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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Storia della letteratura italiana del cav.Abate Girolamo Tiraboschi – Tomo 2. – Parte 1: Dalla morte di Augusto sino alla caduta dell'imperooccidentaleAUTORE: Tiraboschi, GirolamoTRADUTTORE:CURATORE:NOTE: Il testo è presente in formato immagine sulsito The Internet Archive (http://www.archive.org/).Alcuni errori sono stati verificati e corretti sullabase dell'edizione di Milano, Società tipograficade' classici italiani, 1823, presente sul sito OPALdell'Università di Torino(http://www.opal.unito.it/psixsite/default.aspx)

CODICE ISBN E-BOOK: 9788828101291

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenzaspecificata al seguente indirizzo Internet:http://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

COPERTINA: [elaborazione da] "La morte di Seneca" diJacques-Louis David. - 1773 - Parigi, Petit-Palais -

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TITOLO: Storia della letteratura italiana del cav.Abate Girolamo Tiraboschi – Tomo 2. – Parte 1: Dalla morte di Augusto sino alla caduta dell'imperooccidentaleAUTORE: Tiraboschi, GirolamoTRADUTTORE:CURATORE:NOTE: Il testo è presente in formato immagine sulsito The Internet Archive (http://www.archive.org/).Alcuni errori sono stati verificati e corretti sullabase dell'edizione di Milano, Società tipograficade' classici italiani, 1823, presente sul sito OPALdell'Università di Torino(http://www.opal.unito.it/psixsite/default.aspx)

CODICE ISBN E-BOOK: 9788828101291

DIRITTI D'AUTORE: no

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COPERTINA: [elaborazione da] "La morte di Seneca" diJacques-Louis David. - 1773 - Parigi, Petit-Palais -

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https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/5/5c/David_La_morte_di_Seneca.jpg - pubblico dominio.

TRATTO DA: Storia della letteratura italiana delcav. abate Girolamo Tiraboschi ... Tomo 2. [-9.]:Dalla morte di Augusto sino alla caduta dell'imperooccidentale. - Firenze : presso Molini, Landi, eC.o, 1805-1806. - 2 pt. (XII, 244 ; VII, [1], 246-476 p.)

CODICE ISBN FONTE: n. d.

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 8 gennaio 2014

INDICE DI AFFIDABILITÀ: 10: affidabilità bassa1: affidabilità standard2: affidabilità buona3: affidabilità ottima

SOGGETTO:LIT004200 CRITICA LETTERARIA / Europea / Italiana

DIGITALIZZAZIONE:Ferdinando Chiodo, [email protected]

REVISIONE:Claudio Paganelli, [email protected] Santamaria

IMPAGINAZIONE:Ferdinando Chiodo, [email protected] (ODT)Carlo F. Traverso (ePub)Ugo Santamaria (revisione ePub)

PUBBLICAZIONE:Claudio Paganelli, [email protected]

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https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/5/5c/David_La_morte_di_Seneca.jpg - pubblico dominio.

TRATTO DA: Storia della letteratura italiana delcav. abate Girolamo Tiraboschi ... Tomo 2. [-9.]:Dalla morte di Augusto sino alla caduta dell'imperooccidentale. - Firenze : presso Molini, Landi, eC.o, 1805-1806. - 2 pt. (XII, 244 ; VII, [1], 246-476 p.)

CODICE ISBN FONTE: n. d.

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 8 gennaio 2014

INDICE DI AFFIDABILITÀ: 10: affidabilità bassa1: affidabilità standard2: affidabilità buona3: affidabilità ottima

SOGGETTO:LIT004200 CRITICA LETTERARIA / Europea / Italiana

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Indice generale

Liber Liber......................................................................4Indice, e Sommario del Tomo II. Parte I......................13Prefazione.....................................................................20Dissertazione preliminareSull'origine del decadimento delle Scienze..................44STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANADalla morte di Augusto fino alla caduta dell'Impero oc-cidentale......................................................................101

Letteratura de' Romani dalla morte di Augusto fino aquella di Adriano....................................................102

Libro I.................................................................105Capo I. Idea generale dello stato civile e lettera-rio dal principio di Tiberio fino alla morte diAdriano...........................................................105Capo II. Poesia...............................................136Capo III. Eloquenza........................................210Capo IV. Storia...............................................253Capo V. Filosofia e Matematica.....................298Capo VI. Medicina.........................................366Capo VII. Giurisprudenza..............................382Capo VIII. Gramatici e Retori........................399

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Indice generale

Liber Liber......................................................................4Indice, e Sommario del Tomo II. Parte I......................13Prefazione.....................................................................20Dissertazione preliminareSull'origine del decadimento delle Scienze..................44STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANADalla morte di Augusto fino alla caduta dell'Impero oc-cidentale......................................................................101

Letteratura de' Romani dalla morte di Augusto fino aquella di Adriano....................................................102

Libro I.................................................................105Capo I. Idea generale dello stato civile e lettera-rio dal principio di Tiberio fino alla morte diAdriano...........................................................105Capo II. Poesia...............................................136Capo III. Eloquenza........................................210Capo IV. Storia...............................................253Capo V. Filosofia e Matematica.....................298Capo VI. Medicina.........................................366Capo VII. Giurisprudenza..............................382Capo VIII. Gramatici e Retori........................399

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STORIADELLA

LETTERATURA ITALIANADEL CAV. ABATE

GIROLAMO TIRABOSCHI

TOMO II. - PARTE I.DALLA MORTE D'AUGUSTO SINO ALLACADUTA DELL'IMPERO OCCIDENTALE.

www.liberliber.it

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STORIADELLA

LETTERATURA ITALIANADEL CAV. ABATE

GIROLAMO TIRABOSCHI

TOMO II. - PARTE I.DALLA MORTE D'AUGUSTO SINO ALLACADUTA DELL'IMPERO OCCIDENTALE.

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INDICE, E SOMMARIO DELTOMO II. PARTE I.

Dissertazione preliminare.

Sull'origine del decadimento delle Scienze.

Stato della questione. I La munificenza dei principi non basta arender fiorente lo stato della letteratura. II. L'indole del governonon può esser sola cagione delle vicende della letteratura. III. Nèla decadenza di essa si può attribuir solo all'invasione dei Barbari.IV. Nè al pubblico libertinaggio. V. Neppur tutte queste ragioniinsieme congiunte bastano a formarne la vera origine. VI. Il ripe-terla dal cattivo gusto dominante non è sciogliere la questione.VII. Opinione dell'ab. du Bos che la attribuisce a ragioni fisiche.VIII. Ragioni da lui addotte a provarla. IX. Qual parte possa inciò avere il clima. X. La rapidità dei progressi dell'arti non favori-sce questa opinione. XI. Nè basta a provarla l'addotta insufficien-za delle cagioni morali. XII. Nè le circostanze del doppio decadi-mento della letteratura avvenuto in Italia. XIII. Nè il veder le stes-se vicende comuni ad ogni genere di belle arti. XIV. Si osservanotre diverse maniere nelle quali la letteratura può decadere, e primaper l'indebolimento degl'ingegni. XV. Si mostra insussistente ilpreteso illanguidimento della natura. XVI. Nè si può attribuirealla varietà del medesimo clima il diverso stato della letteratura.XVII. Come non si può ad essa attribuire la diversità dei costumine' diversi secoli. XVIII. A che cosa si possa ridurre la influenzadel clima nella letteratura. XIX. Altre due maniere di decadenza,cioè quando poco si coltivano gli studj, e quando si coltivano con

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INDICE, E SOMMARIO DELTOMO II. PARTE I.

Dissertazione preliminare.

Sull'origine del decadimento delle Scienze.

Stato della questione. I La munificenza dei principi non basta arender fiorente lo stato della letteratura. II. L'indole del governonon può esser sola cagione delle vicende della letteratura. III. Nèla decadenza di essa si può attribuir solo all'invasione dei Barbari.IV. Nè al pubblico libertinaggio. V. Neppur tutte queste ragioniinsieme congiunte bastano a formarne la vera origine. VI. Il ripe-terla dal cattivo gusto dominante non è sciogliere la questione.VII. Opinione dell'ab. du Bos che la attribuisce a ragioni fisiche.VIII. Ragioni da lui addotte a provarla. IX. Qual parte possa inciò avere il clima. X. La rapidità dei progressi dell'arti non favori-sce questa opinione. XI. Nè basta a provarla l'addotta insufficien-za delle cagioni morali. XII. Nè le circostanze del doppio decadi-mento della letteratura avvenuto in Italia. XIII. Nè il veder le stes-se vicende comuni ad ogni genere di belle arti. XIV. Si osservanotre diverse maniere nelle quali la letteratura può decadere, e primaper l'indebolimento degl'ingegni. XV. Si mostra insussistente ilpreteso illanguidimento della natura. XVI. Nè si può attribuirealla varietà del medesimo clima il diverso stato della letteratura.XVII. Come non si può ad essa attribuire la diversità dei costumine' diversi secoli. XVIII. A che cosa si possa ridurre la influenzadel clima nella letteratura. XIX. Altre due maniere di decadenza,cioè quando poco si coltivano gli studj, e quando si coltivano con

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cattivo gusto. XX. Qual parte abbia nella prima la munificenzade' principi. XXI. La quale però talvolta si stende solo a qualcheramo di letteratura. XXII. Ragioni che posson rendere inutile ilfavor dei sovrani verso le lettere. XXIII. Esse sono il libertinag-gio de' costumi e la viziosa educazione. XXIV. La calamità deitempi. XXV. La mancanza dei mezzi per coltivare gli studj.XXVI. Terza maniera di decadenza, cioè quando s'introduce unreo gusto; origine di essa. XXVII. La decadenza dell'amena lette-ratura nel secolo scorso ebbe la stessa origine che quella dopo lamorte di Augusto. XXVIII. Per qual ragione quella dello scorsosecolo durasse poco. XXIX. E quella più antica fosse di sì lungadurata. XXX. Si osserva che per tanti secoli non vi è stato unoscrittore di tersa latinità. XXXI. Se ne ripete la ragione singolar-mente dall'irruzione dei Barbari. XXXII. E si conferma. XXXIII.Ragioni per le quali in ciò si procedette così lentamente. XXXIV.Altre cagioni del medesimo fatto. XXXV. Introduzion della stam-pa quanto abbia giovato alla eleganza dello stile. XXXVI. Scru-polosità nello scrivere de' primi ristoratori di questa eleganza.XXXVII. Conclusione.

LIBRO I.

Letteratura de' Romani dalla morte di Augusto fino a quella di Adriano.

CAPO I.

Idea generale dello stato civile e letterario dal principio di Tibe-rio fino alla morte di Adriano.

I. Principj dell'impero di Tiberio felici allo Stato e alla letteratura.II. Ei divien poscia crudele: folla di iniqui delatori. III. La crudel-tà di Tiberio si stende anche agli uomini di lettere. IV. Caligolasuccede a Tiberio, e ne imita gli esempj. V. Uomini dotti da luiperseguitati ed uccisi. VI. Claudio successor di Caligola, non

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cattivo gusto. XX. Qual parte abbia nella prima la munificenzade' principi. XXI. La quale però talvolta si stende solo a qualcheramo di letteratura. XXII. Ragioni che posson rendere inutile ilfavor dei sovrani verso le lettere. XXIII. Esse sono il libertinag-gio de' costumi e la viziosa educazione. XXIV. La calamità deitempi. XXV. La mancanza dei mezzi per coltivare gli studj.XXVI. Terza maniera di decadenza, cioè quando s'introduce unreo gusto; origine di essa. XXVII. La decadenza dell'amena lette-ratura nel secolo scorso ebbe la stessa origine che quella dopo lamorte di Augusto. XXVIII. Per qual ragione quella dello scorsosecolo durasse poco. XXIX. E quella più antica fosse di sì lungadurata. XXX. Si osserva che per tanti secoli non vi è stato unoscrittore di tersa latinità. XXXI. Se ne ripete la ragione singolar-mente dall'irruzione dei Barbari. XXXII. E si conferma. XXXIII.Ragioni per le quali in ciò si procedette così lentamente. XXXIV.Altre cagioni del medesimo fatto. XXXV. Introduzion della stam-pa quanto abbia giovato alla eleganza dello stile. XXXVI. Scru-polosità nello scrivere de' primi ristoratori di questa eleganza.XXXVII. Conclusione.

LIBRO I.

Letteratura de' Romani dalla morte di Augusto fino a quella di Adriano.

CAPO I.

Idea generale dello stato civile e letterario dal principio di Tibe-rio fino alla morte di Adriano.

I. Principj dell'impero di Tiberio felici allo Stato e alla letteratura.II. Ei divien poscia crudele: folla di iniqui delatori. III. La crudel-tà di Tiberio si stende anche agli uomini di lettere. IV. Caligolasuccede a Tiberio, e ne imita gli esempj. V. Uomini dotti da luiperseguitati ed uccisi. VI. Claudio successor di Caligola, non

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ostante la sua stupidezza, coltiva le lettere. VII. Opere da lui scrit-te. VIII. Tenta di aggiugner nuove lettere all'alfabeto: suoi studjfilosofici. IX. Carattere e condotta di Nerone: suoi studj giovanili.X. Impero di Galba, di Ottone, di Vitellio, di Vespasiano, e diTito; elogio dei due ultimi. XI. Impero di Domiziano, e sua con-dotta riguardo ai letterati. XII. Impero di Nerva e di Traiano: elo-gio del secondo. XIII. Carattere di Adriano. XIV. Per qual ragionein tempi sì calamitosi si continuasse nondimeno a coltivar confervore gli studj.

CAPO II.

Poesia.I. Decadimento della poesia dopo la morte di Augusto, e originedi esso. II. Notizie ed elogio di Germanico. III. Sue opere poeti-che. IV. Vita di Lucano e sua infelice morte. V. Diversi giudizj de'dotti intorno alla sua Farsalia. VI. Esame dei pregi che in essaravvisa m. Marmontel. VII. Giudizio che ne dà m. de Voltaire.VIII. Riflessioni sullo stile di Lucano. IX. Polla Argentaria di luimoglie e poetessa. X. Notizie di Valerio Flacco e del suo poema.XI. Il padre di Stazio era stato valoroso poeta. XII. Primi studi diStazio: onori da lui ottenuti: sua morte. XIII. Sue poesie e loro ca-rattere. XIV. Notizie di Silio Italico. XV. Suo poema. XVI. Grandicontroversie intorno a Petronio e alla sua Satira. XVII. Chi eglifosse. XVIII. A qual tempo vivesse. XIX. Se fosse romano, ofrancese. XX. Suoi frammenti da chi trovati e pubblicati. XXI.Altri pretesi frammenti scoperti. XXII. Notizie di Persio. XXIII.Sue Satire in qual pregio debbano aversi. XXIV. Notizie di Gio-venale. XXV. Epoche principali della sua vita. XXVI. Paragonedelle sue Satire con quelle di Orazio. XVII. Notizie della vita diMarziale. XXVIII. Qual giudizio debba darsi de' suoi Epigrammi.XXIX. Più altri poeti men conosciuti. XXX. Errori di alcuni scrit-tori nel ragionare di Giulio Montano e di Senzio Augurino.XXXI. Valerio Pudente poeta giovinetto. XXXII. Gran numero di

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ostante la sua stupidezza, coltiva le lettere. VII. Opere da lui scrit-te. VIII. Tenta di aggiugner nuove lettere all'alfabeto: suoi studjfilosofici. IX. Carattere e condotta di Nerone: suoi studj giovanili.X. Impero di Galba, di Ottone, di Vitellio, di Vespasiano, e diTito; elogio dei due ultimi. XI. Impero di Domiziano, e sua con-dotta riguardo ai letterati. XII. Impero di Nerva e di Traiano: elo-gio del secondo. XIII. Carattere di Adriano. XIV. Per qual ragionein tempi sì calamitosi si continuasse nondimeno a coltivar confervore gli studj.

CAPO II.

Poesia.I. Decadimento della poesia dopo la morte di Augusto, e originedi esso. II. Notizie ed elogio di Germanico. III. Sue opere poeti-che. IV. Vita di Lucano e sua infelice morte. V. Diversi giudizj de'dotti intorno alla sua Farsalia. VI. Esame dei pregi che in essaravvisa m. Marmontel. VII. Giudizio che ne dà m. de Voltaire.VIII. Riflessioni sullo stile di Lucano. IX. Polla Argentaria di luimoglie e poetessa. X. Notizie di Valerio Flacco e del suo poema.XI. Il padre di Stazio era stato valoroso poeta. XII. Primi studi diStazio: onori da lui ottenuti: sua morte. XIII. Sue poesie e loro ca-rattere. XIV. Notizie di Silio Italico. XV. Suo poema. XVI. Grandicontroversie intorno a Petronio e alla sua Satira. XVII. Chi eglifosse. XVIII. A qual tempo vivesse. XIX. Se fosse romano, ofrancese. XX. Suoi frammenti da chi trovati e pubblicati. XXI.Altri pretesi frammenti scoperti. XXII. Notizie di Persio. XXIII.Sue Satire in qual pregio debbano aversi. XXIV. Notizie di Gio-venale. XXV. Epoche principali della sua vita. XXVI. Paragonedelle sue Satire con quelle di Orazio. XVII. Notizie della vita diMarziale. XXVIII. Qual giudizio debba darsi de' suoi Epigrammi.XXIX. Più altri poeti men conosciuti. XXX. Errori di alcuni scrit-tori nel ragionare di Giulio Montano e di Senzio Augurino.XXXI. Valerio Pudente poeta giovinetto. XXXII. Gran numero di

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poeti, che era allora in Roma e ragione di ciò. XXXIII. Stato infe-lice della poesia teatrale in Roma. XXXIV. Notizie di diversiscrittori di tragedie e di commedie. XXXV. Chi sia il Seneca au-tor delle tragedie sotto il nome di lui pubblicate. XXXVI. Diversisentimenti su' diversi autori di esse. XXXVII. Loro carattere, eloro stile.

CAPO III.

Eloquenza.

I. Ragioni principali del decadimento dell'eloquenza dopo la mor-te di Augusto. II. Dialogo antico su questo argomento: non ne èautore nè Tacito, nè Quintiliano. III. Nè Marco Apro. IV. Nè Ma-terno. V. Vizi dell'eloquenza di quei tempi in esso notati. VI. Af-fettazion dello stile e raffinamento dei sentimenti. VII. Abuso del-le suasorie e delle controversie. VIII. Seneca il retore chi fosse, ea qual tempo vivesse. IX. Sue Suasorie e Controversie, e loro ca-rattere. X. Quistione intorno alla patria di Quintiliano. XI. Epochedella sua vita, e suo carattere. XII. Sue Istituzioni oratorie quantopregevoli. XIII S'ei sia autore delle Declamazioni a lui attribuite.XIV. Notizie della vita di Plinio il giovane: sue virtù morali. XV.Suo impegno nel coltivare e promuover gli studi. XVI. Sue letteree suo Panegirico, e loro carattere. XVII. Altri oratori di questitempi. XVIII. Carattere di alcuni lasciatoci da Quintiliano.

CAPO IV.

Storia.

I. Carattere generale degli storici di questo tempo. II. Notizie diVelleio Patercolo. III. Sua Storia e stile di essa. IV. Valerio Massi-mo, qual sia l'opera ch'ei ci ha lasciata. V. Giudizio intorno adessi. VI. Diversità di opinioni intorno all'età di Q. Curzio. VII. Se

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poeti, che era allora in Roma e ragione di ciò. XXXIII. Stato infe-lice della poesia teatrale in Roma. XXXIV. Notizie di diversiscrittori di tragedie e di commedie. XXXV. Chi sia il Seneca au-tor delle tragedie sotto il nome di lui pubblicate. XXXVI. Diversisentimenti su' diversi autori di esse. XXXVII. Loro carattere, eloro stile.

CAPO III.

Eloquenza.

I. Ragioni principali del decadimento dell'eloquenza dopo la mor-te di Augusto. II. Dialogo antico su questo argomento: non ne èautore nè Tacito, nè Quintiliano. III. Nè Marco Apro. IV. Nè Ma-terno. V. Vizi dell'eloquenza di quei tempi in esso notati. VI. Af-fettazion dello stile e raffinamento dei sentimenti. VII. Abuso del-le suasorie e delle controversie. VIII. Seneca il retore chi fosse, ea qual tempo vivesse. IX. Sue Suasorie e Controversie, e loro ca-rattere. X. Quistione intorno alla patria di Quintiliano. XI. Epochedella sua vita, e suo carattere. XII. Sue Istituzioni oratorie quantopregevoli. XIII S'ei sia autore delle Declamazioni a lui attribuite.XIV. Notizie della vita di Plinio il giovane: sue virtù morali. XV.Suo impegno nel coltivare e promuover gli studi. XVI. Sue letteree suo Panegirico, e loro carattere. XVII. Altri oratori di questitempi. XVIII. Carattere di alcuni lasciatoci da Quintiliano.

CAPO IV.

Storia.

I. Carattere generale degli storici di questo tempo. II. Notizie diVelleio Patercolo. III. Sua Storia e stile di essa. IV. Valerio Massi-mo, qual sia l'opera ch'ei ci ha lasciata. V. Giudizio intorno adessi. VI. Diversità di opinioni intorno all'età di Q. Curzio. VII. Se

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ne esamina il fondamento. VIII. Si rigettano le altre opinioni. IX.Si prova che Curzio visse a' tempi di Claudio. X. Si sciolgono al-cune difficoltà opposte a questa sentenza. XI. Passo di Curzio nonben da alcuni recato per confermarla. XII. Chi egli fosse. XIII.Stile e carattere della sua storia. XIV. Notizie della vita di Tacito.XV. Sue opere. XVI. Riflessioni sul loro stile. XVII. Notizie diSvetonio. XVIII. Sue opere. XIX. Sue Vite de' Cesari in qual con-to debbano aversi. XX. Patria, vita e opere di Floro. XXI. Storiedi Cremuzio Cordo, e infelice fine del loro autore. XXII. Somi-gliante destino di Tito Labieno. XXIII. Altri storici. XXIV. Storicisotto Domiziano e Traiano. XXV. Opera insigne intrapresa daMuciano.

CAPO V.

Filosofia, e Matematica. I. La filosofia poco coltivata di questi tempi in Roma. II. In essaancor s'introduce il cattivo gusto. III. Ventura di Apollonio daTiana a Roma, e maraviglie che di lui si raccontano. IV. Se nemostra l'insussistenza. V. Condotta tenuta da Nerone. VI. Vespa-siano li caccia da Roma. VII. Presto vi fanno ritorno. VIII. Lorocondizione sotto Traiano e Adriano. IX. Compendio della vita diSeneca. X. Sua morte. XI. Diversi giudizj intorno al carattere mo-rale di Seneca. XII. Esame della condotta tenuta con Claudio econ Nerone. XIII. Grandi ricchezze da lui adunate. XIV. Sua su-perbia. XV. Quanto sian pregevoli le sue opere morali. XVI. Co-gnizioni fisiche che si incontrano nelle sue opere. XVII. Suo stile.XVIII. Questione intorno alla patria di Plinio il vecchio. XIX.Sua vita e infelice morte. XX. Suoi continui studi. XXI. Pregi edifetti della sua Storia Naturale. XXII. S'ei debba annoverarsi tragli atei. XXIII. Edizione di Plinio fatta dal p. Arduino. XXIV. Al-tri filosofi in Roma. XXV. Gran numero di filosofi greci nellastessa città. XXVI. Notizie e carattere di Epitteto. XXVII. Di Fa-

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ne esamina il fondamento. VIII. Si rigettano le altre opinioni. IX.Si prova che Curzio visse a' tempi di Claudio. X. Si sciolgono al-cune difficoltà opposte a questa sentenza. XI. Passo di Curzio nonben da alcuni recato per confermarla. XII. Chi egli fosse. XIII.Stile e carattere della sua storia. XIV. Notizie della vita di Tacito.XV. Sue opere. XVI. Riflessioni sul loro stile. XVII. Notizie diSvetonio. XVIII. Sue opere. XIX. Sue Vite de' Cesari in qual con-to debbano aversi. XX. Patria, vita e opere di Floro. XXI. Storiedi Cremuzio Cordo, e infelice fine del loro autore. XXII. Somi-gliante destino di Tito Labieno. XXIII. Altri storici. XXIV. Storicisotto Domiziano e Traiano. XXV. Opera insigne intrapresa daMuciano.

CAPO V.

Filosofia, e Matematica. I. La filosofia poco coltivata di questi tempi in Roma. II. In essaancor s'introduce il cattivo gusto. III. Ventura di Apollonio daTiana a Roma, e maraviglie che di lui si raccontano. IV. Se nemostra l'insussistenza. V. Condotta tenuta da Nerone. VI. Vespa-siano li caccia da Roma. VII. Presto vi fanno ritorno. VIII. Lorocondizione sotto Traiano e Adriano. IX. Compendio della vita diSeneca. X. Sua morte. XI. Diversi giudizj intorno al carattere mo-rale di Seneca. XII. Esame della condotta tenuta con Claudio econ Nerone. XIII. Grandi ricchezze da lui adunate. XIV. Sua su-perbia. XV. Quanto sian pregevoli le sue opere morali. XVI. Co-gnizioni fisiche che si incontrano nelle sue opere. XVII. Suo stile.XVIII. Questione intorno alla patria di Plinio il vecchio. XIX.Sua vita e infelice morte. XX. Suoi continui studi. XXI. Pregi edifetti della sua Storia Naturale. XXII. S'ei debba annoverarsi tragli atei. XXIII. Edizione di Plinio fatta dal p. Arduino. XXIV. Al-tri filosofi in Roma. XXV. Gran numero di filosofi greci nellastessa città. XXVI. Notizie e carattere di Epitteto. XXVII. Di Fa-

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vorino. XXVIII. Di Plutarco. XXIX. Dell'astrologo Trasillo.XXX. Vicende degli astrologi in questa epoca. XXXI. L'astrono-mia poco coltivata dai Romani. XXXII. Frontino scrittore di ma-tematica. XXXIII. Columella scrittore d'agricoltura.

CAPO VI.

Medicina.

I. Incostanza de' sistemi di medicina. II. Nuova setta introdotta daVezio Valente. III. Sistema metodico ritrovato da Tessalo. IV. Cri-na introduce nella medicina l'astrologia giudiciaria. V. Bagni fred-di rinnovati da Carmide. VI. Chi fosse, e a qual tempo visse Cel-so. VII. Sue opere e loro carattere. VIII. Altri medici in Roma.IX. Errori commessi da altri nel ragionare del medico Demostene.

CAPO VII.

Giurisprudenza.I. Per qual ragione la giurisprudenza in quest'epoca rimanesse ne-gletta. II. Ebbe essa nondimeno alcuni celebri giureconsulti. III.Due sette diverse fondate da Capitone e da Labeone. IV. Loro se-guaci Masurio Sabino e Nerva Cocceio. V. L. Cassio Longino,Procolo ed altri. VI. Notizie di Salvio Giuliano: se fosse di patriamilanese. VII. Esame di una iscrizione che sembra provarlo. VIII.Qual fosse l'Editto perpetuo da lui compilato. IX. Notizie del giu-reconsulto Pegaso. X. Altri giureconsulti.

CAPO VIII.

Gramatici, e Retori. I. Stipendio dal pubblico erario assegnato ai professori. II. Scuole

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vorino. XXVIII. Di Plutarco. XXIX. Dell'astrologo Trasillo.XXX. Vicende degli astrologi in questa epoca. XXXI. L'astrono-mia poco coltivata dai Romani. XXXII. Frontino scrittore di ma-tematica. XXXIII. Columella scrittore d'agricoltura.

CAPO VI.

Medicina.

I. Incostanza de' sistemi di medicina. II. Nuova setta introdotta daVezio Valente. III. Sistema metodico ritrovato da Tessalo. IV. Cri-na introduce nella medicina l'astrologia giudiciaria. V. Bagni fred-di rinnovati da Carmide. VI. Chi fosse, e a qual tempo visse Cel-so. VII. Sue opere e loro carattere. VIII. Altri medici in Roma.IX. Errori commessi da altri nel ragionare del medico Demostene.

CAPO VII.

Giurisprudenza.I. Per qual ragione la giurisprudenza in quest'epoca rimanesse ne-gletta. II. Ebbe essa nondimeno alcuni celebri giureconsulti. III.Due sette diverse fondate da Capitone e da Labeone. IV. Loro se-guaci Masurio Sabino e Nerva Cocceio. V. L. Cassio Longino,Procolo ed altri. VI. Notizie di Salvio Giuliano: se fosse di patriamilanese. VII. Esame di una iscrizione che sembra provarlo. VIII.Qual fosse l'Editto perpetuo da lui compilato. IX. Notizie del giu-reconsulto Pegaso. X. Altri giureconsulti.

CAPO VIII.

Gramatici, e Retori. I. Stipendio dal pubblico erario assegnato ai professori. II. Scuole

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pubbliche fabbricate da Adriano. III. Notizie di alcuni gramaticidi questa epoca. IV. Chi fosse Asconio e a qual tempo vivesse. V.Notizie di Apione alessandrino. VI. Altri grammatici. VII. Copiadi retori in Roma. VIII. Carattere di Porcio Latrone. IX. Di Blan-do, e de' due Foschi Arellii. X. Alcuni retori celebri in Roma. XI.A' tempi di Trajano fioriscono singolarmente Iseo. XII. E GiulioGenitore. XIII. Essi nondimeno recan danno anzi che vantaggioall'eloquenza.

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pubbliche fabbricate da Adriano. III. Notizie di alcuni gramaticidi questa epoca. IV. Chi fosse Asconio e a qual tempo vivesse. V.Notizie di Apione alessandrino. VI. Altri grammatici. VII. Copiadi retori in Roma. VIII. Carattere di Porcio Latrone. IX. Di Blan-do, e de' due Foschi Arellii. X. Alcuni retori celebri in Roma. XI.A' tempi di Trajano fioriscono singolarmente Iseo. XII. E GiulioGenitore. XIII. Essi nondimeno recan danno anzi che vantaggioall'eloquenza.

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PREFAZIONE.

La storia de' tempi di cui dobbiamo ragionare in questotomo, ci offre l'infelice decadimento dell'impero romanoavvilito prima e disonorato per gl'infami vizj di moltiimperadori, poscia indebolito e snervato per la lor co-dardia, e quindi combattuto, smembrato, e finalmenterovinato dai Barbari che da ogni parte l'invasero e se nefecer signori. La storia letteraria de' tempi medesimi cioffre il nullameno infelice decadimento delle scienze edell'arti, che pel capriccio dapprima de' loro coltivatorisoffersero non legger danno, poscia per le sventure deitempi venner neglette, e passo passo abbandonate permodo che appena serbavasi la memoria del lieto stato acui ne' secoli precedenti esse eran salite. Questo decadi-mento della letteratura debb'essere il principale oggettodelle nostre ricerche; ma perchè esso fu troppo stretta-mente congiunto col decadimento dell'impero, questoancora non deesi da noi trascurare; acciocchè si conoscaquanto influisca nella felicità delle lettere la felicità del-lo stato.Prima però d'innoltrarci in queste ricerche, convien dirqualche cosa de' fondamenti a' quali noi crediamo di do-verle appoggiare; fondamenti che finora si sono credutisolidi e fermi; ma che ora ci si voglion far credere debo-li e rovinosi. Chiunque finora ha scritto la storia degli

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PREFAZIONE.

La storia de' tempi di cui dobbiamo ragionare in questotomo, ci offre l'infelice decadimento dell'impero romanoavvilito prima e disonorato per gl'infami vizj di moltiimperadori, poscia indebolito e snervato per la lor co-dardia, e quindi combattuto, smembrato, e finalmenterovinato dai Barbari che da ogni parte l'invasero e se nefecer signori. La storia letteraria de' tempi medesimi cioffre il nullameno infelice decadimento delle scienze edell'arti, che pel capriccio dapprima de' loro coltivatorisoffersero non legger danno, poscia per le sventure deitempi venner neglette, e passo passo abbandonate permodo che appena serbavasi la memoria del lieto stato acui ne' secoli precedenti esse eran salite. Questo decadi-mento della letteratura debb'essere il principale oggettodelle nostre ricerche; ma perchè esso fu troppo stretta-mente congiunto col decadimento dell'impero, questoancora non deesi da noi trascurare; acciocchè si conoscaquanto influisca nella felicità delle lettere la felicità del-lo stato.Prima però d'innoltrarci in queste ricerche, convien dirqualche cosa de' fondamenti a' quali noi crediamo di do-verle appoggiare; fondamenti che finora si sono credutisolidi e fermi; ma che ora ci si voglion far credere debo-li e rovinosi. Chiunque finora ha scritto la storia degli

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imperadori che succederono ad Augusto, ha pensato dipoter narrare sicuramente ciò che si vede con certezzaaffermato da Tacito e da Svetonio, i due più antichi sto-rici che di que' tempi ci sian rimasti, quando non vis'incontri alcun fatto che o dalla retta ragione si mostriimpossibile, o da autentici documenti si mostri falso.Ma era alla nostra età riservato lo scoprir finalmente chetutti sono finora stati in errore; che il Baronio, il Sigo-nio, il Tillemont, il Pagi, il Muratori, il Crevier ed altria lor somiglianti scrittori coll'appoggiarsi all'autorità ditali autori sono stati uomini creduli troppo e mancanti dibuona critica; che Tacito e Svetonio da essi buonamenteseguiti sono autori a' quali non conviene così facilmentedar fede; che essi si son lasciati condurre o dal desideriodi adulare gl'imperadori viventi col mordere i trapassati,o da quel malnato piacere che provan molti nello oscu-rare la fama de' più grand'uomini, o da troppa facilitànell'adottare i popolari racconti; che Tiberio, Caligola,Claudio, Nerone, e Domiziano non furon poi quegli uo-mini così malvagi, come ci vengon dipinti; che in som-ma della storia degl'imperadori romani convien formarsiuna idea troppo diversa da quella che abbiamo avuta fi-nora. Di questa sì chiara e sì improvvisa luce che in unbaleno ha dissipate le tenebre fra le quali eravamo mise-ramente involti, noi siam debitori al sig. Linguet, cele-bre per molte opere in questi ultimi anni date alla luce,le quali però egli modestamente confessa che non sonostate accolte con quell'applauso ch'egli credeva loro do-versi; talchè dopo averne fatte più pruove, ha finalmente

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imperadori che succederono ad Augusto, ha pensato dipoter narrare sicuramente ciò che si vede con certezzaaffermato da Tacito e da Svetonio, i due più antichi sto-rici che di que' tempi ci sian rimasti, quando non vis'incontri alcun fatto che o dalla retta ragione si mostriimpossibile, o da autentici documenti si mostri falso.Ma era alla nostra età riservato lo scoprir finalmente chetutti sono finora stati in errore; che il Baronio, il Sigo-nio, il Tillemont, il Pagi, il Muratori, il Crevier ed altria lor somiglianti scrittori coll'appoggiarsi all'autorità ditali autori sono stati uomini creduli troppo e mancanti dibuona critica; che Tacito e Svetonio da essi buonamenteseguiti sono autori a' quali non conviene così facilmentedar fede; che essi si son lasciati condurre o dal desideriodi adulare gl'imperadori viventi col mordere i trapassati,o da quel malnato piacere che provan molti nello oscu-rare la fama de' più grand'uomini, o da troppa facilitànell'adottare i popolari racconti; che Tiberio, Caligola,Claudio, Nerone, e Domiziano non furon poi quegli uo-mini così malvagi, come ci vengon dipinti; che in som-ma della storia degl'imperadori romani convien formarsiuna idea troppo diversa da quella che abbiamo avuta fi-nora. Di questa sì chiara e sì improvvisa luce che in unbaleno ha dissipate le tenebre fra le quali eravamo mise-ramente involti, noi siam debitori al sig. Linguet, cele-bre per molte opere in questi ultimi anni date alla luce,le quali però egli modestamente confessa che non sonostate accolte con quell'applauso ch'egli credeva loro do-versi; talchè dopo averne fatte più pruove, ha finalmente

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riconosciuto ch'“è più difficile assai l'ottenere la stima,che il meritarla, e ch'essa colla pazienza, co' raggiri, ecolla sorte più facilmente si ottiene che coll'ingegno”(pref. à l'Hist. des Rivolut. de l'Empir. Rom. p. 7); ma iospero che la repubblica letteraria riparerà un giorno iltorto ch'essa gli ha fatto; e almeno per gratitudine ainuovi lumi che sulla storia egli ha sparsi, riporrà l'opereda lui composte fra quelle degli altri autori che a' nostritempi nelle antiche e nelle moderne storie han fatte am-mirabili e non più udite scoperte.Ma il comun degli uomini non si sveste così di leggeridi que' pregiudicj a' quali fin dalla fanciullezza si è la-sciato condurre; e io ancora confesso sinceramente cheprevenuto in favore degli antichi scrittori provo un nonso quale ribrezzo a dispregiarne l'autorità. Mi permettadunque m. Linguet ch'io venga a chiedergli lo sciogli-mento di qualche dubbio e di qualche difficoltà che nonmi lascia si presto arrendermi alle ragioni per cui eglivorrebbe che Svetonio e Tacito non più ottenesseropresso noi quella fede che hanno ottenuto finora. Io milusingo che quel medesimo zelo per l'onore della umani-tà, che nelle sue Rivoluzioni dell'Impero romano lo haindotto a fare l'apologia de' primi Cesari, lo indurrà nul-la meno a darci altri lumi perchè possiam giungere fi-nalmente a scoprire il vero finor nascoso.E primieramente dovrebbesi egli mai sospettare per av-ventura che m. Linguet avesse corse con troppa fretta leStorie di Tacito e di Svetonio, sicchè non avesse avverti-

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riconosciuto ch'“è più difficile assai l'ottenere la stima,che il meritarla, e ch'essa colla pazienza, co' raggiri, ecolla sorte più facilmente si ottiene che coll'ingegno”(pref. à l'Hist. des Rivolut. de l'Empir. Rom. p. 7); ma iospero che la repubblica letteraria riparerà un giorno iltorto ch'essa gli ha fatto; e almeno per gratitudine ainuovi lumi che sulla storia egli ha sparsi, riporrà l'opereda lui composte fra quelle degli altri autori che a' nostritempi nelle antiche e nelle moderne storie han fatte am-mirabili e non più udite scoperte.Ma il comun degli uomini non si sveste così di leggeridi que' pregiudicj a' quali fin dalla fanciullezza si è la-sciato condurre; e io ancora confesso sinceramente cheprevenuto in favore degli antichi scrittori provo un nonso quale ribrezzo a dispregiarne l'autorità. Mi permettadunque m. Linguet ch'io venga a chiedergli lo sciogli-mento di qualche dubbio e di qualche difficoltà che nonmi lascia si presto arrendermi alle ragioni per cui eglivorrebbe che Svetonio e Tacito non più ottenesseropresso noi quella fede che hanno ottenuto finora. Io milusingo che quel medesimo zelo per l'onore della umani-tà, che nelle sue Rivoluzioni dell'Impero romano lo haindotto a fare l'apologia de' primi Cesari, lo indurrà nul-la meno a darci altri lumi perchè possiam giungere fi-nalmente a scoprire il vero finor nascoso.E primieramente dovrebbesi egli mai sospettare per av-ventura che m. Linguet avesse corse con troppa fretta leStorie di Tacito e di Svetonio, sicchè non avesse avverti-

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te alcune cose che atterrano le difficoltà da lui proposte,o non avesse ben rilevato il senso di certi passi che egliin esse combatte? Egli, a cagion d'esempio, non vuolche si credano (t. 1, p. 150, ec.) le brutali disonestà chedel vecchio Tiberio ci narrano que' due scrittori. Perqual ragione? Perchè, egli dice, essi, ci assicurano cheTiberio fino all'età di 68 anni visse, per ciò che appartie-ne al costume, senza alcuna taccia. “Or non è probabileche il libertinaggio nasca nel cuor di un uomo allora ap-punto che quasi tutte le passioni vi muoiono: nè si puòcredere che il gelo della vecchiezza vi accenda queglisfrenati trasporti che appena sarebbono verisimili nelbollore della più fervida gioventù.” Nè io gliel nego.Ma Tacito e Svetonio dicon eglino veramente che Tibe-rio prima di ritirarsi nell'isoletta di Capri fosse uomo disì illibato pudore? Io veggo anzi ch'essi ci rappresentanTiberio nella prima età come dissimulatore accorto deglienormi suoi vizj, a' quali poscia negli ultimi anni abban-donossi sfacciatamente. “Intestabilis saevitia, dice Taci-to (l. 6 Ann. c. 5), sed obtectis libidinibus, dum Sejanumdilexit, timuitve; postremo in scelera simul ac dedecoraprorupit, postquam remoto pudore ac metu suo tantumingenio utebatur.” E Svetonio similmente (in Tib. c. 42):“Ceterum secreti licentiam nactus, et quasi civitatis ocu-lis remotus, cuncta simul vitia male diu dissimulata tan-dem profudit.” Anzi egli prosiegue narrando alcunepruove che del suo impudente libertinaggio avea già eglidate in addietro non ostante l'usato suo infingimento. Orè ella una cosa stessa il fingere e il serbar veramente la

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te alcune cose che atterrano le difficoltà da lui proposte,o non avesse ben rilevato il senso di certi passi che egliin esse combatte? Egli, a cagion d'esempio, non vuolche si credano (t. 1, p. 150, ec.) le brutali disonestà chedel vecchio Tiberio ci narrano que' due scrittori. Perqual ragione? Perchè, egli dice, essi, ci assicurano cheTiberio fino all'età di 68 anni visse, per ciò che appartie-ne al costume, senza alcuna taccia. “Or non è probabileche il libertinaggio nasca nel cuor di un uomo allora ap-punto che quasi tutte le passioni vi muoiono: nè si puòcredere che il gelo della vecchiezza vi accenda queglisfrenati trasporti che appena sarebbono verisimili nelbollore della più fervida gioventù.” Nè io gliel nego.Ma Tacito e Svetonio dicon eglino veramente che Tibe-rio prima di ritirarsi nell'isoletta di Capri fosse uomo disì illibato pudore? Io veggo anzi ch'essi ci rappresentanTiberio nella prima età come dissimulatore accorto deglienormi suoi vizj, a' quali poscia negli ultimi anni abban-donossi sfacciatamente. “Intestabilis saevitia, dice Taci-to (l. 6 Ann. c. 5), sed obtectis libidinibus, dum Sejanumdilexit, timuitve; postremo in scelera simul ac dedecoraprorupit, postquam remoto pudore ac metu suo tantumingenio utebatur.” E Svetonio similmente (in Tib. c. 42):“Ceterum secreti licentiam nactus, et quasi civitatis ocu-lis remotus, cuncta simul vitia male diu dissimulata tan-dem profudit.” Anzi egli prosiegue narrando alcunepruove che del suo impudente libertinaggio avea già eglidate in addietro non ostante l'usato suo infingimento. Orè ella una cosa stessa il fingere e il serbar veramente la

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pudicizia? E se Svetonio e Tacito affermano che Tiberioprima ancora era uom guasto, ma sol in segreto, perchèaccusarli che il facciano abbandonarsi alla disonestàsolo nella sua vecchiezza? Convien dunque dire che m.Linguet troppo frettolosamente abbia letti que' due scrit-tori, e non siasi quindi avveduto di ciò ch'essi racconta-no, totalmente contrario a ciò ch'egli loro attribuisce.Ma io temo che più frettolosamente ancora abbia egliletti due altri passi di Svetonio. “Chi crederà, dice egli(t. 1, p. 183, ec.), che un sovrano abbia giammai fattichiudere i granai di un'ampia città per avere il piacere difare affiggere agli angoli delle strade queste parole: Vi èfame? E nondimeno Svetonio ne racconta ciò di Cali-gola.” A dir vero, io non mi stupirei che un pazzo, qualera Caligola, giugnesse ancora a sì crudele stoltezza. Madove è mai un tal racconto presso Svetonio? M. Linguetnon asserisce cosa alcuna senza sicure pruove. Ecco leparole di questo scrittore da lui fedelmente recate: Non-numquam horreis praeclusis populo famem indixit (inCalig. c. 26). Ma è ella fedele una tal traduzione? Indi-cere famem è egli lo stesso che affiggere agli angoli del-le strade queste parole: Vi è fame? Io temo assai ch'eglipossa sostener l'esattezza di tali versioni. L'altro passodi Svetonio non troppo felicemente tradotto da m. Lin-guet si è il seguente: “Ognun sa, egli dice (t. 2, p. 55),ciò ch'ei racconta di Tito, cioè che avendo egli passatoun giorno senza donar nulla ad alcuno, quod nihil cui-quam tota die praestitisset, disse a' suoi amici: Io hoperduto la mia giornata. Diem perdidi” (in Tito c. 8.). E

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pudicizia? E se Svetonio e Tacito affermano che Tiberioprima ancora era uom guasto, ma sol in segreto, perchèaccusarli che il facciano abbandonarsi alla disonestàsolo nella sua vecchiezza? Convien dunque dire che m.Linguet troppo frettolosamente abbia letti que' due scrit-tori, e non siasi quindi avveduto di ciò ch'essi racconta-no, totalmente contrario a ciò ch'egli loro attribuisce.Ma io temo che più frettolosamente ancora abbia egliletti due altri passi di Svetonio. “Chi crederà, dice egli(t. 1, p. 183, ec.), che un sovrano abbia giammai fattichiudere i granai di un'ampia città per avere il piacere difare affiggere agli angoli delle strade queste parole: Vi èfame? E nondimeno Svetonio ne racconta ciò di Cali-gola.” A dir vero, io non mi stupirei che un pazzo, qualera Caligola, giugnesse ancora a sì crudele stoltezza. Madove è mai un tal racconto presso Svetonio? M. Linguetnon asserisce cosa alcuna senza sicure pruove. Ecco leparole di questo scrittore da lui fedelmente recate: Non-numquam horreis praeclusis populo famem indixit (inCalig. c. 26). Ma è ella fedele una tal traduzione? Indi-cere famem è egli lo stesso che affiggere agli angoli del-le strade queste parole: Vi è fame? Io temo assai ch'eglipossa sostener l'esattezza di tali versioni. L'altro passodi Svetonio non troppo felicemente tradotto da m. Lin-guet si è il seguente: “Ognun sa, egli dice (t. 2, p. 55),ciò ch'ei racconta di Tito, cioè che avendo egli passatoun giorno senza donar nulla ad alcuno, quod nihil cui-quam tota die praestitisset, disse a' suoi amici: Io hoperduto la mia giornata. Diem perdidi” (in Tito c. 8.). E

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quindi prende occasione l'eloquentissimo autore d'invei-re contro coloro che pensano doversi lodar que' principiche donan troppo liberalmente il denaro; e si volge ama-ramente contro Svetonio, perchè abbia affibbiato a Titoun tal detto. “E che? dic'egli, credeva forse Tito perdutoil giorno, perchè non avea donato nulla ad alcuno? Qualidea avea mai de' doveri del suo stato? Gli ristringevafors'egli a distribuzioni manuali fatte a coloro che gli sipotevano accostare? Ma questo è impiego di un cassiersubalterno, non del capo di un ampio Stato.” Che diremnoi di una tal riflessione? Noi veramente avevam credu-to finora che nihil praestare cuiquam volesse dire: nonfar nulla a vantaggio d'alcuno; e ci era perciò sembratoche fosse questo uno de' più bei detti che dalla bocca diun principe potesse uscire. Ma grazie a m. Linguet, sia-mo ora disingannati; e dobbiam credere fermamente chepraestare è il medesimo che donare; e che questo è uffi-cio proprio del cassiere, e non del sovrano. E uno scrit-tore che intende sì bene gli antichi autori, non ha egli di-ritto di levarsi arditamente contro di essi, e dir loro sulvolto che hanno mentito?Io non finirei così presto, se tutti volessi annoverare que'passi ne' quali m. Linguet ci ha date somiglianti pruovedella sua felicità ed esattezza nell'intendere e nel trasla-tare gli antichi autori. Ma passiamo avanti, e veggiamoquali ragioni egli ne arrechi per renderci dubbiosa la au-torità di Svetonio e di Tacito. Esse si riducono singolar-mente a due accuse ch'egli dà ad amendue questi scritto-

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quindi prende occasione l'eloquentissimo autore d'invei-re contro coloro che pensano doversi lodar que' principiche donan troppo liberalmente il denaro; e si volge ama-ramente contro Svetonio, perchè abbia affibbiato a Titoun tal detto. “E che? dic'egli, credeva forse Tito perdutoil giorno, perchè non avea donato nulla ad alcuno? Qualidea avea mai de' doveri del suo stato? Gli ristringevafors'egli a distribuzioni manuali fatte a coloro che gli sipotevano accostare? Ma questo è impiego di un cassiersubalterno, non del capo di un ampio Stato.” Che diremnoi di una tal riflessione? Noi veramente avevam credu-to finora che nihil praestare cuiquam volesse dire: nonfar nulla a vantaggio d'alcuno; e ci era perciò sembratoche fosse questo uno de' più bei detti che dalla bocca diun principe potesse uscire. Ma grazie a m. Linguet, sia-mo ora disingannati; e dobbiam credere fermamente chepraestare è il medesimo che donare; e che questo è uffi-cio proprio del cassiere, e non del sovrano. E uno scrit-tore che intende sì bene gli antichi autori, non ha egli di-ritto di levarsi arditamente contro di essi, e dir loro sulvolto che hanno mentito?Io non finirei così presto, se tutti volessi annoverare que'passi ne' quali m. Linguet ci ha date somiglianti pruovedella sua felicità ed esattezza nell'intendere e nel trasla-tare gli antichi autori. Ma passiamo avanti, e veggiamoquali ragioni egli ne arrechi per renderci dubbiosa la au-torità di Svetonio e di Tacito. Esse si riducono singolar-mente a due accuse ch'egli dà ad amendue questi scritto-

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ri; di troppa facilità nell'adottare i popolari racconti, e divile adulazione nell'esaltare i principi, sotto il cui regnoscrivevano, col deprimer la memoria de’ trapassati. Co-minciam dalla prima. Che Svetonio e Tacito possano inciò aver errato talvolta, nè io, nè alcun altro vorrà negar-lo. Vi è egli storico alcuno in cui non si trovi falsità, oerrore? Ma come farem noi a conoscere ove essi abbiandetto il vero, ove il falso? Per affermare che uno storicoha errato, conviene che noi possiamo convincerlo di fal-sità col mostrare o che altri più degni di fede narrano al-trimenti, o che ciò ch'egli racconta non è possibile. Se lecose ch'ei narra non sono impossibili, ma solo improba-bili, noi possiam solamente inferirne che il suo raccontonon è probabile. Ma se egli racconta cose che non sianocontradette da altri, che sian possibili e ancor verisimili,noi non abbiam ragione di muover dubbj, ancorchè for-se ei possa essersi ingannato. Ciò presupposto, ci dica digrazia m. Linguet per qual ragione non vuol egli darfede a Tacito e a Svetonio nelle cose che ci narrano oamendue, o un solo di essi? Forse perchè altri scrittoriloro si oppongano? Ma non ve n'è alcuno che non sia ditempo troppo ad essi posteriore, e perciò men degno difede; oltre che assai poco è certamente quello in che an-che i posteriori scrittori da lor discordino. Forse perchèci narrino cose impossibili? Alcune ve ne ha certamentedi tal natura, come tutto ciò che appartiene a' prodigi diVespasiano, alle profezie degli astrologi, e ad altre somi-glianti cose che, credendosi allora comunemente, non èmaraviglia che anche da' migliori storici fossero adotta-

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ri; di troppa facilità nell'adottare i popolari racconti, e divile adulazione nell'esaltare i principi, sotto il cui regnoscrivevano, col deprimer la memoria de’ trapassati. Co-minciam dalla prima. Che Svetonio e Tacito possano inciò aver errato talvolta, nè io, nè alcun altro vorrà negar-lo. Vi è egli storico alcuno in cui non si trovi falsità, oerrore? Ma come farem noi a conoscere ove essi abbiandetto il vero, ove il falso? Per affermare che uno storicoha errato, conviene che noi possiamo convincerlo di fal-sità col mostrare o che altri più degni di fede narrano al-trimenti, o che ciò ch'egli racconta non è possibile. Se lecose ch'ei narra non sono impossibili, ma solo improba-bili, noi possiam solamente inferirne che il suo raccontonon è probabile. Ma se egli racconta cose che non sianocontradette da altri, che sian possibili e ancor verisimili,noi non abbiam ragione di muover dubbj, ancorchè for-se ei possa essersi ingannato. Ciò presupposto, ci dica digrazia m. Linguet per qual ragione non vuol egli darfede a Tacito e a Svetonio nelle cose che ci narrano oamendue, o un solo di essi? Forse perchè altri scrittoriloro si oppongano? Ma non ve n'è alcuno che non sia ditempo troppo ad essi posteriore, e perciò men degno difede; oltre che assai poco è certamente quello in che an-che i posteriori scrittori da lor discordino. Forse perchèci narrino cose impossibili? Alcune ve ne ha certamentedi tal natura, come tutto ciò che appartiene a' prodigi diVespasiano, alle profezie degli astrologi, e ad altre somi-glianti cose che, credendosi allora comunemente, non èmaraviglia che anche da' migliori storici fossero adotta-

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te. Queste son finalmente in assai piccolo numero, e noipure ci uniamo con lui in rigettarle. Ma le cose che m.Linguet non vuol credere, son tali comunemente ch'eglinon può chiamarle al più che improbabili. Or sono elle-no veramente tali? Tacito e Svetonio non furono i primiche scrivesser la Storia de' primi Cesari. Essi avean sot-to l'occhio gli storici che prima di loro avean trattato untale argomento. “Io trovo, dice Tacito (l. 2. Ann. c. 88),presso gli scrittori e i senatori di que' tempi.” E altrove(l. 4 Ann. c. 53): “Questa cosa non rammentata dagliscrittori degli Annali io l'ho trovata ne' Commentarj diAgrippina madre di Nerone, la quale tramandò a' posterile memorie della sua vita e le vicende de' suoi.” E altro-ve (l. 14, c. 9): “Noi narrando ciò che gli autori scrivonoconcordemente, recheremo sotto i lor nomi ciò in cheessi discordano”. “Un uom consolare, dice (in Tib. c.61), lasciò scritto ne' suoi Annali.” E altrove (in Ner. c.34): “Aggiungonsi da non ignobili autori cose più atro-ci”; e così pure più altre volte. Nè si può dire ch'essi sia-no semplici compilatori di tutto ciò che veggono scritto,o che odon narrarsi da altri. Essi distinguono ciò che datutti si narra, ciò che da pochi; ciò che si crede costante-mente, e ciò di che corre sol qualche voce. ”Nel riferirela morte di Druso, dice Tacito (l. 4. Ann. c. 10), ho nar-rato ciò che si scrive da molti e fedeli scrittori; ma nonlascerò di dire che corse non legger rumore a que' tempi,per modo che non è ancora svanito, ec.” Egli stesso con-fessa (l. 1, Ann. c. 1) che alcuni degli storici precedentiaveano scritto o con adulazione degl'imperadori viventi,

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te. Queste son finalmente in assai piccolo numero, e noipure ci uniamo con lui in rigettarle. Ma le cose che m.Linguet non vuol credere, son tali comunemente ch'eglinon può chiamarle al più che improbabili. Or sono elle-no veramente tali? Tacito e Svetonio non furono i primiche scrivesser la Storia de' primi Cesari. Essi avean sot-to l'occhio gli storici che prima di loro avean trattato untale argomento. “Io trovo, dice Tacito (l. 2. Ann. c. 88),presso gli scrittori e i senatori di que' tempi.” E altrove(l. 4 Ann. c. 53): “Questa cosa non rammentata dagliscrittori degli Annali io l'ho trovata ne' Commentarj diAgrippina madre di Nerone, la quale tramandò a' posterile memorie della sua vita e le vicende de' suoi.” E altro-ve (l. 14, c. 9): “Noi narrando ciò che gli autori scrivonoconcordemente, recheremo sotto i lor nomi ciò in cheessi discordano”. “Un uom consolare, dice (in Tib. c.61), lasciò scritto ne' suoi Annali.” E altrove (in Ner. c.34): “Aggiungonsi da non ignobili autori cose più atro-ci”; e così pure più altre volte. Nè si può dire ch'essi sia-no semplici compilatori di tutto ciò che veggono scritto,o che odon narrarsi da altri. Essi distinguono ciò che datutti si narra, ciò che da pochi; ciò che si crede costante-mente, e ciò di che corre sol qualche voce. ”Nel riferirela morte di Druso, dice Tacito (l. 4. Ann. c. 10), ho nar-rato ciò che si scrive da molti e fedeli scrittori; ma nonlascerò di dire che corse non legger rumore a que' tempi,per modo che non è ancora svanito, ec.” Egli stesso con-fessa (l. 1, Ann. c. 1) che alcuni degli storici precedentiaveano scritto o con adulazione degl'imperadori viventi,

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o con troppa amarezza de' trapassati. “Quindi, aggiugne,io toccherò in breve l'estreme cose di Augusto, poscianarrerò l'impero di Tiberio e degli altri, ma senza odioed impegno, che in me non è risvegliato da cagione al-cuna.” Così pure Svetonio esamina varie volte, e or se-gue, or rigetta le altrui opinioni (Tib. c. 21; Claud. c. 44;Neron. c. 52). Essi non son dunque scrittori che cieca-mente si affidino agli altrui detti; ma separano attenta-mente ciò che merita fede, da ciò che non dee ottenerla.E sono perciò scrittori alla cui autorità non possiamoopporci, se non con assai forti argomenti.Ma il sig. Linguet pensa di averne tanti e sì validi chebastino a rovesciarla interamente. Egli pretende di mo-strare inverisimili e improbabili troppo moltissime dellecose ch'essi ci narrano. Ma ci risponda egli di grazia.Svetonio e Tacito e gli scrittori ch'essi han consultato, ei Romani a' quali essi scrivevano, tutti poco lontani ditempo dagl'imperadori la cui vita descrivono, le han cre-dute e probabili e vere; poichè altrimenti quegli scrittorinon l'avrebbon narrate, nè si sarebbon esposti ad incon-trare la taccia di scrittori favolosi in un tempo in cuitroppo facilmente potean esser convinti di falsità. M.Linguet lontano diciassette secoli da que' tempi le credeimprobabili. A qual parere ci atterrem noi? Io vo ancorapiù oltre, e dico che m. Linguet secondo i suoi principjmedesimi non può creder improbabili quelle cose ch'eglipur dice tali. Per non allungarci oltre il dovere, sceglia-mo un solo degl'imperadori di cui egli ha voluto fare

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o con troppa amarezza de' trapassati. “Quindi, aggiugne,io toccherò in breve l'estreme cose di Augusto, poscianarrerò l'impero di Tiberio e degli altri, ma senza odioed impegno, che in me non è risvegliato da cagione al-cuna.” Così pure Svetonio esamina varie volte, e or se-gue, or rigetta le altrui opinioni (Tib. c. 21; Claud. c. 44;Neron. c. 52). Essi non son dunque scrittori che cieca-mente si affidino agli altrui detti; ma separano attenta-mente ciò che merita fede, da ciò che non dee ottenerla.E sono perciò scrittori alla cui autorità non possiamoopporci, se non con assai forti argomenti.Ma il sig. Linguet pensa di averne tanti e sì validi chebastino a rovesciarla interamente. Egli pretende di mo-strare inverisimili e improbabili troppo moltissime dellecose ch'essi ci narrano. Ma ci risponda egli di grazia.Svetonio e Tacito e gli scrittori ch'essi han consultato, ei Romani a' quali essi scrivevano, tutti poco lontani ditempo dagl'imperadori la cui vita descrivono, le han cre-dute e probabili e vere; poichè altrimenti quegli scrittorinon l'avrebbon narrate, nè si sarebbon esposti ad incon-trare la taccia di scrittori favolosi in un tempo in cuitroppo facilmente potean esser convinti di falsità. M.Linguet lontano diciassette secoli da que' tempi le credeimprobabili. A qual parere ci atterrem noi? Io vo ancorapiù oltre, e dico che m. Linguet secondo i suoi principjmedesimi non può creder improbabili quelle cose ch'eglipur dice tali. Per non allungarci oltre il dovere, sceglia-mo un solo degl'imperadori di cui egli ha voluto fare

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l'apologia e sia questi Tiberio; e veggiamo primieramen-te qual sia il carattere che ne fa egli stesso, quali i delittidi cui confessa che questo imperadore bruttossi inde-gnamente. “Tiberio, dic'egli (t. 1, p. 44), era di una fa-miglia in cui l'orgoglio e la crudeltà sembravano eredita-rj. Ne dava spesso delle prove, benchè si sforzasse a na-sconderle. Confessa ch'egli avea un umor nero; e cheera inclinato alla dissimulazione, il che di raro si uniscecolla virtù, e cuopre quasi sempre grandissimi vizj (ib.p. 46), che l'ingrato e sospettoso cuor di Tiberio fu alta-mente trafitto da' contrassegni d'amore e di stima di cuivedeva onorato Germanico, e ch'egli lo allontanò dalteatro della sua gloria, e ancor dall'Italia, e che gli pro-curò tutti i disgusti possibili in Oriente, ove il mandò aricevere affronti (ib. p. 111); che il suo umore era impla-cabile; che fece perire colle formalità di giustizia moltiragguardevoli cittadini; che la sua naturale severità in-nasprita dalle satire, e fatta più ardita dalla bassezza de'Romani, diede occasione in Roma alle più funeste sce-ne e a' più terribili abusi del potere arbitrario (ib. p.157); che Tiberio fu un malvagio sovrano che si feceodiare dalla nobiltà, che alla sua tranquillità sagrificò iprimarj capi dell'impero (ib. p. 169).” Questo è il carat-tere che ci fa di Tiberio il suo valoroso apologista m.Linguet. Ma se Tiberio era inclinato alla dissimulazio-ne, perchè trova egli strano e improbabile (ib. p. 59) ciòche Tacito narra dell'infingersi ch'esso fece di non voleraccettare l'impero, e del mostrar d'arrendersi finalmentealle preghiere e alle istanze de' senatori “non tanto ad

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l'apologia e sia questi Tiberio; e veggiamo primieramen-te qual sia il carattere che ne fa egli stesso, quali i delittidi cui confessa che questo imperadore bruttossi inde-gnamente. “Tiberio, dic'egli (t. 1, p. 44), era di una fa-miglia in cui l'orgoglio e la crudeltà sembravano eredita-rj. Ne dava spesso delle prove, benchè si sforzasse a na-sconderle. Confessa ch'egli avea un umor nero; e cheera inclinato alla dissimulazione, il che di raro si uniscecolla virtù, e cuopre quasi sempre grandissimi vizj (ib.p. 46), che l'ingrato e sospettoso cuor di Tiberio fu alta-mente trafitto da' contrassegni d'amore e di stima di cuivedeva onorato Germanico, e ch'egli lo allontanò dalteatro della sua gloria, e ancor dall'Italia, e che gli pro-curò tutti i disgusti possibili in Oriente, ove il mandò aricevere affronti (ib. p. 111); che il suo umore era impla-cabile; che fece perire colle formalità di giustizia moltiragguardevoli cittadini; che la sua naturale severità in-nasprita dalle satire, e fatta più ardita dalla bassezza de'Romani, diede occasione in Roma alle più funeste sce-ne e a' più terribili abusi del potere arbitrario (ib. p.157); che Tiberio fu un malvagio sovrano che si feceodiare dalla nobiltà, che alla sua tranquillità sagrificò iprimarj capi dell'impero (ib. p. 169).” Questo è il carat-tere che ci fa di Tiberio il suo valoroso apologista m.Linguet. Ma se Tiberio era inclinato alla dissimulazio-ne, perchè trova egli strano e improbabile (ib. p. 59) ciòche Tacito narra dell'infingersi ch'esso fece di non voleraccettare l'impero, e del mostrar d'arrendersi finalmentealle preghiere e alle istanze de' senatori “non tanto ad

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accettare l'impero, quanto a cessar di negarlo, e di farsipregar più oltre” (Tac. l. 1 Ann. c. 13)? Non è egli que-sto il carattere di un accorto dissimulatore? fingere di ri-cusare ciò che più ardentemente si brama. Il più leggia-dro si è che sembra a m. Linguet che la maniera con cuiTiberio accettò la corona, secondo il racconto di Tacito,non sia probabile, perchè, dic'egli, dava in tal modo oc-casione di dubitare s'ei fosse davvero imperadore; equindi piacendosi di questa ingegnosa sua riflessione,impiega quattro intere pagine a mostrare che le circo-stanze in cui era Tiberio, non gli permettevano che la-sciasse in alcun modo dubbiosa la sua elezione, come sel'adozione di Augusto, le istanze del senato, e il posses-so che tosto prese Tiberio dell'imperiale autorità non gliavessero assicurato il trono, e non avesser fatto vedereabbastanza ch'egli avea veramente accettato l'impero. Sepoi Tiberio era così crudele e implacabile, come m. Lin-guet cel descrive, perchè non crede egli probabile chetutti in un colpo dannasse a morte coloro ch'erano staticongiunti in amistà con Seiano? Al qual passo due cosesingolarmente son degne d'osservazione. La prima si èche per rendere odioso e improbabile il racconto di Taci-to, m. Linguet gli fa dire (t. 1, p. 162) che Tiberio anno-iato dalla lunghezza de' processi e dal numero degli ac-cusati comandò di ucciderli tutti in prigione; e quindi eilungamente si stende a dimostrarci questa gran veritàche “la malvagità umana non giunge mai a versare ilsangue degli uomini solo per liberarsi da qualche noia.”Ma dove è mai che Tacito un tal motivo ci arrechi della

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accettare l'impero, quanto a cessar di negarlo, e di farsipregar più oltre” (Tac. l. 1 Ann. c. 13)? Non è egli que-sto il carattere di un accorto dissimulatore? fingere di ri-cusare ciò che più ardentemente si brama. Il più leggia-dro si è che sembra a m. Linguet che la maniera con cuiTiberio accettò la corona, secondo il racconto di Tacito,non sia probabile, perchè, dic'egli, dava in tal modo oc-casione di dubitare s'ei fosse davvero imperadore; equindi piacendosi di questa ingegnosa sua riflessione,impiega quattro intere pagine a mostrare che le circo-stanze in cui era Tiberio, non gli permettevano che la-sciasse in alcun modo dubbiosa la sua elezione, come sel'adozione di Augusto, le istanze del senato, e il posses-so che tosto prese Tiberio dell'imperiale autorità non gliavessero assicurato il trono, e non avesser fatto vedereabbastanza ch'egli avea veramente accettato l'impero. Sepoi Tiberio era così crudele e implacabile, come m. Lin-guet cel descrive, perchè non crede egli probabile chetutti in un colpo dannasse a morte coloro ch'erano staticongiunti in amistà con Seiano? Al qual passo due cosesingolarmente son degne d'osservazione. La prima si èche per rendere odioso e improbabile il racconto di Taci-to, m. Linguet gli fa dire (t. 1, p. 162) che Tiberio anno-iato dalla lunghezza de' processi e dal numero degli ac-cusati comandò di ucciderli tutti in prigione; e quindi eilungamente si stende a dimostrarci questa gran veritàche “la malvagità umana non giunge mai a versare ilsangue degli uomini solo per liberarsi da qualche noia.”Ma dove è mai che Tacito un tal motivo ci arrechi della

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crudeltà di Tiberio. Ecco le parole di questo storico (l. 6Ann. c. 19): Inritatus suppliciis cunctos, qui carcere, at-tinebantur accusati societatis cum Sejano, necari jubet.Dunque inritatus suppliciis vuol dire annoiato dalla lun-ghezza de' processi e dal numero degli accusati? E que-sta è dunque la fedeltà e l'esattezza con cui si riportano idetti degli antichi scrittori? E su questa sì fedel traduzio-ne si appoggia l'accusa che si dà a Tacito di averci fattoun improbabil racconto? Leggiadra maniera per verodire di censurare gli autori! Riprenderli perchè abbiandetto ciò ch'essi non disser mai. Chi potrà mai in talmodo andar esente dalla critica di sì valorosi censori?L'altra riflessione che qui ci offre m. Linguet, si è ch'eglioppone a se stesso altri fatti di crudeltà somigliante, cheposson render probabile ciò che narrasi di Tiberio, e sin-golarmente la celebre notte di s. Bartolomeo. Or che ri-sponde egli? Procura ei forse di scemare alquanto l'orro-re di questo fatto, o col recare i motivi pe' quali potè al-lora credersi lecito, o col mostrare, come ha fatto felice-mente qualche moderno scrittore, che non fu sì grandela strage, come da alcuni fu scritto? Se Tacito, o Sveto-nio ci avesser narrata tal cosa di Tiberio, ovver di Nero-ne, Tiberio e Nerone avrebber trovato in m. Linguet uneloquente apologista. Ma Caterina de' Medici non haavuta tal sorte. Egli non sol concede il fatto, ma a ren-derlo ancor probabile fa di questa reina il più nero carat-tere che immaginare si possa. Rechiamone le sue stesseparole, perchè non si creda ch'io le travolga, o le esage-ri. “Cette reine dévouée à une barbarie voluptueuse, à

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crudeltà di Tiberio. Ecco le parole di questo storico (l. 6Ann. c. 19): Inritatus suppliciis cunctos, qui carcere, at-tinebantur accusati societatis cum Sejano, necari jubet.Dunque inritatus suppliciis vuol dire annoiato dalla lun-ghezza de' processi e dal numero degli accusati? E que-sta è dunque la fedeltà e l'esattezza con cui si riportano idetti degli antichi scrittori? E su questa sì fedel traduzio-ne si appoggia l'accusa che si dà a Tacito di averci fattoun improbabil racconto? Leggiadra maniera per verodire di censurare gli autori! Riprenderli perchè abbiandetto ciò ch'essi non disser mai. Chi potrà mai in talmodo andar esente dalla critica di sì valorosi censori?L'altra riflessione che qui ci offre m. Linguet, si è ch'eglioppone a se stesso altri fatti di crudeltà somigliante, cheposson render probabile ciò che narrasi di Tiberio, e sin-golarmente la celebre notte di s. Bartolomeo. Or che ri-sponde egli? Procura ei forse di scemare alquanto l'orro-re di questo fatto, o col recare i motivi pe' quali potè al-lora credersi lecito, o col mostrare, come ha fatto felice-mente qualche moderno scrittore, che non fu sì grandela strage, come da alcuni fu scritto? Se Tacito, o Sveto-nio ci avesser narrata tal cosa di Tiberio, ovver di Nero-ne, Tiberio e Nerone avrebber trovato in m. Linguet uneloquente apologista. Ma Caterina de' Medici non haavuta tal sorte. Egli non sol concede il fatto, ma a ren-derlo ancor probabile fa di questa reina il più nero carat-tere che immaginare si possa. Rechiamone le sue stesseparole, perchè non si creda ch'io le travolga, o le esage-ri. “Cette reine dévouée à une barbarie voluptueuse, à

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une superstition cruelle, et de plus dévorée par l'envie deregner” (ib. p. 1 6 3 ). A' tempi torbidi della Lega si È

mai parlato di essa con più orribili espressioni? Così chiriprende gli antichi scrittori di aver parlato troppo mal diTiberio, parla di una sua reina in maniera che ce la rap-presenta peggiore ancor di Tiberio.Ne' racconti di Svetonio e di Tacito vi ha forse, il ripeto,qualche esagerazione; ma assai poche cose si troveran-no, delle quali si possa dire che non sono probabili. Unsovrano d'indole fiera e malvagia, sospettoso, crudele,senza religion che lo freni, corrotto ne' costumi, in mez-zo a un popolo avvilito e depresso, di quali eccessi nonè capace? Ma che giova il trattenerci più a lungo nelconfutare uno scrittore che, dirollo pure liberamente,non si può leggere senza sdegno? In questo secolo in cuitanto si esaltano i bei nomi di società e di umanità, do-vevam noi aspettarci che uno scrittore prendesse nonsolo a negare (d i che sarebbe a lodarsi, quando l'avessefatto felicemente) ma a giustificare la crudeltà di Tibe-rio? E nondimeno udiamo com'ei ne ragiona (t. 1, p .1 5 8 , ec.) “Tiberio dovea governare un popolo nato peresser libero, e soggettato non molto prima. Nel principiodel suo impero eran seguite orribili sollevazioni (non inRoma, ma nella Grecia). I Roman i benchè avviliti, nonavean dimenticato ciò che significava il lor nome. L acittà era piena di famiglie superiori per ogni riguardoalla regnante prima delle funeste rivoluzioni che l'aveancondotta al trono. I discendenti degli antichi vendicato-

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une superstition cruelle, et de plus dévorée par l'envie deregner” (ib. p. 1 6 3 ). A' tempi torbidi della Lega si È

mai parlato di essa con più orribili espressioni? Così chiriprende gli antichi scrittori di aver parlato troppo mal diTiberio, parla di una sua reina in maniera che ce la rap-presenta peggiore ancor di Tiberio.Ne' racconti di Svetonio e di Tacito vi ha forse, il ripeto,qualche esagerazione; ma assai poche cose si troveran-no, delle quali si possa dire che non sono probabili. Unsovrano d'indole fiera e malvagia, sospettoso, crudele,senza religion che lo freni, corrotto ne' costumi, in mez-zo a un popolo avvilito e depresso, di quali eccessi nonè capace? Ma che giova il trattenerci più a lungo nelconfutare uno scrittore che, dirollo pure liberamente,non si può leggere senza sdegno? In questo secolo in cuitanto si esaltano i bei nomi di società e di umanità, do-vevam noi aspettarci che uno scrittore prendesse nonsolo a negare (d i che sarebbe a lodarsi, quando l'avessefatto felicemente) ma a giustificare la crudeltà di Tibe-rio? E nondimeno udiamo com'ei ne ragiona (t. 1, p .1 5 8 , ec.) “Tiberio dovea governare un popolo nato peresser libero, e soggettato non molto prima. Nel principiodel suo impero eran seguite orribili sollevazioni (non inRoma, ma nella Grecia). I Roman i benchè avviliti, nonavean dimenticato ciò che significava il lor nome. L acittà era piena di famiglie superiori per ogni riguardoalla regnante prima delle funeste rivoluzioni che l'aveancondotta al trono. I discendenti degli antichi vendicato-

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ri di Roma, gli Scipioni, i Metelli, potean sospirare tal-volta nel vedersi sommessi a' Cesari il cui nome nem-meno era noto a' loro antenati. Nel principio di un nuo-vo regno era facile ad avvenire che certe alquanto viveespressioni di dispiacere fosser prese per cominciamen-to di progetti ambiziosi. Il principe obbligato per suopersonale interesse a mantenere la pubblica tranquillitànon dovea punto esitare a sagrificarle le vittime ch'ellasembrava esigere”. Lasciamo stare il contradire ch'ei faa se stesso, poichè qui ci rappresenta Tiberio come attor-niato per ogni parte da uomini in cui potea temere altret-tanti congiurati; e poscia non molto dopo riflette (p.164) che Tiberio regnava solo e senza contradizione, eche l'unico oggetto che potea recargli qualche timore(cioè Seiano), era stato abbattuto. Lasciamo stare anco-ra la frivolezza di tai ragioni; poichè Augusto trovossi incircostanze più pericolose di assai, e nondimeno se se netraggano i primi anni, fu sovrano di mansuetudine e diclemenza ammirabile. Queste contradizioni e questi malcongegnati ragionamenti non fanno finalmente torto cheal loro autore. Ma si può egli leggere senza sdegno unoscrittore che benchè sembri di disapprovare questa cru-dele e sanguinosa politica, per iscusar nondimeno Tibe-rio ardisce d'involger nel delitto medesimo, e di parago-nar con quel mostro di tirannica crudeltà una delle piùsagge repubbliche, anzi tutti generalmente i sovrani?“Non vedesi forse, dic'egli ( p . 159), a Venezia un'inqui-sizione di Stato in seno di una repubblica? I sospettinon son eglino puniti come delitti in coloro che gli pos-

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ri di Roma, gli Scipioni, i Metelli, potean sospirare tal-volta nel vedersi sommessi a' Cesari il cui nome nem-meno era noto a' loro antenati. Nel principio di un nuo-vo regno era facile ad avvenire che certe alquanto viveespressioni di dispiacere fosser prese per cominciamen-to di progetti ambiziosi. Il principe obbligato per suopersonale interesse a mantenere la pubblica tranquillitànon dovea punto esitare a sagrificarle le vittime ch'ellasembrava esigere”. Lasciamo stare il contradire ch'ei faa se stesso, poichè qui ci rappresenta Tiberio come attor-niato per ogni parte da uomini in cui potea temere altret-tanti congiurati; e poscia non molto dopo riflette (p.164) che Tiberio regnava solo e senza contradizione, eche l'unico oggetto che potea recargli qualche timore(cioè Seiano), era stato abbattuto. Lasciamo stare anco-ra la frivolezza di tai ragioni; poichè Augusto trovossi incircostanze più pericolose di assai, e nondimeno se se netraggano i primi anni, fu sovrano di mansuetudine e diclemenza ammirabile. Queste contradizioni e questi malcongegnati ragionamenti non fanno finalmente torto cheal loro autore. Ma si può egli leggere senza sdegno unoscrittore che benchè sembri di disapprovare questa cru-dele e sanguinosa politica, per iscusar nondimeno Tibe-rio ardisce d'involger nel delitto medesimo, e di parago-nar con quel mostro di tirannica crudeltà una delle piùsagge repubbliche, anzi tutti generalmente i sovrani?“Non vedesi forse, dic'egli ( p . 159), a Venezia un'inqui-sizione di Stato in seno di una repubblica? I sospettinon son eglino puniti come delitti in coloro che gli pos-

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son commettere? E nelle monarchie che non son credutetiranniche e sotto re conosciuti per la loro clemenza, nonveggonsi cittadini arrestati sulla parola di un delatoreanonimo, e spesso ancora per motivo minor di un so-spetto? Non muoiono essi di miseria e di disperazionenelle prigioni, prima che si sia solamente pensato a esa-minare se siano innocenti, o colpevoli”? Come mai hapotuto m. Linguet, uomo per altro di sapere e d'ingegnonon ordinario, pensare e scriver così? Per difender Tibe-rio, il cui nome è sempre stato e sarà sempre a tutte l'etàe alle nazioni tutte esecrabile, rappresentarci in sì odiosoe sì ingiusto aspetto I più saggi governi? ne' magistrati ene' sovrani riconoscere tanti tiranni? e ciò che sarà qual-che rara volta avvenuto per quella, dirò così, fatale ne-cessità che anche ne' più felici Stati talor s'introduce, di-pingerlo come indole e costituzion essenziale della so-vranità? Ma lasciamo ormai un oggetto così spiacevole,e passiam sotto silenzio altri simili paradossi che questoautore ha sparsi in questa sua opera, di cui è a bramareche non s'imbevano mai nè i sudditi nè i sovrani; e par-liam brevemente dell'altra accusa che m. Linguet dà aTacito e a Svetonio, cioè di avere dipinti con sì neri co-lori Tiberio, Caligola, Nerone ed altri imperadori roma-ni, per adulare in tal modo gl'imperadori sotto cui essiscrivevano.Che l'adulazione fosse vizio comune agli scrittori diquesti tempi, non può negarsi, e ne recheremo noi purenon poche pruove. Che Tacito inoltre abbia voluto tal-

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son commettere? E nelle monarchie che non son credutetiranniche e sotto re conosciuti per la loro clemenza, nonveggonsi cittadini arrestati sulla parola di un delatoreanonimo, e spesso ancora per motivo minor di un so-spetto? Non muoiono essi di miseria e di disperazionenelle prigioni, prima che si sia solamente pensato a esa-minare se siano innocenti, o colpevoli”? Come mai hapotuto m. Linguet, uomo per altro di sapere e d'ingegnonon ordinario, pensare e scriver così? Per difender Tibe-rio, il cui nome è sempre stato e sarà sempre a tutte l'etàe alle nazioni tutte esecrabile, rappresentarci in sì odiosoe sì ingiusto aspetto I più saggi governi? ne' magistrati ene' sovrani riconoscere tanti tiranni? e ciò che sarà qual-che rara volta avvenuto per quella, dirò così, fatale ne-cessità che anche ne' più felici Stati talor s'introduce, di-pingerlo come indole e costituzion essenziale della so-vranità? Ma lasciamo ormai un oggetto così spiacevole,e passiam sotto silenzio altri simili paradossi che questoautore ha sparsi in questa sua opera, di cui è a bramareche non s'imbevano mai nè i sudditi nè i sovrani; e par-liam brevemente dell'altra accusa che m. Linguet dà aTacito e a Svetonio, cioè di avere dipinti con sì neri co-lori Tiberio, Caligola, Nerone ed altri imperadori roma-ni, per adulare in tal modo gl'imperadori sotto cui essiscrivevano.Che l'adulazione fosse vizio comune agli scrittori diquesti tempi, non può negarsi, e ne recheremo noi purenon poche pruove. Che Tacito inoltre abbia voluto tal-

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volta penetrar troppo avanti nell'animo umano, e trovar-vi intenzioni e motivi che forse mai non vi furono, si co-nosce facilmente al leggerne con attenzione la Storia.Ma che per motivo di adulare gl'imperadori viventi ab-biano egli e Svetonio fatto un sì odioso carattere de' tra-passati, a chi mai potrà persuaderlo m. Linguet? Se talefosse stata la loro intenzione, avrebbon essi dovuto dis-simulare ciò che que' principi operaron degno di lode. Enondimeno ci dica m. Linguet donde abbia egli trattetutte le belle azioni ch'ei ci rammenta di essi, se non daquesti scrittori medesimi, cui egli taccia come impudenticalunniatori? Ma più ancora. Con quanti elogi parlaSvetonio di Augusto, di Vespasiano, di Tito? Perchèesaltarli tanto, s'ei temeva di oscurar le lodi di Traiano edi Adriano? Perchè descriverci in sì diversa maniera ilcarattere di questi imperadori? Perchè non dipinger an-cor essi in un aspetto somigliante a quel di Tiberio e diNerone? Ma la pubblica fama, si dirà forse, gli avrebbesmentiti. E non poteva ugualmente smentirli in ciò chenarran degli altri? Non v'eran molti che avean conosciutio gl'imperadori medesimi trapassati, o quegli almenoche con loro eran vissuti? Finalmente è egli possibileche tutti gli scrittori antichi (se se ne traggon quelli chescrissero a' tempi di quegl'imperadori medesimi, de' qua-li parlano Svetonio e Tacito, e che, come accade, vil-mente gli adularono) si siano accordati a darci la stessaidea de' detti principi? Che non ci sia rimasto alcun libroin cui se ne faccia un carattere diverso da quello che cene han lasciato i detti scrittori? Che non ci sia pur rima-

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volta penetrar troppo avanti nell'animo umano, e trovar-vi intenzioni e motivi che forse mai non vi furono, si co-nosce facilmente al leggerne con attenzione la Storia.Ma che per motivo di adulare gl'imperadori viventi ab-biano egli e Svetonio fatto un sì odioso carattere de' tra-passati, a chi mai potrà persuaderlo m. Linguet? Se talefosse stata la loro intenzione, avrebbon essi dovuto dis-simulare ciò che que' principi operaron degno di lode. Enondimeno ci dica m. Linguet donde abbia egli trattetutte le belle azioni ch'ei ci rammenta di essi, se non daquesti scrittori medesimi, cui egli taccia come impudenticalunniatori? Ma più ancora. Con quanti elogi parlaSvetonio di Augusto, di Vespasiano, di Tito? Perchèesaltarli tanto, s'ei temeva di oscurar le lodi di Traiano edi Adriano? Perchè descriverci in sì diversa maniera ilcarattere di questi imperadori? Perchè non dipinger an-cor essi in un aspetto somigliante a quel di Tiberio e diNerone? Ma la pubblica fama, si dirà forse, gli avrebbesmentiti. E non poteva ugualmente smentirli in ciò chenarran degli altri? Non v'eran molti che avean conosciutio gl'imperadori medesimi trapassati, o quegli almenoche con loro eran vissuti? Finalmente è egli possibileche tutti gli scrittori antichi (se se ne traggon quelli chescrissero a' tempi di quegl'imperadori medesimi, de' qua-li parlano Svetonio e Tacito, e che, come accade, vil-mente gli adularono) si siano accordati a darci la stessaidea de' detti principi? Che non ci sia rimasto alcun libroin cui se ne faccia un carattere diverso da quello che cene han lasciato i detti scrittori? Che non ci sia pur rima-

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sta memoria di alcuno che avesse preso a farne l'apolo-gia? È egli possibile che tutti i secoli, che tutte le nazio-ni si siano accordate e a riporre tra gli ottimi principi unTito, un Vespasiano, un Traiano, un Antonino, un MarcoAurelio, e a riporre tra' pessimi un Tiberio, un Caligola,un Claudio, un Nerone, un Domiziano: e che ciò nonostante dobbiam ora cambiar parere, e credere a m. Lin-guet che questi non furon poi così malvagi, come si èpensato finora? Quando egli ci produrrà qualche anticoscrittore che o uguagli, o superi l'autorità di Svetonio edi Tacito, noi gliene saremo tenuti, e crederem facilmen-te che possiamo essere stati fino a questo tempo in erro-re. Ma finchè egli non ci produce altri argomenti che letraduzioni ch'eI fa de' passi di questi due scrittori, e i ra-gionamenti ch'egli ci mette innanzi, ei ci permetta chenoi seguiamo a valerci di tali autori, e che crediamo aciò ch'essi ne narrano, secondo le leggi che abbiampoc'anzi stabilite.Il saggio che abbiam recato di questa storia delle Rivo-luzioni dell'impero romano basta, s'io non m'inganno, adarne una sufficiente idea, perchè non mi sia qui neces-sario il continuarne l'esame e la confutazione, e perchènel decorso di questo volume io non debba trattenermi aribattere le altre cose ch'egli oppone agli storici antichi.Prima però di abbandonare questo autore, mi par conve-niente il non lasciare senza qualche difesa un altro illu-stre scrittore italiano della medesima età, cioè Plinio ilgiovane a cui pure m. Linguet non teme di opporsi, e ciò

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sta memoria di alcuno che avesse preso a farne l'apolo-gia? È egli possibile che tutti i secoli, che tutte le nazio-ni si siano accordate e a riporre tra gli ottimi principi unTito, un Vespasiano, un Traiano, un Antonino, un MarcoAurelio, e a riporre tra' pessimi un Tiberio, un Caligola,un Claudio, un Nerone, un Domiziano: e che ciò nonostante dobbiam ora cambiar parere, e credere a m. Lin-guet che questi non furon poi così malvagi, come si èpensato finora? Quando egli ci produrrà qualche anticoscrittore che o uguagli, o superi l'autorità di Svetonio edi Tacito, noi gliene saremo tenuti, e crederem facilmen-te che possiamo essere stati fino a questo tempo in erro-re. Ma finchè egli non ci produce altri argomenti che letraduzioni ch'eI fa de' passi di questi due scrittori, e i ra-gionamenti ch'egli ci mette innanzi, ei ci permetta chenoi seguiamo a valerci di tali autori, e che crediamo aciò ch'essi ne narrano, secondo le leggi che abbiampoc'anzi stabilite.Il saggio che abbiam recato di questa storia delle Rivo-luzioni dell'impero romano basta, s'io non m'inganno, adarne una sufficiente idea, perchè non mi sia qui neces-sario il continuarne l'esame e la confutazione, e perchènel decorso di questo volume io non debba trattenermi aribattere le altre cose ch'egli oppone agli storici antichi.Prima però di abbandonare questo autore, mi par conve-niente il non lasciare senza qualche difesa un altro illu-stre scrittore italiano della medesima età, cioè Plinio ilgiovane a cui pure m. Linguet non teme di opporsi, e ciò

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ch'è più, in una cosa in cui Plinio non fu per poco testi-monio di veduta, dico dell'eruzion del Vesuvio, in cuimorì Plinio il vecchio. Lasciamo stare la poca stima concui egli a questo proposito parla de' ricercatori delle an-tichità d'Ercolano, che non fa al nostro argomento, eveggiam solo ciò ch'egli dice del racconto che il giovanePlinio ha fatto della morte di suo zio. “In quest'occasio-ne, dic'egli parlando del giovane (t. 2, p. 68, ec.) ei nonè stato nè più giudizioso nè più veridico di Dione. Perprovarlo mi restringerò a due osservazioni (e su questeosservazioni noi avremo a farne più assai di due). Pli-nio il vecchio, di lui zio perì allora per aver voluto os-servare il fenomeno di questo fuoco troppo da vicinoalla sorgente. Ei fu soffocato quasi appiedi della monta-gna, e morì certamente pel diluvio di cenere, ch'essalanciava, e che divenne fatale alle vicine città”. Ecco inpoche linee tre errori. È falso che Plinio volesse esami-nar troppo da vicino il fuoco del Vesuvio. È falso chePlinio morisse quasi a piedi della montagna. È falso chePlinio morisse sotto il diluvio di ceneri, che dal Vesuviopiovea. Egli mori a Castellamare di Stabie, come vedre-mo a suo luogo narrarsi dal giovane suo nipote, luogoch'è più di quattro miglia distante dalle falde del Vesu-vio, come vedesi nella diligentissima Carta delle Spiag-gie marittime intorno a Napoli premessa al primo tomodelle Antichità d'Ercolano. Egli erasi colà recato non persemplice curiosità, ma per recare soccorso all'amico suoPomponiano. Egli finalmente morì per soffocamento,mancandogli il respiro per le sulfuree esalazioni che fin

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ch'è più, in una cosa in cui Plinio non fu per poco testi-monio di veduta, dico dell'eruzion del Vesuvio, in cuimorì Plinio il vecchio. Lasciamo stare la poca stima concui egli a questo proposito parla de' ricercatori delle an-tichità d'Ercolano, che non fa al nostro argomento, eveggiam solo ciò ch'egli dice del racconto che il giovanePlinio ha fatto della morte di suo zio. “In quest'occasio-ne, dic'egli parlando del giovane (t. 2, p. 68, ec.) ei nonè stato nè più giudizioso nè più veridico di Dione. Perprovarlo mi restringerò a due osservazioni (e su questeosservazioni noi avremo a farne più assai di due). Pli-nio il vecchio, di lui zio perì allora per aver voluto os-servare il fenomeno di questo fuoco troppo da vicinoalla sorgente. Ei fu soffocato quasi appiedi della monta-gna, e morì certamente pel diluvio di cenere, ch'essalanciava, e che divenne fatale alle vicine città”. Ecco inpoche linee tre errori. È falso che Plinio volesse esami-nar troppo da vicino il fuoco del Vesuvio. È falso chePlinio morisse quasi a piedi della montagna. È falso chePlinio morisse sotto il diluvio di ceneri, che dal Vesuviopiovea. Egli mori a Castellamare di Stabie, come vedre-mo a suo luogo narrarsi dal giovane suo nipote, luogoch'è più di quattro miglia distante dalle falde del Vesu-vio, come vedesi nella diligentissima Carta delle Spiag-gie marittime intorno a Napoli premessa al primo tomodelle Antichità d'Ercolano. Egli erasi colà recato non persemplice curiosità, ma per recare soccorso all'amico suoPomponiano. Egli finalmente morì per soffocamento,mancandogli il respiro per le sulfuree esalazioni che fin

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a quel luogo stendevansi. Quindi prosiegue a riflettere ilnostro autore che le ceneri dovean essere assai alte, ovePlinio morì: il che è verissimo. Ma vediamo che ne infe-risca egli: “Esse dovean coprire il corpo di Plinio inmodo da non potersi più ritrovare. I suoi schiavi che sierano allontanati, dacchè il videro in istato di non poteressere soccorso, non potevano dare notizia alcuna delluogo in cui l'avean lasciato. E nondimeno il nipote pre-tende che il dì seguente alla morte di suo zio il corpo nefu ricercato e trovato senza fatica. Egli è difficile di cre-derglielo sulla sua parola”. Ma di grazia, ha egli letto m.Linguet, e se l'ha letto, ha egli inteso il racconto di Pli-nio il giovane? Non dice egli colle più chiare parole cheusar si possano, che suo zio morì fra le braccia di dueschiavi? Innitens servulis duobus assurrexit, et statimconcidit, ut ego colligo, crassiore caligine spiritu ob-structo (l. 6, ep. 16). Non potevan dunque gli schiavimedesimi mostrare il luogo in cui era morto? e perquanto fosse alta la cenere non potevan essi scoprirne ilcorpo? Che direm poi della fedelissima traduzione chefa il nostro autore, di altre parole di Plinio? Questi dice:Ubi dies redditus, si ab eo quem novissime viderat, ter-tius, corpus inventum. A me pare che anche un fanciullointenderebbe che queste parole voglion dire che il terzogiorno, dacchè Plinio era morto, ne fu trovato il cadave-re. Ma il nostro autore traduce leggiadramente: Il dì se-guente alla morte: dès le lendemain de sa mort. E questison dunque i censori, i disprezzatori, i derisori degli sto-rici antichi? Ma passiamo alla seconda osservazione cri-

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a quel luogo stendevansi. Quindi prosiegue a riflettere ilnostro autore che le ceneri dovean essere assai alte, ovePlinio morì: il che è verissimo. Ma vediamo che ne infe-risca egli: “Esse dovean coprire il corpo di Plinio inmodo da non potersi più ritrovare. I suoi schiavi che sierano allontanati, dacchè il videro in istato di non poteressere soccorso, non potevano dare notizia alcuna delluogo in cui l'avean lasciato. E nondimeno il nipote pre-tende che il dì seguente alla morte di suo zio il corpo nefu ricercato e trovato senza fatica. Egli è difficile di cre-derglielo sulla sua parola”. Ma di grazia, ha egli letto m.Linguet, e se l'ha letto, ha egli inteso il racconto di Pli-nio il giovane? Non dice egli colle più chiare parole cheusar si possano, che suo zio morì fra le braccia di dueschiavi? Innitens servulis duobus assurrexit, et statimconcidit, ut ego colligo, crassiore caligine spiritu ob-structo (l. 6, ep. 16). Non potevan dunque gli schiavimedesimi mostrare il luogo in cui era morto? e perquanto fosse alta la cenere non potevan essi scoprirne ilcorpo? Che direm poi della fedelissima traduzione chefa il nostro autore, di altre parole di Plinio? Questi dice:Ubi dies redditus, si ab eo quem novissime viderat, ter-tius, corpus inventum. A me pare che anche un fanciullointenderebbe che queste parole voglion dire che il terzogiorno, dacchè Plinio era morto, ne fu trovato il cadave-re. Ma il nostro autore traduce leggiadramente: Il dì se-guente alla morte: dès le lendemain de sa mort. E questison dunque i censori, i disprezzatori, i derisori degli sto-rici antichi? Ma passiamo alla seconda osservazione cri-

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tica del formidabile aristarco. “Inoltre, dic'egli, Plinio ilgiovane avrebbe dovuto insegnarci in qual maniera re-spirava egli e gli altri ch'erano in Miseno, in mezzo diuna pioggia di cenere così densa, che cambiava il giornoin una notte, simile a quella di una camera ben chiusa esenza luce, singolarmente essendo questa pioggia com-posta di cenere ardente, e lanciata con tale rapidità chesi stendeva fino a due, o trecento leghe”. Grande diffi-coltà a dir vero, e tratta da una nuova fisica osservazio-ne sinora ignota a' più valenti filosofi. La pioggia dun-que di cenere toglie il respiro? In primo luogo conver-rebbe vedere se fosse tale che il togliesse del tutto, osolo il rendesse più difficile e più grave. A Stabie gli al-tri rimaser vivi: Plinio solo morì, e ciò perchè egli aveanaturalmente affannoso il respiro, onde più facilmentepotè essere soffocato: spiritu obstructo, dice il nipote,clausoque stomaco, qui illi natura invalidus, angustus,et frequenter interaestuans erat. Ma senza ciò, io sobene che una veemente esalazion della terra, o un im-provviso e impetuoso diradamento dell'aria cagionato oda un fulmine che scoppj vicino, o da una veementefiamma che cinga alcuno, i l può condurre a pericolo dirimaner soffocato. Ma qui non vi era nè fulmin nè fiam-ma; poichè lo stesso Plinio dice: Et ignis quidem longiussubstitit (l. 6, ep. 20). Non vi era dunque che cenere lan-ciata da non breve distanza, qual è quella che separa ilVesuvio dal promontorio di Miseno, ove era il giovanePlinio, e cenere perciò, che dovea ancora nel lungoviaggio essersi raffreddata alquanto. Or dove ha mai tro-

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tica del formidabile aristarco. “Inoltre, dic'egli, Plinio ilgiovane avrebbe dovuto insegnarci in qual maniera re-spirava egli e gli altri ch'erano in Miseno, in mezzo diuna pioggia di cenere così densa, che cambiava il giornoin una notte, simile a quella di una camera ben chiusa esenza luce, singolarmente essendo questa pioggia com-posta di cenere ardente, e lanciata con tale rapidità chesi stendeva fino a due, o trecento leghe”. Grande diffi-coltà a dir vero, e tratta da una nuova fisica osservazio-ne sinora ignota a' più valenti filosofi. La pioggia dun-que di cenere toglie il respiro? In primo luogo conver-rebbe vedere se fosse tale che il togliesse del tutto, osolo il rendesse più difficile e più grave. A Stabie gli al-tri rimaser vivi: Plinio solo morì, e ciò perchè egli aveanaturalmente affannoso il respiro, onde più facilmentepotè essere soffocato: spiritu obstructo, dice il nipote,clausoque stomaco, qui illi natura invalidus, angustus,et frequenter interaestuans erat. Ma senza ciò, io sobene che una veemente esalazion della terra, o un im-provviso e impetuoso diradamento dell'aria cagionato oda un fulmine che scoppj vicino, o da una veementefiamma che cinga alcuno, i l può condurre a pericolo dirimaner soffocato. Ma qui non vi era nè fulmin nè fiam-ma; poichè lo stesso Plinio dice: Et ignis quidem longiussubstitit (l. 6, ep. 20). Non vi era dunque che cenere lan-ciata da non breve distanza, qual è quella che separa ilVesuvio dal promontorio di Miseno, ove era il giovanePlinio, e cenere perciò, che dovea ancora nel lungoviaggio essersi raffreddata alquanto. Or dove ha mai tro-

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vato m. Linguet che una pioggia, fosse ella pure di sassi,non che di cenere, possa per soffocamento uccidere al-cuno?Rimarrebbe ora a parlare del sig. di Voltaire, il quale,benchè soglia comunemente farsi guida agli altri, e aprirloro innanzi nuovi e non più usati sentieri, qui nondime-no non si sdegna di farsi seguace del sig. Linguet, e,benchè mai nol nomini, ripete però le medesime rifles-sioni (Questions sur l'Encycl. t . 7) che abbiam uditofarsi poc'anzi. Ma m. di Voltaire non è semplice copiato-re. Ei va più oltre; e parlando degl'imperadori seguenti,molti altri racconti improbabili ei ritrova in Tacito e inSvetonio, de' quali m. Linguet non erasi avveduto. Equal maraviglia? Uno scrittore che di Costantino e diCarlo Magno ha fatto i più crudeli tiranni di cui si facciamenzione nelle storie, dovea necessariamente esserel'apologista di Caligola e di Nerone. Dovrem noi entrarein lizza ancor con questo scrittore, e prenderci la noje-vole briga di confutarne ciaschedun passo? Io temerei diannojar troppo i lettori che forse son sazj abbastanza dicotai discussioni. Mi basti dunque il fare una sola rifles-sione. M. di Voltaire dice che non son probabili gli ec-cessi di crudeltà e di laidezza, che i due mentovati scrit-tori ci narrano degl'imperadori; perchè non è probabileche un uomo giunga a sì mostruosa nequizia. Or io dicoche a tutt'altri ciò può sembrar improbabile, che a m. diVoltaire. Se io raccogliessi tutte in un fascio, e ponessisott'occhio tutte insieme raccolte le immagini, le dipin-

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vato m. Linguet che una pioggia, fosse ella pure di sassi,non che di cenere, possa per soffocamento uccidere al-cuno?Rimarrebbe ora a parlare del sig. di Voltaire, il quale,benchè soglia comunemente farsi guida agli altri, e aprirloro innanzi nuovi e non più usati sentieri, qui nondime-no non si sdegna di farsi seguace del sig. Linguet, e,benchè mai nol nomini, ripete però le medesime rifles-sioni (Questions sur l'Encycl. t . 7) che abbiam uditofarsi poc'anzi. Ma m. di Voltaire non è semplice copiato-re. Ei va più oltre; e parlando degl'imperadori seguenti,molti altri racconti improbabili ei ritrova in Tacito e inSvetonio, de' quali m. Linguet non erasi avveduto. Equal maraviglia? Uno scrittore che di Costantino e diCarlo Magno ha fatto i più crudeli tiranni di cui si facciamenzione nelle storie, dovea necessariamente esserel'apologista di Caligola e di Nerone. Dovrem noi entrarein lizza ancor con questo scrittore, e prenderci la noje-vole briga di confutarne ciaschedun passo? Io temerei diannojar troppo i lettori che forse son sazj abbastanza dicotai discussioni. Mi basti dunque il fare una sola rifles-sione. M. di Voltaire dice che non son probabili gli ec-cessi di crudeltà e di laidezza, che i due mentovati scrit-tori ci narrano degl'imperadori; perchè non è probabileche un uomo giunga a sì mostruosa nequizia. Or io dicoche a tutt'altri ciò può sembrar improbabile, che a m. diVoltaire. Se io raccogliessi tutte in un fascio, e ponessisott'occhio tutte insieme raccolte le immagini, le dipin-

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ture, l'espressioni di cui egli ha sparsi, singolarmente inquesti ultimi anni, certi suoi libri dei quali egli stesso ar-rossisce, ma non può negare, di essere autore, e che nonsi leggono senza raccapriccio da chi non ha perdutoogni sentimento di onestà, di pudore e di religione, e separlando ad alcuno che non conoscesse abbastanza m. diVoltaire, gli dicesse: un uomo che pur non vuol essercreduto nè ateo nè libertino, un uomo che vantasi diavere in pregio il buon nome, m. di Voltaire in sommaha scritte tai cose; io credo certo ch'egli non mi crede-rebbe, se col fatto stesso non lo convincessi: tanto sem-bra improbabile che un uomo possa esser giunto a talieccessi scrivendo. Egli dunque, benchè nostro malgra-do, ci obbliga a crederlo; e ci fa conoscere con troppofunesta sperienza sin dove possa giugnere un uomo chescuota ogni freno. Ed egli vorrà poi persuaderci che sia-no improbabili i racconti che delle sozzure di Tiberio, diCaligola, di Nerone ne fanno Tacito e Svetonio, e chel'uomo non possa arrivare ad impudenza sì grande? A talcausa ei non è opportuno oratore.Io debbo per ultimo pregar chi legge di un cortese per-dono, se alquanto a lungo mi son su ciò trattenuto; e seho oltrepassato per avventura i termini di quella mode-razione che mi son prefisso di usare nel confutare gli al-trui sentimenti. Io venero gli uomini dotti, e ancorchè liveda cadere in qualche fallo, mi tengo lungi dall'insul-tarli, ricordando a me stesso ch'io forse inciamperò an-cor più sovente. Ma mi sembra che cotai riguardi non

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ture, l'espressioni di cui egli ha sparsi, singolarmente inquesti ultimi anni, certi suoi libri dei quali egli stesso ar-rossisce, ma non può negare, di essere autore, e che nonsi leggono senza raccapriccio da chi non ha perdutoogni sentimento di onestà, di pudore e di religione, e separlando ad alcuno che non conoscesse abbastanza m. diVoltaire, gli dicesse: un uomo che pur non vuol essercreduto nè ateo nè libertino, un uomo che vantasi diavere in pregio il buon nome, m. di Voltaire in sommaha scritte tai cose; io credo certo ch'egli non mi crede-rebbe, se col fatto stesso non lo convincessi: tanto sem-bra improbabile che un uomo possa esser giunto a talieccessi scrivendo. Egli dunque, benchè nostro malgra-do, ci obbliga a crederlo; e ci fa conoscere con troppofunesta sperienza sin dove possa giugnere un uomo chescuota ogni freno. Ed egli vorrà poi persuaderci che sia-no improbabili i racconti che delle sozzure di Tiberio, diCaligola, di Nerone ne fanno Tacito e Svetonio, e chel'uomo non possa arrivare ad impudenza sì grande? A talcausa ei non è opportuno oratore.Io debbo per ultimo pregar chi legge di un cortese per-dono, se alquanto a lungo mi son su ciò trattenuto; e seho oltrepassato per avventura i termini di quella mode-razione che mi son prefisso di usare nel confutare gli al-trui sentimenti. Io venero gli uomini dotti, e ancorchè liveda cadere in qualche fallo, mi tengo lungi dall'insul-tarli, ricordando a me stesso ch'io forse inciamperò an-cor più sovente. Ma mi sembra che cotai riguardi non

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debbansi ad alcuni che affidati a una certa loro manieradi scrivere autorevole e decisiva si fanno giudici degliantichi scrittori, de' quali forse non intendono nemmenla lingua, e pretendono che in ciò ch'è fatto storico, sidebba più fede ad essi, che non a quelli che vissero a'tempi de' quali scrivevano, o non molto dopo; e chequand'essi decidono, non si debba fare alcun contodell'universale consentimento delle nazioni, e de' secoli.Per ciò che appartiene all'argomento di questo Tomo, eal metodo che in trattarlo ho tenuto, non mi fa bisognodi gran parole. Io conduco la Storia sino alla cadutadell'impero occidentale, e vengo esaminando le diversevicende che nello spazio di cinque non interi secoli sof-frirono in Italia le arti e le scienze. Il primo secolo citratterrà lungamente; perciocchè, comunque in esso laletteratura italiana incominciasse a volgere verso la suarovina, vi ebbe nondimeno gran numero d'uomini di sin-golare ingegno, e coltivatori indefessi de' buoni studj, iquali avrebbon potuto gareggiare co' lor maggiori, senon si fosser distolti dal diritto cammino che quelliavean loro segnato. Più in breve ci spediremo da' secolisusseguenti, ne' quali vedesi sparso nella letteratura ita-liana un certo languore che per poco non si comunicaancora a chi ne scrive la Storia. Del rimanente l'ordine eil metodo è lo stesso che nel primo Tomo, se non che lediverse circostanze de' tempi di cui scriviamo ci hannoconsigliato qualche legger cambiamento, come ognunopotrà vedere per se medesimo. Ma innanzi di venire alla

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debbansi ad alcuni che affidati a una certa loro manieradi scrivere autorevole e decisiva si fanno giudici degliantichi scrittori, de' quali forse non intendono nemmenla lingua, e pretendono che in ciò ch'è fatto storico, sidebba più fede ad essi, che non a quelli che vissero a'tempi de' quali scrivevano, o non molto dopo; e chequand'essi decidono, non si debba fare alcun contodell'universale consentimento delle nazioni, e de' secoli.Per ciò che appartiene all'argomento di questo Tomo, eal metodo che in trattarlo ho tenuto, non mi fa bisognodi gran parole. Io conduco la Storia sino alla cadutadell'impero occidentale, e vengo esaminando le diversevicende che nello spazio di cinque non interi secoli sof-frirono in Italia le arti e le scienze. Il primo secolo citratterrà lungamente; perciocchè, comunque in esso laletteratura italiana incominciasse a volgere verso la suarovina, vi ebbe nondimeno gran numero d'uomini di sin-golare ingegno, e coltivatori indefessi de' buoni studj, iquali avrebbon potuto gareggiare co' lor maggiori, senon si fosser distolti dal diritto cammino che quelliavean loro segnato. Più in breve ci spediremo da' secolisusseguenti, ne' quali vedesi sparso nella letteratura ita-liana un certo languore che per poco non si comunicaancora a chi ne scrive la Storia. Del rimanente l'ordine eil metodo è lo stesso che nel primo Tomo, se non che lediverse circostanze de' tempi di cui scriviamo ci hannoconsigliato qualche legger cambiamento, come ognunopotrà vedere per se medesimo. Ma innanzi di venire alla

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Storia, ci è sembrato opportuno il premettere una Dis-sertazione sulle cagioni a cui deesi attribuire la decaden-za della letteratura, per rischiararne una assai oscura edifficil quistione, e per aprirci la via a meglio intendereciò che dovrem venire narrando nel seguito della Storia.

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Storia, ci è sembrato opportuno il premettere una Dis-sertazione sulle cagioni a cui deesi attribuire la decaden-za della letteratura, per rischiararne una assai oscura edifficil quistione, e per aprirci la via a meglio intendereciò che dovrem venire narrando nel seguito della Storia.

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DISSERTAZIONE PRELIMINARE

Sull'origine del decadimento delle Scienze.

La decadenza della romana letteratura, chedebbe essere il principale argomento di que-sto Volume, è un punto troppo interessante,

perchè io debba contentarmi di riferirne semplicementei successi, senza esaminarne l'origine e le cagioni. Neldecorso di questa Storia dovrem più volte vedere somi-glianti vicende; cioè le lettere, or più, or meno coltivate,or tutta l'Italia, per così dire, rivolta ardentemente aglistudj, ora quasi interamente sepolta in una vergognosaignoranza. Vedremo ancora in una età un genere discienza aver sopra gli altri stima ed applauso; un altroantiporsi a tutti in un'altra; diversi gusti in somma e di-versa maniera di pensare in circostanze diverse. Egli èdunque necessario l'investigar qui sulle prime, onde so-glian muovere tai cambiamenti; acciocchè fissate in cer-to modo le leggi di queste rivoluzioni della letteratura,possiamo intenderne meglio gli effetti, e vedere comeessi siano insieme concatenati e congiunti. Molto damolti si è scritto su questo argomento; e nondimeno visarà forse a cui sembri ch'esso non sia stato rischiaratoabbastanza. Io certo non ho ancor letto scrittore che par-lando della decadenza degli studj tali ragioni ne arrechiche corrispondano pienamente agli effetti. Mi sia dun-

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Stato dellaquestione.

DISSERTAZIONE PRELIMINARE

Sull'origine del decadimento delle Scienze.

La decadenza della romana letteratura, chedebbe essere il principale argomento di que-sto Volume, è un punto troppo interessante,

perchè io debba contentarmi di riferirne semplicementei successi, senza esaminarne l'origine e le cagioni. Neldecorso di questa Storia dovrem più volte vedere somi-glianti vicende; cioè le lettere, or più, or meno coltivate,or tutta l'Italia, per così dire, rivolta ardentemente aglistudj, ora quasi interamente sepolta in una vergognosaignoranza. Vedremo ancora in una età un genere discienza aver sopra gli altri stima ed applauso; un altroantiporsi a tutti in un'altra; diversi gusti in somma e di-versa maniera di pensare in circostanze diverse. Egli èdunque necessario l'investigar qui sulle prime, onde so-glian muovere tai cambiamenti; acciocchè fissate in cer-to modo le leggi di queste rivoluzioni della letteratura,possiamo intenderne meglio gli effetti, e vedere comeessi siano insieme concatenati e congiunti. Molto damolti si è scritto su questo argomento; e nondimeno visarà forse a cui sembri ch'esso non sia stato rischiaratoabbastanza. Io certo non ho ancor letto scrittore che par-lando della decadenza degli studj tali ragioni ne arrechiche corrispondano pienamente agli effetti. Mi sia dun-

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Stato dellaquestione.

que lecito l'esaminare le altrui opinioni, e il proporre lemie; non perchè io mi reputi valevole a scoprire ciò chealtri non hanno ancora scoperto, ma perchè spesso av-viene che coll'osservare le vie tenute dagli altri per giu-gnere a un termine, a cui essi non poterono pervenire, siarrivi finalmente a segnarne il sicuro sentiero.

I. E primieramente la munificenza de' prin-cipi, e gli onori e i premj proposti a' colti-vatori delle arti e delle scienze, si reca co-munemente per una delle principali ragionidel fiorir degli studj, la quale al contrariose venga meno, necessario è ancora che glistudj languiscano, e a poco a poco cadanoin una total decadenza. E certo non può ne-

garsi che da' principi dipenda in gran parte la sorte dellaletteratura. Augusto ne' tempi più addietro, i Medici egli Estensi in Italia, Francesco I e Luigi XIV in Franciane' più recenti, ne sono una chiara riprova. Gli uomini siportano naturalmente a ciò che veggono dover loro riu-scire onorevole e vantaggioso, e in un governo monar-chico singolarmente, in cui ogni cosa dipenda dal volerdel sovrano, se questi mostri di avere in pregio, e di ac-cordar favore e mercede a' poeti, a' filosofi, agli oratori,si vedrà presto il regno pieno di oratori, di filosofi, dipoeti. Ma potrem noi dire che questo basti o a far fioriregli studj, o ad impedirne la decadenza? Riflettiamo piùattentamente, e vedremo che, benchè sembri non esservi

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La munifi-cenza dei principi non basta a ren-der fiorente lo stato della letteratura.

que lecito l'esaminare le altrui opinioni, e il proporre lemie; non perchè io mi reputi valevole a scoprire ciò chealtri non hanno ancora scoperto, ma perchè spesso av-viene che coll'osservare le vie tenute dagli altri per giu-gnere a un termine, a cui essi non poterono pervenire, siarrivi finalmente a segnarne il sicuro sentiero.

I. E primieramente la munificenza de' prin-cipi, e gli onori e i premj proposti a' colti-vatori delle arti e delle scienze, si reca co-munemente per una delle principali ragionidel fiorir degli studj, la quale al contrariose venga meno, necessario è ancora che glistudj languiscano, e a poco a poco cadanoin una total decadenza. E certo non può ne-

garsi che da' principi dipenda in gran parte la sorte dellaletteratura. Augusto ne' tempi più addietro, i Medici egli Estensi in Italia, Francesco I e Luigi XIV in Franciane' più recenti, ne sono una chiara riprova. Gli uomini siportano naturalmente a ciò che veggono dover loro riu-scire onorevole e vantaggioso, e in un governo monar-chico singolarmente, in cui ogni cosa dipenda dal volerdel sovrano, se questi mostri di avere in pregio, e di ac-cordar favore e mercede a' poeti, a' filosofi, agli oratori,si vedrà presto il regno pieno di oratori, di filosofi, dipoeti. Ma potrem noi dire che questo basti o a far fioriregli studj, o ad impedirne la decadenza? Riflettiamo piùattentamente, e vedremo che, benchè sembri non esservi

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La munifi-cenza dei principi non basta a ren-der fiorente lo stato della letteratura.

motivo più efficace di questo, troppo è lungi cionnono-stante dal potersi arrecare per unica, o principal cagionedel fiorire, o del decadere della letteratura. Antonio eMarco Aurelio non furono meno splendidi di Augustonell'onorare gli uomini dotti; e lo superarono ancora inciò che appartiene all'avere in gran pregio i filosofi. Enondimeno qual differenza fra il secolo di Augusto equel di Antonino e di Aurelio! In questo noi troviambene molti filosofi greci dimoranti in Roma; ma tra' Ro-mani troviamo assai pochi che coltivasser gli studj; eque' medesimi che li coltivarono, e di cui ci sono rima-ste le opere, possono essi paragonarsi cogli scrittori delsecolo d'Augusto? Qual protezione accordarono alle let-tere Tiberio, Caligola, Nerone, Domiziano? uomini chesembrarono saliti sul trono a distruzione della umanità.E nondimeno quanti scrittori fiorirono a' loro tempi, in-feriori certo in eleganza di scrivere a que' dei tempi diAugusto, ma migliori assai di que' che vennero dopo! Ionon penso certo che Francesco I cedesse in nulla a LugiXIV nel proteggere e fomentare gli studj. Ma vorransiperciò mettere a confronto Rabelais, le Caron, Ronsard,Marot, con Cornelio, Racine, Boileau, Fontenelle, Bos-suet, Bourdaloue, Fenelon, Rousseau? La munificenzade' principi può dunque giovar certamente, ma non puòbastare perchè lo stato della letteratura sia generalmentelieto e felice.

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motivo più efficace di questo, troppo è lungi cionnono-stante dal potersi arrecare per unica, o principal cagionedel fiorire, o del decadere della letteratura. Antonio eMarco Aurelio non furono meno splendidi di Augustonell'onorare gli uomini dotti; e lo superarono ancora inciò che appartiene all'avere in gran pregio i filosofi. Enondimeno qual differenza fra il secolo di Augusto equel di Antonino e di Aurelio! In questo noi troviambene molti filosofi greci dimoranti in Roma; ma tra' Ro-mani troviamo assai pochi che coltivasser gli studj; eque' medesimi che li coltivarono, e di cui ci sono rima-ste le opere, possono essi paragonarsi cogli scrittori delsecolo d'Augusto? Qual protezione accordarono alle let-tere Tiberio, Caligola, Nerone, Domiziano? uomini chesembrarono saliti sul trono a distruzione della umanità.E nondimeno quanti scrittori fiorirono a' loro tempi, in-feriori certo in eleganza di scrivere a que' dei tempi diAugusto, ma migliori assai di que' che vennero dopo! Ionon penso certo che Francesco I cedesse in nulla a LugiXIV nel proteggere e fomentare gli studj. Ma vorransiperciò mettere a confronto Rabelais, le Caron, Ronsard,Marot, con Cornelio, Racine, Boileau, Fontenelle, Bos-suet, Bourdaloue, Fenelon, Rousseau? La munificenzade' principi può dunque giovar certamente, ma non puòbastare perchè lo stato della letteratura sia generalmentelieto e felice.

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II. L'indole e la natura del governo si vuoleda altri che molto influisca sullo stato dellescienze e delle arti. In un governo tirannicoe crudele, dicono essi, in cui i sudditi deb-bano continuamente temere o insidie, o vio-lenze, come è possibile che coltivar si pos-san gli studj che richiedono animo tranquil-

lo e lieto? Al contrario in un governo dolce e soave incui la saggia provvidenza del principe, o la concordiade' magistrati assicuri la felicità dello stato e la tranquil-lità e la pace de' cittadini, si volge volentieri il pensieroa' begli studj che si possono agiatamente e con onor col-tivare. E a questo comunemente si attribuisce la deca-denza degli studj dopo il regno di Augusto. Poteva eglisperarsi che mentre ogni cosa in Roma era piena di ti-mori e sospetti, mentre una parola pronunciata, o scrittamen cautamente bastava a render uno reo di morte,mentre in somma l'invidia, la prepotenza, la crudeltà eraarbitra de' beni e della vita de' cittadini, si attendesseagli studj? Nè può negarsi che uno Stato felice e tran-quillo sia a ciò più opportuno di assai, che non uno Statotorbido, sedizioso, e sconvolto. Ma i fatti qui ancora cimostrano che non può questa recarsi per principal ragio-ne del diverso stato della letteratura. Egli è certo che ilregno de' primi Cesari che immediatamente succederonoad Augusto, fu più crudele assai di quello di molti de'lor successori; alcuni de' quali furono esempio di sovra-na clemenza, e si mostrarono veri padri della patria e delpopolo. E ciò non ostante le scienze assai minor tracollo

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L'indole delgoverno non può es-ser sola ca-gione delle vicende della lette-ratura.

II. L'indole e la natura del governo si vuoleda altri che molto influisca sullo stato dellescienze e delle arti. In un governo tirannicoe crudele, dicono essi, in cui i sudditi deb-bano continuamente temere o insidie, o vio-lenze, come è possibile che coltivar si pos-san gli studj che richiedono animo tranquil-

lo e lieto? Al contrario in un governo dolce e soave incui la saggia provvidenza del principe, o la concordiade' magistrati assicuri la felicità dello stato e la tranquil-lità e la pace de' cittadini, si volge volentieri il pensieroa' begli studj che si possono agiatamente e con onor col-tivare. E a questo comunemente si attribuisce la deca-denza degli studj dopo il regno di Augusto. Poteva eglisperarsi che mentre ogni cosa in Roma era piena di ti-mori e sospetti, mentre una parola pronunciata, o scrittamen cautamente bastava a render uno reo di morte,mentre in somma l'invidia, la prepotenza, la crudeltà eraarbitra de' beni e della vita de' cittadini, si attendesseagli studj? Nè può negarsi che uno Stato felice e tran-quillo sia a ciò più opportuno di assai, che non uno Statotorbido, sedizioso, e sconvolto. Ma i fatti qui ancora cimostrano che non può questa recarsi per principal ragio-ne del diverso stato della letteratura. Egli è certo che ilregno de' primi Cesari che immediatamente succederonoad Augusto, fu più crudele assai di quello di molti de'lor successori; alcuni de' quali furono esempio di sovra-na clemenza, e si mostrarono veri padri della patria e delpopolo. E ciò non ostante le scienze assai minor tracollo

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L'indole delgoverno non può es-ser sola ca-gione delle vicende della lette-ratura.

soffersero sotto i primi, che sotto i secondi. La nostraItalia fu certamente assai più tranquilla e felice nel seco-lo scorso, che al fine del secolo XV e 'l principio delXVI: eppure qual diversità a questi due tempi nello statodell'italiana letteratura! Quanti altri regni e quante re-pubbliche potrei io qui nominare che mentre ancor go-devano della più dolce tranquillità, pure a tutt'altro han-no pensato che a far fiorire le scienze! Non basta dun-que la felicità dello stato perchè fioriscan le scienze: equeste son talvolta fiorite anche in uno stato agitato esconvolto; ed altre ragioni convien perciò ricercare diquesta rivoluzione.

III. L'invasione de' popoli barbari che pertanto tempo desolaron l'Italia e quasi tuttal'Europa, si suole ancora arrecare per ragio-ne del decadimento delle scienze. E certovi dovett'essa concorrer molto. Uominirozzi, e che in niun pregio avean le lettere

di cui per fino ignoravano il nome, come potevan essifomentare gli studj? E nondimeno invano si recherebbequesta a bastevole prova. Noi vedremo che anche a que'tempi vi furon uomini che coltivarono studiosamente lescienze, benchè i loro scritti siano guasti da una insoffe-ribil rozzezza. E senza ciò, l'Italia nel secolo XVI aveacondotte le arti e le lettere a gran perfezione. Nel secoloseguente decadder di nuovo in gran parte. E quai popolifuron mai quelli che allor l'invasero?

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Nè la deca-denza di essasi può attri-buir solo all'invasione dei Barbari.

soffersero sotto i primi, che sotto i secondi. La nostraItalia fu certamente assai più tranquilla e felice nel seco-lo scorso, che al fine del secolo XV e 'l principio delXVI: eppure qual diversità a questi due tempi nello statodell'italiana letteratura! Quanti altri regni e quante re-pubbliche potrei io qui nominare che mentre ancor go-devano della più dolce tranquillità, pure a tutt'altro han-no pensato che a far fiorire le scienze! Non basta dun-que la felicità dello stato perchè fioriscan le scienze: equeste son talvolta fiorite anche in uno stato agitato esconvolto; ed altre ragioni convien perciò ricercare diquesta rivoluzione.

III. L'invasione de' popoli barbari che pertanto tempo desolaron l'Italia e quasi tuttal'Europa, si suole ancora arrecare per ragio-ne del decadimento delle scienze. E certovi dovett'essa concorrer molto. Uominirozzi, e che in niun pregio avean le lettere

di cui per fino ignoravano il nome, come potevan essifomentare gli studj? E nondimeno invano si recherebbequesta a bastevole prova. Noi vedremo che anche a que'tempi vi furon uomini che coltivarono studiosamente lescienze, benchè i loro scritti siano guasti da una insoffe-ribil rozzezza. E senza ciò, l'Italia nel secolo XVI aveacondotte le arti e le lettere a gran perfezione. Nel secoloseguente decadder di nuovo in gran parte. E quai popolifuron mai quelli che allor l'invasero?

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Nè la deca-denza di essasi può attri-buir solo all'invasione dei Barbari.

IV. Molto ancora, influisce a condurre aldicadimento le scienze il libertinaggio e ladissolutezza de' costumi, non perchè nonpossa uno esser al tempo medesimo uom

guasto e colto: troppi esempj ce ne somministra la storiaantica non meno che la moderna; ma perchè in uno sta-to, o in una città in cui il vizio signoreggi liberamente, egli uomini non abbiano per lo più altro pensiero che disecondare le ree loro inclinazioni, egli è difficile che sicoltivin generalmente le scienze, quelle singolarmenteche son più gravi e seriose. E questa è appunto la ragio-ne che del misero stato in cui eran le scienze a' suoi tem-pi, arreca il famoso Longino nel suo trattato del Sublime(cap. 35). "Il desiderio delle ricchezze, egli dice, da cuinoi siamo all'eccesso compresi, e l'amor del piacere, sonquelli che veramente ci rendono schiavi, e per megliodire ci trascinano al precipizio in cui tutti i nostri talentisono come sepolti". Ma se porremo a diligente confron-to la storia della letteratura colla storia de' costumi, noitroverem certo che in una uguale costumatezza, o in unaugual corruttela diverso è stato il coltivamento degli stu-dj. Egli è certo che il libertinaggio non fu mai forse por-tato a più sfacciata impudenza, che al regno di Tiberio,di Caligola, e di Nerone; quando ognuno riputava lecitoe, direi quasi, glorioso seguire gli esempj che que' bruta-li uomini lor davano pubblicamente; e nondimeno, comesi è detto di sopra, furono a' que' tempi le lettere più col-tivate che sotto altri più severi e più costumati impera-dori che venner dopo. Direm noi forse che gl'Italiani

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Nè al pubbli-co libertinag-gio.

IV. Molto ancora, influisce a condurre aldicadimento le scienze il libertinaggio e ladissolutezza de' costumi, non perchè nonpossa uno esser al tempo medesimo uom

guasto e colto: troppi esempj ce ne somministra la storiaantica non meno che la moderna; ma perchè in uno sta-to, o in una città in cui il vizio signoreggi liberamente, egli uomini non abbiano per lo più altro pensiero che disecondare le ree loro inclinazioni, egli è difficile che sicoltivin generalmente le scienze, quelle singolarmenteche son più gravi e seriose. E questa è appunto la ragio-ne che del misero stato in cui eran le scienze a' suoi tem-pi, arreca il famoso Longino nel suo trattato del Sublime(cap. 35). "Il desiderio delle ricchezze, egli dice, da cuinoi siamo all'eccesso compresi, e l'amor del piacere, sonquelli che veramente ci rendono schiavi, e per megliodire ci trascinano al precipizio in cui tutti i nostri talentisono come sepolti". Ma se porremo a diligente confron-to la storia della letteratura colla storia de' costumi, noitroverem certo che in una uguale costumatezza, o in unaugual corruttela diverso è stato il coltivamento degli stu-dj. Egli è certo che il libertinaggio non fu mai forse por-tato a più sfacciata impudenza, che al regno di Tiberio,di Caligola, e di Nerone; quando ognuno riputava lecitoe, direi quasi, glorioso seguire gli esempj che que' bruta-li uomini lor davano pubblicamente; e nondimeno, comesi è detto di sopra, furono a' que' tempi le lettere più col-tivate che sotto altri più severi e più costumati impera-dori che venner dopo. Direm noi forse che gl'Italiani

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Nè al pubbli-co libertinag-gio.

fossero più scostumati nel decimosettimo che nel deci-mosesto secolo, o che ora siano più costumati che nelsecolo scorso? E nondimeno può egli lo scorso secoloessere in letteratura paragonato al decimosesto secolo, oal presente? Innoltre quanti uomini vi sono stati nè tem-pi che diciam barbari, ch'eran certo di costumi incorrottie santissimi e amantissimi dello studio; e nondimenohanno usato di uno stil rozzo ed incolto!

V. Or poichè ciascheduna di queste ragioninon par bastante a cagionare il decadimentodelle scienze, si è da alcuni pensato chel'unione di tutte insieme, o di alcune almenotra esse dovesse dirsene la vera origine.Così ha pensato singolarmente m. Racine ilfiglio, che in una sua dissertazione di cui siha l'estratto nella Storia dell'Accademia del-

le iscrizioni (t. 8, p. 324), dopo aver mostrato, come noipure abbiam fatto finora, che ciascheduna delle arrecateragioni non son bastevoli a spiegare questo effetto, pen-sa che l'unione di molte favorevoli circostanze, le qualirecano la gioia e la pubblica tranquillità, quali sono lapace dello Stato, la felicità dei successi, la dolcezza delgoverno, congiunta alla liberalità de' principi, ed altresomiglianti, debba riconoscersi per cagione del fiorir de-gli studj, ed all'incontro alla mancanza di essa si debbaascrivere il loro decadimento. Egli è certo che l'unionedi tai motivi debbe avere più forza, che non ciascheduno

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Neppur tut-te queste ragioni in-sieme con-giunte ba-stano a for-marne la vera origi-ne.

fossero più scostumati nel decimosettimo che nel deci-mosesto secolo, o che ora siano più costumati che nelsecolo scorso? E nondimeno può egli lo scorso secoloessere in letteratura paragonato al decimosesto secolo, oal presente? Innoltre quanti uomini vi sono stati nè tem-pi che diciam barbari, ch'eran certo di costumi incorrottie santissimi e amantissimi dello studio; e nondimenohanno usato di uno stil rozzo ed incolto!

V. Or poichè ciascheduna di queste ragioninon par bastante a cagionare il decadimentodelle scienze, si è da alcuni pensato chel'unione di tutte insieme, o di alcune almenotra esse dovesse dirsene la vera origine.Così ha pensato singolarmente m. Racine ilfiglio, che in una sua dissertazione di cui siha l'estratto nella Storia dell'Accademia del-

le iscrizioni (t. 8, p. 324), dopo aver mostrato, come noipure abbiam fatto finora, che ciascheduna delle arrecateragioni non son bastevoli a spiegare questo effetto, pen-sa che l'unione di molte favorevoli circostanze, le qualirecano la gioia e la pubblica tranquillità, quali sono lapace dello Stato, la felicità dei successi, la dolcezza delgoverno, congiunta alla liberalità de' principi, ed altresomiglianti, debba riconoscersi per cagione del fiorir de-gli studj, ed all'incontro alla mancanza di essa si debbaascrivere il loro decadimento. Egli è certo che l'unionedi tai motivi debbe avere più forza, che non ciascheduno

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Neppur tut-te queste ragioni in-sieme con-giunte ba-stano a for-marne la vera origi-ne.

di essi per se medesimo. E nondimeno io penso che nonpossa questo ancora bastare al nostro intento. Ne' regnidi Antonino e di M. Aurelio queste circostanze si trova-rono assai più unite che non a' tempi de' primi successo-ri d'Augusto; eppure, come si è detto, in questi più chein quelli furon coltivate le scienze. Trovaronsi esse purefelicemente riunite a' tempi di Carlo Magno, il quale usòdi ogni arte per far risorgere gli studj. Ma ottenne egliperciò l'effetto desiderato?

VI. Prosiegue poi lo stesso autore aggiu-gnendo che più d'ogni cosa conduce allarovina degli studj il cattivo gusto, l'amoredelle acutezze, e l'affettazion dello stile; eper recarne un esempio, il prende dalla

storia della letteratura italiana, ma ha egli pur la sventu-ra comune a molti oltramontani che appena si accingonoscrivendo a porre il piede in Italia, che inciampano mi-seramente; perciocchè dice che il Tasso fu il primo amettere tra gl'Italiani alla moda il cattivo gusto, e ched'allora in poi i gran genj sono scomparsi in Italia. Malasciam in disparte quest'autorevole detto, che non è diquesto luogo il trattarne; e riflettiam solo sulla nuova ra-gione che il Racine adduce della decadenza degli studj,cioè il cattivo gusto, ec. Certo ove il gusto è cattivo nonposson fiorire le belle arti; ma parmi che ciò sia lo stes-so che dire che non son valenti pittori, ove non possonoesservi pregevoli dipinture; perciocchè rimane ancora a

46

Il ripeterla dal cattivo gusto dominante non è sciogliere la questione.

di essi per se medesimo. E nondimeno io penso che nonpossa questo ancora bastare al nostro intento. Ne' regnidi Antonino e di M. Aurelio queste circostanze si trova-rono assai più unite che non a' tempi de' primi successo-ri d'Augusto; eppure, come si è detto, in questi più chein quelli furon coltivate le scienze. Trovaronsi esse purefelicemente riunite a' tempi di Carlo Magno, il quale usòdi ogni arte per far risorgere gli studj. Ma ottenne egliperciò l'effetto desiderato?

VI. Prosiegue poi lo stesso autore aggiu-gnendo che più d'ogni cosa conduce allarovina degli studj il cattivo gusto, l'amoredelle acutezze, e l'affettazion dello stile; eper recarne un esempio, il prende dalla

storia della letteratura italiana, ma ha egli pur la sventu-ra comune a molti oltramontani che appena si accingonoscrivendo a porre il piede in Italia, che inciampano mi-seramente; perciocchè dice che il Tasso fu il primo amettere tra gl'Italiani alla moda il cattivo gusto, e ched'allora in poi i gran genj sono scomparsi in Italia. Malasciam in disparte quest'autorevole detto, che non è diquesto luogo il trattarne; e riflettiam solo sulla nuova ra-gione che il Racine adduce della decadenza degli studj,cioè il cattivo gusto, ec. Certo ove il gusto è cattivo nonposson fiorire le belle arti; ma parmi che ciò sia lo stes-so che dire che non son valenti pittori, ove non possonoesservi pregevoli dipinture; perciocchè rimane ancora a

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Il ripeterla dal cattivo gusto dominante non è sciogliere la questione.

cercare per qual ragione il cattivo gusto prevalga al buo-no, e la viziosa alla sincera eloquenza.

VII. Le riflessioni che finora abbiam fatto amostrare l'insufficienza di tutte queste causemorali a produrre il decadimento, di cuitrattiamo, ci potrebber per avventura con-durre a ricevere come verisimile il senti-mento del celebre ab. du Bos, il quale dopo

aver confessato che le dette cause morali possono inqualche parte influir sulle scienze, osserva (Reflex. Surla Poésie, et sur la Peinture t. 2, sect. 12, ec.) che cion-nonostante esse non bastano a spiegar le diverse vicendeche in esse veggiamo. Quindi volendo pure ritrovar laragione di tai cambiamenti, propone modestamente unsuo pensiero, che le cause fisiche ancora vi possano averparte, quali sono le diversità del clima, la diversa tempe-razione dell'aria, le diverse esalazioni che escono dallaterra, ed altre somiglianti. A questi tempi noi veggiamole cagioni fisiche sollevate da alcuni filosofi a tal onorea cui esse non pensaron certo di dover giugner giammai.Le inclinazioni e le passioni, i vizj e le virtù, la religionestessa non sono, secondo essi, che un affare di clima;anzi l'uomo non è diverso dalle bestie, se non perchè hagli organi più sensitivi e più perfetti di esse. Così mentrecredono di sollevarsi sul volgo co' sublimi lor pensa-menti, si abbassano fino allo stato di fiera, da cui appenasi trova, seguendo il lor sistema, in che sian diversi. Da

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Opinione dell'ab. du Bos che la attribuisce a ragioni fi-siche.

cercare per qual ragione il cattivo gusto prevalga al buo-no, e la viziosa alla sincera eloquenza.

VII. Le riflessioni che finora abbiam fatto amostrare l'insufficienza di tutte queste causemorali a produrre il decadimento, di cuitrattiamo, ci potrebber per avventura con-durre a ricevere come verisimile il senti-mento del celebre ab. du Bos, il quale dopo

aver confessato che le dette cause morali possono inqualche parte influir sulle scienze, osserva (Reflex. Surla Poésie, et sur la Peinture t. 2, sect. 12, ec.) che cion-nonostante esse non bastano a spiegar le diverse vicendeche in esse veggiamo. Quindi volendo pure ritrovar laragione di tai cambiamenti, propone modestamente unsuo pensiero, che le cause fisiche ancora vi possano averparte, quali sono le diversità del clima, la diversa tempe-razione dell'aria, le diverse esalazioni che escono dallaterra, ed altre somiglianti. A questi tempi noi veggiamole cagioni fisiche sollevate da alcuni filosofi a tal onorea cui esse non pensaron certo di dover giugner giammai.Le inclinazioni e le passioni, i vizj e le virtù, la religionestessa non sono, secondo essi, che un affare di clima;anzi l'uomo non è diverso dalle bestie, se non perchè hagli organi più sensitivi e più perfetti di esse. Così mentrecredono di sollevarsi sul volgo co' sublimi lor pensa-menti, si abbassano fino allo stato di fiera, da cui appenasi trova, seguendo il lor sistema, in che sian diversi. Da

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Opinione dell'ab. du Bos che la attribuisce a ragioni fi-siche.

sì strana opinione io credo che ben fosse lontano l'ab. duBos che non toglie già la forza delle cagioni morali, maaggiugne loro ancora le fisiche; benchè, a dir vero, nelsuo discorso ei conduca le cose a tal segno, che sembrache le cagioni morali quasi nulla abbian di forza in para-gon delle fisiche. Prendiamo ad esaminar brevemente leprove ch'egli ne arreca.

VIII. Osserva egli dunque che vi ha de' pae-si in cui non si son veduti giammai nè pitto-ri nè poeti illustri; e poteva aggiugnere an-cora che ve ne ha alcuni in cui non è giam-

mai fiorita sorte alcuna di scienza. Nè alcun certamentepotrà venir con lui a contrasto su questa proposizione.Vi può esser certo un clima che renda talmente gli uomi-ni pigri e torbidi e melensi, che non possa in essi accen-dersi scintilla alcuna di quel fuoco senza cui è inutilel'accingersi a coltivar le scienze. Chi si facesse a spiega-re il sistema di Newton, o l'Iliade d'Omero a' Samoiedi,a' Lapponi, agli Ottentotti, gran frutto certo trarrebbedalle sue fatiche. Vi può essere ancora tal clima che ren-da gli uomini opportuni a coltivare una scienza, inetti aun'altra, poichè diversa è la costituzion degli spiriti ne-cessaria a un filosofo, diversa quella degli spiriti neces-saria a un poeta; e benchè, qualche esempio si abbiad'uomini che l'uno all'altro studio hanno felicementecongiunto, più sono nondimeno gli esempj in contrario.Ma non è ciò che qui si cerca. Noi veggiamo nello stes-

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Ragioni da lui addotte a provarla.

sì strana opinione io credo che ben fosse lontano l'ab. duBos che non toglie già la forza delle cagioni morali, maaggiugne loro ancora le fisiche; benchè, a dir vero, nelsuo discorso ei conduca le cose a tal segno, che sembrache le cagioni morali quasi nulla abbian di forza in para-gon delle fisiche. Prendiamo ad esaminar brevemente leprove ch'egli ne arreca.

VIII. Osserva egli dunque che vi ha de' pae-si in cui non si son veduti giammai nè pitto-ri nè poeti illustri; e poteva aggiugnere an-cora che ve ne ha alcuni in cui non è giam-

mai fiorita sorte alcuna di scienza. Nè alcun certamentepotrà venir con lui a contrasto su questa proposizione.Vi può esser certo un clima che renda talmente gli uomi-ni pigri e torbidi e melensi, che non possa in essi accen-dersi scintilla alcuna di quel fuoco senza cui è inutilel'accingersi a coltivar le scienze. Chi si facesse a spiega-re il sistema di Newton, o l'Iliade d'Omero a' Samoiedi,a' Lapponi, agli Ottentotti, gran frutto certo trarrebbedalle sue fatiche. Vi può essere ancora tal clima che ren-da gli uomini opportuni a coltivare una scienza, inetti aun'altra, poichè diversa è la costituzion degli spiriti ne-cessaria a un filosofo, diversa quella degli spiriti neces-saria a un poeta; e benchè, qualche esempio si abbiad'uomini che l'uno all'altro studio hanno felicementecongiunto, più sono nondimeno gli esempj in contrario.Ma non è ciò che qui si cerca. Noi veggiamo nello stes-

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Ragioni da lui addotte a provarla.

so paese, sotto il medesimo clima, ora essere in fiore glistudj d'ogni maniera, or decadere; e questo è di che ri-cercasi la cagione.

IX. Questa difficoltà dovette avvertirsi dallostesso ab. du Bos; ed egli non che atterrirse-ne, se ne vale a prova della sua opinione."In certi tempi, egli dice, le cagioni moralinon han potuto formare valorosi artigiani (e

dicasi ancora valorosi oratori, poeti, filosofi, ec.) anchein quei paesi che in altri tempi ne hanno prodotti molti,per così dire, spontaneamente. Sembra che la natura ca-pricciosa non li faccia nascere se non quando le piace".A provar ciò egli reca le prove stesse che noi già abbiamrecate di sopra a mostrare che la magnificenza de' prin-cipi non basta a far fiorire le scienze; e questa è appuntola sola conseguenza che da tai fatti si può dedurre. Maegli ne trae che alle cagioni fisiche ciò deesi attribuire.A provare però che queste ne siano la ragione, non ba-stan certamente tai fatti. Egli pretende che come il di-verso clima molto influisce sulla diversità dell'indole edell'ingegno, nel che non troverà chi gli contradica, cosìnel paese medesimo per molte diverse circostanze possain diversi tempi cambiarsi clima; e che quindi possa unsecolo esser più d'un altro fecondo in uomini grandi e ingrandi ingegni. Questo ancora è probabile. Ma basta egliciò a spiegare la decadenza degli studj? Seneca, Lucano,Marziale son certamente scrittori inferiori a Cicerone, a

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Qual parte possa in ciòavere cli-ma.

so paese, sotto il medesimo clima, ora essere in fiore glistudj d'ogni maniera, or decadere; e questo è di che ri-cercasi la cagione.

IX. Questa difficoltà dovette avvertirsi dallostesso ab. du Bos; ed egli non che atterrirse-ne, se ne vale a prova della sua opinione."In certi tempi, egli dice, le cagioni moralinon han potuto formare valorosi artigiani (e

dicasi ancora valorosi oratori, poeti, filosofi, ec.) anchein quei paesi che in altri tempi ne hanno prodotti molti,per così dire, spontaneamente. Sembra che la natura ca-pricciosa non li faccia nascere se non quando le piace".A provar ciò egli reca le prove stesse che noi già abbiamrecate di sopra a mostrare che la magnificenza de' prin-cipi non basta a far fiorire le scienze; e questa è appuntola sola conseguenza che da tai fatti si può dedurre. Maegli ne trae che alle cagioni fisiche ciò deesi attribuire.A provare però che queste ne siano la ragione, non ba-stan certamente tai fatti. Egli pretende che come il di-verso clima molto influisce sulla diversità dell'indole edell'ingegno, nel che non troverà chi gli contradica, cosìnel paese medesimo per molte diverse circostanze possain diversi tempi cambiarsi clima; e che quindi possa unsecolo esser più d'un altro fecondo in uomini grandi e ingrandi ingegni. Questo ancora è probabile. Ma basta egliciò a spiegare la decadenza degli studj? Seneca, Lucano,Marziale son certamente scrittori inferiori a Cicerone, a

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Qual parte possa in ciòavere cli-ma.

Virgilio, a Catullo. Ma dirà egli l'ab. du Bos che avesse-ro minor ingegno di quelli? Anzi noi leggendo le loropere veggiamo con dispiacere che ingegni così preclaritanto declinassero dal buon sentiero. Dirà egli che ilMarini fosse in ingegno inferiore ad alcun de' poeti chel'aveano preceduto? E tanti di que' sacri oratori delloscorso secolo, che co' loro concetti, colle ardite metafo-re, e con altre sì fatte ridicolose stranezze ci muovonoalle risa, non veggiam noi insieme che uomini essi eranodi grande ingegno, e che se i migliori esemplari si fosserproposti a modello, divenuti sarebbono valentissimi ora-tori? Non sappiamo noi pure di molti che dopo aver perqualche tempo seguito il cattivo gusto del secolo prece-dente, fatti accorti del lor traviamento divennero eccel-lenti scrittori? E lo stesso ab. du Bos non narra egli chel'Holbeins divenne pittor migliore di assai dopo aver ve-duti alcuni quadri di eccellente maestro; e che Rafaellofu assai diverso da se medesimo, poichè ebbe vedute al-cune pitture di Michelangiolo? Quegli uomini stessiadunque che furon poeti, oratori, dipintori eccellenti,non avrebbon superata la mediocrità, se non avesseroavuti innanzi agli occhi eccellenti modelli. Or qual partepossono in ciò avere le cagion fisiche? Sarà dunque ef-fetto del clima diverso e delle diverse esalazioni, che orregni nello scrivere un fino e scelto gusto, or un guasto ecorrotto? Che aria era mai quella che respiravanol'Achillini e il Preti, e tutti que' freddissimi concettistidello scorso secolo? e come insieme facevano a difen-dersi dalle cattive impressioni di essa il Galilei, il Torri-

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Virgilio, a Catullo. Ma dirà egli l'ab. du Bos che avesse-ro minor ingegno di quelli? Anzi noi leggendo le loropere veggiamo con dispiacere che ingegni così preclaritanto declinassero dal buon sentiero. Dirà egli che ilMarini fosse in ingegno inferiore ad alcun de' poeti chel'aveano preceduto? E tanti di que' sacri oratori delloscorso secolo, che co' loro concetti, colle ardite metafo-re, e con altre sì fatte ridicolose stranezze ci muovonoalle risa, non veggiam noi insieme che uomini essi eranodi grande ingegno, e che se i migliori esemplari si fosserproposti a modello, divenuti sarebbono valentissimi ora-tori? Non sappiamo noi pure di molti che dopo aver perqualche tempo seguito il cattivo gusto del secolo prece-dente, fatti accorti del lor traviamento divennero eccel-lenti scrittori? E lo stesso ab. du Bos non narra egli chel'Holbeins divenne pittor migliore di assai dopo aver ve-duti alcuni quadri di eccellente maestro; e che Rafaellofu assai diverso da se medesimo, poichè ebbe vedute al-cune pitture di Michelangiolo? Quegli uomini stessiadunque che furon poeti, oratori, dipintori eccellenti,non avrebbon superata la mediocrità, se non avesseroavuti innanzi agli occhi eccellenti modelli. Or qual partepossono in ciò avere le cagion fisiche? Sarà dunque ef-fetto del clima diverso e delle diverse esalazioni, che orregni nello scrivere un fino e scelto gusto, or un guasto ecorrotto? Che aria era mai quella che respiravanol'Achillini e il Preti, e tutti que' freddissimi concettistidello scorso secolo? e come insieme facevano a difen-dersi dalle cattive impressioni di essa il Galilei, il Torri-

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celli, il Cavalieri, il Viviani, il Redi, e tanti altri giustis-simi spiriti e coltissimi scrittori dello stesso secolo? Maandiamo innanzi, e veggiamo le altre ragioni che a pro-va del suo sistema si recano dal valoroso scrittor france-se.

X. "Le arti, dic'egli, arrivano alla lor perfe-zione con un improvviso e subitaneo pro-gresso. E qui ancora ne reca ad esempio lapittura;" perciocchè, continua egli "poichèella risorse, si mantenne per oltre a due se-coli in quella rozzezza medesima che al sor-

gere aveva avuta; poscia verso il fine del secolo XV ec-cola improvvisamente divenire perfetta, e pittori gran-dissimi sorgere, per così dire, da ogni parte". Io non vo-glio qui trattenermi ad esaminare e a confutare questaasserzione, che mi condurrebbe troppo oltre. Anzi perme concedasi pure all'ab. du Bos, che così fosse vera-mente; e che la pittura, dopo essere stata rozza per oltredue secoli, divenisse tutto ad un tempo perfetta, benchèle cause morali non vi avessero più influenza di prima.Io dico che non vi ha argomento più stringente di questoa provare che non sono le cause fisiche quelle che ope-rano cotali rivoluzioni nelle scienze e nelle arti. Percioc-chè supponiamo che il clima d'Italia innanzi al fine delsecolo XV fosse tale, che non permettesse agl'Italiani ildivenire, a cagion d'esempio, egregi dipintori. È eglipossibile che tutto all'improvviso seguisse sì gran muta-

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La rapidità dei progres-si dell'arti non favori-sce questa opinione.

celli, il Cavalieri, il Viviani, il Redi, e tanti altri giustis-simi spiriti e coltissimi scrittori dello stesso secolo? Maandiamo innanzi, e veggiamo le altre ragioni che a pro-va del suo sistema si recano dal valoroso scrittor france-se.

X. "Le arti, dic'egli, arrivano alla lor perfe-zione con un improvviso e subitaneo pro-gresso. E qui ancora ne reca ad esempio lapittura;" perciocchè, continua egli "poichèella risorse, si mantenne per oltre a due se-coli in quella rozzezza medesima che al sor-

gere aveva avuta; poscia verso il fine del secolo XV ec-cola improvvisamente divenire perfetta, e pittori gran-dissimi sorgere, per così dire, da ogni parte". Io non vo-glio qui trattenermi ad esaminare e a confutare questaasserzione, che mi condurrebbe troppo oltre. Anzi perme concedasi pure all'ab. du Bos, che così fosse vera-mente; e che la pittura, dopo essere stata rozza per oltredue secoli, divenisse tutto ad un tempo perfetta, benchèle cause morali non vi avessero più influenza di prima.Io dico che non vi ha argomento più stringente di questoa provare che non sono le cause fisiche quelle che ope-rano cotali rivoluzioni nelle scienze e nelle arti. Percioc-chè supponiamo che il clima d'Italia innanzi al fine delsecolo XV fosse tale, che non permettesse agl'Italiani ildivenire, a cagion d'esempio, egregi dipintori. È eglipossibile che tutto all'improvviso seguisse sì gran muta-

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La rapidità dei progres-si dell'arti non favori-sce questa opinione.

zione di clima, che gl'Italiani di rozzi ed inesperti dive-nissero tosto fini ed eleganti pittori? Questa mutazione èella effetto per avventura di un turbine, o di una burra-sca che in un momento si leva e passa; o non anzi di va-rie cagioni, che lentamente operando, di gran tempo ab-bisognano per conseguire l'effetto? Noi abbiamo bensìesempj di climi insalubri prima e nocivi, poscia per nuo-ve estrinseche circostanze a poco a poco divenuti più in-nocenti; ma di mutazione totale e improvvisa, sicchè unclima d'aria torpida e lenta divenga tutto ad un tempo diaria viva e sottile, dove troverassi mai esempio? Se dun-que le arti arrivano con subitaneo progresso alla lor per-fezione, non può essere ciò effetto di cagioni fisiche diclima, di esalazioni, e somiglianti, che non possono ado-perare con sì improvvisa efficacia.

XI. Più convincente parer potrebbe un'altraragione che dallo stesso autore si adduce suquesto argomento medesimo. Le arti,dic'egli, e le lettere si son perfezionate tal-volta, quando le cause morali parevan con-giurate ad opprimerle; ed all'incontro tal-

volta son decadute, quando queste eran più impegnate econgiunte a tenerle in fiore. Udiamo le sue parole mede-sime con cui svolge questo suo pensiero, traendone dal-la nostra Italia l'esempio: "Per trentaquattro anni(dic'egli, parlando del fine del secolo XV, e del principiodel seguente), l'Italia, per valermi di un'espressione fa-

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Nè basta a provarla l'addotta in-sufficienza delle cagionimorali.

zione di clima, che gl'Italiani di rozzi ed inesperti dive-nissero tosto fini ed eleganti pittori? Questa mutazione èella effetto per avventura di un turbine, o di una burra-sca che in un momento si leva e passa; o non anzi di va-rie cagioni, che lentamente operando, di gran tempo ab-bisognano per conseguire l'effetto? Noi abbiamo bensìesempj di climi insalubri prima e nocivi, poscia per nuo-ve estrinseche circostanze a poco a poco divenuti più in-nocenti; ma di mutazione totale e improvvisa, sicchè unclima d'aria torpida e lenta divenga tutto ad un tempo diaria viva e sottile, dove troverassi mai esempio? Se dun-que le arti arrivano con subitaneo progresso alla lor per-fezione, non può essere ciò effetto di cagioni fisiche diclima, di esalazioni, e somiglianti, che non possono ado-perare con sì improvvisa efficacia.

XI. Più convincente parer potrebbe un'altraragione che dallo stesso autore si adduce suquesto argomento medesimo. Le arti,dic'egli, e le lettere si son perfezionate tal-volta, quando le cause morali parevan con-giurate ad opprimerle; ed all'incontro tal-

volta son decadute, quando queste eran più impegnate econgiunte a tenerle in fiore. Udiamo le sue parole mede-sime con cui svolge questo suo pensiero, traendone dal-la nostra Italia l'esempio: "Per trentaquattro anni(dic'egli, parlando del fine del secolo XV, e del principiodel seguente), l'Italia, per valermi di un'espressione fa-

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Nè basta a provarla l'addotta in-sufficienza delle cagionimorali.

migliare agli storici di quella nazione, fu calpestata co'piedi dalle barbare nazioni. Il regno di Napoli fu conqui-stato quattro, o cinque volte da diversi principi; e lo Sta-to di Milano cambiò padrone anche più spesso. Dalletorri di Venezia si vider più volte le armate nemiche; eFirenze fu quasi sempre in guerra o contro i Medici chevolevano assoggettarla, o contro i Pisani cui voleva essarender soggetti. Roma vide più volte truppe o nemiche,o sospette entro le sue mura, e questa capitale dellebell'arti fu saccheggiata dall'armi di Carlo V con tal bar-barie, come il sarebbe una città presa per assalto daiTurchi. Or in questi trentaquattro anni appunto le letteree le arti fecero in Italia tali progressi che anche al pre-sente sembrano prodigiosi". Fin qui egli a mostrare chela prosperità degli Stati, la munificenza de' principi, esomiglianti altre cagioni morali non son necessarie a farfiorire le arti o gli studj, e che il loro risorgimento è se-guito allora appunto ch'esse avevano minor forza. Manon potrei io forse de' tempi medesimi formare un bendiverso quadro, e rappresentarli come i più felici chemai sorgessero all'Italia? Se io prendessi a favellarecosì: "Se noi esaminiamo il secolo di Leon X, in cui lelettere e le arti sepolte per dieci secoli uscirono al findalla tomba, vedremo che sotto il suo pontificato l'Italiaera nella più grande opulenza in cui dopo l'impero de'Cesari fosse stata giammai. I piccioli tiranni rinchiusico' loro sgherri in infinite fortezze, e la cui concordiadel pari che la discordia erano un terribil flagello allasocietà, erano finalmente stati snidati dalla prudenza e

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migliare agli storici di quella nazione, fu calpestata co'piedi dalle barbare nazioni. Il regno di Napoli fu conqui-stato quattro, o cinque volte da diversi principi; e lo Sta-to di Milano cambiò padrone anche più spesso. Dalletorri di Venezia si vider più volte le armate nemiche; eFirenze fu quasi sempre in guerra o contro i Medici chevolevano assoggettarla, o contro i Pisani cui voleva essarender soggetti. Roma vide più volte truppe o nemiche,o sospette entro le sue mura, e questa capitale dellebell'arti fu saccheggiata dall'armi di Carlo V con tal bar-barie, come il sarebbe una città presa per assalto daiTurchi. Or in questi trentaquattro anni appunto le letteree le arti fecero in Italia tali progressi che anche al pre-sente sembrano prodigiosi". Fin qui egli a mostrare chela prosperità degli Stati, la munificenza de' principi, esomiglianti altre cagioni morali non son necessarie a farfiorire le arti o gli studj, e che il loro risorgimento è se-guito allora appunto ch'esse avevano minor forza. Manon potrei io forse de' tempi medesimi formare un bendiverso quadro, e rappresentarli come i più felici chemai sorgessero all'Italia? Se io prendessi a favellarecosì: "Se noi esaminiamo il secolo di Leon X, in cui lelettere e le arti sepolte per dieci secoli uscirono al findalla tomba, vedremo che sotto il suo pontificato l'Italiaera nella più grande opulenza in cui dopo l'impero de'Cesari fosse stata giammai. I piccioli tiranni rinchiusico' loro sgherri in infinite fortezze, e la cui concordiadel pari che la discordia erano un terribil flagello allasocietà, erano finalmente stati snidati dalla prudenza e

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dal coraggio di Alessandro VI. Le sedizioni erano sban-dite dalle città, le quali generalmente parlando avean sa-puto formarsi al fin del secolo precedente un governostabile e regolato. Si può dire che le guerre straniere, lequali cominciarono allora in Italia colla spedizione diCarlo VIII nel regno di Napoli, non furono così dannosealla società, come il timor perpetuo che si aveva di esserrapito, quando si andava in campagna, da' sicarj delloscellerato padrone che vi si era annidato; o il timore diveder posto il fuoco alla sua casa in un popolare tumul-to. Le guerre che allor si facevano somiglianti alla gra-gnuola, non venivano che a guisa di turbine, e non rovi-navano che una lingua di paese. Si videro successiva-mente sul trono due papi desiderosi di lasciare monu-menti illustri del loro pontificato, e in conseguenza ob-bligati a favorir gli artigiani e i letterati più illustri, chepotevano rendergli immortali col rendere immortali sestessi. Perciò le lettere e le arti fecero meravigliosi pro-gressi". Se, io dico, descrivessi così lo stato dell'Italia altempo del risorgimento delle lettere, e mostrassi in talmodo che le cagioni morali ne furon l'origine, potrebbeforse l'ab. du Bos rimproverarmi che questo quadro fos-se esagerato di troppo? Io nol credo, poichè quando eglivolesse rimproverarmi di ciò, gli mostrerei che sono lesue precise parole quelle ch'io ho fin qui riferite (t. 2, p.148), e ch'egli stesso ci ha così descritto il felice statodell'Italia a que' tempi medesimi di cui ora parla in sì di-versa maniera, perchè diverso era il fine ch'egli qui siera prefisso.

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dal coraggio di Alessandro VI. Le sedizioni erano sban-dite dalle città, le quali generalmente parlando avean sa-puto formarsi al fin del secolo precedente un governostabile e regolato. Si può dire che le guerre straniere, lequali cominciarono allora in Italia colla spedizione diCarlo VIII nel regno di Napoli, non furono così dannosealla società, come il timor perpetuo che si aveva di esserrapito, quando si andava in campagna, da' sicarj delloscellerato padrone che vi si era annidato; o il timore diveder posto il fuoco alla sua casa in un popolare tumul-to. Le guerre che allor si facevano somiglianti alla gra-gnuola, non venivano che a guisa di turbine, e non rovi-navano che una lingua di paese. Si videro successiva-mente sul trono due papi desiderosi di lasciare monu-menti illustri del loro pontificato, e in conseguenza ob-bligati a favorir gli artigiani e i letterati più illustri, chepotevano rendergli immortali col rendere immortali sestessi. Perciò le lettere e le arti fecero meravigliosi pro-gressi". Se, io dico, descrivessi così lo stato dell'Italia altempo del risorgimento delle lettere, e mostrassi in talmodo che le cagioni morali ne furon l'origine, potrebbeforse l'ab. du Bos rimproverarmi che questo quadro fos-se esagerato di troppo? Io nol credo, poichè quando eglivolesse rimproverarmi di ciò, gli mostrerei che sono lesue precise parole quelle ch'io ho fin qui riferite (t. 2, p.148), e ch'egli stesso ci ha così descritto il felice statodell'Italia a que' tempi medesimi di cui ora parla in sì di-versa maniera, perchè diverso era il fine ch'egli qui siera prefisso.

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XII. A provar poi che le arti e le lettereson decadute, quando le ragioni moraliparevano più congiunte a sostenerle, recaegli in primo luogo il decadimento deglistudj e delle arti in Italia al fin del secoloXVI, quando, dic'egli, essa godeva diuna continua dolcissima pace, nè manca-

vano splendidi protettori. Ma questo decadimento a chesi riduce egli poi? Non certo alle scienze più serie, poi-chè la filosofia moderna e la matematica allora singolar-mente cominciarono a fiorire in Italia; non a mancanzad'uomini che coltivassero anche gli ameni studj, poichènon vi fu mai forse copia sì grande di poeti come allora;non a indebolimento degl'ingegni, poichè si è detto, ed èevidente, che molti de' poeti ed altri scrittori d'allora sa-rebbero andati del pari coi più famosi, se non si fosserlasciati sedurre da un gusto e guasto e corrotto. Tutto ildecadimento adunque si ristringe a questo cattivo gustoche allor s'introdusse. Ma potrà egli l'ab. du Bos affer-mar seriamente che debbasi ciò attribuire alla mutazionedi clima? Già si è mostrato di sopra, quanto ciò sia in-sussistente. Reca in secondo luogo il decadimento se-guito dopo la morte d'Augusto. "Caligola, dice egli (p.212), Nerone, Domiziano non facevano cadere il lorcrudele umore sopra gli uomini dotti. Lucano il solo let-terato distinto, continua egli, che sia stato ucciso a queltempo, fu ucciso come cospiratore, non come poeta";dal che egli trae che non può il decadimento degli studjascriversi alla crudeltà e al furor di que' mostri che a

55

Nè le circostan-ze del doppio decadimento della letteratura avvenuto in Ita-lia.

XII. A provar poi che le arti e le lettereson decadute, quando le ragioni moraliparevano più congiunte a sostenerle, recaegli in primo luogo il decadimento deglistudj e delle arti in Italia al fin del secoloXVI, quando, dic'egli, essa godeva diuna continua dolcissima pace, nè manca-

vano splendidi protettori. Ma questo decadimento a chesi riduce egli poi? Non certo alle scienze più serie, poi-chè la filosofia moderna e la matematica allora singolar-mente cominciarono a fiorire in Italia; non a mancanzad'uomini che coltivassero anche gli ameni studj, poichènon vi fu mai forse copia sì grande di poeti come allora;non a indebolimento degl'ingegni, poichè si è detto, ed èevidente, che molti de' poeti ed altri scrittori d'allora sa-rebbero andati del pari coi più famosi, se non si fosserlasciati sedurre da un gusto e guasto e corrotto. Tutto ildecadimento adunque si ristringe a questo cattivo gustoche allor s'introdusse. Ma potrà egli l'ab. du Bos affer-mar seriamente che debbasi ciò attribuire alla mutazionedi clima? Già si è mostrato di sopra, quanto ciò sia in-sussistente. Reca in secondo luogo il decadimento se-guito dopo la morte d'Augusto. "Caligola, dice egli (p.212), Nerone, Domiziano non facevano cadere il lorcrudele umore sopra gli uomini dotti. Lucano il solo let-terato distinto, continua egli, che sia stato ucciso a queltempo, fu ucciso come cospiratore, non come poeta";dal che egli trae che non può il decadimento degli studjascriversi alla crudeltà e al furor di que' mostri che a

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Nè le circostan-ze del doppio decadimento della letteratura avvenuto in Ita-lia.

quei tempi regnarono. Ma è egli possibile che l'ab. duBos scrivendo tal cosa non siasi almen ricordato di Cre-muzio Cordo e di Seneca, costretti l'un da Tiberio, l'altroda Nerone, a darsi la morte? E Lucano stesso non gittos-si egli disperatamente tra' congiurati, perchè Nerone vie-tato aveagli di pubblicare in avvenire le sue poesie? Enon basta egli scorrere velocemente Svetonio, Tacito, eDione per vedere quanti oratori, filosofi, storici, e poetiricevessero da Tiberio, da Caligola, da Nerone, da Do-miziano ingiusta morte? Noi ancora dovrem tra poco ve-derlo. Ma essi non furono uccisi perchè fossero dotti,ma perchè rei di qualche delitto. E qual tiranno vi è statomai che abbia condannato a morte alcuno perchè uomdotto? Ma se ogni parola che da un oratore si proferisca,ogni verso che scrivasi da un poeta, si travolge a sensosedizioso e reo, come facevasi da' mentovati imperadori,è egli possibile che gli studj siano con piacere e con ar-dor coltivati?

XIII. L'ultima ragione che a prova del suosistema si adduce dall'ab. du Bos, si è che igrandi uomini sono fioriti al medesimo tem-po, e che le stesse età che han prodotto ora-tori, filosofi, poeti illustri, han prodotto an-cora pittori, scultori ed architetti eccellenti.

Questa proposizione soffre molte difficoltà, come ha os-servato ancora il co. Algarotti in un suo Ragionamento(opere t. 3, p. 101, ediz. di Livorn.). L'eloquenza decad-

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Nè il veder le stesse vi-cende co-muni ad ogni generedi belle arti.

quei tempi regnarono. Ma è egli possibile che l'ab. duBos scrivendo tal cosa non siasi almen ricordato di Cre-muzio Cordo e di Seneca, costretti l'un da Tiberio, l'altroda Nerone, a darsi la morte? E Lucano stesso non gittos-si egli disperatamente tra' congiurati, perchè Nerone vie-tato aveagli di pubblicare in avvenire le sue poesie? Enon basta egli scorrere velocemente Svetonio, Tacito, eDione per vedere quanti oratori, filosofi, storici, e poetiricevessero da Tiberio, da Caligola, da Nerone, da Do-miziano ingiusta morte? Noi ancora dovrem tra poco ve-derlo. Ma essi non furono uccisi perchè fossero dotti,ma perchè rei di qualche delitto. E qual tiranno vi è statomai che abbia condannato a morte alcuno perchè uomdotto? Ma se ogni parola che da un oratore si proferisca,ogni verso che scrivasi da un poeta, si travolge a sensosedizioso e reo, come facevasi da' mentovati imperadori,è egli possibile che gli studj siano con piacere e con ar-dor coltivati?

XIII. L'ultima ragione che a prova del suosistema si adduce dall'ab. du Bos, si è che igrandi uomini sono fioriti al medesimo tem-po, e che le stesse età che han prodotto ora-tori, filosofi, poeti illustri, han prodotto an-cora pittori, scultori ed architetti eccellenti.

Questa proposizione soffre molte difficoltà, come ha os-servato ancora il co. Algarotti in un suo Ragionamento(opere t. 3, p. 101, ediz. di Livorn.). L'eloquenza decad-

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Nè il veder le stesse vi-cende co-muni ad ogni generedi belle arti.

de al tempo d'Augusto, come abbiam veduto, quando lapoesia giugneva alla sua perfezione; e al tempo stesso,come pur si è dimostrato, cominciò ancora a decaderel'architettura colle altre arti. Il secolo scorso fu in Italiafecondo di filosofi e di matematici insigni; ma non giàdi oratori e di poeti illustri. E il secol nostro può benvantarsi di aver condotta a gran perfezione l'eloquenza ela poesia; ma si può egli dir lo stesso della pittura e dellascultura? Ma concedasi ancora che sia così, come l'ab.du Bos afferma. Vorrà egli perciò persuaderci che lecause fisiche più che le morali influiscono sullo statodella letteratura e delle arti? Anzi a me pare che questoargomento ancora si possa contro di esso rivolgere. Per-ciocchè, se le cause morali sono le operatrici di questoeffetto, io intenderò facilmente come in uno stato lieto efiorente un principe magnanimo e liberale possa collasua munificenza condurre alla perfezione le arti insiemee gli studj tutti. Ma se ciò vogliasi attribuire alle cagionifisiche, e il clima, l'aria, le esalazioni si reputino la prin-cipal sorgente del lieto, o infelice stato della letteratura,come è certo che diverso temperamento richiedesi a for-mare, a cagion d'esempio, un filosofo, e diverso a for-mare uno scultore, così lo stesso clima e l'aria e l'esala-zioni medesime difficilmente potranno formare a untempo stesso e filosofi e scultori eccellenti.

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de al tempo d'Augusto, come abbiam veduto, quando lapoesia giugneva alla sua perfezione; e al tempo stesso,come pur si è dimostrato, cominciò ancora a decaderel'architettura colle altre arti. Il secolo scorso fu in Italiafecondo di filosofi e di matematici insigni; ma non giàdi oratori e di poeti illustri. E il secol nostro può benvantarsi di aver condotta a gran perfezione l'eloquenza ela poesia; ma si può egli dir lo stesso della pittura e dellascultura? Ma concedasi ancora che sia così, come l'ab.du Bos afferma. Vorrà egli perciò persuaderci che lecause fisiche più che le morali influiscono sullo statodella letteratura e delle arti? Anzi a me pare che questoargomento ancora si possa contro di esso rivolgere. Per-ciocchè, se le cause morali sono le operatrici di questoeffetto, io intenderò facilmente come in uno stato lieto efiorente un principe magnanimo e liberale possa collasua munificenza condurre alla perfezione le arti insiemee gli studj tutti. Ma se ciò vogliasi attribuire alle cagionifisiche, e il clima, l'aria, le esalazioni si reputino la prin-cipal sorgente del lieto, o infelice stato della letteratura,come è certo che diverso temperamento richiedesi a for-mare, a cagion d'esempio, un filosofo, e diverso a for-mare uno scultore, così lo stesso clima e l'aria e l'esala-zioni medesime difficilmente potranno formare a untempo stesso e filosofi e scultori eccellenti.

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XIV. Or poichè le cause morali comune-mente addotte dagli scrittori, e moltomeno le fisiche, non possono general-mente parlando recarsi a sufficiente euniversale ragione del decadimento de-gli studj, dovrem noi credere che sia im-possibile l'assegnarne una vera ragione?

Io penso veramente che non si potrà mai determinare lavera origine delle vicende della letteratura, finchè dili-gentemente non si separin le cose, e non si esamini inche consista il decadimento degli studj, e i diversi generie le circostanze diverse si osservino del medesimo deca-dimento. Questo si considera comunemente come unsolo effetto di una sola cagione, ovvero di cagioni, mainsieme unite e cospiranti al medesimo fine. Or io pensoche, finchè si terrà di ciò ragionamento così in generale,non si potrà mai accertare la vera ragione di tal decaden-za. Convien dunque entrar più addentro in questo diffi-cile argomento, e vedere in quante maniere possano de-cadere gli studj e le arti. E a me pare che in tre diversemaniere possa ciò avvenire. In primo luogo, se gl'inge-gni e i talenti degli uomini siano in un tempo men pene-tranti e vivaci che in altri; in secondo luogo, se gli uomi-ni, benchè forniti di acuto ingegno, e dalla natura dispo-sti a divenire nelle lettere e nelle arti eccellenti, nondi-meno e in minor numero e con minore impegno si vol-gano a coltivarle; in terzo luogo, se gli uomini, benchè ed'ingegno forniti e con impegno rivolti allo studio, nonabbiano però in esso il buon gusto, ma traviino dal dirit-

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Si osservano tre diverse maniere nelle quali la let-teratura può de-cadere, e prima per l'indeboli-mento degl'inge-gni.

XIV. Or poichè le cause morali comune-mente addotte dagli scrittori, e moltomeno le fisiche, non possono general-mente parlando recarsi a sufficiente euniversale ragione del decadimento de-gli studj, dovrem noi credere che sia im-possibile l'assegnarne una vera ragione?

Io penso veramente che non si potrà mai determinare lavera origine delle vicende della letteratura, finchè dili-gentemente non si separin le cose, e non si esamini inche consista il decadimento degli studj, e i diversi generie le circostanze diverse si osservino del medesimo deca-dimento. Questo si considera comunemente come unsolo effetto di una sola cagione, ovvero di cagioni, mainsieme unite e cospiranti al medesimo fine. Or io pensoche, finchè si terrà di ciò ragionamento così in generale,non si potrà mai accertare la vera ragione di tal decaden-za. Convien dunque entrar più addentro in questo diffi-cile argomento, e vedere in quante maniere possano de-cadere gli studj e le arti. E a me pare che in tre diversemaniere possa ciò avvenire. In primo luogo, se gl'inge-gni e i talenti degli uomini siano in un tempo men pene-tranti e vivaci che in altri; in secondo luogo, se gli uomi-ni, benchè forniti di acuto ingegno, e dalla natura dispo-sti a divenire nelle lettere e nelle arti eccellenti, nondi-meno e in minor numero e con minore impegno si vol-gano a coltivarle; in terzo luogo, se gli uomini, benchè ed'ingegno forniti e con impegno rivolti allo studio, nonabbiano però in esso il buon gusto, ma traviino dal dirit-

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Si osservano tre diverse maniere nelle quali la let-teratura può de-cadere, e prima per l'indeboli-mento degl'inge-gni.

to sentiero segnato lor da' maggiori. Le quali diversemaniere di decadenza sono ugualmente propie e dellatotal decadenza delle scienze e delle arti tutte, e dellaparticolar decadenza di alcuna tra esse. Perciocchè que-sto ancora vuolsi esaminare, se allor quando si dicon lescienze a una tale età decadute, vogliasi ciò intendere ditutte le scienze, o di alcuna sola tra esse. Questa divisio-ne de' diversi generi di decadenza basta, a mio parere, afar tosto conoscere che non può una cagione bastare aprodurre effetti così diversi. Facciamoci a parlare di cia-scheduna parte, e col diligente confronto de' fatti com-proviamo la realtà di questa divisione medesima, eapriamoci la via a conoscere, se sia possibile, tutto il si-stema di queste sì varie rivoluzioni.

XV. E quanto al primo già abbiamo os-servato non potersi rivocare in dubbioche un clima sia più che un altro favore-vole alle lettere ed alle arti. Ma non è ciòdi che a questo luogo si tratta; ma sì delle

vicende che la letteratura soffre in diversi tempi sotto ilmedesimo clima. Or queste possono esse attribuirsiall'indebolimento, per così dire, degl'ingegni? Se ciòfosse, allora certo converrebbe ammettere il sistemadell'ab. du Bos, e le cause fisiche non le morali dovreb-bon credersi arbitre delle letterarie rivoluzioni. Io nonvoglio qui entrare nella quistione, su cui in Francia tantosi è già disputato e scritto, intorno alla preferenza tra gli

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Si mostra in-sussistente il preteso illan-guidimento del-la natura.

to sentiero segnato lor da' maggiori. Le quali diversemaniere di decadenza sono ugualmente propie e dellatotal decadenza delle scienze e delle arti tutte, e dellaparticolar decadenza di alcuna tra esse. Perciocchè que-sto ancora vuolsi esaminare, se allor quando si dicon lescienze a una tale età decadute, vogliasi ciò intendere ditutte le scienze, o di alcuna sola tra esse. Questa divisio-ne de' diversi generi di decadenza basta, a mio parere, afar tosto conoscere che non può una cagione bastare aprodurre effetti così diversi. Facciamoci a parlare di cia-scheduna parte, e col diligente confronto de' fatti com-proviamo la realtà di questa divisione medesima, eapriamoci la via a conoscere, se sia possibile, tutto il si-stema di queste sì varie rivoluzioni.

XV. E quanto al primo già abbiamo os-servato non potersi rivocare in dubbioche un clima sia più che un altro favore-vole alle lettere ed alle arti. Ma non è ciòdi che a questo luogo si tratta; ma sì delle

vicende che la letteratura soffre in diversi tempi sotto ilmedesimo clima. Or queste possono esse attribuirsiall'indebolimento, per così dire, degl'ingegni? Se ciòfosse, allora certo converrebbe ammettere il sistemadell'ab. du Bos, e le cause fisiche non le morali dovreb-bon credersi arbitre delle letterarie rivoluzioni. Io nonvoglio qui entrare nella quistione, su cui in Francia tantosi è già disputato e scritto, intorno alla preferenza tra gli

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Si mostra in-sussistente il preteso illan-guidimento del-la natura.

antichi e i moderni, questione, come leggiadramentedice m. de Fontenelle (Digression sur les Anciens et lesModernes), che si riduce finalmente ad esaminare e adecidere, se gli alberi de' nostri tempi sian più grandi, opiù piccoli di que' de' tempi passati. Perciocchè se la na-tura o per esaurimento di forze, come alcuni moderni fi-losofi hanno preteso di dimostrare, o per cambiamentosopravvenuto al clima, ha sofferta notabile alterazione,ed è più languida e più spossata di prima, allora certoanche gl'ingegni de' nostri giorni saranno più lenti e piùtardi di que' degli antichi. Ma se le forze della naturasono ancora le stesse, e se in tutte le altre cose ella ado-pera tuttavia coll'antica sua vivacità e robustezza, non sivede per qual ragione debbano i soli ingegni averne sof-ferto danno, e perchè abbiamo a dolerci di esser nati piùtardi de' nostri padri. Che dobbiam dunque noi creder-ne? Chiediamone alla stessa natura, e interroghiamola seella trovisi ora indebolita, o cangiata. Ella ci mostreràgli alberi, le frutta, le biade avere ora la stessa altezza, laforma, le proprietà medesime che avevano una volta. Ibuoi, i cavalli e gli altri animali tutti non son certo oradiversi da que' di prima. Avravvi dunque diversità solnegli uomini? Ma questi nè son più piccioli, nè sonmeno fecondi, nè hanno men lunga vita di quel cheavessero gli uomini di diciotto, o venti secoli addietro.Dico di diciotto, o venti secoli addietro, perchè se alcu-no ci volesse richiamare a que' tempi in cui ci si vorreb-be far credere che gli uomini eran tutti giganti, o all'etàprecedenti al diluvio, in cui si campava sì lungamente,

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antichi e i moderni, questione, come leggiadramentedice m. de Fontenelle (Digression sur les Anciens et lesModernes), che si riduce finalmente ad esaminare e adecidere, se gli alberi de' nostri tempi sian più grandi, opiù piccoli di que' de' tempi passati. Perciocchè se la na-tura o per esaurimento di forze, come alcuni moderni fi-losofi hanno preteso di dimostrare, o per cambiamentosopravvenuto al clima, ha sofferta notabile alterazione,ed è più languida e più spossata di prima, allora certoanche gl'ingegni de' nostri giorni saranno più lenti e piùtardi di que' degli antichi. Ma se le forze della naturasono ancora le stesse, e se in tutte le altre cose ella ado-pera tuttavia coll'antica sua vivacità e robustezza, non sivede per qual ragione debbano i soli ingegni averne sof-ferto danno, e perchè abbiamo a dolerci di esser nati piùtardi de' nostri padri. Che dobbiam dunque noi creder-ne? Chiediamone alla stessa natura, e interroghiamola seella trovisi ora indebolita, o cangiata. Ella ci mostreràgli alberi, le frutta, le biade avere ora la stessa altezza, laforma, le proprietà medesime che avevano una volta. Ibuoi, i cavalli e gli altri animali tutti non son certo oradiversi da que' di prima. Avravvi dunque diversità solnegli uomini? Ma questi nè son più piccioli, nè sonmeno fecondi, nè hanno men lunga vita di quel cheavessero gli uomini di diciotto, o venti secoli addietro.Dico di diciotto, o venti secoli addietro, perchè se alcu-no ci volesse richiamare a que' tempi in cui ci si vorreb-be far credere che gli uomini eran tutti giganti, o all'etàprecedenti al diluvio, in cui si campava sì lungamente,

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noi cogli scrittori più saggi rigetterem tra le favole ciòche si narra de' primi; e quanto a' secondi rifletteremosolo (che al nostro intento ciò basta) che noi parliamodei tempi in cui furon coltivate le scienze, e perciò po-steriori di molto al diluvio. E se dicesi con ragione chepiù languide sono ora le complessioni e più spossate diprima, egli è evidente che alla educazione ciò devesi at-tribuire, e non alla natura; perciocchè tal languidezzagià non si vede, ove l'educazione è ancor virile, e, percosì dire, spartana. È ella dunque solo nelle personeagiate indebolita la natura; e alla campagna e sui montisi è ella ancor conservata forte e robusta come prima?Ovvero diremo noi forse che la natura fosse spossata perdieci secoli in circa, quanti furono barbari e quasi diogni letteratura nimici; e che poi improvvisamente, in-vece d'indebolirsi sempre più, siasi essa rinforzata e rin-vigorita per produrre i sublimi genj che in questi ultimisecoli ci sono nati?

XVI. Ma non è tanto all'indebolimentodella natura, quanto alla varietà che ilclima soffre in diversi tempi ne' paesimedesimi, che da alcuni, e singolarmen-te dall'ab. du Bos, si attribuiscono le vi-cende della letteratura. Noi veggiam

pure, egli dice, che un albero stesso or è più abbondante,or più scarso di frutta; che uno stesso terreno non hasempre la stessa fecondità; che in un anno il freddo è

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Nè si può attri-buire alla varie-tà del medesimoclima il diverso stato della lette-ratura.

noi cogli scrittori più saggi rigetterem tra le favole ciòche si narra de' primi; e quanto a' secondi rifletteremosolo (che al nostro intento ciò basta) che noi parliamodei tempi in cui furon coltivate le scienze, e perciò po-steriori di molto al diluvio. E se dicesi con ragione chepiù languide sono ora le complessioni e più spossate diprima, egli è evidente che alla educazione ciò devesi at-tribuire, e non alla natura; perciocchè tal languidezzagià non si vede, ove l'educazione è ancor virile, e, percosì dire, spartana. È ella dunque solo nelle personeagiate indebolita la natura; e alla campagna e sui montisi è ella ancor conservata forte e robusta come prima?Ovvero diremo noi forse che la natura fosse spossata perdieci secoli in circa, quanti furono barbari e quasi diogni letteratura nimici; e che poi improvvisamente, in-vece d'indebolirsi sempre più, siasi essa rinforzata e rin-vigorita per produrre i sublimi genj che in questi ultimisecoli ci sono nati?

XVI. Ma non è tanto all'indebolimentodella natura, quanto alla varietà che ilclima soffre in diversi tempi ne' paesimedesimi, che da alcuni, e singolarmen-te dall'ab. du Bos, si attribuiscono le vi-cende della letteratura. Noi veggiam

pure, egli dice, che un albero stesso or è più abbondante,or più scarso di frutta; che uno stesso terreno non hasempre la stessa fecondità; che in un anno il freddo è

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Nè si può attri-buire alla varie-tà del medesimoclima il diverso stato della lette-ratura.

maggiore assai, la pioggia più copiosa che in un altro.Qual maraviglia dunque che in una stagione sienogl'ingegni e più scarsi e più lenti che in un'altra; poichèquella stessa diversa temperie d'aria, que' venti medesi-mi, quelle medesime esalazioni che producono questevicende ne' corpi, debbon produrle ancora negli animi.Io concederò volentieri tutto questo ragionamento all'ab.du Bos; ma io credo di poter qui ancora rivolgere controdi lui le sue proprie arme. Avvi certamente questa varie-tà e incostanza nella natura; ma, come è osservazionecostante degli esatti calcolatori, benchè le piogge, lenevi, le raccolte siano in diversi anni diverse, se nondi-meno si uniscano insieme tutte quelle di un secolo, edanche solo di 50 anni, e si confrontin con quelle di unaltro spazio somigliante di tempo, appena si vedrà traesse notabile diversità. Dunque ancor negl'ingegni, seessi dipendessero da queste stesse cagioni, appena si ve-drebbe differenza di conto alcuno tra gl'ingegni d'un se-colo e quei dell'altro; e se da queste cagioni dipendesseil coltivarsi più, o meno le scienze, nascerebbero in al-cuni anni coltivatori maggiori in numero ed in valoreche in altri; ma in un secolo ne sarebbe a un di pressouguale la somma. E nondimeno veggiamo sì grande di-versità tra secoli e secoli; e una lunga serie di essi gia-cersi abbandonata e dimenticata ne' fasti della letteratu-ra; altri ricordarsi come gloriosi ad essa e degnid'immortale memoria.

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maggiore assai, la pioggia più copiosa che in un altro.Qual maraviglia dunque che in una stagione sienogl'ingegni e più scarsi e più lenti che in un'altra; poichèquella stessa diversa temperie d'aria, que' venti medesi-mi, quelle medesime esalazioni che producono questevicende ne' corpi, debbon produrle ancora negli animi.Io concederò volentieri tutto questo ragionamento all'ab.du Bos; ma io credo di poter qui ancora rivolgere controdi lui le sue proprie arme. Avvi certamente questa varie-tà e incostanza nella natura; ma, come è osservazionecostante degli esatti calcolatori, benchè le piogge, lenevi, le raccolte siano in diversi anni diverse, se nondi-meno si uniscano insieme tutte quelle di un secolo, edanche solo di 50 anni, e si confrontin con quelle di unaltro spazio somigliante di tempo, appena si vedrà traesse notabile diversità. Dunque ancor negl'ingegni, seessi dipendessero da queste stesse cagioni, appena si ve-drebbe differenza di conto alcuno tra gl'ingegni d'un se-colo e quei dell'altro; e se da queste cagioni dipendesseil coltivarsi più, o meno le scienze, nascerebbero in al-cuni anni coltivatori maggiori in numero ed in valoreche in altri; ma in un secolo ne sarebbe a un di pressouguale la somma. E nondimeno veggiamo sì grande di-versità tra secoli e secoli; e una lunga serie di essi gia-cersi abbandonata e dimenticata ne' fasti della letteratu-ra; altri ricordarsi come gloriosi ad essa e degnid'immortale memoria.

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XVII. Nè forza punto maggiore hal'altro argomento che si arreca dallostesso autore a provare la sua opinione;cioè la diversità de' costumi, che in di-versi secoli si vede in un popolo solo.

Sia vero quanto egli ne apporta in prova. Ma chi non saquanta forza in ciò abbiano le cagioni morali? L'esem-pio della corte non basta talvolta a renderne imitatoretutto quasi un regno? Una rea passione secondata nonbasta ella a cambiare in un brutal mostro un uom ragio-nevole? Un uomo eloquente, autorevole, liberale nonbasta egli a condurre un popolo intero a qualunque riso-luzione? Non erano gli stessi Romani que' che con sìgran coraggio combattevano contro i nemici della lorpatria, e que' che con tal furore nelle guerre civili si ri-volgevano contro di essa? Mutossi per avventura il cli-ma allor quando ne' primi tempi del cristianesimo si vi-der uomini dissoluti prima, empj, superstiziosi, cambiartotalmente costume, e menare una vita innocente, auste-ra, e religiosa? Il clima può certo influir molto sulla in-dole e su' costumi; e que' che vivono sotto un ciel riarsoe cocente, avranno naturalmente inclinazioni diverse daque' che vivono sotto un clima agghiacciato. Ma noi nonveggiamo che sia mai seguita mutazion grande di clima;e veggiamo insieme che nello stesso paese vi è stataspesso gran mutazion di costumi. Dico non esser seguitagran mutazione di clima, perchè il cambiamento che aqualche piccola parte di terra possa aver recato il dissec-camento di una palude, il taglio di un monte, l'allaga-

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Come non si puòad essa attribuirela diversità dei costumi ne' di-versi secoli.

XVII. Nè forza punto maggiore hal'altro argomento che si arreca dallostesso autore a provare la sua opinione;cioè la diversità de' costumi, che in di-versi secoli si vede in un popolo solo.

Sia vero quanto egli ne apporta in prova. Ma chi non saquanta forza in ciò abbiano le cagioni morali? L'esem-pio della corte non basta talvolta a renderne imitatoretutto quasi un regno? Una rea passione secondata nonbasta ella a cambiare in un brutal mostro un uom ragio-nevole? Un uomo eloquente, autorevole, liberale nonbasta egli a condurre un popolo intero a qualunque riso-luzione? Non erano gli stessi Romani que' che con sìgran coraggio combattevano contro i nemici della lorpatria, e que' che con tal furore nelle guerre civili si ri-volgevano contro di essa? Mutossi per avventura il cli-ma allor quando ne' primi tempi del cristianesimo si vi-der uomini dissoluti prima, empj, superstiziosi, cambiartotalmente costume, e menare una vita innocente, auste-ra, e religiosa? Il clima può certo influir molto sulla in-dole e su' costumi; e que' che vivono sotto un ciel riarsoe cocente, avranno naturalmente inclinazioni diverse daque' che vivono sotto un clima agghiacciato. Ma noi nonveggiamo che sia mai seguita mutazion grande di clima;e veggiamo insieme che nello stesso paese vi è stataspesso gran mutazion di costumi. Dico non esser seguitagran mutazione di clima, perchè il cambiamento che aqualche piccola parte di terra possa aver recato il dissec-camento di una palude, il taglio di un monte, l'allaga-

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Come non si puòad essa attribuirela diversità dei costumi ne' di-versi secoli.

mento di un fiume, ed altre somiglianti cose, troppo pic-ciole cagioni son queste, perchè possano produrre sìgrande effetto. Come adunque non puossi attribuire allamutazion del clima la mutazion de' costumi, così non sipossono somigliantemente a ciò attribuire le vicendedella letteratura.

XVIII. Quindi l'influenza del clima sullaletteratura si può ridurre a questi capi. 1. Unclima può essere più che un altro opportunoa produrre ingegni pronti, vivaci, e profon-di. 2. Un clima può essere più opportuno aformare, a cagion d'esempio, grandi filosofi,

che grandi poeti; e così dicasi delle altre scienze. 3. Lediverse vicende dell'aria, de' venti, dell'esalazioni posso-no esser cagione che in certi tempi più rari nascano gliuomini di grande ingegno; ma come queste vicende nonsono che passeggiere, e in un dato numero di anni vi è aun di presso la stessa somma di piogge, di gragnuole, dinevi ec.; così in un dato numero di anni vi sarà a un dipresso la quantità medesima d'uomini che dalla naturasortiscano felice disposizione alle scienze. Dalle qualiriflessioni discende e confermasi ciò che già abbiam disopra provato, che anche ne' tempi in cui si dice a ragio-ne che giacevano dimenticate le scienze, e che non viera buon gusto nel coltivarle, vi erano nondimeno uomi-ni di eccellente ingegno, che gran nome si sarebbono ac-quistato co' loro studj, se fosser vissuti in tempi meno

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A che cosa si possa ri-durre la in-fluenza del clima nella letteratura.

mento di un fiume, ed altre somiglianti cose, troppo pic-ciole cagioni son queste, perchè possano produrre sìgrande effetto. Come adunque non puossi attribuire allamutazion del clima la mutazion de' costumi, così non sipossono somigliantemente a ciò attribuire le vicendedella letteratura.

XVIII. Quindi l'influenza del clima sullaletteratura si può ridurre a questi capi. 1. Unclima può essere più che un altro opportunoa produrre ingegni pronti, vivaci, e profon-di. 2. Un clima può essere più opportuno aformare, a cagion d'esempio, grandi filosofi,

che grandi poeti; e così dicasi delle altre scienze. 3. Lediverse vicende dell'aria, de' venti, dell'esalazioni posso-no esser cagione che in certi tempi più rari nascano gliuomini di grande ingegno; ma come queste vicende nonsono che passeggiere, e in un dato numero di anni vi è aun di presso la stessa somma di piogge, di gragnuole, dinevi ec.; così in un dato numero di anni vi sarà a un dipresso la quantità medesima d'uomini che dalla naturasortiscano felice disposizione alle scienze. Dalle qualiriflessioni discende e confermasi ciò che già abbiam disopra provato, che anche ne' tempi in cui si dice a ragio-ne che giacevano dimenticate le scienze, e che non viera buon gusto nel coltivarle, vi erano nondimeno uomi-ni di eccellente ingegno, che gran nome si sarebbono ac-quistato co' loro studj, se fosser vissuti in tempi meno

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A che cosa si possa ri-durre la in-fluenza del clima nella letteratura.

infelici.

XIX. Or poichè la prima maniera di deca-denza della letteratura non è possibile; nè sipuò, come abbiam dimostrato, affermareche illanguidiscan gli studj per indeboli-mento degl'ingegni, passiamo a ragionaredella seconda maniera, in cui può un tal de-cadimento avvenire, cioè quando gli uomi-ni, benchè forniti d'ingegno a coltivare lescienze, ciò non ostante in poco numero econ poco fervore si volgono a coltivarle; e

veggiamo quali ne possano essere le cagioni. Qui certole cause fisiche non possono aver parte; poichè sel'uomo ha sortito dalla natura vivace e penetrante inge-gno, l'applicarsi a coltivare le scienze dipende dal suovolere; e quando vogliasi dire che il clima abbia influen-za ancor sull'arbitrio, un clima che renda gli uomini di-sposti agli studj, dee rendergli ancora ad essi inclinati,ove le cagioni morali non li distolgano. Or quali possonessere queste cagioni che ritardino e distolgan gli uomi-ni dal coltivare le scienze? Quelle che al principio diquesta Dissertazione abbiamo accennate, che si recanocomunemente per generali motivi del decadimento deglistudj, appartengono a questo luogo, perchè ne son vera-mente l'origine, quando si parli di quel decadimento checonsiste nella mancanza di applicazione agli studj, nondi quel che consiste nel cattivo gusto in coltivarli. Que-

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Altre due maniere di decadenza, cioè quan-do poco si coltivano gli studj, e quando si coltivano con cattivo gusto.

infelici.

XIX. Or poichè la prima maniera di deca-denza della letteratura non è possibile; nè sipuò, come abbiam dimostrato, affermareche illanguidiscan gli studj per indeboli-mento degl'ingegni, passiamo a ragionaredella seconda maniera, in cui può un tal de-cadimento avvenire, cioè quando gli uomi-ni, benchè forniti d'ingegno a coltivare lescienze, ciò non ostante in poco numero econ poco fervore si volgono a coltivarle; e

veggiamo quali ne possano essere le cagioni. Qui certole cause fisiche non possono aver parte; poichè sel'uomo ha sortito dalla natura vivace e penetrante inge-gno, l'applicarsi a coltivare le scienze dipende dal suovolere; e quando vogliasi dire che il clima abbia influen-za ancor sull'arbitrio, un clima che renda gli uomini di-sposti agli studj, dee rendergli ancora ad essi inclinati,ove le cagioni morali non li distolgano. Or quali possonessere queste cagioni che ritardino e distolgan gli uomi-ni dal coltivare le scienze? Quelle che al principio diquesta Dissertazione abbiamo accennate, che si recanocomunemente per generali motivi del decadimento deglistudj, appartengono a questo luogo, perchè ne son vera-mente l'origine, quando si parli di quel decadimento checonsiste nella mancanza di applicazione agli studj, nondi quel che consiste nel cattivo gusto in coltivarli. Que-

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Altre due maniere di decadenza, cioè quan-do poco si coltivano gli studj, e quando si coltivano con cattivo gusto.

ste due cose si confondono molte volte insieme, che purvogliono essere separate, come da ciò che già di sopra siè detto, è manifesto. Per lungo tempo dopo la morted'Augusto vi ebbe ancora fervor nello studio tra' Roma-ni; e nondimeno dicadder gli studj, perchè s'introdusse ilcattivo gusto. Non vi furono mai tanti poeti, quanti nelloscorso secolo; ma il cattivo gusto regnava, e furon per-ciò poeti degni d'essere dimenticati. In ogni età vi sonostati uomini che avrebbon potuto rendersi illustri tra' pri-mi nel coltivare le scienze; ma le circostanze de' tempilor nol permisero. Posson dunque talvolta coltivarsi glistudj, ma senza buon gusto; si può talvolta lasciare af-fatto, o quasi affatto di coltivarli; e in amendue i casi sidice giustamente che dicadono le scienze, benchè in di-versa maniera e per diversi motivi. Noi qui parliamosolo del dicadimento che avviene per la cessazion dellostudio; e di questo dobbiamo esaminar le ragioni.

XX. Il favore e la munificenza de' principie de' magistrati, gli onori conceduti a' dotti,i premj proposti, hanno certamente granforza a risvegliare l'impegno e l'emulazio-ne. Può bensì avvenire che trovisi alcuno

che solo per soddisfare al suo genio si volga agli studi;ma non sarà questo un fuoco che si stenda ampiamente esi comunichi alla moltitudine, se non è dall'onore e dalfavor pubblico avvivato. Può avvenire ancora che alcu-no coltivi le scienze e le arti anche in mezzo alle traver-

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Qual parte abbia nella prima la mu-nificenza de' principi.

ste due cose si confondono molte volte insieme, che purvogliono essere separate, come da ciò che già di sopra siè detto, è manifesto. Per lungo tempo dopo la morted'Augusto vi ebbe ancora fervor nello studio tra' Roma-ni; e nondimeno dicadder gli studj, perchè s'introdusse ilcattivo gusto. Non vi furono mai tanti poeti, quanti nelloscorso secolo; ma il cattivo gusto regnava, e furon per-ciò poeti degni d'essere dimenticati. In ogni età vi sonostati uomini che avrebbon potuto rendersi illustri tra' pri-mi nel coltivare le scienze; ma le circostanze de' tempilor nol permisero. Posson dunque talvolta coltivarsi glistudj, ma senza buon gusto; si può talvolta lasciare af-fatto, o quasi affatto di coltivarli; e in amendue i casi sidice giustamente che dicadono le scienze, benchè in di-versa maniera e per diversi motivi. Noi qui parliamosolo del dicadimento che avviene per la cessazion dellostudio; e di questo dobbiamo esaminar le ragioni.

XX. Il favore e la munificenza de' principie de' magistrati, gli onori conceduti a' dotti,i premj proposti, hanno certamente granforza a risvegliare l'impegno e l'emulazio-ne. Può bensì avvenire che trovisi alcuno

che solo per soddisfare al suo genio si volga agli studi;ma non sarà questo un fuoco che si stenda ampiamente esi comunichi alla moltitudine, se non è dall'onore e dalfavor pubblico avvivato. Può avvenire ancora che alcu-no coltivi le scienze e le arti anche in mezzo alle traver-

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Qual parte abbia nella prima la mu-nificenza de' principi.

sie ed alle persecuzioni. Il celebre m. de Voltaire ne an-novera parecchi (Vie de P. Corneille), Poussin, e Ra-meau, Cornelio, Omero, Tasso, Camoens, Milton; maegli ne trae una troppo ampia e general conseguenza,cioè che tutti gli uomini di genio sono stati perseguitati.Non manca certo giammai chi cerchi di oscurare la famade' più grandi uomini; ma ciò nasce appunto dalla gloriamedesima a cui si veggon saliti. E queste guerre checontro di lor si sollevano, giovano per lo più ad accen-derli maggiormente per assicurarsi quella pubblica stimadi cui conoscono di godere. Questo è certamente uno de'più possenti stimoli a coltivar quegli studj a cui essa so-glia accordarsi. Atene aveva in gran pregio le azioni tea-trali; e vi sorser perciò gli Eschili, i Sofocli, gli Euripidi.L'eloquenza apriva in Roma libero il varco alle dignità,agli onori; e Roma libera ebbe tanti e sì valenti oratori.Augusto e Mecenate amavano i poeti; e il secolo di Me-cenate e di Augusto vide un Virgilio, un Orazio, un Ti-bullo, un Properzio, un Ovidio, e tanti illustri poeti. Mase questi stimoli vengano a mancare, cesseranno tosto eillanguidiranno gli studj. Questi non si coltivano senzafatica, ed appena è mai che l'uomo si sottoponga a unafatica da cui non isperi mercede, e onore. Vero è nondi-meno che al cessare di queste cagioni fomentatrici deglistudj non si vedran tosto cessare gli effetti ancora;come, ancorchè cessi la fiamma che riscaldava qualchesiasi corpo, non perciò il corpo raffredderassi subita-mente. Veggiamolo nel primo decadimento degli studjitaliani, cioè in quello che avvenne dopo la morte

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sie ed alle persecuzioni. Il celebre m. de Voltaire ne an-novera parecchi (Vie de P. Corneille), Poussin, e Ra-meau, Cornelio, Omero, Tasso, Camoens, Milton; maegli ne trae una troppo ampia e general conseguenza,cioè che tutti gli uomini di genio sono stati perseguitati.Non manca certo giammai chi cerchi di oscurare la famade' più grandi uomini; ma ciò nasce appunto dalla gloriamedesima a cui si veggon saliti. E queste guerre checontro di lor si sollevano, giovano per lo più ad accen-derli maggiormente per assicurarsi quella pubblica stimadi cui conoscono di godere. Questo è certamente uno de'più possenti stimoli a coltivar quegli studj a cui essa so-glia accordarsi. Atene aveva in gran pregio le azioni tea-trali; e vi sorser perciò gli Eschili, i Sofocli, gli Euripidi.L'eloquenza apriva in Roma libero il varco alle dignità,agli onori; e Roma libera ebbe tanti e sì valenti oratori.Augusto e Mecenate amavano i poeti; e il secolo di Me-cenate e di Augusto vide un Virgilio, un Orazio, un Ti-bullo, un Properzio, un Ovidio, e tanti illustri poeti. Mase questi stimoli vengano a mancare, cesseranno tosto eillanguidiranno gli studj. Questi non si coltivano senzafatica, ed appena è mai che l'uomo si sottoponga a unafatica da cui non isperi mercede, e onore. Vero è nondi-meno che al cessare di queste cagioni fomentatrici deglistudj non si vedran tosto cessare gli effetti ancora;come, ancorchè cessi la fiamma che riscaldava qualchesiasi corpo, non perciò il corpo raffredderassi subita-mente. Veggiamolo nel primo decadimento degli studjitaliani, cioè in quello che avvenne dopo la morte

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d'Augusto. Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone non furoncerto imperadori che fomentasser punto gli studj, e dellalor protezione onorassero gli studiosi, come frappocovedremo. Se se ne tragga Seneca che parve levato più inalto, perchè poi cadesse più rovinosamente, appena veg-giamo a que' tempi un uomo a cui il sapere aprisse la viaa grandi onori; e molti al contrario ne ritroviamo, i qualinonostante il lor sapere furono sotto falsi pretesti danna-ti a morte. Ciò non ostante e oratori e poeti e storici e fi-losofi vi ebbe a quel tempo in Roma in gran numero, ela decadenza degli studj non fu che per riguardo al gustoe allo stile che cominciò allora a corrompersi. Il regnod'Augusto avea per così dire risvegliato l'entusiasmo de'Romani: in mezzo a tanti uomini dotti sembrava cosadisonorevole l'essere incolto: si vedevano tanti saliti permezzo della letteratura a felice e onorevole stato; eognuno sperava di poter premere le lor vestigia. Il fuocoin somma era acceso, e non poteva estinguersi così fa-cilmente. Molti di quei che visser sotto i primi successo-ri d'Augusto, eran nati ne' più bei tempi della romanaletteratura, erano stati allevati da quei grand'uomini cheallor fiorivano, imbevuti delle loro idee, e avviatisi sulsentiero medesimo da essi segnato; in una parola l'esseruom colto era divenuto, per così dire, alla moda. Ancor-chè dunque mancassero quegli stimoli che avevano ec-citato ne' Romani l'amor degli studj, questo amor nondi-meno non così presto si estinse; come appunto un corpoche sia stato spinto una volta, prosiegue per alcun tempoa muoversi, benchè la man che lo spinse, più non lo

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d'Augusto. Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone non furoncerto imperadori che fomentasser punto gli studj, e dellalor protezione onorassero gli studiosi, come frappocovedremo. Se se ne tragga Seneca che parve levato più inalto, perchè poi cadesse più rovinosamente, appena veg-giamo a que' tempi un uomo a cui il sapere aprisse la viaa grandi onori; e molti al contrario ne ritroviamo, i qualinonostante il lor sapere furono sotto falsi pretesti danna-ti a morte. Ciò non ostante e oratori e poeti e storici e fi-losofi vi ebbe a quel tempo in Roma in gran numero, ela decadenza degli studj non fu che per riguardo al gustoe allo stile che cominciò allora a corrompersi. Il regnod'Augusto avea per così dire risvegliato l'entusiasmo de'Romani: in mezzo a tanti uomini dotti sembrava cosadisonorevole l'essere incolto: si vedevano tanti saliti permezzo della letteratura a felice e onorevole stato; eognuno sperava di poter premere le lor vestigia. Il fuocoin somma era acceso, e non poteva estinguersi così fa-cilmente. Molti di quei che visser sotto i primi successo-ri d'Augusto, eran nati ne' più bei tempi della romanaletteratura, erano stati allevati da quei grand'uomini cheallor fiorivano, imbevuti delle loro idee, e avviatisi sulsentiero medesimo da essi segnato; in una parola l'esseruom colto era divenuto, per così dire, alla moda. Ancor-chè dunque mancassero quegli stimoli che avevano ec-citato ne' Romani l'amor degli studj, questo amor nondi-meno non così presto si estinse; come appunto un corpoche sia stato spinto una volta, prosiegue per alcun tempoa muoversi, benchè la man che lo spinse, più non lo

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sforzi al moto. Alcuni imperadori che sorsero a quandoa quando, amanti delle lettere e de' letterati, Vespasiano,Traiano, Antonino, Marco Aurelio, ed altri, concorsero afare che questa fiamma di tanto in tanto si raccendesse.Ma poscia mancati essi ancora, e succeduti altri impera-dori la più parte barbari per nascita, rozzi per educazio-ne, e avvolti ancor quasi sempre in guerre o civili, ostraniere, questo fuoco si estinse quasi interamente; nèper lungo tempo potè più ravvivarsi anche perchè altreragioni che vi si aggiunsero, e che esamineremo frapoco, non lo permisero.

XXI. In tal maniera la munificenza de' prin-cipi fomenta gli studj, e la mancanza di essali fa decadere. Intorno a che vuolsi ancorariflettere che talvolta questa munificenza sivolge a un genere più che ad un altro di stu-dj; e questo allora si vede sopra gli altri es-

sere coltivato. Finchè Roma fu libera, l'eloquenza piùche la poesia era onorata; e l'eloquenza prima che lapoesia giunse alla sua perfezione. Gli ameni studj piùche i serj piacevano a Mecenate e ad Augusto, e quellipiù assai che questi furono in fiore a' lor tempi. Antoni-no e Marco Aurelio eran filosofi, e Roma fu piena allordi filosofi singolarmente greci. Quasi tutti gl'imperadoride' primi tre secoli furon seguaci dell'astrologia giudica-ria; e gli astrologi impostori correvano da ogni parte aRoma. Leon decimo era amantissimo dei professori del-

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La quale però talvol-ta si stende solo a qual-che ramo diletteratura.

sforzi al moto. Alcuni imperadori che sorsero a quandoa quando, amanti delle lettere e de' letterati, Vespasiano,Traiano, Antonino, Marco Aurelio, ed altri, concorsero afare che questa fiamma di tanto in tanto si raccendesse.Ma poscia mancati essi ancora, e succeduti altri impera-dori la più parte barbari per nascita, rozzi per educazio-ne, e avvolti ancor quasi sempre in guerre o civili, ostraniere, questo fuoco si estinse quasi interamente; nèper lungo tempo potè più ravvivarsi anche perchè altreragioni che vi si aggiunsero, e che esamineremo frapoco, non lo permisero.

XXI. In tal maniera la munificenza de' prin-cipi fomenta gli studj, e la mancanza di essali fa decadere. Intorno a che vuolsi ancorariflettere che talvolta questa munificenza sivolge a un genere più che ad un altro di stu-dj; e questo allora si vede sopra gli altri es-

sere coltivato. Finchè Roma fu libera, l'eloquenza piùche la poesia era onorata; e l'eloquenza prima che lapoesia giunse alla sua perfezione. Gli ameni studj piùche i serj piacevano a Mecenate e ad Augusto, e quellipiù assai che questi furono in fiore a' lor tempi. Antoni-no e Marco Aurelio eran filosofi, e Roma fu piena allordi filosofi singolarmente greci. Quasi tutti gl'imperadoride' primi tre secoli furon seguaci dell'astrologia giudica-ria; e gli astrologi impostori correvano da ogni parte aRoma. Leon decimo era amantissimo dei professori del-

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La quale però talvol-ta si stende solo a qual-che ramo diletteratura.

le bell'arti e della poesia; e le bell'arti e la poesia furonoa quel tempo in fiore. Il gran duca di Toscana Ferdinan-do II, e il card. Leopoldo de' Medici erano amantissimidelle osservazioni di filosofia naturale; e allora vissero iprimi famosi membri della celebre Accademia del Ci-mento. Così dicasi di mille altri esempj che si potrebbo-no arrecare; e che si vedranno nel decorso di questa Sto-ria.

XXII. Ma benchè il favore e la liberalità deprincipi sì grande influenza abbia sullo statodella letteratura, è a confessar nondimenoch'essa non basta, non solo perchè essa puòstar insieme col cattivo gusto che allora re-gni, di che non è qui luogo di ragionare, maperchè l'effetto che produr dovrebbe questa

munificenza, può essere da altre ragioni ritardato e im-pedito. E quali sono elleno queste ragioni? Tre a mio pa-rere singolarmente. 1. Il libertinaggio universal de' co-stumi e la viziosa educazion de' fanciulli. 2. Le calamitàde' tempi. 3. La mancanza de' mezzi necessarj al coltiva-mento delle lettere. Tratteniamoci brevemente su cia-scheduna.

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Ragioni cheposson ren-dere inutile il favor dei sovrani ver-so le lette-re.

le bell'arti e della poesia; e le bell'arti e la poesia furonoa quel tempo in fiore. Il gran duca di Toscana Ferdinan-do II, e il card. Leopoldo de' Medici erano amantissimidelle osservazioni di filosofia naturale; e allora vissero iprimi famosi membri della celebre Accademia del Ci-mento. Così dicasi di mille altri esempj che si potrebbo-no arrecare; e che si vedranno nel decorso di questa Sto-ria.

XXII. Ma benchè il favore e la liberalità deprincipi sì grande influenza abbia sullo statodella letteratura, è a confessar nondimenoch'essa non basta, non solo perchè essa puòstar insieme col cattivo gusto che allora re-gni, di che non è qui luogo di ragionare, maperchè l'effetto che produr dovrebbe questa

munificenza, può essere da altre ragioni ritardato e im-pedito. E quali sono elleno queste ragioni? Tre a mio pa-rere singolarmente. 1. Il libertinaggio universal de' co-stumi e la viziosa educazion de' fanciulli. 2. Le calamitàde' tempi. 3. La mancanza de' mezzi necessarj al coltiva-mento delle lettere. Tratteniamoci brevemente su cia-scheduna.

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Ragioni cheposson ren-dere inutile il favor dei sovrani ver-so le lette-re.

XXIII. Dico in primo luogo il libertinaggiouniversal de' costumi e la viziosa educa-zion de' fanciulli, che ne è necessario effet-to. Già abbiam mostrato di sopra che inuno Stato in cui gli uomini abbiano sciolto

il freno alle sregolate loro inclinazioni, troppo è difficileche fioriscan gli studj. Un uom molle e libertino sfuggetutto ciò che gli può dar noia, e che il distoglie dai suoipiaceri. Ma il secol di Augusto non era egli vizioso? enon ne abbiam noi in prova tante oscene poesie allorcomposte e divulgate? Sì certo; ma si rifletta. Que' chefiorirono al secol d'Augusto, eran per lo più nati a' tempidella repubblica, quando il costume non era ancor cosìguasto; essi si eran allora formati agli studj; e potevanoagevolmente proseguirli senza che i loro piaceri ne fos-sero impediti; e i poeti ancor rimiravano la loro artecome mezzo a goderne più dolcemente. Ma nel decorsode' tempi il costume venne ognor peggiorando; la sfac-ciata impudenza di Tiberio, di Caligola, di Nerone, diCaracalla, di Eliogabalo condusse il libertinaggio diRoma al più mostruoso eccesso a cui forse arrivassegiammai. Quindi, poichè cominciò a rattepidirsi quelfervore ch'erasi acceso ne' bei tempi della romana lette-ratura, e che continuò a mantenere per alcun tempo glistudj anche in mezzo al libertinaggio, questi comincia-rono ad essere abbandonati, e crescendo sempre più ilvizio, ebbero sempre più pochi coltivatori. Quasi niunotra gl'imperadori de' primi tre secoli pensò alla riforma-zion de' costumi, perchè quasi niuno di essi fu uomo a

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Esse sono il libertinaggiode' costumi ela viziosa educazione.

XXIII. Dico in primo luogo il libertinaggiouniversal de' costumi e la viziosa educa-zion de' fanciulli, che ne è necessario effet-to. Già abbiam mostrato di sopra che inuno Stato in cui gli uomini abbiano sciolto

il freno alle sregolate loro inclinazioni, troppo è difficileche fioriscan gli studj. Un uom molle e libertino sfuggetutto ciò che gli può dar noia, e che il distoglie dai suoipiaceri. Ma il secol di Augusto non era egli vizioso? enon ne abbiam noi in prova tante oscene poesie allorcomposte e divulgate? Sì certo; ma si rifletta. Que' chefiorirono al secol d'Augusto, eran per lo più nati a' tempidella repubblica, quando il costume non era ancor cosìguasto; essi si eran allora formati agli studj; e potevanoagevolmente proseguirli senza che i loro piaceri ne fos-sero impediti; e i poeti ancor rimiravano la loro artecome mezzo a goderne più dolcemente. Ma nel decorsode' tempi il costume venne ognor peggiorando; la sfac-ciata impudenza di Tiberio, di Caligola, di Nerone, diCaracalla, di Eliogabalo condusse il libertinaggio diRoma al più mostruoso eccesso a cui forse arrivassegiammai. Quindi, poichè cominciò a rattepidirsi quelfervore ch'erasi acceso ne' bei tempi della romana lette-ratura, e che continuò a mantenere per alcun tempo glistudj anche in mezzo al libertinaggio, questi comincia-rono ad essere abbandonati, e crescendo sempre più ilvizio, ebbero sempre più pochi coltivatori. Quasi niunotra gl'imperadori de' primi tre secoli pensò alla riforma-zion de' costumi, perchè quasi niuno di essi fu uomo a

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Esse sono il libertinaggiode' costumi ela viziosa educazione.

darne in se stesso l'esempio; e se qualcheduno pur vi siaccinse, troppo alte radici avea gittato il vizio, perchèpotesse sì facilmente sradicarsi; molto più che i pochiche vi ebbero imperadori ben costumati, ebbero la sven-tura di aver pessimi successori. Quindi i fanciulli assaipiù profittavano degli esempj de' loro padri, che delleistruzioni de' retori e de' grammatici; e la dissolutezza acui presto si abbandonavano, estingueva in loro qualun-que buon seme di letteratura, che avesser potuto riceve-re; e se alcuno vi ebbe tra gl'imperadori, come alcuniveramente ve n'ebbe nel secondo secolo singolarmente,che si studiasse con onori e con premj a far rifiorire lelettere, egli trovò uomini troppo ammolliti dal piacere edal vizio, perchè si volessero soggettare a quella faticache a coltivare gli studj è necessaria.

XXIV. Le calamità de' tempi sono esse purdannosissime alla letteratura, singolarmentele intestine discordie e le guerre civili,

quando esse durino lungo tempo. Nello spazio di circaun secolo, cioè dopo la morte di M. Aurelio seguital'anno 180 fino al principio di Diocleziano che salì sultrono l'anno 285, vidersi circa settanta aver nome e co-rona d'imperadori, quasi tutti uccisi dopo breve imperoo da' soldati medesimi che gli aveano eletti, o da que'del partito de' loro rivali; quasi tutti crudeli nell'infierirecontra coloro cui sapessero, o credessero lor nemici.Quindi ogni cosa piena di timori, di sedizioni, di stragi.

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La calamitàdei tempi.

darne in se stesso l'esempio; e se qualcheduno pur vi siaccinse, troppo alte radici avea gittato il vizio, perchèpotesse sì facilmente sradicarsi; molto più che i pochiche vi ebbero imperadori ben costumati, ebbero la sven-tura di aver pessimi successori. Quindi i fanciulli assaipiù profittavano degli esempj de' loro padri, che delleistruzioni de' retori e de' grammatici; e la dissolutezza acui presto si abbandonavano, estingueva in loro qualun-que buon seme di letteratura, che avesser potuto riceve-re; e se alcuno vi ebbe tra gl'imperadori, come alcuniveramente ve n'ebbe nel secondo secolo singolarmente,che si studiasse con onori e con premj a far rifiorire lelettere, egli trovò uomini troppo ammolliti dal piacere edal vizio, perchè si volessero soggettare a quella faticache a coltivare gli studj è necessaria.

XXIV. Le calamità de' tempi sono esse purdannosissime alla letteratura, singolarmentele intestine discordie e le guerre civili,

quando esse durino lungo tempo. Nello spazio di circaun secolo, cioè dopo la morte di M. Aurelio seguital'anno 180 fino al principio di Diocleziano che salì sultrono l'anno 285, vidersi circa settanta aver nome e co-rona d'imperadori, quasi tutti uccisi dopo breve imperoo da' soldati medesimi che gli aveano eletti, o da que'del partito de' loro rivali; quasi tutti crudeli nell'infierirecontra coloro cui sapessero, o credessero lor nemici.Quindi ogni cosa piena di timori, di sedizioni, di stragi.

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La calamitàdei tempi.

Come potevano allora le lettere e le arti venir coltivate?Carlo Magno, Federigo secondo, e alcuni altri impera-dori dell'età di mezzo usaron di ogni arte per richiamarla buona letteratura, che da tanto tempo sembrava sban-dita dalla nostra Italia. E se i tempi dopo Carlo Magnofossero stati felici, forse assai prima si sarebbe questa ri-scossa, e avrebbe preso a coltivare le scienze. Ma nonmolto dopo ebber principio le guerre civili tra l'una el'altra città, che per più secoli furono continuate; guerrein cui non andavano già gli uomini d'arme a combatterepe' loro concittadini, lasciando questi a vivere in riposofra gli agi delle paterne lor case; ma guerre in cui quasiogni cittadino era soldato, e dovea continuamente starecolle armi alla mano o ad assaltare, o a rispingere i vici-ni nimici; e spesso ancora gli abitanti di una stessa cittàdivisi tra loro in sanguinose discordie appena eran sicurinelle loro medesime case. Ognun vede se tempi eranoquesti in cui si potessero coltivare gli studj, ancorchèdella più splendida munificenza si fosse usato per fo-mentarli. Egli è vero che nel maggior furore di questeguerre civili sorsero i primi ristoratori dell'italiana lette-ratura, Dante, il Petrarca, il Boccaccio, ed altri; ma egliè vero ancora che a cagione appunto delle stesse guerrecivili gli sforzi ch'essi fecero a far rifiorire le lettere, nonebbero felice successo, o certo assai meno di quello chein più lieti tempi avrebbono avuto.

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Come potevano allora le lettere e le arti venir coltivate?Carlo Magno, Federigo secondo, e alcuni altri impera-dori dell'età di mezzo usaron di ogni arte per richiamarla buona letteratura, che da tanto tempo sembrava sban-dita dalla nostra Italia. E se i tempi dopo Carlo Magnofossero stati felici, forse assai prima si sarebbe questa ri-scossa, e avrebbe preso a coltivare le scienze. Ma nonmolto dopo ebber principio le guerre civili tra l'una el'altra città, che per più secoli furono continuate; guerrein cui non andavano già gli uomini d'arme a combatterepe' loro concittadini, lasciando questi a vivere in riposofra gli agi delle paterne lor case; ma guerre in cui quasiogni cittadino era soldato, e dovea continuamente starecolle armi alla mano o ad assaltare, o a rispingere i vici-ni nimici; e spesso ancora gli abitanti di una stessa cittàdivisi tra loro in sanguinose discordie appena eran sicurinelle loro medesime case. Ognun vede se tempi eranoquesti in cui si potessero coltivare gli studj, ancorchèdella più splendida munificenza si fosse usato per fo-mentarli. Egli è vero che nel maggior furore di questeguerre civili sorsero i primi ristoratori dell'italiana lette-ratura, Dante, il Petrarca, il Boccaccio, ed altri; ma egliè vero ancora che a cagione appunto delle stesse guerrecivili gli sforzi ch'essi fecero a far rifiorire le lettere, nonebbero felice successo, o certo assai meno di quello chein più lieti tempi avrebbono avuto.

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XXV. Nulla meno è dannosa alla letteratu-ra, e rende inutil l'impegno e la munificen-za de' principi pel coltivamento degli studj,la mancanza de' mezzi necessari per colti-varli. Parlo singolarmente de' libri, i quali

non solamente sono occasioni che invitano a coltivare lescienze, ma spianano ancora a tutti gli studj la strada, ocol proporne eccellenti esemplari, o coll'offerire raccolteinsieme quelle notizie che difficilmente e a grande sten-to potremmo rinvenire disperse altrove. Quando gli stu-dj fiorivano tra' Romani, erano assai moltiplicati i libri.Oltre le pubbliche biblioteche, oltre più altre private,ognuno potea facilmente trovar de' codici, e valersene asuoi studj. Ma col raffreddarsi l'ardor per le lettere, siscemò ancor la premura di aver de' libri, nè furono più iRomani tanto solleciti per moltiplicarli. Le irruzioni de'popoli barbari, le rovine, i saccheggiamenti, incendj acui Roma e l'Italia tutta fu per più secoli miseramentesoggetta, dovetter distruggerne e consumarne gran parte.Le guerre civili che sopravvennero dopo, distrussero ciòche si era potuto sottrarre al furore de' Barbari. Il segui-to di questa Storia ci farà vedere quale scarsezza di librivi avesse ne' bassi secoli; quanto si avesse a penare peraver copia de' migliori; e come i buoni autori venisseroposcia a poco a poco disotterrati o dalle polverose bi-blioteche di qualche antico monastero, o da' più nascostiangoli delle case, ove giacevansi da molti secoli abban-donati. Or come può essere allettato agli studj chi nonabbia libri che ad essi lo invitino? o come, bramandolo

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La mancanzadei mezzi percoltivare gli studj.

XXV. Nulla meno è dannosa alla letteratu-ra, e rende inutil l'impegno e la munificen-za de' principi pel coltivamento degli studj,la mancanza de' mezzi necessari per colti-varli. Parlo singolarmente de' libri, i quali

non solamente sono occasioni che invitano a coltivare lescienze, ma spianano ancora a tutti gli studj la strada, ocol proporne eccellenti esemplari, o coll'offerire raccolteinsieme quelle notizie che difficilmente e a grande sten-to potremmo rinvenire disperse altrove. Quando gli stu-dj fiorivano tra' Romani, erano assai moltiplicati i libri.Oltre le pubbliche biblioteche, oltre più altre private,ognuno potea facilmente trovar de' codici, e valersene asuoi studj. Ma col raffreddarsi l'ardor per le lettere, siscemò ancor la premura di aver de' libri, nè furono più iRomani tanto solleciti per moltiplicarli. Le irruzioni de'popoli barbari, le rovine, i saccheggiamenti, incendj acui Roma e l'Italia tutta fu per più secoli miseramentesoggetta, dovetter distruggerne e consumarne gran parte.Le guerre civili che sopravvennero dopo, distrussero ciòche si era potuto sottrarre al furore de' Barbari. Il segui-to di questa Storia ci farà vedere quale scarsezza di librivi avesse ne' bassi secoli; quanto si avesse a penare peraver copia de' migliori; e come i buoni autori venisseroposcia a poco a poco disotterrati o dalle polverose bi-blioteche di qualche antico monastero, o da' più nascostiangoli delle case, ove giacevansi da molti secoli abban-donati. Or come può essere allettato agli studj chi nonabbia libri che ad essi lo invitino? o come, bramandolo

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La mancanzadei mezzi percoltivare gli studj.

ancora, può coltivarli, se un tal mezzo gli manchi nonsolo utile, ma necessario? In fatti allora singolarmente siaccese il fervor per gli studj, quando introdotta la stam-pa furono in maggior copia e più agevoli a ritrovarsi i li-bri.

XXVI. Per queste ragioni adunque e in que-sti maniera decadon gli studj in ciò ch'è fer-vore e moltitudine d'uomini che ad essi sivolgano. Ma mal si apporrebbe chi pensasseche queste bastassero a spiegare ogni rivo-luzione della letteratura. Benchè i principinon si mostrino splendidi protettori de' lette-rati, benchè il costume sia guasto, infelici i

tempi, scarso il numero de' libri, pur vi ha in ogni tempoqualche numero d'uomini che si volgono con impegnoagli studj, ed a cui non mancano libri per coltivarli; edogni secolo, per quanto sia stato barbaro e rozzo, haavuti poeti, storici, filosofi ed oratori. E nondimeno que-sti non sono in ogni secolo ugualmente buoni; anzi permolti secoli non vi è quasi stato scrittore alcuno, le cuiopere per forza di eloquenza, per grazia d'immaginazio-ne, per eleganza di stile, per finezza di critica degne fos-sero della stima comune e della immortalità. Or questonon potrà certo attribuirsi ad alcuna delle mentovate ra-gioni; ed altre convien trovarne per rinvenire l'origine diquesto nuovo genere di decadimento, che consistenell'allontanarsi dal buon gusto, e nel voler battere una

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Terza ma-niera di de-cadenza, cioè quan-do s'intro-duce un reogusto; ori-gine di essa.

ancora, può coltivarli, se un tal mezzo gli manchi nonsolo utile, ma necessario? In fatti allora singolarmente siaccese il fervor per gli studj, quando introdotta la stam-pa furono in maggior copia e più agevoli a ritrovarsi i li-bri.

XXVI. Per queste ragioni adunque e in que-sti maniera decadon gli studj in ciò ch'è fer-vore e moltitudine d'uomini che ad essi sivolgano. Ma mal si apporrebbe chi pensasseche queste bastassero a spiegare ogni rivo-luzione della letteratura. Benchè i principinon si mostrino splendidi protettori de' lette-rati, benchè il costume sia guasto, infelici i

tempi, scarso il numero de' libri, pur vi ha in ogni tempoqualche numero d'uomini che si volgono con impegnoagli studj, ed a cui non mancano libri per coltivarli; edogni secolo, per quanto sia stato barbaro e rozzo, haavuti poeti, storici, filosofi ed oratori. E nondimeno que-sti non sono in ogni secolo ugualmente buoni; anzi permolti secoli non vi è quasi stato scrittore alcuno, le cuiopere per forza di eloquenza, per grazia d'immaginazio-ne, per eleganza di stile, per finezza di critica degne fos-sero della stima comune e della immortalità. Or questonon potrà certo attribuirsi ad alcuna delle mentovate ra-gioni; ed altre convien trovarne per rinvenire l'origine diquesto nuovo genere di decadimento, che consistenell'allontanarsi dal buon gusto, e nel voler battere una

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Terza ma-niera di de-cadenza, cioè quan-do s'intro-duce un reogusto; ori-gine di essa.

strada diversa da quella che per l'addietro battevasi. Aquesto luogo convien richiamare ciò che nel Tomo pre-cedente si è da noi trattato diffusamente, ove abbiam ri-cercata l'origine del decadimento dell'eloquenza, che av-venne fin da' tempi d'Augusto. Abbiamo ivi osservatoch'è questo destino comune a tutte le arti che hanno perloro primario oggetto il bello, quali sono l'eloquenza, lapoesia, la storia, in quanto è sposizione delle cose avve-nute, e le tre arti sorelle, che quando sian giunte alla lorperfezione, dicadano di bel nuovo, e tornino a discende-re onde eran salite. L'ambizione conduce gli uomini avoler superare coloro che gli han preceduti. Or quandouno sia giunto a quel segno in cui propriamente consisteil bello, chi voglia ancora avanzarsi più oltre, verrà a ri-cader ne' difetti i quali eran comuni a coloro che non vierano ancor giunti. Così abbiam veduto che accaddenell'eloquenza dopo la morte di Cicerone. Asinio Pollio-ne, come si è dimostrato, riprese l'eloquenza di Ciceronecome languida, debole, ed incolta; e un nuovo genere dieloquenza introdusse così arida e digiuna, e di uno stilesì affettato, che parve richiamar la rozzezza de' secolitrapassati. I due Seneca, il retore e il filosofo, gli vennerdietro, e col raffinar sempre più il ragionamento e lo sti-le, renderono l'eloquenza sempre peggiore. Ma essi eranuomini avuti in grande stima, e credevasi cosa onorevo-le il premere le lor vestigia. Il lor gusto dunque, la ma-niera lor di pensare, e il loro stile divenner comuni allapiù parte degli scrittori. Lo stesso dicasi degli storici ede' poeti. Velleio Patercolo e Tacito vogliono superare in

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strada diversa da quella che per l'addietro battevasi. Aquesto luogo convien richiamare ciò che nel Tomo pre-cedente si è da noi trattato diffusamente, ove abbiam ri-cercata l'origine del decadimento dell'eloquenza, che av-venne fin da' tempi d'Augusto. Abbiamo ivi osservatoch'è questo destino comune a tutte le arti che hanno perloro primario oggetto il bello, quali sono l'eloquenza, lapoesia, la storia, in quanto è sposizione delle cose avve-nute, e le tre arti sorelle, che quando sian giunte alla lorperfezione, dicadano di bel nuovo, e tornino a discende-re onde eran salite. L'ambizione conduce gli uomini avoler superare coloro che gli han preceduti. Or quandouno sia giunto a quel segno in cui propriamente consisteil bello, chi voglia ancora avanzarsi più oltre, verrà a ri-cader ne' difetti i quali eran comuni a coloro che non vierano ancor giunti. Così abbiam veduto che accaddenell'eloquenza dopo la morte di Cicerone. Asinio Pollio-ne, come si è dimostrato, riprese l'eloquenza di Ciceronecome languida, debole, ed incolta; e un nuovo genere dieloquenza introdusse così arida e digiuna, e di uno stilesì affettato, che parve richiamar la rozzezza de' secolitrapassati. I due Seneca, il retore e il filosofo, gli vennerdietro, e col raffinar sempre più il ragionamento e lo sti-le, renderono l'eloquenza sempre peggiore. Ma essi eranuomini avuti in grande stima, e credevasi cosa onorevo-le il premere le lor vestigia. Il lor gusto dunque, la ma-niera lor di pensare, e il loro stile divenner comuni allapiù parte degli scrittori. Lo stesso dicasi degli storici ede' poeti. Velleio Patercolo e Tacito vogliono superare in

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forza di espressione, in precision di stile, in finezza disentimenti Cesare, Livio, e lo stesso Sallustio; e cadonperciò in una oscurità che spesso ci fa arrestare nel leg-gere i loro libri, e in un raffinamento che togliendo lanaturalezza al racconto, lo rende stentato, e a lungo an-dare noioso ed insoffribile. Lucano, Seneca il tragico,Marziale, Stazio, Persio, e Giovenale vogliono, comechiaramente si vede da' loro versi, andare innanzi a Vir-gilio, a Catullo, ad Orazio. Or che ne avviene? Divengo-no declamatori importuni, verseggiatori ampollosi, tron-fi senza maestà, ingegnosi senza naturalezza. Ma essierano gli storici migliori e i migliori poeti che allor vi-vessero; e perciò il loro esempio fu ciecamente seguito.Quintiliano, uno degli uomini di miglior gusto che fos-sero mai, usò, come vedremo, ogni sforzo per ricondur-re sul diritto sentiero i travianti Romani. Ma troppo eragià sul pendio il buon gusto, perchè se ne potesse cosìfacilmente impedir la rovina; e si credette che fosse in-vidia e non ragione quella che inducesse Quintiliano, ariprendere una tale eloquenza, come a suo luogo diremo.

XXVII. Nè diversa fu l'origine dell'altrodicadimento che ebbero a soffrire le belleLettere nello scorso secolo, anzi al finedel secolo XVI. L'Ariosto, il Sannazzaro,il Tasso, e tanti altri poeti del secol d'oro,per così dire, della italiana letteratura,sembravano aver condotta la poesia alla

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La decadenza dell'amena let-teratura nel se-colo scorso ebbe la stessa origine che quella dopo la morte di Au-gusto.

forza di espressione, in precision di stile, in finezza disentimenti Cesare, Livio, e lo stesso Sallustio; e cadonperciò in una oscurità che spesso ci fa arrestare nel leg-gere i loro libri, e in un raffinamento che togliendo lanaturalezza al racconto, lo rende stentato, e a lungo an-dare noioso ed insoffribile. Lucano, Seneca il tragico,Marziale, Stazio, Persio, e Giovenale vogliono, comechiaramente si vede da' loro versi, andare innanzi a Vir-gilio, a Catullo, ad Orazio. Or che ne avviene? Divengo-no declamatori importuni, verseggiatori ampollosi, tron-fi senza maestà, ingegnosi senza naturalezza. Ma essierano gli storici migliori e i migliori poeti che allor vi-vessero; e perciò il loro esempio fu ciecamente seguito.Quintiliano, uno degli uomini di miglior gusto che fos-sero mai, usò, come vedremo, ogni sforzo per ricondur-re sul diritto sentiero i travianti Romani. Ma troppo eragià sul pendio il buon gusto, perchè se ne potesse cosìfacilmente impedir la rovina; e si credette che fosse in-vidia e non ragione quella che inducesse Quintiliano, ariprendere una tale eloquenza, come a suo luogo diremo.

XXVII. Nè diversa fu l'origine dell'altrodicadimento che ebbero a soffrire le belleLettere nello scorso secolo, anzi al finedel secolo XVI. L'Ariosto, il Sannazzaro,il Tasso, e tanti altri poeti del secol d'oro,per così dire, della italiana letteratura,sembravano aver condotta la poesia alla

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La decadenza dell'amena let-teratura nel se-colo scorso ebbe la stessa origine che quella dopo la morte di Au-gusto.

sua perfezione. Si volle andar più oltre, ed essendo trop-po malagevole superarli in grazia, in leggiadria, in tuttele altre doti che tanto più adornano la poesia, quanto piùsembrano naturali e non ricercate, si ebbe ricorso alle al-legorie, alle metafore, ai concetti. Il Marini, uno de' pri-mi autori del gusto corrotto, era uom d'ingegno grande,e per esso avuto in grande stima; e quindi il suo esempioinfettò gli altri. Le cose nuove piacciono, e una stradache sia stata di fresco aperta, sembra più bella a battersiche le antiche. La corruzione della poesia passò all'elo-quenza. Gli oratori precedenti sembravan, e forse conqualche ragione, languidi e snervati; ma invece di ren-der l'eloquenza più nervosa e più forte, si rendette piùcapricciosa. Quelli parvero i migliori oratori, che usarsapevano di più strane metafore: e la verità tanto parevapiù bella, quanto più era esposta sotto apparenza di fal-sità. A ciò concorse ancora, come osserva un colto e in-gegnoso moderno scrittore (Entusiasmo p. 304) il domi-nio che gli Spagnuoli avevano allora in Italia (1). Questa

1 Ecco l'orribil delitto da me commesso, per cui l'ab. Lampillas mi ha trattoin giudizio, e mi ha con un lungo processo di più volumi accusato comedichiarato nemico del nome e della gloria spagnuola. L'avere io scritto, cheal decadimento, del buon gusto concorse ancora il dominio che gli spa-gnuoli avevano allora in Italia, colle parole che seguono, è stata l'originedella guerra ch'ei mi ha dichiarata; e per questo breve tratto (giacchè altronon ne ha in tutti i dodici tomi della mia Storia, in cui io parli generalmen-te degli Spagnuoli) egli ha asserito che tutta la mia storia io ha diretta ascreditare la Spagna. Prima però di lui era sorto a difesa della sua nazione,l'ab. d. Giovanni Andres, il quale in una lettera al sig. Commendatore Va-lenti stampata in Cremona nel 1776 avea preso a mostrare che non potean-si incolpar gli Spagnuoli della decadenza del buon gusto in Italia. Nellaqual contesa però egli ha usato quella saggia moderazione e quelle pulite

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sua perfezione. Si volle andar più oltre, ed essendo trop-po malagevole superarli in grazia, in leggiadria, in tuttele altre doti che tanto più adornano la poesia, quanto piùsembrano naturali e non ricercate, si ebbe ricorso alle al-legorie, alle metafore, ai concetti. Il Marini, uno de' pri-mi autori del gusto corrotto, era uom d'ingegno grande,e per esso avuto in grande stima; e quindi il suo esempioinfettò gli altri. Le cose nuove piacciono, e una stradache sia stata di fresco aperta, sembra più bella a battersiche le antiche. La corruzione della poesia passò all'elo-quenza. Gli oratori precedenti sembravan, e forse conqualche ragione, languidi e snervati; ma invece di ren-der l'eloquenza più nervosa e più forte, si rendette piùcapricciosa. Quelli parvero i migliori oratori, che usarsapevano di più strane metafore: e la verità tanto parevapiù bella, quanto più era esposta sotto apparenza di fal-sità. A ciò concorse ancora, come osserva un colto e in-gegnoso moderno scrittore (Entusiasmo p. 304) il domi-nio che gli Spagnuoli avevano allora in Italia (1). Questa

1 Ecco l'orribil delitto da me commesso, per cui l'ab. Lampillas mi ha trattoin giudizio, e mi ha con un lungo processo di più volumi accusato comedichiarato nemico del nome e della gloria spagnuola. L'avere io scritto, cheal decadimento, del buon gusto concorse ancora il dominio che gli spa-gnuoli avevano allora in Italia, colle parole che seguono, è stata l'originedella guerra ch'ei mi ha dichiarata; e per questo breve tratto (giacchè altronon ne ha in tutti i dodici tomi della mia Storia, in cui io parli generalmen-te degli Spagnuoli) egli ha asserito che tutta la mia storia io ha diretta ascreditare la Spagna. Prima però di lui era sorto a difesa della sua nazione,l'ab. d. Giovanni Andres, il quale in una lettera al sig. Commendatore Va-lenti stampata in Cremona nel 1776 avea preso a mostrare che non potean-si incolpar gli Spagnuoli della decadenza del buon gusto in Italia. Nellaqual contesa però egli ha usato quella saggia moderazione e quelle pulite

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ingegnosa nazione che sembra, direi quasi, per effetto diclima portata naturalmente alle sottigliezze, e che perciòha avuti tanti famosi scolastici, e sì pochi celebri oratorie poeti signoreggiavane allora una gran parte: i loro librisi spargevano facilmente, il loro gusto si comunicava; ecome sembra che i sudditi facilmente si vestano delle

maniere nelle quali sarebbe stato a bramare che altri l'avessero imitato. Ionon voglio rientrar qui sull'esame di questo punto, in ciò che appartienealla proposizione generale da me qui stabilita, la quale ne è necessariamen-te connessa col sistema da me proposto in questa Dissertazione, ed è statada me toccata sì in breve e come di passaggio, che non è conveniente cheper sostenerla io impieghi molte pagine, quante si richiederebbono a esa-minare ogni cosa che mi è stata opposta. Si legga la lettera dell'ab. Andres,e si esaminino diligentemente i fatti e le epoche da lui stabilite: e si leggaciò che scrive in confutazione di questa general proposizione l'ab. Lampil-las, si confrontino le sue citazioni, si pesi maturamente ogni cosa. Se sem-brerà a' dotti imparziali, ch'essi abbian ragione, e ch'io mi sia ingannato, oa dir meglio, ch'io abbia incautamente seguito l'errore di tanti altri che pri-ma di me hanno scritto lo stesso, io volentieri mi arrendo, e mi confessovinto. Se al contrario ad essi parrà che la proposizione da me stabilita siaben fondata, io pago del lor giudizio lascerò che si moltiplichino i volumicontro la mia Storia, e che gl'impugnatori di essa si vantino quanto lor pia-ce de' lor trionfi. Solo in alcune quistioni particolari che nulla hanno a farecolla proposizion generale, benchè l'ab. Lampillas le creda da me malizio-samente dirette a prova di essa, io esaminerò a' luoghi opportuni le sue ob-biezioni. Una cosa sola toccherò a questo luogo, in cui avrei bramatonell'ab. Lampillas o miglior fede nel riferire il mio sentimento, o migliordiscernimento in intenderlo. Egli vuol combattere ciò che qui io ho dettocioè che il "clima sotto cui eran nati (Seneca, Lucano, e Marziale), potècontribuire assai a condurgli al cattivo gusto che in essi veggiamo." Orecco come ei mi rimprovera (t. 2, p. 210): "Non so come mai sia fuggitodalla penna all'ab. Tiraboschi quel terribil decreto contro il clima di Spa-gna, dopo aver dottamente provato contro l'ab. du Bos che il buono, o cat-tivo gusto nelle arti e scienze non può essere affare di clima". Or che ho iodetto contro l'ab. du Bos? Ecco le mie parole riportate qui dal medesimoab. Lampillas: "Tutto il decadimento adunque (del secolo XVII) si ristrin-ge a questo cattivo gusto che allor s'introdusse. Ma potrà egli l'ab. du Bos

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ingegnosa nazione che sembra, direi quasi, per effetto diclima portata naturalmente alle sottigliezze, e che perciòha avuti tanti famosi scolastici, e sì pochi celebri oratorie poeti signoreggiavane allora una gran parte: i loro librisi spargevano facilmente, il loro gusto si comunicava; ecome sembra che i sudditi facilmente si vestano delle

maniere nelle quali sarebbe stato a bramare che altri l'avessero imitato. Ionon voglio rientrar qui sull'esame di questo punto, in ciò che appartienealla proposizione generale da me qui stabilita, la quale ne è necessariamen-te connessa col sistema da me proposto in questa Dissertazione, ed è statada me toccata sì in breve e come di passaggio, che non è conveniente cheper sostenerla io impieghi molte pagine, quante si richiederebbono a esa-minare ogni cosa che mi è stata opposta. Si legga la lettera dell'ab. Andres,e si esaminino diligentemente i fatti e le epoche da lui stabilite: e si leggaciò che scrive in confutazione di questa general proposizione l'ab. Lampil-las, si confrontino le sue citazioni, si pesi maturamente ogni cosa. Se sem-brerà a' dotti imparziali, ch'essi abbian ragione, e ch'io mi sia ingannato, oa dir meglio, ch'io abbia incautamente seguito l'errore di tanti altri che pri-ma di me hanno scritto lo stesso, io volentieri mi arrendo, e mi confessovinto. Se al contrario ad essi parrà che la proposizione da me stabilita siaben fondata, io pago del lor giudizio lascerò che si moltiplichino i volumicontro la mia Storia, e che gl'impugnatori di essa si vantino quanto lor pia-ce de' lor trionfi. Solo in alcune quistioni particolari che nulla hanno a farecolla proposizion generale, benchè l'ab. Lampillas le creda da me malizio-samente dirette a prova di essa, io esaminerò a' luoghi opportuni le sue ob-biezioni. Una cosa sola toccherò a questo luogo, in cui avrei bramatonell'ab. Lampillas o miglior fede nel riferire il mio sentimento, o migliordiscernimento in intenderlo. Egli vuol combattere ciò che qui io ho dettocioè che il "clima sotto cui eran nati (Seneca, Lucano, e Marziale), potècontribuire assai a condurgli al cattivo gusto che in essi veggiamo." Orecco come ei mi rimprovera (t. 2, p. 210): "Non so come mai sia fuggitodalla penna all'ab. Tiraboschi quel terribil decreto contro il clima di Spa-gna, dopo aver dottamente provato contro l'ab. du Bos che il buono, o cat-tivo gusto nelle arti e scienze non può essere affare di clima". Or che ho iodetto contro l'ab. du Bos? Ecco le mie parole riportate qui dal medesimoab. Lampillas: "Tutto il decadimento adunque (del secolo XVII) si ristrin-ge a questo cattivo gusto che allor s'introdusse. Ma potrà egli l'ab. du Bos

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inclinazioni e de' costumi de' loro signori, gl'Italiani di-vennero per così dire, spagnuoli. A confermare un talsentimento io aggiugnerò una riflessione che parrà forsealquanto di sottigliezza, ma ch'è certamente fondata suun vero fatto. La Toscana, ch'era più lontana dagli Statidi Napoli e di Lombardia da essi dominati, fu la mensoggetta a queste alterazioni; come se il contagio andas-se perdendo la sua forza, quanto più allontanavasi dallasorgente onde traeva l'origine. Non potrebbesi egli ancordire che ciò concorresse non meno al primo dicadimentodelle lettere dopo la morte d'Augusto? Marziale, Luca-no, e i Seneca furon certamente quelli che all'eloquenzae alla poesia recarono maggior danno; ed essi ancoraerano spagnuoli; e il clima sotto cui eran nati congiuntoalle cagioni morali che abbiam recate, potè contribuireassai a condurli al cattivo gusto che in essi veggiamo.

affermar seriamente che debbasi ciò attribuire alla mutazion di clima?" Madove è mai qui la menoma ombra di contraddizione? Io dico che il climapuò render naturalmente gli uomini di un paese più inclinati alle sottigliez-ze, che quei di un altro. Questa è la mia prima proposizione. Dico in se-condo luogo che la mutazione del gusto, che s'introduce talvolta in una na-zione da un secolo all'altro, non può essere effetto di MUTAZIONE di clima,perchè da un secolo all'altro non può darsi gran cambiamento di clima nel-la stessa provincia. Questa è la seconda proposizione; ed amendue le vedràil sig. ab. Lampillas da me lungamente provate in questa mia Dissertazio-ne. Or io sfido il più sottile dialettico a trovare in queste due proposizionila più lieve idea di contraddizione.

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inclinazioni e de' costumi de' loro signori, gl'Italiani di-vennero per così dire, spagnuoli. A confermare un talsentimento io aggiugnerò una riflessione che parrà forsealquanto di sottigliezza, ma ch'è certamente fondata suun vero fatto. La Toscana, ch'era più lontana dagli Statidi Napoli e di Lombardia da essi dominati, fu la mensoggetta a queste alterazioni; come se il contagio andas-se perdendo la sua forza, quanto più allontanavasi dallasorgente onde traeva l'origine. Non potrebbesi egli ancordire che ciò concorresse non meno al primo dicadimentodelle lettere dopo la morte d'Augusto? Marziale, Luca-no, e i Seneca furon certamente quelli che all'eloquenzae alla poesia recarono maggior danno; ed essi ancoraerano spagnuoli; e il clima sotto cui eran nati congiuntoalle cagioni morali che abbiam recate, potè contribuireassai a condurli al cattivo gusto che in essi veggiamo.

affermar seriamente che debbasi ciò attribuire alla mutazion di clima?" Madove è mai qui la menoma ombra di contraddizione? Io dico che il climapuò render naturalmente gli uomini di un paese più inclinati alle sottigliez-ze, che quei di un altro. Questa è la mia prima proposizione. Dico in se-condo luogo che la mutazione del gusto, che s'introduce talvolta in una na-zione da un secolo all'altro, non può essere effetto di MUTAZIONE di clima,perchè da un secolo all'altro non può darsi gran cambiamento di clima nel-la stessa provincia. Questa è la seconda proposizione; ed amendue le vedràil sig. ab. Lampillas da me lungamente provate in questa mia Dissertazio-ne. Or io sfido il più sottile dialettico a trovare in queste due proposizionila più lieve idea di contraddizione.

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XXVIII. Ma il cattivo gusto del secoloscorso non è durato che circa un secolo; alcontrario quando s'introdusse in Roma dopola morte d'Augusto, vi si mantenne assai piùlungamente, e per tanti secoli i buoni studjandarono ognor più decadendo, non solo

scemandosi sempre più il fervore nel coltivarli, di chegià si è favellato, ma guastandosi ognor più ancora ilbuon gusto e lo stile. Fatto degno d'osservazione, e dicui conviene esaminare attentamente l'origine e le ca-gioni. Quando nello scorso secolo era sì infelice il gustodella letteratura, che dominava in Italia, si coltivavanonondimeno le lettere con impegno nulla minore di quel-lo che si fosse fatto nel secolo precedente, come già si èdetto; e le stesse cagioni a un dipresso che aveano alloraacceso un tale ardore, proseguivano a mantenerlo vivoed ardente. Correvano gli uomini la via degli studj, mala correvano per un falso sentiero, o perchè per amore dinovità e di gloria si erano distolti dal buon cammino, operchè avean preso a seguire cattive guide. Ma pur lacorrevano, e solo sarebbe stato d'uopo che o da se mede-simi conoscessero il mal sentiero su cui si erano messi,o che alcuno amichevolmente li facesse avvedere delloro errore. Le buone guide lor non mancavano; autoriottimi di ogni maniera su' quali studiando si sarebbonfors'anche renduti loro uguali: ma questi erano dimenti-cati; e benchè, direi quasi per umano rispetto, si dicesseancora che Cicerone, Livio, Catullo, Virgilio erano i mi-gliori autori, davasi però una segreta preferenza, e con

81

Per qual ra-gione quel-la dello scorso se-colo duras-se poco.

XXVIII. Ma il cattivo gusto del secoloscorso non è durato che circa un secolo; alcontrario quando s'introdusse in Roma dopola morte d'Augusto, vi si mantenne assai piùlungamente, e per tanti secoli i buoni studjandarono ognor più decadendo, non solo

scemandosi sempre più il fervore nel coltivarli, di chegià si è favellato, ma guastandosi ognor più ancora ilbuon gusto e lo stile. Fatto degno d'osservazione, e dicui conviene esaminare attentamente l'origine e le ca-gioni. Quando nello scorso secolo era sì infelice il gustodella letteratura, che dominava in Italia, si coltivavanonondimeno le lettere con impegno nulla minore di quel-lo che si fosse fatto nel secolo precedente, come già si èdetto; e le stesse cagioni a un dipresso che aveano alloraacceso un tale ardore, proseguivano a mantenerlo vivoed ardente. Correvano gli uomini la via degli studj, mala correvano per un falso sentiero, o perchè per amore dinovità e di gloria si erano distolti dal buon cammino, operchè avean preso a seguire cattive guide. Ma pur lacorrevano, e solo sarebbe stato d'uopo che o da se mede-simi conoscessero il mal sentiero su cui si erano messi,o che alcuno amichevolmente li facesse avvedere delloro errore. Le buone guide lor non mancavano; autoriottimi di ogni maniera su' quali studiando si sarebbonfors'anche renduti loro uguali: ma questi erano dimenti-cati; e benchè, direi quasi per umano rispetto, si dicesseancora che Cicerone, Livio, Catullo, Virgilio erano i mi-gliori autori, davasi però una segreta preferenza, e con

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Per qual ra-gione quel-la dello scorso se-colo duras-se poco.

più piacer si leggevano Seneca, Tacito, Marziale, Luca-no ed altri somiglianti scrittori. Si cominciò finalmentead aprire gli occhi. Alcuni non temerono di andar incon-tro a' pregiudizi volgari; gridarono ad alta voce che nonera quello il buon sentiero; additarono l'antico ch'erastato abbandonato; presero a batterlo essi stessi; ebberoa contrastare, e a soffrir ancora il dispregio di coloroche, non volendo confessare di aver errato, volean con-vincere di errore tutti gli altri; ma finalmente prevalsero.L'impegno usato in seguire il cattivo gusto si volse albuono. Si antepose a Seneca Cicerone, Catullo a Mar-ziale, il Petrarca al Marini; il buon gusto si ristabilì, edurerà tra noi finchè l'amore di novità e di gloria non ciconduca a voler di nuovo lasciare il ripreso sentiero, e atentarne un altro che ci conduca a rovina. Ma non cosìaccadde, nè così poteva accadere nel decadimento se-guito dopo la morte d'Augusto.

XXIX. Se quando fu cessato quel primo im-petuoso amore di novità, ch'entrò allor tra'Romani, l'Italia si fosse trovata nelle circo-stanze medesime in cui si è trovata dopo ladecadenza dello scorso secolo, io penso che

le lettere sarebbon risorte all'antico onore. Ma i tempinon eran punto a ciò opportuni. Vuolsi qui ricordare ciòche abbiam detto di sopra, delle cagioni per cui poco fu-ron coltivati gli studj in queste età, e tanto meno, quantopiù si venne innanzi fino a Carlo Magno. Le guerre civi-

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E quella più antica fosse di sì lunga dura-ta.

più piacer si leggevano Seneca, Tacito, Marziale, Luca-no ed altri somiglianti scrittori. Si cominciò finalmentead aprire gli occhi. Alcuni non temerono di andar incon-tro a' pregiudizi volgari; gridarono ad alta voce che nonera quello il buon sentiero; additarono l'antico ch'erastato abbandonato; presero a batterlo essi stessi; ebberoa contrastare, e a soffrir ancora il dispregio di coloroche, non volendo confessare di aver errato, volean con-vincere di errore tutti gli altri; ma finalmente prevalsero.L'impegno usato in seguire il cattivo gusto si volse albuono. Si antepose a Seneca Cicerone, Catullo a Mar-ziale, il Petrarca al Marini; il buon gusto si ristabilì, edurerà tra noi finchè l'amore di novità e di gloria non ciconduca a voler di nuovo lasciare il ripreso sentiero, e atentarne un altro che ci conduca a rovina. Ma non cosìaccadde, nè così poteva accadere nel decadimento se-guito dopo la morte d'Augusto.

XXIX. Se quando fu cessato quel primo im-petuoso amore di novità, ch'entrò allor tra'Romani, l'Italia si fosse trovata nelle circo-stanze medesime in cui si è trovata dopo ladecadenza dello scorso secolo, io penso che

le lettere sarebbon risorte all'antico onore. Ma i tempinon eran punto a ciò opportuni. Vuolsi qui ricordare ciòche abbiam detto di sopra, delle cagioni per cui poco fu-ron coltivati gli studj in queste età, e tanto meno, quantopiù si venne innanzi fino a Carlo Magno. Le guerre civi-

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E quella più antica fosse di sì lunga dura-ta.

li, la noncuranza di quasi tutti gl'imperadori, l'invasionede' popoli barbari, la cessazion dei motivi e degli stimo-li, fecero illanguidire l'impegno nel coltivare gli studj.Vi ebbe de' poeti, degli storici, degli oratori; ma o eranletti da pochi, o se eran uditi da molti, questi non eranoper lo più uomini che o sapessero, o si curassero di giu-dicarne. Quindi quello stimolo che suole spingere gliuomini ad appigliarsi a quel gusto che vede esser più ac-cetto alla moltitudine, più non vi era; perchè la moltitu-dine pensava a tutt'altro che a buon gusto. Aggiungasi lascarsezza de' libri, che andò sempre crescendo, e vedre-mo a qual segno ella fosse ne' secoli barbari. Quindique' tanti storici di que' tempi, che scrivono in uno stileche or ci muove alle risa, ma che allora era il solo usato,perchè niun altro se ne sapeva, per mancanza de' buoniautori da cui apprenderlo, quindi que' racconti favolosi eridicoli che pur veggiamo farsi da quegli scrittori conuna serietà e sicurezza maravigliosa, perchè non aveanole guide degli antichi autori, che gli scorgessero. La bar-barie de' popoli dominanti si comunicava a' sudditi an-cora; quelli si arrogavano il diritto di volger l'armi oveloro paresse meglio, questi di scrivere qualunque cosa ein qualunque modo loro piacesse. Il tempo in cui le cittàd'Italia eran divise tra loro in sanguinose guerre, fu iltempo in cui nacquero le tante favole intorno alla loroorigine; e mentre esse combattevan tra loro per averel'una sull'altra l'autorità del comando, i loro storici com-battevan tra loro per acquistare alla lor patria sopra le al-tre città il vanto dell'antichità più rimota e dell'origine

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li, la noncuranza di quasi tutti gl'imperadori, l'invasionede' popoli barbari, la cessazion dei motivi e degli stimo-li, fecero illanguidire l'impegno nel coltivare gli studj.Vi ebbe de' poeti, degli storici, degli oratori; ma o eranletti da pochi, o se eran uditi da molti, questi non eranoper lo più uomini che o sapessero, o si curassero di giu-dicarne. Quindi quello stimolo che suole spingere gliuomini ad appigliarsi a quel gusto che vede esser più ac-cetto alla moltitudine, più non vi era; perchè la moltitu-dine pensava a tutt'altro che a buon gusto. Aggiungasi lascarsezza de' libri, che andò sempre crescendo, e vedre-mo a qual segno ella fosse ne' secoli barbari. Quindique' tanti storici di que' tempi, che scrivono in uno stileche or ci muove alle risa, ma che allora era il solo usato,perchè niun altro se ne sapeva, per mancanza de' buoniautori da cui apprenderlo, quindi que' racconti favolosi eridicoli che pur veggiamo farsi da quegli scrittori conuna serietà e sicurezza maravigliosa, perchè non aveanole guide degli antichi autori, che gli scorgessero. La bar-barie de' popoli dominanti si comunicava a' sudditi an-cora; quelli si arrogavano il diritto di volger l'armi oveloro paresse meglio, questi di scrivere qualunque cosa ein qualunque modo loro piacesse. Il tempo in cui le cittàd'Italia eran divise tra loro in sanguinose guerre, fu iltempo in cui nacquero le tante favole intorno alla loroorigine; e mentre esse combattevan tra loro per averel'una sull'altra l'autorità del comando, i loro storici com-battevan tra loro per acquistare alla lor patria sopra le al-tre città il vanto dell'antichità più rimota e dell'origine

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più portentosa. Chi sapeva scrivere, era un prodigio disapere; e non era perciò lecito il rivocare in dubbio ciòche da un tal oracolo si pronunciava.

XXX. Io confesso nondimeno che tutto ciòancora non basta a spiegare gli effetti e lecircostanze tutte di questo decadimento. Perquanto barbari e incolti siano stati alcuni se-coli, per quanto grande in essi sia stata lamancanza de' libri, alcuni uomini dotti sonoperò stati in ogni secolo, e alcuni che hanno

pur avuto ottimi libri, e che han potuto formare il lorostile sui buoni autori delle cui opere aveano qualcheesemplare. Ma donde è egli mai avvenuto che per tantisecoli non vi sia quasi stato autore di pura e tersa latini-tà; e che anzi questa sia venuta dopo la morte d'Augustoognor più decadendo fino a giugnere a quella barbarie, acui veggiamo che giunse negli scrittori del secolo unde-cimo e del duodecimo? È egli possibile che a niuno siariuscito di formarsi sul modello di Cicerone, e d'imitar-ne lo stile, benchè pure alcuni abbian cercato e studiatodi farlo? Rechiamone qualche esempio particolare. Nonvi è mai forse stato scrittore che sì altamente abbia sen-tito di Cicerone quanto Quintiliano. Questi, come ab-biam detto, ardì di far fronte all'autorità di Seneca e de-gli altri di lui imitatori; si sforzò di distogliere i Romanidal reo gusto che si era introdotto. Cicerone per lui èl'unico modello su cui formarsi: Hunc spectemus, dice

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Si osserva che per tan-ti secoli non vi è stato uno scrittore di tersa latini-tà.

più portentosa. Chi sapeva scrivere, era un prodigio disapere; e non era perciò lecito il rivocare in dubbio ciòche da un tal oracolo si pronunciava.

XXX. Io confesso nondimeno che tutto ciòancora non basta a spiegare gli effetti e lecircostanze tutte di questo decadimento. Perquanto barbari e incolti siano stati alcuni se-coli, per quanto grande in essi sia stata lamancanza de' libri, alcuni uomini dotti sonoperò stati in ogni secolo, e alcuni che hanno

pur avuto ottimi libri, e che han potuto formare il lorostile sui buoni autori delle cui opere aveano qualcheesemplare. Ma donde è egli mai avvenuto che per tantisecoli non vi sia quasi stato autore di pura e tersa latini-tà; e che anzi questa sia venuta dopo la morte d'Augustoognor più decadendo fino a giugnere a quella barbarie, acui veggiamo che giunse negli scrittori del secolo unde-cimo e del duodecimo? È egli possibile che a niuno siariuscito di formarsi sul modello di Cicerone, e d'imitar-ne lo stile, benchè pure alcuni abbian cercato e studiatodi farlo? Rechiamone qualche esempio particolare. Nonvi è mai forse stato scrittore che sì altamente abbia sen-tito di Cicerone quanto Quintiliano. Questi, come ab-biam detto, ardì di far fronte all'autorità di Seneca e de-gli altri di lui imitatori; si sforzò di distogliere i Romanidal reo gusto che si era introdotto. Cicerone per lui èl'unico modello su cui formarsi: Hunc spectemus, dice

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Si osserva che per tan-ti secoli non vi è stato uno scrittore di tersa latini-tà.

egli (l. 10, c. 1), hoc propositum nobis sit exemplum; ein ogni occasione sempre se ne parla come del verospecchio di eloquenza e di stile. E nondimeno quanto èdiverso lo stile di Quintiliano da quello di Cicerone?Qual piacere non provava s. Girolamo nel legger leOpere di questo oratore? Basta leggere ciò ch'ei narra dise medesimo, e dello studio ch'egli ne fece. E nondime-no, benchè s. Girolamo sia stato detto il Tullio cristiano,può egli il suo stile venire a confronto con quel di Tul-lio? E per discendere a' tempi ancora più recenti, il Pe-trarca uomo di sì colto ingegno era egli pure amantissi-mo di Cicerone, di cui leggeva e studiava attentamente ilibri. E nondimeno il Petrarca che scrive in latino, sem-bra egli quel medesimo che scrive nel volgar nostro lin-guaggio? In somma per quattordici secoli non vi è statoquasi scrittore a cui sia riuscito d'imitar felicemente lostile di Cicerone, cui pur veggiamo in questi tre ultimisecoli da non pochi felicemente imitato. Egli è questo, ilconfesso, il punto più difficile a rischiararsi, e di cui perlungo tempo io ho quasi disperato di poter trovare unaprobabile spiegazione. Dopo molte riflessioni nondime-no mi lusingo di aver finalmente scoperta qualche noninverisimil ragione di questo, per così dire, letterario fe-nomeno.

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egli (l. 10, c. 1), hoc propositum nobis sit exemplum; ein ogni occasione sempre se ne parla come del verospecchio di eloquenza e di stile. E nondimeno quanto èdiverso lo stile di Quintiliano da quello di Cicerone?Qual piacere non provava s. Girolamo nel legger leOpere di questo oratore? Basta leggere ciò ch'ei narra dise medesimo, e dello studio ch'egli ne fece. E nondime-no, benchè s. Girolamo sia stato detto il Tullio cristiano,può egli il suo stile venire a confronto con quel di Tul-lio? E per discendere a' tempi ancora più recenti, il Pe-trarca uomo di sì colto ingegno era egli pure amantissi-mo di Cicerone, di cui leggeva e studiava attentamente ilibri. E nondimeno il Petrarca che scrive in latino, sem-bra egli quel medesimo che scrive nel volgar nostro lin-guaggio? In somma per quattordici secoli non vi è statoquasi scrittore a cui sia riuscito d'imitar felicemente lostile di Cicerone, cui pur veggiamo in questi tre ultimisecoli da non pochi felicemente imitato. Egli è questo, ilconfesso, il punto più difficile a rischiararsi, e di cui perlungo tempo io ho quasi disperato di poter trovare unaprobabile spiegazione. Dopo molte riflessioni nondime-no mi lusingo di aver finalmente scoperta qualche noninverisimil ragione di questo, per così dire, letterario fe-nomeno.

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XXXI. Io dunque rifletto che dopo lamorte di Augusto cominciò Roma ad esse-re più assai che prima inondata da popolistranieri. Questi eran sudditi a Roma; echiunque tra essi avea talenti, da cui spe-

rare o nelle scienze, o nelle armi, o nella magistraturaonorevole avanzamento, venivasene alla capitale ovesolamente poteva lusingarsi di conseguirlo. Vedremo infatti che una gran parte dei poeti, degli oratori, de' retori,de' gramatici che fiorirono a questi tempi in Roma, furo-no stranieri, singolarmente francesi e spagnuoli. Moltopiù crebbe il numero de' forestieri quando forestieri co-minciarono ad essere gl'imperadori. Nerva fu il primo, edopo lui la più parte dei suoi successori fino alla cadutadel romano impero. Allora i barbari e gli stranieri a gui-sa di rovinoso torrente più volte inondaron l'Italia, e vifissarono stanza. Or tutti questi non potendo sperare chegl'Italiani volessero apprendere gli strani loro linguaggi,e volendo pur essere intesi, si diedero essi ancora adusar del latino; ma come appunto soglion fare coloroche voglion parlare una lingua cui non hanno appresaper regole e per principj, ma solo coll'addomesticarsi eragionare con quelli a' quali è natia. Usavano quelle pa-role che vedevano usarsi in Italia; ma spesso ancoraeran paghi di dare una terminazione latina alle paroledel lor proprio linguaggio; e purchè le parole fossero inalcun modo latine, credevano di parlare e di scrivere la-tinamente, usando la sintassi, l'ordine, la costruzionemedesima delle lor lingue. Quindi noi veggiamo tanto

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Se ne ripete laragione singo-larmentedall'irruzionedei Barbari.

XXXI. Io dunque rifletto che dopo lamorte di Augusto cominciò Roma ad esse-re più assai che prima inondata da popolistranieri. Questi eran sudditi a Roma; echiunque tra essi avea talenti, da cui spe-

rare o nelle scienze, o nelle armi, o nella magistraturaonorevole avanzamento, venivasene alla capitale ovesolamente poteva lusingarsi di conseguirlo. Vedremo infatti che una gran parte dei poeti, degli oratori, de' retori,de' gramatici che fiorirono a questi tempi in Roma, furo-no stranieri, singolarmente francesi e spagnuoli. Moltopiù crebbe il numero de' forestieri quando forestieri co-minciarono ad essere gl'imperadori. Nerva fu il primo, edopo lui la più parte dei suoi successori fino alla cadutadel romano impero. Allora i barbari e gli stranieri a gui-sa di rovinoso torrente più volte inondaron l'Italia, e vifissarono stanza. Or tutti questi non potendo sperare chegl'Italiani volessero apprendere gli strani loro linguaggi,e volendo pur essere intesi, si diedero essi ancora adusar del latino; ma come appunto soglion fare coloroche voglion parlare una lingua cui non hanno appresaper regole e per principj, ma solo coll'addomesticarsi eragionare con quelli a' quali è natia. Usavano quelle pa-role che vedevano usarsi in Italia; ma spesso ancoraeran paghi di dare una terminazione latina alle paroledel lor proprio linguaggio; e purchè le parole fossero inalcun modo latine, credevano di parlare e di scrivere la-tinamente, usando la sintassi, l'ordine, la costruzionemedesima delle lor lingue. Quindi noi veggiamo tanto

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Se ne ripete laragione singo-larmentedall'irruzionedei Barbari.

più nuove voci di origine barbara accrescersi alla lingualatina, quanto più scendiamo abbasso ne' tempi; quindiancora veggiamo un nuovo suono, una nuova maniera ditrasposizioni, una diversa sintassi essere in uso ne' di-versi secoli, secondo che diversi erano i popoli che do-minavano in Italia. Con ciò a me pare che probabilmen-te si spieghi non solo la rozzezza dello stile di quelli tragli scrittori ch'erano stranieri, ma di quelli ancora a' qua-li il parlar latino era natio. Questi frammischiati co' Bar-bari ch'erano forse in numero maggiore di essi, ne ap-prendevano la maniera di favellare, ne adottavano le pa-role, vestivano i difetti del loro stile, e quindi a poco apoco si venne formando quello stil latino barbaro cheper tanto tempo fu in uso. Eranvi a dir vero alcuni pochiche attentamente leggevano i buoni autori, e cercavanodi formarsi sul loro stile. Ma che? Essi vivevano in mez-zo ad altri uomini che o non potendo per mancanza di li-bri, o non curando per negligenza di fare lo stesso stu-dio, parlavano e scrivevano di uno stil rozzo ed incolto.Essi conversavan con loro, udivano continuamente leloro espressioni, leggevano i loro libri; e avveniva per-ciò ad essi ciò che avviene ad uom sano e robusto, cheaddomesticandosi con un infermo di mal contagioso, apoco a poco ne bee il veleno. Il che ancora più facilmen-te dovette avvenire, perchè non era stata ancora la lin-gua latina ordinatamente ridotta a regole ed a principjdeterminati. I libri degli antichi gramatici per lo più con-tenevano anzi varie e separate osservazioni di lingua,che una ben disposta introduzione a scrivere latinamen-

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più nuove voci di origine barbara accrescersi alla lingualatina, quanto più scendiamo abbasso ne' tempi; quindiancora veggiamo un nuovo suono, una nuova maniera ditrasposizioni, una diversa sintassi essere in uso ne' di-versi secoli, secondo che diversi erano i popoli che do-minavano in Italia. Con ciò a me pare che probabilmen-te si spieghi non solo la rozzezza dello stile di quelli tragli scrittori ch'erano stranieri, ma di quelli ancora a' qua-li il parlar latino era natio. Questi frammischiati co' Bar-bari ch'erano forse in numero maggiore di essi, ne ap-prendevano la maniera di favellare, ne adottavano le pa-role, vestivano i difetti del loro stile, e quindi a poco apoco si venne formando quello stil latino barbaro cheper tanto tempo fu in uso. Eranvi a dir vero alcuni pochiche attentamente leggevano i buoni autori, e cercavanodi formarsi sul loro stile. Ma che? Essi vivevano in mez-zo ad altri uomini che o non potendo per mancanza di li-bri, o non curando per negligenza di fare lo stesso stu-dio, parlavano e scrivevano di uno stil rozzo ed incolto.Essi conversavan con loro, udivano continuamente leloro espressioni, leggevano i loro libri; e avveniva per-ciò ad essi ciò che avviene ad uom sano e robusto, cheaddomesticandosi con un infermo di mal contagioso, apoco a poco ne bee il veleno. Il che ancora più facilmen-te dovette avvenire, perchè non era stata ancora la lin-gua latina ordinatamente ridotta a regole ed a principjdeterminati. I libri degli antichi gramatici per lo più con-tenevano anzi varie e separate osservazioni di lingua,che una ben disposta introduzione a scrivere latinamen-

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te. Quindi la lingua apprendevasi più per esercizio cheper precetti; e quindi usandosi nell'ordinario favellareespressioni, o parole men colte, queste introducevansiancora ne' libri che si scrivevano. Aggiungasi che essen-do lo stil barbaro il più usato tra Barbari, e forse anche ilsolo da essi inteso, se gli uomini colti bramavano che iloro libri fossero letti, conveniva lor secondare il costu-me de' tempi, e scrivere in quello stile che sol potevapiacere.

XXXII. A comprovare questo mio senti-mento aggiugnerò qui una riflessione chenon so che da altri finora sia stata fatta.

Quando è che gli scrittori latini han cominciato a svesti-re quella rozzezza che per più secoli era stata universa-le? Allora appunto quando formandosi e perfezionando-si la lingua italiana, la latina cominciò a non esser più lavolgare, ma propria solo di chi sapeva. Fino al secoloXIII, come osserva il ch. Muratori (Antich. Ital. Dissert.32), trovansi bensì nelle carte e ne' monumenti i primirozzi principj di questa lingua, e parole e espressioni disuono affatto italiano; ma cosa alcuna che si possa direscritta in Italiano, non si ritrova. Il linguaggio allorausato era un latino misto di voci e di frasi straniere, po-che dapprima e rare, poi più frequenti, e per ultimo tanteche oppressero, per così dire, e distrussero la lingua lati-na, e una nuova ne formarono di principj e di leggi mol-to diversa. Nel secolo XIII si cominciò a scrivere da al-

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E si confer-ma.

te. Quindi la lingua apprendevasi più per esercizio cheper precetti; e quindi usandosi nell'ordinario favellareespressioni, o parole men colte, queste introducevansiancora ne' libri che si scrivevano. Aggiungasi che essen-do lo stil barbaro il più usato tra Barbari, e forse anche ilsolo da essi inteso, se gli uomini colti bramavano che iloro libri fossero letti, conveniva lor secondare il costu-me de' tempi, e scrivere in quello stile che sol potevapiacere.

XXXII. A comprovare questo mio senti-mento aggiugnerò qui una riflessione chenon so che da altri finora sia stata fatta.

Quando è che gli scrittori latini han cominciato a svesti-re quella rozzezza che per più secoli era stata universa-le? Allora appunto quando formandosi e perfezionando-si la lingua italiana, la latina cominciò a non esser più lavolgare, ma propria solo di chi sapeva. Fino al secoloXIII, come osserva il ch. Muratori (Antich. Ital. Dissert.32), trovansi bensì nelle carte e ne' monumenti i primirozzi principj di questa lingua, e parole e espressioni disuono affatto italiano; ma cosa alcuna che si possa direscritta in Italiano, non si ritrova. Il linguaggio allorausato era un latino misto di voci e di frasi straniere, po-che dapprima e rare, poi più frequenti, e per ultimo tanteche oppressero, per così dire, e distrussero la lingua lati-na, e una nuova ne formarono di principj e di leggi mol-to diversa. Nel secolo XIII si cominciò a scrivere da al-

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E si confer-ma.

cuni in idioma che si poteva dire italiano, e questo poiassai più perfetto si fece nel secol seguente per opera diDante, del Petrarca, del Boccaccio, e di altri colti scrit-tori che giustamente si posson chiamare i padri della ita-liana favella. Allora adunque cominciò la lingua latina anon essere più così famigliare, come era stata finallora,e a sminuirsi perciò, per tenere la già usata similitudine,la forza di quel contagio che infettava prima coloro chepure avrebbon voluto parlar coltamente. Veggiamo in-fatti che gli scrittori latini di quel tempo sono comune-mente assai meno incolti, che que' de' secoli precedenti;e i tre suddetti scrittori nelle cose che hanno scritte lati-namente, se non sono eleganti, sono però ancora lontaniassai da quella barbarie che prima era usata.

XXXIII. E nondimeno essi ancora non fu-rono colti abbastanza. Uomini di fino inge-gno e di grande studio fatto ancora su' buoniautori, pure troppo furon lungi dall'arrivarea quello stile elegante e terso a cui giunsero

gli scrittori de' secoli susseguenti. E donde ciò? Non al-tronde, a mio credere, che dalla stessa condizione de'tempi. Il secolo del Petrarca dicesi a ragione il secolodel primo risorgimento della letteratura. I libri che final-lora erano stati dimenticati nelle polverose biblioteched'alcuni monasteri, cominciarono finalmente a cercarsi ea disotterrarsi. Le prime scoperte aggiunser coraggio atentarne altre; e le lodi che si diedero a' primi ritrovatori

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Ragioni perle quali in ciò si pro-cedette cosìlentamente.

cuni in idioma che si poteva dire italiano, e questo poiassai più perfetto si fece nel secol seguente per opera diDante, del Petrarca, del Boccaccio, e di altri colti scrit-tori che giustamente si posson chiamare i padri della ita-liana favella. Allora adunque cominciò la lingua latina anon essere più così famigliare, come era stata finallora,e a sminuirsi perciò, per tenere la già usata similitudine,la forza di quel contagio che infettava prima coloro chepure avrebbon voluto parlar coltamente. Veggiamo in-fatti che gli scrittori latini di quel tempo sono comune-mente assai meno incolti, che que' de' secoli precedenti;e i tre suddetti scrittori nelle cose che hanno scritte lati-namente, se non sono eleganti, sono però ancora lontaniassai da quella barbarie che prima era usata.

XXXIII. E nondimeno essi ancora non fu-rono colti abbastanza. Uomini di fino inge-gno e di grande studio fatto ancora su' buoniautori, pure troppo furon lungi dall'arrivarea quello stile elegante e terso a cui giunsero

gli scrittori de' secoli susseguenti. E donde ciò? Non al-tronde, a mio credere, che dalla stessa condizione de'tempi. Il secolo del Petrarca dicesi a ragione il secolodel primo risorgimento della letteratura. I libri che final-lora erano stati dimenticati nelle polverose biblioteched'alcuni monasteri, cominciarono finalmente a cercarsi ea disotterrarsi. Le prime scoperte aggiunser coraggio atentarne altre; e le lodi che si diedero a' primi ritrovatori

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Ragioni perle quali in ciò si pro-cedette cosìlentamente.

de' codici antichi, animarono altri ad imitarne l'esempio.Ma a me pare che avvenisse allora ciò che suole avveni-re allorquando una città travagliata da lunga fame perostinato assedio si vede libera finalmente, e il popol tut-to esce furiosamente dalle porte a cercare di che satol-larsi. Qualunque cibo venga loro alle mani, delicato, ogrossolano, amaro, o dolce, tutto si afferra e si divoraavidamente; e la fame sofferta rende soavi anche le piùdisgustose vivande. Così avvenne anche de' libri.L'impazienza e l'avidità di trovarli faceva che qualunquelibro si discoprisse, purchè fosse antico, se ne facessegran festa, e si leggesse dagli amanti della letteraturacon incredibil piacere. Cicerone e Seneca, Virgilio e Lu-cano, Marziale e Catullo tutti eran ricevuti con plauso,tutti erano letti con ammirazione, perchè tutti erano au-tori che per lunghissimo tempo erano stati quasi intera-mente dimenticati. Quindi il leggersi, direi quasi, tumul-tuariamente e alla rinfusa gli autori antichi senza abba-stanza discernere i più e i meno perfetti, era cagione chesi usasse uno stile che non fosse simile ad alcun di essiin particolare, ma un informe composto di molti stili, orelegante, or incolto, or dolce, or aspro, secondo i diversiautori sui quali uno si era promiscuamente formato.

XXXIV. Inoltre le copie che avevano de'buoni autori, erano comunemente guaste escorrette per negligenza e per ignoranza de'copiatori; e poteva perciò di leggeri accade-

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Altre cagio-ni del me-desimo fat-to.

de' codici antichi, animarono altri ad imitarne l'esempio.Ma a me pare che avvenisse allora ciò che suole avveni-re allorquando una città travagliata da lunga fame perostinato assedio si vede libera finalmente, e il popol tut-to esce furiosamente dalle porte a cercare di che satol-larsi. Qualunque cibo venga loro alle mani, delicato, ogrossolano, amaro, o dolce, tutto si afferra e si divoraavidamente; e la fame sofferta rende soavi anche le piùdisgustose vivande. Così avvenne anche de' libri.L'impazienza e l'avidità di trovarli faceva che qualunquelibro si discoprisse, purchè fosse antico, se ne facessegran festa, e si leggesse dagli amanti della letteraturacon incredibil piacere. Cicerone e Seneca, Virgilio e Lu-cano, Marziale e Catullo tutti eran ricevuti con plauso,tutti erano letti con ammirazione, perchè tutti erano au-tori che per lunghissimo tempo erano stati quasi intera-mente dimenticati. Quindi il leggersi, direi quasi, tumul-tuariamente e alla rinfusa gli autori antichi senza abba-stanza discernere i più e i meno perfetti, era cagione chesi usasse uno stile che non fosse simile ad alcun di essiin particolare, ma un informe composto di molti stili, orelegante, or incolto, or dolce, or aspro, secondo i diversiautori sui quali uno si era promiscuamente formato.

XXXIV. Inoltre le copie che avevano de'buoni autori, erano comunemente guaste escorrette per negligenza e per ignoranza de'copiatori; e poteva perciò di leggeri accade-

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Altre cagio-ni del me-desimo fat-to.

re che gli error de' copisti si credessero eleganze degliautori, e che si avessero in conto di grazie, onde ornarelo stile. In fatti le prime edizioni ancora che si hanno perla lor rarità in sì gran pregio, sono spesso piene di errori;e non si potè avere puro e sincero il testo di molti autori,se non dappoichè ripescando da ogni parte codici mano-scritti si confrontaron tra loro, e si conobbe, o almens'indovinò, ciò che gli autori avessero detto. Per ultimola lingua latina non era ancora stata ridotta, come già siè osservato, a regole fisse e a determinati generali prin-cipi, come poscia da molti gramatici si è fatto lodevol-mente. Quindi, come avviene a chi ha bensì fatto lungoed attento studio su' buoni scrittori italiani, ma non sullegenerali leggi della lingua medesima, ch'egli scrivendosparga qua e là parole e frasi da essi raccolte, ma spessoinciampi in errori, ed usi tali maniere che della linguaitaliana non sono proprie; così avveniva allora a chi leg-gendo semplicemente gli autori latini, cercava di confor-mare al loro stile il suo. E vuolsi aggiugnere ancora lamancanza de' lessici; libri che poco giovano a chi crededi potersi con essi soli addestrare a scrivere coltamente;ma senza i quali troppo è malagevole che ad uno scritto-re vengano sempre alla mente parole ed espressioni ac-conce a spiegare i suoi sentimenti; e che egli possa sem-pre conoscere quali sian le voci usate dai buoni autori, equali no.

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re che gli error de' copisti si credessero eleganze degliautori, e che si avessero in conto di grazie, onde ornarelo stile. In fatti le prime edizioni ancora che si hanno perla lor rarità in sì gran pregio, sono spesso piene di errori;e non si potè avere puro e sincero il testo di molti autori,se non dappoichè ripescando da ogni parte codici mano-scritti si confrontaron tra loro, e si conobbe, o almens'indovinò, ciò che gli autori avessero detto. Per ultimola lingua latina non era ancora stata ridotta, come già siè osservato, a regole fisse e a determinati generali prin-cipi, come poscia da molti gramatici si è fatto lodevol-mente. Quindi, come avviene a chi ha bensì fatto lungoed attento studio su' buoni scrittori italiani, ma non sullegenerali leggi della lingua medesima, ch'egli scrivendosparga qua e là parole e frasi da essi raccolte, ma spessoinciampi in errori, ed usi tali maniere che della linguaitaliana non sono proprie; così avveniva allora a chi leg-gendo semplicemente gli autori latini, cercava di confor-mare al loro stile il suo. E vuolsi aggiugnere ancora lamancanza de' lessici; libri che poco giovano a chi crededi potersi con essi soli addestrare a scrivere coltamente;ma senza i quali troppo è malagevole che ad uno scritto-re vengano sempre alla mente parole ed espressioni ac-conce a spiegare i suoi sentimenti; e che egli possa sem-pre conoscere quali sian le voci usate dai buoni autori, equali no.

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XXXV. Ma poichè la stampa dopo lametà del secolo XV moltiplicò gli esem-plari de' libri, e fu perciò più agevole ilprovvedersi de' buoni; e poichè la lingualatina da molti eruditi gramatici di quellaetà fu ridotta a certi principj e a generali

precetti, e i lessici ancora verso il tempo medesimo sicominciarono a usare; allora una maggior purità ed ele-ganza nello scrivere latinamente si vide con piacere ne'libri a quel tempo venuti a luce; ed ora le cose sono atale stato, che uno, purchè il voglia, può agevolmentescrivere con eleganza così in latino come in italiano.Amendue le lingue hanno le certe e determinate lor leg-gi; in amendue abbiamo egregi scrittori al cui esempioci possiam conformare; sappiamo che a scriver bene ciconvien seguir le vestigia da essi segnate, e quindi, an-corchè ci troviamo fra uomini (come accade nelle pro-vincie d'Italia fuori della Toscana) che parlino, e talvoltaancora scrivano rozzamente, possiam nondimeno, secosì ci piaccia, attenendoci alle leggi grammaticali cheda ciascheduno si apprendono facilmente, e valendocide' buoni libri de' quali abbiamo gran copia, possiam,dico, scrivendo con eleganza acquistarci lode o uguale,o inferiore di poco a quella de' migliori autori che ciprendiamo a modello.

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Introduzion della stampa quanto abbia giovato alla eleganza dello stile.

XXXV. Ma poichè la stampa dopo lametà del secolo XV moltiplicò gli esem-plari de' libri, e fu perciò più agevole ilprovvedersi de' buoni; e poichè la lingualatina da molti eruditi gramatici di quellaetà fu ridotta a certi principj e a generali

precetti, e i lessici ancora verso il tempo medesimo sicominciarono a usare; allora una maggior purità ed ele-ganza nello scrivere latinamente si vide con piacere ne'libri a quel tempo venuti a luce; ed ora le cose sono atale stato, che uno, purchè il voglia, può agevolmentescrivere con eleganza così in latino come in italiano.Amendue le lingue hanno le certe e determinate lor leg-gi; in amendue abbiamo egregi scrittori al cui esempioci possiam conformare; sappiamo che a scriver bene ciconvien seguir le vestigia da essi segnate, e quindi, an-corchè ci troviamo fra uomini (come accade nelle pro-vincie d'Italia fuori della Toscana) che parlino, e talvoltaancora scrivano rozzamente, possiam nondimeno, secosì ci piaccia, attenendoci alle leggi grammaticali cheda ciascheduno si apprendono facilmente, e valendocide' buoni libri de' quali abbiamo gran copia, possiam,dico, scrivendo con eleganza acquistarci lode o uguale,o inferiore di poco a quella de' migliori autori che ciprendiamo a modello.

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Introduzion della stampa quanto abbia giovato alla eleganza dello stile.

XXXVI. Un'altra riflessione per ultimogioverà, a mio credere, a mostrare sem-pre più chiara la verità di questo miosentimento. Negli scrittori che fiorironoal fine del secolo XV e al principio del

secolo XVI, noi veggiamo una scrupolosa, e direi quasi,superstiziosa riflessione a tenersi lungi da qualunquemenoma ombra dell'antica rozzezza, e a sfuggir qualun-que parola, o qualunque espressione non fosse secondo ipiù perfetti esemplari dell'età di Augusto; affettazionegraziosamente derisa da Erasmo nel suo Dialogo intito-lato Ciceronianus. I misteri della religione, a spiegazio-ne dei quali non potevano essi certo trovare negli antichiautori del secol d'oro le opportune espressioni, spiega-vansi o con termini greci, o con lunghe perifrasi, e tal-volta ancora con parole che troppo sapevano di gentile-simo per essere adattate a' cristiani misteri. Una tale su-perstizione giunse perfino a far cambiare ad alcuni i na-tii lor nomi in altri presi da' Latini, o da' Greci, come fe-cero il Parrasio, il Sannazzaro, il Paleario, ed altri. E piùoltre ancor giunse il p. Giampietro Maffei gesuita, severo è ciò che di lui si racconta, cioè che per non con-trarre punto di quella poco latina semplicità con cuisono scritte le preci ecclesiastiche, ottenesse di usar nel-la Messa e nel Divino Ufficio la lingua greca. Questo fucertamente un portare oltre i confini la premura di scri-vere con eleganza. Ma da questo appunto noi conoscia-mo che que' valent'uomini erano persuasi che la rozzez-za dei tempi addietro era nata dall'uso promiscuo di libri

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Scrupolosità nel-lo scrivere de' primi ristoratori di questa elegan-za.

XXXVI. Un'altra riflessione per ultimogioverà, a mio credere, a mostrare sem-pre più chiara la verità di questo miosentimento. Negli scrittori che fiorironoal fine del secolo XV e al principio del

secolo XVI, noi veggiamo una scrupolosa, e direi quasi,superstiziosa riflessione a tenersi lungi da qualunquemenoma ombra dell'antica rozzezza, e a sfuggir qualun-que parola, o qualunque espressione non fosse secondo ipiù perfetti esemplari dell'età di Augusto; affettazionegraziosamente derisa da Erasmo nel suo Dialogo intito-lato Ciceronianus. I misteri della religione, a spiegazio-ne dei quali non potevano essi certo trovare negli antichiautori del secol d'oro le opportune espressioni, spiega-vansi o con termini greci, o con lunghe perifrasi, e tal-volta ancora con parole che troppo sapevano di gentile-simo per essere adattate a' cristiani misteri. Una tale su-perstizione giunse perfino a far cambiare ad alcuni i na-tii lor nomi in altri presi da' Latini, o da' Greci, come fe-cero il Parrasio, il Sannazzaro, il Paleario, ed altri. E piùoltre ancor giunse il p. Giampietro Maffei gesuita, severo è ciò che di lui si racconta, cioè che per non con-trarre punto di quella poco latina semplicità con cuisono scritte le preci ecclesiastiche, ottenesse di usar nel-la Messa e nel Divino Ufficio la lingua greca. Questo fucertamente un portare oltre i confini la premura di scri-vere con eleganza. Ma da questo appunto noi conoscia-mo che que' valent'uomini erano persuasi che la rozzez-za dei tempi addietro era nata dall'uso promiscuo di libri

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Scrupolosità nel-lo scrivere de' primi ristoratori di questa elegan-za.

scritti men coltamente; e che crederon perciò di non po-ter conseguire quella singolar purezza di stile, a cuiaspiravano, se non allontanandosi da qualunque fontemen pura.

XXXVII. Tutte queste circostanze dili-gentemente esaminate io penso che basti-

no a spiegare per qual ragione per tanti secoli appena visia stato un colto e pulito scrittor latino. Ed io mi lusin-go di avere con ciò svolte e sviluppate le diverse originie le diverse maniere dal decadimento degli studj. Il se-guito della Storia ci darà successivamente le prove diciò che finora si è detto; e l'averne qui disputato conqualche esattezza gioverà a non arrestarci troppo per viaper intendere le cagioni delle vicende che spesso ci av-verrà di osservare nell'italiana.

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Conclusione.

scritti men coltamente; e che crederon perciò di non po-ter conseguire quella singolar purezza di stile, a cuiaspiravano, se non allontanandosi da qualunque fontemen pura.

XXXVII. Tutte queste circostanze dili-gentemente esaminate io penso che basti-

no a spiegare per qual ragione per tanti secoli appena visia stato un colto e pulito scrittor latino. Ed io mi lusin-go di avere con ciò svolte e sviluppate le diverse originie le diverse maniere dal decadimento degli studj. Il se-guito della Storia ci darà successivamente le prove diciò che finora si è detto; e l'averne qui disputato conqualche esattezza gioverà a non arrestarci troppo per viaper intendere le cagioni delle vicende che spesso ci av-verrà di osservare nell'italiana.

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Conclusione.

STORIA DELLA LETTERATURAITALIANA

DALLA MORTE DI AUGUSTO FINO ALLA CADUTA

DELL'IMPERO OCCIDENTALE.

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STORIA DELLA LETTERATURAITALIANA

DALLA MORTE DI AUGUSTO FINO ALLA CADUTA

DELL'IMPERO OCCIDENTALE.

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Letteratura de' Romani dalla morte di Augustofino a quella di Adriano.

Eran già molti anni che Roma avea perduta l'antica e perpiù secoli sì gelosamente difesa sua libertà; e non dimeno appena ella dolevasi di tal cambiamento. Augustocrudele ne' suoi principj, ma nulla più di quel che fosse-ro stati a' tempi della Repubblica Mario, Silla, Cinna, edaltri privati, poichè si vide assicurato l'impero, si die' aconoscere principe amabile, liberale, pietoso, e più cheogn'altro opportuno a render dolce ai Romani la lor sug-gezione. Il senato serbava ancora, almeno in apparenza,l'usata sua maestà e grandezza. Le armi romane erangiunte alle più lontane estremità della terra. Cessateomai le interne sanguinose fazioni godevasi in Romauna dolce e sicura tranquillità. Se la eloquenza era giàassai decaduta, ciò più che al cambiamento de' tempidoveasi, come si è dimostrato, al capriccio degli oratori.Tutti gli altri studi erano in Roma saliti a tal perfezione,a cui in tempo della repubblica non eran giunti giammai.E se Augusto avesse avuti successori a lui somiglianti,si sarebbon forse compiaciuti i Romani di aver cambiatala repubblica in monarchia. Ma dopo la morte d'Augustosi aprì una scena troppo diversa. Sette imperadori sali-ron l'un dopo l'altro sul soglio, de' quali è malagevole adiffinire chi fosse il peggiore. Vespasiano e Tito parverorichiamare i lieti tempi d'Augusto. Ma Domiziano rinno-

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Letteratura de' Romani dalla morte di Augustofino a quella di Adriano.

Eran già molti anni che Roma avea perduta l'antica e perpiù secoli sì gelosamente difesa sua libertà; e non dimeno appena ella dolevasi di tal cambiamento. Augustocrudele ne' suoi principj, ma nulla più di quel che fosse-ro stati a' tempi della Repubblica Mario, Silla, Cinna, edaltri privati, poichè si vide assicurato l'impero, si die' aconoscere principe amabile, liberale, pietoso, e più cheogn'altro opportuno a render dolce ai Romani la lor sug-gezione. Il senato serbava ancora, almeno in apparenza,l'usata sua maestà e grandezza. Le armi romane erangiunte alle più lontane estremità della terra. Cessateomai le interne sanguinose fazioni godevasi in Romauna dolce e sicura tranquillità. Se la eloquenza era giàassai decaduta, ciò più che al cambiamento de' tempidoveasi, come si è dimostrato, al capriccio degli oratori.Tutti gli altri studi erano in Roma saliti a tal perfezione,a cui in tempo della repubblica non eran giunti giammai.E se Augusto avesse avuti successori a lui somiglianti,si sarebbon forse compiaciuti i Romani di aver cambiatala repubblica in monarchia. Ma dopo la morte d'Augustosi aprì una scena troppo diversa. Sette imperadori sali-ron l'un dopo l'altro sul soglio, de' quali è malagevole adiffinire chi fosse il peggiore. Vespasiano e Tito parverorichiamare i lieti tempi d'Augusto. Ma Domiziano rinno-

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vò presto gli orrori de' Tiberj, de' Caligoli, e de' Neroni.Ciò ch'è è più strano, si è vedere il senato romano chealcuni anni prima dava la legge a' più possenti monar-chi, e donava e toglieva imperiosamente le corone e i re-gni, ora cadere avvilito, e strisciare, per così dire, a' pie-di de' nuovi sovrani, e render divini onori a coloro di cuitacitamente esecrava la brutal crudeltà. "Così, dice il ce-lebre Montesquieu (Grand. et Décad. des Rom. c. 15), ilsenato romano non avea fatti dileguare tanti sovrani cheper cadere esso medesimo nella più vile schiavitudine dialcuni de' suoi più indegni concittadini, e per distrugger-si co' suoi proprj decreti". Or in uno Stato in cui la feli-cità e la sorte degli uomini dipendeva non dalle saggedisposizioni di un regolato governo, ma dal capriccio,dalle passioni, e talvolta ancora dalla pazzia di tali uo-mini, egli è facile a immaginare qual esser dovesse lostato della letteratura. Augusto padrone della repubblicatutta avea nondimeno lasciati liberi gl'ingegni; e se glioratori, gli storici ed i poeti usavano di un prudente ri-serbo nel trattare certi più pericolosi argomenti, la liber-tà però dello scrivere non fu mai fatale ad alcuno, e tal-volta videsi Augusto generosamente dissimulare qual-che detto di un imprudente oratore, che sembrava controlui rivolto (Sen. Controv. 12 sub. fin.). Ovidio fu il solopoeta a cui parve che i suoi versi fosser funesti; ma piùche ad essi ei dovette il suo esilio, come abbiam dimo-strato, a' suoi proprj occhi. Non così sotto Tiberio e iprimi di lui successori. Un breve tratto di penna costòtalvolta la vita al suo autore, e l'essere eloquente oratore,

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vò presto gli orrori de' Tiberj, de' Caligoli, e de' Neroni.Ciò ch'è è più strano, si è vedere il senato romano chealcuni anni prima dava la legge a' più possenti monar-chi, e donava e toglieva imperiosamente le corone e i re-gni, ora cadere avvilito, e strisciare, per così dire, a' pie-di de' nuovi sovrani, e render divini onori a coloro di cuitacitamente esecrava la brutal crudeltà. "Così, dice il ce-lebre Montesquieu (Grand. et Décad. des Rom. c. 15), ilsenato romano non avea fatti dileguare tanti sovrani cheper cadere esso medesimo nella più vile schiavitudine dialcuni de' suoi più indegni concittadini, e per distrugger-si co' suoi proprj decreti". Or in uno Stato in cui la feli-cità e la sorte degli uomini dipendeva non dalle saggedisposizioni di un regolato governo, ma dal capriccio,dalle passioni, e talvolta ancora dalla pazzia di tali uo-mini, egli è facile a immaginare qual esser dovesse lostato della letteratura. Augusto padrone della repubblicatutta avea nondimeno lasciati liberi gl'ingegni; e se glioratori, gli storici ed i poeti usavano di un prudente ri-serbo nel trattare certi più pericolosi argomenti, la liber-tà però dello scrivere non fu mai fatale ad alcuno, e tal-volta videsi Augusto generosamente dissimulare qual-che detto di un imprudente oratore, che sembrava controlui rivolto (Sen. Controv. 12 sub. fin.). Ovidio fu il solopoeta a cui parve che i suoi versi fosser funesti; ma piùche ad essi ei dovette il suo esilio, come abbiam dimo-strato, a' suoi proprj occhi. Non così sotto Tiberio e iprimi di lui successori. Un breve tratto di penna costòtalvolta la vita al suo autore, e l'essere eloquente oratore,

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o profondo filosofo fu per alcuni delitto degno di morte.Or come era possibile che in tali circostanze gli studjfossero coltivati felicemente? Non è dunque a stupireche sì gran mutazione accadesse, benchè lentamente,nella letteratura, e che i Romani dopo essere giunti arendersi negli studj al par di ogn'altra nazione esercitatie colti, ricadessero a poco a poco nell'antica rozzezza.Questo è ciò che abbiamo ora a vedere, e a svolgere par-titamente. Ma perchè l'indole e la condotta degli impera-dori influì molto nello stato della letteratura, prima ditrattare in particolare di ciascheduna scienza, ci convie-ne esporre con brevità lo stato in cui trovossi l'impero a'tempi di cui parliamo, e vedere singolarmente qual fossela disposizione e l'animo verso le lettere degl'imperado-ri.

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o profondo filosofo fu per alcuni delitto degno di morte.Or come era possibile che in tali circostanze gli studjfossero coltivati felicemente? Non è dunque a stupireche sì gran mutazione accadesse, benchè lentamente,nella letteratura, e che i Romani dopo essere giunti arendersi negli studj al par di ogn'altra nazione esercitatie colti, ricadessero a poco a poco nell'antica rozzezza.Questo è ciò che abbiamo ora a vedere, e a svolgere par-titamente. Ma perchè l'indole e la condotta degli impera-dori influì molto nello stato della letteratura, prima ditrattare in particolare di ciascheduna scienza, ci convie-ne esporre con brevità lo stato in cui trovossi l'impero a'tempi di cui parliamo, e vedere singolarmente qual fossela disposizione e l'animo verso le lettere degl'imperado-ri.

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LIBRO I.

CAPO I. Idea generale dello stato civile e letterario dal principio

di Tiberio fino alla morte di Adriano.

I. Tiberio figlio di C. Claudio Tiberio Nero-ne e di Livia Drusilla che poscia fu moglied'Augusto, e marito prima di Agrippina ni-pote del celebre Attico, da lui poscia ripu-diata suo malgrado per voler di Augusto chevolle dargli in moglie Giulia sua figlia, dopo

la morte di Augusto salì in vigore del testamento da luifatto all'impero l'anno di Roma 766, che corrispondeall'anno 14 dell'era cristiana, essendo in età di 55 anni.Non vi fu mai per avventura imperadore alcuno che nelprincipio del suo regno facesse concepire di se stessomaggiori speranze. L'affettata sua ritrosia nell'accettareil deferitogli impero, la modestia nel ricusare il nome disignore, di padre della patria, e di imperadore ancora,che sofferiva sol di ricevere da' soldati, la libertà conce-duta al senato e a' giudici di decidere le contese e di ter-minare i più rilevanti affari, tutte le sue maniere insom-ma spiranti amore de' sudditi, compassione verso gli in-felici, e odio del dispotismo, promettevano un principeche o pareggiasse, o fors'anche superasse Augusto. An-che gli studj parve che rallegrar si dovessero dell'eleva-

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Principj dell'impero di Tiberio felici allo Stato e alla letteratura.

LIBRO I.

CAPO I. Idea generale dello stato civile e letterario dal principio

di Tiberio fino alla morte di Adriano.

I. Tiberio figlio di C. Claudio Tiberio Nero-ne e di Livia Drusilla che poscia fu moglied'Augusto, e marito prima di Agrippina ni-pote del celebre Attico, da lui poscia ripu-diata suo malgrado per voler di Augusto chevolle dargli in moglie Giulia sua figlia, dopo

la morte di Augusto salì in vigore del testamento da luifatto all'impero l'anno di Roma 766, che corrispondeall'anno 14 dell'era cristiana, essendo in età di 55 anni.Non vi fu mai per avventura imperadore alcuno che nelprincipio del suo regno facesse concepire di se stessomaggiori speranze. L'affettata sua ritrosia nell'accettareil deferitogli impero, la modestia nel ricusare il nome disignore, di padre della patria, e di imperadore ancora,che sofferiva sol di ricevere da' soldati, la libertà conce-duta al senato e a' giudici di decidere le contese e di ter-minare i più rilevanti affari, tutte le sue maniere insom-ma spiranti amore de' sudditi, compassione verso gli in-felici, e odio del dispotismo, promettevano un principeche o pareggiasse, o fors'anche superasse Augusto. An-che gli studj parve che rallegrar si dovessero dell'eleva-

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Principj dell'impero di Tiberio felici allo Stato e alla letteratura.

zion di Tiberio. Aveagli egli in sua gioventù coltivati at-tentamente, e nella greca ugualmente che nella latina fa-vella erasi esercitato con molta lode (Svet. in Tib. c. 80).Nell'eloquenza avea preso a imitare singolarmente Vale-rio Corvino Messala orator celebre a' tempi di Augusto,e già molti saggi aveane egli dato con non ordinario ap-plauso innanzi ad Augusto medesimo e innanzi ai giudi-ci (id. c. 7) in varie cause da lui intraprese (2). Affettavagrande esattezza nel non usar parola che non fosse lati-na; e celebre è il fatto che narra Dione (l. 57), cioè cheavendo egli usata un giorno in un editto certa parolanuova, ricordatosene di notte tempo, chiamò a se tuttiquelli che di lingua latina erano più intendenti, e nechiese loro parere. Atteio Capitone un di essi, disse chebenchè niuno finallora l'avesse usata, doveasi nondime-no in grazia di Tiberio riporre tra le parole latine; e ri-spondendo un Marcello che Tiberio poteva bensì agliuomini, ma non alle parole dare la cittadinanza. Tiberionon perciò mostrò di offendersene. Egli però secondan-do il gusto allora introdotto, usava di uno stile affettato ericercato troppo, e perciò oscuro non poche volte (Svet.in Tib. c. 70), di che anche da Augusto fu talvolta deriso(idem in Aug. c. 86); se pure non era una delle artidell'astuto Tiberio dissimulare i veri suoj sentimenti.Certo pareva ch'egli meglio ragionasse, quando non

2 Avea Tiberio avuto per suo maestro, come narra Suida, un sofista pernome Teodoro da Gadara, il quale ebbe poscia nella sua arte a rivali Pole-mone ed Antipatro, e un figlio di cui sotto Adriano fu fatto senatore. Ei fuautore di molte opere che si annoverano dello stesso scrittore.

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zion di Tiberio. Aveagli egli in sua gioventù coltivati at-tentamente, e nella greca ugualmente che nella latina fa-vella erasi esercitato con molta lode (Svet. in Tib. c. 80).Nell'eloquenza avea preso a imitare singolarmente Vale-rio Corvino Messala orator celebre a' tempi di Augusto,e già molti saggi aveane egli dato con non ordinario ap-plauso innanzi ad Augusto medesimo e innanzi ai giudi-ci (id. c. 7) in varie cause da lui intraprese (2). Affettavagrande esattezza nel non usar parola che non fosse lati-na; e celebre è il fatto che narra Dione (l. 57), cioè cheavendo egli usata un giorno in un editto certa parolanuova, ricordatosene di notte tempo, chiamò a se tuttiquelli che di lingua latina erano più intendenti, e nechiese loro parere. Atteio Capitone un di essi, disse chebenchè niuno finallora l'avesse usata, doveasi nondime-no in grazia di Tiberio riporre tra le parole latine; e ri-spondendo un Marcello che Tiberio poteva bensì agliuomini, ma non alle parole dare la cittadinanza. Tiberionon perciò mostrò di offendersene. Egli però secondan-do il gusto allora introdotto, usava di uno stile affettato ericercato troppo, e perciò oscuro non poche volte (Svet.in Tib. c. 70), di che anche da Augusto fu talvolta deriso(idem in Aug. c. 86); se pure non era una delle artidell'astuto Tiberio dissimulare i veri suoj sentimenti.Certo pareva ch'egli meglio ragionasse, quando non

2 Avea Tiberio avuto per suo maestro, come narra Suida, un sofista pernome Teodoro da Gadara, il quale ebbe poscia nella sua arte a rivali Pole-mone ed Antipatro, e un figlio di cui sotto Adriano fu fatto senatore. Ei fuautore di molte opere che si annoverano dello stesso scrittore.

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avea tempo a disporvisi, che quando vi premetteva ap-parecchio. Ma sopra ogni cosa lo studio della mitologiagli era caro fino a stancare con continue e minute inter-rogazioni i grammatici per risaperne le più piccole cir-costanze (id. in Tib. c. 70). Una lirica poesia da lui fattain morte di Lucio Cesare rammentasi da Svetonio (l. c.),e alcuni poemi greci ancora da lui composti (3). In fatti inquesta lingua ancor egli esprimevasi elegantemente e fa-cilmente, benchè in senato per decoro del latino imperose ne astenesse (Svet. c. 71). Nel lungo soggiorno ch'eifece in Rodi, vivendo Augusto, godeva di frequentare lescuole de' filosofi, di cui quell'isola era piena, e di tratte-nersi disputando con loro (id. c. 11). Tutto ciò potevadestare una ragionevole speranza che il regno di Tiberio,come alla repubblica tutta, così alle lettere ancora riuscirdovesse felice e glorioso.

II. Ma sì liete speranze svaniron presto; eRoma si avvide di avere in Tiberio un prin-cipe formato dalla natura all'impero, e da'suoi vizj condotto alla tirannia, sospettoso ediffidente all'estremo, fingitore finissimo

dei falsi, e dissimulatore accorto de' veri suoi sentimen-ti, crudele contro chiunque gli cadesse in sospetto, econtro i più stretti parenti, abbandonato a' più infami3 L'imperadrice Eudossia altrove da noi citata ricorda alcuni epigrammi di

Tiberio, e un'Arte Rettorica da lui scritta, come sembra in greco (VilloisonAnecd. Græc. t. 1, p. 270). Di quest'opera di Tiberio niun altro antico scrit-tore ci ha lasciata menzione.

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Ei divien poscia cru-dele: folla di iniqui delatori.

avea tempo a disporvisi, che quando vi premetteva ap-parecchio. Ma sopra ogni cosa lo studio della mitologiagli era caro fino a stancare con continue e minute inter-rogazioni i grammatici per risaperne le più piccole cir-costanze (id. in Tib. c. 70). Una lirica poesia da lui fattain morte di Lucio Cesare rammentasi da Svetonio (l. c.),e alcuni poemi greci ancora da lui composti (3). In fatti inquesta lingua ancor egli esprimevasi elegantemente e fa-cilmente, benchè in senato per decoro del latino imperose ne astenesse (Svet. c. 71). Nel lungo soggiorno ch'eifece in Rodi, vivendo Augusto, godeva di frequentare lescuole de' filosofi, di cui quell'isola era piena, e di tratte-nersi disputando con loro (id. c. 11). Tutto ciò potevadestare una ragionevole speranza che il regno di Tiberio,come alla repubblica tutta, così alle lettere ancora riuscirdovesse felice e glorioso.

II. Ma sì liete speranze svaniron presto; eRoma si avvide di avere in Tiberio un prin-cipe formato dalla natura all'impero, e da'suoi vizj condotto alla tirannia, sospettoso ediffidente all'estremo, fingitore finissimo

dei falsi, e dissimulatore accorto de' veri suoi sentimen-ti, crudele contro chiunque gli cadesse in sospetto, econtro i più stretti parenti, abbandonato a' più infami3 L'imperadrice Eudossia altrove da noi citata ricorda alcuni epigrammi di

Tiberio, e un'Arte Rettorica da lui scritta, come sembra in greco (VilloisonAnecd. Græc. t. 1, p. 270). Di quest'opera di Tiberio niun altro antico scrit-tore ci ha lasciata menzione.

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Ei divien poscia cru-dele: folla di iniqui delatori.

piaceri, al cui libero sfogo ritirossi per gli ultimi diecianni del suo regno da Roma, e li passò per lo più nellasolitaria isola di Capri, fatta dal suo soggiorno infame.Non si posson leggere senza orrore le vergognose diso-nestà e le crudeli esecuzioni di cui furono allora testi-monj i Romani. Ciò ch'è più strano, si è che questi cadu-ti nel più misero avvilimento presero secondare vilmen-te quelle passioni medesime che rivolgeansi a loro dan-no e sterminio. Quel popolo stesso che per l'addietroavea mostrato sì grande orrore per un giusto dominionon che per una illegittima oppressione, or pareva che diogni arte usasse per rendere sempre più crudele il nuovosovrano e più gravi le sue proprie catene. Era Tiberiocrudele e sanguinoso e una folla di maligni e perfidi de-latori ne attizzava continuamente lo sdegno. Le nimici-zie private si coprivano sotto l'apparenza di delitti di sta-to; e presso il sospettoso Tiberio essere accusato era ilmedesimo che esser reo. Niuno potea tenersi sicuro sul-la sua innocenza, o sull'amore degli amici e de' più stret-ti parenti. Videsi perfino un padre, cioè Q. Vibio Sereno,costretto a difendersi contro il proprio suo figlio che aTiberio accusollo di fellonia (Tac. Ann. l. 4, c. 28). Intale stato di cose è facile a immaginare qual fosse il do-lore de' buoni, quale il terrore di tutta la città, anzi di tut-to l'impero. Le false massime della stoica filosofia aquesta occasione presero piede sempre maggiore; el'esempio di Catone ebbe a questo secolo molti seguaci;che dolce cosa poteva certamente riuscire, e credevasiancor onesta e gloriosa, l'uscir con volontaria morte da

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piaceri, al cui libero sfogo ritirossi per gli ultimi diecianni del suo regno da Roma, e li passò per lo più nellasolitaria isola di Capri, fatta dal suo soggiorno infame.Non si posson leggere senza orrore le vergognose diso-nestà e le crudeli esecuzioni di cui furono allora testi-monj i Romani. Ciò ch'è più strano, si è che questi cadu-ti nel più misero avvilimento presero secondare vilmen-te quelle passioni medesime che rivolgeansi a loro dan-no e sterminio. Quel popolo stesso che per l'addietroavea mostrato sì grande orrore per un giusto dominionon che per una illegittima oppressione, or pareva che diogni arte usasse per rendere sempre più crudele il nuovosovrano e più gravi le sue proprie catene. Era Tiberiocrudele e sanguinoso e una folla di maligni e perfidi de-latori ne attizzava continuamente lo sdegno. Le nimici-zie private si coprivano sotto l'apparenza di delitti di sta-to; e presso il sospettoso Tiberio essere accusato era ilmedesimo che esser reo. Niuno potea tenersi sicuro sul-la sua innocenza, o sull'amore degli amici e de' più stret-ti parenti. Videsi perfino un padre, cioè Q. Vibio Sereno,costretto a difendersi contro il proprio suo figlio che aTiberio accusollo di fellonia (Tac. Ann. l. 4, c. 28). Intale stato di cose è facile a immaginare qual fosse il do-lore de' buoni, quale il terrore di tutta la città, anzi di tut-to l'impero. Le false massime della stoica filosofia aquesta occasione presero piede sempre maggiore; el'esempio di Catone ebbe a questo secolo molti seguaci;che dolce cosa poteva certamente riuscire, e credevasiancor onesta e gloriosa, l'uscir con volontaria morte da

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tanti guai.

III. La letteratura e la scienza non furono unbastevole scudo contro la crudeltà di Tibe-rio. Molti funesti esempj avremo a vedernequando prenderemo a parlare degli scrittoridi questo tempo; e qui basterà l'arrecarnequalche piccolo saggio. Un cotal Zenone fi-

losofo che innanzi a Tiberio si tratteneva parlando ingreco di filosofiche quistioni con uno stil ricercato e stu-diato, richiesto da Tiberio di qual dialetto usasse egli, ri-sposegli che del dorico; e questo bastò perchè l'impera-dore il rilegasse in una deserta isoletta, credendo cherinfacciar gli volesse il suo lungo soggiorno in Rodi,ove un tal dialetto si usava (Svet. c. 56). Soleva egli ce-nando proporre a' Greci eruditi, di cui dilettavasi, alcunequistioni tratte da' libri che in quel dì avea letti. Giunto-gli all'orecchie che Seleuco gramatico soleva, per esserpronto a rispondere, chiedere a' cortigiani qual libroavesse egli avuto tra le mani quel giorno, allontanollo dase, e poscia ancora sforzollo a darsi la morte (ib.). ElioSaturnino, perchè alcuni versi avea sparsi contro di lui,fu da lui stesso accusato al senato, e poscia per suo ordi-ne precipitato dal Campidoglio (Dio l. 57). Un altropoeta, perchè in una tragedia avea posti alcuni versicontro di Agamennone, sotto il cui nome pensò Tiberiodi essere preso di mira; altri scrittori ancora, perchè dialcune espressioni aveano usato che Tiberio credette in-

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La crudeltà di Tiberio si stende anche agli uomini di lettere.

tanti guai.

III. La letteratura e la scienza non furono unbastevole scudo contro la crudeltà di Tibe-rio. Molti funesti esempj avremo a vedernequando prenderemo a parlare degli scrittoridi questo tempo; e qui basterà l'arrecarnequalche piccolo saggio. Un cotal Zenone fi-

losofo che innanzi a Tiberio si tratteneva parlando ingreco di filosofiche quistioni con uno stil ricercato e stu-diato, richiesto da Tiberio di qual dialetto usasse egli, ri-sposegli che del dorico; e questo bastò perchè l'impera-dore il rilegasse in una deserta isoletta, credendo cherinfacciar gli volesse il suo lungo soggiorno in Rodi,ove un tal dialetto si usava (Svet. c. 56). Soleva egli ce-nando proporre a' Greci eruditi, di cui dilettavasi, alcunequistioni tratte da' libri che in quel dì avea letti. Giunto-gli all'orecchie che Seleuco gramatico soleva, per esserpronto a rispondere, chiedere a' cortigiani qual libroavesse egli avuto tra le mani quel giorno, allontanollo dase, e poscia ancora sforzollo a darsi la morte (ib.). ElioSaturnino, perchè alcuni versi avea sparsi contro di lui,fu da lui stesso accusato al senato, e poscia per suo ordi-ne precipitato dal Campidoglio (Dio l. 57). Un altropoeta, perchè in una tragedia avea posti alcuni versicontro di Agamennone, sotto il cui nome pensò Tiberiodi essere preso di mira; altri scrittori ancora, perchè dialcune espressioni aveano usato che Tiberio credette in-

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La crudeltà di Tiberio si stende anche agli uomini di lettere.

giuriose a se stesso, furon tratti in carcere, tolto loroogni mezzo a studiare, e vietato perfino il favellare in-sieme; condotti poscia in giudizio, altri si ferirono per semedesimi, altri in mezzo al senato beverono il veleno; enondimeno così com'erano feriti e spiranti, ricondotti fu-rono in carcere, perchè ivi finisser la vita, e poscia furongittati per ignominia dalle scale gemonie (Svet. c. 61).Parve perfino talvolta che l'essere eccellente in qualchearte fosse presso Tiberio delitto degno di morte. Cosìnarra Dione (l. 57) che un architetto avendo con maravi-glioso artifizio raddrizzato e rassodato un ampio porticoche già incurvatosi minacciava rovina, Tiberio n'ebbemaraviglia insieme ed invidia, e perciò pagatolo di suafatica il cacciò da Roma. Questi ardì di bel nuovo di ve-nirgli innanzi, e sperando di mostrargli un'opera di taleindustria che gli rendesse benevole l'imperadore, gittataa terra una tazza di vetro, e infrantala, ne ricompose su-bito, e ne riunì sodamente i pezzi; ma invece di calmarecon ciò lo sdegno dell'invidioso Tiberio, acceselo mag-giormente, ed in premio di sua industria ebbe la morte.Su questo fatto ragioneremo più a lungo, ove tratteremodel fiorire dell'arti nel presente secolo; qui basti averloaccennato ad intendere a qual segno di crudeltà arrivas-se Tiberio.

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giuriose a se stesso, furon tratti in carcere, tolto loroogni mezzo a studiare, e vietato perfino il favellare in-sieme; condotti poscia in giudizio, altri si ferirono per semedesimi, altri in mezzo al senato beverono il veleno; enondimeno così com'erano feriti e spiranti, ricondotti fu-rono in carcere, perchè ivi finisser la vita, e poscia furongittati per ignominia dalle scale gemonie (Svet. c. 61).Parve perfino talvolta che l'essere eccellente in qualchearte fosse presso Tiberio delitto degno di morte. Cosìnarra Dione (l. 57) che un architetto avendo con maravi-glioso artifizio raddrizzato e rassodato un ampio porticoche già incurvatosi minacciava rovina, Tiberio n'ebbemaraviglia insieme ed invidia, e perciò pagatolo di suafatica il cacciò da Roma. Questi ardì di bel nuovo di ve-nirgli innanzi, e sperando di mostrargli un'opera di taleindustria che gli rendesse benevole l'imperadore, gittataa terra una tazza di vetro, e infrantala, ne ricompose su-bito, e ne riunì sodamente i pezzi; ma invece di calmarecon ciò lo sdegno dell'invidioso Tiberio, acceselo mag-giormente, ed in premio di sua industria ebbe la morte.Su questo fatto ragioneremo più a lungo, ove tratteremodel fiorire dell'arti nel presente secolo; qui basti averloaccennato ad intendere a qual segno di crudeltà arrivas-se Tiberio.

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IV. A Tiberio morto l'anno di Cristo 37,dopo 23 anni d'impero, succedette Caio, so-prannomato Caligola, creduto da molti reodi avere affrettata, al moribondo imperadorela morte. Avea egli avuto per padre il cele-

bre Germanico nipote di Tiberio, e per madre Agrippinafigliuola di Agrippa e di Giulia figlia d'Augusto. Giova-ne di 25 anni, educato fin dalla fanciullezza tra l'armi, esalito a stima di valoroso guerriero, addestratosi adesempio di Tiberio a nascondere accortamente i suoivizj, e a dissimulare i suoi sentimenti, salì al trono fragli applausi di tutto l'impero, e parve dal ciel mandato aristorare i danni del regno di Tiberio colui che dovea,superandolo in crudeltà e in laidezze, renderlo desidera-bile. E il primo anno fu tale, che confermò le speranzeche se n'erano concepite. Onorata la memoria di quelliche da Tiberio erano stati crudelmente uccisi, liberaticoloro che da Tiberio eran già stati dannati a morte, ri-cusati gli onori soliti rendersi a' Cesari, cacciati in esiliogli uomini infami per le loro disonestà, Caligola era ri-mirato come ristorator della patria e dell'impero, talchècaduto egli malato nell'ottavo mese del suo regno, talefu il commovimento del popolo e per dolore nel suo pe-ricolo, e per l'allegrezza nella sua guarigione, che pochiesempj se ne han nelle storie. Ma ben presto mutò co-stume, o a dir meglio scoprì finalmente quell'animoatroce, sanguinoso, e crudele che avea finallora dissimu-lato. Non si può legger senza orrore la prima brutal sen-tenza da lui fatta eseguire contro il giovinetto Tiberio

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Caligola succede a Tiberio, e ne imita gli esempj.

IV. A Tiberio morto l'anno di Cristo 37,dopo 23 anni d'impero, succedette Caio, so-prannomato Caligola, creduto da molti reodi avere affrettata, al moribondo imperadorela morte. Avea egli avuto per padre il cele-

bre Germanico nipote di Tiberio, e per madre Agrippinafigliuola di Agrippa e di Giulia figlia d'Augusto. Giova-ne di 25 anni, educato fin dalla fanciullezza tra l'armi, esalito a stima di valoroso guerriero, addestratosi adesempio di Tiberio a nascondere accortamente i suoivizj, e a dissimulare i suoi sentimenti, salì al trono fragli applausi di tutto l'impero, e parve dal ciel mandato aristorare i danni del regno di Tiberio colui che dovea,superandolo in crudeltà e in laidezze, renderlo desidera-bile. E il primo anno fu tale, che confermò le speranzeche se n'erano concepite. Onorata la memoria di quelliche da Tiberio erano stati crudelmente uccisi, liberaticoloro che da Tiberio eran già stati dannati a morte, ri-cusati gli onori soliti rendersi a' Cesari, cacciati in esiliogli uomini infami per le loro disonestà, Caligola era ri-mirato come ristorator della patria e dell'impero, talchècaduto egli malato nell'ottavo mese del suo regno, talefu il commovimento del popolo e per dolore nel suo pe-ricolo, e per l'allegrezza nella sua guarigione, che pochiesempj se ne han nelle storie. Ma ben presto mutò co-stume, o a dir meglio scoprì finalmente quell'animoatroce, sanguinoso, e crudele che avea finallora dissimu-lato. Non si può legger senza orrore la prima brutal sen-tenza da lui fatta eseguire contro il giovinetto Tiberio

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Caligola succede a Tiberio, e ne imita gli esempj.

Nerone nipote dell'imperadore Tiberio per mezzo diDruso di lui figliuolo, cui condannò a uccidersi da semedesimo; poichè il giovane infelice dopo aver dolente-mente pregato alcun degli astanti ad ucciderlo, ricusan-dolo essi, si vide costretto a chieder loro in grazia, chealmeno per pietà gli additassero ove potesse ferirsi peraver più presta morte; di che istruito si die' il fatal colpo(Philo de Legat. ad Cajum). D'allora in poi non tennemisura alcuna. Rei e innocenti, patrizj e plebei senzasorta alcuna di processo barbaramente uccisi; e adopera-ti perciò i più crudeli e più lunghi tormenti per compia-cersi più lungamente delle loro sofferenze; giacchè pare-va che il più dolce spettacolo per Caligola fosse l'udirele lamentevoli grida, e veder gli smaniosi contorcimentidi coloro ch'erano tormentati. Abbandonato alle più bru-tali disonestà voleva nondimeno essere adorato qual dio;e in tutti i tempj, e perfino in quello di Gerosolima, vo-leva che gli fossero innalzate statue ed altari, degno cer-to di tali onori al pari del suo cavallo cui pazzamentemeditava di far suo collega nel consolato. E frattanto lamaestà del senato romano ordinava annui sacrifizj allaclemenza di questo dio, e co' nomi di veracissimo e dipiissimo onorava questo orrido mostro (Dio. l. 59).

V. Sotto un tale impero qual doveva esser lostato della romana letteratura? Aveva egliveramente, lasciato ogn'altro studio da par-te, coltivata assai l'eloquenza per cui sortito

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Uomini dotti da lui perseguitatied uccisi.

Nerone nipote dell'imperadore Tiberio per mezzo diDruso di lui figliuolo, cui condannò a uccidersi da semedesimo; poichè il giovane infelice dopo aver dolente-mente pregato alcun degli astanti ad ucciderlo, ricusan-dolo essi, si vide costretto a chieder loro in grazia, chealmeno per pietà gli additassero ove potesse ferirsi peraver più presta morte; di che istruito si die' il fatal colpo(Philo de Legat. ad Cajum). D'allora in poi non tennemisura alcuna. Rei e innocenti, patrizj e plebei senzasorta alcuna di processo barbaramente uccisi; e adopera-ti perciò i più crudeli e più lunghi tormenti per compia-cersi più lungamente delle loro sofferenze; giacchè pare-va che il più dolce spettacolo per Caligola fosse l'udirele lamentevoli grida, e veder gli smaniosi contorcimentidi coloro ch'erano tormentati. Abbandonato alle più bru-tali disonestà voleva nondimeno essere adorato qual dio;e in tutti i tempj, e perfino in quello di Gerosolima, vo-leva che gli fossero innalzate statue ed altari, degno cer-to di tali onori al pari del suo cavallo cui pazzamentemeditava di far suo collega nel consolato. E frattanto lamaestà del senato romano ordinava annui sacrifizj allaclemenza di questo dio, e co' nomi di veracissimo e dipiissimo onorava questo orrido mostro (Dio. l. 59).

V. Sotto un tale impero qual doveva esser lostato della romana letteratura? Aveva egliveramente, lasciato ogn'altro studio da par-te, coltivata assai l'eloquenza per cui sortito

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Uomini dotti da lui perseguitatied uccisi.

avea dalla natura e copiosa facondia e memoria felice evoce alta e canora (Svet. in Calig. c. 23). Nemico di unaricercata eleganza, e solito perciò a deridere l'eloquenzadi Seneca, che allora era in gran pregio, amava un dirrapido e veemente; e talvolta all'improvviso ancora ri-spondeva alle altrui orazioni che ad accusare, o a difen-dere qualche reo recitavansi da altri in senato (Svet. ib.Joseph. Antiq. Jud. l. 19. c. 2). Anzi un trattato di elo-quenza scritto latinamente da Caligola rammenta Suida.Al principio del suo impero per conciliarsi l'amor de'sudditi coll'annullare gli ordini di Tiberio, avea permes-so che si leggessero e si pubblicassero di nuovo i libri diTito Labieno, di Cremuzio Cordo, e di Cassio Severo,che quegli avea dannati alle fiamme. Ma ciò non ostanteil regno di Caligola non fu men funesto alle lettere chequel di Tiberio, e l'eloquenza di cui egli vantavasi, perpoco non fu fatale a Domizio Afro orator celebre a queltempo, di cui vedremo a suo luogo che perciò solo chepareva più di lui eloquente, sarebbe stato ucciso, se nonavesse egli avuto ricorso al mezzo ch'era il solo efficace,di una vilissima adulazione. Un altro oratore detto pernome Carinna Secondo fu da lui mandato in esilio, soloperchè una declamazione avea per suo esercizio recitatacontro la tirannia. Contro i professori delle altre scienzein cui non era egli istruito, molto più mostrossi crudele.Poco mancò che dalle biblioteche in cui a onorevol me-moria erano state locate, non togliesse le statue di Virgi-lio e di Livio, dicendo scioccamente che quegli era statouomo di niuno ingegno e di assai leggera dottrina, e che

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avea dalla natura e copiosa facondia e memoria felice evoce alta e canora (Svet. in Calig. c. 23). Nemico di unaricercata eleganza, e solito perciò a deridere l'eloquenzadi Seneca, che allora era in gran pregio, amava un dirrapido e veemente; e talvolta all'improvviso ancora ri-spondeva alle altrui orazioni che ad accusare, o a difen-dere qualche reo recitavansi da altri in senato (Svet. ib.Joseph. Antiq. Jud. l. 19. c. 2). Anzi un trattato di elo-quenza scritto latinamente da Caligola rammenta Suida.Al principio del suo impero per conciliarsi l'amor de'sudditi coll'annullare gli ordini di Tiberio, avea permes-so che si leggessero e si pubblicassero di nuovo i libri diTito Labieno, di Cremuzio Cordo, e di Cassio Severo,che quegli avea dannati alle fiamme. Ma ciò non ostanteil regno di Caligola non fu men funesto alle lettere chequel di Tiberio, e l'eloquenza di cui egli vantavasi, perpoco non fu fatale a Domizio Afro orator celebre a queltempo, di cui vedremo a suo luogo che perciò solo chepareva più di lui eloquente, sarebbe stato ucciso, se nonavesse egli avuto ricorso al mezzo ch'era il solo efficace,di una vilissima adulazione. Un altro oratore detto pernome Carinna Secondo fu da lui mandato in esilio, soloperchè una declamazione avea per suo esercizio recitatacontro la tirannia. Contro i professori delle altre scienzein cui non era egli istruito, molto più mostrossi crudele.Poco mancò che dalle biblioteche in cui a onorevol me-moria erano state locate, non togliesse le statue di Virgi-lio e di Livio, dicendo scioccamente che quegli era statouomo di niuno ingegno e di assai leggera dottrina, e che

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questi era una storico verboso e negligente. Pensò anco-ra di sopprimere interamente le poesie d'Omero, per fol-le vanto d'imitare Platone che nell'imaginaria sua repub-blica aveane proibita la lettura (Svet. c. 34). Vantavasiancora di voler toglier totalmente di mezzo la scienzade' giureconsulti e tutti i loro libri, dicendo che avrebbefatto in modo che altro parere non si potesse seguirefuorchè il suo (ib.). Queste nondimeno non furono chepazzie meditate. Un certo Apelle che da Dione dicesi ilpiù valente tra gli attori di tragedia, che allora fosse (l.19), e carissimo a Caligola, interrogato da lui, mentrestava innanzi a una statua di Giove, chi di lor due gli pa-resse migliore, perchè si rimaneva dubbioso qual rispo-sta avesse a fargli, fu crudelmente fatto flagellare; ementre l'infelice dolentemente implorava pietà e perdo-no, il barbaro compiacendosene lodava la dolcezza esoavità di quella flebil voce (Svet. c. 33). Più infelice fuun poeta scrittore di quelle favole che dicevansi Atella-ne; perciocchè per un sol verso che poteva aver sensoambiguo, e credersi forse indirizzato contro di lui, perordine di Caligola fu in mezzo all'anfiteatro arso vivo(Svet. c. 27). Io non parlo qui delle letterarie sfide dieloquenza da lui istituite in Lione, perciocchè esse nonappartengono al mio argomento, ma sì alla storia lettera-ria delle Gallie, che da' dotti Maurini è stata diligente-mente illustrata.

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questi era una storico verboso e negligente. Pensò anco-ra di sopprimere interamente le poesie d'Omero, per fol-le vanto d'imitare Platone che nell'imaginaria sua repub-blica aveane proibita la lettura (Svet. c. 34). Vantavasiancora di voler toglier totalmente di mezzo la scienzade' giureconsulti e tutti i loro libri, dicendo che avrebbefatto in modo che altro parere non si potesse seguirefuorchè il suo (ib.). Queste nondimeno non furono chepazzie meditate. Un certo Apelle che da Dione dicesi ilpiù valente tra gli attori di tragedia, che allora fosse (l.19), e carissimo a Caligola, interrogato da lui, mentrestava innanzi a una statua di Giove, chi di lor due gli pa-resse migliore, perchè si rimaneva dubbioso qual rispo-sta avesse a fargli, fu crudelmente fatto flagellare; ementre l'infelice dolentemente implorava pietà e perdo-no, il barbaro compiacendosene lodava la dolcezza esoavità di quella flebil voce (Svet. c. 33). Più infelice fuun poeta scrittore di quelle favole che dicevansi Atella-ne; perciocchè per un sol verso che poteva aver sensoambiguo, e credersi forse indirizzato contro di lui, perordine di Caligola fu in mezzo all'anfiteatro arso vivo(Svet. c. 27). Io non parlo qui delle letterarie sfide dieloquenza da lui istituite in Lione, perciocchè esse nonappartengono al mio argomento, ma sì alla storia lettera-ria delle Gallie, che da' dotti Maurini è stata diligente-mente illustrata.

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VI. La crudeltà di Caligola giunse a tal se-gno che, stanchi finalmente alcuni di più ol-tre soffrirla, nel quarto anno del suo imperocongiurarono contro di lui, e per mano diCherea tribuno delle guardie pretoriane louccisero all'uscir del teatro l'anno di Cristo41. Claudio zio di Caligola, perchè fratel di

Germanico di lui padre, uomo per la sua viltà e stupi-dezza avuto in niun conto sino a quel tempo, mentredopo la morte di Caligola il senato stava deliberando seritornar si dovesse all'antica libertà, veduto a caso dasoldati che scorrevano saccheggiando il palazzo, nasco-sto e tremante in un angolo, fu da essi in quel tumultogridato imperadore, e il senato si vide suo malgrado co-stretto a riconoscerlo ed approvarlo. Gli autori della Sto-ria Letteraria di Francia gli hanno dato luogo tra loroscrittori (t. 1. p. 166., ec.) perchè nacque in Lione oveera allora suo padre Druso. Ma se il nascere a caso inuna più che in altra città bastasse a determinare la patriadi alcuno, quanti Francesi dovrebbero aver luogo tra gliscrittori italiani, e così dicasi d'altre nazioni! Incapace diregolare l'impero per se medesimo; era necessario chene lasciasse ad altri la cura; e la disgrazia di Roma si fuche ciò toccasse ai peggiori uomini che allor ci vivesse-ro; Messalina prima, e poscia Agrippina sue mogli, euna truppa di liberti tanto più crudeli nell'abusarsi delloro potere, quanto erano più vili di condizione. Debolee vile fino a soffrire indolentemente l'atroce insulto diveder Messalina sua moglie stringersi solennemente in

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Claudio successor di Caligola,non ostantela sua stu-pidezza, coltiva le lettere.

VI. La crudeltà di Caligola giunse a tal se-gno che, stanchi finalmente alcuni di più ol-tre soffrirla, nel quarto anno del suo imperocongiurarono contro di lui, e per mano diCherea tribuno delle guardie pretoriane louccisero all'uscir del teatro l'anno di Cristo41. Claudio zio di Caligola, perchè fratel di

Germanico di lui padre, uomo per la sua viltà e stupi-dezza avuto in niun conto sino a quel tempo, mentredopo la morte di Caligola il senato stava deliberando seritornar si dovesse all'antica libertà, veduto a caso dasoldati che scorrevano saccheggiando il palazzo, nasco-sto e tremante in un angolo, fu da essi in quel tumultogridato imperadore, e il senato si vide suo malgrado co-stretto a riconoscerlo ed approvarlo. Gli autori della Sto-ria Letteraria di Francia gli hanno dato luogo tra loroscrittori (t. 1. p. 166., ec.) perchè nacque in Lione oveera allora suo padre Druso. Ma se il nascere a caso inuna più che in altra città bastasse a determinare la patriadi alcuno, quanti Francesi dovrebbero aver luogo tra gliscrittori italiani, e così dicasi d'altre nazioni! Incapace diregolare l'impero per se medesimo; era necessario chene lasciasse ad altri la cura; e la disgrazia di Roma si fuche ciò toccasse ai peggiori uomini che allor ci vivesse-ro; Messalina prima, e poscia Agrippina sue mogli, euna truppa di liberti tanto più crudeli nell'abusarsi delloro potere, quanto erano più vili di condizione. Debolee vile fino a soffrire indolentemente l'atroce insulto diveder Messalina sua moglie stringersi solennemente in

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Claudio successor di Caligola,non ostantela sua stu-pidezza, coltiva le lettere.

nozze con un altro cavaliere, fu nondimeno per altruisuggestione così crudele, che trentacinque senatori e ol-tre a trecento cavalieri romani furono a suo tempo uccisi(Svet. in Cl. c. 29). Le belle lettere furono l'unico ogget-to a cui egli mostrasse qualche favorevole disposizione;applicato perciò ad esse da' suoi parenti, poichè di ognialtro esercizio sembrava incapace. Egli attentamente lecoltivò, e die' vari saggi del suo profitto (id. c. 3). Unacommedia greca essendo già imperadore compose egli,e rappresentar fece in Napoli, e in competenza di altreche si recitarono, per sentenza di giudici a ciò deputatiriportò l'onore della corona; nel che però è facile chel'adulazione più che il retto giudizio conducesse que'giudici. Amantissimo del giuoco, di esso pure scrisse edivulgò un libro (id. c. 33). Prese ancora a scrivere lastoria romana, e due libri compose delle cose avvenutedopo la morte di Cesare; ma poi veggendo che cosatroppo pericolosa era lo scrivere di tal materia, lasciatique' tempi, la cominciò dalla pace seguita dopo la batta-glia di Azzio, e ne scrisse XLI Libri. Otto libri ancoraegli scrisse della propria Vita con più eleganza che sen-no, dice Svetonio. Inoltre un'apologia che lo stesso Sve-tonio dice assai erudita, di Cicerone contro i libri di Asi-nio Gallo, il quale avendo fatto un confronto tra lui eAsinio Pollione suo padre, aveva a questo data la prefe-renza.

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nozze con un altro cavaliere, fu nondimeno per altruisuggestione così crudele, che trentacinque senatori e ol-tre a trecento cavalieri romani furono a suo tempo uccisi(Svet. in Cl. c. 29). Le belle lettere furono l'unico ogget-to a cui egli mostrasse qualche favorevole disposizione;applicato perciò ad esse da' suoi parenti, poichè di ognialtro esercizio sembrava incapace. Egli attentamente lecoltivò, e die' vari saggi del suo profitto (id. c. 3). Unacommedia greca essendo già imperadore compose egli,e rappresentar fece in Napoli, e in competenza di altreche si recitarono, per sentenza di giudici a ciò deputatiriportò l'onore della corona; nel che però è facile chel'adulazione più che il retto giudizio conducesse que'giudici. Amantissimo del giuoco, di esso pure scrisse edivulgò un libro (id. c. 33). Prese ancora a scrivere lastoria romana, e due libri compose delle cose avvenutedopo la morte di Cesare; ma poi veggendo che cosatroppo pericolosa era lo scrivere di tal materia, lasciatique' tempi, la cominciò dalla pace seguita dopo la batta-glia di Azzio, e ne scrisse XLI Libri. Otto libri ancoraegli scrisse della propria Vita con più eleganza che sen-no, dice Svetonio. Inoltre un'apologia che lo stesso Sve-tonio dice assai erudita, di Cicerone contro i libri di Asi-nio Gallo, il quale avendo fatto un confronto tra lui eAsinio Pollione suo padre, aveva a questo data la prefe-renza.

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VII. Era egli ancora nella lingua greca ver-sato assai, e ne usava non rade volte anchein senato (Svet. c. 42); anzi due altre storie

in tal lingua egli scrisse, una degli Etruschi (e non diTiro, come hanno scritto gli autori della Storia Letterariadi Francia (t. 1, c. 174), troppo male interpretando la pa-rola Tyrrenicon da Svetonio (ib.) adoperata) divisa inventi libri, l'altra, divisa in otto, de' Cartaginesi. In gra-zia de' quali libri, come siegue a narrare Svetonio,all'antico museo che era già in Alessandria, ove radunarsi solevano ad erudite assemblee gli uomini dotti, un al-tro ne fu aggiunto che dal nome stesso di Claudio presel'appellazione, e si comandò che ogni anno in un di essisi leggesse nelle pubbliche adunanze di certi giorni de-terminati la storia de' Tirreni, nell'altro quella de' Carta-ginesi, e che tutte si recitassero a vicenda da ciaschedu-no degli astanti. Questo passo ancora di Svetonio non èstato fedelmente spiegato da' suddetti autori della StoriaLetteraria di Francia; perciocchè essi dicono che Clau-dio stesso ordinò e la fabbrica del secondo museo e lasolenne lettura de' suoi libri; il che da Svetonio non sidice. Aggiungono i medesimi autori che Tacito ci haconservato il discorso fatto da Claudio in Senato per ot-tenere che i popoli della Gallia comata, i quali già ave-vano il diritto della romana cittadinanza, potessero an-cora esser posti nel ruolo de' senatori, e che questo èl'unico saggio che ci sia rimasto dello stile di Claudio.Ma dice egli forse Tacito che quelle fossero appunto leparole, o almeno i sentimenti di Claudio? O non è anzi

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Opere da lui scritte.

VII. Era egli ancora nella lingua greca ver-sato assai, e ne usava non rade volte anchein senato (Svet. c. 42); anzi due altre storie

in tal lingua egli scrisse, una degli Etruschi (e non diTiro, come hanno scritto gli autori della Storia Letterariadi Francia (t. 1, c. 174), troppo male interpretando la pa-rola Tyrrenicon da Svetonio (ib.) adoperata) divisa inventi libri, l'altra, divisa in otto, de' Cartaginesi. In gra-zia de' quali libri, come siegue a narrare Svetonio,all'antico museo che era già in Alessandria, ove radunarsi solevano ad erudite assemblee gli uomini dotti, un al-tro ne fu aggiunto che dal nome stesso di Claudio presel'appellazione, e si comandò che ogni anno in un di essisi leggesse nelle pubbliche adunanze di certi giorni de-terminati la storia de' Tirreni, nell'altro quella de' Carta-ginesi, e che tutte si recitassero a vicenda da ciaschedu-no degli astanti. Questo passo ancora di Svetonio non èstato fedelmente spiegato da' suddetti autori della StoriaLetteraria di Francia; perciocchè essi dicono che Clau-dio stesso ordinò e la fabbrica del secondo museo e lasolenne lettura de' suoi libri; il che da Svetonio non sidice. Aggiungono i medesimi autori che Tacito ci haconservato il discorso fatto da Claudio in Senato per ot-tenere che i popoli della Gallia comata, i quali già ave-vano il diritto della romana cittadinanza, potessero an-cora esser posti nel ruolo de' senatori, e che questo èl'unico saggio che ci sia rimasto dello stile di Claudio.Ma dice egli forse Tacito che quelle fossero appunto leparole, o almeno i sentimenti di Claudio? O non è anzi

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Opere da lui scritte.

noto ad ognuno che così egli, come tutti gli altri storiciintroducono a ragionare i lor personaggi con que' pen-sieri e con quelle espressioni che loro piacciono? Mapiù leggiadro si è ciò ch'essi soggiungono, cioè che nelsecolo XVI furono trovate (come veramente accaddel'an. 1528) sul colle di San Sebastiano presso Lione duelastre di bronzo, che or si conservano nel palazzo dellacittà, in cui, dicono, è scolpita parte di questo discorso,ma in uno stile men bello di quel che è presso Tacito.Come mai sì dotti autori hanno potuto scriver così? Siconfronti di grazia il discorso di Claudio, ch'è presso Ta-cito (l. 11 Ann. c. 4), con quello che è stato trovato scol-pito in bronzo; e ch'è stato pubblicato da Giusto Lipsio(Excurs. ad l. 10 Annal.), e dal p. Decolonia (Hist. Lit-tér. de Lyon t. 1, p. 136), e veggasi se vi ha tra l'uno el'altro la menoma somiglianza, sicchè si possa dire chesolo n'è men colto lo stile. Egli è anzi probabile chequello che fu scolpito in bronzo, fosse il vero discorsodi Claudio, qual fu da esso tenuto in senato; e che quelch'è presso Tacito, fosse interamente dallo stesso storicoimmaginato e disteso, come è costume degli scrittori.

VIII. Svetonio aggiugne delle tre lettere (c.41) che Claudio volle introdurre nel latinoalfabeto. Quali esse fossero nol dice. Ma daltestimonio di Quintiliano (l. 1, c. 7), e daqualche iscrizione di questi tempi (V. PitisciComm. in Svet. Cl. c. 41), è chiaro che una

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Tenta di ag-giugner nuove lette-re all'alfa-beto: suoi studj filoso-fici.

noto ad ognuno che così egli, come tutti gli altri storiciintroducono a ragionare i lor personaggi con que' pen-sieri e con quelle espressioni che loro piacciono? Mapiù leggiadro si è ciò ch'essi soggiungono, cioè che nelsecolo XVI furono trovate (come veramente accaddel'an. 1528) sul colle di San Sebastiano presso Lione duelastre di bronzo, che or si conservano nel palazzo dellacittà, in cui, dicono, è scolpita parte di questo discorso,ma in uno stile men bello di quel che è presso Tacito.Come mai sì dotti autori hanno potuto scriver così? Siconfronti di grazia il discorso di Claudio, ch'è presso Ta-cito (l. 11 Ann. c. 4), con quello che è stato trovato scol-pito in bronzo; e ch'è stato pubblicato da Giusto Lipsio(Excurs. ad l. 10 Annal.), e dal p. Decolonia (Hist. Lit-tér. de Lyon t. 1, p. 136), e veggasi se vi ha tra l'uno el'altro la menoma somiglianza, sicchè si possa dire chesolo n'è men colto lo stile. Egli è anzi probabile chequello che fu scolpito in bronzo, fosse il vero discorsodi Claudio, qual fu da esso tenuto in senato; e che quelch'è presso Tacito, fosse interamente dallo stesso storicoimmaginato e disteso, come è costume degli scrittori.

VIII. Svetonio aggiugne delle tre lettere (c.41) che Claudio volle introdurre nel latinoalfabeto. Quali esse fossero nol dice. Ma daltestimonio di Quintiliano (l. 1, c. 7), e daqualche iscrizione di questi tempi (V. PitisciComm. in Svet. Cl. c. 41), è chiaro che una

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Tenta di ag-giugner nuove lette-re all'alfa-beto: suoi studj filoso-fici.

di esse era così scritta a spiegare la forza della V con-sonante; l'altra per testimonio di Prisciano (l. 1, p. 558ed Putsch.) era destinata a far le veci della Ψ greca, escriveasi per . Qual fosse la terza, nol sappiamo preci-samente, nè penso che sia ben impiegata la fatica a di-sputarne. Esse però, finchè Claudio visse, furono o perrispetto, o per adulazion ricevute; ma lui morto, cadderoin dimenticanza. Pare finalmente che qualchecosa eitoccasse de' filosofici studj, perciocchè narra Dione (l.60) che avendo egli preveduto che nel giorno suo natali-zio sarebbesi ecclissato il sole, e temendo che qualchetumulto non ne seguisse, non solo ne die' avviso al po-polo con un libro intorno a ciò pubblicato, segnandoneprecisamente l'ora e la durata, ma ne spiegò ancora lavera ragione. Questa letteratura di Claudio fu derisa dalfilosofo Seneca nella satira che sulla morte di lui egliscrisse, di cui ragioneremo a suo luogo, e non è maravi-glia, perchè, essendo egli poco meno che scimunito, do-vea naturalmente comparire ridicoloso quel qualunquesuo sapere. Ma se egli all'erudizione congiunto avesse ilsenno, sarebbe stato certamente uno de' principi più be-nemeriti delle lettere e delle scienze.

IX. Ma se il regno di Claudio non fu per lasua dappocaggine favorevole agli studj, nonfu almeno loro fatale; poichè avendo in pre-gio le lettere, qualche rispetto usava a' lorocoltivatori. Non così Nerone figliuolo di

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Carattere e condotta di Nerone: suoi studj giovanili.

di esse era così scritta a spiegare la forza della V con-sonante; l'altra per testimonio di Prisciano (l. 1, p. 558ed Putsch.) era destinata a far le veci della Ψ greca, escriveasi per . Qual fosse la terza, nol sappiamo preci-samente, nè penso che sia ben impiegata la fatica a di-sputarne. Esse però, finchè Claudio visse, furono o perrispetto, o per adulazion ricevute; ma lui morto, cadderoin dimenticanza. Pare finalmente che qualchecosa eitoccasse de' filosofici studj, perciocchè narra Dione (l.60) che avendo egli preveduto che nel giorno suo natali-zio sarebbesi ecclissato il sole, e temendo che qualchetumulto non ne seguisse, non solo ne die' avviso al po-polo con un libro intorno a ciò pubblicato, segnandoneprecisamente l'ora e la durata, ma ne spiegò ancora lavera ragione. Questa letteratura di Claudio fu derisa dalfilosofo Seneca nella satira che sulla morte di lui egliscrisse, di cui ragioneremo a suo luogo, e non è maravi-glia, perchè, essendo egli poco meno che scimunito, do-vea naturalmente comparire ridicoloso quel qualunquesuo sapere. Ma se egli all'erudizione congiunto avesse ilsenno, sarebbe stato certamente uno de' principi più be-nemeriti delle lettere e delle scienze.

IX. Ma se il regno di Claudio non fu per lasua dappocaggine favorevole agli studj, nonfu almeno loro fatale; poichè avendo in pre-gio le lettere, qualche rispetto usava a' lorocoltivatori. Non così Nerone figliuolo di

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Carattere e condotta di Nerone: suoi studj giovanili.

Gneo Domizio Enobarbo e di Agrippina, che fu poi mo-glie di Claudio a cui ella il fece adottare per suo figliuo-lo. Nerone salì al trono l'anno 54; poichè Claudio morìper veleno, come si crede, datogli dalla stessa Agrippi-na. L'idea che il comun consenso degli uomini ha unitaal nome di Nerone, basta a farci conoscere chi egli fos-se. Trattene alcune lodevoli azioni ch'ei fece al principiodel suo regno, non vi fu esempio di crudeltà e di barba-rie, che allora non si vedesse. Seneca suo maestro, Bri-tannico e Antonia figliuoli di Claudio, e quindi suoi fra-telli adottivi, Domizia sua zia, Ottavia e Poppea sue mo-gli, finalmente la stessa Agrippina sua madre perdetteroper comando di questo mostro la vita. Gli altri vizj nonfurono in lui punto minori della sua crudeltà: e a dir tut-to in breve pare, come riflette un moderno autore (Ri-cher Abrégé de l'Hist. des Emper. p. 137) che Neronenon arrivasse all'impero, che per mostrare quanti delittipuò commettere un uomo che si abbandoni alla pessimasua natura. A renderne sempre più esecrabile il nome,mancava solo ch'ei fosse, come fu veramente, il primopersecutore de' Cristiani. Qual protezione sperar poteva-no da tal sovrano gli studj? Egli, come dice Svetonio (inNer. c. 52), aveva da fanciullo appreso gli elementi diquasi tutte le scienze, ma della filosofia aveagli ispirataavversione Agrippina sua madre, dicendo che nocevoleessa era a chi dovea regnare; "e Seneca, per essere piùlungamente da Nerone ammirato, distolto lo avea dalleggere gli antichi oratori." Alcune orazioni in età gio-vanile da lui fatte, altre in greco, altre in latino rammen-

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Gneo Domizio Enobarbo e di Agrippina, che fu poi mo-glie di Claudio a cui ella il fece adottare per suo figliuo-lo. Nerone salì al trono l'anno 54; poichè Claudio morìper veleno, come si crede, datogli dalla stessa Agrippi-na. L'idea che il comun consenso degli uomini ha unitaal nome di Nerone, basta a farci conoscere chi egli fos-se. Trattene alcune lodevoli azioni ch'ei fece al principiodel suo regno, non vi fu esempio di crudeltà e di barba-rie, che allora non si vedesse. Seneca suo maestro, Bri-tannico e Antonia figliuoli di Claudio, e quindi suoi fra-telli adottivi, Domizia sua zia, Ottavia e Poppea sue mo-gli, finalmente la stessa Agrippina sua madre perdetteroper comando di questo mostro la vita. Gli altri vizj nonfurono in lui punto minori della sua crudeltà: e a dir tut-to in breve pare, come riflette un moderno autore (Ri-cher Abrégé de l'Hist. des Emper. p. 137) che Neronenon arrivasse all'impero, che per mostrare quanti delittipuò commettere un uomo che si abbandoni alla pessimasua natura. A renderne sempre più esecrabile il nome,mancava solo ch'ei fosse, come fu veramente, il primopersecutore de' Cristiani. Qual protezione sperar poteva-no da tal sovrano gli studj? Egli, come dice Svetonio (inNer. c. 52), aveva da fanciullo appreso gli elementi diquasi tutte le scienze, ma della filosofia aveagli ispirataavversione Agrippina sua madre, dicendo che nocevoleessa era a chi dovea regnare; "e Seneca, per essere piùlungamente da Nerone ammirato, distolto lo avea dalleggere gli antichi oratori." Alcune orazioni in età gio-vanile da lui fatte, altre in greco, altre in latino rammen-

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tano Svetonio e Tacito (Svet. ib. c. 7; Tac. Ann. l. 12 c.58) e Svetonio dice che anche imperadore declamòspesso pubblicamente (ib. c. 10). Ma se egli si applicòper alcun tempo agli studj, ben presto se ne distolse oc-cupato unicamente ne' suoi piaceri; e quando al princi-pio del suo impero egli volle fare l'orazion funebre diClaudio, si valse dell'opera di Seneca suo maestro.Vuolsi qui riferire un passo di Tacito che il carattere ciforma degli studj di Nerone, e ci muove ancora qualchesospetto che le orazioni da Nerone talvolta dette fosseroesse ancora di Seneca, o di altri che per lui le scrivesse."Ne' funerali di Claudio dic'egli (l. 13, c. 3), Nerone nefece l'encomio: finchè lodonne l'antichità della famiglia,i consolati e i trionfi de' suoi maggiori, fu udito con at-tenzione; volentieri ancora si ascoltò la menzione deglistudj da lui fatti, e della felicità che per parte de' popolistranieri avea goduto l'impero nel suo regno: ma poichèvenne alla prudenza e al senno di Claudio, niuno potèfrenare le risa, benchè l'orazione composta da Senecafosse colta assai, essendo quegli uomo di leggiadro in-gegno, e al gusto di que' tempi adattato. Osservarono ipiù vecchi, che possono le cose recenti confrontar colleantiche, che tra gli imperadori Nerone fu il primo cheabbisognasse dell'eloquenza altrui; perciocchè il dittatorGiulio Cesare avea cogli oratori più celebri gareggiato:Augusto avea una facile ed ubertosa facondia, quale aprincipe si conveniva; Tiberio ancora sapeva l'arte diben pesar le parole, e di usare ora un parlare eloquente efocoso, ora a bella posta oscuro ed ambiguo. Anche Ca-

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tano Svetonio e Tacito (Svet. ib. c. 7; Tac. Ann. l. 12 c.58) e Svetonio dice che anche imperadore declamòspesso pubblicamente (ib. c. 10). Ma se egli si applicòper alcun tempo agli studj, ben presto se ne distolse oc-cupato unicamente ne' suoi piaceri; e quando al princi-pio del suo impero egli volle fare l'orazion funebre diClaudio, si valse dell'opera di Seneca suo maestro.Vuolsi qui riferire un passo di Tacito che il carattere ciforma degli studj di Nerone, e ci muove ancora qualchesospetto che le orazioni da Nerone talvolta dette fosseroesse ancora di Seneca, o di altri che per lui le scrivesse."Ne' funerali di Claudio dic'egli (l. 13, c. 3), Nerone nefece l'encomio: finchè lodonne l'antichità della famiglia,i consolati e i trionfi de' suoi maggiori, fu udito con at-tenzione; volentieri ancora si ascoltò la menzione deglistudj da lui fatti, e della felicità che per parte de' popolistranieri avea goduto l'impero nel suo regno: ma poichèvenne alla prudenza e al senno di Claudio, niuno potèfrenare le risa, benchè l'orazione composta da Senecafosse colta assai, essendo quegli uomo di leggiadro in-gegno, e al gusto di que' tempi adattato. Osservarono ipiù vecchi, che possono le cose recenti confrontar colleantiche, che tra gli imperadori Nerone fu il primo cheabbisognasse dell'eloquenza altrui; perciocchè il dittatorGiulio Cesare avea cogli oratori più celebri gareggiato:Augusto avea una facile ed ubertosa facondia, quale aprincipe si conveniva; Tiberio ancora sapeva l'arte diben pesar le parole, e di usare ora un parlare eloquente efocoso, ora a bella posta oscuro ed ambiguo. Anche Ca-

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ligola tra le sue pazzie mantenne la forza nel favellare;nè Claudio finalmente era privo di eleganza, quandoegli diceva cose premeditate. Ma Nerone fin da' più te-neri anni volse ad altre cose il pensiero. Scolpire e di-pingere e cantare e regolare i cavalli, erano le sue piùcare occupazioni; talvolta però recitando suoi versi mo-strava di aver appresi gli elementi delle scienze." Fin quiTacito. La sola poesia adunque fu quella a cui Neronemostrò qualche inclinazione. Nel che però, s'egli stessoveramente componesse i versi, o se si usurpasse gli al-trui, non è facile a diffinire, e discordano su questo pun-to Tacito e Svetonio. Perciocchè quegli racconta (l. 14,c. 16.) che Nerone radunar soleva quelli tra' giovani, chesapessero al quanto di poesia; e ch'essi insieme con luisedendo acconciavano i versi ch'ei lor mostrava; e alleparole qualunque fossero da lui usate davano il suono ela cadenza poetica, il che, aggiugne Tacito, chiaro sivede dagli stessi suoi versi che non hanno estro nè brioalcuno, nè sono di uno stile uguale e seguito. Svetonioal contrario (c. 52) rigetta apertamente questa opinione,e dice essere falso ciò che altri asseriscono che Neronespacciasse gli altrui versi per suoi; e ch'egli aveva vera-mente facilità e prontezza in poetare, e ne reca in provaalcuni libri di versi, ch'egli stesso avea veduti, scritti perman di Nerone medesimo, e pieni di correzioni e di can-cellature; talchè era chiaro ch'erano da lui stesso staticomposti e ritoccati. Ma checchessia di ciò, questo qua-lunque studio di poesia ad altro non giovò che a renderNerone sempre più vile e abominevole al mondo. Spet-

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ligola tra le sue pazzie mantenne la forza nel favellare;nè Claudio finalmente era privo di eleganza, quandoegli diceva cose premeditate. Ma Nerone fin da' più te-neri anni volse ad altre cose il pensiero. Scolpire e di-pingere e cantare e regolare i cavalli, erano le sue piùcare occupazioni; talvolta però recitando suoi versi mo-strava di aver appresi gli elementi delle scienze." Fin quiTacito. La sola poesia adunque fu quella a cui Neronemostrò qualche inclinazione. Nel che però, s'egli stessoveramente componesse i versi, o se si usurpasse gli al-trui, non è facile a diffinire, e discordano su questo pun-to Tacito e Svetonio. Perciocchè quegli racconta (l. 14,c. 16.) che Nerone radunar soleva quelli tra' giovani, chesapessero al quanto di poesia; e ch'essi insieme con luisedendo acconciavano i versi ch'ei lor mostrava; e alleparole qualunque fossero da lui usate davano il suono ela cadenza poetica, il che, aggiugne Tacito, chiaro sivede dagli stessi suoi versi che non hanno estro nè brioalcuno, nè sono di uno stile uguale e seguito. Svetonioal contrario (c. 52) rigetta apertamente questa opinione,e dice essere falso ciò che altri asseriscono che Neronespacciasse gli altrui versi per suoi; e ch'egli aveva vera-mente facilità e prontezza in poetare, e ne reca in provaalcuni libri di versi, ch'egli stesso avea veduti, scritti perman di Nerone medesimo, e pieni di correzioni e di can-cellature; talchè era chiaro ch'erano da lui stesso staticomposti e ritoccati. Ma checchessia di ciò, questo qua-lunque studio di poesia ad altro non giovò che a renderNerone sempre più vile e abominevole al mondo. Spet-

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tacolo veramente degno della grandezza e della maestàromana! Vedere un imperadore vantarsi più che di unsolenne trionfo della sua creduta eccellenza in verseg-giare, in sonare la cetra, in recitar dal teatro; comandareche i suoi versi letti fossero e dettati a modello di perfet-ta poesia nelle pubbliche scuole (Persius sat I, v. 29; V.Interpret.); mandare qua e là per Roma uomini prezzola-ti a recitarli, e riputare rei di lesa maestà coloro che nongli approvavano (Philostr. in Vita Apollonii l. 4, c. 13);salire egli stesso sul teatro a sonarvi la cetra, e a rappre-sentar commedie e tragedie; e non contento di far ciò inRoma, andarsene anche a mostrare ai Greci sì disonore-vole oggetto (Dio l. 61 c. 63.) Ma io non so se fossespettacolo più mostruoso vedere un imperador romanodivenuto attore di scena, o vedere la città tutta con ver-gognosa adulazione applaudirgli. Potrebbe parere van-taggiosa alle lettere l'istituzion da lui fatta dei combatti-menti di eloquenza e di poesia, che ogni quint'anno sicelebravano nel Campidoglio, e detti erano capitolini.Ma qual pro, se l'unico frutto che se ne vide, fu l'impie-garsi gli oratori tutti e i poeti in adulare Nerone, e indare a lui sopra tutti la preferenza (Tac. l. 14, c. 21; l.16, c. 2). Quindi questo impegno di Nerone per la poe-sia, non che essere ad essa giovevole, fu anzi a moltidotti fatale, come vedremo a suo luogo (4). Qui basti ac-cennare per saggio ciò che narra Dione (l. 62), cioè che

4 A qualche uomo erudito mostrossi Nerone splendido e liberale, perciocchèse crediamo a Suida, fu presso lui un Didimo figliuol di Eraclide, poeta in-sieme e gramatico e musico valoroso, e vi raccolse molte ricchezze.

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tacolo veramente degno della grandezza e della maestàromana! Vedere un imperadore vantarsi più che di unsolenne trionfo della sua creduta eccellenza in verseg-giare, in sonare la cetra, in recitar dal teatro; comandareche i suoi versi letti fossero e dettati a modello di perfet-ta poesia nelle pubbliche scuole (Persius sat I, v. 29; V.Interpret.); mandare qua e là per Roma uomini prezzola-ti a recitarli, e riputare rei di lesa maestà coloro che nongli approvavano (Philostr. in Vita Apollonii l. 4, c. 13);salire egli stesso sul teatro a sonarvi la cetra, e a rappre-sentar commedie e tragedie; e non contento di far ciò inRoma, andarsene anche a mostrare ai Greci sì disonore-vole oggetto (Dio l. 61 c. 63.) Ma io non so se fossespettacolo più mostruoso vedere un imperador romanodivenuto attore di scena, o vedere la città tutta con ver-gognosa adulazione applaudirgli. Potrebbe parere van-taggiosa alle lettere l'istituzion da lui fatta dei combatti-menti di eloquenza e di poesia, che ogni quint'anno sicelebravano nel Campidoglio, e detti erano capitolini.Ma qual pro, se l'unico frutto che se ne vide, fu l'impie-garsi gli oratori tutti e i poeti in adulare Nerone, e indare a lui sopra tutti la preferenza (Tac. l. 14, c. 21; l.16, c. 2). Quindi questo impegno di Nerone per la poe-sia, non che essere ad essa giovevole, fu anzi a moltidotti fatale, come vedremo a suo luogo (4). Qui basti ac-cennare per saggio ciò che narra Dione (l. 62), cioè che

4 A qualche uomo erudito mostrossi Nerone splendido e liberale, perciocchèse crediamo a Suida, fu presso lui un Didimo figliuol di Eraclide, poeta in-sieme e gramatico e musico valoroso, e vi raccolse molte ricchezze.

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Nerone avendo in idea di scrivere un lungo poema sullastoria romana, richiese a molti, e fra gli altri ad AnneoCornuto, uomo a quel tempo per dottrina e per erudizio-ne chiarissimo, quanti libri avesse a scriverne; e avendoalcuni adulatori asserito che un Nerone nulla meno diquattrocento libri dovea scrivere, Anneo disse ch'eratroppo grande tal numero; al che replicando un altro,che il filosofo Crisippo assai più aveane composti; maquesti, rispose Anneo, al genere umano son vantaggiosi.Del qual detto sdegnato Nerone, poco mancò che nol to-gliesse di vita, e parvegli di mostrarsi clemente col rile-garlo in un'isola. Finalmente dopo 13 anni di regno que-sto crudel mostro, udendo che Galba erasi sollevatocontro di lui, e ch'era stato riconosciuto imperador nelleGallie, e che egli al contrario dal senato stesso di Romaera stato dichiarato nimico pubblico e dannato a morte,fuggito vilmente da Roma, si diè da se stesso la morte,in età di 32 anni, l'anno di Cristo 68; e con lui finì la fa-miglia de' Cesari.

X. I tre seguenti imperadori poco, o nullapoteron recare o di vantaggio, o di dannoalle lettere, che troppo breve fu il loro im-pero, e vidersi allora per la prima volta sor-gere, per così dire, da ogni parte uominiavidi di regnare, e combattersi gli uni glialtri. Galba, Ottone, Vitellio giunsero ad ot-

tenere il trono, ma nol poteron conservare; Galba ucciso

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Impero di Galba, di Ot-tone, di Vi-tellio, di Ve-spasiano, e di Tito; elo-gio dei due ultimi.

Nerone avendo in idea di scrivere un lungo poema sullastoria romana, richiese a molti, e fra gli altri ad AnneoCornuto, uomo a quel tempo per dottrina e per erudizio-ne chiarissimo, quanti libri avesse a scriverne; e avendoalcuni adulatori asserito che un Nerone nulla meno diquattrocento libri dovea scrivere, Anneo disse ch'eratroppo grande tal numero; al che replicando un altro,che il filosofo Crisippo assai più aveane composti; maquesti, rispose Anneo, al genere umano son vantaggiosi.Del qual detto sdegnato Nerone, poco mancò che nol to-gliesse di vita, e parvegli di mostrarsi clemente col rile-garlo in un'isola. Finalmente dopo 13 anni di regno que-sto crudel mostro, udendo che Galba erasi sollevatocontro di lui, e ch'era stato riconosciuto imperador nelleGallie, e che egli al contrario dal senato stesso di Romaera stato dichiarato nimico pubblico e dannato a morte,fuggito vilmente da Roma, si diè da se stesso la morte,in età di 32 anni, l'anno di Cristo 68; e con lui finì la fa-miglia de' Cesari.

X. I tre seguenti imperadori poco, o nullapoteron recare o di vantaggio, o di dannoalle lettere, che troppo breve fu il loro im-pero, e vidersi allora per la prima volta sor-gere, per così dire, da ogni parte uominiavidi di regnare, e combattersi gli uni glialtri. Galba, Ottone, Vitellio giunsero ad ot-

tenere il trono, ma nol poteron conservare; Galba ucciso

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Impero di Galba, di Ot-tone, di Vi-tellio, di Ve-spasiano, e di Tito; elo-gio dei due ultimi.

in Roma per ordine di Ottone; Ottone uccisosi de sestesso in Brescello, poichè seppe il suo esercito esserestato sconfitto da quel di Vitellio; questi finalmente da'partigiani di Vespasiano, dopo essere stato trascinatoignudo per Roma, ucciso a colpi di bastone. Così dueanni di sanguinosissime guerre civili finirono di gittarRoma in una totale desolazione. Ma finalmente parvegiunto il tempo di respirare e rimettersi da' sofferti stra-zj. Vespasiano uomo di bassa stirpe, e, finchè fu in con-dizione privata, malvagio e vizioso, e solo valoroso ge-nerale d'armata, non parve degno di essere imperadore,se non poichè fu salito sul trono. Intento a riparare i di-sordini che dopo la morte d'Augusto eransi in Roma e intutto l'impero introdotti, non tralasciò mezzo alcuno perottenerlo; e si può dire a ragione che Vespasiano, postisiinnanzi gli occhi gli enormi vizj de' suoi antecessori,diede in se stesso l'esempio di tutte le opposte virtù. Duecose sole gli si rinfacciano, la disonestà, benchè benlungi dall'imitare la sfrontata impudenza di Tiberio, diCaligola, e di Nerone, e l'avarizia nell'imporre e nel ri-scuotere troppo gran numero di tributi, della quale peròmolti lo discolpavano, affermando ch'egli era costretto acosì fare dalla necessità di rimettere l'esausto erario(Svet. in Vesp. c. 16). In fatti egli è certo che a tutti e a'poveri singolarmente ei mostrossi assai liberale (id. c.17). Le arti e gli studj furon da lui con sommo impegnofomentati (id. c. 17), ed egli fu il primo, come vedremo,che a' retori assegnò sull'erario onorevole annuo stipen-dio. Niente meno favorevole alle lettere fu il breve im-

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in Roma per ordine di Ottone; Ottone uccisosi de sestesso in Brescello, poichè seppe il suo esercito esserestato sconfitto da quel di Vitellio; questi finalmente da'partigiani di Vespasiano, dopo essere stato trascinatoignudo per Roma, ucciso a colpi di bastone. Così dueanni di sanguinosissime guerre civili finirono di gittarRoma in una totale desolazione. Ma finalmente parvegiunto il tempo di respirare e rimettersi da' sofferti stra-zj. Vespasiano uomo di bassa stirpe, e, finchè fu in con-dizione privata, malvagio e vizioso, e solo valoroso ge-nerale d'armata, non parve degno di essere imperadore,se non poichè fu salito sul trono. Intento a riparare i di-sordini che dopo la morte d'Augusto eransi in Roma e intutto l'impero introdotti, non tralasciò mezzo alcuno perottenerlo; e si può dire a ragione che Vespasiano, postisiinnanzi gli occhi gli enormi vizj de' suoi antecessori,diede in se stesso l'esempio di tutte le opposte virtù. Duecose sole gli si rinfacciano, la disonestà, benchè benlungi dall'imitare la sfrontata impudenza di Tiberio, diCaligola, e di Nerone, e l'avarizia nell'imporre e nel ri-scuotere troppo gran numero di tributi, della quale peròmolti lo discolpavano, affermando ch'egli era costretto acosì fare dalla necessità di rimettere l'esausto erario(Svet. in Vesp. c. 16). In fatti egli è certo che a tutti e a'poveri singolarmente ei mostrossi assai liberale (id. c.17). Le arti e gli studj furon da lui con sommo impegnofomentati (id. c. 17), ed egli fu il primo, come vedremo,che a' retori assegnò sull'erario onorevole annuo stipen-dio. Niente meno favorevole alle lettere fu il breve im-

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pero di Tito suo figliuolo che l'an. 79 gli succedette neltrono. Questi, uno de' più amabili principi che mai re-gnassero, e detto perciò amore e delizie dell'uman gene-re (Svet. in Tito c. 1), avea dalla natura sortito eccellenteingegno da lui coltivato con un diligente studio dellagreca e della latina favella. Scriveva elegantemente as-sai in prosa non meno che in versi; e in questi ancoracon tanta facilità, che talvolta componevali all'improvvi-so (id. c. 3). Nel foro ancora si esercitò egli talvolta, masol nelle cause più nobili e grandi (id. c. 4). Da un taluomo che salito all'impero nulla si lasciò abbagliare dal-la luce del trono, ma parve di esservi collocato sol perrendere felici gli altri, doveano le lettere ancora aspetta-re protezione e favore. Ma Roma per sua sventura trop-po poco tempo potè goderne, e Tito dopo due annid'impero perdè fra il comun pianto la vita, non senzacolpa, come da molti fu creduto, di Domiziano suo fra-tello, ma troppo da lui diverso, che gli succedènell'impero.

XI. "Domiziano, dice il celebre presidenteMontesquieu (Grand. et Décad. des Rom. c.15), fece in se stesso vedere un nuovo mo-stro più crudele, o almen più implacabil diquelli che aveanlo preceduto, perchè di essipiù timido". In fatti i delatori, quella malna-

ta genia che sotto Tiberio avea cominciato a far tantastrage in Roma, ritornarono a mostrarsi sotto Domizia-

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Impero di Domiziano,e sua con-dotta ri-guardo ai letterati.

pero di Tito suo figliuolo che l'an. 79 gli succedette neltrono. Questi, uno de' più amabili principi che mai re-gnassero, e detto perciò amore e delizie dell'uman gene-re (Svet. in Tito c. 1), avea dalla natura sortito eccellenteingegno da lui coltivato con un diligente studio dellagreca e della latina favella. Scriveva elegantemente as-sai in prosa non meno che in versi; e in questi ancoracon tanta facilità, che talvolta componevali all'improvvi-so (id. c. 3). Nel foro ancora si esercitò egli talvolta, masol nelle cause più nobili e grandi (id. c. 4). Da un taluomo che salito all'impero nulla si lasciò abbagliare dal-la luce del trono, ma parve di esservi collocato sol perrendere felici gli altri, doveano le lettere ancora aspetta-re protezione e favore. Ma Roma per sua sventura trop-po poco tempo potè goderne, e Tito dopo due annid'impero perdè fra il comun pianto la vita, non senzacolpa, come da molti fu creduto, di Domiziano suo fra-tello, ma troppo da lui diverso, che gli succedènell'impero.

XI. "Domiziano, dice il celebre presidenteMontesquieu (Grand. et Décad. des Rom. c.15), fece in se stesso vedere un nuovo mo-stro più crudele, o almen più implacabil diquelli che aveanlo preceduto, perchè di essipiù timido". In fatti i delatori, quella malna-

ta genia che sotto Tiberio avea cominciato a far tantastrage in Roma, ritornarono a mostrarsi sotto Domizia-

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Impero di Domiziano,e sua con-dotta ri-guardo ai letterati.

no, e furono volentieri ascoltati; gli esilj, le confischede' beni, i più crudeli supplicj contro ogni genere di per-sone per qualunque pretesto furono rinnovati; e rinnova-ta fu ancora la persecuzione contro de' Cristiani. Questobastava a fare che gli studj ancora giacessero negletti.Ma a ciò si aggiugne l'avversione che Domiziano neavea. Al tempo di Vespasiano per uguagliarsi nell'amoredel popolo al suo fratello Tito, finse di essere amantedegli studj, e della poesia singolarmente, e facevasi tal-volta udire a recitare pubblicamente suoi versi (Svet. inDomit. c. 2; Tacit. l. 4, Hist. c. 86). Ma passato il tempodi fingere, egli non impiegò più alcun momento allo stu-dio della poesia, o della storia, o di altra scienza; e al bi-sogno di scrivere lettere, orazioni ed editti, valevasidell'opera altrui, e il solo libro ch'egli leggesse, erano gliatti e la vita di Tiberio, quasi modello su cui formarsiall'impero (Svet. c. 20). Due sole cose troviamo da luifatte a vantaggio delle scienze, l'una il rinnovare i lette-rarj combattimenti in Roma ogni cinque anni, istituitigià da Nerone (Svet. c. 4 e 13; Quint. l. 3. c. 7), e insie-me stabilire somiglianti giuochi da celebrarsi in Albaogni anno, i quali latinamente diceansi quinquatria(Svet. c. 4; Dio l. 67); l'altra il rifabbricare le incendiatebiblioteche, e raccoglier per ciò gran quantità di libri,come a suo luogo vedremo. Ma poco potevan giovaretali aiuti, se la crudeltà e la tirannia del suo governo te-neva, per così dire, schiavi gl'ingegni. In tale stato dura-ron le cose fino all'anno di Cristo 96, in cui Domizianofu ucciso per man di un liberto di Domitilla sua madre.

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no, e furono volentieri ascoltati; gli esilj, le confischede' beni, i più crudeli supplicj contro ogni genere di per-sone per qualunque pretesto furono rinnovati; e rinnova-ta fu ancora la persecuzione contro de' Cristiani. Questobastava a fare che gli studj ancora giacessero negletti.Ma a ciò si aggiugne l'avversione che Domiziano neavea. Al tempo di Vespasiano per uguagliarsi nell'amoredel popolo al suo fratello Tito, finse di essere amantedegli studj, e della poesia singolarmente, e facevasi tal-volta udire a recitare pubblicamente suoi versi (Svet. inDomit. c. 2; Tacit. l. 4, Hist. c. 86). Ma passato il tempodi fingere, egli non impiegò più alcun momento allo stu-dio della poesia, o della storia, o di altra scienza; e al bi-sogno di scrivere lettere, orazioni ed editti, valevasidell'opera altrui, e il solo libro ch'egli leggesse, erano gliatti e la vita di Tiberio, quasi modello su cui formarsiall'impero (Svet. c. 20). Due sole cose troviamo da luifatte a vantaggio delle scienze, l'una il rinnovare i lette-rarj combattimenti in Roma ogni cinque anni, istituitigià da Nerone (Svet. c. 4 e 13; Quint. l. 3. c. 7), e insie-me stabilire somiglianti giuochi da celebrarsi in Albaogni anno, i quali latinamente diceansi quinquatria(Svet. c. 4; Dio l. 67); l'altra il rifabbricare le incendiatebiblioteche, e raccoglier per ciò gran quantità di libri,come a suo luogo vedremo. Ma poco potevan giovaretali aiuti, se la crudeltà e la tirannia del suo governo te-neva, per così dire, schiavi gl'ingegni. In tale stato dura-ron le cose fino all'anno di Cristo 96, in cui Domizianofu ucciso per man di un liberto di Domitilla sua madre.

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E dopo un secolo quasi continuo di orrori, di brutalità,di stragi, un nuovo ordin di cose si vide finalmente inRoma, che per qualche tempo le fece dimenticare i sof-ferti danni.

XII. Nerva successore di Domiziano, eprincipe ornato delle più belle doti che a ri-parare i danni dell'impero romano fosseronecessarie, e a cui il solo difetto che si op-ponesse, fu quello di aver portata tropp'oltre

la più amabile tra le virtù, cioè la clemenza, ebbe troppobreve impero, perchè potesse operar grandi cose, mortosedici mesi soli, dacchè era salito al trono. Traiano dalui adottato gli succedette l'an. 98 (5). A me non appartie-ne il fare a questo luogo l'encomio di questo gran princi-pe, in cui si videro uniti que' pregi che formano un gransovrano e un gran generale d'armata. Non vi ha storicoche non ne ragioni; e alcuni tra' moderni singolarmenteche piaccionsi di porre a confronto gli eroi idolatri co'

5 Io debbo qui chieder perdono all'ab. Lampillas, perchè ho dimenticato didire che Traiano e Adriano furono spagnuoli. Ei me ne fa un grave rimpro-vero (t. 2, p. 77. ec.), e si duole "ch'io dissimulando che detti principi fos-sero spagnuoli, privo la lor nazione di quella stima che ispirerebbe ne' mieileggitori il sapere che fu la Spagna madre di così illustri sovrani". Io potreiveramente dire con verità e giurare ch'io ho taciuta la patria loro per lastessa ragione per cui ho taciuta quella de' due ottimi imperadori italianiVespasiano e Tito, cioè perchè non vi ho pensato, e se pur vi avessi, l'avreiforse creduta cosa inutile a dirsi, perchè a tutti notissima. Ma io potrei pro-testare quanto volessi, che le mie proteste a nulla mi gioverebbono. Quan-to poi alla difesa che fa qui di Adriano l'ab. Lampillas, io lascio che ognu-no giudichi a causa conosciuta, come gli sembra meglio.

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Impero diNerva e diTraiano:elogio delsecondo.

E dopo un secolo quasi continuo di orrori, di brutalità,di stragi, un nuovo ordin di cose si vide finalmente inRoma, che per qualche tempo le fece dimenticare i sof-ferti danni.

XII. Nerva successore di Domiziano, eprincipe ornato delle più belle doti che a ri-parare i danni dell'impero romano fosseronecessarie, e a cui il solo difetto che si op-ponesse, fu quello di aver portata tropp'oltre

la più amabile tra le virtù, cioè la clemenza, ebbe troppobreve impero, perchè potesse operar grandi cose, mortosedici mesi soli, dacchè era salito al trono. Traiano dalui adottato gli succedette l'an. 98 (5). A me non appartie-ne il fare a questo luogo l'encomio di questo gran princi-pe, in cui si videro uniti que' pregi che formano un gransovrano e un gran generale d'armata. Non vi ha storicoche non ne ragioni; e alcuni tra' moderni singolarmenteche piaccionsi di porre a confronto gli eroi idolatri co'

5 Io debbo qui chieder perdono all'ab. Lampillas, perchè ho dimenticato didire che Traiano e Adriano furono spagnuoli. Ei me ne fa un grave rimpro-vero (t. 2, p. 77. ec.), e si duole "ch'io dissimulando che detti principi fos-sero spagnuoli, privo la lor nazione di quella stima che ispirerebbe ne' mieileggitori il sapere che fu la Spagna madre di così illustri sovrani". Io potreiveramente dire con verità e giurare ch'io ho taciuta la patria loro per lastessa ragione per cui ho taciuta quella de' due ottimi imperadori italianiVespasiano e Tito, cioè perchè non vi ho pensato, e se pur vi avessi, l'avreiforse creduta cosa inutile a dirsi, perchè a tutti notissima. Ma io potrei pro-testare quanto volessi, che le mie proteste a nulla mi gioverebbono. Quan-to poi alla difesa che fa qui di Adriano l'ab. Lampillas, io lascio che ognu-no giudichi a causa conosciuta, come gli sembra meglio.

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Impero diNerva e diTraiano:elogio delsecondo.

cristiani, formano di Traiano poco meno che un dio, perabbassar quindi al paragone Costantino e Teodosio. Sa-rebbe però a bramare ch'essi usassero di quella sinceritàche tanto pregiano in altri, e che dopo avere esaltate levirtù guerriere e politiche di Traiano, che certo furongrandissime, non ne tacessero i vizj privati che non fu-rono punto minori (V. Tillemont Mém. des Emper. Hist.de Trajan.). Ma lasciando in disparte ciò che non è pro-prio del mio argomento, io debbo solo riflettere che Tra-iano della romana letteratura fu benemerito assai. Que-gli che fissano l'età di Giovenale ai tempi di Traiano e diAdriano, come dimostreremo farsi da alcuni probabil-mente, vogliono, e non senza ragione, che di Traianoegli intendesse quando scrisse:

Et spes et ratio studiorum in Cæsare tantum: Solus enim tristes hac tempestate Camœnas Respexit, ec. (Sat 7, v. 1, ec.)

E poco appresso: Nemo tamen studiis indignum ferre laborem Cogetur posthac, nectit quicumque canoris Eloquium vocale modis, laurumque momordit.

Nè era già Traiano uomo colto nelle belle arti e neglistudj, poichè più che ad essi avea egli rivolti i suoi pen-sieri alla guerra, e non ha alcun fondamento l'opinioned'alcuni ch'egli avesse a suo maestro Plutarco (V. Tille-mont Hist. d'Adrien, art. 21). Ma ciò non ostante ei ripu-tava dovere di saggio monarca il favorire in ogni manie-

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cristiani, formano di Traiano poco meno che un dio, perabbassar quindi al paragone Costantino e Teodosio. Sa-rebbe però a bramare ch'essi usassero di quella sinceritàche tanto pregiano in altri, e che dopo avere esaltate levirtù guerriere e politiche di Traiano, che certo furongrandissime, non ne tacessero i vizj privati che non fu-rono punto minori (V. Tillemont Mém. des Emper. Hist.de Trajan.). Ma lasciando in disparte ciò che non è pro-prio del mio argomento, io debbo solo riflettere che Tra-iano della romana letteratura fu benemerito assai. Que-gli che fissano l'età di Giovenale ai tempi di Traiano e diAdriano, come dimostreremo farsi da alcuni probabil-mente, vogliono, e non senza ragione, che di Traianoegli intendesse quando scrisse:

Et spes et ratio studiorum in Cæsare tantum: Solus enim tristes hac tempestate Camœnas Respexit, ec. (Sat 7, v. 1, ec.)

E poco appresso: Nemo tamen studiis indignum ferre laborem Cogetur posthac, nectit quicumque canoris Eloquium vocale modis, laurumque momordit.

Nè era già Traiano uomo colto nelle belle arti e neglistudj, poichè più che ad essi avea egli rivolti i suoi pen-sieri alla guerra, e non ha alcun fondamento l'opinioned'alcuni ch'egli avesse a suo maestro Plutarco (V. Tille-mont Hist. d'Adrien, art. 21). Ma ciò non ostante ei ripu-tava dovere di saggio monarca il favorire in ogni manie-

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ra le lettere e i loro coltivatori (Dio l. 68). Di ciò lodaloaltamente Plinio nel suo Panegirico (c. 47), e commendala degnazione e la bontà di cui egli onorava i dotti, laprotezione che accordava alle scienze che sotto di lui fi-nalmente sembravano aver ripigliato spirito e vita, e lafacilità con cui egli riceveva coloro che celebri eranoper sapere. E una illustre prova ei ne diede, secondo Fi-lostrato (Vit. Sophist. l. 1 c. 7), quando trionfando de'Daci prese sul suo medesimo cocchio il sofista DioneGrisostomo, e più altri segni continuò poscia a dargli dibenevolenza e d'amore. Nondimeno le continue guerrein cui fu avvolto Traiano, non gli permiser di fare a prodelle lettere quanto in più pacifici tempi avrebbe proba-bilmente fatto.

XIII. Adriano che succedette a Traiano l'an.117, maggior giovamento ancora avrebbepotuto recare alle lettere, se i suoi vizj non

glielo avessero impedito. Dotato di prodigiosa memoria,appena avea letto un libro, recitavalo fedelmente, e a so-miglianza di Cesare scriveva, dettava, ascoltava, e con-versava al tempo medesimo cogli amici (Spart. Vita Ha-drian. c. 20). La greca letteratura eragli singolarmentecara, e n'ebbe quindi da alcuni il soprannome di Grecolo(ib. c. 50). E forse questa sua inclinazione diede originea quel grecheggiare affettato che s'introdusse in Roma, eche leggiadramente deridesi da Giovenale (sat. 6, v. 184,ec.). Ma anche nella lingua latina avea egli fatto diligen-

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Carattere diAdriano.

ra le lettere e i loro coltivatori (Dio l. 68). Di ciò lodaloaltamente Plinio nel suo Panegirico (c. 47), e commendala degnazione e la bontà di cui egli onorava i dotti, laprotezione che accordava alle scienze che sotto di lui fi-nalmente sembravano aver ripigliato spirito e vita, e lafacilità con cui egli riceveva coloro che celebri eranoper sapere. E una illustre prova ei ne diede, secondo Fi-lostrato (Vit. Sophist. l. 1 c. 7), quando trionfando de'Daci prese sul suo medesimo cocchio il sofista DioneGrisostomo, e più altri segni continuò poscia a dargli dibenevolenza e d'amore. Nondimeno le continue guerrein cui fu avvolto Traiano, non gli permiser di fare a prodelle lettere quanto in più pacifici tempi avrebbe proba-bilmente fatto.

XIII. Adriano che succedette a Traiano l'an.117, maggior giovamento ancora avrebbepotuto recare alle lettere, se i suoi vizj non

glielo avessero impedito. Dotato di prodigiosa memoria,appena avea letto un libro, recitavalo fedelmente, e a so-miglianza di Cesare scriveva, dettava, ascoltava, e con-versava al tempo medesimo cogli amici (Spart. Vita Ha-drian. c. 20). La greca letteratura eragli singolarmentecara, e n'ebbe quindi da alcuni il soprannome di Grecolo(ib. c. 50). E forse questa sua inclinazione diede originea quel grecheggiare affettato che s'introdusse in Roma, eche leggiadramente deridesi da Giovenale (sat. 6, v. 184,ec.). Ma anche nella lingua latina avea egli fatto diligen-

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Carattere diAdriano.

te studio, dacchè singolarmente essendo questore sottoTraiano, e recitando una orazione in senato a nomedell'imperadore, per la rozza pronunzia di ch'egli usava,fu pubblicamente beffato; il che talmente lo punse, chevoltosi con grand'ardore alla studio di questa lingua, nonsi ristette, finchè in essa ancora ei non divenne facondoed eloquente oratore (Spar. c. 3). Non vi ebbe quasi ge-nere alcuno di scienza, cui egli non coltivasse, e nelloscrivere in prosa ugualmente che in versi, e nell'aritme-tica e nella geometria, e anche in dipingere, in danzare,in sonare egli acquistossi gran lode (ib. c. 14; Dio l. 69).Nel tempo ancor de' conviti faceva rappresentare azioniteatrali, e leggere poesie, o altri eruditi componimenti(Spart. c. 26). Alcuni libri in prosa avea egli scritti, e traessi la sua vita medesima, benchè da lui pubblicata sottoi nomi de' suoi liberti, come narra Sparziano (c. 1 e 16);ma assai più in versi (Dio l. c.), tra' quali son noti quelliche diconsi da lui fatti vicino a morte, e che si recanodallo stesso Sparziano (c. 25). Questo suo ardore nelcoltivare gli studj faceva concepire speranza che il suoimpero sarebbe stato lor favorevole. E nondimeno fu adessi sommamente fatale. Adriano gonfio del suo sapere,mal volentieri soffriva chi potesse esser creduto a lui su-periore. Quindi solea superbamente deridere i professoritutti delle belle arti, godeva di venir con essi a contesa;ma era cosa troppo pericolosa il non confessarsi vinto; ecelebre è il detto di Favorino che essendo stato daAdriano ripreso di una cotal parola da lui usata, nè di-fendendosi egli, come agevolmente poteva, ripresone

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te studio, dacchè singolarmente essendo questore sottoTraiano, e recitando una orazione in senato a nomedell'imperadore, per la rozza pronunzia di ch'egli usava,fu pubblicamente beffato; il che talmente lo punse, chevoltosi con grand'ardore alla studio di questa lingua, nonsi ristette, finchè in essa ancora ei non divenne facondoed eloquente oratore (Spar. c. 3). Non vi ebbe quasi ge-nere alcuno di scienza, cui egli non coltivasse, e nelloscrivere in prosa ugualmente che in versi, e nell'aritme-tica e nella geometria, e anche in dipingere, in danzare,in sonare egli acquistossi gran lode (ib. c. 14; Dio l. 69).Nel tempo ancor de' conviti faceva rappresentare azioniteatrali, e leggere poesie, o altri eruditi componimenti(Spart. c. 26). Alcuni libri in prosa avea egli scritti, e traessi la sua vita medesima, benchè da lui pubblicata sottoi nomi de' suoi liberti, come narra Sparziano (c. 1 e 16);ma assai più in versi (Dio l. c.), tra' quali son noti quelliche diconsi da lui fatti vicino a morte, e che si recanodallo stesso Sparziano (c. 25). Questo suo ardore nelcoltivare gli studj faceva concepire speranza che il suoimpero sarebbe stato lor favorevole. E nondimeno fu adessi sommamente fatale. Adriano gonfio del suo sapere,mal volentieri soffriva chi potesse esser creduto a lui su-periore. Quindi solea superbamente deridere i professoritutti delle belle arti, godeva di venir con essi a contesa;ma era cosa troppo pericolosa il non confessarsi vinto; ecelebre è il detto di Favorino che essendo stato daAdriano ripreso di una cotal parola da lui usata, nè di-fendendosi egli, come agevolmente poteva, ripresone

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dagli amici: "Oh voi, disse, mi consigliate pur male anon creder più dotto di me un uomo che ha a' suoi cennitrenta legioni (id. c. 15)". Questa sua alterigia medesimacagione era ch'egli, opponendosi al comun sentimento,antiponesse Catone il vecchio a Cicerone, ed Ennio aVirgilio (id. c. 16), e che dichiarandosi nemico ad Ome-ro cercasse quasi di distruggerne la memoria, e di esalta-re in vece un cotale Antimaco poeta quasi interamentesconosciuto (Dio l. c.). Anzi questa vil gelosia lo con-dusse tant'oltre, che dannò a morte un celebre architettodetto Apollodoro (6); perchè da lui richiesto del suo pare-re su un tempio di Venere, ch'egli aveva disegnato, vitrovò alcuni non leggeri difetti; e poco mancò che persomigliante ragione non facesse uccidere ancora il sud-detto Favorino, e Dionigi esso pure sofista; e molti infatti per tal motivo perseguitò ed uccise (ib.). Nondime-no egli affettava di onorare della sua protezione i filoso-fi, e tra essi singolarmente Epitteto (ib.) ed Eliodoro, igramatici, i retori, i geometri, i musici, i pittori, e gliastrologi ancora (Spart. c. 16); e perciò Filostrato vor-rebbe persuaderci (Vit. Sophist. l. 1, c. 24) che egli piùche alcun altro de' suoi predecessori sapesse fomentarela virtù e le scienze. Ma da ciò che si è detto, raccogliesichiaramente che il favor d'Adriano non era opportunoche ad allettare i vili ed ignobili adulatori. E inoltre i

6 Di Apollodoro, e delle magnifiche fabbriche da lui innalzate in Roma, esingolarmente del maraviglioso ponte che fabbricò sopra il Danubio nellabassa Ungheria, veggansi più distinte notizie nelle Memorie degli Architet-ti del sig. Francesco Milizia (t. 1 p. 63 ed. bassan.).

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dagli amici: "Oh voi, disse, mi consigliate pur male anon creder più dotto di me un uomo che ha a' suoi cennitrenta legioni (id. c. 15)". Questa sua alterigia medesimacagione era ch'egli, opponendosi al comun sentimento,antiponesse Catone il vecchio a Cicerone, ed Ennio aVirgilio (id. c. 16), e che dichiarandosi nemico ad Ome-ro cercasse quasi di distruggerne la memoria, e di esalta-re in vece un cotale Antimaco poeta quasi interamentesconosciuto (Dio l. c.). Anzi questa vil gelosia lo con-dusse tant'oltre, che dannò a morte un celebre architettodetto Apollodoro (6); perchè da lui richiesto del suo pare-re su un tempio di Venere, ch'egli aveva disegnato, vitrovò alcuni non leggeri difetti; e poco mancò che persomigliante ragione non facesse uccidere ancora il sud-detto Favorino, e Dionigi esso pure sofista; e molti infatti per tal motivo perseguitò ed uccise (ib.). Nondime-no egli affettava di onorare della sua protezione i filoso-fi, e tra essi singolarmente Epitteto (ib.) ed Eliodoro, igramatici, i retori, i geometri, i musici, i pittori, e gliastrologi ancora (Spart. c. 16); e perciò Filostrato vor-rebbe persuaderci (Vit. Sophist. l. 1, c. 24) che egli piùche alcun altro de' suoi predecessori sapesse fomentarela virtù e le scienze. Ma da ciò che si è detto, raccogliesichiaramente che il favor d'Adriano non era opportunoche ad allettare i vili ed ignobili adulatori. E inoltre i

6 Di Apollodoro, e delle magnifiche fabbriche da lui innalzate in Roma, esingolarmente del maraviglioso ponte che fabbricò sopra il Danubio nellabassa Ungheria, veggansi più distinte notizie nelle Memorie degli Architet-ti del sig. Francesco Milizia (t. 1 p. 63 ed. bassan.).

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continui viaggi ch'ei fece, pe' quali pochissimo temposoggiornò in Roma e in Italia, non gli avrebber permes-so, quando pur l'avesse voluto sinceramente, di recarmolto giovamento alle lettere. Morì egli l'an. 138, ese-crabile a tutti per la sua crudeltà non meno che per lesue dissolutezze: e degno solo di lode, perchè coll'adot-tare Tito Antonino die' all'impero uno de' migliori prin-cipi che mai salisser sul trono. Ma di lui avremo a parla-re nel libro seguente.

XIV. Tali furono gli imperadori che a questitempi signoreggiarono in Roma; uomini perla più parte, che niun pensiero si diedero difomentare gli studj, e la cui crudeltà fu amolti dotti fatale. E certo il fervore nel colti-vare le scienze, che a' tempi d'Augusto erasiacceso in Roma, sotto i seguenti imperadorirallentossi alquanto. Il danno nondimeno

non fu sì grande, quanto pareva doversene aspettare; ene abbiamo accennata già la ragione nella Dissertazionepreliminare. Que' che vivevano a questa età, erano perlo più nati a' lieti tempi d'Augusto; avean ricevute le pri-me istruzioni da' grandi uomini che allor fiorivano; erasiad essi ancora comunicato quel nobile ardor per gli stu-dj, di cui Roma era compresa. Era in somma a guisa diun vasto incendio che non poteva estinguersi così facil-mente. Vi ebbe dunque a questo tempo ancora gran nu-mero d'uomini coltivatori delli ameni non meno che de'

127

Per qual ra-gione in tempi sì ca-lamitosi si continuassenondimeno a coltivar con fervoregli studj.

continui viaggi ch'ei fece, pe' quali pochissimo temposoggiornò in Roma e in Italia, non gli avrebber permes-so, quando pur l'avesse voluto sinceramente, di recarmolto giovamento alle lettere. Morì egli l'an. 138, ese-crabile a tutti per la sua crudeltà non meno che per lesue dissolutezze: e degno solo di lode, perchè coll'adot-tare Tito Antonino die' all'impero uno de' migliori prin-cipi che mai salisser sul trono. Ma di lui avremo a parla-re nel libro seguente.

XIV. Tali furono gli imperadori che a questitempi signoreggiarono in Roma; uomini perla più parte, che niun pensiero si diedero difomentare gli studj, e la cui crudeltà fu amolti dotti fatale. E certo il fervore nel colti-vare le scienze, che a' tempi d'Augusto erasiacceso in Roma, sotto i seguenti imperadorirallentossi alquanto. Il danno nondimeno

non fu sì grande, quanto pareva doversene aspettare; ene abbiamo accennata già la ragione nella Dissertazionepreliminare. Que' che vivevano a questa età, erano perlo più nati a' lieti tempi d'Augusto; avean ricevute le pri-me istruzioni da' grandi uomini che allor fiorivano; erasiad essi ancora comunicato quel nobile ardor per gli stu-dj, di cui Roma era compresa. Era in somma a guisa diun vasto incendio che non poteva estinguersi così facil-mente. Vi ebbe dunque a questo tempo ancora gran nu-mero d'uomini coltivatori delli ameni non meno che de'

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Per qual ra-gione in tempi sì ca-lamitosi si continuassenondimeno a coltivar con fervoregli studj.

serj studj. Ma ciò non ostante questi decaddero dall'anti-co loro splendore per le ragioni che già si sono toccate,e che di mano in mano andremo svolgendo. Qui solopiacemi di riflettere in generale che quel vile spirito diadulazione che il tirannico impero de' primi Cesari spar-se in tutti gli ordini di Roma, comunicossi ancora a qua-si tutti anche i migliori scrittori di questa età. Non siposson leggere senza sdegno le bugiarde lodi con cuiValerio Massimo (in proœm.) e Velleio Patercolo (l. 2.sub fin.) esaltan Tiberio; gli elogi che Lucano fa di Ne-rone (Pharsal. l. I, v. 44, ec.), a cui il grave Seneca an-cora, che già adulato avea bassamente Claudio (DeCons. ad Polyb. c. 21), non ebbe rossore di tessere unpanegirico (De Clem. l. 1 e 2): e quelli finalmente cheStazio (Sil. l. 4, ec.) e Marziale (Epigramm. l. 1, ec.) eperfino il saggio Quintiliano (l. 10, c. 1) rendono a Do-miziano. Così il timore reggeva vilmente le penne degliscrittori, e li conduceva ad esser prodighi di encomj ver-so coloro cui internamente aveano in abbominio e in or-rore. Ma entriamo omai a ragionare di ciaschedun gene-re partitamente secondo l'ordine che nelle precedentiepoche abbiam tenuto.

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serj studj. Ma ciò non ostante questi decaddero dall'anti-co loro splendore per le ragioni che già si sono toccate,e che di mano in mano andremo svolgendo. Qui solopiacemi di riflettere in generale che quel vile spirito diadulazione che il tirannico impero de' primi Cesari spar-se in tutti gli ordini di Roma, comunicossi ancora a qua-si tutti anche i migliori scrittori di questa età. Non siposson leggere senza sdegno le bugiarde lodi con cuiValerio Massimo (in proœm.) e Velleio Patercolo (l. 2.sub fin.) esaltan Tiberio; gli elogi che Lucano fa di Ne-rone (Pharsal. l. I, v. 44, ec.), a cui il grave Seneca an-cora, che già adulato avea bassamente Claudio (DeCons. ad Polyb. c. 21), non ebbe rossore di tessere unpanegirico (De Clem. l. 1 e 2): e quelli finalmente cheStazio (Sil. l. 4, ec.) e Marziale (Epigramm. l. 1, ec.) eperfino il saggio Quintiliano (l. 10, c. 1) rendono a Do-miziano. Così il timore reggeva vilmente le penne degliscrittori, e li conduceva ad esser prodighi di encomj ver-so coloro cui internamente aveano in abbominio e in or-rore. Ma entriamo omai a ragionare di ciaschedun gene-re partitamente secondo l'ordine che nelle precedentiepoche abbiam tenuto.

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CAPO II.Poesia.

I. Il secolo d'Augusto era stato il secolode' poeti, come a suo luogo abbiam vedu-to. Quindi mantenendosi ancora nel secolosusseguente, di cui scriviamo, quell'ardorper gli studj, che allora erasi acceso, inesso ancora la poesia sopra ogni altro ge-

nere di letteratura fu coltivata. Ma come l'eloquenzagiunta a' tempi di Tullio alla sua perfezione, decadde poia' tempi di Augusto, perchè gli oratori in vece di seguirele tracce segnate da que' che gli aveano preceduti, volle-ro per amor di novità mettersi su un diverso sentiero, econdur l'eloquenza a una perfezion maggiore di quellache le conveniva; così avvenne alla poesia ancora dopoil regno di Augusto. Il carattere de' poeti di quest'età,che dovremo svolgere ed esaminare, ci farà conoscerechiaramente ch'essi furon viziosi, perchè vollero esserepiù perfetti di Virgilio, di Orazio, e degli altri poetidell'età precedente. Ma prima di favellare di questi, ciconvien parlare di uno che non sol per età, ma per nasci-ta, per virtù, forse ancor per sapere deesi a tutti antipor-re, benchè poche delle sue poesie siano a noi pervenute.

II. Questi è il celebre Germanico figliuol diquel Druso che da Augusto era stato adotta-to per suo figliuolo. Era egli perciò nipote di

129

Decadimento della poesia dopo la mortedi Augusto, e origine di esso.

Notizie ed elogio di Germanico.

CAPO II.Poesia.

I. Il secolo d'Augusto era stato il secolode' poeti, come a suo luogo abbiam vedu-to. Quindi mantenendosi ancora nel secolosusseguente, di cui scriviamo, quell'ardorper gli studj, che allora erasi acceso, inesso ancora la poesia sopra ogni altro ge-

nere di letteratura fu coltivata. Ma come l'eloquenzagiunta a' tempi di Tullio alla sua perfezione, decadde poia' tempi di Augusto, perchè gli oratori in vece di seguirele tracce segnate da que' che gli aveano preceduti, volle-ro per amor di novità mettersi su un diverso sentiero, econdur l'eloquenza a una perfezion maggiore di quellache le conveniva; così avvenne alla poesia ancora dopoil regno di Augusto. Il carattere de' poeti di quest'età,che dovremo svolgere ed esaminare, ci farà conoscerechiaramente ch'essi furon viziosi, perchè vollero esserepiù perfetti di Virgilio, di Orazio, e degli altri poetidell'età precedente. Ma prima di favellare di questi, ciconvien parlare di uno che non sol per età, ma per nasci-ta, per virtù, forse ancor per sapere deesi a tutti antipor-re, benchè poche delle sue poesie siano a noi pervenute.

II. Questi è il celebre Germanico figliuol diquel Druso che da Augusto era stato adotta-to per suo figliuolo. Era egli perciò nipote di

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Decadimento della poesia dopo la mortedi Augusto, e origine di esso.

Notizie ed elogio di Germanico.

Tiberio, fratel di Claudio, padre di Caligola, avolo diNerone, tutti imperadori, ma tutti tanto indegni di salirea quel trono a cui pure pervennero, quanto degno n'eraegli che non vi giunse. Gli autori della Storia Letterariadi Francia gli han dato luogo tra loro scrittori, "perchè,dicono essi (Hist. Liter. de France t. 1, § 2, p. 152), nonsi trova presso gli antichi autori, ove egli nascesse; ma ilseguito della storia fa credere ch'ei nascesse a Lione,come l'imperador Claudio suo minor fratello, verso l'an.740 di Roma, mentre Antonia lor madre vi avea stanza,e il padre Druso era occupato nel soggettare i Grigioni ei Germani". Che Claudio nascesse in Lione, chiaramentelo affermano Svetonio (in Claud. c. 1), e Seneca (Lud.in morte Claud.). Ma che Antonia vi soggiornasse sìlungamente, che amendue i fratelli vi partorisse, o che leaccadesse di trovarsi passeggiera nella città medesima,quando l'uno e poi l'altro mise alla luce, non vi ha ragio-ne alcuna a conghietturarlo, non che a provarlo. Chec-chè sia di ciò, io spero che i suddetti chiarissimi autorici permetteranno di porre tra gl'illustri letterati italianianche Germanico, il quale, ancorchè a caso fosse venutoallo luce in Lione, non vorranno perciò negare ch'ei fos-se italiano. Il carattere che di Germanico ci hanno la-sciato gli antichi scrittori, è tale che non si può senza undolce sentimento di tenerezza ricordarne il nome. Dopola morte d'Augusto ei non fu imperadore, perchè nolvolle; e a grave rischio della vita si espose, perchè fossericonosciuto Tiberio (Tac. Annal. l. 1, c. 33). Le guerreda lui guerreggiate in Germania e nell'Oriente gli acqui-

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Tiberio, fratel di Claudio, padre di Caligola, avolo diNerone, tutti imperadori, ma tutti tanto indegni di salirea quel trono a cui pure pervennero, quanto degno n'eraegli che non vi giunse. Gli autori della Storia Letterariadi Francia gli han dato luogo tra loro scrittori, "perchè,dicono essi (Hist. Liter. de France t. 1, § 2, p. 152), nonsi trova presso gli antichi autori, ove egli nascesse; ma ilseguito della storia fa credere ch'ei nascesse a Lione,come l'imperador Claudio suo minor fratello, verso l'an.740 di Roma, mentre Antonia lor madre vi avea stanza,e il padre Druso era occupato nel soggettare i Grigioni ei Germani". Che Claudio nascesse in Lione, chiaramentelo affermano Svetonio (in Claud. c. 1), e Seneca (Lud.in morte Claud.). Ma che Antonia vi soggiornasse sìlungamente, che amendue i fratelli vi partorisse, o che leaccadesse di trovarsi passeggiera nella città medesima,quando l'uno e poi l'altro mise alla luce, non vi ha ragio-ne alcuna a conghietturarlo, non che a provarlo. Chec-chè sia di ciò, io spero che i suddetti chiarissimi autorici permetteranno di porre tra gl'illustri letterati italianianche Germanico, il quale, ancorchè a caso fosse venutoallo luce in Lione, non vorranno perciò negare ch'ei fos-se italiano. Il carattere che di Germanico ci hanno la-sciato gli antichi scrittori, è tale che non si può senza undolce sentimento di tenerezza ricordarne il nome. Dopola morte d'Augusto ei non fu imperadore, perchè nolvolle; e a grave rischio della vita si espose, perchè fossericonosciuto Tiberio (Tac. Annal. l. 1, c. 33). Le guerreda lui guerreggiate in Germania e nell'Oriente gli acqui-

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staron nome di valoroso capitano; e dalle prime ebbel'onore del solenne trionfo. "Ad ognuno è noto, diceSvetonio (in Calig. c. 3, ec.) ch'egli ebbe tutte le dotid'animo e di corpo, quante niuno per avventura n'ebbegiammai; bellezza insieme e coraggio non ordinario; in-gegno eccellente nel coltivamento della greca non menoche della latina eloquenza; affabilità singolare e sommapremura di acquistarsi l'amore e la benevolenza di tutti...Perorò più volte nel foro... e fra gli altri monumenti delsuo sapere lasciò ancora alcune commedie greche...Ovunque trovasse sepolcri d'uomini illustri, offeriva lorsagrificj. Volendo dare comun sepoltura alle disperseossa di quelli che molto tempo prima nella sconfitta diVaro erano stati uccisi, prese egli il primo a raccoglierlee a trasportarle di sua mano. Verso i suoi detrattori e ni-mici, chiunque essi si fossero, era piacevole e mansuetoper modo, che a Pisone il quale ardì perfino di lacerarnei decreti, e di maltrattarne i clienti, non mai mostrossisdegnato, finchè non riseppe che con incantesimi ancoraesso gli tendeva insidie; ed anche allora altro non feceche rinunziarne colle usate formole l'amicizia, e racco-mandare a' suoi domestici che, ove alcun sinistrogl'incorresse, ne facesser vendetta. Per le quali virtù eifu sì caro ad Augusto, che stette lungamente dubbiosose avesse a nominarlo suo successore; e finalmente co-mandò a Tiberio di adottarlo. Alla moltitudine ei fu sìaccetto, che molti raccontano che al giugnere, o al partirda alcun luogo tal era la folla di que' che venivangli in-contro, o l'accompagnavano, che talvolta ei ne fu in pe-

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staron nome di valoroso capitano; e dalle prime ebbel'onore del solenne trionfo. "Ad ognuno è noto, diceSvetonio (in Calig. c. 3, ec.) ch'egli ebbe tutte le dotid'animo e di corpo, quante niuno per avventura n'ebbegiammai; bellezza insieme e coraggio non ordinario; in-gegno eccellente nel coltivamento della greca non menoche della latina eloquenza; affabilità singolare e sommapremura di acquistarsi l'amore e la benevolenza di tutti...Perorò più volte nel foro... e fra gli altri monumenti delsuo sapere lasciò ancora alcune commedie greche...Ovunque trovasse sepolcri d'uomini illustri, offeriva lorsagrificj. Volendo dare comun sepoltura alle disperseossa di quelli che molto tempo prima nella sconfitta diVaro erano stati uccisi, prese egli il primo a raccoglierlee a trasportarle di sua mano. Verso i suoi detrattori e ni-mici, chiunque essi si fossero, era piacevole e mansuetoper modo, che a Pisone il quale ardì perfino di lacerarnei decreti, e di maltrattarne i clienti, non mai mostrossisdegnato, finchè non riseppe che con incantesimi ancoraesso gli tendeva insidie; ed anche allora altro non feceche rinunziarne colle usate formole l'amicizia, e racco-mandare a' suoi domestici che, ove alcun sinistrogl'incorresse, ne facesser vendetta. Per le quali virtù eifu sì caro ad Augusto, che stette lungamente dubbiosose avesse a nominarlo suo successore; e finalmente co-mandò a Tiberio di adottarlo. Alla moltitudine ei fu sìaccetto, che molti raccontano che al giugnere, o al partirda alcun luogo tal era la folla di que' che venivangli in-contro, o l'accompagnavano, che talvolta ei ne fu in pe-

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ricol di vita". Nè punto minori sono le lodi di cui lo ono-ra Tacito (l. 2 Ann. c. 72). Velleio Patercolo è il solo chesembri parlarne con biasimo e con disprezzo (l. 2, c.125.); ma il Boeclero pretende che diversamente si ab-bia a leggere quel passo (in notis ad hunc loc. ed. Lugd.Bat. 1719); e ancorchè Patercolo poco favorevolmentesentisse di Germanico, non sarebbe a stupire che unostorico adulator vilissimo di Tiberio, ai cui tempi scrive-va, cercasse di oscurar la fama di un eroe il cui nome ele cui virtù erano un troppo spiacevol rimprovero a queltiranno. Di fatto fu comune opinione che la morte, dacui nella fresca età di soli trenta quattro anni ei fu rapitoin Antiochia l'anno dell'era volgare XX fosse effetto digelosia nell'invidioso Tiberio che dell'opera di Gneo Pi-sone si valesse per avvelenarlo (Svet. l. c.). Ma se di taldelitto fu egli reo, ebbe certo a vergognarsene nel vede-re il dolore e la costernazion generale de' Romani al ri-saperne la morte; poichè essa fu tale che forse non ve neha esempio in tutte le antiche storie. Era questo un og-getto che spiaceva troppo a Tiberio; ed egli ebbe o lacrudeltà, o l'impudenza di pubblicare un editto con cuivietava il dar più oltre dimostrazion di dolore per lamorte di Germanico; ma ebbe anche la confusione divedere i Romani ridersi alteramente del suo editto, econtinuare il lutto sulla morte dell'ottimo principe.

III. Delle orazioni e delle commedie grecheda Germanico scritte nulla ci è rimasto; ma

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Sue opere poetiche.

ricol di vita". Nè punto minori sono le lodi di cui lo ono-ra Tacito (l. 2 Ann. c. 72). Velleio Patercolo è il solo chesembri parlarne con biasimo e con disprezzo (l. 2, c.125.); ma il Boeclero pretende che diversamente si ab-bia a leggere quel passo (in notis ad hunc loc. ed. Lugd.Bat. 1719); e ancorchè Patercolo poco favorevolmentesentisse di Germanico, non sarebbe a stupire che unostorico adulator vilissimo di Tiberio, ai cui tempi scrive-va, cercasse di oscurar la fama di un eroe il cui nome ele cui virtù erano un troppo spiacevol rimprovero a queltiranno. Di fatto fu comune opinione che la morte, dacui nella fresca età di soli trenta quattro anni ei fu rapitoin Antiochia l'anno dell'era volgare XX fosse effetto digelosia nell'invidioso Tiberio che dell'opera di Gneo Pi-sone si valesse per avvelenarlo (Svet. l. c.). Ma se di taldelitto fu egli reo, ebbe certo a vergognarsene nel vede-re il dolore e la costernazion generale de' Romani al ri-saperne la morte; poichè essa fu tale che forse non ve neha esempio in tutte le antiche storie. Era questo un og-getto che spiaceva troppo a Tiberio; ed egli ebbe o lacrudeltà, o l'impudenza di pubblicare un editto con cuivietava il dar più oltre dimostrazion di dolore per lamorte di Germanico; ma ebbe anche la confusione divedere i Romani ridersi alteramente del suo editto, econtinuare il lutto sulla morte dell'ottimo principe.

III. Delle orazioni e delle commedie grecheda Germanico scritte nulla ci è rimasto; ma

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Sue opere poetiche.

ch'ei fosse creduto eccellente oratore, raccogliesi da ciòche racconta Tacito (l. 2 Ann. c. 83), cioè ch'erasi deter-minato, poichè se ne riseppe la morte, di collocarneun'immagine più grande dell'ordinario e fregiata d'orotra quelle degli oratori più illustri; ma che l'invidioso Ti-berio a ciò si oppose dicendo che avrebbegliela fattacollocare egli stesso, ma uguale alle altre, poichè nondoveasi il merito estimar dalla nascita, e bastar poteva aGermanico l'esser posto nel numero degli antichi orato-ri. Qualche greco epigramma a lui vedesi attribuitonell'Antologia, e alcuni altri latini ne veggiamo colnome di Germanico pubblicati nelle raccolte de' poetilatini antichi, e in quella singolarmente del Piteo. Ech'egli fosse protettore non meno che coltivatore dellapoesia, ne abbiamo un chiarissimo testimonio nell'elo-gio che gli fa Ovidio a lui dedicando i suoi libri de' Fa-sti: Excipe pacato, Cæsar Germanice, vultu

Hoc opus, et timidæ dirige navis iter ........................................... Da mihi te placidum: dederis in carmina vires:

Ingenium vultu statque, caditque tuo. Pagina judicium docti subitura movetur Principis, ut Clariomissa legendo deo. Quæ, sit enim culti facundia sensimus oris,

Civica pro tre pidis cum tulit arma reis. Scimus et ad nostras cum se tulit impetus artes,

Ingenii cur rant flumina quanta tui. Si licet, et fas est, vates rege vatis habenas;

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ch'ei fosse creduto eccellente oratore, raccogliesi da ciòche racconta Tacito (l. 2 Ann. c. 83), cioè ch'erasi deter-minato, poichè se ne riseppe la morte, di collocarneun'immagine più grande dell'ordinario e fregiata d'orotra quelle degli oratori più illustri; ma che l'invidioso Ti-berio a ciò si oppose dicendo che avrebbegliela fattacollocare egli stesso, ma uguale alle altre, poichè nondoveasi il merito estimar dalla nascita, e bastar poteva aGermanico l'esser posto nel numero degli antichi orato-ri. Qualche greco epigramma a lui vedesi attribuitonell'Antologia, e alcuni altri latini ne veggiamo colnome di Germanico pubblicati nelle raccolte de' poetilatini antichi, e in quella singolarmente del Piteo. Ech'egli fosse protettore non meno che coltivatore dellapoesia, ne abbiamo un chiarissimo testimonio nell'elo-gio che gli fa Ovidio a lui dedicando i suoi libri de' Fa-sti: Excipe pacato, Cæsar Germanice, vultu

Hoc opus, et timidæ dirige navis iter ........................................... Da mihi te placidum: dederis in carmina vires:

Ingenium vultu statque, caditque tuo. Pagina judicium docti subitura movetur Principis, ut Clariomissa legendo deo. Quæ, sit enim culti facundia sensimus oris,

Civica pro tre pidis cum tulit arma reis. Scimus et ad nostras cum se tulit impetus artes,

Ingenii cur rant flumina quanta tui. Si licet, et fas est, vates rege vatis habenas;

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Auspice te felix totus ut annus eat.

E altronde scrivendo dal suo esilio a Suilio, perchè laprotezion gli procuri di Germanico, e a lui stesso vol-gendo poi il parlare, così gli dice. Quod nisi te nomen tantum ad majora vocasset,

Gloria Pie ridum summa futurus eras. Sed dare materiam nobis, quam carmina mavis,

Nec tamen ex toto deserere illa potes. Nam modo bella geris, numeris modo verba cœrces,

Quodque aliis opus est, hoc tibi ludus erit (l. 4 de Ponto el. 9).

La migliore e più ampia fatica di Germanico, che a noisia rimasta, benchè guasta non poco e tronca, si è la tra-duzione da lui fatta in versi latini de' Fenomeni di Arato,e dei Pronostici, tratti dallo stesso autore e da altri poetigreci; della qual ultima traduzione però appena qualcheframmento ci è pervenuto (7). Io so che queste traduzionida alcuni si attribuiscono a Domiziano (V. Fabric. Bibl.lat. l. 1, c. 19). Fondano essi la loro opinione su tre ar-gomenti singolarmente: sul nome di Germanico, che aDomiziano ancora fu dato, e col qual solo il veggiamonominato talvolta dagli autori che scrissero mentre ei re-gnava (Mart. l. 8 epigr. 65; Sil. Ital. l. 3, v. 607); sul

7 Un nuovo frammento di 51 versi della traduzione de' Pronostici di Aratofatta da Germanico ha felicemente trovato il sig. d. Giovanni Iriarte, e loha pubblicato prima così scorretto, come gli è avvenuto di rinvenirlo, po-scia avvedutamente emendato, come gli è sembrato doversi fare, e conerudite annotazioni illustrato (R. Matrit. Bibl. Codices Græci vol. I pag.205 ec.).

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Auspice te felix totus ut annus eat.

E altronde scrivendo dal suo esilio a Suilio, perchè laprotezion gli procuri di Germanico, e a lui stesso vol-gendo poi il parlare, così gli dice. Quod nisi te nomen tantum ad majora vocasset,

Gloria Pie ridum summa futurus eras. Sed dare materiam nobis, quam carmina mavis,

Nec tamen ex toto deserere illa potes. Nam modo bella geris, numeris modo verba cœrces,

Quodque aliis opus est, hoc tibi ludus erit (l. 4 de Ponto el. 9).

La migliore e più ampia fatica di Germanico, che a noisia rimasta, benchè guasta non poco e tronca, si è la tra-duzione da lui fatta in versi latini de' Fenomeni di Arato,e dei Pronostici, tratti dallo stesso autore e da altri poetigreci; della qual ultima traduzione però appena qualcheframmento ci è pervenuto (7). Io so che queste traduzionida alcuni si attribuiscono a Domiziano (V. Fabric. Bibl.lat. l. 1, c. 19). Fondano essi la loro opinione su tre ar-gomenti singolarmente: sul nome di Germanico, che aDomiziano ancora fu dato, e col qual solo il veggiamonominato talvolta dagli autori che scrissero mentre ei re-gnava (Mart. l. 8 epigr. 65; Sil. Ital. l. 3, v. 607); sul

7 Un nuovo frammento di 51 versi della traduzione de' Pronostici di Aratofatta da Germanico ha felicemente trovato il sig. d. Giovanni Iriarte, e loha pubblicato prima così scorretto, come gli è avvenuto di rinvenirlo, po-scia avvedutamente emendato, come gli è sembrato doversi fare, e conerudite annotazioni illustrato (R. Matrit. Bibl. Codices Græci vol. I pag.205 ec.).

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nome di padre, che Germanico dà a quell'Augusto a cuioffre la sua traduzione, nome che potea ben dare Domi-ziano a Vespasiano suo padre, non già Germanico adAugusto di cui non era pur figlio adottivo non che natu-rale; finalmente su ciò che narrano Svetonio (in Domit.c. 2) e Tacito (l. 4 Hist. c. 86), cioè che Domiziano colti-vò la poesia: nel che Quintiliano singolarmente lo esaltacon somme lodi (l. 10, c. 1). Ma a dir vero le lor ragioninon mi sembran forti abbastanza. Il nome di padre si dàfrequentemente a' sovrani, e a quelli singolarmente checolla benevolenza si acquistano il figliale amore de' sud-diti loro; e molto più potea darlo Germanico ad Augustodi cui era pronipote. Domiziano ebbe il soprannome diGermanico, e con esso fu talvolta appellato da quelli chea lui scrivendo, o di lui ancora vivente, voleano adular-lo; ma non veggiamo che gli sia poi rimasto così proprioun tal nome che con esso ei si distingua dagli altri, il chenon conviene che al nostro Germanico. Ciò che dicesifinalmente de' poetici studj di Domiziano, è a mio pare-re il più forte argomento a combattere questa opinione.Perciocchè, se se ne tragga Quintiliano adulator tropposfrontato di questo imperadore, Svetonio e Tacito ci as-sicurano che questo studio altro non fu che una finzioneda lui usata per acquistarsi fama uguale a quelladell'ottimo suo fratello Tito, e ugual grazia presso il pa-dre; ma ch'egli fu e prima e poscia nemico sempre de'poetici studj. Or io intenderò facilmente come a tal finepotesse Domiziano scrivere all'occasione alcuni brevicomponimenti per aver nome di valoroso poeta, ma

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nome di padre, che Germanico dà a quell'Augusto a cuioffre la sua traduzione, nome che potea ben dare Domi-ziano a Vespasiano suo padre, non già Germanico adAugusto di cui non era pur figlio adottivo non che natu-rale; finalmente su ciò che narrano Svetonio (in Domit.c. 2) e Tacito (l. 4 Hist. c. 86), cioè che Domiziano colti-vò la poesia: nel che Quintiliano singolarmente lo esaltacon somme lodi (l. 10, c. 1). Ma a dir vero le lor ragioninon mi sembran forti abbastanza. Il nome di padre si dàfrequentemente a' sovrani, e a quelli singolarmente checolla benevolenza si acquistano il figliale amore de' sud-diti loro; e molto più potea darlo Germanico ad Augustodi cui era pronipote. Domiziano ebbe il soprannome diGermanico, e con esso fu talvolta appellato da quelli chea lui scrivendo, o di lui ancora vivente, voleano adular-lo; ma non veggiamo che gli sia poi rimasto così proprioun tal nome che con esso ei si distingua dagli altri, il chenon conviene che al nostro Germanico. Ciò che dicesifinalmente de' poetici studj di Domiziano, è a mio pare-re il più forte argomento a combattere questa opinione.Perciocchè, se se ne tragga Quintiliano adulator tropposfrontato di questo imperadore, Svetonio e Tacito ci as-sicurano che questo studio altro non fu che una finzioneda lui usata per acquistarsi fama uguale a quelladell'ottimo suo fratello Tito, e ugual grazia presso il pa-dre; ma ch'egli fu e prima e poscia nemico sempre de'poetici studj. Or io intenderò facilmente come a tal finepotesse Domiziano scrivere all'occasione alcuni brevicomponimenti per aver nome di valoroso poeta, ma

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ch'egli a due penose e difficili traduzioni di due non bre-vi poemi greci si accingesse solo per sostenere il perso-naggio, cui volea fingere, di poeta, non potrò certo pen-sarlo. Aggiungasi che lo stile n'è più colto assai di quel-lo ch'esser potesse a' tempi di Domiziano, e in un poetache non curandosi punto di poesia, volea nondimeno es-serne creduto studioso coltivatore. Alla traduzion de' Fe-nomeni aggiungesi comunemente una dichiarazione lati-na in prosa, che da alcuni è attribuita allo stesso Germa-nico; ma l'incontrarvisi cose tratte da autori a Germani-co posteriori rende troppo evidente l'opinione ch'essa siadi autor più recente (V. Fab. l. c. e Hadr. Junium Ani-mad. l. 6, c. 20).

IV. Nelle poesie di Germanico non vedesiancora quella vota gonfiezza e quel sottileraffinamento che comincia poscia a scoprir-si ne' seguenti poeti; e perciò da molti egli èposto tra gli scrittori dell'età d'oro, benchè

toccasse ancora il regno di Tiberio. Lucano è il primoche noi veggiamo distogliersi dal buon sentiero, e lusin-garsi di andare innanzi ancora a Virgilio (8). Fu egli vera-8 Il sig. ab. Lampillas si sdegna meco (p. 217, ec.) perchè io qui ho scritto:

"Lucano è il primo che noi veggiamo distogliersi dal buon sentiero, e lu-singarsi d'andare innanzi ancora a Virgilio". Io debbo qui prima rinnovarele mie doglianze che ho già fatte nella mia lettera contro l'ab. Lampillasche con poco buona fede cita (ivi p. 219) come da me scritte queste preciseparole: "Lucano e Marziale, come chiaramente si vede da' loro versi, vo-gliono andare innanzi a Catullo e Virgilio, e il loro esempio fu ciecamenteseguito"; con ch'egli vuol provare la mia rea intenzione di scredirar la Spa-

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Vita di Lu-cano e sua infelice morte.

ch'egli a due penose e difficili traduzioni di due non bre-vi poemi greci si accingesse solo per sostenere il perso-naggio, cui volea fingere, di poeta, non potrò certo pen-sarlo. Aggiungasi che lo stile n'è più colto assai di quel-lo ch'esser potesse a' tempi di Domiziano, e in un poetache non curandosi punto di poesia, volea nondimeno es-serne creduto studioso coltivatore. Alla traduzion de' Fe-nomeni aggiungesi comunemente una dichiarazione lati-na in prosa, che da alcuni è attribuita allo stesso Germa-nico; ma l'incontrarvisi cose tratte da autori a Germani-co posteriori rende troppo evidente l'opinione ch'essa siadi autor più recente (V. Fab. l. c. e Hadr. Junium Ani-mad. l. 6, c. 20).

IV. Nelle poesie di Germanico non vedesiancora quella vota gonfiezza e quel sottileraffinamento che comincia poscia a scoprir-si ne' seguenti poeti; e perciò da molti egli èposto tra gli scrittori dell'età d'oro, benchè

toccasse ancora il regno di Tiberio. Lucano è il primoche noi veggiamo distogliersi dal buon sentiero, e lusin-garsi di andare innanzi ancora a Virgilio (8). Fu egli vera-8 Il sig. ab. Lampillas si sdegna meco (p. 217, ec.) perchè io qui ho scritto:

"Lucano è il primo che noi veggiamo distogliersi dal buon sentiero, e lu-singarsi d'andare innanzi ancora a Virgilio". Io debbo qui prima rinnovarele mie doglianze che ho già fatte nella mia lettera contro l'ab. Lampillasche con poco buona fede cita (ivi p. 219) come da me scritte queste preciseparole: "Lucano e Marziale, come chiaramente si vede da' loro versi, vo-gliono andare innanzi a Catullo e Virgilio, e il loro esempio fu ciecamenteseguito"; con ch'egli vuol provare la mia rea intenzione di scredirar la Spa-

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Vita di Lu-cano e sua infelice morte.

mente spagnuolo di patria, e nato in Cordova da M. An-neo Mela fratello di Seneca il filosofo; ma, come abbia-mo da un incerto scrittore della Vita di lui (V. præf. adLucani ed Lugd. Bat. 1728), in età di soli otto mesi futrasportato a Roma, e vi condusse tutti i suoi giorni; nèdee però vietarcisi che ad uno scrittore vissuto semprein Italia tra gl'italiani scrittori noi diamo luogo. Io non

gna. Or leggasi ciò ch'io veramente ho scritto nella mia Dissertazione pre-liminare: "Lucano, Seneca il tragico, Marziale, Stazio, Persio e Giovenalevogliono, come chiaramente si vede da' loro versi, andare innanzi a Virgi-lio, a Catullo, ad Orazio". Così egli per sua gentilezza mi fa attribuire adue soli Spagnuoli insieme ciò ch'io attribuisco indistintamente agli Spa-gnuoli insieme e agl'Italiani. Venendo ora a Lucano, egli dice che studiosa-mente, io ho fatto un gran salto da Virgilio a Lucano per incolpare il poetaspagnuolo della corruzion del buon gusto, mentre è pur certo che tanti altripoeti furon di mezzo a que' due, i quali furono molto inferiori a Virgilio, eda' quali perciò prima che da Lucano fu corrotta la poesia. L'ho io forsenegato? Non ho io detto, parlando di Manilio (t. 1, p. 205), che "lo stile dalui usato non può certo venire a confronto con quello de' migliori poeti,dell'età di Augusto?" Non ho io detto (ivi p. 202) "che due difetti si oppon-gono con ragione ad Ovidio, la poca coltura nell'espressione, e il soverchioraffinamento"? Non ho io annoverati (ivi p. 188) C. Pedone Albinovano eCornelio Severo tra meno illustri poeti? Con qual giustizia dunque mi faquesto rimprovero l'ab. Lampillas? Ho detto, e ripeto che Lucano "fu ilprimo a distogliersi dal buon sentiero, e a lusingarsi di andare innanzi aVirgilio"; e ciò conforme alla massima da me stabilita che la corruzionenasce singolarmente dal voler superare i più perfetti modelli che ci hanpreceduto. Trovi dunque l'ab. Lampillas un altro poeta a cui si possa op-porre la taccia di aver voluto andare innanzi a Virgilio, e di aver perciò so-stituito allo stile grave e magnifico da Virgilio usato uno stile tronfio e am-polloso, e allora mi confesserò vinto; ma lo trovi tra poeti di cui ci riman-gon poemi, acciocchè possiamo esaminarli, e vedere se si possa loro a ra-gione rimproverare questo difetto; e avverta ancora ch'io qui parlo di poe-mi epici, da' quali poi io passo ad altri scrittori di minori poesie. Riguardopoi alla difesa che l'ab. Lampillas fa dello stil di Lucano, io ne rimetto ilgiudizio a' saggi discernitori del buon gusto, e son pronto a sottomettermialle lor decisioni.

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mente spagnuolo di patria, e nato in Cordova da M. An-neo Mela fratello di Seneca il filosofo; ma, come abbia-mo da un incerto scrittore della Vita di lui (V. præf. adLucani ed Lugd. Bat. 1728), in età di soli otto mesi futrasportato a Roma, e vi condusse tutti i suoi giorni; nèdee però vietarcisi che ad uno scrittore vissuto semprein Italia tra gl'italiani scrittori noi diamo luogo. Io non

gna. Or leggasi ciò ch'io veramente ho scritto nella mia Dissertazione pre-liminare: "Lucano, Seneca il tragico, Marziale, Stazio, Persio e Giovenalevogliono, come chiaramente si vede da' loro versi, andare innanzi a Virgi-lio, a Catullo, ad Orazio". Così egli per sua gentilezza mi fa attribuire adue soli Spagnuoli insieme ciò ch'io attribuisco indistintamente agli Spa-gnuoli insieme e agl'Italiani. Venendo ora a Lucano, egli dice che studiosa-mente, io ho fatto un gran salto da Virgilio a Lucano per incolpare il poetaspagnuolo della corruzion del buon gusto, mentre è pur certo che tanti altripoeti furon di mezzo a que' due, i quali furono molto inferiori a Virgilio, eda' quali perciò prima che da Lucano fu corrotta la poesia. L'ho io forsenegato? Non ho io detto, parlando di Manilio (t. 1, p. 205), che "lo stile dalui usato non può certo venire a confronto con quello de' migliori poeti,dell'età di Augusto?" Non ho io detto (ivi p. 202) "che due difetti si oppon-gono con ragione ad Ovidio, la poca coltura nell'espressione, e il soverchioraffinamento"? Non ho io annoverati (ivi p. 188) C. Pedone Albinovano eCornelio Severo tra meno illustri poeti? Con qual giustizia dunque mi faquesto rimprovero l'ab. Lampillas? Ho detto, e ripeto che Lucano "fu ilprimo a distogliersi dal buon sentiero, e a lusingarsi di andare innanzi aVirgilio"; e ciò conforme alla massima da me stabilita che la corruzionenasce singolarmente dal voler superare i più perfetti modelli che ci hanpreceduto. Trovi dunque l'ab. Lampillas un altro poeta a cui si possa op-porre la taccia di aver voluto andare innanzi a Virgilio, e di aver perciò so-stituito allo stile grave e magnifico da Virgilio usato uno stile tronfio e am-polloso, e allora mi confesserò vinto; ma lo trovi tra poeti di cui ci riman-gon poemi, acciocchè possiamo esaminarli, e vedere se si possa loro a ra-gione rimproverare questo difetto; e avverta ancora ch'io qui parlo di poe-mi epici, da' quali poi io passo ad altri scrittori di minori poesie. Riguardopoi alla difesa che l'ab. Lampillas fa dello stil di Lucano, io ne rimetto ilgiudizio a' saggi discernitori del buon gusto, e son pronto a sottomettermialle lor decisioni.

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tratterrommi a esaminare le più minute circostanze de'fatti a lui appartenenti, di che puossi vedere ciò che as-sai lungamente e diligentemente ne ha scritto il celebreNiccolò Antonio (Bibl. hisp. vet. l. 1, c. 10). Lucano co-minciò a rendersi celebre in Roma pel suo poetico valo-re, mentre regnava Nerone. E una onorevole via a ren-dersi immortale aveva questi aperta a lui e agli altri poe-ti coll'istituire che fatto avea solenni letterarj combatti-menti da celebrarsi ogni cinque anni, ne' quali gli oratorie i poeti recitando a gara nel pubblico teatro le orazionie i poemi loro, da' giudici a ciò prescelti si decideva achi di essi si dovesse l'onore della corona. Il suddettoscrittore della Vita di Lucano racconta che in tale occa-sione fu data a Lucano sopra Nerone la preferenza, e chequindi ne venne lo sdegno di Nerone contro il nostropoeta. Ma io temo che un tal fatto non possa reggerecontro il testimonio di tre celebri storici, Svetonio, Taci-to, e Dione, che e più antichi sembrano e più degni difede che il mentovato scrittore, il cui stile troppo sa de'secoli bassi. Questi concordemente raccontano che igiudici corrotti anche essi da quel vile spirito di adula-zione che allora era universale in Roma, concederonol'onore della corona a Nerone (Svet. in Ner. c. 12; Tac. l.14 Ann. c. 21; Dio l. 11). Ed è ad avvertire che questeletterarie contese istituite furono da Nerone l'anno stessodel suo impero (Tac. l. 64, c. 20), che ogni quinto annodoveansi celebrare, e dette furono perciò quinquennalecertamen (ib.), e che la seconda volta si celebrarono unanno più tardi, cioè nel dodicesimo anno di Nerone (id.

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tratterrommi a esaminare le più minute circostanze de'fatti a lui appartenenti, di che puossi vedere ciò che as-sai lungamente e diligentemente ne ha scritto il celebreNiccolò Antonio (Bibl. hisp. vet. l. 1, c. 10). Lucano co-minciò a rendersi celebre in Roma pel suo poetico valo-re, mentre regnava Nerone. E una onorevole via a ren-dersi immortale aveva questi aperta a lui e agli altri poe-ti coll'istituire che fatto avea solenni letterarj combatti-menti da celebrarsi ogni cinque anni, ne' quali gli oratorie i poeti recitando a gara nel pubblico teatro le orazionie i poemi loro, da' giudici a ciò prescelti si decideva achi di essi si dovesse l'onore della corona. Il suddettoscrittore della Vita di Lucano racconta che in tale occa-sione fu data a Lucano sopra Nerone la preferenza, e chequindi ne venne lo sdegno di Nerone contro il nostropoeta. Ma io temo che un tal fatto non possa reggerecontro il testimonio di tre celebri storici, Svetonio, Taci-to, e Dione, che e più antichi sembrano e più degni difede che il mentovato scrittore, il cui stile troppo sa de'secoli bassi. Questi concordemente raccontano che igiudici corrotti anche essi da quel vile spirito di adula-zione che allora era universale in Roma, concederonol'onore della corona a Nerone (Svet. in Ner. c. 12; Tac. l.14 Ann. c. 21; Dio l. 11). Ed è ad avvertire che questeletterarie contese istituite furono da Nerone l'anno stessodel suo impero (Tac. l. 64, c. 20), che ogni quinto annodoveansi celebrare, e dette furono perciò quinquennalecertamen (ib.), e che la seconda volta si celebrarono unanno più tardi, cioè nel dodicesimo anno di Nerone (id.

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l. 16, c. 2), essendo Lucano morto fin dall'anno prece-dente (id. l. 15, c. 70), e perciò una volta sola potè Luca-no aver parte a tali contese. Sembra dunque più verisi-mile che Lucano a questa occasione avesse il dispiaceredi vedersi posposto a Nerone, e che quindi si comincias-se in lui ad accendere quello sdegno che poscia il trassein rovina. In fatti nella Vita più antica dello stesso poeta,attribuita non senza qualche fondamento a Svetonio,nulla si dice di quest'onore a lui conceduto; anzi al con-trario si narra che recitando egli pubblicamente i suoiversi, Nerone acceso d'invidia interruppe, sotto leggerpretesto quell'assemblea, e andossene: di che tanto sde-gnossi Lucano, che d'indi in poi non cessò mai con mor-daci detti di pungere l'imperadore. Ma questi, benchèavesse ottenuto a preferenza di Lucano l'onore della co-rona, conosceva nondimeno ch'esso era di troppo a luisuperiore. La fama di valoroso poeta era a Nerone piùcara assai di qualunque provincia del suo impero, e per-ciò sdegnato che vi fosse in Roma chi volesse in valorepoetico gareggiar seco, fe' divieto a Lucano di renderpubbliche in avvenire le sue poesie (id. l. 15, c. 49). Ilfervido e impetuoso poeta non si potè contenere, e si unìa Pisone che una congiura stava allora formando control'imperadore. Questi n'ebbe contezza, e i congiurati fu-rono arrestati, convinti, e dannati a morte. Lucano affet-tò per alcun tempo una virile fermezza nel tacere i nomide' complici, ma tradito da una finta promessa d'impuni-tà giunse a sì crudele bassezza, che la stessa sua madrenominò tra gli autori della congiura (ib. c. 56). Ma inva-

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l. 16, c. 2), essendo Lucano morto fin dall'anno prece-dente (id. l. 15, c. 70), e perciò una volta sola potè Luca-no aver parte a tali contese. Sembra dunque più verisi-mile che Lucano a questa occasione avesse il dispiaceredi vedersi posposto a Nerone, e che quindi si comincias-se in lui ad accendere quello sdegno che poscia il trassein rovina. In fatti nella Vita più antica dello stesso poeta,attribuita non senza qualche fondamento a Svetonio,nulla si dice di quest'onore a lui conceduto; anzi al con-trario si narra che recitando egli pubblicamente i suoiversi, Nerone acceso d'invidia interruppe, sotto leggerpretesto quell'assemblea, e andossene: di che tanto sde-gnossi Lucano, che d'indi in poi non cessò mai con mor-daci detti di pungere l'imperadore. Ma questi, benchèavesse ottenuto a preferenza di Lucano l'onore della co-rona, conosceva nondimeno ch'esso era di troppo a luisuperiore. La fama di valoroso poeta era a Nerone piùcara assai di qualunque provincia del suo impero, e per-ciò sdegnato che vi fosse in Roma chi volesse in valorepoetico gareggiar seco, fe' divieto a Lucano di renderpubbliche in avvenire le sue poesie (id. l. 15, c. 49). Ilfervido e impetuoso poeta non si potè contenere, e si unìa Pisone che una congiura stava allora formando control'imperadore. Questi n'ebbe contezza, e i congiurati fu-rono arrestati, convinti, e dannati a morte. Lucano affet-tò per alcun tempo una virile fermezza nel tacere i nomide' complici, ma tradito da una finta promessa d'impuni-tà giunse a sì crudele bassezza, che la stessa sua madrenominò tra gli autori della congiura (ib. c. 56). Ma inva-

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no cercò egli con sì detestabile mezzo di ottenere il per-dono. Ebbe solo in sua mano lo scegliere qual morte piùgli piacesse; e scelse quella che allora era più in uso,singolarmente presso coloro che alla fama aspiravano disaggi filosofi, cioè di aprirsi le vene. Nel qual atto vollepure mostrarsi ancora intrepido e coraggioso, poichèsentendosi venir meno prese a recitare alcuni suoi versicon cui descritto avea un soldato nell'atto di morire insomigliante maniera (ib. c. 70). Così finì di vivere Luca-no nell'età di soli ventisette anni nell'anno LXV dell'eravolgare.

V. Molti sono i componimenti poetici che aLucano si attribuiscono, tutti periti, trattanela Farsalia. Lasciando dunque di parlare de-gli altri, intorno a' quali si può vedere singo-larmente il già mentovato Niccolò Antonio

(l. c.), ci tratterremo soltanto su questo poema. Se intor-no al pregio di un'opera si avesse a prestar fede all'auto-re di essa, niun poema dovrebbe anteporsi a quel di Lu-cano. Egli certo si vanta che "finchè Omero sarà in ono-re, egli ancor sarà letto, che la sua Farsalia vivrà, e chenon sarà in alcun tempo dimenticata (l. 9, v. 983)". Ma a'poeti è permesso il sentir altamenti di lor medesimi, pur-chè lascino agli altri la libertà di sentire anch'essi comelor piace. Or intorno a Lucano non è mancato chi ne ab-bia dette le più gran lodi del mondo. Stazio che visse altempo medesimo, ne ha celebrata la memoria con un

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Diversi giu-dizj de' dot-ti intorno alla sua Farsalia.

no cercò egli con sì detestabile mezzo di ottenere il per-dono. Ebbe solo in sua mano lo scegliere qual morte piùgli piacesse; e scelse quella che allora era più in uso,singolarmente presso coloro che alla fama aspiravano disaggi filosofi, cioè di aprirsi le vene. Nel qual atto vollepure mostrarsi ancora intrepido e coraggioso, poichèsentendosi venir meno prese a recitare alcuni suoi versicon cui descritto avea un soldato nell'atto di morire insomigliante maniera (ib. c. 70). Così finì di vivere Luca-no nell'età di soli ventisette anni nell'anno LXV dell'eravolgare.

V. Molti sono i componimenti poetici che aLucano si attribuiscono, tutti periti, trattanela Farsalia. Lasciando dunque di parlare de-gli altri, intorno a' quali si può vedere singo-larmente il già mentovato Niccolò Antonio

(l. c.), ci tratterremo soltanto su questo poema. Se intor-no al pregio di un'opera si avesse a prestar fede all'auto-re di essa, niun poema dovrebbe anteporsi a quel di Lu-cano. Egli certo si vanta che "finchè Omero sarà in ono-re, egli ancor sarà letto, che la sua Farsalia vivrà, e chenon sarà in alcun tempo dimenticata (l. 9, v. 983)". Ma a'poeti è permesso il sentir altamenti di lor medesimi, pur-chè lascino agli altri la libertà di sentire anch'essi comelor piace. Or intorno a Lucano non è mancato chi ne ab-bia dette le più gran lodi del mondo. Stazio che visse altempo medesimo, ne ha celebrata la memoria con un

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Diversi giu-dizj de' dot-ti intorno alla sua Farsalia.

componimento (l. 2. sil. 7) in cui parla di Lucano comedi un poeta non inferiore ad alcuno, e superiore a pres-sochè tutti i poeti; e non teme di dire che dall'Eneide an-cora sarà la Farsalia venerata. E veramente essendo Sta-zio nel suo poetare somigliante molto a Lucano, non èmaraviglia che ne facesse sì grande elogio. Marziale an-cora ne parla con molta lode, benchè accenni insiemeche fin da quel tempo alcuni non volean concedergli ilnome di poeta (l. 7, epigr. 20, 21, 22; l. 14, epigr. 168).Nè tra i moderni sono mancati a Lucano lodatori e pro-tettori per sapere e per autorità ragguardevoli. Del cele-bre Ugone Grozio si dice (L'esprit de Guy Patin p. 28;Acta Lips. 1710, p. 417) che lo avesse in pregio e inamore sì grande, che sempre il volesse seco, e talvoltaancora per trasporto di tenerezza il baciasse. Jacopo Pal-merio da Grentemesnil una lunga apologia di Lucanoscrisse fin dall'an. 1629, in cui rispondendo a tutte la ac-cuse date alla Farsalia, e esaminandone i pregi, lusin-gossi di parlarne modestamente dicendo ch'essa era qua-si uguale all'Eneide. Quest'apologia però non fu stampa-ta che l'an. 1704 a Leyden (Journ. des Sav. 1704, p. 609,e 1708; Suppl. p. 414; Acta Lips. 1708, p. 186), ed ivipur ristampata l'anno 1728 nella bella edizione di Luca-no fatta dall'Oudendorp. Molti altri ancora hanno anno-verato Lucano tra' valorosi poeti. Ma troppo lungi micondurrebbe il far parola di tutti. Veggansi i lor pareriraccolti dal Baillet (Jug. des Sav. t. 3, p. 246, éd.D'Amst. 1725). Non vuolsi però tacere di due tra essi,cui troppo è onorevole a Lucano l'aver avuti a lodatori e

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componimento (l. 2. sil. 7) in cui parla di Lucano comedi un poeta non inferiore ad alcuno, e superiore a pres-sochè tutti i poeti; e non teme di dire che dall'Eneide an-cora sarà la Farsalia venerata. E veramente essendo Sta-zio nel suo poetare somigliante molto a Lucano, non èmaraviglia che ne facesse sì grande elogio. Marziale an-cora ne parla con molta lode, benchè accenni insiemeche fin da quel tempo alcuni non volean concedergli ilnome di poeta (l. 7, epigr. 20, 21, 22; l. 14, epigr. 168).Nè tra i moderni sono mancati a Lucano lodatori e pro-tettori per sapere e per autorità ragguardevoli. Del cele-bre Ugone Grozio si dice (L'esprit de Guy Patin p. 28;Acta Lips. 1710, p. 417) che lo avesse in pregio e inamore sì grande, che sempre il volesse seco, e talvoltaancora per trasporto di tenerezza il baciasse. Jacopo Pal-merio da Grentemesnil una lunga apologia di Lucanoscrisse fin dall'an. 1629, in cui rispondendo a tutte la ac-cuse date alla Farsalia, e esaminandone i pregi, lusin-gossi di parlarne modestamente dicendo ch'essa era qua-si uguale all'Eneide. Quest'apologia però non fu stampa-ta che l'an. 1704 a Leyden (Journ. des Sav. 1704, p. 609,e 1708; Suppl. p. 414; Acta Lips. 1708, p. 186), ed ivipur ristampata l'anno 1728 nella bella edizione di Luca-no fatta dall'Oudendorp. Molti altri ancora hanno anno-verato Lucano tra' valorosi poeti. Ma troppo lungi micondurrebbe il far parola di tutti. Veggansi i lor pareriraccolti dal Baillet (Jug. des Sav. t. 3, p. 246, éd.D'Amst. 1725). Non vuolsi però tacere di due tra essi,cui troppo è onorevole a Lucano l'aver avuti a lodatori e

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apologisti. Il primo è il gran Pietro Cornelio, di cui rac-conta monsig. Huet (Origines de Caen p. 366) che con-fessò a lui medesimo, non senza qualche rossore, ch'eglianteponeva Lucano a Virgilio. Di questa opinione delCornelio si vale monsig. Huet a provare che gli ottimigiudici di poesia più rari sono a trovarsi che gli ottimipoeti. Ma non potrebbe aggiungersi ancora che il troppofavorevole sentimento che il Cornelio avea di Lucano,fu per avventura l'origine del difetto che in lui singolar-mente dispiace, cioè di uno stile tronfio talvolta più chesublime, e di pensieri raffinati troppo e più ingegnosiche a personaggi ancor di tragedia non si convenga?L'altro è il celebre Marmontel che non ha sdegnatod'impiegare il colto ed elegante suo stile in una tradu-zion di Lucano. Omero e Virgilio, se potessero tornartra' vivi, farebbono, io credo, un amorevol lamento conquesto illustre scrittore che, anzichè ad essi, abbia un talonore conceduto ad un poeta di cui eglino forse ignora-vano ancora il nome. Ma ha egli forse creduto che sopratutti i poeti si dovesse la preferenza a Lucano? No certa-mente; poichè confessa egli medesimo che questo poetaha de' grandi difetti; che "la Farsalia non è che un primoabbozzo di poema; che non vi si vede nè l'eleganza nè ilcolorito nè l'armonia di Virgilio; che vi si scorge la fret-ta con cui fu scritta; che Lucano felice talvolta nellascelta dell'espressione, altre volte accenna solo il suopensiero con termini così confusi, che difficilmente sene rileva il senso; che i versi sono tratto tratto armonio-si, ma per lo più duri e tronchi; che il colorito è tetro e

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apologisti. Il primo è il gran Pietro Cornelio, di cui rac-conta monsig. Huet (Origines de Caen p. 366) che con-fessò a lui medesimo, non senza qualche rossore, ch'eglianteponeva Lucano a Virgilio. Di questa opinione delCornelio si vale monsig. Huet a provare che gli ottimigiudici di poesia più rari sono a trovarsi che gli ottimipoeti. Ma non potrebbe aggiungersi ancora che il troppofavorevole sentimento che il Cornelio avea di Lucano,fu per avventura l'origine del difetto che in lui singolar-mente dispiace, cioè di uno stile tronfio talvolta più chesublime, e di pensieri raffinati troppo e più ingegnosiche a personaggi ancor di tragedia non si convenga?L'altro è il celebre Marmontel che non ha sdegnatod'impiegare il colto ed elegante suo stile in una tradu-zion di Lucano. Omero e Virgilio, se potessero tornartra' vivi, farebbono, io credo, un amorevol lamento conquesto illustre scrittore che, anzichè ad essi, abbia un talonore conceduto ad un poeta di cui eglino forse ignora-vano ancora il nome. Ma ha egli forse creduto che sopratutti i poeti si dovesse la preferenza a Lucano? No certa-mente; poichè confessa egli medesimo che questo poetaha de' grandi difetti; che "la Farsalia non è che un primoabbozzo di poema; che non vi si vede nè l'eleganza nè ilcolorito nè l'armonia di Virgilio; che vi si scorge la fret-ta con cui fu scritta; che Lucano felice talvolta nellascelta dell'espressione, altre volte accenna solo il suopensiero con termini così confusi, che difficilmente sene rileva il senso; che i versi sono tratto tratto armonio-si, ma per lo più duri e tronchi; che il colorito è tetro e

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unisono, e che l'arte maravigliosa del chiaroscuro a Lu-cano è affatto ignota; ch'egli entra in minutezze tali chesnervando il racconto ne indeboliscon la forza; che dopoesser giunto ad esprimere il grande e il vero, trasportatodall'impeto ei passa oltre, e cade spesso in quella gon-fiezza di cui viene ripreso: che il poema manca di unio-ne e di tessitura; che l'azione n'è dispersa, sconnessi gliavvenimenti, isolate tutte le scene; e ch'egli finalmenteha seguito il filo della storia, ed ha rinunciato quasi inte-ramente alla gloria dell'invenzione". Tutti questi difettiriconosce sinceramente m. Marmontel in Lucano; e ionon so se alcuno de' più dichiarati nimici di questo poetane abbia fatta una critica più severa e più giusta.

VI. E nondimeno m. Marmontel trova sìgran pregi in Lucano, ch'egli reputa benimpiegata la sua fatica in tradurlo. Sembradifficile che a tanti difetti possano esserancor congiunti pregi sì grandi. E quai son

eglino questi pregi? Versi di una bellezza sublime. Mase essi sono per lo più duri e tronchi, come egli ha con-fessato, questa sublime bellezza si vedrà ben di raro.Pitture la cui forza non è indebolita che da minutezzeche si cancellano con un tratto di penna; cioè pitture chesaran belle, quando sian fatte diversamente; perciocchèse, oltre le puerili minutezze, il colorito ancora è tetro eunisono, come m. Marmontel ne conviene, e non hapunto della grazia del chiaroscuro, egli è evidente che a

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Esame dei pregi che in essa ravvisa m. Marmon-tel.

unisono, e che l'arte maravigliosa del chiaroscuro a Lu-cano è affatto ignota; ch'egli entra in minutezze tali chesnervando il racconto ne indeboliscon la forza; che dopoesser giunto ad esprimere il grande e il vero, trasportatodall'impeto ei passa oltre, e cade spesso in quella gon-fiezza di cui viene ripreso: che il poema manca di unio-ne e di tessitura; che l'azione n'è dispersa, sconnessi gliavvenimenti, isolate tutte le scene; e ch'egli finalmenteha seguito il filo della storia, ed ha rinunciato quasi inte-ramente alla gloria dell'invenzione". Tutti questi difettiriconosce sinceramente m. Marmontel in Lucano; e ionon so se alcuno de' più dichiarati nimici di questo poetane abbia fatta una critica più severa e più giusta.

VI. E nondimeno m. Marmontel trova sìgran pregi in Lucano, ch'egli reputa benimpiegata la sua fatica in tradurlo. Sembradifficile che a tanti difetti possano esserancor congiunti pregi sì grandi. E quai son

eglino questi pregi? Versi di una bellezza sublime. Mase essi sono per lo più duri e tronchi, come egli ha con-fessato, questa sublime bellezza si vedrà ben di raro.Pitture la cui forza non è indebolita che da minutezzeche si cancellano con un tratto di penna; cioè pitture chesaran belle, quando sian fatte diversamente; perciocchèse, oltre le puerili minutezze, il colorito ancora è tetro eunisono, come m. Marmontel ne conviene, e non hapunto della grazia del chiaroscuro, egli è evidente che a

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Esame dei pregi che in essa ravvisa m. Marmon-tel.

render belle e lodevoli cotai pitture, converrà ritoccarledi tal maniera che appena sembrin più desse. "Passidrammatici di rara eloquenza, quando se ne tolgano al-cuni luoghi di declamazione"; che è quanto dire quandoa un'eloquenza importuna e puerile una se ne sostituiscavirile e soda. "Caratteri disegnati con ardire uguale aquello d'Omero e di Cornelio, pensieri di una profonditàe di una elevatezza maravigliosa, un fondo di filosofia, acui non si trova l'uguale in alcun altro degli antichi poe-mi"; ma caratteri e pensieri e sentimenti ne' quali, comesopra ha detto m. Marmontel, Lucano "dopo esser giun-to ad esprimere il vero e il grande, cade in quella votagonfiezza che tanto in lui ne dispiace; ed espressi piùvolte con termini così confusi che appena se ne rileva ilsenso (com'egli stesso concede). Il merito di aver fattoparlare degnamente Pompeo, Cesare, Bruto, Catone, iconsoli di Roma, e la figlia degli Scipioni". Ma se que-ste parlate hanno i difetti che nel poema di Lucano rico-nosce m. Marmontel, non sembra ch'egli abbia fatto par-lare i detti personaggi con quella dignità che loro si con-veniva. "In una parola, conchiude, il più grande de' poli-tici avvenimenti rappresentato da un giovane con unamaestà che impone, e con un coraggio che confonde".Altri forse direbbe: con una gonfiezza che annoia, e conuna presunzion che ributta. E certo all'esaminare i grancambiamenti che questo traduttor valoroso ha pensato didover fare e nelle narrazioni e nelle orazioni e in quasitutti passi di Lucano, raccogliesi chiaramente ch'eglistesso ha conosciuto (ed uomo come egli è di ottimo gu-

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render belle e lodevoli cotai pitture, converrà ritoccarledi tal maniera che appena sembrin più desse. "Passidrammatici di rara eloquenza, quando se ne tolgano al-cuni luoghi di declamazione"; che è quanto dire quandoa un'eloquenza importuna e puerile una se ne sostituiscavirile e soda. "Caratteri disegnati con ardire uguale aquello d'Omero e di Cornelio, pensieri di una profonditàe di una elevatezza maravigliosa, un fondo di filosofia, acui non si trova l'uguale in alcun altro degli antichi poe-mi"; ma caratteri e pensieri e sentimenti ne' quali, comesopra ha detto m. Marmontel, Lucano "dopo esser giun-to ad esprimere il vero e il grande, cade in quella votagonfiezza che tanto in lui ne dispiace; ed espressi piùvolte con termini così confusi che appena se ne rileva ilsenso (com'egli stesso concede). Il merito di aver fattoparlare degnamente Pompeo, Cesare, Bruto, Catone, iconsoli di Roma, e la figlia degli Scipioni". Ma se que-ste parlate hanno i difetti che nel poema di Lucano rico-nosce m. Marmontel, non sembra ch'egli abbia fatto par-lare i detti personaggi con quella dignità che loro si con-veniva. "In una parola, conchiude, il più grande de' poli-tici avvenimenti rappresentato da un giovane con unamaestà che impone, e con un coraggio che confonde".Altri forse direbbe: con una gonfiezza che annoia, e conuna presunzion che ributta. E certo all'esaminare i grancambiamenti che questo traduttor valoroso ha pensato didover fare e nelle narrazioni e nelle orazioni e in quasitutti passi di Lucano, raccogliesi chiaramente ch'eglistesso ha conosciuto (ed uomo come egli è di ottimo gu-

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sto e di finissimo discernimento in poesia non poteva ameno di non conoscerlo) che questo poema, perchè po-tesse piacere, dovea esser corretto e mutato in gran par-te. Ed io penso che ciò non ostante non vorrebbe m.Marmontel esser creduto autore, anzichè traduttore di untal poema.

VII. Anche m. de Voltaire parla di Lucanoin maniera che gli apologisti di questo poetapotranno per avventura esserne a primoaspetto contenti. Egli confessa (Essai sur lepoeme epique) "che Lucano non ha alcuna

delle belle descrizioni che trovansi in Omero, che nonha l'arte di raccontare, e di non andare tropp'oltre, laquale è propria di Virgilio; che non ne ha nè l'eleganzanè l'armonia;" ma aggiugne che "vi ha ancor nella Farsa-lia bellezze tali che non veggonsi nè nell'Iliade, nènell'Eneide." E quali sono esse? "Nel mezzo delle sueampollose declamazioni vi sono di que' pensieri sublimie arditi, e di quelle massime politiche di cui è pieno ilCornelio. Alcune delle sue parlate hanno la maestà diquelle di Livio e la forza di Tacito: ei dipinge come Sal-lustio". Io credo che lo stesso m. de Voltaire siasi avve-duto che tal confronto era troppo onorevole a Lucano, etroppo ingiurioso a' tre nominati autori; perchè egli sog-giugne cosa che interamente distrugge le lodi finora datea questo poeta. "In una parola egli è grande, ovunquenon vuole esser poeta". Or egli è certo che Lucano sem-

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Giudizio che ne dà m. de Vol-taire.

sto e di finissimo discernimento in poesia non poteva ameno di non conoscerlo) che questo poema, perchè po-tesse piacere, dovea esser corretto e mutato in gran par-te. Ed io penso che ciò non ostante non vorrebbe m.Marmontel esser creduto autore, anzichè traduttore di untal poema.

VII. Anche m. de Voltaire parla di Lucanoin maniera che gli apologisti di questo poetapotranno per avventura esserne a primoaspetto contenti. Egli confessa (Essai sur lepoeme epique) "che Lucano non ha alcuna

delle belle descrizioni che trovansi in Omero, che nonha l'arte di raccontare, e di non andare tropp'oltre, laquale è propria di Virgilio; che non ne ha nè l'eleganzanè l'armonia;" ma aggiugne che "vi ha ancor nella Farsa-lia bellezze tali che non veggonsi nè nell'Iliade, nènell'Eneide." E quali sono esse? "Nel mezzo delle sueampollose declamazioni vi sono di que' pensieri sublimie arditi, e di quelle massime politiche di cui è pieno ilCornelio. Alcune delle sue parlate hanno la maestà diquelle di Livio e la forza di Tacito: ei dipinge come Sal-lustio". Io credo che lo stesso m. de Voltaire siasi avve-duto che tal confronto era troppo onorevole a Lucano, etroppo ingiurioso a' tre nominati autori; perchè egli sog-giugne cosa che interamente distrugge le lodi finora datea questo poeta. "In una parola egli è grande, ovunquenon vuole esser poeta". Or egli è certo che Lucano sem-

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Giudizio che ne dà m. de Vol-taire.

pre ha voluto esser poeta; e perciò secondo il sentimentodi m. de Voltaire, dovrassi dire ch'egli non è mai grande.E veramente io pregherei volentieri m. de Voltaire adadditarci quali siano le parlate presso Lucano, e quali ledescrizioni che a quelle de' tre scrittori mentovati si pos-son paragonare. E in ciò singolarmente c'è descrizione,come mai la precisione e la forza di Sallustio può venirea confronto colla vota e slombata prolissità di Lucano?

VIII. Nè voglio io già negare che Lucanofosse poeta di grande ingegno; che anzi ne'difetti che noi veggiamo in lui, non cade senon chi abbia ingegno vivace, e fervida fan-

tasia. Ma oltrechè egli era in età giovanile troppo e im-matura per ordire e condurre felicemente un poema, av-venne a lui prima che ad ogni altro (in ciò ch'è poemaepico) quella che avvenir suole a' poeti che hanno, nonso se dica la sorte, o la sventura, di venir dietro a quelliche han condotta a perfezione la poesia; e ciò appuntoch'era avvenuto ancora agli oratori dopo la morte di Ci-cerone, come nel precedente volume si è dimostrato.Virgilio avea composto un poema epico il più perfettoche fra' Latini si fosse ancora veduto. Lucano dalla viva-cità dell'ingegno e dal brio della gioventù si sente spro-nato a intraprendere egli pure un poema, e si lusinga dilasciarsi addietro l'Eneide. Ma come farlo? A me par divedere un giovane ed inesperto scultore che ha innanzigli occhi una statua greca di bellezza meravigliosa; e

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Riflessioni sullo stile di Lucano.

pre ha voluto esser poeta; e perciò secondo il sentimentodi m. de Voltaire, dovrassi dire ch'egli non è mai grande.E veramente io pregherei volentieri m. de Voltaire adadditarci quali siano le parlate presso Lucano, e quali ledescrizioni che a quelle de' tre scrittori mentovati si pos-son paragonare. E in ciò singolarmente c'è descrizione,come mai la precisione e la forza di Sallustio può venirea confronto colla vota e slombata prolissità di Lucano?

VIII. Nè voglio io già negare che Lucanofosse poeta di grande ingegno; che anzi ne'difetti che noi veggiamo in lui, non cade senon chi abbia ingegno vivace, e fervida fan-

tasia. Ma oltrechè egli era in età giovanile troppo e im-matura per ordire e condurre felicemente un poema, av-venne a lui prima che ad ogni altro (in ciò ch'è poemaepico) quella che avvenir suole a' poeti che hanno, nonso se dica la sorte, o la sventura, di venir dietro a quelliche han condotta a perfezione la poesia; e ciò appuntoch'era avvenuto ancora agli oratori dopo la morte di Ci-cerone, come nel precedente volume si è dimostrato.Virgilio avea composto un poema epico il più perfettoche fra' Latini si fosse ancora veduto. Lucano dalla viva-cità dell'ingegno e dal brio della gioventù si sente spro-nato a intraprendere egli pure un poema, e si lusinga dilasciarsi addietro l'Eneide. Ma come farlo? A me par divedere un giovane ed inesperto scultore che ha innanzigli occhi una statua greca di bellezza meravigliosa; e

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Riflessioni sullo stile di Lucano.

stoltamente si confida di farne un'altra che possa vincer-la al paragone. Ma il modello che gli sta innanzi, ha unaproporzione di membra, una forza di espressione, unagrazia di atteggiamento che non si può andare più oltre.Che fa egli dunque? Ricorre allo sforzato ed al gigante-sco. Eccovi un colosso che ha tutte le membra stragran-di, ma senza quella esatta proporzione tra loro, senza cuinon può esser bellezza; atteggiamento energico, ma con-tro natura; espression viva, ma violenta e forzata. L'uomrozzo che tanto più ammira le cose, quanto più esse gliempiono gli occhi, lo contempla con maraviglia; mal'uom colto appena lo degna di un guardo, e passa. Taleappunto mi sembra la Farsalia in paragon coll'Eneide.Presso Virgilio i caratteri, le descrizioni, le parlate, i rac-conti, tutto è secondo natura: in Lucano tutto è gigante-sco: ma in Virgilio la natura è espressa con tutta la gra-zia, la forza, la leggiadria, di cui essa è adorna; in Luca-no quasi ogni cosa è mostruosa e sformata; non sa parla-re, se non declama; non sa descrivere, se non esagera;detto perciò ottimamente da Quintiliano poeta ardente eimpetuoso (l. 10, c. 1); ma che non sa contenersi, e vaovunque l'impeto il porta. Quintiliano aggiugne ch'egli èda annoverarsi tra gli oratori anzichè tra' poeti; ma for-se meglio avrebbe detto tra' declamatori. La lode che lostesso autor gli concede, di grande ne' sentimenti, nongli si può certo negare; ma questi sentimenti medesimisono per lo più guasti da uno stile ampolloso. Di Lucanoin somma si può dire con più ragione ancora ciò che diOvidio si disse, che sarebbe stato miglior poeta di assai,

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stoltamente si confida di farne un'altra che possa vincer-la al paragone. Ma il modello che gli sta innanzi, ha unaproporzione di membra, una forza di espressione, unagrazia di atteggiamento che non si può andare più oltre.Che fa egli dunque? Ricorre allo sforzato ed al gigante-sco. Eccovi un colosso che ha tutte le membra stragran-di, ma senza quella esatta proporzione tra loro, senza cuinon può esser bellezza; atteggiamento energico, ma con-tro natura; espression viva, ma violenta e forzata. L'uomrozzo che tanto più ammira le cose, quanto più esse gliempiono gli occhi, lo contempla con maraviglia; mal'uom colto appena lo degna di un guardo, e passa. Taleappunto mi sembra la Farsalia in paragon coll'Eneide.Presso Virgilio i caratteri, le descrizioni, le parlate, i rac-conti, tutto è secondo natura: in Lucano tutto è gigante-sco: ma in Virgilio la natura è espressa con tutta la gra-zia, la forza, la leggiadria, di cui essa è adorna; in Luca-no quasi ogni cosa è mostruosa e sformata; non sa parla-re, se non declama; non sa descrivere, se non esagera;detto perciò ottimamente da Quintiliano poeta ardente eimpetuoso (l. 10, c. 1); ma che non sa contenersi, e vaovunque l'impeto il porta. Quintiliano aggiugne ch'egli èda annoverarsi tra gli oratori anzichè tra' poeti; ma for-se meglio avrebbe detto tra' declamatori. La lode che lostesso autor gli concede, di grande ne' sentimenti, nongli si può certo negare; ma questi sentimenti medesimisono per lo più guasti da uno stile ampolloso. Di Lucanoin somma si può dire con più ragione ancora ciò che diOvidio si disse, che sarebbe stato miglior poeta di assai,

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se avesse voluto frenare il suo ingegno anzichè secon-darlo; e aggiugneremo ancora, se avesse cercato d'imita-re anzichè di superare l'Eneide.

IX. Io non vo' qui trattenermi a esaminarepartitamente le cose inverisimili di cui pervoglia di grandeggiare ha riempito Lucanoil suo poema; nè rilevare alcuni errori chesecondo Giuseppe Scaligero egli ha com-

messi nella geografia e nell'astronomia. Veggasi di ciòla prefazione che alla magnifica sua edizion di Lucanofatta in Leyden l'an. 1740 ha premessa il Burmanno, ilqual pare che nella prefazione medesima e nelle noteabbia usato ogni sforzo per farci intendere che un talpoema non era degno di quella magnificenza con cuiegli l'ha pubblicato. Nemmeno parlerò io qui dell'edizio-ni e delle versioni diverse che ne abbiamo, seguendo ilpiano abbracciato nel precedente volume. Aggiugneròsolamente che con Lucano vuole essere rammentataPolla Argentaria di lui moglie; perciocchè, se vogliamcredere a Sidonio Apollinare (l. 2, ep. 10, ad Hespe-rium), ella fu donna valorosa in poetare, e al suo maritonel comporre il poema recò aiuto. Di lei certo parlanocon molta lode Marziale (l. 7, epigr. 21, 23; l. 10, epigr.64) e Stazio (l. 2. sil. 7). Alcuni hanno scritto ch'ella,morto Lucano, fosse presa a moglie da Stazio; ma GianCristiano Wolfio ha mostrato non esservi argomento va-levole a provarlo (Catal. Fæmin. Illustr.).

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Polla Ar-gentaria di lui moglie epoetessa.

se avesse voluto frenare il suo ingegno anzichè secon-darlo; e aggiugneremo ancora, se avesse cercato d'imita-re anzichè di superare l'Eneide.

IX. Io non vo' qui trattenermi a esaminarepartitamente le cose inverisimili di cui pervoglia di grandeggiare ha riempito Lucanoil suo poema; nè rilevare alcuni errori chesecondo Giuseppe Scaligero egli ha com-

messi nella geografia e nell'astronomia. Veggasi di ciòla prefazione che alla magnifica sua edizion di Lucanofatta in Leyden l'an. 1740 ha premessa il Burmanno, ilqual pare che nella prefazione medesima e nelle noteabbia usato ogni sforzo per farci intendere che un talpoema non era degno di quella magnificenza con cuiegli l'ha pubblicato. Nemmeno parlerò io qui dell'edizio-ni e delle versioni diverse che ne abbiamo, seguendo ilpiano abbracciato nel precedente volume. Aggiugneròsolamente che con Lucano vuole essere rammentataPolla Argentaria di lui moglie; perciocchè, se vogliamcredere a Sidonio Apollinare (l. 2, ep. 10, ad Hespe-rium), ella fu donna valorosa in poetare, e al suo maritonel comporre il poema recò aiuto. Di lei certo parlanocon molta lode Marziale (l. 7, epigr. 21, 23; l. 10, epigr.64) e Stazio (l. 2. sil. 7). Alcuni hanno scritto ch'ella,morto Lucano, fosse presa a moglie da Stazio; ma GianCristiano Wolfio ha mostrato non esservi argomento va-levole a provarlo (Catal. Fæmin. Illustr.).

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Polla Ar-gentaria di lui moglie epoetessa.

X. A Lucano succedono ora tre altri poetiepici di questa età, Valerio Flacco, Stazio, eSilio Italico. Intorno a C. Valerio Flacco vi ècontesa tra' que' di Sezze, che il voglion lorcittadino, appoggiati al cognome di Setino

che a lui vedesi attribuito, e i Padovani che il voglionloro, fondati sull'autorità di Marziale che speranza ealunno della città di Antenore lo appella (l. 1, epigr. 77).Noi lasceremo, secondo il nostro costume, ch'essi con-tendan tra loro, rimettendo chi sia vago di saperne piùoltre alla prefazione premessa da Pietro Burmanno allamagnifica edizione ch'egli ci ha data di questo poetal'an. 1724 in Leyden, ove riferisce ed esamina le ragioniche dà amendue le parti si arrecano. Assai poche son lenotizie che di lui ci son pervenute. Sembra ch'ei fossepovero, poichè Marziale nell'accennato epigramma loesorta a lasciar da parte l'inutile poesia, e a volgersi alforo troppo più vantaggioso. Quintiliano ne parla inmodo che pare che molta stima ne avesse, o a megliodire molta espettazione, dicendo: molto abbiam di fre-sco perduto in Valerio Flacco (l. 10, c. 1); colle qualiparole sembra accennare che, se fosse più lungamentevissuto, sarebbe ei pur divenuto valoroso poeta; e insie-me ce ne addita a un dipresso il tempo della morte, cioèl'impero di Domiziano, in cui Quintiliano scriveva. Dilui abbiamo un poema intorno alla celebre spedizionedegli Argonauti, ma non intero, o perchè il poeta nonpotesse condurlo a fine, o perchè ne sia perita l'estremaparte; al qual difetto cercò di supplire Giambattista Pio

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Notizie di Valerio Flacco del suo poema.

X. A Lucano succedono ora tre altri poetiepici di questa età, Valerio Flacco, Stazio, eSilio Italico. Intorno a C. Valerio Flacco vi ècontesa tra' que' di Sezze, che il voglion lorcittadino, appoggiati al cognome di Setino

che a lui vedesi attribuito, e i Padovani che il voglionloro, fondati sull'autorità di Marziale che speranza ealunno della città di Antenore lo appella (l. 1, epigr. 77).Noi lasceremo, secondo il nostro costume, ch'essi con-tendan tra loro, rimettendo chi sia vago di saperne piùoltre alla prefazione premessa da Pietro Burmanno allamagnifica edizione ch'egli ci ha data di questo poetal'an. 1724 in Leyden, ove riferisce ed esamina le ragioniche dà amendue le parti si arrecano. Assai poche son lenotizie che di lui ci son pervenute. Sembra ch'ei fossepovero, poichè Marziale nell'accennato epigramma loesorta a lasciar da parte l'inutile poesia, e a volgersi alforo troppo più vantaggioso. Quintiliano ne parla inmodo che pare che molta stima ne avesse, o a megliodire molta espettazione, dicendo: molto abbiam di fre-sco perduto in Valerio Flacco (l. 10, c. 1); colle qualiparole sembra accennare che, se fosse più lungamentevissuto, sarebbe ei pur divenuto valoroso poeta; e insie-me ce ne addita a un dipresso il tempo della morte, cioèl'impero di Domiziano, in cui Quintiliano scriveva. Dilui abbiamo un poema intorno alla celebre spedizionedegli Argonauti, ma non intero, o perchè il poeta nonpotesse condurlo a fine, o perchè ne sia perita l'estremaparte; al qual difetto cercò di supplire Giambattista Pio

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Notizie di Valerio Flacco del suo poema.

bolognese compiendo il libro ottavo, e aggiugnendonedue altri. In questo poema prese Valerio Flacco a imitarein parte, e in parte a trasportare dal greco in latino ilpoema che sull'argomento medesimo avea già scrittoApollonio da Rodi. Se volessimo seguire il parere diGasparo Bartio, dovremmo avere Valerio Flacco in con-to di uno de' migliori poeti di tutta l'antichità; sì grandisono le lodi ch'egli ne dice (Advers. l. 1, c. 17; l. 18, c.15; l. 26, c. 3, ec.). Ma questo autore; quanto si mostradiligente ricercatore de' tempi e de' costumi antichi, al-trettanto poco felice giudice si dà a vedere comunemen-te del merito degli antichi scrittori. E certo a chiunquedalla lettura di Virgilio passa a quella di Valerio Flaccosembra di passare da un colto e ameno giardino a unosterile ed arenoso deserto. Nè io penso che questo poeta,debba aver luogo tra quelli che per volersi spinger trop-po oltre abusarono del loro ingegno, come Lucano; masì tra quelli che a dispetto della natura vollero esser poe-ti: e a me par di vedere in Valerio Flacco un uccello cheavendo tarpate le ali è costretto ad andarsene terra terra;e, se talvolta osa levarsi in alto, non può reggersi sullepenne e cade. E forse nel sopraccitato epigramma cheMarziale gli scrisse, non solo volle distoglierlo dal poe-tare come da mestiere di poco frutto, ma ancora comeda arte a cui dalla natura non era fatto. Il che parech'egli intendesse singolarmente con quelle parole: Quid tibi cum Cyrrha? quid cum Permessidos unda?

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bolognese compiendo il libro ottavo, e aggiugnendonedue altri. In questo poema prese Valerio Flacco a imitarein parte, e in parte a trasportare dal greco in latino ilpoema che sull'argomento medesimo avea già scrittoApollonio da Rodi. Se volessimo seguire il parere diGasparo Bartio, dovremmo avere Valerio Flacco in con-to di uno de' migliori poeti di tutta l'antichità; sì grandisono le lodi ch'egli ne dice (Advers. l. 1, c. 17; l. 18, c.15; l. 26, c. 3, ec.). Ma questo autore; quanto si mostradiligente ricercatore de' tempi e de' costumi antichi, al-trettanto poco felice giudice si dà a vedere comunemen-te del merito degli antichi scrittori. E certo a chiunquedalla lettura di Virgilio passa a quella di Valerio Flaccosembra di passare da un colto e ameno giardino a unosterile ed arenoso deserto. Nè io penso che questo poeta,debba aver luogo tra quelli che per volersi spinger trop-po oltre abusarono del loro ingegno, come Lucano; masì tra quelli che a dispetto della natura vollero esser poe-ti: e a me par di vedere in Valerio Flacco un uccello cheavendo tarpate le ali è costretto ad andarsene terra terra;e, se talvolta osa levarsi in alto, non può reggersi sullepenne e cade. E forse nel sopraccitato epigramma cheMarziale gli scrisse, non solo volle distoglierlo dal poe-tare come da mestiere di poco frutto, ma ancora comeda arte a cui dalla natura non era fatto. Il che parech'egli intendesse singolarmente con quelle parole: Quid tibi cum Cyrrha? quid cum Permessidos unda?

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XI. Più felice disposizione alla poesia aveadalla natura sortito Publio Papinio Stazionapoletano di patria. Egli ebbe a padre unvaloroso poeta di cui niun cosa ci è rimasta;ma ch'era tale, se dobbiam crederne al figlio

il qual ne pianse co' suoi versi la morte (l. 5, sil. 3), chepoteva per avventura andar del pari con Omero e conVirgilio:

Fors et magniloquo non posthabuisset Homero,Tenderet et torvo pietas æquare Maroni.

Egli è però verisimile che il figliale affetto esagerassealquanto le paterne lodi. Egli certo cel rappresenta comeuomo in tutte le scienze versato, ed elegante scrittore inprosa non men che in verso: Omnia namque animo complexus, et omnibus auctor, Qua fandi vis lata patet, sive orsa libebat Aoniis vincere modis, seu voce soluta Spargere, et affræno nimbos æquare profatu.

E quindi aggiugne che più volte ei riportò la corona ne'poetici combattimenti, che ogni quinto anno celebravan-si in Napoli; perciocchè di lui parlando alla sua patria,così dice: Ille tuis toties præstrinxit tempora sertis, Cum stata laudato caneret quinquennia versu.

Di questi combattimenti dovrem trattare più a lungo,quando ragioneremo della letteratura delle altre provin-cie d'Italia. Per ora basti il riflettere che non poteva il

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Il padre di Stazio era stato valo-roso poeta.

XI. Più felice disposizione alla poesia aveadalla natura sortito Publio Papinio Stazionapoletano di patria. Egli ebbe a padre unvaloroso poeta di cui niun cosa ci è rimasta;ma ch'era tale, se dobbiam crederne al figlio

il qual ne pianse co' suoi versi la morte (l. 5, sil. 3), chepoteva per avventura andar del pari con Omero e conVirgilio:

Fors et magniloquo non posthabuisset Homero,Tenderet et torvo pietas æquare Maroni.

Egli è però verisimile che il figliale affetto esagerassealquanto le paterne lodi. Egli certo cel rappresenta comeuomo in tutte le scienze versato, ed elegante scrittore inprosa non men che in verso: Omnia namque animo complexus, et omnibus auctor, Qua fandi vis lata patet, sive orsa libebat Aoniis vincere modis, seu voce soluta Spargere, et affræno nimbos æquare profatu.

E quindi aggiugne che più volte ei riportò la corona ne'poetici combattimenti, che ogni quinto anno celebravan-si in Napoli; perciocchè di lui parlando alla sua patria,così dice: Ille tuis toties præstrinxit tempora sertis, Cum stata laudato caneret quinquennia versu.

Di questi combattimenti dovrem trattare più a lungo,quando ragioneremo della letteratura delle altre provin-cie d'Italia. Per ora basti il riflettere che non poteva il

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Il padre di Stazio era stato valo-roso poeta.

padre di Stazio non essere elegante poeta, se in sì solen-ne cimento più volte agli altri tutti fu preferito. Anzi nonin Napoli solamente, ma in Grecia ancora in somiglianticontese ottenne l'onore della corona: Sit pronum vicisse domi. Quid achæa mereri Proemia, nunc ramis Phoebi, nunc germine Lernæ, Nunc athamantæa protectum tempora pinu?

Da questo medesimo epicedio noi ricaviamo che il pa-dre di Stazio tenne in Napoli pubblica scuola, e fu traquelli che si dicean gramatici, de' quali nel precedentevolume si è ragionato; e che per la fama a cui era salito,da ogni luogo si accorreva ad udirlo. Aggiugne che iRomani ancora da lui furono ammaestrati; ma non dicese essi da Roma venissero ad ascoltarlo, o se egli tra-sportatosi a Roma vi aprisse scuola. Accenna per ultimoalcuni poetici componimenti da lui scritti, ed uno tra glialtri sull'incendio del Vesuvio, a cui accingevasi, quandomorì.

XII. Il figlio di un tal padre doveva natural-mente aver egli pure inclinazione a' poeticistudj. Ed ebbela in fatti Stazio, e dotato divivace ingegno fece in età ancor giovanileconcepire di sè non ordinarie speranze.

Mentre era ancor vivo il padre, fu egli pure coronato ne'poetici combattimenti in Napoli e questa fu la sola coro-na che lui presente ei riportasse.

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Primi studi di Stazio: onori da luiottenuti: sua morte.

padre di Stazio non essere elegante poeta, se in sì solen-ne cimento più volte agli altri tutti fu preferito. Anzi nonin Napoli solamente, ma in Grecia ancora in somiglianticontese ottenne l'onore della corona: Sit pronum vicisse domi. Quid achæa mereri Proemia, nunc ramis Phoebi, nunc germine Lernæ, Nunc athamantæa protectum tempora pinu?

Da questo medesimo epicedio noi ricaviamo che il pa-dre di Stazio tenne in Napoli pubblica scuola, e fu traquelli che si dicean gramatici, de' quali nel precedentevolume si è ragionato; e che per la fama a cui era salito,da ogni luogo si accorreva ad udirlo. Aggiugne che iRomani ancora da lui furono ammaestrati; ma non dicese essi da Roma venissero ad ascoltarlo, o se egli tra-sportatosi a Roma vi aprisse scuola. Accenna per ultimoalcuni poetici componimenti da lui scritti, ed uno tra glialtri sull'incendio del Vesuvio, a cui accingevasi, quandomorì.

XII. Il figlio di un tal padre doveva natural-mente aver egli pure inclinazione a' poeticistudj. Ed ebbela in fatti Stazio, e dotato divivace ingegno fece in età ancor giovanileconcepire di sè non ordinarie speranze.

Mentre era ancor vivo il padre, fu egli pure coronato ne'poetici combattimenti in Napoli e questa fu la sola coro-na che lui presente ei riportasse.

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Primi studi di Stazio: onori da luiottenuti: sua morte.

Heu mihi quod tantum patrias ego vertice frondes, Solaque, chalcidicæ cerealia dona corona, Te sub teste tuli (Ib.).

Poscia tre volte un somigliante onore egli ebbe ne'giuochi che presso Alba facevansi, e perciò detti eranoalbani, de' quali abbiam parlato più sopra. Di questo suovanto ci fa menzione in una delle sue Selve indirizzata aClaudia sua moglie (l. 3, sil. 5): .... Ter me vidisti albana ferentem Dona comes, sanctoque indutum Cæsaris auro, Visceribus complexa tuis, sertisque dedisti Oscula anhela meis.

Ne' giuochi ancora che per istituzion di Nerone, rinno-vata poscia da Domiziano, celebravansi in Roma ogniquinto anno, giunse egli co' suoi versi ad ottener la coro-na, e l'onore insieme di assidersi alla mensa del medesi-mo Domiziano, di ch'egli rendendo grazie all'imperado-re, così dice (l. 4, sil. 2): Sæpe coronatis iteres quinquennia lustris, Qua mihi felices epulas, mensaeque dedisti Sacra tuæ. Talis longo post tempore venit Lux mihi, Trojanis qualis sub collibus Albæ, Cum modo germanas acies, modo daca sonantem Prælia palladio tua me manus induit auro.

Ma il piacere che da questi onori ei traeva, vennegliamareggiato assai dal rossore che una volta ebbe a sof-frire di vedersi vinto ne' giuochi romani. Arrigo Dod-

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Heu mihi quod tantum patrias ego vertice frondes, Solaque, chalcidicæ cerealia dona corona, Te sub teste tuli (Ib.).

Poscia tre volte un somigliante onore egli ebbe ne'giuochi che presso Alba facevansi, e perciò detti eranoalbani, de' quali abbiam parlato più sopra. Di questo suovanto ci fa menzione in una delle sue Selve indirizzata aClaudia sua moglie (l. 3, sil. 5): .... Ter me vidisti albana ferentem Dona comes, sanctoque indutum Cæsaris auro, Visceribus complexa tuis, sertisque dedisti Oscula anhela meis.

Ne' giuochi ancora che per istituzion di Nerone, rinno-vata poscia da Domiziano, celebravansi in Roma ogniquinto anno, giunse egli co' suoi versi ad ottener la coro-na, e l'onore insieme di assidersi alla mensa del medesi-mo Domiziano, di ch'egli rendendo grazie all'imperado-re, così dice (l. 4, sil. 2): Sæpe coronatis iteres quinquennia lustris, Qua mihi felices epulas, mensaeque dedisti Sacra tuæ. Talis longo post tempore venit Lux mihi, Trojanis qualis sub collibus Albæ, Cum modo germanas acies, modo daca sonantem Prælia palladio tua me manus induit auro.

Ma il piacere che da questi onori ei traeva, vennegliamareggiato assai dal rossore che una volta ebbe a sof-frire di vedersi vinto ne' giuochi romani. Arrigo Dod-

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wello che colla consueta sua erudizione ed esattezza haesaminato l'epoche principali della Vita di Stazio (inAnnalibus Statianis), conghiettura che ciò avvenissel'anno dell'era cristiana XC ch'era il decimo dell'imperodi Domiziano. Egli accenna questa sua sventura ne' ver-si sopraccitati a Claudia sua moglie, ove a que' che ab-biam già recati, soggiugne questi:

Tu cum Capitolia nostræ Inficiata lyræ, sævum ingratumque dolebas Mecum victa Jovem.

E nel già mentovato epicedio di suo padre dichiara cheparte della sua Tebaide era quella che in tal occasioneaveva ei recitata: Nam quod me mixta quercus non pressit oliva, Et fugit speratus honos, cum dulce, parentis Invida Tarpeji, caneret te nostra magistro, Thebais, ec.

Il p. Petavio (De Doctr. Temp. l. 2, c. 21) in tutt'altrosenso vuole che spiegare si debbano questi ultimi versidi Stazio, e impugna lo Scaligero che avea recata laspiegazione da noi pure adottata; ma parmi che solosforzatamente si possano essi rivolgere ad altro senso.Questa Tebaide nondimeno udivasi comunemente inRoma con sì grande piacere, che allorquando Stazio in-vitava i Romani ad udirne parte, vi si accorreva in granfolla. Così ci assicura Giovenale che ancor viveva (sat.v. 82, ec.):

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wello che colla consueta sua erudizione ed esattezza haesaminato l'epoche principali della Vita di Stazio (inAnnalibus Statianis), conghiettura che ciò avvenissel'anno dell'era cristiana XC ch'era il decimo dell'imperodi Domiziano. Egli accenna questa sua sventura ne' ver-si sopraccitati a Claudia sua moglie, ove a que' che ab-biam già recati, soggiugne questi:

Tu cum Capitolia nostræ Inficiata lyræ, sævum ingratumque dolebas Mecum victa Jovem.

E nel già mentovato epicedio di suo padre dichiara cheparte della sua Tebaide era quella che in tal occasioneaveva ei recitata: Nam quod me mixta quercus non pressit oliva, Et fugit speratus honos, cum dulce, parentis Invida Tarpeji, caneret te nostra magistro, Thebais, ec.

Il p. Petavio (De Doctr. Temp. l. 2, c. 21) in tutt'altrosenso vuole che spiegare si debbano questi ultimi versidi Stazio, e impugna lo Scaligero che avea recata laspiegazione da noi pure adottata; ma parmi che solosforzatamente si possano essi rivolgere ad altro senso.Questa Tebaide nondimeno udivasi comunemente inRoma con sì grande piacere, che allorquando Stazio in-vitava i Romani ad udirne parte, vi si accorreva in granfolla. Così ci assicura Giovenale che ancor viveva (sat.v. 82, ec.):

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Curritur ad vocem jucundam, et carmen amicæ Thebaidos, lætam fecit cum Statius urbem Promisitque diem: tantaque libidine vulgi Auditur.

Mi soggiugne insieme che, poichè colla bellezza de'suoi versi avea riempiuto di clamori e di applausi il luo-go in cui recitava, il povero Stazio si ritrovava affamatoe, se volea pur vivere, gli conveniva comporre qualchenuova azion teatrale, e venderla a un celebre attore chia-mato Paride: tanto era allor mancato ne' grandi di Romail nobile impegno di fomentare colla loro munificenza lescienze e le arti:

Sed cum fregit subsellia versu, Esurit, intactam Paridi nisi vendat Agaven.

Alla stima di cui godeva in Roma Stazio, anche per lasingolare sua facilità in verseggiare all'improvviso,come raccogliesi dalle lettere da lui premesse a' cinquelibri delle sue Selve, si attribuisce non senza probabilefondamento l'invidia, onde pare che a riguardo di lui ar-desse Marziale; poichè questi nominando ne' suoi versialcuni amici di Stazio, di lui non ha mai fatto motto.Morì egli secondo il Dodwello l'anno di Cristo XCVI inetà di soli trentacinque anni, essendo nato, come con-ghiettura il medesimo autore l'an. LXI.

XIII. Di lui abbiamo cinque libri di Selveossia di varj componimenti in varie occasio-

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Sue poesie e loro ca-rattere.

Curritur ad vocem jucundam, et carmen amicæ Thebaidos, lætam fecit cum Statius urbem Promisitque diem: tantaque libidine vulgi Auditur.

Mi soggiugne insieme che, poichè colla bellezza de'suoi versi avea riempiuto di clamori e di applausi il luo-go in cui recitava, il povero Stazio si ritrovava affamatoe, se volea pur vivere, gli conveniva comporre qualchenuova azion teatrale, e venderla a un celebre attore chia-mato Paride: tanto era allor mancato ne' grandi di Romail nobile impegno di fomentare colla loro munificenza lescienze e le arti:

Sed cum fregit subsellia versu, Esurit, intactam Paridi nisi vendat Agaven.

Alla stima di cui godeva in Roma Stazio, anche per lasingolare sua facilità in verseggiare all'improvviso,come raccogliesi dalle lettere da lui premesse a' cinquelibri delle sue Selve, si attribuisce non senza probabilefondamento l'invidia, onde pare che a riguardo di lui ar-desse Marziale; poichè questi nominando ne' suoi versialcuni amici di Stazio, di lui non ha mai fatto motto.Morì egli secondo il Dodwello l'anno di Cristo XCVI inetà di soli trentacinque anni, essendo nato, come con-ghiettura il medesimo autore l'an. LXI.

XIII. Di lui abbiamo cinque libri di Selveossia di varj componimenti in varie occasio-

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Sue poesie e loro ca-rattere.

ni, e alcuni di essi improvvisamente da lui composti, laTebaide poema epico, e i primi tre libri di un altro poe-ma intitolato Achilleide, ch'ei non potè condurre a fine.Intorno a questo poeta ancora varj e discordi sono i giu-dizj dei dotti. Veggansi le due opere altre volte citate delPope-Blount (Censura Celebr. Auctor.) e del Baillet(Jug. des Sav.), e vedrassi con quanta stima di lui favel-lino Giulio Cesare Scaligero, Giusto Lipsio, Ugone Gro-zio, ed altri. Il p. Rapin al contrario lo dice (Réfl. sur laPoét. § II, §. 15) "stravagante nelle sue idee non menoche nelle sue espressioni; e aggiugne, ch'egli cerca lagrandezza più nelle parole che nelle cose; e che ne' duepoemi da lui composti tutto è fuori di proporzione, esenza regola alcuna"; al qual sentimento è conforme an-cora quello del p. Bossu (Du Poème Epique l. 2, c. 7). Eio certo a questo secondo parere mi appiglio più volen-tieri che al primo. Stazio era poeta di grande ingegno edi uguale felicità; ma ebbe egli ancora il vizio, direiquasi, del secolo di voler grandeggiare. Di lui disse ilsopraccitato Scaligero (Poem. l. 6) che sarebbe stato piùvicino a Virgilio, se non avesse voluto essergli vicino ditroppo: etiam propinquior futurus, si tam prope esse no-luisset: (parole che ridicolamente sono state così tradot-te dal Baillet (Jug. des Sav. t. 3, p. 270, ed. d'Amst.1725): "sarebbe stato più vicino a Virgilio, se non aves-se temuto d'incomodarlo troppo"). Ma meglio forseavrebbe detto lo Scaligero, che Stazio sarebbe stato piùvicino a Virgilio, se non avesse voluto vincerlo e supe-rarlo. In fatti, benchè ei si protesti umile adorator

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ni, e alcuni di essi improvvisamente da lui composti, laTebaide poema epico, e i primi tre libri di un altro poe-ma intitolato Achilleide, ch'ei non potè condurre a fine.Intorno a questo poeta ancora varj e discordi sono i giu-dizj dei dotti. Veggansi le due opere altre volte citate delPope-Blount (Censura Celebr. Auctor.) e del Baillet(Jug. des Sav.), e vedrassi con quanta stima di lui favel-lino Giulio Cesare Scaligero, Giusto Lipsio, Ugone Gro-zio, ed altri. Il p. Rapin al contrario lo dice (Réfl. sur laPoét. § II, §. 15) "stravagante nelle sue idee non menoche nelle sue espressioni; e aggiugne, ch'egli cerca lagrandezza più nelle parole che nelle cose; e che ne' duepoemi da lui composti tutto è fuori di proporzione, esenza regola alcuna"; al qual sentimento è conforme an-cora quello del p. Bossu (Du Poème Epique l. 2, c. 7). Eio certo a questo secondo parere mi appiglio più volen-tieri che al primo. Stazio era poeta di grande ingegno edi uguale felicità; ma ebbe egli ancora il vizio, direiquasi, del secolo di voler grandeggiare. Di lui disse ilsopraccitato Scaligero (Poem. l. 6) che sarebbe stato piùvicino a Virgilio, se non avesse voluto essergli vicino ditroppo: etiam propinquior futurus, si tam prope esse no-luisset: (parole che ridicolamente sono state così tradot-te dal Baillet (Jug. des Sav. t. 3, p. 270, ed. d'Amst.1725): "sarebbe stato più vicino a Virgilio, se non aves-se temuto d'incomodarlo troppo"). Ma meglio forseavrebbe detto lo Scaligero, che Stazio sarebbe stato piùvicino a Virgilio, se non avesse voluto vincerlo e supe-rarlo. In fatti, benchè ei si protesti umile adorator

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dell'Eneide, e indegno di starle a paro, vedesi nondime-no ch'ei si lusinga di andarle innanzi, e perciò giganteg-gia egli pure, e di ogni piccola arena forma, per cosìdire, un altissimo monte. Affetto, soavità, dolcezza sonpregi a lui ignoti; tutto è stragrande presso di lui e mo-struoso, oltre il difetto di aver seguito il metodo di nar-ratore anzichè di poeta. L'incomparabil traduzione chedella Tebaide ci ha data il card. Bentivoglio sotto ilnome di Selvaggio Porpora, ci ha renduto questo poemapiù dilettevole a leggersi, perchè coll'eleganza e collachiarezza dell'espressione italiana ha corretto il tronfio el'oscuro della latina; ma ciò non ostante leggendola a mepar di vedere un disegno cattivo colorito da mano mae-stra. Le Selve da lui composte più presto, e perciò piùsecondo natura, sono a parer di tutti le migliori poesie diStazio; e alcune singolarmente, se fossero state da luicomposte al tempo d'Augusto, quando la lingua latinanon ancora avea cominciato a perdere la sua chiara esemplice eleganza, come nella Dissertazion preliminaresi è veduto, meriterebbon a Stazio il luogo tra' più eccel-lenti poeti. Riflettasi per ultimo che il grande applausoche riscuoteva in Roma colla sua Tebaide, ci fa conosce-re chiaramente che il gusto era allora universalmentecorrotto nella maniera che nella citata Dissertazione si èdimostrato. Certamente a' tempi di Virgilio e di Orazioegli non sarebbe stato sì universalmente applaudito.

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dell'Eneide, e indegno di starle a paro, vedesi nondime-no ch'ei si lusinga di andarle innanzi, e perciò giganteg-gia egli pure, e di ogni piccola arena forma, per cosìdire, un altissimo monte. Affetto, soavità, dolcezza sonpregi a lui ignoti; tutto è stragrande presso di lui e mo-struoso, oltre il difetto di aver seguito il metodo di nar-ratore anzichè di poeta. L'incomparabil traduzione chedella Tebaide ci ha data il card. Bentivoglio sotto ilnome di Selvaggio Porpora, ci ha renduto questo poemapiù dilettevole a leggersi, perchè coll'eleganza e collachiarezza dell'espressione italiana ha corretto il tronfio el'oscuro della latina; ma ciò non ostante leggendola a mepar di vedere un disegno cattivo colorito da mano mae-stra. Le Selve da lui composte più presto, e perciò piùsecondo natura, sono a parer di tutti le migliori poesie diStazio; e alcune singolarmente, se fossero state da luicomposte al tempo d'Augusto, quando la lingua latinanon ancora avea cominciato a perdere la sua chiara esemplice eleganza, come nella Dissertazion preliminaresi è veduto, meriterebbon a Stazio il luogo tra' più eccel-lenti poeti. Riflettasi per ultimo che il grande applausoche riscuoteva in Roma colla sua Tebaide, ci fa conosce-re chiaramente che il gusto era allora universalmentecorrotto nella maniera che nella citata Dissertazione si èdimostrato. Certamente a' tempi di Virgilio e di Orazioegli non sarebbe stato sì universalmente applaudito.

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XIV. L'ultimo de' poeti epici di questa età èSilio Italico a cui da alcuni dassi il prenomedi Publio, da altri, e più comunemente,quello di Caio. Gli Spagnuoli ugualmente e

gl'Italiani il voglion loro, amendue fondati sul sopranno-me d'Italico, perchè e in Ispagna e in Italia vi avea unacittà detta Italica. Niccolò Antonio nondimeno (Bibl.Hisp. Vet. l. 1, c. 18), benchè naturalmente inclinato adaccrescer la gloria de' suoi, confessa esser probabile cheSilio fosse Spagnuolo, ma non potersi ciò affermare concertezza. Ma, come osserva l'erudito Cellario (Diss. dec. Sil. Ital. ante Silii ed. Traject. 1717), se da alcuna del-le due città dette Italica avesse Silio preso il cognome,pare che italicensis e non italicus avrebbe dovuto appel-larsi. Innoltre a provare ch'ei non fosse spagnuolo, non èleggero argomento il silenzio di Marziale che frequente-mente parlando o di Silio, o con Silio non mai il chiamasuo nazionale. Checchè ne sia, egli è certo che Silio vis-se per lo più in Italia, che vi avea poderi e ville, che fuconsole in Roma, e questo perciò ne dee bastare, perchènella Storia della Letteratura Italiana egli abbia luogo.Delle notizie che di lui abbiamo, noi siam debitori a Pli-nio il giovane, il quale avendone udita la morte ne scris-se una lettera a Caninio Rufo (l. 3, ep. 7). Da essa noiraccogliamo singolarmente ch'egli era stato consolel'anno stesso in cui Nerone morì; ch'era stato con moltasua gloria proconsole in Asia; che amicissimo era deglistudj d'ogni maniera, e che in eruditi discorsi godeva dipassare le intere giornate insiem cogli amici che da ogni

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Notizie di Silio Itali-co.

XIV. L'ultimo de' poeti epici di questa età èSilio Italico a cui da alcuni dassi il prenomedi Publio, da altri, e più comunemente,quello di Caio. Gli Spagnuoli ugualmente e

gl'Italiani il voglion loro, amendue fondati sul sopranno-me d'Italico, perchè e in Ispagna e in Italia vi avea unacittà detta Italica. Niccolò Antonio nondimeno (Bibl.Hisp. Vet. l. 1, c. 18), benchè naturalmente inclinato adaccrescer la gloria de' suoi, confessa esser probabile cheSilio fosse Spagnuolo, ma non potersi ciò affermare concertezza. Ma, come osserva l'erudito Cellario (Diss. dec. Sil. Ital. ante Silii ed. Traject. 1717), se da alcuna del-le due città dette Italica avesse Silio preso il cognome,pare che italicensis e non italicus avrebbe dovuto appel-larsi. Innoltre a provare ch'ei non fosse spagnuolo, non èleggero argomento il silenzio di Marziale che frequente-mente parlando o di Silio, o con Silio non mai il chiamasuo nazionale. Checchè ne sia, egli è certo che Silio vis-se per lo più in Italia, che vi avea poderi e ville, che fuconsole in Roma, e questo perciò ne dee bastare, perchènella Storia della Letteratura Italiana egli abbia luogo.Delle notizie che di lui abbiamo, noi siam debitori a Pli-nio il giovane, il quale avendone udita la morte ne scris-se una lettera a Caninio Rufo (l. 3, ep. 7). Da essa noiraccogliamo singolarmente ch'egli era stato consolel'anno stesso in cui Nerone morì; ch'era stato con moltasua gloria proconsole in Asia; che amicissimo era deglistudj d'ogni maniera, e che in eruditi discorsi godeva dipassare le intere giornate insiem cogli amici che da ogni

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Notizie di Silio Itali-co.

parte venivano a visitarlo; che molte ville ei possedeva,e tutte fornite di libri, di statue, di pitture; che grandevenerazione egli avea per Virgilio, il cui dì natalizio conpiù pompa soleva ancor celebrare che il suo proprio, eche a guisa di un tempio ne visitava in Napoli il sepol-cro; e che finalmente giunto all'età di settantacinqueanni compiti, travagliato da insanabile malattia, lasciossispontaneamente morir di fame in una sua villa pressoNapoli ne' primi anni dell'impero di Traiano, ossia,come Giovanni Masson dimostra (Vita Plin. Jun. n. 11),non prima dell'an. XCIX. Di lui, come già si è detto,parla sovente anche Marziale (l. 4, epigr. 14; l. 7, epigr.63, l. 7, epigr. 66) dai cui versi ricavasi che di Ciceroneancora era Silio grande veneratore; e che a tal fine aveacomprato un podere stato già di quel famoso oratore; eche avea egli pure trattate le cause nel foro. Ma intornoalla vita di Silio veggasi singolarmente l'accennata dis-sertazione di Cristoforo Cellario.

XV. Di lui abbiamo il poema sulla secondaguerra cartaginese; poema che, benchè non

sia a mio parere peggiore di quei di Lucano e di Stazio,pur non ha avuta la sorte di trovar alcuno di que' magni-fici lodatori che agli altri non son mancati. Nè è difficilel'arrecarne la ragion vera. Gli altri due hanno difetti taliche son coperti sotto un'ingannevole apparenza di mae-stà, di grandezza, e di entusiasmo, difetti perciò, che aduomini di non troppo fino discernimento sembran virtù;

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Suo poema.

parte venivano a visitarlo; che molte ville ei possedeva,e tutte fornite di libri, di statue, di pitture; che grandevenerazione egli avea per Virgilio, il cui dì natalizio conpiù pompa soleva ancor celebrare che il suo proprio, eche a guisa di un tempio ne visitava in Napoli il sepol-cro; e che finalmente giunto all'età di settantacinqueanni compiti, travagliato da insanabile malattia, lasciossispontaneamente morir di fame in una sua villa pressoNapoli ne' primi anni dell'impero di Traiano, ossia,come Giovanni Masson dimostra (Vita Plin. Jun. n. 11),non prima dell'an. XCIX. Di lui, come già si è detto,parla sovente anche Marziale (l. 4, epigr. 14; l. 7, epigr.63, l. 7, epigr. 66) dai cui versi ricavasi che di Ciceroneancora era Silio grande veneratore; e che a tal fine aveacomprato un podere stato già di quel famoso oratore; eche avea egli pure trattate le cause nel foro. Ma intornoalla vita di Silio veggasi singolarmente l'accennata dis-sertazione di Cristoforo Cellario.

XV. Di lui abbiamo il poema sulla secondaguerra cartaginese; poema che, benchè non

sia a mio parere peggiore di quei di Lucano e di Stazio,pur non ha avuta la sorte di trovar alcuno di que' magni-fici lodatori che agli altri non son mancati. Nè è difficilel'arrecarne la ragion vera. Gli altri due hanno difetti taliche son coperti sotto un'ingannevole apparenza di mae-stà, di grandezza, e di entusiasmo, difetti perciò, che aduomini di non troppo fino discernimento sembran virtù;

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Suo poema.

Silio al contrario uomo di grande studio, ma di mediocreingegno, ci ha lasciato un poema in cui non vedesi alcu-no di tai difetti ma solo una languidezza spossata, e uncontinuo ma impotente sforzo a levarsi in alto. Quindi iopenso che niuno meglio di Plinio ci abbia espresso il ca-rattere vero di Silio, dicendo che egli scribebat carminamaiore cura quam ingenio (ep. cit.). Noi abbiam dunquein Silio l'idea di uno che, non essendo fatto dalla naturaper esser poeta, a dispetto nondimeno della natura vuolpoetare, e si lusinga di poter giungere collo studio ecoll'arte, ove non può coll'ingegno. Quindi, oltrechè lostile in lui ancora si vede, come negli altri scrittori diquesta età, aver già alquanto d'incolto, e privo della faci-le eleganza di Virgilio, e degli altri più eccellenti poeti,nulla in lui si scorge di grande, d'immaginoso, di pateti-co; ma ogni cosa è mediocre, e ove si vede arte e studio,vedesi al medesimo tempo difficoltà e stento; difetto chesempre è stato, e sarà sempre proprio di tutti quelli chepensano che ad esser poeta basti il volerlo.

XVI. Da' poeti epici passiamo omai agli al-tri; e per uscir presto da un intralciato spi-naio, diamo il primo luogo a Petronio Ar-bitro di cui abbiamo una cotal Satira me-nippea, cioè scritta in prosa mista a quandoa quando con versi di varj metri. Non vi è

forse autore su cui tanto siasi scritto, singolarmente da'Francesi e da' Tedeschi. Ma benchè tanto siasi scritto,

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Grandi con-troversie in-torno a Pe-tronio e alla sua Satira.

Silio al contrario uomo di grande studio, ma di mediocreingegno, ci ha lasciato un poema in cui non vedesi alcu-no di tai difetti ma solo una languidezza spossata, e uncontinuo ma impotente sforzo a levarsi in alto. Quindi iopenso che niuno meglio di Plinio ci abbia espresso il ca-rattere vero di Silio, dicendo che egli scribebat carminamaiore cura quam ingenio (ep. cit.). Noi abbiam dunquein Silio l'idea di uno che, non essendo fatto dalla naturaper esser poeta, a dispetto nondimeno della natura vuolpoetare, e si lusinga di poter giungere collo studio ecoll'arte, ove non può coll'ingegno. Quindi, oltrechè lostile in lui ancora si vede, come negli altri scrittori diquesta età, aver già alquanto d'incolto, e privo della faci-le eleganza di Virgilio, e degli altri più eccellenti poeti,nulla in lui si scorge di grande, d'immaginoso, di pateti-co; ma ogni cosa è mediocre, e ove si vede arte e studio,vedesi al medesimo tempo difficoltà e stento; difetto chesempre è stato, e sarà sempre proprio di tutti quelli chepensano che ad esser poeta basti il volerlo.

XVI. Da' poeti epici passiamo omai agli al-tri; e per uscir presto da un intralciato spi-naio, diamo il primo luogo a Petronio Ar-bitro di cui abbiamo una cotal Satira me-nippea, cioè scritta in prosa mista a quandoa quando con versi di varj metri. Non vi è

forse autore su cui tanto siasi scritto, singolarmente da'Francesi e da' Tedeschi. Ma benchè tanto siasi scritto,

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Grandi con-troversie in-torno a Pe-tronio e alla sua Satira.

sappiam noi ancora di certo chi fosse questo scrittore? Aqual età ei vivesse? Chi prendesse di mira co' nomi fintied allegorici nella sua Satira usati? Fu egli romano, ov-vero di Marsilia? È egli quel desso di cui parla Tacito, oè un altro? I frammenti nello scorso secolo ritrovati soneglino veramente dell'autor medesimo della Satira, o sonsupposti? Ecco quante quistioni ci si fanno innanzi in-torno a Petronio, esaminate da molti dotti scrittori, ep-pure non ancora decise, per tal maniera che molti non sirimangano tuttor dubbiosi a qual partito appigliarsi. Maprima di entrare in alcuna di tai quistioni, mi sia lecito ilproporne un'altra. È egli oggetto di sì grande importanzail sapere ciò che appartiene all'autor di quest'opera? Uncomponimento di cui, per quanto sembra, appena unapiccola parte ci è pervenuta, e questa ancor così tronca emalconcia, che spesso si trova rotto a mezzo il racconto,e invano si cerca in molti luoghi di coglierne il senti-mento; un componimento scritto (io non temerò di dirlo,sicuro di aver seguace della mia opinione chiunque hagusto di buona latinità) scritto, dico, in uno stile che,benchè da alcuni si dica terso e grazioso, e il sia vera-mente talvolta, certo è nondimeno che ossia per difettodell'autore, o per trascuraggine de' copisti, è spessooscuro, barbaro ed intralciato, e pieno di parole e diespressioni che nè sono conformi allo stile de' buoni au-tori, nè, per quanto vi abbian sudato intorno i laboriosicomentatori, si possono acconciamente spiegare; uncomponimento in cui comunque abbiano alcuni pretesodi scoprire i personaggi sotto nomi finti da Petronio

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sappiam noi ancora di certo chi fosse questo scrittore? Aqual età ei vivesse? Chi prendesse di mira co' nomi fintied allegorici nella sua Satira usati? Fu egli romano, ov-vero di Marsilia? È egli quel desso di cui parla Tacito, oè un altro? I frammenti nello scorso secolo ritrovati soneglino veramente dell'autor medesimo della Satira, o sonsupposti? Ecco quante quistioni ci si fanno innanzi in-torno a Petronio, esaminate da molti dotti scrittori, ep-pure non ancora decise, per tal maniera che molti non sirimangano tuttor dubbiosi a qual partito appigliarsi. Maprima di entrare in alcuna di tai quistioni, mi sia lecito ilproporne un'altra. È egli oggetto di sì grande importanzail sapere ciò che appartiene all'autor di quest'opera? Uncomponimento di cui, per quanto sembra, appena unapiccola parte ci è pervenuta, e questa ancor così tronca emalconcia, che spesso si trova rotto a mezzo il racconto,e invano si cerca in molti luoghi di coglierne il senti-mento; un componimento scritto (io non temerò di dirlo,sicuro di aver seguace della mia opinione chiunque hagusto di buona latinità) scritto, dico, in uno stile che,benchè da alcuni si dica terso e grazioso, e il sia vera-mente talvolta, certo è nondimeno che ossia per difettodell'autore, o per trascuraggine de' copisti, è spessooscuro, barbaro ed intralciato, e pieno di parole e diespressioni che nè sono conformi allo stile de' buoni au-tori, nè, per quanto vi abbian sudato intorno i laboriosicomentatori, si possono acconciamente spiegare; uncomponimento in cui comunque abbiano alcuni pretesodi scoprire i personaggi sotto nomi finti da Petronio

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adombrati, ci è forza nondimeno di confessare che nonsi sa, nè s'intende per alcun modo che cosa abbia eglimai preteso in particolare di rappresentarci; un compo-nimento per ultimo, che non è quasi altro che un im-mondo quadro di bassezze, di sozzure, d'oscenità, meri-tava egli che tanti uomini dotti vi si adoperasser attornocotanto studiosamente? Io credo certo che se l'opera diPetronio, quale ci è giunta, avesse trattato di un argo-mento modesto e serio, ella sarebbe stata affatto dimen-ticata. Ma certe dipinture piacciono ad alcuni per ciòsolo che sono laide ed oscene. Ciò che in questo vi ha dipiù leggiadro si è che il celebre Pietro Burmanno, ilquale ha giudicato d'impiegar bene le sue fatiche in dar-ci la più splendida edizion di Petronio, che ancor si fos-se veduta, si scaglia con maligne e, dirò ancora, immo-deste invettive contro gli antichi monaci, i quali, eglidice, per soddisfare alla furiosa loro libidine si occupa-rono di estrarre i più sozzi passi del libro di Petronio,che sono appunto, soggiugne egli, i frammenti di questoscrittore a noi pervenuti. Ma poscia non molto dopo eglichiama Petronio "uomo santissimo, zelantissimodell'onestà degli antichi Romani, e che a spiegare il li-bertinaggio de' suoi tempi usa di espressioni allegoricheed onestissime." Or se Petronio è uno scrittor sì pudico,perchè rimproverare a' monaci l'averne moltiplicati gliesemplari? E se il Burmanno forma un sì reo giudizio diquesti, perchè si occuparono in copiare Petronio, chedovrà dirsi di lui che con una splendida edizione e conampj comenti lo ha messo in sì gran luce?

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adombrati, ci è forza nondimeno di confessare che nonsi sa, nè s'intende per alcun modo che cosa abbia eglimai preteso in particolare di rappresentarci; un compo-nimento per ultimo, che non è quasi altro che un im-mondo quadro di bassezze, di sozzure, d'oscenità, meri-tava egli che tanti uomini dotti vi si adoperasser attornocotanto studiosamente? Io credo certo che se l'opera diPetronio, quale ci è giunta, avesse trattato di un argo-mento modesto e serio, ella sarebbe stata affatto dimen-ticata. Ma certe dipinture piacciono ad alcuni per ciòsolo che sono laide ed oscene. Ciò che in questo vi ha dipiù leggiadro si è che il celebre Pietro Burmanno, ilquale ha giudicato d'impiegar bene le sue fatiche in dar-ci la più splendida edizion di Petronio, che ancor si fos-se veduta, si scaglia con maligne e, dirò ancora, immo-deste invettive contro gli antichi monaci, i quali, eglidice, per soddisfare alla furiosa loro libidine si occupa-rono di estrarre i più sozzi passi del libro di Petronio,che sono appunto, soggiugne egli, i frammenti di questoscrittore a noi pervenuti. Ma poscia non molto dopo eglichiama Petronio "uomo santissimo, zelantissimodell'onestà degli antichi Romani, e che a spiegare il li-bertinaggio de' suoi tempi usa di espressioni allegoricheed onestissime." Or se Petronio è uno scrittor sì pudico,perchè rimproverare a' monaci l'averne moltiplicati gliesemplari? E se il Burmanno forma un sì reo giudizio diquesti, perchè si occuparono in copiare Petronio, chedovrà dirsi di lui che con una splendida edizione e conampj comenti lo ha messo in sì gran luce?

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XVII. Io penso dunque che non sia pregiodell'opera il disputar tanto su questo argo-mento. Nondimeno perchè il passar oltre,

senza trattenermi punto su di esso, potrebbe parere in-giurioso disprezzo delle fatiche di tanti valentuominiche ne hanno scritto, accennerò in breve ciò che appar-tiene alle quistioni di sopra accennate. Esse dipendonoin gran parte di un passo di Tacito. Questi parla di un C.Petronio (l. 16 Ann. c. 18, ec.) di cui forma il caratterecome d'uomo dato interamente a' piaceri, ma di una ma-niera più fina e più dilicata che la più parte de' Romani aquel tempo: "Illi dies per somnum, non officiis et oblec-tamentis vitae transigebatur. Utque alios industria, itahunc ignavia ad famam protulerat; habebaturque nonganeo et profligator, ut plerique sua haurientium, sederudito luxu": di lui prosiegue a dire "che fatto procon-sole della Bitinia, e poscia console, mostrò vigore e abi-lità nell'amministrazion degli affari; che gittatosi posciadi nuovo a' vizj e all'imitazione de' costumi della corte,fu da Nerone ricevuto tra' pochi suoi famigliari, e fattosoprintendente a' piaceri, poichè Nerone niuna cosa ri-putava dilettevole e dolce se non l'avesse approvata Pe-tronio". Questo è il carattere che di Petronio ci ha lascia-to Tacito, a cui veggasi quanto sia conforme quello chea suo talento ne ha formato l'altre volte mentovato ab.Longchamps (Tabl. hist. des gens de lettr. t. 1, p. 75), ilquale fondato su questo stesso passo di Tacito ci rappre-senta Petronio come uomo che sapesse unire lo studio a'piaceri, e che in questi non oltrepassasse mai i confini

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Chi egli fosse.

XVII. Io penso dunque che non sia pregiodell'opera il disputar tanto su questo argo-mento. Nondimeno perchè il passar oltre,

senza trattenermi punto su di esso, potrebbe parere in-giurioso disprezzo delle fatiche di tanti valentuominiche ne hanno scritto, accennerò in breve ciò che appar-tiene alle quistioni di sopra accennate. Esse dipendonoin gran parte di un passo di Tacito. Questi parla di un C.Petronio (l. 16 Ann. c. 18, ec.) di cui forma il caratterecome d'uomo dato interamente a' piaceri, ma di una ma-niera più fina e più dilicata che la più parte de' Romani aquel tempo: "Illi dies per somnum, non officiis et oblec-tamentis vitae transigebatur. Utque alios industria, itahunc ignavia ad famam protulerat; habebaturque nonganeo et profligator, ut plerique sua haurientium, sederudito luxu": di lui prosiegue a dire "che fatto procon-sole della Bitinia, e poscia console, mostrò vigore e abi-lità nell'amministrazion degli affari; che gittatosi posciadi nuovo a' vizj e all'imitazione de' costumi della corte,fu da Nerone ricevuto tra' pochi suoi famigliari, e fattosoprintendente a' piaceri, poichè Nerone niuna cosa ri-putava dilettevole e dolce se non l'avesse approvata Pe-tronio". Questo è il carattere che di Petronio ci ha lascia-to Tacito, a cui veggasi quanto sia conforme quello chea suo talento ne ha formato l'altre volte mentovato ab.Longchamps (Tabl. hist. des gens de lettr. t. 1, p. 75), ilquale fondato su questo stesso passo di Tacito ci rappre-senta Petronio come uomo che sapesse unire lo studio a'piaceri, e che in questi non oltrepassasse mai i confini

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Chi egli fosse.

della grazia e della delicatezza. Il favore di cui godevaPetronio presso Nerone, risvegliò l'invidia di Tigellino,come siegue a narrare Tacito, da cui fu accusato comecomplice di congiura. Petronio, avutane contezza, presela risoluzione frequente allor tra' Romani di uccidersi; esegossi le vene, ma per modo che fermando di tanto intanto il sangue, ed affettando fermezza d'animo inaltera-bile, dava ordini a' suoi servi, passeggiava, dormiva,prolungandosi a suo piacere la vita, cui poteva ad ognimomento dir fine. "Anzi in quell'estremo, conchiude Ta-cito, ei descrisse i delitti dell'imperadore co' nomi de'giovani e delle donne infami, e colle nuove maniered'oscenità introdotte, e sigillato lo scritto mandollo aNerone". Questo passo di Tacito ha fatto credere ad al-cuni che il Petronio di cui qui si ragiona, sia l'autor dellaSatira di cui noi favelliamo; che questo fosse lo scrittoch'ei morendo compose e mandò all'imperadore; chesotto il nome di Trimalcione s'intenda Nerone, Senecasotto quello del pedante Agamennone, e così altri corti-giani sotto altri nomi. Egli è però falso ciò che franca-mente asserisce m. de Voltaire (Des Mensong. Imprim.c. 2) che tale sia stata sempre e tal sia ancora l'opinionedi tutti. Lo stesso Burmanno, e assai prima di lui il cele-bre Ottavio Ferrari (l. 1, Elect. c. 7), ed altri pensaronodiversamente, e vollero che il Petronio autor della Satiravivesse a' tempi di Claudio, e che questi venisse da luiadombrato e deriso sotto il nome di Trimalcione. E certole cose che a questo si attribuiscono, assai meglio con-vengono a Claudio vecchio, imbecille, affettatore di eru-

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della grazia e della delicatezza. Il favore di cui godevaPetronio presso Nerone, risvegliò l'invidia di Tigellino,come siegue a narrare Tacito, da cui fu accusato comecomplice di congiura. Petronio, avutane contezza, presela risoluzione frequente allor tra' Romani di uccidersi; esegossi le vene, ma per modo che fermando di tanto intanto il sangue, ed affettando fermezza d'animo inaltera-bile, dava ordini a' suoi servi, passeggiava, dormiva,prolungandosi a suo piacere la vita, cui poteva ad ognimomento dir fine. "Anzi in quell'estremo, conchiude Ta-cito, ei descrisse i delitti dell'imperadore co' nomi de'giovani e delle donne infami, e colle nuove maniered'oscenità introdotte, e sigillato lo scritto mandollo aNerone". Questo passo di Tacito ha fatto credere ad al-cuni che il Petronio di cui qui si ragiona, sia l'autor dellaSatira di cui noi favelliamo; che questo fosse lo scrittoch'ei morendo compose e mandò all'imperadore; chesotto il nome di Trimalcione s'intenda Nerone, Senecasotto quello del pedante Agamennone, e così altri corti-giani sotto altri nomi. Egli è però falso ciò che franca-mente asserisce m. de Voltaire (Des Mensong. Imprim.c. 2) che tale sia stata sempre e tal sia ancora l'opinionedi tutti. Lo stesso Burmanno, e assai prima di lui il cele-bre Ottavio Ferrari (l. 1, Elect. c. 7), ed altri pensaronodiversamente, e vollero che il Petronio autor della Satiravivesse a' tempi di Claudio, e che questi venisse da luiadombrato e deriso sotto il nome di Trimalcione. E certole cose che a questo si attribuiscono, assai meglio con-vengono a Claudio vecchio, imbecille, affettatore di eru-

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dizione, attorniato da schiavi, che non a Nerone giovanee di un carattere totalmente diverso. Innoltre come maipuò credersi che un uomo vicino a morte, e già indeboli-to dalla perdita di qualche parte di sangue, potesse scri-vere un sì lungo componimento, qual è questa Satira, equal sarebbe assai più, se l'avessimo intera? Aggiungasiche il libro che, secondo Tacito, Petronio inviò a Nero-ne, spiegava i nomi dei complici dei suoi delitti; e nellaSatira di cui parliamo, i nomi son tutti finti. Per questeragioni che ampiamente si svolgono dal Burmanno, cre-desi da molti che il Petronio di Tacito sia diversodall'autore di questa Satira, e che questi vivesse a' tempidi Claudio (9).

XVIII. Nè queste sono le sole sentenze in-torno all'età di Petronio. Adriano Valesiopensa ch'ei vivesse a' tempi degli Antonini

(Diss. de Coena Trimalc. ec.), e accenna insieme cheArrigo Valesio suo fratello stimava che questo autorefosse fiorito al tempo medesimo di Gallieno. Non moltodiverso è il parere del Bourdelot (praef. ad Petron. ed.

9 Mi spiace di non aver potuto vedere l'opera dell'erudito sig. Ignarra DellaPalestra Napolitana, in cui, come accenna il sig. Pietro Napoli Signorelli(Vicende della Coltura delle due Sicilie. t. 1, p. 190, ec.), ei conferma l'opi-nione che Petronio Arbitro fiorisse a' tempi degli Antonini, e inoltre ab-bracciando l'opinione del Burmanno, che finto sia il nome di questo scrit-tore per la vergogna ch'ebbe il vero autore di un sì licenzioso scritto a farsiconoscere, e osservando alcune formole e idiotismi napoletani che vi sonosparsi per entro, ne congettura che, chiunque ne fosse l'autore, egli o aves-se per patria Napoli, o vi fosse lungamente vissuto.

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A qual tem-po vivesse.

dizione, attorniato da schiavi, che non a Nerone giovanee di un carattere totalmente diverso. Innoltre come maipuò credersi che un uomo vicino a morte, e già indeboli-to dalla perdita di qualche parte di sangue, potesse scri-vere un sì lungo componimento, qual è questa Satira, equal sarebbe assai più, se l'avessimo intera? Aggiungasiche il libro che, secondo Tacito, Petronio inviò a Nero-ne, spiegava i nomi dei complici dei suoi delitti; e nellaSatira di cui parliamo, i nomi son tutti finti. Per questeragioni che ampiamente si svolgono dal Burmanno, cre-desi da molti che il Petronio di Tacito sia diversodall'autore di questa Satira, e che questi vivesse a' tempidi Claudio (9).

XVIII. Nè queste sono le sole sentenze in-torno all'età di Petronio. Adriano Valesiopensa ch'ei vivesse a' tempi degli Antonini

(Diss. de Coena Trimalc. ec.), e accenna insieme cheArrigo Valesio suo fratello stimava che questo autorefosse fiorito al tempo medesimo di Gallieno. Non moltodiverso è il parere del Bourdelot (praef. ad Petron. ed.

9 Mi spiace di non aver potuto vedere l'opera dell'erudito sig. Ignarra DellaPalestra Napolitana, in cui, come accenna il sig. Pietro Napoli Signorelli(Vicende della Coltura delle due Sicilie. t. 1, p. 190, ec.), ei conferma l'opi-nione che Petronio Arbitro fiorisse a' tempi degli Antonini, e inoltre ab-bracciando l'opinione del Burmanno, che finto sia il nome di questo scrit-tore per la vergogna ch'ebbe il vero autore di un sì licenzioso scritto a farsiconoscere, e osservando alcune formole e idiotismi napoletani che vi sonosparsi per entro, ne congettura che, chiunque ne fosse l'autore, egli o aves-se per patria Napoli, o vi fosse lungamente vissuto.

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A qual tem-po vivesse.

Paris. 1677) che fissa l'età di Petronio non molto innan-zi a Costantino, certo assai dopo Severo: del qual senti-mento è ancor Marino Statilio (Apolog. pro fragm. Tra-gur.) di cui frappoco ragioneremo, e Giovanni le Clercche con molte ragioni il comprova (Bibl. Chois. t. 14, p.351), e con uno stile pungente assai e satirico rigetta lacontraria opinione del Burmanno, poichè tra questi dueletterati fu per lungo tempo implacabile guerra, comedalle loro opere si raccoglie, nelle quali comunementel'un contro l'altro si scaglia con ingiurie e motteggi trop-po più che ad onesti e saggi scrittori non si convenga.Or tutti questi sostenitori di sì contrarj pareri hanno lelor ragioni a cui appoggiarsi, e a ciascheduno sembranchiare e convincenti le sue, improbabili le altrui. A menon pare possibile l'accertar cosa alcuna, e solo osservoche il silenzio degli antichi autori, niun de' quali primadel terzo secolo ha fatta menzion di quest'opera, e lo sti-le stesso di Petronio, rendono a mio parere più probabilel'opinion di coloro che ritardan di molto l'età di questoscrittore. Ciò non ostante io l'ho posto tra gli scrittori diquesta età, perchè tra essi comunemente egli suole averluogo.

XIX. Questionasi ancora di qual patria eglifosse, se romano, o francese. I Maurini(Hist. Litt. de la France t. 1, § 1, p. 186) e ilfedel lor seguace l'ab. Longchamps (l. c.)

con alcuni altri il vogliono francese, fondati sull'autorità

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Se fosse ro-mano, o francese.

Paris. 1677) che fissa l'età di Petronio non molto innan-zi a Costantino, certo assai dopo Severo: del qual senti-mento è ancor Marino Statilio (Apolog. pro fragm. Tra-gur.) di cui frappoco ragioneremo, e Giovanni le Clercche con molte ragioni il comprova (Bibl. Chois. t. 14, p.351), e con uno stile pungente assai e satirico rigetta lacontraria opinione del Burmanno, poichè tra questi dueletterati fu per lungo tempo implacabile guerra, comedalle loro opere si raccoglie, nelle quali comunementel'un contro l'altro si scaglia con ingiurie e motteggi trop-po più che ad onesti e saggi scrittori non si convenga.Or tutti questi sostenitori di sì contrarj pareri hanno lelor ragioni a cui appoggiarsi, e a ciascheduno sembranchiare e convincenti le sue, improbabili le altrui. A menon pare possibile l'accertar cosa alcuna, e solo osservoche il silenzio degli antichi autori, niun de' quali primadel terzo secolo ha fatta menzion di quest'opera, e lo sti-le stesso di Petronio, rendono a mio parere più probabilel'opinion di coloro che ritardan di molto l'età di questoscrittore. Ciò non ostante io l'ho posto tra gli scrittori diquesta età, perchè tra essi comunemente egli suole averluogo.

XIX. Questionasi ancora di qual patria eglifosse, se romano, o francese. I Maurini(Hist. Litt. de la France t. 1, § 1, p. 186) e ilfedel lor seguace l'ab. Longchamps (l. c.)

con alcuni altri il vogliono francese, fondati sull'autorità

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Se fosse ro-mano, o francese.

di Sidonio Apollinare, il quale di lui parlando così dice,secondochè questo passo si legge da Enrico Valesio: Et te Massilensium per hortos Graii cespitis, Arbiter, colonum Hellespontiaco parem Priapo (Carm. 23.)

Francese parimenti il vuole lo Spon (Miscell. Erud. p.208) ma sull'autorità di una lapide scoperta l'an. 1560crede ch'ei fosse nativo di un villaggio della diocesi diSisteron detto Petruis, latinamente Vicus Petronis. Iopenso che l'una e l'altra sentenza non sia così facile aprovarsi, come sembra a' sostenitori di essa; e, nonostante l'autorità di Sidonio e la lapida dello Spon, moltivogliono che Petronio fosse romano. Romana certamen-te era la famiglia de' Petronj, e se il nostro scrittore nac-que nelle Gallie, ciò dovett'essere o a caso, o per alcunode' suoi maggiori colà trasportato (10).

XX. Rimane a dir qualche cosa de' fram-menti di Petronio. L'opera di questo scritto-re era tronca, imperfetta, e ad ogni passomancante. Marino Statilio trovò a Traw inDalmazia sua patria un assai lungo fram-

mento in cui tutta descrivesi la cena di Trimalcione, e

10 Il ch. co. Giovio ricorda una lapide trovata presso Como, in cui si fa men-zione di un Petronio, e vuol perciò, che qualche diritto abbiano ancora iComaschi ad annoverar tra loro questo scrittore (Gli uomini III. Comaschip. 176). Qualunque sia questo diritto, esso sarà forse di ugual peso a quelloche altre città posson recare in lor favore.

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Suoi fram-menti da chi trovati epubblicati.

di Sidonio Apollinare, il quale di lui parlando così dice,secondochè questo passo si legge da Enrico Valesio: Et te Massilensium per hortos Graii cespitis, Arbiter, colonum Hellespontiaco parem Priapo (Carm. 23.)

Francese parimenti il vuole lo Spon (Miscell. Erud. p.208) ma sull'autorità di una lapide scoperta l'an. 1560crede ch'ei fosse nativo di un villaggio della diocesi diSisteron detto Petruis, latinamente Vicus Petronis. Iopenso che l'una e l'altra sentenza non sia così facile aprovarsi, come sembra a' sostenitori di essa; e, nonostante l'autorità di Sidonio e la lapida dello Spon, moltivogliono che Petronio fosse romano. Romana certamen-te era la famiglia de' Petronj, e se il nostro scrittore nac-que nelle Gallie, ciò dovett'essere o a caso, o per alcunode' suoi maggiori colà trasportato (10).

XX. Rimane a dir qualche cosa de' fram-menti di Petronio. L'opera di questo scritto-re era tronca, imperfetta, e ad ogni passomancante. Marino Statilio trovò a Traw inDalmazia sua patria un assai lungo fram-

mento in cui tutta descrivesi la cena di Trimalcione, e

10 Il ch. co. Giovio ricorda una lapide trovata presso Como, in cui si fa men-zione di un Petronio, e vuol perciò, che qualche diritto abbiano ancora iComaschi ad annoverar tra loro questo scrittore (Gli uomini III. Comaschip. 176). Qualunque sia questo diritto, esso sarà forse di ugual peso a quelloche altre città posson recare in lor favore.

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Suoi fram-menti da chi trovati epubblicati.

alle preghiere di molti pubblicollo in Padova l'an. 1664;e nell'anno stesso fu ristampato in Parigi. Ed ecco levar-si subito un furioso contrasto sull'autenticità di taleframmento. Adriano Valesio, Gian Cristoforo Wagen-seil, ed altri di minor nome gridarono all'impostura, oall'errore. Lo Statilio valorosamente sostenne la sua cau-sa. Il manoscritto fu esaminato da molti eruditi e inRoma e in Francia, e fu riconosciuto per antico e since-ro, e il Montfaucon che, com'egli stesso racconta (Bibl.Bibliothecar. t. 2, p. 758), ne fece acquisto per la biblio-teca del re di Francia, afferma non potersi di ciò dubita-re. In fatti l'opinion comune al presente è favorevole alparere dello Statilio. Io non so ove abbian trovato iMaurini (l. c. p. 199) (i quali per altro diligentementeassai hanno trattato di tutto ciò che a Petronio appartie-ne), che il ritrovatore di questo frammento fu m. Petit, ilquale sotto il nome si ascose di Marino Satilio. Io trovobensì nel Fabricio (Bibl. lat. t. 1, p. 463.), che l'apologiapubblicata da Marino Statilio da alcuni si crede pure diStefano Gradi, da altri di Pietro Petit; il che pure si ac-cenna dal Placcio (Bibl. Pseudonym. p. 574). Ma che ilPetit e non lo Statilio ritrovasse il detto frammento, nè idue or mentovati autori, nè il Montfaucon (l. c.), nè m.Clement (Journ. des Sav. 1703, p. 534), nè il Burmanno(praef. in Petron.), nè alcun altro scrittore, ch'io sappia,non lo ha asserito. Le operette scritte contro e a favoredi questo frammento sono state unite insieme e pubbli-cate nella sua edizione dal sopraccitato Burmanno.

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alle preghiere di molti pubblicollo in Padova l'an. 1664;e nell'anno stesso fu ristampato in Parigi. Ed ecco levar-si subito un furioso contrasto sull'autenticità di taleframmento. Adriano Valesio, Gian Cristoforo Wagen-seil, ed altri di minor nome gridarono all'impostura, oall'errore. Lo Statilio valorosamente sostenne la sua cau-sa. Il manoscritto fu esaminato da molti eruditi e inRoma e in Francia, e fu riconosciuto per antico e since-ro, e il Montfaucon che, com'egli stesso racconta (Bibl.Bibliothecar. t. 2, p. 758), ne fece acquisto per la biblio-teca del re di Francia, afferma non potersi di ciò dubita-re. In fatti l'opinion comune al presente è favorevole alparere dello Statilio. Io non so ove abbian trovato iMaurini (l. c. p. 199) (i quali per altro diligentementeassai hanno trattato di tutto ciò che a Petronio appartie-ne), che il ritrovatore di questo frammento fu m. Petit, ilquale sotto il nome si ascose di Marino Satilio. Io trovobensì nel Fabricio (Bibl. lat. t. 1, p. 463.), che l'apologiapubblicata da Marino Statilio da alcuni si crede pure diStefano Gradi, da altri di Pietro Petit; il che pure si ac-cenna dal Placcio (Bibl. Pseudonym. p. 574). Ma che ilPetit e non lo Statilio ritrovasse il detto frammento, nè idue or mentovati autori, nè il Montfaucon (l. c.), nè m.Clement (Journ. des Sav. 1703, p. 534), nè il Burmanno(praef. in Petron.), nè alcun altro scrittore, ch'io sappia,non lo ha asserito. Le operette scritte contro e a favoredi questo frammento sono state unite insieme e pubbli-cate nella sua edizione dal sopraccitato Burmanno.

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XXI. Non ugualmente felice fu la scopertadi Francesco Nodot. Questi credette, o mo-strò di credere che un certo Dupin nellaespugnazion di Belgrado l'an. 1688 avesse

trovato un codice manoscritto intero e perfetto dell'ope-ra di Petronio, ed avutolo nelle mani col consiglio di al-cuni amici affrettossi a pubblicarlo; nè di ciò contento iltradusse in francese, e col testo latino a canto il die' allestampe l'an. 1694 colla data di Colonia, che fu poi se-guita da altre edizioni. Ma questo nuovo codice fu pocofavorevolmente accolto; e appena vi ebbe chi nol cre-desse supposto. M. Breugiere de Barante pubblicò, sen-za palesare il suo nome, alcune osservazioni contro diesso; e il Nodot con molto calore scrisse in sua difesa.Ma egli non potè persuadere alcuno; e non vi ha al pre-sente chi non pensi il ritrovamento del codice di Belgra-do essere stato una pura finzione. Chi bramasse intornoa tutto ciò più esatte notizie, potrà vedere gli autoripoc'anzi da noi citati, e inoltre la Biblioteca Francesedell'ab. Goujet (t. 6, p. 196), e le Memorie dell'ab.d'Artigny che di ciò che accadde intorno a' frammenti dim. Nodot, parla assai diligentemente (t. 1, p. 346). A mepare di essermi su questo autor trattenuto più ancora chenon facea di mestieri.

XXII. Più brevemente avremo a favellare diAulo Persio Flacco, perchè più certe son lenotizie che di lui abbiamo. Una Vita di que-

169

Altri pretesiframmenti scoperti.

Notizie di Persio.

XXI. Non ugualmente felice fu la scopertadi Francesco Nodot. Questi credette, o mo-strò di credere che un certo Dupin nellaespugnazion di Belgrado l'an. 1688 avesse

trovato un codice manoscritto intero e perfetto dell'ope-ra di Petronio, ed avutolo nelle mani col consiglio di al-cuni amici affrettossi a pubblicarlo; nè di ciò contento iltradusse in francese, e col testo latino a canto il die' allestampe l'an. 1694 colla data di Colonia, che fu poi se-guita da altre edizioni. Ma questo nuovo codice fu pocofavorevolmente accolto; e appena vi ebbe chi nol cre-desse supposto. M. Breugiere de Barante pubblicò, sen-za palesare il suo nome, alcune osservazioni contro diesso; e il Nodot con molto calore scrisse in sua difesa.Ma egli non potè persuadere alcuno; e non vi ha al pre-sente chi non pensi il ritrovamento del codice di Belgra-do essere stato una pura finzione. Chi bramasse intornoa tutto ciò più esatte notizie, potrà vedere gli autoripoc'anzi da noi citati, e inoltre la Biblioteca Francesedell'ab. Goujet (t. 6, p. 196), e le Memorie dell'ab.d'Artigny che di ciò che accadde intorno a' frammenti dim. Nodot, parla assai diligentemente (t. 1, p. 346). A mepare di essermi su questo autor trattenuto più ancora chenon facea di mestieri.

XXII. Più brevemente avremo a favellare diAulo Persio Flacco, perchè più certe son lenotizie che di lui abbiamo. Una Vita di que-

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Altri pretesiframmenti scoperti.

Notizie di Persio.

sto poeta leggesi tra l'opere di Svetonio: da altri nondi-meno ad altri si attribuisce; e Gian Giorgio Schelhornioha pubblicata (Amoen. Liter. t. 10, p. 1103) un'eruditadissertazione di Gian-Jacopo Breitingero, il quale so-stiene e con assai buone ragioni dimostra l'autore diquesta vita essere un antico interprete di Persio, che daaltri si dice Cornuto, da altri Probo. Il presidente Bou-hier nelle note aggiunte alla citata dissertazione sospettach'ella possa essere di Acrone a cui l'antico comento diPersio si attribuisce da alcuni. Cecchè sia di ciò, da essanoi ricaviamo ch'ei nacque in Volterra d'illustre fami-glia; che visse congiunto in amicizia co' più celebri uo-mini de' suoi giorni; che Lucano singolarmente tanto loammirava, che udendone i versi appena potea contenersidall'esclamar per applauso; che Seneca solamente negliultimi anni da Persio fu conosciuto, ma che questi nonne era, come la più parte degli altri, troppo passionatoammiratore; che fu giovane di soavi costumi, di leggia-dro aspetto, di verginale modestia, e fornito di tutte lepiù amabili doti; e che finalmente morì in età di solitrent'anni. Ma in questa epoca come hanno osservato imentovati scrittori, e più lungamente il Bayle (Dict. art."Perse"), lo scrittor della Vita si contradice; perchè eglinarra che Persio nacque a' 4 di dicembre nel consolatodi Fulvio Persico e di Lucio Vitellio, che fu l'annodell'era nostra volgare 34, e morì a' 24 novembre nelconsolato di Rubrio ossia Publio Mario e di Asinio Gal-lo, che fu l'an. 62, e perciò alcuni giorni ancora manca-vangli a compire il ventottesimo anno. Oltre alcuni altri

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sto poeta leggesi tra l'opere di Svetonio: da altri nondi-meno ad altri si attribuisce; e Gian Giorgio Schelhornioha pubblicata (Amoen. Liter. t. 10, p. 1103) un'eruditadissertazione di Gian-Jacopo Breitingero, il quale so-stiene e con assai buone ragioni dimostra l'autore diquesta vita essere un antico interprete di Persio, che daaltri si dice Cornuto, da altri Probo. Il presidente Bou-hier nelle note aggiunte alla citata dissertazione sospettach'ella possa essere di Acrone a cui l'antico comento diPersio si attribuisce da alcuni. Cecchè sia di ciò, da essanoi ricaviamo ch'ei nacque in Volterra d'illustre fami-glia; che visse congiunto in amicizia co' più celebri uo-mini de' suoi giorni; che Lucano singolarmente tanto loammirava, che udendone i versi appena potea contenersidall'esclamar per applauso; che Seneca solamente negliultimi anni da Persio fu conosciuto, ma che questi nonne era, come la più parte degli altri, troppo passionatoammiratore; che fu giovane di soavi costumi, di leggia-dro aspetto, di verginale modestia, e fornito di tutte lepiù amabili doti; e che finalmente morì in età di solitrent'anni. Ma in questa epoca come hanno osservato imentovati scrittori, e più lungamente il Bayle (Dict. art."Perse"), lo scrittor della Vita si contradice; perchè eglinarra che Persio nacque a' 4 di dicembre nel consolatodi Fulvio Persico e di Lucio Vitellio, che fu l'annodell'era nostra volgare 34, e morì a' 24 novembre nelconsolato di Rubrio ossia Publio Mario e di Asinio Gal-lo, che fu l'an. 62, e perciò alcuni giorni ancora manca-vangli a compire il ventottesimo anno. Oltre alcuni altri

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componimenti che dallo scrittor della Vita son rammen-tati, esercitossi singolarmente nello scrivere satire, lequali sole ci son pervenute. Tutto ciò abbiamo dalloscrittore antico della Vita di Persio. Io so che altri dannoaltra patria a Persio, e il voglion nativo della Liguria; suche è a vedersi singolarmente una dissertazione del p.Angelico Aprosio stampata in Genova nel 1664, oltre leOpere di Rafaello Soprani e del p. Oldoini intorno agliscrittori della Liguria. Ma un'opinione che non sia soste-nuta se non da coloro a' quali è onorevole e vantaggiosoil sostenerla, raro è che abbia in suo favore valevoli ar-gomenti. Intorno ad altre particolarità della vita di Per-sio veggasi il citato articolo del Bayle che ne ragiona,secondo suo costume, ingegnosamente non meno chelungamente.

XXIII. L'amicizia de' più dotti uomini, dicui Persio godeva, e la stima in cui l'aveaLucano, ci fa conoscere agevolmente chePersio aveasi in conto di valoroso poeta.Quintiliano ancora ne parla con molta lode.

"Molto di vera gloria, dic'egli (l. 10, c. 1), si acquistòPersio, benchè con un libro solo". Marziale ancora neparla come di poeta assai rinomato (l. 4, epigr. 29); el'antico gramatico Valerio Probo racconta che appena leSatire di Persio si fecer pubbliche, furono ammirate ecercate a gara. Ma tra' moderni pochi son quelli che lo-din Persio, e i due Scaligeri singolarmente ne han detto

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Sue Satire in qual pre-gio debba-no aversi.

componimenti che dallo scrittor della Vita son rammen-tati, esercitossi singolarmente nello scrivere satire, lequali sole ci son pervenute. Tutto ciò abbiamo dalloscrittore antico della Vita di Persio. Io so che altri dannoaltra patria a Persio, e il voglion nativo della Liguria; suche è a vedersi singolarmente una dissertazione del p.Angelico Aprosio stampata in Genova nel 1664, oltre leOpere di Rafaello Soprani e del p. Oldoini intorno agliscrittori della Liguria. Ma un'opinione che non sia soste-nuta se non da coloro a' quali è onorevole e vantaggiosoil sostenerla, raro è che abbia in suo favore valevoli ar-gomenti. Intorno ad altre particolarità della vita di Per-sio veggasi il citato articolo del Bayle che ne ragiona,secondo suo costume, ingegnosamente non meno chelungamente.

XXIII. L'amicizia de' più dotti uomini, dicui Persio godeva, e la stima in cui l'aveaLucano, ci fa conoscere agevolmente chePersio aveasi in conto di valoroso poeta.Quintiliano ancora ne parla con molta lode.

"Molto di vera gloria, dic'egli (l. 10, c. 1), si acquistòPersio, benchè con un libro solo". Marziale ancora neparla come di poeta assai rinomato (l. 4, epigr. 29); el'antico gramatico Valerio Probo racconta che appena leSatire di Persio si fecer pubbliche, furono ammirate ecercate a gara. Ma tra' moderni pochi son quelli che lo-din Persio, e i due Scaligeri singolarmente ne han detto

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Sue Satire in qual pre-gio debba-no aversi.

il più gran male del mondo (V. Baillet Jug. des Sav. t. 3,p. 245). Par veramente che agli antichi dovrebbesi in ciòmaggior fede che non a' moderni. E cogli antichi di fattosi son congiunti, e gli han forse ancor superati nel lodarPersio, Isacco Casaubono il quale afferma ch'ei può con-tendere il primo onor della satira non solo a Giovenale,ma anche ad Orazio, e tanto più ch'ei morì in età assaigiovanile (prolegom. in Persium); e il p. Tarteron chenella prefazione premessa alla sua bella traduzione diPersio in prosa francese, benchè non lasci di riprendernel'oscurità, lo dice nondimeno poeta colto, vivace, energi-co, e che in pochi motti dice assai. Più oltre ancora è an-dato m. le Noble che traducendo Persio in versi francesisi è sforzato di mostrarlo superiore di molto a Orazionon che a Giovenale (V. Ouvres de m. le Noble t. 14). Orin sì diversi giudici a qual partito ci appiglierem noi?Persio è certamente oscuro, come confessano que' me-desimi che l'esaltano sopra Orazio. Vuolsi da alcuni, cheil facesse con arte per mordere occultamente Neronesenza incorrerne lo sdegno. Ma quanto poco è ciò chenelle Satire di Persio si può creder detto in biasimo diNerone? In tutto il rimanente perchè è Persio ugualmen-te oscuro? Noi forse non intendiamo ora la forza delleparole e delle espressioni latine, come allor s'intendeva.Ma la lingua di Orazio e degli altri poeti che tanto piùfacilmente s'intendono, non era ella latina? Conviendunque confessarlo che Persio è viziosamente oscuro. Eper qual ragione? Io non vorrei cader nel difetto di colo-ro che avendo sposato un sistema, ad esso voglion ridur-

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il più gran male del mondo (V. Baillet Jug. des Sav. t. 3,p. 245). Par veramente che agli antichi dovrebbesi in ciòmaggior fede che non a' moderni. E cogli antichi di fattosi son congiunti, e gli han forse ancor superati nel lodarPersio, Isacco Casaubono il quale afferma ch'ei può con-tendere il primo onor della satira non solo a Giovenale,ma anche ad Orazio, e tanto più ch'ei morì in età assaigiovanile (prolegom. in Persium); e il p. Tarteron chenella prefazione premessa alla sua bella traduzione diPersio in prosa francese, benchè non lasci di riprendernel'oscurità, lo dice nondimeno poeta colto, vivace, energi-co, e che in pochi motti dice assai. Più oltre ancora è an-dato m. le Noble che traducendo Persio in versi francesisi è sforzato di mostrarlo superiore di molto a Orazionon che a Giovenale (V. Ouvres de m. le Noble t. 14). Orin sì diversi giudici a qual partito ci appiglierem noi?Persio è certamente oscuro, come confessano que' me-desimi che l'esaltano sopra Orazio. Vuolsi da alcuni, cheil facesse con arte per mordere occultamente Neronesenza incorrerne lo sdegno. Ma quanto poco è ciò chenelle Satire di Persio si può creder detto in biasimo diNerone? In tutto il rimanente perchè è Persio ugualmen-te oscuro? Noi forse non intendiamo ora la forza delleparole e delle espressioni latine, come allor s'intendeva.Ma la lingua di Orazio e degli altri poeti che tanto piùfacilmente s'intendono, non era ella latina? Conviendunque confessarlo che Persio è viziosamente oscuro. Eper qual ragione? Io non vorrei cader nel difetto di colo-ro che avendo sposato un sistema, ad esso voglion ridur-

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re ogni cosa. Ma penso di non andar lungi dal vero, af-fermando che Persio fu inferiore ad Orazio perchè volleesser migliore. È vero che, come il Casaubono ha mo-strato (De Persiana Horatii imitatione post comment. inPers.), Persio ha studiato d'imitarlo, ma nell'imitarlo sivede che egli si sforza di essere più preciso e più vibra-to, e per ciò appunto divien troppo oscuro; difetto in cuiOrazio si avvedeva di cader egli stesso talvolta: Brevisesse laboro: obscurus fio (De arte Poet.); ma difetto incui cadde assai più gravemente Persio. Egli è certo non-dimeno che le Satire di Persio son ripiene di ottimi sen-timenti, ed espressi sovente con molta forza; e a questoattribuir si dee la stima di cui egli godeva; stima a tantomaggior ragione dovutagli, quanto più nel riprendere ivizj de' suoi tempi era Persio, se se ne traggono pochiversi, ritenuto e modesto nell'espressione; nel che egli ècerto superiore e ad Orazio e a Giovenale. Forse ancorala sua oscurità giovò a Persio per essere più avidamentericercato e letto; poichè veggiamo che il piacer che sitrova nell'indovinare fantasticando ciò che uno scrittorvoglia dire, quando singolarmente si crede ch'ei tocchipersone a noi conosciute, ci rende tanto più dilettevolela lettura di un libro, quanto più sono oscuri gli enigmitra cui si avvolge, e quanto più ci lusinghiamo di avertalento a scoprirli. Pare che i Francesi abbiano in moltastima questo poeta, poichè oltre le due versioni soprac-citate, due ne sono uscite alla luce in prosa francese inquest'anno medesimo 1771 in cui io scrivo, una di m.Carron de Gibert, l'altra dell'ab. le Monnier.

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re ogni cosa. Ma penso di non andar lungi dal vero, af-fermando che Persio fu inferiore ad Orazio perchè volleesser migliore. È vero che, come il Casaubono ha mo-strato (De Persiana Horatii imitatione post comment. inPers.), Persio ha studiato d'imitarlo, ma nell'imitarlo sivede che egli si sforza di essere più preciso e più vibra-to, e per ciò appunto divien troppo oscuro; difetto in cuiOrazio si avvedeva di cader egli stesso talvolta: Brevisesse laboro: obscurus fio (De arte Poet.); ma difetto incui cadde assai più gravemente Persio. Egli è certo non-dimeno che le Satire di Persio son ripiene di ottimi sen-timenti, ed espressi sovente con molta forza; e a questoattribuir si dee la stima di cui egli godeva; stima a tantomaggior ragione dovutagli, quanto più nel riprendere ivizj de' suoi tempi era Persio, se se ne traggono pochiversi, ritenuto e modesto nell'espressione; nel che egli ècerto superiore e ad Orazio e a Giovenale. Forse ancorala sua oscurità giovò a Persio per essere più avidamentericercato e letto; poichè veggiamo che il piacer che sitrova nell'indovinare fantasticando ciò che uno scrittorvoglia dire, quando singolarmente si crede ch'ei tocchipersone a noi conosciute, ci rende tanto più dilettevolela lettura di un libro, quanto più sono oscuri gli enigmitra cui si avvolge, e quanto più ci lusinghiamo di avertalento a scoprirli. Pare che i Francesi abbiano in moltastima questo poeta, poichè oltre le due versioni soprac-citate, due ne sono uscite alla luce in prosa francese inquest'anno medesimo 1771 in cui io scrivo, una di m.Carron de Gibert, l'altra dell'ab. le Monnier.

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XXIV. A Persio vuolsi congiungere DecimoGiunio Giovenale più pel genere di poesia,in cui esercitossi, che per l'età a cui visse.

Alcuni l'han detto spagnuolo di nascita, ma senza alcunfondamento, come confessa il medesimo Niccolò Anto-nio (Bibl. hisp. Vet. l. 1, c. 18). È certo ch'ei fu d'Aquinoda lui stesso riconosciuto per sua patria (sat. 3, v. 319).Un'antica Vita di Giovenale, che da alcuni si attribuiscea Svetonio, da altri a Probo, non bene intesa, e non benconfrontata co' versi dello stesso poeta, ha dato occasio-ne a parecchi errori. Ecco in breve ciò ch'ella contiene.Giovenale o figlio, o allievo (che non è ben sicuro) di unricco liberto, fino alla metà di sua vita esercitossi in de-clamare per suo trattenimento piuttosto, che per deside-rio di volgersi al foro. Quindi scritto avendo una breve enon infelice satira contro di Paride pantomimo e poetadi Claudio Nerone, coltivò in avvenire questo genere dipoesia. E nondimeno per lungo tempo non si ardì a reci-tar cosa alcuna neppure a scelto numero di amici. Final-mente due, o tre volte recitò le sue Satire a numerosa as-semblea con grande applauso, e ne' componimenti allorfatti inserì ancora que' primi versi. Era a quel tempo uncomico assai accetto alla corte; e Giovenale cadde in so-spetto di aver voluto sotto figura adombrare i tempi pre-senti, e quindi col pretesto onorevole di militar dignità,benchè già ottogenario, fu dalla città allontanato, e in-viato a comandare una coorte nell'estremità dell'Egitto;dove in pochissimo tempo di disagio e di tedio finì isuoi giorni. Fin qui l'antica Vita di Giovenale. Sulla qua-

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Notizie di Giovenale.

XXIV. A Persio vuolsi congiungere DecimoGiunio Giovenale più pel genere di poesia,in cui esercitossi, che per l'età a cui visse.

Alcuni l'han detto spagnuolo di nascita, ma senza alcunfondamento, come confessa il medesimo Niccolò Anto-nio (Bibl. hisp. Vet. l. 1, c. 18). È certo ch'ei fu d'Aquinoda lui stesso riconosciuto per sua patria (sat. 3, v. 319).Un'antica Vita di Giovenale, che da alcuni si attribuiscea Svetonio, da altri a Probo, non bene intesa, e non benconfrontata co' versi dello stesso poeta, ha dato occasio-ne a parecchi errori. Ecco in breve ciò ch'ella contiene.Giovenale o figlio, o allievo (che non è ben sicuro) di unricco liberto, fino alla metà di sua vita esercitossi in de-clamare per suo trattenimento piuttosto, che per deside-rio di volgersi al foro. Quindi scritto avendo una breve enon infelice satira contro di Paride pantomimo e poetadi Claudio Nerone, coltivò in avvenire questo genere dipoesia. E nondimeno per lungo tempo non si ardì a reci-tar cosa alcuna neppure a scelto numero di amici. Final-mente due, o tre volte recitò le sue Satire a numerosa as-semblea con grande applauso, e ne' componimenti allorfatti inserì ancora que' primi versi. Era a quel tempo uncomico assai accetto alla corte; e Giovenale cadde in so-spetto di aver voluto sotto figura adombrare i tempi pre-senti, e quindi col pretesto onorevole di militar dignità,benchè già ottogenario, fu dalla città allontanato, e in-viato a comandare una coorte nell'estremità dell'Egitto;dove in pochissimo tempo di disagio e di tedio finì isuoi giorni. Fin qui l'antica Vita di Giovenale. Sulla qua-

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Notizie di Giovenale.

le non ben fondati alcuni pensarono che il Paride da luioltraggiato fosse quegli che visse sotto Nerone, e che dalui fu ucciso (Svet. in Ner. c. 54); altri che fosse coluiche visse ai tempi di Domiziano (Svet. in Domit. c. 3); eche perciò da uno di questi due imperadori fosse Giove-nale relegato in Egitto. E strana singolarmente è l'opi-nione del Quadrio, il quale dopo aver narrato che Giove-nale sino alla metà de' suoi anni si tenne sul declamare,aggiugne (Stor. della Poes. t. 2, p. 542) che da Neronefu rilegato per la satira da lui scritta contro di Paride, (ilche perciò dovette accadere al più tardi l'anno 68 in cuiNerone fu ucciso) essendo il poeta di circa 40 anni; cheposcia fu richiamato a Roma, e vi visse fino al duodeci-mo anno di Adriano. il quale cadde nell'anno 128; se-condo il qual computo converrebbe dire che Giovenalevivesse oltre a cent'anni. Claudio Salmasio (Comm. inSolin. Polyhist.), Giusto Lipsio (l. 4. Epist. Quæst. Ep.20), e più diligentemente di tutti Enrico Dodwello (Ann.Quint. n. 37, ec.) hanno con più esattezza esaminate lediverse epoche della vita di Giovenale, benchè in qual-che cosa non siano interamente tra lor concordi. Io nonfarommi a ritessere tutti i loro ragionamenti; e mi baste-rà l'accennare alcune delle principali prove della loroopinione tratte dalla Vita medesima di Giovenale di so-pra allegata.

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le non ben fondati alcuni pensarono che il Paride da luioltraggiato fosse quegli che visse sotto Nerone, e che dalui fu ucciso (Svet. in Ner. c. 54); altri che fosse coluiche visse ai tempi di Domiziano (Svet. in Domit. c. 3); eche perciò da uno di questi due imperadori fosse Giove-nale relegato in Egitto. E strana singolarmente è l'opi-nione del Quadrio, il quale dopo aver narrato che Giove-nale sino alla metà de' suoi anni si tenne sul declamare,aggiugne (Stor. della Poes. t. 2, p. 542) che da Neronefu rilegato per la satira da lui scritta contro di Paride, (ilche perciò dovette accadere al più tardi l'anno 68 in cuiNerone fu ucciso) essendo il poeta di circa 40 anni; cheposcia fu richiamato a Roma, e vi visse fino al duodeci-mo anno di Adriano. il quale cadde nell'anno 128; se-condo il qual computo converrebbe dire che Giovenalevivesse oltre a cent'anni. Claudio Salmasio (Comm. inSolin. Polyhist.), Giusto Lipsio (l. 4. Epist. Quæst. Ep.20), e più diligentemente di tutti Enrico Dodwello (Ann.Quint. n. 37, ec.) hanno con più esattezza esaminate lediverse epoche della vita di Giovenale, benchè in qual-che cosa non siano interamente tra lor concordi. Io nonfarommi a ritessere tutti i loro ragionamenti; e mi baste-rà l'accennare alcune delle principali prove della loroopinione tratte dalla Vita medesima di Giovenale di so-pra allegata.

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XXV. Giovenale non prese a scrivere satireche verso la metà di sua vita, cioè a 40 anniin circa d'età; e nella prima di pochi versi,ch'egli compose, prese di mira il pantomimoParide che vivea al principio dell'impero di

Domiziano; cioè l'an. 81, poichè di questo Paride, e nondell'altro stato a' tempi di Nerone, debbonsi intendere iversi di Giovenale; come dimostra il Dodwello, benchèlo scrittore della Vita il dica poeta di Nerone. Ma perlungo tempo, cioè per circa altri 40 anni, ei non fecepubblica alcuna delle sue Satire, poichè il medesimoscrittor della Vita racconta che, quando egli recitollepubblicamente, fu mandato in esilio, e che avea alloraottant'anni. Ciò dunque dovette accadere verso l'an. 120ch'era il quarto di Adriano. Paride non era certo allorvivo; e in fatti lo scrittor della Vita non dice che Giove-nale per aver motteggiato Paride fosse rilegato, come da'posteriori scrittori si è comunemente pensato; ma perchèsi credè che sotto la figura e il nome di Paride avesseadombrati i tempi allora correnti: quasi tempora figura-te notasset. Molti passi delle Satire di Giovenale ci ren-dono evidente questa opinione. Egli parla di Domizianocome d'imperadore stato ne' tempi addietro; Cum jam semianimum laceraret Flavius orbem Ultimus, et calvo serviter Roma Neroni (sat. 4, v. 37).

E al fine della stessa satira parlando del medesimo Do-miziano:

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Epoche principali della sua vita.

XXV. Giovenale non prese a scrivere satireche verso la metà di sua vita, cioè a 40 anniin circa d'età; e nella prima di pochi versi,ch'egli compose, prese di mira il pantomimoParide che vivea al principio dell'impero di

Domiziano; cioè l'an. 81, poichè di questo Paride, e nondell'altro stato a' tempi di Nerone, debbonsi intendere iversi di Giovenale; come dimostra il Dodwello, benchèlo scrittore della Vita il dica poeta di Nerone. Ma perlungo tempo, cioè per circa altri 40 anni, ei non fecepubblica alcuna delle sue Satire, poichè il medesimoscrittor della Vita racconta che, quando egli recitollepubblicamente, fu mandato in esilio, e che avea alloraottant'anni. Ciò dunque dovette accadere verso l'an. 120ch'era il quarto di Adriano. Paride non era certo allorvivo; e in fatti lo scrittor della Vita non dice che Giove-nale per aver motteggiato Paride fosse rilegato, come da'posteriori scrittori si è comunemente pensato; ma perchèsi credè che sotto la figura e il nome di Paride avesseadombrati i tempi allora correnti: quasi tempora figura-te notasset. Molti passi delle Satire di Giovenale ci ren-dono evidente questa opinione. Egli parla di Domizianocome d'imperadore stato ne' tempi addietro; Cum jam semianimum laceraret Flavius orbem Ultimus, et calvo serviter Roma Neroni (sat. 4, v. 37).

E al fine della stessa satira parlando del medesimo Do-miziano:

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Epoche principali della sua vita.

Sed periit, postquam cerdonibus esse timendus Coepit (ib. v. 155.).

Aggiungansi i tremuoti de' quali egli fa menzione (sat.6. v. 410), che sembrano que' medesimi che nelle Storiesi leggono seguiti a' tempi di Traiano. Ma sopratutto adimostrare la verità di questa opinione è chiarissimo ilpasso ove Giovenale dice che sessant'anni eran già corsidopo il consolato di Fonteio: Stupet hæc, qui jam post terga reliquit Sexaginta annos Fontejo consule natus? (sat. 13. v. 16).

Or Fonteio Capitone fu console l'an. 59, ed è perciò evi-dente che Giovenale scriveva l'an. 119, terzo dell'imperodi Adriano. Che se nelle Satire medesime s'incontrancose assai prima avvenute, e che nondimeno si narran daGiovenale come presenti, quali sono la menzione ch'eifa di Stazio, e dell'applauso con cui udivasi in Roma laTebaide da lui composta, le amare invettive contro diParide, ed altre somiglianti, vuolsi avvertire ciò che dal-lo stesso scrittor della Vita fu pure avvertito, che Giove-nale quando rendette pubbliche le Satire da lui scritte,v'inserì que' versi ancora che molti anni addietro egliavea composti a' tempi di Domiziano. Così ogni cosa sispiega probabilmente, e all'an. 119, o 120 si fissa l'ono-rato esilio di Giovenale. In fatti nella Satira XV da luicomposta in Egitto nel tempo della sua rilegazione, eglinarra un fatto ivi "accaduto di fresco ei dice, essendoconsole Giunio; nuper Consule Junio gesta." Or Q. Giu-nio Rustico fu appunto console l'an. 119. La satira XVI

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Sed periit, postquam cerdonibus esse timendus Coepit (ib. v. 155.).

Aggiungansi i tremuoti de' quali egli fa menzione (sat.6. v. 410), che sembrano que' medesimi che nelle Storiesi leggono seguiti a' tempi di Traiano. Ma sopratutto adimostrare la verità di questa opinione è chiarissimo ilpasso ove Giovenale dice che sessant'anni eran già corsidopo il consolato di Fonteio: Stupet hæc, qui jam post terga reliquit Sexaginta annos Fontejo consule natus? (sat. 13. v. 16).

Or Fonteio Capitone fu console l'an. 59, ed è perciò evi-dente che Giovenale scriveva l'an. 119, terzo dell'imperodi Adriano. Che se nelle Satire medesime s'incontrancose assai prima avvenute, e che nondimeno si narran daGiovenale come presenti, quali sono la menzione ch'eifa di Stazio, e dell'applauso con cui udivasi in Roma laTebaide da lui composta, le amare invettive contro diParide, ed altre somiglianti, vuolsi avvertire ciò che dal-lo stesso scrittor della Vita fu pure avvertito, che Giove-nale quando rendette pubbliche le Satire da lui scritte,v'inserì que' versi ancora che molti anni addietro egliavea composti a' tempi di Domiziano. Così ogni cosa sispiega probabilmente, e all'an. 119, o 120 si fissa l'ono-rato esilio di Giovenale. In fatti nella Satira XV da luicomposta in Egitto nel tempo della sua rilegazione, eglinarra un fatto ivi "accaduto di fresco ei dice, essendoconsole Giunio; nuper Consule Junio gesta." Or Q. Giu-nio Rustico fu appunto console l'an. 119. La satira XVI

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ch'è l'ultima, credesi comunemente che sia di altro auto-re. Checchè sia di ciò, poco tempo visse Giovenale inEgitto, poichè alla vecchiezza aggiugnendosi i disagi,come il più volte citato scrittor della Vita racconta, vimorì presto.

XXVI. Fissate in tal maniera l'epoche prin-cipali della vita di Giovenale, cessar dee lamaraviglia che fanno alcuni scrittori, delnon vedere da Quintiliano fatto alcun cennodi questo poeta; nè ci è più di mestieri

d'immaginare o invidia, o altro qualunque motivo percui ei ne tacesse. Quintiliano scriveva sotto il regno diDomiziano; nè poteva perciò favellare di Giovenale chesolo regnando Adriano fece pubbliche le sue satire. Tra'moderni non è mancato chi antiponesse Giovenale non aPersio solamente, ma anche ad Orazio; e grandi ammi-ratori ne furono singolarmente Giulio Cesare Scaligero(Poet. l. 6. c. 6) e Giusto Lipsio (Epist. Quæst. l. 2, ep.9; l. 4. ep. 15), il sentimento de' quali se debba aversi ingran pregio, in ciò che a valore poetico appartiene, la-scio che ognuno giudichi per se stesso. Assai diversa-mente ne pensa il p. Rapin che preferisce di molto (Ré-flex. sur. la poet. par. 2, §. 28) la grazia e la delicatezzad'Orazio alla impetuosa e rabbiosa declamazione di Gio-venale. E molto prima di lui il Giraldi avea asserito (DePoetar. Hist. dial. 4) che non dovevasi leggere Giovena-le, se non dopo aver formato lo stile su' migliori autori.

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Paragone delle sue Satire con quelle di Orazio.

ch'è l'ultima, credesi comunemente che sia di altro auto-re. Checchè sia di ciò, poco tempo visse Giovenale inEgitto, poichè alla vecchiezza aggiugnendosi i disagi,come il più volte citato scrittor della Vita racconta, vimorì presto.

XXVI. Fissate in tal maniera l'epoche prin-cipali della vita di Giovenale, cessar dee lamaraviglia che fanno alcuni scrittori, delnon vedere da Quintiliano fatto alcun cennodi questo poeta; nè ci è più di mestieri

d'immaginare o invidia, o altro qualunque motivo percui ei ne tacesse. Quintiliano scriveva sotto il regno diDomiziano; nè poteva perciò favellare di Giovenale chesolo regnando Adriano fece pubbliche le sue satire. Tra'moderni non è mancato chi antiponesse Giovenale non aPersio solamente, ma anche ad Orazio; e grandi ammi-ratori ne furono singolarmente Giulio Cesare Scaligero(Poet. l. 6. c. 6) e Giusto Lipsio (Epist. Quæst. l. 2, ep.9; l. 4. ep. 15), il sentimento de' quali se debba aversi ingran pregio, in ciò che a valore poetico appartiene, la-scio che ognuno giudichi per se stesso. Assai diversa-mente ne pensa il p. Rapin che preferisce di molto (Ré-flex. sur. la poet. par. 2, §. 28) la grazia e la delicatezzad'Orazio alla impetuosa e rabbiosa declamazione di Gio-venale. E molto prima di lui il Giraldi avea asserito (DePoetar. Hist. dial. 4) che non dovevasi leggere Giovena-le, se non dopo aver formato lo stile su' migliori autori.

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Paragone delle sue Satire con quelle di Orazio.

Par bensì verisimile che Giovenale si lusingasse di an-dar innanzi ad Orazio; e potè ancor persuaderlo a chinelle satire non ricerca che versi armonici, parole sonan-ti, amare invettive. Ma chiunque pensa, come han pen-sato i più saggi scrittori, che la satira debba naturalmen-te e graziosamente deridere i vizj, e ch'ella richieda per-ciò un tal verseggiare, che a una apparente semplicitàcongiunga una tanto più pregevole quanto men ricercataeleganza, non temerà mai di anteporre Orazio a tutti glialtri antichi scrittori di satire. Una matrona ancora vuol-si per ultimo qui rammentare tra gli scrittori di satirecioè Sulpizia moglie di Caleno che più altre poesie an-cora aveva composte; ma sola ci è rimasta la Satira dalei scritta contro Domiziano, allor quando egli cacciò diRoma i filosofi. Di lei e de' suoi verbi parla con moltalode Marziale (l. 10 epigr. 35).

XXVII. A' poeti epici e a' satirici, de' qualiabbiam finora parlato, succeda ora l'unicoche di questa età ci sia rimasto, scrittord'epigrammi, M. Valerio Marziale. Questi a

ragione si novera dagli Spagnuoli tra' loro autori, per-ciocchè egli fu nativo di Bilbili città ora distrutta dellaSpagna Tarragonese. Ma il soggiorno da lui fatto pertrentacinque anni in Italia basta perchè a noi ancora sialecito il riporlo tra' nostri. Del soprannome di Cuoco,che da Lampridio gli viene dato (in Alex. Severo), veg-gansi le diverse opinioni degl'interpreti presso Niccolò

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Notizie del-la vita di Marziale.

Par bensì verisimile che Giovenale si lusingasse di an-dar innanzi ad Orazio; e potè ancor persuaderlo a chinelle satire non ricerca che versi armonici, parole sonan-ti, amare invettive. Ma chiunque pensa, come han pen-sato i più saggi scrittori, che la satira debba naturalmen-te e graziosamente deridere i vizj, e ch'ella richieda per-ciò un tal verseggiare, che a una apparente semplicitàcongiunga una tanto più pregevole quanto men ricercataeleganza, non temerà mai di anteporre Orazio a tutti glialtri antichi scrittori di satire. Una matrona ancora vuol-si per ultimo qui rammentare tra gli scrittori di satirecioè Sulpizia moglie di Caleno che più altre poesie an-cora aveva composte; ma sola ci è rimasta la Satira dalei scritta contro Domiziano, allor quando egli cacciò diRoma i filosofi. Di lei e de' suoi verbi parla con moltalode Marziale (l. 10 epigr. 35).

XXVII. A' poeti epici e a' satirici, de' qualiabbiam finora parlato, succeda ora l'unicoche di questa età ci sia rimasto, scrittord'epigrammi, M. Valerio Marziale. Questi a

ragione si novera dagli Spagnuoli tra' loro autori, per-ciocchè egli fu nativo di Bilbili città ora distrutta dellaSpagna Tarragonese. Ma il soggiorno da lui fatto pertrentacinque anni in Italia basta perchè a noi ancora sialecito il riporlo tra' nostri. Del soprannome di Cuoco,che da Lampridio gli viene dato (in Alex. Severo), veg-gansi le diverse opinioni degl'interpreti presso Niccolò

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Notizie del-la vita di Marziale.

Antonio (Bibl. Hisp. vet. l. 1. c. 13), poichè non sembra-mi nè necessario nè utile il disputarne. Il p. Matteo Ra-dero della Compagnia di Gesù, che dagli Epigrammimedesimi di Marziale ne ha diligentemente raccolte leprincipali epoche della Vita, osserva che in età di ventunanni ei venne a Roma; che per trenta cinque anni vi sog-giornò, e che essendo nel cinquantesimo anno di suavita, fece alla patria ritorno sul principio dell'impero diTraiano, e vi morì nel quarto, o quinto anno del medesi-mo imperadore. Di queste epoche, quelle che apparten-gono agli anni di Marziale, sono certissime, perchè ap-poggiate a' suoi versi medesimi. Ma ch'ei partisse diRoma, come il p. Radero afferma, sul cominciare del re-gno di Trajano, da altri si nega. Il Dodwello (Ann.Quint. n. 38) vuole che ciò avvenisse nel terzo consolatodi questo imperadore, che corrisponde al terzo anno delsuo impero. Giovanni Masson al contrario sostiene (Vit.Plinii jun. ad an. Ch. C, n. 12) che Marziale, vivendoancor Nerva cioè l'an. 97, partisse di Roma. La diversitàdi queste opinioni non è sì grande, che sia pregiodell'opera l'esaminare qual sia meglio fondata. E ancor-chè volessimo entrarne all'esame, io penso che non sa-rebbe sì agevole a diffinire. Perciocchè come è certo cheil libro XII degli Epigrammi fu da Marziale pubblicatotre anni dopo il suo ritorno alla patria, il che egli attestanella prefazione ad esso premessa; così non è ugualmen-te certo che tutti gli Epigrammi nel libro medesimo con-tenuti fossero da lui scritti dopo il suo ritorno, e non èpure ugualmente certo che ne' libri precedenti da lui

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Antonio (Bibl. Hisp. vet. l. 1. c. 13), poichè non sembra-mi nè necessario nè utile il disputarne. Il p. Matteo Ra-dero della Compagnia di Gesù, che dagli Epigrammimedesimi di Marziale ne ha diligentemente raccolte leprincipali epoche della Vita, osserva che in età di ventunanni ei venne a Roma; che per trenta cinque anni vi sog-giornò, e che essendo nel cinquantesimo anno di suavita, fece alla patria ritorno sul principio dell'impero diTraiano, e vi morì nel quarto, o quinto anno del medesi-mo imperadore. Di queste epoche, quelle che apparten-gono agli anni di Marziale, sono certissime, perchè ap-poggiate a' suoi versi medesimi. Ma ch'ei partisse diRoma, come il p. Radero afferma, sul cominciare del re-gno di Trajano, da altri si nega. Il Dodwello (Ann.Quint. n. 38) vuole che ciò avvenisse nel terzo consolatodi questo imperadore, che corrisponde al terzo anno delsuo impero. Giovanni Masson al contrario sostiene (Vit.Plinii jun. ad an. Ch. C, n. 12) che Marziale, vivendoancor Nerva cioè l'an. 97, partisse di Roma. La diversitàdi queste opinioni non è sì grande, che sia pregiodell'opera l'esaminare qual sia meglio fondata. E ancor-chè volessimo entrarne all'esame, io penso che non sa-rebbe sì agevole a diffinire. Perciocchè come è certo cheil libro XII degli Epigrammi fu da Marziale pubblicatotre anni dopo il suo ritorno alla patria, il che egli attestanella prefazione ad esso premessa; così non è ugualmen-te certo che tutti gli Epigrammi nel libro medesimo con-tenuti fossero da lui scritti dopo il suo ritorno, e non èpure ugualmente certo che ne' libri precedenti da lui

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pubblicati in Roma non sia stato poscia intruso qualchealtro da lui composto poichè n'era partito. In Roma egliebbe applausi ed onori ma non per modo che, quando eine partì, non si trovasse in povero stato, talchè Plinio ilgiovane per amicizia e per gratitudine ad alcuni versi insua lode composti il soccorse di denaro pel viaggio,come egli stesso racconta nella lettera che udita la mortedi Marziale, egli scrisse a Prisco (l. 3, ep. Ult.).

XXVIII. In questa lettera Plinio parla congrandi encomj di questo poeta: Egli era,dice, uomo ingegnoso e sottile; e che nelloscrivere molto avea di sale insieme e di fie-le, e nulla men di candore. E certo che Mar-

ziale avesse dalla natura sortito talento non ordinarioalla poesia, e che egli avesse un ingegno di quelle dotifornito, che Plinio in lui riconosce, niuno, io credo, vor-rà negarlo. Ma è a cercare se bene, o male egli usassedel suo ingegno. Qui ancora ognun giudica secondo ilsuo gusto; e non vi ha cosa più inutile, quanto il volerpersuadere che non merita stima un autore a chi ne hagià formato favorevol giudicio. Io rifletterò solamenteche nel secolo XVI, quando a comun parere regnava inItalia il buon gusto, poco conto facevasi di Marziale, aappena giudicavasi degno di venire a paragon con Ca-tullo (11). È celebre l'annual sagrifizio che di alcuni esem-

11 Il giudizio da me dato delle poesie di Marziale ha eccitato il sig. ab. Tom-maso Serrano a prenderne vigorosamente la difesa. Si posson vedere le let-

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Qual giudi-zio debba darsi de' suoi Epi-grammi.

pubblicati in Roma non sia stato poscia intruso qualchealtro da lui composto poichè n'era partito. In Roma egliebbe applausi ed onori ma non per modo che, quando eine partì, non si trovasse in povero stato, talchè Plinio ilgiovane per amicizia e per gratitudine ad alcuni versi insua lode composti il soccorse di denaro pel viaggio,come egli stesso racconta nella lettera che udita la mortedi Marziale, egli scrisse a Prisco (l. 3, ep. Ult.).

XXVIII. In questa lettera Plinio parla congrandi encomj di questo poeta: Egli era,dice, uomo ingegnoso e sottile; e che nelloscrivere molto avea di sale insieme e di fie-le, e nulla men di candore. E certo che Mar-

ziale avesse dalla natura sortito talento non ordinarioalla poesia, e che egli avesse un ingegno di quelle dotifornito, che Plinio in lui riconosce, niuno, io credo, vor-rà negarlo. Ma è a cercare se bene, o male egli usassedel suo ingegno. Qui ancora ognun giudica secondo ilsuo gusto; e non vi ha cosa più inutile, quanto il volerpersuadere che non merita stima un autore a chi ne hagià formato favorevol giudicio. Io rifletterò solamenteche nel secolo XVI, quando a comun parere regnava inItalia il buon gusto, poco conto facevasi di Marziale, aappena giudicavasi degno di venire a paragon con Ca-tullo (11). È celebre l'annual sagrifizio che di alcuni esem-

11 Il giudizio da me dato delle poesie di Marziale ha eccitato il sig. ab. Tom-maso Serrano a prenderne vigorosamente la difesa. Si posson vedere le let-

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Qual giudi-zio debba darsi de' suoi Epi-grammi.

plari di questo poeta soleva fare a Vulcano in un giornodeterminato il celebre Andrea Navagero (Jovius in ejusElog.). E più generalmente il Giraldi afferma (De Poe-tar. Hist. dial. 10) che nè tutti nè molti degli Epigrammidi Marziale piacevano agli uomini dotti di quell'età; eche egli avrebbene scelti alcuni pochi degni a suo parered'essere letti, e che degli altri ne avrebbe fatto carta pe'pizzicagnoli. Nel secolo scorso, quando l'amor dei con-cetti e delle sottigliezze era, per così dire, il carattere de'begl'ingegni, Marziale aveasi in altissimo pregio, e guaia chi avesse fatto un epigramma, o un sonetto che nonterminasse in una acutezza; egli era pure un freddo e tri-vial poeta. Al risorgere del buon gusto, cadde di nuovoMarziale; e io penso che un poeta dei nostri giorni sivergognerebbe per avventura, se fosse sorpreso con que-sto autor fra le mani. Non vuolsi però negare che Mar-ziale non abbia alcuni epigrammi di singolare bellezza,e senza alcuno di que' raffinati concetti, e di que' giuo-chi freddissimi di parole, che troppo spesso in luis'incontrano, oltre le oscenità di cui egli spesso troppoimprudentemente ha riempiuti i suoi versi. Quindi intor-

tere da lui pubblicate in Ferrara nel 1776, la risposta alla prima di esse fat-ta dal ch. sig. cav. Clementino Vannetti, l'estratto che della seconda volu-minosa lettera dell'ab. Serrano si è dato nel t. XII di questo giornale di Mo-dena, il quale estratto è lavoro dell'ab. Alessandro Zorzi, la cui troppo im-matura morte sarà sempre di dolorosa memoria a chiunque ne ha conosciu-to il raro ingegno, le amabili maniere, e la singolare onestà de' costumi. Ionon voglio gittare il tempo in grazia di Marziale. Ognun giudichi dello sti-le di esso, come gli sembra meglio. Il giudizio ch'io ne ho dato, era, ed ètuttora il mio; ma io non posso, nè debbo impedire che altri pensi diversa-mente.

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plari di questo poeta soleva fare a Vulcano in un giornodeterminato il celebre Andrea Navagero (Jovius in ejusElog.). E più generalmente il Giraldi afferma (De Poe-tar. Hist. dial. 10) che nè tutti nè molti degli Epigrammidi Marziale piacevano agli uomini dotti di quell'età; eche egli avrebbene scelti alcuni pochi degni a suo parered'essere letti, e che degli altri ne avrebbe fatto carta pe'pizzicagnoli. Nel secolo scorso, quando l'amor dei con-cetti e delle sottigliezze era, per così dire, il carattere de'begl'ingegni, Marziale aveasi in altissimo pregio, e guaia chi avesse fatto un epigramma, o un sonetto che nonterminasse in una acutezza; egli era pure un freddo e tri-vial poeta. Al risorgere del buon gusto, cadde di nuovoMarziale; e io penso che un poeta dei nostri giorni sivergognerebbe per avventura, se fosse sorpreso con que-sto autor fra le mani. Non vuolsi però negare che Mar-ziale non abbia alcuni epigrammi di singolare bellezza,e senza alcuno di que' raffinati concetti, e di que' giuo-chi freddissimi di parole, che troppo spesso in luis'incontrano, oltre le oscenità di cui egli spesso troppoimprudentemente ha riempiuti i suoi versi. Quindi intor-

tere da lui pubblicate in Ferrara nel 1776, la risposta alla prima di esse fat-ta dal ch. sig. cav. Clementino Vannetti, l'estratto che della seconda volu-minosa lettera dell'ab. Serrano si è dato nel t. XII di questo giornale di Mo-dena, il quale estratto è lavoro dell'ab. Alessandro Zorzi, la cui troppo im-matura morte sarà sempre di dolorosa memoria a chiunque ne ha conosciu-to il raro ingegno, le amabili maniere, e la singolare onestà de' costumi. Ionon voglio gittare il tempo in grazia di Marziale. Ognun giudichi dello sti-le di esso, come gli sembra meglio. Il giudizio ch'io ne ho dato, era, ed ètuttora il mio; ma io non posso, nè debbo impedire che altri pensi diversa-mente.

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no agli Epigrammi di Marziale niuno forse ha decisomeglio di Marziale medesimo con quel celebre verso: Sunt bona, sunt quædam mediocria, sunt mala plura.

(l. 1, epigr. 17).

XXIX. Questi (lasciando stare per ora Sene-ca il tragico, di cui fra poco insieme agli al-tri poeti drammatici ragioneremo, e il poe-metto de Cultu Hortorum di Columella, che

forma il X de' suoi libri d'Agricoltura, di cui parleremonel Capo V) questi furono i poeti dell'epoca di cui par-liamo, le cui opere sono a noi pervenute. Altri assai piùve n'ebbe al medesimo tempo, delle poesie de' quali onulla, o solo una menoma parte ancor ci rimane. Sareb-be cosa di troppo lunga, e, ciò ch'è peggio, troppo inutilfatica, il voler ragionare di tutti. Il Giraldi, il Vossio, ilQuadrio ed altri ne han già tessuti ampj catalogi; e iocomunemente altro non potrei fare che ripetere ciò cheessi han detto; maniera assai usata al presente, ma nonperciò lodevole, d'ingrossare i libri. Mi basterà dunquel'accennare alcuna cosa di quelli che sembrano esserestati in pregio maggiore. Poeta di gran nome dicesi daDione (l. 57) C. Lutorio Prisco cavalier romano a' tempidi Tiberio; e celebre chiamasi da lui e da Tacito (Ann. l.3, c. 49, 50) un componimento da lui fatto nella morte diGermanico; il qual però fu al suo autore troppo fatale;perciocchè, come narrano i medesimi storici, accusato,

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Più altri poeti men conosciuti.

no agli Epigrammi di Marziale niuno forse ha decisomeglio di Marziale medesimo con quel celebre verso: Sunt bona, sunt quædam mediocria, sunt mala plura.

(l. 1, epigr. 17).

XXIX. Questi (lasciando stare per ora Sene-ca il tragico, di cui fra poco insieme agli al-tri poeti drammatici ragioneremo, e il poe-metto de Cultu Hortorum di Columella, che

forma il X de' suoi libri d'Agricoltura, di cui parleremonel Capo V) questi furono i poeti dell'epoca di cui par-liamo, le cui opere sono a noi pervenute. Altri assai piùve n'ebbe al medesimo tempo, delle poesie de' quali onulla, o solo una menoma parte ancor ci rimane. Sareb-be cosa di troppo lunga, e, ciò ch'è peggio, troppo inutilfatica, il voler ragionare di tutti. Il Giraldi, il Vossio, ilQuadrio ed altri ne han già tessuti ampj catalogi; e iocomunemente altro non potrei fare che ripetere ciò cheessi han detto; maniera assai usata al presente, ma nonperciò lodevole, d'ingrossare i libri. Mi basterà dunquel'accennare alcuna cosa di quelli che sembrano esserestati in pregio maggiore. Poeta di gran nome dicesi daDione (l. 57) C. Lutorio Prisco cavalier romano a' tempidi Tiberio; e celebre chiamasi da lui e da Tacito (Ann. l.3, c. 49, 50) un componimento da lui fatto nella morte diGermanico; il qual però fu al suo autore troppo fatale;perciocchè, come narrano i medesimi storici, accusato,

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Più altri poeti men conosciuti.

secondo il costume di que' pessimi tempi, al senato diaver composto que' versi in occasione della malattia diDruso, quasi sperandone la morte, per ordine del senatofu tratto in carcere ed ucciso. Celebre ancora fu a' tempidi Tiberio e di Claudio non meno per gl'infami suoi vizj,che per la sua facilità in verseggiare, il gramatico Rem-mio Palemone vicentino. Di lui narra Svetonio (DeClar. Gram. c. 23), che anche all'improvviso scrivevapoemi; e che altre poesie ancora avea egli composte indiversi e difficili metri. Sembra però, che questa facilitàdi poetare fosse l'unico pregio di Palemone, perciocchèMarziale il chiama poeta di piazza e di circolo: Scribat carmina circulis Palæmon: Me raris juvat auribus placere (l. 2, epigr. 86).

Di Cesio Basso poeta lirico parla con lode Quintiliano(l. 10 c. 1), il quale dopo aver detto che Orazio è presso-chè il solo tra' latini lirici degno d'essere letto, soggiu-gne: che se alcun altro tu vuoi aggiugnerli, e sarà CesioBasso cui di fresco veduto abbiamo. A' tempi di Quinti-liano altri lirici dovean esservi di merito assai maggiore:perciocchè egli segue dicendo: ma di molto gli vannoinnanzi que' che ora vivono. Ma chi essi fossero, eglinol dice, nè noi possiamo conghietturarlo. Uomo di for-te e poetico ingegno dallo stesso Quintiliano si dice Sal-cio Basso (ib.), benchè aggiunga che neppure in vec-chiezza non fu abbastanza maturo. Dall'autor del Dialo-go sul decadimento dell'eloquenza egli è appellato per-fettissimo poeta (Dial. de Caus. Corr. Eloq. n. 5 e 9), ma

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secondo il costume di que' pessimi tempi, al senato diaver composto que' versi in occasione della malattia diDruso, quasi sperandone la morte, per ordine del senatofu tratto in carcere ed ucciso. Celebre ancora fu a' tempidi Tiberio e di Claudio non meno per gl'infami suoi vizj,che per la sua facilità in verseggiare, il gramatico Rem-mio Palemone vicentino. Di lui narra Svetonio (DeClar. Gram. c. 23), che anche all'improvviso scrivevapoemi; e che altre poesie ancora avea egli composte indiversi e difficili metri. Sembra però, che questa facilitàdi poetare fosse l'unico pregio di Palemone, perciocchèMarziale il chiama poeta di piazza e di circolo: Scribat carmina circulis Palæmon: Me raris juvat auribus placere (l. 2, epigr. 86).

Di Cesio Basso poeta lirico parla con lode Quintiliano(l. 10 c. 1), il quale dopo aver detto che Orazio è presso-chè il solo tra' latini lirici degno d'essere letto, soggiu-gne: che se alcun altro tu vuoi aggiugnerli, e sarà CesioBasso cui di fresco veduto abbiamo. A' tempi di Quinti-liano altri lirici dovean esservi di merito assai maggiore:perciocchè egli segue dicendo: ma di molto gli vannoinnanzi que' che ora vivono. Ma chi essi fossero, eglinol dice, nè noi possiamo conghietturarlo. Uomo di for-te e poetico ingegno dallo stesso Quintiliano si dice Sal-cio Basso (ib.), benchè aggiunga che neppure in vec-chiezza non fu abbastanza maturo. Dall'autor del Dialo-go sul decadimento dell'eloquenza egli è appellato per-fettissimo poeta (Dial. de Caus. Corr. Eloq. n. 5 e 9), ma

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insieme poco felice, poichè ei narra che Basso dopoavere per un anno intero sudato a comporre un libro dipoesie, era costretto a pregare chi volesse compiacersidi udirle: e che anzi gli conveniva chiedere a pigione lacasa, e farvi costruire il luogo, onde recitarle, e prenderea prestanza le scranne, e dopo tanti disagi e tante speseesser pago di uno sterile applauso. Solo una voltal'imperador Vespasiano gli fe' un dono di cinquecento-mila sesterzj ossia di circa dodicimila cinquecento scudiromani; il che, aggiugne lo stesso scrittore, fu a ragioncelebrato come atto di maravigliosa e singolare liberali-tà. Se volessimo dar fede a Marziale, noi dovremmo do-lerci assai della perdita che fatta abbiamo delle poesie diArunzio Stella che oltre altri componimenti lodata aveaco' suoi versi la colomba della sua Violantilla; percioc-chè Marziale dice (l. 1. epigr. 8) che i versi di Arunziotanto eran migliori di que' di Catullo, quanto più grandedi un passero è un colombo. Ma di questi elogi noi fare-mo il conto medesimo che di quelli ch'egli e Stazio dan-no a Lucano antiponendolo per poco a Virgilio. A' tempidi Plinio il giovane ebbevi un Passieno Paolo cavalierromano, uomo assai erudito, di cui egli dice che quasiper dritto di nascita si era dato a scrivere elegie (l. 6 ep.15) perciocchè egli era della patria stessa e della stessafamiglia di cui Properzio. Molti altri poeti dallo stessoautore si rammentano con grandi encomj, come PompeoSaturnino, di cui dice che facea versi al par di Catullo edi Calvo (l. 2, ep. 16); Ottavio cui egli caldamente esor-ta (l. 2, ep. 10) a pubblicare una volta i suoi versi; M.

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insieme poco felice, poichè ei narra che Basso dopoavere per un anno intero sudato a comporre un libro dipoesie, era costretto a pregare chi volesse compiacersidi udirle: e che anzi gli conveniva chiedere a pigione lacasa, e farvi costruire il luogo, onde recitarle, e prenderea prestanza le scranne, e dopo tanti disagi e tante speseesser pago di uno sterile applauso. Solo una voltal'imperador Vespasiano gli fe' un dono di cinquecento-mila sesterzj ossia di circa dodicimila cinquecento scudiromani; il che, aggiugne lo stesso scrittore, fu a ragioncelebrato come atto di maravigliosa e singolare liberali-tà. Se volessimo dar fede a Marziale, noi dovremmo do-lerci assai della perdita che fatta abbiamo delle poesie diArunzio Stella che oltre altri componimenti lodata aveaco' suoi versi la colomba della sua Violantilla; percioc-chè Marziale dice (l. 1. epigr. 8) che i versi di Arunziotanto eran migliori di que' di Catullo, quanto più grandedi un passero è un colombo. Ma di questi elogi noi fare-mo il conto medesimo che di quelli ch'egli e Stazio dan-no a Lucano antiponendolo per poco a Virgilio. A' tempidi Plinio il giovane ebbevi un Passieno Paolo cavalierromano, uomo assai erudito, di cui egli dice che quasiper dritto di nascita si era dato a scrivere elegie (l. 6 ep.15) perciocchè egli era della patria stessa e della stessafamiglia di cui Properzio. Molti altri poeti dallo stessoautore si rammentano con grandi encomj, come PompeoSaturnino, di cui dice che facea versi al par di Catullo edi Calvo (l. 2, ep. 16); Ottavio cui egli caldamente esor-ta (l. 2, ep. 10) a pubblicare una volta i suoi versi; M.

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Arrio Antonino avolo materno dell'imperadore Antoni-no, di cui sommamente loda le greche non meno che lelatine poesie (l. 4, ep. 3, e 18; l. 5. ep. 11); C. Fannio (l.5, ep. 5), ed altri molti ch'io tralascio per non annoiarechi legge con una inutil serie di nomi. E basti l'aver fa-vellato di questi per saggio di tanti altri poeti di questaetà, le cui poesie son perite, e intorno a' quali si possonvedere i sopraccitati autori.

XXX. Prima però d'innoltrarmi, mi sia leci-to l'aggiugnere qualche cosa intorno a duealtri poeti che dagli eruditi Maurini autoridella Storia Letteraria di Francia (t. 1, p.160), e quindi dall'altre volte citato Ab.Longchamps (Tabl. hist., ec. t. 1, p. 56), sipongono tra i loro scrittori. Il primo è Giulio

Montano. I Maurini saggiamente riflettono che non vi èprova certa ch'ei fosse fratello di Vozieno Montano nar-bonese oratore, e che la somiglianza del nome non è ba-stevole argomento ad asserirlo; ma che nondimeno es-sendo amendue vissuti al tempo medesimo e alla mede-sima corte di Tiberio, e che avendo amendue incorsa ladisgrazia del medesimo imperadore, convien confessareche potevano essere fratelli. La prova non ha gran forza;nondimeno egli è certo che potevano esser fratelli, ben-chè non vi sia indicio bastevole a conghietturare checosì fosse, e si possa perciò da noi sostenere che GiulioMontano non fu fratello di Vozieno, nè fu gallo di nasci-

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Errori di al-cuni scritto-ri nel ragio-nare di Giulio Montano e di Senzio Augurino.

Arrio Antonino avolo materno dell'imperadore Antoni-no, di cui sommamente loda le greche non meno che lelatine poesie (l. 4, ep. 3, e 18; l. 5. ep. 11); C. Fannio (l.5, ep. 5), ed altri molti ch'io tralascio per non annoiarechi legge con una inutil serie di nomi. E basti l'aver fa-vellato di questi per saggio di tanti altri poeti di questaetà, le cui poesie son perite, e intorno a' quali si possonvedere i sopraccitati autori.

XXX. Prima però d'innoltrarmi, mi sia leci-to l'aggiugnere qualche cosa intorno a duealtri poeti che dagli eruditi Maurini autoridella Storia Letteraria di Francia (t. 1, p.160), e quindi dall'altre volte citato Ab.Longchamps (Tabl. hist., ec. t. 1, p. 56), sipongono tra i loro scrittori. Il primo è Giulio

Montano. I Maurini saggiamente riflettono che non vi èprova certa ch'ei fosse fratello di Vozieno Montano nar-bonese oratore, e che la somiglianza del nome non è ba-stevole argomento ad asserirlo; ma che nondimeno es-sendo amendue vissuti al tempo medesimo e alla mede-sima corte di Tiberio, e che avendo amendue incorsa ladisgrazia del medesimo imperadore, convien confessareche potevano essere fratelli. La prova non ha gran forza;nondimeno egli è certo che potevano esser fratelli, ben-chè non vi sia indicio bastevole a conghietturare checosì fosse, e si possa perciò da noi sostenere che GiulioMontano non fu fratello di Vozieno, nè fu gallo di nasci-

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Errori di al-cuni scritto-ri nel ragio-nare di Giulio Montano e di Senzio Augurino.

ta, finchè non se ne adduca un probabile argomento. Mal'Ab. Longchamps che non vuol conghietture, o dubbjche lo ritardino, francamente asserisce che furon fratelli,e persuaso che niuno ardirà di contrastarglielo, passa ol-tre, e ci assicura ch'egli disputava la palma poetica a'Virgilii della sua età. Converrà crederlo, poichè egli ildice; ma io non trovo tra gli antichi chi gli dia tal lode. Idue versi di Ovidio in lode di Montano da lui addottiprovano solo ch'egli avea fama di buon poeta e ne' versielegiaci e negli eroici: Quique vel imparibus numeris, Montane, vel æquis Sufficis, et gemino carmine nomen habes

(l. 4. de Ponto el. Ult.).

Seneca il padre ossia il retore, continua lo stesso scritto-re, non teme di pareggiarlo a' più grandi poeti chel'aveano preceduto. Sì certo: Seneca dice in fatti (Con-trov. 16): Montanus Julius qui comis fuit, quique egre-gius poeta. Ognun vede che la traduzione non può esse-re più fedele. Ma Seneca il filosofo nol chiama che colnome di poeta tollerabile (ep. 122). E veramente i versiche lo stesso Seneca a questo luogo ne adduce, e che an-che l'ab. Longchamps ci mette innanzi, come degni di sìgran poeta, sono poi finalmente una descrizione del solnascente in quattro versi, a' quali egli ne aggiugne di se-guito; come se fossero dello stesso poeta, due altri cheSeneca pone in bocca di Varo, sul sol che tramonta. Fi-nalmente aggiugne l'ab. Longchamps che Giulio Monta-no morì anch'egli, come suo fratello Vozieno vittima

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ta, finchè non se ne adduca un probabile argomento. Mal'Ab. Longchamps che non vuol conghietture, o dubbjche lo ritardino, francamente asserisce che furon fratelli,e persuaso che niuno ardirà di contrastarglielo, passa ol-tre, e ci assicura ch'egli disputava la palma poetica a'Virgilii della sua età. Converrà crederlo, poichè egli ildice; ma io non trovo tra gli antichi chi gli dia tal lode. Idue versi di Ovidio in lode di Montano da lui addottiprovano solo ch'egli avea fama di buon poeta e ne' versielegiaci e negli eroici: Quique vel imparibus numeris, Montane, vel æquis Sufficis, et gemino carmine nomen habes

(l. 4. de Ponto el. Ult.).

Seneca il padre ossia il retore, continua lo stesso scritto-re, non teme di pareggiarlo a' più grandi poeti chel'aveano preceduto. Sì certo: Seneca dice in fatti (Con-trov. 16): Montanus Julius qui comis fuit, quique egre-gius poeta. Ognun vede che la traduzione non può esse-re più fedele. Ma Seneca il filosofo nol chiama che colnome di poeta tollerabile (ep. 122). E veramente i versiche lo stesso Seneca a questo luogo ne adduce, e che an-che l'ab. Longchamps ci mette innanzi, come degni di sìgran poeta, sono poi finalmente una descrizione del solnascente in quattro versi, a' quali egli ne aggiugne di se-guito; come se fossero dello stesso poeta, due altri cheSeneca pone in bocca di Varo, sul sol che tramonta. Fi-nalmente aggiugne l'ab. Longchamps che Giulio Monta-no morì anch'egli, come suo fratello Vozieno vittima

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degl'ingiusti sospetti di Tiberio. Su qual fondamento loafferma egli? Su quel medesimo di cui troppo spessoegli usa: la sua autorità. I Maurini confessano che nullasappiamo della sua morte, e realmente altro di lui nontroviamo se non che l'amicizia di cui godea presso Tibe-rio, coll'andar del tempo si raffreddò (Sen. ep. cit.); maquando e come egli morisse, non si ritrova. L'altro poetaè Senzio Augurino; del cui poetico valore grandi cose cinarra in una sua lettera Plinio il giovane (l. 4. ep. 27), ene dà in saggio alcuni versi che quegli in lode di luiavea composti. I Maurini dicono che egli era figlio diGneo Senzio, gallo di nazione, che avea il soprannomed'Illustre (l. 1, p. 253); e l'ab. Longchamps secondo suocostume ne segue fedelmente il parere. Ma io temo che idetti autori siansi qui lasciati abbagliare alquantodall'amor della patria. Essi a conferma del loro detto nonrecano che una nota al detto passo di Plinio, cioè quella,io credo, del Cattaneo che così ha appunto: Filium Cn.Sentii Galli viri illustris. Ma il Cattaneo che visse alprincipio del XVI secolo, è egli autore alla cui sempliceasserzione si debba fede? Pur gli si creda. Il dire GneoSenzio Gallo, è egli lo stesso veramente che dire ch'ei fugallo di nascita? Già abbiam mostrato altrove che un talnome non prova punto. Finalmente il dire che GneoSenzio fu uomo illustre, è egli lo stesso che dire, ch'egliebbe il soprannome d'Illustre? Ma usciam da questecontese, in cui io entro sempre malvolentieri, e solquando il dovere di sincero storico mi costringe a rende-re all'Italia un vanto ingiustamente rapitole.

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degl'ingiusti sospetti di Tiberio. Su qual fondamento loafferma egli? Su quel medesimo di cui troppo spessoegli usa: la sua autorità. I Maurini confessano che nullasappiamo della sua morte, e realmente altro di lui nontroviamo se non che l'amicizia di cui godea presso Tibe-rio, coll'andar del tempo si raffreddò (Sen. ep. cit.); maquando e come egli morisse, non si ritrova. L'altro poetaè Senzio Augurino; del cui poetico valore grandi cose cinarra in una sua lettera Plinio il giovane (l. 4. ep. 27), ene dà in saggio alcuni versi che quegli in lode di luiavea composti. I Maurini dicono che egli era figlio diGneo Senzio, gallo di nazione, che avea il soprannomed'Illustre (l. 1, p. 253); e l'ab. Longchamps secondo suocostume ne segue fedelmente il parere. Ma io temo che idetti autori siansi qui lasciati abbagliare alquantodall'amor della patria. Essi a conferma del loro detto nonrecano che una nota al detto passo di Plinio, cioè quella,io credo, del Cattaneo che così ha appunto: Filium Cn.Sentii Galli viri illustris. Ma il Cattaneo che visse alprincipio del XVI secolo, è egli autore alla cui sempliceasserzione si debba fede? Pur gli si creda. Il dire GneoSenzio Gallo, è egli lo stesso veramente che dire ch'ei fugallo di nascita? Già abbiam mostrato altrove che un talnome non prova punto. Finalmente il dire che GneoSenzio fu uomo illustre, è egli lo stesso che dire, ch'egliebbe il soprannome d'Illustre? Ma usciam da questecontese, in cui io entro sempre malvolentieri, e solquando il dovere di sincero storico mi costringe a rende-re all'Italia un vanto ingiustamente rapitole.

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XXXI. Finalmente non vuolsi omettere ilnome di un altro poeta, di cui nè troviamomemoria alcuna negli antichi scrittori, nèsappiamo che lasciasse dopo di sè alcun

saggio del poetico suo valore, ma che nondimeno esserdoveva eccellente, anzi tale ei si die' a vedere nell'etàancor fresca di tredici anni. Ne doppiam la notizia aun'antica iscrizione che dopo il Grutero ed altri più cor-rettamente è stata pubblicata dal Muratori, anzi perinavvertenza ripetuta due volte nel medesimo tomo(Nov. Thes. Inscr. t. 2. p, 653, e 10109). Eccola quale an-cor si conserva in Guasto città dell'Abbruzzo, detta anti-camente Histonium.L. VALERIO L. F. PVDENTI. HIC CVM ESSET ANNOR-

VM XIII. ROMAE CERTAMINE

SACRO IOVIS CAPITOLINI LUSTRO SEXTO CLARI-TATE INGENII CORONATUS EST

INTER POETAS LATINOS OMNIBUS SENTENTIIS IV-DICVM

HUIC PLEBS VNIVERSA MVNICIPIVM HISTONIENSIUM STATUAM AERE

COLLATO DECREVIT CVRAT. REI.P. AESERNIOR. DATO AB. IMP. OPTIMO

ANTONINO AUG. PIO Dalla qual iscrizione noi raccogliamo che questo valoro-so fanciullo ne' letterarj combattimenti che narrammo disopra essere stati istituiti da Nerone, e poscia rinnovatida Domiziano, essendo egli in età di soli tredici anni, fu

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Valerio Pu-dente poetagiovinetto.

XXXI. Finalmente non vuolsi omettere ilnome di un altro poeta, di cui nè troviamomemoria alcuna negli antichi scrittori, nèsappiamo che lasciasse dopo di sè alcun

saggio del poetico suo valore, ma che nondimeno esserdoveva eccellente, anzi tale ei si die' a vedere nell'etàancor fresca di tredici anni. Ne doppiam la notizia aun'antica iscrizione che dopo il Grutero ed altri più cor-rettamente è stata pubblicata dal Muratori, anzi perinavvertenza ripetuta due volte nel medesimo tomo(Nov. Thes. Inscr. t. 2. p, 653, e 10109). Eccola quale an-cor si conserva in Guasto città dell'Abbruzzo, detta anti-camente Histonium.L. VALERIO L. F. PVDENTI. HIC CVM ESSET ANNOR-

VM XIII. ROMAE CERTAMINE

SACRO IOVIS CAPITOLINI LUSTRO SEXTO CLARI-TATE INGENII CORONATUS EST

INTER POETAS LATINOS OMNIBUS SENTENTIIS IV-DICVM

HUIC PLEBS VNIVERSA MVNICIPIVM HISTONIENSIUM STATUAM AERE

COLLATO DECREVIT CVRAT. REI.P. AESERNIOR. DATO AB. IMP. OPTIMO

ANTONINO AUG. PIO Dalla qual iscrizione noi raccogliamo che questo valoro-so fanciullo ne' letterarj combattimenti che narrammo disopra essere stati istituiti da Nerone, e poscia rinnovatida Domiziano, essendo egli in età di soli tredici anni, fu

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Valerio Pu-dente poetagiovinetto.

a tutti gli altri poeti antiposto. Il lustro sesto caddenell'an. 106 sotto il regno di Traiano; poichè essi furonola prima volta fatti celebrare da Domiziano l'an. 86, nelqual anno si numerò il primo lustro; e quindi rinnovan-dosi essi dopo quattro anni, nell'an. 106 appunto viene acadere il sesto lustro. La statua però non gli fu innalzatache a' tempi di Antonino, quand'egli era protettore dellacittà d'Isernia.

XXXII. Da tutto ciò che intorno a' poeti ab-biam detto finora, egli è evidente che il se-colo di cui parliamo, fu certo inferiore dimolto in ciò ch'è valore poetico al secolod'Augusto; ma non molto gli fu inferiore inciò ch'è numero di poeti. Anzi alcuni degliscrittori di questa età ci parlano in tal ma-

niera, che sembra non mai esservi stati tanti poeti, quan-ti a questa medesima. Giovenale scherza più voltesull'insofferibile noia ch'era quella di dovere continua-mente udir de' versi; e, ciò ch'era peggio, pressochè tuttisu' medesimi triviali argomenti. "Niuno, dic'egli (sat. 1,v. 7), conosce meglio la sua propria casa di quel ch'ioconosca il bosco di Marte, e la spelonca de' Ciclopi, e laforza de' venti, e le ombre da Eaco tormentate". Cosìspesso udivasi egli ricantar queste fole da molesti poeti.E altrove (sat. 3, v. 9) tra gl'incomodi e i pericoli dellacittà rammenta l'importunità de' poeti che anche fra losmanioso caldo d'agosto volevan pure costringere gli

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Gran nume-ro di poeti, che era al-lora in Roma e ra-gione di ciò.

a tutti gli altri poeti antiposto. Il lustro sesto caddenell'an. 106 sotto il regno di Traiano; poichè essi furonola prima volta fatti celebrare da Domiziano l'an. 86, nelqual anno si numerò il primo lustro; e quindi rinnovan-dosi essi dopo quattro anni, nell'an. 106 appunto viene acadere il sesto lustro. La statua però non gli fu innalzatache a' tempi di Antonino, quand'egli era protettore dellacittà d'Isernia.

XXXII. Da tutto ciò che intorno a' poeti ab-biam detto finora, egli è evidente che il se-colo di cui parliamo, fu certo inferiore dimolto in ciò ch'è valore poetico al secolod'Augusto; ma non molto gli fu inferiore inciò ch'è numero di poeti. Anzi alcuni degliscrittori di questa età ci parlano in tal ma-

niera, che sembra non mai esservi stati tanti poeti, quan-ti a questa medesima. Giovenale scherza più voltesull'insofferibile noia ch'era quella di dovere continua-mente udir de' versi; e, ciò ch'era peggio, pressochè tuttisu' medesimi triviali argomenti. "Niuno, dic'egli (sat. 1,v. 7), conosce meglio la sua propria casa di quel ch'ioconosca il bosco di Marte, e la spelonca de' Ciclopi, e laforza de' venti, e le ombre da Eaco tormentate". Cosìspesso udivasi egli ricantar queste fole da molesti poeti.E altrove (sat. 3, v. 9) tra gl'incomodi e i pericoli dellacittà rammenta l'importunità de' poeti che anche fra losmanioso caldo d'agosto volevan pure costringere gli

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Gran nume-ro di poeti, che era al-lora in Roma e ra-gione di ciò.

amici ad ascoltare i lor versi. Plinio il giovane ancora cidescrive in una sua lettera il gran numero de' poeti,ch'era a suoi tempi in Roma; ma insieme si duole che ilpopolo cominciava ad annoiarsi di tanti versi. "Gran co-pia di poeti, dic'egli (l. 1, ep. 13), ci ha dato quest'anno.In tutto il mese d'aprile appena vi è stato giorno in cuinon siasi recitato da alcuno. Io ne godo, perchè si colti-van gli studj, si esercitano e si producono gli ingegni,benchè, a dir vero, difficilmente raccolgansi ad udirli. Ipiù si stanno sedendo a' ridotti pubblici, e passano iltempo udendo novelle; e chieggon poscia se il recitantegià sia entrato, se detta abbia l'introduzione, se abbia giàrecitata gran parte del libro, e allor finalmente, benchè alenti e stentati passi, ci vengono; nè però ci si fermano,ma innanzi al fine altri di nascosto e segretamente, altriapertamente e francamente sen vanno". Così Plinio siduole del poco conto in che aveansi allora i poeti; delche però io non so se i Romani se n'abbino ad incolpare,o i poeti medesimi; perciocchè, come dagli addotti passidi Giovenale si raccoglie, questi per la più parte erantali, che chi ricusava di udirli di lode poteva parer degnoanzichè di biasimo. Ma o buoni, o cattivi fossero i poeti,la stagion loro era passata. Anche quelli tra essi, che go-devano di miglior fama, da' loro versi invano avrebbonoatteso di che campare. Già abbiam veduto che Stazio,benchè riscotesse gran plausi, era nondimeno costretto acomporre azioni teatrali, e a venderle agli attori, se vo-lea trovar di che vivere. "Dove è ora, esclama Giovenale(sat. 7. v. 94), un Mecenate, o un altro uom liberale in-

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amici ad ascoltare i lor versi. Plinio il giovane ancora cidescrive in una sua lettera il gran numero de' poeti,ch'era a suoi tempi in Roma; ma insieme si duole che ilpopolo cominciava ad annoiarsi di tanti versi. "Gran co-pia di poeti, dic'egli (l. 1, ep. 13), ci ha dato quest'anno.In tutto il mese d'aprile appena vi è stato giorno in cuinon siasi recitato da alcuno. Io ne godo, perchè si colti-van gli studj, si esercitano e si producono gli ingegni,benchè, a dir vero, difficilmente raccolgansi ad udirli. Ipiù si stanno sedendo a' ridotti pubblici, e passano iltempo udendo novelle; e chieggon poscia se il recitantegià sia entrato, se detta abbia l'introduzione, se abbia giàrecitata gran parte del libro, e allor finalmente, benchè alenti e stentati passi, ci vengono; nè però ci si fermano,ma innanzi al fine altri di nascosto e segretamente, altriapertamente e francamente sen vanno". Così Plinio siduole del poco conto in che aveansi allora i poeti; delche però io non so se i Romani se n'abbino ad incolpare,o i poeti medesimi; perciocchè, come dagli addotti passidi Giovenale si raccoglie, questi per la più parte erantali, che chi ricusava di udirli di lode poteva parer degnoanzichè di biasimo. Ma o buoni, o cattivi fossero i poeti,la stagion loro era passata. Anche quelli tra essi, che go-devano di miglior fama, da' loro versi invano avrebbonoatteso di che campare. Già abbiam veduto che Stazio,benchè riscotesse gran plausi, era nondimeno costretto acomporre azioni teatrali, e a venderle agli attori, se vo-lea trovar di che vivere. "Dove è ora, esclama Giovenale(sat. 7. v. 94), un Mecenate, o un altro uom liberale in-

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verso i poeti? A que' tempi gli uomini avean premiouguale all'ingegno loro; ma ora essi si rimangon digiuni,e anche nelle più liete feste de' Saturnali costretti sono astarsene senza vino". Ma come tanti poeti, se la poesiagiacevasi così sprezzata? Già ne abbiam recata poc'anzila vera ragione. La liberalità di Augusto e di Mecenateverso i poeti avea persuaso i Romani che un de' mezzipiù sicuri a viver felice era il poetare. Quindi da ognipalmo di terra, per così dire, spicciavan poeti. Il non ve-dersi sulle prime ben ricevuti non bastava a scoraggiarli:si lusingavano che il loro merito sarebbe un giorno rico-nosciuto e premiato. Continuarono perciò a verseggiaree a sperare. Qualche ricompensa data talvolta ad alcunomantenne viva per alcun tempo una sì dolce fiducia. Mafinalmente la sperienza di molti anni convinse i Romaniche la poesia non era più, come una volta, sicura stradaagli onori e alle ricchezze; e la poesia perciò fu quasidel tutto abbandonata, come a suo luogo vedremo.

XXXIII. Rimane or solo che veggiamo inquale stato si fosse in Roma a quest'epoca lapoesia teatrale. Anche allor quando la roma-na letteratura era giunta nel secolo prece-dente alla sua perfezione, il teatro romano

ciò non ostante era restato sempre assai inferiore al gre-co; e ne abbiamo a suo luogo esaminate le cagioni.Quindi molto meno era a sperarsi ch'esso si perfezionas-se a questi tempi in cui ogni altro genere di poesia anda-

192

Stato infeli-ce della poesia tea-trale in Roma.

verso i poeti? A que' tempi gli uomini avean premiouguale all'ingegno loro; ma ora essi si rimangon digiuni,e anche nelle più liete feste de' Saturnali costretti sono astarsene senza vino". Ma come tanti poeti, se la poesiagiacevasi così sprezzata? Già ne abbiam recata poc'anzila vera ragione. La liberalità di Augusto e di Mecenateverso i poeti avea persuaso i Romani che un de' mezzipiù sicuri a viver felice era il poetare. Quindi da ognipalmo di terra, per così dire, spicciavan poeti. Il non ve-dersi sulle prime ben ricevuti non bastava a scoraggiarli:si lusingavano che il loro merito sarebbe un giorno rico-nosciuto e premiato. Continuarono perciò a verseggiaree a sperare. Qualche ricompensa data talvolta ad alcunomantenne viva per alcun tempo una sì dolce fiducia. Mafinalmente la sperienza di molti anni convinse i Romaniche la poesia non era più, come una volta, sicura stradaagli onori e alle ricchezze; e la poesia perciò fu quasidel tutto abbandonata, come a suo luogo vedremo.

XXXIII. Rimane or solo che veggiamo inquale stato si fosse in Roma a quest'epoca lapoesia teatrale. Anche allor quando la roma-na letteratura era giunta nel secolo prece-dente alla sua perfezione, il teatro romano

ciò non ostante era restato sempre assai inferiore al gre-co; e ne abbiamo a suo luogo esaminate le cagioni.Quindi molto meno era a sperarsi ch'esso si perfezionas-se a questi tempi in cui ogni altro genere di poesia anda-

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Stato infeli-ce della poesia tea-trale in Roma.

va decadendo miseramente. Se i compagni di Virgilio edi Orazio non eran giunti a comporre tragedie e comme-die eccellenti, come poteva ciò aspettarsi dai compagnidi Lucano e di Stazio? Le circostanze stesse de' tempinon poco dovettero contribuire all'infelice stato del tea-tro romano. Tiberio, Caligola, Nerone, Domiziano, im-peradori sospettosi al par che crudeli, aveano in conto dicapitale delitto qualunque parola si fosse dagli attoriproferita, che sembrasse occultamente ferirli; e il poetapoteva a ragion temerne la morte, come dalle cose nelprimo Capo riferite si può raccogliere. Qual maravigliadunque se i poeti fatti schiavi, per così dir, dal timore, escrivendo con animo sollecito e pauroso, rimanesserosempre in quella mediocrità da cui non esce se non chipuò liberamente secondare il suo talento?

XXXIV. Come nondimeno frequenti eranoin Roma i teatrali spettacoli, furonvi ancoramolti scrittori di commedie e di tragedie.Tra questi il solo che da Quintiliano si no-mina con elogio (l. 10, c. 1), e che da lui sidice superiore d'assai a tutti gli altri da lui

conosciuti, è Pomponio Secondo, di cui narra che i vec-chi accusavanlo come non troppo tragico, ma confessa-vano nondimeno che in erudizione e in eleganza supera-va tutti. Plinio il vecchio, di cui era stato amicissimo,aveane in due libri scritta la Vita (Plin. jun. l. 3, ep. 5.);e più volte si fa menzione di lui presso Tacito (l. 5 Ann.

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Notizie di diversi scrittori di tragedie e di comme-die.

va decadendo miseramente. Se i compagni di Virgilio edi Orazio non eran giunti a comporre tragedie e comme-die eccellenti, come poteva ciò aspettarsi dai compagnidi Lucano e di Stazio? Le circostanze stesse de' tempinon poco dovettero contribuire all'infelice stato del tea-tro romano. Tiberio, Caligola, Nerone, Domiziano, im-peradori sospettosi al par che crudeli, aveano in conto dicapitale delitto qualunque parola si fosse dagli attoriproferita, che sembrasse occultamente ferirli; e il poetapoteva a ragion temerne la morte, come dalle cose nelprimo Capo riferite si può raccogliere. Qual maravigliadunque se i poeti fatti schiavi, per così dir, dal timore, escrivendo con animo sollecito e pauroso, rimanesserosempre in quella mediocrità da cui non esce se non chipuò liberamente secondare il suo talento?

XXXIV. Come nondimeno frequenti eranoin Roma i teatrali spettacoli, furonvi ancoramolti scrittori di commedie e di tragedie.Tra questi il solo che da Quintiliano si no-mina con elogio (l. 10, c. 1), e che da lui sidice superiore d'assai a tutti gli altri da lui

conosciuti, è Pomponio Secondo, di cui narra che i vec-chi accusavanlo come non troppo tragico, ma confessa-vano nondimeno che in erudizione e in eleganza supera-va tutti. Plinio il vecchio, di cui era stato amicissimo,aveane in due libri scritta la Vita (Plin. jun. l. 3, ep. 5.);e più volte si fa menzione di lui presso Tacito (l. 5 Ann.

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Notizie di diversi scrittori di tragedie e di comme-die.

c. 8; l. 11, c. 13, ec.) L'autor del Dialogo sul decadimen-to dell'eloquenza il dice uomo in gloria non inferiore adalcuno (n. 13). E questa gloria dalle sue tragedie singo-larmente gli fu acquistata, Plinio il giovane di lui rac-conta (l. 7, ep. 17) che allor quando alcuno dei suoi ami-ci esortavalo a far qualche cambiamento nelle sue trage-die, e ch'egli nol giudicava opportuno, soleva provocareal giudizio, del popolo, e ritenere ciò ch'esso col suo ap-plauso approvasse. Il m. Maffei vuole ch'ei fosse vero-nese di patria (Verona illustr. par. 2). A me non parech'egli ne rechi prova valevole ad affermarlo; ma non viha neppure ragion bastevole a negarlo. Veggansi le noti-zie che intorno a questo poeta egli ha diligentementeraccolte, e con lui si avverta che da questo PomponioSecondo vuolsi distinguere un altro Pomponio bologne-se scrittore. di quelle favole che diceansi atellane (12).Materno, uno degl'interlocutori del poc'anzi mentovatoDialogo, viene in esso detto valoroso scrittor di tragedie,e tre singolarmente ivi se ne rammentano intitolate Ca-tone, Medea, e Tieste (n. 2 e 3). Di un Virginio romanoscrittor di commedie parla con grandissimi encomj Pli-nio il giovane (l. 6, ep. 21), dicendo ch'esse potevan es-ser proposte per esemplare, ed aver luogo fra quelle diPlauto, e di Terenzio, e che a lui non mancava nè forza,nè maestà, nè sottigliezza, nè sale, nè dolcezza, nè gra-

12 Per la stessa ragione per cui il march. Maffei, credendo veronese PlinioSecondo, crede ancor veronese Pomponio Secondo, il co. Giovio che dàComo per patria a Plinio, la dà ancora a Pomponio (Gli Uomini III Coma-schi pag. 435.).

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c. 8; l. 11, c. 13, ec.) L'autor del Dialogo sul decadimen-to dell'eloquenza il dice uomo in gloria non inferiore adalcuno (n. 13). E questa gloria dalle sue tragedie singo-larmente gli fu acquistata, Plinio il giovane di lui rac-conta (l. 7, ep. 17) che allor quando alcuno dei suoi ami-ci esortavalo a far qualche cambiamento nelle sue trage-die, e ch'egli nol giudicava opportuno, soleva provocareal giudizio, del popolo, e ritenere ciò ch'esso col suo ap-plauso approvasse. Il m. Maffei vuole ch'ei fosse vero-nese di patria (Verona illustr. par. 2). A me non parech'egli ne rechi prova valevole ad affermarlo; ma non viha neppure ragion bastevole a negarlo. Veggansi le noti-zie che intorno a questo poeta egli ha diligentementeraccolte, e con lui si avverta che da questo PomponioSecondo vuolsi distinguere un altro Pomponio bologne-se scrittore. di quelle favole che diceansi atellane (12).Materno, uno degl'interlocutori del poc'anzi mentovatoDialogo, viene in esso detto valoroso scrittor di tragedie,e tre singolarmente ivi se ne rammentano intitolate Ca-tone, Medea, e Tieste (n. 2 e 3). Di un Virginio romanoscrittor di commedie parla con grandissimi encomj Pli-nio il giovane (l. 6, ep. 21), dicendo ch'esse potevan es-ser proposte per esemplare, ed aver luogo fra quelle diPlauto, e di Terenzio, e che a lui non mancava nè forza,nè maestà, nè sottigliezza, nè sale, nè dolcezza, nè gra-

12 Per la stessa ragione per cui il march. Maffei, credendo veronese PlinioSecondo, crede ancor veronese Pomponio Secondo, il co. Giovio che dàComo per patria a Plinio, la dà ancora a Pomponio (Gli Uomini III Coma-schi pag. 435.).

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zia. Elogio grande per vero dire; ma parmi che Plinio nefosse liberale assai, singolarmente verso coloro a' qualicon sincera amicizia egli era congiunto. Lascio di parla-re di altri men celebri, i cui nomi e i titoli dell'azioni daessi composte si potranno vedere nelle spesso accennateOpere del Giraldi, del Vossio, e del Quadrio; e passo aquello che solo ci è rimasto tra gli scrittori tragici diquesto tempo, cioè a Seneca.

XXXV. Ed eccoci ad una delle più intralcia-te quistioni che in tutta la Storia Letterarias'incontrino, anzi a più quistioni su un argo-mento solo. Chi è il Seneca autor di questetragedie? Chiunque egli sia, è egli l'autor ditutte le tragedie che gli vengono attribuite?Chiunque finalmente ne sia l'autore, in qual

pregio debbon esse aversi? Io mi spedirò brevemente,recando ciò che vi ha di più probabile su ciaschedunaparte. E primieramente non è nemmeno a far parola diquelli che ammettono un solo Seneca autore di tuttel'opere che sotto tal nome ci sono rimaste. Non v'ha orchi non sappia che due di tal nome vi sono stati, padre efiglio, retore il primo, filosofo il secondo. Ma se ad al-cuno di questi due, o ad un terzo Seneca appartenganoqueste tragedie, non è si agevole a diffinire. Gli antichiche talvolta ne han citata alcuna, pare che abbian volutolasciarci nell'incertezza, poichè non mai ne nominanl'autore altrimenti che col semplice nome di Seneca. Del

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Chi sia il Seneca au-tor delle tragedie sotto il nome di lui pubblicate.

zia. Elogio grande per vero dire; ma parmi che Plinio nefosse liberale assai, singolarmente verso coloro a' qualicon sincera amicizia egli era congiunto. Lascio di parla-re di altri men celebri, i cui nomi e i titoli dell'azioni daessi composte si potranno vedere nelle spesso accennateOpere del Giraldi, del Vossio, e del Quadrio; e passo aquello che solo ci è rimasto tra gli scrittori tragici diquesto tempo, cioè a Seneca.

XXXV. Ed eccoci ad una delle più intralcia-te quistioni che in tutta la Storia Letterarias'incontrino, anzi a più quistioni su un argo-mento solo. Chi è il Seneca autor di questetragedie? Chiunque egli sia, è egli l'autor ditutte le tragedie che gli vengono attribuite?Chiunque finalmente ne sia l'autore, in qual

pregio debbon esse aversi? Io mi spedirò brevemente,recando ciò che vi ha di più probabile su ciaschedunaparte. E primieramente non è nemmeno a far parola diquelli che ammettono un solo Seneca autore di tuttel'opere che sotto tal nome ci sono rimaste. Non v'ha orchi non sappia che due di tal nome vi sono stati, padre efiglio, retore il primo, filosofo il secondo. Ma se ad al-cuno di questi due, o ad un terzo Seneca appartenganoqueste tragedie, non è si agevole a diffinire. Gli antichiche talvolta ne han citata alcuna, pare che abbian volutolasciarci nell'incertezza, poichè non mai ne nominanl'autore altrimenti che col semplice nome di Seneca. Del

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Chi sia il Seneca au-tor delle tragedie sotto il nome di lui pubblicate.

filosofo noi sappiamo che di versi ancor si compiacque,e Quintiliano fra gli altri nomina i poemi da lui compo-sti (l. 10, c. 1): ma che egli scrivesse tragedie, espressa-mente nol dice. Sidonio Apollinare distingue (Carm. 9)Seneca il filosofo da Seneca il tragico; con che sembraaccennare che l'autor delle tragedie fosse o il retore, oun altro Seneca da amendue distinto. Quest'ultima opi-nione è stata da alcuni adottata, da' quali si vuole che ilSeneca autor delle tragedie sia diverso e dal retore e dalfilosofo; benchè poi non convenga tra loro chi esso sia,ed altri il dicano figliuol del filosofo, altri nipote, altriun altro qualunque Seneca vissuto sotto Traiano. Maniuno può addurre alcun probabile fondamento della suaopinione; e questo terzo Seneca, come fra gli altri lunga-mente dimostra il dotto Niccolò Antonio (Bibl. hisp. vet.l. 1, c. 9), sembra finto a capriccio. Convien dunque ri-correre ad uno de' due Seneca altronde noti. Ma a qualde' due? Alcuni per non mostrarsi favorevoli più all'unoche all'altro, dividono amichevolmente le tragedie traamendue. Ma il sapersi che Seneca il filosofo fu amantedi poesia, ha indotta la più parte de' moderni scrittori adattribuirgli con più certezza almeno alcune di queste tra-gedie. Il prenome di Lucio proprio del filosofo, con cuicomunemente ne' codici antichi si appella l'autor di esse,conferma alquanto questa opinione. Ma ci convieneconfessar nondimeno che il silenzio e la precisione degliantichi scrittori non ci permette di abbracciarla se noncon timore.

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filosofo noi sappiamo che di versi ancor si compiacque,e Quintiliano fra gli altri nomina i poemi da lui compo-sti (l. 10, c. 1): ma che egli scrivesse tragedie, espressa-mente nol dice. Sidonio Apollinare distingue (Carm. 9)Seneca il filosofo da Seneca il tragico; con che sembraaccennare che l'autor delle tragedie fosse o il retore, oun altro Seneca da amendue distinto. Quest'ultima opi-nione è stata da alcuni adottata, da' quali si vuole che ilSeneca autor delle tragedie sia diverso e dal retore e dalfilosofo; benchè poi non convenga tra loro chi esso sia,ed altri il dicano figliuol del filosofo, altri nipote, altriun altro qualunque Seneca vissuto sotto Traiano. Maniuno può addurre alcun probabile fondamento della suaopinione; e questo terzo Seneca, come fra gli altri lunga-mente dimostra il dotto Niccolò Antonio (Bibl. hisp. vet.l. 1, c. 9), sembra finto a capriccio. Convien dunque ri-correre ad uno de' due Seneca altronde noti. Ma a qualde' due? Alcuni per non mostrarsi favorevoli più all'unoche all'altro, dividono amichevolmente le tragedie traamendue. Ma il sapersi che Seneca il filosofo fu amantedi poesia, ha indotta la più parte de' moderni scrittori adattribuirgli con più certezza almeno alcune di queste tra-gedie. Il prenome di Lucio proprio del filosofo, con cuicomunemente ne' codici antichi si appella l'autor di esse,conferma alquanto questa opinione. Ma ci convieneconfessar nondimeno che il silenzio e la precisione degliantichi scrittori non ci permette di abbracciarla se noncon timore.

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XXXVI. Nulla meno difficile a diffinire èl'altra quistione, se quel qualunque Senecache si voglia scrittor di tragedie, sia vera-mente autore di tutte quelle che vanno sottotal nome. Il Quadrio (t. 4, p. 46) e il co. di

S. Rafaele (Sec. d'Aug. p. 181) han troppo facilmenteadottata l'opinion di coloro i quali pretendono chel'Ottavia non possa essere opera del filosofo Seneca,perchè questi prima di essa fu ucciso. Egli è certo cheOttavia fu uccisa l'an. 62, e Seneca l'an. 65 (V. TillemontMém. des Emper. t. 1 Ner. art. 15, e 20) e che questi per-ciò ebbe agio, se il volle, a comporre una tragedia sutale argomento. La diversità dello stile, che da alcuni inesso si osserva, è la principale anzi l'unica ragione a cre-dere che non tutte sian opera dello stesso autore; e per-ciò che appartiene all'Ottavia, convengono tutti comu-nemente ch'ella sia d'altra mano. Ma questo argomentotratto dalla diversità dello stile, ha esso quella forza cheda alcuni gli si attribuisce? Non potrebbesi dire per av-ventura che alcune da Seneca furon composte, mentre sene stava esule nella Corsica, e ch'esse per ciò si risento-no della tristezza e dell'abbattimento in cui era il loroautore? Oltre di che, leggansi di grazia i pareri de' diver-si autori sulle diverse tragedie di Seneca raccolti dalBaillet (Jug. des Sav. t. 3, p. 254) e dal Fabricio (Bibl.lat. l. 2, c. 9), e vedrassi come essi sieno di gusto tra lorconcordi. La Tebaide da Giusto Lipsio si antipone a tuttel'altre, per tal maniera ch'ei pensa ch'ella appartenga alsecol d'Augusto. Giuseppe Scaligero e Daniele Einsio

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Diversi sentimenti su' diversi autori di esse.

XXXVI. Nulla meno difficile a diffinire èl'altra quistione, se quel qualunque Senecache si voglia scrittor di tragedie, sia vera-mente autore di tutte quelle che vanno sottotal nome. Il Quadrio (t. 4, p. 46) e il co. di

S. Rafaele (Sec. d'Aug. p. 181) han troppo facilmenteadottata l'opinion di coloro i quali pretendono chel'Ottavia non possa essere opera del filosofo Seneca,perchè questi prima di essa fu ucciso. Egli è certo cheOttavia fu uccisa l'an. 62, e Seneca l'an. 65 (V. TillemontMém. des Emper. t. 1 Ner. art. 15, e 20) e che questi per-ciò ebbe agio, se il volle, a comporre una tragedia sutale argomento. La diversità dello stile, che da alcuni inesso si osserva, è la principale anzi l'unica ragione a cre-dere che non tutte sian opera dello stesso autore; e per-ciò che appartiene all'Ottavia, convengono tutti comu-nemente ch'ella sia d'altra mano. Ma questo argomentotratto dalla diversità dello stile, ha esso quella forza cheda alcuni gli si attribuisce? Non potrebbesi dire per av-ventura che alcune da Seneca furon composte, mentre sene stava esule nella Corsica, e ch'esse per ciò si risento-no della tristezza e dell'abbattimento in cui era il loroautore? Oltre di che, leggansi di grazia i pareri de' diver-si autori sulle diverse tragedie di Seneca raccolti dalBaillet (Jug. des Sav. t. 3, p. 254) e dal Fabricio (Bibl.lat. l. 2, c. 9), e vedrassi come essi sieno di gusto tra lorconcordi. La Tebaide da Giusto Lipsio si antipone a tuttel'altre, per tal maniera ch'ei pensa ch'ella appartenga alsecol d'Augusto. Giuseppe Scaligero e Daniele Einsio

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Diversi sentimenti su' diversi autori di esse.

non la reputan degna neppur di Seneca. Al contrariol'Einsio loda altamente le Troadi, e non teme di antipor-re questa tragedia a quella da Euripide scritta sull'argo-mento medesimo, e lo Scaligero ancora le dà il primoluogo tra le tragedie latine. Ma Giusto Lipsio con altri lavoglion opera di un poeta da nulla. L'Ottavia ancorasembra allo Scaligero degna di Seneca; a Giusto Lipsiopare la più vil cosa del mondo. Così tutti lusingansi diaver palato a ben decider del gusto; ma appena è maiche il lor gusto sia conforme all'altrui. Quindi su questopunto ancor io penso che nulla si possa decidere franca-mente, e che ognun possa sentirne come meglio gli pia-ce. Ciò che di certo si può solo affermare, si è chel'Ercole Furioso, il Tieste, l'Ippolito, le Troadi, la Me-dea, l'Agamennone da alcuni antichi scrittori, singolar-mente gramatici, sono citate sotto il nome di Seneca,come dimostra il mentovato Fabricio.

XXXVII. Più francamente ragionerò io sul-la terza quistione, cioè sul merito delle tra-gedie di Seneca; poichè son certo di aver se-guaci del mio parere tutti coloro che nella

diligente lettura de' tragici più famosi si sono esercitati.Io sto per dire che eresia letteraria non si è mai uditapeggior di quella che uscì dalla penna di Giulio CesareScaligero, quando affermò (Poet. l. 5, c. 6) che "le Tra-gedie di Seneca non erano in maestà inferiori a quellede' Greci, e che anzi per ornamento e per grazia supera-

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Loro carat-tere, e loro stile.

non la reputan degna neppur di Seneca. Al contrariol'Einsio loda altamente le Troadi, e non teme di antipor-re questa tragedia a quella da Euripide scritta sull'argo-mento medesimo, e lo Scaligero ancora le dà il primoluogo tra le tragedie latine. Ma Giusto Lipsio con altri lavoglion opera di un poeta da nulla. L'Ottavia ancorasembra allo Scaligero degna di Seneca; a Giusto Lipsiopare la più vil cosa del mondo. Così tutti lusingansi diaver palato a ben decider del gusto; ma appena è maiche il lor gusto sia conforme all'altrui. Quindi su questopunto ancor io penso che nulla si possa decidere franca-mente, e che ognun possa sentirne come meglio gli pia-ce. Ciò che di certo si può solo affermare, si è chel'Ercole Furioso, il Tieste, l'Ippolito, le Troadi, la Me-dea, l'Agamennone da alcuni antichi scrittori, singolar-mente gramatici, sono citate sotto il nome di Seneca,come dimostra il mentovato Fabricio.

XXXVII. Più francamente ragionerò io sul-la terza quistione, cioè sul merito delle tra-gedie di Seneca; poichè son certo di aver se-guaci del mio parere tutti coloro che nella

diligente lettura de' tragici più famosi si sono esercitati.Io sto per dire che eresia letteraria non si è mai uditapeggior di quella che uscì dalla penna di Giulio CesareScaligero, quando affermò (Poet. l. 5, c. 6) che "le Tra-gedie di Seneca non erano in maestà inferiori a quellede' Greci, e che anzi per ornamento e per grazia supera-

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Loro carat-tere, e loro stile.

van quelle d'Euripide". Ma per buona ventura ei non haavuti molti seguaci del suo errore. E certo chi da Sofo-cle e da Euripide passa a legger Seneca, non può a menodi non conoscere quanto andasse lo Scaligero lontanodal vero. Naturalezza, verisimiglianza, uniformità di ca-rattere, tenerezza di affetto, contrasto di passioni, intrec-cio di accidenti sono cose tutte, si può dire, a Senecasconosciute. Sentenze e declamazioni, ecco il forte e ilmaraviglioso di questo scrittore. I suoi versi, come diceleggiadramente il p. Brumoy (Théâtre des Grecs t. 1, p.344, éd. D'Amst. 1732), sono pieni d'una cotale idropisiapoetica che ributta. Egli è vero che ha spesso sentimentigrandi, ma il più delle volte essi son fuor di luogo. Leleggi poi che per universal sentimento fondato sulla na-tura medesima delle cose sono prescritte a somiglianticomponimenti, pare che a Seneca fossero appena note.Ma troppo oltre mi condurrebbe il farne un accuratoesame, il quale anche per ciò sarebbe inutile, che già loabbiamo nell'incomparabile Teatro de' Greci del mento-vato p. Brumoy. Tutte le tragedie nelle quali Seneca hapreso l'argomento da' Greci, sono state da lui paragonateco' loro originali; e basta leggere le giustissime riflessio-ni che su ciascheduna egli ha fatte, per conoscere se ildispregio in cui ora comunemente si hanno le tragediedi Seneca, sia ragionevole (13). Più cose intorno al parere13 Il sig. ab. Lampillas ha impiegate più di quindici pagine a difender le Tra-

gedie di Seneca contro l'accusa ch'io, qui ne ho fatta (Saggio Apolog. Par.2, t. 4, p. 29, 41). E il più leggiadro di questa difesa si è ch'ei molto in essasi vale dell'autorità del p. Brumoy, a cui pure ho rimessi i miei lettori.Ognun legga quest'eloquente apologia, e volentieri mi darò vinto, se parrà

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van quelle d'Euripide". Ma per buona ventura ei non haavuti molti seguaci del suo errore. E certo chi da Sofo-cle e da Euripide passa a legger Seneca, non può a menodi non conoscere quanto andasse lo Scaligero lontanodal vero. Naturalezza, verisimiglianza, uniformità di ca-rattere, tenerezza di affetto, contrasto di passioni, intrec-cio di accidenti sono cose tutte, si può dire, a Senecasconosciute. Sentenze e declamazioni, ecco il forte e ilmaraviglioso di questo scrittore. I suoi versi, come diceleggiadramente il p. Brumoy (Théâtre des Grecs t. 1, p.344, éd. D'Amst. 1732), sono pieni d'una cotale idropisiapoetica che ributta. Egli è vero che ha spesso sentimentigrandi, ma il più delle volte essi son fuor di luogo. Leleggi poi che per universal sentimento fondato sulla na-tura medesima delle cose sono prescritte a somiglianticomponimenti, pare che a Seneca fossero appena note.Ma troppo oltre mi condurrebbe il farne un accuratoesame, il quale anche per ciò sarebbe inutile, che già loabbiamo nell'incomparabile Teatro de' Greci del mento-vato p. Brumoy. Tutte le tragedie nelle quali Seneca hapreso l'argomento da' Greci, sono state da lui paragonateco' loro originali; e basta leggere le giustissime riflessio-ni che su ciascheduna egli ha fatte, per conoscere se ildispregio in cui ora comunemente si hanno le tragediedi Seneca, sia ragionevole (13). Più cose intorno al parere13 Il sig. ab. Lampillas ha impiegate più di quindici pagine a difender le Tra-

gedie di Seneca contro l'accusa ch'io, qui ne ho fatta (Saggio Apolog. Par.2, t. 4, p. 29, 41). E il più leggiadro di questa difesa si è ch'ei molto in essasi vale dell'autorità del p. Brumoy, a cui pure ho rimessi i miei lettori.Ognun legga quest'eloquente apologia, e volentieri mi darò vinto, se parrà

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di diversi scrittori sull'autore delle tragedie medesime sipotranno vedere negli scrittori che abbiam mentovati, esingolarmente nel p. Martin del Rio e in Niccolò Anto-nio. Noi frattanto dalla poesia che lungamente ancorquesta volta ci ha trattenuti, ma in cui nelle seguentiepoche dovremo essere assai più brevi, passiamo a ve-dere in quale stato fossero in Roma gli altri studj.

CAPO III.Eloquenza.

I. L'eloquenza portata da Cicerone e daalcuni altri oratori che con lui vissero, allasua maggior perfezione, fin da' tempid'Augusto avea cominciato a decadere as-sai. Di questo decadimento abbiamo esa-minata l'origine e le cagioni nel preceden-

te volume (V. t. 1, p. 240, ec.), e abbiamo osservato chegran parte certo vi ebbe la diversa costituzione della re-pubblica, ma assai più il capriccio degli oratori, e il de-siderio di andare innanzi in gloria a que' che gli aveanopreceduti. Questo nuovo e vizioso genere di eloquenza,il cui pregio era riposto singolarmente in un affettatoraffinamento di pensieri, in uno smodato uso di sotti-gliezze che talvolta erano ingegnose, ma per lo più insi-pide e fredde, e in una cotal aria di maraviglioso, sotto

a' più saggi, ch'io abbia errato.

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Ragioni prin-cipali del de-cadimento dell'eloquenzadopo la morte di Augusto.

di diversi scrittori sull'autore delle tragedie medesime sipotranno vedere negli scrittori che abbiam mentovati, esingolarmente nel p. Martin del Rio e in Niccolò Anto-nio. Noi frattanto dalla poesia che lungamente ancorquesta volta ci ha trattenuti, ma in cui nelle seguentiepoche dovremo essere assai più brevi, passiamo a ve-dere in quale stato fossero in Roma gli altri studj.

CAPO III.Eloquenza.

I. L'eloquenza portata da Cicerone e daalcuni altri oratori che con lui vissero, allasua maggior perfezione, fin da' tempid'Augusto avea cominciato a decadere as-sai. Di questo decadimento abbiamo esa-minata l'origine e le cagioni nel preceden-

te volume (V. t. 1, p. 240, ec.), e abbiamo osservato chegran parte certo vi ebbe la diversa costituzione della re-pubblica, ma assai più il capriccio degli oratori, e il de-siderio di andare innanzi in gloria a que' che gli aveanopreceduti. Questo nuovo e vizioso genere di eloquenza,il cui pregio era riposto singolarmente in un affettatoraffinamento di pensieri, in uno smodato uso di sotti-gliezze che talvolta erano ingegnose, ma per lo più insi-pide e fredde, e in una cotal aria di maraviglioso, sotto

a' più saggi, ch'io abbia errato.

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Ragioni prin-cipali del de-cadimento dell'eloquenzadopo la morte di Augusto.

cui travestivansi i più ordinarj sentimenti, questo nuovogenere, dico, di eloquenza usato e commendato da uo-mini che pel loro ingegno e sapere aveansi a ragione ingran pregio, e non combattuto dalla disapprovazione delpopolo che appena avea allora occasione di mostrare colfatto qual conto facesse degli oratori, piacque per la suamedesima novità; e, come suol avvenire, tutti s'invaghi-rono di battere la nuova strada che vedeansi aperta in-nanzi, e tanto più ch'ella aveva l'apparenza di più diffici-le assai, e perciò assai più gloriosa di quella che battutaavevano i loro predecessori. Avvenne al medesimo tem-po, come nella Dissertazion preliminare si è osservato,che il gran numero di stranieri che da ogni partedell'impero accorrevano a Roma, cominciò ad alterare lapurità del linguaggio, e un non so che di rozzo, di aspro,e d'incolto s'introdusse nel favellar de' Romani, che cre-scendo ogni giorno più lo condusse finalmente a quellabarbarie, a cui lo vedrem giunto ne' secoli susseguenti.Così tutte le circostanze concorsero a rendere sempremaggiore il decadimento dell'eloquenza. Noi dobbiamoora vederne e esaminarne i progressi che appartengonoall'epoca di cui trattiamo; in cui vedremo la romana elo-quenza decadere bensì, ma di tanto in tanto far qualchesforzo per sollevarsi ancora, per modo che si potessesperare di vederla un giorno risorgere, se più felici statifossero i tempi che venner dopo.

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cui travestivansi i più ordinarj sentimenti, questo nuovogenere, dico, di eloquenza usato e commendato da uo-mini che pel loro ingegno e sapere aveansi a ragione ingran pregio, e non combattuto dalla disapprovazione delpopolo che appena avea allora occasione di mostrare colfatto qual conto facesse degli oratori, piacque per la suamedesima novità; e, come suol avvenire, tutti s'invaghi-rono di battere la nuova strada che vedeansi aperta in-nanzi, e tanto più ch'ella aveva l'apparenza di più diffici-le assai, e perciò assai più gloriosa di quella che battutaavevano i loro predecessori. Avvenne al medesimo tem-po, come nella Dissertazion preliminare si è osservato,che il gran numero di stranieri che da ogni partedell'impero accorrevano a Roma, cominciò ad alterare lapurità del linguaggio, e un non so che di rozzo, di aspro,e d'incolto s'introdusse nel favellar de' Romani, che cre-scendo ogni giorno più lo condusse finalmente a quellabarbarie, a cui lo vedrem giunto ne' secoli susseguenti.Così tutte le circostanze concorsero a rendere sempremaggiore il decadimento dell'eloquenza. Noi dobbiamoora vederne e esaminarne i progressi che appartengonoall'epoca di cui trattiamo; in cui vedremo la romana elo-quenza decadere bensì, ma di tanto in tanto far qualchesforzo per sollevarsi ancora, per modo che si potessesperare di vederla un giorno risorgere, se più felici statifossero i tempi che venner dopo.

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II. Innanzi ad ogni altra cosa vuolsi qui esa-minare ciò che appartiene all'antico Dialogointitolato De Caussis corruptæ Eloquentiæ,che or tra le opere di Quintiliano, or traquelle di Tacito si vede stampato, da cuimolto possiam raccogliere intorno a questoargomento. Chi siane l'autore, non è facile a

stabilire. Da alcuni credesi Quintiliano, da altri Tacito;ma quasi tutti convengono che nulla si può affermare dicerto. Io credo anzi che si possa affermar con certezzache nè all'uno, nè all'altro non si può attribuire. E quantoa Tacito, io confesso che non so indurmi ad abbracciareil parere di quelli che nel fanno autore. Al sol leggernedue, o tre periodi, a me pare di scorgervi uno stile diver-so per tal maniera da quel di Tacito, che ancorchè io nonreputi comunemente troppo forte l'argomento preso dal-la diversità dello stile, in questo caso nondimeno parmi,direi quasi, impossibile che lo scrittor del Dialogo sia lostesso che lo scrittor della storia e degli Annali. Inutil-mente stancasi il Salinerio (Not. ad hunc Dial.)nell'andare in cerca di alcune frasi delle Storie di Tacito,che incontransi ancora in questo Dialogo. Qual autore viè mai, in cui non trovinsi espressioni da altri usate? Aquesta maniera un'epistola di Seneca potrebbe dirsiscritta da Cicerone. Ma egli è certo che in questo Dialo-go non trovasi punto della precisazione, della forza,dell'oscurità, dell'antitesi, del sentenziar concettoso diTacito. Lo stile è dolce, facile, sciolto, e tale che, se nonvi fossero alcune espressioni che sanno di età più tarda,

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Dialogo an-tico su que-sto argo-mento: non ne è autore nè Tacito, nè Quinti-liano.

II. Innanzi ad ogni altra cosa vuolsi qui esa-minare ciò che appartiene all'antico Dialogointitolato De Caussis corruptæ Eloquentiæ,che or tra le opere di Quintiliano, or traquelle di Tacito si vede stampato, da cuimolto possiam raccogliere intorno a questoargomento. Chi siane l'autore, non è facile a

stabilire. Da alcuni credesi Quintiliano, da altri Tacito;ma quasi tutti convengono che nulla si può affermare dicerto. Io credo anzi che si possa affermar con certezzache nè all'uno, nè all'altro non si può attribuire. E quantoa Tacito, io confesso che non so indurmi ad abbracciareil parere di quelli che nel fanno autore. Al sol leggernedue, o tre periodi, a me pare di scorgervi uno stile diver-so per tal maniera da quel di Tacito, che ancorchè io nonreputi comunemente troppo forte l'argomento preso dal-la diversità dello stile, in questo caso nondimeno parmi,direi quasi, impossibile che lo scrittor del Dialogo sia lostesso che lo scrittor della storia e degli Annali. Inutil-mente stancasi il Salinerio (Not. ad hunc Dial.)nell'andare in cerca di alcune frasi delle Storie di Tacito,che incontransi ancora in questo Dialogo. Qual autore viè mai, in cui non trovinsi espressioni da altri usate? Aquesta maniera un'epistola di Seneca potrebbe dirsiscritta da Cicerone. Ma egli è certo che in questo Dialo-go non trovasi punto della precisazione, della forza,dell'oscurità, dell'antitesi, del sentenziar concettoso diTacito. Lo stile è dolce, facile, sciolto, e tale che, se nonvi fossero alcune espressioni che sanno di età più tarda,

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Dialogo an-tico su que-sto argo-mento: non ne è autore nè Tacito, nè Quinti-liano.

potrebbesi credere a ragione un componimento del secoldi Cesare, o di Augusto (14). Questa difficoltà non èugualmente forte per riguardo a Quintiliano, il cui stile,benchè non sia sì colto come quello del Dialogo, non èperò sì diverso che non possa egli ancora credersene au-tore. Ma altre ragioni ci vietan di farlo. Il Dodwello(Ann. Quint. 11, 28) molte ne arreca, di cui due sole ioaccennerò brevemente. Quintiliano dice (l. 8, c. 6) diaver lungamente trattato dell'iperbole nel libro in cui haesposte le ragioni del decadimento dell'eloquenza. Sedde hac satis, quia eumdem locum plenius in eo libro quocaussas corruptæ eloquentiæreddebamus, tractavimus.E queste son le parole che hanno condotti alcuni a cre-dere Quintiliano autor di questo Dialogo. A dir veroperò, da queste parole medesime si prova la falsità di

14 Il p. Brotier, della cui bella edizione di Tacito venutami tardi alle mani par-lerò nel Capo seguente, crede e sostiene che Tacito sia l'autor del Dialogo;e alla difficoltà principale ch'è la diversità dello stile, risponde che proba-bilmente egli lo scrisse in età giovanile. Che Tacito fosse giovane quandosi tenne il Dialogo, cioè nel sesto anno di Vespasiano, non può negarsi; es-sendo egli nato verso l'an. 60, come vedremo, e cadendo il sesto anno diquesto imperadore nel 75. Ma che l'autor lo scrivesse in età giovanile, nonparmi che si possa bastantemente provare. Certo ei parla in modo nella in-troduzione, cui recheremo frappoco, che sembra indicare esser già trascor-so non poco tempo, dacchè egli era intervenuto al Dialogo. Innoltre egli èvero che spesso un autor medesimo in diverse età e in occasioni diverseusa di diverso stile: ma appena è mai che non vi si vegga una maniera dipensare e di scrivere assai somigliante; trattone allor quando si voglia stu-diosamente contraffare lo stile; il che io non veggo per qual ragione si vo-lesse fare da Tacito. Confesso nondimeno che il vedere il p. Brotier, uomosì lungamente versato nella lettura non sol di Tacito, ma di tutti gli antichiautori, essere di parere contrario al mio, mi rende assai più incerto e dub-bioso ch'io dapprima non fossi su questo.

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potrebbesi credere a ragione un componimento del secoldi Cesare, o di Augusto (14). Questa difficoltà non èugualmente forte per riguardo a Quintiliano, il cui stile,benchè non sia sì colto come quello del Dialogo, non èperò sì diverso che non possa egli ancora credersene au-tore. Ma altre ragioni ci vietan di farlo. Il Dodwello(Ann. Quint. 11, 28) molte ne arreca, di cui due sole ioaccennerò brevemente. Quintiliano dice (l. 8, c. 6) diaver lungamente trattato dell'iperbole nel libro in cui haesposte le ragioni del decadimento dell'eloquenza. Sedde hac satis, quia eumdem locum plenius in eo libro quocaussas corruptæ eloquentiæreddebamus, tractavimus.E queste son le parole che hanno condotti alcuni a cre-dere Quintiliano autor di questo Dialogo. A dir veroperò, da queste parole medesime si prova la falsità di

14 Il p. Brotier, della cui bella edizione di Tacito venutami tardi alle mani par-lerò nel Capo seguente, crede e sostiene che Tacito sia l'autor del Dialogo;e alla difficoltà principale ch'è la diversità dello stile, risponde che proba-bilmente egli lo scrisse in età giovanile. Che Tacito fosse giovane quandosi tenne il Dialogo, cioè nel sesto anno di Vespasiano, non può negarsi; es-sendo egli nato verso l'an. 60, come vedremo, e cadendo il sesto anno diquesto imperadore nel 75. Ma che l'autor lo scrivesse in età giovanile, nonparmi che si possa bastantemente provare. Certo ei parla in modo nella in-troduzione, cui recheremo frappoco, che sembra indicare esser già trascor-so non poco tempo, dacchè egli era intervenuto al Dialogo. Innoltre egli èvero che spesso un autor medesimo in diverse età e in occasioni diverseusa di diverso stile: ma appena è mai che non vi si vegga una maniera dipensare e di scrivere assai somigliante; trattone allor quando si voglia stu-diosamente contraffare lo stile; il che io non veggo per qual ragione si vo-lesse fare da Tacito. Confesso nondimeno che il vedere il p. Brotier, uomosì lungamente versato nella lettura non sol di Tacito, ma di tutti gli antichiautori, essere di parere contrario al mio, mi rende assai più incerto e dub-bioso ch'io dapprima non fossi su questo.

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tale opinione. Perciocchè intorno all'iperbole nulla veg-giam nel Dialogo di cui trattiamo, il quale anzi è ditutt'altro argomento, che delle figure usate dagli oratori.Ma a questo dialogo, dicono alcuni, un altro doveva es-ser congiunto; poichè nel finir di esso si fa qualche cen-no di voler tornare sulla stessa materia. Sì certo, ma sul-la stessa materia appunto, cioè "ad illustrare le cose chepotessero sembrare oscure nel tenuto Dialogo" non atrattare di un argomento di cui nello stesso Dialogo nonerasi fatto motto. Innoltre l'autor del Dialogo narrach'egli assai giovane udì disputare tra loro i personaggiche in esso ragionano; e il Dialogo si suppone tenutol'anno sesto dell'impero di Vespasiano. Or il Dodwello(l. c.) con buone ragioni ha mostrato che Quintilianoavea allora trentadue, o trentatre anni; nè poteva perciòdirsi giovane assai, admodum juvenis.

III. Nè a Quintiliano dunque, nè a Tacitonon si può fondatamente attribuire questoDialogo. Una nuova opinione sull'autore di

esso hanno proposta gli eruditi Maurini autori della Sto-ria Letteraria di Francia, i quali hanno pensato (t. 1, p.218, ec.) che Marco Apro uno degl'interlocutori del Dia-logo ne sia anche l'autore. Di quest'uomo altre notizienoi non abbiamo, se non quelle che in questo stessoDialogo viene egli introdotto a dare di se medesimo. Daesso noi ricaviamo che egli era nativo delle Gallie, poi-chè le chiama col nome di nostre: de Gallis nostris (n.

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Nè Marco Apro.

tale opinione. Perciocchè intorno all'iperbole nulla veg-giam nel Dialogo di cui trattiamo, il quale anzi è ditutt'altro argomento, che delle figure usate dagli oratori.Ma a questo dialogo, dicono alcuni, un altro doveva es-ser congiunto; poichè nel finir di esso si fa qualche cen-no di voler tornare sulla stessa materia. Sì certo, ma sul-la stessa materia appunto, cioè "ad illustrare le cose chepotessero sembrare oscure nel tenuto Dialogo" non atrattare di un argomento di cui nello stesso Dialogo nonerasi fatto motto. Innoltre l'autor del Dialogo narrach'egli assai giovane udì disputare tra loro i personaggiche in esso ragionano; e il Dialogo si suppone tenutol'anno sesto dell'impero di Vespasiano. Or il Dodwello(l. c.) con buone ragioni ha mostrato che Quintilianoavea allora trentadue, o trentatre anni; nè poteva perciòdirsi giovane assai, admodum juvenis.

III. Nè a Quintiliano dunque, nè a Tacitonon si può fondatamente attribuire questoDialogo. Una nuova opinione sull'autore di

esso hanno proposta gli eruditi Maurini autori della Sto-ria Letteraria di Francia, i quali hanno pensato (t. 1, p.218, ec.) che Marco Apro uno degl'interlocutori del Dia-logo ne sia anche l'autore. Di quest'uomo altre notizienoi non abbiamo, se non quelle che in questo stessoDialogo viene egli introdotto a dare di se medesimo. Daesso noi ricaviamo che egli era nativo delle Gallie, poi-chè le chiama col nome di nostre: de Gallis nostris (n.

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Nè Marco Apro.

10); che, benchè fosse nato in città, come ei dice, pocofavorita, era nondimeno giunto a ragguardevoli carichenella repubblica; e ch'era stato questore, tribuno, preto-re; e che assai di spesso e volentieri si esercitava in trat-tare le cause (n. 7). Ei narra ancora (n. 17) ch'egli aveaveduto nella Gran Bretagna un vecchio, il quale avea ivicombattuto contro di Cesare, il che accadde l'anno diRoma 698, cioè 56 anni innanzi l'era cristiana, comin-ciandola dall'anno di Roma 154. E da quest'epoca argo-mentano i Maurini che Apro dovette andarsene in Bret-tagna verso l'anno 30 dell'era cristiana, essendo egli inetà di circa 20 anni; da che ne viene che nel sesto annodi Vespasiano, in cui si tenne il Dialogo, che cadenell'an. 74, ei dovea avere circa 64 anni di età. Egli è as-sai difficile il conciliare insieme quest'epoche, quandonon vogliasi dire che il soldato brettone, che avrà certoavuto almen 15 anni quando combattè contro Cesare,campasse oltre cento anni; perciocchè dalla discesa diCesare nella Brettagna, accaduta 56 anni innanzi all'eracristiana, fino all'an. 30 della stessa era, egli è evidenteche passarono 86 anni. Ma non è questo punto di sìgrande importanza, che ci convenga il disputarne piùlungamente. Veggiamo anzi quali ragioni si adducanoda' dotti Maurini a provare che Apro sia l'autore delDialogo. Questo, dicono essi, è indirizzato a stabilire ilsentimento di Apro, cioè che l'eloquenza de' tempi suoisia più pregevole che l'antica di Cicerone e degli altri diquella età; c'est, così essi medesimi, c'est par où débutel'auteurdu Dialogue avec une espece de triomphe. Que-

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10); che, benchè fosse nato in città, come ei dice, pocofavorita, era nondimeno giunto a ragguardevoli carichenella repubblica; e ch'era stato questore, tribuno, preto-re; e che assai di spesso e volentieri si esercitava in trat-tare le cause (n. 7). Ei narra ancora (n. 17) ch'egli aveaveduto nella Gran Bretagna un vecchio, il quale avea ivicombattuto contro di Cesare, il che accadde l'anno diRoma 698, cioè 56 anni innanzi l'era cristiana, comin-ciandola dall'anno di Roma 154. E da quest'epoca argo-mentano i Maurini che Apro dovette andarsene in Bret-tagna verso l'anno 30 dell'era cristiana, essendo egli inetà di circa 20 anni; da che ne viene che nel sesto annodi Vespasiano, in cui si tenne il Dialogo, che cadenell'an. 74, ei dovea avere circa 64 anni di età. Egli è as-sai difficile il conciliare insieme quest'epoche, quandonon vogliasi dire che il soldato brettone, che avrà certoavuto almen 15 anni quando combattè contro Cesare,campasse oltre cento anni; perciocchè dalla discesa diCesare nella Brettagna, accaduta 56 anni innanzi all'eracristiana, fino all'an. 30 della stessa era, egli è evidenteche passarono 86 anni. Ma non è questo punto di sìgrande importanza, che ci convenga il disputarne piùlungamente. Veggiamo anzi quali ragioni si adducanoda' dotti Maurini a provare che Apro sia l'autore delDialogo. Questo, dicono essi, è indirizzato a stabilire ilsentimento di Apro, cioè che l'eloquenza de' tempi suoisia più pregevole che l'antica di Cicerone e degli altri diquella età; c'est, così essi medesimi, c'est par où débutel'auteurdu Dialogue avec une espece de triomphe. Que-

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sta opinione di Apro, continuano essi, vi e' sostenutacon più calore che la contraria; e se Apro non replicaalle ragioni dagli altri contro di lui allegate, ciò deesi at-tribuire all'essere perita la seconda parte di questo Dia-logo, che probabilmente sarà stata una risposta a ciò chenella prima parte erasi disputato. Gli altri ancora, ben-chè sostenitori di altro parere, fanno nondimeno granplauso al discorso di Apro. Finalmente più circostanzesi toccano della vita di Apro, che non degli altri che aquesto Dialogo hanno parte. Tutte queste ragioni, ancor-chè fossero vere, poco nondimeno gioverebbono, a miocredere, a stabilire una tale opinione. Ma l'esattezza el'erudizione di questi rinnomati scrittori ci permettereb-be ella di nemmen sospettare che in questo Dialogo ap-pena vi fosse alcuna di quelle cose ch'essi asseriscono?Eppure, o io nulla intendo di espressione latina, o certovi trovo anzi in molte cose tutto il contrario. Donde rac-colgono essi che lo scopo dell'autor del Dialogo siad'innalzare la moderna eloquenza sopra l'antica? E qualeè mai questa introduzione in cui con una specie di trion-fo si propone un tal sentimento? Eccola fedelmente tra-dotta: "Spesse volte, o Giusto Fabio, mi chiedi per qualragione, mentre i passati secoli per l'ingegno e per lagloria degli oratori sono stati sì illustri, la nostra età pri-va in tutto e spogliata di cotal lode ritenga appena lostesso nome di oratore; perciocchè con questo nome noichiamiam solo gli antichi: gli uomini eloquenti de' nostritempi chiamansi causidici, avvocati, patrocinatori, e conqualunque altro nome fuorchè con quel di oratori. Appe-

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sta opinione di Apro, continuano essi, vi e' sostenutacon più calore che la contraria; e se Apro non replicaalle ragioni dagli altri contro di lui allegate, ciò deesi at-tribuire all'essere perita la seconda parte di questo Dia-logo, che probabilmente sarà stata una risposta a ciò chenella prima parte erasi disputato. Gli altri ancora, ben-chè sostenitori di altro parere, fanno nondimeno granplauso al discorso di Apro. Finalmente più circostanzesi toccano della vita di Apro, che non degli altri che aquesto Dialogo hanno parte. Tutte queste ragioni, ancor-chè fossero vere, poco nondimeno gioverebbono, a miocredere, a stabilire una tale opinione. Ma l'esattezza el'erudizione di questi rinnomati scrittori ci permettereb-be ella di nemmen sospettare che in questo Dialogo ap-pena vi fosse alcuna di quelle cose ch'essi asseriscono?Eppure, o io nulla intendo di espressione latina, o certovi trovo anzi in molte cose tutto il contrario. Donde rac-colgono essi che lo scopo dell'autor del Dialogo siad'innalzare la moderna eloquenza sopra l'antica? E qualeè mai questa introduzione in cui con una specie di trion-fo si propone un tal sentimento? Eccola fedelmente tra-dotta: "Spesse volte, o Giusto Fabio, mi chiedi per qualragione, mentre i passati secoli per l'ingegno e per lagloria degli oratori sono stati sì illustri, la nostra età pri-va in tutto e spogliata di cotal lode ritenga appena lostesso nome di oratore; perciocchè con questo nome noichiamiam solo gli antichi: gli uomini eloquenti de' nostritempi chiamansi causidici, avvocati, patrocinatori, e conqualunque altro nome fuorchè con quel di oratori. Appe-

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na ardirei io di soddisfare a cotesta tua dimanda, e di en-trare in sì grande quistione in cui ci conviene giudicarpoco favorevolmente o dell'ingegno degli uomini diquesta età, se essi non possono uguagliare gli antichi, odel loro giudizio, se essi nol vogliono; appena, dico, ar-direi di trattarne, se io dovessi esporre il parer mio, enon anzi ripetere il discorso su ciò tenuto da uomini perl'età nostra eloquentissimi; i quali udii già, essendo ioancora assai giovane, di ciò disputare (15)". Così egli, eprosiegue dicendo ch'egli riferirà precisamente e since-ramente i lor sentimenti, "perciocchè, dice, non mancòancora chi fosse di contrario parere, e disprezzati e deri-si i tempi antichi, antiponesse a quella d'allora la moder-na nostra eloquenza". È egli questo il trionfo con cuil'autor del Dialogo s'introduce a preferir la modernaall'antica eloquenza? E non mostrasi anzi egli del parer

15 "Sæpe ex me requiris, Juste Fabi, cur cum priora sæcula tot eminentiumoratorum ingeniis gloriaque effloruerint, nostra potissimum ætas deserta etlaude orbata vix nomen ipsum oratoris retineat: neque enim ita appellamusnisi antiquos: horum autem temporum diserti, caussidici, et advocati, etpatroni, et quodvis potius quam oratores vocantur. Cui percunctationi tuærespondere, et tam magnæ quæstionis pondus excipere ut aut de ingeniisnostris male existimandum sit, si idem assequi non possumus, aut de judi-ciis, si nolumus, vix hercule auderem, si mea sententia proferenda, ac nondisertissimorum, ut nostris temporibus, hominum sermo repetendus esset,quos eandem hanc quæstionem pertractantes juvenis admodum audivi. Itanon ingenio, sed memoria ac recordatione opus est, ut quæ a præstantissi-mis viris et excogitata subtiliter, et dicta graviter accepi, cum singuli diver-sas; vel easdem sed probabiles caussas afferent, dum formam sui quisqueet animi et ingenii redderet, iisdem nunc numeris iisdemque rationibuspersequar servato ordine disputationis: neque enim defuit, qui diversamquoque partem susciperet, ac multum vexata et irrisa vetustate, nostrorumtemporum eloquentiam antiquorum ingeniis anteferret".

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na ardirei io di soddisfare a cotesta tua dimanda, e di en-trare in sì grande quistione in cui ci conviene giudicarpoco favorevolmente o dell'ingegno degli uomini diquesta età, se essi non possono uguagliare gli antichi, odel loro giudizio, se essi nol vogliono; appena, dico, ar-direi di trattarne, se io dovessi esporre il parer mio, enon anzi ripetere il discorso su ciò tenuto da uomini perl'età nostra eloquentissimi; i quali udii già, essendo ioancora assai giovane, di ciò disputare (15)". Così egli, eprosiegue dicendo ch'egli riferirà precisamente e since-ramente i lor sentimenti, "perciocchè, dice, non mancòancora chi fosse di contrario parere, e disprezzati e deri-si i tempi antichi, antiponesse a quella d'allora la moder-na nostra eloquenza". È egli questo il trionfo con cuil'autor del Dialogo s'introduce a preferir la modernaall'antica eloquenza? E non mostrasi anzi egli del parer

15 "Sæpe ex me requiris, Juste Fabi, cur cum priora sæcula tot eminentiumoratorum ingeniis gloriaque effloruerint, nostra potissimum ætas deserta etlaude orbata vix nomen ipsum oratoris retineat: neque enim ita appellamusnisi antiquos: horum autem temporum diserti, caussidici, et advocati, etpatroni, et quodvis potius quam oratores vocantur. Cui percunctationi tuærespondere, et tam magnæ quæstionis pondus excipere ut aut de ingeniisnostris male existimandum sit, si idem assequi non possumus, aut de judi-ciis, si nolumus, vix hercule auderem, si mea sententia proferenda, ac nondisertissimorum, ut nostris temporibus, hominum sermo repetendus esset,quos eandem hanc quæstionem pertractantes juvenis admodum audivi. Itanon ingenio, sed memoria ac recordatione opus est, ut quæ a præstantissi-mis viris et excogitata subtiliter, et dicta graviter accepi, cum singuli diver-sas; vel easdem sed probabiles caussas afferent, dum formam sui quisqueet animi et ingenii redderet, iisdem nunc numeris iisdemque rationibuspersequar servato ordine disputationis: neque enim defuit, qui diversamquoque partem susciperet, ac multum vexata et irrisa vetustate, nostrorumtemporum eloquentiam antiquorum ingeniis anteferret".

207

medesimo di cui era Giusto Fabio al quale scrive? Comedunque si prova che il Dialogo sia indirizzato a sostenerl'opinione di Apro, che l'eloquenza allora usata dovessepreferirsi a quella di Cicerone? Ma Apro sostiene il suoparere con più calore che gli altri. Così appunto avvienea chi intraprende a difendere cattiva causa; che col fuo-co della contesa cerca di coprire la debolezza delle ra-gioni. In fatti leggasi la risposta che nello stesso Dialogogli vien fatta, e giudichi ognuno a cui piace, qual partesia meglio sostenuta. Anzi Materno, uno degli interlocu-tori, dice che Apro non era già di quel sentimento chedisputando avea sostenuto; ma che solo per seguirel'ordinario costume delle dispute avea preso il partito dicontradire (n. 24). Dove poi hanno trovato i dotti Mauri-ni che Apro rispondesse alle ragioni contro di lui recate?Pare, è vero, che un secondo Dialogo si prometta, masolo a meglio dichiarare le cose che Materno il più forteimpugnatore di Apro avea dette. Apro non fa cenno divoler replicare, e solo scherzevolmente dicendo ch'egliavrebbe accusati i suoi avversarj a' retori ed agli scola-stici, di cui avean favellato con molto disprezzo, insie-me cogli altri sen parte. È vero ancora che gli altri fanplauso al favellare di Apro. Tale è l'onesto costumedell'erudite contese che si fanno tra' amici; ma dopol'applauso tutti e tre gli altri interlocutori, Messala, Ma-terno, e Giulio Secondo combattono fortemente il parereda lui sostenuto. Finalmente se alcuna cosa vi si toccadella vita di Apro, più ancora vi si parla di ciò che ap-partiene a Materno, come potrà vedere chiunque prenda

208

medesimo di cui era Giusto Fabio al quale scrive? Comedunque si prova che il Dialogo sia indirizzato a sostenerl'opinione di Apro, che l'eloquenza allora usata dovessepreferirsi a quella di Cicerone? Ma Apro sostiene il suoparere con più calore che gli altri. Così appunto avvienea chi intraprende a difendere cattiva causa; che col fuo-co della contesa cerca di coprire la debolezza delle ra-gioni. In fatti leggasi la risposta che nello stesso Dialogogli vien fatta, e giudichi ognuno a cui piace, qual partesia meglio sostenuta. Anzi Materno, uno degli interlocu-tori, dice che Apro non era già di quel sentimento chedisputando avea sostenuto; ma che solo per seguirel'ordinario costume delle dispute avea preso il partito dicontradire (n. 24). Dove poi hanno trovato i dotti Mauri-ni che Apro rispondesse alle ragioni contro di lui recate?Pare, è vero, che un secondo Dialogo si prometta, masolo a meglio dichiarare le cose che Materno il più forteimpugnatore di Apro avea dette. Apro non fa cenno divoler replicare, e solo scherzevolmente dicendo ch'egliavrebbe accusati i suoi avversarj a' retori ed agli scola-stici, di cui avean favellato con molto disprezzo, insie-me cogli altri sen parte. È vero ancora che gli altri fanplauso al favellare di Apro. Tale è l'onesto costumedell'erudite contese che si fanno tra' amici; ma dopol'applauso tutti e tre gli altri interlocutori, Messala, Ma-terno, e Giulio Secondo combattono fortemente il parereda lui sostenuto. Finalmente se alcuna cosa vi si toccadella vita di Apro, più ancora vi si parla di ciò che ap-partiene a Materno, come potrà vedere chiunque prenda

208

a leggere il mentovato Dialogo. Non vi ha dunque ragio-ne alcuna che ci renda probabile l'opinione de' soprad-detti scrittori. Anzi è evidente che dicendo l'autor delDialogo, ch'egli era giovane assai, quando esso si tenne,questi non può certo essere Apro che, come si è detto,avea allora circa 64 anni di età. I Maurini escono daquesta difficoltà con un felicissimo scioglimento. Apro,dicono, finse così per tenersi occulto. Ma a qual fine? Seegli, come pensano i Maurini, scrisse per antiporre isuoi tempi agli antichi, non dovea anzi sperarne lode?Innoltre Apro vuol tenersi occulto, e poi indirizza il suolibro a Giusto Fabio suo amico, uomo che certo vivea,poichè fu amico ancora di Plinio il giovane (Plin. l. 1,ep. 11; l. 7, ep. 2)? Chi mai, non volendo esser cono-sciuto autor di un libro, ne fe' la dedica ad uno che glifosse congiunto per amicizia?

IV. Nulla migliore è il fondamento a cui siappoggia un'altra opinione proposta da m.Morabin nella prefazione premessa a questo

Dialogo da lui recato in francese, e pubblicato l'anno1722. Ei ne fa autore Materno, uno degl'interlocutori delDialogo. Osservisi, dic'egli, lo scopo principale di esso.Si vuole in somma mostrare che la cagione del decadi-mento dell'eloquenza è veramente la condizione de' tem-pi, come si raccoglie da varj tratti satirici e mordenti ne'quali occultamente si prende di mira l'imperador Vespa-siano. Or questo prurito di mordere e di satireggiare era

209

Nè Mater-no.

a leggere il mentovato Dialogo. Non vi ha dunque ragio-ne alcuna che ci renda probabile l'opinione de' soprad-detti scrittori. Anzi è evidente che dicendo l'autor delDialogo, ch'egli era giovane assai, quando esso si tenne,questi non può certo essere Apro che, come si è detto,avea allora circa 64 anni di età. I Maurini escono daquesta difficoltà con un felicissimo scioglimento. Apro,dicono, finse così per tenersi occulto. Ma a qual fine? Seegli, come pensano i Maurini, scrisse per antiporre isuoi tempi agli antichi, non dovea anzi sperarne lode?Innoltre Apro vuol tenersi occulto, e poi indirizza il suolibro a Giusto Fabio suo amico, uomo che certo vivea,poichè fu amico ancora di Plinio il giovane (Plin. l. 1,ep. 11; l. 7, ep. 2)? Chi mai, non volendo esser cono-sciuto autor di un libro, ne fe' la dedica ad uno che glifosse congiunto per amicizia?

IV. Nulla migliore è il fondamento a cui siappoggia un'altra opinione proposta da m.Morabin nella prefazione premessa a questo

Dialogo da lui recato in francese, e pubblicato l'anno1722. Ei ne fa autore Materno, uno degl'interlocutori delDialogo. Osservisi, dic'egli, lo scopo principale di esso.Si vuole in somma mostrare che la cagione del decadi-mento dell'eloquenza è veramente la condizione de' tem-pi, come si raccoglie da varj tratti satirici e mordenti ne'quali occultamente si prende di mira l'imperador Vespa-siano. Or questo prurito di mordere e di satireggiare era

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Nè Mater-no.

proprio di Materno. In fatti nel principio del Dialogo siaccenna che in qualche tragedia egli avea offeso gli ani-mi de' potenti; ed egli, non che mutare stile, si dichiaradi aver composta un'altra tragedia in cui avea inseriti al-cuni passi di tal natura, a cui nell'altra non avea potutodar luogo. E questo suo prurito di mordere gli fu posciafatale, poichè, secondo Dione, ei fu perciò da Domizia-no dannato a morte. Benchè a me non sembri di trovarein questo Dialogo que' tratti satirici contro di Vespasia-no, che vi ha trovato m. Morabin, egli è vero nondimenociò che di Materno ei narra, ed è vero ancora che in essoil decadimento dell'eloquenza si attribuisce singolar-mente alla condizione de' tempi. Ma è egli questo un ar-gomento bastevole a conchiudere che Materno ne sial'autore? Confessa m. Morabin che questi non dovea es-sere molto giovane nel sesto anno di Vespasiano. Ma ri-sponde egli pure, come han poscia fatto i Maurini per ri-guardo di Apro, che il dirsi dall'autor del Dialogo ch'egliera allora assai giovane, è una finzione del medesimoautore per tenersi occulto. La riflessione che fatta abbia-mo di sopra parlando di Apro, vale qui ancora; poichènon avrebbe Materno volendo occultarsi indirizzato ilDialogo ad un suo amico, e conosciuto in Roma, qualera Giusto Fabio. In somma non abbiamo su questo pun-to lume bastante a conoscere chi sia l'autore di questaper altro assai pregevole operetta. Unicamente possiamoassicurare ch'essa fu scritta circa i tempi di Traiano; per-ciocchè vi si parla degli interlocutori, come d'uomini giàtrapassati. Or Materno, come abbiam detto, fu ucciso

210

proprio di Materno. In fatti nel principio del Dialogo siaccenna che in qualche tragedia egli avea offeso gli ani-mi de' potenti; ed egli, non che mutare stile, si dichiaradi aver composta un'altra tragedia in cui avea inseriti al-cuni passi di tal natura, a cui nell'altra non avea potutodar luogo. E questo suo prurito di mordere gli fu posciafatale, poichè, secondo Dione, ei fu perciò da Domizia-no dannato a morte. Benchè a me non sembri di trovarein questo Dialogo que' tratti satirici contro di Vespasia-no, che vi ha trovato m. Morabin, egli è vero nondimenociò che di Materno ei narra, ed è vero ancora che in essoil decadimento dell'eloquenza si attribuisce singolar-mente alla condizione de' tempi. Ma è egli questo un ar-gomento bastevole a conchiudere che Materno ne sial'autore? Confessa m. Morabin che questi non dovea es-sere molto giovane nel sesto anno di Vespasiano. Ma ri-sponde egli pure, come han poscia fatto i Maurini per ri-guardo di Apro, che il dirsi dall'autor del Dialogo ch'egliera allora assai giovane, è una finzione del medesimoautore per tenersi occulto. La riflessione che fatta abbia-mo di sopra parlando di Apro, vale qui ancora; poichènon avrebbe Materno volendo occultarsi indirizzato ilDialogo ad un suo amico, e conosciuto in Roma, qualera Giusto Fabio. In somma non abbiamo su questo pun-to lume bastante a conoscere chi sia l'autore di questaper altro assai pregevole operetta. Unicamente possiamoassicurare ch'essa fu scritta circa i tempi di Traiano; per-ciocchè vi si parla degli interlocutori, come d'uomini giàtrapassati. Or Materno, come abbiam detto, fu ucciso

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sotto Domiziano; e Giulio Secondo, mentre Quintilianoscriveva le sue Istituzioni al tempo di Domiziano, eragià morto, come egli stesso afferma (l. 10, c. 1).

V. Ma se nulla possiamo determinare in-torno all'autor del Dialogo, ben possiamoutilmente valerci di molte notizie che in-torno allo stato dell'eloquenza di questitempi esso ci somministra. A due capi si

posson esse ridurre; a' vizj introdotti nell'eloquenza; ealle cagioni per cui questi vizj si erano introdotti. Diqueste non giova qui favellare, poichè lungamente neabbiam già trattato, e nel precedente volume ove abbiamesposto il dicadimento dell'eloquenza seguito a' tempid'Augusto, e nella Dissertazione preliminare premessaal presente volume. Basterà dunque che osserviamo ciòche appartiene a' vizj introdotti nell'eloquenza di questitempi, aggiungendo ancora ciò che sull'argomento me-desimo ha Quintiliano in più luoghi delle sue Istituzioni.

VI. L'affettazion dello stile e 'l raffinamen-to de' sentimenti era giunto a tal segno, chel'autor del Dialogo afferma (n. 26) chequando pur si dovesse necessariamente ab-bandonar la strada segnata da Cicerone,

egli vorrebbe tornare all'antica severità di C. Gracco e diL. Crasso, anzi che abbracciare l'affettata mollezza di

211

Vizi dell'elo-quenza diquei tempi inesso notati.

Affettaziondello stile eraffinamentodei senti-menti.

sotto Domiziano; e Giulio Secondo, mentre Quintilianoscriveva le sue Istituzioni al tempo di Domiziano, eragià morto, come egli stesso afferma (l. 10, c. 1).

V. Ma se nulla possiamo determinare in-torno all'autor del Dialogo, ben possiamoutilmente valerci di molte notizie che in-torno allo stato dell'eloquenza di questitempi esso ci somministra. A due capi si

posson esse ridurre; a' vizj introdotti nell'eloquenza; ealle cagioni per cui questi vizj si erano introdotti. Diqueste non giova qui favellare, poichè lungamente neabbiam già trattato, e nel precedente volume ove abbiamesposto il dicadimento dell'eloquenza seguito a' tempid'Augusto, e nella Dissertazione preliminare premessaal presente volume. Basterà dunque che osserviamo ciòche appartiene a' vizj introdotti nell'eloquenza di questitempi, aggiungendo ancora ciò che sull'argomento me-desimo ha Quintiliano in più luoghi delle sue Istituzioni.

VI. L'affettazion dello stile e 'l raffinamen-to de' sentimenti era giunto a tal segno, chel'autor del Dialogo afferma (n. 26) chequando pur si dovesse necessariamente ab-bandonar la strada segnata da Cicerone,

egli vorrebbe tornare all'antica severità di C. Gracco e diL. Crasso, anzi che abbracciare l'affettata mollezza di

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Vizi dell'elo-quenza diquei tempi inesso notati.

Affettaziondello stile eraffinamentodei senti-menti.

Mecenate e di Gallione (fratello del filosofo Seneca (16)):e che meglio sarebbe che l'oratore di una ispida toga sirivestisse, che non di abiti a onesta persona non conve-nienti. Neque enim, dic'egli con espressioni certo enfati-che, oratorius iste, immo hercule ne virilis quidem, cul-tus est, quo plerique temporum nostrorum oratores itautuntur, ut lascivia verborum et levitate sententiarum etlicentia compositionis histrionales modos exprimant;quodque vix auditu fas esse debeat, laudis et gloriæ etingenii loco plerique jactant cantari saltarique commen-tarios suos. Unde oritur illa foeda et proepostera, sedtamen frequens quibusdam exclamatio, ut oratores no-stri tenere dicere, histriones diserte saltare dicantur. Maveggasi singolarmente il lungo passo che su questo ar-gomento medesimo ha Quintiliano (proem. l. 8.), il qua-le con gran forza inveisce contro l'introdotto abuso di ri-petere e travolgere in più guise, e sempre più raffinare lostesso pensiero, e di lasciare le maniere usate di favella-re per valersi delle più strane, credendo, com'egli dice,di essere ingegnosi allor solamente, quando ad inter-derci conviene usare l'ingegno; e dopo aver rammentatoil saggio avviso di Cicerone, che gran difetto si è l'allon-tanarsi nel ragionare dalle ordinarie maniere di dire, e diandar contro al comun senso degli uomini; ma egli, pro-siegue con amara ironia, egli era uom rozzo ed incolto,16 Il sig. ab. Lampillas m'interroga (t. 1. p. 89) onde abbia io avuta la notizia,

che quel Gallione, di cui l'autor del Dialogo sul decadimento dell'eloquen-za riprende lo stile, sia il fratello del filosofo Seneca. La risposta è pronta:legga egli il suo Niccolò Antonio (Bibl. Hisp. l. 1. c. 6) e vedrà onde iol'abbia trattta.

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Mecenate e di Gallione (fratello del filosofo Seneca (16)):e che meglio sarebbe che l'oratore di una ispida toga sirivestisse, che non di abiti a onesta persona non conve-nienti. Neque enim, dic'egli con espressioni certo enfati-che, oratorius iste, immo hercule ne virilis quidem, cul-tus est, quo plerique temporum nostrorum oratores itautuntur, ut lascivia verborum et levitate sententiarum etlicentia compositionis histrionales modos exprimant;quodque vix auditu fas esse debeat, laudis et gloriæ etingenii loco plerique jactant cantari saltarique commen-tarios suos. Unde oritur illa foeda et proepostera, sedtamen frequens quibusdam exclamatio, ut oratores no-stri tenere dicere, histriones diserte saltare dicantur. Maveggasi singolarmente il lungo passo che su questo ar-gomento medesimo ha Quintiliano (proem. l. 8.), il qua-le con gran forza inveisce contro l'introdotto abuso di ri-petere e travolgere in più guise, e sempre più raffinare lostesso pensiero, e di lasciare le maniere usate di favella-re per valersi delle più strane, credendo, com'egli dice,di essere ingegnosi allor solamente, quando ad inter-derci conviene usare l'ingegno; e dopo aver rammentatoil saggio avviso di Cicerone, che gran difetto si è l'allon-tanarsi nel ragionare dalle ordinarie maniere di dire, e diandar contro al comun senso degli uomini; ma egli, pro-siegue con amara ironia, egli era uom rozzo ed incolto,16 Il sig. ab. Lampillas m'interroga (t. 1. p. 89) onde abbia io avuta la notizia,

che quel Gallione, di cui l'autor del Dialogo sul decadimento dell'eloquen-za riprende lo stile, sia il fratello del filosofo Seneca. La risposta è pronta:legga egli il suo Niccolò Antonio (Bibl. Hisp. l. 1. c. 6) e vedrà onde iol'abbia trattta.

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e ben migliori siam noi, a cui vengono a noia tutte lecose che dalla natura ci vengono insegnate.

VII. Un altro abuso che dall'autor del Dia-logo si riprende, si è quello delle suasorie,delle controversie, e delle declamazioni incui allora si esercitavano i giovani. Non giàche tali esercizj fosser dannosi, che anzi

abbiamo veduto che la declamazione da Cicerone e daaltri dottissimi uomini anche in età matura fu praticata:ma perchè erano il solo mezzo che a formarsi alla elo-quenza si adoperava, e perchè questo mezzo ancora nonusavasi in quella maniera che convenuto sarebbe a ren-derlo vantaggioso. Sembra che l'autore distingua l'unadall'altra le tre suddette maniere di esercitarsi; percioc-chè dice (n. 35) che le suasorie eran proprie dei fanciul-li, le controversie de' giovani più provetti; e a queste poiaggiugnevasi ancora la declamazione. Checchessia diciò, ei si duole che questa sola fosse la scuola in cui da'giovani apprendevasi l'eloquenza coll'istruzione de' reto-ri, uomini che non aveano giammai avuto gran creditoin Roma; e che inoltre tali argomenti si proponessero aesercitarsi, quali appena mai si offerivano a disputarnenel foro. E veramente basta leggere gli argomenti delledeclamazioni e delle controversie attribuite a Quintilia-no e di quelle di Seneca, per intendere quanto ragione-vole sia il dolersi che fa di tale abuso l'autor del Dialo-go. Quintiliano ancora di ciò si duole, "e che giova, dice

213

Abuso dellesuasorie edelle contro-versie.

e ben migliori siam noi, a cui vengono a noia tutte lecose che dalla natura ci vengono insegnate.

VII. Un altro abuso che dall'autor del Dia-logo si riprende, si è quello delle suasorie,delle controversie, e delle declamazioni incui allora si esercitavano i giovani. Non giàche tali esercizj fosser dannosi, che anzi

abbiamo veduto che la declamazione da Cicerone e daaltri dottissimi uomini anche in età matura fu praticata:ma perchè erano il solo mezzo che a formarsi alla elo-quenza si adoperava, e perchè questo mezzo ancora nonusavasi in quella maniera che convenuto sarebbe a ren-derlo vantaggioso. Sembra che l'autore distingua l'unadall'altra le tre suddette maniere di esercitarsi; percioc-chè dice (n. 35) che le suasorie eran proprie dei fanciul-li, le controversie de' giovani più provetti; e a queste poiaggiugnevasi ancora la declamazione. Checchessia diciò, ei si duole che questa sola fosse la scuola in cui da'giovani apprendevasi l'eloquenza coll'istruzione de' reto-ri, uomini che non aveano giammai avuto gran creditoin Roma; e che inoltre tali argomenti si proponessero aesercitarsi, quali appena mai si offerivano a disputarnenel foro. E veramente basta leggere gli argomenti delledeclamazioni e delle controversie attribuite a Quintilia-no e di quelle di Seneca, per intendere quanto ragione-vole sia il dolersi che fa di tale abuso l'autor del Dialo-go. Quintiliano ancora di ciò si duole, "e che giova, dice

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Abuso dellesuasorie edelle contro-versie.

(l. 12, c. 11), lo starsi per tanti anni, come fanno moltis-simi, declamando nelle pubbliche scuole, e affaticarsitanto intorno a cose false, mentre ci può bastarel'apprendere in poco tempo le leggi di ben parlare?" Se aquesti tempi visse Petronio lo scrittor della Satira men-tovata di sopra, una somigliante pittura ci ha fatta eglipure di cotali inutili esercizi allora usati. "Io penso, eidice (Satyr. c. 1), che nelle scuole i giovani divengano intutto stolti perciocchè nè veggono, nè ascoltan nulla diciò che suole comunemente accadere; ma solo corsariche con catene stanno sul lido, e tiranni che comandanoa' figli di troncare il capo a' lor genitori, e oracoli rendu-ti in occasione di peste coll'ordine d'immolare tre, o an-che più vergini." Il più strano si è che lo stesso Seneca ilretore, da cui abbiam ricevute molte di cotali declama-zioni, confessa ei stesso che il declamare non recavavantaggio alcuno; e che anzi avveniva il più delle volteche alcuni dopo essersi in ciò esercitati per lungo tempo,passando poscia a perorare innanzi a' giudici, appenaparevano saper parlare. Avvezzi a ragionare solamentetra le pareti domestiche e innanzi a' giovani loro uguali,che volendo essere applauditi da tutti, applaudivano atutti, e a trattare argomenti finti a capriccio, e nulla so-miglianti a quelli che agitavansi ne' tribunali, appena en-travan nel foro, e vedevansi in un arringo tanto più peri-coloso alla lor fama, impallidivano, si turbavano, e que'ch'erano stati in addietro declamatori eloquenti, mostra-vansi freddi e languidi oratori (proœm. l. 4. Controv.).

214

(l. 12, c. 11), lo starsi per tanti anni, come fanno moltis-simi, declamando nelle pubbliche scuole, e affaticarsitanto intorno a cose false, mentre ci può bastarel'apprendere in poco tempo le leggi di ben parlare?" Se aquesti tempi visse Petronio lo scrittor della Satira men-tovata di sopra, una somigliante pittura ci ha fatta eglipure di cotali inutili esercizi allora usati. "Io penso, eidice (Satyr. c. 1), che nelle scuole i giovani divengano intutto stolti perciocchè nè veggono, nè ascoltan nulla diciò che suole comunemente accadere; ma solo corsariche con catene stanno sul lido, e tiranni che comandanoa' figli di troncare il capo a' lor genitori, e oracoli rendu-ti in occasione di peste coll'ordine d'immolare tre, o an-che più vergini." Il più strano si è che lo stesso Seneca ilretore, da cui abbiam ricevute molte di cotali declama-zioni, confessa ei stesso che il declamare non recavavantaggio alcuno; e che anzi avveniva il più delle volteche alcuni dopo essersi in ciò esercitati per lungo tempo,passando poscia a perorare innanzi a' giudici, appenaparevano saper parlare. Avvezzi a ragionare solamentetra le pareti domestiche e innanzi a' giovani loro uguali,che volendo essere applauditi da tutti, applaudivano atutti, e a trattare argomenti finti a capriccio, e nulla so-miglianti a quelli che agitavansi ne' tribunali, appena en-travan nel foro, e vedevansi in un arringo tanto più peri-coloso alla lor fama, impallidivano, si turbavano, e que'ch'erano stati in addietro declamatori eloquenti, mostra-vansi freddi e languidi oratori (proœm. l. 4. Controv.).

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VIII. Tale era a' tempi di cui parliamo lostato dell'eloquenza in Roma, e se ci fosserrimaste le orazioni di alcuni di quegli orato-ri, noi potremmo ancora giudicare più facil-mente del lor carattere. Ma nulla se n'è con-

servato; e i soli scritti appartenenti all'eloquenza, chesieno fino a noi pervenuti, son que' di Seneca il retore,di Quintiliano, di Calpurnio Flacco, e il celebre Panegi-rico di Plinio. Di questi adunque ci convien qui favella-re, ed esaminare ciò che ad essi appartiene. Non fad'uopo, io credo, che mi trattenga a provare la distinzio-ne tra M. Anneo Seneca il retore e L. Anneo Seneca ilfilosofo di lui figliuolo. Non v'ha al presente tra gli eru-diti chi ne muova alcun dubbio. Basti solo il riflettereche Seneca il retore visse a tal tempo, come or ora ve-dremo, che avrebbe potuto udir Cicerone ucciso circa 40anni innanzi all'era cristiana, e il filosofo fu ucciso sottoNerone l'an. 65 della stessa era. Ei fu nativo di Cordovain Ispagna per comun consenso degli scrittori, e perespressa testimonianza di Marziale (l. 1. epigr. 62) e diSidonio Apollinare (Carm. 9.). Ei dovette nascere versoil fine del settimo secol di Roma, perciocchè ei narra dise medesimo (proœm. in l. 4 Excepta Controv.) che uditiavea i più famosi oratori che a' tempi di Cicerone eranvissuti: e che avrebbe ancor potuto udire il medesimoCicerone, se il furor delle guerre civili non l'avesse co-stretto a starsene lungi da esse nella sua patria. Convien

215

Seneca il retore chi fosse, e a qual tempo vivesse.

VIII. Tale era a' tempi di cui parliamo lostato dell'eloquenza in Roma, e se ci fosserrimaste le orazioni di alcuni di quegli orato-ri, noi potremmo ancora giudicare più facil-mente del lor carattere. Ma nulla se n'è con-

servato; e i soli scritti appartenenti all'eloquenza, chesieno fino a noi pervenuti, son que' di Seneca il retore,di Quintiliano, di Calpurnio Flacco, e il celebre Panegi-rico di Plinio. Di questi adunque ci convien qui favella-re, ed esaminare ciò che ad essi appartiene. Non fad'uopo, io credo, che mi trattenga a provare la distinzio-ne tra M. Anneo Seneca il retore e L. Anneo Seneca ilfilosofo di lui figliuolo. Non v'ha al presente tra gli eru-diti chi ne muova alcun dubbio. Basti solo il riflettereche Seneca il retore visse a tal tempo, come or ora ve-dremo, che avrebbe potuto udir Cicerone ucciso circa 40anni innanzi all'era cristiana, e il filosofo fu ucciso sottoNerone l'an. 65 della stessa era. Ei fu nativo di Cordovain Ispagna per comun consenso degli scrittori, e perespressa testimonianza di Marziale (l. 1. epigr. 62) e diSidonio Apollinare (Carm. 9.). Ei dovette nascere versoil fine del settimo secol di Roma, perciocchè ei narra dise medesimo (proœm. in l. 4 Excepta Controv.) che uditiavea i più famosi oratori che a' tempi di Cicerone eranvissuti: e che avrebbe ancor potuto udire il medesimoCicerone, se il furor delle guerre civili non l'avesse co-stretto a starsene lungi da esse nella sua patria. Convien

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Seneca il retore chi fosse, e a qual tempo vivesse.

dire però, che dopo il fine delle stesse guerre ei venissea Roma; poichè ei narra (proœm. in l. 4 Excerpta Con-trov.) che udito avea Asinio Pollione, e quando era nelfior dell'età, e quando era già vecchio. Or Asinio Pollio-ne morì secondo la Cronaca eusebiana nove anni primad'Augusto in età di 70 anni, e perciò è probabile che Se-neca venisse a Roma circa trent'anni innanzi (17). D'allora17 L'ab. Lampillas giustamente riflette (t. 1, p. 78, ec.) che, se Seneca il retore

venne a Roma trentanove anni innanzi alla morte di Augusto, come io quiho affermato, e se più non ne fece partenza, non si può facilmente spiegarecome gli nascessero in Cordova i figli Lucio Seneca il filosofo, Novato, eMela, che nacquero in Cordova molti anni dopo quell'epoca. Deesi dunquecorreggere questo passo della mia storia. "E a conciliare l'epoche della vitadi Seneca il retore si può supporre ch'egli nascesse circa 60 anni primadell'era cristiana; che venuto a Roma dopo il triumvirato vi stesse più anni;che tornasse in Ispagna circa dieci anni prima dell'era cristiana, quandoPollione, morto circa il sesto anno dell'era stessa, era già vecchio, e quan-do Augusto contava circa trentacinque anni d'impero, poichè la detta eracomincia all'an. XLV. di esso, e quando perciò poteva Seneca il retore ave-re uditi gli altri retori di quell'età, e che poscia venisse nuovamente aRoma insieme co' figli natigli in Cordova poco prima della morte di Augu-sto, e vivesse poi fino a' tempi del favor di Seiano, e morisse circa l'annoventesimo dell'era cristiana e il settimo di Tiberio". È certo dunque che Se-neca il retore si dovrebbe a ragione annoverare tra gli scrittori del secold'Augusto, e ch'egli è stato gittato tra que' del secolo di Tiberio, solo per-chè seppe vivere fino all'estrema vecchiezza, il che pur deesi dire di alcunialtri dei retori qui da me nominati. Ciò nulla monta al mio disegno; anziconferma ciò che nel primo Tomo io ho stabilito, e provato lungamente;cioè che l'eloquenza decadde fin da' tempi d'Augusto, benchè l'ab. Lampil-las abbia immaginato ch'io abbia usato di ogni arte per rimuover da quelfelice secolo una tal macchia. Anzi egli non ha ben provveduto a' vantaggidella sua nazione coll'osservare che Seneca e alcuni altri retori spagnuolidebbonsi riferire al secol d'Augusto. Io avea affermato che allora il decadi-mento dell'eloquenza dovettesi singolarmente ad Asinio Pollione; e aveasalvato l'onore della letteratura spagnuola, dicendo (t. 1, p. 251) Molti neincolpano Seneca; ma assai prima di lui avea l'eloquenza sofferto un rovi-noso tracollo. Or l'ab. Lampillas prova con ottime ragioni che Seneca il re-

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dire però, che dopo il fine delle stesse guerre ei venissea Roma; poichè ei narra (proœm. in l. 4 Excerpta Con-trov.) che udito avea Asinio Pollione, e quando era nelfior dell'età, e quando era già vecchio. Or Asinio Pollio-ne morì secondo la Cronaca eusebiana nove anni primad'Augusto in età di 70 anni, e perciò è probabile che Se-neca venisse a Roma circa trent'anni innanzi (17). D'allora17 L'ab. Lampillas giustamente riflette (t. 1, p. 78, ec.) che, se Seneca il retore

venne a Roma trentanove anni innanzi alla morte di Augusto, come io quiho affermato, e se più non ne fece partenza, non si può facilmente spiegarecome gli nascessero in Cordova i figli Lucio Seneca il filosofo, Novato, eMela, che nacquero in Cordova molti anni dopo quell'epoca. Deesi dunquecorreggere questo passo della mia storia. "E a conciliare l'epoche della vitadi Seneca il retore si può supporre ch'egli nascesse circa 60 anni primadell'era cristiana; che venuto a Roma dopo il triumvirato vi stesse più anni;che tornasse in Ispagna circa dieci anni prima dell'era cristiana, quandoPollione, morto circa il sesto anno dell'era stessa, era già vecchio, e quan-do Augusto contava circa trentacinque anni d'impero, poichè la detta eracomincia all'an. XLV. di esso, e quando perciò poteva Seneca il retore ave-re uditi gli altri retori di quell'età, e che poscia venisse nuovamente aRoma insieme co' figli natigli in Cordova poco prima della morte di Augu-sto, e vivesse poi fino a' tempi del favor di Seiano, e morisse circa l'annoventesimo dell'era cristiana e il settimo di Tiberio". È certo dunque che Se-neca il retore si dovrebbe a ragione annoverare tra gli scrittori del secold'Augusto, e ch'egli è stato gittato tra que' del secolo di Tiberio, solo per-chè seppe vivere fino all'estrema vecchiezza, il che pur deesi dire di alcunialtri dei retori qui da me nominati. Ciò nulla monta al mio disegno; anziconferma ciò che nel primo Tomo io ho stabilito, e provato lungamente;cioè che l'eloquenza decadde fin da' tempi d'Augusto, benchè l'ab. Lampil-las abbia immaginato ch'io abbia usato di ogni arte per rimuover da quelfelice secolo una tal macchia. Anzi egli non ha ben provveduto a' vantaggidella sua nazione coll'osservare che Seneca e alcuni altri retori spagnuolidebbonsi riferire al secol d'Augusto. Io avea affermato che allora il decadi-mento dell'eloquenza dovettesi singolarmente ad Asinio Pollione; e aveasalvato l'onore della letteratura spagnuola, dicendo (t. 1, p. 251) Molti neincolpano Seneca; ma assai prima di lui avea l'eloquenza sofferto un rovi-noso tracollo. Or l'ab. Lampillas prova con ottime ragioni che Seneca il re-

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in poi Seneca visse fino alle sua morte in Roma; e que-sto lungo soggiorno ch'egli vi fece, può ben bastarci,perchè dobbiamo di lui ragionare; comunque non vo-gliasi togliere alla Spagna l'onore di avergli data la na-scita. Fu egli uomo di singolare e prodigiosa memoria,fino a recitare di seguito duemila nomi coll'ordine stessocon cui gli aveva uditi, e a ripetere oltre a ducento versidetti da diverse persone, cominciando dall'ultimo, e risa-lendo fino al primo (proœm. l. 1. Controv.). Questa me-moria però gli venne meno, come suole, in vecchiezza;nella quale fino a qual anno ei giugnesse, nol possiamocon certezza affermare. Ei viene appellato col nome diretore per l'opera che die' alla luce, e per distinguerlo dalfilosofo; ma ch'ei tenesse pubblica scuola d'eloquenza,non abbiamo argomento alcuno ad asserirlo.

IX. Di lui abbiamo un libro di Suasorie,ossia di orazioni in genere, come dicia-mo, deliberativo, nelle quali preso l'argo-

tore e alcuni altri Spagnuoli fiorirono a' tempi d'Augusto. Dunque secondol'ab. Lampillas fin da quei tempi alcuni scrittori spagnuoli contribuisconoal decadimento dell'eloquenza. Se poi io abbia attribuita privativamenteagli spagnuoli l'origine di tal decadenza, ognun che legge e intende la miaStoria, può esaminarlo. Io ho sempre usata la espressione che a ciò essiconcorsero, nè ho mai detto ch'essi fossero i peggiori scrittori, ma che ren-derono peggior l'eloquenza, e ad essa recarono maggior danno, perchè era-no uomini avuti in grande stima, e credevasi cosa onorevole il premere lelor vestigia. Che se l'ab. Lampillas pretende che siano ingiuste le accuse dame date allo stile de' due Seneca e di alcuni altri scrittori spagnuoli diquell'età, io altro non posso fare che rimetterne il giudizio a' più saggi co-noscitori.

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Sue Suasorie eControversie, eloro carattere.

in poi Seneca visse fino alle sua morte in Roma; e que-sto lungo soggiorno ch'egli vi fece, può ben bastarci,perchè dobbiamo di lui ragionare; comunque non vo-gliasi togliere alla Spagna l'onore di avergli data la na-scita. Fu egli uomo di singolare e prodigiosa memoria,fino a recitare di seguito duemila nomi coll'ordine stessocon cui gli aveva uditi, e a ripetere oltre a ducento versidetti da diverse persone, cominciando dall'ultimo, e risa-lendo fino al primo (proœm. l. 1. Controv.). Questa me-moria però gli venne meno, come suole, in vecchiezza;nella quale fino a qual anno ei giugnesse, nol possiamocon certezza affermare. Ei viene appellato col nome diretore per l'opera che die' alla luce, e per distinguerlo dalfilosofo; ma ch'ei tenesse pubblica scuola d'eloquenza,non abbiamo argomento alcuno ad asserirlo.

IX. Di lui abbiamo un libro di Suasorie,ossia di orazioni in genere, come dicia-mo, deliberativo, nelle quali preso l'argo-

tore e alcuni altri Spagnuoli fiorirono a' tempi d'Augusto. Dunque secondol'ab. Lampillas fin da quei tempi alcuni scrittori spagnuoli contribuisconoal decadimento dell'eloquenza. Se poi io abbia attribuita privativamenteagli spagnuoli l'origine di tal decadenza, ognun che legge e intende la miaStoria, può esaminarlo. Io ho sempre usata la espressione che a ciò essiconcorsero, nè ho mai detto ch'essi fossero i peggiori scrittori, ma che ren-derono peggior l'eloquenza, e ad essa recarono maggior danno, perchè era-no uomini avuti in grande stima, e credevasi cosa onorevole il premere lelor vestigia. Che se l'ab. Lampillas pretende che siano ingiuste le accuse dame date allo stile de' due Seneca e di alcuni altri scrittori spagnuoli diquell'età, io altro non posso fare che rimetterne il giudizio a' più saggi co-noscitori.

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Sue Suasorie eControversie, eloro carattere.

mento da qualche passo storico, o favoloso, s'introducealcuno a deliberare ciò che in esso gli convenga di fare;e i frammenti di dieci libri di Controversie, cinque solide' quali ci son giunti interi, in cui si trattano cause sulmodello del foro e de' tribunali; ossia si arrecano i senti-menti e i pensieri con cui potrebbonsi acconciamentetrattare. Esse, trattine i proemi e alcune riflessioni che visono sparse per entro, non son veramente opera di Sene-ca. Altro ei non ha fatto, com'egli medesimo si dichiara,che raccogliere ciò che da parecchi erasi o detto, o scrit-to su quell'argomento; e veggonsi sempre nominati gliautori dei passi ch'egli arreca. Ma questi passi son vera-mente degli autori a' quali Seneca gli attribuisce (18)? Ionon trovo chi abbia trattata questa quistione, su cui per-ciò non sarà forse inutile ch'io mi trattenga brevemente.Seneca ci assicura (ib.) ch'egli solo della memoria vale-vasi a raccogliere e ad ordinare queste Controversie. Eisi protesta che benchè ora difficilmente ricordisi di quel-le cose che di fresco ha udite, "quelle nondimeno, cheegli o fanciullo, o giovine avea impresse nella memoria,erangli così presenti, come se allora le avesse udite."Aggiugne ch'ei non può legarsi a un ordin determinatodi cose; ma che gli conviene andare qua e là errando, eafferrare ciò che gli viene innanzi; che spesso, quando eicerca di ricordarsi di alcuna cosa, il cerca invano; e18 Il sig. ab. Lampillas (t. 1, p. 94) si è accinto a levar di mezzo lo scrupolo

insorto all'ab. Tiraboschi, se i passi dei retori arrecati da M. Seneca sianoveramente degli autori ai quali Seneca gli attribuisce. A me non pare cheei sia stato troppo felice in toglierlo. Nondimeno io lascio che ognun con-fronti le sue colle mie ragioni, e ne decida come meglio gli sembra.

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mento da qualche passo storico, o favoloso, s'introducealcuno a deliberare ciò che in esso gli convenga di fare;e i frammenti di dieci libri di Controversie, cinque solide' quali ci son giunti interi, in cui si trattano cause sulmodello del foro e de' tribunali; ossia si arrecano i senti-menti e i pensieri con cui potrebbonsi acconciamentetrattare. Esse, trattine i proemi e alcune riflessioni che visono sparse per entro, non son veramente opera di Sene-ca. Altro ei non ha fatto, com'egli medesimo si dichiara,che raccogliere ciò che da parecchi erasi o detto, o scrit-to su quell'argomento; e veggonsi sempre nominati gliautori dei passi ch'egli arreca. Ma questi passi son vera-mente degli autori a' quali Seneca gli attribuisce (18)? Ionon trovo chi abbia trattata questa quistione, su cui per-ciò non sarà forse inutile ch'io mi trattenga brevemente.Seneca ci assicura (ib.) ch'egli solo della memoria vale-vasi a raccogliere e ad ordinare queste Controversie. Eisi protesta che benchè ora difficilmente ricordisi di quel-le cose che di fresco ha udite, "quelle nondimeno, cheegli o fanciullo, o giovine avea impresse nella memoria,erangli così presenti, come se allora le avesse udite."Aggiugne ch'ei non può legarsi a un ordin determinatodi cose; ma che gli conviene andare qua e là errando, eafferrare ciò che gli viene innanzi; che spesso, quando eicerca di ricordarsi di alcuna cosa, il cerca invano; e18 Il sig. ab. Lampillas (t. 1, p. 94) si è accinto a levar di mezzo lo scrupolo

insorto all'ab. Tiraboschi, se i passi dei retori arrecati da M. Seneca sianoveramente degli autori ai quali Seneca gli attribuisce. A me non pare cheei sia stato troppo felice in toglierlo. Nondimeno io lascio che ognun con-fronti le sue colle mie ragioni, e ne decida come meglio gli sembra.

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ch'essa gli viene in mente, allorchè pensa a tutt'altro:ch'è necessario perciò, ch'egli segua, per così dire, il ca-priccio della sua memoria, e che scriva le cose secondoch'ella gliele ricorda. In somma, ove se ne tragga qual-che passo delle Suasorie, in cui egli reca de' tratti toltida' libri pubblicati da alcuni autori, tutto il rimanentenon ha altro fondamento, per cui essere attribuito a colo-ro che da Seneca son nominati, se non la memoria dellostesso Seneca. Ora per quanto fosse ella strana e porten-tosa, è egli possibile che in età avanzata ei si ricordassedi tanti passi delle declamazioni di tanti diversi dicitori,quanti ei ne raccolse in dieci libri di Controversie? chepotesse affermar con certezza che il tale e il tal altroavean così parlato precisamente? che non mai dovesseaggiugner del suo o sentimento, o parola alcuna? Io nonpenso che alcuno sia per crederlo così di leggeri. Ma piùancora. Tutti i passi arrecati da Seneca sono a un dipres-so del medesimo gusto, del medesimo stile; in tutti sivede l'amor del nuovo, dell'ammirabile, dell'ingegnoso,qual fu proprio di tutta la famiglia de' Seneca. È eglipossibile che tanti oratori o declamatori quanti da lui sirammentano, tutti avessero la maniera stessa di scriveree di pensare? Parecchi di quelli che veggiam da Senecanominati, si nominano ancora da Quintiliano, come po-scia vedremo. E questi formando il carattere di ciasche-duno, mostra quanto essi fossero tra lor diversi. Mapresso Seneca sotto diversi nomi sembra che un soloparli, o che tutti si adattino allo stile di un solo. Io con-fesso che non so indurmi a pensare che i passi, quali ab-

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ch'essa gli viene in mente, allorchè pensa a tutt'altro:ch'è necessario perciò, ch'egli segua, per così dire, il ca-priccio della sua memoria, e che scriva le cose secondoch'ella gliele ricorda. In somma, ove se ne tragga qual-che passo delle Suasorie, in cui egli reca de' tratti toltida' libri pubblicati da alcuni autori, tutto il rimanentenon ha altro fondamento, per cui essere attribuito a colo-ro che da Seneca son nominati, se non la memoria dellostesso Seneca. Ora per quanto fosse ella strana e porten-tosa, è egli possibile che in età avanzata ei si ricordassedi tanti passi delle declamazioni di tanti diversi dicitori,quanti ei ne raccolse in dieci libri di Controversie? chepotesse affermar con certezza che il tale e il tal altroavean così parlato precisamente? che non mai dovesseaggiugner del suo o sentimento, o parola alcuna? Io nonpenso che alcuno sia per crederlo così di leggeri. Ma piùancora. Tutti i passi arrecati da Seneca sono a un dipres-so del medesimo gusto, del medesimo stile; in tutti sivede l'amor del nuovo, dell'ammirabile, dell'ingegnoso,qual fu proprio di tutta la famiglia de' Seneca. È eglipossibile che tanti oratori o declamatori quanti da lui sirammentano, tutti avessero la maniera stessa di scriveree di pensare? Parecchi di quelli che veggiam da Senecanominati, si nominano ancora da Quintiliano, come po-scia vedremo. E questi formando il carattere di ciasche-duno, mostra quanto essi fossero tra lor diversi. Mapresso Seneca sotto diversi nomi sembra che un soloparli, o che tutti si adattino allo stile di un solo. Io con-fesso che non so indurmi a pensare che i passi, quali ab-

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biamo in Seneca, sian veramente quai furon detti daquelli a' quali egli gli attribuisce. Credo anzi ch'egli ovolesse usar di finzione come fanno gli storici che attri-buiscono ai personaggi delle loro storie que' ragiona-menti di cui essi medesimi sono gli autori; o che troppofidandosi al vigore della sua memoria intraprendessequest'opera con isperanza di potervi riuscire; ma che po-scia si trovasse comunemente costretto a parlare eglimedesimo, e a prestare sentimenti e parole a coloro cheda lui son nominati. Comunque sia di ciò, di che io nonardisco di diffinir cosa alcuna, noi abbiamo inquest'opera un vero esempio della guasta e corrotta elo-quenza che allor regnava. Vi s'incontrano sparsi alcunisentimenti pieni di maestà e di forza; ma restan, per cosìdire, oppressi in mezzo alle sottigliezze e a raffinamentiche ad ogni passo si trovano. Non vi è quasi un tratto dieloquenza sciolta e magnifica; non una descrizione e unracconto facile e naturale; non un passo valevole ad ec-citare affetto di sorta alcuna. Sembran cose compostesolo a mostrar l'ingegno di chi le ha composte; ma spes-so ci fan bramare ch'egli del suo ingegno avesse usatopiù saggiamente.

X. Di somigliante natura sono le Declama-zioni che abbiamo sotto il nome di Quinti-liano. Ma prima di parlare di esse, ci fad'uopo dir qualche cosa di questo illustrescrittore, e dell'opera che a lui certamente

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Quistione intorno allapatria di Quintiliano.

biamo in Seneca, sian veramente quai furon detti daquelli a' quali egli gli attribuisce. Credo anzi ch'egli ovolesse usar di finzione come fanno gli storici che attri-buiscono ai personaggi delle loro storie que' ragiona-menti di cui essi medesimi sono gli autori; o che troppofidandosi al vigore della sua memoria intraprendessequest'opera con isperanza di potervi riuscire; ma che po-scia si trovasse comunemente costretto a parlare eglimedesimo, e a prestare sentimenti e parole a coloro cheda lui son nominati. Comunque sia di ciò, di che io nonardisco di diffinir cosa alcuna, noi abbiamo inquest'opera un vero esempio della guasta e corrotta elo-quenza che allor regnava. Vi s'incontrano sparsi alcunisentimenti pieni di maestà e di forza; ma restan, per cosìdire, oppressi in mezzo alle sottigliezze e a raffinamentiche ad ogni passo si trovano. Non vi è quasi un tratto dieloquenza sciolta e magnifica; non una descrizione e unracconto facile e naturale; non un passo valevole ad ec-citare affetto di sorta alcuna. Sembran cose compostesolo a mostrar l'ingegno di chi le ha composte; ma spes-so ci fan bramare ch'egli del suo ingegno avesse usatopiù saggiamente.

X. Di somigliante natura sono le Declama-zioni che abbiamo sotto il nome di Quinti-liano. Ma prima di parlare di esse, ci fad'uopo dir qualche cosa di questo illustrescrittore, e dell'opera che a lui certamente

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Quistione intorno allapatria di Quintiliano.

appartiene, delle Istituzioni Oratorie. Enrico Dodwelloha scritto coll'usata sua diligenza gli Annali della Vita diQuintiliano, che il Burmanno ha aggiunti alla sua ma-gnifica edizione di questo autore, pubblicata in Leydenl'an. 1720. Egli intento a fissar le diverse epoche dellavita, non molto si è trattenuto sulla quistion della patria:ma si mostra più favorevole a coloro che il voglion ro-mano, che non a quelli che lo dicon nativo di Calaorrain Ispagna (Ann. Quint. n. 9). Questi si appoggiano allaCronaca eusebiana in cui Quintiliano vien detto ex Hi-spania Calaguritanus (ad olymp. 217), e vi si narra an-cora ch'egli da Galba fu condotto a Roma (ad olymp.211); innoltre all'autorità di Ausonio che così dice: Adserat usque licet Fabium Calaguris alumnum;

(in Professor. Burdig.)

finalmente a quella di Cassiodoro che parimente il dicenativo di Spagna (Chron. ad Consul. Silvani et Prisci).Fuor di questi non v'ha alcun altro tra gli antichi scritto-ri, che affermi Quintiliano essere stato spagnuolo. Mal'autorità loro ad alcuni non sembra bastevole a confron-to dei contrarj argomenti che da essi si adducono (19).

19 Era ben verisimile che l'ab. Lampillas non fosse di me soddisfatto, perchènon ho stabilito come cosa certissima, che Quintiliano fosse nato in Ispa-gna. Egli poeticamente descrive (t. 2, p. 63, ec.) il mio imbarazzo nel do-ver confessare che un sì saggio scrittore fu di patria spagnolo. Io assicuroil sig. ab. Lampillas che non fui allora, nè sono ora punto imbarazzato. Miparve allora la questione alquanto dubbiosa; ed or non mi pare ancora benrischiarata, benchè confessi ch'egli ha risposto assai bene ad alcuna delledifficoltà da me opposte. Se si giugnerà a provare indubitatamente cheQuintiliano fu veramente spagnuolo, io ne farò le mie sincere congratula-

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appartiene, delle Istituzioni Oratorie. Enrico Dodwelloha scritto coll'usata sua diligenza gli Annali della Vita diQuintiliano, che il Burmanno ha aggiunti alla sua ma-gnifica edizione di questo autore, pubblicata in Leydenl'an. 1720. Egli intento a fissar le diverse epoche dellavita, non molto si è trattenuto sulla quistion della patria:ma si mostra più favorevole a coloro che il voglion ro-mano, che non a quelli che lo dicon nativo di Calaorrain Ispagna (Ann. Quint. n. 9). Questi si appoggiano allaCronaca eusebiana in cui Quintiliano vien detto ex Hi-spania Calaguritanus (ad olymp. 217), e vi si narra an-cora ch'egli da Galba fu condotto a Roma (ad olymp.211); innoltre all'autorità di Ausonio che così dice: Adserat usque licet Fabium Calaguris alumnum;

(in Professor. Burdig.)

finalmente a quella di Cassiodoro che parimente il dicenativo di Spagna (Chron. ad Consul. Silvani et Prisci).Fuor di questi non v'ha alcun altro tra gli antichi scritto-ri, che affermi Quintiliano essere stato spagnuolo. Mal'autorità loro ad alcuni non sembra bastevole a confron-to dei contrarj argomenti che da essi si adducono (19).

19 Era ben verisimile che l'ab. Lampillas non fosse di me soddisfatto, perchènon ho stabilito come cosa certissima, che Quintiliano fosse nato in Ispa-gna. Egli poeticamente descrive (t. 2, p. 63, ec.) il mio imbarazzo nel do-ver confessare che un sì saggio scrittore fu di patria spagnolo. Io assicuroil sig. ab. Lampillas che non fui allora, nè sono ora punto imbarazzato. Miparve allora la questione alquanto dubbiosa; ed or non mi pare ancora benrischiarata, benchè confessi ch'egli ha risposto assai bene ad alcuna delledifficoltà da me opposte. Se si giugnerà a provare indubitatamente cheQuintiliano fu veramente spagnuolo, io ne farò le mie sincere congratula-

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Non parlo della breve Vita di Quintiliano, che si vuolpremettere alle sue opere, e in cui egli dicesi nato inRoma; perciocchè ella mi sembra di autor non antico.Ma in primo luogo Seneca il retore tra i declamatori dalui conosciuti in Roma nomina Quintiliano il giovane(præf. ad l. 5. Controv.) il quale pare che fosse avolo delnostro. In Roma pure fu il padre di Quintiliano, percioc-chè questi ne fa menzione come di uomo che ivi si eser-citava nel trattare le cause (l. 9, c. 3). Quintiliano mede-simo era in Roma anche in età assai giovanile, poichèegli parlando di Domizio Afro orator celebre in Roma,dice: quem adolescentulus senem colui (l. 5, c. 7). Que-sta, per così dire, continuata succession di dimora de'Quintiliani in Roma ci rende certamente probabile assaiche ivi nascesse il nostro. Innoltre Marziale fa bensìonorata menzione de' due Seneca e di altri illustri Spa-gnuoli (l. 1, epigr. 62); ma tra questi non fa motto diQuintiliano. L'erudito Niccolò Antonio cerca di scio-gliersi da questo nodo (Bibl. hisp. vet. l. 1, c. 12), e vor-rebbe persuaderci che Marziale ivi non parli che deipoeti; e perchè pur vi ritrova nominato ancor Tito Livio,si contorce e si dibatte per darci a credere che Livio nonvi entra se non indirettamente. Ma meglio forseavrebb'egli risposto, che non era già necessario che tuttigl'illustri Spagnuoli rammentati fossero da Marziale.Convien però confessare che non lascia di aver qualcheforza la riflessione che facilmente si offre al pensiero

zioni con quella illustre nazione.

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Non parlo della breve Vita di Quintiliano, che si vuolpremettere alle sue opere, e in cui egli dicesi nato inRoma; perciocchè ella mi sembra di autor non antico.Ma in primo luogo Seneca il retore tra i declamatori dalui conosciuti in Roma nomina Quintiliano il giovane(præf. ad l. 5. Controv.) il quale pare che fosse avolo delnostro. In Roma pure fu il padre di Quintiliano, percioc-chè questi ne fa menzione come di uomo che ivi si eser-citava nel trattare le cause (l. 9, c. 3). Quintiliano mede-simo era in Roma anche in età assai giovanile, poichèegli parlando di Domizio Afro orator celebre in Roma,dice: quem adolescentulus senem colui (l. 5, c. 7). Que-sta, per così dire, continuata succession di dimora de'Quintiliani in Roma ci rende certamente probabile assaiche ivi nascesse il nostro. Innoltre Marziale fa bensìonorata menzione de' due Seneca e di altri illustri Spa-gnuoli (l. 1, epigr. 62); ma tra questi non fa motto diQuintiliano. L'erudito Niccolò Antonio cerca di scio-gliersi da questo nodo (Bibl. hisp. vet. l. 1, c. 12), e vor-rebbe persuaderci che Marziale ivi non parli che deipoeti; e perchè pur vi ritrova nominato ancor Tito Livio,si contorce e si dibatte per darci a credere che Livio nonvi entra se non indirettamente. Ma meglio forseavrebb'egli risposto, che non era già necessario che tuttigl'illustri Spagnuoli rammentati fossero da Marziale.Convien però confessare che non lascia di aver qualcheforza la riflessione che facilmente si offre al pensiero

zioni con quella illustre nazione.

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leggendo Marziale, cioè che parlando egli pure altrovedi Quintiliano (l. 2, epigr. 90), e più altre volte nominan-do gli uomini per saper rinnomati nativi di Spagna, nonmai accenni che Quintiliano fosse spagnuolo. Due altriargomenti si arrecano all'ab. Gedoyn a provare cheQuintiliano non fu nativo di Spagna (pref. à. la traduct.de Quint.); cioè che, se ciò fosse stato, non avrebbe eglipotuto acquistare cognizione sì grande, quanta in lui neveggiamo, della lingua latina, delle leggi, de' costumi, edella storia romana; e che inoltre non sarebbe egli statosi poco esperto nella lingua spagnuola, che, parlandodella parola gurdi, dovesse scrivere di avere udito (l. 1,c. 5) ch'ella traesse origine dalla Spagna. Ma, a dir vero,non sembranmi questi argomenti di grande forza; per-ciocchè se Quintiliano nato in Calahorra, in età ancorfanciullesca fosse venuto a Roma, non sarebbe punto amaravigliare ch'egli e molto versato fosse ne' costumiromani, e poco assai nella favella spagnuola. Queste sonle ragioni che a sostenere i lor diversi pareri da diverseparti si arrecano. Non potrebbonsi esse per avventuraconciliare insieme, dicendo che la famiglia de' Quintilia-ni era orionda di Spagna, ma che il padre, o forse anchel'avolo del nostro scrittore trasportolla a Roma? Ma o eifosse italiano, o fosse spagnuolo, noi possiam bene a ra-gione dargli luogo tra' nostri scrittori, poichè è certissi-mo ch'ei passò in Roma la più parte della sua vita.

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leggendo Marziale, cioè che parlando egli pure altrovedi Quintiliano (l. 2, epigr. 90), e più altre volte nominan-do gli uomini per saper rinnomati nativi di Spagna, nonmai accenni che Quintiliano fosse spagnuolo. Due altriargomenti si arrecano all'ab. Gedoyn a provare cheQuintiliano non fu nativo di Spagna (pref. à. la traduct.de Quint.); cioè che, se ciò fosse stato, non avrebbe eglipotuto acquistare cognizione sì grande, quanta in lui neveggiamo, della lingua latina, delle leggi, de' costumi, edella storia romana; e che inoltre non sarebbe egli statosi poco esperto nella lingua spagnuola, che, parlandodella parola gurdi, dovesse scrivere di avere udito (l. 1,c. 5) ch'ella traesse origine dalla Spagna. Ma, a dir vero,non sembranmi questi argomenti di grande forza; per-ciocchè se Quintiliano nato in Calahorra, in età ancorfanciullesca fosse venuto a Roma, non sarebbe punto amaravigliare ch'egli e molto versato fosse ne' costumiromani, e poco assai nella favella spagnuola. Queste sonle ragioni che a sostenere i lor diversi pareri da diverseparti si arrecano. Non potrebbonsi esse per avventuraconciliare insieme, dicendo che la famiglia de' Quintilia-ni era orionda di Spagna, ma che il padre, o forse anchel'avolo del nostro scrittore trasportolla a Roma? Ma o eifosse italiano, o fosse spagnuolo, noi possiam bene a ra-gione dargli luogo tra' nostri scrittori, poichè è certissi-mo ch'ei passò in Roma la più parte della sua vita.

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XI. Non giova ch'io mi trattenga ad esami-nare ogni passo della vita di Quintiliano;impresa di troppo lunga fatica e già diligen-temente eseguita dal mentovato Dodwelloche i suoi sentimenti appoggia quasi sempre

alle opere stesse di questo autore. Ei dunque mostra cheesso nacque l'an. 42 dell'era cristiana nell'impero diClaudio; e benchè gli argomenti da lui addotti non pro-vino precisamente pel detto anno, certo è nondimenoche non può quest'epoca o avanzarsi, o ritardarsi di mol-to. Ebbe a suoi maestri singolarmente Domizio Afrouno de' più celebri oratori che allor fiorissero, e ServilioNoniano (Quint. l. 10, c. 1; l. 5, c. 7). E perchè nellacronaca eusebiana si afferma, come abbiam detto, chel'imperador Galba seco di Spagna condusse a RomaQuintiliano, il Dodwello congettura che dallo stessoGalba ei fosse condotto in Ispagna, quando esso vi fu daNerone inviato l'an. 61, e che ivi cominciasse a tenerescuola d'eloquenza; e che quindi l'an. 68 insieme colmedesimo Galba dopo la morte di Nerone facesse ritor-no a Roma. Ivi egli aprì scuola pubblica d'eloquenza, ein questo faticoso esercizio durò, come egli stesso ci as-sicura, per 20 anni (in proœm. Inst.), cioè fino all'an. 88.Fu egli il primo, secondo la Cronaca eusebiana, che pertal impiego dal fisco ricevesse stipendio; poichè in ad-dietro i retori altra mercede non avevano fuorchè da'loro scolari; e sembra che di questa ei fosse debitoreall'imperador Vespasiano; perciocchè egli fu il primo, aldir di Svetonio (in Vesp. c. 18), che a' pubblici professo-

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Epoche del-la sua vita,e suo carat-tere.

XI. Non giova ch'io mi trattenga ad esami-nare ogni passo della vita di Quintiliano;impresa di troppo lunga fatica e già diligen-temente eseguita dal mentovato Dodwelloche i suoi sentimenti appoggia quasi sempre

alle opere stesse di questo autore. Ei dunque mostra cheesso nacque l'an. 42 dell'era cristiana nell'impero diClaudio; e benchè gli argomenti da lui addotti non pro-vino precisamente pel detto anno, certo è nondimenoche non può quest'epoca o avanzarsi, o ritardarsi di mol-to. Ebbe a suoi maestri singolarmente Domizio Afrouno de' più celebri oratori che allor fiorissero, e ServilioNoniano (Quint. l. 10, c. 1; l. 5, c. 7). E perchè nellacronaca eusebiana si afferma, come abbiam detto, chel'imperador Galba seco di Spagna condusse a RomaQuintiliano, il Dodwello congettura che dallo stessoGalba ei fosse condotto in Ispagna, quando esso vi fu daNerone inviato l'an. 61, e che ivi cominciasse a tenerescuola d'eloquenza; e che quindi l'an. 68 insieme colmedesimo Galba dopo la morte di Nerone facesse ritor-no a Roma. Ivi egli aprì scuola pubblica d'eloquenza, ein questo faticoso esercizio durò, come egli stesso ci as-sicura, per 20 anni (in proœm. Inst.), cioè fino all'an. 88.Fu egli il primo, secondo la Cronaca eusebiana, che pertal impiego dal fisco ricevesse stipendio; poichè in ad-dietro i retori altra mercede non avevano fuorchè da'loro scolari; e sembra che di questa ei fosse debitoreall'imperador Vespasiano; perciocchè egli fu il primo, aldir di Svetonio (in Vesp. c. 18), che a' pubblici professo-

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Epoche del-la sua vita,e suo carat-tere.

ri assegnasse stipendio. All'esercizio d'insegnar nellascuola quello ancora ei congiunse di perorare nel foro; erammenta egli stesso alcune cause da sè trattate (l. 7, c.2; l. 4, c. 1). Quindi cessando dopo venti anni dall'uno edall'altro esercizio, prese a spiegare scrivendo que' pre-cetti e quelle riflessioni medesime che nella pubblicascuola aveva esposto; e prima un libro egli scrisse intor-no alle cagioni per cui l'eloquenza era allora sì guasta ecorrotta, libro però, come sopra si è detto, che sembradiverso da quello che col medesimo titolo ci è rimasto;quindi intraprese la grande opera delle Istituzioni Orato-rie. Alla qual fatica quella ei dovette congiungered'istruire i figliuoli de' due celebri martiri T. Flavio Cle-mente e Flavia Domitilla, e nipoti di un'altra Flavia so-rella di Domiziano (V. Eduardi Vitry Diss. de T. Flav.Clem. tumulo); de' quali, se imitasser l'esempio de' lorgenitori, o se vivessero idolatri, è affatto incerto. Il dirsida Ausonio (in Gratiar. Actione) che Quintiliano permezzo di Clemente ricevette gli onori del consolato, facredere comunemente che di questo Clemente medesi-mo egli intenda di ragionare, e che questi per mostrarsigrato a Quintiliano della cura adoperata in istruire i suoifigli, gli ottenesse quelle stesse onorevoli distinzioni cheproprie eran de' consoli. Ma il Dodwello assai lunga-mente combatte questa opinione, e sostiene che Ausonioparli di un altro Clemente a' tempi di Adriano, e che al-lor solamente conceduto fosse a Quintiliano un tal ono-re. A me non sembra che le ragioni del Dodwello sianodi gran peso; ma molto meno mi sembra che sia pregio

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ri assegnasse stipendio. All'esercizio d'insegnar nellascuola quello ancora ei congiunse di perorare nel foro; erammenta egli stesso alcune cause da sè trattate (l. 7, c.2; l. 4, c. 1). Quindi cessando dopo venti anni dall'uno edall'altro esercizio, prese a spiegare scrivendo que' pre-cetti e quelle riflessioni medesime che nella pubblicascuola aveva esposto; e prima un libro egli scrisse intor-no alle cagioni per cui l'eloquenza era allora sì guasta ecorrotta, libro però, come sopra si è detto, che sembradiverso da quello che col medesimo titolo ci è rimasto;quindi intraprese la grande opera delle Istituzioni Orato-rie. Alla qual fatica quella ei dovette congiungered'istruire i figliuoli de' due celebri martiri T. Flavio Cle-mente e Flavia Domitilla, e nipoti di un'altra Flavia so-rella di Domiziano (V. Eduardi Vitry Diss. de T. Flav.Clem. tumulo); de' quali, se imitasser l'esempio de' lorgenitori, o se vivessero idolatri, è affatto incerto. Il dirsida Ausonio (in Gratiar. Actione) che Quintiliano permezzo di Clemente ricevette gli onori del consolato, facredere comunemente che di questo Clemente medesi-mo egli intenda di ragionare, e che questi per mostrarsigrato a Quintiliano della cura adoperata in istruire i suoifigli, gli ottenesse quelle stesse onorevoli distinzioni cheproprie eran de' consoli. Ma il Dodwello assai lunga-mente combatte questa opinione, e sostiene che Ausonioparli di un altro Clemente a' tempi di Adriano, e che al-lor solamente conceduto fosse a Quintiliano un tal ono-re. A me non sembra che le ragioni del Dodwello sianodi gran peso; ma molto meno mi sembra che sia pregio

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dell'opera il trattenersi lungamente su tal quistione. Inqual anno ei morisse non è possibile accertarlo, poichènon ne abbiamo cenno alcuno negli antichi scrittori. Fuegli uomo di carattere onestissimo, e dotato di tuttequelle virtù che il buon uso della ragion naturale può in-segnare. Egli stesso senza volerlo, ci ha dipinto se me-desimo ne' suoi libri. Veggasi singolarmente con qualforza egli ragioni (l. 12, c. 1) a mostrare che non può es-ser valoroso oratore chi non è ben costumato; come pre-scrive che ogni cosa si esprima con dignità e con vere-condia, dicendo che a troppo caro prezzo si ride, quandosi ride con danno della onestà (l. 6, c. 2); come riprendeAfranio, perchè d'immodesti amori avea bruttati i suoiversi (l. 10, c. 1); come nel consigliare a' fanciulli la let-tura delle commedie vi aggiunga la condizione, purchè icostumi ne siano in sicuro (l. 1, c. 8). Giovenale cel rap-presenta come assai ricco e padrone di gran poderi (sat.7, v. 188, ec.); Plinio il giovane al contrario a lui stessoscrivendo (l. 6, ep. 32) lo chiama animo beatissimum,modicum facultatibus; dal che egli prese occasione delgeneroso atto che fece, di donare alla figlia di Quintilia-no stato già suo maestro, destinata in nozze a Nonio Ce-lere, cinquantamila sesterzj che corrispondono a un di-presso a mille ducento cinquanta scudi romani. Il Dod-wello del passo di Giovenale si vale a provare che sottoAdriano Quintiliano ebbe onori e ricchezze; ma potreb-besi forse più verisimilmente rispondere che Giovenaleè poeta, e innoltre poeta satirico che segue spesso e de-scrive le incerte voci del volgo. Plinio al contrario è un

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dell'opera il trattenersi lungamente su tal quistione. Inqual anno ei morisse non è possibile accertarlo, poichènon ne abbiamo cenno alcuno negli antichi scrittori. Fuegli uomo di carattere onestissimo, e dotato di tuttequelle virtù che il buon uso della ragion naturale può in-segnare. Egli stesso senza volerlo, ci ha dipinto se me-desimo ne' suoi libri. Veggasi singolarmente con qualforza egli ragioni (l. 12, c. 1) a mostrare che non può es-ser valoroso oratore chi non è ben costumato; come pre-scrive che ogni cosa si esprima con dignità e con vere-condia, dicendo che a troppo caro prezzo si ride, quandosi ride con danno della onestà (l. 6, c. 2); come riprendeAfranio, perchè d'immodesti amori avea bruttati i suoiversi (l. 10, c. 1); come nel consigliare a' fanciulli la let-tura delle commedie vi aggiunga la condizione, purchè icostumi ne siano in sicuro (l. 1, c. 8). Giovenale cel rap-presenta come assai ricco e padrone di gran poderi (sat.7, v. 188, ec.); Plinio il giovane al contrario a lui stessoscrivendo (l. 6, ep. 32) lo chiama animo beatissimum,modicum facultatibus; dal che egli prese occasione delgeneroso atto che fece, di donare alla figlia di Quintilia-no stato già suo maestro, destinata in nozze a Nonio Ce-lere, cinquantamila sesterzj che corrispondono a un di-presso a mille ducento cinquanta scudi romani. Il Dod-wello del passo di Giovenale si vale a provare che sottoAdriano Quintiliano ebbe onori e ricchezze; ma potreb-besi forse più verisimilmente rispondere che Giovenaleè poeta, e innoltre poeta satirico che segue spesso e de-scrive le incerte voci del volgo. Plinio al contrario è un

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sincero amico che' è ben informato della mediocrità diricchezze del suo antico maestro. L'unica traccia da cuinon può in alcun modo difendersi Quintiliano, si è quel-la di avere troppo sfacciatamente adulato Domiziano,chiamandolo il massimo tra' poeti e delle cui opere nullavi avea di più sublime, di più dotto, di più perfetto, conaltre infinite lodi ch'egli dà a quell'imperadore ch'erafrattanto in esecrazione e in orrore a tutto l'impero (l. 10,c. 1). Ma fu questo un difetto da cui, come abbiamo ve-duto, appena vi fu scrittore a questi tempi che andasseesente. Oltre gli Annali del Dodwello si può vedere an-cora il Dizionario del Bayle (art. “Quint.”) che varj ar-ticoli della vita di Quintiliano ha diligentemente esami-nati.

XII. Le Istituzioni oratorie che di lui ci sonorimaste, sono una delle più pregevoli operedi tutta l'antichità. Egli prende l'oratore findalla sua fanciullezza, e il viene passo passoformando ed istruendo in tutto ciò che al

suo carattere appartiene. Una certa equità naturale, ungiusto senso comune, una matura riflessione, un attentostudio su' migliori autori sono la norma su cui egli stabi-lisce e svolge i suoi precetti. Si può dire che niuna parteei lasci intatta. Troppo diffuso, e spesso ancora tropposottile per esser posto tra mano a' giovinetti inesperti,egli è anzi opportuno ad istruire i loro istruttori, e a sug-gerir loro quelle riflessioni di cui si possan giovare am-

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Sue Istitu-zioni orato-rie quantopregevoli.

sincero amico che' è ben informato della mediocrità diricchezze del suo antico maestro. L'unica traccia da cuinon può in alcun modo difendersi Quintiliano, si è quel-la di avere troppo sfacciatamente adulato Domiziano,chiamandolo il massimo tra' poeti e delle cui opere nullavi avea di più sublime, di più dotto, di più perfetto, conaltre infinite lodi ch'egli dà a quell'imperadore ch'erafrattanto in esecrazione e in orrore a tutto l'impero (l. 10,c. 1). Ma fu questo un difetto da cui, come abbiamo ve-duto, appena vi fu scrittore a questi tempi che andasseesente. Oltre gli Annali del Dodwello si può vedere an-cora il Dizionario del Bayle (art. “Quint.”) che varj ar-ticoli della vita di Quintiliano ha diligentemente esami-nati.

XII. Le Istituzioni oratorie che di lui ci sonorimaste, sono una delle più pregevoli operedi tutta l'antichità. Egli prende l'oratore findalla sua fanciullezza, e il viene passo passoformando ed istruendo in tutto ciò che al

suo carattere appartiene. Una certa equità naturale, ungiusto senso comune, una matura riflessione, un attentostudio su' migliori autori sono la norma su cui egli stabi-lisce e svolge i suoi precetti. Si può dire che niuna parteei lasci intatta. Troppo diffuso, e spesso ancora tropposottile per esser posto tra mano a' giovinetti inesperti,egli è anzi opportuno ad istruire i loro istruttori, e a sug-gerir loro quelle riflessioni di cui si possan giovare am-

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Sue Istitu-zioni orato-rie quantopregevoli.

maestrando altrui. So che alcuni dei precetti di Quinti-liano sono stati da altri, e forse a ragion, rigettati. Maciò non ostante non vi ha uom saggio e colto che non neparli con sentimenti di altissima stima. Veggansi i giudi-zj che da molti illustri scrittori ne sono stati portati, rac-colti e illustrati da m. Gibert (Jug. des Auteurs qui onttraitè de la Rhetor. p. 124, èd. d'Amsterd. 1725). Lo stiledi Quintiliano si risente de' difetti del tempo a cui scris-se; perciocchè, comunque egli fosse ammirator grandis-simo di Cicerone, non potè nondimeno uguagliarne lapurezza del favellare per le ragioni che nella Disserta-zion preliminare abbiam toccate. Ma in ciò ch'è buonguon gusto, egli non si lasciò certo travolgere dal torren-te; anzi usò ogni sforzo per fargli argine, e per richiama-re i Romani al buon sentiero onde si eran distolti. E per-chè Seneca il filosofo era allora il principal condottieredi quelli che si eran gittati per questa nuova via, ecoll'apparente luce del concettoso suo stile traeva moltiin rovina, contro di lui singolarmente si volse Quintilia-no. Piacemi di riferire qui il bellissimo passo in cui ei neragiona, che varrà non poco a farci conoscere e l'onestadel carattere, e la finezza del buon gusto di Quintiliano."Io ho fin qui differito, dic'egli (l. 10, c. 1) a far menzio-ne di Seneca nel favellare che ho fatto degli scrittorid'ogni maniera, per l'opinione che di me falsamente si èsparsa, per cui si crede ch'io il condanni, e che anzi glisia nemico. Il che mi è avvenuto, perchè io procurava dichiamare a severo esame un genere di eloquenza nuova-mente introdotto, guasto e infettato di tutti i vizj. Seneca

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maestrando altrui. So che alcuni dei precetti di Quinti-liano sono stati da altri, e forse a ragion, rigettati. Maciò non ostante non vi ha uom saggio e colto che non neparli con sentimenti di altissima stima. Veggansi i giudi-zj che da molti illustri scrittori ne sono stati portati, rac-colti e illustrati da m. Gibert (Jug. des Auteurs qui onttraitè de la Rhetor. p. 124, èd. d'Amsterd. 1725). Lo stiledi Quintiliano si risente de' difetti del tempo a cui scris-se; perciocchè, comunque egli fosse ammirator grandis-simo di Cicerone, non potè nondimeno uguagliarne lapurezza del favellare per le ragioni che nella Disserta-zion preliminare abbiam toccate. Ma in ciò ch'è buonguon gusto, egli non si lasciò certo travolgere dal torren-te; anzi usò ogni sforzo per fargli argine, e per richiama-re i Romani al buon sentiero onde si eran distolti. E per-chè Seneca il filosofo era allora il principal condottieredi quelli che si eran gittati per questa nuova via, ecoll'apparente luce del concettoso suo stile traeva moltiin rovina, contro di lui singolarmente si volse Quintilia-no. Piacemi di riferire qui il bellissimo passo in cui ei neragiona, che varrà non poco a farci conoscere e l'onestadel carattere, e la finezza del buon gusto di Quintiliano."Io ho fin qui differito, dic'egli (l. 10, c. 1) a far menzio-ne di Seneca nel favellare che ho fatto degli scrittorid'ogni maniera, per l'opinione che di me falsamente si èsparsa, per cui si crede ch'io il condanni, e che anzi glisia nemico. Il che mi è avvenuto, perchè io procurava dichiamare a severo esame un genere di eloquenza nuova-mente introdotto, guasto e infettato di tutti i vizj. Seneca

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era allora il solo autore che fosse in mano de' giovani.Nè voleva io già toglierlo interamente dalle lor mani.Ma io non poteva soffrire ch'ei fosse antiposto a' miglio-ri, cui egli non avea mai cessato di biasimare, percioc-chè consapevole a se medesimo del nuovo genere d'elo-quenza da se abbracciato, disperava di poter piacere acoloro a cui quelli piacessero. Or i giovani lo amavanopiù che non l'imitassero; e tanto eran essi da lui lontani,quanto egli allontanato erasi dagli antichi; poichè sareb-be anche a bramarsi l'essere a lui uguale, o almeno vici-no. Ma egli piaceva lor solamente pe' suoi difetti, eognuno prendeva a ritrarne in se medesimo quelli chegli era possibile; e quindi vantandosi di parlar come Se-neca, veniva con ciò ad infamarlo. Egli per altro fuuomo di molte e grandi virtù, di ingegno facile e copio-so, di continuo studio, e di gran cognizion delle cose,benchè in alcuna talvolta sia stato ingannato da quelli acui commettevane la ricerca. Quasi ogni genere discienza fu da lui coltivato, e ci restano orazioni e poemie lettere e dialogi da lui composti. Poco diligente neltrattare argomenti filosofici, egli fu nondimeno egregioripreditore de' vizj. Molti ed ottimi sentimenti in lui sitrovano, e molte cose degne d'esser lette per regola de'costumi. Ma lo stile n'è comunemente guasto, e tantopiù pericoloso, perchè i difetti ne son piacevoli e dolci.Sarebbe a bramare ch'egli scrivendo avesse usato delsuo proprio ingegno, e del giudizio altrui. Perciocchè sedi alcune cose ei non si fosse curato, se non fosse statotroppo desioso di gloria, se troppo non avesse amato tut-

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era allora il solo autore che fosse in mano de' giovani.Nè voleva io già toglierlo interamente dalle lor mani.Ma io non poteva soffrire ch'ei fosse antiposto a' miglio-ri, cui egli non avea mai cessato di biasimare, percioc-chè consapevole a se medesimo del nuovo genere d'elo-quenza da se abbracciato, disperava di poter piacere acoloro a cui quelli piacessero. Or i giovani lo amavanopiù che non l'imitassero; e tanto eran essi da lui lontani,quanto egli allontanato erasi dagli antichi; poichè sareb-be anche a bramarsi l'essere a lui uguale, o almeno vici-no. Ma egli piaceva lor solamente pe' suoi difetti, eognuno prendeva a ritrarne in se medesimo quelli chegli era possibile; e quindi vantandosi di parlar come Se-neca, veniva con ciò ad infamarlo. Egli per altro fuuomo di molte e grandi virtù, di ingegno facile e copio-so, di continuo studio, e di gran cognizion delle cose,benchè in alcuna talvolta sia stato ingannato da quelli acui commettevane la ricerca. Quasi ogni genere discienza fu da lui coltivato, e ci restano orazioni e poemie lettere e dialogi da lui composti. Poco diligente neltrattare argomenti filosofici, egli fu nondimeno egregioripreditore de' vizj. Molti ed ottimi sentimenti in lui sitrovano, e molte cose degne d'esser lette per regola de'costumi. Ma lo stile n'è comunemente guasto, e tantopiù pericoloso, perchè i difetti ne son piacevoli e dolci.Sarebbe a bramare ch'egli scrivendo avesse usato delsuo proprio ingegno, e del giudizio altrui. Perciocchè sedi alcune cose ei non si fosse curato, se non fosse statotroppo desioso di gloria, se troppo non avesse amato tut-

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te le cose sue, se non avesse co' raffinati concetti snerva-ti i più gravi e i più nobili sentimenti, egli avrebbe insuo favore l'universal consenso de' dotti, anzichè l'amorde' fanciulli. Qual egli è nondimeno, debbe ancora esserletto dagli uomni già maturi e formati a una sola elo-quenza, anche perchè possan con ciò avvezzarsi a di-scernere il reo dal buono. Perciocchè, come ho detto,molte cose degne di lode in lui sono, molte ancor degned'ammirazione, purchè si sappino scegliere. E così aves-se fatto egli stesso! perciocchè un ingegno tale che pote-va qualunque cosa volesse, degno era certo di volersempre il meglio". Io penso che niun autore abbia piùgiustamente formato il carattere di Seneca, e rilevatenemeglio le virtù insieme e i difetti. Di Seneca avremo po-scia a parlare più lungamente, ove tratterem de' filosofi,a' quali propiamente egli appartiene. Qui basti il riflette-re che tutti gli sforzi di Quintiliano per distogliere i Ro-mani dalla viziosa imitazione di Seneca caddero a votoper la ragione medesima che Quintiliano accenna, cioèperchè i vizj di quello scrittore erano lusinghevoli e dol-ci; e perchè pareva glorioso l'imitare uno stile che ri-chiedeva sottigliezza d'ingegno.

XIII. Rimane per ultimo a vedere se aQuintiliano attribuir si debbano le Decla-mazioni che col nome di lui abbiamo allestampe. Di queste ve ne ha diciannove as-sai lunghe: quindi altre più brevi ch'erano

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S'ei sia autoredelle Decla-mazioni a lui attribuite.

te le cose sue, se non avesse co' raffinati concetti snerva-ti i più gravi e i più nobili sentimenti, egli avrebbe insuo favore l'universal consenso de' dotti, anzichè l'amorde' fanciulli. Qual egli è nondimeno, debbe ancora esserletto dagli uomni già maturi e formati a una sola elo-quenza, anche perchè possan con ciò avvezzarsi a di-scernere il reo dal buono. Perciocchè, come ho detto,molte cose degne di lode in lui sono, molte ancor degned'ammirazione, purchè si sappino scegliere. E così aves-se fatto egli stesso! perciocchè un ingegno tale che pote-va qualunque cosa volesse, degno era certo di volersempre il meglio". Io penso che niun autore abbia piùgiustamente formato il carattere di Seneca, e rilevatenemeglio le virtù insieme e i difetti. Di Seneca avremo po-scia a parlare più lungamente, ove tratterem de' filosofi,a' quali propiamente egli appartiene. Qui basti il riflette-re che tutti gli sforzi di Quintiliano per distogliere i Ro-mani dalla viziosa imitazione di Seneca caddero a votoper la ragione medesima che Quintiliano accenna, cioèperchè i vizj di quello scrittore erano lusinghevoli e dol-ci; e perchè pareva glorioso l'imitare uno stile che ri-chiedeva sottigliezza d'ingegno.

XIII. Rimane per ultimo a vedere se aQuintiliano attribuir si debbano le Decla-mazioni che col nome di lui abbiamo allestampe. Di queste ve ne ha diciannove as-sai lunghe: quindi altre più brevi ch'erano

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S'ei sia autoredelle Decla-mazioni a lui attribuite.

in numero di 388, ma di cui solo 145 ci son rimaste; efinalmente alcuni estratti che da un codice ms. della bi-blioteca di Leyden ha dati in luce nella sua bella edizio-ne di Quintiliano il più volte nominato Pietro Burman-no. Appena vi ha al presente chi creda che tali Declama-zioni siano opera dell'autore delle Istituzioni Oratorie,nè io so intendere come ne possa restare ancora un leg-gerissimo dubbio. Lo stile, il gusto, il metodo, è total-mente diverso da quello di Quintiliano; e converrebbedire, s'egli ne fosse autore, che seguite avesse nello scri-vere queste declamazioni leggi interamente contrarie aquelle che nelle sue Istituzioni egli prescrive. Alcuni nefanno autore il padre di Quintiliano, altri un'altro Quinti-liano avolo forse del nostro, rammentato qual declama-tore da Seneca, come altrove si è detto. Ma non vi è ar-gomento bastevole ad affermarlo; e l'opinion più verisi-mile, a mio parere, si è ch'esse sieno di diversi autori; eche per farle salire a più alta stima siano state attribuitea Quintiliano. Egli è certo però, che fin da' tempi più an-tichi leggevansi declamazioni sotto il nome di Quintii-liano, chiunque egli fosse; perciocchè Trebellio Pollio-ne, parlando di Postumo il giovane uno de' trenta tiran-ni, dice (in ejus Vita) ch'è fu così eloquente nel declama-re, che le Declamazioni da lui composte dicevansi inse-rite tra quelle di Quintiliano. E forse ciò che a quelle diPostumo, avvenne ancora alle declamazioni di altri, cheraccolte insieme tutte sotto il nome di Quintiliano si di-volgassero. Alle Declamazioni di Quintiliano si soglio-no aggiugnere quelle di un Calpurnio Flacco, scritte

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in numero di 388, ma di cui solo 145 ci son rimaste; efinalmente alcuni estratti che da un codice ms. della bi-blioteca di Leyden ha dati in luce nella sua bella edizio-ne di Quintiliano il più volte nominato Pietro Burman-no. Appena vi ha al presente chi creda che tali Declama-zioni siano opera dell'autore delle Istituzioni Oratorie,nè io so intendere come ne possa restare ancora un leg-gerissimo dubbio. Lo stile, il gusto, il metodo, è total-mente diverso da quello di Quintiliano; e converrebbedire, s'egli ne fosse autore, che seguite avesse nello scri-vere queste declamazioni leggi interamente contrarie aquelle che nelle sue Istituzioni egli prescrive. Alcuni nefanno autore il padre di Quintiliano, altri un'altro Quinti-liano avolo forse del nostro, rammentato qual declama-tore da Seneca, come altrove si è detto. Ma non vi è ar-gomento bastevole ad affermarlo; e l'opinion più verisi-mile, a mio parere, si è ch'esse sieno di diversi autori; eche per farle salire a più alta stima siano state attribuitea Quintiliano. Egli è certo però, che fin da' tempi più an-tichi leggevansi declamazioni sotto il nome di Quintii-liano, chiunque egli fosse; perciocchè Trebellio Pollio-ne, parlando di Postumo il giovane uno de' trenta tiran-ni, dice (in ejus Vita) ch'è fu così eloquente nel declama-re, che le Declamazioni da lui composte dicevansi inse-rite tra quelle di Quintiliano. E forse ciò che a quelle diPostumo, avvenne ancora alle declamazioni di altri, cheraccolte insieme tutte sotto il nome di Quintiliano si di-volgassero. Alle Declamazioni di Quintiliano si soglio-no aggiugnere quelle di un Calpurnio Flacco, scritte

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anch'esse in uno stil somigliante, cioè freddamente inge-gnoso. Ma dell'autor di esse null'altro sappiamo, se nonche sembra ch'ei vivesse sotto Adriano, come da un pas-so dell'antico Digesto conghiettura il Gronovio nelle suenote alla prima di queste declamazioni.

XIV. L'ultimo monumento che ci rimane,dell'eloquenza di questi tempi, è il celebrePanegirico di Traiano fatto da Plinio il gio-vane, di cui perciò ci conviene ora parlare.C. Plinio Cecilio Secondo ebbe per padreLucio Cecilio, per madre una sorella di Pli-

nio il vecchio, per patria Como com'egli stesso in piùluoghi afferma (l. 2, ep. 8; l. 4, ep. 30; l. 6, ep. 25, ec.); eil lago a questa città vicino conserva ancora un illustremonumento di questo suo celebre cittadino, cioè la villache tuttor dicesi Pliniana, alle sponde di detto lago, cheora appartiene alla nobil famiglia de' marchesi Canarisi,e il maraviglioso fonte che ancor si vede, il cui flusso eriflusso da lui medesimo ci è stato descritto (l. 4, ep.30). Io non farò che accennare brevemente ciò che ap-partiene alla vita di questo scrittore, poichè essa si puòvedere distesamente scritta dal p. Jacopo de la Baunedella Compagnia di Gesù innanzi all'edizione da lui fattadel Panegirico, e quella più ampia e più esatta scritta daGiovanni Masson, e premessa alla magnifica edizionedelle Epistole dello stesso autore, fatta in Amsterdaml'an. 1734, e a quella nulla meno magnifica del Panegiri-

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Notizie del-la vita di Plinio il giovane: sue virtù morali.

anch'esse in uno stil somigliante, cioè freddamente inge-gnoso. Ma dell'autor di esse null'altro sappiamo, se nonche sembra ch'ei vivesse sotto Adriano, come da un pas-so dell'antico Digesto conghiettura il Gronovio nelle suenote alla prima di queste declamazioni.

XIV. L'ultimo monumento che ci rimane,dell'eloquenza di questi tempi, è il celebrePanegirico di Traiano fatto da Plinio il gio-vane, di cui perciò ci conviene ora parlare.C. Plinio Cecilio Secondo ebbe per padreLucio Cecilio, per madre una sorella di Pli-

nio il vecchio, per patria Como com'egli stesso in piùluoghi afferma (l. 2, ep. 8; l. 4, ep. 30; l. 6, ep. 25, ec.); eil lago a questa città vicino conserva ancora un illustremonumento di questo suo celebre cittadino, cioè la villache tuttor dicesi Pliniana, alle sponde di detto lago, cheora appartiene alla nobil famiglia de' marchesi Canarisi,e il maraviglioso fonte che ancor si vede, il cui flusso eriflusso da lui medesimo ci è stato descritto (l. 4, ep.30). Io non farò che accennare brevemente ciò che ap-partiene alla vita di questo scrittore, poichè essa si puòvedere distesamente scritta dal p. Jacopo de la Baunedella Compagnia di Gesù innanzi all'edizione da lui fattadel Panegirico, e quella più ampia e più esatta scritta daGiovanni Masson, e premessa alla magnifica edizionedelle Epistole dello stesso autore, fatta in Amsterdaml'an. 1734, e a quella nulla meno magnifica del Panegiri-

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Notizie del-la vita di Plinio il giovane: sue virtù morali.

co fatta ivi pure l'an. 1738, e un'altra finalmente, che ionon ho potuto vedere, scritta da milord Orrery, e tradottaancora in italiano, e dal can. Tedeschi premessa alla tra-duzione italiana da lui fatta delle Lettere di Plinio. Natol'an. 62 dell'era cristiana venne assai giovane a Roma, evi ebbe a maestro il celebre Quintiliano. Adottato dalvecchio Plinio suo zio materno, di cui perciò prese ilnome, fu testimonio della fatale eruzion del Vesuvio, dacui quegli fu oppresso l'an. 79. In età di 21 anni comin-ciò a trattar le cause nel foro, a che egli con lungo e at-tentissimo studio erasi apparecchiato. Nè lasciò insiemesecondo il costume di esercitarsi nella milizia, e ancorgiovinetto fu tribuno militare nella Siria. Quindi tornatoa Roma vi ottenne tutti i più ragguardevoli onori, fattoquestore, tribuno della plebe, pretore, console, sopra-stante all'erario di Saturno e al militare, e finalmente go-vernatore del Ponte e della Bitinia. Di questi onori ei fudebitore singolarmente alla liberalità di Traiano, il qualefu verso di lui sì umano e cortese, che perorando Plinioun giorno innanzi a lui, e parlando con impeto non ordi-nario, l'imperadore il fe' più volte amorevolmente avver-tire da un suo liberto che avesse maggior riguardo alladebolezza del suo fianco e della sua voce (Plin. l. 2, ep.11). Dalla sua provincia scrisse egli la celebre lettera aTraiano intorno a' Cristiani, esponendo la loro innocen-za e la costanza lor nei tormenti, e chiedendo all'impera-dore di qual tenore con essi dovesse usare. Ella è uno de'più gloriosi elogi che alla religion cristiana si sian maifatti; ma non è del mio argomento il trattarne più lunga-

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co fatta ivi pure l'an. 1738, e un'altra finalmente, che ionon ho potuto vedere, scritta da milord Orrery, e tradottaancora in italiano, e dal can. Tedeschi premessa alla tra-duzione italiana da lui fatta delle Lettere di Plinio. Natol'an. 62 dell'era cristiana venne assai giovane a Roma, evi ebbe a maestro il celebre Quintiliano. Adottato dalvecchio Plinio suo zio materno, di cui perciò prese ilnome, fu testimonio della fatale eruzion del Vesuvio, dacui quegli fu oppresso l'an. 79. In età di 21 anni comin-ciò a trattar le cause nel foro, a che egli con lungo e at-tentissimo studio erasi apparecchiato. Nè lasciò insiemesecondo il costume di esercitarsi nella milizia, e ancorgiovinetto fu tribuno militare nella Siria. Quindi tornatoa Roma vi ottenne tutti i più ragguardevoli onori, fattoquestore, tribuno della plebe, pretore, console, sopra-stante all'erario di Saturno e al militare, e finalmente go-vernatore del Ponte e della Bitinia. Di questi onori ei fudebitore singolarmente alla liberalità di Traiano, il qualefu verso di lui sì umano e cortese, che perorando Plinioun giorno innanzi a lui, e parlando con impeto non ordi-nario, l'imperadore il fe' più volte amorevolmente avver-tire da un suo liberto che avesse maggior riguardo alladebolezza del suo fianco e della sua voce (Plin. l. 2, ep.11). Dalla sua provincia scrisse egli la celebre lettera aTraiano intorno a' Cristiani, esponendo la loro innocen-za e la costanza lor nei tormenti, e chiedendo all'impera-dore di qual tenore con essi dovesse usare. Ella è uno de'più gloriosi elogi che alla religion cristiana si sian maifatti; ma non è del mio argomento il trattarne più lunga-

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mente. Quindi ritiratosi a una sua villa detta Laurentinovi passò tranquillamente il resto de' suoi giorni. In qualanno morisse, non può di certo affermarsi; ma credesiche ciò seguisse l'anno duodecimo di Traiano, essendoegli in età di cinquantadue anni. Egli visse amico de' piùcelebri e de' più dotti uomini che allor fossero in Roma,come dalle sue lettere si raccoglie; e queste insieme cifanno chiaramente conoscere l'onesto e virtuoso uomoch'egli era. "Non si può a meno leggendole, dice m. deSacy (préf. à la traduct. des Lettres de Pline), di nonconcepire affetto e stima per chi le scrisse. Si prova uncotal desiderio segreto di rassomigliare al loro autore.Voi non vedete in lui che sincerità, disinteresse, ricono-scenza. frugalità, modestia, fedeltà pe' suoi amici anchea pericolo delle disgrazie e perfin della morte; e orroreal vizio finalmente e passione per la virtù". In fatti vis'incontrano ad ogni tratto esempj non ordinarj dellemorali virtù, di cui Plinio era adorno. Oltre il denarodato, come s'è già detto, alla figlia di Quintiliano ed aMarziale, egli volle addossarsi tutti i debiti di un suoamico, e lui morto, non volle che l'unica figlia rimasta-gli, e a cui egli avea già data un'ampia dote, gli fosse de-bitrice di cosa alcuna (l. 2, ep. 4); e in più occasioni es-sendo dichiarato erede da' suoi amici, diede sincere pro-ve del suo disinteresse, or rinunciandone parte in altruivantaggio, or non facendo valere i suoi giusti diritti (l. 4,ep. 10; l. 5, ep. 1 e 7); e praticando sempre egli stessociò che insegnava ad altrui. Vuolsi qui avvertire un erro-

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mente. Quindi ritiratosi a una sua villa detta Laurentinovi passò tranquillamente il resto de' suoi giorni. In qualanno morisse, non può di certo affermarsi; ma credesiche ciò seguisse l'anno duodecimo di Traiano, essendoegli in età di cinquantadue anni. Egli visse amico de' piùcelebri e de' più dotti uomini che allor fossero in Roma,come dalle sue lettere si raccoglie; e queste insieme cifanno chiaramente conoscere l'onesto e virtuoso uomoch'egli era. "Non si può a meno leggendole, dice m. deSacy (préf. à la traduct. des Lettres de Pline), di nonconcepire affetto e stima per chi le scrisse. Si prova uncotal desiderio segreto di rassomigliare al loro autore.Voi non vedete in lui che sincerità, disinteresse, ricono-scenza. frugalità, modestia, fedeltà pe' suoi amici anchea pericolo delle disgrazie e perfin della morte; e orroreal vizio finalmente e passione per la virtù". In fatti vis'incontrano ad ogni tratto esempj non ordinarj dellemorali virtù, di cui Plinio era adorno. Oltre il denarodato, come s'è già detto, alla figlia di Quintiliano ed aMarziale, egli volle addossarsi tutti i debiti di un suoamico, e lui morto, non volle che l'unica figlia rimasta-gli, e a cui egli avea già data un'ampia dote, gli fosse de-bitrice di cosa alcuna (l. 2, ep. 4); e in più occasioni es-sendo dichiarato erede da' suoi amici, diede sincere pro-ve del suo disinteresse, or rinunciandone parte in altruivantaggio, or non facendo valere i suoi giusti diritti (l. 4,ep. 10; l. 5, ep. 1 e 7); e praticando sempre egli stessociò che insegnava ad altrui. Vuolsi qui avvertire un erro-

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re degli Enciclopedisti (20) che tra gli antichi atei hannoannoverato ancora Plinio il giovane (t. 1, art. "Athèe").Niuno, ch'io sappia, gli ha mai data una tale accusa, edessi certamente hanno per error nominato il giovane in-vece del vecchio, che da alcuni vien posto tra gli atei,come a suo luogo vedremo.

XV. Ei fu coltivatore indefesso ad un tempo,e generoso fomentatore de' buoni studj. Lesue lettere ce ne danno continue prove. Igiorni di solennissimi giuochi, a cui tuttaRoma accorreva in folla, eran giorni per lui

di erudito ritiro, in cui tutto abbandonavasi allo studio(l. 9, ep. 6). Egli stesso ci narra il piacere di cui godevaallor quando in qualche solitaria villa poteva senza di-sturbo alcuno coltivare le lettere (l. 1, ep. 9). Si duole,quando per dover di amicizia è costretto a porre da partei libri, e volgersi agli affari; ma confessa insieme chel'amicizia e agli studj e ad ogni altra cosa debb'essereantiposta (l. 8, ep. 9). La diligenza di cui egli usava scri-vendo, era qual suol essere de' migliori scrittori. "Io,dic'egli (l. 7, ep. 17), non cerco già di esser lodato da chi

20 Quando io qui e altrove nel decorso di quest'Opera parlo della Enciclope-dia e degli Enciclopedisti, intendo di favellar della prima edizione diquell'opera, che sola avevasi allor quando io pubblicai questa Storia. Gio-va sperare che gli errori nè leggeri nè pochi che trovavansi, saranno emen-dati nella nuova edizione per materie, che già da alcuni anni se n'è comin-ciata a Parigi, e di cui una ristampa ancor più corretta e accresciuta si è in-trapresa in Padova.

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Suo impe-gno nel col-tivare e promuover gli studi.

re degli Enciclopedisti (20) che tra gli antichi atei hannoannoverato ancora Plinio il giovane (t. 1, art. "Athèe").Niuno, ch'io sappia, gli ha mai data una tale accusa, edessi certamente hanno per error nominato il giovane in-vece del vecchio, che da alcuni vien posto tra gli atei,come a suo luogo vedremo.

XV. Ei fu coltivatore indefesso ad un tempo,e generoso fomentatore de' buoni studj. Lesue lettere ce ne danno continue prove. Igiorni di solennissimi giuochi, a cui tuttaRoma accorreva in folla, eran giorni per lui

di erudito ritiro, in cui tutto abbandonavasi allo studio(l. 9, ep. 6). Egli stesso ci narra il piacere di cui godevaallor quando in qualche solitaria villa poteva senza di-sturbo alcuno coltivare le lettere (l. 1, ep. 9). Si duole,quando per dover di amicizia è costretto a porre da partei libri, e volgersi agli affari; ma confessa insieme chel'amicizia e agli studj e ad ogni altra cosa debb'essereantiposta (l. 8, ep. 9). La diligenza di cui egli usava scri-vendo, era qual suol essere de' migliori scrittori. "Io,dic'egli (l. 7, ep. 17), non cerco già di esser lodato da chi

20 Quando io qui e altrove nel decorso di quest'Opera parlo della Enciclope-dia e degli Enciclopedisti, intendo di favellar della prima edizione diquell'opera, che sola avevasi allor quando io pubblicai questa Storia. Gio-va sperare che gli errori nè leggeri nè pochi che trovavansi, saranno emen-dati nella nuova edizione per materie, che già da alcuni anni se n'è comin-ciata a Parigi, e di cui una ristampa ancor più corretta e accresciuta si è in-trapresa in Padova.

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Suo impe-gno nel col-tivare e promuover gli studi.

mi ascolta, ma di chi mi legge. Perciò non vi ha manieradi correggere e di emendare, ch'io non usi. E primiera-mente rivedo da me stesso le cose che ho scritte; quindile leggo a due, o a tre; poscia le comunico ad altri, per-chè vi facciano le lor riflessioni: e se in queste trovocose di cui mi rimanga dubbioso, ne tratto con uno, opiù altri; finalmente le recito a molti, e credimi che allo-ra singolarmente le correggo con ogni attenzione". Nellesue lettere poi egli continuamente esorta e stimola altriallo studio, insegna il metodo con cui coltivare le lette-re, ne propone gli onori e i vantaggi, usa in somma diogni più efficace maniera per risvegliare in tuttiquell'amor di sapere, ch'egli vedeva illanguidir tra' Ro-mani (21). Ma alla sua patria singolarmente si mostrò egliin ciò benefico e liberale. Udiamo da lui medesimo inqual maniera inducesse i suoi concittadini a condurrequalche dotto maestro che aprisse in Como pubblicascuola. "Essendo io stato, scrive a Tacito (l. 4, ep. 13),di fresco in patria, venne a trovarmi un giovinetto fi-gliuol di un mio concittadino; a cui io, studj tu, dissi. Edegli: Sì certo. E dove? In Milano. Perchè non anzi qui inpatria? Allora il padre ch'era presente, e che aveamicondotto il giovane, perchè qui, disse, non abbiamomaestri. E perchè ciò? soggiunsi io: voi che siete padri(e opportunamente ve n'avea molti ad udirmi) dovreste

21 Un bell'elogio di Plinio il giovane ci ha dato di fresco il ch. Sig. cav. Cle-mentino Vannetti (Contin. del N. Giorn. de' Letter. d'Ital. T. XXVII, p. 178,ec), il qual poscia ha ancor pubblicato una elegante sua traduzione italianadi dodici lettere del medesimo autore (ivi t. XXXV, p. 152, ec.).

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mi ascolta, ma di chi mi legge. Perciò non vi ha manieradi correggere e di emendare, ch'io non usi. E primiera-mente rivedo da me stesso le cose che ho scritte; quindile leggo a due, o a tre; poscia le comunico ad altri, per-chè vi facciano le lor riflessioni: e se in queste trovocose di cui mi rimanga dubbioso, ne tratto con uno, opiù altri; finalmente le recito a molti, e credimi che allo-ra singolarmente le correggo con ogni attenzione". Nellesue lettere poi egli continuamente esorta e stimola altriallo studio, insegna il metodo con cui coltivare le lette-re, ne propone gli onori e i vantaggi, usa in somma diogni più efficace maniera per risvegliare in tuttiquell'amor di sapere, ch'egli vedeva illanguidir tra' Ro-mani (21). Ma alla sua patria singolarmente si mostrò egliin ciò benefico e liberale. Udiamo da lui medesimo inqual maniera inducesse i suoi concittadini a condurrequalche dotto maestro che aprisse in Como pubblicascuola. "Essendo io stato, scrive a Tacito (l. 4, ep. 13),di fresco in patria, venne a trovarmi un giovinetto fi-gliuol di un mio concittadino; a cui io, studj tu, dissi. Edegli: Sì certo. E dove? In Milano. Perchè non anzi qui inpatria? Allora il padre ch'era presente, e che aveamicondotto il giovane, perchè qui, disse, non abbiamomaestri. E perchè ciò? soggiunsi io: voi che siete padri(e opportunamente ve n'avea molti ad udirmi) dovreste

21 Un bell'elogio di Plinio il giovane ci ha dato di fresco il ch. Sig. cav. Cle-mentino Vannetti (Contin. del N. Giorn. de' Letter. d'Ital. T. XXVII, p. 178,ec), il qual poscia ha ancor pubblicato una elegante sua traduzione italianadi dodici lettere del medesimo autore (ivi t. XXXV, p. 152, ec.).

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certo bramare che qui anzi che altrove studiassero i vo-stri figli, perciocchè dove staranno essi più volentieriche nella lor patria? dove saranno allevati più onesta-mente che sotto gli occhi de lor genitori? dove mantenu-ti con minor dispendio che nella propria casa?" Cosìcontinua Plinio a narrare com'egli indusse i suoi Coma-schi a fissare un annuo stipendio, di cui egli promise dipagare la terza parte, pel mantenimento di un pubblicoprofessore, il quale dovesse da' cittadini medesimi esserprescelto, e prega perciò Tacito, che, se alcuno ei ne co-nosce a ciò opportuno, il mandi a Como, perchè vegga-no que' cittadini se sia qual essi il bramano. Nè qui fer-mossi la liberalità di Plinio verso la sua patria; percioc-chè egli assegnò del suo un'annual rendita di trentamilasesterzj ossia di circa 750 scudi al mantenimento di fan-ciulle e di fanciulli ingenui, cioè nati di padre libero, maridotti a povertà (l. 7, ep. 18). Finalmente una pubblicabiblioteca a comun vantaggio aprì egli in Como, e inquesta occasione fece un ragionamento a' decurioni del-la città, di cui egli stesso più volte ragiona (l. 1, ep. 8; l.2, ep. 5). Ma delle scuole e della biblioteca di Comoavremo luogo a trattare più lungamente, ove degli studjche fiorivano nel rimanente dell'Italia fuori di Roma,dovrem favellare; ed ivi pure esamineremo con qualfondamento si dica che una somigliante biblioteca fosseda Plinio aperta in Milano.

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certo bramare che qui anzi che altrove studiassero i vo-stri figli, perciocchè dove staranno essi più volentieriche nella lor patria? dove saranno allevati più onesta-mente che sotto gli occhi de lor genitori? dove mantenu-ti con minor dispendio che nella propria casa?" Cosìcontinua Plinio a narrare com'egli indusse i suoi Coma-schi a fissare un annuo stipendio, di cui egli promise dipagare la terza parte, pel mantenimento di un pubblicoprofessore, il quale dovesse da' cittadini medesimi esserprescelto, e prega perciò Tacito, che, se alcuno ei ne co-nosce a ciò opportuno, il mandi a Como, perchè vegga-no que' cittadini se sia qual essi il bramano. Nè qui fer-mossi la liberalità di Plinio verso la sua patria; percioc-chè egli assegnò del suo un'annual rendita di trentamilasesterzj ossia di circa 750 scudi al mantenimento di fan-ciulle e di fanciulli ingenui, cioè nati di padre libero, maridotti a povertà (l. 7, ep. 18). Finalmente una pubblicabiblioteca a comun vantaggio aprì egli in Como, e inquesta occasione fece un ragionamento a' decurioni del-la città, di cui egli stesso più volte ragiona (l. 1, ep. 8; l.2, ep. 5). Ma delle scuole e della biblioteca di Comoavremo luogo a trattare più lungamente, ove degli studjche fiorivano nel rimanente dell'Italia fuori di Roma,dovrem favellare; ed ivi pure esamineremo con qualfondamento si dica che una somigliante biblioteca fosseda Plinio aperta in Milano.

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XVI. Molte poesie avea Plinio scritte e inlatina e in greca favella, e in questa ancheuna tragedia (l. 7, ep. 3). Molte orazioni an-cora avea recitate nel trattar delle cause cheda lui stesso vengono annoverate (l. 6, ep.

29); e la fama di cui egli godeva, fu cagione che alcunisuoi libri giugessero fino a Lione in Francia, e pubblica-mente ivi si vendessero (l. 9, ep. 11). Ma di lui null'altroci è rimasto fuorchè dieci libri di Lettere, e il celebre Pa-negirico detto a Traiano. Nelle prime egli usa di uno sti-le colto ed elegante, ma che troppo è lungi dalla grazio-sa e piacevole naturalezza di quelle di Cicerone. Plinio èconciso e vibrato, ma spesso più del bisogno, talchè eine diviene oscuro e digiuno; difetto usato di questo se-colo, in cui come tante volte si è già detto, volevasi darealle cose una perfezione maggior di quella che lor con-venga. Il Panegirico è stato lodato da alcuni come il piùperfetto modello di eloquenza, a cui sia mai giuntouomo di questa terra. Nello scorso secolo Plinio e Sene-ca erano i due autori su' quali credevasi comunemente didover formare lo stile e il discorso; e io credo che talpaese vi abbia ancora al presente fuori d'Italia, in cuidiasi una almen tacita preferenza a Plinio in confrontodi Cicerone, ove si tratta di scrivere latinamente. Nè sipuò negare che il Panegirico di Plinio non abbia senti-menti e pensieri di una forza e di una sublimità ammira-bile; ma il voler dare ad ogni cosa un'aria nuova, o ma-ravigliosa; il voler far pompa ad ogni passo di acutezzad'ingegno; il voler trovare in ogni oggetto confronti, an-

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Sue lettere e suo Pane-girico, e loro carat-tere.

XVI. Molte poesie avea Plinio scritte e inlatina e in greca favella, e in questa ancheuna tragedia (l. 7, ep. 3). Molte orazioni an-cora avea recitate nel trattar delle cause cheda lui stesso vengono annoverate (l. 6, ep.

29); e la fama di cui egli godeva, fu cagione che alcunisuoi libri giugessero fino a Lione in Francia, e pubblica-mente ivi si vendessero (l. 9, ep. 11). Ma di lui null'altroci è rimasto fuorchè dieci libri di Lettere, e il celebre Pa-negirico detto a Traiano. Nelle prime egli usa di uno sti-le colto ed elegante, ma che troppo è lungi dalla grazio-sa e piacevole naturalezza di quelle di Cicerone. Plinio èconciso e vibrato, ma spesso più del bisogno, talchè eine diviene oscuro e digiuno; difetto usato di questo se-colo, in cui come tante volte si è già detto, volevasi darealle cose una perfezione maggior di quella che lor con-venga. Il Panegirico è stato lodato da alcuni come il piùperfetto modello di eloquenza, a cui sia mai giuntouomo di questa terra. Nello scorso secolo Plinio e Sene-ca erano i due autori su' quali credevasi comunemente didover formare lo stile e il discorso; e io credo che talpaese vi abbia ancora al presente fuori d'Italia, in cuidiasi una almen tacita preferenza a Plinio in confrontodi Cicerone, ove si tratta di scrivere latinamente. Nè sipuò negare che il Panegirico di Plinio non abbia senti-menti e pensieri di una forza e di una sublimità ammira-bile; ma il voler dare ad ogni cosa un'aria nuova, o ma-ravigliosa; il voler far pompa ad ogni passo di acutezzad'ingegno; il voler trovare in ogni oggetto confronti, an-

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Sue lettere e suo Pane-girico, e loro carat-tere.

titesi, contrapposti, non solo crea oscurità, ma noia an-cora a chi legge. Quindi di Plinio si può dire ciò che,come abbiam veduto, di Seneca dicesi da Quintiliano,ch'ei può esser letto con frutto da chi, essendosi già for-mato sugli eccellenti autori, può sceglierne saggiamenteciò che vi ha di pregevole e degno d'imitazione, e lascia-re in disparte ciò che vi ha di vizioso. Io penso nondi-meno che Plinio debba essere antiposto a Seneca; per-chè ne' sentimenti di Plinio si vede comunemente ilgrande e il vero, benchè guasto spesso da una soverchiaaffettazion del sublime; ne' sentimenti di Seneca altronon s'incontra sovente che una vota ombra e una ingan-nevole apparenza di maestà e di grandezza, che volen-dosi penetrar più addentro si dirada tosto e svanisce.Non parlo qui delle Vite degli uomini illustri, che da al-cuni sono state attribuite a Plinio, poichè non v'ha or chinon sappia ch'esse più probabilmente sono di AurelioVittore.

XVII. Questi, come abbiamo detto, sonogli unici saggi che dell'eloquenza di que-sti tempi ci son rimasti. Furonvi nondi-

meno parecchi oratori che per essa ottennero grande sti-ma. Sopra tutti si lodano da Quintiliano (l. 10, c. 1) Do-mizio Afro e Giulio Africano. "Di que', dic'egli, ch'io hoveduti, Domizio Afro e Giulio Afiricano hanno sorpas-sato di molto gli altri tutti". Domizio Afro, secondo laCronaca eusebiana, fu nativo di Nimes nella Gallia, e di

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Altri oratori di questi tempi.

titesi, contrapposti, non solo crea oscurità, ma noia an-cora a chi legge. Quindi di Plinio si può dire ciò che,come abbiam veduto, di Seneca dicesi da Quintiliano,ch'ei può esser letto con frutto da chi, essendosi già for-mato sugli eccellenti autori, può sceglierne saggiamenteciò che vi ha di pregevole e degno d'imitazione, e lascia-re in disparte ciò che vi ha di vizioso. Io penso nondi-meno che Plinio debba essere antiposto a Seneca; per-chè ne' sentimenti di Plinio si vede comunemente ilgrande e il vero, benchè guasto spesso da una soverchiaaffettazion del sublime; ne' sentimenti di Seneca altronon s'incontra sovente che una vota ombra e una ingan-nevole apparenza di maestà e di grandezza, che volen-dosi penetrar più addentro si dirada tosto e svanisce.Non parlo qui delle Vite degli uomini illustri, che da al-cuni sono state attribuite a Plinio, poichè non v'ha or chinon sappia ch'esse più probabilmente sono di AurelioVittore.

XVII. Questi, come abbiamo detto, sonogli unici saggi che dell'eloquenza di que-sti tempi ci son rimasti. Furonvi nondi-

meno parecchi oratori che per essa ottennero grande sti-ma. Sopra tutti si lodano da Quintiliano (l. 10, c. 1) Do-mizio Afro e Giulio Africano. "Di que', dic'egli, ch'io hoveduti, Domizio Afro e Giulio Afiricano hanno sorpas-sato di molto gli altri tutti". Domizio Afro, secondo laCronaca eusebiana, fu nativo di Nimes nella Gallia, e di

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Altri oratori di questi tempi.

lui perciò hanno lungamente favellato gli autori dellaStoria Letteraria di Francia (t. 1, p. 181) presso i quali sipotranno vedere intorno a lui più copiose notizie. E cer-to doveva esser uomo di non ordinaria eloquenza, per-ciocchè Quintiliano stesso soggiugne che nella sceltadelle parole e in tutta la maniera di ragionare egli era su-periore a chiunque, e degno di esser posto nel numerodegli antichi. Celebre è il fatto che di lui narra Dione (l.59), cioè che Caligola capricciosamente sdegnato controDomizio per motivi da nulla accusollo al senato, e sa-pendo quanto celebre oratore egli fosse, pretese di ga-reggiare con lui in eloquenza. Domizio avvedutosi dellavanità di Caligola, appena questi ebbe finito di ragiona-re, invece di difendersi, cominciò a mostrarsi attonito esorpreso da sì grande eloquenza; quindi a lodare l'ora-zion di Caligola, ripeterne le diverse parti, esaltarne labellezza e la forza; e finalmente quasi incapace a rispon-dere, gittatosi a piè dell'imperadore, confessare di nonavere altra difesa che quella delle preghiere e del pianto.Di che pago Caligola rimandollo assoluto, e non moltodopo l'elesse a console. Ma Domizio non ebbe uguallode pe' suoi costumi che per la sua eloquenza (Tac.Ann. l. 4, c. 52); e questa ancora col crescere degli annivenne meno per modo, che, quando saliva su' rostri,spesso egli era o compatito, o deriso (Quint. l. 12, c. 11).E la morte ancora non ne fu molto gloriosa, perchè ca-gionatagli, secondo la Cronaca eusebiana, dal soverchiocibo. Essa accadde, secondo Tacito (Ann. l. 14, c. 19),nel quinto anno dell'impero di Nerone. Giulio Africano

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lui perciò hanno lungamente favellato gli autori dellaStoria Letteraria di Francia (t. 1, p. 181) presso i quali sipotranno vedere intorno a lui più copiose notizie. E cer-to doveva esser uomo di non ordinaria eloquenza, per-ciocchè Quintiliano stesso soggiugne che nella sceltadelle parole e in tutta la maniera di ragionare egli era su-periore a chiunque, e degno di esser posto nel numerodegli antichi. Celebre è il fatto che di lui narra Dione (l.59), cioè che Caligola capricciosamente sdegnato controDomizio per motivi da nulla accusollo al senato, e sa-pendo quanto celebre oratore egli fosse, pretese di ga-reggiare con lui in eloquenza. Domizio avvedutosi dellavanità di Caligola, appena questi ebbe finito di ragiona-re, invece di difendersi, cominciò a mostrarsi attonito esorpreso da sì grande eloquenza; quindi a lodare l'ora-zion di Caligola, ripeterne le diverse parti, esaltarne labellezza e la forza; e finalmente quasi incapace a rispon-dere, gittatosi a piè dell'imperadore, confessare di nonavere altra difesa che quella delle preghiere e del pianto.Di che pago Caligola rimandollo assoluto, e non moltodopo l'elesse a console. Ma Domizio non ebbe uguallode pe' suoi costumi che per la sua eloquenza (Tac.Ann. l. 4, c. 52); e questa ancora col crescere degli annivenne meno per modo, che, quando saliva su' rostri,spesso egli era o compatito, o deriso (Quint. l. 12, c. 11).E la morte ancora non ne fu molto gloriosa, perchè ca-gionatagli, secondo la Cronaca eusebiana, dal soverchiocibo. Essa accadde, secondo Tacito (Ann. l. 14, c. 19),nel quinto anno dell'impero di Nerone. Giulio Africano

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ancora fu delle Gallie, e nativo della città di Saintes,come chiaramente afferma Tacito: Julius Africanus eSantonis Gallica civitate (Ann. l. 6, c. 7); ed è perciò astupire che gli autori della Storia Letteraria di Francianon gli abbiano dato luogo tra lor più celebri oratori.Quintiliano dopo aver detto, come già abbiamo veduto,ch'egli e Domizio erano i migliori tra gli oratori da luiconosciuti, così forma il carattere di Giulio Africano:"questi era più impetuoso; ma nella scelta delle paroletroppo affrettato, e troppo lungo talvolta nella tessituradel ragionare, e nelle trasposizioni non abbastanza rite-nuto".

XVIII. Il medesimo Quintiliano di tre altrioratori ragiona distintamente, e i loro pregidescrive e insieme i loro difetti. "Eranvi,dic'egli (l. 10, c. 1; etiam l. 10, c. 3; l. 12, c.3, ec.), anche di fresco oratori di eccellente

ingegno. Perciochè Tracalo era comunemente sublime echiaro abbastanza; e conoscevasi ch'ei sempre sceglievail meglio. Ma udendolo piaceva assai più; poichè cosìbella voce egli avea, ch'io in niun altro ne ho conosciutola somigliante, e un recitare, quale sarebbe convenutoanche in teatro, e gran decoro, e tutti in somma i pregiestriseci di oratore. Vibio Crispo ancora era elegante nelragionare, e piacevole e nato a dilettare: migliore perònelle private che nelle pubbliche cause (22). Giulio Se-22 Di Vibio Crispo vercellese ci ha dato un elegante elogio il sig. Felice Du-

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Carattere dialcuni la-sciatoci da Quintiliano.

ancora fu delle Gallie, e nativo della città di Saintes,come chiaramente afferma Tacito: Julius Africanus eSantonis Gallica civitate (Ann. l. 6, c. 7); ed è perciò astupire che gli autori della Storia Letteraria di Francianon gli abbiano dato luogo tra lor più celebri oratori.Quintiliano dopo aver detto, come già abbiamo veduto,ch'egli e Domizio erano i migliori tra gli oratori da luiconosciuti, così forma il carattere di Giulio Africano:"questi era più impetuoso; ma nella scelta delle paroletroppo affrettato, e troppo lungo talvolta nella tessituradel ragionare, e nelle trasposizioni non abbastanza rite-nuto".

XVIII. Il medesimo Quintiliano di tre altrioratori ragiona distintamente, e i loro pregidescrive e insieme i loro difetti. "Eranvi,dic'egli (l. 10, c. 1; etiam l. 10, c. 3; l. 12, c.3, ec.), anche di fresco oratori di eccellente

ingegno. Perciochè Tracalo era comunemente sublime echiaro abbastanza; e conoscevasi ch'ei sempre sceglievail meglio. Ma udendolo piaceva assai più; poichè cosìbella voce egli avea, ch'io in niun altro ne ho conosciutola somigliante, e un recitare, quale sarebbe convenutoanche in teatro, e gran decoro, e tutti in somma i pregiestriseci di oratore. Vibio Crispo ancora era elegante nelragionare, e piacevole e nato a dilettare: migliore perònelle private che nelle pubbliche cause (22). Giulio Se-22 Di Vibio Crispo vercellese ci ha dato un elegante elogio il sig. Felice Du-

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Carattere dialcuni la-sciatoci da Quintiliano.

condo, se avesse avuta più lunga vita, ottenuto avrebbepresso i posteri il nome di grandissimo oratore. Percioc-chè egli avrebbe aggiunto, come già andava aggiungen-do, agli altri suoi pregi quanto in un oratore si può bra-mare, cioè di essere assai più contenzioso, e di badar tal-volta alle cose più che alle parole. Nondimeno, benchèrapito in età immatura, ei merita molta lode; sì grandene è l'eloquenza, e la grazia nello spiegare checchè glipiace, e una maniera di favellare sì tersa e ornata, e sìgrande proprietà di parole persin nelle metafore. Coloroche dopo noi scriveranno gli elogi degli oratori, avrannoampia materia di lodare veracemente què che ora fiori-scono. Perciocchè uomini di grande ingegno son quelliche ora illustrano il foro; e gli avvocati già consumatigareggiano cogli antichi; e i giovani coraggiosamentegareggiano a seguirne i più luminosi esempj". CosìQuintiliano sfugge saggiamente il pericolo di nominaregli oratori ancor vivi, e con una general lode comprendetutti, egli che pure altre volte, come abbiamo veduto,mostra di ben conoscere quanto l'eloquenza a' suoi tem-pi fosse dall'antica sua forza e maestà decaduta. Altriancora poi troviamo in diverse occasioni nominati dagliscrittori di questa età, e detti oratori colti, eloquenti eforti; ma poco giova il tessere una lunga serie di nomi edi titoli non avendo cosa alcuna fralle mani, da cui potergiudicare del vero carattere della loro eloquenza. Basti-mi dunque accennare i nomi di Mamerco Scauro, cui

rando di Villa (Piemontesi III, t. III, p. 243).

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condo, se avesse avuta più lunga vita, ottenuto avrebbepresso i posteri il nome di grandissimo oratore. Percioc-chè egli avrebbe aggiunto, come già andava aggiungen-do, agli altri suoi pregi quanto in un oratore si può bra-mare, cioè di essere assai più contenzioso, e di badar tal-volta alle cose più che alle parole. Nondimeno, benchèrapito in età immatura, ei merita molta lode; sì grandene è l'eloquenza, e la grazia nello spiegare checchè glipiace, e una maniera di favellare sì tersa e ornata, e sìgrande proprietà di parole persin nelle metafore. Coloroche dopo noi scriveranno gli elogi degli oratori, avrannoampia materia di lodare veracemente què che ora fiori-scono. Perciocchè uomini di grande ingegno son quelliche ora illustrano il foro; e gli avvocati già consumatigareggiano cogli antichi; e i giovani coraggiosamentegareggiano a seguirne i più luminosi esempj". CosìQuintiliano sfugge saggiamente il pericolo di nominaregli oratori ancor vivi, e con una general lode comprendetutti, egli che pure altre volte, come abbiamo veduto,mostra di ben conoscere quanto l'eloquenza a' suoi tem-pi fosse dall'antica sua forza e maestà decaduta. Altriancora poi troviamo in diverse occasioni nominati dagliscrittori di questa età, e detti oratori colti, eloquenti eforti; ma poco giova il tessere una lunga serie di nomi edi titoli non avendo cosa alcuna fralle mani, da cui potergiudicare del vero carattere della loro eloquenza. Basti-mi dunque accennare i nomi di Mamerco Scauro, cui

rando di Villa (Piemontesi III, t. III, p. 243).

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Tacito chiama il più eloquente oratore a' tempi di Tibe-rio (Ann. l. 3, c. 31, 66; l. 6, c. 39), ma insieme infamiae obbrobrio dei suoi illustri antenati, e che poscia accu-sato di gravi delitti da se medesimo si die' la morte; e diGiulio Grecino (Tac. in Vita Agric.; Sen. de Benef. l. 2)ucciso da Caligola, perchè ricusò fermamente di accusa-re Silano; di Vozieno Montano rilegato da Tiberionell'Isole Baleari (Tac. Ann. l. 4, c. 42; Euseb. Chron.);di Pompeo Saturnino, quel medesimo che tra' poeti ab-biam nominato (Plin. l. 1, ep. 16), de' quali gli allegatiscrittori parlano come di famosi oratori. Altri se ne pos-son vedere nominati da Seneca nelle sue Controversie.

CAPO IV.Storia.

I. I tempi de' quali or ragioniamo, eran co-munemente così luttuosi e funesti, ch'eraquasi a desiderare che non ne rimanesse a'posteri memoria alcuna. Ma come un infeli-ce prova conforto nel palesare ad altri le sue

dolorose vicende, così molti vi furono tra' Romani, chevollero tramandare alle venture età la notizia de' maliche lor convenne soffrire. La storia de' primi Cesari ful'argomento su cui molti scrittori di questi tempi s'eser-citarono: alcuni altri però presero a ritessere da più lungi

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Carattere generale degli storicidi questo tempo.

Tacito chiama il più eloquente oratore a' tempi di Tibe-rio (Ann. l. 3, c. 31, 66; l. 6, c. 39), ma insieme infamiae obbrobrio dei suoi illustri antenati, e che poscia accu-sato di gravi delitti da se medesimo si die' la morte; e diGiulio Grecino (Tac. in Vita Agric.; Sen. de Benef. l. 2)ucciso da Caligola, perchè ricusò fermamente di accusa-re Silano; di Vozieno Montano rilegato da Tiberionell'Isole Baleari (Tac. Ann. l. 4, c. 42; Euseb. Chron.);di Pompeo Saturnino, quel medesimo che tra' poeti ab-biam nominato (Plin. l. 1, ep. 16), de' quali gli allegatiscrittori parlano come di famosi oratori. Altri se ne pos-son vedere nominati da Seneca nelle sue Controversie.

CAPO IV.Storia.

I. I tempi de' quali or ragioniamo, eran co-munemente così luttuosi e funesti, ch'eraquasi a desiderare che non ne rimanesse a'posteri memoria alcuna. Ma come un infeli-ce prova conforto nel palesare ad altri le sue

dolorose vicende, così molti vi furono tra' Romani, chevollero tramandare alle venture età la notizia de' maliche lor convenne soffrire. La storia de' primi Cesari ful'argomento su cui molti scrittori di questi tempi s'eser-citarono: alcuni altri però presero a ritessere da più lungi

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Carattere generale degli storicidi questo tempo.

la storia romana, ed altri altro soggetto vollero illustrare,come vedremo. Il numero degli storici di questa età nonfu forse inferiore a quello dell'età precedente; ma que'difetti medesimi che abbiam veduti ne' poeti e negli ora-tori di questi tempi, s'incontran ancor negli storici, e sin-golarmente un soverchio parlar sentenzioso, una preci-sione affettata, e quindi una molesta e spesse volte nonintelligibile oscurità; difetti che nacquero essi pure,come negli altri generi di letteratura, dal voler superare,anzichè imitare, gli eccellenti storici de' tempi addietro,e dal volersi mostrate più di essi ingegnosi ed acuti. Ciòche abbiam detto di sopra parlando dell'eloquenza e del-la poesia, vuolsi ripetere qui ancora, e farassi semprepiù evidente coll'esaminare che ora faremo gli scrittoridi storia, che fioriron nell'epoca di cui trattiamo.

II. Il primo che ci si fa innanzi, perchè presea scrivere il primo, fra que' che ci sono ri-masti, è C. Velleio Patercolo. Il diligenteEnrico Dodwello ne ha descritta cronologi-

camente la Vita, impresa difficile assai, poichè in niunodegli antichi autori, trattone Prisciano, si trova menzio-ne alcuna di questo storico, di cui nulla sapremmo, seegli stesso non ci avesse qualche volta di sè parlato. Eidunque pensa, e stabilisce con ottime conghietture, cheVelleio nascesse diciotto anni in circa innanzi all'era cri-stiana. Discendeva da un'illustre famiglia di Napoli, etra suoi maggiori contava il celebre Magio sì rinomato

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Notizie di Velleio Pa-tercolo.

la storia romana, ed altri altro soggetto vollero illustrare,come vedremo. Il numero degli storici di questa età nonfu forse inferiore a quello dell'età precedente; ma que'difetti medesimi che abbiam veduti ne' poeti e negli ora-tori di questi tempi, s'incontran ancor negli storici, e sin-golarmente un soverchio parlar sentenzioso, una preci-sione affettata, e quindi una molesta e spesse volte nonintelligibile oscurità; difetti che nacquero essi pure,come negli altri generi di letteratura, dal voler superare,anzichè imitare, gli eccellenti storici de' tempi addietro,e dal volersi mostrate più di essi ingegnosi ed acuti. Ciòche abbiam detto di sopra parlando dell'eloquenza e del-la poesia, vuolsi ripetere qui ancora, e farassi semprepiù evidente coll'esaminare che ora faremo gli scrittoridi storia, che fioriron nell'epoca di cui trattiamo.

II. Il primo che ci si fa innanzi, perchè presea scrivere il primo, fra que' che ci sono ri-masti, è C. Velleio Patercolo. Il diligenteEnrico Dodwello ne ha descritta cronologi-

camente la Vita, impresa difficile assai, poichè in niunodegli antichi autori, trattone Prisciano, si trova menzio-ne alcuna di questo storico, di cui nulla sapremmo, seegli stesso non ci avesse qualche volta di sè parlato. Eidunque pensa, e stabilisce con ottime conghietture, cheVelleio nascesse diciotto anni in circa innanzi all'era cri-stiana. Discendeva da un'illustre famiglia di Napoli, etra suoi maggiori contava il celebre Magio sì rinomato

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Notizie di Velleio Pa-tercolo.

per la sua fedeltà verso de' Romani nella guerra di Anni-bale. Diedesi alla milizia, e combattè in più guerre a'tempi d'Augusto e di Tiberio, singolarmente in Germa-nia, e vi ebbe onorevoli cariche. Nè mancogli l'onore de'magistrati civili, essendo egli stato e questore e tribundella plebe e pretore. In qual anno e di qual morte eimorisse, non si può di certo affermare. Ma il vedere chenel fine della sua Storia ei prende ad adular bassamentenon sol Tiberio, ma ancora Seiano, rende probabile lacongettura di chi pensa ch'ei fosse tra gli amici di questoindegno ministro, e che perciò egli ancor fosse involtonella rivoluzione che l'an. 31 dell'era cristiana tolse dalmondo e lui e tutti coloro ch'egli avea tratti nel suo par-tito. Tutto ciò si può vedere ampiamente disteso e pro-vato negli Annali Velleiani del mentovato Dodwello, chetrovansi, oltre altre edizioni, in quella di Patercolo fattain Leyden per opera di Pietro Burmanno l'an. 1719 (23).

III. Di lui abbiamo due libri di Storia, ma ilprimo di essi mancante per tal maniera, cheappena si può raccogliere qual argomento

23 Una nuova e assai più esatta edizione della Storia di Vetellio Patercolo il-lustrata con ampie note si è fatta nel 1779 in Leyden per opera del sig. Da-vid Abunkenio in due grossi tomi in 8. Io ne ho avuta copia per cortesedono fattomene da s. e. il sig. co. Otton Federico de Lynden sig. di Voorst,ec., uno de' più colti e de' più dotti uomini che abbia al presente l'Olanda, eche è rimirato in quelle provincie come splendido protettore de' buoni stu-dj da lui non men felicemente promossi che coltivati, e come tale cono-sciuto anche in Italia, ove l'Arcadia romana si è fatto un pregio di ascriver-lo al ruolo de' più illustri suoi socj.

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Sua Storia e stile di essa.

per la sua fedeltà verso de' Romani nella guerra di Anni-bale. Diedesi alla milizia, e combattè in più guerre a'tempi d'Augusto e di Tiberio, singolarmente in Germa-nia, e vi ebbe onorevoli cariche. Nè mancogli l'onore de'magistrati civili, essendo egli stato e questore e tribundella plebe e pretore. In qual anno e di qual morte eimorisse, non si può di certo affermare. Ma il vedere chenel fine della sua Storia ei prende ad adular bassamentenon sol Tiberio, ma ancora Seiano, rende probabile lacongettura di chi pensa ch'ei fosse tra gli amici di questoindegno ministro, e che perciò egli ancor fosse involtonella rivoluzione che l'an. 31 dell'era cristiana tolse dalmondo e lui e tutti coloro ch'egli avea tratti nel suo par-tito. Tutto ciò si può vedere ampiamente disteso e pro-vato negli Annali Velleiani del mentovato Dodwello, chetrovansi, oltre altre edizioni, in quella di Patercolo fattain Leyden per opera di Pietro Burmanno l'an. 1719 (23).

III. Di lui abbiamo due libri di Storia, ma ilprimo di essi mancante per tal maniera, cheappena si può raccogliere qual argomento

23 Una nuova e assai più esatta edizione della Storia di Vetellio Patercolo il-lustrata con ampie note si è fatta nel 1779 in Leyden per opera del sig. Da-vid Abunkenio in due grossi tomi in 8. Io ne ho avuta copia per cortesedono fattomene da s. e. il sig. co. Otton Federico de Lynden sig. di Voorst,ec., uno de' più colti e de' più dotti uomini che abbia al presente l'Olanda, eche è rimirato in quelle provincie come splendido protettore de' buoni stu-dj da lui non men felicemente promossi che coltivati, e come tale cono-sciuto anche in Italia, ove l'Arcadia romana si è fatto un pregio di ascriver-lo al ruolo de' più illustri suoi socj.

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Sua Storia e stile di essa.

egli avesse preso a trattare. Giusto Lipsio pensa, e parmiche a ragione, ch'ei si fosse prefisso di formare un com-pendio di storia generale de' tempi e de' popoli antichi, edi scender quindi a narrar più ampiamente ciò che ap-parteneva alla storia romana della sua età, il che egli farealmente nel secondo libro, in cui conduce il raccontofino al sedicesimo anno di Tiberio. Sembra che un'altrapiù grande opera egli avesse in animo di intraprendere, edi svolgere in essa ancora più minutamente la storia de'suoi tempi (l. 2, c. 48, 99, ec.), ma che la morte non glipermettesse di compiere il suo disegno. Volfango Lazioha preteso di aver trovato un notabil frammento di que-sto scrittore; e lo ha dato in luce (Comment. de Rep.rom. l. 1, c. 8); ma egli non l'ha potuto persuadere ad al-cuno (V. Fab. Bibl. lat. l. 2, c. 2). Più ardito è il pareredi Francesco Asolano che vorrebbe farci credere intera-mente supposta la Storia di Patercolo (præf. ad Liv. ed.ald.); ma egli ancora non ha avuti seguaci della sua opi-nione. Nè è già che Patercolo abbia uno stile di cui nonvi possa essere il più soave e il più puro, come troppofacilmente ha affermato Giovanni Bodino (Method. Hi-stor. c. 4); ma in lui si vede appunto lo stile di questitempi conciso e vibrato più del dovere, e perciò oscuronon rare volte. Non gli manca enfasi o forza, ma a quan-do a quando ne abusa; e le sentenze vi sono sparse perentro con quella soverchia liberalità ch'è comune agliscrittori di questa età. Ma sopra ogni cosa ributta quellaservile bassissima adulazione con cui egli parla di Tibe-rio, e di tutte le persone allora care a Tiberio; difetto che

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egli avesse preso a trattare. Giusto Lipsio pensa, e parmiche a ragione, ch'ei si fosse prefisso di formare un com-pendio di storia generale de' tempi e de' popoli antichi, edi scender quindi a narrar più ampiamente ciò che ap-parteneva alla storia romana della sua età, il che egli farealmente nel secondo libro, in cui conduce il raccontofino al sedicesimo anno di Tiberio. Sembra che un'altrapiù grande opera egli avesse in animo di intraprendere, edi svolgere in essa ancora più minutamente la storia de'suoi tempi (l. 2, c. 48, 99, ec.), ma che la morte non glipermettesse di compiere il suo disegno. Volfango Lazioha preteso di aver trovato un notabil frammento di que-sto scrittore; e lo ha dato in luce (Comment. de Rep.rom. l. 1, c. 8); ma egli non l'ha potuto persuadere ad al-cuno (V. Fab. Bibl. lat. l. 2, c. 2). Più ardito è il pareredi Francesco Asolano che vorrebbe farci credere intera-mente supposta la Storia di Patercolo (præf. ad Liv. ed.ald.); ma egli ancora non ha avuti seguaci della sua opi-nione. Nè è già che Patercolo abbia uno stile di cui nonvi possa essere il più soave e il più puro, come troppofacilmente ha affermato Giovanni Bodino (Method. Hi-stor. c. 4); ma in lui si vede appunto lo stile di questitempi conciso e vibrato più del dovere, e perciò oscuronon rare volte. Non gli manca enfasi o forza, ma a quan-do a quando ne abusa; e le sentenze vi sono sparse perentro con quella soverchia liberalità ch'è comune agliscrittori di questa età. Ma sopra ogni cosa ributta quellaservile bassissima adulazione con cui egli parla di Tibe-rio, e di tutte le persone allora care a Tiberio; difetto che

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non può perdonarsi a qualunque sia scrittore, cui niunocostringe a dir sempre il vero, ma che non dee abbassar-si a mentire sfacciatamente adulando.

IV. Contemporaneo a Patercolo, ma vissutoalquanto più tardi, fu Valerio Massimo. Ilcelebre Andrea Alciati, appoggiato aun'iscrizione che dice esistere in Milanonella chiesa di s. Simpliciano, afferma (Rer.Patr. l. 2) ch'ei fù di patria milanese (24); ma

se il leggersi in una iscrizione il nome di Valerio Massi-mo bastasse a provare che la città in cui essa si trova, fula patria di questo scrittore, molte altre città potrebbondarsi lo stesso vanto; perciocchè e in Gaeta (Nov. Thes.Inscr. t. 2, p. 863), e in Porto Ferraio (ib.), e in Piacenza(t. 3, p. 1416), e in Firenze (ib. p. 1283), e in Narbona(ib. p. 1506), e altrove si veggono iscrizioni segnate diquesto nome. Altro di lui non sappiamo, se non ch'eglifu in Asia con Sesto Pompeo, com'egli stesso racconta(l. 2, c. 6, n. 8). Scrisse un'opera in nove libri divisa diDetti, e di Fatti memorabili tratti dalle romane e dallestraniere storie, e dedicolla a Tiberio, cui egli pure adulònella prefazione, onorandolo di tali lodi che appena alpiù saggio principe si converrebbono. Pare ch'egli so-pravvivesse a Seiano; perciocchè verso il fine della sua24 L'iscrizione di Valerio Massimo, che era già in s. Simpliciano, e si era po-

scia smarrita, vedesi ora nel portico de' signori marchesi Talenti di Fioren-za in Milano, e si posson leggere le riflessioni sopra essa fatte dal ch. P.abate d. Pompeo Casati (Ciceroni Epist. t. 1, p. 8, ec.).

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Valerio Massimo, qual sia l'opera ch'eici ha lascia-ta.

non può perdonarsi a qualunque sia scrittore, cui niunocostringe a dir sempre il vero, ma che non dee abbassar-si a mentire sfacciatamente adulando.

IV. Contemporaneo a Patercolo, ma vissutoalquanto più tardi, fu Valerio Massimo. Ilcelebre Andrea Alciati, appoggiato aun'iscrizione che dice esistere in Milanonella chiesa di s. Simpliciano, afferma (Rer.Patr. l. 2) ch'ei fù di patria milanese (24); ma

se il leggersi in una iscrizione il nome di Valerio Massi-mo bastasse a provare che la città in cui essa si trova, fula patria di questo scrittore, molte altre città potrebbondarsi lo stesso vanto; perciocchè e in Gaeta (Nov. Thes.Inscr. t. 2, p. 863), e in Porto Ferraio (ib.), e in Piacenza(t. 3, p. 1416), e in Firenze (ib. p. 1283), e in Narbona(ib. p. 1506), e altrove si veggono iscrizioni segnate diquesto nome. Altro di lui non sappiamo, se non ch'eglifu in Asia con Sesto Pompeo, com'egli stesso racconta(l. 2, c. 6, n. 8). Scrisse un'opera in nove libri divisa diDetti, e di Fatti memorabili tratti dalle romane e dallestraniere storie, e dedicolla a Tiberio, cui egli pure adulònella prefazione, onorandolo di tali lodi che appena alpiù saggio principe si converrebbono. Pare ch'egli so-pravvivesse a Seiano; perciocchè verso il fine della sua24 L'iscrizione di Valerio Massimo, che era già in s. Simpliciano, e si era po-

scia smarrita, vedesi ora nel portico de' signori marchesi Talenti di Fioren-za in Milano, e si posson leggere le riflessioni sopra essa fatte dal ch. P.abate d. Pompeo Casati (Ciceroni Epist. t. 1, p. 8, ec.).

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Valerio Massimo, qual sia l'opera ch'eici ha lascia-ta.

opera (l. 9, c. 11, ext. n. 4) ei parla in modo, che sembranon potersi intendere altrimenti che di Seiano già ucci-so. Di quest'opera di Valerio Massimo parlano chiara-mente Plinio il vecchio (l. 1, in ind.), Plutarco (in Mar-cello), e Gellio (l. 1, c. 7); nè si può perciò dubitarech'egli non l'abbia scritta. Ma che ella sia a noi pervenu-ta qual ei la scrisse, e non anzi un semplice compendiofattone da altri, ciò è di che alcuni muovono dubbio.Nella biblioteca cesarea in Vienna conservasi un codice(Lamb. Comment. de Bibl. cæs. l. 2, p. 829, ed. Vindob.1769) in cui vedesi il libro decimo, ossia l'appendiceall'opera di Valerio Massimo, contenente un trattatellode' nomi propj; e innanzi ad esso leggonsi queste parole:Decimus atque ultimus hujus Operis liber, seu studioso-rum inertia, seu scriptorum segnitie, seu alio quoviscasu ætatis nostræ perditus est. Verum Julius Paris ab-breviator Valeriii post novem libros explicitos hunc de-cimum sub infrascripto compendio complexus est ....Verba quidem Julii Paridis hoec sunt, ec. E qui segue ilprincipio di detto libro, quale appunto vedesi alle stam-pe. Da queste parole il Vossio ha congetturato (De Hi-stor. lat. l. 1, c. 24) che l'opera che noi abbiamo di Vale-rio Massimo, altro non sia che il compendio di essa fattodal mentovato Giulio Paride, che perciò dicesi abbre-viator di Valerio. Ma se ben si rifletta, nel passo soprac-citato sembra che Giulio Paride si dica abbreviator diValerio solo per riguardo a questo ultimo libro, e che siaccenni che gli altri furon da lui o copiati, o in qualchemodo illustrati. Il che rendesi, a mio parere, evidente

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opera (l. 9, c. 11, ext. n. 4) ei parla in modo, che sembranon potersi intendere altrimenti che di Seiano già ucci-so. Di quest'opera di Valerio Massimo parlano chiara-mente Plinio il vecchio (l. 1, in ind.), Plutarco (in Mar-cello), e Gellio (l. 1, c. 7); nè si può perciò dubitarech'egli non l'abbia scritta. Ma che ella sia a noi pervenu-ta qual ei la scrisse, e non anzi un semplice compendiofattone da altri, ciò è di che alcuni muovono dubbio.Nella biblioteca cesarea in Vienna conservasi un codice(Lamb. Comment. de Bibl. cæs. l. 2, p. 829, ed. Vindob.1769) in cui vedesi il libro decimo, ossia l'appendiceall'opera di Valerio Massimo, contenente un trattatellode' nomi propj; e innanzi ad esso leggonsi queste parole:Decimus atque ultimus hujus Operis liber, seu studioso-rum inertia, seu scriptorum segnitie, seu alio quoviscasu ætatis nostræ perditus est. Verum Julius Paris ab-breviator Valeriii post novem libros explicitos hunc de-cimum sub infrascripto compendio complexus est ....Verba quidem Julii Paridis hoec sunt, ec. E qui segue ilprincipio di detto libro, quale appunto vedesi alle stam-pe. Da queste parole il Vossio ha congetturato (De Hi-stor. lat. l. 1, c. 24) che l'opera che noi abbiamo di Vale-rio Massimo, altro non sia che il compendio di essa fattodal mentovato Giulio Paride, che perciò dicesi abbre-viator di Valerio. Ma se ben si rifletta, nel passo soprac-citato sembra che Giulio Paride si dica abbreviator diValerio solo per riguardo a questo ultimo libro, e che siaccenni che gli altri furon da lui o copiati, o in qualchemodo illustrati. Il che rendesi, a mio parere, evidente

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dalla diversa maniera con cui si parla de' primi nove edel decimo: post novem libros explicitos, hunc decimumsub infrascripto compendio complexus est. Con maggiorfondamento si vuole da altri che un cotal Gennaro Ne-poziano sia il compendiatore di Valerio Massimo, e chequesto compendio sia quello appunto che noi abbiamo.Del qual sentimento è fra gli altri il p. Cantel nella pre-fazione premessa all'edizione di questo autore da lui fat-ta in Parigi l'an. 1679. Apoggiasi quest'opinione a unalettera di Nepoziano, che da un codice ms. ha pubblicatail p. Labb (Nov. Bibl. Mss. t. 1, p. 699); in cui egli dopoaver letto che Valerio Massimo è troppo diffuso, soggiu-gne: Recidam itaque, ut vis, ejus redundantiam, et ple-raque transgrediar, nonnulla proetermissa connectam. Ècerto dunque che Nepoziano ridusse in compendio Vale-rio Massimo. Ma egli è certo ugualmente che questocompendio sia quello appunto che noi abbiamo? Il p.Labbe non fa altro che riferire la detta lettera; non dicese nel codice da lui veduto alla lettera si aggiunga l'ope-ra, e se questa sia quale appunto è stampata, anzi nem-meno accenna in qual biblioteca esista il codice soprad-detto. Come dunque esser sicuri che noi abbiamo al pre-sente non l'opera di Valerio Massimo, ma il compendiodi Nepoziano? Pare ad alcuni che l'opera, quale ci ègiunta, non abbia quella soverchia prolissità che Nepo-ziano in essa riprende; e ch'ella anzi abbia l'apparenza diun ristretto compendio. Io rispetto il giudizio de' dottiuomini che senton così; ma confesso che a me ne paretroppo diversamente; e che io penso che se dall'opera di

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dalla diversa maniera con cui si parla de' primi nove edel decimo: post novem libros explicitos, hunc decimumsub infrascripto compendio complexus est. Con maggiorfondamento si vuole da altri che un cotal Gennaro Ne-poziano sia il compendiatore di Valerio Massimo, e chequesto compendio sia quello appunto che noi abbiamo.Del qual sentimento è fra gli altri il p. Cantel nella pre-fazione premessa all'edizione di questo autore da lui fat-ta in Parigi l'an. 1679. Apoggiasi quest'opinione a unalettera di Nepoziano, che da un codice ms. ha pubblicatail p. Labb (Nov. Bibl. Mss. t. 1, p. 699); in cui egli dopoaver letto che Valerio Massimo è troppo diffuso, soggiu-gne: Recidam itaque, ut vis, ejus redundantiam, et ple-raque transgrediar, nonnulla proetermissa connectam. Ècerto dunque che Nepoziano ridusse in compendio Vale-rio Massimo. Ma egli è certo ugualmente che questocompendio sia quello appunto che noi abbiamo? Il p.Labbe non fa altro che riferire la detta lettera; non dicese nel codice da lui veduto alla lettera si aggiunga l'ope-ra, e se questa sia quale appunto è stampata, anzi nem-meno accenna in qual biblioteca esista il codice soprad-detto. Come dunque esser sicuri che noi abbiamo al pre-sente non l'opera di Valerio Massimo, ma il compendiodi Nepoziano? Pare ad alcuni che l'opera, quale ci ègiunta, non abbia quella soverchia prolissità che Nepo-ziano in essa riprende; e ch'ella anzi abbia l'apparenza diun ristretto compendio. Io rispetto il giudizio de' dottiuomini che senton così; ma confesso che a me ne paretroppo diversamente; e che io penso che se dall'opera di

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Valerio Massimo si togliessero tutte le declamazioni im-portune, le inutili digressioni, e le ricercate sentenze chespesso vi s'incontrano, essa potrebbe restringersi a assaipiù picciol volume. E questa è per me assai più valevolragione a credere che noi abbiamo non il compendio,ma l'opera intera, che non quella che da altri si adduce,cioè che da Gellio e da altri antichi scrittori se ne addu-cono alcuni passi, i quali colle stesse parole precisamen-te si trovano ora in Valerio Massimo; perciocchè non sa-rebbe difficile che il compendiatore avesse ritenute leparole e le frasi stesse del suo autore, troncandone solociò che gli paresse soverchio.

V. Troppo severo a mio parere è il giudizioche di Valerio Massimo ha portato Deside-rio Erasmo scrivendo ch'egli sembra africa-no anzichè italiano; e che tanto egli è simile

a Cicerone, quanto un mulo ad un uomo (Dial. cice-ron.). Egli è certo però, e ne convengono tutti coloro chehan gusto di buona latinità, che lo stile di quest'autoreha assai dell'incolto o del rozzo; e che non gli mancanoinoltre i difetti comuni agli scrittori di questo tempo,cioè un'affettazione viziosa di usar sentenze e concetti, edi farsi credere uomo di spirito e di ingegno con un par-lare intralciato ed oscuro. Gli viene ancor rimproverata,non senza ragione, la mancanza di buona critica, per cuiegli senza un giusto discernimento ammassa insieme eracconta tuttociò che da qualunque scrittore vede narra-

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Giudizio intorno ad essa.

Valerio Massimo si togliessero tutte le declamazioni im-portune, le inutili digressioni, e le ricercate sentenze chespesso vi s'incontrano, essa potrebbe restringersi a assaipiù picciol volume. E questa è per me assai più valevolragione a credere che noi abbiamo non il compendio,ma l'opera intera, che non quella che da altri si adduce,cioè che da Gellio e da altri antichi scrittori se ne addu-cono alcuni passi, i quali colle stesse parole precisamen-te si trovano ora in Valerio Massimo; perciocchè non sa-rebbe difficile che il compendiatore avesse ritenute leparole e le frasi stesse del suo autore, troncandone solociò che gli paresse soverchio.

V. Troppo severo a mio parere è il giudizioche di Valerio Massimo ha portato Deside-rio Erasmo scrivendo ch'egli sembra africa-no anzichè italiano; e che tanto egli è simile

a Cicerone, quanto un mulo ad un uomo (Dial. cice-ron.). Egli è certo però, e ne convengono tutti coloro chehan gusto di buona latinità, che lo stile di quest'autoreha assai dell'incolto o del rozzo; e che non gli mancanoinoltre i difetti comuni agli scrittori di questo tempo,cioè un'affettazione viziosa di usar sentenze e concetti, edi farsi credere uomo di spirito e di ingegno con un par-lare intralciato ed oscuro. Gli viene ancor rimproverata,non senza ragione, la mancanza di buona critica, per cuiegli senza un giusto discernimento ammassa insieme eracconta tuttociò che da qualunque scrittore vede narra-

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Giudizio intorno ad essa.

to e ciò ancora che non è appoggiato che a dubbiosa po-polar tradizione; esempio seguito comunemente da quel-li che dopo lui han pubblicato somiglianti raccolte didetti e di fatti, di virtù e di vizi. Quindi mi pare che trop-po liberale di lodi verso questo scrittore sia stato il ch.co. di S. Raffaele, che ne ha fatto elogio, come di unode' migliori scrittori di tutta l'antichità (Sec. d'Aug. p.199). L'ultimo libro ch'è intorno a' nomi propj de' Ro-mani, non è che un compendio di quello che più diffusa-mente avea scritto Valerio Massimo, e, secondo ciò cheabbiam detto, pare che ne sia autore Giulio Paride; ben-chè in qualche codice si attribuisca a C. Tito Probo ilquale non ne fu forse che il copiatore (V. Fabr. Bibl. lat.l. 2, c. 5).

VI. Debbo io tra gli scrittori di questa etàannoverare ancor Quinto Curzio? Non vi haforse punto di storia letteraria incerto al paridi questo. Niuno degli antichi scrittori finoal sec. XII ha fatto menzione della Storia di

Curzio. Di questa si è perduto il principio, in cui forseegli avrà parlato di se medesimo. In tutto il decorso diessa non vi è che un passo in cui egli alluda a' suoi tem-pi, ma così oscuramente che non vi ha quasi secolo al-cuno a cui quelle espressioni non possano convenire.Come dunque accertare, anzi come affermare con qual-che probabile fondamento, a qual tempo sia egli vissu-to? Ecco il celebre passo di Curzio. Narrando le dissen-

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Diversità diopinioni in-torno all'etàdi Q. Cur-zio.

to e ciò ancora che non è appoggiato che a dubbiosa po-polar tradizione; esempio seguito comunemente da quel-li che dopo lui han pubblicato somiglianti raccolte didetti e di fatti, di virtù e di vizi. Quindi mi pare che trop-po liberale di lodi verso questo scrittore sia stato il ch.co. di S. Raffaele, che ne ha fatto elogio, come di unode' migliori scrittori di tutta l'antichità (Sec. d'Aug. p.199). L'ultimo libro ch'è intorno a' nomi propj de' Ro-mani, non è che un compendio di quello che più diffusa-mente avea scritto Valerio Massimo, e, secondo ciò cheabbiam detto, pare che ne sia autore Giulio Paride; ben-chè in qualche codice si attribuisca a C. Tito Probo ilquale non ne fu forse che il copiatore (V. Fabr. Bibl. lat.l. 2, c. 5).

VI. Debbo io tra gli scrittori di questa etàannoverare ancor Quinto Curzio? Non vi haforse punto di storia letteraria incerto al paridi questo. Niuno degli antichi scrittori finoal sec. XII ha fatto menzione della Storia di

Curzio. Di questa si è perduto il principio, in cui forseegli avrà parlato di se medesimo. In tutto il decorso diessa non vi è che un passo in cui egli alluda a' suoi tem-pi, ma così oscuramente che non vi ha quasi secolo al-cuno a cui quelle espressioni non possano convenire.Come dunque accertare, anzi come affermare con qual-che probabile fondamento, a qual tempo sia egli vissu-to? Ecco il celebre passo di Curzio. Narrando le dissen-

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Diversità diopinioni in-torno all'etàdi Q. Cur-zio.

sioni che per la divisione del regno di Alessandro si ec-citarono, così ci dice (l. 10, c. 9): Proinde jure merito-que populus roma nus salutem se principi suo delebereprofitetur, cui noctis, quam pene supremam habuimus,novum sidus illuxit. Hujus hercule, non solis ortus, lu-cem caliganti reddidit mundo, quum sine suo capite di-scordia membra trepidarent. Quot ille tum exstinxit fa-ces? quot condidit gladios? quantam tempestatem subi-ta serenitate discussit? Non ergo revirescit solum, sedetiam floret imperium. Absit modo invidia: excipiet hu-jus sæculi tempora, ejusdem domus utinam perpetua,certe diuturna, posteritas. Se Curzio, avesse voluto farsigiuoco de' posteri, e propor loro a sciogliere un oscuris-simo enigma, non altrimenti avrebbe potuto conseguirmeglio il suo fine che colle addotte parole. Chi è il prin-cipe di cui egli ragiona? Quale fu questa notte che perpoco non riuscì fatale all'impero? Quale lo sconcerto de'membri rimasti senza capo. Qui è dove i critici si divi-dono in contrarj pareri, e gli uni combatton cogli altri, eciaschedun si lusinga di riportarne vittoria. Altri dunquevogliono che di Augusto debban intendersi le arrecateparole, perchè egli, dicono, estinse ed acchetò finalmen-te le civili discordie; altri le adattano a Tiberio, altri aClaudio, altri a Vespasiano, altri a Traiano, altri a Teo-dosio. Veggansi i sostenitori di tutte queste sentenzepreso il Fabricio (Bibl. lat. l. 2, c. 17), e più stesamenteancora nella seconda parte del Ragionamento della gen-te curzia e dell'età di Q. Curzio l'istorico del co. Gian-francesco Giuseppe Bagnolo stampato in Bologna l'ann.

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sioni che per la divisione del regno di Alessandro si ec-citarono, così ci dice (l. 10, c. 9): Proinde jure merito-que populus roma nus salutem se principi suo delebereprofitetur, cui noctis, quam pene supremam habuimus,novum sidus illuxit. Hujus hercule, non solis ortus, lu-cem caliganti reddidit mundo, quum sine suo capite di-scordia membra trepidarent. Quot ille tum exstinxit fa-ces? quot condidit gladios? quantam tempestatem subi-ta serenitate discussit? Non ergo revirescit solum, sedetiam floret imperium. Absit modo invidia: excipiet hu-jus sæculi tempora, ejusdem domus utinam perpetua,certe diuturna, posteritas. Se Curzio, avesse voluto farsigiuoco de' posteri, e propor loro a sciogliere un oscuris-simo enigma, non altrimenti avrebbe potuto conseguirmeglio il suo fine che colle addotte parole. Chi è il prin-cipe di cui egli ragiona? Quale fu questa notte che perpoco non riuscì fatale all'impero? Quale lo sconcerto de'membri rimasti senza capo. Qui è dove i critici si divi-dono in contrarj pareri, e gli uni combatton cogli altri, eciaschedun si lusinga di riportarne vittoria. Altri dunquevogliono che di Augusto debban intendersi le arrecateparole, perchè egli, dicono, estinse ed acchetò finalmen-te le civili discordie; altri le adattano a Tiberio, altri aClaudio, altri a Vespasiano, altri a Traiano, altri a Teo-dosio. Veggansi i sostenitori di tutte queste sentenzepreso il Fabricio (Bibl. lat. l. 2, c. 17), e più stesamenteancora nella seconda parte del Ragionamento della gen-te curzia e dell'età di Q. Curzio l'istorico del co. Gian-francesco Giuseppe Bagnolo stampato in Bologna l'ann.

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1745, il quale dopo avere esposti e confutati i sentimentialtrui, propone il suo da tutti gli altri diverso, cioè cheCurzio fiorisse a' tempi di Costantino il grande, e che dilui egli intenda di favellare nel citato passo. In tanta di-versità di pareri a qual partito potrem noi appigliarci?Alcuni hanno speditamente troncato il nodo, affermandoche la Storia di Curzio non è altro che una recente impo-stura di autore vissuto tre, o quattro secoli addietro. Taleracconta Guido Patino essere stata l'opinione di un suomaestro (Lettres t. 1, l. 44); tale ancora era il pareredell'erudito Corrado Schurtzfleischio (V. Acta Erud.Lips. 1729. p. 410). Ma qualunque ragione arrechinoessi di tal sentimento esso non regge certamente alleprove. Il celebre p. Montfaucon parla di un codice(præf. ad Paleogr. gr.) di Curzio della biblioteca colber-tina scritto almeno da ottocento anni. Un'altra di somi-gliante antichità rammentasi dal Wangeseilio mostrato alui dal famoso Magliabecchi (Pera libror. juven. t. 4, p.178). E, ciò ch'è ancora di maggior forza, della Storia diQ. Curzio fanno menzione Giovanni di Sarisbery (l. 8Polycr. c. 18), e il card. Jacopo di Vitry (Hist. Orient. l.3), autori del XII e del XIII secolo, oltre altri che ram-mentansi dal Fabricio (Bibl. lat. l. 2. c. 17). Egli è certodunque che prima d'allora visse lo scrittore di questaStoria, e lo stil colto ed elegante di cui egli usa, ci facerta fede ch'egli scriveva in alcuno de' buoni secoli del-la latinità. Intorno a che veggasi il Bayle che assai lun-gamente ne ha ragionato (Dict. art. "Quinte Curce").

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1745, il quale dopo avere esposti e confutati i sentimentialtrui, propone il suo da tutti gli altri diverso, cioè cheCurzio fiorisse a' tempi di Costantino il grande, e che dilui egli intenda di favellare nel citato passo. In tanta di-versità di pareri a qual partito potrem noi appigliarci?Alcuni hanno speditamente troncato il nodo, affermandoche la Storia di Curzio non è altro che una recente impo-stura di autore vissuto tre, o quattro secoli addietro. Taleracconta Guido Patino essere stata l'opinione di un suomaestro (Lettres t. 1, l. 44); tale ancora era il pareredell'erudito Corrado Schurtzfleischio (V. Acta Erud.Lips. 1729. p. 410). Ma qualunque ragione arrechinoessi di tal sentimento esso non regge certamente alleprove. Il celebre p. Montfaucon parla di un codice(præf. ad Paleogr. gr.) di Curzio della biblioteca colber-tina scritto almeno da ottocento anni. Un'altra di somi-gliante antichità rammentasi dal Wangeseilio mostrato alui dal famoso Magliabecchi (Pera libror. juven. t. 4, p.178). E, ciò ch'è ancora di maggior forza, della Storia diQ. Curzio fanno menzione Giovanni di Sarisbery (l. 8Polycr. c. 18), e il card. Jacopo di Vitry (Hist. Orient. l.3), autori del XII e del XIII secolo, oltre altri che ram-mentansi dal Fabricio (Bibl. lat. l. 2. c. 17). Egli è certodunque che prima d'allora visse lo scrittore di questaStoria, e lo stil colto ed elegante di cui egli usa, ci facerta fede ch'egli scriveva in alcuno de' buoni secoli del-la latinità. Intorno a che veggasi il Bayle che assai lun-gamente ne ha ragionato (Dict. art. "Quinte Curce").

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VII. Convien dunque vedere quale tra tuttele opinioni di sopra accennate sia quella chepossa dirsi meglio fondata. Un'attenta rifles-sione su alcune delle allegate parole ci apri-

rà forse la strada a conoscerlo. Egli è a mio parere evi-dente che Curzio parla qui di una notte che per poco nonera stata l'estrema per l'impero romano: noctis, quampene supremam habuimus; di una notte in cui essendol'impero privo di capo, erano perciò le membra, cioè isudditi agitati da intestine discordie: quum sine suo ca-pite discordia membra trepidarent; di una notte final-mente in cui l'apparire del nuovo principe eletto avea ri-chiamata la pace, smorzate le fiaccole già accese, e fattedeporre le già sguainate spade, ossia impedita una guer-ra civile ch'era vicina ad accendersi: novum sidus illu-xit... lucem caliganti reddidit mundo... Quot ille tum ex-tinxit faces? quot condidit gladios? quantam tempesta-tem subita serenitate discussit? Io so che alcuni preten-dono che la notte di cui Curzio favella, si debba prende-re in senso metaforico, cioè per la sconvolgimento in cuitrovavasi la repubblica; e che non del tumulto di unasola notte vi si ragioni, ma di lunghe discordie. Ma leparole di Curzio escludono totalmente, s'io non m'ingan-no, ogni senso non proprio. Il dire che una tal notte fuquasi l'ultima a Roma, non può certamente intendersiche di una vera notte, in cui il romano impero era stato agrande pericolo di sua rovina: noctis quam pene supre-mam habuimus. Chi mai parlando di guerra e di dissen-sioni, che avessero quasi condotto a rovina un regno, di-

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Se ne esa-mina il fon-damento.

VII. Convien dunque vedere quale tra tuttele opinioni di sopra accennate sia quella chepossa dirsi meglio fondata. Un'attenta rifles-sione su alcune delle allegate parole ci apri-

rà forse la strada a conoscerlo. Egli è a mio parere evi-dente che Curzio parla qui di una notte che per poco nonera stata l'estrema per l'impero romano: noctis, quampene supremam habuimus; di una notte in cui essendol'impero privo di capo, erano perciò le membra, cioè isudditi agitati da intestine discordie: quum sine suo ca-pite discordia membra trepidarent; di una notte final-mente in cui l'apparire del nuovo principe eletto avea ri-chiamata la pace, smorzate le fiaccole già accese, e fattedeporre le già sguainate spade, ossia impedita una guer-ra civile ch'era vicina ad accendersi: novum sidus illu-xit... lucem caliganti reddidit mundo... Quot ille tum ex-tinxit faces? quot condidit gladios? quantam tempesta-tem subita serenitate discussit? Io so che alcuni preten-dono che la notte di cui Curzio favella, si debba prende-re in senso metaforico, cioè per la sconvolgimento in cuitrovavasi la repubblica; e che non del tumulto di unasola notte vi si ragioni, ma di lunghe discordie. Ma leparole di Curzio escludono totalmente, s'io non m'ingan-no, ogni senso non proprio. Il dire che una tal notte fuquasi l'ultima a Roma, non può certamente intendersiche di una vera notte, in cui il romano impero era stato agrande pericolo di sua rovina: noctis quam pene supre-mam habuimus. Chi mai parlando di guerra e di dissen-sioni, che avessero quasi condotto a rovina un regno, di-

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Se ne esa-mina il fon-damento.

rebbe con metafora che quella notte per poco non ful'estrema a quel regno? Egli è ben vero che passa poiCurzio ad usar il senso metaforico con quelle parole: lu-cem caliganti redidit mundo; ma ciò appunto sta bene,che dalla notte che quasi era stata fatale a Roma, si trag-ga poi la metafora a spiegare la pace che il principe leavea renduta. In secondo luogo Curzio ragiona a miocredere di guerre civili impedite anzichè terminate. Difatti egli avea parlato prima delle turbolenze che per ladivisione del regno di Alessandro si erano eccitate; econchiude che perciò il romano impero era debitore del-la salute al suo principe: Proinde jure meritoque popu-lus romanus salutem se principi suo debere profitetur,perchè impedito avea che l'impero romano non fossecome il macedonico sconvolto dalle guerre civili, e mo-strandosi a guisa di favorevole stella dissipata avea conimprovviso sereno la sorgente tempesta: novum sidus il-luxit... quantam tempestatem subita serenitate discussit?Qual diversità vi sarebbe stata tra l'un regno e l'altro, equal maggior gratitudine avrebbe dovuto professarRoma al suo principe, che la Macedonia ad Alessandro,se amendue gli imperi fossero stati agitati e sconvolti dalunghe guerre?

VIII. Ciò presupposto, vedesi chiaramenteche alcune delle riferite sentenze non si pos-sono per alcun modo sostenere. Qual fu lanotte che al salire d'Augusto al trono minac-

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Si rigettanole altre opi-nioni.

rebbe con metafora che quella notte per poco non ful'estrema a quel regno? Egli è ben vero che passa poiCurzio ad usar il senso metaforico con quelle parole: lu-cem caliganti redidit mundo; ma ciò appunto sta bene,che dalla notte che quasi era stata fatale a Roma, si trag-ga poi la metafora a spiegare la pace che il principe leavea renduta. In secondo luogo Curzio ragiona a miocredere di guerre civili impedite anzichè terminate. Difatti egli avea parlato prima delle turbolenze che per ladivisione del regno di Alessandro si erano eccitate; econchiude che perciò il romano impero era debitore del-la salute al suo principe: Proinde jure meritoque popu-lus romanus salutem se principi suo debere profitetur,perchè impedito avea che l'impero romano non fossecome il macedonico sconvolto dalle guerre civili, e mo-strandosi a guisa di favorevole stella dissipata avea conimprovviso sereno la sorgente tempesta: novum sidus il-luxit... quantam tempestatem subita serenitate discussit?Qual diversità vi sarebbe stata tra l'un regno e l'altro, equal maggior gratitudine avrebbe dovuto professarRoma al suo principe, che la Macedonia ad Alessandro,se amendue gli imperi fossero stati agitati e sconvolti dalunghe guerre?

VIII. Ciò presupposto, vedesi chiaramenteche alcune delle riferite sentenze non si pos-sono per alcun modo sostenere. Qual fu lanotte che al salire d'Augusto al trono minac-

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Si rigettanole altre opi-nioni.

ciasse rovina alla repubblica? Qual fu l'improvviso sere-no con cui egli dissipò la procella? E non furono anzipiù e più anni di sanguinose guerre civili, che gli apriro-no la strada all'impero? E come mai han potuto scriverealcuni che la notte di Curzio sia quella stessa di cui par-la Virgilio (Georg. l. 1), cioè l'ecclissi del sole che seguìdopo la morte di Cesare? come se Curzio non parlassedi una vera notte, ma di un'ecclissi, e come sequest'oscurità fosse stata con improvviso sereno dissipa-ta da Augusto che, come si è detto, funestò prima la re-pubblica con molti anni di guerre civili. Lo stesso dicasidi Tiberio. Egli salì pacificamente al trono dopo la mor-te di Augusto, senza che in Roma vi fosse la minima ap-parenza di discordia e di tumulto. Qualche sollevazioneseguì nelle truppe che erano nell'Illirico e nella Germa-nia; ma nè vi fu notte alcuna in cui l'impero fosse perciòin pericolo, ed esse si acchetarono presto, senza che Ti-berio vi avesse alcuna parte. Pare ad alcuni che la nottedi cui parla Curzio trovisi sul principio del regno di Ve-spasiano; perciocchè Primo generale delle sue truppevenne a sanguinosa battaglia di notte tempo presso Osti-glia contro le truppe di Vitellio, e collo sconfiggerle aprìa Vespasiano la via al trono; ma nè Vespasiano trovossia quella battaglia, nè fu quella notte pericolosa alla re-pubblica, perciocchè la guerra sarebbe finita ancora, sele truppe di Vitellio avessero riportata compita vittoriasopra quelle di Vespasiano, nè in quella notte fu dissipa-to il pericolo e la procella, perciocchè due mesi ancorapassarono prima che Vespasiano fosse pacifico posses-

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ciasse rovina alla repubblica? Qual fu l'improvviso sere-no con cui egli dissipò la procella? E non furono anzipiù e più anni di sanguinose guerre civili, che gli apriro-no la strada all'impero? E come mai han potuto scriverealcuni che la notte di Curzio sia quella stessa di cui par-la Virgilio (Georg. l. 1), cioè l'ecclissi del sole che seguìdopo la morte di Cesare? come se Curzio non parlassedi una vera notte, ma di un'ecclissi, e come sequest'oscurità fosse stata con improvviso sereno dissipa-ta da Augusto che, come si è detto, funestò prima la re-pubblica con molti anni di guerre civili. Lo stesso dicasidi Tiberio. Egli salì pacificamente al trono dopo la mor-te di Augusto, senza che in Roma vi fosse la minima ap-parenza di discordia e di tumulto. Qualche sollevazioneseguì nelle truppe che erano nell'Illirico e nella Germa-nia; ma nè vi fu notte alcuna in cui l'impero fosse perciòin pericolo, ed esse si acchetarono presto, senza che Ti-berio vi avesse alcuna parte. Pare ad alcuni che la nottedi cui parla Curzio trovisi sul principio del regno di Ve-spasiano; perciocchè Primo generale delle sue truppevenne a sanguinosa battaglia di notte tempo presso Osti-glia contro le truppe di Vitellio, e collo sconfiggerle aprìa Vespasiano la via al trono; ma nè Vespasiano trovossia quella battaglia, nè fu quella notte pericolosa alla re-pubblica, perciocchè la guerra sarebbe finita ancora, sele truppe di Vitellio avessero riportata compita vittoriasopra quelle di Vespasiano, nè in quella notte fu dissipa-to il pericolo e la procella, perciocchè due mesi ancorapassarono prima che Vespasiano fosse pacifico posses-

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sore del trono; nè finalmente egli impedi le guerre civili,ma diede fine a quelle che dopo la morte di Nerone giàda oltre a due anni sconvolgevano la repubblica. Traianogiunse all'impero per via di adozione di Nerva, senzache vi fosse il più leggero tumulto. Ove è dunque la not-te fatale alla repubblica? Le ultime parole dell'allegatopasso di Curzio sono l'unico, ma troppo debole fonda-mento di tale opinione: Non ergo revirescit solum, sedetiam floret imperium, ec; perciocchè l'impero al tempodi Traiano fu certo in fiore; ma chi non vede che unostorico può facilmente adulando (come abbiam vedutoessere stato a questi tempi universale costume) usare ditale espressione, di qualunque imperadore egli ragioni?Finalmente nè a Costantino nè a Teodosio non può cer-tamente convenire il passo di Curzio; perchè amenduefurono eletti imperadori senza tumulto, e se amendueebbero e rivali domestici e stranieri nimici con cui com-battere, non vi fu mai una notte che per la discordia de'membri dovesse esser fatale all'impero, e in cui la pro-cellosa tempesta dissipata fosse da un improvviso sere-no, ma anzi lunghe guerre dovettero sostenere amendue,e spargere molto sangue. Oltre che lo stile di Curzio ètroppo più elegante che non l'usato a' lor tempi. L'esem-pio di s. Girolamo, che adduce il co. Bagnolo a provareche anche ne' bassi tempi vi ebbero eleganti scrittori,non è molto valevole all'intento; e non credo ch'egli per-suaderà ad alcuno, che questo santo dottore non sia nul-la inferiore a Cicerone (Rag. ec. p. 220).

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sore del trono; nè finalmente egli impedi le guerre civili,ma diede fine a quelle che dopo la morte di Nerone giàda oltre a due anni sconvolgevano la repubblica. Traianogiunse all'impero per via di adozione di Nerva, senzache vi fosse il più leggero tumulto. Ove è dunque la not-te fatale alla repubblica? Le ultime parole dell'allegatopasso di Curzio sono l'unico, ma troppo debole fonda-mento di tale opinione: Non ergo revirescit solum, sedetiam floret imperium, ec; perciocchè l'impero al tempodi Traiano fu certo in fiore; ma chi non vede che unostorico può facilmente adulando (come abbiam vedutoessere stato a questi tempi universale costume) usare ditale espressione, di qualunque imperadore egli ragioni?Finalmente nè a Costantino nè a Teodosio non può cer-tamente convenire il passo di Curzio; perchè amenduefurono eletti imperadori senza tumulto, e se amendueebbero e rivali domestici e stranieri nimici con cui com-battere, non vi fu mai una notte che per la discordia de'membri dovesse esser fatale all'impero, e in cui la pro-cellosa tempesta dissipata fosse da un improvviso sere-no, ma anzi lunghe guerre dovettero sostenere amendue,e spargere molto sangue. Oltre che lo stile di Curzio ètroppo più elegante che non l'usato a' lor tempi. L'esem-pio di s. Girolamo, che adduce il co. Bagnolo a provareche anche ne' bassi tempi vi ebbero eleganti scrittori,non è molto valevole all'intento; e non credo ch'egli per-suaderà ad alcuno, che questo santo dottore non sia nul-la inferiore a Cicerone (Rag. ec. p. 220).

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IX. Rimane solo a vedere se l'opinion diquelli che pensano che Curzio sia vissuto a'tempi di Claudio, e che di lui egli intenda difavellare, abbia maggior fondamento dellealtre. Così parve a Giusto Lipsio, a Barnaba

Brissonio, a Valente Acidalio, e al p. Michele le Telliergesuita (che non so come dal co. Bagnolo (p. 128) sicambia nel sig. le Tellier); e così pare a me ancora. Leg-gansi i racconti che fanno Svetonio (in Claud. c. 10),Dione (l. 60), e Giuseppe Ebreo (Antiq. jud. l. 19) dellamaniera con cui Claudio fu elevato al trono; e veggasicome ogni cosa ottimamente concordi colle parole diCurzio. Ucciso Caligola il dopo pranzo de' 24 di genn.levossi un fiero tumulto, per cui convenne a' consoli didividere fra diversi quartieri le truppe per acchetarlo: ra-dunossi al medesimo tempo il senato, e tutto il restantedel giorno, e tutta la seguente notte si stette disputando edeliberando senza conchiudere cosa alcuna. Altri vole-vano che si rimettesse la repubblica nell'antico stato dilibertà, altri che un altro imperadore si nominasse, maquesti ancora eran tra loro discordi in eleggerlo. Claudiofrattanto per timore nascostosi in un angolo del palazzo,e trovato a caso da alcuni soldati, fu condotto suo mal-grado al campo, e gridato imperadore, dignità ch'eglidopo essere stato per qualche tempo dubbioso, si con-dusse finalmente ad accettare. Il popolo approvò l'ele-zione, il senato la rigettò: e mostravasi fermo a volere lalibertà, e anche a dichiarare la guerra a chi ardisse diaspirare all'impero. Ma i soldati ed il popolo a forza di

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Si prova che Curzio visse a' tempi di Claudio.

IX. Rimane solo a vedere se l'opinion diquelli che pensano che Curzio sia vissuto a'tempi di Claudio, e che di lui egli intenda difavellare, abbia maggior fondamento dellealtre. Così parve a Giusto Lipsio, a Barnaba

Brissonio, a Valente Acidalio, e al p. Michele le Telliergesuita (che non so come dal co. Bagnolo (p. 128) sicambia nel sig. le Tellier); e così pare a me ancora. Leg-gansi i racconti che fanno Svetonio (in Claud. c. 10),Dione (l. 60), e Giuseppe Ebreo (Antiq. jud. l. 19) dellamaniera con cui Claudio fu elevato al trono; e veggasicome ogni cosa ottimamente concordi colle parole diCurzio. Ucciso Caligola il dopo pranzo de' 24 di genn.levossi un fiero tumulto, per cui convenne a' consoli didividere fra diversi quartieri le truppe per acchetarlo: ra-dunossi al medesimo tempo il senato, e tutto il restantedel giorno, e tutta la seguente notte si stette disputando edeliberando senza conchiudere cosa alcuna. Altri vole-vano che si rimettesse la repubblica nell'antico stato dilibertà, altri che un altro imperadore si nominasse, maquesti ancora eran tra loro discordi in eleggerlo. Claudiofrattanto per timore nascostosi in un angolo del palazzo,e trovato a caso da alcuni soldati, fu condotto suo mal-grado al campo, e gridato imperadore, dignità ch'eglidopo essere stato per qualche tempo dubbioso, si con-dusse finalmente ad accettare. Il popolo approvò l'ele-zione, il senato la rigettò: e mostravasi fermo a volere lalibertà, e anche a dichiarare la guerra a chi ardisse diaspirare all'impero. Ma i soldati ed il popolo a forza di

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Si prova che Curzio visse a' tempi di Claudio.

tumulto e di grida costrinsero finalmente il senato a ce-dere, e a riconoscere Claudio imperadore. Or ecco lanotte in cui per la discordia de' membri fu l'impero a pe-ricolo di rovina; ecco il principe che con improvviso se-reno dissipò la tempesta, estinse le fiaccole, fece caderea terra le spade. La notte seguente all'uccision di Caligo-la fu notte di tumulto e di confusione; e l'impero privodi capo, e diviso in varj partiti e in varj voleri, era vicinoa provare i funesti effetti di una sconvolta e turbolentaanarchia. Claudio coll'accettare l'impero sopì l'incendiodella guerra civile, che per la discordia del senato e de'soldati e del popolo era ormai per accendersi, e ricon-dusse in Roma la pubblica tranquillità. Se dunque Cur-zio parla sicuramente, come abbiam dimostrato di unadeterminata notte che fu per esser fatale a Roma, se talefu veramente, come fu di fatto, la notte seguenteall'uccision di Caligola, in cui Claudio fu portato al tro-no, e se nella storia degli antichi imperadori niun'altranotte si trova, in cui avvenissero somiglianti vicende,come io penso che non si possa certo trovare, sarà evi-dente che Curzio parla di Claudio, e che regnando Clau-dio egli scrisse la sua Storia.

X. Ma Claudio, dicono alcuni, era un princi-pe vigliacco e codardo che si lasciò condur-re sul trono dalla violenza e dal furor de'soldati, e che incapace di far fiorire l'impe-ro, e di ristabilirvi la pubblica pace, lo scon-

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Si sciolgo-no alcune difficoltà opposte a questa sen-tenza.

tumulto e di grida costrinsero finalmente il senato a ce-dere, e a riconoscere Claudio imperadore. Or ecco lanotte in cui per la discordia de' membri fu l'impero a pe-ricolo di rovina; ecco il principe che con improvviso se-reno dissipò la tempesta, estinse le fiaccole, fece caderea terra le spade. La notte seguente all'uccision di Caligo-la fu notte di tumulto e di confusione; e l'impero privodi capo, e diviso in varj partiti e in varj voleri, era vicinoa provare i funesti effetti di una sconvolta e turbolentaanarchia. Claudio coll'accettare l'impero sopì l'incendiodella guerra civile, che per la discordia del senato e de'soldati e del popolo era ormai per accendersi, e ricon-dusse in Roma la pubblica tranquillità. Se dunque Cur-zio parla sicuramente, come abbiam dimostrato di unadeterminata notte che fu per esser fatale a Roma, se talefu veramente, come fu di fatto, la notte seguenteall'uccision di Caligola, in cui Claudio fu portato al tro-no, e se nella storia degli antichi imperadori niun'altranotte si trova, in cui avvenissero somiglianti vicende,come io penso che non si possa certo trovare, sarà evi-dente che Curzio parla di Claudio, e che regnando Clau-dio egli scrisse la sua Storia.

X. Ma Claudio, dicono alcuni, era un princi-pe vigliacco e codardo che si lasciò condur-re sul trono dalla violenza e dal furor de'soldati, e che incapace di far fiorire l'impe-ro, e di ristabilirvi la pubblica pace, lo scon-

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Si sciolgo-no alcune difficoltà opposte a questa sen-tenza.

volse vie maggiormente lasciandosi regolar ciecamenteda pessimi consiglieri e da ribaldi liberti. Come dunquepoteva Curzio farne sì grandi elogi, e attribuire a lui lasalute del romano impero? Difficoltà che non può averforza se non presso chi non conosce punto gli scrittoride' tempi di cui parliamo. Se Velleio Patercolo potè par-lare con sì gran lode di Tiberio e di Seiano, se Senecapotè commendar tanto le virtù di Nerone, se Stazio,Marziale, e Quintiliano poteron fare sì grandi elogi diDomiziano, non potè egli ancor Curzio parlare per so-migliante maniera di Claudio? Era certo che l'elezionedi Claudio avea calmato il tumulto che già cominciava asollevarsi in Roma. E ciò potea bastare a uno storicoadulatore, perchè ne desse a Claudio tutta la lode. Chepiù? Seneca stesso, il severissimo Seneca, non parlò egliancora di Claudio con adulazione assai più impudente diquella che veggiam usata da Curzio? Leggasi il trattatodi Consolazione da lui scritto a Polibio, e veggasi comeil grave filosofo parla di questo stupido imperadore. At-tolle te, dic'egli a Polibio (c. 31), et quotiens lacrimæsuboriuntur oculis tuis, totiens illos in Cæsarem dirige:siccabuntur maxi mi et clarissimi conspectu nominis...Dii illum Deoeque omnes terræ diu commodent. Actahic divi Augusti vincat, annos æquet, ac quamdiu intermortales erit, nihil ex domo sua mortale esse sentiat.Rectorem romano imperio filium longa fide approbet, etante illum consortem patris quam successorem acci-piat... Abstine ab hoc manus tuas, Fortuna... patere il-lum generi humano jamdiu ægro et afflicto mederi; pa-

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volse vie maggiormente lasciandosi regolar ciecamenteda pessimi consiglieri e da ribaldi liberti. Come dunquepoteva Curzio farne sì grandi elogi, e attribuire a lui lasalute del romano impero? Difficoltà che non può averforza se non presso chi non conosce punto gli scrittoride' tempi di cui parliamo. Se Velleio Patercolo potè par-lare con sì gran lode di Tiberio e di Seiano, se Senecapotè commendar tanto le virtù di Nerone, se Stazio,Marziale, e Quintiliano poteron fare sì grandi elogi diDomiziano, non potè egli ancor Curzio parlare per so-migliante maniera di Claudio? Era certo che l'elezionedi Claudio avea calmato il tumulto che già cominciava asollevarsi in Roma. E ciò potea bastare a uno storicoadulatore, perchè ne desse a Claudio tutta la lode. Chepiù? Seneca stesso, il severissimo Seneca, non parlò egliancora di Claudio con adulazione assai più impudente diquella che veggiam usata da Curzio? Leggasi il trattatodi Consolazione da lui scritto a Polibio, e veggasi comeil grave filosofo parla di questo stupido imperadore. At-tolle te, dic'egli a Polibio (c. 31), et quotiens lacrimæsuboriuntur oculis tuis, totiens illos in Cæsarem dirige:siccabuntur maxi mi et clarissimi conspectu nominis...Dii illum Deoeque omnes terræ diu commodent. Actahic divi Augusti vincat, annos æquet, ac quamdiu intermortales erit, nihil ex domo sua mortale esse sentiat.Rectorem romano imperio filium longa fide approbet, etante illum consortem patris quam successorem acci-piat... Abstine ab hoc manus tuas, Fortuna... patere il-lum generi humano jamdiu ægro et afflicto mederi; pa-

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tere quidquid prioris principis furor concussit, in locumsuum restituere ac reponere. Sidus hoc, quod præcipita-to in profundum ac demerso in tenebras orbi refulsit,semper luceat, ec. Così prosiegue ancora per lungo trat-to il valoroso e sincero filosofo ad esaltar quel Claudiostesso, nella cui morte poi egli scrisse una satira sì san-guinosa. Ma io ne ho trascelte queste parole singolar-mente, perchè esse hanno non piccola somiglianzacoll'allegato passo di Curzio. Qui ancora si fanno votiper la posterità del principe, qui ancora esso si rappre-senta come ristorator dell'impero, qui ancora, ciò ch'èpiù degno di osservazione, si usa la stessa metafora,chiamando Claudio una stella sorta per risplendere apubblica felicità. Perchè dunque non potè Curzio usareegli pure di somiglianti espressioni? Anzi questo con-fronto de' sentimenti e delle parole di questi due scrittorinon è forse un'altra non dispregevole prova della miaopinione?

XI. Io non parlo di un altro passo di Cur-zio, di cui alcuni si son valuti a confermarel'opinione loro intorno all'età di questoscrittore; perciocchè io penso che non se nepossa trarre argomento alcuno a conferma

di qualunque sia sentenza. Parlando egli dell'assedio diTiro, dice che questa città nunc tandem longa pacecuncta refo vente sub tutela romanæ mansuetudinis re-florescit (l. 4, c. 4); e quindi pensano alcuni che a fissare

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Passo diCurzio nonben da alcunirecato perconfermarla.

tere quidquid prioris principis furor concussit, in locumsuum restituere ac reponere. Sidus hoc, quod præcipita-to in profundum ac demerso in tenebras orbi refulsit,semper luceat, ec. Così prosiegue ancora per lungo trat-to il valoroso e sincero filosofo ad esaltar quel Claudiostesso, nella cui morte poi egli scrisse una satira sì san-guinosa. Ma io ne ho trascelte queste parole singolar-mente, perchè esse hanno non piccola somiglianzacoll'allegato passo di Curzio. Qui ancora si fanno votiper la posterità del principe, qui ancora esso si rappre-senta come ristorator dell'impero, qui ancora, ciò ch'èpiù degno di osservazione, si usa la stessa metafora,chiamando Claudio una stella sorta per risplendere apubblica felicità. Perchè dunque non potè Curzio usareegli pure di somiglianti espressioni? Anzi questo con-fronto de' sentimenti e delle parole di questi due scrittorinon è forse un'altra non dispregevole prova della miaopinione?

XI. Io non parlo di un altro passo di Cur-zio, di cui alcuni si son valuti a confermarel'opinione loro intorno all'età di questoscrittore; perciocchè io penso che non se nepossa trarre argomento alcuno a conferma

di qualunque sia sentenza. Parlando egli dell'assedio diTiro, dice che questa città nunc tandem longa pacecuncta refo vente sub tutela romanæ mansuetudinis re-florescit (l. 4, c. 4); e quindi pensano alcuni che a fissare

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Passo diCurzio nonben da alcunirecato perconfermarla.

l'età di Curzio debba cercarsi in qual tempo godesse ilromano impero di quella lunga pace di cui egli ragiona.Ma a dir vero, la pace che qui si accenna, non appartie-ne già a Roma, ma sì a Tiro che da lungo tempo si stavatranquilla e sicura. Di fatto qual vantaggio, o qual dannopoteva recare a Tiro la pace, o la guerra che i Romaniavessero co' Germani, co' Galli, co' Parti, o con altri po-poli troppo da Tiro lontani? Era dunque la pace di cuigodeva Tiro, che rendevala lieta e fiorente; e quindi dal-la pace del romano impero niuna prova si può dedurre aconferma di alcuna delle diverse opinioni intorno all'etàdi Curzio.

XII. L'ultima quistione ch'è ad esaminareintorno a Q. Curzio, si è se egli sia alcuno diquelli dello stesso nome, che dagli antichi

veggiam nominati. Egli non può esser certo colui ch'èmentovato da Cicerone (l. 3 ad Q. fratr. ep. 2, ec.), poi-chè ei non poteva vivere fino al tempo di Claudio. UnCurzio Rufo celebre a' tempi di Claudio troviam ram-mentato da Tacito (l. 11 Ann. c. 20, 21); ma questo stori-co che ne parla lungamente, e che non suol ommetterecosa alcuna di ciò che giova a formare il carattere de'suoi personaggi, non fa cenno alcuno di lettere, di cuiquegli fosse studioso. In un antico catalogo delle Vitede' Retori illustri scritte da Svetonio, ma ora smarrite,che era presso Achille Stazio (V. Voss. de Histor. lat. l.1, c. 28), vedesi nominato un Curzio Rufo; e certo è pro-

262

Chi egli fosse.

l'età di Curzio debba cercarsi in qual tempo godesse ilromano impero di quella lunga pace di cui egli ragiona.Ma a dir vero, la pace che qui si accenna, non appartie-ne già a Roma, ma sì a Tiro che da lungo tempo si stavatranquilla e sicura. Di fatto qual vantaggio, o qual dannopoteva recare a Tiro la pace, o la guerra che i Romaniavessero co' Germani, co' Galli, co' Parti, o con altri po-poli troppo da Tiro lontani? Era dunque la pace di cuigodeva Tiro, che rendevala lieta e fiorente; e quindi dal-la pace del romano impero niuna prova si può dedurre aconferma di alcuna delle diverse opinioni intorno all'etàdi Curzio.

XII. L'ultima quistione ch'è ad esaminareintorno a Q. Curzio, si è se egli sia alcuno diquelli dello stesso nome, che dagli antichi

veggiam nominati. Egli non può esser certo colui ch'èmentovato da Cicerone (l. 3 ad Q. fratr. ep. 2, ec.), poi-chè ei non poteva vivere fino al tempo di Claudio. UnCurzio Rufo celebre a' tempi di Claudio troviam ram-mentato da Tacito (l. 11 Ann. c. 20, 21); ma questo stori-co che ne parla lungamente, e che non suol ommetterecosa alcuna di ciò che giova a formare il carattere de'suoi personaggi, non fa cenno alcuno di lettere, di cuiquegli fosse studioso. In un antico catalogo delle Vitede' Retori illustri scritte da Svetonio, ma ora smarrite,che era presso Achille Stazio (V. Voss. de Histor. lat. l.1, c. 28), vedesi nominato un Curzio Rufo; e certo è pro-

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Chi egli fosse.

babile assai che questi sia lo scrittor della Storia di cuiparliamo. Non vi è a mio parere ragione alcuna a negar-lo; ma non vi è pure fondamento bastevole ad accertar-lo. Ciò ch'è più strano, si è che niun degli antichi, comegià abbiam detto, abbia fatta menzione di questa Storia.Questo però non è argomento bastevole a combattere lanostra opinione. Una storia di Alessandro non era a que'tempi oggetto molto interessante pe' Romani, che troppoerano occupati delle lor guerre per pensare alle altrui.Quindi non è maraviglia che la Storia di Curzio si gia-cesse quasi dimenticata. Aggiungasi che, se Curzio nonera che semplice uomo di lettere, come è probabile, dif-ficilmente si troverà scrittore a cui venisse occasione dinominarlo. Seneca il retore scrisse, come è chiaro dallaserie dei tempi, prima di lui. Gli storici perchè doveanparlare di un uomo che non avea avuta parte alcuna agliaffari? La maraviglia può cader solamente sopra Sveto-nio e sopra Quintiliano. Ma quegli, se Curzio era retore,ne avea veramente scritta la Vita, come si è veduto; senon era nè retore nè gramatico, che motivo avea egli difavellarne? Quintiliano rammenta molti Romani celebripe' loro studi e per l'opere loro. Ma qualunque siane laragione, nel ragionar degli storici ei non rammenta cheSallustio, Livio, e Basso Aufidio; e se il silenzio diQuintiliano dovesse bastare per escludere dal numerodegli storici quelli de' quali egli tace, converrebbe ancorrigettare le Storie di Cornelio Nipote, di Velleio Paterco-lo, di Valerio Massimo, oltre tante altre che allor legge-vansi certamente, ed ora sono perdute.

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babile assai che questi sia lo scrittor della Storia di cuiparliamo. Non vi è a mio parere ragione alcuna a negar-lo; ma non vi è pure fondamento bastevole ad accertar-lo. Ciò ch'è più strano, si è che niun degli antichi, comegià abbiam detto, abbia fatta menzione di questa Storia.Questo però non è argomento bastevole a combattere lanostra opinione. Una storia di Alessandro non era a que'tempi oggetto molto interessante pe' Romani, che troppoerano occupati delle lor guerre per pensare alle altrui.Quindi non è maraviglia che la Storia di Curzio si gia-cesse quasi dimenticata. Aggiungasi che, se Curzio nonera che semplice uomo di lettere, come è probabile, dif-ficilmente si troverà scrittore a cui venisse occasione dinominarlo. Seneca il retore scrisse, come è chiaro dallaserie dei tempi, prima di lui. Gli storici perchè doveanparlare di un uomo che non avea avuta parte alcuna agliaffari? La maraviglia può cader solamente sopra Sveto-nio e sopra Quintiliano. Ma quegli, se Curzio era retore,ne avea veramente scritta la Vita, come si è veduto; senon era nè retore nè gramatico, che motivo avea egli difavellarne? Quintiliano rammenta molti Romani celebripe' loro studi e per l'opere loro. Ma qualunque siane laragione, nel ragionar degli storici ei non rammenta cheSallustio, Livio, e Basso Aufidio; e se il silenzio diQuintiliano dovesse bastare per escludere dal numerodegli storici quelli de' quali egli tace, converrebbe ancorrigettare le Storie di Cornelio Nipote, di Velleio Paterco-lo, di Valerio Massimo, oltre tante altre che allor legge-vansi certamente, ed ora sono perdute.

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XIII. Lo stile di Curzio è colto, elegante efiorito, benchè, non sempre uguale a se stes-so, si risenta anche esso tal volta de' vizj diuna decadente latinità. Ama assai le descri-

zioni, e talvolta più ancor del bisogno: non si lascia peròtrasportare dall'ambizione di comparir ingegnoso, difet-to comune agli scrittori di questi tempi; par solo ch'eicerchi di comparir elegante; e questo è ciò che talvoltalo rende vizioso. Ciò non ostante non è mancato chi glidesse il vanto sopra tutti gli altri storici (V. Bayle Dict.art. “Quinte Curce”); e vedremo a suo tempo che Al-fonso I. re di Napoli, ne era rapito per modo, che allalettura di esso attribuì la guarigione di una grave suamalattia. Intorno agli altri pregi che debbono adornareuna storia, se Curzio abbiagli, o no in se stesso riuniti, siè lungamente e aspramente conteso tra due eruditi scrit-tori. Giovanni le Clerc nella sua Arte Critica (pars 3,sect. 3) chiamò a diligente e severo esame la Storia diCurzio; e non vi ha quasi difetto che in lui non trovasse,salvo lo stile, di cui egli ancora il loda, benchè poscia iltratti da declamatore anzichè da storico. Curzio, secon-do il le Clerc, nulla sa nè di astronomia nè di geografia;confonde i racconti favolosi co' veri; non descrive esat-tamente le cose; ne racconta molte inutili, e ommette lenecessarie; vuol trovare nelle Indie le traccie delle favo-le greche, e con greci nomi chiama i fiumi più rimotidell'Asia; non distingue punto gli anni e le stagioni, incui accaddero i fatti ch'egli racconta; egli è finalmenteun adulatore panegirista, anzichè un narratore sincero

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Stile e ca-rattere dellasua Storia.

XIII. Lo stile di Curzio è colto, elegante efiorito, benchè, non sempre uguale a se stes-so, si risenta anche esso tal volta de' vizj diuna decadente latinità. Ama assai le descri-

zioni, e talvolta più ancor del bisogno: non si lascia peròtrasportare dall'ambizione di comparir ingegnoso, difet-to comune agli scrittori di questi tempi; par solo ch'eicerchi di comparir elegante; e questo è ciò che talvoltalo rende vizioso. Ciò non ostante non è mancato chi glidesse il vanto sopra tutti gli altri storici (V. Bayle Dict.art. “Quinte Curce”); e vedremo a suo tempo che Al-fonso I. re di Napoli, ne era rapito per modo, che allalettura di esso attribuì la guarigione di una grave suamalattia. Intorno agli altri pregi che debbono adornareuna storia, se Curzio abbiagli, o no in se stesso riuniti, siè lungamente e aspramente conteso tra due eruditi scrit-tori. Giovanni le Clerc nella sua Arte Critica (pars 3,sect. 3) chiamò a diligente e severo esame la Storia diCurzio; e non vi ha quasi difetto che in lui non trovasse,salvo lo stile, di cui egli ancora il loda, benchè poscia iltratti da declamatore anzichè da storico. Curzio, secon-do il le Clerc, nulla sa nè di astronomia nè di geografia;confonde i racconti favolosi co' veri; non descrive esat-tamente le cose; ne racconta molte inutili, e ommette lenecessarie; vuol trovare nelle Indie le traccie delle favo-le greche, e con greci nomi chiama i fiumi più rimotidell'Asia; non distingue punto gli anni e le stagioni, incui accaddero i fatti ch'egli racconta; egli è finalmenteun adulatore panegirista, anzichè un narratore sincero

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Stile e ca-rattere dellasua Storia.

della vita di Alessandro. Parve a Jacopo Perizon, chetroppo severa ed anche ingiusta fosse una tale censura, enella sua edizione di Eliano rispose a molte delle accusedal le Clerc date a Curzio. Questi nella prefazione pre-messa all'edizion da lui fatta dell'Elegie di Pedone Albi-novano l'an. 1703 ribattè le risposte del Perizon, il qualeper abbattere totalmente il suo avversario un nuovo libroin difesa di Q. Curzio pubblicò in Leyden lo stesso an.1703 col titolo: Q. Curtius Rufus restitutus in integrumet vindicatuts. Il le Clerc, scrittor battagliero quant'altrimai, nella sua biblioteca scelta (t. 3, An. 3.) prese a darel'estratto di questo libro, e il diede qual poteva aspettarsida uno scrittore irritato, e persuaso che il Perizon pub-blicato avesse quel libro "più per diffamare lui stesso,che per difendere Curzio". E perchè nel Giornale deglieruditi di Parigi (an 1705, p. 27) si era dato un estrattodell'opera del Perizon, che pareva a lui favorevole, fu daun autor anonimo, ma che dovea certo essere lo stesso leClerc, inviata loro, e da essi inserita nel lor Giornale (ib.p. 359), una lettera in cui di nuovo ribattevasi il chiodo,e volevasi ad ogni modo atterrato il Perizon. Or tra que-sti due scrittori a chi deesi l'onore di aver sostenuto ilvero? Io penso che nè all'uno nè all'altro, e che, comesuole avvenire, amendue andasser tropp'oltre, uno in ac-cusar Curzio, l'altro in difenderlo. Certo non può negarsiche in questo storico si incontrino degli errori. Ma egli èanche degno di scusa, poichè scrisse di tempi e di luoghicosì lontani, che non era quasi possibile ch'egli talvoltanon inciampasse. Io non parlo delle Lettere sotto il

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della vita di Alessandro. Parve a Jacopo Perizon, chetroppo severa ed anche ingiusta fosse una tale censura, enella sua edizione di Eliano rispose a molte delle accusedal le Clerc date a Curzio. Questi nella prefazione pre-messa all'edizion da lui fatta dell'Elegie di Pedone Albi-novano l'an. 1703 ribattè le risposte del Perizon, il qualeper abbattere totalmente il suo avversario un nuovo libroin difesa di Q. Curzio pubblicò in Leyden lo stesso an.1703 col titolo: Q. Curtius Rufus restitutus in integrumet vindicatuts. Il le Clerc, scrittor battagliero quant'altrimai, nella sua biblioteca scelta (t. 3, An. 3.) prese a darel'estratto di questo libro, e il diede qual poteva aspettarsida uno scrittore irritato, e persuaso che il Perizon pub-blicato avesse quel libro "più per diffamare lui stesso,che per difendere Curzio". E perchè nel Giornale deglieruditi di Parigi (an 1705, p. 27) si era dato un estrattodell'opera del Perizon, che pareva a lui favorevole, fu daun autor anonimo, ma che dovea certo essere lo stesso leClerc, inviata loro, e da essi inserita nel lor Giornale (ib.p. 359), una lettera in cui di nuovo ribattevasi il chiodo,e volevasi ad ogni modo atterrato il Perizon. Or tra que-sti due scrittori a chi deesi l'onore di aver sostenuto ilvero? Io penso che nè all'uno nè all'altro, e che, comesuole avvenire, amendue andasser tropp'oltre, uno in ac-cusar Curzio, l'altro in difenderlo. Certo non può negarsiche in questo storico si incontrino degli errori. Ma egli èanche degno di scusa, poichè scrisse di tempi e di luoghicosì lontani, che non era quasi possibile ch'egli talvoltanon inciampasse. Io non parlo delle Lettere sotto il

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nome di Curzio già pubblicate in Reggio l'an. 1500, ededicate al co. Francesco Maria Rangone governatore diquella città pel duca di Ferrara, poscia dal Fabricio ri-stampate al fine del primo tomo della sua Biblioteca La-tina. Non vi ha chi non sappia ch'esse sono opera diqualche ben ignorante scrittore de' bassi Secoli, che leha composte e pubblicate, attribuendole parte a un Cur-zio contemporaneo di Annibale, parte ad altri antichipersonaggi. E basta il leggerle, per conoscerne l'impo-stura.

XIV. Più sicure e più copiose notizie ci sonrimaste intorno a C. Cornelio Tacito. Ch'eifosse natio di Terni, è tradizione costante fraque' cittadini; e se ne posson veder le prove

nella Storia dell'Angeloni (Stor. di Terni p. 42, ec.). Eraegli di età quasi uguale a Plinio il giovane; come questia lui scrivendo afferma (l. 7, ep. 70), ma in modo cheTacito era alquanto maggiore, ed, essendo Plinio ancorgiovinetto, egli godeva già della pubblica stima. Equi-dem adolescentulus, cum jam tu fama gloriaque florereste sequi... concupiscebam (ib). Quindi essendo Plinio,come si è detto, nato l'an. 62, convien dire che pochianni prima nascesse Tacito. Non può dunque, come os-serva e lungamente dimostra il Bayle (Dict. art. “Taci-te”) esser questi quel Tacito cavalier romano intendentedella Gallia belgica, di cui parla Plinio il vecchio (l. 7,c. 16); perciocchè questi, che morì l'an. 79, narra di aver

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Notizie del-la vita di Tacito.

nome di Curzio già pubblicate in Reggio l'an. 1500, ededicate al co. Francesco Maria Rangone governatore diquella città pel duca di Ferrara, poscia dal Fabricio ri-stampate al fine del primo tomo della sua Biblioteca La-tina. Non vi ha chi non sappia ch'esse sono opera diqualche ben ignorante scrittore de' bassi Secoli, che leha composte e pubblicate, attribuendole parte a un Cur-zio contemporaneo di Annibale, parte ad altri antichipersonaggi. E basta il leggerle, per conoscerne l'impo-stura.

XIV. Più sicure e più copiose notizie ci sonrimaste intorno a C. Cornelio Tacito. Ch'eifosse natio di Terni, è tradizione costante fraque' cittadini; e se ne posson veder le prove

nella Storia dell'Angeloni (Stor. di Terni p. 42, ec.). Eraegli di età quasi uguale a Plinio il giovane; come questia lui scrivendo afferma (l. 7, ep. 70), ma in modo cheTacito era alquanto maggiore, ed, essendo Plinio ancorgiovinetto, egli godeva già della pubblica stima. Equi-dem adolescentulus, cum jam tu fama gloriaque florereste sequi... concupiscebam (ib). Quindi essendo Plinio,come si è detto, nato l'an. 62, convien dire che pochianni prima nascesse Tacito. Non può dunque, come os-serva e lungamente dimostra il Bayle (Dict. art. “Taci-te”) esser questi quel Tacito cavalier romano intendentedella Gallia belgica, di cui parla Plinio il vecchio (l. 7,c. 16); perciocchè questi, che morì l'an. 79, narra di aver

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Notizie del-la vita di Tacito.

veduto un figlio di questo Tacito in età di tre anni. OrTacito lo storico non prese in moglie la figlia del celebreAgricola, di cui egli stesso scrisse la Vita, se non l'an.78. Egli è anzi probabile che l'intendente della Galliabelgica fosse il padre del nostro storico. Questi fu inRoma innalzato da varj imperadori alle più ragguarde-voli cariche: Dignitatem nostram, dice egli stesso (Hist.l. 1, c. 1), a Vespaisiano inchoatam, a Tito auctam, aDomitiano longius provectam non abnuerim; ed altrovenomina espressamente la dignità di pretore, che ebbesotto Domiziano (Ann. l. 11, c. 11). A più grande onoreei fu ancor sollevato da Nerva, perciocchè, morto l'an.97 il celebre console Virginio Rufo, ei gli fu per volerdell'imperadore sostituito, e in quell'occasione fece unmagnifico elogio funebre al suo antecessore (Plin. l. 2,ep. 1). Ch'ei fosse cacciato in esilio da Domiziano, ella ètradizion popolare non appoggiata da alcun fondamento,come dopo altri ha mostrato il Bayle (l. c.), il qual puregiustamente riflette che non vi ha prova di ciò che da al-cuni moderni si afferma, cioè ch'egli vivesse finoall'ottantesimo anno di sua età. Egli fu grande amico diPlinio il giovane, il quale lo avea in grandissima stima,come dalle molte lettere a lui scrittegli è manifesto (l. 2,ep. 6, 20; l. 4, ep. 13; l. 6, ep. 9, 16, 20; l. 7, ep. 20, 33;l. 8, ep. 7; l. 9, ep. 10, 14). Di altre cose appartenentialla vita di questo scrittor veggasi il mentovato Bayle eil p. Niceron che ne ha scritto egli pure con esattezza(Mem. des Homm. ill. t. 6).

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veduto un figlio di questo Tacito in età di tre anni. OrTacito lo storico non prese in moglie la figlia del celebreAgricola, di cui egli stesso scrisse la Vita, se non l'an.78. Egli è anzi probabile che l'intendente della Galliabelgica fosse il padre del nostro storico. Questi fu inRoma innalzato da varj imperadori alle più ragguarde-voli cariche: Dignitatem nostram, dice egli stesso (Hist.l. 1, c. 1), a Vespaisiano inchoatam, a Tito auctam, aDomitiano longius provectam non abnuerim; ed altrovenomina espressamente la dignità di pretore, che ebbesotto Domiziano (Ann. l. 11, c. 11). A più grande onoreei fu ancor sollevato da Nerva, perciocchè, morto l'an.97 il celebre console Virginio Rufo, ei gli fu per volerdell'imperadore sostituito, e in quell'occasione fece unmagnifico elogio funebre al suo antecessore (Plin. l. 2,ep. 1). Ch'ei fosse cacciato in esilio da Domiziano, ella ètradizion popolare non appoggiata da alcun fondamento,come dopo altri ha mostrato il Bayle (l. c.), il qual puregiustamente riflette che non vi ha prova di ciò che da al-cuni moderni si afferma, cioè ch'egli vivesse finoall'ottantesimo anno di sua età. Egli fu grande amico diPlinio il giovane, il quale lo avea in grandissima stima,come dalle molte lettere a lui scrittegli è manifesto (l. 2,ep. 6, 20; l. 4, ep. 13; l. 6, ep. 9, 16, 20; l. 7, ep. 20, 33;l. 8, ep. 7; l. 9, ep. 10, 14). Di altre cose appartenentialla vita di questo scrittor veggasi il mentovato Bayle eil p. Niceron che ne ha scritto egli pure con esattezza(Mem. des Homm. ill. t. 6).

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XV. Due storie degl'imperadori romani noiabbiamo scritte da Tacito. La prima a cui ei

diede il nome di Annali, perchè in essa le cose ch'egliracconta sono esattamente distribuite negli anni a cuiavvennero, comincia dalla morte di Augusto, e terminacoll'uccision di Nerone; ma oltre una gran parte del libroquinto si sono infelicemente perduti i libri VII, VIII, IXe X, e il principio dell'XI, e innoltre parte del XVI, equei che venivano dopo fino alla morte di Nerone, dellacui storia mancano oltre a due anni. L'altra a cui diede ilnome di Storia, perchè in essa non tenne il medesimoesatto ordine cronologico, comincia dall'impero di Gal-ba, e giunge fino alla morte di Domiziano; ma di questaancora solo una piccola parte ci è rimasta, cioè i primiquattro libri, e parte del quinto, che giugne poco oltre alprincipio del regno di Vespasiano. Ella è comune opi-nione sostenuta ancora da Giusto Lipsio, che Tacito fos-se già vecchio, quando si accinse a scrivere queste sto-rie. Ma, come ha osservato il Bayle (l. c.), egli è certoche Tacito scrisse vivendo Traiano, e quindi, essendoegli nato verso l'an. 60, non dovea contare che quaranta,o cinquant'anni d'età; e innoltre egli stesso dichiara che,quando giugnesse a una robusta vecchiezza, avrebbe al-lora scritta la storia di Nerva e di Traiano. Quod si vitasuppeditet, principatum divi Nervæ, et imperium Traia-ni uberiorem securioremque materiam, senectuti repo-sui (Hist. l. 1, c. 1). Vuolsi ancora avvertire ch'egli scris-se prima i libri delle Storie, e poi gli Annali, come conmolti argomenti chiaramente si mostra da molti autori; e

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Sue opere. XV. Due storie degl'imperadori romani noiabbiamo scritte da Tacito. La prima a cui ei

diede il nome di Annali, perchè in essa le cose ch'egliracconta sono esattamente distribuite negli anni a cuiavvennero, comincia dalla morte di Augusto, e terminacoll'uccision di Nerone; ma oltre una gran parte del libroquinto si sono infelicemente perduti i libri VII, VIII, IXe X, e il principio dell'XI, e innoltre parte del XVI, equei che venivano dopo fino alla morte di Nerone, dellacui storia mancano oltre a due anni. L'altra a cui diede ilnome di Storia, perchè in essa non tenne il medesimoesatto ordine cronologico, comincia dall'impero di Gal-ba, e giunge fino alla morte di Domiziano; ma di questaancora solo una piccola parte ci è rimasta, cioè i primiquattro libri, e parte del quinto, che giugne poco oltre alprincipio del regno di Vespasiano. Ella è comune opi-nione sostenuta ancora da Giusto Lipsio, che Tacito fos-se già vecchio, quando si accinse a scrivere queste sto-rie. Ma, come ha osservato il Bayle (l. c.), egli è certoche Tacito scrisse vivendo Traiano, e quindi, essendoegli nato verso l'an. 60, non dovea contare che quaranta,o cinquant'anni d'età; e innoltre egli stesso dichiara che,quando giugnesse a una robusta vecchiezza, avrebbe al-lora scritta la storia di Nerva e di Traiano. Quod si vitasuppeditet, principatum divi Nervæ, et imperium Traia-ni uberiorem securioremque materiam, senectuti repo-sui (Hist. l. 1, c. 1). Vuolsi ancora avvertire ch'egli scris-se prima i libri delle Storie, e poi gli Annali, come conmolti argomenti chiaramente si mostra da molti autori; e

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Sue opere.

singolarmente dal Bayle che di parecchi punti apparte-nenti alla vita di Tacito ha assai lungamente e diligente-mente trattato. Di lui abbiamo inoltre un libro de' costu-mi degli antichi Germani, e un altro della Vita di GiulioAgricola. Vi ha ancora chi gli attribuisce il Dialogo altrevolte da noi mentovato intorno al decadimento dell'elo-quenza; ma già si è dimostrata la poca verisimiglianzadi tale opinione.

XVI. Non vi è forse scrittore alcuno intornoa cui tanti interpreti e spositori e osservatorisiansi adoperati. Ne' due scorsi secoli prin-cipalmente niuno poteva aspirare alla fama

di gran politico, se non faceva riflessioni sopra Tacito, ose non mostravasene almeno attonito ammiratore. Ogniperiodo e, direi quasi, ogni motto di questo storico eramisterioso, e conteneva qualche profondo arcano, e feli-ce colui che scoprivane maggior numero. Singulæ pagi-næ, dice Giusto Lipsio (in præf.), quid paginæ? Singulælineæ, dogmata consilia, monita sunt, sed brevia sæpeaut occulta, et opus sagace quadam mente odorandumet assequendum. E perchè alcuni erano stati sì arditi, cheavean creduto di trovare in Tacito de' difetti, molti nehanno fatte difese e apologie lunghissime, e il Muretotra gli altri tre intere orazioni ha in ciò impiegate (or. 16,17, 18), che si potranno leggere da chiunque non sia an-cora ben persuaso che Tacito deve aversi in grandissimopregio. Il Bayle ha raccolti i giudizi di molti uomini illu-

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Riflessioni sul loro sti-le.

singolarmente dal Bayle che di parecchi punti apparte-nenti alla vita di Tacito ha assai lungamente e diligente-mente trattato. Di lui abbiamo inoltre un libro de' costu-mi degli antichi Germani, e un altro della Vita di GiulioAgricola. Vi ha ancora chi gli attribuisce il Dialogo altrevolte da noi mentovato intorno al decadimento dell'elo-quenza; ma già si è dimostrata la poca verisimiglianzadi tale opinione.

XVI. Non vi è forse scrittore alcuno intornoa cui tanti interpreti e spositori e osservatorisiansi adoperati. Ne' due scorsi secoli prin-cipalmente niuno poteva aspirare alla fama

di gran politico, se non faceva riflessioni sopra Tacito, ose non mostravasene almeno attonito ammiratore. Ogniperiodo e, direi quasi, ogni motto di questo storico eramisterioso, e conteneva qualche profondo arcano, e feli-ce colui che scoprivane maggior numero. Singulæ pagi-næ, dice Giusto Lipsio (in præf.), quid paginæ? Singulælineæ, dogmata consilia, monita sunt, sed brevia sæpeaut occulta, et opus sagace quadam mente odorandumet assequendum. E perchè alcuni erano stati sì arditi, cheavean creduto di trovare in Tacito de' difetti, molti nehanno fatte difese e apologie lunghissime, e il Muretotra gli altri tre intere orazioni ha in ciò impiegate (or. 16,17, 18), che si potranno leggere da chiunque non sia an-cora ben persuaso che Tacito deve aversi in grandissimopregio. Il Bayle ha raccolti i giudizi di molti uomini illu-

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Riflessioni sul loro sti-le.

stri intorno a questo scrittore, i quali però non sono traloro troppo concordi. Alcuni di fatto vorrebbono ribas-sare alcun poco di sì gran lodi, e confesso ch'entro iopur volentieri ne' lor sentimenti. Nè voglio già io negareche Tacito non abbia una forza di pensiero e di espres-sione superiore forse a quella di tutti gli altri storici anti-chi. I caratteri presso lui sono maravigliosi: in pochitratti di penna ei ci forma il più compito ritratto che dapennello di dipintore eccellente si possa aspettare. I rac-conti e le descrizioni son tali che sembrano porresott'occhio gli oggetti che rappresentano. I sentimenti, dicui egli sparge la narrazione, sono spesso di una bellez-za e di una forza non ordinaria. Ma ciò che in Tacitopiace sopra ogni cosa, si è ch'egli è uno storico filosofo.Ei non è pago di narrar ciò che avvenne: ne esamina leragioni, ne scuopre il mistero, ne osserva i mezzi, nespiega gli affetti: egli sviscera in somma e scioglie eanalizza ogni cosa. Ma non cade egli ancora nel difettodel secolo, cioè in un soverchio raffinamento di pensieroe di espressione? I fini politici e gli occulti misteri che e'trova negli avvenimenti, vi ebbero veramente parte, onon furon anzi immaginati spesso da lui per desiderio dicomparire profondo indagatore degli animi e de' pensie-ri? Le sentenze non sono elleno sparse con mano troppoliberale; e non son talvolta raffinate e ingegnose, anzi-chè verisimili e naturali? La precisione e la forza nonpassa ella spesso i giusti confini, e non rende il discorsooscuro, difficile, intralciato? Questi sono i difetti cuisembra di scorgere in Tacito, a chiunque prende a leg-

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stri intorno a questo scrittore, i quali però non sono traloro troppo concordi. Alcuni di fatto vorrebbono ribas-sare alcun poco di sì gran lodi, e confesso ch'entro iopur volentieri ne' lor sentimenti. Nè voglio già io negareche Tacito non abbia una forza di pensiero e di espres-sione superiore forse a quella di tutti gli altri storici anti-chi. I caratteri presso lui sono maravigliosi: in pochitratti di penna ei ci forma il più compito ritratto che dapennello di dipintore eccellente si possa aspettare. I rac-conti e le descrizioni son tali che sembrano porresott'occhio gli oggetti che rappresentano. I sentimenti, dicui egli sparge la narrazione, sono spesso di una bellez-za e di una forza non ordinaria. Ma ciò che in Tacitopiace sopra ogni cosa, si è ch'egli è uno storico filosofo.Ei non è pago di narrar ciò che avvenne: ne esamina leragioni, ne scuopre il mistero, ne osserva i mezzi, nespiega gli affetti: egli sviscera in somma e scioglie eanalizza ogni cosa. Ma non cade egli ancora nel difettodel secolo, cioè in un soverchio raffinamento di pensieroe di espressione? I fini politici e gli occulti misteri che e'trova negli avvenimenti, vi ebbero veramente parte, onon furon anzi immaginati spesso da lui per desiderio dicomparire profondo indagatore degli animi e de' pensie-ri? Le sentenze non sono elleno sparse con mano troppoliberale; e non son talvolta raffinate e ingegnose, anzi-chè verisimili e naturali? La precisione e la forza nonpassa ella spesso i giusti confini, e non rende il discorsooscuro, difficile, intralciato? Questi sono i difetti cuisembra di scorgere in Tacito, a chiunque prende a leg-

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gerlo attentamente. E nondimeno, se noi crediamo agliapologisti di Tacito, e tra gli altri a uno de' più illustritra' moderni filosofi pensatori, cioè a m. d'Alembert chevarj passi di questo storico ha elegantemente recati inlingua francese, questi non son difetti, ma rarissimi pre-gi. "Si accusa, dice egli (Mél. de Littérat. t. 3, p. 25), diaver dipinta come troppo perversa la natura umana, cioèdi averla forse troppo bene studiata; si dice ch'egli èoscuro, il che vuol dir solamente ch'ei non ha scritto perla moltitudine; si dice finalmente ch'egli ha uno stiltroppo rapido e troppo conciso, come se il maggior me-rito di uno scrittore non fosse di dir molto in poche pa-role." L'apologia non può essere più ingegnosa: ma iochiederò al sig. D'Alembert, per qual ragione egli, checerto non cede a Tacito in ingegno, non usa egli pure diuna somigliante maniera di scrivere troppo concisa edoscura? per qual ragione ha egli tradotti i detti passi diTacito per tal maniera, che ritenendone la forzadell'espressione e la nobiltà del sentimento, ne toglie ciòche vi ha di soverchio raffinamento e di affettata oscu-rezza? E certo io intenderò bene che non tutti possanoscoprire i più fini e delicati pregi di uno scrittore, e checiò sia riserbato soltanto a' più felici ingegni, ma cheuno scrittore, in cui que' medesimi che hanno pure buongusto di latinità, e che son ben versati nella lettura de'più pregiati autori, ritrovano spesso oscurità, inviluppo,sforzo e inverisimiglianza, che un tale scrittore io dico,ci si voglia ad ogni modo vantare come perfetto e mara-viglioso modello, io confesso che nol saprà intender

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gerlo attentamente. E nondimeno, se noi crediamo agliapologisti di Tacito, e tra gli altri a uno de' più illustritra' moderni filosofi pensatori, cioè a m. d'Alembert chevarj passi di questo storico ha elegantemente recati inlingua francese, questi non son difetti, ma rarissimi pre-gi. "Si accusa, dice egli (Mél. de Littérat. t. 3, p. 25), diaver dipinta come troppo perversa la natura umana, cioèdi averla forse troppo bene studiata; si dice ch'egli èoscuro, il che vuol dir solamente ch'ei non ha scritto perla moltitudine; si dice finalmente ch'egli ha uno stiltroppo rapido e troppo conciso, come se il maggior me-rito di uno scrittore non fosse di dir molto in poche pa-role." L'apologia non può essere più ingegnosa: ma iochiederò al sig. D'Alembert, per qual ragione egli, checerto non cede a Tacito in ingegno, non usa egli pure diuna somigliante maniera di scrivere troppo concisa edoscura? per qual ragione ha egli tradotti i detti passi diTacito per tal maniera, che ritenendone la forzadell'espressione e la nobiltà del sentimento, ne toglie ciòche vi ha di soverchio raffinamento e di affettata oscu-rezza? E certo io intenderò bene che non tutti possanoscoprire i più fini e delicati pregi di uno scrittore, e checiò sia riserbato soltanto a' più felici ingegni, ma cheuno scrittore, in cui que' medesimi che hanno pure buongusto di latinità, e che son ben versati nella lettura de'più pregiati autori, ritrovano spesso oscurità, inviluppo,sforzo e inverisimiglianza, che un tale scrittore io dico,ci si voglia ad ogni modo vantare come perfetto e mara-viglioso modello, io confesso che nol saprà intender

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giammai. Che se questo mio pensare sembrasse al sig.di Alembert effetto di pregiudizio di educazione; io pre-gherollo a vedere ciò che di Tacito scrive uno de' più li-beri e de' più ingegnosi scrittori dello scorso secolo,dico m. di S. Evremont. "A me sembra, egli dice (Oeu-vr. mêlées. t. 1, p. 76, éd. de Lyon 1692), che Tacito vol-ga ogni cosa in politica: presso lui la natura e la sortepoca parte hanno nell'esito degli affari; e, s'io non erro,di azioni semplici, ordinarie, e naturali ci reca spessotroppo lontane, e ricercate cagioni". Ne adduce quindialcuni esempj, e poscia così prosiegue: "Quasi in ognicosa ei ci offre quadri troppo finiti, in cui nulla rimane adesiderare di arte, ma assai poco vedesi di natura. Nonvi ha oggetto più bello di quello ch'ei rappresenta, maspesso non è quello l'oggetto che dee rappresentarsi,ec.". Veggasi il rimanente di questo esame, e del con-fronto ch'ei fa di Tacito con Sallustio, che parmi degnis-simo di esser letto. Le traduzioni che in tutte le linguene sono state fatte, hanno accresciuta assai la fama diTacito, e fra le italiane è celebre quella del Davanzati,che in essa volle mostrare non essere la nostra lingua inprecisione e in forza punto inferiore alla latina. Egli cer-to è riuscito a racchiudere in uguale spazio l'originale ela traduzione; ma se questa sia tale che possa esser pro-posta come modello in cui scrivere italianamente le isto-rie, io non ardisco deciderlo. Ben mi pare che se avessi-mo qualche storia scritta in uno stil somigliante, ella daassai pochi sarebbe letta. Ma tornando a Tacito, con-chiuderò dicendo col p. Rapin (Reflex. sur l'Hist. § 28)

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giammai. Che se questo mio pensare sembrasse al sig.di Alembert effetto di pregiudizio di educazione; io pre-gherollo a vedere ciò che di Tacito scrive uno de' più li-beri e de' più ingegnosi scrittori dello scorso secolo,dico m. di S. Evremont. "A me sembra, egli dice (Oeu-vr. mêlées. t. 1, p. 76, éd. de Lyon 1692), che Tacito vol-ga ogni cosa in politica: presso lui la natura e la sortepoca parte hanno nell'esito degli affari; e, s'io non erro,di azioni semplici, ordinarie, e naturali ci reca spessotroppo lontane, e ricercate cagioni". Ne adduce quindialcuni esempj, e poscia così prosiegue: "Quasi in ognicosa ei ci offre quadri troppo finiti, in cui nulla rimane adesiderare di arte, ma assai poco vedesi di natura. Nonvi ha oggetto più bello di quello ch'ei rappresenta, maspesso non è quello l'oggetto che dee rappresentarsi,ec.". Veggasi il rimanente di questo esame, e del con-fronto ch'ei fa di Tacito con Sallustio, che parmi degnis-simo di esser letto. Le traduzioni che in tutte le linguene sono state fatte, hanno accresciuta assai la fama diTacito, e fra le italiane è celebre quella del Davanzati,che in essa volle mostrare non essere la nostra lingua inprecisione e in forza punto inferiore alla latina. Egli cer-to è riuscito a racchiudere in uguale spazio l'originale ela traduzione; ma se questa sia tale che possa esser pro-posta come modello in cui scrivere italianamente le isto-rie, io non ardisco deciderlo. Ben mi pare che se avessi-mo qualche storia scritta in uno stil somigliante, ella daassai pochi sarebbe letta. Ma tornando a Tacito, con-chiuderò dicendo col p. Rapin (Reflex. sur l'Hist. § 28)

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che tante cose in bene ugualmente che in male si posso-no intorno a lui dire, che non si finirebbe mai di parlarne(25).

XVII. Contemporaneo a Tacito, e trattatordel medesimo argomento, ma in troppo di-versa maniera, fu Caio Svetonio Tranquillo.

Ebbe a padre, come egli stesso narra (in Othone c. 10),Svetonio Lene tribuno di una legione a' tempi di Ottone.Fu assai amico di Plinio il giovane che gli scrisse più25 Si era cominciata la stampa di questo mio secondo tomo, quando mi è

giunta la nuova e magnifica edizione di Tacito, che già da molti anni ad-dietro ci avea fatto sperare il p. Gabriello Brotier della Compagnia diGesù, e che ora finalmente è uscita alla luce. Io non credo che alcuno aquesta edizione vorrà contendere il primo vanto sopra le altre più antiche.Il diligente confronto del testo con molti codici manoscritti, le copiose ederudite note, e le belle dissertazioni, e le esatte carte geografiche, ch'egli viha aggiunte, e singolarmente il supplemento ch'egli ha fatto agli smarritilibri di Tacito, in cui egli ne ha imitato lo stile con una ammirabile felicità,è assai maggiore di quella che da uno scrittore de' nostri giorni si potesseaspettare; tutto ciò, io dico, rende questa edizione sommamente pregevoleagli eruditi. Nella prefazione, oltre le diligenti notizie ch'egli ha raccolteintorno la vita di Tacito, ribatte ancora le accuse che a lui si danno da mol-ti. Ma egli non si lascia per tal modo accecare, come altri fanno, dalla sti-ma pel suo autore, che non vi conosca difetti. Tacitum aliquando nimisacutum, nimis concisum, ingenii et sensum profunditate subobscurum ar-guerent: non valde repugnarem; nec eadem esse Thucydidis vitia, aut, utloquuntur Græci, virtutes urgem. Io mi compiaccio pertanto di essermiunito nello stesso parere con questo dotto interprete, di cui non vi ha certa-mente alcun altro che abbia con più diligenza studiato Tacito, e che meglione abbia rilevati i pregi non meno che i difetti. Se in qualche altro punto diminore importanza io non son convenuto nel suo parere, confesso, come inaltra Nota ho già osservato, che la più forte difficoltà ch'io tema potermisiin esso opporre, si è l'autorità di sì valoroso scrittore. Ma io ho pensato didover ciò non ostante seguire quell'opinione che a me parea più probabile.

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Notizie di Svetonio.

che tante cose in bene ugualmente che in male si posso-no intorno a lui dire, che non si finirebbe mai di parlarne(25).

XVII. Contemporaneo a Tacito, e trattatordel medesimo argomento, ma in troppo di-versa maniera, fu Caio Svetonio Tranquillo.

Ebbe a padre, come egli stesso narra (in Othone c. 10),Svetonio Lene tribuno di una legione a' tempi di Ottone.Fu assai amico di Plinio il giovane che gli scrisse più25 Si era cominciata la stampa di questo mio secondo tomo, quando mi è

giunta la nuova e magnifica edizione di Tacito, che già da molti anni ad-dietro ci avea fatto sperare il p. Gabriello Brotier della Compagnia diGesù, e che ora finalmente è uscita alla luce. Io non credo che alcuno aquesta edizione vorrà contendere il primo vanto sopra le altre più antiche.Il diligente confronto del testo con molti codici manoscritti, le copiose ederudite note, e le belle dissertazioni, e le esatte carte geografiche, ch'egli viha aggiunte, e singolarmente il supplemento ch'egli ha fatto agli smarritilibri di Tacito, in cui egli ne ha imitato lo stile con una ammirabile felicità,è assai maggiore di quella che da uno scrittore de' nostri giorni si potesseaspettare; tutto ciò, io dico, rende questa edizione sommamente pregevoleagli eruditi. Nella prefazione, oltre le diligenti notizie ch'egli ha raccolteintorno la vita di Tacito, ribatte ancora le accuse che a lui si danno da mol-ti. Ma egli non si lascia per tal modo accecare, come altri fanno, dalla sti-ma pel suo autore, che non vi conosca difetti. Tacitum aliquando nimisacutum, nimis concisum, ingenii et sensum profunditate subobscurum ar-guerent: non valde repugnarem; nec eadem esse Thucydidis vitia, aut, utloquuntur Græci, virtutes urgem. Io mi compiaccio pertanto di essermiunito nello stesso parere con questo dotto interprete, di cui non vi ha certa-mente alcun altro che abbia con più diligenza studiato Tacito, e che meglione abbia rilevati i pregi non meno che i difetti. Se in qualche altro punto diminore importanza io non son convenuto nel suo parere, confesso, come inaltra Nota ho già osservato, che la più forte difficoltà ch'io tema potermisiin esso opporre, si è l'autorità di sì valoroso scrittore. Ma io ho pensato didover ciò non ostante seguire quell'opinione che a me parea più probabile.

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Notizie di Svetonio.

lettere (l. 1, ep. 18; l. 3, ep. 8; l. 5, ep. 11; l. 9, ep. 34), eottennegli la dignità di tribun militare, benchè poscia adistanza del medesimo Svetonio conferir la facesse a uncerto Cesennio Silvano di lui parente (l. 3, ep. 8). Nè diciò contento Plinio, uomo di cui non v'ebbe forse tra gliantichi, chi desse più generose prove di vera amicizia, ilvolle seco in sua casa, e da Traiano gli ottenne que' pri-vilegi medesimi che propi eran di chi era padre di tre fi-gliuoli. Ecco la lettera da lui perciò scritta a Traiano (l.10, ep. 95): "Già da lungo tempo, o signore, io ho presoa tener meco in casa Svetonio Tranquillo, uomo di pro-bità, di onestà, di erudizion singolare, i cui costumi e icui studj io ho sempre avuti cari e tanto più ora lo amo,quanto più da vicino il conosco. Per più cagioni gli è ne-cessario il diritto di tre figliuoli; perciocchè e gode il fa-vore degli amici, e poco felice è stato nelle sue nozze, espera di ottenere per mezzo nostro dalla vostra clemenzaciò che l'avversa fortuna gli ha negato, ec.". Le quali pa-role di Plinio ci fan vedere la stima in ch'egli avea Sve-tonio; di che un altro argomento abbiam parimenti inun'altra lettera da lui scrittagli per esortarlo a pubblicarfinalmente i suoi libri (l. 5, ep. 11). Fu ancora assai caroall'imp. Adriano, da cui fu adoperato a suo segretario;ma poi ne incorse lo sdegno, e fu privo di quest'onore-vole carica, perchè egli con più altri, come narra Spar-ziano (in Vita Hadr.), apud Sabinam uxorem injussuejus familiarius se tunc egerat, quam reverentia domusaulicæ postulabat. La qual maniera di favellare è statada molti intesa, come se avesse a spiegarsi di poco one-

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lettere (l. 1, ep. 18; l. 3, ep. 8; l. 5, ep. 11; l. 9, ep. 34), eottennegli la dignità di tribun militare, benchè poscia adistanza del medesimo Svetonio conferir la facesse a uncerto Cesennio Silvano di lui parente (l. 3, ep. 8). Nè diciò contento Plinio, uomo di cui non v'ebbe forse tra gliantichi, chi desse più generose prove di vera amicizia, ilvolle seco in sua casa, e da Traiano gli ottenne que' pri-vilegi medesimi che propi eran di chi era padre di tre fi-gliuoli. Ecco la lettera da lui perciò scritta a Traiano (l.10, ep. 95): "Già da lungo tempo, o signore, io ho presoa tener meco in casa Svetonio Tranquillo, uomo di pro-bità, di onestà, di erudizion singolare, i cui costumi e icui studj io ho sempre avuti cari e tanto più ora lo amo,quanto più da vicino il conosco. Per più cagioni gli è ne-cessario il diritto di tre figliuoli; perciocchè e gode il fa-vore degli amici, e poco felice è stato nelle sue nozze, espera di ottenere per mezzo nostro dalla vostra clemenzaciò che l'avversa fortuna gli ha negato, ec.". Le quali pa-role di Plinio ci fan vedere la stima in ch'egli avea Sve-tonio; di che un altro argomento abbiam parimenti inun'altra lettera da lui scrittagli per esortarlo a pubblicarfinalmente i suoi libri (l. 5, ep. 11). Fu ancora assai caroall'imp. Adriano, da cui fu adoperato a suo segretario;ma poi ne incorse lo sdegno, e fu privo di quest'onore-vole carica, perchè egli con più altri, come narra Spar-ziano (in Vita Hadr.), apud Sabinam uxorem injussuejus familiarius se tunc egerat, quam reverentia domusaulicæ postulabat. La qual maniera di favellare è statada molti intesa, come se avesse a spiegarsi di poco one-

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sta famigliarità; ma veramente, come riflette il Bayle(Dict. Art. “Svetone”, rem. F), pare anzi che debbasi in-tendere di troppo ardito disprezzo; perciocchè Adrianoavea bensì in odio la sua moglie Sabina, ma non volevache senza sua saputa, injussu ejus, fosse da altri oltrag-giata. Ciò dovette accadere verso l'an. 121, dopo il qualtempo non sappiam se Svetonio vivesse più oltre, e chene avvenisse.

XVIII. Molti e di diverse maniere furono ilibri da Svetonio composti, parecchi de'

quali si rammentano da Suida (Lex. Ad. voc. Tranquil-lus) che gli dà il nome di gramatico; e in molti di essiquegli argomenti appunto trattava, che degli antichigrammatici erano propj, come de' costumi, de' riti, de'magistrati romani. Ma questi son tutti periti, e oltre leVite de' Cesari delle quali or ora ragioneremo, di lui cison rimaste soltanto le Vite degl'illustri Gramatici, e unapiccola parte di quelle degl'illustri Retori, opere che as-sai belle notizie ci somministrano in torno alla storiadella romana letteratura, di cui perciò abbiam fatto noipure uso non rare volte. Alcune altre Vite di particolariuomini illustri abbiamo sotto il nome di Svetonio, cioèdi Terenzio, di Orazio, di Giovenale, di Persio, di Luca-no, e di Plinio il vecchio; ma se traggasene quella di Te-renzio, che Donato ci ha conservata col farla sua, e quel-la di Orazio, che da Porfirione si attribuisce a Svetonio,le altre credonsi da molti opere di altri autori, e quella

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Sue opere.

sta famigliarità; ma veramente, come riflette il Bayle(Dict. Art. “Svetone”, rem. F), pare anzi che debbasi in-tendere di troppo ardito disprezzo; perciocchè Adrianoavea bensì in odio la sua moglie Sabina, ma non volevache senza sua saputa, injussu ejus, fosse da altri oltrag-giata. Ciò dovette accadere verso l'an. 121, dopo il qualtempo non sappiam se Svetonio vivesse più oltre, e chene avvenisse.

XVIII. Molti e di diverse maniere furono ilibri da Svetonio composti, parecchi de'

quali si rammentano da Suida (Lex. Ad. voc. Tranquil-lus) che gli dà il nome di gramatico; e in molti di essiquegli argomenti appunto trattava, che degli antichigrammatici erano propj, come de' costumi, de' riti, de'magistrati romani. Ma questi son tutti periti, e oltre leVite de' Cesari delle quali or ora ragioneremo, di lui cison rimaste soltanto le Vite degl'illustri Gramatici, e unapiccola parte di quelle degl'illustri Retori, opere che as-sai belle notizie ci somministrano in torno alla storiadella romana letteratura, di cui perciò abbiam fatto noipure uso non rare volte. Alcune altre Vite di particolariuomini illustri abbiamo sotto il nome di Svetonio, cioèdi Terenzio, di Orazio, di Giovenale, di Persio, di Luca-no, e di Plinio il vecchio; ma se traggasene quella di Te-renzio, che Donato ci ha conservata col farla sua, e quel-la di Orazio, che da Porfirione si attribuisce a Svetonio,le altre credonsi da molti opere di altri autori, e quella

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Sue opere.

singolarmente di Plinio, che da alcuni vuolsi scritta piùsecoli dopo Svetonio (V. Fabr. Bibl. lat. l. 2, c. 24).

XIX. L'opera per cui il nome di Svetonio ècelebre principalmente, sono le Vite de' pri-mi XII Cesari, di Giulio Cesare fino a Do-miziano, Vite che da lui sembrano scrittenon tanto per istruirci nella storia dell'impe-

ro di que' tempi, quanto per darci un'idea delle virtù, de'vizj, de' costumi di quegl'imperadori. Di fatto assai piùegli si stende nel descrivere le private azioni, che lepubbliche loro imprese; e potrebbesi perciò dare alla suaopera il nome di storia anecdota dei Cesari. Ma in que-sta storia è egli Svetonio scrittor veritiero? o scrive eglisoltanto ciò di che correva fra 'l popolo incerto rumore?Gli antichi lo hanno avuto in conto di scrittor degno difede. S. Girolamo dice (ap. Voss. de Histor. lat. l. 1, c.31) ch'egli scrisse le azioni dei Cesari con quella libertàmedesima con cui essi le fecero. Vopisco il chiama scrit-tor correttissimo e sincerissimo (in Firmo c. 1), e altrovel'annovera tra coloro che nello scriver le storie alla veri-tà ebber riguardo più che all'eloquenza (in Probo c. 2).Niuno ch'io sappia, tra gli antichi ha dato a Svetonio lataccia di scrittor credulo e d'impostore, se se ne tolga ciòche appartiene a' prodigi; nel che egli pure si lasciò tra-volgere dalla comune superstizione. E nondimeno dopodiciassette secoli si è finalmente scoperto che Svetonio èuno scrittor bugiardo; che le cose ch'ei narra di Tiberio,

276

Sue Vite de'Cesari in qual conto debbano aversi.

singolarmente di Plinio, che da alcuni vuolsi scritta piùsecoli dopo Svetonio (V. Fabr. Bibl. lat. l. 2, c. 24).

XIX. L'opera per cui il nome di Svetonio ècelebre principalmente, sono le Vite de' pri-mi XII Cesari, di Giulio Cesare fino a Do-miziano, Vite che da lui sembrano scrittenon tanto per istruirci nella storia dell'impe-

ro di que' tempi, quanto per darci un'idea delle virtù, de'vizj, de' costumi di quegl'imperadori. Di fatto assai piùegli si stende nel descrivere le private azioni, che lepubbliche loro imprese; e potrebbesi perciò dare alla suaopera il nome di storia anecdota dei Cesari. Ma in que-sta storia è egli Svetonio scrittor veritiero? o scrive eglisoltanto ciò di che correva fra 'l popolo incerto rumore?Gli antichi lo hanno avuto in conto di scrittor degno difede. S. Girolamo dice (ap. Voss. de Histor. lat. l. 1, c.31) ch'egli scrisse le azioni dei Cesari con quella libertàmedesima con cui essi le fecero. Vopisco il chiama scrit-tor correttissimo e sincerissimo (in Firmo c. 1), e altrovel'annovera tra coloro che nello scriver le storie alla veri-tà ebber riguardo più che all'eloquenza (in Probo c. 2).Niuno ch'io sappia, tra gli antichi ha dato a Svetonio lataccia di scrittor credulo e d'impostore, se se ne tolga ciòche appartiene a' prodigi; nel che egli pure si lasciò tra-volgere dalla comune superstizione. E nondimeno dopodiciassette secoli si è finalmente scoperto che Svetonio èuno scrittor bugiardo; che le cose ch'ei narra di Tiberio,

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Sue Vite de'Cesari in qual conto debbano aversi.

di Caligola, di Nerone, e di altri Cesari, sono in granparte finte a capriccio; e che, se Tacito le conferma, Ta-cito ancora è un impostore. Ma a sì fatte accuse abbiamgià bastantemente risposto nella Prefazione premessa aquesto volume, nè giova ora il ripetere ciò che ivi si èampiamente trattato. Con più ragione si riprende Sveto-nio delle tante laidezze che troppo chiaramente egli èvenuto sponendo nella sua Storia. Il Bayle usa ogni sfor-zo a difenderlo; e non è a stupirsene, poichè in tal mododifende ancor la sua causa. Ma niuna scusa potrà maigiustificarlo abbastanza; che non è già necessario il nar-rare ogni cosa, e certe sozzure è assai meglio involgerlein un oscuro silenzio. Per ciò ch'è dello scrivere di Sve-tonio, convien dargli lode di non essersi lasciato travol-gere dal vizio della sua età; poichè nulla in lui trovasi disentenzioso e di concettoso; ma è vero ancora che, oltrelo stile poco colto ed esatto, egli è un narrator languidoe freddo, a cui il nome di compilatore convien meglioche quello di storico.

XX. L'ultimo degli storici di questa età finoa noi pervenuti è L. Anneo Floro. Una leg-giadra contesa intorno a questo scrittore viha tra i Francesi e gli Spagnuoli. Gli uni e

gli altri il vogliono lor nazionale; ma gli uni e gli altriconfessano che non hanno argomenti a provarlo. "I no-stri avversarj, dicono gli scrittori della Storia Letterariadi Francia (t. 1, p. 255), confessano che la lor causa non

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Patria, vitae opere diFloro.

di Caligola, di Nerone, e di altri Cesari, sono in granparte finte a capriccio; e che, se Tacito le conferma, Ta-cito ancora è un impostore. Ma a sì fatte accuse abbiamgià bastantemente risposto nella Prefazione premessa aquesto volume, nè giova ora il ripetere ciò che ivi si èampiamente trattato. Con più ragione si riprende Sveto-nio delle tante laidezze che troppo chiaramente egli èvenuto sponendo nella sua Storia. Il Bayle usa ogni sfor-zo a difenderlo; e non è a stupirsene, poichè in tal mododifende ancor la sua causa. Ma niuna scusa potrà maigiustificarlo abbastanza; che non è già necessario il nar-rare ogni cosa, e certe sozzure è assai meglio involgerlein un oscuro silenzio. Per ciò ch'è dello scrivere di Sve-tonio, convien dargli lode di non essersi lasciato travol-gere dal vizio della sua età; poichè nulla in lui trovasi disentenzioso e di concettoso; ma è vero ancora che, oltrelo stile poco colto ed esatto, egli è un narrator languidoe freddo, a cui il nome di compilatore convien meglioche quello di storico.

XX. L'ultimo degli storici di questa età finoa noi pervenuti è L. Anneo Floro. Una leg-giadra contesa intorno a questo scrittore viha tra i Francesi e gli Spagnuoli. Gli uni e

gli altri il vogliono lor nazionale; ma gli uni e gli altriconfessano che non hanno argomenti a provarlo. "I no-stri avversarj, dicono gli scrittori della Storia Letterariadi Francia (t. 1, p. 255), confessano che la lor causa non

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Patria, vitae opere diFloro.

è appoggiata ad alcuna prova decisiva; e noi confessia-mo il medesimo per riguardo alla nostra". Leggansi infatti gli argomenti che da essi per una parte, e da Nicco-lò Antonio per l'altri (Bibl. vet. hisp. t. 1, c. 16) si arre-cano. Tutte son conghietture fondate dai primi sul nomedi Floro, e su quel di Giulio, che da alcuni si aggiugne alnostro scrittore, da' secondi sul nome di Anneo; proveperciò troppo deboli, perchè possa quest'opinione dirsiin qualche modo fondata. Non giova dunque il disputaresu un punto, su cui non abbiam fondamenti a' quali ap-pogiarci (26). L'ab. Longchamps felicissimo nell'immagi-nare ciò che può dare a' suoi racconti un'aria di maravi-glioso e d'interessante, dice (Tabl. hist., ec. t. 1, pag.123) che Floro ardì di gareggiare in poesia coll'imp.Adriano; e che questi vendicossene solo con una satirain cui rimproverava a Floro il sudiciume, fra cui viveafrequentando le bettole e le taverne. Questo raccontonon ha altro fondamento, che ciò che narra Sparziano(Vita. Hadr. p. 155), cioè che Floro poeta scrisse questiversi contro di Adriano:

Ego nolo Cæsar esse, Ambulare per Britannos, Scythicas pati pruinas:

e che Adriano rispondessegli questi altri:

26 Anche la città di Como pretende di entrare in campo per aver l'onore di es-sere stata la patria di Floro (Gavio, Gli Uomini Ill. Comaschi p. 367). Seun cognome trovato in una lapide basta ad indicar la patria di uno scrittore,noi farem di leggeri molte importanti scoperte di questo genere.

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è appoggiata ad alcuna prova decisiva; e noi confessia-mo il medesimo per riguardo alla nostra". Leggansi infatti gli argomenti che da essi per una parte, e da Nicco-lò Antonio per l'altri (Bibl. vet. hisp. t. 1, c. 16) si arre-cano. Tutte son conghietture fondate dai primi sul nomedi Floro, e su quel di Giulio, che da alcuni si aggiugne alnostro scrittore, da' secondi sul nome di Anneo; proveperciò troppo deboli, perchè possa quest'opinione dirsiin qualche modo fondata. Non giova dunque il disputaresu un punto, su cui non abbiam fondamenti a' quali ap-pogiarci (26). L'ab. Longchamps felicissimo nell'immagi-nare ciò che può dare a' suoi racconti un'aria di maravi-glioso e d'interessante, dice (Tabl. hist., ec. t. 1, pag.123) che Floro ardì di gareggiare in poesia coll'imp.Adriano; e che questi vendicossene solo con una satirain cui rimproverava a Floro il sudiciume, fra cui viveafrequentando le bettole e le taverne. Questo raccontonon ha altro fondamento, che ciò che narra Sparziano(Vita. Hadr. p. 155), cioè che Floro poeta scrisse questiversi contro di Adriano:

Ego nolo Cæsar esse, Ambulare per Britannos, Scythicas pati pruinas:

e che Adriano rispondessegli questi altri:

26 Anche la città di Como pretende di entrare in campo per aver l'onore di es-sere stata la patria di Floro (Gavio, Gli Uomini Ill. Comaschi p. 367). Seun cognome trovato in una lapide basta ad indicar la patria di uno scrittore,noi farem di leggeri molte importanti scoperte di questo genere.

278

Ego nolo Florus esse, Ambulare per tabernas, Latitare per popinas, Culices pati rotundos.

Ma, oltrechè non è certo che questo Floro sia lo stessoche lo storico, io non veggo come da questi versi si pos-sa raccogliere ch'egli gareggiò in poesia con Adriano.Chiunque ei fosse, scrisse un Compendio della StoriaRomana dalla fondazion di Roma fino all'impero di Au-gusto, che non è però un compendio di Livio, come al-cuni han pensato, benchè tratti lo stesso argomento. Egliil compose regnando Traiano, come dal proemio del pri-mo libro è manifesto. Lo stile è l'usato di questa età,sentenzioso e fiorito più del bisogno, e troppo lungi dal-la purezza del secolo precedente. Vi ha ancora chi gli at-tribuisce, ma senza bastevole fondamento, l'inno intito-lato Pervigilium Veneris, l'Ottavia che va tra le tragediedi Seneca, e qualche altro componimento di che veggasiil Fabricio (Bibl. lat. l. 1, c. 23), e il Vossio (De Histor.lat. l. 1, c. 30; De Poetis lat. c. 4).

XXI. A questi storici i cui libri o interamen-te, o in gran parte si son conservati, aggiu-gniamone alcuni altri dei quali o nulla, osolo qualche picciolo frammento ci è rima-sto. Tra questi vuol concedersi il primo luo-go a Cremuzio Cordo. Avea egli scritti gli

Annali di Augusto con una libertà da antico Romano; e

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Storie di Cremuzio Cordo, e in-felice fine del loro au-tore.

Ego nolo Florus esse, Ambulare per tabernas, Latitare per popinas, Culices pati rotundos.

Ma, oltrechè non è certo che questo Floro sia lo stessoche lo storico, io non veggo come da questi versi si pos-sa raccogliere ch'egli gareggiò in poesia con Adriano.Chiunque ei fosse, scrisse un Compendio della StoriaRomana dalla fondazion di Roma fino all'impero di Au-gusto, che non è però un compendio di Livio, come al-cuni han pensato, benchè tratti lo stesso argomento. Egliil compose regnando Traiano, come dal proemio del pri-mo libro è manifesto. Lo stile è l'usato di questa età,sentenzioso e fiorito più del bisogno, e troppo lungi dal-la purezza del secolo precedente. Vi ha ancora chi gli at-tribuisce, ma senza bastevole fondamento, l'inno intito-lato Pervigilium Veneris, l'Ottavia che va tra le tragediedi Seneca, e qualche altro componimento di che veggasiil Fabricio (Bibl. lat. l. 1, c. 23), e il Vossio (De Histor.lat. l. 1, c. 30; De Poetis lat. c. 4).

XXI. A questi storici i cui libri o interamen-te, o in gran parte si son conservati, aggiu-gniamone alcuni altri dei quali o nulla, osolo qualche picciolo frammento ci è rima-sto. Tra questi vuol concedersi il primo luo-go a Cremuzio Cordo. Avea egli scritti gli

Annali di Augusto con una libertà da antico Romano; e

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Storie di Cremuzio Cordo, e in-felice fine del loro au-tore.

fra le altre cose parlando di Cassio e di Bruto gli aveachiamati gli ultimi de' Romani, come se dopo la lormorte più non fosse vissuto uomo degno di sì gloriosonome; e inoltre avea egli parlato altre volte con un gene-roso sdegno della viltà e bassezza in cui i Romani eranoallora caduti (Sen. de Consol. ad Marciam c. 22). Piùnon vi volle, perchè due perfidi adulatori di Seiano loaccusassero a Tiberio. Tacito lo introduce a difendereinnanzi all'imperadore la sua causa, ma con una fermez-za che allora troppo era rara a vedersi in Roma. Ei non-dimeno conobbe che ogni difesa era inutile, e tornatose-ne a casa da se medesimo si uccise di fame (ib. e Tac. l.4 Ann. c. 34, ec.; Svet. in Tib. c. 61; Dio l. 57). Il senatoromano che pareva allora non avere altra autorità fuor-chè quella di adular vilmente Tiberio, comandò che leStorie di Cordo fosser date alle fiamme: ma un tal co-mando fu inutile, ed esse, per opera singolarmente diMarzia figlia dell'infelice scrittore, furon salvate, e na-scoste per qualche tempo; finchè Caligola, per acqui-starsi l'universale benevolenza coll'annullare ciò cheavea fatto Tiberio, permise ch'esse di nuovo si pubbli-cassero (Sen. ib. c. 1; Tac. e Dio l. c.). Un frammentodelle sue Storie ci è stato conservato da Seneca il retore(Suas. 7), in cui egli, dopo aver narrata la morte di Cice-rone, raccontava in qual modo ne fosse pubblicamenteesposto il capo su' rostri; e io qui recherollo, perchè siabbia un saggio dello stile di questo scrittore, in cui,benchè vivesse al fin del regno d'Augusto e al principiodi quel di Tiberio, vedesi nondimeno offuscata alquanto

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fra le altre cose parlando di Cassio e di Bruto gli aveachiamati gli ultimi de' Romani, come se dopo la lormorte più non fosse vissuto uomo degno di sì gloriosonome; e inoltre avea egli parlato altre volte con un gene-roso sdegno della viltà e bassezza in cui i Romani eranoallora caduti (Sen. de Consol. ad Marciam c. 22). Piùnon vi volle, perchè due perfidi adulatori di Seiano loaccusassero a Tiberio. Tacito lo introduce a difendereinnanzi all'imperadore la sua causa, ma con una fermez-za che allora troppo era rara a vedersi in Roma. Ei non-dimeno conobbe che ogni difesa era inutile, e tornatose-ne a casa da se medesimo si uccise di fame (ib. e Tac. l.4 Ann. c. 34, ec.; Svet. in Tib. c. 61; Dio l. 57). Il senatoromano che pareva allora non avere altra autorità fuor-chè quella di adular vilmente Tiberio, comandò che leStorie di Cordo fosser date alle fiamme: ma un tal co-mando fu inutile, ed esse, per opera singolarmente diMarzia figlia dell'infelice scrittore, furon salvate, e na-scoste per qualche tempo; finchè Caligola, per acqui-starsi l'universale benevolenza coll'annullare ciò cheavea fatto Tiberio, permise ch'esse di nuovo si pubbli-cassero (Sen. ib. c. 1; Tac. e Dio l. c.). Un frammentodelle sue Storie ci è stato conservato da Seneca il retore(Suas. 7), in cui egli, dopo aver narrata la morte di Cice-rone, raccontava in qual modo ne fosse pubblicamenteesposto il capo su' rostri; e io qui recherollo, perchè siabbia un saggio dello stile di questo scrittore, in cui,benchè vivesse al fin del regno d'Augusto e al principiodi quel di Tiberio, vedesi nondimeno offuscata alquanto

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la purezza e l'eleganza della lingua latina. Quibus visis,dic'egli, lætus Antonius, cum peractam proscriptionemsuam dixisset esse, quippe non satia tus modo cædendiscivibus, sed defectus quoque, jussit pro rostris exponi.Itaque quo sæpius ille ingenti circumfusus turba proces-serat, quæ paulo ante coluerat piis concionibus, quibusmultorum capita servaverat, tum per artus suos latus,aliter ac solitus erat, a civibus suis con spectus est, præ-tendenti capiti, orique ejus impensa sanie, brevi antePrinceps Senatus, Romanique nominis titulus, tum pre-tium interfectoris sui. Præcipue tamen solvit pectoraomnium in lacrymas gemitusque visa ad caput ejus deli-gata manus dextera divinæ eloquentiæ ministra: cætero-rumque cædes privatos luctus excitaverunt, illa unacommunem.

XXII. Somigliante a quel di CremuzioCordo fu il destino di Tito Labieno, e del-le Storie da lui scritte. Di lui parla assailungamente Seneca il retore (Proem. l. 5.

Controv.) che avealo conosciuto, e cel descrive comeuomo non meno per vizj che per eloquenza famoso. Po-vero di sostanze, infame pe' suoi delitti, avuto in odio datutti, e per la rabbiosa sua maldicenza detto scherzevol-mente Rabieno, era nondimeno tale nel perorare, che an-che i suoi più aperti nemici costretti erano a confessarech'egli era uomo di grandissimo ingegno. Lo stile da luiusato era come di mezzo tra quello del buon secolo pre-

281

Somigliante destino di TitoLabieno.

la purezza e l'eleganza della lingua latina. Quibus visis,dic'egli, lætus Antonius, cum peractam proscriptionemsuam dixisset esse, quippe non satia tus modo cædendiscivibus, sed defectus quoque, jussit pro rostris exponi.Itaque quo sæpius ille ingenti circumfusus turba proces-serat, quæ paulo ante coluerat piis concionibus, quibusmultorum capita servaverat, tum per artus suos latus,aliter ac solitus erat, a civibus suis con spectus est, præ-tendenti capiti, orique ejus impensa sanie, brevi antePrinceps Senatus, Romanique nominis titulus, tum pre-tium interfectoris sui. Præcipue tamen solvit pectoraomnium in lacrymas gemitusque visa ad caput ejus deli-gata manus dextera divinæ eloquentiæ ministra: cætero-rumque cædes privatos luctus excitaverunt, illa unacommunem.

XXII. Somigliante a quel di CremuzioCordo fu il destino di Tito Labieno, e del-le Storie da lui scritte. Di lui parla assailungamente Seneca il retore (Proem. l. 5.

Controv.) che avealo conosciuto, e cel descrive comeuomo non meno per vizj che per eloquenza famoso. Po-vero di sostanze, infame pe' suoi delitti, avuto in odio datutti, e per la rabbiosa sua maldicenza detto scherzevol-mente Rabieno, era nondimeno tale nel perorare, che an-che i suoi più aperti nemici costretti erano a confessarech'egli era uomo di grandissimo ingegno. Lo stile da luiusato era come di mezzo tra quello del buon secolo pre-

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Somigliante destino di TitoLabieno.

cedente, e quello che allora era in fiore: Color orationisantiquæ, vigor novæ, cultus inter nostrum ac prius se-culum medius, ut illum posset utraque pars sibi vindica-re. Avea egli scritta una Storia in cui sembra che narras-se le ultime guerre civili, e in essa avea parlato con tallibertà, che pareva, dice Seneca, ch'ei non avesse ancordeposto lo spirito pompeiano; ed egli stesso ben doveaconoscere il pericolo a cui con ciò si esponeva; percioc-chè, come racconta lo stesso Seneca, leggendola egli ungiorno pubblicamente, ne ommise una gran parte, e vol-gendosi al popolo, queste cose ch'io or tralascio, disse,si leggeranno poscia dopo la mia morte. Ma non bastòquesto a sottrarlo ad ogni pericolo; perciocchè divolga-tesi le Storie da lui composte, furono esse ancora perpubblico ordine date alle fiamme; nella qual occasioneracconta Seneca che Cassio Severo, poichè vide arsi gliscritti di Labieno or, disse ad alta voce, convien gittarme ancora alle fiamme, poichè io gli ho impressi nellamemoria. A qual tempo ciò avvenisse, Seneca nol dice,e il Vossio sta incerto (De Histor. lat. l. 1, c. 24) se un talfatto si debba credere seguito sotto il regno d'Augusto, osotto quel di Tiberio. Ma di Augusto già abbiam vedutoche troppo egli era lungi da queste crudeli maniere, lequali al contrario assai frequenti si videro regnando Ti-berio. Labieno non volle sopravvivere a tal disonore; efattosi condurre al sepolcro de' suoi maggiori, ivi volleessere chiuso ancor vivo e finirvi spontaneamente lavita. Caligola poscia insieme con le Storie di CremuzioCordo e di Cassio Severo quelle ancor di Labieno volle

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cedente, e quello che allora era in fiore: Color orationisantiquæ, vigor novæ, cultus inter nostrum ac prius se-culum medius, ut illum posset utraque pars sibi vindica-re. Avea egli scritta una Storia in cui sembra che narras-se le ultime guerre civili, e in essa avea parlato con tallibertà, che pareva, dice Seneca, ch'ei non avesse ancordeposto lo spirito pompeiano; ed egli stesso ben doveaconoscere il pericolo a cui con ciò si esponeva; percioc-chè, come racconta lo stesso Seneca, leggendola egli ungiorno pubblicamente, ne ommise una gran parte, e vol-gendosi al popolo, queste cose ch'io or tralascio, disse,si leggeranno poscia dopo la mia morte. Ma non bastòquesto a sottrarlo ad ogni pericolo; perciocchè divolga-tesi le Storie da lui composte, furono esse ancora perpubblico ordine date alle fiamme; nella qual occasioneracconta Seneca che Cassio Severo, poichè vide arsi gliscritti di Labieno or, disse ad alta voce, convien gittarme ancora alle fiamme, poichè io gli ho impressi nellamemoria. A qual tempo ciò avvenisse, Seneca nol dice,e il Vossio sta incerto (De Histor. lat. l. 1, c. 24) se un talfatto si debba credere seguito sotto il regno d'Augusto, osotto quel di Tiberio. Ma di Augusto già abbiam vedutoche troppo egli era lungi da queste crudeli maniere, lequali al contrario assai frequenti si videro regnando Ti-berio. Labieno non volle sopravvivere a tal disonore; efattosi condurre al sepolcro de' suoi maggiori, ivi volleessere chiuso ancor vivo e finirvi spontaneamente lavita. Caligola poscia insieme con le Storie di CremuzioCordo e di Cassio Severo quelle ancor di Labieno volle

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che si pubblicasser di nuovo, e che si potesser leggereimpunemente (Svet. in Calig. c. 16); ma nulla ce n'è per-venuto. Di Cassio Severo già si è parlato nel Tomo I tragli oratori.

XXIII. Due altri storici rammentansi daQuintiliano, i quali convien dire che in forzae in eleganza di scrivere fossero superiori

agli altri; poichè in tanta copia di scrittori di storia, cheverso questi tempi fiorirono, egli di questi due soli ci halasciata memoria. Sono essi Servilio Noniano, o, comealtri leggono, Noviano, e Aufidio Basso, dei quali Quin-tiliano forma il carattere con queste parole: Qui et ipse(parla di Servilio) a nobis auditus est, clari vir ingenii,et sententiis creber, sed minus pressus, quam historiæauctoritas postulat. Quam paulum ætate præcedens eumBassus Aufidius egregie utique in libris belli germanicipræstitit, genere ipso probabilis in omnibus, sed in qui-busdam suis ipse viribus minor (l. 10, c. 1). Non è peròa credere che questi soli ottenessero fama nello scriverestorie. Certo più altri ne veggiam nominati con lode da-gli antichi scrittori. Così di Brutidio fa onorevol men-zione Cornelio Tacito (l. 3 Ann. c. 66), e qualche fram-mento delle sue Storie ci è stato conservato da Seneca ilretore (Suas. 6). Così Svetonio accenna le Storie da Ge-tulico scritte (in Calig. c. 8) il qual sembra essere quelmedesimo che dopo avere per dieci anni governata laGermania con somma lode, da Caligola fu fatto uccidere

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Altri stori-ci.

che si pubblicasser di nuovo, e che si potesser leggereimpunemente (Svet. in Calig. c. 16); ma nulla ce n'è per-venuto. Di Cassio Severo già si è parlato nel Tomo I tragli oratori.

XXIII. Due altri storici rammentansi daQuintiliano, i quali convien dire che in forzae in eleganza di scrivere fossero superiori

agli altri; poichè in tanta copia di scrittori di storia, cheverso questi tempi fiorirono, egli di questi due soli ci halasciata memoria. Sono essi Servilio Noniano, o, comealtri leggono, Noviano, e Aufidio Basso, dei quali Quin-tiliano forma il carattere con queste parole: Qui et ipse(parla di Servilio) a nobis auditus est, clari vir ingenii,et sententiis creber, sed minus pressus, quam historiæauctoritas postulat. Quam paulum ætate præcedens eumBassus Aufidius egregie utique in libris belli germanicipræstitit, genere ipso probabilis in omnibus, sed in qui-busdam suis ipse viribus minor (l. 10, c. 1). Non è peròa credere che questi soli ottenessero fama nello scriverestorie. Certo più altri ne veggiam nominati con lode da-gli antichi scrittori. Così di Brutidio fa onorevol men-zione Cornelio Tacito (l. 3 Ann. c. 66), e qualche fram-mento delle sue Storie ci è stato conservato da Seneca ilretore (Suas. 6). Così Svetonio accenna le Storie da Ge-tulico scritte (in Calig. c. 8) il qual sembra essere quelmedesimo che dopo avere per dieci anni governata laGermania con somma lode, da Caligola fu fatto uccidere

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Altri stori-ci.

solo perchè era accetto a' soldati (Dio l. 59); e Tacito pa-rimente nomina le Storie di Vipsanio Messala (Hist. l. 3,c. 18, 25) ch'è uno degl'interlocutori del Dialogo sul de-cadimento dell'eloquenza. Così ancora Gneo DomizioCorbulone, uomo celebre singolarmente nel mestieredell'armi per le guerre sostenute nella Batavia enell'Oriente, avea scritte le Storie de' suoi tempi comeda Plinio il vecchio (l. 5, c. 24; l. 6, c. 8) e da Tacito (l.15 Ann. c. 16) si raccoglie; così molti altri verso il tem-po medesimo, che lungo e inutil sarebbe il voler farmenzione di tutti. Si può vedere ciò che di essi ha scrittoil Vossio (De Histor lat. l. 1, c. 23, ec.). Io aggiugneròsolamente che tra gli scrittori di storie debbonsi annove-rare ancora gl'imperadori Tiberio, e Claudio, che comeabbiam detto, oltre altri libri scrissero la lor propriaVita, e la celebre Agrippina madre di Nerone, la qualescrisse ella pure la sua Vita, e le vicende di sua famiglia(Tac. l. 4 Ann. c. 53).

XXIV. Nulla meno fecondi di scrittori distorie furono i regni di Domiziano e di Tra-iano, come da varj passi delle lettere di Pli-nio il giovane si raccoglie. E due singolar-mente son celebri nelle storie, perchè furono

vittime infelici del crudel furore di Domiziano; ErennioSenecione, e Lucio Giunio Aruleno Rustico, da lui fattiuccidere, quegli perchè avea scritta la Vita del celebrefilos. Elvidio, di cui ragioneremo nel Capo seguente

284

Storici sot-to Domizia-no e Traia-no.

solo perchè era accetto a' soldati (Dio l. 59); e Tacito pa-rimente nomina le Storie di Vipsanio Messala (Hist. l. 3,c. 18, 25) ch'è uno degl'interlocutori del Dialogo sul de-cadimento dell'eloquenza. Così ancora Gneo DomizioCorbulone, uomo celebre singolarmente nel mestieredell'armi per le guerre sostenute nella Batavia enell'Oriente, avea scritte le Storie de' suoi tempi comeda Plinio il vecchio (l. 5, c. 24; l. 6, c. 8) e da Tacito (l.15 Ann. c. 16) si raccoglie; così molti altri verso il tem-po medesimo, che lungo e inutil sarebbe il voler farmenzione di tutti. Si può vedere ciò che di essi ha scrittoil Vossio (De Histor lat. l. 1, c. 23, ec.). Io aggiugneròsolamente che tra gli scrittori di storie debbonsi annove-rare ancora gl'imperadori Tiberio, e Claudio, che comeabbiam detto, oltre altri libri scrissero la lor propriaVita, e la celebre Agrippina madre di Nerone, la qualescrisse ella pure la sua Vita, e le vicende di sua famiglia(Tac. l. 4 Ann. c. 53).

XXIV. Nulla meno fecondi di scrittori distorie furono i regni di Domiziano e di Tra-iano, come da varj passi delle lettere di Pli-nio il giovane si raccoglie. E due singolar-mente son celebri nelle storie, perchè furono

vittime infelici del crudel furore di Domiziano; ErennioSenecione, e Lucio Giunio Aruleno Rustico, da lui fattiuccidere, quegli perchè avea scritta la Vita del celebrefilos. Elvidio, di cui ragioneremo nel Capo seguente

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Storici sot-to Domizia-no e Traia-no.

(Tat. Vit. Agric. c. 45; Plin. l. 1, ep. 5; l. 3, ep. 11; l. 7,ep. 19, ec.); questi perchè avea scritte le lodi dello stes-so Elvidio e di Peto Trasea (Svet. in Domit. c. 10). QuelPompeo Saturnino ancora, che abbiam già annoveratotra gl'illustri poeti, era a parer di Plinio storico eccellen-te; perciocchè questi, dopo aver favellato con molta lodedelle orazioni da lui recitate, "ei nondimeno, continua(l. 1, ep. 16), più ancora piacerà nella Storia e per la bre-vità, e per la chiarezza, e per la soavità e per gli orna-menti, ed anche per la sublimità dello stile". Con somi-glianti elogi parla il medesimo Plinio di Titinnio Capito-ne, cui chiama "uomo ottimo e da esser annoverato tra'principali ornamenti del secolo suo" (l. 8, ep. 12), e neloda ancora il fomentare ch'ei faceva gli studj con som-mo impegno, sicchè vien da lui detto literarum jam se-nescentium reductor ac reformator. Or questi, come nar-ra lo stesso Plinio, stava scrivendo un libro in cui narra-va la morte degli uomini illustri de' suoi tempi. Di nondiverso argomento era l'opera di cui tre libri avea giàcomposti Caio Fannio. Non dispiacerà, credo, a' lettori,ch'io qui rechi la lettera che Plinio scrisse al risaperne lamorte; poichè ella è sommamente onorevole a Fannio, einsieme ci scuopre l'eccellente carattere di Plinio, in cuiio confesso che parmi di vedere uno de' più saggi e de'più onesti uomini di tutta l'antichità. "Mi vien detto,scrive egli (l. 5 ep. 5), che C. Fannio è morto, e questanuova mi affligge al sommo; prima perchè io lo amava,uomo, com'egli era, colto ed eloquente; e innoltre, per-chè del consiglio di lui io soleva giovarmi assai. Egli era

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(Tat. Vit. Agric. c. 45; Plin. l. 1, ep. 5; l. 3, ep. 11; l. 7,ep. 19, ec.); questi perchè avea scritte le lodi dello stes-so Elvidio e di Peto Trasea (Svet. in Domit. c. 10). QuelPompeo Saturnino ancora, che abbiam già annoveratotra gl'illustri poeti, era a parer di Plinio storico eccellen-te; perciocchè questi, dopo aver favellato con molta lodedelle orazioni da lui recitate, "ei nondimeno, continua(l. 1, ep. 16), più ancora piacerà nella Storia e per la bre-vità, e per la chiarezza, e per la soavità e per gli orna-menti, ed anche per la sublimità dello stile". Con somi-glianti elogi parla il medesimo Plinio di Titinnio Capito-ne, cui chiama "uomo ottimo e da esser annoverato tra'principali ornamenti del secolo suo" (l. 8, ep. 12), e neloda ancora il fomentare ch'ei faceva gli studj con som-mo impegno, sicchè vien da lui detto literarum jam se-nescentium reductor ac reformator. Or questi, come nar-ra lo stesso Plinio, stava scrivendo un libro in cui narra-va la morte degli uomini illustri de' suoi tempi. Di nondiverso argomento era l'opera di cui tre libri avea giàcomposti Caio Fannio. Non dispiacerà, credo, a' lettori,ch'io qui rechi la lettera che Plinio scrisse al risaperne lamorte; poichè ella è sommamente onorevole a Fannio, einsieme ci scuopre l'eccellente carattere di Plinio, in cuiio confesso che parmi di vedere uno de' più saggi e de'più onesti uomini di tutta l'antichità. "Mi vien detto,scrive egli (l. 5 ep. 5), che C. Fannio è morto, e questanuova mi affligge al sommo; prima perchè io lo amava,uomo, com'egli era, colto ed eloquente; e innoltre, per-chè del consiglio di lui io soleva giovarmi assai. Egli era

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di acuto ingegno, esercitato negli affari, e all'occasionefecondo di varj partiti... Ciò che più mi affligge, si è cheha lasciata imperfetta un'eccellente sua opera. Percioc-chè, benchè ei fosse occupato nel trattare le cause, scri-veva nondimeno le funeste avventure di quelli che daNerone erano stati o esiliati, o uccisi. Aveane già eicompiuti tre libri scritti in uno stile di mezzo tra il favel-lare ordinario, e quello che alla storia conviene, ma coningegno, con esattezza, e con eleganza. E tanto più eibramava di compir gli altri, quanto più avidantente ve-deva leggersi i primi. A me pare che la morte di quelliche apparecchiano cose degne della immortalità, siasempre acerba troppo ed immatutra. Perciocchè coloroche abbandonati a' piaceri vivono, per così dire, allagiornata, compiono ogni giorno l'oggetto e il fine dellalor vita. Ma a quelli che pensano alla posterità, e che vo-glion lasciar di se stessi qualche memoria ne' loro libri,la morte è sempre improvvisa, perchè sempre interrom-pe qualche lor fatica. Sembra nondimeno che Fannioavesse un cotale presentimento di ciò che è avvenuto.Parvegli una volta dormendo di giacersi nel suo letto inatteggiamento di studiare e avendo innanzi lo scrignode' suoi scritti; e immaginossi di vedere Nerone che en-tratoli in camera e assiso sul letto prese nelle mani il pri-mo libro che su' delitti di lui commessi egli avea scritto,e il lesse interamente, e fatto il medesimo del secondoancora e del terzo, andossene. Fannio n'ebbe terrore; einterpretò il sogno come se dovesse ei finir di scrivereove Nerone avea finito di leggere; e così fu veramente.

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di acuto ingegno, esercitato negli affari, e all'occasionefecondo di varj partiti... Ciò che più mi affligge, si è cheha lasciata imperfetta un'eccellente sua opera. Percioc-chè, benchè ei fosse occupato nel trattare le cause, scri-veva nondimeno le funeste avventure di quelli che daNerone erano stati o esiliati, o uccisi. Aveane già eicompiuti tre libri scritti in uno stile di mezzo tra il favel-lare ordinario, e quello che alla storia conviene, ma coningegno, con esattezza, e con eleganza. E tanto più eibramava di compir gli altri, quanto più avidantente ve-deva leggersi i primi. A me pare che la morte di quelliche apparecchiano cose degne della immortalità, siasempre acerba troppo ed immatutra. Perciocchè coloroche abbandonati a' piaceri vivono, per così dire, allagiornata, compiono ogni giorno l'oggetto e il fine dellalor vita. Ma a quelli che pensano alla posterità, e che vo-glion lasciar di se stessi qualche memoria ne' loro libri,la morte è sempre improvvisa, perchè sempre interrom-pe qualche lor fatica. Sembra nondimeno che Fannioavesse un cotale presentimento di ciò che è avvenuto.Parvegli una volta dormendo di giacersi nel suo letto inatteggiamento di studiare e avendo innanzi lo scrignode' suoi scritti; e immaginossi di vedere Nerone che en-tratoli in camera e assiso sul letto prese nelle mani il pri-mo libro che su' delitti di lui commessi egli avea scritto,e il lesse interamente, e fatto il medesimo del secondoancora e del terzo, andossene. Fannio n'ebbe terrore; einterpretò il sogno come se dovesse ei finir di scrivereove Nerone avea finito di leggere; e così fu veramente.

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Io non posso di ciò ricordarmi, senza dolermi che tantefatiche egli abbia inutilmente gittate e tanti studj; e lamia morte ancora e i miei libri mi vengono al pensiero.Tu ancora da un somigliante timore, io credo, sarai com-preso per quelli che ora hai tralle mani. Quindi, finchèabbiam vita, sforziamoci a far per modo che la mortetrovi a troncare quanto men sia possibile de' nostri lavo-ri".

XXV. Per ultimo, se non tra gli storici, al-men tra quelli che furon benemeriti dellastoria, deesi annoverare Muciano, forse queldesso che sì gran parte ebbe nelle guerre ci-vili al principio dell'impero di Vespasiano.

Un'utilissima opera avea egli intrapresa, e in parte ese-guita; cioè di raccogliere dalle biblioteche tutti gli atti ele lettere tutte de' tempi addietro, che vi si trovavan ri-poste. E già undici libri di Atti e tre di Lettere, avea eipubblicati, quando si tenne il Dialogo sul decadimentodell'eloquenza, di cui si è ragionato (De caus. corr. eloq.c. 37). Ma quest'opera ancora, che ci sarebbe ora di sìgran giovamento, è in tutto perita.

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Opera insi-gne intra-presa da Muciano.

Io non posso di ciò ricordarmi, senza dolermi che tantefatiche egli abbia inutilmente gittate e tanti studj; e lamia morte ancora e i miei libri mi vengono al pensiero.Tu ancora da un somigliante timore, io credo, sarai com-preso per quelli che ora hai tralle mani. Quindi, finchèabbiam vita, sforziamoci a far per modo che la mortetrovi a troncare quanto men sia possibile de' nostri lavo-ri".

XXV. Per ultimo, se non tra gli storici, al-men tra quelli che furon benemeriti dellastoria, deesi annoverare Muciano, forse queldesso che sì gran parte ebbe nelle guerre ci-vili al principio dell'impero di Vespasiano.

Un'utilissima opera avea egli intrapresa, e in parte ese-guita; cioè di raccogliere dalle biblioteche tutti gli atti ele lettere tutte de' tempi addietro, che vi si trovavan ri-poste. E già undici libri di Atti e tre di Lettere, avea eipubblicati, quando si tenne il Dialogo sul decadimentodell'eloquenza, di cui si è ragionato (De caus. corr. eloq.c. 37). Ma quest'opera ancora, che ci sarebbe ora di sìgran giovamento, è in tutto perita.

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Opera insi-gne intra-presa da Muciano.

CAPO V.Filosofia e Matematica.

I. Lo scoprimento e la pubblicazione de' li-bri di Aristotele che era seguito verso gli ul-timi anni della repubblica, gli onori che Au-gusto avea renduti a parecchi illustri filoso-fi, e i molti Greci che da ciò invitati eran ve-

nuti a fissare in Roma la lor dimora, aveano risvegliatonell'animo de' Romani un grande ardore nel coltivamen-to de' filosofici studj. E se Tiberio e gli altri imperadoriche venner dopo, l'avessero in alcun modo fomentato,avrebbono probabilmente i Romani fatti in essi non or-dinarj progressi. Ma pare che i primi Cesari usasseroanzi di ogni sforzo per distoglierli da tali studj; poichènon solo non onorarono del lor favore coloro che in essiaveano più chiara fama, ma molti al contrario, per ciòsolo che eran filosofi, o cacciarono in esilio, o condan-narono a morte. Quindi non è maraviglia se la filosofiasi giacesse per alcun tempo dimenticata; o se quella par-te soltanto se ne coltivasse che poteva sembrar necessa-ria a soffrir con costanza le pubbliche e le private sven-ture. Vedremo in fatti che la più parte de' filosofi chesotto il regno di Tiberio, di Caligola, di Claudio, di Ne-rone furon celebri in Roma, seguiron la setta degli Stoi-ci, la quale colle austere sue massime pareva più oppor-

288

La filosofiapoco colti-vata di que-sti tempi in Roma.

CAPO V.Filosofia e Matematica.

I. Lo scoprimento e la pubblicazione de' li-bri di Aristotele che era seguito verso gli ul-timi anni della repubblica, gli onori che Au-gusto avea renduti a parecchi illustri filoso-fi, e i molti Greci che da ciò invitati eran ve-

nuti a fissare in Roma la lor dimora, aveano risvegliatonell'animo de' Romani un grande ardore nel coltivamen-to de' filosofici studj. E se Tiberio e gli altri imperadoriche venner dopo, l'avessero in alcun modo fomentato,avrebbono probabilmente i Romani fatti in essi non or-dinarj progressi. Ma pare che i primi Cesari usasseroanzi di ogni sforzo per distoglierli da tali studj; poichènon solo non onorarono del lor favore coloro che in essiaveano più chiara fama, ma molti al contrario, per ciòsolo che eran filosofi, o cacciarono in esilio, o condan-narono a morte. Quindi non è maraviglia se la filosofiasi giacesse per alcun tempo dimenticata; o se quella par-te soltanto se ne coltivasse che poteva sembrar necessa-ria a soffrir con costanza le pubbliche e le private sven-ture. Vedremo in fatti che la più parte de' filosofi chesotto il regno di Tiberio, di Caligola, di Claudio, di Ne-rone furon celebri in Roma, seguiron la setta degli Stoi-ci, la quale colle austere sue massime pareva più oppor-

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La filosofiapoco colti-vata di que-sti tempi in Roma.

tuna ad armar l'animo d'invincibil costanza contro laperversità degli uomini e de' tempi. Ma prima di parlarein particolare di ciascheduno di essi, ci convien vederequal fosse in generale lo stato della filosofia all'epoca dicui trattiamo.

II. Di Tiberio non sappiamo che a' filosofisingolarmente movesse guerra; e solo gliastrologi che col troppo onorevole nome dimatematici allor si chiamavano, furono a

suo tempo cacciati di Roma, benchè pur egli continuas-se a valersene, come poscia vedremo. Ma la crudeltà dicui contro ogni genere di persone egli usava, senza ri-guardo alcuno al sapere e all'erudizion loro, bastava,perchè ognuno intendesse che ad ottenere la protezionee il favor di Tiberio era inutile qualunque studio. Questacrudeltà medesima nondimeno giovò, come sopra si èaccennato, ad accendere negli animi di molti Romani ildesiderio della stoica filosofia, i cui seguaci singolar-mente davansi il vanto o di sofferir con costanza, o didarsi con coraggio la morte. E abbiam già veduto di so-pra quanti per sottrarsi alla crudeltà di Tiberio amaronmeglio di finire con volontaria morte una vita che sem-brava loro troppo spiacevole e travagliosa. Lo stesso deedirsi del regno ancor di Caligola e di quello di Claudio,poichè il primo in crudeltà andò innanzi a Tiberio mede-simo, e niun riguardo ebbe mai agli uomini celebri persapere; il secondo coltivatore di una leggera letteratura

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In essa ancors'introduce ilcattivo gusto.

tuna ad armar l'animo d'invincibil costanza contro laperversità degli uomini e de' tempi. Ma prima di parlarein particolare di ciascheduno di essi, ci convien vederequal fosse in generale lo stato della filosofia all'epoca dicui trattiamo.

II. Di Tiberio non sappiamo che a' filosofisingolarmente movesse guerra; e solo gliastrologi che col troppo onorevole nome dimatematici allor si chiamavano, furono a

suo tempo cacciati di Roma, benchè pur egli continuas-se a valersene, come poscia vedremo. Ma la crudeltà dicui contro ogni genere di persone egli usava, senza ri-guardo alcuno al sapere e all'erudizion loro, bastava,perchè ognuno intendesse che ad ottenere la protezionee il favor di Tiberio era inutile qualunque studio. Questacrudeltà medesima nondimeno giovò, come sopra si èaccennato, ad accendere negli animi di molti Romani ildesiderio della stoica filosofia, i cui seguaci singolar-mente davansi il vanto o di sofferir con costanza, o didarsi con coraggio la morte. E abbiam già veduto di so-pra quanti per sottrarsi alla crudeltà di Tiberio amaronmeglio di finire con volontaria morte una vita che sem-brava loro troppo spiacevole e travagliosa. Lo stesso deedirsi del regno ancor di Caligola e di quello di Claudio,poichè il primo in crudeltà andò innanzi a Tiberio mede-simo, e niun riguardo ebbe mai agli uomini celebri persapere; il secondo coltivatore di una leggera letteratura

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In essa ancors'introduce ilcattivo gusto.

non ebbe nè maturità nè talento pe' gravi e severi studj.Quindi come lo spirito di adulazione comune allor traRomani faceva che il genio e l'inclinazione degl'impera-dori desse, per così dire, la legge al genio e all'inclina-zione del popolo, videsi allora singolarmente introdursiin Roma uno studio di cose frivole e puerili, e di niunvantaggio alla società e allo Stato. "Ecco, dice Seneca inun libro da lui scritto nel regno di Claudio (De brev. vit.c. 13), che tra Romani ancora si è sparso un inutile im-pegno di sapere cose futili e da nulla"; e ne reca parec-chi esempj. E forse a questi tempi medesimi allude lostesso Seneca, quando descrive (ep. 48) i ridicoli, esciocchi sofismi che a far pompa d'ingegno da alcuni fi-losofi allor si usavano: Mus syllaba est; mus autem ca-seum rodit. Syllaba ergo caseum rodit .... Mus syllabaest: syllaba autem caseum non rodit. Mus ergo caseumnon rodit. "Oh le fanciullesche inezie! esclama Seneca;a questo fine adunque noi ci accigliamo? per questo por-tiamo al mento prolissa barba? per questo ci struggiamoe ci consumiamo insegnando?" Ma lo stesso Senecanondimeno non si sdegnò egli pure di trattar certe qui-stioni che non posson leggersi senza risa; come allorquando ei cerca se il bene sia corpo (ep. 106) e se le vir-tù siano animali (ep. 113), sulle quali importantissimequistioni non si sdegna il severo Seneca di disputare conun'ammirabile serietà. Così il cattivo gusto si sparge perogni parte, e si comunica spesso a quegli ancora i qualisembra che più degli altri dovrebbono preservarsene.

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non ebbe nè maturità nè talento pe' gravi e severi studj.Quindi come lo spirito di adulazione comune allor traRomani faceva che il genio e l'inclinazione degl'impera-dori desse, per così dire, la legge al genio e all'inclina-zione del popolo, videsi allora singolarmente introdursiin Roma uno studio di cose frivole e puerili, e di niunvantaggio alla società e allo Stato. "Ecco, dice Seneca inun libro da lui scritto nel regno di Claudio (De brev. vit.c. 13), che tra Romani ancora si è sparso un inutile im-pegno di sapere cose futili e da nulla"; e ne reca parec-chi esempj. E forse a questi tempi medesimi allude lostesso Seneca, quando descrive (ep. 48) i ridicoli, esciocchi sofismi che a far pompa d'ingegno da alcuni fi-losofi allor si usavano: Mus syllaba est; mus autem ca-seum rodit. Syllaba ergo caseum rodit .... Mus syllabaest: syllaba autem caseum non rodit. Mus ergo caseumnon rodit. "Oh le fanciullesche inezie! esclama Seneca;a questo fine adunque noi ci accigliamo? per questo por-tiamo al mento prolissa barba? per questo ci struggiamoe ci consumiamo insegnando?" Ma lo stesso Senecanondimeno non si sdegnò egli pure di trattar certe qui-stioni che non posson leggersi senza risa; come allorquando ei cerca se il bene sia corpo (ep. 106) e se le vir-tù siano animali (ep. 113), sulle quali importantissimequistioni non si sdegna il severo Seneca di disputare conun'ammirabile serietà. Così il cattivo gusto si sparge perogni parte, e si comunica spesso a quegli ancora i qualisembra che più degli altri dovrebbono preservarsene.

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III. Finora però non troviamo che a' filosofisi movesse guerra, e ch'essi fosser costretti apartirsene da Roma. Il primo di cui ciò sinarra da alcuni, si è Nerone. E qui è, ove perla prima volta ci si fa innanzi il celebreApollonio Tianeo, la cui Vita scritta da Filo-strato è il solo monumento che di questa

persecuzione da Nerone eccitata contro de' filosofi ci siarimasto. Veggiamo prima ciò che in essa ci si racconta;e poscia esamineremo qual fede si debba a questo scrit-tore. Io non debbo qui trattenermi a riferire ciò che ap-partiene alla vita di Apollonio, cosa troppo lontana dalmio argomento, e che da moltissimi scrittori è stata giàcon somma diligenza trattata, tra' quali meritano singo-larmente di esser letti il Tillemont (Hist. des Emper. t. 2,p. 120, ec. ed. ven.) e il Bruckero (Hist. crit. Philos. t. 2,p. 98, ec.). I soli viaggi da lui fatti in Italia, e le sole vi-cende accadutegli in Roma debbono qui aver luogo. Dilui dunque narra Filostrato (l. 4, c. 35, ec.) che dopoavere corso viaggiando, e riempito della fama de' suoiprodigi l'Oriente e la Grecia, si rivolse a Roma. Sapevaegli che Nerone vietati avea i filosofici studj, perchècredeva che con tale pretesto si studiassero e si eserci-tassero le arti magiche, e perciò molti illustri filosofierano stati imprigionati, e molti altri eransi per timoredileguati da Roma. Ma nulla perciò atterrito Apolloniointraprese il viaggio, e già non era lungi da Roma checirca cento venti stadi, quando eccogli venire incontroun cotal Filolao, che fuggendo per timore di Nerone av-

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Ventura di Apollonio da Tiana a Roma, e maraviglie che di lui siraccontano.

III. Finora però non troviamo che a' filosofisi movesse guerra, e ch'essi fosser costretti apartirsene da Roma. Il primo di cui ciò sinarra da alcuni, si è Nerone. E qui è, ove perla prima volta ci si fa innanzi il celebreApollonio Tianeo, la cui Vita scritta da Filo-strato è il solo monumento che di questa

persecuzione da Nerone eccitata contro de' filosofi ci siarimasto. Veggiamo prima ciò che in essa ci si racconta;e poscia esamineremo qual fede si debba a questo scrit-tore. Io non debbo qui trattenermi a riferire ciò che ap-partiene alla vita di Apollonio, cosa troppo lontana dalmio argomento, e che da moltissimi scrittori è stata giàcon somma diligenza trattata, tra' quali meritano singo-larmente di esser letti il Tillemont (Hist. des Emper. t. 2,p. 120, ec. ed. ven.) e il Bruckero (Hist. crit. Philos. t. 2,p. 98, ec.). I soli viaggi da lui fatti in Italia, e le sole vi-cende accadutegli in Roma debbono qui aver luogo. Dilui dunque narra Filostrato (l. 4, c. 35, ec.) che dopoavere corso viaggiando, e riempito della fama de' suoiprodigi l'Oriente e la Grecia, si rivolse a Roma. Sapevaegli che Nerone vietati avea i filosofici studj, perchècredeva che con tale pretesto si studiassero e si eserci-tassero le arti magiche, e perciò molti illustri filosofierano stati imprigionati, e molti altri eransi per timoredileguati da Roma. Ma nulla perciò atterrito Apolloniointraprese il viaggio, e già non era lungi da Roma checirca cento venti stadi, quando eccogli venire incontroun cotal Filolao, che fuggendo per timore di Nerone av-

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Ventura di Apollonio da Tiana a Roma, e maraviglie che di lui siraccontano.

visava tutti i filosofi, in cui si avveniva, che fuggisserseco se voleano esser salvi. Udì da lui Apollonio in qua-le stato eran le cose, e i compagni che lo seguivano datal terrore furori compresi, che di trentaquattro ch'essierano, otto gli rimaser fedeli, tutti gli altri se ne fuggiro-no. Apollonio ciò non ostante, esortando que' pochi aprender coraggio, e ad incontrare ancora per difesa dellafilosofia la morte, proseguì il suo cammino, ed entrosse-ne in Roma. Condotto innanzi al cons. Telesino, seppeper tal maniera guadagnarsene l'animo, che ottenne dimetter il piede in tutti i tempj di Roma, e di favellarvi alpopolo liberamente: il che fece Apollonio con sì felicesuccesso, che vedevasi crescere ogni giorno il popolarfervore nel culto degl'Iddii e farsi sempre maggiorel'affollamento ad udirlo. Ma venuto poscia a Roma uncotal Demetrio Cinico amico di Apollonio, e poco ap-presso cacciato in esilio da Tigellino pref. del pretorio,perchè coll'imprudenza del suo favellare avea offesoNerone, Apollonio ancora fu preso di mira dal medesi-mo Tigellino, e si cominciò ad osservare attentamenteogni suo andamento ed ogni suo detto. Or avvenne cheavendo Apollonio predetta un'ecclissi del sole, ed aven-do aggiunto ch'essa sarebbe stata seguita da un gran pro-digio, tre giorni dopo in fatti, mentre Nerone si stava as-siso alla mensa, caduto un fulmine traforò una tazzach'ei teneva tra le mani. Questo avvenimento fece rimi-rare Apollonio come uom portentoso. Ma non moltodopo ei venne accusato a Tigellino di aver con ingiurio-se parole deriso Nerone. Chiamato dunque al pretorio,

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visava tutti i filosofi, in cui si avveniva, che fuggisserseco se voleano esser salvi. Udì da lui Apollonio in qua-le stato eran le cose, e i compagni che lo seguivano datal terrore furori compresi, che di trentaquattro ch'essierano, otto gli rimaser fedeli, tutti gli altri se ne fuggiro-no. Apollonio ciò non ostante, esortando que' pochi aprender coraggio, e ad incontrare ancora per difesa dellafilosofia la morte, proseguì il suo cammino, ed entrosse-ne in Roma. Condotto innanzi al cons. Telesino, seppeper tal maniera guadagnarsene l'animo, che ottenne dimetter il piede in tutti i tempj di Roma, e di favellarvi alpopolo liberamente: il che fece Apollonio con sì felicesuccesso, che vedevasi crescere ogni giorno il popolarfervore nel culto degl'Iddii e farsi sempre maggiorel'affollamento ad udirlo. Ma venuto poscia a Roma uncotal Demetrio Cinico amico di Apollonio, e poco ap-presso cacciato in esilio da Tigellino pref. del pretorio,perchè coll'imprudenza del suo favellare avea offesoNerone, Apollonio ancora fu preso di mira dal medesi-mo Tigellino, e si cominciò ad osservare attentamenteogni suo andamento ed ogni suo detto. Or avvenne cheavendo Apollonio predetta un'ecclissi del sole, ed aven-do aggiunto ch'essa sarebbe stata seguita da un gran pro-digio, tre giorni dopo in fatti, mentre Nerone si stava as-siso alla mensa, caduto un fulmine traforò una tazzach'ei teneva tra le mani. Questo avvenimento fece rimi-rare Apollonio come uom portentoso. Ma non moltodopo ei venne accusato a Tigellino di aver con ingiurio-se parole deriso Nerone. Chiamato dunque al pretorio,

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mentre Tigellino svolge il foglio su cui era scritta l'accu-sa, eccone apparire interamente svanita ogni sillaba. Diche fu egli così attonito, che non si ardì a toccare Apol-lonio, e lasciollo andar libero e salvo. Continuò eglidunque a starsene in Roma, finchè avendo Nerone pub-blicato un editto, in cui comandava che tutti i filosofi nepartissero prontamente, egli ancora se n'andò, e recossifino all'estremità della Spagna. Tutto ciò, e assai piùlungamente, Filostrato.

IV. Or di tutto questo racconto che dob-biam noi credere? Tutta la storia di Apol-lonio deesi ella avere in conto di vera, o

deesi riputare un favoloso romanzo? Io confesso che as-sai volentieri mi appiglierei a questa seconda opinione.Perciocchè quai sono eglino i fondamenti a cui Filostra-to appoggia tutto il lungo racconto ch'egli ci fa delle im-prese, de' viaggi, de' prodigi di Apollonio? Egli visse a'tempi dell'imp. Settimio Severo che salì sul trono l'anno193, cioè a dire presso a cento anni dopo la morte diApollonio; e fu perciò troppo lungi dal suo eroe, perchèla sua narrazione possa avere autorità bastevole a per-suaderci. Ma ei dice di avere avute tra le mani le Memo-rie della Vita di Apollonio scritte da Damide che gli fuindivisibile compagno in tutti i viaggi, e testimonio ditutte le maraviglie da lui operate, le quali Memorie ve-nute essendo in mano di Giulia moglie di Severo, questaaveagli comandato di formare su esse una compita ed

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Se ne mostral'insussistenza.

mentre Tigellino svolge il foglio su cui era scritta l'accu-sa, eccone apparire interamente svanita ogni sillaba. Diche fu egli così attonito, che non si ardì a toccare Apol-lonio, e lasciollo andar libero e salvo. Continuò eglidunque a starsene in Roma, finchè avendo Nerone pub-blicato un editto, in cui comandava che tutti i filosofi nepartissero prontamente, egli ancora se n'andò, e recossifino all'estremità della Spagna. Tutto ciò, e assai piùlungamente, Filostrato.

IV. Or di tutto questo racconto che dob-biam noi credere? Tutta la storia di Apol-lonio deesi ella avere in conto di vera, o

deesi riputare un favoloso romanzo? Io confesso che as-sai volentieri mi appiglierei a questa seconda opinione.Perciocchè quai sono eglino i fondamenti a cui Filostra-to appoggia tutto il lungo racconto ch'egli ci fa delle im-prese, de' viaggi, de' prodigi di Apollonio? Egli visse a'tempi dell'imp. Settimio Severo che salì sul trono l'anno193, cioè a dire presso a cento anni dopo la morte diApollonio; e fu perciò troppo lungi dal suo eroe, perchèla sua narrazione possa avere autorità bastevole a per-suaderci. Ma ei dice di avere avute tra le mani le Memo-rie della Vita di Apollonio scritte da Damide che gli fuindivisibile compagno in tutti i viaggi, e testimonio ditutte le maraviglie da lui operate, le quali Memorie ve-nute essendo in mano di Giulia moglie di Severo, questaaveagli comandato di formare su esse una compita ed

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Se ne mostral'insussistenza.

esatta storia di questo uom portentoso. Aggiugne inoltredi aver letto un libro di un certo Massimo Egiense, chenarrate avea le cose da Apollonio fatte nella sua patria; enomina ancor quattro libri della Vita di Apollonio scrittida Meragene; benchè di essi ei dica di non volersi vale-re, perchè moltissime cose di Apollonio egli avea igno-rate. Ma questi libri da chi altri mai prima che da Filo-strato si veggon citati? Non potrebbe per avventura te-mersi che i libri de' detti autori altro non fossero cheun'impostura dello stesso Filostrato, il quale, come sap-piamo essersi fatto da altri, gli avesse ei medesimo scrit-ti e divolgati sotto i lor nomi, fingendo poscia di appog-giare ad essi i suoi favolosi racconti? Ma a dir vero nonpare che di una tale impostura possa Filostrato a ragioneessere accusato. Che sia stato al mondo un Apollonio diTiana, e ch'ei fosse avuto in conto di mago, ne abbiamoil testimonio di due scrittori anteriori a Filostrato, cioèdi Luciano (in Pseudomante) e di Apuleio (in Apolog.);e che Meragene ne scrivesse la Vita, lo afferma Origene,il quale citandone un passo mostra di averla letta (Con-tra Cels. l. 6). Innoltre Eusebio di Cesarea che lunga-mente ha trattato di Apollonio, rispondendo a Jerocleche un empio paragone tra lui e Cristo avea formato (l.contra Hieroclem), non rivoca in dubbio che siavi statoquest'uomo di cui Filostrato ed altri aveano scritta laVita. Non si può dunque muovere ragionevole dubbiocontro l'esistenza di Apollonio, e sembra certo e incon-trastabile che un uomo di tal nome vi sia già stato, checelebre si rendesse per arte magica o per l'imposture da

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esatta storia di questo uom portentoso. Aggiugne inoltredi aver letto un libro di un certo Massimo Egiense, chenarrate avea le cose da Apollonio fatte nella sua patria; enomina ancor quattro libri della Vita di Apollonio scrittida Meragene; benchè di essi ei dica di non volersi vale-re, perchè moltissime cose di Apollonio egli avea igno-rate. Ma questi libri da chi altri mai prima che da Filo-strato si veggon citati? Non potrebbe per avventura te-mersi che i libri de' detti autori altro non fossero cheun'impostura dello stesso Filostrato, il quale, come sap-piamo essersi fatto da altri, gli avesse ei medesimo scrit-ti e divolgati sotto i lor nomi, fingendo poscia di appog-giare ad essi i suoi favolosi racconti? Ma a dir vero nonpare che di una tale impostura possa Filostrato a ragioneessere accusato. Che sia stato al mondo un Apollonio diTiana, e ch'ei fosse avuto in conto di mago, ne abbiamoil testimonio di due scrittori anteriori a Filostrato, cioèdi Luciano (in Pseudomante) e di Apuleio (in Apolog.);e che Meragene ne scrivesse la Vita, lo afferma Origene,il quale citandone un passo mostra di averla letta (Con-tra Cels. l. 6). Innoltre Eusebio di Cesarea che lunga-mente ha trattato di Apollonio, rispondendo a Jerocleche un empio paragone tra lui e Cristo avea formato (l.contra Hieroclem), non rivoca in dubbio che siavi statoquest'uomo di cui Filostrato ed altri aveano scritta laVita. Non si può dunque muovere ragionevole dubbiocontro l'esistenza di Apollonio, e sembra certo e incon-trastabile che un uomo di tal nome vi sia già stato, checelebre si rendesse per arte magica o per l'imposture da

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lui usate. Ma ciò non ostante si può con ugual certezzaaffermare che la più parte de' prodigiosi racconti chetroviamo in Filostrato, son favolosi. Leggasi il citatoBruckero che chiaramente dimostra gli errori, gli ana-cronismi, le inverosimiglianze di cui tutta quella storia èripiena. A me basterà il riflettere brevemente su ciò cheabbiam veduto narrarsi di Apollonio in Roma. E in pri-mo luogo Filostrato ci rappresenta Nerone come perse-cutore de' filosofi, di che non abbiamo alcun cenno intutti gli antichi, i quali pure sì minutamente ci han rac-contate le azioni tutte o tutti i pazzi capricci di questoimperadore; anzi da essi abbiamo che Nerone fu favo-reggiatore de' maghi, e dell'opera loro si valse (Svet. inNer. c. 34; Plin. Hist. l. 30, c. 2). Inoltre da ciò che narraFilostrato, si raccoglie che Apollonio dovette venire aRoma l'an. 62. Or Telesino non fu già console inquell'anno, come dice Filostrato, ma solo quattro anniappresso. L'ecclissi ancora che secondo Filostrato allorsi vide, non potè accadere in quell'anno, ma l'an. 59, ol'an. 64. Ma assai più che tutti questi argomenti che siposson vedere più ampiamente svolti dal Bruckero, epiù che molte altre ragioni che da altri autori dallo stes-so Bruckero allegati si arrecano a provare quanto men-zognera e favolosa sia la storia di Filostrato, più assai,dico, a me pare che giovi a mostrarcene l'impostura il ri-flettere all'alto silenzio che tengono intorno ad Apollo-nio tutti gli scrittori di questa età. Se Apollonio fosseveramente venuto a Roma nel regno di Nerone, e viavesse operato que' portentosi prodigj che racconta Filo-

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lui usate. Ma ciò non ostante si può con ugual certezzaaffermare che la più parte de' prodigiosi racconti chetroviamo in Filostrato, son favolosi. Leggasi il citatoBruckero che chiaramente dimostra gli errori, gli ana-cronismi, le inverosimiglianze di cui tutta quella storia èripiena. A me basterà il riflettere brevemente su ciò cheabbiam veduto narrarsi di Apollonio in Roma. E in pri-mo luogo Filostrato ci rappresenta Nerone come perse-cutore de' filosofi, di che non abbiamo alcun cenno intutti gli antichi, i quali pure sì minutamente ci han rac-contate le azioni tutte o tutti i pazzi capricci di questoimperadore; anzi da essi abbiamo che Nerone fu favo-reggiatore de' maghi, e dell'opera loro si valse (Svet. inNer. c. 34; Plin. Hist. l. 30, c. 2). Inoltre da ciò che narraFilostrato, si raccoglie che Apollonio dovette venire aRoma l'an. 62. Or Telesino non fu già console inquell'anno, come dice Filostrato, ma solo quattro anniappresso. L'ecclissi ancora che secondo Filostrato allorsi vide, non potè accadere in quell'anno, ma l'an. 59, ol'an. 64. Ma assai più che tutti questi argomenti che siposson vedere più ampiamente svolti dal Bruckero, epiù che molte altre ragioni che da altri autori dallo stes-so Bruckero allegati si arrecano a provare quanto men-zognera e favolosa sia la storia di Filostrato, più assai,dico, a me pare che giovi a mostrarcene l'impostura il ri-flettere all'alto silenzio che tengono intorno ad Apollo-nio tutti gli scrittori di questa età. Se Apollonio fosseveramente venuto a Roma nel regno di Nerone, e viavesse operato que' portentosi prodigj che racconta Filo-

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strato, e molto più quegli altri ancora più strani che a'tempi di Domiziano vedremo di lui narrarsi, sarebbeegli stato possibile che di tanti scrittori che abbiam, del-la storia di questo secolo, niuno ne facesse parola? Conquanta esattezza ci hanno esposta la vita di Nerone Taci-to e Svetonio; e questi singolarmente quanto è minutone' suoi racconti? E nondimeno di Apollonio non vi sitrova menzione alcuna. Plinio impiega tutto il libro 30della sua Storia a parlare della magia, ei dovea certoaver conosciuto Apollonio, quando venne a Roma sottoNerone; e pur di Apollonio ei non fa motto. Plinio ilgiovane era in Roma a' tempi di Domiziano, quando sidice che Apollonio vi fece ritorno, e vi operò cose sìprodigiose; e nondimeno in niuna delle tante sue Letterenon vedesi nominato un uom sì famoso. E di tanti poetiche scrissero a questa età, è egli possibile che niuno toc-casse un argomento in cui la poetica fantasia dovea sìfacilmente trovare di che accendersi ed occuparsi? Io soche l'argomento negativo non è troppo valevole a com-battere la verità di un fatto; ma in questa occasione, ovesi tratta di cose sì maravigliose, il vederle taciute da tuttiquegli autori che avrebbon dovuto, direi quasi, necessa-riamente trattarne, il vederle narrate solo da un autoretroppo posteriore di età a' tempi di cui ragiona, e il ve-derle narrate con tante contradizioni e inverisomiglian-ze, a me par che abbia tal forza che possa bastarci a ri-gettar francamente tutto questo racconto, e a riputar fa-volosa la venuta di Apollonio a Roma, e tutto ciò che sipretende esservi da lui stato operato.

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strato, e molto più quegli altri ancora più strani che a'tempi di Domiziano vedremo di lui narrarsi, sarebbeegli stato possibile che di tanti scrittori che abbiam, del-la storia di questo secolo, niuno ne facesse parola? Conquanta esattezza ci hanno esposta la vita di Nerone Taci-to e Svetonio; e questi singolarmente quanto è minutone' suoi racconti? E nondimeno di Apollonio non vi sitrova menzione alcuna. Plinio impiega tutto il libro 30della sua Storia a parlare della magia, ei dovea certoaver conosciuto Apollonio, quando venne a Roma sottoNerone; e pur di Apollonio ei non fa motto. Plinio ilgiovane era in Roma a' tempi di Domiziano, quando sidice che Apollonio vi fece ritorno, e vi operò cose sìprodigiose; e nondimeno in niuna delle tante sue Letterenon vedesi nominato un uom sì famoso. E di tanti poetiche scrissero a questa età, è egli possibile che niuno toc-casse un argomento in cui la poetica fantasia dovea sìfacilmente trovare di che accendersi ed occuparsi? Io soche l'argomento negativo non è troppo valevole a com-battere la verità di un fatto; ma in questa occasione, ovesi tratta di cose sì maravigliose, il vederle taciute da tuttiquegli autori che avrebbon dovuto, direi quasi, necessa-riamente trattarne, il vederle narrate solo da un autoretroppo posteriore di età a' tempi di cui ragiona, e il ve-derle narrate con tante contradizioni e inverisomiglian-ze, a me par che abbia tal forza che possa bastarci a ri-gettar francamente tutto questo racconto, e a riputar fa-volosa la venuta di Apollonio a Roma, e tutto ciò che sipretende esservi da lui stato operato.

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V. Non è dunque appoggiata a bastevolefondamento la persecuzione mossa contro a'filosofi, di cui Filostrato incolpa Nerone.Anzi il Bruckero vorrebbe persuaderci che

questo imperadore fosse lor favorevole (t. 2, p. 467,544), perciocchè egli dice che per ordine di Agrippinasua madre egli ebbe a suoi maestri non solo Seneca, diche non vi ha luogo a dubbio, ma ancora Cheremonestoico e Alessandro Egeo peripatetico. Ma egli non pro-va che coll'autorità di Suida scrittor troppo recente, per-chè gli si debba dar fede, se i più antichi gli son contrarj.Ora Svetonio chiaramente racconta (in Ner. c. 52), cheAgrippina distolse Nerone da' filosofici studi, facendo-gli credere che ad uom destinato a regnare essi non era-no opportuni. E Seneca sembra che dato fosse a Neroneper maestro di eloquenza anzichè di filosofia; percioc-chè lo stesso Svetonio soggiugne che "Seneca per farsipiù lungamente ammirar da Nerone non gli permise illeggere gli antichi oratori"; e Tacito ancora parla di Se-neca come di precettor d'eloquenza (l. 13 Ann. c. 2).Non par dunque probabile che Agrippina desse a Nero-ne maestri di quella scienza cui ella non giudicava a unimperador conveniente. Ma se Nerone non fu nè coltiva-tore della filosofia, nè protettor de' filosofi, non trovia-mo nemmeno, come si è detto, ch'egli contro di essi par-ticolarmente volgesse il suo sdegno; e se alcuni di lorofurono per suo ordine uccisi, come fra gli altri avvennea Seneca, ciò non fu perchè essi fosser filosofi, ma per-chè Nerone contro di ogni ordine incrudeliva senza ri-

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Condotta tenuta da Nerone.

V. Non è dunque appoggiata a bastevolefondamento la persecuzione mossa contro a'filosofi, di cui Filostrato incolpa Nerone.Anzi il Bruckero vorrebbe persuaderci che

questo imperadore fosse lor favorevole (t. 2, p. 467,544), perciocchè egli dice che per ordine di Agrippinasua madre egli ebbe a suoi maestri non solo Seneca, diche non vi ha luogo a dubbio, ma ancora Cheremonestoico e Alessandro Egeo peripatetico. Ma egli non pro-va che coll'autorità di Suida scrittor troppo recente, per-chè gli si debba dar fede, se i più antichi gli son contrarj.Ora Svetonio chiaramente racconta (in Ner. c. 52), cheAgrippina distolse Nerone da' filosofici studi, facendo-gli credere che ad uom destinato a regnare essi non era-no opportuni. E Seneca sembra che dato fosse a Neroneper maestro di eloquenza anzichè di filosofia; percioc-chè lo stesso Svetonio soggiugne che "Seneca per farsipiù lungamente ammirar da Nerone non gli permise illeggere gli antichi oratori"; e Tacito ancora parla di Se-neca come di precettor d'eloquenza (l. 13 Ann. c. 2).Non par dunque probabile che Agrippina desse a Nero-ne maestri di quella scienza cui ella non giudicava a unimperador conveniente. Ma se Nerone non fu nè coltiva-tore della filosofia, nè protettor de' filosofi, non trovia-mo nemmeno, come si è detto, ch'egli contro di essi par-ticolarmente volgesse il suo sdegno; e se alcuni di lorofurono per suo ordine uccisi, come fra gli altri avvennea Seneca, ciò non fu perchè essi fosser filosofi, ma per-chè Nerone contro di ogni ordine incrudeliva senza ri-

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Condotta tenuta da Nerone.

guardo.

VI. Il primo tra gl'imperadori, che a' filosofisi mostrasse nimico, fu quegli da cui menoessi avrebbon dovuto aspettarlo, cioè Vespa-siano ottimo principe, e, come altrove ab-

biam detto, fomentator degli studj e protettor de' dotti.Ma della severità contro di essi usata da Vespasiano i fi-losofi stessi furono in colpa. Costoro per una cotal filo-sofica alterigia avvezzi a mordere e a riprender pubbli-camente i vizj de' precedenti imperadori, usavano delmedesimo stile per riguardo a Vespasiano che pur tantoera da essi diverso. Egli, come narra Svetonio (in Vesp.c. 13), soffrì pazientemente la loro audacia, e singolar-mente dissimulò per lungo tempo l'insoffribile tracotan-za dello stoico Elvidio Prisco che anche essendo pretorenon cessava in ogni maniera di mordere e d'insultar Ve-spasiano; e costretto finalmente a proferire contro di luisentenza di morte, n'ebbe poi pentimento, e mandò ordi-ne che si soprassedesse dall'eseguirla, ma inutilmente,poichè se gli fece credere che fosse già stato ucciso, e lasentenza frattanto fu prontamente eseguita (ib. c. 15;Dio l. 66). Questo esempio di necessaria severità non fubastevole a raffrenar l'ardire de' superbi filosofi; e moltifra essi, e singolarmente Demetrio soprannominato Ci-nico, non cessava di lacerare indegnamente la fama e ilnome di Vespasiano, il qual finalmente ordinò che tutti,trattone Mausonio, uscisser di Roma, e in isole abban-

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Vespasianoli caccia daRoma.

guardo.

VI. Il primo tra gl'imperadori, che a' filosofisi mostrasse nimico, fu quegli da cui menoessi avrebbon dovuto aspettarlo, cioè Vespa-siano ottimo principe, e, come altrove ab-

biam detto, fomentator degli studj e protettor de' dotti.Ma della severità contro di essi usata da Vespasiano i fi-losofi stessi furono in colpa. Costoro per una cotal filo-sofica alterigia avvezzi a mordere e a riprender pubbli-camente i vizj de' precedenti imperadori, usavano delmedesimo stile per riguardo a Vespasiano che pur tantoera da essi diverso. Egli, come narra Svetonio (in Vesp.c. 13), soffrì pazientemente la loro audacia, e singolar-mente dissimulò per lungo tempo l'insoffribile tracotan-za dello stoico Elvidio Prisco che anche essendo pretorenon cessava in ogni maniera di mordere e d'insultar Ve-spasiano; e costretto finalmente a proferire contro di luisentenza di morte, n'ebbe poi pentimento, e mandò ordi-ne che si soprassedesse dall'eseguirla, ma inutilmente,poichè se gli fece credere che fosse già stato ucciso, e lasentenza frattanto fu prontamente eseguita (ib. c. 15;Dio l. 66). Questo esempio di necessaria severità non fubastevole a raffrenar l'ardire de' superbi filosofi; e moltifra essi, e singolarmente Demetrio soprannominato Ci-nico, non cessava di lacerare indegnamente la fama e ilnome di Vespasiano, il qual finalmente ordinò che tutti,trattone Mausonio, uscisser di Roma, e in isole abban-

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Vespasianoli caccia daRoma.

donate rilegò i due tra essi più rei, Demetrio, e Ostilio(Dio ib.).E perchè Demetrio vantavasi di non voler ub-bidire, l'imperadore mandò chi in suo nome così gli di-cesse: "Tu usi pur di ogni arte per costringermi a dartimorte: ma io non uccido un cane che abbaia" (Dio ib.;Svet. c. 13). Non vuolsi dunque incolpar Vespasiano perl'esilio a cui dannò i filosofi, i quali anzi sarebbono dalui stati onorati e protetti, se non ne avessero coll'ecces-siva loro alterigia provocato lo sdegno.

VII. Presto nondimeno si rividero in Roma ifilosofi, o perchè Vespasiano contento diaverne domato l'orgoglio loro il permettes-se, o perchè, lui morto, essi credessero che

niuno dovesse loro impedirlo. Certo molti ve n'avea inRoma sotto l'impero di Domiziano. Ma questi che con-tro ogni ordine di persone si mostrava crudele, non ri-sparmiò punto i filosofi, e molti di essi, solo perchè at-tendevano a' filosofici studj, furon dannati a morte (Diol. 67), e tutti poscia cacciati non da Roma solo, ma datutta l'Italia (Dio ib. Svet. in Domit. c. 10); e tra essi fu-rono singolarmente Dione Grisostomo ed Epitteto, de'quali a suo luogo ragioneremo. A questa occasione Filo-strato ci riconduce sulla scena Apollonio Tianeo, e conuna tediosa prolissità ci racconta che quest'uom di pro-digi, dopo avere corse le provincie del romano imperoper sollevarle contro di Domiziano, citato finalmente etratto a Roma a rendervi ragione della sua condotta,

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Presto vi fanno ritor-no.

donate rilegò i due tra essi più rei, Demetrio, e Ostilio(Dio ib.).E perchè Demetrio vantavasi di non voler ub-bidire, l'imperadore mandò chi in suo nome così gli di-cesse: "Tu usi pur di ogni arte per costringermi a dartimorte: ma io non uccido un cane che abbaia" (Dio ib.;Svet. c. 13). Non vuolsi dunque incolpar Vespasiano perl'esilio a cui dannò i filosofi, i quali anzi sarebbono dalui stati onorati e protetti, se non ne avessero coll'ecces-siva loro alterigia provocato lo sdegno.

VII. Presto nondimeno si rividero in Roma ifilosofi, o perchè Vespasiano contento diaverne domato l'orgoglio loro il permettes-se, o perchè, lui morto, essi credessero che

niuno dovesse loro impedirlo. Certo molti ve n'avea inRoma sotto l'impero di Domiziano. Ma questi che con-tro ogni ordine di persone si mostrava crudele, non ri-sparmiò punto i filosofi, e molti di essi, solo perchè at-tendevano a' filosofici studj, furon dannati a morte (Diol. 67), e tutti poscia cacciati non da Roma solo, ma datutta l'Italia (Dio ib. Svet. in Domit. c. 10); e tra essi fu-rono singolarmente Dione Grisostomo ed Epitteto, de'quali a suo luogo ragioneremo. A questa occasione Filo-strato ci riconduce sulla scena Apollonio Tianeo, e conuna tediosa prolissità ci racconta che quest'uom di pro-digi, dopo avere corse le provincie del romano imperoper sollevarle contro di Domiziano, citato finalmente etratto a Roma a rendervi ragione della sua condotta,

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Presto vi fanno ritor-no.

chiuso in carcere, poscia venuto innanzi all'imperadore,con tanta fermezza ribattè le accuse a lui date, e con sìgrande e sovrumana costanza parlò a Domiziano, chequesti ne fu sorpreso, anzi atterrito; e che Apollonio,dopo aver protestato che invano si sarebbe tentato di te-nerlo prigione, scomparve improvvisamente, e quasi altempo medesimo trovossi in Pozzuoli. Ma non giova iltrattenersi più oltre a confutare cotai romanzeschi prodi-gi; poichè già abbiam poc'anzi mostrato qual fede sidebba alla narrazion di Filostrato.

VIII. Alla morte di Domiziano probabil-mente fecero i filosofi ritorno a Roma, econvien dire che o Nerva, o Traiano rivo-casser l'editto che contro di essi da Domi-ziano erasi pubblicato. In fatti Plinio il gio-

vane tra le lodi che dà a Traiano, non tace quella delladegnazione con cui ei riceveva i maestri della sapienza(Pan. c. 47), col qual nome sembra ch'egli intenda i filo-sofi. Questi dunque dovetter vivere tranquilli e onorati,finchè visse Traiano, e il lor numero dovette quindi ac-crescersi molto. Non così regnando Adriano, di cui giàabbiam veduto qual capriccioso contegno tenesse versode' dotti; perciocchè, mentre voleva pure mostrarsi pro-tettor delle scienze, geloso al medesimo tempo di nonessere superato in sapere, cercava invidiosamente di op-primer coloro co' quali temeva di non poter reggere alparagone. Già ne abbiam recato alcuni esempj nel primo

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Loro condi-zione sotto Traiano e Adriano.

chiuso in carcere, poscia venuto innanzi all'imperadore,con tanta fermezza ribattè le accuse a lui date, e con sìgrande e sovrumana costanza parlò a Domiziano, chequesti ne fu sorpreso, anzi atterrito; e che Apollonio,dopo aver protestato che invano si sarebbe tentato di te-nerlo prigione, scomparve improvvisamente, e quasi altempo medesimo trovossi in Pozzuoli. Ma non giova iltrattenersi più oltre a confutare cotai romanzeschi prodi-gi; poichè già abbiam poc'anzi mostrato qual fede sidebba alla narrazion di Filostrato.

VIII. Alla morte di Domiziano probabil-mente fecero i filosofi ritorno a Roma, econvien dire che o Nerva, o Traiano rivo-casser l'editto che contro di essi da Domi-ziano erasi pubblicato. In fatti Plinio il gio-

vane tra le lodi che dà a Traiano, non tace quella delladegnazione con cui ei riceveva i maestri della sapienza(Pan. c. 47), col qual nome sembra ch'egli intenda i filo-sofi. Questi dunque dovetter vivere tranquilli e onorati,finchè visse Traiano, e il lor numero dovette quindi ac-crescersi molto. Non così regnando Adriano, di cui giàabbiam veduto qual capriccioso contegno tenesse versode' dotti; perciocchè, mentre voleva pure mostrarsi pro-tettor delle scienze, geloso al medesimo tempo di nonessere superato in sapere, cercava invidiosamente di op-primer coloro co' quali temeva di non poter reggere alparagone. Già ne abbiam recato alcuni esempj nel primo

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Loro condi-zione sotto Traiano e Adriano.

capo di questo libro, e più chiaramente il vedremo par-lando de' filosofi che sotto il suo impero fiorirono inRoma. Molti nondimeno allora se ne contavano celebripel lor sapere; i quali molto più furono poscia onorati altempo di Antonino Pio successor di Adriano, e grandeprotettor de' filosofi, come nel seguente libro dovremvedere.

IX. Or venendo a parlare di ciascheduno de'più illustri filosofi di questa età, e di quellisingolarmente che si renderono celebri co'loro scritti, il primo che ci si fa innanzi, è

Seneca, intorno a cui dovrem trattenerci alquanto a lun-go, perchè e la vita e i costumi e le opere ci offrironomolte questioni che voglionsi diligentemente esaminare.Lucio Anneo Seneca nacque, in Cordova da Marco Se-neca il retore di cui già abiam parlato, e da Elvia, a cuiposcia egli dal suo esilio scrisse un libro di Consolazio-ne. E poichè egli stesso racconti che la sua gioventùcadde ne' tempi di Tiberio (ep. 108), raccogliesi ch'einacque nel regno d'Augusto, e come conghiettura diLipsio (Vita Sen. c. 2), quindici anni in circa innanzi lamorte di questo imperadore. Egli era ancora bambinoquando fu portato a Roma (Consol. ad Helv. c. 17); nènoi troviamo che poscia ei più ne partisse, se non perl'esilio, o per qualche viaggio che intraprese; onde pos-siam noi pure a ragione annoverarlo tra i nostri scrittori,poiche' visse sempre tra noi, come a ragione lo annove-

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Compendiodella vita diSeneca.

capo di questo libro, e più chiaramente il vedremo par-lando de' filosofi che sotto il suo impero fiorirono inRoma. Molti nondimeno allora se ne contavano celebripel lor sapere; i quali molto più furono poscia onorati altempo di Antonino Pio successor di Adriano, e grandeprotettor de' filosofi, come nel seguente libro dovremvedere.

IX. Or venendo a parlare di ciascheduno de'più illustri filosofi di questa età, e di quellisingolarmente che si renderono celebri co'loro scritti, il primo che ci si fa innanzi, è

Seneca, intorno a cui dovrem trattenerci alquanto a lun-go, perchè e la vita e i costumi e le opere ci offrironomolte questioni che voglionsi diligentemente esaminare.Lucio Anneo Seneca nacque, in Cordova da Marco Se-neca il retore di cui già abiam parlato, e da Elvia, a cuiposcia egli dal suo esilio scrisse un libro di Consolazio-ne. E poichè egli stesso racconti che la sua gioventùcadde ne' tempi di Tiberio (ep. 108), raccogliesi ch'einacque nel regno d'Augusto, e come conghiettura diLipsio (Vita Sen. c. 2), quindici anni in circa innanzi lamorte di questo imperadore. Egli era ancora bambinoquando fu portato a Roma (Consol. ad Helv. c. 17); nènoi troviamo che poscia ei più ne partisse, se non perl'esilio, o per qualche viaggio che intraprese; onde pos-siam noi pure a ragione annoverarlo tra i nostri scrittori,poiche' visse sempre tra noi, come a ragione lo annove-

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Compendiodella vita diSeneca.

rano gli Spagnuoli, perchè nacque tra loro (27). Dopo iprimi studj dell'eloquenza, ne' quali probabilmente ebbea maestro lo stesso suo padre, egli interamente si volsealla filosofia, benchè il padre ne fosse nimico, e cercas-se di distoglierlo da tale studio (ep. 108). I Pittagorici egli Stoici piacquero a Seneca sopra tutti, ed ebbe persuoi maestri Sozione tra' primi, Attalo tra secondi (ib.);e racconta egli stesso a qual maniera di vivere sobria edura si soggettasse per qualche tempo (ib.). Ciò nonostante, ei non lasciò di trattar le cause nel foro; nel cheessendo salito a gran fama, poco mancò ch'essa non glifosse fatale; perciocchè Caligola, solo perchè egli aveain sua presenza perorato con sommo valore in una causain senato, già avealo dannato a morte; e solo si astennedal fare eseguir la sentenza perchè una donna a cui eglisolea prestar fede assicurolla che Seneca già consuma-vasi di etisia e che non poteva sopravvivere lungo tem-po (Dio l. 59). La sua eloquenza gli aprì la strada a' pub-blici onori ed era egli già stato questore (Consol. adHelv. c. 17), quando la sorte, statagli finallor favorevole,se gli volse in contraria. Nel primo anno di Claudio ei furilegato nella isola di Corsica, perchè da Messalina fuaccusato allo imperadore qual complice delle disonestàdi Giulia di lui nipote (Dio l. 60; Tillem. t. 1, p. 205,

27 Molti hanno scritto che Seneca il filosofo nascesse l'anno decimo terzodell'era Crist. che combina col penultimo di Augusto. Ma ci racconta diaver veduta una cometa verso il tempo della morte di esso (Natural. Quæ-st. l. 1) e perciò dovea già allora avere un età ragionevole. Veggasi intornoa ciò l'opera più volte citata di m. Goulin (Mèm. pour servir à l'Hist. de laMèdec. an. 1775, p. 249, ec).

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rano gli Spagnuoli, perchè nacque tra loro (27). Dopo iprimi studj dell'eloquenza, ne' quali probabilmente ebbea maestro lo stesso suo padre, egli interamente si volsealla filosofia, benchè il padre ne fosse nimico, e cercas-se di distoglierlo da tale studio (ep. 108). I Pittagorici egli Stoici piacquero a Seneca sopra tutti, ed ebbe persuoi maestri Sozione tra' primi, Attalo tra secondi (ib.);e racconta egli stesso a qual maniera di vivere sobria edura si soggettasse per qualche tempo (ib.). Ciò nonostante, ei non lasciò di trattar le cause nel foro; nel cheessendo salito a gran fama, poco mancò ch'essa non glifosse fatale; perciocchè Caligola, solo perchè egli aveain sua presenza perorato con sommo valore in una causain senato, già avealo dannato a morte; e solo si astennedal fare eseguir la sentenza perchè una donna a cui eglisolea prestar fede assicurolla che Seneca già consuma-vasi di etisia e che non poteva sopravvivere lungo tem-po (Dio l. 59). La sua eloquenza gli aprì la strada a' pub-blici onori ed era egli già stato questore (Consol. adHelv. c. 17), quando la sorte, statagli finallor favorevole,se gli volse in contraria. Nel primo anno di Claudio ei furilegato nella isola di Corsica, perchè da Messalina fuaccusato allo imperadore qual complice delle disonestàdi Giulia di lui nipote (Dio l. 60; Tillem. t. 1, p. 205,

27 Molti hanno scritto che Seneca il filosofo nascesse l'anno decimo terzodell'era Crist. che combina col penultimo di Augusto. Ma ci racconta diaver veduta una cometa verso il tempo della morte di esso (Natural. Quæ-st. l. 1) e perciò dovea già allora avere un età ragionevole. Veggasi intornoa ciò l'opera più volte citata di m. Goulin (Mèm. pour servir à l'Hist. de laMèdec. an. 1775, p. 249, ec).

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610). Ma Seneca fu egli reo veramente di tal delitto? Glistorici antichi non ci han lasciato alcun monumento chepossa o assolverlo, o condannarlo. Se Seneca fuquell'onestissimo e, direi quasi, santissimo uomo, qualeda alcuni ei vien dipinto, non è probabile ch'ei si mac-chiasse di tal bruttezza. Se la virtù di Seneca non fu,come taluno ha osato di sospettare, che una ingannevoleipocrisia, non vi ha delitto che in lui non si possa teme-re. Ma del carattere di Seneca non è ancor tempo di ra-gionare. Otto anni visse in esilio; nel qual tempo oltrealcuni libri egli scrisse i celebri Epigrammi in cui diquell'isola fa una sì orrida e funesta pittura (V. t. 1 ejusOp. p. 161 ed. Elvez. 1672), che convien ben dire ch'ellafosse allora diversa da quella ch'è al presente. Richiama-tone finalmente per opera di Agrippina, e fatto tosto pre-tore, fu da lei dato per maestro al suo figliuolo Nerone(Tac. l. 12, Ann. c. 8); ed egli unito insieme col celebreAfranio Burro fu per alcun tempo felice nel tenerlo lon-tano da' vizi a cui la pessima sua indole lo inclinava (ib.l. 13, c. 2). Ma poscia Nerone ruppe ogni argine, e si ab-bandonò alla crudeltà, alla dissolutezza e a' più pazzi ca-pricci. Che Seneca fosse ancora innalzato alla dignitàconsolare, non è cosa del tutta certa, e si può vedere ciòche ha scritto su questo punto il gran panegirista di Se-neca Giusto Lipsio (Vita Sen. c. 4). Ma se egli ottennel'onore del consolato, questo non gli fu bastevole scudocontro la crudeltà di Nerone che sdegnato contro di Se-neca, divenutogli troppo importuno ed odioso, cercavaogni maniera di opprimerlo. Era già egli stato accusato a

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610). Ma Seneca fu egli reo veramente di tal delitto? Glistorici antichi non ci han lasciato alcun monumento chepossa o assolverlo, o condannarlo. Se Seneca fuquell'onestissimo e, direi quasi, santissimo uomo, qualeda alcuni ei vien dipinto, non è probabile ch'ei si mac-chiasse di tal bruttezza. Se la virtù di Seneca non fu,come taluno ha osato di sospettare, che una ingannevoleipocrisia, non vi ha delitto che in lui non si possa teme-re. Ma del carattere di Seneca non è ancor tempo di ra-gionare. Otto anni visse in esilio; nel qual tempo oltrealcuni libri egli scrisse i celebri Epigrammi in cui diquell'isola fa una sì orrida e funesta pittura (V. t. 1 ejusOp. p. 161 ed. Elvez. 1672), che convien ben dire ch'ellafosse allora diversa da quella ch'è al presente. Richiama-tone finalmente per opera di Agrippina, e fatto tosto pre-tore, fu da lei dato per maestro al suo figliuolo Nerone(Tac. l. 12, Ann. c. 8); ed egli unito insieme col celebreAfranio Burro fu per alcun tempo felice nel tenerlo lon-tano da' vizi a cui la pessima sua indole lo inclinava (ib.l. 13, c. 2). Ma poscia Nerone ruppe ogni argine, e si ab-bandonò alla crudeltà, alla dissolutezza e a' più pazzi ca-pricci. Che Seneca fosse ancora innalzato alla dignitàconsolare, non è cosa del tutta certa, e si può vedere ciòche ha scritto su questo punto il gran panegirista di Se-neca Giusto Lipsio (Vita Sen. c. 4). Ma se egli ottennel'onore del consolato, questo non gli fu bastevole scudocontro la crudeltà di Nerone che sdegnato contro di Se-neca, divenutogli troppo importuno ed odioso, cercavaogni maniera di opprimerlo. Era già egli stato accusato a

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Nerone di aver radunate immense ricchezze; di che es-sendosi Seneca discolpato presso di lui, questi che forsenon credeva ancor giunto il tempo di sfogare contro diesso il suo sdegno, dissimulò accortamente, e se gli fin-se amico e favorevole più che mai per l'addietro (Tac. l.14 Ann. c. 52, ec). Seneca però, che ben ne conosceva ilreo animo, diedesi allora per sottrarsi all'invidia a un te-nor di vita più solitario sfuggendo di essere corteggiato,e sotto pretesto or di infermità, or di studio, assai di radofacendosi veder per Roma. Ma tutto invano a calmarl'odio di Nerone a cui finalmente si presentò un'opportu-na occasione di dannarlo a morte. Nella celebre congiu-ra di Pisone, Seneca fa nominato tra' rei. Tacito ci lasciain dubbio (l. 15, c. 56, 66) se egli se ne facesse compliceveramente, o se da Natale, uno de' congiurati, fosse ca-lunniosamente accusato a Nerone per acquistarsene ilfavore, poichè si sapea quanto dall'imperadore ei fosseodiato. Comunque fosse, Seneca ancora fu avvolto nellaprocella che tanti de' principali Romani trasse in rovina.Udiamone il racconto da Tacito ch'è ben degno d'esserea questo luogo inserito.

X. "Siegue ora, dic'egli (l. 15, c. 60, ec.), lamorte di Anneo Seneca, di cui fu Nerone

lietissimo, non già ch'egli l'avesse convinto reo dellacongiura, ma perchè potè finalmente liberarsi col ferroda un uomo cui avea inutilmente cercato d'avvelenare. Ilsolo Natale avea contro lui deposto ch'egli da Pisone

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Sua morte.

Nerone di aver radunate immense ricchezze; di che es-sendosi Seneca discolpato presso di lui, questi che forsenon credeva ancor giunto il tempo di sfogare contro diesso il suo sdegno, dissimulò accortamente, e se gli fin-se amico e favorevole più che mai per l'addietro (Tac. l.14 Ann. c. 52, ec). Seneca però, che ben ne conosceva ilreo animo, diedesi allora per sottrarsi all'invidia a un te-nor di vita più solitario sfuggendo di essere corteggiato,e sotto pretesto or di infermità, or di studio, assai di radofacendosi veder per Roma. Ma tutto invano a calmarl'odio di Nerone a cui finalmente si presentò un'opportu-na occasione di dannarlo a morte. Nella celebre congiu-ra di Pisone, Seneca fa nominato tra' rei. Tacito ci lasciain dubbio (l. 15, c. 56, 66) se egli se ne facesse compliceveramente, o se da Natale, uno de' congiurati, fosse ca-lunniosamente accusato a Nerone per acquistarsene ilfavore, poichè si sapea quanto dall'imperadore ei fosseodiato. Comunque fosse, Seneca ancora fu avvolto nellaprocella che tanti de' principali Romani trasse in rovina.Udiamone il racconto da Tacito ch'è ben degno d'esserea questo luogo inserito.

X. "Siegue ora, dic'egli (l. 15, c. 60, ec.), lamorte di Anneo Seneca, di cui fu Nerone

lietissimo, non già ch'egli l'avesse convinto reo dellacongiura, ma perchè potè finalmente liberarsi col ferroda un uomo cui avea inutilmente cercato d'avvelenare. Ilsolo Natale avea contro lui deposto ch'egli da Pisone

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Sua morte.

(capo della congiura) era stato inviato a Seneca allorainfermo a dolersi con lui perchè gli vietava l'entrargli incasa, e a mostrargli che più opportuno sarebbe il coltiva-re con famigliari ragionamenti una vicendevole amici-zia; e che Seneca avea risposto cotali ragionamenti esse-re ad amendue pericolosi, la sua salvezza nondimeno di-pender da quella di Pisone. A Granio Silvano prefetto diuna delle corti pretorie si diè l'incarico di andarne a Se-neca, e chiedergli se Natale avesse parlato così, ed eglicosì risposto. Seneca in quel giorno medesimo, fossearte, o caso, era partito dalla Terra di Lavoro, e fermato-si in una sua villa a quattro miglia dalla città. Vennevisulla sera il tribuno, e la circondò di soldati; e mentreSeneca con Pompea Paolina sua moglie e con due amicisi stava cenando, recogli l'ordine di Nerone. Rispose Se-neca che Pisone avea mandato Natale a far doglianzacon lui che non gli permettesse il venirgli in casa;ch'egli erasene scusato col pretesto della sua infermità edel suo amore per la solitudine; ch'egli non avea maiavuta ragione alcuna per anteporre la salvezza di un pri-vato alla sua propria; ch'egli non era solito ad adulare:ben saperlo Nerone stesso che avea avute più frequentiprove della libertà che non della schiavitù di Seneca.Poichè il tribuno ebbe ciò riportato a Nerone in presenzadi Poppea e di Tigellino i più fidi consiglieri della suacrudeltà, egli chiede al tribuno medesimo se Senecapensi a darsi volontaria morte; a cui quegli risponde cheniun segno di timore e niuna tristezza aveagli potutoscorgere in volto. Gli comanda dunque di ritornarsene, e

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(capo della congiura) era stato inviato a Seneca allorainfermo a dolersi con lui perchè gli vietava l'entrargli incasa, e a mostrargli che più opportuno sarebbe il coltiva-re con famigliari ragionamenti una vicendevole amici-zia; e che Seneca avea risposto cotali ragionamenti esse-re ad amendue pericolosi, la sua salvezza nondimeno di-pender da quella di Pisone. A Granio Silvano prefetto diuna delle corti pretorie si diè l'incarico di andarne a Se-neca, e chiedergli se Natale avesse parlato così, ed eglicosì risposto. Seneca in quel giorno medesimo, fossearte, o caso, era partito dalla Terra di Lavoro, e fermato-si in una sua villa a quattro miglia dalla città. Vennevisulla sera il tribuno, e la circondò di soldati; e mentreSeneca con Pompea Paolina sua moglie e con due amicisi stava cenando, recogli l'ordine di Nerone. Rispose Se-neca che Pisone avea mandato Natale a far doglianzacon lui che non gli permettesse il venirgli in casa;ch'egli erasene scusato col pretesto della sua infermità edel suo amore per la solitudine; ch'egli non avea maiavuta ragione alcuna per anteporre la salvezza di un pri-vato alla sua propria; ch'egli non era solito ad adulare:ben saperlo Nerone stesso che avea avute più frequentiprove della libertà che non della schiavitù di Seneca.Poichè il tribuno ebbe ciò riportato a Nerone in presenzadi Poppea e di Tigellino i più fidi consiglieri della suacrudeltà, egli chiede al tribuno medesimo se Senecapensi a darsi volontaria morte; a cui quegli risponde cheniun segno di timore e niuna tristezza aveagli potutoscorgere in volto. Gli comanda dunque di ritornarsene, e

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d'intimargli che muoja. Fabio Rustico scrive ch'ei nonrifece la via medesima, ma che andossene al pref. Fenio,e narratogli l'ordine di Nerone, gli domandò se dovesseeseguirlo, e che fu da lui consigliato ad ubbidire; tantoeran tutti compresi da una fatal codardia, perciocchè Sil-vano stesso era uno de' congiurati e ciò non ostante ac-cresceva sempre più i delitti di Nerone, dei quali egliavea voluto fare vendetta. Non ebbe cuor nondimeno iltribuno di veder Seneca, e di parlargli; ma mandò uncenturione a dirgli che conveniva morire. Seneca senzapunto turbarsi chiede di far testamento; e vietandoglieloil centurione, si volge agli amici, e dice loro che poichènon poteva ad essi mostrarsi grato, lasciava loro ciò chesolo gli rimaneva, ma che più d'ogni altra cosa era a pre-giarsi, cioè l'immagine della sua vita; di cui se essi si ri-cordassero, eterna sarebbe stata la fama della costanteloro amicizia. E perchè tutti frattanto scioglievansi in la-grime, egli or colle parole, or colla gravità del sembian-te cercava di animarli, chiedendo loro ove fossero ora lemassime della filosofia e la fermezza con cui già datant'anni apparecchiavansi a sostener le sventure? Esserben nota la crudeltà di Nerone, e dopo avere uccisi lamadre e il fratello, altro non rimanergli che l'uccidereancora il suo aio e maestro. Poichè a tutti ebbe così fa-vellato, abbraccia la moglie, e inteneritosi alquanto laprega e la scongiura a moderare e raffrenare il dolore, ea consolarsi della perdita del marito colla memoria dellavirtuosa vita da lui menata. Ma ella si dichiara risoluta amorire, e chiede un carnefice che la uccida. Seneca allo-

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d'intimargli che muoja. Fabio Rustico scrive ch'ei nonrifece la via medesima, ma che andossene al pref. Fenio,e narratogli l'ordine di Nerone, gli domandò se dovesseeseguirlo, e che fu da lui consigliato ad ubbidire; tantoeran tutti compresi da una fatal codardia, perciocchè Sil-vano stesso era uno de' congiurati e ciò non ostante ac-cresceva sempre più i delitti di Nerone, dei quali egliavea voluto fare vendetta. Non ebbe cuor nondimeno iltribuno di veder Seneca, e di parlargli; ma mandò uncenturione a dirgli che conveniva morire. Seneca senzapunto turbarsi chiede di far testamento; e vietandoglieloil centurione, si volge agli amici, e dice loro che poichènon poteva ad essi mostrarsi grato, lasciava loro ciò chesolo gli rimaneva, ma che più d'ogni altra cosa era a pre-giarsi, cioè l'immagine della sua vita; di cui se essi si ri-cordassero, eterna sarebbe stata la fama della costanteloro amicizia. E perchè tutti frattanto scioglievansi in la-grime, egli or colle parole, or colla gravità del sembian-te cercava di animarli, chiedendo loro ove fossero ora lemassime della filosofia e la fermezza con cui già datant'anni apparecchiavansi a sostener le sventure? Esserben nota la crudeltà di Nerone, e dopo avere uccisi lamadre e il fratello, altro non rimanergli che l'uccidereancora il suo aio e maestro. Poichè a tutti ebbe così fa-vellato, abbraccia la moglie, e inteneritosi alquanto laprega e la scongiura a moderare e raffrenare il dolore, ea consolarsi della perdita del marito colla memoria dellavirtuosa vita da lui menata. Ma ella si dichiara risoluta amorire, e chiede un carnefice che la uccida. Seneca allo-

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ra e per brama ch'ella si acquistasse tal gloria, e per ti-more di lasciarla esposta al furor de' malvagj, io vi aveamostrato, le dice, come addolcir la vita; ma voi preferitealla vita un'onorevole morte; io non vel divieto: moria-mo amendue con uguale coraggio, e voi con gloria an-cora maggiore. Ciò detto, si fanno al medesimo tempoaprire le vene. Seneca era per la vecchiezza e per la so-brietà del vivere stenuato al sommo; e uscendogli perciòil sangue assai lentamente, alle gambe ancora e a' garret-ti si fece aprire le vene. Crescendogli allora i dolori, etemendo che la presenza della moglie e la vicendevolevista de' lor tormenti potesse fiaccare il coraggio diamendue, la persuase a ritirarsi in altra stanza. Ed egli,eloquente ancora in quell'estremo, chiamati alcuni copi-sti, dettò loro quelle parole che a tutti son note, e ch'ioperciò tralascio di qui recare. Ma Nerone sì perchè nonavea alcun odio contro Paolina, si per non rendersi piùodioso colla sua crudeltà, comanda che a lei si vieti ilmorire. Perciò i liberti e gli schiavi a istanza de' soldatile stringon le braccia, e le fermano il sangue. Non ben sisa ch'ella se ne avvedesse; ma alcuni pensarono (poichèil volgo sempre crede il peggio) che finchè ella fu per-suasa che Nerone fosse implacabile, volesse morir colmarito; ma che avendo concepite migliori speranze, vo-lentieri s'inducesse a conservare la vita. Pochi anni peròella n'ebbe; nel qual tempo e non dimenticossi mai dellosposo, e col pallor del volto e delle membra tutte mo-strava quanto di sangue avesse allora perduto. Senecafrattanto accostandosi lentamente alla morte chiede a

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ra e per brama ch'ella si acquistasse tal gloria, e per ti-more di lasciarla esposta al furor de' malvagj, io vi aveamostrato, le dice, come addolcir la vita; ma voi preferitealla vita un'onorevole morte; io non vel divieto: moria-mo amendue con uguale coraggio, e voi con gloria an-cora maggiore. Ciò detto, si fanno al medesimo tempoaprire le vene. Seneca era per la vecchiezza e per la so-brietà del vivere stenuato al sommo; e uscendogli perciòil sangue assai lentamente, alle gambe ancora e a' garret-ti si fece aprire le vene. Crescendogli allora i dolori, etemendo che la presenza della moglie e la vicendevolevista de' lor tormenti potesse fiaccare il coraggio diamendue, la persuase a ritirarsi in altra stanza. Ed egli,eloquente ancora in quell'estremo, chiamati alcuni copi-sti, dettò loro quelle parole che a tutti son note, e ch'ioperciò tralascio di qui recare. Ma Nerone sì perchè nonavea alcun odio contro Paolina, si per non rendersi piùodioso colla sua crudeltà, comanda che a lei si vieti ilmorire. Perciò i liberti e gli schiavi a istanza de' soldatile stringon le braccia, e le fermano il sangue. Non ben sisa ch'ella se ne avvedesse; ma alcuni pensarono (poichèil volgo sempre crede il peggio) che finchè ella fu per-suasa che Nerone fosse implacabile, volesse morir colmarito; ma che avendo concepite migliori speranze, vo-lentieri s'inducesse a conservare la vita. Pochi anni peròella n'ebbe; nel qual tempo e non dimenticossi mai dellosposo, e col pallor del volto e delle membra tutte mo-strava quanto di sangue avesse allora perduto. Senecafrattanto accostandosi lentamente alla morte chiede a

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Stazio Anneo suo fido amico e medico illustre, che dia-gli a bere il veleno da lui provveduto molti anni addie-tro, con cui uccidevansi i rei in Atene. Gli fu recato, e ilbevve; ma avendo già fredde le membra gli fu inutile.Entrò poscia in un caldo bagno, e spruzzando d'acqua ivicini schiavi disse ch'egli sacrificava a Giove Liberato-re. Finalmente fu recato entro una stufa il cui vapor sof-focollo. Il cadavero fu arso senza pompa alcuna, comeegli stesso avea già prescritto in un codicillo, pensandoalla sua morte nel tempo ancora della più lieta fortuna".

XI. Cosi finì di vivere Seneca, uomo a cuila singolarità del carattere morale non menoche letterario ha assicurata presso a' posteritutti un'eterna memoria; ma che al medesi-mo tempo, se gli ha acquistati ammiratori e

lodatori grandissimi, non meno ancora ha contro di luirisvegliati nimici e riprensori in gran numero. Comin-ciam dall'esaminare ciò che appartiene al suo caratteremorale (28). Giusto Lipsio ne dice tal lodi che, se da luidipendesse, per poco, io credo, nol vedremmo collocatosopra gli altari. Egli ci rappresenta Seneca come uomodi una sobrietà e frugalità senza esempio, che sta nellacorte senza contrarne alcun vizio, ch'è a fianco de' prin-

28 Il sig. Ab. Lampillas dalla p. 137 fino alla pag. 214 del primo suo tomo sioccupa in fare l'apologia del carattere morale di Seneca, e in ribattere ciòche ne ho scritto. Io non impiegherò pure una linea in difendere la mia opi-nione. In questo tratto della mia Storia i giudici hanno le accuse; in quellodell'Ab. Lampillas han le difese. Essi decidano, e diano la sentenza.

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Diversi giu-dizj intornoal caratteremorale diSeneca.

Stazio Anneo suo fido amico e medico illustre, che dia-gli a bere il veleno da lui provveduto molti anni addie-tro, con cui uccidevansi i rei in Atene. Gli fu recato, e ilbevve; ma avendo già fredde le membra gli fu inutile.Entrò poscia in un caldo bagno, e spruzzando d'acqua ivicini schiavi disse ch'egli sacrificava a Giove Liberato-re. Finalmente fu recato entro una stufa il cui vapor sof-focollo. Il cadavero fu arso senza pompa alcuna, comeegli stesso avea già prescritto in un codicillo, pensandoalla sua morte nel tempo ancora della più lieta fortuna".

XI. Cosi finì di vivere Seneca, uomo a cuila singolarità del carattere morale non menoche letterario ha assicurata presso a' posteritutti un'eterna memoria; ma che al medesi-mo tempo, se gli ha acquistati ammiratori e

lodatori grandissimi, non meno ancora ha contro di luirisvegliati nimici e riprensori in gran numero. Comin-ciam dall'esaminare ciò che appartiene al suo caratteremorale (28). Giusto Lipsio ne dice tal lodi che, se da luidipendesse, per poco, io credo, nol vedremmo collocatosopra gli altari. Egli ci rappresenta Seneca come uomodi una sobrietà e frugalità senza esempio, che sta nellacorte senza contrarne alcun vizio, ch'è a fianco de' prin-

28 Il sig. Ab. Lampillas dalla p. 137 fino alla pag. 214 del primo suo tomo sioccupa in fare l'apologia del carattere morale di Seneca, e in ribattere ciòche ne ho scritto. Io non impiegherò pure una linea in difendere la mia opi-nione. In questo tratto della mia Storia i giudici hanno le accuse; in quellodell'Ab. Lampillas han le difese. Essi decidano, e diano la sentenza.

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Diversi giu-dizj intornoal caratteremorale diSeneca.

cipi senza adularli, che veglia continuamente sopra sestesso, che ogni sera esamina scrupolosamente la suacoscienza, che pieno è di rispetto e di sommission versoDio, ch'è povero fra le ricchezze, umile fra gli onori; chetutte ha in somma e nel grado più eccelso non sol le mo-rali, ma quasi ancora le cristiane virtù (V. I. Manuduct.ad stoic. philos. Diss. 18, et Vit. Sen. c. 7). Altri al con-trario ci parlan di Seneca come di un furbo, d'un ipocri-ta, d'un impostore che sotto l'ingannevole apparenzad'un'austera virtù celasse i più infami e abbominevolivizj. Fin da quando egli vivea, Suilio accusollo d'invidiacontro coloro che celebri si rendevano per la loro elo-quenza, di adulterio commesso con Giulia figlia di Ger-manico, di enormi usure, e d'immense ricchezze da luiammassate col volgere a suo pro i testamenti e i beni de'pupilli (Tac. l. 13 Ann. c. 42). Ma poco conto è a faredelle accuse che si veggon date a que' tempi, in cui i reiugualmente che gl'innocenti venivan tratti in giudizio.Dione è il primo fra gli storici antichi che ci abbia parla-to di Seneca come di uno de' peggiori uomini che maivivessero. "Seneca dic'egli (l. 61), fu accusato, come dialtri delitti, così singolarmente di adulterio con Agrippi-na. Perciocchè non contento di aver commesso lo stessodelitto con Giulia, nè fatto punto più cauto dal suo esi-lio, ardì di rinnovarlo ancora con una tal donna, e madredi un tal figlio. Nè in ciò solo, ma quasi in ogn'altra cosaci sembrò operare in maniera del tutto opposta alla filo-sofia ch'egli insegnava. Perciocchè, mentre biasimava latirannia, egli era istruttor d'un tiranno; inveiva contro

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cipi senza adularli, che veglia continuamente sopra sestesso, che ogni sera esamina scrupolosamente la suacoscienza, che pieno è di rispetto e di sommission versoDio, ch'è povero fra le ricchezze, umile fra gli onori; chetutte ha in somma e nel grado più eccelso non sol le mo-rali, ma quasi ancora le cristiane virtù (V. I. Manuduct.ad stoic. philos. Diss. 18, et Vit. Sen. c. 7). Altri al con-trario ci parlan di Seneca come di un furbo, d'un ipocri-ta, d'un impostore che sotto l'ingannevole apparenzad'un'austera virtù celasse i più infami e abbominevolivizj. Fin da quando egli vivea, Suilio accusollo d'invidiacontro coloro che celebri si rendevano per la loro elo-quenza, di adulterio commesso con Giulia figlia di Ger-manico, di enormi usure, e d'immense ricchezze da luiammassate col volgere a suo pro i testamenti e i beni de'pupilli (Tac. l. 13 Ann. c. 42). Ma poco conto è a faredelle accuse che si veggon date a que' tempi, in cui i reiugualmente che gl'innocenti venivan tratti in giudizio.Dione è il primo fra gli storici antichi che ci abbia parla-to di Seneca come di uno de' peggiori uomini che maivivessero. "Seneca dic'egli (l. 61), fu accusato, come dialtri delitti, così singolarmente di adulterio con Agrippi-na. Perciocchè non contento di aver commesso lo stessodelitto con Giulia, nè fatto punto più cauto dal suo esi-lio, ardì di rinnovarlo ancora con una tal donna, e madredi un tal figlio. Nè in ciò solo, ma quasi in ogn'altra cosaci sembrò operare in maniera del tutto opposta alla filo-sofia ch'egli insegnava. Perciocchè, mentre biasimava latirannia, egli era istruttor d'un tiranno; inveiva contro

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coloro che stavano a fianco de' principi, ed egli non maipartivasi dalla corte; scherniva gli adulatori, ed egli adu-lava talmente Messalina e i liberti di Claudio, chenell'isola di Corsica un intero libro scrisse in lor lode,cui poscia cancellò per vergogna. Riprendeva i ricchi,egli che avea un capitale di trenta milioni di sesterzj(ossia di settecento cinquantamila scudi rom.), e con-dannava l'altrui lusso egli che avea cinquecento treppie-di di cedro co' piè di avorio somiglianti e uguali tra loro,de' quali usava alla mensa. Delle quali cose gli altri de-litti di tal natura di lui commessi si possono intenderefacilmente ec.". Così continua Dione ad accennare altriinfami delitti di Seneca, ch'io stimo meglio di passaresotto silenzio. Ma Dione, dicono i difensori di Seneca, èuno storico prevenuto contro di questo illustre filosofo,e che usa ogni mezzo per oscurarne la fama. Io nol nie-go, e perciò dell'autorità di Dione non farò alcun uso, ead esaminare il carattere di Seneca non mi varrò che diTacito, a cui non si può certo rimproverare un animo alui avverso, come è manifesto dalla maniera con cui nenarra la morte, e più ancora varrommi delle opere stessedi Seneca, a cui in questa parte niuno, io credo, negheràfede.

XII. E per ciò che appartiene a' delitticommessi da Seneca con Agrippina e conGiulia, non vi è certo argomento che bastia provarnelo reo. Ma non è ugualmente fa-

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Esame della condotta te-nuta con Claudio e con Nerone.

coloro che stavano a fianco de' principi, ed egli non maipartivasi dalla corte; scherniva gli adulatori, ed egli adu-lava talmente Messalina e i liberti di Claudio, chenell'isola di Corsica un intero libro scrisse in lor lode,cui poscia cancellò per vergogna. Riprendeva i ricchi,egli che avea un capitale di trenta milioni di sesterzj(ossia di settecento cinquantamila scudi rom.), e con-dannava l'altrui lusso egli che avea cinquecento treppie-di di cedro co' piè di avorio somiglianti e uguali tra loro,de' quali usava alla mensa. Delle quali cose gli altri de-litti di tal natura di lui commessi si possono intenderefacilmente ec.". Così continua Dione ad accennare altriinfami delitti di Seneca, ch'io stimo meglio di passaresotto silenzio. Ma Dione, dicono i difensori di Seneca, èuno storico prevenuto contro di questo illustre filosofo,e che usa ogni mezzo per oscurarne la fama. Io nol nie-go, e perciò dell'autorità di Dione non farò alcun uso, ead esaminare il carattere di Seneca non mi varrò che diTacito, a cui non si può certo rimproverare un animo alui avverso, come è manifesto dalla maniera con cui nenarra la morte, e più ancora varrommi delle opere stessedi Seneca, a cui in questa parte niuno, io credo, negheràfede.

XII. E per ciò che appartiene a' delitticommessi da Seneca con Agrippina e conGiulia, non vi è certo argomento che bastia provarnelo reo. Ma non è ugualmente fa-

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Esame della condotta te-nuta con Claudio e con Nerone.

cile discolparlo di avere avuto parte nel più orrendo mi-sfatto del crudele Nerone, cioè nell'uccision di Agrippi-na sua madre. Dione apertamente dice che a ciò fare fuesortato da Seneca (l. 61); ma non si creda a Dione. Ta-cito stesso racconta (l. 14 Ann. c. 7) che Nerone avendosu ciò richiesto del lor parere Seneca e Burro, "quegliche fin allora era stato il più pronto nel consigliare, sivolse tacendo a Burro, come se gli chiedesse se dovessecomandarsi a' soldati di ucciderla"; e poichè Neroneebbe dato il fatale comando, Seneca non disse motto adistoglierlo da si barbaro attentato. Nè pago di avere colsuo silenzio almeno approvato un sì nero delitto, scrissein nome di Nerone una lettera al senato, in cui per giu-stificarne la morte si rimproveravano ad Agrippina i piùgravi misfatti, e a lei singolarmente si attribuivano tutti idisordini dell'impero di Claudio, conchiudendo che labuona sorte della repubblica aveala tratta a morte (ib. c.11). Che Seneca fosse l'autor di questa lettera, non soloTacito, ma Quintiliano ancora affermalo chiaramente (l.8, c. 5). Or questo proceder di Seneca non ci offre, pervero dire, una troppo vantaggiosa idea del suo carattere.Egli che della gratitudine a' beneficj scrisse sette libripregiati assai, dovea egli così bruttamente dimenticareche ad Agrippina era debitore e del richiamo dall'esilio,e della dignità di pretore, e degli onori di cui godeva incorte, e delle ricchezze perciò radunate? Egli, censor sìsevero de' delitti altrui, dovea egli approvare e difendereun parricidio? Innoltre io crederò, se così si vuole, cheDione sia calunniatore, allor quando racconta (l. c.) che

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cile discolparlo di avere avuto parte nel più orrendo mi-sfatto del crudele Nerone, cioè nell'uccision di Agrippi-na sua madre. Dione apertamente dice che a ciò fare fuesortato da Seneca (l. 61); ma non si creda a Dione. Ta-cito stesso racconta (l. 14 Ann. c. 7) che Nerone avendosu ciò richiesto del lor parere Seneca e Burro, "quegliche fin allora era stato il più pronto nel consigliare, sivolse tacendo a Burro, come se gli chiedesse se dovessecomandarsi a' soldati di ucciderla"; e poichè Neroneebbe dato il fatale comando, Seneca non disse motto adistoglierlo da si barbaro attentato. Nè pago di avere colsuo silenzio almeno approvato un sì nero delitto, scrissein nome di Nerone una lettera al senato, in cui per giu-stificarne la morte si rimproveravano ad Agrippina i piùgravi misfatti, e a lei singolarmente si attribuivano tutti idisordini dell'impero di Claudio, conchiudendo che labuona sorte della repubblica aveala tratta a morte (ib. c.11). Che Seneca fosse l'autor di questa lettera, non soloTacito, ma Quintiliano ancora affermalo chiaramente (l.8, c. 5). Or questo proceder di Seneca non ci offre, pervero dire, una troppo vantaggiosa idea del suo carattere.Egli che della gratitudine a' beneficj scrisse sette libripregiati assai, dovea egli così bruttamente dimenticareche ad Agrippina era debitore e del richiamo dall'esilio,e della dignità di pretore, e degli onori di cui godeva incorte, e delle ricchezze perciò radunate? Egli, censor sìsevero de' delitti altrui, dovea egli approvare e difendereun parricidio? Innoltre io crederò, se così si vuole, cheDione sia calunniatore, allor quando racconta (l. c.) che

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mentre Nerone indegnamente prostituendo l'imperial di-gnità saliva sulle scene, Burro e Seneca gli stessero alfianco, gli suggerissero ciò che dovea cantare, e posciabattendo le mani e scuotendo le vesti esortassero il po-polo a fargli plauso. Ma come discolpar Seneca dallapiù vile e sordida adulazione che ne' suoi libri egli hausata sì spesso? Leggasi la Consolazione da lui scritta,mentre era rilegato in Corsica, a Polibio uno dei libertidi Claudio, che per morte avea perduto un fratello, eveggasi come parla di Claudio non altrimenti che di undio dal ciel disceso a salvamento di Roma, come neesalta la maravigliosa clemenza, come in somma ne for-ma un tal panegirico che del più saggio, del più valoro-so, del più giusto principe non si potrebbe dire più oltre(Consol. ad Polyb. c. 31, 32, 33). Ma che? Muore Clau-dio, e questo imperadore sì clemente, sì amabile, questodio riparatore delle comuni sciagure, vien lacerato daSeneca con una delle più sanguinose e pungenti satireche si leggano negli antichi autori (Lud. in morteClaud.). È ella dunque questa l'austera filosofia di Sene-ca? E un uomo che ci vorrebbe persuadere che ogni seraei chiedeva conto a se stesso di tutti i suoi fatti e di tuttii suoi detti della giornata (l. 3 de Ira, c. 36), dovea eglilasciarsi trasportare ad adular prima si bassamente, e po-scia a mordere si crudelmente lo stesso imperadore?Bella cosa, per vero dire, veder Seneca che con severociglio riprende gli adulatori (præf. ad. l. 4 Natural.Quæst.), e che scrive a Nerone, ch'egli "ami meglio of-fendere colla verità, che piacer coll'adulazione" (l. 2 De

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mentre Nerone indegnamente prostituendo l'imperial di-gnità saliva sulle scene, Burro e Seneca gli stessero alfianco, gli suggerissero ciò che dovea cantare, e posciabattendo le mani e scuotendo le vesti esortassero il po-polo a fargli plauso. Ma come discolpar Seneca dallapiù vile e sordida adulazione che ne' suoi libri egli hausata sì spesso? Leggasi la Consolazione da lui scritta,mentre era rilegato in Corsica, a Polibio uno dei libertidi Claudio, che per morte avea perduto un fratello, eveggasi come parla di Claudio non altrimenti che di undio dal ciel disceso a salvamento di Roma, come neesalta la maravigliosa clemenza, come in somma ne for-ma un tal panegirico che del più saggio, del più valoro-so, del più giusto principe non si potrebbe dire più oltre(Consol. ad Polyb. c. 31, 32, 33). Ma che? Muore Clau-dio, e questo imperadore sì clemente, sì amabile, questodio riparatore delle comuni sciagure, vien lacerato daSeneca con una delle più sanguinose e pungenti satireche si leggano negli antichi autori (Lud. in morteClaud.). È ella dunque questa l'austera filosofia di Sene-ca? E un uomo che ci vorrebbe persuadere che ogni seraei chiedeva conto a se stesso di tutti i suoi fatti e di tuttii suoi detti della giornata (l. 3 de Ira, c. 36), dovea eglilasciarsi trasportare ad adular prima si bassamente, e po-scia a mordere si crudelmente lo stesso imperadore?Bella cosa, per vero dire, veder Seneca che con severociglio riprende gli adulatori (præf. ad. l. 4 Natural.Quæst.), e che scrive a Nerone, ch'egli "ami meglio of-fendere colla verità, che piacer coll'adulazione" (l. 2 De

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clem., c. 2) e che poscia, dopo avere adulato Claudio,come abbiamo veduto, si dà a vedere adulatore nullameno sfrontato dello stesso Nerone: principe, "come ditutte l'altre virtù, così singolarmente della verità aman-tissimo (l. 6 Natural. Quæst., c. 8); principe che poteavantare un pregio, di cui a niun altro imperadore era le-cito gloriarsi, cioè l'innocenza, e che faceva dimenticareperfino i tempi d'Augusto; principe sopra ogni cosa do-tato di un'ammirabil clemenza" (De clem. l. 1, c. 1):ecco gli elogi che il sincero Seneca fa di Nerone, il cuiprincipato, anche dacchè egli si era bruttate le mani nelsangue di tanti Romani e della stessa sua madre, eglichiama lietissimo (l. 7 Natural. Quæst. c. 21). A un ora-tore, a un poeta, e anche a uno storico io perdonerò inqualche modo un'adulazione si servile. Ma in un severofilosofo che mostra d'inorridire al solo nome di adula-zione, si può ella soffirire?

XIII. Le grandi ricchezze sono un altro de-litto che si rimprovera a Seneca, come seegli avessele con ingiuste estorsioni ammas-sate. Già abbiam veduto a qual somma esse

giugnessero, secondo Dione; e Tacito ancora racconta(l. 13 Ann. c. 42) che questa somma medesima gli fu daSuilio rinfacciata, e le usure insieme e ogn'altro generedi rapace guadagno. E grande prova dell'insaziabile in-gordigia di Seneca, sarebbe ciò che narra Dione (l. 61),cioe che una delle cagioni per cui la Brettagna sollevos-

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Grandi ric-chezze da lui adunate.

clem., c. 2) e che poscia, dopo avere adulato Claudio,come abbiamo veduto, si dà a vedere adulatore nullameno sfrontato dello stesso Nerone: principe, "come ditutte l'altre virtù, così singolarmente della verità aman-tissimo (l. 6 Natural. Quæst., c. 8); principe che poteavantare un pregio, di cui a niun altro imperadore era le-cito gloriarsi, cioè l'innocenza, e che faceva dimenticareperfino i tempi d'Augusto; principe sopra ogni cosa do-tato di un'ammirabil clemenza" (De clem. l. 1, c. 1):ecco gli elogi che il sincero Seneca fa di Nerone, il cuiprincipato, anche dacchè egli si era bruttate le mani nelsangue di tanti Romani e della stessa sua madre, eglichiama lietissimo (l. 7 Natural. Quæst. c. 21). A un ora-tore, a un poeta, e anche a uno storico io perdonerò inqualche modo un'adulazione si servile. Ma in un severofilosofo che mostra d'inorridire al solo nome di adula-zione, si può ella soffirire?

XIII. Le grandi ricchezze sono un altro de-litto che si rimprovera a Seneca, come seegli avessele con ingiuste estorsioni ammas-sate. Già abbiam veduto a qual somma esse

giugnessero, secondo Dione; e Tacito ancora racconta(l. 13 Ann. c. 42) che questa somma medesima gli fu daSuilio rinfacciata, e le usure insieme e ogn'altro generedi rapace guadagno. E grande prova dell'insaziabile in-gordigia di Seneca, sarebbe ciò che narra Dione (l. 61),cioe che una delle cagioni per cui la Brettagna sollevos-

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Grandi ric-chezze da lui adunate.

si contro di Nerone, e ottantamila Romani vi furono tru-cidati, fosse che Seneca avendo prestata con grandissi-ma usura a que' popoli una gran somma di denaro, tuttaad un tempo la volesse riscuotere, e usasse a tal fine an-che di violenza. Ma all'autorità di Dione abbiam già sta-bilito di non fidarci. Seneca stesso però sembra che nonardisca negare di aver capitali nelle provincie oltramari-ne perciocchè ove egli riferisce le accuse che a lui veni-vano date, questa ancora sì fa opporre da' suoi nimici:Cur trans mare possides (De vita beata c. 17)? La qualaccusa non ribatte già egli negandone la verità, ma con-fessando ch'ei non è ancora uomo perfetto e lontano daogni colpa. Delle sue immense ricchezze parimente eglinon si discolpa se non dicendo ch'è ugualmente pronto avivere in povertà (ib. c. 25): protesta facile a farsi da chisi vede troppo lontan dal pericolo di doverla condurread effetto. Ma questi tesori erano essi giustamente ac-quistati? Ei ci assicura che nulla vi aveva che fosse al-trui (ib. c. 23); e nella parlata che presso Tacito ei fa indifesa sua a Nerone, dice che le innumerabili ricchezzee le ampie ville e i deliziosi orti ch'ei possedeva, tuttierano dono dello stesso Nerone (l. 14 Ann. c. 55). Io nonsaprei accertare se Seneca dicesse il vero; e non mi sem-bra probabile che Nerone fosse cotanto prodigo verso diun uomo da lui temuto anzi che amato. Ma checchesiadi ciò, io crederei facilmente a Seneca, allor quando eglisi vanti del suo distacco dalle ricchezze e del suo amoresulla povertà, se vedessi che delle sue ricchezze egliavesse fatto uso lodevole e vantaggioso ad altrui. Io

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si contro di Nerone, e ottantamila Romani vi furono tru-cidati, fosse che Seneca avendo prestata con grandissi-ma usura a que' popoli una gran somma di denaro, tuttaad un tempo la volesse riscuotere, e usasse a tal fine an-che di violenza. Ma all'autorità di Dione abbiam già sta-bilito di non fidarci. Seneca stesso però sembra che nonardisca negare di aver capitali nelle provincie oltramari-ne perciocchè ove egli riferisce le accuse che a lui veni-vano date, questa ancora sì fa opporre da' suoi nimici:Cur trans mare possides (De vita beata c. 17)? La qualaccusa non ribatte già egli negandone la verità, ma con-fessando ch'ei non è ancora uomo perfetto e lontano daogni colpa. Delle sue immense ricchezze parimente eglinon si discolpa se non dicendo ch'è ugualmente pronto avivere in povertà (ib. c. 25): protesta facile a farsi da chisi vede troppo lontan dal pericolo di doverla condurread effetto. Ma questi tesori erano essi giustamente ac-quistati? Ei ci assicura che nulla vi aveva che fosse al-trui (ib. c. 23); e nella parlata che presso Tacito ei fa indifesa sua a Nerone, dice che le innumerabili ricchezzee le ampie ville e i deliziosi orti ch'ei possedeva, tuttierano dono dello stesso Nerone (l. 14 Ann. c. 55). Io nonsaprei accertare se Seneca dicesse il vero; e non mi sem-bra probabile che Nerone fosse cotanto prodigo verso diun uomo da lui temuto anzi che amato. Ma checchesiadi ciò, io crederei facilmente a Seneca, allor quando eglisi vanti del suo distacco dalle ricchezze e del suo amoresulla povertà, se vedessi che delle sue ricchezze egliavesse fatto uso lodevole e vantaggioso ad altrui. Io

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veggo, per fare un confronto, in Plinio il giovane unuomo che sembra non esser ricco che ad altrui giova-mento: apre una pubblica biblioteca in Como; assegnain gran parte lo stipendio a un maestro che vi tengascuola; fa un ricco donativo alla figlia di Quintiliano peragevolarle le nozze; somministra denaro a Marziale peraiutarlo nel suo ritorno in Ispagna; si mostra in sommasplendido protettore delle lettere e generoso ristoratoredell'altrui povertà. Nulla di tutto ciò io ritrovo nel ric-chissimo Seneca. Gli storici contemporanei non mi rac-contano ch'egli impiegasse a sollievo delle pubbliche, odelle private sciagure alcuna parte di sì enormi ricchez-ze; ed egli stesso fa di continuo grandissimi encomj del-la liberalità, ma non mi dà alcuna prova ch'egli l'eserci-tasse.

XIV. Ma ciò che più d'ogni cosa spiacemi inSeneca, si è un cotal fasto che in tutti i suoilibri s'incontra, per cui sembra che se stesso

egli voglia proporre a norma e ad esemplare perfettod'ogni virtù. Quintiliano gli rimprovera (l. 10, c. 1) ilparlare ch'ei facea con disprezzo degli antichi illustriscrittori, affinchè la sua maniera di scrivere fosse tenutain maggior pregio; e Svetonio racconta (in Ner. c. 52)ch'egli tenne lontano Nerone dal leggere i più celebrioratori, perchè a lui solo ei volgesse tutta l'ammirazione;ambizione degna veramente di un uomo che sì spesso ciraccomanda di combattere i propri affetti, e di soggioga-

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Sua super-bia.

veggo, per fare un confronto, in Plinio il giovane unuomo che sembra non esser ricco che ad altrui giova-mento: apre una pubblica biblioteca in Como; assegnain gran parte lo stipendio a un maestro che vi tengascuola; fa un ricco donativo alla figlia di Quintiliano peragevolarle le nozze; somministra denaro a Marziale peraiutarlo nel suo ritorno in Ispagna; si mostra in sommasplendido protettore delle lettere e generoso ristoratoredell'altrui povertà. Nulla di tutto ciò io ritrovo nel ric-chissimo Seneca. Gli storici contemporanei non mi rac-contano ch'egli impiegasse a sollievo delle pubbliche, odelle private sciagure alcuna parte di sì enormi ricchez-ze; ed egli stesso fa di continuo grandissimi encomj del-la liberalità, ma non mi dà alcuna prova ch'egli l'eserci-tasse.

XIV. Ma ciò che più d'ogni cosa spiacemi inSeneca, si è un cotal fasto che in tutti i suoilibri s'incontra, per cui sembra che se stesso

egli voglia proporre a norma e ad esemplare perfettod'ogni virtù. Quintiliano gli rimprovera (l. 10, c. 1) ilparlare ch'ei facea con disprezzo degli antichi illustriscrittori, affinchè la sua maniera di scrivere fosse tenutain maggior pregio; e Svetonio racconta (in Ner. c. 52)ch'egli tenne lontano Nerone dal leggere i più celebrioratori, perchè a lui solo ei volgesse tutta l'ammirazione;ambizione degna veramente di un uomo che sì spesso ciraccomanda di combattere i propri affetti, e di soggioga-

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Sua super-bia.

re le ribellanti passioni. In tutti poi i suoi libri e nellestesse sue Lettere a me par di vedere un uomo che, per-suaso di esser nato riformatore dell'uman genere, pre-scrive imperiosamente le leggi, disprezza, deride, ri-prende, sempre in un cotal suo tuono altiero e orgoglio-so che non è troppo opportuno ad insinuarsi nell'animode' leggitori. Aggiungasi il parlare ch'ei fa sovente di semedesimo, il proporsi ad esempio degno d'essere imita-to, talchè tutte le virtù eroiche che Giusto Lipsio ha tro-vate in Seneca, tutte le ha egli tratte dalla bocca di luimedesimo, cioè dalle cose che di se medesimo ei dicene' suoi scritti; e questo non è certo il più autentico testi-monio che a prova delle virtù di alcuno si possa recare.La stessa sua morte ci somministra un nuovo argomentodella sua alterigia; poichè se degna sembra di lode la co-stanza con cui la sofferse, altrettanto parmi indegno, diun modesto filosofo quel rivolgersi agli amici, e il la-sciar loro quasi per testamento la memoria delle sue vir-tù. Tutte queste riflessioni non mi permettono di entrarnel numero de' panegiristi di Seneca; e mi fan sospetta-re, e parmi non senza qualche ragione, ch'e' fosse un im-postore che sotto il velo di apparenti virtù nascondessenon pochi vizj. Io so bene che non è a stupire che fossevizioso un uomo idolatra, e che viveva a tempi così cor-rotti. Ma ch'ei cercasse di coprir con inganno i suoi vizjmedesimi, e che volesse farsi censore de' difetti altrui,egli, che al par d'ogn'altro era meritevole di censura,questo è ciò che a mio parere non potrassi mai abbastan-za scusare.

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re le ribellanti passioni. In tutti poi i suoi libri e nellestesse sue Lettere a me par di vedere un uomo che, per-suaso di esser nato riformatore dell'uman genere, pre-scrive imperiosamente le leggi, disprezza, deride, ri-prende, sempre in un cotal suo tuono altiero e orgoglio-so che non è troppo opportuno ad insinuarsi nell'animode' leggitori. Aggiungasi il parlare ch'ei fa sovente di semedesimo, il proporsi ad esempio degno d'essere imita-to, talchè tutte le virtù eroiche che Giusto Lipsio ha tro-vate in Seneca, tutte le ha egli tratte dalla bocca di luimedesimo, cioè dalle cose che di se medesimo ei dicene' suoi scritti; e questo non è certo il più autentico testi-monio che a prova delle virtù di alcuno si possa recare.La stessa sua morte ci somministra un nuovo argomentodella sua alterigia; poichè se degna sembra di lode la co-stanza con cui la sofferse, altrettanto parmi indegno, diun modesto filosofo quel rivolgersi agli amici, e il la-sciar loro quasi per testamento la memoria delle sue vir-tù. Tutte queste riflessioni non mi permettono di entrarnel numero de' panegiristi di Seneca; e mi fan sospetta-re, e parmi non senza qualche ragione, ch'e' fosse un im-postore che sotto il velo di apparenti virtù nascondessenon pochi vizj. Io so bene che non è a stupire che fossevizioso un uomo idolatra, e che viveva a tempi così cor-rotti. Ma ch'ei cercasse di coprir con inganno i suoi vizjmedesimi, e che volesse farsi censore de' difetti altrui,egli, che al par d'ogn'altro era meritevole di censura,questo è ciò che a mio parere non potrassi mai abbastan-za scusare.

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XV. Qualunque fosse però l'animo e il co-stume di Seneca, egli è certo che le operemorali che di lui abbiamo son piene di sa-vissimi ed utilissimi ammaestramenti, e taliin gran parte, che anche a cristiano scrittore

non mal converrebbero, benchè altri ve n'abbia proprjdella pagana filosofia, e della stoica singolarmente, a cuiSeneca più che alle altre sette era inclinato. Quindi nelparlare dell'opera di questo filosofo hanno oltrepassatodi troppo i confini della giusta moderazione e GiustoLipsio da una parte, che afferma dopo la Sacra Scritturaesser questi i migliori e i più utili libri (Cent. I ad Bel-gas, ep. 42), ed alcuni scrittori dal Bruckero allegati (t.2, p. 560) dall'altra parte, che pongon Seneca nel nume-ro degli atei. Non giova ch'io mi trattenga a parlare delleLettere vicendevoli tra s. Paolo e Seneca, che dopo altreedizioni sono state ristampate dal Fabricio (Cod. apocr.N. Test. t. 1, p. 880). L'autorità di s. Girolamo (Cat.Script. eccles.) e di s. Agostino (ep. 153, edit. Bened. adMacedon.), che hanno scritto che queste Lettere si leg-gevan da molti, ma non hanno affermato ch'esse fossersincere, ha tratto molti in errore, e ha fatto lor credereche tra l'apostolo e il filosofo fosse veramente stato ami-chevol commercio di lettere, e che esse fossero quelleappunto che ora abbiamo. Al presente però non vi ha chinon le creda supposte, ed io ripeterò qui con piacerel'osservazion del Tenzelio (in not. ad Cat. Script. ec-

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Quanto sianpregevoli lesue opere morali.

XV. Qualunque fosse però l'animo e il co-stume di Seneca, egli è certo che le operemorali che di lui abbiamo son piene di sa-vissimi ed utilissimi ammaestramenti, e taliin gran parte, che anche a cristiano scrittore

non mal converrebbero, benchè altri ve n'abbia proprjdella pagana filosofia, e della stoica singolarmente, a cuiSeneca più che alle altre sette era inclinato. Quindi nelparlare dell'opera di questo filosofo hanno oltrepassatodi troppo i confini della giusta moderazione e GiustoLipsio da una parte, che afferma dopo la Sacra Scritturaesser questi i migliori e i più utili libri (Cent. I ad Bel-gas, ep. 42), ed alcuni scrittori dal Bruckero allegati (t.2, p. 560) dall'altra parte, che pongon Seneca nel nume-ro degli atei. Non giova ch'io mi trattenga a parlare delleLettere vicendevoli tra s. Paolo e Seneca, che dopo altreedizioni sono state ristampate dal Fabricio (Cod. apocr.N. Test. t. 1, p. 880). L'autorità di s. Girolamo (Cat.Script. eccles.) e di s. Agostino (ep. 153, edit. Bened. adMacedon.), che hanno scritto che queste Lettere si leg-gevan da molti, ma non hanno affermato ch'esse fossersincere, ha tratto molti in errore, e ha fatto lor credereche tra l'apostolo e il filosofo fosse veramente stato ami-chevol commercio di lettere, e che esse fossero quelleappunto che ora abbiamo. Al presente però non vi ha chinon le creda supposte, ed io ripeterò qui con piacerel'osservazion del Tenzelio (in not. ad Cat. Script. ec-

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Quanto sianpregevoli lesue opere morali.

cles.) che riflette, e prova coll'autorità di Angelo De-cembrio (De politica liter. l. 1, p. 57; l. 2, p. 121) il pri-mo a scoprirne la falsità essere stato Leonello d'Este si-gnor di Ferrara, uno de' più splendidi protettori delle let-tere e dei letterati del sec. XV. E certo basta il leggerleper ravvisare quanto sia il loro stile diverso da quellodegli autori a cui si attribuiscono. Veggansi le Note concui le ha illustrate il Fabricio, che sempre più chiara-mente dimostrano la loro supposizione. Ma deesi almencredere che fosse tra essi qualche commercio di lettere?La stoica alterigia di Seneca me lo rende quasi incredi-bile; se egli alcuna conoscenza ebbe, come non è inveri-simile, di S. Paolo, non giovossene certamente a salute,come dalle sue opere stesse ed anche dal sagrificioch'egli nell'atto di morire fece, come abbiam detto, aGiove, è troppo manifesto.

XVI. Nè la morale soltanto, ma la fisica an-cora dee molto a Seneca. In molte quistioniveggiamo ch'egli col penetrante ingegno, dicui fu certamente dotato, e col lungo studioera giunto a vedere, direi quasi, da lungi

quelle verità medesime che i moderni filosofi hanno po-scia più chiaramente scoperte, e confermate colle spe-rienze. Così egli ragiona della gravità dell'aria, e dellaforza che noi or diciamo elastica, con cui essa or si ad-densa, ed or si dirada: Ex his gravitatem æris fieri .....habet ergo aliquam vim talem ær, et ideo modo spissat

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Cognizioni fisiche che si incontra-no nelle sueopere.

cles.) che riflette, e prova coll'autorità di Angelo De-cembrio (De politica liter. l. 1, p. 57; l. 2, p. 121) il pri-mo a scoprirne la falsità essere stato Leonello d'Este si-gnor di Ferrara, uno de' più splendidi protettori delle let-tere e dei letterati del sec. XV. E certo basta il leggerleper ravvisare quanto sia il loro stile diverso da quellodegli autori a cui si attribuiscono. Veggansi le Note concui le ha illustrate il Fabricio, che sempre più chiara-mente dimostrano la loro supposizione. Ma deesi almencredere che fosse tra essi qualche commercio di lettere?La stoica alterigia di Seneca me lo rende quasi incredi-bile; se egli alcuna conoscenza ebbe, come non è inveri-simile, di S. Paolo, non giovossene certamente a salute,come dalle sue opere stesse ed anche dal sagrificioch'egli nell'atto di morire fece, come abbiam detto, aGiove, è troppo manifesto.

XVI. Nè la morale soltanto, ma la fisica an-cora dee molto a Seneca. In molte quistioniveggiamo ch'egli col penetrante ingegno, dicui fu certamente dotato, e col lungo studioera giunto a vedere, direi quasi, da lungi

quelle verità medesime che i moderni filosofi hanno po-scia più chiaramente scoperte, e confermate colle spe-rienze. Così egli ragiona della gravità dell'aria, e dellaforza che noi or diciamo elastica, con cui essa or si ad-densa, ed or si dirada: Ex his gravitatem æris fieri .....habet ergo aliquam vim talem ær, et ideo modo spissat

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Cognizioni fisiche che si incontra-no nelle sueopere.

se, modo expandit et purgat, alias contrahit, alias didu-cit ac differt (Natural. Quæst. l. 5, c. 5, 6). Così pari-menti egli reca la cagion fisica de' tremuoti, cioè i fuo-chi sotterranei che accendonsi facendo forza a dilatarsi,se trovan contrasto, urtano impetuosamente e scuotonoogni cosa (ib. l. 6, c. 11). Così ancora egli spiega perqual maniera l'acqua del mare insinuandosi per occultevie sotterra si purga e si raddolcisce, e forma i fonti ed ifiumi (ib. l. 3, c. 5, 15). Così molte altre quistioni di fisi-ca e di astronomia si veggon da Seneca, se non rischia-rate, adombrate almeno per tal maniera, che si conoscech'egli fin d'allora in più cose o conobbe, o fu poco lun-gi dal conoscere il vero. Ma bello è singolarmente l'udirSeneca, ove ragiona delle comete, e stabilisce chiara-mente ch'esse hanno un certo e determinato corso, e chea tempi fissi si fanno vedere in cielo, e svaniscono, e ri-tornan poscia con infallibili leggi; e predire insieme cheverrà un tempo in cui queste cose medesime ch'egli nonpuò che oscuramente accennare, si porranno in più chia-ra luce e che i posteri si stupiranno che i lor maggiorinon abbian conosciute cose tanto evidenti (ib. l. 7, c. 13,15). Sulle quali fisiche cognizioni di Seneca veggasisingolarmente l'opera da noi altre volte lodata di m. Du-tens (Recherches sur l'origine des découvertes, ec. t. 2,p. 216; l. 2, p. 10, 22, 36) (29).29 M. Bailly ha avuto il coraggio di sminuir di molto la lode che si è data fi-

nora a Seneca per le cose da lui dette intorno alle comete; ed ha affermatoche, rendendo a Seneca la giustizia che gli è dovuta, si può dire ch'egli haindovinato, come gli astrologi, dopo il fatto (Hist. de l'Astron. mod. t. 1, p.130, ec.). Egli osserva, come avea anche altrove avvertito (Hist. de

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se, modo expandit et purgat, alias contrahit, alias didu-cit ac differt (Natural. Quæst. l. 5, c. 5, 6). Così pari-menti egli reca la cagion fisica de' tremuoti, cioè i fuo-chi sotterranei che accendonsi facendo forza a dilatarsi,se trovan contrasto, urtano impetuosamente e scuotonoogni cosa (ib. l. 6, c. 11). Così ancora egli spiega perqual maniera l'acqua del mare insinuandosi per occultevie sotterra si purga e si raddolcisce, e forma i fonti ed ifiumi (ib. l. 3, c. 5, 15). Così molte altre quistioni di fisi-ca e di astronomia si veggon da Seneca, se non rischia-rate, adombrate almeno per tal maniera, che si conoscech'egli fin d'allora in più cose o conobbe, o fu poco lun-gi dal conoscere il vero. Ma bello è singolarmente l'udirSeneca, ove ragiona delle comete, e stabilisce chiara-mente ch'esse hanno un certo e determinato corso, e chea tempi fissi si fanno vedere in cielo, e svaniscono, e ri-tornan poscia con infallibili leggi; e predire insieme cheverrà un tempo in cui queste cose medesime ch'egli nonpuò che oscuramente accennare, si porranno in più chia-ra luce e che i posteri si stupiranno che i lor maggiorinon abbian conosciute cose tanto evidenti (ib. l. 7, c. 13,15). Sulle quali fisiche cognizioni di Seneca veggasisingolarmente l'opera da noi altre volte lodata di m. Du-tens (Recherches sur l'origine des découvertes, ec. t. 2,p. 216; l. 2, p. 10, 22, 36) (29).29 M. Bailly ha avuto il coraggio di sminuir di molto la lode che si è data fi-

nora a Seneca per le cose da lui dette intorno alle comete; ed ha affermatoche, rendendo a Seneca la giustizia che gli è dovuta, si può dire ch'egli haindovinato, come gli astrologi, dopo il fatto (Hist. de l'Astron. mod. t. 1, p.130, ec.). Egli osserva, come avea anche altrove avvertito (Hist. de

319

XVII. Qualche cosa è a dire per ultimo del-lo stile di Seneca. Quale esso sia, il vede

ognuno che ne legge le opere. Conciso, pretto, vibratonon mai scioglie le vele a una facile e copiosa eloquen-za. Ma ciò non basta. In ogni cosa ei fa pompa d'inge-gno; e qualunque sentimento ci debba esporre comun-que usato e triviale, cerca di rivestirlo di un'aria nuova emaravigliosa. Quindi le sentenze, i concetti, le antitesi, igiuochi talvolta ancor di parole, che ad ogni passos'incontrano. Seneca ne va in cerca, e spesso sembra cheanteponga il parlar con ingegno al parlar con giustezza.I suoi libri sono anzi una raccolta di sentimenti sullamateria di cui ragiona, che un ben concepito e ben divi-so trattato di essa. Or che avviene leggendo questo scrit-tore? A me par di vedere un impostor gioielliere, chepone in vista le sue merci. Al primo aspetto tutte appa-ion preziose, perchè tutte sono lucenti e belle. Un sem-plice fanciullo, un uomo rozzo e inesperto se ne inva-ghisce, ne fa acquisto, e sen va lieto di sì pregevol teso-ro. Ma un saggio discernitore conosce che in sì bella ap-parenza vi ha molto d'inganno; e rigettate le molte false,

l'Astron. Anc. p. 147, ec., 391, ec.) che questa era già stata l'opinion de'Caldei la quale però a' tempi di Seneca era abbandonata, e che ripetendociò che di essi avea scritto Diodoro, fortunatamente e senza prevederlo hacolpito nel vero. Nondimeno egli poscia confessa che le opere filosofichedi Seneca contengono più cognizioni astronomiche che non si trovino intutti gli altri scrittori da Ipparco fino a lui, e che solo è a dolersi ch'ei siasilasciato sedurre nel dar fede all'astrologia giudiciaria (Hist. de l'Astron.mod. t. 1, p. 503).

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Suo stile. XVII. Qualche cosa è a dire per ultimo del-lo stile di Seneca. Quale esso sia, il vede

ognuno che ne legge le opere. Conciso, pretto, vibratonon mai scioglie le vele a una facile e copiosa eloquen-za. Ma ciò non basta. In ogni cosa ei fa pompa d'inge-gno; e qualunque sentimento ci debba esporre comun-que usato e triviale, cerca di rivestirlo di un'aria nuova emaravigliosa. Quindi le sentenze, i concetti, le antitesi, igiuochi talvolta ancor di parole, che ad ogni passos'incontrano. Seneca ne va in cerca, e spesso sembra cheanteponga il parlar con ingegno al parlar con giustezza.I suoi libri sono anzi una raccolta di sentimenti sullamateria di cui ragiona, che un ben concepito e ben divi-so trattato di essa. Or che avviene leggendo questo scrit-tore? A me par di vedere un impostor gioielliere, chepone in vista le sue merci. Al primo aspetto tutte appa-ion preziose, perchè tutte sono lucenti e belle. Un sem-plice fanciullo, un uomo rozzo e inesperto se ne inva-ghisce, ne fa acquisto, e sen va lieto di sì pregevol teso-ro. Ma un saggio discernitore conosce che in sì bella ap-parenza vi ha molto d'inganno; e rigettate le molte false,

l'Astron. Anc. p. 147, ec., 391, ec.) che questa era già stata l'opinion de'Caldei la quale però a' tempi di Seneca era abbandonata, e che ripetendociò che di essi avea scritto Diodoro, fortunatamente e senza prevederlo hacolpito nel vero. Nondimeno egli poscia confessa che le opere filosofichedi Seneca contengono più cognizioni astronomiche che non si trovino intutti gli altri scrittori da Ipparco fino a lui, e che solo è a dolersi ch'ei siasilasciato sedurre nel dar fede all'astrologia giudiciaria (Hist. de l'Astron.mod. t. 1, p. 503).

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Suo stile.

a quelle poche gioie solamente si appiglia, ch'ei conosceper vere. Non altrimenti avvenne a' Romani. Il concetto-so e fiorito parlar di Seneca trasse molti in inganno: cre-dettero puro e finissimo oro tutto ciò che vider brillare;vollero rivestirsi essi ancora di somiglianti ornamenti;vollero scriver con ingegno. Ma non tutti avean l'inge-gno di Seneca, e non potendo giugnere ad imitarne ipregi, solo ne espressero, e in sè ne ritrassero i difetti.Già abbiam veduto che questo era appunto il giudizioche formava di Seneca il savissimo Quintiliano, e chequesti usò d'ogni sforzo perchè i Romani non ne fosseroammiratori troppo ciechi, e troppo servili imitatori (l.10, c. 1). Altri ancora tra gli antichi furono che parlarondi Seneca con disprezzo, forse più ancora che non con-venisse, come narra Gellio (l. 12, c. 2); e fin da quandoegli vivea, Caligola, uomo nimico di ogni studio, mafornito nondimeno di acuto ingegno, soleva dire che Se-neca altro non faceva che ammassare sentenze, e che eracome un'arena senza calce (Svet. in Calig. c. 53). Manondimeno ei piaceva, come dice Quintiliano, appuntope' suoi vizj medesimi, e questi ebbero allora, ed hannoposcia anche in altri tempi avuto, ed hanno forse ancoraal presente in qualche parte d'Europa non pochi imitato-ri. Ma di Seneca basti fin qui, la serie delle cui opere e ititoli di alcune di esse, che si sono smarrite, si potrannovedere presso il Fabricio (Bibl. lat. l. 2, c. 9) e pressoNiccolò Antonio (Bibl. vet. hisp. l. 1, c. 7, 8.), il quale ditutto ciò ancora, che appartiene a Seneca, diligentemen-te ha trattato. Veggasi inoltre il Bruckero che della vita,

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a quelle poche gioie solamente si appiglia, ch'ei conosceper vere. Non altrimenti avvenne a' Romani. Il concetto-so e fiorito parlar di Seneca trasse molti in inganno: cre-dettero puro e finissimo oro tutto ciò che vider brillare;vollero rivestirsi essi ancora di somiglianti ornamenti;vollero scriver con ingegno. Ma non tutti avean l'inge-gno di Seneca, e non potendo giugnere ad imitarne ipregi, solo ne espressero, e in sè ne ritrassero i difetti.Già abbiam veduto che questo era appunto il giudizioche formava di Seneca il savissimo Quintiliano, e chequesti usò d'ogni sforzo perchè i Romani non ne fosseroammiratori troppo ciechi, e troppo servili imitatori (l.10, c. 1). Altri ancora tra gli antichi furono che parlarondi Seneca con disprezzo, forse più ancora che non con-venisse, come narra Gellio (l. 12, c. 2); e fin da quandoegli vivea, Caligola, uomo nimico di ogni studio, mafornito nondimeno di acuto ingegno, soleva dire che Se-neca altro non faceva che ammassare sentenze, e che eracome un'arena senza calce (Svet. in Calig. c. 53). Manondimeno ei piaceva, come dice Quintiliano, appuntope' suoi vizj medesimi, e questi ebbero allora, ed hannoposcia anche in altri tempi avuto, ed hanno forse ancoraal presente in qualche parte d'Europa non pochi imitato-ri. Ma di Seneca basti fin qui, la serie delle cui opere e ititoli di alcune di esse, che si sono smarrite, si potrannovedere presso il Fabricio (Bibl. lat. l. 2, c. 9) e pressoNiccolò Antonio (Bibl. vet. hisp. l. 1, c. 7, 8.), il quale ditutto ciò ancora, che appartiene a Seneca, diligentemen-te ha trattato. Veggasi inoltre il Bruckero che della vita,

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de' costumi, de' sentimenti di Seneca parla coll'usata suaerudizione ed esattezza (t. 2, p. 545, ec.). E intorno allostile di Seneca son degne singolarmente d'esser lette leosservazioni di m. Jortin inserite nel Giornale britanni-co, che i difetti e i pregi tutti rilevane con giusto esame(t. 17, p. 81).

XVIII. Assai diverso fu il carattere e il te-nor della vita di Caio Plinio Secondo, dettoil vecchio a distinzione del giovane di luinipote, di cui già abbiamo parlato. La StoriaNaturale da lui descritta, fa che a questo più

che a qualunque altro luogo si debba di lui parlare. Nonabbiamo ad affaticarci molto nel rinvenire le notizie chea lui appartengono, poichè Plinio il giovane ne ha parla-to assai. Il punto più difficile a trattarsi si è, s'ei fosseveronese, o comasco. Queste due città già da gran tem-po son tra loro in contesa, e ognuna pretende di aver taliragioni a cui l'altra non possa opporne le uguali. Noi cisiam protestati più volte di non voler entrare in somi-glianti quistioni, poichè il trattarne, e molto più il deci-derne, è cosa molto pericolosa al pari che inutile. I Vero-nesi allegano in lor favore l'autorità dello stesso Plinioche nella prefazione alla sua Storia parlando di Catulloil chiama conterraneum meum. I Comaschi alleganol'autorità di Svetonio, il quale nella breve Vita che nescrisse, il dice comasco. Ma i Comaschi rispondono a'Veronesi, che la parola conterraneo può avere più ampio

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Questione intorno allapatria di Plinio il vecchio.

de' costumi, de' sentimenti di Seneca parla coll'usata suaerudizione ed esattezza (t. 2, p. 545, ec.). E intorno allostile di Seneca son degne singolarmente d'esser lette leosservazioni di m. Jortin inserite nel Giornale britanni-co, che i difetti e i pregi tutti rilevane con giusto esame(t. 17, p. 81).

XVIII. Assai diverso fu il carattere e il te-nor della vita di Caio Plinio Secondo, dettoil vecchio a distinzione del giovane di luinipote, di cui già abbiamo parlato. La StoriaNaturale da lui descritta, fa che a questo più

che a qualunque altro luogo si debba di lui parlare. Nonabbiamo ad affaticarci molto nel rinvenire le notizie chea lui appartengono, poichè Plinio il giovane ne ha parla-to assai. Il punto più difficile a trattarsi si è, s'ei fosseveronese, o comasco. Queste due città già da gran tem-po son tra loro in contesa, e ognuna pretende di aver taliragioni a cui l'altra non possa opporne le uguali. Noi cisiam protestati più volte di non voler entrare in somi-glianti quistioni, poichè il trattarne, e molto più il deci-derne, è cosa molto pericolosa al pari che inutile. I Vero-nesi allegano in lor favore l'autorità dello stesso Plinioche nella prefazione alla sua Storia parlando di Catulloil chiama conterraneum meum. I Comaschi alleganol'autorità di Svetonio, il quale nella breve Vita che nescrisse, il dice comasco. Ma i Comaschi rispondono a'Veronesi, che la parola conterraneo può avere più ampio

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Questione intorno allapatria di Plinio il vecchio.

senso, e che inoltre in altri codici leggesi congerronem,o congerraneum; e i Veronesi rispondono a' Comaschi,che quella Vita non è già di Svetonio, ma di altro assaiposteriore scrittore, e che la parola novocomensis in altricodici non si legge. I Comaschi allegano ancora l'autori-tà della Cronaca Eusebiana, nella quale a' tempi di Tra-iano si fa menzione di Plinio con queste parole: PliniusSecundus novocomensis orator et historicus insignis ha-betur, cujus plurima ingenii monimenta extant. Periitdum invisit Vesuvium. Ma i Veronesi rispondono che quisi parla di Plinio il giovane, che visse infatti sotto Traia-no, e che per errore a lui si attribuisce la morte che in-contrò il vecchio; e che anzi quelle parole, periit duminvisit Vesuvium, ne' migliori codici e nelle più pregiateedizioni non si trovano (V. Vallarsii not. ad Chron. Eu-seb.). Così quegli argomenti che da una parte si conside-rano come i più convincenti, si rimiran dall'altra comedeboli e rovinosi. In tale stato di cose quale speranza dipoter conciliare insieme sì opposti partiti, o di appoggiarper tal modo le ragioni di uno, che l'altro si confessi vin-to? Io lascerò dunque che gli uni e gli altri si tengan fer-mi nell'opinion loro: e che quelli che in tal quistione nonhanno interesse, seguano chi più lor piace. E a giudicar-ne con cognizione di causa potranno essi leggere gliscrittori che per l'una e per l'altra parte hanno su ciò di-sputato, i quali tutti sono stati diligentemente annoveratidal ch. co. Anton-gius. della Torre di Rezzonico (Di-squis. plin. l. 1, p. 32, ec.). Questo è l'ultimo autore cheabbia scritto in favor di Como sua patria, ed egli certa-

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senso, e che inoltre in altri codici leggesi congerronem,o congerraneum; e i Veronesi rispondono a' Comaschi,che quella Vita non è già di Svetonio, ma di altro assaiposteriore scrittore, e che la parola novocomensis in altricodici non si legge. I Comaschi allegano ancora l'autori-tà della Cronaca Eusebiana, nella quale a' tempi di Tra-iano si fa menzione di Plinio con queste parole: PliniusSecundus novocomensis orator et historicus insignis ha-betur, cujus plurima ingenii monimenta extant. Periitdum invisit Vesuvium. Ma i Veronesi rispondono che quisi parla di Plinio il giovane, che visse infatti sotto Traia-no, e che per errore a lui si attribuisce la morte che in-contrò il vecchio; e che anzi quelle parole, periit duminvisit Vesuvium, ne' migliori codici e nelle più pregiateedizioni non si trovano (V. Vallarsii not. ad Chron. Eu-seb.). Così quegli argomenti che da una parte si conside-rano come i più convincenti, si rimiran dall'altra comedeboli e rovinosi. In tale stato di cose quale speranza dipoter conciliare insieme sì opposti partiti, o di appoggiarper tal modo le ragioni di uno, che l'altro si confessi vin-to? Io lascerò dunque che gli uni e gli altri si tengan fer-mi nell'opinion loro: e che quelli che in tal quistione nonhanno interesse, seguano chi più lor piace. E a giudicar-ne con cognizione di causa potranno essi leggere gliscrittori che per l'una e per l'altra parte hanno su ciò di-sputato, i quali tutti sono stati diligentemente annoveratidal ch. co. Anton-gius. della Torre di Rezzonico (Di-squis. plin. l. 1, p. 32, ec.). Questo è l'ultimo autore cheabbia scritto in favor di Como sua patria, ed egli certa-

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mente, benchè sembri che un'altra più copiosa disserta-zione ci faccia sperare su questo argomento (ib. p. 5),tanto nondimeno ne ha già detto (ib. p. 4, ec; l. 2, p. 35,ec.; l. 8, p. 247, ec.), e con tal corredo di autorità, di ra-gioni, di erudizione ha sostenuta la sua causa, che sem-bra non possa andarsi più oltre. Io non so se i Veronesivorranno ancor replicare. Ove essi nol facciano, potran-no almen vantarsi i Comaschi di essere stati gli ultimi adiscendere in campo, e di non avere avuto chi lor si op-ponesse (30). Ma della patria di Plinio basti il detto finqui, poichè io penso che appena meriti d'essere confuta-ta l'opinione del p. Arduino, il quale veggendo che Pli-nio chiama spesso i Romani col nome di nostri e colnome di nostra la città di Roma, afferma che Plinio furomano, come se un suddito non possa usare di taleespressione parlando della sua capitale, molto più se neabbia la cittadinanza, e del popolo che a tutta la nazionedà il nome; e come se non avessimo esempj di somi-gliante parlare in altri autori che non furon certo romani.

XIX. La vita di Plinio è stata ultimamentedopo altri scrittori esaminata diligentementee descritta dal soprallodato co. Anton-gius.della Torre di Rezzonico (Disquis. Plin. l. 4,

30 Dopo il co. Rezzonico il co. Giambattista Giovio di lui nipote per parte dimadre con nuove armi ha combattuto ingegnosamente per l'onor della pa-tria contro de' Veronesi (Gli Uomini III Comaschi p. 179, ec. 429, ec.), e sequesti continuano nel lor silenzio, parrà sempre più assicurata la vittoria a'Comaschi.

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Sua vita e infelice morte.

mente, benchè sembri che un'altra più copiosa disserta-zione ci faccia sperare su questo argomento (ib. p. 5),tanto nondimeno ne ha già detto (ib. p. 4, ec; l. 2, p. 35,ec.; l. 8, p. 247, ec.), e con tal corredo di autorità, di ra-gioni, di erudizione ha sostenuta la sua causa, che sem-bra non possa andarsi più oltre. Io non so se i Veronesivorranno ancor replicare. Ove essi nol facciano, potran-no almen vantarsi i Comaschi di essere stati gli ultimi adiscendere in campo, e di non avere avuto chi lor si op-ponesse (30). Ma della patria di Plinio basti il detto finqui, poichè io penso che appena meriti d'essere confuta-ta l'opinione del p. Arduino, il quale veggendo che Pli-nio chiama spesso i Romani col nome di nostri e colnome di nostra la città di Roma, afferma che Plinio furomano, come se un suddito non possa usare di taleespressione parlando della sua capitale, molto più se neabbia la cittadinanza, e del popolo che a tutta la nazionedà il nome; e come se non avessimo esempj di somi-gliante parlare in altri autori che non furon certo romani.

XIX. La vita di Plinio è stata ultimamentedopo altri scrittori esaminata diligentementee descritta dal soprallodato co. Anton-gius.della Torre di Rezzonico (Disquis. Plin. l. 4,

30 Dopo il co. Rezzonico il co. Giambattista Giovio di lui nipote per parte dimadre con nuove armi ha combattuto ingegnosamente per l'onor della pa-tria contro de' Veronesi (Gli Uomini III Comaschi p. 179, ec. 429, ec.), e sequesti continuano nel lor silenzio, parrà sempre più assicurata la vittoria a'Comaschi.

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Sua vita e infelice morte.

5). Ed io perciò non farò che toccarne brevemente lecose e l'epoche principali. Ei nacque l'an. 13 dell'eravolg., come evidentemente raccogliesi dal sapere ch'eglimorì, come Plinio il giovane attesta, in età di 56 anni, altempo dell'eruzion del Vesuvio, che per consentimentode' migliori autori (V. Tillem. note 4 sur Tite) avvennel'an. 79; e dopo aver coltivati gli studi, militò per alcunianni nella Germania, ed ebbe la condotta di uno squa-drone di cavalleria. Tornato a Roma, esercitossi talvolta,ma raramente nel trattar cause nel foro. Quindi mandatoda Nerone in Ispagna col titolo di procuratore vi sosten-ne il medesimo impiego fin circa il secondo anno di Ve-spasiano; da cui richiamato, ebbe poscia o da lui, o,come altri vogliono, da Tito il comando dell'armata na-vale ch'era presso il promontorio di Miseno. Ma questanuova carica gli fu fatale. Era egli sulle sue navi, quan-do il Vesuvio non molto da esse lontano cominciò a git-tar denso fumo. Avvisatone da sua sorella madre di Pli-nio il giovane, che amendue eran con lui ed accertatosidi ciò che fosse, fa allestire alcuni legni per recare aiutoa que' che fossero in pericolo. Fuggivan tutti da' luoghicirconvicini, ed egli senza timore alcuno volge le proreverso il Vesuvio con tal coraggio che osservando atten-tamente ciò che avveniva sul monte, ne descriveva det-tando tutte le circostanze. Era già si vicino, che sullenavi incominciavano a cadere e calda cenere e sassi in-focati; e al medesimo tempo ritiratosi il mare, non erapossibile l'innoltrarsi. Ma egli non perciò atterrito, co-manda che volgasi a Stabie, ora Castellamare, ove era

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5). Ed io perciò non farò che toccarne brevemente lecose e l'epoche principali. Ei nacque l'an. 13 dell'eravolg., come evidentemente raccogliesi dal sapere ch'eglimorì, come Plinio il giovane attesta, in età di 56 anni, altempo dell'eruzion del Vesuvio, che per consentimentode' migliori autori (V. Tillem. note 4 sur Tite) avvennel'an. 79; e dopo aver coltivati gli studi, militò per alcunianni nella Germania, ed ebbe la condotta di uno squa-drone di cavalleria. Tornato a Roma, esercitossi talvolta,ma raramente nel trattar cause nel foro. Quindi mandatoda Nerone in Ispagna col titolo di procuratore vi sosten-ne il medesimo impiego fin circa il secondo anno di Ve-spasiano; da cui richiamato, ebbe poscia o da lui, o,come altri vogliono, da Tito il comando dell'armata na-vale ch'era presso il promontorio di Miseno. Ma questanuova carica gli fu fatale. Era egli sulle sue navi, quan-do il Vesuvio non molto da esse lontano cominciò a git-tar denso fumo. Avvisatone da sua sorella madre di Pli-nio il giovane, che amendue eran con lui ed accertatosidi ciò che fosse, fa allestire alcuni legni per recare aiutoa que' che fossero in pericolo. Fuggivan tutti da' luoghicirconvicini, ed egli senza timore alcuno volge le proreverso il Vesuvio con tal coraggio che osservando atten-tamente ciò che avveniva sul monte, ne descriveva det-tando tutte le circostanze. Era già si vicino, che sullenavi incominciavano a cadere e calda cenere e sassi in-focati; e al medesimo tempo ritiratosi il mare, non erapossibile l'innoltrarsi. Ma egli non perciò atterrito, co-manda che volgasi a Stabie, ora Castellamare, ove era

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un cotal Pomponiano suo stretto amico. Giuntovi confavorevol vento, trovollo costernato e tremante; poichècomunque il pericolo fosse ancora lontano, vedeasi non-dimeno farsi ognora più appresso. Egli avea già postasulle navi ogni sua cosa; ma il vento era contrario, edimpediva il fuggire. Plinio il conforta, e per accrescerglicol suo esempio nuovo coraggio, come se nulla vi aves-se a temere, entra nel bagno, cena, e abbandonasi a unplacido sonno. Frattanto la cenere e i sassi infocati sem-pre più avanzandosi avean talmente riempita l'areach'era innanzi alla sua camera, che, se più oltre avesseindugiato, non era possibile l'uscirne. Riscosso dunquesen torna a Pomponiano e agli altri che per timore aveanvegliato; e perchè la casa crollando e scotendosi minac-ciava rovina, avvoltisi il capo entro a' cuscini per difen-dersi da' sassi, sen vanno verso del mare, per vedere inquale stato fosse; ma il vento era ancora contrario. IviPlinio sdraiato su un lenzuolo sul lido chiese due volte abere. Quand'ecco sentirsi un grave odore di zolfo, e lefiamme vedersi ormai vicinissime: tutti sen fuggono:egli si scuote e appoggiato a due servi si alza; ma tostoricade a terra soffocato, per quanto sembra, dalla fiam-ma e dal fumo. Così finì di vivere Plinio in età di soli 56anni l'an. 79 dell'era crist. sul principio dell'impero diTito, secondo la narrazione che Plinio il giovane nemandò a Cornelio Tacito (l. 6. ep. 17) che gliel'avea ri-chiesta.

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un cotal Pomponiano suo stretto amico. Giuntovi confavorevol vento, trovollo costernato e tremante; poichècomunque il pericolo fosse ancora lontano, vedeasi non-dimeno farsi ognora più appresso. Egli avea già postasulle navi ogni sua cosa; ma il vento era contrario, edimpediva il fuggire. Plinio il conforta, e per accrescerglicol suo esempio nuovo coraggio, come se nulla vi aves-se a temere, entra nel bagno, cena, e abbandonasi a unplacido sonno. Frattanto la cenere e i sassi infocati sem-pre più avanzandosi avean talmente riempita l'areach'era innanzi alla sua camera, che, se più oltre avesseindugiato, non era possibile l'uscirne. Riscosso dunquesen torna a Pomponiano e agli altri che per timore aveanvegliato; e perchè la casa crollando e scotendosi minac-ciava rovina, avvoltisi il capo entro a' cuscini per difen-dersi da' sassi, sen vanno verso del mare, per vedere inquale stato fosse; ma il vento era ancora contrario. IviPlinio sdraiato su un lenzuolo sul lido chiese due volte abere. Quand'ecco sentirsi un grave odore di zolfo, e lefiamme vedersi ormai vicinissime: tutti sen fuggono:egli si scuote e appoggiato a due servi si alza; ma tostoricade a terra soffocato, per quanto sembra, dalla fiam-ma e dal fumo. Così finì di vivere Plinio in età di soli 56anni l'an. 79 dell'era crist. sul principio dell'impero diTito, secondo la narrazione che Plinio il giovane nemandò a Cornelio Tacito (l. 6. ep. 17) che gliel'avea ri-chiesta.

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XX. In un'altra lettera lo stesso Plinio de-scrive (l. 3, ep. 5), quanto avido dello studiofosse il suo zio; e per meglio mostrarlo ram-

menta prima le opere ch'egli avea composte. Un librointorno alla maniera di lanciar dardi combattendo a ca-vallo, due della Vita di Pomponio Secondo; venti libri incui tutte raccontava le guerre dai Romani sostenute inGermania, tre libri intorno all'arte oratoria, otto di gram-matica, trentun libri delle storie de' suoi tempi, e final-mente la grand'opera della Storia Naturale. Egli è a stu-pire, soggiugne il nipote, che un uomo solo abbia potutoscrivere tante e sì grandi cose; ma molto più è a stupireche abbiale scritte un uomo che si esercitò ancora tal-volta nel trattare le cause, che molto tempo dovette im-piegare nel soddisfare o a' doveri dell'amicizia, o a' co-mandi de' principi, e che morì in età di 56 anni. Ma ilbuon uso del tempo gli rende facile ciò che ad altri nonsembrerebbe possibile. Parchissimo di cibo ugualmenteche di sonno, poco dopo la mezza notte cominciava isuoi studj, e ad essi consacrava tutto quel tempo chedalle altre occupazioni gli rimaneva libero. Anche men-tre cenava, e mentre era in viaggio, e mentre stava nelbagno, voleva che gli si leggesse un libro, e scriveva, odettava ad altri ciò che trovava degno di riflessione; per-ciocchè non mai prese libro alcun tra le mani su cui nonfacesse qualche annotazione. In fatti egli lasciò al nipotecento ottanta volumi di tali memorie scritti in ogni parte

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Suoi conti-nui studi.

XX. In un'altra lettera lo stesso Plinio de-scrive (l. 3, ep. 5), quanto avido dello studiofosse il suo zio; e per meglio mostrarlo ram-

menta prima le opere ch'egli avea composte. Un librointorno alla maniera di lanciar dardi combattendo a ca-vallo, due della Vita di Pomponio Secondo; venti libri incui tutte raccontava le guerre dai Romani sostenute inGermania, tre libri intorno all'arte oratoria, otto di gram-matica, trentun libri delle storie de' suoi tempi, e final-mente la grand'opera della Storia Naturale. Egli è a stu-pire, soggiugne il nipote, che un uomo solo abbia potutoscrivere tante e sì grandi cose; ma molto più è a stupireche abbiale scritte un uomo che si esercitò ancora tal-volta nel trattare le cause, che molto tempo dovette im-piegare nel soddisfare o a' doveri dell'amicizia, o a' co-mandi de' principi, e che morì in età di 56 anni. Ma ilbuon uso del tempo gli rende facile ciò che ad altri nonsembrerebbe possibile. Parchissimo di cibo ugualmenteche di sonno, poco dopo la mezza notte cominciava isuoi studj, e ad essi consacrava tutto quel tempo chedalle altre occupazioni gli rimaneva libero. Anche men-tre cenava, e mentre era in viaggio, e mentre stava nelbagno, voleva che gli si leggesse un libro, e scriveva, odettava ad altri ciò che trovava degno di riflessione; per-ciocchè non mai prese libro alcun tra le mani su cui nonfacesse qualche annotazione. In fatti egli lasciò al nipotecento ottanta volumi di tali memorie scritti in ogni parte

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Suoi conti-nui studi.

e di carattere minutissimo. Era per tal maniera sollecitoche inutile non gli rimanesse qualunque ancor menomaparticella di tempo, che un giorno avendo il suo lettoresbagliato nel leggere alcune cose di un cotal libro, e per-ciò ripetendo egli quel passo, Plinio a lui rivolto; e nonl'avevi dunque inteso? gli disse; e rispostogli che si:perchè dunque ripeterlo? replicò; potevansi frattantoleggere dieci altre linee. E veduto una volta il nipote chestavasi passeggiando, potresti pure, gli disse, non gittarquesto tempo. Col qual tenore di vita intendesi più facil-mente, come egli dotato di pronto e vivace ingegno po-tesse al lavoro di tante opere trovar tempo.

XXI. E certo i XXXVI libri di Storia Natu-rale ch'è la sola opera che ci sia rimasta diPlinio, ci mostrano un uomo di profondo in-gegno e di vastissima erudizione. Io so chealcuni molto han trovato a riprendervi, e ta-

luno ancora ne ha parlato con quel disprezzo ch'è pro-prio di chi vuol acquistarsi fama coll'oscurare l'altrui; eil Blount rammenta (Censura celebr. auct. p. 119) le vil-lane ingiurie con cui taluno oltraggiò Plinio, dicendo,ch'egli fasciculariam facit, cuncta olfaciens, nihil degu-stans, omnia glutiens, nihil decoquens, lerna mendacio-rum, errorum oceanus; espressioni che appena da uncolto scrittor si userebbero parlando di un cerretano chemettesse in iscritto le fole che dal suo palco suol vende-re a' grossolani uditori. Nè è già che in Plinio non tro-

328

Pregi e di-fetti della sua Storia Naturale.

e di carattere minutissimo. Era per tal maniera sollecitoche inutile non gli rimanesse qualunque ancor menomaparticella di tempo, che un giorno avendo il suo lettoresbagliato nel leggere alcune cose di un cotal libro, e per-ciò ripetendo egli quel passo, Plinio a lui rivolto; e nonl'avevi dunque inteso? gli disse; e rispostogli che si:perchè dunque ripeterlo? replicò; potevansi frattantoleggere dieci altre linee. E veduto una volta il nipote chestavasi passeggiando, potresti pure, gli disse, non gittarquesto tempo. Col qual tenore di vita intendesi più facil-mente, come egli dotato di pronto e vivace ingegno po-tesse al lavoro di tante opere trovar tempo.

XXI. E certo i XXXVI libri di Storia Natu-rale ch'è la sola opera che ci sia rimasta diPlinio, ci mostrano un uomo di profondo in-gegno e di vastissima erudizione. Io so chealcuni molto han trovato a riprendervi, e ta-

luno ancora ne ha parlato con quel disprezzo ch'è pro-prio di chi vuol acquistarsi fama coll'oscurare l'altrui; eil Blount rammenta (Censura celebr. auct. p. 119) le vil-lane ingiurie con cui taluno oltraggiò Plinio, dicendo,ch'egli fasciculariam facit, cuncta olfaciens, nihil degu-stans, omnia glutiens, nihil decoquens, lerna mendacio-rum, errorum oceanus; espressioni che appena da uncolto scrittor si userebbero parlando di un cerretano chemettesse in iscritto le fole che dal suo palco suol vende-re a' grossolani uditori. Nè è già che in Plinio non tro-

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Pregi e di-fetti della sua Storia Naturale.

vinsi degli errori e delle puerili e popolari opinioni dalui troppo facilmente credute ed adottate. Ma in sì vastaopera, in cui necessariamente ei dovette giovarsi degliocchi e delle mani di molti, era egli possibile che acca-desse altrimenti? E i difetti di essa non son compensatiper avventura da pregi troppo maggiori? Io non vogliogiudicarne da me medesimo; ma penso che niuno ricu-serà di attenersi al parere del più ingegnoso conoscitoree del più elegante interprete della natura, che oggi viva,dico del celebre m. Buffon, uomo che assai più d'ognialtro dee conoscere i difetti e gli errori di Plinio. Or oda-si com'ei ne ragiona (Stor. Natur. rag. 1): "Plinio ha tra-vagliato sopra un piano assai più grande, e per avventu-ra troppo vasto: ha voluto abbracciar tutto, e pare ch'egliabbia misurata la natura, e trovatala ancor troppo picco-la per la stesa del suo ingegno: la sua Storia Naturalecomprende, oltre la storia degli animali, delle piante ede' minerali, la storia del cielo e della terra, la medicina,il commercio, la navigazione, la storia delle arti liberalie meccaniche, l'origine delle costumanze; tutte in fine lescienze naturali e tutte le umane arti; e ciò che v'ha dipiù sorprendente, si è che in ciascuna parte Plinio si mo-stra egualmente grande; la sublimità dell'idee, la nobiltàdello stile danno rissalto alla profonda erudizione; nonsolamente egli sapeva quanto si potea sapere a' suoitempi, ma possedeva quella facilità di pensare in grande,che moltiplica la scienza; avea quella finezza di rifles-sione, da cui dipende l'eleganza e il gusto, ed egli comu-nica a' suoi lettori una certa libertà d'ingegno, un ardir di

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vinsi degli errori e delle puerili e popolari opinioni dalui troppo facilmente credute ed adottate. Ma in sì vastaopera, in cui necessariamente ei dovette giovarsi degliocchi e delle mani di molti, era egli possibile che acca-desse altrimenti? E i difetti di essa non son compensatiper avventura da pregi troppo maggiori? Io non vogliogiudicarne da me medesimo; ma penso che niuno ricu-serà di attenersi al parere del più ingegnoso conoscitoree del più elegante interprete della natura, che oggi viva,dico del celebre m. Buffon, uomo che assai più d'ognialtro dee conoscere i difetti e gli errori di Plinio. Or oda-si com'ei ne ragiona (Stor. Natur. rag. 1): "Plinio ha tra-vagliato sopra un piano assai più grande, e per avventu-ra troppo vasto: ha voluto abbracciar tutto, e pare ch'egliabbia misurata la natura, e trovatala ancor troppo picco-la per la stesa del suo ingegno: la sua Storia Naturalecomprende, oltre la storia degli animali, delle piante ede' minerali, la storia del cielo e della terra, la medicina,il commercio, la navigazione, la storia delle arti liberalie meccaniche, l'origine delle costumanze; tutte in fine lescienze naturali e tutte le umane arti; e ciò che v'ha dipiù sorprendente, si è che in ciascuna parte Plinio si mo-stra egualmente grande; la sublimità dell'idee, la nobiltàdello stile danno rissalto alla profonda erudizione; nonsolamente egli sapeva quanto si potea sapere a' suoitempi, ma possedeva quella facilità di pensare in grande,che moltiplica la scienza; avea quella finezza di rifles-sione, da cui dipende l'eleganza e il gusto, ed egli comu-nica a' suoi lettori una certa libertà d'ingegno, un ardir di

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pensare, ch'è il germe della filosofia. L'opera di lui tuttavarietà, siccome è la natura, la dipinge sempre a bei co-lori; ella è, se si vuole, una compilazione di tutto ciò cheera stato scritto avanti a lui, una copia di quanto era sta-to fatto di eccellente e di utile a sapersi, ma questa copiaha in sè de' tratti così maestosi, questa compilazionecontiene cose raccolte in una foggia nuova, ch'è preferi-bile alle maggior parte dell'opere originali che trattanodegli stessi argomenti". Così egli; e finchè non sorga unaltro più di lui versato nello studio della natura, che negiudichi altrimenti, ci atterremo noi pure a questo pare-re. Perciò che appartiene allo stile di Plinio, esso non hala purezza nè l'eleganza de' più antichi scrittori; ma è diuna precisione e di una forza non ordinaria. Questa non-dimeno va spesso più oltre che non converrebbe, e spar-ge nel discorso uno stento e una oscurità che stanca ilettori; e inoltre i sentimenti di cui adorna il suo raccon-to, sovente sono ingegnosi e leggiadri, ma talvolta anco-ra son raffinati di troppo, e sforzati. Convien però con-fessar che l'oscurità nasce in gran parte da' codici guastie pieni di errori che son poi passati ancor nelle stampe.Un'opera così vasta e di un argomento di cui assai pocodovean naturalmente sapere coloro che ne facevano co-pie, non poteva non essere contraffatta e adulterata; e ladiligenza de' commentatori nel confrontarne i diversicodici non ha ancor potuto, nè potrà forse per avventuragiammai riparare abbastanza un tal danno (31).31 Dopo aver scritto fin qui della Storia Naturale di Plinio, mi sono venuti fi-

nalmente alle mani i tre primi tomi della nuova edizione che l'anno scorso

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pensare, ch'è il germe della filosofia. L'opera di lui tuttavarietà, siccome è la natura, la dipinge sempre a bei co-lori; ella è, se si vuole, una compilazione di tutto ciò cheera stato scritto avanti a lui, una copia di quanto era sta-to fatto di eccellente e di utile a sapersi, ma questa copiaha in sè de' tratti così maestosi, questa compilazionecontiene cose raccolte in una foggia nuova, ch'è preferi-bile alle maggior parte dell'opere originali che trattanodegli stessi argomenti". Così egli; e finchè non sorga unaltro più di lui versato nello studio della natura, che negiudichi altrimenti, ci atterremo noi pure a questo pare-re. Perciò che appartiene allo stile di Plinio, esso non hala purezza nè l'eleganza de' più antichi scrittori; ma è diuna precisione e di una forza non ordinaria. Questa non-dimeno va spesso più oltre che non converrebbe, e spar-ge nel discorso uno stento e una oscurità che stanca ilettori; e inoltre i sentimenti di cui adorna il suo raccon-to, sovente sono ingegnosi e leggiadri, ma talvolta anco-ra son raffinati di troppo, e sforzati. Convien però con-fessar che l'oscurità nasce in gran parte da' codici guastie pieni di errori che son poi passati ancor nelle stampe.Un'opera così vasta e di un argomento di cui assai pocodovean naturalmente sapere coloro che ne facevano co-pie, non poteva non essere contraffatta e adulterata; e ladiligenza de' commentatori nel confrontarne i diversicodici non ha ancor potuto, nè potrà forse per avventuragiammai riparare abbastanza un tal danno (31).31 Dopo aver scritto fin qui della Storia Naturale di Plinio, mi sono venuti fi-

nalmente alle mani i tre primi tomi della nuova edizione che l'anno scorso

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XXII. Gianfrancesco Buddeo, seguendo an-cora l'autorità di altri scrittori, ha annovera-to Plinio tra gli atei (De atheismo l. 1, §.22). Nè si può negare che più volte egli par-

li in maniera che dia luogo a tale accusa. Ei nega, anzideride, la provvidenza con cui Dio veglia sopra le uma-

1771, se n'è pubblicata in Parigi, colla traduzion francese di rincontro al te-sto, e con copiose ed erudite annotazioni. Ho veduto con piacere che ildotto editore convien meco nel giudizio ch'io ho recato così dell'opera diPlinio, come de' comenti del p. Arduino. La traduzion è esatta comune-mente e fedele, il che, trattandosi di tal libro, ne è piccolo pregio. Le notesono in gran parte prese da quelle del p. Arduino: ma ve ne ha ancor molteaggiunte di nuovo; e sarebbe forse stato opportuno consiglio il distinguerle une dall'altre. Ma come mai è avvenuto che le due prime note dell'edito-re contengano due non leggeri errori? Sulla vita di Plinio attribuita a Sve-tonio egli dice in primo luogo: L'Arduino pretende, ma senza prove, che illibro delle vite degli uomini illustri non sia di Svetonio. Non è ciò che negail p. Arduino: ma sì che da Svetonio sia stata scritta la Vita di Plinio, che alui si attribuisce; nel che appena vi ha tra i moderni esatti scrittori, chi nonsia di tal parere. L'altra nota si è alla voce Novocomensis usata nella mede-sima Vita. Svetonio, dic'egli, è il solo che faccia menzione di Novum Co-mum. E come mai? Catullo non dice egli espressamente: Novi relinquensComi moenia (Carm. 35)? E Strabone nol nomina egli pure collo stessonome (l. 5 Geogr.)? Io non posso pur convenire coll'editore nel sentimentodel p. Arduino da lui seguito, che la prefazione della Storia Naturale siasupposta a Plinio. Io non dirò col march. Maffei che in tutto Plinio non visia nulla di più pliniano (Verona illustr. par. 2, l. 1); ma dirò bene che nonvi riconosco quella sì grande diversità di stile che vi ravvisano alcuni; eche parmi difficile che un impostore abbia potuto contraffare in tal modonon tanto lo stile quanto i sentimenti di Plinio. Ma benchè e nelle note enella traduzione medesima sian corsi alcuni errori, questa è opera nondi-meno da aversi in gran pregio. A poco a poco si lavorerà tanto intorno aquesto sì difficile autore, che si giugnerà finalmente ad averlo sì più chiaroe più utile che non è stato per l'addietro. Sarebbe a bramare che una societàdi valorosi Italiani, geografi, naturalisti, filosofi, astronomi, medici, e pro-fessori delle bell'arti si unisse insieme a darci una bella versione italiana,corredata con ampie e dotte annotazioni, di un sì grande autore. Non è pos-

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S'ei debba annoverarsitra gli atei.

XXII. Gianfrancesco Buddeo, seguendo an-cora l'autorità di altri scrittori, ha annovera-to Plinio tra gli atei (De atheismo l. 1, §.22). Nè si può negare che più volte egli par-

li in maniera che dia luogo a tale accusa. Ei nega, anzideride, la provvidenza con cui Dio veglia sopra le uma-

1771, se n'è pubblicata in Parigi, colla traduzion francese di rincontro al te-sto, e con copiose ed erudite annotazioni. Ho veduto con piacere che ildotto editore convien meco nel giudizio ch'io ho recato così dell'opera diPlinio, come de' comenti del p. Arduino. La traduzion è esatta comune-mente e fedele, il che, trattandosi di tal libro, ne è piccolo pregio. Le notesono in gran parte prese da quelle del p. Arduino: ma ve ne ha ancor molteaggiunte di nuovo; e sarebbe forse stato opportuno consiglio il distinguerle une dall'altre. Ma come mai è avvenuto che le due prime note dell'edito-re contengano due non leggeri errori? Sulla vita di Plinio attribuita a Sve-tonio egli dice in primo luogo: L'Arduino pretende, ma senza prove, che illibro delle vite degli uomini illustri non sia di Svetonio. Non è ciò che negail p. Arduino: ma sì che da Svetonio sia stata scritta la Vita di Plinio, che alui si attribuisce; nel che appena vi ha tra i moderni esatti scrittori, chi nonsia di tal parere. L'altra nota si è alla voce Novocomensis usata nella mede-sima Vita. Svetonio, dic'egli, è il solo che faccia menzione di Novum Co-mum. E come mai? Catullo non dice egli espressamente: Novi relinquensComi moenia (Carm. 35)? E Strabone nol nomina egli pure collo stessonome (l. 5 Geogr.)? Io non posso pur convenire coll'editore nel sentimentodel p. Arduino da lui seguito, che la prefazione della Storia Naturale siasupposta a Plinio. Io non dirò col march. Maffei che in tutto Plinio non visia nulla di più pliniano (Verona illustr. par. 2, l. 1); ma dirò bene che nonvi riconosco quella sì grande diversità di stile che vi ravvisano alcuni; eche parmi difficile che un impostore abbia potuto contraffare in tal modonon tanto lo stile quanto i sentimenti di Plinio. Ma benchè e nelle note enella traduzione medesima sian corsi alcuni errori, questa è opera nondi-meno da aversi in gran pregio. A poco a poco si lavorerà tanto intorno aquesto sì difficile autore, che si giugnerà finalmente ad averlo sì più chiaroe più utile che non è stato per l'addietro. Sarebbe a bramare che una societàdi valorosi Italiani, geografi, naturalisti, filosofi, astronomi, medici, e pro-fessori delle bell'arti si unisse insieme a darci una bella versione italiana,corredata con ampie e dotte annotazioni, di un sì grande autore. Non è pos-

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S'ei debba annoverarsitra gli atei.

ne cose (l. 2, c. 7); e nega ancora e combatte l'immorta-lità dell'anima (l. 7, c. 55). Altrove nondimeno ei sem-bra adottare il sistema degli stoici, e afferma il mondoessere sacro, eterno, immenso, che non ha avuto princi-pio, ne avrà fine, in somma il mondo stesso essere Dio(l. 2, c. 1). Da' quali e da altri diversi passi di Plinio, chesembrano contradirsi l'un l'altro, saggiamente raccoglieil Bruckero (t. 2, p. 613) ch'ei non può dirsi ateo dichia-rato e sicuro, ma che dubbioso in mezzo a sì diversi pa-reri, e lontano dal decidere cosa alcuna su un punto chenon apparteneva al suo intento, egli in diverse occasioniadottò diversi sistemi senza preferire l'uno all'altro.

XXIII. Benchè non sia nostro costume ilparlare delle edizioni degli autori di cui trat-tiamo, quella nondimeno di Plinio fatta dalp. Arduino è così celebre pel gran bene nonmeno che pel gran male che se n'è detto, che

parmi opportuno il dirne qui alcuna cosa. Egli la intra-prese in età ancor giovanile, e non avendo per anchecompito lo studio della Teologia (V. Bibl. Franc. t. 30,p. 186, e Chauf. Dict. art. “Hardovin”) e ne fece la pri-ma edizione l'an. 1685 in cinque tomi in quarto; posciane diè la seconda con più mutazioni ed aggiunte l'an.1723 in tre tomi in foglio. I giornalisti comunemente nedisser gran lodi. Io recherò qui solamente l'elogio che nefecero gli autori del Journal des Savans, il giudizio de'

sibile che un uomo solo possa giungere a tanto.

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Edizione diPlinio fatta dal p. Ar-duino.

ne cose (l. 2, c. 7); e nega ancora e combatte l'immorta-lità dell'anima (l. 7, c. 55). Altrove nondimeno ei sem-bra adottare il sistema degli stoici, e afferma il mondoessere sacro, eterno, immenso, che non ha avuto princi-pio, ne avrà fine, in somma il mondo stesso essere Dio(l. 2, c. 1). Da' quali e da altri diversi passi di Plinio, chesembrano contradirsi l'un l'altro, saggiamente raccoglieil Bruckero (t. 2, p. 613) ch'ei non può dirsi ateo dichia-rato e sicuro, ma che dubbioso in mezzo a sì diversi pa-reri, e lontano dal decidere cosa alcuna su un punto chenon apparteneva al suo intento, egli in diverse occasioniadottò diversi sistemi senza preferire l'uno all'altro.

XXIII. Benchè non sia nostro costume ilparlare delle edizioni degli autori di cui trat-tiamo, quella nondimeno di Plinio fatta dalp. Arduino è così celebre pel gran bene nonmeno che pel gran male che se n'è detto, che

parmi opportuno il dirne qui alcuna cosa. Egli la intra-prese in età ancor giovanile, e non avendo per anchecompito lo studio della Teologia (V. Bibl. Franc. t. 30,p. 186, e Chauf. Dict. art. “Hardovin”) e ne fece la pri-ma edizione l'an. 1685 in cinque tomi in quarto; posciane diè la seconda con più mutazioni ed aggiunte l'an.1723 in tre tomi in foglio. I giornalisti comunemente nedisser gran lodi. Io recherò qui solamente l'elogio che nefecero gli autori del Journal des Savans, il giudizio de'

sibile che un uomo solo possa giungere a tanto.

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Edizione diPlinio fatta dal p. Ar-duino.

quali non penso che si avrà da alcuno in conto di parzia-le ed interessato: "Si può affermare, dicon essi (Journ.des Sav. 1724, p. 322), che il Plinio del p. Arduino, chefu pubblicato la prima volta l'an. 1681, è come il capod'opera delle edizioni fatte ad uso del Delfino, o si con-sideri il prodigioso numero di correzioni ch'egli ha fattenel testo di questo famoso naturalista, o si abbia riguar-do a' nuovi lumi ch'egli offre per l'intelligenza d'infinitipassi non intesi finora da' più dotti interpreti. Per giudi-care della grandezza di un tal lavoro riguardo al primoarticolo, basti scorrere il catalogo delle correzioni, cheegli ha fatto stampare al fine di ciascun volume. Esseson frutto del confronto de' migliori manoscritti di Pli-nio e di tutte le edizioni, e dell'ingegno del commentato-re, ec.". Ma altri ne parlarono diversamente. E il primo,ch'io sappia, a levarsi contra questa edizione, fu Giov. leClerc, il quale si dolse singolarmente (Bibl. univ. t. 5, p.3, ec.) del poco favorevol giudizio che il p. Arduinoavea dato intorno all'osservazioni del Salmasio sopraPlinio, delle quali per altro, dic'egli, "il p. Arduino si ègiovato non poco, ma senza citarle: e ove ha volutocombatterle, spesso è caduto in errore". Il p. Arduino inuna sua opera intitolata Antirrheticus de Nummis anti-quis (p. 138) fece qualche risposta al le Clerc; ma questinon avvezzo a ritirarsi il primo dal campo di battaglia dinuovo se gli volse contro (Bibl. univ. t. 15, p. 246) a di-fesa del suo Salmasio. Ma una critica ancora più rigoro-sa, perchè più universale, fu pubblicata contro la secon-da edizione di quest'opera. Il sig. Crevier prof. nell'Univ.

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quali non penso che si avrà da alcuno in conto di parzia-le ed interessato: "Si può affermare, dicon essi (Journ.des Sav. 1724, p. 322), che il Plinio del p. Arduino, chefu pubblicato la prima volta l'an. 1681, è come il capod'opera delle edizioni fatte ad uso del Delfino, o si con-sideri il prodigioso numero di correzioni ch'egli ha fattenel testo di questo famoso naturalista, o si abbia riguar-do a' nuovi lumi ch'egli offre per l'intelligenza d'infinitipassi non intesi finora da' più dotti interpreti. Per giudi-care della grandezza di un tal lavoro riguardo al primoarticolo, basti scorrere il catalogo delle correzioni, cheegli ha fatto stampare al fine di ciascun volume. Esseson frutto del confronto de' migliori manoscritti di Pli-nio e di tutte le edizioni, e dell'ingegno del commentato-re, ec.". Ma altri ne parlarono diversamente. E il primo,ch'io sappia, a levarsi contra questa edizione, fu Giov. leClerc, il quale si dolse singolarmente (Bibl. univ. t. 5, p.3, ec.) del poco favorevol giudizio che il p. Arduinoavea dato intorno all'osservazioni del Salmasio sopraPlinio, delle quali per altro, dic'egli, "il p. Arduino si ègiovato non poco, ma senza citarle: e ove ha volutocombatterle, spesso è caduto in errore". Il p. Arduino inuna sua opera intitolata Antirrheticus de Nummis anti-quis (p. 138) fece qualche risposta al le Clerc; ma questinon avvezzo a ritirarsi il primo dal campo di battaglia dinuovo se gli volse contro (Bibl. univ. t. 15, p. 246) a di-fesa del suo Salmasio. Ma una critica ancora più rigoro-sa, perchè più universale, fu pubblicata contro la secon-da edizione di quest'opera. Il sig. Crevier prof. nell'Univ.

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di Parigi, e celebre per molte erudite opere date allaluce, due lettere diè alle stampe, la prima nel 1725, laseconda nel 1726, in cui riprese il p. Arduino di moltierrori in molti punti d'antichità e di storia da lui com-messi (V. Journ. des Sav. 1726, p. 41, 583, e Hist. litt.de l'Europe t. 1, p. 231; t. 4, p. 191). Il p. Arduino inserìa sua difesa nelle Memorie di Trevoux (ann. 1726, oct.p. 1904) una breve risposta in cui con una cert'aria di su-periorità, che ben si può perdonare a un vecchio ottoge-nario, qual egli era allora, che risponde ad un giovane enuovo autore, come era allora m. Crevier, dopo aver det-to qualche cosa di due errori attribuitigli dal suo avver-sario, mostrò di non curarsi delle altre accuse, come nonmeritevoli di risposta. Ma il Crevier non si tacque, e unaterza lettera diè alla luce l'ann. 1727 (V. Journ. des Sav.1727, p. 616), in cui e ribattè le ragioni del p. Arduinoarrecate in sua difesa, e nuovi errori scoperse ne' com-menti di Plinio. E a parlare sinceramente, non si può ne-gare che ve n'abbia molti. Ne abbiamo noi pure notatialcuni in questo tomo, e nel precedente ancora, per tace-re di molti altri de' quali lo ha di recente accusato il ch.co. Antongius. della Torre di Rezzonico nelle sue Eser-citazioni pliniane. In un'opera di sì gran mole, e in cui sitratta, per così dire, di quanto havvi al mondo, è egli astupire che un uomo, benchè dottissimo, sia inciampatopiù volte? Ma questi errori da quanti pregi non son com-pensati? Io voglio ancora concedere che tutti i falli cheal p. Arduino sono stati opposti, gli siano stati rinfaccia-ti a ragione. Ma che sono essi finalmente in confronto di

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di Parigi, e celebre per molte erudite opere date allaluce, due lettere diè alle stampe, la prima nel 1725, laseconda nel 1726, in cui riprese il p. Arduino di moltierrori in molti punti d'antichità e di storia da lui com-messi (V. Journ. des Sav. 1726, p. 41, 583, e Hist. litt.de l'Europe t. 1, p. 231; t. 4, p. 191). Il p. Arduino inserìa sua difesa nelle Memorie di Trevoux (ann. 1726, oct.p. 1904) una breve risposta in cui con una cert'aria di su-periorità, che ben si può perdonare a un vecchio ottoge-nario, qual egli era allora, che risponde ad un giovane enuovo autore, come era allora m. Crevier, dopo aver det-to qualche cosa di due errori attribuitigli dal suo avver-sario, mostrò di non curarsi delle altre accuse, come nonmeritevoli di risposta. Ma il Crevier non si tacque, e unaterza lettera diè alla luce l'ann. 1727 (V. Journ. des Sav.1727, p. 616), in cui e ribattè le ragioni del p. Arduinoarrecate in sua difesa, e nuovi errori scoperse ne' com-menti di Plinio. E a parlare sinceramente, non si può ne-gare che ve n'abbia molti. Ne abbiamo noi pure notatialcuni in questo tomo, e nel precedente ancora, per tace-re di molti altri de' quali lo ha di recente accusato il ch.co. Antongius. della Torre di Rezzonico nelle sue Eser-citazioni pliniane. In un'opera di sì gran mole, e in cui sitratta, per così dire, di quanto havvi al mondo, è egli astupire che un uomo, benchè dottissimo, sia inciampatopiù volte? Ma questi errori da quanti pregi non son com-pensati? Io voglio ancora concedere che tutti i falli cheal p. Arduino sono stati opposti, gli siano stati rinfaccia-ti a ragione. Ma che sono essi finalmente in confronto di

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tanti vantaggi che questa edizione ci ha arrecati? Se egliha guasti e contraffatti a capriccio alcuni passi, se altrine ha spiegati fuor d'ogni verisomiglianza, se ha affer-mate alcune cose false e improbabili, e se perciò meritabiasimo non deesegli ancora gran lode per tanti altripassi da lui prima d'ogni altro felicemente ristabiliti, pertanti chiaramente spiegati e per l'immenso corredo dierudizione con cui ha illustrato questo per l'addietro sioscuro autore? Io non cederò ad alcuno nel condannaregli stranissimi paradossi che in molte sue opere, tutteperò posteriori alla prima edizione di Plinio, ha sparsi esostenuti, troppo abusando del suo ingegno e del suo sa-pere, il p. Arduino. Ma non parmi convenire a giusto eimparziale estimator delle cose il volere che, perchè unotalvolta meritò riprensione, la meriti sempre, e il biasi-mare tutte l'opere di un autore perchè alcune sono a ra-gion biasimate.

XXIV. Degli altri filosofi di questa età cispediremo più facilmente, perchè o nullaabbiamo de' loro scritti, o furono stranieri, e

solo per qualche tempo vissero in Roma. Alcuni di essidieder saggio della loro filosofia più colla generosa lormorte, che co' loro studj. Seneca esalta con somme lodi(De tranq. Animi c. 14) la costanza di Canio Giulo, o,come altri leggono, Cano Giulio, il quale dal crudeleCaligola dannato a morte, ne' dieci giorni che dopo lacondanna ancor sopravvisse, fu tranquillo e lieto per

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Altri filoso-fi in Roma.

tanti vantaggi che questa edizione ci ha arrecati? Se egliha guasti e contraffatti a capriccio alcuni passi, se altrine ha spiegati fuor d'ogni verisomiglianza, se ha affer-mate alcune cose false e improbabili, e se perciò meritabiasimo non deesegli ancora gran lode per tanti altripassi da lui prima d'ogni altro felicemente ristabiliti, pertanti chiaramente spiegati e per l'immenso corredo dierudizione con cui ha illustrato questo per l'addietro sioscuro autore? Io non cederò ad alcuno nel condannaregli stranissimi paradossi che in molte sue opere, tutteperò posteriori alla prima edizione di Plinio, ha sparsi esostenuti, troppo abusando del suo ingegno e del suo sa-pere, il p. Arduino. Ma non parmi convenire a giusto eimparziale estimator delle cose il volere che, perchè unotalvolta meritò riprensione, la meriti sempre, e il biasi-mare tutte l'opere di un autore perchè alcune sono a ra-gion biasimate.

XXIV. Degli altri filosofi di questa età cispediremo più facilmente, perchè o nullaabbiamo de' loro scritti, o furono stranieri, e

solo per qualche tempo vissero in Roma. Alcuni di essidieder saggio della loro filosofia più colla generosa lormorte, che co' loro studj. Seneca esalta con somme lodi(De tranq. Animi c. 14) la costanza di Canio Giulo, o,come altri leggono, Cano Giulio, il quale dal crudeleCaligola dannato a morte, ne' dieci giorni che dopo lacondanna ancor sopravvisse, fu tranquillo e lieto per

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Altri filoso-fi in Roma.

modo, che quando gli venne intimato di andare al sup-plicio, essendo egli attualmente seduto al giuoco, ehguardati, disse ridendo al suo avversario, dal vantarti diavermi vinto, quando io non potrò più parare in mia di-fesa. Maggiori ancora sono gli elogi con cui parla diTrasea Peto lo stor. Tacito che una gran parte del libroXVI de' suoi Annali ha impiegato in rammentarne lesingolari virtù e la costanza con cui sostenne la morte,alla quale da Nerone fu condannato. Egli è a dolersi chequesta narrazione nel più bello rimanga tronca e imper-fetta, essendosi smarrita l'ultima parte del mentovato li-bro; ma una sola espressione di Tacito basta a farci com-prendere in quale stima egli fosse; perciocchè ei dice (l.16. Ann. c. 20) che Nerone, dopo aver trucidati molti de'più saggi Romani, pensò finalmente di distrugger la vir-tù stessa, uccidendo Trasea Peto. Celebre parimente fu aquesti tempi Elvidio Prisco genero di Trasea, il qualeall'occasione della morte del suocero dal furibondo Ne-rone cacciato in esilio, poscia tornato a Roma nell'impe-ro di Galba, coll'eloquenza non meno che colla filosofi-ca sua libertà vi si rendette illustre. Di lui parla assailungamente Tacito (l. 4 Hist. c. 4, ec.). Ma la virtù degliStoici avea una non so qual rozza e indomabil fortezzache spesso degenerava in ardire e in impudenza. E cosìavvenne ad Elvidio, il quale, come altrove abbiamo ac-cennato (V. sup. n. 6), così altiero mostrossi con un de'migliori imperadori, cioè con Vespasiano, che questidopo averlo lungamente sofferto, costretto fu finalmentead ordinarne la morte. Di simil tempra dovea esser Mu-

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modo, che quando gli venne intimato di andare al sup-plicio, essendo egli attualmente seduto al giuoco, ehguardati, disse ridendo al suo avversario, dal vantarti diavermi vinto, quando io non potrò più parare in mia di-fesa. Maggiori ancora sono gli elogi con cui parla diTrasea Peto lo stor. Tacito che una gran parte del libroXVI de' suoi Annali ha impiegato in rammentarne lesingolari virtù e la costanza con cui sostenne la morte,alla quale da Nerone fu condannato. Egli è a dolersi chequesta narrazione nel più bello rimanga tronca e imper-fetta, essendosi smarrita l'ultima parte del mentovato li-bro; ma una sola espressione di Tacito basta a farci com-prendere in quale stima egli fosse; perciocchè ei dice (l.16. Ann. c. 20) che Nerone, dopo aver trucidati molti de'più saggi Romani, pensò finalmente di distrugger la vir-tù stessa, uccidendo Trasea Peto. Celebre parimente fu aquesti tempi Elvidio Prisco genero di Trasea, il qualeall'occasione della morte del suocero dal furibondo Ne-rone cacciato in esilio, poscia tornato a Roma nell'impe-ro di Galba, coll'eloquenza non meno che colla filosofi-ca sua libertà vi si rendette illustre. Di lui parla assailungamente Tacito (l. 4 Hist. c. 4, ec.). Ma la virtù degliStoici avea una non so qual rozza e indomabil fortezzache spesso degenerava in ardire e in impudenza. E cosìavvenne ad Elvidio, il quale, come altrove abbiamo ac-cennato (V. sup. n. 6), così altiero mostrossi con un de'migliori imperadori, cioè con Vespasiano, che questidopo averlo lungamente sofferto, costretto fu finalmentead ordinarne la morte. Di simil tempra dovea esser Mu-

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sonio Rufo stoico egli pure; poichè Tacito piacevolmen-te deride l'importuno e pedantesco suo filosofar tra' sol-dati, i quali non poteron farlo tacere se non con gli urti eco' calci (l. 3 Hist. c. 81). Ei però doveva essere in mag-giore stima che non gli altri, poichè come narra Dione(l. 66), quando per ordine di Vespasiano tutti i filosoficacciati furon d'Italia, al solo Musonio fu permesso diarrestarsi in Roma. Di questi quattro filosofi veggasi ciòche più ampiamente narra il Bruckero (t. 1, p. 83, 84,540, ec.) e intorno a Musonio particolarmente si posso-no consultare le Ricerche di m. Burigny che ha raccoltoi passi degli antichi scrittori a lui appartenenti (Hist. del'Acad. des Inscr. t. 31, p. 131). Un Papirio Fabiano filo-sofo che scritto avea libri a politica appartenenti, lodasimolto da Seneca (ep. 100); ed altri pure ne veggiamoqua e là nominati, cui troppo lungo sarebbe il voler ram-mentare distintamente.

XXV. Ma assai maggiore fu il numero deglistranieri filosofi vissuti a questo tempo inRoma, che non de' romani. Io non parlo quidell'impostore Apollonio, perchè già ho di-mostrato quali ragioni mi sforzino a dubita-

re s'egli abbia mai posto piede in Roma. Ma in Roma fu-rono certamente e Sozione alessandrino maestro del fi-los. Seneca che di lui parla con lode (ep. 49, 108), e unaltro Musonio cinico di professione, di cui parla lunga-mente il Bruckero mostrando (t. 2, p. 501) ch'ei fu di-

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Gran nume-ro di filoso-fi greci nel-la stessa città.

sonio Rufo stoico egli pure; poichè Tacito piacevolmen-te deride l'importuno e pedantesco suo filosofar tra' sol-dati, i quali non poteron farlo tacere se non con gli urti eco' calci (l. 3 Hist. c. 81). Ei però doveva essere in mag-giore stima che non gli altri, poichè come narra Dione(l. 66), quando per ordine di Vespasiano tutti i filosoficacciati furon d'Italia, al solo Musonio fu permesso diarrestarsi in Roma. Di questi quattro filosofi veggasi ciòche più ampiamente narra il Bruckero (t. 1, p. 83, 84,540, ec.) e intorno a Musonio particolarmente si posso-no consultare le Ricerche di m. Burigny che ha raccoltoi passi degli antichi scrittori a lui appartenenti (Hist. del'Acad. des Inscr. t. 31, p. 131). Un Papirio Fabiano filo-sofo che scritto avea libri a politica appartenenti, lodasimolto da Seneca (ep. 100); ed altri pure ne veggiamoqua e là nominati, cui troppo lungo sarebbe il voler ram-mentare distintamente.

XXV. Ma assai maggiore fu il numero deglistranieri filosofi vissuti a questo tempo inRoma, che non de' romani. Io non parlo quidell'impostore Apollonio, perchè già ho di-mostrato quali ragioni mi sforzino a dubita-

re s'egli abbia mai posto piede in Roma. Ma in Roma fu-rono certamente e Sozione alessandrino maestro del fi-los. Seneca che di lui parla con lode (ep. 49, 108), e unaltro Musonio cinico di professione, di cui parla lunga-mente il Bruckero mostrando (t. 2, p. 501) ch'ei fu di-

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Gran nume-ro di filoso-fi greci nel-la stessa città.

verso dall'altro Musonio mentovato di sopra, e Demetriocinico egli pure, e vero esemplare della cinica villanamondanità, come abbiam veduto di sopra nella manieradi cui egli usò a riguardo, di Vespasiano. Celebri furonoancora e Anneo Cornuto africano di cui Persio sì grandielogi ci ha lasciato nelle sue Satire (sat. 5) e Dione so-prannomato per la sua eloquenza Grisostomo caro assaia Nerva e a Traiano, e da essi sommamente onorato, dicui abbiamo ancora molte Orazioni scritte in greco, poi-chè egli prima di volgersi alla filosofia avea tenutascuola di eloquenza; de' quali e di più altri filosofi siposson vedere più copiose notizie presso il Bruckero (t.2, p. 95, 501, 505, 537, 565, ec.). A me non pare oppor-tuno il trattenermi lungamente intorno a tali filosofi da'quali non può l'Italia ricever gran lode, poichè, non ebbela sorte di esser lor madre. Molto meno prenderò io aparlare del celebre Peregrino cinico di cui Luciano ciracconta sì strane cose, poichè ei non fu in Roma se nonper tempo assai breve, e oltre ciò la narrazion di Lucia-no, come ben dimostra il Bruckero (t. 2, p. 522), ha unacotal aria di favoloso e d'ironico, che ben si vede da luiessere almeno in gran parte finta a capriccio per farsibeffe de' filosofi cinici e molto più de' cristiani.

XXVI. Alcuni però di essi, che e lungamen-te vi vissero, e vi si renderono più illustri,son meritevoli di più distinta menzione. Evuolsi tra' primi nominare il celebre Epitte-

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Notizie e carattere di Epitteto.

verso dall'altro Musonio mentovato di sopra, e Demetriocinico egli pure, e vero esemplare della cinica villanamondanità, come abbiam veduto di sopra nella manieradi cui egli usò a riguardo, di Vespasiano. Celebri furonoancora e Anneo Cornuto africano di cui Persio sì grandielogi ci ha lasciato nelle sue Satire (sat. 5) e Dione so-prannomato per la sua eloquenza Grisostomo caro assaia Nerva e a Traiano, e da essi sommamente onorato, dicui abbiamo ancora molte Orazioni scritte in greco, poi-chè egli prima di volgersi alla filosofia avea tenutascuola di eloquenza; de' quali e di più altri filosofi siposson vedere più copiose notizie presso il Bruckero (t.2, p. 95, 501, 505, 537, 565, ec.). A me non pare oppor-tuno il trattenermi lungamente intorno a tali filosofi da'quali non può l'Italia ricever gran lode, poichè, non ebbela sorte di esser lor madre. Molto meno prenderò io aparlare del celebre Peregrino cinico di cui Luciano ciracconta sì strane cose, poichè ei non fu in Roma se nonper tempo assai breve, e oltre ciò la narrazion di Lucia-no, come ben dimostra il Bruckero (t. 2, p. 522), ha unacotal aria di favoloso e d'ironico, che ben si vede da luiessere almeno in gran parte finta a capriccio per farsibeffe de' filosofi cinici e molto più de' cristiani.

XXVI. Alcuni però di essi, che e lungamen-te vi vissero, e vi si renderono più illustri,son meritevoli di più distinta menzione. Evuolsi tra' primi nominare il celebre Epitte-

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Notizie e carattere di Epitteto.

to. Non vi fu uomo in apparenza più di lui infelice; natodi padri sì poveri, che convenne venderlo schiavo a unliberto di Nerone per mantenergli la vita; zoppo di unagamba, e sì privo d'ogni bene, che tutto il suo avere ri-ducevasi a un letticciuolo, a una lucerna di creta e a unavil coltrice entro un picciol tugurio ch'egli lasciava aper-to a chiunque, sicuro di non esser rubato (V. Suidam inEpict.). Ma in mezzo allo squallore della sua povertà,egli era sì ricco delle massime di una saggia filosofia,che da Gellio fu a ragione appellato il più grande tra i fi-losofi stoici (Noct. Att. l. 1, c. 2). Nè di esse valevasiegli soltanto a suo vantaggio, ma sforzavasi ancora dipersuaderle altrui, nel che egli avea una forza di ragio-nare così grande, che piegava ovunque volesse i suoiuditori (Arrianus præf. ad Diss. Epict.). Ma la sua virtùnon gli fu scudo bastevole contro il furore di Domizia-no; e quando questi cacciò in esilio tutti i filosofi, Epit-teto ancora vi fu compreso (Gell. l. 15, c. 11). Ritirossiegli dunque a Nicopoli, e vi mantenne il medesimo te-nor di vita. Se egli poscia tornasse a Roma, non è bencerto. Alcuni il raccolgono dalla famigliarità di cui ono-rollo Adriano, come racconta Sparziano (in Hadr. c. 16);ma non parmi argomento bastevole a provarlo. Adrianofece non pochi viaggi, ed è ben verisimile che in occa-sione di essi conoscesse Epitteto, e gli desse de' contras-segni di stima. E questa è pure l'opinione di Arrigo Dod-wello (Diss. de ætate Peripli Maris Eusini §. 9.), a cuiancora sembra probabile che regnando questo imperado-re morisse Epitteto; perciocchè, se fosse vero, come altri

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to. Non vi fu uomo in apparenza più di lui infelice; natodi padri sì poveri, che convenne venderlo schiavo a unliberto di Nerone per mantenergli la vita; zoppo di unagamba, e sì privo d'ogni bene, che tutto il suo avere ri-ducevasi a un letticciuolo, a una lucerna di creta e a unavil coltrice entro un picciol tugurio ch'egli lasciava aper-to a chiunque, sicuro di non esser rubato (V. Suidam inEpict.). Ma in mezzo allo squallore della sua povertà,egli era sì ricco delle massime di una saggia filosofia,che da Gellio fu a ragione appellato il più grande tra i fi-losofi stoici (Noct. Att. l. 1, c. 2). Nè di esse valevasiegli soltanto a suo vantaggio, ma sforzavasi ancora dipersuaderle altrui, nel che egli avea una forza di ragio-nare così grande, che piegava ovunque volesse i suoiuditori (Arrianus præf. ad Diss. Epict.). Ma la sua virtùnon gli fu scudo bastevole contro il furore di Domizia-no; e quando questi cacciò in esilio tutti i filosofi, Epit-teto ancora vi fu compreso (Gell. l. 15, c. 11). Ritirossiegli dunque a Nicopoli, e vi mantenne il medesimo te-nor di vita. Se egli poscia tornasse a Roma, non è bencerto. Alcuni il raccolgono dalla famigliarità di cui ono-rollo Adriano, come racconta Sparziano (in Hadr. c. 16);ma non parmi argomento bastevole a provarlo. Adrianofece non pochi viaggi, ed è ben verisimile che in occa-sione di essi conoscesse Epitteto, e gli desse de' contras-segni di stima. E questa è pure l'opinione di Arrigo Dod-wello (Diss. de ætate Peripli Maris Eusini §. 9.), a cuiancora sembra probabile che regnando questo imperado-re morisse Epitteto; perciocchè, se fosse vero, come altri

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ha asserito, ch'ei vivesse fino ai tempi di Marco Aurelio,converrebbe dire che oltrepassasse i cento anni di età,essendo egli stato vivo, come si è detto, fino da' tempi diNerone. Era egli in sì grande stima, che Luciano raccon-ta (Advers. indoctum libros embentem) che un cotale colprezzo di tremila dramme comperò la lucerna da lui usa-ta; ma questa è forse una capricciosa invenzione di que-sto scrittore. Più sicuro argomento del concetto, cheaveasi di Epitteto, si è il confronto che di lui fece il cele-bre Celso del Divin Redentore per combattere i Cristia-ni, e per mostrare che tra gl'Idolatri ancora vi erano virtùeroiche. Ma è a vedere la risposta che su questo puntogli fa Origene (Contra Cels. l. 7). Egli è certo però, cheEpitteto fu forse tra gl'Idolatri quegli che col lume dellaragione giungesse più oltre di tutti, e desse in se stesso ilpiù luminoso esempio di morali virtù; benchè per altrosia sembrato ad alcuni di scorgere in lui ancora un nonso che di quello stoico orgoglio che in altri filosofi ab-biam veduto (V. Mem. de Littèrat. De Desmolets t. 5,par. 2). Abbiamo sotto il nome di Epitteto, una disputada lui tenuta con Adriano; ma il Bruckero con evidentiragioni ha mostrato (t. 2, §. 571) ch'ella è un'impostura.Arriano di Nicomedia che ne fu discepolo, ci ha traman-dato molti de' discorsi uditi dalla bocca di questo illustrefilosofo, de' quali ci rimangono quattro libri, e una rac-colta di sentenze da lui pure usate, che diconsi ordina-riamente il Manuale di Epitteto. Aveane egli ancorascritta la Vita; ma essa è perita. Molti moderni l'hannoparimenti scritta, che dal Bruckero (p. 568) si annovera-

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ha asserito, ch'ei vivesse fino ai tempi di Marco Aurelio,converrebbe dire che oltrepassasse i cento anni di età,essendo egli stato vivo, come si è detto, fino da' tempi diNerone. Era egli in sì grande stima, che Luciano raccon-ta (Advers. indoctum libros embentem) che un cotale colprezzo di tremila dramme comperò la lucerna da lui usa-ta; ma questa è forse una capricciosa invenzione di que-sto scrittore. Più sicuro argomento del concetto, cheaveasi di Epitteto, si è il confronto che di lui fece il cele-bre Celso del Divin Redentore per combattere i Cristia-ni, e per mostrare che tra gl'Idolatri ancora vi erano virtùeroiche. Ma è a vedere la risposta che su questo puntogli fa Origene (Contra Cels. l. 7). Egli è certo però, cheEpitteto fu forse tra gl'Idolatri quegli che col lume dellaragione giungesse più oltre di tutti, e desse in se stesso ilpiù luminoso esempio di morali virtù; benchè per altrosia sembrato ad alcuni di scorgere in lui ancora un nonso che di quello stoico orgoglio che in altri filosofi ab-biam veduto (V. Mem. de Littèrat. De Desmolets t. 5,par. 2). Abbiamo sotto il nome di Epitteto, una disputada lui tenuta con Adriano; ma il Bruckero con evidentiragioni ha mostrato (t. 2, §. 571) ch'ella è un'impostura.Arriano di Nicomedia che ne fu discepolo, ci ha traman-dato molti de' discorsi uditi dalla bocca di questo illustrefilosofo, de' quali ci rimangono quattro libri, e una rac-colta di sentenze da lui pure usate, che diconsi ordina-riamente il Manuale di Epitteto. Aveane egli ancorascritta la Vita; ma essa è perita. Molti moderni l'hannoparimenti scritta, che dal Bruckero (p. 568) si annovera-

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no, a' quelli si possono aggiugnere il Cocquelin e il Da-cier nelle prefazioni alle lor traduzioni del suddetto Ma-nuale. Intorno a questo abbiamo una assai bella operettadel p. Mich. Mourgues della Comp. di Gesù di nuovo ri-stampata in Bouillon l'an. 1769: Paralello della moralecristiana con quella degli antichi filosofi, in cui a cantodel Manuale di Epitteto tradotto in francese aggiunge unManuale cristiano in cui le sentenze di Epitteto vengonoalla nostra religione adattate, e da essa perfezionate, einoltre un'antica parafrasi cristiana dello stesso Manualefatta già in greco, e da lui stesso recata in francese.

XXVII. Discepolo di Epitteto fu Favorinonativo di Arles, secondo Filostrato che neha scritta la Vita (Vit. Sophist. l. 1, c. 8),

amico di Gellio che spesso fa di lui menzione e ne ripor-ta parecchi detti (l. 5, c. 11, l. 12, c. 1; l. 14, c. 1; l. 17,c. 19; l. 18, c. 1, 7, ec.), di Plutarco il quale a lui dedicòalcuni suoi libri, e di altri dotti uomini di quel tempo.Par nondimeno che il tenor di sua vita fosse assai diver-so da quello del suo maestro (Philostr. l. c.; Lucian. inEunuco). Ma in ciò che appartiene a universalità di sa-pere, gli fu ancor superiore; poichè non solo egli fu va-loroso filosofo, e addetto assai alle dottrine platoniche,ma nella poesia ancora e nella storia esercitossi conlode. Già abbiam veduto per qual maniera egli fuggisseil pericolo d'incorrere la disgrazia di Adriano (V. c. 1, n.13). Questi, geloso al sommo della gloria d'uomo elo-

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Di Favori-no.

no, a' quelli si possono aggiugnere il Cocquelin e il Da-cier nelle prefazioni alle lor traduzioni del suddetto Ma-nuale. Intorno a questo abbiamo una assai bella operettadel p. Mich. Mourgues della Comp. di Gesù di nuovo ri-stampata in Bouillon l'an. 1769: Paralello della moralecristiana con quella degli antichi filosofi, in cui a cantodel Manuale di Epitteto tradotto in francese aggiunge unManuale cristiano in cui le sentenze di Epitteto vengonoalla nostra religione adattate, e da essa perfezionate, einoltre un'antica parafrasi cristiana dello stesso Manualefatta già in greco, e da lui stesso recata in francese.

XXVII. Discepolo di Epitteto fu Favorinonativo di Arles, secondo Filostrato che neha scritta la Vita (Vit. Sophist. l. 1, c. 8),

amico di Gellio che spesso fa di lui menzione e ne ripor-ta parecchi detti (l. 5, c. 11, l. 12, c. 1; l. 14, c. 1; l. 17,c. 19; l. 18, c. 1, 7, ec.), di Plutarco il quale a lui dedicòalcuni suoi libri, e di altri dotti uomini di quel tempo.Par nondimeno che il tenor di sua vita fosse assai diver-so da quello del suo maestro (Philostr. l. c.; Lucian. inEunuco). Ma in ciò che appartiene a universalità di sa-pere, gli fu ancor superiore; poichè non solo egli fu va-loroso filosofo, e addetto assai alle dottrine platoniche,ma nella poesia ancora e nella storia esercitossi conlode. Già abbiam veduto per qual maniera egli fuggisseil pericolo d'incorrere la disgrazia di Adriano (V. c. 1, n.13). Questi, geloso al sommo della gloria d'uomo elo-

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Di Favori-no.

quente e dotto, avrebbe voluto pur toglier di mezzo unfilosofo che potea contrastargli il primato. Ma Favorinoseppe sì destramente condursi, che l'imperadore non tro-vò mai motivo a cui appigliarsi per condannarlo (Dio l.69). E di qui nacque poi forse l'onorarlo ch'ei fece, e ildistinguerlo sopra tutti gli altri uomini dotti di quel tem-po (Spart. in Hadr.), volendo almeno acquistarsi famacol rendere onori ad un uomo cui non poteva ne vincerenè rovinare. Era egli, al dir di Fitostrato, in sì gran pre-gio in Roma, che da lui, sembrava quasi dipendere tuttala romana letteratura. Ma, a dir vero, agli elogi di Filo-strato, io non so condurmi a prestare gran fede, percioc-chè ei parmi scrittore che cerchi di lodare anzi che dinarrare. Comunque sia, ei certo doveva esser uomo assaidotto, come raccogliesi ancor da' libri in gran numero dalui scritti, che da Suida (Lex ad voc. “Phavorinus”) eposcia dal Fabricio (Bibl. gr. t. 2, p. 60) son rammentati.Di lui, oltre ciò che ne ha il Bruckero (t. 2, p. 166), sipuò vedere ciò che hanno scritto i Maurini nella StoriaLetteraria di Francia (t. 1, pag. 265).

XXVIII. Non disgiungiamo da Favorino ilsuo contemporaneo e amico Plutarco. Pocodi lui hanno scritto gli antichi, e le notizie a

lui appartenenti è convenuto raccoglierle in gran partedalle stesse sue opere. Tra i moderni più diligentementedi tutti ne hanno scritta la Vita l'inglese Dryden, e il Da-cier, il quale l'ha aggiunta alla traduzion francese ch'egli

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Di Plutar-co.

quente e dotto, avrebbe voluto pur toglier di mezzo unfilosofo che potea contrastargli il primato. Ma Favorinoseppe sì destramente condursi, che l'imperadore non tro-vò mai motivo a cui appigliarsi per condannarlo (Dio l.69). E di qui nacque poi forse l'onorarlo ch'ei fece, e ildistinguerlo sopra tutti gli altri uomini dotti di quel tem-po (Spart. in Hadr.), volendo almeno acquistarsi famacol rendere onori ad un uomo cui non poteva ne vincerenè rovinare. Era egli, al dir di Fitostrato, in sì gran pre-gio in Roma, che da lui, sembrava quasi dipendere tuttala romana letteratura. Ma, a dir vero, agli elogi di Filo-strato, io non so condurmi a prestare gran fede, percioc-chè ei parmi scrittore che cerchi di lodare anzi che dinarrare. Comunque sia, ei certo doveva esser uomo assaidotto, come raccogliesi ancor da' libri in gran numero dalui scritti, che da Suida (Lex ad voc. “Phavorinus”) eposcia dal Fabricio (Bibl. gr. t. 2, p. 60) son rammentati.Di lui, oltre ciò che ne ha il Bruckero (t. 2, p. 166), sipuò vedere ciò che hanno scritto i Maurini nella StoriaLetteraria di Francia (t. 1, pag. 265).

XXVIII. Non disgiungiamo da Favorino ilsuo contemporaneo e amico Plutarco. Pocodi lui hanno scritto gli antichi, e le notizie a

lui appartenenti è convenuto raccoglierle in gran partedalle stesse sue opere. Tra i moderni più diligentementedi tutti ne hanno scritta la Vita l'inglese Dryden, e il Da-cier, il quale l'ha aggiunta alla traduzion francese ch'egli

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Di Plutar-co.

ci ha data delle Vite degli uomini illustri di Plutarco.Questi, nativo di Cheronea nella Beozia, non ebbe vera-mente stabil dimora in Roma; ma vi venne più volte, etalvolta ancora vi si trattenne a lungo tempo. Il Dacierarreca buone ragioni a provare che la prima volta ch'eipose piede in Italia, non potè essere se non al fine delregno di Vespasiano; e che dopo la morte di Domizianopiù non vi fece ritorno. Quindi nella romana letteraturaei non fu molto versato, e confessa egli stesso che assaitardi erasi ad essa rivolto (in Vita Demosth.). Fu uomnondimeno e nella storia e nella filosofia sommamenteerudito, come ne fan fede le opere che di lui ci sono ri-maste, delle quali si può vedere il Fabricio (Bibl. gr. t. 3,p. 329). I più saggi però confessano ch'egli è filosofo di-lettevole più che profondo, benchè anche nel suo stile sitrovi una non so quale ingrata durezza (V. Bruck. t. 3, p.179, ec.). Quindi io penso che pochi approveranno l'elo-gio che di Plutarco ha fatto un moderno scrittore (V. IRecueil philos. et litt. de la Soc. de Bouillon p. 133, ec.)il quale, non contento di avergli data la preferenza inconfronto di Cicerone, non teme di dire (p. 138), ch'eglinon può senza ingiustizia negare a questo autore una su-periorità che gli antichi e i moderni gli contendono inva-no. Non si può egli dunque lodare un autore senza ab-bassarne un'altro? E questi smoderati elogi non nuocio-no essi alla fama di quelli a' quali si rendono, anzi chefarla maggiore?

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ci ha data delle Vite degli uomini illustri di Plutarco.Questi, nativo di Cheronea nella Beozia, non ebbe vera-mente stabil dimora in Roma; ma vi venne più volte, etalvolta ancora vi si trattenne a lungo tempo. Il Dacierarreca buone ragioni a provare che la prima volta ch'eipose piede in Italia, non potè essere se non al fine delregno di Vespasiano; e che dopo la morte di Domizianopiù non vi fece ritorno. Quindi nella romana letteraturaei non fu molto versato, e confessa egli stesso che assaitardi erasi ad essa rivolto (in Vita Demosth.). Fu uomnondimeno e nella storia e nella filosofia sommamenteerudito, come ne fan fede le opere che di lui ci sono ri-maste, delle quali si può vedere il Fabricio (Bibl. gr. t. 3,p. 329). I più saggi però confessano ch'egli è filosofo di-lettevole più che profondo, benchè anche nel suo stile sitrovi una non so quale ingrata durezza (V. Bruck. t. 3, p.179, ec.). Quindi io penso che pochi approveranno l'elo-gio che di Plutarco ha fatto un moderno scrittore (V. IRecueil philos. et litt. de la Soc. de Bouillon p. 133, ec.)il quale, non contento di avergli data la preferenza inconfronto di Cicerone, non teme di dire (p. 138), ch'eglinon può senza ingiustizia negare a questo autore una su-periorità che gli antichi e i moderni gli contendono inva-no. Non si può egli dunque lodare un autore senza ab-bassarne un'altro? E questi smoderati elogi non nuocio-no essi alla fama di quelli a' quali si rendono, anzi chefarla maggiore?

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XXIX. Di genere assai diverso fu il saperedel famoso Trasillo a' tempi di Tiberio.L'antico interprete di Giovenale lo dice

(sat. 6, v. 576) uomo in molte scienze versato: ed alcuneopere da lui scritte intorno alla musica e ad altri filosofi-ci argomenti si accennano dal Bruckero sulla testimo-nianza di antichi autori (t. 2, pag. 164), benchè altri pre-tendano che le opere a musica appartenenti sian di un al-tro Trasillo figliuol del primo. Veggansi intorno a ciò leRicerche dell'ab. Sevin (Mém. de l'Acad. des Inscr. t. 10,p. 89), il quale diligentemente ha esaminato tutto ciòche narrasi di Trasillo. Ma ciò che più celebre il rendettefu lo studio dell'astrologia giudiciaria, e l'uso che conTiberio ne fece. Questi piacevasi assai di questa arte allasospettosa sua indole troppo opportuna, e da Trasillo neapprendeva le leggi. Ma poco mancò che queste non riu-scisser fatali allo stesso maestro; poichè come racconta-no Tacito (l. 6 Ann. c. 21) e Dione (l. 55), avendo eglipredetto l'impero a Tiberio, mentre stavasi in Rodi, que-sti a lui rivolto, e di te, gli disse, che predicon, le stelle?Era questo un pericoloso cimento, poichè qualunque ri-sposta ei rendesse, poteva facilmente, da Tiberio esseresmentita. Egli dunque osservando le stelle, e misurandogli spazj de' cieli, mostrò di turbarsi, e con voce treman-te rispose ch'egli conosceva di essere in grave e forseestremo pericolo. Della qual risposta compiacendosi Ti-berio abbracciollo, ed esortatolo a non temere, accrebbevieppiù la confidenza che in lui avea. Lo stesso Dione(ib.) e Svetonio (in Tib. c. 14) raccontano che egli, dalla

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Dell'astrologoTrasillo.

XXIX. Di genere assai diverso fu il saperedel famoso Trasillo a' tempi di Tiberio.L'antico interprete di Giovenale lo dice

(sat. 6, v. 576) uomo in molte scienze versato: ed alcuneopere da lui scritte intorno alla musica e ad altri filosofi-ci argomenti si accennano dal Bruckero sulla testimo-nianza di antichi autori (t. 2, pag. 164), benchè altri pre-tendano che le opere a musica appartenenti sian di un al-tro Trasillo figliuol del primo. Veggansi intorno a ciò leRicerche dell'ab. Sevin (Mém. de l'Acad. des Inscr. t. 10,p. 89), il quale diligentemente ha esaminato tutto ciòche narrasi di Trasillo. Ma ciò che più celebre il rendettefu lo studio dell'astrologia giudiciaria, e l'uso che conTiberio ne fece. Questi piacevasi assai di questa arte allasospettosa sua indole troppo opportuna, e da Trasillo neapprendeva le leggi. Ma poco mancò che queste non riu-scisser fatali allo stesso maestro; poichè come racconta-no Tacito (l. 6 Ann. c. 21) e Dione (l. 55), avendo eglipredetto l'impero a Tiberio, mentre stavasi in Rodi, que-sti a lui rivolto, e di te, gli disse, che predicon, le stelle?Era questo un pericoloso cimento, poichè qualunque ri-sposta ei rendesse, poteva facilmente, da Tiberio esseresmentita. Egli dunque osservando le stelle, e misurandogli spazj de' cieli, mostrò di turbarsi, e con voce treman-te rispose ch'egli conosceva di essere in grave e forseestremo pericolo. Della qual risposta compiacendosi Ti-berio abbracciollo, ed esortatolo a non temere, accrebbevieppiù la confidenza che in lui avea. Lo stesso Dione(ib.) e Svetonio (in Tib. c. 14) raccontano che egli, dalla

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Dell'astrologoTrasillo.

spiaggia di Rodi veggendo venire una nave, predisse aTiberio ch'essa gli portava il lieto comando di tornarse-ne a Roma, e che così avvenne di fatto. Questa forse fula ragione per cui allor quando Tiberio tutti gli stranieriche facevan professione d'astrologia dannò a morte, eall'esilio que' ch'erano cittadini romani (Dio l. 57), ilsolo Trasillo potè impunemente, anzi con piaceredell'imperadore, continuare nella sua impostura. Ma eglialmeno seppe talvolta usarne a vantaggio altrui; percioc-chè Tiberio vicino al fin di sua vita fatto sempre più so-spettoso e crudele già avea risoluto di fare un'orrendastrage de' più ragguardevoli cittadini, e di molti ancoradella sua famiglia; quando Trasillo per sospendere sì fe-ral colpo assicurò Tiberio che dieci anni ancora gli rima-neano a vivere; e di se stesso al contrario gli disse chepresto e al tal giorno determinato sarebbe morto: il cheessendo veramente avvenuto, Tiberio lusingossi cheavrebbe potuto con agio soddisfare il suo furore; ma po-scia sorpreso anch'egli da morte non potè ottenerlo (Diol. 58; Svet. in Tib. c. 62). Non fa bisogno ch'io qui mitrattenga a mostrare che non potea certo Trasillocoll'aiuto dell'astrologia predire tai cose, e quindi deb-bonsi avere in conto di favolosi cotai racconti, o attri-buire al caso, o ad altra ragione, s'egli potè indovinarqualche cosa agli altri occulta. Ma le cose che di Trasil-lo si narrano, ci fan vedere che, non ostante il bando diRoma due volte a' tempi d'Augusto agli astrologi inti-mato, essi viveano in Roma, e in Roma esercitavano im-punemente la loro arte.

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spiaggia di Rodi veggendo venire una nave, predisse aTiberio ch'essa gli portava il lieto comando di tornarse-ne a Roma, e che così avvenne di fatto. Questa forse fula ragione per cui allor quando Tiberio tutti gli stranieriche facevan professione d'astrologia dannò a morte, eall'esilio que' ch'erano cittadini romani (Dio l. 57), ilsolo Trasillo potè impunemente, anzi con piaceredell'imperadore, continuare nella sua impostura. Ma eglialmeno seppe talvolta usarne a vantaggio altrui; percioc-chè Tiberio vicino al fin di sua vita fatto sempre più so-spettoso e crudele già avea risoluto di fare un'orrendastrage de' più ragguardevoli cittadini, e di molti ancoradella sua famiglia; quando Trasillo per sospendere sì fe-ral colpo assicurò Tiberio che dieci anni ancora gli rima-neano a vivere; e di se stesso al contrario gli disse chepresto e al tal giorno determinato sarebbe morto: il cheessendo veramente avvenuto, Tiberio lusingossi cheavrebbe potuto con agio soddisfare il suo furore; ma po-scia sorpreso anch'egli da morte non potè ottenerlo (Diol. 58; Svet. in Tib. c. 62). Non fa bisogno ch'io qui mitrattenga a mostrare che non potea certo Trasillocoll'aiuto dell'astrologia predire tai cose, e quindi deb-bonsi avere in conto di favolosi cotai racconti, o attri-buire al caso, o ad altra ragione, s'egli potè indovinarqualche cosa agli altri occulta. Ma le cose che di Trasil-lo si narrano, ci fan vedere che, non ostante il bando diRoma due volte a' tempi d'Augusto agli astrologi inti-mato, essi viveano in Roma, e in Roma esercitavano im-punemente la loro arte.

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XXX. In fatti quasi ad ogni passo della sto-ria di questi tempi noi troviam consultati gliastrologi. Di essi si valse Libone DrusoScribonio a ordire una congiura contro Ti-berio (Tac. l. 2 Ann. c. 27). E in tal occasio-

ne un nuovo bando fu contro lor pubblicato con ordineche dovessero uscire da tutta l'Italia; e un di essi forse ilpiù reo di tutti, cioè Lucio Pituanio, fu precipitato da unalto sasso (ib. c. 32). E questa probabilmente fu l'occa-sione in cui, come di sopra fu detto, al solo Trasillo sipermise di restare in Roma. Poscia nondimeno piegatosiTiberio alle lor preghiere, e affidatosi alle loro promesseche non avrebbon più esercitata quest'arte, permise loroil ritorno (Svet. in Tib. c. 37). Ma essi non tenner parola,e circa dieci anni dopo, allor quando Tiberio partì diRoma, gli astrologi di bel nuovo uscirono in campo, epredissero ch'egli non vi avrebbe più fatto ritorno (Tac.l. 4. c. 58). Agrippina ancora di essi si valse a conoscerequal sarebbe stata la sorte del suo figlio Nerone; e dicesiche udito da essi ch'egli avrebbe regnato, e insiemeavrebbe uccisa la madre, ella trasportata dall'ambizione,uccidami pure, rispondesse, purchè egli regni (id. l. 14,c. 9). A' tempi di Claudio un'altra volta fu lor comanda-to di uscir dall'Italia; ma Tacito a ragione chiama un taldecreto severo e inutile (l. 12, c. 52). Di fatto Poppeamoglie di Nerone molti aveane suoi confidenti (id. l. 1Hist. c. 22), molti aveane Ottone, e un di essi singolar-mente da Tacito (ib.) e da Plutarco (in Galba) detto To-lomeo, da Svetonio (in Othone c. 4) Seleuco aveagli

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Vicende de-gli astrologiin questaepoca.

XXX. In fatti quasi ad ogni passo della sto-ria di questi tempi noi troviam consultati gliastrologi. Di essi si valse Libone DrusoScribonio a ordire una congiura contro Ti-berio (Tac. l. 2 Ann. c. 27). E in tal occasio-

ne un nuovo bando fu contro lor pubblicato con ordineche dovessero uscire da tutta l'Italia; e un di essi forse ilpiù reo di tutti, cioè Lucio Pituanio, fu precipitato da unalto sasso (ib. c. 32). E questa probabilmente fu l'occa-sione in cui, come di sopra fu detto, al solo Trasillo sipermise di restare in Roma. Poscia nondimeno piegatosiTiberio alle lor preghiere, e affidatosi alle loro promesseche non avrebbon più esercitata quest'arte, permise loroil ritorno (Svet. in Tib. c. 37). Ma essi non tenner parola,e circa dieci anni dopo, allor quando Tiberio partì diRoma, gli astrologi di bel nuovo uscirono in campo, epredissero ch'egli non vi avrebbe più fatto ritorno (Tac.l. 4. c. 58). Agrippina ancora di essi si valse a conoscerequal sarebbe stata la sorte del suo figlio Nerone; e dicesiche udito da essi ch'egli avrebbe regnato, e insiemeavrebbe uccisa la madre, ella trasportata dall'ambizione,uccidami pure, rispondesse, purchè egli regni (id. l. 14,c. 9). A' tempi di Claudio un'altra volta fu lor comanda-to di uscir dall'Italia; ma Tacito a ragione chiama un taldecreto severo e inutile (l. 12, c. 52). Di fatto Poppeamoglie di Nerone molti aveane suoi confidenti (id. l. 1Hist. c. 22), molti aveane Ottone, e un di essi singolar-mente da Tacito (ib.) e da Plutarco (in Galba) detto To-lomeo, da Svetonio (in Othone c. 4) Seleuco aveagli

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Vicende de-gli astrologiin questaepoca.

chiaramente predetto l'impero. Vitellio appena salito sultrono rinnovò contro di essi l'antico bando, e prescrisseil giorno determinato, entro cui voleva che sgombrasse-ro da Roma e dall'Italia (Dio l. 61; Svet. in Vitell. c. 14;Tac. l. 2 Hist. c. 62). Ma essi con incredibile ardire espo-sero pubblicamente in Roma un altro bando, con cuipredicendo ordinavano che dentro quel giorno medesi-mo Vitellio sgombrasse dal mondo. Dione vorrebbe per-suaderci che si avverasse la predizione; ma Svetonio as-sai più vicino a quei tempi scrive che il giorno determi-nato da Vitellio alla partenza degli astrologi, e dagliastrologi alla morte di Vitellio, era il primo d'ottobre; equesti visse fino al dicembre innoltrato. Ciò ch'è certo,si è che Vitellio fu ucciso, e gli astrologi continuarono astarsene sicuramente in Roma, benchè alcuni di essi fos-sero da lui stati uccisi (Svet. l. c.). Anzi Vespasiano eb-beli cari assai, e singolarmente il già Mentovato Seleuco(Tac. l. 2 Hist. c. 78). Anche l'ottimo Tito sembra che daquesta ridicolosa superstizione non si tenesse lontano(Svet. in Tito c. 9). Ma Domiziano sopra tutti n'era pazzoadoratore, e di essi valeasi in particolar maniera a cono-scer coloro da cui potesse temere insidie e congiure perprevenire colla lor morte i rei disegni. Veggansi le gran-di cose che in questo genere si raccontano da Dione e daSvetonio (Dio l. 67; Svet. in Domit. c. 14, 15), le quali cifan conoscere quanto acciecati fossero la più parte degliuomini nel lasciarsi aggirare da tali impostori, e quantosaggiamente avesseli Tacito deffiniti, quando gli dissesorta d'uomini traditori de' grandi, e ingannatori degli

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chiaramente predetto l'impero. Vitellio appena salito sultrono rinnovò contro di essi l'antico bando, e prescrisseil giorno determinato, entro cui voleva che sgombrasse-ro da Roma e dall'Italia (Dio l. 61; Svet. in Vitell. c. 14;Tac. l. 2 Hist. c. 62). Ma essi con incredibile ardire espo-sero pubblicamente in Roma un altro bando, con cuipredicendo ordinavano che dentro quel giorno medesi-mo Vitellio sgombrasse dal mondo. Dione vorrebbe per-suaderci che si avverasse la predizione; ma Svetonio as-sai più vicino a quei tempi scrive che il giorno determi-nato da Vitellio alla partenza degli astrologi, e dagliastrologi alla morte di Vitellio, era il primo d'ottobre; equesti visse fino al dicembre innoltrato. Ciò ch'è certo,si è che Vitellio fu ucciso, e gli astrologi continuarono astarsene sicuramente in Roma, benchè alcuni di essi fos-sero da lui stati uccisi (Svet. l. c.). Anzi Vespasiano eb-beli cari assai, e singolarmente il già Mentovato Seleuco(Tac. l. 2 Hist. c. 78). Anche l'ottimo Tito sembra che daquesta ridicolosa superstizione non si tenesse lontano(Svet. in Tito c. 9). Ma Domiziano sopra tutti n'era pazzoadoratore, e di essi valeasi in particolar maniera a cono-scer coloro da cui potesse temere insidie e congiure perprevenire colla lor morte i rei disegni. Veggansi le gran-di cose che in questo genere si raccontano da Dione e daSvetonio (Dio l. 67; Svet. in Domit. c. 14, 15), le quali cifan conoscere quanto acciecati fossero la più parte degliuomini nel lasciarsi aggirare da tali impostori, e quantosaggiamente avesseli Tacito deffiniti, quando gli dissesorta d'uomini traditori de' grandi, e ingannatori degli

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speranzosi, che dalla nostra città saranno sempre cac-ciati, e sempre vi rimarranno (l. 1 Hist. c. 22). Di Traia-no non vi ha ch'io sappia, argomento a conchiudere chefosse protettore, o seguace dell'astrologia giudiciaria.Ma ben lo fu Adriano uomo abbandonato a tutte le piùsciocche superstizioni. Di lui narra Sparziano (in Hadr.c. 16) che nell'astrologia era egli così versato, che alprimo dì di genn. egli scriveva tuttociò che inquell'anno poteva accadergli, e in quell'anno in cui eglimorì, tutte scrisse le azioni ch'ei dovea fare fino all'ulti-ma ora di sua vita. Le quali predizioni però io credo chesaranno state somiglianti a quelle de' nostri facitord'almanacchi. Deesi per ultimo avvertire che gli astrolo-gi a questo tempo, e anche per molti secoli susseguentichiamavansi spesso col nome di matematici, appellazio-ne troppo onorevole certamente, per vani impostori qua-li essi erano. Il solo vantaggio che dalle loro imposturesi ricavava, era il mantenersi vivo in qualche maniera lostudio dell'astronomia, che forse altrimenti sarebbe statodimenticato; ma di questo studio medesimo troppo abu-savan costoro col rivolgerlo agli usi della fallace astro-logia giudiciaria.

XXXI. Sarebbe a bramar per onor de' Ro-mani, che altri almeno vi fossero stati aquesta età, a cui il nome di astronomi, o dimatematici con più ragione si convenisse.Ma convien confessarlo che gli studj di tal

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L'astronomiapoco coltiva-ta dai Roma-ni.

speranzosi, che dalla nostra città saranno sempre cac-ciati, e sempre vi rimarranno (l. 1 Hist. c. 22). Di Traia-no non vi ha ch'io sappia, argomento a conchiudere chefosse protettore, o seguace dell'astrologia giudiciaria.Ma ben lo fu Adriano uomo abbandonato a tutte le piùsciocche superstizioni. Di lui narra Sparziano (in Hadr.c. 16) che nell'astrologia era egli così versato, che alprimo dì di genn. egli scriveva tuttociò che inquell'anno poteva accadergli, e in quell'anno in cui eglimorì, tutte scrisse le azioni ch'ei dovea fare fino all'ulti-ma ora di sua vita. Le quali predizioni però io credo chesaranno state somiglianti a quelle de' nostri facitord'almanacchi. Deesi per ultimo avvertire che gli astrolo-gi a questo tempo, e anche per molti secoli susseguentichiamavansi spesso col nome di matematici, appellazio-ne troppo onorevole certamente, per vani impostori qua-li essi erano. Il solo vantaggio che dalle loro imposturesi ricavava, era il mantenersi vivo in qualche maniera lostudio dell'astronomia, che forse altrimenti sarebbe statodimenticato; ma di questo studio medesimo troppo abu-savan costoro col rivolgerlo agli usi della fallace astro-logia giudiciaria.

XXXI. Sarebbe a bramar per onor de' Ro-mani, che altri almeno vi fossero stati aquesta età, a cui il nome di astronomi, o dimatematici con più ragione si convenisse.Ma convien confessarlo che gli studj di tal

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L'astronomiapoco coltiva-ta dai Roma-ni.

natura, a' tempi singolarmente di cui parliamo, assaipoco furono coltivati. Se se ne traggano Plinio il vec-chio che dell'astronomia scrisse ciò che trovò sparso ne'libri greci, che avea tra le mani, e Seneca il filosofo checome abbiamo osservato, parlò di alcune quistioni piùfelicemente che non era a sperarsi a' que' tempi, noi nontroviamo alcun tra' Romani, che in queste scienze fosseerudito. Abbiamo bensì due geografi Strabone e Pompo-nio Mela. Ma il primo fu greco, e benchè viaggiasse inItalia e fosse a Roma, non sappiamo però, ch'ei vi faces-se lunga dimora; e non abbiamo perciò ragione di nove-rarlo tra' nostri. Il secondo ancor fu straniero, cioè spa-gnuolo, benchè la diversa maniera con cui si legge in di-verse edizioni un passo in cui egli nomina la sua patria(l. 2, c. 6) non ci permetta di ben accertare in qual cittàei nascesse (V. Voss. de Histor. lat. l. 1, c. 25; e Nic. Ant.Bibl. hisp. vet. l. 1, c. 11). Egli è vero però, che lo stileda lui usato nella sua Cosmografia, terso ed eleganteforse sopra tutti gli altri scrittori di questo secolo, ci facredere ch'egli abitasse assai lungamente in Roma. Egliscrivea a' tempi di Claudio, le cui vittorie nella Bretta-gna rammenta chiaramente (l. 7, c. 6); e della sua Geo-grafia perciò potè valersi nella sua storia Naturale Plinioil vecchio che di fatti il nomina tra gli autori da sè con-sultati, e ch'è forse il solo tra gli scrittori italiani di que-sto tempo, che abbia nella sua Storia illustrata anche lageografia.

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natura, a' tempi singolarmente di cui parliamo, assaipoco furono coltivati. Se se ne traggano Plinio il vec-chio che dell'astronomia scrisse ciò che trovò sparso ne'libri greci, che avea tra le mani, e Seneca il filosofo checome abbiamo osservato, parlò di alcune quistioni piùfelicemente che non era a sperarsi a' que' tempi, noi nontroviamo alcun tra' Romani, che in queste scienze fosseerudito. Abbiamo bensì due geografi Strabone e Pompo-nio Mela. Ma il primo fu greco, e benchè viaggiasse inItalia e fosse a Roma, non sappiamo però, ch'ei vi faces-se lunga dimora; e non abbiamo perciò ragione di nove-rarlo tra' nostri. Il secondo ancor fu straniero, cioè spa-gnuolo, benchè la diversa maniera con cui si legge in di-verse edizioni un passo in cui egli nomina la sua patria(l. 2, c. 6) non ci permetta di ben accertare in qual cittàei nascesse (V. Voss. de Histor. lat. l. 1, c. 25; e Nic. Ant.Bibl. hisp. vet. l. 1, c. 11). Egli è vero però, che lo stileda lui usato nella sua Cosmografia, terso ed eleganteforse sopra tutti gli altri scrittori di questo secolo, ci facredere ch'egli abitasse assai lungamente in Roma. Egliscrivea a' tempi di Claudio, le cui vittorie nella Bretta-gna rammenta chiaramente (l. 7, c. 6); e della sua Geo-grafia perciò potè valersi nella sua storia Naturale Plinioil vecchio che di fatti il nomina tra gli autori da sè con-sultati, e ch'è forse il solo tra gli scrittori italiani di que-sto tempo, che abbia nella sua Storia illustrata anche lageografia.

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XXXII. L'unico tra' romani scrittori, chenella matematica ci si mostri versato, egli èSesto Giulio Frontino, uomo che non nellescienze soltanto, ma ancor ne' maneggi della

repubblica e nell'esercizio dell'armi si rendette illustre.Di lui e delle cose che a lui appartengono, ha lungamen-te e con molta erudizione trattato il march. Giov. Poleni(Proleg. ad Front. de Aqueduct.). Dopo essere stato pre-tore, come da Tacito si raccoglie (l. 4 Hist. c. 39), ei fuconsole surrogato, secondo che congettura il suddettoautore, l'anno dell'era crist. 74, e quindi l'anno seguentecol titolo di proconsole andonne in Brettagna, e vi sog-giogò felicemente i Siluri, come abbiamo dal medesimoTacito (Vita Agric. c. 17). Del secondo consolato diFrontino fa menzione Marziale in un suo epigramma di-cendo: De Nomentana vinum sine fæce lagena Quæ bis Frontino consule prima fuit (l. 10. epigr 48):

il qual secondo consolato crede il march. Poleni che ca-desse nell'an. 97, e crede che una terza volta ei fosseconsole ordinario insiem con Traiano l'anno 100, e aconferma di questa sua opinione produce una eruditalettera del dottissimo medico Giamb. Morgagni, in cuirigettasi l'opinion di coloro che invece di Frontino vo-gliono che legger si debba Frontone. Egli ebbe da Nervala soprantendenza alle acque, com'egli stesso afferma(De Aquæduct. art. 102), e come chiaramente raccoglie-si da una iscrizione che abbiamo nella Raccolta Murato-

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Frontinoscrittore dimatematica

XXXII. L'unico tra' romani scrittori, chenella matematica ci si mostri versato, egli èSesto Giulio Frontino, uomo che non nellescienze soltanto, ma ancor ne' maneggi della

repubblica e nell'esercizio dell'armi si rendette illustre.Di lui e delle cose che a lui appartengono, ha lungamen-te e con molta erudizione trattato il march. Giov. Poleni(Proleg. ad Front. de Aqueduct.). Dopo essere stato pre-tore, come da Tacito si raccoglie (l. 4 Hist. c. 39), ei fuconsole surrogato, secondo che congettura il suddettoautore, l'anno dell'era crist. 74, e quindi l'anno seguentecol titolo di proconsole andonne in Brettagna, e vi sog-giogò felicemente i Siluri, come abbiamo dal medesimoTacito (Vita Agric. c. 17). Del secondo consolato diFrontino fa menzione Marziale in un suo epigramma di-cendo: De Nomentana vinum sine fæce lagena Quæ bis Frontino consule prima fuit (l. 10. epigr 48):

il qual secondo consolato crede il march. Poleni che ca-desse nell'an. 97, e crede che una terza volta ei fosseconsole ordinario insiem con Traiano l'anno 100, e aconferma di questa sua opinione produce una eruditalettera del dottissimo medico Giamb. Morgagni, in cuirigettasi l'opinion di coloro che invece di Frontino vo-gliono che legger si debba Frontone. Egli ebbe da Nervala soprantendenza alle acque, com'egli stesso afferma(De Aquæduct. art. 102), e come chiaramente raccoglie-si da una iscrizione che abbiamo nella Raccolta Murato-

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Frontinoscrittore dimatematica

riana (t. 1, p. 407), in cui fra le altre cose leggonsi que-ste parole: Anienem vere novam opere sumptuoso etstructura mirabili Julius Frontinus a divo Nerva Cura-tor aquarum factus restituit, ac in urbem perduxit.L'impiego di cui fu onorato da Nerva, mostra in qualestima egli fosse; e prova ancor più certa del suo saperesono i due libri che di lui ci sono rimasti, degli Acque-dotti di Roma, opera, dice il Montucla (Hist. des Ma-thém. t. 1, pag. 411), "nella quale egli mostra quell'abili-tà che potevasi avere in un tempo, in cui ignoravansi an-cora i sodi principj dell'idraulica". Di lui abbiamo anco-ra due libri degli Stratagemmi militari, de' quali si è du-bitato da alcuni se dovesse veramente credersi autoreFrontino. Ma il marchese Poleni con ottime ragioni, so-stenute ancora con erudita lettera ch'egli reca di Giov.Graziani prof. primario di filosofia nell'Univ. di Padova,mostra che non vi ha ragione a negarlo. Non così di unlibro d'agricoltura, e, di qualche altro frammento che daalcuni gli viene senza ragione attribuito, e che da Gugl.Goes si mostra (præf. ad Script. rei agrariæ) essere diun altro Frontino vissuto a più tarda età. Di Frontinoparla con molta lode anche Plinio il giovane, il qualeseco medesimo si rallegra (l. 4, ep. 18) di essere a luisucceduto nella dignità di augure, e altrove rammenta (l.9, ep. 20) il divieto ch'ei fece che non gli si alzasse se-polcro, dicendo essere questa una spesa superflua, e cheavrebbe ottenuta fama appresso i posteri, se vivendoavessela meritata.

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riana (t. 1, p. 407), in cui fra le altre cose leggonsi que-ste parole: Anienem vere novam opere sumptuoso etstructura mirabili Julius Frontinus a divo Nerva Cura-tor aquarum factus restituit, ac in urbem perduxit.L'impiego di cui fu onorato da Nerva, mostra in qualestima egli fosse; e prova ancor più certa del suo saperesono i due libri che di lui ci sono rimasti, degli Acque-dotti di Roma, opera, dice il Montucla (Hist. des Ma-thém. t. 1, pag. 411), "nella quale egli mostra quell'abili-tà che potevasi avere in un tempo, in cui ignoravansi an-cora i sodi principj dell'idraulica". Di lui abbiamo anco-ra due libri degli Stratagemmi militari, de' quali si è du-bitato da alcuni se dovesse veramente credersi autoreFrontino. Ma il marchese Poleni con ottime ragioni, so-stenute ancora con erudita lettera ch'egli reca di Giov.Graziani prof. primario di filosofia nell'Univ. di Padova,mostra che non vi ha ragione a negarlo. Non così di unlibro d'agricoltura, e, di qualche altro frammento che daalcuni gli viene senza ragione attribuito, e che da Gugl.Goes si mostra (præf. ad Script. rei agrariæ) essere diun altro Frontino vissuto a più tarda età. Di Frontinoparla con molta lode anche Plinio il giovane, il qualeseco medesimo si rallegra (l. 4, ep. 18) di essere a luisucceduto nella dignità di augure, e altrove rammenta (l.9, ep. 20) il divieto ch'ei fece che non gli si alzasse se-polcro, dicendo essere questa una spesa superflua, e cheavrebbe ottenuta fama appresso i posteri, se vivendoavessela meritata.

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XXXIII. Alla filosofia e alla storia natura-le appartiene ancora l'agricoltura, e quiperciò darem luogo a Lucio Giunio Mode-rato Columella di cui però ci spedirem

brevemente, perchè egli ancor fu spagnuolo, e nativo diCadice, com'egli stesso afferma (l. 8, c. 16). Sembranondimeno ch'ei vivesse in Roma, ove conobbe Senecail filosofo, di cui parla come d'uomo ancora vivente, ene rammenta le ampie e fertili vigne (l. 3, c. 3). Di luiabbiamo XII libri d'Agricoltura scritti con eleganza; e ildecimo di essi è sulla coltura degli orti, e scritto in versi;del qual poemetto è a stupire che non avesse notizia il p.Rapin, poichè ei credette di essere il primo che scrivessedi tale argomento (V. præf. ad lib. Hort.). A questi libriun altro separato si aggiunge intorno agli alberi. Pliniocita talvolta l'opera di Columella, e talvolta ancor laconfuta, benchè ad altri sembri che senza ragione. Veg-gasi ciò che più lungamente osservano intorno a questoscrittore Giannalb. Fabrizio (Bibl. lat. l. 2, c. 7), NiccolòAntonio (Bibl. hisp. vet. l. 1, c. 5), e Mattia Gesner nellaprefazione alla magnifica edizione da lui fatta in Lipsial'anno 1735 di tutti i Latini Scrittori d'Agricoltura. Nonvuolsi finalmente tacere di Ant. Castore botanico famo-so in Roma a tempi di Plinio il vecchio, il quale ne faonorevol menzione (l. 25, c. 2), e rammenta il vago orti-cello ch'egli avea, in cui nutriva gran copia di erbed'ogni maniera; uomo degno d'essere ricordato ancheper la lunga e felice sua vita; perciocchè egli oltrepassòil centesimo anno senza aver mai sofferto alcun male, e

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Columellascrittored'agricoltura.

XXXIII. Alla filosofia e alla storia natura-le appartiene ancora l'agricoltura, e quiperciò darem luogo a Lucio Giunio Mode-rato Columella di cui però ci spedirem

brevemente, perchè egli ancor fu spagnuolo, e nativo diCadice, com'egli stesso afferma (l. 8, c. 16). Sembranondimeno ch'ei vivesse in Roma, ove conobbe Senecail filosofo, di cui parla come d'uomo ancora vivente, ene rammenta le ampie e fertili vigne (l. 3, c. 3). Di luiabbiamo XII libri d'Agricoltura scritti con eleganza; e ildecimo di essi è sulla coltura degli orti, e scritto in versi;del qual poemetto è a stupire che non avesse notizia il p.Rapin, poichè ei credette di essere il primo che scrivessedi tale argomento (V. præf. ad lib. Hort.). A questi libriun altro separato si aggiunge intorno agli alberi. Pliniocita talvolta l'opera di Columella, e talvolta ancor laconfuta, benchè ad altri sembri che senza ragione. Veg-gasi ciò che più lungamente osservano intorno a questoscrittore Giannalb. Fabrizio (Bibl. lat. l. 2, c. 7), NiccolòAntonio (Bibl. hisp. vet. l. 1, c. 5), e Mattia Gesner nellaprefazione alla magnifica edizione da lui fatta in Lipsial'anno 1735 di tutti i Latini Scrittori d'Agricoltura. Nonvuolsi finalmente tacere di Ant. Castore botanico famo-so in Roma a tempi di Plinio il vecchio, il quale ne faonorevol menzione (l. 25, c. 2), e rammenta il vago orti-cello ch'egli avea, in cui nutriva gran copia di erbed'ogni maniera; uomo degno d'essere ricordato ancheper la lunga e felice sua vita; perciocchè egli oltrepassòil centesimo anno senza aver mai sofferto alcun male, e

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Columellascrittored'agricoltura.

senza essergli per vecchiezza venute meno nè la memo-ria nè le forze.

CAPO VI. Medicina.

I. Non vi è scienza la qual sembri che, do-vess'essere coltivata tanto studiosamente inRoma, quanto la medicina; e nondimenonon vi è scienza per avventura che più siastata per molti secoli trascurata ivi e neglet-

ta. In vece di applicarsi a conoscer l'origine e la naturade' mali, e a scoprirne quindi i più opportuni rimedj, imedici de' tempi di cui parliamo (che di essi soli io in-tendo di ragionare) altro pensier non aveano che dioscurare la gloria de' lor rivali, e d'innalzarsi sopra leloro rovine. Se uno erasi acquistata gran fama, sorgevaun altro; e derideva ed impugnava il metodo seguito dalprimo non perchè fosse pericoloso, o nocivo, ma perchè,quegli ne era stato l'autore. In meno di un' secolo tre di-versi sistemi di medicina vidersi introdotti in Roma daAsclepiade, da Temisone, da Ant. Musa, come nel pre-cedente volume si è dimostrato. Ciascheduno di questisistemi fu ricevuto dapprima con sommo plauso; e sicredette che gli uomini usando di esso per poco non sa-rebbono stati immortali. Ma al proporsene un altro, ilprimo fu tosto dimenticato, anzi all'averlo seguito impu-taronsi le malattie e le morti ch'erano finallora accadute

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Incostanza de' sistemi di medici-na.

senza essergli per vecchiezza venute meno nè la memo-ria nè le forze.

CAPO VI. Medicina.

I. Non vi è scienza la qual sembri che, do-vess'essere coltivata tanto studiosamente inRoma, quanto la medicina; e nondimenonon vi è scienza per avventura che più siastata per molti secoli trascurata ivi e neglet-

ta. In vece di applicarsi a conoscer l'origine e la naturade' mali, e a scoprirne quindi i più opportuni rimedj, imedici de' tempi di cui parliamo (che di essi soli io in-tendo di ragionare) altro pensier non aveano che dioscurare la gloria de' lor rivali, e d'innalzarsi sopra leloro rovine. Se uno erasi acquistata gran fama, sorgevaun altro; e derideva ed impugnava il metodo seguito dalprimo non perchè fosse pericoloso, o nocivo, ma perchè,quegli ne era stato l'autore. In meno di un' secolo tre di-versi sistemi di medicina vidersi introdotti in Roma daAsclepiade, da Temisone, da Ant. Musa, come nel pre-cedente volume si è dimostrato. Ciascheduno di questisistemi fu ricevuto dapprima con sommo plauso; e sicredette che gli uomini usando di esso per poco non sa-rebbono stati immortali. Ma al proporsene un altro, ilprimo fu tosto dimenticato, anzi all'averlo seguito impu-taronsi le malattie e le morti ch'erano finallora accadute

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Incostanza de' sistemi di medici-na.

e che nel nuovo sistema ancora accaddero ugualmente.Questa medesima incostanza mantennesi in Roma anchea' tempi di cui ora dobbiam favellare, come vedremo se-guendo singolarmente la scorta di Plinio il vecchio, acui io penso che i medici non fossero tenuti moltodell'espressioni di cui egli usò a loro riguardo. "Costoro,dic'egli (l. 29, c. 1), bramosi di acquistarsi fama collanovità dei loro sistemi fanno traffico della nostra vita.Quindi quelle funeste contese de' medici presso il lettodegl'infermi, mentre tutti sono di parere diverso, per nonsembrar di accostarsi all'opinione altrui; quindi quellaiscrizione che su qualche scpolcro si è posta, in cui ildefunto si duole di essere stato ucciso da una turba dimedici. Ogni giorno si cambia metodo; così spesso noici lasciamo aggirare dall'incostanza de' Greci; e noi veg-giam chiaramente che, chiunque tra essi è dotato di elo-quenza nel ragionare, si fa tosto arbitro e sovrano dellanostra vita e della nostra morte".

II. A' tempi di Tiberio e di Caligola nonveggiamo che nuova setta di medici sorges-se in Roma (32). Ma nell'impero di Claudiofu celebre il nome di Vezio Valente; di cuinon sappiamo la patria. Ma ei dovette la sua

32 Una specie di nuova setta sorse però a questi tempi detta de' Pneumatici dicui fu capo Ateneo uscito dalla scuola di Temisone, indi Magno e Agatinodi lui discepoli, e Archigene scolaro di Agatino. Ma sembra ch'essa nonavesse nè gran nome, nè lunga vita (V. Goulin Mèm. pour servir à l'Hist.de la Mèdec. an. 1775, p. 226, etc.).

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Nuova settaintrodottada VezioValente.

e che nel nuovo sistema ancora accaddero ugualmente.Questa medesima incostanza mantennesi in Roma anchea' tempi di cui ora dobbiam favellare, come vedremo se-guendo singolarmente la scorta di Plinio il vecchio, acui io penso che i medici non fossero tenuti moltodell'espressioni di cui egli usò a loro riguardo. "Costoro,dic'egli (l. 29, c. 1), bramosi di acquistarsi fama collanovità dei loro sistemi fanno traffico della nostra vita.Quindi quelle funeste contese de' medici presso il lettodegl'infermi, mentre tutti sono di parere diverso, per nonsembrar di accostarsi all'opinione altrui; quindi quellaiscrizione che su qualche scpolcro si è posta, in cui ildefunto si duole di essere stato ucciso da una turba dimedici. Ogni giorno si cambia metodo; così spesso noici lasciamo aggirare dall'incostanza de' Greci; e noi veg-giam chiaramente che, chiunque tra essi è dotato di elo-quenza nel ragionare, si fa tosto arbitro e sovrano dellanostra vita e della nostra morte".

II. A' tempi di Tiberio e di Caligola nonveggiamo che nuova setta di medici sorges-se in Roma (32). Ma nell'impero di Claudiofu celebre il nome di Vezio Valente; di cuinon sappiamo la patria. Ma ei dovette la sua

32 Una specie di nuova setta sorse però a questi tempi detta de' Pneumatici dicui fu capo Ateneo uscito dalla scuola di Temisone, indi Magno e Agatinodi lui discepoli, e Archigene scolaro di Agatino. Ma sembra ch'essa nonavesse nè gran nome, nè lunga vita (V. Goulin Mèm. pour servir à l'Hist.de la Mèdec. an. 1775, p. 226, etc.).

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Nuova settaintrodottada VezioValente.

celebrità singolarmente alle disonestà di Messalina mo-glie di Claudio, di cui egli fu complice (Plin. ib.) e percui poscia fu dall'imperadore dannato a morte (Tac. l. 11Ann., c. 35). Era egli come dice Plinio, uomo eloquente:e perciò più facilmente ottenne autorità, e fecesi capo diuna nuova setta, di cui però non sappiamo quali fosseroi principj (33). Nè punto meno famoso, o a dir meglio in-fame, si rendè Senofonte, benchè non troviamo che nuo-va setta fosse da lui istituita. Claudio che l'avea fatto suomedico, per mostrarsegli grato dichiarò esenti da ognitributo gli abitanti di Coo patria di Senofonte (Tac. l. 12Ann. c. 61). Ma il perfido troppo male gli corrispose,poichè non molto dopo fattosi complice di Agrippina,sotto pretesto di rimedio diegli, come si crede, il veleno(ib. c. 67).

III. Ma assai maggior nome ottenne inRoma Tessalo nativo di Tralle, perchè di as-sai maggiore impostura ei seppe usare. Fu a'tempi di Nerone, e si prefisse di volersi fareautore di un nuovo sistema di medicina,

ch'egli pure a somiglianza di Temisone chiamò metodi-co. Perciò, com'era necessario, tutti prese a combattere iprincipj de' medici che l'aveano preceduto, e ad inveirecon un cotal rabbioso trasporto contro di essi (Plin. l. c.)33 Lo stesso m. Goulin reca alcuni, a mio parere, assai buoni argomenti per

dimostrare che il Vezio Valente ucciso per ordine di Claudio pe' delitticommessi con Messalina, è diverso da Valente il medico di cui qui ragio-niamo (l. c., p. 241, ec.).

355

Sistemametodicoritrovato daTessalo.

celebrità singolarmente alle disonestà di Messalina mo-glie di Claudio, di cui egli fu complice (Plin. ib.) e percui poscia fu dall'imperadore dannato a morte (Tac. l. 11Ann., c. 35). Era egli come dice Plinio, uomo eloquente:e perciò più facilmente ottenne autorità, e fecesi capo diuna nuova setta, di cui però non sappiamo quali fosseroi principj (33). Nè punto meno famoso, o a dir meglio in-fame, si rendè Senofonte, benchè non troviamo che nuo-va setta fosse da lui istituita. Claudio che l'avea fatto suomedico, per mostrarsegli grato dichiarò esenti da ognitributo gli abitanti di Coo patria di Senofonte (Tac. l. 12Ann. c. 61). Ma il perfido troppo male gli corrispose,poichè non molto dopo fattosi complice di Agrippina,sotto pretesto di rimedio diegli, come si crede, il veleno(ib. c. 67).

III. Ma assai maggior nome ottenne inRoma Tessalo nativo di Tralle, perchè di as-sai maggiore impostura ei seppe usare. Fu a'tempi di Nerone, e si prefisse di volersi fareautore di un nuovo sistema di medicina,

ch'egli pure a somiglianza di Temisone chiamò metodi-co. Perciò, com'era necessario, tutti prese a combattere iprincipj de' medici che l'aveano preceduto, e ad inveirecon un cotal rabbioso trasporto contro di essi (Plin. l. c.)33 Lo stesso m. Goulin reca alcuni, a mio parere, assai buoni argomenti per

dimostrare che il Vezio Valente ucciso per ordine di Claudio pe' delitticommessi con Messalina, è diverso da Valente il medico di cui qui ragio-niamo (l. c., p. 241, ec.).

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Sistemametodicoritrovato daTessalo.

senza perdonarla ad alcuno; e per assicurarsi che la suafama non perisse colla sua vita, fattosi innalzare un se-polcro nella via Appia, diede a se stesso il superbonome di vincitore de' medici. Una si sfacciata alterigiain vece di renderlo vile e spregevole a' Romani, comeavrebbe dovuto accadere, il fece anzi salire in sì granderiputazione che, come dice lo stesso Plinio, non vi fumai nè attore nè cocchiere alcuno famoso per le vittorieriportate ne' solenni giuochi, che per le vie di Romaavesse seguito e accompagnamento più numeroso. Mase ei lusingossi di render così immortale il suo nome, eifu certo in errore. Galeno venuto a Roma a' tempi diMarco Aurelio, come a suo luogo vedremo, scoprì ne'suoi libri la profonda ignoranza di questo impostore. Ilprimo de' libri da lui scritti Del metodo di medicare èquasi interamente impiegato a distrugger la stima chemolti ancora ne avevano. E reca un passo (Meth. car. l.1) di una lettera da Tessalo scritta a Nerone, in cui fra lealtre cose così gli dice: "Avendo io fondata una nuovasetta, la qual sola è vera; poichè tutti i medici che innan-zi a me sono stati, non hanno insegnata cosa alcuna chesia utile o a conservare la sanità, o a curare malattie, ec.Quindi, continua a dire Galeno, costui nel decorso diuna sua opera dice che Ippocrate ci ha dati precetti dan-nosi, ed ha ancora coraggio di contradire con sommasua vergogna agli Aforismi di lui ... Per la qual cosa par-mi essere mio dovere (benchè io non sia uso a riprende-re acerbamente i malvagi) il dir qualche cosa contro co-stui per l'ingiuriosa maniera con cui egli ha trattati gli

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senza perdonarla ad alcuno; e per assicurarsi che la suafama non perisse colla sua vita, fattosi innalzare un se-polcro nella via Appia, diede a se stesso il superbonome di vincitore de' medici. Una si sfacciata alterigiain vece di renderlo vile e spregevole a' Romani, comeavrebbe dovuto accadere, il fece anzi salire in sì granderiputazione che, come dice lo stesso Plinio, non vi fumai nè attore nè cocchiere alcuno famoso per le vittorieriportate ne' solenni giuochi, che per le vie di Romaavesse seguito e accompagnamento più numeroso. Mase ei lusingossi di render così immortale il suo nome, eifu certo in errore. Galeno venuto a Roma a' tempi diMarco Aurelio, come a suo luogo vedremo, scoprì ne'suoi libri la profonda ignoranza di questo impostore. Ilprimo de' libri da lui scritti Del metodo di medicare èquasi interamente impiegato a distrugger la stima chemolti ancora ne avevano. E reca un passo (Meth. car. l.1) di una lettera da Tessalo scritta a Nerone, in cui fra lealtre cose così gli dice: "Avendo io fondata una nuovasetta, la qual sola è vera; poichè tutti i medici che innan-zi a me sono stati, non hanno insegnata cosa alcuna chesia utile o a conservare la sanità, o a curare malattie, ec.Quindi, continua a dire Galeno, costui nel decorso diuna sua opera dice che Ippocrate ci ha dati precetti dan-nosi, ed ha ancora coraggio di contradire con sommasua vergogna agli Aforismi di lui ... Per la qual cosa par-mi essere mio dovere (benchè io non sia uso a riprende-re acerbamente i malvagi) il dir qualche cosa contro co-stui per l'ingiuriosa maniera con cui egli ha trattati gli

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antichi. E perchè mai, o Tessalo, osi tu calunniosamenteriprendere ciò ch'è ben fatto, affin di piacere alla molti-tudine; mentre potresti, se tu fosti uom saggio e amantedel vero, renderti illustre nell'esaminarlo studiosamente?Perchè ti abusi tu per tal modo dell'ignoranza de' tuoiuditori per malmenare gli antichi? Vorrai tu forse, impu-dentissimo uomo, che gli artigiani pari a tuo padre deb-ban dar giudizio de' medici? Innanzi a tali giudici tu vin-cerai certamente, qualunque cosa tu dica o contro Ippo-crate... o contro qualunque altro tra gli antichi. E pocoappresso: Io credo certo che tu non abbi letti giammailibri d'Ippocrate, o almeno che non gli abbi intesi; e sepure gli hai intesi, tu non puoi certo giudicarne tu chefosti da tuo padre istruito a scardassare insiem colledonne la lana. Perciocchè non voler pensare che noi nonsappiamo o l'illustre tua nascita, o il tuo profondo sape-re". In tal tenore continua lungamente Galeno un'ama-rissima invettiva contro di Tessalo, cui non cessa più al-tre volte di mordere e rimproverare aspramente (l. 1 deCrisibius c. 4, 9; De Simiplic. Medicam. Facultat. l. 5,c. 13. ec), e i titoli di stoltissimo, d'ignorantissimo, di ar-ditissimo sono comunemente gli encomj di cui ne ac-compagna il nome. Galeno sarebbe forse degno di mag-gior lode, se parlato ne avesse con moderazione mag-giore. Ma degno è ancora di qualche scusa il trasporto diun dotto medico che vede rendersi quasi divini onori aun ignorante impostore.

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antichi. E perchè mai, o Tessalo, osi tu calunniosamenteriprendere ciò ch'è ben fatto, affin di piacere alla molti-tudine; mentre potresti, se tu fosti uom saggio e amantedel vero, renderti illustre nell'esaminarlo studiosamente?Perchè ti abusi tu per tal modo dell'ignoranza de' tuoiuditori per malmenare gli antichi? Vorrai tu forse, impu-dentissimo uomo, che gli artigiani pari a tuo padre deb-ban dar giudizio de' medici? Innanzi a tali giudici tu vin-cerai certamente, qualunque cosa tu dica o contro Ippo-crate... o contro qualunque altro tra gli antichi. E pocoappresso: Io credo certo che tu non abbi letti giammailibri d'Ippocrate, o almeno che non gli abbi intesi; e sepure gli hai intesi, tu non puoi certo giudicarne tu chefosti da tuo padre istruito a scardassare insiem colledonne la lana. Perciocchè non voler pensare che noi nonsappiamo o l'illustre tua nascita, o il tuo profondo sape-re". In tal tenore continua lungamente Galeno un'ama-rissima invettiva contro di Tessalo, cui non cessa più al-tre volte di mordere e rimproverare aspramente (l. 1 deCrisibius c. 4, 9; De Simiplic. Medicam. Facultat. l. 5,c. 13. ec), e i titoli di stoltissimo, d'ignorantissimo, di ar-ditissimo sono comunemente gli encomj di cui ne ac-compagna il nome. Galeno sarebbe forse degno di mag-gior lode, se parlato ne avesse con moderazione mag-giore. Ma degno è ancora di qualche scusa il trasporto diun dotto medico che vede rendersi quasi divini onori aun ignorante impostore.

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IV. La setta però di Tessalo non si sostennein Roma fino alla venuta di Galeno, senzache vi trovasse contrasti, e che altre settesorgessero ad essa opposte. Crina nativo diMarsiglia, venuto a Roma, per rivolgere a sè

gli occhi ed acquistarsi la stima di tutti, usò, come narraPlinio (l. 29, c. 1); di un altro genere d'impostura, cioèdell'astrologia giudiciaria; perciocchè considerando imovimenti celesti, secondo la lor varietà variava i cibi ei rimedj, e a quell'ore determinate li porgeva agl'infermi,in cui una tal congiunzion di pianeti dovea accadere. Èegli possibile che sì rozzi fosser gli uomini che si la-sciassero ingannare da sì sciocco artificio? E nondime-no, come lo stesso Plinio afferma, egli con ciò ottenneautorità maggiore di Tessalo, e sì grandi ricchezze, chelasciò morendo dieci milioni di sesterzj ossia dugentocinquantamila scudi Romani, dopo avere spesa unasomma pressochè uguale nel fabbricare le mura dellasua patria e di altre città. Questo a me pare che sia ilsenso delle parole di Plinio: Centies H -- S. reliquit, mu-ris patriæ, mænibusque aliis pene non minori summaexstructis; e non già quello che loro han dato i dottiMaurini nella loro Storia Letteraria di Francia (t. 1, p.210), cioè ch'egli lasciò morendo per testamento la dettasomma, affinchè d'innalzare le mura della sua patria.

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Crina intro-duce nellamedicinal'astrologiagiudiciaria.

IV. La setta però di Tessalo non si sostennein Roma fino alla venuta di Galeno, senzache vi trovasse contrasti, e che altre settesorgessero ad essa opposte. Crina nativo diMarsiglia, venuto a Roma, per rivolgere a sè

gli occhi ed acquistarsi la stima di tutti, usò, come narraPlinio (l. 29, c. 1); di un altro genere d'impostura, cioèdell'astrologia giudiciaria; perciocchè considerando imovimenti celesti, secondo la lor varietà variava i cibi ei rimedj, e a quell'ore determinate li porgeva agl'infermi,in cui una tal congiunzion di pianeti dovea accadere. Èegli possibile che sì rozzi fosser gli uomini che si la-sciassero ingannare da sì sciocco artificio? E nondime-no, come lo stesso Plinio afferma, egli con ciò ottenneautorità maggiore di Tessalo, e sì grandi ricchezze, chelasciò morendo dieci milioni di sesterzj ossia dugentocinquantamila scudi Romani, dopo avere spesa unasomma pressochè uguale nel fabbricare le mura dellasua patria e di altre città. Questo a me pare che sia ilsenso delle parole di Plinio: Centies H -- S. reliquit, mu-ris patriæ, mænibusque aliis pene non minori summaexstructis; e non già quello che loro han dato i dottiMaurini nella loro Storia Letteraria di Francia (t. 1, p.210), cioè ch'egli lasciò morendo per testamento la dettasomma, affinchè d'innalzare le mura della sua patria.

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Crina intro-duce nellamedicinal'astrologiagiudiciaria.

V. Sembra che Tessalo ancor vivesse, quan-do Crina sen venne a Roma a contrastarglil'impero su' corpi umani. Perciocchè Pliniocosì prosegue: "Questi due reggevano il de-stino della vita degli uomini, quando entrò

improvvisamente Carmide, nativo egli pur di Marsiglia;e condannando non solo i medici che l'aveano precedu-to, ma anche i bagni caldi da essi prescritti, persuase diusare anche fra 'l rigore del verno de' bagni freddi". Edecco un nuovo medico, e autor di nuovo sistema, cheappena apre bocca in Roma, è udito come un oracolo, efa cadere in dimenticanza e Tessalo e Crina. Il rimediode' bagni freddi era già stato prescritto, come si è vedutonel primo volume, dal medico Antonio Musa. Ma con-vien dire che fosse poscia dimenticato. Carmide vollerinnovarlo, e il fece con sì felice successo, che noi vede-vamo, dice Plinio, gli stessi vecchi consolari tuffarsi ne'bagni freddi, e starvi per un cotal fasto ostinati fino adintirizzirne. Chi 'l crederebbe che anche il severo Senecausasse de' bagni alla moda? Eppure abbiamo le sue Let-tere in cui ci narra ch'egli anche nel primo dì di gennaiogittavasi nell'acqua fredda (ep. 53, 83). Così anche i piùdotti uomini lasciavansi aggirare da questi vani impo-stori. Quanto durasse il regno di Carmide, nol sappiamo,e pare ch'ei fosse ancor vivo quando Plinio scriveva. Enon sappiam pure se altri capi di setta venissero dopoCarmide a Roma. Ciò ch'è certo, si è che il favor popo-lare di cui goderono i medici mentovati di sopra, pose intal credito la medicina, che moltissimi ne abbracciaron

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Bagni fred-di rinnovatida Carmi-de.

V. Sembra che Tessalo ancor vivesse, quan-do Crina sen venne a Roma a contrastarglil'impero su' corpi umani. Perciocchè Pliniocosì prosegue: "Questi due reggevano il de-stino della vita degli uomini, quando entrò

improvvisamente Carmide, nativo egli pur di Marsiglia;e condannando non solo i medici che l'aveano precedu-to, ma anche i bagni caldi da essi prescritti, persuase diusare anche fra 'l rigore del verno de' bagni freddi". Edecco un nuovo medico, e autor di nuovo sistema, cheappena apre bocca in Roma, è udito come un oracolo, efa cadere in dimenticanza e Tessalo e Crina. Il rimediode' bagni freddi era già stato prescritto, come si è vedutonel primo volume, dal medico Antonio Musa. Ma con-vien dire che fosse poscia dimenticato. Carmide vollerinnovarlo, e il fece con sì felice successo, che noi vede-vamo, dice Plinio, gli stessi vecchi consolari tuffarsi ne'bagni freddi, e starvi per un cotal fasto ostinati fino adintirizzirne. Chi 'l crederebbe che anche il severo Senecausasse de' bagni alla moda? Eppure abbiamo le sue Let-tere in cui ci narra ch'egli anche nel primo dì di gennaiogittavasi nell'acqua fredda (ep. 53, 83). Così anche i piùdotti uomini lasciavansi aggirare da questi vani impo-stori. Quanto durasse il regno di Carmide, nol sappiamo,e pare ch'ei fosse ancor vivo quando Plinio scriveva. Enon sappiam pure se altri capi di setta venissero dopoCarmide a Roma. Ciò ch'è certo, si è che il favor popo-lare di cui goderono i medici mentovati di sopra, pose intal credito la medicina, che moltissimi ne abbracciaron

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Bagni fred-di rinnovatida Carmi-de.

lo studio e la professione. Già abbiam veduto di sopracome se ne dolesse Plinio, e l'iscrizione da lui rammen-tata con cui taluno lagnavasi di essere stato ucciso dallamoltitudin de' medici. Più amaramente ancora se neduole Galeno; "e quindi avviene, egli dice (De meth.medendi l. 1), che anche i calzolai, i tintori, i falegnami,i ferrai, abbandonate le arti loro, divengon medici. Colo-ro poi, che impastino o i colori a' pittori, o le droghe a'profumieri, pretendono ancora di avere il primo luogo".Il che tanto più facilmente doveva accadere, perchè nonrichiedendosi allora legale approvazione a esercitarequest'arte, bastava, come dice Plinio, che si vantasse diesser medico, perchè tosto se gli avesse fede. A questogran numero di medici allude scherzevolmente Marzia-le, e accenna il costume fin d'allora introdotto, che i piùrinnomati tra essi andassero alla visita de' loro infermiaccompagnati da' loro discepoli, i quali anch'essi volea-no far sull'infermo le attente loro osservazioni, e gli erancon ciò di noia anzi che di sollievo. Languebam; sed tu comitatus protinus ad me

Venisti centum, Symmache, discipulis. Centum me tetigere manus Aquilone gelatæ:

Non habui febrem, Symmache; nunt habeo (l. 5, epigr. 9).

VI. Non giova dunque ch'io mi trattenga aricercare i nomi de' medici che a questotempo vissero in Roma; e molto più che fu-

360

Chi fosse, ea qual tem-po visse Celso.

lo studio e la professione. Già abbiam veduto di sopracome se ne dolesse Plinio, e l'iscrizione da lui rammen-tata con cui taluno lagnavasi di essere stato ucciso dallamoltitudin de' medici. Più amaramente ancora se neduole Galeno; "e quindi avviene, egli dice (De meth.medendi l. 1), che anche i calzolai, i tintori, i falegnami,i ferrai, abbandonate le arti loro, divengon medici. Colo-ro poi, che impastino o i colori a' pittori, o le droghe a'profumieri, pretendono ancora di avere il primo luogo".Il che tanto più facilmente doveva accadere, perchè nonrichiedendosi allora legale approvazione a esercitarequest'arte, bastava, come dice Plinio, che si vantasse diesser medico, perchè tosto se gli avesse fede. A questogran numero di medici allude scherzevolmente Marzia-le, e accenna il costume fin d'allora introdotto, che i piùrinnomati tra essi andassero alla visita de' loro infermiaccompagnati da' loro discepoli, i quali anch'essi volea-no far sull'infermo le attente loro osservazioni, e gli erancon ciò di noia anzi che di sollievo. Languebam; sed tu comitatus protinus ad me

Venisti centum, Symmache, discipulis. Centum me tetigere manus Aquilone gelatæ:

Non habui febrem, Symmache; nunt habeo (l. 5, epigr. 9).

VI. Non giova dunque ch'io mi trattenga aricercare i nomi de' medici che a questotempo vissero in Roma; e molto più che fu-

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Chi fosse, ea qual tem-po visse Celso.

rono quasi tutti stranieri. Molti di essi si posson vedereannoverati nella Storia di Daniello le Clerc (par. 3; l. 2).Ma qualche più distinta menzione vuolsi far di coloroche la medicina illustrarono co' loro scritti. Tra questivuol nominarsi tra' primi Aurelio, o come sembra ad al-tri dovevasi leggere (V. Morgagni ep. 4 in Cels.), AuloCornelio Celso. Di qual patria ei fosse, nè egli nè alcunaltro amico scrittore ce ne ha lasciato indicio. Ch'ei fos-se veronese, come alcuni hanno creduto, lo stesso mar-ch. Maffei confessa (Verona illutr. par. 2, l. 1) che non sipuò asserire con alcun probabile fondamento. S'egli nonfu romano, certo almen convien dire ch'ei vivesse inRoma, perchè ci parla di Asclepiade, di Temisone, diCassio (præf. l. 1), che furon medici in Roma, comed'uomini da lui conosciuti; e di Cassio singolarmente eidice: "Cassio il più ingegnoso medico del secol nostro,che abbiam di fresco veduto (34)". E ch'egli fosse almeno34 Nel fissare l'età di Celso ho seguita l'opinion comune a tutti coloro che fin

qui ne han ragionato. Il ch. sig. consigl. Bianconi è stato il primo a ribatte-re un tale errore nelle graziose non meno che dotte sue Lettere Celsianescritte nel 1776. Egli ha osservato che Quintiliano fa Celso più antico diGallione il padre: Scripsit ... non nihil pater Gallio, accuratius vero prioreGallione Celsus et Lenas ec. (Instit. l. 3, c. 1). Or certo essendo che Gallio-ne il padre fiorì verso la metà del regno d'Augusto, ne viene in seguito cheprima di essa scriveva e fioriva Celso. Celso innoltre parla di Temisonecome d'uomo poc'anzi morto: Temison nuper (præf. l. 3, c. 4). Or Temiso-ne era nato scolaro di Asclepiade; e questi era morto prima dell'anno diRoma 663, in cui morì Crasso, perciocchè questi per bocca di Cicerone neparla come d'uomo già morto (de Orat. l. 1, c. 14). Temisone dunque dove-va esser nato almen 25, o 30 anni prima della morte di Asclepiade, cioè alpiù tardi circa l'an. 638, o 635, e per quanto lunga vecchiezza gli si conce-da, ei dovette morire certo non molto dopo la morte di Giulio Cesare avve-nuta l'an.710. Innoltre Celso che pur nomina moltissimi medici, non fa

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rono quasi tutti stranieri. Molti di essi si posson vedereannoverati nella Storia di Daniello le Clerc (par. 3; l. 2).Ma qualche più distinta menzione vuolsi far di coloroche la medicina illustrarono co' loro scritti. Tra questivuol nominarsi tra' primi Aurelio, o come sembra ad al-tri dovevasi leggere (V. Morgagni ep. 4 in Cels.), AuloCornelio Celso. Di qual patria ei fosse, nè egli nè alcunaltro amico scrittore ce ne ha lasciato indicio. Ch'ei fos-se veronese, come alcuni hanno creduto, lo stesso mar-ch. Maffei confessa (Verona illutr. par. 2, l. 1) che non sipuò asserire con alcun probabile fondamento. S'egli nonfu romano, certo almen convien dire ch'ei vivesse inRoma, perchè ci parla di Asclepiade, di Temisone, diCassio (præf. l. 1), che furon medici in Roma, comed'uomini da lui conosciuti; e di Cassio singolarmente eidice: "Cassio il più ingegnoso medico del secol nostro,che abbiam di fresco veduto (34)". E ch'egli fosse almeno34 Nel fissare l'età di Celso ho seguita l'opinion comune a tutti coloro che fin

qui ne han ragionato. Il ch. sig. consigl. Bianconi è stato il primo a ribatte-re un tale errore nelle graziose non meno che dotte sue Lettere Celsianescritte nel 1776. Egli ha osservato che Quintiliano fa Celso più antico diGallione il padre: Scripsit ... non nihil pater Gallio, accuratius vero prioreGallione Celsus et Lenas ec. (Instit. l. 3, c. 1). Or certo essendo che Gallio-ne il padre fiorì verso la metà del regno d'Augusto, ne viene in seguito cheprima di essa scriveva e fioriva Celso. Celso innoltre parla di Temisonecome d'uomo poc'anzi morto: Temison nuper (præf. l. 3, c. 4). Or Temiso-ne era nato scolaro di Asclepiade; e questi era morto prima dell'anno diRoma 663, in cui morì Crasso, perciocchè questi per bocca di Cicerone neparla come d'uomo già morto (de Orat. l. 1, c. 14). Temisone dunque dove-va esser nato almen 25, o 30 anni prima della morte di Asclepiade, cioè alpiù tardi circa l'an. 638, o 635, e per quanto lunga vecchiezza gli si conce-da, ei dovette morire certo non molto dopo la morte di Giulio Cesare avve-nuta l'an.710. Innoltre Celso che pur nomina moltissimi medici, non fa

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italiano, spesse volte l'accenna egli stesso, quando vo-lendo recare il nome con cui latinamente appellasi unatal cosa, dice: i nostri la chiamano (l. 4, c. 4; l. 8, c. 1,ec.). Dalle sopraccitate parole raccogliesi ancora ch'eglivisse su gli ultimi anni d'Augusto, e poscia sotto alcunidegl'imperadori che gli succederono. Del rimanente niu-na particolar notizia ci è rimasta intorno alla sua vita,agli impieghi da lui sostenuti, e al tempo della sua mor-te. Se ei fosse medico di professione, si è dubitato da al-cuni, e parmi che il più forte argomento a negarlo siaquello che traesi dall'autorità di Plinio da noi altrove al-legata (V. t. 1, p. 325), ove egli afferma che i Romaninon si erano ancor degnati di esercitare quest'arte. Maforse Plinio parla solamente de' veri Romani, e non di

menzione alcuna di Antonio Musa, il quale pare che non sarebbesi da luiomesso, se non gli fosse stato anteriore. Benchè il secondo di questi argo-menti possa ammettere qualche risposta, percioccchè Seneca che scrivea a'tempi di Nerone adopera la voce nuper parlando de' tempi di Augusto: Vo-lesus nuper sub divo Augusto proconsul Asiæ, ec. (De ira l. 2, n. 5), e ilterzo argomento ancora non essendo negativo non abbia gran forza, colprimo nondimeno sostenuto da più altre diligenti osservazioni, e da moltecongetture ingegnose, egli ha sì bene provata l'opinion sua, e ha sì facil-mente sciolte tutte le difficoltà che ad essa potevano opporsi, ch'io find'allora mi diedi vinto con una lettera a lui diretta, ch'egli ha voluto ag-giungere alle sue. In esse poi tante sì belle notizie egli ha saputo raccoglie-re intorno alla vita, agl'impieghi, alle opere di questo celebre scrittore dimedicina, che se questi potesse risorgere, dovrebbe certo protestarsi tenutodi molto a chi sì bene ne ha rinnovata e illustrata la quasi estinta memoria.Rimaneva solo ch'ei soddisfacesse all'aspettazione che nelle stesse Lettereci avea risvegliata, di vedere una sua storia di Ovidio e degli altri poeti checonvisser con lui, la quale sarebbe stata feconda di nuovi lumi e di bellescoperte su quel sì celebre secolo. Ma la morte che cel rapì il I di gennaiodel 1781, ci ha rapita insiem la speranza di veder questa e più altre operech'egli avea disegnate.

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italiano, spesse volte l'accenna egli stesso, quando vo-lendo recare il nome con cui latinamente appellasi unatal cosa, dice: i nostri la chiamano (l. 4, c. 4; l. 8, c. 1,ec.). Dalle sopraccitate parole raccogliesi ancora ch'eglivisse su gli ultimi anni d'Augusto, e poscia sotto alcunidegl'imperadori che gli succederono. Del rimanente niu-na particolar notizia ci è rimasta intorno alla sua vita,agli impieghi da lui sostenuti, e al tempo della sua mor-te. Se ei fosse medico di professione, si è dubitato da al-cuni, e parmi che il più forte argomento a negarlo siaquello che traesi dall'autorità di Plinio da noi altrove al-legata (V. t. 1, p. 325), ove egli afferma che i Romaninon si erano ancor degnati di esercitare quest'arte. Maforse Plinio parla solamente de' veri Romani, e non di

menzione alcuna di Antonio Musa, il quale pare che non sarebbesi da luiomesso, se non gli fosse stato anteriore. Benchè il secondo di questi argo-menti possa ammettere qualche risposta, percioccchè Seneca che scrivea a'tempi di Nerone adopera la voce nuper parlando de' tempi di Augusto: Vo-lesus nuper sub divo Augusto proconsul Asiæ, ec. (De ira l. 2, n. 5), e ilterzo argomento ancora non essendo negativo non abbia gran forza, colprimo nondimeno sostenuto da più altre diligenti osservazioni, e da moltecongetture ingegnose, egli ha sì bene provata l'opinion sua, e ha sì facil-mente sciolte tutte le difficoltà che ad essa potevano opporsi, ch'io find'allora mi diedi vinto con una lettera a lui diretta, ch'egli ha voluto ag-giungere alle sue. In esse poi tante sì belle notizie egli ha saputo raccoglie-re intorno alla vita, agl'impieghi, alle opere di questo celebre scrittore dimedicina, che se questi potesse risorgere, dovrebbe certo protestarsi tenutodi molto a chi sì bene ne ha rinnovata e illustrata la quasi estinta memoria.Rimaneva solo ch'ei soddisfacesse all'aspettazione che nelle stesse Lettereci avea risvegliata, di vedere una sua storia di Ovidio e degli altri poeti checonvisser con lui, la quale sarebbe stata feconda di nuovi lumi e di bellescoperte su quel sì celebre secolo. Ma la morte che cel rapì il I di gennaiodel 1781, ci ha rapita insiem la speranza di veder questa e più altre operech'egli avea disegnate.

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que' che vi eran venuti altronde, o che aveano per privi-legio il diritto della cittadinanza, e Celso era forse un diquesti, nato in altra città d'Italia, e trasferitosi a Roma;ovvero Plinio intende sol di affermare, che ordinaria-mente i Romani non professavano la medicina, benchèalcuni pochi si allontanassero in questo dall'universalecostume. Certo che il ch. Morgagni da varj passi di Cel-so mostra chiaramente (ep. 4 in Cels.) ch'egli parla inmodo che non converrebbe a chi non fosse medico diprofessione. Egli è vero però, che Celso non si ristrinsealla medicina, ma presso che ogni genere di scienza col-tivò felicemente. Quintiliano ne parla spesso con moltalode, e dice ch'egli assai diligentemente scrisse precettid'eloquenza (l. 3 Instit. orat. c. 1) (di che altrove ragio-neremo), benchè il riprenda di troppo amore di novità inquest'arte (l. 9, c. 1): rammenta ancora alcuni libri filo-sofici da lui scritti con chiarezza e con eleganza, neiquali egli avea seguite le opinioni degli Sceptici (l. 10,c. 1). Che se egli in altro luogo il chiama uomo di me-diocre ingegno (l. 12, c. 11), pare che ciò sia indirizzatoa rilevarne maggiormente lo studio e la diligenza; per-ciocchè soggiugne ch'è a stupire ch'egli su tutte le scien-ze scrivesse libri, e sull'arte militare ancora, sull'agricol-tura, e sulla medicina (35). De' libri d'agricoltura scritti da

35 Quanto piacere avrebbe sentito il consigl. Bianconi se avesse veduta laopera altre volte citata di m. Goulin in cui parlando della taccia di medio-cre impegno data da Quintil. al suo Celso, osserva che un medico olandesenon son molti anni ha corretto quel passo, mostrando ch'è corso errore neltesto; che nel codice su cui si fece la prima edizione di Quintil. Doveva es-sere scritto Celsus med. acr. vir ingenio, e che l'editore invece di leggere

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que' che vi eran venuti altronde, o che aveano per privi-legio il diritto della cittadinanza, e Celso era forse un diquesti, nato in altra città d'Italia, e trasferitosi a Roma;ovvero Plinio intende sol di affermare, che ordinaria-mente i Romani non professavano la medicina, benchèalcuni pochi si allontanassero in questo dall'universalecostume. Certo che il ch. Morgagni da varj passi di Cel-so mostra chiaramente (ep. 4 in Cels.) ch'egli parla inmodo che non converrebbe a chi non fosse medico diprofessione. Egli è vero però, che Celso non si ristrinsealla medicina, ma presso che ogni genere di scienza col-tivò felicemente. Quintiliano ne parla spesso con moltalode, e dice ch'egli assai diligentemente scrisse precettid'eloquenza (l. 3 Instit. orat. c. 1) (di che altrove ragio-neremo), benchè il riprenda di troppo amore di novità inquest'arte (l. 9, c. 1): rammenta ancora alcuni libri filo-sofici da lui scritti con chiarezza e con eleganza, neiquali egli avea seguite le opinioni degli Sceptici (l. 10,c. 1). Che se egli in altro luogo il chiama uomo di me-diocre ingegno (l. 12, c. 11), pare che ciò sia indirizzatoa rilevarne maggiormente lo studio e la diligenza; per-ciocchè soggiugne ch'è a stupire ch'egli su tutte le scien-ze scrivesse libri, e sull'arte militare ancora, sull'agricol-tura, e sulla medicina (35). De' libri d'agricoltura scritti da

35 Quanto piacere avrebbe sentito il consigl. Bianconi se avesse veduta laopera altre volte citata di m. Goulin in cui parlando della taccia di medio-cre impegno data da Quintil. al suo Celso, osserva che un medico olandesenon son molti anni ha corretto quel passo, mostrando ch'è corso errore neltesto; che nel codice su cui si fece la prima edizione di Quintil. Doveva es-sere scritto Celsus med. acr. vir ingenio, e che l'editore invece di leggere

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Celso fa menzione più volte ancor Columella (l. 1, c. 8;l. 2, c. 9; l. 3, c. 2, ec), e ne loda spesso come saggi eopportuni i precetti; e il chiama dottissimo uomo (l. 9, c.2), e non solo nell'agricoltura, ma in tutta la naturalescienza perito (l. 2, c. 2). Plinio il vecchio parimentispesso lo nomina, e singolarmente nel catalogo degli au-tori, di cui egli si è giovato.

VII. Di tutte le opere di Celso niuna ci è ri-masta, fuorchè i suoi otto libri di medicina.Lo stile n'è quale si conviene ad autore vis-suto in parte al buon secolo, terso comune-

mente e colto. Ma alcuni hanno affermato che altro nonabbia egli fatto che recar dal greco in latino alcuni pre-cetti di medicina; e Jacopo Bodley singolarmente neparla come di scrittore superficiale, mancante e pocoesatto (Essai de Crit. sur les Ouvr. des Medicins lett. 2).Altri nondimeno ne sentono diversamente, e non temo-no di darne a Celso il nome d'Ippocrate latino. Gio. Ro-dio nella Vita che ha scritto di questo autore, nomina pa-recchi medici illustri che di Celso han parlato con gran-di elogi. Veggasi la mentovata Storia della Medicina delle Clerc (par. 2., sect. 2, c. 4, ec.), e la recente Storiadell'Anatomia e della Chirurgia di m. Portal (t. 1, p. 64,ec.), la dissertazione latina di Domenico Peverini sopra

Celsus medicus acri, ec. lesse incautamente Celsus mediocri, ec. (Mem.Pour servir à l'Hist. de la Medec. au. 1755, pag. 230)? Sarebbe desidera-bile che qualche antico codice venisse a sostenere questa ingegnosa spie-gazione.

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Sue opere eloro carat-tere.

Celso fa menzione più volte ancor Columella (l. 1, c. 8;l. 2, c. 9; l. 3, c. 2, ec), e ne loda spesso come saggi eopportuni i precetti; e il chiama dottissimo uomo (l. 9, c.2), e non solo nell'agricoltura, ma in tutta la naturalescienza perito (l. 2, c. 2). Plinio il vecchio parimentispesso lo nomina, e singolarmente nel catalogo degli au-tori, di cui egli si è giovato.

VII. Di tutte le opere di Celso niuna ci è ri-masta, fuorchè i suoi otto libri di medicina.Lo stile n'è quale si conviene ad autore vis-suto in parte al buon secolo, terso comune-

mente e colto. Ma alcuni hanno affermato che altro nonabbia egli fatto che recar dal greco in latino alcuni pre-cetti di medicina; e Jacopo Bodley singolarmente neparla come di scrittore superficiale, mancante e pocoesatto (Essai de Crit. sur les Ouvr. des Medicins lett. 2).Altri nondimeno ne sentono diversamente, e non temo-no di darne a Celso il nome d'Ippocrate latino. Gio. Ro-dio nella Vita che ha scritto di questo autore, nomina pa-recchi medici illustri che di Celso han parlato con gran-di elogi. Veggasi la mentovata Storia della Medicina delle Clerc (par. 2., sect. 2, c. 4, ec.), e la recente Storiadell'Anatomia e della Chirurgia di m. Portal (t. 1, p. 64,ec.), la dissertazione latina di Domenico Peverini sopra

Celsus medicus acri, ec. lesse incautamente Celsus mediocri, ec. (Mem.Pour servir à l'Hist. de la Medec. au. 1755, pag. 230)? Sarebbe desidera-bile che qualche antico codice venisse a sostenere questa ingegnosa spie-gazione.

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Sue opere eloro carat-tere.

l'eccellenza nell'arte medica di Celso, di Areteo, e diAureliano (N. Racc. d'Opusc. t. 5, p. 51), e singolarmen-te le lettere intorno a Celso del dott. prof. Giamb. Mor-gagni (Ante Celsi libros ed. patav. 1750), al cui giudizioin ciò ch'è medicina, credo che ognuno possa arrendersicon isperanza di non andare ingannato. Si posson vedereancora le Riflessioni di m. Mahudel sul carattere, sulleopere e sull'edizioni di Celso (Hist. de l'Acad. des inscr.t. 8, p. 97), e una memoria di m. Bernard medico del red'Inghilterra sulla chirurgia degli antichi, di cui ha pub-blicato un estratto l'erudito m. Dutens (Recherches surl'Origine des decouvertes, ec. t. 2, p. 59), ove si mostrache Celso in più cose ha aperta la strada alle scopertefatte poi da' moderni. Due lettere sotto il nome di Celsosi veggon nel libro de' Medicamenti di Marcello Empiri-co; ma di esse credesi autore Scribonio Largo di cui orafavelleremo (V. Fabr. Bibl. lat. t. 1, p. 386). Un altroCelso, detto ancora Apuleio e siciliano di nascita, è ram-mentato come suo maestro dallo stesso Scribonio (Decompos. medicament. p. 471) e dovette perciò vivere altempo medesimo del nostro Celso, di cui vuolsi da alcu-ni, ma senza ragione, che sia un libro delle Erbe, che daaltri si attribuisce a Lucio Apuleio (V. Fabr. Bibl. lat. t.2, p. 25).

VIII. Contemporaneo a Celso fu il mento-vato Scribonio Largo, come da alcuni suoipassi raccoglisi chiaramente (De compos.

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Altri medi-ci in Roma.

l'eccellenza nell'arte medica di Celso, di Areteo, e diAureliano (N. Racc. d'Opusc. t. 5, p. 51), e singolarmen-te le lettere intorno a Celso del dott. prof. Giamb. Mor-gagni (Ante Celsi libros ed. patav. 1750), al cui giudizioin ciò ch'è medicina, credo che ognuno possa arrendersicon isperanza di non andare ingannato. Si posson vedereancora le Riflessioni di m. Mahudel sul carattere, sulleopere e sull'edizioni di Celso (Hist. de l'Acad. des inscr.t. 8, p. 97), e una memoria di m. Bernard medico del red'Inghilterra sulla chirurgia degli antichi, di cui ha pub-blicato un estratto l'erudito m. Dutens (Recherches surl'Origine des decouvertes, ec. t. 2, p. 59), ove si mostrache Celso in più cose ha aperta la strada alle scopertefatte poi da' moderni. Due lettere sotto il nome di Celsosi veggon nel libro de' Medicamenti di Marcello Empiri-co; ma di esse credesi autore Scribonio Largo di cui orafavelleremo (V. Fabr. Bibl. lat. t. 1, p. 386). Un altroCelso, detto ancora Apuleio e siciliano di nascita, è ram-mentato come suo maestro dallo stesso Scribonio (Decompos. medicament. p. 471) e dovette perciò vivere altempo medesimo del nostro Celso, di cui vuolsi da alcu-ni, ma senza ragione, che sia un libro delle Erbe, che daaltri si attribuisce a Lucio Apuleio (V. Fabr. Bibl. lat. t.2, p. 25).

VIII. Contemporaneo a Celso fu il mento-vato Scribonio Largo, come da alcuni suoipassi raccoglisi chiaramente (De compos.

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Altri medi-ci in Roma.

Medicament. c. 97, 120) (36). Ma di qual patria egli fosse,nol possiamo conghietturare. Di lui abbiamo un libro in-titolato De Compositione Medicamentarum; il quale cre-dono alcuni che da Scribonio fosse scritto in greco, epoi qualche secolo dopo recato in latino. Ma altri pensa-no che da lui fosse scritto in latino, quale or l'abbiamo(V. Fabr. Bibl. lat. t. 2, p. 579). Checchè sia di ciò, egli ècerto, come osserva il soprallodato m. Portal (t. 1, p.71), che molte cose i medici che venner dopo, preseroda Scribonio, senza pur fargli l'onore di nominarlo, diche egli arreca le prove tratte dalle opere di Trifone (37),di Glicone, di Trasea, d'Aristo e d'altri medici e chirur-ghi dell'età susseguenti. A questi tempi ancora dovettevivere un Cassio, cui Celso chiama (præf. ad l. 1) il piùingegnoso medico del secol nostro. Ma s'egli sia queldesso di cui abbiamo alcune opere scritte in greco, non èagevole a diffinire; perciocchè molti vi furono di questonome; nè abbiamo dagli antichi scrittori quel lume chesarebbe necessario a discernere ciò che a ciaschedun diessi appartenga. Alquanto più tardi, cioè a tempi di Ne-rone, di cui era medico, viveva Andromaco di cui diceGaleno (l. de Theriaca ad Pisonem c. 5) (se egli è l'auto-re del trattato della teriaca) che fu uomo degno di me-moria, e di cui egli ha inserito nella sua opera un poe-

36 Scribonio dedicò il suo libro a Caio Giulio Callisto liberto dell'imper.Claudio, e con ciò ci mostra il tempo a cui egli scriveva, il quale ancora daaltri passi della sua opera è manifesto.

37 Trifone non poteva rammentare Scribonio, perchè anzi Scribonio si vantadi averlo avuto a maestro, e oltre ciò osserva m. Goulin che Trifone era giàmorto, quando Celso scriveva (l. c. p. 228).

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Medicament. c. 97, 120) (36). Ma di qual patria egli fosse,nol possiamo conghietturare. Di lui abbiamo un libro in-titolato De Compositione Medicamentarum; il quale cre-dono alcuni che da Scribonio fosse scritto in greco, epoi qualche secolo dopo recato in latino. Ma altri pensa-no che da lui fosse scritto in latino, quale or l'abbiamo(V. Fabr. Bibl. lat. t. 2, p. 579). Checchè sia di ciò, egli ècerto, come osserva il soprallodato m. Portal (t. 1, p.71), che molte cose i medici che venner dopo, preseroda Scribonio, senza pur fargli l'onore di nominarlo, diche egli arreca le prove tratte dalle opere di Trifone (37),di Glicone, di Trasea, d'Aristo e d'altri medici e chirur-ghi dell'età susseguenti. A questi tempi ancora dovettevivere un Cassio, cui Celso chiama (præf. ad l. 1) il piùingegnoso medico del secol nostro. Ma s'egli sia queldesso di cui abbiamo alcune opere scritte in greco, non èagevole a diffinire; perciocchè molti vi furono di questonome; nè abbiamo dagli antichi scrittori quel lume chesarebbe necessario a discernere ciò che a ciaschedun diessi appartenga. Alquanto più tardi, cioè a tempi di Ne-rone, di cui era medico, viveva Andromaco di cui diceGaleno (l. de Theriaca ad Pisonem c. 5) (se egli è l'auto-re del trattato della teriaca) che fu uomo degno di me-moria, e di cui egli ha inserito nella sua opera un poe-

36 Scribonio dedicò il suo libro a Caio Giulio Callisto liberto dell'imper.Claudio, e con ciò ci mostra il tempo a cui egli scriveva, il quale ancora daaltri passi della sua opera è manifesto.

37 Trifone non poteva rammentare Scribonio, perchè anzi Scribonio si vantadi averlo avuto a maestro, e oltre ciò osserva m. Goulin che Trifone era giàmorto, quando Celso scriveva (l. c. p. 228).

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metto in versi greci elegiaci sulla teriaca (l. 1 de Antido-tis c. 6). "A' tempi pur di Nerone dicesi vissuto Marinoillustre anatomico, di cui ci ha conservato alcuni fram-menti Galeno, li quali ci fanno soffrire con dispiacereche il restante dell'opera ne sia perito". Ai tempi di Tra-iano, secondo Suida, fu in Roma ancora Sorano d'Efeso,medico celebre pe' suoi scritti, tra' quali uno n'è statonon ha molto per la prima volta dato alla luce ed illu-strato dal celebre dott. Cocchi. Chi di questi e di altrimedici di questa età brama saper altre cose, vegga l'eru-dito e diligente catalogo de' medici antichi del Fabricio(Bibl. gr. t. 13, p. 15, ec.), e vegga ancora la Storia dellaMedicina di Daniello le Clerc, e la più volte citata Storiadell'Anatomia e della Chirurgia; poichè a me non appar-tiene l'annoverare i nomi, e l'esaminare il carattere ditutti i medici che furono in Roma, e di quelli singolar-mente de' quali niuna opera ci è rimasta.

IX. Per questa ragion medesima io ho la-sciato di parlar di Demostene medico natiodi Marsiglia, che visse verso questo medesi-mo tempo, e molto più ch'io non trovo argo-mento alcuno a provare ch'ei dimorasse inRoma. Solo, giacchè ne ho fatta menzione,

avvertirò un errore in cui, s'io non m'inganno, sono ca-duti i moderni autori che di lui han parlato, e singolar-mente i Maurini nella Storia Letteraria di Francia (t. 1,p. 208) e il loro compendiatore l'ab. Longchamps (Tabl.

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Errori com-messi da al-tri nel ra-gionare delmedico De-mostene.

metto in versi greci elegiaci sulla teriaca (l. 1 de Antido-tis c. 6). "A' tempi pur di Nerone dicesi vissuto Marinoillustre anatomico, di cui ci ha conservato alcuni fram-menti Galeno, li quali ci fanno soffrire con dispiacereche il restante dell'opera ne sia perito". Ai tempi di Tra-iano, secondo Suida, fu in Roma ancora Sorano d'Efeso,medico celebre pe' suoi scritti, tra' quali uno n'è statonon ha molto per la prima volta dato alla luce ed illu-strato dal celebre dott. Cocchi. Chi di questi e di altrimedici di questa età brama saper altre cose, vegga l'eru-dito e diligente catalogo de' medici antichi del Fabricio(Bibl. gr. t. 13, p. 15, ec.), e vegga ancora la Storia dellaMedicina di Daniello le Clerc, e la più volte citata Storiadell'Anatomia e della Chirurgia; poichè a me non appar-tiene l'annoverare i nomi, e l'esaminare il carattere ditutti i medici che furono in Roma, e di quelli singolar-mente de' quali niuna opera ci è rimasta.

IX. Per questa ragion medesima io ho la-sciato di parlar di Demostene medico natiodi Marsiglia, che visse verso questo medesi-mo tempo, e molto più ch'io non trovo argo-mento alcuno a provare ch'ei dimorasse inRoma. Solo, giacchè ne ho fatta menzione,

avvertirò un errore in cui, s'io non m'inganno, sono ca-duti i moderni autori che di lui han parlato, e singolar-mente i Maurini nella Storia Letteraria di Francia (t. 1,p. 208) e il loro compendiatore l'ab. Longchamps (Tabl.

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Errori com-messi da al-tri nel ra-gionare delmedico De-mostene.

hist., ec. t. 1, p. 86). Essi dicono che Demostene scrissetre libri sulle malattie degli occhi, e citano l'autorità diGaleno e di Aezio. Prima di essi avea ciò asserito il Fa-bricio (Bibl. gr. t. 13, p. 138), il quale anche arreca leparole stesse di Galeno. Ma io nel luogo da lui accenna-to (De differ. pulsuum l. 4, c. 5) trovo che Galeno nomi-na tre libri intorno a' polsi, e dove il Fabricio, nel testogreco legge, περι οφθαλµον, io leggo nell'edizion delCarterio περι ςφεγµον; e nella traduzion latina leggo depulsibus, e non de oculis, come secondo il Fabricio do-vrebbe leggersi. Io non ho potuto vedere l'edizion grecadi Aldo, di cui par che valgasi il Fabricio; ma parmi im-possibile che Galeno in quel luogo ove spiega le opinio-ni di Demostene intorno a' polsi, nomini i libri da luiscritti intorno agli occhi; e il contesto medesimo che lopersuade; perciocchè Galeno venendo a spiegare le detteopinioni dice: Hic tres reliquit de pulsibus libros apudmultos commendatos; e quindi dice qual fosse intorno a'polsi il sentimento di questo scrittore. Che hanno dun-que a fare con ciò i libri su gli occhi? Maggior fonda-mento si può fare sull'autorità di Aezio; perciocchè egliveramente recita (Op. medici l. 7) molte sentenze di De-mostene intorno alle malattie degli occhi; dal che si rac-coglie ch'egli avea scritto su questo argomento; ma Ae-zio non dice quanti libri ne avesse scritto. Un altro leg-giadro equivoco ha preso nel favellar di Demostene l'ab.Longchamps. I Maurini citano, come si è detto, l'autori-tà di Aezio nativo di Amida; ed egli fedelmente traduce:negli scritti di Aezio e di Amida.

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hist., ec. t. 1, p. 86). Essi dicono che Demostene scrissetre libri sulle malattie degli occhi, e citano l'autorità diGaleno e di Aezio. Prima di essi avea ciò asserito il Fa-bricio (Bibl. gr. t. 13, p. 138), il quale anche arreca leparole stesse di Galeno. Ma io nel luogo da lui accenna-to (De differ. pulsuum l. 4, c. 5) trovo che Galeno nomi-na tre libri intorno a' polsi, e dove il Fabricio, nel testogreco legge, περι οφθαλµον, io leggo nell'edizion delCarterio περι ςφεγµον; e nella traduzion latina leggo depulsibus, e non de oculis, come secondo il Fabricio do-vrebbe leggersi. Io non ho potuto vedere l'edizion grecadi Aldo, di cui par che valgasi il Fabricio; ma parmi im-possibile che Galeno in quel luogo ove spiega le opinio-ni di Demostene intorno a' polsi, nomini i libri da luiscritti intorno agli occhi; e il contesto medesimo che lopersuade; perciocchè Galeno venendo a spiegare le detteopinioni dice: Hic tres reliquit de pulsibus libros apudmultos commendatos; e quindi dice qual fosse intorno a'polsi il sentimento di questo scrittore. Che hanno dun-que a fare con ciò i libri su gli occhi? Maggior fonda-mento si può fare sull'autorità di Aezio; perciocchè egliveramente recita (Op. medici l. 7) molte sentenze di De-mostene intorno alle malattie degli occhi; dal che si rac-coglie ch'egli avea scritto su questo argomento; ma Ae-zio non dice quanti libri ne avesse scritto. Un altro leg-giadro equivoco ha preso nel favellar di Demostene l'ab.Longchamps. I Maurini citano, come si è detto, l'autori-tà di Aezio nativo di Amida; ed egli fedelmente traduce:negli scritti di Aezio e di Amida.

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CAPO VII.Giurisprudenza.

I. Se vi fu secolo alcuno in cui la giuri-sprudenza dovesse essere abbandonata enegletta, esso fu certamente quello di cuiora parliamo. Abbiam veduto in qualestima e, dirò ancora, in quale venerazio-ne fossero ai tempi della repubblica i

giureconsulti. Le lor risposte erano oracoli; e dal lor pa-rere dipendevano in gran parte i pubblici e i privati giu-dicj. Ma poichè quasi tutta l'autorità fu ridotta ad unsolo, e la decision delle cause cominciò a dipendere piùdal volere, e spesso ancora dal capriccio de' Cesari, chedalle leggi, non è maraviglia che lo studio di esse venis-se a illanguidire. Sotto l'imperio di un Tiberio, di un Ca-ligola, di un Claudio, di un Nerone, di un Domiziano,qual forza potevan avere le leggi? Essi non ne conosce-vano altre che le lor passioni e il loro interesse. Gli uo-mini più innocenti erano accusati de' più gravi delitti; ea provarli rei era argomento bastevole l'odio dell'impe-radore. Le leggi potevano levar alto la voce, quanto loropiaceva, contro de' più malvagi. Essi eran dichiarati in-nocenti, se godevaano del favor del sovrano. Gl'impera-dori per la Legge Regia dal senato e dal popolo portatain lor favore, secondo alcuni fin dal tempo d'Augusto,secondo altri solo al tempo di Vespasiano (V. TerrassonHist. De la jurispr. Rom. Part. 3, § 2), potevano a lor

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Per qual ragio-ne la giurispru-denza in quest'epoca ri-manesse neglet-ta.

CAPO VII.Giurisprudenza.

I. Se vi fu secolo alcuno in cui la giuri-sprudenza dovesse essere abbandonata enegletta, esso fu certamente quello di cuiora parliamo. Abbiam veduto in qualestima e, dirò ancora, in quale venerazio-ne fossero ai tempi della repubblica i

giureconsulti. Le lor risposte erano oracoli; e dal lor pa-rere dipendevano in gran parte i pubblici e i privati giu-dicj. Ma poichè quasi tutta l'autorità fu ridotta ad unsolo, e la decision delle cause cominciò a dipendere piùdal volere, e spesso ancora dal capriccio de' Cesari, chedalle leggi, non è maraviglia che lo studio di esse venis-se a illanguidire. Sotto l'imperio di un Tiberio, di un Ca-ligola, di un Claudio, di un Nerone, di un Domiziano,qual forza potevan avere le leggi? Essi non ne conosce-vano altre che le lor passioni e il loro interesse. Gli uo-mini più innocenti erano accusati de' più gravi delitti; ea provarli rei era argomento bastevole l'odio dell'impe-radore. Le leggi potevano levar alto la voce, quanto loropiaceva, contro de' più malvagi. Essi eran dichiarati in-nocenti, se godevaano del favor del sovrano. Gl'impera-dori per la Legge Regia dal senato e dal popolo portatain lor favore, secondo alcuni fin dal tempo d'Augusto,secondo altri solo al tempo di Vespasiano (V. TerrassonHist. De la jurispr. Rom. Part. 3, § 2), potevano a lor

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Per qual ragio-ne la giurispru-denza in quest'epoca ri-manesse neglet-ta.

piacere annullare, e pubblicar nuove leggi; e molto più ilpotevano per la forza che avevano tra le mani. Quindipoco giovava l'affaticarsi a ricercar le leggi già pubbli-cate, a esaminarne lo spirito, a raccoglierne le Conse-guenze; poichè un cenno dell'imperadore poteva rendereinutili i più profondi studj. Anzi alcuni tra essi giunseroa disprezzare apertamente ogni sorta di leggi, e già ab-biam veduto altrove, che il pazzo Caligola si vantava divolerle toglier di mezzo, e tutti dare alle fiamme i libride' giureconsulti.

II. Ciò non ostante o perchè gl'imperadorimedesimi più amanti del dispotismo la-sciassero il corso libero alle leggi, quandonon si opponevano a' lor disegni, o perchèsi sperasse che dovesser finalmente cam-

biarsi i tempi, e risalire le leggi all'antico onore, vi ebbeanche a questo tempo non picciol numero di famosi giu-reconsulti. Noi ne parleremo brevemente, come ancoraaltrove abbiam fatto, poichè non vi è forse scienza alcu-na di cui abbiam già tante storie, come la romana giuri-sprudenza; e ci atterrem ragionandone singolarmenteall'antico giurec. Pomponio di cui abbiamo una compen-diosa storia di quelli che in questo studio si renderon piùillustri (Dig. l. 1, tit. 2), giovandoci però al bisogno dialtri e antichi e moderni autori.

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Ebbe essanondimenoalcuni celebrigiureconsulti.

piacere annullare, e pubblicar nuove leggi; e molto più ilpotevano per la forza che avevano tra le mani. Quindipoco giovava l'affaticarsi a ricercar le leggi già pubbli-cate, a esaminarne lo spirito, a raccoglierne le Conse-guenze; poichè un cenno dell'imperadore poteva rendereinutili i più profondi studj. Anzi alcuni tra essi giunseroa disprezzare apertamente ogni sorta di leggi, e già ab-biam veduto altrove, che il pazzo Caligola si vantava divolerle toglier di mezzo, e tutti dare alle fiamme i libride' giureconsulti.

II. Ciò non ostante o perchè gl'imperadorimedesimi più amanti del dispotismo la-sciassero il corso libero alle leggi, quandonon si opponevano a' lor disegni, o perchèsi sperasse che dovesser finalmente cam-

biarsi i tempi, e risalire le leggi all'antico onore, vi ebbeanche a questo tempo non picciol numero di famosi giu-reconsulti. Noi ne parleremo brevemente, come ancoraaltrove abbiam fatto, poichè non vi è forse scienza alcu-na di cui abbiam già tante storie, come la romana giuri-sprudenza; e ci atterrem ragionandone singolarmenteall'antico giurec. Pomponio di cui abbiamo una compen-diosa storia di quelli che in questo studio si renderon piùillustri (Dig. l. 1, tit. 2), giovandoci però al bisogno dialtri e antichi e moderni autori.

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Ebbe essanondimenoalcuni celebrigiureconsulti.

III. Innanzi a tutti voglionsi nominare dueillustri giureconsulti, i quali benchè fioris-sero, almeno in gran parte, a' tempid'Augusto, ottennero però maggior fama,dopo lor morte per molti seguaci ch'ebbero

dalle diverse loro opinioni. Furono essi Atteio Capitonee Antistio Libeone; de' quali il primo fu console, l'altronon volle, come narra Pomponio (l. c.), benchè un talonore gli fosse offerto da Augusto. Tutto il tempo vole-va ei dare allo studio, e perciò divideva i mesi dell'annoper modo, che sei ne dava a Roma, ove trattenevasi con-sultando e rendendo risposte, sei ne passava in una ri-mota solitudine scrivendo libri; e quaranta ei ne compo-se, molti de' quali, dice Pomponio, ancor ci rimangono.Or questi due, siegue egli, furono, per così dire, i primiautori di due diverse sette. Perciocchè Capitone attene-vasi a ciò che aveva da altri appreso; Labeone all'incon-tro, fidandosi al suo ingegno e al suo sapere, molte novi-tà introdusse. Così egli ci narra l'origine di queste duesette di giureconsulti, la prima delle quali da due de'suoi più illustri seguaci ci fu detta Sabiniana e Cassiana;la seconda per la stessa ragione ebbe i nomi di Procu-leiana e di Pegasiana. De' diversi principj di queste settemolte e diverse cose hanno scritto gli storici della roma-na giurisprudenza; ma, come osserva il dotto avv. Ter-rasson (l. c.), pare che la loro diversità a questo si ridu-cesse, che Capitone voleva che le leggi spiegate fosseroed eseguite secondo il letteral senso ch'esse ci offrono;Labeone al contrario voleva che anzi se ne considerasse

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Due sette di-verse fondateda Capitone e da Labeo-ne.

III. Innanzi a tutti voglionsi nominare dueillustri giureconsulti, i quali benchè fioris-sero, almeno in gran parte, a' tempid'Augusto, ottennero però maggior fama,dopo lor morte per molti seguaci ch'ebbero

dalle diverse loro opinioni. Furono essi Atteio Capitonee Antistio Libeone; de' quali il primo fu console, l'altronon volle, come narra Pomponio (l. c.), benchè un talonore gli fosse offerto da Augusto. Tutto il tempo vole-va ei dare allo studio, e perciò divideva i mesi dell'annoper modo, che sei ne dava a Roma, ove trattenevasi con-sultando e rendendo risposte, sei ne passava in una ri-mota solitudine scrivendo libri; e quaranta ei ne compo-se, molti de' quali, dice Pomponio, ancor ci rimangono.Or questi due, siegue egli, furono, per così dire, i primiautori di due diverse sette. Perciocchè Capitone attene-vasi a ciò che aveva da altri appreso; Labeone all'incon-tro, fidandosi al suo ingegno e al suo sapere, molte novi-tà introdusse. Così egli ci narra l'origine di queste duesette di giureconsulti, la prima delle quali da due de'suoi più illustri seguaci ci fu detta Sabiniana e Cassiana;la seconda per la stessa ragione ebbe i nomi di Procu-leiana e di Pegasiana. De' diversi principj di queste settemolte e diverse cose hanno scritto gli storici della roma-na giurisprudenza; ma, come osserva il dotto avv. Ter-rasson (l. c.), pare che la loro diversità a questo si ridu-cesse, che Capitone voleva che le leggi spiegate fosseroed eseguite secondo il letteral senso ch'esse ci offrono;Labeone al contrario voleva che anzi se ne considerasse

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Due sette di-verse fondateda Capitone e da Labeo-ne.

lo spirito e il fine, e che questo servisse a moderarne,ove fosse bisogno, il rigor litterale. Ciò non ostante,benchè Capitone sembrasse un severo giureconsulto, sa-peva nondimeno egli ancora adattarsi a' tempi, e più chead uom retto non si convenga, come egli diede a vederenell'adulatrice risposta data a Tiberio, e da noi rammen-tata nel capo I di questo libro (V. p. 40). Ma più vilmen-te ancora, e con maggior suo disonore, diede egli a ve-dere la sua bassezza d'animo, quando essendo accusatoEnnio cavalier romano, perchè avesse in usi domesticiconvertito l'argento di una statua di Tiberio, e non vo-lendo questi che di ciò si facesse giudizio, Capitone pre-se ad esclamare in senato che non doveasi passare impu-nito sì gran delitto; e che se Tiberio voleva essere indif-ferente alle ingiurie a lui fatte, nol fosse almeno a quellefatte alla repubblica; "dal che, dice Tacito (l. 3 Ann. c.70), gliene venne infamia grandissima, perchè egli,uomo nel divino e nel civile diritto sì ben versato, aves-se per sì indegna maniera oltraggiato e il pubblico deco-ro e i suoi proprj pregi". Con questi vergognosi artificjera egli alcuni anni addietro salito al consolato, a cui an-cora prima del tempo dalle leggi prescritto sollevato fuda Augusto, affinchè egli per tal modo andasse innanzi aLabeone, perciocchè, dice lo stesso Tacito (ib. c. 75),"furono amendue a quel tempo grande ornamento dellarepubblica; ma Labeone era uomo di una libertà incor-rotta, di cui avea già egli dato più prove (Gell. l. 13, c.12), e perciò godeva di miglior fama; Capitone al con-trario rendevasi coll'adulazione più cara a' regnanti.

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lo spirito e il fine, e che questo servisse a moderarne,ove fosse bisogno, il rigor litterale. Ciò non ostante,benchè Capitone sembrasse un severo giureconsulto, sa-peva nondimeno egli ancora adattarsi a' tempi, e più chead uom retto non si convenga, come egli diede a vederenell'adulatrice risposta data a Tiberio, e da noi rammen-tata nel capo I di questo libro (V. p. 40). Ma più vilmen-te ancora, e con maggior suo disonore, diede egli a ve-dere la sua bassezza d'animo, quando essendo accusatoEnnio cavalier romano, perchè avesse in usi domesticiconvertito l'argento di una statua di Tiberio, e non vo-lendo questi che di ciò si facesse giudizio, Capitone pre-se ad esclamare in senato che non doveasi passare impu-nito sì gran delitto; e che se Tiberio voleva essere indif-ferente alle ingiurie a lui fatte, nol fosse almeno a quellefatte alla repubblica; "dal che, dice Tacito (l. 3 Ann. c.70), gliene venne infamia grandissima, perchè egli,uomo nel divino e nel civile diritto sì ben versato, aves-se per sì indegna maniera oltraggiato e il pubblico deco-ro e i suoi proprj pregi". Con questi vergognosi artificjera egli alcuni anni addietro salito al consolato, a cui an-cora prima del tempo dalle leggi prescritto sollevato fuda Augusto, affinchè egli per tal modo andasse innanzi aLabeone, perciocchè, dice lo stesso Tacito (ib. c. 75),"furono amendue a quel tempo grande ornamento dellarepubblica; ma Labeone era uomo di una libertà incor-rotta, di cui avea già egli dato più prove (Gell. l. 13, c.12), e perciò godeva di miglior fama; Capitone al con-trario rendevasi coll'adulazione più cara a' regnanti.

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Quegli, perchè non giunse più oltre che alla pretura, daquesto torto medesimo ebbe maggior onore; questi, per-chè ottenne l'onore del consolato, incorse l'odio e l'invi-dìa comune". Di Labeone non sappiamo precisamente inqual anno morisse: la morte di Capitone è fissata da Ta-cito (ib.) al nono anno di Tiberio. Delle molte opere cheamendue aveano scritte niuna ci è rimasta; e solo ne ab-biamo alcuni frammenti ne' Digesti.

IV. Le sette da Capitone e di Labeone isti-tuite ebbero maggior fama ancora e maggiornumero di seguaci dopo la lor morte, comenarra il citato Pomponio, il qual dice cheCapitone ebbe per successore Masurio Sabi-

no, Labeone ebbe Nerva Cocceio. Di Masurio Sabinonarra Pomponio "ch'era dell'ordine equestre e che da Ti-berici ebbe il dritto di dare pubblicamente le risposte achi il consultasse; perciocchè, continua egli, fino a' tem-pi di Augusto lecito era ad ognuno che si lusingasse diessere dotto giureconsulto, il rispondere nelle cause";ma Augusto volle che in avvenire da lui se ne ricevessel'autorità, e obbligò insieme i giudici, come mostral'Eineccio (Antiq. Roman. jurispr. illustrant. l. 1, tit. 2, §38; e Hist. Jur. Rom. l. 1, § 178, 280), a conformar lesentenze alle loro risposte; benchè poscia Adriano la-sciasse di nuovo libero a chi piacesse un tale esercizio.Uomo di somma integrità dovea esser Masurio, poichèPomponio aggiunge ch'ei non radunò grandi ricchezze, e

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Loro segua-ci Masurio Sabino e Nerva Coc-ceio.

Quegli, perchè non giunse più oltre che alla pretura, daquesto torto medesimo ebbe maggior onore; questi, per-chè ottenne l'onore del consolato, incorse l'odio e l'invi-dìa comune". Di Labeone non sappiamo precisamente inqual anno morisse: la morte di Capitone è fissata da Ta-cito (ib.) al nono anno di Tiberio. Delle molte opere cheamendue aveano scritte niuna ci è rimasta; e solo ne ab-biamo alcuni frammenti ne' Digesti.

IV. Le sette da Capitone e di Labeone isti-tuite ebbero maggior fama ancora e maggiornumero di seguaci dopo la lor morte, comenarra il citato Pomponio, il qual dice cheCapitone ebbe per successore Masurio Sabi-

no, Labeone ebbe Nerva Cocceio. Di Masurio Sabinonarra Pomponio "ch'era dell'ordine equestre e che da Ti-berici ebbe il dritto di dare pubblicamente le risposte achi il consultasse; perciocchè, continua egli, fino a' tem-pi di Augusto lecito era ad ognuno che si lusingasse diessere dotto giureconsulto, il rispondere nelle cause";ma Augusto volle che in avvenire da lui se ne ricevessel'autorità, e obbligò insieme i giudici, come mostral'Eineccio (Antiq. Roman. jurispr. illustrant. l. 1, tit. 2, §38; e Hist. Jur. Rom. l. 1, § 178, 280), a conformar lesentenze alle loro risposte; benchè poscia Adriano la-sciasse di nuovo libero a chi piacesse un tale esercizio.Uomo di somma integrità dovea esser Masurio, poichèPomponio aggiunge ch'ei non radunò grandi ricchezze, e

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Loro segua-ci Masurio Sabino e Nerva Coc-ceio.

che comunemente da' suoi scolari medesimi era sosten-tato. Nerva Cocceio uom consolare e avolo dell'impera-dore dello stesso nome, non avea probabilmente ugualevirtù, poichè egli era amicissimo di Tiberio; e fu un de'pochi che furono da lui scelti a compagni, allor quandouscì da Roma per abbandonarsi nella solitudine a' piùinfami delitti (Tac. l. 4 Ann. c. 58). La maniera nondi-meno con cui Tacito ne racconta la morte (l. 6 Ann. c.26), cel rappresenta uomo amante della repubblica, etroppo sensibile all'infelice stato in cui essa trovavasi."Non molto dopo, egli dice, Cocceio Nerva uomo in tut-te le divine e le umane leggi erudito, essendo in felicefortuna, in ottimo stato di sanità, determinossi a morire.Il che come seppe Tiberio, sedutogli al fianco prese achiedergliene la ragione, a pregarlo di mutar parere, e adir finalmente che troppo grave al suo animo sarebbestato, e troppo alla sua fama contrario, se il suo più in-trinseco amico senza alcuna ragione si desse la morte.Ma Nerva, nulla curando un tal discorso, coll'astenersidal cibo si diè la morte. Dicevon coloro che ne conosce-vano l'animo, ch'egli, veggendo sempre più da vicino idanni della repubblica, da sdegno insieme e da timortrasportato volesse, mentre era ancor salvo e felice, fini-re onoratamente la vita". Accadde tal morte l'ann. 34dell'era cristiana. Di questi due giureconsulti il primo,cioè Masurio Sabino, molte opere appartenenti al dirittoavea composte che dall'avv. Terrasson (Hist. de la Juri-spr. part. 3, § 3) e dall'Eineccio (Hist. Jur. l. 1, c. 4, §208, 209) vengono annoverate. Qualche libro ancora

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che comunemente da' suoi scolari medesimi era sosten-tato. Nerva Cocceio uom consolare e avolo dell'impera-dore dello stesso nome, non avea probabilmente ugualevirtù, poichè egli era amicissimo di Tiberio; e fu un de'pochi che furono da lui scelti a compagni, allor quandouscì da Roma per abbandonarsi nella solitudine a' piùinfami delitti (Tac. l. 4 Ann. c. 58). La maniera nondi-meno con cui Tacito ne racconta la morte (l. 6 Ann. c.26), cel rappresenta uomo amante della repubblica, etroppo sensibile all'infelice stato in cui essa trovavasi."Non molto dopo, egli dice, Cocceio Nerva uomo in tut-te le divine e le umane leggi erudito, essendo in felicefortuna, in ottimo stato di sanità, determinossi a morire.Il che come seppe Tiberio, sedutogli al fianco prese achiedergliene la ragione, a pregarlo di mutar parere, e adir finalmente che troppo grave al suo animo sarebbestato, e troppo alla sua fama contrario, se il suo più in-trinseco amico senza alcuna ragione si desse la morte.Ma Nerva, nulla curando un tal discorso, coll'astenersidal cibo si diè la morte. Dicevon coloro che ne conosce-vano l'animo, ch'egli, veggendo sempre più da vicino idanni della repubblica, da sdegno insieme e da timortrasportato volesse, mentre era ancor salvo e felice, fini-re onoratamente la vita". Accadde tal morte l'ann. 34dell'era cristiana. Di questi due giureconsulti il primo,cioè Masurio Sabino, molte opere appartenenti al dirittoavea composte che dall'avv. Terrasson (Hist. de la Juri-spr. part. 3, § 3) e dall'Eineccio (Hist. Jur. l. 1, c. 4, §208, 209) vengono annoverate. Qualche libro ancora

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avea scritto Nerva; ma nè dell'un nè dell'altro non è ri-masta cosa alcuna.

V. Passa quindi Pomponio a parlare de' suc-cessori che ebbero nella lor setta amendue isuddetti giureconsulti. E a Sabino succedet-te, egli dice, C. Cassio Longino nato da unafiglia di Tuberone, la quale era nipote del

celebre Servio Sulplizio, di cui nel primo tomo si è lun-gamente parlato. Ei fu console insieme con Quartino a'tempi di Tiberio, e molta autorità ebbe in Roma, sinchèda Nerone non fu mandato in esilio, donde poi richiama-to da Vespasiano finì i suoi giorni. Così Pomponio.Vuolsi qui avvertire che diverso dal nostro giureconsul-to fu quel L. Cassio, a cui Tiberio diè per moglie la suanipote Drusilla (V. Lipsii et Merceri notat. ad Tac. l. 6.Ann. c. 15). Quegli di cui ora parliamo, è rammentatospesso con molta lode da Tacito, il qual dice ch'egli an-dava innanzi a tutti nella scienza delle leggi; e ch'essen-do pretore in Siria in tempo di pace, ciò non ostante te-neva in continuo esercizio le truppe a sè affidate, non al-trimenti che se avessero a fronte il nemico, "persuasoche ciò convenisse alla gloria de' suoi maggiori e dellafamiglia Cassia celebre ancora fra quelle nazioni" (l. 12Ann., c. 12). Egli narra ancora (l. 16, c. 7, ec.) ciò chePomponio accenna sol brevemente, come fosse da Nero-ne mandato in esilio. Un uomo di sì grande virtù doveaessere oggetto troppo spiacevole a un tal mostro. Co-

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L. Cassio Longino, Procolo ed altri.

avea scritto Nerva; ma nè dell'un nè dell'altro non è ri-masta cosa alcuna.

V. Passa quindi Pomponio a parlare de' suc-cessori che ebbero nella lor setta amendue isuddetti giureconsulti. E a Sabino succedet-te, egli dice, C. Cassio Longino nato da unafiglia di Tuberone, la quale era nipote del

celebre Servio Sulplizio, di cui nel primo tomo si è lun-gamente parlato. Ei fu console insieme con Quartino a'tempi di Tiberio, e molta autorità ebbe in Roma, sinchèda Nerone non fu mandato in esilio, donde poi richiama-to da Vespasiano finì i suoi giorni. Così Pomponio.Vuolsi qui avvertire che diverso dal nostro giureconsul-to fu quel L. Cassio, a cui Tiberio diè per moglie la suanipote Drusilla (V. Lipsii et Merceri notat. ad Tac. l. 6.Ann. c. 15). Quegli di cui ora parliamo, è rammentatospesso con molta lode da Tacito, il qual dice ch'egli an-dava innanzi a tutti nella scienza delle leggi; e ch'essen-do pretore in Siria in tempo di pace, ciò non ostante te-neva in continuo esercizio le truppe a sè affidate, non al-trimenti che se avessero a fronte il nemico, "persuasoche ciò convenisse alla gloria de' suoi maggiori e dellafamiglia Cassia celebre ancora fra quelle nazioni" (l. 12Ann., c. 12). Egli narra ancora (l. 16, c. 7, ec.) ciò chePomponio accenna sol brevemente, come fosse da Nero-ne mandato in esilio. Un uomo di sì grande virtù doveaessere oggetto troppo spiacevole a un tal mostro. Co-

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L. Cassio Longino, Procolo ed altri.

minciò egli dunque a vietargli l'intervenire all'esequie diPoppea, il che, dice Tacito, fu il principio di sue sventu-re che non indugiarono molto ad opprimerlo. Il gran de-litto che vennegli apposto, fu che tra le immagini de'suoi antenati serbava ancora quella di Cassio uccisor diCesare; e questo bastò, perchè ei fosse rilegato nell'isoladi Sardegna. Svetonio dice ch'ei fu ucciso (in Ner. c.37), e alcuni pensano che ciò accennisi ancora da Gio-venale (sat. 10, v. 16). Ma questi veramente altro nondice se non che Nerone ne occupò la casa e i beni; epare che a Tacito debbasi maggior fede che non a Sveto-nio; molto più che Pomponio, come si e' detto, raccontache fu poscia richiamato da Vespasiano. Sì grande famadi lui rimase, che la setta da lui seguita fu dal nome diesso detta ancora Cassiana, e Plinio il giovane perciò ildice "principe e padre della scuola Cassiana" (l. 7, ep.24). Molte opere avea anche egli composte, che tuttesono perite. Mentre Cassio sosteneva in tal manieral'onore della setta da Capitone istituita, quella ancora diLabeone aveva i suoi illustri seguaci. "A Nerva, dicePomponio, sottentrò Procolo; a questo tempo ancora fuun altro Nerva figlio del primo; ebbevi ancora un altroLongino di ordine equestre, che giunse fino alla pretura;ma Procolo superò tutti in autorità e in fama". Di fatto,come abbiam poc'anzi veduto, la setta di Labeone fu dalui detta Proculeiana. Di lui per altro non abbiamo altrenotizie, se non egli avea scritti alcuni libri di Lettere,che rammentansi ne' Digesti. Nulla pure sappiamodell'altro Longino. Nerva il figlio che fu padre

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minciò egli dunque a vietargli l'intervenire all'esequie diPoppea, il che, dice Tacito, fu il principio di sue sventu-re che non indugiarono molto ad opprimerlo. Il gran de-litto che vennegli apposto, fu che tra le immagini de'suoi antenati serbava ancora quella di Cassio uccisor diCesare; e questo bastò, perchè ei fosse rilegato nell'isoladi Sardegna. Svetonio dice ch'ei fu ucciso (in Ner. c.37), e alcuni pensano che ciò accennisi ancora da Gio-venale (sat. 10, v. 16). Ma questi veramente altro nondice se non che Nerone ne occupò la casa e i beni; epare che a Tacito debbasi maggior fede che non a Sveto-nio; molto più che Pomponio, come si e' detto, raccontache fu poscia richiamato da Vespasiano. Sì grande famadi lui rimase, che la setta da lui seguita fu dal nome diesso detta ancora Cassiana, e Plinio il giovane perciò ildice "principe e padre della scuola Cassiana" (l. 7, ep.24). Molte opere avea anche egli composte, che tuttesono perite. Mentre Cassio sosteneva in tal manieral'onore della setta da Capitone istituita, quella ancora diLabeone aveva i suoi illustri seguaci. "A Nerva, dicePomponio, sottentrò Procolo; a questo tempo ancora fuun altro Nerva figlio del primo; ebbevi ancora un altroLongino di ordine equestre, che giunse fino alla pretura;ma Procolo superò tutti in autorità e in fama". Di fatto,come abbiam poc'anzi veduto, la setta di Labeone fu dalui detta Proculeiana. Di lui per altro non abbiamo altrenotizie, se non egli avea scritti alcuni libri di Lettere,che rammentansi ne' Digesti. Nulla pure sappiamodell'altro Longino. Nerva il figlio che fu padre

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dell'imperadore Cocceio Nerva, fu di così pronto inge-gno, che in età di circa diciassette anni cominciò a ren-der pubblicamente risposte in materia di leggi (l. 3. Dig.tit. 1 de postul.). L'Eineccio pensa (Hist. Jur. l. 1, c. 4 §231) che di lui debba intendersi ciò che racconta Tacito(l. 13. Ann. c. 52); cioè che Nerone, mentre Nerva erasolo pretore eletto, ne fece collocare l'immagine traquelle de' trionfanti. Ma se riflettiamo che ciò accaddenel consolato di Silio Nerva e di Giulio Attico Vestinol'ann. 65 dell'era crist., e che Nerva l'imperadore eranato l'ann. 32, rendesi assai probabile che a questo se-condo fosse un tal onor conceduto, come pensa anche ilTillemont.

VI. De' successori ch'ebbero ciaschedu-no nelle lor sette Cassio e Procolo, appe-na altro ci ha lasciato Pomponio che ipuri nomi. A Cassio dunque egli dice chesuccedette Celio Sabino che molta auto-

rità ebbe ai tempi di Vespasiano; poscia Prisco Jaboleno;a lui Aburno Valente, Tusciano, e Silvio Giuliano. Pro-colo ebbe per successori prima Pegaso che diede ancheil suo nome alla setta medesima; poscia due Celsi padree figlio; e finalmente Prisco Nerazio. Tutti questi giure-consulti vissero a' tempi di cui parliamo. Di due soli chetra essi furon più celebri, direm qui brevemente, cioè diSalvio Giuliano e di Pegaso. Tutto ciò che appartiene aSalvio Giuliano, è stato con somma diligenza e vastissi-

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Notizie di Sal-vio Giuliano: sefosse di patria milanese.

dell'imperadore Cocceio Nerva, fu di così pronto inge-gno, che in età di circa diciassette anni cominciò a ren-der pubblicamente risposte in materia di leggi (l. 3. Dig.tit. 1 de postul.). L'Eineccio pensa (Hist. Jur. l. 1, c. 4 §231) che di lui debba intendersi ciò che racconta Tacito(l. 13. Ann. c. 52); cioè che Nerone, mentre Nerva erasolo pretore eletto, ne fece collocare l'immagine traquelle de' trionfanti. Ma se riflettiamo che ciò accaddenel consolato di Silio Nerva e di Giulio Attico Vestinol'ann. 65 dell'era crist., e che Nerva l'imperadore eranato l'ann. 32, rendesi assai probabile che a questo se-condo fosse un tal onor conceduto, come pensa anche ilTillemont.

VI. De' successori ch'ebbero ciaschedu-no nelle lor sette Cassio e Procolo, appe-na altro ci ha lasciato Pomponio che ipuri nomi. A Cassio dunque egli dice chesuccedette Celio Sabino che molta auto-

rità ebbe ai tempi di Vespasiano; poscia Prisco Jaboleno;a lui Aburno Valente, Tusciano, e Silvio Giuliano. Pro-colo ebbe per successori prima Pegaso che diede ancheil suo nome alla setta medesima; poscia due Celsi padree figlio; e finalmente Prisco Nerazio. Tutti questi giure-consulti vissero a' tempi di cui parliamo. Di due soli chetra essi furon più celebri, direm qui brevemente, cioè diSalvio Giuliano e di Pegaso. Tutto ciò che appartiene aSalvio Giuliano, è stato con somma diligenza e vastissi-

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Notizie di Sal-vio Giuliano: sefosse di patria milanese.

ma erudizione raccolto dal celebre Eineccio (Hist. Edic-torum et Edicti Perpetui l. 2, c. 3; e Diss. de Salvio Jul.t. 2 ejus Op. ed. Genev. 1746), il qual pure ha diligente-mente trattato di Celso (Diss. de P. Juventio Celso t. 3ejus Op.). Ma una quistione non è ancor rischiarata ab-bastanza, cioè di qual patria fosse Giuliano, se africano,o milanese. L'oscurità e l'incertezza nasce da un testo diSparziano, che così dice (in Didio Jul.): Didio Juliano,qui post Pertinacem imperium adeptus est, proavus fuitSalvius Julianus, bis consul, præfectus urbi, juriscon-sultus, quod magis eum nobilem fecit. Mater Clara Ae-milia, pater Petronius Didius Sevetus: frater DidiusProculus et Nummius Albinus: avunculus Julianus: avuspaternus Insuber mediolanensis, maternus ex Adrumeti-na colonia. Queste parole alla più parte degl'interpretisembrarono indicare che il giurec. Salvio Giuliano fossemilanese di patria; perciocchè, dicevan essi, egli, secon-do Sparziano, fu bisavolo, proavus, dell'imperadore:l'avolo paterno dell'imperadore fu, secondo lo stessoSparziano, milanese: dunque milanese ancora fu SilvioGiuliano di lui padre, e avolo dell'imperadore. Il Casau-bono, fu, ch'io sappia, il primo a riflettere (in not. adSpart.) che Salvio Giuliano fu antenato dell'imperadoreper parte di madre, e non di padre; e che la paterna di luifamiglia era la Didia, e non la Salvia; e di amendue que-ste famiglie formò l'albero per modo che l'imperadorenascesse da una nipote del giureconsulto maritata in Pe-tronio Didio Severo. Così secondo il Casaubono, l'avolopaterno dell'imperador Didio Salvio Giuliano fu un Di-

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ma erudizione raccolto dal celebre Eineccio (Hist. Edic-torum et Edicti Perpetui l. 2, c. 3; e Diss. de Salvio Jul.t. 2 ejus Op. ed. Genev. 1746), il qual pure ha diligente-mente trattato di Celso (Diss. de P. Juventio Celso t. 3ejus Op.). Ma una quistione non è ancor rischiarata ab-bastanza, cioè di qual patria fosse Giuliano, se africano,o milanese. L'oscurità e l'incertezza nasce da un testo diSparziano, che così dice (in Didio Jul.): Didio Juliano,qui post Pertinacem imperium adeptus est, proavus fuitSalvius Julianus, bis consul, præfectus urbi, juriscon-sultus, quod magis eum nobilem fecit. Mater Clara Ae-milia, pater Petronius Didius Sevetus: frater DidiusProculus et Nummius Albinus: avunculus Julianus: avuspaternus Insuber mediolanensis, maternus ex Adrumeti-na colonia. Queste parole alla più parte degl'interpretisembrarono indicare che il giurec. Salvio Giuliano fossemilanese di patria; perciocchè, dicevan essi, egli, secon-do Sparziano, fu bisavolo, proavus, dell'imperadore:l'avolo paterno dell'imperadore fu, secondo lo stessoSparziano, milanese: dunque milanese ancora fu SilvioGiuliano di lui padre, e avolo dell'imperadore. Il Casau-bono, fu, ch'io sappia, il primo a riflettere (in not. adSpart.) che Salvio Giuliano fu antenato dell'imperadoreper parte di madre, e non di padre; e che la paterna di luifamiglia era la Didia, e non la Salvia; e di amendue que-ste famiglie formò l'albero per modo che l'imperadorenascesse da una nipote del giureconsulto maritata in Pe-tronio Didio Severo. Così secondo il Casaubono, l'avolopaterno dell'imperador Didio Salvio Giuliano fu un Di-

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dio Severo di patria milanese; l'avolo materno fu un fi-gliuolo del giurec. Salvio Giuliano. Quest'albero stessofu poi ritoccato, per così dire, e perfezionato dal Reine-sio (Lect. var. l. 3, c. 2), e adottato ancor dall'Eineccio(l. c.), e da altri che perciò affermano Salvio Giulianoessere stato di patria affricano. Il ch. Muratori nel pub-blicar l'iscrizion che or ora riferiremo, riprende conqualche asprezza l'opinione del Casaubono, e lo accusadi avere a suo capriccio travolto e cambiato il testo diSparziano; ma io veramente non trovo diversità alcunatra il testo, quale si produce dal Casaubono, e qual si re-cita dal Muratori. Solo il Casaubono nelle note riflettech'essendo difficile a spiegare come Sparziano chiamiaffricano il figlio di uno che avea avuta stabil dimora inRoma, qual era il nostro giureconsulto, crede che oveSparziano dice avus paternus, ec., si possa leggereproavus paternus, ec., sicchè dello stesso giureconsultosi debbano intendere quelle parole: maternus ex Adru-metina colonia. Ma questo, come ognun vede, non ap-partiene al punto principale della quistione, poichè è lostesso o il giureconsulto fosse avolo, o fosse bisavolodell'imperadore. Ora il Muratori dopo recate le parole diSparziano soggiugne: "Ecco come chiama milanesel'avolo paterno di Giuliano Augusto, e l'avolo maternonativo della colonia d'Adrumeto". Si certo: nè il Casau-bono a ciò si oppone; ma rimane a cercare se l'impera-dore discendesse dal giureconsulto per parte di madre, oper parte di padre. Se ne discendeva per parte di madre,il giureconsulto, secondo Sparziano, era affricano di pa-

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dio Severo di patria milanese; l'avolo materno fu un fi-gliuolo del giurec. Salvio Giuliano. Quest'albero stessofu poi ritoccato, per così dire, e perfezionato dal Reine-sio (Lect. var. l. 3, c. 2), e adottato ancor dall'Eineccio(l. c.), e da altri che perciò affermano Salvio Giulianoessere stato di patria affricano. Il ch. Muratori nel pub-blicar l'iscrizion che or ora riferiremo, riprende conqualche asprezza l'opinione del Casaubono, e lo accusadi avere a suo capriccio travolto e cambiato il testo diSparziano; ma io veramente non trovo diversità alcunatra il testo, quale si produce dal Casaubono, e qual si re-cita dal Muratori. Solo il Casaubono nelle note riflettech'essendo difficile a spiegare come Sparziano chiamiaffricano il figlio di uno che avea avuta stabil dimora inRoma, qual era il nostro giureconsulto, crede che oveSparziano dice avus paternus, ec., si possa leggereproavus paternus, ec., sicchè dello stesso giureconsultosi debbano intendere quelle parole: maternus ex Adru-metina colonia. Ma questo, come ognun vede, non ap-partiene al punto principale della quistione, poichè è lostesso o il giureconsulto fosse avolo, o fosse bisavolodell'imperadore. Ora il Muratori dopo recate le parole diSparziano soggiugne: "Ecco come chiama milanesel'avolo paterno di Giuliano Augusto, e l'avolo maternonativo della colonia d'Adrumeto". Si certo: nè il Casau-bono a ciò si oppone; ma rimane a cercare se l'impera-dore discendesse dal giureconsulto per parte di madre, oper parte di padre. Se ne discendeva per parte di madre,il giureconsulto, secondo Sparziano, era affricano di pa-

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tria: avus, o, come vorrebbe il Casaubono, proavus ma-ternus ex colonia Adrumetina. Il Muratori ha bensì fattoegli pure un albero della famiglia di Didio Giuliano Au-gusto, in cui gli dà a bisavolo paterno il nostro giurecon-sulto; ma che così fosse veramente, egli non ne adduceprova, o monumento alcuno. E a dir vero, il vedere cheil fratel della madre (avunculus) dell'imperadore chia-masi Giuliano, parmi che renda troppo probabile l'opi-nione del Cusaubono, che egli discendesse dal nostrogiureconsulto per canto di madre, e che perciò le paroledi Sparziano avus, o proavus maternus ex Adrumetinacolonia, debbansi riferire al figlio dello stesso giurecon-sulto, o al giureconsulto medesimo di lui padre.

VII. Ciò non ostante l'iscrizione pubblicatadal soprallodato Muratori (N. Thes. Inscr. t.1, p. 338), quando si ammetta per vera, pro-va chiaramente che il nostro giureconsultofu milanese. Io la recherò a questo luogo,

anche perchè ella ci spiega le cariche principali che Giu-liano sostenne:

M. SALVIO IVLIANO M. F. SEVERO

HVMANI DIVINIQ. IVRIS PERITISSIMO

EDICTI PERP. ORDINAT. IVDICI INTER SELECTOS II. VIR.

IIII. VIR. A. P. XVI. VIR. STLIT. IVDIC.

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Esame di una iscri-zione che sembra pro-varlo.

tria: avus, o, come vorrebbe il Casaubono, proavus ma-ternus ex colonia Adrumetina. Il Muratori ha bensì fattoegli pure un albero della famiglia di Didio Giuliano Au-gusto, in cui gli dà a bisavolo paterno il nostro giurecon-sulto; ma che così fosse veramente, egli non ne adduceprova, o monumento alcuno. E a dir vero, il vedere cheil fratel della madre (avunculus) dell'imperadore chia-masi Giuliano, parmi che renda troppo probabile l'opi-nione del Cusaubono, che egli discendesse dal nostrogiureconsulto per canto di madre, e che perciò le paroledi Sparziano avus, o proavus maternus ex Adrumetinacolonia, debbansi riferire al figlio dello stesso giurecon-sulto, o al giureconsulto medesimo di lui padre.

VII. Ciò non ostante l'iscrizione pubblicatadal soprallodato Muratori (N. Thes. Inscr. t.1, p. 338), quando si ammetta per vera, pro-va chiaramente che il nostro giureconsultofu milanese. Io la recherò a questo luogo,

anche perchè ella ci spiega le cariche principali che Giu-liano sostenne:

M. SALVIO IVLIANO M. F. SEVERO

HVMANI DIVINIQ. IVRIS PERITISSIMO

EDICTI PERP. ORDINAT. IVDICI INTER SELECTOS II. VIR.

IIII. VIR. A. P. XVI. VIR. STLIT. IVDIC.

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Esame di una iscri-zione che sembra pro-varlo.

FLAMINI PP. DIVI TRAIANI PATRONO COLLEG. GAIL. (forte GALL.) OMN.

DIVI HADRIANI CONLEGAEA. D. D. P. P. ANTONINO M. AVRELIO ET L. AELIO VERO AD PRAET. URB.

ET COS. SEMEL ET ITER.EVECTO

MEDIOLANIENSES CIVI OPTIMO ET PATRONO

INCOMPARABILI OB MERITA L. D. D. D.

Questa iscrizione sarebbe un monumento sommamenteonorevole non solo a Salvio Giuliano, ma anche a Mila-no sua patria, quando si potesse accertare ch'ella nonfosse supposta. Il Muratori altra difficoltà non vi trova,fuorchè l'ordine delle prime parole: M. Salvio JulianoM. F. poichè, com'egli eruditamente riflette, avrebbesidovuto scrivere: M. Salvio M. F. Juliano. Ma come diquesta trasposizione egli ha trovato qualche altro esem-pio, sembra ch'ei non ne faccia gran caso. A me però sioffre qualche altra riflessione che non mi permettel'appoggiarmi troppo sicuramente a un tal monumento.E in primo luogo il soprannome di Severo, ch'io nonveggo mai darsi nè a questo giureconsulto, nè ad alcunaltro de' suoi discendenti. Innoltre quella espressione D.Hadriani Conlegæ, in che senso debba ella intendersi?Non certo di collega nel consolato, come or ora vedre-mo. Potrebbe intendersi solo di ciò che narra Sparziano(in. Hadr. c. 18), cioè che, Giuliano fu uno de' consiglie-

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FLAMINI PP. DIVI TRAIANI PATRONO COLLEG. GAIL. (forte GALL.) OMN.

DIVI HADRIANI CONLEGAEA. D. D. P. P. ANTONINO M. AVRELIO ET L. AELIO VERO AD PRAET. URB.

ET COS. SEMEL ET ITER.EVECTO

MEDIOLANIENSES CIVI OPTIMO ET PATRONO

INCOMPARABILI OB MERITA L. D. D. D.

Questa iscrizione sarebbe un monumento sommamenteonorevole non solo a Salvio Giuliano, ma anche a Mila-no sua patria, quando si potesse accertare ch'ella nonfosse supposta. Il Muratori altra difficoltà non vi trova,fuorchè l'ordine delle prime parole: M. Salvio JulianoM. F. poichè, com'egli eruditamente riflette, avrebbesidovuto scrivere: M. Salvio M. F. Juliano. Ma come diquesta trasposizione egli ha trovato qualche altro esem-pio, sembra ch'ei non ne faccia gran caso. A me però sioffre qualche altra riflessione che non mi permettel'appoggiarmi troppo sicuramente a un tal monumento.E in primo luogo il soprannome di Severo, ch'io nonveggo mai darsi nè a questo giureconsulto, nè ad alcunaltro de' suoi discendenti. Innoltre quella espressione D.Hadriani Conlegæ, in che senso debba ella intendersi?Non certo di collega nel consolato, come or ora vedre-mo. Potrebbe intendersi solo di ciò che narra Sparziano(in. Hadr. c. 18), cioè che, Giuliano fu uno de' consiglie-

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ri di cui Adriano valevasi nel giudicare. Ma doveasi egliperciò chiamare collega di Adriano? Finalmentenell'iscrizion si asserisce che da Antonino e da M. Aure-lio e da Lucio Elio Vero fu sollevato alla pretura urbana,e due volte al consolato; dal che raccogliesi che di niunodi questi onori godette egli al tempo di Adriano. Or èegli probabile che un uomo che era in sì grande fama,che a lui a preferenza di tutti fu da Adriano commesso ildifficile incarico di ordinare, come vedremo, l'edittoperpetuo, non fosse da lui sollevato ad alcuna di questedue dignità? Queste ragioni son tali che muovono certa-mente qualche difficoltà contro la recata iscrizione. Ciònon ostante come esse non mi sembran bastevoli a riget-tarla assolutamente come supposta, e il testo di Sparzia-no intorno alla famiglia di Salvio Giuliano non è chiaroabbastanza, parmi che a buona ragione possano i Mila-nesi a questa iscrizione appoggiati, affermare che Giu-liano fu loro concittadino, finchè essa non sia chiara-mente convinta di supposizione.

VIII. Di qualunque patria egli fosse, è certoch'ei fu tra' più celebri giureconsulti diRoma. Già abbiamo accennato col testimo-nio di Sparziano, ch'era egli un di coloro, ilcui consiglio voleva udire Adriano nel giu-

dicare; e che per la fama di cui godeva, salì alle primariedignità nella repubblica, e due volte a quella del conso-lato. Celebri ancora furono varj libri da lui composti che

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Qual fosse l'Editto per-petuo da luicompilato.

ri di cui Adriano valevasi nel giudicare. Ma doveasi egliperciò chiamare collega di Adriano? Finalmentenell'iscrizion si asserisce che da Antonino e da M. Aure-lio e da Lucio Elio Vero fu sollevato alla pretura urbana,e due volte al consolato; dal che raccogliesi che di niunodi questi onori godette egli al tempo di Adriano. Or èegli probabile che un uomo che era in sì grande fama,che a lui a preferenza di tutti fu da Adriano commesso ildifficile incarico di ordinare, come vedremo, l'edittoperpetuo, non fosse da lui sollevato ad alcuna di questedue dignità? Queste ragioni son tali che muovono certa-mente qualche difficoltà contro la recata iscrizione. Ciònon ostante come esse non mi sembran bastevoli a riget-tarla assolutamente come supposta, e il testo di Sparzia-no intorno alla famiglia di Salvio Giuliano non è chiaroabbastanza, parmi che a buona ragione possano i Mila-nesi a questa iscrizione appoggiati, affermare che Giu-liano fu loro concittadino, finchè essa non sia chiara-mente convinta di supposizione.

VIII. Di qualunque patria egli fosse, è certoch'ei fu tra' più celebri giureconsulti diRoma. Già abbiamo accennato col testimo-nio di Sparziano, ch'era egli un di coloro, ilcui consiglio voleva udire Adriano nel giu-

dicare; e che per la fama di cui godeva, salì alle primariedignità nella repubblica, e due volte a quella del conso-lato. Celebri ancora furono varj libri da lui composti che

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Qual fosse l'Editto per-petuo da luicompilato.

si annoverano dall'Eineccio (l. c.; e Hist. Jur. l. 1, c. 4, §290), e singolarmente XC libri di Digesti, che da moltiantichi giureconsulti furono commentati. Ma ciò che nerendette il nome immortale, fu singolarmente l'Edittoperpetuo da lui compilato, di cui ci convien dare qual-che contezza, perchè esso forma un'epoca memorabilenella romana giurisprudenza. L'autorità che aveano ipretori di pubblicar nuove leggi, recava una grandissimaconfusione nell'amministrar la giustizia. Ognuno di essiall'antiche leggi ne aggiugneva altre nuove, e spesso an-cora dopo aver pubblicata una legge al principio dellapretura, altra ad essa contraria intimavane dopo alcuntempo. Quindi quella confusa moltitudine di leggi le uneall'altre contrarie, e quindi ancora l'incertezza e la varie-tà de' giudizi, sicchè appena sapevano i Romani secondoqual legge dovessero essere giudicati. Erasi più voltecercato di togliere un sì grave disordine; ma gli sforzicausati non aveano avuto un successo pienamente felice.Adriano pensò finalmente a formare un fisso e regolarsistema di giurisprudenza, e a Salvio Giuliano commiseche raccogliendo, esaminando e confrontando tra loro leantiche leggi di tutti i pretori togliendo ciò che vi fossedi inutile, o di contrario al buon diritto, e aggiugnendovitutto ciò ch'egli stimasse opportuno, formasse per talmaniera un'ordinata e ben divisa raccolta di leggi cheavesse in avvenire autorità ne' giudizj e a cui i magistratitutti dovessero conformarsi. Questa raccolta formata daSalvio Giuliano ebbe il nome di Editto perpetuo, e servìdi norma e di regola nel giudicare fino a' tempi di Co-

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si annoverano dall'Eineccio (l. c.; e Hist. Jur. l. 1, c. 4, §290), e singolarmente XC libri di Digesti, che da moltiantichi giureconsulti furono commentati. Ma ciò che nerendette il nome immortale, fu singolarmente l'Edittoperpetuo da lui compilato, di cui ci convien dare qual-che contezza, perchè esso forma un'epoca memorabilenella romana giurisprudenza. L'autorità che aveano ipretori di pubblicar nuove leggi, recava una grandissimaconfusione nell'amministrar la giustizia. Ognuno di essiall'antiche leggi ne aggiugneva altre nuove, e spesso an-cora dopo aver pubblicata una legge al principio dellapretura, altra ad essa contraria intimavane dopo alcuntempo. Quindi quella confusa moltitudine di leggi le uneall'altre contrarie, e quindi ancora l'incertezza e la varie-tà de' giudizi, sicchè appena sapevano i Romani secondoqual legge dovessero essere giudicati. Erasi più voltecercato di togliere un sì grave disordine; ma gli sforzicausati non aveano avuto un successo pienamente felice.Adriano pensò finalmente a formare un fisso e regolarsistema di giurisprudenza, e a Salvio Giuliano commiseche raccogliendo, esaminando e confrontando tra loro leantiche leggi di tutti i pretori togliendo ciò che vi fossedi inutile, o di contrario al buon diritto, e aggiugnendovitutto ciò ch'egli stimasse opportuno, formasse per talmaniera un'ordinata e ben divisa raccolta di leggi cheavesse in avvenire autorità ne' giudizj e a cui i magistratitutti dovessero conformarsi. Questa raccolta formata daSalvio Giuliano ebbe il nome di Editto perpetuo, e servìdi norma e di regola nel giudicare fino a' tempi di Co-

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stantino da cui per cagione della religion cristiana altremutazioni si introdussero nella giurisprudenza, come asuo luogo vedremo: benchè nel foro anche allora l'Edittoperpetuo, conservasse il suo antico vigore. Veggansi tut-to ciò che appartiene a questo Editto perpetuo presso imolti autori della storia della romana giurisprudenza, esingolarmente presso l'Eineccio che non solo una assaierudita Storia di questo Editto ci ha lasciata, ma dagliantichi giureconsulti ne ha diligentemente raccolta unanon piccola parte (in Opusc. posthum. ed. Genev. 1748).

IX. Più scarse notizie abbiam di Pegaso,ch'è l'altro giureconsulto di cui ci siamprefissi di ragionare. Egli è uno de' sena-tori, cui descrive il satirico Giovenale

(Sat. 4), chiamati con gran premura da Domiziano aconsultare su qual piatto avesse a porsi uno straordinariorombo che gli era stato portato:

Primus... rapta properabat abolla Pegasus, attonitæ positus modo villicus urbi.

Anne aliud tunc præfecti? quorum optimus, atqueInterpres legum sanctissimus, omnia quamquam

Temporibus diris tractanda putabat inermi Justitia (ib. v. 76, ec.).

Ne' quali versi noi veggiamo accennata la prefettura ur-bana di cui fu Pegaso ornato, che perciò da Giovenale sichiama scherzevolmente col nome di castaldo; percioc-

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Notizie del giureconsulto Pegaso.

stantino da cui per cagione della religion cristiana altremutazioni si introdussero nella giurisprudenza, come asuo luogo vedremo: benchè nel foro anche allora l'Edittoperpetuo, conservasse il suo antico vigore. Veggansi tut-to ciò che appartiene a questo Editto perpetuo presso imolti autori della storia della romana giurisprudenza, esingolarmente presso l'Eineccio che non solo una assaierudita Storia di questo Editto ci ha lasciata, ma dagliantichi giureconsulti ne ha diligentemente raccolta unanon piccola parte (in Opusc. posthum. ed. Genev. 1748).

IX. Più scarse notizie abbiam di Pegaso,ch'è l'altro giureconsulto di cui ci siamprefissi di ragionare. Egli è uno de' sena-tori, cui descrive il satirico Giovenale

(Sat. 4), chiamati con gran premura da Domiziano aconsultare su qual piatto avesse a porsi uno straordinariorombo che gli era stato portato:

Primus... rapta properabat abolla Pegasus, attonitæ positus modo villicus urbi.

Anne aliud tunc præfecti? quorum optimus, atqueInterpres legum sanctissimus, omnia quamquam

Temporibus diris tractanda putabat inermi Justitia (ib. v. 76, ec.).

Ne' quali versi noi veggiamo accennata la prefettura ur-bana di cui fu Pegaso ornato, che perciò da Giovenale sichiama scherzevolmente col nome di castaldo; percioc-

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Notizie del giureconsulto Pegaso.

chè, dice, tali appunto erano a' tempi di Domiziano ipretori urbani quali i castaldi, cioè costretti a servire lacupidigia de' padroni. L'elogio che di lui poscia soggiu-gne, chiamandolo ottimo e santissimo interprete delleleggi, viene alquanto oscurato dal carattere d'uom vile ecodardo, che gli attribuisce; dicendo che esso credevache la giustizia a que' tempi infelici dovesse solo langui-damente amministrarsi. Di lui parla ancora l'antico inter-prete di Giovenale a questo passo, e dice ch'ei fu dettoPegaso dal nome di una trireme a cui soprastava suo pa-dre; che nello studio delle leggi giunse a tal fama, cheveniva chiamato libro non uomo; e che dopo aver go-vernate molte provincie, ebbe la prefettura della città; eda lui, conchiude, ha preso il nome il diritto Pegasiano;colle quali parole ci mostra che la setta che da Procoloavea avuto il nome di Proculeiana, da Pegaso fu dettaancora Pegasiana.

X. E questo basti de' giureconsulti di que-sta età. Assai più copiose notizie se ne po-tranno trovare presso gli storici della ro-

mana giurisprudenza, e singolarmente presso i Terrassone l'Eineccio da noi più volte mentovati; ove si vedrannonominati altri giureconsulti di questi tempi medesimi,come Urseio Feroce, Fufidio, Plauzio, Valerio Severo,Tito Aristone di cui un grande elogio in una sua letteraci ha lasciato Plinio il giovane (l. 1, ep. 22), MinucioNatale, Lelio Felice ed altri. Non vi è forse scienza la

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Altri giure-consulti.

chè, dice, tali appunto erano a' tempi di Domiziano ipretori urbani quali i castaldi, cioè costretti a servire lacupidigia de' padroni. L'elogio che di lui poscia soggiu-gne, chiamandolo ottimo e santissimo interprete delleleggi, viene alquanto oscurato dal carattere d'uom vile ecodardo, che gli attribuisce; dicendo che esso credevache la giustizia a que' tempi infelici dovesse solo langui-damente amministrarsi. Di lui parla ancora l'antico inter-prete di Giovenale a questo passo, e dice ch'ei fu dettoPegaso dal nome di una trireme a cui soprastava suo pa-dre; che nello studio delle leggi giunse a tal fama, cheveniva chiamato libro non uomo; e che dopo aver go-vernate molte provincie, ebbe la prefettura della città; eda lui, conchiude, ha preso il nome il diritto Pegasiano;colle quali parole ci mostra che la setta che da Procoloavea avuto il nome di Proculeiana, da Pegaso fu dettaancora Pegasiana.

X. E questo basti de' giureconsulti di que-sta età. Assai più copiose notizie se ne po-tranno trovare presso gli storici della ro-

mana giurisprudenza, e singolarmente presso i Terrassone l'Eineccio da noi più volte mentovati; ove si vedrannonominati altri giureconsulti di questi tempi medesimi,come Urseio Feroce, Fufidio, Plauzio, Valerio Severo,Tito Aristone di cui un grande elogio in una sua letteraci ha lasciato Plinio il giovane (l. 1, ep. 22), MinucioNatale, Lelio Felice ed altri. Non vi è forse scienza la

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Altri giure-consulti.

cui storia sia stata illustrata da più scrittori, che quelladella romana giurisprudenza; e perciò non vi è scienzaintorno a cui sia men necessario il trattenerci lungamen-te.

CAPO VIII.Gramatici e Retori.

I. Dopo avere esaminate le vicende della ro-mana letteratura in quest'epoca in ciasche-duna delle scienze che in Roma vennerocoltivate, rimane ora che diciamo dei mezzionde usarono a coltivarle, come nel primotomo si è fatto. E primieramente delle scuo-

le. Già abbiamo altrove spiegato qual fosse l'impiego de'grammatici e dei retori, in quali cose esercitassero i lorodiscepoli, e qual metodo seguissero in insegnare. Madue cose da due imperadori s'introdussero, che recaronoalle scienze non ordinario vantaggio. Que' che tenevanoscuola, non aveano finallora avuto stipendio altrondeche da' loro scolari: cosa troppo gravosa, dirò ancora,poco onorevole a un uom dotto, esser costretto a venderla scienza a contanti; e cosa insieme troppo spiacevole achi vorrebbe fornirsi d'erudizione, non aver denari concui comprarla. All'uno e all'altro inconveniente pensò dirimediar Vespasiano; e a' retori così greci, come latini,dice Svetonio (in Vesp. c. 18), assegnò sul pubblico era-rio centomila sesterzj annui, che corrispondono a un di-

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Stipendiodal pubbli-co erarioassegnatoai professo-ri.

cui storia sia stata illustrata da più scrittori, che quelladella romana giurisprudenza; e perciò non vi è scienzaintorno a cui sia men necessario il trattenerci lungamen-te.

CAPO VIII.Gramatici e Retori.

I. Dopo avere esaminate le vicende della ro-mana letteratura in quest'epoca in ciasche-duna delle scienze che in Roma vennerocoltivate, rimane ora che diciamo dei mezzionde usarono a coltivarle, come nel primotomo si è fatto. E primieramente delle scuo-

le. Già abbiamo altrove spiegato qual fosse l'impiego de'grammatici e dei retori, in quali cose esercitassero i lorodiscepoli, e qual metodo seguissero in insegnare. Madue cose da due imperadori s'introdussero, che recaronoalle scienze non ordinario vantaggio. Que' che tenevanoscuola, non aveano finallora avuto stipendio altrondeche da' loro scolari: cosa troppo gravosa, dirò ancora,poco onorevole a un uom dotto, esser costretto a venderla scienza a contanti; e cosa insieme troppo spiacevole achi vorrebbe fornirsi d'erudizione, non aver denari concui comprarla. All'uno e all'altro inconveniente pensò dirimediar Vespasiano; e a' retori così greci, come latini,dice Svetonio (in Vesp. c. 18), assegnò sul pubblico era-rio centomila sesterzj annui, che corrispondono a un di-

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Stipendiodal pubbli-co erarioassegnatoai professo-ri.

presso a duemilacinquecento scudi romani, stipendioche sembrerebbe eccessivo in ogn'altro tempo, fuorchèin questo del qual parliamo, in cui il lusso era giunto atal segno, che forse non ve n'ebbe giammai l'uguale. Intal maniera potevano i retori più onorevolmente sostene-re il loro impiego, e potevano i giovani più agevolmentegiovarsi del lor sapere. Furon dunque allora le scuole de'retori considerate come pubbliche, e perciò nella Crona-ca eusebiana, parlando di Quintiliano che a questo tem-po viveva, si dice (ad olymp. 217): Quintiliano il primoaprì in Roma pubblica scuola, e dal fisco ebbe lo sti-pendio. Il Dodwello, il qual pensa che a tempi di Galbacominciasse Quintiliano a tenere scuola in Roma, pensaancora che da Galba gli fosse assegnato lo stipendio. MaSvetonio chiaramente dà questa lode a Vespasiano; enon sembra probabile che Galba, il quale nei sette mesiche tenne l'impero non diè saggio che degli enormi suoivizj, pensasse a dare un sì utile provvedimento. Se dun-que Quintiliano cominciò a tenere scuola regnando Gal-ba, l'avrà allora tenuta egli pure, come tutti aveano final-lora usato, finchè da Vespasiano a lui e agli altri retorivenne assegnato lo stipendio dal pubblico erario. Sveto-nio non parla che dello stipendio assegnato a' retori. Egliè però verisimile, che a' gramatici ancora egli l'asse-gnasse; seppure non vogliasi quest'onore concedere adAdriano di cui narra Sparziano che "a tutti i professoriconcedette onori e ricchezze, e che a coloro tra essi, chealla lor professione non eran più abili, dopo averli pari-mente onorati e arricchiti, diè il congedo".

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presso a duemilacinquecento scudi romani, stipendioche sembrerebbe eccessivo in ogn'altro tempo, fuorchèin questo del qual parliamo, in cui il lusso era giunto atal segno, che forse non ve n'ebbe giammai l'uguale. Intal maniera potevano i retori più onorevolmente sostene-re il loro impiego, e potevano i giovani più agevolmentegiovarsi del lor sapere. Furon dunque allora le scuole de'retori considerate come pubbliche, e perciò nella Crona-ca eusebiana, parlando di Quintiliano che a questo tem-po viveva, si dice (ad olymp. 217): Quintiliano il primoaprì in Roma pubblica scuola, e dal fisco ebbe lo sti-pendio. Il Dodwello, il qual pensa che a tempi di Galbacominciasse Quintiliano a tenere scuola in Roma, pensaancora che da Galba gli fosse assegnato lo stipendio. MaSvetonio chiaramente dà questa lode a Vespasiano; enon sembra probabile che Galba, il quale nei sette mesiche tenne l'impero non diè saggio che degli enormi suoivizj, pensasse a dare un sì utile provvedimento. Se dun-que Quintiliano cominciò a tenere scuola regnando Gal-ba, l'avrà allora tenuta egli pure, come tutti aveano final-lora usato, finchè da Vespasiano a lui e agli altri retorivenne assegnato lo stipendio dal pubblico erario. Sveto-nio non parla che dello stipendio assegnato a' retori. Egliè però verisimile, che a' gramatici ancora egli l'asse-gnasse; seppure non vogliasi quest'onore concedere adAdriano di cui narra Sparziano che "a tutti i professoriconcedette onori e ricchezze, e che a coloro tra essi, chealla lor professione non eran più abili, dopo averli pari-mente onorati e arricchiti, diè il congedo".

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II. Adriano, come al principio di questo li-bro si è detto, voleva esser creduto, ed eraancora talvolta, splendido protettor dellescienze; benchè l'invidia di cui ardeva con-tro chiunque potesse gareggiar con lui nel

sapere, lo rendesse spesso nemico funesto a' celebri let-terati. E una prova di questa sua munificenza verso glistudj ci diede nel tempo del suo impero, che fu appuntol'altro vantaggio che in quest'epoca ebbero le scienze inRoma. Aveano finallora i gramatici e i retori tenute leloro scuole nelle case private. Adriano pensò il primoalla fabbrica di un pubblico edificio che fosse la sedepropria delle scienze; e fattolo innalzare, gli diè il nomedi Ateneo (Aur. Vict. de Cæsar. c. 14). Di questa, percosì dire, romana università noi veggiamo farsi menzio-ne frequente da' posteriori scrittori, come a suo luogovedremo, e da essi raccogliesi che non solo vi si tenevanle scuole, ma che ivi ancora i poeti e gli oratori recitava-no pubblicamente i loro componimenti. Era certamentequesto un opportunissimo mezzo a coltivare e a fomen-tare le scienze; ma per infelice destino della letteraturaesso non prese ad usarsi che allorquando le circostanzee le cagioni altre volte spiegate le conducevano a un ro-vinoso e quasi irreparabile decadimento.

III. Molti nondimeno vi furono anche inquest'epoca gramatici e retori illustri. Eper riguardo a' gramatici, tre ne veggiamo

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Scuole pub-bliche fab-bricate daAdriano.

Notizie di al-cuni gramaticidi questa epo-ca.

II. Adriano, come al principio di questo li-bro si è detto, voleva esser creduto, ed eraancora talvolta, splendido protettor dellescienze; benchè l'invidia di cui ardeva con-tro chiunque potesse gareggiar con lui nel

sapere, lo rendesse spesso nemico funesto a' celebri let-terati. E una prova di questa sua munificenza verso glistudj ci diede nel tempo del suo impero, che fu appuntol'altro vantaggio che in quest'epoca ebbero le scienze inRoma. Aveano finallora i gramatici e i retori tenute leloro scuole nelle case private. Adriano pensò il primoalla fabbrica di un pubblico edificio che fosse la sedepropria delle scienze; e fattolo innalzare, gli diè il nomedi Ateneo (Aur. Vict. de Cæsar. c. 14). Di questa, percosì dire, romana università noi veggiamo farsi menzio-ne frequente da' posteriori scrittori, come a suo luogovedremo, e da essi raccogliesi che non solo vi si tenevanle scuole, ma che ivi ancora i poeti e gli oratori recitava-no pubblicamente i loro componimenti. Era certamentequesto un opportunissimo mezzo a coltivare e a fomen-tare le scienze; ma per infelice destino della letteraturaesso non prese ad usarsi che allorquando le circostanzee le cagioni altre volte spiegate le conducevano a un ro-vinoso e quasi irreparabile decadimento.

III. Molti nondimeno vi furono anche inquest'epoca gramatici e retori illustri. Eper riguardo a' gramatici, tre ne veggiamo

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Scuole pub-bliche fab-bricate daAdriano.

Notizie di al-cuni gramaticidi questa epo-ca.

da Svetonio nominati, e il primo di essi è M. PomponioMarcello, quel desso di cui dicemmo altrove che sì fran-camente si oppose all'adulator Capitone, quando voleapersuadere a Tiberio che la corona imperiale gli dava di-ritto a formar nuove parole: franchezza degna appuntodi un gramatico, e singolarmente di un gramatico esattormolestissimo delle gramaticali osservanze, qual eraMarcello; di cui narra Svetonio (De clar. Gram. c. 22),che perorando un giorno a difesa di un reo, ed udendouscir di bocca un solecismo al suo avversario, così rab-biosamente prese perciò a morderlo e rimbrottarlo, chesembrava dimentico della causa cui dovea trattare. Il se-condo è Remmio, o come altri scrivono, Rennio FannioPalemone vicentino, schiavo prima, e poscia messo inlibertà. Questi, come dice Svetonio (ib. c. 23), appresele lettere coll'occasione che accompagnava alla scuola ilfiglio del suo padrone; e venne in tal fama, che fu credu-to il primo de' gramatici del suo tempo, cioè sottol'impero di Tiberio e di Claudio. Plinio il vecchio lochiama celebre nell'arte gramatica (l. 14, c. 5), e Giove-nale ancora ne parla con lode (sat. 6, v. 451; sat. 7, v.215). Ma la gloria da lui acquistatasi col sapere rimaseoscurata dalle infami laidezze a cui era abbandonato,per modo che i due suddetti imperadori, i quali per altronon furono certo uomini di troppo onesto costume, dice-vano non esservi alcuno a cui meno che a Remmio sidovessero affidare i fanciulli. Più opere in versi di varj edifficili metri avea egli scritte. Noi abbiamo ora sotto ilsuo nome un breve poemetto De' pesi e delle misure, di

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da Svetonio nominati, e il primo di essi è M. PomponioMarcello, quel desso di cui dicemmo altrove che sì fran-camente si oppose all'adulator Capitone, quando voleapersuadere a Tiberio che la corona imperiale gli dava di-ritto a formar nuove parole: franchezza degna appuntodi un gramatico, e singolarmente di un gramatico esattormolestissimo delle gramaticali osservanze, qual eraMarcello; di cui narra Svetonio (De clar. Gram. c. 22),che perorando un giorno a difesa di un reo, ed udendouscir di bocca un solecismo al suo avversario, così rab-biosamente prese perciò a morderlo e rimbrottarlo, chesembrava dimentico della causa cui dovea trattare. Il se-condo è Remmio, o come altri scrivono, Rennio FannioPalemone vicentino, schiavo prima, e poscia messo inlibertà. Questi, come dice Svetonio (ib. c. 23), appresele lettere coll'occasione che accompagnava alla scuola ilfiglio del suo padrone; e venne in tal fama, che fu credu-to il primo de' gramatici del suo tempo, cioè sottol'impero di Tiberio e di Claudio. Plinio il vecchio lochiama celebre nell'arte gramatica (l. 14, c. 5), e Giove-nale ancora ne parla con lode (sat. 6, v. 451; sat. 7, v.215). Ma la gloria da lui acquistatasi col sapere rimaseoscurata dalle infami laidezze a cui era abbandonato,per modo che i due suddetti imperadori, i quali per altronon furono certo uomini di troppo onesto costume, dice-vano non esservi alcuno a cui meno che a Remmio sidovessero affidare i fanciulli. Più opere in versi di varj edifficili metri avea egli scritte. Noi abbiamo ora sotto ilsuo nome un breve poemetto De' pesi e delle misure, di

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cui però altri fanno autore Prisciano. Abbiamo ancoral'Arte gramatica da lui scritta in un libro assai breve, chefu prima d'ogni altro data alla luce da Gioviano Pontano,e che poscia nelle Raccolte de' gramatici latini è statapiù volte ristampata (38). L'ultimo de' gramatici, di cui famenzione Svetonio (ib. c. 24), è Marco Valerio Probonativo di Berito nella Fenicia; di cui però egli dice chenon tenne mai scuola; ma che solo con alcuni amici eisolea trattenersi leggendo e comentando alcuno degliantichi autori, de' quali solamente era egli ammiratore,benchè vedesse che presso i Romani essi erano ormaicaduti in dispregio. Egli avea scritte, dice Svetonio, po-che e picciole cose intorno a certe quistioni di niun con-to; ma lasciò una non mediocre selva di osservazionisull'antico stile. Servio cita un libro da Probo scritto sul-la connessione de' tempi (ad l. 7 Aen. v. 4, c. 7), e Gellioun trattato da lui composto sulle cifere di cui valevasiCesare nello scriver le lettere (Noct. Att. l. 4, c. 7). Infatti sotto il nome di Probo abbiamo tuttora un libro sul-le cifere de' Romani, e abbiamo pure due libri di Grama-tiche Istituzioni; e l'una e l'altra opera si posson vederenelle Raccolte degli antichi gramatici. Egli visse, secon-do la Cronaca eusebiana, a' tempi di Nerone.

38 Del gramatico, o poeta Rennio Fannio Palemone ha scritto, dopo la pubbli-cazione di questo tomo, il p. Angiolgabriello da S. Maria (Bibl. de' Scritt.Vicent. t. 1, p. 1, ec.). Sulle notizie ch'ei ce ne ha date, si è fatta qualchecritica riflessione in questo Giornale di Modena (t. 8, p. 1, ec.); e a questeriflessioni si è studiato di rispondere (præf. al t. 4. della Bibl.). Noi lascie-rem che ognun decida, come meglio gli sembra, sulle notizie, sulla critica,e sulla risposta.

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cui però altri fanno autore Prisciano. Abbiamo ancoral'Arte gramatica da lui scritta in un libro assai breve, chefu prima d'ogni altro data alla luce da Gioviano Pontano,e che poscia nelle Raccolte de' gramatici latini è statapiù volte ristampata (38). L'ultimo de' gramatici, di cui famenzione Svetonio (ib. c. 24), è Marco Valerio Probonativo di Berito nella Fenicia; di cui però egli dice chenon tenne mai scuola; ma che solo con alcuni amici eisolea trattenersi leggendo e comentando alcuno degliantichi autori, de' quali solamente era egli ammiratore,benchè vedesse che presso i Romani essi erano ormaicaduti in dispregio. Egli avea scritte, dice Svetonio, po-che e picciole cose intorno a certe quistioni di niun con-to; ma lasciò una non mediocre selva di osservazionisull'antico stile. Servio cita un libro da Probo scritto sul-la connessione de' tempi (ad l. 7 Aen. v. 4, c. 7), e Gellioun trattato da lui composto sulle cifere di cui valevasiCesare nello scriver le lettere (Noct. Att. l. 4, c. 7). Infatti sotto il nome di Probo abbiamo tuttora un libro sul-le cifere de' Romani, e abbiamo pure due libri di Grama-tiche Istituzioni; e l'una e l'altra opera si posson vederenelle Raccolte degli antichi gramatici. Egli visse, secon-do la Cronaca eusebiana, a' tempi di Nerone.

38 Del gramatico, o poeta Rennio Fannio Palemone ha scritto, dopo la pubbli-cazione di questo tomo, il p. Angiolgabriello da S. Maria (Bibl. de' Scritt.Vicent. t. 1, p. 1, ec.). Sulle notizie ch'ei ce ne ha date, si è fatta qualchecritica riflessione in questo Giornale di Modena (t. 8, p. 1, ec.); e a questeriflessioni si è studiato di rispondere (præf. al t. 4. della Bibl.). Noi lascie-rem che ognun decida, come meglio gli sembra, sulle notizie, sulla critica,e sulla risposta.

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IV. Svetonio non ha tra gli antichi gramaticiannoverato Asconio Pediano, forse perchènon tenne nè scuola pubblica nè pubblicheconferenze. Ma certo ne esercitò egli pureuno de' principali ufficj, cioè il comentare

gli autori, come ce ne fan fede i Comentarj, di cui ci ri-mane ancor parte, ch'egli scrisse sulle Orazioni di Cice-rone. Il Vossio ha intorno a lui disputato assai lunga-mente (De Histor. lat. l. 1, c. 27), poichè è difficile lostabilire a qual tempo vivesse. Ma egli è certo che Asco-nio parla, come d'uom tuttora vivente, di Cecinna che fuconsole con Claudio (in Or. pro Scauro) l'an. 42 dell'eracrist.; e che Quintiliano parla di Asconio come se avessecon lui favellato, e come s'ei fosse già morto: Ex Pedia-no comperi, qui et ipse eum (Titum Livium) sequebatur.Sembra dunque evidente che Asconio visse circa i tempidi Claudio, e ch'era già morto, quando Quintiliano scris-se le sue Istituzioni, cioè a' tempi di Domiziano. Egli èvero che Svevio e Filargirio ne' lor comenti sopra Virgi-lio (ad ecl. 3, 4) parlano in maniera come se Asconiofosse con lui vissuto, e come s'egli stesso così avesse af-fermato in qualche suo libro; il che sembra difficile adaccordare co' testimonj di sopra allegati; molto più chenella Cronaca eusebiana all'anno settimo di Vespasianosi narra che Asconio in età di 71 anni divenuto cieco so-pravvisse ancor dodici anni. E certo quando a tutti que-sti autori si voglia dar fede, converrà dire che vi fosserodue scrittori di questo nome. Ma egli è più probabile cheo i due mentovati gramatici, o l'autor della Cronaca sian

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Chi fosse Asconio e aqual tempo vivesse.

IV. Svetonio non ha tra gli antichi gramaticiannoverato Asconio Pediano, forse perchènon tenne nè scuola pubblica nè pubblicheconferenze. Ma certo ne esercitò egli pureuno de' principali ufficj, cioè il comentare

gli autori, come ce ne fan fede i Comentarj, di cui ci ri-mane ancor parte, ch'egli scrisse sulle Orazioni di Cice-rone. Il Vossio ha intorno a lui disputato assai lunga-mente (De Histor. lat. l. 1, c. 27), poichè è difficile lostabilire a qual tempo vivesse. Ma egli è certo che Asco-nio parla, come d'uom tuttora vivente, di Cecinna che fuconsole con Claudio (in Or. pro Scauro) l'an. 42 dell'eracrist.; e che Quintiliano parla di Asconio come se avessecon lui favellato, e come s'ei fosse già morto: Ex Pedia-no comperi, qui et ipse eum (Titum Livium) sequebatur.Sembra dunque evidente che Asconio visse circa i tempidi Claudio, e ch'era già morto, quando Quintiliano scris-se le sue Istituzioni, cioè a' tempi di Domiziano. Egli èvero che Svevio e Filargirio ne' lor comenti sopra Virgi-lio (ad ecl. 3, 4) parlano in maniera come se Asconiofosse con lui vissuto, e come s'egli stesso così avesse af-fermato in qualche suo libro; il che sembra difficile adaccordare co' testimonj di sopra allegati; molto più chenella Cronaca eusebiana all'anno settimo di Vespasianosi narra che Asconio in età di 71 anni divenuto cieco so-pravvisse ancor dodici anni. E certo quando a tutti que-sti autori si voglia dar fede, converrà dire che vi fosserodue scrittori di questo nome. Ma egli è più probabile cheo i due mentovati gramatici, o l'autor della Cronaca sian

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Chi fosse Asconio e aqual tempo vivesse.

caduti in qualche errore. Asconio fu padovano di patria,il che, oltre l'accennarlo che fa egli stesso chiamandoLivio col nome di nostro (in Or. pro Cornel.), più chia-ramente si afferma da Silio Italico, che secondo il suocostume d'introdurre nella Guerra cartaginese i più ce-lebri uomini vissuti a' tempi ancora assai lontani da essa,fa questo elogio di Asconio (l. 12, v. 212, ec.): Polydamanteis juvenis Pedianus in armis Bella agitabat atrox, Trojanaque semina et ortus, Atque Antenorea se se de stirpe ferebat, Haud levior generis fama, sacroque Timavo Gloria, et Euganeis dilectum nomen in oris. Huic pater Eridanus, Venetæque ex ordine gentes, Atque Apono gaudens populus, seu bella cieret, Seu Musas placidas, doctæque silentia vitæ Mallet, et Aonios plectro mulcere labores, Non ullum dixere parem, nec notior alter.

Oltre i Comentarj sulle Orazioni di Cicerone, a' qualidobbiamo molte non dispregevoli notizie della storia dique' tempi, qualche altro libro ancora avea egli scritto, esingolarmente una Vita dello storico Sallustio Crispo, diche veggasi il Vossio (l. c.) e il Fabricio (Bibl. lat. l. 2,c. 6), i quali ancora rigettano l'opinione di alcuni che ca-lunniosamente accusarono Lorenzo Valla di avere daun'opera ora smarrita di Asconio tratti in gran parte isuoi libri delle Eleganze.

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caduti in qualche errore. Asconio fu padovano di patria,il che, oltre l'accennarlo che fa egli stesso chiamandoLivio col nome di nostro (in Or. pro Cornel.), più chia-ramente si afferma da Silio Italico, che secondo il suocostume d'introdurre nella Guerra cartaginese i più ce-lebri uomini vissuti a' tempi ancora assai lontani da essa,fa questo elogio di Asconio (l. 12, v. 212, ec.): Polydamanteis juvenis Pedianus in armis Bella agitabat atrox, Trojanaque semina et ortus, Atque Antenorea se se de stirpe ferebat, Haud levior generis fama, sacroque Timavo Gloria, et Euganeis dilectum nomen in oris. Huic pater Eridanus, Venetæque ex ordine gentes, Atque Apono gaudens populus, seu bella cieret, Seu Musas placidas, doctæque silentia vitæ Mallet, et Aonios plectro mulcere labores, Non ullum dixere parem, nec notior alter.

Oltre i Comentarj sulle Orazioni di Cicerone, a' qualidobbiamo molte non dispregevoli notizie della storia dique' tempi, qualche altro libro ancora avea egli scritto, esingolarmente una Vita dello storico Sallustio Crispo, diche veggasi il Vossio (l. c.) e il Fabricio (Bibl. lat. l. 2,c. 6), i quali ancora rigettano l'opinione di alcuni che ca-lunniosamente accusarono Lorenzo Valla di avere daun'opera ora smarrita di Asconio tratti in gran parte isuoi libri delle Eleganze.

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V. Ma forse più di tutti famoso si rendettein Roma Apione. Nato in Oasi nell'estre-mità dell'Egitto, ma onorato della cittadi-nanza d'Alessandria, e detto perciò ales-

sandrino, venne a Roma l'an. 40 dell'era crist. capodell'ambasciata spedita dagli Alessandrini a Caligolanelle celebri loro sollevazioni contro gli Ebrei; e vi sitrattenne lungamente tenendovi scuola, e facendo granpompa del suo sapere. "Apione, dice Gellio (l. 5, c. 14),che fu appellato Polistore, fu uomo assai colto, e di va-ria e grande erudizione nelle cose greche." Abbiamo al-cuni non dispregevoli libri da lui scritti, ne' quali com-prende la storia di tutto ciò che di maraviglioso vedesi,o odesi in Egitto. Ma nelle cose ch'ei dice di avere udite,o lette, per desiderio di lode esagera forse di troppo.Perciocchè egli è millantatore glorioso del suo sapere".Di questa sua boria un'altra prova ci somministra Plinioil vecchio il qual racconta (præf. l. 1) ch'egli soleva van-tarsi di rendere immortali coloro a cui dedicava alcunasua opera; e quindi soggiugne che Tiberio solea chia-marlo cembalo del mondo, mentre anzi avrebbe dovutodirlo timpano della pubblica fama. Seneca il filosofoancora deride (ep. 88) l'aggirarsi ch'ei fece per tutta laGrecia con tale impostura, che ottenne in ogni cittàd'esser nominato il secondo Omero. Più opere avea egliscritte, e in esse avea così malmenati gli Ebrei, che Giu-seppe la storico prese a confutarlo in un'opera che con-tro di lui compose. Apione è quegli da cui abbiamo avu-to il famoso racconto del leone che spinto contro di uno

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Notizie di Apione ales-sandrino.

V. Ma forse più di tutti famoso si rendettein Roma Apione. Nato in Oasi nell'estre-mità dell'Egitto, ma onorato della cittadi-nanza d'Alessandria, e detto perciò ales-

sandrino, venne a Roma l'an. 40 dell'era crist. capodell'ambasciata spedita dagli Alessandrini a Caligolanelle celebri loro sollevazioni contro gli Ebrei; e vi sitrattenne lungamente tenendovi scuola, e facendo granpompa del suo sapere. "Apione, dice Gellio (l. 5, c. 14),che fu appellato Polistore, fu uomo assai colto, e di va-ria e grande erudizione nelle cose greche." Abbiamo al-cuni non dispregevoli libri da lui scritti, ne' quali com-prende la storia di tutto ciò che di maraviglioso vedesi,o odesi in Egitto. Ma nelle cose ch'ei dice di avere udite,o lette, per desiderio di lode esagera forse di troppo.Perciocchè egli è millantatore glorioso del suo sapere".Di questa sua boria un'altra prova ci somministra Plinioil vecchio il qual racconta (præf. l. 1) ch'egli soleva van-tarsi di rendere immortali coloro a cui dedicava alcunasua opera; e quindi soggiugne che Tiberio solea chia-marlo cembalo del mondo, mentre anzi avrebbe dovutodirlo timpano della pubblica fama. Seneca il filosofoancora deride (ep. 88) l'aggirarsi ch'ei fece per tutta laGrecia con tale impostura, che ottenne in ogni cittàd'esser nominato il secondo Omero. Più opere avea egliscritte, e in esse avea così malmenati gli Ebrei, che Giu-seppe la storico prese a confutarlo in un'opera che con-tro di lui compose. Apione è quegli da cui abbiamo avu-to il famoso racconto del leone che spinto contro di uno

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Notizie di Apione ales-sandrino.

schiavo detto Androdo, o come alcuni leggono, Andro-clo, invece di divorarlo, prese a vezzeggiarlo e ad acca-rezzarlo, ricordevole del beneficio da lui già fatto col ti-rargli dal pie' una spina che altamente lo addolorava.Gellio riscontra il fatto (l. 5, c. 14) colle parole stesse diApione, il quale diceva di esserne stato egli stesso testi-monio di veduta in Roma. Io non so però se il carattereche di lui ci fanno gli antichi, ci permetta di prestar mol-ta fede a una tal narrazione.

VI. Alcuni altri gramatici di questo tempotroviam nominati negli antichi autori; ma èinutile il parlare di quelli di cui altro appena

non si parrebbe arrecare che il puro nome. Conchiudere-mo dunque ciò che ad essi appartiene, con una riflessio-ne che ci farà sempre più chiaramente conoscere il ca-rattere degli uomini dotti di questo tempo. Leggendo leNotti Attiche di Gellio (di cui parleremo nel libro se-guente) veggiamo, ch'egli non rare volte arreca i dettid'alcuni gramatici a lui anteriori, che or l'una or l'altracosa avean preso a riprendere in Virgilio, in Cicerone ein altri de' migliori scrittori del buon secolo. "Alcunigramatici, dic'egli (l. 2, c. 6), della scorsa età, tra' qualiAnneo Cornuto, uomini certamente dotti e famosi, chehanno scritti commentarj sopra Virgilio, il riprendono dinegligenza e di bassezza in questi versi, ec.". E in somi-gliante maniera altre volte ei reca le accuse che allostesso Virgilio e ad altri de' più eleganti scrittori non te-

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Altri gra-matici.

schiavo detto Androdo, o come alcuni leggono, Andro-clo, invece di divorarlo, prese a vezzeggiarlo e ad acca-rezzarlo, ricordevole del beneficio da lui già fatto col ti-rargli dal pie' una spina che altamente lo addolorava.Gellio riscontra il fatto (l. 5, c. 14) colle parole stesse diApione, il quale diceva di esserne stato egli stesso testi-monio di veduta in Roma. Io non so però se il carattereche di lui ci fanno gli antichi, ci permetta di prestar mol-ta fede a una tal narrazione.

VI. Alcuni altri gramatici di questo tempotroviam nominati negli antichi autori; ma èinutile il parlare di quelli di cui altro appena

non si parrebbe arrecare che il puro nome. Conchiudere-mo dunque ciò che ad essi appartiene, con una riflessio-ne che ci farà sempre più chiaramente conoscere il ca-rattere degli uomini dotti di questo tempo. Leggendo leNotti Attiche di Gellio (di cui parleremo nel libro se-guente) veggiamo, ch'egli non rare volte arreca i dettid'alcuni gramatici a lui anteriori, che or l'una or l'altracosa avean preso a riprendere in Virgilio, in Cicerone ein altri de' migliori scrittori del buon secolo. "Alcunigramatici, dic'egli (l. 2, c. 6), della scorsa età, tra' qualiAnneo Cornuto, uomini certamente dotti e famosi, chehanno scritti commentarj sopra Virgilio, il riprendono dinegligenza e di bassezza in questi versi, ec.". E in somi-gliante maniera altre volte ei reca le accuse che allostesso Virgilio e ad altri de' più eleganti scrittori non te-

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Altri gra-matici.

mevan di dare i gramatici di questo tempo (l. 5, c. 8; l.6, c. 6, ec.). Il medesimo Gellio ribatte talvolta cotali ac-cuse, e fa vedere ch'esse non già degli autori accusati,ma de' gramatici accusatori scoprivano l'ignoranza. Maquesto era il pregio che allora affettavasi comunemente.In vece di volgersi a seguire i più antichi autori, e di ri-trarne in loro stessi, quanto fosse possibile, l'eleganza,volevan parere di superarli in erudizione e di lasciarselidi gran lunga addietro. E in tal modo la letteratura, invece di perfezionarsi, veniva ognor decadendo. Ma diciò si è lungamente parlato altrove.

VII. Se ci rimanesse l'opera che avea scrittaSvetonio intorno a' retori più illustri, avrem-mo in essa raccolte insieme le notizie a loroattinenti. Ma una sola piccola parte ce n'è ri-

masta; e di que' di cui in essa egli parla, niuno appartie-ne a' tempi di cui trattiamo. Dagli altri autori nondimenonoi raccogliamo che molti ve n'ebbe in Roma, che otten-nero non ordinaria fama. De' due tra essi, che fra tuttifurono i più rinnomati, cioè di Seneca il padre e diQuintiliano, abbiam già parlato in altro luogo; benchèdel primo si dubiti s'egli tenesse pubblica scuola, o senon anzi ei sia soprannomato il retore solo per le decla-mazioni da lui raccolte. Veggiamo dunque quali, oltreessi, fosser coloro di cui con maggior lode si parla dagliantichi scrittori.

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Copia di re-tori in Roma.

mevan di dare i gramatici di questo tempo (l. 5, c. 8; l.6, c. 6, ec.). Il medesimo Gellio ribatte talvolta cotali ac-cuse, e fa vedere ch'esse non già degli autori accusati,ma de' gramatici accusatori scoprivano l'ignoranza. Maquesto era il pregio che allora affettavasi comunemente.In vece di volgersi a seguire i più antichi autori, e di ri-trarne in loro stessi, quanto fosse possibile, l'eleganza,volevan parere di superarli in erudizione e di lasciarselidi gran lunga addietro. E in tal modo la letteratura, invece di perfezionarsi, veniva ognor decadendo. Ma diciò si è lungamente parlato altrove.

VII. Se ci rimanesse l'opera che avea scrittaSvetonio intorno a' retori più illustri, avrem-mo in essa raccolte insieme le notizie a loroattinenti. Ma una sola piccola parte ce n'è ri-

masta; e di que' di cui in essa egli parla, niuno appartie-ne a' tempi di cui trattiamo. Dagli altri autori nondimenonoi raccogliamo che molti ve n'ebbe in Roma, che otten-nero non ordinaria fama. De' due tra essi, che fra tuttifurono i più rinnomati, cioè di Seneca il padre e diQuintiliano, abbiam già parlato in altro luogo; benchèdel primo si dubiti s'egli tenesse pubblica scuola, o senon anzi ei sia soprannomato il retore solo per le decla-mazioni da lui raccolte. Veggiamo dunque quali, oltreessi, fosser coloro di cui con maggior lode si parla dagliantichi scrittori.

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Copia di re-tori in Roma.

VIII. Porcio Latrone, se crediamo a Senecail ret., fu tra essi il più famoso; tante sono lelodi ch'ei ne dice. Ne parla assai lungamentenell'esordio del primo libro delle Controver-

sie; e ne parla come d'uomo d'ingegno al pari ched'indole del tutto straordinaria. Quando prendeva a stu-diare, continuava notti e giorni a studiare senza interval-lo alcuno. E quando parimenti davasi a' piaceri, e allacaccia singolarmente, non teneva misura. Dotato di vocee di fianco robustissimo, ma senza alcuna grazia di por-tamento, o di pronuncia. Studiava per lo più dopo cena,e quindi era di color pallido, e di vista debole assai.Avea sì felice memoria, che lo scrivere e il fissare inmente una declamazione era per lui una cosa sola, e sìch'egli scrivea con quell'impeto stesso con cui ragiona-va. Tali e più altre cose racconta Seneca di questo suocaro amico, com'egli il chiama, della cui famigliare ami-cizia avea egli sempre goduto dalla fanciullezza fin allamorte. Era egli pure spagnuolo, e forse insieme con Se-neca sen venne a Roma. La Cronaca eusebiana ne fissala morte ch'egli spontaneamente si diede annoiato dauna ostinata febbre, poco innanzi al principio dell'eracrist., nel qual caso converrebbe dire ch'ei morisse in etàgiovanile, il che da Seneca non si accenna; e parmi per-ciò probabile che la sua morte debbasi ritardare forse dinon pochi anni (39). Quintiliano ancor ne parla con lode,

39 Il Sig. ab. Lampillas con molti buoni argomenti combatte (t. 2, p. 43) ciòch'io avea congetturato che la Cronaca eusebiana avesse errato nel fissar lamorte di Porcio Latrone poco innanzi all'era crist., e ch'ella accadesse pro-

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Carattere diPorcio La-trone.

VIII. Porcio Latrone, se crediamo a Senecail ret., fu tra essi il più famoso; tante sono lelodi ch'ei ne dice. Ne parla assai lungamentenell'esordio del primo libro delle Controver-

sie; e ne parla come d'uomo d'ingegno al pari ched'indole del tutto straordinaria. Quando prendeva a stu-diare, continuava notti e giorni a studiare senza interval-lo alcuno. E quando parimenti davasi a' piaceri, e allacaccia singolarmente, non teneva misura. Dotato di vocee di fianco robustissimo, ma senza alcuna grazia di por-tamento, o di pronuncia. Studiava per lo più dopo cena,e quindi era di color pallido, e di vista debole assai.Avea sì felice memoria, che lo scrivere e il fissare inmente una declamazione era per lui una cosa sola, e sìch'egli scrivea con quell'impeto stesso con cui ragiona-va. Tali e più altre cose racconta Seneca di questo suocaro amico, com'egli il chiama, della cui famigliare ami-cizia avea egli sempre goduto dalla fanciullezza fin allamorte. Era egli pure spagnuolo, e forse insieme con Se-neca sen venne a Roma. La Cronaca eusebiana ne fissala morte ch'egli spontaneamente si diede annoiato dauna ostinata febbre, poco innanzi al principio dell'eracrist., nel qual caso converrebbe dire ch'ei morisse in etàgiovanile, il che da Seneca non si accenna; e parmi per-ciò probabile che la sua morte debbasi ritardare forse dinon pochi anni (39). Quintiliano ancor ne parla con lode,

39 Il Sig. ab. Lampillas con molti buoni argomenti combatte (t. 2, p. 43) ciòch'io avea congetturato che la Cronaca eusebiana avesse errato nel fissar lamorte di Porcio Latrone poco innanzi all'era crist., e ch'ella accadesse pro-

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Carattere diPorcio La-trone.

dicendo ch'ei fu il primo retore di chiaro nome (l. 10, c.5), benchè poscia soggiunga che questo retore, che sigran nome avea nelle scuole, dovendo una volta perora-re nel foro, chiese in grazia che in luogo chiuso si trat-tasse la causa. Così l'esercitarsi soltanto nelle domesti-che mura, che allor si usava, rendeva poi soverchiamen-te timidi gli oratori, quando doveano uscire all'aperto.Plinio il vecchio parimenti lo dice celebre tra' maestridell'arte di ben parlare (l. 20, c. 15); e ne reca in provail pazzo costume d'alcuni che per salire a gloria somi-gliante a quella di Porcio stropicciavansi con una cotalerba il volto per averlo essi pure pallido al par di lui.Due cose però, che di lui narra il suo grande encomiato-re Seneca, parmi che debbano scemare alquanto pressoagli uomini di buon gusto la stima di questo retore: cioèl'ingiusto disprezzo in cui egli ama i greci scrittori cheda lui non erano stati mai letti (controv. 33) e il costumenon troppo lodevole a mio parere, ch'egli avea, di nonvolere che i suoi scolari innanzi a lui declamassero, masol che si stessero ad ascoltarlo (controv. 25); dal che nevenne, dice Seneca, ch'essi per disprezzo dapprima fu-ron detti uditori, il qual nome poi passò ad essere comu-

babilmente più anni dopo. Io credo ch'egli abbia ragione, e che il torto siamio. Ma ch'io abbia così scritto maliziosamente affin di rimuovere dal se-colo d'Augusto uno scrittore spagnuolo, questo è uno degli usati sogni.Che importa a me che Porcio sia vissuto prima, o dopo? Era egli a' tempid'Augusto? Dunque lo spagnuolo co' suoi difetti concorse a far decaderesin da que' tempi l'eloquenza romana. Ecco la conseguenza che nasce daglisforzi usati dall'ab. Lampillas per richiamare al secol d'Augusto alcuni de'retori da me incautamente posti in quel di Tiberio.

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dicendo ch'ei fu il primo retore di chiaro nome (l. 10, c.5), benchè poscia soggiunga che questo retore, che sigran nome avea nelle scuole, dovendo una volta perora-re nel foro, chiese in grazia che in luogo chiuso si trat-tasse la causa. Così l'esercitarsi soltanto nelle domesti-che mura, che allor si usava, rendeva poi soverchiamen-te timidi gli oratori, quando doveano uscire all'aperto.Plinio il vecchio parimenti lo dice celebre tra' maestridell'arte di ben parlare (l. 20, c. 15); e ne reca in provail pazzo costume d'alcuni che per salire a gloria somi-gliante a quella di Porcio stropicciavansi con una cotalerba il volto per averlo essi pure pallido al par di lui.Due cose però, che di lui narra il suo grande encomiato-re Seneca, parmi che debbano scemare alquanto pressoagli uomini di buon gusto la stima di questo retore: cioèl'ingiusto disprezzo in cui egli ama i greci scrittori cheda lui non erano stati mai letti (controv. 33) e il costumenon troppo lodevole a mio parere, ch'egli avea, di nonvolere che i suoi scolari innanzi a lui declamassero, masol che si stessero ad ascoltarlo (controv. 25); dal che nevenne, dice Seneca, ch'essi per disprezzo dapprima fu-ron detti uditori, il qual nome poi passò ad essere comu-

babilmente più anni dopo. Io credo ch'egli abbia ragione, e che il torto siamio. Ma ch'io abbia così scritto maliziosamente affin di rimuovere dal se-colo d'Augusto uno scrittore spagnuolo, questo è uno degli usati sogni.Che importa a me che Porcio sia vissuto prima, o dopo? Era egli a' tempid'Augusto? Dunque lo spagnuolo co' suoi difetti concorse a far decaderesin da que' tempi l'eloquenza romana. Ecco la conseguenza che nasce daglisforzi usati dall'ab. Lampillas per richiamare al secol d'Augusto alcuni de'retori da me incautamente posti in quel di Tiberio.

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nemente usato in vece di quel di discepoli.

IX. Ma ornamento assai maggiore ricevettela professione de' retori da Blando, di cuiassai frequentemente ragiona Seneca nellesue Controversie (controv. 1, 9, 13, 17, ec.).Era egli cavalier romano, e forse non è di-

verso da quel Rubellio Blando di cui parla Tacito (l. 3Ann. c. 23, 51). Or questi non si sdegnò di prendere ilnome e la professione di retore, e "fu il primo, dice Se-neca (proem. l. 2 Controv.), tra' cavalieri romani, che in-segnasse rettorica in Roma, mentre prima di lui ciò nonerasi fatto che da' liberti; sembrando cosa vergognosal'insegnar ciò che riputavasi onesta cosa l'imparare".L'esempio di Blando fu poi seguito da altri, e singolar-mente da due Foschi Arellii, padre e figlio. Del padreragiona spesso Seneca, ne riprende lo stile, come coltobensì, ma troppo fiorito, e perciò languido e ancor ine-guale (ib.). Del figlio racconta Plinio il vecchio (l. 33, c.12) di averlo egli stesso veduto portare alle dita anellid'argento, cosa allor non usata, e che avendo egli nume-rosissima scuola, si prese da ciò occasione di calunniar-lo, e ch'egli fu perciò, ingiustamente cacciato dall'ordineequestre in cui era.

X. Io non potrei uscir facilmente da questoargomento, se tutti volessi rammentare i re-

398

Di Blando, e dei due Foschi Are-lii.

Alcuni re-tori celebriin Roma.

nemente usato in vece di quel di discepoli.

IX. Ma ornamento assai maggiore ricevettela professione de' retori da Blando, di cuiassai frequentemente ragiona Seneca nellesue Controversie (controv. 1, 9, 13, 17, ec.).Era egli cavalier romano, e forse non è di-

verso da quel Rubellio Blando di cui parla Tacito (l. 3Ann. c. 23, 51). Or questi non si sdegnò di prendere ilnome e la professione di retore, e "fu il primo, dice Se-neca (proem. l. 2 Controv.), tra' cavalieri romani, che in-segnasse rettorica in Roma, mentre prima di lui ciò nonerasi fatto che da' liberti; sembrando cosa vergognosal'insegnar ciò che riputavasi onesta cosa l'imparare".L'esempio di Blando fu poi seguito da altri, e singolar-mente da due Foschi Arellii, padre e figlio. Del padreragiona spesso Seneca, ne riprende lo stile, come coltobensì, ma troppo fiorito, e perciò languido e ancor ine-guale (ib.). Del figlio racconta Plinio il vecchio (l. 33, c.12) di averlo egli stesso veduto portare alle dita anellid'argento, cosa allor non usata, e che avendo egli nume-rosissima scuola, si prese da ciò occasione di calunniar-lo, e ch'egli fu perciò, ingiustamente cacciato dall'ordineequestre in cui era.

X. Io non potrei uscir facilmente da questoargomento, se tutti volessi rammentare i re-

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Di Blando, e dei due Foschi Are-lii.

Alcuni re-tori celebriin Roma.

tori di cui Seneca fa menzione. Ne' proemj singolarmen-te de' suoi libri di Controversie egli nomina molti diquelli ch'egli avea conosciuti e ne forma i caratteri, nedescrive le virtù non meno che i vizj. Ivi dunque potran-nosi, da chi il brami, aver copiose notizie attorno a' reto-ri di questo tempo. Io passerò invece ad annoverare al-cuni che sulla arte rettorica scrissero circa questi tempimedesimi. Quintiliano ne accenna i nomi, "e di questamateria, ei dice (l. 3, c. 1), scrisse non poche cose Cor-nificio, alcune ancora Stertinio e Gallione il padre; e piùdiligentemente Celso e Lena più antichi di Gallione; e a'nostri tempi Virginio, Plinio e Rutilio. Sonovi anche alpresente scrittori celebri in tale argomento". Cornificiocredesi da alcuni autore de' libri ad Erennio, che vannotra l'opere di Cicerone, e, che da altri si attribuiscono aVirginio; ma su questo non si può con certezza deffinircosa alcuna (V. Fabr. Bibl. lat. t. 1, p. 104). Di Stertinionulla sappiamo, e non si può se non congetturando af-fermare che ei sia o lo Stertinio stoico mentovato daOrazio, o un altro medico nominato da Plinio, o qualun-que altro di tal nome, di cui si trovi memoria negli anti-chi autori (V. Burmann. notas ad Quint. l. c.). Gallioneil padre è quegli che adottò a suo figliol il fratel primo-genito di Seneca il filosofo, detto prima M. Anneo No-vato. Di lui parla spesso e in molta lode Seneca il retore(proem. l. 5 Controv. ec.), ma non sappiamo precisa-mente che cosa scrivesse. Celso è il medico di cui ab-biam parlato poc'anzi, che, come di altre scienze, cosìancora dell'arte dell'eloquenza avea scritti alcuni libri.

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tori di cui Seneca fa menzione. Ne' proemj singolarmen-te de' suoi libri di Controversie egli nomina molti diquelli ch'egli avea conosciuti e ne forma i caratteri, nedescrive le virtù non meno che i vizj. Ivi dunque potran-nosi, da chi il brami, aver copiose notizie attorno a' reto-ri di questo tempo. Io passerò invece ad annoverare al-cuni che sulla arte rettorica scrissero circa questi tempimedesimi. Quintiliano ne accenna i nomi, "e di questamateria, ei dice (l. 3, c. 1), scrisse non poche cose Cor-nificio, alcune ancora Stertinio e Gallione il padre; e piùdiligentemente Celso e Lena più antichi di Gallione; e a'nostri tempi Virginio, Plinio e Rutilio. Sonovi anche alpresente scrittori celebri in tale argomento". Cornificiocredesi da alcuni autore de' libri ad Erennio, che vannotra l'opere di Cicerone, e, che da altri si attribuiscono aVirginio; ma su questo non si può con certezza deffinircosa alcuna (V. Fabr. Bibl. lat. t. 1, p. 104). Di Stertinionulla sappiamo, e non si può se non congetturando af-fermare che ei sia o lo Stertinio stoico mentovato daOrazio, o un altro medico nominato da Plinio, o qualun-que altro di tal nome, di cui si trovi memoria negli anti-chi autori (V. Burmann. notas ad Quint. l. c.). Gallioneil padre è quegli che adottò a suo figliol il fratel primo-genito di Seneca il filosofo, detto prima M. Anneo No-vato. Di lui parla spesso e in molta lode Seneca il retore(proem. l. 5 Controv. ec.), ma non sappiamo precisa-mente che cosa scrivesse. Celso è il medico di cui ab-biam parlato poc'anzi, che, come di altre scienze, cosìancora dell'arte dell'eloquenza avea scritti alcuni libri.

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Un breve compendio di Arte rettorica sotto il nome diAurelio Cornelio Celso fu pubblicato da Sisto Popmal'anno 1566, il quale essendo divenuto assai raro, fu poidal Fabricio prodotto di nuovo al fine della sua Bibliote-ca latina. Egli pensa che sia quello stesso di cui Quinti-liano parla a' più luoghi; ma io avendo diligentementeconfrontato i diversi passi che Quintiliano ne cita conquesto breve trattato, credo di poter affermare ch'essonon ne sia che un assai breve ed imperfetto compendio;perciocchè pochissimo vi si vede di ciò che secondoQuintiliano vedevasi nel trattato di Celso; e la più partede' passi ch'egli ne allega, ivi non si ritrovano. Di Lenanon ci è giunta notizia alcuna. Virginio ancora non sap-piamo chi fosse; poichè ei non può essere certamenteuno de' due rammentati da Plinio il Giovane (l. 2, ep. 1;l. 6, ep. 21), poichè questi viveano sotto Traiano; eQuintiliano che parla di Virginio come d'uomo già tra-passato (perciocchè ei non suole giammai nominare i vi-venti), pubblicò i suoi libri sotto il regno di Domiziano.Nella Biblioteca degli scrittori milanesi dell'Argelatileggesi un'erudita lettera del ch. prop. Irico (art. Virgi-nius), in cui si sforza di dimostrare che il Virginio ram-mentato da Quintiliano è il celebre Virginio Rufo chedopo aver più volte ricusato l'impero, morì pieno di glo-ria e di meriti verso la repubblica regnando Nerva; ech'egli è l'autore de' libri ad Erennio attribuiti a Cicero-ne. Ma egli è certo che il Virginio di cui Quintiliano ra-giona, era già morto, come abbiamo accennato, quandoegli scrive; ed e innegabile che Quintiliano scrisse sotto

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Un breve compendio di Arte rettorica sotto il nome diAurelio Cornelio Celso fu pubblicato da Sisto Popmal'anno 1566, il quale essendo divenuto assai raro, fu poidal Fabricio prodotto di nuovo al fine della sua Bibliote-ca latina. Egli pensa che sia quello stesso di cui Quinti-liano parla a' più luoghi; ma io avendo diligentementeconfrontato i diversi passi che Quintiliano ne cita conquesto breve trattato, credo di poter affermare ch'essonon ne sia che un assai breve ed imperfetto compendio;perciocchè pochissimo vi si vede di ciò che secondoQuintiliano vedevasi nel trattato di Celso; e la più partede' passi ch'egli ne allega, ivi non si ritrovano. Di Lenanon ci è giunta notizia alcuna. Virginio ancora non sap-piamo chi fosse; poichè ei non può essere certamenteuno de' due rammentati da Plinio il Giovane (l. 2, ep. 1;l. 6, ep. 21), poichè questi viveano sotto Traiano; eQuintiliano che parla di Virginio come d'uomo già tra-passato (perciocchè ei non suole giammai nominare i vi-venti), pubblicò i suoi libri sotto il regno di Domiziano.Nella Biblioteca degli scrittori milanesi dell'Argelatileggesi un'erudita lettera del ch. prop. Irico (art. Virgi-nius), in cui si sforza di dimostrare che il Virginio ram-mentato da Quintiliano è il celebre Virginio Rufo chedopo aver più volte ricusato l'impero, morì pieno di glo-ria e di meriti verso la repubblica regnando Nerva; ech'egli è l'autore de' libri ad Erennio attribuiti a Cicero-ne. Ma egli è certo che il Virginio di cui Quintiliano ra-giona, era già morto, come abbiamo accennato, quandoegli scrive; ed e innegabile che Quintiliano scrisse sotto

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il regno di Domiziano. Ei dunque non può essere Virgi-nio Rufo. Innoltre Plinio nel lungo elogio che fa diquest'uomo valoroso (l. 2, ep. 1), fra le moltissime coseche ne dice in lode non fa alcun motto di lettere nè di li-bri. Or se Virginio Rufo avesse veramente scritti quei li-bri, Plinio che aveva in sì gran pregio gli studj, avrebbe-lo egli dissimulato (40)? Che poi il Virginio di cui parlaQuintiliano, sia l'autor de' libri ad Erennio, non vi ha,credo io, ragione che basti o a negarlo, o ad affermarlo.Il Plinio qui rammentato da Quintiliano è il vecchio, dicui abbiam veduto che più libri avea scritto intornoall'Eloquenza. Rutilio Lupo finalmente sembra quel des-so, di cui qualche frammento ancor ci rimane nella Col-lezione de' Retori antichi pubblicata da Francesco Piteo.

40 Il valoroso encomiatore degl'illustri Comaschi co. Giovio crede (Gli Uom.III Comaschi p. 455, 456) che dal passo di Quintiliano qui da me accenna-to non possa raccogliersi con certezza che Virginio fosse già morto, quan-do lo stesso Quintiliano scriveva. A me sembra che quando un autore ram-menta alcuni che a' suoi tempi hanno scritto, e poi aggiugne: sonovi ancheal presente scrittori, ec. debba intendersi che i primi son morti, vivi i se-condi. Se nondimeno pare ad altri che possan credersi vivi anche i primi,io non toglierò loro la vita per sostenere la mia opinione. Egli riflette anco-ra che Plinio non parla, è vero, della letteratura di Virginio nell'elogio dame indicatone, ma che lo nomina tra' coltivatori de' buoni studi in un'altradelle sue lettere (l. 5, ep. 3). Ed è vero ch'egli il nomina insieme con Cice-rone, con Messala, con Ortensio, ec. Ma è vero ancora che in quella letteraei non pretende di lodare in essi singolarmente la letteratura, ma in sua di-scolpa li nomina come uomini che, benchè fosser dottissimi, gravissimi,santissimi, scrisser nondimeno talvolta epigrammi liberi e licenziosi.

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il regno di Domiziano. Ei dunque non può essere Virgi-nio Rufo. Innoltre Plinio nel lungo elogio che fa diquest'uomo valoroso (l. 2, ep. 1), fra le moltissime coseche ne dice in lode non fa alcun motto di lettere nè di li-bri. Or se Virginio Rufo avesse veramente scritti quei li-bri, Plinio che aveva in sì gran pregio gli studj, avrebbe-lo egli dissimulato (40)? Che poi il Virginio di cui parlaQuintiliano, sia l'autor de' libri ad Erennio, non vi ha,credo io, ragione che basti o a negarlo, o ad affermarlo.Il Plinio qui rammentato da Quintiliano è il vecchio, dicui abbiam veduto che più libri avea scritto intornoall'Eloquenza. Rutilio Lupo finalmente sembra quel des-so, di cui qualche frammento ancor ci rimane nella Col-lezione de' Retori antichi pubblicata da Francesco Piteo.

40 Il valoroso encomiatore degl'illustri Comaschi co. Giovio crede (Gli Uom.III Comaschi p. 455, 456) che dal passo di Quintiliano qui da me accenna-to non possa raccogliersi con certezza che Virginio fosse già morto, quan-do lo stesso Quintiliano scriveva. A me sembra che quando un autore ram-menta alcuni che a' suoi tempi hanno scritto, e poi aggiugne: sonovi ancheal presente scrittori, ec. debba intendersi che i primi son morti, vivi i se-condi. Se nondimeno pare ad altri che possan credersi vivi anche i primi,io non toglierò loro la vita per sostenere la mia opinione. Egli riflette anco-ra che Plinio non parla, è vero, della letteratura di Virginio nell'elogio dame indicatone, ma che lo nomina tra' coltivatori de' buoni studi in un'altradelle sue lettere (l. 5, ep. 3). Ed è vero ch'egli il nomina insieme con Cice-rone, con Messala, con Ortensio, ec. Ma è vero ancora che in quella letteraei non pretende di lodare in essi singolarmente la letteratura, ma in sua di-scolpa li nomina come uomini che, benchè fosser dottissimi, gravissimi,santissimi, scrisser nondimeno talvolta epigrammi liberi e licenziosi.

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XI. Ne' tempi che venner dopo l'imperodi Domiziano, nulla minore fu in Romala copia de' retori; anzi pare che per laprotezione di cui Traiano onorava le

scienze, e per l'impegno con cui il giovane Plinio le fo-mentava, fosse ancora maggiore. Molti ne veggiam no-minati con lode nelle Lettere di questo valentuomo; maperchè sembrami che questa lunga enumerazione di re-tori debba recare a' lettori quella noia medesima che nerisento io pure, mi ristringerò a due soli di cui egli parlacon non ordinarj encomi. Il primo è Iseo che pare fossedi patria ateniese, e venuto a Roma per darvi prova delsuo sapere. "Grande fama, dice Plinio (l. 2, ep. 3), n'eraprecorsa; ma egli si è trovato maggiore ancor dellafama: egli è uomo di abbondanza e di copia maraviglio-sa. Sempre parla all'improvviso, ma come se avessescritto per lungo tempo. Lo stile è greco, anzi attico ve-ramente"; e siegue in tutta la lettera a dirne lodi, esaltan-done la prontezza a favellar di ogni cosa, la grande eru-dizione, la varietà dello stile, la forza incredibile di me-moria, per cui dopo aver parlato all'improvviso per lun-go tempo, ritornava da capo, e ripeteva ogni ancor me-noma parola esattamente. "Giorno e notte (dice) altronon fa, altro non ode, di altro non parla, se non di ciòche appartiene a studio. Ha già passato il sessantesimoanno di età, ed è ancor semplice scolastico ossia decla-matore". Quindi invita caldamente Nipote a cui scrive, avenire ad udirlo, e tu se', gli dice, un uom di sasso, o diferro, se non brami di conoscerlo e di udirlo. Questo re-

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A' tempi di Tra-jano fiorisce sin-golarmente Iseo.

XI. Ne' tempi che venner dopo l'imperodi Domiziano, nulla minore fu in Romala copia de' retori; anzi pare che per laprotezione di cui Traiano onorava le

scienze, e per l'impegno con cui il giovane Plinio le fo-mentava, fosse ancora maggiore. Molti ne veggiam no-minati con lode nelle Lettere di questo valentuomo; maperchè sembrami che questa lunga enumerazione di re-tori debba recare a' lettori quella noia medesima che nerisento io pure, mi ristringerò a due soli di cui egli parlacon non ordinarj encomi. Il primo è Iseo che pare fossedi patria ateniese, e venuto a Roma per darvi prova delsuo sapere. "Grande fama, dice Plinio (l. 2, ep. 3), n'eraprecorsa; ma egli si è trovato maggiore ancor dellafama: egli è uomo di abbondanza e di copia maraviglio-sa. Sempre parla all'improvviso, ma come se avessescritto per lungo tempo. Lo stile è greco, anzi attico ve-ramente"; e siegue in tutta la lettera a dirne lodi, esaltan-done la prontezza a favellar di ogni cosa, la grande eru-dizione, la varietà dello stile, la forza incredibile di me-moria, per cui dopo aver parlato all'improvviso per lun-go tempo, ritornava da capo, e ripeteva ogni ancor me-noma parola esattamente. "Giorno e notte (dice) altronon fa, altro non ode, di altro non parla, se non di ciòche appartiene a studio. Ha già passato il sessantesimoanno di età, ed è ancor semplice scolastico ossia decla-matore". Quindi invita caldamente Nipote a cui scrive, avenire ad udirlo, e tu se', gli dice, un uom di sasso, o diferro, se non brami di conoscerlo e di udirlo. Questo re-

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A' tempi di Tra-jano fiorisce sin-golarmente Iseo.

tore vien rammentato ancora da Giovenale, il quale perdenotare un uom di maravigliosa eloquenza, lo dice:Isæo torrentior (sat. 3, v. 74).

XII. L'altro retore di cui Plinio parla conmolta lode, è Giulio Genitore. Piacemi direcar qui tutto il passo in cui egli di lui ra-

giona scrivendo a Corellia, e persuadendola a mandareil suo figlio alla scuola di questo retore perchè ci fa co-noscere sempre più chiaramente l'egregio carattere diPlinio, che a mio parere tra tutti gli antichi scrittori latininon ha l'uguale. "Egli è ormai tempo, dice (l. 3, ep. 3),di cercare un retore latino che sia certamente uomo au-torevole, modesto e casto. Perciocchè cotesto giovinettoagli altri doni di natura e di fortuna congiunge ancorauna singolare bellezza; e a lui perciò nel lubrico dell'etàgiovanile convien cercare non un maestro soltanto, maun custode ancora e un direttore. A me pare di poterti si-curamente proporre Giulio Genitore. Io l'amo; ma il mioamore nasce dalla stima che ne ho conceputa. Egli èuom costumato e grave; anzi per riguardo al presente li-bertinaggio forse ancora un pò rozzo ed austero. Quantoei sia valente nel dire, tu puoi saperlo da molti, percioc-chè un'eloquenza facile e copiosa tosto si scuopre. Lavita degli uomini ha de' gran nascondigli, tra cui spessosi occulta. Ma per Genitore io ti posso esser garante. Iltuo figlio non udirà da lui se non ciò che sia per giovar-gli; nè apprenderà cosa alcuna cui l'ignorar fosse me-

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E Giulio Genitore.

tore vien rammentato ancora da Giovenale, il quale perdenotare un uom di maravigliosa eloquenza, lo dice:Isæo torrentior (sat. 3, v. 74).

XII. L'altro retore di cui Plinio parla conmolta lode, è Giulio Genitore. Piacemi direcar qui tutto il passo in cui egli di lui ra-

giona scrivendo a Corellia, e persuadendola a mandareil suo figlio alla scuola di questo retore perchè ci fa co-noscere sempre più chiaramente l'egregio carattere diPlinio, che a mio parere tra tutti gli antichi scrittori latininon ha l'uguale. "Egli è ormai tempo, dice (l. 3, ep. 3),di cercare un retore latino che sia certamente uomo au-torevole, modesto e casto. Perciocchè cotesto giovinettoagli altri doni di natura e di fortuna congiunge ancorauna singolare bellezza; e a lui perciò nel lubrico dell'etàgiovanile convien cercare non un maestro soltanto, maun custode ancora e un direttore. A me pare di poterti si-curamente proporre Giulio Genitore. Io l'amo; ma il mioamore nasce dalla stima che ne ho conceputa. Egli èuom costumato e grave; anzi per riguardo al presente li-bertinaggio forse ancora un pò rozzo ed austero. Quantoei sia valente nel dire, tu puoi saperlo da molti, percioc-chè un'eloquenza facile e copiosa tosto si scuopre. Lavita degli uomini ha de' gran nascondigli, tra cui spessosi occulta. Ma per Genitore io ti posso esser garante. Iltuo figlio non udirà da lui se non ciò che sia per giovar-gli; nè apprenderà cosa alcuna cui l'ignorar fosse me-

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E Giulio Genitore.

glio. Egli al par di noi due gli rammenterà sovente i suoimaggiori e le glorie della sua famiglia. Consegnalo purecol favore degl'iddii a un tal precettore da cui egli ap-prenderà prima il costume, poi l'eloquenza che senza ilcostume male si apprende".

XIII. Questa sì gran copia di retori illustri,che era in Roma, pare che avrebbe dovutoo tenere in vigore, o almeno far rifiorirel'eloquenza de' tempi di Cicerone. E non-dimeno i retori stessi furono in gran partecagione ch'ella andasse ognor più deca-

dendo. Già abbiam veduto con qual disprezzo ne parlal'autor del Dialogo sul decadimento dell'eloquenza. Uo-mini che per lo più non aveano altra scienza che quelladi parlar facilmente ed elegantemente, in altro nonistruivano spesso i loro uditori che a tentare arditamentela stessa carriera, senza prima corredarli di quel sapereche a saggio ed eloquente orator si conviene. L'affetta-zion dello stile, i detti sentenziosi, le antitesi, le sotti-gliezze erano il principale ornamento de' retori di questotempo; i lor discepoli si sforzavano d'imitarli, e quindidivenivano pessime copie di cattivi originali. Così l'elo-quenza andava di età in età degenerando dall'anticosplendore, e accostandosi ognor più alla sua totale rovi-na. Ma di ciò si è parlato altrove assai lungamente; nè èquesto il luogo a cui appartenga la storia dell'eloquenza.

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Essi nondi-meno recan danno anzi che vantaggioall'eloquenza.

glio. Egli al par di noi due gli rammenterà sovente i suoimaggiori e le glorie della sua famiglia. Consegnalo purecol favore degl'iddii a un tal precettore da cui egli ap-prenderà prima il costume, poi l'eloquenza che senza ilcostume male si apprende".

XIII. Questa sì gran copia di retori illustri,che era in Roma, pare che avrebbe dovutoo tenere in vigore, o almeno far rifiorirel'eloquenza de' tempi di Cicerone. E non-dimeno i retori stessi furono in gran partecagione ch'ella andasse ognor più deca-

dendo. Già abbiam veduto con qual disprezzo ne parlal'autor del Dialogo sul decadimento dell'eloquenza. Uo-mini che per lo più non aveano altra scienza che quelladi parlar facilmente ed elegantemente, in altro nonistruivano spesso i loro uditori che a tentare arditamentela stessa carriera, senza prima corredarli di quel sapereche a saggio ed eloquente orator si conviene. L'affetta-zion dello stile, i detti sentenziosi, le antitesi, le sotti-gliezze erano il principale ornamento de' retori di questotempo; i lor discepoli si sforzavano d'imitarli, e quindidivenivano pessime copie di cattivi originali. Così l'elo-quenza andava di età in età degenerando dall'anticosplendore, e accostandosi ognor più alla sua totale rovi-na. Ma di ciò si è parlato altrove assai lungamente; nè èquesto il luogo a cui appartenga la storia dell'eloquenza.

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Essi nondi-meno recan danno anzi che vantaggioall'eloquenza.

Fine del Tomo II. Parte I.

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Fine del Tomo II. Parte I.

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