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55 CAPITOLO II L’ EVOLUZIONE DELLE POLITICHE MERIDIONALISTE. Introduzione In Basilicata, come nell’intero Mezzogiorno, la strategia di sviluppo impostata all’inizio degli anni Cinquanta ha inizialmente degli effetti positivi. La realizzazione di infrastrutture e di opere pubbliche come bonifiche ed acquedotti da parte della Cassa è, infatti, alla base di un decisivo miglioramento delle dotazioni ambientali e di un aumento di produttività in diverse aree frutticole e orticole. Come afferma Gianfranco Viesti: “al Sud, come al Nord, il benessere dei cittadini cresce a tassi sostenuti per un lungo periodo di tempo. Al Nord significa case più ampie, elettrodomestici, motorizzazione di massa, le prime vacanze; al Sud significa svuotare i Sassi di Matera e dare una piccola ma normale casa ai loro abitanti, il calo dell’analfabetismo e della mortalità infantile” 1 . Tuttavia, non si ha il raggiungimento dell’obiettivo principale della strategia di sviluppo per il Mezzogiorno, vale a dire l’eliminazione del divario tra il Nord e il Sud del Paese. Anzi, proprio in questo periodo, a causa della crescita dell’industria del Nord che ricostruita e ampliata, trae gran vantaggio dall’espansione del mercato interno, dalle esportazioni e dai bassi salari, il divario persiste. Alle luce di queste considerazioni, comincia ad affermarsi l’idea di industrializzare il Mezzogiorno. Protagoniste di questa nuova fase dell’Intervento straordinario che, in linea con il nuovo meridionalismo influenzato da Saraceno, punta allo sviluppo industriale del Mezzogiorno, e ad un più saldo sviluppo economico e civile dell’intero Paese, sono la Cassa per il Mezzogiorno e le Partecipazioni statali (IRI ed ENI). Con la Legge n. 634 del 29 luglio 1957 si proroga la durata della Cassa al 1965 e si assegna alle Partecipazioni statali l’obbligo di localizzare nel Mezzogiorno il 40% dei loro investimenti. Si autorizza, inoltre, la costituzione tra Enti locali di Consorzi per la creazione di “aree di sviluppo industriale” o, dove le opportunità locali appaiono più limitate, per l’istituzione di ristretti “nuclei industriali”. Compito dei Consorzi è quello di eseguire e gestire le opere di attrezzatura specifica delle aree di insediamento industriale. Si prevede che la Cassa copra inizialmente il 50% 1 Viesti G., Abolire…, cit., p. 24.

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CAPITOLO II

L’ EVOLUZIONE DELLE POLITICHE MERIDIONALISTE.

IntroduzioneIn Basilicata, come nell’intero Mezzogiorno, la strategia di sviluppo impostata all’inizio degli anni Cinquanta ha inizialmente degli effetti positivi. La realizzazione di infrastrutture e di opere pubbliche come bonifiche ed acquedotti da parte della Cassa è, infatti, alla base di un decisivo miglioramento delle dotazioni ambientali e di un aumento di produttività in diverse aree frutticole e orticole. Come afferma Gianfranco Viesti: “al Sud, come al Nord, il benessere dei cittadini cresce a tassi sostenuti per un lungo periodo di tempo. Al Nord significa case più ampie, elettrodomestici, motorizzazione di massa, le prime vacanze; al Sud significa svuotare i Sassi di Matera e dare una piccola ma normale casa ai loro abitanti, il calo dell’analfabetismo e della mortalità infantile”1. Tuttavia, non si ha il raggiungimento dell’obiettivo principale della strategia di sviluppo per il Mezzogiorno, vale a dire l’eliminazione del divario tra il Nord e il Sud del Paese. Anzi, proprio in questo periodo, a causa della crescita dell’industria del Nord che ricostruita e ampliata, trae gran vantaggio dall’espansione del mercato interno, dalle esportazioni e dai bassi salari, il divario persiste. Alle luce di queste considerazioni, comincia ad affermarsi l’idea di industrializzare il Mezzogiorno. Protagoniste di questa nuova fase dell’Intervento straordinario che, in linea con il nuovo meridionalismo influenzato da Saraceno, punta allo sviluppo industriale del Mezzogiorno, e ad un più saldo sviluppo economico e civile dell’intero Paese, sono la Cassa per il Mezzogiorno e le Partecipazioni statali (IRI ed ENI). Con la Legge n. 634 del 29 luglio 1957 si proroga la durata della Cassa al 1965 e si assegna alle Partecipazioni statali l’obbligo di localizzare nel Mezzogiorno il 40% dei loro investimenti. Si autorizza, inoltre, la costituzione tra Enti locali di Consorzi per la creazione di “aree di sviluppo industriale” o, dove le opportunità locali appaiono più limitate, per l’istituzione di ristretti “nuclei industriali”. Compito dei Consorzi è quello di eseguire e gestire le opere di attrezzatura specifica delle aree di insediamento industriale. Si prevede che la Cassa copra inizialmente il 50%

1 Viesti G., Abolire…, cit., p. 24.

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delle spese effettuate dal Consorzio, contributo che crescerà fino all’85% con la Legge n. 1462 del 29 settembre 19622. Quando sul finire degli anni Cinquanta diventa chiaro, in rapporto alla situazione economica nazionale, che l’Intervento straordinario nel Mezzogiorno non incide minimamente sulla diminuzione del divario tra Nord e Sud del Paese comincia ad affermarsi l’idea che la politica per il Mezzogiorno deve costituire parte integrante della più generale politica economica nazionale. In tal senso, si individua nella Programmazione economica lo strumento in grado di garantire la massima redditività degli investimenti pubblici nel Mezzogiorno, in primo luogo di quelli diretti a promuovere l’industrializzazione. L’avvento del centro-sinistra nel febbraio 1963 segna l’inizio della programmazione economica. Al fine di inserire l’Intervento straordinario nel quadro della programmazione nazionale, con la Legge n. 717 del 17 giugno 1965 si affida al Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno il compito di redigere un Piano di coordinamento pluriennale avente lo scopo di regolare tutti gli interventi delle pubbliche amministrazioni operanti nel Sud in collegamento con la programmazione nazionale. Contemporaneamente all’esigenza di una programmazione nazionale, comincia ad affermarsi l’idea che una programmazione a livello regionale può facilitare il superamento degli squilibri di sviluppo tra Centro-Nord e Mezzogiorno. In questo rinnovato impegno culturale e politico meridionalistico si avviano, dunque, i primi tentativi di programmazione regionale. Si istituiscono, pertanto, presso le Camere di Commercio delle singole Regioni meridionali dei Comitati con il compito di promuovere studi e indagini al fine di accertare le possibilità di espansione delle economie regionali3. Con l’istituzione delle Regioni nel 1970 cambiano gli indirizzi generali della politica meridionalistica che continua comunque ad incentrarsi sull’Intervento straordinario della Cassa per il Mezzogiorno e in particolare sulla politica di piano. Con la Legge n. 853 del 1971 si cerca di coordinare l’azione dello Stato con quella delle singole Regioni e di rendere quest’ultime sempre più partecipi dell’individuazione delle problematiche del territorio e degli interventi per la loro risoluzione. A tal fine, si costituisce presso il Ministero del Bilancio e della programmazione economica un Comitato composto dai presidenti delle

2 Cafiero S., Storia dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno (1950-1993), Lacaita, Manduria 2000, p. 503 Giovannelli V., L’organizzazione amministrativa dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, SVIMEZ, Giuffrè, Roma 1971, pp. 110-111.

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Giunte Regionali o da assessori da esse designati. Alle Regioni si trasferiscono competenze decisionali e attuative, relative agli interventi diretti al loro rispettivo territorio, prima eserciate dal soppresso Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno, dal Ministro per gli interventi straordinari, da singoli Ministri di settore e dalla Cassa. Il Ministero del Bilancio diventa la sede principale del dialogo fra Stato e Regioni, relativamente alle ripartizioni ordinarie e straordinarie delle risorse finanziarie dello Stato, mentre l’altro interlocutore primario è la Cassa dalla quale derivano alle Regioni le risorse di maggiore entità rispetto a quelle stesse dello Stato. La nuova strategia dell’Intervento straordinario si basa sui cosiddetti “progetti speciali” quali strumenti per azioni organiche intersettoriali e di natura interregionale ( infrastrutture, opere e servizi per l’attrezzatura delle aree urbane ecc. ). L’elaborazione tecnica e l’esecuzione di tali progetti, formulati dal Ministro per gli interventi straordinari e sottoposti al parere del Comitato delle regioni e del CIPE, spetta alla Cassa per il Mezzogiorno4.

1. L’industrializzazione della BasilicataIl modello di sviluppo adottato per l’industrializzazione del Mezzogiorno definito “per poli” presuppone l’individuazione di un’industria motrice, ovvero di un’iniziativa di grandi dimensioni afferente ad un settore ad intenso livello tecnologico, a domanda in espansione ed a forte impatto sugli altri settori industriali e sul prodotto globale dell’economia. Tale industria deve essere localizzata in un’area del territorio dove sono presenti alcune precondizioni forti per lo sviluppo, quali una buona accessibilità, la presenza di un’articolata rete di capisaldi urbani ed un ampia disponibilità di manodopera5.In Basilicata, la mancanza di tradizioni imprenditoriali, di un’organica trama urbana, la difficoltà e la scarsezza di comunicazioni, rendono arduo riscontrare l’esistenza dei requisiti relativi alla popolazione e al territorio che le norme sull’istituzione di nuclei ed aree di sviluppo industriale pongono come essenziali per la creazione di zone industriali. L’industria lucana, secondo il censimento del 1961, è costituita principalmente da attività artigianali (fornai, sarti, falegnami,

4 D’Andrea G., Programmazione regionale e sviluppo economico in Basilicata fra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, in “Rassegna dell’economia lucana” n. 2, 1979.5 Biondi G., Coppola P., Industrializzazione e Mezzogiorno. La Basilicata, in Pubblicazione dell’Istituto di geografia economica dell’università di Napoli; Istituto Geografico Italiano, Napoli 1974.

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fabbri) o da piccolissime imprese orientate alla domanda locale, mentre quasi completamente assente è l’industria medio-grande. Inoltre, non esistono sul territorio “tendenze ben definite di localizzazione” e, quindi, non si configurano vere e proprie aree industriali a specializzazione dominante, in cui le singole unità produttive risultano complementari le une alle altre. Pertanto, si procede all’individuazione di “nuclei industriali” e non di “ aree di sviluppo industriale”6. Tra il 1959 e il 1961 si procede all’individuazione di tre nuclei industriali: Potenza-Tito, Val Basento e Golfo di Policastro. Il primo nucleo è localizzato in un’area di circa 150 ettari nella Piana del Basento e precisamente ai piedi dell’abitato del Capoluogo regionale. Nell’area, discretamente dotata di infrastrutture di base e ben collegata con le regioni tirreniche e con la direttrice di sviluppo jonica risultano attive alcune piccole iniziative imprenditoriali e vi è un’ampia disponibilità di manodopera. Il nucleo potentino appare, dunque, inadatto ai grossi investimenti delle aziende a partecipazione statale o degli altri colossi economici che non vedono soddisfatta alcuna convenienza, come ad esempio la disponibilità di materie prime, necessarie alle grandi operazioni industriali. Di conseguenza, il Consorzio per l’individuazione del nucleo industriale di Potenza nato nel 1959 su iniziativa della Provincia, del Comune, della Camera di Commercio Industria e Agricoltura, e dell’Ente provinciale per il turismo crea un embrione di nucleo industriale concentrando spazialmente iniziative esistenti o in progetto, di piccole e medie dimensioni. Tuttavia, grazie allo sviluppo dell’edilizia legata alla crescita della città di Potenza si avviano nuovi insediamenti industriali su un’area del comune di Tito, a pochi km da Potenza. Il vantaggio di tale area è costituito dal fatto di essere servita dalla Basentana, la nuova strada a scorrimento veloce in via di realizzazione da parte della Cassa e dell’ANAS, che in breve tempo avrebbe congiunto i nuclei industriali campani con quelli pugliesi7. Alla costituzione del nucleo Val Basento conducono invece motivi e considerazioni alquanto diversi da quello del Capoluogo regionale. In questo caso si fa leva sull’accertata disponibilità da parte dell’AGIP, nel territorio compreso tra Grottole e Pisticci, di cospicue quantità di metano. Si tratta del territorio dei calanchi costellato da piccoli borghi, con scarsa densità di popolazione e soggetti a continue

6 Di Leo R., Le vie dell’industrializzazione, in Cestaro A., De Rosa G., Storia della Basilicata, vol. IV, Laterza, Roma 2002, pp. 369-384.7 Biondi G., Dalle cattedrali nel deserto alla fabbrica integrata, in L. Viganoni, op. cit., p. 227.

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frane. Inoltre, il territorio è caratterizzato da un’economia basata su un’agricoltura di sussistenza, da un sistema locale di comunicazioni insufficiente e dall’assenza di forza lavoro specializzata. Per ovviare al deficit infrastrutturale, si pensa di collocare il nascente nucleo nel Metapontino. Tuttavia, la vocazione agricola e soprattutto turistica dell’area estesa sul litorale jonico, ma anche la protesta da parte dei cittadini dei Comuni metapontini, spinge a collocare tale nucleo nell’area del fondovalle del Basento, un territorio di 10.000 ettari su cui gravitano i comuni di Pisticci, Grottole, Salandra, Ferrandina, Pomarico e Miglionico. Nel 1960 si ha la costituzione del Consorzio per il nucleo di industrializzazione della Valle del Basento, comprendente la Provincia di Matera, la Camera di Commercio Industria e Agricoltura, l’Ente di riforma agraria, l’ASSOPER di Val Basento, i comuni di Ferrandina, Pisticci, Pomarico, Salandra, Grassano, Miglionico, Grottole, Matera, e l’ENI. Al fine di attrarre le iniziative nella Val Basento, il Parlamento approva una legge con la quale il metano di Ferrandina viene esonerato dalle imposte vigenti. Si avviano, inoltre, una serie di opere infrastrutturali tra le quali gli svincoli stradali sulla Basentana, i lavori di sistemazione idrogeologica dei terreni circostanti, i raccordi ferroviari per gli stabilimenti più grandi, la rete di scarico per le acque necessario al tipo di assetto industriale fondato sui colossi della chimica, che in breve tempo, avrebbe improntato specificamente il nucleo. Nella Valle si insediano due grandi stabilimenti petrolchimici, quello dell’ANIC a Pisticci e, quello della POZZI a Ferrandina8. All’individuazione del terzo nucleo, Golfo di Policastro, conduce, invece, la posizione di vicinanza e il sistema di comunicazioni con la Calabria e la Campania. La zona, infatti, risulta già servita dall’autostrada Salerno-Reggio-Calabria, e si mostra come un potenziale polo di sviluppo collegabile sia alle aree interne, e sia ai nuclei di sviluppo della Calabria settentrionale. Il Consorzio nasce nel 1961 con la partecipazione della Provincia di Potenza, della Camera di Commercio di Cosenza e dei Comuni di Maratea, Trecchina, Lauria, Nemoli, Rivello e, quelli calabresi di Praia a Mare, San Nicola Arcella, San Domenico Talao, Scalea e Tortora. Il punto forte dell’area è rappresentato dalla città di Maratea, dove nel 1961 vi sono ben 84 aziende di medie e piccole dimensioni. Nella città, il conte Rivetti avvalendosi delle sovvenzioni della Cassa per il Mezzogiorno impianta un lanificio. Nel 1969, poi, Rivetti, cede

8 Lerra A., Linee di storia dell’industria in Basilicata, in “Rassegna dell’economia lucana”, n. 2, 1979, pp. 5-29.

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il lanificio all’ENI e si dedica all’attività turistica dell’area, avendo valutato che in una città ricca di bellezze naturali come Maratea risulta più vantaggioso investire nel settore del turismo che della lana e, nel 1955, vi costruisce un grande albergo, l’unico a cinque stelle presente all’epoca in Basilicata e a sud di Amalfi. Quanto all’ENI, questa sposta gli impianti di tessitura in Calabria adibendo gli opifici di Maratea a lavori di confezione grazie ad un piano siglato con la Lebole9. I risultati della politica di industrializzazione per poli si sarebbero visti più tardi. Ciò che occorre qui rilevare è che la concentrazione degli investimenti industriali in nuclei ristretti favorisce ed accentua un rafforzamento della frattura territoriale inaugurata, come già detto, dalla riforma agraria. Risulta, infatti, ora più accentuata la profonda differenziazione interna tra le aree costiere, la direttrice basentana e la zona ofantino-premurgiana da una parte, e le aree montane e la zona intermedia fra le Marine e la Montagna dall’altra. Quest’ultime, caratterizzate da una struttura agraria basata sul predominio delle piccole proprietà che costituisce l’ostacolo principale alla costruzione di una moderna agricoltura, si presentano ora poco adatte alla localizzazione della moderna industria in quanto caratterizzate da risorse agricole povere e prive dei requisiti fondamentali richiesti dalla strategia di industrializzazione per poli. Ne consegue che, tra il 1950 e il 1963, ben 150.000 persone lasciano i propri paesi per dirigersi verso le aree industriali del Nord Italia e dell’Europa alla ricerca di redditi adeguati10.

2. La programmazione economica nazionale.Sin dai primi anni Cinquanta alcuni meridionalisti avanzano l’idea che il Governo deve servirsi di un piano quale strumento per indirizzare l’azione pubblica verso la piena occupazione e l’estensione al Mezzogiorno del sistema industriale. L’esplicitazione di tale mutamento avviene in occasione del Convegno di Napoli con la presentazione da parte di Pasquale Saraceno di una relazione dal titolo Lo sviluppo industriale delle regioni meridionali e l’attività della Cassa per il Mezzogiorno. La relazione è, infatti, corredata da un’appendice statistica in cui si delineano alcune ipotesi di intervento: si propone un’azione programmatica da realizzare in un arco di tempo decennale e si ipotizza per il periodo considerato

9 Telleschi A., La valorizzazione turistica, in Viganoni L., op. cit., p. 377. 10 Rossi-Doria M., Prospettive di sviluppo dell’agricoltura lucana, in Manlio Rossi-Doria e la Basilicata, op. cit., p. 242.

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un saggio di crescita del 5%, sia pure limitato ai settori non agricoli11. Dopo il Convegno di Napoli si intraprende all’interno degli ambienti della SVIMEZ un lavoro di ricerca che in seguito porterà alla stesura dello Schema di sviluppo dell’occupazione e del reddito nel decennio 1955-1964, più noto come Schema Vanoni. Gli studi condotti presso la SVIMEZ partono dalla considerazione che l’intenso sviluppo realizzatosi in Italia dopo la stabilizzazione monetaria del 1947-48 (nel 1954 la produzione industriale è quasi raddoppiata rispetto all’anteguerra) ha beneficiato di alcune circostanze favorevoli tra le quali, in particolare, l’apporto di capitali stranieri la cui persistenza negli anni successivi appare dubbia. Dopo il 1952, infatti, esauriti gli aiuti del Piano Marshall si delinea una situazione in cui i problemi di fondo del Paese, e segnatamente quelli dell’occupazione del Mezzogiorno, rimangono irrisolti. Occorre dunque un’azione pubblica, da dispiegarsi in un arco di tempo decennale, per avviare a soluzione attraverso una politica di investimenti diretti e di incentivi agli investimenti privati, il problema dell’occupazione e della sottoccupazione agricola, e quello dell’industrializzazione del Mezzogiorno. Secondo tali impostazioni gli obiettivi dell’azione programmatica devono essere: il pieno assorbimento dell’offerta di lavoro esistente nel Paese, mediante la creazione di quattro milioni di posti di lavoro; la riduzione dello squilibrio economico tra Nord e Sud; il pareggio della Bilancia dei pagamenti. Per il raggiungimento di tali obiettivi si pone come condizione necessaria un tasso di sviluppo del reddito nazionale annuo non inferiore al 5%. Si prevede un’azione diretta dello Stato il quale deve svolgere un intervento propulsivo, ossia volto a stimolare l’attività privata di investimento nei settori dell’agricoltura, delle imprese di pubblica utilità e delle opere pubbliche. Un’azione diretta di guida è prevista anche nel campo dell’edilizia e dei rimboschimenti. Gli investimenti in questi ultimi settori devono, invece, assumere carattere di strumento regolatore nel senso che lo Stato deve cercare di intensificarli o di rallentarli a seconda che il generale processo di sviluppo mostri di avere bisogno di ulteriori elementi di stimolo oppure di freno. Il modello di sviluppo adottato si basa sull’idea di fornire, tramite gli investimenti nei settori chiamati propulsivi o regolatori, un impulso all’intera economia. In particolare, si prevede un’espansione dell’attività industriale e terziaria promossa dall’iniziativa privata, come conseguenza di nuove convenienze ad investire suscitate da uno sviluppo di mercato sostenuto

11 Barucci P., Ricostruzione, pianificazione e Mezzogiorno, Il Mulino, Bologna 1978, pp. 270-276.

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ed orientato dalla politica economica. Non si escludono, inoltre, investimenti da parte dello Stato nell’industria, per compensare gli investimenti privati nel caso in cui questi manifestano insufficienze riguardo al loro volume o alla loro localizzazione. Dall’espansione dell’attività industriale e terziaria deve derivare la creazione di nuovi posti di lavoro permanenti che non possono essere creati né dai settori propulsivi né da quelli regolatori, poiché questi assorbono numerosa manodopera solamente nel periodo di realizzazione delle opere previste, ma non in quello successivo12. Il lavoro di elaborazione realizzato alla SVIMEZ è portato a termine, nelle sue linee essenziali, nei primi mesi del 1954. E’ in quel momento che, incoraggiati da Giordani e Menichella rispettivamente presidente e consigliere della stessa Associazione, si pensa di parlarne al ministro del Bilancio Ezio Vanoni. Questi conferisce l’incarico a Saraceno di presentare al gruppo di esperti del Consiglio economico dell’OECE, nella sessione del 27-28 aprile 1954, una memoria sugli studi in corso. Nel dicembre 1954, conclusa la revisione del lavoro alla luce dei rilievi avanzati specie in sede OECE, Vanoni presenta lo Schema al Consiglio dei ministri per la sua approvazione. Di fatto, il passaggio dallo Schema ad un piano non avviene mai: né il Consiglio dei ministri che approva ufficialmente il documento illustrato da Vanoni, né i Governi successivi danno concretamente seguito alle indicazioni in esso contenute13. Il divario tra le due aree del Paese riprende così a crescere nonostante il notevole aumento del reddito nel Mezzogiorno ottenuto per effetto dell’aumentata spesa pubblica, e dell’aumentata produzione agricola. Lo Schema ha, tuttavia, un’importanza fondamentale in quanto mette in risalto il meccanismo perverso dualistico dell’economia italiana ed alimenta il dibattito sulla programmazione che ritorna attuale negli anni successivi. All’inizio degli anni Sessanta, infatti, quando diventa ormai chiaro che l’Intervento straordinario non incide minimamente sul divario tra Nord e Sud del Paese comincia ad affermarsi l’idea che la politica per il Mezzogiorno deve costituire parte integrante della più generale politica economica nazionale. In tal senso, si individua nella Programmazione economica lo strumento in grado di garantire la massima redditività degli investimenti pubblici nel Mezzogiorno, in primo luogo di quelli diretti a promuovere

12 Barucci P. (a cura di), Gli anni dello Schema Vanoni (1953-1959), Giuffrè, Milano 1982, pp. 115-127.13 Ibidem.

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l’industrializzazione. Nell’agosto 1962 con l’istituzione della Commissione nazionale per la programmazione economica, presieduta dal ministro del Bilancio, Ugo La Malfa (come vice presidente è nominato Saraceno) si apre una nuova stagione di studi sulla programmazione. La Commissione è composta da trentuno membri, di cui tredici esperti di nomina governativa e diciotto rappresentanti delle categorie economiche. Le sue attività prendono le mosse dalla “Nota aggiuntiva”, presentata in Parlamento da La Malfa, il 22 maggio 1962, come allegato alla Relazione generale sulla situazione economica del Paese. Nella Nota si indicano come problemi fondamentali del Paese gli squilibri di natura settoriale tra industria e agricoltura; di natura territoriale tra Nord e Sud e tra città congestionate e aree agricole spopolate; di struttura della produzione e dei consumi (tra consumi pubblici e privati, nonché all’interno dei consumi privati). Riguardo questi ultimi, la Nota pone l’accento sulla necessità di incrementare l’intervento pubblico nei settori dei servizi e dei consumi pubblici, primo fra tutti l’istruzione, l’assistenza sanitaria, la previdenza sociale e le assicurazioni. Il superamento di questi tre ordini di squilibrio deve diventare, secondo tale impostazione, la direttrice fondamentale della politica economica nazionale le cui linee devono tradursi in un programma. Nella Nota si sottolinea l’urgenza di un’attività di programmazione soprattutto nel campo degli investimenti sia pubblici e sia privati per sostenere e orientare lo sviluppo del reddito e per assorbire la disoccupazione e la sottoccupazione. All’interno della Commissione risulta però ben presto chiaro che tra esponenti di diverse tendenze politiche è difficile realizzare un accordo14. Nel febbraio 1963 si insedia il nuovo Governo retto da Fanfani che avvalendosi dell’astensione del Psi segna l’inizio della stagione di centro sinistra. Questa segna una tappa importante sul cammino della programmazione, in quanto viene a coincidere con un periodo in cui tutte le forze politiche e sociali ad eccezione dei liberali sostengono l’esigenza di una politica di piano. Nel gennaio 1964 Saraceno presenta alla Commissione un rapporto provvisorio da lui stilato dal titolo Rapporto del vice presidente della Commissione nazionale per la programmazione economica, il quale incontra il parere positivo del ministro del Bilancio Antonio Giolitti che nel giugno 1964 lo presenta alle Camere. Il documento riprende il tema degli squilibri sviluppato nella Nota e indica una possibile redistribuzione degli investimenti per superare tali distorsioni e assicurare un alto saggio di sviluppo

14 Carabba M. (a cura di), Mezzogiorno e programmazione (1954-1971), Milano, Giuffrè 1980, pp. 41-55.

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economico nell’ambito di una struttura dell’occupazione efficiente ed equilibrata. Ai settori della scuola, della previdenza, dell’assistenza sanitaria, dei servizi pubblici e delle attività culturali è dedicata particolare attenzione proprio in virtù del rilievo che essi assumono allo scopo del raggiungimento di più elevate forme di convivenza civile. Al centro dell’analisi rimane comunque il divario tra il Mezzogiorno e il resto del Paese. Il Rapporto mira ad introdurre l’azione meridionalistica nel sistema degli interventi di Piano, indicando le politiche per l’impiego degli strumenti di intervento esistenti - Cassa per il Mezzogiorno e sistema di incentivi - e affermando in particolare la necessità di adottare come misure per lo sviluppo la localizzazione nel Sud della totalità dei nuovi investimenti delle imprese a partecipazione statale, e la diffusione dell’imprenditorialità meridionale attraverso anche l’assunzione, da parte di organi specializzati, di partecipazioni di minoranza15. Subito dopo la presentazione del Rapporto alle Camere, Giolitti è sostituito al Bilancio da Pieraccini. Nel gennaio 1965 il documento è ripresentato in un nuovo testo che subisce ulteriori modifiche prima di essere presentato in Parlamento nel settembre 1966 e approvato nel luglio 1967 come Programma di sviluppo economico per il quinquennio 1967-1971. Il Piano non riesce ad incidere sulla politica economica del Governo perché, come sostenuto da Saraceno e La Malfa, la buona riuscita delle politiche di riforma economico-sociale è strettamente legata alla modernizzazione dell’apparato amministrativo. Nel momento dell’approvazione del Piano quinquennale si apre un vasto dibattito circa lo strumento a cui affidare la programmazione. Alcuni avanzano l’ipotesi di istituire un’Autorità di Piano con poteri e fisionomia sul modello del “Commissariat au Plan francese”, con il compito di svolgere un’azione di coordinamento generale volto a garantire la coerenza tra politica di piano ed esecuzione amministrativa, altri un ministero della programmazione. A prevalere è la seconda ipotesi e il Ministero del Bilancio diventa il Ministero del Bilancio e della Programmazione economica. L’istituzione dell’Autorità di Piano è ostacolata da un vasto fronte che mette assieme diverse forze politiche e sociali, dalla Dc ai sindacati del pubblico impiego, preoccupate dalla possibile limitazione della loro influenza e delle loro competenze come conseguenza diretta di un’eventuale trasformazione tecnocratica16. La Legge n. 717 del 17 giugno 1965, con la quale si cerca di inserire l’Intervento

15 Ibidem, p. 43.16 Melis G., Storia dell’amministrazione italiana (1861-1993), il Mulino, Bologna 1996, pp. 488.

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straordinario nel quadro della programmazione nazionale, affida al Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno il compito di redigere un Piano di coordinamento degli interventi pubblici per lo sviluppo di attività produttive. Questo, formulato d’intesa con le Amministrazioni statali e regionali interessate sarebbe stato approvato dal Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE) istituito con la Legge n. 685 del 27 luglio 1967 e del quale il Comitato dei ministri sarebbe stato un’articolazione17.

3. La programmazione economica regionale in Basilicata.Negli anni Sessanta, contemporaneamente all’esigenza di una programmazione nazionale, si afferma l’idea che una programmazione a livello regionale può agevolare il superamento degli squilibri di sviluppo tra Centro-Nord e Mezzogiorno. Si pensa di orientare gli investimenti pubblici e privati verso precisi obiettivi di sviluppo di ogni singola regione. In Basilicata l’esigenza della programmazione regionale nasce dalla necessità di perseguire uno sviluppo complessivo volto al superamento degli squilibri settoriali e territoriali determinati in primo luogo dalla riforma agraria e successivamente dalla politica di industrializzazione per poli18. Tuttavia, già dagli anni precedenti si segnalano alcune importanti iniziative in tale direzione. Tra queste merita di essere ricordata l’indagine sull’economia regionale promossa dalla SVIMEZ e coordinata da Manlio Rossi-Doria, che approda nel 1952 al Piano lucano, che pur senza alcun seguito sul piano operativo, ha una notevole influenza sull’impostazione metodologica della pianificazione regionale. Tale studio rappresenta un’importante novità sul piano metodologico dei primi approcci programmatici. Esso è, infatti, il primo dei piani regionali eseguiti in Italia che affronta i problemi dello sviluppo regionale con un approccio di tipo multidisciplinare. Esso parte dalla rilevazione dei bisogni reali della società regionale per puntare al superamento degli attuali squilibri settoriali e territoriali. A fronte del tradizionale approccio che considera la regione in funzione delle sue cinque valli, quale effetto del sistema idrico regionale (il Sinni, l’Agri, il Bradano, il Basento e il Cavone), Rossi-Doria ne propone una lettura radicalmente diversa, più efficiente e moderna. Nell’ambito del territorio regionale si individuano sei

17 Giovannelli V., op. cit., pp. 110 -11118 D’Andrea G., Programmazione regionale e sviluppo economico in Basilicata fra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, in “Rassegna dell’economia lucana”, n. 2, 1979, p. 8.

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realtà territoriali omogenee, distinte ciascuna per la natura e il grado di complessità dei problemi da affrontare in maniera integrata: la Montagna lucana, l’Alta Val d’Agri, le Colline del Vulture, l’Ofanto e la Pre-Murgia, le Medie Colline Interne e il Metapontino. Una volta disaggregata la regione in aree omogenee e studiate le possibilità di sviluppo, il Piano punta al coinvolgimento e alla partecipazione delle forze sociali locali che coscientemente diventino portatrici degli interessi, non in quanto opposizione rivoluzionaria agli interessi dominanti, ma in quanto politicamente capaci di riuscire ad affermare linee generali di indirizzo all’azione di Governo, democraticamente mature a far articolare l’intervento pubblico in rapporto alla varietà delle situazioni ambientali, ed efficaci nel suscitare nelle singole comunità iniziative delle popolazioni che concretino comportamenti morali, culturali e sociali di partecipazione alla realtà di sviluppo19. Negli anni Sessanta si apre però per la Basilicata una stagione più concreta di studi e programmazione. Con un decreto del ministro dell’Industria, Emilio Colombo, nel novembre 1961 si costituisce presso la Camera di commercio di Potenza un Comitato per lo studio delle prospettive di sviluppo delle province lucane - con il compito di promuovere studi e indagini per accertare le concrete possibilità di espansione dell’economia regionale - i cui principali esponenti sono Manlio Rossi-Doria e Gabriele Gaetani d’Aragona. Il Comitato lucano, al pari di quelli delle altre regioni italiane, è composto: dai presidenti delle amministrazioni provinciali e delle Camere di commercio; dal sindaco del Comune capoluogo; dai rappresentanti delle Organizzazioni sindacali e di categoria; dai presidenti dei Consorzi di bonifica e dei Nuclei industriali, e infine da un gruppo di esperti. Questi ultimi producono singoli rapporti settoriali relativi all’agricoltura, all’industria, alle attività terziarie, alla demografia, alla scuola, ai servizi, alle infrastrutture e alla sanità, pubblicati nel 1965 nel volume Direttrici dello sviluppo economico della Lucania20. Come nel Piano della SVIMEZ, il Comitato lucano nell’ambito del territorio regionale individua sei realtà territoriali omogenee e distinte ciascuna per la

19 Marselli G.A., La Programmazione in Basilicata: la realtà di un’utopia, in Manlio Rossi-Doria e la Basilicata, op. cit. pp. 58-62.20 I rapporti settoriali prodotti dal gruppo di esperti sono: Dati e considerazioni sulle prospettive e politiche di sviluppo della Lucania (di Carlo Cupo, Manlio Rossi-Doria e Canio Glinni), Il settore delle infrastrutture (di Luigi Tocchetti ), Industria, artigianato commercio e credito (Antonio Renzi), Le previsioni di sviluppo demografico (Bruno Cotronei), La programmazione dell’istruzione

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natura e il grado di complessità dei problemi da affrontare in maniera integrata, e per ogni area ne prefigura le possibili prospettive e politiche di sviluppo: Area della Valle del Basento (sviluppo fondato sull’industria di base); Area jonico Metapontina (sviluppo agricolo e turistico); Area delle colline del Vulture e complesso Ofantino-Premurgiano (sviluppo agricolo e possibilità di insediamento di industrie leggere); Area del nucleo di Potenza (sviluppo legato alla presenza del nucleo industriale e del più significativo centro urbano della regione); Area del Golfo di Policastro (sviluppo incentrato sulle attività turistiche e industriali); Area della Collina interna e della Montagna (prospettive di riorganizzazione dell’agricoltura nella sua componente silvo-pastorale e agricola-zootecnica e di sviluppo delle attività extragricole)21. Inoltre, il Comitato lucano stila un documento in cui sono esposti i principali lineamenti di uno Schema di sviluppo regionale. Obiettivo principale dello Schema è la creazione di una nuova disponibilità di lavoro capace di assorbire la domanda delle unità agricole sottoccupate. A tal fine, da un lato si spera nella creazione di 41.000 posti di lavoro nelle attività terziarie e di 39.000 nell’industria grazie agli effetti moltiplicatori su molti settori industriali attribuiti ai grandi stabilimenti della Val Basento, e dall’altro si prevedono nuovi investimenti per aumentare le possibilità occupazionali sia nel commercio e sia nel settore dei servizi. Per quanto concerne il settore turistico si punta alla creazione di nuovi comprensori su cui realizzare un’adeguata concentrazione di investimenti. Riguardo al sistema delle comunicazioni si denuncia la carenza infrastrutturale del sistema ferroviario e viario, e si prevede la costruzione di 157 km di strade, e l’ammodernamento e l’adeguamento di quelle esistenti22 .Questo rappresenta il primo tentativo di dare, attraverso studi e indagini, risposte coerenti ai complessi problemi dello sviluppo regionale. E tra i vari studi particolare importanza assume quello relativo al settore agricolo in quanto contiene la proposta

(Emilio Gallicchio), Il settore della sanità (Rocco Mazzarone), Condizioni attuali e fabbisogni delle attrezzature di trasformazione e conservazione dei prodotti agricoli (Carlo Aiello), Prospettive di sviluppo turistico (Ottavio Lonigro), Le risorse minerarie della regione (Adolfo Caldarelli), Relazione generale (Gabriele Gaetani d’Aragona). Ibidem, p. 62.21 D’Andrea G., op. cit., pp. 11-13.22 In particolare, le opere stradali richieste sono: il completamento della Basentana e il suo prolungamento fino ad Eboli; i collegamenti dell’autostrada della Calabria con l’Adriatica, attraverso Metaponto e Matera; collegamenti di Potenza con Bari, attraverso la direttrice Pietragalla-Oppido-Lucano-Taccone-Altamura, fino a Foggia; i collegamenti dell’autostrada Metaponto-Canosa per collegare Metaponto a Bari; la realizzazione di una nuova strada per collegare Maratea con Avellino. È inoltre richiesta e prevista un’opera di ammodernamento del sistema ferroviario per un importo di

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fortemente innovativa di Manlio Rossi-Doria di ricostituire un grande demanio silvo-pastorale - affidato ad un saldo organismo tecnico - nella montagna lucana, nell’ambito del quale procedere ad una riorganizzazione dell’agricoltura montana capace di riequilibrare il divario esistente fra l’osso e la polpa del territorio regionale. La proposta di Rossi-Doria prevede di procedere, nell’ambito del demanio silvo-pastorale, innazitutto al consolidamento e miglioramento di quella parte dell’agricoltura tradizionale attraverso il rimboschimento e la sistemazione dei pascoli, turni di riposo e semine; successivamente di passare all’insediamento di una serie di attività extragricole di carattere industriale capaci di integrare l’attività primaria e di fermare l’esodo della popolazione, soprattutto delle fasce giovani. Condizione indispensabile per il permanere delle fasce giovani di popolazione è, infatti, secondo Rossi-Doria, che trovino nelle montagne quella stessa modernità e quello stesso livello di reddito che possono trovare altrove. È dunque necessario far diventare i giovani partecipi di processi pianificati di riordinamento razionale delle loro terre, con le prospettive di diventare allevatori moderni, di aspirare a un reddito integrativo, in primo luogo attraverso opere di difesa del suolo, e infine di fare affidamento su alcune attività industriali23. Il Comitato regionale per la programmazione economica della Basilicata (CRPE) istituito con D.M. del 16 giugno 1965 dal Ministero del Bilancio con il compito di supportare attraverso schemi di sviluppo regionali la programmazione nazionale, affronta però i problemi della montagna lucana in maniera completamente opposta a quella indicata da Manlio Rossi-Doria. Obiettivi principali dello Schema di sviluppo regionale per il quinquennio 1966-70, primo concreto e organico documento di programmazione regionale, presentato dal CRPE nell’ottobre 1967 sono: il graduale assorbimento della disponibilità di forze lavorative ad un livello soddisfacente di reddito; il miglioramento delle condizioni civili di vita delle popolazioni; il superamento dello stato d’isolamento della regione. Condizione necessaria al conseguimento di questi obiettivi è la piena utilizzazione e valorizzazione delle risorse umane e naturali presenti in Basilicata. Si tratta, in primo luogo di arrestare l’emigrazione per impedire l’emorragia di forza lavoro. In secondo luogo, di valorizzare tutte le risorse regionali attraverso un uso razionale

circa 3 miliardi. Infine, è richiesta l’istituzione di una Università. Gaetani D’Aragona G., Direttrici dello sviluppo economico della Lucania. Schema di sviluppo agricolo e extraagricolo della Lucania 1966-1981, Laterza, Bari 1967.23 Rossi-Doria M., Il futuro della montagna lucana, in Manlio Rossi-Doria e la Basilicata, op. cit., pp. 280-313.

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degli investimenti. La principale strategia di sviluppo è individuata nelle grandi direttrici costituite dalle valli fluviali lungo le quali si prevede di diffondere gli effetti della notevole crescita economica che comincia ad aver luogo nel Metapontino. Gli strumenti di questa diffusione diventano le strade a scorrimento veloce di fondo-valle che dal Metapontino percorrono il territorio regionale collegando le due direttrici autostradali, quella tirrenica già esistente e quella jonica in programma, formando una rete interconnessa attraverso alcune strade trasversali che incrociando le direttrici vallive possono creare maglie e nodi tali da legare l’intero territorio regionale. L’obiettivo è: ricreare strutture produttive lungo questi tracciati al fine di coinvolgere l’intero territorio nei meccanismi di sviluppo. La soluzione dei problemi della montagna è, dunque, ricercata nel quadro dello sviluppo economico globale: si punta ad un’organica integrazione della montagna con le economie delle valli e delle pianure dotando il territorio regionale di un sistema infrastrutturale che, mettendo in comunicazione le aree forti con quelle interne, riesca a produrre effetti di contagio. Per quanto riguarda l’agricoltura gli obiettivi principali dello Schema di sviluppo regionale sono: l’intensificazione della trasformazione irrigua e l’estensione dell’irrigazione nel Metapontino, nel Medio-Ofanto, nell’Alto Agri e in tutti i fondo-valle; il rinnovo degli impianti viticoli e arboricoli del Vulture; la bonifica montana; la ristrutturazione fondiaria e la riconversione verso utilizzazioni zootecniche e forestali nelle aree di alta collina e di montagna. Nel settore secondario si richiede un investimento di circa 150 miliardi di lire, di cui il 47% a carico dello Stato per la costruzione di tre impianti destinati rispettivamente alla lavorazione delle fibre tessili sintetiche e alla produzione di materie plastiche, alla produzione di macchine agricole (integrato all’Italsider di Taranto) e un impianto legato alla produzione automobilistica del progetto Alfasud. Riguardo al settore turistico, si prevede uno sviluppo delle strutture ricettive concentrato nel Metapontino, a Maratea, e in misura minore nel Vulture24. Tra il 1968 e il 1970 si ha l’emanazione di due leggi che stabiliscono le norme per le elezioni dei consigli regionali e il finanziamento delle regioni a statuto ordinario. Il 6 dicembre 1970 si giunge alla deliberazione, a maggioranza assoluta, dello Statuto della Regione Basilicata, approvato poi, con la Legge n. 350 del 22 maggio 1971. Con l’istituzione delle Regioni, come già detto, la strategia dell’ Intervento

24 CRPE di Basilicata, Schema di sviluppo per la Basilicata. Quinquennio 1966-70, Potenza 1967.

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straordinario si basa sui progetti speciali quali strumenti per azioni organiche intersettoriali e di natura interregionale (infrastrutture, opere e servizi per l’attrezzatura delle aree urbane ecc.). formulati dal Ministro per gli interventi straordinari, sottoposti al parere del Comitato delle Regioni e del CIPE ed eseguiti dalla Cassa per il Mezzogiorno. Le Regioni possono anche formulare propri progetti speciali e chiedere alla Cassa di provvedere alla progettazione e attuazione di altri interventi che rientrano nelle loro competenze, e finanziati sui loro bilanci25.Nel 1973 la Giunta Regionale di Basilicata presenta lo Schema di programmazione 1974-77, i cui obiettivi principali sono: l’arresto dei flussi emigratori e il superamento del divario tra la Basilicata e il Mezzogiorno in termini occupazionali, di produttività, e di redditi individuali, entro il 1980. Al conseguimento di questi obiettivi sono orientati i seguenti progetti: progetto zootecnico (progetto speciale carne); progetto FEOGA; progetto idrico e di miglioramento produttivo delle aree irrigue; progetto di applicazione delle direttive CEE sulle strutture agricole; progetto di difesa del suolo; progetto per i nuovi capisaldi territoriali (urbano e industriale); progetto turistico; progetto di riorganizzazione dei servizi di trasporto; progetto di riorganizzazione dei servizi sanitari e sociali; progetto di formazione scolastica e professionale26. I progetti speciali agricoli sono riconducibili a cinque settori d’intervento: schemi idrici e intersettoriali; irrigazione; promozione di produzione agricole e zootecniche; attrezzatura del territorio; riequilibrio delle zone interne e difesa del suolo. Si accantonano, dunque, i due settori che caratterizzano l’Intervento straordinario nel primo ventennio, ovvero la bonifica idraulica e la viabilità secondaria. Superate così le fasi storiche della bonifica igienica e idraulica, la stessa bonifica diventa economica e lo sviluppo dell’irrigazione fattore decisivo della modernizzazione del settore agricolo meridionale. Riguardo l’irrigazione è confermato il Piano generale delle irrigazioni redatto nel 1965 dall’Ente irrigazione in Puglia e Lucania che il CIPE approva nel 1972 con un impegno di spesa di 720 miliardi di lire. La novità è rappresentata dalla previsione della diga di Monte Cotugno sul Sinni nell’area metapontina. La diga, il più grande sbarramento in terra d’Europa, avrebbe potuto regolare un volume utile di 537 milioni di metri cubi d’acqua di cui: 215 per

25 Consiglio Regionale di Basilicata. 30 anni di attività, in “Basilicata Regione notizie” n. speciale, Potenza 2001, pp. 10-23. 26 Ufficio Stampa e Pubbliche Relazioni della Giunta regionale di Basilicata (a cura di ), Progetti obiettivo di sviluppo economico regionale per gli anni 1974-77, Potenza 1974, pp. 2-8.

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l’irrigazione (di cui 97 per quella dei piani alti metapontini); 47 per l’uso potabile della Puglia; 140 per l’industria (di cui 31 a favore della Basilicata); 50 per l’integrazione dell’invaso di S.Giuliano27. Per quanto concerne la modernizzazione delle strutture agricole, i progetti, legati a diverse fonti di finanziamento tra le quali CEE e FEOGA puntano a creare aziende efficienti attraverso la riduzione del numero delle unità di lavoro e un aumento delle loro dimensioni e lo sviluppo della zootecnia. Al settore zootecnico è riservato un ruolo rilevante per una serie di motivi. In primo luogo, perchè può contribuire alla protezione del suolo. In secondo luogo, l’allevamento animale insieme alle coltivazioni arboricole può consentire di legare l’uomo alla terra e contenere quel processo di desertificazione che le estese colture cerealicole determinano nelle aree interne; infine, perché il settore zootecnico può consentire, un giusto collegamento tra le aree asciutte e quelle irrigue di fondo-valle e di pianura costituendo un sistema produttivo integrato economicamente e territorialmente. Allo sviluppo delle aree interne la Regione presta un’attenzione particolare. Obiettivi principali dello Schema sono il mantenimento di un giusto livello di occupazione e di un elevato equilibrio ambientale e territoriale. Per il raggiungimento di tali obiettivi condizioni necessarie sono: l’utilizzazione di tutte le risorse disponibili, il miglioramento delle attrezzature produttive, l’infrastrutturazione del territorio, l’estensione dell’irrigazione quale supporto indispensabile per uno sviluppo dell’agricoltura, la riconversione degli ordinamenti produttivi puntando sulla zootecnia, la cerealicoltura, la foraggicoltura, e l’arboricoltura delle aree asciutte, interventi diretti al miglioramento delle condizioni di vita nelle campagne, dotando il territorio delle attrezzature civili necessarie per la permanenza dell’uomo28. Una particolare attenzione è riservata anche allo sviluppo della montagna. D’altra parte, la volontà di promuovere lo sviluppo globale ed organico della montagna e una crescita economica e democratica delle comunità montane è chiaramente enunciata nell’art. 9 dello Statuto regionale 29. Nello Schema si sottolinea la necessità di realizzare nelle aree montane interventi

27 Rimane sospesa la decisione per l’utilizzazione dei restanti 85 milioni di metri cubi che l’Ente irrigazione chiede di destinare all’irrigazione dei territori del Salento. Pontandolfi A., op. cit., pp. 156-158.28 Ufficio Stampa e Pubbliche Relazioni della Giunta Regionale di Basilicata (a cura di), Progetti obiettivo…, cit., p. 9.29 Statuto della Regione Basilicata, Legge 22 maggio 1971, n. 350, in “ Supplemento Ordinario alla Gazzetta Ufficiale” del 14 giugno 1971, n. 148. Subito dopo l’emanazione della Legge del 3 dicembre

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che rappresentino dei veri e propri investimenti e non pura e semplice spesa. Si propone di realizzare opere di difesa del suolo (briglie, consolidamenti ecc.), di intraprendere lavori che privilegino la produttività dei boschi esistenti, che favoriscano la forestazione e che prendano in seria considerazione le possibilità offerte dalla foraggicoltura nel campo della protezione del suolo. Per il settore industriale lo Schema, attraverso il progetto “nuovi capisaldi industriali”, sottolinea la necessità di concentrare gli interventi di sviluppo in alcune delle aree forti quali la direttrice Basentana, l’Alta Val d’Agri, il Vulture e il Metapontino. Si prevedono, infatti, nuovi agglomerati industriali nel Melfese, in Alta Val d’Agri e nella Valle del Sinni. Nell’ambito della dotazione infrastrutturale si propone, invece, la costruzione dell’aeroporto di Potenza. Infine, per quanto concerne il settore turistico si prevedono investimenti nell’area metapontina. Secondo il Rapporto Programmatico sull’assetto territoriale redatto dalla Giunta nel luglio 1973, qui, infatti, la vocazione turistica e gli investimenti effettuati in campo agricolo, rendono problematica sia la possibilità di concentrazioni industriali, non strettamente connessi alle attività agricole, che di quelle residenziali30. La prima esperienza regionale in materia di programmazione rappresenta un momento importante di studio e dibattito. La classe dirigente lucana cerca di dare risposte più puntuali alle potenzialità di sviluppo del territorio, al fine di superare in un progetto unitario il divario tra aree interne e aree forti della regione, ed enorme è lo sforzo progettuale. Tale sforzo, tuttavia, non è sufficiente a raggiungere gli obiettivi che la neonata Regione si è prefissata. Persistono, infatti, evidenti squilibri territoriali e settoriali e più in generale una situazione di ristagno economico31. Il punto centrale della politica del territorio perseguita dalla Regione Basilicata, ovvero quella dei fondo-valle pensati come veri e propri itinerari di sviluppo diretti a valorizzare le risorse monumentali, idriche, energetiche, archeologiche, paesaggistiche, ecc. distribuite sul territorio, se da un lato è fondamentale nella rottura dell’isolamento, dall’altro non riesce a produrre gli effetti propulsivi

1971 n. 1102 “Norme per lo sviluppo della montagna” la Regione Basilicata procede all’individuazione delle “Comunità montane”. Successivamente, con la Legge regionale 19 ottobre 1973 n. 19 si istituiscono 12 Comunità montane, quali Enti di diritto pubblico e Istituzioni democratiche rivolte alla gestione delle proprie aree depresse. Inoltre, con la legge del 1979 la Regione delega alle Comunità montane poteri in materia di miglioramento fondiario, di forestazione e di assistenza tecnica. 30 Ufficio Stampa e Pubbliche Relazioni della Giunta Regionale di Basilicata (a cura di), Progetti obiettivo…, cit., pp. 11-12.31 Aiello C., Risorse economiche e loro dimensione nello sviluppo, in “Realtà del Mezzogiorno”, n.8, 9, 1971, p. 746.

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sperati. I processi di industrializzazione diffusa, da un lato, tardano ad innescarsi, dall’altro, non riescono ad interessare se non una minima parte del territorio previsto. Per quanto concerne l’irrigazione, non solo l’estensione delle aree irrigue procede a ritmi molto lenti a causa dei ritardi nell’approvazione dei progetti da parte del CRPE ma lo stesso Piano dell’Ente irrigazione di Puglia e Lucania del 1965, confermato dallo Schema di Sviluppo Regionale e approvato con il progetto speciale n. 14 nel 1972 dalla Cassa per il Mezzogiorno si rivela inadeguato rispetto all’accresciuto fabbisogno idrico regionale. Eppure, il piano nasce proprio da uno studio generale delle risorse idriche di Puglia e Basilicata ai fini di una loro aggiornata regolazione per l’utilizzazione in tutti i settori di attività che si vanno programmando. L’evoluzione delle condizioni economico-sociali verificatisi negli ultimi anni, le iniziative in atto connesse allo sviluppo industriale nelle due regioni nonché le mutate concezioni in ordine alle più economiche forme di utilizzazione dell’acqua irrigua nelle trasformazioni fondiarie portano, infatti, ad inquadrare su una più ampia e globale visione il problema dell’acqua nelle sue tre fondamentali prospettive di utilizzazione, ovvero nel settore agricolo, nel settore igienico-potabile e nel settore industriale. Il piano calcola la disponibilità effettiva dell’acqua, in 1.130 milioni di metri cubi. Il fabbisogno della Basilicata rispetto a questa disponibilità viene indicato in 444 milioni di metri cubi così ripartiti: 305 per il settore agricolo, 82 per quello industriale, 57 per l’uso potabile. Per la Puglia viene previsto quindi il trasferimento di 686 milioni di mc così ripartiti: 340 per il settore agricolo, 110 per il settore industriale, 236 per l’uso potabile. L’Istituto di ricerche economiche e sociali della Basilicata (IBRES), istituito nella fase di passaggio dal Comitato di programmazione alla costituzione della Regione come strumento fondamentale della ricerca socioeconomica da offrire all’attenzione regionale e nazionale, svolge nel 1972 una ricerca coordinata dall’ingegnere Canio Glinni, Disponibilità e fabbisogni di risorse idriche in Basilicata, giungendo alla conclusione che la disponibilità di deflussi è inferiore rispetto a quella indicata dal Piano (1.200-1300 milioni di metri cubi). Inoltre, il fabbisogno regionale in un’ipotesi di sviluppo ottimale dei fattori produttivi utilizzatrici della risorsa viene calcolato in 540 milioni di metri cubi anziché 444. Di conseguenza si pone un problema di approfondimento e ridiscussione delle previsioni del piano in quanto emerge chiaramente la correlazione esistente fra grado di sviluppo prospettabile per l’intera regione e criteri di ripartizione interregionale delle risorse idriche

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regionali. In altre parole, all’aumento delle assegnazioni extraregionali di acqua corrisponde inevitabilmente una prospettiva di sviluppo meno intensa per la Basilicata e viceversa. Le questioni sollevate dallo studio dell’IBRES non hanno nessuna influenza nell’immediato ma ritorneranno, come vedremo, in tutta la loro problematicità durante la lunga siccità della fine degli anni Ottanta diventando una delle questioni più importanti della regione32.

4. I risultati della politica di industrializzazione per poli.Nella prima metà degli anni Settanta, il quadro complessivo dell’economia italiana cambia. Come nel resto d’Europa, si chiude il ventennio del dopoguerra caratterizzato da sviluppo, stabilità macroeconomica e creazione di occupazione, e si apre un periodo di crescita più contenuta. Il 15 agosto 1971 gli Stati Uniti decidono di sospendere la convertibilità del dollaro in oro, sancendo in questo modo la fine del sistema monetario internazionale stabilito alla fine del secondo conflitto mondiale. Si apre in questo modo una lunga fase di instabilità e di disordine monetario caratterizzata da continue oscillazioni nei prezzi delle materie prime e dei cambi fra le monete, non più ancorate ad un sistema di convertibilità fisso. Inoltre, nel 1973 la decisione da parte dei Paesi arabi di quadruplicare, in seguito alla guerra dello Yom Kippur, il prezzo del petrolio complica ancora di più la situazione. Come afferma Gianfranco Viesti: “lira debole e petrolio caro infiammano l’inflazione italiana che passa dal 2% del 1968 al 19% del 1974, e che tocca il massimo, oltre il 21% nel 1980, e colpiscono duramente le produzioni legate a grandi impianti che consumano molta energia proprio come quelli realizzati nel Mezzogiorno”33.Un altro cambiamento che provoca effetti non irrilevanti sull’economia italiana riguarda il mondo del lavoro. A partire dall’autunno 1969, contrassegnato da scioperi e conflittualità operaia, i salari cominciano a crescere più della produttività. Nello stesso anno vi è l’eliminazione delle gabbie salariali, vale a dire il meccanismo che dividendo il territorio nazionale in sette gruppi di province fa si che i salari al Sud siano circa l’80% di quelli del Triangolo industriale Genova-Torino-Milano. Si perde così l’incentivo a investire nel Mezzogiorno dato da un costo del lavoro inferiore, e molte imprese meridionali incontrano grosse difficoltà a fronteggiare gli accresciuti salari. Più in generale, il

32 Pontrandolfi A., op. cit., pp. 74-77.33 Viesti G., Abolire…, cit., pp. 34-36.

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mutato quadro interno e internazionale mette in difficoltà tutte le grandi imprese italiane, pubbliche e private. La priorità della politica economica italiana diventa quella di difendere i tradizionali poli industriali attraverso leggi che favoriscono la ristrutturazione delle imprese, la riconversione degli impianti obsoleti ed investimenti in nuovi macchinari. Dal 1969 al 1975 nel Mezzogiorno non si avvia la costruzione di nessun nuovo impianto da parte delle Partecipazioni statali34. A metà anni Settanta, quando tutto il sistema produttivo nazionale e internazionale è investito dalle conseguenze della crisi petrolifera che modificano in maniera irreversibile le ragioni di scambio tra materie prime e prodotti finiti, la situazione dell’industria lucana è ricca di ombre. Nel complesso, a circa 15 anni dal suo avvio la politica di industrializzazione per poli non sembra aver raggiunto i risultati sperati. Tra il 1959 e il 1973, alla Basilicata sono assegnati circa 150 miliardi di lire sotto forma di mutuo a tasso agevolato, e 18 miliardi di lire in contributi a fondo perduto ma rispetto all’auspicata creazione di circa 15.000 posti di lavoro annui ne risultano attivati poco più di un terzo per un totale in un decennio di circa 6.100, di cui il 60% in Val Basento e la rimanente parte nel nucleo Potenza-Tito. Nell’agglomerato di Potenza al 1976 risultano attive: la Robotti Sud del gruppo a partecipazione statale Magneti Marelli, specializzata nella fabbricazione di prodotti elettromeccanici, con circa 500 addetti; la Siderurgica Lucana con circa 250 addetti; la Ponteggi Dalmine e l’Italtractor con rispettivamente 180 e 250 addetti; la Chimica Lucana, impresa legata al gruppo petrolchimico di Brindisi. A Tito è, invece, presente la Chimica Meridionale, la cui produzione di fertilizzanti è destinata al mercato agricolo meridionale, con 400 addetti. Tra i settori merceologici nel nucleo Potenza-Tito vi è dunque uno scacco netto a favore del metallurgico, e meccanico che da solo concentra il 70% dei capitali investiti e dei posti di lavoro. Molto diverso appare lo scenario industriale del nucleo Val Basento dove operano la Manifatture Ceramiche Pozzi, azienda legata alla lavorazione del salgemma siciliano e specializzata nella produzione di acido acetico, soda caustica e prodotti vinilici; e l’ANIC, azienda di grosse dimensioni impegnata nella trasformazione degli idrocarburi in fibre tessili sintetiche e nella produzione di semilavorati in materia plastica, che offre lavoro a ben 2000 addetti. L’ANIC è collegata al Petrolchimico di Gela dal quale provengono alcune materie prime, e produce per mercati europei ed extraeuropei. Inoltre, nell’area si segnalano alcune

34 Ibidem.

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iniziative locali nel ramo tessile legate alla trasformazione e alla filatura della fibra acrilica quali la Penelope e la Manifatture del Basento con rispettivamente 80 e 250 addetti. Circa un quarto degli addetti dell’intero nucleo Val Basento è impiegato nel settore meccanico, in particolare nella costruzione di opere infrastrutturali necessarie al funzionamento della stessa ANIC. L’azienda sembra, dunque, in grado di svolgere quella funzione motrice insita nel modello di industrializzazione per poli ma la prevista ed auspicata fertilizzazione del tessuto produttivo non andrà mai andata al di là di quelle piccole aziende meccaniche create proprio per mettere in moto il grande stabilimento a Partecipazione statale piuttosto che a valle del suo processo produttivo35. La scelta di politica economica tendente a dotare la Basilicata, come del resto le altre regioni del Mezzogiorno, di un potenziale produttivo moderno e trainante ha sicuramente il merito di attivare un meccanismo di sviluppo fino ad allora del tutto estraneo al contesto locale e che difficilmente si sarebbe potuto avviare in maniera spontanea. E tra i risultati conseguiti sicuramente vi è la costruzione di grandi infrastrutture come la superstrada del Basento. Non possiamo non sottolineare, però, come gli investimenti destinati in quegli anni al settore secondario rispondendo alla logica della rigida concentrazione delle aziende entro i perimetri dei nuclei favoriscono un rafforzamento della frattura territoriale inaugurata dalla riforma agraria, consegnando la regione ad un futuro contrassegnato dalla progressiva accentuazione dei divari interni. Il processo di industrializzazione, unitamente ai grandi interventi infrastrutturali che lo accompagnano, non pone freno all’esodo soprattutto in campo rurale che per quanto meno intenso che nel corso del decennio precedente continua a depauperare la regione del suo potenziale umano36. La strategia di industrializzazione perseguita nell’intero Mezzogiorno non riesce a conseguire i risultati sperati perché basata su industrie orientate alla produzione su larga scala di beni intermedi necessari alle industrie utilizzatrici del Nord, vale a dire acciaio per le automobili e gli elettrodomestici, chimica di base per tutte le trasformazioni successive, petrolio raffinato per la motorizzazione. Si tratta di industrie poco

35 Biondi G., op. cit., p. 228.36 Tra il 1961 e il 1971 nella sola provincia di Potenza i Comuni con popolazione inferiore ai 5.000 residenti si accrescono notevolmente, passando da 65 a 83, mentre decrementi di popolazione superiori al 10% interessano oltre la metà dei Comuni della provincia. Anche in provincia di Matera vi è un aumento del numero dei Comuni che registrano decrementi superiori al 10%, mentre sono ancora i centri del Metapontino a controbilanciare la tendenza negativa. Viganoni L., op. cit., p. 15.

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orientate all’esportazione che di conseguenza, quando dagli anni Sessanta in poi lo sviluppo dell’economia italiana è trainato dall’export non traggono gran vantaggio, e che entrano in crisi alla metà degli anni Settanta a causa dell’aumento del costo di energia e perdono importanza successivamente con la diffusione dell’economia della conoscenza37. Di fronte alle conseguenze della crisi energetica si adottano misure di politica industriale volte a sostenere l’industria esistente e, a favorire l’adeguamento alla mutata struttura dei costi interni e del mercato internazionale. Si promulgano, così, la Legge n. 183 del 1976 e la Legge n. 675 del 1977 finalizzate rispettivamente all’industrializzazione e alla riqualificazione e riconversione industriale. In particolare la Legge 183 prevede l’istituzione di un Comitato tecnico per la predisposizione del programma quinquennale per il Mezzogiorno, istituito il 30 settembre 1976, con un decreto del ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno, di concerto con il ministro del Bilancio e della programmazione economica. Il Comitato ha l’incarico di predisporre gli elementi di valutazione necessari alla formulazione del programma pluriennale previsto dalla stessa Legge 183 che regola l’Intervento straordinario per il quinquennio 1976-1980. Il Programma avrebbe dovuto indicare: i progetti speciali da realizzare nei territori meridionali; le direttive per l’intervento ordinario e straordinario nel Mezzogiorno e per il loro coordinamento con gli interventi regionali; i criteri per la predisposizione da parte delle Regioni di progetti per interventi di sviluppo regionale38.

5. Il Metapontino: “Basilicata felix”.Il Metapontino, investito prima dall’azione di bonifica e poi da un consistente intervento nel settore irriguo, assume nel contesto economico regionale degli anni Settanta una sorta di ruolo leader che va a disegnare quel tratto di territorio definito “Basilicata Felix”, con singolare contrasto rispetto alla zona interna della regione. In un ventennio di Intervento straordinario, nel Metapontino si spendono: 52 miliardi di vecchie lire per opere di bonifica idraulica, irrigazione e viabilità; 20 miliardi di lire per la riforma fondiaria; circa 15 miliardi di lire per i contributi statali alle opere private di miglioramento fondiario, e di trasformazione agraria; 6

37 Viesti G., Abolire…, cit., p. 27.38 Presidente del Comitato viene nominato Pasquale Saraceno. Cfr. Saraceno P., Il programma quinquennale per il Mezzogiorno previsto dalla legge 183 del 1976, in “ Informazioni SVIMEZ”, XXX, 1977, p. 8.

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miliardi di lire per la sistemazione dei fiumi. Nel settore della bonifica gli interventi realizzati dopo l’alluvione del 1959 permettono di raggiungere l’assetto idraulico della pianura metapontina, e soprattutto dell’area a valle della Litoranea Jonica, quale oggi lo conosciamo. Nel settore della viabilità si porta a termine il programma impostato negli anni Cinquanta. L’opera di attrezzatura del territorio irriguo, dai 2.650 ettari in esercizio nel 1959 passa nel 1970 a 28.135 ettari, come previsto dallo schema Bradano-Agri-Sinni programmato agli inizi degli anni Cinquanta. Inoltre, la sostituzione del sistema di irrigazione a scorrimento tramite canalette prefabbricate con l’irrigazione ad aspersione mediante condotte tubate in pressione consente sia un risparmio dei consumi unitari di acqua, e sia un’utilizzazione agricola più razionale. I risultati di tali interventi sono senza dubbio straordinari. La popolazione gravitante nell’area della bonifica passa da 7.500 abitanti nel 1951 a 29.000 nel 1970. Nel settore agricolo si raggiunge un sostanziale equilibrio fra la domanda di lavoro dei circa 9.000 addetti e la disponibilità offerta dall’economia agricola dell’area. Nel territorio asciutto domina ancora la coltura del grano, nell’area irrigua, invece, le modificazioni colturali sono già notevoli anche se non ancora uniformi. La superficie irrigata risulta utilizzata per il 50% a colture erbacee, di cui soltanto il 20% a foraggere, per il 20% ad agrumeti e per il restante 30% a frutteti. Nel ventennio in considerazione il prodotto netto dell’agricoltura metapontina si è quadruplicato al tasso medio annuo del 7,95%. Le strutture produttive più significative operanti sul territorio sono: 1 zuccherificio a Policoro; 1 centrale del latte a Scanzano jonico; 1 mangimificio a Policoro; 4 oleifici cooperativi, di cui 2 a Policoro e 2 a Scanzano Jonico; 1 centrale del latte a Scanzano Jonico; 3 tabacchifici, di cui 1 a Policoro e 2 a Scanzano Jonico; 14 cooperative di servizi collettivi, di cui 4 a Policoro, 6 a Scanzano Jonico, 1 a Marconia, 2 a Metaponto e 2 a Montescaglioso; 1 conservificio a Policoro39. Punto focale in questa fase dello sviluppo dell’area metapontina sono Policoro e Scanzano Jonico sulla cui superficie domina ancora sino alla fine degli anni Quaranta il sistema del latifondo tradizionale connotato dalla coltura seccagna, con cereali e pascolo di ovini nelle fattorie isolate del bassopiano in parte paludoso

39 La realizzazione delle opere di adduzione e distribuzione irrigua continua a procedere ad un ritmo certamente lento rispetto ai tempi programmati e soprattutto rispetto alle trasformazioni fondiarie realizzate dall’Ente di riforma. Le cause sono da ricercare nella complessità progettuale ed esecutiva delle opere ma anche nel fatto che i finanziamenti da parte della Cassa cominciano a subire i lunghi tempi di attesa delle leggi di rifinanziamento dell’ Intervento Straordinario. Pontrandolfi A., op. cit., p. 141.

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e infestato dalla malaria. In particolare il comune di Policoro continua a registrare una straordinaria crescita demografica per effetto soprattutto dell’immigrazione di cittadini provenienti dai Comuni interni della regione. Occorre sottolineare, però, che a partire dagli Sessanta il raggio di provenienza degli immigrati di Policoro prende ad estendersi più ampiamente: ora vi giungono in misura maggiore anche appartenenti a gruppi professionali non agricoli. Questi nuovi immigrati affluiscono indipendentemente dalla parentela o dalla conoscenza con gli assegnatari della riforma, attirati soprattutto dal crescente dinamismo esibito dal nuovo insediamento. Tuttavia, benché il saldo migratorio risulta ancora consistente, Policoro cresce soprattutto per effetto del saldo naturale già dalla metà degli anni Sessanta; il risultato è una popolazione relativamente giovane. Alla frenetica crescita della popolazione corrisponde l’estensione altrettanto rapida del nucleo abitativo centrale. Oltre a Policoro e Scanzano Jonico che nel 1974 diventa il secondo Comune d’Italia sorto in una zona di riforma agraria, a metà anni Settanta anche il villaggio rurale di Marconia conosce un intenso sviluppo urbano per effetto, nella fase iniziale, del trasferimento causato dalla frana di una parte dell’abitato di Pisticci, e poi per la naturale localizzazione di grossi servizi di scala territoriale. Con riferimento a Policoro, a partire dagli anni Settanta la coltivazione del tabacco, poco redditizia a causa del patto di compartecipazione al raccolto, scompare in fretta, mentre la coltivazione della barbabietola da zucchero diminuisce a causa dell’esiguo pagamento dei contadini da parte dello zuccherificio. Queste due colture sono sostituite progressivamente dall’orticoltura, che con la coltivazione estiva e invernale frutta annualmente due raccolti che garantiscono un guadagno maggiore. L’allevamento del bestiame e la coltivazione del foraggio sono limitati fortemente. I poderi si staccano dalla sussistenza dell’Ente di riforma e si trasformano in aziende specializzate orientate al mercato degli ortofrutticoli. Una pratica innovativa che ottiene una forte spinta grazie ad un’azienda locale (Azienda Martino) è l’introduzione della coltura della fragola nel 1975-1976 che sostituisce in molte aziende ortaggi e barbabietola da zucchero. Grazie all’introduzione del sistema di coltivazione sotto plastica (tunnel e serre) che permette un maturazione precoce del frutto, all’ampia manodopera femminile a basso costo proveniente soprattutto dai paesi dell’entroterra, la diffusione della fragola raggiunge nel 1978-1979 il punto più alto, con circa 1000 ettari di area coltivata (Policoro e Scanzano Jonico)40. Il Metapontino divenuto, intanto, l’area

40 Rother K., Basilicata FELIX: Policoro, in Viganoni L., op. cit., pp. 124-125. Un’esauriente

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forte della regione inizia a richiamare iniziative nel settore turistico e industriale per effetto della sua strategica posizione territoriale nel contesto meridionale, oltre che della spinta degli incentivi per i settori produttivi extragricoli previsti dalle nuove politiche meridionalistiche. Nel 1969 le società COSTA HERACLEA e ISTME propongono al Comune di Policoro la realizzazione di attrezzature turistico-alberghiere su 44 ettari, dell’area del residuo Bosco Pantano di proprietà dell’Ente di riforma. Dal momento che questi non può effettuare vendite ai privati, è il Comune di Policoro ad acquistare i 44 ettari dallo stesso Ente per poi venderli alle due Società. Nel 1972 però, mentre la COSTA HERACLEA stipula con il Comune di Policoro il contratto di vendita di 22 ettari della suddetta area, la ISTME che ha già anticipato i soldi per i suoi 22 ettari non riesce a fare lo stesso per effetto di una larga opposizione a quel modello di sviluppo turistico nel frattempo cresciuta. Tale opposizione mette in serie difficoltà anche la INSUD, la quale nel 1971 acquista una vasta area nel comune di Pisticci per realizzarvi un insediamento turistico. Nel 1976, la stessa Società rinunciando alla possibilità di realizzare l’insediamento turistico chiede la bonifica dell’area ai fini della trasformazione agraria41. L’altra iniziativa che interessa il Metapontino in quegli anni riguarda la società Liquichimica (una filiazione del gruppo Esso-Liquigas che proprio in quegli anni acquista il pacchetto di maggioranza della società Pozzi già operante a Ferrandina), la quale nel 1973 annuncia la sua intenzione di insediare su un’area di 450 ettari nella località Macchia del comune di Pisticci, e precisamente nella pianura litoranea fra la strada jonica e la ferrovia, uno stabilimento petrolchimico per la fabbricazione di derivati secondari, con un investimento di 850 miliardi di lire e dal potenziale lavorativo di 10.000 unità. Oltre allo stabilimento la Società intende realizzare nella stessa area un porto-isola per l’attracco delle petroliere. Nel 1974 la Società acquista un’area di 150 ettari adiacente alla Litoranea jonica, dove realizzare il suddetto il suddetto insediamento; e nello stesso anno il CIPE approva un piano stralcio del programma generale per un primo investimento di 120

descrizione dello sviluppo di Policoro è offerta da Nicola Buccolo nei già citati volumi: Policoro antico e moderno, e Policoro un Paese diverso. Si veda inoltre: Giovinazzo F., introduzione di Di Pierri G., C’era la malaria, Grafica Sud Editrice, Policoro 2003.41 La Cassa per il Mezzogiorno finanzia il progetto di sistemazione idraulica della zona, dell’importo di 550 milioni, approntato dal Consorzio di bonifica Bradano-Metaponto. Qualche anno dopo però a bonifica realizzata e senza che mai fosse iniziata alcuna trasformazione agraria, la INSUD con la compartecipazione al 25% del Club Mediterraèe, ripropone la costruzione di un villaggio turistico di 1.200 posti-letto inaugurato nel 1986.

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miliardi di lire. Intorno alla questione della realizzazione di tale impianto si apre un vasto dibattito che interessa per alcuni anni le forze politiche dell’area materana, animando per la prima volta lo stesso dibattito regionale sui temi dello sviluppo economico e dell’assetto territoriale. La questione al centro del dibattito è quella della localizzazione ma, man mano che si conoscono nel dettaglio i particolari delle produzioni previste emergono questioni riguardanti anche la loro qualità: si tratta, infatti, per la prima fase di attività di prodotti nel settore della detergenza, e nella seconda fase di prodotti nutrizionali vari fra i quali le bioproteine (additivi dei mangimi animali derivati dal petrolio), da più parti ritenute cancerogene e la cui produzione, già vietata in molti Paesi, in Italia non ha ancora ricevuto il nulla osta da parte dell’Istituto superiore di sanità. Nel dibattito apertosi intorno alla questione, la Democrazia cristiana e tutti gli organismi politici, sindacali ed economici ad essa collaterali comprese le entità istituzionali si dichiarano favorevoli all’insediamento della Liquichimica; mentre, le forze della sinistra insieme ad associazioni culturali e ambientali decisamente contrarie. In particolare, secondo la Democrazia cristiana: le popolazioni del Materano, non possono rinunciare ai 10.000 posti di lavoro dell’iniziativa industriale che oltretutto non ha per esigenze intrinseche alle attività programmate, alternative localizzative. L’insistenza su una diversa localizzazione significherebbe in definitiva significato la rinuncia allo sviluppo industriale dell’intera Provincia42. Le forze contrarie esprimono invece una ferma opposizione alla localizzazione dell’insediamento industriale nel Metapontino che, oltretutto, è in netta contraddizione con le stesse ipotesi di assetto territoriale fino a quel momento portate avanti dal Piano di sviluppo del CPRE. Esse chiedono, pertanto, che la Regione coerentemente dichiari la sua contrarietà alla localizzazione sia dello stabilimento e sia del porto-isola industriale. Diversamente da quanto avvenuto per l’insediamento dei villaggi turistici, non vi è nessuna reazione da parte delle forze politiche e sociali del Metapontino che appena un anno prima si dichiarano a favore di uno sviluppo turistico diverso da quello monopolistico e capitalistico dei villaggi. Eppure, risultano chiari i riflessi negativi dell’insediamento della Liquichimica sull’agricoltura e sul turismo del Metapontino. Solo Il Corriere Jonico prende una posizione. Il Direttore, Nicola Buccolo, nell’editoriale n. 3 del marzo 1974 afferma: “Noi crediamo alla vocazione agricolo-turistica del

42 Pontrandolfi A., op. cit., p. 162.

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Metapontino, ma siamo anche fortemente convinti della necessità di investimenti industriali che devono potenziare e valorizzare la realtà agricola esistente non certo mortificarla o addirittura distruggerla, incentivando di pari passo quello sviluppo turistico a carattere sociale, di cui si parla da tanti anni a questa parte, ma che rischia di restare soltanto ipotesi per lo sviluppo della fascia jonica”43. Il 29 novembre 1974 il Consiglio Regionale di Basilicata sulla base del documento Politica e territorio e nuove localizzazioni industriali in Basilicata predisposto dall’Assessorato all’industria, dove determinanti appaiono le giustificazioni tecniche dei pareri espressi dall’Italconsult, individua tre località dove localizzare gli impianti della Liquichimica: il principale a Macchia di Pisticci insieme al porto e alla centrale termoelettrica; gli altri due lungo la Valle del Basento. Nello stesso Consiglio si decide anche la localizzazione a Melfi di grandi officine di riparazione delle Ferrovie dello Stato per le quali, in un primo momento, viene anche suggerita la localizzazione metapontina. Il 15 e 16 marzo 1975 si svolge a Matera un Convegno organizzato da Italia Nostra, dal Gruppo ambiente di Roma, dall’Ente provinciale del turismo e dal Circolo culturale La Scaletta, che affronta le due problematiche connesse alla prospettiva industriale della Liquichimica: la localizzazione e la produzione delle bioproteine. Il Convegno, al quale partecipano anche i rappresentanti della Liquimica si chiude con un documento dove è sottolineato il rischio di una progressiva emarginazione dell’attività agricola e turistica dell’area come diretta conseguenza dell’irreversibile processo di industrializzazione costiera innescato dall’insediamento in questione. Ma soprattutto, il documento sottolinea la necessità di condurre una congrua sperimentazione prima di immettere sul mercato un prodotto che sollecita gravi perplessità negli ambienti scientifici e della ricerca circa le conseguenze che può ingenerare per la salute pubblica. Nel marzo 1975, nel Documento regionale sulle linee di assetto territoriale, si afferma che la localizzazione degli stabilimenti della Liquichimica contraddice la vocazione agricola e turistica dell’area. Il 9 giugno 1975 il Consiglio superiore di sanità sospende la produzione della bioproteine tipo tropina già in produzione da parte dell’ANIC-BP. Questa decisione comincia a pregiudicare gravemente i programmi della Liquichimica a partire dallo stabilimento di Saline Jonica, in provincia di Reggio Calabria che, di fatti, non entrerà mai in funzione proprio a causa delle mancate autorizzazioni sanitarie. Nel luglio 1976 il Comune di Pisticci

43 Ibidem, p. 163.

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sospende il rilascio della concessione edilizia44. Dopo la questione liquichimica, il Metapontino si avvia verso il suo definitivo assetto infrastrutturale agricolo con la realizzazione delle opere irrigue dello schema Sinni-Monte Cotugno. Nel 1973 con l’inizio dei lavori di costruzione della diga di Monte Cotugno sul Sinni si apre anche il dibattito sul programma di utilizzazione delle risorse idriche regionali, e diventano attualità le perplessità sollevate dallo studio dell’IBRES nel 1972. La Regione Basilicata istituisce un gruppo di lavoro, composto dagli ingegneri Canio Glinni, Mario Ragona, Donato Sabato, Pasquale Tedesca e dal dott. Vincenzo Valicenti, con il compito di fornire un primo inquadramento tecnico e generale della complessa problematica. Lo Studio sulle disponibilità e utilizzazioni delle acque in Basilicata per gli usi potabili e irrigui ed industriali presentato nel novembre 1977 dal gruppo di lavoro regionale conferma le perplessità circa la capacità del sistema stesso di soddisfare per intero i programmati fabbisogni pugliesi. Intanto, la questione acqua assurge a problematica di cui si fanno carico le Regioni di Puglia e Basilicata sottoscrivendo, nell’agosto 1981, un protocollo d’intesa. Le Regioni, però non risolvono i problemi emersi dallo studio del gruppo di lavoro del 1977: confermano i rispettivi massimi fabbisogni concludendo che per il loro soddisfacimento bisogna realizzare ulteriori opere di accumulo e derivazione dei deflussi disponibili. Nel 1983 il territorio metapontino conosce per la prima volta la siccità e le conseguenze economiche del fenomeno che negli anni seguenti ritorna in forma continuativa toccando il punto più alto nell’estate 1990. Nel lungo periodo di siccità da una parte vengono realizzate opere d’emergenza idrica finanziate con i fondi della Protezione civile per circa 150 miliardi di lire, dall’altra vengono accelerati i programmi di riconversione dell’attrezzatura irrigua dello Schema Bradano-Agri-Sinni, terminati nel 1994 per un costo complessivo di 380 miliardi di lire. Si raggiunge così una migliore pratica irrigua e un risparmio idrico. Resta aperto il problema di una chiara definizione dell’uso intersettoriale e interregionale delle risorse idriche della Basilicata e soprattutto dell’alto costo della sua distribuzione. La tariffa dell’acqua potabile applicata dall’Ente autonomo acquedotto pugliese, è infatti, oltre il doppio di quella media nazionale mentre quella dell’acqua per usi irrigui, è di ben 450-500.000 per ettaro. Nel 1976, iniziano anche i lavori della condotta

44 Lo stabilimento di Ferrandina chiude i battenti nel dicembre 1977 quando scoppia la crisi finanziaria della Liquichimica.

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diretta a trasportare le acque, distribuendole lungo il percorso, dalla diga in costruzione sul Sinni fino al nodo di Venosa e proseguendo fino al territorio di Grottaglie in provincia di Taranto. È la stessa Cassa per il Mezzogiorno ad appaltare i lavori e a trasferire al Consorzio Bradano-Metaponto i relativi contratti per l’esecuzione delle opere. La condotta, ultimata nel 1983 e costata circa 190 miliardi di lire, determina un aumento della superficie irrigata che così giunge a ben 50.000 ettari 45.

6. Ricostruzione e sviluppo dopo il sisma del 1980.Il 23 novembre 1980 due scosse sismiche di magnitudo 6,4 della scala Richter sconvolgono un’ampia area dell’Appennino meridionale tra l’Irpinia e la Basilicata. Enormi i danni: oltre 2000 morti, 10.000 feriti, 300.000 senzatetto, migliaia di edifici distrutti, vie di comunicazione interrotte e attività economiche danneggiate. Il fatto che il terremoto colpisce un segmento tipico dell’osso del Mezzogiorno interno rimasto marginale rispetto agli interventi di politica regionale che fino alla metà degli anni Settanta hanno cercato di promuovere lo sviluppo del Sud, crea un movimento di opinione favorevole ad aiutare quelle sfortunate popolazioni del Sud un tempo tormentate dall’emigrazione e dal sottosviluppo economico e sociale, emarginate dal processo di integrazione europea e malamente sostenute dai finanziamenti dello Stato46. Matura dunque l’idea di accompagnare agli interventi urgenti per la popolazione danneggiata un progetto complessivo di sviluppo dell’area colpita, in maniera tale da coniugare efficacemente ricostruzione e sviluppo. Tale idea trova un riscontro immediato nella Legge n. 219 del 24 maggio 1981: Provvedimenti organici per la ricostruzione e lo sviluppo delle aree terremotate. Questa prevede, infatti, oltre al risarcimento dei danni un’estesa gamma di interventi per la costruzione di abitazioni per gli sfollati, un Programma di industrializzazione incentrato sulla realizzazione di nuclei industriali completi di infrastrutture e servizi nonché contributi alle imprese che richiedono l’assegnazione dei lotti, e il miglioramento della dotazione infrastrutturale attraverso la manutenzione delle strade danneggiate e la realizzazione di nuove strade per rompere l’isolamento di una serie di Comuni e rendere così più agevole il trasporto delle merci prodotte dalla nuove imprese. Nel giugno 1982 si procede alla localizzazione in Campania e in Basilicata di

45 Ibidem, pp. 170-184. 46 Sommella R., Dal terremoto alle fabbriche, in Viganoni L., op. cit., pp. 251-252.

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venti nuclei industriali, di cui otto nella provincia di Potenza, quattro in quella di Salerno e otto in quella di Avellino. Riguardo gli otto nuclei industriali lucani, Balvano e Braragiano sono localizzati ad ovest di Potenza, in prossimità del raccordo autostradale con l’A3 Salerno-Reggio Calabria; un terzo nucleo, Isca Pantanelle è localizzato tra l’Asse basentano e l’A3, mentre un quarto nucleo, quello di Tito, è individuato nell’immediata prossimità di Potenza; seguono i nuclei di Viaggiano a sud della stessa città e praticamente tra il Comune di Grumento Nova e la Val d’Agri, quelli di San Nicola di Melfi e Valle di Vitalba in prossimità della valle dell’Ofanto, di Nerico a nord-ovest di Potenza e praticamente a ridosso degli agglomerati irpini (Calitri e Conza)47. Il Programma di industrializzazione punta sulle risorse delle aree marginali, su un’elevata qualità ambientale, su una bassa conflittualità di manodopera e sulla creazione di impianti di piccole e medie dimensioni. Vi è dunque una netta inversione di tendenza rispetto al precedente programma di industrializzazione della Basilicata e del Mezzogiorno. Se, infatti, il precedente programma punta su grandi imprese da localizzare in aree vicine alle principali vie di comunicazione e sulla disponibilità di materie prime come il metano nel caso della Basilicata, ora, sulla scia dei fenomeni di periferizzazione dello sviluppo che interessano l’Italia a partire dagli anni Settanta, la nuova strategia punta sulla creazione di piccole e medie imprese in grado di diffondere cultura industriale e stimolare la modernizzazione tra nidi d’aquila e pascoli, lungo direttrici interne ricche di storia, ma sino ad allora completamente dimenticate dallo sviluppo italiano48.Il Programma di industrializzazione è affidato al Ministero per i beni culturali mentre gli interventi per la ricostruzione e l’adeguamento funzionale degli impianti produttivi danneggiati o distrutti al Ministro per gli interventi straordinari. Alle due regioni colpite dal sisma sono attribuiti compiti di programmazione, di pianificazione territoriale e di assistenza tecnica ai Comuni e alle Comunità Montane cui spetta l’attuazione concreta della ricostruzione attraverso l’erogazione di contributi alle persone fisiche e giuridiche proprietarie o conduttrici degli edifici danneggiati49.Sotto gli effetti del terremoto e della crisi economica nazionale nasce il Progetto di rilancio dell’economia e della società di Basilicata che è alla base del Piano 47 I nuclei industriali della provincia di Salerno sono localizzati a Buccino, Contursi, Palomonte, Oliveto Citra, Calaggio; mentre quelli della provincia di Avellino a Conza, Porrara, Calabritto, Morra de Sanctis, San Mango, Lioni, Nusco e Sant’ Angelo.48 Ibidem.49 Cafiero S., Storia …, cit., pp. 124-125.

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di sviluppo regionale 1983-1987. Il piano, partendo dalla consapevolezza che sviluppo agricolo e presenza industriale in ristrette aree hanno determinato evidenti squilibri territoriali e di conseguenza ritmi di crescita estremamente differenti e che il perdurare di questa situazione può comportare il progressivo allontanamento delle aree periferiche verso realtà extraregionali e un’ulteriore spopolamento delle aree marginali, punta su una strategia volta a favorire il riequilibrio territoriale difendendo ed esaltando allo stesso tempo l’identità regionale. Punti essenziali di questa strategia sono: l’inserimento nel mondo del lavoro dei giovani; una maggiore fruizione dei beni culturali; il miglioramento dei servizi e delle strutture sociali; lo sviluppo di un qualificato terziario produttivo; il superamento dei contrasti tra città ed aree rurali; lo sviluppo di nuove tecnologie; la ricerca scientifica ed un elevato sistema formativo ed informativo da applicare a tutti i processi produttivi, in quanto strumento strategico per realizzare livelli crescenti di concorrenzialità. Il piano si pone come obiettivi di medio termine la piena utilizzazione di tutte le risorse disponibili e la distribuzione della spesa pubblica non per settori ma per progetti: progetto irriguo; progetto zootecnico e di difesa del suolo; progetto di sperimentazione e divulgazione agricola; progetto industriale; progetto relativo al turismo; progetto rivolto allo sviluppo dell’artigianato; progetto di difesa dei parchi; progetto di potenziamento delle strutture scolastiche, formative e sociosanitarie; progetto per la diffusione di un terziario avanzato. Il piano se da un lato ha il merito di dar vita a progetti intersettoriali destinati a superare forme di segmentazione dell’intervento pubblico e ad attivare l’intero sistema di opportunità espresso dalle aree quali i progetti per la diffusione del terziario avanzato, e i progetti per lo sviluppo dei servizi reali destinati alla valorizzazione del territorio e delle attività produttive, dall’altro non riesce ad ottenere i risultati sperati50. All’inizio degli anni Ottanta, l’economia regionale registra una modesta crescita. In più si ritiene che il completamento del ciclo della realizzazione delle principali politiche di sostegno programmate nei decenni precedenti potrà suscitare non solo il mantenimento degli elevati indici di crescita sperimentati negli anni Settanta ma anche la graduale diffusione di modelli di sviluppo autopropulsivo. Tali aspettative sono, infatti, confortate da una serie di indagini che prefigurano per la Basilicata il permanere di un trend espansivo e la tendenza a ridurre consistentemente il divario con il resto del Paese. Tuttavia, come afferma Viganoni: “gli anni

50 Coviello R., Riflessioni sul “ Caso Basilicata”, Potenza 1987, pp. 37-46.

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Ottanta hanno progressivamente deluso le attese”. Nel corso della prima fase e fino al 1983, si è registrato un calo netto del Pil e una sostanziale stagnazione dell’economia regionale; da quell’epoca e fino al 1987 probabilmente anche per effetto dei trasferimenti di risorse finanziarie indotte dal dopo-terremoto, si è rilevata una certa ripresa dell’economia e in particolare un maggior dinamismo del settore agricolo. In chiusura del decennio, l’economia regionale si posiziona nuovamente con indicatori negativi, con un valore del Pil che torna ad essere inferiore al valore medio nazionale e con un livello di valore aggiunto che al 1990 è sostanzialmente identico a quello registrato dieci anni prima. D’altronde, è soprattutto a partire dalla metà degli anni Ottanta che il problema della disoccupazione diviene per la Basilicata come per il resto del Mezzogiorno, una questione che va aggravandosi progressivamente51.Anche il programma di industrializzazione non produce i risultati sperati. A metà 1996, il complesso delle attività industriali realizzate con la Legge 219 presenta una situazione piuttosto contraddittoria. Se da un lato si registra la presenza di alcune fabbriche attive, di infrastrutture funzionanti, una migliorata accessibilità all’area e un miglior livello di vita della popolazione, dall’altro vi sono infrastrutture da completare, imprese inattive e una tenuta sul mercato piuttosto debole da parte delle piccole aziende, soprattutto di quelle appartenenti al comparto alimentare. Riguardo poi la manodopera, nelle otto aree industriali risultano assunte 3701 unità rispetto alle 6000 previste, di cui però effettivamente impiegate 2190 (la differenza era a carico dei vari ammortizzatori sociali previsti dalle Legge 219). Inoltre, numerosi sono gli imprenditori che dopo aver inoltrato la domanda di investimento e ricevuto il finanziamento non danno vita a nessuna iniziativa52.Vi sono, tuttavia, delle differenze tra le varie aree industriali. Tra i nuclei gravitanti ad ovest di Potenza, una situazione positiva registra l’area di Balvano dove l’insediamento della Ferrero è attivo con oltre 300 dipendenti rispetto ai 145 previsti. Critica appare, invece, la situazione della vicina area di Baragiano dove solo 5 aziende, tra le quali la Moretti con 37 addetti su 59 previsti, funzionano a pieno regime su 22 preventivate, mentre 3 risultano in crisi. Il nucleo di Isca Pantanelle registra la presenza di 2 aziende di filati di cotone del gruppo Zucchi con rispettivamente 120 e 20 dipendenti su 103 e 15 previsti. Infine,

51 Viganoni L., op. cit., pp. 17-18.52 Becchi A., Dopo il terremoto: economia, società e politica dell’emergenza, in “Archivio di studi urbani e regionali”, n. 46, pp. 7-30.

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nell’area industriale di Tito dove le iniziative avviate con la Legge 219 si vanno ad aggiungere a quelle create negli anni Sessanta, la situazione risulta molto positiva: funzionano ben 17 aziende su 23 previste con 926 addetti su 1091 previsti. In particolare, in questa area sono in attività il gruppo Abete (Poligrafico lucano di Tito) e l’Ansaldo (ex Wabco di Tito). Passando, invece, alle aree industriali a sud di Potenza, il nucleo di Viaggiano che si è aggiunto al vecchio perimetro industriale avviato senza molto successo negli anni Sessanta registra una situazione in linea con la media regionale con tuttavia una tendenza alla crescita ai primi del 1993. Molto negativo è invece l’andamento del nucleo di S. Nicola di Melfi dove molte iniziative come 2 impianti nel comparto piastrelle non vanno in porto, e al 1996 è presente una sola azienda del gruppo Barilla (Forneria meridionale di Melfi) con circa 180 occupati. Poco positiva appare, infine, la situazione del nucleo Valle di Vitalba dove è in attività l’impianto della Parmalat con circa 150 addetti su 245 previsti; mentre, del tutto negativo è il quadro del nucleo di Nerico dove non si registra nessuna iniziativa53.Negli otto nuclei industriali lucani operano, in alcuni casi per pochissimo tempo, grandi gruppi di provenienza extraregionale. Il contributo del capitale locale a tali iniziative è dunque molto limitato. Un caso particolare è rappresentato dall’area che comprende i comuni di Lavello, Melfi, Venosa e Ginestra dove, come si dirà più avanti, in seguito al terremoto si stabiliscono rapporti tra istituzioni locali, piccoli laboratori di sartoria e alcune imprese emiliane che portano alla nascita di un distretto industriale specializzato nella produzione in conto terzo di intimo. Se passiamo poi a considerare la ricostruzione e la costruzione di nuovi insediamenti umani adeguati alla normativa antisismica non possiamo non sottolineare come questa da un lato assicura cospicui vantaggi alle imprese costruttrici e ad altri soggetti esterni e dall’altro non fornisce una buona qualità degli interventi realizzati54.In generale, dal punto di vista qualitativo gli interventi degli anni Ottanta pur muovendosi in maniera innovativa rispetto al passato hanno con le filosofie che ispirano le politiche degli anni Sessanta alcuni elementi in comune: ancora una volta le azioni si concentrano sul piano economico degli incentivi e su quello fisico delle infrastrutture ed è accordata scarsa attenzione alla necessità di stimolare nella società locale un contatto più esteso con le forme tipiche della mentalità

53 Sommella R., op. cit., p. 258.54 Di Gilio S., L’impresa interrotta: edilizia privata e ricostruzione, in Viganoni L., op. cit., p. 220.

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industriale. Ancora una volta in sostanza tende a riproporsi un meccanismo di sviluppo piovuto dall’alto. Qualche anno dopo poi, la Commissione parlamentare d’inchiesta sull’attuazione degli interventi per la ricostruzione e lo sviluppo dei territori della Basilicata e della Campania colpiti dai terremoti del novembre 1980 e del febbraio 1981 più nota come Commissione Scalfaro dal nome del suo presidente, istituita con la Legge n. 128 del 7 aprile 1989 per accertare quanto realmente lo Stato ha speso per la ricostruzione delle aree terremotate, come sono state impiegate le risorse e perché è stata dilatata l’area dei Comuni disastrati, rivela la presenza di sperequazioni nella distribuzione dei fondi erogati, e ritardi nella realizzazione degli interventi. Occorre sottolineare però, come grazie ai finanziamenti erogati dallo Stato si assiste nel corso del decennio al potenziamento delle infrastrutture e del tessuto socio-economico locale, e all’emergere di alcune nuove tendenze. L’intervento favorisce un più incisivo collegamento tra attività primarie e produzioni industriali e il profilarsi di un polo agro-alimentare che ha il suo fulcro nella presenza di alcune grandi imprese nazionali. Nel contempo si assiste alla moltiplicazione di iniziative rivolte al miglioramento dei profili qualitativi di molte produzioni, come nel caso della nascita di numerosi di consorzi rivolti sia alla definizione dei marchi di qualità e di origine controllata che all’incremento dei prodotti tipici regionali. Inoltre, la creazione di posti di lavoro industriali, seppure in misura minore alle aspettative, contribuisce ad un generale processo di modernizzazione delle aree marginali e alla permanenza di fasce giovani della popolazione55.

55 Sommella R., op. cit., pp. 263-264.

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7. La soppressione dell’ Intervento straordinario. La Legge n. 717 del 1965 fissa la durata della Cassa per il Mezzogiorno fino al 31 dicembre 1980. Dopo tale data, l’Ente ideato da Menichella nel lontano 1950 si mantiene in vita con una serie di proroghe finché il DPR del 6 agosto 1984, prendendo atto della reiezione del Parlamento all’ennesimo decreto di proroga, né sancisce la soppressione. Nel marzo 1986, viene varata la Legge 64 per disciplinare in maniera innovativa ed organica l’Intervento straordinario. Nel suo ambito è prevista la creazione di un’Agenzia per la promozione dello sviluppo incaricata di concedere agevolazioni alle attività economiche e di finanziare progetti di sviluppo regionale. In questa nuova strategia le Regioni sono chiamate a svolgere un ruolo centrale. Ad esse, infatti, è assegnato il compito di avanzare proposte per il Programma triennale di indirizzo, la cui formulazione viene affidata al Ministro per gli interventi straordinari. Al CIPE spetta invece il compito di approvare il Programma e di adottare le misure per il coordinamento dell’Intervento straordinario, con le azioni statali, regionali e locali. È anche prevista la possibilità di giungere ad accordi di programma per iniziative di particolare interesse per il territorio meridionale che richiamano in causa enti ed amministrazioni locali. L’accordo di programma si configura come un istituto che permette alla pubblica amministrazione ordinaria ed a soggetti privati di stabilire reciproci accordi ed impegni a fronte dei quali, la parte privata ottiene una serie di incentivi con la certezza che le infrastrutture necessarie vengano realizzate contestualmente alla messa in opera dell’iniziativa imprenditoriale, mentre la parte pubblica ottiene una serie di garanzie relative all’effettiva realizzazione dell’investimento. Il notevole ruolo attribuito dalla Legge 64 alle Regioni, in termini di programmazione e gestione degli interventi, non riesce però a conseguire grandi risultati, ove si escludano alcuni accordi di programma attivati più in sede centrale che periferica. La scarsa elaborazione progettuale, il prevalere di interessi settoriali e localistici nella formulazione dei progetti, i lunghi tempi di realizzazione dei medesimi, i conflitti tra i soggetti coinvolti, le rimodulazioni degli stanziamenti pluriennali, il mancato avvio dei progetti già finanziati, e più in generale l’adozione della programmazione come strumento formale piuttosto che come sistema decisionale sono gli aspetti che caratterizzano l’ultima fase dell’Intervento straordinario, finché nel 1992 con la Legge 488 n’è sancita la soppressione56.

56 Compasso F., Dopo la Legge 64, una strategia per il Sud, Edizioni Scientifiche Italiane, pp. 8-17.

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Ma quali sono stati gli effetti della lunga esperienza dell’Intervento straordinario nel Mezzogiorno? E perché si decide di concluderla nel 1992, con trentadue anni di ritardo rispetto alla prima scadenza, originariamente fissata al 30 giugno 1960? La politica meridionalistica avviata negli anni Cinquanta nasce come un connotato politico unitario delle forze democratiche di Governo. Nelle regioni meridionali, la disoccupazione, la sottoccupazione, l’insufficienza di scuole, di ospedali, strade, ponti e ferrovie, fognature, acquedotti, rendono particolarmente difficile la vita delle popolazioni; e tutto ciò si ripercuote, a sua volta, molto negativamente sull’economia nazionale sulla quale incide il forte squilibrio interno dovuto al grave divario economico-sociale tra Nord e Sud. Le agitazioni sociali e le rivolte contadine nel Mezzogiorno all’indomani del secondo conflitto mondiale fanno emergere all’attenzione delle forze politiche di Governo, il problema della terra. Con la legge Sila, del 12 maggio 1950 si avvia la riforma agraria in Calabria e nell’ottobre dello stesso anno con la legge Stralcio si estende l’intervento ad altre aree ad agricoltura estensiva del Mezzogiorno. Nonostante la riforma non dà i risultati sperati, o meglio non raggiunga gli obiettivi che si è prefissata per una serie di limiti che abbiamo cercato di mostrare nel primo capitolo di questo lavoro, è indubbio che lo sforzo dello Stato è enorme e di grande rilievo sociale. Come afferma Piero Bevilacqua: “si calcola che fra il 1950 e il 1960, quando già il grosso delle operazioni di assegnazione era esaurito, oltre 417.000 ettari di terra siano passati in mano a contadini e braccianti poveri”57. Sia le Leggi di riforma agraria e sia l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, il 10 agosto 1950, la quale da origine all’Intervento straordinario nel Sud Italia, traducono in scelte operative e concrete l’esigenza dell’intervento pubblico nel Mezzogiorno per rimuovere le antiche cause dei divari e degli squilibri tra Nord e Sud del Paese. Scopo principale dell’Ente disegnato dal governatore della Banca d’Italia, Donato Menichella, è quello di destinare notevoli fondi pubblici alla creazione delle precondizioni di uno sviluppo più accentuato ed articolato nelle regioni meridionali. La Cassa si impegna inizialmente nel settore dell’agricoltura e nell’attivazione delle necessarie infrastrutture per il decollo di iniziative industriali. Sono, perciò, previsti complessi organici di opere inerenti alla sistemazione dei bacini montani e dei relativi corsi d’acqua, alla bonifica, all’irrigazione, alla trasformazione agraria, alla viabilità ordinaria, agli acquedotti

57 Bevilacqua P., Breve storia…, cit., p. 84.

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e fognature, agli impianti per la valorizzazione dei prodotti agricoli e alle opere di interesse turistico. I risultati ottenuti durante il primo decennio dell’Intervento straordinario sono senza ombra di dubbio positivi: si risanano vaste pianure malariche, come quella metapontina in Basilicata, condannata per secoli ad una condizione di isolamento ed arretratezza; si realizzano opere irrigue che rendono possibile lo sviluppo di un’agricoltura moderna, ed importanti infrastrutture come strade e ponti che collegano vaste aree meridionali tra loro e al territorio nazionale; il reddito regionale del Mezzogiorno che si sviluppa nel periodo 1951-54 ad un tasso del 2,9%, nel quadriennio successivo registra un incremento del 5,7%, di poco inferiore a quello nazionale58. Fino alla fine degli anni Cinquanta l’obiettivo principale della strategia meridionalista, vale a dire l’eliminazione del divario tra il Nord e il Sud del Paese, non è però raggiunto. Nel 1958 si decide perciò di industrializzare il Mezzogiorno. Anche in questo caso, si tratta di un’operazione pianificata dalla Cassa, che si impegna a realizzare aree e nuclei industriali in cui attivare investimenti di grandi imprese pubbliche e private. Un ruolo fondamentale è però giocato dalle Partecipazioni statali, l’IRI e l’ENI e partire dal 1962 dall’EFIM, cui è assegnato per legge l’obbligo di localizzare nel Mezzogiorno il 40% dei propri investimenti. Si ha così uno sforzo poderoso di investimento (nel 1963 gli investimenti arrivano a rappresentare circa il 30% del Pil meridionale) soprattutto attraverso la costruzione di grandi complessi nelle industrie di base, chimica e siderurgica, che cambiano radicalmente il volto di molte aree meridionali. La localizzazione degli impianti è in parte legata ad elementi geografici, come la presenza di porti, in parte casuale, in parte preponderante legata a scelte politiche discrezionali. Ma mai, tranne qualche eccezione, questi insediamenti hanno legami con la realtà sociale ed economica preesistente. E, soprattutto, tale strategia è applicata in modo omogeneo all’intero Mezzogiorno, ovvero un territorio che presenta enormi differenze socio-economiche e culturali da area ad area. Inoltre, ai generosi incentivi concessi alle imprese che si impegnano ad investire nel Mezzogiorno (contributi e tassi agevolati) non corrisponde una adeguata capacità di selezione pubblica degli stessi; questo comporta la realizzazione di impianti destinati a dipendere sin dall’inizio dai sussidi, o addirittura di falsi investimenti da parte di imprenditori del Nord, interessati esclusivamente ad ottenere il finanziamento59.

58 Viesti G., Abolire…, cit., pp. 13-24.59 Ibidem.

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Questo grande sforzo di industrializzare il Mezzogiorno non riesce a garantire al Paese uno sviluppo equilibrato. In quegli anni, infatti, grazie alla realizzazione del Mercato comune europeo e alla crescita dei consumi delle famiglie, l’industria registra una forte crescita ma che continua in gran parte ad interessare il Triangolo industriale. Tale crescita favorisce una grande emigrazione dal Sud verso Torino e verso Milano: si spostano al Nord, fra il 1951 e il 1971, 4.200.000 di cittadini meridionali, per due terzi provenienti dalle zone interne montane le quali costituite da piccole proprietà con terreni degradati, non vengono incluse nei comprensori sottoposti alla riforma fondiaria e né successivamente nelle zone dove realizzare aree e nuclei industriali. Questa migrazione di massa da un lato comporta l’abbandono, soprattutto da parte dei giovani, di molte aree interne del Sud, e dall’altro la congestione e lo snaturamento di grandi aree urbane, del Centro-Nord. Il processo di infrastrutturazione e di industrializzazione del Mezzogiorno è, tuttavia, molto vantaggioso per l’intero Paese ed in particolare per l’economia delle regioni del Centro-Nord. Le imprese settentrionali ne traggono, infatti, cospicui incentivi per le produzioni localizzate al Sud, un crescente mercato per i propri macchinari e impianti, e per i propri beni di consumo e le indispensabili forniture di base e di beni intermedi necessari per le loro produzioni. La nuova strategia dell’Intervento straordinario comincia a mostrare tutti i suoi limiti a partire dalla metà degli anni Settanta. Essa, infatti, punta su quelle che all’epoca sono ritenute le industrie moderne, ovvero produzioni su larga scala di beni intermedi come acciaio per le automobili e gli elettrodomestici, chimica di base per tutte le trasformazioni successive, petrolio raffinato per la motorizzazione: industrie che entrano in crisi con il forte aumento del costo dell’energia della metà degli anni Settanta. Inoltre, tali impianti dal momento che sono localizzati in territori ancora largamente agricoli non riescono ad indurre lo sviluppo di fornitori di beni e servizi, o meglio a svolgere la loro funzione di motori dello sviluppo di interi territori come d’auspicio. Inoltre, la stessa strategia produce degli effetti negativi sul Mezzogiorno. In primo luogo, la realizzazione dei grandi impianti a ciclo continuo comporta la trasformazione e l’inquinamento di vaste aree. In secondo luogo, il fatto che tali stabilimenti offrono alla manodopera maschile locale condizioni salariali e normative migliori di quelle vigenti nelle altre imprese del posto comporta l’abbandono non solo dell’agricoltura di sussistenza, ma anche di tutte quelle attività artigianali e di piccola impresa che in molte aree italiane, a

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cominciare dal Nord-Est, sono alla base dello sviluppo negli anni Settanta. Infine, la continuazione di una politica straordinaria per tutti gli anni Sessanta rende definitivo il ruolo centrale dello Stato come protagonista dello sviluppo e, in particolare, di istituzioni speciali indipendenti dalla pubblica amministrazione ordinaria, dotate di grandi risorse come le Partecipazioni statali e la Cassa per il Mezzogiorno. Quest’ultime, inizialmente guidate da uomini con grandi capacità e soprattutto un forte senso di missione, a partire dalla fine degli anni Cinquanta sono sempre più controllate dai Partiti politici, in primo luogo dalla Democrazia cristiana, che ne influenzano l’attività. Ad esse, inoltre, vengono progressivamente assegnate sempre nuovi compiti: alle Partecipazioni statali i salvataggi di imprese in crisi; alla seconda gli interventi infrastrutturali più minuti cui avrebbe dovuto provvedere l’azione ordinaria. Il centralismo e la straordinarietà contrastano, dunque, il formarsi di istituzioni locali e non favoriscono lo sviluppo di capitale sociale. A metà anni Settanta, di fronte all’aumento del costo dell’energia e ad una conflittualità operaia molto forte, la priorità della politica economica italiana diventa quella di difendere i tradizionali poli industriali con leggi che favoriscono la ristrutturazione delle imprese e la riconversione degli impianti più obsoleti. Dal 1969 al 1975, in tutta Italia non si avvia la costruzione di nessun nuovo impianto da parte delle Partecipazioni statali. L’impatto della crisi è però maggiore al Sud, dove i grandi impianti dominano il contesto economico locale60. A partire dalla fine degli Sessanta l’intervento pubblico si espande molto. La spesa sociale complessiva, che è solo il 10% del Pil negli anni Cinquanta (livello molto basso su scala internazionale), raggiunge già nel 1975 il 22,6%, comparabile con quello degli altri grandi Paesi europei. Cambia la sanità, con la riforma ospedaliera del 1968, il passaggio alle regioni (ma con finanziamento centrale) nel 1974 e il servizio sanitario nazionale nel 1978. Cambia il sistema pensionistico, con l’introduzione del sistema retributivo (che aggancia la pensione allo stipendio medio degli ultimi cinque anni) e l’estensione al settore privato delle pensioni di anzianità (cioè della possibilità di andare in pensione dopo 35 anni di contributi, indipendentemente dall’età anagrafica). Cambiano le forme di protezione della

60 Con gli anni Ottanta la ristrutturazione si fa più intensa, anche perché, con l’ingresso della lira nello Sistema monetario europeo (SME), nel 1979, viene meno la spinta della svalutazione sui mercati internazionali. Le imprese privilegiano tecnologie che consentono di sostituire macchinari a lavoratori, e così la capacità di assorbimento di nuovi operai nelle fabbriche italiane, al Nord come al Sud diminuisce drasticamente. Ibidem, pp. 25-33.

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disoccupazione, con strumenti a sostegno del reddito dei lavoratori e a difesa delle imprese. Cambia la legislazione sul lavoro, con lo Statuto dei lavoratori del 1970, ed aumenta fortemente l’impiego pubblico, nelle amministrazioni, nelle scuole, negli ospedali, nelle poste, all’ENEL, nella SIP, nelle Partecipazioni statali. La spesa pubblica però anziché dirigersi verso la costruzione di servizi efficienti per i cittadini, si sostanzia in un insieme di trasferimenti verso i singoli e le famiglie, in particolare verso gli occupati del settore industriale. Emerge in questo modo uno Stato sociale fortemente squilibrato a difesa dei lavoratori occupati, dai rischi connessi alla perdita dell’impiego e della vecchiaia. Le pensioni, in particolare, assumono un ruolo ben più grande che negli altri Paesi europei: la spesa pensionistica diventa nel 1980 quasi sette volte superiore a quella del 1950. Mancano invece: le politiche per la povertà e per alleviare il carico di famiglie numerose, efficaci politiche per chi è in cerca di un’occupazione. Le dinamiche del sistema politico dell’epoca (mancanza di ricambio, frammentazione in gruppi e correnti, sistema elettorale proporzionale con voto di preferenza, eccesso di potere del Parlamento sull’esecutivo) determinano una sua evoluzione in senso marcatamente clientelare. Si moltiplicano i centri con capacità autonoma di spesa e si vengono a creare enti dotati di grandi capacità finanziarie ma con scarse responsabilità, centri privilegiati per la costruzione di consenso politico basato su una facile distribuzione di risorse e per l’assunzione di un vasto personale dipendente61. Di fronte ai profondi cambiamenti che interessano la politica economica e l’intera economia italiana, la politica speciale per il Sud - sempre centrata sulla realizzazione di infrastrutture e sugli incentivi agli investimenti industriali, e guidata dalla Cassa per il Mezzogiorno, anche se a partire dagli anni Ottanta si cerca di coinvolgere maggiormente le Regioni - perde la sua efficacia. La Cassa impiega una parte consistente delle sue risorse nella fiscalizzazione degli oneri sociali: essendo i livelli salariali unici in tutto il Paese, lo Stato interviene per contenere il costo del lavoro riducendo gli oneri sociali che al Sud le imprese pagano per ogni lavoratore. Continua poi ad incentivare investimenti dall’esterno, con cospicui contributi senza risultati, in quanto è venuta meno la fiducia da parte degli investitori esteri nel nostro paese, le grandi imprese dirottano gli investimenti verso la ristrutturazione, e le piccole e medie imprese dei distretti e del Made in Itay, trovano il Sud distante e privo di manodopera specializzata di cui necessitano.

61 Viesti G., Abolire…, cit., pp. 42-51.

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Le capacità tecniche della Cassa diminuiscono mentre aumenta la sua dipendenza da decisioni politiche: così nel Mezzogiorno, non si realizzano più opere straordinarie come quelle degli anni Cinquanta, non si cura nemmeno la manutenzione delle stesse, e soprattutto la scelta e la localizzazione dei nuovi interventi rispondono sempre più alla necessità di trovare consenso politico che a criteri tecnici. Ed è proprio in questo periodo che il Mezzogiorno diventa un vero e proprio cantiere di progetti ed opere dai lunghi tempi di attuazione o in alcuni casi mai portati a termine. In gran parte la spesa straordinaria della Cassa sostituisce quella ordinaria: nelle regioni del Sud si realizzano, con l’ausilio delle risorse straordinarie della Cassa, strade e ferrovie, impianti elettrici e di telecomunicazioni che l’ANAS, le Ferrovie dello Stato, l’ENEL e la SIP effettuano nel resto del Paese con le loro risorse ordinarie. A partire dalla metà degli anni Settanta, poi, la crescita demografica e l’uscita di lavoratori dall’agricoltura che si modernizza esercitano una crescente pressione sul mercato del lavoro: la disoccupazione raggiunge l’8% alla fine degli anni Settanta. Le imprese del Nord e quelle straniere richiedono molto meno manodopera e il sensibile aumento del tenore di vita al Sud rende più costosa la scelta di emigrare: i flussi di emigrazione dal Sud al Centro-Nord scendono da una media di circa 130.000 persone all’anno, fra il 1967 e il 1971, a una media di meno di 30.000 fra il 1982 e il 1986. Inoltre, nel Mezzogiorno a causa della minore densità di altre imprese con cui collaborare, della maggiore distanza dai mercati internazionali, di una forza lavoro meno esperta, di istituzioni locali più deboli l’attività di impresa risulta più difficile che al Nord. Lo Stato cerca di intervenire attraverso l’espansione dell’intervento pubblico diretto a sostegno del reddito dei cittadini, nel quadro dell’espansione della spesa pubblica e del welfare nazionale. Ciò consente alla crescita del reddito pro capite nel Mezzogiorno di tenere il passo con quello del Centro-Nord, e quindi al divario, apparentemente, di non aumentare: questi sono invece gli anni in cui maggiormente si apre un solco fra il Sud e il Nord del Paese, sia dal punto di vista economico sia da un punto di vista più generale62. La spesa pubblica in Italia passa da una media intorno al 33% negli anni Sessanta, al 42% nel 1980, al 55% nel 1993. Nelle regioni centro-settentrionali l’enorme crescita della spesa pubblica è però compensata da un forte sviluppo del settore privato, nell’industria e nel terziario. Questo, invece, non accade al Sud: la forte

62 Viesti G., Abolire…, cit., pp. 48-51.

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crescita delle uscite pubbliche che non è minimamente compensata dalla crescita del settore privato; col tempo, questo porta l’operatore pubblico ad assumere un ruolo di dimensione abnorme nelle regioni meridionali. L’economia meridionale è dipendente dall’esterno per un’elevata quota delle proprie risorse; il trasferimento di risorse avviene principalmente attraverso l’azione redistribuitiva del bilancio pubblico, di grandissimo rilievo se confrontata con le dimensioni del Mezzogiorno. Il tenore di vita al Sud è alla fine degli anni Ottanta, piuttosto elevato, tuttavia, il consistente flusso di risorse che affluisce dall’esterno non riesce a generare attività produttive di mercato in misura sufficiente da far fronte agli stessi consumi dell’area. Così, i consumi si dirigono in misura rilevante verso le importazioni del Centro-Nord. Una parte rilevante dei trasferimenti di reddito, trasformandosi in importazioni di beni e servizi, genera a sua volta incrementi di produzione e di reddito nel Centro-Nord. La redistribuzione territoriale non avviene in un complessivo quadro di finanza pubblica equilibrato; al contrario, gli anni Settanta e Ottanta sono caratterizzati da ampi e persistenti deficit nei conti pubblici e, conseguentemente, dal crescere dello stock di debito e dal connesso peso degli interessi passivi. La spesa ridistribuisce territorialmente un prelievo fiscale differenziato ma spesa e prelievo non sono tra loro in equilibrio. La crescita delle entrate, pur molto sensibile a partire dalla metà degli anni Settanta, segue con ritardo e con minore intensità il notevole incremento della spesa pubblica che si registra a partire dall’inizio di quel decennio. Ciò spiega il diffuso consenso politico per questo modello: la finanza pubblica sposta risorse verso il Sud, ma ciò avviene in un quadro di risorse disponibili per tutti, garantite dall’espansione del deficit63. Come abbiamo già detto, in tale sistema la crescita dell’occupazione è trainata in misura rilevante dall’impiego pubblico, o da attività connesse alla spesa pubblica. Nel 1970 vi sono 861.000 unità di lavoro nel Mezzogiorno nei servizi non destinabili alla vendita, pari al 14,5% del totale. Tale percentuale è più bassa, ma non di molto, nel Centro-Nord (13,7). Alla fine degli anni Ottanta, il numero di unità di lavoro nei servizi non destinabili alla vendita passa nel Sud a rappresentare il 21,3% del totale (contro il 17 nel Centro-Nord). Nel periodo 1970-89 le unità di lavoro totali al Sud crescono di 935 000 unità, quelle nei servizi non destinabili alla vendita di 601 000; i due terzi delle nuove occasioni di lavoro nette create nel Mezzogiorno

63 Bodo G., Viesti G., La grande svolta. Il Mezzogiorno nell’Italia degli anni Novanta, Donzelli, Roma 1997, pp. 3-13.

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negli anni Settanta e Ottanta sono cioè nella pubblica amministrazione; un terzo nelle attività di mercato. Al Centro-Nord invece, due posti su tre vengono creati in attività di mercato, uno nella pubblica amministrazione. Il peso dello Stato come erogatore diretto o indiretto di lavoro e di reddito al Sud negli anni Settanta e Ottanta è molto ampio. Tale ruolo influenza profondamente i comportamenti sociali. Nella pubblica amministrazione sono vigenti condizioni di lavoro e salariali migliori di quelle dell’impiego privato; ciò porta molti giovani in cerca di primo impiego a rifiutare la possibilità stessa di un’occupazione nel settore privato. Inoltre, le modalità di accesso nel settore pubblico sono spesso diverse da quelle dell’impiego privato, essendo intermediate da un ceto politico che proprio dal controllo di questi canali trae parte della propria fortuna. Anche l’attività delle imprese né è profondamente influenzata. Vi sono poi altri aspetti generati da questo modello che non possono essere trascurati. In primo luogo, la regolazione da parte dello Stato di molti mercati di beni e servizi determina condizioni competitive molto diverse da quelle di un’aperta e libera concorrenza: per vincere un appalto, per ottenere una concessione, per garantirsi una fornitura, conta più un buon inserimento nei meccanismi decisionali che un buon rapporto qualità prezzo. In secondo luogo, l’intervento pubblico nel Mezzogiorno incentiva in diversi casi lo sviluppo di forme di criminalità organizzata: i meccanismi di alcuni appalti pubblici sono direttamente controllati da organizzatori di stampo mafioso e camorristico. Si determinano nel Mezzogiorno forme di comportamento illegali di massa volte all’acquisizione di risorse pubbliche, che spesso coinvolgono tanto i cittadini beneficiari quanto i funzionari pubblici. Sono queste dinamiche a distorcere profondamente le aspettative, e quindi i comportamenti, di parti consistenti della società meridionale rendendo molto difficile la creazione autonoma di occasioni di lavoro e di reddito. Probabilmente, questa è in assoluto la ferita più profonda, duratura e difficile da rimarginare, dell’intervento pubblico nelle regioni meridionali64. Nel 1986 si ha l’approvazione dell’Atto unico europeo, un documento

64 Occorre tuttavia sottolineare che l’impatto di queste trasformazioni è diverso da area ad area. Le diversità dei contesti locali rendono gli effetti degli anni Ottanta pervasivi e totalizzanti in alcune aree; contrastati dalla presenza di una società e di un’economia più sana in altre: le differenze, ad esempio, nell’uso pubblico delle risorse e nella qualità delle classi dirigenti locali marcano una grande divario fra l’Abruzzo e la Basilicata da un lato e la Sicilia dall’altro. Si ripercuotono sulla presenza di organizzazioni criminali, sull’efficienza delle infrastrutture e dei servizi sociali e negli stessi ritmi di crescita assai diversi. G. Bodo, G. Viesti, op. cit., p. 15. Si veda anche: Trigilia C., Sviluppo senza autonomia, effetti perversi delle politiche nel Mezzogiorno, Il Mulino, Bologna 1992, pp. 170-174.

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apparentemente tecnico, ma in realtà di grande rilevanza politica, che punta all’eliminazione entro il 1992 delle residue barriere, all’interno dell’Unione, alla libera circolazione di merci, servizi, uomini e capitali. I suoi effetti positivi coinvolgono, infatti, diverse questioni di grande rilevanza per l’Italia e per gli stessi problemi di sviluppo regionale: la disciplina sugli appalti pubblici, la limitazione dei sussidi e degli aiuti di Stato alle imprese; la concorrenza nel settore bancario e la liberalizzazione del movimento dei capitali. Nel 1990 si ha la costituzione dell’antitrust e diventa più difficile sostenere le imprese a capitale pubblico; la Commissione europea, con un potere del tutto nuovo in materia di tutela della concorrenza rispetto agli Stati membri, interviene a contestare intensità e modalità delle politiche regionali interne agli Stati membri. Nel 1992 viene firmato il Trattato di Mastricht, in base al quale gli Stati membri, tra i quali l’Italia, si impegnano a rispettare cinque parametri economici di convergenza, di cui due relativi alle finanze pubbliche, per adottare poi la moneta unica: un tasso di inflazione non superiore di 1,5 punti percentuali rispetto alla media dei tre Stati con prezzi più stabili; un deficit pubblico non superiore al 3% del Pil; un debito pubblico non superiore al 60% del Pil; il rispetto dei margini di fluttuazione dello SME (2,25% nei due sensi della parità centrale di ciascuna moneta) per almeno due anni senza svalutazione; un tasso di interesse a lungo termine non superiore di oltre due punti percentuali rispetto alla media dei tre Stati con più basso tasso di interesse 65.Poco dopo aver ratificato il Trattato di Mastricht, il Governo procede ad una prima manovra correttiva sui conti pubblici con un forte inasprimento fiscale, alla quale né seguiranno altre fino al 1996-1997, quando il Governo riesce ad assicurare l’ingresso dell’Italia nell’euro. A partire dal 1992 iniziano a cambiare molte importanti politiche economiche: si privatizzano e regolamentano molte attività economiche; si cedono molte delle partecipazioni azionarie dell’IRI e lo stesso ente è sottoposto a liquidazione; si dimettono tutte le partecipazioni dell’EFIM (1993); la SIP, poi divenuta Telecom, è privatizzata; sono quotate in borsa, con il collocamento presso il pubblico di parte del capitale, sia l’ENEL che l’ENI; si ha la soppressione il Ministero delle Partecipazioni statali; con l’abolizione definitiva delle indicizzazioni salariali e con l’accordo fra Governo e sindacati e Confindustria del luglio 1993 si rivede la struttura dei contratti, con un organizzazione su un doppio livello, nazionale e territoriale o aziendale; si affronta il nodo della

65 Pistone S., L’integrazione europea, uno schizzo storico, Utet, Torino 1999, pp. 52-60, 68.

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previdenza con la riforma Amato del 1992 alla quale seguirà poi quella Dini nel 1995. Rientra in questo quadro di cambiamenti la decisione di mettere fine alla lunga esperienza dell’Intervento straordinario nel Mezzogiorno66.

8. Dalla omogeneità nel sottosviluppo alla diversità nello sviluppo: la Basilicata all’inizio degli anni Novanta.A conclusione di un quarantennio di Intervento straordinario nel Mezzogiorno l’immagine della Basilicata è ormai lontana da quella degli anni Cinquanta descritta all’inizio di questo lavoro: la regione della dipendenza, dell’isolamento e del sottosviluppo ha lasciato ormai il posto ad un mosaico territoriale molto più complesso. Al suo formarsi non è certo estraneo l’intervento pubblico il quale, a partire dagli anni Cinquanta, ha riversato nella regione cospicue risorse. Dai dati del censimento del 1991 si rileva che il contributo del settore industriale al Pil regionale è di circa il 28%, quello del settore primario è di poco inferiore al 10%, mentre quello del settore dei servizi è pari al 62%. A livello provinciale si registra un riequilibrio nell’indice di industrializzazione fra le due province, Matera e Potenza. Al più alto indice di industrializzazione complessivo della provincia di Matera, corrisponde una concentrazione territoriale sull’asse Pisticci-Ferrandina. La situazione appare piuttosto diversa nella provincia di Potenza dove pur tra luci e ombre, si va delineando un progressivo ampliamento dello spazio industriale. Nel complesso risultano occupate nelle regione 193.000 persone, per un valore pari al 31% della popolazione residente67 . Su questo scenario irrompe il progetto Fiat relativo alla costruzione nell’area del Vulture-Melfese, precisamente nella Piana di San Nicola del Comune di Melfi - importante centro della Basilicata, noto per le Costituzioni di Federico II - di un moderno impianto automobilistico, rendendo così più articolato il quadro economico-territoriale della regione. Nell’impianto, il più grande investimento realizzato in Europa negli ultimi due decenni, si sperimenta un nuovo tipo di produzione delle auto ispirato ai principi della qualità totale, della learn production e del just in time del modello giapponese Toyotismo. L’avvio di un sostanziale ripensamento della propria strategia organizzativa e territoriale da parte della Fiat si manifesta in seguito all’evoluzione del mercato internazionale 66 Viesti G., Abolire…, cit., pp. 17-24. 67 Il contributo del settore industriale e di quello agricolo al Pil regionale,al contrario di quello dei servizi, risulta inferiore anche se di poco, rispetto al 1971. Biondi G., op. cit., pp. 234-235.

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del settore automobilistico ed alla crescente concorrenza delle Case giapponesi le quali applicano ormai da oltre un decennio una nuova filosofia della produzione, finalizzata ad offrire risposte adeguate e tempestive ad una domanda molto esigente. Negli anni Ottanta l’azienda Fiat aveva orientato la propria strategia verso il consolidamento del mercato interno, da sempre considerato il suo punto di forza. Questa certezza è messa in discussione verso la fine del decennio quando, nonostante l’acquisizione dell’Alfa Romeo (1986), la Casa torinese registra un calo della propria quota di mercato nazionale nell’ordine del 12%. Vi è dunque la presa di coscienza che l’innovazione e la globalizzazione costituiscono ormai i fattori strategici del successo nel settore e le tradizionali politiche di restyling e di ampliamento delle versioni esistenti non sono sufficienti a contrastare una concorrenza sempre più intensa. D’altra parte gli ultimi anni Ottanta sono anche quelli durante i quali la domanda si afferma come fattore trainante in quanto è la tipologia della richiesta a determinare modelli e qualità dell’auto. La nuova sfida si chiama qualità totale. La profonda riorganizzazione del modo di produrre le auto, configura per il settore una fase di rottura con la tradizione. Il principio fondamentale del Toyotismo resta il just-in-time, ovvero la definizione di un processo produttivo che garantisce una tendenziale sintonia tra domanda e offerta del prodotto: gran parte delle componenti di un’automobile sono prodotte nel momento in cui servono, per essere esclusivamente assemblate presso la Casa madre. Il modello di fabbrica flessibile è stato a lungo sottovalutato dalle Case automobilistiche occidentali in quanto ritenuta espressione propria ed esclusiva della cultura, non solo economica, del Giappone. I successi dei cosiddetti transplants nipponici (inizialmente nelle regioni orientali europee e poi in Gran Bretagna) e le prime imitazioni americane convincono il management della Fiat che il modello giapponese può funzionare anche a prescindere da alcune condizioni particolari esistenti in Giappone68. Una volta accertato che il modello contiene in sé fattori di successo, si pone il problema di riconvertire le vecchie fabbriche o piuttosto di costruirne una del tutto ex-novo. I fattori che fanno propendere per la seconda soluzione sono: la presenza di numerosi vincoli di tipo tecnologico che rendono antieconomico una totale riconversione della tradizionale organizzazione della fabbrica basata sulla sequenza funzionale delle diverse fasi di produzione (il modello flessibile richiede, invece,

68 Cersosimo D., Viaggio a Melfi, la Fiat oltre il fordismo, Donzelli, Roma 1994, pp. 27-40.

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un layout basato su logiche di omogeneità del prodotto piuttosto che delle singole operazioni); la considerazione che la tradizionale rigidità organizzativa incentrata sul principio della gerarchia risulta l’esatto contrario di un’organizzazione tendente alla gestione integrata in orizzontale di più segmenti della produzione; e l’esigenza di passare dal lavoro individuale costruito sul dialogo diretto tra uomo e macchina al lavoro di gruppo partecipato, il che contrasta con la stratificazione della cultura fordista sulla quale sono stati definiti anche i tradizionali rapporti sindacali e tutte le relazioni aziendali. Tre, invece, sono le principali motivazioni alla base della scelta di Melfi. La prima è che la cittadina dispone di un’ampia superficie, la Piana di San Nicola, discretamente infrastrutturata, di un mercato del lavoro con alta presenza giovanile e di un contesto socio-culturale senza una consolidata tradizione industrialista. La seconda motivazione è la posizione baricentrica della Piana di San Nicola di Melfi nella filiera Fiat già in attività nelle regioni meridionali (in Abruzzo, nel Basso Lazio, nell’area Barese ed in Irpinia). Infine, la terza motivazione è la possibilità di accedere alle agevolazioni finanziarie previste dall’istituto dell’accordo di programma, contenuto come già detto nella Legge 64 del 1986 che disciplina gli interventi straordinari nelle regioni del Sud dopo la chiusura della Cassa per il Mezzogiorno. Nel caso di Melfi nell’aprile 1991 il CIPE delibera un accordo di programma che prevede agevolazioni finanziarie statali alla Fiat per 3.100 miliardi, di cui 1.300 per l’impianto di Melfi, a fronte di un programma di investimenti globali di 6.672 miliardi, di cui 4.800 destinati a Melfi. Si tratta di un investimento di grandi dimensioni: lo stabilimento impegna circa 2 milioni e 700 mila mq, con un occupazione a regime di circa 7.000 unità, un consumo di oltre 5 milioni di metri cubi di acqua per usi industriali ed un fabbisogno energetico pari a quello di una città media di circa 55-60.000 abitanti69.Il modello di funzionamento della nuova fabbrica è del tipo integrato, ovvero una fabbrica che partendo dai fogli di lamiera arriva alla produzione finale della vettura, la Fiat Punto nel caso specifico, il quale permette di realizzare elevate performance in termini di qualità, costi e flessibilità rispetto alla mutevole domanda che viene formandosi nel mercato. L’unità operativa di Melfi potrà raggiungere a regime una produzione di circa 410.000 auto all’anno, grazie alle relazioni con le altre fabbriche Fiat distribuite nel Mezzogiorno. In particolare, i motori arrivano da Pratola Serra, i cambi da Termoli, le sospensioni da Sulmona. Con riferimento

69 Ibidem, pp. 55-63.

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ai rapporti interaziendali, va innanzitutto ribadita la forte complementariètà che esiste nella fabbrica integrata tra la Casa madre e le unità che rientrano nell’indotto di primo livello, vale a dire tutte quelle che pur conservando la propria autonomia, partecipano in maniera diretta alla progettazione del prodotto finito e devono lavorare in perfetta simbiosi con i tempi di produzione dell’unità centrale. A tale proposito, l’impianto di Melfi presenta delle differenze rispetto al modello giapponese: mentre le Case automobilistiche nipponiche fanno ricorso alla componentistica esterna per non più del 30% del prodotto finale, la Fiat Punto prodotta nello stabilimento di Melfi è costituita, ad esempio, per circa il 60% da elementi prodotti all’esterno della Casa madre. Da tale scelta deriva la strategia Fiat nel rapporto con i propri sub-fornitori: se le case nipponiche tendono a controllare le aziende della componentistica attraverso l’acquisizione di quote azionarie, la Fiat si propone come co-programmatore rispetto alle unità impegnate nella produzione degli elementi dell’auto 70. Questa scelta strategica si è tradotta nella creazione di una vera e propria cittadella dell’auto, dove nel 1997 opereranno in perfetta complementarietà 22 delle 40 nuove iniziative previste a regime. Tra di esse una sola è di origine meridionale, mentre tutte altre in maniera diretta o diretta, fanno capo ad aziende o a gruppi del Nord, in gran parte originari dell’area dell’indotto automobilistico piemontese e lombardo (810 nascono direttamente all’interno dello stesso gruppo Fiat). Le potenzialità di fertilizzazione del tessuto produttivo regionale derivanti dall’insediamento della nuova fabbrica vanno individuate sia sul piano dell’indotto di secondo livello, il quale consiste in rapporti di sub-fornitura tra le aziende della cittadella dell’auto, il comprensorio melfese e il contesto regionale; e sia sul piano dell’indotto promosso, ovvero nelle iniziative che possono nascere in conseguenza della semplice presenza del polo automobilistico, soprattutto nel settore dei servizi. Con la messa in marcia della fabbrica di Melfi, il processo d’industrializzazione subisce una svolta di portata sul piano locale e regionale. L’impianto Fiat genera nel 1996 un’occupazione diretta di 4.000 unità lavorative che, a pieno regime potranno aumentare fino al massimo di 7.000; ad essa va poi aggiunta una quota di occupazione indiretta, nell’indotto di primo livello, stimata intorno alle 1.500-2000 unità lavorative in impianti che sorgeranno nelle vicinanze dello stabilimento. A questa si aggiunge l’aliquota occupazionale alimentata dall’indotto di secondo

70 Ibidem, pp. 71-78.

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livello o rete di sub-fornitori stimata in 2.500-3.000 unità71.L’altra prospettiva fondamentale per valutare l’impatto della fabbrica Fiat nell’area melfese e più in generale nell’intera regione è rappresentato dal mercato del lavoro. Nella fabbrica fordista l’operaio non doveva ordinare e controllare il proprio lavoro, ma doveva limitarsi ad un’attività semplicemente esecutiva e ripetitiva. Di conseguenza non era richiesto un livello di scolarizzazione particolare. All’organizzazione del suo lavoro provvedevano i cosiddetti cervelli dell’azienda i quali non avevano nessun contatto diretto con la produzione in quanto l’organigramma era rigidamente gerarchizzato ed il colloquio tra i diversi livelli era pressoché inesistente. Nella fabbrica integrata, invece, l’operaio da soggetto passivo diviene agente attivo della produzione, al fine di abbattere i costi degli sprechi e tendere alla qualità totale. Il modello richiede livelli di competenza più elevati, una partecipazione responsabile al processo produttivo e creatività dei singoli operatori. Nella fabbrica di Melfi questo nuovo approccio si concretizza nella creazione di 31 Unità Tecnologiche Elementari (UTE) ossia di piccoli gruppi di lavoratori che sovrintendono e sono responsabili di 40-50 metri della linea di produzione. Questo cambiamento nell’organizzazione del lavoro richiede la presenza di alcune precondizioni non presenti nell’area del Vulture al momento dell’insediamento della nuova fabbrica, quali una struttura demografica giovane con un tasso di scolarizzazione medio-alto possibilmente orientato verso il settore tecnico (nella regione si rileva un livello di formazione medio-alto ma definitosi nel settore umanistico). Pur essendo a conoscenza di tale dato, l’azienda non ha difficoltà a sottoscrivere con le organizzazioni sindacali e con le autorità locali un accordo secondo il quale l’80% delle assunzioni deve avvenire a scala regionale; la Fiat di fatto ha deciso sin dall’inizio di investire sulla formazione interna, piuttosto che ricorrere al meccanismo dei trasferimenti da altre regioni il quale con le persone avrebbe esportato anche la cultura fordista e le logiche del lavoro tipiche della produzione di massa. La volontà di azzeramento delle relazioni industriali tipiche dell’area torinese, come di tutte le regioni di tradizionale insediamento industriale, è riprovata dal fatto che il nuovo impianto è formalmente di proprietà di una nuova società, la SATA (Società Automobilistica Tecnologie Avanzate), il che non consente l’applicazione degli accordi contrattuali e delle relazioni sindacali attive negli altri stabilimenti Fiat72.

71 Giordano R., Le lunghe strade oltre Melfi, in Viganoni L., op. cit., p. 316. 72 Cersosimo D., op. cit., pp. 86-92.

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Nella parte orientale di Potenza, in un’area che comprende i Comuni di Lavello-Melfi-Venosa-Ginestra, vi è invece un polo produttivo di piccole imprese specializzato nella produzione di reggiseno. All’interno dell’area, il Comune di Lavello presenta la più elevata concentrazione di imprese. A differenza di molti altri distretti industriali del Centro-nord-est, la corsetteria di Lavello non affonda le sue radici nella presenza sul territorio di tradizioni manifatturiere. Alla data del censimento economico del 1981, nella cittadina lucana si contano solamente 33 unità locali, operanti nel settore tessile-abbigliamento: si tratta di piccole attività sartoriali e di tappezzeria orientate principalmente alla domanda locale. Dopo il terremoto del 23 novembre 1980, nell’area si insedia, a fini solidaristici, il Campo base della Regione Emilia Romagna, di cui fanno parte esponenti di istituzioni diverse, quali dipendenti regionali, di Enti locali, sindacati, esercito, enti ospedalieri, oltre che gruppi di giovani volontari. In quella occasione Mario Luisi, segretario della CNA di Lavello, spinto dalle richieste di alcune cooperative femminili di confezioni di maglieria sorte nel comprensorio di Lavello e colpite dalla crisi che investe il settore tra gli anni Settanta e Ottanta, entra in contatto con il Centro di informazione tessile di Emilia Romagna (CITER) per cercare di sondare la disponibilità di alcune imprese emiliane a decentrare in Basilicata parte della produzione. Per ovviare all’assenza di imprese nell’area, la quale avrebbe reso difficile attivare nei committenti relazioni di fiducia, l’11 febbraio 1983 si costituisce il Consorzio artigiani confezionisti di Lavello con l’adesione di 5 piccoli laboratori di sartoria e maglieria, di cui 2 di Venosa e 3 di Lavello73. Sul finire del 1983, la M.S.P.A, un’impresa modenese alla ricerca di laboratori di confezioni e manodopera femminile da formare e da avviare alla produzione di reggiseno, accetta la domanda di commesse del Consorzio di Lavello. Nello stesso periodo un gruppo di 15 ragazze di Lavello e il presidente di una cooperativa di Venosa in crisi produttiva svolgono lo stage formativo per aspiranti lavoratrici in conto terzi, presso l’azienda modenese, e di ritorno apriranno i laboratori di corsetteria e maglieria: Lavello 1 e Venosa 1. Da questi primi laboratori, attraverso un processo di gemmazione imprenditoriale nasceranno nuove unità produttive: tra il 1983 e il 1992 nascono a Lavello ben 11 laboratori di confezione del reggiseno. Successivamente, 2 imprenditori soci del Consorzio decidono di

73 Cersosimo D., Nisticò R., Casualità, istituzioni e genius loci: la corsetteria a Lavello, in Viesti G., Mezzogiorno dei distretti, Meridiana Libri, Corigliano Calabro 2000, pp. 159-172.

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aprire uno stabilimento in cui la produzione di biancheria intima va dall’ideazione all’etichettatura del prodotto. In copartership con un imprenditore modenese i due soci chiedono e ottengono il finanziamento di un nuovo stabilimento attraverso la Legge 44 del 1986 che sorgerà a San Nicola di Melfi. A partire da questo momento anche altri laboratori seguiranno l’esempio dei due soci, mentre altri ancora restano in conto terzi. Il vantaggio principale delle imprese è che le strutture sono semplici e i costi fissi: i laboratori hanno dai 4 addetti in su, le macchine sono spesso in affitto o comodato, i loro prodotti sono distribuiti all’esterno attraverso tutti i canali commerciali, anche attraverso la grande distribuzione74. Agli inizi degli Novanta anche nel Materano si profilano segnali ampiamente positivi per l’economia locale in virtù della visibilità che vi assume il Triangolo del salotto che fa capo alla Divani & Divani dell’imprenditore Pasquale Natuzzi. Il suo centro è individuabile in un’area a cavallo tra la Puglia e la Basilicata, che ha nei comuni di Altamura, Santeramo in Colle (in provincia di Bari) e Matera i vertici ideali di un triangolo. Qui, tra gli anni Cinquanta e Sessanta nasce un polo specializzato nella produzione di divani in pelle. A partire da questo nucleo centrale l’area di produzione si è progressivamente estesa verso Nord, (cioè verso Bari), verso Nord-ovest (Gravina in Puglia), nonché verso Ferrandina e altri Comuni lucani. L’area è stata interessata dal fenomeno della verticalizzazione dell’intero processo produttivo da parte di un’unica impresa, la Natuzzi con conseguente effetto fotocopia da parte delle altre imprese. La strada aperta da Natuzzi viene, infatti, presto seguita dalle piccole aziende nate nell’area attraverso processi di gemmazione delle imprese più grandi (Calia, Nicoletti) che staccatesi dalla Natuzzi danno vita ad una nuova azienda a Matera, e dal 1978 i due proseguono singolarmente. Tale fenomeno, che comincia a svilupparsi a partire dalla metà degli anni Ottanta, viene facilitato dai bassi costi dei macchinari, dalla semplicità

74 L’evoluzione positiva del comparto risulta in netta controtendenza rispetto alle dinamiche nazionali e meridionali: la produzione della biancheria intima sembra essere investita, infatti, durante la prima metà degli anni Novanta, da un consistente processo di ristrutturazione che implica la perdita in un solo quinquennio di 1020 unità locali nel Centro-nord e di 196 nel Mezzogiorno. Nel corso della seconda metà degli anni Novanta, tuttavia, la produzione nazionale di corsetteria subisce un arresto produttivo rilevante che implica un inasprimento delle tensioni competitive del mercato, a causa della politica economica restrittiva che compromette la domanda aggregata e frena i consumi, in primo luogo di quelli voluttuari. Le imprese leader abbassano i prezzi dei loro prodotti e i produttori lavellesi si trovano a dover fronteggiare la concorrenza di prodotti di più alta qualità con un basso prezzo. Come conseguenza si ha prima un rallentamento e poi una contrazione dei livelli produttivi del sistema locale. Ibidem, pp. 159-189.

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del processo produttivo, dalle limitate dimensioni degli spazi ad esso necessari, dalla rapida circolazione delle informazioni sul prodotto sui mercati di sbocco. Si vengono così a creare una serie di relazioni industriali, di rapporti di cooperazione tra imprese, società e istituzioni locali, di servizi connessi alle aziende tipiche del distretto industriale, che consentono un enorme sviluppo dell’indotto e modi di produzione ispirati al principio del just in time75. La crescita del Triangolo del salotto inizia nel 1983 con l’approccio da parte dei primi grandi gruppi (Natuzzi e Nicoletti) ai mercati esteri. Nel 1984 il fatturato dell’indotto è inferiore ai 100 miliardi e le esportazioni non superano i 40 miliardi di lire. Nel 1990 il fatturato è superiore ai 400 miliardi con esportazioni di circa 300 miliardi. Nel 1994 l’indotto raggiunge e supera i 1000 miliardi di fatturato e le esportazioni toccano ormai 800 miliardi. I fattori di competitività del Triangolo del salotto consistono in: strategia di nicchia (strategia basata sulla specializzazione del prodotto); organizzazione industriale (ottimizzazione delle fasi lavorative dagli approvvigionamenti alla produzione); flessibilità e costo del prodotto. Lo studio dei sistemi di produzione, dei rapporti con i fornitori e con i terzisti, il modo di vendere i divani presenta, numerosi aspetti interessanti e sorprendenti. Il Triangolo del salotto sfugge a ogni principio di localizzazione produttiva. Le materie prime per la produzione dei divani vengono da fuori indotto: le pelli da Arzignano, il Poliuterano da diverse aree d’Italia, (in particolare da Napoli), il legno dall’estero (in gran parte dai Paesi scandinavi), il tessuto da Prato. I mercati principali sono all’estero, i porti più vicini all’imbarco dei container sono Salerno che dista 250 km dal distretto, e Gioia Tauro che dista 400 km. Asse stradale fondamentale dell’intera area è la Statale 99 che collega Matera ad Altamura (una strada pericolosa e inadeguata). La Statale 99 all’altezza di Altamura si collega con Bari e con la A 14 e, a Matera si congiunge con la strada Statale 7 Appia, che a sua volta a Ferrandina confluisce nella Basentana la quale assicura i collegamenti

75 Gli elementi che compongono un divano sono costituiti da materie prime e processi produttivi molto diversi. La grande diversità di questi componenti fa sì che possano essere realizzati in maniera autonoma gli uni dagli altri, perché le conoscenze e gli impianti che servono per la produzione hanno poco in comune. Il processo produttivo consiste nella fabbricazione dei componenti e nel loro assemblaggio, che crea il prodotto finito. In genere le aziende che fabbricano divani nel Triangolo del salotto effettuano solo il montaggio del prodotto finito (oltre al suo progetto e alle attività di vendita), assemblano i vari elementi acquistati da subfornitori specializzati per tipo di componente. In alcuni casi però fabbricano anche una parte dei componenti. Il metodo di produzione utilizzato è quello su commessa. Viesti G., Il “Triangolo del salotto”, in Viesti G., Mezzogiorno dei distretti…, cit., pp. 98-118.

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con l’Autostrada del Sole A3, e con la Statale 106 Jonica. Queste due arterie stradali conducono ai porti di Salerno e Gioia Tauro, gli unici ad avere nel Sud Italia le strutture adatte per l’imbarco dei containers. Da qui partono navi per tutto il mondo. Dalla 99 partono anche le due arterie che conducono a Santeramo in Colle: da Matera la 271 e da Altamura la 171. Il movimento rilevante avviene su strade, soprattutto in considerazione del fatto che Matera, è in quel periodo ed è tutt’oggi l’unico Capoluogo di provincia a non essere servito dalle Ferrovie dello Stato. L’unico collegamento su strada ferrata è quello offerto dalle ferrovie Apullo-Lucane che sono però a scartamento ridotto. “I problemi relativi alla viabilità, come la mancanza di infrastrutture adeguate - afferma Rocco Le Rose - non ha fermato gli imprenditori del Triangolo del salotto che hanno continuato a lavorare tra mille difficoltà tecnico-burocratiche. La loro caparbietà unita allo spirito emulativo del successo (da diverse interviste una frase capeggia sulle altre : se ce l’ha fatta lui ce lo posso fare anche io), ha permesso loro di mettere da parte una concorrenza di tipo distruttiva a favore di una più tacita collaborazione, esempio sono i continui contatti fra gli imprenditori che hanno come oggetto lo scambio di informazioni sia sui clienti sia sugli stessi fornitori, e una concorrenza basata solo sulla diversità di modelli”76. Nella media Val d’Agri, che già si giova di una struttura economica piuttosto equilibrata data la presenza di attività diversificate quali quelle agricole rivolte alla frutticoltura, quelle industriali connesse anche all’agglomerato di Viaggiano, quelle indotte alla suscettività turistico-ambientale degli ambiti montani che si stagliano a nord e a ovest e del lago del Pertusillo il ritrovamento di un cospicuo giacimento petrolifero conferirà all’area, come si vedrà nel prossimo capitolo, un ruolo trainante nello sviluppo economico regionale77 Nel Metapontino, che già a metà anni Settanta è l’area forte della regione, si assiste ad una maggiore crescita del settore agricolo, ad una modesta crescita di quello dei servizi e del turismo. La crescita del comparto agricolo continua tuttavia ad

76 Le Rose R., Un nuovo distretto industriale: il Triangolo del Salotto, in “Osservatorio dell’economia materana: Matera promozione”, Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura, n. 4, dicembre 1999.77 La presenza del petrolio nel sottosuolo della valle, valutata intorno ai 622 milioni di barili per un valore totale ai prezzi del 1998 del greggio di circa 14.500 miliardi di lire. Come vedremo nel prossimo capitolo, nel 1998 viene varato il “Programma di sviluppo della Val d’Agri”, costituito dall’insieme di interventi relativi allo sfruttamento delle risorse petrolifere e all’inserimento di tali attività nel contesto dello sviluppo economico territoriale della Basilicata e della valorizzazione delle altre risorse locali.

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interessare soprattutto il territorio di Policoro dove la struttura delle aziende si è radicalmente trasformata, gli agricoltori si sono gradualmente liberati dalle norme e dalle prescrizioni dettate dall’Ente di riforma, e si sono messi in moto, spontaneamente, dei processi innovativi. L’intera superficie agraria di Policoro è ormai irrigabile, soprattutto da quando la conclusione dei lavori di adduzione dal Sinni - collegamento con il grande sbarramento idrico di Monte Cotugno presso Senise - nel 1984, ha reso disponibili maggiori risorse idriche. A ciò si aggiungono la sempre maggiore diffusione delle novità tecniche introdotte sul finire degli anni Settanta, come l’intensa meccanizzazione e le coltivazioni in tunnel e serre; quest’ultime in particolare garantendo un raccolto precoce consentono agli agricoltori di avere un vantaggio di prezzo sul mercato. L’allevamento del bestiame è ormai sostituito del tutto dall’orticoltura e soprattutto dalla frutticoltura. La coltivazione della barbabietola da zucchero scompare quasi del tutto dopo che la fabbrica dello zuccherificio nel 1982, dopo ben tre decenni di attività, chiude i cancelli per motivi di redditività. Diminuisce anche la coltura della fragola, in seguito alla caduta dei prezzi delle fragole provocata dalla concorrenza di nuove zone di coltivazione nel Sud Italia e dalla notevole ascesa del costo della manodopera femminile. Si espande, invece, la frutticoltura sia perché non richiede molta manodopera e sia perché l’orticoltura risulta sempre meno redditizia a causa della forte concorrenza con le numerose zone di produzione dei Paesi mediterranei dell’Unione europea dove vi sono condizioni climatiche e tecniche migliori. L’organizzazione locale delle vendite non è tuttavia ottimale in quanto risulta molto frazionata, anche se l’idea di cooperativa si è imposta, al contrario degli anni Sessanta, dando vita ad una decina di organismi privati con circa 100 soci ciascuno che stipulano contratti con acquirenti all’ingrosso stranieri, soprattutto tedeschi, dando vita ad una catena del freddo tra produttore e consumatore. A partire dagli anni Ottanta, inoltre, si registra un abbandono dell’agricoltura da parte della popolazione che inizia a volgere il proprio interesse verso altri settori economici, soprattutto quello dei servizi, che registra una consistente crescita. Nella maggior parte dei casi però le aziende agricole costituiscono una fonte secondaria di reddito. Si assiste, infine, all’avvio di iniziative nel settore del turismo, soprattutto balneare. In particolare, si tratta di iniziative private che a partire dalla metà degli Ottanta hanno trasformato il Lido di Policoro, progettato da molto tempo ma rimasto a lungo senza qualsiasi tipo di sviluppo, in un piccolo

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polo turistico stagionale che oltretutto ha il vantaggio di essere ben collegato all’entroterra lucano, per la confluenza delle superstrade di fondovalle dell’Agri, del Sinni e del Sarmento, e al territorio nazionale attraverso la Strada Statale 106. In generale, a partire dagli anni Novanta la valorizzazione turistica - in forme del tutto nuove rispetto al passato - comincia ad investire anche le aree interne del territorio regionale. Si apre in primo luogo la strada ad iniziative volte alla valorizzazione del patrimonio locale, di risorse ambientali e di beni culturali, attribuendo da un lato maggiore valenza strategica al sistema delle aree protette, e dall’altro, puntando sul recupero dei tratti originali della società rurale 78.

ConclusioniNel 1958 si avvia anche in Basilicata la stagione della politica industriale, quella dei poli di sviluppo, destinata a dar vita nel volgere di pochi anni all’immagine delle cattedrali nel deserto. I tre nuclei industriali lucani, afferenti principalmente al settore chimico, meccanico e metallurgico, del tutto estranei al contesto locale in cui vengono a realizzarsi, non riescono a produrre l’auspicata fertilizzazione del tessuto produttivo e poi vengono messi in crisi dal forte aumento del costo dell’energia a partire dalla seconda metà degli anni Settanta79. Il processo di industrializzazione unitamente ai grandi interventi infrastrutturali che lo accompagnano non pone freno all’esodo, soprattutto in campo rurale, che per quanto meno intenso che nel decennio precedente continua a depauperare la regione del suo potenziale umano: tra il 1961 e il 1971 nella sola provincia di Potenza i comuni con popolazione inferiore ai 5.000 residenti si accrescono notevolmente, passando da 65 a 83, mentre decrementi di popolazione superiori al 10% interessano oltre la metà dei comuni della stessa provincia; anche in provincia di Matera si infittisce il numero dei comuni che registrano decrementi superiori al 10%, mentre sono ancora i comuni del Metapontino a controbilanciare la tendenza negativa. Il Metapontino è, inoltre, in quegli anni l’area in cui si registra un minor esodo agricolo, segno che l’opera di bonifica e l’impiego sempre più ampio dell’irrigazione vi hanno favorito la diffusione di colture pregiate. Inoltre, è questa anche la zona che dopo i due capoluoghi di provincia riesce ad occupare almeno una parte degli espulsi dall’agricoltura in altri comparti, soprattutto nei

78 Rother K., op. cit., pp. 121 e 125-128. 79 Sull’argomento si veda: Biondi G., op. cit., pp. 226-228.

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nuclei industriali del basso Basento, Ferrandina e Pisticci80. Gli investimenti destinati in quegli anni al settore secondario rispondendo alla logica della rigida concentrazione delle aziende entro i perimetri attrezzati dei nuclei, favoriscono un rafforzamento della frattura territoriale inaugurata dalla riforma agraria, consegnando la regione ad un futuro contrassegnato dalla progressiva accentuazione dei divari interni. Scarsa è, infatti, l’attenzione riservata dalla nuova strategia dell’Intervento straordinario alle aree interne le quali escluse prima dai comprensori sottoposti alla riforma agraria perché poco adatti alla formazione di una piccola proprietà diretta coltivatrice sono ora considerate prive dei requisiti indispensabili all’attuazione della cosiddetta industrializzazione per poli, quali una buona accessibilità e la presenza di un’articolata rete di capisaldi urbani. Nel corso del decennio successivo, l’economia lucana organizzandosi prevalentemente intorno ai cospicui flussi di risorse che provengono dall’esterno si connota sempre più, da un lato, per l’accentuarsi del rapporto di dipendenza e, dall’altro, per gli squilibri che tali investimenti data la loro consistente concentrazione settoriale e territoriale generano81. L’eliminazione degli squilibri territoriali e settoriali è uno degli obiettivi principali della programmazione economica regionale a partire dagli anni Sessanta. Il Comitato per lo studio delle prospettive di sviluppo delle province lucane, costituito nel 1961 con il compito di promuovere studi e indagini per accertare le possibilità di sviluppo dell’economia regionale, sulla scia del Piano lucano promosso dalla SVIMEZ e messo a punto da Rossi-Doria qualche anno prima, suddivide il territorio in sei distinte aree, e per ciascuna di essa ne individua le problematiche e le possibili prospettive di sviluppo. Si tratta di un approccio innovativo in quanto la regione non è considerata affatto un territorio omogeneo, ma un’area con differenti risorse da sfruttare e problematiche da risolvere, con opportune e differenti strategie di sviluppo. E tra i vari studi prodotti dal suddetto Comitato particolare importanza assume quello relativo al settore agricolo, curato da Rossi-Doria, contenente la proposta di costituire nella montagna lucana un grande demanio silvo-pastorale affidato ad un saldo organismo tecnico nell’ambito del quale procedere ad una riorganizzazione dell’agricoltura, e all’insediamento di una serie di attività industriali in grado di integrare l’attività primaria e di frenare

80 Viganoni L., op. cit., p. 13.81 IBRES, Progetto di ricerca per lo sviluppo della “Basilicata interna”, Potenza 1981, pp. 43-44.

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l’esodo della popolazione82. Il CRPE istituito nel giugno 1965 dal Ministero del Bilancio con il compito di supportare, attraverso schemi di sviluppo regionali, la programmazione nazionale affronta però i problemi della montagna lucana in maniera completamente opposta a quella indicata da Manlio Rossi-Doria. La soluzione delle problematiche della montagna lucana è ricercata nel quadro dello sviluppo economico globale: si punta ad un’organica integrazione della montagna con le economie delle valli e delle pianure, dotando il territorio regionale di un sistema infrastrutturale che mettendo in comunicazione le aree forti con quelle interne riesca a produrre effetti di contagio. Solo sul finire degli anni Settanta, con in primi tentativi di programmazione regionale e con l’istituzione delle Regioni a statuto ordinario, si avviano le prime strategie concrete in favore delle aree montane. Tuttavia, nonostante la volontà sincera da parte della neonata Regione di risolvere i problemi della montagna - affermata nello stesso Statuto Regionale- i comuni interni continuano ad essere interessati dallo spopolamento, soprattutto da parte dei giovani, e dal declino economico e socio-culturale83. In chiusura degli anni Settanta il quadro economico-territoriale della Basilicata è, tuttavia, diverso rispetto a quello dell’immediato secondo dopoguerra. L’intervento straordinario ha sicuramente aiutato un meccanismo di sviluppo. Emerge, infatti, chiaramente in quegli anni come le più sostanziali modificazioni del territorio regionale coincidono con precise iniziative economiche. La zona per la quale si può parlare di sviluppo è senza dubbio quella situata tra Matera e l’area metapontina, segnata da buoni livelli di crescita dei comuni costieri e da una discreta tenuta di quelli dell’entroterra più immediato. Qui, il capoluogo provinciale, se pur limitatamente al settore terziario, offre occasioni di lavoro alla popolazione espulsa dall’agricoltura, mentre l’area metapontina accentua, sempre sulla base agricola, il differenziarsi delle strutture economiche. Una seconda area che registra segnali positivi coincide con il capoluogo regionale e con la cinta di comuni che su di essi gravitano, favoriti dalla presenza di attività industriali e commerciali. In particolare, nella città di Potenza lo sviluppo e la crescita di attività commerciali e dei servizi comporta l’immigrazione della popolazione dei piccoli centri rurali della provincia. Una terza area dotata di una qualche vitalità può individuarsi nel Melfese, limitatamente ai comuni di Melfi, Lavello, Venosa e Rionero. Qui,

82 Rossi-Doria M., Il futuro della montagna lucana…, cit., pp. 280-313. 83 IBRES, Progetto di ricerca…., cit., p. 44.

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l’attività della riforma fondiaria e la costruzione di serbatoi artificiali unitamente allo sviluppo di alcune industrie consentono di mitigare il problema della forte espulsione dall’agricoltura, e di fare da freno all’emigrazione. Un quarto territorio più dinamico è quello che si estende dalla Valle dell’Agri fino al versante tirrenico della regione. L’evoluzione complessivamente positiva di quest’area si collega, da un lato, all’aumento del potenziale irriguo che interessa le vallate interne dell’Alto Agri e del Medio Ofanto, e dall’altro, allo sviluppo turistico del tratto tirrenico del Marateese cui si accompagna il recupero del Lagonegrese sorretto dalla costruzione di grosse arterie stradali (La Salerno-Reggio Calabria e la Lagonegro-Praia a Mare). Queste aree, come afferma Lidia Viganoni: “sono l’espressione di un processo di modificazione che ha sostituito all’omogeneità la differenziazione territoriale. Se si esclude il Potentino, peraltro, la loro collocazione geografica, prevalentemente ai margini del perimetro regionale, è ulteriore conferma della formazione di squilibri territoriali all’interno dello spazio regionale per via della loro progressiva saldatura ai grandi assi viari extra-regionali e della conseguente gravitazione sui centri maggiori della Campania e della Puglia, tanto che le aree di Matera e del Metapontino vanno già prefigurando ritmi e caratteristiche di sviluppo più prossimi a quelli dell’area barese o tarantina che non a quelli dell’interno. Tale tendenza andrà ulteriormente rafforzandosi negli anni successivi, disegnando una rete urbana regionale estremamente polarizzata su poche aree che il persistere di collegamenti interni fortemente carenti tenderanno sempre più a rapportarsi, in termini economici e funzionali, con gli spazi esterni”84.Tra queste aree vi è un’ampia parte di territorio, che si estende dall’Alto Bradano fino ai Comuni del Sarmento e dell’Alto Medio Sinni, caratterizzata da degrado economico e sociale e da una situazione demografica estremamente critica. é in questi territori interni e meno urbanizzati che si riscontra quello stato di disorganizzazione delle strutture pubbliche e l’estrema settorializzazione delle politiche di intervento (cantieri di forestazione, infrastrutture stradali ecc.) che ha prodotto effetti negativi nel tessuto economico-sociale, in termini di decadimento e degenerazione della lotta politica intorno agli interessi suscitati dalla gestione dei flussi crescenti di risorse di origine pubblica85.Il meccanismo di sviluppo aiutato dall’Intervento straordinario è destinato a

84 Viganoni L., op. cit., p. 1685 Cuoco G. ( a cura di), Mezzogiorno interno: il caso Basilicata, ESI, Napoli 1983.

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consolidarsi nel corso degli anni Ottanta anche per effetto della nuova massiccia erogazione di finanziamenti che, in modi e forme differenti rispetto al passato, investono la regione sconvolta dal sisma del 23 novembre 1980. Nella scia dell’effetto terremoto si collocano, infatti, sia i finanziamenti destinati dallo Stato alla ricostruzione edilizia, e sia quelli convogliati nel settore industriale con la Legge 219 del 1981. Per quanto i risultati siano stati deludenti rispetto alle aspettative come nel caso dell’auspicata creazione di posti di lavoro, è fuor dubbio che questa fase abbia determinato un ulteriore potenziamento sia nel campo delle infrastrutture sia del tessuto socio-economico locale, e che abbia consentito il delinearsi di alcune nuove tendenze quali un più incisivo collegamento tra attività primarie e produzioni industriali e il profilarsi di un polo agroalimentare che ha il suo fulcro nella presenza di alcune imprese nazionali86. Per alcuni comuni colpiti dal sisma il processo di ricostruzione ha avuto degli effetti positivi, e non solo dal punto di vista economico. Come ha sottolineato il sindaco di Guardia Perticara, l’ingegnere Massimo Caporeale, nel corso del Convegno Territorio e cultura dopo il sisma del 1980 tenutosi su iniziativa del Centro studi lucani nel mondo, a Roma il 13 dicembre 2005, in occasione del venticinquesimo anniversario del catastrofico evento: “l’intensificazione edilizia negli anni della ricostruzione ha sostanzialmente significato più occupazione e un saldo migratorio positivo per diversi anni; inoltre la ricostruzione degli edifici danneggiati è avvenuta in base alla normativa antisismica e soprattutto in base alla logica della valorizzazione di saperi e maestranze del passato”87. In apertura degli anni Novanta, l’avvio del moderno impianto automobilistico della Fiat nell’area del Vulture-Melfese rende ancora più articolato il quadro economico territoriale, oltre a rappresentare un evento estremamente positivo per l’economia dell’area, nonché per l’intera regione. Nello stesso periodo altre due aree registrano segnali ampiamente positivi: il Materano e la media Val d’Agri. Nella prima opera un vero e proprio distretto industriale, specializzato nella produzione di divani in pelle, che fa capo alla Divani & Divani dell’imprenditore Pasquale Natuzzi. Nella seconda, invece, che già si giova di una struttura economica piuttosto

86 Sugli investimenti industriali attivati con la Legge 219, si rimanda al già citato saggio di G. Biondi, dal titolo Dalle cattedrali nel deserto alla fabbrica integrata.87 Tali notizie sono state apprese nel corso del Convegno Territorio e cultura dopo il sisma del 23 novembre 1980, tenutosi a Roma il 13 dicembre 2005, su iniziativa del “Centro Studi lucani nel mondo” e dei Comuni di Corleto Perticara e Guardia Perticara.

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equilibrata per la presenza di attività diversificate, quali quelle agricole volte alla frutticoltura, quelle industriali connesse all’agglomerato di Viaggiano, e quelle nel settore turistico-ambientale nelle aree montane a nord e ad ovest del lago del Pertusillo, il ritrovamento di un cospicuo giacimento petrolifero apre senza dubbio nuove possibilità di sviluppo. Sempre agli inizi degli anni Novanta vi è, inoltre, una notevole attenzione nei confronti del comparto turistico in forme del tutto nuove rispetto al passato: si apre la strada ad iniziative volte alla valorizzazione del patrimonio locale di risorse ambientali e di beni culturali88. L’immagine della Basilicata come quella del Mezzogiorno agli inizi degli anni Novanta quando la stagione dell’Intervento straordinario è ormai conclusa, è molto diversa da quella dell’inizio anni Cinquanta che abbiamo cercato di tracciare all’inizio di questo lavoro: si pensi all’isolamento in cui versava la regione, alle precarie condizioni igieniche per via delle vaste zone malariche, alla presenza di un latifondo piuttosto esteso, all’assenza di un’industria, alla mancanza di scuole, di servizi pubblici. Si tratta di un cambiamento che deve molto all’intervento dello Stato il quale attraverso un dispiegamento di risorse senza precedenti ha cercato di rimuovere una serie di ostacoli che impedivano il decollo economico della regione. Non possiamo non sottolineare, però, come scarsa è stata l’attenzione riservata dall’Intervento straordinario al contesto ambientale e al problema delle infrastrutture: la Basilicata non è servita da un aeroporto; le condizioni delle rete ferroviaria sono piuttosto precarie (non ci sono sufficienti linee e in alcune stazioni ferroviarie mancano i principali servizi come assistenza alla clientela, biglietteria, vigilanza, o semplici bar); inoltre Matera è l’unico capoluogo di provincia d’Italia a non essere servito dalla ferrovia. Tale situazione non può non avere ripercussioni negative sull’economia locale, come ad esempio sullo sviluppo turistico. Soprattutto, partire dalla seconda metà degli anni Sessanta l’Intervento straordinario da strumento di sviluppo quale era, diviene strumento di redistribuzione di risorse pubbliche verso lavoratori ed imprese locali determinando una forte dipendenza della società lucana, come del resto di quella dell’intero Mezzogiorno, dall’intervento pubblico. Da ciò, e dalla sottoutilizzazione delle enormi risorse materiali ed immateriali, nonché dall’incapacità di attrarre risorse dall’esterno è dipeso il fatto che l’economia della regione come quella dell’intero Mezzogiorno non è stata in grado di generare autonomamente, con le sue attività un più alto livello di reddito.

88 Viganoni L., op. cit., pp. 19-20.