV, le altre dei plurali distinti con dop-pie consonanti indicate nel primo numero II, e quelle pure sonostate omesse che hanno una qualche lettera di più, la quale perònon alteri punto il significato, come per esempio l'abbreviaturaHeinecc. che corrisponde perfettamente all'abbreviatura Hein.Heineccius, che già in questa Tavola si trova.

A

ab. ate

Abr. aamo

Abr. égé

Acad. émie

Accad. emia

Aclian. us

act. us

adv. ersus

Advers. aria

Aen. eis

aet. atis

Ag. ostino

ag. osto

agost. iniano

Ald. us

ald. ina

Aless. andro

Alex. ander

Ambr. osius

Amm. iano

Amoen. itates

Amst. erdam

Amstel. odamum

an. no

anc. ienne

Anecd. ota

Ann. ali

annot. ationes

Ant. onio

Antich. itàantiq. uitates

antiq. uus

Anton. ino

Antuerp. iae

ap. ud

apocr. ifoApol. ogia

apol. ogo

apolog. etico

apost. olo

apostol. ico

App. endice

Apr. ileaquil. ejensis

archit. etto

Architett. ura

arcivesc. ovo

art. icolo

astron. omia

att. icae

Auct. orum

Aug. usto

aug. ustus

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Per la stessa ragione sono state omesse le abbreviature particolariindicate di sopra al numero IV, le altre dei plurali distinti con dop-pie consonanti indicate nel primo numero II, e quelle pure sonostate omesse che hanno una qualche lettera di più, la quale perònon alteri punto il significato, come per esempio l'abbreviaturaHeinecc. che corrisponde perfettamente all'abbreviatura Hein.Heineccius, che già in questa Tavola si trova.

A

ab. ate

Abr. aamo

Abr. égé

Acad. émie

Accad. emia

Aclian. us

act. us

adv. ersus

Advers. aria

Aen. eis

aet. atis

Ag. ostino

ag. osto

agost. iniano

Ald. us

ald. ina

Aless. andro

Alex. ander

Ambr. osius

Amm. iano

Amoen. itates

Amst. erdam

Amstel. odamum

an. no

anc. ienne

Anecd. ota

Ann. ali

annot. ationes

Ant. onio

Antich. itàantiq. uitates

antiq. uus

Anton. ino

Antuerp. iae

ap. ud

apocr. ifoApol. ogia

apol. ogo

apolog. etico

apost. olo

apostol. ico

App. endice

Apr. ileaquil. ejensis

archit. etto

Architett. ura

arcivesc. ovo

art. icolo

astron. omia

att. icae

Auct. orum

Aug. usto

aug. ustus

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August. inus

Aur. elio

Aurel. iano

Aut. eurs

avv. ocato

B

Barnab. itaBasil. eae

bass. anese

Bat. avorum

bell. um

Bened. ictus

bened. ettino

Bernard. ino

bib. lioteca

Bibliogr. afia

bibliot. ecario

brev. itate

Brix. iabrix. iensis

Bruck. erus

Burd. igala

Burmann. us

C

C. aio

c. apo

c. itato

Caes. ar

caes. area

Caesar. ibus

calc. em

Calig. ola

Camm. illocan. onico

Capit. olino

Carac. alla

card. inale

carm. en

Carm. ina

Carmel. itano

cat. alogo

caus. iscav. aliere

cel. ebre

clem. entia

Cels. us

cenot. aphia

cent. uria

ch. iarissimo

Ch. ristus

chier. ico

chois. ieChorogr. aphia

Chron. icon

chronol. ogicus

Cic. erone

cit. ato

civ. itate

clar. isClem. ente

co. nte

Cod. ex

col. onna

collaz. ione

collectan. ea

Colon. iae

comin. iana

Comm. entario

commed. ia

77

August. inus

Aur. elio

Aurel. iano

Aut. eurs

avv. ocato

B

Barnab. itaBasil. eae

bass. anese

Bat. avorum

bell. um

Bened. ictus

bened. ettino

Bernard. ino

bib. lioteca

Bibliogr. afia

bibliot. ecario

brev. itate

Brix. iabrix. iensis

Bruck. erus

Burd. igala

Burmann. us

C

C. aio

c. apo

c. itato

Caes. ar

caes. area

Caesar. ibus

calc. em

Calig. ola

Camm. illocan. onico

Capit. olino

Carac. alla

card. inale

carm. en

Carm. ina

Carmel. itano

cat. alogo

caus. iscav. aliere

cel. ebre

clem. entia

Cels. us

cenot. aphia

cent. uria

ch. iarissimo

Ch. ristus

chier. ico

chois. ieChorogr. aphia

Chron. icon

chronol. ogicus

Cic. erone

cit. ato

civ. itate

clar. isClem. ente

co. nte

Cod. ex

col. onna

collaz. ione

collectan. ea

Colon. iae

comin. iana

Comm. entario

commed. ia

77

comp. agnia

Conc. ilioConf. essiones

cons. ole

consigl. iere

consol. atione

consul. atum

Contin. uazione

controv. ersia

Corn. elio

corr. uptae

Corsin. us

Costant. ino

cremon. ese

crist. iana

Cristof. oro

crit. ica

Cyneg. etica

cyprian. ica

D

d. ecadem

d. on

Dalmat. ia

Dan. iello

dec. as

Decretal. ium

Delph. ini

Demosth. enis

Des. iderio

descr. iptione

diac. ono

Diadum. eno

dial. ogo

dic. embre

dict. ioDict. ionnaire

differ. entia

Dig. estum

Dion. igio

Diptych. orum

discipl. ina

Disquis. itiones

diss. ertazione

div. inus

doctr. ina

domenic. ano

Domit. ianus

dott. ore

E

e. ccellenza

Eccl. esia

eccl. esiastico

ecl. oga

Eclect. isme

ed. izione

ed. ition

edit. ore

Eginhard. us

egl. ogue

ejusd. em

el. egia

Elect. orum

Eloq. uenza

elzev. iriana

Elzev. irius

Emper. eurs

Encycl. opédie

ep. istola

Epict. etus

78

comp. agnia

Conc. ilioConf. essiones

cons. ole

consigl. iere

consol. atione

consul. atum

Contin. uazione

controv. ersia

Corn. elio

corr. uptae

Corsin. us

Costant. ino

cremon. ese

crist. iana

Cristof. oro

crit. ica

Cyneg. etica

cyprian. ica

D

d. ecadem

d. on

Dalmat. ia

Dan. iello

dec. as

Decretal. ium

Delph. ini

Demosth. enis

Des. iderio

descr. iptione

diac. ono

Diadum. eno

dial. ogo

dic. embre

dict. ioDict. ionnaire

differ. entia

Dig. estum

Dion. igio

Diptych. orum

discipl. ina

Disquis. itiones

diss. ertazione

div. inus

doctr. ina

domenic. ano

Domit. ianus

dott. ore

E

e. ccellenza

Eccl. esia

eccl. esiastico

ecl. oga

Eclect. isme

ed. izione

ed. ition

edit. ore

Eginhard. us

egl. ogue

ejusd. em

el. egia

Elect. orum

Eloq. uenza

elzev. iriana

Elzev. irius

Emper. eurs

Encycl. opédie

ep. istola

Epict. etus

78

epigr. amma

Epigramm. ata

Epist. olae

erud. itoesempl. are

Eum. enius

eumd. em

Eust. achio

evang. elico

F

f. rafab. ula

Fabr. icio

Fast. isfav. ola

febbr. aio

febr. uarius

Feder. ico

Fel. ice

fig. ura

Filos. ofia

filos. ofo

fin. em

Flor. entiae

foemin. arum

form. ula

fragm. entum

Franc. esco

franc. ese

Francof. urti

Frider. icus

froben. iana

Front. inus

G

Galen. us

Gen. evae

gener. ale

genn. aio

Geogr. afia

geogr. afo

Georg. ica

Giamm. aria

Giorn. ale

Giov. ane

Giov. anni

giug. no

giurec. onsulto

Gius. eppe

Gloss. arium

Gordian. us

goth. ico

gr. eco

Gram. atica

gram. atico

Gramm. atica

gramm. aticus

Grisost. omo

Gron. ovio

Gugl. ielmo

gymn. asium

H

h. unc

h. unc l. ocum

Hadr. ianus

Hein. eccius

Heliog. abalus

Henr. icus

Hieron. ymus

hisp. ana

79

epigr. amma

Epigramm. ata

Epist. olae

erud. itoesempl. are

Eum. enius

eumd. em

Eust. achio

evang. elico

F

f. rafab. ula

Fabr. icio

Fast. isfav. ola

febbr. aio

febr. uarius

Feder. ico

Fel. ice

fig. ura

Filos. ofia

filos. ofo

fin. em

Flor. entiae

foemin. arum

form. ula

fragm. entum

Franc. esco

franc. ese

Francof. urti

Frider. icus

froben. iana

Front. inus

G

Galen. us

Gen. evae

gener. ale

genn. aio

Geogr. afia

geogr. afo

Georg. ica

Giamm. aria

Giorn. ale

Giov. ane

Giov. anni

giug. no

giurec. onsulto

Gius. eppe

Gloss. arium

Gordian. us

goth. ico

gr. eco

Gram. atica

gram. atico

Gramm. atica

gramm. aticus

Grisost. omo

Gron. ovio

Gugl. ielmo

gymn. asium

H

h. unc

h. unc l. ocum

Hadr. ianus

Hein. eccius

Heliog. abalus

Henr. icus

Hieron. ymus

hisp. ana

79

Hist. oria

hist. oricus

Histor. icis

hom. elia

Hor. atius

Hort. orum

Hug. onis

hymn. us

I

Iac. obi

ib. idem

id. em

ill. ustre

illustr. ato

imp. eradore

imprim. és

ind. ice

ined. itoinf. imae

inscr. iptiones

instit. utiones

Insubr. ia

interpr. etatione

introd. uzione

Io. annis

Ios. ephus

Is. aaco

Ital. iaital. iano

Itin. erarium

Iur. isJ. esus

Jiug. ement

Journ. al

Jud. aicus

jul. ius

jun. ior

jurisprud. entia

Justin. ianus

juven. ilium

L

l. ibro

l. oco

L. ucio

Lampr. idius

Lang. obardorum

lat. ino

latin. itatis

laurent. iana

Leon. islett. era

letter. ato

lettr. es

Lex. icon

ling. uae

Lips. ialips. ieusis

litter. atura

littér. aire

Littérat. ure

loc. um

Lond. ini

luc. ensis

Lucian. us

Lud. ovicus

lug. liolugd. unensis

Lugd. unum

80

Hist. oria

hist. oricus

Histor. icis

hom. elia

Hor. atius

Hort. orum

Hug. onis

hymn. us

I

Iac. obi

ib. idem

id. em

ill. ustre

illustr. ato

imp. eradore

imprim. és

ind. ice

ined. itoinf. imae

inscr. iptiones

instit. utiones

Insubr. ia

interpr. etatione

introd. uzione

Io. annis

Ios. ephus

Is. aaco

Ital. iaital. iano

Itin. erarium

Iur. isJ. esus

Jiug. ement

Journ. al

Jud. aicus

jul. ius

jun. ior

jurisprud. entia

Justin. ianus

juven. ilium

L

l. ibro

l. oco

L. ucio

Lampr. idius

Lang. obardorum

lat. ino

latin. itatis

laurent. iana

Leon. islett. era

letter. ato

lettr. es

Lex. icon

ling. uae

Lips. ialips. ieusis

litter. atura

littér. aire

Littérat. ure

loc. um

Lond. ini

luc. ensis

Lucian. us

Lud. ovicus

lug. liolugd. unensis

Lugd. unum

80

M

M. arco

m. onsieur

m. ano

m. aestro

Mabill. on

Macedon. ium

Marc. us

Marcell. ino

march. ese

marit. imae

Marm. ora

Mart. ial

Martyrol. ogium

Massimil. iano

Matem. atica

matem. atico

mathem. atiques

Mathes. isMatth. aei

maur. iniana

Max. imo

Mazzucch. elli

med. ico

Médec. ine

medic. ina

medicam. enti

mediol. anensis

mediol. anum

Mél. anges

mem. oria

mém. oire

mess. er

meth. odus

metr. um

Mich. ele

Mil. ano

mil. ord

milan. ese

Mirac. ulis

miscell. anea

mod. erno

Mogunt. iae

Monach. orum

Monast. ero

monast. icis

Mongit. ore

Monum. enta

mort. ibus

Murat. ori

music. ale

N

N. ovus

n. umero

nat. ali

natur. ale

Nemes. iani

Ner. one

Nic. olaus

Nicc. olò

Noct. es

not. isnotat. iones

Notiz. ienov. embre

Numer. iano

Numism. atica

O

oct. ober

81

M

M. arco

m. onsieur

m. ano

m. aestro

Mabill. on

Macedon. ium

Marc. us

Marcell. ino

march. ese

marit. imae

Marm. ora

Mart. ial

Martyrol. ogium

Massimil. iano

Matem. atica

matem. atico

mathem. atiques

Mathes. isMatth. aei

maur. iniana

Max. imo

Mazzucch. elli

med. ico

Médec. ine

medic. ina

medicam. enti

mediol. anensis

mediol. anum

Mél. anges

mem. oria

mém. oire

mess. er

meth. odus

metr. um

Mich. ele

Mil. ano

mil. ord

milan. ese

Mirac. ulis

miscell. anea

mod. erno

Mogunt. iae

Monach. orum

Monast. ero

monast. icis

Mongit. ore

Monum. enta

mort. ibus

Murat. ori

music. ale

N

N. ovus

n. umero

nat. ali

natur. ale

Nemes. iani

Ner. one

Nic. olaus

Nicc. olò

Noct. es

not. isnotat. iones

Notiz. ienov. embre

Numer. iano

Numism. atica

O

oct. ober

81

Octav. ius

OEuvr. es

Offic. iisoffic. ina

olimp. iade

olymp. ias

Onom. astico

Op. era

opusc. olo

or. atio

orat. ore

Orator. iaOrd. ine

orient. ale

orig. ine

Origin. es

ostiens. isott. obre

Ouvr. ages

P

p. adre

p. agina

p. adre m. aestro

Pad. ova

Paleogr. aphia

Pan. egirico

Paneg. yrici

Pann. artz

par. teparis. ienne

Paris. iispart. iePasch. alis

patav. ina

patr. iae

Paus. ania

persec. utorum

Pertin. ace

Petr. us

Phars. alia

phil. ologia

Philos. ophia

philos. ophus

philosoph. icus

Philostr. atus

pisaur. ensia

plantin. iana

plin. ianae

Poes. iaPoet. ica

Poèt. ique

Poetar. um

Poetic. es

Poll. ione

Polycr. aticus

Polyhist. or

Pomp. eo

pontef. ice

Pontif. icum

Porph. irius

posth. uma

praef. atio

Praepar. atio

praescr. iptiones

Pragm. atica

predicat. ore

pref. azione

prèf. ace

procons. ole

82

Octav. ius

OEuvr. es

Offic. iisoffic. ina

olimp. iade

olymp. ias

Onom. astico

Op. era

opusc. olo

or. atio

orat. ore

Orator. iaOrd. ine

orient. ale

orig. ine

Origin. es

ostiens. isott. obre

Ouvr. ages

P

p. adre

p. agina

p. adre m. aestro

Pad. ova

Paleogr. aphia

Pan. egirico

Paneg. yrici

Pann. artz

par. teparis. ienne

Paris. iispart. iePasch. alis

patav. ina

patr. iae

Paus. ania

persec. utorum

Pertin. ace

Petr. us

Phars. alia

phil. ologia

Philos. ophia

philos. ophus

philosoph. icus

Philostr. atus

pisaur. ensia

plantin. iana

plin. ianae

Poes. iaPoet. ica

Poèt. ique

Poetar. um

Poetic. es

Poll. ione

Polycr. aticus

Polyhist. or

Pomp. eo

pontef. ice

Pontif. icum

Porph. irius

posth. uma

praef. atio

Praepar. atio

praescr. iptiones

Pragm. atica

predicat. ore

pref. azione

prèf. ace

procons. ole

82

prof. essore

prol. ogo

prolegom. enon

prooem. ium

prop. osto

prophan. arum

propr. iispsal. mo

Pseudonym. orum

Q

Q. uinto

Quaest. iones

quest. ione

Quintil. iano

R

r. egale

Racc. olta

racc. olto

rag. ionamento

ravenn. ati

reb. us

recens. ione

Reflex. ion

reg. iaReg. ola

regol. are

relig. ione

rem. arque

Rep. ubblica

rer. um

Resp. ublica

restaur. andis

ret. ore

rethor. ibus

Retract. ationes

Rhéth. orique

Rich. ardus

Rivol. uzioni

Rob. erto

rom. ani

Rover. edo

rust. ica

S

s. critto

s. anto

s. ua

S. ocietatis

Saec. ulum

Sag. gio

Salv. atore

Sam. uelis

Samon. icus

sat. iraSaturn. alia

Satyr. icon

Sav. ans

sc. ena

scrip. tores

Scritt. ori

Sebast. iano

sec. olo

segr. etario

Sen. eca

senect. ute

sept. ember

Ser. enus

Sev. ero

sic. ula

Sicil. ia

83

prof. essore

prol. ogo

prolegom. enon

prooem. ium

prop. osto

prophan. arum

propr. iispsal. mo

Pseudonym. orum

Q

Q. uinto

Quaest. iones

quest. ione

Quintil. iano

R

r. egale

Racc. olta

racc. olto

rag. ionamento

ravenn. ati

reb. us

recens. ione

Reflex. ion

reg. iaReg. ola

regol. are

relig. ione

rem. arque

Rep. ubblica

rer. um

Resp. ublica

restaur. andis

ret. ore

rethor. ibus

Retract. ationes

Rhéth. orique

Rich. ardus

Rivol. uzioni

Rob. erto

rom. ani

Rover. edo

rust. ica

S

s. critto

s. anto

s. ua

S. ocietatis

Saec. ulum

Sag. gio

Salv. atore

Sam. uelis

Samon. icus

sat. iraSaturn. alia

Satyr. icon

Sav. ans

sc. ena

scrip. tores

Scritt. ori

Sebast. iano

sec. olo

segr. etario

Sen. eca

senect. ute

sept. ember

Ser. enus

Sev. ero

sic. ula

Sicil. ia

83

sicil. iano

Sigeb. ertus

Sigism. undus

sign. ore

sil. va

Silv. arum

Sim. eon

sing. ularis

Singular. ites

Soc. ietà

Solin. us

Soph. istes

spagn. uolo

Spart. ianus

Spicil. egium

Steph. ani

stoic. am

Stor. iastor. ico

stud. iisSuas. oria

sup. rasuppl. emento

Svet. onio

Sweyh. neim

Symm. achus

T

t. omo

T. itotab. ula

Tabl. eau

Tac. itotaur. inensia

Taurin. orum

temp. orum

Test. amentum

Th. omae

theod. osianus

Theod. osius

Theol. ogia

theol. ogicus

Thes. aurus

Tib. erio

Tillem. ont

Timalc. ione

tit. olo

Tomm. aso

trad. otto

traduct. ion

trag. ico

traged. iaTrajan. us

Traject. um

Tranq. uillitate

tripart. itaTyp. ographia

V

V. edi

v. erso

Valtell. ina

var. iorum

vatic. ana

ven. eta

Udalr. icus

Ven. ezia

Ver. ona

ver. onese

vesc. ovo

Vesp. asiano

84

sicil. iano

Sigeb. ertus

Sigism. undus

sign. ore

sil. va

Silv. arum

Sim. eon

sing. ularis

Singular. ites

Soc. ietà

Solin. us

Soph. istes

spagn. uolo

Spart. ianus

Spicil. egium

Steph. ani

stoic. am

Stor. iastor. ico

stud. iisSuas. oria

sup. rasuppl. emento

Svet. onio

Sweyh. neim

Symm. achus

T

t. omo

T. itotab. ula

Tabl. eau

Tac. itotaur. inensia

Taurin. orum

temp. orum

Test. amentum

Th. omae

theod. osianus

Theod. osius

Theol. ogia

theol. ogicus

Thes. aurus

Tib. erio

Tillem. ont

Timalc. ione

tit. olo

Tomm. aso

trad. otto

traduct. ion

trag. ico

traged. iaTrajan. us

Traject. um

Tranq. uillitate

tripart. itaTyp. ographia

V

V. edi

v. erso

Valtell. ina

var. iorum

vatic. ana

ven. eta

Udalr. icus

Ven. ezia

Ver. ona

ver. onese

vesc. ovo

Vesp. asiano

84

vet. us

Vict. or

Vinc. enzo

Vinck. elmann

Vind. obonae

Vir. isVirg. ilius

Vit. ae

ult. imo

univ. ersale

Univ. ersità

voc. em

vol. ume

volg. are

Uom. ini

Vop. isco

voss. iana

urb. isurban. us

Vulcat. ius

85

vet. us

Vict. or

Vinc. enzo

Vinck. elmann

Vind. obonae

Vir. isVirg. ilius

Vit. ae

ult. imo

univ. ersale

Univ. ersità

voc. em

vol. ume

volg. are

Uom. ini

Vop. isco

voss. iana

urb. isurban. us

Vulcat. ius

85

INDICE, E SOMMARIODEL TOMO I. PARTE I.

Letteratura degli Etruschi.

I. Oscurità ed incertezza della storia de' primi abitatorid'Italia. II. I più celebri tra essi sono gli Etruschi. III. Fa-tiche di molti dotti per illustrarne la storia e le antichità.IV. In essa però molti punti non son rischiarati. V. È cer-to ch'essi coltivaron le scienze, VI. Ma non è certo chele apprendessero dagli Egiziani. VII Prova del fiore incui erano le scienze presso gli Etruschi, tratta dalla loroeccellenza nelle arti liberali. VIII. Quanto anticamentecominciassero a conoscerle. IX. Quando cominciasse lapittura fra' Greci, X. Prima di loro la conobbero gli Etru-schi. XI. E prima di tutti gli altri popoli d'Europa. XII.Riflessioni sull'iscrizione delle pitture del tempio di Ar-dea riferita da Plinio. XIII. Eccellenza delle pitture etru-sche. XIV. Scultura esercitata dagli Etruschi , XV. Lorovasi, urne, lampadi, ec. XVI. Loro architettura. XVII.Ordine toscano da essi introdotto, forse il più antico ditutti. XVIII. Altre prove delle scienze coltivate dagliEtruschi. XIX. Contesa tra 'l Bruckero e 'l Lampredi in-torno alla filosofia degli Etruschi. XX. In essa si scorgequalche analogia con quella di Mosè. XXI. In mezzoalle loro superstizioni si vede qualche barlume di buonafisica. XXII. Gli Etruschi coltivano la medicina e l'ana-tomia. XXIII. Se coltivassero la botanica. XXIV. Loro

86

INDICE, E SOMMARIODEL TOMO I. PARTE I.

Letteratura degli Etruschi.

I. Oscurità ed incertezza della storia de' primi abitatorid'Italia. II. I più celebri tra essi sono gli Etruschi. III. Fa-tiche di molti dotti per illustrarne la storia e le antichità.IV. In essa però molti punti non son rischiarati. V. È cer-to ch'essi coltivaron le scienze, VI. Ma non è certo chele apprendessero dagli Egiziani. VII Prova del fiore incui erano le scienze presso gli Etruschi, tratta dalla loroeccellenza nelle arti liberali. VIII. Quanto anticamentecominciassero a conoscerle. IX. Quando cominciasse lapittura fra' Greci, X. Prima di loro la conobbero gli Etru-schi. XI. E prima di tutti gli altri popoli d'Europa. XII.Riflessioni sull'iscrizione delle pitture del tempio di Ar-dea riferita da Plinio. XIII. Eccellenza delle pitture etru-sche. XIV. Scultura esercitata dagli Etruschi , XV. Lorovasi, urne, lampadi, ec. XVI. Loro architettura. XVII.Ordine toscano da essi introdotto, forse il più antico ditutti. XVIII. Altre prove delle scienze coltivate dagliEtruschi. XIX. Contesa tra 'l Bruckero e 'l Lampredi in-torno alla filosofia degli Etruschi. XX. In essa si scorgequalche analogia con quella di Mosè. XXI. In mezzoalle loro superstizioni si vede qualche barlume di buonafisica. XXII. Gli Etruschi coltivano la medicina e l'ana-tomia. XXIII. Se coltivassero la botanica. XXIV. Loro

86

invenzioni. XXV. Ebbero qualche sorta di poesia.XXVI. Opere de' loro scrittori perdute.. XXVII. I pregiletterarj degli Etruschi troppo esagerati da alcuni. XX-VIII. Senza bastevole fondamento Pittagora si dice daalcuni etrusco. XXIX. Confutazione de' loro argomenti.XXX. È probabile che Omero sia stato qualche temponell'Etruria. XXXI. La lingua, degli Etruschi non è an-cora ben conosciuta. XXXII. Decadenze e rovina dellaloro nazione.

PARTE SECONDA.

Letteratura degli abitatori della Magna Grecia e de' Si-ciliani antichi.

CAPO I.

Filosofia, Matematica, Leggi.

I. Setta pitagorica formata in Italia. II. Contesa intornoad essa tra 'l Bruckero e il p. Gerdil. III. Epoche dellavita di Pittagora e suoi principj. IV. Eccellenza e famadella sua setta. V. Opinioni di essa intorno alla filosofiain generale. VI. Scoperte astronomiche e matematichein essa fatte. VII. Tra esse vedesi anche adombrato il si-stema copernicano. VIII. Fama in cui era questa scuola.IX. Discepoli più illustri di Pittagora. X. Anche Platonesi fa discepolo de' Pittagorici. XI. Decadenza di quellasetta. XII. Setta eleatica nata nella Magna Grecia. XIII.

87

invenzioni. XXV. Ebbero qualche sorta di poesia.XXVI. Opere de' loro scrittori perdute.. XXVII. I pregiletterarj degli Etruschi troppo esagerati da alcuni. XX-VIII. Senza bastevole fondamento Pittagora si dice daalcuni etrusco. XXIX. Confutazione de' loro argomenti.XXX. È probabile che Omero sia stato qualche temponell'Etruria. XXXI. La lingua, degli Etruschi non è an-cora ben conosciuta. XXXII. Decadenze e rovina dellaloro nazione.

PARTE SECONDA.

Letteratura degli abitatori della Magna Grecia e de' Si-ciliani antichi.

CAPO I.

Filosofia, Matematica, Leggi.

I. Setta pitagorica formata in Italia. II. Contesa intornoad essa tra 'l Bruckero e il p. Gerdil. III. Epoche dellavita di Pittagora e suoi principj. IV. Eccellenza e famadella sua setta. V. Opinioni di essa intorno alla filosofiain generale. VI. Scoperte astronomiche e matematichein essa fatte. VII. Tra esse vedesi anche adombrato il si-stema copernicano. VIII. Fama in cui era questa scuola.IX. Discepoli più illustri di Pittagora. X. Anche Platonesi fa discepolo de' Pittagorici. XI. Decadenza di quellasetta. XII. Setta eleatica nata nella Magna Grecia. XIII.

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Opinioni singolari di Dicearco. XIV. La medicina colti-vata nella Magna Grecia. XV. Matematici ivi illustri eprimieramente Archita. XVI. Fama di Archimede, escrittori che ne hanno illustrata la Vita. XVII. Epochedella sua vita, e sue prime scoperte. XVIII. Altre scoper-te del medesimo. XIX. Quanto a lui debba la meccanicae l'idrostatica. XX. Sue invenzioni ingegnose. XXI.Nave sterminata colle sue macchine gittata in mare.XXII. Risposta alle difficoltà contro un tal fatto. XXIII.Invenzione della sfera artificiale. XXIV. Macchine dalui trovate per difendere Siracusa. XXV. Se egli incen-diasse co' suoi specchi ustorj le navi romane. XXVI.Ancorché cotali specchi sian possibili, il fatto non è pro-babile. XXVII. Nè è abbastanza provato. XXVIII. Mor-te di Archimede. XXIX. Legislatori della Magma Gre-cia, e prima Zalonco. XXX. Caronda. XXXI, Diocle edaltri.

CAPO II.

Poesia , Eloquenza, Storia, ed Arti Liberali.

I. La Sicilia singolarmente fu abbondantissima di poeti. II. Adessa deesi l'origine della pastoral poesia. III. Chi ne fosse il primoinventore. IV. Notizie di Stesicoro e delle sue poesie. V. Frequen-te menzione che di esse si fa nelle lettere attribuite a Falaride. VI.Contesa tra gli eruditi sulle lettere stesse. VII. Si prova che essesono supposte. VIII. Notizie di Teocrito. IX. E di Mosco. X. SeBione ancora fosse siciliano. XI. Poemi di cose fisiche e naturali.

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Opinioni singolari di Dicearco. XIV. La medicina colti-vata nella Magna Grecia. XV. Matematici ivi illustri eprimieramente Archita. XVI. Fama di Archimede, escrittori che ne hanno illustrata la Vita. XVII. Epochedella sua vita, e sue prime scoperte. XVIII. Altre scoper-te del medesimo. XIX. Quanto a lui debba la meccanicae l'idrostatica. XX. Sue invenzioni ingegnose. XXI.Nave sterminata colle sue macchine gittata in mare.XXII. Risposta alle difficoltà contro un tal fatto. XXIII.Invenzione della sfera artificiale. XXIV. Macchine dalui trovate per difendere Siracusa. XXV. Se egli incen-diasse co' suoi specchi ustorj le navi romane. XXVI.Ancorché cotali specchi sian possibili, il fatto non è pro-babile. XXVII. Nè è abbastanza provato. XXVIII. Mor-te di Archimede. XXIX. Legislatori della Magma Gre-cia, e prima Zalonco. XXX. Caronda. XXXI, Diocle edaltri.

CAPO II.

Poesia , Eloquenza, Storia, ed Arti Liberali.

I. La Sicilia singolarmente fu abbondantissima di poeti. II. Adessa deesi l'origine della pastoral poesia. III. Chi ne fosse il primoinventore. IV. Notizie di Stesicoro e delle sue poesie. V. Frequen-te menzione che di esse si fa nelle lettere attribuite a Falaride. VI.Contesa tra gli eruditi sulle lettere stesse. VII. Si prova che essesono supposte. VIII. Notizie di Teocrito. IX. E di Mosco. X. SeBione ancora fosse siciliano. XI. Poemi di cose fisiche e naturali.

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XII. Poesie teatrali. XIII. Epicarmo primo scrittor di commedie.XIV. Origine de' mimi, XV. L'eloquenza da' Siciliani ridotta adarte. XVI. Corace e Tisia ne sono i primi maestri. XVII. Notiziedel retore Lisia. XVIII. E di Gorgia leontino. XIX. Elogi che nefanno gli antichi scrittori. XX. Onori da lui ottenuti. XXI. Perqual motivo Platone sembri parlarne con biasimo. XXII. Suamorte, e sue opere, XXIII. L'eloquenza decade presto in Sicilia, eper qual ragione. XXIV. Storici antichi della Sicilia. XXV. Noti-zie di Diodoro. XXVI. Evemero siciliano forse il primo scrittoredi mitologia, XXVI. Arti liberali coltivate da' Siciliani. XXVIII.Medaglie coniate in Sicilia. XXIX. Opere magnifiche di architet-tura. XXX. Descrizione del tempio di Giove Olimpico in Agri-gento e di altri edificj. XXXI. Celebri scultori in Sicilia e nellaMagna Grecia. XXXII. Celebri pittori, XXXIII. Che cosa si possacreder di Dedalo. XXXIV. Per qual ragione fiorisser tanto fra que'popoli le arti. XXXV. Se Falaride ne fosse splendido protettore.XXXVI. Questa lode si dee a Gerone primo re di Siracusa. XXX-VII. Condotta tenuta da' due tiranni Dionigi riguardo alle scienzee alle arti. XXXVIII. Fin quando durasse in quelle provincie lalingua greca.

PARTE III.

Letteratura de' Romani dalla fondazione di Roma fino alla mortedi Augusto.

LIBRO PRIMO.

Letteratura de' Romani dalla fondazione di Roma fino al terminedella prima guerra cartaginese.

I. Esame delle ragioni per le quali alcuni negano l'ignoranza degliantichi Romani. II. Tenui indizj che abbiam della loro letteratura,

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XII. Poesie teatrali. XIII. Epicarmo primo scrittor di commedie.XIV. Origine de' mimi, XV. L'eloquenza da' Siciliani ridotta adarte. XVI. Corace e Tisia ne sono i primi maestri. XVII. Notiziedel retore Lisia. XVIII. E di Gorgia leontino. XIX. Elogi che nefanno gli antichi scrittori. XX. Onori da lui ottenuti. XXI. Perqual motivo Platone sembri parlarne con biasimo. XXII. Suamorte, e sue opere, XXIII. L'eloquenza decade presto in Sicilia, eper qual ragione. XXIV. Storici antichi della Sicilia. XXV. Noti-zie di Diodoro. XXVI. Evemero siciliano forse il primo scrittoredi mitologia, XXVI. Arti liberali coltivate da' Siciliani. XXVIII.Medaglie coniate in Sicilia. XXIX. Opere magnifiche di architet-tura. XXX. Descrizione del tempio di Giove Olimpico in Agri-gento e di altri edificj. XXXI. Celebri scultori in Sicilia e nellaMagna Grecia. XXXII. Celebri pittori, XXXIII. Che cosa si possacreder di Dedalo. XXXIV. Per qual ragione fiorisser tanto fra que'popoli le arti. XXXV. Se Falaride ne fosse splendido protettore.XXXVI. Questa lode si dee a Gerone primo re di Siracusa. XXX-VII. Condotta tenuta da' due tiranni Dionigi riguardo alle scienzee alle arti. XXXVIII. Fin quando durasse in quelle provincie lalingua greca.

PARTE III.

Letteratura de' Romani dalla fondazione di Roma fino alla mortedi Augusto.

LIBRO PRIMO.

Letteratura de' Romani dalla fondazione di Roma fino al terminedella prima guerra cartaginese.

I. Esame delle ragioni per le quali alcuni negano l'ignoranza degliantichi Romani. II. Tenui indizj che abbiam della loro letteratura,

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III. Romolo avea loro vietato l'apprendere le scienze. IV. Per qualiragioni non s'introducessero che tardi tra loro. V. Altre ragionidella loro ignoranza. VI. La sola giurisprudenza ebbe qualche col-tivatore. VII. Da' popoli della Grecia Magna ebbero i primi lumidelle scienze.

LIBRO SECONDO.

Letteratura de' Romani dal fine della prima guerra cartaginesefino alla distruzion di Cartagine.

CAPO I

Poesia.

I. Per qual ragione e come la poesia prima delle altre belle artis'introducesse in Roma. II. Teatro introdotto in Roma da LivioAndronico. III. Di qual Grecia ei fosse natio. IV. Sue opere teatra-li ed altre poesie. V. Egli introduce anche in Roma lo studio degliantichi scrittori. VI. Epoche della vita del poeta Nevio. VII. Suecommedie, e vicende per esse sostenute. VIII. Circostanze dellasua prigionia. IX. Sue Opere. X. Notizie de' primi anni di Ennio.XI. Sua vita in Sardegna. XII. Poscia in Roma. XIII. Suoi costu-mi. XIV. Sua morte. XV. Suo stile. XVI. Sue Opere. XVII. Epo-che della vita di Plauto. XVIII. Sue commedie. XIX. Giudizio diesse. XX. Notizie di Cocidio Stazio e di Pacuvio. XXI. Altri poeticomici. XXII. Notizie di Terenzio. XXIII. Sue Commedie. XXIV.Suo viaggio in Grecia e sua morte. XXV. Carattere delle Comme-die di Terenzio. XXVI. Per qual ragione i Romani in questa partenon uguagliassero i Greci. XXVII. Della costruzione del teatroromano.

CAPO II.

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III. Romolo avea loro vietato l'apprendere le scienze. IV. Per qualiragioni non s'introducessero che tardi tra loro. V. Altre ragionidella loro ignoranza. VI. La sola giurisprudenza ebbe qualche col-tivatore. VII. Da' popoli della Grecia Magna ebbero i primi lumidelle scienze.

LIBRO SECONDO.

Letteratura de' Romani dal fine della prima guerra cartaginesefino alla distruzion di Cartagine.

CAPO I

Poesia.

I. Per qual ragione e come la poesia prima delle altre belle artis'introducesse in Roma. II. Teatro introdotto in Roma da LivioAndronico. III. Di qual Grecia ei fosse natio. IV. Sue opere teatra-li ed altre poesie. V. Egli introduce anche in Roma lo studio degliantichi scrittori. VI. Epoche della vita del poeta Nevio. VII. Suecommedie, e vicende per esse sostenute. VIII. Circostanze dellasua prigionia. IX. Sue Opere. X. Notizie de' primi anni di Ennio.XI. Sua vita in Sardegna. XII. Poscia in Roma. XIII. Suoi costu-mi. XIV. Sua morte. XV. Suo stile. XVI. Sue Opere. XVII. Epo-che della vita di Plauto. XVIII. Sue commedie. XIX. Giudizio diesse. XX. Notizie di Cocidio Stazio e di Pacuvio. XXI. Altri poeticomici. XXII. Notizie di Terenzio. XXIII. Sue Commedie. XXIV.Suo viaggio in Grecia e sua morte. XXV. Carattere delle Comme-die di Terenzio. XXVI. Per qual ragione i Romani in questa partenon uguagliassero i Greci. XXVII. Della costruzione del teatroromano.

CAPO II.

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Gramatici, Retori e Filosofi greci in Roma, e studio della Filoso-fia tra' Romani.

I. Quanto tardi s'introducessero in Roma le scuole di gramatica.II. Cratete da Mallo è il primo a tenerla. III. Introduzione dellagreca filosofia in Roma. IV. Con qual occasione ad essa si rivol-gesse il giovane Scipione Africano. V. Elogio di questo celebregenerale. VI. I filosofi e i retori greci son cacciati da Roma, e perqual ragione. VII. Altri filosofi greci mandati in ambasciata aRoma. VIII. A qual anno debbasi essa fissare. IX. Fervore ch'essidestano in Roma per lo studio della filosofia. X. Catone li fa con-gedare da Roma. XI. Non perchè egli non fosse uomo assai colto.XII. Ma per l'odio che portava per diverse ragioni alla greca filo-sofia. XIII. Vi restan nondimeno Polibio e Panezio, e vi fomentanlo studio. XIV. L'astronomia comincia ad essere coltivata inRoma. XV. Amafanio scrive in latino delle cose fisiche.

CAPO III.

Eloquenza, Storia, Giurisprudenza.

I. Nomi e caratteri de' più antichi oratori romani. II. Per qual ra-gione l'eloquenza avesse in Roma molti seguaci. III. La storia nonfu a quei tempi molto felicemente illustrata. IV. Notizie di alcunide' più antichi storici. V. Stato della giurisprudenza romana inquest'epoca. VI. Le arti liberali poco allor conosciute in Roma.

LIBRO III.

Letteratura de' Romani dalla distruzione di Cartagine fino allamorte di Augusto.

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Gramatici, Retori e Filosofi greci in Roma, e studio della Filoso-fia tra' Romani.

I. Quanto tardi s'introducessero in Roma le scuole di gramatica.II. Cratete da Mallo è il primo a tenerla. III. Introduzione dellagreca filosofia in Roma. IV. Con qual occasione ad essa si rivol-gesse il giovane Scipione Africano. V. Elogio di questo celebregenerale. VI. I filosofi e i retori greci son cacciati da Roma, e perqual ragione. VII. Altri filosofi greci mandati in ambasciata aRoma. VIII. A qual anno debbasi essa fissare. IX. Fervore ch'essidestano in Roma per lo studio della filosofia. X. Catone li fa con-gedare da Roma. XI. Non perchè egli non fosse uomo assai colto.XII. Ma per l'odio che portava per diverse ragioni alla greca filo-sofia. XIII. Vi restan nondimeno Polibio e Panezio, e vi fomentanlo studio. XIV. L'astronomia comincia ad essere coltivata inRoma. XV. Amafanio scrive in latino delle cose fisiche.

CAPO III.

Eloquenza, Storia, Giurisprudenza.

I. Nomi e caratteri de' più antichi oratori romani. II. Per qual ra-gione l'eloquenza avesse in Roma molti seguaci. III. La storia nonfu a quei tempi molto felicemente illustrata. IV. Notizie di alcunide' più antichi storici. V. Stato della giurisprudenza romana inquest'epoca. VI. Le arti liberali poco allor conosciute in Roma.

LIBRO III.

Letteratura de' Romani dalla distruzione di Cartagine fino allamorte di Augusto.

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CAPO I.

Poesia.

I. Lucilio primo scrittor di satire. II. Loro stile. III. Notizie di Lu-crezio. IV. Pregi e difetti del suo poema. V. Suo stile, e poemi fattia imitazion di esso. VIII. Giudizio dello stile delle sue poesie. IX.Poesie di Cicerone in qual pregio debbansi avere. X. Notizie diTibullo. XI. Non curasi di ottenere il favore di Augusto. XII. Ca-rattere delle sue poesie. XIII. Nascita e condizione di Orazio.XIV. Sua educazione e suoi studj. XV. Tenore della sua vita, e suamorte. XVI. Sue poesie piriche e loro eccellenza. XVII. Altre sueopere poetiche e loro stile. XVIII. Notizie della vita di Virgilio.XIX. Sua morte, e comando da lui dato di bruciare l'Eneide. XX.Suo carattere. XXI. Elogi esso di fatti, e paragone con Omero.XXII. Edizioni , comenti, ec. XXIII. Notizie e carattere di Proper-zio. XXIV. Poema didascalico di Grazio Falisco. XXV. Di qualpatria frase Cornelio Gallo. XXVI. Notizie della sua vita. XXVII.Sue poesie quanto allora stimate. XXVIII. Più altri poeti di que'tempi medesimi. XXIX. Epoche de' primi anni di Ovidio. XXX.Quando fosse esiliato da Roma. XXXI. Oscurità e incertezza in-torno alle cagioni del suo esilio. XXXII. La prima, ma non la pri-maria furono le poesie oscene da lui composte. XXXIII. Qual fos-se il fallo di Ovidio , per cui principalmente fu esiliato. XXXIV.Esame delle circostanze che Ovidio ne confessa. XXXV. Non fuun delitto commesso con alcuna della famiglia di Augusto. XXX-VI. Non fu l'aver sorpreso Augusto in qualche delitto. XXXVII.Nè l'averlo sorpreso nell'atto che faceva ricerche su' delitti di Giu-lia sua nipote. XXXVIII. Delicatezza di Augusto riguardo ai co-stumi della sua famiglia. XXXIX. Ovidio fu probabilmente esilia-to per essere stato testimonio delle dissolutezze di Giulia nipotedi Augusto. XL. Conferma di questa opinione. XLI. Esame della

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CAPO I.

Poesia.

I. Lucilio primo scrittor di satire. II. Loro stile. III. Notizie di Lu-crezio. IV. Pregi e difetti del suo poema. V. Suo stile, e poemi fattia imitazion di esso. VIII. Giudizio dello stile delle sue poesie. IX.Poesie di Cicerone in qual pregio debbansi avere. X. Notizie diTibullo. XI. Non curasi di ottenere il favore di Augusto. XII. Ca-rattere delle sue poesie. XIII. Nascita e condizione di Orazio.XIV. Sua educazione e suoi studj. XV. Tenore della sua vita, e suamorte. XVI. Sue poesie piriche e loro eccellenza. XVII. Altre sueopere poetiche e loro stile. XVIII. Notizie della vita di Virgilio.XIX. Sua morte, e comando da lui dato di bruciare l'Eneide. XX.Suo carattere. XXI. Elogi esso di fatti, e paragone con Omero.XXII. Edizioni , comenti, ec. XXIII. Notizie e carattere di Proper-zio. XXIV. Poema didascalico di Grazio Falisco. XXV. Di qualpatria frase Cornelio Gallo. XXVI. Notizie della sua vita. XXVII.Sue poesie quanto allora stimate. XXVIII. Più altri poeti di que'tempi medesimi. XXIX. Epoche de' primi anni di Ovidio. XXX.Quando fosse esiliato da Roma. XXXI. Oscurità e incertezza in-torno alle cagioni del suo esilio. XXXII. La prima, ma non la pri-maria furono le poesie oscene da lui composte. XXXIII. Qual fos-se il fallo di Ovidio , per cui principalmente fu esiliato. XXXIV.Esame delle circostanze che Ovidio ne confessa. XXXV. Non fuun delitto commesso con alcuna della famiglia di Augusto. XXX-VI. Non fu l'aver sorpreso Augusto in qualche delitto. XXXVII.Nè l'averlo sorpreso nell'atto che faceva ricerche su' delitti di Giu-lia sua nipote. XXXVIII. Delicatezza di Augusto riguardo ai co-stumi della sua famiglia. XXXIX. Ovidio fu probabilmente esilia-to per essere stato testimonio delle dissolutezze di Giulia nipotedi Augusto. XL. Conferma di questa opinione. XLI. Esame della

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sentenza. di Giovanni Masson. XLII. Durazione dell'esilio d'Ovi-dio, e sua morte. XLIII Carattere del suo stile. XLIV. Sue Opere.XLV. Notizie di Manilio. XLVI. Suo poema astronomico. XLVII.Chi fosse Fedro, e a qual tempo vivesse. XLVIII. Dubbj da alcuniproposti sulla esistenza di Fedro e sull'antichità delle tue Favole.XLIX. Notizie di alcuni pochi scrittori di tragedie di commedie.L. Scrittori di poesie mimiche. LI. Per qual ragione la poesia tea-trale avesse tra' Romani poco felici progressi. LII. E le altre poe-sie al contrario giugnessero a sì gran perfezione. LIII. Augustocoltiva e protegge le lettere. LIV. E così pur Mecenate. LV. Epilo-go di questo Capo.

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sentenza. di Giovanni Masson. XLII. Durazione dell'esilio d'Ovi-dio, e sua morte. XLIII Carattere del suo stile. XLIV. Sue Opere.XLV. Notizie di Manilio. XLVI. Suo poema astronomico. XLVII.Chi fosse Fedro, e a qual tempo vivesse. XLVIII. Dubbj da alcuniproposti sulla esistenza di Fedro e sull'antichità delle tue Favole.XLIX. Notizie di alcuni pochi scrittori di tragedie di commedie.L. Scrittori di poesie mimiche. LI. Per qual ragione la poesia tea-trale avesse tra' Romani poco felici progressi. LII. E le altre poe-sie al contrario giugnessero a sì gran perfezione. LIII. Augustocoltiva e protegge le lettere. LIV. E così pur Mecenate. LV. Epilo-go di questo Capo.

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STORIADELLA

LETTERATURAITALIANA

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STORIADELLA

LETTERATURAITALIANA

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AL COLTO PUBBLICO ITALIANO

GLI EDITORI

L'importanza dell'opera, che di nuovo si pone in luce,l'onor che da essa ridonda all'Italia, l'esaurimento tota-le delle precedenti edizioni; e il desiderio sopratutto didarne il compimento sino al termine del Secolo XVIII.(promesso e non mantenuto dall'Editor Veneto) ci hadeterminati a questa intrapresa. Difficile sarà certo, eplenum opus aleæ l'incarico di scriver la storia di que-sta parte dell'Italiana letteratura; ma confidiamo che lapersona, la quale ci lusinga di porre al termine il lavoroche ha già cominciato, saprà disbrigarsene felicemente.Giova però qui ripetere quello che da noi si è annunzia-to già nel nostro Manifesto del presente anno; che nullacioè promettiamo con sicurezza, giacchè molte e variecircostanze possono allontanarne o rimuoverne ancoaffatto l'esecuzione; ma vogliamo sperare che l'Italiagodrà di questo presente per mezzo de' nostri torchi.Il Pad. Pompilio Pozzetti, amico nostro particolare, havoluto rivedere e correggere il suo bell'Elogio di Tira-boschi impresso l'anno scorso in Venezia; e di nuovoquesti comparisce in fronte dell'edizione nostra per illu-strar la vita di sì grand'uomo.

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AL COLTO PUBBLICO ITALIANO

GLI EDITORI

L'importanza dell'opera, che di nuovo si pone in luce,l'onor che da essa ridonda all'Italia, l'esaurimento tota-le delle precedenti edizioni; e il desiderio sopratutto didarne il compimento sino al termine del Secolo XVIII.(promesso e non mantenuto dall'Editor Veneto) ci hadeterminati a questa intrapresa. Difficile sarà certo, eplenum opus aleæ l'incarico di scriver la storia di que-sta parte dell'Italiana letteratura; ma confidiamo che lapersona, la quale ci lusinga di porre al termine il lavoroche ha già cominciato, saprà disbrigarsene felicemente.Giova però qui ripetere quello che da noi si è annunzia-to già nel nostro Manifesto del presente anno; che nullacioè promettiamo con sicurezza, giacchè molte e variecircostanze possono allontanarne o rimuoverne ancoaffatto l'esecuzione; ma vogliamo sperare che l'Italiagodrà di questo presente per mezzo de' nostri torchi.Il Pad. Pompilio Pozzetti, amico nostro particolare, havoluto rivedere e correggere il suo bell'Elogio di Tira-boschi impresso l'anno scorso in Venezia; e di nuovoquesti comparisce in fronte dell'edizione nostra per illu-strar la vita di sì grand'uomo.

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Poco vi è da avvertire per questa. Si è fatto uso in gene-rale della correttissima ed accuratissima dello Stella,che riguardar si dovrà sempre come superiore a quellastessa di Modena, alla quale presiedette l'Autore. Si èprocurato in oltre di combinare una sufficiente nitidezzadi carta e di caratteri colla modicità del prezzo, e collapiù scrupolosa correzione. Le molte ricerche, che già cene vengono fatte, anco prima della pubblicazione de'due primi volumi, ci assicurano un favorevole incontro,e non minore di quello ottenuto dalle altre nostre im-pressioni; mentre noi promettiamo lo stesso zelo, e ladiligenza stessa nell'esecuzione del rimanente dell'ope-ra, che ci lusinghiamo di dar compiuta in tutto il 1807.

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Poco vi è da avvertire per questa. Si è fatto uso in gene-rale della correttissima ed accuratissima dello Stella,che riguardar si dovrà sempre come superiore a quellastessa di Modena, alla quale presiedette l'Autore. Si èprocurato in oltre di combinare una sufficiente nitidezzadi carta e di caratteri colla modicità del prezzo, e collapiù scrupolosa correzione. Le molte ricerche, che già cene vengono fatte, anco prima della pubblicazione de'due primi volumi, ci assicurano un favorevole incontro,e non minore di quello ottenuto dalle altre nostre im-pressioni; mentre noi promettiamo lo stesso zelo, e ladiligenza stessa nell'esecuzione del rimanente dell'ope-ra, che ci lusinghiamo di dar compiuta in tutto il 1807.

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PARTE PRIMALetteratura degli Etruschi.

I. La Storia generale della Letteratura Italia-na ch'io intraprendo a scrivere, dee necessa-riamente prender principio dagli antichi po-poli che in Italia ebbero stanza ed impero.Ma chi furono essi? D'onde, e come vi ven-nero? Quali furono i lor costumi, le loro im-

prese? Eccoci in una questione involta ancora fra densetenebre, cui dottissimi uomini hanno finora cercato in-vano di sciogliere e diradare. Aborigini, Ombri, Pelasgi,Tirreni, Liguri, ed altre genti di somiglianti nomi, dagliantichi autori si veggono nominati tra quelli che furonde' primi ad abitare e a coltivare l'Italia; e molti tra' mo-derni scrittori hanno l'ingegno e il saper loro rivolto aindagare l'origine, e a descriver la storia di questi popo-li. Ognuno di essi forma il suo proprio sistema: ognunodi essi crede di averlo ridotto a quell'evidenza di certez-za, a cui un fatto storico si possa condurre; ma questaevidenza comunemente non vedesi che dagli autori me-desimi di tai sistemi: gli altri confessano che siamo an-cora al buio, e appena sperano di poterne uscire giam-mai. A me non appartiene l'entrare in sì aspro spinaio.Chi fosse vago di pur risaperne alcuna cosa, può consul-tare ciò che con somma erudizione ne han disputato ilmarchese Maffei ne' suoi Ragionamenti sugl'Itali primi-

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Oscurità edincertezzadella Storiade' primiabitatorid'Italia.

PARTE PRIMALetteratura degli Etruschi.

I. La Storia generale della Letteratura Italia-na ch'io intraprendo a scrivere, dee necessa-riamente prender principio dagli antichi po-poli che in Italia ebbero stanza ed impero.Ma chi furono essi? D'onde, e come vi ven-nero? Quali furono i lor costumi, le loro im-

prese? Eccoci in una questione involta ancora fra densetenebre, cui dottissimi uomini hanno finora cercato in-vano di sciogliere e diradare. Aborigini, Ombri, Pelasgi,Tirreni, Liguri, ed altre genti di somiglianti nomi, dagliantichi autori si veggono nominati tra quelli che furonde' primi ad abitare e a coltivare l'Italia; e molti tra' mo-derni scrittori hanno l'ingegno e il saper loro rivolto aindagare l'origine, e a descriver la storia di questi popo-li. Ognuno di essi forma il suo proprio sistema: ognunodi essi crede di averlo ridotto a quell'evidenza di certez-za, a cui un fatto storico si possa condurre; ma questaevidenza comunemente non vedesi che dagli autori me-desimi di tai sistemi: gli altri confessano che siamo an-cora al buio, e appena sperano di poterne uscire giam-mai. A me non appartiene l'entrare in sì aspro spinaio.Chi fosse vago di pur risaperne alcuna cosa, può consul-tare ciò che con somma erudizione ne han disputato ilmarchese Maffei ne' suoi Ragionamenti sugl'Itali primi-

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Oscurità edincertezzadella Storiade' primiabitatorid'Italia.

tivi, monsig. Mario Guarnacci nelle sue Origini Italiche,il sig. Jacopo Durandi nel suo Saggio sulla Storia degliantichi popoli d'Italia, e il padre Stanislao Bardetti dellaCompagnia di Gesù nella sua opera De' primi abitatorid'Italia.

II. Gli Etruschi sono que' soli, tra le nazioniche prima della fondazione di Roma abita-ron l'Italia, di cui qualche più certa notizia cisia rimasta. Di essi veggiam farsi menzione

in molti degli antichi scrittori, e le cose che essi quà e làne dicono sparsamente, bastano a farci intendere quantopossente nazione essa fosse, e quanto grande imperioavesse ella in Italia. "Il regno degli Etruschi, dice Livio,(Dec. 1, l. 1), innanzi a' tempi dell'impero romano am-piamente si distese e in terra e in mare. Quanto potereessi avessero ne' due mari inferiore e superiore, da cuil'Italia a guisa d'isola vien circondata, il dimostrano iloro nomi; che l'uno dagli Italiani fu detto Tosco connome alla lor nazione comune, l'altro Adriatico da AdriaColonia degli Etruschi". Quindi egli aggiunge che l'Ita-lia tutta fino alle Alpi fu da essi abitata e signoreggiata,toltone solo il piccol tratto di terra, che a' Veneti appar-teneva. Nè punto meno onorevole testimonianza rendeloro Diodoro Siciliano. "I Tirreni, dice egli (l. 5, c. 9)"chiamando con questo nome gli Etruschi, benchè altrivogliano che due diversi popoli essi fossero, uniti poi econfusi in un solo, "i Tirreni celebri per fortezza e a

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I più cele-bri tra essi sono gli Etruschi.

tivi, monsig. Mario Guarnacci nelle sue Origini Italiche,il sig. Jacopo Durandi nel suo Saggio sulla Storia degliantichi popoli d'Italia, e il padre Stanislao Bardetti dellaCompagnia di Gesù nella sua opera De' primi abitatorid'Italia.

II. Gli Etruschi sono que' soli, tra le nazioniche prima della fondazione di Roma abita-ron l'Italia, di cui qualche più certa notizia cisia rimasta. Di essi veggiam farsi menzione

in molti degli antichi scrittori, e le cose che essi quà e làne dicono sparsamente, bastano a farci intendere quantopossente nazione essa fosse, e quanto grande imperioavesse ella in Italia. "Il regno degli Etruschi, dice Livio,(Dec. 1, l. 1), innanzi a' tempi dell'impero romano am-piamente si distese e in terra e in mare. Quanto potereessi avessero ne' due mari inferiore e superiore, da cuil'Italia a guisa d'isola vien circondata, il dimostrano iloro nomi; che l'uno dagli Italiani fu detto Tosco connome alla lor nazione comune, l'altro Adriatico da AdriaColonia degli Etruschi". Quindi egli aggiunge che l'Ita-lia tutta fino alle Alpi fu da essi abitata e signoreggiata,toltone solo il piccol tratto di terra, che a' Veneti appar-teneva. Nè punto meno onorevole testimonianza rendeloro Diodoro Siciliano. "I Tirreni, dice egli (l. 5, c. 9)"chiamando con questo nome gli Etruschi, benchè altrivogliano che due diversi popoli essi fossero, uniti poi econfusi in un solo, "i Tirreni celebri per fortezza e a

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I più cele-bri tra essi sono gli Etruschi.

grande impero saliti, di molte e ricche città furono fon-datori. Possenti ancora in armate navali, avendo lunga-mente signoreggiato il mare, dal lor nome medesimochiamarono il mar d'Italia. Furono ancora numerosi eforti i loro fanti, ec." le quali cose da più altri antichi au-tori vengono confermate.

III. Queste testimonianze degli antichi scrit-tori, ed alcuni monumenti etruschi, che ver-so il fine del XV secolo furono felicementedisotterrati, cominciarono a risvegliarenegl'Italiani un nobile desiderio d'internarsipiù addentro nella cognizione della storia di

questi sì illustri loro antenati; desiderio che in questi ul-timi tempi singolarmente tanto vivo si fece ed ardente,che alcuni anni addietro di altro quasi non favellavasi inItalia tra gli eruditi, e singolarmente in Toscana, che dimonumenti etruschi, di caratteri etruschi, di lingua etru-sca, di sepolcri, di statue, di tazze etrusche. Ne abbiamouna chiara riprova nell'Etruria regale del Dempstero,nelle giunte e ne' supplementi ad essa fatti dal senatorBuonarroti e dal Passeri, nel Museo etrusco, e nelle altreopere del proposto Gori, ne' Saggi dell'Accademia diCortona, e in tanti altri libri, che ad illustrare le antichitàetrusche furono pubblicati. Anzi anche le straniere na-zioni da un somigliante entusiasmo per le glorie degliEtruschi parver comprese. Ginevra, Parigi, Lipsia, e perfino Londra e Oxford si vider piene di libri intorno

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Fatiche di molti dotti per illu-strarne la storia e le antichità.

grande impero saliti, di molte e ricche città furono fon-datori. Possenti ancora in armate navali, avendo lunga-mente signoreggiato il mare, dal lor nome medesimochiamarono il mar d'Italia. Furono ancora numerosi eforti i loro fanti, ec." le quali cose da più altri antichi au-tori vengono confermate.

III. Queste testimonianze degli antichi scrit-tori, ed alcuni monumenti etruschi, che ver-so il fine del XV secolo furono felicementedisotterrati, cominciarono a risvegliarenegl'Italiani un nobile desiderio d'internarsipiù addentro nella cognizione della storia di

questi sì illustri loro antenati; desiderio che in questi ul-timi tempi singolarmente tanto vivo si fece ed ardente,che alcuni anni addietro di altro quasi non favellavasi inItalia tra gli eruditi, e singolarmente in Toscana, che dimonumenti etruschi, di caratteri etruschi, di lingua etru-sca, di sepolcri, di statue, di tazze etrusche. Ne abbiamouna chiara riprova nell'Etruria regale del Dempstero,nelle giunte e ne' supplementi ad essa fatti dal senatorBuonarroti e dal Passeri, nel Museo etrusco, e nelle altreopere del proposto Gori, ne' Saggi dell'Accademia diCortona, e in tanti altri libri, che ad illustrare le antichitàetrusche furono pubblicati. Anzi anche le straniere na-zioni da un somigliante entusiasmo per le glorie degliEtruschi parver comprese. Ginevra, Parigi, Lipsia, e perfino Londra e Oxford si vider piene di libri intorno

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Fatiche di molti dotti per illu-strarne la storia e le antichità.

all'etrusche antichità; come ce ne fanno fede le opere diLodovico Bourguet, del conte di Caylus, di Gio. GiorgioLottero, di Giovanni Svinton, le Memorie dell'Accade-mia delle Iscrizioni e delle belle lettere di Parigi, gli Attidi Lipsia ed altre somiglianti opere periodiche, ed anchela Storia universale degli eruditi Inglesi, i quali la gloriadegli antichi Etruschi hanno assai più oltre portata (Hist.Univ. t. 14, p. 214, 308), che da alcun Italiano non siamai stato fatto, come poscia vedremo. Della Letteraturaadunque degli Etruschi ci convien qui favellare, e daessi dare cominciamento alla Storia della Italiana Lette-ratura.

IV. E certo pare che dopo tanti libri, che in-torno agli Etruschi abbiam veduto uscirealla luce, le cose loro dovrebbon essere ri-schiarate così, che anche ciò che appartienealla loro Letteratura, fosse omai chiaro e pa-

lese. E nondimeno, come in altre cose, così ancora inciò che spetta alle scienze da essi coltivate, noi siamoancora in gran parte all'oscuro. Nè ciò per colpa deglieruditi scrittori, i quali niuno sforzo certamente han tra-scurato per illustrare il loro argomento. Ma tutti gli sfor-zi che ad illustrare le antichità si adoperano, cadono ingran parte a voto, quando ci manca la scorta degli auto-ri, o de' monumenti antichi. A veder chiaro nelle cosedegli Etruschi ci converrebbe o avere gli storici lor na-zionali, che le cose da essi operate avessero diligente-

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In essa peròmolti punti non sono ancor ri-schiarati.

all'etrusche antichità; come ce ne fanno fede le opere diLodovico Bourguet, del conte di Caylus, di Gio. GiorgioLottero, di Giovanni Svinton, le Memorie dell'Accade-mia delle Iscrizioni e delle belle lettere di Parigi, gli Attidi Lipsia ed altre somiglianti opere periodiche, ed anchela Storia universale degli eruditi Inglesi, i quali la gloriadegli antichi Etruschi hanno assai più oltre portata (Hist.Univ. t. 14, p. 214, 308), che da alcun Italiano non siamai stato fatto, come poscia vedremo. Della Letteraturaadunque degli Etruschi ci convien qui favellare, e daessi dare cominciamento alla Storia della Italiana Lette-ratura.

IV. E certo pare che dopo tanti libri, che in-torno agli Etruschi abbiam veduto uscirealla luce, le cose loro dovrebbon essere ri-schiarate così, che anche ciò che appartienealla loro Letteratura, fosse omai chiaro e pa-

lese. E nondimeno, come in altre cose, così ancora inciò che spetta alle scienze da essi coltivate, noi siamoancora in gran parte all'oscuro. Nè ciò per colpa deglieruditi scrittori, i quali niuno sforzo certamente han tra-scurato per illustrare il loro argomento. Ma tutti gli sfor-zi che ad illustrare le antichità si adoperano, cadono ingran parte a voto, quando ci manca la scorta degli auto-ri, o de' monumenti antichi. A veder chiaro nelle cosedegli Etruschi ci converrebbe o avere gli storici lor na-zionali, che le cose da essi operate avessero diligente-

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In essa peròmolti punti non sono ancor ri-schiarati.

mente descritte; o avere storici stranieri sì, ma ad essivicini o di età o di luogo; o avere gli antichi lor monu-menti, ma tali, che si potessero sciferare sicuramente, ele principali epoche delle loro vicende chiaramente nestabilissero. Or degli storici etruschi non ci è rimastopur uno. Gli storici latini, le cui opere non sono perite,troppo eran lontani da' tempi a cui fioriron gli Etruschi;e unicamente intenti ad innalzare la gloria de' lor Roma-ni, nulla curavansi di quella degli antichi loro nimici, dicui perciò appena fecero motto. Gli storici greci nonsolo per la maggior parte di età, come i latini, ma di luo-go ancora troppo eran discosti dagli Etruschi, perchèdelle cose loro ci potessero, o volessero dare diligentecontezza. I monumenti etruschi per ultimo, benchè in sìgran copia in questi ultimi tempi scoperti, son tali però,che per la difficoltà della lingua in essi usata, di cui nonostante il lungo e penoso studio di dottissimi uomininon si è ancora accertatamente compresa l'indole e lanatura, e per l'incertezza dell'età loro, non ci danno que'lumi che pur vorremmo trovare nelle loro storie.

V. Ciò non ostante anche in mezzo a sì foltetenebre abbiam tanto di luce, quanto ci ba-sta ad assicurare che gli Etruschi coltivaronfelicemente le scienze; anzi che i primi fu-rono per avventura che in Europa le colti-

vassero (3). A proceder con ordine, recherem prima gli3 A questo passo cominciano gli spaventosi assalti che l'ab. d. Saverio Lam-

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È certo che essi coltiva-rono le scienze.

mente descritte; o avere storici stranieri sì, ma ad essivicini o di età o di luogo; o avere gli antichi lor monu-menti, ma tali, che si potessero sciferare sicuramente, ele principali epoche delle loro vicende chiaramente nestabilissero. Or degli storici etruschi non ci è rimastopur uno. Gli storici latini, le cui opere non sono perite,troppo eran lontani da' tempi a cui fioriron gli Etruschi;e unicamente intenti ad innalzare la gloria de' lor Roma-ni, nulla curavansi di quella degli antichi loro nimici, dicui perciò appena fecero motto. Gli storici greci nonsolo per la maggior parte di età, come i latini, ma di luo-go ancora troppo eran discosti dagli Etruschi, perchèdelle cose loro ci potessero, o volessero dare diligentecontezza. I monumenti etruschi per ultimo, benchè in sìgran copia in questi ultimi tempi scoperti, son tali però,che per la difficoltà della lingua in essi usata, di cui nonostante il lungo e penoso studio di dottissimi uomininon si è ancora accertatamente compresa l'indole e lanatura, e per l'incertezza dell'età loro, non ci danno que'lumi che pur vorremmo trovare nelle loro storie.

V. Ciò non ostante anche in mezzo a sì foltetenebre abbiam tanto di luce, quanto ci ba-sta ad assicurare che gli Etruschi coltivaronfelicemente le scienze; anzi che i primi fu-rono per avventura che in Europa le colti-

vassero (3). A proceder con ordine, recherem prima gli3 A questo passo cominciano gli spaventosi assalti che l'ab. d. Saverio Lam-

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È certo che essi coltiva-rono le scienze.

argomenti da' quali conghietturando e ragionando pos-siam ricavare che uomini colti e nelle scienze versatifosser gli Etruschi; poscia quelle pruove addurremo, chece ne fanno più certa fede, e delle scienze e degli studjloro partitamente ragioneremo.

pillas ha dati alla mia storia ne' due primi tomi del suo Saggio Storico-Apologetico della Letteratura Spagnuola stampati in Genova nel 1773. Iopubblicai allora una lettera non per sostenere le mie opinioni da lui com-battute, ma sol per ribattere l'ingiusta taccia da lui appostami di nimico delnome e della gloria spagnuola. Egli persuaso forse che debba credersi vin-citore chi è l'ultimo a scrivere, replicò tosto alla mia lettera, e volle soste-nere che benchè io protestassi di non avere avute le ree intenzioni ch'eglimi attribuiva, io aveale avute veramente, e che in ciò doveasi fede a lui piùche a me; ed io lasciai ch'ei si stesse tranquillo godendo della sua vittoria.A luogo opportuno io aggiungerò la suddetta mia lettera, e aggiungerò in-sieme la replica dell'ab. Lampillas, illustrandone però con qualche nota al-cuni passi che possono sembrare oscuri. Frattanto, secondo che il seguitodella mia storia il richiederà, io verrò richiamando all'esame i passi ch'eine ha criticati, e mi difenderò, ove mi sembri d'aver ragione, e confesseròdi aver errato, ove mi vegga convinto. Egli dunque comincia a combatterequesta mia proposizione che gli Etruschi coltivaron felicemente le scienze,anzi che i primi furono per avventura che in Europa le coltivassero; e allamia proposizione oppone quest'altra (t. 2, p. 5): In Ispagna furono coltiva-te le arti e le scienze prima che in Italia. Si avverta dapprima, ch'io hoscritto per avventura, appunto perchè non ho voluto affermar come certociò che non pareami provato abbastanza. Ma quali sono le prove che l'ab.Lampillas reca della sua opinione? I Fenici, popolo assai più antico degliEtruschi ebber commercio colla Spagna, ed essi eran uomini nelle scienzeben istruiti. Si conceda. Dunque i Fenici comunicarono agli Spagnuoli illoro amor per le scienze. La conseguenza non mi par che discenda neces-sariamente dalla premessa. Ciò potè certo accadere. Ma non provasi chesia accaduto. Il sig. ab. Lampillas però vuol provarlo, e arreca perciò la te-stimonianza degl'Inglesi scrittori della Storia universale i quali, secondolui, così dicono: "Da tempo immemorabile cominciarono a fiorire nellaSpagna le arti e le scienze. Era singolare l'ingegno degli Spagnuoli, e qualeil manifestarono in appresso i grandi uomini che ha dati la Spagna. Tutti

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argomenti da' quali conghietturando e ragionando pos-siam ricavare che uomini colti e nelle scienze versatifosser gli Etruschi; poscia quelle pruove addurremo, chece ne fanno più certa fede, e delle scienze e degli studjloro partitamente ragioneremo.

pillas ha dati alla mia storia ne' due primi tomi del suo Saggio Storico-Apologetico della Letteratura Spagnuola stampati in Genova nel 1773. Iopubblicai allora una lettera non per sostenere le mie opinioni da lui com-battute, ma sol per ribattere l'ingiusta taccia da lui appostami di nimico delnome e della gloria spagnuola. Egli persuaso forse che debba credersi vin-citore chi è l'ultimo a scrivere, replicò tosto alla mia lettera, e volle soste-nere che benchè io protestassi di non avere avute le ree intenzioni ch'eglimi attribuiva, io aveale avute veramente, e che in ciò doveasi fede a lui piùche a me; ed io lasciai ch'ei si stesse tranquillo godendo della sua vittoria.A luogo opportuno io aggiungerò la suddetta mia lettera, e aggiungerò in-sieme la replica dell'ab. Lampillas, illustrandone però con qualche nota al-cuni passi che possono sembrare oscuri. Frattanto, secondo che il seguitodella mia storia il richiederà, io verrò richiamando all'esame i passi ch'eine ha criticati, e mi difenderò, ove mi sembri d'aver ragione, e confesseròdi aver errato, ove mi vegga convinto. Egli dunque comincia a combatterequesta mia proposizione che gli Etruschi coltivaron felicemente le scienze,anzi che i primi furono per avventura che in Europa le coltivassero; e allamia proposizione oppone quest'altra (t. 2, p. 5): In Ispagna furono coltiva-te le arti e le scienze prima che in Italia. Si avverta dapprima, ch'io hoscritto per avventura, appunto perchè non ho voluto affermar come certociò che non pareami provato abbastanza. Ma quali sono le prove che l'ab.Lampillas reca della sua opinione? I Fenici, popolo assai più antico degliEtruschi ebber commercio colla Spagna, ed essi eran uomini nelle scienzeben istruiti. Si conceda. Dunque i Fenici comunicarono agli Spagnuoli illoro amor per le scienze. La conseguenza non mi par che discenda neces-sariamente dalla premessa. Ciò potè certo accadere. Ma non provasi chesia accaduto. Il sig. ab. Lampillas però vuol provarlo, e arreca perciò la te-stimonianza degl'Inglesi scrittori della Storia universale i quali, secondolui, così dicono: "Da tempo immemorabile cominciarono a fiorire nellaSpagna le arti e le scienze. Era singolare l'ingegno degli Spagnuoli, e qualeil manifestarono in appresso i grandi uomini che ha dati la Spagna. Tutti

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VI. E primieramente se fosse certo chegli Etruschi traessero l'origin loro dagliEgiziani, come il senator Buonarroti haconghietturato (Suppl. Ad Dempst. p.103), sarebbe questo non dispregevole ar-

gomento a raccoglierne il lor valore nelle scienze. Non

gli altri popoli dell'Europa furono tardi assai nel coltivare le arti e le scien-ze, che non conoscevano per mancanza di commercio. Non così gli Spa-gnuoli: il loro paese, abbondante di ricchezze ed opportuno al commercio,chiamò a se le nazioni straniere più colte ed industriose: in forza di questacomunicazione, bisogna dire, che fu la Spagna nazion colta prima delle al-tre occidentali. Prova di ciò esser ne possono gli antichi libri de' Turdetani,benchè la loro antichità sia non poco esagerata. Nè sono questi i soli vesti-gi che abbiamo dell'inclinazione degli Spagnuoli alla letteratura, ec." Eglicita il tom. 18, cap. 24, sect. 2. Non so di qual edizione si sia valuto l'ab.Lampillas. Io ho alle mani la traduzione francese stampata colla data diAmsterdam e di Lipsia, e al tomo XVIII vi si parla di tutt'altro che dellaSpagna. Della storia antica di questi regni si parla in essa nel tomo XIII,lib. IV, cap. XII, ed ivi nella sezione II, pag. 211 si leggono le seguenti pa-role, che son ben diverse da quelle citate dall'ab. Lampillas. "Nousignorons en quel temps les Espagnols commencerent à cultiver les arts etles sciences". Ciò è ben diverso dal dire che le arti et les scienze comincia-rono a fiorirvi da tempo immemorabile. "Ils y étoient fort propres, aumoins à en juger par le grand nombre d'excellens hommes que l'Espagne aproduit, et dont nous nous contenterons de nommer trois des plus illustres,savoir le fameux philosophe stoicien, qui étoit natif de Corduba,l'immortel Quintilien, et le gran cosmographe Pomponius Mela tant de foiscité dans le cours de cet ouvrage". Comincia ben tardi la serie degl'illustriSpagnuoli, se non comincia che da questi tre scrittori. "Et quoique d'autrespeuples européens, comme les Gaulois, le Germains, et autres, bien loin defaire de grands progrès dans les arts, ayent paru les mépriser, commenuisibles à la valeur, nous devons porter un autre jugement des Espagnolsdont le pays, admirablement bien situé pour le commerce, fut habité outrecela par plusieurs peuples différents, la plupart très-habiles". Parlano poicon lode delle antiche loro manifatture, e tornando alle scienze,continuano: "Les sciences et les arts libéraux, si nous en croyons Strabon,ont fleuri de très-bonne heure chez eux; car cet auteur nous apprend, que

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Ma non è certo che le appren-dessero dagli Egiziani.

VI. E primieramente se fosse certo chegli Etruschi traessero l'origin loro dagliEgiziani, come il senator Buonarroti haconghietturato (Suppl. Ad Dempst. p.103), sarebbe questo non dispregevole ar-

gomento a raccoglierne il lor valore nelle scienze. Non

gli altri popoli dell'Europa furono tardi assai nel coltivare le arti e le scien-ze, che non conoscevano per mancanza di commercio. Non così gli Spa-gnuoli: il loro paese, abbondante di ricchezze ed opportuno al commercio,chiamò a se le nazioni straniere più colte ed industriose: in forza di questacomunicazione, bisogna dire, che fu la Spagna nazion colta prima delle al-tre occidentali. Prova di ciò esser ne possono gli antichi libri de' Turdetani,benchè la loro antichità sia non poco esagerata. Nè sono questi i soli vesti-gi che abbiamo dell'inclinazione degli Spagnuoli alla letteratura, ec." Eglicita il tom. 18, cap. 24, sect. 2. Non so di qual edizione si sia valuto l'ab.Lampillas. Io ho alle mani la traduzione francese stampata colla data diAmsterdam e di Lipsia, e al tomo XVIII vi si parla di tutt'altro che dellaSpagna. Della storia antica di questi regni si parla in essa nel tomo XIII,lib. IV, cap. XII, ed ivi nella sezione II, pag. 211 si leggono le seguenti pa-role, che son ben diverse da quelle citate dall'ab. Lampillas. "Nousignorons en quel temps les Espagnols commencerent à cultiver les arts etles sciences". Ciò è ben diverso dal dire che le arti et les scienze comincia-rono a fiorirvi da tempo immemorabile. "Ils y étoient fort propres, aumoins à en juger par le grand nombre d'excellens hommes que l'Espagne aproduit, et dont nous nous contenterons de nommer trois des plus illustres,savoir le fameux philosophe stoicien, qui étoit natif de Corduba,l'immortel Quintilien, et le gran cosmographe Pomponius Mela tant de foiscité dans le cours de cet ouvrage". Comincia ben tardi la serie degl'illustriSpagnuoli, se non comincia che da questi tre scrittori. "Et quoique d'autrespeuples européens, comme les Gaulois, le Germains, et autres, bien loin defaire de grands progrès dans les arts, ayent paru les mépriser, commenuisibles à la valeur, nous devons porter un autre jugement des Espagnolsdont le pays, admirablement bien situé pour le commerce, fut habité outrecela par plusieurs peuples différents, la plupart très-habiles". Parlano poicon lode delle antiche loro manifatture, e tornando alle scienze,continuano: "Les sciences et les arts libéraux, si nous en croyons Strabon,ont fleuri de très-bonne heure chez eux; car cet auteur nous apprend, que

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Ma non è certo che le appren-dessero dagli Egiziani.

v'ha chi non sappia quanto in esse fosser versati gli Egi-ziani. O fosse, come alcuni hanno pensato, l'acutezzadel loro ingegno e la positura stessa delle loro provincie,o fosse, come sembra più verisimile, il lungo commer-cio che ebbero cogli Ebrei, egli è certo che deesi lorquesto vanto di essere stati o primi, o almeno i secondi

les Turdetani, peuple de la Boetique, possédoient un nombre prodigieux devolumes, et le corps de loix écrits en vers, et d'autres pièces de poésie,dont l'antiquité étoit d'environ 6000 ans. Ce dernier trait, quoique fortexagéré, prouve au moins, que les Espagnols se piquoient d'avoir eu desconnoissances de très-bonne heure; et c'est ce qui est confirmé d'ailleurspar plusieurs anciens écrivains, particulierement par ceux de leur proprenation, mais plus clairement par ce que Plinie dit d'un Espagnol nomméLartius Licinius qui donna une somme immense pour un livre descommentaires de Plinie II", cioè di Plinio il vecchio, ed è perciò anchequesto esempio recente assai. Questo passo è ben diverso da quello chereca l'ab. Lampillas. Qui non si vede indicata sorta alcuna di preferenza ditempo della letteratura degli Spagnuoli sopra tutte le altre nazioni, trattine ilibri che al tempo di Strabone aveano già 6000 anni di età; sul qual puntolascerem ch'essi se la intendano co' Cinesi. Nè io voglio perciò accusarel'ab. Lampillas di avere alterato questo passo. Forse egli ha avuto tra lemani l'originale inglese, o qualche altra versione diversa dalla mia: forsequesto passo trovasi in qualche altro tomo di quella storia, che a me non èriuscito di ritrovare. Io crederò qualunque altra cosa piuttosto che crederel'ab. Lampillas reo di sì vergognosa alterazione. Ma ancorchè questo pas-so, qual egli il reca, trovisi veramente nella detta Storia, io lo prego a dir-mi, come mai ne discenda la conseguenza, ch'egli ne trae (p. 10): "Oradunque o l'ab. Tiraboschi non pretenda dar questa gloria agli Etruschi, oconfessi che i dotti inglesi non hanno oltre portata la gloria degli Etruschi,assai più che da nessun italiano sia mai stato fatto". Io non so di qual logi-ca egli abbia fatto uso. Sia pur vero tutto ciò che egli, e, secondo lui,gl'Inglesi dicono degli Spagnuoli. Sia vero che questi cento secoli primadegli Etruschi abbian coltivate le lettere. Sarà egli falso perciò che i mede-simi Inglesi nel passo da me recato nella mia Storia abbian portata la glo-ria degli Etruschi più oltre che da niun Italiano siasi mai fatto? Io ne rimet-to il giudizio al più acuto professore di dialettica, che abbia l'Europa. Deb-bo qui protestarmi una volta per sempre, che se nelle risposte, che secondo

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v'ha chi non sappia quanto in esse fosser versati gli Egi-ziani. O fosse, come alcuni hanno pensato, l'acutezzadel loro ingegno e la positura stessa delle loro provincie,o fosse, come sembra più verisimile, il lungo commer-cio che ebbero cogli Ebrei, egli è certo che deesi lorquesto vanto di essere stati o primi, o almeno i secondi

les Turdetani, peuple de la Boetique, possédoient un nombre prodigieux devolumes, et le corps de loix écrits en vers, et d'autres pièces de poésie,dont l'antiquité étoit d'environ 6000 ans. Ce dernier trait, quoique fortexagéré, prouve au moins, que les Espagnols se piquoient d'avoir eu desconnoissances de très-bonne heure; et c'est ce qui est confirmé d'ailleurspar plusieurs anciens écrivains, particulierement par ceux de leur proprenation, mais plus clairement par ce que Plinie dit d'un Espagnol nomméLartius Licinius qui donna une somme immense pour un livre descommentaires de Plinie II", cioè di Plinio il vecchio, ed è perciò anchequesto esempio recente assai. Questo passo è ben diverso da quello chereca l'ab. Lampillas. Qui non si vede indicata sorta alcuna di preferenza ditempo della letteratura degli Spagnuoli sopra tutte le altre nazioni, trattine ilibri che al tempo di Strabone aveano già 6000 anni di età; sul qual puntolascerem ch'essi se la intendano co' Cinesi. Nè io voglio perciò accusarel'ab. Lampillas di avere alterato questo passo. Forse egli ha avuto tra lemani l'originale inglese, o qualche altra versione diversa dalla mia: forsequesto passo trovasi in qualche altro tomo di quella storia, che a me non èriuscito di ritrovare. Io crederò qualunque altra cosa piuttosto che crederel'ab. Lampillas reo di sì vergognosa alterazione. Ma ancorchè questo pas-so, qual egli il reca, trovisi veramente nella detta Storia, io lo prego a dir-mi, come mai ne discenda la conseguenza, ch'egli ne trae (p. 10): "Oradunque o l'ab. Tiraboschi non pretenda dar questa gloria agli Etruschi, oconfessi che i dotti inglesi non hanno oltre portata la gloria degli Etruschi,assai più che da nessun italiano sia mai stato fatto". Io non so di qual logi-ca egli abbia fatto uso. Sia pur vero tutto ciò che egli, e, secondo lui,gl'Inglesi dicono degli Spagnuoli. Sia vero che questi cento secoli primadegli Etruschi abbian coltivate le lettere. Sarà egli falso perciò che i mede-simi Inglesi nel passo da me recato nella mia Storia abbian portata la glo-ria degli Etruschi più oltre che da niun Italiano siasi mai fatto? Io ne rimet-to il giudizio al più acuto professore di dialettica, che abbia l'Europa. Deb-bo qui protestarmi una volta per sempre, che se nelle risposte, che secondo

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che allo studio delle più nobili arti si applicassero; equindi, se dagli Egiziani discendean gli Etruschi, egli èverisimile che seco ne portassero in Italia l'amor dellescienze. Ma o dagli Egiziani, o da' Fenici, come a moltipiace piuttosto, o da qualunque altro popolo essi venis-sero, par certo che cogli Egiziani avessero commercioed amicizia. Troppo chiare sono le prove che noi ne ab-biamo. Strabone osserva (Geogr. l. 18) che le muragliede' tempi egiziani erano messe a varj lavori di sculturain maniera somigliante, egli dice, a quella che presso ipiù antichi Greci e presso gli Etruschi era in uso. Sole-vano gli Egiziani rappresentare ne' lor monumenti de'

l'occasione io darò all'ab. Lampillas, parerà talvolta ch'io esalti l'Italia so-pra la Spagna, io son ben lungi dal farlo perchè non abbia della nazionespagnuola quella giusta stima che tutti i saggi le accordano. Protesto che èfalsissima e calunniosa l'accusa, che mi dà l'ab. Lampillas, d'avere usatauna singolar arte a fine di sfigurare i veri originali lineamenti della lettera-tura spagnuola (t. 2, pag. 294). Protesto che non m'è mai caduto neppure inpensiero questo disegno indegno di un uomo onesto, ch'egli mi attribuisce.Ho scritto senza riguardo alcuno allo spirito nazionale ciò che ho credutovero. Se in alcuna cosa ho errato, l'errore è nato dalla mia ignoranza, nonda alcuna maliziosa intenzione. Rispetto la nazione spagnuola, rispetto idottissimi uomini ch'ella in ogni tempo ha prodotti, e son ben lungidall'adottare i sentimenti di disprezzo, con cui alcuni autori singolarmentefrancesi, e anche alcuni spagnuoli (ch'io indicherò all'ab. Lampillas, se maili conoscesse) ne hanno scritto. E frutto di questo mio rispetto sarà la mo-derazione ch'io procurerò di usare all'occasione in queste mie note, nellequali mi guarderò sempre dal volgere in discredito della nazione ciò ch'iodovrò dire di qualche scrittore particolare. L'unica cosa nella quale ei puòrinfacciarmi di aver tacciata generalmente la nazione spagnuola, si è ri-guardo al cattivo gusto che io ho detto che da alcuni di essa fu introdottoin Italia. Ma io ho detto finalmente ciò che da molti altri era già stato det-to; nè vi era ragione per cui contro di me ei rivolgesse quell'armi che adugual diritto avrebbe potuto rivolgere contro tanti altri, i quali ancora handetto assai più che non abbia detto io.

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che allo studio delle più nobili arti si applicassero; equindi, se dagli Egiziani discendean gli Etruschi, egli èverisimile che seco ne portassero in Italia l'amor dellescienze. Ma o dagli Egiziani, o da' Fenici, come a moltipiace piuttosto, o da qualunque altro popolo essi venis-sero, par certo che cogli Egiziani avessero commercioed amicizia. Troppo chiare sono le prove che noi ne ab-biamo. Strabone osserva (Geogr. l. 18) che le muragliede' tempi egiziani erano messe a varj lavori di sculturain maniera somigliante, egli dice, a quella che presso ipiù antichi Greci e presso gli Etruschi era in uso. Sole-vano gli Egiziani rappresentare ne' lor monumenti de'

l'occasione io darò all'ab. Lampillas, parerà talvolta ch'io esalti l'Italia so-pra la Spagna, io son ben lungi dal farlo perchè non abbia della nazionespagnuola quella giusta stima che tutti i saggi le accordano. Protesto che èfalsissima e calunniosa l'accusa, che mi dà l'ab. Lampillas, d'avere usatauna singolar arte a fine di sfigurare i veri originali lineamenti della lettera-tura spagnuola (t. 2, pag. 294). Protesto che non m'è mai caduto neppure inpensiero questo disegno indegno di un uomo onesto, ch'egli mi attribuisce.Ho scritto senza riguardo alcuno allo spirito nazionale ciò che ho credutovero. Se in alcuna cosa ho errato, l'errore è nato dalla mia ignoranza, nonda alcuna maliziosa intenzione. Rispetto la nazione spagnuola, rispetto idottissimi uomini ch'ella in ogni tempo ha prodotti, e son ben lungidall'adottare i sentimenti di disprezzo, con cui alcuni autori singolarmentefrancesi, e anche alcuni spagnuoli (ch'io indicherò all'ab. Lampillas, se maili conoscesse) ne hanno scritto. E frutto di questo mio rispetto sarà la mo-derazione ch'io procurerò di usare all'occasione in queste mie note, nellequali mi guarderò sempre dal volgere in discredito della nazione ciò ch'iodovrò dire di qualche scrittore particolare. L'unica cosa nella quale ei puòrinfacciarmi di aver tacciata generalmente la nazione spagnuola, si è ri-guardo al cattivo gusto che io ho detto che da alcuni di essa fu introdottoin Italia. Ma io ho detto finalmente ciò che da molti altri era già stato det-to; nè vi era ragione per cui contro di me ei rivolgesse quell'armi che adugual diritto avrebbe potuto rivolgere contro tanti altri, i quali ancora handetto assai più che non abbia detto io.

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grifi, de' lioni alati, ed altri somiglianti capricciosi mo-stri; e tali sculture noi veggiam pure ne' monumentietruschi. I monumenti etruschi de' tempi più antichi han-no una grande somiglianza cogli egiziani, come ha os-servato il celebre antiquario Winckelmann. (Hist. del'Art. t. 1, p. 181, édit. d'Amsterd.). Le piramidi, sì famo-se presso gli Egiziani, usate erano ancor tra gli Etruschi,e ne abbiamo certissimo testimonio in ciò che Plinio nedice (Hist. Nat. l. 36, c. 13) del sepolcro di Porsena unodegli antichi loro sovrani. Tutto ciò, conchiude l'eruditoconte di Caylus (Recueil d'Antiquit. t. 1, p. 78), non cipermette di dubitare che commercio reciproco non fossetra gli Egiziani e gli Etruschi, e che col commerciol'amore ancor delle scienze si tramandasse dagli uni aglialtri. Quindi il soprallodato Winckelmann (4), il qual peraltro sostiene che gli Etruschi senza la scorta di al-cun'altra nazione si applicarono alle arti liberali, confes-sa però che del commercio cogli Egiziani poterono dopogiovarsi assai (Monum. Ined. c. 1).

4 Quando io pubblicai la mia Storia aveasi solo la prima edizione della storiadel Winckelmann, e io non potei far uso che della version francese stampa-ta in Amsterdam e altrove nel 1766. La nuova edizione da lui apparecchia-ta, ma non potutasi da lui pubblicare per l'infelice sua morte accaduta nelgiugno del 1768, ci ha dati assai più copiosi lumi su questo argomento. Ioho alle mani l'edizione fattane in Roma per opera dell'ab. Carlo Fea l'anno1783, ec. Ivi si può vedere ciò che a lungo dice nel terzo libro del primotomo il chiarissimo autore delle belle arti esercitate non sol dagli Etruschi,ma anche dagli altri antichi popoli lor confinanti, quali erano i Sanniti, iVolsci, e i Campani.

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grifi, de' lioni alati, ed altri somiglianti capricciosi mo-stri; e tali sculture noi veggiam pure ne' monumentietruschi. I monumenti etruschi de' tempi più antichi han-no una grande somiglianza cogli egiziani, come ha os-servato il celebre antiquario Winckelmann. (Hist. del'Art. t. 1, p. 181, édit. d'Amsterd.). Le piramidi, sì famo-se presso gli Egiziani, usate erano ancor tra gli Etruschi,e ne abbiamo certissimo testimonio in ciò che Plinio nedice (Hist. Nat. l. 36, c. 13) del sepolcro di Porsena unodegli antichi loro sovrani. Tutto ciò, conchiude l'eruditoconte di Caylus (Recueil d'Antiquit. t. 1, p. 78), non cipermette di dubitare che commercio reciproco non fossetra gli Egiziani e gli Etruschi, e che col commerciol'amore ancor delle scienze si tramandasse dagli uni aglialtri. Quindi il soprallodato Winckelmann (4), il qual peraltro sostiene che gli Etruschi senza la scorta di al-cun'altra nazione si applicarono alle arti liberali, confes-sa però che del commercio cogli Egiziani poterono dopogiovarsi assai (Monum. Ined. c. 1).

4 Quando io pubblicai la mia Storia aveasi solo la prima edizione della storiadel Winckelmann, e io non potei far uso che della version francese stampa-ta in Amsterdam e altrove nel 1766. La nuova edizione da lui apparecchia-ta, ma non potutasi da lui pubblicare per l'infelice sua morte accaduta nelgiugno del 1768, ci ha dati assai più copiosi lumi su questo argomento. Ioho alle mani l'edizione fattane in Roma per opera dell'ab. Carlo Fea l'anno1783, ec. Ivi si può vedere ciò che a lungo dice nel terzo libro del primotomo il chiarissimo autore delle belle arti esercitate non sol dagli Etruschi,ma anche dagli altri antichi popoli lor confinanti, quali erano i Sanniti, iVolsci, e i Campani.

106

VII. Queste nondimeno, a parlare sincera-mente, non sono che conghietture. Altri piùcerti argomenti possiam recarne. Le arti chediconsi liberali, sotto il qual nome sogliamointendere comunemente la pittura, la scultu-ra, l'architettura, hanno una sì stretta unioncolle scienze, che le une non possono fioriresenza le altre, e se queste vengano meno,forza è che quelle ancora cadano e perisca-

no miseramente. A me non appartiene il fare a questoluogo il filosofo, e il cercarne nell'indole e nella naturadelle une e delle altre l'occulta ragione. Io parlo da stori-co, e mi basta il riflettere che il secol d'oro per Atene eper Roma fu tale per rapporto alle lettere ugualmenteche per rapporto alle arti; che i secoli barbari furono alleune e alle altre ugualmente fatali; che il XV e il XVI se-colo furono dell'une e dell'altre al tempo medesimo ri-storatori; e che Luigi XIV le une e le altre ravvivò altempo medesimo nella sua Francia. Oltre di che egli ètroppo palese che nè pittore, nè scultore, nè architettod'alcun nome non può essere, che non sappia bene laproporzione delle parti, la natura de' colori, le leggi del-la prospettiva, ed altre sì fatte cose che solamente collostudio delle scienze s'imparano. Se dunque si mostri chedelle arti liberali furon gli Etruschi illustri coltivatori,mostrerassi insieme che coltivate furon da essi primache da qualunque altro popolo d'Europa, mostrerassi in-sieme che i primi ancora essi furono che in Europa colti-vasser le scienze.

107

Prova del fiore in cui erano le scienze presso gli Etruschi tratta dalla loro eccel-lenza nelle arti liberali.

VII. Queste nondimeno, a parlare sincera-mente, non sono che conghietture. Altri piùcerti argomenti possiam recarne. Le arti chediconsi liberali, sotto il qual nome sogliamointendere comunemente la pittura, la scultu-ra, l'architettura, hanno una sì stretta unioncolle scienze, che le une non possono fioriresenza le altre, e se queste vengano meno,forza è che quelle ancora cadano e perisca-

no miseramente. A me non appartiene il fare a questoluogo il filosofo, e il cercarne nell'indole e nella naturadelle une e delle altre l'occulta ragione. Io parlo da stori-co, e mi basta il riflettere che il secol d'oro per Atene eper Roma fu tale per rapporto alle lettere ugualmenteche per rapporto alle arti; che i secoli barbari furono alleune e alle altre ugualmente fatali; che il XV e il XVI se-colo furono dell'une e dell'altre al tempo medesimo ri-storatori; e che Luigi XIV le une e le altre ravvivò altempo medesimo nella sua Francia. Oltre di che egli ètroppo palese che nè pittore, nè scultore, nè architettod'alcun nome non può essere, che non sappia bene laproporzione delle parti, la natura de' colori, le leggi del-la prospettiva, ed altre sì fatte cose che solamente collostudio delle scienze s'imparano. Se dunque si mostri chedelle arti liberali furon gli Etruschi illustri coltivatori,mostrerassi insieme che coltivate furon da essi primache da qualunque altro popolo d'Europa, mostrerassi in-sieme che i primi ancora essi furono che in Europa colti-vasser le scienze.

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Prova del fiore in cui erano le scienze presso gli Etruschi tratta dalla loro eccel-lenza nelle arti liberali.

VIII. Or che gli Etruschi fossero nellearti liberali eccellenti ed illustri, ne abbia-mo una chiara testimonianza in Ateneo.Varie sono, ne dice egli (Deipnos. l. 15),le opere de' Tirreni, poichè nel travaglio

delle arti sono essi esperti ed ingegnosi. Il che pure daEraclide Pontico si afferma. Questi, egli dice (Polit. deTyrrhen.) favellando de' Tirreni, in molte arti si eserci-tano. Anzi che nell'esercizio delle arti medesime fosseroessi anteriori a' Greci, egli è sentimento di più moderniscrittori (5). Io non recherò gl'italiani che potrebbon ca-dere in sospetto di soverchia parzialità, ma due valentioltramontani, cioè i soprallodati conte di Caylus, eWinckelmann. On les voit, dice il primo parlando dellearti (Recueil d'Antiq. t. 1, préf. p. 9), formés en Egypteavec tout le caractère de la grandeur; de là passer enEtrurie où ils acquirent des parties de détail, mais auxdépens de cette même grandeur; être ensuite transportéen Grèce. L'altro afferma parimente che dopo le opereegiziane le più antiche sono le etrusche (Monum. ant.ined. c. 3). Ma è da vedere di ciascuna arte in particola-

5 Su questo argomento merita di esser letta la Dissertazione del celebre sig.d. Giambattista Gherardo del S. R. I. conte e signore di Arco della Patriaprimitiva delle arti del Disegno, stampata in Cremona nel 1785, nella qua-le con più argomenti ei dimostra che non solo in Italia prima che in Greciafiorirono tutte le arti, ma che anzi la Grecia non altronde ricevettele chedall'Italia. Egli ha ancor voluto provare che gli Etruschi inventori dell'artinon furono quelli che abitavano le provincie indicate poi col nome di Etru-ria, ma più probabilmente quelli che nelle regioni circompadane fissataaveano la lor dimora. Ma in questa parte non sembra che gli argomenti dalui addotti abbiano ugual forza.

108

Quanto antica-mente comin-ciassero a co-noscerle.

VIII. Or che gli Etruschi fossero nellearti liberali eccellenti ed illustri, ne abbia-mo una chiara testimonianza in Ateneo.Varie sono, ne dice egli (Deipnos. l. 15),le opere de' Tirreni, poichè nel travaglio

delle arti sono essi esperti ed ingegnosi. Il che pure daEraclide Pontico si afferma. Questi, egli dice (Polit. deTyrrhen.) favellando de' Tirreni, in molte arti si eserci-tano. Anzi che nell'esercizio delle arti medesime fosseroessi anteriori a' Greci, egli è sentimento di più moderniscrittori (5). Io non recherò gl'italiani che potrebbon ca-dere in sospetto di soverchia parzialità, ma due valentioltramontani, cioè i soprallodati conte di Caylus, eWinckelmann. On les voit, dice il primo parlando dellearti (Recueil d'Antiq. t. 1, préf. p. 9), formés en Egypteavec tout le caractère de la grandeur; de là passer enEtrurie où ils acquirent des parties de détail, mais auxdépens de cette même grandeur; être ensuite transportéen Grèce. L'altro afferma parimente che dopo le opereegiziane le più antiche sono le etrusche (Monum. ant.ined. c. 3). Ma è da vedere di ciascuna arte in particola-

5 Su questo argomento merita di esser letta la Dissertazione del celebre sig.d. Giambattista Gherardo del S. R. I. conte e signore di Arco della Patriaprimitiva delle arti del Disegno, stampata in Cremona nel 1785, nella qua-le con più argomenti ei dimostra che non solo in Italia prima che in Greciafiorirono tutte le arti, ma che anzi la Grecia non altronde ricevettele chedall'Italia. Egli ha ancor voluto provare che gli Etruschi inventori dell'artinon furono quelli che abitavano le provincie indicate poi col nome di Etru-ria, ma più probabilmente quelli che nelle regioni circompadane fissataaveano la lor dimora. Ma in questa parte non sembra che gli argomenti dalui addotti abbiano ugual forza.

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Quanto antica-mente comin-ciassero a co-noscerle.

re.

IX. E primieramente, per ciò che appartie-ne alla pittura, non è sì agevole determina-re in qual tempo avesse ella in Grecia co-minciamento. L'abate Fraguier in una dis-sertazione, di cui abbiamo il compendio

nella Storia dell'Accademia delle Iscrizioni (t. 1, p. 75),vorrebbe persuaderci che anteriore ella sia a' tempid'Omero. Noi non veggiamo, egli dice, che Omero dipittura alcuna faccia menzione; ma pur veggiamo che lesculture dello scudo di Achille ci descrive per tal manie-ra, che sembra impossibile ch'egli non avesse idea di ciòche fosse pittura. Veggiamo ancora che di varj ricamiegli parla, che messi erano a varj colori. Or come maipotevasi ciò immaginare senza aver già qualche cogni-zione o qualche idea della pittura? Ma qualunque si sie-no tai conghietture, egli è certo che Omero di pittura al-cuna non ci fa motto; e sembra impossibile che in duepoemi, in cui tante e sì varie cose ei ne descrive, di que-sta sola non ci avesse lasciato memoria, se a' suoi tempiella fosse stata già in uso. Che più? Gli stessi scrittorigreci riconoscevano che tardi avea tra essi avuto princi-pio la pittura, cioè non prima dell'olimpiade XC checade nell'anno di Roma 333. Anzi Plinio di negligenza litaccia (Hist. Nat. l. 35, c. 8) e di trascuratezza nella ri-cerca di questo punto di loro storia, perciocchè, eglidice, prima assai dell'olimpiade XC furono tra essi pitto-

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Quando co-minciasse la pittura fra' Greci.

re.

IX. E primieramente, per ciò che appartie-ne alla pittura, non è sì agevole determina-re in qual tempo avesse ella in Grecia co-minciamento. L'abate Fraguier in una dis-sertazione, di cui abbiamo il compendio

nella Storia dell'Accademia delle Iscrizioni (t. 1, p. 75),vorrebbe persuaderci che anteriore ella sia a' tempid'Omero. Noi non veggiamo, egli dice, che Omero dipittura alcuna faccia menzione; ma pur veggiamo che lesculture dello scudo di Achille ci descrive per tal manie-ra, che sembra impossibile ch'egli non avesse idea di ciòche fosse pittura. Veggiamo ancora che di varj ricamiegli parla, che messi erano a varj colori. Or come maipotevasi ciò immaginare senza aver già qualche cogni-zione o qualche idea della pittura? Ma qualunque si sie-no tai conghietture, egli è certo che Omero di pittura al-cuna non ci fa motto; e sembra impossibile che in duepoemi, in cui tante e sì varie cose ei ne descrive, di que-sta sola non ci avesse lasciato memoria, se a' suoi tempiella fosse stata già in uso. Che più? Gli stessi scrittorigreci riconoscevano che tardi avea tra essi avuto princi-pio la pittura, cioè non prima dell'olimpiade XC checade nell'anno di Roma 333. Anzi Plinio di negligenza litaccia (Hist. Nat. l. 35, c. 8) e di trascuratezza nella ri-cerca di questo punto di loro storia, perciocchè, eglidice, prima assai dell'olimpiade XC furono tra essi pitto-

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Quando co-minciasse la pittura fra' Greci.

ri cui egli annovera; e certo è presso tutti, soggiugne Pli-nio, che un quadro di Bularco greco pittore fu circa iltempo di Romolo comperato ad oro, cioè verso la XVIIIolimpiade. Questa è la più antica epoca che della pitturade' Greci si possa trovare; e, ciò che è più strano, egli èconvenuto che un Italiano, cioè Plinio, l'additasse a'Greci ricercatori per altro solleciti delle lor lodi.

X. Ma Plinio stesso, benchè abbia l'onor de'Greci innalzato più ch'essi non isperavano,si fa nondimeno mostrare che maggior lodeancora si debbe in questo all'Italia, e che tranoi perfetta era già l'arte del pingere quando

fra' Greci cominciava appena a nascere e dirozzarsi.Parla egli (ib. c. 3) di un tal Cleofanto da Corinto, di cuidice che fu il primo a usar di qualche colore nella pittu-ra. Quindi soggiunge: Hunc aut eodem tempore aliumfuisse, quem tradit Cornelius Nepos secutum in ItaliaDemaratum Tarquinii Prisci Romani Regis patrem...mox docebimus. Jam enim absoluta erat pictura etiamin Italia. Extant certe hodieque antiquiores urbe pic-turæ Ardeæ in ædibus sacris, quibus quidem nullasæque demiror tam longo ævo durantes in orbitate tectiveluti recentes. Similiter Lanuvii, ubi Atalanta et Hele-na cominus pictæ sunt nudæ ab eodem artifice, utraqueexcellentissima forma, sed altera ut virgo, ne ruinis qui-dem templi concussæ... Durant et Cære antiquiores etipsæ. Tutto questo passo ho qui voluto recare perchè

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Prima di loro la co-nobber gli Etruschi.

ri cui egli annovera; e certo è presso tutti, soggiugne Pli-nio, che un quadro di Bularco greco pittore fu circa iltempo di Romolo comperato ad oro, cioè verso la XVIIIolimpiade. Questa è la più antica epoca che della pitturade' Greci si possa trovare; e, ciò che è più strano, egli èconvenuto che un Italiano, cioè Plinio, l'additasse a'Greci ricercatori per altro solleciti delle lor lodi.

X. Ma Plinio stesso, benchè abbia l'onor de'Greci innalzato più ch'essi non isperavano,si fa nondimeno mostrare che maggior lodeancora si debbe in questo all'Italia, e che tranoi perfetta era già l'arte del pingere quando

fra' Greci cominciava appena a nascere e dirozzarsi.Parla egli (ib. c. 3) di un tal Cleofanto da Corinto, di cuidice che fu il primo a usar di qualche colore nella pittu-ra. Quindi soggiunge: Hunc aut eodem tempore aliumfuisse, quem tradit Cornelius Nepos secutum in ItaliaDemaratum Tarquinii Prisci Romani Regis patrem...mox docebimus. Jam enim absoluta erat pictura etiamin Italia. Extant certe hodieque antiquiores urbe pic-turæ Ardeæ in ædibus sacris, quibus quidem nullasæque demiror tam longo ævo durantes in orbitate tectiveluti recentes. Similiter Lanuvii, ubi Atalanta et Hele-na cominus pictæ sunt nudæ ab eodem artifice, utraqueexcellentissima forma, sed altera ut virgo, ne ruinis qui-dem templi concussæ... Durant et Cære antiquiores etipsæ. Tutto questo passo ho qui voluto recare perchè

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Prima di loro la co-nobber gli Etruschi.

chiaramente s'intenda il senso di quelle non troppo chia-re parole: Jam enim absoluta erat pictura etiam in Ita-lia; parole le quali, a mio parere, non altro ci voglionosignificare se non che quando appena cominciava la pit-tura a conoscersi in Grecia, usata ella già era e perfetta,in Italia. In questo senso e non altrimenti intese eglipure queste parole Davide Durand che questo libro diPlinio tradotto in francese ed illustrato con note stampòin Londra l'anno 1725, della qual traduzione con sommalode si parla nella Biblioteca inglese (t. 13, p. 225). Orecco in qual maniera traduce egli un tal passo. Mais ceque nous venons de dire des origines de la peinture neregarde que la Grece; car pour ce qui est de l'Italie ilfaut convenir que la peinture y avoit déja acquis toutesa force et toute sa beauté avant Demaratus,puisqu'encore aujourd'oui il en reste des excellentsmorceaux plus anciens que Rome dans les débris dutemple d'Ardée. Oltre di che avendo Plinio trovato il piùantico monumento di pittura greca intorno all'olimpiadeXVIII, e affermando che in Ardea, in Lanuvio e in Cerepitture vi erano più antiche di Roma, che fu fondata se-condo la cronologia del Petavio nell'olimpiade VI, egli èevidente che Plinio afferma e prova che in Italia assaiprima che in Grecia ebbe la pittura cominciamento.

XI. Ed ecco, per quanto da' monumenti anti-chi si può raccogliere, assicurato questo nondispregevole onore all'Italia di avere essa

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E prima di tutti gli altripopoli d'Europa.

chiaramente s'intenda il senso di quelle non troppo chia-re parole: Jam enim absoluta erat pictura etiam in Ita-lia; parole le quali, a mio parere, non altro ci voglionosignificare se non che quando appena cominciava la pit-tura a conoscersi in Grecia, usata ella già era e perfetta,in Italia. In questo senso e non altrimenti intese eglipure queste parole Davide Durand che questo libro diPlinio tradotto in francese ed illustrato con note stampòin Londra l'anno 1725, della qual traduzione con sommalode si parla nella Biblioteca inglese (t. 13, p. 225). Orecco in qual maniera traduce egli un tal passo. Mais ceque nous venons de dire des origines de la peinture neregarde que la Grece; car pour ce qui est de l'Italie ilfaut convenir que la peinture y avoit déja acquis toutesa force et toute sa beauté avant Demaratus,puisqu'encore aujourd'oui il en reste des excellentsmorceaux plus anciens que Rome dans les débris dutemple d'Ardée. Oltre di che avendo Plinio trovato il piùantico monumento di pittura greca intorno all'olimpiadeXVIII, e affermando che in Ardea, in Lanuvio e in Cerepitture vi erano più antiche di Roma, che fu fondata se-condo la cronologia del Petavio nell'olimpiade VI, egli èevidente che Plinio afferma e prova che in Italia assaiprima che in Grecia ebbe la pittura cominciamento.

XI. Ed ecco, per quanto da' monumenti anti-chi si può raccogliere, assicurato questo nondispregevole onore all'Italia di avere essa

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E prima di tutti gli altripopoli d'Europa.

prima de' Greci usato della pittura. Dico prima de' Gre-ci; perciocchè io non voglio qui entrare in questione sealtre nazioni fuori d'Europa, come i Caldei, i Fenici, gliEgiziani, ne usassero più anticamente. A me basta il mo-strare che niuno usonne in Europa prima degl'Italiani,cioè prima degli Etruschi, a' quali certamente attribuiresi debbono queste pitture più antiche di Roma, di cuiPlinio favella. Cære era una delle città degli Etruschi,detta ora Cervetere. Lanuvio e Ardea appartenevanopropriamente la prima a' Latini, a' Rutuli la seconda; macome di niuno di questi popoli noi sappiamo che colti-vator fosse delle arti liberali, il che è indubitabile degliEtruschi, ella è cosa troppo verisimile che questi dallealtre città confinanti fosser chiamati allor quando di al-cun lavoro di tal natura facea loro bisogno (6).6 Mentre credevasi che non si potesse negare agli Etruschi la gloria di avere

i primi fatto uso in Europa della pittura, ecco uscire in campo i Volsci a lorcontrastarla. Si son publicati in Roma l'anno 1785 alcuni Bassi rilievi interra cotta dipinti a varj colori, che si conservano in Velletri presso il sig.Giampaolo Borgia il quale ne fu il felice discopritore. Ci si assicura ch'essinon sono nè egizj, nè etruschi, che hanno uno stile originale, e che, benchèmancanti di proporzioni, hanno nondimeno quella espressione che prova laperizia e il saper dell'artefice. E poichè Velletri era città de' Volsci, se neinferisce che Volsci probabilmente ne furono gli artisti; e il carattere dique' lavori li fa credere più antichi degli Etruschi. A me che altro non cer-co che l'onor dell'Italia, è indifferente questa ricerca; perciocchè Italianierano ugualmente e i Volsci e gli Etruschi. Ma i difensori de' secondi nonammetteranno forse così facilmente le prove che si arrecano del primatode' Volsci in quest'arte. Essi diranno per avventura che anche tra gli Etru-schi poteron essere diverse scuole, come tante diverse ne ha avute negli ul-timi secoli l'Italia; e che, comunque Velletri fosse città dei Volsci, non pro-vasi che sian più antichi delle pitture etrusche; perciocchè potè avvenireche l'arte più tardi s'introducesse tra' Volsci, e che perciò rozze fossero lelor figure, mentre assai più perfette già erano quelle degli Etruschi. Certo

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prima de' Greci usato della pittura. Dico prima de' Gre-ci; perciocchè io non voglio qui entrare in questione sealtre nazioni fuori d'Europa, come i Caldei, i Fenici, gliEgiziani, ne usassero più anticamente. A me basta il mo-strare che niuno usonne in Europa prima degl'Italiani,cioè prima degli Etruschi, a' quali certamente attribuiresi debbono queste pitture più antiche di Roma, di cuiPlinio favella. Cære era una delle città degli Etruschi,detta ora Cervetere. Lanuvio e Ardea appartenevanopropriamente la prima a' Latini, a' Rutuli la seconda; macome di niuno di questi popoli noi sappiamo che colti-vator fosse delle arti liberali, il che è indubitabile degliEtruschi, ella è cosa troppo verisimile che questi dallealtre città confinanti fosser chiamati allor quando di al-cun lavoro di tal natura facea loro bisogno (6).6 Mentre credevasi che non si potesse negare agli Etruschi la gloria di avere

i primi fatto uso in Europa della pittura, ecco uscire in campo i Volsci a lorcontrastarla. Si son publicati in Roma l'anno 1785 alcuni Bassi rilievi interra cotta dipinti a varj colori, che si conservano in Velletri presso il sig.Giampaolo Borgia il quale ne fu il felice discopritore. Ci si assicura ch'essinon sono nè egizj, nè etruschi, che hanno uno stile originale, e che, benchèmancanti di proporzioni, hanno nondimeno quella espressione che prova laperizia e il saper dell'artefice. E poichè Velletri era città de' Volsci, se neinferisce che Volsci probabilmente ne furono gli artisti; e il carattere dique' lavori li fa credere più antichi degli Etruschi. A me che altro non cer-co che l'onor dell'Italia, è indifferente questa ricerca; perciocchè Italianierano ugualmente e i Volsci e gli Etruschi. Ma i difensori de' secondi nonammetteranno forse così facilmente le prove che si arrecano del primatode' Volsci in quest'arte. Essi diranno per avventura che anche tra gli Etru-schi poteron essere diverse scuole, come tante diverse ne ha avute negli ul-timi secoli l'Italia; e che, comunque Velletri fosse città dei Volsci, non pro-vasi che sian più antichi delle pitture etrusche; perciocchè potè avvenireche l'arte più tardi s'introducesse tra' Volsci, e che perciò rozze fossero lelor figure, mentre assai più perfette già erano quelle degli Etruschi. Certo

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XII. Egli è però vero che Plinio stesso, allacui autorità solamente possiamo in questoappoggiarci, altrove aggiugne tal cosa che cipone in non leggero imbarazzo, e noi gli sa-remmo pure tenuti di assai se di queste anti-chissime pitture non ci avesse più fatto mot-to. Ma egli di quella di Ardea torna a parlar

non molto dopo, e dice (c. 10): Decet non sileri et Ar-deatis templi pictorem, præsertim civitate donatum ibiet carmine, quod est in ipsa pictura his versibus:

Dignis dicta loca picturis condecoravit Regina Junonis supremi Conjugis templum Marcus Ludius Helotas tolia oriundus, Quem nunc et post semper ob artem hanc Ardea laudat:

Eaque scripta sunt antiquis literis latinis. Così leggonsiquesti versi nell'edizione del p. Arduino, benchè qualchediversità si vegga nelle altre edizioni, non però tale chesia di gran rilievo. Or se tai versi eran veramente neltempio di Ardea a' tempi di Plinio, io mi maraviglioch'egli uomo critico e dotto più che qualunque altro de'tempi suoi li potesse credere (se pur egli così credette)fatti a tempi sì antichi, e mi maraviglio ancora che niuno(ch'io sappia) degli editori e de' commentatori di Plinio

se si pongono a confronto le opere, a cagion d'esempio, de' pittori francesial principio del secolo XVI con quelle di Rafaello, di Michelagnolo, delCorreggio, e di altri Italiani della istessa età, si vedrà tra esse una notabiledifferenza: e nondimeno mal si apporrebbe chi volesse inferirne che le pit-ture francesi sono più antiche delle italiane. Ma non entriamo in una qui-stione che non è propria di questa Storia.

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Riflessioni sull'iscri-zione delle pitture del tempio di Ardea rife-rita da Pli-nio.

XII. Egli è però vero che Plinio stesso, allacui autorità solamente possiamo in questoappoggiarci, altrove aggiugne tal cosa che cipone in non leggero imbarazzo, e noi gli sa-remmo pure tenuti di assai se di queste anti-chissime pitture non ci avesse più fatto mot-to. Ma egli di quella di Ardea torna a parlar

non molto dopo, e dice (c. 10): Decet non sileri et Ar-deatis templi pictorem, præsertim civitate donatum ibiet carmine, quod est in ipsa pictura his versibus:

Dignis dicta loca picturis condecoravit Regina Junonis supremi Conjugis templum Marcus Ludius Helotas tolia oriundus, Quem nunc et post semper ob artem hanc Ardea laudat:

Eaque scripta sunt antiquis literis latinis. Così leggonsiquesti versi nell'edizione del p. Arduino, benchè qualchediversità si vegga nelle altre edizioni, non però tale chesia di gran rilievo. Or se tai versi eran veramente neltempio di Ardea a' tempi di Plinio, io mi maraviglioch'egli uomo critico e dotto più che qualunque altro de'tempi suoi li potesse credere (se pur egli così credette)fatti a tempi sì antichi, e mi maraviglio ancora che niuno(ch'io sappia) degli editori e de' commentatori di Plinio

se si pongono a confronto le opere, a cagion d'esempio, de' pittori francesial principio del secolo XVI con quelle di Rafaello, di Michelagnolo, delCorreggio, e di altri Italiani della istessa età, si vedrà tra esse una notabiledifferenza: e nondimeno mal si apporrebbe chi volesse inferirne che le pit-ture francesi sono più antiche delle italiane. Ma non entriamo in una qui-stione che non è propria di questa Storia.

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Riflessioni sull'iscri-zione delle pitture del tempio di Ardea rife-rita da Pli-nio.

abbia a ciò posto mente. Supponiamo ancora che primadella fondazione di Roma usata fosse la lingua latina;non v'ha chi non sappia quanto diversa ella fosse daquella che veggiamo usata da' posteriori scrittori. Bastavedere i frammenti che ne sono stati raccolti, e quegliancora del quarto e del quinto secolo di Roma, per co-noscere che i versi da Plinio riferiti non possono in al-cun modo appartenere ad età sì remota. Che dirne dun-que? Io proporrò varie conghietture; e tra esse gli eruditisceglieranno ciò che più loro piaccia. Plinio dice che iversi erano scritti in antichi caratteri latini. Non giovaqui il cercare quali essi fossero; ma forse erano tali chea' tempi di Plinio più non s'intendevano. Quindi se necercava il senso indovinando, come or si fa de' caratterietruschi, e il sentimento indovinando raccoltone si spo-neva colle parole allora usate. Forse que' versi erano sta-ti aggiunti alcuni secoli dopo le mentovate pitture, e ilsentimento ne era fondato su qualche popolar tradizioneo vera, o falsa. Forse Plinio a questo luogo non parla diquelle stesse antichissime dipinture di cui avea di sopraparlato, ma di altre al tempio di Ardea aggiunte nelle etàposteriori. Comunque sia, ancorchè questi versi sienoapocrifi e supposti, ciò nulla dee pregiudicare all'anti-chità di cotali pitture. Essi non sono il fondamento a cuiPlinio l'appoggia. Una somigliante antichità egli attri-buisce alle pitture di Lanuvio e di Cere, delle quali nondice che avessero aggiunti versi. Dal che raccogliesichiaramente che, l'opinione di sì grande antichità nonera già fondata su tali versi, ma sulla qualità e natura

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abbia a ciò posto mente. Supponiamo ancora che primadella fondazione di Roma usata fosse la lingua latina;non v'ha chi non sappia quanto diversa ella fosse daquella che veggiamo usata da' posteriori scrittori. Bastavedere i frammenti che ne sono stati raccolti, e quegliancora del quarto e del quinto secolo di Roma, per co-noscere che i versi da Plinio riferiti non possono in al-cun modo appartenere ad età sì remota. Che dirne dun-que? Io proporrò varie conghietture; e tra esse gli eruditisceglieranno ciò che più loro piaccia. Plinio dice che iversi erano scritti in antichi caratteri latini. Non giovaqui il cercare quali essi fossero; ma forse erano tali chea' tempi di Plinio più non s'intendevano. Quindi se necercava il senso indovinando, come or si fa de' caratterietruschi, e il sentimento indovinando raccoltone si spo-neva colle parole allora usate. Forse que' versi erano sta-ti aggiunti alcuni secoli dopo le mentovate pitture, e ilsentimento ne era fondato su qualche popolar tradizioneo vera, o falsa. Forse Plinio a questo luogo non parla diquelle stesse antichissime dipinture di cui avea di sopraparlato, ma di altre al tempio di Ardea aggiunte nelle etàposteriori. Comunque sia, ancorchè questi versi sienoapocrifi e supposti, ciò nulla dee pregiudicare all'anti-chità di cotali pitture. Essi non sono il fondamento a cuiPlinio l'appoggia. Una somigliante antichità egli attri-buisce alle pitture di Lanuvio e di Cere, delle quali nondice che avessero aggiunti versi. Dal che raccogliesichiaramente che, l'opinione di sì grande antichità nonera già fondata su tali versi, ma sulla qualità e natura

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delle pitture medesime, sulla costante universal tradizio-ne, e su altri argomenti, i quali benchè da Plinio non siproducano, tali però esser dovevano a formarne una mo-rale certezza, poichè veggiamo che Plinio ne parla comedi cosa indubitabile e certa (7).

XIII. Se alcuna dell'etrusche pitture ci fosserimasta, noi potremmo cogli occhi nostrimedesimi giudicare della loro bellezza. Mase anche delle greche e delle romane ab-

biam fatta tal perdita, che assai piccola idea ne avrem-mo, se la scoperta delle rovine di Ercolano non ce neavesse poste moltissime sotto degli occhi, qual maravi-glia è che dell'etrusche tanto più antiche non ci rimangavestigio (8)? Quale però ne fosse il valore e il pregio, sipuò bastantemente raccogliere dall'allegato passo di Pli-

7 Nell'edizion romana dell'opera del Winckelmann si afferma (t. 3, p. 467)che si può soddisfare alle difficoltà da me a questo luogo proposte col direche Plinio avrà portati que' versi secondo l'ortografia e la pronunzia de'suoi tempi, e direi quasi a senso. Ma questa è appunto la prima delle con-getture da me recate a spiegare i versi da Plinio riportati.

8 Ho asserito che non ci rimane vestigio alcuno delle pitture etrusche; e talepure è il sentimento del conte di Caylus da me citato più sotto. Forse le fi-gure che si veggono su' vasi etruschi, si vorranno da alcuni considerarecome opera di pittura; il che, quando sia, gioverà a confermare l'eccellenzadegli Etruschi in tal arte, poichè è certo che molte se ne incontrano di vagoed elegante lavoro; e se non vogliansi dire pitture, serviranno almeno aprovarci la finezza degli Etruschi medesimi nel disegno. Altri forse potran-no additare altre pitture, che diconsi opere degli Etruschi; e quando si pos-sa provare che tali siano veramente, saranno una nuova prova della nostraopinione che gli Etruschi in tutti i lavori dell'arte fossero valorosi maestri.V. la Nota seguente.

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Eccellenza delle pittureetrusche.

delle pitture medesime, sulla costante universal tradizio-ne, e su altri argomenti, i quali benchè da Plinio non siproducano, tali però esser dovevano a formarne una mo-rale certezza, poichè veggiamo che Plinio ne parla comedi cosa indubitabile e certa (7).

XIII. Se alcuna dell'etrusche pitture ci fosserimasta, noi potremmo cogli occhi nostrimedesimi giudicare della loro bellezza. Mase anche delle greche e delle romane ab-

biam fatta tal perdita, che assai piccola idea ne avrem-mo, se la scoperta delle rovine di Ercolano non ce neavesse poste moltissime sotto degli occhi, qual maravi-glia è che dell'etrusche tanto più antiche non ci rimangavestigio (8)? Quale però ne fosse il valore e il pregio, sipuò bastantemente raccogliere dall'allegato passo di Pli-

7 Nell'edizion romana dell'opera del Winckelmann si afferma (t. 3, p. 467)che si può soddisfare alle difficoltà da me a questo luogo proposte col direche Plinio avrà portati que' versi secondo l'ortografia e la pronunzia de'suoi tempi, e direi quasi a senso. Ma questa è appunto la prima delle con-getture da me recate a spiegare i versi da Plinio riportati.

8 Ho asserito che non ci rimane vestigio alcuno delle pitture etrusche; e talepure è il sentimento del conte di Caylus da me citato più sotto. Forse le fi-gure che si veggono su' vasi etruschi, si vorranno da alcuni considerarecome opera di pittura; il che, quando sia, gioverà a confermare l'eccellenzadegli Etruschi in tal arte, poichè è certo che molte se ne incontrano di vagoed elegante lavoro; e se non vogliansi dire pitture, serviranno almeno aprovarci la finezza degli Etruschi medesimi nel disegno. Altri forse potran-no additare altre pitture, che diconsi opere degli Etruschi; e quando si pos-sa provare che tali siano veramente, saranno una nuova prova della nostraopinione che gli Etruschi in tutti i lavori dell'arte fossero valorosi maestri.V. la Nota seguente.

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Eccellenza delle pittureetrusche.

nio che di eccellentissima forma le dice, e ne aggiugnein prova l'infame uso che voleva farne Ponzio Legato,egli dice, del principe Caio, cioè, come pare che debbaintendersi, di Caio Caligola, ovvero, come legge il P.Arduino, lo stesso principe Caio, se esse non fosserostate dipinte sul muro. E certo il sol conservarsi intatte evive per tanti secoli, quanti ne erano corsi dal tempo,qualunque fosse, anteriore a Roma fino all'età di Plinio,che vivea nel nono secolo dopo la fondazione di essa, èuna chiarissima prova della loro eccellenza (9).9 L'ab. Passeri ha osservato che alcuni vasi etruschi hanno diversità di colo-

ri, e fra essi ancora un bellissimo porporino lavorato a fuoco (PicturæEtrusc. in Vasc. t. 1, p. 65), il che può provare che essi sapevano ancoraimpastare e maneggiare i colori. Un'altra prova ne posson somministrare legrotte che tuttor veggonsi presso Corneto, ove era già l'antica città etruscadetta Tarquinium. Servivano esse a' sepolcri, e vi si osservan tuttor le pittu-re, onde essi gli ornavano. Niuno aveane finora parlato con esattezza, e ilprimo a darcene una diligente descrizione è stato il Winckelmann nellanuova edizione della sua opera (t. 1, p. 192): e nelle note aggiunte all'edi-zion romana si dice che se ne avrà presto un'accurata notizia con tavole inrame del sig. Byres inglese. Mentre si sta aspettando quest'opera, in cui sa-rebbe desiderabile che alla rigorosa esattezza del disegno si aggiugnessel'espression de' colori, io mi compiaccio di poter qui recare la descrizioneche, dopo aver diligentemente esaminata una di quelle grotte, me ne ha tra-smessa con sua lettera da Corneto de' 20 di maggio del 1786 il sig. card.Garampi vescovo di quella città e di Montefiascona, la cui erudizione e ilcui ottimo gusto in tutto ciò che alle belle arti appartiene è abbastanzanoto. "Eccomi nel caso, mi scrive egli, di poter soddisfare l'erudita curiosi-tà del sig. Cavaliere mio stimatissimo. Corneto è situato su di una collinaconcatenata con molte altre che specialmente dalla parte del settentrione edel levante la circondano. A circa un miglio di distanza da essa, e di tre dalmare ne sorge una di quasi eguale elevazione, la quale ha per sommità unaspaziosissima pianura tutta piena di macerie, e un tal fondo chiamasi abimmemorabili Tarquinia. Quindi si asserisce che ivi fosse anticamente lacospicua città di tal nome, ch'ebbe anche vescovo proprio almeno fino alleincursioni dei Saraceni de' secoli VII, VIII, IX. Si presume ancora che ri-

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nio che di eccellentissima forma le dice, e ne aggiugnein prova l'infame uso che voleva farne Ponzio Legato,egli dice, del principe Caio, cioè, come pare che debbaintendersi, di Caio Caligola, ovvero, come legge il P.Arduino, lo stesso principe Caio, se esse non fosserostate dipinte sul muro. E certo il sol conservarsi intatte evive per tanti secoli, quanti ne erano corsi dal tempo,qualunque fosse, anteriore a Roma fino all'età di Plinio,che vivea nel nono secolo dopo la fondazione di essa, èuna chiarissima prova della loro eccellenza (9).9 L'ab. Passeri ha osservato che alcuni vasi etruschi hanno diversità di colo-

ri, e fra essi ancora un bellissimo porporino lavorato a fuoco (PicturæEtrusc. in Vasc. t. 1, p. 65), il che può provare che essi sapevano ancoraimpastare e maneggiare i colori. Un'altra prova ne posson somministrare legrotte che tuttor veggonsi presso Corneto, ove era già l'antica città etruscadetta Tarquinium. Servivano esse a' sepolcri, e vi si osservan tuttor le pittu-re, onde essi gli ornavano. Niuno aveane finora parlato con esattezza, e ilprimo a darcene una diligente descrizione è stato il Winckelmann nellanuova edizione della sua opera (t. 1, p. 192): e nelle note aggiunte all'edi-zion romana si dice che se ne avrà presto un'accurata notizia con tavole inrame del sig. Byres inglese. Mentre si sta aspettando quest'opera, in cui sa-rebbe desiderabile che alla rigorosa esattezza del disegno si aggiugnessel'espression de' colori, io mi compiaccio di poter qui recare la descrizioneche, dopo aver diligentemente esaminata una di quelle grotte, me ne ha tra-smessa con sua lettera da Corneto de' 20 di maggio del 1786 il sig. card.Garampi vescovo di quella città e di Montefiascona, la cui erudizione e ilcui ottimo gusto in tutto ciò che alle belle arti appartiene è abbastanzanoto. "Eccomi nel caso, mi scrive egli, di poter soddisfare l'erudita curiosi-tà del sig. Cavaliere mio stimatissimo. Corneto è situato su di una collinaconcatenata con molte altre che specialmente dalla parte del settentrione edel levante la circondano. A circa un miglio di distanza da essa, e di tre dalmare ne sorge una di quasi eguale elevazione, la quale ha per sommità unaspaziosissima pianura tutta piena di macerie, e un tal fondo chiamasi abimmemorabili Tarquinia. Quindi si asserisce che ivi fosse anticamente lacospicua città di tal nome, ch'ebbe anche vescovo proprio almeno fino alleincursioni dei Saraceni de' secoli VII, VIII, IX. Si presume ancora che ri-

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XIV. Nè lode punto minore si acquistarongli Etruschi nella scultura e nell'arte di farestatue e lavori di qualunque materia. Alcuniscrittori attribuiscono loro la gloria di taleinvenzione. Ajunt Thuscanos plasticen ex-

cogitasse, dice Clemente Alessandrino (Stromat. l. 1); e

manesse da essi desolata, e che d'allora in poi cominciasse a popolarsi lacollina dirimpetto ch'era di assai più difficile accesso che Tarquinia, e chefu primieramente detta Corgnitum forse dalla copia de cornioli o corgnali,e ora Cornetum. La nuova popolazione soggiogò poi la vecchia, e Tarqui-nia sempre più diminuendosi rimase finalmente territorio dei Cornetani, eloro vassalla, gli ultimi avanzi di cui furono distrutti da' Cornetani circal'anno 1307. Ora tutte le dette colline sono in massima parte o di pietraviva, o di peperino e tufo: e da per tutto trovansi nelle rupi quantità di ca-verne delle quali la massima parte è per rozzezza e incuria degli agricoltoriperita, eccetto alcune che servono tuttavia a ricovero di bestiami, e ad usirustici. Molte invero sono state otturate a fine di togliere ai malviventi ilcomodo di rifugiarvisi. Ora in molte di queste che sonosi andate di manoin mano discoprendo, sonovisi trovate o pitture, o iscrizioni etrusche, orottami di vasi e di statue, ed altre antichità. Prescindendo da qualche iscri-zione non incomoda al trasporto, tutto il rimanente a misura che discopri-vasi periva, o disperdevasi. Ne rimangono tuttavia alcune mezzo otturatenelle quali vengo assicurato essere state e pitture e iscrizioni etrusche. Unadi esse si è frattanto riaperta, e sbarazzata in gran parte della terra chel'otturava. Essa è distante un miglio di qui, lunga e larga in quadro circa 72palmi romani d'architetto per ogni lato, e alta palmi 9. Essa è tutta scavatanel sasso. La parte superiore non è a volta, ma tutta piatta: così che permeglio sostenerla sonovisi lasciati nel sasso medesimo quattro piloni qua-drati, ciascuno de' quali è in ogni lato di palmi nove. Tutta questa soffittapiatta ha con buon ordine i suoi compartimenti, dove con liste lunghe, edove con cassettoni incavati nel sasso e ornati con scorniciamenti, alcunide' quali vedonsi tuttavia coloriti. D'intorno poi a tutta la grotta presso alsoffitto, e dove rimane tuttavia aderente alle pareti l'intonacatura di calce,vedesi una linea di dentelli bianchi che ne fingono la cornice. Sotto a que-sta ricorre un architrave o sia fascia dell'altezza di once 10, nella quale ve-donsi dipinte decursioni e processi di Genj alati, molti de' quali tengonoerette in alto ascie a foggia di grandi martelli. Dov'è qualche biga, dove su

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Scultura esercitata dagli Etru-schi.

XIV. Nè lode punto minore si acquistarongli Etruschi nella scultura e nell'arte di farestatue e lavori di qualunque materia. Alcuniscrittori attribuiscono loro la gloria di taleinvenzione. Ajunt Thuscanos plasticen ex-

cogitasse, dice Clemente Alessandrino (Stromat. l. 1); e

manesse da essi desolata, e che d'allora in poi cominciasse a popolarsi lacollina dirimpetto ch'era di assai più difficile accesso che Tarquinia, e chefu primieramente detta Corgnitum forse dalla copia de cornioli o corgnali,e ora Cornetum. La nuova popolazione soggiogò poi la vecchia, e Tarqui-nia sempre più diminuendosi rimase finalmente territorio dei Cornetani, eloro vassalla, gli ultimi avanzi di cui furono distrutti da' Cornetani circal'anno 1307. Ora tutte le dette colline sono in massima parte o di pietraviva, o di peperino e tufo: e da per tutto trovansi nelle rupi quantità di ca-verne delle quali la massima parte è per rozzezza e incuria degli agricoltoriperita, eccetto alcune che servono tuttavia a ricovero di bestiami, e ad usirustici. Molte invero sono state otturate a fine di togliere ai malviventi ilcomodo di rifugiarvisi. Ora in molte di queste che sonosi andate di manoin mano discoprendo, sonovisi trovate o pitture, o iscrizioni etrusche, orottami di vasi e di statue, ed altre antichità. Prescindendo da qualche iscri-zione non incomoda al trasporto, tutto il rimanente a misura che discopri-vasi periva, o disperdevasi. Ne rimangono tuttavia alcune mezzo otturatenelle quali vengo assicurato essere state e pitture e iscrizioni etrusche. Unadi esse si è frattanto riaperta, e sbarazzata in gran parte della terra chel'otturava. Essa è distante un miglio di qui, lunga e larga in quadro circa 72palmi romani d'architetto per ogni lato, e alta palmi 9. Essa è tutta scavatanel sasso. La parte superiore non è a volta, ma tutta piatta: così che permeglio sostenerla sonovisi lasciati nel sasso medesimo quattro piloni qua-drati, ciascuno de' quali è in ogni lato di palmi nove. Tutta questa soffittapiatta ha con buon ordine i suoi compartimenti, dove con liste lunghe, edove con cassettoni incavati nel sasso e ornati con scorniciamenti, alcunide' quali vedonsi tuttavia coloriti. D'intorno poi a tutta la grotta presso alsoffitto, e dove rimane tuttavia aderente alle pareti l'intonacatura di calce,vedesi una linea di dentelli bianchi che ne fingono la cornice. Sotto a que-sta ricorre un architrave o sia fascia dell'altezza di once 10, nella quale ve-donsi dipinte decursioni e processi di Genj alati, molti de' quali tengonoerette in alto ascie a foggia di grandi martelli. Dov'è qualche biga, dove su

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Scultura esercitata dagli Etru-schi.

Cassiodoro parlando delle statue di metallo fuso Has,dice (l. 7 Variar. Formul. 15), primum Thusci in Italiainvenisse referentur. Ma convien parlare sinceramente.Troppo antichi sono gli esempi che e di statue e di scul-ture d'ogni maniera abbiamo non solo tra gli Ebrei e tragli Egiziani e tra altri antichi popoli, ma tra' Greci anco-ra, per potere un tal vanto attribuire agli Etruschi. Bastaleggere Omero ad esserne pienamente convinto. Se però

di essa è qualche figura, e in uno vidi rappresentata anche un'urna ovale aguisa di ossuario. Altrove osservasi un navicello. Considerato il tutto incomplesso mi è parso di potervi ravvisare misteri relativi allo stato delleanime separate dai corpi. In pochi luoghi in vero si distinguono i colori. Ilgiallo, il verde, e il rosso sonosi conservati più che altri; ma comunementescorgonsi le figure come ombreggiate e scure, in modo però che se ne di-stinguono sufficientemente l'atteggiamento e i contorni.

In un sito, dove maggiore è il terrapieno, continuandosi a scavare sonosi fi-nora trovate sei diverse teste di peperino di grandezza superiore al naturale,pezzi di torzi, una mano, il pollice di un piede da quattro volte maggioredel naturale, una mano che rialzasi a tutto rilievo sopra la tavola di peperi-no, in cui fu scolpita, e cinque frammenti d'iscrizioni in caratteri etruschiscritte da destra a sinistra.In altra parte poco lungi dalla stessa grotta vengo assicurato che scoprissianni sono un cadavere con ornamenti e armatura di bronzo, e con clavi o li-ste del vestimento in oro bratteato a lavori meandrici, de' quali ho potutoacquistare un picciolo frammento.Le lettere di tali iscrizioni sono alte circa once 4 incavate nel peperino, etinte in rosso che rimane tuttavia ben vivo e conservato. Nella grotta stessavedonsi tuttora al muro due altre iscrizioni etrusche, l'una tinta di verde, el'altra di rosso.Sicchè ora non più dubito che tali grotte fossero a uso de' popoli etruschi, eche per conseguenza tali pitture ad essi appartengano. Per quanto però pos-so finora congetturare, tali grotte non furono ad uso di abitazione, ma sol-tanto di sepolcri già degli antichi Tarquiniesi, giacchè esistono in fatti o sot-to le rupi della stessa collina, o nel circondario di circa un miglio da essa, equindi fin quasi alle mura di Corneto medesimo. E qui senza più me le pro-testo di cuore, ec."

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Cassiodoro parlando delle statue di metallo fuso Has,dice (l. 7 Variar. Formul. 15), primum Thusci in Italiainvenisse referentur. Ma convien parlare sinceramente.Troppo antichi sono gli esempi che e di statue e di scul-ture d'ogni maniera abbiamo non solo tra gli Ebrei e tragli Egiziani e tra altri antichi popoli, ma tra' Greci anco-ra, per potere un tal vanto attribuire agli Etruschi. Bastaleggere Omero ad esserne pienamente convinto. Se però

di essa è qualche figura, e in uno vidi rappresentata anche un'urna ovale aguisa di ossuario. Altrove osservasi un navicello. Considerato il tutto incomplesso mi è parso di potervi ravvisare misteri relativi allo stato delleanime separate dai corpi. In pochi luoghi in vero si distinguono i colori. Ilgiallo, il verde, e il rosso sonosi conservati più che altri; ma comunementescorgonsi le figure come ombreggiate e scure, in modo però che se ne di-stinguono sufficientemente l'atteggiamento e i contorni.

In un sito, dove maggiore è il terrapieno, continuandosi a scavare sonosi fi-nora trovate sei diverse teste di peperino di grandezza superiore al naturale,pezzi di torzi, una mano, il pollice di un piede da quattro volte maggioredel naturale, una mano che rialzasi a tutto rilievo sopra la tavola di peperi-no, in cui fu scolpita, e cinque frammenti d'iscrizioni in caratteri etruschiscritte da destra a sinistra.In altra parte poco lungi dalla stessa grotta vengo assicurato che scoprissianni sono un cadavere con ornamenti e armatura di bronzo, e con clavi o li-ste del vestimento in oro bratteato a lavori meandrici, de' quali ho potutoacquistare un picciolo frammento.Le lettere di tali iscrizioni sono alte circa once 4 incavate nel peperino, etinte in rosso che rimane tuttavia ben vivo e conservato. Nella grotta stessavedonsi tuttora al muro due altre iscrizioni etrusche, l'una tinta di verde, el'altra di rosso.Sicchè ora non più dubito che tali grotte fossero a uso de' popoli etruschi, eche per conseguenza tali pitture ad essi appartengano. Per quanto però pos-so finora congetturare, tali grotte non furono ad uso di abitazione, ma sol-tanto di sepolcri già degli antichi Tarquiniesi, giacchè esistono in fatti o sot-to le rupi della stessa collina, o nel circondario di circa un miglio da essa, equindi fin quasi alle mura di Corneto medesimo. E qui senza più me le pro-testo di cuore, ec."

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gli Etruschi non possono a ragione chiamarsi i primi in-ventori della scultura e dell'arte statuaria, non puossiloro a ragione negar la lode di essere in quest'arte ancorasaliti a sommo onore. Egli è vero che Quintiliano durichiama i lavori degli Etruschi (l. 12, c. 10), e il valenteantiquario Winckelmann così ne dice (Hist. de l'Art. t. 1,c. 3, sect. 1): L'art n'a jamais atteint chez les Etrusquesce degré de perfection, où il fut porté par les Grecs; etdans les ouvrages même de leur meilleur temps, il regneun goût outré qui les dépare. Tale è pure il sentimentodell'autore del trattato De l'usage des Statues: Le stileetrusque, dic'egli (part. 3, c. 2), doit être consideré sousdifférents période, mais, sous quelque période qu'on leconsidere, on y trouve toujours quelque chose de larudesse de son origine. Altri nondimeno ne pensano al-trimenti. E certo le due statue dell'Aruspice etrusco edella Chimera, delle quali oltre altri parla lungamente, ilchiarissimo proposto Gori (Mus. Florent. Stat. p. 81.Mus. Etrusc. t. 2, p. 289) statue che certamente sono diartefici etruschi antichissimi, come dalle iscrizioni sopraesse incise raccogliesi chiaramente, e statue che in bel-lezza, in simmetria, in grazia alle più pregiate di tuttal'antichità possono a giusta ragione paragonarsi, ci fanconoscere qual fosse in questa parte ancora il valor degliEtruschi. Plinio ancor ci rammenta una gigantesca statuamaravigliosa d'Apolline, opera etrusca che fino al suotempo vedevasi in Roma. Videmus certe ThuscanicumApollinem in bibliotheca templi Augusti, quinquagintapedum a pollice, dubium ære mirabiliorem an pulchri-

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gli Etruschi non possono a ragione chiamarsi i primi in-ventori della scultura e dell'arte statuaria, non puossiloro a ragione negar la lode di essere in quest'arte ancorasaliti a sommo onore. Egli è vero che Quintiliano durichiama i lavori degli Etruschi (l. 12, c. 10), e il valenteantiquario Winckelmann così ne dice (Hist. de l'Art. t. 1,c. 3, sect. 1): L'art n'a jamais atteint chez les Etrusquesce degré de perfection, où il fut porté par les Grecs; etdans les ouvrages même de leur meilleur temps, il regneun goût outré qui les dépare. Tale è pure il sentimentodell'autore del trattato De l'usage des Statues: Le stileetrusque, dic'egli (part. 3, c. 2), doit être consideré sousdifférents période, mais, sous quelque période qu'on leconsidere, on y trouve toujours quelque chose de larudesse de son origine. Altri nondimeno ne pensano al-trimenti. E certo le due statue dell'Aruspice etrusco edella Chimera, delle quali oltre altri parla lungamente, ilchiarissimo proposto Gori (Mus. Florent. Stat. p. 81.Mus. Etrusc. t. 2, p. 289) statue che certamente sono diartefici etruschi antichissimi, come dalle iscrizioni sopraesse incise raccogliesi chiaramente, e statue che in bel-lezza, in simmetria, in grazia alle più pregiate di tuttal'antichità possono a giusta ragione paragonarsi, ci fanconoscere qual fosse in questa parte ancora il valor degliEtruschi. Plinio ancor ci rammenta una gigantesca statuamaravigliosa d'Apolline, opera etrusca che fino al suotempo vedevasi in Roma. Videmus certe ThuscanicumApollinem in bibliotheca templi Augusti, quinquagintapedum a pollice, dubium ære mirabiliorem an pulchri-

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tudine (l. 34, c. 7). Un altro testimonio ne abbiamo nellagran quantità di monumenti etruschi, che sappiamo es-sere stati un tempo per l'Italia e per l'Europa tutti disper-si; che non sarebbon già essi stati con sì gran desiderioricercati, se bello e pregevole non ne fosse stato il lavo-ro. Duemila statue furono da' Romani tolte e trasportatea Roma nella espugnazione della città de' Volsini, oggiBolsena, come ne assicura Plinio (ib.), il quale nel luogostesso afferma che sparse erano pel mondo tutto le lorostatue. Signa quoque thuscanica per terras dispersa;Quæ in Etruria factitata non est dubium.

XV. Aggiungansi i loro vasi, le sepolcraliloro urne, le lampadi, e tanti lavori singolar-mente di creta, in cui gli Etruschi erano piùche altri famosi ed illustri. Quindi Plinio col

testimonio di Varrone afferma (l. 35, c. 12) che con piùfino lavoro fu quest'arte esercitata in Italia, e nella Etru-ria specialmente: Præterea elaboratam hanc artem (aitVarro) Italiæ, et maxime Etruriæ. Non vi ha museo alcu-no di antichità, che una gran copia non abbia di tai lavo-ri etruschi. Il museo etrusco, il fiorentino, ed il cortone-se, l'Etruria regale del Dempstero, la raccolta del conteCaylus, ed altre somiglianti ce ne somministrano quanti-tà prodigiosa, la quale ancora ci dà motivo di conghiet-turare quanto maggior sia quella che ne è perita. Ag-giungansi per ultimo le pietre che da essi incise, o scol-pite ancor ci rimangono, e che il valor degli Etruschi an-

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Loro vasi, urne, lam-padi, ec.

tudine (l. 34, c. 7). Un altro testimonio ne abbiamo nellagran quantità di monumenti etruschi, che sappiamo es-sere stati un tempo per l'Italia e per l'Europa tutti disper-si; che non sarebbon già essi stati con sì gran desiderioricercati, se bello e pregevole non ne fosse stato il lavo-ro. Duemila statue furono da' Romani tolte e trasportatea Roma nella espugnazione della città de' Volsini, oggiBolsena, come ne assicura Plinio (ib.), il quale nel luogostesso afferma che sparse erano pel mondo tutto le lorostatue. Signa quoque thuscanica per terras dispersa;Quæ in Etruria factitata non est dubium.

XV. Aggiungansi i loro vasi, le sepolcraliloro urne, le lampadi, e tanti lavori singolar-mente di creta, in cui gli Etruschi erano piùche altri famosi ed illustri. Quindi Plinio col

testimonio di Varrone afferma (l. 35, c. 12) che con piùfino lavoro fu quest'arte esercitata in Italia, e nella Etru-ria specialmente: Præterea elaboratam hanc artem (aitVarro) Italiæ, et maxime Etruriæ. Non vi ha museo alcu-no di antichità, che una gran copia non abbia di tai lavo-ri etruschi. Il museo etrusco, il fiorentino, ed il cortone-se, l'Etruria regale del Dempstero, la raccolta del conteCaylus, ed altre somiglianti ce ne somministrano quanti-tà prodigiosa, la quale ancora ci dà motivo di conghiet-turare quanto maggior sia quella che ne è perita. Ag-giungansi per ultimo le pietre che da essi incise, o scol-pite ancor ci rimangono, e che il valor degli Etruschi an-

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Loro vasi, urne, lam-padi, ec.

che in questa parte ci scuoprono chiaramente. Ne parlacon somma lode il valoroso antiquario, e insieme puli-tissimo stampatore Mariette nella sua descrizione dellepietre incise del gabinetto del re di Francia (t. 1, p. 8),ove dopo aver riferito il sentimento del proposto Gori, ilqual congettura che molte di tali pietre siano ancor piùantiche dell'assedio di Troia, così soggiugne: C'est assu-rément donner beaucoup aux conjectures, et peut-êtreplus qu'il ne convient; mais il n'en est pas moins vrai,que les ouvrages de sculpture des Etrusques (et il n'enfaut point séparer leurs pierres gravées) portent aveceux, comme Pline même le reconnoit, le caractère d'unetrès-haute antiquité. A' tempi di Orazio ancora conviendire che celebri fossero i cammei toscani, poichè egli nefa menzione: thyrrena sigilla (Epist. 2, l. 2). Tutti questilavori son tali, che a giusta ragione l'ammirazione ri-scuotono degl'intendenti d'antichità. Les Etrusques, diceil più volte citato conte di Caylus, della cui testimonian-za più volentieri valgomi che non di quella degl'Italiani,che sospetta potrebbe forse sembrare, e dall'amor dellapatria regolata e condotta, connoissoient toutes les par-ties de la sculpture et même de la gravure des pierres...Quelle pureté ne remarque-t-on pas dans leurs formes;quelle sagesse dans quelques-uns de leurs ornemenscourans; quelle légéreté dans le travail de la terre;quelle justesse dans la position de leurs anses! Dallequali osservazioni anche a vantaggio della pittura degliEtruschi così conchiude il medesimo autore: Quoiqu'ilne nous reste point des monumens de leur peinture, il

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che in questa parte ci scuoprono chiaramente. Ne parlacon somma lode il valoroso antiquario, e insieme puli-tissimo stampatore Mariette nella sua descrizione dellepietre incise del gabinetto del re di Francia (t. 1, p. 8),ove dopo aver riferito il sentimento del proposto Gori, ilqual congettura che molte di tali pietre siano ancor piùantiche dell'assedio di Troia, così soggiugne: C'est assu-rément donner beaucoup aux conjectures, et peut-êtreplus qu'il ne convient; mais il n'en est pas moins vrai,que les ouvrages de sculpture des Etrusques (et il n'enfaut point séparer leurs pierres gravées) portent aveceux, comme Pline même le reconnoit, le caractère d'unetrès-haute antiquité. A' tempi di Orazio ancora conviendire che celebri fossero i cammei toscani, poichè egli nefa menzione: thyrrena sigilla (Epist. 2, l. 2). Tutti questilavori son tali, che a giusta ragione l'ammirazione ri-scuotono degl'intendenti d'antichità. Les Etrusques, diceil più volte citato conte di Caylus, della cui testimonian-za più volentieri valgomi che non di quella degl'Italiani,che sospetta potrebbe forse sembrare, e dall'amor dellapatria regolata e condotta, connoissoient toutes les par-ties de la sculpture et même de la gravure des pierres...Quelle pureté ne remarque-t-on pas dans leurs formes;quelle sagesse dans quelques-uns de leurs ornemenscourans; quelle légéreté dans le travail de la terre;quelle justesse dans la position de leurs anses! Dallequali osservazioni anche a vantaggio della pittura degliEtruschi così conchiude il medesimo autore: Quoiqu'ilne nous reste point des monumens de leur peinture, il

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est certain que cet art leur fut connu... et puisqu'il yavoit parmi eux d'habiles graveurs et des célèbressculpteurs, on doit croire qu'ils excelloient aussi dans lapeinture.

XVI. Rimane per ultimo a parlare dell'archi-tettura. Ancorchè nulla sapessimo del valordegli Etruschi in quest'arte, basterebbe ri-

flettere a ciò che narra Livio (Dec. 1, l. 1), che volendoTarquinio il magnifico tempio del Campidoglio innalza-re in onore di Giove, non altronde chiamonne gli arteficiche dall'Etruria: Fabris undique ex Etruria accitis. Maaltre più certe prove ne abbiamo. L'uso degli atrj, che alprimo ingresso delle signorili case maestosamente ci siaprono innanzi, deesi agli Etruschi che ne furono i primiinventori. Lo accenna brevemente Varrone: Atrium ap-pellatum est ab Atriatibus Tusceis (De lingua lat. l. 4),cioè dagli Etruschi abitatori d'Adria: la quale etimologiada Festo Pompeo (Ad verb. Atrium), e ancora da Servio(Ad l. 1. Æn. v. 730) si accenna. Ma più chiaramente ditutti Diodoro Siculo: Domorum quoque porticus adavertendum turbæ, servorum et clientum strepitus etmolestias percommodas invenerunt (Hist. l. 5 c. 9).

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Loro archi-tettura.

est certain que cet art leur fut connu... et puisqu'il yavoit parmi eux d'habiles graveurs et des célèbressculpteurs, on doit croire qu'ils excelloient aussi dans lapeinture.

XVI. Rimane per ultimo a parlare dell'archi-tettura. Ancorchè nulla sapessimo del valordegli Etruschi in quest'arte, basterebbe ri-

flettere a ciò che narra Livio (Dec. 1, l. 1), che volendoTarquinio il magnifico tempio del Campidoglio innalza-re in onore di Giove, non altronde chiamonne gli arteficiche dall'Etruria: Fabris undique ex Etruria accitis. Maaltre più certe prove ne abbiamo. L'uso degli atrj, che alprimo ingresso delle signorili case maestosamente ci siaprono innanzi, deesi agli Etruschi che ne furono i primiinventori. Lo accenna brevemente Varrone: Atrium ap-pellatum est ab Atriatibus Tusceis (De lingua lat. l. 4),cioè dagli Etruschi abitatori d'Adria: la quale etimologiada Festo Pompeo (Ad verb. Atrium), e ancora da Servio(Ad l. 1. Æn. v. 730) si accenna. Ma più chiaramente ditutti Diodoro Siculo: Domorum quoque porticus adavertendum turbæ, servorum et clientum strepitus etmolestias percommodas invenerunt (Hist. l. 5 c. 9).

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Loro archi-tettura.

XVII. L'uso de' portici dagli Etruschi intro-dotto fu quello per avventura, che diedel'origine all'ordine di architettura da essi tro-vato, e che dal loro nome fu detto toscano.Che essi ne fossero gl'inventori, il nomestesso cel mostra. Sarò io troppo ardito, se

oserò affermare che sia questo tra tutti i cinque ordini ilpiù antico? Ma riflettiamo di grazia. L'ordin toscano ècertamente il più semplice, nel che i migliori architetticonvengono comunemente. Gli autori degli ordini dori-co, corintio, ionico e composto hanno aggiunti orna-menti e vezzi che nel toscano non sono. Or egli è certoche le cose più semplici sono le più antiche, e gli orna-menti fan certa fede di più recente lavoro. Pare dunqueche con qualche probabilità si possa affermare chel'ordin toscano è il più antico tra tutti: il che, quando siconceda, sarà certo non piccola gloria dell'Italia nostra,che essa la prima sia stata a fissare certe e determinateleggi d'architettura; e unendo insieme le antiche e le re-centi età, potremo a ragione gloriarci che l'architetturaabbia da noi avuto e il suo cominciamento e la sua per-fezione (10).

10 Il sig. Francesco Milizia vuole che il dorico sia il più antico tra tutti gli or-dini d'architettura, e che il toscano non sia altro che il dorico più semplice(Memorie degli Architetti ec. t. 1, p. 31, 35, ediz. Bassan. 1785). Ma se lecose semplici comunemente sono le prime ad esser trovate, e ad esse piùtardi si aggiungono gli ornamenti, a me sembra che debba piuttosto creder-si che il toscano sia l'ordin più antico di tutti, e che il dorico non sia altroche il toscano più ornato.

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Ordine to-scano da essi intro-dotto, forse il più anticodi tutti.

XVII. L'uso de' portici dagli Etruschi intro-dotto fu quello per avventura, che diedel'origine all'ordine di architettura da essi tro-vato, e che dal loro nome fu detto toscano.Che essi ne fossero gl'inventori, il nomestesso cel mostra. Sarò io troppo ardito, se

oserò affermare che sia questo tra tutti i cinque ordini ilpiù antico? Ma riflettiamo di grazia. L'ordin toscano ècertamente il più semplice, nel che i migliori architetticonvengono comunemente. Gli autori degli ordini dori-co, corintio, ionico e composto hanno aggiunti orna-menti e vezzi che nel toscano non sono. Or egli è certoche le cose più semplici sono le più antiche, e gli orna-menti fan certa fede di più recente lavoro. Pare dunqueche con qualche probabilità si possa affermare chel'ordin toscano è il più antico tra tutti: il che, quando siconceda, sarà certo non piccola gloria dell'Italia nostra,che essa la prima sia stata a fissare certe e determinateleggi d'architettura; e unendo insieme le antiche e le re-centi età, potremo a ragione gloriarci che l'architetturaabbia da noi avuto e il suo cominciamento e la sua per-fezione (10).

10 Il sig. Francesco Milizia vuole che il dorico sia il più antico tra tutti gli or-dini d'architettura, e che il toscano non sia altro che il dorico più semplice(Memorie degli Architetti ec. t. 1, p. 31, 35, ediz. Bassan. 1785). Ma se lecose semplici comunemente sono le prime ad esser trovate, e ad esse piùtardi si aggiungono gli ornamenti, a me sembra che debba piuttosto creder-si che il toscano sia l'ordin più antico di tutti, e che il dorico non sia altroche il toscano più ornato.

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Ordine to-scano da essi intro-dotto, forse il più anticodi tutti.

XVIII. Io ho finora recate quasi in compen-dio le prove che della lor perizia nelle artiliberali ci han lasciate gli Etruschi. Questeprove medesime più ampiamente distese, edaltre ancora ch'ho per brevità tralasciate, si

posson vedere nella dotta opera di monsig. Mario Guar-nacci delle Origini Italiche, il quale su questo argomen-to lungamente non meno che eruditamente si è trattenu-to (l. 8, c. 1 e 2) (11). A me basta di aver detto ciò ch'eranecessario a provare che queste arti liberali, e quindi an-cora le scienze, fiorirono tra gli Etruschi. Maquand'anche non avessimo a provarlo un sì valido argo-mento, esaminando diligentemente gli antichi scrittori,noi possiam ricavarne sufficiente lume a conoscere cheuomini amanti delle scienze furono gli Etruschi. Talicertamente li chiama nel luogo più volte allegato lo sto-rico Diodoro: Literis vero, et in primis naturæ ac rerumdivinarum perscrutationi plurimum studii impenderunt.Il qual detto, benchè breve sia e conciso, ogni sorte discienze veggiam nondimeno che abbraccia, e in ogniscienza egregiamente versati ci rappresenta gli Etruschi.E in fatti noi leggiamo in Livio, che a' primi tempi diRoma solevano i romani giovani nelle etrusche lettere

11 Mentre si stava stampando il primo tomo della mia Storia, venne alla luceil tomo III delle Origini Italiche dell'eruditissimo mons. Mario Guarnacci,in cui nuovi argomenti e nuove testimonianze produconsi a dimostrarequanto eccellenti fossero nelle belle arti gli Etruschi, e come prima ancorade' Greci giungessero ad ottenere in esse la perfezione. Io godo di poter ri-mettere i lettori bramosi di aver su ciò nuovi lumi a questo dotto scrittore,a cui invano mi sforzerei io di aggiungere altre scoperte.

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Altre provedelle scien-ze coltivatedagli Etru-schi.

XVIII. Io ho finora recate quasi in compen-dio le prove che della lor perizia nelle artiliberali ci han lasciate gli Etruschi. Questeprove medesime più ampiamente distese, edaltre ancora ch'ho per brevità tralasciate, si

posson vedere nella dotta opera di monsig. Mario Guar-nacci delle Origini Italiche, il quale su questo argomen-to lungamente non meno che eruditamente si è trattenu-to (l. 8, c. 1 e 2) (11). A me basta di aver detto ciò ch'eranecessario a provare che queste arti liberali, e quindi an-cora le scienze, fiorirono tra gli Etruschi. Maquand'anche non avessimo a provarlo un sì valido argo-mento, esaminando diligentemente gli antichi scrittori,noi possiam ricavarne sufficiente lume a conoscere cheuomini amanti delle scienze furono gli Etruschi. Talicertamente li chiama nel luogo più volte allegato lo sto-rico Diodoro: Literis vero, et in primis naturæ ac rerumdivinarum perscrutationi plurimum studii impenderunt.Il qual detto, benchè breve sia e conciso, ogni sorte discienze veggiam nondimeno che abbraccia, e in ogniscienza egregiamente versati ci rappresenta gli Etruschi.E in fatti noi leggiamo in Livio, che a' primi tempi diRoma solevano i romani giovani nelle etrusche lettere

11 Mentre si stava stampando il primo tomo della mia Storia, venne alla luceil tomo III delle Origini Italiche dell'eruditissimo mons. Mario Guarnacci,in cui nuovi argomenti e nuove testimonianze produconsi a dimostrarequanto eccellenti fossero nelle belle arti gli Etruschi, e come prima ancorade' Greci giungessero ad ottenere in esse la perfezione. Io godo di poter ri-mettere i lettori bramosi di aver su ciò nuovi lumi a questo dotto scrittore,a cui invano mi sforzerei io di aggiungere altre scoperte.

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Altre provedelle scien-ze coltivatedagli Etru-schi.

esser ammaestrati, come a' più recenti tempi nelle gre-che: Auctores habeo, romanos pueros, sicut nunc Græ-cis, ita tunc etruscis literis erudiri solitos (Dec. 1, l. 9).E Dionigi d'Alicarnasso racconta che Demarato greco(12) fece nelle greche egualmente che nelle etrusche lette-re i figliuoli suoi istruire (Ant. Rom. l. 3): il che ne dà in-dizio che uomini scienziati e colti fosser comunementecreduti gli Etruschi, perchè onorevole ed util cosa si ri-putasse l'essere nella lingua e nelle scienze loro ammae-strato. Ma conviene entrar più addentro in tale materia,e degli studj loro favellare distintamente.

XIX. Una letteraria contesa si è in questiultimi anni eccitata intorno alla filosofiadegli Etruschi. Il ch. Bruckero nella suaStoria Critica della Filosofia esaminando isentimenti che intorno all'essere ed egli at-tributi di Dio sostenevano i filosofi etru-schi, avea asserito (t. 1, p. 344) che l'opi-

nion degli Etruschi intorno a Dio era a quella degli Stoi-ci somigliante. Aveane recato in prova primieramente ildetto di Seneca che di ciò favellando (Nat. Quæst. l. 2,c. 41) avea detto darsi dagli Etruschi a Dio nome di fato,di provvidenza, di natura, di mondo. Avea inoltre addot-to un passo di Suida, il quale un frammento di anonimo12 Demarato era natio di Corinto, e venne a stabilirsi nell'Etruria ove ebbe

due figli Aronte e Lucumone. Il primo morì in età giovanile, il secondochiamato poscia Tarquinio, et soprannomato Prisco, giunse ad essere re diRoma.

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Contesa tra 'l Bruckero e il Lampredi in-torno alla fi-losofia degli Etruschi.

esser ammaestrati, come a' più recenti tempi nelle gre-che: Auctores habeo, romanos pueros, sicut nunc Græ-cis, ita tunc etruscis literis erudiri solitos (Dec. 1, l. 9).E Dionigi d'Alicarnasso racconta che Demarato greco(12) fece nelle greche egualmente che nelle etrusche lette-re i figliuoli suoi istruire (Ant. Rom. l. 3): il che ne dà in-dizio che uomini scienziati e colti fosser comunementecreduti gli Etruschi, perchè onorevole ed util cosa si ri-putasse l'essere nella lingua e nelle scienze loro ammae-strato. Ma conviene entrar più addentro in tale materia,e degli studj loro favellare distintamente.

XIX. Una letteraria contesa si è in questiultimi anni eccitata intorno alla filosofiadegli Etruschi. Il ch. Bruckero nella suaStoria Critica della Filosofia esaminando isentimenti che intorno all'essere ed egli at-tributi di Dio sostenevano i filosofi etru-schi, avea asserito (t. 1, p. 344) che l'opi-

nion degli Etruschi intorno a Dio era a quella degli Stoi-ci somigliante. Aveane recato in prova primieramente ildetto di Seneca che di ciò favellando (Nat. Quæst. l. 2,c. 41) avea detto darsi dagli Etruschi a Dio nome di fato,di provvidenza, di natura, di mondo. Avea inoltre addot-to un passo di Suida, il quale un frammento di anonimo12 Demarato era natio di Corinto, e venne a stabilirsi nell'Etruria ove ebbe

due figli Aronte e Lucumone. Il primo morì in età giovanile, il secondochiamato poscia Tarquinio, et soprannomato Prisco, giunse ad essere re diRoma.

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Contesa tra 'l Bruckero e il Lampredi in-torno alla fi-losofia degli Etruschi.

etrusco intorno alla creazione del mondo ci ha conserva-to, cui piacemi di qui arrecare: Opificem rerum omniumDeum (Suid. in voc. Thyrreni) duodecim annorum milliauniversi hujus creationi impendisse, resque omnes induodecim domos ita dictas distribuisse; ac primo mille-nario fecisse cœlum et terram; altero fecisse firmamen-tum illud quod appareat, idque cœlum vocasse; tertiomare et aquas omnes Quæ sunt in terra; quarto lumina-ria magna solem et lunam, itemque stellas; quinto om-nem animam volucrum et reptilium et quadrupedum inre, terra et aqua degentium. Videri itaque primos sexmillenarios ante formationem hominis, præteriisse, etreliquos sex millenarios duraturum esse genus homi-num, ut sit universum consummationis tempus duodecimmillium annorum. La qual opinione pure mostrò il Bruc-kero con quella degli Stoici convenire, i quali in diversisuccessivi tempi affermavano creato il mondo. Ma que-sto sentimento del Bruckero non piacque all'erudito si-gnor Giammaria Lampredi, il quale nel suo Saggio so-pra la filosofia degli antichi Etruschi, stampato in Fi-renze l'anno 1756, prese a combatterlo, riflettendo chepotevasi bensì l'opinion degli Etruschi con quella degliStoici accordare in ciò che spetta all'Esser Divino, maper niun modo in ciò che alla cosmogonia ossia alla ge-nerazione del mondo si appartiene; e a provarlo recòl'autorità di Laerzio, presso il quale Zenone capo e fon-dator degli Stoici così ragiona, secondo la traduzionedello stesso Lampredi: "Iddio adunque essendo nel prin-cipio appresso di se medesimo, converse tutta la sostan-

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etrusco intorno alla creazione del mondo ci ha conserva-to, cui piacemi di qui arrecare: Opificem rerum omniumDeum (Suid. in voc. Thyrreni) duodecim annorum milliauniversi hujus creationi impendisse, resque omnes induodecim domos ita dictas distribuisse; ac primo mille-nario fecisse cœlum et terram; altero fecisse firmamen-tum illud quod appareat, idque cœlum vocasse; tertiomare et aquas omnes Quæ sunt in terra; quarto lumina-ria magna solem et lunam, itemque stellas; quinto om-nem animam volucrum et reptilium et quadrupedum inre, terra et aqua degentium. Videri itaque primos sexmillenarios ante formationem hominis, præteriisse, etreliquos sex millenarios duraturum esse genus homi-num, ut sit universum consummationis tempus duodecimmillium annorum. La qual opinione pure mostrò il Bruc-kero con quella degli Stoici convenire, i quali in diversisuccessivi tempi affermavano creato il mondo. Ma que-sto sentimento del Bruckero non piacque all'erudito si-gnor Giammaria Lampredi, il quale nel suo Saggio so-pra la filosofia degli antichi Etruschi, stampato in Fi-renze l'anno 1756, prese a combatterlo, riflettendo chepotevasi bensì l'opinion degli Etruschi con quella degliStoici accordare in ciò che spetta all'Esser Divino, maper niun modo in ciò che alla cosmogonia ossia alla ge-nerazione del mondo si appartiene; e a provarlo recòl'autorità di Laerzio, presso il quale Zenone capo e fon-dator degli Stoici così ragiona, secondo la traduzionedello stesso Lampredi: "Iddio adunque essendo nel prin-cipio appresso di se medesimo, converse tutta la sostan-

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za, (preesistente), che era per aria (cioè nel voto) la con-verse, dico, in acqua; e siccome nel feto si contiene ilseme, così egli essendo la ragion seminale del mondo,lasciò tal seme nell'umido, il qual somministrasse la ma-teria alla futura generazione delle cose. Di poi generòprimieramente i quattro elementi, il fuoco, l'acqua, l'ariae la terra". Dalle quali parole conchiuse il Lampredi, cheintorno alla generazione delle cose troppo notabile era ladiversità che passava tra l'opinione degli Stoici e quelladegli Etruschi. Tardi giunse al Bruckero la notizia di tallibro ma giunse appunto mentre stava componendol'appendice alla sua Storia, che fu poi pubblicata l'anno1767; e benchè egli dica di aver lette ad animo tranquil-lo e posato le cose dal Lampredi oppostegli, quod facileet frigido quidem sensu ferimus (pag. 183), par nondi-meno che ne fosse egli punto alquanto ed offeso. Mas'io debbo parlare sinceramente, a me semba che ilBruckero, uomo per altro dottissimo, non abbia alle ra-gioni del Lampredi soddisfatto felicemente; e due cosesingolarmente son degne di osservazione. Avea prima ilBruckero allegato egli stesso in suo favore il testodell'anonimo etrusco presso Suida; ma poscia veggendoche su quello appunto si fonda il suo avversario, lo ri-getta come apocrifo e supposto, e dice che il Lampredisi è lasciato ingannare nugatoris etruscum physiologumsimulantis narratione apud Suidam. Inoltre invece dimostrare la differenza che nel sistema della cosmogoniapassava tra gli Stoici e gli Etruschi, si ferma il Bruckeroa provar di nuovo la loro coerenza in ciò che appartiene

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za, (preesistente), che era per aria (cioè nel voto) la con-verse, dico, in acqua; e siccome nel feto si contiene ilseme, così egli essendo la ragion seminale del mondo,lasciò tal seme nell'umido, il qual somministrasse la ma-teria alla futura generazione delle cose. Di poi generòprimieramente i quattro elementi, il fuoco, l'acqua, l'ariae la terra". Dalle quali parole conchiuse il Lampredi, cheintorno alla generazione delle cose troppo notabile era ladiversità che passava tra l'opinione degli Stoici e quelladegli Etruschi. Tardi giunse al Bruckero la notizia di tallibro ma giunse appunto mentre stava componendol'appendice alla sua Storia, che fu poi pubblicata l'anno1767; e benchè egli dica di aver lette ad animo tranquil-lo e posato le cose dal Lampredi oppostegli, quod facileet frigido quidem sensu ferimus (pag. 183), par nondi-meno che ne fosse egli punto alquanto ed offeso. Mas'io debbo parlare sinceramente, a me semba che ilBruckero, uomo per altro dottissimo, non abbia alle ra-gioni del Lampredi soddisfatto felicemente; e due cosesingolarmente son degne di osservazione. Avea prima ilBruckero allegato egli stesso in suo favore il testodell'anonimo etrusco presso Suida; ma poscia veggendoche su quello appunto si fonda il suo avversario, lo ri-getta come apocrifo e supposto, e dice che il Lampredisi è lasciato ingannare nugatoris etruscum physiologumsimulantis narratione apud Suidam. Inoltre invece dimostrare la differenza che nel sistema della cosmogoniapassava tra gli Stoici e gli Etruschi, si ferma il Bruckeroa provar di nuovo la loro coerenza in ciò che appartiene

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all'Esser Divino, nel che il Lampredi stesso avea conce-duto convenir cogli Stoici gli Etruschi.

XX. Ma io non voglio in questa quistionetrattenermi più oltre. Chi più ne desidera,può vedere ciò che dicono i citati autori, a'quali può aggiugnere ancora i due dottissimiscrittori Cudworth e Moshemio (Cudw.Systema intellect. tom. 1, cap. 4, §. 27.

Moshem. in notis ad hunc loc., et in Diss. de Creationead calcem Vol. II. Cudw. § XXVIII.). A me non pare chesia ben impiegato il tempo che ad esaminare i delirj de-gli antichi filosofanti si adopera; perciocchè, che giovafinalmente il sapere in qual maniera precisamente an-dassero errati, mentre la ragione stessa, non che la fede,ci mostra quanto essi si allontanasser dal vero? Nonposso però a meno di non osservare che, quando sia sin-cero il passo da Suida arrecato, in mezzo a' grossolanierrori che nella filosofia degli Etruschi ritrovansi, vedesiancora una non piccola somiglianza tra 'l lor sistema e lanarrazion di Mosè. L'intervallo della creazion delle coseè troppo diverso; ma l'ordine dello stesso intervallo èquasi pienamente conforme. Anzi le cose create quasicolle stesse parole si esprimono che nella sacra Genesi.Dal che parmi di poter raccogliere, conghietturandol'antichità degli Etruschi, che o dagli Ebrei, o da' popoliconfinanti agli Ebrei dovetter certo discendere, se sìviva si mantenne tra essi la tradizione della creazione, e

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In essa si scorge qualche analogia con quella di Mosè.

all'Esser Divino, nel che il Lampredi stesso avea conce-duto convenir cogli Stoici gli Etruschi.

XX. Ma io non voglio in questa quistionetrattenermi più oltre. Chi più ne desidera,può vedere ciò che dicono i citati autori, a'quali può aggiugnere ancora i due dottissimiscrittori Cudworth e Moshemio (Cudw.Systema intellect. tom. 1, cap. 4, §. 27.

Moshem. in notis ad hunc loc., et in Diss. de Creationead calcem Vol. II. Cudw. § XXVIII.). A me non pare chesia ben impiegato il tempo che ad esaminare i delirj de-gli antichi filosofanti si adopera; perciocchè, che giovafinalmente il sapere in qual maniera precisamente an-dassero errati, mentre la ragione stessa, non che la fede,ci mostra quanto essi si allontanasser dal vero? Nonposso però a meno di non osservare che, quando sia sin-cero il passo da Suida arrecato, in mezzo a' grossolanierrori che nella filosofia degli Etruschi ritrovansi, vedesiancora una non piccola somiglianza tra 'l lor sistema e lanarrazion di Mosè. L'intervallo della creazion delle coseè troppo diverso; ma l'ordine dello stesso intervallo èquasi pienamente conforme. Anzi le cose create quasicolle stesse parole si esprimono che nella sacra Genesi.Dal che parmi di poter raccogliere, conghietturandol'antichità degli Etruschi, che o dagli Ebrei, o da' popoliconfinanti agli Ebrei dovetter certo discendere, se sìviva si mantenne tra essi la tradizione della creazione, e

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In essa si scorge qualche analogia con quella di Mosè.

di errori ingombra assai meno che presso le altre nazioni(13).

XXI. Così si fossero essi nella purezza delculto che a Dio si dee, attenuti più fedel-mente alla tradizione de' primi loro antenatie a' libri santissimi di Mosè. Ma in questopunto essi degenerarono bruttamente. Nonvi ebbe forse in tutta l'antichità nazione al-cuna che nella superstizione andasse

tant'oltre. Arnobio giunse a chiamar l'Etruria, genitricee madre di superstizione (l. 17). L'ispezion delle viscere

13 Niuno tra' moderni scrittori ha sollevata a più alto grado di perfezione lafilosofia degli Etruschi, di quel che abbia fatto il valoroso antiquarioGiambattisa Passeri. Egli si è fatto a provare che l'arcana loro filosofia am-metteva un solo Dio; che oltre la religion naturale essi ammisero ancora larivelata; che riconoscendo un Dio solo ed eterno, ne riconobbero insiemequalche generazione; ch'essi dicevano l'uomo essere stato da Dio formatodal fango; che osservarono non solo pel lume della ragione, ma per la reli-gion rivelata ancora lo stato infelice dell'umana natura decaduta dall'anticosuo primiero grado; che ne' genj adombrarono gli angeli, e un di essi am-misero per capo degli altri, e che ebber notizia della caduta degli angioli ri-belli; che asserirono l'anima essere immortale; che credevano che i buonidopo morte fossero trasformati quasi in altrettanti dei; che eterne fosser lepene de' reprobi, e che i più leggeri falli dovessero o con temporali gasti-ghi in questa vita punirsi, o espiarsi nell'altra con pene di più breve durata,alle quali però potevasi da' viventi recar qualche sollievo. In somma secrediamo al Passeri, i più dotti tra gli Etruschi professavano in cuor loro aun dipresso quella legge medesima che professava il popol di Dio (Pictu-ræ Etrusc. in Vasc. vol. II, pag. XI, ec.). Ma io temo che questa Disserta-zione, in vece di accrescere l'onor degli Etruschi sia per confermare nellaloro opinione alcuni, i quali non troppo riconoscenti alle grandi fatiche de-gli antiquarj, per poco non li rimirano come sognatori che in un vaso dicreta, o in un pezzo di marmo, o di bronzo s'immaginano di veder cose atutti gli altri nascoste.

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In mezzo alle loro su-perstizioni si vede qualche barlume di buona fisi-ca.

di errori ingombra assai meno che presso le altre nazioni(13).

XXI. Così si fossero essi nella purezza delculto che a Dio si dee, attenuti più fedel-mente alla tradizione de' primi loro antenatie a' libri santissimi di Mosè. Ma in questopunto essi degenerarono bruttamente. Nonvi ebbe forse in tutta l'antichità nazione al-cuna che nella superstizione andasse

tant'oltre. Arnobio giunse a chiamar l'Etruria, genitricee madre di superstizione (l. 17). L'ispezion delle viscere

13 Niuno tra' moderni scrittori ha sollevata a più alto grado di perfezione lafilosofia degli Etruschi, di quel che abbia fatto il valoroso antiquarioGiambattisa Passeri. Egli si è fatto a provare che l'arcana loro filosofia am-metteva un solo Dio; che oltre la religion naturale essi ammisero ancora larivelata; che riconoscendo un Dio solo ed eterno, ne riconobbero insiemequalche generazione; ch'essi dicevano l'uomo essere stato da Dio formatodal fango; che osservarono non solo pel lume della ragione, ma per la reli-gion rivelata ancora lo stato infelice dell'umana natura decaduta dall'anticosuo primiero grado; che ne' genj adombrarono gli angeli, e un di essi am-misero per capo degli altri, e che ebber notizia della caduta degli angioli ri-belli; che asserirono l'anima essere immortale; che credevano che i buonidopo morte fossero trasformati quasi in altrettanti dei; che eterne fosser lepene de' reprobi, e che i più leggeri falli dovessero o con temporali gasti-ghi in questa vita punirsi, o espiarsi nell'altra con pene di più breve durata,alle quali però potevasi da' viventi recar qualche sollievo. In somma secrediamo al Passeri, i più dotti tra gli Etruschi professavano in cuor loro aun dipresso quella legge medesima che professava il popol di Dio (Pictu-ræ Etrusc. in Vasc. vol. II, pag. XI, ec.). Ma io temo che questa Disserta-zione, in vece di accrescere l'onor degli Etruschi sia per confermare nellaloro opinione alcuni, i quali non troppo riconoscenti alle grandi fatiche de-gli antiquarj, per poco non li rimirano come sognatori che in un vaso dicreta, o in un pezzo di marmo, o di bronzo s'immaginano di veder cose atutti gli altri nascoste.

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In mezzo alle loro su-perstizioni si vede qualche barlume di buona fisi-ca.

degli animali e l'osservazione de' fulmini erano la prin-cipal loro occupazione. Quindi que' tanti libri rituali,fulgurali, aruspicini, acherontici, pontificali, reconditi,di cui veggiam fatta menzione dagli antichi autori (V.Maffei della nazione etrusca nel tom. 4 delle osserv. lett.p. 56); quindi i favolosi racconti di Bacchide e di Tageteprimi inventori, come essi dicevano, dell'arte di prende-re augurj; quindi ancora il chiamarsi, che era in uso, de'toscani aruspici a Roma per le celesti osservazioni, e peraltre somiglianti puerilità, dietro a cui pare strano cheperduti andassero sì follemente uomini in altre cose av-veduti e saggi. Tutto ciò non appartiene a scienza, nè iomi ci debbo perciò trattenere più oltre. Pare veramenteche di mezzo a queste superstizioni una fisica opinioneprima d'ogn'altro proponesser gli Etruschi, che inquest'ultimi tempi molti ha avuti sostenitori e seguaci;cioè che i fulmini vengano ancor di sotterra, e non dalcielo soltanto. Il m. Maffei (ib. p. 73) e il Lampredi(loc. cit. p. 33) sostengono che così veramente sentisse-ro gli Etruschi, e un passo di Plinio allegano in lor favo-re: Etruria erumpere terra quoque fulmina arbitratur(Hist. natu. l. 2, c. 53). Il Bruckero al contrario, che sin-golarmente dopo aver letta la Dissertazione del Lampre-di suo avversario poco favorevol si mostra alla etruscaletteratura, pretende che effetto di superstizione soltantoe non di fisica osservazione si fosse una tale sentenza. Ame non sembra questione sì agevole a diffinire. Se altronon si aggiugnesse da Plinio, parrebbe essa chiaramentedecisa in favor degli Etruschi; ma egli di questi fulmini

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degli animali e l'osservazione de' fulmini erano la prin-cipal loro occupazione. Quindi que' tanti libri rituali,fulgurali, aruspicini, acherontici, pontificali, reconditi,di cui veggiam fatta menzione dagli antichi autori (V.Maffei della nazione etrusca nel tom. 4 delle osserv. lett.p. 56); quindi i favolosi racconti di Bacchide e di Tageteprimi inventori, come essi dicevano, dell'arte di prende-re augurj; quindi ancora il chiamarsi, che era in uso, de'toscani aruspici a Roma per le celesti osservazioni, e peraltre somiglianti puerilità, dietro a cui pare strano cheperduti andassero sì follemente uomini in altre cose av-veduti e saggi. Tutto ciò non appartiene a scienza, nè iomi ci debbo perciò trattenere più oltre. Pare veramenteche di mezzo a queste superstizioni una fisica opinioneprima d'ogn'altro proponesser gli Etruschi, che inquest'ultimi tempi molti ha avuti sostenitori e seguaci;cioè che i fulmini vengano ancor di sotterra, e non dalcielo soltanto. Il m. Maffei (ib. p. 73) e il Lampredi(loc. cit. p. 33) sostengono che così veramente sentisse-ro gli Etruschi, e un passo di Plinio allegano in lor favo-re: Etruria erumpere terra quoque fulmina arbitratur(Hist. natu. l. 2, c. 53). Il Bruckero al contrario, che sin-golarmente dopo aver letta la Dissertazione del Lampre-di suo avversario poco favorevol si mostra alla etruscaletteratura, pretende che effetto di superstizione soltantoe non di fisica osservazione si fosse una tale sentenza. Ame non sembra questione sì agevole a diffinire. Se altronon si aggiugnesse da Plinio, parrebbe essa chiaramentedecisa in favor degli Etruschi; ma egli di questi fulmini

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favellando aggiunge: Quæ infera appellat (Etruria) bru-mali tempore facta, sæva et excecrabilia. Colle quali pa-role sembra indicarne che i fulmini di sotterra scoppias-sero solo secondo gli Etruschi in tempo di verno, e cheessi soli funesti fossero e dannosi; il che certo a buonafisica non si conviene. Ma le parole non son sì chiareche bastino a decidere sicuramente. Io lascerò dunqueche ognuno segua qual parer più gli piace. Delle altresuperstiziose osservazioni degli Etruschi intorno a' ful-mini, benchè qualche morale allegorico senso possanracchiudere, come ingegnosamente osserva il Lampredi,io non farò motto; e ad altre cose passerò in vece, chedel saper degli Etruschi ci fanno più certa fede.

XXII. Che gli Etruschi coltivasser la medi-cina e l'anatomia, si è da alcuni provatocon sì deboli argomenti, che l'usarne troppomal si conviene a' sostenitori di buona cau-sa. Possonsi questi vedere presso il Lam-

predi che saggiamente ne mostra l'insussistenza (p. 41,ec.). Nè è perciò che altre migliori prove noi non ne ab-biamo. Il continuo sviscerar degli animali, che dagliEtruschi facevasi, dovea necessariamente condurgli allostudio di quelle parti che attentamente disaminavano, erenderli nell'anatomia profondamente versati. Questanon è che semplice conghiettura, appoggiata però, comeognun vede a buon fondamento. Argomenti ancor più si-curi noi abbiamo del valor loro nella medicina. Celebre

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Gli Etruschi coltivarono la medicina e l'anatomia.

favellando aggiunge: Quæ infera appellat (Etruria) bru-mali tempore facta, sæva et excecrabilia. Colle quali pa-role sembra indicarne che i fulmini di sotterra scoppias-sero solo secondo gli Etruschi in tempo di verno, e cheessi soli funesti fossero e dannosi; il che certo a buonafisica non si conviene. Ma le parole non son sì chiareche bastino a decidere sicuramente. Io lascerò dunqueche ognuno segua qual parer più gli piace. Delle altresuperstiziose osservazioni degli Etruschi intorno a' ful-mini, benchè qualche morale allegorico senso possanracchiudere, come ingegnosamente osserva il Lampredi,io non farò motto; e ad altre cose passerò in vece, chedel saper degli Etruschi ci fanno più certa fede.

XXII. Che gli Etruschi coltivasser la medi-cina e l'anatomia, si è da alcuni provatocon sì deboli argomenti, che l'usarne troppomal si conviene a' sostenitori di buona cau-sa. Possonsi questi vedere presso il Lam-

predi che saggiamente ne mostra l'insussistenza (p. 41,ec.). Nè è perciò che altre migliori prove noi non ne ab-biamo. Il continuo sviscerar degli animali, che dagliEtruschi facevasi, dovea necessariamente condurgli allostudio di quelle parti che attentamente disaminavano, erenderli nell'anatomia profondamente versati. Questanon è che semplice conghiettura, appoggiata però, comeognun vede a buon fondamento. Argomenti ancor più si-curi noi abbiamo del valor loro nella medicina. Celebre

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Gli Etruschi coltivarono la medicina e l'anatomia.

per l'origine de' rimedj chiama Marziano Capella l'Etru-ria (De nupt. Phil. et Merc. l. 6): Etruria regio... reme-diorum origine... celebrata. E facilmente si vede, qualoccasione avessero gli Etruschi di esercitarsi inquest'arte. Abbonda quella provincia di terme le cui ac-que a varj usi di medicina giovano maravigliosamente.Anche Dionigi Alicarnasseo e Strabone ne fan menzio-ne (Dion. Ant. Rom. l. 1 Strab. l. 5). Or ciò dovette pro-babilmente risvegliar l'animo degli Etruschi a investi-garne la qualità e gli effetti, e quindi ad usarne colle op-portune leggi a giovamento degl'infermi. Il Lampredi aprovare che così è veramente, seguendo il Dempstero(Etr. reg. l. 1, c. 13), mentova l'aquilege etrusco di cui,egli dice, tanti antichi fanno menzione. Ma io temo chequesta volta egli siasi troppo affidato all'autorità delDempstero. Crede egli che impiego dell'aquilege fossel'esaminare la natura de' bagni, prescrivere il modo diusarne, ed osservare ove più utilmente si avessero a col-locare. Ma egli è certo che esaminando i passi di Cas-siodoro (l. 3, Var. Epist. 53), di Plinio il giovane (l. 2,ep. 46), e il vecchio (Hist. nat. lib. 26, c. 6), chiaramenteraccogliesi che l'aquilege era quegli che indagava i ter-reni da' quali potesse sperarsi di trarre acqua, e la ma-niera e le leggi prescriveva, con cui derivarla e condurlaa' luoghi opportuni. Io non veggo in oltre chi sieno que-sti antichi autori che dell'aquilege etrusco fanno men-zione. Certo niuno de' tre poc'anzi nominati al nome diaquilege aggiugne quello di etrusco. Un sol passo di M.Terenzio Varrone io veggo allegarsi dal Dempstero (loc.

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per l'origine de' rimedj chiama Marziano Capella l'Etru-ria (De nupt. Phil. et Merc. l. 6): Etruria regio... reme-diorum origine... celebrata. E facilmente si vede, qualoccasione avessero gli Etruschi di esercitarsi inquest'arte. Abbonda quella provincia di terme le cui ac-que a varj usi di medicina giovano maravigliosamente.Anche Dionigi Alicarnasseo e Strabone ne fan menzio-ne (Dion. Ant. Rom. l. 1 Strab. l. 5). Or ciò dovette pro-babilmente risvegliar l'animo degli Etruschi a investi-garne la qualità e gli effetti, e quindi ad usarne colle op-portune leggi a giovamento degl'infermi. Il Lampredi aprovare che così è veramente, seguendo il Dempstero(Etr. reg. l. 1, c. 13), mentova l'aquilege etrusco di cui,egli dice, tanti antichi fanno menzione. Ma io temo chequesta volta egli siasi troppo affidato all'autorità delDempstero. Crede egli che impiego dell'aquilege fossel'esaminare la natura de' bagni, prescrivere il modo diusarne, ed osservare ove più utilmente si avessero a col-locare. Ma egli è certo che esaminando i passi di Cas-siodoro (l. 3, Var. Epist. 53), di Plinio il giovane (l. 2,ep. 46), e il vecchio (Hist. nat. lib. 26, c. 6), chiaramenteraccogliesi che l'aquilege era quegli che indagava i ter-reni da' quali potesse sperarsi di trarre acqua, e la ma-niera e le leggi prescriveva, con cui derivarla e condurlaa' luoghi opportuni. Io non veggo in oltre chi sieno que-sti antichi autori che dell'aquilege etrusco fanno men-zione. Certo niuno de' tre poc'anzi nominati al nome diaquilege aggiugne quello di etrusco. Un sol passo di M.Terenzio Varrone io veggo allegarsi dal Dempstero (loc.

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cit.), in cui si nomina tuscus aquilex: ma, come ilDempstero medesimo osserva, altri a quel luogo con no-tabile diversità leggono herophilus Diogenes. Ma chec-chè sia di ciò, l'esservi nella Toscana bagni salubri, e lafama in che essi erano fino a' tempi più antichi, bastardee certamente a persuaderci che, uomini ancora viavesse in Etruria, i quali le qualità e gli effetti con atten-to studio ne ponderassero.

XXIII. Troppo debole parmi ancor l'argo-mento che dal Lampredi si adopera (p. 52) aprovare gli Etruschi versati nella botanica.Adduce egli un passo di Plinio, in cui parla

di un'erba detta myriophilon da' Greci, millefolium da'Latini, e dice che gli Etruschi con tal nome chiamaronouna cotal erba cui egli vien descrivendo. Ma se l'averepresso alcun popolo ogni erba il suo nome, bastar potes-se a farci credere che lo studio della botanica vi fiorisse,non vi sarebbe nazione alcuna a cui non convenisse tallode.

XXIV. Altre invenzioni però noi veggiamodagli antichi autori agli Etruschi attribuite,che uomini ingegnosi li mostrano, e nello

studio della fisica diligentemente versati. Una sorta ditromba ad uso di guerra fu da essi trovata, secondo Dio-doro Siculo, che da lor prese il nome: Tubam primi in-

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Se coltivas-sero la bo-tanica.

Loro inven-zioni.

cit.), in cui si nomina tuscus aquilex: ma, come ilDempstero medesimo osserva, altri a quel luogo con no-tabile diversità leggono herophilus Diogenes. Ma chec-chè sia di ciò, l'esservi nella Toscana bagni salubri, e lafama in che essi erano fino a' tempi più antichi, bastardee certamente a persuaderci che, uomini ancora viavesse in Etruria, i quali le qualità e gli effetti con atten-to studio ne ponderassero.

XXIII. Troppo debole parmi ancor l'argo-mento che dal Lampredi si adopera (p. 52) aprovare gli Etruschi versati nella botanica.Adduce egli un passo di Plinio, in cui parla

di un'erba detta myriophilon da' Greci, millefolium da'Latini, e dice che gli Etruschi con tal nome chiamaronouna cotal erba cui egli vien descrivendo. Ma se l'averepresso alcun popolo ogni erba il suo nome, bastar potes-se a farci credere che lo studio della botanica vi fiorisse,non vi sarebbe nazione alcuna a cui non convenisse tallode.

XXIV. Altre invenzioni però noi veggiamodagli antichi autori agli Etruschi attribuite,che uomini ingegnosi li mostrano, e nello

studio della fisica diligentemente versati. Una sorta ditromba ad uso di guerra fu da essi trovata, secondo Dio-doro Siculo, che da lor prese il nome: Tubam primi in-

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Se coltivas-sero la bo-tanica.

Loro inven-zioni.

venerunt bello admodum utilem, et ab illis thyrrenamappellatam (l. 5, c. 9): il che da Ateneo e da Polluce(Athen. Deipnos. l. 4. Poll. Onom. l. 4, c. 11) vien con-fermato; anzi che ogni sorta di musicali strumenti fossetra essi conosciuta ed usata, chiaro si rende dalle urne eda altri antichi lor monumenti (14) in cui i sacrificj e le fe-ste veggonsi accompagnate dal suono di diversi stru-menti, alcuni de' quali ancora, come osserva il Buonar-roti (Supplem. ad Dempst. p. 68), non si veggono maine' monumenti di altre nazioni (15). Agli abitanti di unadelle loro città, cioè di Bolsena, attribuisce Plinio lalode di aver ritrovato l'uso de' molini moventisi a mano:Molas versatiles Volsiniis inventas (Hist. nat. l. 36, c.18). La nautica ancora, in cui ne' tempi più addietro pos-senti furon gli Etruschi, nuova perfezione ebbe da essi, enuovi ornamenti; perciocchè l'uso delle ancore e de' ro-stri vuole Plinio che fosse da essi trovato. Rostrum ad-didit Piseus Thyrrenus, uti et anchoram (l. 7, c. 56); ocome altri leggono, Rostrum addidit Piseus, Thyrrenianchoram.

14 Intorno alla musica degli Etruschi si può leggere un'erudita Dissertazionedel celebre antiquario Passeri poc'anzi da noi lodato (Picturæ Etrusc. inVasc. Vol II, p. LXXIII, ec.).

15 Il sig. Landi nelle note aggiunte al suo compendio della mia Storia osserva(t. I, p. 332), che il trovarsi scolpiti ne' vasi etruschi i musicali strumenti,prova che essi ne usavano, non che ne fossero gl'inventori. Nè io ho argo-mentato così, come ognun può vedere; ma dalle sculture loro io ho solo in-ferito che ogni sorta di musicali strumenti era tra essi conosciuta ed usata.Poco appresso ei muove qualche dubbio su ciò ch'io ho detto delle inven-zioni nautiche degli Etruschi; ma non parmi che si rechi ragione alcuna perdubitarne.

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venerunt bello admodum utilem, et ab illis thyrrenamappellatam (l. 5, c. 9): il che da Ateneo e da Polluce(Athen. Deipnos. l. 4. Poll. Onom. l. 4, c. 11) vien con-fermato; anzi che ogni sorta di musicali strumenti fossetra essi conosciuta ed usata, chiaro si rende dalle urne eda altri antichi lor monumenti (14) in cui i sacrificj e le fe-ste veggonsi accompagnate dal suono di diversi stru-menti, alcuni de' quali ancora, come osserva il Buonar-roti (Supplem. ad Dempst. p. 68), non si veggono maine' monumenti di altre nazioni (15). Agli abitanti di unadelle loro città, cioè di Bolsena, attribuisce Plinio lalode di aver ritrovato l'uso de' molini moventisi a mano:Molas versatiles Volsiniis inventas (Hist. nat. l. 36, c.18). La nautica ancora, in cui ne' tempi più addietro pos-senti furon gli Etruschi, nuova perfezione ebbe da essi, enuovi ornamenti; perciocchè l'uso delle ancore e de' ro-stri vuole Plinio che fosse da essi trovato. Rostrum ad-didit Piseus Thyrrenus, uti et anchoram (l. 7, c. 56); ocome altri leggono, Rostrum addidit Piseus, Thyrrenianchoram.

14 Intorno alla musica degli Etruschi si può leggere un'erudita Dissertazionedel celebre antiquario Passeri poc'anzi da noi lodato (Picturæ Etrusc. inVasc. Vol II, p. LXXIII, ec.).

15 Il sig. Landi nelle note aggiunte al suo compendio della mia Storia osserva(t. I, p. 332), che il trovarsi scolpiti ne' vasi etruschi i musicali strumenti,prova che essi ne usavano, non che ne fossero gl'inventori. Nè io ho argo-mentato così, come ognun può vedere; ma dalle sculture loro io ho solo in-ferito che ogni sorta di musicali strumenti era tra essi conosciuta ed usata.Poco appresso ei muove qualche dubbio su ciò ch'io ho detto delle inven-zioni nautiche degli Etruschi; ma non parmi che si rechi ragione alcuna perdubitarne.

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XXV. Nè queste arti soltanto, che serie egravi soglion chiamarsi, ma le più liete an-cora, coltivate furono dagli Etruschi. Il con-tinuo uso, e la solenne pompa de' sacrificj,di cui abbiam tante prove ne' lor monumen-

ti, appena ci lascian luogo a dubitare che qualche gene-re, benchè rozzo di poesia non fosse da essi conosciutoed esercitato. Essi furono inoltre da cui i Romani appre-sero i teatrali spettacoli. Dall'Etrutria chiamati furono iprimi comici a Roma, che col nome, di istrioni dallaetrusca voce ister si appellavano: Majores non abhor-ruisse, dice Tacito (Annal. l. 14), spectaculorum oblec-tamentis pro fortuna, Quæ tunc erat, eoque accitos eTuscia histriones. Confermasi ciò, ancor maggiormentecoll'autorità di Livio (Dec. 1, l. 7) il quale, dopo avere lacosa stessa più ampiamente narrata, soggiugne cheagl'istrioni succederon non molto dopo le favole atellaneche il primo abbozzo furono, per così dire, drammaticicomponimenti; ma queste ancora non di altronde chedagli Osci popoli dell'Etruria furono prese. Quod genusIudorum, dice Livio (ib.), ab Oscis acceptum tenuit ju-ventus. Gli epitalamj parimente, con cui la nuzial pompasolevasi accompagnare, cominciarono ad usarsi in Fe-scennia, città d'Etruria. Fescennium oppidum, dice Ser-vio (Ad l. 7 Æneid.), ubi nuptialia inventa sunt carmina.E in fatti presso i Latini gli epitalamj col nome di cantifescennini soleano appellarsi. Il Dempstero (l. 3, c. 35)

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Ebbero qualche sorta di poesia.

XXV. Nè queste arti soltanto, che serie egravi soglion chiamarsi, ma le più liete an-cora, coltivate furono dagli Etruschi. Il con-tinuo uso, e la solenne pompa de' sacrificj,di cui abbiam tante prove ne' lor monumen-

ti, appena ci lascian luogo a dubitare che qualche gene-re, benchè rozzo di poesia non fosse da essi conosciutoed esercitato. Essi furono inoltre da cui i Romani appre-sero i teatrali spettacoli. Dall'Etrutria chiamati furono iprimi comici a Roma, che col nome, di istrioni dallaetrusca voce ister si appellavano: Majores non abhor-ruisse, dice Tacito (Annal. l. 14), spectaculorum oblec-tamentis pro fortuna, Quæ tunc erat, eoque accitos eTuscia histriones. Confermasi ciò, ancor maggiormentecoll'autorità di Livio (Dec. 1, l. 7) il quale, dopo avere lacosa stessa più ampiamente narrata, soggiugne cheagl'istrioni succederon non molto dopo le favole atellaneche il primo abbozzo furono, per così dire, drammaticicomponimenti; ma queste ancora non di altronde chedagli Osci popoli dell'Etruria furono prese. Quod genusIudorum, dice Livio (ib.), ab Oscis acceptum tenuit ju-ventus. Gli epitalamj parimente, con cui la nuzial pompasolevasi accompagnare, cominciarono ad usarsi in Fe-scennia, città d'Etruria. Fescennium oppidum, dice Ser-vio (Ad l. 7 Æneid.), ubi nuptialia inventa sunt carmina.E in fatti presso i Latini gli epitalamj col nome di cantifescennini soleano appellarsi. Il Dempstero (l. 3, c. 35)

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Ebbero qualche sorta di poesia.

vorrebbe farci credere che, prima ancora che gli Etru-schi soggettati fossero a' Romani, avessero essi compo-ste tragedie. A provarlo allega egli un passo di Varrone,ove nominando alcuni popoli della Toscana, dice: Sedomnia hæc vocabula tusca, ut Volumnius, qui tragœdiastuscas scripsit, dicebat. Ma da questo passo ben si com-prova che Volumnio alcune tragedie avea scritte in lin-gua etrusca; ma in qual tempo le avesse scritte non si di-mostra, perciocchè poteron bene gli Etruschi, anche da-poichè costretti furono a soggettarsi a' Romani, compor-re tragedie nella materna lor lingua.

XXVI. Egli è certo a dolersi che niun lette-rario monumento degli Etruschi sia a noipervenuto, e che a saperne alcuna cosa ciconvenga fiutare, per così dire, in ogni par-

te, e ogni passo degli antichi scrittori faticosamente cer-care. Eppur sappiamo che non furon negligenti gli Etru-schi nel tramandare a' posteri la memoria loro. E al tem-po di Varrone leggevansi ancor le storie degli Etruschiscritte fin dall'ottavo lor secolo, come Censorino ci assi-cura. In tuscis historiis, Quæ octavo eorum seculoscriptæ sunt, ut Varro testatur (De die nat. c. 5). Qualfosse questo ottavo secolo degli Etruschi in cui le lorostorie essi scrissero, non è sì agevole a diffinire non po-tendosi in alcun modo determinare a qual tempo venis-sero essi in Italia. Ma qualunque esso fosse, il sapersiche storici delle loro cose furono tra gli Etruschi, egli è

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Opere de' loro scritto-ri perdute.

vorrebbe farci credere che, prima ancora che gli Etru-schi soggettati fossero a' Romani, avessero essi compo-ste tragedie. A provarlo allega egli un passo di Varrone,ove nominando alcuni popoli della Toscana, dice: Sedomnia hæc vocabula tusca, ut Volumnius, qui tragœdiastuscas scripsit, dicebat. Ma da questo passo ben si com-prova che Volumnio alcune tragedie avea scritte in lin-gua etrusca; ma in qual tempo le avesse scritte non si di-mostra, perciocchè poteron bene gli Etruschi, anche da-poichè costretti furono a soggettarsi a' Romani, compor-re tragedie nella materna lor lingua.

XXVI. Egli è certo a dolersi che niun lette-rario monumento degli Etruschi sia a noipervenuto, e che a saperne alcuna cosa ciconvenga fiutare, per così dire, in ogni par-

te, e ogni passo degli antichi scrittori faticosamente cer-care. Eppur sappiamo che non furon negligenti gli Etru-schi nel tramandare a' posteri la memoria loro. E al tem-po di Varrone leggevansi ancor le storie degli Etruschiscritte fin dall'ottavo lor secolo, come Censorino ci assi-cura. In tuscis historiis, Quæ octavo eorum seculoscriptæ sunt, ut Varro testatur (De die nat. c. 5). Qualfosse questo ottavo secolo degli Etruschi in cui le lorostorie essi scrissero, non è sì agevole a diffinire non po-tendosi in alcun modo determinare a qual tempo venis-sero essi in Italia. Ma qualunque esso fosse, il sapersiche storici delle loro cose furono tra gli Etruschi, egli è

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Opere de' loro scritto-ri perdute.

un altro indubitabile argomento a mostrarci che uominicolti essi furono, e nelle belle arti eruditi; poichè nonveggiamo che barbare e incolte nazioni abbian avutostorico alcuno. Alcuni altri scrittori etruschi veggiammentovati presso gli antichi (V. Maffei Osserv. Lett. t. 4,p. 19); ma pare che essi fossero scrittori non di cose chea scienza appartengano, ma sì delle stolte loro supersti-zioni. Ben sappiamo per testimonianza di Svetonio (inClaud. c. 42), che l'imperador Claudio una storia degliEtruschi scrisse in greco, divisa in venti libri, la quale,se fosse a noi pervenuta, più pregevoli notizie intorno adessi potrebbe forse somministrare.

XXVII. Se io volessi seguir l'esempio delDempstero, troppo più altre cose mi rimar-rebbero a dir degli Etruschi. Ne' due grantomi dell'Etruria regale, il terzo libro interodiviso in XCV capi ha egli impiegato a sco-prire le invenzioni degli Etruschi. Non vi ha

quasi cosa che da essi non sia stata trovata, e, comescherzando riflette il m. Maffei (Osserv. Letter. t. 3, p.235), l'uso stesso del respirare non viene per poco attri-buito a loro ritrovamento. Deesi a lui certo gran lode,che è stato il primo a trattare ampiamente una tal mate-ria, e a raccogliere su di essa quanto trovar poteva negliantichi scrittori. E forse hanno a vergognarsi gl'Italiani,che uno straniero abbia dovuto il primo sboscare sì in-colto terreno, e che uno straniero parimente, cioè Tom-

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I pregi let-terarj degli Etruschi troppo esa-gerati da al-cuni.

un altro indubitabile argomento a mostrarci che uominicolti essi furono, e nelle belle arti eruditi; poichè nonveggiamo che barbare e incolte nazioni abbian avutostorico alcuno. Alcuni altri scrittori etruschi veggiammentovati presso gli antichi (V. Maffei Osserv. Lett. t. 4,p. 19); ma pare che essi fossero scrittori non di cose chea scienza appartengano, ma sì delle stolte loro supersti-zioni. Ben sappiamo per testimonianza di Svetonio (inClaud. c. 42), che l'imperador Claudio una storia degliEtruschi scrisse in greco, divisa in venti libri, la quale,se fosse a noi pervenuta, più pregevoli notizie intorno adessi potrebbe forse somministrare.

XXVII. Se io volessi seguir l'esempio delDempstero, troppo più altre cose mi rimar-rebbero a dir degli Etruschi. Ne' due grantomi dell'Etruria regale, il terzo libro interodiviso in XCV capi ha egli impiegato a sco-prire le invenzioni degli Etruschi. Non vi ha

quasi cosa che da essi non sia stata trovata, e, comescherzando riflette il m. Maffei (Osserv. Letter. t. 3, p.235), l'uso stesso del respirare non viene per poco attri-buito a loro ritrovamento. Deesi a lui certo gran lode,che è stato il primo a trattare ampiamente una tal mate-ria, e a raccogliere su di essa quanto trovar poteva negliantichi scrittori. E forse hanno a vergognarsi gl'Italiani,che uno straniero abbia dovuto il primo sboscare sì in-colto terreno, e che uno straniero parimente, cioè Tom-

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I pregi let-terarj degli Etruschi troppo esa-gerati da al-cuni.

maso Coke, abbia dovuto essere di quest'opera il primoeditore. Meglio nondimeno alla gloria degli Etruschiprovveduto avrebbe il Dempstero, se a più piccola moleristringendo il suo libro, moltissime cose inutili ne aves-se tolte, e valendosi solo degli antichi accreditati scritto-ri, non avesse molte cose asserite appoggiato soloall'autorità de' moderni, e se le cose dagli Etruschi sol-tanto usate distinto avesse da quelle di cui essi furono iprimi ritrovatori. Nulla io dirò parimente di più altrecose la cui invenzione dagli antichi si attribuisce agliEtruschi, ma che non appartengono a scienza. Tali sonoi riti de' sacrificj, la solennità de' trionfi, le insegne de'generali e de' magistrati l'ordine delle battaglie, ed altresomiglianti cose, di cui puossi vedere il citato Dempste-ro, e gli altri trattatori dell'etrusche antichità. Io scrivo laStoria della Letteratura Italiana, e quindi ciò solo chealla etrusca letteratura appartiene debbe in questa miaopera aver luogo (16).

XXVIII. Un altro pregio attribuirei io vo-lentieri all'Etruria, come altri han fatto, sel'amore di verità mel permettesse. Voglionoessi che vi nascesse Pittagora. E negar nonsi può che da alcuni ei fosse creduto tosca-no: ma la cosa è così incerta, che non si può

16 Nel terzo tomo della sua opera mons. Guarnacci si occupa molto in ragio-nar delle leggi e della giurisprudenza delle antiche nazioni italiche. Ognu-no potrà in esso vedere quanto a questo argomento appartiene, e forse netroverà ancora oltra il bisogno.

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Senza ba-stevole fon-damentoPittagora sidice da al-cuni etru-sco.

maso Coke, abbia dovuto essere di quest'opera il primoeditore. Meglio nondimeno alla gloria degli Etruschiprovveduto avrebbe il Dempstero, se a più piccola moleristringendo il suo libro, moltissime cose inutili ne aves-se tolte, e valendosi solo degli antichi accreditati scritto-ri, non avesse molte cose asserite appoggiato soloall'autorità de' moderni, e se le cose dagli Etruschi sol-tanto usate distinto avesse da quelle di cui essi furono iprimi ritrovatori. Nulla io dirò parimente di più altrecose la cui invenzione dagli antichi si attribuisce agliEtruschi, ma che non appartengono a scienza. Tali sonoi riti de' sacrificj, la solennità de' trionfi, le insegne de'generali e de' magistrati l'ordine delle battaglie, ed altresomiglianti cose, di cui puossi vedere il citato Dempste-ro, e gli altri trattatori dell'etrusche antichità. Io scrivo laStoria della Letteratura Italiana, e quindi ciò solo chealla etrusca letteratura appartiene debbe in questa miaopera aver luogo (16).

XXVIII. Un altro pregio attribuirei io vo-lentieri all'Etruria, come altri han fatto, sel'amore di verità mel permettesse. Voglionoessi che vi nascesse Pittagora. E negar nonsi può che da alcuni ei fosse creduto tosca-no: ma la cosa è così incerta, che non si può

16 Nel terzo tomo della sua opera mons. Guarnacci si occupa molto in ragio-nar delle leggi e della giurisprudenza delle antiche nazioni italiche. Ognu-no potrà in esso vedere quanto a questo argomento appartiene, e forse netroverà ancora oltra il bisogno.

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Senza ba-stevole fon-damentoPittagora sidice da al-cuni etru-sco.

nemmeno con probabile fondamento asserire. Su questopunto alcuni Italiani e singolarmente il ch. m. Maffei,dall'amor della patria si son lasciati trasportare più oltreche a sincero e critico storico non si conviene. Che Pit-tagora fosse Tosco, dice il mentovato autore (Osserv.Letter. t. 4, p. 72), ne abbiam testimonj.... Eusebio, eClemente Alessandrino, Porfirio, e Laerzio, e Suida. Iomi sono presa la noiosa briga di esaminare i passi di tut-ti questi autori, ove della patria di Pittagora essi favella-no e confesso che sono stato sorpreso al vedere che nonve ne ha un solo che affermi Pittagora essere stato etru-sco. Mi sia qui lecito arrecare le lor parole, perchèognun possa vedere quanto io sia lungi dall'appoggiarmiall'autorità sola de' moderni scrittori, e dall'attribuire allamia Italia onore alcuno che non se le possa con sodi ar-gomenti difendere e conservare. Eusebio dunque, percominciare da lui, parla della patria di Pittagora come dicosa affatto incerta: Pythagoras.... Samius, ut nonnullivolunt, vel, ut aliis placet, Tuscus erat; nec desunt quiSyrum eum vel Tyrium fuisse dicant. Utut sit, ec.(Præpar. Evang. l. 10, c. 4). Nell'incertezza medesima cilascia Clemente Alessandrino: Pythagoras Mnesarchifilius, Samius quidem erat, ut dicit Hyppobotus; utautem dicit Aristoxenus in vita Pythagoræ, etAristarchus, et Theopompus, erat Tuscus; ut autemNeanthes, Syrus, vel Tyrius (Stromat. l. 1). Porfirio altronon fa egli pure che riferire più diffusamente le diverseopinioni intorno alla patria di Pittagora, ed arreca ancorala testimonianza di un antico storico, detto Lico, a com-

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nemmeno con probabile fondamento asserire. Su questopunto alcuni Italiani e singolarmente il ch. m. Maffei,dall'amor della patria si son lasciati trasportare più oltreche a sincero e critico storico non si conviene. Che Pit-tagora fosse Tosco, dice il mentovato autore (Osserv.Letter. t. 4, p. 72), ne abbiam testimonj.... Eusebio, eClemente Alessandrino, Porfirio, e Laerzio, e Suida. Iomi sono presa la noiosa briga di esaminare i passi di tut-ti questi autori, ove della patria di Pittagora essi favella-no e confesso che sono stato sorpreso al vedere che nonve ne ha un solo che affermi Pittagora essere stato etru-sco. Mi sia qui lecito arrecare le lor parole, perchèognun possa vedere quanto io sia lungi dall'appoggiarmiall'autorità sola de' moderni scrittori, e dall'attribuire allamia Italia onore alcuno che non se le possa con sodi ar-gomenti difendere e conservare. Eusebio dunque, percominciare da lui, parla della patria di Pittagora come dicosa affatto incerta: Pythagoras.... Samius, ut nonnullivolunt, vel, ut aliis placet, Tuscus erat; nec desunt quiSyrum eum vel Tyrium fuisse dicant. Utut sit, ec.(Præpar. Evang. l. 10, c. 4). Nell'incertezza medesima cilascia Clemente Alessandrino: Pythagoras Mnesarchifilius, Samius quidem erat, ut dicit Hyppobotus; utautem dicit Aristoxenus in vita Pythagoræ, etAristarchus, et Theopompus, erat Tuscus; ut autemNeanthes, Syrus, vel Tyrius (Stromat. l. 1). Porfirio altronon fa egli pure che riferire più diffusamente le diverseopinioni intorno alla patria di Pittagora, ed arreca ancorala testimonianza di un antico storico, detto Lico, a com-

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provare questa incertezza medesima. At Lycus historia-rum quarto commemorat diversas de ipsius patria quo-rumdam sententias esse, dum ait: patriam itaque et civi-tatem, cujus civem virum hunc esse contigit, nisi ipse vi-deris, scire parum tua intersit; quidam enim Samiumeum fuisse dicunt, alii vero Phliasium, nonnulli Meta-pontinum (in Vit. Pythag. ex ed. L. Holsten). Nè puntomaggior certezza intorno alla patria di Pittagora noi tro-viamo in Diogene Laerzio. Pythagoras Mnesarchi anu-lorum sculptoris filius, ut Hermippus ait, sive, ut Aristo-xenus tradit, Thyrrenus ex una Insularum, quas ejectisThyrrenis Athenienses possederunt. Sunt qui Marma-cum illius patrem, avum Hippasum, et Eutyphronematavum, Cleniumque abavum, qui Phliunte profugerit,dicant; habitasse Marmacum in Samo, atque inde Py-thagoram Samium dici, inde migrasse Lesbum, ec. (deVit. Philos. l. 8, sub init.). Suida per ultimo non solo nondà la Toscana per patria a Pittagora, ma nemmeno vuolche si dubiti che ei non fosse di Samo. PythagorasSamius (in Lexic. ad V. Pythag.) (17). Egli è dunque a

17 Il sig. ab. Fea nelle sue annotazioni all'edizion romana della Storia dellearti del Winckelmann (t. 1, p. 172) ha giustamente rilevata la mia inavver-tenza nel parlare di questo passo di Suida. Perciocchè io non avendo osser-vato che il breve articolo di questo autore, ove dice solo Pythagoras Sa-mius, non ho posta mente all'articolo precedente in cui ne ragiona più alungo, e dice che fu genere Thyrrenus, e che ancor giovinetto col padredalla Tirrenia navigò a Samo. Sarà dunque questo il solo de' cinque autoriche si producono per provar che Pittagora fosse etrusco, il qual veramentelo affermi. Ove vuolsi anche avvertire ch'egli è il più recente tra tutti, eperciò il meno opportuno ad aggiungere colla sua autorità nuovo peso aquesta opinione, la quale continuerà ad essere tuttora dubbiosa ed incerta.

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provare questa incertezza medesima. At Lycus historia-rum quarto commemorat diversas de ipsius patria quo-rumdam sententias esse, dum ait: patriam itaque et civi-tatem, cujus civem virum hunc esse contigit, nisi ipse vi-deris, scire parum tua intersit; quidam enim Samiumeum fuisse dicunt, alii vero Phliasium, nonnulli Meta-pontinum (in Vit. Pythag. ex ed. L. Holsten). Nè puntomaggior certezza intorno alla patria di Pittagora noi tro-viamo in Diogene Laerzio. Pythagoras Mnesarchi anu-lorum sculptoris filius, ut Hermippus ait, sive, ut Aristo-xenus tradit, Thyrrenus ex una Insularum, quas ejectisThyrrenis Athenienses possederunt. Sunt qui Marma-cum illius patrem, avum Hippasum, et Eutyphronematavum, Cleniumque abavum, qui Phliunte profugerit,dicant; habitasse Marmacum in Samo, atque inde Py-thagoram Samium dici, inde migrasse Lesbum, ec. (deVit. Philos. l. 8, sub init.). Suida per ultimo non solo nondà la Toscana per patria a Pittagora, ma nemmeno vuolche si dubiti che ei non fosse di Samo. PythagorasSamius (in Lexic. ad V. Pythag.) (17). Egli è dunque a

17 Il sig. ab. Fea nelle sue annotazioni all'edizion romana della Storia dellearti del Winckelmann (t. 1, p. 172) ha giustamente rilevata la mia inavver-tenza nel parlare di questo passo di Suida. Perciocchè io non avendo osser-vato che il breve articolo di questo autore, ove dice solo Pythagoras Sa-mius, non ho posta mente all'articolo precedente in cui ne ragiona più alungo, e dice che fu genere Thyrrenus, e che ancor giovinetto col padredalla Tirrenia navigò a Samo. Sarà dunque questo il solo de' cinque autoriche si producono per provar che Pittagora fosse etrusco, il qual veramentelo affermi. Ove vuolsi anche avvertire ch'egli è il più recente tra tutti, eperciò il meno opportuno ad aggiungere colla sua autorità nuovo peso aquesta opinione, la quale continuerà ad essere tuttora dubbiosa ed incerta.

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confessare sinceramente che gli autori dal m. Maffei ar-recati a provar toscano Pittagora, son quegli stessi che cicostringono a dubitar della patria di questo illustre filo-sofo.

XXIX. Un altro argomento ancora arrecail m. Maffei a comprovare il suo senti-mento, cioè il detto di un cotal Lucio pitta-gorico presso Plutarco, di cui narra questo

autore, che Etruscum fuisse affirmavit eum (cioè Pitta-gora), non ut alii quidam, quod majores ejus Thyrrenifuissent, sed ipsum in Etruria natum, educatum, institu-tum (Symposiac. l. 8, qu. 7). Questo argomento è sem-brato sì valido all'erudito canonico Filippo Laparelli,che in una sua Dissertazione sopra la nazione e la patriadi Pittagora, inserita nel tomo VI de' Saggi dell'Accade-mia di Cortona, di esso singolarmente ha voluto usare aprovar che Pittagora fosse etrusco. Ma io mi maraviglioche amendue questi valenti autori o non abbian letto, oabbiano dissimulato ciò che soggiugne Plutarco stesso;il quale all'autorità del pittagorico Lucio oppone quelladi Teone grammatico, cui introduce a favellare così:Magnum puto et non facile esse, evincere PythagoramEtruscum esse (ib.). È in vero l'argomento preso da' sim-boli pittagorici, a cui singolarmente appoggiavasi Lucio,e che nel luogo stesso da Teone vien confutato, anche alBruckero è sembrato (Hist. Crit. Philos. t. 1, p. 994) de-bole troppo e insussistente. Ella è dunque cosa dubbiosa

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Confutazione de' loro argo-menti.

confessare sinceramente che gli autori dal m. Maffei ar-recati a provar toscano Pittagora, son quegli stessi che cicostringono a dubitar della patria di questo illustre filo-sofo.

XXIX. Un altro argomento ancora arrecail m. Maffei a comprovare il suo senti-mento, cioè il detto di un cotal Lucio pitta-gorico presso Plutarco, di cui narra questo

autore, che Etruscum fuisse affirmavit eum (cioè Pitta-gora), non ut alii quidam, quod majores ejus Thyrrenifuissent, sed ipsum in Etruria natum, educatum, institu-tum (Symposiac. l. 8, qu. 7). Questo argomento è sem-brato sì valido all'erudito canonico Filippo Laparelli,che in una sua Dissertazione sopra la nazione e la patriadi Pittagora, inserita nel tomo VI de' Saggi dell'Accade-mia di Cortona, di esso singolarmente ha voluto usare aprovar che Pittagora fosse etrusco. Ma io mi maraviglioche amendue questi valenti autori o non abbian letto, oabbiano dissimulato ciò che soggiugne Plutarco stesso;il quale all'autorità del pittagorico Lucio oppone quelladi Teone grammatico, cui introduce a favellare così:Magnum puto et non facile esse, evincere PythagoramEtruscum esse (ib.). È in vero l'argomento preso da' sim-boli pittagorici, a cui singolarmente appoggiavasi Lucio,e che nel luogo stesso da Teone vien confutato, anche alBruckero è sembrato (Hist. Crit. Philos. t. 1, p. 994) de-bole troppo e insussistente. Ella è dunque cosa dubbiosa

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Confutazione de' loro argo-menti.

in tutto ed incerta che Pittagora fosse etrusco. Questagloria però non si può così facilmente negare all'Etruria,che in essa ancora per qualche tempo egli abitasse. Nongià ch'io voglia pretendere che, ove gli antichi storici di-cono ch'egli abitò lungamente in Crotone città della Ma-gna Grecia, si debba intender Cortona città dell'Etruria;che ciò dicesi senza alcun fondamento. Ma la vicinanzadella Magna Grecia all'Etruria ne fa credere probabil-mente che dall'una all'altra passasse talvolta Pittagora, eche l'Etruria ancora ne' suoi insegnamenti avesse parte.Ma di Pittagora basti per ora così; che più lungamente dilui dovrem favellare, quando della Magna Grecia do-vrem tenere ragionamento.

XXX. Potrei io forse avanzarmi ancora aconcedere un'altra gloria all'Etruria, cioè diavere accolto ed alloggiato il divino Ome-ro? L'unico autore che di ciò abbiane lascia-ta memoria, egli è Eraclide Pontico (per-ciocchè quanto ad Erodoto e a Strabone che

da altri sono allegati come affermatori della cosa mede-sima, io non ho potuto in essi trovarne vestigio) il qualene' frammenti rimastici della sua opera de Politiis, estampati in alcune edizioni di Eliano, parlando de' Cefa-leni popoli della Grecia, così dice (p. 455 post Ælian.edit. Lugd. 1604): Testatur etiam Homerus se ex Thyr-renia in Cephaleniam et Ithacam trajecisse, quum mor-bo correptus oculos amisisset. Egli è vero che Eraclide

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È probabileche Omero sia stato qualche tempo nell'Etruria.

in tutto ed incerta che Pittagora fosse etrusco. Questagloria però non si può così facilmente negare all'Etruria,che in essa ancora per qualche tempo egli abitasse. Nongià ch'io voglia pretendere che, ove gli antichi storici di-cono ch'egli abitò lungamente in Crotone città della Ma-gna Grecia, si debba intender Cortona città dell'Etruria;che ciò dicesi senza alcun fondamento. Ma la vicinanzadella Magna Grecia all'Etruria ne fa credere probabil-mente che dall'una all'altra passasse talvolta Pittagora, eche l'Etruria ancora ne' suoi insegnamenti avesse parte.Ma di Pittagora basti per ora così; che più lungamente dilui dovrem favellare, quando della Magna Grecia do-vrem tenere ragionamento.

XXX. Potrei io forse avanzarmi ancora aconcedere un'altra gloria all'Etruria, cioè diavere accolto ed alloggiato il divino Ome-ro? L'unico autore che di ciò abbiane lascia-ta memoria, egli è Eraclide Pontico (per-ciocchè quanto ad Erodoto e a Strabone che

da altri sono allegati come affermatori della cosa mede-sima, io non ho potuto in essi trovarne vestigio) il qualene' frammenti rimastici della sua opera de Politiis, estampati in alcune edizioni di Eliano, parlando de' Cefa-leni popoli della Grecia, così dice (p. 455 post Ælian.edit. Lugd. 1604): Testatur etiam Homerus se ex Thyr-renia in Cephaleniam et Ithacam trajecisse, quum mor-bo correptus oculos amisisset. Egli è vero che Eraclide

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È probabileche Omero sia stato qualche tempo nell'Etruria.

non è autor così antico che bastar possa a farci di ciò si-cura testimonianza. Ma egli allega il detto stesso diOmero, tratto forse da qualche sua opera che or più nonesiste: testatur Homerus (18). Sembra dunque che dubitarnon si possa che Omero sia stato in Etruria, il che ancorgiova a confermare che uomini colti fosser gli Etruschie nelle scienze versati. Perciocchè egli è troppo verisi-mile che Omero viaggiando, a' que' popoli si recasse, da'quali sperar poteva e favorevole accoglimento e profit-tevoli cognizioni, onde nuovo ornamento recare a' suoipoemi. E forse, come osserva il proposto Gori (Mus.Etrusc. t. 2, p. 236), ciò ch'egli scrisse intorno all'Ache-ronte, all'Averno, e ad altre somiglianti favole della gen-tilità, fu in parte frutto del viaggio ch'egli fece in Etruriae delle conversazioni che vi ebbe co' dotti uomini diquel paese. Ma ben dee dolerne all'Etruria che ella sifosse appunto il luogo in cui l'infelice poeta fu privo de-gli occhi. Se pure, come a maggior gloria di Omero tor-nò il suo accecamento medesimo, non dee l'Etruria inqualche modo gloriarsi che in essa trovasse egli di que-sto suo nuovo onore l'origine e l'occasione.

18 Il sig. Landi osserva che Erodoto anterior di un secolo a Eraclide contradi-ce al racconto di questo scrittore da me allegato (t. 1, p. 133). Ma in primoluogo confessa il sig. Landi medesimo che la vita di Omero pubblicata sot-to nome di Erodoto (che in essa solo, e non nelle storie ne parla) non è cer-to che sia di quel celebre storico, e perciò se ne sminuisce di molto l'auto-rità. In secondo luogo il supposto Erodoto afferma egli ancora che Omerofu in Italia, e solo nega che qui perdesse la vista, il che alle glorie di questaprovincia è indifferente.

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non è autor così antico che bastar possa a farci di ciò si-cura testimonianza. Ma egli allega il detto stesso diOmero, tratto forse da qualche sua opera che or più nonesiste: testatur Homerus (18). Sembra dunque che dubitarnon si possa che Omero sia stato in Etruria, il che ancorgiova a confermare che uomini colti fosser gli Etruschie nelle scienze versati. Perciocchè egli è troppo verisi-mile che Omero viaggiando, a' que' popoli si recasse, da'quali sperar poteva e favorevole accoglimento e profit-tevoli cognizioni, onde nuovo ornamento recare a' suoipoemi. E forse, come osserva il proposto Gori (Mus.Etrusc. t. 2, p. 236), ciò ch'egli scrisse intorno all'Ache-ronte, all'Averno, e ad altre somiglianti favole della gen-tilità, fu in parte frutto del viaggio ch'egli fece in Etruriae delle conversazioni che vi ebbe co' dotti uomini diquel paese. Ma ben dee dolerne all'Etruria che ella sifosse appunto il luogo in cui l'infelice poeta fu privo de-gli occhi. Se pure, come a maggior gloria di Omero tor-nò il suo accecamento medesimo, non dee l'Etruria inqualche modo gloriarsi che in essa trovasse egli di que-sto suo nuovo onore l'origine e l'occasione.

18 Il sig. Landi osserva che Erodoto anterior di un secolo a Eraclide contradi-ce al racconto di questo scrittore da me allegato (t. 1, p. 133). Ma in primoluogo confessa il sig. Landi medesimo che la vita di Omero pubblicata sot-to nome di Erodoto (che in essa solo, e non nelle storie ne parla) non è cer-to che sia di quel celebre storico, e perciò se ne sminuisce di molto l'auto-rità. In secondo luogo il supposto Erodoto afferma egli ancora che Omerofu in Italia, e solo nega che qui perdesse la vista, il che alle glorie di questaprovincia è indifferente.

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XXXI. A compire questo trattato dell'etru-sca letteratura parrà forse ad alcuno che an-cor rimanga ch'io prenda a parlare de' carat-teri e della lingua degli Etruschi. Ma io nonpenso di dover entrare in sì difficile argo-

mento. Veggo ed ammiro le fatiche che intorno ad essohan sostenute uomini eruditissimi. Ognuno ha preteso diaver colto nel vero, e di avere sciferate le letteredell'etrusco alfabeto, e il senso di lor parole. I primi atentare l'impresa furono applauditi e ottenner lode. Altrine venner dopo, che distrussero il sistema de' primi, e unnuovo alfabeto formarono e una nuova lingua. Ma an-che il loro regno, per così dire, ebbe poca durata, e ditanto in tanto veggiam sorgere nuovi Edipi, e accingersia nuove spiegazioni dell'oscuro enimma. In tanta lonta-nanza di tempo, in tanta diversità di lingue, in sì grandescarsezza di antichi scrittori, io stimo quasi impossibilel'accertar cosa alcuna. Mi sia lecito dunque il tenermilungi di sì spinosa quistione, e l'accennar solamente, masenza entrarne garante, il sentimento degli eruditi Ingle-si autori della Storia Universale, i quali dopo avere esa-minati da una parte i caratteri de' monumenti più antichiche ci rimangono di qualchesia nazione, e dall'altra que'che leggonsi in alcune iscrizioni e in alcune medaglieetrusche, così conchiudono: "Noi non possiam a men dinon credere che i caratteri alfabetici, i quali ci son rap-presentati in alcune iscrizioni etrusche, sieno i più anti-chi che al presente trovinsi al mondo... Diversi monu-menti letterarj etruschi posson gareggiare d'antichità con

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La lingua degli Etru-schi non è ancora ben conosciuta.

XXXI. A compire questo trattato dell'etru-sca letteratura parrà forse ad alcuno che an-cor rimanga ch'io prenda a parlare de' carat-teri e della lingua degli Etruschi. Ma io nonpenso di dover entrare in sì difficile argo-

mento. Veggo ed ammiro le fatiche che intorno ad essohan sostenute uomini eruditissimi. Ognuno ha preteso diaver colto nel vero, e di avere sciferate le letteredell'etrusco alfabeto, e il senso di lor parole. I primi atentare l'impresa furono applauditi e ottenner lode. Altrine venner dopo, che distrussero il sistema de' primi, e unnuovo alfabeto formarono e una nuova lingua. Ma an-che il loro regno, per così dire, ebbe poca durata, e ditanto in tanto veggiam sorgere nuovi Edipi, e accingersia nuove spiegazioni dell'oscuro enimma. In tanta lonta-nanza di tempo, in tanta diversità di lingue, in sì grandescarsezza di antichi scrittori, io stimo quasi impossibilel'accertar cosa alcuna. Mi sia lecito dunque il tenermilungi di sì spinosa quistione, e l'accennar solamente, masenza entrarne garante, il sentimento degli eruditi Ingle-si autori della Storia Universale, i quali dopo avere esa-minati da una parte i caratteri de' monumenti più antichiche ci rimangono di qualchesia nazione, e dall'altra que'che leggonsi in alcune iscrizioni e in alcune medaglieetrusche, così conchiudono: "Noi non possiam a men dinon credere che i caratteri alfabetici, i quali ci son rap-presentati in alcune iscrizioni etrusche, sieno i più anti-chi che al presente trovinsi al mondo... Diversi monu-menti letterarj etruschi posson gareggiare d'antichità con

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La lingua degli Etru-schi non è ancora ben conosciuta.

tutti quelli di tal genere, che attualmente esistono, senzapure eccettuare quelli di Egitto, che finora sono conside-rati come più antichi di tutti" (t. 14, p. 246, 247 edit.Amsterd. 1753). Così essi hanno la gloria degli Etruschiportata a tal segno, a cui niuno tra gli Italiani osò mai disollevarla. Basta leggere tutto ciò ch'essi a quel luogodicono di questa illustre nazione, per vedere quanto alta-mente sentissero dell'ingegno, del valor loro, e della loroletteratura d'ogni maniera, e per intendere che è sembra-to che gl'Italiani volessero oltre il dovere innalzare que-sti loro antenati, non son mancati eruditissimi uomini trale straniere nazioni, a' quali è paruto che di soverchiamodestia dovesser gl'Italiani esser ripresi, anzi che disoverchio desiderio di lode.

XXXII. Ma questa sì illustre nazione subìanch'essa la comun sorte d'Italia, anzi delmondo. Dopo essere stata e nelle lettere ene' sacri riti per lungo tempo maestra a' Ro-mani, fu costretta a divenir lor serva. Il do-

minio di essa s'indebolì, si ristrinse, e finalmente versoil fine del quinto secol di Roma cadde sotto il poteredell'ambiziosa rivale. Col perire del lor potere parve cheperissero ancora le arti e gli studj loro; e che col domi-nio il sapere ancor degli Etruschi passasse a' Romani.Ma prima di venire a favellare di essi, due altri popolid'Italia ci si fanno innanzi, che prima di essi conobber lescienze, e coltivaronle felicemente.

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Decadenza e rovina della loro nazione.

tutti quelli di tal genere, che attualmente esistono, senzapure eccettuare quelli di Egitto, che finora sono conside-rati come più antichi di tutti" (t. 14, p. 246, 247 edit.Amsterd. 1753). Così essi hanno la gloria degli Etruschiportata a tal segno, a cui niuno tra gli Italiani osò mai disollevarla. Basta leggere tutto ciò ch'essi a quel luogodicono di questa illustre nazione, per vedere quanto alta-mente sentissero dell'ingegno, del valor loro, e della loroletteratura d'ogni maniera, e per intendere che è sembra-to che gl'Italiani volessero oltre il dovere innalzare que-sti loro antenati, non son mancati eruditissimi uomini trale straniere nazioni, a' quali è paruto che di soverchiamodestia dovesser gl'Italiani esser ripresi, anzi che disoverchio desiderio di lode.

XXXII. Ma questa sì illustre nazione subìanch'essa la comun sorte d'Italia, anzi delmondo. Dopo essere stata e nelle lettere ene' sacri riti per lungo tempo maestra a' Ro-mani, fu costretta a divenir lor serva. Il do-

minio di essa s'indebolì, si ristrinse, e finalmente versoil fine del quinto secol di Roma cadde sotto il poteredell'ambiziosa rivale. Col perire del lor potere parve cheperissero ancora le arti e gli studj loro; e che col domi-nio il sapere ancor degli Etruschi passasse a' Romani.Ma prima di venire a favellare di essi, due altri popolid'Italia ci si fanno innanzi, che prima di essi conobber lescienze, e coltivaronle felicemente.

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Decadenza e rovina della loro nazione.

PARTE II Letteratura degli abitatori della Magna Gre-

cia e de' Siciliani antichi.

Dopo gli Etruschi, i primi popoli de' cui studj convienfavellare, sono gli abitatori di quel tratto d'Italia, che an-ticamente col titolo di Grande o Maggior Grecia venivaappellato. Quali ne fossero precisamente i confini, non ècosa agevole a diffinire, come osserva il dotto Cellario(Geograph. ant. t. 1, 2, c. 9, n. 17); ma egli è fuor didubbio che quella estrema parte d'Italia comprendeva,ove essa veppiù si ristringe tra due mari, e volge alla Si-cilia. Molte colonie di Greci venute in diversi tempi inqueste parti d'Italia ne cacciarono gli Etruschi e gli altripopoli che le abitavano, se ne fecer padroni, e dalla lorpatria stessa ad esse diedero nome. Più conghietturereca il Cellario, per cui puossi pensare che a questa,benchè non grande parte d'Italia, il soprannome aggiun-sero di Grande o Maggiore, le quali presso lui possonovedersi. Or che tra questi popoli dell'Italia fiorissero fe-licemente le scienze, noi possiamo affermarlo con assaimaggior certezza, e con evidenza assai maggiore mo-strarlo, che non tra gli Etruschi, perchè più certe e piùcopiose notizie ci sono di essi rimaste. Alla Magna Gre-cia aggiungeremo la Sicilia abitata essa pure parte da'Greci, parte da altri popoli, che da varie parti vi vennero

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PARTE II Letteratura degli abitatori della Magna Gre-

cia e de' Siciliani antichi.

Dopo gli Etruschi, i primi popoli de' cui studj convienfavellare, sono gli abitatori di quel tratto d'Italia, che an-ticamente col titolo di Grande o Maggior Grecia venivaappellato. Quali ne fossero precisamente i confini, non ècosa agevole a diffinire, come osserva il dotto Cellario(Geograph. ant. t. 1, 2, c. 9, n. 17); ma egli è fuor didubbio che quella estrema parte d'Italia comprendeva,ove essa veppiù si ristringe tra due mari, e volge alla Si-cilia. Molte colonie di Greci venute in diversi tempi inqueste parti d'Italia ne cacciarono gli Etruschi e gli altripopoli che le abitavano, se ne fecer padroni, e dalla lorpatria stessa ad esse diedero nome. Più conghietturereca il Cellario, per cui puossi pensare che a questa,benchè non grande parte d'Italia, il soprannome aggiun-sero di Grande o Maggiore, le quali presso lui possonovedersi. Or che tra questi popoli dell'Italia fiorissero fe-licemente le scienze, noi possiamo affermarlo con assaimaggior certezza, e con evidenza assai maggiore mo-strarlo, che non tra gli Etruschi, perchè più certe e piùcopiose notizie ci sono di essi rimaste. Alla Magna Gre-cia aggiungeremo la Sicilia abitata essa pure parte da'Greci, parte da altri popoli, che da varie parti vi vennero

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anticamente. La vicinanza dell'una, e dell'altra provin-cia, divise solo da un angusto stretto di mare, introdussefra loro una vicendevole comunicazione di leggi, di co-stumi, di scienze; e ragion vuole perciò, che di due na-zioni che a coltivar le scienze si congiunsero insieme, siparli congiuntamente. Nè io penso che possa alcuno aragione muoverci lite, perchè ad accrescer la gloriadell'Italiana Letteratura prendiamo a favellare degli stu-dj di que' popoli ancora, che venuti altronde fermaronpiede in Italia; altrimenti i Tedeschi ancora, come nellaPrefazione si è detto, potranno muover lite a' Francesi, esostenere che alla loro letteratura appartengono gli studjdi coloro che dalla Germania passati nelle Gallie vi ot-tennero signoria; e più altre nazioni potranno tra lorcontendere per somigliante maniera. La storia letterariadi qualunque siasi provincia ella è la storia di que' popo-li che in quella provincia abitarono, o fosse ella l'anticalor patria, o da altra parte vi si fosser condotti. Non puòdunque alcuno dolersi che a gloria degli italiani noiascriviamo la letteratura di que' popoli che questa parted'Italia anticamente abitarono. Nel ragionare della lette-ratura degli Etruschi, a provar che le scienze da essi fu-rono coltivate, abbiamo usato singolarmente dell'argo-mento, preso dalle arti loro, mostrando che amatori dellescienze esser doveano necessariamente que' popoli chenelle arti liberali si acquistarono fama e lode non ordi-naria. Di somigliante argomento usar potremmo qui an-cora; e mostrare che come nell'esercizio di queste artimedesime gli abitatori della Grecia grande e della Sici-

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anticamente. La vicinanza dell'una, e dell'altra provin-cia, divise solo da un angusto stretto di mare, introdussefra loro una vicendevole comunicazione di leggi, di co-stumi, di scienze; e ragion vuole perciò, che di due na-zioni che a coltivar le scienze si congiunsero insieme, siparli congiuntamente. Nè io penso che possa alcuno aragione muoverci lite, perchè ad accrescer la gloriadell'Italiana Letteratura prendiamo a favellare degli stu-dj di que' popoli ancora, che venuti altronde fermaronpiede in Italia; altrimenti i Tedeschi ancora, come nellaPrefazione si è detto, potranno muover lite a' Francesi, esostenere che alla loro letteratura appartengono gli studjdi coloro che dalla Germania passati nelle Gallie vi ot-tennero signoria; e più altre nazioni potranno tra lorcontendere per somigliante maniera. La storia letterariadi qualunque siasi provincia ella è la storia di que' popo-li che in quella provincia abitarono, o fosse ella l'anticalor patria, o da altra parte vi si fosser condotti. Non puòdunque alcuno dolersi che a gloria degli italiani noiascriviamo la letteratura di que' popoli che questa parted'Italia anticamente abitarono. Nel ragionare della lette-ratura degli Etruschi, a provar che le scienze da essi fu-rono coltivate, abbiamo usato singolarmente dell'argo-mento, preso dalle arti loro, mostrando che amatori dellescienze esser doveano necessariamente que' popoli chenelle arti liberali si acquistarono fama e lode non ordi-naria. Di somigliante argomento usar potremmo qui an-cora; e mostrare che come nell'esercizio di queste artimedesime gli abitatori della Grecia grande e della Sici-

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lia furono eccellenti, così convien credere che le scienzeancora coltivate fosser da essi con non men felice suc-cesso. Ma di questo argomento non ci fa bisogno a que-sto luogo. Troppo chiari monumenti ci son rimasti deglistudj di questi popoli, perchè abbiamo a cercarne provelontane ed indirette. Noi dunque degli studj loro primad'ogni cosa faremo ragionamento, e mostreremo che nonsolo in essi acquistaron gran lode, ma che in quasi tuttele parti della letteratura furono essi maestri ed esemplariagli altri Greci. Poscia, quasi a comprovare vie maggior-mente la nostra opinione, noi mostreremo che nell'eser-cizio ancora delle arti liberali si renderono illustri. Nè sicreda però, che tutti vogliansi da noi mentovare coloroche coltivaron le scienze, e de' loro studi ci lasciaronqualche durevole monumento. Non è una biblioteca discrittori italiani, ch'io ho preso a formare, ma la Storiadell'origine e del progresso delle scienze in Italia, e per-ciò di que' soli mi convien favellare, da cui esse nuovaperfezion riceverono e nuovo ornamento.

CAPO I.Filosofia, Matematica, e Leggi

I. E cominciando dalla filosofia, il primoche ci si offre a ragionare, è Pittagora. Nèvoglio io già sostenere che egli fosse italia-

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Setta Pita-gorica for-mata in Ita-lia.

lia furono eccellenti, così convien credere che le scienzeancora coltivate fosser da essi con non men felice suc-cesso. Ma di questo argomento non ci fa bisogno a que-sto luogo. Troppo chiari monumenti ci son rimasti deglistudj di questi popoli, perchè abbiamo a cercarne provelontane ed indirette. Noi dunque degli studj loro primad'ogni cosa faremo ragionamento, e mostreremo che nonsolo in essi acquistaron gran lode, ma che in quasi tuttele parti della letteratura furono essi maestri ed esemplariagli altri Greci. Poscia, quasi a comprovare vie maggior-mente la nostra opinione, noi mostreremo che nell'eser-cizio ancora delle arti liberali si renderono illustri. Nè sicreda però, che tutti vogliansi da noi mentovare coloroche coltivaron le scienze, e de' loro studi ci lasciaronqualche durevole monumento. Non è una biblioteca discrittori italiani, ch'io ho preso a formare, ma la Storiadell'origine e del progresso delle scienze in Italia, e per-ciò di que' soli mi convien favellare, da cui esse nuovaperfezion riceverono e nuovo ornamento.

CAPO I.Filosofia, Matematica, e Leggi

I. E cominciando dalla filosofia, il primoche ci si offre a ragionare, è Pittagora. Nèvoglio io già sostenere che egli fosse italia-

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Setta Pita-gorica for-mata in Ita-lia.

no. Già abbiam di sopra mostrato (Par. 1, n. 28), chenon v'ha argomento valevole a provarlo etrusco. Più in-sussistente ancora è l'opinione del canonico Campi ilquale, appoggiato a certi antichi versi non bene intesi,vorrebbe far credere che Pittagora fosse piacentino, nelche egli è stato egregiamente confutato dal dottissimoproposto Poggiali (Memor. Storiche di Piacenza t. 1, p.38) col mostrare singolarmente che quando nacque Pit-tagora non era ancor fondata Piacenza. Ma se egli nonfu italiano di nascita, pur nondimeno l'Italia può a ragio-ne vantarsi di sì illustre filosofo. Egli certamente vi fecelungo soggiorno, e in quella parte appunto di essa di cuiora trattiamo, cioè nella Magna Grecia, si rendette eglipe' nuovi suoi dogmi chiaro singolarmente e famoso.Tutti gli storici che di lui scrissero, ne fan certa fede; ciòconfermasi ancora dal nome d'Italica, che alla scuola de'Pittagorici da lui fondata fu attribuito; scuola, come diceil ch. Montucla (Hist. des Mathémat. t. 1, p. 113), in cuitutte le cognizioni che contribuir possono a perfezionarlo spirito e il cuore, furono con ardor coltivate.

II. Non è qui mio pensiero di fare lunga dis-sertazione sulla vita, sugli studj, sulle opi-nioni di questo famoso filosofo. Converreb-be prima d'ogni altra cosa esaminar la que-stione tra due dotti scrittori insorta, Jacopo

Bruckero e il p. Gerdil barnabita, sollevato poscia pe'rari suoi meriti all'onore della sacra porpora l'anno 1777.

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Contesa in-torno ad essi tra' il Bruckero e il p. Gerdil.

no. Già abbiam di sopra mostrato (Par. 1, n. 28), chenon v'ha argomento valevole a provarlo etrusco. Più in-sussistente ancora è l'opinione del canonico Campi ilquale, appoggiato a certi antichi versi non bene intesi,vorrebbe far credere che Pittagora fosse piacentino, nelche egli è stato egregiamente confutato dal dottissimoproposto Poggiali (Memor. Storiche di Piacenza t. 1, p.38) col mostrare singolarmente che quando nacque Pit-tagora non era ancor fondata Piacenza. Ma se egli nonfu italiano di nascita, pur nondimeno l'Italia può a ragio-ne vantarsi di sì illustre filosofo. Egli certamente vi fecelungo soggiorno, e in quella parte appunto di essa di cuiora trattiamo, cioè nella Magna Grecia, si rendette eglipe' nuovi suoi dogmi chiaro singolarmente e famoso.Tutti gli storici che di lui scrissero, ne fan certa fede; ciòconfermasi ancora dal nome d'Italica, che alla scuola de'Pittagorici da lui fondata fu attribuito; scuola, come diceil ch. Montucla (Hist. des Mathémat. t. 1, p. 113), in cuitutte le cognizioni che contribuir possono a perfezionarlo spirito e il cuore, furono con ardor coltivate.

II. Non è qui mio pensiero di fare lunga dis-sertazione sulla vita, sugli studj, sulle opi-nioni di questo famoso filosofo. Converreb-be prima d'ogni altra cosa esaminar la que-stione tra due dotti scrittori insorta, Jacopo

Bruckero e il p. Gerdil barnabita, sollevato poscia pe'rari suoi meriti all'onore della sacra porpora l'anno 1777.

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Contesa in-torno ad essi tra' il Bruckero e il p. Gerdil.

Sostiene il primo, ogni cosa a lui attinente essere oscuraed incerta per tal maniera che vano sia l'accingersi a ri-schiararla (Histor. Crit. Philosoph. t. 1, p. 991); e più ra-gioni ne arreca. Gli scrittori della vita di Pittagora tuttidi molto tempo a lui posteriori; le incerte tradizioni a cuiogni cosa si appoggia; la confusione di più Pittagori inun solo; la legge che dicesi da Pittagora imposta a' suoidiscepoli, e per lungo tempo osservata, di non esporre alpubblico, scrivendo, le sue opinioni; lo spirito di partitoche in Jamblico e in Porfirio, due de' principali scrittoridella sua Vita, chiaramente si scorge di offuscar la lucedel cristiano vangelo, che già cominciava a penetrareper ogni parte, col formar di Pittagora un uom portento-so, e somigliante in gran parte a Cristo medesimo; tuttociò, secondo il Bruckero, ad evidenza ne mostra quantopoca fede debbasi a' racconti che intorno ad esso si fan-no. Ma all'incontro il p. Gerdil entra coraggiosamente asostenere (Introd. allo Studio della Relig. p. 246, 263,ec.) che, comunque più cose vi sieno, intorno a Pittagoradubbiose e incerte, si può nondimeno della maggior par-te de' suoi dogmi con probabile fondamento venire inchiaro; perciocchè, egli dice, Platone, che a molti de' piùcelebri Pittagorici fu famigliare, ben potè agevolmenterisapere i dogmi di questo illustre filosofo onde a ciòch'egli, e dopo lui Aristotele, e poscia Laerzio, Porfirio,e Jamblico ed altri scrittori ne espongono intorno allepittagoriche opinioni, deesi a buon diritto ogni fede.Alle ragioni del p. Gerdil ha controrisposto il Bruckero(Append. ad Histor. Crit. Philos. p. 262, ec.) nuove ra-

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Sostiene il primo, ogni cosa a lui attinente essere oscuraed incerta per tal maniera che vano sia l'accingersi a ri-schiararla (Histor. Crit. Philosoph. t. 1, p. 991); e più ra-gioni ne arreca. Gli scrittori della vita di Pittagora tuttidi molto tempo a lui posteriori; le incerte tradizioni a cuiogni cosa si appoggia; la confusione di più Pittagori inun solo; la legge che dicesi da Pittagora imposta a' suoidiscepoli, e per lungo tempo osservata, di non esporre alpubblico, scrivendo, le sue opinioni; lo spirito di partitoche in Jamblico e in Porfirio, due de' principali scrittoridella sua Vita, chiaramente si scorge di offuscar la lucedel cristiano vangelo, che già cominciava a penetrareper ogni parte, col formar di Pittagora un uom portento-so, e somigliante in gran parte a Cristo medesimo; tuttociò, secondo il Bruckero, ad evidenza ne mostra quantopoca fede debbasi a' racconti che intorno ad esso si fan-no. Ma all'incontro il p. Gerdil entra coraggiosamente asostenere (Introd. allo Studio della Relig. p. 246, 263,ec.) che, comunque più cose vi sieno, intorno a Pittagoradubbiose e incerte, si può nondimeno della maggior par-te de' suoi dogmi con probabile fondamento venire inchiaro; perciocchè, egli dice, Platone, che a molti de' piùcelebri Pittagorici fu famigliare, ben potè agevolmenterisapere i dogmi di questo illustre filosofo onde a ciòch'egli, e dopo lui Aristotele, e poscia Laerzio, Porfirio,e Jamblico ed altri scrittori ne espongono intorno allepittagoriche opinioni, deesi a buon diritto ogni fede.Alle ragioni del p. Gerdil ha controrisposto il Bruckero(Append. ad Histor. Crit. Philos. p. 262, ec.) nuove ra-

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gioni arrecando, onde confermar l'opinion sua. Troppomale mi si converrebbe l'entrar giudice tra questi duevalentuomini. Io lascio dunque che chi è vago di taliquestioni, esamini i loro argomenti, e siegua chi più glipiace; e solo le cose che son più degne di risapersi, equelle che più concordemente si asseriscono, verrò bre-vemente sponendo.

III. Il tempo in cui egli vivesse, non si puòcon certezza determinare. Gli antichi stessinon sono in ciò tra loro concordi. Qual ma-raviglia che nol siano i moderni? Nel tomoXIV. delle Memorie dell'Accademia delle

Iscrizioni abbiamo un'erudita dissertazione di m. de laNauze, in cui con mille autorità e con forti argomenti sifa a provare che Pittagora nacque verso l'anno 640 in-nanzi l'era cristiana, e che morì verso l'anno 550. Alcontrario m. Freret in un altra bella dissertazione inseri-ta nel tomo stesso prende a ribattere le ragioni tutte dalla Nauze arrecate e molte altre ne adduce a provare chePittagora morì certamente dopo l'anno 509 innanzi l'eracristiana, e che quindi convien credere ch'egli nascessecirca l'anno 600. Altre opinioni diverse, e le contese tradotti uomini insorte in Inghilterra su questo punto siposson vedere presso il le Clerc, che de' libri intorno aciò pubblicati ci ha dati gli estratti (Bibl. choisie t. 10, p.79), e presso il Bruckero, il quale pensa che più probabi-le sia l'opinion di coloro che affermano esser lui nato

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Epoche del-la vita di Pittagora e suoj princi-pj.

gioni arrecando, onde confermar l'opinion sua. Troppomale mi si converrebbe l'entrar giudice tra questi duevalentuomini. Io lascio dunque che chi è vago di taliquestioni, esamini i loro argomenti, e siegua chi più glipiace; e solo le cose che son più degne di risapersi, equelle che più concordemente si asseriscono, verrò bre-vemente sponendo.

III. Il tempo in cui egli vivesse, non si puòcon certezza determinare. Gli antichi stessinon sono in ciò tra loro concordi. Qual ma-raviglia che nol siano i moderni? Nel tomoXIV. delle Memorie dell'Accademia delle

Iscrizioni abbiamo un'erudita dissertazione di m. de laNauze, in cui con mille autorità e con forti argomenti sifa a provare che Pittagora nacque verso l'anno 640 in-nanzi l'era cristiana, e che morì verso l'anno 550. Alcontrario m. Freret in un altra bella dissertazione inseri-ta nel tomo stesso prende a ribattere le ragioni tutte dalla Nauze arrecate e molte altre ne adduce a provare chePittagora morì certamente dopo l'anno 509 innanzi l'eracristiana, e che quindi convien credere ch'egli nascessecirca l'anno 600. Altre opinioni diverse, e le contese tradotti uomini insorte in Inghilterra su questo punto siposson vedere presso il le Clerc, che de' libri intorno aciò pubblicati ci ha dati gli estratti (Bibl. choisie t. 10, p.79), e presso il Bruckero, il quale pensa che più probabi-le sia l'opinion di coloro che affermano esser lui nato

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Epoche del-la vita di Pittagora e suoj princi-pj.

l'anno 586 innanzi a Cristo. In qualunque luogo nasces-se, egli è certo che dopo più viaggi affine di ammae-strarsi da lui intrapresi, venne a stabilirsi in Italia, il chepensa il Bruckero che accadesse l'anno 546. Vi fu tra gliantichi ancora chi disse ch'egli aveva avuto a suo disce-polo Numa, il secondo re de' Romani. Ma Cicerone stes-so rigetta una tale opinione, poichè, egli dice, Numacertamente visse degli anni assai innanzi a Pittagora(De orat. l. 2, n. 154). Crotone e Metaponto furono ledue città in cui fece egli più lungo soggiorno; ma più al-tre città ancora di queste provincie, di cui parliamo, diqua ugualmente e di là dal Faro giovaronsi de' consigli,e della dottrina di sì grand'uomo. Grandi cose ne narra-no Porfirio e Jamblico da lui fatte anche a politico rego-lamento delle provincie medesime, e grandi prodigi an-cora per lui operati; ma in questo qual fede loro si debbaè facil cosa a vedere; e anche il p. Gerdil conviene do-versi tra le favole rigettare cotai maravigliosi portenti.Nemmeno puossi affirmar con certezza se egli scrivesselibri di sorta alcuna. Su ciò ancora discordano gli antichiscrittori, nè tu sai bene cui debbasi prestare, ovvero ne-gar fede.

IV. Ciò che puossi con verità affermare, siè che fu Pittagora il primo che il nome di fi-losofo fin allora sconosciuto prendesse,come me ne assicura Cicerone (Tuscul. Qu.

l. 5, n. 3), e uno de' primi che nello studio della filoso-

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Eccellenza e fama del-la sua setta.

l'anno 586 innanzi a Cristo. In qualunque luogo nasces-se, egli è certo che dopo più viaggi affine di ammae-strarsi da lui intrapresi, venne a stabilirsi in Italia, il chepensa il Bruckero che accadesse l'anno 546. Vi fu tra gliantichi ancora chi disse ch'egli aveva avuto a suo disce-polo Numa, il secondo re de' Romani. Ma Cicerone stes-so rigetta una tale opinione, poichè, egli dice, Numacertamente visse degli anni assai innanzi a Pittagora(De orat. l. 2, n. 154). Crotone e Metaponto furono ledue città in cui fece egli più lungo soggiorno; ma più al-tre città ancora di queste provincie, di cui parliamo, diqua ugualmente e di là dal Faro giovaronsi de' consigli,e della dottrina di sì grand'uomo. Grandi cose ne narra-no Porfirio e Jamblico da lui fatte anche a politico rego-lamento delle provincie medesime, e grandi prodigi an-cora per lui operati; ma in questo qual fede loro si debbaè facil cosa a vedere; e anche il p. Gerdil conviene do-versi tra le favole rigettare cotai maravigliosi portenti.Nemmeno puossi affirmar con certezza se egli scrivesselibri di sorta alcuna. Su ciò ancora discordano gli antichiscrittori, nè tu sai bene cui debbasi prestare, ovvero ne-gar fede.

IV. Ciò che puossi con verità affermare, siè che fu Pittagora il primo che il nome di fi-losofo fin allora sconosciuto prendesse,come me ne assicura Cicerone (Tuscul. Qu.

l. 5, n. 3), e uno de' primi che nello studio della filoso-

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Eccellenza e fama del-la sua setta.

fia, e della morale, non solo cominciarono ad aprir nuo-vi sentieri ed avanzarsi più oltre assai di quello che finallora si fosse usato, ma che additando agli altri ancorale vie da essi scoperte, ed invitandogli a venire lor die-tro, aprirono pubbliche scuole, si fecero fondatori di set-te, e cercarono di risvegliare negli uomini tutti desiderioardente di virtù e di scienza. Quasi tutti i più grandi uo-mini, di cui si vanta la Grecia, Socrate, Platone, Epicu-ro, Aristotele ed altri, furono a Pittagora posteriori. Ilsolo Talete Milesio fondator della setta che jonica fu ap-pellata, visse innanzi a lui. Ma se Pittagora non ebbe ilvanto di essere a lui anteriore di tempo, quello ebbe cer-tamente di superarlo in fama; poichè la scuola di Pitta-gora più assai che non quella di Talete, fu presso gli an-tichi filosofi illustre e chiara; e paragonando ciò che ipiù accreditati scrittori ne dicono delle opinioni loro,chiaramente si vede che Pittagora più addentro inoltros-si nel conoscimento della natura, e che se non giunse inmolte cose allo scoprimento del vero vi si accostò non-dimeno assai più vicino che non Talete. E a ciò attribuirsi deve la stima in cui fu sempre Pittagora mentre vivea,e l'affollato concorso che ad udirlo faceasi da ogni parte.Ne abbiamo un chiaro testimonio nella lettera a lui scrit-ta da Anassimene, che da Laerzio ne è stata conservata.Atqui, così gli scrive egli, tu Crotoniatis atque Italis ce-teris gratus atque in pretio es; accedunt et ex Siciliastudiosi quique (Laert. l. 2 in Vit. Anaximen.).

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fia, e della morale, non solo cominciarono ad aprir nuo-vi sentieri ed avanzarsi più oltre assai di quello che finallora si fosse usato, ma che additando agli altri ancorale vie da essi scoperte, ed invitandogli a venire lor die-tro, aprirono pubbliche scuole, si fecero fondatori di set-te, e cercarono di risvegliare negli uomini tutti desiderioardente di virtù e di scienza. Quasi tutti i più grandi uo-mini, di cui si vanta la Grecia, Socrate, Platone, Epicu-ro, Aristotele ed altri, furono a Pittagora posteriori. Ilsolo Talete Milesio fondator della setta che jonica fu ap-pellata, visse innanzi a lui. Ma se Pittagora non ebbe ilvanto di essere a lui anteriore di tempo, quello ebbe cer-tamente di superarlo in fama; poichè la scuola di Pitta-gora più assai che non quella di Talete, fu presso gli an-tichi filosofi illustre e chiara; e paragonando ciò che ipiù accreditati scrittori ne dicono delle opinioni loro,chiaramente si vede che Pittagora più addentro inoltros-si nel conoscimento della natura, e che se non giunse inmolte cose allo scoprimento del vero vi si accostò non-dimeno assai più vicino che non Talete. E a ciò attribuirsi deve la stima in cui fu sempre Pittagora mentre vivea,e l'affollato concorso che ad udirlo faceasi da ogni parte.Ne abbiamo un chiaro testimonio nella lettera a lui scrit-ta da Anassimene, che da Laerzio ne è stata conservata.Atqui, così gli scrive egli, tu Crotoniatis atque Italis ce-teris gratus atque in pretio es; accedunt et ex Siciliastudiosi quique (Laert. l. 2 in Vit. Anaximen.).

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V. Della maniera da Pittagora usatanell'istruire i suoi discepoli, del rigoroso si-lenzio, della sobrietà e temperanza nel vitto,nel sonno, nel portamento tutto esteriore, edel dispregio della gloria, della comunione

de' beni, e di altre somiglianti cose che da essi esigeva,si può vedere il soprallodato Bruckero che questo puntodi storia con singolare esattezza ha esaminato. Per ciòche appartiene alle filosofiche opinioni di Pittagora lostesso autore dopo aver recate non poche ragioni comedi sopra osservammo, a mostrare quanto grande sial'incertezza in cui su questo punto necessariamente esserdobbiamo, va diligentemente raccogliendo tutto ciò cheda diversi scrittori antichi gli viene attribuito intornoalla filosofia in generale, all'aritmetica, alla musica, allageometria, all'astronomia, alla medicina, alla filosofiamorale, ed alla teologia; il che pure dal p. Gerdil consomma diligenza si è fatto (loc. cit.) in ciò singolarmen-te che alla natural teologia gli appartiene, e dal Montu-cla (Hist. des Mathém. t. 1, p. 122, ec.) in ciò che spettaalla matematica. Faticosa non men che inutile impresasarebbe il voler qui recare ogni cosa, ad esame; nè altropotrei io fare che ripetere ciò che da' mentovati autori sidisputa diffusamente, e le questioni, in cui mi conver-rebbe entrare, sarebbono per la più parte inutili e oscure.Quando io avessi riempiute più pagine disputando intor-no alla metempsicosi, all'armonia, e ad altre somigliantiquestioni, proprie della pittagorica filosofia, qual fruttone avrei io raccolto, se non quello di aver inutilmente

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Opinioni diessa intornoalla filoso-fia in gene-rale.

V. Della maniera da Pittagora usatanell'istruire i suoi discepoli, del rigoroso si-lenzio, della sobrietà e temperanza nel vitto,nel sonno, nel portamento tutto esteriore, edel dispregio della gloria, della comunione

de' beni, e di altre somiglianti cose che da essi esigeva,si può vedere il soprallodato Bruckero che questo puntodi storia con singolare esattezza ha esaminato. Per ciòche appartiene alle filosofiche opinioni di Pittagora lostesso autore dopo aver recate non poche ragioni comedi sopra osservammo, a mostrare quanto grande sial'incertezza in cui su questo punto necessariamente esserdobbiamo, va diligentemente raccogliendo tutto ciò cheda diversi scrittori antichi gli viene attribuito intornoalla filosofia in generale, all'aritmetica, alla musica, allageometria, all'astronomia, alla medicina, alla filosofiamorale, ed alla teologia; il che pure dal p. Gerdil consomma diligenza si è fatto (loc. cit.) in ciò singolarmen-te che alla natural teologia gli appartiene, e dal Montu-cla (Hist. des Mathém. t. 1, p. 122, ec.) in ciò che spettaalla matematica. Faticosa non men che inutile impresasarebbe il voler qui recare ogni cosa, ad esame; nè altropotrei io fare che ripetere ciò che da' mentovati autori sidisputa diffusamente, e le questioni, in cui mi conver-rebbe entrare, sarebbono per la più parte inutili e oscure.Quando io avessi riempiute più pagine disputando intor-no alla metempsicosi, all'armonia, e ad altre somigliantiquestioni, proprie della pittagorica filosofia, qual fruttone avrei io raccolto, se non quello di aver inutilmente

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Opinioni diessa intornoalla filoso-fia in gene-rale.

annoiati i lettori?

VI. Alcune cose però, che alla matematicae alla moderna fisica appartengono, e da-gli antichi scrittori attribuite vengono aPittagora, o almeno a' suoi discepoli, vo-glionsi più attentamente disaminare. E

primieramente il soprallodato p. Gerdil ha ingegnosa-mente mostrato quanto il sistema delle monadi leibni-ziane sia conforme al sistema fisico di Pittagora (loc.cit. p. 272, ec.). Veggasi su questo punto singolarmenteil bellissimo ed eruditissimo libro di m. Dutens, intitola-to Recherches sur les Découvertes attribuées aux Mo-dernes (t. 1, p. 77, ec.), di cui assai spesso nel decorso diquest'opera dovrem valerci, il quale ancora degli altri si-stemi de' moderni filosofi trova e scuopre i primi semiin Pittagora e in altri antichi. Io non entrerò su questamateria a lunga ed esatta discussione, che nulla potreidire che da questo autore non sia già stato detto. Solo neaccennerò all'occasione alcuna cosa, rimettendo a chipiù ne voglia all'autore medesimo che certamente meritadi esser letto. Proclo a Pittagora attribuisce il vanto(Præf. in l. 2 Eucl.) di avere il primo, ridotta a forma discienza la geometria. Ma come bene riflette il Bruckero(t. 1, p. 1060), altri geometri vi furono certamente in-nanzi a lui. Non può nondimeno a lui negarsi l'onore diaver prima d'ogni altro coltivata nella Magna Greciaquesta scienza, e di averla a maggior perfezione condot-

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Scoperte astronomiche e matematichein esse fatte.

annoiati i lettori?

VI. Alcune cose però, che alla matematicae alla moderna fisica appartengono, e da-gli antichi scrittori attribuite vengono aPittagora, o almeno a' suoi discepoli, vo-glionsi più attentamente disaminare. E

primieramente il soprallodato p. Gerdil ha ingegnosa-mente mostrato quanto il sistema delle monadi leibni-ziane sia conforme al sistema fisico di Pittagora (loc.cit. p. 272, ec.). Veggasi su questo punto singolarmenteil bellissimo ed eruditissimo libro di m. Dutens, intitola-to Recherches sur les Découvertes attribuées aux Mo-dernes (t. 1, p. 77, ec.), di cui assai spesso nel decorso diquest'opera dovrem valerci, il quale ancora degli altri si-stemi de' moderni filosofi trova e scuopre i primi semiin Pittagora e in altri antichi. Io non entrerò su questamateria a lunga ed esatta discussione, che nulla potreidire che da questo autore non sia già stato detto. Solo neaccennerò all'occasione alcuna cosa, rimettendo a chipiù ne voglia all'autore medesimo che certamente meritadi esser letto. Proclo a Pittagora attribuisce il vanto(Præf. in l. 2 Eucl.) di avere il primo, ridotta a forma discienza la geometria. Ma come bene riflette il Bruckero(t. 1, p. 1060), altri geometri vi furono certamente in-nanzi a lui. Non può nondimeno a lui negarsi l'onore diaver prima d'ogni altro coltivata nella Magna Greciaquesta scienza, e di averla a maggior perfezione condot-

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Scoperte astronomiche e matematichein esse fatte.

ta. A lui con maggiore certezza si concede dagli antichiscrittori il ritrovamento del celebre teorema, che neltriangolo rettangolo il quadrato della ipotenusa sia ugua-le a' due quadrati degli altri due lati presi insieme; dellaquale scoperta narrano che fosse lieto per modo che insacrifizio offerisse alle muse, secondo alcuni, un'eca-tombe, secondo altri un bue, secondo altri per ultimo,una massa di farina impastata a forma di bue, perl'abborrimento in cui egli aveva i sagrificj sanguinosi (V.Brucker loc. cit. p. 1061). Altre geometriche scoperte aPittagora, o a' suoi discepoli vengono, ma con minorcertezza, attribuite, che si posson vedere presso il Bruc-kero e il Montucla. Egli, secondo Laerzio (l. 8, c. 14),introdusse il primo nella Grecia l'uso de' pesi e delle mi-sure. L'astronomia ancora molto debbe a Pittagora, epuò a ragione l'Italia nostra gloriarsi che molte sentenze,che ora sono da tutti i più valorosi astronomi ricevute,avessero in essa fin da' più antichi tempi l'origine (19).Due de' più celebri neutoniani, cioè il Gregori e il Ma-claurin, confessano che Pittagora ha scoperta egli il pri-mo la legge fondamentale della gravitazione dei corpicelesti verso il sole, cioè che questa è in ragione inversade' quadrati della lor distanza da esso (V. Dutens t. 1, p.156, ec.). "La distribuzione della sfera celeste, dice illodato Montucla citando gli antichi scrittori, l'obbliqui-

19 Delle opinioni di Pittagora e de' Pittagorici intorno a tutto ciò che all'atro-nomia appartiene, merita ancora di essere letta la Storia di m. Bailly, in cuidottamente non meno che esattamente ogni cosa si esamina. (Hist. del'Astron. Ancienne p. 266, ec. 446, ec.).

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ta. A lui con maggiore certezza si concede dagli antichiscrittori il ritrovamento del celebre teorema, che neltriangolo rettangolo il quadrato della ipotenusa sia ugua-le a' due quadrati degli altri due lati presi insieme; dellaquale scoperta narrano che fosse lieto per modo che insacrifizio offerisse alle muse, secondo alcuni, un'eca-tombe, secondo altri un bue, secondo altri per ultimo,una massa di farina impastata a forma di bue, perl'abborrimento in cui egli aveva i sagrificj sanguinosi (V.Brucker loc. cit. p. 1061). Altre geometriche scoperte aPittagora, o a' suoi discepoli vengono, ma con minorcertezza, attribuite, che si posson vedere presso il Bruc-kero e il Montucla. Egli, secondo Laerzio (l. 8, c. 14),introdusse il primo nella Grecia l'uso de' pesi e delle mi-sure. L'astronomia ancora molto debbe a Pittagora, epuò a ragione l'Italia nostra gloriarsi che molte sentenze,che ora sono da tutti i più valorosi astronomi ricevute,avessero in essa fin da' più antichi tempi l'origine (19).Due de' più celebri neutoniani, cioè il Gregori e il Ma-claurin, confessano che Pittagora ha scoperta egli il pri-mo la legge fondamentale della gravitazione dei corpicelesti verso il sole, cioè che questa è in ragione inversade' quadrati della lor distanza da esso (V. Dutens t. 1, p.156, ec.). "La distribuzione della sfera celeste, dice illodato Montucla citando gli antichi scrittori, l'obbliqui-

19 Delle opinioni di Pittagora e de' Pittagorici intorno a tutto ciò che all'atro-nomia appartiene, merita ancora di essere letta la Storia di m. Bailly, in cuidottamente non meno che esattamente ogni cosa si esamina. (Hist. del'Astron. Ancienne p. 266, ec. 446, ec.).

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tà dell'ecclittica, la rotondità della terra, l'esistenza degliantipodi, la sfericità del sole e degli astri, la cagione del-la luce della luna e delle sue eclissi, e di quelle ancoradel sole, furono da Pittagora insegnate". Che più? Perfi-no la natura delle comete e il regolare determinato lorcorso non gli fu ignoto, come da un testo di Stobeo chia-ramente raccoglie il valoroso m. Dutens, che anche perle altre sopraddette opinioni i più certi passaggi degliantichi autori reca a provarlo. (t. 1, p. 202, ec.). Egli an-cora vuolsi che osservasse il primo l'espero e il fosforoossia la stella della sera e del mattino altro non essereche il pianeta Venere. Anche il sistema neutoniano dellaformazion de' colori vuolsi da m. Dutens che nella scuo-la di Pittagora avesse il suo cominciamento (tomo 1, p.181). Vero è nondimeno che molte di tali opinioni cre-desi da alcuni che fosser prima da Talete e da altri filo-sofi dell'Ionia sostenute. Ma non puossi almeno negareil vanto a Pittagora di averle fatte più celebri e più chia-ramente spiegate (20).

20 E qui ed altrove io ho affermato che Pittagora ed altri antichi filosofi han-no gittati i primi semi della buona filosofia, e che molte sentenze, che orada' più famosi astronomi e fisici son ricevute, ebbero fra essi la prima ori-gine, e ho a tal proposito citato con lode il libro di m. Dutens, intitolatoRecherches sur les découvertes attribuées aux modernes, ec. in cui egliquesto punto medesimo ha preso ad esaminare con assai diligenza. Macontro questo scrittore si è levato recentemente m. Severien, e nella prefa-zione al primo tomo delle sue Vite degli antichi Filosofi ha asserito che chiè di tal sentimento, scrive a caso, e senza cognizione di causa: ch'eidebb'esser uomo assai poco versato nella metafisica, e del tutto nuovo ingeometria, e nell'astronomia e nella fisica assai male istruito. Ecco dun-que due scrittori di ben diverso parere. A chi di essi darem noi fede? Chivuol operar saggiamente, non dee arrendersi alla semplice asserzione nè

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tà dell'ecclittica, la rotondità della terra, l'esistenza degliantipodi, la sfericità del sole e degli astri, la cagione del-la luce della luna e delle sue eclissi, e di quelle ancoradel sole, furono da Pittagora insegnate". Che più? Perfi-no la natura delle comete e il regolare determinato lorcorso non gli fu ignoto, come da un testo di Stobeo chia-ramente raccoglie il valoroso m. Dutens, che anche perle altre sopraddette opinioni i più certi passaggi degliantichi autori reca a provarlo. (t. 1, p. 202, ec.). Egli an-cora vuolsi che osservasse il primo l'espero e il fosforoossia la stella della sera e del mattino altro non essereche il pianeta Venere. Anche il sistema neutoniano dellaformazion de' colori vuolsi da m. Dutens che nella scuo-la di Pittagora avesse il suo cominciamento (tomo 1, p.181). Vero è nondimeno che molte di tali opinioni cre-desi da alcuni che fosser prima da Talete e da altri filo-sofi dell'Ionia sostenute. Ma non puossi almeno negareil vanto a Pittagora di averle fatte più celebri e più chia-ramente spiegate (20).

20 E qui ed altrove io ho affermato che Pittagora ed altri antichi filosofi han-no gittati i primi semi della buona filosofia, e che molte sentenze, che orada' più famosi astronomi e fisici son ricevute, ebbero fra essi la prima ori-gine, e ho a tal proposito citato con lode il libro di m. Dutens, intitolatoRecherches sur les découvertes attribuées aux modernes, ec. in cui egliquesto punto medesimo ha preso ad esaminare con assai diligenza. Macontro questo scrittore si è levato recentemente m. Severien, e nella prefa-zione al primo tomo delle sue Vite degli antichi Filosofi ha asserito che chiè di tal sentimento, scrive a caso, e senza cognizione di causa: ch'eidebb'esser uomo assai poco versato nella metafisica, e del tutto nuovo ingeometria, e nell'astronomia e nella fisica assai male istruito. Ecco dun-que due scrittori di ben diverso parere. A chi di essi darem noi fede? Chivuol operar saggiamente, non dee arrendersi alla semplice asserzione nè

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VII. Il sistema copernicano stesso videsifin d'allora, nella scuola di Pittagora sor-gere, per così dire, da' fondamenti. Che laterra s'aggirasse intorno al sole; che questolocato fosse nel centro del mondo, e perfi-

no che i pianeti tutti avessero i loro abitatori, fu opinio-ne o di Pittagora stesso o de' suoi discepoli (V. Bruck. etMontuc. loc. cit. et Dutens t. 1, p. 171, 195, 220). Delmovimento della terra intorno al sole, Ciceroneappoggiato all'autorità di Teofrasto fa scopritore IcetaSiracusano: Icetas (altri leggono Nicetas) Syracusius, utait Theophrastus, cœlum, solem, lunam, stellas, superadenique omnia stare censet, neque præter terram remullam in mundo moveri, Quæ cum circum axem sesumma celeritate convertat, et torqueat, eadem efficitomnia quasi stante terra cœlum moveretur (Acad. Qu.,n. 39). Ma o fosse Pittagora stesso, o Iceta Siracusano, oqualunque altro della setta italiana di Pittagora, dovrassi

dell'uno nè dell'altro; dee esaminar le opere degli antichi filosofi, i lor det-ti, le lor sentenze, confrontarle con quelle de' moderni filosofi, e deciderechi de' suddetti autori abbia colto nel vero. Ma anche senza intraprendereun sì faticoso esame, la diversa maniera con cui questi due scrittori proce-dono nell'esporre il loro sentimento, parmi che possa essere bastevole fon-damento per dare all'un sopra l'altro la preferenza. M. Dutens riporta fedel-mente i detti degli antichi su ciascheduna delle quistioni, e colle lor parolealla mano mostra ch'essi in molte cose hanno scoperto, o almeno adombra-to il vero prima de' moderni. M. Saverien avrebbe dovuto chiamare all'esa-me tai passi, e mostrare ch'essi non provano abbastanza ciò che vorrebbem. Dutens. Ma egli non si cura di ciò; e vuole che gli crediamo senz'altroche m. Dutens si è ingannato. Noi il pregherem dunque a darcene prima leprove, poichè sinora ci pare che il suo avversario sia stato più felice di luinel sostenere la sua proposizione.

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Tra esse vede-si anche adombrato il sistema co-pernicano.

VII. Il sistema copernicano stesso videsifin d'allora, nella scuola di Pittagora sor-gere, per così dire, da' fondamenti. Che laterra s'aggirasse intorno al sole; che questolocato fosse nel centro del mondo, e perfi-

no che i pianeti tutti avessero i loro abitatori, fu opinio-ne o di Pittagora stesso o de' suoi discepoli (V. Bruck. etMontuc. loc. cit. et Dutens t. 1, p. 171, 195, 220). Delmovimento della terra intorno al sole, Ciceroneappoggiato all'autorità di Teofrasto fa scopritore IcetaSiracusano: Icetas (altri leggono Nicetas) Syracusius, utait Theophrastus, cœlum, solem, lunam, stellas, superadenique omnia stare censet, neque præter terram remullam in mundo moveri, Quæ cum circum axem sesumma celeritate convertat, et torqueat, eadem efficitomnia quasi stante terra cœlum moveretur (Acad. Qu.,n. 39). Ma o fosse Pittagora stesso, o Iceta Siracusano, oqualunque altro della setta italiana di Pittagora, dovrassi

dell'uno nè dell'altro; dee esaminar le opere degli antichi filosofi, i lor det-ti, le lor sentenze, confrontarle con quelle de' moderni filosofi, e deciderechi de' suddetti autori abbia colto nel vero. Ma anche senza intraprendereun sì faticoso esame, la diversa maniera con cui questi due scrittori proce-dono nell'esporre il loro sentimento, parmi che possa essere bastevole fon-damento per dare all'un sopra l'altro la preferenza. M. Dutens riporta fedel-mente i detti degli antichi su ciascheduna delle quistioni, e colle lor parolealla mano mostra ch'essi in molte cose hanno scoperto, o almeno adombra-to il vero prima de' moderni. M. Saverien avrebbe dovuto chiamare all'esa-me tai passi, e mostrare ch'essi non provano abbastanza ciò che vorrebbem. Dutens. Ma egli non si cura di ciò; e vuole che gli crediamo senz'altroche m. Dutens si è ingannato. Noi il pregherem dunque a darcene prima leprove, poichè sinora ci pare che il suo avversario sia stato più felice di luinel sostenere la sua proposizione.

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Tra esse vede-si anche adombrato il sistema co-pernicano.

sempre accordare all'Italia nostra un tal vanto di averefin da' più antichi tempi ritrovato un sistema, cui tanteragioni ed esperienze hanno poi, a' nostri tempi sì evi-dentemente confermato e dimostrato. Gli errori, da cuiquesto sistema fu allora guasto, voglionsi attribuire o aquella oscurità in cui un nuovo sistema rimaner suolecomunemente, finchè con più attente osservazioni nonvenga illustrato; o forse anche all'ignoranza de' posteriscrittori, i cui soli libri sono a noi pervenuti, che i pen-sieri degli antichi filosofi esprimer non seppero con giu-stezza e precisione. Intorno a che puossi vedere il piùvolte citato Montucla che le astronomiche opinioni de'Pittagorici ha diligentemente esaminate. Osserva egliancora che l'aritmetica ricevette da' Pittagorici accresci-mento e fama, e ch'essi usarono di cifre a quelle somi-glianti, che a noi poscia dagli Arabi furono tramandate;e per ultimo svolge egli e rischiara i ritovati di Pittagorain ciò che alla musica appartiene. E benchè egli sembririvocare in dubbio il celebre fatto della bottega del fer-raio in cui vuolsi che le prime osservazioni sul suono fa-cesse Pittagora non gli toglie però la gloria di averne ilprimo osservate e determinate le proporzioni. Quindi aragione conchiude m. Dutens che pochi filosofi contal'antichità, che abbiano avuto altrettanto di acutezza e diprofondità d'ingegno quanto Pittagora (t. 2, p. 143). Ionon voglio su tale argomento trattenermi più a lungo, ebastami di avere in brieve accennato qual aumento pren-dessero fin d'allora le scienze in Italia, e con qual feliceriuscimento le coltivassero i nostri maggiori, mentre tut-

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sempre accordare all'Italia nostra un tal vanto di averefin da' più antichi tempi ritrovato un sistema, cui tanteragioni ed esperienze hanno poi, a' nostri tempi sì evi-dentemente confermato e dimostrato. Gli errori, da cuiquesto sistema fu allora guasto, voglionsi attribuire o aquella oscurità in cui un nuovo sistema rimaner suolecomunemente, finchè con più attente osservazioni nonvenga illustrato; o forse anche all'ignoranza de' posteriscrittori, i cui soli libri sono a noi pervenuti, che i pen-sieri degli antichi filosofi esprimer non seppero con giu-stezza e precisione. Intorno a che puossi vedere il piùvolte citato Montucla che le astronomiche opinioni de'Pittagorici ha diligentemente esaminate. Osserva egliancora che l'aritmetica ricevette da' Pittagorici accresci-mento e fama, e ch'essi usarono di cifre a quelle somi-glianti, che a noi poscia dagli Arabi furono tramandate;e per ultimo svolge egli e rischiara i ritovati di Pittagorain ciò che alla musica appartiene. E benchè egli sembririvocare in dubbio il celebre fatto della bottega del fer-raio in cui vuolsi che le prime osservazioni sul suono fa-cesse Pittagora non gli toglie però la gloria di averne ilprimo osservate e determinate le proporzioni. Quindi aragione conchiude m. Dutens che pochi filosofi contal'antichità, che abbiano avuto altrettanto di acutezza e diprofondità d'ingegno quanto Pittagora (t. 2, p. 143). Ionon voglio su tale argomento trattenermi più a lungo, ebastami di avere in brieve accennato qual aumento pren-dessero fin d'allora le scienze in Italia, e con qual feliceriuscimento le coltivassero i nostri maggiori, mentre tut-

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ta l'Europa, se se ne tragga soltanto una piccola parte diGrecia, giaceasi fra le tenebre dell'ignoranza e della bar-barie sepolta profondamente. Chi bramasse altre notizieintorno alla vita e alla filosofia di Pittagora, oltre gli au-tori da noi citati può vedere la Vita scrittane dal Dacier,e il libro De natura et constitutione Philosophiæ Italicæseu pythagoricæ di Giovanni Scheffer stampato in Upsall'anno 1664, e gli estratti che di ambedue ha dati il leClerc (Bibl. chois. t. 10, p. 159, e 181), finalmente ilPiano Teologico del Pittagorismo del p. Michele Mour-gues della Compagnia di Gesù, stampato in Tolosal'anno 1712.

VIII. La fama in cui era Pittagora, fu cagio-ne che molti a lui concorressero, e se ne fa-cesser seguaci. Quindi anche lui morto la fi-losofia pittagorica si sostenne per alcun

tempo in quella provincia medesima in cui avea avutoprincipio, e nelle vicine ancora si sparse, e singolarmen-te nella Sicilia. Piena di Pittagorici, dice Cicerone (DeOrat. l. 2, n. 154), era una volta l'Italia, allor quandofioriva in essa la grande Grecia. E l'eruditissimo Gia-nalberto Fabbricio presso a ducento Pittagorici vien no-minando (Bibl. Græc. t. 1, p. 490), che in questo trattod'Italia e nella Sicilia fiorirono, de' quali si fa menzionenegli antichi scrittori. Anzi lo studio della filosofia pitta-gorica non si ristette fra gli uomini. Le donne ancora co-minciarono fin da quel tempo in Italia a voler sapere di

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Fama in cuiera quella scuola.

ta l'Europa, se se ne tragga soltanto una piccola parte diGrecia, giaceasi fra le tenebre dell'ignoranza e della bar-barie sepolta profondamente. Chi bramasse altre notizieintorno alla vita e alla filosofia di Pittagora, oltre gli au-tori da noi citati può vedere la Vita scrittane dal Dacier,e il libro De natura et constitutione Philosophiæ Italicæseu pythagoricæ di Giovanni Scheffer stampato in Upsall'anno 1664, e gli estratti che di ambedue ha dati il leClerc (Bibl. chois. t. 10, p. 159, e 181), finalmente ilPiano Teologico del Pittagorismo del p. Michele Mour-gues della Compagnia di Gesù, stampato in Tolosal'anno 1712.

VIII. La fama in cui era Pittagora, fu cagio-ne che molti a lui concorressero, e se ne fa-cesser seguaci. Quindi anche lui morto la fi-losofia pittagorica si sostenne per alcun

tempo in quella provincia medesima in cui avea avutoprincipio, e nelle vicine ancora si sparse, e singolarmen-te nella Sicilia. Piena di Pittagorici, dice Cicerone (DeOrat. l. 2, n. 154), era una volta l'Italia, allor quandofioriva in essa la grande Grecia. E l'eruditissimo Gia-nalberto Fabbricio presso a ducento Pittagorici vien no-minando (Bibl. Græc. t. 1, p. 490), che in questo trattod'Italia e nella Sicilia fiorirono, de' quali si fa menzionenegli antichi scrittori. Anzi lo studio della filosofia pitta-gorica non si ristette fra gli uomini. Le donne ancora co-minciarono fin da quel tempo in Italia a voler sapere di

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Fama in cuiera quella scuola.

filosofia, e alcune ne nomina il citato Fabricio (ib. p.514), delle quali ancora si può vedere il Menagio nellasua Storia delle Donne filosofanti. Altri ampj catalogi dipittagorici italiani si possono vedere nella Biblioteca Si-ciliana del canonico Mongitore, nella Lucaniadell'Antonini, nella Biblioteca Calabrese del Zavarroni,e in altre opere somiglianti; in alcune però delle quali ioavrei voluto che gli autori per desiderio di stendere co'catalogi de' loro scrittori le glorie della lor patria, moltinon ne avessero annoverati che da altre provincie conpiù ragione si voglion loro.

IX. Ma di quelli almeno che nel tenere pub-blica scuola di filosofia successori furono alloro illustre maestro, vuolsi parlare conqualche maggior diligenza. Il diligenteBruckero il nome di tutti, e l'età a cui visse-

ro, ha laboriosamente raccolto (loc. cit. p. 1101, ec.),come pure le sentenze e le opinioni loro, e in quali coseconsentissero a Pittagora, in quali altre da lui discordas-sero. I più illustri tra essi furono Empedocle d'Agrigentoossia Girgenti in Sicilia, intorno al quale leggesi unaerudita dissertazione del signor Bonamy nel tom. X del-le Memorie dell'Accademia delle Iscrizioni, che si puòconsultare da chi brami di questo illustre filosofo piùcopiose notizie. Abbiamo nelle memorie della stessaAccademia una dissertazione di m. Freret (t. 18, p. 101),in cui pretende di trovare in Empedocle la sostanza del

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Discepoli più illustri di Pittago-ra.

filosofia, e alcune ne nomina il citato Fabricio (ib. p.514), delle quali ancora si può vedere il Menagio nellasua Storia delle Donne filosofanti. Altri ampj catalogi dipittagorici italiani si possono vedere nella Biblioteca Si-ciliana del canonico Mongitore, nella Lucaniadell'Antonini, nella Biblioteca Calabrese del Zavarroni,e in altre opere somiglianti; in alcune però delle quali ioavrei voluto che gli autori per desiderio di stendere co'catalogi de' loro scrittori le glorie della lor patria, moltinon ne avessero annoverati che da altre provincie conpiù ragione si voglion loro.

IX. Ma di quelli almeno che nel tenere pub-blica scuola di filosofia successori furono alloro illustre maestro, vuolsi parlare conqualche maggior diligenza. Il diligenteBruckero il nome di tutti, e l'età a cui visse-

ro, ha laboriosamente raccolto (loc. cit. p. 1101, ec.),come pure le sentenze e le opinioni loro, e in quali coseconsentissero a Pittagora, in quali altre da lui discordas-sero. I più illustri tra essi furono Empedocle d'Agrigentoossia Girgenti in Sicilia, intorno al quale leggesi unaerudita dissertazione del signor Bonamy nel tom. X del-le Memorie dell'Accademia delle Iscrizioni, che si puòconsultare da chi brami di questo illustre filosofo piùcopiose notizie. Abbiamo nelle memorie della stessaAccademia una dissertazione di m. Freret (t. 18, p. 101),in cui pretende di trovare in Empedocle la sostanza del

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Discepoli più illustri di Pittago-ra.

sistema neutoniano intorno alla gravità universale. Ma,come osserva m. Dutens (t. 1, p. 147), non sembra checiò possa bastevolmente provarsi. Certamente però egliebbe fama di gran filosofo, e ove altra prova non neavessimo, bastar ci potrebbe il magnifico elogio che nefa Lucrezio così dicendo (l. 1, v. 717, ec.)

Quorum Agrigentinus cum primis Empedocles est,

Insula quem triquetris terrarum gessit in oris, .........................................................................

Quæ cum magna modis multis miranda videtur Gentibus humanis, regio visendaque fertur Rebus opima bonis, multa munita virum vi, Nil tamen hoc habuisse viro præclarius in se, Nec sanctum magis et mirum carumque videtur.Carmina quin etiam divini pectoris ejus Vociferantur, et exponunt præclara reperta, Ut vix humana videatur stirpe creatus.

Ebbevi innoltre Epicarmo, che secondo alcuni fu diMegara città di Sicilia, secondo altri di Samo o di Coo,ma in età di soli tre mesi trasportato in Sicilia (V. Bruck.t. 1, p. 1121); Ocello nativo della Lucania; Timeo di Lo-cri, il quale da Platone fu avuto in sì grande stima, che ilsuo Dialogo della natura delle cose, tradotto poi in lati-no da Cicerone, fu da lui intitolato Timeo; Archita diTaranto da Cicerone e da Orazio mentovato con lode edi cui fra non molto dovrem favellare, ove de' matemati-ci di questo tratto d'Italia terremo ragionamento; Alc-

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sistema neutoniano intorno alla gravità universale. Ma,come osserva m. Dutens (t. 1, p. 147), non sembra checiò possa bastevolmente provarsi. Certamente però egliebbe fama di gran filosofo, e ove altra prova non neavessimo, bastar ci potrebbe il magnifico elogio che nefa Lucrezio così dicendo (l. 1, v. 717, ec.)

Quorum Agrigentinus cum primis Empedocles est,

Insula quem triquetris terrarum gessit in oris, .........................................................................

Quæ cum magna modis multis miranda videtur Gentibus humanis, regio visendaque fertur Rebus opima bonis, multa munita virum vi, Nil tamen hoc habuisse viro præclarius in se, Nec sanctum magis et mirum carumque videtur.Carmina quin etiam divini pectoris ejus Vociferantur, et exponunt præclara reperta, Ut vix humana videatur stirpe creatus.

Ebbevi innoltre Epicarmo, che secondo alcuni fu diMegara città di Sicilia, secondo altri di Samo o di Coo,ma in età di soli tre mesi trasportato in Sicilia (V. Bruck.t. 1, p. 1121); Ocello nativo della Lucania; Timeo di Lo-cri, il quale da Platone fu avuto in sì grande stima, che ilsuo Dialogo della natura delle cose, tradotto poi in lati-no da Cicerone, fu da lui intitolato Timeo; Archita diTaranto da Cicerone e da Orazio mentovato con lode edi cui fra non molto dovrem favellare, ove de' matemati-ci di questo tratto d'Italia terremo ragionamento; Alc-

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meone di Crotone; Ippaso, a cui da alcuni dassi per pa-tria Crotone, da altri Metaponto, Sibari da altri, tutte cit-tà della Magna Grecia; e Filolao di Crotone; de' qualitutti e delle opinioni loro dottamente favella il Bruckero,presso cui più altri ancora si veggono annoverati (21).

X. Ma niuna cosa ci fa meglio conoscere inquale stima salita fosse la setta italica daPittagora fondata, quanto il riflettere chePlatone stesso, il divino Platone, venne abella posta in Italia per conoscervi i disce-

poli di sì grand'uomo, e per apprender le loro opinioni.Anzi che egli tragittato poscia in Sicilia, e trovati i librio di Pittagora stesso, come vogliono alcuni, o come adaltri sembra più verisimile, de' più antichi discepoli diquest'illustre filosofo, li comprasse a gran prezzo, e diessi si giovasse non poco nello scrivere le filosofichesue opere, ella è opinione di molti antichi scrittori dal

21 Di Alcmeone parla ancora l'imperadrice Eudossia che verso la fine del XIIsecolo scrisse il suo Dizionario Mitologico-Storico intitolato Jonia, e pub-blicato pochi anni addietro dal dottissimo m. Ansse de Villoison; ed ellaragiona ancora di quelli de' quali in questo Capo si è fatta menzione, cioèdi Archita, di Aristosseno, di Acrone, di Dicearco, di Zenone, di Epicar-mo, di Menecrate, e di un altro medico siracusano detto Democrito, e di unfilosofo pare siracusano detto Dione, e anche del tiranno Dionigi (Anecdo-ta Græca. Venet. 1781, vol. 1, p. 69, 74, 72, 49, 135, 204, 266, 299, 129,137, 136). Ella è cosa degna d'osservazione che in quasi tutti gli articoliEudossia usa le parole stesse che si trovano in Suida, e come l'età di questoscrittore non è abbastanza accertata, così riman dubbio se Suida abbia co-piata Eudossia, o Eudossia Suida, o se, come crede l'erudito editoredell'Opera di Eudossia, abbiano amendue attinto a un'altra fonte comune.

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Anche Pla-tone si fa discepolo de' Pittago-rici.

meone di Crotone; Ippaso, a cui da alcuni dassi per pa-tria Crotone, da altri Metaponto, Sibari da altri, tutte cit-tà della Magna Grecia; e Filolao di Crotone; de' qualitutti e delle opinioni loro dottamente favella il Bruckero,presso cui più altri ancora si veggono annoverati (21).

X. Ma niuna cosa ci fa meglio conoscere inquale stima salita fosse la setta italica daPittagora fondata, quanto il riflettere chePlatone stesso, il divino Platone, venne abella posta in Italia per conoscervi i disce-

poli di sì grand'uomo, e per apprender le loro opinioni.Anzi che egli tragittato poscia in Sicilia, e trovati i librio di Pittagora stesso, come vogliono alcuni, o come adaltri sembra più verisimile, de' più antichi discepoli diquest'illustre filosofo, li comprasse a gran prezzo, e diessi si giovasse non poco nello scrivere le filosofichesue opere, ella è opinione di molti antichi scrittori dal

21 Di Alcmeone parla ancora l'imperadrice Eudossia che verso la fine del XIIsecolo scrisse il suo Dizionario Mitologico-Storico intitolato Jonia, e pub-blicato pochi anni addietro dal dottissimo m. Ansse de Villoison; ed ellaragiona ancora di quelli de' quali in questo Capo si è fatta menzione, cioèdi Archita, di Aristosseno, di Acrone, di Dicearco, di Zenone, di Epicar-mo, di Menecrate, e di un altro medico siracusano detto Democrito, e di unfilosofo pare siracusano detto Dione, e anche del tiranno Dionigi (Anecdo-ta Græca. Venet. 1781, vol. 1, p. 69, 74, 72, 49, 135, 204, 266, 299, 129,137, 136). Ella è cosa degna d'osservazione che in quasi tutti gli articoliEudossia usa le parole stesse che si trovano in Suida, e come l'età di questoscrittore non è abbastanza accertata, così riman dubbio se Suida abbia co-piata Eudossia, o Eudossia Suida, o se, come crede l'erudito editoredell'Opera di Eudossia, abbiano amendue attinto a un'altra fonte comune.

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Anche Pla-tone si fa discepolo de' Pittago-rici.

Bruckero allegati. E certo che a Platone non dispiacesseil farsi bello delle fatiche altrui, ne abbiamo una provain Ateneo, il quale parlando di un certo Birsone nativodi Eraclea nella Magna Grecia, dice che da' Dialogi dilui molte cose, tolse Platone: Heraclea prope Sirim ci-vem habuit Birsonem, ex cujus Dialogis multa Platosurripuit (l. 2 Deipnos. sub fin.). E Diogene Laerzio an-cora nella Vita di Platone parla di quattro libri da un cer-to Alcimo scritti a provare quanto dal siciliano Epicar-mo avesse tolto Platone. Multum illi (Platoni) Epichar-mus contulit Comicus, cuius et plurima transcripsit, utAlcimus un eis libris, quos ad Amyntam scripsit quatuornumer, meminit. Anzi l'idea ancora dello scriver dialogida Zenone nativo di Velia fu suggerita a Platone. Dialo-gos itaque, dice lo stesso Laerzio nella Vita di Platone,primum Zenonem Eleatem scripsisse ferunt (22).

XI. E nondimeno sì celebre setta non ebbequella durevolezza che pareva doversi allafama con cui era nata e cresciuta; ma circadugent'anni dopo la sua origine ella ebbe

fine, e il nome, e la fama de' Pittagorici del tutto svanì.Più ragioni ne reca il più volte lodato Bruckero (loc. cit.

22 Della setta pittagorica e delle altre che nella Magna Grecia fiorirono, e de'più illustri filosofi e matematici che usciron da esse, hanno poscia anchepiù ampiamente trattato il sig. Matteo Barbieri nelle sue Notizie Istorichedei Matematici e Filosofi del Regno di Napoli stampate nel 1778, e il sig.Pietro Napoli-Signorelli ora segretario di quella R. Accademia nelle sueVicende della coltura delle due Sicilie.

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Decadenza di quella setta.

Bruckero allegati. E certo che a Platone non dispiacesseil farsi bello delle fatiche altrui, ne abbiamo una provain Ateneo, il quale parlando di un certo Birsone nativodi Eraclea nella Magna Grecia, dice che da' Dialogi dilui molte cose, tolse Platone: Heraclea prope Sirim ci-vem habuit Birsonem, ex cujus Dialogis multa Platosurripuit (l. 2 Deipnos. sub fin.). E Diogene Laerzio an-cora nella Vita di Platone parla di quattro libri da un cer-to Alcimo scritti a provare quanto dal siciliano Epicar-mo avesse tolto Platone. Multum illi (Platoni) Epichar-mus contulit Comicus, cuius et plurima transcripsit, utAlcimus un eis libris, quos ad Amyntam scripsit quatuornumer, meminit. Anzi l'idea ancora dello scriver dialogida Zenone nativo di Velia fu suggerita a Platone. Dialo-gos itaque, dice lo stesso Laerzio nella Vita di Platone,primum Zenonem Eleatem scripsisse ferunt (22).

XI. E nondimeno sì celebre setta non ebbequella durevolezza che pareva doversi allafama con cui era nata e cresciuta; ma circadugent'anni dopo la sua origine ella ebbe

fine, e il nome, e la fama de' Pittagorici del tutto svanì.Più ragioni ne reca il più volte lodato Bruckero (loc. cit.

22 Della setta pittagorica e delle altre che nella Magna Grecia fiorirono, e de'più illustri filosofi e matematici che usciron da esse, hanno poscia anchepiù ampiamente trattato il sig. Matteo Barbieri nelle sue Notizie Istorichedei Matematici e Filosofi del Regno di Napoli stampate nel 1778, e il sig.Pietro Napoli-Signorelli ora segretario di quella R. Accademia nelle sueVicende della coltura delle due Sicilie.

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Decadenza di quella setta.

p. 1105): l'invidia che contro di essi accendeva il liberobiasimar che facevano i vizj degli uomini, il sospettoche dall'arcano loro silenzio contro di essi si risvegliava,le civili discordie, per cui molte città della Magna Gre-cia miseramente perirono, e per ultimo le filosofichesette insorte in oriente, che la memoria delle antiche,come suole accadere, estinsero interamente.

XII. Anche un'altra setta di antichi filosofiebbe nella Magna Grecia l'origine, quellacioè che da Elea ossia Velia città di questaprovincia fu detta eleatica. Ne fu autor Se-nofane natìo veramente di Colofone, ma che

nella Magna Grecia passò la maggior parte de' giornisuoi; come se ella destinata fosse non solo a produrreuomini in ogni sorta di scienza famosi e chiari, ma adaccogliere ancor gli stranieri, e a giovarsi de' loro talentie del saper loro. Fu Senofane, al dir di Laerzio, discepo-lo e successor di Telauge figliuol di Pittagora; ma nuovidogmi propose da quelli di questo illustre filosofo diver-si assai. Non voglio io, nondimeno nè a' miei lettori nè ame medesimo recar noja coll'investigare quali opinionida lui si insegnassero. Tutta la filosofia degli antichi èinvolta fra dense tenebre, fra le quali l'ascose e l'igno-ranza in cui erano essi stessi di molte cose delle qualiperò costretti erano a parlare oscuramente, se mostrarvoleano di saperne pur cosa alcuna; e l'ignoranza moltomaggiore de' lor discepoli che non ben intendendo le

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Setta eleati-ca nata nel-la Magna Grecia.

p. 1105): l'invidia che contro di essi accendeva il liberobiasimar che facevano i vizj degli uomini, il sospettoche dall'arcano loro silenzio contro di essi si risvegliava,le civili discordie, per cui molte città della Magna Gre-cia miseramente perirono, e per ultimo le filosofichesette insorte in oriente, che la memoria delle antiche,come suole accadere, estinsero interamente.

XII. Anche un'altra setta di antichi filosofiebbe nella Magna Grecia l'origine, quellacioè che da Elea ossia Velia città di questaprovincia fu detta eleatica. Ne fu autor Se-nofane natìo veramente di Colofone, ma che

nella Magna Grecia passò la maggior parte de' giornisuoi; come se ella destinata fosse non solo a produrreuomini in ogni sorta di scienza famosi e chiari, ma adaccogliere ancor gli stranieri, e a giovarsi de' loro talentie del saper loro. Fu Senofane, al dir di Laerzio, discepo-lo e successor di Telauge figliuol di Pittagora; ma nuovidogmi propose da quelli di questo illustre filosofo diver-si assai. Non voglio io, nondimeno nè a' miei lettori nè ame medesimo recar noja coll'investigare quali opinionida lui si insegnassero. Tutta la filosofia degli antichi èinvolta fra dense tenebre, fra le quali l'ascose e l'igno-ranza in cui erano essi stessi di molte cose delle qualiperò costretti erano a parlare oscuramente, se mostrarvoleano di saperne pur cosa alcuna; e l'ignoranza moltomaggiore de' lor discepoli che non ben intendendo le

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Setta eleati-ca nata nel-la Magna Grecia.

opinioni de' lor precettori, davano a' lor detti quel sensoche più loro piaceva, e agli errori loro nuovi errori ag-giungevano e tenebre a tenebre. Ma non lascian perciòdi esser degni di lode i loro sforzi; e ai loro errori stessidobbiamo l'aver finalmente in molte cose scoperta la ve-rità. Chi delle opinioni di Senofane volesse più esatta-mente sapere, vegga il diligente Bruckero (loc. cit. p.1142, ec.), presso del quale la vita ancora e le opinionivedrà minutamente esposte de' più celebri discepoli diquesto illustre filosofo, quali furono singolarmente Par-menide, Zenone diverso dallo Stoico, e Leucippo, tuttinativi di Velia, benchè a quest'ultimo altra patria da altrisi assegni.

XIII. Io passo leggermente per le ragionigià arrecate sulle opinioni di questi antichifilosofi. Ma io penso che quelli fra' modernifilosofi che col nome di liberi pensatori vo-

glion essere onorati, e che si danno il vanto di aver dira-dato le tenebre fra cui la superstizione e l'ignoranzaavean finora tenuti i popoli miseramente involti, mi sa-pran grado se un de' loro più antichi e più perfetti mo-delli additerò loro in Sicilia; acciocchè si vegga che,come l'Italia è stata comunemente alle altre nazioni inpresso che tutte le scienze maestra e scorta, così purel'abuso delle scienze medesime ha avuto in essa comin-ciamento, almen per riguardo a' popoli d'Europa. Io par-lo del celebre Dicearco di Messina. Uomo non vi ebbe

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Opinioni singolari di Dicearco.

opinioni de' lor precettori, davano a' lor detti quel sensoche più loro piaceva, e agli errori loro nuovi errori ag-giungevano e tenebre a tenebre. Ma non lascian perciòdi esser degni di lode i loro sforzi; e ai loro errori stessidobbiamo l'aver finalmente in molte cose scoperta la ve-rità. Chi delle opinioni di Senofane volesse più esatta-mente sapere, vegga il diligente Bruckero (loc. cit. p.1142, ec.), presso del quale la vita ancora e le opinionivedrà minutamente esposte de' più celebri discepoli diquesto illustre filosofo, quali furono singolarmente Par-menide, Zenone diverso dallo Stoico, e Leucippo, tuttinativi di Velia, benchè a quest'ultimo altra patria da altrisi assegni.

XIII. Io passo leggermente per le ragionigià arrecate sulle opinioni di questi antichifilosofi. Ma io penso che quelli fra' modernifilosofi che col nome di liberi pensatori vo-

glion essere onorati, e che si danno il vanto di aver dira-dato le tenebre fra cui la superstizione e l'ignoranzaavean finora tenuti i popoli miseramente involti, mi sa-pran grado se un de' loro più antichi e più perfetti mo-delli additerò loro in Sicilia; acciocchè si vegga che,come l'Italia è stata comunemente alle altre nazioni inpresso che tutte le scienze maestra e scorta, così purel'abuso delle scienze medesime ha avuto in essa comin-ciamento, almen per riguardo a' popoli d'Europa. Io par-lo del celebre Dicearco di Messina. Uomo non vi ebbe

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Opinioni singolari di Dicearco.

forse nell'antichità che tante scienze cogli studj suoi col-tivasse, quante ne coltivò Dicearco. La geografia, la mu-sica, la filosofia, la storia, la poesia furono, si può dire,egualmente a lui care. Su ciascheduna di queste scienze,scrisse de' libri, e in tal fama ne venne, che Ciceronenon dubitò di chiamarlo uomo grande e maraviglioso. Omagnum hominem! mirabilis vir est (Ad. Att. l. 2, ep. 2).Ma quali erano i sentimenti di questo divino filosofo?Quello che dicesi animo umano essere un bel nulla. Te-nemus ne, dice Tullio, quid animus sit? denique sit ne?an, ut Dicæarche visum est, ne sit quidem, ullus (Acad.Qu. l. 4, n. 31)? e quello che dicesi animo, non essereveramente dal corpo in alcun modo distinto. Dicæar-chus autem, dice lo stesso Tullio, in eo sermone, quemCorinthi habitum tribus libris exponit... Pherecratemquemdam disserentem inducit, nihil esse omnino ani-mum, et hoc esse nomen totum inane; frustaque anima-lia et animantes appellari; neque in homine inesse ani-mum vel animam, nec in bestia, vimque omnem eam,qua vel sentiamus, in omnibus corporibus vivis æquabi-liter esse fusam, nec separabilem a corpore ejus, quippeQuæ nulla sit, nec sit quidquam nisi corpus unum etsimplex ita figuratum, ut temperatione naturæ vigeat acsentiat (Tusc. Qu. l. 1, n. 10). Quindi, come è necessa-rio, non esser l'animo immortale, contro di che forte-mente aveva egli disputato: Acerrime autem deliciæmeæ Dicæarchus contra hanc immortalitatem disseruit(ib. n. 31). Quindi ancora stolta cosa essere il pensareall'avvenire, e meglio essere il non volerne saper nulla:

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forse nell'antichità che tante scienze cogli studj suoi col-tivasse, quante ne coltivò Dicearco. La geografia, la mu-sica, la filosofia, la storia, la poesia furono, si può dire,egualmente a lui care. Su ciascheduna di queste scienze,scrisse de' libri, e in tal fama ne venne, che Ciceronenon dubitò di chiamarlo uomo grande e maraviglioso. Omagnum hominem! mirabilis vir est (Ad. Att. l. 2, ep. 2).Ma quali erano i sentimenti di questo divino filosofo?Quello che dicesi animo umano essere un bel nulla. Te-nemus ne, dice Tullio, quid animus sit? denique sit ne?an, ut Dicæarche visum est, ne sit quidem, ullus (Acad.Qu. l. 4, n. 31)? e quello che dicesi animo, non essereveramente dal corpo in alcun modo distinto. Dicæar-chus autem, dice lo stesso Tullio, in eo sermone, quemCorinthi habitum tribus libris exponit... Pherecratemquemdam disserentem inducit, nihil esse omnino ani-mum, et hoc esse nomen totum inane; frustaque anima-lia et animantes appellari; neque in homine inesse ani-mum vel animam, nec in bestia, vimque omnem eam,qua vel sentiamus, in omnibus corporibus vivis æquabi-liter esse fusam, nec separabilem a corpore ejus, quippeQuæ nulla sit, nec sit quidquam nisi corpus unum etsimplex ita figuratum, ut temperatione naturæ vigeat acsentiat (Tusc. Qu. l. 1, n. 10). Quindi, come è necessa-rio, non esser l'animo immortale, contro di che forte-mente aveva egli disputato: Acerrime autem deliciæmeæ Dicæarchus contra hanc immortalitatem disseruit(ib. n. 31). Quindi ancora stolta cosa essere il pensareall'avvenire, e meglio essere il non volerne saper nulla:

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At nostra interest scire, quæ eventura sint. Dicæarchi li-ber est, nescire ea melius esse quam scire (De Divinat.l. 2, n. 13). E nondimeno sul governo delle repubblichee su' doveri de' magistrati e de' sudditi così saggiamenteegli scrisse, che, come narra Suida, legge vi era tra gliSpartani, che il libro da Dicearco scritto intorno alla lororepubblica fosse ogni anno alla presenza de' giovani nelpretorio dagli efori letto pubblicamente. Così al medesi-mo tempo ch'egli toglieva alla religione e alla moraleque' fondamenti a cui solo l'una e l'altra possono appog-giarsi, parer volea insieme, della religione, e della mora-le sostenitor zelantissimo. Nel che se da altri sia egli sta-to imitato, io lascerò che il decida chi ha tra le mani leopere de' moderni liberi pensatori. Fiorì egli versol'olimpiade CXVI, e delle opere da lui scritte si può ve-dere ciò che ampiamente ne hanno scritto Enrico Dod-wello (Dissert. de Dicæarcho edita Vol. II. Geogr.Græc. Edit. Oxon.), il Bruckero (Histor. Crit. Philos. t.1, p. 854), e il Fabricio (Bibl. Græc. t. 2. p. 295) (23).

XIV. Allo studio della filosofia quello ap-partiene ancora della medicina; nè è perciòmaraviglia che avendo i popoli della MagnaGrecia e della Sicilia coltivata diligente-

23 Anche la storia filosofica, se crediamo a Suida, dee alla Sicilia o il primosuo scrittore, o almeno uno de' primi; perciocchè, secondo lui, fu di patriamessinese Aristocle, il quale, oltre alcune altre opere, in dieci libri raccolsetutte le opinioni de' filosofi che fin da allora erano vissuti, e le diverse setteda essi formate.

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La medici-na coltivatanella Ma-gna Grecia.

At nostra interest scire, quæ eventura sint. Dicæarchi li-ber est, nescire ea melius esse quam scire (De Divinat.l. 2, n. 13). E nondimeno sul governo delle repubblichee su' doveri de' magistrati e de' sudditi così saggiamenteegli scrisse, che, come narra Suida, legge vi era tra gliSpartani, che il libro da Dicearco scritto intorno alla lororepubblica fosse ogni anno alla presenza de' giovani nelpretorio dagli efori letto pubblicamente. Così al medesi-mo tempo ch'egli toglieva alla religione e alla moraleque' fondamenti a cui solo l'una e l'altra possono appog-giarsi, parer volea insieme, della religione, e della mora-le sostenitor zelantissimo. Nel che se da altri sia egli sta-to imitato, io lascerò che il decida chi ha tra le mani leopere de' moderni liberi pensatori. Fiorì egli versol'olimpiade CXVI, e delle opere da lui scritte si può ve-dere ciò che ampiamente ne hanno scritto Enrico Dod-wello (Dissert. de Dicæarcho edita Vol. II. Geogr.Græc. Edit. Oxon.), il Bruckero (Histor. Crit. Philos. t.1, p. 854), e il Fabricio (Bibl. Græc. t. 2. p. 295) (23).

XIV. Allo studio della filosofia quello ap-partiene ancora della medicina; nè è perciòmaraviglia che avendo i popoli della MagnaGrecia e della Sicilia coltivata diligente-

23 Anche la storia filosofica, se crediamo a Suida, dee alla Sicilia o il primosuo scrittore, o almeno uno de' primi; perciocchè, secondo lui, fu di patriamessinese Aristocle, il quale, oltre alcune altre opere, in dieci libri raccolsetutte le opinioni de' filosofi che fin da allora erano vissuti, e le diverse setteda essi formate.

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La medici-na coltivatanella Ma-gna Grecia.

mente la prima, celebri ancor riuscissero nella seconda.Que' di Crotone singolarmente furono in medicina fa-mosi per testimonio di Erodoto. Questi parla lungamen-te (lib. 3. num. 131) di un Democede medico di Crotoneche visse a' tempi di Pittagora, e dice che in tanta famaegli venne, che i medici di Crotone stimati eran fra tuttii più eccellenti e dopo essi que' di Cirene: Primi Croto-niatæ medici celebrantur per Græciam; secundi veroCirenæi. Io non parlerò qui di Epicarmo, di Empedocle,di Pausania di Filistione, e di altri che nominati veggon-si da Laerzio (Vit Phil. l. 8.). Nemmeno farò menzionedel medico Menecrate più per boria famoso, che per sa-pere. Nota è la lettera piena di alterigia, ch'egli scrisse aFilippo il Macedone, riferita da Ateneo (Deipnos. l. 7.),e la risposta che il re gli fece consigliandolo di viaggiaread Anticira. Basterà il rammentare alcuni a' quali la me-dicina è debitrice assai per le nuove strade in essa aper-te. Alcmeone di Crotone (24) discepolo di Pittagora fu ilprimo; come afferma Calcidio commentator del Timeodi Platone, che osservazioni anatomiche facesse, e scri-vesse sugli animali, anzi sulla costruzione dell'occhioancora egli scrisse, come osserva il Bruckero (t. 1, p.1131, in not.). Erodico fratello dell'orator Gorgia Leonti-no (perciocchè a Platone io amo meglio di credere, ilquale così afferma (in Gorgia), che a Plutarco che ilvuol nativo di Tracia) Erodico, dissi, fu il primo, secon-

24 Intorno al saper medico e anatomico di Alcmeone e di Empedocle veggan-si ancor le memorie di m. Goulin. (Mém. pour servir à l'Hist. de la Médec.an. 1775, p. 87, ec. 92, ec.)

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mente la prima, celebri ancor riuscissero nella seconda.Que' di Crotone singolarmente furono in medicina fa-mosi per testimonio di Erodoto. Questi parla lungamen-te (lib. 3. num. 131) di un Democede medico di Crotoneche visse a' tempi di Pittagora, e dice che in tanta famaegli venne, che i medici di Crotone stimati eran fra tuttii più eccellenti e dopo essi que' di Cirene: Primi Croto-niatæ medici celebrantur per Græciam; secundi veroCirenæi. Io non parlerò qui di Epicarmo, di Empedocle,di Pausania di Filistione, e di altri che nominati veggon-si da Laerzio (Vit Phil. l. 8.). Nemmeno farò menzionedel medico Menecrate più per boria famoso, che per sa-pere. Nota è la lettera piena di alterigia, ch'egli scrisse aFilippo il Macedone, riferita da Ateneo (Deipnos. l. 7.),e la risposta che il re gli fece consigliandolo di viaggiaread Anticira. Basterà il rammentare alcuni a' quali la me-dicina è debitrice assai per le nuove strade in essa aper-te. Alcmeone di Crotone (24) discepolo di Pittagora fu ilprimo; come afferma Calcidio commentator del Timeodi Platone, che osservazioni anatomiche facesse, e scri-vesse sugli animali, anzi sulla costruzione dell'occhioancora egli scrisse, come osserva il Bruckero (t. 1, p.1131, in not.). Erodico fratello dell'orator Gorgia Leonti-no (perciocchè a Platone io amo meglio di credere, ilquale così afferma (in Gorgia), che a Plutarco che ilvuol nativo di Tracia) Erodico, dissi, fu il primo, secon-

24 Intorno al saper medico e anatomico di Alcmeone e di Empedocle veggan-si ancor le memorie di m. Goulin. (Mém. pour servir à l'Hist. de la Médec.an. 1775, p. 87, ec. 92, ec.)

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do Platone (l. 3 de Rep.) che la ginnastica ossia faticosoesercizio del corpo usasse nella medicina. Egli è veroche secondo l'osservazione dello stesso Platone (in Phœ-dro), troppo ne abusò volendo perfino che si passeggias-se da Atene a Megara, città oltre 20 miglia lontana, eche appena toccatene le porte si ritornasse ad Atene. Manon deesi perciò lasciare di sapergliene grado. Daniellole Clerc (Hist. de la Médecine p. 229, édit. Gènev.) af-ferma, ch'ei fu maestro d'Ippocrate, e lo stesso dice ilBurigny (Hist. de la Sicil. t. 1, p. 18). Ma io non ho fi-nora trovato autore antico che ne faccia testimonianza.Siciliano pur e nativo di Agrigento si fu Acrone. Plinioafferma (Hist. Nat. l. 29, c. 1) ch'ei fu autore di quellasetta di medici che furon detti empirici, poichè dellasperienza valevansi a conoscere la natura de' morbi ed acurarli. Ma il le Clerc sostiene (ib. p. 224) che moltotempo dopo di Acrone una tal setta ebbe principio. Pareche qualche rivalità fosse tra lui ed Empedocle, come siraccoglie dal greco epigramma da Laerzio riferito (l. 8in Emped.). Io qui nol rapporto, poichè non è possibile iltraslatarlo dal greco in altra lingua senza che tutta perdala venustà e l'eleganza, fondato essendo lo scherzo sulnome stesso di Acrone, e su altre parole a cui esso nomeha relazione nella greca lingua (25). Vuolsi qui aggiunge-re qualche cosa ancor della musica. Il più antico autore25 Acrone dicesi da Suida più antico d'Ippocrate, come ancora Empedocle, il

che vuolsi notare perchè si vegga che il grande oracolo della medicina gio-vossi probabilmente di questi medici che l'aveano preceduto. Lo stessoSuida il fa autore di un libro dell'arte medica, e di un altro intorno al vittosalubre, e aggiugne ch'ei fece alcune osservazioni sui venti.

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do Platone (l. 3 de Rep.) che la ginnastica ossia faticosoesercizio del corpo usasse nella medicina. Egli è veroche secondo l'osservazione dello stesso Platone (in Phœ-dro), troppo ne abusò volendo perfino che si passeggias-se da Atene a Megara, città oltre 20 miglia lontana, eche appena toccatene le porte si ritornasse ad Atene. Manon deesi perciò lasciare di sapergliene grado. Daniellole Clerc (Hist. de la Médecine p. 229, édit. Gènev.) af-ferma, ch'ei fu maestro d'Ippocrate, e lo stesso dice ilBurigny (Hist. de la Sicil. t. 1, p. 18). Ma io non ho fi-nora trovato autore antico che ne faccia testimonianza.Siciliano pur e nativo di Agrigento si fu Acrone. Plinioafferma (Hist. Nat. l. 29, c. 1) ch'ei fu autore di quellasetta di medici che furon detti empirici, poichè dellasperienza valevansi a conoscere la natura de' morbi ed acurarli. Ma il le Clerc sostiene (ib. p. 224) che moltotempo dopo di Acrone una tal setta ebbe principio. Pareche qualche rivalità fosse tra lui ed Empedocle, come siraccoglie dal greco epigramma da Laerzio riferito (l. 8in Emped.). Io qui nol rapporto, poichè non è possibile iltraslatarlo dal greco in altra lingua senza che tutta perdala venustà e l'eleganza, fondato essendo lo scherzo sulnome stesso di Acrone, e su altre parole a cui esso nomeha relazione nella greca lingua (25). Vuolsi qui aggiunge-re qualche cosa ancor della musica. Il più antico autore25 Acrone dicesi da Suida più antico d'Ippocrate, come ancora Empedocle, il

che vuolsi notare perchè si vegga che il grande oracolo della medicina gio-vossi probabilmente di questi medici che l'aveano preceduto. Lo stessoSuida il fa autore di un libro dell'arte medica, e di un altro intorno al vittosalubre, e aggiugne ch'ei fece alcune osservazioni sui venti.

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che di essa ci sia rimasto, come osserva il Fabricio(Bibl. Græc. t. 2, p. 257), egli è Aristosseno da Taranto,discepolo di Aristotele. Tre libri abbiamo degli ElementiArmonici da lui scritti, le cui diverse edizioni dal Fabri-cio vengono annoverate. Moltissimi altri libri avea eglicomposti, e, se Suida non ha preso errore, o qualchesbaglio non è accaduto negli antichi esemplari, crederdobbiamo che fino a 452 essi fossero.

XV. Fra tutte però le scienze, il coltiva-mento delle quali accrebbe alla MagnaGrecia ed alla Sicilia onore e lode, deesia mio parere il primo luogo alla mate-matica. Non già ch'io voglia alla Sicilia

concedere il famoso Euclide autore degli Elementi diGeometria. Il can. Mongitore nella sua Biblioteca Sici-liana ha usato di ogni sforzo per mostrarlo nativo diGela, città di quell'isola. Ma egli ha ben potuto perciòrecare l'autorità di molti moderni scrittori, e per lo piùsiciliani, la testimonianza de' quali non è sufficiente pro-va se da quelli degli antichi non è sostenuta; ma di que-sti un solo non ha egli potuto trovare che dica sicilianoil geometra Euclide. Lasciato dunque questo in disparte,due illustri matematici ci si offrono a ragionarne, uno diTaranto nella Magna Grecia, cioè Archita, l'altro troppopiù celebre di Siracusa, cioè Archimede. E quanto adArchita già mentovato da noi tra' filosofi, fiorì egli circal'olimpiade XCVI, come dimostra il Bruckero (Hist.

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Matematici ivi illustri, e primie-ramente Archita.

che di essa ci sia rimasto, come osserva il Fabricio(Bibl. Græc. t. 2, p. 257), egli è Aristosseno da Taranto,discepolo di Aristotele. Tre libri abbiamo degli ElementiArmonici da lui scritti, le cui diverse edizioni dal Fabri-cio vengono annoverate. Moltissimi altri libri avea eglicomposti, e, se Suida non ha preso errore, o qualchesbaglio non è accaduto negli antichi esemplari, crederdobbiamo che fino a 452 essi fossero.

XV. Fra tutte però le scienze, il coltiva-mento delle quali accrebbe alla MagnaGrecia ed alla Sicilia onore e lode, deesia mio parere il primo luogo alla mate-matica. Non già ch'io voglia alla Sicilia

concedere il famoso Euclide autore degli Elementi diGeometria. Il can. Mongitore nella sua Biblioteca Sici-liana ha usato di ogni sforzo per mostrarlo nativo diGela, città di quell'isola. Ma egli ha ben potuto perciòrecare l'autorità di molti moderni scrittori, e per lo piùsiciliani, la testimonianza de' quali non è sufficiente pro-va se da quelli degli antichi non è sostenuta; ma di que-sti un solo non ha egli potuto trovare che dica sicilianoil geometra Euclide. Lasciato dunque questo in disparte,due illustri matematici ci si offrono a ragionarne, uno diTaranto nella Magna Grecia, cioè Archita, l'altro troppopiù celebre di Siracusa, cioè Archimede. E quanto adArchita già mentovato da noi tra' filosofi, fiorì egli circal'olimpiade XCVI, come dimostra il Bruckero (Hist.

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Matematici ivi illustri, e primie-ramente Archita.

Crit. Phil. t. 1, p. 1128), e pel suo sapere venne in talfama, che Platone ancora, oltre più altri, se gli diede adiscepolo; nè solo della sua dottrina, ma della sua vitagli fu debitore. Poichè dannato a morte da Dionigi tiran-no di Siracusa, ne fu campato per una lettera che al ti-ranno inviò Archita (Laert. Vit. Philos. l. 8 in Archita).Più libri egli scrisse, che veggonsi mentovati dagli anti-chi autori, e dall'erudito Fabricio diligentemente anno-verati (Bibl. Græc. t. 1, p. 493). Ma la geometria el'algebra furon le scienze in cui per singolar modo sirendè celebre Archita. Fu egli il primo, al dir di Laerzio,che agli usi pratici rivolgesse la geometria, la qual finallora a contemplazioni astratte ed inutili erasi applicata.Egli cominciò a ridurre a leggi determinate la meccani-ca, gli effetti esaminandone, e spiegandone le ragioni; edel suo valore in questa parte di matematica diede egliun'illustre prova col lavoro di una colomba di legno for-mata per modo che imitava il volo delle vere colombe.Esercitossi egli ancora intorno al famoso problema delladuplicazione del cubo, e ne diede la soluzione che daEutocio ne è stata conservata, della quale favellando ilMontucla dice che, benchè essa sia unicamente specula-tiva, ci fa però concepire una vantaggiosa idea del suoautore (Hist. des Recherches sur la Quadrature du Cer-cle p. 243). Intorno ad Archita e alle matematiche sco-perte da lui fatte, si possono vedere i soprallodati autori,il Bruckero, io dico, il Fabricio, il Montucla (Hist. desMathém. t. 1, p. 137, e 188). Il Bruckero attribuisce an-cora ad Archita l'invenzion della troclea ossia carrucola,

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Crit. Phil. t. 1, p. 1128), e pel suo sapere venne in talfama, che Platone ancora, oltre più altri, se gli diede adiscepolo; nè solo della sua dottrina, ma della sua vitagli fu debitore. Poichè dannato a morte da Dionigi tiran-no di Siracusa, ne fu campato per una lettera che al ti-ranno inviò Archita (Laert. Vit. Philos. l. 8 in Archita).Più libri egli scrisse, che veggonsi mentovati dagli anti-chi autori, e dall'erudito Fabricio diligentemente anno-verati (Bibl. Græc. t. 1, p. 493). Ma la geometria el'algebra furon le scienze in cui per singolar modo sirendè celebre Archita. Fu egli il primo, al dir di Laerzio,che agli usi pratici rivolgesse la geometria, la qual finallora a contemplazioni astratte ed inutili erasi applicata.Egli cominciò a ridurre a leggi determinate la meccani-ca, gli effetti esaminandone, e spiegandone le ragioni; edel suo valore in questa parte di matematica diede egliun'illustre prova col lavoro di una colomba di legno for-mata per modo che imitava il volo delle vere colombe.Esercitossi egli ancora intorno al famoso problema delladuplicazione del cubo, e ne diede la soluzione che daEutocio ne è stata conservata, della quale favellando ilMontucla dice che, benchè essa sia unicamente specula-tiva, ci fa però concepire una vantaggiosa idea del suoautore (Hist. des Recherches sur la Quadrature du Cer-cle p. 243). Intorno ad Archita e alle matematiche sco-perte da lui fatte, si possono vedere i soprallodati autori,il Bruckero, io dico, il Fabricio, il Montucla (Hist. desMathém. t. 1, p. 137, e 188). Il Bruckero attribuisce an-cora ad Archita l'invenzion della troclea ossia carrucola,

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e della coclea ossia vite; ma non allega autore alcunoche ciò affermi; e noi vedremo fra poco che la gloria ditali invenzioni più probabilmente si concede ad Archi-mede. Quale stima si acquistasse egli, chiaro si scorgedalla maniera con cui ne favellano gli scrittori. Oraziotra gli altri il chiama Misuratore della terra e del cielo edelle innumerabili arene, e uomo che sulle celesti sfereardito avea di sollevarsi e di aggirarsi (l. 1, Od. 23). "Inquest'Ode medesima Orazio accenna l'infelice morte diArchita, che perì naufrago presso le spiagge della Pu-glia, in un luogo che dicevasi Litus Matinum". Nè allescienze soltanto si ristrinse la gloria d'Archita, ma quellaancora di guerriero conseguì egli felicemente. Più voltecondusse al combattimento le truppe della sua patria; econdotte da lui mai non furono vinte; appena egli neebbe deposto il comando, furono rotte e disperse (V.Bruck. loc. cit.).

XVI. Assai maggior nondimeno si fu lafama che si acquistò Archimede, di cui pos-siamo dire con ragione che, quando l'Italiaaltri antichi matematici non avesse a vanta-re, di questo solo potrebbe giustamente an-dar lieta e superba. Io non recherò qui gli

elogi che di lui leggonsi presso gli antichi scrittori, chebuoni giudici non sembrerebbero essi forse ad alcuno,poichè vissuti in tempo in cui la matematica non era an-cora a quella luce e a quella perfezione condotta, in cui

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Fama di Archimede,e scrittori che ne han-no illustratala Vita.

e della coclea ossia vite; ma non allega autore alcunoche ciò affermi; e noi vedremo fra poco che la gloria ditali invenzioni più probabilmente si concede ad Archi-mede. Quale stima si acquistasse egli, chiaro si scorgedalla maniera con cui ne favellano gli scrittori. Oraziotra gli altri il chiama Misuratore della terra e del cielo edelle innumerabili arene, e uomo che sulle celesti sfereardito avea di sollevarsi e di aggirarsi (l. 1, Od. 23). "Inquest'Ode medesima Orazio accenna l'infelice morte diArchita, che perì naufrago presso le spiagge della Pu-glia, in un luogo che dicevasi Litus Matinum". Nè allescienze soltanto si ristrinse la gloria d'Archita, ma quellaancora di guerriero conseguì egli felicemente. Più voltecondusse al combattimento le truppe della sua patria; econdotte da lui mai non furono vinte; appena egli neebbe deposto il comando, furono rotte e disperse (V.Bruck. loc. cit.).

XVI. Assai maggior nondimeno si fu lafama che si acquistò Archimede, di cui pos-siamo dire con ragione che, quando l'Italiaaltri antichi matematici non avesse a vanta-re, di questo solo potrebbe giustamente an-dar lieta e superba. Io non recherò qui gli

elogi che di lui leggonsi presso gli antichi scrittori, chebuoni giudici non sembrerebbero essi forse ad alcuno,poichè vissuti in tempo in cui la matematica non era an-cora a quella luce e a quella perfezione condotta, in cui

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Fama di Archimede,e scrittori che ne han-no illustratala Vita.

è al presente. Alcuni soli più recenti piacemi di addurne.Il Vossio non dubita di chiamarlo: Divini vir ingenii, quipriorum omnium luminibus obstruxit (De Art. et Scient.Nat. c. 16). Il p. Tacquet lo dice: Apex humanæsubtilitatis: totius mathematicæ disciplinæ absolutio(Historica Narrat. de ortu et progr. Mathes.). Nella Sto-ria dell'Accademia delle scienze egli è chiamato uno de'più possenti genj che nelle matematiche sieno mai stati(Anno 1709). Il gran Leibnizio finalmente, a cui niunode' più profondi matematici non negherà fede, così di luidice in una lettera a monsig. Huet citata da m. Dutens (t.2, p. 161): Qui Archimedem intelligit, recentiorum sum-morum virorurum inventa parcius mirabitur. Le qualibrevi parole contengono il maggior elogio che di luipossa farsi. E che tali elogi sien dovuti, agevolmente ilconosce chiunque o ne esamina i libri che ce ne sono ri-masti, o legge ciò che di lui raccontano gli autori che nehanno scritta la storia. Fra questi meritano singolarmen-te di esser letti il co. Giammaria Mazzuchelli di cui ab-biamo una bella Vita di Archimede stampata in Brescial'anno 1737, e il Montucla che le invenzioni e le scoper-te di Archimede ha diligentemente esaminate (Hist. desMathém. t. 1, p. 231, ec.). Belle ricerche ancora sopraArchimede avea incominciato m. Melot (Mém. del'Acad. des Inscript. t. 14, p. 128); ma non so per qualragione non le abbia egli condotte a fine (26). Noi non

26 Delle osservazioni astronomiche di Archimede parla ancora m. Bailly(Hist. de l'Astron. Moderne t. 1, p. 44), il quale con breve, ma grande elo-gio lo dice il Newton della scuola greca.

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è al presente. Alcuni soli più recenti piacemi di addurne.Il Vossio non dubita di chiamarlo: Divini vir ingenii, quipriorum omnium luminibus obstruxit (De Art. et Scient.Nat. c. 16). Il p. Tacquet lo dice: Apex humanæsubtilitatis: totius mathematicæ disciplinæ absolutio(Historica Narrat. de ortu et progr. Mathes.). Nella Sto-ria dell'Accademia delle scienze egli è chiamato uno de'più possenti genj che nelle matematiche sieno mai stati(Anno 1709). Il gran Leibnizio finalmente, a cui niunode' più profondi matematici non negherà fede, così di luidice in una lettera a monsig. Huet citata da m. Dutens (t.2, p. 161): Qui Archimedem intelligit, recentiorum sum-morum virorurum inventa parcius mirabitur. Le qualibrevi parole contengono il maggior elogio che di luipossa farsi. E che tali elogi sien dovuti, agevolmente ilconosce chiunque o ne esamina i libri che ce ne sono ri-masti, o legge ciò che di lui raccontano gli autori che nehanno scritta la storia. Fra questi meritano singolarmen-te di esser letti il co. Giammaria Mazzuchelli di cui ab-biamo una bella Vita di Archimede stampata in Brescial'anno 1737, e il Montucla che le invenzioni e le scoper-te di Archimede ha diligentemente esaminate (Hist. desMathém. t. 1, p. 231, ec.). Belle ricerche ancora sopraArchimede avea incominciato m. Melot (Mém. del'Acad. des Inscript. t. 14, p. 128); ma non so per qualragione non le abbia egli condotte a fine (26). Noi non

26 Delle osservazioni astronomiche di Archimede parla ancora m. Bailly(Hist. de l'Astron. Moderne t. 1, p. 44), il quale con breve, ma grande elo-gio lo dice il Newton della scuola greca.

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prenderemo a descriverne minutamente la Vita, intornoa cui nulla ci lasciano a desiderare i mentovati autori e ilprimo singolarmente. Solo i principali studj e le scoper-te più ragguardevoli ne accennerem brevemente, tratte-nendoci ove qualche cosa per incertezza meriti maggioresame.

XVII. Nacque egli verso l'anno 286. innan-zi l'era cristiana, cioè verso l'anno 467 diRoma; e Siracusa, che a ragione chiamarpossiamo de più leggiadri e più sublimi in-gegni dell'antichità educatrice e madre, ne

fu la patria. S'egli fosse parente del re Gerone, comevuole Plutarco (in Marcello), o nol fosse come altri af-fermano, poco giova il cercarlo. S'io facessi ricerche in-torno alla Vita di Gerone, potrei cercare di accrescere aquesto principe nuovo onore, esaminando s'egli avesse aparente Archimede. Ma questi non abbisogna di quellaqualunque siasi gloria che dalle reali parentele deriva.La matematica e la meccanica singolarmente e la geo-metria furono sempre le sue delizie ed altra passione ol-tre questa pare ch'egli non conoscesse. Plutarco ed altriantichi scrittori ne danno prove tali che, se si ammettes-ser per vere, cel mostrerebbero tratto dall'amore di que-sti studj alla pazzia non che all'entusiasmo; e quella sin-golarmente dell'essere egli balzato improvvisamente dalbagno, in cui fatta aveva una scoperta geometrica di cuiposcia favelleremo, e così ignudo come era aggiratosi

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Epoche del-la sua Vita, e sue primescoperte.

prenderemo a descriverne minutamente la Vita, intornoa cui nulla ci lasciano a desiderare i mentovati autori e ilprimo singolarmente. Solo i principali studj e le scoper-te più ragguardevoli ne accennerem brevemente, tratte-nendoci ove qualche cosa per incertezza meriti maggioresame.

XVII. Nacque egli verso l'anno 286. innan-zi l'era cristiana, cioè verso l'anno 467 diRoma; e Siracusa, che a ragione chiamarpossiamo de più leggiadri e più sublimi in-gegni dell'antichità educatrice e madre, ne

fu la patria. S'egli fosse parente del re Gerone, comevuole Plutarco (in Marcello), o nol fosse come altri af-fermano, poco giova il cercarlo. S'io facessi ricerche in-torno alla Vita di Gerone, potrei cercare di accrescere aquesto principe nuovo onore, esaminando s'egli avesse aparente Archimede. Ma questi non abbisogna di quellaqualunque siasi gloria che dalle reali parentele deriva.La matematica e la meccanica singolarmente e la geo-metria furono sempre le sue delizie ed altra passione ol-tre questa pare ch'egli non conoscesse. Plutarco ed altriantichi scrittori ne danno prove tali che, se si ammettes-ser per vere, cel mostrerebbero tratto dall'amore di que-sti studj alla pazzia non che all'entusiasmo; e quella sin-golarmente dell'essere egli balzato improvvisamente dalbagno, in cui fatta aveva una scoperta geometrica di cuiposcia favelleremo, e così ignudo come era aggiratosi

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Epoche del-la sua Vita, e sue primescoperte.

per le vie della città, gridando ad alta voce: io l'ho tro-vato, io l'ho trovato. Il matematico Montucla, che dallascienza sua prediletta rimuover vorrebbe questa qualun-que traccia di esser possente ancora a trarre altrui inpazzia, rigetta quai favolosi tali racconti. Io non voglioaccingermi a difenderne la verità; ma parrà forse ad altrich'essi non sien certo affatto improbabili, poichè di so-miglianti trasporti veggiam noi pure al presente non rariesempj.

XVIII. Uomo di sottile ed elevato ingegno,tutto volgeasi Archimede alla contemplazio-ne e allo scoprimento delle più astruse e dif-ficili verità che le matematiche ne possono

offerire, e niuna sensibil prova avrebbe egli forse datadel suo sapere se i comandi del re Gerone e l'assediodella sua patria non lo avesser costretto a porre in prati-ca ciò che sin allora solo speculativamente aveva appre-so e dimostrato. I libri che di lui ci rimangono, ne sonoun chiaro argomento. Noi vi veggiamo la celebre sua di-scoperta della proporzione che ha la sfera al cilindro:scoperta di cui egli compiacquesi tanto, che volle chequeste due figure fossero sul suo sepolcro scolpite, e tut-to ne formassero l'onorevole elogio, migliore certod'assai che non quelle pompose iscrizioni le quali spessocercano, ma inutilmente d'imporre alla troppo accortaposterità. Vi veggiam parimenti le osservazioni da luifatte sulle conoidi e le sferoidi, le ricerche sulla misura

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Altre sco-perte del medesimo.

per le vie della città, gridando ad alta voce: io l'ho tro-vato, io l'ho trovato. Il matematico Montucla, che dallascienza sua prediletta rimuover vorrebbe questa qualun-que traccia di esser possente ancora a trarre altrui inpazzia, rigetta quai favolosi tali racconti. Io non voglioaccingermi a difenderne la verità; ma parrà forse ad altrich'essi non sien certo affatto improbabili, poichè di so-miglianti trasporti veggiam noi pure al presente non rariesempj.

XVIII. Uomo di sottile ed elevato ingegno,tutto volgeasi Archimede alla contemplazio-ne e allo scoprimento delle più astruse e dif-ficili verità che le matematiche ne possono

offerire, e niuna sensibil prova avrebbe egli forse datadel suo sapere se i comandi del re Gerone e l'assediodella sua patria non lo avesser costretto a porre in prati-ca ciò che sin allora solo speculativamente aveva appre-so e dimostrato. I libri che di lui ci rimangono, ne sonoun chiaro argomento. Noi vi veggiamo la celebre sua di-scoperta della proporzione che ha la sfera al cilindro:scoperta di cui egli compiacquesi tanto, che volle chequeste due figure fossero sul suo sepolcro scolpite, e tut-to ne formassero l'onorevole elogio, migliore certod'assai che non quelle pompose iscrizioni le quali spessocercano, ma inutilmente d'imporre alla troppo accortaposterità. Vi veggiam parimenti le osservazioni da luifatte sulle conoidi e le sferoidi, le ricerche sulla misura

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Altre sco-perte del medesimo.

del circolo e sulla quadratura della parabola, ed altre so-miglianti, colle quali, come osserva il Montucla (Hist.de la Quadrat. du Cercle p. 29. V. etiam Dutens t. 2, p.133, ec.), fu egli il primo tra' matematici, che giungessea determinare a un dipresso la misura del circolo su cuigià da tanto tempo aveano i più antichi speculato e di-sputato inutilmente. Anzi che l'algebra ancora fosse daArchimede usata, egli è sentimento del Barrow, del Wal-lis, e di altri moderni matematici allegati da m. Dutens(tom. 2, p. 152, ec.). Tutte queste profonde ricerche fe-cero per l'addietro, e fanno anche al presente considera-re Archimede come uno de' primi istitutori, per cosìdire, delle matematiche scienze. Egli è vero che i mo-derni, lasciate le vie intricate e spinose per cui avvol-gendosi Archimede giunse a tali scoperte, altre più facilie più brevi ne han ritrovato. Ma ciò nulla dee toglier dilode a chi il primo cominciò a spianar loro il sentiero; ea lui debbono i posteri se più facilmente e più prestoch'egli non fece, vi possono pervenire. Certo il Wallisottimo giudice in tali materie non temè di onorare Ar-chimede di un tale elogio: Vir stupendæ sagacitatis, quiprima fundamenta posuit inventionum fere omnium, dequibus promovendis tas nostra gloriatur (Ap. MontuclaHist. des Mathém. t. 1, p. 233).

XIX. La meccanica ancora non dee ad Ar-chimede punto meno della geometria, e, se-condo il Montucla, egli può veramente dir-

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Quanto a lui debba lameccanica, e l'idrostati-ca.

del circolo e sulla quadratura della parabola, ed altre so-miglianti, colle quali, come osserva il Montucla (Hist.de la Quadrat. du Cercle p. 29. V. etiam Dutens t. 2, p.133, ec.), fu egli il primo tra' matematici, che giungessea determinare a un dipresso la misura del circolo su cuigià da tanto tempo aveano i più antichi speculato e di-sputato inutilmente. Anzi che l'algebra ancora fosse daArchimede usata, egli è sentimento del Barrow, del Wal-lis, e di altri moderni matematici allegati da m. Dutens(tom. 2, p. 152, ec.). Tutte queste profonde ricerche fe-cero per l'addietro, e fanno anche al presente considera-re Archimede come uno de' primi istitutori, per cosìdire, delle matematiche scienze. Egli è vero che i mo-derni, lasciate le vie intricate e spinose per cui avvol-gendosi Archimede giunse a tali scoperte, altre più facilie più brevi ne han ritrovato. Ma ciò nulla dee toglier dilode a chi il primo cominciò a spianar loro il sentiero; ea lui debbono i posteri se più facilmente e più prestoch'egli non fece, vi possono pervenire. Certo il Wallisottimo giudice in tali materie non temè di onorare Ar-chimede di un tale elogio: Vir stupendæ sagacitatis, quiprima fundamenta posuit inventionum fere omnium, dequibus promovendis tas nostra gloriatur (Ap. MontuclaHist. des Mathém. t. 1, p. 233).

XIX. La meccanica ancora non dee ad Ar-chimede punto meno della geometria, e, se-condo il Montucla, egli può veramente dir-

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Quanto a lui debba lameccanica, e l'idrostati-ca.

sene il creatore, di che chiara prova ci somministrano idue ingegnosi trattati che di lui abbiamo, De æqui pon-derantibus, e De iis quæ vehuntur in fluido. Io non fa-rommi qui a raccontar lungamente la celebre scoperta,che al re Gerone egli fece, della frode usata da un artefi-ce, il quale avendo dal Re ricevuta una tal quantità d'oroper formargliene una corona, vi avea mista parted'argento. Dicesi comunemente ch'egli a caso trovasse ilmodo di fare tale scoperta mentre stavasi tuffato nel ba-gno, osservando l'acqua che per la massa del suo corpofuori ne traboccava; alla qual occasione ancora narranoche fosse egli preso da quel trasporto di cui sopra di-cemmo. Ma di questa favoletta ridesi il Montucla; e ilmetodo ancora rigetta, di cui dice Vitruvio aver usatoArchimede; cioè di sommergere in un vaso d'acqua lacorona, e quindi due altre masse al par di essa pesanti,l'una d'oro, e l'altra d'argento, ed osservare la diversaquantità di acqua che da esse facevasi travasare. Un'altrapiù ingegnosa maniera egli ne arreca, con cui potè Ar-chimede scoprire al re Gerone la frode, maniera tratta daquegli stessi principj che vengono da lui stabiliti, nelsuo libro De insidentibus in fluido; cioè che ogni corposommerso in un fluido tanto vi perde il suo peso, quantopesa un volume d'acqua uguale al suo. Io concederò vo-lentieri al Montucla, che di questo principio si valesseArchimede a scoprire la frode; ma che di questo princi-pio medesimo non potesse egli avere la prima idea,mentre si tuffava nel bagno, credo che difficilmente po-trà mostrarsi. Veggasi anche come ragiona di questa

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sene il creatore, di che chiara prova ci somministrano idue ingegnosi trattati che di lui abbiamo, De æqui pon-derantibus, e De iis quæ vehuntur in fluido. Io non fa-rommi qui a raccontar lungamente la celebre scoperta,che al re Gerone egli fece, della frode usata da un artefi-ce, il quale avendo dal Re ricevuta una tal quantità d'oroper formargliene una corona, vi avea mista parted'argento. Dicesi comunemente ch'egli a caso trovasse ilmodo di fare tale scoperta mentre stavasi tuffato nel ba-gno, osservando l'acqua che per la massa del suo corpofuori ne traboccava; alla qual occasione ancora narranoche fosse egli preso da quel trasporto di cui sopra di-cemmo. Ma di questa favoletta ridesi il Montucla; e ilmetodo ancora rigetta, di cui dice Vitruvio aver usatoArchimede; cioè di sommergere in un vaso d'acqua lacorona, e quindi due altre masse al par di essa pesanti,l'una d'oro, e l'altra d'argento, ed osservare la diversaquantità di acqua che da esse facevasi travasare. Un'altrapiù ingegnosa maniera egli ne arreca, con cui potè Ar-chimede scoprire al re Gerone la frode, maniera tratta daquegli stessi principj che vengono da lui stabiliti, nelsuo libro De insidentibus in fluido; cioè che ogni corposommerso in un fluido tanto vi perde il suo peso, quantopesa un volume d'acqua uguale al suo. Io concederò vo-lentieri al Montucla, che di questo principio si valesseArchimede a scoprire la frode; ma che di questo princi-pio medesimo non potesse egli avere la prima idea,mentre si tuffava nel bagno, credo che difficilmente po-trà mostrarsi. Veggasi anche come ragiona di questa

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scoperta il co. Mazzuchelli nella Vita di Archimede (p.18, ec.).

XX. Fino a quaranta invenzioni meccanicheattribuivano gli antichi ad Archimede; maappena ne troviamo alcune indicate negliautori che ci sono rimasti. Sua fra le altre

dicesi la vite ossia chiocciola inclinata, in cui l'inclina-zione medesima che il peso ha a cedere, sembra impie-gata ad innalzarlo. A qual fine fosse ella da Archimedetrovata, controvertesi tra gli scrittori. Il Montucla affer-ma ch'egli immaginolla affinchè gli Egiziani se ne va-lessero a togliere da' più bassi terreni quell'acque che ilNilo ritirandosi vi lasciava. Al contrario il Melot sostie-ne che l'uso, a cui da Archimede fu indirizzata, fossequello di distribuire e compartire pe' campi le acquestesse del Nilo. In due luoghi, dic'egli, parla Diodoro Si-ciliano della chiocciola di Archimede; in uno dice chegli Egiziani a questo fine appunto se ne servivano;nell'altro racconta solo che Archimede ne trovò l'uso inEgitto; ed il fine, aggiugne egli, di asciugare le acquestagnanti del Nilo, non è mentovato che dal Cardano, eDiodoro non ne fa motto. Così egli. E certo se, noi con-sultiam Diodoro, noi veggiamo che l'altro uso solamentealla chiocciola di Archimede egli attribuisce per riguar-do all'Egitto. Ecco i due passi in cui egli ne parla: In-colæ, dic'egli in un luogo (l. 1, p. 40, edit. Amstel.1746.), facile eam (terram) rigant machina quadam ab

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Sue inven-zioni inge-gnose.

scoperta il co. Mazzuchelli nella Vita di Archimede (p.18, ec.).

XX. Fino a quaranta invenzioni meccanicheattribuivano gli antichi ad Archimede; maappena ne troviamo alcune indicate negliautori che ci sono rimasti. Sua fra le altre

dicesi la vite ossia chiocciola inclinata, in cui l'inclina-zione medesima che il peso ha a cedere, sembra impie-gata ad innalzarlo. A qual fine fosse ella da Archimedetrovata, controvertesi tra gli scrittori. Il Montucla affer-ma ch'egli immaginolla affinchè gli Egiziani se ne va-lessero a togliere da' più bassi terreni quell'acque che ilNilo ritirandosi vi lasciava. Al contrario il Melot sostie-ne che l'uso, a cui da Archimede fu indirizzata, fossequello di distribuire e compartire pe' campi le acquestesse del Nilo. In due luoghi, dic'egli, parla Diodoro Si-ciliano della chiocciola di Archimede; in uno dice chegli Egiziani a questo fine appunto se ne servivano;nell'altro racconta solo che Archimede ne trovò l'uso inEgitto; ed il fine, aggiugne egli, di asciugare le acquestagnanti del Nilo, non è mentovato che dal Cardano, eDiodoro non ne fa motto. Così egli. E certo se, noi con-sultiam Diodoro, noi veggiamo che l'altro uso solamentealla chiocciola di Archimede egli attribuisce per riguar-do all'Egitto. Ecco i due passi in cui egli ne parla: In-colæ, dic'egli in un luogo (l. 1, p. 40, edit. Amstel.1746.), facile eam (terram) rigant machina quadam ab

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Sue inven-zioni inge-gnose.

Archimede syracusio inventa, quæ a forma, cochleæ no-men habet. Nell'altro luogo così ragiona (l. 5 p. 360.):Illos aquarum profluxus cochleis, quæ ægyptiæ vocan-tur, exhauriunt. Inventor harum fuit Archimedes in suaad ægyptum peregrinatione. Ma qui egli non parladell'Egitto, nè degli abitanti delle terre bagnate dal Nilo:parla della Spagna e di que' che lavoravano. nelle minie-re, de' quali dice che incontrando nelle sotterranee cavetalvolta acque stagnanti, di questo strumento valevansi avolgere altrove le acque e ad asciugare le stesse cave. Equindi pare che il Melot più esattamente che il Montucladefinito abbia l'uso per cui la vite fu da Archimede tro-vata. Da lui pure si crede che trovata fosse la chiocciolao vite che dicesi infinita; da lui la moltiplicazione dellecarrucole che, latinamente diconsi trochleæ; e forse an-cora, dice il Montucla, ei fu il primo inventore della car-rucola mobile, poichè nella meccanica di Aristotele nonse ne vede vestigio; da lui per ultimo, secondo Ateneo(Deipnos. l. 5.), la macchina di cui i nocchieri valevansia votar di acque la sentina delle navi. Intorno a questeed altre invenzioni di Archimede veggasi il co. Mazzuc-chelli che diffusamente ne ragiona.

XXI. La sterminata nave fatta fabbricare dalre Gerone, e colle macchine di Archimedegittata in mare, è un'altra prova del creatorefecondisssimo ingegno di sì grand'uomo.Aveane già egli dato un saggio col trarre

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Nave ster-minata col-le sue mac-chine gitta-ta in mare.

Archimede syracusio inventa, quæ a forma, cochleæ no-men habet. Nell'altro luogo così ragiona (l. 5 p. 360.):Illos aquarum profluxus cochleis, quæ ægyptiæ vocan-tur, exhauriunt. Inventor harum fuit Archimedes in suaad ægyptum peregrinatione. Ma qui egli non parladell'Egitto, nè degli abitanti delle terre bagnate dal Nilo:parla della Spagna e di que' che lavoravano. nelle minie-re, de' quali dice che incontrando nelle sotterranee cavetalvolta acque stagnanti, di questo strumento valevansi avolgere altrove le acque e ad asciugare le stesse cave. Equindi pare che il Melot più esattamente che il Montucladefinito abbia l'uso per cui la vite fu da Archimede tro-vata. Da lui pure si crede che trovata fosse la chiocciolao vite che dicesi infinita; da lui la moltiplicazione dellecarrucole che, latinamente diconsi trochleæ; e forse an-cora, dice il Montucla, ei fu il primo inventore della car-rucola mobile, poichè nella meccanica di Aristotele nonse ne vede vestigio; da lui per ultimo, secondo Ateneo(Deipnos. l. 5.), la macchina di cui i nocchieri valevansia votar di acque la sentina delle navi. Intorno a questeed altre invenzioni di Archimede veggasi il co. Mazzuc-chelli che diffusamente ne ragiona.

XXI. La sterminata nave fatta fabbricare dalre Gerone, e colle macchine di Archimedegittata in mare, è un'altra prova del creatorefecondisssimo ingegno di sì grand'uomo.Aveane già egli dato un saggio col trarre

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Nave ster-minata col-le sue mac-chine gitta-ta in mare.

egli solo in mare, standosi tranquillamente seduto, unanave mercantile carica di enorme peso (Plut. in Marc.).Ma assai maggiore fu quello che diede all'occasione diquest'altra nave. Ateneo ce ne ha lasciata una minuta edesatta descrizione (loc. cit.), cui io recherò qui secondola traduzione che nella Vita di Archimede ne ha fatta ilco. Mazzucchelli (p. 43, ec). "Gerone dunque re di Sira-cusa, strettissimo amico de' Romani, pose ogni studionella struttura de' tempj e de' luoghi ai pubblici esercizjdestinati; e fu vago d'acquistarsi gloria nella fabbricadelle navi che servir dovevano a caricare formenti. De-scriverò io la fabbrica d'una di queste. Sul monte Etnafu proveduto il material de' legnami, il quale sarebbestato bastevole per lavorare sessanta galere. Apparec-chiati che questi furono, non men che i chiodi e tutto ilbisognevole per la fabbrica interiore, colle dirette colon-ne, e coll'altra materia ad altri usi, parte dall'Italia, e par-te dalla Sicilia oltre alle cortecce delle pioppe dalla Spa-gna (il testo greco dice Iberia, la qual voce può ancorasignificare la Giorgia in Asia) per far le gomene, il cana-pe, ed il ginepro dal fiume Rodano, con tutte le altrecose da varie parti del mondo, condusse de' fabbri dinave con altri artefici, ponendo alla testa di tutti Archiacorintio architetto; ed acciocchè con coraggio intrapren-dessero il lavoro, gli andava caldamente esortando, e viassisteva egli stesso in persona i giorni interi. Nello spa-zio di sei mesi ne fu compiuta la metà, e questa di manoin mano s'andava coprendo con lamine di piombo, poi-chè erano al lavoro impiegati trecento artefici oltre agli

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egli solo in mare, standosi tranquillamente seduto, unanave mercantile carica di enorme peso (Plut. in Marc.).Ma assai maggiore fu quello che diede all'occasione diquest'altra nave. Ateneo ce ne ha lasciata una minuta edesatta descrizione (loc. cit.), cui io recherò qui secondola traduzione che nella Vita di Archimede ne ha fatta ilco. Mazzucchelli (p. 43, ec). "Gerone dunque re di Sira-cusa, strettissimo amico de' Romani, pose ogni studionella struttura de' tempj e de' luoghi ai pubblici esercizjdestinati; e fu vago d'acquistarsi gloria nella fabbricadelle navi che servir dovevano a caricare formenti. De-scriverò io la fabbrica d'una di queste. Sul monte Etnafu proveduto il material de' legnami, il quale sarebbestato bastevole per lavorare sessanta galere. Apparec-chiati che questi furono, non men che i chiodi e tutto ilbisognevole per la fabbrica interiore, colle dirette colon-ne, e coll'altra materia ad altri usi, parte dall'Italia, e par-te dalla Sicilia oltre alle cortecce delle pioppe dalla Spa-gna (il testo greco dice Iberia, la qual voce può ancorasignificare la Giorgia in Asia) per far le gomene, il cana-pe, ed il ginepro dal fiume Rodano, con tutte le altrecose da varie parti del mondo, condusse de' fabbri dinave con altri artefici, ponendo alla testa di tutti Archiacorintio architetto; ed acciocchè con coraggio intrapren-dessero il lavoro, gli andava caldamente esortando, e viassisteva egli stesso in persona i giorni interi. Nello spa-zio di sei mesi ne fu compiuta la metà, e questa di manoin mano s'andava coprendo con lamine di piombo, poi-chè erano al lavoro impiegati trecento artefici oltre agli

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altri operai. Ordinò Gerone che questa metà già compiu-ta in mar si traesse, e quivi si lavorasse l'altra metà. Mail tirar questa nave in mare essendo cosa molto malage-vole, il solo Archimede ingegnero ve la trasse con pochistrumenti, avendo allestita l'elica per mezzo della qualeridusse in mare una nave sì smisurata. Archimede fu ilprimo che ritrovasse tal macchina. Allorchè poi nellospazio d'altri sei mesi ridussero a compimento l'altrametà della nave, fu tutta insieme unita con chiodi dibronzo, altri del peso di libbre dieci, ed altri di quindici,i quali messi in opra per mezzo de' succhi servivano atener unite le tavole, e con piastre di piombo venivanoal legno inserrati col sottoporvi pece e pezzi di lino. La-vorata in tal guisa la parte esteriore della nave, si diedemano all'interna. Venti ordini di remi erano in essa navecon tre entrate, di cui la più bassa portava nella savorra,ed in essa scendevisi per molte scale, l'altra presentavasia quelli che andar volevano negli appartamenti più fami-gliari, e l'ultima estendevasi nei quartieri dei soldati. Adun fianco ed all'altro dell'entrata di mezzo erano trentacamere famigliari, e cadauna di queste era fornita diquattro letti. Nel luogo ai marinai destinato n'eranoquindici con tre talami per gli ammogliati, fornita ognu-na di tre letti, la cucina de' quali era verso la poppa. Ilpavimento di quanto abbiamo riferito, era formato dipiccole pietre quadrate e diverse, le quali rappresentava-no al vivo tutta la favolosa guerra di Troia, essendol'artifizio in ogni cosa maraviglioso e per la struttura eper la copertura e per le porte e per le finestre.

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altri operai. Ordinò Gerone che questa metà già compiu-ta in mar si traesse, e quivi si lavorasse l'altra metà. Mail tirar questa nave in mare essendo cosa molto malage-vole, il solo Archimede ingegnero ve la trasse con pochistrumenti, avendo allestita l'elica per mezzo della qualeridusse in mare una nave sì smisurata. Archimede fu ilprimo che ritrovasse tal macchina. Allorchè poi nellospazio d'altri sei mesi ridussero a compimento l'altrametà della nave, fu tutta insieme unita con chiodi dibronzo, altri del peso di libbre dieci, ed altri di quindici,i quali messi in opra per mezzo de' succhi servivano atener unite le tavole, e con piastre di piombo venivanoal legno inserrati col sottoporvi pece e pezzi di lino. La-vorata in tal guisa la parte esteriore della nave, si diedemano all'interna. Venti ordini di remi erano in essa navecon tre entrate, di cui la più bassa portava nella savorra,ed in essa scendevisi per molte scale, l'altra presentavasia quelli che andar volevano negli appartamenti più fami-gliari, e l'ultima estendevasi nei quartieri dei soldati. Adun fianco ed all'altro dell'entrata di mezzo erano trentacamere famigliari, e cadauna di queste era fornita diquattro letti. Nel luogo ai marinai destinato n'eranoquindici con tre talami per gli ammogliati, fornita ognu-na di tre letti, la cucina de' quali era verso la poppa. Ilpavimento di quanto abbiamo riferito, era formato dipiccole pietre quadrate e diverse, le quali rappresentava-no al vivo tutta la favolosa guerra di Troia, essendol'artifizio in ogni cosa maraviglioso e per la struttura eper la copertura e per le porte e per le finestre.

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Nell'ingresso poi superiore era il luogo de' pubblici eser-cizj, ed alcuni passeggi che corrispondevano alla gran-dezza di questa nave. Tra questi v'era situata con mara-viglia ogni sorta di giardini, i quali per mezzo di canalidi terra, o pur di piombo comunicavano all'intornol'acqua alle piante. V'erano inoltre certi teatri formatid'ellera bianca e di viti, le cui radici venivano notrite invasi pieni di terra, i quali adacquavansi non meno chegli orti. Questi teatri coprivano e recavano l'ombra aisuddetti passeggi. Anche per i piaceri di Venere eravi unlupanare costrutto, questo ornato di tre letti col pavi-mento d'agara e di altre bellissime gemme, quante pote-vansi ritrovare in Sicilia. Erano le muraglie non men cheil coperto di cipresso, le porte d'avorio e di cedro atlanti-co, ed il tutto ornato oltre ogni credere di pitture, di sta-tue, e di varj bicchieri. Vicina a questo era una sala concinque letti, le pareti della quale erano di bosso, nonmen che le porte, ed in questa era la libreria, e nellasommità un orologio fatto ad imitazione di quello solareche fu già in Acradina (così chiamavasi una parte di Si-racusa). Eravi ancora un bagno con tre caldaie di rame,e tre letti, ed un gran vaso da lavarsi, di marmo di Taor-mina (città di Sicilia) di vario colore, della tenuta di cin-que metrete (cioè della tenuta di 540 libbre circad'acqua). Fabbricate pur furono molte stanze per i pas-seggieri e per i custodi della sentina, e separate da questiv'erano da una parte e dall'altra dieci stalle, ed in questeera pure riposto il fieno pe' cavalli, non meno che il luo-go adattato per lo bagaglio de' servi e de' soldati a caval-

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Nell'ingresso poi superiore era il luogo de' pubblici eser-cizj, ed alcuni passeggi che corrispondevano alla gran-dezza di questa nave. Tra questi v'era situata con mara-viglia ogni sorta di giardini, i quali per mezzo di canalidi terra, o pur di piombo comunicavano all'intornol'acqua alle piante. V'erano inoltre certi teatri formatid'ellera bianca e di viti, le cui radici venivano notrite invasi pieni di terra, i quali adacquavansi non meno chegli orti. Questi teatri coprivano e recavano l'ombra aisuddetti passeggi. Anche per i piaceri di Venere eravi unlupanare costrutto, questo ornato di tre letti col pavi-mento d'agara e di altre bellissime gemme, quante pote-vansi ritrovare in Sicilia. Erano le muraglie non men cheil coperto di cipresso, le porte d'avorio e di cedro atlanti-co, ed il tutto ornato oltre ogni credere di pitture, di sta-tue, e di varj bicchieri. Vicina a questo era una sala concinque letti, le pareti della quale erano di bosso, nonmen che le porte, ed in questa era la libreria, e nellasommità un orologio fatto ad imitazione di quello solareche fu già in Acradina (così chiamavasi una parte di Si-racusa). Eravi ancora un bagno con tre caldaie di rame,e tre letti, ed un gran vaso da lavarsi, di marmo di Taor-mina (città di Sicilia) di vario colore, della tenuta di cin-que metrete (cioè della tenuta di 540 libbre circad'acqua). Fabbricate pur furono molte stanze per i pas-seggieri e per i custodi della sentina, e separate da questiv'erano da una parte e dall'altra dieci stalle, ed in questeera pure riposto il fieno pe' cavalli, non meno che il luo-go adattato per lo bagaglio de' servi e de' soldati a caval-

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lo. Nella prora poi era una cisterna d'acqua, che chiude-re ed aprire potevasi. Era questa di assi unite ed impe-ciate con lino, e contenevi duemila metrete (cioè216.000 libbre in circa d'acqua). Vicina alla cisterna erauna peschiera fatta di molte tavole di legno con lame dipiombo: era piena di acqua salsa, ed in essa ben notri-vansi molti pesci. Dai lati della nave sporgevansi in fuo-ri alcune travi a proporzione tra loro distanti, le quali so-stenevano i ripostigli per le legne, i forni, le cucine, lemacine, ed altri molti ministeri servili. Sull'esterior dellanave v'erano molte statue alte sei braccia, che rappre-sentavano Atlante, le quali tutte secondo il loro ordinesostenevano la mole del tavolato ed il lavoro fatto a ca-naletti nelle cornici delle colonne. Tutta la nave poi eraadornata di proporzionate pitture, ed era munita d'ottogran torri che corrispondevano alla sua altezza, due inpoppa, due in prora, e l'altre, nel mezzo. A cadauna poidi queste erano legate due antenne, e di sopra eranvi al-cuni fori, per mezzo de' quali si lanciavano de' sassicontra i nemici che s'avvicinavano. Ognuna di questetorri veniva ascesa da quattro giovani armati e due ar-cieri, e l'interno di queste era tutto pieno di sassi e disaette. V'era inoltre fabbricata per il lungo della naveuna muraglia co' ripari e coi tavolati, e sopra di questiera collocata una ballista da tre legni a guisa di triangolosostenuta, che lanciava un sasso di tre talenti" (quandoquesti talenti si considerino attici dell'ordine de' minori,come io credo ragionevole, secondo l'usanza comunedegli antichi pesava quel sasso cento ottanta sette libbre

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lo. Nella prora poi era una cisterna d'acqua, che chiude-re ed aprire potevasi. Era questa di assi unite ed impe-ciate con lino, e contenevi duemila metrete (cioè216.000 libbre in circa d'acqua). Vicina alla cisterna erauna peschiera fatta di molte tavole di legno con lame dipiombo: era piena di acqua salsa, ed in essa ben notri-vansi molti pesci. Dai lati della nave sporgevansi in fuo-ri alcune travi a proporzione tra loro distanti, le quali so-stenevano i ripostigli per le legne, i forni, le cucine, lemacine, ed altri molti ministeri servili. Sull'esterior dellanave v'erano molte statue alte sei braccia, che rappre-sentavano Atlante, le quali tutte secondo il loro ordinesostenevano la mole del tavolato ed il lavoro fatto a ca-naletti nelle cornici delle colonne. Tutta la nave poi eraadornata di proporzionate pitture, ed era munita d'ottogran torri che corrispondevano alla sua altezza, due inpoppa, due in prora, e l'altre, nel mezzo. A cadauna poidi queste erano legate due antenne, e di sopra eranvi al-cuni fori, per mezzo de' quali si lanciavano de' sassicontra i nemici che s'avvicinavano. Ognuna di questetorri veniva ascesa da quattro giovani armati e due ar-cieri, e l'interno di queste era tutto pieno di sassi e disaette. V'era inoltre fabbricata per il lungo della naveuna muraglia co' ripari e coi tavolati, e sopra di questiera collocata una ballista da tre legni a guisa di triangolosostenuta, che lanciava un sasso di tre talenti" (quandoquesti talenti si considerino attici dell'ordine de' minori,come io credo ragionevole, secondo l'usanza comunedegli antichi pesava quel sasso cento ottanta sette libbre

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e mezza romane; imperciocchè ogni talento attico mino-re era di sessanta mine che corrispondevano a sessantadue libbre e mezza romane) "ed una saetta di dodicibraccia, e l'uno e l'altra per lo spazio di uno stadio (valea dire di un'ottava parte d'un miglio o sia di 125. passigeometrici), e questa macchina era stata da Archimedefabbricata. V'erano inoltre certi fori in grosse travi inta-gliati, e sostenuti da catene di bronzo. Tre erano gli al-beri della nave, e ciascuno di questi aveva due antennecaricate di sassi, dalle quali uncini e palle di piombolanciavansi contro i nemici. Era circondata la nave dauna palizzata di ferro, la quale teneva lontani gli assali-tori, ed eranvi tutto all'intorno certe maniferrate, le qualigettate per mezzo d'ordigni nelle navi nemiche s'attacca-vano a queste per poterle più facilmente scomporre edoffendere. Da un fianco e dall'altro erano sessanta gio-vani armati da capo a piedi, ed altrettanti intorno agli al-beri della nave ed alla antenne caricate di sassi. Nellegabbie, che lavorato di bronzo erano sul primo alberodella nave, stavano tre uomini, e due per cadauna dellealtre. A questi nelle gabbie suddette venivano sommini-strate da alcuni ragazzi in canestri tessuti di vinchi permezzo delle carrucole, e pietre e saette. La nave avevaquattro ancore di legno, ed otto di ferro. Il secondo ed ilterzo degli alberi della nave furono con facilità ritrovati,ma il primo assai difficilmente ne' monti della Brettagnada un porcaio. Filea ingegnere di Taormina fu quegliche lo ridusse in mare. La sentina poi, benchè profon-dissima, votavasi da un uomo solo per mezzo della

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e mezza romane; imperciocchè ogni talento attico mino-re era di sessanta mine che corrispondevano a sessantadue libbre e mezza romane) "ed una saetta di dodicibraccia, e l'uno e l'altra per lo spazio di uno stadio (valea dire di un'ottava parte d'un miglio o sia di 125. passigeometrici), e questa macchina era stata da Archimedefabbricata. V'erano inoltre certi fori in grosse travi inta-gliati, e sostenuti da catene di bronzo. Tre erano gli al-beri della nave, e ciascuno di questi aveva due antennecaricate di sassi, dalle quali uncini e palle di piombolanciavansi contro i nemici. Era circondata la nave dauna palizzata di ferro, la quale teneva lontani gli assali-tori, ed eranvi tutto all'intorno certe maniferrate, le qualigettate per mezzo d'ordigni nelle navi nemiche s'attacca-vano a queste per poterle più facilmente scomporre edoffendere. Da un fianco e dall'altro erano sessanta gio-vani armati da capo a piedi, ed altrettanti intorno agli al-beri della nave ed alla antenne caricate di sassi. Nellegabbie, che lavorato di bronzo erano sul primo alberodella nave, stavano tre uomini, e due per cadauna dellealtre. A questi nelle gabbie suddette venivano sommini-strate da alcuni ragazzi in canestri tessuti di vinchi permezzo delle carrucole, e pietre e saette. La nave avevaquattro ancore di legno, ed otto di ferro. Il secondo ed ilterzo degli alberi della nave furono con facilità ritrovati,ma il primo assai difficilmente ne' monti della Brettagnada un porcaio. Filea ingegnere di Taormina fu quegliche lo ridusse in mare. La sentina poi, benchè profon-dissima, votavasi da un uomo solo per mezzo della

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chiocciola da Archimede inventata. Questa nave fu allaprima chiamata siracusana, ma dappoichè si privò diessa Gerone, chiamossi alessandrina. Era accompagnatada altre navi minori, e primieramente dal Cercuro, ilquale portava di carico tremila talenti (cioè 187,500. lib-bre romane di peso), e movevasi a forza di remi. V'era-no pure di seguito altre barchette e battelli pescherecci,che avevano di carico mille e cinquecento talenti. Lagente poi niente era minore della già eletta, poichè v'era-no sulla prora seicento uomini per eseguire ciò che veni-va ordinato. I delitti che in questa nave facevansi, veni-vano giudicati dal condottiere, dal governator dellanave, e dal Gedotto, secondo le leggi siracusane. Suqueste navi furono caricati sessantamila moggi di for-mento, diecimila orci di salume lavorato in Sicilia venti-mila talenti di carne, ed altrettanti d'altre vettovaglie, edoltre a ciò v'erano i commestibili per quelli ch'erano innave. Ma essendosi informato Gerone che di tutti i portidella Sicilia altri non erano capaci di questa nave, ed al-tri erano pericolosi, stabilì di spedirla ad Alessandria indono al re Tolomeo, poichè in Egitto era gran penuria diformento, e colà mandolla".

XXII. Ma il Montucla stima di dover riget-tar tra le favole un tal racconto. "Que' checonoscono, dic'egli, quanto gran parte di po-tenza tolga il fregamento in qualchessiasimacchina, giudicheranno esser questi una

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Risposta alle diffi-coltà controun tal fatto.

chiocciola da Archimede inventata. Questa nave fu allaprima chiamata siracusana, ma dappoichè si privò diessa Gerone, chiamossi alessandrina. Era accompagnatada altre navi minori, e primieramente dal Cercuro, ilquale portava di carico tremila talenti (cioè 187,500. lib-bre romane di peso), e movevasi a forza di remi. V'era-no pure di seguito altre barchette e battelli pescherecci,che avevano di carico mille e cinquecento talenti. Lagente poi niente era minore della già eletta, poichè v'era-no sulla prora seicento uomini per eseguire ciò che veni-va ordinato. I delitti che in questa nave facevansi, veni-vano giudicati dal condottiere, dal governator dellanave, e dal Gedotto, secondo le leggi siracusane. Suqueste navi furono caricati sessantamila moggi di for-mento, diecimila orci di salume lavorato in Sicilia venti-mila talenti di carne, ed altrettanti d'altre vettovaglie, edoltre a ciò v'erano i commestibili per quelli ch'erano innave. Ma essendosi informato Gerone che di tutti i portidella Sicilia altri non erano capaci di questa nave, ed al-tri erano pericolosi, stabilì di spedirla ad Alessandria indono al re Tolomeo, poichè in Egitto era gran penuria diformento, e colà mandolla".

XXII. Ma il Montucla stima di dover riget-tar tra le favole un tal racconto. "Que' checonoscono, dic'egli, quanto gran parte di po-tenza tolga il fregamento in qualchessiasimacchina, giudicheranno esser questi una

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Risposta alle diffi-coltà controun tal fatto.

finzione. Egli è inoltre un de' principj della meccanica,che quanto guadagnasi in forza, altrettanto perdesi invelocità. Quindi se una macchina pone l'uomo in istatodi far egli solo ciò che cento colle naturali lor forzeavrebbon fatto, egli il farà cento volte più lentamente.Quindi secondo questo principio avrebbe Archimede ab-bisognato di tempo troppo notabile per far avanzare sen-sibilmente peso sì enorme." Io non voglio contrastar colMontucla su questi principj. Ma essi non provano se nonche di molto tempo abbisognò Archimede per trarre inmare quella sterminata mole. Ma dice egli forse Ateneo,che Archimede il facesse in un batter d'occhio? Cosìpare che abbia inteso il Montucla; ma leggasi il raccontodi Ateneo, e si vedrà che di tale prestezza egli non famotto. Se altri a render più mirabile il racconto ve l'han-no aggiunta contro essi si rivolga il Montucla; ma nonrigetti la narrazion di Ateneo per una circostanza che inlui non si trova. Anzi ove abbiam veduto dirsi nell'arre-cato racconto che Archimede la trasse in mare con pochistrumenti, altri leggono, come avverte lo stesso co.Mazzucchelli, con pochi servi; il che toglie una delledifficoltà dal Montucla addotte, cioè che troppo difficil-mente potesse ciò fare il solo Archimede. Egli è veroche Ateneo è il solo tra gli antichi scrittori, che di questanave ci abbia lasciata memoria; ma riflettasi che eglinon ne fa la descrizione a capriccio, nè sì fonda su d'unaincerta popolar tradizione, ma riferisce la descrizionefattane da Moschione. Cum de ea Moschion quidam li-brum, ediderit, quem nuper attente et studiose legi sici-

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finzione. Egli è inoltre un de' principj della meccanica,che quanto guadagnasi in forza, altrettanto perdesi invelocità. Quindi se una macchina pone l'uomo in istatodi far egli solo ciò che cento colle naturali lor forzeavrebbon fatto, egli il farà cento volte più lentamente.Quindi secondo questo principio avrebbe Archimede ab-bisognato di tempo troppo notabile per far avanzare sen-sibilmente peso sì enorme." Io non voglio contrastar colMontucla su questi principj. Ma essi non provano se nonche di molto tempo abbisognò Archimede per trarre inmare quella sterminata mole. Ma dice egli forse Ateneo,che Archimede il facesse in un batter d'occhio? Cosìpare che abbia inteso il Montucla; ma leggasi il raccontodi Ateneo, e si vedrà che di tale prestezza egli non famotto. Se altri a render più mirabile il racconto ve l'han-no aggiunta contro essi si rivolga il Montucla; ma nonrigetti la narrazion di Ateneo per una circostanza che inlui non si trova. Anzi ove abbiam veduto dirsi nell'arre-cato racconto che Archimede la trasse in mare con pochistrumenti, altri leggono, come avverte lo stesso co.Mazzucchelli, con pochi servi; il che toglie una delledifficoltà dal Montucla addotte, cioè che troppo difficil-mente potesse ciò fare il solo Archimede. Egli è veroche Ateneo è il solo tra gli antichi scrittori, che di questanave ci abbia lasciata memoria; ma riflettasi che eglinon ne fa la descrizione a capriccio, nè sì fonda su d'unaincerta popolar tradizione, ma riferisce la descrizionefattane da Moschione. Cum de ea Moschion quidam li-brum, ediderit, quem nuper attente et studiose legi sici-

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gitur Moschion scribit. Riflettasi che antico scrittore do-vett'essere questo Moschione, poichè Ateneo ne parlacome d'uomo di cui appena restava notizia alcuna: Mo-schion quidam; e perciò essendo Ateneo vissuto al se-condo secolo di Cristo, potè forse Moschione essere ocontemporaneo, o certo non molto di età lontano da Ar-chimede, morto circa un secolo e mezzo innanzi Cristo.Aggiungasi ancora che nella narrazion di Moschione daAteneo inserita nella sua storia, vedesi un greco epi-gramma in lode di questa nave, fatto da Archimelo, acui perciò Gerone fece un presente di mille moggia digrano; nel qual epigramma quelle stesse proprietà diquesta nave veggonsi accennate, che più diffusamentedescritte sono nella recata narrazione. Per le quali ragio-ni pare certamente che questo racconto secondo le buo-ne leggi di critica si debba ammetter per vero, benchèforse alcune circostanze possano essere state esageratedi troppo, singolarmente perciò che appartiene alle partidi cui la nave era corrisposta, e alle delizie d'ogni ma-niera, che vi erano aggiunte.

XXIII. Ma niuno ad Archimede contrastal'onor della sfera artificiale ingegnosamenteda lui trovata a spiegare ed a rappresentareil movimento degli astri, Pare ch'egli di que-

sto suo ritrovato singolarmente si compiacesse, poichèfu esso l'unico tra' suoi lavori di cui egli ne lasciasse ladescrizione nel suo libro intitolato Sphæropæja. La qua-

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Invenzione della sfera artificiale.

gitur Moschion scribit. Riflettasi che antico scrittore do-vett'essere questo Moschione, poichè Ateneo ne parlacome d'uomo di cui appena restava notizia alcuna: Mo-schion quidam; e perciò essendo Ateneo vissuto al se-condo secolo di Cristo, potè forse Moschione essere ocontemporaneo, o certo non molto di età lontano da Ar-chimede, morto circa un secolo e mezzo innanzi Cristo.Aggiungasi ancora che nella narrazion di Moschione daAteneo inserita nella sua storia, vedesi un greco epi-gramma in lode di questa nave, fatto da Archimelo, acui perciò Gerone fece un presente di mille moggia digrano; nel qual epigramma quelle stesse proprietà diquesta nave veggonsi accennate, che più diffusamentedescritte sono nella recata narrazione. Per le quali ragio-ni pare certamente che questo racconto secondo le buo-ne leggi di critica si debba ammetter per vero, benchèforse alcune circostanze possano essere state esageratedi troppo, singolarmente perciò che appartiene alle partidi cui la nave era corrisposta, e alle delizie d'ogni ma-niera, che vi erano aggiunte.

XXIII. Ma niuno ad Archimede contrastal'onor della sfera artificiale ingegnosamenteda lui trovata a spiegare ed a rappresentareil movimento degli astri, Pare ch'egli di que-

sto suo ritrovato singolarmente si compiacesse, poichèfu esso l'unico tra' suoi lavori di cui egli ne lasciasse ladescrizione nel suo libro intitolato Sphæropæja. La qua-

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Invenzione della sfera artificiale.

le invenzione di tanto pregio fu tra gli antichi, che perriguardo ad essa uomo di divino ingegno fu da Ciceronedetto Archimede. Ne in sphæra quidem, dice egli par-lando de' movimenti celesti, eosdem motus Archimedessine divino ingenio potuisset imitari (Tuscul. Quæst. l.1.).

XXIV. Gli ultimi giorni della vita di Archi-mede furono quelli in cui tutte le profonde esottili sue speculazioni traendo alla pratica,a vantaggio le volse della sua patria assedia-ta allor da' Romani. Io seguirò qui l'esempio

del Montucla, nè tratterromi a descrivere minutamentele macchine tutte da Archimede in tal occasione usate.Se noi crediamo a' racconti degli antichi scrittori, operòegli allora cose portentose al sommo e pressochè incre-dibili. Dardi e sassi e travi d'ogni maniera lanciati dallemura contro le navi romane, ed altre di queste collemacchine di Archimede oppresse e gittate a fondo, altrefermate con uncini, e tratte ad urtare e ad infrangersi fragli scogli, altre levate in alto, e aggirate intorno per aria,e rovesciate poscia nell'onde; tutti in somma gli sforzidegli assedianti delusi e ribattuti per modo, che Marcel-lo disperò di potere mai prender per forza l'assediata cit-tà. Io penso certo che il terrore in cui alcune macchinedi Archimede dovetter gittare i Romani, gli sgomentasseper modo, che anche assai più di ciò che era, paresse lordi vedere; e ne venisser poi quindi quegli esagerati rac-

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Macchine da lui tro-vate per di-fendere Si-racusa.

le invenzione di tanto pregio fu tra gli antichi, che perriguardo ad essa uomo di divino ingegno fu da Ciceronedetto Archimede. Ne in sphæra quidem, dice egli par-lando de' movimenti celesti, eosdem motus Archimedessine divino ingenio potuisset imitari (Tuscul. Quæst. l.1.).

XXIV. Gli ultimi giorni della vita di Archi-mede furono quelli in cui tutte le profonde esottili sue speculazioni traendo alla pratica,a vantaggio le volse della sua patria assedia-ta allor da' Romani. Io seguirò qui l'esempio

del Montucla, nè tratterromi a descrivere minutamentele macchine tutte da Archimede in tal occasione usate.Se noi crediamo a' racconti degli antichi scrittori, operòegli allora cose portentose al sommo e pressochè incre-dibili. Dardi e sassi e travi d'ogni maniera lanciati dallemura contro le navi romane, ed altre di queste collemacchine di Archimede oppresse e gittate a fondo, altrefermate con uncini, e tratte ad urtare e ad infrangersi fragli scogli, altre levate in alto, e aggirate intorno per aria,e rovesciate poscia nell'onde; tutti in somma gli sforzidegli assedianti delusi e ribattuti per modo, che Marcel-lo disperò di potere mai prender per forza l'assediata cit-tà. Io penso certo che il terrore in cui alcune macchinedi Archimede dovetter gittare i Romani, gli sgomentasseper modo, che anche assai più di ciò che era, paresse lordi vedere; e ne venisser poi quindi quegli esagerati rac-

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Macchine da lui tro-vate per di-fendere Si-racusa.

conti che leggonsi negli storici. Ma egli è indubitabileche ingegnose dovettero essere le macchine con cui riu-scì ad Archimede di frastornare e deludere per tantotempo l'impeto e il furor de' nemici. Polibio (Excerpta l.8.), Livio (Dec. 3, l. 4) e Plutarco (in Marcello) son gliscrittori che più diffusamente ne han favellato. E traquesti Polibio scrittor prudente e cauto, vissuto nellostesso secolo di Archimede, è certamente degno che inciò che narra, gli si presti credenza.

XXV. A questo luogo appartiene la famosaquistione degli specchi ustorj, con cui pre-tendesi che Archimede incendiasse le naviromane; nel qual fatto tre cose si hanno a di-stinguere; cioè in primo luogo se sia fisica-mente possibile trovar tali specchi che ardanle navi a quella distanza, a cui esser dovea-

no le romane dalle mura di Siracusa; in secondo luogo,ancorchè ciò sia possibile per se stesso se le circostanzedel luogo permettessero ad Archimede di usare di talispecchi; e per ultimo, ancorchè fosse in ogni modo pos-sibile e verisimile, se questo fatto debbasi avere per cer-to e indubitato. E quanto al primo, crederon molti deltutto impossibile il trovare uno specchio ustorio di talforza, che produr potesse l'effetto che a quello di Archi-mede si attribuisce; e anche ultimamente il co. Mazzuc-chelli nella Vita d'Archimede da lui pubblicata ha prete-so di provarlo con matematica dimostrazione. Nondime-

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Se egli in-cendiasse co' suoi specchi ustorj le navi roma-ne.

conti che leggonsi negli storici. Ma egli è indubitabileche ingegnose dovettero essere le macchine con cui riu-scì ad Archimede di frastornare e deludere per tantotempo l'impeto e il furor de' nemici. Polibio (Excerpta l.8.), Livio (Dec. 3, l. 4) e Plutarco (in Marcello) son gliscrittori che più diffusamente ne han favellato. E traquesti Polibio scrittor prudente e cauto, vissuto nellostesso secolo di Archimede, è certamente degno che inciò che narra, gli si presti credenza.

XXV. A questo luogo appartiene la famosaquistione degli specchi ustorj, con cui pre-tendesi che Archimede incendiasse le naviromane; nel qual fatto tre cose si hanno a di-stinguere; cioè in primo luogo se sia fisica-mente possibile trovar tali specchi che ardanle navi a quella distanza, a cui esser dovea-

no le romane dalle mura di Siracusa; in secondo luogo,ancorchè ciò sia possibile per se stesso se le circostanzedel luogo permettessero ad Archimede di usare di talispecchi; e per ultimo, ancorchè fosse in ogni modo pos-sibile e verisimile, se questo fatto debbasi avere per cer-to e indubitato. E quanto al primo, crederon molti deltutto impossibile il trovare uno specchio ustorio di talforza, che produr potesse l'effetto che a quello di Archi-mede si attribuisce; e anche ultimamente il co. Mazzuc-chelli nella Vita d'Archimede da lui pubblicata ha prete-so di provarlo con matematica dimostrazione. Nondime-

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Se egli in-cendiasse co' suoi specchi ustorj le navi roma-ne.

no il p. Cavalieri nel suo Trattato degli specchi ustorj, eil p. Kircher nella sua opera intitolata Ars magna luciset umbræ si fecero a mostrarlo possibile. Una tal possi-bilità pretesero ancor di mostrare due professori tede-schi Gio. Giorgio Liebnecht, e Gio. Cristoforo Albbre-cht in una dissertazione stampata in Altemburgo di Mi-snia l'anno 1704. di cui hassi un breve estratto nel Gior-nale de' Dotti di Parigi (Journ. des Scav. 1705, p. 532).Queste dimostrazioni però erano fino allora state specu-lative soltanto, e niuno ch'io sappia erasi accinto a ten-tarne la pratica. Ma abbiamo nelle Memorie dell'Acca-demia delle Scienze una dissertazione di m. Dufau (an.1726), in cui colle sperienze da se fatte dimostra possi-bile uno specchio che produca sì maraviglioso effetto. Inmaniera ancora più chiara si mostra lo stesso fatto possi-bile colle sperienze del celebre m. Buffon, di cui si puòvedere la bella dissertazione inserita nelle stesse Memo-rie (an. 1747, p. 82). Descrive egli in essa per qual ma-niera per mezzo di molti specchi piani, che in un fococomune riflettevano i raggi del sole, gli venne fatto diardere fino alla distanza di 150 piedi, benchè col soleassai debole di primavera; e aggiugne ch'egli sperava dipotere con nuove sperienze giugnere sino alla distanzadi 400 piedi, e forse ancora più oltre.

XXVI. Non si può dunque dubitare chenon possano i raggi del sole accenderfuoco a quella distanza a cui esser do-

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Ancorchè cotali specchi sian pos-sibili, il fatto non è probabile.

no il p. Cavalieri nel suo Trattato degli specchi ustorj, eil p. Kircher nella sua opera intitolata Ars magna luciset umbræ si fecero a mostrarlo possibile. Una tal possi-bilità pretesero ancor di mostrare due professori tede-schi Gio. Giorgio Liebnecht, e Gio. Cristoforo Albbre-cht in una dissertazione stampata in Altemburgo di Mi-snia l'anno 1704. di cui hassi un breve estratto nel Gior-nale de' Dotti di Parigi (Journ. des Scav. 1705, p. 532).Queste dimostrazioni però erano fino allora state specu-lative soltanto, e niuno ch'io sappia erasi accinto a ten-tarne la pratica. Ma abbiamo nelle Memorie dell'Acca-demia delle Scienze una dissertazione di m. Dufau (an.1726), in cui colle sperienze da se fatte dimostra possi-bile uno specchio che produca sì maraviglioso effetto. Inmaniera ancora più chiara si mostra lo stesso fatto possi-bile colle sperienze del celebre m. Buffon, di cui si puòvedere la bella dissertazione inserita nelle stesse Memo-rie (an. 1747, p. 82). Descrive egli in essa per qual ma-niera per mezzo di molti specchi piani, che in un fococomune riflettevano i raggi del sole, gli venne fatto diardere fino alla distanza di 150 piedi, benchè col soleassai debole di primavera; e aggiugne ch'egli sperava dipotere con nuove sperienze giugnere sino alla distanzadi 400 piedi, e forse ancora più oltre.

XXVI. Non si può dunque dubitare chenon possano i raggi del sole accenderfuoco a quella distanza a cui esser do-

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Ancorchè cotali specchi sian pos-sibili, il fatto non è probabile.

veano le navi romane nell'assedio di Siracusa. Ma è egliprobabile che ciò accadesse? Qui è dove io incontro lamaggior difficoltà. Affinchè una materia pe' raggi delsole s'infiammi e prenda fuoco, conviene ch'ella sia fer-ma ed immobile perciocchè non potendosi il fuoco ecci-tare in un momento, se i raggi vanno a percuotere or inun punto, ora in un altro, non produrranno maiquest'effetto. Inoltre se la materia non è tale che prestoprenda fuoco e s'infiammi, molto tempo richiedesi, per-chè la fiamma si accenda e si propaghi all'intorno. Orcrederem noi che le navi romane si stessero così fermeche, permettessero ad Archimede l'usare a tutto suo agiode' suoi specchi? o che quando pure cominciassero iraggi del sole ad operar sopra esse, non si movessero to-sto di luogo ad impedirne l'effetto? e che quando ancorale avesse Archimede co' suoi maravigliosi uncini immo-bilmente arrestate, non estinguessero in sulle prime iRomani il nascente fuoco, nè gli permettessero l'avvi-varsi e il distendersi più oltre? Questo è ciò che a merende più improbabile un tal racconto.

XXVII. Ma ancorchè un tal fatto si mostri epossibile e probabile, rimane ancora a vede-re se debbasi veramente credere avvenuto.Ella è certo cosa maravigliosa, che i tre anti-

chi autori che delle macchine di Archimede hanno diffu-samente parlato, di questi specchi non faccian motto. Neparla Zonara; ma oltrechè egli è autore troppo recente

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Nè è abba-stanza pro-vato.

veano le navi romane nell'assedio di Siracusa. Ma è egliprobabile che ciò accadesse? Qui è dove io incontro lamaggior difficoltà. Affinchè una materia pe' raggi delsole s'infiammi e prenda fuoco, conviene ch'ella sia fer-ma ed immobile perciocchè non potendosi il fuoco ecci-tare in un momento, se i raggi vanno a percuotere or inun punto, ora in un altro, non produrranno maiquest'effetto. Inoltre se la materia non è tale che prestoprenda fuoco e s'infiammi, molto tempo richiedesi, per-chè la fiamma si accenda e si propaghi all'intorno. Orcrederem noi che le navi romane si stessero così fermeche, permettessero ad Archimede l'usare a tutto suo agiode' suoi specchi? o che quando pure cominciassero iraggi del sole ad operar sopra esse, non si movessero to-sto di luogo ad impedirne l'effetto? e che quando ancorale avesse Archimede co' suoi maravigliosi uncini immo-bilmente arrestate, non estinguessero in sulle prime iRomani il nascente fuoco, nè gli permettessero l'avvi-varsi e il distendersi più oltre? Questo è ciò che a merende più improbabile un tal racconto.

XXVII. Ma ancorchè un tal fatto si mostri epossibile e probabile, rimane ancora a vede-re se debbasi veramente credere avvenuto.Ella è certo cosa maravigliosa, che i tre anti-

chi autori che delle macchine di Archimede hanno diffu-samente parlato, di questi specchi non faccian motto. Neparla Zonara; ma oltrechè egli è autore troppo recente

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Nè è abba-stanza pro-vato.

per ottener fede, ella è così sciocca la descrizione ch'eglice ne fa, che non merita di esser confutata. Speculo quo-dam, dic'egli (Annal. l. 2) secondo la traduzione di Giro-lamo Wolfio, versus solem suspenso, æreque ob densi-tem et lævitam speculi ex iis radiis incenso, effecit, utingens flamma recte in naves illata omnes eas cremaret.Nulla io dico dell'autorità di Eustazio commentatore diOmero (ap. Fabric. Bibl. Græc. t. 2, p. 552), poichè egliè pure autor troppo recente, vissuto nel secolo XII. Piùautorevole è il testimonio di Giovanni Tzetze, che nellesue Chiliadi Storiche di questo specchio distintamentefavella. Egli è anch'esso autor recente, cioè del secoloXII, ma allega a testimonj del fatto antichi autori, Dio-ne, Diodoro, Erone, Pappo, Antemio, Filone, anzi ag-giugne egli, tutti gli scrittori di meccanica, ac omnesmechanographos. Ma ciò è appunto che mi fa sospettareche quando Tzetze cita tutti questi autori, egli intenda diparlare di quelli che di tutte le macchine d'Archimede nelasciaron memoria, delle quali parla egli pure, ma cheforse niuno di essi di questi specchi favellasse distinta-mente. In fatti è egli possibile che avendo pur noi moltide' matematici antichi, e molti degli antichi scrittori daTzetze rammentati, niuno ci sia rimasto di quelli cheparlavano di tali specchi; o se alcuni ci sono rimasti,quella parte appunto ne sia perita, ove di essi faceanmenzione? Ne parlan per ultimo Luciano (in Hippia) eGaleno (De Temperam. l. 3. c. 2), e questi sono certa-mente i più autorevoli testimonj, perciocchè vissuti l'unoe l'altro nel secondo secolo di Cristo; ma io non so se

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per ottener fede, ella è così sciocca la descrizione ch'eglice ne fa, che non merita di esser confutata. Speculo quo-dam, dic'egli (Annal. l. 2) secondo la traduzione di Giro-lamo Wolfio, versus solem suspenso, æreque ob densi-tem et lævitam speculi ex iis radiis incenso, effecit, utingens flamma recte in naves illata omnes eas cremaret.Nulla io dico dell'autorità di Eustazio commentatore diOmero (ap. Fabric. Bibl. Græc. t. 2, p. 552), poichè egliè pure autor troppo recente, vissuto nel secolo XII. Piùautorevole è il testimonio di Giovanni Tzetze, che nellesue Chiliadi Storiche di questo specchio distintamentefavella. Egli è anch'esso autor recente, cioè del secoloXII, ma allega a testimonj del fatto antichi autori, Dio-ne, Diodoro, Erone, Pappo, Antemio, Filone, anzi ag-giugne egli, tutti gli scrittori di meccanica, ac omnesmechanographos. Ma ciò è appunto che mi fa sospettareche quando Tzetze cita tutti questi autori, egli intenda diparlare di quelli che di tutte le macchine d'Archimede nelasciaron memoria, delle quali parla egli pure, ma cheforse niuno di essi di questi specchi favellasse distinta-mente. In fatti è egli possibile che avendo pur noi moltide' matematici antichi, e molti degli antichi scrittori daTzetze rammentati, niuno ci sia rimasto di quelli cheparlavano di tali specchi; o se alcuni ci sono rimasti,quella parte appunto ne sia perita, ove di essi faceanmenzione? Ne parlan per ultimo Luciano (in Hippia) eGaleno (De Temperam. l. 3. c. 2), e questi sono certa-mente i più autorevoli testimonj, perciocchè vissuti l'unoe l'altro nel secondo secolo di Cristo; ma io non so se

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l'autorità di questi scrittori, antichi certo, ma posterioridi oltre a tre secoli ad Archimede, basti a superare ladifficoltà presa dal silenzio degli altri, e singolarmentedi Polibio, e dalla inverisimiglianza che nell'incendiodelle navi abbiamo osservata. Ciò non ostante m. Du-tens sostiene vero il fatto (t. 2, p. 138, ec.) (27). Io ne la-scio il giudizio agli Eruditi.

XXVIII. Checchessia di tal fatto, l'assediodi Siracusa fu ad Archimede fatale. Presa fi-nalmente la città da' Romani l'an. di Roma

542, mentre i furiosi vincitori qua e là scorrevano sac-cheggiandola, un soldato avvenutosi in Archimede, chesenza punto turbarsi all'universale sconvolgimento dellacittà stavasi tutto intento alle usate sue speculazioni,brutalmente lo uccise. Varie sono presso i varj scrittorile circostanze del fatto; ma poco giova indagarle, certaessendone la sostanza. Marcello general de' Romani neebbe, e ne mostrò pubblicamente dolor grande. Fu adArchimede conceduto l'onor del sepolcro quale l'avevaegli desiderato. Ma questo sepolcro medesimo era ito indimenticanza più di 100 anni dopo, quando Cicerone

27 Nel Giornale Enciclopedico de' 15 agosto dell'an. 1771, p. 116, è statapubblicata una lettera di questo medesimo autore, in cui egli arreca un belpasso di Antemio da Tralle, autore del V secolo, estratto dai MSS. dellareal biblioteca di Parigi, il quale spiega assai ingegnosamente per qual ma-niera Archimede potesse cogli specchi ardenti incendiare le navi romane.Questo è un nuovo argomento a provare la possibilità del fatto, ma non giàa mostrarne la probabilità nelle circostanze di sopra accennate.

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Morte di Archimede.

l'autorità di questi scrittori, antichi certo, ma posterioridi oltre a tre secoli ad Archimede, basti a superare ladifficoltà presa dal silenzio degli altri, e singolarmentedi Polibio, e dalla inverisimiglianza che nell'incendiodelle navi abbiamo osservata. Ciò non ostante m. Du-tens sostiene vero il fatto (t. 2, p. 138, ec.) (27). Io ne la-scio il giudizio agli Eruditi.

XXVIII. Checchessia di tal fatto, l'assediodi Siracusa fu ad Archimede fatale. Presa fi-nalmente la città da' Romani l'an. di Roma

542, mentre i furiosi vincitori qua e là scorrevano sac-cheggiandola, un soldato avvenutosi in Archimede, chesenza punto turbarsi all'universale sconvolgimento dellacittà stavasi tutto intento alle usate sue speculazioni,brutalmente lo uccise. Varie sono presso i varj scrittorile circostanze del fatto; ma poco giova indagarle, certaessendone la sostanza. Marcello general de' Romani neebbe, e ne mostrò pubblicamente dolor grande. Fu adArchimede conceduto l'onor del sepolcro quale l'avevaegli desiderato. Ma questo sepolcro medesimo era ito indimenticanza più di 100 anni dopo, quando Cicerone

27 Nel Giornale Enciclopedico de' 15 agosto dell'an. 1771, p. 116, è statapubblicata una lettera di questo medesimo autore, in cui egli arreca un belpasso di Antemio da Tralle, autore del V secolo, estratto dai MSS. dellareal biblioteca di Parigi, il quale spiega assai ingegnosamente per qual ma-niera Archimede potesse cogli specchi ardenti incendiare le navi romane.Questo è un nuovo argomento a provare la possibilità del fatto, ma non giàa mostrarne la probabilità nelle circostanze di sopra accennate.

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Morte di Archimede.

andò questore in Sicilia. Narra egli stesso (Tusculan.Quæst. l. 5.) in qual maniera gli venisse fatto di scoprir-lo a' Siracusani, i quali tanto ne avean perduta ogni me-moria, che assicuravano il sepolcro di Archimede nonesser certamente tra loro. Così un Romano riparò in cer-to modo l'ingiuria che questo valentuomo avea da un al-tro Romano ricevuta. Ad alcuni han data noia in questoracconto di Cicerone quelle parole humilem homuncu-lum, con cui chiama Archimede, come se dirlo volesseuom dappoco e spregevole. Su queste parole si può ve-dere una dissertazione del sig. Fraguier nelle Memoriedella Accademia delle Iscrizioni (t. 2, p. 306). Ma senzainutilmente perderci in dissertare, basta il riflettere chesì gran concetto avea Cicerone di Archimede, che vollecercarne il sepolcro, e che chiamollo, come fu detto disopra, uomo di divino ingegno, per comprendere chequelle parole humilem homunculum non significano giàuomo da nulla, ma uom privato e povero, e vissuto lungidalla luce dei pubblici onori. Ma di Archimede basti finqui. "Vitruvio insieme con Archimede nomina un certoScopina siracusano come autore di macchine ingegnose:Hi autem inveniuntur raro, ut aliquando fuerunt...Archimedes et Scopinas ab Syracusis, qui multas resorganicas numeris naturalibusque rationibus inventasatque explicatas posteris reliquerunt (Architect. l. 1, c.1). Ma di lui niun'altra memoria ci è rimasta".

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andò questore in Sicilia. Narra egli stesso (Tusculan.Quæst. l. 5.) in qual maniera gli venisse fatto di scoprir-lo a' Siracusani, i quali tanto ne avean perduta ogni me-moria, che assicuravano il sepolcro di Archimede nonesser certamente tra loro. Così un Romano riparò in cer-to modo l'ingiuria che questo valentuomo avea da un al-tro Romano ricevuta. Ad alcuni han data noia in questoracconto di Cicerone quelle parole humilem homuncu-lum, con cui chiama Archimede, come se dirlo volesseuom dappoco e spregevole. Su queste parole si può ve-dere una dissertazione del sig. Fraguier nelle Memoriedella Accademia delle Iscrizioni (t. 2, p. 306). Ma senzainutilmente perderci in dissertare, basta il riflettere chesì gran concetto avea Cicerone di Archimede, che vollecercarne il sepolcro, e che chiamollo, come fu detto disopra, uomo di divino ingegno, per comprendere chequelle parole humilem homunculum non significano giàuomo da nulla, ma uom privato e povero, e vissuto lungidalla luce dei pubblici onori. Ma di Archimede basti finqui. "Vitruvio insieme con Archimede nomina un certoScopina siracusano come autore di macchine ingegnose:Hi autem inveniuntur raro, ut aliquando fuerunt...Archimedes et Scopinas ab Syracusis, qui multas resorganicas numeris naturalibusque rationibus inventasatque explicatas posteris reliquerunt (Architect. l. 1, c.1). Ma di lui niun'altra memoria ci è rimasta".

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XXIX. Prima di passare da questi gravi eseveri studj di filosofia e di matematica, dicui finor abbiam ragionato, a' più dilettevolied ameni, ci conviene ancor dir qualchecosa de' celebri legislatori che la Grecia

Grande e la Sicilia anticamente ci diede. Come le pas-sioni degli uomini renduta han necessaria la promulga-zion delle leggi, così necessario ne rendono lo studio an-cora. Quindi alla storia letteraria di una nazione appar-tiene per necessaria connessione la storia della giuri-sprudenza, e di quelli che ne furono, per così dire, i pri-mi padri e fondatori. Molto più che con probabile fonda-mento si può affermare che gl'Italiani in questo ancorprecedessero agli altri popoli, e lor servisser di scorta. ILocresi, popoli della Grecia Grande, dicesi dal Fabricio(Bibl. Græc. l. 2, c. 14) che i primi fosser tra i Greci, equindi tra tutti i popoli di Europa, che avessero leggiscritte. Zaleuco di Locri, schiavo prima e pastore secon-do alcuni, e poscia pe' suoi meriti posto in libertà, masecondo Diodoro (l. 12) uomo di chiaro lignaggio, fu illoro legislatore, e egli vien riputato più antico di Solone,di Licurgo, e di altri celebri greci legislatori (V. Bruck. t.1, p. 435). Egli dalle leggi de' Cretesi, de' Lacedemoni, edegli Ateniesi, leggi che non erano ancora scritte, maper tradizione passavano da' padri a' figli, raccolse quel-le che gli parver migliori, altre ne riformò, altre ne ag-giunse, e il primo corpo di leggi scritte venne formandoin Europa. Egli è vero che fu opinion di Timeo, che que-sto Zaleuco non mai ci vivesse al mondo; ma al testimo-

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Legislatori della Ma-gna Grecia o prima Za-leuco.

XXIX. Prima di passare da questi gravi eseveri studj di filosofia e di matematica, dicui finor abbiam ragionato, a' più dilettevolied ameni, ci conviene ancor dir qualchecosa de' celebri legislatori che la Grecia

Grande e la Sicilia anticamente ci diede. Come le pas-sioni degli uomini renduta han necessaria la promulga-zion delle leggi, così necessario ne rendono lo studio an-cora. Quindi alla storia letteraria di una nazione appar-tiene per necessaria connessione la storia della giuri-sprudenza, e di quelli che ne furono, per così dire, i pri-mi padri e fondatori. Molto più che con probabile fonda-mento si può affermare che gl'Italiani in questo ancorprecedessero agli altri popoli, e lor servisser di scorta. ILocresi, popoli della Grecia Grande, dicesi dal Fabricio(Bibl. Græc. l. 2, c. 14) che i primi fosser tra i Greci, equindi tra tutti i popoli di Europa, che avessero leggiscritte. Zaleuco di Locri, schiavo prima e pastore secon-do alcuni, e poscia pe' suoi meriti posto in libertà, masecondo Diodoro (l. 12) uomo di chiaro lignaggio, fu illoro legislatore, e egli vien riputato più antico di Solone,di Licurgo, e di altri celebri greci legislatori (V. Bruck. t.1, p. 435). Egli dalle leggi de' Cretesi, de' Lacedemoni, edegli Ateniesi, leggi che non erano ancora scritte, maper tradizione passavano da' padri a' figli, raccolse quel-le che gli parver migliori, altre ne riformò, altre ne ag-giunse, e il primo corpo di leggi scritte venne formandoin Europa. Egli è vero che fu opinion di Timeo, che que-sto Zaleuco non mai ci vivesse al mondo; ma al testimo-

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Legislatori della Ma-gna Grecia o prima Za-leuco.

nio di Timeo contrappone Cicerone quello di Teofrasto(De Leg. l. 2.), scrittore, secondo molti, più autorevoledi Timeo, e la tradizione costante di tutti i Locresi. Delleleggi di Zaleuco un saggio abbiamo in Diodoro (loc.cit.), da cui veggiamo quanto saggio e religioso legisla-tore egli fosse, perciocchè esse avevano questo princi-pio: "Richiedersi da' suoi cittadini che innanzi ad altricosa abbian per fermo esservi gl'iddii; e che volgendo alcielo lo sguardo e il pensiero, e considerandone la strut-tura e l'ordin maraviglioso, non pensino quello esserestato lavoro o di fortuito caso, o di umano accorgimento,quindi rispettino e onorino gl'iddii, da' quali ogni bene eogni vantaggio viene agli uomini. Abbiano inoltre l'ani-mo da' vizj d'ogni sorta sgombero e puro perciocchègl'iddii non tanto de' sacrifici e delle sontuose feste sipiacciono quanto de' saggi ed onesti costumi degli uo-mini". A qual tempo egli vivesse, non si può esattamen-te determinare. Diodoro il fa discepolo di Pittagora; mail Bentley, nell'Apologia della sua Dissertazione sopra leLettere a Falaride attribuite, con buoni argomenti dimo-stra essere stato Zaleuco più di Pittagora antico. I duefatti che di lui si raccontano cioè che avendo egli nellesue leggi ordinato che agli adulteri cavati fosser gli oc-chi, sorpreso in adulterio il proprio suo figlio, il rigorosoinsieme e tenero padre per divider la pena, e mantenerea un tempo la legge, un occhio facesse cavare al figlio,l'altro a se stesso; e che avendo egli pur fatta legge cheniuno venisse armato a favellare al popolo, ed avendoegli stesso incautamente in tempo d'improvviso tumulto

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nio di Timeo contrappone Cicerone quello di Teofrasto(De Leg. l. 2.), scrittore, secondo molti, più autorevoledi Timeo, e la tradizione costante di tutti i Locresi. Delleleggi di Zaleuco un saggio abbiamo in Diodoro (loc.cit.), da cui veggiamo quanto saggio e religioso legisla-tore egli fosse, perciocchè esse avevano questo princi-pio: "Richiedersi da' suoi cittadini che innanzi ad altricosa abbian per fermo esservi gl'iddii; e che volgendo alcielo lo sguardo e il pensiero, e considerandone la strut-tura e l'ordin maraviglioso, non pensino quello esserestato lavoro o di fortuito caso, o di umano accorgimento,quindi rispettino e onorino gl'iddii, da' quali ogni bene eogni vantaggio viene agli uomini. Abbiano inoltre l'ani-mo da' vizj d'ogni sorta sgombero e puro perciocchègl'iddii non tanto de' sacrifici e delle sontuose feste sipiacciono quanto de' saggi ed onesti costumi degli uo-mini". A qual tempo egli vivesse, non si può esattamen-te determinare. Diodoro il fa discepolo di Pittagora; mail Bentley, nell'Apologia della sua Dissertazione sopra leLettere a Falaride attribuite, con buoni argomenti dimo-stra essere stato Zaleuco più di Pittagora antico. I duefatti che di lui si raccontano cioè che avendo egli nellesue leggi ordinato che agli adulteri cavati fosser gli oc-chi, sorpreso in adulterio il proprio suo figlio, il rigorosoinsieme e tenero padre per divider la pena, e mantenerea un tempo la legge, un occhio facesse cavare al figlio,l'altro a se stesso; e che avendo egli pur fatta legge cheniuno venisse armato a favellare al popolo, ed avendoegli stesso incautamente in tempo d'improvviso tumulto

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contravvenuto alla sua legge, da se medesimo si ucci-desse; questi due fatti, io dico, son raccontati da autori,troppo recenti, perchè meritino o pronta fede, o esatta ri-cerca. Oltre che, per ciò che appartiene al secondo, unasomigliante morte da altri si attribuisce a Caronda, aDiocle da altri, come or ora vedremo.

XXX. Caronda fu egli pure famoso tra gliantichi legislatori. Era egli nativo di Catania

in Sicilia secondo alcuni, secondo altri di Turio nellaMagna Grecia; e secondo il Bruckero visse egli ancorainnanzi a Pittagora (t. 1, p. 436). Fu egli, come narraDiodoro (l. 12), da que' di Turio prescelto a scriver lorole leggi, ma queste furon poscia da altre città ancoracosì della Magna Grecia, come della Sicilia ricevute. Diesse fa un esatto compendio il medesimo autore. Io unasola ne scelgo, come più di tutte confacente al mio pro-posito. "Un'altra legge ancor più eccellente, dice Diodo-ro ma dagli antichi legislatori trascurata, promulgò egli;cioè che tutti i figli de' cittadini fossero nelle belle lette-re istruiti, e che la città pagasse perciò a' precettori il do-vuto stipendio; perciocchè egli avea preveduto che colo-ro i quali per le domestiche angustie non avesser potutodare a' lor maestri la dovuta mercede, sarebbono statiprivi di letteraria educazione; ed egli alle altre arti pensògiustamente che le lettere dovessero antiporsi". Questo èil primo esempio di scuole a spese del pubblico aperte acomune vantaggio; e non è certamente picciola lode del-

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Caronda.

contravvenuto alla sua legge, da se medesimo si ucci-desse; questi due fatti, io dico, son raccontati da autori,troppo recenti, perchè meritino o pronta fede, o esatta ri-cerca. Oltre che, per ciò che appartiene al secondo, unasomigliante morte da altri si attribuisce a Caronda, aDiocle da altri, come or ora vedremo.

XXX. Caronda fu egli pure famoso tra gliantichi legislatori. Era egli nativo di Catania

in Sicilia secondo alcuni, secondo altri di Turio nellaMagna Grecia; e secondo il Bruckero visse egli ancorainnanzi a Pittagora (t. 1, p. 436). Fu egli, come narraDiodoro (l. 12), da que' di Turio prescelto a scriver lorole leggi, ma queste furon poscia da altre città ancoracosì della Magna Grecia, come della Sicilia ricevute. Diesse fa un esatto compendio il medesimo autore. Io unasola ne scelgo, come più di tutte confacente al mio pro-posito. "Un'altra legge ancor più eccellente, dice Diodo-ro ma dagli antichi legislatori trascurata, promulgò egli;cioè che tutti i figli de' cittadini fossero nelle belle lette-re istruiti, e che la città pagasse perciò a' precettori il do-vuto stipendio; perciocchè egli avea preveduto che colo-ro i quali per le domestiche angustie non avesser potutodare a' lor maestri la dovuta mercede, sarebbono statiprivi di letteraria educazione; ed egli alle altre arti pensògiustamente che le lettere dovessero antiporsi". Questo èil primo esempio di scuole a spese del pubblico aperte acomune vantaggio; e non è certamente picciola lode del-

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Caronda.

la nostra Italia, che in questo ancora ella sia stata alle al-tre nazioni norma ed esempio. Di lui racconta Diodoro,che da se medesimo si diede la morte in quella manieraappunto che vedemmo poc'anzi narrarsi da altri di Za-leuco. Aggiugne Diodoro, che questo genere di morteattribuiscono altri a Diocle, e lo stesso Diodoro di fattinon molto dopo (l. 13) parlando di Diocle afferma cheper tal maniera finì la vita.

XXXI. Il mentovato Diocle fu legislatorede' Siracusani. Ma delle leggi di lui non ab-biamo più minuta contezza. Così pure altri

legislatori di queste provincie d'Italia noi veggiam no-minati, ma de' quali altro non sappiamo che il nomeloro, e di quei popoli a' cui formaron le leggi. Tali sonoAndromada da Reggio, legislatore de' Calcidesi, Elicao-ne, Teeteto, e Pitio degli abitanti di Reggio, OnomacritoLocrese de' Cretesi, Protagora de' Turj, Timarato de' Lo-cresi. I loro nomi, e le poche notizie che di essi e delleloro leggi ci sono rimaste, si posson vedere presso Gian-nalberto Fabricio, che tutto ciò che ad essi appartiene,coll'usata sua diligenza dagli antichi autori ha raccolto(Bibl. Græc. l. 14). Ma egli è omai tempo che a' più lietistudj si faccia da noi passaggio, e si mostri quanto inquesti ancora abbia l'Italia al giovamento delle altre na-zioni contribuito.

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Diocle ed altri.

la nostra Italia, che in questo ancora ella sia stata alle al-tre nazioni norma ed esempio. Di lui racconta Diodoro,che da se medesimo si diede la morte in quella manieraappunto che vedemmo poc'anzi narrarsi da altri di Za-leuco. Aggiugne Diodoro, che questo genere di morteattribuiscono altri a Diocle, e lo stesso Diodoro di fattinon molto dopo (l. 13) parlando di Diocle afferma cheper tal maniera finì la vita.

XXXI. Il mentovato Diocle fu legislatorede' Siracusani. Ma delle leggi di lui non ab-biamo più minuta contezza. Così pure altri

legislatori di queste provincie d'Italia noi veggiam no-minati, ma de' quali altro non sappiamo che il nomeloro, e di quei popoli a' cui formaron le leggi. Tali sonoAndromada da Reggio, legislatore de' Calcidesi, Elicao-ne, Teeteto, e Pitio degli abitanti di Reggio, OnomacritoLocrese de' Cretesi, Protagora de' Turj, Timarato de' Lo-cresi. I loro nomi, e le poche notizie che di essi e delleloro leggi ci sono rimaste, si posson vedere presso Gian-nalberto Fabricio, che tutto ciò che ad essi appartiene,coll'usata sua diligenza dagli antichi autori ha raccolto(Bibl. Græc. l. 14). Ma egli è omai tempo che a' più lietistudj si faccia da noi passaggio, e si mostri quanto inquesti ancora abbia l'Italia al giovamento delle altre na-zioni contribuito.

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Diocle ed altri.

CAPO II Poesia, Eloquenza, Storia, ed Arti liberali

I. In questi ameni e dilettevoli studj iSiciliani singolarmente salirono a gran-de stima. Ebbe, è vero, la Magna Gre-cia ancora i suoi poeti; un Orfeo di Cro-tone (28), a cui Suida attribuisce il poema

che ancor ci rimane sopra gli Argonauti, che tra le operesupposte dell'antico celebre Orfeo si vede stampato (Fa-bric. Bibl. Græc. t. 2, p. 595); un Ibico di Reggio, di cuipure alcuni frammenti ci son rimasti (id. ib. p. 583); unAlessi di Turi, di cui dicesi che fino a 245 drammi scri-vesse, e di cui Plutarco racconta che ne' teatrali compo-nimenti riportò vittoria sopra i suoi competitori e chel'onore n'ebbe di solenne corona (id. ib. p. 536); ed altrisomiglianti, de' quali si posson vedere le biblioteche egli scrittori più volte da noi citati. "Alessi ebbe un figlioper nome Stefano, che fu egli pure scrittor di tragedie,secondo Suida. Ma ciò ch'è a lui più onorevole, si è cheper detto dello stesso Suida, secondo l'edizion del Ku-stero, ei fu zio paterno di Menandro. Se dunque Alessifu natio di Turi nella Magna Grecia, di Turi ancor fu na-tio il padre di Menandro, e quindi questa provincia puòa ragione vantarsi di aver data, se non la nascita, almenl'origine a questo celebre comico greco. Fu anche un Se-

28 Di Orfeo, di Ibico, e di Alessi fa menzione ancora la sopraccitata impera-drice Eudossia (l. c. p. 320., 247, 60).

200

La Sicilia singo-larmente fu ab-bondantissima di poeti.

CAPO II Poesia, Eloquenza, Storia, ed Arti liberali

I. In questi ameni e dilettevoli studj iSiciliani singolarmente salirono a gran-de stima. Ebbe, è vero, la Magna Gre-cia ancora i suoi poeti; un Orfeo di Cro-tone (28), a cui Suida attribuisce il poema

che ancor ci rimane sopra gli Argonauti, che tra le operesupposte dell'antico celebre Orfeo si vede stampato (Fa-bric. Bibl. Græc. t. 2, p. 595); un Ibico di Reggio, di cuipure alcuni frammenti ci son rimasti (id. ib. p. 583); unAlessi di Turi, di cui dicesi che fino a 245 drammi scri-vesse, e di cui Plutarco racconta che ne' teatrali compo-nimenti riportò vittoria sopra i suoi competitori e chel'onore n'ebbe di solenne corona (id. ib. p. 536); ed altrisomiglianti, de' quali si posson vedere le biblioteche egli scrittori più volte da noi citati. "Alessi ebbe un figlioper nome Stefano, che fu egli pure scrittor di tragedie,secondo Suida. Ma ciò ch'è a lui più onorevole, si è cheper detto dello stesso Suida, secondo l'edizion del Ku-stero, ei fu zio paterno di Menandro. Se dunque Alessifu natio di Turi nella Magna Grecia, di Turi ancor fu na-tio il padre di Menandro, e quindi questa provincia puòa ragione vantarsi di aver data, se non la nascita, almenl'origine a questo celebre comico greco. Fu anche un Se-

28 Di Orfeo, di Ibico, e di Alessi fa menzione ancora la sopraccitata impera-drice Eudossia (l. c. p. 320., 247, 60).

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La Sicilia singo-larmente fu ab-bondantissima di poeti.

nocrito da Locri, uno de' più antichi scrittori di ditirambi(Fabric. Bibl. Græc. t. 1, p. 199). E come le donne nellaMagna Grecia appresero esse ancora assai presto a filo-sofare, secondo che nel Capo precedente si è accennato,così anche nella poesia vollero fin d'allora occuparsi; eci è rimasta memoria di Teano da Locri (diversa da duefilosofesse del medesimo nome, una moglie, l'altra figliadi Pittagora) che nella poesia melica e lirica esercitossifelicemente, e ch'è perciò rammentata con lode nel suoLessico da Suida, (ne' suoi Comenti sopra Omero (Iliad.l. 2), e di Nosside parimenti da Locri, di cui abbiamo al-cuni epigrammi (Fabric. l. c. t. 1, p. 588)". Ma assaimaggior numero di poeti e di oratori, e di merito assaimaggiore ci offre la Sicilia, come ora vedremo.

II. E primieramente, per favellar de' poeti,deesi alla Sicilia l'invenzione della pastoralpoesia. Che sia questa la comune opinionede' più rinnomati scrittori, lo afferma ancorail celebre ab. Quadrio (Stor. e Rag. d'ogni

poesia, t. 2, p. 595). Ma a questa comune opinione pen-sa egli di non doversi arrendere sì facilmente. I Persiani,egli dice; gli Arabi, ed altri antichissimi popoli ebberoin pregio i cavalli e gli altri armenti, anzi de' Numidi ede' Persiani noi sappiamo che un cotal canto pastoraleavevano, di cui nell'atto di condurre al pascolo i loro ar-menti solevano usare. Io non negherò già ciò che questodottissimo scrittore afferma; ma non temerò ancora di

201

Ad essi deesi l'ori-gine della pastoral poesia.

nocrito da Locri, uno de' più antichi scrittori di ditirambi(Fabric. Bibl. Græc. t. 1, p. 199). E come le donne nellaMagna Grecia appresero esse ancora assai presto a filo-sofare, secondo che nel Capo precedente si è accennato,così anche nella poesia vollero fin d'allora occuparsi; eci è rimasta memoria di Teano da Locri (diversa da duefilosofesse del medesimo nome, una moglie, l'altra figliadi Pittagora) che nella poesia melica e lirica esercitossifelicemente, e ch'è perciò rammentata con lode nel suoLessico da Suida, (ne' suoi Comenti sopra Omero (Iliad.l. 2), e di Nosside parimenti da Locri, di cui abbiamo al-cuni epigrammi (Fabric. l. c. t. 1, p. 588)". Ma assaimaggior numero di poeti e di oratori, e di merito assaimaggiore ci offre la Sicilia, come ora vedremo.

II. E primieramente, per favellar de' poeti,deesi alla Sicilia l'invenzione della pastoralpoesia. Che sia questa la comune opinionede' più rinnomati scrittori, lo afferma ancorail celebre ab. Quadrio (Stor. e Rag. d'ogni

poesia, t. 2, p. 595). Ma a questa comune opinione pen-sa egli di non doversi arrendere sì facilmente. I Persiani,egli dice; gli Arabi, ed altri antichissimi popoli ebberoin pregio i cavalli e gli altri armenti, anzi de' Numidi ede' Persiani noi sappiamo che un cotal canto pastoraleavevano, di cui nell'atto di condurre al pascolo i loro ar-menti solevano usare. Io non negherò già ciò che questodottissimo scrittore afferma; ma non temerò ancora di

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Ad essi deesi l'ori-gine della pastoral poesia.

dire che parmi che a questo luogo, e altrove ancora, einon distingua abbastanza due cose; e quindi qualche ge-nere di poesia faccia più antico di assai che non è vera-mente. Altra cosa è, per quanto a me ne pare, un qualun-que canto che non consista in altro che in modulare avarie note la voce, e che colla gravità, coll'armonia, col-la dolcezza, coll'impeto delle note medesime i varj affet-ti esprima, da cui taluno è compreso; altra cosa è uncanto che alla modulazion della voce congiunga ancorail legamento delle parole, le quali a un numero di sillabee a una determinata quantità sieno necessariamente le-gate. Il primo sarà canto, eppur non sarà poesia; il qualnome al secondo genere di canto si dà solamente. Altri-menti, se non vi ha canto senza poesia, converrà dare ilnome di poesia anche al Simbolo Niceno, e al Canticoche dicesi degli Angeli, e a que' così mal tessuti mottettiche si odon pure cantare con sì amabile e varia armonia.Concederemo dunque all'ab. Quadrio che il canto pasto-rale fosse fin da' più antichi tempi tra gli uomini usato;ma il negheremo della pastoral poesia, finchè egli piùcerto argomento non ne produca.

III. Qualunque fosse l'origine di questo ge-nere di poesia, di che diverse son le senten-ze de' diversi scrittori, pressochè tutti con-vengono, come di sopra accennammo, aver

esso avuto cominciamento in Sicilia. Veggansi le Me-morie dell'Accademia delle Iscrizioni (t. 5, p. 85), ove

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Chi ne fos-se il primo inventore.

dire che parmi che a questo luogo, e altrove ancora, einon distingua abbastanza due cose; e quindi qualche ge-nere di poesia faccia più antico di assai che non è vera-mente. Altra cosa è, per quanto a me ne pare, un qualun-que canto che non consista in altro che in modulare avarie note la voce, e che colla gravità, coll'armonia, col-la dolcezza, coll'impeto delle note medesime i varj affet-ti esprima, da cui taluno è compreso; altra cosa è uncanto che alla modulazion della voce congiunga ancorail legamento delle parole, le quali a un numero di sillabee a una determinata quantità sieno necessariamente le-gate. Il primo sarà canto, eppur non sarà poesia; il qualnome al secondo genere di canto si dà solamente. Altri-menti, se non vi ha canto senza poesia, converrà dare ilnome di poesia anche al Simbolo Niceno, e al Canticoche dicesi degli Angeli, e a que' così mal tessuti mottettiche si odon pure cantare con sì amabile e varia armonia.Concederemo dunque all'ab. Quadrio che il canto pasto-rale fosse fin da' più antichi tempi tra gli uomini usato;ma il negheremo della pastoral poesia, finchè egli piùcerto argomento non ne produca.

III. Qualunque fosse l'origine di questo ge-nere di poesia, di che diverse son le senten-ze de' diversi scrittori, pressochè tutti con-vengono, come di sopra accennammo, aver

esso avuto cominciamento in Sicilia. Veggansi le Me-morie dell'Accademia delle Iscrizioni (t. 5, p. 85), ove

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Chi ne fos-se il primo inventore.

con molta autorità una tal gloria confermasi a' Siciliani,e non della poesia solamente, ma de' pastorali strumentiancora, che il canto poetico accompagnano, si attribui-sce lor l'invenzione. Vedesi ivi ancora (t. 6, p. 459)un'erudita dissertazione di m. Hardion, in cui diligente-mente ricerca ciò che al pastor Dafni appartiene, il qualeda molti per l'autorità di Diodoro Siculo ne vien credutoil primo autore. Ad altri nondimeno è sembrato chetroppo sappia di favola ciò che intorno a Dafni ne rac-conta Diodoro, e vogliono anzi che Stesicoro fosse ilprimo ad usarne. Fu egli d'Imera in Sicilia. Vi ha chi ildice figliuol d'Esiodo. Osserva il Quadrio (t. 2, p. 49)che non par, che ciò si convenga a' tempi in cui questidue poeti fiorirono. Al contrario Enrico Dodwello (DeCyclis Græc. et Rom. Diss. 5, p. 270) sostiene, accordar-si ciò pienamente colla più esatta cronologia. Ma Suidachiaramente mostra (Lexic. ad voc. Στησιχορος) quantosia incerto chi egli avesse a padre, poichè fin a cinqueegli ne nomina, de' quali da diversi autori era detto fi-gliuolo. Nacque, secondo lo stesso Suida, nell'Olimpia-de XXXVII, e morì nella LVI. Altri gli assegnano diver-sa età: ma in sì gran lontananza di tempi, e in sì grandescarsezza di autori antichi, nulla si può affermar concertezza.

IV. Che egli scrivesse poesie pastorali, ne fafede Eliano che nomina i Carmi Buccolicida lui composti (Varior. l. 10, c. 18). Quindi

203

Notizie di Stesicoro e delle sue poesie.

con molta autorità una tal gloria confermasi a' Siciliani,e non della poesia solamente, ma de' pastorali strumentiancora, che il canto poetico accompagnano, si attribui-sce lor l'invenzione. Vedesi ivi ancora (t. 6, p. 459)un'erudita dissertazione di m. Hardion, in cui diligente-mente ricerca ciò che al pastor Dafni appartiene, il qualeda molti per l'autorità di Diodoro Siculo ne vien credutoil primo autore. Ad altri nondimeno è sembrato chetroppo sappia di favola ciò che intorno a Dafni ne rac-conta Diodoro, e vogliono anzi che Stesicoro fosse ilprimo ad usarne. Fu egli d'Imera in Sicilia. Vi ha chi ildice figliuol d'Esiodo. Osserva il Quadrio (t. 2, p. 49)che non par, che ciò si convenga a' tempi in cui questidue poeti fiorirono. Al contrario Enrico Dodwello (DeCyclis Græc. et Rom. Diss. 5, p. 270) sostiene, accordar-si ciò pienamente colla più esatta cronologia. Ma Suidachiaramente mostra (Lexic. ad voc. Στησιχορος) quantosia incerto chi egli avesse a padre, poichè fin a cinqueegli ne nomina, de' quali da diversi autori era detto fi-gliuolo. Nacque, secondo lo stesso Suida, nell'Olimpia-de XXXVII, e morì nella LVI. Altri gli assegnano diver-sa età: ma in sì gran lontananza di tempi, e in sì grandescarsezza di autori antichi, nulla si può affermar concertezza.

IV. Che egli scrivesse poesie pastorali, ne fafede Eliano che nomina i Carmi Buccolicida lui composti (Varior. l. 10, c. 18). Quindi

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Notizie di Stesicoro e delle sue poesie.

non essendovi memoria di più antico autore che in talgenere di poesie si esercitasse, egli n'è creduto a ragioneil primo inventore. Ma non fu sola la pastoral poesiach'ei coltivasse. Ventisei libri di versi da lui scritti ram-menta Suida (loc. cit.), e il diligente Fabricio i titoli e gliargomenti di molti tra essi dagli antichi autori ha raccol-ti (Bibl. Græc. t. 1, p. 596, ec.). La poesia lirica singo-larmente fu da lui condotta a maggior perfezione. Eglifu il primo che in essa introdusse quella triplice divisio-ne che strofe, antistrofe ed epodo si appella; e quindiqueste tre parti venivano con proverbio greco chiamatele tre cose di Stesicoro tria Stesichori, come osservaSuida (Lex. ad voc. Tria Stesichori); e quando volevasidenotare un uom rozzo e ignorante al sommo, dicevasiche nemmen sapeva egli le tre cose di Stesicoro. Daquesto nuovo ordine nella lirica poesia introdotto a luiviene il nome di Stesicoro, cioè di fermatore del coro,mentre prima egli era chiamato Tisia, come Suida stessoe dopo lui il Quadrio affermano. In quanta stima eglifosse presso de' suoi e de' posteri tutti, chiaro argomentone sono la bella statua che in Imera gli venne innalzata,di cui fa menzione Tullio (l. 2. in Verr. n. 35), il magnifi-co mausoleo che dicevasi al riferir di Suida (lex. ad voc.Παντα οκτο), essergli stato eretto in Catania, formato diotto colonne, e sopra otto scaglioni innalzato e le lodiche a lui vengono date dallo stesso Tullio, da Orazio (l.4, od. 9), e da Quintiliano (l. 10, c. 10), ma singolarmen-te da Dionigi Alicarnasseo, il qual non teme di antiporloancora a Pindaro e a Simonide. Vide etiam, dic'egli (De

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non essendovi memoria di più antico autore che in talgenere di poesie si esercitasse, egli n'è creduto a ragioneil primo inventore. Ma non fu sola la pastoral poesiach'ei coltivasse. Ventisei libri di versi da lui scritti ram-menta Suida (loc. cit.), e il diligente Fabricio i titoli e gliargomenti di molti tra essi dagli antichi autori ha raccol-ti (Bibl. Græc. t. 1, p. 596, ec.). La poesia lirica singo-larmente fu da lui condotta a maggior perfezione. Eglifu il primo che in essa introdusse quella triplice divisio-ne che strofe, antistrofe ed epodo si appella; e quindiqueste tre parti venivano con proverbio greco chiamatele tre cose di Stesicoro tria Stesichori, come osservaSuida (Lex. ad voc. Tria Stesichori); e quando volevasidenotare un uom rozzo e ignorante al sommo, dicevasiche nemmen sapeva egli le tre cose di Stesicoro. Daquesto nuovo ordine nella lirica poesia introdotto a luiviene il nome di Stesicoro, cioè di fermatore del coro,mentre prima egli era chiamato Tisia, come Suida stessoe dopo lui il Quadrio affermano. In quanta stima eglifosse presso de' suoi e de' posteri tutti, chiaro argomentone sono la bella statua che in Imera gli venne innalzata,di cui fa menzione Tullio (l. 2. in Verr. n. 35), il magnifi-co mausoleo che dicevasi al riferir di Suida (lex. ad voc.Παντα οκτο), essergli stato eretto in Catania, formato diotto colonne, e sopra otto scaglioni innalzato e le lodiche a lui vengono date dallo stesso Tullio, da Orazio (l.4, od. 9), e da Quintiliano (l. 10, c. 10), ma singolarmen-te da Dionigi Alicarnasseo, il qual non teme di antiporloancora a Pindaro e a Simonide. Vide etiam, dic'egli (De

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Priscis Scriptor. Censura c. 2) Stesichorum in utriusquevirtutibus eorum, quos enumeravimus (cioè Simonide ePindaro), florentem, quin etiam iis quibus illi carent,præditum, rerum, inquam, quas tractandas sumpsit,amplitudine, in quibus morum et dignitatis personarumrationem habuit.

V. Se le lettere che sotto il nome di Falaridesono state più volte stampate, si dovesserocredere legittime e scritte veramente da que-sto celebre tiranno di Agrigento sarebberoesse una nuova e gloriosa testimonianza delvalor di Stesicoro. Molte ve ne ha tra esseche o scritte sono a Stesicoro, o di lui fanno

menzione; e in tutte veggiamo in quanto grande stima loavesse Falaride, benchè avesse in lui trovato un impla-cabil nemico, e un invincibile ostacolo a' tirannici suoidisegni. Ma troppo dubbiosa è la fede di tali lettere; epoichè questo è un punto che alla letteratura italianapropriamente appartiene, piacemi riferir qui alcuna cosadella controversia intorno ad esse sorta in Inghilterraverso la fine del passato secolo; tanto più che troppo rariessendo in Italia i libri per essa usciti, ed inoltre essendoessi per lo più scritti in lingua inglese, non è si agevolel'averli, e il giudicarne.

VI. Erano già stati varj i pareri degli uo-

205

Frequente menzione che di esso si fa nelle lettere attri-buite a Fa-laride.

Contesa tra gli eruditi sulle lettere stesse.

Priscis Scriptor. Censura c. 2) Stesichorum in utriusquevirtutibus eorum, quos enumeravimus (cioè Simonide ePindaro), florentem, quin etiam iis quibus illi carent,præditum, rerum, inquam, quas tractandas sumpsit,amplitudine, in quibus morum et dignitatis personarumrationem habuit.

V. Se le lettere che sotto il nome di Falaridesono state più volte stampate, si dovesserocredere legittime e scritte veramente da que-sto celebre tiranno di Agrigento sarebberoesse una nuova e gloriosa testimonianza delvalor di Stesicoro. Molte ve ne ha tra esseche o scritte sono a Stesicoro, o di lui fanno

menzione; e in tutte veggiamo in quanto grande stima loavesse Falaride, benchè avesse in lui trovato un impla-cabil nemico, e un invincibile ostacolo a' tirannici suoidisegni. Ma troppo dubbiosa è la fede di tali lettere; epoichè questo è un punto che alla letteratura italianapropriamente appartiene, piacemi riferir qui alcuna cosadella controversia intorno ad esse sorta in Inghilterraverso la fine del passato secolo; tanto più che troppo rariessendo in Italia i libri per essa usciti, ed inoltre essendoessi per lo più scritti in lingua inglese, non è si agevolel'averli, e il giudicarne.

VI. Erano già stati varj i pareri degli uo-

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Frequente menzione che di esso si fa nelle lettere attri-buite a Fa-laride.

Contesa tra gli eruditi sulle lettere stesse.

mini eruditi intorno a queste lettere, che da alcuni ripu-tate eran legittime, supposte da altri, di che puossi vede-re Gianalberto Fabricio (Bibl. Græc. t. 1, p. 407). Mal'anno 1695 una nuova edizione di queste lettere feceCarlo Boyle inglese in Oxford col testo greco a rincon-tro della traduzione latina, di cui fu fatta menzione negliAtti di Lipsia (1696, p. 101). Riccardo Bentley, a cuiparve di essere stato nella prefazione del Boyle puntoalquanto, scrisse una dissertazione in lingua inglese incui prese a mostrare supposte esser le lettere che sotto ilnome di Falaride avea il Boyle pubblicate; la qual dis-sertazione venne a luce nel 1697 appiè della secondaedizione delle Osservazioni sulla letteratura degli anti-chi e de' moderni di Enrico Worton. Se ne ha l'estrattonella Storia delle opere de' dotti di m. Basnage de Beau-val (t. 14, p. 167). Replicò prontamente il Boyle al suoavversario nel 1698, e, come osserva Jacopo Bernard(Nouvell. de la Répub. des. Lettres 1699 p. 658), nontenne misura alcuna, ma lasciossi trasportare alle ingiu-rie e a' motteggi e ad altre somiglianti maniere che aduomini dotti troppo mal si convengono. Non tacque ilBentley, e l'anno 1699 fece una nuova edizione dellaprima sua dissertazione, ma più stesa di assai, per ri-spondere alle obiezioni che fatte aveva il Boyle. Di que-sta dissertazione si posson vedere gli estratti negli Attidi Lipsia (Suppl. t. 4, p. 481), nelle Novelle della Re-pubblica delle lettere del Bernard (loc. cit. p. 659), enella Biblioteca scelta di Giovanni le Clerc (t. 10, an.1706, p. 81). Molti altri libri e tutti in inglese uscirono

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mini eruditi intorno a queste lettere, che da alcuni ripu-tate eran legittime, supposte da altri, di che puossi vede-re Gianalberto Fabricio (Bibl. Græc. t. 1, p. 407). Mal'anno 1695 una nuova edizione di queste lettere feceCarlo Boyle inglese in Oxford col testo greco a rincon-tro della traduzione latina, di cui fu fatta menzione negliAtti di Lipsia (1696, p. 101). Riccardo Bentley, a cuiparve di essere stato nella prefazione del Boyle puntoalquanto, scrisse una dissertazione in lingua inglese incui prese a mostrare supposte esser le lettere che sotto ilnome di Falaride avea il Boyle pubblicate; la qual dis-sertazione venne a luce nel 1697 appiè della secondaedizione delle Osservazioni sulla letteratura degli anti-chi e de' moderni di Enrico Worton. Se ne ha l'estrattonella Storia delle opere de' dotti di m. Basnage de Beau-val (t. 14, p. 167). Replicò prontamente il Boyle al suoavversario nel 1698, e, come osserva Jacopo Bernard(Nouvell. de la Répub. des. Lettres 1699 p. 658), nontenne misura alcuna, ma lasciossi trasportare alle ingiu-rie e a' motteggi e ad altre somiglianti maniere che aduomini dotti troppo mal si convengono. Non tacque ilBentley, e l'anno 1699 fece una nuova edizione dellaprima sua dissertazione, ma più stesa di assai, per ri-spondere alle obiezioni che fatte aveva il Boyle. Di que-sta dissertazione si posson vedere gli estratti negli Attidi Lipsia (Suppl. t. 4, p. 481), nelle Novelle della Re-pubblica delle lettere del Bernard (loc. cit. p. 659), enella Biblioteca scelta di Giovanni le Clerc (t. 10, an.1706, p. 81). Molti altri libri e tutti in inglese uscirono

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su questo argomento, i cui titoli dal Fabricio sono statiraccolti (Bibl. Græc. t. 1, 408). Anche Enrico Dodwelloebbe parte a questa contesa. Pubblicò egli nel 1704 duelatine dissertazioni, una sull'età di Falaride e l'altrasull'età di Pittagora, nelle quali, benchè non prendesse asostener direttamente la legittimità di tai lettere, presenondimeno a sciogliere una delle principali difficoltàche contro di esse avea mosso il Bentley. Perciocchèavendo questi mostrato che non era Falaride vissuto intempo a poter conoscer Pittagora, quando già era cele-bre pel suo sapere, avea quindi preteso esser supposte lelettere a Falaride attribuite, nelle quali ne ragiona soven-te come d'uomo famoso già ed illustre. Ma il Dodwellosostiene non essere ciò punto inverisimile, e la cronolo-gia della Vita di Pittagora e di Falaride ordina per talmaniera, che possono l'uno e l'altro essere lungamentevissuti al tempo medesimo. Oltre di che avea già il Dod-wello dichiarato in certa maniera il parer suo, citandonella sua Opera de Veteribus Græcorum Romanorum-que Cyclis (Dissert. 5, p. 250) le lettere di Falaride sen-za accennar dubbio alcuno della lor supposizione. Diqueste dissertazioni parlasi nel Giornale degli Eruditi diParigi (an. 1706, p. 334). Dopo queste dissertazioni pareche di Falaride più non si parlasse. La contesa si volsealla cronologia della Vita di Pittagora, che non appartie-ne a questo luogo, e di cui altrove accennammo qualchecosa.

207

su questo argomento, i cui titoli dal Fabricio sono statiraccolti (Bibl. Græc. t. 1, 408). Anche Enrico Dodwelloebbe parte a questa contesa. Pubblicò egli nel 1704 duelatine dissertazioni, una sull'età di Falaride e l'altrasull'età di Pittagora, nelle quali, benchè non prendesse asostener direttamente la legittimità di tai lettere, presenondimeno a sciogliere una delle principali difficoltàche contro di esse avea mosso il Bentley. Perciocchèavendo questi mostrato che non era Falaride vissuto intempo a poter conoscer Pittagora, quando già era cele-bre pel suo sapere, avea quindi preteso esser supposte lelettere a Falaride attribuite, nelle quali ne ragiona soven-te come d'uomo famoso già ed illustre. Ma il Dodwellosostiene non essere ciò punto inverisimile, e la cronolo-gia della Vita di Pittagora e di Falaride ordina per talmaniera, che possono l'uno e l'altro essere lungamentevissuti al tempo medesimo. Oltre di che avea già il Dod-wello dichiarato in certa maniera il parer suo, citandonella sua Opera de Veteribus Græcorum Romanorum-que Cyclis (Dissert. 5, p. 250) le lettere di Falaride sen-za accennar dubbio alcuno della lor supposizione. Diqueste dissertazioni parlasi nel Giornale degli Eruditi diParigi (an. 1706, p. 334). Dopo queste dissertazioni pareche di Falaride più non si parlasse. La contesa si volsealla cronologia della Vita di Pittagora, che non appartie-ne a questo luogo, e di cui altrove accennammo qualchecosa.

207

VII. Le ragioni dal Bentley arrecate a mo-strare la supposizione di tali lettere riducon-si a quattro classi. Prende egli le prime dallacronologia, mostrando, come dicemmo disopra, che Pittagora non potè vivere a quel

tempo a cui converrebbe che fosse vissuto, se vere fos-sero tali lettere, e che veggonsi in esse nominate le cittàdi Phintia e di Alesa, che al tempo di Falaride non eranoancor fabbricate. Dalla lingua in cui le lettere sono scrit-te, prende il Bentley la seconda difficoltà: esse sonoscritte nel dialetto attico, mentre nella Sicilia usavasi ildorico; e questo attico dialetto medesimo non è giàl'antico, ma il moderno, che a' tempi di Falaride non eraancora in uso; e tre parole singolarmente vi s'incontrano,che sono di conio, per così dire, assai posteriore. E terzogenere di difficoltà è preso da' sentimenti e da' pensieriche nelle lettere si veggono espressi, i quali certo nonsembrano, adatti a un tiranno. Il quarto finalmente dalsilenzio degli antichi autori; poichè i soli, da' quali se nefaccia menzione, sono Stobeo, Suida, Tzetze, Fozio (ilquale innoltre mostra (epist. 207) di non esser troppopersuaso della loro legittimità), Nonno ne' Comenti su s.Gregorio Nazianzeno e lo Scoliaste di Aristofane, scrit-tori tutti troppo recenti, perchè la loro autorità su questopunto debbasi avere in gran pregio. A tutte queste ragio-ni hanno controrisposto il Boyle e il Dodwello. E quairagioni vi sono in fatti, a cui non si possa rispondere? Si

208

Si prova che esse sono sup-poste.

VII. Le ragioni dal Bentley arrecate a mo-strare la supposizione di tali lettere riducon-si a quattro classi. Prende egli le prime dallacronologia, mostrando, come dicemmo disopra, che Pittagora non potè vivere a quel

tempo a cui converrebbe che fosse vissuto, se vere fos-sero tali lettere, e che veggonsi in esse nominate le cittàdi Phintia e di Alesa, che al tempo di Falaride non eranoancor fabbricate. Dalla lingua in cui le lettere sono scrit-te, prende il Bentley la seconda difficoltà: esse sonoscritte nel dialetto attico, mentre nella Sicilia usavasi ildorico; e questo attico dialetto medesimo non è giàl'antico, ma il moderno, che a' tempi di Falaride non eraancora in uso; e tre parole singolarmente vi s'incontrano,che sono di conio, per così dire, assai posteriore. E terzogenere di difficoltà è preso da' sentimenti e da' pensieriche nelle lettere si veggono espressi, i quali certo nonsembrano, adatti a un tiranno. Il quarto finalmente dalsilenzio degli antichi autori; poichè i soli, da' quali se nefaccia menzione, sono Stobeo, Suida, Tzetze, Fozio (ilquale innoltre mostra (epist. 207) di non esser troppopersuaso della loro legittimità), Nonno ne' Comenti su s.Gregorio Nazianzeno e lo Scoliaste di Aristofane, scrit-tori tutti troppo recenti, perchè la loro autorità su questopunto debbasi avere in gran pregio. A tutte queste ragio-ni hanno controrisposto il Boyle e il Dodwello. E quairagioni vi sono in fatti, a cui non si possa rispondere? Si

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Si prova che esse sono sup-poste.

è ella veduta mai una letteraria contesa che dopo esserestata lungamente e caldamente agitata, abbia finalmenteavuto termine col confessarsi da alcuna delle due partil'errore in cui era stata? Il più leggiadro si è che in talicontroversie l'oggetto stesso talvolta fa negli occhi enell'animo de' diversi partiti impressioni al tutto diverse.Basta dare un'occhiata, dice il Boyle co' suoi seguaci,alle lettere di Falaride per conoscer che esse furono ve-ramente da lui medesimo scritte. "Convien essere, diceun d'essi (Biblioth. Britannique t. 12, p. 385) pocoesperto nell'arte di dipingere per non considerar questelettere come originali: vi si trova una sì gran libertà dipensare, sì grande ardire nella espressione sì grande sti-ma pel sapere e pel merito, sì fiero disprezzo de' suoinemici, sì gran cognizione del mondo, che tutti questidiversi sentimenti non potevano essere espressi che dalui che ne era veramente compreso". Al contrario il Ben-tley dice (V. Nouvell. de la Rep. des Lettres 1699, p.664), che vi sono "assurdità e inconvenienze tali chenon possono venire che dalla penna di un sofista, e cheegli è ben facile a vedere che esse non sono che una fin-zione di qualche declamatore". Così ad ognuno appaio-no gli oggetti quali ei crede che debbano apparire. Ionon ardisco decidere su tal contesa. Ma certo le letteredi Falaride a me si offrono in tal aspetto, ch'io non possoa meno di non dubitare assai della loro sincerità. Io nonvoglio negare, come altri ha fatto, che a' tempi di Falari-de fosse già introdotto l'uso di scriver lettere. Ma niunoa mio parere potrà provare giammai che ne fosse l'uso

209

è ella veduta mai una letteraria contesa che dopo esserestata lungamente e caldamente agitata, abbia finalmenteavuto termine col confessarsi da alcuna delle due partil'errore in cui era stata? Il più leggiadro si è che in talicontroversie l'oggetto stesso talvolta fa negli occhi enell'animo de' diversi partiti impressioni al tutto diverse.Basta dare un'occhiata, dice il Boyle co' suoi seguaci,alle lettere di Falaride per conoscer che esse furono ve-ramente da lui medesimo scritte. "Convien essere, diceun d'essi (Biblioth. Britannique t. 12, p. 385) pocoesperto nell'arte di dipingere per non considerar questelettere come originali: vi si trova una sì gran libertà dipensare, sì grande ardire nella espressione sì grande sti-ma pel sapere e pel merito, sì fiero disprezzo de' suoinemici, sì gran cognizione del mondo, che tutti questidiversi sentimenti non potevano essere espressi che dalui che ne era veramente compreso". Al contrario il Ben-tley dice (V. Nouvell. de la Rep. des Lettres 1699, p.664), che vi sono "assurdità e inconvenienze tali chenon possono venire che dalla penna di un sofista, e cheegli è ben facile a vedere che esse non sono che una fin-zione di qualche declamatore". Così ad ognuno appaio-no gli oggetti quali ei crede che debbano apparire. Ionon ardisco decidere su tal contesa. Ma certo le letteredi Falaride a me si offrono in tal aspetto, ch'io non possoa meno di non dubitare assai della loro sincerità. Io nonvoglio negare, come altri ha fatto, che a' tempi di Falari-de fosse già introdotto l'uso di scriver lettere. Ma niunoa mio parere potrà provare giammai che ne fosse l'uso

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così frequente, come avrebbe dovuto essere, se di Fala-ride fossero veramente le lettere a lui attribuite. Per ognimenoma cosa Falaride impugna la penna, e scrive. Sache alcuno parla male di lui, ed egli gli scrive (ep. 1, 4,9, 13, 14, ec.), e lo rimprovera e minaccia; scrive a unfiglio, e lo esorta ad essere ubbidiente a' suoi genitori(ep. 19, 20); scrive ad alcuni suoi privati, nemici, soloper insultar loro col racconto de' suoi felici successi (ep.1, 85), e per maltrattarli colle più grossolane ingiurie(ep. 5, 123). Lettere di complimento, lettere di condo-glienza, lettere di ragguaglio, ed altre somiglianti,s'incontrano ad ogni passo, per tal maniera, che pare cheFalaride, il quale pure altro doveva avere pel capo chescriver lettere, in altro quasi che in questo non si occu-passe. Aggiungasi l'incostanza del carattere di Falarideche in queste lettere or si fa vedere crudele, ora pietoso,or magnanimo, or vile. Aggiungasi per ultimo la manie-ra stessa di pensare e di scrivere, che a me sembra certopropria di un sofista che cerca di esprimere con ingegnoqualunque sentimento gli si offre al pensiero, ma nonmai di un tiranno il quale scrive solo come il naturale af-fetto e l'impeto della passione gli detta. Tutte queste ra-gioni mi muovono a dubitare della sincerità di questelettere; e poichè io veggo che molti valentuomini nehanno essi pur dubitato, io stimo di non doverne in que-sta mia opera far uso alcuno. Ma tempo è di finire que-sta non breve digressione, e di far ritorno a' siciliani

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così frequente, come avrebbe dovuto essere, se di Fala-ride fossero veramente le lettere a lui attribuite. Per ognimenoma cosa Falaride impugna la penna, e scrive. Sache alcuno parla male di lui, ed egli gli scrive (ep. 1, 4,9, 13, 14, ec.), e lo rimprovera e minaccia; scrive a unfiglio, e lo esorta ad essere ubbidiente a' suoi genitori(ep. 19, 20); scrive ad alcuni suoi privati, nemici, soloper insultar loro col racconto de' suoi felici successi (ep.1, 85), e per maltrattarli colle più grossolane ingiurie(ep. 5, 123). Lettere di complimento, lettere di condo-glienza, lettere di ragguaglio, ed altre somiglianti,s'incontrano ad ogni passo, per tal maniera, che pare cheFalaride, il quale pure altro doveva avere pel capo chescriver lettere, in altro quasi che in questo non si occu-passe. Aggiungasi l'incostanza del carattere di Falarideche in queste lettere or si fa vedere crudele, ora pietoso,or magnanimo, or vile. Aggiungasi per ultimo la manie-ra stessa di pensare e di scrivere, che a me sembra certopropria di un sofista che cerca di esprimere con ingegnoqualunque sentimento gli si offre al pensiero, ma nonmai di un tiranno il quale scrive solo come il naturale af-fetto e l'impeto della passione gli detta. Tutte queste ra-gioni mi muovono a dubitare della sincerità di questelettere; e poichè io veggo che molti valentuomini nehanno essi pur dubitato, io stimo di non doverne in que-sta mia opera far uso alcuno. Ma tempo è di finire que-sta non breve digressione, e di far ritorno a' siciliani

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poeti (29).VIII. La pastoral poesia, come si è detto,ebbe probabilmente cominciamento in Sici-lia. Ma quando ancora si volesse contender-

le questo vanto, non si può certo a ragione negarle quel-lo di aver questo genere di poesia a quella perfezionecondotto, a cui mai tra i Greci arrivasse. Ognun vedech'io parlo di Teocrito e di Mosco amendue siracusani.Di questi due poeti hanno alcuni voluto formarne unsolo, dicendo che Teocrito fu un soprannome per la dol-cezza de' suoi versi conceduto a Mosco. Ma il lor parereè confutato da Giannalberto Fabricio (Bibl. Græc. t. 2,p. 429 e 444). Fiorì Teocrito intorno all'olimp. CXXX, ea' tempi di Tolomeo Filadelfo re di Egitto, nella cui cor-te visse egli ancora per qualche tempo. Che egli per or-dine di Gerone fosse o strozzato, o decapitato, ella èopinione di alcuni scrittori, ma che poco probabile èsembrata al Fabricio. Assai poche notizie intorno a que-sto poeta ci son pervenute; ma a noi basta che ci sian ri-maste le pastorali poesie da lui composte, che a lui, equindi alla sua patria, furono e saran sempre di onoreimmortale, e per le quali egli è detto da Quintilianouomo ammirabile nel suo genere (Instit. Orat. l. 10, c.1). Io so che i pastori di Teocrito sono sembrati al Fon-

29 Di molti de' poeti de' quali in questo Capo si è ragionato, ragiona ancoranell'opera altre volte citata l'imperadrice Eudossia, cioè di Teocrito, di Mo-sco, di Epicarmo, di Dinoloco, di Filemone, di Apollodoro, di Sofrone, diSosacle, di Teognide, del qual nome, secondo essa furon due poeti, e diFormide (p. 232, 304, 166, 131, 427, 61, 389, 384, 227, 232, 428).

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Notizie di Teocrito.

poeti (29).VIII. La pastoral poesia, come si è detto,ebbe probabilmente cominciamento in Sici-lia. Ma quando ancora si volesse contender-

le questo vanto, non si può certo a ragione negarle quel-lo di aver questo genere di poesia a quella perfezionecondotto, a cui mai tra i Greci arrivasse. Ognun vedech'io parlo di Teocrito e di Mosco amendue siracusani.Di questi due poeti hanno alcuni voluto formarne unsolo, dicendo che Teocrito fu un soprannome per la dol-cezza de' suoi versi conceduto a Mosco. Ma il lor parereè confutato da Giannalberto Fabricio (Bibl. Græc. t. 2,p. 429 e 444). Fiorì Teocrito intorno all'olimp. CXXX, ea' tempi di Tolomeo Filadelfo re di Egitto, nella cui cor-te visse egli ancora per qualche tempo. Che egli per or-dine di Gerone fosse o strozzato, o decapitato, ella èopinione di alcuni scrittori, ma che poco probabile èsembrata al Fabricio. Assai poche notizie intorno a que-sto poeta ci son pervenute; ma a noi basta che ci sian ri-maste le pastorali poesie da lui composte, che a lui, equindi alla sua patria, furono e saran sempre di onoreimmortale, e per le quali egli è detto da Quintilianouomo ammirabile nel suo genere (Instit. Orat. l. 10, c.1). Io so che i pastori di Teocrito sono sembrati al Fon-

29 Di molti de' poeti de' quali in questo Capo si è ragionato, ragiona ancoranell'opera altre volte citata l'imperadrice Eudossia, cioè di Teocrito, di Mo-sco, di Epicarmo, di Dinoloco, di Filemone, di Apollodoro, di Sofrone, diSosacle, di Teognide, del qual nome, secondo essa furon due poeti, e diFormide (p. 232, 304, 166, 131, 427, 61, 389, 384, 227, 232, 428).

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Notizie di Teocrito.

tenelle (Réflex sur la nature de l'Eclogue) or rozzi trop-po e grossolani, or troppo acuti ed ingegnosi. Ma è davedere la bella difesa che fa di Teocrito l'ab. Quadrio (t.2. p. 605). E certo, come questi riflette, ella è cosa stra-na che troppo fini e ricercati abbia il Fontenelle creduti isentimenti di Teocrito, egli, dico, le cui egloghe non soncerto il più compito modello di pastorale semplicità. Maancorchè altra maniera noi non avessimo a difenderTeocrito, il Fontenelle ci permetterà, io spero, che il pa-rer di Virgilio seguiamo anzi che il suo. Egli prese Teo-crito a suo maestro e modello nella pastoral poesia, eper riguardo a Teocrito singolarmente le muse pastoralicol nome di siciliane furon da lui chiamate. Se la copiapreferir debbasi, o no al suo originale, non entrerò io adisputare. Piacemi solo di riferire il confronto che diquesti due poeti fa il p. Rapin (Réflex sur la Poétique n.27), benchè forse in qualche parte non interamente esat-to: Théocrite est plus doux, plus naïf plus délicat par lecaractère de la langue grécque. Virgile est plusjudicieux, plus exact plus régulier, plus modeste par lecaractère de son propre esprit et par le genie de lalangue latine. Théocrite a plus de toutes ces graces quifont la beauté ordinarie de la poésie. Virgile a plus debon sens, plus de force, plus de noblesse et plus depudeur. Après tout Théocrite est original, Virgile n'estsouvent que copiste, quoiqu'il ait copié de certaineschoses, qu'elles égalent leur modèle en des certainsendroits. L'idea di questa mia Opera non mi permette didare il catalogo di tutte le edizioni, e di tutte le traduzio-

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tenelle (Réflex sur la nature de l'Eclogue) or rozzi trop-po e grossolani, or troppo acuti ed ingegnosi. Ma è davedere la bella difesa che fa di Teocrito l'ab. Quadrio (t.2. p. 605). E certo, come questi riflette, ella è cosa stra-na che troppo fini e ricercati abbia il Fontenelle creduti isentimenti di Teocrito, egli, dico, le cui egloghe non soncerto il più compito modello di pastorale semplicità. Maancorchè altra maniera noi non avessimo a difenderTeocrito, il Fontenelle ci permetterà, io spero, che il pa-rer di Virgilio seguiamo anzi che il suo. Egli prese Teo-crito a suo maestro e modello nella pastoral poesia, eper riguardo a Teocrito singolarmente le muse pastoralicol nome di siciliane furon da lui chiamate. Se la copiapreferir debbasi, o no al suo originale, non entrerò io adisputare. Piacemi solo di riferire il confronto che diquesti due poeti fa il p. Rapin (Réflex sur la Poétique n.27), benchè forse in qualche parte non interamente esat-to: Théocrite est plus doux, plus naïf plus délicat par lecaractère de la langue grécque. Virgile est plusjudicieux, plus exact plus régulier, plus modeste par lecaractère de son propre esprit et par le genie de lalangue latine. Théocrite a plus de toutes ces graces quifont la beauté ordinarie de la poésie. Virgile a plus debon sens, plus de force, plus de noblesse et plus depudeur. Après tout Théocrite est original, Virgile n'estsouvent que copiste, quoiqu'il ait copié de certaineschoses, qu'elles égalent leur modèle en des certainsendroits. L'idea di questa mia Opera non mi permette didare il catalogo di tutte le edizioni, e di tutte le traduzio-

212

ni che di questo illustre poeta si sono fatte. Si possonoesse vedere presso il Fabricio, nella Biblioteca Sicilianadel Mongitore e nella Biblioteca de' Volgarizzatoridell'Argelati. Aggiugnerò solamente, che una coltissimaed elegantissima traduzione in versi latini di alcuni idilljdi Teocrito abbiam di fresco avuta dal p. Raimondo Cu-nich della Compagnia di Gesù, che ci fa sommamentedesiderare di vedere da sì gentil penna fatti latini tutti glialtri componimenti di questo principe della pastoralpoesia (30).

IX. Siracusano ancora fu Mosco, ma poste-rior di tempo a Teocrito; poichè visse e fiorìcirca l'olimp. CLVI a' tempi di Tolomeo Filo-

metere. Egli ancora nella poesia pastorale esercitossicon lode; nè io so per qual ragione lo abbiano gli Enci-clopedisti (art. Syracuse 1 edit.) chiamato poeta lirico. IlFontenelle si mostra a lui più che a Teocrito favorevole.Ad altri ne pare altrimenti; nè io voglio entrar giudice inquesta contesa. Di lui pure, e delle edizioni che de' suoiversi si sono fatte, si posson vedere gli autori mentovatidi sopra.

X. Il Mongitore nella sua Biblioteca Sicilia-

30 Una magnifica edizione dell'original testo greco di Teocrito colla elegantetraduzione del ch. P. Pagnini abbiamo poscia avuta da' torchi parmigianidel sig. Bodoni, che con essa e con tante altre elegantissime edizioni ègiunto ad oscurare non che ad uguagliare la gloria de' più rinnomati.

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E di Mo-sco.

Se Bione ancora fos-se Sicilia-no.

ni che di questo illustre poeta si sono fatte. Si possonoesse vedere presso il Fabricio, nella Biblioteca Sicilianadel Mongitore e nella Biblioteca de' Volgarizzatoridell'Argelati. Aggiugnerò solamente, che una coltissimaed elegantissima traduzione in versi latini di alcuni idilljdi Teocrito abbiam di fresco avuta dal p. Raimondo Cu-nich della Compagnia di Gesù, che ci fa sommamentedesiderare di vedere da sì gentil penna fatti latini tutti glialtri componimenti di questo principe della pastoralpoesia (30).

IX. Siracusano ancora fu Mosco, ma poste-rior di tempo a Teocrito; poichè visse e fiorìcirca l'olimp. CLVI a' tempi di Tolomeo Filo-

metere. Egli ancora nella poesia pastorale esercitossicon lode; nè io so per qual ragione lo abbiano gli Enci-clopedisti (art. Syracuse 1 edit.) chiamato poeta lirico. IlFontenelle si mostra a lui più che a Teocrito favorevole.Ad altri ne pare altrimenti; nè io voglio entrar giudice inquesta contesa. Di lui pure, e delle edizioni che de' suoiversi si sono fatte, si posson vedere gli autori mentovatidi sopra.

X. Il Mongitore nella sua Biblioteca Sicilia-

30 Una magnifica edizione dell'original testo greco di Teocrito colla elegantetraduzione del ch. P. Pagnini abbiamo poscia avuta da' torchi parmigianidel sig. Bodoni, che con essa e con tante altre elegantissime edizioni ègiunto ad oscurare non che ad uguagliare la gloria de' più rinnomati.

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E di Mo-sco.

Se Bione ancora fos-se Sicilia-no.

na fa siracusano ancor Bione, che è il terzo tra' poetigreci che nelle poesie pastorali si acquistarono fama.Egli da Suida veramente è detto smirneo, e tale il diconocomunemente gli scrittori tutti. Nondimeno il Mongitoreinsieme cogli altri scrittori siciliani sostiene ch'ei fossesiracusano. Il fondamento a cui egli si appoggia, si è unidillio di Mosco, fatto nella morte di questo illustre poe-ta. Egli è certo che in questo idillio Mosco invita a pian-gere le siciliane muse, e più cose egli dice, dalle qualichiaramente si scorge che in Sicilia visse e poetò Bione.Non si può nondimeno dallo stesso idillio provare ch'eifosse siciliano di nascita, e potè forse aver per patriaSmirne, e vivere lungamente in Sicilia, nella manieraappunto in cui Teocrito, benchè siciliano di patria, feceper alcun tempo sua dimora in Egitto. Da questo idilliofrattanto noi raccogliamo l'età a cui visse Bione, per-ciocchè veggiamo, ch'ei fu contemporaneo di Mosco.

XI. Tra' Siciliani ancora ebbero origine ipoemi che di cose fisiche e naturali prendo-no a trattare. Empedocle di Agrigento, giàda noi nominato tra' filosofi pittagorici, ne

fu il primo autore. Abbiamo il poemetto astronomicosopra la Sfera, che dal Fabbricio fu ristampato e inseritonella sua Biblioteca Greca (t. 1, p. 478, ec.); ma eglistesso reca più argomenti, pe' quali si dee dubitare se ve-ramente quel poema sia di Empedocle. Questi però cer-tamente tre libri in versi aveva scritti, intitolati de Natu-

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Poemi di cose fisichee naturali.

na fa siracusano ancor Bione, che è il terzo tra' poetigreci che nelle poesie pastorali si acquistarono fama.Egli da Suida veramente è detto smirneo, e tale il diconocomunemente gli scrittori tutti. Nondimeno il Mongitoreinsieme cogli altri scrittori siciliani sostiene ch'ei fossesiracusano. Il fondamento a cui egli si appoggia, si è unidillio di Mosco, fatto nella morte di questo illustre poe-ta. Egli è certo che in questo idillio Mosco invita a pian-gere le siciliane muse, e più cose egli dice, dalle qualichiaramente si scorge che in Sicilia visse e poetò Bione.Non si può nondimeno dallo stesso idillio provare ch'eifosse siciliano di nascita, e potè forse aver per patriaSmirne, e vivere lungamente in Sicilia, nella manieraappunto in cui Teocrito, benchè siciliano di patria, feceper alcun tempo sua dimora in Egitto. Da questo idilliofrattanto noi raccogliamo l'età a cui visse Bione, per-ciocchè veggiamo, ch'ei fu contemporaneo di Mosco.

XI. Tra' Siciliani ancora ebbero origine ipoemi che di cose fisiche e naturali prendo-no a trattare. Empedocle di Agrigento, giàda noi nominato tra' filosofi pittagorici, ne

fu il primo autore. Abbiamo il poemetto astronomicosopra la Sfera, che dal Fabbricio fu ristampato e inseritonella sua Biblioteca Greca (t. 1, p. 478, ec.); ma eglistesso reca più argomenti, pe' quali si dee dubitare se ve-ramente quel poema sia di Empedocle. Questi però cer-tamente tre libri in versi aveva scritti, intitolati de Natu-

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Poemi di cose fisichee naturali.

ra, da' più antichi autori rammentati come mostra lostesso Fabbricio (ib. p. 474). E forse ancora fu eglil'autore, secondo il parere di questo valentuomo (ib. p.469), di quegli Aurei Versi che sotto il nome di Pittagorasono impressi.

XII. Nè minor lode nel coltivamento dellateatral poesia si acquistarono i Siciliani. Ionon voglio qui far menzione di tutti quelli

tra loro, che nel comporre tragedie e commedie si rende-rono illustri, quali furono Epicarmo, già da noi tra' filo-sofi mentovato, che al dir di Orazio si fu il modello cuiPlauto prese ad imitare (l. 2, ep. 1), Dinoloco di lui fi-gliuolo, o secondo alcuni solamente discepolo, da altridetto Demoloco (Fabr. Bibl. Græc. t. 1, p. 674), Filemo-ne il padre, seppur egli fu siracusano, come afferma Sui-da, e non anzi di Cilicia, come vuole Strabone (Geogr. l.14), e l'altro Filemone di lui figliuolo (Fabr. ib. p. 779,780.), Apollodoro (id. ib. p. 745), Carcino (id. ib., p.672 e 750), Sofrone (id. ib. p. 788), ed altri, tutti comicisiciliani, de' quali con molta lode veggiamo dagli antichiscrittori farsi menzione, e Empedocle, e Sosicle, eAcheo (id. ibid. p. 663, 676, 691) valenti tragici, secon-do il testimonio de' medesimi. Ristringerommi soltantoa dire di alcune cose appartenenti al teatro, che da' Sici-liani furono ritrovate (31).

31 De' molti teatri che erano nella Sicilia e nella Magna Grecia, di que' poetidrammatici de' quali qui ed altrove abbiam fatta menzione, e di più altri

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Poesie tea-trali.

ra, da' più antichi autori rammentati come mostra lostesso Fabbricio (ib. p. 474). E forse ancora fu eglil'autore, secondo il parere di questo valentuomo (ib. p.469), di quegli Aurei Versi che sotto il nome di Pittagorasono impressi.

XII. Nè minor lode nel coltivamento dellateatral poesia si acquistarono i Siciliani. Ionon voglio qui far menzione di tutti quelli

tra loro, che nel comporre tragedie e commedie si rende-rono illustri, quali furono Epicarmo, già da noi tra' filo-sofi mentovato, che al dir di Orazio si fu il modello cuiPlauto prese ad imitare (l. 2, ep. 1), Dinoloco di lui fi-gliuolo, o secondo alcuni solamente discepolo, da altridetto Demoloco (Fabr. Bibl. Græc. t. 1, p. 674), Filemo-ne il padre, seppur egli fu siracusano, come afferma Sui-da, e non anzi di Cilicia, come vuole Strabone (Geogr. l.14), e l'altro Filemone di lui figliuolo (Fabr. ib. p. 779,780.), Apollodoro (id. ib. p. 745), Carcino (id. ib., p.672 e 750), Sofrone (id. ib. p. 788), ed altri, tutti comicisiciliani, de' quali con molta lode veggiamo dagli antichiscrittori farsi menzione, e Empedocle, e Sosicle, eAcheo (id. ibid. p. 663, 676, 691) valenti tragici, secon-do il testimonio de' medesimi. Ristringerommi soltantoa dire di alcune cose appartenenti al teatro, che da' Sici-liani furono ritrovate (31).

31 De' molti teatri che erano nella Sicilia e nella Magna Grecia, di que' poetidrammatici de' quali qui ed altrove abbiam fatta menzione, e di più altri

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Poesie tea-trali.

XIII. Il sopra mentovato Epicarmo da Pla-tone vien detto sommo nella commedia:Poetarum in utroque poemate summi, in co-mœdia Epicharmus, Homerus in tragœdia(in Theæteto). Ma non è questa la maggior

lode che ad Epicarmo si debba. Non solo egli fu eccel-lente nello scriver commedie, ma ne fu anche il primoautore. Ne abbiamo una indubitabil prova nell'epigram-ma di Teocrito, fatto in onor di questo poeta, in cui egliespressamente è chiamato Vir comœdiam inveniens Epi-charmus. Egli è vero che qualche più antico vestigio dicommedia noi troviamo in alcuni scrittori. Ma, come os-serva il Quadrio (t. 5, p. 10), benchè vi fosse qualcherozzo ed incolto genere di poesia, che col nome appella-vasi di commedia, Epicarmo però fu il primo che sulteatro introdusse gli attori, e il favellare a dialogo, equindi quella ch'è veramente azione drammatica dellacommedia. E questo è egli pure il parere di Aristotele edi Solino (Arist. Poet. c. 5; Solin. Polyhist. c. 11), chechiaramente dicono aver la commedia avuto comincia-mento in Sicilia. Certo, come riflette il Quadrio soprac-citato dopo l'ab. d'Aubignac, non si è ancor potuto tro-

per amor di brevità da noi omessi, o soltanto accennati, più distinte notiziesi possono vedere nella bell'opera del sig. d. Pietro Napoli-Signorelli inti-tolata le Vicende della Coltura delle due Sicilie (t. 1, p. 138, ec. p. 195, ec.p. 215, ec.). E certo come i teatrali spettacoli, i combattimenti letterarj, glionori accordati agli uomini dotti, e l'indole medesima del governo ebbernon piccola parte ne' rapidi e maravigliosi progressi che gli studj fecero inquella che propriamente dicevasi Grecia, così presso i popoli ancora dellaMagna Grecia e della Sicilia, che reggevansi alla stessa maniera, ebbersuccessi egualmente felici.

216

Epicarmo, primo scrit-tor di com-medie.

XIII. Il sopra mentovato Epicarmo da Pla-tone vien detto sommo nella commedia:Poetarum in utroque poemate summi, in co-mœdia Epicharmus, Homerus in tragœdia(in Theæteto). Ma non è questa la maggior

lode che ad Epicarmo si debba. Non solo egli fu eccel-lente nello scriver commedie, ma ne fu anche il primoautore. Ne abbiamo una indubitabil prova nell'epigram-ma di Teocrito, fatto in onor di questo poeta, in cui egliespressamente è chiamato Vir comœdiam inveniens Epi-charmus. Egli è vero che qualche più antico vestigio dicommedia noi troviamo in alcuni scrittori. Ma, come os-serva il Quadrio (t. 5, p. 10), benchè vi fosse qualcherozzo ed incolto genere di poesia, che col nome appella-vasi di commedia, Epicarmo però fu il primo che sulteatro introdusse gli attori, e il favellare a dialogo, equindi quella ch'è veramente azione drammatica dellacommedia. E questo è egli pure il parere di Aristotele edi Solino (Arist. Poet. c. 5; Solin. Polyhist. c. 11), chechiaramente dicono aver la commedia avuto comincia-mento in Sicilia. Certo, come riflette il Quadrio soprac-citato dopo l'ab. d'Aubignac, non si è ancor potuto tro-

per amor di brevità da noi omessi, o soltanto accennati, più distinte notiziesi possono vedere nella bell'opera del sig. d. Pietro Napoli-Signorelli inti-tolata le Vicende della Coltura delle due Sicilie (t. 1, p. 138, ec. p. 195, ec.p. 215, ec.). E certo come i teatrali spettacoli, i combattimenti letterarj, glionori accordati agli uomini dotti, e l'indole medesima del governo ebbernon piccola parte ne' rapidi e maravigliosi progressi che gli studj fecero inquella che propriamente dicevasi Grecia, così presso i popoli ancora dellaMagna Grecia e della Sicilia, che reggevansi alla stessa maniera, ebbersuccessi egualmente felici.

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Epicarmo, primo scrit-tor di com-medie.

vare frammento di commedia drammatica più antico dique' d'Epicarmo. Fu egli al tempo di Gerone il vecchio,che prese dominio di Siracusa nell'olimp. LXXV. Vuolsidunque correggere il Quadrio, quando afferma che Epi-carmo fu più antico di Tespi autor primo della tragedia,poichè questi, come prova ad evidenza il Fabricio (Bibl.Græc. t. 1, p. 600), cominciò a farne uso nell'olimp.LXL Con più ragione, perchè appoggiato all'autorità diSuida, attribuisce il Quadrio a Formo o Formide con-temporaneo di Epicarmo il vanto di avere il primo orna-te di rosseggianti panni le scene, e introdotti, sul teatro ipersonaggi in veste lunga e talare.

XIV. All'azion teatrale appartengono imimi, cioè coloro che con gesti vivi e scher-zevoli e al lor tema adattati accompagnano

ed esprimono i lor sentimenti burleschi per lo più ed auom plebeo confacentisi. Or questi ancora, secondo So-lino (loc. cit.), furono in Sicilia prima che altrove intro-dotti; e secondo il parer del Quadrio (t. 5, p. 182) se nedee la lode a Sofrone siracusano, figliuol di Agatocle;"perciocchè, dic'egli, benchè molti senza dubbio fioris-sero scrittori de' mimi avanti a lui, costui tuttavia nonpure un'amplissima gloria tra' mimografi s'acquistò, mapassò ancor tra molti per inventor de' medesimi. E nelvero sua invenzione è credibile che que' mimi si fossero,i quali la vita quotidiana esprimevano delle persone".Così egli. Per ultimo la poesia burlesca di qualunque

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Origine de'mimi.

vare frammento di commedia drammatica più antico dique' d'Epicarmo. Fu egli al tempo di Gerone il vecchio,che prese dominio di Siracusa nell'olimp. LXXV. Vuolsidunque correggere il Quadrio, quando afferma che Epi-carmo fu più antico di Tespi autor primo della tragedia,poichè questi, come prova ad evidenza il Fabricio (Bibl.Græc. t. 1, p. 600), cominciò a farne uso nell'olimp.LXL Con più ragione, perchè appoggiato all'autorità diSuida, attribuisce il Quadrio a Formo o Formide con-temporaneo di Epicarmo il vanto di avere il primo orna-te di rosseggianti panni le scene, e introdotti, sul teatro ipersonaggi in veste lunga e talare.

XIV. All'azion teatrale appartengono imimi, cioè coloro che con gesti vivi e scher-zevoli e al lor tema adattati accompagnano

ed esprimono i lor sentimenti burleschi per lo più ed auom plebeo confacentisi. Or questi ancora, secondo So-lino (loc. cit.), furono in Sicilia prima che altrove intro-dotti; e secondo il parer del Quadrio (t. 5, p. 182) se nedee la lode a Sofrone siracusano, figliuol di Agatocle;"perciocchè, dic'egli, benchè molti senza dubbio fioris-sero scrittori de' mimi avanti a lui, costui tuttavia nonpure un'amplissima gloria tra' mimografi s'acquistò, mapassò ancor tra molti per inventor de' medesimi. E nelvero sua invenzione è credibile che que' mimi si fossero,i quali la vita quotidiana esprimevano delle persone".Così egli. Per ultimo la poesia burlesca di qualunque

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Origine de'mimi.

maniera pare, secondo il Fabbricio, che avesse comin-ciamento in Sicilia (Bibl. Græc. t. 1, p. 689), e che fosseda un cotal Rintone siracusano prima d'ogni altro usata."E anche un de' primi scrittori di elegie ebbe la Sicilia inTeognide da Megara nato, secondo Suida, nell'olimpiadeLIX".

XV. Ma l'eloquenza, forse più ancora chenon la poesia, debbe alla Sicilia la sua ori-gine e i suoi più ragguardevoli ornamenti.Non intendo già io di favellare qui di quel-la eloquenza per cui gli uomini ancorchè

rozzi e volgari sanno i lor bisogni e le ragioni loroesporre, e la lor causa trattare valorosamente. Questanacque cogli uomini, le passioni e i bisogni la perfezio-nano. Parlo di quella che arte di eloquenza si dice, laquale sull'indole del cuore umano e sulla nostra espe-rienza medesima facendo attenta riflessione, quelle leg-gi e que' precetti ne trae, che a persuadere parlando sem-brano più opportuni. Or l'invenzion di quest'arte vienecomunemente attribuita alla Sicilia. Noi non possiamoaverne più autorevole testimonianza di quella che tro-viamo in Cicerone e in Aristotele, i quali a Corace e aTisia siciliani attribuiscono. Usque a Corace, dice Tullio(De Orat. l. 2, n. 91), nescio quo et Tisia, quos illius ar-tis inventores et principes fuisse constat. Ed altroveall'autorità appoggiandosi di Aristotele (Brut. n. 46):Itaque, ait Aristoteles, cum sublatis in Sicilia Tyrannis

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L'eloquenza da' Siciliani ridotta in arte.

maniera pare, secondo il Fabbricio, che avesse comin-ciamento in Sicilia (Bibl. Græc. t. 1, p. 689), e che fosseda un cotal Rintone siracusano prima d'ogni altro usata."E anche un de' primi scrittori di elegie ebbe la Sicilia inTeognide da Megara nato, secondo Suida, nell'olimpiadeLIX".

XV. Ma l'eloquenza, forse più ancora chenon la poesia, debbe alla Sicilia la sua ori-gine e i suoi più ragguardevoli ornamenti.Non intendo già io di favellare qui di quel-la eloquenza per cui gli uomini ancorchè

rozzi e volgari sanno i lor bisogni e le ragioni loroesporre, e la lor causa trattare valorosamente. Questanacque cogli uomini, le passioni e i bisogni la perfezio-nano. Parlo di quella che arte di eloquenza si dice, laquale sull'indole del cuore umano e sulla nostra espe-rienza medesima facendo attenta riflessione, quelle leg-gi e que' precetti ne trae, che a persuadere parlando sem-brano più opportuni. Or l'invenzion di quest'arte vienecomunemente attribuita alla Sicilia. Noi non possiamoaverne più autorevole testimonianza di quella che tro-viamo in Cicerone e in Aristotele, i quali a Corace e aTisia siciliani attribuiscono. Usque a Corace, dice Tullio(De Orat. l. 2, n. 91), nescio quo et Tisia, quos illius ar-tis inventores et principes fuisse constat. Ed altroveall'autorità appoggiandosi di Aristotele (Brut. n. 46):Itaque, ait Aristoteles, cum sublatis in Sicilia Tyrannis

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L'eloquenza da' Siciliani ridotta in arte.

res privatæ longo intervallo judiciis repeterentur, tumprimum, quod esset acuta illa gens, et controversa natu-ra, artem et præcepta siculos Coracem et Tisiam conce-pisse (32). E noi veggiamo qui stabilito il tempo ancora incui l'arte dell'eloquenza ebbe tra i Siciliani comincia-mento, allor quando tolti di mezzo i tiranni ricuperaronoi Siciliani la libertà. Infatti, riflette a questo luogo sag-giamente il sig. de Burigny (Hist de Sicil. t. 1, p. 7), "inun Governo dispotico l'eloquenza di raro apre la via allafortuna; ma ove il popolo decide di ogni cosa, chiunquesa toccarlo e persuaderlo, egli è pressochè certo di giun-gere, a' sommi onori". Ora il tempo in cui fu da' Sicilianiricuperata la libertà viene da Diodoro fissato all'annoquarto dell'olimp. LXXIX (Diod. Bibliot. l. 11, p. 281),in cui tutte quasi le altre città seguiron l'esempio di Sira-cusa, la quale già da qualche anno aveala ripigliata; ilqual anno cade nel 292 dalla fondazione di Roma, e 460incirca innanzi all'era cristiana. Circa questo tempo dun-que si vuole stabilir il cominciamento dell'arte dell'elo-quenza (33).32 Di Corace ancora (p. 296) ragiona la poc'anzi nominata imperadrice Eu-

dossia, la quale ricorda innoltre più altri in questo Capo da me nominati,cioè Lisia (p. 281), Gorgia (p. 100), Filisto (p. 422), Diodoro Siculo (p.128), Temistogene (p. 233), Ipi (p. 245), Lico (p. 284), e Polo (p. 355).

33 Il ch. Sig. ab. Andres non solo non reputa degni di molta lode i primi scrit-tori che ci dieder le leggi dell'eloquenza, e ne formarono un'arte, ma anzigli incolpa della decadenza del buon gusto, perciocchè egli dice "(Dell'ori-gine e Progressi di ogni Letter. t. 1, p. 42, ec.), i Greci cominciarono a ve-dersi privi di opere eccellenti quando conobbero i precetti dell'arte... E chinon sa che allor appunto mancarono gli oratori e i poeti, quando Aristotilecon tanto ingegno e dottrina dell'arte rettorica scrisse e della poesia?" Egliprosegue a sostener con ingegno e a svolgere con eloquenza questa sua

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res privatæ longo intervallo judiciis repeterentur, tumprimum, quod esset acuta illa gens, et controversa natu-ra, artem et præcepta siculos Coracem et Tisiam conce-pisse (32). E noi veggiamo qui stabilito il tempo ancora incui l'arte dell'eloquenza ebbe tra i Siciliani comincia-mento, allor quando tolti di mezzo i tiranni ricuperaronoi Siciliani la libertà. Infatti, riflette a questo luogo sag-giamente il sig. de Burigny (Hist de Sicil. t. 1, p. 7), "inun Governo dispotico l'eloquenza di raro apre la via allafortuna; ma ove il popolo decide di ogni cosa, chiunquesa toccarlo e persuaderlo, egli è pressochè certo di giun-gere, a' sommi onori". Ora il tempo in cui fu da' Sicilianiricuperata la libertà viene da Diodoro fissato all'annoquarto dell'olimp. LXXIX (Diod. Bibliot. l. 11, p. 281),in cui tutte quasi le altre città seguiron l'esempio di Sira-cusa, la quale già da qualche anno aveala ripigliata; ilqual anno cade nel 292 dalla fondazione di Roma, e 460incirca innanzi all'era cristiana. Circa questo tempo dun-que si vuole stabilir il cominciamento dell'arte dell'elo-quenza (33).32 Di Corace ancora (p. 296) ragiona la poc'anzi nominata imperadrice Eu-

dossia, la quale ricorda innoltre più altri in questo Capo da me nominati,cioè Lisia (p. 281), Gorgia (p. 100), Filisto (p. 422), Diodoro Siculo (p.128), Temistogene (p. 233), Ipi (p. 245), Lico (p. 284), e Polo (p. 355).

33 Il ch. Sig. ab. Andres non solo non reputa degni di molta lode i primi scrit-tori che ci dieder le leggi dell'eloquenza, e ne formarono un'arte, ma anzigli incolpa della decadenza del buon gusto, perciocchè egli dice "(Dell'ori-gine e Progressi di ogni Letter. t. 1, p. 42, ec.), i Greci cominciarono a ve-dersi privi di opere eccellenti quando conobbero i precetti dell'arte... E chinon sa che allor appunto mancarono gli oratori e i poeti, quando Aristotilecon tanto ingegno e dottrina dell'arte rettorica scrisse e della poesia?" Egliprosegue a sostener con ingegno e a svolgere con eloquenza questa sua

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XVI. Di Corace però appena altra notizia ciè rimasta. Non così di Tisia. Pausania cidice ch'ei fu compagno di Gorgia nell'amba-sciata agli Ateniesi, di cui or ora favellere-mo; e un onorevole elogio ne forma dicendo

"ch'egli nell'arte del favellare tutti superò gli oratoridell'età sua, di che fa chiaro argomento l'ingegnosa alcerto e sottile orazione che nella lite di una donna sira-cusana egli disse (Descr. Græc. l. 6, c. 18)". Questa am-basciata viene da Diodoro raccontata all'anno secondodell'olimpiade LXXXVIII. Di lui pure aggiugne DionigiAlicarnasseo, che fu precettor d'Isocrate nato nell'olimp.LXXXVI (Judic. de Isocr.), il qual doveva perciò esserancor giovinetto quando Tisia venne in Atene.Niun'altra cosa noi sappiamo di Tisia; ma non è ella cer-

proposizione. E se a lui basta che in questo senso essa s'intenda che i pre-cetti non bastano a formare un oratore e un poeta, e che il tenersi troppo ri-gorosamente stretto a' precetti snerva comunemente la forza dell'eloquenzae la vivacità della poesia, io pure me ne dichiaro seguace e sostenitore. Mase egli intende di sbandire generalmente i precetti e l'arte, io temo che lasperienza e la ragione gli si opporranno. Ei dice che "le spelonche, le grot-te, le sponde del mare erano le scuole dell'arte rettorica del gran Demoste-ne". Ma è certo che innanzi a Demostene erano stati Corace, Tisia, e Gor-gia tutti precettori d'eloquenza, e che per testimonianza di Dionigi Alicar-nasseo (Judic. de Isocrate) Tisia fu precettore d'Isocrate, e che Demosteneda Tucidide e da Gorgia apprese la magnificenza, la gravità, lo splendoredel favellare (De admiranda vi dicendi in Demosth.). Il maggior oratoreche avesse Roma, viaggiò in Grecia in età già adulta, e frequentò le scuolede' retori più rinomati.; e scrisse poscia egli medesimo, i precetti dell'arte.Il maggior poeta epico che abbia avuto l'Italia, studiò attentamente la Poe-tica d'Aristotile. A me sembra che forse sarebbe più giusto il dire che i pre-cetti non bastano a formar un grand'uomo, ma che senza i precetti ungrand'uomo non saprà sfuggir que' difetti che ne oscureranno la gloria.

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Corace e Tisia ne sono i pri-mi maestri.

XVI. Di Corace però appena altra notizia ciè rimasta. Non così di Tisia. Pausania cidice ch'ei fu compagno di Gorgia nell'amba-sciata agli Ateniesi, di cui or ora favellere-mo; e un onorevole elogio ne forma dicendo

"ch'egli nell'arte del favellare tutti superò gli oratoridell'età sua, di che fa chiaro argomento l'ingegnosa alcerto e sottile orazione che nella lite di una donna sira-cusana egli disse (Descr. Græc. l. 6, c. 18)". Questa am-basciata viene da Diodoro raccontata all'anno secondodell'olimpiade LXXXVIII. Di lui pure aggiugne DionigiAlicarnasseo, che fu precettor d'Isocrate nato nell'olimp.LXXXVI (Judic. de Isocr.), il qual doveva perciò esserancor giovinetto quando Tisia venne in Atene.Niun'altra cosa noi sappiamo di Tisia; ma non è ella cer-

proposizione. E se a lui basta che in questo senso essa s'intenda che i pre-cetti non bastano a formare un oratore e un poeta, e che il tenersi troppo ri-gorosamente stretto a' precetti snerva comunemente la forza dell'eloquenzae la vivacità della poesia, io pure me ne dichiaro seguace e sostenitore. Mase egli intende di sbandire generalmente i precetti e l'arte, io temo che lasperienza e la ragione gli si opporranno. Ei dice che "le spelonche, le grot-te, le sponde del mare erano le scuole dell'arte rettorica del gran Demoste-ne". Ma è certo che innanzi a Demostene erano stati Corace, Tisia, e Gor-gia tutti precettori d'eloquenza, e che per testimonianza di Dionigi Alicar-nasseo (Judic. de Isocrate) Tisia fu precettore d'Isocrate, e che Demosteneda Tucidide e da Gorgia apprese la magnificenza, la gravità, lo splendoredel favellare (De admiranda vi dicendi in Demosth.). Il maggior oratoreche avesse Roma, viaggiò in Grecia in età già adulta, e frequentò le scuolede' retori più rinomati.; e scrisse poscia egli medesimo, i precetti dell'arte.Il maggior poeta epico che abbia avuto l'Italia, studiò attentamente la Poe-tica d'Aristotile. A me sembra che forse sarebbe più giusto il dire che i pre-cetti non bastano a formar un grand'uomo, ma che senza i precetti ungrand'uomo non saprà sfuggir que' difetti che ne oscureranno la gloria.

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Corace e Tisia ne sono i pri-mi maestri.

to picciola gloria questa di aver avuto a suo scolaro unsì famoso oratore, qual fu Isocrate. Ma non fu solo inquesta maniera che l'Italia aprì scuola di eloquenza allaGrecia.

XVII. Lisia e Gorgia, siracusano il primo,leontino il secondo, assai maggior lode ac-quistaronsi in Grecia. Di Lisia dice DionisioAlicarnasseo, che era di ventidue anni mag-

giore d'Isocrate (loc. cit.). Quindi egli dovette nascerecirca l'olimp. LXXX, quando appunto cominciava nellaSicilia a fiorire lo studio dell'eloquenza. Cicerone lodice ateniese (Brut. seu de Cl. Orat. n. 16): ma la piùparte degli antichi autori lo fanno siracusano; e con ra-gione, poichè come racconta Dionigi Alicarnasseo (Jud.de Lysia), siracusani erano i suoi genitori, benchè Cefa-lo di lui padre si trovasse in Atene quando egli vi nac-que. Fu discepolo di Tisia e di Nicia siracusani essipure, e in età di quindici anni venne a Turio nella MagnaGrecia. Quindi in età di circa quarantasette esiliato daTurio, perchè creduto troppo favorevole agli Ateniesi,andò a stabilirsi in Atene, e fu involto con suo grandepericolo nelle turbolenze che sconvolsero allora quellarepubblica. Poichè furon cessate, applicossi all'arte ora-toria, e cominciando a spiegare alle occasioni la sua elo-quenza, fu il primo che ne riscotesse ammirazione edapplauso. E in vero quanto valente oratore egli fosse, ilpossiamo raccogliere dal giudizio che ne fa Cicerone, ilquale leggiadrissimo scrittore lo chiama (De Orat. l. 3,

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Notizie delretore Li-sia.

to picciola gloria questa di aver avuto a suo scolaro unsì famoso oratore, qual fu Isocrate. Ma non fu solo inquesta maniera che l'Italia aprì scuola di eloquenza allaGrecia.

XVII. Lisia e Gorgia, siracusano il primo,leontino il secondo, assai maggior lode ac-quistaronsi in Grecia. Di Lisia dice DionisioAlicarnasseo, che era di ventidue anni mag-

giore d'Isocrate (loc. cit.). Quindi egli dovette nascerecirca l'olimp. LXXX, quando appunto cominciava nellaSicilia a fiorire lo studio dell'eloquenza. Cicerone lodice ateniese (Brut. seu de Cl. Orat. n. 16): ma la piùparte degli antichi autori lo fanno siracusano; e con ra-gione, poichè come racconta Dionigi Alicarnasseo (Jud.de Lysia), siracusani erano i suoi genitori, benchè Cefa-lo di lui padre si trovasse in Atene quando egli vi nac-que. Fu discepolo di Tisia e di Nicia siracusani essipure, e in età di quindici anni venne a Turio nella MagnaGrecia. Quindi in età di circa quarantasette esiliato daTurio, perchè creduto troppo favorevole agli Ateniesi,andò a stabilirsi in Atene, e fu involto con suo grandepericolo nelle turbolenze che sconvolsero allora quellarepubblica. Poichè furon cessate, applicossi all'arte ora-toria, e cominciando a spiegare alle occasioni la sua elo-quenza, fu il primo che ne riscotesse ammirazione edapplauso. E in vero quanto valente oratore egli fosse, ilpossiamo raccogliere dal giudizio che ne fa Cicerone, ilquale leggiadrissimo scrittore lo chiama (De Orat. l. 3,

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Notizie delretore Li-sia.

n. 7), dottissimo ed eloquentissimo, ed altrove lo dicescrittore ingegnoso ed elegante, e che quasi chiamarpotrebbesi perfetto oratore (De Clar. Orat. n. 9). Maniuna cosa meglio giova a farci conoscere il valore diLisia, quanto il giudizio formatone da Dionigi Alicar-nasseo che lui scelse per uno di que' sei famosi oratori,di cui per ammaestramento altrui volle egli esaminare edescrivere il carattere e le virtù. Egli dunque di Lisiadice che nell'eloquenza del favellare oscurò la gloria de-gli oratori tutti che finallora erano stati e che a que' tem-pi vivevano, e che ad assai pochi di quelli che vennerdopo fu inferiore. Quindi facendosi più addentro nel ca-rattere di questo insigne oratore, ne loda sommamente lapurezza dello stile, in cui dice che niuno de' posteri ilpotè mai superare, e che Isocrate solo giunse ad imitar-lo; la proprietà e la semplicità dell'espressione congiuntaa tal nobiltà che le cose ancor più volgari sembrinograndi e sublimi; la chiarezza del dire, l'abbondanza de'pensieri e de' sentimenti, ma in poche parole ristretti; nelche a Demostene stesso lo antepone; l'evidenza delle de-scrizioni, con cui par che ogni cosa ponga sotto l'occhiodegli uditori, e la renda loro presente; riflessione sul co-stume di coloro a cui si ragiona; forza nel persuadere;tutte in somma le virtù che in un perfetto orator si ri-chieggono, e che sì di raro trovansi in un solo congiunte.Un sol difetto trova egli in Lisia, cioè che nel commovi-mento degli affetti suol esser languido e debole, ed ab-bassarsi nel perorare più che a grave oratore non si con-viene. E questa fu la ragione per cui Socrate vicino ad

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n. 7), dottissimo ed eloquentissimo, ed altrove lo dicescrittore ingegnoso ed elegante, e che quasi chiamarpotrebbesi perfetto oratore (De Clar. Orat. n. 9). Maniuna cosa meglio giova a farci conoscere il valore diLisia, quanto il giudizio formatone da Dionigi Alicar-nasseo che lui scelse per uno di que' sei famosi oratori,di cui per ammaestramento altrui volle egli esaminare edescrivere il carattere e le virtù. Egli dunque di Lisiadice che nell'eloquenza del favellare oscurò la gloria de-gli oratori tutti che finallora erano stati e che a que' tem-pi vivevano, e che ad assai pochi di quelli che vennerdopo fu inferiore. Quindi facendosi più addentro nel ca-rattere di questo insigne oratore, ne loda sommamente lapurezza dello stile, in cui dice che niuno de' posteri ilpotè mai superare, e che Isocrate solo giunse ad imitar-lo; la proprietà e la semplicità dell'espressione congiuntaa tal nobiltà che le cose ancor più volgari sembrinograndi e sublimi; la chiarezza del dire, l'abbondanza de'pensieri e de' sentimenti, ma in poche parole ristretti; nelche a Demostene stesso lo antepone; l'evidenza delle de-scrizioni, con cui par che ogni cosa ponga sotto l'occhiodegli uditori, e la renda loro presente; riflessione sul co-stume di coloro a cui si ragiona; forza nel persuadere;tutte in somma le virtù che in un perfetto orator si ri-chieggono, e che sì di raro trovansi in un solo congiunte.Un sol difetto trova egli in Lisia, cioè che nel commovi-mento degli affetti suol esser languido e debole, ed ab-bassarsi nel perorare più che a grave oratore non si con-viene. E questa fu la ragione per cui Socrate vicino ad

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esser condannato a morte usar non volle di un'eloquenteorazione che Lisia a difenderlo avea composta; perchèindegna gli parve della filosofica gravità e di quella co-stanza d'animo, che avea fin allora serbata (Cic. l. deOrat. Laert. in Vit. Socr. Valer. Max. l. 8, c. 4). Ma nono-stante questo difetto non lascerà Lisia di esser conside-rato come uno de' più perfetti oratori che mai sorgesse-ro, e che coll'esempio suo formando venne ed animandotanti famosi oratori quanti poi vantonne la Grecia. Veg-gasi ancor l'elogio che di Lisia ci ha lasciato Fozio(Bibl. n. 262), il quale aggiugne che essendo egli assaispesso venuto a contesa di eloquenza co' suoi avversarj,due volte solo rimase vinto. Morì egli in Atene in età dicirca ottant'anni nella centesima olimpiade, due annidacchè era nato Demostene. Alcune orazioni da luicomposte ancor ci rimangono: più altre ne sono perite. Ititoli di queste e le diverse edizioni di quelle veder sipossono presso il Fabricio (Bibl. Græc. t. 1, p. 892, ec.).Ma intorno a Lisia veggasi la Vita scrittane da Plutarco,e quella che con somma diligenza ed erudizione ne hacomposta Giovanni Taylor, premessa alla bella edizioneda lui fatta delle Orazioni di Lisia in Londra l'anno1739.

XVIII. Al medesimo tempo ugual gloria edanche maggiore, benchè forse con minormerito, ottenne in Grecia un altro siciliano

oratore, cioè Gorgia leontino. Andovvi egli, come di so-

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E di Gorgialeontino.

esser condannato a morte usar non volle di un'eloquenteorazione che Lisia a difenderlo avea composta; perchèindegna gli parve della filosofica gravità e di quella co-stanza d'animo, che avea fin allora serbata (Cic. l. deOrat. Laert. in Vit. Socr. Valer. Max. l. 8, c. 4). Ma nono-stante questo difetto non lascerà Lisia di esser conside-rato come uno de' più perfetti oratori che mai sorgesse-ro, e che coll'esempio suo formando venne ed animandotanti famosi oratori quanti poi vantonne la Grecia. Veg-gasi ancor l'elogio che di Lisia ci ha lasciato Fozio(Bibl. n. 262), il quale aggiugne che essendo egli assaispesso venuto a contesa di eloquenza co' suoi avversarj,due volte solo rimase vinto. Morì egli in Atene in età dicirca ottant'anni nella centesima olimpiade, due annidacchè era nato Demostene. Alcune orazioni da luicomposte ancor ci rimangono: più altre ne sono perite. Ititoli di queste e le diverse edizioni di quelle veder sipossono presso il Fabricio (Bibl. Græc. t. 1, p. 892, ec.).Ma intorno a Lisia veggasi la Vita scrittane da Plutarco,e quella che con somma diligenza ed erudizione ne hacomposta Giovanni Taylor, premessa alla bella edizioneda lui fatta delle Orazioni di Lisia in Londra l'anno1739.

XVIII. Al medesimo tempo ugual gloria edanche maggiore, benchè forse con minormerito, ottenne in Grecia un altro siciliano

oratore, cioè Gorgia leontino. Andovvi egli, come di so-

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E di Gorgialeontino.

pra accennammo, ambasciatore della sua patria agli Ate-niesi per chieder loro soccorso contro de' Siracusanil'anno secondo dell'olimp. LXXXVII (34), cioè alcunianni prima del tempo in cui andovvi Lisia, il quale, se-condo che di sopra fu detto, dovette trasferirvisi versol'olimp. XCII. Quindi è che a Gorgia si attribuisce co-munemente la lode di aver il primo condotta l'eloquenzaa una perfezione a cui non era per anco arrivata. Il pri-mo saggio ch'ei diede di sua eloquenza, fu il felice esitodella sua ambasciata. Gli Ateniesi furon persuasi e mos-si dal siciliano oratore, e contro de' Siracusani presero learmi. Ma gli applausi degli Ateniesi dimenticar fecero aGorgia la sua patria; perciocchè, comunque Diodorodica che compita la sua ambasciata fece alla patria ritor-no, convien dire però che dopo non molto lunga dimoradi nuovo si rendesse ad Atene, ove è certo che aprì etenne lungamente scuola di eloquenza. L'onore da lui alprimo entrarvi acquistato, non che scemare, come spes-so accade, andò sempre aumentandosi. Appena sapevasiin Atene che Gorgia dovea favellare in pubblico, si ac-correva in folla ad udirlo, nè altrimenti era consideratoche come il dio della eloquenza.

34 Suida afferma che benchè Gorgia dicasi da Porfirio vissuto circa l'olimp.LXXX, ei fu nondimeno più antico. Ma come egli non ce ne arreca alcunaprova, così l'autorità di esso non basta a farci cambiare di sentimento. Diceancora ch'ei fu figlio di Carmantida scolaro di Empedocle, e maestro nonsolo di Isocrate, ma ancor di Polo da Girgenti, di Pericle, e di Alcidamanteelaita che gli fu successor nella scuola.

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pra accennammo, ambasciatore della sua patria agli Ate-niesi per chieder loro soccorso contro de' Siracusanil'anno secondo dell'olimp. LXXXVII (34), cioè alcunianni prima del tempo in cui andovvi Lisia, il quale, se-condo che di sopra fu detto, dovette trasferirvisi versol'olimp. XCII. Quindi è che a Gorgia si attribuisce co-munemente la lode di aver il primo condotta l'eloquenzaa una perfezione a cui non era per anco arrivata. Il pri-mo saggio ch'ei diede di sua eloquenza, fu il felice esitodella sua ambasciata. Gli Ateniesi furon persuasi e mos-si dal siciliano oratore, e contro de' Siracusani presero learmi. Ma gli applausi degli Ateniesi dimenticar fecero aGorgia la sua patria; perciocchè, comunque Diodorodica che compita la sua ambasciata fece alla patria ritor-no, convien dire però che dopo non molto lunga dimoradi nuovo si rendesse ad Atene, ove è certo che aprì etenne lungamente scuola di eloquenza. L'onore da lui alprimo entrarvi acquistato, non che scemare, come spes-so accade, andò sempre aumentandosi. Appena sapevasiin Atene che Gorgia dovea favellare in pubblico, si ac-correva in folla ad udirlo, nè altrimenti era consideratoche come il dio della eloquenza.

34 Suida afferma che benchè Gorgia dicasi da Porfirio vissuto circa l'olimp.LXXX, ei fu nondimeno più antico. Ma come egli non ce ne arreca alcunaprova, così l'autorità di esso non basta a farci cambiare di sentimento. Diceancora ch'ei fu figlio di Carmantida scolaro di Empedocle, e maestro nonsolo di Isocrate, ma ancor di Polo da Girgenti, di Pericle, e di Alcidamanteelaita che gli fu successor nella scuola.

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XIX. Ma è a vedere più particolarmente conqual lode di Gorgia parlano gli antichi greciscrittori, da' quali ancora vedremo di qualgenere d'eloquenza egli si compiacesse, cioèdi un colto e ornato stile, pieno di figure, di

grazie, di vezzi d'ogni maniera, per cui ancora venneegli da molti tacciato, come vedremo. Diodoro Siculodunque così di lui dice (l. 12, p. 513, ec. edit. Amstel.1745): "Gorgia nell'arte del ragionare superò i più elo-quenti uomini dell'età sua. Trovò egli il primo parecchiartificj oratorj, e nello studio e nella professione di unasublime eloquenza così sopra gli altri si rendè celebre echiaro, che a mercede delle sue lezioni cento mine ei ri-ceveva da ciascheduno de' suoi discepoli (corrispondonoa un dipresso a mille scudi romani). Egli entrato in Ate-ne, e ottenuta udienza dal popolo, colla nuova sua e nonpiù usata maniera di favellare commosse per tal modogli animi degli Ateniesi, uomini per altro ingegnosi e sìstudiosi dell'eloquenza, che da stupore e da maravigliarimaser compresi. Perciocchè egli il primo figure e anti-tesi e consonanze e armonie e vezzi nuovi introdusse; lequali cose erano allora per la novità ammirate; ma orasembrano ricercate di troppo, e quando sieno soverchia-mente usate, risvegliano anzi le risa, e generan noia".Aggiungasi l'elogio che dello stesso Gorgia ha lasciatoFilostrato. "A Gorgia, dice egli (De Vitis Sophist. l. 1), iopenso che come ad inventore di essa attribuire si debbal'arte de' Sofisti, perciocchè egli fu che introdusse l'orna-mento nel ragionare, e una nuova maniera di favellare

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Elogj che ne fanno gliantichi scrittori.

XIX. Ma è a vedere più particolarmente conqual lode di Gorgia parlano gli antichi greciscrittori, da' quali ancora vedremo di qualgenere d'eloquenza egli si compiacesse, cioèdi un colto e ornato stile, pieno di figure, di

grazie, di vezzi d'ogni maniera, per cui ancora venneegli da molti tacciato, come vedremo. Diodoro Siculodunque così di lui dice (l. 12, p. 513, ec. edit. Amstel.1745): "Gorgia nell'arte del ragionare superò i più elo-quenti uomini dell'età sua. Trovò egli il primo parecchiartificj oratorj, e nello studio e nella professione di unasublime eloquenza così sopra gli altri si rendè celebre echiaro, che a mercede delle sue lezioni cento mine ei ri-ceveva da ciascheduno de' suoi discepoli (corrispondonoa un dipresso a mille scudi romani). Egli entrato in Ate-ne, e ottenuta udienza dal popolo, colla nuova sua e nonpiù usata maniera di favellare commosse per tal modogli animi degli Ateniesi, uomini per altro ingegnosi e sìstudiosi dell'eloquenza, che da stupore e da maravigliarimaser compresi. Perciocchè egli il primo figure e anti-tesi e consonanze e armonie e vezzi nuovi introdusse; lequali cose erano allora per la novità ammirate; ma orasembrano ricercate di troppo, e quando sieno soverchia-mente usate, risvegliano anzi le risa, e generan noia".Aggiungasi l'elogio che dello stesso Gorgia ha lasciatoFilostrato. "A Gorgia, dice egli (De Vitis Sophist. l. 1), iopenso che come ad inventore di essa attribuire si debbal'arte de' Sofisti, perciocchè egli fu che introdusse l'orna-mento nel ragionare, e una nuova maniera di favellare

225

Elogj che ne fanno gliantichi scrittori.

maravigliosa e vivace, magnifica e figurata. Usava an-cora sovente ad eleganza e a gravità maggiore, di poeti-che locuzioni. In qual maniera con somma facilità par-lasse egli anche d'improvviso, sul principio di questotrattato si è detto" (cioè che Gorgia, come altri ancoraraccontano, pronto si offeriva a ragionare sul punto diqualunque argomento gli si proponesse). "Quindi non èa stupire ch'egli fosse udito con maraviglia, quando giàvecchio insegnava la rettorica in Atene. Egli certo tene-va dal suo ragionare pendenti e sospesi i più dotti uomi-ni de' suoi tempi, Critia ed Alcibiade allor giovani, e Tu-cidide e Pericle già in età avanzati". Un somigliante elo-gio fa di lui Pausania (Descript. Græc. l. 6, c. 18), ch'ioper brevità tralascio. Dionigi Alicarnasseo finalmente,benchè il soverchio uso delle figure e l'eccessivo orna-mento riprenda in Gorgia, ne parla nondimeno soventecome di grande e maraviglioso oratore, il chiama uomoper sapere celebratissimo in Grecia, e maestro d'Isocrate(Judic. de Isocr.); e parlando di Demostene, dice (Deadmir. vi dicendi in Demost.) ch'egli da Tucidide e daGorgia apprese la magnificenza, la gravità, lo splendoredel favellare.

XX. Tal fama in somma erasi acquistataGorgia presso gli antichi Greci che, comenarra Filostrato (epist. 13.), erasi formata la

parola γοργιαζειν, come diremmo noi, gorgiare, a dino-tare coloro che profession facevano di eloquenza. I

226

Onori da lui ottenuti.

maravigliosa e vivace, magnifica e figurata. Usava an-cora sovente ad eleganza e a gravità maggiore, di poeti-che locuzioni. In qual maniera con somma facilità par-lasse egli anche d'improvviso, sul principio di questotrattato si è detto" (cioè che Gorgia, come altri ancoraraccontano, pronto si offeriva a ragionare sul punto diqualunque argomento gli si proponesse). "Quindi non èa stupire ch'egli fosse udito con maraviglia, quando giàvecchio insegnava la rettorica in Atene. Egli certo tene-va dal suo ragionare pendenti e sospesi i più dotti uomi-ni de' suoi tempi, Critia ed Alcibiade allor giovani, e Tu-cidide e Pericle già in età avanzati". Un somigliante elo-gio fa di lui Pausania (Descript. Græc. l. 6, c. 18), ch'ioper brevità tralascio. Dionigi Alicarnasseo finalmente,benchè il soverchio uso delle figure e l'eccessivo orna-mento riprenda in Gorgia, ne parla nondimeno soventecome di grande e maraviglioso oratore, il chiama uomoper sapere celebratissimo in Grecia, e maestro d'Isocrate(Judic. de Isocr.); e parlando di Demostene, dice (Deadmir. vi dicendi in Demost.) ch'egli da Tucidide e daGorgia apprese la magnificenza, la gravità, lo splendoredel favellare.

XX. Tal fama in somma erasi acquistataGorgia presso gli antichi Greci che, comenarra Filostrato (epist. 13.), erasi formata la

parola γοργιαζειν, come diremmo noi, gorgiare, a dino-tare coloro che profession facevano di eloquenza. I

226

Onori da lui ottenuti.

Leontini conoscendo qual onore avesse Gorgia alla lorpatria recato, una medaglia coniarono a onorarne la me-moria e il nome, nel cui rovescio vedesi il capo di Apol-line. Ella è stata pubblicata nel secondo tomo del MuseoBritannico. Un altro ancora più onorevole monumentofu a Gorgia innalzato mentre tuttor vivea; cioè una sta-tua d'oro nel tempio d'Apolline Pitio in Delfo. Questa datutta la numerosissima adunanza che udita aveva l'ora-zione da lui pronunziata in occasione de' solenni giuochiche vi si soleano celebrare, gli fu con universal consen-timento decretata: così ne assicurano Cicerone (l. 3 deOrat. n. 154), Valerio Massimo (l. 8, c. 15), Filostrato(Vit. Sophist. l. 1), Platone (in Gorgia), che certo non fuadulatore di Gorgia, come or ora vedremo. Quindi nondee credersi a Plinio che asserì (Hist. Nat. l. 33, c. 4)averla Gorgia, consentendolo il popolo, a se medesimoinnalzata. Pausania dice (Descript. Græc. l. 10, c. 18)che dorata solamente fu questa statua; ma tutti gli altriautori sopraccitati affermano ch'ella fu tutta d'oro. Bastiqui recare il testimonio di Cicerone: Cui (Gorgiæ) tan-tus honos habitus est a Græcia, soli ut ex omnibus Del-phis non inaurata statua, sed aurea statueretur. Il qualsingolare ed unico onore conceduto a Gorgia è argomen-to chiarissimo di unico e singolar merito in lui dallaGrecia tutta riconosciuto.

XXI. Non vuolsi però a questo luogo dissi-mulare che Platone non parlò di Gorgia in

227

Per qual motivo Pla-tone sembriparlarne con biasi-mo.

Leontini conoscendo qual onore avesse Gorgia alla lorpatria recato, una medaglia coniarono a onorarne la me-moria e il nome, nel cui rovescio vedesi il capo di Apol-line. Ella è stata pubblicata nel secondo tomo del MuseoBritannico. Un altro ancora più onorevole monumentofu a Gorgia innalzato mentre tuttor vivea; cioè una sta-tua d'oro nel tempio d'Apolline Pitio in Delfo. Questa datutta la numerosissima adunanza che udita aveva l'ora-zione da lui pronunziata in occasione de' solenni giuochiche vi si soleano celebrare, gli fu con universal consen-timento decretata: così ne assicurano Cicerone (l. 3 deOrat. n. 154), Valerio Massimo (l. 8, c. 15), Filostrato(Vit. Sophist. l. 1), Platone (in Gorgia), che certo non fuadulatore di Gorgia, come or ora vedremo. Quindi nondee credersi a Plinio che asserì (Hist. Nat. l. 33, c. 4)averla Gorgia, consentendolo il popolo, a se medesimoinnalzata. Pausania dice (Descript. Græc. l. 10, c. 18)che dorata solamente fu questa statua; ma tutti gli altriautori sopraccitati affermano ch'ella fu tutta d'oro. Bastiqui recare il testimonio di Cicerone: Cui (Gorgiæ) tan-tus honos habitus est a Græcia, soli ut ex omnibus Del-phis non inaurata statua, sed aurea statueretur. Il qualsingolare ed unico onore conceduto a Gorgia è argomen-to chiarissimo di unico e singolar merito in lui dallaGrecia tutta riconosciuto.

XXI. Non vuolsi però a questo luogo dissi-mulare che Platone non parlò di Gorgia in

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Per qual motivo Pla-tone sembriparlarne con biasi-mo.

maniera vantaggiosa molto e onorevole, anzi pare che ilDialogo, a cui egli da Gorgia stesso diede il nome, fosseda lui scritto e divulgato per mettere in derisione un sìvalente oratore. Sul qual Dialogo bellissima è la rifles-sione di Cicerone: "Io l'ho letto attentatamente, dice egli(l. 1 de Orat. n. 89.), e in esso parmi singolarmente de-gno di maraviglia che, mentre Platone si ride degli ora-tori, mostrasi egli stesso un orator facondissimo". Mafacil cosa è ad intendere per qual ragione si conducesseegli a scriver di Gorgia così. Aveva Gorgia, come si èdetto, uno stile gaio al sommo e fiorito e pieno di vezzi;e cogl'ingegnosi riscontri e con altre somiglianti figure,di cui piacevasi, congiunte alla grazia del favellare, pa-reva capace di persuadere al popolo qualunque cosa piùgli piacesse, e condurlo ancora a dannose ed ingiuste ri-soluzioni. Quindi il severo Platone attento ad allontana-re dalla Repubblica ogni pericolo di rovina, giudicò didovere screditare e deridere un'eloquenza ch'ei temevache potesse un giorno riuscirle funesta e dannosa. Aquesta ragione non potremmo noi forse aggiugnerneun'altra ancora, e non ci sarebbe egli lecito di sospettareche anche il divino Platone non fosse del tutto esente dagelosia e da invidia, e che veggendo forse la scuola diGorgia più che la sua frequentata (poichè a qualche tem-po vissero insieme), ne fosse alquanto dolente, e checercasse così di porre in qualche discredito il suo rivale?Certo che di tali debolezze in que' famosi antichi filosofinoi veggiamo non rari esempj. Ma ciò non ostante Pla-tone medesimo favellò altrove di Gorgia non senza lode:

228

maniera vantaggiosa molto e onorevole, anzi pare che ilDialogo, a cui egli da Gorgia stesso diede il nome, fosseda lui scritto e divulgato per mettere in derisione un sìvalente oratore. Sul qual Dialogo bellissima è la rifles-sione di Cicerone: "Io l'ho letto attentatamente, dice egli(l. 1 de Orat. n. 89.), e in esso parmi singolarmente de-gno di maraviglia che, mentre Platone si ride degli ora-tori, mostrasi egli stesso un orator facondissimo". Mafacil cosa è ad intendere per qual ragione si conducesseegli a scriver di Gorgia così. Aveva Gorgia, come si èdetto, uno stile gaio al sommo e fiorito e pieno di vezzi;e cogl'ingegnosi riscontri e con altre somiglianti figure,di cui piacevasi, congiunte alla grazia del favellare, pa-reva capace di persuadere al popolo qualunque cosa piùgli piacesse, e condurlo ancora a dannose ed ingiuste ri-soluzioni. Quindi il severo Platone attento ad allontana-re dalla Repubblica ogni pericolo di rovina, giudicò didovere screditare e deridere un'eloquenza ch'ei temevache potesse un giorno riuscirle funesta e dannosa. Aquesta ragione non potremmo noi forse aggiugnerneun'altra ancora, e non ci sarebbe egli lecito di sospettareche anche il divino Platone non fosse del tutto esente dagelosia e da invidia, e che veggendo forse la scuola diGorgia più che la sua frequentata (poichè a qualche tem-po vissero insieme), ne fosse alquanto dolente, e checercasse così di porre in qualche discredito il suo rivale?Certo che di tali debolezze in que' famosi antichi filosofinoi veggiamo non rari esempj. Ma ciò non ostante Pla-tone medesimo favellò altrove di Gorgia non senza lode:

228

"Venne allora, dic'egli (in Hippia maiore), quel Gorgialeontino Sofista mandato con pubblica ambasciata da'suoi, come il più opportuno a trattar gli affari che a queltempo correvano. Fu giudicato dal popolo buon parlato-re; e privatamente ancora die' saggio del suo valore neldeclamare, e ammaestrando i giovani non poco denarodi questa città ei raccolse". Intorno al sentimento di Pla-tone per riguardo a Gorgia si può vedere ciò che diffusa-mente ed eruditamente ne dice m. Gibert nel Giudiziode' Dotti che han trattato della rettorica, che formal'ottavo tomo del Giudizio de' Dotti di m. Bailletdell'edizione di Amsterdam. Ma qualunque fosse il sen-timento di Platone intorno a Gorgia, egli è certo ch'ei fuallora e poscia considerato come uno de' primi padri emaestri dell'eloquenza. Ed ella è certamente cosad'immortal lode all'Italia, che i tre valenti oratori, de'quali abbiam finora parlato, sieno stati quelli che allaGrecia han recato il buon gusto dell'eloquenza, e su' cuiesempj e precetti si son formati un Isocrate, un Demo-stene, e tanti altri famosi oratori che negli anni seguentifiorirono in Grecia.

XXII. Assai lunga vita ebbe Gorgia. Cicero-ne gli dà 107 anni (De Senect.), uno di piùgliene aggiugne Filostrato (Vit. Soph. l. 1), e

un altro ancora di più Quintiliano (l. 3, c. 1). Di lui ci ri-mangono solamente l'encomio di Elena, e l'Apologia diPalamede. Vi ha chi pensa ch'egli più che Isocrate aves-

229

Sua morte, e sue opere.

"Venne allora, dic'egli (in Hippia maiore), quel Gorgialeontino Sofista mandato con pubblica ambasciata da'suoi, come il più opportuno a trattar gli affari che a queltempo correvano. Fu giudicato dal popolo buon parlato-re; e privatamente ancora die' saggio del suo valore neldeclamare, e ammaestrando i giovani non poco denarodi questa città ei raccolse". Intorno al sentimento di Pla-tone per riguardo a Gorgia si può vedere ciò che diffusa-mente ed eruditamente ne dice m. Gibert nel Giudiziode' Dotti che han trattato della rettorica, che formal'ottavo tomo del Giudizio de' Dotti di m. Bailletdell'edizione di Amsterdam. Ma qualunque fosse il sen-timento di Platone intorno a Gorgia, egli è certo ch'ei fuallora e poscia considerato come uno de' primi padri emaestri dell'eloquenza. Ed ella è certamente cosad'immortal lode all'Italia, che i tre valenti oratori, de'quali abbiam finora parlato, sieno stati quelli che allaGrecia han recato il buon gusto dell'eloquenza, e su' cuiesempj e precetti si son formati un Isocrate, un Demo-stene, e tanti altri famosi oratori che negli anni seguentifiorirono in Grecia.

XXII. Assai lunga vita ebbe Gorgia. Cicero-ne gli dà 107 anni (De Senect.), uno di piùgliene aggiugne Filostrato (Vit. Soph. l. 1), e

un altro ancora di più Quintiliano (l. 3, c. 1). Di lui ci ri-mangono solamente l'encomio di Elena, e l'Apologia diPalamede. Vi ha chi pensa ch'egli più che Isocrate aves-

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Sua morte, e sue opere.

se parte al famoso Panegirico che a questo si attribuisce.Ma forse altro fondamento non vi ha a dubitarne, che laprobabilità che Isocrate si valesse a comporlo, del consi-glio e dell'aiuto di Gorgia suo maestro.

XXIII. L'esempio di questi celebri oratoripareva che risvegliar dovesse gli animi de'Siciliani allo studio dell'eloquenza, e chia-mar molti a seguitarne le tracce. Ma le fune-ste guerre che allor desolavano la Sicilia, losconvolgimento in cui essa era per l'usurpa-

zion de' Tiranni, e finalmente il divenir soggetta alla ro-mana repubblica, interruppe e troncò affatto il corso allebell'arti che in Sicilia sarebbon certo fiorite mirabilmen-te, e i Greci soli furono quelli che dell'eloquenza de' Si-ciliani profittarono. Così pare che fosse fin da quel tem-po il destino infelice della nostra Italia, che l'ingegno eil sapere de' suoi più agli stranieri giovasse che a lei me-desima, e che altri popoli, dopo avere dagl'Italiani ap-prese le scienze dimenticassero ed insultassero ancora iloro maestri (35).

XXIV. Rimane ancora a dir qualche cosadegli storici che l'antica Sicilia produsse.

35 Qualche recente scrittore ha voluto aggiugnere una nuova gloria alla Ma-gna Grecia, affermando come cosa indubitabile e certa che Demostenevenne a finire i suoi giorni nella Calabria. Ma io mi maraviglio che unuomo erudito abbia potuto prendere un sì solenne equivoco, poichè bastaleggere attentamente gli antichi scrittori greci per riconoscere ch'essi parla-no di una picciola isoletta del mare Egeo detta Calauria, in cui Demostenerifugiossi, quando vide Atene vicina a cadere sotto il dominio di Antipatro,e ove poscia col veleno si uccise.

230

L'eloquen-za decade presto in Sicilia, e per qual ra-gione.

Storici anti-chi della Sicilia.

se parte al famoso Panegirico che a questo si attribuisce.Ma forse altro fondamento non vi ha a dubitarne, che laprobabilità che Isocrate si valesse a comporlo, del consi-glio e dell'aiuto di Gorgia suo maestro.

XXIII. L'esempio di questi celebri oratoripareva che risvegliar dovesse gli animi de'Siciliani allo studio dell'eloquenza, e chia-mar molti a seguitarne le tracce. Ma le fune-ste guerre che allor desolavano la Sicilia, losconvolgimento in cui essa era per l'usurpa-

zion de' Tiranni, e finalmente il divenir soggetta alla ro-mana repubblica, interruppe e troncò affatto il corso allebell'arti che in Sicilia sarebbon certo fiorite mirabilmen-te, e i Greci soli furono quelli che dell'eloquenza de' Si-ciliani profittarono. Così pare che fosse fin da quel tem-po il destino infelice della nostra Italia, che l'ingegno eil sapere de' suoi più agli stranieri giovasse che a lei me-desima, e che altri popoli, dopo avere dagl'Italiani ap-prese le scienze dimenticassero ed insultassero ancora iloro maestri (35).

XXIV. Rimane ancora a dir qualche cosadegli storici che l'antica Sicilia produsse.

35 Qualche recente scrittore ha voluto aggiugnere una nuova gloria alla Ma-gna Grecia, affermando come cosa indubitabile e certa che Demostenevenne a finire i suoi giorni nella Calabria. Ma io mi maraviglio che unuomo erudito abbia potuto prendere un sì solenne equivoco, poichè bastaleggere attentamente gli antichi scrittori greci per riconoscere ch'essi parla-no di una picciola isoletta del mare Egeo detta Calauria, in cui Demostenerifugiossi, quando vide Atene vicina a cadere sotto il dominio di Antipatro,e ove poscia col veleno si uccise.

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L'eloquen-za decade presto in Sicilia, e per qual ra-gione.

Storici anti-chi della Sicilia.

Basta leggere Diodoro Siculo per vedere quanti essi fos-sero, e per comprendere quanto danno ci abbia recato laperdita che di essi abbiam fatta. Noi vi veggiam nomi-nato un Antioco siracusano (l. 12, p. 322), cui egli chia-ma scrittor nobile delle cose siciliane, un Atana pur si-racusano (l. 15, p. 507), che tredici volumi di storia aveascritti, un Ermea metimneo (ib. p. 476), e Callia siracu-sano (36), e Antandro fratel di Agatocle (Eclog. ex. l. 21),ed altri molti. "Anche la geografia ebbe un Cleone sici-liano, che talvolta vedesi nominato ne' minori geografigreci pubblicati dall'Hudson (vol. 1 in Marcia, p. 63.vol. 2 in Scymn. p. 7)". Quelli però tra gli storici sicilianiche salirono a maggior fama, furono Filisto siracusano,Timeo di Taormina, e Diodoro. Del primo parlano conlode Cicerone e Dionigi d'Alicarnasso; benchèquest'ultimo di alcuni difetti il riprenda. Piacemi di recarqui il giudizio di questo valentuomo, uno certamente de'più dotti scrittori dell'antichità: "Filisto, dice egli (Epistad Pomp. de præcip. historicis), pare che più si accosti aTucidide, e che ad esempio di lui abbia preso ad ornareil suo stile... Ma non è già ottimo l'ordine con cui egliscrisse la Storia; anzi essa è oscura, e non leggesi senzadifficoltà maggiore assai che non Tucidide". Quindi no-tati in lui alcuni difetti conchiude: "Per altro nel descri-

36 Di Callia parla più a lungo Diodoro ne' frammenti pubblicatine dal Vale-sio, e ne parla anche Suidia narrando che poco buon nome ottenne collasua Storia, perciocchè avendogli il tiranno Agatocle fatti copiosi doni, pe'quali aveva radunate grandi ricchezze, prostituì vilmente la storica sinceri-tà, e ricolmò di non meritate lodi un principe che a tutti i sudditi era per lasua crudeltà odiosissimo.

231

Basta leggere Diodoro Siculo per vedere quanti essi fos-sero, e per comprendere quanto danno ci abbia recato laperdita che di essi abbiam fatta. Noi vi veggiam nomi-nato un Antioco siracusano (l. 12, p. 322), cui egli chia-ma scrittor nobile delle cose siciliane, un Atana pur si-racusano (l. 15, p. 507), che tredici volumi di storia aveascritti, un Ermea metimneo (ib. p. 476), e Callia siracu-sano (36), e Antandro fratel di Agatocle (Eclog. ex. l. 21),ed altri molti. "Anche la geografia ebbe un Cleone sici-liano, che talvolta vedesi nominato ne' minori geografigreci pubblicati dall'Hudson (vol. 1 in Marcia, p. 63.vol. 2 in Scymn. p. 7)". Quelli però tra gli storici sicilianiche salirono a maggior fama, furono Filisto siracusano,Timeo di Taormina, e Diodoro. Del primo parlano conlode Cicerone e Dionigi d'Alicarnasso; benchèquest'ultimo di alcuni difetti il riprenda. Piacemi di recarqui il giudizio di questo valentuomo, uno certamente de'più dotti scrittori dell'antichità: "Filisto, dice egli (Epistad Pomp. de præcip. historicis), pare che più si accosti aTucidide, e che ad esempio di lui abbia preso ad ornareil suo stile... Ma non è già ottimo l'ordine con cui egliscrisse la Storia; anzi essa è oscura, e non leggesi senzadifficoltà maggiore assai che non Tucidide". Quindi no-tati in lui alcuni difetti conchiude: "Per altro nel descri-

36 Di Callia parla più a lungo Diodoro ne' frammenti pubblicatine dal Vale-sio, e ne parla anche Suidia narrando che poco buon nome ottenne collasua Storia, perciocchè avendogli il tiranno Agatocle fatti copiosi doni, pe'quali aveva radunate grandi ricchezze, prostituì vilmente la storica sinceri-tà, e ricolmò di non meritate lodi un principe che a tutti i sudditi era per lasua crudeltà odiosissimo.

231

vere le battaglie egli è miglior di Tucidide". Di Timeodiversi sono i pareri degli antichi scrittori, (de' quali chimolto il loda, che il biasima. Convien dunque dire che amolte virtù uniti ancora avesse molti difetti. Deesi peròattribuirgli a gran lode ch'egli il primo introducesse nel-la storia l'uso delle olimpiadi, il quale ad accertare leepoche arreca maraviglioso vantaggio. Quindi di luidice a ragione Diodoro (l. 5 sub. init.): Timæus in tem-porum notatione exquisitam adhibuit diligentiam (37).

XXV. Le opere di tutti questi scrittori sonoinfelicemente perite. Diodoro è il solo checi rimanga, e l'ultimo tra gli storici siciliani

antichi, perchè vivuto al tempo di Cesare. Perciocchèquanto a Temistogene, a cui m. de Burigny vorrebbe at-tribuire (Hist. de Sicil. t. 1, p. 25.) la Ritirata de' dieci-mila, che trovasi tra le opere di Senofonte, ella non ècosa nè certa, nè abbastanza probabile ch'ei ne sia auto-re; e nella raccolta di opuscoli intitolata Variétés Litté-raires leggesi (t. 4, p. 400) una bella dissertazione sul37 Oltre gli scrittori di storia qui indicati, alcuni altri ne troviam rammentati

in Suida, e singolarmente un Ipi da Reggio, che a' tempi, dice egli, delleguerre persiane (e volle forse dire di quelle contro di Perseo) fu il primo aillustrare le cose siciliane, e cinque libri di Storia ne scrisse, e ci lasciò in-noltre altri libri sulle origini, ossia su' primi abitatori d'Italia, sulla cronolo-gia, sulle storie de' Greci, ec., un Lico, detto ancor Butea, parimenti daReggio, padre del tragico Licofrone (che però in altro luogo dicesi da Sui-da figlio solo adottivo di Lico) che visse a' tempi d'Alessandro il grande, escrisse le Storie della Libia e della Sicilia, e un Polo da Girgenti, che cidiede una Genealogia di tutti i capitani ch'erano stati alla guerra di Troia, ela Storia delle loro vicende.

232

Notizie di Diodoro.

vere le battaglie egli è miglior di Tucidide". Di Timeodiversi sono i pareri degli antichi scrittori, (de' quali chimolto il loda, che il biasima. Convien dunque dire che amolte virtù uniti ancora avesse molti difetti. Deesi peròattribuirgli a gran lode ch'egli il primo introducesse nel-la storia l'uso delle olimpiadi, il quale ad accertare leepoche arreca maraviglioso vantaggio. Quindi di luidice a ragione Diodoro (l. 5 sub. init.): Timæus in tem-porum notatione exquisitam adhibuit diligentiam (37).

XXV. Le opere di tutti questi scrittori sonoinfelicemente perite. Diodoro è il solo checi rimanga, e l'ultimo tra gli storici siciliani

antichi, perchè vivuto al tempo di Cesare. Perciocchèquanto a Temistogene, a cui m. de Burigny vorrebbe at-tribuire (Hist. de Sicil. t. 1, p. 25.) la Ritirata de' dieci-mila, che trovasi tra le opere di Senofonte, ella non ècosa nè certa, nè abbastanza probabile ch'ei ne sia auto-re; e nella raccolta di opuscoli intitolata Variétés Litté-raires leggesi (t. 4, p. 400) una bella dissertazione sul37 Oltre gli scrittori di storia qui indicati, alcuni altri ne troviam rammentati

in Suida, e singolarmente un Ipi da Reggio, che a' tempi, dice egli, delleguerre persiane (e volle forse dire di quelle contro di Perseo) fu il primo aillustrare le cose siciliane, e cinque libri di Storia ne scrisse, e ci lasciò in-noltre altri libri sulle origini, ossia su' primi abitatori d'Italia, sulla cronolo-gia, sulle storie de' Greci, ec., un Lico, detto ancor Butea, parimenti daReggio, padre del tragico Licofrone (che però in altro luogo dicesi da Sui-da figlio solo adottivo di Lico) che visse a' tempi d'Alessandro il grande, escrisse le Storie della Libia e della Sicilia, e un Polo da Girgenti, che cidiede una Genealogia di tutti i capitani ch'erano stati alla guerra di Troia, ela Storia delle loro vicende.

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Notizie di Diodoro.

carattere e sull'opere di Senofonte, in cui si prova cheanche di quell'opera egli è l'autore. Or quanto a Diodo-ro, quaranta erano i libri di Storia, ch'egli avea scritti inlingua greca, e in uno stile elegante e colto ad un tempoe semplice e chiaro, come dice Fozio (Bibl. n. 70), ma agrande nostro danno quindici soli ce ne sono rimasti.Egli è vero che nella Storia greca e più ancora nella ro-mana egli ha commessi non pochi nè leggeri errori. Main ciò che alla sua patria appartiene, non lascia egli diesser tenuto in conto di accurato e colto scrittore. E cosìcerto doveva essere; perciocchè nella prefazione alla suaStoria egli racconta di avere a bella posta viaggiato pergran parte dell'Asia e dell'Europa e nell'Egitto ancoraper iscrivere con fondamento le cose che toccar dovevanella sua Storia; e leggendo questa si vede quanti autoriavesse egli avuti tra le mani, e diligentemente esaminati.Quindi a ragione dice il Fabricio (Bibl. Græc. t. 2, p.772) pochi scrittori avervi, da' quali sì gran luce a fissarl'ordin de' tempi e la serie degli avvenimenti si possatrarre, quanta da Diodoro, benchè la minor parte solodella sua opera sia a noi pervenuta.

XXVI. La mitologia per ultimo o sia la sto-ria delle favolose divinità fu da' Siciliani il-lustrata, ed Evemero di Messina forse primadi ogni altro ne scrisse un libro che poi fuda Ennio recato in latino. Ne abbiamo uncerto testimonio in Lattanzio. "Evemero,

233

Evemero siciliano forse il pri-mo scrittoredi mitolo-gia.

carattere e sull'opere di Senofonte, in cui si prova cheanche di quell'opera egli è l'autore. Or quanto a Diodo-ro, quaranta erano i libri di Storia, ch'egli avea scritti inlingua greca, e in uno stile elegante e colto ad un tempoe semplice e chiaro, come dice Fozio (Bibl. n. 70), ma agrande nostro danno quindici soli ce ne sono rimasti.Egli è vero che nella Storia greca e più ancora nella ro-mana egli ha commessi non pochi nè leggeri errori. Main ciò che alla sua patria appartiene, non lascia egli diesser tenuto in conto di accurato e colto scrittore. E cosìcerto doveva essere; perciocchè nella prefazione alla suaStoria egli racconta di avere a bella posta viaggiato pergran parte dell'Asia e dell'Europa e nell'Egitto ancoraper iscrivere con fondamento le cose che toccar dovevanella sua Storia; e leggendo questa si vede quanti autoriavesse egli avuti tra le mani, e diligentemente esaminati.Quindi a ragione dice il Fabricio (Bibl. Græc. t. 2, p.772) pochi scrittori avervi, da' quali sì gran luce a fissarl'ordin de' tempi e la serie degli avvenimenti si possatrarre, quanta da Diodoro, benchè la minor parte solodella sua opera sia a noi pervenuta.

XXVI. La mitologia per ultimo o sia la sto-ria delle favolose divinità fu da' Siciliani il-lustrata, ed Evemero di Messina forse primadi ogni altro ne scrisse un libro che poi fuda Ennio recato in latino. Ne abbiamo uncerto testimonio in Lattanzio. "Evemero,

233

Evemero siciliano forse il pri-mo scrittoredi mitolo-gia.

egli dice (De fals. Relig. l. 1, c. 11), autore antico cheper patria ebbe Messina, raccolse le cose operate daGiove e dagli altri che son creduti dei, da' titoli e dalleiscrizioni sacre che ne' più antichi tempj trovavansi, e neformò una Storia, usando singolarmente del tempio diGiove Trifilio, ove l'iscrizione indicava da Giove mede-simo essere stata inalzata una colonna d'oro, in cui leimprese sue aveva egli stesso descritte perchè memoriaa' posteri ne rimanesse. Questa Storia fu da Ennio tra-dotta, e continuata, ec." Così Lattanzio, il quale posciaalcuni passi allega di tale storia. Io so che altri altra pa-tria danno ad Evemero, ma penso che in tanta lontanan-za di tempi ogni opinione abbia la stessa forza (38).

XXVII. Ciò che degli studj de' Siciliani ede' popoli della Grecia Grande detto abbia-mo finora, basta certamente a farci conosce-re quanto colti essi fossero, e in ogni generedi scienza e di letteratura versati, e quanto

da questi abitatori d'Italia prendesser que' Greci, i qualiper altro si davano il vanto di essere stati di quasi tutte

38 Intorno a tutti questi e più altri scrittori che nella Magna Grecia e nella Si-cilie fiorirono in questi tempi, molte notizie ci ha date Costantino Lascarinel suo opuscolo: De Scriptoribus Græcis patria Siculis, pubblicato già dalMaurolico, poi dal Fabricio, e più recentemente dall'ab. Zaccheria (Bibliot.di Stor. Lett. t. 3, Sem. 2. p. 408, ec.) con un altro più compendioso sullostesso argomento de' Greci Siciliani, che era già stato pubblicato nelle Me-morie per servire alla Storia Letteraria di Sicilia (t. 1, art. 14). Di alcuniperò di essi io non trovo menzione presso i più antichi scrittori, e non so suquale autorità abbiane il Lascari favellato.

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Arti liberalicoltivate da' Sicilia-ni.

egli dice (De fals. Relig. l. 1, c. 11), autore antico cheper patria ebbe Messina, raccolse le cose operate daGiove e dagli altri che son creduti dei, da' titoli e dalleiscrizioni sacre che ne' più antichi tempj trovavansi, e neformò una Storia, usando singolarmente del tempio diGiove Trifilio, ove l'iscrizione indicava da Giove mede-simo essere stata inalzata una colonna d'oro, in cui leimprese sue aveva egli stesso descritte perchè memoriaa' posteri ne rimanesse. Questa Storia fu da Ennio tra-dotta, e continuata, ec." Così Lattanzio, il quale posciaalcuni passi allega di tale storia. Io so che altri altra pa-tria danno ad Evemero, ma penso che in tanta lontanan-za di tempi ogni opinione abbia la stessa forza (38).

XXVII. Ciò che degli studj de' Siciliani ede' popoli della Grecia Grande detto abbia-mo finora, basta certamente a farci conosce-re quanto colti essi fossero, e in ogni generedi scienza e di letteratura versati, e quanto

da questi abitatori d'Italia prendesser que' Greci, i qualiper altro si davano il vanto di essere stati di quasi tutte

38 Intorno a tutti questi e più altri scrittori che nella Magna Grecia e nella Si-cilie fiorirono in questi tempi, molte notizie ci ha date Costantino Lascarinel suo opuscolo: De Scriptoribus Græcis patria Siculis, pubblicato già dalMaurolico, poi dal Fabricio, e più recentemente dall'ab. Zaccheria (Bibliot.di Stor. Lett. t. 3, Sem. 2. p. 408, ec.) con un altro più compendioso sullostesso argomento de' Greci Siciliani, che era già stato pubblicato nelle Me-morie per servire alla Storia Letteraria di Sicilia (t. 1, art. 14). Di alcuniperò di essi io non trovo menzione presso i più antichi scrittori, e non so suquale autorità abbiane il Lascari favellato.

234

Arti liberalicoltivate da' Sicilia-ni.

le scienze e le arti inventori e maestri. Ma ad assicuraresempre più un tale onore alla nostra Italia vuolsi aggiu-gnere alcuna cosa intorno alle arti liberali, cioè alla scul-tura, all'architettura e alla pittura, e mostrare quanto inesse ancora fossero questi popoli eccellenti.

XXVIII. E primieramente le medaglie co-niate in Sicilia e nella Magna Grecia ci sonoun chiaro argomento a conoscere che fin da'tempi più antichi, e prima ancora che in

Grecia, furono ivi queste arti conosciute e coltivate feli-cemente. Veggasi la Sicilia Numismatica del Parutal'opera sullo stesso argomento del principe di Torremuz-za, la Raccolta di Medaglie di Popoli e di Città stampatiin francese non ha molti anni, ed altre simili collezioni;e molte medaglie vi si troveranno, che hanno non dubbjsegni di rimotissima antichità; ciò sono la forma de' ca-ratteri, che molto si accosta alle lettere ebraiche, o feni-cie, l'usarsi l'H greco per semplice aspirazione, il nonvedersi ancora l'Ω, ma solo l'O, e l'essere disposte le pa-role alla maniera orientale, cioè da destra a sinistra: da'quali contrassegni giustamente inferisce lo Spanhemio(Disser. 2 de Præstant. et usu Numism.) essere questemedaglie di 500 e forse più anni anteriori all'era cristia-na, del qual tempo appena è che altre medaglie si trovi-no (39). E veramente tra quelle che abbiam della Grecia,

39 Su questo argomento veggansi ancora le riflessioni del Winckelmann sullemonete e sulle altre antichità siciliane e della Magna Grecia (Storia

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Medaglie coniate in Sicilia.

le scienze e le arti inventori e maestri. Ma ad assicuraresempre più un tale onore alla nostra Italia vuolsi aggiu-gnere alcuna cosa intorno alle arti liberali, cioè alla scul-tura, all'architettura e alla pittura, e mostrare quanto inesse ancora fossero questi popoli eccellenti.

XXVIII. E primieramente le medaglie co-niate in Sicilia e nella Magna Grecia ci sonoun chiaro argomento a conoscere che fin da'tempi più antichi, e prima ancora che in

Grecia, furono ivi queste arti conosciute e coltivate feli-cemente. Veggasi la Sicilia Numismatica del Parutal'opera sullo stesso argomento del principe di Torremuz-za, la Raccolta di Medaglie di Popoli e di Città stampatiin francese non ha molti anni, ed altre simili collezioni;e molte medaglie vi si troveranno, che hanno non dubbjsegni di rimotissima antichità; ciò sono la forma de' ca-ratteri, che molto si accosta alle lettere ebraiche, o feni-cie, l'usarsi l'H greco per semplice aspirazione, il nonvedersi ancora l'Ω, ma solo l'O, e l'essere disposte le pa-role alla maniera orientale, cioè da destra a sinistra: da'quali contrassegni giustamente inferisce lo Spanhemio(Disser. 2 de Præstant. et usu Numism.) essere questemedaglie di 500 e forse più anni anteriori all'era cristia-na, del qual tempo appena è che altre medaglie si trovi-no (39). E veramente tra quelle che abbiam della Grecia,

39 Su questo argomento veggansi ancora le riflessioni del Winckelmann sullemonete e sulle altre antichità siciliane e della Magna Grecia (Storia

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Medaglie coniate in Sicilia.

forse non vedrassene alcuna con tali caratteri d'antichità.Io ben so che il suddetto principe Torremuzza, uno de'principali ornamenti della Sicilia sua patria, combatte laprova dell'antichità delle medaglie, che si trae dall'iscri-zione di esse fatta in modo che cominci da destra, evada a terminare nella sinistra, e dice (Antiche Iscriz. diPalermo p. 248) che di tali medaglie molte ne ha eglianche de' tempi di Vespasiano e di Tito. Ma io temo cheil ch. autore non abbia qui ben distinte due cose; per-ciocchè altro è che la leggenda cominci dalla destra evolga a sinistra contro l'ordinario costume delle meda-glie, altro è che le lettere che formano le parole siano di-sposte in maniera che bisogni cominciar dalla destra, econtinuare verso la sinistra per leggerle, sicchè invece diIMP. a cagion d'esempio si scriva PMI. Or della primamaniera di scrivere da destra a sinistra molte certo se netrovano singolarmente a' tempi de' due detti imperadori;ma della seconda non credo che così facilmente se nepotran rinvenire; questo argomento però avrà sempre lasua forza a provare l'antichità di tali medaglie. Su questoargomento di antichità preso dalla maniera di scrivere sipuò vedere ancora ciò che con vastissima erudizione nedice Edmondo Chishull nelle sue Antichità Asiatichestampate in Londra nel 1728, e una erudita dissertazionedel ch. sig. priore Bianconi bolognese sopra un'anticamedaglia di Siracusa stampata in Bologna nel 1763. Nèè a dire che più tardi in queste nostre provincie s'intro-

dell'Arti tom. 2, pag. 275, ec. edizione rom.).

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forse non vedrassene alcuna con tali caratteri d'antichità.Io ben so che il suddetto principe Torremuzza, uno de'principali ornamenti della Sicilia sua patria, combatte laprova dell'antichità delle medaglie, che si trae dall'iscri-zione di esse fatta in modo che cominci da destra, evada a terminare nella sinistra, e dice (Antiche Iscriz. diPalermo p. 248) che di tali medaglie molte ne ha eglianche de' tempi di Vespasiano e di Tito. Ma io temo cheil ch. autore non abbia qui ben distinte due cose; per-ciocchè altro è che la leggenda cominci dalla destra evolga a sinistra contro l'ordinario costume delle meda-glie, altro è che le lettere che formano le parole siano di-sposte in maniera che bisogni cominciar dalla destra, econtinuare verso la sinistra per leggerle, sicchè invece diIMP. a cagion d'esempio si scriva PMI. Or della primamaniera di scrivere da destra a sinistra molte certo se netrovano singolarmente a' tempi de' due detti imperadori;ma della seconda non credo che così facilmente se nepotran rinvenire; questo argomento però avrà sempre lasua forza a provare l'antichità di tali medaglie. Su questoargomento di antichità preso dalla maniera di scrivere sipuò vedere ancora ciò che con vastissima erudizione nedice Edmondo Chishull nelle sue Antichità Asiatichestampate in Londra nel 1728, e una erudita dissertazionedel ch. sig. priore Bianconi bolognese sopra un'anticamedaglia di Siracusa stampata in Bologna nel 1763. Nèè a dire che più tardi in queste nostre provincie s'intro-

dell'Arti tom. 2, pag. 275, ec. edizione rom.).

236

ducesse l'Ω e l'H usata per lettera, e la maniera di scrive-re, che ora è in uso, da sinistra a destra; perciocchè noiveggiamo che le siciliane medaglie, di cui si può accer-tare il tempo, perchè furono coniate in onore di qualchepersonaggio del quale è nota l'età, e che sono appuntodel tempo medesimo a un dipresso, di cui sono le grechepiù antiche, hanno esse pure comunemente que' caratteridi età più recente, che veggonsi nelle greche, e quellemutazioni nello scrivere vi si osservano, che a' que' tem-pi anche in queste provincie eransi introdotte. Egli èvero che assai rozze sono comunemente queste più anti-che medaglie e nel disegno e nella espressione. Ma qualprovincia fu mai ove l'arte nascesse perfetta? Anzi que-sta rozzezza è indizio di lavoro originale, e non fatto aimitazione, e par di vedervi l'arte che senza avere mae-stro e guida da se medesima si vada dirozzando a poco apoco e svolgendo. Ma la rozzezza cessò; e abbiamo me-daglie siciliane e della Magna Grecia, che in bellezzanon cedon punto a quelle di qualchessia nazione.

XXIX. Quindi, come le arti si danno vicen-devolmente la mano, e al fiorir di una le al-tre ancora fiorir si veggono, e giungere alla

lor perfezione, non è maraviglia che architetti e scultorichiarissimi fiorissero in queste provincie. E in Siciliasingolarmente sappiamo che grandiosi e manifici edificjs'inalzarono anticamente. Tra questi voglionsi riporrequelli di cui favella Diodoro Siculo nell'olimp. LXXV.

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Opere ma-gnifiche di architettura.

ducesse l'Ω e l'H usata per lettera, e la maniera di scrive-re, che ora è in uso, da sinistra a destra; perciocchè noiveggiamo che le siciliane medaglie, di cui si può accer-tare il tempo, perchè furono coniate in onore di qualchepersonaggio del quale è nota l'età, e che sono appuntodel tempo medesimo a un dipresso, di cui sono le grechepiù antiche, hanno esse pure comunemente que' caratteridi età più recente, che veggonsi nelle greche, e quellemutazioni nello scrivere vi si osservano, che a' que' tem-pi anche in queste provincie eransi introdotte. Egli èvero che assai rozze sono comunemente queste più anti-che medaglie e nel disegno e nella espressione. Ma qualprovincia fu mai ove l'arte nascesse perfetta? Anzi que-sta rozzezza è indizio di lavoro originale, e non fatto aimitazione, e par di vedervi l'arte che senza avere mae-stro e guida da se medesima si vada dirozzando a poco apoco e svolgendo. Ma la rozzezza cessò; e abbiamo me-daglie siciliane e della Magna Grecia, che in bellezzanon cedon punto a quelle di qualchessia nazione.

XXIX. Quindi, come le arti si danno vicen-devolmente la mano, e al fiorir di una le al-tre ancora fiorir si veggono, e giungere alla

lor perfezione, non è maraviglia che architetti e scultorichiarissimi fiorissero in queste provincie. E in Siciliasingolarmente sappiamo che grandiosi e manifici edificjs'inalzarono anticamente. Tra questi voglionsi riporrequelli di cui favella Diodoro Siculo nell'olimp. LXXV.

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Opere ma-gnifiche di architettura.

Parla egli (l. 11, n. 255) di molti schiavi fatti da' cittadi-ni di Agrigento, e da essi impiegati a segar pietre; "colqual mezzo, egli dice, non solo grandissimi tempj si fab-bricarono agl'iddii, ma sotterranei condotti ancora a vo-tare la città di acque, opera di sì gran mole, che, benchèl'uso a che serve sembri spregevole, merita nondimenoesser veduta. Architetto e soprastante all'opera fu un co-tale appellato Feace, il quale per l'eccellenza di tal lavo-ro ottenne che tai condotti fosser dal suo nome detti inavvenire feaci. Un'ampia peschiera ancora a grandissi-mo costo scavaron gli Agrigentini, che sette stadj aveadi circuito e venti cubiti di altezza, in cui raccogliendoda' fonti e da' fiumi vicini gran copia di acque un vivaiodi pesci formaron di utile non meno che di piacer singo-lare”(40).

XXX. Ma sopra ogni altra cosa degno dimaraviglia era il tempio che a Giove Olim-pio innalzato aveano i cittadini medesimi diAgrigento. Ne abbiamo la descrizione pres-so lo stesso Diodoro, il qual ne parla comedi cosa che al tempo suo stava tuttora in pie-di, benchè le guerre avessero agli Agrigenti-

40 De' monumenti antichissimi che nelle provincie della Magna Grecia o fu-rono una volta, o tuttor vi sussistono, belle notizie ci ha date il sig. d. Pie-tro Napoli-Signorelli, il qual ricorda singolarmente i due colossi, uno diGiove, l'altro di Ercole, che vedevansi in Taranto; e rammenta alcuni altrifamosi scultori nati di quelle province (Vicende della Coltura delle due Si-cilie, tom. 1, p. 36, ec.).

238

Descrizionedel tempio di Giove Olimpico inAgrigento edi altri edi-ficj.

Parla egli (l. 11, n. 255) di molti schiavi fatti da' cittadi-ni di Agrigento, e da essi impiegati a segar pietre; "colqual mezzo, egli dice, non solo grandissimi tempj si fab-bricarono agl'iddii, ma sotterranei condotti ancora a vo-tare la città di acque, opera di sì gran mole, che, benchèl'uso a che serve sembri spregevole, merita nondimenoesser veduta. Architetto e soprastante all'opera fu un co-tale appellato Feace, il quale per l'eccellenza di tal lavo-ro ottenne che tai condotti fosser dal suo nome detti inavvenire feaci. Un'ampia peschiera ancora a grandissi-mo costo scavaron gli Agrigentini, che sette stadj aveadi circuito e venti cubiti di altezza, in cui raccogliendoda' fonti e da' fiumi vicini gran copia di acque un vivaiodi pesci formaron di utile non meno che di piacer singo-lare”(40).

XXX. Ma sopra ogni altra cosa degno dimaraviglia era il tempio che a Giove Olim-pio innalzato aveano i cittadini medesimi diAgrigento. Ne abbiamo la descrizione pres-so lo stesso Diodoro, il qual ne parla comedi cosa che al tempo suo stava tuttora in pie-di, benchè le guerre avessero agli Agrigenti-

40 De' monumenti antichissimi che nelle provincie della Magna Grecia o fu-rono una volta, o tuttor vi sussistono, belle notizie ci ha date il sig. d. Pie-tro Napoli-Signorelli, il qual ricorda singolarmente i due colossi, uno diGiove, l'altro di Ercole, che vedevansi in Taranto; e rammenta alcuni altrifamosi scultori nati di quelle province (Vicende della Coltura delle due Si-cilie, tom. 1, p. 36, ec.).

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Descrizionedel tempio di Giove Olimpico inAgrigento edi altri edi-ficj.

ni impedito il condurlo a fine. "La struttura e l'ornamen-to de' tempj egli dice all'olimp. XCIII (l. 13, n. 175), e diquello singolarmente di Giove, mostra chiaramente lamagnificenza degli uomini di quella età. Gli altri tempjo per incendio, o per sinistri avvenimenti di guerra furo-no rovinati. Ma questo di Giove Olimpio già essendo vi-cino ad esser coperto, per guerra sopravvenuta rimaseinterrotto. Da indi in poi que' d'Agrigento non ebber maipotere a finirlo. Esso ha CCCXL piedi di lunghezza, LXdi larghezza, e CXX di altezza oltre il fondamento. Èquesto il più grande fra tutti que' di Sicilia, e per la gran-dezza della mole può venire ancora a confronto cogli al-tri. Perciocchè comunque non fosse recato a compimen-to, vedesi ancor nondimeno l'antico non finito lavoro.Perciocchè mentre gli altri o di mura chiudono i tempj,o di colonne gli circondano, l'una e l'altra struttura è aquesto comune. Conciossiachè insieme colle pareti sor-gon colonne che rotonde sono di fuori, di dentro quadra-te. Hanno queste nella esterior parte XX piedi di giro; esì ampie sono le scanalature, che un corpo umano vi sipuò agevolmente racchiudere, nella parte interiore occu-pan lo spazio di XXI piedi. Maravigliosa è la grandezzae l'altezza de' portici. Vedesi nella lor parte orientale laguerra de' Giganti, di scultura per grandezza e per ele-ganza sommamente pregevole; nella parte occidentalehavvi effigiata l'espugnazion di Troia, dove ognun deglieroi nel proprio suo atteggiamento vedesi mirabilmentescolpito". Così Diodoro il quale altrove ragiona di piùaltri magnifici edificj della Sicilia, ch'io qui non ramme-

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ni impedito il condurlo a fine. "La struttura e l'ornamen-to de' tempj egli dice all'olimp. XCIII (l. 13, n. 175), e diquello singolarmente di Giove, mostra chiaramente lamagnificenza degli uomini di quella età. Gli altri tempjo per incendio, o per sinistri avvenimenti di guerra furo-no rovinati. Ma questo di Giove Olimpio già essendo vi-cino ad esser coperto, per guerra sopravvenuta rimaseinterrotto. Da indi in poi que' d'Agrigento non ebber maipotere a finirlo. Esso ha CCCXL piedi di lunghezza, LXdi larghezza, e CXX di altezza oltre il fondamento. Èquesto il più grande fra tutti que' di Sicilia, e per la gran-dezza della mole può venire ancora a confronto cogli al-tri. Perciocchè comunque non fosse recato a compimen-to, vedesi ancor nondimeno l'antico non finito lavoro.Perciocchè mentre gli altri o di mura chiudono i tempj,o di colonne gli circondano, l'una e l'altra struttura è aquesto comune. Conciossiachè insieme colle pareti sor-gon colonne che rotonde sono di fuori, di dentro quadra-te. Hanno queste nella esterior parte XX piedi di giro; esì ampie sono le scanalature, che un corpo umano vi sipuò agevolmente racchiudere, nella parte interiore occu-pan lo spazio di XXI piedi. Maravigliosa è la grandezzae l'altezza de' portici. Vedesi nella lor parte orientale laguerra de' Giganti, di scultura per grandezza e per ele-ganza sommamente pregevole; nella parte occidentalehavvi effigiata l'espugnazion di Troia, dove ognun deglieroi nel proprio suo atteggiamento vedesi mirabilmentescolpito". Così Diodoro il quale altrove ragiona di piùaltri magnifici edificj della Sicilia, ch'io qui non ramme-

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moro, per brevità (41). Anche la magna Grecia molti do-veva averne di somiglianti. I tre tempj, le cui rovineveggonsi ancora nell'antica città di Pesto ossia Possido-nia hanno tali indicj di antichità, ch'è probabile assai chefossero eretti a' tempi di cui parliamo (V. Les Ruines dePæstum) e molte ancor delle fabbriche che nella sotter-ranea città d'Ercolano sono state scoperte, non si puòdubitare che non sieno d'età molto rimota dal tempo incui essa perì.

41 Intorno alle rovine del tempio di Giove Olimpico in Girgenti, che tuttor visi veggono, a quelle della Concordia nella stessa città, di cui conservasiancora la parte esteriore, e a que' di Pesto, son degne d'esser lette le osser-vazioni del celebre Winckelmann inserite nel t. 3 dell'edizion romana dellaStoria dell'Arte (p. 4, 107, ec.). Riguardo però al tempio di Giove Olimpi-co voglionsi leggere ancora le Memorie per le Belle Arti stampate inRoma nel maggio del 1786, nelle quali si osserva tra le altre cose, chedebb'essere guasto il passo di Diodoro, ove dà a quel tempio la larghezzadi soli piedi LX e che dee leggersi CLX. Quanto alle rovine di Pesto essesono state in questi ultimi anni grande argomento di disputa tra gli Anti-quarj. Il celebre p. Paoli, che le ha nuovamente illustrate, le ha creduted'ordine etrusco. Il Winckelmann nella prefazione alle sue Osservazionisopra l'architettura degli antichi ha sostenuto ch'esse sono d'ordine dorico,e questa opinione è stata con nuovi argomenti difesa nelle Memorie per leBelle Arti stampate in Roma nell'agosto del 1758, e poscia in quelle delmaggio e del giugno del 1786 all'occasione di dare l'estratto del suddettotomo III della Storia dell'Arte del Winckelmann; quindi il sig. Ab. Fea me-desimo editore dell'opera del Winckelmann, e sostenitore dell'opinione delp. Paoli, ha poscia cambiata opinione, ed ha abbracciata quella del Winc-kelmann. Veggasi ancora il Viaggio Pittoresco di Malta, della Sicilia, e diLipari, in cui tutto ciò che degli antichi edificj tuttor rimane in quell'isole,trovasi diligentemente disegnato ed inciso dal sig. Hoel pittore del re diFrancia; e il Viaggio Pittoresco de' Regni di Napoli e di Sicilia, ec. pubbli-cato in Parigi in tre tomi di magnifica edizione nel 1785.

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moro, per brevità (41). Anche la magna Grecia molti do-veva averne di somiglianti. I tre tempj, le cui rovineveggonsi ancora nell'antica città di Pesto ossia Possido-nia hanno tali indicj di antichità, ch'è probabile assai chefossero eretti a' tempi di cui parliamo (V. Les Ruines dePæstum) e molte ancor delle fabbriche che nella sotter-ranea città d'Ercolano sono state scoperte, non si puòdubitare che non sieno d'età molto rimota dal tempo incui essa perì.

41 Intorno alle rovine del tempio di Giove Olimpico in Girgenti, che tuttor visi veggono, a quelle della Concordia nella stessa città, di cui conservasiancora la parte esteriore, e a que' di Pesto, son degne d'esser lette le osser-vazioni del celebre Winckelmann inserite nel t. 3 dell'edizion romana dellaStoria dell'Arte (p. 4, 107, ec.). Riguardo però al tempio di Giove Olimpi-co voglionsi leggere ancora le Memorie per le Belle Arti stampate inRoma nel maggio del 1786, nelle quali si osserva tra le altre cose, chedebb'essere guasto il passo di Diodoro, ove dà a quel tempio la larghezzadi soli piedi LX e che dee leggersi CLX. Quanto alle rovine di Pesto essesono state in questi ultimi anni grande argomento di disputa tra gli Anti-quarj. Il celebre p. Paoli, che le ha nuovamente illustrate, le ha creduted'ordine etrusco. Il Winckelmann nella prefazione alle sue Osservazionisopra l'architettura degli antichi ha sostenuto ch'esse sono d'ordine dorico,e questa opinione è stata con nuovi argomenti difesa nelle Memorie per leBelle Arti stampate in Roma nell'agosto del 1758, e poscia in quelle delmaggio e del giugno del 1786 all'occasione di dare l'estratto del suddettotomo III della Storia dell'Arte del Winckelmann; quindi il sig. Ab. Fea me-desimo editore dell'opera del Winckelmann, e sostenitore dell'opinione delp. Paoli, ha poscia cambiata opinione, ed ha abbracciata quella del Winc-kelmann. Veggasi ancora il Viaggio Pittoresco di Malta, della Sicilia, e diLipari, in cui tutto ciò che degli antichi edificj tuttor rimane in quell'isole,trovasi diligentemente disegnato ed inciso dal sig. Hoel pittore del re diFrancia; e il Viaggio Pittoresco de' Regni di Napoli e di Sicilia, ec. pubbli-cato in Parigi in tre tomi di magnifica edizione nel 1785.

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XXXI. Tanti superbi edificj e nella Sicilia(42)

e nella Magna Grecia innalzati ben ci fannocomprendere quanto felicemente tra gli abi-tatori di quelle provincie fiorisse lo studiodelle bell'arti, e singolarmente dell'architet-

tura e della scultura. E per ciò che alla scultura appartie-ne, Pausania che il nome di tanti illustri scultori ci hatramandati, ci mostra che molti insigni ve n'ebbe e nellaSicilia e nella Magna Grecia. Nomina egli, per tacerd'altri, un Learco di Reggio (l. 3, c. 17), che dee certa-mente annoverarsi tra' più antichi. Perciocchè di lui rac-conta che fu egli il primo a scolpire separatamente cia-scun de' membri e poi con chiodi unirli insieme e com-metterli. Fa menzione ancor di un Clearco di Reggio,cui chiaramente distingue dal sopra mentovato Learco(l. 6, c. 4). Ma sopra tutti celebre si rendette Pittagora,egli ancor di Reggio, cui l'eruditissimo Winckelmann

42 Fra i più grandiosi monumenti del valore degli antichi Siciliani nella scul-tura deesi annoverare il gran sarcofago greco-siculo che or serve di fontebattesimale nel duomo di Girgenti, opera di raro ed ammirabil lavoro, ilcui disegno si può vedere nelle opere di più illustri scrittori delle antichitàsiciliane, e in quelle singolarmente del p. Pancrazi, e del sig. d'Orville. Madegna è principalmente da leggersi un'erudita ed ingegnosa dissertazionedel sig. Avvocato Vincenzo Gaglio girgentino (Opuscoli d'Autor. Sicil. t.14) nella quale, oltre il descriverlo minutamente, si fa a provare che ivi sirappresenta la tragedia d'Ippolito. Aggiungasi a ciò altre statue in marmo ein bronzo, che ne' diversi ricchi musei della Sicilia tuttor si conservano; esempre più si conoscerà chiaramente che quegli isolani non furono ad al-cun'altra nazione inferiori nel coltivar le belle arti.

241

Celebri scultori in Sicilia e nella Ma-gna Grecia.

XXXI. Tanti superbi edificj e nella Sicilia(42)

e nella Magna Grecia innalzati ben ci fannocomprendere quanto felicemente tra gli abi-tatori di quelle provincie fiorisse lo studiodelle bell'arti, e singolarmente dell'architet-

tura e della scultura. E per ciò che alla scultura appartie-ne, Pausania che il nome di tanti illustri scultori ci hatramandati, ci mostra che molti insigni ve n'ebbe e nellaSicilia e nella Magna Grecia. Nomina egli, per tacerd'altri, un Learco di Reggio (l. 3, c. 17), che dee certa-mente annoverarsi tra' più antichi. Perciocchè di lui rac-conta che fu egli il primo a scolpire separatamente cia-scun de' membri e poi con chiodi unirli insieme e com-metterli. Fa menzione ancor di un Clearco di Reggio,cui chiaramente distingue dal sopra mentovato Learco(l. 6, c. 4). Ma sopra tutti celebre si rendette Pittagora,egli ancor di Reggio, cui l'eruditissimo Winckelmann

42 Fra i più grandiosi monumenti del valore degli antichi Siciliani nella scul-tura deesi annoverare il gran sarcofago greco-siculo che or serve di fontebattesimale nel duomo di Girgenti, opera di raro ed ammirabil lavoro, ilcui disegno si può vedere nelle opere di più illustri scrittori delle antichitàsiciliane, e in quelle singolarmente del p. Pancrazi, e del sig. d'Orville. Madegna è principalmente da leggersi un'erudita ed ingegnosa dissertazionedel sig. Avvocato Vincenzo Gaglio girgentino (Opuscoli d'Autor. Sicil. t.14) nella quale, oltre il descriverlo minutamente, si fa a provare che ivi sirappresenta la tragedia d'Ippolito. Aggiungasi a ciò altre statue in marmo ein bronzo, che ne' diversi ricchi musei della Sicilia tuttor si conservano; esempre più si conoscerà chiaramente che quegli isolani non furono ad al-cun'altra nazione inferiori nel coltivar le belle arti.

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Celebri scultori in Sicilia e nella Ma-gna Grecia.

(Hist. de l'Art. t. 2, p. 193) annovera tra' cinque più fa-mosi scultori che dopo Fidia fiorissero in tempo dellaguerra del Peloponneso. Di lui parlando Pausania (l. 6,c. 4), il chiama uomo nella scultura non inferiore ad al-cuno. In fatti Plinio racconta (l. 34, c. 8), che fattosi eglinel lavoro di una statua a gareggiar con Mirone, uno de'più celebri scultori che fiorisse allor nella Grecia, fuquesti dall'italiano Pittagora superato; anzi, come nellostesso luogo aggiugne Plinio, con un altro Pittagora an-cora leontino di patria il medesimo Mirone in somi-gliante cimento venne meno al confronto. A questo se-condo Pittagora attribuisce Plinio l'onore di avere il pri-mo le vene e i nervi e i capegli ancora dell'uomo più di-licatamente scolpito. Assai maggiore sarebbe la gloriadel primo Pittagora da Reggio, se certo fosse ciò chel'autore del trattato de l'Usage des Statues afferma (part.1, c. 8), cioè che per testimonio di Cicerone egli fossemaestro del famoso Lisippo di cui la Grecia non vantòmai il più eccellente scultore. Ma a parlare sinceramen-te, per quanto io abbia cercato nelle opere di Cicerone,non ho mai potuto rinvenire tal passo; nè di altro Pitta-gora fuorchè del filosofo io non veggo mai farsi da luimenzione.

XXXII. Rimane a dir qualche cosa dellapittura. Intorno a quest'arte poche memorieci son rimaste. E nondimeno abbiam quanto

basta a conoscere che essa ancora e nella Sicilia e nella

242

Celebri pit-tori.

(Hist. de l'Art. t. 2, p. 193) annovera tra' cinque più fa-mosi scultori che dopo Fidia fiorissero in tempo dellaguerra del Peloponneso. Di lui parlando Pausania (l. 6,c. 4), il chiama uomo nella scultura non inferiore ad al-cuno. In fatti Plinio racconta (l. 34, c. 8), che fattosi eglinel lavoro di una statua a gareggiar con Mirone, uno de'più celebri scultori che fiorisse allor nella Grecia, fuquesti dall'italiano Pittagora superato; anzi, come nellostesso luogo aggiugne Plinio, con un altro Pittagora an-cora leontino di patria il medesimo Mirone in somi-gliante cimento venne meno al confronto. A questo se-condo Pittagora attribuisce Plinio l'onore di avere il pri-mo le vene e i nervi e i capegli ancora dell'uomo più di-licatamente scolpito. Assai maggiore sarebbe la gloriadel primo Pittagora da Reggio, se certo fosse ciò chel'autore del trattato de l'Usage des Statues afferma (part.1, c. 8), cioè che per testimonio di Cicerone egli fossemaestro del famoso Lisippo di cui la Grecia non vantòmai il più eccellente scultore. Ma a parlare sinceramen-te, per quanto io abbia cercato nelle opere di Cicerone,non ho mai potuto rinvenire tal passo; nè di altro Pitta-gora fuorchè del filosofo io non veggo mai farsi da luimenzione.

XXXII. Rimane a dir qualche cosa dellapittura. Intorno a quest'arte poche memorieci son rimaste. E nondimeno abbiam quanto

basta a conoscere che essa ancora e nella Sicilia e nella

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Celebri pit-tori.

Magna Grecia felicemente fu coltivata. E primieramentese io volessi affermare che Zeusi fu italiano, niuno, iocredo certo, potrebbe convincermi di falsità. Zeusi fu diEraclea, in ciò convengono gli antichi scrittori; ma qualfosse quest'Eraclea, se quella ch'era nella Magna Grecia,o alcuna di quelle che erano altrove, nol diffinisce alcu-no a cui debbasi certa fede. Anzi più conghietture con-corrono a renderci verisimile ch'ei fosse nativo della pri-ma. Plinio ci assicura che credevasi da alcuni ch'ei fossestato discepolo di Demofilo nativo d'Imera nella Sicilia.Ecco le sue parole (l. 35, c. 9): Ab hoc artis fores aper-tas Zeusis Heracleotes intravit olympiadis XCV, annoIV, audentemque jam aliquid pennicillum... ad magnamgloriam perduxit, a quibusdam falso in LXXXIX olym-piade positus, cum fuisse necesse est Demophilum Hi-merærum, et Neseam Thasium, quoniam utrius eorumdiscipulus fuerit ambigitur. Le quali parole ci mostranoche Demofilo siciliano fu in fama di eccellente pittore,poichè era opinione di molti che avesse avuto Zeusi adiscepolo. Sappiamo inoltre da Cicerone, da Plinio, e daaltri antichi scrittori, che Crotone nella Magna Grecia,Agrigento nella Sicilia, ed altre città dell'una e dell'altraprovincia chiamaron Zeusi, perchè di sue pitture le ab-bellisse. Or noi veggiam bensì sovente i professori dellebelle arti cioè della scultura e della pittura passatidall'Italia, o dalla Sicilia in Grecia a esercitarvi le artiloro, chiamati talvolta a gran prezzo da que' popoli; manon so se così facilmente a questi tempi troverannosiGreci venuti per lo stesso fine in Italia. Queste riflessio-

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Magna Grecia felicemente fu coltivata. E primieramentese io volessi affermare che Zeusi fu italiano, niuno, iocredo certo, potrebbe convincermi di falsità. Zeusi fu diEraclea, in ciò convengono gli antichi scrittori; ma qualfosse quest'Eraclea, se quella ch'era nella Magna Grecia,o alcuna di quelle che erano altrove, nol diffinisce alcu-no a cui debbasi certa fede. Anzi più conghietture con-corrono a renderci verisimile ch'ei fosse nativo della pri-ma. Plinio ci assicura che credevasi da alcuni ch'ei fossestato discepolo di Demofilo nativo d'Imera nella Sicilia.Ecco le sue parole (l. 35, c. 9): Ab hoc artis fores aper-tas Zeusis Heracleotes intravit olympiadis XCV, annoIV, audentemque jam aliquid pennicillum... ad magnamgloriam perduxit, a quibusdam falso in LXXXIX olym-piade positus, cum fuisse necesse est Demophilum Hi-merærum, et Neseam Thasium, quoniam utrius eorumdiscipulus fuerit ambigitur. Le quali parole ci mostranoche Demofilo siciliano fu in fama di eccellente pittore,poichè era opinione di molti che avesse avuto Zeusi adiscepolo. Sappiamo inoltre da Cicerone, da Plinio, e daaltri antichi scrittori, che Crotone nella Magna Grecia,Agrigento nella Sicilia, ed altre città dell'una e dell'altraprovincia chiamaron Zeusi, perchè di sue pitture le ab-bellisse. Or noi veggiam bensì sovente i professori dellebelle arti cioè della scultura e della pittura passatidall'Italia, o dalla Sicilia in Grecia a esercitarvi le artiloro, chiamati talvolta a gran prezzo da que' popoli; manon so se così facilmente a questi tempi troverannosiGreci venuti per lo stesso fine in Italia. Queste riflessio-

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ni indussero, benchè con qualche dubitazione, il p. Ar-duino, e indurranno, io penso, ogni prudente esaminato-re a credere non affatto improbabile che Zeusi nativofosse di quella Eraclea che era vicina a Crotone nellaMagna Grecia. Quæ porro, dice il citato autore nellenote all'allegato passo di Plinio, ea Heraclea sit, in tan-ta cognominum urbium multitudine, Quæ præclaris il-lius monumentis atque picturis gloriantur ex æquo, sta-tuere haud in promptu est. Crotoniatis operam suamcum navasse Zeuxis a Tullio dicatur (l. 11 de Invent.),sit autem Heraclea in eodem tractu Crotoni Vicina,haud scio, au suspicari liceat oriundum ex ea fuisse. Maancorchè si provasse che Zeusi non italiano fosse, magreco; il sapere ch'ei fu condotto a gran prezzo a dipin-gere in Italia, che Demofilo siciliano fu creduto da moltidi lui maestro, che un Silaso da Reggio fu chiamato adipingere nel Peloponneso (V. l'Usage des Statues l. 1,c. 8), e che la pittura fu sempre in gran pregio e nella Si-cilia e nella Magna Grecia, basta a conchiudere con fon-damento che quest'arte ancora ebbe in queste provincieillustri e felici coltivatori.

XXXIII. Parrà forse strano ad alcuno, cheparlando del fiorir che fecero tra' Siciliani lebelle arti, niuna menzione io abbia fatta diDedalo, del qual si dice che fuggendo daAtene prima e poi da Creta, si rifugiasse in

Sicilia presso il re Cocalo, e che ivi nella scultura singo-

244

Che cosa si possa cre-dere di De-dalo.

ni indussero, benchè con qualche dubitazione, il p. Ar-duino, e indurranno, io penso, ogni prudente esaminato-re a credere non affatto improbabile che Zeusi nativofosse di quella Eraclea che era vicina a Crotone nellaMagna Grecia. Quæ porro, dice il citato autore nellenote all'allegato passo di Plinio, ea Heraclea sit, in tan-ta cognominum urbium multitudine, Quæ præclaris il-lius monumentis atque picturis gloriantur ex æquo, sta-tuere haud in promptu est. Crotoniatis operam suamcum navasse Zeuxis a Tullio dicatur (l. 11 de Invent.),sit autem Heraclea in eodem tractu Crotoni Vicina,haud scio, au suspicari liceat oriundum ex ea fuisse. Maancorchè si provasse che Zeusi non italiano fosse, magreco; il sapere ch'ei fu condotto a gran prezzo a dipin-gere in Italia, che Demofilo siciliano fu creduto da moltidi lui maestro, che un Silaso da Reggio fu chiamato adipingere nel Peloponneso (V. l'Usage des Statues l. 1,c. 8), e che la pittura fu sempre in gran pregio e nella Si-cilia e nella Magna Grecia, basta a conchiudere con fon-damento che quest'arte ancora ebbe in queste provincieillustri e felici coltivatori.

XXXIII. Parrà forse strano ad alcuno, cheparlando del fiorir che fecero tra' Siciliani lebelle arti, niuna menzione io abbia fatta diDedalo, del qual si dice che fuggendo daAtene prima e poi da Creta, si rifugiasse in

Sicilia presso il re Cocalo, e che ivi nella scultura singo-

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Che cosa si possa cre-dere di De-dalo.

larmente facesse opere maravigliose. Questo è in fatticiò che di lui raccontano Diodoro Siculo, Plinio, Pausa-nia ed altri antichi scrittori, i cui detti sono stati raccoltied eruditamente esaminati dall'ab. Banier nella sua spie-gazion delle favole (t. 6, p. 305 ec.), e da m. Gedoyn inuna Memoria inserita nel t. XXI dell'Accademia delleIscrizioni e delle Belle Lettere. Ma a vero dire io non soabbastanza fidarmi all'autorità de' citati benchè antichi evalenti scrittori. Vuolsi che Dedalo fosse di circa un se-colo anteriore alla guerra di Troia, e quindi ancora moltie molti secoli anteriore a detti autori. Egli fu inoltre aquella età che fra tutte fu da' poeti presi di mira a farnel'oggetto delle favolose loro invenzioni. Quindi a menon pare che possa credersi abbastanza fondato ciò chedi lui si racconta. In fatti Erodoto, assai più antico di tut-ti gli allegati scrittori, ove brevemente parla di Dedalo,ne ragiona come di cosa non abbastanza certa, e appog-giata solo a popolar tradizione, usando delle parole: utferunt (l. 7, n. 170). Poichè dunque tanti incontrastabilimonumenti abbiamo del valore de' Siciliani nelle bellearti, non giova il ricorrere ad altri argomenti, che nonessendo di ugual peso, sembrerebbono sminuire anziche accrescer la forza di que' più certi che abbiam finorarecati.

XXXIV. Questi sì gloriosi avanzamenti nel-le scienze e nelle belle arti nella Sicilia, emolto più nella Magna Grecia, dovettero la

245

Per qual ra-gione fio-risser tanto fra que' po-poli le arti.

larmente facesse opere maravigliose. Questo è in fatticiò che di lui raccontano Diodoro Siculo, Plinio, Pausa-nia ed altri antichi scrittori, i cui detti sono stati raccoltied eruditamente esaminati dall'ab. Banier nella sua spie-gazion delle favole (t. 6, p. 305 ec.), e da m. Gedoyn inuna Memoria inserita nel t. XXI dell'Accademia delleIscrizioni e delle Belle Lettere. Ma a vero dire io non soabbastanza fidarmi all'autorità de' citati benchè antichi evalenti scrittori. Vuolsi che Dedalo fosse di circa un se-colo anteriore alla guerra di Troia, e quindi ancora moltie molti secoli anteriore a detti autori. Egli fu inoltre aquella età che fra tutte fu da' poeti presi di mira a farnel'oggetto delle favolose loro invenzioni. Quindi a menon pare che possa credersi abbastanza fondato ciò chedi lui si racconta. In fatti Erodoto, assai più antico di tut-ti gli allegati scrittori, ove brevemente parla di Dedalo,ne ragiona come di cosa non abbastanza certa, e appog-giata solo a popolar tradizione, usando delle parole: utferunt (l. 7, n. 170). Poichè dunque tanti incontrastabilimonumenti abbiamo del valore de' Siciliani nelle bellearti, non giova il ricorrere ad altri argomenti, che nonessendo di ugual peso, sembrerebbono sminuire anziche accrescer la forza di que' più certi che abbiam finorarecati.

XXXIV. Questi sì gloriosi avanzamenti nel-le scienze e nelle belle arti nella Sicilia, emolto più nella Magna Grecia, dovettero la

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Per qual ra-gione fio-risser tanto fra que' po-poli le arti.

loro origine all'indole stessa e al vivace ingegno de' po-poli che l'abitavano, più che al favore e alla munificenzade' lor sovrani. Perciocchè, quanto appartiene alla Ma-gna Grecia, essendo quella provincia divisa in moltepiccole repubbliche, reggevasi ognuna colle proprie leg-gi, nè vi era principe alcuno il quale potesse colla liberasua munificenza avvivare gli studj e risvegliare ne' sud-diti l'emulazione. Nella Sicilia poi, oltre che essa ancoraebbe per lungo tempo governo di repubblica, anche allorquando molte città ebbero i lor tiranni e signori, questiunicamente solleciti di sostenere il vacillante loro impe-ro, e di difenderlo contro i domestici non meno che glistranieri nemici, poco per lo più pensarono alle scienzee alle arti.

XXXV. Egli è vero che di Falaride tali coseraccontansi da alcuni, che, se fosser vere,cel farebbono credere protettor grandissimodelle lettere, e gioverebbon non poco a smi-nuire l'infamia che la crudeltà da lui usata

gli ha presso tutti arrecata. Perciocchè vuolsi ch'egliavesse in molta stima il poeta Stesicoro di cui abbiamgià parlato, e che comunque fosse contro di lui grave-mente sdegnato, perchè mostravasi apertamente nimicodella sua tirannia, nondimeno avutolo una volta in suopotere, non usasse contro di lui quella barbara crudeltàche contro di tanti altri aveva usata, ma lo accogliessecon onore, così premiando l'eccellenza a ch'egli era sali-

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Se Falaride ne fosse splendido protettore.

loro origine all'indole stessa e al vivace ingegno de' po-poli che l'abitavano, più che al favore e alla munificenzade' lor sovrani. Perciocchè, quanto appartiene alla Ma-gna Grecia, essendo quella provincia divisa in moltepiccole repubbliche, reggevasi ognuna colle proprie leg-gi, nè vi era principe alcuno il quale potesse colla liberasua munificenza avvivare gli studj e risvegliare ne' sud-diti l'emulazione. Nella Sicilia poi, oltre che essa ancoraebbe per lungo tempo governo di repubblica, anche allorquando molte città ebbero i lor tiranni e signori, questiunicamente solleciti di sostenere il vacillante loro impe-ro, e di difenderlo contro i domestici non meno che glistranieri nemici, poco per lo più pensarono alle scienzee alle arti.

XXXV. Egli è vero che di Falaride tali coseraccontansi da alcuni, che, se fosser vere,cel farebbono credere protettor grandissimodelle lettere, e gioverebbon non poco a smi-nuire l'infamia che la crudeltà da lui usata

gli ha presso tutti arrecata. Perciocchè vuolsi ch'egliavesse in molta stima il poeta Stesicoro di cui abbiamgià parlato, e che comunque fosse contro di lui grave-mente sdegnato, perchè mostravasi apertamente nimicodella sua tirannia, nondimeno avutolo una volta in suopotere, non usasse contro di lui quella barbara crudeltàche contro di tanti altri aveva usata, ma lo accogliessecon onore, così premiando l'eccellenza a ch'egli era sali-

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Se Falaride ne fosse splendido protettore.

to nel poetare. Aggiugnesi che a un cotal Callescro, dalui per congiura dannato a morte, accordasse il perdonoper riguardo a Policleto filosofo messinese che gli eraamico. Ma questi racconti non ad altra autorità sono ap-poggiati che a quella delle lettere di Falaride stesso, laquale quanto sia dubbiosa abbiam di sopra veduto.

XXXVI. Gerone il primo di questo nome redi Siracusa fu l'unico per avventura tra i ti-ranni della Sicilia, che chiamar si possa pro-tettore e fomentatore delle scienze. Eraneegli stato avverso del tutto e lontano. Ma

all'occasione di una grave malattia da lui sofferta essen-do stati introdotti nella sua corte alcuni de' valorosi filo-sofi che erano allora in Sicilia, questi co' saggi loro di-scorsi il piegaron per modo che non solo onesto, e vir-tuoso principe mostrossi egli dappoi, ma grande amatoreancora delle scienze e de' dotti (Ælian. l. 4 Var. c. 15). Ea questa munificenza verso de' poeti singolarmente attri-buir si dee il concorrere che a lui facevano questi perfindalla Grecia. Perciocchè Eschilo e Simonide, per testi-monianza di Pausania (l. 1, c. 2.) e di altri scrittori, a luine vennero in Siracusa. Pindaro ancora spesse volte fagrandi encomi di Gerone all'occasione delle vittorie dalui riportate ne' celebri giuochi della Grecia; anzi accen-na (in Nem. od. 1.) di essere egli stesso venuto in Sicilia,trattovi probabilmente dalla munificenza di questo prin-cipe.

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Questa lodesi dee a Ge-rone primo re di Sira-cusa.

to nel poetare. Aggiugnesi che a un cotal Callescro, dalui per congiura dannato a morte, accordasse il perdonoper riguardo a Policleto filosofo messinese che gli eraamico. Ma questi racconti non ad altra autorità sono ap-poggiati che a quella delle lettere di Falaride stesso, laquale quanto sia dubbiosa abbiam di sopra veduto.

XXXVI. Gerone il primo di questo nome redi Siracusa fu l'unico per avventura tra i ti-ranni della Sicilia, che chiamar si possa pro-tettore e fomentatore delle scienze. Eraneegli stato avverso del tutto e lontano. Ma

all'occasione di una grave malattia da lui sofferta essen-do stati introdotti nella sua corte alcuni de' valorosi filo-sofi che erano allora in Sicilia, questi co' saggi loro di-scorsi il piegaron per modo che non solo onesto, e vir-tuoso principe mostrossi egli dappoi, ma grande amatoreancora delle scienze e de' dotti (Ælian. l. 4 Var. c. 15). Ea questa munificenza verso de' poeti singolarmente attri-buir si dee il concorrere che a lui facevano questi perfindalla Grecia. Perciocchè Eschilo e Simonide, per testi-monianza di Pausania (l. 1, c. 2.) e di altri scrittori, a luine vennero in Siracusa. Pindaro ancora spesse volte fagrandi encomi di Gerone all'occasione delle vittorie dalui riportate ne' celebri giuochi della Grecia; anzi accen-na (in Nem. od. 1.) di essere egli stesso venuto in Sicilia,trattovi probabilmente dalla munificenza di questo prin-cipe.

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Questa lodesi dee a Ge-rone primo re di Sira-cusa.

XXXVII. Anche i due Dionigi parvero tal-volta amatori delle lettere e protettori de'dotti. "Anzi del vecchio Dionigi narra Sui-da, che scrisse tragedie e commedie, e alcu-ne opere storiche; e del giovane, che oltrealcune lettere scrisse un opuscolo sui poemidi Epicarmo". Ma era anzi questo, singolar-

mente in Dionigi il vecchio, un pazzo capriccio di ac-quistarsi con ciò gran lode, che un vero desiderio di fo-mentare gli studj. I tre viaggi che sotto il loro regno fecePlatone in Sicilia, ne sono un chiaro argomento. Accol-tovi prima con grandi onori, quali si renderebbero a undio, quando essi videro che le massime del severo filo-sofo punto non s'accordavano colle loro, nel cacciaronobruttamente, e una volta ancora Dionigi il vecchio operòsì che il povero Platone fosse venduto schiavo. Veggasitutta la storia delle vicende accadute in Sicilia a Platonepresso il Bruckero che le ha con somma diligenza esa-minate e raccolte (Hist. Cr. Phil. t. 1, p. 649), e inun'erudita dissertazione del celebre p. Edoardo Corsinide' Viaggi di Platone in Italia, inserita nelle Simbole delproposto Gori (t. 6, p. 80). Veggansi ancora presso Dio-doro (l. 16, p. 461.) le pazzie e il furore a cui Dionigi silasciò trasportare perchè i suoi versi non furono da alcu-ni lodati, com'ei pretendeva, e perchè i comici da luimandati a' giuochi olimpici, affinchè vi cantassero i ver-

248

Condotta tenuta dai due tiranni Dionigi ri-guardo alle scienze e alle arti.

XXXVII. Anche i due Dionigi parvero tal-volta amatori delle lettere e protettori de'dotti. "Anzi del vecchio Dionigi narra Sui-da, che scrisse tragedie e commedie, e alcu-ne opere storiche; e del giovane, che oltrealcune lettere scrisse un opuscolo sui poemidi Epicarmo". Ma era anzi questo, singolar-

mente in Dionigi il vecchio, un pazzo capriccio di ac-quistarsi con ciò gran lode, che un vero desiderio di fo-mentare gli studj. I tre viaggi che sotto il loro regno fecePlatone in Sicilia, ne sono un chiaro argomento. Accol-tovi prima con grandi onori, quali si renderebbero a undio, quando essi videro che le massime del severo filo-sofo punto non s'accordavano colle loro, nel cacciaronobruttamente, e una volta ancora Dionigi il vecchio operòsì che il povero Platone fosse venduto schiavo. Veggasitutta la storia delle vicende accadute in Sicilia a Platonepresso il Bruckero che le ha con somma diligenza esa-minate e raccolte (Hist. Cr. Phil. t. 1, p. 649), e inun'erudita dissertazione del celebre p. Edoardo Corsinide' Viaggi di Platone in Italia, inserita nelle Simbole delproposto Gori (t. 6, p. 80). Veggansi ancora presso Dio-doro (l. 16, p. 461.) le pazzie e il furore a cui Dionigi silasciò trasportare perchè i suoi versi non furono da alcu-ni lodati, com'ei pretendeva, e perchè i comici da luimandati a' giuochi olimpici, affinchè vi cantassero i ver-

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Condotta tenuta dai due tiranni Dionigi ri-guardo alle scienze e alle arti.

si da lui composti, ricevuti furono colle fischiate. Io nondebbo trattenermi in tali cose più a lungo; perchè se allastoria di quelli che in Italia coltivarono e fomentaron lescienze, aggiugner volessi ancora la storia di quegli cheun tal vanto si arrogarono scioccamente, troppo ampioargomento mi si offrirebbe a trattare così per riguardo a'tempi più antichi, come ancor per riguardo a' tempimeno lontani.

XXXVIII. "A conchiudere ciò che appar-tiene alla letteratura della Magna Grecia edella Sicilia, resta a vedere fin quando inquelle provincie, e in quelle della prima sin-golarmente, continuasse la lingua greca adesser quella non solo degli scrittori, ma an-

cor del volgo. Egli è assai verisimile che la vicinanza de'Romani colla Magna Grecia facesse agli abitanti di que-sta conoscere la lor lingua; e benchè essi superbamentechiamasser barbari tutti que' che non erano Greci, moltinondimeno tra essi avran cominciato a coltivare la lin-gua latina. Nell'anno di Roma 487 tutta la Magna Greciapassò in poter de' Romani; e allora la lingua de' vincitoridovette assai più ampiamente propagarsi tra' vinti. Veg-giam di fatto pochi anni appresso, cioè l'anno 514, LivioAndronico natio di queste provincie, come mostreremotra poco, produrre prima di ogni altro sul teatro romanoun'azione drammatica; e poco appresso veggiam seguitol'esempio di Andronico da Nevio, da Ennio, da Pacuvio,

249

Fin quando durasse in quelle pro-vincie la lingua gre-ca.

si da lui composti, ricevuti furono colle fischiate. Io nondebbo trattenermi in tali cose più a lungo; perchè se allastoria di quelli che in Italia coltivarono e fomentaron lescienze, aggiugner volessi ancora la storia di quegli cheun tal vanto si arrogarono scioccamente, troppo ampioargomento mi si offrirebbe a trattare così per riguardo a'tempi più antichi, come ancor per riguardo a' tempimeno lontani.

XXXVIII. "A conchiudere ciò che appar-tiene alla letteratura della Magna Grecia edella Sicilia, resta a vedere fin quando inquelle provincie, e in quelle della prima sin-golarmente, continuasse la lingua greca adesser quella non solo degli scrittori, ma an-

cor del volgo. Egli è assai verisimile che la vicinanza de'Romani colla Magna Grecia facesse agli abitanti di que-sta conoscere la lor lingua; e benchè essi superbamentechiamasser barbari tutti que' che non erano Greci, moltinondimeno tra essi avran cominciato a coltivare la lin-gua latina. Nell'anno di Roma 487 tutta la Magna Greciapassò in poter de' Romani; e allora la lingua de' vincitoridovette assai più ampiamente propagarsi tra' vinti. Veg-giam di fatto pochi anni appresso, cioè l'anno 514, LivioAndronico natio di queste provincie, come mostreremotra poco, produrre prima di ogni altro sul teatro romanoun'azione drammatica; e poco appresso veggiam seguitol'esempio di Andronico da Nevio, da Ennio, da Pacuvio,

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Fin quando durasse in quelle pro-vincie la lingua gre-ca.

tutti natii delle provincie medesime. Sulla fine del seco-lo stesso, cioè l'anno di Roma 572, i Romani, volendoquasi mostrare di conceder per grazia ciò ch'essi deside-ravano, permisero a quei di Cuma di usare ne' pubbliciatti della lingua latina: Cumanis eo anno petentibus per-missum, ut publice latine loquerentur, et præconibus la-tine vendendi jus esset (Liv. l. 40, c. 14, n. 43). Assaimaggiori progressi dovette ivi fare la lingua latina,quando dopo la guerra marsica fu a que' popoli accorda-to l'anno 663 il diritto della cittadinanza. Di fatto Stra-bone, il quale scriveva ne' primi anni di Tiberio, si duoleche poche città allor rimanessero, che potesser tuttoraappellarsi greche. Adeoque eorum crevit potentia, diceegli parlando de' Greci che andarono ad abitare quelleprovincie (Geogr. p. 253), ut ista regio et Sicilia nominemagnæ Græciæ censerentur. At nunc Tarento, Regio, etNeapoli exceptis, omnia in barbariem sunt redacta,aliaque a Lucanis et Brutiis, alia a Campanis obtinen-tur, ab his quidem verbo, reapse a Romanis, sunt enimet ipsi Romani. Vedrem di fatto che in queste tre città, ein Napoli singolarmente, si mantenne ancor per più se-coli la lingua greca insieme però colla latina, anche allorquando la greca era in tutta l'Italia quasi interamente di-menticata. La Sicilia venne in poter de' Romani al finiredella guerra cartaginese l'anno 552, e quello perciò do-vette essere il tempo in cui la lingua latina cominciò adesservi adottata, singolarmente in grazia de' magistratiromani colà mandati a governarla. Ivi però ancora conti-nuò per più secoli ad esser coltivata l'antica lingua, e ne

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tutti natii delle provincie medesime. Sulla fine del seco-lo stesso, cioè l'anno di Roma 572, i Romani, volendoquasi mostrare di conceder per grazia ciò ch'essi deside-ravano, permisero a quei di Cuma di usare ne' pubbliciatti della lingua latina: Cumanis eo anno petentibus per-missum, ut publice latine loquerentur, et præconibus la-tine vendendi jus esset (Liv. l. 40, c. 14, n. 43). Assaimaggiori progressi dovette ivi fare la lingua latina,quando dopo la guerra marsica fu a que' popoli accorda-to l'anno 663 il diritto della cittadinanza. Di fatto Stra-bone, il quale scriveva ne' primi anni di Tiberio, si duoleche poche città allor rimanessero, che potesser tuttoraappellarsi greche. Adeoque eorum crevit potentia, diceegli parlando de' Greci che andarono ad abitare quelleprovincie (Geogr. p. 253), ut ista regio et Sicilia nominemagnæ Græciæ censerentur. At nunc Tarento, Regio, etNeapoli exceptis, omnia in barbariem sunt redacta,aliaque a Lucanis et Brutiis, alia a Campanis obtinen-tur, ab his quidem verbo, reapse a Romanis, sunt enimet ipsi Romani. Vedrem di fatto che in queste tre città, ein Napoli singolarmente, si mantenne ancor per più se-coli la lingua greca insieme però colla latina, anche allorquando la greca era in tutta l'Italia quasi interamente di-menticata. La Sicilia venne in poter de' Romani al finiredella guerra cartaginese l'anno 552, e quello perciò do-vette essere il tempo in cui la lingua latina cominciò adesservi adottata, singolarmente in grazia de' magistratiromani colà mandati a governarla. Ivi però ancora conti-nuò per più secoli ad esser coltivata l'antica lingua, e ne

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vedremo più indicj ne' secoli susseguenti".

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vedremo più indicj ne' secoli susseguenti".

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PARTE IIILetteratura de' Romani dalla fondazione di

Roma fino alla morte di Augusto.

Quella parte di storia dell'Italiana Letteratura, che ab-biam trattata finora, era involta, per modo fra le densetenebre de' secoli più remoti, che ci è convenuto aprircila via, per così dire, fra bronchi e spine, e avanzarci alenti passi, e sovente anche arrestarci per mancanza diluce, o di scorta che ne guidasse sicuramente. Ora unpiano e spazioso campo ci si offre innanzi, in cuil'ampiezza medesima è l'ostacolo presso che solo chenoi possiamo incontrare a vedere e ad esaminare con or-dine i grandi oggetti che ci si presentano allo sguardo. IRomani, quegli uomini il cui regno per presso a cinquesecoli non si distese che a poche miglia oltre Roma,sempre armati, ma costretti sempre a rivolger l'armicontro de' loro vicini vinti spesso, ma non mai abbastan-za domati, vidersi finalmente atterrate ogni argine, por-tar le armi nell'Asia e nell'Africa, conquistare provinciee regni; e al tempo medesimo volgersi quasi improvvi-samente alle scienze di cui fin allora poco, o nulla sierano mostrati curanti, e dopo aver superato i Grecicoll'armi, superarli ancora nello studio delle bell'arti.Questo è ciò che dobbiamo ora vedere e svolgere parti-tamente. A procedere con quell'ordine che è necessarioin sì ampio argomento, in tre capi ossia in tre epoche di-

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PARTE IIILetteratura de' Romani dalla fondazione di

Roma fino alla morte di Augusto.

Quella parte di storia dell'Italiana Letteratura, che ab-biam trattata finora, era involta, per modo fra le densetenebre de' secoli più remoti, che ci è convenuto aprircila via, per così dire, fra bronchi e spine, e avanzarci alenti passi, e sovente anche arrestarci per mancanza diluce, o di scorta che ne guidasse sicuramente. Ora unpiano e spazioso campo ci si offre innanzi, in cuil'ampiezza medesima è l'ostacolo presso che solo chenoi possiamo incontrare a vedere e ad esaminare con or-dine i grandi oggetti che ci si presentano allo sguardo. IRomani, quegli uomini il cui regno per presso a cinquesecoli non si distese che a poche miglia oltre Roma,sempre armati, ma costretti sempre a rivolger l'armicontro de' loro vicini vinti spesso, ma non mai abbastan-za domati, vidersi finalmente atterrate ogni argine, por-tar le armi nell'Asia e nell'Africa, conquistare provinciee regni; e al tempo medesimo volgersi quasi improvvi-samente alle scienze di cui fin allora poco, o nulla sierano mostrati curanti, e dopo aver superato i Grecicoll'armi, superarli ancora nello studio delle bell'arti.Questo è ciò che dobbiamo ora vedere e svolgere parti-tamente. A procedere con quell'ordine che è necessarioin sì ampio argomento, in tre capi ossia in tre epoche di-

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viderem questa parte (43). La prima comprenderà lo spa-zio di cinque secoli intieri, spazio di lunga durata, mascarso e sterile pe' Romani di letterarie lodi. La secondaabbraccerà la durata di circa cento anni, cioè dal finedella prima guerra cartaginese l'anno 512 fino alla di-struzione della stessa città di Cartagine l'anno 607, il

43 Il valoroso sig. ab. Denina amichevolmente si duole (Vicende della Letter.Berlino 1785, t. 1) ch'io nulla abbia detto intorno all'origine della lingualatina, dalla qual questione pareva che dovesse aver cominciamento la sto-ria della romana letteratura. E io volentieri sarei entrato a parlarne, seavessi sperato di poter dire cose che a me insieme e agli altri soddisfaces-sero. Ma come poteva io lusingarmene? Converrebbe stabilire, innanzi adogni altra cosa, qual fosse il primo popolo abitatore delle contrade che pre-ser poi il nome di Lazio. Se i Troiani vi vennero (il qual fatto sembra ad al-cuni più appoggiato alle finzioni poetiche che agli autentici documenti),essi certo vi trovarono altri abitatori. Ma chi erano essi? Rutuli, Osci, Abo-rigeni, e mille altri popoli di mille diversi nomi troviam nominati da uno,qual da altro scrittore, e ognun di essi ha in suo favore l'autorità di qualchealtro che prima di lui l'ha affermato. E ancorchè giungasi a stabilire che iRutuli, a cagion d'esempio, furono i primi a popolar que' paesi, chi ci sa dircon certezza da qual paese essi movessero, o qual fosse la lor patria lin-gua? Se poi parliamo degli etimologisti, noi troviamo tra essi tanta varietàdi opinioni, che appena sembra credibile ch'essa possa conciliarsi conquella evidenza che ad ognun sembra di avere in favor della sua. Lasciamostare l'antica e più comune opinione, benchè ora combattuta da molti, chela lingua latina traesse la sua origine dalla greca. Havvi chi le dà per ma-dre la lingua fenicia, e questa opinione al can. Mazzocchi sembra indubita-bile. Il p. Bardetti, seguendo ed illustrando sempre più il parere di altriscrittori, vuole che la lingua celtica ossia l'antica germanica abbia generatola latina, e ne trova chiarissima la derivazione in molte parole. Chi crede-rebbe che anche la lingua schiavona dovesse dirsi madre della latina? E talè nondimeno la sentenza di m. l'Evêque nella sua Storia della Russia, ilquale si lusinga di averla colle osservazioni etimologiche invincibilmentedimostrata. In somma io annovero questa tra le quistioni che non si decide-ranno giammai, e sulla quale perciò mi è sembrato e mi sembra inutile ildisputare. Nondimeno io penso (ma senza impegnarmi a difendere il miopensiero con una lunga dissertazione) che fra tutte le opinioni sia la più ve-

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viderem questa parte (43). La prima comprenderà lo spa-zio di cinque secoli intieri, spazio di lunga durata, mascarso e sterile pe' Romani di letterarie lodi. La secondaabbraccerà la durata di circa cento anni, cioè dal finedella prima guerra cartaginese l'anno 512 fino alla di-struzione della stessa città di Cartagine l'anno 607, il

43 Il valoroso sig. ab. Denina amichevolmente si duole (Vicende della Letter.Berlino 1785, t. 1) ch'io nulla abbia detto intorno all'origine della lingualatina, dalla qual questione pareva che dovesse aver cominciamento la sto-ria della romana letteratura. E io volentieri sarei entrato a parlarne, seavessi sperato di poter dire cose che a me insieme e agli altri soddisfaces-sero. Ma come poteva io lusingarmene? Converrebbe stabilire, innanzi adogni altra cosa, qual fosse il primo popolo abitatore delle contrade che pre-ser poi il nome di Lazio. Se i Troiani vi vennero (il qual fatto sembra ad al-cuni più appoggiato alle finzioni poetiche che agli autentici documenti),essi certo vi trovarono altri abitatori. Ma chi erano essi? Rutuli, Osci, Abo-rigeni, e mille altri popoli di mille diversi nomi troviam nominati da uno,qual da altro scrittore, e ognun di essi ha in suo favore l'autorità di qualchealtro che prima di lui l'ha affermato. E ancorchè giungasi a stabilire che iRutuli, a cagion d'esempio, furono i primi a popolar que' paesi, chi ci sa dircon certezza da qual paese essi movessero, o qual fosse la lor patria lin-gua? Se poi parliamo degli etimologisti, noi troviamo tra essi tanta varietàdi opinioni, che appena sembra credibile ch'essa possa conciliarsi conquella evidenza che ad ognun sembra di avere in favor della sua. Lasciamostare l'antica e più comune opinione, benchè ora combattuta da molti, chela lingua latina traesse la sua origine dalla greca. Havvi chi le dà per ma-dre la lingua fenicia, e questa opinione al can. Mazzocchi sembra indubita-bile. Il p. Bardetti, seguendo ed illustrando sempre più il parere di altriscrittori, vuole che la lingua celtica ossia l'antica germanica abbia generatola latina, e ne trova chiarissima la derivazione in molte parole. Chi crede-rebbe che anche la lingua schiavona dovesse dirsi madre della latina? E talè nondimeno la sentenza di m. l'Evêque nella sua Storia della Russia, ilquale si lusinga di averla colle osservazioni etimologiche invincibilmentedimostrata. In somma io annovero questa tra le quistioni che non si decide-ranno giammai, e sulla quale perciò mi è sembrato e mi sembra inutile ildisputare. Nondimeno io penso (ma senza impegnarmi a difendere il miopensiero con una lunga dissertazione) che fra tutte le opinioni sia la più ve-

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quale spazio di tempo si può chiamare a ragione il prin-cipio della romana letteratura. La terza finalmente com-prenderà lo spazio di oltre ad un secolo e mezzo, cioèdall'anno 607 fino all'anno 766, nel qual tempo la roma-na letteratura toccò il più alto segno della sua perfezio-ne.

risimile quella che è seguita dal ch. sig. Avvocato Giuseppe Antonio Aldi-ni nella bella sua dissertazione de Varia Latinæ Linguæ fortuna, stampatain Cesena nel 1775, cioè che la lingua latina avesse una origine somiglian-te a quella di Roma; e che come questa formossi da diversi piccioli popoliche in que' contorni abitavano, così dalle diverse lor lingue o, a dir meglio,da' diversi lor dialetti si formasse una nuova lingua, la qual da quel popoloprendesse il nome, che nella fondazion di Roma ebbe la principal parte,cioè da' Latini. Ma quali fossero le lingue di que' tanti piccioli popoli, equal origine avessero, chi può indicarcelo?

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quale spazio di tempo si può chiamare a ragione il prin-cipio della romana letteratura. La terza finalmente com-prenderà lo spazio di oltre ad un secolo e mezzo, cioèdall'anno 607 fino all'anno 766, nel qual tempo la roma-na letteratura toccò il più alto segno della sua perfezio-ne.

risimile quella che è seguita dal ch. sig. Avvocato Giuseppe Antonio Aldi-ni nella bella sua dissertazione de Varia Latinæ Linguæ fortuna, stampatain Cesena nel 1775, cioè che la lingua latina avesse una origine somiglian-te a quella di Roma; e che come questa formossi da diversi piccioli popoliche in que' contorni abitavano, così dalle diverse lor lingue o, a dir meglio,da' diversi lor dialetti si formasse una nuova lingua, la qual da quel popoloprendesse il nome, che nella fondazion di Roma ebbe la principal parte,cioè da' Latini. Ma quali fossero le lingue di que' tanti piccioli popoli, equal origine avessero, chi può indicarcelo?

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LIBRO PRIMOLetteratura de' Romani dalla fondazione di

Roma fino al termine della prima guerracartaginese.

I. L'abate le Moine d'Orgival in una suaoperetta (Considerations sur l'origine etprogrès des belles lettres chez les Romains,ec. p. 1, ec.) in cui prende a esaminare l'ori-gine, il progresso e la decadenza degli studjpresso i Romani, cerca di liberarli da quellaqualunque siasi taccia che potrebbe in lor

derivare dall'opinione ricevuta comunemente che essiper cinque secoli non conoscessero che l'armi, e la mar-ra. Di questo libro non troppo vantaggiosamente hannoparlato gli autori del Journal des Savans (an. 1750, p.616), e alcuni errori se ne sono notati ancora nelle Me-morie di Trevoux (an. 1750, févr. art. 24) e nella Storialetteraria d'Italia (t. 4, p. 253); e singolarmente pocoprobabile è sembrata questa sua proposizione. Confessaegli medesimo che affermare che ne' primi secoli diRoma vi ebber uomini dotti, sembra uno strano e im-probabile paradosso. E nondimeno egli non teme di af-fermarlo. Ma le stesse prove ch'egli ne arreca, quando sivogliano esaminare attentamente, giovano a sempre più

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Esame del-le ragioni per le quali alcuni ne-gano l'igno-ranza degli antichi Ro-mani.

LIBRO PRIMOLetteratura de' Romani dalla fondazione di

Roma fino al termine della prima guerracartaginese.

I. L'abate le Moine d'Orgival in una suaoperetta (Considerations sur l'origine etprogrès des belles lettres chez les Romains,ec. p. 1, ec.) in cui prende a esaminare l'ori-gine, il progresso e la decadenza degli studjpresso i Romani, cerca di liberarli da quellaqualunque siasi taccia che potrebbe in lor

derivare dall'opinione ricevuta comunemente che essiper cinque secoli non conoscessero che l'armi, e la mar-ra. Di questo libro non troppo vantaggiosamente hannoparlato gli autori del Journal des Savans (an. 1750, p.616), e alcuni errori se ne sono notati ancora nelle Me-morie di Trevoux (an. 1750, févr. art. 24) e nella Storialetteraria d'Italia (t. 4, p. 253); e singolarmente pocoprobabile è sembrata questa sua proposizione. Confessaegli medesimo che affermare che ne' primi secoli diRoma vi ebber uomini dotti, sembra uno strano e im-probabile paradosso. E nondimeno egli non teme di af-fermarlo. Ma le stesse prove ch'egli ne arreca, quando sivogliano esaminare attentamente, giovano a sempre più

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Esame del-le ragioni per le quali alcuni ne-gano l'igno-ranza degli antichi Ro-mani.

persuaderci che questo è di fatti uno strano e improba-bile paradosso. Egli afferma che Romolo "fu istruito intutte le scienze che al grado di lui, secondo il costume diquel tempo, si convenivano"; e il prova coll'autorità diPlutarco, ove dice che "Romolo e Remo impararono lelettere ed altre cose che d'ingenui fanciulli erano proprie(in Romulo)". Ma io non veggo perchè questo passo dialtre scienze intender si debba fuorchè di quelli de' pri-mi elementi e degli esercizj del corpo allora usati, chenoi ora diremmo arti cavalleresche. Aggiugne che il for-mare che fece Romolo i suoi Romani a grandi e magna-nime imprese "ci dà motivo di affermare ch'egli nonommettesse le scienze e le arti, che sono il più bello or-namento e la principal gloria d'uno Stato". Ma non siprova che così fosse veramente, e niun indicio ne abbia-mo negli antichi monumenti che ci sono rimasti. Nelcollegio de' pontefici da Numa istituito egli ritrovaun'accademia di dotti "che colle loro veglie e co' loroscritti potessero istruire quella moltitudine di fuorusciti,cui la severità delle leggi traeva a Roma come ad invio-labile asilo". Eppur sappiamo che Numa stesso se otten-ne il nome illustre di filosofo, ciò fu singolarmente e perle savie leggi che a' Romani prescrisse, e per l'accorgi-mento finissimo con cui per mezzo di un maestoso ap-parato di cirimonie, di sacrifizj, di pompe sacre strinse esoggettò quel ferocissimo popolo col possente freno del-la religione; che quanto alla natural filosofia non abbiamindicio alcuno a provare che Numa fosse in essa versato,se se ne tragga una lieve tintura di astronomia, di cui si

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persuaderci che questo è di fatti uno strano e improba-bile paradosso. Egli afferma che Romolo "fu istruito intutte le scienze che al grado di lui, secondo il costume diquel tempo, si convenivano"; e il prova coll'autorità diPlutarco, ove dice che "Romolo e Remo impararono lelettere ed altre cose che d'ingenui fanciulli erano proprie(in Romulo)". Ma io non veggo perchè questo passo dialtre scienze intender si debba fuorchè di quelli de' pri-mi elementi e degli esercizj del corpo allora usati, chenoi ora diremmo arti cavalleresche. Aggiugne che il for-mare che fece Romolo i suoi Romani a grandi e magna-nime imprese "ci dà motivo di affermare ch'egli nonommettesse le scienze e le arti, che sono il più bello or-namento e la principal gloria d'uno Stato". Ma non siprova che così fosse veramente, e niun indicio ne abbia-mo negli antichi monumenti che ci sono rimasti. Nelcollegio de' pontefici da Numa istituito egli ritrovaun'accademia di dotti "che colle loro veglie e co' loroscritti potessero istruire quella moltitudine di fuorusciti,cui la severità delle leggi traeva a Roma come ad invio-labile asilo". Eppur sappiamo che Numa stesso se otten-ne il nome illustre di filosofo, ciò fu singolarmente e perle savie leggi che a' Romani prescrisse, e per l'accorgi-mento finissimo con cui per mezzo di un maestoso ap-parato di cirimonie, di sacrifizj, di pompe sacre strinse esoggettò quel ferocissimo popolo col possente freno del-la religione; che quanto alla natural filosofia non abbiamindicio alcuno a provare che Numa fosse in essa versato,se se ne tragga una lieve tintura di astronomia, di cui si

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valse a regolare non troppo esattamente il calendario.Tale è ancora il sentimento del dotto Bruckero diligen-tissimo ricercatore delle opinioni degli antichi filosofi.Interim dic'egli (Hist. Critic. Philosph. t. 1, p. 347, ec.)magnum virum et legislatorem prudentissimum Numamfuisse adeo non negamus, ut facile in Plutarchi senten-tiam concedamus, præferendum esse Lycurgo legislato-rum fere principi. Verum hæc virum quidem prudentemconstituunt, qua ex causa Cicero quoque ei sapientiamconstituendæ patriæ, et Plutarchus prudentiam civilemrecte tribuunt, non vero philosophum faciunt. "Più favo-revole al sapere astronomico di Numa è m. Bailly, ilquale osserva ch'ei fu assai più esatto nel regolare il suocalendario, di quel che fossero i Greci a quei tempi(Hist. de l'Astronom. Ancienne p. 194, 435, ec.), e cheanche, secondo alcuni, egli ebbe notizia del vero sistemadel mondo, che fu poi adottato dalla scuola pittagorica;la qual lode però egli pensa, e parmi a ragione, che sen-za bastevole fondamento si attribuisca a Numa".

II. Cicerone stesso, di cui non vi ebbe mai ilpiù zelante scrittore nel sostenere le gloriedella sua patria, non ha potuto rinvenire ar-gomenti, che con qualche probabilità dimo-strassero avere i Romani fino da' primi se-

coli coltivate le scienze. Vorrebbe egli pur persuaderci(l. 4 Quæst. Tusc. in Exord.) che la pittagorica filosofiafosse dagli antichi Romani conosciuta ed abbracciata.

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Tenui indizjche abbia-mo della loro lettera-tura.

valse a regolare non troppo esattamente il calendario.Tale è ancora il sentimento del dotto Bruckero diligen-tissimo ricercatore delle opinioni degli antichi filosofi.Interim dic'egli (Hist. Critic. Philosph. t. 1, p. 347, ec.)magnum virum et legislatorem prudentissimum Numamfuisse adeo non negamus, ut facile in Plutarchi senten-tiam concedamus, præferendum esse Lycurgo legislato-rum fere principi. Verum hæc virum quidem prudentemconstituunt, qua ex causa Cicero quoque ei sapientiamconstituendæ patriæ, et Plutarchus prudentiam civilemrecte tribuunt, non vero philosophum faciunt. "Più favo-revole al sapere astronomico di Numa è m. Bailly, ilquale osserva ch'ei fu assai più esatto nel regolare il suocalendario, di quel che fossero i Greci a quei tempi(Hist. de l'Astronom. Ancienne p. 194, 435, ec.), e cheanche, secondo alcuni, egli ebbe notizia del vero sistemadel mondo, che fu poi adottato dalla scuola pittagorica;la qual lode però egli pensa, e parmi a ragione, che sen-za bastevole fondamento si attribuisca a Numa".

II. Cicerone stesso, di cui non vi ebbe mai ilpiù zelante scrittore nel sostenere le gloriedella sua patria, non ha potuto rinvenire ar-gomenti, che con qualche probabilità dimo-strassero avere i Romani fino da' primi se-

coli coltivate le scienze. Vorrebbe egli pur persuaderci(l. 4 Quæst. Tusc. in Exord.) che la pittagorica filosofiafosse dagli antichi Romani conosciuta ed abbracciata.

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Tenui indizjche abbia-mo della loro lettera-tura.

La vicinanza della Magna Grecia in cui visse Pittagora,e dopo lui tanti e sì illustri filosofi di lui discepoli, do-vette certamente, secondo lui, risvegliar ne' Romani ildesiderio di esserne essi pure istruiti. Ma tutti i vestigiche di questa pittagorica filosofia egli ha potuto trovarenell'antica Roma, si riducono all'uso di cantare ne' con-viti a suon di flauto le preclare geste degli antenati, equalche genere di poesia, che doveva essere usato, poi-chè nelle leggi delle XII tavole si vietava il valersene adanno altrui, e alla costumanza di accompagnare colsuono degli strumenti le cirimonie de' sacrifizj e i solen-ni conviti de' magistrati. Ma ognun vede quanto deboliindicj son questi a provare che lo studio della filosofiafiorisse allor tra' Romani. Anche per ciò che appartieneall'eloquenza, Cicerone confessa che non pargli di avermai letto in alcuno scrittore che que' primi consoli diRoma, benchè eloquentemente parlassero, fosser credutioratori, o che all'eloquenza fosse proposto qualchesiasipremio; ”ma solo, soggiugne egli, “qualche conghietturami muove a sospettarlo (De Cl. Orat. n. 14)". La qualconghiettura però non è altra se non quella che adducesianche dall'ab. le Moine, cioè che leggiamo esservi statiuomini possenti nel favellare i quali in diverse occasioniseppero persuadere all'esercito, al popolo, a' magistratiqualunque cosa lor piacque. Conghiettura, la qual pro-verebbe che studio di eloquenza vi ha ancor tra gli arti-giani più vili e tra' più pezzenti mendici, molti de' qualisi odono non rare volte usare ne' lor bisogni singolar-mente di una vivissima naturale eloquenza. Ma non è

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La vicinanza della Magna Grecia in cui visse Pittagora,e dopo lui tanti e sì illustri filosofi di lui discepoli, do-vette certamente, secondo lui, risvegliar ne' Romani ildesiderio di esserne essi pure istruiti. Ma tutti i vestigiche di questa pittagorica filosofia egli ha potuto trovarenell'antica Roma, si riducono all'uso di cantare ne' con-viti a suon di flauto le preclare geste degli antenati, equalche genere di poesia, che doveva essere usato, poi-chè nelle leggi delle XII tavole si vietava il valersene adanno altrui, e alla costumanza di accompagnare colsuono degli strumenti le cirimonie de' sacrifizj e i solen-ni conviti de' magistrati. Ma ognun vede quanto deboliindicj son questi a provare che lo studio della filosofiafiorisse allor tra' Romani. Anche per ciò che appartieneall'eloquenza, Cicerone confessa che non pargli di avermai letto in alcuno scrittore che que' primi consoli diRoma, benchè eloquentemente parlassero, fosser credutioratori, o che all'eloquenza fosse proposto qualchesiasipremio; ”ma solo, soggiugne egli, “qualche conghietturami muove a sospettarlo (De Cl. Orat. n. 14)". La qualconghiettura però non è altra se non quella che adducesianche dall'ab. le Moine, cioè che leggiamo esservi statiuomini possenti nel favellare i quali in diverse occasioniseppero persuadere all'esercito, al popolo, a' magistratiqualunque cosa lor piacque. Conghiettura, la qual pro-verebbe che studio di eloquenza vi ha ancor tra gli arti-giani più vili e tra' più pezzenti mendici, molti de' qualisi odono non rare volte usare ne' lor bisogni singolar-mente di una vivissima naturale eloquenza. Ma non è

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questa di cui si cerca quando si parla dello studiodell'eloquenza; ma sì di quella che coll'arte e co' precettisi forma, come nella parte precedente si è dimostrato [V.sup. par. 2, c. 2]. Appena sembrami degna di esser quiconfutata l'altra ragione che a provar l'eloquenza tra gliantichi Romani adduce l'ab. le Moine, tratta dalle belleparlate dei re, de' capitani, dei magistrati, che DionigiAlicarnasseo, Livio ed altri hanno nelle loro storie inse-rito. Vi ha forse chi non sappia essere parer comune tra'dotti, che quelle parlate furono dagli storici stessi com-poste come più loro piacque?

III. Non vi ha dunque argomento alcuno aprovare che ne' primi cinque secoli fiorisse-ro le scienze in Roma, anzi Dionigi Alicar-nasseo chiaramente ci mostra che Romolovietato avea a' Romani il coltivarle: Romu-

lus, dice egli (l. 2, c. 28), artes sedentarias ac illibera-les... servis et exteris exercendas dedit; et diu apud Ro-manos hac opera habita sunt ignominiosa, nec ullus in-digena ea exercuit; duo vero studia sola ingenuis homi-nibus reliquit, agriculturam, et bellicam artem. E chequesta legge di Romolo durasse lungamente nel suo vi-gore, più chiaro ancora vedrassi dalla storia de' tempiseguenti, ne' quali vedremo ciascheduna scienza avere laprima origine, e cominciare, talvolta ancora non senzacontrasto, a introdursi in Roma. Egli è vero che, comedetto abbiamo nella prima parte di quest'opera, solevano

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Romolo aveva loro vietato l'apprender le scienze.

questa di cui si cerca quando si parla dello studiodell'eloquenza; ma sì di quella che coll'arte e co' precettisi forma, come nella parte precedente si è dimostrato [V.sup. par. 2, c. 2]. Appena sembrami degna di esser quiconfutata l'altra ragione che a provar l'eloquenza tra gliantichi Romani adduce l'ab. le Moine, tratta dalle belleparlate dei re, de' capitani, dei magistrati, che DionigiAlicarnasseo, Livio ed altri hanno nelle loro storie inse-rito. Vi ha forse chi non sappia essere parer comune tra'dotti, che quelle parlate furono dagli storici stessi com-poste come più loro piacque?

III. Non vi ha dunque argomento alcuno aprovare che ne' primi cinque secoli fiorisse-ro le scienze in Roma, anzi Dionigi Alicar-nasseo chiaramente ci mostra che Romolovietato avea a' Romani il coltivarle: Romu-

lus, dice egli (l. 2, c. 28), artes sedentarias ac illibera-les... servis et exteris exercendas dedit; et diu apud Ro-manos hac opera habita sunt ignominiosa, nec ullus in-digena ea exercuit; duo vero studia sola ingenuis homi-nibus reliquit, agriculturam, et bellicam artem. E chequesta legge di Romolo durasse lungamente nel suo vi-gore, più chiaro ancora vedrassi dalla storia de' tempiseguenti, ne' quali vedremo ciascheduna scienza avere laprima origine, e cominciare, talvolta ancora non senzacontrasto, a introdursi in Roma. Egli è vero che, comedetto abbiamo nella prima parte di quest'opera, solevano

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Romolo aveva loro vietato l'apprender le scienze.

in questi primi tempi i Romani nell'etrusche lettereistruirsi (V. sup. p. 109). Ma benchè uomini colti fossergli Etruschi, il veder nondimeno che i Romani la lorosuperstizione appresero solamente e non il loro sapere,ci dà motivo di credere che la scienza degli augurj, degliauspici e di altre somiglianti superstiziose osservazionifosse la sola scienza etrusca di cui andassero in cerca iRomani.

IV. Lo stesso ab. le Moine, dopo avereusato ogni sforzo a mostrare i Romanide' primi secoli amatori delle scienze,pare che riconosca egli stesso che assai

debole e languido fu un tal amore; perciocchè pocodopo così soggiugne (p. 10): "Era ben difficile che siscrivesse allora pulitamente e che si usasse un parlareelegante e colto: lo stato degli affari nol permetteva.Uno stato incerto ancora e ondeggiante, le continue di-scordie tra 'l senato ed il popolo, il successivo e variocambiamento di governo di re, di consoli, di tribuni mi-litari; lo spirito di conquista proprio di questa nazione,le continue guerre con popoli più dell'agricoltura solle-citi che non degli studj, la necessità di aver semprel'armi alla mano, e di star notte e giorno in faccia al ne-mico, tutto ciò impediva ai Romani l'applicarsi unica-mente (meglio forse avrebbe detto l'applicarsi punto)alle scienze". A questa ragione, presa dalla dura situa-zione in cui erano i Romani ne' primi secoli, un'altra ne

260

Per quali ragioni non s'introduces-sero che tardi tra loro.

in questi primi tempi i Romani nell'etrusche lettereistruirsi (V. sup. p. 109). Ma benchè uomini colti fossergli Etruschi, il veder nondimeno che i Romani la lorosuperstizione appresero solamente e non il loro sapere,ci dà motivo di credere che la scienza degli augurj, degliauspici e di altre somiglianti superstiziose osservazionifosse la sola scienza etrusca di cui andassero in cerca iRomani.

IV. Lo stesso ab. le Moine, dopo avereusato ogni sforzo a mostrare i Romanide' primi secoli amatori delle scienze,pare che riconosca egli stesso che assai

debole e languido fu un tal amore; perciocchè pocodopo così soggiugne (p. 10): "Era ben difficile che siscrivesse allora pulitamente e che si usasse un parlareelegante e colto: lo stato degli affari nol permetteva.Uno stato incerto ancora e ondeggiante, le continue di-scordie tra 'l senato ed il popolo, il successivo e variocambiamento di governo di re, di consoli, di tribuni mi-litari; lo spirito di conquista proprio di questa nazione,le continue guerre con popoli più dell'agricoltura solle-citi che non degli studj, la necessità di aver semprel'armi alla mano, e di star notte e giorno in faccia al ne-mico, tutto ciò impediva ai Romani l'applicarsi unica-mente (meglio forse avrebbe detto l'applicarsi punto)alle scienze". A questa ragione, presa dalla dura situa-zione in cui erano i Romani ne' primi secoli, un'altra ne

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Per quali ragioni non s'introduces-sero che tardi tra loro.

aggiugne l'autore di un'opera sopra le Antichità di Romastampata in Dublino l'anno 1724, di cui una piccola par-te è stata estratta ed inserita nelle memorie di Trevoux(an. 1751, janv. p. 252, févr. p. 466.) col titolo: Saggiostorico sopra la letteratura de' Romani; ove così ragio-na: "Quando si considerano i cominciamenti del romanoimpero, la forza che ricevette dapprima dal suo legisla-tore, e le qualità de' primi membri che lo composeroniuno si maraviglia al vedere in questo nascente popolouna cotale ferocia interamente opposta alla pulitezza ealle maniere proprie di un popolo ben coltivato. Questarozza barbarie cambiossi insensibilmente in una austeraalterigia, per cui i primi eroi di Roma contenti de' solisoccorsi della natura disprezzarono quelli dell'arte, dallaquale essi non presero cosa alcuna, onde rischiarare lalor ragione e avvivare il natio loro coraggio. Essi nonconobbero punto nè il pregio delle opere d'ingegno, nè ivantaggi dello studio cui considerarono come frivola oc-cupazione, e alla gravità di un cittadino non convenien-te. E in un tal pregiudizio più ancor confermolli il vede-re che con un'esatta militar disciplina e con una singola-re costanza soggiogavano altre nazioni che meno ancoradi loro versate erano negli studj".

V. Questa feroce alterigia, nata per così diree cresciuta insieme co' Romani, fece sì che,benchè vicini essi fossero agli Etruschi eagli abitatori della Magna Grecia, popoli,

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Altre ragio-ni della loro igno-ranza.

aggiugne l'autore di un'opera sopra le Antichità di Romastampata in Dublino l'anno 1724, di cui una piccola par-te è stata estratta ed inserita nelle memorie di Trevoux(an. 1751, janv. p. 252, févr. p. 466.) col titolo: Saggiostorico sopra la letteratura de' Romani; ove così ragio-na: "Quando si considerano i cominciamenti del romanoimpero, la forza che ricevette dapprima dal suo legisla-tore, e le qualità de' primi membri che lo composeroniuno si maraviglia al vedere in questo nascente popolouna cotale ferocia interamente opposta alla pulitezza ealle maniere proprie di un popolo ben coltivato. Questarozza barbarie cambiossi insensibilmente in una austeraalterigia, per cui i primi eroi di Roma contenti de' solisoccorsi della natura disprezzarono quelli dell'arte, dallaquale essi non presero cosa alcuna, onde rischiarare lalor ragione e avvivare il natio loro coraggio. Essi nonconobbero punto nè il pregio delle opere d'ingegno, nè ivantaggi dello studio cui considerarono come frivola oc-cupazione, e alla gravità di un cittadino non convenien-te. E in un tal pregiudizio più ancor confermolli il vede-re che con un'esatta militar disciplina e con una singola-re costanza soggiogavano altre nazioni che meno ancoradi loro versate erano negli studj".

V. Questa feroce alterigia, nata per così diree cresciuta insieme co' Romani, fece sì che,benchè vicini essi fossero agli Etruschi eagli abitatori della Magna Grecia, popoli,

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Altre ragio-ni della loro igno-ranza.

come si è detto, colti assai e delle liberali arti somma-mente studiosi, sdegnaronsi nondimeno di approfittarsidella favorevole occasione che loro si offeriva di colti-vare lo spirito e d'istruirsi nelle scienze. Co' Greci appe-na ebbero i Romani ne' primi secoli commercio alcuno.Tutte le altre straniere nazioni eran da essi consideratecome indegne di venire a confronto colla grandezza ecolla maestà del loro nome, e troppo avrebbon essi pen-sato di abbassarsi, se le avesser prese a maestre e fatti sene fossero imitatori. Quindi trattene le cerimonie e i ritiappartenenti al culto de' loro iddii, ne' quali pare che iRomani da' popoli d'ogni parte del mondo raccogliesse-ro quanto vi aveva di più superstizioso, in tutte le altrecose sdegnaronsi essi di sembrar debitori di cosa alcunaad altrui. Un'altra ragione ancora, secondo la riflessiondel Bruckero (t. 2, p. 6), concorse a rendere i Romaniper lungo tempo nemici di ogni sorta di studj. Temevanoque' gravissimi magistrati che se i giovani presi fosseroun giorno dall'amor delle lettere, questo non venisse araffreddare daprima, e poscia ad estinguere interamentequel guerriero vigore che fin allora aveano conservato, ea render loro increscevole quella stentata e faticosa vitache aveano fin allora condotta. Per tutte queste ragioninon furono gli antichi Romani punto solleciti di tutto ciòche a lettere ed a scienze appartiene. Alcuni ben rozziversi e senza alcuna armonia usati talvolta nelle solennipompe e ne' sagrifizj, certe rusticane e buffonesche poe-sie recitate sopra i teatri, gli annali scritti da' pontefici,in cui i più memorabili avvenimenti della Repubblica

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come si è detto, colti assai e delle liberali arti somma-mente studiosi, sdegnaronsi nondimeno di approfittarsidella favorevole occasione che loro si offeriva di colti-vare lo spirito e d'istruirsi nelle scienze. Co' Greci appe-na ebbero i Romani ne' primi secoli commercio alcuno.Tutte le altre straniere nazioni eran da essi consideratecome indegne di venire a confronto colla grandezza ecolla maestà del loro nome, e troppo avrebbon essi pen-sato di abbassarsi, se le avesser prese a maestre e fatti sene fossero imitatori. Quindi trattene le cerimonie e i ritiappartenenti al culto de' loro iddii, ne' quali pare che iRomani da' popoli d'ogni parte del mondo raccogliesse-ro quanto vi aveva di più superstizioso, in tutte le altrecose sdegnaronsi essi di sembrar debitori di cosa alcunaad altrui. Un'altra ragione ancora, secondo la riflessiondel Bruckero (t. 2, p. 6), concorse a rendere i Romaniper lungo tempo nemici di ogni sorta di studj. Temevanoque' gravissimi magistrati che se i giovani presi fosseroun giorno dall'amor delle lettere, questo non venisse araffreddare daprima, e poscia ad estinguere interamentequel guerriero vigore che fin allora aveano conservato, ea render loro increscevole quella stentata e faticosa vitache aveano fin allora condotta. Per tutte queste ragioninon furono gli antichi Romani punto solleciti di tutto ciòche a lettere ed a scienze appartiene. Alcuni ben rozziversi e senza alcuna armonia usati talvolta nelle solennipompe e ne' sagrifizj, certe rusticane e buffonesche poe-sie recitate sopra i teatri, gli annali scritti da' pontefici,in cui i più memorabili avvenimenti della Repubblica

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accennavano col più digiuno e più secco stile che mai sipotesse; ecco tutti i monumenti che del sapere degli an-tichi Romani ci sono rimasti, come confessa lo stessoab. le Moine (p. 8, ec.). La tragedia, la commedia, ilpoema, la storia, la rettorica, la filosofia, anzi la grama-tica stessa eran nomi sconosciuti tra loro, e in tutte lestorie romane noi non troviamo menzione di un solo ne'primi secoli, che in alta stima salisse pel suo sapere.Egli è vero che troviamo scuole in Roma fin dal princi-pio del quarto secolo; perciocchè Dionigi Alicarnasseo(p. 709) racconta che Appio Claudio, mentre era decem-viro, cioè circa l'an. 303, avvenutosi a vedere una fan-ciulla figliuola di L. Virginio, mentre ne stava in iscuolaleggendo, dum in ludo literario legeret, se ne invaghì; eanzi aggiugne: tunc autem puerorum ludi literarii erantcirca forum. Il che pure in somigliante maniera si narrada Livio (l. 3, c. 44). Ma assicurandoci Svetonio che lagramatica cominciò assai più tardi ad essere coltivata inRoma, pare evidente che queste non fossero scuole chede' primi elementi, a cui perciò le fanciulle ancora inter-venissero, e vi apprendessero a leggere e a scrivere.

VI. Il solo studio delle leggi ebbe a queltempo alcuni coltivatori; poichè avendoRoma le sue leggi necessariamente esserevi doveva chi facessene attento studio perinterpretarle al bisogno. In esse certo do-

veva esser versato quel famoso Papirio, il quale a' tempi

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La sola giuri-sprudenza ebbequalche colti-vatore.

accennavano col più digiuno e più secco stile che mai sipotesse; ecco tutti i monumenti che del sapere degli an-tichi Romani ci sono rimasti, come confessa lo stessoab. le Moine (p. 8, ec.). La tragedia, la commedia, ilpoema, la storia, la rettorica, la filosofia, anzi la grama-tica stessa eran nomi sconosciuti tra loro, e in tutte lestorie romane noi non troviamo menzione di un solo ne'primi secoli, che in alta stima salisse pel suo sapere.Egli è vero che troviamo scuole in Roma fin dal princi-pio del quarto secolo; perciocchè Dionigi Alicarnasseo(p. 709) racconta che Appio Claudio, mentre era decem-viro, cioè circa l'an. 303, avvenutosi a vedere una fan-ciulla figliuola di L. Virginio, mentre ne stava in iscuolaleggendo, dum in ludo literario legeret, se ne invaghì; eanzi aggiugne: tunc autem puerorum ludi literarii erantcirca forum. Il che pure in somigliante maniera si narrada Livio (l. 3, c. 44). Ma assicurandoci Svetonio che lagramatica cominciò assai più tardi ad essere coltivata inRoma, pare evidente che queste non fossero scuole chede' primi elementi, a cui perciò le fanciulle ancora inter-venissero, e vi apprendessero a leggere e a scrivere.

VI. Il solo studio delle leggi ebbe a queltempo alcuni coltivatori; poichè avendoRoma le sue leggi necessariamente esserevi doveva chi facessene attento studio perinterpretarle al bisogno. In esse certo do-

veva esser versato quel famoso Papirio, il quale a' tempi

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La sola giuri-sprudenza ebbequalche colti-vatore.

di Tarquinio il superbo per volere del senato e del popolromano raccolse e ordinò tutte le leggi che da' predeces-sori di lui erano stare promulgate, affinchè non avesseeffetto il disegno che formato avea Tarquinio di abolirletutte, e di reggere a suo capriccio l'impero. Ne fu dun-que data a Papirio la commissione, ed egli sì felicemen-te la adempiè, che le leggi da lui raccolte ebbero il nomedi codice papiriano. I frammenti che di esso ci sono ri-masti, sono stati raccolti dal dotto avvocato AntonioTerrasson nell'erudita sua Storia della romana giurispru-denza (part. 1, §. 5, 6, ec.). Maggiore ancora esser do-vette lo studio delle leggi verso il principio del quartosecol di Roma; quando la solenne deputazione si fece ditre cittadini, acciocchè recandosi ad Atene e alle altrecittà della Grecia, tutte ne raccogliessero le migliori leg-gi che vi trovassero pubblicate; e quindi un magistratodi Dieci fu eletto che di tutte queste leggi formasse uncorpo, il quale a stabile regolamento servisse della Re-pubblica, e che fu poi chiamato col nome di leggi delleXII. tavole. Io, non tratterrommi a parlarne più lunga-mente, poichè e tutti gli scrittori della storia romana, etutti i trattatori della romana giurisprudenza ne han fa-vellato. Ma veggasi singolarmente ciò che ne ha scrittoil soprallodato avvocato Terrasson, il quale questo fattoancora ha difeso (part. 2, §. 1.) contro GiambattistaVico che lo ha rivocato in dubbio (Principj di unascienza nuova intorno alla natura delle nazioni), e con-tro m. de Bonamy che senza contradire al fatto ne com-batte il più delle circostanze, così che il fatto stesso può

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di Tarquinio il superbo per volere del senato e del popolromano raccolse e ordinò tutte le leggi che da' predeces-sori di lui erano stare promulgate, affinchè non avesseeffetto il disegno che formato avea Tarquinio di abolirletutte, e di reggere a suo capriccio l'impero. Ne fu dun-que data a Papirio la commissione, ed egli sì felicemen-te la adempiè, che le leggi da lui raccolte ebbero il nomedi codice papiriano. I frammenti che di esso ci sono ri-masti, sono stati raccolti dal dotto avvocato AntonioTerrasson nell'erudita sua Storia della romana giurispru-denza (part. 1, §. 5, 6, ec.). Maggiore ancora esser do-vette lo studio delle leggi verso il principio del quartosecol di Roma; quando la solenne deputazione si fece ditre cittadini, acciocchè recandosi ad Atene e alle altrecittà della Grecia, tutte ne raccogliessero le migliori leg-gi che vi trovassero pubblicate; e quindi un magistratodi Dieci fu eletto che di tutte queste leggi formasse uncorpo, il quale a stabile regolamento servisse della Re-pubblica, e che fu poi chiamato col nome di leggi delleXII. tavole. Io, non tratterrommi a parlarne più lunga-mente, poichè e tutti gli scrittori della storia romana, etutti i trattatori della romana giurisprudenza ne han fa-vellato. Ma veggasi singolarmente ciò che ne ha scrittoil soprallodato avvocato Terrasson, il quale questo fattoancora ha difeso (part. 2, §. 1.) contro GiambattistaVico che lo ha rivocato in dubbio (Principj di unascienza nuova intorno alla natura delle nazioni), e con-tro m. de Bonamy che senza contradire al fatto ne com-batte il più delle circostanze, così che il fatto stesso può

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rimanere dubbioso (Mémoir. de l'Acad. des Inscript. t.12, p. 27). Una cosa sola io qui osservo a render semprepiù evidente che ben rozzi erano ancor i Romani a queltempo, perciocchè a interpretar le leggi recate di Greciafu loro d'uopo valersi dell'opera di un certo Ermodoro diEfeso, che allora trovavasi in Roma; e a cui perciò amonumento di gratitudine fu innalzata una statua. Fuit,dice Plinio (l. 34, c. 5), et Hermodori Ephesii (statua),legum, quas decemviri scribebant, interpretis publicedicata. Questo studio medesimo sostenuto dalla necessi-tà di render giustizia nelle civili e nelle criminali causesempre si mantenne tra' Romani in vigore. Il Terrassonalcuni giureconsulti annovera che a questi tempi fioriro-no, e tra essi singolarmente Appio Claudio Centemmanoo, come altri scrivono, Centumalo, Sempronio, e TiberioCoruncanio che fu console l'anno 473, del quale diceche fu il primo ad aprir pubblica scuola di giurispruden-za. Di lui parla ancor Cicerone con somma lode (Brut.num. 14; Or. pro Domo n. 54).

VII. Tal fu lo stato della romana letteraturane' primi cinque secoli della Repubblica; eforse più lungo tempo ancora avrebbon iRomani sprezzate, anzi ignorate le scienza,se le stesse loro conquiste non gli avesseroin certo modo riscossi. Ella è opinion rice-vuta comunemente, che il commercio co'

Greci fosse l'origine dell'amore e della stima in cui co-

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Da' popoli della Gre-cia Magna ebbero i primi lumi delle scien-ze.

rimanere dubbioso (Mémoir. de l'Acad. des Inscript. t.12, p. 27). Una cosa sola io qui osservo a render semprepiù evidente che ben rozzi erano ancor i Romani a queltempo, perciocchè a interpretar le leggi recate di Greciafu loro d'uopo valersi dell'opera di un certo Ermodoro diEfeso, che allora trovavasi in Roma; e a cui perciò amonumento di gratitudine fu innalzata una statua. Fuit,dice Plinio (l. 34, c. 5), et Hermodori Ephesii (statua),legum, quas decemviri scribebant, interpretis publicedicata. Questo studio medesimo sostenuto dalla necessi-tà di render giustizia nelle civili e nelle criminali causesempre si mantenne tra' Romani in vigore. Il Terrassonalcuni giureconsulti annovera che a questi tempi fioriro-no, e tra essi singolarmente Appio Claudio Centemmanoo, come altri scrivono, Centumalo, Sempronio, e TiberioCoruncanio che fu console l'anno 473, del quale diceche fu il primo ad aprir pubblica scuola di giurispruden-za. Di lui parla ancor Cicerone con somma lode (Brut.num. 14; Or. pro Domo n. 54).

VII. Tal fu lo stato della romana letteraturane' primi cinque secoli della Repubblica; eforse più lungo tempo ancora avrebbon iRomani sprezzate, anzi ignorate le scienza,se le stesse loro conquiste non gli avesseroin certo modo riscossi. Ella è opinion rice-vuta comunemente, che il commercio co'

Greci fosse l'origine dell'amore e della stima in cui co-

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Da' popoli della Gre-cia Magna ebbero i primi lumi delle scien-ze.

minciarono i Romani ad aver gli studi delle bell'arti. Mase per Greci intendansi, come intendonsi per lo più, gliabitatori di quella che propriamente si dice Grecia, laquale di tutte le scienze è creduta e detta ordinariamentemadre e maestra, opinione alcuna non fu mai più falsa epiù insussistente di questa; perciocchè appena aveanoallora a Romani avuto ancora con essi commercio alcu-no. Una diligente riflessione sulle cose avvenute sul fi-nire del quinto secolo di Roma ci aprirà, io spero, la viaa conoscere la prima origine dell'amor delle lettere tra'Romani, la qual io non so se sia stata ancora da altri at-tentamente esaminata. Tre popoli erano allor nell'Italia,presso i quali da lungo tempo si coltivavan le scienze;gli Etruschi, gli abitatori della Magna Grecia, e i popolidella Sicilia. Or se noi ci facciamo a riflettere sulla sto-ria di Roma, noi troviamo che l'anno 473 gli Etruschi, iquali lunghe guerre sostenute aveano contro i Romani,furono interamente domati, e che l'anno 487 ottennerofinalmente i Romani medesimi, che tutti i popoli dellaMagna Grecia, molti de' quali avean fin allora sostenutavalorosamente l'antica lor libertà, ad essi pienamente sisoggettassero. Venute queste provincie in poter de' Ro-mani, molti de' loro abitatori dovettero naturalmente ve-nire a Roma; e quelli singolarmente che per sapere era-no illustri, non potendo più sperare nella soggiogata lorpatria que' pubblici onori di cui prima godevano, dovet-tero facilmente determinarsi a venire in cerca della lorsorte presso ai nuovi loro signori. Vedremo in fatti trapoco che i primi poeti che conosciuti furono in Roma,

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minciarono i Romani ad aver gli studi delle bell'arti. Mase per Greci intendansi, come intendonsi per lo più, gliabitatori di quella che propriamente si dice Grecia, laquale di tutte le scienze è creduta e detta ordinariamentemadre e maestra, opinione alcuna non fu mai più falsa epiù insussistente di questa; perciocchè appena aveanoallora a Romani avuto ancora con essi commercio alcu-no. Una diligente riflessione sulle cose avvenute sul fi-nire del quinto secolo di Roma ci aprirà, io spero, la viaa conoscere la prima origine dell'amor delle lettere tra'Romani, la qual io non so se sia stata ancora da altri at-tentamente esaminata. Tre popoli erano allor nell'Italia,presso i quali da lungo tempo si coltivavan le scienze;gli Etruschi, gli abitatori della Magna Grecia, e i popolidella Sicilia. Or se noi ci facciamo a riflettere sulla sto-ria di Roma, noi troviamo che l'anno 473 gli Etruschi, iquali lunghe guerre sostenute aveano contro i Romani,furono interamente domati, e che l'anno 487 ottennerofinalmente i Romani medesimi, che tutti i popoli dellaMagna Grecia, molti de' quali avean fin allora sostenutavalorosamente l'antica lor libertà, ad essi pienamente sisoggettassero. Venute queste provincie in poter de' Ro-mani, molti de' loro abitatori dovettero naturalmente ve-nire a Roma; e quelli singolarmente che per sapere era-no illustri, non potendo più sperare nella soggiogata lorpatria que' pubblici onori di cui prima godevano, dovet-tero facilmente determinarsi a venire in cerca della lorsorte presso ai nuovi loro signori. Vedremo in fatti trapoco che i primi poeti che conosciuti furono in Roma,

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furon presso che tutti di alcuna di queste provincie,come Livio Andronico, Nevio, Ennio, Pacuvio ed altri.Questi furon dunque veracemente coloro che il primoamor delle lettere accesero in cuore a' Romani, i qualiveggendo che le nazioni da lor soggiogate aveano ingran pregio le scienze e i loro coltivatori, vergognaronsidi esser da meno di essi, e cominciaron prima a favorireessi pure quelli che per letteratura erano più rinnomati, equindi presero ad amare e a coltivar essi pure quegli stu-dj che onoravano in altrui. La prima guerra cartaginese,che a questo tempo medesimo, cioè l'anno 489, ebbe co-minciamento, ritardò di alcuni anni l'effetto che la venu-ta di questi stranieri a Roma cominciava a produrre; mainsieme una nuova occasione diede a' Romani di conce-pire stima sempre maggiore delle lettere e de' letterati.Non aveano essi mai fino allora posto il piede fuorid'Italia. Le loro guerre erano sempre state o con popoliconfinanti, o con nazioni straniere bensì e lontane, mavenute a molestarli ne' loro stati. Ma questa guerra co-strinseli a portar l'armi ora in Sicilia, ora in Sardegna, ornell'Affrica stessa. Io non penso che nè la Sardegna, nèl'Affrica non giovassero molto a destare in essi l'amordelle scienze. Ma la Sicilia fioriva allora mirabilmentepel coltivamento degli studj e della poesia in particolarmodo: perciocchè vivea forse ancora Teocrito che fiorì,come dicemmo, verso l'olimp. CXXX che coincide ap-punto co' tempi di cui parliamo. Le cose dunque che aglisguardi de' Romani si offrirono in Sicilia, le azioni tea-trali che videro ivi rappresentarsi, e gli onori che osser-

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furon presso che tutti di alcuna di queste provincie,come Livio Andronico, Nevio, Ennio, Pacuvio ed altri.Questi furon dunque veracemente coloro che il primoamor delle lettere accesero in cuore a' Romani, i qualiveggendo che le nazioni da lor soggiogate aveano ingran pregio le scienze e i loro coltivatori, vergognaronsidi esser da meno di essi, e cominciaron prima a favorireessi pure quelli che per letteratura erano più rinnomati, equindi presero ad amare e a coltivar essi pure quegli stu-dj che onoravano in altrui. La prima guerra cartaginese,che a questo tempo medesimo, cioè l'anno 489, ebbe co-minciamento, ritardò di alcuni anni l'effetto che la venu-ta di questi stranieri a Roma cominciava a produrre; mainsieme una nuova occasione diede a' Romani di conce-pire stima sempre maggiore delle lettere e de' letterati.Non aveano essi mai fino allora posto il piede fuorid'Italia. Le loro guerre erano sempre state o con popoliconfinanti, o con nazioni straniere bensì e lontane, mavenute a molestarli ne' loro stati. Ma questa guerra co-strinseli a portar l'armi ora in Sicilia, ora in Sardegna, ornell'Affrica stessa. Io non penso che nè la Sardegna, nèl'Affrica non giovassero molto a destare in essi l'amordelle scienze. Ma la Sicilia fioriva allora mirabilmentepel coltivamento degli studj e della poesia in particolarmodo: perciocchè vivea forse ancora Teocrito che fiorì,come dicemmo, verso l'olimp. CXXX che coincide ap-punto co' tempi di cui parliamo. Le cose dunque che aglisguardi de' Romani si offrirono in Sicilia, le azioni tea-trali che videro ivi rappresentarsi, e gli onori che osser-

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varono rendersi a' poeti, dovettero nell'animo loro ac-cendere una lodevole emulazione, e determinarli a nonessere in questo genere di lodi inferiori a una nazione acui per ogni altro capo erano di gran lunga superiori. Infatti terminata appena la guerra, il che accadde l'anno diRoma 512, e soggettata pel trattato di pace parte dellaSicilia a' Romani, vidersi tosto poeti in Roma, si viderosu' teatri commedie e tragedie, cominciarono a comporsipoemi, e, come le scienze tutte si danno vicendevolmen-te aiuto e sostegno, gli altri studj ancora, qual più presto,qual meno, vidersi coltivati felicemente. Da tutte le qua-li cose egli è a parer mio evidente che a' mentovati trepopoli italiani, e non già a' Greci furon debitori i Roma-ni del rivolgersi che finalmente fecero agli studj. Nonnegherò già io che il commercio co' Greci giovasse po-scia non poco a perfezionare la romana letteratura; ma ame basta l'osservare che come gli antichi abitatori d'Ita-lia al loro genio medesimo dovettero in parte il feliceriuscimento lor nelle scienze e nelle arti, così i Romanida' popoli d'Italia, e non da quei della Grecia, appreseroprimieramente le scienze stesse. Ma è omai a vederepartitamente quali fosser gli studi che prima di tutti rice-vuti furono in Roma, quali poscia vi s'introducessero equale avanzamento in essi fecero i Romani.

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varono rendersi a' poeti, dovettero nell'animo loro ac-cendere una lodevole emulazione, e determinarli a nonessere in questo genere di lodi inferiori a una nazione acui per ogni altro capo erano di gran lunga superiori. Infatti terminata appena la guerra, il che accadde l'anno diRoma 512, e soggettata pel trattato di pace parte dellaSicilia a' Romani, vidersi tosto poeti in Roma, si viderosu' teatri commedie e tragedie, cominciarono a comporsipoemi, e, come le scienze tutte si danno vicendevolmen-te aiuto e sostegno, gli altri studj ancora, qual più presto,qual meno, vidersi coltivati felicemente. Da tutte le qua-li cose egli è a parer mio evidente che a' mentovati trepopoli italiani, e non già a' Greci furon debitori i Roma-ni del rivolgersi che finalmente fecero agli studj. Nonnegherò già io che il commercio co' Greci giovasse po-scia non poco a perfezionare la romana letteratura; ma ame basta l'osservare che come gli antichi abitatori d'Ita-lia al loro genio medesimo dovettero in parte il feliceriuscimento lor nelle scienze e nelle arti, così i Romanida' popoli d'Italia, e non da quei della Grecia, appreseroprimieramente le scienze stesse. Ma è omai a vederepartitamente quali fosser gli studi che prima di tutti rice-vuti furono in Roma, quali poscia vi s'introducessero equale avanzamento in essi fecero i Romani.

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LIBRO SECONDOLetteratura de' Romani dal fine della prima

guerra cartaginese fino alla distruzion diCartagine.

CAPO I Poesia

I. Come di molte altre nazioni, così ancorde' Romani avvenne che la prima tra le bellearti che tra loro ebber ricetto, fu la poesia. Ache non solo dovette concorrere il piacereche essa naturalmente arreca, tra il fiorireancora ch'ella faceva allora nella Sicilia eprobabilmente anche nella Magna Grecia.Tra i diversi generi di poesia, la teatrale

ebbe il vanto di esser prescelta. Io so bene che qualcheabbozzo, per così dire, di teatral poesia erasi già vedutoin Roma, ma così rozzo che appena ne merita il nome.Se n'è parlato di sopra trattando degli Etruschi, e si puòvedere ciò che ne dice il Quadrio (t. 4, p. 37, ec.), e noiancora vedrem frappoco in che consistesse. Livio An-dronico fu il primo che in Roma la coltivasse, appena laprima guerra cartaginese ebbe fine. "Livio, dice Cicero-ne (De Cl. Orat. n. 18), il quale il primo, nel consolatodi C. Clodio figliuol di Appio Cieco e di M. Tuditano,

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Per qual ra-gione e come la poesia pri-ma delle al-tre belle arti s'intro-ducesse in Roma.

LIBRO SECONDOLetteratura de' Romani dal fine della prima

guerra cartaginese fino alla distruzion diCartagine.

CAPO I Poesia

I. Come di molte altre nazioni, così ancorde' Romani avvenne che la prima tra le bellearti che tra loro ebber ricetto, fu la poesia. Ache non solo dovette concorrere il piacereche essa naturalmente arreca, tra il fiorireancora ch'ella faceva allora nella Sicilia eprobabilmente anche nella Magna Grecia.Tra i diversi generi di poesia, la teatrale

ebbe il vanto di esser prescelta. Io so bene che qualcheabbozzo, per così dire, di teatral poesia erasi già vedutoin Roma, ma così rozzo che appena ne merita il nome.Se n'è parlato di sopra trattando degli Etruschi, e si puòvedere ciò che ne dice il Quadrio (t. 4, p. 37, ec.), e noiancora vedrem frappoco in che consistesse. Livio An-dronico fu il primo che in Roma la coltivasse, appena laprima guerra cartaginese ebbe fine. "Livio, dice Cicero-ne (De Cl. Orat. n. 18), il quale il primo, nel consolatodi C. Clodio figliuol di Appio Cieco e di M. Tuditano,

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Per qual ra-gione e come la poesia pri-ma delle al-tre belle arti s'intro-ducesse in Roma.

pose sulla scena un'azion teatrale, l'anno innanzi alla na-scita di Ennio, cioè l'anno 514 dopo la fondazion diRoma, come dice l'autore che noi seguiamo (cioè Atti-co); perciocchè intorno al numero degli anni vi ha con-troversia tra gli scrittori". In fatti ne' Fasti Capitolini idue consoli mentovati si veggon segnati l'anno prece-dente; e Cicerone stesso altrove più dubbiosamente ra-giona di quest'epoca. "Circa 510 anni, egli dice (Tusc.Quæst. l. 1 in Exord.), dopo la fondazion di Roma Liviorappresentar fece una favola teatrale, essendo consoli C.Claudio (che è lo stesso che Clodio) figliuol del Cieco, eM. Tuditano, un anno innanzi al nascer di Ennio". Il cheper ultimo da Gellio ancor si conferma (Noct. Att. l. 17,c. 21): "Essendo consoli (C. Claudio) Centone figliuoldi Appio Cieco e M. Sempronio Tuditano, Livio primad'ogni altro rappresentar fece in Roma una favola teatra-le".

II. Noi abbiamo dunque l'autore della primaazion teatrale che si vedesse in Roma, el'epoca ancora ne abbiamo che noi coll'auto-rità de' Fasti Capitolini fisseremo all'anno513. Piacemi a questo luogo di riportare il

passo dello storico Livio, ove tutta l'origine del teatroromano, e ciò che da Andronico vi fu primamente intro-dotto, diligentemente descrive. "Poichè la violenza dellapeste, dic'egli all'anno di Roma 389 (Dec. 1, l. 7), nè perumano consiglio, nè per divino ajuto non rimetteva, di-

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Teatro in-trodotto in Roma da Livio An-dronico.

pose sulla scena un'azion teatrale, l'anno innanzi alla na-scita di Ennio, cioè l'anno 514 dopo la fondazion diRoma, come dice l'autore che noi seguiamo (cioè Atti-co); perciocchè intorno al numero degli anni vi ha con-troversia tra gli scrittori". In fatti ne' Fasti Capitolini idue consoli mentovati si veggon segnati l'anno prece-dente; e Cicerone stesso altrove più dubbiosamente ra-giona di quest'epoca. "Circa 510 anni, egli dice (Tusc.Quæst. l. 1 in Exord.), dopo la fondazion di Roma Liviorappresentar fece una favola teatrale, essendo consoli C.Claudio (che è lo stesso che Clodio) figliuol del Cieco, eM. Tuditano, un anno innanzi al nascer di Ennio". Il cheper ultimo da Gellio ancor si conferma (Noct. Att. l. 17,c. 21): "Essendo consoli (C. Claudio) Centone figliuoldi Appio Cieco e M. Sempronio Tuditano, Livio primad'ogni altro rappresentar fece in Roma una favola teatra-le".

II. Noi abbiamo dunque l'autore della primaazion teatrale che si vedesse in Roma, el'epoca ancora ne abbiamo che noi coll'auto-rità de' Fasti Capitolini fisseremo all'anno513. Piacemi a questo luogo di riportare il

passo dello storico Livio, ove tutta l'origine del teatroromano, e ciò che da Andronico vi fu primamente intro-dotto, diligentemente descrive. "Poichè la violenza dellapeste, dic'egli all'anno di Roma 389 (Dec. 1, l. 7), nè perumano consiglio, nè per divino ajuto non rimetteva, di-

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Teatro in-trodotto in Roma da Livio An-dronico.

cesi che tra le altre cose a placar lo sdegno de' numiadoperate, i giuochi scenici ancora s'introducessero; og-getto nuovo a quel popolo bellicoso che gli spettacolisoli del Circo avea finallora veduti. Fu questa nondime-no allora, come esser sogliono tutti i principj, cosa tenuee presa ancora dagli stranieri. Alcuni giocolieri fatti ve-nir dall'Etruria, senza versi di sorta alcuna, a suon diflauto saltando menavano alla maniera loro non isconcedanze. La gioventù romana prese poscia ad imitarli,scherzando vicendevolmente tra loro con rozzi versi, esaltando in maniera alle cose che essi dicevano adattata.Ebbe plauso la cosa, e col frequente ripetersi venne inuso. Gli attori detti furono istrioni dall'etrusca parolaister con cui appellavansi i giocolieri, e non usavano giàpiù essi i rozzi e mal tessuti versi fescennini, ma unaspecie di satira composta a metro, e accompagnata dacanto e da salto regolato a suono di flauto. Livio fu ilprimo, alcuni anni dopo, che lasciate le satire osò diprendere un determinato argomento dell'azion teatrale,recitando egli stesso, come tutti allora solevano, i proprjversi. Di lui raccontasi che essendoglisi pel frequentevenir sul teatro offuscata la voce, chiestane licenza alpopolo, trasse sulla scena un servo che accompagnatodal flauto cantasse i versi, a se riserbando il gesto el'atteggiamento. Il che riuscigli più felicemente ancoradi prima, poichè non era occupato e distratto dal maneg-giar della voce. Di là si prese il costume che al gestirede' comici da altri si canti, e ch'essi colla lor voce reciti-no i diverbj solamente ossia i dialogi". Intorno alle quali

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cesi che tra le altre cose a placar lo sdegno de' numiadoperate, i giuochi scenici ancora s'introducessero; og-getto nuovo a quel popolo bellicoso che gli spettacolisoli del Circo avea finallora veduti. Fu questa nondime-no allora, come esser sogliono tutti i principj, cosa tenuee presa ancora dagli stranieri. Alcuni giocolieri fatti ve-nir dall'Etruria, senza versi di sorta alcuna, a suon diflauto saltando menavano alla maniera loro non isconcedanze. La gioventù romana prese poscia ad imitarli,scherzando vicendevolmente tra loro con rozzi versi, esaltando in maniera alle cose che essi dicevano adattata.Ebbe plauso la cosa, e col frequente ripetersi venne inuso. Gli attori detti furono istrioni dall'etrusca parolaister con cui appellavansi i giocolieri, e non usavano giàpiù essi i rozzi e mal tessuti versi fescennini, ma unaspecie di satira composta a metro, e accompagnata dacanto e da salto regolato a suono di flauto. Livio fu ilprimo, alcuni anni dopo, che lasciate le satire osò diprendere un determinato argomento dell'azion teatrale,recitando egli stesso, come tutti allora solevano, i proprjversi. Di lui raccontasi che essendoglisi pel frequentevenir sul teatro offuscata la voce, chiestane licenza alpopolo, trasse sulla scena un servo che accompagnatodal flauto cantasse i versi, a se riserbando il gesto el'atteggiamento. Il che riuscigli più felicemente ancoradi prima, poichè non era occupato e distratto dal maneg-giar della voce. Di là si prese il costume che al gestirede' comici da altri si canti, e ch'essi colla lor voce reciti-no i diverbj solamente ossia i dialogi". Intorno alle quali

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ultime parole, che non son certo chiare di troppo, puossivedere un'erudita dissertazione di m. Du Clos Sull'Artedi dividere l'azion teatrale, e di porre in nota la decla-mazione che pretendesi essere stata in uso presso i Ro-mani (Mem. de l'Acad. des Inscr. t. 21, p. 191).

III. Ed ecco in brevi parole la storia dell'ori-gine e dei progressi del romano teatro. Madel primo, per così dire, autore di esso con-vien dire qualche cosa più distintamente.

Dicesi dalla più parte degli scrittori che Livio Androni-co fosse greco di nascita, che Andronico fosse il solovero suo nome, e che essendo schiavo di Livio Salinato-re, i cui figliuoli istruiva, e da lui posto in libertà, pergratitudine al suo benefattore prendessene, come era or-dinario costume, anche il nome, e fosse poi detto LivioAndronico. Ma queste asserzioni non sono senza qual-che difficoltà, la qual per altro non so se da altri sia stataancora osservata. Che Andronico fosse greco facilmenteil persuade lo stesso suo nome. Lo conferma in qualchemodo Svetonio che semigreci chiama (De Illustr. Gram-mat. c. 1.) Ennio e Livio, e più chiaramente TerenzianoMauro: Livius ille vetus grajo cognomine (De Metris).Ma non si potrà facilmente spiegare per qual maniera, segreco veramente era Livio, venisse egli in poter de' Ro-mani, e fosse loro schiavo, perciocchè niuna guerra eniun commercio aveano fin allora avuto i Romani co'Greci. È dunque a dire che nativo egli fosse della Ma-

272

Di qual Grecia ei fosse natio.

ultime parole, che non son certo chiare di troppo, puossivedere un'erudita dissertazione di m. Du Clos Sull'Artedi dividere l'azion teatrale, e di porre in nota la decla-mazione che pretendesi essere stata in uso presso i Ro-mani (Mem. de l'Acad. des Inscr. t. 21, p. 191).

III. Ed ecco in brevi parole la storia dell'ori-gine e dei progressi del romano teatro. Madel primo, per così dire, autore di esso con-vien dire qualche cosa più distintamente.

Dicesi dalla più parte degli scrittori che Livio Androni-co fosse greco di nascita, che Andronico fosse il solovero suo nome, e che essendo schiavo di Livio Salinato-re, i cui figliuoli istruiva, e da lui posto in libertà, pergratitudine al suo benefattore prendessene, come era or-dinario costume, anche il nome, e fosse poi detto LivioAndronico. Ma queste asserzioni non sono senza qual-che difficoltà, la qual per altro non so se da altri sia stataancora osservata. Che Andronico fosse greco facilmenteil persuade lo stesso suo nome. Lo conferma in qualchemodo Svetonio che semigreci chiama (De Illustr. Gram-mat. c. 1.) Ennio e Livio, e più chiaramente TerenzianoMauro: Livius ille vetus grajo cognomine (De Metris).Ma non si potrà facilmente spiegare per qual maniera, segreco veramente era Livio, venisse egli in poter de' Ro-mani, e fosse loro schiavo, perciocchè niuna guerra eniun commercio aveano fin allora avuto i Romani co'Greci. È dunque a dire che nativo egli fosse della Ma-

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Di qual Grecia ei fosse natio.

gna Grecia; la cui conquista avendo terminata i Romanil'anno 487, come si è detto, egli è verisimile che nelleguerre contra i Romani da que' popoli sostenute e' ca-desse nelle loro mani (44). Quindi non alla Grecia vera-mente, ma all'Italia appartiene il vanto di aver dato aRoma il primo autor di tragedie e di commedie latine.Che Andronico poi fosse schiavo di Livio Salinatore,benchè da tutti i moderni autori e singolarmente dal Da-cier (Mém. de l'Acad. des Inscr. t. 2, p. 187) e dal Qua-drio (t. 4, p. 41) costantemente si affermi, io non ne tro-vo indicio presso autore antico, trattane la Cronaca eu-sebiana; e quando pure ei fosse stato schiavo di un LivioSalinatore ciò debba intendersi, perciocchè questi non fuconsole che l'anno 534, ma di alcun altro della stessa fa-miglia (45).44 Per mostrare che Livio Andronico non era veramente greco di nascita, ma

italiano nato nella magna Grecia, ho affermato che se Livio era veramentegreco, non si potrà facilmente spiegare come divenisse egli schiavo de' Ro-mani che non aveano allor co' Greci nè guerra, nè commercio alcuno. Vi èstato chi mi ha opposto, che essendo allora universale il traffico deglischiavi, poteva Livio ancorchè greco, passar nelle mani de' Romani, co-munque essi non avessero comunicazione co' Greci. Che ciò potesse acca-dere, io non ardirò di negarlo. Ma non so se si possa additare alcun Grecoschiavo in Roma prima di questi tempi. Io ho usato di qualche diligenzaper trovar menzione di qualcheduno di essi; ma inutilmente. Chi ha piùagio di me, potrà esaminar questo punto più maturamente. E qualunque sial'esito di tai ricerche, si proverà al più che Livio poteva essere greco, manon si proverà che il fosse certamente; e il vedere che gli altri poeti suoicontemporanei erano comunemente o della Magna Grecia, o de' vicini pae-si, sarà sempre una non leggera congettura a pensare che di quelle provin-cie medesime fosse natio ancor Livio.

45 Il ch. p. Eustachio d'Afflitto domenicano, che una nuova Biblioteca degliScrittori Napoletani scritta con erudizione e con esattezza non ordinaria hacominciato a pubblicare, conferma e svolge più ampiamente la mia opinio-

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gna Grecia; la cui conquista avendo terminata i Romanil'anno 487, come si è detto, egli è verisimile che nelleguerre contra i Romani da que' popoli sostenute e' ca-desse nelle loro mani (44). Quindi non alla Grecia vera-mente, ma all'Italia appartiene il vanto di aver dato aRoma il primo autor di tragedie e di commedie latine.Che Andronico poi fosse schiavo di Livio Salinatore,benchè da tutti i moderni autori e singolarmente dal Da-cier (Mém. de l'Acad. des Inscr. t. 2, p. 187) e dal Qua-drio (t. 4, p. 41) costantemente si affermi, io non ne tro-vo indicio presso autore antico, trattane la Cronaca eu-sebiana; e quando pure ei fosse stato schiavo di un LivioSalinatore ciò debba intendersi, perciocchè questi non fuconsole che l'anno 534, ma di alcun altro della stessa fa-miglia (45).44 Per mostrare che Livio Andronico non era veramente greco di nascita, ma

italiano nato nella magna Grecia, ho affermato che se Livio era veramentegreco, non si potrà facilmente spiegare come divenisse egli schiavo de' Ro-mani che non aveano allor co' Greci nè guerra, nè commercio alcuno. Vi èstato chi mi ha opposto, che essendo allora universale il traffico deglischiavi, poteva Livio ancorchè greco, passar nelle mani de' Romani, co-munque essi non avessero comunicazione co' Greci. Che ciò potesse acca-dere, io non ardirò di negarlo. Ma non so se si possa additare alcun Grecoschiavo in Roma prima di questi tempi. Io ho usato di qualche diligenzaper trovar menzione di qualcheduno di essi; ma inutilmente. Chi ha piùagio di me, potrà esaminar questo punto più maturamente. E qualunque sial'esito di tai ricerche, si proverà al più che Livio poteva essere greco, manon si proverà che il fosse certamente; e il vedere che gli altri poeti suoicontemporanei erano comunemente o della Magna Grecia, o de' vicini pae-si, sarà sempre una non leggera congettura a pensare che di quelle provin-cie medesime fosse natio ancor Livio.

45 Il ch. p. Eustachio d'Afflitto domenicano, che una nuova Biblioteca degliScrittori Napoletani scritta con erudizione e con esattezza non ordinaria hacominciato a pubblicare, conferma e svolge più ampiamente la mia opinio-

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IV. Molte favole teatrali egli compose, lapiù parte tragedie. Tredici sono quelle i cuititoli sono stati dal Fabricio diligentementeraccolti (Bibl. Lat. t. 2, l. 4, c. 1.). Ma i solititoli appunto ce ne sono rimasti, e alcuni

pochi frammenti, che sono stati inseriti nella Raccoltadegli antichi poeti stampata in Ginevra l'anno 1611, po-scia pubblicati di nuovo e diligentemente illustrati dalVossio (vol. 4. ejus Oper.) Le quali due edizioni sonocomuni a tutti gli altri poeti di cui solo ci son rimastiframmenti; e basti perciò l'averle qui rammentate pernon doverle accennare di nuovo quando, degli altri ra-gioneremo. Fu egli ancor destinato, come abbiam dallostorico Livio (l. 27, c. 37), a comporre un inno chel'anno di Roma 546 doveasi da ventisette verginelle aplacare lo sdegno degl'iddii solennemente cantare. Inol-tre l'Odissea di Omero tradusse egli in versi latini jambi-ci, di cui qualche picciol frammento abbiam avuto daGellio (l. 7, c. 7, ec.). Cicerone delle poesie di Livio haportato poco favorevol giudizio; e certo i frammenti chece ne sono rimasti, non ce ne danno una troppo vantag-giosa idea. L'Odissea latina paragonata viene da Cicero-

ne che Andronico fosse natio della Magna Grecia, e inoltre a maggior glo-ria di quelle provincie osserva che esse entrano ancora a parte delle gloriedegli Etruschi, perciocchè una parte almeno di esse era anticamentenell'Etruria compresa (Mem. Degli Scritt. Napol. t. 1, p. 324). Una nuovaspiegazione ha egli data del passo di Svetonio intorno alle scuole tenute daAndronico e da Ennio, e vuole col Casaubono che non Græce, ma Græcainterpretabantur si debba ivi leggere Veggasi l'opera stessa, poichè troppoa lungo mi condurrebbe l'entrare in sì minute ricerche.

274

Sue opere teatrali ed altre poe-sie.

IV. Molte favole teatrali egli compose, lapiù parte tragedie. Tredici sono quelle i cuititoli sono stati dal Fabricio diligentementeraccolti (Bibl. Lat. t. 2, l. 4, c. 1.). Ma i solititoli appunto ce ne sono rimasti, e alcuni

pochi frammenti, che sono stati inseriti nella Raccoltadegli antichi poeti stampata in Ginevra l'anno 1611, po-scia pubblicati di nuovo e diligentemente illustrati dalVossio (vol. 4. ejus Oper.) Le quali due edizioni sonocomuni a tutti gli altri poeti di cui solo ci son rimastiframmenti; e basti perciò l'averle qui rammentate pernon doverle accennare di nuovo quando, degli altri ra-gioneremo. Fu egli ancor destinato, come abbiam dallostorico Livio (l. 27, c. 37), a comporre un inno chel'anno di Roma 546 doveasi da ventisette verginelle aplacare lo sdegno degl'iddii solennemente cantare. Inol-tre l'Odissea di Omero tradusse egli in versi latini jambi-ci, di cui qualche picciol frammento abbiam avuto daGellio (l. 7, c. 7, ec.). Cicerone delle poesie di Livio haportato poco favorevol giudizio; e certo i frammenti chece ne sono rimasti, non ce ne danno una troppo vantag-giosa idea. L'Odissea latina paragonata viene da Cicero-

ne che Andronico fosse natio della Magna Grecia, e inoltre a maggior glo-ria di quelle provincie osserva che esse entrano ancora a parte delle gloriedegli Etruschi, perciocchè una parte almeno di esse era anticamentenell'Etruria compresa (Mem. Degli Scritt. Napol. t. 1, p. 324). Una nuovaspiegazione ha egli data del passo di Svetonio intorno alle scuole tenute daAndronico e da Ennio, e vuole col Casaubono che non Græce, ma Græcainterpretabantur si debba ivi leggere Veggasi l'opera stessa, poichè troppoa lungo mi condurrebbe l'entrare in sì minute ricerche.

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Sue opere teatrali ed altre poe-sie.

ne (De Cl. orat. n. 18.) a una di quelle antiche statue chea Dedalo venivano attribuite, le quali altro pregio nonavevano finalmente che quello del loro creduto autore ede' teatrali componimenti dice che degni non erano diessere letti due volte. Ma ciò non ostante deesi ad An-dronico gran lode come a primo inventor tra' Latini diquel genere di poesia; che poscia più facilmente da altrifu a maggior perfezione condotto. Orazio ancora ci atte-sta che il severo suo maestro Orbilio dettavagli i versi diquesto poeta i quali benchè confessi esser rozzi ed in-colti, non vuole però che si sprezzino, e gettinsi comeindegni d'esser conservati.

Non equidem insector, delendaque carmina Livi

Esse reor, memini plagosum quæ mihi parvo Orbilium dictare sed emendata videri, Pulcraque, et exactis minimum distantia, miror (l. 2, ep.

1).

V. Benchè a questi tempi non vi avesse inRoma alcuno di que' precettori che detti fu-ron gramatici, come poscia vedremo, Liviocominciò nondimeno a dare un saggio, percosì dire, di quest'arte. Perciocchè di lui e diEnnio dice Svetonio che Græce interpreta-

bantur (De Ill. Gramm. c. 1.), e che essi e nell'una enell'altra lingua ammaestravano e in Roma e fuori; paro-le non troppo facili a intendersi, poichè Svetonio non

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Egli intro-duce anche in Roma lo studio degliantichi scrittori.

ne (De Cl. orat. n. 18.) a una di quelle antiche statue chea Dedalo venivano attribuite, le quali altro pregio nonavevano finalmente che quello del loro creduto autore ede' teatrali componimenti dice che degni non erano diessere letti due volte. Ma ciò non ostante deesi ad An-dronico gran lode come a primo inventor tra' Latini diquel genere di poesia; che poscia più facilmente da altrifu a maggior perfezione condotto. Orazio ancora ci atte-sta che il severo suo maestro Orbilio dettavagli i versi diquesto poeta i quali benchè confessi esser rozzi ed in-colti, non vuole però che si sprezzino, e gettinsi comeindegni d'esser conservati.

Non equidem insector, delendaque carmina Livi

Esse reor, memini plagosum quæ mihi parvo Orbilium dictare sed emendata videri, Pulcraque, et exactis minimum distantia, miror (l. 2, ep.

1).

V. Benchè a questi tempi non vi avesse inRoma alcuno di que' precettori che detti fu-ron gramatici, come poscia vedremo, Liviocominciò nondimeno a dare un saggio, percosì dire, di quest'arte. Perciocchè di lui e diEnnio dice Svetonio che Græce interpreta-

bantur (De Ill. Gramm. c. 1.), e che essi e nell'una enell'altra lingua ammaestravano e in Roma e fuori; paro-le non troppo facili a intendersi, poichè Svetonio non

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Egli intro-duce anche in Roma lo studio degliantichi scrittori.

vuol certo dire che essi fosser gramatici di professione,soggiugnendo subito egli stesso che il primo gramaticofu Cratete di Mallo molti anni dopo. Sembra dunque checosì intender si debba, che ad alcuni cittadini bramosi diavanzar negli studj sponessero essi or in greco, or in la-tino, come, quegli bramavano, i migliori autori tra i Gre-ci, che altri allora non ve n'avea degni d'esser proposti amodello di colto stile. Un altro vanto converrebbe ac-cordar a Livio, se attener ci volessimo all'autorità diDiomede, o a dir meglio di alcune edizioni che di questoantico gramatico abbiamo. Epos latinum così leggesinella edizion veneta del 1495, e in quella di GiovanniCesario (l. 3), primus digne scripsit Livius, qui res Ro-manorum decem et octo complexus est libris, qui et An-nales inscribuntur, quod singulorum fere annorum actuscontineant. Ma, come ben osserva il Vossio (De Hist.Latin. l. 1, c. 2) nulla di ciò abbiamo presso gli antichiscrittori, e i dieciotto libri di Annali da Ennio furonoscritti, e non da Livio. Pare dunque che Ennius debba ivileggersi, e non Livius, ovvero che ometter si debba lavoce Livius, come è veramente nell'edizion de' Gramati-ci fatta dal Putschio, ove leggesi solo scripsit is, qui res,ec.

VI. Gneo Nevio nativo della Campania fu ilsecondo dei latini poeti, che fiorisse inRoma. Egli visse a un dipresso al tempostesso di Livio; perciocchè sappiamo per te-

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Epoche del-la vita del poeta Ne-vio.

vuol certo dire che essi fosser gramatici di professione,soggiugnendo subito egli stesso che il primo gramaticofu Cratete di Mallo molti anni dopo. Sembra dunque checosì intender si debba, che ad alcuni cittadini bramosi diavanzar negli studj sponessero essi or in greco, or in la-tino, come, quegli bramavano, i migliori autori tra i Gre-ci, che altri allora non ve n'avea degni d'esser proposti amodello di colto stile. Un altro vanto converrebbe ac-cordar a Livio, se attener ci volessimo all'autorità diDiomede, o a dir meglio di alcune edizioni che di questoantico gramatico abbiamo. Epos latinum così leggesinella edizion veneta del 1495, e in quella di GiovanniCesario (l. 3), primus digne scripsit Livius, qui res Ro-manorum decem et octo complexus est libris, qui et An-nales inscribuntur, quod singulorum fere annorum actuscontineant. Ma, come ben osserva il Vossio (De Hist.Latin. l. 1, c. 2) nulla di ciò abbiamo presso gli antichiscrittori, e i dieciotto libri di Annali da Ennio furonoscritti, e non da Livio. Pare dunque che Ennius debba ivileggersi, e non Livius, ovvero che ometter si debba lavoce Livius, come è veramente nell'edizion de' Gramati-ci fatta dal Putschio, ove leggesi solo scripsit is, qui res,ec.

VI. Gneo Nevio nativo della Campania fu ilsecondo dei latini poeti, che fiorisse inRoma. Egli visse a un dipresso al tempostesso di Livio; perciocchè sappiamo per te-

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Epoche del-la vita del poeta Ne-vio.

stimonianza di Varrone presso Gellio, che ei militò nellaprima guerra cartaginese. Ecco le parole di questo auto-re (l. 17, c. ult.): "L'anno dopo la fondazion di Roma519, Spurio Carvilio Ruga fu il primo in questa città chedalla moglie per divorzio si separasse... e nello stessoanno Gneo Nevio poeta rappresentò al popolo le sue fa-vole teatrali, di cui scrive Varrone nel primo libro de'Poeti, che militato aveva nella prima guerra cartaginese,e che ciò da Nevio stesso diceasi nel poema che intornoa quella guerra egli scrisse". Il tempo ancor della mortecoincide con quello della morte di Livio. Questi vissealmeno fino all'anno 546, come si è detto; e Nevio morìessendo consoli P. Sempronio Tuditano e M. CornelioCetego, cioè secondo i Fasti Capitolini l'anno 549. MaVarrone vita ancora più lunga concede a Nevio. Tuttociò abbiamo da Cicerone. "Cetego, dic'egli (De Cl.Orat. n. 15), fu console insieme con P. Sempronio Tudi-tano nella seconda guerra cartaginese. Nel consolato diquesti, come si ha nelle antiche memorie, morì Nevio,benchè Varrone diligentissimo ricercatore dell'antichitàa più lungo tempo ancora ne stende la vita".

VII. Fu dunque Nevio pressochè allo stessotempo di Livio; ma più tardi di lui, cioè seianni dopo, salì sul teatro, mosso probabil-mente dall'esempio di Livio, e dal plausoche a lui vedeva farsi dal popolo. Undici,

parte tragedie, parte commedie, da lui composte anno-

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Sue com-medie, e vi-cende per esso soste-nute.

stimonianza di Varrone presso Gellio, che ei militò nellaprima guerra cartaginese. Ecco le parole di questo auto-re (l. 17, c. ult.): "L'anno dopo la fondazion di Roma519, Spurio Carvilio Ruga fu il primo in questa città chedalla moglie per divorzio si separasse... e nello stessoanno Gneo Nevio poeta rappresentò al popolo le sue fa-vole teatrali, di cui scrive Varrone nel primo libro de'Poeti, che militato aveva nella prima guerra cartaginese,e che ciò da Nevio stesso diceasi nel poema che intornoa quella guerra egli scrisse". Il tempo ancor della mortecoincide con quello della morte di Livio. Questi vissealmeno fino all'anno 546, come si è detto; e Nevio morìessendo consoli P. Sempronio Tuditano e M. CornelioCetego, cioè secondo i Fasti Capitolini l'anno 549. MaVarrone vita ancora più lunga concede a Nevio. Tuttociò abbiamo da Cicerone. "Cetego, dic'egli (De Cl.Orat. n. 15), fu console insieme con P. Sempronio Tudi-tano nella seconda guerra cartaginese. Nel consolato diquesti, come si ha nelle antiche memorie, morì Nevio,benchè Varrone diligentissimo ricercatore dell'antichitàa più lungo tempo ancora ne stende la vita".

VII. Fu dunque Nevio pressochè allo stessotempo di Livio; ma più tardi di lui, cioè seianni dopo, salì sul teatro, mosso probabil-mente dall'esempio di Livio, e dal plausoche a lui vedeva farsi dal popolo. Undici,

parte tragedie, parte commedie, da lui composte anno-

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Sue com-medie, e vi-cende per esso soste-nute.

vera il Fabricio (Bibl. Lat. l. 4, c. 1), e molte altre ancorase ne veggon citate negl'Indici nella sua Biblioteca inse-riti. Ma fatali riuscirono al poeta le sue stesse comme-die. Piacevasi egli all'usanza de' Greci di mordere e di-leggiar co' suoi versi or l'uno, or l'altro de' più possenticittadini di Roma. Ne abbiamo un saggio in un suo ver-so presso il Vossio (de Histor. Lat. l. l, c. 2) in cui insul-tando Metello, che al Consolato in età assai giovenileera salito, dice che per fatale sventura di Roma facevan-si consoli i Metelli:

Fato Romæ fiunt Metelli consules.

Risposegli Metello con altro verso dallo stesso Vossioriferito:

Dabunt malum Metelli Nævio pœtæ

Ciò dovette accadere l'anno 547 di Roma, in cui appuntofu console Q. Cecilio Metello. Ma questi non fu pago diaver renduto verso a verso, e, secondato probabilmenteda altri irritati essi pure dal satirico motteggiar di Nevio;fece per mezzo de' Triumviri arrestare e incarcerarel'infelice poeta. Questi veggendo l'amaro frutto che dalsuo satireggiare gli era venuto, due altre commediecompose in prigione, in cui ritrattò in qualche manierale ingiurie che contro di alcuni aveva prima scagliate; equindi tratto di carcere riebbe la libertà. Tutto ciò viennarrato da Gellio: "Di Nevio ancora sappiamo, dice egli(l. 3, c. 3), che due commedie compose in carcere,l'Ariolo e il Leonte, essendo egli stato da' Triumviri in-

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vera il Fabricio (Bibl. Lat. l. 4, c. 1), e molte altre ancorase ne veggon citate negl'Indici nella sua Biblioteca inse-riti. Ma fatali riuscirono al poeta le sue stesse comme-die. Piacevasi egli all'usanza de' Greci di mordere e di-leggiar co' suoi versi or l'uno, or l'altro de' più possenticittadini di Roma. Ne abbiamo un saggio in un suo ver-so presso il Vossio (de Histor. Lat. l. l, c. 2) in cui insul-tando Metello, che al Consolato in età assai giovenileera salito, dice che per fatale sventura di Roma facevan-si consoli i Metelli:

Fato Romæ fiunt Metelli consules.

Risposegli Metello con altro verso dallo stesso Vossioriferito:

Dabunt malum Metelli Nævio pœtæ

Ciò dovette accadere l'anno 547 di Roma, in cui appuntofu console Q. Cecilio Metello. Ma questi non fu pago diaver renduto verso a verso, e, secondato probabilmenteda altri irritati essi pure dal satirico motteggiar di Nevio;fece per mezzo de' Triumviri arrestare e incarcerarel'infelice poeta. Questi veggendo l'amaro frutto che dalsuo satireggiare gli era venuto, due altre commediecompose in prigione, in cui ritrattò in qualche manierale ingiurie che contro di alcuni aveva prima scagliate; equindi tratto di carcere riebbe la libertà. Tutto ciò viennarrato da Gellio: "Di Nevio ancora sappiamo, dice egli(l. 3, c. 3), che due commedie compose in carcere,l'Ariolo e il Leonte, essendo egli stato da' Triumviri in-

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carcerato per la continua maldicenza, e per l'ingiuriedette contro i principali della città, secondo il costumede' poeti greci; donde poi da' tribuni della plebe fu trat-to, avendo colle due mentovate commedie ritrattate leingiurie e i motteggi con cui aveva per l'addietro offesimolti". Quindi io non so onde abbia tratto il Quadrio (t.4, p. 43) che Scipione singolarmente fosse oltraggiatoda Nevio, e che egli perciò, fosse ancora il principaleautore della sua prigionia; e non so pure per qual ragio-ne egli chiami favolosi poemi (t. 6, p. 472) le due com-medie da Nevio composte nella sua carcere; poichèchiamandosi esse da Gellio, colla voce latina fabulæ,con cui poco innanzi avea nominate ancora le comediedi Plauto, sembra evidente che di commedie appuntovoglia egli favellare a questo luogo ancora (46).46 Ho attribuita la prigionia di Nevio allo sdegno di Metello da lui provocato,

e ho aggiunto ch'io non sapeva ove avesse trovato il Quadrio che Scipionesingolarmente fosse da lui oltraggiato, e che questi perciò fosse il pricipaleautore della disgrazia di questo poeta. Io ho poi trovato il fondamentodell'opinione del Quadrio, ch'è seguita ancora da altri. Gellio riferisce treversi di Nevio (l. 6, c. 8), de' quali egli dice che fu quasi evidente ch'essi fe-rivano Scipion l'Africano il maggiore: propemodum constitusse hosce ver-sus a Cn. Nævio poeta in eum scriptos esse. Ecco gli accennati versi:

Etiam qui res magnas manu sæpe gessit gloriose, Cuius facta viva nunc vigent, qui apud gentes solus Præstat, eum suus pater cum pallio uno ab amica abduxit.

Quindi può essere veramente che Scipione da Nevio offeso con questi versine punisce l'ardire col farlo chiudere in prigione. Ma come Gellio dice soloche fu quasi certo che il poeta volesse punger con questi Scipione, edall'altra abbiamo i versi in cui lo stesso Nevio morde nominatamente Me-tello, non parmi che l'opinione del Quadrio sia ancora abbastanza provata.Qui pure doveansi accennare i versi pieni, come dice Gellio (l. 1, c. 24), dicampana arroganza, che Nevio avea composti, perchè fossero incisi sul suosepolcro; il qual autore ancor riferisce que' che da Plauto e da Pacuvio era-

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carcerato per la continua maldicenza, e per l'ingiuriedette contro i principali della città, secondo il costumede' poeti greci; donde poi da' tribuni della plebe fu trat-to, avendo colle due mentovate commedie ritrattate leingiurie e i motteggi con cui aveva per l'addietro offesimolti". Quindi io non so onde abbia tratto il Quadrio (t.4, p. 43) che Scipione singolarmente fosse oltraggiatoda Nevio, e che egli perciò, fosse ancora il principaleautore della sua prigionia; e non so pure per qual ragio-ne egli chiami favolosi poemi (t. 6, p. 472) le due com-medie da Nevio composte nella sua carcere; poichèchiamandosi esse da Gellio, colla voce latina fabulæ,con cui poco innanzi avea nominate ancora le comediedi Plauto, sembra evidente che di commedie appuntovoglia egli favellare a questo luogo ancora (46).46 Ho attribuita la prigionia di Nevio allo sdegno di Metello da lui provocato,

e ho aggiunto ch'io non sapeva ove avesse trovato il Quadrio che Scipionesingolarmente fosse da lui oltraggiato, e che questi perciò fosse il pricipaleautore della disgrazia di questo poeta. Io ho poi trovato il fondamentodell'opinione del Quadrio, ch'è seguita ancora da altri. Gellio riferisce treversi di Nevio (l. 6, c. 8), de' quali egli dice che fu quasi evidente ch'essi fe-rivano Scipion l'Africano il maggiore: propemodum constitusse hosce ver-sus a Cn. Nævio poeta in eum scriptos esse. Ecco gli accennati versi:

Etiam qui res magnas manu sæpe gessit gloriose, Cuius facta viva nunc vigent, qui apud gentes solus Præstat, eum suus pater cum pallio uno ab amica abduxit.

Quindi può essere veramente che Scipione da Nevio offeso con questi versine punisce l'ardire col farlo chiudere in prigione. Ma come Gellio dice soloche fu quasi certo che il poeta volesse punger con questi Scipione, edall'altra abbiamo i versi in cui lo stesso Nevio morde nominatamente Me-tello, non parmi che l'opinione del Quadrio sia ancora abbastanza provata.Qui pure doveansi accennare i versi pieni, come dice Gellio (l. 1, c. 24), dicampana arroganza, che Nevio avea composti, perchè fossero incisi sul suosepolcro; il qual autore ancor riferisce que' che da Plauto e da Pacuvio era-

279

VIII. A questo incarceramento di Neviopare che volesse alludere Plauto, il quale al-lora fioriva, in que' due versi della comme-dia intitolata: Miles gloriosus, ne' quali egli

dice (act. 2, sc. 2):Nam os columnatum poetæ inesse audivi barbaro,

Quoi bini custodes semper totis horis accubant.

Il nome di barbaro dato qui a Nevio non è già nome didispregio e d'insulto, ma come Plauto, a somiglianza ditutti gli antichi poeti latini, da' poeti greci traeva gli ar-gomenti delle sue commedie, e greci personaggi intro-duceva sulla scena, così faceagli ancor parlare all'usanzade' Greci, presso i quali il non esser greco era lo stessoche esser barbaro. Quelle parole, os columnatum vuolsiverisimilmente dagl'interpreti che usate fossero da Plau-to a spiegare un cotale atteggiamento di Nevio, allorquando stavasi pensieroso, cioè il sostenere e far colon-na, per così dire, del braccio e della mano al mento. Idue custodi spiegansi da Jacopo de l'Oeuvre (in Notisad Plaut. ad usum Delph.) e da alcuni altri interpreti perdue cani che star solessero sempre a' fianchi di Nevio;ma più probabile sembra l'opinion del Vossio (loc. cit.)che disegnino i due sgherri che stavano a custodia delpoeta prigione. Egli ne fu poi tratto, come si è veduto disopra, ma s'egli è vero che morisse l'anno 549, conviendire che e breve fosse la prigionia, e poco tempo dopo

no stati composti al fine medesimo, dal primo con non minore alterigia, dalsecondo più modestamente assai.

280

Circostanzedella sua prigionia.

VIII. A questo incarceramento di Neviopare che volesse alludere Plauto, il quale al-lora fioriva, in que' due versi della comme-dia intitolata: Miles gloriosus, ne' quali egli

dice (act. 2, sc. 2):Nam os columnatum poetæ inesse audivi barbaro,

Quoi bini custodes semper totis horis accubant.

Il nome di barbaro dato qui a Nevio non è già nome didispregio e d'insulto, ma come Plauto, a somiglianza ditutti gli antichi poeti latini, da' poeti greci traeva gli ar-gomenti delle sue commedie, e greci personaggi intro-duceva sulla scena, così faceagli ancor parlare all'usanzade' Greci, presso i quali il non esser greco era lo stessoche esser barbaro. Quelle parole, os columnatum vuolsiverisimilmente dagl'interpreti che usate fossero da Plau-to a spiegare un cotale atteggiamento di Nevio, allorquando stavasi pensieroso, cioè il sostenere e far colon-na, per così dire, del braccio e della mano al mento. Idue custodi spiegansi da Jacopo de l'Oeuvre (in Notisad Plaut. ad usum Delph.) e da alcuni altri interpreti perdue cani che star solessero sempre a' fianchi di Nevio;ma più probabile sembra l'opinion del Vossio (loc. cit.)che disegnino i due sgherri che stavano a custodia delpoeta prigione. Egli ne fu poi tratto, come si è veduto disopra, ma s'egli è vero che morisse l'anno 549, conviendire che e breve fosse la prigionia, e poco tempo dopo

no stati composti al fine medesimo, dal primo con non minore alterigia, dalsecondo più modestamente assai.

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Circostanzedella sua prigionia.

esserne uscito di nuovo incorresse l'indegnazione de'grandi perciocchè nella Cronaca Eusebiana all'olimp.CXLIV che corrisponde al suddetto anno, abbiamo cheNevio morì in Utica, cacciato da Roma per la fazionede' nobili e singolarmente di Metello.

IX. Le tragedie e le commedie non furon lesole che celebre a' suoi tempi rendessero

questo poeta. La storia romana ancora fu da lui illustra-ta, perciocchè scrisse in versi la prima guerra cartagine-se. Pare che Ennio della gloria di Nevio fosse invidiosorivale; perciocchè ne' suoi Annali recando la ragione percui della prima punica guerra non prendeva egli a parla-re, dice:

........................Scripsere alii rem Versibu, quos olim Fauni vatesque canebant, Cum neque Musarum scopulos quisquam superarat, Nec dicti studiosus erat.

Così egli la rozzezza dello stile rimprovera a Nevio, e ilmen armonico metro da lui usato, perciocchè non avevagià egli scritto in versi esameri, ma in certi più rozziversi che detti eran saturnj (V. Festum. in "Saturnus"); ea se attribuisce il vanto di aver prima d'ogni altro supe-rato il Pindo e poetato con eleganza. Ma è da udire inqual modo prenda Cicerone a ribatter l'accusa di Ennio,e a difender Nevio. "La guerra punica di Nevio, eglidice, (De Cl. Orat. n. 19), il quale da Ennio vien postotra' Fauni e tra gli antichi indovini, a me piace non altri-

281

Sue opere.

esserne uscito di nuovo incorresse l'indegnazione de'grandi perciocchè nella Cronaca Eusebiana all'olimp.CXLIV che corrisponde al suddetto anno, abbiamo cheNevio morì in Utica, cacciato da Roma per la fazionede' nobili e singolarmente di Metello.

IX. Le tragedie e le commedie non furon lesole che celebre a' suoi tempi rendessero

questo poeta. La storia romana ancora fu da lui illustra-ta, perciocchè scrisse in versi la prima guerra cartagine-se. Pare che Ennio della gloria di Nevio fosse invidiosorivale; perciocchè ne' suoi Annali recando la ragione percui della prima punica guerra non prendeva egli a parla-re, dice:

........................Scripsere alii rem Versibu, quos olim Fauni vatesque canebant, Cum neque Musarum scopulos quisquam superarat, Nec dicti studiosus erat.

Così egli la rozzezza dello stile rimprovera a Nevio, e ilmen armonico metro da lui usato, perciocchè non avevagià egli scritto in versi esameri, ma in certi più rozziversi che detti eran saturnj (V. Festum. in "Saturnus"); ea se attribuisce il vanto di aver prima d'ogni altro supe-rato il Pindo e poetato con eleganza. Ma è da udire inqual modo prenda Cicerone a ribatter l'accusa di Ennio,e a difender Nevio. "La guerra punica di Nevio, eglidice, (De Cl. Orat. n. 19), il quale da Ennio vien postotra' Fauni e tra gli antichi indovini, a me piace non altri-

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Sue opere.

menti che una statua di Mirone. Sia pure Ennio, com'ècertamente, più perfetto poeta: se egli, come mostra difare, avesse Nevio in disprezzo, non avrebbe già descri-vendo le guerre tutte, ommessa la prima cartaginese chefu sì atroce. Ma egli stesso reca la ragione ch'ebbe dicosì fare. Altri, dice, l'hanno descritta in versi. Sì certo,e eloquentemente l'hanno descritta, benchè con istilemen colto di quello che tu usasti; tu, dico, che o dei con-fessare di aver prese molte cose da Nevio, o sarai con-vinto di avergliene rubbate molte, se il nieghi". Anzi unaltro poema ancor egli scrisse, intitolato: Iliados Cy-priæ, il cui primo e secondo libro si veggon citati da So-sipatro Carisio e da Prisciano nella raccolta de' Gramati-ci latini del Putschio (p. 118, e 881). Dalle quali citazio-ni veggiamo che questo poema fu da Nevio scritto inversi eroici perciocchè Sosipatro questo verso ne arreca:

Collum marmoreum torquis gemmata coronat:

E Prisciano quest'altro: Facundo penetrat penitus thalamoque potitur.

Di questo poema parla ancora il Quadrio (t. 6, p. 472).Ma mi fa maraviglia ciò che questo autore altrove dicedi Nevio (ib. p. 623), cioè ch'egli fu nella sua Arte poeti-ca da Orazio deriso, perchè un poema sulla guerra diTroia cominciato aveva con questo verso:

Fortunam Priami cantabo et nobile bellum.

Io non so certo ove abbia trovato il Quadrio, che Nevio

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menti che una statua di Mirone. Sia pure Ennio, com'ècertamente, più perfetto poeta: se egli, come mostra difare, avesse Nevio in disprezzo, non avrebbe già descri-vendo le guerre tutte, ommessa la prima cartaginese chefu sì atroce. Ma egli stesso reca la ragione ch'ebbe dicosì fare. Altri, dice, l'hanno descritta in versi. Sì certo,e eloquentemente l'hanno descritta, benchè con istilemen colto di quello che tu usasti; tu, dico, che o dei con-fessare di aver prese molte cose da Nevio, o sarai con-vinto di avergliene rubbate molte, se il nieghi". Anzi unaltro poema ancor egli scrisse, intitolato: Iliados Cy-priæ, il cui primo e secondo libro si veggon citati da So-sipatro Carisio e da Prisciano nella raccolta de' Gramati-ci latini del Putschio (p. 118, e 881). Dalle quali citazio-ni veggiamo che questo poema fu da Nevio scritto inversi eroici perciocchè Sosipatro questo verso ne arreca:

Collum marmoreum torquis gemmata coronat:

E Prisciano quest'altro: Facundo penetrat penitus thalamoque potitur.

Di questo poema parla ancora il Quadrio (t. 6, p. 472).Ma mi fa maraviglia ciò che questo autore altrove dicedi Nevio (ib. p. 623), cioè ch'egli fu nella sua Arte poeti-ca da Orazio deriso, perchè un poema sulla guerra diTroia cominciato aveva con questo verso:

Fortunam Priami cantabo et nobile bellum.

Io non so certo ove abbia trovato il Quadrio, che Nevio

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scrivesse un poema sulla guerra di Troia, perciocchè ditutt'altro argomento egli trattava nella sua Iliade Cipria,cioè delle guerre d'amore; e non so pure ove abbia eglitrovato che Orazio a quel luogo parli di Nevio. Il poetache Orazio deride, non con altro nome è da lui chiamatoche con quello di poeta da piazza: scriptor cyclicus; laqual espressione non vedo come a Nevio convenga. Masomiglianti errori anche nelle opere de' più dotti uominis'incontran talvolta.

X. A questi due poeti fu contemporaneo En-nio. A qual anno ei nascesse, l'abbiam giàveduto di sopra coll'autorità di Cicerone,cioè nell'anno di Roma 514. Morì, come lo

stesso Tullio altrove afferma (De Senect. n. 5), nel con-solato di Cepione e di Filippo in età di anni settanta, eappunto furono questi consoli l'anno 584. Fu egli nativodi Rudia in Calabria. Qual luogo precisamente sia que-sto, si è in questo secolo disputato assai (V. CalogeràRaccolta d'Opusc. t. 4, 5, 11). A chi scrive la Storia del-la Letteratura Italiana poco importa il cercarne. Bastach'ei fosse italiano, perchè in quest'opera debba averluogo. Non si sa per qual ragione egli passasse all'isoladi Sardegna; ma vi fu certamente. Silio Italico cel rap-presenta qual valoroso capitano nella guerra in cui T.Manlio soggiogò di nuovo quegli isolani che contro larepubblica eransi ribellati. Piacemi di qui riferire tutto ilpasso di questo poeta, che alcune conghietture intorno

283

Notizie de' primi anni di Ennio.

scrivesse un poema sulla guerra di Troia, perciocchè ditutt'altro argomento egli trattava nella sua Iliade Cipria,cioè delle guerre d'amore; e non so pure ove abbia eglitrovato che Orazio a quel luogo parli di Nevio. Il poetache Orazio deride, non con altro nome è da lui chiamatoche con quello di poeta da piazza: scriptor cyclicus; laqual espressione non vedo come a Nevio convenga. Masomiglianti errori anche nelle opere de' più dotti uominis'incontran talvolta.

X. A questi due poeti fu contemporaneo En-nio. A qual anno ei nascesse, l'abbiam giàveduto di sopra coll'autorità di Cicerone,cioè nell'anno di Roma 514. Morì, come lo

stesso Tullio altrove afferma (De Senect. n. 5), nel con-solato di Cepione e di Filippo in età di anni settanta, eappunto furono questi consoli l'anno 584. Fu egli nativodi Rudia in Calabria. Qual luogo precisamente sia que-sto, si è in questo secolo disputato assai (V. CalogeràRaccolta d'Opusc. t. 4, 5, 11). A chi scrive la Storia del-la Letteratura Italiana poco importa il cercarne. Bastach'ei fosse italiano, perchè in quest'opera debba averluogo. Non si sa per qual ragione egli passasse all'isoladi Sardegna; ma vi fu certamente. Silio Italico cel rap-presenta qual valoroso capitano nella guerra in cui T.Manlio soggiogò di nuovo quegli isolani che contro larepubblica eransi ribellati. Piacemi di qui riferire tutto ilpasso di questo poeta, che alcune conghietture intorno

283

Notizie de' primi anni di Ennio.

alla vita di Ennio potrà somministrarci. Così dunqueegli dice (Punicor lib. 12, v. 393, ec.)

Ennius antiqua Messapi ab origine regis Miscebat primas acies, Latiæque superbum Vitis adornabat dextram decus: hispida tellus Miserunt Calabri: Rudiæ genuere vetustæ, Nunc Rudiæ solo memorabile nomen alunmo. Is prima in pugna (Vates ut Thracius olim Infestam bello quateret cum Cyzicus Argo Spicula deposito Rhodopeia pectine torsit) Spectandum se se non parva strage virorum Fecerat; et dextræ gliscebat cædibus ardor. Advolat, æternum sperans fore, pelleret Hostus Si tantam labem, et perlibrat viribus hastam. Risit nube sedens magni conamina cæpti, Et telum procul in ventos demisit Apollo Ac super his: Nimium juvenis, nimiumque superba Sperata hausisti. Sacer hic, ac magna sororum Aonidum cura est, et dignus Apolline vates Hic canet illustri primus bella Itala versu, Attolletque duces cœlo, resonare docebit Hic Latiis Helicona modis, nec cedet honore Ascræo famave seni: sic Phœbus; et Hosto Ultrix per geminum transcurrit tempus harundo.

Così Silio, il quale benchè con poetica finzione adorniquesto racconto, non deesi credere nondimeno che fintoabbialo interamente; poichè veggiamo che nel suo poe-ma egli si attiene fedelmente alla storia. Egli dice cheEnnio discendeva Messapi ab origine regis, perchè,come Servio afferma (Ad l. 7 Æneid. v. 691), vantavasi

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alla vita di Ennio potrà somministrarci. Così dunqueegli dice (Punicor lib. 12, v. 393, ec.)

Ennius antiqua Messapi ab origine regis Miscebat primas acies, Latiæque superbum Vitis adornabat dextram decus: hispida tellus Miserunt Calabri: Rudiæ genuere vetustæ, Nunc Rudiæ solo memorabile nomen alunmo. Is prima in pugna (Vates ut Thracius olim Infestam bello quateret cum Cyzicus Argo Spicula deposito Rhodopeia pectine torsit) Spectandum se se non parva strage virorum Fecerat; et dextræ gliscebat cædibus ardor. Advolat, æternum sperans fore, pelleret Hostus Si tantam labem, et perlibrat viribus hastam. Risit nube sedens magni conamina cæpti, Et telum procul in ventos demisit Apollo Ac super his: Nimium juvenis, nimiumque superba Sperata hausisti. Sacer hic, ac magna sororum Aonidum cura est, et dignus Apolline vates Hic canet illustri primus bella Itala versu, Attolletque duces cœlo, resonare docebit Hic Latiis Helicona modis, nec cedet honore Ascræo famave seni: sic Phœbus; et Hosto Ultrix per geminum transcurrit tempus harundo.

Così Silio, il quale benchè con poetica finzione adorniquesto racconto, non deesi credere nondimeno che fintoabbialo interamente; poichè veggiamo che nel suo poe-ma egli si attiene fedelmente alla storia. Egli dice cheEnnio discendeva Messapi ab origine regis, perchè,come Servio afferma (Ad l. 7 Æneid. v. 691), vantavasi

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Ennio di discendere da Messapo; ma non so se facilcosa fosse per riuscirgli il provar questa sua genealogiacon autentici documenti. Certo ei visse povero, come frapoco vedremo. Quelle parole: Latiæque superbum vitisadornabat dextram decus, ci mostrano ch'egli era centu-rione ossia capitano perciocchè insegna di questa digni-tà era appunto il ramo di vite (V. Dan. Heinsium in notisad hunc loc.). Ma questo è ciò che muove non piccioladifficoltà. La guerra di sopra accennata accaddenell'anno di Roma 538, quando Ennio, nato l'anno 514,non contava che ventiquattro anni d'età. Or che uno stra-niero e povero, come era Ennio, salisse al grado di capi-tano in età sì fresca, non pare che agevolmente si possapersuadere. Ma io rifletto che Silio di lui dice che da'Calabresi era stato mandato: hispida tellus miserunt Ca-labri. Non par dunque improbabile che Ennio fosse con-dottiero delle milizie che i Calabresi per ordine de' Ro-mani costretti fossero a mandare in Sardegna; e se essieran persuasi ch'ei traesse da Messapo la sua originenon è improbabile che, benchè giovane, il ponessero alcomando delle lor truppe.

XI. Checchessia di ciò, pare che Ennio fini-ta la guerra continuasse a vivere in Sarde-gna. Aurelio Vittore racconta che Catone

"soggiogò la Sardegna di cui era pretore; e che ivi fu daEnnio istruito nelle lettere greche (De Viris Illustr. c.47)". Ma in primo luogo, io trovo bensì che Catone in

285

Sua vita in Sardegna.

Ennio di discendere da Messapo; ma non so se facilcosa fosse per riuscirgli il provar questa sua genealogiacon autentici documenti. Certo ei visse povero, come frapoco vedremo. Quelle parole: Latiæque superbum vitisadornabat dextram decus, ci mostrano ch'egli era centu-rione ossia capitano perciocchè insegna di questa digni-tà era appunto il ramo di vite (V. Dan. Heinsium in notisad hunc loc.). Ma questo è ciò che muove non piccioladifficoltà. La guerra di sopra accennata accaddenell'anno di Roma 538, quando Ennio, nato l'anno 514,non contava che ventiquattro anni d'età. Or che uno stra-niero e povero, come era Ennio, salisse al grado di capi-tano in età sì fresca, non pare che agevolmente si possapersuadere. Ma io rifletto che Silio di lui dice che da'Calabresi era stato mandato: hispida tellus miserunt Ca-labri. Non par dunque improbabile che Ennio fosse con-dottiero delle milizie che i Calabresi per ordine de' Ro-mani costretti fossero a mandare in Sardegna; e se essieran persuasi ch'ei traesse da Messapo la sua originenon è improbabile che, benchè giovane, il ponessero alcomando delle lor truppe.

XI. Checchessia di ciò, pare che Ennio fini-ta la guerra continuasse a vivere in Sarde-gna. Aurelio Vittore racconta che Catone

"soggiogò la Sardegna di cui era pretore; e che ivi fu daEnnio istruito nelle lettere greche (De Viris Illustr. c.47)". Ma in primo luogo, io trovo bensì che Catone in

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Sua vita in Sardegna.

Sardegna cacciò dall'isola gli usurai (Liv. l. 32, c. 27);ma che vi guerreggiasse, nol trovo. In secondo luogo,tutti i più antichi scrittori affermano che Catonenell'estrema vecchiezza soltanto si volse alla greca lette-ratura (Cic. de Senect. n. 5, 8; Quintil. l. 12, c. 11;Plutarch. in Vit. Caton.). Or egli fu pretore in Sardegnanel consolato di C. Cornelio Cetego e Q. Minuzio Rufol'anno di Roma 556 (Liv. l. 32, c. 27), e quindi essendoegli nato, come Cicerone gli fa dire nel dialogo dellavecchiezza (n. 4), l'anno innanzi al primo consolato diQ. Fabio Massimo, cioè l'anno di Roma 519, non conta-va quando fu pretore in Sardegna che trentasette anni dietà e troppo era lungi perciò da quell'estrema vecchiezzain cui soltanto a' greci studj egli si volse. Più probabile èciò che racconta Cornelio Nipote (in vit. Caton.), cioèche "Catone essendo pretore, ebbe a suo governo la pro-vincia della Sardegna, della quale essendo in addietroquestore, aveva partendone condotto seco il poeta En-nio; il che non ci sembra da pregiar meno di qualunquetrionfo egli avesse da quell'isola riportato". Catone fuquestore l'anno di Roma 549 (Liv. l. 29, c. 25). Io nontrovo veramente in altro autore ch'egli in quell'anno fos-se in Sardegna; ma come ei fu coll'armata che da Romatragittò in Africa, non è improbabile che gli si offerisseoccasione di farvi una discesa, e che seco ne conducesseil poeta che allora doveva essere nell'anno trentesimoquinto di sua età.

286

Sardegna cacciò dall'isola gli usurai (Liv. l. 32, c. 27);ma che vi guerreggiasse, nol trovo. In secondo luogo,tutti i più antichi scrittori affermano che Catonenell'estrema vecchiezza soltanto si volse alla greca lette-ratura (Cic. de Senect. n. 5, 8; Quintil. l. 12, c. 11;Plutarch. in Vit. Caton.). Or egli fu pretore in Sardegnanel consolato di C. Cornelio Cetego e Q. Minuzio Rufol'anno di Roma 556 (Liv. l. 32, c. 27), e quindi essendoegli nato, come Cicerone gli fa dire nel dialogo dellavecchiezza (n. 4), l'anno innanzi al primo consolato diQ. Fabio Massimo, cioè l'anno di Roma 519, non conta-va quando fu pretore in Sardegna che trentasette anni dietà e troppo era lungi perciò da quell'estrema vecchiezzain cui soltanto a' greci studj egli si volse. Più probabile èciò che racconta Cornelio Nipote (in vit. Caton.), cioèche "Catone essendo pretore, ebbe a suo governo la pro-vincia della Sardegna, della quale essendo in addietroquestore, aveva partendone condotto seco il poeta En-nio; il che non ci sembra da pregiar meno di qualunquetrionfo egli avesse da quell'isola riportato". Catone fuquestore l'anno di Roma 549 (Liv. l. 29, c. 25). Io nontrovo veramente in altro autore ch'egli in quell'anno fos-se in Sardegna; ma come ei fu coll'armata che da Romatragittò in Africa, non è improbabile che gli si offerisseoccasione di farvi una discesa, e che seco ne conducesseil poeta che allora doveva essere nell'anno trentesimoquinto di sua età.

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XII. Così condotto Ennio a Roma, continuòa mostrarvisi eccellente poeta a un tempo evaloroso guerriero. Abbiamo da Cicerone

(Or. pro Archia n. 11) che fu egli insieme col cons. M.Fulvio soprannomato Nobiliore alla guerra di Etolia, cheaccadde l'anno di Roma 564. Ciò che in questo vi ha distrano, si è che quel Catone medesimo il quale in sìgrande stima avea avuto Ennio, che degno avealo ripu-tato di esser condotto a Roma, degno giudicò di rimpro-vero questo console, perchè seco condotto aveva qual-che poeta. Così ci assicura Cicerone, il quale di ciò sivale a provare che in poco pregio erano allora i poeti:"che poco onore, dic'egli (Tusc. Quæst. l. 1, n. 2.), sirendesse allora a' poeti, il mostra l'orazion di Catone,con cui rimproverò a Marco Nobiliore l'aver seco con-dotto nella sua provincia qualche poeta: or egli, comesappiamo, condotto avea Ennio nell'Etolia". Ma forsenon il poetico, ma il guerriero valore avea Catone ono-rato in Ennio, ovvero degni di onore riputava egli i poe-ti, ma al tempo di guerra meno opportuni. Sopra a tuttiperò fu Ennio caro al famoso Scipione Africano il Mag-giore, di cui fu quasi in tutte le guerre indivisibil compa-gno. Fu Scipione uno de' primi eroi della romana repub-blica, che alla gloria dell'armi quella ancor delle letterefelicemente congiunse; ed Ennio fu uno de' dotti uominicui egli, anche in mezzo al rumore dell'armi godeva diavere a' fianchi. Quindi di lui disse Claudiano (DeLaud. Stilic.):

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Poscia in Roma.

XII. Così condotto Ennio a Roma, continuòa mostrarvisi eccellente poeta a un tempo evaloroso guerriero. Abbiamo da Cicerone

(Or. pro Archia n. 11) che fu egli insieme col cons. M.Fulvio soprannomato Nobiliore alla guerra di Etolia, cheaccadde l'anno di Roma 564. Ciò che in questo vi ha distrano, si è che quel Catone medesimo il quale in sìgrande stima avea avuto Ennio, che degno avealo ripu-tato di esser condotto a Roma, degno giudicò di rimpro-vero questo console, perchè seco condotto aveva qual-che poeta. Così ci assicura Cicerone, il quale di ciò sivale a provare che in poco pregio erano allora i poeti:"che poco onore, dic'egli (Tusc. Quæst. l. 1, n. 2.), sirendesse allora a' poeti, il mostra l'orazion di Catone,con cui rimproverò a Marco Nobiliore l'aver seco con-dotto nella sua provincia qualche poeta: or egli, comesappiamo, condotto avea Ennio nell'Etolia". Ma forsenon il poetico, ma il guerriero valore avea Catone ono-rato in Ennio, ovvero degni di onore riputava egli i poe-ti, ma al tempo di guerra meno opportuni. Sopra a tuttiperò fu Ennio caro al famoso Scipione Africano il Mag-giore, di cui fu quasi in tutte le guerre indivisibil compa-gno. Fu Scipione uno de' primi eroi della romana repub-blica, che alla gloria dell'armi quella ancor delle letterefelicemente congiunse; ed Ennio fu uno de' dotti uominicui egli, anche in mezzo al rumore dell'armi godeva diavere a' fianchi. Quindi di lui disse Claudiano (DeLaud. Stilic.):

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Poscia in Roma.

Hærebat doctus lateri, castrisque solebat Omnibus in medias Ennius ire tubas.

Un altro Scipione ancora soprannomato Nasica fu confi-dentissimo amico di Ennio, e ne è prova lo scherzevoleproverbiarsi che fecero a vicenda, al dire di Cicerone(De Orat. l. 2, n. 68), in occasion di una visita fattasi,scambievolmente, in cui finsero amendue di non esserein casa. Il fatto è troppo noto per essere qui riferito di-stesamente. Molto fu egli inoltre onorato da Q. Fulviofigliuol del cons. M. Fulvio, di cui poc'anzi si è detto,come ben si raccoglie da ciò che narra Cicerone, cioèch'egli "essendo secondo il costume del padre amatordelle lettere, die' la cittadinanza a Q. Ennio che col pa-dre di lui militato avea nell'Etolia (De Cl. Orat. n. 20.)".

XIII. Questa amicizia co' più ragguardevolicavalieri romani, a cui ebbe Ennio l'onor diarrivare, ci fa vedere che uomo ancora egli

era di amabili maniere e di onorati costumi. Infatti Gel-lio, recando un passo tratto dal libro settimo degli Anna-li da lui composti, in cui il carattere e le virtù descrived'un uomo onesto, dice (l. 12, c. 4) essere sentimento dialcuni che se stesso ei descrivesse in que' versi. Parenondimeno che amasse il soverchio bere. Tale certo celdipinge Orazio, fors'anche per discolpar se medesimo:

Ennius ipse pater numquam nisi potus ad arma

Prosiluit dicenda (l. 1, ep. 19).

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Suoi costu-mi

Hærebat doctus lateri, castrisque solebat Omnibus in medias Ennius ire tubas.

Un altro Scipione ancora soprannomato Nasica fu confi-dentissimo amico di Ennio, e ne è prova lo scherzevoleproverbiarsi che fecero a vicenda, al dire di Cicerone(De Orat. l. 2, n. 68), in occasion di una visita fattasi,scambievolmente, in cui finsero amendue di non esserein casa. Il fatto è troppo noto per essere qui riferito di-stesamente. Molto fu egli inoltre onorato da Q. Fulviofigliuol del cons. M. Fulvio, di cui poc'anzi si è detto,come ben si raccoglie da ciò che narra Cicerone, cioèch'egli "essendo secondo il costume del padre amatordelle lettere, die' la cittadinanza a Q. Ennio che col pa-dre di lui militato avea nell'Etolia (De Cl. Orat. n. 20.)".

XIII. Questa amicizia co' più ragguardevolicavalieri romani, a cui ebbe Ennio l'onor diarrivare, ci fa vedere che uomo ancora egli

era di amabili maniere e di onorati costumi. Infatti Gel-lio, recando un passo tratto dal libro settimo degli Anna-li da lui composti, in cui il carattere e le virtù descrived'un uomo onesto, dice (l. 12, c. 4) essere sentimento dialcuni che se stesso ei descrivesse in que' versi. Parenondimeno che amasse il soverchio bere. Tale certo celdipinge Orazio, fors'anche per discolpar se medesimo:

Ennius ipse pater numquam nisi potus ad arma

Prosiluit dicenda (l. 1, ep. 19).

288

Suoi costu-mi

E questa fu probabilmente l'origine della podagra a cuiegli fu soggetto, e che finalmente l'uccise. Questa alme-no è la ragione che del suo male arreca un medico anti-co (Serenus Sammon. de Medicina c. 37):

Ennius ipse pater dum pocula siccat iniqua, Hoc vitio tales fertur meruisse dolores.

Di lui narra Cicerone (De Senect. n. 5) che sul finir disua vita così lietamente soffriva que' due incomodi chepiù di tutti son riputati molesti, la povertà e la vecchiez-za, che pareva quasi goderne.

XIV. Scrivono alcuni che nel sepolcro me-desimo di Scipione ei fosse sepolto, ma pare

ch'essi si appoggino a un passo non ben inteso di Cice-rone. Carus fuit, dic'egli (Pro Archia n. 9), Africano su-periori noster Ennius; itaque etiam in sepulchro Scipio-num putatur is esse constitutus e marmore. Dove alcuniper avventura alla sola parola constitutus ponendo men-te, pensarono che del corpo di Ennio ivi sepolto si ragio-nasse. Ma chiaro è dalle parole di Tullio, che non si par-la ivi che di una statua di marmo. Livio ancora, dopoaver detto che molte cose intorno a Scipione sono dub-biose e singolarmente in qual anno egli sia morto (nelche però ella è opinione comune che fosse verso il 566)e in qual luogo sepolto, se in Literno ove egli sdegnatodella ingratitudine de' Romani si ritirò, ovvero in Roma,così soggiugne (l. 38, c. 56): Romæ extra portam Cape-

289

Sua morte.

E questa fu probabilmente l'origine della podagra a cuiegli fu soggetto, e che finalmente l'uccise. Questa alme-no è la ragione che del suo male arreca un medico anti-co (Serenus Sammon. de Medicina c. 37):

Ennius ipse pater dum pocula siccat iniqua, Hoc vitio tales fertur meruisse dolores.

Di lui narra Cicerone (De Senect. n. 5) che sul finir disua vita così lietamente soffriva que' due incomodi chepiù di tutti son riputati molesti, la povertà e la vecchiez-za, che pareva quasi goderne.

XIV. Scrivono alcuni che nel sepolcro me-desimo di Scipione ei fosse sepolto, ma pare

ch'essi si appoggino a un passo non ben inteso di Cice-rone. Carus fuit, dic'egli (Pro Archia n. 9), Africano su-periori noster Ennius; itaque etiam in sepulchro Scipio-num putatur is esse constitutus e marmore. Dove alcuniper avventura alla sola parola constitutus ponendo men-te, pensarono che del corpo di Ennio ivi sepolto si ragio-nasse. Ma chiaro è dalle parole di Tullio, che non si par-la ivi che di una statua di marmo. Livio ancora, dopoaver detto che molte cose intorno a Scipione sono dub-biose e singolarmente in qual anno egli sia morto (nelche però ella è opinione comune che fosse verso il 566)e in qual luogo sepolto, se in Literno ove egli sdegnatodella ingratitudine de' Romani si ritirò, ovvero in Roma,così soggiugne (l. 38, c. 56): Romæ extra portam Cape-

289

Sua morte.

nam in Sctipionum monumento tres statuæ sunt, quarumduæ P. et L. Scipionum dicuntur esse, tertia, poetæ Q.Ennii (47). Così Cicerone e Livio, più vicini di tempo adEnnio ed a Scipione, della statua di questo poeta favella-no come di cosa non abbastanza certa. Valerio Massimo(l. 8, c. 14, n. 1), e Plinio il vecchio (l. 7, c. 30) di questastatua medesima fanno menzione come di cosa da nondubitarne. Così accade sovente che una cosa dapprimaappoggiata a dubbiosa popolar tradizione, coll'andar deltempo, benchè niun nuovo argomento di certezza se leaggiunga, si spacci nondimeno per certa.

XV. Quanto allo stile delle poesie di Enniotutti convengono che il primo padre egli fu

della poesia latina e del poema epico singolarmente; equindi n'è venuto il nome di Padre, con cui suole egliesser chiamato, come ne' passi di Orazio e di SerenoSammonico si è di sopra veduto. Questa lode medesimada Lucrezio gli vien confermata:

................ Qui primus amæno

Detulit ex Helicone perenni fronde coronam,

Per gentes Italas hominum quæ clara clueret (l. 1, v. 117,

47 Il sepolcro degli Scipioni qui accennato fu poscia felicemente scopertol'an. 1780, e se ne può vedere la descrizione allor data nell'Antologia ro-mana (an. 1780, n. 49, p. 385; an. 1781, n. 48, p. 377), e se n'è aggiuntoancora un estratto alla ristampa fatta in Roma di questo primo tomo; ilquale qui da noi si omette come cosa con questa Storia non abbastanzaconnessa.

290

Suo stile.

nam in Sctipionum monumento tres statuæ sunt, quarumduæ P. et L. Scipionum dicuntur esse, tertia, poetæ Q.Ennii (47). Così Cicerone e Livio, più vicini di tempo adEnnio ed a Scipione, della statua di questo poeta favella-no come di cosa non abbastanza certa. Valerio Massimo(l. 8, c. 14, n. 1), e Plinio il vecchio (l. 7, c. 30) di questastatua medesima fanno menzione come di cosa da nondubitarne. Così accade sovente che una cosa dapprimaappoggiata a dubbiosa popolar tradizione, coll'andar deltempo, benchè niun nuovo argomento di certezza se leaggiunga, si spacci nondimeno per certa.

XV. Quanto allo stile delle poesie di Enniotutti convengono che il primo padre egli fu

della poesia latina e del poema epico singolarmente; equindi n'è venuto il nome di Padre, con cui suole egliesser chiamato, come ne' passi di Orazio e di SerenoSammonico si è di sopra veduto. Questa lode medesimada Lucrezio gli vien confermata:

................ Qui primus amæno

Detulit ex Helicone perenni fronde coronam,

Per gentes Italas hominum quæ clara clueret (l. 1, v. 117,

47 Il sepolcro degli Scipioni qui accennato fu poscia felicemente scopertol'an. 1780, e se ne può vedere la descrizione allor data nell'Antologia ro-mana (an. 1780, n. 49, p. 385; an. 1781, n. 48, p. 377), e se n'è aggiuntoancora un estratto alla ristampa fatta in Roma di questo primo tomo; ilquale qui da noi si omette come cosa con questa Storia non abbastanzaconnessa.

290

Suo stile.

ec.)

Virgilio ancora faceane grande stima, benchè usasse didire che dalle lordure di Ennio ei raccoglieva delle gem-me. Di fatto molti versi di Ennio, che o interamente, o inparte sono stati da Virgilio inseriti ne' suoi poemi, haraccolto Macrobio (Saturn. l. 6, c. 1, 2, e 3). Molto non-dimeno risentono le poesie di Ennio dell'antica rozzez-za, come da' frammenti rimastici si raccoglie. Quindi daniuno per avventura è stato meglio descritto il caratteredi Ennio, che da Ovidio con quel celebre verso:

Ennius ingenia maximus, arte rudis (l. 2 Trist. El. 1)

E saggiamente ancor Quintiliano (l. 10, c. 1): "Noi dob-biamo venerare Ennio, come appunto que' boschi perantichità venerandi, ne' quali le alte annose querce piùper un cotal sacro rispetto, che per bellezza sono ammi-rate". Piacemi per ultimo riferir l'elogio che di Ennio ab-biamo presso Vitruvio (l. 9, c. 3): "Chiunque ha l'animoalla dolcezza degli ameni studj inclinato, non può ameno che, come appunto si fa degl'iddii, non porti secol'immagine del poeta Ennio scolpita profondamente nelcuore".

XVI. Le opere da lui scritte sono in primoluogo gli Annali, ne' quali le più ragguarde-

voli imprese de' Romani e quelle singolarmente del suoScipione descrisse. Non divise egli gli Annali in libri;ma questa divisione fu poscia fatta da un grammatico

291

Sue opere.

ec.)

Virgilio ancora faceane grande stima, benchè usasse didire che dalle lordure di Ennio ei raccoglieva delle gem-me. Di fatto molti versi di Ennio, che o interamente, o inparte sono stati da Virgilio inseriti ne' suoi poemi, haraccolto Macrobio (Saturn. l. 6, c. 1, 2, e 3). Molto non-dimeno risentono le poesie di Ennio dell'antica rozzez-za, come da' frammenti rimastici si raccoglie. Quindi daniuno per avventura è stato meglio descritto il caratteredi Ennio, che da Ovidio con quel celebre verso:

Ennius ingenia maximus, arte rudis (l. 2 Trist. El. 1)

E saggiamente ancor Quintiliano (l. 10, c. 1): "Noi dob-biamo venerare Ennio, come appunto que' boschi perantichità venerandi, ne' quali le alte annose querce piùper un cotal sacro rispetto, che per bellezza sono ammi-rate". Piacemi per ultimo riferir l'elogio che di Ennio ab-biamo presso Vitruvio (l. 9, c. 3): "Chiunque ha l'animoalla dolcezza degli ameni studj inclinato, non può ameno che, come appunto si fa degl'iddii, non porti secol'immagine del poeta Ennio scolpita profondamente nelcuore".

XVI. Le opere da lui scritte sono in primoluogo gli Annali, ne' quali le più ragguarde-

voli imprese de' Romani e quelle singolarmente del suoScipione descrisse. Non divise egli gli Annali in libri;ma questa divisione fu poscia fatta da un grammatico

291

Sue opere.

detto Q. Vargunteio. Soleva questi, come narra Svetonio(De. Ill. Gramm. c. 2), in certi determinati giorni legger-li pubblicamente a numerosa assemblea che radunavasia udirli. La qual costumanza pare che più secoli ancoradurasse; poichè abbiamo da Gellio (l. 18, c. 5) che a suotempo era in Pozzuoli un cotale che nel pubblico teatroleggeva al popolo ad alta voce gli Annali di Ennio, e fa-cevasi perciò chiamare Ennianista. Molte tragedie anco-ra, molte commedie e molti epigrammi e molte satireavea egli scritto, ed altre cose i cui titoli si possono ve-dere presso il Fabricio (Bibl. Lat. l. 4, c. 1). Sembrainoltre, ch'ei fosse il primo che poemi, come sogliamdire, didascalici componesse in Roma; perciocchè tra' ti-toli delle opere da lui composte una ne abbiamo intitola-ta Phagetica, in cui sembra che delle cose a mangiare eifavellasse; e due altri titoli, che sembrano di didascalicoargomento, si rammentano dal Fabricio, cioè Protrepti-cus e Præcepta. Osserva per ultimo il Quadrio (t. 4, p.49) che Ennio osò il primo di togliersi dagli argomentigreci che fin allora si eran presi da' poeti latini a sugget-to delle loro tragedie; e una ne scrisse di argomento pre-so dalla storia romana, intitolata Scipione. I frammentiche di lui ci sono rimasti, sono stati varie volte posti allaluce e singolarmente da Girolamo Colonna l'anno 1590,la quale edizione fu poscia più pulitamente di nuovo fat-ta in Amsterdam l'an. 1707. Vuolsi ancora qui ricordareche Ennio giovò assai ad istruire i Romani negli amenistudj, col leggere e interpretar loro i migliori autori.Veggasi ciò che su questo argomento si è detto poc'anzi

292

detto Q. Vargunteio. Soleva questi, come narra Svetonio(De. Ill. Gramm. c. 2), in certi determinati giorni legger-li pubblicamente a numerosa assemblea che radunavasia udirli. La qual costumanza pare che più secoli ancoradurasse; poichè abbiamo da Gellio (l. 18, c. 5) che a suotempo era in Pozzuoli un cotale che nel pubblico teatroleggeva al popolo ad alta voce gli Annali di Ennio, e fa-cevasi perciò chiamare Ennianista. Molte tragedie anco-ra, molte commedie e molti epigrammi e molte satireavea egli scritto, ed altre cose i cui titoli si possono ve-dere presso il Fabricio (Bibl. Lat. l. 4, c. 1). Sembrainoltre, ch'ei fosse il primo che poemi, come sogliamdire, didascalici componesse in Roma; perciocchè tra' ti-toli delle opere da lui composte una ne abbiamo intitola-ta Phagetica, in cui sembra che delle cose a mangiare eifavellasse; e due altri titoli, che sembrano di didascalicoargomento, si rammentano dal Fabricio, cioè Protrepti-cus e Præcepta. Osserva per ultimo il Quadrio (t. 4, p.49) che Ennio osò il primo di togliersi dagli argomentigreci che fin allora si eran presi da' poeti latini a sugget-to delle loro tragedie; e una ne scrisse di argomento pre-so dalla storia romana, intitolata Scipione. I frammentiche di lui ci sono rimasti, sono stati varie volte posti allaluce e singolarmente da Girolamo Colonna l'anno 1590,la quale edizione fu poscia più pulitamente di nuovo fat-ta in Amsterdam l'an. 1707. Vuolsi ancora qui ricordareche Ennio giovò assai ad istruire i Romani negli amenistudj, col leggere e interpretar loro i migliori autori.Veggasi ciò che su questo argomento si è detto poc'anzi

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di Livio Andronico.

XVII. Quindici anni prima della morte diEnnio, cioè l'anno di Roma 569 era mortoM. Accio Plauto essendo consoli L. PorcioLicinio e P. Claudio che in quell'anno ap-

punto, secondo i Fasti Capitolini, furono consoli, e nonnel 575, come scrivono il Vossio (De Poet. Lat. l. 1) e ilQuadrio (t. 5, p. 47). L'epoca della sua morte è chiara-mente fissata da Cicerone (De Cl. Orat. n. 15): Plauto,dic'egli, morì nel consolato di P. Claudio e di L. Porcio,venti anni dopo il consolato, di quelli che sopra ho no-minati (cioè Sempronio Tuditano e Cornelio Cetegoconsoli nel 549) essendo Catone censore. Nacque egli inSarsina nell'Umbria; ma come e quando venisse aRoma, qual vita vi conducesse, in quale stima vi fosse,tutto è incerto. Par nondimeno che non solo onorevole,ma utile ancora gli fosse il poetare. Perciocchè Gelliocol testimonio di Varrone e di molti altri racconta (l. 3,c. 3) che essendosi egli colle teatrali sue rappresentazio-ni arricchito assai, ed invogliato di crescere ancora inricchezze, abbandonata la poesia si volse alla mercatura,e partissi a tal fine da Roma. Ma troppo male riuscendo-gli i suoi disegni, tornossene a Roma in sì povero statoche fu costretto a porsi in conto di famiglio presso unmugnaio e coll'aggirare la macina guadagnarsi il vitto,nel quale penoso esercizio tre altre commedie egli com-pose.

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Epoche del-la vita di Plauto.

di Livio Andronico.

XVII. Quindici anni prima della morte diEnnio, cioè l'anno di Roma 569 era mortoM. Accio Plauto essendo consoli L. PorcioLicinio e P. Claudio che in quell'anno ap-

punto, secondo i Fasti Capitolini, furono consoli, e nonnel 575, come scrivono il Vossio (De Poet. Lat. l. 1) e ilQuadrio (t. 5, p. 47). L'epoca della sua morte è chiara-mente fissata da Cicerone (De Cl. Orat. n. 15): Plauto,dic'egli, morì nel consolato di P. Claudio e di L. Porcio,venti anni dopo il consolato, di quelli che sopra ho no-minati (cioè Sempronio Tuditano e Cornelio Cetegoconsoli nel 549) essendo Catone censore. Nacque egli inSarsina nell'Umbria; ma come e quando venisse aRoma, qual vita vi conducesse, in quale stima vi fosse,tutto è incerto. Par nondimeno che non solo onorevole,ma utile ancora gli fosse il poetare. Perciocchè Gelliocol testimonio di Varrone e di molti altri racconta (l. 3,c. 3) che essendosi egli colle teatrali sue rappresentazio-ni arricchito assai, ed invogliato di crescere ancora inricchezze, abbandonata la poesia si volse alla mercatura,e partissi a tal fine da Roma. Ma troppo male riuscendo-gli i suoi disegni, tornossene a Roma in sì povero statoche fu costretto a porsi in conto di famiglio presso unmugnaio e coll'aggirare la macina guadagnarsi il vitto,nel quale penoso esercizio tre altre commedie egli com-pose.

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Epoche del-la vita di Plauto.

XVIII. A' tempi di Gellio, circa cento trentaerano le commedie che sotto il nome diPlauto correvano per le mani. Ma egli stesso

avverte (ib.) che molte falsamente gli venivano attribui-te; e aggiugne che un certo Lelio, cui egli chiama erudi-tissimo uomo, diceva venticinque sole esser di Plauto; lealtre essere di altri antichi poeti, ma ritoccate e ripuliteda Plauto, il quale perciò di esse ancora erasi credutoautore. Di tutte queste commedie venti sole ci sono ri-maste. Le lor diverse edizioni e i molti comenti sopraesse fatti si posson vedere presso il Fabricio che diligen-temente secondo il suo costume gli ha raccolti (Bibl.Lat. l. 1, c. 1). Noi al fine di questo volume accennere-mo e le migliori edizioni e i comenti più utili e le ele-ganti traduzioni che ne abbiamo. Il che faremo di tuttigli autori de' quali avverrà nel decorso di quest'opera diragionare; perciocchè ci è sembrato che cosa troppo no-iosa riuscirebbe, se ad ogni passo dovessimo, per cosìdire, arrestarci, e con lunga serie di editori, d'interpretidi traduttori interrompere il corso di questa Storia.

XIX. Non tratterrommi io qui a riferire i di-versi giudizj che delle commedie di Plautosi son portati. Che non sieno in ciò concordi

i moderni, non è maraviglia. Non vi ha quasi autore in-torno a cui non si trovino giudizi tra loro affatto contrarjnon che diversi. Veggansi le opere di Tommaso PopeBlount (Censura celebriorum Auctorum) e di Adriano

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Sue com-medie.

Giudizio diesse.

XVIII. A' tempi di Gellio, circa cento trentaerano le commedie che sotto il nome diPlauto correvano per le mani. Ma egli stesso

avverte (ib.) che molte falsamente gli venivano attribui-te; e aggiugne che un certo Lelio, cui egli chiama erudi-tissimo uomo, diceva venticinque sole esser di Plauto; lealtre essere di altri antichi poeti, ma ritoccate e ripuliteda Plauto, il quale perciò di esse ancora erasi credutoautore. Di tutte queste commedie venti sole ci sono ri-maste. Le lor diverse edizioni e i molti comenti sopraesse fatti si posson vedere presso il Fabricio che diligen-temente secondo il suo costume gli ha raccolti (Bibl.Lat. l. 1, c. 1). Noi al fine di questo volume accennere-mo e le migliori edizioni e i comenti più utili e le ele-ganti traduzioni che ne abbiamo. Il che faremo di tuttigli autori de' quali avverrà nel decorso di quest'opera diragionare; perciocchè ci è sembrato che cosa troppo no-iosa riuscirebbe, se ad ogni passo dovessimo, per cosìdire, arrestarci, e con lunga serie di editori, d'interpretidi traduttori interrompere il corso di questa Storia.

XIX. Non tratterrommi io qui a riferire i di-versi giudizj che delle commedie di Plautosi son portati. Che non sieno in ciò concordi

i moderni, non è maraviglia. Non vi ha quasi autore in-torno a cui non si trovino giudizi tra loro affatto contrarjnon che diversi. Veggansi le opere di Tommaso PopeBlount (Censura celebriorum Auctorum) e di Adriano

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Sue com-medie.

Giudizio diesse.

Baillet (Jugement des Sçavans, ec.) in cui hanno raccol-to i pareri degli uomini dotti su' dotti scrittori, e si cono-scerà a prova che la medesima discordanza che vi ha tragli uomini nel gusto che dipende da' sensi, havvi ancoranel gusto ch'è proprio dell'intelletto. Maggior maravigliaci può recare il riflettere che concordi in ciò non furononeppur gli antichi. Varrone soleva dire che se le Musevolessero latinamente parlare, non altro stile userebbonoche quel di Plauto (Quint. l. 10, c. 1) Cicerone chiamagli scherzi di Plauto eleganti colti, ingegnosi e faceti(De Offic. l. 1, n. 29). Orazio al contrario riprende "gliantichi Romani (De Art. Poet.) che i motti e gli scherzidi Plauto troppo buonamente, per non dire scioccamen-te, lodarono". Io penso che l'uno e l'altro parere si possa-no di leggeri conciliare insieme. Plauto ha certamenteuno stile grazioso, naturale e faceto; e i popolari costumivi son dipinti con colori vivi al sommo e leggiadri. Maegli sa ancora talvolta dell'antica rozzezza, e ciò che èpeggio, agli scherzi onesti ed urbani molti ne aggiugnespesso indecenti e vili. Ma di Plauto ci tornerà occasio-ne di ragionare quando favellerem di Terenzio, e l'unocoll'altro di questi due comici confronteremo.

XX. Più altri poeti ancora compositori ditragedie e di commedie fiorirono al tempostesso, cioè verso il fine del secol sesto diRoma. Ma il trattenermi a lungo in ciò che aloro appartiene, recherebbe per avventura

295

Notizie di Cecilio Sta-zio e di Pa-cuvio.

Baillet (Jugement des Sçavans, ec.) in cui hanno raccol-to i pareri degli uomini dotti su' dotti scrittori, e si cono-scerà a prova che la medesima discordanza che vi ha tragli uomini nel gusto che dipende da' sensi, havvi ancoranel gusto ch'è proprio dell'intelletto. Maggior maravigliaci può recare il riflettere che concordi in ciò non furononeppur gli antichi. Varrone soleva dire che se le Musevolessero latinamente parlare, non altro stile userebbonoche quel di Plauto (Quint. l. 10, c. 1) Cicerone chiamagli scherzi di Plauto eleganti colti, ingegnosi e faceti(De Offic. l. 1, n. 29). Orazio al contrario riprende "gliantichi Romani (De Art. Poet.) che i motti e gli scherzidi Plauto troppo buonamente, per non dire scioccamen-te, lodarono". Io penso che l'uno e l'altro parere si possa-no di leggeri conciliare insieme. Plauto ha certamenteuno stile grazioso, naturale e faceto; e i popolari costumivi son dipinti con colori vivi al sommo e leggiadri. Maegli sa ancora talvolta dell'antica rozzezza, e ciò che èpeggio, agli scherzi onesti ed urbani molti ne aggiugnespesso indecenti e vili. Ma di Plauto ci tornerà occasio-ne di ragionare quando favellerem di Terenzio, e l'unocoll'altro di questi due comici confronteremo.

XX. Più altri poeti ancora compositori ditragedie e di commedie fiorirono al tempostesso, cioè verso il fine del secol sesto diRoma. Ma il trattenermi a lungo in ciò che aloro appartiene, recherebbe per avventura

295

Notizie di Cecilio Sta-zio e di Pa-cuvio.

noia a' lettori, e mi ritarderebbe di troppo il giugnere atempi e ad uomini ancor più illustri. Mi basterà perciòl'accennare in breve alcuna cosa di quei che tra essigiunsero a maggior fama. Furon dunque a quei tempiCecilio Stazio scrittor di commedie, e Pacuvio di trage-die. Di Cecilio Stazio dice la Cronaca eusebiana, chemorì un anno dopo Ennio, che fu nativo della Gallia In-subrica, e che da alcuni si dice ch'e' fosse milanese.Queste parole sono parute bastevoli al ch. Sassi (DeStud. Mediol. c. 5), e alle Argelati (Biblioth. Script. Me-diol.) a poter dirlo accertatamente milanese di patria. IlQuadrio al contrario con ammirabile sicurezza senza re-carne prova alcuna, il fa comasco (t. 4, p. 47). Non po-trei io dire ugualmente ch'ei fu cremonese, o pavese?Egli, come abbiamo da Gellio, fu schiavo in Roma (l. 4,c. 20). Pacuvio, come abbiamo dalla stessa Cronaca e daPlinio il vecchio (l. 35, c. 4), nacque in Brindisi di unasorella di Ennio e fu in Roma pittore insieme e poeta;quindi passato a Taranto, in età di novanta anni finì divivere. Non è troppo vantaggioso il giudizio che di que-sti due poeti ci ha dato Tullio, perciocchè dice cheamendue usarono di uno stil rozzo ed incolto (De Cl.Orat. n. 74), benchè altrove di qualche particolar passodi Pacuvio parli con lode (Tusc. Quæst. l. 2, n. 21; DeDivin. l. 1, n. 57). Quintiliano nondimeno dice (l. 10, c.1) che Cecilio fu dagli antichi lodato assai, e che Pacu-vio (come anche Accio di cui or parleremo) per la gravi-tà de' sentimenti, per la forza dell'espressione e per la di-gnità de' suoi personaggi è degno di non ordinaria lode;

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noia a' lettori, e mi ritarderebbe di troppo il giugnere atempi e ad uomini ancor più illustri. Mi basterà perciòl'accennare in breve alcuna cosa di quei che tra essigiunsero a maggior fama. Furon dunque a quei tempiCecilio Stazio scrittor di commedie, e Pacuvio di trage-die. Di Cecilio Stazio dice la Cronaca eusebiana, chemorì un anno dopo Ennio, che fu nativo della Gallia In-subrica, e che da alcuni si dice ch'e' fosse milanese.Queste parole sono parute bastevoli al ch. Sassi (DeStud. Mediol. c. 5), e alle Argelati (Biblioth. Script. Me-diol.) a poter dirlo accertatamente milanese di patria. IlQuadrio al contrario con ammirabile sicurezza senza re-carne prova alcuna, il fa comasco (t. 4, p. 47). Non po-trei io dire ugualmente ch'ei fu cremonese, o pavese?Egli, come abbiamo da Gellio, fu schiavo in Roma (l. 4,c. 20). Pacuvio, come abbiamo dalla stessa Cronaca e daPlinio il vecchio (l. 35, c. 4), nacque in Brindisi di unasorella di Ennio e fu in Roma pittore insieme e poeta;quindi passato a Taranto, in età di novanta anni finì divivere. Non è troppo vantaggioso il giudizio che di que-sti due poeti ci ha dato Tullio, perciocchè dice cheamendue usarono di uno stil rozzo ed incolto (De Cl.Orat. n. 74), benchè altrove di qualche particolar passodi Pacuvio parli con lode (Tusc. Quæst. l. 2, n. 21; DeDivin. l. 1, n. 57). Quintiliano nondimeno dice (l. 10, c.1) che Cecilio fu dagli antichi lodato assai, e che Pacu-vio (come anche Accio di cui or parleremo) per la gravi-tà de' sentimenti, per la forza dell'espressione e per la di-gnità de' suoi personaggi è degno di non ordinaria lode;

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e C. Lelio presso Cicerone (De Amic. n. 7) rammenta ilsingolare applauso che riportò la tragedia di Pilade e diOreste da lui composta. Una dissertazione intorno allavita di Pacuvio ha pubblicata l'anno 1763 in Napoli ilcan. Annibale di Leo, di cui non ho potuto vedere cheun brevissimo estratto nella Gazzetta letteraria di Fran-cia (t. 6, p. 78) (48).

XXI. A questi ancora voglionsi aggiugnereL. Accio ossia Azzio, di cui parla Cicerone(De Clar. Orat.) affermando ch'egli era di

cinquant'anni più giovine di Pacuvio; e altrove (ProArch. n. 11), che D. Bruto volle che a' tempi, a' qualiegli sospese avea le spoglie tolte a' nemici, apponessequesto poeta suoi versi. Di lui dicesi nella Cronaca euse-biana, che fu figliuolo di padre stato già schiavo inRoma. Ma intorno ad Accio veggasi singolarmente il co.Mazzucchelli (Scritt. Ital. t. 1 Art. "Accio") che assai di-

48 Il ch. sig. can. Annibale di Leo mi ha poi gentilmente trasmesso copia del-le sue Memorie di M. Pacuvio qui da me accennate, e che sono scritte conmolta erudizione e con uguale esattezza. Egli prova assai bene che la na-scita di questo poeta dee fissarsi circa l'anno di Roma 534; osserva che Ci-cerone, benchè riprendesse talvolta lo stil di Pacuvio, parlò nondimeno piùvolte con molta lode delle tragedie da lui composte; nomina gl'illustri ami-ci ch'egli ebbe in Roma, e riferisce l'elegante ma semplice iscrizione sepol-crale, ch'ei medesimo si compose e che ci è stata conservata da Gellio; mo-stra che non ha alcun fondamento ciò che narrano alcuni, cioè ch'egli aves-se tre mogli, e che tutte e tre si appiccassero a una medesima pianta: ci dàun estratto di catalogo di tutte le opere di Pacuvio, altre fino a noi pervenu-te, altre perite; e reca finalmente ed esamina il giudizio che delle poesie diPacuvio han dato gli antichi scrittori.

297

Altri poeti comici.

e C. Lelio presso Cicerone (De Amic. n. 7) rammenta ilsingolare applauso che riportò la tragedia di Pilade e diOreste da lui composta. Una dissertazione intorno allavita di Pacuvio ha pubblicata l'anno 1763 in Napoli ilcan. Annibale di Leo, di cui non ho potuto vedere cheun brevissimo estratto nella Gazzetta letteraria di Fran-cia (t. 6, p. 78) (48).

XXI. A questi ancora voglionsi aggiugnereL. Accio ossia Azzio, di cui parla Cicerone(De Clar. Orat.) affermando ch'egli era di

cinquant'anni più giovine di Pacuvio; e altrove (ProArch. n. 11), che D. Bruto volle che a' tempi, a' qualiegli sospese avea le spoglie tolte a' nemici, apponessequesto poeta suoi versi. Di lui dicesi nella Cronaca euse-biana, che fu figliuolo di padre stato già schiavo inRoma. Ma intorno ad Accio veggasi singolarmente il co.Mazzucchelli (Scritt. Ital. t. 1 Art. "Accio") che assai di-

48 Il ch. sig. can. Annibale di Leo mi ha poi gentilmente trasmesso copia del-le sue Memorie di M. Pacuvio qui da me accennate, e che sono scritte conmolta erudizione e con uguale esattezza. Egli prova assai bene che la na-scita di questo poeta dee fissarsi circa l'anno di Roma 534; osserva che Ci-cerone, benchè riprendesse talvolta lo stil di Pacuvio, parlò nondimeno piùvolte con molta lode delle tragedie da lui composte; nomina gl'illustri ami-ci ch'egli ebbe in Roma, e riferisce l'elegante ma semplice iscrizione sepol-crale, ch'ei medesimo si compose e che ci è stata conservata da Gellio; mo-stra che non ha alcun fondamento ciò che narrano alcuni, cioè ch'egli aves-se tre mogli, e che tutte e tre si appiccassero a una medesima pianta: ci dàun estratto di catalogo di tutte le opere di Pacuvio, altre fino a noi pervenu-te, altre perite; e reca finalmente ed esamina il giudizio che delle poesie diPacuvio han dato gli antichi scrittori.

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Altri poeti comici.

ligentemente ne ha favellato. Inoltre Afranio da Cicero-ne chiamato ingegnosissimo ed eloquente uomo (De Cl.Or. n. 45), e da Quintiliano ancora commendato assai (l.10, c. 1), benchè a ragione il riprenda pe' disonesti amo-ri recati da lui sulla scena; e C. Tizio che nello stessoluogo vien rammentato da Cicerone; Turpilio, M. Acuti-co, ed altri che posson vedersi annoverati da que' chehan trattato de' poeti latini, singolarmente dal Vossio edal Quadrio; i quali poeti tutti ho io voluti a questo luo-go raccogliere, benchè alcuni di essi toccassero l'età se-guente, perchè si vennero succedendo l'un l'altro, e nuo-va perfezione aggiunsero al romano teatro.

XXII. Ma non vuolsi così alla sfuggita no-minare Terenzio, il quale, benchè fosse car-taginese di patria, ci sarà lecito nondimeno

di aggiugnerlo a' comici romani, tra' quali ei visse, e da'quali apprese il colto ed elegante suo stile. Abbiamo unaVita di questo illustre poeta, che va sotto il nome di Do-nato, il qual però sembra che da Svetonio l'abbia presain gran parte, poichè sappiamo che questi aveane appun-to scritta la Vita (V. Pitisci Comment. in Svet. t. 2, p.1100.). Da questa trarremo alcune delle più importantinotizie, di cui potrà, chi il voglia, vedere ivi le prove.Nacque egli in Cartagine circa l'anno 560, e fu schiavoper alcun tempo in Roma di un Terenzio, qualunque eglifosse (di che controvertesi tra gli scrittori) da cui prese ilnome. A molti cavalieri romani fu caro assai, singolar-

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Notizie di Terenzio.

ligentemente ne ha favellato. Inoltre Afranio da Cicero-ne chiamato ingegnosissimo ed eloquente uomo (De Cl.Or. n. 45), e da Quintiliano ancora commendato assai (l.10, c. 1), benchè a ragione il riprenda pe' disonesti amo-ri recati da lui sulla scena; e C. Tizio che nello stessoluogo vien rammentato da Cicerone; Turpilio, M. Acuti-co, ed altri che posson vedersi annoverati da que' chehan trattato de' poeti latini, singolarmente dal Vossio edal Quadrio; i quali poeti tutti ho io voluti a questo luo-go raccogliere, benchè alcuni di essi toccassero l'età se-guente, perchè si vennero succedendo l'un l'altro, e nuo-va perfezione aggiunsero al romano teatro.

XXII. Ma non vuolsi così alla sfuggita no-minare Terenzio, il quale, benchè fosse car-taginese di patria, ci sarà lecito nondimeno

di aggiugnerlo a' comici romani, tra' quali ei visse, e da'quali apprese il colto ed elegante suo stile. Abbiamo unaVita di questo illustre poeta, che va sotto il nome di Do-nato, il qual però sembra che da Svetonio l'abbia presain gran parte, poichè sappiamo che questi aveane appun-to scritta la Vita (V. Pitisci Comment. in Svet. t. 2, p.1100.). Da questa trarremo alcune delle più importantinotizie, di cui potrà, chi il voglia, vedere ivi le prove.Nacque egli in Cartagine circa l'anno 560, e fu schiavoper alcun tempo in Roma di un Terenzio, qualunque eglifosse (di che controvertesi tra gli scrittori) da cui prese ilnome. A molti cavalieri romani fu caro assai, singolar-

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Notizie di Terenzio.

mente a C. Lelio e a P. Scipione Africano il giovine.Diessi a scriver commedie, e poichè ebbe composta laprima intitolata Andria, l'anno 587 essendo consoli M.Claudio Marcello e C. Sulpicio Gallo, recolla agli edili,perchè permesso gli fosse di porla sulla scena. Questinon sapendo se degno a tale onore fosse Terenzio, gliordinarono che a Cecilio Stazio, di cui grande era allorala fama, recasse la sua commedia e ne chiedesse il pare-re. Andovvi egli mentre Cecilio si stava cenando, e a luiintrodotto, poichè era in vile e povero arnese, gli fucome a spregevol persona dato a sedere su di un piccio-lo sgabello appiè del letto su cui cenava Cecilio. Maquesti uditine appena alcuni versi ne conobbe e ne am-mirò il valore; e fattolo seder seco alla cena, ne udì po-scia il rimanente con sua gran maraviglia. Così Donato,ossia Svetonio. Ma se egli è vero, come sopra si è detto,che Cecilio Stazio morisse un anno dopo Ennio, cioèl'anno 585, egli è evidente che non potè Terenzio l'anno587 recargli la sua commedia. Forse ciò che qui narrasidi Cecilio, vuolsi intendere di qualche altro rinnomatopoeta che allor ci vivesse.

XXIII. Sei furono le commedie che Teren-zio scrisse, e che sul romano teatro furonorappresentate dall'anno suddetto fino al 593

come chiaramente raccogliesi dagli antichi titoli allecommedie stesse premessi. Furono esse ascoltate congrande applauso, singolarmente quella ch'è intitolata

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Sue com-medie.

mente a C. Lelio e a P. Scipione Africano il giovine.Diessi a scriver commedie, e poichè ebbe composta laprima intitolata Andria, l'anno 587 essendo consoli M.Claudio Marcello e C. Sulpicio Gallo, recolla agli edili,perchè permesso gli fosse di porla sulla scena. Questinon sapendo se degno a tale onore fosse Terenzio, gliordinarono che a Cecilio Stazio, di cui grande era allorala fama, recasse la sua commedia e ne chiedesse il pare-re. Andovvi egli mentre Cecilio si stava cenando, e a luiintrodotto, poichè era in vile e povero arnese, gli fucome a spregevol persona dato a sedere su di un piccio-lo sgabello appiè del letto su cui cenava Cecilio. Maquesti uditine appena alcuni versi ne conobbe e ne am-mirò il valore; e fattolo seder seco alla cena, ne udì po-scia il rimanente con sua gran maraviglia. Così Donato,ossia Svetonio. Ma se egli è vero, come sopra si è detto,che Cecilio Stazio morisse un anno dopo Ennio, cioèl'anno 585, egli è evidente che non potè Terenzio l'anno587 recargli la sua commedia. Forse ciò che qui narrasidi Cecilio, vuolsi intendere di qualche altro rinnomatopoeta che allor ci vivesse.

XXIII. Sei furono le commedie che Teren-zio scrisse, e che sul romano teatro furonorappresentate dall'anno suddetto fino al 593

come chiaramente raccogliesi dagli antichi titoli allecommedie stesse premessi. Furono esse ascoltate congrande applauso, singolarmente quella ch'è intitolata

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Sue com-medie.

l'Eunuco, che due volte in un giorno solo si volle rap-presentata; e per questa commedia aggiugne Donatoch'egli ebbe ottomila sesterzj che corrispondono a un di-presso a dugento scudi romani, prezzo, dice lo stessoscrittore, a cui per commedia alcuna non erasi ancor pa-gato l'uguale. Soggiugne però Donato, e il prova collatestimonianza di molti antichi scrittori, essersi tenuta percosa ferma e costante che nelle commedie di Terenziogran parte avessero i suoi due amici Lelio e Scipione.Terenzio stesso non dissimula quest'accusa che contro dilui si spargeva; e la maniera con cui si difende, sembraanzi opportuna a confermarla più che a ribatterla (Adel-ph. Prolog.).

Nam quod isti dicunt malevoli, homines nobilesHunc adjutare, assidueque una scribere, Quod illi maledictum vehemens existimant,Eam laudem hic ducit maximam, cum illis placet, Qui vobis universis et populo placent; Quorum opera in bello, in otio, et negotio Suo quisque tempore usus est sine superbia.

XXIV. Forse, come osserva Donato, questeinvidiose voci che contro di lui correvan perRoma, furon cagione ch'egli, poichè ebbecomposte le sei mentovate commedie, se ne

partisse per andarsene in Grecia; ma forse ancora un talconsiglio egli prese per meglio conoscere le usanze gre-che, e meglio ancora esprimerle ne' suoi versi. Qualun-que fosse la ragione della sua partenza da Roma, certo è

300

Suo viaggioin Grecia e sua morte.

l'Eunuco, che due volte in un giorno solo si volle rap-presentata; e per questa commedia aggiugne Donatoch'egli ebbe ottomila sesterzj che corrispondono a un di-presso a dugento scudi romani, prezzo, dice lo stessoscrittore, a cui per commedia alcuna non erasi ancor pa-gato l'uguale. Soggiugne però Donato, e il prova collatestimonianza di molti antichi scrittori, essersi tenuta percosa ferma e costante che nelle commedie di Terenziogran parte avessero i suoi due amici Lelio e Scipione.Terenzio stesso non dissimula quest'accusa che contro dilui si spargeva; e la maniera con cui si difende, sembraanzi opportuna a confermarla più che a ribatterla (Adel-ph. Prolog.).

Nam quod isti dicunt malevoli, homines nobilesHunc adjutare, assidueque una scribere, Quod illi maledictum vehemens existimant,Eam laudem hic ducit maximam, cum illis placet, Qui vobis universis et populo placent; Quorum opera in bello, in otio, et negotio Suo quisque tempore usus est sine superbia.

XXIV. Forse, come osserva Donato, questeinvidiose voci che contro di lui correvan perRoma, furon cagione ch'egli, poichè ebbecomposte le sei mentovate commedie, se ne

partisse per andarsene in Grecia; ma forse ancora un talconsiglio egli prese per meglio conoscere le usanze gre-che, e meglio ancora esprimerle ne' suoi versi. Qualun-que fosse la ragione della sua partenza da Roma, certo è

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Suo viaggioin Grecia e sua morte.

ch'egli più non vi fece ritorno. Reca Donato le diverseopinioni che della morte di lui si divulgaron per Roma.Altri scrissero che salito in nave più non fu veduto daalcuno, altri che nel tornare di Grecia e portando secocento otto commedie che dal greco di Menandro aveavolte in latino, perì di naufragio; ma i più, ch'egli morìin Grecia l'an. 594, singolarmente per dolore che il preseall'udire che il suo bagaglio cui insieme colle nuove suecommedie avea spedito innanzi per mare, risoluto poiegli ancora di tornarsene a Roma, erasi affondato.

XXV. Diversi sono i pareri de' moderni pre-cettori di poesia intorno alle commedie diTerenzio. Altri le innalzano fino alle stelle,altri ne sentono bassamente. Ma io pensoche tutti si arrenderan volentieri al parere di

due de' più grandi uomini di tutta l'antichità, e de' piùatti a giudicare in questo argomento, dico di Cicerone edi Giulio Cesare. Alcuni lor versi ci sono stati da Dona-to conservati, ne' quali il carattere formano e l'elogio diquesto poeta. Cicerone ha così:

Tu quoque, qui solus lecto sermone, Terenti,Conversum expressumque latina voce Menandrum In medio populi sedatis vocibus effers,Quidquid come loquens, ne omnia dulcia dicens.

Cesare alle virtù di Terenzio aggiugne ancora i difetti:Tu quoque tu in summis, o dimidiate Menander,

301

Carattere delle com-medie di Terenzio.

ch'egli più non vi fece ritorno. Reca Donato le diverseopinioni che della morte di lui si divulgaron per Roma.Altri scrissero che salito in nave più non fu veduto daalcuno, altri che nel tornare di Grecia e portando secocento otto commedie che dal greco di Menandro aveavolte in latino, perì di naufragio; ma i più, ch'egli morìin Grecia l'an. 594, singolarmente per dolore che il preseall'udire che il suo bagaglio cui insieme colle nuove suecommedie avea spedito innanzi per mare, risoluto poiegli ancora di tornarsene a Roma, erasi affondato.

XXV. Diversi sono i pareri de' moderni pre-cettori di poesia intorno alle commedie diTerenzio. Altri le innalzano fino alle stelle,altri ne sentono bassamente. Ma io pensoche tutti si arrenderan volentieri al parere di

due de' più grandi uomini di tutta l'antichità, e de' piùatti a giudicare in questo argomento, dico di Cicerone edi Giulio Cesare. Alcuni lor versi ci sono stati da Dona-to conservati, ne' quali il carattere formano e l'elogio diquesto poeta. Cicerone ha così:

Tu quoque, qui solus lecto sermone, Terenti,Conversum expressumque latina voce Menandrum In medio populi sedatis vocibus effers,Quidquid come loquens, ne omnia dulcia dicens.

Cesare alle virtù di Terenzio aggiugne ancora i difetti:Tu quoque tu in summis, o dimidiate Menander,

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Carattere delle com-medie di Terenzio.

Poneris, et merito puri sermonis amator.Levibus atque utinam scriptis adjuncta feret visComica, ut æquato virtus polleret honore Cum Græcis, neque in hac despectus parte jaceres.Unum hoc maceror et doleo tibi deesse, Terenti.

Noi veggiam dunque che amendue esaltano sommamen-te Terenzio per la purezza del latino linguaggio, per ladolcezza dello stile, per l'imitazion di Menandro. MaCesare desidera in lui maggior forza di sentimenti. In talmaniera sembra che i biasimatori e i lodatori di Terenziosi possano accordare insieme; e tale è appunto il senti-mento del p. Rapin nel parallelo ch'egli ha formato diPlauto e di Terenzio, con cui porrò fine alla serie finortessuta de' latini poeti di questa età. "Plauto, dic'egli(Réflex. sur la Poétique n. 26), è ingegnoso ne' suoi di-segni, felice nelle sue immaginazioni, fertile nell'inven-zione; non lascia, è vero, d'aver facezie al parere di Ora-zio, grossolane e vili; e i suoi motti movevan talvoltaalle risa il popolo, gli uomini colti a compassione; moltine ha eleganti e graziosi ma molti sciocchi ancora....non è così regolare nell'ordine delle sue commedie, nènella distribuzion degli atti, come Terenzio; ma è piùsemplice ne' suggetti perciocchè le azioni di Terenziosono ordinariamente composte, come si vedenell'Andria che contiene doppio amore. E rimproverava-si appunto a Terenzio, che per più animare il teatro didue commedie greche una ne componesse latina. Ma gliscioglimenti di Terenzio sono più naturali di que' di

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Poneris, et merito puri sermonis amator.Levibus atque utinam scriptis adjuncta feret visComica, ut æquato virtus polleret honore Cum Græcis, neque in hac despectus parte jaceres.Unum hoc maceror et doleo tibi deesse, Terenti.

Noi veggiam dunque che amendue esaltano sommamen-te Terenzio per la purezza del latino linguaggio, per ladolcezza dello stile, per l'imitazion di Menandro. MaCesare desidera in lui maggior forza di sentimenti. In talmaniera sembra che i biasimatori e i lodatori di Terenziosi possano accordare insieme; e tale è appunto il senti-mento del p. Rapin nel parallelo ch'egli ha formato diPlauto e di Terenzio, con cui porrò fine alla serie finortessuta de' latini poeti di questa età. "Plauto, dic'egli(Réflex. sur la Poétique n. 26), è ingegnoso ne' suoi di-segni, felice nelle sue immaginazioni, fertile nell'inven-zione; non lascia, è vero, d'aver facezie al parere di Ora-zio, grossolane e vili; e i suoi motti movevan talvoltaalle risa il popolo, gli uomini colti a compassione; moltine ha eleganti e graziosi ma molti sciocchi ancora....non è così regolare nell'ordine delle sue commedie, nènella distribuzion degli atti, come Terenzio; ma è piùsemplice ne' suggetti perciocchè le azioni di Terenziosono ordinariamente composte, come si vedenell'Andria che contiene doppio amore. E rimproverava-si appunto a Terenzio, che per più animare il teatro didue commedie greche una ne componesse latina. Ma gliscioglimenti di Terenzio sono più naturali di que' di

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Plauto; come altresì que' di Plauto più di que' d'Aristofa-ne. Benchè Cesare appelli Terenzio un diminutivo diMenandro (dovea dire piuttosto un dimezzato Menan-dro), poichè ne ha la dolcezza e la dilicatezza, ma nonne ha la forza e il vigore, egli ha nondimeno scritto conuno stile così naturale e giusto, che di copia che egli era,è divenuto originale; perciocchè niun autore vi è statoche un fino gusto della natura abbia avuto al par di Te-renzio". Così egli, il cui testimonio ho qui volentieri ad-dotto, come di uomo che per sentimento dell'ab. Goujet(Biblioth. franc. t. 3, p. 112) che da niuno, io spero, cre-derassi pregiudicato, meglio forse di ogn'altro modernoha trattato ciò che all'arte poetica appartiene. Si può an-cora vedere ciò che di questi due poeti e del loro diversocarattere dice lo stesso ab. Goujet (ib. t. 4, p. 330 e 393).

XXVI. Così fra' Romani si venne perfezio-nando la latina lingua non meno che la poe-sia nel sesto secol di Roma, e sul principiodel settimo fino alla terza guerra cartaginesech'ebbe cominciamento l'an. 604, e finì l'an.607. E certo le commedie di Plauto e di Te-renzio ci fan conoscere qual felice progres-

so facessero i Romani ne' teatrali componimenti. Con-vien però confessare che questi non uguagliaron giam-mai nelle commedie il valore de' Greci. "Noi, dice Gel-lio (l. 2, c. 23), leggiam le commedie de' nostri poetiprese e tradotte da quelle de' Greci, di Menandro cioè, di

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Per qual ra-gione i Ro-mani in questa partenon ugua-gliassero i Greci.

Plauto; come altresì que' di Plauto più di que' d'Aristofa-ne. Benchè Cesare appelli Terenzio un diminutivo diMenandro (dovea dire piuttosto un dimezzato Menan-dro), poichè ne ha la dolcezza e la dilicatezza, ma nonne ha la forza e il vigore, egli ha nondimeno scritto conuno stile così naturale e giusto, che di copia che egli era,è divenuto originale; perciocchè niun autore vi è statoche un fino gusto della natura abbia avuto al par di Te-renzio". Così egli, il cui testimonio ho qui volentieri ad-dotto, come di uomo che per sentimento dell'ab. Goujet(Biblioth. franc. t. 3, p. 112) che da niuno, io spero, cre-derassi pregiudicato, meglio forse di ogn'altro modernoha trattato ciò che all'arte poetica appartiene. Si può an-cora vedere ciò che di questi due poeti e del loro diversocarattere dice lo stesso ab. Goujet (ib. t. 4, p. 330 e 393).

XXVI. Così fra' Romani si venne perfezio-nando la latina lingua non meno che la poe-sia nel sesto secol di Roma, e sul principiodel settimo fino alla terza guerra cartaginesech'ebbe cominciamento l'an. 604, e finì l'an.607. E certo le commedie di Plauto e di Te-renzio ci fan conoscere qual felice progres-

so facessero i Romani ne' teatrali componimenti. Con-vien però confessare che questi non uguagliaron giam-mai nelle commedie il valore de' Greci. "Noi, dice Gel-lio (l. 2, c. 23), leggiam le commedie de' nostri poetiprese e tradotte da quelle de' Greci, di Menandro cioè, di

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Per qual ra-gione i Ro-mani in questa partenon ugua-gliassero i Greci.

Posidio, di Apollodoro, di Alessi e di altri. Or quandonoi le leggiamo non ci dispiacciono esse già, che anzi cisembrano con lepore e con eleganza composte. Ma se tuprendi a paragonarle cogli originali greci da cui furonotratte, e ogni cosa di seguito e diligentemente tra lorconfronti, comincian le latine pur troppo a cadere di pre-gio e a svanire al paragone; così sono esse oscurate dallecommedie greche cui invano cercarono di emulare". Maqual crederem noi che fosse la vera ragione di sì grandediversità? Non certo la dissomiglianza degl'ingegni, o ladiversa indole delle lingue. Perciocchè se in altre cosepoterono i Romani uguagliar presto e superare ancora iGreci, perchè nol poterono in questa ancora? Io pensoche tutta estrinseca fosse la ragione di tal mancanza, equella appunto che Cicerone ne reca, cioè che "in pocoonore furono per lungo tempo i poeti e che perciò quan-to meno erano essi pregiati, tanto minore si fu lo studiodella poesia; perciocchè, (soggiugne lo stesso Tullio),l'onore è quello che alimenta le arti, e sempre dimentica-te si giacciono quelle cose che non riscuotono lode(Quæst. Tuscul. l. 1, n. 2)". Noi veggiamo di fatto chetutti i più antichi poeti, e la più parte ancora di quelliche venner dopo, de' quali abbiamo finora parlato, furo-no e di vil nascita e stranieri; e se Lelio e Scipione nonsi sdegnarono di unirsi a Terenzio per comporre comme-die, non vollero però giammai che cosa alcuna apparissesotto il lor nome. Così piaceva in Roma la poesia, piace-vano i poeti, ed eravi ancora chi gli amava e gli proteg-geva; ma ciò nonostante non era in quell'onore l'arte di

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Posidio, di Apollodoro, di Alessi e di altri. Or quandonoi le leggiamo non ci dispiacciono esse già, che anzi cisembrano con lepore e con eleganza composte. Ma se tuprendi a paragonarle cogli originali greci da cui furonotratte, e ogni cosa di seguito e diligentemente tra lorconfronti, comincian le latine pur troppo a cadere di pre-gio e a svanire al paragone; così sono esse oscurate dallecommedie greche cui invano cercarono di emulare". Maqual crederem noi che fosse la vera ragione di sì grandediversità? Non certo la dissomiglianza degl'ingegni, o ladiversa indole delle lingue. Perciocchè se in altre cosepoterono i Romani uguagliar presto e superare ancora iGreci, perchè nol poterono in questa ancora? Io pensoche tutta estrinseca fosse la ragione di tal mancanza, equella appunto che Cicerone ne reca, cioè che "in pocoonore furono per lungo tempo i poeti e che perciò quan-to meno erano essi pregiati, tanto minore si fu lo studiodella poesia; perciocchè, (soggiugne lo stesso Tullio),l'onore è quello che alimenta le arti, e sempre dimentica-te si giacciono quelle cose che non riscuotono lode(Quæst. Tuscul. l. 1, n. 2)". Noi veggiamo di fatto chetutti i più antichi poeti, e la più parte ancora di quelliche venner dopo, de' quali abbiamo finora parlato, furo-no e di vil nascita e stranieri; e se Lelio e Scipione nonsi sdegnarono di unirsi a Terenzio per comporre comme-die, non vollero però giammai che cosa alcuna apparissesotto il lor nome. Così piaceva in Roma la poesia, piace-vano i poeti, ed eravi ancora chi gli amava e gli proteg-geva; ma ciò nonostante non era in quell'onore l'arte di

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poetare, che convenuto sarebbe, perchè i Romani conimpegno prendessero a coltivarla; ed era anzi considera-ta come un piacevol trastullo che dagli stranieri procurarsi dovesse a' Romani lor vincitori, che come un prege-vole ornamento di cui ad essi ancor convenisse mostrar-si vaghi. E questa probabilmente fu ancor la ragione percui in questo secolo la teatral poesia, cioè la più dilette-vole, maggiormente fu coltivata. Ma venne tempo in cuia maggior onore e quindi a perfezione maggiore salìquest'arte. Prima però di venire a questo, è a vedere inquale stato frattanto fossero le altre scienze in Roma, diche or ora ragioneremo.

XXVII. Potrebbe per avventura sembraread alcuno ch'io qui dovessi trattare ancoradella struttura, delle diverse parti e degli or-namenti del romano teatro. Ma a me nonsembra che ciò propriamente appartenga

alla Storia della Letteratura. Chi brama essere in ciòistruito, può vedere ciò che ne hanno, per tacer di altri, ilQuadrio (t. 4, p. 407, ec.), e il cavalier Carlo Fontananel suo Anfiteatro Flavio stampato all'Aia l'anno 1725,in cui tutti i teatri ch'erano in Roma, accuratamente de-scrive.

305

Della co-struzione del teatro romano.

poetare, che convenuto sarebbe, perchè i Romani conimpegno prendessero a coltivarla; ed era anzi considera-ta come un piacevol trastullo che dagli stranieri procurarsi dovesse a' Romani lor vincitori, che come un prege-vole ornamento di cui ad essi ancor convenisse mostrar-si vaghi. E questa probabilmente fu ancor la ragione percui in questo secolo la teatral poesia, cioè la più dilette-vole, maggiormente fu coltivata. Ma venne tempo in cuia maggior onore e quindi a perfezione maggiore salìquest'arte. Prima però di venire a questo, è a vedere inquale stato frattanto fossero le altre scienze in Roma, diche or ora ragioneremo.

XXVII. Potrebbe per avventura sembraread alcuno ch'io qui dovessi trattare ancoradella struttura, delle diverse parti e degli or-namenti del romano teatro. Ma a me nonsembra che ciò propriamente appartenga

alla Storia della Letteratura. Chi brama essere in ciòistruito, può vedere ciò che ne hanno, per tacer di altri, ilQuadrio (t. 4, p. 407, ec.), e il cavalier Carlo Fontananel suo Anfiteatro Flavio stampato all'Aia l'anno 1725,in cui tutti i teatri ch'erano in Roma, accuratamente de-scrive.

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Della co-struzione del teatro romano.

CAPO II Gramatici, Retori, e Filosofi greci in Roma, e stu-

dio della Filosofia tra' Romani.

I. Sembra cosa presso che incredibile cheper 500 e più anni niuno vi fosse in Romache tenesse pubblica scuola di lingua latinanon che di greca, e insegnasse a conoscernee ad usarne la proprietà e l'eleganza. E non-dimeno egli è certo che così fu. "La grama-

tica, dice Svetonio (De Ill. Gramm. c. 1) non che in ono-re, neppure in uso era anticamente in Roma, perciocchèrozza ancora essendo e guerriera la città tutta, poco at-tendevasi alle bell'arti". Plutarco scrive (Quæst. Rom.59), "che tardi incominciossi in Roma ad aprire scuolain cui s'insegnasse a prezzo, e che il primo ad aprirla fuSp. Carbilio liberto di quel Carbilio che primad'ogn'altro fe' divorzio in Roma dalla propria moglie". Ilqual divorzio per testimonio di Gellio (l. 17, c. 21) ac-cadde l'anno di Roma 519. Più tardi ancora vuole Sveto-nio (ib. c. 2) che lo studio della grammatica avessseprincipio in Roma, perciocchè egli afferma che Cratetedi Mallo fu il primo a tenerne scuola verso la fine delsesto secolo, come ora vedremo. Par nondimeno chequesti due autori si possano agevolmente conciliare in-sieme. Perciocchè Plutarco parla solo, per quanto sem-bra, di una pubblica scuola in cui i principj della linguas'insegnassero. Svetonio al contrario intende, come ap-

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Quanto tar-di s'intro-ducessero in Roma le scuole di gramatica

CAPO II Gramatici, Retori, e Filosofi greci in Roma, e stu-

dio della Filosofia tra' Romani.

I. Sembra cosa presso che incredibile cheper 500 e più anni niuno vi fosse in Romache tenesse pubblica scuola di lingua latinanon che di greca, e insegnasse a conoscernee ad usarne la proprietà e l'eleganza. E non-dimeno egli è certo che così fu. "La grama-

tica, dice Svetonio (De Ill. Gramm. c. 1) non che in ono-re, neppure in uso era anticamente in Roma, perciocchèrozza ancora essendo e guerriera la città tutta, poco at-tendevasi alle bell'arti". Plutarco scrive (Quæst. Rom.59), "che tardi incominciossi in Roma ad aprire scuolain cui s'insegnasse a prezzo, e che il primo ad aprirla fuSp. Carbilio liberto di quel Carbilio che primad'ogn'altro fe' divorzio in Roma dalla propria moglie". Ilqual divorzio per testimonio di Gellio (l. 17, c. 21) ac-cadde l'anno di Roma 519. Più tardi ancora vuole Sveto-nio (ib. c. 2) che lo studio della grammatica avessseprincipio in Roma, perciocchè egli afferma che Cratetedi Mallo fu il primo a tenerne scuola verso la fine delsesto secolo, come ora vedremo. Par nondimeno chequesti due autori si possano agevolmente conciliare in-sieme. Perciocchè Plutarco parla solo, per quanto sem-bra, di una pubblica scuola in cui i principj della linguas'insegnassero. Svetonio al contrario intende, come ap-

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Quanto tar-di s'intro-ducessero in Roma le scuole di gramatica

presso vedremo, una scuola in cui i libri degli antichiautori e si sponessero e si chiamassero ad esame, disser-tazioni e trattati si facessero ad altrui giovamento. Eranoin fatti questi esercizi propri di coloro che in Roma siappellavan gramatici. Quindi è che a ragione il Valchioafferma (Hist. Artis Crit. ap. Romanos §. 12) che Crate-te fu il primo il quale nell'arte critica, presa in questosenso, istruisse i Romani.

II. Cratete di Mallo, città della Cilicia, fi-gliuol di Timocrate fu come afferma Suida(in Lexic. ad V. "Crates"), filosofo stoico diprofessione, e detto per soprannome Omeri-co e Critico, a cagione dello studio con cui

egli alla gramatica e alla poesia erasi applicato. Il tempoin cui venne a Roma, così da Svetonio si stabilisce (loc.cit.). "Fu egli mandato da Attalo re (di Pergamo), al se-nato romano tra la seconda e la terza guerra cartaginese,poco dopo la morte di Ennio". Come però, secondo ilcomun parere degli scrittori, Attalo non cominciò a re-gnare che l'anno 596 dopo la morte di Eumene suo fra-tello, ed Ennio, come detto abbiamo, morì l'an. 584,convien dire che o non subito dopo la morte di Enniovenisse Cratete a Roma, o, se vennevi subito, ciò nonfosse quando Attalo era re, ma quando era collega diEumene suo fratello nell'amministrazione del regno. Ve-nuto egli dunque a Roma, mentre vi trattava gli affariper cui da Attalo vi era stato spedito, caduto sventurata-

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Cratete di Mallo è il primo a te-nerla.

presso vedremo, una scuola in cui i libri degli antichiautori e si sponessero e si chiamassero ad esame, disser-tazioni e trattati si facessero ad altrui giovamento. Eranoin fatti questi esercizi propri di coloro che in Roma siappellavan gramatici. Quindi è che a ragione il Valchioafferma (Hist. Artis Crit. ap. Romanos §. 12) che Crate-te fu il primo il quale nell'arte critica, presa in questosenso, istruisse i Romani.

II. Cratete di Mallo, città della Cilicia, fi-gliuol di Timocrate fu come afferma Suida(in Lexic. ad V. "Crates"), filosofo stoico diprofessione, e detto per soprannome Omeri-co e Critico, a cagione dello studio con cui

egli alla gramatica e alla poesia erasi applicato. Il tempoin cui venne a Roma, così da Svetonio si stabilisce (loc.cit.). "Fu egli mandato da Attalo re (di Pergamo), al se-nato romano tra la seconda e la terza guerra cartaginese,poco dopo la morte di Ennio". Come però, secondo ilcomun parere degli scrittori, Attalo non cominciò a re-gnare che l'anno 596 dopo la morte di Eumene suo fra-tello, ed Ennio, come detto abbiamo, morì l'an. 584,convien dire che o non subito dopo la morte di Enniovenisse Cratete a Roma, o, se vennevi subito, ciò nonfosse quando Attalo era re, ma quando era collega diEumene suo fratello nell'amministrazione del regno. Ve-nuto egli dunque a Roma, mentre vi trattava gli affariper cui da Attalo vi era stato spedito, caduto sventurata-

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Cratete di Mallo è il primo a te-nerla.

mente nell'apertura di un sotterraneo condotto, se glispezzò una gamba; onde costretto a starsene lungamentein Roma, affine di passare con suo ed altrui vantaggio ilnoioso tempo di sua guarigione, prese a trattare conquelli che a lui venivano erudite questioni, e a disputareor su uno, or su altro degli antichi autori. Accorrevanomolti ad udirlo; e dall'udirlo passando alla brama d'imi-tarlo, si fecero alcuni ancor tra' Romani a praticare so-miglianti esercizj, esaminando, spiegando, comentando iversi o de' loro amici, o d'altri che di tal cura giudicasse-ro degni. Quindi questo genere di studio venne in mag-gior nome che prima non era, e due cavalieri romani, L.Elio Lanuvino e Servio Claudio, ad esso applicatosi,grande perfezione e ornamento grande gli accrebbero.Tutto ciò Svetonio (loc. cit.), il quale altri gramatici an-novera che a quel tempo furono illustri, a' quali per te-stimonio di Plutarco (Vit. Caton. cens.) vuolsi aggiugne-re un cotal Chilone schiavo di Catone censore e a lui ca-rissimo, il quale in quel tempo medesimo a più fanciulliavea aperta pubblica scuola.

III. Mentre in tal maniera cominciarono iRomani ad amare e coltivare le scienze,avvenne cosa che giovò non poco a scuo-tergli ancor maggiormente, ed animargli atali studj. L'anno di Roma 586, dappoichè

i Romani costretto ebbero Perseo re di Macedonia asoggettarsi al loro impero, e a venirsene a Roma, fecero

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Introduzione della greca fi-losofia in Roma.

mente nell'apertura di un sotterraneo condotto, se glispezzò una gamba; onde costretto a starsene lungamentein Roma, affine di passare con suo ed altrui vantaggio ilnoioso tempo di sua guarigione, prese a trattare conquelli che a lui venivano erudite questioni, e a disputareor su uno, or su altro degli antichi autori. Accorrevanomolti ad udirlo; e dall'udirlo passando alla brama d'imi-tarlo, si fecero alcuni ancor tra' Romani a praticare so-miglianti esercizj, esaminando, spiegando, comentando iversi o de' loro amici, o d'altri che di tal cura giudicasse-ro degni. Quindi questo genere di studio venne in mag-gior nome che prima non era, e due cavalieri romani, L.Elio Lanuvino e Servio Claudio, ad esso applicatosi,grande perfezione e ornamento grande gli accrebbero.Tutto ciò Svetonio (loc. cit.), il quale altri gramatici an-novera che a quel tempo furono illustri, a' quali per te-stimonio di Plutarco (Vit. Caton. cens.) vuolsi aggiugne-re un cotal Chilone schiavo di Catone censore e a lui ca-rissimo, il quale in quel tempo medesimo a più fanciulliavea aperta pubblica scuola.

III. Mentre in tal maniera cominciarono iRomani ad amare e coltivare le scienze,avvenne cosa che giovò non poco a scuo-tergli ancor maggiormente, ed animargli atali studj. L'anno di Roma 586, dappoichè

i Romani costretto ebbero Perseo re di Macedonia asoggettarsi al loro impero, e a venirsene a Roma, fecero

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Introduzione della greca fi-losofia in Roma.

diligente ricerca di que' tra' Greci, che a quel re aveanprestato favore, ed altri ne puniron di morte, altri in grannumero ne condussero a Roma, perchè ivi di loro si giu-dicasse (V. Histor. Rom. ad hunc an.). Tra questi molti viavea uomini dotti e nello studio della filosofia e dell'elo-quenza versati assai, singolarmente il celebre storico Po-libio, e il filosofo Panezio cui Cicerone per poco nonchiama il primo de' filosofi stoici (Acad. Quæst. l. 4, n.33). Or questi, e in particolar maniera Polibio, concorse-ro maravigliosamente ad avvivare sempre più ne' Roma-ni quell'ardor per le scienze, da cui già cominciavano adesser compresi. Non fermerommi io qui a tesser la vitadi questo illustre scrittore, a cui dee la Grecia l'esserestata da' Romani trattata con più dolcezza che non soles-sero usare co' popoli da lor soggiogati (V. Freinshem.Suppl. Liv. l. 52, c. 21). Il giovine Scipione Africanosingolarmente dal conversar di Polibio raccolse tal frut-to che, come egli fu uno de' più famosi condottierid'armata, che avesse Roma, così fu ancora uno de' primiche nel coltivare e nell'onorare le scienze si renderonoillustri. Io crederei di privare i lettori di uno de' più beipassi che negli antichi scrittori ci sian rimasti, se a que-sto luogo non riferissi il ragionamento di Scipione ancorgiovinetto con Polibio, che fu il principio dell'amore dicui egli si accese per lo studio dell'bell'arti, e che da Po-libio stesso così ci viene descritto (Exempl. Virt. et Vit.c. 73).

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diligente ricerca di que' tra' Greci, che a quel re aveanprestato favore, ed altri ne puniron di morte, altri in grannumero ne condussero a Roma, perchè ivi di loro si giu-dicasse (V. Histor. Rom. ad hunc an.). Tra questi molti viavea uomini dotti e nello studio della filosofia e dell'elo-quenza versati assai, singolarmente il celebre storico Po-libio, e il filosofo Panezio cui Cicerone per poco nonchiama il primo de' filosofi stoici (Acad. Quæst. l. 4, n.33). Or questi, e in particolar maniera Polibio, concorse-ro maravigliosamente ad avvivare sempre più ne' Roma-ni quell'ardor per le scienze, da cui già cominciavano adesser compresi. Non fermerommi io qui a tesser la vitadi questo illustre scrittore, a cui dee la Grecia l'esserestata da' Romani trattata con più dolcezza che non soles-sero usare co' popoli da lor soggiogati (V. Freinshem.Suppl. Liv. l. 52, c. 21). Il giovine Scipione Africanosingolarmente dal conversar di Polibio raccolse tal frut-to che, come egli fu uno de' più famosi condottierid'armata, che avesse Roma, così fu ancora uno de' primiche nel coltivare e nell'onorare le scienze si renderonoillustri. Io crederei di privare i lettori di uno de' più beipassi che negli antichi scrittori ci sian rimasti, se a que-sto luogo non riferissi il ragionamento di Scipione ancorgiovinetto con Polibio, che fu il principio dell'amore dicui egli si accese per lo studio dell'bell'arti, e che da Po-libio stesso così ci viene descritto (Exempl. Virt. et Vit.c. 73).

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IV. "Ho detto in addietro che la nostra ami-chevole corrispondenza avea avuto princi-pio da' ragionamenti che facevamo insiemesu' libri ch'ei mi prestava. Questa unione dicuori erasi già stretta alquanto, quando iGreci ch'erano stati chiamati a Roma, furo-no in varie città dispersi. Allora i due fi-

gliuoli di Paolo Emilio, Fabio e Publio Scipione, richie-sero istantemente al Pretore ch'io potessi restar con loro;e l'ottennero. Mentre io dunque stavami in Roma, unasingolare avventura giovò assai a stringere vieppiù inodi della nostra amicizia. Un giorno, mentre Fabio an-davane verso il Foro, ed io e Scipione passeggiavamoinsieme in altra parte, questo giovin romano in un'ariaamorevole e dolce, ed arrossendo alquanto, meco si dol-se che stando io alla mensa col suo fratello e con lui, iosempre a Fabio volgessi il discorso, non mai a lui; e ioben conosco, soggiunse, che questa vostra freddezza na-sce dall'opinione in cui siete voi pure, come tutti i nostriconcittadini, ch'io sia un giovine trascurato, che niun ge-nio abbia per le scienze che al presente fioriscono inRoma; perciocchè non mi veggono applicarmi agli eser-cizj del Foro, nè volgermi all'eloquenza. Ma come, caroPolibio, come potrei io farlo? Mi si dice continuamenteche dalla famiglia degli Scipioni non si aspetta già unoratore, ma un generale d'armata. Vi confesso che la vo-stra freddezza per me mi tocca e mi affligge sensibil-mente. Io fui sorpreso, continua Polibio, all'udire un di-scorso cui certo non mi attendeva da un giovinetto di di-

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Con qual occasione ad essa si rivolgesse il giovane Scipione Africano.

IV. "Ho detto in addietro che la nostra ami-chevole corrispondenza avea avuto princi-pio da' ragionamenti che facevamo insiemesu' libri ch'ei mi prestava. Questa unione dicuori erasi già stretta alquanto, quando iGreci ch'erano stati chiamati a Roma, furo-no in varie città dispersi. Allora i due fi-

gliuoli di Paolo Emilio, Fabio e Publio Scipione, richie-sero istantemente al Pretore ch'io potessi restar con loro;e l'ottennero. Mentre io dunque stavami in Roma, unasingolare avventura giovò assai a stringere vieppiù inodi della nostra amicizia. Un giorno, mentre Fabio an-davane verso il Foro, ed io e Scipione passeggiavamoinsieme in altra parte, questo giovin romano in un'ariaamorevole e dolce, ed arrossendo alquanto, meco si dol-se che stando io alla mensa col suo fratello e con lui, iosempre a Fabio volgessi il discorso, non mai a lui; e ioben conosco, soggiunse, che questa vostra freddezza na-sce dall'opinione in cui siete voi pure, come tutti i nostriconcittadini, ch'io sia un giovine trascurato, che niun ge-nio abbia per le scienze che al presente fioriscono inRoma; perciocchè non mi veggono applicarmi agli eser-cizj del Foro, nè volgermi all'eloquenza. Ma come, caroPolibio, come potrei io farlo? Mi si dice continuamenteche dalla famiglia degli Scipioni non si aspetta già unoratore, ma un generale d'armata. Vi confesso che la vo-stra freddezza per me mi tocca e mi affligge sensibil-mente. Io fui sorpreso, continua Polibio, all'udire un di-scorso cui certo non mi attendeva da un giovinetto di di-

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Con qual occasione ad essa si rivolgesse il giovane Scipione Africano.

ciott'anni e di grazia, gli dissi, caro Scipione, no non vo-gliate nè pensare, nè dire che se io comunemente rivol-go il discorso a vostro fratello, ciò nasca da mancamen-to di stima ch'io abbia per voi. Egli è primogenito e per-ciò nelle conversazioni a lui mi rivolgo sempre anzi chea voi; e ciò ancora perchè ben mi è noto che aveteamendue i medesimi sentimenti. Ma io non posso noncompiacermi di vedere che voi pur conoscete che a unoScipione mal si conviene l'essere infingardo. E ben sivede quanto i vostri sentimenti siano superiori a que' delvolgo. Quanto a me? io tutto sinceramente mi offro alvostro servigio. Se voi mi credete opportuno a condurvia un tenore di vita degno del vostro gran nome, potete dime disporre come meglio vi piace. Per ciò ch'è dellescienze alle quali vi veggo inclinato e disposto, voi tro-verete bastevoli aiuti in quel gran numero d'uomini dottiche ogni giorno ci vengono dalla Grecia. Ma pel mestie-re della guerra, di cui vorreste essere istruito, penso dipotervi io stesso esser più utile di ogni altro. Scipioneallora prendendomi le mani e stringendole tralle sue, equando, disse, quando vedrò io quel dì felice in cui libe-ro da ogni altro impegno, e standomi sempre al fianco,voi potrete applicarvi interamente a formarmi lo spiritoe il cuore? Allora mi crederò degno de' miei maggiori.D'allora in poi non più seppe staccarsi da me: il suo piùgrande piacere era lo starsi meco; e i diversi affari ne'quali ci trovammo insieme, non fecero che stringeremaggiormente i nodi della nostra amicizia. Egli mi ri-spettava come suo proprio padre; ed io lo amava non al-

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ciott'anni e di grazia, gli dissi, caro Scipione, no non vo-gliate nè pensare, nè dire che se io comunemente rivol-go il discorso a vostro fratello, ciò nasca da mancamen-to di stima ch'io abbia per voi. Egli è primogenito e per-ciò nelle conversazioni a lui mi rivolgo sempre anzi chea voi; e ciò ancora perchè ben mi è noto che aveteamendue i medesimi sentimenti. Ma io non posso noncompiacermi di vedere che voi pur conoscete che a unoScipione mal si conviene l'essere infingardo. E ben sivede quanto i vostri sentimenti siano superiori a que' delvolgo. Quanto a me? io tutto sinceramente mi offro alvostro servigio. Se voi mi credete opportuno a condurvia un tenore di vita degno del vostro gran nome, potete dime disporre come meglio vi piace. Per ciò ch'è dellescienze alle quali vi veggo inclinato e disposto, voi tro-verete bastevoli aiuti in quel gran numero d'uomini dottiche ogni giorno ci vengono dalla Grecia. Ma pel mestie-re della guerra, di cui vorreste essere istruito, penso dipotervi io stesso esser più utile di ogni altro. Scipioneallora prendendomi le mani e stringendole tralle sue, equando, disse, quando vedrò io quel dì felice in cui libe-ro da ogni altro impegno, e standomi sempre al fianco,voi potrete applicarvi interamente a formarmi lo spiritoe il cuore? Allora mi crederò degno de' miei maggiori.D'allora in poi non più seppe staccarsi da me: il suo piùgrande piacere era lo starsi meco; e i diversi affari ne'quali ci trovammo insieme, non fecero che stringeremaggiormente i nodi della nostra amicizia. Egli mi ri-spettava come suo proprio padre; ed io lo amava non al-

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trimenti che figlio". Fin qui Polibio, il quale continuaposcia a descrivere le singolari virtù di cui questo grangenerale si mostrò adornato.

V. Nè questo elogio che Polibio rende a Sci-pione, non deesi credere o esagerato, o so-spetto; perciocchè tutti gli antichi scrittoriconcordemente ce lo rappresentano comeuomo di ogni più bella virtù e di ogni più

bella letteratura adorno. E per parlare di questa sola, chesola al nostro argomento appartiene, Cicerone ci assicu-ra ch'egli continuamente avea tra le mani l'opere di Se-nofonte (Tusc. Quæst. l. 2, n. 26), che avea sempre alfianco i più eruditi tra' Greci che allora fossero in Roma(De Orat. l. 2, n. 37), e che a un'egregia natura un dili-gente coltivamento dello spirito congiunto avendo unuom singolare divenne e veramente divino (Or. pro Ar-chia n. 7). Ma niuno forse vi ha tra gli antichi scrittori,che sì altamente lodato abbia il giovane Africano, comeVelleio Patercolo. "Egli, dice (l. 1 Hist. c. 13) fu sì va-lente coltivatore e ammiratore de' liberali studj e di ognigenere di dottrina, che sempre aver volle a' suoi compa-gni e in guerra e in pace que' due uomini di eccellenteingegno, Polibio e Panezio. Niuno mai vi ebbe che me-glio di Scipione occupasse il riposo che talvolta da' pub-blici affari gli si concedea; sempre intento a coltivar learti civili e le guerriere, sempre in mezzo o alle armi, oalle scienze, esercitato tenne mai sempre o il corpo colle

312

Elogio di questo cele-bre genera-le.

trimenti che figlio". Fin qui Polibio, il quale continuaposcia a descrivere le singolari virtù di cui questo grangenerale si mostrò adornato.

V. Nè questo elogio che Polibio rende a Sci-pione, non deesi credere o esagerato, o so-spetto; perciocchè tutti gli antichi scrittoriconcordemente ce lo rappresentano comeuomo di ogni più bella virtù e di ogni più

bella letteratura adorno. E per parlare di questa sola, chesola al nostro argomento appartiene, Cicerone ci assicu-ra ch'egli continuamente avea tra le mani l'opere di Se-nofonte (Tusc. Quæst. l. 2, n. 26), che avea sempre alfianco i più eruditi tra' Greci che allora fossero in Roma(De Orat. l. 2, n. 37), e che a un'egregia natura un dili-gente coltivamento dello spirito congiunto avendo unuom singolare divenne e veramente divino (Or. pro Ar-chia n. 7). Ma niuno forse vi ha tra gli antichi scrittori,che sì altamente lodato abbia il giovane Africano, comeVelleio Patercolo. "Egli, dice (l. 1 Hist. c. 13) fu sì va-lente coltivatore e ammiratore de' liberali studj e di ognigenere di dottrina, che sempre aver volle a' suoi compa-gni e in guerra e in pace que' due uomini di eccellenteingegno, Polibio e Panezio. Niuno mai vi ebbe che me-glio di Scipione occupasse il riposo che talvolta da' pub-blici affari gli si concedea; sempre intento a coltivar learti civili e le guerriere, sempre in mezzo o alle armi, oalle scienze, esercitato tenne mai sempre o il corpo colle

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Elogio di questo cele-bre genera-le.

militari fatiche, o l'animo co' più nobili studj". Somi-gliante lode deesi parimenti a Caio Lelio fedele amico eindivisibil compagno del giovane Africano. Egli diuguale amicizia onorò Polibio e gli altri eruditi Greciche allora erano in Roma, e con uguale fervore applicos-si agli studi. Era già egli stato discepolo di un Diogenestoico, poscia frequentò la scuola, e giovossi assai delsapere di Panezio (Cic. de Fin. l. 2, n. 8). A lui pure siaggiunsero e C. Furio e Q. Tuberone e Q. Muzio Scevo-la, ed altri molti tra' principali cavalieri romani (49).

VI. Così cominciavano in Roma a fiorire glistudj, e cominciavano i Romani ad intende-re che il valor militare non era la sola stradache conducesse all'immortalità del nome. Ifilosofi greci vedevano i più nobili cittadinifarsi loro discepoli, e molti ancora ne vede-

vano alle loro scuole i greci retori ossia precettoridell'eloquenza. Di questi io non trovo veramente notiziaalcuna distinta presso gli antichi scrittori. Ma che molti49 Lo studio della lingua greca cominciò fin da questi tempi in Roma a rivol-

gersi in abuso. Narra Suida, e assai prima di lui avea narrato Polibio (Ex-cepta ex Legat. apud Vales. p. 189, 190) che Aulo Postumio, uomo di no-bilissima nascita, ma leggero e loquace oltre modo, fin da fanciullo diedesiallo studio della lingua greca, ma in sì affettata maniera che la greca lette-ratura divenne odiosa a' più saggi che erano in Roma. Volle poscia scrivereun poema e una storia delle cose della Grecia, e lusingossi di ottener lodepresso i dotti dicendo nell'esordio, che era degno di compatimento se es-sendo romano, avea scritto in greco; ridicola scusa, dice Polibio, e somi-gliante a quella di chi, essendosi spontaneamente offerto alla lotta, se nescusasse poscia perchè non ha forze ad essa bastevoli.

313

I filosofi e iretori greci son cacciatida Roma, e per qual ra-gione.

militari fatiche, o l'animo co' più nobili studj". Somi-gliante lode deesi parimenti a Caio Lelio fedele amico eindivisibil compagno del giovane Africano. Egli diuguale amicizia onorò Polibio e gli altri eruditi Greciche allora erano in Roma, e con uguale fervore applicos-si agli studi. Era già egli stato discepolo di un Diogenestoico, poscia frequentò la scuola, e giovossi assai delsapere di Panezio (Cic. de Fin. l. 2, n. 8). A lui pure siaggiunsero e C. Furio e Q. Tuberone e Q. Muzio Scevo-la, ed altri molti tra' principali cavalieri romani (49).

VI. Così cominciavano in Roma a fiorire glistudj, e cominciavano i Romani ad intende-re che il valor militare non era la sola stradache conducesse all'immortalità del nome. Ifilosofi greci vedevano i più nobili cittadinifarsi loro discepoli, e molti ancora ne vede-

vano alle loro scuole i greci retori ossia precettoridell'eloquenza. Di questi io non trovo veramente notiziaalcuna distinta presso gli antichi scrittori. Ma che molti49 Lo studio della lingua greca cominciò fin da questi tempi in Roma a rivol-

gersi in abuso. Narra Suida, e assai prima di lui avea narrato Polibio (Ex-cepta ex Legat. apud Vales. p. 189, 190) che Aulo Postumio, uomo di no-bilissima nascita, ma leggero e loquace oltre modo, fin da fanciullo diedesiallo studio della lingua greca, ma in sì affettata maniera che la greca lette-ratura divenne odiosa a' più saggi che erano in Roma. Volle poscia scrivereun poema e una storia delle cose della Grecia, e lusingossi di ottener lodepresso i dotti dicendo nell'esordio, che era degno di compatimento se es-sendo romano, avea scritto in greco; ridicola scusa, dice Polibio, e somi-gliante a quella di chi, essendosi spontaneamente offerto alla lotta, se nescusasse poscia perchè non ha forze ad essa bastevoli.

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I filosofi e iretori greci son cacciatida Roma, e per qual ra-gione.

ve ne avesse in Roma, chiaro si rende e dal discorso diPolibio a Scipione riferito poc'anzi, e molto più dal de-creto che ora riferiremo, e per cui poco mancò che sì lie-ti principj fino dalla radice non fosser troncati. L'anno592, cioè sei soli anni dappoichè venuti erano a Roma ifilosofi e i retori greci, ecco un severo editto del romanosenato, che commette al pretore di fare in modo che re-tori e filosofi più non siano in Roma. Svetonio (De Cl.Rhetor. c. 1) e Gellio (l. 15, c. 11) ce ne hanno conserva-te le precise parole: C. Fannio Strabone et M. ValerioMessala Coss. (questi furono appunto consoli nel dettoan. 592) senatus consultum de philosophis et rhetoribusfactum est. M. Pomponius Prætor Senatum consuluit,quod verba facta sunt de philosophis et rhetoribus. Deea re ita censuerunt, ut Marcus Pomponius prætor ani-madverteret, uti e Republica fideque sua videretur,Romæ ne essent. Qual fosse il motivo di sì rigoroso de-creto e qual ne fosse l'effetto, i sopraccitati scrittori noldicono chiaramente. Quanto al motivo pare che que' se-veri padri coscritti, avvezzi a non conoscere altro studioche quello di soggiogare il mondo, temessero chel'applicarsi alle scienze dovesse seco portare lo sconvol-gimento e la rovina della Repubblica, e che la gioventùRomana non potesse avere amore alle scienze senzaaver in odio la guerra. Se allor si fosse trovato nel sena-to romano un famoso moderno filosofo che con un elo-quente patetico ragionamento ha preteso di mostrare ilgran danno che dal coltivare le scienze ridonda negli uo-mini, avrebbe certo riscosso grandissimo plauso. È pro-

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ve ne avesse in Roma, chiaro si rende e dal discorso diPolibio a Scipione riferito poc'anzi, e molto più dal de-creto che ora riferiremo, e per cui poco mancò che sì lie-ti principj fino dalla radice non fosser troncati. L'anno592, cioè sei soli anni dappoichè venuti erano a Roma ifilosofi e i retori greci, ecco un severo editto del romanosenato, che commette al pretore di fare in modo che re-tori e filosofi più non siano in Roma. Svetonio (De Cl.Rhetor. c. 1) e Gellio (l. 15, c. 11) ce ne hanno conserva-te le precise parole: C. Fannio Strabone et M. ValerioMessala Coss. (questi furono appunto consoli nel dettoan. 592) senatus consultum de philosophis et rhetoribusfactum est. M. Pomponius Prætor Senatum consuluit,quod verba facta sunt de philosophis et rhetoribus. Deea re ita censuerunt, ut Marcus Pomponius prætor ani-madverteret, uti e Republica fideque sua videretur,Romæ ne essent. Qual fosse il motivo di sì rigoroso de-creto e qual ne fosse l'effetto, i sopraccitati scrittori noldicono chiaramente. Quanto al motivo pare che que' se-veri padri coscritti, avvezzi a non conoscere altro studioche quello di soggiogare il mondo, temessero chel'applicarsi alle scienze dovesse seco portare lo sconvol-gimento e la rovina della Repubblica, e che la gioventùRomana non potesse avere amore alle scienze senzaaver in odio la guerra. Se allor si fosse trovato nel sena-to romano un famoso moderno filosofo che con un elo-quente patetico ragionamento ha preteso di mostrare ilgran danno che dal coltivare le scienze ridonda negli uo-mini, avrebbe certo riscosso grandissimo plauso. È pro-

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babile che il decreto del senato avesse il suo effetto; chenon erano allora que' padri soliti a soffrire che i loroeditti fossero non curati. Ed io penso che la dispersionefatta de' Greci in diverse città, che abbiam veduta ram-mentarsi da Polibio, fosse appunto effetto di tal decreto.Ma certo è che l'amor delle scienze non venne meno pertal decreto in Roma; anzi nacque quindi a non molto al-tra occasione che il fece sempre più vivo ed ardente.

VII. Saccheggiata aveano gli Ateniesi lacittà di Oropio nella Beozia; di che avendoque' cittadini portate al romano senato leloro doglianze, questo commisse a' Sicionj,che esaminato l'affare imponessero agli Ate-

niesi tal multa che i danni da loro recati ad Oropio fosseproporzionata. Furon perciò gli Ateniesi condannati da'Sicionj a pagare a que' di Oropio presso a cinquecentotalenti. Troppo gravosa sembrò agli Ateniesi tal multa; eun'ambasciata inviarono essi al senato romano, perchè lapena fosse resa più mite (Gell. l. 7, c. 14; Plutarch. inCaton. cens. ec.). Pare che in questa occasione volesserogli Ateniesi far pompa presso i Romani del lor valorenelle scienze, poichè a sostener l'onore di quest'amba-sciata scelsero i tre più rinomati filosofi che allor vives-sero. Furon questi Carneade, Diogene, Critolao; capidelle tre filosofiche sette che fiorivano in Grecia, Car-neade dell'accademica, Diogene della stoica, Critolaodella peripatetica, uomini insieme valorosi in eloquenza,

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Altri filoso-fi greci mandati in ambasciata a Roma.

babile che il decreto del senato avesse il suo effetto; chenon erano allora que' padri soliti a soffrire che i loroeditti fossero non curati. Ed io penso che la dispersionefatta de' Greci in diverse città, che abbiam veduta ram-mentarsi da Polibio, fosse appunto effetto di tal decreto.Ma certo è che l'amor delle scienze non venne meno pertal decreto in Roma; anzi nacque quindi a non molto al-tra occasione che il fece sempre più vivo ed ardente.

VII. Saccheggiata aveano gli Ateniesi lacittà di Oropio nella Beozia; di che avendoque' cittadini portate al romano senato leloro doglianze, questo commisse a' Sicionj,che esaminato l'affare imponessero agli Ate-

niesi tal multa che i danni da loro recati ad Oropio fosseproporzionata. Furon perciò gli Ateniesi condannati da'Sicionj a pagare a que' di Oropio presso a cinquecentotalenti. Troppo gravosa sembrò agli Ateniesi tal multa; eun'ambasciata inviarono essi al senato romano, perchè lapena fosse resa più mite (Gell. l. 7, c. 14; Plutarch. inCaton. cens. ec.). Pare che in questa occasione volesserogli Ateniesi far pompa presso i Romani del lor valorenelle scienze, poichè a sostener l'onore di quest'amba-sciata scelsero i tre più rinomati filosofi che allor vives-sero. Furon questi Carneade, Diogene, Critolao; capidelle tre filosofiche sette che fiorivano in Grecia, Car-neade dell'accademica, Diogene della stoica, Critolaodella peripatetica, uomini insieme valorosi in eloquenza,

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Altri filoso-fi greci mandati in ambasciata a Roma.

ed atti, benchè per diversa maniera, a persuadere altruiciò che più loro piacesse.

VIII. È sembrato al Bruckero (Hist. Crit.Philos. t. 2, p. 8) assai malagevole il fissareprecisamente il tempo di quest'ambasciata eil trovare un anno a cui possano conveniretutte le circostanze che di questo memorabil

fatto ci han tramandato gli antichi scrittori. Io confessoche non vi scorgo difficoltà. Cicerone, citando ancoral'autorità di Clitomaco, dice (Acad. Quæst. l. 4, n. 45)che erano allora consoli P. Scipione e M. Marcello; e al-trove aggiugne (Tusc. Quæst. l. 4, n. 3) che giovani era-no allora Lelio e Scipione l'Africano. Abbiamo ancor daPlutarco (in Caton. cens.) che Catone allora era vecchio.Or tutto ciò ottimamente convien all'an. 598. Furono al-lora consoli P. Scipione Nasica e M. Claudio Marcello,nè altro anno vi ebbe intorno a questi tempi medesimi,in cui due consoli fossero di tali famiglie. Scipione Afri-cano e Lelio erano ancor giovani, come di sopra si è det-to, e Catone era in età assai avanzata, perciocchè dic'eglistesso presso Cicerone (De Senect. n. 5), che avea 65anni nel consolato di Cepione e di Filippo, che furonconsoli l'an. 584, onde a quest'anno contava già Catone79 anni di età. Non vi ha dunque ragione alcuna che ren-da dubbiosa l'epoca dell'ambasciata de' filosofi greci danoi fissata all'anno di Roma 598.

316

A qual anno deb-basi essa fissare.

ed atti, benchè per diversa maniera, a persuadere altruiciò che più loro piacesse.

VIII. È sembrato al Bruckero (Hist. Crit.Philos. t. 2, p. 8) assai malagevole il fissareprecisamente il tempo di quest'ambasciata eil trovare un anno a cui possano conveniretutte le circostanze che di questo memorabil

fatto ci han tramandato gli antichi scrittori. Io confessoche non vi scorgo difficoltà. Cicerone, citando ancoral'autorità di Clitomaco, dice (Acad. Quæst. l. 4, n. 45)che erano allora consoli P. Scipione e M. Marcello; e al-trove aggiugne (Tusc. Quæst. l. 4, n. 3) che giovani era-no allora Lelio e Scipione l'Africano. Abbiamo ancor daPlutarco (in Caton. cens.) che Catone allora era vecchio.Or tutto ciò ottimamente convien all'an. 598. Furono al-lora consoli P. Scipione Nasica e M. Claudio Marcello,nè altro anno vi ebbe intorno a questi tempi medesimi,in cui due consoli fossero di tali famiglie. Scipione Afri-cano e Lelio erano ancor giovani, come di sopra si è det-to, e Catone era in età assai avanzata, perciocchè dic'eglistesso presso Cicerone (De Senect. n. 5), che avea 65anni nel consolato di Cepione e di Filippo, che furonconsoli l'an. 584, onde a quest'anno contava già Catone79 anni di età. Non vi ha dunque ragione alcuna che ren-da dubbiosa l'epoca dell'ambasciata de' filosofi greci danoi fissata all'anno di Roma 598.

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A qual anno deb-basi essa fissare.

IX. Venuti a Roma i tre illustri filosofi, eammessi al senato, esposero secondo il co-stume, per mezzo d'interprete il soggettodella loro ambasciata. Ma perchè l'affare ri-chiedeva matura deliberazione, costretti essifrattanto a fermarsi in Roma, cominciaron a

far pompa del lor sapere e della loro eloquenza. Ne' luo-ghi dunque più popolosi della città or l'uno, or l'altroprendevano a quistionare, e colla novità degli argomen-ti, colla sottigliezza de' lor pensieri, coll'eleganza del fa-vellare riscuotevano ammirazione ed applauso. Diversaera la lor maniera di ragionare, come osserva Gellio (l.7, c. 14), allegando l'autorità di due antichi scrittori Ru-tilio e Polibio. Diogene usava di uno stile parco e mode-sto, con cui semplicemente sponeva i suoi pensieri; fio-rito ed elegante nel suo parlare era Critolao; forzoso edeloquente Carneade, di cui Cicerone ancora dice (DeOrat. l. 2, n. 38) che avea una forza e varietà incredibiledi ragionare, e che niuna cosa prese mai a sostenere nel-le sue aringhe, cui non persuadesse, niuna a combattere,cui totalmente non atterrasse. Di lui raccontasi (Quintil.l. 12, c. 1) che avendo un giorno in presenza di Catone edi altri molti eloquentemente parlato in lode della giusti-zia, e i vantaggi mostrati che ne derivano, il dì seguenteper dar prova del suo ingegno parlò con uguale eloquen-za contro la giustizia medesima, e mostrò esser questa,l'origine di gravissimi danni. Questa maniera di favella-re, e questo genere di eloquenza sconosciuto fin allora a'Romani, li sorprese talmente che di altro quasi non par-

317

Fervore cheessi destanoin Roma per lo stu-dio della fi-losofia.

IX. Venuti a Roma i tre illustri filosofi, eammessi al senato, esposero secondo il co-stume, per mezzo d'interprete il soggettodella loro ambasciata. Ma perchè l'affare ri-chiedeva matura deliberazione, costretti essifrattanto a fermarsi in Roma, cominciaron a

far pompa del lor sapere e della loro eloquenza. Ne' luo-ghi dunque più popolosi della città or l'uno, or l'altroprendevano a quistionare, e colla novità degli argomen-ti, colla sottigliezza de' lor pensieri, coll'eleganza del fa-vellare riscuotevano ammirazione ed applauso. Diversaera la lor maniera di ragionare, come osserva Gellio (l.7, c. 14), allegando l'autorità di due antichi scrittori Ru-tilio e Polibio. Diogene usava di uno stile parco e mode-sto, con cui semplicemente sponeva i suoi pensieri; fio-rito ed elegante nel suo parlare era Critolao; forzoso edeloquente Carneade, di cui Cicerone ancora dice (DeOrat. l. 2, n. 38) che avea una forza e varietà incredibiledi ragionare, e che niuna cosa prese mai a sostenere nel-le sue aringhe, cui non persuadesse, niuna a combattere,cui totalmente non atterrasse. Di lui raccontasi (Quintil.l. 12, c. 1) che avendo un giorno in presenza di Catone edi altri molti eloquentemente parlato in lode della giusti-zia, e i vantaggi mostrati che ne derivano, il dì seguenteper dar prova del suo ingegno parlò con uguale eloquen-za contro la giustizia medesima, e mostrò esser questa,l'origine di gravissimi danni. Questa maniera di favella-re, e questo genere di eloquenza sconosciuto fin allora a'Romani, li sorprese talmente che di altro quasi non par-

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Fervore cheessi destanoin Roma per lo stu-dio della fi-losofia.

lavasi in Roma che de' filosofi greci. “Tutti i giovani,dice Plutarco (in Caton. cens.), che vogliosi erano dellescienze, ad essi ne andarono, e udendoli rimaser sorpresiper maraviglia. Ma singolarmente la grazia di favellaree la forza nulla minore di persuadere che avea Carneade,avendo a lui tratti gli uditori in gran folla, per tutta lacittà udivasene il nome, e pubblicamente diceasi che ilfilosofo greco, insinuandosi con ammirabil arte neglianimi de' giovani, all'amor delle scienze gli accendeva,da cui quasi da entusiasmo compresi, abbandonati tuttigli altri piaceri, volgevansi allo studio della filosofia”.

X. L'affollato concorso che a' ragionamentide' greci filosofi faceasi da ogni parte, l'uni-versal plauso con cui erano ascoltati, nonpiacque punto al severo Catone. Temeva

egli, come dice Plutarco, che la gioventù romana di que-sti studj invaghita non anteponesse alla militare la lette-raria lode. E questo timore molto più se gli accrebbe,quando avvertì che anche nel senato romano cominciavaad entrare il genio della greca filosofia. Perciocchè C.Acilio uomo assai ragguardevole ottenne di poter nel se-nato ripetere latinamente que' discorsi che da' filosofigreci uditi avea nella natìa loro favella. Più non vi volleperchè Catone si risolvesse di rimandare onoratamente,alle lor case questi tre a suo parere troppo perniciosi fi-losofi. Venuto dunque in senato prese a gravemente ri-prendere i magistrati, perchè permettessero che uomini i

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Catone li facongedare da Roma.

lavasi in Roma che de' filosofi greci. “Tutti i giovani,dice Plutarco (in Caton. cens.), che vogliosi erano dellescienze, ad essi ne andarono, e udendoli rimaser sorpresiper maraviglia. Ma singolarmente la grazia di favellaree la forza nulla minore di persuadere che avea Carneade,avendo a lui tratti gli uditori in gran folla, per tutta lacittà udivasene il nome, e pubblicamente diceasi che ilfilosofo greco, insinuandosi con ammirabil arte neglianimi de' giovani, all'amor delle scienze gli accendeva,da cui quasi da entusiasmo compresi, abbandonati tuttigli altri piaceri, volgevansi allo studio della filosofia”.

X. L'affollato concorso che a' ragionamentide' greci filosofi faceasi da ogni parte, l'uni-versal plauso con cui erano ascoltati, nonpiacque punto al severo Catone. Temeva

egli, come dice Plutarco, che la gioventù romana di que-sti studj invaghita non anteponesse alla militare la lette-raria lode. E questo timore molto più se gli accrebbe,quando avvertì che anche nel senato romano cominciavaad entrare il genio della greca filosofia. Perciocchè C.Acilio uomo assai ragguardevole ottenne di poter nel se-nato ripetere latinamente que' discorsi che da' filosofigreci uditi avea nella natìa loro favella. Più non vi volleperchè Catone si risolvesse di rimandare onoratamente,alle lor case questi tre a suo parere troppo perniciosi fi-losofi. Venuto dunque in senato prese a gravemente ri-prendere i magistrati, perchè permettessero che uomini i

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Catone li facongedare da Roma.

quali sì agevolmente potevano persuadere altrui checchèloro piacesse, più lungamente si fermassero in Roma;doversi spedir quanto prima l'affare per cui eran venuti,e quindi rimandare i filosofi alle loro scuole in Grecia, efare in modo che i giovani romani seguissero, come usa-to aveano fino allora, ad aver per maestri le leggi e i ma-gistrati. Era troppo grande l'autorità di Catone perchè ilsuo parere non prevalesse. Per agevolare ancor maggior-mente la partenza de' greci filosofi, il senato permiseche la multa degli Ateniesi ristretta fosse a soli cento ta-lenti. In tal maniera i filosofi lieti del felice riuscimentodel loro affare, e del plauso da essi ottenuto in Roma, fe-cero alle lor patrie ritorno. Tutto ciò da Plutarco e da al-tri antichi autori presso il Freinshemio (Suppl. ad Liv. l.47, c. 25).

XI. Questo procedere di Catone non ci dàuna troppo vantaggiosa idea del suo pensarein ciò che appartiene alle scienze. E sappia-mo nondimeno che dotto uomo egli era e inmolti studj egregiamente versato. Anzi pos-

siam dire a ragione che fu egli il primo che prendesse aillustrare in lingua latina molti argomenti che da' romaniscrittori non erano ancora stati trattati. Abbiamo tuttora ilibri che intorno all'agricoltura egli scrisse, se pure a Ca-tone debbonsi veramente attribuire que' che ne portanoil nome (50). Perciocchè Giamattia Gesner che una bella50 I romani mostrarono assai presto quanto fosser solleciti di propagare lo

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Non perchèegli non fosse uomoassai colto.

quali sì agevolmente potevano persuadere altrui checchèloro piacesse, più lungamente si fermassero in Roma;doversi spedir quanto prima l'affare per cui eran venuti,e quindi rimandare i filosofi alle loro scuole in Grecia, efare in modo che i giovani romani seguissero, come usa-to aveano fino allora, ad aver per maestri le leggi e i ma-gistrati. Era troppo grande l'autorità di Catone perchè ilsuo parere non prevalesse. Per agevolare ancor maggior-mente la partenza de' greci filosofi, il senato permiseche la multa degli Ateniesi ristretta fosse a soli cento ta-lenti. In tal maniera i filosofi lieti del felice riuscimentodel loro affare, e del plauso da essi ottenuto in Roma, fe-cero alle lor patrie ritorno. Tutto ciò da Plutarco e da al-tri antichi autori presso il Freinshemio (Suppl. ad Liv. l.47, c. 25).

XI. Questo procedere di Catone non ci dàuna troppo vantaggiosa idea del suo pensarein ciò che appartiene alle scienze. E sappia-mo nondimeno che dotto uomo egli era e inmolti studj egregiamente versato. Anzi pos-

siam dire a ragione che fu egli il primo che prendesse aillustrare in lingua latina molti argomenti che da' romaniscrittori non erano ancora stati trattati. Abbiamo tuttora ilibri che intorno all'agricoltura egli scrisse, se pure a Ca-tone debbonsi veramente attribuire que' che ne portanoil nome (50). Perciocchè Giamattia Gesner che una bella50 I romani mostrarono assai presto quanto fosser solleciti di propagare lo

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Non perchèegli non fosse uomoassai colto.

edizione ci ha data di tutti gli antichi scrittori d'agricol-tura, stampata in Lipsia l'anno 1735 con molte e forti ra-gioni ha mostrato che l'opera che abbiam di Catone nonè che una informe raccolta di molti frammenti raccoltiqua e là, e mal connessi tra loro, fra' quali alcuni ve neha che forse non sono di Catone, ed altri ancora alteratie guasti. Egli ancora fu il primo che la storia romanascrivesse in prosa, e sette libri ei ne compose intitolatidelle Origini, di cui vedremo fra poco quanta stimaavesse Cicerone. Dell'arte militare ancora e dell'arte ret-torica avea egli scritto il primo tra' Latini, oltre moltelettere e molte orazioni, delle quali e di altre opere diquesto grand'uomo si può vedere il Fabricio (Bibl. Lat.l. 1, c. 2). Abbiam parimenti alcuni distici morali chesotto il nome di Catone si veggono in molte edizioni.Ma egli è parere di molti ch'essi siano opera di troppopiù giovane autore. Nel che però, come osserva l'ab.Goujet (Bibl. franc. t. 5, p. 1, ec.) troppo oltre si avan-zan coloro che vogliono farne autore qualche poeta cri-stiano del settimo, o ottavo secolo. Ma veggasi singolar-mente una dissertazione di Giovanni Ilderico Withofiostampata in Amsterdam l'anno 1754, in cui con un dili-gentissimo esame di tutte le circostanze, assai probabile

studio dell'agricoltura; perciocchè avendo espugnata Cartagine, e trovati inessa ventotto volumi che intorno ad essa avea scritti Magone, portaronli aRoma; ed essi furono per ordine del senato tradotti in latino, come narrasida Columella (l. 1, c. 1), il quale oltre Catone, Varrone, Virgilio, e Iginonomina ancora alcuni scrittori latini che sullo stesso argomento avean pub-blicati libri, cioè due Saserni padre e figlio, e Scrofa Tremellio di cui diceche rendette eloquente l'agricoltura.

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edizione ci ha data di tutti gli antichi scrittori d'agricol-tura, stampata in Lipsia l'anno 1735 con molte e forti ra-gioni ha mostrato che l'opera che abbiam di Catone nonè che una informe raccolta di molti frammenti raccoltiqua e là, e mal connessi tra loro, fra' quali alcuni ve neha che forse non sono di Catone, ed altri ancora alteratie guasti. Egli ancora fu il primo che la storia romanascrivesse in prosa, e sette libri ei ne compose intitolatidelle Origini, di cui vedremo fra poco quanta stimaavesse Cicerone. Dell'arte militare ancora e dell'arte ret-torica avea egli scritto il primo tra' Latini, oltre moltelettere e molte orazioni, delle quali e di altre opere diquesto grand'uomo si può vedere il Fabricio (Bibl. Lat.l. 1, c. 2). Abbiam parimenti alcuni distici morali chesotto il nome di Catone si veggono in molte edizioni.Ma egli è parere di molti ch'essi siano opera di troppopiù giovane autore. Nel che però, come osserva l'ab.Goujet (Bibl. franc. t. 5, p. 1, ec.) troppo oltre si avan-zan coloro che vogliono farne autore qualche poeta cri-stiano del settimo, o ottavo secolo. Ma veggasi singolar-mente una dissertazione di Giovanni Ilderico Withofiostampata in Amsterdam l'anno 1754, in cui con un dili-gentissimo esame di tutte le circostanze, assai probabile

studio dell'agricoltura; perciocchè avendo espugnata Cartagine, e trovati inessa ventotto volumi che intorno ad essa avea scritti Magone, portaronli aRoma; ed essi furono per ordine del senato tradotti in latino, come narrasida Columella (l. 1, c. 1), il quale oltre Catone, Varrone, Virgilio, e Iginonomina ancora alcuni scrittori latini che sullo stesso argomento avean pub-blicati libri, cioè due Saserni padre e figlio, e Scrofa Tremellio di cui diceche rendette eloquente l'agricoltura.

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rende la sua opinione, che autor di essi sia il celebre me-dico Q. Sereno Sammonico al tempo dell'imperador Ca-racalla. A conoscere ancor meglio il letterario merito diCatone basta legger gli elogi che ce ne hanno lasciatogli antichi scrittori. Due soli io ne trascelgo, Cicerone, eLivio. Il primo, oltrechè spesso ne parla, e sempre consomma lode; così una volta tra le altre di lui ragiona (DeCl. Orat. n. 17). "Qual uomo fu egli mai Catone, dei im-mortali! Lascio in disparte il cittadino, il senatore, il ge-nerale d'armata. A questo luogo cerco sol l'oratore. Chipiù di lui grave in lodare? Chi più ingegnoso ne' senti-menti? Chi più sottile nella disputa e nella sposiziondella causa? Le cento cinquanta sue Orazioni (che tantene ho io finora trovate e lette) piene sono di cose e diespressioni magnifiche.... tutte le virtù proprie di un ora-tore ivi si trovano. Le sue Origini poi qual bellezza equal eloquenza non hanno esse?... Egli è vero che al-quanto antico ne è lo stile, e incolte ne sono alcune pa-role; che così allora parlavasi; ma prendi a mutarle, ilche egli allora non potè fare; aggiugnivi l'armonia, ren-dine più adorno lo stile.... niuno certamente potrai tu al-lora anteporre a Catone". Più magnifico ancora, perchèpiù universale, si è l'elogio che ne fa Livio (l. 39, c. 40)."M. Porcio Catone tutti superava di gran lunga i patrizje i plebei tutti anche delle più illustri famiglie. Fu egli disì grand'animo e di sì grande ingegno fornito che, inqualunque condizione nato egli fosse, formata avrebbeegli stesso la sua fortuna. Non vi ha arte alcuna nel ma-neggio de' pubblici e de' privati affari che a lui fosse

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rende la sua opinione, che autor di essi sia il celebre me-dico Q. Sereno Sammonico al tempo dell'imperador Ca-racalla. A conoscere ancor meglio il letterario merito diCatone basta legger gli elogi che ce ne hanno lasciatogli antichi scrittori. Due soli io ne trascelgo, Cicerone, eLivio. Il primo, oltrechè spesso ne parla, e sempre consomma lode; così una volta tra le altre di lui ragiona (DeCl. Orat. n. 17). "Qual uomo fu egli mai Catone, dei im-mortali! Lascio in disparte il cittadino, il senatore, il ge-nerale d'armata. A questo luogo cerco sol l'oratore. Chipiù di lui grave in lodare? Chi più ingegnoso ne' senti-menti? Chi più sottile nella disputa e nella sposiziondella causa? Le cento cinquanta sue Orazioni (che tantene ho io finora trovate e lette) piene sono di cose e diespressioni magnifiche.... tutte le virtù proprie di un ora-tore ivi si trovano. Le sue Origini poi qual bellezza equal eloquenza non hanno esse?... Egli è vero che al-quanto antico ne è lo stile, e incolte ne sono alcune pa-role; che così allora parlavasi; ma prendi a mutarle, ilche egli allora non potè fare; aggiugnivi l'armonia, ren-dine più adorno lo stile.... niuno certamente potrai tu al-lora anteporre a Catone". Più magnifico ancora, perchèpiù universale, si è l'elogio che ne fa Livio (l. 39, c. 40)."M. Porcio Catone tutti superava di gran lunga i patrizje i plebei tutti anche delle più illustri famiglie. Fu egli disì grand'animo e di sì grande ingegno fornito che, inqualunque condizione nato egli fosse, formata avrebbeegli stesso la sua fortuna. Non vi ha arte alcuna nel ma-neggio de' pubblici e de' privati affari che a lui fosse

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ignota. Amministrava con ugual senno gli affari dellacittà e que' della campagna. Altri salgono a sommi onoriper lo studio delle leggi, altri per l'eloquenza, altri per lagloria dell'armi. Egli ebbe l'ingegno così ad ogni arteadattato, che l'avresti creduto nato unicamente a quellaqualunque fosse a cui rivolgevasi. Coraggioso nelle bat-taglie e celebre per molte illustri vittorie, dopo esseresalito a ragguardevoli onori, fu general supremodell'armi. Nella pace ancora peritissimo delle leggi, elo-quentissimo nell'aringare. Nè fu già egli tal uomo chevivo solamente fosse in gran pregio, e niun monumentolasciasse di se medesimo. Anzi ne vive tuttora, e n'è inonor l'eloquenza consecrata per così dire ne' libri d'ogniargomento da lui composti". Fin qui Livio il qual altrecose ancor prosiegue a dire in lode di questo illustrecensore.

XII. Non fu dunque avversione che Catoneavesse agli studj quella che lo indusse a cer-care il congedamento de' filosofi greci, nèfu timor che le scienze, qualunque esse sifossero, distogliessero dalla guerra i Roma-ni. Sembra piuttosto che la sola greca lette-ratura fosse in odio a Catone, e la greca filo-

sofia singolarmente. Abbiamo veduto di sopra che solonell'estrema vecchiezza si diede allo studio di quella lin-gua. Il Bayle ha voluto muover dubbio su questo punto(Diction. Art. "Porcius Cato"), appoggiandosi all'autori-

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Ma per l'odio che portava per diverse ra-gioni alla greca filo-sofia.

ignota. Amministrava con ugual senno gli affari dellacittà e que' della campagna. Altri salgono a sommi onoriper lo studio delle leggi, altri per l'eloquenza, altri per lagloria dell'armi. Egli ebbe l'ingegno così ad ogni arteadattato, che l'avresti creduto nato unicamente a quellaqualunque fosse a cui rivolgevasi. Coraggioso nelle bat-taglie e celebre per molte illustri vittorie, dopo esseresalito a ragguardevoli onori, fu general supremodell'armi. Nella pace ancora peritissimo delle leggi, elo-quentissimo nell'aringare. Nè fu già egli tal uomo chevivo solamente fosse in gran pregio, e niun monumentolasciasse di se medesimo. Anzi ne vive tuttora, e n'è inonor l'eloquenza consecrata per così dire ne' libri d'ogniargomento da lui composti". Fin qui Livio il qual altrecose ancor prosiegue a dire in lode di questo illustrecensore.

XII. Non fu dunque avversione che Catoneavesse agli studj quella che lo indusse a cer-care il congedamento de' filosofi greci, nèfu timor che le scienze, qualunque esse sifossero, distogliessero dalla guerra i Roma-ni. Sembra piuttosto che la sola greca lette-ratura fosse in odio a Catone, e la greca filo-

sofia singolarmente. Abbiamo veduto di sopra che solonell'estrema vecchiezza si diede allo studio di quella lin-gua. Il Bayle ha voluto muover dubbio su questo punto(Diction. Art. "Porcius Cato"), appoggiandosi all'autori-

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Ma per l'odio che portava per diverse ra-gioni alla greca filo-sofia.

tà di Plutarco il quale racconta che Catone in età di circa45 anni andato in Atene parlò per interprete a que' citta-dini, benchè potesse usare della lingua greca. Ma l'auto-rità di Plutarco non basta a rimpetto del testimonio di al-tri antichi scrittori di sopra allegati, e di Cicerone singo-larmente. Anzi Plutarco medesimo si contradice, per-ciocchè riferisce egli stesso che “la maggior parte degliautori affermano (parole che il Bayle non troppo fedel-mente ha tradotte con un semplice on dit) ch'egli tardiapprendesse la lingua greca, poichè nell'estrema vec-chiezza prendendo in mano i greci libri, alcune brevi an-notazioni scrisse traendole da Tucidide, e più ancor daDemostene di cui si sa che giovossi assai nel perorare lecause; e le sue opere di sentimenti e di storie grecheornò e sparse; e molte cose bene e acconciamente dalgreco traslatò in latino". Così Plutarco il quale a questoluogo nulla dice a ribattere questo comun sentimento de'più antichi scrittori, benchè nella stessa Vita ad altra oc-casione narri ciò che di sopra si è riferito. La tardanza diCatone nell'applicarsi alla greca letteratura ci mostrachiaramente ch'egli n'era nimico, non già per avversioneagli studj, ma per una cotal romana alterigia che sdegna-va di comparir bisognosa de' soccorsi altrui, e che mira-va singolarmente di mal occhio i Greci, rivali, in ciò chea lettere appartiene, troppo fastidiosi a' Romani. Questomedesimo più apertamente ancor si raccoglie da' discor-si che Plutarco racconta ch'egli era solito a tenere su taleargomento; perciocchè diceva egli che Socrate era statoun uom loquace e violento, il quale con novità pernicio-

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tà di Plutarco il quale racconta che Catone in età di circa45 anni andato in Atene parlò per interprete a que' citta-dini, benchè potesse usare della lingua greca. Ma l'auto-rità di Plutarco non basta a rimpetto del testimonio di al-tri antichi scrittori di sopra allegati, e di Cicerone singo-larmente. Anzi Plutarco medesimo si contradice, per-ciocchè riferisce egli stesso che “la maggior parte degliautori affermano (parole che il Bayle non troppo fedel-mente ha tradotte con un semplice on dit) ch'egli tardiapprendesse la lingua greca, poichè nell'estrema vec-chiezza prendendo in mano i greci libri, alcune brevi an-notazioni scrisse traendole da Tucidide, e più ancor daDemostene di cui si sa che giovossi assai nel perorare lecause; e le sue opere di sentimenti e di storie grecheornò e sparse; e molte cose bene e acconciamente dalgreco traslatò in latino". Così Plutarco il quale a questoluogo nulla dice a ribattere questo comun sentimento de'più antichi scrittori, benchè nella stessa Vita ad altra oc-casione narri ciò che di sopra si è riferito. La tardanza diCatone nell'applicarsi alla greca letteratura ci mostrachiaramente ch'egli n'era nimico, non già per avversioneagli studj, ma per una cotal romana alterigia che sdegna-va di comparir bisognosa de' soccorsi altrui, e che mira-va singolarmente di mal occhio i Greci, rivali, in ciò chea lettere appartiene, troppo fastidiosi a' Romani. Questomedesimo più apertamente ancor si raccoglie da' discor-si che Plutarco racconta ch'egli era solito a tenere su taleargomento; perciocchè diceva egli che Socrate era statoun uom loquace e violento, il quale con novità pernicio-

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se sconvolta avea la patria; che Isocrate, facendo invec-chiare i discepoli nella sua scuola, rendevali solo oppor-tuni a trattare le cause ne' campi elisj; e inoltre veggen-do suo figlio agli studj greci inclinato assai, soleva congrave e severa voce, quasi profetando, ripetere che i Ro-mani allora perduto avrebbon l'impero, quando alle let-tere greche si fosser rivolti. I medici greci ancora, checominciavano, come poscia vedremo, a venirsene aRoma, aveva egli in orrore; poichè diceva aver essi con-ceputo il perverso disegno di toglier dal mondo sottopretesto di medicina i barbari tutti, col qual nome com-prendevano essi anche i Romani. Onde nascesse questoimplacabil odio di Catone contro de' Greci, e singolar-mente contro de' filosofi, non è difficil cosa vedere. Os-servava egli la Grecia divisa allora in tanti partiti, quan-te eran le sette de' filosofi, che vi regnavano, stoici, pla-tonici, epicurei, peripatetici, tutti di massime, di senti-menti diversi, disputar gli uni contro degli altri, e nelleloro dispute cercare di far pompa d'ingegno, non di sco-prire il vero; e frattanto lo stato politico della Grecia an-dare in rovina ed essere omai fatto schiavo quel popoloche prima della sorte di tante provincie era arbitro e si-gnore. Temeva egli dunque che, se queste filosofichesette si fossero introdotte in Roma, seco ne recassero an-cora i funesti effetti che prodotto aveano in Grecia.L'eloquenza di Carneade singolarmente doveva parerglipericolosa, e l'avvezzarsi i Romani a imitazione di lui aparlare in lode ugualmente che in biasimo di qualunquepiù pregevol virtù, dovea sembrargli principio troppo fa-

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se sconvolta avea la patria; che Isocrate, facendo invec-chiare i discepoli nella sua scuola, rendevali solo oppor-tuni a trattare le cause ne' campi elisj; e inoltre veggen-do suo figlio agli studj greci inclinato assai, soleva congrave e severa voce, quasi profetando, ripetere che i Ro-mani allora perduto avrebbon l'impero, quando alle let-tere greche si fosser rivolti. I medici greci ancora, checominciavano, come poscia vedremo, a venirsene aRoma, aveva egli in orrore; poichè diceva aver essi con-ceputo il perverso disegno di toglier dal mondo sottopretesto di medicina i barbari tutti, col qual nome com-prendevano essi anche i Romani. Onde nascesse questoimplacabil odio di Catone contro de' Greci, e singolar-mente contro de' filosofi, non è difficil cosa vedere. Os-servava egli la Grecia divisa allora in tanti partiti, quan-te eran le sette de' filosofi, che vi regnavano, stoici, pla-tonici, epicurei, peripatetici, tutti di massime, di senti-menti diversi, disputar gli uni contro degli altri, e nelleloro dispute cercare di far pompa d'ingegno, non di sco-prire il vero; e frattanto lo stato politico della Grecia an-dare in rovina ed essere omai fatto schiavo quel popoloche prima della sorte di tante provincie era arbitro e si-gnore. Temeva egli dunque che, se queste filosofichesette si fossero introdotte in Roma, seco ne recassero an-cora i funesti effetti che prodotto aveano in Grecia.L'eloquenza di Carneade singolarmente doveva parerglipericolosa, e l'avvezzarsi i Romani a imitazione di lui aparlare in lode ugualmente che in biasimo di qualunquepiù pregevol virtù, dovea sembrargli principio troppo fa-

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tale al buon governo della repubblica. Quindi quel zeloche, per la salvezza e per la gloria della sua patria aveaCatone, non gli permise il tacere in tal occasione, e ditutta la sua autorità fece uso, perchè questo pericolo daessa si allontanasse.

XIII. Partiron pertanto i filosofi greci daRoma, ma non partì con essi quel desideriodella filosofia e della letteratura greca,ch'essi vi aveano risvegliato; e non ne parti-rono Polibio, Panezio, e forse ancora altrieruditi uomini greci. Non lasciarono questi

di essere ancora sommamente cari al giovane Scipione,a Lelio, a Furio, a Filippo, a Gallo e ad altri de' principa-li cavalieri romani (Cic. pro Muræna, n. 31). Era Pane-zio, come detto abbiamo, di setta stoico, e questa fu lacagione per cui questa più che le altre sette ebbe seguaciin Roma. Pareva inoltre ch'essa fosse la più opportuna aformar l'animo de' cittadini e a scorgerli al buon gover-no della repubblica. Si può su questo punto vedere ilBruckero che lungamente ne ha favellato (t. 2, p. 17; eAppend. p. 344). Benchè, come egli stesso osserva (Ap-pend. p. 341) anche la filosofia di Pittagora, comunquela sua scuola fosse già dissipata e disciolta, ebbe nondi-meno in Roma non pochi seguaci, in quella parte singo-larmente, che al buon costume appartiene alla civileeconomia. Altre sette ancora vi ebbero i lor seguaci; maa parlare sinceramente, qualunque fosse la setta a cui i

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Vi restan nondimeno Polibio e Panezio, e vi fomentanlo studio.

tale al buon governo della repubblica. Quindi quel zeloche, per la salvezza e per la gloria della sua patria aveaCatone, non gli permise il tacere in tal occasione, e ditutta la sua autorità fece uso, perchè questo pericolo daessa si allontanasse.

XIII. Partiron pertanto i filosofi greci daRoma, ma non partì con essi quel desideriodella filosofia e della letteratura greca,ch'essi vi aveano risvegliato; e non ne parti-rono Polibio, Panezio, e forse ancora altrieruditi uomini greci. Non lasciarono questi

di essere ancora sommamente cari al giovane Scipione,a Lelio, a Furio, a Filippo, a Gallo e ad altri de' principa-li cavalieri romani (Cic. pro Muræna, n. 31). Era Pane-zio, come detto abbiamo, di setta stoico, e questa fu lacagione per cui questa più che le altre sette ebbe seguaciin Roma. Pareva inoltre ch'essa fosse la più opportuna aformar l'animo de' cittadini e a scorgerli al buon gover-no della repubblica. Si può su questo punto vedere ilBruckero che lungamente ne ha favellato (t. 2, p. 17; eAppend. p. 344). Benchè, come egli stesso osserva (Ap-pend. p. 341) anche la filosofia di Pittagora, comunquela sua scuola fosse già dissipata e disciolta, ebbe nondi-meno in Roma non pochi seguaci, in quella parte singo-larmente, che al buon costume appartiene alla civileeconomia. Altre sette ancora vi ebbero i lor seguaci; maa parlare sinceramente, qualunque fosse la setta a cui i

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Vi restan nondimeno Polibio e Panezio, e vi fomentanlo studio.

Romani si accostavano, non eran tanto, ne' tempi di cuiparliamo, le fisiche e le naturali questioni quelle in cuiessi si esercitassero, quanto le politiche e le morali: per-ciocchè queste più che le altre giudicavansi vantaggiosee al ben privato de' cittadini e al pubblico dello Stato.

XIV. Nondimeno quella parte ancora di fi-losofia, che si volge allo studio della natu-ra, fu in Roma conosciuta ed abbracciatada alcuni. Questa lode deesi sopra tutti a C.Sulpicio Gallo. Cicerone lo annovera tra'

valenti oratori di quella età: "Tra' giovani, dic'egli (DeCl. Orat. n. 20), fu C. Sulpicio Gallo che fra i nobili ro-mani fu il più studioso della greca letteratura. Egli ebbefama di oratore, e nelle altre scienze ancora fu uom col-to ed ornato. Nell'anno in cui egli era pretore, morì En-nio". Ma altrove de' suoi studj astronomici più chiara-mente ragiona quando introduce il vecchio Catone a fa-vellar per tal modo al giovine Africano (De Senect. n.14): "Noi vedevamo venir quasi meno pel grande studiodi misurare, per così dire, la terra e il cielo C. Galloamico intrinseco del padre tuo, o Scipione. Quante vol-te, avendo egli cominciato a scrivere alcune cose di not-te tempo, fu sorpreso dal giorno! Quante volte sorpresofu dalla notte, avendo egli cominciato a scrivere fin dalmattino! Quanto godeva egli nel predirci molto tempoinnanzi le ecclissi del sole e della luna!" E questo suosapere d'astronomia non solo fu a lui di onore, ma di

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L'astronomiacomincia ad esser coltiva-ta in Roma.

Romani si accostavano, non eran tanto, ne' tempi di cuiparliamo, le fisiche e le naturali questioni quelle in cuiessi si esercitassero, quanto le politiche e le morali: per-ciocchè queste più che le altre giudicavansi vantaggiosee al ben privato de' cittadini e al pubblico dello Stato.

XIV. Nondimeno quella parte ancora di fi-losofia, che si volge allo studio della natu-ra, fu in Roma conosciuta ed abbracciatada alcuni. Questa lode deesi sopra tutti a C.Sulpicio Gallo. Cicerone lo annovera tra'

valenti oratori di quella età: "Tra' giovani, dic'egli (DeCl. Orat. n. 20), fu C. Sulpicio Gallo che fra i nobili ro-mani fu il più studioso della greca letteratura. Egli ebbefama di oratore, e nelle altre scienze ancora fu uom col-to ed ornato. Nell'anno in cui egli era pretore, morì En-nio". Ma altrove de' suoi studj astronomici più chiara-mente ragiona quando introduce il vecchio Catone a fa-vellar per tal modo al giovine Africano (De Senect. n.14): "Noi vedevamo venir quasi meno pel grande studiodi misurare, per così dire, la terra e il cielo C. Galloamico intrinseco del padre tuo, o Scipione. Quante vol-te, avendo egli cominciato a scrivere alcune cose di not-te tempo, fu sorpreso dal giorno! Quante volte sorpresofu dalla notte, avendo egli cominciato a scrivere fin dalmattino! Quanto godeva egli nel predirci molto tempoinnanzi le ecclissi del sole e della luna!" E questo suosapere d'astronomia non solo fu a lui di onore, ma di

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L'astronomiacomincia ad esser coltiva-ta in Roma.

vantaggio ancora alla repubblica tutta. Perciocchè l'annodi Roma 585, essendo egli tribuno militare nell'esercitodi Paolo Emilio, a' tre di settembre radunato con licenzadel console tutto l'esercito, avvertì i soldati, per usar leparole di Livio (l. 44, c. 37) "che la prossima notte dalledue ore fino alle quattro sarebbesi ecclissata la luna;niun credesse tal cosa prodigiosa e funesta; perciocchè,accadendo ciò per ordine della natura a' tempi determi-nati, potersi ancora conoscere avanti tempo e predire; ecome non si stupivano che ora intera fosse la luna ed orascema, perchè sapevano esser certo e determinato il sor-gere e il tramontare di essa e del sole, così non doversiavere in conto di prodigio l'ecclissi, seguendo questaperchè la luna dall'ombra della terra viene oscurata." Ilquale avvertimento giovò maravigliosamente a' Romani,che il dì seguente venuti con animo lieto a battaglia co'Macedoni condotti dal loro re Perseo, trovandogli atter-riti per la veduta ecclissi, li ruppero facilmente, e miser-gli in fuga. Questo fatto medesimo vien raccontato daPlinio (l. 2, c. 12.) e da Valerio Massimo (l. 8, c. 11, n.1); ma quest'ultimo diversamente dagli altri due, checerto son più degni di fede, vuole che Gallo rassicurassel'esercito solamente allor quando era già cominciatal'ecclissi. Plinio aggiugne che Gallo in appresso sulleecclissi compose e pubblicò un libro che fu certo il pri-mo tra' Romani su questo argomento. Io so che i Greciprima de' Latini ebbero un tal vanto, e oltre che Talete ilprimo vuolsi da alcuni che predicesse un'ecclisi (il cheperò da altri (V. Mém. de l'Acad. des Inscr. 1756, p. 70,

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vantaggio ancora alla repubblica tutta. Perciocchè l'annodi Roma 585, essendo egli tribuno militare nell'esercitodi Paolo Emilio, a' tre di settembre radunato con licenzadel console tutto l'esercito, avvertì i soldati, per usar leparole di Livio (l. 44, c. 37) "che la prossima notte dalledue ore fino alle quattro sarebbesi ecclissata la luna;niun credesse tal cosa prodigiosa e funesta; perciocchè,accadendo ciò per ordine della natura a' tempi determi-nati, potersi ancora conoscere avanti tempo e predire; ecome non si stupivano che ora intera fosse la luna ed orascema, perchè sapevano esser certo e determinato il sor-gere e il tramontare di essa e del sole, così non doversiavere in conto di prodigio l'ecclissi, seguendo questaperchè la luna dall'ombra della terra viene oscurata." Ilquale avvertimento giovò maravigliosamente a' Romani,che il dì seguente venuti con animo lieto a battaglia co'Macedoni condotti dal loro re Perseo, trovandogli atter-riti per la veduta ecclissi, li ruppero facilmente, e miser-gli in fuga. Questo fatto medesimo vien raccontato daPlinio (l. 2, c. 12.) e da Valerio Massimo (l. 8, c. 11, n.1); ma quest'ultimo diversamente dagli altri due, checerto son più degni di fede, vuole che Gallo rassicurassel'esercito solamente allor quando era già cominciatal'ecclissi. Plinio aggiugne che Gallo in appresso sulleecclissi compose e pubblicò un libro che fu certo il pri-mo tra' Romani su questo argomento. Io so che i Greciprima de' Latini ebbero un tal vanto, e oltre che Talete ilprimo vuolsi da alcuni che predicesse un'ecclisi (il cheperò da altri (V. Mém. de l'Acad. des Inscr. 1756, p. 70,

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ec.) recasi in dubbio), Plinio afferma (loc. cit.) che Ip-parco fu il primo che intorno alle ecclissi accertatamentee diligentemente scrivesse. Ma non è perciò che granlode non debbasi a Gallo di aver egli innanzi ad ogni al-tro, che a noi sia noto, coltivato sì fatti studj in Roma, ein un tempo in cui questa scienza era comunementeignota, come chiaramente raccogliesi e dallo stupore cherecò a' Romani tal predizione, per cui divina fu da essicreduta la scienza di Gallo, e dallo spavento che la ve-duta ecclissi destò nei Macedoni.

XV. Egli è però vero che, trattone questo il-lustre astronomo di cui ora abbiam parlato,appena troverassi altri tra' Romani, che atali studj in questi tempi si rivolgesse. Cice-rone istesso confessa che la filosofia fino a'

suoi giorni era stata negletta in Roma, nè con i libri lati-ni non era stata punto illustrata; e recandone un partico-lar esempio, "presso i Greci, egli dice (Tusc. Quæst. l. 1,n. 3), fu la geometria in altissimo pregio; perciò tra essierano i matematici sopra tutti gli altri famosi; noi al con-trario di questa scienza altro non abbiam preso che ilvantaggio di misurare e di computare". Un solo ho iotrovato, di cui si narri aver lui le quistioni fisiche ancoralatinamente esposte. Questi è un certo C. Amafanio, daaltri detto Amafinio. Non sappiamo a qual tempo preci-samente vivesse; ma da ciò che Cicerone ne dice sembrach'ei fosse un de' più antichi, ma non de' migliori filoso-

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Amafanio scrive in la-tino delle cose fisi-che.

ec.) recasi in dubbio), Plinio afferma (loc. cit.) che Ip-parco fu il primo che intorno alle ecclissi accertatamentee diligentemente scrivesse. Ma non è perciò che granlode non debbasi a Gallo di aver egli innanzi ad ogni al-tro, che a noi sia noto, coltivato sì fatti studj in Roma, ein un tempo in cui questa scienza era comunementeignota, come chiaramente raccogliesi e dallo stupore cherecò a' Romani tal predizione, per cui divina fu da essicreduta la scienza di Gallo, e dallo spavento che la ve-duta ecclissi destò nei Macedoni.

XV. Egli è però vero che, trattone questo il-lustre astronomo di cui ora abbiam parlato,appena troverassi altri tra' Romani, che atali studj in questi tempi si rivolgesse. Cice-rone istesso confessa che la filosofia fino a'

suoi giorni era stata negletta in Roma, nè con i libri lati-ni non era stata punto illustrata; e recandone un partico-lar esempio, "presso i Greci, egli dice (Tusc. Quæst. l. 1,n. 3), fu la geometria in altissimo pregio; perciò tra essierano i matematici sopra tutti gli altri famosi; noi al con-trario di questa scienza altro non abbiam preso che ilvantaggio di misurare e di computare". Un solo ho iotrovato, di cui si narri aver lui le quistioni fisiche ancoralatinamente esposte. Questi è un certo C. Amafanio, daaltri detto Amafinio. Non sappiamo a qual tempo preci-samente vivesse; ma da ciò che Cicerone ne dice sembrach'ei fosse un de' più antichi, ma non de' migliori filoso-

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Amafanio scrive in la-tino delle cose fisi-che.

fi, poichè egli ne parla con poca lode: Didicisti enim,dice (Acad. Quæst. lib. 1, n. 2), non posse nos Amafaniiaut Rabirii similes esse, qui nulla arte adhibita de rebusante oculos positis vulgari sermone disputant, nihil de-finiunt, nihil, partiuntur, nihil apta interrogatione con-cludunt, nullam denique artem esse nec dicendi nec dis-serendi putant. E poco dopo più chiaramente affermache anche il sistema fisico di Epicuro, di cui era Amifa-nio seguace, fu da lui spiegato: Jam vero physica, siEpicurum, idest si Democritum probarem, possem scri-bere ita plane ut Amafanius. Quid est enim magnum,cum causas rerum efficientium sustuleris, de corpuscu-lorum (ita enim appellat atomos) concursione fortuitaloqui? Avea dunque Amafanio il sistema fisico di Epi-curo, ossia di Democrito, che consiste appunto nella for-tuita congiunzione degli atomi, spiegato in latino lin-guaggio; ma il sistema morale ancora avea spiegato, e isuoi libri perciò, in qualunque maniera fossero scritti,avean avuto gran nome, e molti seguaci la dottrina dalui proposta (Tusc. Quæst, l. 4, n. 3): Interimillis silenti-bus Amafanius exstitit dicens; cujus libris editis commo-ta, multitudo contulit se ad eandem disciplinam, sivequod erat cognitu per facilis sive quod invitabatur ille-cebris voluptatis, sive etiam quia nihil probatum eratmelius, illud, quod erat tenebrat. Anzi soggiugne chemolti altri dopo Amafanio scrissero sull'argomento me-desimo, e l'Italia tutta occuparono de' loro libri. Vorreb-besi qui aggiugnere ancora ciò che appartiene alla medi-cina, perciocchè Arcagato medico greco in quest'epoca

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fi, poichè egli ne parla con poca lode: Didicisti enim,dice (Acad. Quæst. lib. 1, n. 2), non posse nos Amafaniiaut Rabirii similes esse, qui nulla arte adhibita de rebusante oculos positis vulgari sermone disputant, nihil de-finiunt, nihil, partiuntur, nihil apta interrogatione con-cludunt, nullam denique artem esse nec dicendi nec dis-serendi putant. E poco dopo più chiaramente affermache anche il sistema fisico di Epicuro, di cui era Amifa-nio seguace, fu da lui spiegato: Jam vero physica, siEpicurum, idest si Democritum probarem, possem scri-bere ita plane ut Amafanius. Quid est enim magnum,cum causas rerum efficientium sustuleris, de corpuscu-lorum (ita enim appellat atomos) concursione fortuitaloqui? Avea dunque Amafanio il sistema fisico di Epi-curo, ossia di Democrito, che consiste appunto nella for-tuita congiunzione degli atomi, spiegato in latino lin-guaggio; ma il sistema morale ancora avea spiegato, e isuoi libri perciò, in qualunque maniera fossero scritti,avean avuto gran nome, e molti seguaci la dottrina dalui proposta (Tusc. Quæst, l. 4, n. 3): Interimillis silenti-bus Amafanius exstitit dicens; cujus libris editis commo-ta, multitudo contulit se ad eandem disciplinam, sivequod erat cognitu per facilis sive quod invitabatur ille-cebris voluptatis, sive etiam quia nihil probatum eratmelius, illud, quod erat tenebrat. Anzi soggiugne chemolti altri dopo Amafanio scrissero sull'argomento me-desimo, e l'Italia tutta occuparono de' loro libri. Vorreb-besi qui aggiugnere ancora ciò che appartiene alla medi-cina, perciocchè Arcagato medico greco in quest'epoca

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stessa, cioè l'an 535, venne a Roma, e prima d'ogni altroesercitovvi quest'arte. Ma come poco felice successoella ebbe allora in Roma, ci riserberemo a parlarneall'epoca susseguente, e frattanto conchiuderemo questacol dir brevemente in quale stato fossero in essa le altrescienze in Roma.

CAPO IIIEloquenza, Storia, Giurisprudenza

I. La sorte dell'eloquenza più felice fu tra'Romani che non quella della filosofia. Aquesto tempo medesimo di cui parliamo co-minciò essa in Roma a levare, per così dire,alto la fronte e a minacciare a' Greci. Non

tratterrommi io però a lungo su questo argomento, per-ciocchè la storia della romana eloquenza è stata da Cice-rone trattata nel suo libro de' chiari Oratori per tal ma-niera ch'è inutile il cercar di aggiugnerle nuova luce. Mibasterà dunque l'accennar brevemente ciò ch'egli diste-samente racconta, e le principali epoche e i più ragguar-devoli oratori che in ciascun tempo fiorirono, indicareprecisamente. Confessa egli dunque (De Cl. Orat. n. 16)che innanzi a' tempi di Catone il censore appena si puòtrovar cosa che degna sia di essere conservata; se pur,dice, non havvi a cui piaccia l'Orazione di Appio Clau-dio, con cui dissuase il senato dal far la pace con Pirro,o alcune funebri orazioni le quali però, egli aggiugne,

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Nomi e ca-ratteri de' più antichi oratori ro-mani.

stessa, cioè l'an 535, venne a Roma, e prima d'ogni altroesercitovvi quest'arte. Ma come poco felice successoella ebbe allora in Roma, ci riserberemo a parlarneall'epoca susseguente, e frattanto conchiuderemo questacol dir brevemente in quale stato fossero in essa le altrescienze in Roma.

CAPO IIIEloquenza, Storia, Giurisprudenza

I. La sorte dell'eloquenza più felice fu tra'Romani che non quella della filosofia. Aquesto tempo medesimo di cui parliamo co-minciò essa in Roma a levare, per così dire,alto la fronte e a minacciare a' Greci. Non

tratterrommi io però a lungo su questo argomento, per-ciocchè la storia della romana eloquenza è stata da Cice-rone trattata nel suo libro de' chiari Oratori per tal ma-niera ch'è inutile il cercar di aggiugnerle nuova luce. Mibasterà dunque l'accennar brevemente ciò ch'egli diste-samente racconta, e le principali epoche e i più ragguar-devoli oratori che in ciascun tempo fiorirono, indicareprecisamente. Confessa egli dunque (De Cl. Orat. n. 16)che innanzi a' tempi di Catone il censore appena si puòtrovar cosa che degna sia di essere conservata; se pur,dice, non havvi a cui piaccia l'Orazione di Appio Clau-dio, con cui dissuase il senato dal far la pace con Pirro,o alcune funebri orazioni le quali però, egli aggiugne,

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Nomi e ca-ratteri de' più antichi oratori ro-mani.

piene sono di errori, di trionfi falsi, di falsi consolati, edi false genealogie ancora. Catone adunque fu veramen-te il primo che nome avesse e fama di valente oratore.Di lui favella qui Cicerone, e già di sopra abbiam vedu-to con quante lodi ei ne celebri l'eloquenza. Quindi dopoaver nominati altri che valorosi oratori furono in Roma,viene a Sergio Galba che fu alquanto maggior di età diLelio e del giovane Africano. A lui Cicerone concede ilvanto di avere il primo usato di ciò che appellasi arte diornamento dell'eloquenza, e di averne col suo esempiosegnata agli altri la via. Nimirum, dice (n. 21.), is prin-ceps ex Latinis illa oratorum propria et quasi legitimaopera tractavit, ut egrederetur e proposito orandi caus-sa, ut delectaret animos, aut permoveret, ut augeretrem, ut miserationibus, ut communibus locis uteretur.Confessa però egli stesso che le orazioni di Galba eranoallora poco pregiate, e che appena vi avea chi si degnas-se di leggerle; di che arreca, questa ragione (n. 24.):ch'egli nell'atto di ragionare era dall'affetto compreso etrasportato per modo che vivo ancora e focoso ed elo-quente erane il ragionare; ma che facendosi egli dappoia scrivere e a ritoccar le sue orazioni ad animo più tran-quillo e posato, languide riuscivano esse ancora e sner-vate. Anche i due famosi Lelio e Scipione, più volte giànominati, furono amendue valentissimi oratori. Amen-due sono esaltati da Cicerone con somme lodi (n. 21.ec.); e benchè egli pensi che Lelio fosse soverchiamentevago di usare parole e stile antico e disusato, aggiugnenondimeno che fama forse maggior di Scipione egli ot-

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piene sono di errori, di trionfi falsi, di falsi consolati, edi false genealogie ancora. Catone adunque fu veramen-te il primo che nome avesse e fama di valente oratore.Di lui favella qui Cicerone, e già di sopra abbiam vedu-to con quante lodi ei ne celebri l'eloquenza. Quindi dopoaver nominati altri che valorosi oratori furono in Roma,viene a Sergio Galba che fu alquanto maggior di età diLelio e del giovane Africano. A lui Cicerone concede ilvanto di avere il primo usato di ciò che appellasi arte diornamento dell'eloquenza, e di averne col suo esempiosegnata agli altri la via. Nimirum, dice (n. 21.), is prin-ceps ex Latinis illa oratorum propria et quasi legitimaopera tractavit, ut egrederetur e proposito orandi caus-sa, ut delectaret animos, aut permoveret, ut augeretrem, ut miserationibus, ut communibus locis uteretur.Confessa però egli stesso che le orazioni di Galba eranoallora poco pregiate, e che appena vi avea chi si degnas-se di leggerle; di che arreca, questa ragione (n. 24.):ch'egli nell'atto di ragionare era dall'affetto compreso etrasportato per modo che vivo ancora e focoso ed elo-quente erane il ragionare; ma che facendosi egli dappoia scrivere e a ritoccar le sue orazioni ad animo più tran-quillo e posato, languide riuscivano esse ancora e sner-vate. Anche i due famosi Lelio e Scipione, più volte giànominati, furono amendue valentissimi oratori. Amen-due sono esaltati da Cicerone con somme lodi (n. 21.ec.); e benchè egli pensi che Lelio fosse soverchiamentevago di usare parole e stile antico e disusato, aggiugnenondimeno che fama forse maggior di Scipione egli ot-

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tenne nell'eloquenza: "perciocché, dic'egli graziosamen-te, egli è costume degli uomini di non volere che unuomo stesso sia in più cose eccellente. Or come nellelodi di guerra niun può sperare di aggiugnere l'Africano,benchè sappiamo che nella guerra di Viriato assai valo-roso si mostrasse ancor Lelio, così in ciò ch'è loded'ingegno, di letteratura, di eloquenza, e di ogni saper fi-nalmente, benchè amendue sian nominati tra' primi, aLelio nondimeno volentieri accordano la precedenza".

II. Io passo sotto silenzio molti altri oratoriche a questo tempo medesimo si acquistaro-no nome, i cui diversi caratteri si posson ve-dere maravigliosamente descritti da Cicero-ne. Uno però di essi è degno di special ri-cordanza, perciocchè nuove grazie e nuovi

ornamenti aggiunse alla latina eloquenza, e lo stile sin-golarmente ne fece a imitazione de' Greci armonioso esoave. Fu questi M. Emilio Lepido soprannomato Porci-na. Ecco l'elogio che di lui fa Cicerone (n. 15). At veroM. Æmilius Lepidus, qui est Porcina dictus, iisdemtemporibus fere, quibus Galba, sed paulo minor natu, etsummus orator est habitus, et fuit, ut apparet exOrationibus, scriptor sane bonus. Hoc in oratore latinoprimum mihi videtur et lenitas apparuisse illaGræcorum, et verborum comprehensio, etiam artifex, utita, dicam, stilus. In questa maniera venivano i Romanisempre più perfezionando ed ornando la loro eloquenza.

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Per qual ra-gione l'elo-quenza avesse in Roma moltiseguaci.

tenne nell'eloquenza: "perciocché, dic'egli graziosamen-te, egli è costume degli uomini di non volere che unuomo stesso sia in più cose eccellente. Or come nellelodi di guerra niun può sperare di aggiugnere l'Africano,benchè sappiamo che nella guerra di Viriato assai valo-roso si mostrasse ancor Lelio, così in ciò ch'è loded'ingegno, di letteratura, di eloquenza, e di ogni saper fi-nalmente, benchè amendue sian nominati tra' primi, aLelio nondimeno volentieri accordano la precedenza".

II. Io passo sotto silenzio molti altri oratoriche a questo tempo medesimo si acquistaro-no nome, i cui diversi caratteri si posson ve-dere maravigliosamente descritti da Cicero-ne. Uno però di essi è degno di special ri-cordanza, perciocchè nuove grazie e nuovi

ornamenti aggiunse alla latina eloquenza, e lo stile sin-golarmente ne fece a imitazione de' Greci armonioso esoave. Fu questi M. Emilio Lepido soprannomato Porci-na. Ecco l'elogio che di lui fa Cicerone (n. 15). At veroM. Æmilius Lepidus, qui est Porcina dictus, iisdemtemporibus fere, quibus Galba, sed paulo minor natu, etsummus orator est habitus, et fuit, ut apparet exOrationibus, scriptor sane bonus. Hoc in oratore latinoprimum mihi videtur et lenitas apparuisse illaGræcorum, et verborum comprehensio, etiam artifex, utita, dicam, stilus. In questa maniera venivano i Romanisempre più perfezionando ed ornando la loro eloquenza.

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Per qual ra-gione l'elo-quenza avesse in Roma moltiseguaci.

Nè è maraviglia ch'essa in breve tempo facesse pure sìgrandi progressi. L'indole stessa e la costituzione dellarepubblica determinava i cittadini ad essere eloquenti.Era questa una delle più sicure vie per giugnere a' som-mi onori. La pace, la guerra, i giudici criminali e civili,gli affari in somma più importanti della repubblica di-pendevano, per così dire, dall'eloquenza. Un valorosooratore era sicuro di aggirare il popolo come più gli pia-cesse, e di condurlo a qualunque risoluzione gli fosse ingrado. Quindi non è maraviglia che questi tempi più as-sai che non della filosofia, della poesia, e di altri somi-glianti studj, fossero i Romani diligenti coltivatoridell'eloquenza, perciocchè essa era l'arte più vantaggio-sa al privato non meno che al pubblico bene.

III. Anche la storia non fu trascurata; ma inessa per testimonio di Cicerone non furono iRomani di questo tempo molto felici. Veg-giamo per qual maniera si fa egli esortare daAttico a scriver la storia della repubblica(De Legib. l. 1, n. 2), e annovera insieme gli

scrittori tutti che fin allora trattato aveano un tale argo-mento. "Già è gran tempo che da te si desidera, o anzi siesige una storia; perciocchè vi ha opinione che se tuprendi a formarla, noi non avremo in questo genere an-cora a cedere a' Greci. E s'io debbo dirti ciò che ne pen-so, a me sembra che non solo a quelli che degli studjprendon piacere, ma alla patria ancora tu sii debitore di

333

La storia non fu a que' tempi molto feli-cemente il-lustrata.

Nè è maraviglia ch'essa in breve tempo facesse pure sìgrandi progressi. L'indole stessa e la costituzione dellarepubblica determinava i cittadini ad essere eloquenti.Era questa una delle più sicure vie per giugnere a' som-mi onori. La pace, la guerra, i giudici criminali e civili,gli affari in somma più importanti della repubblica di-pendevano, per così dire, dall'eloquenza. Un valorosooratore era sicuro di aggirare il popolo come più gli pia-cesse, e di condurlo a qualunque risoluzione gli fosse ingrado. Quindi non è maraviglia che questi tempi più as-sai che non della filosofia, della poesia, e di altri somi-glianti studj, fossero i Romani diligenti coltivatoridell'eloquenza, perciocchè essa era l'arte più vantaggio-sa al privato non meno che al pubblico bene.

III. Anche la storia non fu trascurata; ma inessa per testimonio di Cicerone non furono iRomani di questo tempo molto felici. Veg-giamo per qual maniera si fa egli esortare daAttico a scriver la storia della repubblica(De Legib. l. 1, n. 2), e annovera insieme gli

scrittori tutti che fin allora trattato aveano un tale argo-mento. "Già è gran tempo che da te si desidera, o anzi siesige una storia; perciocchè vi ha opinione che se tuprendi a formarla, noi non avremo in questo genere an-cora a cedere a' Greci. E s'io debbo dirti ciò che ne pen-so, a me sembra che non solo a quelli che degli studjprendon piacere, ma alla patria ancora tu sii debitore di

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La storia non fu a que' tempi molto feli-cemente il-lustrata.

tal lavoro sicchè questa repubblica, come fu salva per te,per te ancora si adorni ed illustri. Or puoi tu bene in ciòcompiacerla, perciocchè ella è questa più che altra maiimpresa, come tu stesso giudichi, degna di un oratore.Per la qual cosa accingiti di grazia, e prendi il tempo op-portuno a scrivere in tal materia che da' nostri maggioriè stata o trascurata o sconosciuta. Perciocchè dopo gliAnnali de' Pontefici Massimi, di cui non può esser cosapiù disadorna e digiuna (leggesi comunemente nihil...jucundius; ma altri più probabilmente leggono nudius, ojejunius), se tu ti volgi o a Fabio, o a Catone, che tusempre hai sulle labbra, o a Pisone, o a Fannio, o a Ven-nonio, benchè abbiano qual più qual meno qualche elo-quenza, non vi ha nondimeno scrittor tenue ed esile alpari di tutti questi. Celio Antipatro, che fu di tempo vici-no a Fannio, gonfiò alquanto lo stile ed ebbe qualcheeloquenza, ma rozza e agreste, senza studio e senza col-tura; potè nondimeno servir di stimolo agli altri, perchècon maggior diligenza scrivessero. A lui succederonoGellio, Clodio, Asellione, i quali non che imitare, o su-perar Celio, tutta ritrassero ne' loro scritti la languidezzae l'ignoranza degli antichi scrittori. Debbo io qui forsementovare Azzio? la cui loquacità non è talvolta privadi vezzi, ma non già presi dalla colta eloquenza de' Gre-ci, ma sì da' nostri copisti: nelle orazioni poi egli è pro-lisso e importuno fino alla impudenza. Sisenna amico diAzzio ha superati a mio parere tutti i nostri scrittori distoria, seppur non ve n'ha di quelli i cui scritti non sianoancor pubblicati, de' quali non posso or giudicare. Ma

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tal lavoro sicchè questa repubblica, come fu salva per te,per te ancora si adorni ed illustri. Or puoi tu bene in ciòcompiacerla, perciocchè ella è questa più che altra maiimpresa, come tu stesso giudichi, degna di un oratore.Per la qual cosa accingiti di grazia, e prendi il tempo op-portuno a scrivere in tal materia che da' nostri maggioriè stata o trascurata o sconosciuta. Perciocchè dopo gliAnnali de' Pontefici Massimi, di cui non può esser cosapiù disadorna e digiuna (leggesi comunemente nihil...jucundius; ma altri più probabilmente leggono nudius, ojejunius), se tu ti volgi o a Fabio, o a Catone, che tusempre hai sulle labbra, o a Pisone, o a Fannio, o a Ven-nonio, benchè abbiano qual più qual meno qualche elo-quenza, non vi ha nondimeno scrittor tenue ed esile alpari di tutti questi. Celio Antipatro, che fu di tempo vici-no a Fannio, gonfiò alquanto lo stile ed ebbe qualcheeloquenza, ma rozza e agreste, senza studio e senza col-tura; potè nondimeno servir di stimolo agli altri, perchècon maggior diligenza scrivessero. A lui succederonoGellio, Clodio, Asellione, i quali non che imitare, o su-perar Celio, tutta ritrassero ne' loro scritti la languidezzae l'ignoranza degli antichi scrittori. Debbo io qui forsementovare Azzio? la cui loquacità non è talvolta privadi vezzi, ma non già presi dalla colta eloquenza de' Gre-ci, ma sì da' nostri copisti: nelle orazioni poi egli è pro-lisso e importuno fino alla impudenza. Sisenna amico diAzzio ha superati a mio parere tutti i nostri scrittori distoria, seppur non ve n'ha di quelli i cui scritti non sianoancor pubblicati, de' quali non posso or giudicare. Ma

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nè egli ebbe luogo nel numero degli oratori, e nella sto-ria ha un non so che di puerile; talchè sembra che niunaltro de' Greci egli abbia letto fuorchè Clitarco e chesoltanto prefiggasi d'imitare questo autore, cui quandopure l'uguagliasse, non sarebbe però ancora perfettoscrittore. Ella è dunque questa impresa tua, o Tullio, ec."

IV. Fin qui Attico presso Cicerone il qualegli stessi sentimenti intorno agli antichi sto-rici romani altrove ancora ci esprime (l. 2de Orat. n. 13). "Nè è a maravigliare, sog-giugne egli, se la storia non è stata ancora

dagli scrittori latini illustrata, perciocchè tra' Romaniniuno si volge allo studio dell'eloquenza, se non perusarne nelle cause e nel foro; tra' Greci per lo contrariogli uomini più eloquenti, tenendosi per lo più lontani dalforo, poterono agevolmente occuparsi nello scriver lastoria". Ciò non ostante, benchè nel passo di sopra alle-gato sembri Cicerone non far gran conto degli scrittoridi storia, che stati erano fino allor tra' Romani, altroveperò della Storia di Catone parla con gran lode, come siè veduto poc'anzi. Vi ebbero ancora a questo tempo me-desimo altri storici in Roma, i quali, benchè non potes-sero esser proposti a modello di stil perfetto ed elegante,aveansi nondimeno in pregio. Così Livio arreca più vol-te l'autorità di un cotal L. Cincio Alimenzio, o Alimen-to, cui chiama autor sommo (l. 21, c. 38), e di antichimonumenti diligente raccoglitore (l. 7, c. 3). Egli è vero

335

Notizie di alcuni de' più antichi storici.

nè egli ebbe luogo nel numero degli oratori, e nella sto-ria ha un non so che di puerile; talchè sembra che niunaltro de' Greci egli abbia letto fuorchè Clitarco e chesoltanto prefiggasi d'imitare questo autore, cui quandopure l'uguagliasse, non sarebbe però ancora perfettoscrittore. Ella è dunque questa impresa tua, o Tullio, ec."

IV. Fin qui Attico presso Cicerone il qualegli stessi sentimenti intorno agli antichi sto-rici romani altrove ancora ci esprime (l. 2de Orat. n. 13). "Nè è a maravigliare, sog-giugne egli, se la storia non è stata ancora

dagli scrittori latini illustrata, perciocchè tra' Romaniniuno si volge allo studio dell'eloquenza, se non perusarne nelle cause e nel foro; tra' Greci per lo contrariogli uomini più eloquenti, tenendosi per lo più lontani dalforo, poterono agevolmente occuparsi nello scriver lastoria". Ciò non ostante, benchè nel passo di sopra alle-gato sembri Cicerone non far gran conto degli scrittoridi storia, che stati erano fino allor tra' Romani, altroveperò della Storia di Catone parla con gran lode, come siè veduto poc'anzi. Vi ebbero ancora a questo tempo me-desimo altri storici in Roma, i quali, benchè non potes-sero esser proposti a modello di stil perfetto ed elegante,aveansi nondimeno in pregio. Così Livio arreca più vol-te l'autorità di un cotal L. Cincio Alimenzio, o Alimen-to, cui chiama autor sommo (l. 21, c. 38), e di antichimonumenti diligente raccoglitore (l. 7, c. 3). Egli è vero

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Notizie di alcuni de' più antichi storici.

che, come col testimonio di Dionigi Alicarnasseo provail Vossio (De Hist. Lat. l. 1, c. 4), questi in lingua grecacompose la sua storia; il che pur fece, per testimonio diCicerone (Acad. Quæst. l. 4, n. 45), A. Albino: ma altrecose ancora scrissero amendue in latino, come lo stessoVossio dimostra (ib. e c. 6); e Cincio singolarmentescritta avea la Vita di Gorgia leontino il quale è ben dadolere che non sia a noi pervenuta. Altri che a questitempi medesimi furono scrittori di storia in Roma, siposson vedere presso il citato Vossio; ch'io non credo didovermi trattenere più oltre in favellare di storici de'quali nè più ci rimangon le opere nè veggiamo comune-mente parlarsi in modo dagli antichi autori che grave es-ser ci debba la perdita che fatta ne abbiamo.

V. Rimane per ultimo a dir qualche cosadella giurisprudenza. Questo studio chefin da' tempi più antichi della repubblicaera stato coltivato, molto più dovette es-ser in fiore quando le altre scienze ancora

s'introdussero in Roma. Molti de' magistrati convenivaper certo che ne fossero istruiti per decidere le contro-versie, per punire i rei, per rendere la giustizia a chi lachiedesse. Si posson vedere nell'erudita Storia della ro-mana giurisprudenza dell'avvocato Terrasson gli uominiin questa scienza illustri, che vissero a' tempi di cui par-liamo. Tre soli io ne accennerò, de' quali più cose chi neabbia desiderio, potrà vedere presso il citato autore. Il

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Stato della giu-risprudenza ro-mana in quest'epoca.

che, come col testimonio di Dionigi Alicarnasseo provail Vossio (De Hist. Lat. l. 1, c. 4), questi in lingua grecacompose la sua storia; il che pur fece, per testimonio diCicerone (Acad. Quæst. l. 4, n. 45), A. Albino: ma altrecose ancora scrissero amendue in latino, come lo stessoVossio dimostra (ib. e c. 6); e Cincio singolarmentescritta avea la Vita di Gorgia leontino il quale è ben dadolere che non sia a noi pervenuta. Altri che a questitempi medesimi furono scrittori di storia in Roma, siposson vedere presso il citato Vossio; ch'io non credo didovermi trattenere più oltre in favellare di storici de'quali nè più ci rimangon le opere nè veggiamo comune-mente parlarsi in modo dagli antichi autori che grave es-ser ci debba la perdita che fatta ne abbiamo.

V. Rimane per ultimo a dir qualche cosadella giurisprudenza. Questo studio chefin da' tempi più antichi della repubblicaera stato coltivato, molto più dovette es-ser in fiore quando le altre scienze ancora

s'introdussero in Roma. Molti de' magistrati convenivaper certo che ne fossero istruiti per decidere le contro-versie, per punire i rei, per rendere la giustizia a chi lachiedesse. Si posson vedere nell'erudita Storia della ro-mana giurisprudenza dell'avvocato Terrasson gli uominiin questa scienza illustri, che vissero a' tempi di cui par-liamo. Tre soli io ne accennerò, de' quali più cose chi neabbia desiderio, potrà vedere presso il citato autore. Il

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Stato della giu-risprudenza ro-mana in quest'epoca.

gran Catone in primo luogo vuol qui ancora esser nomi-nato; uomo veramente universale che alle altre scienzeanche questa congiunse e ne fu peritissimo. Festo allega(ad. voc. "Mundus") alcuni comentarj da lui scritti soprail Dritto civile. Furono ancora circa il medesimo tempoe M. Giunio Bruto e P. Muzio Scevola, i quali, come di-mostra il più volte citato avv. Terrasson, scrissero amen-due su tale argomento, uno sette, l'altro dieci libri. Lamaggior gloria però di Muzio fu quella di avere avutoun figlio che tra' più illustri romani a ragione si annove-ra, cioè Q. Muzio Scevola. Ma di lui avremo a parlarenel libro seguente.

VI. Sarebbe qui luogo opportuno a dire an-cora alcuna cosa sulle arti liberali della pit-tura, della scultura, dell'architettura, le qualia questo tempo medesimo cominciarono adaver pregio in Roma. Ma come assai scarso

argomento ci offrirebbero esse ora a parlarne, ciò che adesse appartiene sarà da noi raccolto ed esposto seguita-mente nell'epoca alla quale ora ci convien fare passag-gio.

337

Le arti libe-rali poco allor cono-sciute in Roma.

gran Catone in primo luogo vuol qui ancora esser nomi-nato; uomo veramente universale che alle altre scienzeanche questa congiunse e ne fu peritissimo. Festo allega(ad. voc. "Mundus") alcuni comentarj da lui scritti soprail Dritto civile. Furono ancora circa il medesimo tempoe M. Giunio Bruto e P. Muzio Scevola, i quali, come di-mostra il più volte citato avv. Terrasson, scrissero amen-due su tale argomento, uno sette, l'altro dieci libri. Lamaggior gloria però di Muzio fu quella di avere avutoun figlio che tra' più illustri romani a ragione si annove-ra, cioè Q. Muzio Scevola. Ma di lui avremo a parlarenel libro seguente.

VI. Sarebbe qui luogo opportuno a dire an-cora alcuna cosa sulle arti liberali della pit-tura, della scultura, dell'architettura, le qualia questo tempo medesimo cominciarono adaver pregio in Roma. Ma come assai scarso

argomento ci offrirebbero esse ora a parlarne, ciò che adesse appartiene sarà da noi raccolto ed esposto seguita-mente nell'epoca alla quale ora ci convien fare passag-gio.

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Le arti libe-rali poco allor cono-sciute in Roma.

LIBRO TERZOLetteratura de' Romani dalla distruzion di

Cartagine fino alla morte di Augusto.

Chiunque prende a esaminare attentamente le vicende diRoma, non può non riflettere che la romana letteraturaandò quasi a ugual passo avanzandosi coll'armi romane.Finchè queste si stettero angustamente rinchiuse tra' po-poli confinanti, appena conobbesi in Roma letteratura disorte alcuna. Non sì tosto cominciarono esse nel sestosecolo a rompere ogni riparo, ed insultare a' popoli an-cor più lontani, si vider sorgere a un tempo stesso lescienze; e la poesia, l'eloquenza, la storia cominciaronoad avere qualche ornamento, come se esse ancora si ri-vestissero delle spoglie nemiche. Ciò sì è veduto nelledue epoche precedenti. Cadde finalmente l'an. 607 Car-tagine, e col cader di Cartagine parve che il mondo tuttocadesse a pie' di Roma. Niuna potenza si tenne più con-tro la vittoriosa repubblica: le nazioni pressochè tutte fu-ron costrette a riconoscerla a lor signora; e quelle si ri-putaron felici che la lor servitù poterono apparentemen-te nascondere coll'onorevole titolo di alleanza. Al tempomedesimo un nuovo ardor per gli studi si accese in cuo-re a' Romani e a maggior perfezione furon da essi con-dotte le arti e le scienze. Ciò si dovette in gran parte alla

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LIBRO TERZOLetteratura de' Romani dalla distruzion di

Cartagine fino alla morte di Augusto.

Chiunque prende a esaminare attentamente le vicende diRoma, non può non riflettere che la romana letteraturaandò quasi a ugual passo avanzandosi coll'armi romane.Finchè queste si stettero angustamente rinchiuse tra' po-poli confinanti, appena conobbesi in Roma letteratura disorte alcuna. Non sì tosto cominciarono esse nel sestosecolo a rompere ogni riparo, ed insultare a' popoli an-cor più lontani, si vider sorgere a un tempo stesso lescienze; e la poesia, l'eloquenza, la storia cominciaronoad avere qualche ornamento, come se esse ancora si ri-vestissero delle spoglie nemiche. Ciò sì è veduto nelledue epoche precedenti. Cadde finalmente l'an. 607 Car-tagine, e col cader di Cartagine parve che il mondo tuttocadesse a pie' di Roma. Niuna potenza si tenne più con-tro la vittoriosa repubblica: le nazioni pressochè tutte fu-ron costrette a riconoscerla a lor signora; e quelle si ri-putaron felici che la lor servitù poterono apparentemen-te nascondere coll'onorevole titolo di alleanza. Al tempomedesimo un nuovo ardor per gli studi si accese in cuo-re a' Romani e a maggior perfezione furon da essi con-dotte le arti e le scienze. Ciò si dovette in gran parte alla

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conquista della Grecia, che seguì dappresso la terzaguerra cartaginese e ingegnosamente disse perciò Ora-zio:

Græcia capta ferum victorem cepit, et artesIntulit agresti Latio (l. 2, Ep. 1) (51).

Ma in gran parte ancor si dovette a quel più tranquilloriposo, di cui godendo i Romani dopo la rovinadell'impero cartaginese e delle altre più temute nazioni,poterono più agiatamente rivolgersi alle scienze. "Dap-poichè, dice Tullio (De Invent. l. 2, n. 14), l'impero diRoma fu steso intorno per ogni parte, e una durevolpace permise il vivere tranquillamente, non vi ebbe qua-si alcuno tra' giovani bramosi di lode che con tuttol'impegno non si volgesse all'eloquenza". Questa sem-plice sposizione del fatto basta, per mio avviso, a confu-tare il paradosso del celebre moderno filosofo Gian Ja-copo Rousseau il quale ha preteso di persuaderci che ilcoltivamento delle scienze cagionata abbia la rovinacosì di altri regni, come singolarmente del romano im-pero (52). Gli studj de' Romani furono in gran parte frutto51 Il passo di Orazio da me qui recato: Græcia capta ferum victorem cepit,

ec. ha fatto credere ad alcuni, che solo dopo la conquista della Grecia co-minciassero i Romani a conoscere e coltivare le scienze e le arti. Ciò cheabbiam detto nel precedente libro, ci fa abbastanza conoscere che assai pri-ma di questo tempo avean essi preso ad amarle. Le parole dunque di Ora-zio debbono intendersi di quel fervore tanto maggiore con cui volsero adesse i Romani, quando la conquista della Grecia rendette loro tanto piùagevole il commercio con quelle colte nazioni.

52 Il sig. Landi osserva (tom. 1, p. 336) che questo mio ragionamento provabensì che il potere è favorevole alle lettere, ma non prova che le letteresian favorevoli al potere, e che confutare l'opinione di m. Rousseau, ch'egli

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conquista della Grecia, che seguì dappresso la terzaguerra cartaginese e ingegnosamente disse perciò Ora-zio:

Græcia capta ferum victorem cepit, et artesIntulit agresti Latio (l. 2, Ep. 1) (51).

Ma in gran parte ancor si dovette a quel più tranquilloriposo, di cui godendo i Romani dopo la rovinadell'impero cartaginese e delle altre più temute nazioni,poterono più agiatamente rivolgersi alle scienze. "Dap-poichè, dice Tullio (De Invent. l. 2, n. 14), l'impero diRoma fu steso intorno per ogni parte, e una durevolpace permise il vivere tranquillamente, non vi ebbe qua-si alcuno tra' giovani bramosi di lode che con tuttol'impegno non si volgesse all'eloquenza". Questa sem-plice sposizione del fatto basta, per mio avviso, a confu-tare il paradosso del celebre moderno filosofo Gian Ja-copo Rousseau il quale ha preteso di persuaderci che ilcoltivamento delle scienze cagionata abbia la rovinacosì di altri regni, come singolarmente del romano im-pero (52). Gli studj de' Romani furono in gran parte frutto51 Il passo di Orazio da me qui recato: Græcia capta ferum victorem cepit,

ec. ha fatto credere ad alcuni, che solo dopo la conquista della Grecia co-minciassero i Romani a conoscere e coltivare le scienze e le arti. Ciò cheabbiam detto nel precedente libro, ci fa abbastanza conoscere che assai pri-ma di questo tempo avean essi preso ad amarle. Le parole dunque di Ora-zio debbono intendersi di quel fervore tanto maggiore con cui volsero adesse i Romani, quando la conquista della Grecia rendette loro tanto piùagevole il commercio con quelle colte nazioni.

52 Il sig. Landi osserva (tom. 1, p. 336) che questo mio ragionamento provabensì che il potere è favorevole alle lettere, ma non prova che le letteresian favorevoli al potere, e che confutare l'opinione di m. Rousseau, ch'egli

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delle loro conquiste; quanto più queste si accrebbero,tanto più ancora accrebbesi il lor sapere; il secold'Augusto fu quello che l'armi insieme e le lettere de'Romani portò al sommo della lor gloria; nè questa sa-rebbe poscia venuta meno se tutt'altre cagioni, che a mequi non appartiene l'esaminare e che si posson vederenel bel trattato Dell'origine, delle grandezze, e del deca-dimento de' Romani di m. Montesquieu, non avessero alenti passi condotta la repubblica alla sua rovina. Ella è dunque questa di cui prendiamo ora a trattare,l'epoca la più gloriosa alla romana letteratura. Abbraccialo spazio di poco oltre ad un secolo e mezzo, cioèdall'anno di Roma 607 in cui cadde Cartagine, finoall'an. 766 in cui morì Augusto. Saravvi forse taluno acui sembri inutile questa mia fatica, poichè abbiam avu-ta di fresco la Storia del secolo d'Augusto dal co. Ben-venuto di s. Rafaele stampata in Milano l'an. 1769, cheanche la letteratura romana di questi tempi ha abbraccia-to. Ma sembra che questo autore abbia anzi voluto porci

stesso però chiama paradosso, converrebbe provare che la nascita, il pro-gresso e la decadenza delle lettere avessero preceduto il progresso e la de-cadenza del potere. A me par nondimeno che la mia riflessione sia oppor-tuna a combattere l'opinione del filosofo ginevrino. Se la distruzion delloStato come afferma egli, è effetto degli studj, convien dire che questi ab-biano una cotal intrinseca loro proprietà che alla pubblica felicità si oppon-ga. Or se veggiamo crescere, per così dire, a ugual passo il fervor neglistudj e la rapidità delle conquiste, egli è evidente che quelli non portanseco il fatal germe distruttore delle repubbliche. E se veggiam poscia glistudj insieme e il potere venire scemando ugualmente, egli è manifesto chenon agli studj soli, ma a qualche comune origine deesi attribuire il decadi-mento di amendue.

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delle loro conquiste; quanto più queste si accrebbero,tanto più ancora accrebbesi il lor sapere; il secold'Augusto fu quello che l'armi insieme e le lettere de'Romani portò al sommo della lor gloria; nè questa sa-rebbe poscia venuta meno se tutt'altre cagioni, che a mequi non appartiene l'esaminare e che si posson vederenel bel trattato Dell'origine, delle grandezze, e del deca-dimento de' Romani di m. Montesquieu, non avessero alenti passi condotta la repubblica alla sua rovina. Ella è dunque questa di cui prendiamo ora a trattare,l'epoca la più gloriosa alla romana letteratura. Abbraccialo spazio di poco oltre ad un secolo e mezzo, cioèdall'anno di Roma 607 in cui cadde Cartagine, finoall'an. 766 in cui morì Augusto. Saravvi forse taluno acui sembri inutile questa mia fatica, poichè abbiam avu-ta di fresco la Storia del secolo d'Augusto dal co. Ben-venuto di s. Rafaele stampata in Milano l'an. 1769, cheanche la letteratura romana di questi tempi ha abbraccia-to. Ma sembra che questo autore abbia anzi voluto porci

stesso però chiama paradosso, converrebbe provare che la nascita, il pro-gresso e la decadenza delle lettere avessero preceduto il progresso e la de-cadenza del potere. A me par nondimeno che la mia riflessione sia oppor-tuna a combattere l'opinione del filosofo ginevrino. Se la distruzion delloStato come afferma egli, è effetto degli studj, convien dire che questi ab-biano una cotal intrinseca loro proprietà che alla pubblica felicità si oppon-ga. Or se veggiamo crescere, per così dire, a ugual passo il fervor neglistudj e la rapidità delle conquiste, egli è evidente che quelli non portanseco il fatal germe distruttore delle repubbliche. E se veggiam poscia glistudj insieme e il potere venire scemando ugualmente, egli è manifesto chenon agli studj soli, ma a qualche comune origine deesi attribuire il decadi-mento di amendue.

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sotto degli occhi un filosofico quadro che una esatta sto-ria. E saravvi forse chi brami in lui un più giusto ordindi cose, e non approvi, a cagion d'esempio, che la seriedegli storici che nel secolo d'Augusto fiorirono, comincida Svetonio che visse a' tempi di Traiano e di Adriano, ecomprenda ancora Giustino scrittore di età incerta, maposteriore anche a Svetonio. Comunque sia, non saràforse spiacevole il vedere uno stesso argomento trattatoper diversa maniera; e se questa mia Storia non sarà de-gna di venire al confronto con quella del dotto nominatoautore, io compiacerommi che giovi almeno a rilevarnemaggiormente le bellezze e i pregi (53).Molti altri autori hanno qual più qual meno illustrata lastoria letteraria di questi tempi de' quali entriamo a par-lare; e forse più di tutti Gian Niccolò Funcio nel suotrattato De virili ætate linguæ latinæ stampato a Mar-purgh l'an. 1736. Io non ho lasciato di consultarli, ma hogiudicato insieme che gli antichi scrittori dovessero es-ser la principal mia scorta in queste ricerche; e che nonmi fosse lecito di affermar cosa alcuna che alla loro au-torità non si appoggiasse. Il che da alcuni, e dal Funcio53 Io debbo qui rendere una pubblica testimonianza di riconoscenza e di sti-

ma al ch. Sig. Co. Benvenuto di S. Rafaele, il quale al vedere e in questo ein qualche altro passo della mia Storia rilevato qualche picciolo neo nelsuo Secolo d'Augusto, invece di risentirsene, come avrebbe fatto per av-ventura qualche altro a lui di molto inferiore in sapere, si compiacque discrivermi una lettera in cui con rara modestia mi rendeva delle censure fat-tegli que' ringraziamenti medesimi che si farebbono per singolar benefizioda alcun ricevuto. Se tutti gli uomini di lettere avessero tai sentimenti e so-migliante maniera di pensare, quanto miglior sarebbe lo stato della lettera-ria repubblica?

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sotto degli occhi un filosofico quadro che una esatta sto-ria. E saravvi forse chi brami in lui un più giusto ordindi cose, e non approvi, a cagion d'esempio, che la seriedegli storici che nel secolo d'Augusto fiorirono, comincida Svetonio che visse a' tempi di Traiano e di Adriano, ecomprenda ancora Giustino scrittore di età incerta, maposteriore anche a Svetonio. Comunque sia, non saràforse spiacevole il vedere uno stesso argomento trattatoper diversa maniera; e se questa mia Storia non sarà de-gna di venire al confronto con quella del dotto nominatoautore, io compiacerommi che giovi almeno a rilevarnemaggiormente le bellezze e i pregi (53).Molti altri autori hanno qual più qual meno illustrata lastoria letteraria di questi tempi de' quali entriamo a par-lare; e forse più di tutti Gian Niccolò Funcio nel suotrattato De virili ætate linguæ latinæ stampato a Mar-purgh l'an. 1736. Io non ho lasciato di consultarli, ma hogiudicato insieme che gli antichi scrittori dovessero es-ser la principal mia scorta in queste ricerche; e che nonmi fosse lecito di affermar cosa alcuna che alla loro au-torità non si appoggiasse. Il che da alcuni, e dal Funcio53 Io debbo qui rendere una pubblica testimonianza di riconoscenza e di sti-

ma al ch. Sig. Co. Benvenuto di S. Rafaele, il quale al vedere e in questo ein qualche altro passo della mia Storia rilevato qualche picciolo neo nelsuo Secolo d'Augusto, invece di risentirsene, come avrebbe fatto per av-ventura qualche altro a lui di molto inferiore in sapere, si compiacque discrivermi una lettera in cui con rara modestia mi rendeva delle censure fat-tegli que' ringraziamenti medesimi che si farebbono per singolar benefizioda alcun ricevuto. Se tutti gli uomini di lettere avessero tai sentimenti e so-migliante maniera di pensare, quanto miglior sarebbe lo stato della lettera-ria repubblica?

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singolarmente, non sempre si è fatto.

CAPO IPoesia

I. La poesia de' Romani era stata finora co-munemente una semplice imitazione diquella de' Greci. I tragici e i comici altroquasi non avean fatto che recar dal greco in

latino qual più qual meno i tragici e i comici greci. Mavergognaronsi finalmente di parere schiavi di una nazio-ne cui avevano soggiogata. C. Lucilio cavalier romanoche accompagnato avea il giovane Scipione nella guerradi Numanzia (Vell. Paterc. Hist. l. 2, c. 9), e che fu pro-zio materno del gran Pompeo (Porphir. in Comm. ad l.2, Sat. 1 Hor.), un nuovo genere di poetico componi-mento in versi esametri tra' Latini introdusse, di cui nonavea tra' Greci esempio alcuno, cioè la satira. Io non sa-prei dire per quale ragione l'ab. le Moine abbia a questogenere di componimento dichiarata guerra (Considera-tions, ec. l. 27, ec.), escludendolo con troppo severa sen-tenza dal ruolo de' componimenti poetici, e affermandoche per esso, non che abbellirsi, si disonora anzi la poe-sia. Ma qual conto si debba fare di tal giudizio, si com-prenderà facilmente al riflettere, ch'egli altre poesie nonriconosce fuorchè il dramma, l'ode e il poema epico.Quindi le satire di Lucilio, di Orazio e di altri poeti po-tranno agevolmente prender conforto dall'avere a com-

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Lucilio pri-mo scrittor di satire.

singolarmente, non sempre si è fatto.

CAPO IPoesia

I. La poesia de' Romani era stata finora co-munemente una semplice imitazione diquella de' Greci. I tragici e i comici altroquasi non avean fatto che recar dal greco in

latino qual più qual meno i tragici e i comici greci. Mavergognaronsi finalmente di parere schiavi di una nazio-ne cui avevano soggiogata. C. Lucilio cavalier romanoche accompagnato avea il giovane Scipione nella guerradi Numanzia (Vell. Paterc. Hist. l. 2, c. 9), e che fu pro-zio materno del gran Pompeo (Porphir. in Comm. ad l.2, Sat. 1 Hor.), un nuovo genere di poetico componi-mento in versi esametri tra' Latini introdusse, di cui nonavea tra' Greci esempio alcuno, cioè la satira. Io non sa-prei dire per quale ragione l'ab. le Moine abbia a questogenere di componimento dichiarata guerra (Considera-tions, ec. l. 27, ec.), escludendolo con troppo severa sen-tenza dal ruolo de' componimenti poetici, e affermandoche per esso, non che abbellirsi, si disonora anzi la poe-sia. Ma qual conto si debba fare di tal giudizio, si com-prenderà facilmente al riflettere, ch'egli altre poesie nonriconosce fuorchè il dramma, l'ode e il poema epico.Quindi le satire di Lucilio, di Orazio e di altri poeti po-tranno agevolmente prender conforto dall'avere a com-

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Lucilio pri-mo scrittor di satire.

pagne in questo esilio dal poetico regno l'elegie di Ti-bullo, di Properzio, di Ovidio, gli epigrammi di Catullo,e l'egloghe ancora e le georgiche di Virgilio. Or tornan-do a Lucilio, nacque egli, secondo la Cronica eusebiana,l'an. 605 di Roma, e morì in Napoli, secondo la stessaCronaca, l'an. 651 in età di quarantasei anni (54). Egli èvero che Orazio di lui favellando usa l'aggiunto senis (l.2, sat. 1); ma questa voce può ancor dinotare uomo vis-suto a' tempi antichi. Ch'egli fosse il primo scrittor di sa-tire, chiaramente lo affermano Orazio (ib.), Quintiliano(Instit. l. 10, c. 1), e Plinio il vecchio (in præf. ad Hist.Nat.), le quali autorità hanno presso di me assai maggiorforza che non tutte le ragioni dal Dacier allegate (préfa-ce au IV tome d'Hor.) a provare il contrario. Veggiamoper qual maniera ne parli Orazio che più notizie ancoraci somministra intorno a questo poeta.

...............Quid? cum est Lucilius ausus Primus in hunc operis componere carmina morem,

54 L'epoche della nascita e della morte di Lucilio segnate dalla Cronica euse-biana sono soggette a qualche difficoltà. Abbiamo da Velleio Patercolo (l.2, c. 9) ch'egli accompagnò Scipione all'assedio di Numanzia, che comin-ciò l'anno 619, mentre Lucilio non avrebbe contato che quattordici anni,età non ancora opportuna alla milizia, e molto più che sappiamo da Appia-no Alessandrino, che Scipione oltre le antiche truppe e quelle della città ede' re alleati non condusse seco che 500 suoi clienti ed amici, fra' quali nonè probabile che volesse avere un fanciullo. Per ciò che appartiene alla mor-te, Lucilio fa menzione (Edit. Comin. p. 63) della legge suntuaria di Lici-nio, e se questa fu da lui pubblicata, come pensano alcuni, nel suo consola-to l'anno 656, convien dire che almeno fino a quel tempo vivesse Lucilio.Ma altri vogliono ch'ei la pubblicasse essendo tribuno nel 651, nel qualanno stesso si fissa la morte del poeta. A me non è lecito il trattenermi alungo su tai minutezze che da altri potrannosi più agiatamente esaminare.

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pagne in questo esilio dal poetico regno l'elegie di Ti-bullo, di Properzio, di Ovidio, gli epigrammi di Catullo,e l'egloghe ancora e le georgiche di Virgilio. Or tornan-do a Lucilio, nacque egli, secondo la Cronica eusebiana,l'an. 605 di Roma, e morì in Napoli, secondo la stessaCronaca, l'an. 651 in età di quarantasei anni (54). Egli èvero che Orazio di lui favellando usa l'aggiunto senis (l.2, sat. 1); ma questa voce può ancor dinotare uomo vis-suto a' tempi antichi. Ch'egli fosse il primo scrittor di sa-tire, chiaramente lo affermano Orazio (ib.), Quintiliano(Instit. l. 10, c. 1), e Plinio il vecchio (in præf. ad Hist.Nat.), le quali autorità hanno presso di me assai maggiorforza che non tutte le ragioni dal Dacier allegate (préfa-ce au IV tome d'Hor.) a provare il contrario. Veggiamoper qual maniera ne parli Orazio che più notizie ancoraci somministra intorno a questo poeta.

...............Quid? cum est Lucilius ausus Primus in hunc operis componere carmina morem,

54 L'epoche della nascita e della morte di Lucilio segnate dalla Cronica euse-biana sono soggette a qualche difficoltà. Abbiamo da Velleio Patercolo (l.2, c. 9) ch'egli accompagnò Scipione all'assedio di Numanzia, che comin-ciò l'anno 619, mentre Lucilio non avrebbe contato che quattordici anni,età non ancora opportuna alla milizia, e molto più che sappiamo da Appia-no Alessandrino, che Scipione oltre le antiche truppe e quelle della città ede' re alleati non condusse seco che 500 suoi clienti ed amici, fra' quali nonè probabile che volesse avere un fanciullo. Per ciò che appartiene alla mor-te, Lucilio fa menzione (Edit. Comin. p. 63) della legge suntuaria di Lici-nio, e se questa fu da lui pubblicata, come pensano alcuni, nel suo consola-to l'anno 656, convien dire che almeno fino a quel tempo vivesse Lucilio.Ma altri vogliono ch'ei la pubblicasse essendo tribuno nel 651, nel qualanno stesso si fissa la morte del poeta. A me non è lecito il trattenermi alungo su tai minutezze che da altri potrannosi più agiatamente esaminare.

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Detrahere et pellem, nitidus qua quisque per oraCederet, introrsum turpis? Natii Lælius, aut qui Duxit ali oppressa meritum Chartagine nomen, Ingenio offensi? aut læso doluere Metello? Famosisque Lupo cooperto versibus? Atqui Primores populi arripuit populumque tributim: Scilicet uni æquus virtuti, atque ejus amicis.Quia ubi se a vulgo et scena in secreta remorant Virtus Scipiadæ et mitis sapientia Læli, Nugari cum illo, et discincti ludere, donec Decoqueretur olus, soliti.

Da' quali versi noi raccogliamo che piene di amaro fieleerano le satire di Lucilio; ch'egli non la perdonava a chiche fosse, e ciò non ostante godeva dell'amicizia de' piùragguardevoli cittadini, quali erano Lelio e Scipione.

II. Per ciò nondimeno ch'è dello stil di Luci-lio, confessa Orazio che non era esso colto

abbastanza, e che la fretta di scrivere e l'insofferenzadella fatica non gli permetteva di usare, come erad'uopo, la lima a ripulire i suoi versi. Ecco come egli neparla (l. 1, sat. 4):

Hinc omnis pendet Lucilius, hosce sequutus, Mutatis tantum pedibus numerisque facetus, Emunctæ naris, durus componere versus. Nam fuit hoc vitiosus; in hora sæpe ducentos, Ut magnum, versus dictabat, stans pede in uno. Quum flueret lutulentus, erat quod tollere velles;Garrulus atque piger scribendi ferre laborem

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Loro stile.

Detrahere et pellem, nitidus qua quisque per oraCederet, introrsum turpis? Natii Lælius, aut qui Duxit ali oppressa meritum Chartagine nomen, Ingenio offensi? aut læso doluere Metello? Famosisque Lupo cooperto versibus? Atqui Primores populi arripuit populumque tributim: Scilicet uni æquus virtuti, atque ejus amicis.Quia ubi se a vulgo et scena in secreta remorant Virtus Scipiadæ et mitis sapientia Læli, Nugari cum illo, et discincti ludere, donec Decoqueretur olus, soliti.

Da' quali versi noi raccogliamo che piene di amaro fieleerano le satire di Lucilio; ch'egli non la perdonava a chiche fosse, e ciò non ostante godeva dell'amicizia de' piùragguardevoli cittadini, quali erano Lelio e Scipione.

II. Per ciò nondimeno ch'è dello stil di Luci-lio, confessa Orazio che non era esso colto

abbastanza, e che la fretta di scrivere e l'insofferenzadella fatica non gli permetteva di usare, come erad'uopo, la lima a ripulire i suoi versi. Ecco come egli neparla (l. 1, sat. 4):

Hinc omnis pendet Lucilius, hosce sequutus, Mutatis tantum pedibus numerisque facetus, Emunctæ naris, durus componere versus. Nam fuit hoc vitiosus; in hora sæpe ducentos, Ut magnum, versus dictabat, stans pede in uno. Quum flueret lutulentus, erat quod tollere velles;Garrulus atque piger scribendi ferre laborem

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Loro stile.

Scribendi recte; nam ut multum, nil moror.

E perchè ad alcuni pareva che Orazio forse per invidiosarivalità riprendesse lo stil di Lucilio, altrove difendesida tale accusa e mostra che Lucilio stesso, se allor vi-vesse, avrebbe ripuliti meglio i suoi versi (ib. sat. 10):

......Fuerit Lucilius, inquam, Comis et urbanus: fuerit limatior idem Quam rudis; et græcis intacti carminis auctor,

Quamque poetarum seniorum turba Sed ille, Si foret hoc nostrum fato dilatus in ævum, Detereret sibi multa, recideret omne, quod ultraPerfectum traheretur, et in versu faciendo Sæpe caput scaberet, vivos et roderet ungues.

Ma Quintiliano, il quale se non uguagliò nello stile l'ele-ganza de' più antichi scrittori, se ne mostra però finissi-mo conoscitore, si dichiara di sentimento contrario adOrazio: Satyra quidem, dic'egli (loc. cit.), tota nostraest, in qua primus insignem, laudem adeptus est Luci-lius; qui quosdam ita deditos sibi adhuc habet amato-res, ut eum non ejusdem modo operis auctoribus, sedomnibus poetis proeferre non dubitent. Ego quantum abillis, tantum ab Horatio dissentio, qui Lucilium fluerelutulentum, et esse aliquid, quod tollere possis, putat.Nam et eruditio in eo mira et libertas, atque indeacerbitas et abunde salis. Noi non dobbiamo e, ove pureil volessimo, non possiamo entrar giudici in tal quistio-ne, poichè de' trenta libri di satire, ch'egli avea compo-sti, appena ci son rimasti pochi frammenti. Altre poesie

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Scribendi recte; nam ut multum, nil moror.

E perchè ad alcuni pareva che Orazio forse per invidiosarivalità riprendesse lo stil di Lucilio, altrove difendesida tale accusa e mostra che Lucilio stesso, se allor vi-vesse, avrebbe ripuliti meglio i suoi versi (ib. sat. 10):

......Fuerit Lucilius, inquam, Comis et urbanus: fuerit limatior idem Quam rudis; et græcis intacti carminis auctor,

Quamque poetarum seniorum turba Sed ille, Si foret hoc nostrum fato dilatus in ævum, Detereret sibi multa, recideret omne, quod ultraPerfectum traheretur, et in versu faciendo Sæpe caput scaberet, vivos et roderet ungues.

Ma Quintiliano, il quale se non uguagliò nello stile l'ele-ganza de' più antichi scrittori, se ne mostra però finissi-mo conoscitore, si dichiara di sentimento contrario adOrazio: Satyra quidem, dic'egli (loc. cit.), tota nostraest, in qua primus insignem, laudem adeptus est Luci-lius; qui quosdam ita deditos sibi adhuc habet amato-res, ut eum non ejusdem modo operis auctoribus, sedomnibus poetis proeferre non dubitent. Ego quantum abillis, tantum ab Horatio dissentio, qui Lucilium fluerelutulentum, et esse aliquid, quod tollere possis, putat.Nam et eruditio in eo mira et libertas, atque indeacerbitas et abunde salis. Noi non dobbiamo e, ove pureil volessimo, non possiamo entrar giudici in tal quistio-ne, poichè de' trenta libri di satire, ch'egli avea compo-sti, appena ci son rimasti pochi frammenti. Altre poesie

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ancora egli compose che si possono vedere annoveratedal Fabricio (Bibl. lat. l. 4, c. 1) e dal Vossio (De Poet.lat. c.,). Pare innoltre che un poema, o qualche altropoetico componimento egli scrivesse in lode di Scipio-ne, perciocchè Orazio introduce uno che così gli ragiona(l. 2, Sat. 1):

Attamen et justum poteras et stribere fortemScipiadem, ut sapiens Lucilius.

Ma di ciò non trovasi altra menzione presso gli antichiscrittori.

III. Assai maggiore ornamento ricevette lalatina poesia da T. Lucrezio Caro. Nacqueegli, secondo la Cronaca d'Eusebio, l'anno

secondo dell'olimp. CLXXI, cioè l'anno di Roma 658,undici anni dopo la nascita di Cicerone, e morì l'anno diRoma 702 in età di quarantaquattro anni. Ma Donato,scrittore della Vita di Virgilio a quest'epoca contradice;perciocchè egli afferma che "Virgilio nell'anno dicias-settesimo dell'età sua prese la viril toga, essendo per laseconda volta consoli di que' medesimi nel primo conso-lato de' quali egli era nato (cioè Pompeo e Crasso), e av-venne che in quel giorno medesimo morì Lucrezio". OrPompeo e Crasso furon consoli la seconda volta l'an.698, e converrebbe dire perciò o che Lucrezio morissein età di quarant'anni, se era nato l'anno 658, o ch'ei na-scesse l'anno 654, se morì veramente in età di 44 anni.

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Notizie di Lucrezio.

ancora egli compose che si possono vedere annoveratedal Fabricio (Bibl. lat. l. 4, c. 1) e dal Vossio (De Poet.lat. c.,). Pare innoltre che un poema, o qualche altropoetico componimento egli scrivesse in lode di Scipio-ne, perciocchè Orazio introduce uno che così gli ragiona(l. 2, Sat. 1):

Attamen et justum poteras et stribere fortemScipiadem, ut sapiens Lucilius.

Ma di ciò non trovasi altra menzione presso gli antichiscrittori.

III. Assai maggiore ornamento ricevette lalatina poesia da T. Lucrezio Caro. Nacqueegli, secondo la Cronaca d'Eusebio, l'anno

secondo dell'olimp. CLXXI, cioè l'anno di Roma 658,undici anni dopo la nascita di Cicerone, e morì l'anno diRoma 702 in età di quarantaquattro anni. Ma Donato,scrittore della Vita di Virgilio a quest'epoca contradice;perciocchè egli afferma che "Virgilio nell'anno dicias-settesimo dell'età sua prese la viril toga, essendo per laseconda volta consoli di que' medesimi nel primo conso-lato de' quali egli era nato (cioè Pompeo e Crasso), e av-venne che in quel giorno medesimo morì Lucrezio". OrPompeo e Crasso furon consoli la seconda volta l'an.698, e converrebbe dire perciò o che Lucrezio morissein età di quarant'anni, se era nato l'anno 658, o ch'ei na-scesse l'anno 654, se morì veramente in età di 44 anni.

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Notizie di Lucrezio.

Benchè questo scrittore ancora contradice a se stesso.Dice che Virgilio era nato nel primo consolato di Pom-peo e di Crasso, e che nel secondo lor consolato in età di17 anni prese la toga virile. Or questi furon consoli pri-ma l'anno 683, poscia l'anno 698, e quindi non diciasset-te, ma quindici anni soli dovea allor contare Virgilio. IlBayle due intere colonne del suo Dizionario ha impiega-te a disputare sull'epoca della vita e della morte di Lu-crezio. Io accenno i diversi sentimenti, e lascio cheognun segua, qual più gli piace. Della maniera di suamorte così racconta la stessa Cronaca eusebiana: "Quin-di da un amoroso beveraggio tratto in furore, avendo ne-gli intervalli di sua pazzia scritti alcuni libri che da Ci-cerone furon poscia emendati, di sua mano si uccisel'anno quarantesimo quarto di sua vita". Questo beve-raggio amoroso appena sembra credibile al Fabricio(Bibl. lat. l. 1. c. 4). E certo il non aversi altro indizio dital fatto che nella Cronaca eusebiana, non ci toglie ognidubbio che non sia questa per avventura una falsa popo-lar tradizione. Niun altro antico autore abbiam parimentia testimonio di ciò che nella Cronaca si afferma, cioèche il poema di Lucrezio fosse da Cicerone corretto edemendato. Egli è vero però che nelle opere a noi perve-nute degli antichi autori appena troviamo alcuna men-zion di Lucrezio; onde non è maraviglia che delle circo-stanze di sua vita nulla essi ci abbiano tramandato.

IV. Checchè sia di ciò, abbiam il poema De

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Pregi e di-fetti del suopoema.

Benchè questo scrittore ancora contradice a se stesso.Dice che Virgilio era nato nel primo consolato di Pom-peo e di Crasso, e che nel secondo lor consolato in età di17 anni prese la toga virile. Or questi furon consoli pri-ma l'anno 683, poscia l'anno 698, e quindi non diciasset-te, ma quindici anni soli dovea allor contare Virgilio. IlBayle due intere colonne del suo Dizionario ha impiega-te a disputare sull'epoca della vita e della morte di Lu-crezio. Io accenno i diversi sentimenti, e lascio cheognun segua, qual più gli piace. Della maniera di suamorte così racconta la stessa Cronaca eusebiana: "Quin-di da un amoroso beveraggio tratto in furore, avendo ne-gli intervalli di sua pazzia scritti alcuni libri che da Ci-cerone furon poscia emendati, di sua mano si uccisel'anno quarantesimo quarto di sua vita". Questo beve-raggio amoroso appena sembra credibile al Fabricio(Bibl. lat. l. 1. c. 4). E certo il non aversi altro indizio dital fatto che nella Cronaca eusebiana, non ci toglie ognidubbio che non sia questa per avventura una falsa popo-lar tradizione. Niun altro antico autore abbiam parimentia testimonio di ciò che nella Cronaca si afferma, cioèche il poema di Lucrezio fosse da Cicerone corretto edemendato. Egli è vero però che nelle opere a noi perve-nute degli antichi autori appena troviamo alcuna men-zion di Lucrezio; onde non è maraviglia che delle circo-stanze di sua vita nulla essi ci abbiano tramandato.

IV. Checchè sia di ciò, abbiam il poema De

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Pregi e di-fetti del suopoema.

rerum Natura, da lui composto, che basta a renderne ilnome immortale. Niuno eravi stato ancor tra' Romani,che un filosofico sistema avesse preso a spiegar poetan-do. Lucrezio il primo ardì di cimentarsi a tale impresa,ed egli stesso se ne dà il vanto dicendo al principio delquarto libro:

Avia Pieridum peragro loca nullius ante Trita solo: juvat integros accedere fontes, Atque haurire, juvatque novos decerpere flores;Insignemque meo capiti petere inde coronam, Unde prius nulli velarint tempora Musæ.

Così avesse egli trascelto un miglior sistema, ma si ap-pigliò al peggior di tutti in ciò che appartiene a morale,cioè a quel di Epicuro, e quindi negò arditamente eProvvidenza e Dio, e nel piacere ripose tutta l'umana fe-licità. Il Bayle nondimeno, e dopo lui qualche altroscrittor moderno ne hanno voluto fare l'apologia, e os-servano che egregie massime regolatrici del buon costu-me s'incontrano in questo poema, e che Lucrezio la solasuperstizione e il ridicoloso culto di tanti iddii, quanti ven'avea al mondo, ha voluto combattere. Ma che giovanle altre massime, se quella si toglie ch'è il fondamento ditutte, la religione? E uno che ogni divinità vuol toglierdi mezzo, nè provvidenza alcuna ammette, nè alcunavita avvenire, si può egli dire che alla sola superstizionedichiari guerra? A me però non appartiene l'entrare incontroversie di tal natura, che dallo scopo di quest'operason troppo aliene. Io osserverò in vece che noi dobbia-

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rerum Natura, da lui composto, che basta a renderne ilnome immortale. Niuno eravi stato ancor tra' Romani,che un filosofico sistema avesse preso a spiegar poetan-do. Lucrezio il primo ardì di cimentarsi a tale impresa,ed egli stesso se ne dà il vanto dicendo al principio delquarto libro:

Avia Pieridum peragro loca nullius ante Trita solo: juvat integros accedere fontes, Atque haurire, juvatque novos decerpere flores;Insignemque meo capiti petere inde coronam, Unde prius nulli velarint tempora Musæ.

Così avesse egli trascelto un miglior sistema, ma si ap-pigliò al peggior di tutti in ciò che appartiene a morale,cioè a quel di Epicuro, e quindi negò arditamente eProvvidenza e Dio, e nel piacere ripose tutta l'umana fe-licità. Il Bayle nondimeno, e dopo lui qualche altroscrittor moderno ne hanno voluto fare l'apologia, e os-servano che egregie massime regolatrici del buon costu-me s'incontrano in questo poema, e che Lucrezio la solasuperstizione e il ridicoloso culto di tanti iddii, quanti ven'avea al mondo, ha voluto combattere. Ma che giovanle altre massime, se quella si toglie ch'è il fondamento ditutte, la religione? E uno che ogni divinità vuol toglierdi mezzo, nè provvidenza alcuna ammette, nè alcunavita avvenire, si può egli dire che alla sola superstizionedichiari guerra? A me però non appartiene l'entrare incontroversie di tal natura, che dallo scopo di quest'operason troppo aliene. Io osserverò in vece che noi dobbia-

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mo a Lucrezio la tradizione di molte opinioni degli anti-chi filosofi, delle quali altrimenti non rimarrebbe forsememoria alcuna. E alcune cose ancora noi vi veggiamofelicemente spiegare in quella stessa maniera che da' piùdotti filosofi de' nostri giorni si sogliono dichiarare.Odasi come fra le altre cose espone felicemente Lucre-zio, e in modo, dice m. Dutens (Recherches sur les dé-couvertes des Modernes t. 1. p. 139), che farebbe onoreal più sperimentato fisico di quest'età, la ragione delladiversa velocità con cui cadono i corpi:

Nam per aquas quæcumque cadunt, atque æra deorsum, Hæc pro ponderibus casus celerare necesse est:Propterea quia corpus aquæ, naturaque tenuis Æris haud possunt æque rem quamque morari, Sed citius cedurit gravioribus exsuperata. At contra nulli de nulla parte, neque ullo Tempore inane potest vacuum subsistere rei, Quin, sua quod natura petit, concedere pergat. Omnia quipropter debent per inane quietum Atque ponderibus non æquis concita ferri (l. 2. v. 225 ec.).

V. Lucrezio si annovera a ragione tra' piùeccellenti poeti. Vedesi in lui ancora qual-che affumicato avanzo dell'antica rozzezza;ma l'eleganza, la grazia, la proprietà diespressione, che in lui trovasi comunemen-

te, è singolare, e tanto più maravigliosa, quanto più dif-ficile era l'argomento da lui preso a trattare. Quindi giu-stamente disse di lui Ovidio (l. 1. Amor. El. 15):

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Suo stile, e poemi fatti a imitazio-ne di esso.

mo a Lucrezio la tradizione di molte opinioni degli anti-chi filosofi, delle quali altrimenti non rimarrebbe forsememoria alcuna. E alcune cose ancora noi vi veggiamofelicemente spiegare in quella stessa maniera che da' piùdotti filosofi de' nostri giorni si sogliono dichiarare.Odasi come fra le altre cose espone felicemente Lucre-zio, e in modo, dice m. Dutens (Recherches sur les dé-couvertes des Modernes t. 1. p. 139), che farebbe onoreal più sperimentato fisico di quest'età, la ragione delladiversa velocità con cui cadono i corpi:

Nam per aquas quæcumque cadunt, atque æra deorsum, Hæc pro ponderibus casus celerare necesse est:Propterea quia corpus aquæ, naturaque tenuis Æris haud possunt æque rem quamque morari, Sed citius cedurit gravioribus exsuperata. At contra nulli de nulla parte, neque ullo Tempore inane potest vacuum subsistere rei, Quin, sua quod natura petit, concedere pergat. Omnia quipropter debent per inane quietum Atque ponderibus non æquis concita ferri (l. 2. v. 225 ec.).

V. Lucrezio si annovera a ragione tra' piùeccellenti poeti. Vedesi in lui ancora qual-che affumicato avanzo dell'antica rozzezza;ma l'eleganza, la grazia, la proprietà diespressione, che in lui trovasi comunemen-

te, è singolare, e tanto più maravigliosa, quanto più dif-ficile era l'argomento da lui preso a trattare. Quindi giu-stamente disse di lui Ovidio (l. 1. Amor. El. 15):

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Suo stile, e poemi fatti a imitazio-ne di esso.

Carmina divini tunc sunt moritura Lucreti, Exitio terras cum dabit una dies.

E degno d'eterna memoria egli è ancora per questo, chea lui in certa guisa dobbiamo molti eccellenti poemi fi-losofici che in questi ultimi tempi a imitazione di Lucre-zio sono stati composti, e due singolarmente che sem-brano sopra gli altri saliti in pregio e in fama, l'uno fattoa impugnazion di Lucrezio, cioè l'Anti-Lucrezio del car-dinale di Polignac, l'altro a imitazion dello stesso cioè laFilosofia Moderna del ch. monsig. Stay, il quale un si-stema troppo migliore, cioé quello di Newton, presoavendo a spiegare in versi, ha fatto vedere fin dove pos-sa giungere il valore di un poeta nello spargere di tuttele poetiche grazie le più spinose ed intralciate quistioni,e nel soggettare la poesia a tutta la precisione e la forzadelle filosofiche prove e delle matematiche dimostrazio-ni.

VI. Moltissime son le edizioni che abbiamdi Lucrezio, e molti son quelli che il poemane hanno o illustrato con comenti, o nellevolgari lingue recato. Si posson veder tutti

presso il Fabricio (l. c.). Noi ne accenneremo al fine diquesto tomo le principali edizioni. Qui rammenterò solol'elegantissima traduzione italiana fattane in versi scioltida Alessandro Marchetti, a cui non credo che abbianogli oltramontani a contrapporre la somigliante. L'ab.

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Traduzione fattane dal Marchetti.

Carmina divini tunc sunt moritura Lucreti, Exitio terras cum dabit una dies.

E degno d'eterna memoria egli è ancora per questo, chea lui in certa guisa dobbiamo molti eccellenti poemi fi-losofici che in questi ultimi tempi a imitazione di Lucre-zio sono stati composti, e due singolarmente che sem-brano sopra gli altri saliti in pregio e in fama, l'uno fattoa impugnazion di Lucrezio, cioè l'Anti-Lucrezio del car-dinale di Polignac, l'altro a imitazion dello stesso cioè laFilosofia Moderna del ch. monsig. Stay, il quale un si-stema troppo migliore, cioé quello di Newton, presoavendo a spiegare in versi, ha fatto vedere fin dove pos-sa giungere il valore di un poeta nello spargere di tuttele poetiche grazie le più spinose ed intralciate quistioni,e nel soggettare la poesia a tutta la precisione e la forzadelle filosofiche prove e delle matematiche dimostrazio-ni.

VI. Moltissime son le edizioni che abbiamdi Lucrezio, e molti son quelli che il poemane hanno o illustrato con comenti, o nellevolgari lingue recato. Si posson veder tutti

presso il Fabricio (l. c.). Noi ne accenneremo al fine diquesto tomo le principali edizioni. Qui rammenterò solol'elegantissima traduzione italiana fattane in versi scioltida Alessandro Marchetti, a cui non credo che abbianogli oltramontani a contrapporre la somigliante. L'ab.

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Traduzione fattane dal Marchetti.

Lazzarini una severa critica ha pubblicato di questa ce-lebre traduzione (Osservazioni sopra la Merope, ec.)tacciandola qual meno esatta, e il traduttor riprendendocome non abbastanza versato nel sistema di Epicuro;anzi alcuni passi da se tradotti ci ha egli dati come mi-gliori assai di que' del Marchetti. Ma questa critica, daqualunque ragione ella movesse, non ha avuto effetto enulla ha scemato la stima di cui la traduzion del Mar-chetti ha sempre goduto. Così avesse questi alla religio-ne e al costume provveduto più saggiamente, e i più pe-ricolosi e seducenti passi di questo poema non avesseposto in maggior luce che non conveniva, o gli avessealmeno con opportune annotazioni impugnati. Forse unegregio antidoto avrebbevi ei contrapposto, se avessepotuto condurre a fine un suo filosofico poema a cuierasi accinto, ma che forse dalla morte gli fu vietato fi-nire. Il solo principio ne abbiamo nel Giornale d'Italia(t. 21. p. 258) (55).

VII. Pochi anni prima di Lucrezio, cioèl'anno di Roma 696, se creder vogliamo allaCronaca eusebiana, era morto C. ValerioCatullo in età di soli 30 anni. Ma quest'epo-

55 Un'altra versione del poema di Lucrezio ci ha data recentemente l'ab. Ra-faele Pastore, di cui non posso dar distinta contezza, non avendola maiavuta sott'occhio: così pure altre versioni abbiamo in questi ultimi anniavute di altri poeti. Ma non è di quest'opera il darne un catalogo.

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Epoche del-la vita diCatullo.

Lazzarini una severa critica ha pubblicato di questa ce-lebre traduzione (Osservazioni sopra la Merope, ec.)tacciandola qual meno esatta, e il traduttor riprendendocome non abbastanza versato nel sistema di Epicuro;anzi alcuni passi da se tradotti ci ha egli dati come mi-gliori assai di que' del Marchetti. Ma questa critica, daqualunque ragione ella movesse, non ha avuto effetto enulla ha scemato la stima di cui la traduzion del Mar-chetti ha sempre goduto. Così avesse questi alla religio-ne e al costume provveduto più saggiamente, e i più pe-ricolosi e seducenti passi di questo poema non avesseposto in maggior luce che non conveniva, o gli avessealmeno con opportune annotazioni impugnati. Forse unegregio antidoto avrebbevi ei contrapposto, se avessepotuto condurre a fine un suo filosofico poema a cuierasi accinto, ma che forse dalla morte gli fu vietato fi-nire. Il solo principio ne abbiamo nel Giornale d'Italia(t. 21. p. 258) (55).

VII. Pochi anni prima di Lucrezio, cioèl'anno di Roma 696, se creder vogliamo allaCronaca eusebiana, era morto C. ValerioCatullo in età di soli 30 anni. Ma quest'epo-

55 Un'altra versione del poema di Lucrezio ci ha data recentemente l'ab. Ra-faele Pastore, di cui non posso dar distinta contezza, non avendola maiavuta sott'occhio: così pure altre versioni abbiamo in questi ultimi anniavute di altri poeti. Ma non è di quest'opera il darne un catalogo.

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Epoche del-la vita diCatullo.

ca non par sicura. Lascio da parte l'opinion singolare diGiuseppe Scaligero il qual vuole (Animadv. in Euseb.)che Catullo morisse solo dopo l'anno 737, opinione chelungamente è stata confutata dal Bayle (Diction. art.,"Catullus"). Certamente però fino all'an. 706 dovette eivivere, poichè accenna il consolato di Vatinio, che caddeappunto in quell'anno, così dicendo:

Per consulatum pejerat Vatinius (Carm. 52).Che in Verona precisamente e non in Sirmione egli na-scesse, lo ha provato il m. Maffei (Verona illustr. P. 2.lib. 1), presso del quale ancora più cose si posson vedereintorno alla famiglia e alla condizion di Catullo (56). Pareche il più de' suoi giorni ei passasse in Roma, e che inuna sua causa difeso fosse da Cicerone, a cui perciò egliscrisse un suo epigramma, nel quale col lodare espressa-mente Cicerone (Carm. 49) come ottimo patrocinatoresembra accennare ch'ei ne provasse l'effetto. Da' suoiversi medesimi si raccoglie ch'egli col pretore Memmiofu in Bitinia. Sembra però ch'egli punto non aspirasse aipubblici onori; e gli stessi suoi versi troppo chiaramenteci mostrano che i più molli piaceri e gli amori più diso-nesti, de' quali bruttamente macchiò le sue poesie, eranoil solo oggetto de' suoi pensieri. Piacevasi egli ancora dimordere altrui; nè perdonò a Cesare stesso, il quale,come narra Svetonio (in Julio c. 73), benchè ne avesse56 Ha voluto, sembra, scherzare il sig. co. Giovio quando tra' i suoi Illustri

Comaschi ha annoverato Catullo, accennando che non mancherebbero ar-gomenti a provarlo (p. 336). Egli ha una buona dose di un lodevole amorpatriottico. Ma io non cederò mai ch'ei se ne lasci sedurre a tal segno.

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ca non par sicura. Lascio da parte l'opinion singolare diGiuseppe Scaligero il qual vuole (Animadv. in Euseb.)che Catullo morisse solo dopo l'anno 737, opinione chelungamente è stata confutata dal Bayle (Diction. art.,"Catullus"). Certamente però fino all'an. 706 dovette eivivere, poichè accenna il consolato di Vatinio, che caddeappunto in quell'anno, così dicendo:

Per consulatum pejerat Vatinius (Carm. 52).Che in Verona precisamente e non in Sirmione egli na-scesse, lo ha provato il m. Maffei (Verona illustr. P. 2.lib. 1), presso del quale ancora più cose si posson vedereintorno alla famiglia e alla condizion di Catullo (56). Pareche il più de' suoi giorni ei passasse in Roma, e che inuna sua causa difeso fosse da Cicerone, a cui perciò egliscrisse un suo epigramma, nel quale col lodare espressa-mente Cicerone (Carm. 49) come ottimo patrocinatoresembra accennare ch'ei ne provasse l'effetto. Da' suoiversi medesimi si raccoglie ch'egli col pretore Memmiofu in Bitinia. Sembra però ch'egli punto non aspirasse aipubblici onori; e gli stessi suoi versi troppo chiaramenteci mostrano che i più molli piaceri e gli amori più diso-nesti, de' quali bruttamente macchiò le sue poesie, eranoil solo oggetto de' suoi pensieri. Piacevasi egli ancora dimordere altrui; nè perdonò a Cesare stesso, il quale,come narra Svetonio (in Julio c. 73), benchè ne avesse56 Ha voluto, sembra, scherzare il sig. co. Giovio quando tra' i suoi Illustri

Comaschi ha annoverato Catullo, accennando che non mancherebbero ar-gomenti a provarlo (p. 336). Egli ha una buona dose di un lodevole amorpatriottico. Ma io non cederò mai ch'ei se ne lasci sedurre a tal segno.

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contezza, pago nondimeno di una qualunque soddisfa-zione, che gliene diede Catullo, tennelo seco quel giornostesso alla cena e proseguì, come usato avea fin allora,ad alloggiare presso il padre dello stesso poeta, quandonelle sue spedizioni avvenivagli di passar per Verona.Anche su questo fatto lo Scaligero ha mosse alcune dif-ficoltà; ma queste pure ha mostrato il Bayle non esseredi forza alcuna.

VIII. Catullo fu il primo tra' poeti latini checi son rimasti, il quale tanta varietà di metriusasse ne' suoi componimenti, e forse moltidi essi furon da lui primamente introdottinella lingua latina. La grazia e l'eleganza del

suo scrivere è tale, che ne viene a ragione proposto peresemplare. Gellio il disse il più elegante tra' poeti (l. 7,c. 20). Sembra che Ovidio un'ugual gloria conceda aMantova ed a Verona, a quella per essere patria di Virgi-lio, a questa per aver prodotto Catullo:

Mantua Virgilio gaudet, Verona Catullo (l. 3. Amor. el.15). E più chiaramente Marziale:

Tantum magna suo debet Verona Catullo, Quantum parva suo Mantua Virgilio (l. 14, Epigr. 195).

A me sembra però, che alcuni troppo siansi innoltrati enel lodarlo e nell'imitarlo. Io certo non ardirei di ante-

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Giudizio dello stile delle sue poesie.

contezza, pago nondimeno di una qualunque soddisfa-zione, che gliene diede Catullo, tennelo seco quel giornostesso alla cena e proseguì, come usato avea fin allora,ad alloggiare presso il padre dello stesso poeta, quandonelle sue spedizioni avvenivagli di passar per Verona.Anche su questo fatto lo Scaligero ha mosse alcune dif-ficoltà; ma queste pure ha mostrato il Bayle non esseredi forza alcuna.

VIII. Catullo fu il primo tra' poeti latini checi son rimasti, il quale tanta varietà di metriusasse ne' suoi componimenti, e forse moltidi essi furon da lui primamente introdottinella lingua latina. La grazia e l'eleganza del

suo scrivere è tale, che ne viene a ragione proposto peresemplare. Gellio il disse il più elegante tra' poeti (l. 7,c. 20). Sembra che Ovidio un'ugual gloria conceda aMantova ed a Verona, a quella per essere patria di Virgi-lio, a questa per aver prodotto Catullo:

Mantua Virgilio gaudet, Verona Catullo (l. 3. Amor. el.15). E più chiaramente Marziale:

Tantum magna suo debet Verona Catullo, Quantum parva suo Mantua Virgilio (l. 14, Epigr. 195).

A me sembra però, che alcuni troppo siansi innoltrati enel lodarlo e nell'imitarlo. Io certo non ardirei di ante-

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Giudizio dello stile delle sue poesie.

porlo così facilmente a Tibullo, come altri fanno; nè sointendere qual pregio abbiano mai i versi di certi poeti a'quali sembra di aver uguagliato Catullo quando hannoscritto versi di una maravigliosa durezza, perchè Catulloalcuni ne ha di tal fatta. Egli è certo che l'armonia e ladolcezza è una delle pregevoli doti di ogni poesia, checon essa ancora dee distinguersi dall'usata maniera di fa-vellare. E come sono a riprendersi quelli che una perpe-tua monotonia vi introducono, quale comunemente tro-vasi in Ovidio; così non meritan lode coloro che studia-no d'introdurvi un'affettata durezza, e a questa più chealla sceltezza dell'espressioni pongono mente. Alcunihan fatto Catullo autore dell'antico inno intitolato Pervi-gilium Veneris; ma veggasi l'edizione che di esso ha fat-ta il celebre presidente Bouhier, ove egli mostra che lostile non è quale si usava all'età di Cesare e di Augusto,e molto meno è lo stil di Catullo; e conghiettura che siastato composto circa i tempi di Nerva.

IX. Seguendo l'ordin de' tempi dovremmoqui far menzione di Cicerone, il quale nellapoesia ancora volle esercitarsi, e forse conisperanza di averne fama di valoroso poeta.Prese egli in primo luogo, essendo ancora in

età giovanile (De Nat. Deor. l. 2, n. 41), a recare in versiil poema greco di Arato sull'astronomia intitolato Phæ-nomena, e inoltre un altro poema de' Pronostici dellostesso autore. Un poema ancora sulla Vita di Mario

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Poesie di Cicerone inqual pregio debbansi avere.

porlo così facilmente a Tibullo, come altri fanno; nè sointendere qual pregio abbiano mai i versi di certi poeti a'quali sembra di aver uguagliato Catullo quando hannoscritto versi di una maravigliosa durezza, perchè Catulloalcuni ne ha di tal fatta. Egli è certo che l'armonia e ladolcezza è una delle pregevoli doti di ogni poesia, checon essa ancora dee distinguersi dall'usata maniera di fa-vellare. E come sono a riprendersi quelli che una perpe-tua monotonia vi introducono, quale comunemente tro-vasi in Ovidio; così non meritan lode coloro che studia-no d'introdurvi un'affettata durezza, e a questa più chealla sceltezza dell'espressioni pongono mente. Alcunihan fatto Catullo autore dell'antico inno intitolato Pervi-gilium Veneris; ma veggasi l'edizione che di esso ha fat-ta il celebre presidente Bouhier, ove egli mostra che lostile non è quale si usava all'età di Cesare e di Augusto,e molto meno è lo stil di Catullo; e conghiettura che siastato composto circa i tempi di Nerva.

IX. Seguendo l'ordin de' tempi dovremmoqui far menzione di Cicerone, il quale nellapoesia ancora volle esercitarsi, e forse conisperanza di averne fama di valoroso poeta.Prese egli in primo luogo, essendo ancora in

età giovanile (De Nat. Deor. l. 2, n. 41), a recare in versiil poema greco di Arato sull'astronomia intitolato Phæ-nomena, e inoltre un altro poema de' Pronostici dellostesso autore. Un poema ancora sulla Vita di Mario

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Poesie di Cicerone inqual pregio debbansi avere.

compose, e finalmente, oltre altri più brevi componi-menti, un lungo poema diviso almeno in tre libri sulleimprese del suo consolato, nel quale certo non avrà egliperdonato a studio e a diligenza. Ma ottenne egli perciòin poesia quella fama che in altre scienze ottenne meri-tamente? Io so che alcuni anche ne' versi di Cicerone ri-trovano maravigliose bellezze; che questo è privilegiodegli uomini grandi, che grande sembri ad alcuni qua-lunque ancorchè piccola cosa a loro appartenga. Fra glialtri l'ab. Regnier des Marais, nella traduzion francesech'egli ci ha data de' libri de Divinatione, afferma chene' poeti latini, ove se ne tolgano que' di Virgilio, pochiversi vi sono che a que' di Cicerone si possano parago-nare (57). Ma invero niun antico scrittore ci ha parlato diCicerone, come di eccellente poeta; nè grande sollecitu-dine vi è stata di tramandarci i suoi versi, de' quali pocopiù abbiamo che ciò ch'egli in altre sue opere ci ha con-

57 Fra gli ammiratori delle poesie di Cicerone deesi annoverare anche il sig.di Voltaire, il quale nella perfezione al suo Catilina ne dice gran lodi; e nereca in gran saggio alcuni versi che ancor ci rimangono tratti da un suopoema sulle imprese di Mario, in cui descrive un'aquila che ferita da unaserpe contro di essa si volge e la trafigge e la sbrana. Questi versi son cer-tamente assai belli e degni della traduzione leggiadra che il sig. di Voltairene ha fatta. Essi però bastano bensì a mostrarci che Cicerone avrebbe potu-to essere eccellente poeta, il che da noi non si nega, ma non a mostrarcich'ei fosse veramente tale. Un uomo di pronto e vivace ingegno, come egliera, può in qualche occasione poetare felicemente; ma s'egli non coltiveràin questa parte il suo talento, non perciò dovrà dirsi poeta insigne. Gli altriversi che abbiamo di Cicerone, non son certamente uguali a' que' pochi cheil sig. di Voltaire ha tradotti; ed essi ci fan vedere che, benchè egli avessetalento ancor per la poesia, nondimeno avendo più cari altri studj, non curòdi aver in essa gran nome.

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compose, e finalmente, oltre altri più brevi componi-menti, un lungo poema diviso almeno in tre libri sulleimprese del suo consolato, nel quale certo non avrà egliperdonato a studio e a diligenza. Ma ottenne egli perciòin poesia quella fama che in altre scienze ottenne meri-tamente? Io so che alcuni anche ne' versi di Cicerone ri-trovano maravigliose bellezze; che questo è privilegiodegli uomini grandi, che grande sembri ad alcuni qua-lunque ancorchè piccola cosa a loro appartenga. Fra glialtri l'ab. Regnier des Marais, nella traduzion francesech'egli ci ha data de' libri de Divinatione, afferma chene' poeti latini, ove se ne tolgano que' di Virgilio, pochiversi vi sono che a que' di Cicerone si possano parago-nare (57). Ma invero niun antico scrittore ci ha parlato diCicerone, come di eccellente poeta; nè grande sollecitu-dine vi è stata di tramandarci i suoi versi, de' quali pocopiù abbiamo che ciò ch'egli in altre sue opere ci ha con-

57 Fra gli ammiratori delle poesie di Cicerone deesi annoverare anche il sig.di Voltaire, il quale nella perfezione al suo Catilina ne dice gran lodi; e nereca in gran saggio alcuni versi che ancor ci rimangono tratti da un suopoema sulle imprese di Mario, in cui descrive un'aquila che ferita da unaserpe contro di essa si volge e la trafigge e la sbrana. Questi versi son cer-tamente assai belli e degni della traduzione leggiadra che il sig. di Voltairene ha fatta. Essi però bastano bensì a mostrarci che Cicerone avrebbe potu-to essere eccellente poeta, il che da noi non si nega, ma non a mostrarcich'ei fosse veramente tale. Un uomo di pronto e vivace ingegno, come egliera, può in qualche occasione poetare felicemente; ma s'egli non coltiveràin questa parte il suo talento, non perciò dovrà dirsi poeta insigne. Gli altriversi che abbiamo di Cicerone, non son certamente uguali a' que' pochi cheil sig. di Voltaire ha tradotti; ed essi ci fan vedere che, benchè egli avessetalento ancor per la poesia, nondimeno avendo più cari altri studj, non curòdi aver in essa gran nome.

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servato. Noi ci contenteremo adunque di dir con Plutar-co (in Cicer.), che dapprima ei fu riputato il primo tra'romani poeti, quando cioè, il poema di Lucrezio, nonche quelli de' posteriori scrittori. non avea ancor vedutala pubblica luce. Ma che sorgendo poscia altri assai piùeccellenti poeti, la gloria poetica di Cicerone vennemeno in tutto e svanì. Perciò lasciando in disparte lepoesie di Cicerone, di lui ci riserberemo a parlare quan-do dell'eloquenza dovrem tenere ragionamento, al qualluogo potrassi egli mostrare senza pericolo che alcun glicontrasti il primo onore, e frattanto ci volgeremo a fa-vellare di tre poeti da' quali la poesia latina fu alla mag-gior perfezione condotta a cui ella arrivasse giammai.

X. Parlo di Tibullo, di Orazio, e di Virgilio,che vissuti al medesimo tempo furono i treprincipali ornamenti del felice secol

d'Augusto, e i tre migliori poeti, ardisco dirlo, che allorae poscia vivessero tra' Latini. Per cominciar da Tibullo,assai scarse son le notizie che di lui ci sono rimaste. Sedi lui fosse veramente quel verso che tra le sue poesie silegge (lib. 3, el. 5), in cui dice ch'ei nacque a quell'anno

Cum cecidit fato Consul uterque pari,

noi avremmo certa l'epoca del suo nascimento; percioc-chè in questo verso chiaramente sono indicati i due con-soli Irzio e Pansa, che l'an. 710 di Roma morirono nellaguerra civile contro di M. Antonio. Ma il ch. Giovan-

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Notizie di Tibullo.

servato. Noi ci contenteremo adunque di dir con Plutar-co (in Cicer.), che dapprima ei fu riputato il primo tra'romani poeti, quando cioè, il poema di Lucrezio, nonche quelli de' posteriori scrittori. non avea ancor vedutala pubblica luce. Ma che sorgendo poscia altri assai piùeccellenti poeti, la gloria poetica di Cicerone vennemeno in tutto e svanì. Perciò lasciando in disparte lepoesie di Cicerone, di lui ci riserberemo a parlare quan-do dell'eloquenza dovrem tenere ragionamento, al qualluogo potrassi egli mostrare senza pericolo che alcun glicontrasti il primo onore, e frattanto ci volgeremo a fa-vellare di tre poeti da' quali la poesia latina fu alla mag-gior perfezione condotta a cui ella arrivasse giammai.

X. Parlo di Tibullo, di Orazio, e di Virgilio,che vissuti al medesimo tempo furono i treprincipali ornamenti del felice secol

d'Augusto, e i tre migliori poeti, ardisco dirlo, che allorae poscia vivessero tra' Latini. Per cominciar da Tibullo,assai scarse son le notizie che di lui ci sono rimaste. Sedi lui fosse veramente quel verso che tra le sue poesie silegge (lib. 3, el. 5), in cui dice ch'ei nacque a quell'anno

Cum cecidit fato Consul uterque pari,

noi avremmo certa l'epoca del suo nascimento; percioc-chè in questo verso chiaramente sono indicati i due con-soli Irzio e Pansa, che l'an. 710 di Roma morirono nellaguerra civile contro di M. Antonio. Ma il ch. Giovan-

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Notizie di Tibullo.

nantonio Volpi nella Vita di Tibullo premessa alla bellaedizione da lui fattane in Padova l'an 1749 reca più ar-gomenti di Giuseppe Scaligero e di Giano Dousa a pro-vare che quel verso non è di Tibullo, ma sì tolto da Ovi-dio, tra le cui opere veramente si trova, e che Tibullonacque certamente assai prima. Anche l'epoca della suamorte è affatto incerta. Pare ch'egli morisse in età giova-nile, come singolarmente raccogliesi da un epigrammadi Domizio Marso:

Te quoque Virgilio comitem non æqua, Tibulle, Mors juvenem campos misit ad Elysios.

Ma gli autori sopracitati osservano che la parola giova-ne dee prendersi in più ampio senso, e che non toglie ilcredere che Tibullo giugnesse ancora oltre i qua-rant'anni. Quelle parole: Virgilio comitem mors misit adElysios sembrano indicar chiaramente che Tibullo mo-risse nell'anno stesso in cui Virgilio, cioè nel 735. Certociò non dovette accader molto dopo, poichè Ovidio, cheera nato l'an. 710, si duole che la morte troppo immaturadi Tibullo non aveagli permesso di stringere con luiamicizia:

...............Nec avara Tibullo Tempus amicitiæ fata dedere meæ (l. 4. Trist. el. 10).

XI. Fu Albio Tibullo cavalier romano; madalle sue elegie, e dalla prima singolarmen-

357

Non curasi di ottenere il favore di Augusto.

nantonio Volpi nella Vita di Tibullo premessa alla bellaedizione da lui fattane in Padova l'an 1749 reca più ar-gomenti di Giuseppe Scaligero e di Giano Dousa a pro-vare che quel verso non è di Tibullo, ma sì tolto da Ovi-dio, tra le cui opere veramente si trova, e che Tibullonacque certamente assai prima. Anche l'epoca della suamorte è affatto incerta. Pare ch'egli morisse in età giova-nile, come singolarmente raccogliesi da un epigrammadi Domizio Marso:

Te quoque Virgilio comitem non æqua, Tibulle, Mors juvenem campos misit ad Elysios.

Ma gli autori sopracitati osservano che la parola giova-ne dee prendersi in più ampio senso, e che non toglie ilcredere che Tibullo giugnesse ancora oltre i qua-rant'anni. Quelle parole: Virgilio comitem mors misit adElysios sembrano indicar chiaramente che Tibullo mo-risse nell'anno stesso in cui Virgilio, cioè nel 735. Certociò non dovette accader molto dopo, poichè Ovidio, cheera nato l'an. 710, si duole che la morte troppo immaturadi Tibullo non aveagli permesso di stringere con luiamicizia:

...............Nec avara Tibullo Tempus amicitiæ fata dedere meæ (l. 4. Trist. el. 10).

XI. Fu Albio Tibullo cavalier romano; madalle sue elegie, e dalla prima singolarmen-

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Non curasi di ottenere il favore di Augusto.

te, raccogliesi ch'egli era povero (58) e che amava anzi distarsene nel riposo di una sua villa, che fra lo strepito eil tumulto della città. Ciò che fa maraviglia si è, che es-sendo egli vissuto a' tempi di Augusto e di Mecenate,protettori sì splendidi de' poeti, non troviamo indizio al-cuno di favore da lor prestatogli. Ma anche nelle poesieche ci restano di Tibullo, indizio alcuno non vedesi dilode da lui data a Mecenate, o ad Augusto. Forse qual-che particolar motivo ebbe Tibullo per non accostarsi adAugusto e al suo favorito; e questa forse fu ancor la ra-gione per cui egli non ebbe parte, come tanti altri, a' lorbeneficj. Il grande amico e l'eroe, per così dire, di Tibul-lo fu M. Valerio Messala Corvino a cui spesso ancor fucompagno nelle spedizioni militari che lo renderon fa-moso, e che a molte elegie di Tibullo diedero occasione.Di Orazio sembra che fosse amico. Questi un'ode eun'epistola (l. 1, od. 23; l. 1 ep. 4) gl'indirizzò e chia-mollo sincero giudice de' suoi versi, e più altre cose nedisse in lode. Tibullo al contrario, qualunque ragion sene avesse, ne' suoi versi non fece mai menzione alcunadi Orazio.

58 Alla povertà di Tibullo, ch'io ho qui asserita, si oppone il detto di Orazio, ilquale nell'epistola da me a questo luogo citata dice a lui scrivendo fral'altre cose,

Dj tibi divitias dederant artemque fruendi. Ma questa maniera di favellare ci fa nascer sospetto che Tibullo fosse ben-sì nato e vissuto per qualche tempo fra le ricchezze, ma poscia o per sua, oper altrui colpa fosse venuto in povero stato.

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te, raccogliesi ch'egli era povero (58) e che amava anzi distarsene nel riposo di una sua villa, che fra lo strepito eil tumulto della città. Ciò che fa maraviglia si è, che es-sendo egli vissuto a' tempi di Augusto e di Mecenate,protettori sì splendidi de' poeti, non troviamo indizio al-cuno di favore da lor prestatogli. Ma anche nelle poesieche ci restano di Tibullo, indizio alcuno non vedesi dilode da lui data a Mecenate, o ad Augusto. Forse qual-che particolar motivo ebbe Tibullo per non accostarsi adAugusto e al suo favorito; e questa forse fu ancor la ra-gione per cui egli non ebbe parte, come tanti altri, a' lorbeneficj. Il grande amico e l'eroe, per così dire, di Tibul-lo fu M. Valerio Messala Corvino a cui spesso ancor fucompagno nelle spedizioni militari che lo renderon fa-moso, e che a molte elegie di Tibullo diedero occasione.Di Orazio sembra che fosse amico. Questi un'ode eun'epistola (l. 1, od. 23; l. 1 ep. 4) gl'indirizzò e chia-mollo sincero giudice de' suoi versi, e più altre cose nedisse in lode. Tibullo al contrario, qualunque ragion sene avesse, ne' suoi versi non fece mai menzione alcunadi Orazio.

58 Alla povertà di Tibullo, ch'io ho qui asserita, si oppone il detto di Orazio, ilquale nell'epistola da me a questo luogo citata dice a lui scrivendo fral'altre cose,

Dj tibi divitias dederant artemque fruendi. Ma questa maniera di favellare ci fa nascer sospetto che Tibullo fosse ben-sì nato e vissuto per qualche tempo fra le ricchezze, ma poscia o per sua, oper altrui colpa fosse venuto in povero stato.

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XII. Il genere elegiaco fu da lui coltivatoquasi unicamente; e quando volle levarsipiù alto e tessere in versi eroici un panegiri-co al suo Messala, pare che non avesse trop-

po felice successo. Benchè havvi chi vuole che quel pa-negirico e quasi tutte l'elegie del quarto libro non sian diTibullo; e queste vengon da alcuni attribuite a Sulpiziamoglie di Caleno al tempo di Domiziano (V. Journaldes Sçavans 1708, p. 94; Fabric. Bibl. Lat. t. 1, p. 302,edit. ven; Vulpii Præfat. ec.). Quanto allo stil di Tibullo,io credo che Quintiliano non mal si apponesse quando atutti gli altri scrittori di tal genere lo antepose: "Nell'ele-gia ancora, dic'egli (l. 10, c. 1.), noi sfidiamo i Greci, dicui sembrami che terso ed elegante scrittore sia singo-larmente Tibullo". E in vero la dolcezza, l'eleganza,l'armonia, l'affetto e tutti gli altri ornamenti della elegia-ca poesia risplendono in lui maravigliosamente. Semprefacile e chiaro, sempre tenero e passionato, sempre coltoed elegante, dipinge al naturale i sentimenti e gli affetti,nè coll'abuso dell'ingegno non gli altera mai, nè colla in-colta espressione non gli abbassa, degno veramente diesser proposto ad esemplare in tal genere di poesia, ovenon l'ha egli pure, come il più degli antichi poeti, ben-chè meno arditamente degli altri, di sozze immagini im-brattata. Abbiamo un'elegia di Ovidio nella morte di Ti-bullo, da cui raccogliesi in quanto pregio ne avesse lepoesie. Veggasi il giusto e diligente confronto che hafatto l'ab. Souchay de' tre principali poeti elegiaci tra'Latini (Mém. de l'Acad. des Inscr. t. 7, p. 351), cioè Ovi-

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Caratter delle sue poesie.

XII. Il genere elegiaco fu da lui coltivatoquasi unicamente; e quando volle levarsipiù alto e tessere in versi eroici un panegiri-co al suo Messala, pare che non avesse trop-

po felice successo. Benchè havvi chi vuole che quel pa-negirico e quasi tutte l'elegie del quarto libro non sian diTibullo; e queste vengon da alcuni attribuite a Sulpiziamoglie di Caleno al tempo di Domiziano (V. Journaldes Sçavans 1708, p. 94; Fabric. Bibl. Lat. t. 1, p. 302,edit. ven; Vulpii Præfat. ec.). Quanto allo stil di Tibullo,io credo che Quintiliano non mal si apponesse quando atutti gli altri scrittori di tal genere lo antepose: "Nell'ele-gia ancora, dic'egli (l. 10, c. 1.), noi sfidiamo i Greci, dicui sembrami che terso ed elegante scrittore sia singo-larmente Tibullo". E in vero la dolcezza, l'eleganza,l'armonia, l'affetto e tutti gli altri ornamenti della elegia-ca poesia risplendono in lui maravigliosamente. Semprefacile e chiaro, sempre tenero e passionato, sempre coltoed elegante, dipinge al naturale i sentimenti e gli affetti,nè coll'abuso dell'ingegno non gli altera mai, nè colla in-colta espressione non gli abbassa, degno veramente diesser proposto ad esemplare in tal genere di poesia, ovenon l'ha egli pure, come il più degli antichi poeti, ben-chè meno arditamente degli altri, di sozze immagini im-brattata. Abbiamo un'elegia di Ovidio nella morte di Ti-bullo, da cui raccogliesi in quanto pregio ne avesse lepoesie. Veggasi il giusto e diligente confronto che hafatto l'ab. Souchay de' tre principali poeti elegiaci tra'Latini (Mém. de l'Acad. des Inscr. t. 7, p. 351), cioè Ovi-

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Caratter delle sue poesie.

dio, Properzio, e Tibullo, in cui non teme di dare a Ti-bullo la preferenza sopra gli altri due. Nè io credo certoche il p. Rapin il quale Ovidio antepone a tutti gli altri(Réflex. sur la Poét., n. 29), sia per avere molti seguacidel suo sentimento.

XIII. Più cose e con maggior certezza pos-siamo dire di Q. Orazio Flacco, poichè eglimolto di se stesso ha parlato nelle sue poe-sie. Oltre un'antica Vita di questo poeta at-

tribuita a Svetonio, un'altra ce ne ha data Giovanni Mas-son con somma diligenza descritta di anno in anno, estampata in Leyden nel 1708. Ma degna è sopra tutted'essere letta quella che ne ha scritto il co. FrancescoAlgarotti (Opere t. 3 ediz. livorn.), in cui le diligenti ri-cerche sulla vita e su' costumi d'Orazio abbellisce conuna singolare e tutta sua propria leggiadria di stile. Iodunque ripeterò in breve ciò che questi autori ne hannoscritto copiosamente; e qualche cosa mi verrà forse fattod'aggiugnere all'erudite loro ricerche. Orazio stessoc'insegna l'anno in cui egli nacque, ove con un orciuol divino parlando dice che amendue eran nati ad un annomedesimo sotto il consolato di Manlio.

O nata mecum consule Manlio, ec. (l. 3. od. 21).

Or questi non può essere che L. Manlio Torquato, ilquale l'an. 688 fu console, insieme con L. Aurelio Cotta.Di Venusia ancora sua patria egli parla non rade volte, e

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Nascita econdizionedi Orazio.

dio, Properzio, e Tibullo, in cui non teme di dare a Ti-bullo la preferenza sopra gli altri due. Nè io credo certoche il p. Rapin il quale Ovidio antepone a tutti gli altri(Réflex. sur la Poét., n. 29), sia per avere molti seguacidel suo sentimento.

XIII. Più cose e con maggior certezza pos-siamo dire di Q. Orazio Flacco, poichè eglimolto di se stesso ha parlato nelle sue poe-sie. Oltre un'antica Vita di questo poeta at-

tribuita a Svetonio, un'altra ce ne ha data Giovanni Mas-son con somma diligenza descritta di anno in anno, estampata in Leyden nel 1708. Ma degna è sopra tutted'essere letta quella che ne ha scritto il co. FrancescoAlgarotti (Opere t. 3 ediz. livorn.), in cui le diligenti ri-cerche sulla vita e su' costumi d'Orazio abbellisce conuna singolare e tutta sua propria leggiadria di stile. Iodunque ripeterò in breve ciò che questi autori ne hannoscritto copiosamente; e qualche cosa mi verrà forse fattod'aggiugnere all'erudite loro ricerche. Orazio stessoc'insegna l'anno in cui egli nacque, ove con un orciuol divino parlando dice che amendue eran nati ad un annomedesimo sotto il consolato di Manlio.

O nata mecum consule Manlio, ec. (l. 3. od. 21).

Or questi non può essere che L. Manlio Torquato, ilquale l'an. 688 fu console, insieme con L. Aurelio Cotta.Di Venusia ancora sua patria egli parla non rade volte, e

360

Nascita econdizionedi Orazio.

singolarmente ove dice essere incerto se essa alla Luca-nia appartenga ovvero all'Apulia, poichè posta ai confinidi queste due provincie:

...... Lucanus, an Appulus anceps, Nam Venusinus arat finerri sub utrumque colonus (l. 2,

sat. 1). Ma di se e della sua fanciullezza parla egli assai lunga-mente (l. 1, sat. 6); e dice in prima, che di padre liberti-no era egli nato ed esposto perciò all'invidia del volgo,perchè ciò non ostante nella grazia di Mecenate erasiavanzato tant'oltre che aveva quasi comune il tetto conlui.

Nunc ad me redeo libertino patrem natum, Quem rodunt omnes libertino patre natum, Nunc quia, Mæcenas, tibi sum convictor.

Al qual luogo osserva e prova il Masson, che nascer dipadre libertino vuol dire nascer di padre che una voltasia stato schiavo, ma che già avuta abbia la libertà, i cuifigliuoli tenevansi perciò in conto di ingenui, come aveadi sopra accennato Orazio stesso;

Quam referre negas, quali sit quisque parenteNatus, dum ingenuus.

Di suo padre aggiugne ch'ei fu esattor di tributi: percioc-chè questo è il senso della voce coactor da lui usata.

Nec timuit, sibi ne vitio quis verteret olim,

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singolarmente ove dice essere incerto se essa alla Luca-nia appartenga ovvero all'Apulia, poichè posta ai confinidi queste due provincie:

...... Lucanus, an Appulus anceps, Nam Venusinus arat finerri sub utrumque colonus (l. 2,

sat. 1). Ma di se e della sua fanciullezza parla egli assai lunga-mente (l. 1, sat. 6); e dice in prima, che di padre liberti-no era egli nato ed esposto perciò all'invidia del volgo,perchè ciò non ostante nella grazia di Mecenate erasiavanzato tant'oltre che aveva quasi comune il tetto conlui.

Nunc ad me redeo libertino patrem natum, Quem rodunt omnes libertino patre natum, Nunc quia, Mæcenas, tibi sum convictor.

Al qual luogo osserva e prova il Masson, che nascer dipadre libertino vuol dire nascer di padre che una voltasia stato schiavo, ma che già avuta abbia la libertà, i cuifigliuoli tenevansi perciò in conto di ingenui, come aveadi sopra accennato Orazio stesso;

Quam referre negas, quali sit quisque parenteNatus, dum ingenuus.

Di suo padre aggiugne ch'ei fu esattor di tributi: percioc-chè questo è il senso della voce coactor da lui usata.

Nec timuit, sibi ne vitio quis verteret olim,

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Si præco parvas, aut (ut fuit ipse) coactor Mercedes sequerer.

XIV. Rammenta quindi con sentimento difigliale riconoscenza con quale impegnoprocurasse suo padre ch'ei fosse e nelle let-tere e nelle arti liberali istruito; perciocchè

dice che benchè povero esso fosse, non volle nondime-no mandarlo alla scuola di un cotal Flavio, ove pur mol-ti andavano ancor de' più ragguardevoli ad apprendervil'arte di conteggiare: ma condusselo a Roma, perchè vicoltivasse gli studj, e che con tale accompagnamento econ tal decoro lo manteneva, che di leggieri l'avresti cre-duto figliuolo di ricco padre.

Caussa fuit pater his, qui macro pauper agello Noluit in Flavi ludum me mittere, magni Quo pueri magnis e centurionibus orti, Lævo suspensi loculos tabulamque lacerto, Ibant octonis referentes idibus æra. Sed puerum est ausus Romam portare docendumArtes quas doceat quivis eques atque senator Semet prognatos; vestem servosque sequentes In magno ut populo si quis vidisset, avita Ex re præberi mihi sumptus crederet illos.

Nè de' suoi studj solamente, ma de' suoi costumi ancoraun custode sollecito egli ebbe nel padre, come egli stes-so soggiugne:

Ipse mihi custos incorruptissimus omnes

362

Sua educa-zione e suoistudj.

Si præco parvas, aut (ut fuit ipse) coactor Mercedes sequerer.

XIV. Rammenta quindi con sentimento difigliale riconoscenza con quale impegnoprocurasse suo padre ch'ei fosse e nelle let-tere e nelle arti liberali istruito; perciocchè

dice che benchè povero esso fosse, non volle nondime-no mandarlo alla scuola di un cotal Flavio, ove pur mol-ti andavano ancor de' più ragguardevoli ad apprendervil'arte di conteggiare: ma condusselo a Roma, perchè vicoltivasse gli studj, e che con tale accompagnamento econ tal decoro lo manteneva, che di leggieri l'avresti cre-duto figliuolo di ricco padre.

Caussa fuit pater his, qui macro pauper agello Noluit in Flavi ludum me mittere, magni Quo pueri magnis e centurionibus orti, Lævo suspensi loculos tabulamque lacerto, Ibant octonis referentes idibus æra. Sed puerum est ausus Romam portare docendumArtes quas doceat quivis eques atque senator Semet prognatos; vestem servosque sequentes In magno ut populo si quis vidisset, avita Ex re præberi mihi sumptus crederet illos.

Nè de' suoi studj solamente, ma de' suoi costumi ancoraun custode sollecito egli ebbe nel padre, come egli stes-so soggiugne:

Ipse mihi custos incorruptissimus omnes

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Sua educa-zione e suoistudj.

Circum doctores aderat. Quid multa? pudicum (Qui primus virtutis honos) servavit ab omni Non solum facto, verum opprobrio quoque turpi.

Nomina egli altrove il suo maestro, cioè Orbilio da cuidice (l. 2, ep. 1) che gli venivan dettati i versi di LivioAndronico, e pare che anche nella greca poesia si eserci-tasse; di che egli narra che fu una volta ripreso in sognoda Romolo (l. 1, sat. 10). Sembra che da Roma ei pas-sasse in Atene, perciocchè così dice di se medesimo (l.2, ep. 2):

Romæ nutriri mihi contigit, atque doceri, Iratus Graiis quantum nocuisset Achilles: Adjecere bonæ paullo plus artis Athenæ, Scilicet ut possem curvo dignoscere rectum.

Le quali ultime parole, benchè sembrino accennare cheegli allo studio della geometria si rivolgesse, dal Mas-son nondimeno e da altri sono intese in senso allegorico,come se voglia dire Orazio, che la filosofia morale ap-prese in Atene, per cui s'impara a discernere il ben dalmale.

XV. In tal maniera passati i primi anni disua gioventù, e formato alle scienze, ab-bracciò la milizia e vi giunse all'onore di tri-bun militare, come gli stesso afferma (l. 1.

363

Tenore del-la sua vita edella sua morte.

Circum doctores aderat. Quid multa? pudicum (Qui primus virtutis honos) servavit ab omni Non solum facto, verum opprobrio quoque turpi.

Nomina egli altrove il suo maestro, cioè Orbilio da cuidice (l. 2, ep. 1) che gli venivan dettati i versi di LivioAndronico, e pare che anche nella greca poesia si eserci-tasse; di che egli narra che fu una volta ripreso in sognoda Romolo (l. 1, sat. 10). Sembra che da Roma ei pas-sasse in Atene, perciocchè così dice di se medesimo (l.2, ep. 2):

Romæ nutriri mihi contigit, atque doceri, Iratus Graiis quantum nocuisset Achilles: Adjecere bonæ paullo plus artis Athenæ, Scilicet ut possem curvo dignoscere rectum.

Le quali ultime parole, benchè sembrino accennare cheegli allo studio della geometria si rivolgesse, dal Mas-son nondimeno e da altri sono intese in senso allegorico,come se voglia dire Orazio, che la filosofia morale ap-prese in Atene, per cui s'impara a discernere il ben dalmale.

XV. In tal maniera passati i primi anni disua gioventù, e formato alle scienze, ab-bracciò la milizia e vi giunse all'onore di tri-bun militare, come gli stesso afferma (l. 1.

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Tenore del-la sua vita edella sua morte.

sat. 6):Quod mihi pareret legio romana tribuno.

Ma non pare ch'egli vi si mostrasse uom di coraggio.Certo egli confessa di aver gittato vergognosamente loscudo nella battaglia di Filippi, e d'aver presa la fuga:

Tecum Philippos et celerem fugam Sensi, relicta non bene parmula (l. 2, od. 7) :

L'esito infelice di questa battaglia fe' deporre ad Orazioogni pensier di milizia. Tornato a Roma si volse intera-mente alla poesia, e questa gli acquistò in breve tempogran nome. Ma poco forse gli avrebbe essa giovato, senon avesse avuta la sorte di essere ammesso all'amiciziadi Mecenate. Descrive egli stesso in qual maniera la pri-ma volta fosse a lui introdotto per opera di Virgilio e diVario, e come gli parve allora d'essere freddamente ac-colto; perciocchè Mecenate uomo, come altrove diceOrazio (l. 1, sat. 9), di non molte parole e difficile insulle prime a scoprirsi ad altrui, rispostogli brevemente,gli die' commiato, e solo dopo nove mesi a se richiamol-lo:

Virgilius, post hunc Varius, dixere quid essem. Ut veni coram, singultim pauca locutus, (Infans namque pudor prohibebat plura profari)Non ego me claro natum patre, non ego circum Me Saturjano vectari rura caballo, Sed quod eram, narro. Respondes (ut tunc est mos)Pauca: abeo; et revocas nono post mense, jubesque

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sat. 6):Quod mihi pareret legio romana tribuno.

Ma non pare ch'egli vi si mostrasse uom di coraggio.Certo egli confessa di aver gittato vergognosamente loscudo nella battaglia di Filippi, e d'aver presa la fuga:

Tecum Philippos et celerem fugam Sensi, relicta non bene parmula (l. 2, od. 7) :

L'esito infelice di questa battaglia fe' deporre ad Orazioogni pensier di milizia. Tornato a Roma si volse intera-mente alla poesia, e questa gli acquistò in breve tempogran nome. Ma poco forse gli avrebbe essa giovato, senon avesse avuta la sorte di essere ammesso all'amiciziadi Mecenate. Descrive egli stesso in qual maniera la pri-ma volta fosse a lui introdotto per opera di Virgilio e diVario, e come gli parve allora d'essere freddamente ac-colto; perciocchè Mecenate uomo, come altrove diceOrazio (l. 1, sat. 9), di non molte parole e difficile insulle prime a scoprirsi ad altrui, rispostogli brevemente,gli die' commiato, e solo dopo nove mesi a se richiamol-lo:

Virgilius, post hunc Varius, dixere quid essem. Ut veni coram, singultim pauca locutus, (Infans namque pudor prohibebat plura profari)Non ego me claro natum patre, non ego circum Me Saturjano vectari rura caballo, Sed quod eram, narro. Respondes (ut tunc est mos)Pauca: abeo; et revocas nono post mense, jubesque

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Esse in amicorum numero (l. 1, sat. 6).

Così, introdotto Orazio nell'amicizia di Mecenate ne go-dette poscia costantemente senza che essa venisse maiper alcuna vicenda alterata, di che abbiamo a testimoniotante delle sue ode a lui indirizzate. La qual amicizia sefu vantaggiosa ad Orazio, che trovò in Mecenate un sìsplendido protettore, niun meno fu a Mecenate gloriosa,che trovò in Orazio un sì degno celebratore delle suelodi. Dall'amicizia di Mecenate venne ad Orazio la pro-tezione e l'amore d'Augusto. Alcune lettere da lui scrittead Orazio ci ha tramandate l'antico scrittore della vita diquesto poeta mentovato di sopra, dalle quali apertamen-te raccogliesi quanto egli gli fosse più caro. Ma meglioancor ciò raccogliesi da molti de' poetici componimentidi Orazio stesso; in cui i più sinceri sentimenti di grati-tudine verso di lui si veggono espressi. Amicissimo diVirgilio ne fece spesso menzione ne' suoi versi con som-ma lode. Alcuni si maravigliano che Virgilio al contrarionon mai facesse motto d'Orazio. Ma come poteva eglifarlo, se gli argomenti da lui presi a trattare non glieneoffrivano occasione alcuna? E nondimeno mylord Orre-ry nelle sue Osservazioni sulla vita e sugli scritti deidottor Swift (V. Journal Britannique de m. Maty t. 7, p.61) pretende di aver trovata in Virgilio menzion di Ora-zio. Crede egli che questi versi:

....... Et amicum Cretea Musis, Cretea Musarum comitem, cui carmina semper, Et cythararæ cordi, numerosque intendere nervis,

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Esse in amicorum numero (l. 1, sat. 6).

Così, introdotto Orazio nell'amicizia di Mecenate ne go-dette poscia costantemente senza che essa venisse maiper alcuna vicenda alterata, di che abbiamo a testimoniotante delle sue ode a lui indirizzate. La qual amicizia sefu vantaggiosa ad Orazio, che trovò in Mecenate un sìsplendido protettore, niun meno fu a Mecenate gloriosa,che trovò in Orazio un sì degno celebratore delle suelodi. Dall'amicizia di Mecenate venne ad Orazio la pro-tezione e l'amore d'Augusto. Alcune lettere da lui scrittead Orazio ci ha tramandate l'antico scrittore della vita diquesto poeta mentovato di sopra, dalle quali apertamen-te raccogliesi quanto egli gli fosse più caro. Ma meglioancor ciò raccogliesi da molti de' poetici componimentidi Orazio stesso; in cui i più sinceri sentimenti di grati-tudine verso di lui si veggono espressi. Amicissimo diVirgilio ne fece spesso menzione ne' suoi versi con som-ma lode. Alcuni si maravigliano che Virgilio al contrarionon mai facesse motto d'Orazio. Ma come poteva eglifarlo, se gli argomenti da lui presi a trattare non glieneoffrivano occasione alcuna? E nondimeno mylord Orre-ry nelle sue Osservazioni sulla vita e sugli scritti deidottor Swift (V. Journal Britannique de m. Maty t. 7, p.61) pretende di aver trovata in Virgilio menzion di Ora-zio. Crede egli che questi versi:

....... Et amicum Cretea Musis, Cretea Musarum comitem, cui carmina semper, Et cythararæ cordi, numerosque intendere nervis,

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Semper equos, atque arma virum, pugnasque, canebat

(Æneid. l. 9, v. 774, ec.) da Virgilio fosser composti perdisegnare Orazio. E perchè? Perchè Orazio dice di sestesso:

Musis amicus tristitiam et metum Tradam protervis in mare Creticum Portare ventis (l. 1, od. 26.)

Eccovi dunque, dice il ragionatore mylord, Orazio dise-gnato da Virgilio sotto due nomi, cioè di amico delleMuse, di cui Orazio piacevasi, e di Creteo, perchè Ora-zio volea gittare nel mar di Creta tutti i mesti pensieri.Io crederei di abusar troppo del tempo, se mi trattenessii ribattere tai conghietture. A questo modo non vi sareb-be poeta alcuno, o alcun ragguardevole personaggio chenon vedessimo rammentato da Virgilio, o da qualunquealtro scrittore. Morì finalmente Orazio nel consolato diC. Marcio Censorino e di C. Asinio Gallo l'anno diRoma 745 a' 27 di novembre nel 57 anno dell'età sua,cioè nell'anno stesso in cui morì il suo protettor Mece-nate (Dio. Hist. l. 55), avverandosi in fatti ciò che Ora-zio per espressione di affettuosa riconoscenza avea giàscritto, che l'amicizia avrebbeli uniti perfino in morte.

XVI. Tal fu la vita di Orazio, uomo, comedalle sue poesie si raccoglie dato a' piaceri enemico di qualunque cosa gli potesse recarturbamento; ma che di mezzo a molti lascivicomponimenti molti ne ha ancora pieni di

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Sue poesie liriche e loro eccel-lenza.

Semper equos, atque arma virum, pugnasque, canebat

(Æneid. l. 9, v. 774, ec.) da Virgilio fosser composti perdisegnare Orazio. E perchè? Perchè Orazio dice di sestesso:

Musis amicus tristitiam et metum Tradam protervis in mare Creticum Portare ventis (l. 1, od. 26.)

Eccovi dunque, dice il ragionatore mylord, Orazio dise-gnato da Virgilio sotto due nomi, cioè di amico delleMuse, di cui Orazio piacevasi, e di Creteo, perchè Ora-zio volea gittare nel mar di Creta tutti i mesti pensieri.Io crederei di abusar troppo del tempo, se mi trattenessii ribattere tai conghietture. A questo modo non vi sareb-be poeta alcuno, o alcun ragguardevole personaggio chenon vedessimo rammentato da Virgilio, o da qualunquealtro scrittore. Morì finalmente Orazio nel consolato diC. Marcio Censorino e di C. Asinio Gallo l'anno diRoma 745 a' 27 di novembre nel 57 anno dell'età sua,cioè nell'anno stesso in cui morì il suo protettor Mece-nate (Dio. Hist. l. 55), avverandosi in fatti ciò che Ora-zio per espressione di affettuosa riconoscenza avea giàscritto, che l'amicizia avrebbeli uniti perfino in morte.

XVI. Tal fu la vita di Orazio, uomo, comedalle sue poesie si raccoglie dato a' piaceri enemico di qualunque cosa gli potesse recarturbamento; ma che di mezzo a molti lascivicomponimenti molti ne ha ancora pieni di

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Sue poesie liriche e loro eccel-lenza.

morali giustissimi sentimenti. Qui però dobbiam soloconsiderarne il valore poetico, e la gloria che da lui nevenne a' Romani. Egli si vanta, e a ragione, di esserestato il primo tra loro che ardisse di tentare la lirica poe-sia. Catullo qualche picciolo saggio di questo genere ciha lasciato; ma non si può veramente chiamarne autore.Orazio tutto vi si consacrò e coltivollo con felicità cosìgrande, che merita certo di stare al paro co' più rinomatitra' Greci. Egli modestamente ricusa di esser detto imi-tatore di Pindaro (l. 4, od. 2); ma le sue poesie stesse civietano di dargli fede. L'enfasi, l'entusiasmo, la forzache in esse regna, e i rapidissimi voli a cui spesso si ab-bandona, cel mostran pieno di quel qualunque siasi fu-rore che solo forma i poeti; ma nel più vivo entusiasmoegli sempre conserva quella proprietà ed eleganza e no-biltà di espressione, che li rende perfetti. Ciò ch'è piùammirabile, si è che Orazio imitator sì felice di Pindaroquando ha tra le mani un argomento sublime, è ancoraimitator nulla meno felice di Anacreonte negli argomen-ti più scherzevoli e più leggiadri. Intorno a che veggansile belle riflessioni del co. Algarotti nel Saggio altre vol-te da noi citato. E nondimeno come non vi ha paradossoche non trovi qualche sostenitore, così pure non è man-cato chi si dichiarasse di non trovare Orazio sì gran poe-ta quale comunemente si vanta. Tale è stato l'anonimoinglese autore del Saggio sugli scritti e sul genio di m.Pope, il quale si sdegna delle lodi finor date a Orazio, evuole che sulla sua parola crediamo che nulla egli ha disublime; e quel poco che pur vi si scorge, tutto è tratto

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morali giustissimi sentimenti. Qui però dobbiam soloconsiderarne il valore poetico, e la gloria che da lui nevenne a' Romani. Egli si vanta, e a ragione, di esserestato il primo tra loro che ardisse di tentare la lirica poe-sia. Catullo qualche picciolo saggio di questo genere ciha lasciato; ma non si può veramente chiamarne autore.Orazio tutto vi si consacrò e coltivollo con felicità cosìgrande, che merita certo di stare al paro co' più rinomatitra' Greci. Egli modestamente ricusa di esser detto imi-tatore di Pindaro (l. 4, od. 2); ma le sue poesie stesse civietano di dargli fede. L'enfasi, l'entusiasmo, la forzache in esse regna, e i rapidissimi voli a cui spesso si ab-bandona, cel mostran pieno di quel qualunque siasi fu-rore che solo forma i poeti; ma nel più vivo entusiasmoegli sempre conserva quella proprietà ed eleganza e no-biltà di espressione, che li rende perfetti. Ciò ch'è piùammirabile, si è che Orazio imitator sì felice di Pindaroquando ha tra le mani un argomento sublime, è ancoraimitator nulla meno felice di Anacreonte negli argomen-ti più scherzevoli e più leggiadri. Intorno a che veggansile belle riflessioni del co. Algarotti nel Saggio altre vol-te da noi citato. E nondimeno come non vi ha paradossoche non trovi qualche sostenitore, così pure non è man-cato chi si dichiarasse di non trovare Orazio sì gran poe-ta quale comunemente si vanta. Tale è stato l'anonimoinglese autore del Saggio sugli scritti e sul genio di m.Pope, il quale si sdegna delle lodi finor date a Orazio, evuole che sulla sua parola crediamo che nulla egli ha disublime; e quel poco che pur vi si scorge, tutto è tratto

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da Pindaro e da Alceo. Ma veggasi la bella risposta chegli ha fatta il celebre m. Maty nel suo Giornale Britanni-co (t. 21, p. 34). Io non prenderò qui a confutare gl'inge-gnosi sogni del p. Arduino che tutte le ode vuol suppo-ste ad Orazio, come pur l'Eneide a Virgilio. Egli ha vo-luto scherzare, io credo, e mostrare fin dove si possagiugnere coll'abusar dell'ingegno.

XVII. Di genere in tutto diverso si è lo stileda Orazio usato nelle Satire, nell'Epistole, enell'Arte Poetica; perciocchè come nell'Odeegli ci dà esempio della più sublime e dellapiù nobile poesia, così in queste egli ci por-

ge un modello della più semplice e più famigliare; ma inquesta semplicità medesima egli sa usare una grazia eun'eleganza così maravigliosa; ch'io stimo men malage-vole l'imitarlo in quelle che in queste. L'Arte Poeticache contiene per altro savissimi ammaestramenti, è sem-brata a molti non troppo bene ordinata. Quindi DanielloEinsio ha creduto che per negligenza de' copisti sia essastata scompaginata e sconvolta; e alcuni passi ne ha eglivoluto trarre dal luogo in cui erano, e porgli ove pareva-gli più opportuno (59). Una somigliante impresa, benchè

59 Non è stato Daniello Einsio il primo a credere che l'Arte Poetica d'Orazio,qual noi l'abbiamo, sia cosa senz'ordine e senza metodo. Antonio Riccabo-ni, professore in Padova sulla fine del secolo XVI, assai prima dell'Einsiopensò e scrisse la stessa cosa, e suggerì il metodo con cui ella poteasi ri-durre ad ordin migliore, come si può vedere ne' libri da lui pubblicati nellacontesa che su ciò ebbe con Niccolò Colonio. Di questa contesa ragiona

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Altre sue opere poeti-che e loro stile.

da Pindaro e da Alceo. Ma veggasi la bella risposta chegli ha fatta il celebre m. Maty nel suo Giornale Britanni-co (t. 21, p. 34). Io non prenderò qui a confutare gl'inge-gnosi sogni del p. Arduino che tutte le ode vuol suppo-ste ad Orazio, come pur l'Eneide a Virgilio. Egli ha vo-luto scherzare, io credo, e mostrare fin dove si possagiugnere coll'abusar dell'ingegno.

XVII. Di genere in tutto diverso si è lo stileda Orazio usato nelle Satire, nell'Epistole, enell'Arte Poetica; perciocchè come nell'Odeegli ci dà esempio della più sublime e dellapiù nobile poesia, così in queste egli ci por-

ge un modello della più semplice e più famigliare; ma inquesta semplicità medesima egli sa usare una grazia eun'eleganza così maravigliosa; ch'io stimo men malage-vole l'imitarlo in quelle che in queste. L'Arte Poeticache contiene per altro savissimi ammaestramenti, è sem-brata a molti non troppo bene ordinata. Quindi DanielloEinsio ha creduto che per negligenza de' copisti sia essastata scompaginata e sconvolta; e alcuni passi ne ha eglivoluto trarre dal luogo in cui erano, e porgli ove pareva-gli più opportuno (59). Una somigliante impresa, benchè

59 Non è stato Daniello Einsio il primo a credere che l'Arte Poetica d'Orazio,qual noi l'abbiamo, sia cosa senz'ordine e senza metodo. Antonio Riccabo-ni, professore in Padova sulla fine del secolo XVI, assai prima dell'Einsiopensò e scrisse la stessa cosa, e suggerì il metodo con cui ella poteasi ri-durre ad ordin migliore, come si può vedere ne' libri da lui pubblicati nellacontesa che su ciò ebbe con Niccolò Colonio. Di questa contesa ragiona

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Altre sue opere poeti-che e loro stile.

per diversa maniera, ha tentata il celebre presidenteBouhier, il quale però non so se abbia pubblicata l'ArtePoetica così da se riordinata. Solo io ho veduta una suadissertazione (Mélanges de m. Michault, t. 1. art. 2) suquesto argomento, ove ne parla come di cosa già esegui-ta (60). Ad altri nondimeno ne sembra diversamente, e ungiusto ordine riconoscono essi nella Poetica di Orazio, ele sue parti e le sue divisioni tra loro ottimamente con-nesse. Veggasi singolarmente il Dacier (préf. à l'art.Poét.) e l'ab. Goujet (Biblioth. franc. t. 3, p. 63, ec.) ilquale ha trattato diligentemente di questo punto, e espo-sta ha ancor lungamente una contesa che sulla spiega-zione di un passaggio dell'Arte Poetica si accese tra ilsuddetto Dacier e il marchese di Sevignè.

XVIII. L'ultimo de' tre poeti da noi mento-vati poc'anzi è P. Virgilio Marone. Alcuniantichi gramatici ne scrisser la Vita, e tra

essi più lungamente degli altri Tiberio Donato di cui nonsappiamo a qual età precisamente fiorisse; ma ei fu cer-tamente posteriore a Seneca che da lui è citato. Tra' mo-derni assai diligentemente l'ha scritta il p. Carlo la Rue,

ancora il sig. Francesco Dorighelli nella nuova edizione delle Poesied'Orazio fatta in Padova nel 1774.

60 Il sig. avvocato Pietro Antonio Petrini ha tentato, e per quanto a me nepare, eseguito felicemente il disegno di riordinare l'Arte Poetica di Orazio,come si può credere verisimilmente ch'ei la scrivesse, e in tal modo l'hapubblicata in Roma nel 1777, unendovi la traduzione del libro stesso interza rima.

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Notizie del-la vita di Virgilio.

per diversa maniera, ha tentata il celebre presidenteBouhier, il quale però non so se abbia pubblicata l'ArtePoetica così da se riordinata. Solo io ho veduta una suadissertazione (Mélanges de m. Michault, t. 1. art. 2) suquesto argomento, ove ne parla come di cosa già esegui-ta (60). Ad altri nondimeno ne sembra diversamente, e ungiusto ordine riconoscono essi nella Poetica di Orazio, ele sue parti e le sue divisioni tra loro ottimamente con-nesse. Veggasi singolarmente il Dacier (préf. à l'art.Poét.) e l'ab. Goujet (Biblioth. franc. t. 3, p. 63, ec.) ilquale ha trattato diligentemente di questo punto, e espo-sta ha ancor lungamente una contesa che sulla spiega-zione di un passaggio dell'Arte Poetica si accese tra ilsuddetto Dacier e il marchese di Sevignè.

XVIII. L'ultimo de' tre poeti da noi mento-vati poc'anzi è P. Virgilio Marone. Alcuniantichi gramatici ne scrisser la Vita, e tra

essi più lungamente degli altri Tiberio Donato di cui nonsappiamo a qual età precisamente fiorisse; ma ei fu cer-tamente posteriore a Seneca che da lui è citato. Tra' mo-derni assai diligentemente l'ha scritta il p. Carlo la Rue,

ancora il sig. Francesco Dorighelli nella nuova edizione delle Poesied'Orazio fatta in Padova nel 1774.

60 Il sig. avvocato Pietro Antonio Petrini ha tentato, e per quanto a me nepare, eseguito felicemente il disegno di riordinare l'Arte Poetica di Orazio,come si può credere verisimilmente ch'ei la scrivesse, e in tal modo l'hapubblicata in Roma nel 1777, unendovi la traduzione del libro stesso interza rima.

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Notizie del-la vita di Virgilio.

e amendue queste Vite sono state dal Masvicio premessealla bella edizion di Virgilio da lui fatta in Leovardial'an. 1717. Noi da esse raccoglieremo ciò che vi ha dipiù degno a sapersi, aggiugnendo ove fia d'uopo ciò chepiù sarà opportuno a meglio illustrare la storia di sì fa-moso poeta. Un picciol villaggio del Mantovano dettoallora Andes ne fu la patria. Il m. Maffei ha creduto dipoterci determinatamente indicare ove fosse situato, e alui pare che altro esser non possa che una terricciuolapresso il confin veronese, che or appellasi Bande. Siposson presso lui (Verona Illustr. par. 2, ubi de Catullo)vedere le conghietture a cui appoggia questa sua opinio-ne (61). Nacque l'anno di Roma 683 essendo consoli laprima volta Pompeo e Licinio Crasso a' 15 d'ottobre.Lascio da parte i prodigi che all'occasion di sua nascitaavvennero al dir di Donato. Al giorno d'oggi il rammen-tare prodigi è lo stesso che risvegliare le risa; e per ciòche appartiene a questi di cui ora parliamo, volentieri li

61 I mantovani credevano comunemente che Andes fosse nel luogo ove ora èPiettole. Questa opinione è stata di fresco combattuta dal ch. dot. Giambat-tista Visi, il quale reca parecchi buoni argomenti a provare che se Virgilionon nacque in Mantova, il che a lui sembra non improbabile, pare che illuogo della sua nascita debba fissarsi fuori di porta Predella, declinando alLago (Stor. di Mant. t. 1, p. 30). Gli eruditi mantovani dovran decidere sequesta opinione sia appoggiata a migliori fondamenti che le altre. Io avver-tirò solo che l'opinione che dà Piettole per patria a Virgilio, è più antica diquello che il dott. Visi ha creduto. Perciocchè egli pensa che nascesse dopoi tempi di Buonamente Alipandro che scriveva ne' primi anni del secoloXV. Or appunto in quegli anni, cioè nel tempo del Concilio di Costanza,Giovanni da Serravalle vescovo di Fermo, nel suo Comento inedito sopra aDante, di cui diremo altrove, dice Virgilio nato in Piettole: in villa nominePiectola.

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e amendue queste Vite sono state dal Masvicio premessealla bella edizion di Virgilio da lui fatta in Leovardial'an. 1717. Noi da esse raccoglieremo ciò che vi ha dipiù degno a sapersi, aggiugnendo ove fia d'uopo ciò chepiù sarà opportuno a meglio illustrare la storia di sì fa-moso poeta. Un picciol villaggio del Mantovano dettoallora Andes ne fu la patria. Il m. Maffei ha creduto dipoterci determinatamente indicare ove fosse situato, e alui pare che altro esser non possa che una terricciuolapresso il confin veronese, che or appellasi Bande. Siposson presso lui (Verona Illustr. par. 2, ubi de Catullo)vedere le conghietture a cui appoggia questa sua opinio-ne (61). Nacque l'anno di Roma 683 essendo consoli laprima volta Pompeo e Licinio Crasso a' 15 d'ottobre.Lascio da parte i prodigi che all'occasion di sua nascitaavvennero al dir di Donato. Al giorno d'oggi il rammen-tare prodigi è lo stesso che risvegliare le risa; e per ciòche appartiene a questi di cui ora parliamo, volentieri li

61 I mantovani credevano comunemente che Andes fosse nel luogo ove ora èPiettole. Questa opinione è stata di fresco combattuta dal ch. dot. Giambat-tista Visi, il quale reca parecchi buoni argomenti a provare che se Virgilionon nacque in Mantova, il che a lui sembra non improbabile, pare che illuogo della sua nascita debba fissarsi fuori di porta Predella, declinando alLago (Stor. di Mant. t. 1, p. 30). Gli eruditi mantovani dovran decidere sequesta opinione sia appoggiata a migliori fondamenti che le altre. Io avver-tirò solo che l'opinione che dà Piettole per patria a Virgilio, è più antica diquello che il dott. Visi ha creduto. Perciocchè egli pensa che nascesse dopoi tempi di Buonamente Alipandro che scriveva ne' primi anni del secoloXV. Or appunto in quegli anni, cioè nel tempo del Concilio di Costanza,Giovanni da Serravalle vescovo di Fermo, nel suo Comento inedito sopra aDante, di cui diremo altrove, dice Virgilio nato in Piettole: in villa nominePiectola.

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ripongo io pure tra' puerili racconti. In Cremona prima,poscia in Milano, come anche la Cronaca eusebiana rac-conta, e finalmente in Napoli attese agli studj della filo-sofia in cui ebbe a maestro un cotal Sirone epicureo(Servius ad Ecl. 6. Virg.) della matematica e singolar-mente della poesia. Anzi vi ha chi pensa che in quellaprima era scrivesse alcuni di que' piccioli componimentiche vanno sotto il suo nome, e che in molte edizioni del-le sue opere si veggono impressi sotto il nome di Cata-lecta. Taluno di essi si vuol da alcuni che abbia vera-mente avuto ad autore Virgilio. Ma troppo deboli sonogli argomenti a provarlo, se se ne tragga quello dellazenzala, latinamente culex, su cui certo Virgilio aveaverseggiato (V. Fabric. Bibl. lat. l. 1, c. 12). Donato ag-giugne ch'egli poscia sen venne a Roma, e che fu intro-dotto per maniscalco nella corte d'Augusto. Ma sì scioc-che e sì inverisimili sono le cose ch'egli a questa occa-sione ci narra, che tutto questo racconto deesi a ragioneavere per favoloso. E osserva il p. la Rue, che dalla pri-ma egloga di Virgilio, in cui non vi ha dubbio alcunoche sotto il nome di Titiro non ci volesse rappresentarese stesso, raccogliesi chiaramente che Virgilio non ven-ne a Roma che all'occasione della divisione di campa-gne, che a que' tempi si fece tra' soldati di Ottavio e diAntonio. Tra quelle che rapite furorno agli antichi loropadroni per darle in ricompensa al valor militare ebbeviun picciol podere che Virgilio avea sul Mantovano dacui egli si vide violentemente cacciato. Venne egli dun-que a Roma, e adoperossi tanto felicemente che ottenne

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ripongo io pure tra' puerili racconti. In Cremona prima,poscia in Milano, come anche la Cronaca eusebiana rac-conta, e finalmente in Napoli attese agli studj della filo-sofia in cui ebbe a maestro un cotal Sirone epicureo(Servius ad Ecl. 6. Virg.) della matematica e singolar-mente della poesia. Anzi vi ha chi pensa che in quellaprima era scrivesse alcuni di que' piccioli componimentiche vanno sotto il suo nome, e che in molte edizioni del-le sue opere si veggono impressi sotto il nome di Cata-lecta. Taluno di essi si vuol da alcuni che abbia vera-mente avuto ad autore Virgilio. Ma troppo deboli sonogli argomenti a provarlo, se se ne tragga quello dellazenzala, latinamente culex, su cui certo Virgilio aveaverseggiato (V. Fabric. Bibl. lat. l. 1, c. 12). Donato ag-giugne ch'egli poscia sen venne a Roma, e che fu intro-dotto per maniscalco nella corte d'Augusto. Ma sì scioc-che e sì inverisimili sono le cose ch'egli a questa occa-sione ci narra, che tutto questo racconto deesi a ragioneavere per favoloso. E osserva il p. la Rue, che dalla pri-ma egloga di Virgilio, in cui non vi ha dubbio alcunoche sotto il nome di Titiro non ci volesse rappresentarese stesso, raccogliesi chiaramente che Virgilio non ven-ne a Roma che all'occasione della divisione di campa-gne, che a que' tempi si fece tra' soldati di Ottavio e diAntonio. Tra quelle che rapite furorno agli antichi loropadroni per darle in ricompensa al valor militare ebbeviun picciol podere che Virgilio avea sul Mantovano dacui egli si vide violentemente cacciato. Venne egli dun-que a Roma, e adoperossi tanto felicemente che ottenne

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di rientrare al possesso del suo podere. La division dicampagne, e quindi la venuta di Virgilio a Roma, accad-de l'an. 612 secondo il parere di tutti gli antichi scrittori.È dunque falso, come il Bayle (Diction. art. "Virgile")ed altri hanno già osservato, ciò che da alcuni racconta-si, cioè che Cicerone udito avendo Virgilio mentre reci-tava alcuni suoi versi, preso egli pure da estro poetico,ma in mezzo all'estro non dimenticando le sue proprieglorie, esclamasse Magnæ spes altera, Romæ. Ciò, dissi,è falso; perciocchè Cicerone già da due anni era morto.

XIX. La venuta di Virgilio a Roma, e i versich'egli cominciò a comporre e a pubblicare,gli dierono occasione di essere conosciutoda Mecenate e da Augusto, dell'amicizia eprotezione de' quali godè egli poscia costan-

temente. L'Egloghe furono le prime poesie che il rende-rono illustre. Prese in esse ad imitare Teocrito, e l'imita-tor certamente o superò il suo originale, o almen pareg-giollo. Veggasi ciò che si è detto nella Parte seconda diquest'opera, ove si è parlato di Teocrito. Nella Vita scrit-tane da Donato si dice che tre anni egli impiegasse acomporle; e che l'altra opera a cui poscia per imitareEsiodo si accinse, cioè le Georgiche, in sette anni da luifosse condotta a fine (62). Egli intraprese finalmente il62 Le Georgiche di Virgilio meritavan qui di essere con più attenzione esami-

nate per farne conoscere i rari pregi. A questo mio difetto ha poscia felice-mente supplito l'ab. Andres col farne una diligente analisi (Dell'Origine eprogressi di ogni Letter. t. 2, p. 192). Veggasi anche su questo argomento il

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Sua morte ecomando da lui dato di bruciare l'Eneide.

di rientrare al possesso del suo podere. La division dicampagne, e quindi la venuta di Virgilio a Roma, accad-de l'an. 612 secondo il parere di tutti gli antichi scrittori.È dunque falso, come il Bayle (Diction. art. "Virgile")ed altri hanno già osservato, ciò che da alcuni racconta-si, cioè che Cicerone udito avendo Virgilio mentre reci-tava alcuni suoi versi, preso egli pure da estro poetico,ma in mezzo all'estro non dimenticando le sue proprieglorie, esclamasse Magnæ spes altera, Romæ. Ciò, dissi,è falso; perciocchè Cicerone già da due anni era morto.

XIX. La venuta di Virgilio a Roma, e i versich'egli cominciò a comporre e a pubblicare,gli dierono occasione di essere conosciutoda Mecenate e da Augusto, dell'amicizia eprotezione de' quali godè egli poscia costan-

temente. L'Egloghe furono le prime poesie che il rende-rono illustre. Prese in esse ad imitare Teocrito, e l'imita-tor certamente o superò il suo originale, o almen pareg-giollo. Veggasi ciò che si è detto nella Parte seconda diquest'opera, ove si è parlato di Teocrito. Nella Vita scrit-tane da Donato si dice che tre anni egli impiegasse acomporle; e che l'altra opera a cui poscia per imitareEsiodo si accinse, cioè le Georgiche, in sette anni da luifosse condotta a fine (62). Egli intraprese finalmente il62 Le Georgiche di Virgilio meritavan qui di essere con più attenzione esami-

nate per farne conoscere i rari pregi. A questo mio difetto ha poscia felice-mente supplito l'ab. Andres col farne una diligente analisi (Dell'Origine eprogressi di ogni Letter. t. 2, p. 192). Veggasi anche su questo argomento il

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Sua morte ecomando da lui dato di bruciare l'Eneide.

gran poema dell'Eneide, intorno a cui affaticossi lo spa-zio di undici, o dodici anni. E nondimeno non era egliancor pago del suo lavoro. Quindi portossi in Grecia,ove godendo di un più dolce riposo pensava di darglil'ultimo compimento. Ma avvenutosi in Augusto chel'an. 734 tornava di Grecia a Roma, e invitato ad unirse-gli nel viaggio, giunto a Brindisi vi morì a' 22 di settem-bre in età di presso a cinquant'anni; intorno alla qualepoca si posson vedere le riflessioni del Bayle (loc. cit.).Vicino a morte, come racconta Donato, chiese più voltedella sua Eneide, risoluto di gittarla alle fiamme comecosa non ancora compiuta, e perciò non degna di so-pravvivergli. Ma a ciò opponendosi i suoi confidentiamici che gli assistevano, Tucca e Vario, comandò nelsuo testamento ch'essa fosse bruciata. E perchè essi glifecero intendere che Augusto non l'avrebbe permesso,allora diella lor nelle mani, ma a patto che nè cosa alcu-na vi aggiugnessero, e i versi ancora che da lui non era-no stati finiti, lasciassero così com'erano imperfetti. Essinondimeno per comando d'Augusto emendarono inqualche parte il poema; ma non si ardirono, come scioc-camente hanno osato di fare alcuni moderni, nè di ag-giugnere un nuovo libro all'Eneide, nè di compire i versich'eran rimasti imperfetti. I versi che sotto nomed'Augusto abbiamo alle stampe, con cui comanda chenon diasi alle fiamme l'Eneide, appena vi ha chi li credada lui composti.

Saggio sopra i tre generi di poesia in cui Virgilio si acquistò il titolo diprincipe pubblicato in Mantova nel 1785 dal sig. ab. Gioachino Millas.

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gran poema dell'Eneide, intorno a cui affaticossi lo spa-zio di undici, o dodici anni. E nondimeno non era egliancor pago del suo lavoro. Quindi portossi in Grecia,ove godendo di un più dolce riposo pensava di darglil'ultimo compimento. Ma avvenutosi in Augusto chel'an. 734 tornava di Grecia a Roma, e invitato ad unirse-gli nel viaggio, giunto a Brindisi vi morì a' 22 di settem-bre in età di presso a cinquant'anni; intorno alla qualepoca si posson vedere le riflessioni del Bayle (loc. cit.).Vicino a morte, come racconta Donato, chiese più voltedella sua Eneide, risoluto di gittarla alle fiamme comecosa non ancora compiuta, e perciò non degna di so-pravvivergli. Ma a ciò opponendosi i suoi confidentiamici che gli assistevano, Tucca e Vario, comandò nelsuo testamento ch'essa fosse bruciata. E perchè essi glifecero intendere che Augusto non l'avrebbe permesso,allora diella lor nelle mani, ma a patto che nè cosa alcu-na vi aggiugnessero, e i versi ancora che da lui non era-no stati finiti, lasciassero così com'erano imperfetti. Essinondimeno per comando d'Augusto emendarono inqualche parte il poema; ma non si ardirono, come scioc-camente hanno osato di fare alcuni moderni, nè di ag-giugnere un nuovo libro all'Eneide, nè di compire i versich'eran rimasti imperfetti. I versi che sotto nomed'Augusto abbiamo alle stampe, con cui comanda chenon diasi alle fiamme l'Eneide, appena vi ha chi li credada lui composti.

Saggio sopra i tre generi di poesia in cui Virgilio si acquistò il titolo diprincipe pubblicato in Mantova nel 1785 dal sig. ab. Gioachino Millas.

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XX. Varj aneddoti intorno a Virgilio si leg-gono nella Vita scrittane da Donato; ma tan-te cose in essa s'incontrano inverisimili e

false, ch'è troppo difficile l'accertare quali sian le vere.Nulla dirò io pure delle puerili inezie che sono statescritte da alcuni intorno alla magia da Virgilio appresaed esercitata. Il Naudè lo ha bravamente difeso, nellasua Apologia degli uomini dotti accusati di magia. Elungamente ne parla anche il Bayle. Ciò ch'è costantepresso tutti si è che Virgilio fu di dolce indole e di pia-cevoli maniere, modesto nel conversare, sincero amico eda Augusto, da Mecenate, da Orazio e da tutti i più cele-bri uomini di quelli età sommamente amato. Un fram-mento di lettera da lui scritta ad Augusto ci ha conserva-ta Macrobio (Saturn. l. 1, c. 24), in cui troppo bene ci faegli conoscere la sua modestia, perchè qui debba essereommesso: Ego vero frequentes a te literas accipio.... DeÆnea quidem meo, si me hercule jam dignum auribushaberem tuis, libenter mitterem; sed tanta inchoata resest, ut pœne vitio mentis tantum opus ingressus mihi vi-dear; cum præsertim, ut scis, alia quoque studia ad idopus multoque potiora impertiar. Ma questa sua mode-stia non tolse che in sommo onore non fosse egli inRoma; che sembra anzi che tanto più volentieri si dianle lodi ad alcuno quanto più ei se ne mostra schivo e ne-mico. Accadde talvolta che recitati essendosi in teatroalcuni suoi versi, tutto il popolo levossi in piedi, e a Vir-

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Suo caratte-re.

XX. Varj aneddoti intorno a Virgilio si leg-gono nella Vita scrittane da Donato; ma tan-te cose in essa s'incontrano inverisimili e

false, ch'è troppo difficile l'accertare quali sian le vere.Nulla dirò io pure delle puerili inezie che sono statescritte da alcuni intorno alla magia da Virgilio appresaed esercitata. Il Naudè lo ha bravamente difeso, nellasua Apologia degli uomini dotti accusati di magia. Elungamente ne parla anche il Bayle. Ciò ch'è costantepresso tutti si è che Virgilio fu di dolce indole e di pia-cevoli maniere, modesto nel conversare, sincero amico eda Augusto, da Mecenate, da Orazio e da tutti i più cele-bri uomini di quelli età sommamente amato. Un fram-mento di lettera da lui scritta ad Augusto ci ha conserva-ta Macrobio (Saturn. l. 1, c. 24), in cui troppo bene ci faegli conoscere la sua modestia, perchè qui debba essereommesso: Ego vero frequentes a te literas accipio.... DeÆnea quidem meo, si me hercule jam dignum auribushaberem tuis, libenter mitterem; sed tanta inchoata resest, ut pœne vitio mentis tantum opus ingressus mihi vi-dear; cum præsertim, ut scis, alia quoque studia ad idopus multoque potiora impertiar. Ma questa sua mode-stia non tolse che in sommo onore non fosse egli inRoma; che sembra anzi che tanto più volentieri si dianle lodi ad alcuno quanto più ei se ne mostra schivo e ne-mico. Accadde talvolta che recitati essendosi in teatroalcuni suoi versi, tutto il popolo levossi in piedi, e a Vir-

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Suo caratte-re.

gilio che vi era presente prestò quel rispetto e quell'ono-re medesimo che render soleva ad Augusto (Auctor.Dial. de caussis corr. eloquent.).

XXI. Gli elogi de' quali è stato onorato Vir-gilio son tali quali appunto convengono alprincipe de' latini poeti. Quintiliano il chia-ma autore eminentissimo (l. 1, c. 10) euomo di finissimo intendimento (l. 8, c. 3), e

parlando de' latini poeti lo dice il primo, e in tal manierane forma il paragon con Omero (l. 10, c. 1): Itaque utapud illos Homerus, sic apud nos Virgilius auspicatissi-mum dedit exordium, omnium ejus generis poetarumGræcorum nostrorumque illi haud dubie proximus. Utarenim verbis eisdem, Quæ ex Afro Domitio juvenis acce-pi, qui mihi interroganti, quem Homero crederet maxi-me accedere: secundus, inquit, est Virgilius, propior ta-men primo quam tertio. Et hercle, ut illi natura, cælestiatque immortali cesserimus, ita curæ et diligentiæ velideo in hoc plus est, quod ei fuit magis laborandum, etquantum eminentioribus vincimur, fortasse æqualitatepensamus. Più breve ma forse ancor più magnifico si èl'elogio che gli fa Macrobio: Homericæ perfectionis peromnia imitator Maro, nullius disciplinæ, expers, etquem nullius disciplinæ error involvit (In Somn Scip. l.1, c. 7 et l. 2, c. 8). Al qual proposito, oltre molti altritrattati di tal natura, degno è singolarmente d'essere lettoil Saggio sopra la scienza militare di Virgilio del co.

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Elogi esso di fatti, e paragone con Omero.

gilio che vi era presente prestò quel rispetto e quell'ono-re medesimo che render soleva ad Augusto (Auctor.Dial. de caussis corr. eloquent.).

XXI. Gli elogi de' quali è stato onorato Vir-gilio son tali quali appunto convengono alprincipe de' latini poeti. Quintiliano il chia-ma autore eminentissimo (l. 1, c. 10) euomo di finissimo intendimento (l. 8, c. 3), e

parlando de' latini poeti lo dice il primo, e in tal manierane forma il paragon con Omero (l. 10, c. 1): Itaque utapud illos Homerus, sic apud nos Virgilius auspicatissi-mum dedit exordium, omnium ejus generis poetarumGræcorum nostrorumque illi haud dubie proximus. Utarenim verbis eisdem, Quæ ex Afro Domitio juvenis acce-pi, qui mihi interroganti, quem Homero crederet maxi-me accedere: secundus, inquit, est Virgilius, propior ta-men primo quam tertio. Et hercle, ut illi natura, cælestiatque immortali cesserimus, ita curæ et diligentiæ velideo in hoc plus est, quod ei fuit magis laborandum, etquantum eminentioribus vincimur, fortasse æqualitatepensamus. Più breve ma forse ancor più magnifico si èl'elogio che gli fa Macrobio: Homericæ perfectionis peromnia imitator Maro, nullius disciplinæ, expers, etquem nullius disciplinæ error involvit (In Somn Scip. l.1, c. 7 et l. 2, c. 8). Al qual proposito, oltre molti altritrattati di tal natura, degno è singolarmente d'essere lettoil Saggio sopra la scienza militare di Virgilio del co.

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Elogi esso di fatti, e paragone con Omero.

Francesco Algarotti. Molti de' moderni scrittori han pre-so a fare il confronto di Virgilio e d'Omero, e diversisono i pareri, chi de' due debba all'altro anteporsi. Nelche è avvenuto, come in più altri argomenti, che lo spiri-to di partito più che l'amore del vero abbia per lo piùcondotta la penna degli scrittori. Altri per innalzare Vir-gilio hanno oltre il dovere abbassato Omero: altri non ri-conoscon poeta alcuno, trattone Omero, e fanno di Vir-gilio un imitatore servile e poco men che plagiario. Ame pare che più giustamente di tutti abbiano scritto suquesto argomento il p. Rapin (Comparaison d'Hom. etde Virg.), e l'ab. Trublet (Essais de Littérature et de Mo-rale t. 4, p. 337); benchè quegli ampiamente e saggia-mente abbia esaminati e confrontati tra loro amendue ipoemi; questi in brevi tratti, e talvolta un po' raffinati,abbia unicamente adombrati i lor diversi caratteri. Diquesto secondo recherò io qui qualche parte: Homere,dic'egli, est plus poète; Virgile est un poète plus parfait.Le premier possede dans un degré plus éminentquelques-unes des qualités que demande la poésie, lesecond réunit un plus grand nombre de ces qualités, etelles se trouvent toutes chez lui dans la proportion laplus exacte. L'un cause un plaisir plus vif; l'autre unplaisir plus doux.... L'homme de génie est plus frappéd'Homere; l'homme de goût est plus touchè de Virgile....Il y a plus d'or dans Homere; ce qu'il y en a dans Virgileest plus pur et plus poli.... L'Enéide vaut mieux quel'Iliade; mais Homere valoit mieux que Virgile. Unegrande partie des défauts de l'Iliade sont ceux du siècle

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Francesco Algarotti. Molti de' moderni scrittori han pre-so a fare il confronto di Virgilio e d'Omero, e diversisono i pareri, chi de' due debba all'altro anteporsi. Nelche è avvenuto, come in più altri argomenti, che lo spiri-to di partito più che l'amore del vero abbia per lo piùcondotta la penna degli scrittori. Altri per innalzare Vir-gilio hanno oltre il dovere abbassato Omero: altri non ri-conoscon poeta alcuno, trattone Omero, e fanno di Vir-gilio un imitatore servile e poco men che plagiario. Ame pare che più giustamente di tutti abbiano scritto suquesto argomento il p. Rapin (Comparaison d'Hom. etde Virg.), e l'ab. Trublet (Essais de Littérature et de Mo-rale t. 4, p. 337); benchè quegli ampiamente e saggia-mente abbia esaminati e confrontati tra loro amendue ipoemi; questi in brevi tratti, e talvolta un po' raffinati,abbia unicamente adombrati i lor diversi caratteri. Diquesto secondo recherò io qui qualche parte: Homere,dic'egli, est plus poète; Virgile est un poète plus parfait.Le premier possede dans un degré plus éminentquelques-unes des qualités que demande la poésie, lesecond réunit un plus grand nombre de ces qualités, etelles se trouvent toutes chez lui dans la proportion laplus exacte. L'un cause un plaisir plus vif; l'autre unplaisir plus doux.... L'homme de génie est plus frappéd'Homere; l'homme de goût est plus touchè de Virgile....Il y a plus d'or dans Homere; ce qu'il y en a dans Virgileest plus pur et plus poli.... L'Enéide vaut mieux quel'Iliade; mais Homere valoit mieux que Virgile. Unegrande partie des défauts de l'Iliade sont ceux du siècle

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d'Homere; les défauts de l'Enéide sont ceux de Virgile.Il y a plus de fautes dans l'Iliade, el plus de défautsdans l'Enéide.... Il y a plus de talent et d'abondancedans Homere, plus d'art et de choix dans Virgile, ec. Unaltro confronto, ma di diversa maniera, ha fatto Macro-bio tra questi due poeti, il qual merita di esser letto, per-ciocchè egli ha diligentemente raccolti tutti i passi ne'quali Virgilio o ha tradotto, o ha imitato Omero; e inol-tre tutti i versi che Virgilio o interamente, o in parte hapreso da' più antichi poeti latini. Ma de' diversi senti-menti di quelli che hanno fatto il paragone di Virgiliocon Omero, veggasi singolarmente il Baillet che assailungamente li riferisce (Jugement des Sçavans t. 3, p.214). Una cosa sola aggiugnerò qui io su questo argo-mento, cioè che comunque si conceda ad Omero la pre-ferenza sopra Virgilio, a gran lode di questo deesi peròascrivere che non con Omero soltanto, ma con due altride' migliori poeti greci prendesse a gareggiare egli solo,e gl'imitasse per modo che non fosse così agevole a dif-finire se non abbiali superati, o uguagliati almeno (63).

XXII. Infinite sono l'edizioni, le dichiara-zioni, i comenti, le traduzioni in ogni lin-gua, che delle opere di Virgilio abbiamo allestampe. Il diligente Fabricio più pagine ha

63 Merita ancora di esser letto l'ingegnoso e giusto confronto che ha posciafatto il sopraccitato ab. Andres tra Omero e Virgilio, e tra' lor poemi(Dell'Origine e progressi d'ogni Letter. t. 2, p. 115), nel quale, benché nontolga punto delle meritate lodi al poeta greco, si mostra nondimeno più fa-vorevole al latino, e analizza diligentemente tutte le parti nelle quali glisembra che il secondo superi il primo.

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Edizioni,comenti,ec.

d'Homere; les défauts de l'Enéide sont ceux de Virgile.Il y a plus de fautes dans l'Iliade, el plus de défautsdans l'Enéide.... Il y a plus de talent et d'abondancedans Homere, plus d'art et de choix dans Virgile, ec. Unaltro confronto, ma di diversa maniera, ha fatto Macro-bio tra questi due poeti, il qual merita di esser letto, per-ciocchè egli ha diligentemente raccolti tutti i passi ne'quali Virgilio o ha tradotto, o ha imitato Omero; e inol-tre tutti i versi che Virgilio o interamente, o in parte hapreso da' più antichi poeti latini. Ma de' diversi senti-menti di quelli che hanno fatto il paragone di Virgiliocon Omero, veggasi singolarmente il Baillet che assailungamente li riferisce (Jugement des Sçavans t. 3, p.214). Una cosa sola aggiugnerò qui io su questo argo-mento, cioè che comunque si conceda ad Omero la pre-ferenza sopra Virgilio, a gran lode di questo deesi peròascrivere che non con Omero soltanto, ma con due altride' migliori poeti greci prendesse a gareggiare egli solo,e gl'imitasse per modo che non fosse così agevole a dif-finire se non abbiali superati, o uguagliati almeno (63).

XXII. Infinite sono l'edizioni, le dichiara-zioni, i comenti, le traduzioni in ogni lin-gua, che delle opere di Virgilio abbiamo allestampe. Il diligente Fabricio più pagine ha

63 Merita ancora di esser letto l'ingegnoso e giusto confronto che ha posciafatto il sopraccitato ab. Andres tra Omero e Virgilio, e tra' lor poemi(Dell'Origine e progressi d'ogni Letter. t. 2, p. 115), nel quale, benché nontolga punto delle meritate lodi al poeta greco, si mostra nondimeno più fa-vorevole al latino, e analizza diligentemente tutte le parti nelle quali glisembra che il secondo superi il primo.

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Edizioni,comenti,ec.

impiegato a noverarne le principali (Bibl. lat. l. 1, c. 12)e molte nondimeno ne ha tralasciate, parte perchè a luinon note, parte perchè pubblicate dopo l'edizione dellaSua Biblioteca. E per parlare solo delle Egloghe, quat-tro, o cinque nuove traduzioni italiane ne abbiamo avutoin questi ultimi anni. Ma, come già ho detto, non è quimia intenzione di favellarne. Al fine di questo volumeaccennerò alcune delle migliori. Si può vedere ancoraciò che intorno a Virgilio ha scritto l'ab. Goujet (Bibl.franc. t. 5, p. 217, ec.), il quale annovera eruditamente ediscorre di tutti i libri che in Francia sulle poesie di Vir-gilio o contro di esse o a lor difesa, e su varj passi delpoema si son pubblicati. Io non ho fatta menzione degliosceni epigrammi che sotto il nome di Priapeja sonostati in alcune edizioni aggiunti alle poesie di Virgilio.Ma intorno al vero autore di essi vi ha quasi tanti pareriquanti scrittori. A me certo non pare che il carattere co-munemente modesto di Virgilio ci permetta il crederloautore di tante laidezze; e pià probabil fra tutte mi sem-bra l'opinion di coloro che pensano ch'ella sia una rac-colta di diversi poeti, tra' quali possa avervi avuta parteVirgilio ancora, e Catullo, e Ovidio, ed altri (V. Fabr.Bibl. lat. l. 1, c. 12).

XXIII. Sesto Aurelio Properzio richiede aragione di non andare disgiunto da' tre poetidi cui abbiam finora parlato. Assai scarseson le notizie che ne abbiamo. Poco di se

stesso, e quasi solo de' suoi amori egli parla nelle sue

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Notizie e carattere di Properzio.

impiegato a noverarne le principali (Bibl. lat. l. 1, c. 12)e molte nondimeno ne ha tralasciate, parte perchè a luinon note, parte perchè pubblicate dopo l'edizione dellaSua Biblioteca. E per parlare solo delle Egloghe, quat-tro, o cinque nuove traduzioni italiane ne abbiamo avutoin questi ultimi anni. Ma, come già ho detto, non è quimia intenzione di favellarne. Al fine di questo volumeaccennerò alcune delle migliori. Si può vedere ancoraciò che intorno a Virgilio ha scritto l'ab. Goujet (Bibl.franc. t. 5, p. 217, ec.), il quale annovera eruditamente ediscorre di tutti i libri che in Francia sulle poesie di Vir-gilio o contro di esse o a lor difesa, e su varj passi delpoema si son pubblicati. Io non ho fatta menzione degliosceni epigrammi che sotto il nome di Priapeja sonostati in alcune edizioni aggiunti alle poesie di Virgilio.Ma intorno al vero autore di essi vi ha quasi tanti pareriquanti scrittori. A me certo non pare che il carattere co-munemente modesto di Virgilio ci permetta il crederloautore di tante laidezze; e pià probabil fra tutte mi sem-bra l'opinion di coloro che pensano ch'ella sia una rac-colta di diversi poeti, tra' quali possa avervi avuta parteVirgilio ancora, e Catullo, e Ovidio, ed altri (V. Fabr.Bibl. lat. l. 1, c. 12).

XXIII. Sesto Aurelio Properzio richiede aragione di non andare disgiunto da' tre poetidi cui abbiam finora parlato. Assai scarseson le notizie che ne abbiamo. Poco di se

stesso, e quasi solo de' suoi amori egli parla nelle sue

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Notizie e carattere di Properzio.

Elegie. Caro ad Augusto e a Mecenate canta spesso leloro lodi; e quindi è certo che a' loro tempi egli visse;anzi è evidente ch'egli scriveva fino da' primi tempid'Augusto, perciocchè un'elegia abbiamo da lui compo-sta per la battaglia di Azzio (l. 4, el. 6). Certo è ancorach'egli fiorì di mezzo a Tibullo e ad Ovidio; perciocchèquesti parlando di Tibullo dice (l. 4 Trist. el. 9): Successor fuit hic tibi, Galle; Propertius illi:

Quartus ab his serie temporis ipse fui.

Nacque nell'Umbria, come egli stesso afferma (l. 1, el.22) ma in qual città precisamente nè egli il dice, nè ve-run altro antico scrittore. Quindi, come suole avvenire,non vi ha quasi città nell'Umbria, che nol voglia suo.Ognuna ne adduce argomenti e prove che a lei sembranoconvincenti, ma che dalle altre si giudicano di niun pesoin confronto alle loro. Veggansi intorno a questa contesala prefazione del Broukuse all'edizion di Properzio dalui premessa a' suoi comenti su questo poeta, il giornalede' Letterati d'Italia (t. 34, art. 10), le Memorie di Tre-voux (an. 1723, mai, p. 838), gli Atti di Lipsia (an.1725, p. 363), e singolarmente la Nuova Raccolta diopuscoli scientifici, ec. (t. 7, p. 6) in cui una lunga ederudita dissertazione si legge di monsig. Fabio degli Al-berti vicario generale di Sinigaglia, nella quale con assaiforti argomenti dimostra che la patria di Properzio fuBevagna. Il Volpi conghiettura che l'importuno ciarlone,cui sì elegantementc deride Orazio (l. 1, sat. 9), altri nonfosse che Properzio. Ma troppo deboli sono tai con-

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Elegie. Caro ad Augusto e a Mecenate canta spesso leloro lodi; e quindi è certo che a' loro tempi egli visse;anzi è evidente ch'egli scriveva fino da' primi tempid'Augusto, perciocchè un'elegia abbiamo da lui compo-sta per la battaglia di Azzio (l. 4, el. 6). Certo è ancorach'egli fiorì di mezzo a Tibullo e ad Ovidio; perciocchèquesti parlando di Tibullo dice (l. 4 Trist. el. 9): Successor fuit hic tibi, Galle; Propertius illi:

Quartus ab his serie temporis ipse fui.

Nacque nell'Umbria, come egli stesso afferma (l. 1, el.22) ma in qual città precisamente nè egli il dice, nè ve-run altro antico scrittore. Quindi, come suole avvenire,non vi ha quasi città nell'Umbria, che nol voglia suo.Ognuna ne adduce argomenti e prove che a lei sembranoconvincenti, ma che dalle altre si giudicano di niun pesoin confronto alle loro. Veggansi intorno a questa contesala prefazione del Broukuse all'edizion di Properzio dalui premessa a' suoi comenti su questo poeta, il giornalede' Letterati d'Italia (t. 34, art. 10), le Memorie di Tre-voux (an. 1723, mai, p. 838), gli Atti di Lipsia (an.1725, p. 363), e singolarmente la Nuova Raccolta diopuscoli scientifici, ec. (t. 7, p. 6) in cui una lunga ederudita dissertazione si legge di monsig. Fabio degli Al-berti vicario generale di Sinigaglia, nella quale con assaiforti argomenti dimostra che la patria di Properzio fuBevagna. Il Volpi conghiettura che l'importuno ciarlone,cui sì elegantementc deride Orazio (l. 1, sat. 9), altri nonfosse che Properzio. Ma troppo deboli sono tai con-

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ghietture, nè par verisimile che Orazio parlasse con taldisprezzo di un egregio poeta. Callimaco e Fileta, poetigreci, furon quelli ch'egli nelle sue elegie prese ad imita-re, e aprì in tal modo una nuova strada a' latini poeti,com'egli stesso si vanta (l. 3, el. 1). Il suo stile infattinon è lo stil di Catullo, nè quel di Tibullo. Superiore adamendue nella vivacità della fantasia e nella forzadell'espressione, è nondimeno inferiore nella grazia alprimo, nella facilità e nell'affetto al secondo. Le suepoesie ci mostran lo studio che de' poeti greci avea eglifatto, perciocchè piene sono di favole, di figure, diespressioni greche, che loro accrescono gravità e forzanon ordinaria.

XXIV. A questa età medesima appartieneGrazio dalla sua patria soprannomato Fali-sco. Appena sapremmo a qual tempo eglifosse vivuto, se Ovidio non avesse di lui edel suo poema fatto menzione nel distico

stesso in cui parla di Virgilio, e con ciò indicato chepresso al tempo medesimo vissero amendue: Tityrus antiquas et erat qui pasceret herbas;

Aptaque venanti Gratius arma daret (l. 4 Trist. el. 9).

Della caccia adunque che si fa coi cani scrisse egli unpoema intitolato Cynegeticon, non indegno del tempo acui egli visse. Erasene nondimeno perduta ogni memo-ria, e solo l'an. 1534 videsi uscire alla luce, benchè man-

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Poema di-dascalico diGrazio Fa-lisco.

ghietture, nè par verisimile che Orazio parlasse con taldisprezzo di un egregio poeta. Callimaco e Fileta, poetigreci, furon quelli ch'egli nelle sue elegie prese ad imita-re, e aprì in tal modo una nuova strada a' latini poeti,com'egli stesso si vanta (l. 3, el. 1). Il suo stile infattinon è lo stil di Catullo, nè quel di Tibullo. Superiore adamendue nella vivacità della fantasia e nella forzadell'espressione, è nondimeno inferiore nella grazia alprimo, nella facilità e nell'affetto al secondo. Le suepoesie ci mostran lo studio che de' poeti greci avea eglifatto, perciocchè piene sono di favole, di figure, diespressioni greche, che loro accrescono gravità e forzanon ordinaria.

XXIV. A questa età medesima appartieneGrazio dalla sua patria soprannomato Fali-sco. Appena sapremmo a qual tempo eglifosse vivuto, se Ovidio non avesse di lui edel suo poema fatto menzione nel distico

stesso in cui parla di Virgilio, e con ciò indicato chepresso al tempo medesimo vissero amendue: Tityrus antiquas et erat qui pasceret herbas;

Aptaque venanti Gratius arma daret (l. 4 Trist. el. 9).

Della caccia adunque che si fa coi cani scrisse egli unpoema intitolato Cynegeticon, non indegno del tempo acui egli visse. Erasene nondimeno perduta ogni memo-ria, e solo l'an. 1534 videsi uscire alla luce, benchè man-

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Poema di-dascalico diGrazio Fa-lisco.

cante del finimento, dalle stampe di Paolo Manuzio peropera di Giorgio Logo, il quale ebbelo tratto da un anti-co codice che il Sannazzaro avea seco portato in Italiatornando di Francia, ove forse era stato prima dall'Italiatrasportato.

XXV. A questi poeti che vissero e morironoa' tempi di Augusto, e le cui opere ci sonpervenute, più altri voglionsi aggiugnere lepoesie de' quali si sono infelicemente smar-rite, o se alcune leggonsi sotto il lor nome,

non è abbastanza certo ch'essi ne siano autori. Tra questiil più degno di lode pare che fosse C. Cornelio Gallo,seppure gli eruditi Maurini autori della Storia Letterariadi Francia ci permettono di chiamarlo italiano. Essi sen-za punto esitare ci assicurano che Cornelio Gallo....nacque a Frejus nella Gallia narbonese (Hist. littér, dela France t. 1. p. 101). Ma a non parere di averlo asseri-to senza alcun fondamento aggiungono a piè di paginaquesta nota: "Siccome la parola latina di cui si val s. Gi-rolamo (nella Cronaca eusebiana ove il chiama Foroju-liensis) per segnar la patria di Gallo, significa e la cittàdi Frejus in Provenza, e il Friuli in Italia, alcuni Italianiseguiti da alcuni moderni Francesi l'hanno intesa in que-sto ultimo senso. Ma sembra indubitabile che si debbaintender di Frejus, che era allora una colonia romana piùcelebre che non il Friuli". Ed ecco la prima ragione percui sembra indubitabile che Cornelio Gallo nascesse in

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Di qual pa-tria fosse Cornelio Gallo.

cante del finimento, dalle stampe di Paolo Manuzio peropera di Giorgio Logo, il quale ebbelo tratto da un anti-co codice che il Sannazzaro avea seco portato in Italiatornando di Francia, ove forse era stato prima dall'Italiatrasportato.

XXV. A questi poeti che vissero e morironoa' tempi di Augusto, e le cui opere ci sonpervenute, più altri voglionsi aggiugnere lepoesie de' quali si sono infelicemente smar-rite, o se alcune leggonsi sotto il lor nome,

non è abbastanza certo ch'essi ne siano autori. Tra questiil più degno di lode pare che fosse C. Cornelio Gallo,seppure gli eruditi Maurini autori della Storia Letterariadi Francia ci permettono di chiamarlo italiano. Essi sen-za punto esitare ci assicurano che Cornelio Gallo....nacque a Frejus nella Gallia narbonese (Hist. littér, dela France t. 1. p. 101). Ma a non parere di averlo asseri-to senza alcun fondamento aggiungono a piè di paginaquesta nota: "Siccome la parola latina di cui si val s. Gi-rolamo (nella Cronaca eusebiana ove il chiama Foroju-liensis) per segnar la patria di Gallo, significa e la cittàdi Frejus in Provenza, e il Friuli in Italia, alcuni Italianiseguiti da alcuni moderni Francesi l'hanno intesa in que-sto ultimo senso. Ma sembra indubitabile che si debbaintender di Frejus, che era allora una colonia romana piùcelebre che non il Friuli". Ed ecco la prima ragione percui sembra indubitabile che Cornelio Gallo nascesse in

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Di qual pa-tria fosse Cornelio Gallo.

Frejus anzi che nel Friuli. Frejus era una colonia più ce-lebre che non il Friuli. Ma come provasi ciò? E qual au-torità se ne adduce? Senza che, qual argomento è que-sto? Frejus era colonia più celebre che non il Friuli:dunque s. Girolamo dicendo Gallo Forojuliese intendeparlar di Frejus e non del Friuli. Dunque perchè, a ca-gion d'esempio, Valenza di Spagna è più celebre che nonValenza di Francia, o Valenza d'Italia, basterà il dire cheuno fu natio di Valenza, perchè si debba intendersenz'altro che e' fu spagnuolo? Ma veggiamo quali altreragioni si arrechino a provarlo: "Per altra parte, oltrechèil nome di Gallo significa un uomo gallo di origine, s.Girolamo disegna qui il luogo fisso della nascita di que-sto poeta, anzichè il nome generale e indeterminato delsuo paese". Due ragioni per vero dire fortissime. Ilnome di Gallo suppone un uomo di origine gallo. Sareb-be difficil cosa a provarlo. Pur si conceda. Ma di qualGallia? Non poteva egli essere della cisalpina, cioèdell'Italia, a cui appunto secondo molti apparteneva an-che il Friuli? In oltre non potevano forse i suoi primi an-tenati essere stati ancora, se così si voglia, oriondi dallaGallia narbonese, e i lor discendenti passati già da moltotempo in Italia? Che poi s. Girolamo segni qui il luogopreciso della nascita di Gallo, e non il suo paese in ge-nerale, primieramente come provasi mai? In oltre ilnome di Forum Julii, significa egli forse solo il Friuli ingenerale, e non anche una città di esso collo stessonome chiamata, e che or dicesi Cividal del Friuli? Nonpare dunque indubitabile che Cornelio Gallo fosse nati-

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Frejus anzi che nel Friuli. Frejus era una colonia più ce-lebre che non il Friuli. Ma come provasi ciò? E qual au-torità se ne adduce? Senza che, qual argomento è que-sto? Frejus era colonia più celebre che non il Friuli:dunque s. Girolamo dicendo Gallo Forojuliese intendeparlar di Frejus e non del Friuli. Dunque perchè, a ca-gion d'esempio, Valenza di Spagna è più celebre che nonValenza di Francia, o Valenza d'Italia, basterà il dire cheuno fu natio di Valenza, perchè si debba intendersenz'altro che e' fu spagnuolo? Ma veggiamo quali altreragioni si arrechino a provarlo: "Per altra parte, oltrechèil nome di Gallo significa un uomo gallo di origine, s.Girolamo disegna qui il luogo fisso della nascita di que-sto poeta, anzichè il nome generale e indeterminato delsuo paese". Due ragioni per vero dire fortissime. Ilnome di Gallo suppone un uomo di origine gallo. Sareb-be difficil cosa a provarlo. Pur si conceda. Ma di qualGallia? Non poteva egli essere della cisalpina, cioèdell'Italia, a cui appunto secondo molti apparteneva an-che il Friuli? In oltre non potevano forse i suoi primi an-tenati essere stati ancora, se così si voglia, oriondi dallaGallia narbonese, e i lor discendenti passati già da moltotempo in Italia? Che poi s. Girolamo segni qui il luogopreciso della nascita di Gallo, e non il suo paese in ge-nerale, primieramente come provasi mai? In oltre ilnome di Forum Julii, significa egli forse solo il Friuli ingenerale, e non anche una città di esso collo stessonome chiamata, e che or dicesi Cividal del Friuli? Nonpare dunque indubitabile che Cornelio Gallo fosse nati-

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vo di Frejus, e non se ne adduce a provarlo ragione alcu-na. Anzi mons. Fontanini (Hist. Lit. Aquil. l. 1, c. 1), edopo lui il sig. Gian Giuseppe Liruti (Notizie de' Lette-rati del Friuli t. 1, p. 2) assai buoni argomenti arrecanoa provare ch'egli nacque in Cividal del Friuli; e quinditale opinione, se non indubitabile, sembra certo assai piùprobabile che non la contraria. Io non tratterrommi a ri-ferire gli accennati argomenti, che altro non potrei farche ripetere ciò che si è detto da questi autori cui potràconsultare chi di ciò sia vago (64).

XXVI. I citati Maurini il fanno nascere ver-so l'an. 688 di Roma. Ma si può più precisa-mente determinare col Fontanini l'an. 685,

essendo certo, come lo stesso autore dimostra, ch'eglimorì in età di 43 anni l'anno 728. La serie della vita dalui condotta e degli onorevoli impieghi da lui sostenuti èdiligentemente descritta da' due mentovati autori che alungo, e il Fontanini singolarmente, hanno trattato que-sto punto di storia. Io accennerò solamente ch'egli ebbe

64 Alcuni hanno creduto che Cornelio Gallo fosse natio non del Friuli, madella città del Forlì, appoggiandosi ad alcuni codici della Cronaca eusebia-na, ne' quali leggesi Foroliviensis, non Forojuliensis; e il celebre dott.Morgagni si è ingegnosamente sforzato di rendere probabile questa opinio-ne (Ep. 1 e 10). Ma a dir vero se si pongono a confronto tra loro le testi-monianze ch'ei porta in favor di Forlì, con quelle che si producono da' duescrittori da me mentovati, il Fontanini e il Liruti, in favore del Friuli, nonsembra che le prime cose possano sostenersi in faccia alle seconde. Moltopiù rovinosa è l'opinione di quelli che il dicono vicentino, la quale da Apo-stolo Zeno è stata impegnata. (Lettere t. 1, p. 32, ec.)

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Notizie del-la sua vita.

vo di Frejus, e non se ne adduce a provarlo ragione alcu-na. Anzi mons. Fontanini (Hist. Lit. Aquil. l. 1, c. 1), edopo lui il sig. Gian Giuseppe Liruti (Notizie de' Lette-rati del Friuli t. 1, p. 2) assai buoni argomenti arrecanoa provare ch'egli nacque in Cividal del Friuli; e quinditale opinione, se non indubitabile, sembra certo assai piùprobabile che non la contraria. Io non tratterrommi a ri-ferire gli accennati argomenti, che altro non potrei farche ripetere ciò che si è detto da questi autori cui potràconsultare chi di ciò sia vago (64).

XXVI. I citati Maurini il fanno nascere ver-so l'an. 688 di Roma. Ma si può più precisa-mente determinare col Fontanini l'an. 685,

essendo certo, come lo stesso autore dimostra, ch'eglimorì in età di 43 anni l'anno 728. La serie della vita dalui condotta e degli onorevoli impieghi da lui sostenuti èdiligentemente descritta da' due mentovati autori che alungo, e il Fontanini singolarmente, hanno trattato que-sto punto di storia. Io accennerò solamente ch'egli ebbe

64 Alcuni hanno creduto che Cornelio Gallo fosse natio non del Friuli, madella città del Forlì, appoggiandosi ad alcuni codici della Cronaca eusebia-na, ne' quali leggesi Foroliviensis, non Forojuliensis; e il celebre dott.Morgagni si è ingegnosamente sforzato di rendere probabile questa opinio-ne (Ep. 1 e 10). Ma a dir vero se si pongono a confronto tra loro le testi-monianze ch'ei porta in favor di Forlì, con quelle che si producono da' duescrittori da me mentovati, il Fontanini e il Liruti, in favore del Friuli, nonsembra che le prime cose possano sostenersi in faccia alle seconde. Moltopiù rovinosa è l'opinione di quelli che il dicono vicentino, la quale da Apo-stolo Zeno è stata impegnata. (Lettere t. 1, p. 32, ec.)

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Notizie del-la sua vita.

stretta amicizia con Asinio Pollione di cui poscia avre-mo a parlare; che fu uno de' più confidenti amici di Vir-gilio, e forse il principale autore della grazia di Mecena-te, di cui questi godette che da Augusto fu adoperatonella guerra contro di Antonio e di Cleopatra, in cui die'prove di militare coraggio e di singolare prudenza; e cheda lui ancora gli fu affidato il governo di tutto l'Egitto.Ma poscia per varie accuse a lui date presso ad Augustoed al senato romano spogliato di tutti i beni ed esiliato,da se medesimo si uccise l'an. 728 come si è detto. Severi fossero, o falsi i delitti apposti a Cornelio Gallo,lungamente si esamina dal Fontanini, a cui pare che al-meno in gran parte ei ne fosse innocente.

XXVII. Delle poesie di Gallo quasi niunframmento non ci è rimasto. Ma egli è certoche per esse fu in gran nome. Virgilio neparla con lode nell'egloga X che dal nome

di esso volle intitolata; e Servio comentando l'eglogastessa afferma che molti versi di Gallo avea Virgilio inessa inseriti. Anzi racconta Donato (in Vit. Virgil.) chel'ultima parte del quarto libro delle Georgiche avea egliconsacrata alle lodi dell'amico poeta; ma che poscia percomando di Augusto le tolse e vi sostituì la favola diAristeo. Alcuni, e singolarmente il p. la Rue, hanno suquesto punto mosse difficoltà alle quali dal Fontanini siè fatta risposta. Ovidio ancora ne parla in più luoghi consomma lode. Ci basti l'arrecarne due passi:

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Sue poesie quanto allo-ra stimate.

stretta amicizia con Asinio Pollione di cui poscia avre-mo a parlare; che fu uno de' più confidenti amici di Vir-gilio, e forse il principale autore della grazia di Mecena-te, di cui questi godette che da Augusto fu adoperatonella guerra contro di Antonio e di Cleopatra, in cui die'prove di militare coraggio e di singolare prudenza; e cheda lui ancora gli fu affidato il governo di tutto l'Egitto.Ma poscia per varie accuse a lui date presso ad Augustoed al senato romano spogliato di tutti i beni ed esiliato,da se medesimo si uccise l'an. 728 come si è detto. Severi fossero, o falsi i delitti apposti a Cornelio Gallo,lungamente si esamina dal Fontanini, a cui pare che al-meno in gran parte ei ne fosse innocente.

XXVII. Delle poesie di Gallo quasi niunframmento non ci è rimasto. Ma egli è certoche per esse fu in gran nome. Virgilio neparla con lode nell'egloga X che dal nome

di esso volle intitolata; e Servio comentando l'eglogastessa afferma che molti versi di Gallo avea Virgilio inessa inseriti. Anzi racconta Donato (in Vit. Virgil.) chel'ultima parte del quarto libro delle Georgiche avea egliconsacrata alle lodi dell'amico poeta; ma che poscia percomando di Augusto le tolse e vi sostituì la favola diAristeo. Alcuni, e singolarmente il p. la Rue, hanno suquesto punto mosse difficoltà alle quali dal Fontanini siè fatta risposta. Ovidio ancora ne parla in più luoghi consomma lode. Ci basti l'arrecarne due passi:

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Sue poesie quanto allo-ra stimate.

Gallus et Hesperiis, et Gallus notus Eois, Et sua cum Gallo nota Lycoris erat (Amor. el. 15).

E altrove: Quis potuit lecto durus discedere Gallo?

(De Rem. Amor. l. 1. v. 765)

Nè con minor elogio parlan di lui Properzio (l. 2, el. 33),Marziale (l. 8, epigr. 73), ed altri antichi. Anzi un certoPartenio di Nicea, che a que' tempi viveva in Roma,scritto avendo un libro in greco su gli effetti d'amore, alui dedicollo. Quattro libri di Elegie avea egli scritto inlode della sua Licoride; e più libri di Euforione avea dalgreco in latin linguaggio recati. Il poemetto intitolatoCiris, che in certe edizioni si aggiugne all'opere di Virgi-lio a cui da alcuni è stato attribuito, da altri credesi esserveramente di Gallo. Di questo parere è il Fontanini, epresso lui si posson vedere le ragioni che ne arreca (loc.cit. c. 2). Ciò ch'è certo, si è che le Elegie che sonostampate col nome di Gallo, non sono suo lavoro. FuPomponio Gaurico che al principio del XVI secolo lepubblicò; ma la frode fu tosto da alcuni Italiani scoper-ta; e comunemente si crede ch'esse siano di un certoMassimiano etrusco che fiori a' tempi di Boezio, e di cuia suo tempo ragioneremo. Intorno a che veggasi il piùvolte citato mons. Fontanini.

XXVIII. Degli altri poeti che a questo tem-po fiorirono, io non farò che accennar bre-

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Più altri poeti di que' tempi medesimi.

Gallus et Hesperiis, et Gallus notus Eois, Et sua cum Gallo nota Lycoris erat (Amor. el. 15).

E altrove: Quis potuit lecto durus discedere Gallo?

(De Rem. Amor. l. 1. v. 765)

Nè con minor elogio parlan di lui Properzio (l. 2, el. 33),Marziale (l. 8, epigr. 73), ed altri antichi. Anzi un certoPartenio di Nicea, che a que' tempi viveva in Roma,scritto avendo un libro in greco su gli effetti d'amore, alui dedicollo. Quattro libri di Elegie avea egli scritto inlode della sua Licoride; e più libri di Euforione avea dalgreco in latin linguaggio recati. Il poemetto intitolatoCiris, che in certe edizioni si aggiugne all'opere di Virgi-lio a cui da alcuni è stato attribuito, da altri credesi esserveramente di Gallo. Di questo parere è il Fontanini, epresso lui si posson vedere le ragioni che ne arreca (loc.cit. c. 2). Ciò ch'è certo, si è che le Elegie che sonostampate col nome di Gallo, non sono suo lavoro. FuPomponio Gaurico che al principio del XVI secolo lepubblicò; ma la frode fu tosto da alcuni Italiani scoper-ta; e comunemente si crede ch'esse siano di un certoMassimiano etrusco che fiori a' tempi di Boezio, e di cuia suo tempo ragioneremo. Intorno a che veggasi il piùvolte citato mons. Fontanini.

XXVIII. Degli altri poeti che a questo tem-po fiorirono, io non farò che accennar bre-

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Più altri poeti di que' tempi medesimi.

vemente i nomi e le cose più memorabili che di essi sap-piamo. E primieramente il dottissimo M. Terenzio Var-rone di cui poscia avremo a parlar lungamente, fu poetaegli pure, e un gran numero singolarmente scrisse di sa-tire miste di prosa e di versi a varj metri, che da Menip-po poeta greco, il quale fu il primo a darne l'esempio,ebbero il nome di menippee (V. Fabric. Bibl. lat. l. 1, c.7). Non parlo qui di un altro Varrone detto Atacino, per-chè a ragione potrebbon di noi dolersi i Francesi chedopo aver tolto loro Cornelio Gallo, questo ancora vo-lessimo loro rapire, che per comun consenso degli anti-chi e moderni scrittori è detto Gallo di patria, cioè natoin Atace luogo della Gallia narbonese. Giulio Cesareche in mezzo al rumore dell'armi e al tumulto delleguerre civili seppe sì felicemente coltivare le scienze, fubuon poeta; e un poema fatto nel suo viaggio da Romain Ispagna, e una sua tragedia in età giovanile compostarammenta Svetonio (in Jul. c. 56). Ma di questogrand'uomo avremo poscia a parlare più lungamente. UnCornificio poeta, e una sua sorella di cui si dice leggersitutt'ora insigni epigrammi, si mentova nella Cronaca eu-sebiana (ad olymp. 184, an. 11). Di Cassio parmigianoparla con somma lode Orazio (l. 1, ep. 4), e l'antico co-mentatore di questo poeta ne loda assai le Elegie e gliEpigrammi, e aggiugne che per ordin d'Augusto fu ucci-so da Q. Varo, il quale trovato avendolo immerso ne'suoi poetici studj, poichè l'ebbe ucciso, seco ne portò loscrigno co' libri; onde correva voce che la tragedia inti-tolata Tieste, che dicevasi composta da Varo, fosse vera-

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vemente i nomi e le cose più memorabili che di essi sap-piamo. E primieramente il dottissimo M. Terenzio Var-rone di cui poscia avremo a parlar lungamente, fu poetaegli pure, e un gran numero singolarmente scrisse di sa-tire miste di prosa e di versi a varj metri, che da Menip-po poeta greco, il quale fu il primo a darne l'esempio,ebbero il nome di menippee (V. Fabric. Bibl. lat. l. 1, c.7). Non parlo qui di un altro Varrone detto Atacino, per-chè a ragione potrebbon di noi dolersi i Francesi chedopo aver tolto loro Cornelio Gallo, questo ancora vo-lessimo loro rapire, che per comun consenso degli anti-chi e moderni scrittori è detto Gallo di patria, cioè natoin Atace luogo della Gallia narbonese. Giulio Cesareche in mezzo al rumore dell'armi e al tumulto delleguerre civili seppe sì felicemente coltivare le scienze, fubuon poeta; e un poema fatto nel suo viaggio da Romain Ispagna, e una sua tragedia in età giovanile compostarammenta Svetonio (in Jul. c. 56). Ma di questogrand'uomo avremo poscia a parlare più lungamente. UnCornificio poeta, e una sua sorella di cui si dice leggersitutt'ora insigni epigrammi, si mentova nella Cronaca eu-sebiana (ad olymp. 184, an. 11). Di Cassio parmigianoparla con somma lode Orazio (l. 1, ep. 4), e l'antico co-mentatore di questo poeta ne loda assai le Elegie e gliEpigrammi, e aggiugne che per ordin d'Augusto fu ucci-so da Q. Varo, il quale trovato avendolo immerso ne'suoi poetici studj, poichè l'ebbe ucciso, seco ne portò loscrigno co' libri; onde correva voce che la tragedia inti-tolata Tieste, che dicevasi composta da Varo, fosse vera-

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mente opera del parmigiano Cassio. Questi è stato con-fuso dal Vossio con un altro Cassio di cui pure ragionaOrazio (l. 1, sat. 10), poeta esso pure, ma celebre soloper la quantità prodigiosa di versi ch'ei componeva, e dicui dice esser comune opinione che fosse arso insiemcon tutti i suoi versi. Questi è da lui detto etrusco; equindi parmi strano che il Vossio, il quale pure amenduei passi di Orazio e quello dell'antico comentatore al me-desimo tempo ha recati, non abbia poi posto mente alladiversa patria che loro assegna e alle diverse cose che dilor narra. Di questi e di altri Cassj si può vedere ciò chediffusamente disputa il Bayle (Dition. art. "Cassius"), eciò che più brevemente insieme e più chiaramente nedice il m. Maffei (Verona Illustr. part. 2, l. 1) (65). Di UnRabirio è fatta onorevol menzione da Ovidio:

Magnique Rabirius oris (l. 4, el. Ult.).

Ma valoroso poeta singolarmente esser dovea L. GiulioCalidio di cui così parla Cornelio Nipote (in Vit. Attici):L. Julium Calidium quem post Lucretii Catullique mor-tem multo elegantissimum poetam nostram tulisse æa-tem, vere videor posse contendere. Vario ancora e Tuc-ca, i due grandi amici di Virgilio e di Orazio, esser do-vettero eccellenti poeti. Certo di Vario parla Orazio congrande elogio, singolarmente ove dice:

Scriberis Vario fortis et hostium

65 Intorno alla Vita e all'Opera di C. Cassio è stato pubblicato nel 1779 inParma un Saggio del dottor Giuseppe Bonvicini parmigiano.

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mente opera del parmigiano Cassio. Questi è stato con-fuso dal Vossio con un altro Cassio di cui pure ragionaOrazio (l. 1, sat. 10), poeta esso pure, ma celebre soloper la quantità prodigiosa di versi ch'ei componeva, e dicui dice esser comune opinione che fosse arso insiemcon tutti i suoi versi. Questi è da lui detto etrusco; equindi parmi strano che il Vossio, il quale pure amenduei passi di Orazio e quello dell'antico comentatore al me-desimo tempo ha recati, non abbia poi posto mente alladiversa patria che loro assegna e alle diverse cose che dilor narra. Di questi e di altri Cassj si può vedere ciò chediffusamente disputa il Bayle (Dition. art. "Cassius"), eciò che più brevemente insieme e più chiaramente nedice il m. Maffei (Verona Illustr. part. 2, l. 1) (65). Di UnRabirio è fatta onorevol menzione da Ovidio:

Magnique Rabirius oris (l. 4, el. Ult.).

Ma valoroso poeta singolarmente esser dovea L. GiulioCalidio di cui così parla Cornelio Nipote (in Vit. Attici):L. Julium Calidium quem post Lucretii Catullique mor-tem multo elegantissimum poetam nostram tulisse æa-tem, vere videor posse contendere. Vario ancora e Tuc-ca, i due grandi amici di Virgilio e di Orazio, esser do-vettero eccellenti poeti. Certo di Vario parla Orazio congrande elogio, singolarmente ove dice:

Scriberis Vario fortis et hostium

65 Intorno alla Vita e all'Opera di C. Cassio è stato pubblicato nel 1779 inParma un Saggio del dottor Giuseppe Bonvicini parmigiano.

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Victor, Mœonio carminis aliti (l. 1, od. 6).

Emilio Macro, veronese di patria, scrisse in versidell'erbe, de' velenosi serpenti e degli uccelli. Di lui par-la Ovidio: Sæpe suas volucres legit mihi grandior ævo,

Quæque nocet serpens, quæ juvet berba, Macer. (De Ponto l. 4, el. 10)

Intorno a questo poeta più cose si posson vedere pressoil m. Maffei (loc. cit.). Vuolsi però avvertire che un poe-metto su tale argomento, che ora abbiamo sotto il nomedi Emilio Macro, è di autore assai più recente, come os-serva lo stesso m. Maffei. Di questi tempi fu pure C. Pe-dono Albinovano. Vuolsi da alcuni che a lui appartenga-no tre elegie inscrite ne' Cataletti attribuiti a Virgilio, eche separatamente ancora sono state stampate sotto ilnome di Albinovano, e fra le altre edizioni in quella diAmsterdam l'an. 1703 colle note di Teodoro Goral ossiadi Giovanni le Clerc che sotto un tale nome si ascose.Ma altri vogliono che, sian di tempo e di autor posterio-re (V. Fabr. Bibl. lat. t. 1, p. 263, e le Clerc Biblioth.choisie t. 1, p. 139). "Egli avea ancora composto un poe-ma, rammentato da Ovidio (De Ponto l. 4, el. 10), sulleazioni di Teseo, e più altre poesie". E finalmente Corne-lio Severo a cui molti attribuiscono il poemetto intitola-to Ætna, stampato in alcune edizioni colle poesie di Vir-gilio, in altre co' Cataletti, e separatamente nella mento-vata edizione di Amsterdam (V. Fabric. loc. cit. p. 260,

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Victor, Mœonio carminis aliti (l. 1, od. 6).

Emilio Macro, veronese di patria, scrisse in versidell'erbe, de' velenosi serpenti e degli uccelli. Di lui par-la Ovidio: Sæpe suas volucres legit mihi grandior ævo,

Quæque nocet serpens, quæ juvet berba, Macer. (De Ponto l. 4, el. 10)

Intorno a questo poeta più cose si posson vedere pressoil m. Maffei (loc. cit.). Vuolsi però avvertire che un poe-metto su tale argomento, che ora abbiamo sotto il nomedi Emilio Macro, è di autore assai più recente, come os-serva lo stesso m. Maffei. Di questi tempi fu pure C. Pe-dono Albinovano. Vuolsi da alcuni che a lui appartenga-no tre elegie inscrite ne' Cataletti attribuiti a Virgilio, eche separatamente ancora sono state stampate sotto ilnome di Albinovano, e fra le altre edizioni in quella diAmsterdam l'an. 1703 colle note di Teodoro Goral ossiadi Giovanni le Clerc che sotto un tale nome si ascose.Ma altri vogliono che, sian di tempo e di autor posterio-re (V. Fabr. Bibl. lat. t. 1, p. 263, e le Clerc Biblioth.choisie t. 1, p. 139). "Egli avea ancora composto un poe-ma, rammentato da Ovidio (De Ponto l. 4, el. 10), sulleazioni di Teseo, e più altre poesie". E finalmente Corne-lio Severo a cui molti attribuiscono il poemetto intitola-to Ætna, stampato in alcune edizioni colle poesie di Vir-gilio, in altre co' Cataletti, e separatamente nella mento-vata edizione di Amsterdam (V. Fabric. loc. cit. p. 260,

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le Clerc loc. cit. p. 201, Petr. Bemb. de Ætna, ec.). Madi questi meno illustri poeti basti il detto fin qui. Più co-piose notizie se ne potranno avere da chi le desideripresso i due più volte citati autori, dico il Fabricio e ilVossio, e presso il Funcio nell'erudita sua Storia dellavirilità della lingua latina.

XXIX. Più a lungo ci tratterrà P. Ovidio Na-sone di cui abbiam differito a parlare finora,perchè quantunque egli fiorisse a' tempi diAugusto, toccò nondimeno ancor qualche

parte di que' di Tiberio. Ci ha fatto egli stesso nell'ultimaelegia del libro IV, delle sue poesie scritte in tempo delsuo esilio e da lui perciò intitolate Malinconiche, ci hafatto, dico, un sì esatto racconto della giovanile sua vita,che appena ci rimane a esaminare cosa alcuna. Io nefarò qui un breve compendio che non abbisogna di pro-ve, perciocchè tratto dalla medesima elegia. Narra eglidunque di se medesimo: che era nato in Sulmona, cittàche ora appartiene all'Abbruzzo, l'anno stesso in cui mo-rirono i due consoli Irzio e Pansa, cioè l'anno di Roma710; ch'era di antica equestre famiglia; che aveva un fra-tello maggior di un anno, insieme col quale mandato aRoma e posto sotto la direzione de' più celebri precettoriche allor ci vivessero, mentre il fratello un singolar ge-nio mostrava per l'eloquenza, egli al contrario sentivasiunicamente allettare dalla poesia; che sgridato dal padree ripreso, perchè abbracciasse uno studio per cui invano

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Epoche de' primi anni di Ovidio.

le Clerc loc. cit. p. 201, Petr. Bemb. de Ætna, ec.). Madi questi meno illustri poeti basti il detto fin qui. Più co-piose notizie se ne potranno avere da chi le desideripresso i due più volte citati autori, dico il Fabricio e ilVossio, e presso il Funcio nell'erudita sua Storia dellavirilità della lingua latina.

XXIX. Più a lungo ci tratterrà P. Ovidio Na-sone di cui abbiam differito a parlare finora,perchè quantunque egli fiorisse a' tempi diAugusto, toccò nondimeno ancor qualche

parte di que' di Tiberio. Ci ha fatto egli stesso nell'ultimaelegia del libro IV, delle sue poesie scritte in tempo delsuo esilio e da lui perciò intitolate Malinconiche, ci hafatto, dico, un sì esatto racconto della giovanile sua vita,che appena ci rimane a esaminare cosa alcuna. Io nefarò qui un breve compendio che non abbisogna di pro-ve, perciocchè tratto dalla medesima elegia. Narra eglidunque di se medesimo: che era nato in Sulmona, cittàche ora appartiene all'Abbruzzo, l'anno stesso in cui mo-rirono i due consoli Irzio e Pansa, cioè l'anno di Roma710; ch'era di antica equestre famiglia; che aveva un fra-tello maggior di un anno, insieme col quale mandato aRoma e posto sotto la direzione de' più celebri precettoriche allor ci vivessero, mentre il fratello un singolar ge-nio mostrava per l'eloquenza, egli al contrario sentivasiunicamente allettare dalla poesia; che sgridato dal padree ripreso, perchè abbracciasse uno studio per cui invano

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Epoche de' primi anni di Ovidio.

sperato avrebbe di arricchire, sforzavasi egli pure di ap-plicarsi all'eloquenza; ma che mentre prendeva a scrive-re in prosa, faceva, quasi suo malgrado, de' versi; che fi-nalmente in età di venti anni gli morì il fratello, ed eglicominciò ad entrare nelle cariche della Repubblica; mache venutigli a noia cotali onori, abbandonò ogni cosa, edi altro più non curossi che della poesia. Annovera,quindi i poeti da lui conosciuti e trattati, le diverse poe-sie che ne' primi anni compose, le tre mogli che unadopo l'altra egli ebbe, la figlia che dalla terza gli nacque,e i nipoti che questa gli diede, la morte finalmente de'suoi genitori accaduta non molto prima del suo esilio.Ed eccoci giunti al famoso esilio di Ovidio, su cui damolti molto si è scritto, e di cui ciò non ostante non èancor certo il vero motivo. Penso che non sarà cosa in-grata a chi legge, se entrerò io pure a trattare sì famosaquistione, e che non sarà questa mia fatica mal impiega-ta, quando qualche nuova luce mi venga fatto di arrecar-le.

XXX. Tre cose sono a cercare intornoall'esilio di Ovidio. I In qual tempo accades-se. II Quale ne fosse il motivo. III Quantotempo durasse. La prima e la terza quistionesono tanto più facili a sciogliersi, quanto è

più difficile la seconda. Per riguardo alla prima, Ovidio

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Quando fosse esilia-to da Roma.

sperato avrebbe di arricchire, sforzavasi egli pure di ap-plicarsi all'eloquenza; ma che mentre prendeva a scrive-re in prosa, faceva, quasi suo malgrado, de' versi; che fi-nalmente in età di venti anni gli morì il fratello, ed eglicominciò ad entrare nelle cariche della Repubblica; mache venutigli a noia cotali onori, abbandonò ogni cosa, edi altro più non curossi che della poesia. Annovera,quindi i poeti da lui conosciuti e trattati, le diverse poe-sie che ne' primi anni compose, le tre mogli che unadopo l'altra egli ebbe, la figlia che dalla terza gli nacque,e i nipoti che questa gli diede, la morte finalmente de'suoi genitori accaduta non molto prima del suo esilio.Ed eccoci giunti al famoso esilio di Ovidio, su cui damolti molto si è scritto, e di cui ciò non ostante non èancor certo il vero motivo. Penso che non sarà cosa in-grata a chi legge, se entrerò io pure a trattare sì famosaquistione, e che non sarà questa mia fatica mal impiega-ta, quando qualche nuova luce mi venga fatto di arrecar-le.

XXX. Tre cose sono a cercare intornoall'esilio di Ovidio. I In qual tempo accades-se. II Quale ne fosse il motivo. III Quantotempo durasse. La prima e la terza quistionesono tanto più facili a sciogliersi, quanto è

più difficile la seconda. Per riguardo alla prima, Ovidio

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Quando fosse esilia-to da Roma.

dice ch'egli dieci lustri ossia cinquant'anni avea felice-mente passati, quando fu costretto a partire da Roma. Jamque decem lustris omni sine labe peractis

Parte premor vitæ deteriore meæ (l. 4 Trist. el. 7).

Egli è vero che altrove sembra accennare che sol neavesse quaranta, perciocchè dice che dalla sua nascitaeran trascorse dieci olimpiadi: Postque meos ortus Pisæ vinctus oliva

Abstulerat decies præmia victor eques (ib. el. 10).

Ma a non credere che Ovidio contradica tanto a se stes-so, convien dire ch'egli prendesse un'olimpiade per lospazio di cinque anni, come osserva il Vossio (De Nat.Art. l. 3, c. 32) aver fatto anche il poeta Ausonio. Essen-do dunque, come sopra si è detto, nato Ovidio l'an. 710,necessariamente raccogliesi che circa l'anno 760, ei fuesiliato. Dissi circa l'an. 760, perchè i dieci lustri o ledieci olimpiadi da Ovidio nominate non bastano a farcicredere ch'egli con tali parole voglia precisamente deter-minare il cinquantesimo anno di sua vita; che poeta egliera e non già cronologo; e poteva perciò usar di que' ter-mini ancorchè i dieci lustri o fossero oltrepassati dipoco, o non fosser per anco interamente compiti. Ma ilp. Bonin in una sua dissertazione inserita nelle Memoriedi Trevoux (1749, mai vol. 2, art. 52) ha preteso di per-suaderci con astronomiche dimostrazioni, che l'an. 760appunto fu precisamente quello in cui Ovidio fu rilega-

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dice ch'egli dieci lustri ossia cinquant'anni avea felice-mente passati, quando fu costretto a partire da Roma. Jamque decem lustris omni sine labe peractis

Parte premor vitæ deteriore meæ (l. 4 Trist. el. 7).

Egli è vero che altrove sembra accennare che sol neavesse quaranta, perciocchè dice che dalla sua nascitaeran trascorse dieci olimpiadi: Postque meos ortus Pisæ vinctus oliva

Abstulerat decies præmia victor eques (ib. el. 10).

Ma a non credere che Ovidio contradica tanto a se stes-so, convien dire ch'egli prendesse un'olimpiade per lospazio di cinque anni, come osserva il Vossio (De Nat.Art. l. 3, c. 32) aver fatto anche il poeta Ausonio. Essen-do dunque, come sopra si è detto, nato Ovidio l'an. 710,necessariamente raccogliesi che circa l'anno 760, ei fuesiliato. Dissi circa l'an. 760, perchè i dieci lustri o ledieci olimpiadi da Ovidio nominate non bastano a farcicredere ch'egli con tali parole voglia precisamente deter-minare il cinquantesimo anno di sua vita; che poeta egliera e non già cronologo; e poteva perciò usar di que' ter-mini ancorchè i dieci lustri o fossero oltrepassati dipoco, o non fosser per anco interamente compiti. Ma ilp. Bonin in una sua dissertazione inserita nelle Memoriedi Trevoux (1749, mai vol. 2, art. 52) ha preteso di per-suaderci con astronomiche dimostrazioni, che l'an. 760appunto fu precisamente quello in cui Ovidio fu rilega-

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to. A dimostrarlo oltre le ragioni da noi recate e che nonprovano se non che ciò accadde circa quel tempo, egliosserva che Ovidio, come egli stesso ci mostra (l. 1, Tri-st. el. 10), partì per l'esilio poco innanzi al dicembre,poichè in questo mese ei navigava sull'Adriatico, e chepartì di notte avanzata e cadente, mentre la luna era altasull'orizzonte, e mentre Venere già spuntava in cielo (ib.el. 3). Egli stabilisce in oltre che Ovidio compisse il cin-quantesim'anno di età nell'anno di Roma 761, perchè se-gue l'opinione di quelli che ritardan di un anno il comin-ciamento de' consoli, e quindi pone il consolato d'Irzio edi Pansa nell'an 711. Ciò presupposto, egli si vale delleTavole astronomiche del Cassini, e dimostra che nell'an.761, ed anche nel seguente an. 762 Venere non vedevasiverso il dicembre che alla sera; dunque nell'an, 760 ve-ramente in cui Ovidio entrava nel cinquantesimo di suavita, egli fu esiliato. Ma è cosa troppo mal sicura il fon-dare calcoli astronomici su' versi de' poeti. In primo luo-go non è abbastanza certo che il consolato d'Irzio e diPansa cadesse nel 711, e l'opinione ora più ricevuta lostabilisce nel 710. In oltre s'ha egli a credere e ci puòegli assicurare il p. Bonin che Ovidio vedesse veramen-te Venere allora quando altro certo dovea avere pel capoche osservare i pianeti? A me sembra anzi probabilech'egli parli a quel luogo secondo il costume de' poetiche di qualunque giorno essi parlino, il fanno o torbido,o sereno, non com'esso fu veramente, ma come la fanta-sia o il capriccio lor suggeriscono, e come al loro argo-mento torna più opportuno. Conchiudiam dunque che

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to. A dimostrarlo oltre le ragioni da noi recate e che nonprovano se non che ciò accadde circa quel tempo, egliosserva che Ovidio, come egli stesso ci mostra (l. 1, Tri-st. el. 10), partì per l'esilio poco innanzi al dicembre,poichè in questo mese ei navigava sull'Adriatico, e chepartì di notte avanzata e cadente, mentre la luna era altasull'orizzonte, e mentre Venere già spuntava in cielo (ib.el. 3). Egli stabilisce in oltre che Ovidio compisse il cin-quantesim'anno di età nell'anno di Roma 761, perchè se-gue l'opinione di quelli che ritardan di un anno il comin-ciamento de' consoli, e quindi pone il consolato d'Irzio edi Pansa nell'an 711. Ciò presupposto, egli si vale delleTavole astronomiche del Cassini, e dimostra che nell'an.761, ed anche nel seguente an. 762 Venere non vedevasiverso il dicembre che alla sera; dunque nell'an, 760 ve-ramente in cui Ovidio entrava nel cinquantesimo di suavita, egli fu esiliato. Ma è cosa troppo mal sicura il fon-dare calcoli astronomici su' versi de' poeti. In primo luo-go non è abbastanza certo che il consolato d'Irzio e diPansa cadesse nel 711, e l'opinione ora più ricevuta lostabilisce nel 710. In oltre s'ha egli a credere e ci puòegli assicurare il p. Bonin che Ovidio vedesse veramen-te Venere allora quando altro certo dovea avere pel capoche osservare i pianeti? A me sembra anzi probabilech'egli parli a quel luogo secondo il costume de' poetiche di qualunque giorno essi parlino, il fanno o torbido,o sereno, non com'esso fu veramente, ma come la fanta-sia o il capriccio lor suggeriscono, e come al loro argo-mento torna più opportuno. Conchiudiam dunque che

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certamente Ovidio fu esiliato verso l'an. 760 di Roma, ein età di presso a 50 anni, ma che non abbiam quantobasta a determinare l'anno precisamente.

XXXI. Così potessimo a un dipresso deter-minar la cagione di questo esilio. Ma qui èappunto ove incontrasi la maggiore difficol-tà. Ovidio ne parla sempre in aria misteriosaed oscura, a guisa d'uomo che vorrebbe pur,

ma non osa chiaramente spiegarsi. Niun autore a luicoetaneo, o posteriore di poco ne fa menzione; il primoch'io sappia che abbiane qualche cosa accennato, è Si-donio Apollinare, autore del quinto secolo, di cui piùsotto diremo, e troppo perciò lontano dall'età di Ovidio,per poterci ciecamente affidare alla sua opinione. Per-ciocchè quanto ad Aurelio Vittore che pur ne ragionanell'Epitome de vita et moribus Imperatorum, questavuolsi comunemente opera di autor più recente (V. Fa-bric. Bibl. lat. l. 3, c. 9). Or come venire in chiaro di unacosa di cui non vi ha antico monumento, che ci istruisca,anzi di cui pare che siasi usato ogni sforzo per tenerci albuio? Quindi non è maraviglia che i moderni autori di-videndosi in varj pareri, qual uno, qual altro motivo ab-bian recato di questo esilio. Sia lecito a me ancora entra-re in questa oscura quistione che troppo bene è connessacoll'argomento di cui io scrivo. Per procedere con chia-rezza esaminerò prima i diversi passi in cui Ovidio ce nefavella, perciocchè alcuni di essi non sono stati ancora

393

Oscurità e incertezza intorno allecagioni del suo esilio.

certamente Ovidio fu esiliato verso l'an. 760 di Roma, ein età di presso a 50 anni, ma che non abbiam quantobasta a determinare l'anno precisamente.

XXXI. Così potessimo a un dipresso deter-minar la cagione di questo esilio. Ma qui èappunto ove incontrasi la maggiore difficol-tà. Ovidio ne parla sempre in aria misteriosaed oscura, a guisa d'uomo che vorrebbe pur,

ma non osa chiaramente spiegarsi. Niun autore a luicoetaneo, o posteriore di poco ne fa menzione; il primoch'io sappia che abbiane qualche cosa accennato, è Si-donio Apollinare, autore del quinto secolo, di cui piùsotto diremo, e troppo perciò lontano dall'età di Ovidio,per poterci ciecamente affidare alla sua opinione. Per-ciocchè quanto ad Aurelio Vittore che pur ne ragionanell'Epitome de vita et moribus Imperatorum, questavuolsi comunemente opera di autor più recente (V. Fa-bric. Bibl. lat. l. 3, c. 9). Or come venire in chiaro di unacosa di cui non vi ha antico monumento, che ci istruisca,anzi di cui pare che siasi usato ogni sforzo per tenerci albuio? Quindi non è maraviglia che i moderni autori di-videndosi in varj pareri, qual uno, qual altro motivo ab-bian recato di questo esilio. Sia lecito a me ancora entra-re in questa oscura quistione che troppo bene è connessacoll'argomento di cui io scrivo. Per procedere con chia-rezza esaminerò prima i diversi passi in cui Ovidio ce nefavella, perciocchè alcuni di essi non sono stati ancora

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Oscurità e incertezza intorno allecagioni del suo esilio.

bene osservati. Mostrerò in secondo luogo, che niunadelle sentenze finor proposte non si può sostenere a con-fronto de' passi di Ovidio, che avrò allegati. Proporròper ultimo una opinione che non so che da altri sia stataancora proposta; non perchè io voglia sostenerla pervera, ma solo per soggettarla all'esame degli eruditi, eperchè essi possano giudicare qual fondamento ella ab-bia.

XXXII. E in primo luogo è certo che duefurono le ragioni per cui Augusto il condan-nò all'esilio, cioè i versi osceni da lui com-posti, e un fallo da lui commesso, del qualfallo però Ovidio dice di non voler far mot-to per non rinnovarne il dolore ad Augusto:

Perdiderint cum me duo crimina, carmen, et error,Alterius facti culpa silenda mihi;

Nam tanti non sum, renovem ut tua vulnera, Cæsars,Quem nimio plus est indoluisse semel.

Altera pars suprest, qua turpi carmine lectus Arguor obscæni doctor adulterii (l. 2 Trist.).

Quanto agli osceni versi da lui composti, come è indubi-tabile che molti purtroppo ei ne compose, onde non vi èforse tra gli antichi poeti il più sozzo e il più disonesto,e come indubitabile è parimenti che fu questo il motivoda Augusto allegato per condannarlo, poichè su questo

394

La prima, ma non la primaria, furono le poesie oscene da lui compo-ste.

bene osservati. Mostrerò in secondo luogo, che niunadelle sentenze finor proposte non si può sostenere a con-fronto de' passi di Ovidio, che avrò allegati. Proporròper ultimo una opinione che non so che da altri sia stataancora proposta; non perchè io voglia sostenerla pervera, ma solo per soggettarla all'esame degli eruditi, eperchè essi possano giudicare qual fondamento ella ab-bia.

XXXII. E in primo luogo è certo che duefurono le ragioni per cui Augusto il condan-nò all'esilio, cioè i versi osceni da lui com-posti, e un fallo da lui commesso, del qualfallo però Ovidio dice di non voler far mot-to per non rinnovarne il dolore ad Augusto:

Perdiderint cum me duo crimina, carmen, et error,Alterius facti culpa silenda mihi;

Nam tanti non sum, renovem ut tua vulnera, Cæsars,Quem nimio plus est indoluisse semel.

Altera pars suprest, qua turpi carmine lectus Arguor obscæni doctor adulterii (l. 2 Trist.).

Quanto agli osceni versi da lui composti, come è indubi-tabile che molti purtroppo ei ne compose, onde non vi èforse tra gli antichi poeti il più sozzo e il più disonesto,e come indubitabile è parimenti che fu questo il motivoda Augusto allegato per condannarlo, poichè su questo

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La prima, ma non la primaria, furono le poesie oscene da lui compo-ste.

singolarmente ci fa ad ogni passo le sue doglianze, cosìancora pare evidente che questo fosse un apparente pre-testo anzi che la vera ragione del suo esilio. Io non pen-so certo che fosse Augusto tanto sollecito dell'onestà de'Romani, che solo per versi osceni volesse rilegare Ovi-dio. Molti altri poeti avrebbe egli dovuto per la ragionemedesima cacciar di Roma; anzi se questo ne fosse statoil motivo, avrebbe egli dovuto sopprimere le poesie,anzi che esigliare il poeta; il che però non leggesi ch'eglifacesse; e che nol facesse, cel persuade il vedere chefino a noi esse son pervenute. Ma a che recar conghiet-ture? Ovidio compose i libri d'Amore in età ancor gio-vanile, e non fu dannato all'esilio che in età di cin-quant'anni, e, come egli si chiama, già vecchio: Ergo qua juveni mihi non nocitura putavi

Scripta parum prudens, nunc nocuere seni? (l. 2, Trist.).

E altrove: Carmina cum primum populo juvenilia legi,

Barba resecta mihi bisve semelve fuit: Moverat ingenium totam cantata per Urbem

Nomine non vero dicta Corinna mihi (l. 4, el. 10).

Dunque in età già avanzata pagò egli la pena di quellepoesie oscene che giovane avea composte e questo bastaa farci conoscere che non furono esse la vera, o almen lasola cagione del suo esilio poichè non avrebbe Augustoindugiato tanto a punirlo. La vera, o certo la principalcagione di esso convien dunque cercarla nel fatto ch'egli

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singolarmente ci fa ad ogni passo le sue doglianze, cosìancora pare evidente che questo fosse un apparente pre-testo anzi che la vera ragione del suo esilio. Io non pen-so certo che fosse Augusto tanto sollecito dell'onestà de'Romani, che solo per versi osceni volesse rilegare Ovi-dio. Molti altri poeti avrebbe egli dovuto per la ragionemedesima cacciar di Roma; anzi se questo ne fosse statoil motivo, avrebbe egli dovuto sopprimere le poesie,anzi che esigliare il poeta; il che però non leggesi ch'eglifacesse; e che nol facesse, cel persuade il vedere chefino a noi esse son pervenute. Ma a che recar conghiet-ture? Ovidio compose i libri d'Amore in età ancor gio-vanile, e non fu dannato all'esilio che in età di cin-quant'anni, e, come egli si chiama, già vecchio: Ergo qua juveni mihi non nocitura putavi

Scripta parum prudens, nunc nocuere seni? (l. 2, Trist.).

E altrove: Carmina cum primum populo juvenilia legi,

Barba resecta mihi bisve semelve fuit: Moverat ingenium totam cantata per Urbem

Nomine non vero dicta Corinna mihi (l. 4, el. 10).

Dunque in età già avanzata pagò egli la pena di quellepoesie oscene che giovane avea composte e questo bastaa farci conoscere che non furono esse la vera, o almen lasola cagione del suo esilio poichè non avrebbe Augustoindugiato tanto a punirlo. La vera, o certo la principalcagione di esso convien dunque cercarla nel fatto ch'egli

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oscuramente accenna. Ma qual fallo fu questo? Osser-viamo attentamente gli altri passi in cui Ovidio ne parla.

XXXIII. Ovidio primieramente ripete l'ori-gine della sua sventura dall'aver voluto trop-po innoltrarsi nella famigliarità co' grandi;perciocchè scrivendo ad un suo amico loesorta a tenersene lungi, il che se avesse eglifatto, non sarebbe forse in esilio:

Usibus edocto si quidquam credis amico, Vive tibi, et longe nomina magna fuge.

Vive tibi, quantumque potes prælustria vita: Sævum præustri fulmen ab arce venit.

Hæc ego si monitor monitus prius ipse fuissem In qua debebam, forsitan urbe forem (ib. l. 3, el. 4).

Dice in secondo luogo, che era bensì stato fallo ed erro-re quello per cui trovavasi in esilio, ma non già delitto, eche da quel fallo non avea egli preteso di trarre vantag-gio alcuno: Hanc quoque, qua perii, culpam scelus esse negabis, Si tanti series sit tibi nota mali (l. 4 Trist. el. 4).

E in altro luogo parlando all'ombre de' suoi genitori: Scite, precor, caussam (nec vos mihi fallere fas est)

Errorem jussæ, non scelus, esse fugæ (ib. el. 10).

E altrove:

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Qual fosse il fallo di Ovidio, per cui princi-palmente fuesiliato.

oscuramente accenna. Ma qual fallo fu questo? Osser-viamo attentamente gli altri passi in cui Ovidio ne parla.

XXXIII. Ovidio primieramente ripete l'ori-gine della sua sventura dall'aver voluto trop-po innoltrarsi nella famigliarità co' grandi;perciocchè scrivendo ad un suo amico loesorta a tenersene lungi, il che se avesse eglifatto, non sarebbe forse in esilio:

Usibus edocto si quidquam credis amico, Vive tibi, et longe nomina magna fuge.

Vive tibi, quantumque potes prælustria vita: Sævum præustri fulmen ab arce venit.

Hæc ego si monitor monitus prius ipse fuissem In qua debebam, forsitan urbe forem (ib. l. 3, el. 4).

Dice in secondo luogo, che era bensì stato fallo ed erro-re quello per cui trovavasi in esilio, ma non già delitto, eche da quel fallo non avea egli preteso di trarre vantag-gio alcuno: Hanc quoque, qua perii, culpam scelus esse negabis, Si tanti series sit tibi nota mali (l. 4 Trist. el. 4).

E in altro luogo parlando all'ombre de' suoi genitori: Scite, precor, caussam (nec vos mihi fallere fas est)

Errorem jussæ, non scelus, esse fugæ (ib. el. 10).

E altrove:

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Qual fosse il fallo di Ovidio, per cui princi-palmente fuesiliato.

Nil igitur referam, nisi me peccasse; sed illo Prœmia peccato nulla petita mihi (l. 3 Trist. el. 6).

Aggiugne ancora che la sua colpa era stata cagionata daerrore prima e poscia ancor da timore, e ch'essa a luisolo era stata dannosa:

Aut timor, aut error: nobis prius obfuit error (l. 4 Trist. el. 4).

E più chiaramente altrove: Est mea culpa gravis, sed quæ me perdere solum

Ausa sit, et nullum majus adorsa nefas. Nec nisi non sapiens possum timidusque vocari:

Hæc duo sunt animi nomina vera mei (l. 2 de Ponto, el. 2).

XXXIV. Ma questa colpa, questo qualunquesiasi fallo qual fu egli mai? Fu certamentel'aver a caso veduto un vergognoso e diso-nesto delitto:

Inscia quod crimen viderunt lumina, plector, Peccatumque oculos est habuisse meum (l. 3 Trist. el. 5).

E altrove: Nec breve, nec totum est, quo sint mea dicere casu

Lumina funesti conscia facta mali (ib. el. 6).

397

Esame del-le circo-stanze che Ovidio ne confessa.

Nil igitur referam, nisi me peccasse; sed illo Prœmia peccato nulla petita mihi (l. 3 Trist. el. 6).

Aggiugne ancora che la sua colpa era stata cagionata daerrore prima e poscia ancor da timore, e ch'essa a luisolo era stata dannosa:

Aut timor, aut error: nobis prius obfuit error (l. 4 Trist. el. 4).

E più chiaramente altrove: Est mea culpa gravis, sed quæ me perdere solum

Ausa sit, et nullum majus adorsa nefas. Nec nisi non sapiens possum timidusque vocari:

Hæc duo sunt animi nomina vera mei (l. 2 de Ponto, el. 2).

XXXIV. Ma questa colpa, questo qualunquesiasi fallo qual fu egli mai? Fu certamentel'aver a caso veduto un vergognoso e diso-nesto delitto:

Inscia quod crimen viderunt lumina, plector, Peccatumque oculos est habuisse meum (l. 3 Trist. el. 5).

E altrove: Nec breve, nec totum est, quo sint mea dicere casu

Lumina funesti conscia facta mali (ib. el. 6).

397

Esame del-le circo-stanze che Ovidio ne confessa.

Anzi in altro luogo con una similitudine che arreca,sembra che accenni meno oscuramente il delitto ch'eglivide, e per la vista del quale egli fu esigliato:

Cur aliquid vidi, cur noxia lumina feci? Cur imprudenti cognita culpa mihi est?

Inscius Actæon vidit sine veste Dianam: Præda fuit canibus non minus ille suis (l. 2 Trist.).

Di questo delitto però da lui veduto ei tenne un alto se-greto, e non confidollo pure al più intrinseco amicoch'egli avesse, come scrive a lui stesso, aggiugnendoche forse, se glielo avesse affidato, ei non avrebbe in-corso lo sdegno di Augusto: Cuique ego narrabam secreti quidquid habebam,

Excepto quod me perdidit, unus eras. Id quoque si scisses, salvo, fruerere sodali (l. 3 Trist. el. 6).

Anzi nell'Elegie da lui scritte dal suo esilio, e in quellaancora scritta ad Augusto, mostra di aver sempre altissi-mo orrore a rammentar l'oggetto ch'ei vide, e a rinnova-re il dolore che n'ebbe Augusto: Nec breve, nec tutum est, peccati quæ sit origo

Scribere: tractari vulnera nostra timent. (l. 1 de Ponto, el. 7).

E scrivendo a Messalino, perchè da Augusto. gli ottengail perdono.

398

Anzi in altro luogo con una similitudine che arreca,sembra che accenni meno oscuramente il delitto ch'eglivide, e per la vista del quale egli fu esigliato:

Cur aliquid vidi, cur noxia lumina feci? Cur imprudenti cognita culpa mihi est?

Inscius Actæon vidit sine veste Dianam: Præda fuit canibus non minus ille suis (l. 2 Trist.).

Di questo delitto però da lui veduto ei tenne un alto se-greto, e non confidollo pure al più intrinseco amicoch'egli avesse, come scrive a lui stesso, aggiugnendoche forse, se glielo avesse affidato, ei non avrebbe in-corso lo sdegno di Augusto: Cuique ego narrabam secreti quidquid habebam,

Excepto quod me perdidit, unus eras. Id quoque si scisses, salvo, fruerere sodali (l. 3 Trist. el. 6).

Anzi nell'Elegie da lui scritte dal suo esilio, e in quellaancora scritta ad Augusto, mostra di aver sempre altissi-mo orrore a rammentar l'oggetto ch'ei vide, e a rinnova-re il dolore che n'ebbe Augusto: Nec breve, nec tutum est, peccati quæ sit origo

Scribere: tractari vulnera nostra timent. (l. 1 de Ponto, el. 7).

E scrivendo a Messalino, perchè da Augusto. gli ottengail perdono.

398

Num tamen excuses erroris origine factum, An nihil expediat tale monere, vide:

Vulneris id genus est, quod cum, sanabile non sit, Non contrectari tutius esse puto.

Lingua sile: non est ultra narrabile quidquam; Posse velim cineres obruere usque meos. (l. 2 de Ponto, el. 2).

Aggiungansi i versi ad Augusto poc'anzi citati: Nam tanti non sum, renovem ut tua vulnera,

Cæsar Quem nimio plus est indoluisse semel.

Egli protesta però ad Augusto, che nè altri ha esortatoall'adulterio, nè di tal delitto egli è reo, e che quantun-que liberi siano i suoi versi, modesta nondimeno è statala sua vita. Sed neque me nuptæ didicerunt furta magistro; Quodque parum novit, nemo docere potest.

E poco dopo: Crede mihi: mores distant a carmine nostro.

Vita verecunda est: musa jocosa mea (l. 2 Trist.).

Non credo già io che Ovidio fosse così verecondo comequi si vanta, ed egli stesso in altre sue poesie troppo di-versa immagine di se stesso ci ha lasciato. Ma a me ba-sta di osservare che parlando del motivo del suo esilioafferma di non aver commesso delitto alcuno. Confessanondimeno di aver giustamente meritato lo sdegno di

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Num tamen excuses erroris origine factum, An nihil expediat tale monere, vide:

Vulneris id genus est, quod cum, sanabile non sit, Non contrectari tutius esse puto.

Lingua sile: non est ultra narrabile quidquam; Posse velim cineres obruere usque meos. (l. 2 de Ponto, el. 2).

Aggiungansi i versi ad Augusto poc'anzi citati: Nam tanti non sum, renovem ut tua vulnera,

Cæsar Quem nimio plus est indoluisse semel.

Egli protesta però ad Augusto, che nè altri ha esortatoall'adulterio, nè di tal delitto egli è reo, e che quantun-que liberi siano i suoi versi, modesta nondimeno è statala sua vita. Sed neque me nuptæ didicerunt furta magistro; Quodque parum novit, nemo docere potest.

E poco dopo: Crede mihi: mores distant a carmine nostro.

Vita verecunda est: musa jocosa mea (l. 2 Trist.).

Non credo già io che Ovidio fosse così verecondo comequi si vanta, ed egli stesso in altre sue poesie troppo di-versa immagine di se stesso ci ha lasciato. Ma a me ba-sta di osservare che parlando del motivo del suo esilioafferma di non aver commesso delitto alcuno. Confessanondimeno di aver giustamente meritato lo sdegno di

399

Augusto di cui loda ancor la clemenza, perchè non gliha tolti i beni e la vita e il termine più mite di relegazio-ne ha con lui usato (come era infatti), anzi che il più se-vero di esilio. Quidquid id est, ut non facinus, sic culpa vocanda est:

Omnis at in magnos culpa deos, scelus est. (l. 1 de Ponto, el. 7).

Questo sentimento medesimo, ripete egli spesso; e unavolta fralle altre introduce Amore che a lui favellando,dopo averlo per suo conforto con autorevole decisioneassicurato che ne' suoi libri amorosi nulla si contenevadi reo, così soggiugne: Utque hoc, sic utinam defendere cetera posses:

Scis aliud, quod te læserit esse magis. Quidquid id est, neque enim debet dolor ille referri,

Non potes a culpa dicere abesse tua. Tu licet erroris sub imagine crimen obumbres,

Non gravior merito vindicis ira fut (l. 3 de Ponto, el. 3).

XXXV. Tutti questi passi ho io voluto quiriferire perchè tutti sono necessarj e a mo-strare quanto poco fondate siano le altruiopinioni, e a confermare se mi venga fatto,in qualche modo la mia. Veggiamo primache ne abbiano pensato altri. Appena merita

400

Non fu un delitto commesso con alcuna della fami-glia di Au-gusto.

Augusto di cui loda ancor la clemenza, perchè non gliha tolti i beni e la vita e il termine più mite di relegazio-ne ha con lui usato (come era infatti), anzi che il più se-vero di esilio. Quidquid id est, ut non facinus, sic culpa vocanda est:

Omnis at in magnos culpa deos, scelus est. (l. 1 de Ponto, el. 7).

Questo sentimento medesimo, ripete egli spesso; e unavolta fralle altre introduce Amore che a lui favellando,dopo averlo per suo conforto con autorevole decisioneassicurato che ne' suoi libri amorosi nulla si contenevadi reo, così soggiugne: Utque hoc, sic utinam defendere cetera posses:

Scis aliud, quod te læserit esse magis. Quidquid id est, neque enim debet dolor ille referri,

Non potes a culpa dicere abesse tua. Tu licet erroris sub imagine crimen obumbres,

Non gravior merito vindicis ira fut (l. 3 de Ponto, el. 3).

XXXV. Tutti questi passi ho io voluto quiriferire perchè tutti sono necessarj e a mo-strare quanto poco fondate siano le altruiopinioni, e a confermare se mi venga fatto,in qualche modo la mia. Veggiamo primache ne abbiano pensato altri. Appena merita

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Non fu un delitto commesso con alcuna della fami-glia di Au-gusto.

di essere riferita l'opinione dell'autore delle Vite com-pendiose degl'Imperadori attribuite ad Aurelio Vittore, ilquale dice che Ovidio fu esiliato pro eo quod tres libel-los amatoriæ artis conscripserat; opinione ch'è la più ri-cevuta tra 'l volgo ma che da' passi finor recati si con-vince evidentemente di falsità; perciocchè un altro delit-to fu certamente la principal cagione della sventura diOvidio. Sidonio Apollinare, come abbiam detto, è il piùantico scrittore che qualche cosa accenni su tale argo-mento. Eccone i versi:

Et te carmina per libidinosa Notum Naso tener, Tomusque misse, Quondam Cæsareæ nimis puellæ Ficto nomine subditum Corinnæ (Carm. 23).

Questi versi hanno indotto alcuni a pensare che Ovidiosotto il nome di Corinna, di cui spesso ragiona ne' suoilibri amorosi, intendesse Giulia figlia d'Augusto, di cuiegli invaghito o cercasse di sfogare con essa la sua reapassione, o forse ancor vi giugnesse; e perciò fosse rile-gato da Augusto. M. Ribaud de Rochefort in una suadissertaziore su questo argomento stampata in Moulinsl'an. 1742, della quale però il solo estratto io ho vedutonel Giornale degli Eruditi di Parigi, riflette, e con ra-gione, che Giulia figlia d'Augusto era stata da lui esiliatamolti anni prima di Ovidio, e quindi non potè per cagiond'essa Ovidio essere rilegato. Propone perciò una,com'egli dice, sua conghiettura, cioè che non di Giuliafiglia d'Augusto, ma di un'altra Giulia di lei figliuola e

401

di essere riferita l'opinione dell'autore delle Vite com-pendiose degl'Imperadori attribuite ad Aurelio Vittore, ilquale dice che Ovidio fu esiliato pro eo quod tres libel-los amatoriæ artis conscripserat; opinione ch'è la più ri-cevuta tra 'l volgo ma che da' passi finor recati si con-vince evidentemente di falsità; perciocchè un altro delit-to fu certamente la principal cagione della sventura diOvidio. Sidonio Apollinare, come abbiam detto, è il piùantico scrittore che qualche cosa accenni su tale argo-mento. Eccone i versi:

Et te carmina per libidinosa Notum Naso tener, Tomusque misse, Quondam Cæsareæ nimis puellæ Ficto nomine subditum Corinnæ (Carm. 23).

Questi versi hanno indotto alcuni a pensare che Ovidiosotto il nome di Corinna, di cui spesso ragiona ne' suoilibri amorosi, intendesse Giulia figlia d'Augusto, di cuiegli invaghito o cercasse di sfogare con essa la sua reapassione, o forse ancor vi giugnesse; e perciò fosse rile-gato da Augusto. M. Ribaud de Rochefort in una suadissertaziore su questo argomento stampata in Moulinsl'an. 1742, della quale però il solo estratto io ho vedutonel Giornale degli Eruditi di Parigi, riflette, e con ra-gione, che Giulia figlia d'Augusto era stata da lui esiliatamolti anni prima di Ovidio, e quindi non potè per cagiond'essa Ovidio essere rilegato. Propone perciò una,com'egli dice, sua conghiettura, cioè che non di Giuliafiglia d'Augusto, ma di un'altra Giulia di lei figliuola e

401

nipote d'Augusto fosse Ovidio invaghito, la qual di fattoverso il tempo medesimo in cui Ovidio, fu dall'avolo perle sue disonestà, rilegata. Questa conghiettura però eragià stata da alcuni altri proposta, come si può vederepresso il Bayle (Diction art. Ovide, Rem. B. e K). Machecchessia delle ragioni che a provare quella rea pas-sion di Ovidio si possano addurre, le quali a me nonsembrano, di molto peso, è troppo evidente che non potèessere questo il motivo del suo esilio. Troppo spesso eici ripete che la ragione di esso si fu l'aver veduto un de-litto perchè possiamo cercarla in un delitto da lui com-messo.

XXXVI. Alcuni per ispiegare qual fosse ildelitto che veduto da Ovidio fosse cagionedella sua sventura, hanno pensato ch'egliavesse sorpreso Augusto in colpa colla suafiglia Giulia, e che di ciò vergognato e sde-gnato l'Imperadore il rilegasse. Di questo

parere per lasciare altri più antichi, è m. Lezeau nellaprefazione premessa alla sua traduzione in francese delprimo libro de' Fasti stampata in Parigi l'an. 1714. Ap-poggiano questo lor sentimento a ciò che narra Svetonio(in Caligula c. 23), cioè che Caligola soleva dire la suamadre esser nata di Augusto e di Giulia sua figlia. Maancorchè fosse vero un tale delitto d'Augusto, di cui al-tra prova non si ha fuorchè un tal detto di Caligola a cuisenza ingiuria possiam negar fede, già abbiamo accen-

402

Non fu l'aver sor-preso Au-gusto in qualche de-litto.

nipote d'Augusto fosse Ovidio invaghito, la qual di fattoverso il tempo medesimo in cui Ovidio, fu dall'avolo perle sue disonestà, rilegata. Questa conghiettura però eragià stata da alcuni altri proposta, come si può vederepresso il Bayle (Diction art. Ovide, Rem. B. e K). Machecchessia delle ragioni che a provare quella rea pas-sion di Ovidio si possano addurre, le quali a me nonsembrano, di molto peso, è troppo evidente che non potèessere questo il motivo del suo esilio. Troppo spesso eici ripete che la ragione di esso si fu l'aver veduto un de-litto perchè possiamo cercarla in un delitto da lui com-messo.

XXXVI. Alcuni per ispiegare qual fosse ildelitto che veduto da Ovidio fosse cagionedella sua sventura, hanno pensato ch'egliavesse sorpreso Augusto in colpa colla suafiglia Giulia, e che di ciò vergognato e sde-gnato l'Imperadore il rilegasse. Di questo

parere per lasciare altri più antichi, è m. Lezeau nellaprefazione premessa alla sua traduzione in francese delprimo libro de' Fasti stampata in Parigi l'an. 1714. Ap-poggiano questo lor sentimento a ciò che narra Svetonio(in Caligula c. 23), cioè che Caligola soleva dire la suamadre esser nata di Augusto e di Giulia sua figlia. Maancorchè fosse vero un tale delitto d'Augusto, di cui al-tra prova non si ha fuorchè un tal detto di Caligola a cuisenza ingiuria possiam negar fede, già abbiamo accen-

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Non fu l'aver sor-preso Au-gusto in qualche de-litto.

nato che l'ordin de' tempi troppo apertamente combattequesta opinione, perciocchè ella fu rilegata da Augustosuo padre l'anno di Roma 747, come narra Dione (l. 55),cioè tredici anni prima di Ovidio. Così rigettata questaopinione, si ricorre qui ancora da alcuni all'altra Giulianipote d'Augusto, con cui vogliono che fosse da Ovidiosorpreso l'avolo in colpa, ed osservano con verità, comesopra si è detto, che verso lo stesso tempo che Ovidio,ella fu cacciata di Roma. Ma con qual fondamento accu-sare Augusto di tal delitto, singolarmente nell'età avan-zata di settant'anni, quanti allor ne contava? Molte ra-gioni a rigettare questa sentenza si arrecano dal Bayle,fra le quali la più forte, a mio parere, si è che se questofosse stato il vero motivo dello sdegno di Augusto, nonavrebbegli Ovidio rinfacciato in certa maniera sì spessoun tal delitto, nè tante volte avrebbe ei ripetuto che lasua disgrazia era stata l'aver veduta una colpa, che il suoesiglio era nato dall'aver egli usato degli occhi, e somi-glianti altre espressioni colle quali sarebbe sembratoch'egli volesse rimproverare ad Augusto la sua infamia;il che non era certo buon mezzo ad ottenere, com'egli

bramava, il suo ritorno.XXXVII. Il Bayle dopo aver rigettato tuttele opinioni, finora addotte, e dopo aver con-fessato sinceramente ch'è assai difficile iltrovare una probabil ragione dell'esilio diOvidio, si fa nondimeno a proporre qualchesua conghiettura; e potrebb'essere per av-

403

Nè l'averlo sorpreso nell'atto che faceva ricerche su delitti di Giulia sua nipote.

nato che l'ordin de' tempi troppo apertamente combattequesta opinione, perciocchè ella fu rilegata da Augustosuo padre l'anno di Roma 747, come narra Dione (l. 55),cioè tredici anni prima di Ovidio. Così rigettata questaopinione, si ricorre qui ancora da alcuni all'altra Giulianipote d'Augusto, con cui vogliono che fosse da Ovidiosorpreso l'avolo in colpa, ed osservano con verità, comesopra si è detto, che verso lo stesso tempo che Ovidio,ella fu cacciata di Roma. Ma con qual fondamento accu-sare Augusto di tal delitto, singolarmente nell'età avan-zata di settant'anni, quanti allor ne contava? Molte ra-gioni a rigettare questa sentenza si arrecano dal Bayle,fra le quali la più forte, a mio parere, si è che se questofosse stato il vero motivo dello sdegno di Augusto, nonavrebbegli Ovidio rinfacciato in certa maniera sì spessoun tal delitto, nè tante volte avrebbe ei ripetuto che lasua disgrazia era stata l'aver veduta una colpa, che il suoesiglio era nato dall'aver egli usato degli occhi, e somi-glianti altre espressioni colle quali sarebbe sembratoch'egli volesse rimproverare ad Augusto la sua infamia;il che non era certo buon mezzo ad ottenere, com'egli

bramava, il suo ritorno.XXXVII. Il Bayle dopo aver rigettato tuttele opinioni, finora addotte, e dopo aver con-fessato sinceramente ch'è assai difficile iltrovare una probabil ragione dell'esilio diOvidio, si fa nondimeno a proporre qualchesua conghiettura; e potrebb'essere per av-

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Nè l'averlo sorpreso nell'atto che faceva ricerche su delitti di Giulia sua nipote.

ventura, egli dice, che Ovidio avesse sorpreso Augustomentre in qualche segreta stanza piangeva sugli scopertidisordini della nipote, o mentre stava quistionando la ni-pote medesima per saper de' delitti ond'era accusata, omentre stava esaminando, o forse ancora ponendo allatortura qualche confidente, o qualche schiavo di Giuliaper iscoprirne i reati; e che vedendosi sorpreso, e sco-perti così da Ovidio i suoi disegni, sdegnatone il rilegas-se. Ma converrebbe ben dire che Augusto fosse oltremodo collerico e risentito, se per sì lieve cagione avessefin nella Scizia rilegato l'infelice poeta; nè mai si fosselasciato piegare da lacrime e da preghiere a richiamarlo.E innoltre l'oggetto veduto da Ovidio non sarebbe statoun delitto; eppure un delitto da lui veduto ci conviene adogni modo trovare, per cui fosse dannato all'esilio.

Inscia quod crimen viderunt lumina, plector.

Quindi anche l'opinione del Bayle non sembra abbastan-za fondata nè una sufficiente ragione egli arreca di sìfiero sdegno di Augusto.

XXXVIII. A me pare che una riflession di-ligente sull'indole di Augusto, sulla condot-ta da lui tenuta colla sua famiglia, e sullastoria de' tempi di cui parliamo ci possaaprire la via a scoprir qualche cosa, e a in-dagare per avventura la vera ragione

dell'esilio di Ovidio. Abbiam già accennato che Giulia

404

Delicatezzad'Augusto riguardo a' costumi della sua famiglia.

ventura, egli dice, che Ovidio avesse sorpreso Augustomentre in qualche segreta stanza piangeva sugli scopertidisordini della nipote, o mentre stava quistionando la ni-pote medesima per saper de' delitti ond'era accusata, omentre stava esaminando, o forse ancora ponendo allatortura qualche confidente, o qualche schiavo di Giuliaper iscoprirne i reati; e che vedendosi sorpreso, e sco-perti così da Ovidio i suoi disegni, sdegnatone il rilegas-se. Ma converrebbe ben dire che Augusto fosse oltremodo collerico e risentito, se per sì lieve cagione avessefin nella Scizia rilegato l'infelice poeta; nè mai si fosselasciato piegare da lacrime e da preghiere a richiamarlo.E innoltre l'oggetto veduto da Ovidio non sarebbe statoun delitto; eppure un delitto da lui veduto ci conviene adogni modo trovare, per cui fosse dannato all'esilio.

Inscia quod crimen viderunt lumina, plector.

Quindi anche l'opinione del Bayle non sembra abbastan-za fondata nè una sufficiente ragione egli arreca di sìfiero sdegno di Augusto.

XXXVIII. A me pare che una riflession di-ligente sull'indole di Augusto, sulla condot-ta da lui tenuta colla sua famiglia, e sullastoria de' tempi di cui parliamo ci possaaprire la via a scoprir qualche cosa, e a in-dagare per avventura la vera ragione

dell'esilio di Ovidio. Abbiam già accennato che Giulia

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Delicatezzad'Augusto riguardo a' costumi della sua famiglia.

la figliuola di Augusto era stata già da tredici anni in-nanzi rilegata dal padre per le infami disonestà di cuiscopersela rea. Or è da osservare che Augusto fu som-mamente afflitto e confuso dal disonore che a lui e allasua famiglia ne venne. Narra Svetonio (in Augusto c.65) che men fu egli sensibile alla morte, che all'infamiade' suoi; che, quando venne a risapere le disonestà dellafiglia, trasportato dallo sdegno, per mezzo di un questo-re ne die' avviso al senato e che quindi tal vergognan'ebbe che per lungo tempo si astenne dal trattar con al-cuno; che gli venne anche in pensiero di ucciderla; e cheavendo verso quello stesso tempo saputo che Febe, unadelle liberte di Giulia e complice delle sue sceleratezzesi era colle proprie mani strozzata, disse che avrebbeamato meglio di esser padre di Febe che non di Giulia;innoltre, che a questa vietò di usare del vino nella suarelegazione, e di ogni ornamento della persona; e chenon permetteva che alcuno fosse libero, o schiavo, an-dasse senza saputa a trovarla. Somigliante cosa ci narraSeneca ancora (De Beneficiis l. 6, c. 32), ed aggiugneche Augusto dopo aver palesate al senato le disonestàdella figlia, pentissi di aver così fatta pubblica la sua in-famia: Deinde cum interposito tempore in locum iræsubisset verecundia, gemens quod non illa silentio pres-sisset, Quæ tamdiu nescierat, donec loqui turpe esset,exclamavit: Homerum mihi nihil accidisset, si autAgrippa aut Mecænas vixisset. Da tutto ciò noi veggia-mo quanto geloso fosse Augusto, che l'infamia de' suoinon venisse a farsi palese, e di qual vergogna lo rico-

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la figliuola di Augusto era stata già da tredici anni in-nanzi rilegata dal padre per le infami disonestà di cuiscopersela rea. Or è da osservare che Augusto fu som-mamente afflitto e confuso dal disonore che a lui e allasua famiglia ne venne. Narra Svetonio (in Augusto c.65) che men fu egli sensibile alla morte, che all'infamiade' suoi; che, quando venne a risapere le disonestà dellafiglia, trasportato dallo sdegno, per mezzo di un questo-re ne die' avviso al senato e che quindi tal vergognan'ebbe che per lungo tempo si astenne dal trattar con al-cuno; che gli venne anche in pensiero di ucciderla; e cheavendo verso quello stesso tempo saputo che Febe, unadelle liberte di Giulia e complice delle sue sceleratezzesi era colle proprie mani strozzata, disse che avrebbeamato meglio di esser padre di Febe che non di Giulia;innoltre, che a questa vietò di usare del vino nella suarelegazione, e di ogni ornamento della persona; e chenon permetteva che alcuno fosse libero, o schiavo, an-dasse senza saputa a trovarla. Somigliante cosa ci narraSeneca ancora (De Beneficiis l. 6, c. 32), ed aggiugneche Augusto dopo aver palesate al senato le disonestàdella figlia, pentissi di aver così fatta pubblica la sua in-famia: Deinde cum interposito tempore in locum iræsubisset verecundia, gemens quod non illa silentio pres-sisset, Quæ tamdiu nescierat, donec loqui turpe esset,exclamavit: Homerum mihi nihil accidisset, si autAgrippa aut Mecænas vixisset. Da tutto ciò noi veggia-mo quanto geloso fosse Augusto, che l'infamia de' suoinon venisse a farsi palese, e di qual vergogna lo rico-

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prissero i lor delitti, quando venivano a pubblicarsi.Uomo per altro non troppo onesto egli stesso ne' suoicostumi, onestissimi avrebbe voluti tutti quelli di sua fa-miglia; il che ancora si scorge dal metodo da lui tenutoin allevarli, che narrato è da Svetonio (in Augusto c. 64).Quindi le loro scostumatezze trafiggevanlo altamente, eniuna cosa avea più in orrore che l'infamia che a lui per-ciò ne veniva.

XXXIX. Ciò presupposto, io penso che lacagion principal dell'esilio di Ovidio fossel'aver egli sorpresa improvvisamente Giuliala nipote d'Augusto nell'atto di commetterealcuna di quelle disoneste azioni per cui ellapure fu dall'avolo rilegata. Veggiamo cometutte le circostanze felicemente concorronoa comprovare questa opinione. Giulia fu ri-legata, come si è accennato, verso il tempomedesimo in cui Ovidio, cioè circa l'an.

760. Tacito in fatti ne pone la morte sotto il consolato diGiulio Silano e Silio Nerva, che furono consoli l'an.780, e dice che avea ella per vent'anni sostenuto l'esilio:Per idem tempus Julia mortem obiit; quam neptem Au-gustus convictam adulterii damnaverat, projeceratquein insulam Trimerum haud procul Apulis litoribus. Illicviginti annis exilium toleravit (Annal. lib. 4, sub. fin.).Andiamo innanzi. Ovidio fu rilegato perchè vide un de-litto; e il delitto era tal che non voleva rammentarlo ad

406

Ovidio fu probabil-mente esi-liato per es-sere stato testimonio delle disso-lutezze di Giulia ni-pote di Au-gusto.

prissero i lor delitti, quando venivano a pubblicarsi.Uomo per altro non troppo onesto egli stesso ne' suoicostumi, onestissimi avrebbe voluti tutti quelli di sua fa-miglia; il che ancora si scorge dal metodo da lui tenutoin allevarli, che narrato è da Svetonio (in Augusto c. 64).Quindi le loro scostumatezze trafiggevanlo altamente, eniuna cosa avea più in orrore che l'infamia che a lui per-ciò ne veniva.

XXXIX. Ciò presupposto, io penso che lacagion principal dell'esilio di Ovidio fossel'aver egli sorpresa improvvisamente Giuliala nipote d'Augusto nell'atto di commetterealcuna di quelle disoneste azioni per cui ellapure fu dall'avolo rilegata. Veggiamo cometutte le circostanze felicemente concorronoa comprovare questa opinione. Giulia fu ri-legata, come si è accennato, verso il tempomedesimo in cui Ovidio, cioè circa l'an.

760. Tacito in fatti ne pone la morte sotto il consolato diGiulio Silano e Silio Nerva, che furono consoli l'an.780, e dice che avea ella per vent'anni sostenuto l'esilio:Per idem tempus Julia mortem obiit; quam neptem Au-gustus convictam adulterii damnaverat, projeceratquein insulam Trimerum haud procul Apulis litoribus. Illicviginti annis exilium toleravit (Annal. lib. 4, sub. fin.).Andiamo innanzi. Ovidio fu rilegato perchè vide un de-litto; e il delitto era tal che non voleva rammentarlo ad

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Ovidio fu probabil-mente esi-liato per es-sere stato testimonio delle disso-lutezze di Giulia ni-pote di Au-gusto.

Augusto, per non rinnovargliene il dolore. Quale delittopuò mai esser questo, se non delitto infame di personache per istretto vincolo di parentela appartenga ad Au-gusto, qual era appunto la sua nipote Giulia? La simili-tudine di Atteone, che abbiam veduto recarsi da Ovidio,giova anch'essa a comprovare la mia opinione. Ovidiodice che la prima origine della sua sventura era stata ilvoler penetrare nella famigliarità de' grandi; perchèl'amicizia di cui Giulia forse onoravalo, fu quella che lofece ardito a entrare ove la sorprese in delitto. Confessache fu colpa la sua, perchè certo fu egli colpevole in vo-ler appaggare la sua curiosità, singolarmente se a tal fineavesse usato o di violenza, o d'inganno; ma nega di es-sere reo di delitto; e si protesta innocente, perchè niunmisfatto con Giulia egli avea commesso; ove convieneosservare che non avrebbe già egli usato questo parlarcon Augusto, se questi avesse saputo che Ovidio aveaveramente commesso, o almen tentato di commetterecon lei un delitto. Aggiugne che la sua colpa fu mista dierrore e di timore; di errore, perchè lasciossi spingere apenetrare più oltre che non convenivagli; di timore, per-chè non ebbe coraggio di scoprir la cosa ad Augusto; ilche se avesse egli fatto, forse ne avrebbe ottenuto il per-dono. Laddove avendone Augusto saputo altronde, eavendo pur risaputo che Ovidio era stato spettator deldelitto, si volle toglier dinanzi un uomo che aveva arditodi essere testimonio dell'infamia di sua nipote, e da cuipoteva temere ch'essa non venisse un dì pubblicata.Confessa finalmente Ovidio di aver meritato lo sdegno

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Augusto, per non rinnovargliene il dolore. Quale delittopuò mai esser questo, se non delitto infame di personache per istretto vincolo di parentela appartenga ad Au-gusto, qual era appunto la sua nipote Giulia? La simili-tudine di Atteone, che abbiam veduto recarsi da Ovidio,giova anch'essa a comprovare la mia opinione. Ovidiodice che la prima origine della sua sventura era stata ilvoler penetrare nella famigliarità de' grandi; perchèl'amicizia di cui Giulia forse onoravalo, fu quella che lofece ardito a entrare ove la sorprese in delitto. Confessache fu colpa la sua, perchè certo fu egli colpevole in vo-ler appaggare la sua curiosità, singolarmente se a tal fineavesse usato o di violenza, o d'inganno; ma nega di es-sere reo di delitto; e si protesta innocente, perchè niunmisfatto con Giulia egli avea commesso; ove convieneosservare che non avrebbe già egli usato questo parlarcon Augusto, se questi avesse saputo che Ovidio aveaveramente commesso, o almen tentato di commetterecon lei un delitto. Aggiugne che la sua colpa fu mista dierrore e di timore; di errore, perchè lasciossi spingere apenetrare più oltre che non convenivagli; di timore, per-chè non ebbe coraggio di scoprir la cosa ad Augusto; ilche se avesse egli fatto, forse ne avrebbe ottenuto il per-dono. Laddove avendone Augusto saputo altronde, eavendo pur risaputo che Ovidio era stato spettator deldelitto, si volle toglier dinanzi un uomo che aveva arditodi essere testimonio dell'infamia di sua nipote, e da cuipoteva temere ch'essa non venisse un dì pubblicata.Confessa finalmente Ovidio di aver meritato lo sdegno

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di Augusto, il che è chiaro, nella nostra opinione; lapena avutane era ancora minor del suo fallo perciocchèin fatti pel grande sdegno che tali cose destavano nelcuor di Augusto, Ovidio avea ragion di temere che noltogliesse ancora di vita.

XL. Così a me pare che ogni cosa si spieghiprobabilmente. La confusione che Augustoavea provata negli anni addietro per le diso-nestà della figlia, e l'orrore che sentiva

nell'essere così infamato da' suoi, tutto se gli riaccese inseno quando riseppe che la nipote ancora erasi macchia-ta di sì reo delitto; e che Ovidio avea ardita di penetrarecolà ove esso si era commesso, e di esserne spettatore.Quindi per non soggiacere di nuovo a quella vergognache le disonestà della figlia aveangli cagionato, rilegatasubito la nipote, e tolto verisimilmente di mezzo il com-plice del delitto, volle ancora che rilegato fosse coluiche solo rimaneva consapevole dell'infame segreto, sìper non avere innanzi agli occhi un oggetto che di conti-nuo gli richiamava al pensiero il disonore di sua fami-glia, sì ancora per assicurarsi che Ovidio non divolgasseil fatto. E questo io penso che fosse veramente il motivoper cui Augusto usò di qualche clemenza con Ovidio,adoperando, come si è detto, il termine men rigoroso dirilegazione anzi che quello di esilio, e lasciandoli il go-dimento di tutti i suoi beni. Augusto non avrebbe certa-mente, a mio parere, così operato, se reo di grave delitto

408

Conferma di questa opinione.

di Augusto, il che è chiaro, nella nostra opinione; lapena avutane era ancora minor del suo fallo perciocchèin fatti pel grande sdegno che tali cose destavano nelcuor di Augusto, Ovidio avea ragion di temere che noltogliesse ancora di vita.

XL. Così a me pare che ogni cosa si spieghiprobabilmente. La confusione che Augustoavea provata negli anni addietro per le diso-nestà della figlia, e l'orrore che sentiva

nell'essere così infamato da' suoi, tutto se gli riaccese inseno quando riseppe che la nipote ancora erasi macchia-ta di sì reo delitto; e che Ovidio avea ardita di penetrarecolà ove esso si era commesso, e di esserne spettatore.Quindi per non soggiacere di nuovo a quella vergognache le disonestà della figlia aveangli cagionato, rilegatasubito la nipote, e tolto verisimilmente di mezzo il com-plice del delitto, volle ancora che rilegato fosse coluiche solo rimaneva consapevole dell'infame segreto, sìper non avere innanzi agli occhi un oggetto che di conti-nuo gli richiamava al pensiero il disonore di sua fami-glia, sì ancora per assicurarsi che Ovidio non divolgasseil fatto. E questo io penso che fosse veramente il motivoper cui Augusto usò di qualche clemenza con Ovidio,adoperando, come si è detto, il termine men rigoroso dirilegazione anzi che quello di esilio, e lasciandoli il go-dimento di tutti i suoi beni. Augusto non avrebbe certa-mente, a mio parere, così operato, se reo di grave delitto

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Conferma di questa opinione.

con Giulia fosse stato Ovidio. Ma egli altro non volleche allontanare quanto più poteva da Roma chi era con-sapevole di tal delitto; e perciò gli permise di goder de'suoi beni, perchè il timore di perdere questi ancora ilrendesse cauto a tacere ciò che Augusto voleva sepoltoin eterno silenzio. A me non pare che, contro questa opi-nione si possa fare alcuna grave difficoltà. Nondimenoio non fo che proporla, e soggettarla all'esame degli eru-diti, pronto a mutar parere quando essi o la mostrinomal fondata, o un'altra miglior ne propongano.

XLI. Io avea scritto fin qui, quando mi sonoabbattuto, a vedere nell'opera di Gian Nic-colò Funcio De virilii ætate latinæ linguæaccennato il sentimento che sulla cagionedell'esilio di Ovidio ha proposto l'erudito ed

esatto scrittore Giovanni Masson nella Vita di questopoeta da lui pubblicata in Amsterdam l'an. 1708. Nonmi è stato possibile il vedere, come avrei bramato, que-sta Vita; ma ecco ciò che il Funcio ne dice su questo ar-gomento. Joannes Masson vir cl. crimen dicit fuisse Ju-liæ Augusti neptis, cujus Ovidius fuerit quidem reus fac-tus, at quod sibi modo visum, et a suis comitibus com-missum suadere conatur (p. 257). Vuole dunque il Mas-son che reo veramente di delitto commesso con Giuliafosse Ovidio; ma che volesse persuadere ad Augusto,che il delitto era di altri, e ch'egli non ne era stato chesemplice spettatore. Non so quali prove egli arrechi di

409

Esame del-la sentenza di GiovanniMasson.

con Giulia fosse stato Ovidio. Ma egli altro non volleche allontanare quanto più poteva da Roma chi era con-sapevole di tal delitto; e perciò gli permise di goder de'suoi beni, perchè il timore di perdere questi ancora ilrendesse cauto a tacere ciò che Augusto voleva sepoltoin eterno silenzio. A me non pare che, contro questa opi-nione si possa fare alcuna grave difficoltà. Nondimenoio non fo che proporla, e soggettarla all'esame degli eru-diti, pronto a mutar parere quando essi o la mostrinomal fondata, o un'altra miglior ne propongano.

XLI. Io avea scritto fin qui, quando mi sonoabbattuto, a vedere nell'opera di Gian Nic-colò Funcio De virilii ætate latinæ linguæaccennato il sentimento che sulla cagionedell'esilio di Ovidio ha proposto l'erudito ed

esatto scrittore Giovanni Masson nella Vita di questopoeta da lui pubblicata in Amsterdam l'an. 1708. Nonmi è stato possibile il vedere, come avrei bramato, que-sta Vita; ma ecco ciò che il Funcio ne dice su questo ar-gomento. Joannes Masson vir cl. crimen dicit fuisse Ju-liæ Augusti neptis, cujus Ovidius fuerit quidem reus fac-tus, at quod sibi modo visum, et a suis comitibus com-missum suadere conatur (p. 257). Vuole dunque il Mas-son che reo veramente di delitto commesso con Giuliafosse Ovidio; ma che volesse persuadere ad Augusto,che il delitto era di altri, e ch'egli non ne era stato chesemplice spettatore. Non so quali prove egli arrechi di

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Esame del-la sentenza di GiovanniMasson.

questo suo sentimento. Ma a me certamente non parprobabile. Lasciando stare altre riflessioni che dalle cosefinor disputate nascono naturalmente, come mai potevaOvidio lusingarsi, se veramente era reo, di persuaderead Augusto, che era innocente? Come esser certo cheGiulia non avesse ella medesima rivelato il complice delsuo misfatto? E non era anzi questo un irritar maggior-mente lo sdegno di Augusto? A me dunque non sembrache abbia questa opinione maggior forza delle altre chedi sopra si son confutate.

XLII. Rimane a dir qualche cosa intornoalla durata dell'esilio di Ovidio. Il Bayle,che quando entra in cronologiche discussio-ni pare non sappia uscirne pel piacer che viprova, ha di ciò parlato assai lungamente. Io

me ne spedirò in breve, accennando solo ciò che vi ha dicerto. Ovidio fu mandato in esilio circa l'an. 760 come siè detto: e il luogo di esso fu Tomi nella Scizia presso ilPonto Eusino ossia Mar Nero, e, per quanto sembra vi-cino all'imboccatura del Danubio. Scrive egli un'elegia(l. 4 de Ponto, el. 9) a un certo Grecino che dovea entrarquanto prima nel consolato, e con lui ancor si rallegrache avrà Flacco suo fratello per successore. Or questinon sono altri che Giulio Pomponio, Grecino il qualel'an. 768 fu sorrogato nel consolato a L. Scribonio Libo-ne, e L. Pomponio Flacco Grecino che gli succedette ilseguente an. 769 (V. Fastos Consulares). Era dunque an-

410

Durazione dell'esilio di Ovidio, esua morte.

questo suo sentimento. Ma a me certamente non parprobabile. Lasciando stare altre riflessioni che dalle cosefinor disputate nascono naturalmente, come mai potevaOvidio lusingarsi, se veramente era reo, di persuaderead Augusto, che era innocente? Come esser certo cheGiulia non avesse ella medesima rivelato il complice delsuo misfatto? E non era anzi questo un irritar maggior-mente lo sdegno di Augusto? A me dunque non sembrache abbia questa opinione maggior forza delle altre chedi sopra si son confutate.

XLII. Rimane a dir qualche cosa intornoalla durata dell'esilio di Ovidio. Il Bayle,che quando entra in cronologiche discussio-ni pare non sappia uscirne pel piacer che viprova, ha di ciò parlato assai lungamente. Io

me ne spedirò in breve, accennando solo ciò che vi ha dicerto. Ovidio fu mandato in esilio circa l'an. 760 come siè detto: e il luogo di esso fu Tomi nella Scizia presso ilPonto Eusino ossia Mar Nero, e, per quanto sembra vi-cino all'imboccatura del Danubio. Scrive egli un'elegia(l. 4 de Ponto, el. 9) a un certo Grecino che dovea entrarquanto prima nel consolato, e con lui ancor si rallegrache avrà Flacco suo fratello per successore. Or questinon sono altri che Giulio Pomponio, Grecino il qualel'an. 768 fu sorrogato nel consolato a L. Scribonio Libo-ne, e L. Pomponio Flacco Grecino che gli succedette ilseguente an. 769 (V. Fastos Consulares). Era dunque an-

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Durazione dell'esilio di Ovidio, esua morte.

cor vivo Ovidio l'an. 769, cioè due anni dopo la morted'Augusto. Questi non si era mai lasciato muovere a ri-chiamarlo. Ovidio dice veramente che aveva egli comin-ciato a piegarsi quando morì: Cæperat Augustus deceptæ ignoscere culpæ:

Spem nostram, terras deseruitque simul. (l. 4 de Ponto el. 6)

Ma forse fu questa una lusinga dell'esule infelice. Tibe-rio ancora non si lasciò piegare giammai alle preghiered'Ovidio per non curanza, credo io, piuttosto che perisdegno. Quanto ancora egli sopravvivesse, non si puòprecisamente determinare. La Cronaca eusebiana il famorto l'anno quarto di Tiberio, cioè l'anno di Roma 770,e sessantesimo di sua età. Ma non ve ne ha monumentoalcuno più sicuro. Della penna, ossia dello stile di argen-to usato già da Ovidio e mostrato da Isabella reginad'Ungeria circa l'an. 1549 a Pietro Angelio, di cui parlail Ciofano (in Vit. Ovid.) e del sepolcro dello stesso poe-ta scoperto in Sabaria sulla Sava, io lascerò che coloro acui non manchi il tempo per confutare tutte le favolepuerili che in alcuni libri si leggono. Più utile sarà, iospero, il trattenerci alcun poco sull'indole e sul caratteredelle poesie di Ovidio.

XLIII. Io non so se tra' poeti abbiavi alcunoche in vivacità e leggiadria d'ingegno a luisi possa paragonare. Quando egli narra, o

411

Carattere del suo sti-le.

cor vivo Ovidio l'an. 769, cioè due anni dopo la morted'Augusto. Questi non si era mai lasciato muovere a ri-chiamarlo. Ovidio dice veramente che aveva egli comin-ciato a piegarsi quando morì: Cæperat Augustus deceptæ ignoscere culpæ:

Spem nostram, terras deseruitque simul. (l. 4 de Ponto el. 6)

Ma forse fu questa una lusinga dell'esule infelice. Tibe-rio ancora non si lasciò piegare giammai alle preghiered'Ovidio per non curanza, credo io, piuttosto che perisdegno. Quanto ancora egli sopravvivesse, non si puòprecisamente determinare. La Cronaca eusebiana il famorto l'anno quarto di Tiberio, cioè l'anno di Roma 770,e sessantesimo di sua età. Ma non ve ne ha monumentoalcuno più sicuro. Della penna, ossia dello stile di argen-to usato già da Ovidio e mostrato da Isabella reginad'Ungeria circa l'an. 1549 a Pietro Angelio, di cui parlail Ciofano (in Vit. Ovid.) e del sepolcro dello stesso poe-ta scoperto in Sabaria sulla Sava, io lascerò che coloro acui non manchi il tempo per confutare tutte le favolepuerili che in alcuni libri si leggono. Più utile sarà, iospero, il trattenerci alcun poco sull'indole e sul caratteredelle poesie di Ovidio.

XLIII. Io non so se tra' poeti abbiavi alcunoche in vivacità e leggiadria d'ingegno a luisi possa paragonare. Quando egli narra, o

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Carattere del suo sti-le.

descrive alcuna cosa, pare che l'abbia sotto degli occhi,e, qual egli la vede, tale la rappresenta a chi legge; sic-chè sembri a lui pure, di averla presente allo sguardo.Qual narrazione più bella più tenera, più passionata diquella del volo d'Icaro e di Dedalo, della morte di Pira-mo o di Tisbe, della cena di Filomene e di Baucide, e ditante altre che frequentemente s'incontrano ne' libri delleMetamorfosi! Qual affetto, qual grazia non si trova inmolta delle lettere da lui chiamate Eroidi! E han ben sa-puto giovarsene i moderni poeti, e l'Ariosto singolar-mente, il quale nell'incomparabil racconto di Olimpia edi Bireno tante cose ha imitate dalla lettera di Arianna aTeseo presso Ovidio, che non sol la sostanza del fatto,ma i sentimenti ancor ne ha in più luoghi espressi felice-mente. Qual copia di vaghe e leggiadrissime immaginici offre egli ad ogni passo in tutte le poesie! Due difettiperò si oppongono con ragione ad Ovidio; la poca coltu-ra nella espressione, e il soverchio raffinamento; difetticagionati amendue dalla stessa sua non ordinaria felicitàd'ingegno. Questa gli apre sempre, innanzi agli occhi,nuove immagini; egli si affretta a dipingerle; e il primocolore, per così dire, che gli viene alle mani, quello egliusa ad ornarle. La facilità maravigliosa di verseggiare fache, non trovando giammai ostacolo alcuno, ei non sifermi a dubitare quale tra le molte espressioni sia la piùcolta, qual vogliasi preferire alle altre. Quella è per lui lamigliore che il lascia più presto avanzarsi nel suo rapidocorso. Confessa egli medesimo di essere insofferentedella lima:

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descrive alcuna cosa, pare che l'abbia sotto degli occhi,e, qual egli la vede, tale la rappresenta a chi legge; sic-chè sembri a lui pure, di averla presente allo sguardo.Qual narrazione più bella più tenera, più passionata diquella del volo d'Icaro e di Dedalo, della morte di Pira-mo o di Tisbe, della cena di Filomene e di Baucide, e ditante altre che frequentemente s'incontrano ne' libri delleMetamorfosi! Qual affetto, qual grazia non si trova inmolta delle lettere da lui chiamate Eroidi! E han ben sa-puto giovarsene i moderni poeti, e l'Ariosto singolar-mente, il quale nell'incomparabil racconto di Olimpia edi Bireno tante cose ha imitate dalla lettera di Arianna aTeseo presso Ovidio, che non sol la sostanza del fatto,ma i sentimenti ancor ne ha in più luoghi espressi felice-mente. Qual copia di vaghe e leggiadrissime immaginici offre egli ad ogni passo in tutte le poesie! Due difettiperò si oppongono con ragione ad Ovidio; la poca coltu-ra nella espressione, e il soverchio raffinamento; difetticagionati amendue dalla stessa sua non ordinaria felicitàd'ingegno. Questa gli apre sempre, innanzi agli occhi,nuove immagini; egli si affretta a dipingerle; e il primocolore, per così dire, che gli viene alle mani, quello egliusa ad ornarle. La facilità maravigliosa di verseggiare fache, non trovando giammai ostacolo alcuno, ei non sifermi a dubitare quale tra le molte espressioni sia la piùcolta, qual vogliasi preferire alle altre. Quella è per lui lamigliore che il lascia più presto avanzarsi nel suo rapidocorso. Confessa egli medesimo di essere insofferentedella lima:

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Sæpe piget (quid enim dubitem tibi vera fateri?)Corrigere, et longi ferre laboris opus (l. 3 de Ponto, el. 9).

Questa stessa felicità d'ingegno gli scuopre i diversi rap-porti che tra loro hanno le cose di cui ragiona, i molte-plici aspetti in cui si possono rappresentare, i più vaghiornamenti di cui possono rivestirsi. Egli si abbandona alsuo ingegno, ne siegue i voli, e per seguirgli abbandonatalvolta la via che la natura gli addita. In somma Ovidiosarebbe a mio parere il miglior tra' poeti se, come sag-giamente avvertì Quintiliano, "egli avesse voluto mode-rare anzichè secondare il suo ingegno (Instit. Orat. l. 10,c. 1)". Piacemi in ultimo di recare a questo luogo ungrazioso pensiero del co. Algarotti intorno allo stile diOvidio, il quale però sembrerà per avventura a molti unpoetico scherzo anzi che una seria riflessione. Comun-que sia, egli afferma che il poetare d'Ovidio ha molta so-miglianza col poetare de' Francesi: "Riunir cose in unsentimento il più che si possa lontane, rallegrar l'espres-sioni con una graziosa antitesi, e rilevare in chichessiaquello che vi ha di maraviglioso, in ciò consistono, senon erro, le qualità principali dello spirito de' Francesi.Di una simile tempra è lo spirito di Ovidio, talmente chepare che di tutti gli antichi poeti egli fosse quello chemeno degli altri avrebbe l'aria forestiera alle Tuillerie ea Versaglia. Tanto più che oltre alle sopraddette qualitàregna nello stile di Ovidio un cortigianesco ed una ga-lanteria, quali appunto, convenivano a' tempi di Augu-

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Sæpe piget (quid enim dubitem tibi vera fateri?)Corrigere, et longi ferre laboris opus (l. 3 de Ponto, el. 9).

Questa stessa felicità d'ingegno gli scuopre i diversi rap-porti che tra loro hanno le cose di cui ragiona, i molte-plici aspetti in cui si possono rappresentare, i più vaghiornamenti di cui possono rivestirsi. Egli si abbandona alsuo ingegno, ne siegue i voli, e per seguirgli abbandonatalvolta la via che la natura gli addita. In somma Ovidiosarebbe a mio parere il miglior tra' poeti se, come sag-giamente avvertì Quintiliano, "egli avesse voluto mode-rare anzichè secondare il suo ingegno (Instit. Orat. l. 10,c. 1)". Piacemi in ultimo di recare a questo luogo ungrazioso pensiero del co. Algarotti intorno allo stile diOvidio, il quale però sembrerà per avventura a molti unpoetico scherzo anzi che una seria riflessione. Comun-que sia, egli afferma che il poetare d'Ovidio ha molta so-miglianza col poetare de' Francesi: "Riunir cose in unsentimento il più che si possa lontane, rallegrar l'espres-sioni con una graziosa antitesi, e rilevare in chichessiaquello che vi ha di maraviglioso, in ciò consistono, senon erro, le qualità principali dello spirito de' Francesi.Di una simile tempra è lo spirito di Ovidio, talmente chepare che di tutti gli antichi poeti egli fosse quello chemeno degli altri avrebbe l'aria forestiera alle Tuillerie ea Versaglia. Tanto più che oltre alle sopraddette qualitàregna nello stile di Ovidio un cortigianesco ed una ga-lanteria, quali appunto, convenivano a' tempi di Augu-

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sto, e quali non disdirebbero a quelli di Luigi XIV".Così egli (Pensieri diversi p. 117).

XLIV. I libri de' Fasti, de' quali si sono infe-licemente smarriti gli ultimi sei, la Meta-

morfosi, e le Eroidi sono le migliori opere di Ovidio (66).Le Elegie intitolate Malinconiche, e le Lettere scritte dalPonto hanno anch'esse de' bellissimi tratti. Ma la lonta-nanza da' suoi, e la barbarie de' popoli tra cui si trovava,dovea necessariamente scemare nell'infelice poeta la vi-vacità natia e l'usato suo brio. De' libri amorosi Ovidiostesso ebbe poi pentimento e vergogna d'avergli scritti enoi non possiam non dolerci che un sì raro ingegno siasiper tanto tempo avvolto in sì laide sozzure. Di una suatragedia avremo a favellar tra poco. Degli altri picciolipoemetti che vanno sotto suo nome, quali debbano aver-si per suoi, quali altre poesie avesse egli scritte, che piùnon si trovano, l'edizioni, le traduzioni, i comenti cheabbiamo delle opere a noi pervenute, tutto ciò si può ve-dere appresso il Fabricio (Bibl. lat. l. 1, c. 15); che forse

66 Prima di Ovidio avea un altro poeta, detto Aulo Sabino, scritte parecchielettere in versi, non di donne ad uomini, ma d'uomini a donne, cioè di Ulis-se a Penelope, d'Ippolito a Fedra, di Enea a Didone, di Demofonte a Filli-de, di Giasone ad Issipile, come afferma lo stesso Ovidio (Amor. 2, el. 18).Ma tutte sono perite; perciocchè la prima e la quarta che insiem conun'altra di Paride a Enone leggonsi sotto il nome di Sabino in diverse edi-zioni delle Eroidi, per comun consenso de' dotti non sono degne di questaetà. Avea egli ancora dato principio a un poema intitolato Træzena e a unaltro detto de' giorni ossia de' Fasti; ma rapito da immatura morte, comedice lo stesso Ovidio. (Ex ponto l. 4, el. ult.), non potè finirli.

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Sue opere.

sto, e quali non disdirebbero a quelli di Luigi XIV".Così egli (Pensieri diversi p. 117).

XLIV. I libri de' Fasti, de' quali si sono infe-licemente smarriti gli ultimi sei, la Meta-

morfosi, e le Eroidi sono le migliori opere di Ovidio (66).Le Elegie intitolate Malinconiche, e le Lettere scritte dalPonto hanno anch'esse de' bellissimi tratti. Ma la lonta-nanza da' suoi, e la barbarie de' popoli tra cui si trovava,dovea necessariamente scemare nell'infelice poeta la vi-vacità natia e l'usato suo brio. De' libri amorosi Ovidiostesso ebbe poi pentimento e vergogna d'avergli scritti enoi non possiam non dolerci che un sì raro ingegno siasiper tanto tempo avvolto in sì laide sozzure. Di una suatragedia avremo a favellar tra poco. Degli altri picciolipoemetti che vanno sotto suo nome, quali debbano aver-si per suoi, quali altre poesie avesse egli scritte, che piùnon si trovano, l'edizioni, le traduzioni, i comenti cheabbiamo delle opere a noi pervenute, tutto ciò si può ve-dere appresso il Fabricio (Bibl. lat. l. 1, c. 15); che forse

66 Prima di Ovidio avea un altro poeta, detto Aulo Sabino, scritte parecchielettere in versi, non di donne ad uomini, ma d'uomini a donne, cioè di Ulis-se a Penelope, d'Ippolito a Fedra, di Enea a Didone, di Demofonte a Filli-de, di Giasone ad Issipile, come afferma lo stesso Ovidio (Amor. 2, el. 18).Ma tutte sono perite; perciocchè la prima e la quarta che insiem conun'altra di Paride a Enone leggonsi sotto il nome di Sabino in diverse edi-zioni delle Eroidi, per comun consenso de' dotti non sono degne di questaetà. Avea egli ancora dato principio a un poema intitolato Træzena e a unaltro detto de' giorni ossia de' Fasti; ma rapito da immatura morte, comedice lo stesso Ovidio. (Ex ponto l. 4, el. ult.), non potè finirli.

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Sue opere.

troppo a lungo intorno a questo poeta noi ci siam tratte-nuti.

XLV. Due altri poeti finalmente appartengo-no, a mio parere, all'epoca di cui parliamo,benchè altri a diversa età, gli voglian vissu-

ti, M. Manilio, e Fedro. Assai scarse son le notizie cheabbiam d'amendue; ma queste bastano, io credo, ad ac-certare che vissero anch'essi al buon secol d'Augusto.M. Manilio vien detto dal Quadrio (t. 6, p. 37) antioche-no di patria, e non diverso da quel Manlio matematicoche per testimonianza di Plinio sull'obelisco del campoMarzio collocò un gnomone. Ma in tal maniera il Qua-drio ha unito tre personaggi in un solo, Manlio il mate-matico autore del mentovato gnomone, Manlio antio-cheno, e Manilio il poeta di cui parliamo. Del primopossiam a ragion dubitare se mai esistesse, perciocchèvedremo a suo luogo parlando di quel gnomone, chebenchè in alcune edizioni di Plinio se ne dica Manlioautore, questo nome però non è veramente ne' miglioricodici, ed è stato perciò ommesso nelle recenti e piùcorrette edizioni. Il Manlio antiocheno che da Plinio ènominato altrove (l. 35, c. 17) coll'onorevole titolo difondatore dell'astrologia è certamente diverso dal nostropoeta. Questi, come or ora vedremo, fiorì a' tempid'Augusto: di quello al contrario dice Plinio che egli in-sieme col gramatico Erote e Publio scrittor di mimi ve-duti furono da' suoi bisavoli venire sulla nave medesimaa Roma: Eadem navi advectos videre proavi. Or Plinio il

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Notizie di Manilio.

troppo a lungo intorno a questo poeta noi ci siam tratte-nuti.

XLV. Due altri poeti finalmente appartengo-no, a mio parere, all'epoca di cui parliamo,benchè altri a diversa età, gli voglian vissu-

ti, M. Manilio, e Fedro. Assai scarse son le notizie cheabbiam d'amendue; ma queste bastano, io credo, ad ac-certare che vissero anch'essi al buon secol d'Augusto.M. Manilio vien detto dal Quadrio (t. 6, p. 37) antioche-no di patria, e non diverso da quel Manlio matematicoche per testimonianza di Plinio sull'obelisco del campoMarzio collocò un gnomone. Ma in tal maniera il Qua-drio ha unito tre personaggi in un solo, Manlio il mate-matico autore del mentovato gnomone, Manlio antio-cheno, e Manilio il poeta di cui parliamo. Del primopossiam a ragion dubitare se mai esistesse, perciocchèvedremo a suo luogo parlando di quel gnomone, chebenchè in alcune edizioni di Plinio se ne dica Manlioautore, questo nome però non è veramente ne' miglioricodici, ed è stato perciò ommesso nelle recenti e piùcorrette edizioni. Il Manlio antiocheno che da Plinio ènominato altrove (l. 35, c. 17) coll'onorevole titolo difondatore dell'astrologia è certamente diverso dal nostropoeta. Questi, come or ora vedremo, fiorì a' tempid'Augusto: di quello al contrario dice Plinio che egli in-sieme col gramatico Erote e Publio scrittor di mimi ve-duti furono da' suoi bisavoli venire sulla nave medesimaa Roma: Eadem navi advectos videre proavi. Or Plinio il

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Notizie di Manilio.

vecchio nacque sotto Tiberio, e perciò di uno che vivevaagli ultimi anni di Augusto, non avrebbe potuto dire chei suoi bisavoli aveanlo veduto venire a Roma. Conviendunque distinguere Manlio l'astrologo da Manilio il poe-ta; nè vi ha ragione alcuna per credere che questi fosseantiocheno. Il Du Fay nella prefazione a' suoi Comentisopra Manilio conghiettura ch'ei fosse romano, fondatosu quel verso di questo poeta:

Speratum Hannibalem nostris eccidisse catenis (l. 4, v. 41).

Ma Plinio stesso il qual non era certamente romano,chiama spesso nostra la città di Roma. Ch'egli vivesse a'tempi di Augusto, è chiaro in primo luogo dalla dedicada lui fattagli del suo poema. E che d'Augusto veramen-te e non d'altro imperadore debba intendersi, si compro-va ancor maggiormente così dal riflettere ch'ei fa men-zione, come di cosa recente, della disfatta di Varo nellaGermania, seguita l'an. 761 (l. 1, v. 896), come ancor piùdal vedere ch'egli nomina Tiberio come principe desti-nato a regnare; perciocchè parlando di Rodi dice: ......... Felix terraque marique Es Rhodos, hospitum recturi principis orbem (l. 4, v. 761).

Or noi sappiamo che, vivendo Augusto, Tiberio per ottoanni stette ritirato in Rodi onde poscia tornossene aRoma l'an. 754. Intorno all'età di Manilio veggasi il Fa-bricio (Bibl. lat. l. 1, c. 18) e più ancora il le Clerc (Bibl.chois. t. 2, p. 245, ec.) che difende lungamente questa

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vecchio nacque sotto Tiberio, e perciò di uno che vivevaagli ultimi anni di Augusto, non avrebbe potuto dire chei suoi bisavoli aveanlo veduto venire a Roma. Conviendunque distinguere Manlio l'astrologo da Manilio il poe-ta; nè vi ha ragione alcuna per credere che questi fosseantiocheno. Il Du Fay nella prefazione a' suoi Comentisopra Manilio conghiettura ch'ei fosse romano, fondatosu quel verso di questo poeta:

Speratum Hannibalem nostris eccidisse catenis (l. 4, v. 41).

Ma Plinio stesso il qual non era certamente romano,chiama spesso nostra la città di Roma. Ch'egli vivesse a'tempi di Augusto, è chiaro in primo luogo dalla dedicada lui fattagli del suo poema. E che d'Augusto veramen-te e non d'altro imperadore debba intendersi, si compro-va ancor maggiormente così dal riflettere ch'ei fa men-zione, come di cosa recente, della disfatta di Varo nellaGermania, seguita l'an. 761 (l. 1, v. 896), come ancor piùdal vedere ch'egli nomina Tiberio come principe desti-nato a regnare; perciocchè parlando di Rodi dice: ......... Felix terraque marique Es Rhodos, hospitum recturi principis orbem (l. 4, v. 761).

Or noi sappiamo che, vivendo Augusto, Tiberio per ottoanni stette ritirato in Rodi onde poscia tornossene aRoma l'an. 754. Intorno all'età di Manilio veggasi il Fa-bricio (Bibl. lat. l. 1, c. 18) e più ancora il le Clerc (Bibl.chois. t. 2, p. 245, ec.) che difende lungamente questa

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nostra opinione, e ribatte gli argomenti di Caspero Ge-varzio, il quale avea trasportato Manilio fino a' tempi diTeodosio.

XLVI. Manilio fu il primo tra' Latini, chele cose astronomiche prendesse a scriverein versi. Egli è vero che il suo poema assaipoco ci può ora giovare ad apprendere

l'astronomia; ma egli scrisse ciò che allora comunemen-te se ne sapeva. Lo stile da lui usato non può certo veni-re a confronto con quello de' migliori poeti dell'età diAugusto. Nondimeno attesa singolarmente la difficoltàdel suggetto di cui prese a trattare, non lascia di avere aquando a quando gravità ed eleganza degna del tempo icui visse. Non tutto però ci è pervenuto il suo poema;che cinque soli libri ne abbiamo, e pare che sei, o settene fossero da lui composti; e oltre ciò il quinto libro an-cora sembra imperfetto.

XLVII. Non minore oscurità s'incontra perriguardo a Fedro. Di lui appena trovasimenzione alcuna presso gli antichi scrittori;e pare che Seneca filosofo non ne avessecontezza; perciocchè egli parlando delle Fa-

vole di Esopo afferma che i Latini non aveano finalloratentato componimenti di tal natura: Æsopeos logos in-tentatum Romanis ingeniis opus (De Consolat. ad Po-lyb. c. 28). La risposta che a ciò fanno alcuni, che Sene-

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Chi fosse Fedro, e a qual tempo vivesse.

Suo poema astronomico.

nostra opinione, e ribatte gli argomenti di Caspero Ge-varzio, il quale avea trasportato Manilio fino a' tempi diTeodosio.

XLVI. Manilio fu il primo tra' Latini, chele cose astronomiche prendesse a scriverein versi. Egli è vero che il suo poema assaipoco ci può ora giovare ad apprendere

l'astronomia; ma egli scrisse ciò che allora comunemen-te se ne sapeva. Lo stile da lui usato non può certo veni-re a confronto con quello de' migliori poeti dell'età diAugusto. Nondimeno attesa singolarmente la difficoltàdel suggetto di cui prese a trattare, non lascia di avere aquando a quando gravità ed eleganza degna del tempo icui visse. Non tutto però ci è pervenuto il suo poema;che cinque soli libri ne abbiamo, e pare che sei, o settene fossero da lui composti; e oltre ciò il quinto libro an-cora sembra imperfetto.

XLVII. Non minore oscurità s'incontra perriguardo a Fedro. Di lui appena trovasimenzione alcuna presso gli antichi scrittori;e pare che Seneca filosofo non ne avessecontezza; perciocchè egli parlando delle Fa-

vole di Esopo afferma che i Latini non aveano finalloratentato componimenti di tal natura: Æsopeos logos in-tentatum Romanis ingeniis opus (De Consolat. ad Po-lyb. c. 28). La risposta che a ciò fanno alcuni, che Sene-

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Chi fosse Fedro, e a qual tempo vivesse.

Suo poema astronomico.

ca così favelli perchè Fedro fu straniero e non romano,non è probabile; perciocchè è evidente che Seneca aquesto luogo vuol dire che favole in lingua latina non sierano scritte ancora. È dunque miglior partito rispondereche, qualunque ne sia la ragione, potè Seneca ignorarele favole e il nome di Fedro. Marziale (l. 5, epigr. 20), edopo lui Rufo Festo Avieno (in præf. ad Fabul.) che fio-rì a' tempi di Teodosio e di Graziano, sono i due soli an-tichi, autori che ne favellino. Anzi que' versi di Marzialeove egli dice:

Dic Musa, quid agat Canius meus Rufus. An æmulatur improbi jocos Phædri?

pretende lo Scriverio (in not. ad hunc loc.) che non pos-sano intendersi in conto alcuno di Fedro, e gentilmentechiama privi di senno coloro che pensano lui esser vis-suto a' tempi d'Augusto, o poco dopo. Le ragioni da luiaddotte si posson vedere posso il Bayle (Diction. art."Phedre") e presso il Fabricio (Bibl. lat. 2, c. 3) che nemostrano l'insussistenza. Di fatti è certo che Fedro famenzion di Seiano il famoso ministro dell'imperadoreTiberio, e duolsi di essere ingiustamente da lui calunnia-to ed oppresso (l. 3 in prol.); il che è prova evidente chea quel tempo egli visse; benchè a ragione si creda che lesue favole, o almen il prologo in cui di esso ragiona,egli non pubblicasse se non dopo la caduta di quel po-tente ministro. È certo ancora che, parlando di una sen-tenza data da Augusto, dice di raccontar cosa a sua me-moria avvenuta:

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ca così favelli perchè Fedro fu straniero e non romano,non è probabile; perciocchè è evidente che Seneca aquesto luogo vuol dire che favole in lingua latina non sierano scritte ancora. È dunque miglior partito rispondereche, qualunque ne sia la ragione, potè Seneca ignorarele favole e il nome di Fedro. Marziale (l. 5, epigr. 20), edopo lui Rufo Festo Avieno (in præf. ad Fabul.) che fio-rì a' tempi di Teodosio e di Graziano, sono i due soli an-tichi, autori che ne favellino. Anzi que' versi di Marzialeove egli dice:

Dic Musa, quid agat Canius meus Rufus. An æmulatur improbi jocos Phædri?

pretende lo Scriverio (in not. ad hunc loc.) che non pos-sano intendersi in conto alcuno di Fedro, e gentilmentechiama privi di senno coloro che pensano lui esser vis-suto a' tempi d'Augusto, o poco dopo. Le ragioni da luiaddotte si posson vedere posso il Bayle (Diction. art."Phedre") e presso il Fabricio (Bibl. lat. 2, c. 3) che nemostrano l'insussistenza. Di fatti è certo che Fedro famenzion di Seiano il famoso ministro dell'imperadoreTiberio, e duolsi di essere ingiustamente da lui calunnia-to ed oppresso (l. 3 in prol.); il che è prova evidente chea quel tempo egli visse; benchè a ragione si creda che lesue favole, o almen il prologo in cui di esso ragiona,egli non pubblicasse se non dopo la caduta di quel po-tente ministro. È certo ancora che, parlando di una sen-tenza data da Augusto, dice di raccontar cosa a sua me-moria avvenuta:

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Narrabo tibi, memoria quod factum est mea (l. 3, fab. 10).

Certo è per ultimo, ch'egli nel titolo del libro è detto Li-berto di Augusto; nè vi è ragione a credere che un altroimperadore si accenni, e non quello che per proprio eparticolar soprannome fu detto Augusto. Quindi a menon pare improbabile che Augusto conosciuto il talentodi questo suo schiavo, e vedutone alcune favole, gli ren-desse per premio, come spesso accadeva, la libertà. Èvero che i primi quattro libri delle sue Favole dedicaegli a un certo Eutico che vuolsi vissuto sotto Caligola.Ma chi ci assicura ch'ei fosse il medesimo? Un Euticocondottier d'asini trovasi anche a' tempi di Augusto. Ionon credo certo che fosse questi il mecenate di Fedro.Ma non poteva egli esservi anche un altro Eutico a cuiFedro dedicasse i suoi libri? Inoltre dalla morte di Au-gusto all'impero di Caligola non passarono che ventitreanni; e potè essere il medesimo Eutico a cui Fedro a'tempi di Augusto e di Tiberio offerisse le sue favole eche pure vivesse a' tempi ancor di Caligola.

XLVIII. Ma non del tempo soltanto a cuiFedro vivesse si è disputato, ma sì ancoras'egli vivesse mai. Gianfederigo Cristiopubblicò l'an. 1749 una dissertazione in cuipretese di dimostrare non esser mai stato almondo un Fedro antico scrittor di favole, e

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Dubbj da al-cuni propostisulla esisten-za di Fedro esull'antichità delle sue Fa-vole.

Narrabo tibi, memoria quod factum est mea (l. 3, fab. 10).

Certo è per ultimo, ch'egli nel titolo del libro è detto Li-berto di Augusto; nè vi è ragione a credere che un altroimperadore si accenni, e non quello che per proprio eparticolar soprannome fu detto Augusto. Quindi a menon pare improbabile che Augusto conosciuto il talentodi questo suo schiavo, e vedutone alcune favole, gli ren-desse per premio, come spesso accadeva, la libertà. Èvero che i primi quattro libri delle sue Favole dedicaegli a un certo Eutico che vuolsi vissuto sotto Caligola.Ma chi ci assicura ch'ei fosse il medesimo? Un Euticocondottier d'asini trovasi anche a' tempi di Augusto. Ionon credo certo che fosse questi il mecenate di Fedro.Ma non poteva egli esservi anche un altro Eutico a cuiFedro dedicasse i suoi libri? Inoltre dalla morte di Au-gusto all'impero di Caligola non passarono che ventitreanni; e potè essere il medesimo Eutico a cui Fedro a'tempi di Augusto e di Tiberio offerisse le sue favole eche pure vivesse a' tempi ancor di Caligola.

XLVIII. Ma non del tempo soltanto a cuiFedro vivesse si è disputato, ma sì ancoras'egli vivesse mai. Gianfederigo Cristiopubblicò l'an. 1749 una dissertazione in cuipretese di dimostrare non esser mai stato almondo un Fedro antico scrittor di favole, e

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Dubbj da al-cuni propostisulla esisten-za di Fedro esull'antichità delle sue Fa-vole.

queste esser tutte opera di moderno autore. Io non hoveduta questa dissertazione, ma solo un cenno che se nedà negli Atti di Lipsia (an. 1749, p. 710), e nella NuovaBiblioteca Germanica (t. 23, l. 371) ove ancora si accen-nano i libri contro questa nuova e troppo ardita opinionevenuti alla luce (67). Certo è però, che quando la primavolta per opera di Pietro Piteo furono pubblicate le Fa-vole di Fedro in Trojes l'an. 1596, molti temerono o difrode, o di errore; perchè niuna contezza erasene finallo-ra avuta. Ma esaminatone poscia lo stile, chiaramente datutti si riconobbe ch'esse erano di antico autore, e degnedel secolo di Augusto. Così scrive il p. Vavasseur (l. deLudicra dictione) come udito di bocca del p. Sirmondoche allor viveva. E certo lo stil di Fedro non è l'ultimoargomento che recar si possa a provare ch'egli visse albuon secolo; tanto esso è semplice e colto al medesimotempo. So che alcuni altri ne han giudicato diversamen-te e lo Scioppio tra gli altri così di lui autorevolmentedecide: Eum tamen, scriptorem velut domo barbarum,et sermone non parum sæpe plebejum, non nisi cum di-scrimine et delectu imitandum intelligo (Infam. Famian.

67 Agli scrittori qui mentovati che han voluto muovere dubbio, non sol se Fe-dro sia l'autore delle favole a lui attribuite, ma ancora se sia mai vissutopoeta di questo nome, dee aggiugnersi il sig. ab. Stefano Marchiselli ilquale ha rinnovata l'opinione dello Scriverio, che quelle favole siano operadel celebre Niccolò Perotto di cui diremo a lungo nella Storia del secoloXV. Chi avrà la sofferenza (se vi avrà alcuno che l'abbia) di legger ciòch'egli ha scritto su tale argomento (N. Raccolt. d'Opusc. t. 23, 24), potràconoscere di qual peso sieno le ragioni ch'egli adduca a difesa della suaopinione. Io confesso che non ho avuto il coraggio di leggerlo attentamen-te, e molto meno ho coraggio di accingermi ad esaminarlo.

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queste esser tutte opera di moderno autore. Io non hoveduta questa dissertazione, ma solo un cenno che se nedà negli Atti di Lipsia (an. 1749, p. 710), e nella NuovaBiblioteca Germanica (t. 23, l. 371) ove ancora si accen-nano i libri contro questa nuova e troppo ardita opinionevenuti alla luce (67). Certo è però, che quando la primavolta per opera di Pietro Piteo furono pubblicate le Fa-vole di Fedro in Trojes l'an. 1596, molti temerono o difrode, o di errore; perchè niuna contezza erasene finallo-ra avuta. Ma esaminatone poscia lo stile, chiaramente datutti si riconobbe ch'esse erano di antico autore, e degnedel secolo di Augusto. Così scrive il p. Vavasseur (l. deLudicra dictione) come udito di bocca del p. Sirmondoche allor viveva. E certo lo stil di Fedro non è l'ultimoargomento che recar si possa a provare ch'egli visse albuon secolo; tanto esso è semplice e colto al medesimotempo. So che alcuni altri ne han giudicato diversamen-te e lo Scioppio tra gli altri così di lui autorevolmentedecide: Eum tamen, scriptorem velut domo barbarum,et sermone non parum sæpe plebejum, non nisi cum di-scrimine et delectu imitandum intelligo (Infam. Famian.

67 Agli scrittori qui mentovati che han voluto muovere dubbio, non sol se Fe-dro sia l'autore delle favole a lui attribuite, ma ancora se sia mai vissutopoeta di questo nome, dee aggiugnersi il sig. ab. Stefano Marchiselli ilquale ha rinnovata l'opinione dello Scriverio, che quelle favole siano operadel celebre Niccolò Perotto di cui diremo a lungo nella Storia del secoloXV. Chi avrà la sofferenza (se vi avrà alcuno che l'abbia) di legger ciòch'egli ha scritto su tale argomento (N. Raccolt. d'Opusc. t. 23, 24), potràconoscere di qual peso sieno le ragioni ch'egli adduca a difesa della suaopinione. Io confesso che non ho avuto il coraggio di leggerlo attentamen-te, e molto meno ho coraggio di accingermi ad esaminarlo.

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p. 86). Al qual sentenzioso detto dello Scioppio un auto-re io contrapporrò, che spero non sarà da lui rigettato,cioè lo Scioppio stesso il quale altrove lo chiama cultis-simum fabularum scriptorem (Paradox. liter.). Ci per-metterà egli dunque che a questo suo secondo giudizionoi ci attenghiamo, molto più che il veggiam conferma-to da quanti hanno buon gusto di tersa latinità. E chiara-mente ancor si raccoglie in qual pregio sia egli tenuto,dalle tante edizioni che ne abbiamo, il cui catalogo sipuò vedere presso il Fabricio (Bibl. Lat. l. 2, c. 3). Anzimentre ancora egli vivea, pare che colle sue Favole sa-lisse a non ordinario onore; perciocchè offerendo il libroquinto di esse a un certo Particulone così gli scrive:

Mihi parta laus est, quod tu, quod similes tui, Vestras in chartas verba transfertis mea, Dignumque longa judicatis memoria.

Del rimanente altro non sappiamo di Fedro se non che eifu liberto d'Augusto, e natio della Tracia. Questa dichia-ra egli stesso essere la sua patria:

Cur sommo inerti deseram patriæ decus? Threissa cum gens numeret auctores suos, Linoque Apollo sit parens Musa Orpheo, ec. (l. 3 in prolog.).

E più chiaramente nel luogo stesso afferma di esser natosul colle Pierio.

Ego quem Pierio mater enixa est jugo.

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p. 86). Al qual sentenzioso detto dello Scioppio un auto-re io contrapporrò, che spero non sarà da lui rigettato,cioè lo Scioppio stesso il quale altrove lo chiama cultis-simum fabularum scriptorem (Paradox. liter.). Ci per-metterà egli dunque che a questo suo secondo giudizionoi ci attenghiamo, molto più che il veggiam conferma-to da quanti hanno buon gusto di tersa latinità. E chiara-mente ancor si raccoglie in qual pregio sia egli tenuto,dalle tante edizioni che ne abbiamo, il cui catalogo sipuò vedere presso il Fabricio (Bibl. Lat. l. 2, c. 3). Anzimentre ancora egli vivea, pare che colle sue Favole sa-lisse a non ordinario onore; perciocchè offerendo il libroquinto di esse a un certo Particulone così gli scrive:

Mihi parta laus est, quod tu, quod similes tui, Vestras in chartas verba transfertis mea, Dignumque longa judicatis memoria.

Del rimanente altro non sappiamo di Fedro se non che eifu liberto d'Augusto, e natio della Tracia. Questa dichia-ra egli stesso essere la sua patria:

Cur sommo inerti deseram patriæ decus? Threissa cum gens numeret auctores suos, Linoque Apollo sit parens Musa Orpheo, ec. (l. 3 in prolog.).

E più chiaramente nel luogo stesso afferma di esser natosul colle Pierio.

Ego quem Pierio mater enixa est jugo.

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E osserva appunto Strabone, che questo monte apparte-neva alla Tracia. Pieria, Pimpla, Libethrum olim Thra-ciæ fuere, montes regionesque. Ma per quale occasionee in qual tempo fosse egli condotto schiavo a Roma, nonè sì agevole a diffinire; e nel silenzio che intorno a luihan tenuto gli antichi scrittori, sarebbe inutil fatica iltentare d'illustrarne più chiaramente la vita.

XLIX. Questi furono i più illustri poeti chefiorirono nell'epoca di cui parliamo alla Ro-mana letteratura tanto gloriosa. Fra questiniun tragico e niun comico ho io nominato,sì perchè niuno di essi è pervenuto sino anoi, sì perchè in questo genere inferiori di

troppo rimasero i Romani ai Greci. Per ciò che appartie-ne alla commedia, Quintiliano stesso sinceramente con-fessa che non erano i Latini arrivati giammai ad ugua-gliare la grazia e la finezza de' Greci: In comœdia maxi-me claudicamus.... vix levem consequimur umbram,adeo ut mihi sermo ipse romanus non recipere videaturillam solis concessam Atticis venerem, quando eam neGræci quidem in alio genere linguæ obtinuerint (l. 10,c. 1). Pare che nella tragedia alquanto più felicementeriuscissero i Romani. Certamente lo stesso Quintilianoparlando degli scrittori di questo genere di componi-menti dice: Jam Varii Thyestes cuilibet Græcorum com-parari potest (ib.). Questa è quella tragedia di cui di-cemmo di sopra dubitarsi da alcuni che da Vario ossia

422

Notizie di alcuni po-chi scrittoridi tragedie e di com-medie.

E osserva appunto Strabone, che questo monte apparte-neva alla Tracia. Pieria, Pimpla, Libethrum olim Thra-ciæ fuere, montes regionesque. Ma per quale occasionee in qual tempo fosse egli condotto schiavo a Roma, nonè sì agevole a diffinire; e nel silenzio che intorno a luihan tenuto gli antichi scrittori, sarebbe inutil fatica iltentare d'illustrarne più chiaramente la vita.

XLIX. Questi furono i più illustri poeti chefiorirono nell'epoca di cui parliamo alla Ro-mana letteratura tanto gloriosa. Fra questiniun tragico e niun comico ho io nominato,sì perchè niuno di essi è pervenuto sino anoi, sì perchè in questo genere inferiori di

troppo rimasero i Romani ai Greci. Per ciò che appartie-ne alla commedia, Quintiliano stesso sinceramente con-fessa che non erano i Latini arrivati giammai ad ugua-gliare la grazia e la finezza de' Greci: In comœdia maxi-me claudicamus.... vix levem consequimur umbram,adeo ut mihi sermo ipse romanus non recipere videaturillam solis concessam Atticis venerem, quando eam neGræci quidem in alio genere linguæ obtinuerint (l. 10,c. 1). Pare che nella tragedia alquanto più felicementeriuscissero i Romani. Certamente lo stesso Quintilianoparlando degli scrittori di questo genere di componi-menti dice: Jam Varii Thyestes cuilibet Græcorum com-parari potest (ib.). Questa è quella tragedia di cui di-cemmo di sopra dubitarsi da alcuni che da Vario ossia

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Notizie di alcuni po-chi scrittoridi tragedie e di com-medie.

Varo non fosse stata involata a Cassio parmigiano. Seella ci fosse rimasta, potremmo esaminarla noi pure, emetterla al paragone con quelle di Sofocle e di Euripide,e vedere se regga al confronto. Ma poichè ella si è smar-rita, e poichè veggiamo che Quintiliano parlando dellacommedia mostra saggio discernimento ed animo im-parziale, ben potremo credergli ancora ove con sì granlode egli parla di questa tragedia. Altri poeti tragici ecomici son rammentati dal Vossio e dal Quadrio. Masembra che Quintiliano gli abbia in conto di poco valo-rosi poeti; poichè dopo aver nominata la tragedia di Va-rio, un'altra sola ne rammenta di Ovidio, intitolata laMedea, di cui dice ch'essa ci fa conoscere quanto egliavrebbe potuto fare, se avesse voluto moderare anzichésecondare troppo l'ingegno. Delle altre che a questa etàappartengono, non fa motto. Lascerem dunque noi puredi far menzione de' loro autori, rimirandoli come poetida' quali poco di gloria accrescer si possa alla romanaletteratura.

L. Due soli che in un particolar genere dipoesia teatrale si esercitarono, ebbero mag-gior fama che gli altri; cioè Decimo Laberioe Publio Siro, scrittori di quelle mimiche

poesie di cui abbiamo altrove parlato. Vissero amenduea' tempi di Giulio Cesare. Ma Laberio prima di Publiocominciò a rendersi celebre. Era egli di nascita cavalie-re, e perciò componeva versi per suo e altrui trastullo de'

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Scrittori di poesie mi-miche.

Varo non fosse stata involata a Cassio parmigiano. Seella ci fosse rimasta, potremmo esaminarla noi pure, emetterla al paragone con quelle di Sofocle e di Euripide,e vedere se regga al confronto. Ma poichè ella si è smar-rita, e poichè veggiamo che Quintiliano parlando dellacommedia mostra saggio discernimento ed animo im-parziale, ben potremo credergli ancora ove con sì granlode egli parla di questa tragedia. Altri poeti tragici ecomici son rammentati dal Vossio e dal Quadrio. Masembra che Quintiliano gli abbia in conto di poco valo-rosi poeti; poichè dopo aver nominata la tragedia di Va-rio, un'altra sola ne rammenta di Ovidio, intitolata laMedea, di cui dice ch'essa ci fa conoscere quanto egliavrebbe potuto fare, se avesse voluto moderare anzichésecondare troppo l'ingegno. Delle altre che a questa etàappartengono, non fa motto. Lascerem dunque noi puredi far menzione de' loro autori, rimirandoli come poetida' quali poco di gloria accrescer si possa alla romanaletteratura.

L. Due soli che in un particolar genere dipoesia teatrale si esercitarono, ebbero mag-gior fama che gli altri; cioè Decimo Laberioe Publio Siro, scrittori di quelle mimiche

poesie di cui abbiamo altrove parlato. Vissero amenduea' tempi di Giulio Cesare. Ma Laberio prima di Publiocominciò a rendersi celebre. Era egli di nascita cavalie-re, e perciò componeva versi per suo e altrui trastullo de'

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Scrittori di poesie mi-miche.

mimi; ma facevali poscia da altri rappresentar sul teatro.Cesare, quando era nel più alto stato di autorità inRoma, volle indurre Laberio a recitare egli stesso imimi, e gli promise cinquecentomila sesterzi ossia dodi-cimila cinquecento scudi romani. Questa sì liberale of-ferta non avrebbe forse determinato Laberio ad avvilirein tal modo il suo carattere; ma egli conobbe, dice Ma-crobio (Saturn. l. 2, c. 7), che le preghiere di un uomopossente sono comandi, e fu costretto ad ubbidire; manon potè dissimulare lo sdegno che perciò ardevagli inseno, e un prologo recitò pieno di lamenti contro di Ce-sare, perchè avesselo a ciò costretto. Esso ci è stato con-servato da Macrobio (l. c.); e degni sono singolarmentedi osservazione questi quattro versi:

Ego bis tricenis annis actis sine nota Eques Romanus lare egressus meo Domum: revertar mimus: nimirum hoc die Uno plus vixi, mihi quam vivendum foret.

Da' quali versi si raccoglie che Laberio era nato di fami-glia equestre, e non già, come dice il Quadrio (t. 5, p.202), fatto cavaliere da Cesare pel suo valore ne' mimi;ancora che sessant'anni di età contava egli a quel tempo.Il prologo di Laberio, e alcuni amari motti che nellastessa azione egli sparse, punsero altamente Cesare.Quindi essendo poscia salito in sulla scena Publio Siro,e avendo recitati egli pure i suoi versi con applausomaggiore di quello ch'era stato fatto a Laberio, Cesareafferrò tosto l'occasion di punger egli pure Laberio, per-

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mimi; ma facevali poscia da altri rappresentar sul teatro.Cesare, quando era nel più alto stato di autorità inRoma, volle indurre Laberio a recitare egli stesso imimi, e gli promise cinquecentomila sesterzi ossia dodi-cimila cinquecento scudi romani. Questa sì liberale of-ferta non avrebbe forse determinato Laberio ad avvilirein tal modo il suo carattere; ma egli conobbe, dice Ma-crobio (Saturn. l. 2, c. 7), che le preghiere di un uomopossente sono comandi, e fu costretto ad ubbidire; manon potè dissimulare lo sdegno che perciò ardevagli inseno, e un prologo recitò pieno di lamenti contro di Ce-sare, perchè avesselo a ciò costretto. Esso ci è stato con-servato da Macrobio (l. c.); e degni sono singolarmentedi osservazione questi quattro versi:

Ego bis tricenis annis actis sine nota Eques Romanus lare egressus meo Domum: revertar mimus: nimirum hoc die Uno plus vixi, mihi quam vivendum foret.

Da' quali versi si raccoglie che Laberio era nato di fami-glia equestre, e non già, come dice il Quadrio (t. 5, p.202), fatto cavaliere da Cesare pel suo valore ne' mimi;ancora che sessant'anni di età contava egli a quel tempo.Il prologo di Laberio, e alcuni amari motti che nellastessa azione egli sparse, punsero altamente Cesare.Quindi essendo poscia salito in sulla scena Publio Siro,e avendo recitati egli pure i suoi versi con applausomaggiore di quello ch'era stato fatto a Laberio, Cesareafferrò tosto l'occasion di punger egli pure Laberio, per-

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chè fosse stato vinto da Publio, e a questo die' la palmaper segno della riportata vittoria, a quello il denaro pro-messogli insieme con un anello d'oro. Morì Laberio,come abbiamo dalla Cronaca eusebiana, dieci mesi dopola morte di Cesare. Publio, detto Siro dalla sua patria,era stato condotto schiavo a Roma, e poscia per le suefacezie posto in libertà. Plinio fa menzione (l. 35, c. 17)di un Publio cui chiama mimicæ scenæ conditorem; esembra a prima vista che non d'altri debba intendersiche di quello di cui parliamo. Ma Plinio dice ch'egli erastato veduto venire a Roma da' suoi bisavoli: videreproavi; e quindi, come riflette il p. Arduino, un Publiopiù antico dee qui intendersi, e non il Siro che anche dalpadre di Plinio sarebbesi potuto vedere; poichè questivisse ancor qualche tempo sotto l'impero di Augusto.Alcuni frammenti di ambedue questi scrittori e alcunilor detti ci sono stati conservati da Macrobio (l. 2. Sa-turn. c. 3, e 7) e da Gellio (l. 3, c. 18, l. 10, c. 17, l. 17,c. 14), e molte delle lor morali sentenze sono state rac-colte insieme, e più volte stampate; di che si può vedereil Fabricio (Bibl. lat. l. 1, c. 16). Alcuni altri scrittori dimimiche azioni si trovano mentovati presso gli antichiautori. Ma basti l'aver detto di questi due che furono ipiù famosi.

LI. Prima di passar oltre, parmi che una noninutil quistione debbasi a questo luogo trat-tare, cioè per qual ragione, mentre in ogni

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Per qual ra-gione la poesia tea-trale avessetra' Romanipoco felici progressi.

chè fosse stato vinto da Publio, e a questo die' la palmaper segno della riportata vittoria, a quello il denaro pro-messogli insieme con un anello d'oro. Morì Laberio,come abbiamo dalla Cronaca eusebiana, dieci mesi dopola morte di Cesare. Publio, detto Siro dalla sua patria,era stato condotto schiavo a Roma, e poscia per le suefacezie posto in libertà. Plinio fa menzione (l. 35, c. 17)di un Publio cui chiama mimicæ scenæ conditorem; esembra a prima vista che non d'altri debba intendersiche di quello di cui parliamo. Ma Plinio dice ch'egli erastato veduto venire a Roma da' suoi bisavoli: videreproavi; e quindi, come riflette il p. Arduino, un Publiopiù antico dee qui intendersi, e non il Siro che anche dalpadre di Plinio sarebbesi potuto vedere; poichè questivisse ancor qualche tempo sotto l'impero di Augusto.Alcuni frammenti di ambedue questi scrittori e alcunilor detti ci sono stati conservati da Macrobio (l. 2. Sa-turn. c. 3, e 7) e da Gellio (l. 3, c. 18, l. 10, c. 17, l. 17,c. 14), e molte delle lor morali sentenze sono state rac-colte insieme, e più volte stampate; di che si può vedereil Fabricio (Bibl. lat. l. 1, c. 16). Alcuni altri scrittori dimimiche azioni si trovano mentovati presso gli antichiautori. Ma basti l'aver detto di questi due che furono ipiù famosi.

LI. Prima di passar oltre, parmi che una noninutil quistione debbasi a questo luogo trat-tare, cioè per qual ragione, mentre in ogni

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Per qual ra-gione la poesia tea-trale avessetra' Romanipoco felici progressi.

altro genere di poesia arrivarono i Romani a gareggiareco' Greci, nella teatral solamente rimanessero sempretanto ad essi inferiori. Abbiamo nella seconda epocatoccate alcune ragioni alle quali si può attribuire l'esserela poesia teatrale de' Romani rimasta per lungo temporozza e imperfetta. Ma è più difficile trovar ragione percui anche nel più bel secolo della romana letteratura nongiugnesse però ella a maggior perfezione. Era la poesiasalita a maggior gloria che prima non fosse, e anche uo-mini d'illustre nascita e di famiglia patrizia non isdegna-vano di comporre azioni da prodursi in teatro. Ondevenne egli dunque che niuno, o sì pochi fossero nellateatral poesia eccellenti? Io penso che la vera ragione cisia stata additata da Orazio in una sua lettera ad Augusto(l. 2, ep. 1). Egli dopo avere accennate alcune particolariragioni che sol convengono a que' poeti che a prezzocomponevano le azioni teatrali, un'altra più generale nearreca e comune a tutti. Descrive egli l'infelice condi-zion de' poeti che composte avendo tragedie, o comme-die, facevanle rappresentar ne' teatri; perciocchè tral'immenso popolo che accorreva ad esserne spettatore,pochi eran quelli che per amore di poesia vi si condu-cessero; e molte volte accadeva che di mezzo all'azionemedesima stanchi e annoiati de' versi comandavanoch'ella fosse interrotta, e che in vece si dasser loro spet-tacoli di gladiatori e di fiere: Sape etiam audacem fugat hoc terretque poetam, Quod numero plures, virtute et honore minores,

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altro genere di poesia arrivarono i Romani a gareggiareco' Greci, nella teatral solamente rimanessero sempretanto ad essi inferiori. Abbiamo nella seconda epocatoccate alcune ragioni alle quali si può attribuire l'esserela poesia teatrale de' Romani rimasta per lungo temporozza e imperfetta. Ma è più difficile trovar ragione percui anche nel più bel secolo della romana letteratura nongiugnesse però ella a maggior perfezione. Era la poesiasalita a maggior gloria che prima non fosse, e anche uo-mini d'illustre nascita e di famiglia patrizia non isdegna-vano di comporre azioni da prodursi in teatro. Ondevenne egli dunque che niuno, o sì pochi fossero nellateatral poesia eccellenti? Io penso che la vera ragione cisia stata additata da Orazio in una sua lettera ad Augusto(l. 2, ep. 1). Egli dopo avere accennate alcune particolariragioni che sol convengono a que' poeti che a prezzocomponevano le azioni teatrali, un'altra più generale nearreca e comune a tutti. Descrive egli l'infelice condi-zion de' poeti che composte avendo tragedie, o comme-die, facevanle rappresentar ne' teatri; perciocchè tral'immenso popolo che accorreva ad esserne spettatore,pochi eran quelli che per amore di poesia vi si condu-cessero; e molte volte accadeva che di mezzo all'azionemedesima stanchi e annoiati de' versi comandavanoch'ella fosse interrotta, e che in vece si dasser loro spet-tacoli di gladiatori e di fiere: Sape etiam audacem fugat hoc terretque poetam, Quod numero plures, virtute et honore minores,

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Indocti stolidique, et depugnare parati, Si discordet eques, media inter carmina poscunt Aut ursum, aut pugiles; his nam plebecula gaudet.

Anzi, aggiugne Orazio, non la plebe soltanto, ma i ca-valieri medesimi, quando sono assisi al teatro, niun pia-cere mostrano per la poesia, e tutto il lor desiderio si èdi vedere in maestosa comparsa fughe di fanti e di ca-valli, e trionfi e cocchi e schiavi e spettacoli di tal natu-ra, della vista de' quali non si annoiano mai: Verum equitum quoque jam migravit ab aure voluptas. Quatuor aut plures aulæa premuntur in horas, Dum fugiunt equitum turmæ, peditumque catervæ; Mox trahitur manibus regum fortuna retortis, Esseda festinant, pilenta, petorrita, naves, Captivum portatur ebur, captiva Corinthus.

Quindi, prosiegue Orazio, tanto era lo strepito che face-vasi nel teatro, che appena si potevano udire e intenderei versi, e tutta l'attenzione dell'immenso popolo spettato-re era rivolta all'ornamento e agli abiti degli attori, iquali appena apparivano in sulla scena, che battevasipalma a palma per plauso, prima ch'essi prendessero afavellare: ................Nam quæ pervincere voces Evaluere sonum, referunt quem nostra theatra? Garganum mugire putes nemus, aut mare tuscum: Tanto cum strepitu ludi spectantur, et artes Divitiæque peregrinæ, quibus oblitus actor Quum stetit in scena concurrit dextera lævæ.

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Indocti stolidique, et depugnare parati, Si discordet eques, media inter carmina poscunt Aut ursum, aut pugiles; his nam plebecula gaudet.

Anzi, aggiugne Orazio, non la plebe soltanto, ma i ca-valieri medesimi, quando sono assisi al teatro, niun pia-cere mostrano per la poesia, e tutto il lor desiderio si èdi vedere in maestosa comparsa fughe di fanti e di ca-valli, e trionfi e cocchi e schiavi e spettacoli di tal natu-ra, della vista de' quali non si annoiano mai: Verum equitum quoque jam migravit ab aure voluptas. Quatuor aut plures aulæa premuntur in horas, Dum fugiunt equitum turmæ, peditumque catervæ; Mox trahitur manibus regum fortuna retortis, Esseda festinant, pilenta, petorrita, naves, Captivum portatur ebur, captiva Corinthus.

Quindi, prosiegue Orazio, tanto era lo strepito che face-vasi nel teatro, che appena si potevano udire e intenderei versi, e tutta l'attenzione dell'immenso popolo spettato-re era rivolta all'ornamento e agli abiti degli attori, iquali appena apparivano in sulla scena, che battevasipalma a palma per plauso, prima ch'essi prendessero afavellare: ................Nam quæ pervincere voces Evaluere sonum, referunt quem nostra theatra? Garganum mugire putes nemus, aut mare tuscum: Tanto cum strepitu ludi spectantur, et artes Divitiæque peregrinæ, quibus oblitus actor Quum stetit in scena concurrit dextera lævæ.

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Dixit adhuc aliquid? Nil sane. Quid placet ergo? Lana Tarentino violas imitata veneno.

Non è dunque a stupire che sì corrotto essendo il gustodella maggior parte di quelli che accorrevano al teatro,pochi fossero i poeti che si studiassero a divenire perfet-ti scrittori di teatrali componimenti, da' quali non pote-vano sperare di aver gran plauso, e che da essi perciòpiù si avesse riguardo ad appagare gli occhi del curiosovolgo ignorante, che a soddisfare al buon gusto di pochisaggi e giusti discernitori. Ciò che accade anche al pre-sente ne' drammi per musica, ci può giovare a conoscereciò che accader doveva a que' tempi.

LII. Non così era delle poesie di ogni altrogenere. Queste si componvano dagli autori,come ne pareva lor meglio, senza che fossercostretti a servire al teatro, si leggevano inprivate adunanze dove soli uomini dottiaveano luogo, e il plauso che facevasi agli

uni, animava gli altri a seguirne l'esempio. Ma lo studiodella poesia fomentato era singolarmente dalla protezio-ne e dal favore di cui Augusto e Mecenate onoravano ipoeti. Il co. Algarotti, allontanandosi dal comun senti-mento, è d'opinione (Saggio sopra la vita d'Orazio p.437) che Augusto nè proteggesse nè stimasse molto ipoeti, e che riguardasseli come uomini del tutto inutiliallo Stato. Egli ha creduto di trovar le prove del suo sen-

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E le altre poesie al contrario giugnesseroa sì gran perfezione.

Dixit adhuc aliquid? Nil sane. Quid placet ergo? Lana Tarentino violas imitata veneno.

Non è dunque a stupire che sì corrotto essendo il gustodella maggior parte di quelli che accorrevano al teatro,pochi fossero i poeti che si studiassero a divenire perfet-ti scrittori di teatrali componimenti, da' quali non pote-vano sperare di aver gran plauso, e che da essi perciòpiù si avesse riguardo ad appagare gli occhi del curiosovolgo ignorante, che a soddisfare al buon gusto di pochisaggi e giusti discernitori. Ciò che accade anche al pre-sente ne' drammi per musica, ci può giovare a conoscereciò che accader doveva a que' tempi.

LII. Non così era delle poesie di ogni altrogenere. Queste si componvano dagli autori,come ne pareva lor meglio, senza che fossercostretti a servire al teatro, si leggevano inprivate adunanze dove soli uomini dottiaveano luogo, e il plauso che facevasi agli

uni, animava gli altri a seguirne l'esempio. Ma lo studiodella poesia fomentato era singolarmente dalla protezio-ne e dal favore di cui Augusto e Mecenate onoravano ipoeti. Il co. Algarotti, allontanandosi dal comun senti-mento, è d'opinione (Saggio sopra la vita d'Orazio p.437) che Augusto nè proteggesse nè stimasse molto ipoeti, e che riguardasseli come uomini del tutto inutiliallo Stato. Egli ha creduto di trovar le prove del suo sen-

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E le altre poesie al contrario giugnesseroa sì gran perfezione.

timento nell'epistola stessa di Orazio, su cui ci siamo oror trattenuti. Ma io non vi veggo parola che confermi ilparere di questo colto scrittore, anzi mi pare che da essapiù chiaramente ancor si raccolga quanto dovessero ipoeti ad Augusto. È vero che Orazio ivi lo esorta ad ac-cogliere amorevolmente que' poeti che amavan megliodi porre sotto l'occhio de' leggitori le lor poesie, che difarle rappresentar sul teatro, ed aggiugne che in tal ma-niera avrebbe egli riempita di libri la biblioteca che neltempio di Apolline aveva eretta, e che nuovo coraggioaggiunto avrebbe a' poeti: Verum age, et his, qui se lectori præbere malunt, Quam spectatoris fastidia ferre superbi, Curam redde brevem, si munus Apolline dignun Vis complere libris, et vatibus addere calcar, Ut studio majore petant Helicona virentem.

Ma da ciò che siegue, è evidente che Orazio vuol quiesortare Augusto a favorire non solo gli eccellenti poeti,come era in uso di fare, ma i mediocri ancora, perchèmaggior coraggio prendessero a coltivar la poesia. Diceegli in fatti che i poeti talvolta nuociono a se medesimi,come allor quando, soggiugne favellando con Augusto,ti offeriamo un libro mentre in altre cose tu se' occupato,o stanco dalle pubbliche cure; quando meniam lamentiperchè le poetiche nostre fatiche non son pregiate abba-stanza; quando ci lusinghiamo che appena tu avrai sapu-to che noi facciam versi, fattici tosto venir a te, ci ricol-merai di ricchezze.

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timento nell'epistola stessa di Orazio, su cui ci siamo oror trattenuti. Ma io non vi veggo parola che confermi ilparere di questo colto scrittore, anzi mi pare che da essapiù chiaramente ancor si raccolga quanto dovessero ipoeti ad Augusto. È vero che Orazio ivi lo esorta ad ac-cogliere amorevolmente que' poeti che amavan megliodi porre sotto l'occhio de' leggitori le lor poesie, che difarle rappresentar sul teatro, ed aggiugne che in tal ma-niera avrebbe egli riempita di libri la biblioteca che neltempio di Apolline aveva eretta, e che nuovo coraggioaggiunto avrebbe a' poeti: Verum age, et his, qui se lectori præbere malunt, Quam spectatoris fastidia ferre superbi, Curam redde brevem, si munus Apolline dignun Vis complere libris, et vatibus addere calcar, Ut studio majore petant Helicona virentem.

Ma da ciò che siegue, è evidente che Orazio vuol quiesortare Augusto a favorire non solo gli eccellenti poeti,come era in uso di fare, ma i mediocri ancora, perchèmaggior coraggio prendessero a coltivar la poesia. Diceegli in fatti che i poeti talvolta nuociono a se medesimi,come allor quando, soggiugne favellando con Augusto,ti offeriamo un libro mentre in altre cose tu se' occupato,o stanco dalle pubbliche cure; quando meniam lamentiperchè le poetiche nostre fatiche non son pregiate abba-stanza; quando ci lusinghiamo che appena tu avrai sapu-to che noi facciam versi, fattici tosto venir a te, ci ricol-merai di ricchezze.

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Multa quidem nobis facimus mala sæpe poetæ. (Ut vineta egomet cædam mea) quum tibi librum Sollicito damus, aut fesso ..... . Quum lamentamur non apparere labores Nostros, ei tenui deducta poemata filo: Quum speramus eo rem venturam, ut simul atque Carmina rescieris nos fingere, commodus ultro Accersas, et egere vetes, et scribere cogas.

Le quali parole, come chiaramente si vede, son rivoltesoltanto a ferire l'importunità di coloro che pe' loro ver-si, qualunque fossero, volevano essere sollevati subitoda Augusto ad alto stato. La quale importunità qui de-scritta da Orazio è un'altra prova della protezion di Au-gusto in verso i poeti; che importunati non sogliono es-sere se non que' sovrani presso i quali si conosce peresperienza che le letterarie fatiche sono favorevolmenteaccolte. Quindi a maggior prova di ciò soggiugne Ora-zio che lodevole cosa è il discernere i buoni da' malvagipoeti; e recato l'esempio del Grande Alessandro che nonfu in questo troppo felice, aggiugne che Virgilio e Variofacevan ben essi onore alla stima in che aveagli Augu-sto, e a' doni di cui gli onorava: At neque dedecorant tua de se judicia, atque Munera, quæ multa dantis cum laude tulerunt Dilecti tibi Virgilius Variusque poetæ.

A me par dunque che questa lettera di Orazio, non chedistruggere il comun sentimento del favore da Augustoaccordato a' poeti, il confermi ancor maggiormente, e ci

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Multa quidem nobis facimus mala sæpe poetæ. (Ut vineta egomet cædam mea) quum tibi librum Sollicito damus, aut fesso ..... . Quum lamentamur non apparere labores Nostros, ei tenui deducta poemata filo: Quum speramus eo rem venturam, ut simul atque Carmina rescieris nos fingere, commodus ultro Accersas, et egere vetes, et scribere cogas.

Le quali parole, come chiaramente si vede, son rivoltesoltanto a ferire l'importunità di coloro che pe' loro ver-si, qualunque fossero, volevano essere sollevati subitoda Augusto ad alto stato. La quale importunità qui de-scritta da Orazio è un'altra prova della protezion di Au-gusto in verso i poeti; che importunati non sogliono es-sere se non que' sovrani presso i quali si conosce peresperienza che le letterarie fatiche sono favorevolmenteaccolte. Quindi a maggior prova di ciò soggiugne Ora-zio che lodevole cosa è il discernere i buoni da' malvagipoeti; e recato l'esempio del Grande Alessandro che nonfu in questo troppo felice, aggiugne che Virgilio e Variofacevan ben essi onore alla stima in che aveagli Augu-sto, e a' doni di cui gli onorava: At neque dedecorant tua de se judicia, atque Munera, quæ multa dantis cum laude tulerunt Dilecti tibi Virgilius Variusque poetæ.

A me par dunque che questa lettera di Orazio, non chedistruggere il comun sentimento del favore da Augustoaccordato a' poeti, il confermi ancor maggiormente, e ci

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rappresenti questo imperadore come splendido lor pro-tettore, ma saggio insieme ed accorto, che non era delfavor suo liberale, se non a quelli che conosceva essernedegni.

LIII. E in vero le poesie di Orazio e di Vir-gilio, che per ogni parte risuonano delle lodidi Augusto, e le vite di questi due poetiscritte dagli antichi autori, che piene sonode' tratti di bontà e di beneficenza, di cui fu-

rono da lui onorati, ne sono un certissimo testimonio.Anzi fu egli stesso diligente coltivator degli studj anchein mezzo alle cure del vastissimo impero. Molte coseegli scrisse in prosa, che annoverate son da Svetonio (inAug. c. 85), le quali era solito di recitare nelle adunanzede' suoi amici. Nella poesia ancora esercitossi egli tal-volta, poichè a' tempi del mentovato autore conservavasiun libro intitolato, Sicilia, che in versi esametri egli aveacomposto, e una raccolta di epigrammi da lui fatti men-tre si stava nel bagno. Anzi una tragedia ancora egliavea cominciata, ma poi parendogli che non gli riuscissetroppo felicemente, la interruppe(68). Piacevasi egli di68 Della tragedia intitolata Aiace ed Ulisse da Augusto composta, e de' tredici

libri ch'egli avea scritti della sua propria vita, parla l'imperadrice Eudossianella sua opera altrove citata (Anecdota Græca Venet. 1781, p. 69). E poi-ché essa non parla in quell'opera che o di autori greci di nascita, o di autoriche scrissero in greco, così potrebbe pensarsi che Augusto in greco scri-vesse que' libri. Ma niuno degli scrittori o contemporanei o vicini ad Au-gusto ci dice che quelle opere fossero scritte in greco, e perciò è verisimileche Eudossia credesse forse che in quella lingua fossero scritte, e che per-

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Augusto coltiva e protegge le lettere.

rappresenti questo imperadore come splendido lor pro-tettore, ma saggio insieme ed accorto, che non era delfavor suo liberale, se non a quelli che conosceva essernedegni.

LIII. E in vero le poesie di Orazio e di Vir-gilio, che per ogni parte risuonano delle lodidi Augusto, e le vite di questi due poetiscritte dagli antichi autori, che piene sonode' tratti di bontà e di beneficenza, di cui fu-

rono da lui onorati, ne sono un certissimo testimonio.Anzi fu egli stesso diligente coltivator degli studj anchein mezzo alle cure del vastissimo impero. Molte coseegli scrisse in prosa, che annoverate son da Svetonio (inAug. c. 85), le quali era solito di recitare nelle adunanzede' suoi amici. Nella poesia ancora esercitossi egli tal-volta, poichè a' tempi del mentovato autore conservavasiun libro intitolato, Sicilia, che in versi esametri egli aveacomposto, e una raccolta di epigrammi da lui fatti men-tre si stava nel bagno. Anzi una tragedia ancora egliavea cominciata, ma poi parendogli che non gli riuscissetroppo felicemente, la interruppe(68). Piacevasi egli di68 Della tragedia intitolata Aiace ed Ulisse da Augusto composta, e de' tredici

libri ch'egli avea scritti della sua propria vita, parla l'imperadrice Eudossianella sua opera altrove citata (Anecdota Græca Venet. 1781, p. 69). E poi-ché essa non parla in quell'opera che o di autori greci di nascita, o di autoriche scrissero in greco, così potrebbe pensarsi che Augusto in greco scri-vesse que' libri. Ma niuno degli scrittori o contemporanei o vicini ad Au-gusto ci dice che quelle opere fossero scritte in greco, e perciò è verisimileche Eudossia credesse forse che in quella lingua fossero scritte, e che per-

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Augusto coltiva e protegge le lettere.

uno stile elegante insieme e chiaro (ib. c. 86), e ridevasidi coloro che affettavano d'imitare l'incolto e, per cosìdire, affumicato parlare degli antichi scrittori, e talvoltagraziosamente su ciò scherzava coll'amico suo Mecena-te che di questo lezioso stile si dilettava assai. Anzi lagreca letteratura ancora studiosamente fu da lui coltivata(ib. c. 89), e i greci autori e i filosofi greci furon da luiletti attentamente e con piacere ascoltati. Or un uomo sìamante delle lettere come poteva egli non favorir coloroche ne facevano professione? In fatti Svetonio ci assicu-ra ch'egli "gl'ingegni del suo secolo favoreggiò in ognimaniera e che cortesemente e pazientemente era solitodi ascoltare coloro che innanzi a lui recitavano non versie storie solamente, ma orazioni ancora e dialogi (ib.)". Equindi aggiugne ciò che dalla mentovata lettera di Ora-zio abbiam raccolto; cioè ch'egli però non voleva esserlodato se non dagli eccellenti poeti, e che ordinava a'pretori che non permettessero che col sovente ripeterlosul teatro il suo nome venisse in certo modo avvilito.

LIV. Per ciò che appartiene a Mecenate, adintendere quanto liberal protettore egli fossede' letterati e de' poeti singolarmente, basta

il riflettere che n'è rimasta a' posteri tal memoria, che ilproprio di lui nome è or divenuto nome comune a tuttiquelli che ne seguon l'esempio. Non è qui luogo di esa-minarne la nascita, le azioni, gl'impieghi. Si posson suciò vedere tutti gli antichi e moderni scrittori della Sto-

ciò ne facesse menzione.

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E così pur Mecenate.

uno stile elegante insieme e chiaro (ib. c. 86), e ridevasidi coloro che affettavano d'imitare l'incolto e, per cosìdire, affumicato parlare degli antichi scrittori, e talvoltagraziosamente su ciò scherzava coll'amico suo Mecena-te che di questo lezioso stile si dilettava assai. Anzi lagreca letteratura ancora studiosamente fu da lui coltivata(ib. c. 89), e i greci autori e i filosofi greci furon da luiletti attentamente e con piacere ascoltati. Or un uomo sìamante delle lettere come poteva egli non favorir coloroche ne facevano professione? In fatti Svetonio ci assicu-ra ch'egli "gl'ingegni del suo secolo favoreggiò in ognimaniera e che cortesemente e pazientemente era solitodi ascoltare coloro che innanzi a lui recitavano non versie storie solamente, ma orazioni ancora e dialogi (ib.)". Equindi aggiugne ciò che dalla mentovata lettera di Ora-zio abbiam raccolto; cioè ch'egli però non voleva esserlodato se non dagli eccellenti poeti, e che ordinava a'pretori che non permettessero che col sovente ripeterlosul teatro il suo nome venisse in certo modo avvilito.

LIV. Per ciò che appartiene a Mecenate, adintendere quanto liberal protettore egli fossede' letterati e de' poeti singolarmente, basta

il riflettere che n'è rimasta a' posteri tal memoria, che ilproprio di lui nome è or divenuto nome comune a tuttiquelli che ne seguon l'esempio. Non è qui luogo di esa-minarne la nascita, le azioni, gl'impieghi. Si posson suciò vedere tutti gli antichi e moderni scrittori della Sto-

ciò ne facesse menzione.

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E così pur Mecenate.

ria romana, e più particolarmente l'ab. Souchay nelle sueRicerche sopra Mecenate (Mém. de l'Acad. des Inscr. t.13, p. 81), e m. Richer nella Vita di Mecenate da lui pu-blicata in Parigi l'anno 1746. "Questi scrittori ci istrui-scono abbastanza dell'antica e nobil famiglia da cui egliusciva discendente, come credevasi, da' re etruschi,dell'unire che in se egli fece con raro esempio, l'uomo diguerra, combattendo con sommo valore nelle battagliedi Modena, di Azzio e di altre, e l'uomo di gabinetto, as-sistendo sempre, al fianco di Augusto di cui era confi-dente ed amico più che ministro, consigliandolo saggia-mente ne' più pericolosi cimenti, e reprimendone ancortalvolta con ammirabil franchezza la crudeltà a cui erasul punto di abbandonarsi, de' magnifici edificj che glipersuase d'innalzare, e che innalzò egli stesso, e fra glialtri de' celebri orti da lui formati sul Colle Esquilino".Io non debbo qui esaminare che il favore da Mecenateaccordato agli studj. Virgilio e Orazio sembrano gareg-giare tra loro nel celebrarne la bontà e la munificenza dicui gli onorava. Assai attento nello sceglier coloro a cuiconcedere la sua protezione, anzi la sua amicizia, e dettoperciò da Orazio Paucorum hominum et mentis benesanæ (l. 1, sat. 9), quando ben gli aveva sperimentati,non vi era distinzione e onore che loro non concedesse.Egli introducevali nella conoscenza di Augusto, e neconciliava loro il favore: egli accoglievali in sua casa, ei loro studj fomentava e la scambievole loro unione,senza che gelosia, o invidia alcuna vi si frammischiasse.

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ria romana, e più particolarmente l'ab. Souchay nelle sueRicerche sopra Mecenate (Mém. de l'Acad. des Inscr. t.13, p. 81), e m. Richer nella Vita di Mecenate da lui pu-blicata in Parigi l'anno 1746. "Questi scrittori ci istrui-scono abbastanza dell'antica e nobil famiglia da cui egliusciva discendente, come credevasi, da' re etruschi,dell'unire che in se egli fece con raro esempio, l'uomo diguerra, combattendo con sommo valore nelle battagliedi Modena, di Azzio e di altre, e l'uomo di gabinetto, as-sistendo sempre, al fianco di Augusto di cui era confi-dente ed amico più che ministro, consigliandolo saggia-mente ne' più pericolosi cimenti, e reprimendone ancortalvolta con ammirabil franchezza la crudeltà a cui erasul punto di abbandonarsi, de' magnifici edificj che glipersuase d'innalzare, e che innalzò egli stesso, e fra glialtri de' celebri orti da lui formati sul Colle Esquilino".Io non debbo qui esaminare che il favore da Mecenateaccordato agli studj. Virgilio e Orazio sembrano gareg-giare tra loro nel celebrarne la bontà e la munificenza dicui gli onorava. Assai attento nello sceglier coloro a cuiconcedere la sua protezione, anzi la sua amicizia, e dettoperciò da Orazio Paucorum hominum et mentis benesanæ (l. 1, sat. 9), quando ben gli aveva sperimentati,non vi era distinzione e onore che loro non concedesse.Egli introducevali nella conoscenza di Augusto, e neconciliava loro il favore: egli accoglievali in sua casa, ei loro studj fomentava e la scambievole loro unione,senza che gelosia, o invidia alcuna vi si frammischiasse.

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......Domus hac nec purior ulla est, Nee magis his aliena malis; nil mi officit unquam Ditior hic, aut est quia doctior: est locus uni Cuique suus (ib.)

Anzi delle sue ricchezze e de' suoi beni ancora facevalor parte; e Orazio chiaramente dice che da Mecenateegli era stato abbondevolmente arricchito. Satis superque me benignitas tua Ditavit (Epod. od. 1).

Questo favore prestato alle lettere di Mecenate traeva lasua origine primieramente dall'esserne egli stesso colti-vatore; perciocchè Orazio il chiama dotto nella greca enella latina favella: Docte sermones utriusque linguæ (l. 3, od. 8);

E alcune opere da lui composte rammentano gli antichiscrittori, "fralle quali, due tragedie intitolate Prometeo eOttavia, alcune Memorie per la Vita di Augusto, e pa-recchi libri di poesie di cui però appena ci rimane qual-che picciol frammento". Ma esso era frutto inoltredell'indole stessa di Mecenate, uomo di assai debole sa-nità e dell'ozio e de' piaceri amante fino all'eccesso, ogniqualvolta gli affari gliel permettessero. Vir, così di luidice Vellejo Patercolo (l. 2, c. 88), ubi res vigiliam exi-geret, sane exsomnis, providens, atque agendi sciens;simul vero aliquid ex negotio remitti posset, otio acmollitiis pene ultra fœminam fluens. Quindi non è mara-

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......Domus hac nec purior ulla est, Nee magis his aliena malis; nil mi officit unquam Ditior hic, aut est quia doctior: est locus uni Cuique suus (ib.)

Anzi delle sue ricchezze e de' suoi beni ancora facevalor parte; e Orazio chiaramente dice che da Mecenateegli era stato abbondevolmente arricchito. Satis superque me benignitas tua Ditavit (Epod. od. 1).

Questo favore prestato alle lettere di Mecenate traeva lasua origine primieramente dall'esserne egli stesso colti-vatore; perciocchè Orazio il chiama dotto nella greca enella latina favella: Docte sermones utriusque linguæ (l. 3, od. 8);

E alcune opere da lui composte rammentano gli antichiscrittori, "fralle quali, due tragedie intitolate Prometeo eOttavia, alcune Memorie per la Vita di Augusto, e pa-recchi libri di poesie di cui però appena ci rimane qual-che picciol frammento". Ma esso era frutto inoltredell'indole stessa di Mecenate, uomo di assai debole sa-nità e dell'ozio e de' piaceri amante fino all'eccesso, ogniqualvolta gli affari gliel permettessero. Vir, così di luidice Vellejo Patercolo (l. 2, c. 88), ubi res vigiliam exi-geret, sane exsomnis, providens, atque agendi sciens;simul vero aliquid ex negotio remitti posset, otio acmollitiis pene ultra fœminam fluens. Quindi non è mara-

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viglia che de' poeti egli fosse sincero amico e protettorliberale; poichè egli trovava nelle lor poesie e confortoalle sue infermità, e pascolo alle sue inclinazioni.

LV. Tale era il fiorente stato della latinapoesia al secolo d'Augusto che si può vera-mente chiamare il secolo de' poeti. "All'etàdi Augusto, dice il co. Algarotti (Saggio so-

pra Orazio p. 379), era riserbato veder recata al sommogrado la poesia. Doveva in quel tempo Tibullo sospirarene' più leggiadri versi del mondo i teneri suoi amori;mostrare Ovidio quanto possono dar le muse di facilità,di pieghevolezza, di fecondità d'ingegno; Virgilio doveadi picciol tratto rimanersi dopo il grande Omero, correrequasi del pari con Teocrito, e di lunghissimo spazio la-sciarsi Esiodo dietro alle spalle; e dovea Orazio riunirein se medesimo le qualità tutte de' poeti lirici che per piùdi due secoli aveano beato la Grecia". Ma dalla poesiache sì lungamente ci ha trattenuti, passiamo omai aglialtri generi della letteratura, che in questo tempo fioriro-no in Roma mirabilmente.

Fine del Tomo Primo Parte Prima.

435

Epilogo di questo capo.

viglia che de' poeti egli fosse sincero amico e protettorliberale; poichè egli trovava nelle lor poesie e confortoalle sue infermità, e pascolo alle sue inclinazioni.

LV. Tale era il fiorente stato della latinapoesia al secolo d'Augusto che si può vera-mente chiamare il secolo de' poeti. "All'etàdi Augusto, dice il co. Algarotti (Saggio so-

pra Orazio p. 379), era riserbato veder recata al sommogrado la poesia. Doveva in quel tempo Tibullo sospirarene' più leggiadri versi del mondo i teneri suoi amori;mostrare Ovidio quanto possono dar le muse di facilità,di pieghevolezza, di fecondità d'ingegno; Virgilio doveadi picciol tratto rimanersi dopo il grande Omero, correrequasi del pari con Teocrito, e di lunghissimo spazio la-sciarsi Esiodo dietro alle spalle; e dovea Orazio riunirein se medesimo le qualità tutte de' poeti lirici che per piùdi due secoli aveano beato la Grecia". Ma dalla poesiache sì lungamente ci ha trattenuti, passiamo omai aglialtri generi della letteratura, che in questo tempo fioriro-no in Roma mirabilmente.

Fine del Tomo Primo Parte Prima.

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Epilogo di questo capo.